Un amore impossibile

di Alexa_02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Julianne ***
Capitolo 2: *** Aaron ***
Capitolo 3: *** Julianne ***
Capitolo 4: *** Aaron ***
Capitolo 5: *** Julianne ***
Capitolo 6: *** Aaron ***
Capitolo 7: *** Aaron ***
Capitolo 8: *** Julianne ***
Capitolo 9: *** Julianne ***
Capitolo 10: *** Julianne ***
Capitolo 11: *** Aaron ***
Capitolo 12: *** Julianne ***
Capitolo 13: *** Julianne ***
Capitolo 14: *** Aaron ***
Capitolo 15: *** Julianne ***
Capitolo 16: *** Aaron ***
Capitolo 17: *** Julianne ***
Capitolo 18: *** Aaron ***
Capitolo 19: *** Aaron ***
Capitolo 20: *** Julianne ***
Capitolo 21: *** Julianne ***
Capitolo 22: *** Julianne ***
Capitolo 23: *** Aaron ***
Capitolo 24: *** Julianne ***
Capitolo 25: *** Julianne ***
Capitolo 26: *** Aaron ***
Capitolo 27: *** Julianne ***
Capitolo 28: *** Julianne ***
Capitolo 29: *** Aaron ***
Capitolo 30: *** Henry ***
Capitolo 31: *** Julianne ***
Capitolo 32: *** Aaron ***
Capitolo 33: *** Julianne ***
Capitolo 34: *** Julianne ***
Capitolo 35: *** Julianne ***
Capitolo 36: *** Aaron ***
Capitolo 37: *** Julianne ***
Capitolo 38: *** Julianne ***
Capitolo 39: *** Aaron ***
Capitolo 40: *** Julianne ***
Capitolo 41: *** Julianne ***
Capitolo 42: *** Aaron ***



Capitolo 1
*** Julianne ***


Per me odioso, come le porte dell’Ade, è l’uomo

che occulta una cosa nel suo seno e ne dice un’altra.
(Omero)

 

 

 

“Tua sorella ricomincerà mai a parlarmi, o devo abituarmi al suo silenzio accusatore per il resto della mia vita?”. Mamma stringe forte il volante e fissa la strada davanti a sé. Ha la voce stanca e leggermente incrinata, come se si stesse sforzando di non piangere. Non ne vado fiera, ma la cosa mi riempie di un’immensa e perversa gioia. Si, sono una figlia terribile, ma non sono io la cattiva qui. Lei lo è.

Mio fratello Henry sospira scoccandomi un’occhiataccia attraverso lo specchietto retrovisore. So che è stufo di fare da intermediario tra me e la mamma ma, come ho già sottolineato prima, niente di tutto questo è colpa mia.

“Prova a mandarle un SMS. A quelli risponde sempre”. Il tentativo di Henry di sdrammatizzare si dissolve nell'abitacolo come vapore. Parlano sempre come se non ci fossi, come se fossi una semplice decorazione e non una parte della famiglia. In questo caso la mamma crede che io stia ascoltando a tutto volume musica rock nelle mie cuffiette verdi, ignorando lei e il mondo. Ma, in realtà, sto origliando la loro conversazione ormai da un’ora. Il mio gatto, Kafka, mi dorme acciambellato sulle gambe ignaro della imminente tragedia che ci aspetta.

Il mio gemello fa scorrere la mano verso di me, tra il sedile e la portiera, e io gliela stringo. Sa che li sto ascoltando.

La sua mano è calda e liscia, molto più grande della mia. Il che è alquanto buffo perché sono io quella più grande dei due. Tra noi ci sono, più o meno, tre minuti di differenza ma io continuo comunque a ricordargli che sono io la maggiore, anche se non si direbbe.

Mi dà due strette veloci e poi mi lascia andare. So cosa vuol dire. Mi sfilo le cuffiette e mi sporgo in avanti tra i due sedili anteriori stringendo Kafka.

“Henry puoi dire alla mamma che ricomincerò a parlarle quando capirà che andare a vivere con i Flintstones è la più grande stronzata della storia, e che deve riportarci immediatamente a casa da papà.”

So che il colpo ha fatto effetto quando le vedo stringere con più forza il volante.

“Ti ho già detto che non voglio più sentirti chiamarli così, Julianne” esclama stizzita.

Henry mi dà un leggero colpo con il braccio scuotendo la testa. Sappiamo tutti e due che è lui quello educato.

“Se mi avessi fatto vivere con papà come volevo, ora non mi sentiresti affatto” borbottò lasciandomi cadere sul sedile posteriore. Kafka fa le fusa strusciandomi la testa contro la mano. Per qualche strana ragione sa quando sono turbata.

La mamma sbatte le palpebre velocemente cercando di cacciare via le lacrime. Il senso di colpa mi cola addosso, appiccicoso e soffocante, ma ormai l’ho detto. La sento sospirare rumorosamente, ultimamente non fa altro. “Julianne, siamo quasi arrivati, per favore sii gentile con Jim e i suoi figli. Te lo chiedo per favore.”

Sto per replicare ma Henry si intromette. “Quanti figli hai detto che ha?”. Resto zitta. Sono curiosa di sapere con quanti mostri dovrò condividere il tetto.

“Beh Jim ha quattro adorabili figli” annuncia zuccherosa, ritrovando il sorriso.

Mi strozzo con la saliva. “Quattro?!” strillo saltando in avanti, facendo ruzzolare per terra Kafka e facendo sobbalzare la mamma. Henry spalanca la bocca e inarca le sopracciglia sorpreso quanto me, ma in modo meno plateale. A quanto pare si è dimenticata di condividere con noi questo piccolo dettaglio.

“Si” conferma. “Tre maschi e una femmina”. Mi viene da vomitare. Ora le vomito sul volante.

Lei continua imperterrita. “Vediamo. C’è Aaron che ha diciassette anni come voi ed un musicista come te, Julie. Poi Andy e Cole, che hanno rispettivamente quindici e tredici anni. Sono dei gran combina guai ma sono dolcissimi entrambi.”. Li elenca con uno stomachevole sorriso in faccia, come se fossero davvero suoi figli. È da meno di un anno che vive con loro e già li preferisce ai suoi figli biologici. Sto davvero per vomitare.

“La femmina?” domanda Henry. Il tunnel si illumina, potrei non essere sola.

“La femmina si chiama Olivia e ha sei anni”.

Oh meraviglioso. L’unica possibile alleata ha sei anni! Non sa nemmeno di essere una femmina. Non sono abituata alla convivenza con gli adolescenti maschi. Henry non fa testo. Lui è più una sorella che un fratello. Tutto questo non può essere vero, deve essere un terribile incubo da cui mi devo ancora svegliare. Basta che mi do un bel pizzicotto e mi ritroverò nella mia stanza in California.

Mi pizzico forte il braccio ma non cambia nulla. Questa è la fottuta realtà e ci sono incastrata dentro.

“Spero tu stia scherzando! È una Candit Camera? Perché se è così, ti ho scoperta. Puoi riportarci a San Diego”.

Ridacchia, come se stessi scherzando. Io sono seria, deve riportarmi a casa, non se ne parla proprio. Perché le auto non hanno i sedili eiettabili?

“No, non sto scherzando tesoro”.

Accosta e spegne il motore risvegliandomi dallo shock. Siamo fermi davanti ad una casa con mattoni a vista e con il tetto di tegole chiare. Il giardino è immenso e estremamente curato. I cespugli sono potati al millimetro. Un infinito lastricato in pietra conduce dalla strada alla porta d'ingresso in legno.

Sento risalirmi in gola il pranzo. Non possiamo essere già arrivati. Eravamo quasi arrivati poco fa, dov’è finito il quasi.

La mamma si slaccia la cintura e sorride nervosa. “Eccoci qua. Benvenuti a casa”.

Apre la portiera e salta giù. Stringo la mia cintura di sicurezza come un salvagente facendo sbiancare le nocche.

Un uomo sulla cinquantina scende velocemente i grandi del portico e la mamma gli salta praticamente in braccio, baciandolo appassionatamente. Distolgo lo sguardo disgustata. L’uomo, che presumo sia Jim, ride e la posa a terra. Si prendono per mano ed entrano insieme in casa, come se lo facessero da sempre.

Quando sono spariti, Henry sospira. “Forza Jules, non possiamo restare in auto per sempre”.

“Possiamo provarci”. Azzardo.

Si allunga verso di me, mi sgancia la cintura e agguanta Kafka. Scende dalla macchina e io lo seguo sbuffando.

Il caldo mi investe come un camion, mi sfilo la felpa e me la lego in vita. Saliamo i gradini di legno chiaro in silenzio, come due condannati a morte che si dirigono verso il patibolo.

Henry apre la porta, mi ripassa il gatto e mi trascina dentro.

 

La casa profuma di vaniglia e biscotti al cioccolato, mi aspettavo odore di calzini e mutande sporche. Beh, un punto nel lato dei pro.

La casa non rispecchia affatto le mie aspettative. È più ordinata e più pulita di quanto pensassi. I pavimenti di legno sono sgombri dai giocattoli, il mobile vicino all’ingresso è sovrastato da un grosso vaso pieno di fiori colorati e i figli di Jim sono allineati e ben vestiti davanti alla scala che porta al piano di sopra. Sono uno vicino all’altro in ordine di altezza e si sforzano di sorride cordiali. Jim fa un passo avanti, si asciuga la mano sui pantaloni color cachi e ce la porge. Henry gliela stringe ricambiando il sorriso.

“Siamo davvero felici di conoscervi finalmente. April ci ha parlato un sacco di voi due”. Ha la voce profonda che stona con il suo aspetto. Ha i capelli neri tagliati corti e striati qua e là di grigio. Ha gli occhi verdi incorniciati da un paio di occhiali scuri dalla montatura spessa. Indossa un cardigan color topo con gli alamari sopra una camicia blu. Quello che attira di più la mia attenzione è il collarino bianco che spicca nel colletto scuro. È impressionante quanto sia ordinario, completamente l’opposto di papà.

Osserva a lungo Henry poi sposta lo sguardo, più in basso, verso di me. Mi guarda negli occhi e cambia espressione. Sembra sorpreso, forse la mamma mi aveva dipinta come la ragazza di due anni fa, bionda e perfetta. Mi dispiace Jim, quella ragazza è morta. Indosso dei jeans neri strappati e una t-shirt dei Twenty-One Pilots. Durante la crisi post-separazione dei miei genitori mi sono tinta i capelli di nero, mi sono fatta un piercing al naso e diversi tatuaggi. Cercavo di ribellarmi, essere originale e, invece, mi sono accorta troppo tardi di essere diventata uno degli stereotipi da cui cercavo di differenziarmi. Perciò ora cerco di essere solo la vera Julianne.

Jim si riprende in fretta dallo shock e mi fa un sorriso tirato, senza coinvolgere gli occhi. Allunga la mano per salutarmi ma Kafka si mette in mezzo soffiando e cercando di graffiarlo. Jim sobbalza indietro visibilmente spaventato.

Io amo questo gatto.

“Wow. April non ci aveva detto del gatto” ansima e starnutisce rumorosamente. Non una ma ben tre volte di fila. “Sono un pochino allergico ai gatti”.

Ho già detto che amo questo gatto?!

Nasochecola rinuncia alla nostra stretta di mano e si sposta il più lontano possibile da me, riempiendomi di soddisfazione. Spostandosi lascia libera la visuale sui suoi figli. La prima che noto è Olivia. Indossa una gonna fosforescente, delle calze verdi e una grosso boa di piume fucsia. Porta un coroncina da principessa che le tira i lunghi capelli scuri all’indietro. Stringe tra le braccia una rana gigante di peluche. Fa un sorriso timido e fissa Kafka stringendo la mano ad uno dei fratelli, che presumo sia Cole. Ha i capelli marroni, gli occhi azzurri e indossa una maglia consumata di Super Mario. Non guarda noi, ha lo sguardo fisso su il fratello più grande, Andrew. Lo guarda come se aspettasse il suo parere prima di decidere se gli piacciamo o no.

Andrew è la copia di Cole, solo in formato più grande e con gli occhi verdi, come il padre.

Solo quando li guardo tutti insieme mi accorgo di una particolare essenziale. Sono solo in tre. All’appello manca Aaron il Musicista.

Jim sembra accorgersi del figlio mancante e si acciglia. “Andy, dov’è tuo fratello? Vi avevo specificato che dovevate esserci tutti per l’arrivo dei figli di April”.

Andrew giocherella nervosamente con la maglietta “È da Savannah. Ha detto, cito testualmente, che non gliene fotteva nulla dei figli della tua concubina e che sarebbe tornato per cena”. Jim stringe i pugni lungo i fianchi sospirando rumorosamente.

“Jim, caro, non ti preoccupare” si intromette la mamma appoggiandogli una mano sulla schiena. “Questa nuova sistemazione ha scombussolato un po’ tutti. Henry e Julianne conosceranno Aaron a cena. Ora perché non disfiamo i bagagli e ci sistemiamo definitivamente?”. Si sorridono languidamente e lui annuisce. Ecco che torna la nausea.

 

A presentazioni fatte ognuno trascina una valigia o uno scatolone su per le scale, e in pochi viaggi tutti i nostri averi sono sul piano delle camere. Il piano superiore è composto da quattro camere da letto, due bagni e una scala che porta al terzo piano. Il terzo piano è quello della mamma e di Jim. Anche solo l’idea di quello che fanno la sopra mi fa venire i brividi.

Per ogni camera si intuisce il proprietario dalla porta. La camera di Olivia ha la porta tappezzata di rane colorate e ninfee che circondano il suo nome dipinto in verde. Cole e Andy condividono la stanza e la loro porta è tappezzata di poster di video games e di squadre sportive. La stanza di Aaron il Musicista ha la porta ricoperta di foto e poster di gruppi rock e un’adorabile cartello di divieto d’accesso. L’unica pulita è quella che spero sia la nostra camera. Andrew scaraventa con violenza la mia valigia a terra e, seguito da Cole, sparisce nella sua stanza sbattendo la porta. Suppongo che il suo verdetto sia che non gli piacciamo. Meglio così, credo.

 

“Questa è la tua stanza, Julianne”. Annuncia Jim indicando la porta. Odio come pronuncia il mio nome.

“Tu, Henry, invece starai con Aaron nella camera accanto”.

Mi manca l’aria nei polmoni ed, ad un tratto, mi sento stanchissima. Noi condividiamo la camera da diciassette anni. Non riesco ad addormentarmi senza le nostre chiacchierate notturne. Non se ne parla che dorma da sola in territorio nemico. Dobbiamo fare i turni per controllare la porta.

“Henry può stare in camera con me, come sempre” obbietto guardando la mamma. Lei scuote forte la chioma bionda “Non essere sciocca pasticcino. Sei una donna ormai e hai bisogno della tua privacy”

“Ma lui…”. Mi interrompe scuotendo di nuovo la testa e lanciandomi un’occhiataccia. Forse non gli ha detto proprio tutto di noi. Jim scorta Henry nella camera di Aaron e mamma, me nella mia.

È enorme, la carta da parati è color cipria con delle rose bianche dipinte sopra e la moquette è marrone chiaro. Appoggiato alla parete destra c’è un grosso letto a baldacchino bianco con le federe ricamate sui toni del marrone, ed è affiancato da due comodini in legno. La stanza è inondata di luce da tre grosse finestre. La parete sinistra si stringe in un armadio a muro bianco, in cui ci stanno il doppio dei miei vestiti. Ci sono numerose mensole in legno, una scrivania in vetro e una poltrona rossa disposta proprio davanti ad una delle finestre. Davanti alla terza finestra è disposto un cavalletto e delle mensole per i colori e la pittura. Oltre all’armadio c’è un’altra porta che, presumo, porti al bagno.

È davvero una camera meravigliosa, ma non credo che lo ammetterò ad alta voce. So che è stata la mamma ha decorarla, è il suo lavoro. Oltre alla sua linea di moda, decora interni di ville lussuose.


“È tutta tua. Devi solo condividere il bagno con Liv, ma lei non lo usa quasi mai.” Fa una pausa. “Ti piace?” chiede speranzosa e nervosa allo stesso tempo. Sorride aspettando il mio verdetto sul suo lavoro. Il mio istinto mi urla di dirle la verità, di correre da lei ad abbracciarla e dirle che è uno spettacolo. Ma c’è sempre quell’odiosa vocina che mi ricorda che sono in questa stanza perché lei ha lasciato papà e ci ha trascinato ad Orem a vivere con i Flintstones. Perciò mi limito ad alzare le spalle lasciando Kafka sul pavimento. La sento sospirare dietro di me.

Naturalmente, visto che sono una figlia terribile, passo alle accuse. “Non hai detto a Jim di Henry, vero?” Il mio tono è anche più acido del previsto. Apre la bocca per dire qualcosa ma, cambia idea, e la richiude. Sospira, stanca, lasciandosi andare sul letto. Guardandola, così da vicino, sembra esausta e credo che sia per buona parte colpa mia. L’asprezza del senso di colpa scioglie le mie mura difensive accuratamente erette ormai da tempo, più precisamente da quando se ne è andata di casa. Ogni volta che la guardo mi sento rimbombare in testa l’ultima frase che ha detto prima di andarsene dalla sua nuova famiglia. Ho bisogno di spazio, di una pausa. Lo spazio di cui aveva bisogno erano 700 miglia, quello che separa San Diego dall’Utah .

Mi ricordo che l’ho guardata allontanarsi senza sapere quando e se sarebbe tornata. Dopo qualche mese sono arrivati per posta i documenti per il divorzio, ed è lì che il muro, tra lei e il mio cuore, è stato eretto. È da quasi un anno che tengo la guardia alzata e sono molto stanca. Sono davvero esausta, la rabbia consuma molte energie.

Accarezza il copriletto invitandomi a sedere accanto a lei. Resto ferma dall’altro lato della camera, con le braccia strette al petto. Ora come ora, è l’unica barriera che posso permettermi ancora in piedi tra me e lei.

“Julianne, Jim è un uomo molto credente ed è il reverendo nostra chiesa”. Nostra chiesa? Questa è nuova. Neanche due anni fa era la donna più atea del pianeta.

“E questo cosa c’entra? Pensavo che gli avessi parlato un sacco di noi”.

“Gliene parlerò a tempo debito” afferma risoluta.

“Henry non deve nascondere ciò che è e tu lo stai obbligando a mentire!” Alzo la voce perché lei non mi sta ascoltando.

Si alza di scatto e mi si piazza davanti. “Julianne non urlare”. Ha lo stesso tono di prima: calmo, pacato e completamente disinteressato. Tutto questo alimenta la mia rabbia come benzina su un incendio.

“Se no cosa? Il bigotto che ti scopi scoprirà che tuo figlio è gay!?”.

Sento lo schiocco prima di recepire il colpo. Mi brucia la guancia e sento l’orgoglio frantumarsi come un specchio. Fissa il vuoto scioccata con la mano ancora a mezz’aria e il labbro inferiore che le trema. Dalla sua espressione sembra lei quella che ha appena ricevuto uno schiaffo.

La porta si apre ed Henry irrompe nella stanza come un fulmine. Dirige tutta la sua attenzione su di me, visibilmente preoccupato. D’istinto, pur trattandosi della mamma, si mette tra noi facendomi da scudo. “Mamma…” sussurra deciso.

Lei si riprende dallo shock e si sistema il vestito. “Sistemate le vostre cose, manca poco alla cena”. Esce dalla stanza senza aggiungere altro.

Henry si gira prendendomi il viso tra le mani e muovendolo in cerca di danni visibili.

Lo scosto bruscamente. “Sto bene, non mi ha fatto male”. È stato più un danno morale che fisico.

“Sono giorni che la stuzzichi, era questa la reazione che volevi?”.

“Non esattamente…”. Volevo vederla scattare per noi, non per il suo uomo. Ma comunque è sempre meglio del solito tono pacato.

Mi lascio cadere sul letto con un sospiro teatrale. È davvero soffice.

Henry si butta accanto a me. “Sono geloso. La tua stanza è cento volte più bella della mia” sbuffa. “Devo condividere lo spazio vitale con un’artista tormentato e in collera con il mondo. Insomma lo facevo già a casa, perché lo devo fare pure qui?”.

Afferrò un cuscino ricamato e glielo sbatto in testa il più forte possibile. “Non sono un’artista tormentata!”.

Ridacchia strappandomi la mia arma di mano “I suoi armadi non sono organizzati per colore o per tipo di capo. Non sono proprio organizzati! I suoi vestiti sono arruffati in un cassetto come capita! Non solo i vestiti, è tutto messo come capita.”

“Oh mio dio!” squittisco imitando la sua espressione traumatizzata.

Mi colpisce di nuovo con il cuscino. “Mi ha liberato un cassetto. Come se i miei vestiti stessero in un cassetto”. Borbotta offeso.

“Puoi usare il mio se vuoi. Sembra un stanza” rido.

“Facciamo a cambio. Io dormo nella tua camera dei sogni e tu dormi con il Tormentato”. L’offerta non mi attira più di tanto.

“Devo condividere il bagno con una bambina di sei anni” lo avverto.

“Io con tre maschi adolescenti”. La sua faccia disgustata parla da sola.

“Mi tengo la mia stanza” rido. “Ma puoi usare il nostro bagno quando vuoi”.

“Grazie” sospira sollevato. Si alza con grazia, si aggiusta il maglione e mi allunga una mano. Mi aiuta ad alzarmi e, senza preavviso, mi agguanta in un abbraccio da orso. Mi appoggia il mento sulla testa stringendomi forte. Affondo il viso nel suo petto rilassandomi. I suoi vestiti sanno di casa.

“Non sei da sola, Jules” sospira accarezzandomi i capelli. “In tutto questo io sono con te. I gemelli restano uniti, ricordi?”. Alzo la testa per guardarlo negli occhi. Sono identici ai miei. Tra il marrone e il verde, terribilmente espressivi e pieni di segreti.

“Vuole farti mentire e io non posso sopportarlo” mormoro.

Guardandolo in faccia capisco che lo sa già. “Me lo ha detto prima di partire e io sono d’accordo”.

Mi scosto sottraendomi dal suo abbraccio. “Beh, potevi dirmelo prima che le urlassi in faccia e che mi schiaffeggiasse”.

“Non è stata colpa mia. Hai chiamato Jim, Il bigotto che ti scopi.” Ridacchia.

“Lo trovo un soprannome azzeccato”. Scuote la testa sorridendo.

Mi dà un colpetto sul mento. “Forza Jules, sistema le tue cose”.

Non voglio disfare le valige. Significherebbe che tutto questo è reale e definitivo, non sono pronta per questo. Non dico nulla, se parlassi capirebbe che sto mentendo, quindi mi limito ad annuire. Mi dà un veloce bacio sulla fronte ed esce dalla camera chiudendosi la porta alle spalle. Mi lascio andare sul letto sbuffando e aspettando che la terra mi inghiotta, salvandomi dal mio terribile destino.

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Capitolo 2
*** Aaron ***


“Eddai Aaaaronn”. Miagola Savannah rotolando tra le lenzuola. “Non puoi restare ancora un pochino?”. Fa il labbruccio come una bambina di due anni che vuole le caramelle. Ma non sono le caramelle ciò che vuole. Raccolgo la maglia dal pavimento e me la infilo.

“No zucchero. Devo andare o mio padre mi incatena in casa per sempre”. La verità è che sono stufo della sua voce nasale e squittente, e poi ho già avuto ciò che volevo.

Sbuffa imbronciandosi e si copre il seno nudo con il lenzuolo. “Voglio che resti con me. Tuo padre capirà”. Si avvicina a gattoni come una leonessa, ha i capelli spettinati e il rossetto fin sul mento. Ottiene sempre ciò che vuole e odia sentirsi dire di no. Mi passa una mano sulla patta sorridendo maliziosa. Il cervello si scollega dal corpo per alcuni secondi facendomi vacillare. Se non arrivo per cena non potrò più uscire per un mese e i ragazzi mi uccideranno. Mi dispiace ma Savannah non vale tanto.

Scivolo via dai suoi artigli prima che il corpo abbia la meglio sulla testa. “Baby, se vengo punito non posso venire alla festa stasera, e tu non vuoi questo, vero?”.

Attraverso i suoi occhi azzurri vedo come gli ingranaggi del suo cervello valutino la cosa. Sbuffa arrendendosi. Infilo le scarpe, prendo la chitarra, le scocco un bacio veloce e scivolo fuori dalla finestra.

 

 

Rientro in casa strusciando la custodia della chitarra sul pregiato parquet, nella speranza che la chiusura metallica lo graffi irrimediabilmente. April lo ha fatto sistemare prima dell’arrivo dei figli.

Il vecchio pavimento era costellato di ricordi che lei ha spianato via come un bulldozer. I segni lasciati dalle scarpette da football mie e di Andy quando abbiamo giocato in casa, i graffi fatti dal girello di Liv mentre imparava a camminare e la macchia di succo d’uva vicino alle scale lasciata da Cole. Tutto spazzato via in una giornata. Ora ci si può specchiare in questo fottuto pavimento. Grazie tante April. Non so neanche perché sono tornato a casa, il pomeriggio passato da Savannah non ha migliorato il mio umore nero. Sto per battere in ritirata quando un delizioso profumo di arrosto mi avvolge come una coperta. Il mio stomaco brontola rumorosamente. Sono sicuro che Savannah mi ospiterebbe da lei anche per sempre, ma in casa sua mangiano solo cibo già pronto e a bassissimo contenuto calorico. Credo che il mio stomaco tenterebbe di uccidermi se decidessi di andarmene.

Mentre entro in soggiorno, Andy mi sfreccia accanto sullo skateboard. “Papà è furioso A.”

Me lo aspettavo, ho mancato l’arrivo dei figli prodigio della sua concubina.

April lo rincorre ondeggiando sui tacchi e brandendo un mestolo “Andy, tesoro, potresti non usare lo skateboard in casa? Ho appena fatto lucidare il pavimento”. Si gira a guardarmi e sfoggia un sorriso abbagliante “Sei in perfetto orario per la cena, Aaron”.

“Eccezionale”. Borbotto, lei sorride di nuovo e torna in cucina. La seguo perché è da lì che arriva l’odore paradisiaco che mi ha convinto a restare. La cucina è sommersa da pentole e scodelle, papà è in piedi davanti al bancone intento a spelare le patate. Dalla sua espressione sembra che stia disarmando una bomba. April si destreggia tra fornelli e ingredienti con maestria e velocità e, ogni tanto, lancia un’occhiata nella sua direzione per controllare che non si mozzi un dito. Non ha mai cucinato in vita sua e mai gli è interessato, ma, da quando c’è April in casa, è tutto molto diverso.

Un ragazzo alto e biondo siede ad un lato dell’isola di marmo sfogliando un libro di chimica. Perché lo faccia è davvero un mistero, insomma la scuola non è ancora cominciata. Deve essere uno dei prodigi di April. Non ho perso tempo ha memorizzare i loro nomi, non mi interessa saperli.

Papà alza lo sguardo dalla sua bomba e mi lancia un’occhiataccia. Si comincia.

 

“Aaron!” tuona facendo rimbombare le pareti. “Si può sapere dove diavolo eri?!”. Quando perde le staffe il cattolico che è in lui si nasconde e lo scaricatore di porto fa il suo ingresso. Il biondo si gira a guardarmi sorpreso.

“Mi sembrava di aver detto ad Andy che andavo da Savannah…” Uso il tono più menefreghista che la mia lingua riesce a produrre e la sua faccia cambia sfumatura di rosso. Stringe il pelapatate come un’arma e me lo punta contro. “Vi avevo ordinato di essere tutti presenti per l’arrivo dei figli di April e tu hai pensato bene di andare dalla tua ragazza?!”. Savannah non è la mia ragazza.

“E io ti avevo detto che non me ne fregava un cazzo del loro arrivo”. Cambia di nuovo colore e inizia con le imprecazioni.

“Jim!” squittisce April. “Calmati”. Si avvicina e gli posa una mano sulla schiena “Aaron è qui ora, ed è questo l’importante. Si conosceranno durante la cena”. Papà sospira e si rilassa tornando rosa. La guarda mellifluo e si china a baciarla facendomi accapponare la pelle. È una delle cose a cui non mi abituerò mai. Il biondo distoglie lo sguardo, si alza e viene verso di me allungando una mano “Io sono Henry, piacere”. Ha lo stesso sorriso della madre e anche gli stessi capelli biondi.

Ignoro la sua mano e gli faccio un cenno con la testa. “Aaron”.

April squittisce battendo le mani come fanno le dodicenni e stringe papà. “Vedi amore, tutto perfetto. La cena è quasi pronta” dice togliendo una teglia dal forno. Meno male, muoio di fame.

“Vado a svegliare Jules”. Henry si avvia verso la porta, ma la madre lo ferma “Credo che sia meglio che Aaron la svegli. Così si conoscono”.

Cosa?! No. Poi chi diavolo è Jules?

Henry scuote la testa “Non credo sia una buona idea mamma, se si sveglia male diventa…ostile”.

“Non diciamo sciocchezze. Aaron vai a svegliare Julianne, è nella tua vecchia camera” sorride incoraggiante.

“Non voglio svegliare nessuno” provo ad oppormi ma papà mi lancia il suo guardo MuovitiOSonoGuai e per stasera ho già sfidato la sua ira, perciò mi avvio controvoglia verso la porta. Sento Henry sospirare “Buona fortuna…”.

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Capitolo 3
*** Julianne ***


Qualcuno mi sta toccando il naso.

Lo schiaccia come se fosse un pulsante, più e più volte. Non fa male, è solo fastidioso. Molto probabilmente è Henry. Vorrei lamentarmi o colpirlo ma è tutto così buio.

Perché è tutto buio?

Ah, già. Quando mi sono lasciata inglobare dal nuovo magico letto, che ho soprannominato La Nuvola, il sonno mi ha raggiunta silenzioso e invitante, e non ho potuto resistergli. Ma, per qualche malefico incantesimo, nella mia camera c’è tantissima luce, quindi ho frugato negli scatoloni alla ricerca della mia mascherina per dormire preferita. L’ho comprata qualche mese fa in un negozio di cianfrusaglie cinesi. È nera e ha la scritta FUCK OFF ricamata sopra a caratteri cubitali. È stato amore a prima vista.

Dopo essermi raggomitolata in un bozzolo di coperte ed essermi resa cieca, sono sprofondata in uno di quei pisolini da cui non riusciresti a svegliarti neanche se il letto andasse a fuoco.

“Mmmh”. È l’unica frase concreta che il mio cervello riesce a formulare. Sfilo una mano dal mio involucro e faccio scivolare la mascherina sulla fronte, pronta ad insultare Henry per avermi svegliata. Quando apro gli occhi, appiccicati di mascara, gli insulti si mi sparpagliano nella testa come biglie. Fisso due incredibili e sconosciuti occhi verdi che mi scrutano divertiti. È sdraiato su un fianco accanto a me sulla Nuvola, con una mano sotto la testa. I capelli neri gli ricadono sulla fronte spettinati e ribelli. Indossa una t-shirt verde, dei jeans scuri e le Vans. Mi coglie così alla sprovvista che non mi accorgo nemmeno che ha le scarpe sul mio paradiso personale.

Il suo sguardo scivola su ogni particolare del mio corpo e mi dimentico all’istante come si respira. Ho la bocca impasta e asciutta.

Avanti Julianne parla. Di qualcosa. Frasi, parole, lettere.

Ho completamente perso il contatto con il corpo.

Il suo sguardo si posa sulle mie labbra e il mio cuore smette di battere. Perfetto! Sto morendo. È bastato che l’indossatore delle mutande di Calvin Klein mi guardasse negli occhi per schiattare. Davvero patetico.

Prima che svenga per mancanza di ossigeno al cervello, lui apre la bocca e ride di gusto. “Ti assicuro che senza maglietta è anche meglio”.

Ogni parte del mio corpo rinsavisce e si riconnette al cervello. Ovviamente, era troppo bello per essere vero. Lo scosto bruscamente alla ricerca dello spazio personale che mi ha sottratto. Mi tiro su a sedere districandomi dal nodo di coperte.

“Cosa ci fai nella mia stanza? E sul mio letto? Perché mi stavi toccando il naso? E poi si può sapere chi diavolo sei?”.

“Wow. Sono un sacco di domande principessa.” Lo guardo male sfilandomi la mascherina dalla testa. “A quale vuoi che risponda per prima?”.

Kafka salta aggraziatamente sul letto e gli si accoccola addosso facendosi grattare le orecchie. Traditore. Dovevo adottare un cane, sarebbe stato da difesa e molto più leale.

“Beh, iniziamo da qualcosa di semplice.” Gli strappo il gatto di mano. “Chi diavolo sei?”.

“Sono Aaron”. Oh, il Musicista Tormentato. Ora si spiegano molte cose. “Tu sei Julianne, vero?”.

Il mio stomaco fa una capriola quando pronuncia il mio nome. Odio che mi piaccia come lo dice. Sono sudata, spettinata e molto probabilmente ho il mascara spalmato su tutta la faccia. Prima impressione da dieci e lode. Ottimo.

“Cosa ci fai sul mio letto e in camera mia?”. Sono stufa di questa vicinanza, non riesco a ragionare lucidamente se sta sdraiato sul mio letto con quel sorrisetto.

“In realtà, prima che la femminizzassero, era camera mia. E questo”. Da una pacca sul materasso in mezzo a noi. “Questo era il mio letto”. Mi fa un sorrisetto malizioso alzando le sopracciglia scure. Oh. Tutto ma questo no. Gli do una manata sul petto facendolo ruzzolare sul pavimento con un suono sordo che mi riempie di gioia.

Mi alzo stiracchiandomi e sbadigliando sonoramente. “Non mi hai detto perché sei qui”.

Si rimette in piedi con un movimento fluido. “È pronta la cena ed April mi ha obbligato a venirti a chiamare. Ho provato a rifiutarmi ma non ha funzionato”. Prende in braccio il Kafka. “Questo gatto è davvero grasso”.

Glielo levo dalle mani per la seconda volta di fila nell’arco di due minuti. “Non provare ad insultare Kafka. Ha il pelo rotondo, non è grasso”.

“Kafka?” Aggrotta la fronte. “È un nome orribile. Sei sicura che esista?”.

Il mio corpo si spegne di colpo, ogni cosa il suo sguardo mi trasmettesse è morta con questa frase.

“Franz Kafka. Lo scrittore tedesco…”. Mi guarda e nei suoi occhi vedo solo il vuoto “Uno dei più grandi scrittori del XX secolo, esponente del modernismo…Non ti dice nulla?”. Alza le spalle e scuote la testa. In che mondo viviamo?

“Okay. Sono troppo affamata per portare avanti questa conversazione, perciò…”. Lo sorpasso avviandomi verso la porta.

“Hai un naso davvero carino” Mi fermo sulla soglia e aspetto, cercando di sembrare impassibile, mentre il mio cuore batte a mille. “Per questo te lo stavo toccando. Sembra un bottoncino” Fa uno di quei sorrisi che Henry chiama Gli Strappamutande, facendomi avvampare. “Non avevo risposto alla domanda”.
Ora che ci penso, ha ragione. Mi appoggio allo stipite mentre mi supera per uscire dalla camera, le ginocchia mi tremano come gelatina.

Quando è abbastanza lontano scappo in bagno barcollando. Il riflesso nello specchio mi fa sobbalzare. Ho i capelli arruffati e scompigliati, il mascara mi arriva al mento e le borse sotto gli occhi sono più viola di una prugna. Diamine.

Mi lavo la faccia, mi lego i capelli in una coda alta e scendo il più lentamente possibile.

 

 

“Finalmente” Ridacchia frizzante la mamma. “Ti davamo per dispersa”.
Appoggia sul tavolo del salone una scodella piena di patate e origano. Indossa un imbarazzante grembiule da cucina con delle mucche ricamate sopra. Ha i guanti da forno sotto il braccio. Questa sua versione casalinga mi dà i brividi. In diciassette anni di vita, questa è la prima volta che la vedo cucinare. A San Diego mangiavamo solo cibo d'asporto e mai veramente tutti insieme.

 

La tovaglia, colorata e allegra, è ricoperta di pietanze. Ci sono otto piatti di porcellana blu disposti in ordine davanti ad ogni sedia. A casa il tavolo era così ben apparecchiato forse solo durante le feste. Sul tavolo di cristallo c’è abbastanza cibo per sfamare un esercito. Sono tutti seduti e mi fissano impazienti, a quanto pare manco solo io. Scendo velocemente gli ultimi gradini e mi siedo nell’unico posto libero, tra la mamma ed Henry. Aaron occupa il posto difronte al mio e ha stampato in faccia lo stesso sorrisetto impertinente di prima. Vorrei strapparglielo con un cucchiaio arrugginito, ma il mio stomaco si oppone. Sono troppo affamata per formulare un piano decente, perciò mi allungo alla ricerca di cibo. Quando sto per afferrare uno splendido panino integrale, la mamma mi colpisce la mano con uno schiaffetto, neanche avessi due anni.

“Prima dobbiamo ringraziare, tesoro” Si giustifica.

Ringraziare chi? All’unisono, come una setta satanica, si prendono per mano. La mamma mi afferra una mano e mi ritrovo a far parte del loro cerchio di preghiera. Chinano la testa verso il cibo e chiudono gli occhi.

“Da', o Signore, la tua santa benedizione a noi e al cibo che stiamo per prendere” La voce di Jim rimbomba nel silenzio. Henry, colto alla sprovvista, chiude gli occhi e china la testa un po’ in ritardo. Mi guardo intorno sconcertata, Aaron è l’unico della sua famiglia a non essere raccolto in preghiera. Sbuffa e alza gli occhi al cielo. Almeno non sono l’unica.

“E fa' che siamo sempre fedeli al tuo servizio. Amen” conclude la mamma sciogliendo il cerchio. Che diavolo mi sono persa? Da quando è cristiana? Il mio stomaco brontola ricordandomi che devo sfamarlo se non voglio che si mangi gli altri organi.

Agguanto il panino che avevo adocchiato poco fa e nutro la mia pancia irrequieta. Le portate della mamma circolano e i piatti si riempiono.

“Devi assaggiare il coniglio con i peperoni, Julianne”. Mi esorta la mamma afferrando la teglia cremisi e caricando sul mestolo una cucchiaiata di cibo. Sta scherzando spero.

“No, grazie”. Alzo la mano prima che lo rovesci nel mio piatto. “Sono vegetariana”

Aggrotta le sopracciglia riposando la teglia sul tavolo. “Da quando?”.

Henry si irrigidisce e cerca la mia mano sotto il tavolo. “Da quasi un anno e mezzo” affermo “Ma tu non puoi saperlo, te ne sei andata molto prima che lo diventassi”. Il suo sguardo ferito mi riempie di oscuro orgoglio. Farla sentire in colpa è il mio sport preferito.

Cala sul tavolo un’assordante e viscoso silenzio. Cerca di sorridere sistemandosi una ciocca d’orata dietro l’orecchio. Odio come i suoi capelli assomiglino ai miei naturali, è l’unica cosa che ci accomuna. Biondi come il grano, lisci e lunghi. Per questo li ho tinti, non voglio che nulla mi faccia assomigliare a lei.

“Oh, beh...” farfuglia sistemandosi il vestito. Sotto il tavolo Henry mi stritola la mano, come se bastasse a fermarmi. Mi fissa veramente negli occhi per la prima volta da quando è venuta a prenderci. Spero ci veda tutto quello che voglio urlargli dal giorno in cui è partita. Il senso di colpa le galleggia negli occhi come una boa fosforescente.

Sbatte le ciglia e riprende la sua solita espressione stoica. Apro la bocca per attaccare di nuovo, ma vengo subito interrotta. “Cos’è un vegetano?” domanda Liv sporgendosi sul tavolo.

“Vegetariano, amore” la corregge il padre. “Julianne non mangia né carne né pesce”

Si gira a guardarmi confusa. “Perché?”.

Ok, odio quando i bambini fanno domande, non c’è sempre un perché.

“Beh…io…” borbotto. Non so come spiegarle esattamente le mie ragioni. “Non mangio animali perché lo trovo disgustoso”.

“Oh avanti” Aaron mi sventola una coscia di coniglio davanti alla faccia “è delizioso e tu lo sai. I vegetariani sono moralisti con la puzza sotto il naso che si reputano migliori perché vivono di verdure”. Che razza di idiota.

“Ci vedremo tra cinquant’anni quando starai morendo per il colesterolo alto, dopo esserti strafogato di cadaveri innocenti”

“Cadaveri molto gustosi”. Addenta la coscia in modo rozzo.

I nostri nomi tuonano nell'aria, riempiendo la stanza.

Olivia squittisce e spinge il piatto lontano. “Non voglio mangiare cadaveri”.

Oh, meraviglioso. Mamma mi lancia un’occhiataccia delusa.

Henry si allunga verso Olivia “Stavano scherzando Liv. Non sono cadaveri”.

“Tecnicamente sono morti…”. Mi tira un calcio sotto il tavolo facendomi chiudere la bocca.

“Ti assicuro che io non mangerei mai cadaveri. Ti fidi di me?” Lei ridacchia e annuisce, Henry le riavvicina il piatto e lei riprende la cena. Con il suo sorriso sincero potrebbe vendere sabbia nel deserto. La mamma lo guarda orgogliosa, come sempre del resto. Io combino i guai e lui rimette in ordine, io rompo qualcosa e lui lo aggiusta. Sa sempre cosa dire per sistemare ciò che rovino. È così che funzioniamo.

Superato il dramma, la cena continua su un sottofondo di forchette che battono sui piatti. Il silenzio è pesante e opprimente, ma lo preferisco di gran lunga alla conversazione che abbiamo appena avuto.

“Ho fatto un tatuaggio” interviene Henry di punto in bianco. “In realtà, Jules mi ha fatto un tatuaggio. È davvero bellissimo.” Si alza la manica destra del maglione e mostra alla mamma il tatuaggio che gli ho fatto qualche mese prima. È un piccolo pezzo di un puzzle, che combacia con quello che ho io sulla caviglia sinistra. In realtà non è tutto questo granché, ma lui lo adora.

“Non sapevo facessi tatuaggi” ci informa Jim arricciando il naso. Ovviamente non lo sapeva, come potrebbe. La mamma parla solo della vecchia Julianne, quella che lei conosceva come il suo palmo.

“È davvero figo quello che hai sul braccio sinistro.” commenta Andrew dall’altra parte del tavolo addentando una carota. Ha la voce incredibilmente profonda, sono sorpresa che mi parli direttamente.

“È un uccello?” chiede Aaron. Lo dice normalmente ma il suo sguardo è molto allusivo. Lui e il suo maledetto sorrisetto.

“È una rondine”. Specifico guardandolo male e mi riempio la bocca di pane.

“Te lo sei fatta da sola?” chiede Cole. Annuisco.

“Ne ha diversi. Se li è fatti quasi tutti da sola”. Asserisce Henry.

“Non ti fa male?”. Andy sembra sorpreso.

“No, non più di tanto.”.

“Jules è praticamente immune al dolore”.

“E quanti ne hai?” Jim mi scruta alla ricerca di segni visibili, come se cercasse i marchi di qualche gang.

“Per ora solo sette”.

Per ora?” le sue sopracciglia spolverano il soffitto.

“Di certo non mi fermerò qui, possono succedere tantissime cose tra oggi e il futuro”. La mia risposta sembra non piacergli, ma rimane zitto.

La cena si conclude rapidamente e, per fortuna, non vengo più interpellata. La loro sciocca conversazione da finta famiglia felice mi arriva ovattata, l'unico rumore nella mia testa è quello del mio stomaco che invoca più cibo. Una volta libera, mi rifugio nuovamente nel mio paradiso e tento di riprendere il favoloso sonnellino da cui Il Tormentato mi aveva sgradevolmente strappata. Ma, prima che riesca a ritrovare la pace interiore, il mio telefono squilla tra le coperte. La facciona della mia migliore amica, Scarlett, appare sullo schermo.

Appena rispondo alla chiamata FaceTime, lei si mette ad urlare. “Julianne Jade Roux. Sei una pessima amica!”.

“Ciao anche a te, Scar”

“Ero così preoccupata! Avevi detto che mi avresti chiamata non appena fossi arrivata nel paese degli orrori” urla, ha la fronte corrugata e lo sguardo furioso. La frangetta viola le finisce negli occhi ad ogni movimento che compie.

“Scusa Scar. Mi sono appisolata e mi sono completamente dimenticata di chiamarti. La situazione qui è più assurda di quanto pensassi”.

La sua espressione cambia nel giro di un secondo. “Racconta”.

 

Dopo il resoconto dettagliato della terribile giornata, si è completamente dimenticata di essere arrabbiata con me.

“Wow, quattro figli sono parecchi.” Si mordicchia un'unghia smaltata di nero. “Non sa cosa siano le precauzioni?”

“È un reverendo, Scar”.

Ridacchia rotolandosi sul letto. Mi manca un sacco la sua camera. “Guarda il lato positivo, condividerai il tetto con un musicista sexy e imprevedibile.”

Sbuffo “Non ci vedo niente di positivo”.

“Oh, io avrei qualche ideina su come rendere il soggiorno a SchifoTown molto più piacevole”. Fa ondeggiare le sopracciglia in modo allusivo e entrambe scoppiamo a ridere.

“Mi dispiace, ma io e lui non siamo della stessa specie” affermo risoluta.

“Secondo me è molto il tuo tipo, e sai benissimo che io queste cose le azzecco sempre. La mia abuela dice che ho un dono”.

“La tua abuela beve tequila alle otto del mattino” ridacchio “Oh, mi mancheranno un sacco le predizioni di tua nonna sul mio futuro”. L'abuela di Scar, Gabi, è la nonnina più pazza di tutta San Diego. Gestisce un coloratissimo negozio di tarocchi e cianfrusaglie mistiche. Quando andavo a casa di Scar passavamo sempre nel suo negozio a salutarla e lei mi leggeva gratis il futuro. Le sue predizioni erano sempre molto vaghe e prive di qualsiasi senso, non le ho mai prese per vere. Scar le è molto affezionata e crede ad ogni cosa lei dica. Essendo molto scettica di natura io non le credo granché, ma voglio bene a Scar, perciò tengo le mie idee per me.

Sono così persa tra i miei pensieri che, solo quando singhiozza forte, mi rendo conto che sta piangendo. “Mi manchi tanto, Julie”. Borbotta tra le lacrime. Sono davvero egoista, ho passato tutto il tempo a lamentarmi di quanto questo trasferimento fosse orribile per me, e non ho pensato minimamente a Scar. A San Diego eravamo solo io e lei contro il mondo, ora lei è sola contro un'intera orda di stronze troppo abbronzate e con le tette di plastica.

Ha proprio ragione, sono una pessima amica.

“Mi manchi anche tu, Scar. Questa situazione è solo temporanea, te lo assicuro. Riuscirò a tornare a casa prima delle vacanze di natale. Dobbiamo solo resistere qualche mese, non di più”.

Vederla piangere fa male da morire, è come se mi stessero amputando un braccio senza anestesia. Scar si asciuga le lacrime con la manica, facendo sbavare il mascara e tira su con il naso “Promesso?”.

Annuisco decisa. “Promesso. Non piangere più, okay?”.

“Okay” si pulisce la faccia e prova a sorridere “Ora devo andare, è quasi pronta la cena. Ci sentiamo dopo?”

“Certo”. Riattacco e lancio il telefono il più lontano possibile. Questa telefonata ha solo peggiorato il mio umore. Recupero la mascherina e provo a dormire, ma Henry si materializza nella mia stanza.

“È una catastrofe!” esclama lanciandosi sul mio letto in modo stranamente aggraziato.

Brontolo sfilandomi la mascherina. A quanto pare nessuno concepisce il significato di pisolino.

“Cosa?” domando, ma credo somigli più ad un grugnito. In ogni caso Henry mi comprende e continua a espormi il suo dramma della giornata. “Lunedì comincia la scuola! Lunedì!” squittisce.

“Quindi?” sbuffo.
Mi guarda stupito. “Tra due giorni Jules! Solo due!”

“Si, so contare anche io fino a due”.

“Cosa facciamo?” domanda sconcertato.

“Andiamo a scuola?” Tento di rimettermi la mascherina ma lui me la strappa di mano e balza in piedi. “Non è il momento per il sarcasmo, Jules! Pensavo di avere più tempo per conoscere qualcuno lontano dalle restrizioni legate alle gerarchie sociali del liceo” Mi rovescia addosso una valanga di parole senza prendere aria. Ormai senza fiato, viene scosso da un attacco di tosse che allerta i miei sensi come una sveglia. Il leggero torpore che mi stava invadendo si dirada rapidamente sostituito dal panico. Henry tossisce stringendosi il petto ed emettendo dei rantoli poco gradevoli.

“Dov'è il tuo inalatore?”. Lui continua a tossire accasciandosi a terra, senza riuscire a prendere fiato. Balzo fuori dal letto il più velocemente possibile, afferro la borsa sulla scrivania e scaravento il contenuto sulla moquette. Raccolgo l'inalatore bianco di Henry che tengo per le emergenze e ritorno da mio fratello. Lo afferra, schiaccia il tappo e inspira due spruzzate del medicinale. Lentamente riacquista il controllo sulla respirazione e finalmente il cuore smette di rimbombarmi nelle orecchie.

“Grazie...” ansima. Mi tremano le mani e l'adorabile cena di mamma tenta di risalirmi l'esofago alla ricerca della luce. Gli tiro un pugno sul braccio cercando di fargli il più male possibile “Grazie un cavolo! Dove diavolo è il tuo inalatore?”.

Si gratta la nuca osservando il pavimento “Ecco...” inizia ma lo interrompo, perché so già che sta per inventarsi una scusa. “Lo hai lasciato a casa!?” strillo facendolo sobbalzare.

“Tecnicamente...”

“Tecnicamente un cavolo! Ma sei diventato completamente scemo?” Mi viene voglia di colpirlo di nuovo. “Devo ricordarti cos'è successo l'ultima volta che non avevi l'inalatore con te?”.

Mi vengono i brividi solo a pensarci. Il ricordo di lui che annaspa alla ricerca d'aria con le labbra cianotiche, non sparirà mai dai miei ricordi. Henry mi afferra le mani “Mi dispiace davvero, Jules”. So che è sincero, ma la paura non se ne è ancora andata. “Non volevo ricominciare in una nuova città portandomi dietro l'aria da secchione asmatico”.

“Tu sei asmatico!”.

“Lo so, mi dispiace. Non volevo spaventarti”. Afferra l'inalatore e lo infila in tasca. “Lo terrò sempre con me, promesso”. Per noi, promesso significa veramente che manterrai quello che dici, senza nessuna eccezione. Mi acceca con uno dei suoi sorrisetti sinceri e mi abbraccia stretto, facendo dissipare la rabbia.

“Okay. Ora posso tornare a dormire?” domando alzandomi da terra, ma Henry mi ritrascina sulla moquette. “No. Dobbiamo capire come conoscere delle persone prima che cominci la scuola”.

“Ne conosci già uno, ci dormi pure insieme”

“Aaron non conta, e poi credo che fingerà di non conoscerci lunedì”. È così serio che gli è spuntata una rughetta sulla fronte, proprio in mezzo alle sopracciglia chiare.

“Cosa proponi?”

“Beh, io avrei un piano, ma è necessario il tuo contributo” Si gratta la nuca. Brutto segno.

“Probabilmente me ne pentirò, ma spiegami”.

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Capitolo 4
*** Aaron ***


Finita l'imbarazzante cena in famiglia, certo di darmi alla fuga il più in fretta possibile, ma papà mi placca prima che riesca a raggiungere le scale. Mi affronta con le braccia strette al petto e lo sguardo corrucciato. “Dove pensi di andare? I piatti toccano a te stasera”

“Sono sicuro che tocchi a Cole” ribatto.

Vedo Cole annuire dalla porta della cucina. Papà lo osserva a lungo poi scuote la testa “Li farai tu i piatti stasera. Punto e basta”.

“Possiamo farli Jules e io. Per ricambiare l'ospitalità” si intromette Henry entrando nel mio campo visivo. La sorella gli sferra una gomitata nel fianco e scuote visibilmente la testa. Si scambiano una conversazione fatta solo di sguardi, che finisce con un lungo sospiro di assenso da parte di Julianne.

“Non ci pensate nemmeno. Siete appena arrivati, non esiste che cominciate subito con le faccende domestiche. Ci penserà Aaron”

“Ma io...” Faccio un passo in avanti, per fronteggiarlo, ma lui agita una mano in aria facendomi fermare. “Ho detto che laverai i piatti e così farai! Se non vuoi che diventi un'abitudine smettila di ribattere”. È inutile continuare a controbattere, il coltello dalla parte del manico ce lo ha lui, perciò annuisco. I miei fratelli sparisco portandosi dietro Liv e i due gemelli prodigio li seguono.

Mi trascino in cucina sbuffando e borbottando. Di malavoglia aiuto April a sparecchiare la tavola e a ripulire il tavolo. Uno volta che tutti i piatti sporchi sono in cucina, iniziamo la catena di montaggio per lavarli e asciugarli. April lava e io asciugo. Di tanto in tanto mi lancia un’occhiata preoccupata da oltre la spalla. Sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans e so perfettamente che sono i miei amici, che mi stanno tampinando di messaggi minatori. Se non riesco ad andare alla festa mi ammazzeranno tutti e tre, uno alla volta. Ignoro tutti i tentativi di April di avviare una conversazione e, alla fine, smette di provarci. Alla velocità della luce, asciugo tutti gli utensili e tutti i piatti. Sono pronto per evadere da quel carcere che un tempo chiamavo casa quando, mio padre, scivola in cucina con le mani dietro la schiena.

“April, tesoro, puoi lasciarci soli, per cortesia?” La pone come una domanda ma è chiaro che è un ordine sottointeso. April annuisce e esce dalla cucina in silenzio. Papà vaga per la stanza studiando il pavimento. Capisco che la situazione sta per mettersi male dal modo in cui si muove per la cucina.

“Sai, Aaron, mi aspettavo tanto da te” comincia, dondolandosi sulle gambe “Tu dovresti essere un modello per i tuoi fratelli, e invece che cercare di aiutarmi a gestire questa situazione nuova, tu mi remi contro”. Usa il tono da sermone, che mi irrita il sistema nervoso.

“Nessuno di noi ha chiesto una situazione nuova. Ci andava benissimo come stavamo prima che arrivasse April” borbotto. Non ho nulla contro April, davvero, ma da quando c’è lei il nostro equilibrio è stato spezzato irrimediabilmente.

“Non andava benissimo, Aaron! Non andava benissimo affatto!” alza il tono di voce e si sporge in avanti “Da quando tua madre ci ha lasciati…”

“La mamma è morta, cazzo! Non ci ha lasciati. E soprattutto non è andata in un posto migliore” mi bruciano gli occhi e la testa mi scoppia. Proprio non capisce che non esiste nessun paradiso, e che la mamma è semplicemente finita sottoterra.

“So che tua madre ti manca molto, ma questo non ti autorizza a comportarti in questo modo!” il suo volto assume una sfumatura violacea.

“Tu proprio non capisci. Non mi ne fregherà mai un cazzo della tua nuova donna e dei suoi stupidi figli! Solo perché te la scopi non vuol dire che saremo magicamente una famiglia”.

Sbatte il pugno sull’isola di marmo così forte, che ho quasi l’impressione che si spezzi in due. “Da adesso in poi sei ufficialmente in punizione. Niente TV, niente Savannah e soprattutto niente band. E scordati la festa a cui progettavi di andare stasera”.

La bocca si ricollega al cervello e finalmente mi accorgo del casino che ho combinato. “Non puoi impedirmi di uscire”.

“Eccome se posso. Se vedo anche solo la tua ombra fuori dalla porta, puoi dire addio al lacrosse per sempre”. Ringhia agitando le braccia.

“Ma non è…”

“…Giusto?! Beh, benvenuto nel mondo degli adulti”. Trotta fuori, lasciandomi solo con la consapevolezza dei miei errori. Imprecando esco dalla cucina e a vado a sbattere contro Henry. È tutto rosso in faccia, come se lo avessi appena beccato a rubare l’argenteria.

“Io…ecco…” balbetta.

“Piaciuto lo show?!” borbotto superandolo e dirigendomi in camera mia.

 

 

“Aaron, ti prego, dimmi che ci stai prendendo per il culo e che in realtà stai arrivando” mi implora Matt dall’altro capo della telefonata. “È la festa per l’inizio della scuola, noi dobbiamo suonare assolutamente”. So che probabilmente, dopo questa merdata che gli ho fatto, mi odieranno e fanno bene. Non ho scusanti, cazzo.

“Lo so, ma sono agli arresti domiciliari” asserisco stringendo forte il telefono. Sento il mio migliore amico Matt, sospirare rumorosamente, come se si concentrasse per mantenere la calma. In sottofondo si distingue una colorita imprecazione di Lip, che poi afferra il telefono.

“Come diavolo dovremmo suonare senza il chitarrista/cantante?!” sbraita Philip, detto Lip, il nostro batterista e migliore amico. Il ragazzo più rumoroso e volgare che io abbia mai conosciuto.

“Mi dispiace ragazzi, davvero”. Non so neanche perché sono ancora amici miei, dopo tutte le stronzate che ho combinato.

“Cosa cazzo dovremmo farcene delle tue scuse. Smettila di fare la femminuccia e porta il culo a casa di Matt” strilla Lip.

Matt si riprende il cellulare “Aspetta un secondo, era oggi che arrivavano i figli di April, vero?” domanda. È il mio migliore dall’asilo e capisce velocemente se qualcosa non va.

Resto in silenzio e lui lo prende per un sì.

“Cosa cazzo centra questo ora?”.

“Sta zitto, Philip!” lo sgrida Matt. “Non ti preoccupare A. ci inventeremo qualcosa. Diremo che stai male e che non possiamo suonare stasera. Lo dico a Niki, ci penserà lei a spargere la voce”.

La sua comprensione mi fa sentire ancora più di merda. Faccio proprio cagare come amico.

“Lip aiuta Tyson a rimettere gli strumenti in casa, sbrigati. Io avverto Nicole”.

“Matt mi dispiace, sul serio ma, mio padre ha tirato in ballo il lacrosse e io…”

“Non ti preoccupare amico. Non è un problema, ora risolviamo” afferma serio.

“Vedo se riesco a trovare un compromesso, magari cambia idea. Vi aggiorno” azzardo.

“Okay, a dopo”. Chiudo la telefonata e sprofondo la testa tra i cuscini e nell’autocommiserazione. In qualche modo riesco sempre a mandare tutto a fanculo. Sbraito con la faccia premuta contro il materasso, che attutisce le urla. Il mio patetico sfogo viene interrotto da una voce femminile proveniente dalla soglia della porta. “Non disperarti, c’è sempre una soluzione per tutto”.

Mi tiro su a sedere e, appoggiata allo stipite della porta, trovo il prodigo numero 2, la piccola bomba sexy. Mi osserva con i suoi grandi occhi, dal colore indefinito, e le braccia strette al petto. La mia attenzione si focalizza sul suo seno, messo in evidenza dalle braccia magre e chiare.

Prevedibilmente, se ne accorge.

“Sai non è carino fissare le tette di una ragazza, soprattutto se è qui per affari”. La sua voce è calda e bassa, come se passasse le giornate a cantare a squarciagola.

“Affari?” domando. Sfodera un sorrisetto scaltro, che mi manda in subbuglio le budella.

“Ho sentito dire che vuoi andare ad una festa, ma non hai il permesso” fa un passo in avanti, entrando in camera mia in modo sinuoso ed elegante. Il fatto che sia in camera mia è già di per se abbastanza eccitante, ma c’è qualcosa nel suo modo di muoversi che mi fa impazzire. Prima che possano venirmi in mente scenari alquanto piacevoli, dietro di lei appare il prodigio numero 1. La segue come un’ombra o come una guardia del corpo, ma per qualche ragione ho idea che si sappia difendere benissimo da sola.

Mi si posiziona davanti “Io posso farti andare alla festa”.

Ridacchio. “Si certo, e io mi faccio Katy Perry. Ora che abbiamo detto la stronzata del giorno, puoi andartene dalla mia stanza” mi alzo in piedi troneggiando su di lei. È sorprendentemente minuta, pur standole ad un passo di distanza, la sua testa mi arriva sotto il mento. La squadro e sogghigno. “Beh, a meno che tu non voglia offrirmi qualche altro tipo di affare, perché in quel caso, sono tutto orecchie”.

Mi fulmina, scrolla le spalle e si avvia verso la porta. Henry la afferra per il braccio “Jules”.

“Io ci ho provato. Se è un coglione, non posso farci nulla”.

Le faccio un sorrisetto che lei ricambia con un dito medio.

Soeurette, s'il vous plaît” le sussurra con un’incredibile accento francese. Avevo captato qualcosa sul fatto che i due figli di April fossero per metà francesi, ma ci avevo fatto molto caso.

Julianne sbuffa chiudendo gli occhi “C’est le roi des couillons” mormora con una sexy erre moscia.

Fais le pour moi” Henry le afferra la mano tirando lentamente verso di lui.

Lei sospira “Qu'est-ce qu'on ferait pas pour un frère…”. Mi si ri-piazza davanti con le mani sui fianchi e lo sguardo determinato. “Ascoltami attentamente, mi serve tutta la tua attenzione per un minuto” fa una pausa eloquente “Sempre se ne sei capace”.

“Simpatica. Parla.” Farfuglio.

“Questa è la tua ultima occasione, se dici qualche stronzata il tuo patetico party da adolescenti arrapati lo vedi con il binocolo. Okay?”. Annuisco osservandola. “Perfetto. So come farti avere il permesso per uscire, ma qui non facciamo carità, perciò voglio qualcosa in cambio”. Parla sicura e spedita come se avesse il totale controllo sulla situazione. È lo stesso quando cammina.

“Cosa vuoi? Spero non soldi. Sono al verde”.

“Non mi stupisce”. Si lascia cadere con eleganza sul letto posizionato difronte al mio, quello in cui dormirà suo fratello, e accavalla le gambe. Ha i jeans strappati all’altezza delle ginocchia. “Prima di tutto voglio sapere perché ci tieni tanto?”

“Perché ti interessa, principessa?”. Le domando. Si acciglia inclinando la testa di lato. Mi scruta come se potesse guardarmi attraverso la pelle e vedermi dentro. Nei suoi occhi c’è qualcosa di magnetico.

“Vuole valutare quali sono le tue priorità e i tuoi interessi” asserisce Henry avvicinandosi. “Per capire se vale la pena aiutarti”. Lei gli fa un sorrisetto dolce e orgoglioso, annuendo. Quando il suo sguardo si riposa su di me, la sua espressione è di nuovo indecifrabile.

“Vuoi andare alla festa per farti una ragazza?” chiede con indifferenza.

Scuoto la testa “Devo suonare con la mia band. Abbiamo poche occasioni in cui poterci esibire e stasera ci sarà praticamente tutta la scuola, perciò è davvero importante”. Stringo i pugni rendendomi conto che, se la piccola bomba sexy non riuscirà a farmi uscire, i miei amici perderanno un’altra occasione per colpa mia.

“Come si chiama la tua Band?” chiede curiosamente Henry.

“Gli Hazy Heavy”.

Sorride, accecandomi con i suoi perfetti denti bianchi “Mi piace”.

La principessa mi scruta ancora accigliata. “Jules” la richiama il fratello. Si guardano negli occhi. “Sto pensando” asserisce mordicchiandosi il labbro.

“Il tempo scorre, principessa”. Si alza in piedi e mi punta un dito sottile e smaltato di nero in faccia. “Okay, le condizioni sono queste: 1. Verremo alla festa con te. 2. Dovrai introdurre Henry a tutti i tuoi amici più popolari 3. Farai di tutto perché lo trovino simpatico e lo accettino. E per finire, 4. Se mi chiami ancora principessa ti cavo gli occhi con un chiodo arrugginito”. Sorride alla mia faccia sorpresa. “Accetti?”. Faccio un passo avanti invadendo il suo spazio vitale e mi chino in avanti per guardarla dritta negli occhi. I nostri nasi praticamente si toccano, ma lei non indietreggia e mi fissa sicura. “Eccome, piccola”.

Emette un suono molto simile ad un ringhio e aggrotta le sopracciglia. La mia attenzione viene catturata dalla sua bocca. Ha il labbro inferiore un po’ più carnoso e un piccolo neo sopra quello superiore. Il suo profumo mi invade. Sa di estate, crema solare e Piña colada. Scoppia a ridere di gusto, prendendomi in contropiede. È la prima volta che la sento ridere davvero, mi piace come suona un po’ roca e gutturale.

“Ti assicuro che senza maglietta è anche meglio” sussurra, citando il nostro primo incontro. Dopo di che, si allontana verso la porta, lasciandomi imbambolato nel bel mezzo della stanza.

“Andiamo forza, o finirai per fare tardi” ridacchia. La inseguo cercando di riprendere il controllo.

“Come fai a essere sicura di riuscire a far cambiare idea a mio padre?”.

“Devi fidarti di me” mormora. E, per qualche fottutissima ragione, io mi fido di lei.

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Capitolo 5
*** Julianne ***


Julianne

 

Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto.
(Oscar Wilde)

 

 

Per qualche maledetta e terrificante ragione, sto salendo le scale che portano all’inferno.

In realtà portano alla nuova camera da letto di mia madre. La ragione per cui lo faccio, è che amo alla follia mio fratello e farei qualsiasi cosa se lui me lo chiedesse. Salgo gli scalini di legno scuro lentamente, come se stessi procedendo scalza in un campo minato. Preferirei decisamente disarmare una mina antiuomo con un martello, piuttosto che affrontare mia madre sola, disarmata e senza via di fuga. Mi giro ad osservare il pianerottolo ed Henry mi sorride incoraggiante e leggermente ansioso. Aaron si limita ad osservarmi scettico. Vorrei tirarmi indietro, ma ormai abbiamo un accordo, perciò percorro gli ultimi gradini rapidamente e, prima di perdere il coraggio, busso alla porta. La voce dolce e squillante della mamma mi dice di entrare e così faccio. La camera è ampia e ben illuminata, le pareti sono di un luminoso lilla e i mobili di legno scuro si intonano bene con la moquette color panna. Alle pareti sono appesi quadri variopinti e il letto in ottone è adornato da cuscini sui toni del viola.

“Sono qui” afferma la mamma da una stanza sulla sinistra.

La raggiungo sentendomi estremamente a disagio. È curva sulla macchina da cucire, intenta a creare un nuovo componente della sua collezione. La stanzetta è piena di manichini e stoffe colorate, c’è un enorme tavolo su cui sono state appoggiate tre macchina da cucire. Aghi, nastri e fili sono sparsi su ogni superficie libera e i suoi schizzi la circondano sparpagliati per il tavolo. Tutta questa situazione mi ricorda enormemente tutte le volte, che mi sedevo a disegnare rannicchiata nella sua stanza del cucito a San Diego, mentre lei creava capi meravigliosi dal nulla. Mi ci vuole uno sforzo incredibile per non scoppiare ad urlare come una pazza.

Prendo un respiro profondo e mi faccio coraggio.

“Mamma”.

Lei si immobilizza con l’abito ancora mezzo nella cucitrice. Si gira cautamente e si sfila gli occhiali viola da lettura, che usa per cucire.

“Julianne” sussurra piano.

“Possiamo parlare?”.

Annuisce vistosamente e azzarda un sorriso.

“Non qui” asserisco. Non in quella stanza. Si alza, lasciando tutto dov’è, e mi segue in camera sua. Anche lì mi trovo a disagio su dove sedermi. Il letto lo escludo a prescindere, non mi ci siederò mai. Opto per il pavimento. La mamma mi imita e, agilmente, si accomoda per terra. Lancio un’occhiata alle scale dietro di me, sapendo che Henry è seduto sui gradini, pronto ad intervenire all’occorrenza.

“Mi dispiace tantissimo, Julie” sussurra di botto, sfiorandomi una mano “Non volevo colpirti prima, sono stata una madre terribile e non ho scusanti”.

Annuisco borbottando “Non ti preoccupare”.

Da la storia come conclusa e sorride “Di cosa volevi parlare?”.

Prendo un bel respiro e mi concentro sul motivo per cui lo sto facendo.

“Mi servirebbe un favore” affermo piano “Henry ed io vorremmo andare ad una festa, stasera. Per conoscere persone nuove prima dell’inizio della scuola”.

Avrei preferito lanciarmi dalla finestra piuttosto che chiederle un favore. Però, ho questa macabra sicurezza che lei farebbe qualsiasi cosa pur di trovare un punto d’incontro. Fisso il pavimento, perché non riesco a guardarla in faccia.

“Oh, tesoro. Certo, non c’è problema” Si allunga e mi abbraccia. La pelle mi va a fuoco. Vorrei urlare. Mi mordo l’interno della guancia finché non sento il sapore del sangue.

“L’unico problema è che Aaron non ha il permesso di uscire. Non possiamo imbucarci alla festa”. Mi bruciano gli occhi.

“Di questo non ti devi preoccupare, ci penso io” afferma zuccherosa. Continua a toccarmi il braccio e io mi sento morire. “Piuttosto, cosa pensavi di indossare?”.

Ovviamente l’apparenza è la priorità della mamma. Alzo le spalle.

“Stavo lavorando ad una cosa per te” balza in piedi e corre nel suo studio. Ne esce con in mano un vestitino bianco. Me lo porge. È scollato, senza maniche, lungo fino a metà coscia e con un ghirigoro di pizzo sul fondo.

“Pensavo potessi indossarlo alla festa. Ti piace?” domanda nervosa.

Non mi piace neanche un po’, è troppo appariscente per i miei gusti. È un capo che incarna alla perfezione la vecchia Julianne ed io odio la vecchia me. Ma è uno sforzo necessario, perciò annuisco cercando di sorridere. Lei batte le mani compiaciuta, mi aiuta ad alzarmi e mi trascina in un abbraccio non richiesto. Quando mi lascia andare mi sento stravolta.

“Vai a farti bella ed ad avvisa tuo fratello”.

Annuisco.

“Ti voglio bene, Julie” mi dà un bacio sulla fronte.

Annuisco di nuovo, senza ricambiare. Lei si avvia verso le scale a passo deciso e io la seguo.

 

 

“Non c’è di che” sospiro lanciandomi sul letto in camera mia. Sono esausta. Aaron ed Henry sono in piedi e mi fissano. Jim ha appena comunicato al figlio che potrà andare alla festa ad una condizione: Noi.

“Secondo me hai poteri demoniaci, ma ti sono immensamente grato” ridacchia Aaron digitando velocemente sull’IPhone.

“Non me ne faccio di nulla della tua gratitudine. Abbiamo un accordo e l’unica cosa che voglio da te, è che lo rispetti” mormoro. Lui smette di scrivere ai suoi amici e mi fissa negli occhi per qualche secondo, sorpreso dalla mia franchezza. Il mio autocontrollo si è esaurito durante la conversazione con la mamma. Non me ne frega un cavolo di quello che pensa lui di me.

Mi scruta con quegli occhi verdi, che mi agitano immensamente, e mi sgancia uno dei suoi sorrisetti impertinenti. “Come desideri, principessa”. Alzo gli occhi al cielo lanciandogli un cuscino, che lui schiva abilmente.

“Vado a preparami” afferma “tra dieci minuti ci troviamo di sotto. Non un minuto più tardi”. Esce dalla mia camera come se avesse il pepe nel culo.

“Stai bene?” domanda Henry preoccupato.

No, direi di no. Ma non è importante. La ragione per cui l’ho fatto è lui, quindi non mi importa di me.

“Favolosamente” rispondo alzandomi in piedi “Vai a farti bello, tra dieci minuti e non un minuto più tardi dobbiamo uscire”. Lo spigo fuori e lui ride.

 

Di malavoglia indosso il vestito della mamma, che prevedibilmente mi sta perfetto, degli stivaletti neri e una giacca di pelle. Butto il portafoglio e il cellulare nella borsa, mi do una pettinata e sistemo quel poco di trucco che indosso. Mostro l’outfit alla mamma, che approva emettendo uno dei suoi gridolini e stritolandomi in un abbraccio.

Allo scadere dei dieci minuti, la voce di Aaron prorompe per tutta la casa ed Henry si precipita giù per le scale. Io, d’altro canto, scendo i gradini con calcolata lentezza, facendolo irritare. Sbatacchia il piede sul parquet e fissa l’orologio.

È uno schianto, ma questo non dovrebbe interessarmi. Ha i capelli scuri perfettamente spettinati, indossa una t-shirt dei Nirvana e dei jeans neri sgualciti e stretti. In un altro momento e in un’altra vita mi sarei data da fare per attirare la sua attenzione, ma nel mio presente lui è off-limits. Quando mancano una manciata di scalini, lui perde le staffe mi afferra per un braccio e mi carica sulla spalla, facendomi finire a testa in giù.

“Non abbiamo tempo per la sfilata, dolcezza. Siamo in un ritardo del diavolo”. Mi tiene strette le gambe con un braccio solo, tenendomi su con una facilità incredibile.

“Mettimi subito giù!” strillo afferrandogli la maglietta dietro la schiena. Il mio sedere è fisicamente troppo vicino alla sua faccia e la sua mano mi stringe una coscia. Tutto ciò non va affatto bene. “Non c’è tempo”. Brontola spalancando la porta e uscendo sul portico. Henry dietro di noi ridacchia con la sua faccia da ViShippoTroppo. Gli tirerei un pugno in faccia, se fosse abbastanza vicino. Provo a divincolarmi, ma il mio scarso metro e cinquantacinque e i miei esili 47 kili non battono la sua stazza e la sua forza. O forse semplicemente non ci provo con molta convinzione. Non mi dispiace stargli così addosso.

Raggiunge la sua auto sul vialetto, una Ford Mustang Boss 429 rossa un po’ rovinata – mi piacciono le auto – e mi scaraventa sul sedile posteriore insieme alla sua chitarra. Ignora platealmente le mie accese imprecazioni, ingrana la marcia e parte verso una meta che non conosco.

 

 

Dopo soli cinque minuti, frena davanti ad una villetta inglese, identica a tutte quelle che abbiamo superato.

“È qui la festa?” domanda Henry, spingendo la faccia contro il finestrino. La casa è silenziosa e poco illuminata. La risposta mi sembra alquanto scontata.

“Qui abita il mio bassista. Siamo qui per prendere gli strumenti ed andare alla festa insieme” spiega Aaron aprendo la portiera. “Restate in auto” ordina.

Si, col cavolo. Mi appresto ad uscire ma, da vero gentiluomo, mi sbatte la portiera in faccia. La sua macchina ha solo due porte e, per uscire, devo spostare il sedile ed aprire la portiera.

“Quanto lo odio” borbotto. Dei ragazzi escono dalla casa del bassista.

“Secondo me ti piace” azzarda mio fratello, ridacchiando.

“Ma per favore. È saccente, maleducato e impertinente” mi allungo verso il sedile del guidatore, cercando di raggiungere lo sportello.

“Mi ricorda qualcuno…” sussurra Henry.

Lo fulmino con lo sguardo.

“Vieni, esci dalla mia parte” spalanca la portiera e salta giù. Lo seguo a ruota, incespicando sull’asfalto. La macchina più bella e più scomoda della storia.

“Non vi avevo detto di restare in macchina!” si lamenta Aaron venendo verso di noi.

“Si, ma abbiamo deciso di ignorarti” lo informo rimettendomi dritta. Dietro Aaron spuntano due ragazzi ugualmente belli e prestanti, e mi viene il dubbio che per fare parte degli Hazy Heavy, ci siano della caratteristiche fisiche da rispettare.

“Sono loro i cervelloni di cui parli ultimamente?” domanda uno di loro. Ha una zazzera di capelli rossi e riccissimi e due enormi occhi verde scuro. È il ragazzo più muscoloso e alto che abbia mai visto, un suo braccio è largo come la mia testa. Mi si avvicina, troneggiando sulla mia minutezza come una montagna.

“Ehi, bambolina” mi acceca con un sorriso, immerso in un mare di lentiggini. Mi fissa platealmente le tette, messe in risalto dalla scollatura. Mi viene il naturale impulso di colpirlo.

“Ti consiglio di smetterla di sbavarmi addosso o finirai per dover raccogliere i denti dall’asfalto”.

Si fa più vicino mettendomi a disagio. “Mi piace un po’ di violenza” mormora roco. Faccio un passo in avanti, pronta ad attaccare, ma Aaron mi anticipa mollandogli una sberla sulla nuca “Smettila Lip. Lei è zona vietata”. Lip sbuffa, ma ubbidisce e si allontana.

“Principessa, lui è Philip, il batterista.”.

“Julianne” lo correggo.

Lip fa un sorrisetto squadrandomi da capo a piedi. Poi guarda mio fratello e gli porge la mano. Henry si presenta e fanno quella stretta di mano virile da maschi. L’altro ragazzo rimane impalato sul marciapiede senza dire una parola. I capelli biondi sono raccolti dietro la nuca in un codino basso e gli occhi neri non fissano nulla di specifico.

“Lui è Tyson, il pianista” spiega Aaron “Non parla volentieri con gli estranei”.

Ty ci fa un cenno con la testa. Henry lo osserva attentamente, incuriosito dal suo silenzio.

“Dov’è Matt?” chiede Aaron.

“Sta finendo di caricare la roba sul furgone, siamo praticamente pronti” annuncia Lip “Mettiamo la chitarra e il basso sulla tua Boss, mentre la batteria, le tastiere e gli amplificatori sul furgone di Ty”

La porta del garage si alza cigolando e un furgoncino blu sbiadito esce in retromarcia, fermandosi davanti alla macchina di Aaron. Un ragazzo moro scende dal lato del guidatore, sbattendo la portiera.

“A!” esclama “Finalmente”. Si abbracciano in modo fraterno e, quando il moro si gira, il mio cuore perde un colpo. Mi fissa negli occhi e io fisso lui. È tutto così assurdo che mi viene da ridere.

“Julie?” domanda sorpreso, strabuzzando gli occhi.

“Matt?” sussurro.

Il mio cervello lentamente mette insieme i pezzi. Bassista. Orem. Matthew Carter. Più che logico. Prima che me se ne renda conto gli salto addosso ridendo. Come sempre, lui ricambia il mio abbraccio sollevandomi dal suolo. Mi stringe, ricordandomi perché quell’estate avevo trovato conforto tra le sue braccia.

“Non ci posso credere” farfuglia tra i miei capelli. Mi riposa a terra tenendomi il viso tra le mani e passandomi i pollici sulle guance. Mi guarda come se non mi riconoscesse nemmeno. In effetti, il suo ultimo ricordo di me non deve combaciare con l’aspetto che ho ora. Lui d’altro canto è sempre uguale. Sempre bellissimo. I suoi occhioni nocciola mi scrutano allegri e gli zigomi alti e la fronte spaziosa mi ricordano l’estate.

“Che cosa hai fatto ai capelli?” prende in mano una ciocca nera e la arriccia.

“Matt?” domanda Aaron interrompendo la linea dei miei ricordi felici. Ci fissano tutti. Lui ci fissa tra l’infastidito e il confuso.

Matthew sorride sfiorandomi la testa. “Sai che, dalle elementari, passo ogni estate due mesi al campo estivo delle arti, in Florida?”.

Aaron annuisce.

“Beh, ti ho parlato di Julie…lei è Quella Julie”.

La faccia di Aaron passa dalla confusione, alla comprensione e poi di nuovo alla confusione.

Lip scoppia a ridere di gusto. “Lei è Quella Julie”.

Mi sento terribilmente a disagio. Spero vivamente che non gli abbia raccontato ogni cosa, se no sono fottuta.

Henry mi si avvicina di soppiatto e sussurra “Lui è quel Matt? Quello del campo estivo?”.

Annuisco e lui si strozza cercando di soffocare una risata. Henry conosce tutti i dettagli della storia.

Aaron infila una mano nella tasca dei jeans di Matt e gli sfila il portafoglio.

“Ehi!” protesta l’amico.

Aaron lo schiude, fruga all’interno e ne estrae una polaroid sgualcita e stropicciata. Tiene tra le mani l’ultima foto che ci siamo fatti durante l’estate della prima superiore. L’estate in cui mia madre se ne è andata. L’ultima estate che ho passato al campo estivo. L’ultima volta che ho visto Matt.

“Tu sei questa?” domanda sconvolto, guardano prima la foto e poi me. Nella foto sono bionda, senza tatuaggi, né piercing e felice. Capisco perfettamente il suo stupore. C’è una solo una leggera somiglianza tra me e la ragazza nella foto, potremmo essere scambiate per cugine, non per la stessa persona.

Si gira verso Matt “Lei è il terremoto biondo con cui hai incellofanato l’ufficio del direttore del campeggio? Con cui hai riempito gli strumenti a fiato della banda di budino? Con cui hai perso…”.

“Si!” lo interrompe Matt “è lei”.

Si riprende la foto e il portafoglio, e mi guarda. “Ho un sacco di cose da chiederti…” incomincia, ma viene interrotto dal suo cellulare, che bippa fastidioso. Lo scruta accigliato e infastidito. “Dobbiamo andare” afferma.

“Io vado in macchina con A.” ci informa Lip. Aaron rimane in silenzio, continuando a guardarmi in modo strano. “Ci vediamo davanti a casa di Giselle” mormora Matt, poi mi prende la mano e mi conduce verso il furgoncino. Mi fa salire davanti sul sedile del passeggero, Henry e Tyson si siedono dietro e Matt si mette al posto del guidatore. Parte seguendo la Boss di Aaron e accende la radio. Lancia un’occhiata verso mio fratello attraverso lo specchietto. “Tu sei Henry, vero? Scusa se non mi sono presentato, ma non mi aspettavo di incontrare Julie, stasera”

Henry si sporge in avanti sfiorando volutamente la gamba di Tyson. “Si, sono io. È un piacere conoscerti finalmente. Jules mi ha parlato un sacco di te”. Il modo in cui accentua la parola sacco mi infastidisce tantissimo. Gli mollo una gomitata, rispedendolo contro il sedile e lo sento ridacchiare. Matt sembra non farci caso e si rivolge a me sorridendo. “Wow, Julie, ti assicuro che non mi aspettavo che fossi uno dei figli di April, di cui Aaron si è lamentato nelle ultime settimane”.

“Nemmeno il mio cervello aveva calcolato questa possibilità. Ma sono davvero felice di vederti”. È la verità. Mi è mancato moltissimo.

Stacca una mano dal volante per intrecciarla alla mia. Però, per qualche strana ragione, le farfalle birichine che solitamente il suo contatto agitava, sembrano in letargo. Due anni fa anche solo una sua carezza mi avrebbe fatta accendere come un fiammifero, ora sento solo una strana sensazione famigliare. Matt è stato tantissime mie prime volte e lo adoro, ma non è più come prima. Io non sono più come prima.

“Allora raccontami, cos’è successo ai tuoi capelli biondi? E al tuo naso? E soprattutto da dove sbucano quei tatuaggi?” straparla facendomi sentire a casa. Con lui potevo parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi momento. È la cosa che mi mancava di più del campeggio. Frena ad un semaforo e si gira a guardarmi.

“Beh, diciamo che sono cambiate molte cose in due anni” mormoro consapevole della presenza di Tyson. Anche se sembra silenzioso e riservato, non sventolo i fatti miei ai quattro venti. Matt sembra cogliere la mia risposta criptica “Mi piace, tutto quanto. Rispecchia la tua personalità alla perfezione”.

Gli sorrido grata. “Parlami di te”.

Svolta a sinistra lasciandomi la mano. “Beh, quando due anni fa non sei venuta al campo è stata un’estate schifosa, così ho deciso di non andarci quest’anno e sono rimasto a casa.”

“Mi dispiace, ma…”

“Lo capisco perfettamente, Julie. Non ti biasimo, credimi, avrei fatto lo stesso se fossi stato nella tua situazione”.

Conosce la storia dei miei genitori e sa cosa ho passato quando la mamma se né andata. Lui era lì con me. Mamma ha deciso di lasciare mio padre all’inizio dell’estate e io sono partita lo stesso per il campeggio, con l’intenzione di fingere che fosse tutto normale, anche se non era affatto così. Matt mi ha fatta sentire felice per tutta l’estate, ma quando sono tornata a casa, la realtà mi ha investita come un tir e ho dovuto fare i conti con le conseguenze di quello che era successo.

“Sei riuscito ad entrare nella squadra di lacrosse?” chiedo curiosa. Era sempre stato uno dei suoi sogni giocare a lacrosse, nella squadra della sua scuola. Durante quell’estate ci eravamo esercitati insieme.

“Si, appena sono tornato a scuola ho fatto il provino e mi hanno preso. In realtà, tranne Ty, siamo tutti nella squadra. Aaron è il capitano, Lip il difensore e io sono mediano”

“Ma è fantastico!” lo colpisco sul braccio saltellando sul sedile.

Lui scoppia a ridere massaggiandosi l’avambraccio “Ahi! Certe cose non cambiano, hai sempre una forza incredibile”.

Il suo cellulare vibra da sopra il cruscotto. Sullo schermo appare una foto di lui che bacia una bellissima ragazza dalla pelle scura. Sopra la foto appare il nome a caratteri cubitali: Niki.

Matt afferra il cellulare, mette giù e me lo passa “Puoi scrivergli che tra due minuti arriviamo?”. Dalla tranquillità con cui mi passa il telefono, immagino che i suoi sentimenti nei miei confronti siano gli stessi che provo io per lui.

“Certo” digito veloce e invio il messaggino. “È la tua ragazza?”.

So che non dovrei impicciarmi, ma voglio sapere ogni cosa che gli è successa nell’ultimo periodo.

“Da quasi un anno. È davvero fantastica, secondo me andreste d’accordo. Dopo te la presento” parla con leggerezza e sorridendo quando pensa a lei. Sono sinceramente felice per lui.

Quando vedo l’enorme villa che si avvicina, mi si ghiaccia il sudore sulla schiena. Le feste non sono più il mio elemento, soprattutto se sono completamente lucida.

“Wow” esclama Henry osservando la casa. Matt accosta e spegne il motore.

“La festa è di Giselle, la migliora amica di Nicole, ed al primo impatto è un po’…” fa una pausa, soppesando le parole “…aspra. Cerca di non farci a botte, Julie”. Sa bene quanto me che è una promessa che non posso fare. Quando vengo attaccata rispondo contrattaccando. Henry mi stringe la spalla dal sedile posteriore. So che significa che lui sarà al mio fianco, ma non riesco a tranquillizzarmi. Le feste da adolescenti non mi piacciono. Ho smesso di andarci molto tempo fa, quando ho cominciato ad andare alle feste delle confraternite universitarie con il mio ragazzo. Lì nessuno si azzardava ad offendermi, perché significava offendere Jared, e nessuno si sarebbe mai permesso di farlo.

“Forza, dobbiamo scaricare gli strumenti”.

Matt e Ty smontano e si avvicinano ad Aaron e Lip, che hanno parcheggiato difronte a noi.

“Coraggio sorellina” mi esorta scendendo dalla macchina. Sono tentata di rimanere in macchina a leggere, ma non lascerei mai Henry solo in territorio sconosciuto, perciò lo seguo.

Mentre i ragazzi scaricano gli strumenti sul ciglio della strada, la brunetta della foto corre fuori dalla villa e salta in braccio a Matt. Lo bacia con trasporto e lui ricambia con altrettanta foga.

“Sono così contenta che ce l’abbiate fatta!” esclama sorridente. Porta un vestitino a fiori che mette in risalto il tono scuro della sua pelle. Ha gli occhi castani truccati benissimo e i lunghi capelli marroni tirati indietro da un cerchietto color cipria. È alta e slanciata, davvero bellissima.

“Anche noi” afferma Matt stringendole la vita.

“Carter!” abbaia Aaron visibilmente irritato “Smettila di palpeggiare la tua ragazza e aiutaci”. Matthew alza gli occhi al cielo e asseconda il suo amico. Nicole nota la presenza di due persone a lei estranee e si avvicina curiosa.

“Non credo di conoscervi” sorride.

Mio fratello ricambia educatamente il saluto e le allunga una mano “Henry, molto piacere. Lei è mia sorella, Julianne”. Lei ricambia la stretta e poi mi guarda, in attesa, con la mano a mezz’aria. Non sono una fan delle strette di mano perciò, mi limito a farle un cenno con la testa. Nicole sembra leggermente confusa, ma poi sorride.

Matt ci raggiunge una volta che il carico è sul marciapiede. “Niki, loro sono i figli di April”.

“Oh” afferma sorpresa, poi sorride. “Certo, la compagna del reverendo Jim”.

Pronuncia compagna in modo bizzarro, come se fosse qualcosa di peccaminoso.

“Siete i benvenuti alla festa”.

Sorride così spesso che sembra una reazione automatica, qualcosa che le hanno insegnato a fare.

“Grazie” ribatte Henry.

“Forza entriamo” ci esorta lei. Aiutiamo i ragazzi a trasportare gli strumenti, dalla strada all’interno dell’enorme villa moderna, dell’amica di Nicole. La casa si innalza su quattro piani ed è larga almeno come tre case normali. È di un fastidioso, candido bianco, con più finestre che muri. Gli inviati riempiono l’immenso giardino, perfettamente potato e curato, che circonda la villa. C’è un frastuono incredibili, mi sembra improbabile, ma ci sono più persone di quante quest’immensa casa possa contenerne. Quando finalmente riusciamo a mettere i piedi all’interno, c’è anche più gente che all’esterno. L’arredamento moderno ed iper-costoso è barbarizzato da un’orda di studenti chiassosi. Ci sono coppie sparse ovunque che si strusciano, la musica raggiunge livelli assordanti e ci sono più alcolici che dentro una liquoreria. Mi sembra alquanto strano che i vicino non protestino per il rumore, ma a quanto pare, tutto questo, deve essere la routine.

Mi manca l’aria e mi sento rinchiusa in una boccia per pesci rossi. Vengo strattonata e spintonata, e sento l’irrefrenabile bisogno di corre via. Henry mi si piazza di fronte facendomi da scudo e da apripista. Sa perfettamente che gli spazi chiusi mi mento soggezione. Mi abbarbico alla custodia della chitarra di Aaron e stringo la mano a mio fratello. Nicole ci guida verso un’enorme porta a vetri che conduce al giardino posteriore. Chiamarlo giardino è un eufemismo, quello è un fottuto parco in cui qualcuno ha costruito una villa. Il prato verde e rigoglioso è spezzato da un’isola di mattonelle in cui è incastonata una piscina e un jacuzzi. Alle spalle della vasca sorge un gazebo in legno adornato da lucine bianche a corda.

“Wow…” borbotta Henry, da quando siamo entrati non dice altro. Io la trovo un’immensa esagerazione. Con i soldi buttati per una casa così vistosa avrebbero potuto debellare la fame nel mondo. Nicole ci scorta fino a gazebo, sopra cui abbandoniamo li strumenti. I ragazzi ci raggiungono dopo poco con il resto della roba.

Mi formicola il corpo, ho caldo e vorrei fare una doccia fredda. Ho quell’orribile e famigliare sensazione di euforia, che mi accompagnava ad ogni party. La sicurezza che era arrivato il momento in cui mi sarei finalmente sentita libera, il momento in cui non avrei più pensato a nulla e sarei stata disinibita al cento per cento. Il momento in cui Jared mi piaceva di più. Il momento dello sballo. Aaron e Lip cominciano a montare la batteria e Tyson piazza le sue pianole.

Mi prude l’incavo del braccio. Mi prude in naso. Mi prude dappertutto. 121 giorni, 6 ore e 13 minuti.

Henry mi passa una mano sulla schiena. Ringrazio il cielo di avere la giacca, se no si accorgerebbe che il mio famoso autocontrollo è andata a fasi benedire. Si china su di me, per non farsi sentire da nessuno.

“Stai bene, Jules?”.

Annuisco.

“Se vuoi, in qualsiasi momento ce ne andiamo. Non mi interessa di conoscere nessuno se ti senti male. Okay?”.

Annuisco di nuovo, perché ho la bocca asciutta. Devo stare calma. Jared non è qui. Se lui non è qui, non può spingermi verso nulla che io non voglia fare. La mia paura più grande però, è che forse io volevo farlo.

Resto vicino al gazebo osservando i ragazzi che posizionano gli strumenti.

Matt mi guarda “Julie stai bene? Sei pallidissima”.

121 giorni, 6 ore e 14 minuti. Afferro la voce dalla cavità della cassa toracica. “Sto benissimo”. Sei qui per Henry. Respira. Rilassati. Visualizza. Mi gratto il braccio alla ricerca di sollievo.

“Aspetta. Julie? Quella Julie?” domanda sorpresa Nicole. Il Quella Julie mi ha veramente stufata. Oh, meraviglioso. Pure la sua perfetta ragazza sa che siamo stati insieme. Ma ha messo un annuncio sul giornale?

Annuisco grattandomi con più convinzione la pelle dell’avambraccio.

“Ma è fantastico!” squittisce. Ma prima che possa aggiungere altro viene interrotta.

“Niki!” strilla una vocina irritante alle nostre spalle. Ho quasi paura a girarmi. Due ragazze secche e alte procedono ondeggiando sui tacchi chilometrici verso di noi. Sono l’esatta copia di Candy Quinn Brown, la mia nemesi a San Diego.

Credo che questo sia il segnale per la mia uscita di scena, ma prima che possa svignarmela Henry mi blocca stringendomi la mano.

La più alta delle due, quella con il caschetto biondo e gli occhi da cerbiatto malefico, mi squadra da capo a piedi con lo sguardo disgustato. Raggiunge Nicole zampettando su delle zeppe allucinati e la abbraccia, stringendo un bicchiere rosso.

L’altra ragazza, quella dai capelli rossi, salta addosso ad Aaron infilandogli la lingua in gola.

Il cerbiatto malefico mi guarda. “Chi ha invitato la punkettona alla mia festa?” domanda con astio.

Nicole diventa bordeaux e si fa piccola piccola. “Giselle, lei è Julianne e lui è Henry. Sono i figli della compagna del reverendo, sai il padre di Aaron”.

Ovvio che la casa fosse sua. Ci guarda, un po’ confusa e un po’ annebbiata dall’alcol, e scoppia a ridere. Sono all’interno di un sadico déjà-vu.

“Beh, logico. Tale madre, tale figlia”.

La sua amica rossa allontana le mani da Aaron e si avvicina sogghignando. Ha al collo una collanina d’orata con su inciso il suo nome: Savannah. Non si sa mai, magari se lo dimentica.

“Giselle” la ammonisce Matt. Non sono la più grande fan di mia madre, ma non so chi si crede di essere questa puttanella per insultare la mia famiglia.

Rido attirando la loro attenzione. “Un classico. Più è grande la casa, più è stronza la troia che ci abita”.

Le si raddrizza pronta allo scontro, ma non sono in vena di litigare con la prima cretina bionda, schiava degli stereotipi.

Sfilo il cellulare dalla borsa e lo sblocco. “Il 991 funziona anche nelle cittadine sperdute, vero?” Faccio un passo verso di lei facendo crollare la sua espressione fiera. “Sai, non credo che tu abbia il permesso di papino di organizzare una festa, in cui girano alcolici e minorenni. Perciò, visto che loro devo suonare ed è importante, farò finta che tu non abbia insultato la mia famiglia. Ma non stuzzicarmi o non mi farò problemi a rovinare la tua patetica festa”. La supero mollandogli una spallata. So che in futuro rimpiangerò questa decisione, ma ormai ho capito che sono una concentrazione di scelte sbagliate.

Ho bisogno d’aria e di silenzio. Punto verso il limitare della proprietà, dove gli alberi si infittiscono e il rumore diminuisce.

Sento Henry che mi insegue, ma non mi fermo.

“Jules” mormora alle mie spalle.

“Mi dispiace, okay?”

Mi fa voltare facendomi fermare. “No, non è vero. Stai bene? Senti il bisogno di…”

“No! Okay? E non mi aiuta che tu me lo chieda ogni trenta secondi”. Mi afferra la mano con cui mi sto grattando convulsamente il braccio. Fa la faccia da cucciolo bastonato, che gli spunta ogni volta che sente di non poter risolvere la situazione. Odio quell’espressione e mi sento in colpa per aver alzato la voce con lui.

“Se senti che stai per avere un ricaduta vieni da me” afferma.

No, non lo farei. Non potrei trascinarlo di nuovo nei miei guai, ma annuisco lo stesso. 121 giorni, 6 ore e 16 minuti.

“Vai a fare amicizia per favore, così questa tortura cinese a cui mi sto sottoponendo sarà servita a qualcosa”.

Mi guarda titubante così, gli sgancio la mia espressione più rassicurante “Vai. Io sto bene”.

“Se hai bisogno chiamami in qualsiasi momento”.

Annuisco e lui si immerge nella folla.

Cammino finché non sono sola con i miei pensieri. A troneggiare in mezzo agli altri alberi c’è un abete enorme e ramificato. Da uno dei suoi rami pende un’altalena in legno rovinata e trascurata. Si tratta di un semplice pezzo di legno legato ad un albero con due fili di corda. Mi immagino l’espressione disgusta della piccola Giselle che osserva un’altalena da poveri e si infuria con il padre perché non è abbastanza alla sua altezza.

Io, a modo suo, la trovo perfetta. A San Diego vivevamo in un appartamento al decimo piano. Nessun giardino. Nessuna altalena.

Prima di sedermici, testo la resistenza delle corde. Mi raggomitolo su quel rettangolo scheggiato e provato dagli agenti atmosferici, e mi immergo nel mio libro di poesie, dimenticandomi di essere dove non vorrei e tornando dove vorrei stare.

 

Non mi rendo conto esattamente di quanto tempo passo seduta sotto quell’albero ma, quando una coppietta decide di appartarsi nelle mie immediate vicinanze, decido di sloggiare e tornare alla festa. Torno verso la piscina, pregando che Henry si sia stufato e sia pronto per tornare a casa. Quando sono ormai vicino alla casa, la mia attenzione viene catturata dal gazebo su cui si stanno esibendo gli Hazy Heavy. Striscio tra la folla riuscendo ad arrivare alle prime file. La musica mi rimbomba sotto la pelle, tra gli organi e nelle ossa. La voce di Aaron mi risuona nel cervello facendomi sentire leggera come una bollicina.

 

Friday night I crashed your party

Saturday I said I'm sorry

Sunday came and trashed me out again

I was only having fun

Wasn't hurting any one

And we all enjoyed the weekend for a change.

 

È sudato, spettinato e sexy da morire. La maniera in cui muove le mani lungo le corde e il modo in cui le sue labbra sfiorano il microfono, mi mandano il corpo su di giri. Capisco perfettamente perché le ragazze in prima fila strillano e guaiscono.

 

I've been stranded in the combat zone

I walked through Bedford Stuy alone

Even rode my motorcycle in the rain

And you told me not to drive

But I made it home alive

So you said that only proves that I'm insane

 

Tutti componenti della band sembrano delle divinità, ma i miei occhi non riescono ad abbandonare il corpo di Aaron. Mi viene voglia di leccarlo o saltargli addosso, o tutte e due. I suoi occhi verdi incontrano i miei e finalmente smetto di pensare a qualsiasi cosa. Sono accaldata e senza fiato. Mi guarda e canta con la voce calda e raschiante, e io non sento più nulla che non sia lui.

Fa il suo sorrisetto impertinente alla folla e un’orda di gridolini femminili fende l’aria. Oh, no. Non se ne parla proprio. Non sarò mai una groupie arrapata. Non gli darò la soddisfazione di vedermi sudare per lui. Smetto di fissarlo e cerco mio fratello tra la folla. È come cercare un ago in un pagliaio. Sbuffo, stufa della situazione, intercetto una sdraio da giardino vuota e mi ci appollaio sopra riaprendo il libro.

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Capitolo 6
*** Aaron ***


Aaron

 

 

La verità è che non c'è verità, che nessuno se ne va mai per davvero e nessuno resta per sempre”

-Kurt Cobain

 

 

 

 

Julie.

È incredibile come un sola parola possa disintegrare la leggera cortina di fumo che riveste la realtà.

Julie.

Il modo in cui Matt ha pronunciato il suo nome mi rimbomba nella testa.

Julie.

Mi risuona nella orecchie come un orrendo jingle pubblicitario.

Julie.

Vorrei infilami le mani nella pancia ed estirpare quest’orribile sensazione, che mi attanaglia lo stomaco.

Julie.

Cazzo!

Lei è Julie! Quella Julie. La ragazza delle storie di Matt. La prima ragazza che lui abbia mai baciato. La sua prima volta. L’unica ragazza che lui abbia mai amato davvero. Lei è la ragazza dei suoi sogni. Lo è sempre stata.

Tra tutti i possibili scenari che il mio stupido cervello poteva articolare, questo non era previsto.

Anche se ormai è ovvio che sia lei, Julianne non assomiglia per nulla alla ragazza delle storie di Matt. Non è un uragano biondo, non è un raggio di sole e soprattutto non è trasparente come l'acqua. Qualcosa ha trasformato l’adorabile e sorridente Julie, nella enigmatica e scontrosa Julianne. E voglio sapere tremendamente cosa.

 

Per tutto il viaggio in macchina, Lip straparla di una tipa che si è fatto ieri sera o qualcosa del genere, ma io non gli presto attenzione. Ho lo sguardo incollato allo specchietto retrovisore, in cui cerco di scorgere il mio migliore amico e Julianne. La mia reazione è assolutamente irrazionale e ingiustificata.

“Aaron!” abbaia Lip, facendomi sobbalzare. Inchiodo appena in tempo, al semaforo rosso. Lip si strofina la faccia con le mani, poi mi guarda “Ma che ti prende?”

Vorrei saperlo anche io.

“Nulla, mi sono solo distratto un attimo” farfuglio.

“Tu non ti distrai mai al volante”.

Potrà non sembrare, ma Lip è molto attento ai dettagli.

Inclina un sopracciglio color aragosta “È per via della bambolina amica di Matt?”

“No!” ribatto, un po’ troppo forte. Lui mi osserva in silenzio. Scatta il verde e ripartiamo.

“Beh, qualunque cosa ti passi per la testa, ignorala e pensa a guidare. Non voglio morire spappolato insieme a te, nella tua macchina”. Si fruga nelle tasche, estrae il pacchetto di Philip Morris e se ne accende una. Fuma rigorosamente e solamente quelle. Dice che sono le sue sigarette su misura, fatte apposta per lui.

“Ehi! Nella mia macchina ci sono delle regole” gli strappo la sigaretta dalla bocca e la lancio dal finestrino “Non si fuma dentro Scarlett”.

Lui grugnisce e si sistema meglio sul sedile “Al ritorno vado con Matt. Di sicuro lui si sta divertendo”.

Già, immagino di sì.

 

Guido in silenzio sforzandomi di non guardare lo specchietto e di fissare la strada.

Quando finalmente raggiungiamo la villa dei Duvall, mi lancio fuori dalla macchina e inizio a scaricare gli strumenti dalla Boss. Quando abbiamo svuotato anche il furgoncino, iniziamo a portare la roba nella villa. C’è un casino mostruoso ed è la cosa migliore della serata. Più gente c’è, più gente ci ascolterà.

Julianne ed Henry seguono Nicole per la casa e noi seguiamo loro. Sembrano molto a loro agio tra di loro, anche se non sono sicuro che Nicole sappia di Julianne e Julianne sappia di Nicole. Una volta al gazebo iniziamo a montare l’attrezzatura. Aiuto Lip con la batteria e Tyson sistema le sue tastiere, non vuole che nessuno le tocchi a parte lui. I gemelli prodigio sono uno affianco all’altra ai piedi della struttura in ciliegio. Henry le sussurra qualcosa, visibilmente preoccupato. Lei annuisce. Ha una strana espressione, si gratta in continuazione il braccio e si guarda intorno, come se si aspettasse un agguato imminente. Ha l’aria di voler scappare via.

“Julie stai bene? Sei pallidissima” chiede Matt, mentre sistemiamo gli amplificatori. È vero, è bianca come un cadavere.

“Sto benissimo” gli assicura, anche se non sembrerebbe.

“Aspetta, Julie? Quella Julie?” domanda Nicole. Il viso di Julianne si contrae in una smorfia strana, che nasconde rapidamente. Credo che si sia appena resa conto che pure Nicole sa di lei, almeno in parte.

Annuisce, continuando a grattarsi il braccio sotto la manica della giacca. Sembra un tic nervoso.

“Ma è fantastico!” squittisce Nicole con la sua tonalità di finta allegria. I suoi timori riguardo il possibile allontanamento di Matt le si sono appena concretizzati davanti alla faccia. Ma, visto che le situazioni vanno sempre di male in peggio, la vocina irritante e altissima di Giselle fende l’aria come un'ascia.

“Niki” gracchia avanzando verso il gazebo con Savannah al suo fianco.

Giselle salta addosso a Nicole, in un fintissimo abbraccio tra amiche. Savannah sale i gradini di legno, sui suoi ridicoli e scomodi tacchi rosa e intercetta le mie labbra come un cane da punta. Non che i suoi baci mi dispiacciano, ma in questo momento di lei non me ne frega un granché. Mi strizza una chiappa sopra i jeans e mi fa l’occhiolino. È il suo codice per dirmi che dopo vuole darsi da fare in una delle camera della villa. E, di nuovo, la cosa non mi dispiace, ma ormai è diventata un’abitudine e non voglio che pensi che è la mia ragazza, perché non è così. La nostra “relazione” è in dirittura d’arrivo.

Giselle punta il suo radar contro Julianne, per inquadrarla. La scruta per qualche secondo e non rispettando i suoi standard, passa all’attacco.

“Chi ha invitato la punkettona alla mia festa?”.

Stereotipi, naturalmente.

Nicole, come al solito, rimpicciolisce e borbotta “Giselle, lei è Julianne e lui è Henry, sono i figli della compagna del reverendo, sai il padre di Aaron”.

Compagna, certo. In questa stupida città, la parola fidanzata è inadeguata per il tipo di relazione, che mio padre ha deciso di intraprendere.

Giselle si mette a ridere come una cretina e prepara il suo attacco contro ciò che non va come vuole lei. “Beh, logico. Tale madre, tale figlia”.

La relazione tra mio padre ed April non è molto ben vista in paese. Anche se nessuno lo dice apertamente, tutti la considerano una poco di buono.

Savannah si allontana da me e si posiziona al fianco di Giselle. Il loro sport preferito è trattare male la gente. Henry stringe i pugni lungo i fianchi e contrae la mascella, ma resta educatamente in silenzio.

Matt fa un passo avanti “Giselle” la ammonisce, come se bastasse a fermarla.

La risata roca di Julianne attira l’attenzione di tutti.

“Un classico. Più è grande la casa, più è stronza la troia che ci abita”.

Lip soffoca una risata fingendo uno sternuto. Giselle si fa avanti e così pure Julianne. Prende l’Iphone dalla borsa e glielo sventola in faccia “Il 991 funziona anche nelle cittadine sperdute, vero?” Giselle ammutolisce, consapevole che se suo padre scopre della festa, lei è fottuta. “Sai, non credo tu abbia il permesso di papino di organizzare una festa, in cui girano alcolici e minorenni. Perciò, visto che loro devono suonare ed importante, farò finta che tu non abbia insultato la mia famiglia. Ma non stuzzicarmi o non mi farò problemi a rovinare la tua patetica festa”.

Non ho mai visto qualcuno così piccolo, sembrare così grande. La supera, mollandogli una spallata e si dirige verso il boschetto, con suo fratello alle calcagna.

Giselle sbatte le zeppe per terra come una bambina di cinque anni “Come diavolo si è permessa quella stronza di insultarmi. Non ha idea di chi io sia”.

Savannah annuisce “Vorrei sapere chi l’ha invitata”.

Si voltano all’unisono verso Nicole, che dalla faccia vorrebbe sprofondare nelle mattonelle di granito. Apre la bocca ma non ne esce nulla.

“Sono stato io” le informo, continuando a sistemare gli strumenti.

“Come prego?” guaisce Giselle. Nicole riprende fiato. Non vai lontano se contraddici o fai arrabbiare la regina delle stronze.

“Vivono con me ora e non potevo mica lasciarli a casa”.

Okay, è una bugia, ma non sono affari loro.

“Quella vive con te!” strilla Savannah ad un volume esorbitante. Annuisco. Sembra che le abbia detto che magio cuccioli di cane nel tempo libero. Che non creda di avere qualche esclusiva su di me, perché non è così.

“Si può sapere perché l’hai insultata? Non la conosci nemmeno” la sgrida Matt.

“Mi è bastata la prima impressione per capire che è una puttana, come sua madre”.

“Il bue che dice cornuto all’asino” ridacchia Lip. Lei lo fulmina con lo sguardo e sbuffa.

“S.” sospira chiudendo gli occhi. Savannah le si avvicina “Dimmi”

“Dobbiamo occuparci del problema”. Savannah ridacchia battendo le mani. Quella risatina porta solo guai.

“Lasciala stare, Giselle” le urla Matt mentre le due si allontanano confabulando. Si passa le mani sulla faccia sbuffando.

Nicole gli stringe una mano “Vado a scoprire cosa hanno in mente” asserisce andando dietro alle sue amiche. Lip molla una pacca sulla schiena a Matt facendolo ondeggiare in avanti “Forza. Dobbiamo finire di sistemare”.

 

“Aaron?” Henry riappare dal boschetto.

“Julie sta bene?” domanda Matt.

“Si, sta bene. Non ama molto le feste, perciò…” lascia in sospeso la frase e scrolla le spalle. Mi guarda in attesa.

Ah, già. Le condizioni della bomba sexy, devo presentarlo in giro. Un patto è pur sempre un patto.

“Arrivo subito” informo i ragazzi e conduco Henry verso l’interno della casa. “Allora, i ragazzi più fighi sono tutti sul gazebo, ma c’è altra gente a posto che devi conoscere”.

Lui annuisce seguendomi. Lo porto verso il tavolo della sala su cui si sta svolgendo il torneo di birra pong, e afferro Dylan Rogers, uno degli attaccanti della squadra.

“Ehi, D. come butta?” grido per sovrastare la musica.

“Aaron!” urla stritolandomi.

“D. questo è Henry, un amico. È nuovo in città”.

Dylan gli stringe la mano ed ad Henry gli si illuminano gli occhi. Dylan è senza camicia, ha i capelli scuri e gli occhi grigi. Da come si guardano capisco che se la intendono già molto bene.

“Vorrebbe giocare a birra pong e conoscere la gente giusta. Ci pensi tu?” gli chiedo. Dylan annuisce e mi molla un sorriso riconoscente. In questa stupida città, non è facile essere se stessi.

Mi chino verso Henry “Se hai bisogno sono al gazebo, non farti problemi a disturbarmi”.

Lui annuisce e mi ringrazia. Non sono sempre così cordiale, ma ho seriamente paura che la piccola bomba sexy venga a prendermi a calci in culo, se dovesse succedere qualcosa a suo fratello.

Lo lascio in buone mani e torno dai miei amici. L’attrezzatura è pronta e noi possiamo iniziare a suonare. Salgo sul palco improvvisato e afferro il microfono. Una notevole folla si posiziona di fronte a noi e applaude.

“Ehi gente, noi siamo gli Hazy Heavy”.

Le ragazze urlano e strillano e i ragazzi applaudono. Inforco la chitarra e cominciamo. Quando la musica risuona nelle casse, perdo qualsiasi tipo di inibizione e di paura. La folla che mi circonda sparisce, restiamo solo io e la musica. Sul palco mi sento me stesso, a mio agio, completamente libero dai problemi. È la migliore sensazione che esista sul pianeta. Migliore di qualsiasi sbronza, di qualsiasi ragazza e di qualsiasi sport. È una di quelle sensazioni che dovrebbero essere permanenti.

Eseguiamo la nostra scaletta, composta solo da cover, come al solito. Nessuno di noi ha abbastanza emozioni per scrivere canzoni decenti. Lip una volta ci aveva provato, ma era venuta fuori una stronzata volgare e più che altro composta da imprecazioni. Quando arriviamo a You May Right di Billy Joel, un puntino tra la folla attira la mia attenzione. In prima fila, vedo la piccola bomba sexy che mi guarda. Ha la giacca appesa ad un braccio e la borsa sull’altro. Brilla di luce propria in quel vestito bianco, come un faro nel buio più totale. Vorrei che il modo in cui mi guarda non mi facesse sentire così strano. Vorrei che smettesse di guardarmi e allo stesso tempo che continuasse. Il suo sguardo viaggia su tutti i componenti del gruppo, ma alla fine si ferma su di me. I suoi occhi indefiniti mi fanno sentire confuso. Vorrei capire cosa pensa.

Schiude le labbra per ricevere più ossigeno e si lecca le labbra. Sorrido e un gruppo di ragazze strilla. Lei mi guarda, poi si guarda intorno e scuote la testa. Prende qualcosa dalla borsa e si raggomitola sua una sdraio da giardino con un libro in mano.

Un libro?

Sta leggendo nel bel mezzo di un concerto. Ma soprattutto a smesso di guardarmi. Fissa il libro, concentrata su quello e ignorando noi. Ma non ci sta ignorando davvero, vedo il suo piede dondolare a tempo, oltre il bordo della sedia. Dopo altre tre canzoni, la scaletta è finita e possiamo andarcene.

“Grazie mille. Noi siamo gli Hazy Heavy. Se vi è piaciuto ditelo in giro” urlo alla folla che applaude. Dopo di che, ci rimettiamo a smontare l’attrezzatura, la musica dello stereo riparte dalle casse e la folla comincia a disperdersi.

“Ehi, rock star” Savannah mi osserva famelica. So cosa vuole. Sale i gradini e mi fa scorrere le mani sugli addominali, sotto la maglietta “Vorrei un tuo autografo, in privato”. Essendo un uomo, il sangue mi defluisce via dal cervello verso un altro organo. Le faccio scivolare le mani sul sedere facendola ridacchiare. “Sai, Giselle ha un’ottantina di camere da letto e in una c’è pure il materasso ad…”

“Aaron” la voce di Julianne mi distrae completamente da Savannah. Le levo le mani di dosso e mi allontano leggermente.

“Io stavo parlando stronzetta” la aggredisce Savannah.

Julianne la osserva inespressiva “Si…sono sicura che fosse di vitale importanza, ma sono sicura che puoi puttaneggiare anche più tardi”.

Savannah squittisce stizzita, anche se sa che è la verità.

Julianne mi guarda “Aaron, dov’è mio fratello?”. Dice il mio nome come una strana cadenza.

“Gli ho presentato degli amici, dovrebbe essere con loro al tavolo da birra pong” scendo i gradini avvicinandomi a lei

“Aspetta. Ha bevuto?” domanda preoccupata.

“È quello lo scopo del gioco”.

“Ma sei scemo!” mi dà una manata su petto “Ti avevo chiesto di aiutarlo a fare amicizia, non di farlo bere!”.

“Non l’ho mica costretto! Se ha bevuto lo ha fatto di sua spontanea volontà” mi giustifico.

Sbuffa “Non regge per nulla l’alcol” si guarda intorno preoccupata “Potrebbe essere ovunque…”

“Non ti agitare, ti aiuto a cercarlo”

“No!” strilla Savannah venendo verso di noi “Non puoi venire qui come una damigella in pericolo e portarti via il mio ragazzo! Non funziona così!”.

Il suo ragazzo? Come? No. Okay, è ora di rimettere le cose in chiaro. Prendo Savannah per il gomito e guardo Julianne “Scusaci un secondo”. Annuisce e noi ci allontaniamo.

“Non puoi andartene con lei!” sbraita arrabbiata.

“Devo aiutarla a trovare suo fratello. Mio padre mi fa nero se gli succede qualcosa”

“Quella non mi piace. Va in giro come se si sentisse superiore a tutti” osserva squadrando male Julianne “E poi non può portarti via a sua piacimento, non sei mica suo”.

Ma nemmeno tuo.

“Baby, ne abbiamo già parlato, la nostra non è una vera e propria relazione”.

Ne abbiamo parlato anche troppo.

“Beh ma pensavo che ormai fossimo una coppia a tutti gli effetti. Sai con l’esclusiva e tutto il resto…”.

“Nessuno ha mai detto questo”

“Ma…”. Si stringe le braccia contro lo stomaco.

Okay, basta sono stufo. Sfodero la mia frase di repertorio per le rotture. “Senti, zucchero. Ci siamo divertiti e anche parecchio, ma sta diventando un po’ troppo seria per i miei gusti, perciò perché non andiamo ognuno per la sua strada?”.

Le trema il labbro inferiore “Ma…Ma…Pensavo che stessimo bene insieme…” le si riempiono gli occhi di lacrime, ma con me non funziona.

“Stavamo bene, ma te l’ho sempre detto che non sono il tipo da relazioni a lunga durata”.

È la prima cosa che dico ad una ragazza quando ci esco insieme. È così, prendere o lasciare.

“Sei proprio uno stronzo”. Scoppia a piangere e scappa via

Mi giro verso Julianne che mi osserva corrucciata “Che classe” borbotta.

“Cerchiamo tuo fratello”.

 

Insieme raggiungiamo la zona del birra pong, ma di Henry nessuna traccia. Intercetto la schiena nuda di Dylan che entra in cucina e lo raggiungiamo.

“D. hai visto Henry?”.

“Aaron” sghignazza ondeggiando pericolosamente. Strizza gli occhi e ci guarda confuso. Merda, è completamente sbronzo. Fissa Julianne corrucciando e poi ricomincia a ridere. “Tu sei Jules!”.

Lei guarda prima me, poi Dylan e poi di nuovo me. Afferra il mio amico per le medagliette militari che porta al collo e lo abbassa alla sua altezza. Lo fissa diritto negli occhi increspando le sopracciglia scure “Solo mio fratello mi chiama Jules, quindi hai parlato con lui”.

Dylan annuisce con gli occhi spalancati.

“Dove lo hai visto l’ultima volta?”.

Dylan si guarda intorno con circospezione.

“Io so mantenere i segreti. Fidati” gli assicura la bomba sexy. È così seria e sincera che non mi stupisce affatto che Dylan si fidi di lei.

Lui sorride e annuisce “Eravamo al piano di sopra, non mi ricordo bene dove. Era blu e con una vasca con le bolle” farfuglia.

Julianne gli lascia andare la collana e afferra una bottiglietta d’acqua dal bancone “Grazie. Bevi l’acqua” Gliela porge e si dirige verso le scale con me alle calcagna.

“Dove vai?” le afferro una mano a metà della scalinata. Si gira sorpresa e mi fissa. Ha le mani calde e lisce, tranne per i polpastrelli. Ha le dita da chitarrista.

“Secondo te?” sfila la mano dalla mia “Vado a cercare mio fratello”.

A tre gradini di distanza siamo alti uguali.

“Non puoi aprire tutte le porte a caso. Questo è il momento in cui la gente si apparta, non ti conviene vagare senza meta da sola”.

Ricomincia a salire, sbattendo gli stivali sul marmo. “Non ho chiesto il tuo aiuto, ce la faccio benissimo da sola. Vai pure dalla tua amichetta e appartatevi”.

I suoi repentini cambi di umore mi confondono. È venuta lei da me, non il contrario.

“So in quale stanza è Henry”.

Si blocca tra due scalini e stringe il corrimano di legno con forza. Sbuffa e lentamente si volta. Ha un sopracciglio inarcato e la mascella serrata. Stringe i denti nello stesso modo in cui lo fa suo fratello.

“Faccio strada” asserisco superandola e finendo di salire la scalinata. Mi segue sospirando, ma restando in silenzio. Nella camera in cui probabilmente c’è Henry, ci sono stato con Savannah diverse volte. Oltre all’enorme letto in ferro battuto, c’è una vasca idromassaggio enorme e caldissima.

Percorriamo il corridoio sud, della parte nord della casa, immersi nel leggero sottofondo della musicavche proviene dal piano inferiore. Julianne non mi guarda, non mi parla e non mi cammina nemmeno vicino. Mi segue a qualche passo di distanza, completamente persa in se stessa. Ho rinunciato ad una scopata con Savannah per aiutare la lunatica e imprevedibile figlia, della fidanzata di mio padre. Chiaramente mi si è fritto il cervello. Non appena l’avrò aiutata potrò dedicarmi alla ricerca della mia nuova distrazione del mese. Solo questo.

“Eccoci”. Ci fermiamo davanti alla porta della stanza dell’idromassaggio. Mi scivola davanti, spalanca la porta e ci si fionda dentro, come se stesse andando a fuoco.

“Henry?” chiama piroettando nella stanza. La camera principale è vuota e completamente sottosopra, sembra che qualcuno si sia dato da fare. Ci sono vestiti sparsi ovunque. Julianne mi lancia un occhiata preoccupata.

“Di là” la scorto verso la stanza della vasca e ci lanciamo all’interno.

Henry è abbarbicato ad un lato jacuzzi privo di sensi e con solo i boxer addosso.

Gli corre in contro e gli posa le mani sul viso. “Henry” lo scuote “Henry?”.

Gli colloca un dito sotto il naso e fissa il vuoto “Respira” sussurra, più a se stessa che a me.

“È solo svenuto. Tiriamolo fuori dalla vasca”.

La aiuto a tirarlo fuori e a posizionarlo sul pavimento. Lo guarda in faccia rannicchiata al suo fianco. Sembra terribilmente spaventata, come se fosse all'interno di una delle sue paure più grandi. Vorrei rassicurarla, ma toccarla non mi sembra un buona idea, perciò mi limito a starle accanto.

“Henry” lo chiama scuotendogli un braccio. Ripete l’operazione diverse volte, ma suo fratello non si sveglia. Di punto in bianco, gli molla un ceffone in piena faccia, lasciandogli un enorme segno rosso sulla guancia. Henry apre gli occhi di scatto e si tira su a sedere, intontito.

“Jules...” bofonchia strizzando gli occhi. Strascica le parole e ondeggia pericolosamente, è ubriaco anche lui.

Julianne gli afferra il braccio infilzandogli le unghie nella pelle “Mi hai fatto venire un colpo. Si può sapere che diavolo hai combinato?”. Ha la voce bassa e calma, ma il tono con cui lo sgrida spaventerebbe chiunque.

“Io...” gracchia, ma viene interrotto da un colpo di tosse che lo scuote. Emette un rantolo e tossisce di nuovo, più forte. Si stringe il petto e espira, emettendo un fischio.

Julianne scatta in piedi e, nel giro di un secondo, raggiunge i suoi pantaloni appallottolati vicino al letto e ne estrae qualcosa. Torna da suo fratello e gli porge un inalatore bianco. Si raggomitola al suo fianco, osservandolo attentamente. Ha la fronte corrugata e l'espressione impaurita. Henry inala il medicinale e smette di tossire. Abbozza alla sorella un sorriso sbilenco e prova ad abbracciarla. Lo respinge scostandosi “Torniamo a casa. Rivestiti”.

Si alza in piedi ed esce dalla camera.

“È arrabbiata con me” asserisce Henry, grattandosi il mento. Sembra confuso e leggermente triste.

“Credo si sia solo spaventata. Fai come dice”.

Lo lascio solo e seguo Julianne in corridoio. Ha ricominciato a grattarsi il braccio e sbatte convulsamente il piede sulla moquette, dandomi le spalle. Ha l'aria di essere sull'orlo del baratro e di star lottando, con le unghie e con i denti, pur di non precipitare. Le afferro la mano, interrompendo il suo tic nervoso. Si volta di scatto a guardarmi.

“Sta bene, tranquilla”.

Per un secondo, lascia la mano nella mia e mi sfrega il pollice sul dorso. Non dovrei, ma lo trovo davvero piacevole.

Quando se ne accorge, la ritrae di scatto. “Tutto questo è colpa tua!”

“Mia?!”

“Sei tu che lo hai presentato a quel tipo, e sei tu che dovevi tenerlo d'occhio” sbraita avanzando.

“Non ho mai detto che avrei fatto il babysitter” mi difendo avanzando a mia volta. Siamo ad una manciata di centimetri di distanza. Mi inclino in avanti per guardarla negli occhi.

“Mi sembrava implicito!” Abbaia.

È così vicina che sento il suo alito alla menta.

“Sai, avevo di meglio da fare che aiutarti”.

Se mi chinassi un altro po' finirei per baciarla, sarebbe un bel modo per farla smettere di sbraitare.

“Nessuno te lo ha chiesto”.

Il suo sguardo si abbassa e so che sta pensando la stessa cosa.

La porta si spalanca, ci giriamo di colpo e Henry ci osserva dalla soglia “Jules?”.

Lei si allontana e afferra suo fratello per il braccio, strascinandolo lungo il corridoio “Forza”.

Si gira a guardarmi “Torna pure dalla tua amichetta, noi ce ne andiamo”.

Li seguo. “Come pensi di tornare a casa, sentiamo”.

Mi guarda come se fossi scemo. “Esistono i taxi, genio”.

Scende le scale come un treno in corsa, con Henry di fianco e me alle calcagna.

Rido “Qui non ci sono i taxi, bambolina. È già tanto se ci sono gli autobus”.

Mi ignora e attraversa la folla, spintonando e spingendo. Arrivata alla piscina, Matt la afferra per la vita. “Julie, stai bene?”.

Lei si divincola “Benissimo. Noi ce ne andiamo”.

Sembra sul punto di esplodere, ma cerca di sembrare calma.

“Vi porto io con la macchina di Nicole” si offre. Al suo fianco, Nicole strabuzza gli occhi sorpresa.

“Tu puoi tornare con Savannah” le dice.

“Mmmh, certo” squittisce con un finto sorrisino.

Julianne nota la sua espressione disgustata.

“Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno” borbotta senza fiato. Si guarda intorno, osservando il mare di folla che si agita a ritmo di musica.

“Li porto io, non preoccuparti Matt” asserisco guardandolo. Non so da dove mi sia uscita questa frase, dovevo solo aiutarla a trovare suo fratello e poi basta. Il suo atteggiamento da principe azzurro mi innervosisce e mi fa sparare stronzate.

Julianne respira pesantemente, ha la fronte imperlata di sudore ed è appesa al braccio di suo fratello.

“Jules...” Henry la osserva preoccupato. Anche da ubriaco riesce a rendersi conto che qualcosa non va. Sembra sull'orlo di una crisi isterica. Ma, come ho già detto, le cose vanno sempre di male in peggio. Vedo le figlie biologiche di Satana, alias Giselle e Savannah, che si avvicinano sicure, con un'inquietante luccichio negli occhi. Stanno per colpire e, niente e nessuno, potrà fermarle.

“Oh, già andate via?” chiede Giselle, con un'espressione di finta tristezza che in un secondo si trasforma in un ghigno. “Non puoi andartene senza prima aver fatto almeno un tuffo in piscina”.

“Cosa...” borbotta Julianne confusa. Savannah fa un cenno a Luke Donovan, il capitano della squadra di football, che è appoggiato al muro della villa. Prima che chiunque possa fare qualsiasi cosa, Luke prende Julianne per la vita e la scaraventa in piscina, come se fosse una bambola. La vedo scomparire nell'acqua in un groviglio di vestiti e capelli. Giselle e Savannah ridono di gusto.

Henry sussulta, prendendomi per la maglietta “Non sa nuotare”.

Prima che il mio cervello riesca ad assimilare la frase, Matt si lancia nella vasca, in stile Baywatch, e riemerge con Julianne tra le braccia. Nuota fino al bordo e la posa sulle mattonelle. Lei tossisce e si scosta i capelli bagnati dalla faccia. Il vestito bianco, completamente zuppo, è diventato trasparente. Si sfila gli stivali, li scrolla e se li rimette. Fortunatamente, la borsa le è scivolata quando Luke l'ha afferrata e il suo cellulare è salvo.

“Stai bene?” domanda Matt sedendosi sul bordo della piscina. Lei annuisce, sputacchiando acqua.

Senza riflettere, agguanto Luke per la maglietta “Ma sei coglione?! Poteva farsi male”.

Tra giocatori di football e lacrosse non scorre buon sangue da ormai diverse generazioni. Non ci servono scuse per azzuffarci. Lui mi afferra il braccio con cui lo sto tenendo e si libera dalla presa “Rilassati Anderson, era solo uno scherzo” grugnisce.

Nicole si fionda al fianco di Matt e lo aiuta ad alzarsi “Sei completamente fradicio” sussurra guardando storto Julianne, come se in qualche modo fosse colpa sua.

“Dai Aaron, era solo uno scherzo innocente” asserisce Savannah, ancora ridacchiando. È logico che l'idea sia scaturita da lei.

“Buttare in acqua qualcuno che non sa nuotare ti sembra uno scherzo innocente?” domanda Matt visibilmente incazzato. Si strizza la maglietta e si asciuga la faccia con le mani.

“Come facevamo a sapere che non sa nuotare?” chiede Giselle, inclinando la testa di lato. Il tono con cui lo dice, mi fa intuire che invece lo sapessero eccome.

Henry si china su sua sorella, che è ancora seduta sulle mattonelle, e le sussurra qualcosa in francese. Lei alza lo sguardo su di lui e annuisce. La aiuta a rimettersi in piedi, le porge la borsa e stacca i capelli che le si sono appiccicati al collo.

Giselle si avvicina toccandole una spalla “Era solo uno scherzo, non te la devi prendere”. Lo dice come se fosse un imposizione, usando il tono da stronza, che usa sulle matricole durante le sue torture quotidiane.

Julianne scatta in avanti mirando alla faccia di Giselle, ma Henry, con un guizzo repentino, riesce ad afferrarla in tempo e a bloccarla. La tiene saldamente per la vita, come se fosse diventata un'abitudine bloccarla prima dell'attacco.

Avrei pagato per vederla colpirla in piena faccia, sembra il tipo di ragazza che fa a botte come un uomo.

Per alcuni secondi resta tutto immobile, nessuno fiata, nessuno si muove.

Ormai tutta la festa è concentrata sulla scena, ci sono persone che filmano con il cellulare e che fanno foto. Tutta la faccenda ormai sarà su internet.

“Ha i fanali accesi” commenta Luke squadrandola. Il suo vestito, ormai trasparente, mette in mostra il suo corpo come se non indossasse nulla e mette in risalto la mancanza del reggiseno.

Scoppia una risata generale e Julianne si irrigidisce. Si guarda intorno, osservando il mare di folla che ride di lei. Per quanto sembri forte e dalla pelle dura, nessuno regge un umiliazione pubblica di quella portata. Supera Giselle, mollandole un colpo con la spalla, e si avvia verso la porta a passo veloce, ma senza correre. Senza dargli la soddisfazione di stare scappando.

“Jules” Henry prontamente la segue.

Senza ragionare, mollo un pugno in faccia a Luke, il più forte possibile. Finisce a terra con una facilità impressionante.

Si tiene il naso e impreca. “Fanculo Anderson!”

Quando scosta la mano, lo vedo sanguinare e mi sento subito meglio.

“Impara a tenere la bocca chiusa, Donovan” ringhio. Mi dirigo nella stessa direzione in cui sono spariti i fratelli Roux.

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Capitolo 7
*** Aaron ***


Aaron 

 

"Pain is relative. What doesn’t kill you might kill someone else. So be careful when you say “I’ve seen worse.” Don’t underestimate anyone’s suffering."
 
 

In strada, trovo Henry che vomita in uno dei bidoni di metallo. Nessuna traccia di Julianne.

Matt, Nicole e i ragazzi sbucano dalla casa raggiungendomi.

“Aaron! Donovan e gli stronzi del football te la faranno pagare” grugnisce Lip.

“Ho fatto male?”.

Non che mi serva davvero una risposta, sono sicuro che Lip non direbbe mai no ad una scazzottata. “Hai fatto benissimo” concorda con me.

Tyson si accosta a Henry e gli offre una silenziosa assistenza.

Matt, che gronda ancora acqua, si guarda intorno preoccupato “Hai visto dov'è andata? Potrebbe essere ovunque”.

Nicole sbuffa infastidita “Devi asciugarti, amore. Finirai per prenderti un accidente”.

“Anche Julianne è fradicia, ed è da qualche parte di notte, da sola”.

Nicole scuote i capelli marroni e sospira. Sono sicuro che in qualche modo c'entri anche lei nello scherzo a Julianne.

“Ha ragione, Matt”. È la prima volta che sono d'accordo con lei “Andate dentro e smontate gli strumenti. Tu asciugati e io mi occupo Henry e sua sorella”. Do ordini come sul campo, e loro, come sempre, eseguono. Nicole riesce a trascinare il suo ragazzo in casa, Lip e Ty li seguono e io mi dirigo verso Henry. È abbarbicato sul cestino, bianco come un cencio.

“Ti conviene vomitare tutto il vomitabile qui, perché se ti scappa qualcosa nella mia auto, ti lascio per strada” lo informo.

“Sto...bene...” mormora tra un conato e l'altro “...Jules...”.

“Ora la cerchiamo”.

Quando finalmente non vomita per cinque minuti di fila, lo carico sul sedile posteriore e partiamo alla ricerca della fuggitiva. Henry crolla sfinito e comincia a russare, stravaccato alle mie spalle. Almeno non vomita più. Percorro le strade circostanti, finché non scorgo un puntino bianco che avanza lungo il marciapiede. Julianne si stringe nella braccia tremando e fissa il buio davanti a sé. Rallento e mi accosto a lei abbassando il finestrino, ma prima che possa aprire bocca, lei strilla. “Vai via Aaron!”. Non so esattamente come faccia a sapere che sono io.

“Dove stai andando?”

“A casa”. Non si gira a guardarmi.

“Casa è dall'altra parte” la informo.

Sbuffa “Non casa tua. Casa mia”.

“Vuoi tornare in California a piedi?”. Mi sembra leggermente impraticabile.

Si ferma e si volta a guardarmi scocciata “Farò l'autostop!” urla “Ora vattene! Non ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno”.

Riprende la sua marcia furiosa, ma pochi istanti dopo si immobilizza e il suo sguardo si perde nel vuoto per alcuni secondi. Impreca e si volta nella direzioni in cui siamo venuti. Si accorge di essersi dimenticata dell'unica persona di cui sembra avere bisogno.

“Henry...” sospira.

“Tranquilla”. Mi guarda, faccio un cenno con la testa verso il sedile posteriore. “È qui dietro, in coma”. Si avvicina alla Boss e sbircia nel finestrino, come se non si fidasse di me. In effetti non credo che si fidi di me. Una volta scorto suo fratello, si rilassa e riprende a camminare.

“Principessa, sali in macchina” continuo a seguirla a due all'ora.

Mi ignora imperterrita.

“Starai congelando, avanti sali in macchina”.

Non sembra fregarle di nulla di ciò che dico. L'unica cosa a cui sembra tenere, sta sbavando sui miei sedili di pelle. L'unico modo per farla ragionare, è tirare in ballo il suo gemello.

Inchiodo e mi sporgo fuori dal finestrino, lei continua a camminare. “Se non sali in macchina, scarico tuo fratello per strada e me ne ritorno alla festa”.

Si blocca, puntando i piedi sull'asfalto “Non lo faresti...”.

“Vuoi scommettere?”.

Si volta, rigida e stringendo i denti. Mi fissa in volto per scovare il mio bluff, ma a dire la verità non sto mentendo.

Sbuffa. “Va bene”.

Controvoglia, si avvicina alla macchina e, finalmente, riesco a vederla meglio. È ancora zuppa, ha la pelle d'oca e le labbra violacee. Luke si meritava più di un pugno in faccia.

Fa per aprire lo sportello, ma la blocco “Anche se un sacco di ragazze si sono bagnate su questa macchina” Alza gli occhi al cielo “Non puoi salire conciata così, mi inzuppi i sedili”.

Smonto, mi dirigo verso il baule e lo apro. Come previsto, ho lo zaino di lacrosse dietro. Lo tiro fuori, richiudo il baule e ci appoggio il borsone sopra. Julianne mi affianca e mi scruta sospettosa. Tiro fuori un asciugamano blu e glielo porgo.

“Potrebbe puzzare un po'”. La avverto. Invece di grugnire schifata, ci si avvolge dentro e sospira di sollievo. Si friziona i capelli, si asciuga il collo e le braccia. Non posso fare a meno di guardarla mentre si ricopre del mio odore. La cosa mi piace a livelli imbarazzanti. Distolgo lo sguardo, quando mi becca a fissarla. Mi concentro sulla borsa, ne tiro fuori la maglia verde della divisa e la giacca della squadra dello stesso colore. Glieli porgo e resto a guardarla.

Julianne fa scattare le sopracciglia in mezzo alla fronte e mi fissa in modo eloquente “Non ti farò uno spogliarello. Vai a fare la guardia”. Raccoglie i vestiti e si posiziona dietro la macchina. Mi appoggio alla fiancata e fisso la strada. Non c'è anima viva a quest'ora, si sente solo il fruscio dei vestiti di Julianne. Ci vuole tutto l'autocontrollo che ho in corpo, per non girarmi a guardarla.

“Ho fatto” annuncia raggiungendomi. Si sta tamponando i capelli con l'asciugamano e tiene il vestito su una spalla. La maglia le arriva a metà coscia e le maniche della giacca le finiscono diversi centimetri oltre le mani. Vorrei che i miei vestiti non le stessero così bene. Incarna il sogno erotico di qualsiasi giocatore di lacrosse. Si lega i capelli, si pulisce dal mascara che le è colato sul viso e mi restituisce l'asciugamano. Stranamente, lancia il vestito per terra come se non gliene importasse nulla. Rimetto a posto la borsa e saliamo in macchina. Accendo il riscaldamento al massimo e partiamo in silenzio. Fissa le case attraverso il finestrino, acciambellata sul sedile.

Henry russa, creando uno strano sottofondo. Si volta a guardarlo e sorride dolcemente, togliendogli un ciuffetto biondo dal viso.

“Grazie” sussurra di punto in bianco. Non sono sicuro se sia rivolto a me, finché non mi rivolge lo stesso sorriso dolce. Sento un buco allo stomaco. Dovrebbe sorridere sempre così.

“Figurati...non è...nulla” farfuglio. Non ho mai balbettato in vita mia.

“Non per me. Ma per aver portato via Henry” precisa.

Torno a guardare la strada “Nulla” biascico.

Non voglio che il viaggio in macchina finisca. Così, invece di andare a casa, decido di fare un'altra tappa prima.

Quando parcheggio davanti a Taco Bell, Julianne mi guarda. “Cosa facciamo qui?”

“Dopo i concerti, i ragazzi ed io veniamo ad abbuffarci qui. Hai fame?”.

Sono pronto a sentirmi dire di no e che devo portarla subito a casa, ma contro le mie previsioni annuisce. “In realtà, sì” si gira verso suo fratello “Cosa facciamo con lui?”.

“Lo chiudiamo dentro, tanto sta dormendo come un sasso”.

Si morde un labbro, corrucciandosi.

“Tranquilla, lo vediamo dalla vetrina e gli lascio il finestrino aperto. Non morirà soffocato” la rassicuro ridendo. Sussulta come se le avessi sparato e mi rendo conto di aver toccato un nervo scoperto. Si stringe nella giacca sprofondando sempre di più nel sedile. Ho paura che cambi idea sul cibo e che voglia tornare subito a casa.

“Senti, facciamo così. Tu resti qui in macchina con lui, io vado a comprare da mangiare e poi torno qui”. Annuisce piano. Ho bisogno di più tempo per capire chi è davvero Julianne.

“Non toccare la radio e soprattutto non mi incasinare i CD”.

Alza gli occhi al cielo e scuote la testa, cercando di nascondere un sorrisino.

Scendo dalla macchina e mi dirigo verso il Fast-food. Supero il mare di tavoli e raggiungo il bancone. Ci sono pochissimi clienti a quest'ora, principalmente ragazzi che hanno lasciato le rispettive feste per uno spuntino. Charlie Parker, un ex-giocatore di lacrosse della mia scuola, si materializza alla cassa. “Aaron!” Grugnisce dandomi il cinque. “Il solito?”.

Charlie era il capitano della squadra prima di diplomarsi. Molti college lo avevano reclutato, prima che si frantumasse un ginocchio durante una partita e stroncasse la sua carriera sul nascere. Ora passa le giornate all'università statale e lavorando qui.

“No, sono solo stasera”.

“Dove hai lasciato la squadra?” domanda.

“Storia lunga” borbotto. Tutti sanno che il venerdì sera è la sera della festa di Giselle. Perciò Charlie non indaga oltre.

“Cosa desideri?”

“Un burrito supreme e una Dr. Pepper”.

Julianne non mi ha detto cosa vuole, perciò ordino anche per lei. “Vorrei anche un 7-Layer Burrito e una Pepsi. Ah, e dei nachos con formaggio”.

“Arrivano subito” assicura Charlie sparendo in cucina.

Come promesso, il cibo compare dalla cucina dopo pochi minuti, imbustato in sacchetti di carta dall’odore paradisiaco. Saluto Charlie e torno alla macchina. Dai finestrini spalancati risuona Highway To Way degli AC/DC, Julianne ha i piedi appoggiati al cruscotto della mia macchina e sta curiosando tra la collezione di CD, molto probabilmente mischiandoli. Quando spalanco la portiera, non fa una piega e continua a disordinare la mia auto. La maglietta le è risalita lungo la coscia e la posizione in cui è seduta, le mette in risalto le gambe. Sono combattuto tra la voglia di restare a guardarla e la voglia di farle staccare gli stivali dalla mia bimba. Mi sporgo nell’abitacolo, con la mano libera le afferro la parte posteriore del ginocchio e le faccio togliere delicatamente i piedi dal cruscotto. Il contatto con la sua pelle mi provoca un brivido lunga la schiena.

Le scaravento il cibo in grembo e monto in macchina.

“Nessuno...”. Mi guarda. “...e dico nessuno, ha il permesso di mettere i piedi su Scarlett”.

Scarlett?” domanda confusa e lievemente divertita.

Accarezzo amorevolmente il volante “Scarlett”.

Scoppia a ridere “Come Scarlett Johansson?”

Infilo le chiavi nel quadro e accendo la macchina “Assolutamente”.

“Okay, non so per quale ragione ma voglio una spiegazione”.

“Non è ovvio? Una rossa sexy e tutta curve”.

Julianne scoppia a ridere di gusto “Non fa una piega”.

Usciamo dal parcheggio, diretti verso il mio nascondiglio segreto.

Infila la testa nel sacchetto di carta, inspira profondamente e si mette ad analizzare cosa ho comprato. Non commenta il fatto che non le abbia chiesto cosa volesse, si limita a stringere a se il cibo e a guardare la strada.

“Dove stiamo andando?” domanda quando mi fermo ad un semaforo.

“Vedrai, ti piacerà”.

Non protesta e, rapidamente, superiamo l'autostrada e l'università, raggiungendo la destinazione. Quando lasciamo la strada asfaltata e finiamo nello sterrato, Julianne si raddrizza contro il sedile. Spengo il motore in riva al lago, lasciando le luci accese e i finestrini aperti. Le sottraggo il cibo, smonto dalla macchina e lei mi segue. Si guarda intorno, infagottata nella giacca e emettendo nuvolette di vapore dalla bocca. La luna si specchia sulla superficie immobile del lago e l'erba su sui camminiamo è leggermente umida. L'unico rumore che riempie l'aria è il soffiare del vento tra le fronde degli alberi.

“Benvenuta nel più bello e meno conosciuto parco della città”.

Respira intensamente chiudendo gli occhi e godendosi la brezza. “Mi hai portata qui per uccidermi?”. Ondeggia fino alla riva del lago e, senza sporgersi, studia l'acqua.

“Ti ho portata qui per farti vedere che Orem, non è brutta come pensi” mi siedo con delicatamente sul cofano di Scarlett e osservo i fanali illuminarle la pelle.

“Non penso sia una brutta città, solo non voglio stare qui”. Continua a fissare l'acqua, con l'aria di chi si aspetta che spunti fuori un mostro da un momento all'altro.

Non sembra incline ad una conversazione impegnativa, così le chiedo la prima cosa che mi viene in mente. “Come fa qualcuno che vive in California a non saper nuotare?”

Mi raggiunge, arrampicandosi sul cofano vicino a me. “Non mi sono mai piaciuti i luoghi affollati, quindi non sono mai andata in spiaggia o in piscina, quindi niente nuoto”.

Mi sembra una concetto assolutamente impensabile.

“Pagherei per avere la spiaggia qui, per poter nuotare nell'oceano ogni giorno”.

Apro il sacchetto e le passo il suo burrito e la pepsi. Studia l'involucro con un cipiglio scettico. Scarto il mio e lo azzanno senza tante cerimonie. Sto morendo di fame. Quando si rende conto che il panino è vegetariano e lo morsica, assaporandolo soddisfatta.

“In realtà credo che nessuno me lo abbia mai insegnato” sussurra. Sembra pesarle molto questa affermazione. Ha l'aria malinconica, come se se ne fosse accorta solo ora.

“Henry sa nuotare?”. Virare su suo fratello mi sembra l'idea migliore.

Scolo metà della Dr. Pepper per buttare giù l'enorme boccone appena addentato.

“Si, faceva il bagnino prima che il suo asma peggiorasse”. Il suo viso si contrae di nuovo in una smorfia triste. Non sono bravo nella conversazione spicciola, perciò cambio di nuovo soggetto.

“Come fa a non piacerti la spiaggia?” Mi sembra assurdo che a qualcuno non piaccia.

Si stringe nelle spalle “C'è troppa massa e rumore, poi non sapendo nuotare dovrei restare sdraiata per ore finendo con l'abbrustolirmi. Preferisco di gran lunga un posto come questo”. Da l'ultimo morso al burrito e accartoccia l'involucro. Le porgo i nachos. “Sembra un ottimo posto per pensare, o per nascondersi”.

“Era il posto preferito di mia madre, prima che morisse” Non uso mezzi termini. Non credo che con lei ce ne sia bisogno. Non riesco a guardala in faccia, così fisso le ombre che i nostri piedi creano nei fasci di luce dei fanali. Sento i suoi occhi indefiniti scrutarmi e incidermi dentro.

“Il posto preferito di mio padre è il Port de l'Arsenal, a Parigi.” Sono grato che non mi faccia domande sull'argomento, non riuscirei a risponde. “Quando era giovane passava le giornate a passeggiare osservando le barche in cerca dell'ispirazione”.

“Che lavoro fa tuo padre?”.

“È un pittore. Moltissime gallerie californiane hanno ospitato i suoi lavori”. Senza autorizzazione mi ruba un sorso di Dr. Pepper “Però è molto più conosciuto tra le galeries d'art in Francia”.

“Ancora non ho ben chiara la vostra nazionalità”.

Ridacchia “Mio fratello ed io siamo nati a Parigi e grazie a nostra madre abbiamo anche la cittadinanza americana”.

Sembra così tranquilla e rilassata, che non posso fare a meno di continuare con le domande personali. “Perché non in America?”.

Si sdraia sul cofano e il suo sguardo si perde nel cielo stellato “Mio padre è nato e cresciuto in Francia. Dopo il diploma mia madre ha fatto un anno all'estero per studiare una lingua, e ha scelto come destinazione Parigi. Mio padre in quel periodo stava seguendo i corsi della scuola d'arte, disegnava in ogni occasione possibile e in ogni luogo possibile. Un pomeriggio mentre ritraeva i passanti nel parco Monceau ha scorto mia madre fra la folla e per lui è stato un colpo di fulmine. Ha trovato una scusa qualsiasi ed ha attaccato bottone. E da lì in poi è stato amore, o almeno era così che mi raccontavano la storia da piccola”.

Sembra molto scettica riguardo a ciò che dice. Non mi sorprende, visto com'è andata a finire.

“Non mi dire che non credi all'amore a prima vista. Tutte le ragazze smaniano per storie del genere”.

Julianne sbuffa “Non credo nell'amore in generale”.

La mascella mi sbatte contro il cofano. È la prima volta che incontro una ragazza che non crede nel vissero felici e contenti. È...diverso.

“Credo che il vero scheletro dell'amore sia l'attrazione fisica, che si somma alla predisposizione umana alla ricerca di una routine. La gente pensa di essere innamorata e finisce per sposarsi ed avere figli. Però quando la routine diventa opprimente e l'attrazione sciama, le coppie si tradiscono e si separano, alla ricerca di qualcosa di nuovo”.

Non è sarcastica. Non vedo alcun accenno di ilarità sul suo volto, è fottutamene seria.

“Che visione pessimistica”. Non so cos'altro dire. Questa ragazza non crede nell'amore.

Lei scrolla le spalle e annuisce “È la mia visione personale, può non essere condivisa da tutti”.

Infatti non la condivido, non mi sono mai innamorato, ma so per certo che i miei si amavano alla follia. Però so per esperienza personale, che se qualcuno smette di credere in qualcosa, la maggior parte delle volte, è che perché quel qualcosa l'ha deluso.

“Ancora non ho capito come mai siete nati in Francia e non in America”. Mi sdraio accanto a lei con le mani sulla nuca.

“Beh, diversi mesi dopo il loro incontro, mia madre è rimasta incinta. Mia madre aveva solo diciotto anni e non sapendo come affrontare la faccenda, lo ha tenuto nascosto ai suoi genitori finché ha potuto. Quando lo hanno scoperto le hanno detto di non disturbarsi a tornare, e mio padre e mia nonna si sono presi cura di lei. È rimasta in Francia, ha sposato mio padre e si è messa a studiare moda, mentre cresceva due bambini. Quando abbiamo compiuto sette anni, a mia madre è stato offerto un grosso lavoro per una linea di moda in California, così siamo partiti per l'America. Abbiamo preso la cittadinanza e siamo rimasti lì fino a ieri”.

Mi stupisce un po' che mi abbia raccontato questa storia senza battere ciglio, ma mi piace un sacco ascoltarla parlare di se stessa.

“Hai mai conosciuto i tuoi nonni materni?”.

Scuote la testa stringendo le labbra in una linea sottile. Come si può abbandonare la propria figlia nel momento del bisogno?

“Qualche anno fa, Henry ed io, abbiamo provato a contattarli ma non hanno voluto avere niente a che fare con noi” sussurra

“Che stronzi”.

Le scappa un sorrisetto che fa sciamare la tristezza. “Già...”.

Non mi risulta difficile capire perché non crede nell'amore.

La quiete ci avvolge insieme all'oscurità. Non ho idea di che ore siano, potrei rimanere in questo parco per sempre. Prima che il silenzio si faccia assordante, il suo telefono si anima facendo vibrare il cofano. Lo schermo viene illuminato dalla foto di Julianne e quello che immagino sia suo padre.

Julianne risponde alla chiamata con un sorriso enorme “Papa”.

Je vais bien. Nous sommes arrivés cet après-midi. Normale direi, come va a casa?”. Il modo in cui scivola da una lingua all'altra è impressionante, non ho mai visto qualcuno parlare con tanta naturalezza due lingue, nemmeno l'insegnate di francese. Oltretutto il mio francese fa pena, perciò capisco la metà delle cose che dice. Starei molto più attento in classe se la signora Bernad avesse questo accento così sexy.

“Iniziamo la scuola lunedì. Henry va bien, dort en ce moment. Oui. Penso di sì”

Dal modo in cui tiene il cellulare riesco a scorgere dell'inchiostro lungo il medio della mano destra. Non capisco cosa ci sia scritto, per ora dei suoi sette tatuaggi ne ho visti bene solo due. La rondine sul braccio sinistro e il pennello sul braccio destro.

“Si, lei è felice. J'ai hâte de retourne à la maison. Lo so, lo so. Si, ci sentiamo domani, je t'aime aussi”. Chiude la telefonata tutta radiosa e torna a rivolgermi la sua attenzione. Mi sorprende un po' che il padre l'abbia chiamata a mezzanotte passata, ma non faccio commenti.

“Il nostro coprifuoco sta per scadere, è meglio andare”. Non lascerei per nulla al mondo questo posto, ma non posso sgarrare con papà in questo momento. Julianne annuisce e scivola giù dal cofano.

Una volta a casa, insieme trasciniamo Henry in camera e lei con delicatezza lo infila sotto le coperte. Gli scocca un bacio sulla fronte e si avvia verso la sua stanza “Direi che la serata è finita in modo strano ma sorprendentemente piacevole”.

“Non credere che cambi le cose tra noi, domani torneranno ad essere le stesse” Lo dico perché so che sarà così, anche se non vorrei.

“Noi non vogliamo stare qui...” asserisce Julianne.

“...e noi non vi vogliamo qui”. Concludo.

Sorride e si morde un labbro “Buona notte, Aaron”.

La guardo chiudersi la porta della mia ex camera alle spalle prima di mormorare “Buona notte, Julianne”. 

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Capitolo 8
*** Julianne ***


Julianne

 

Vendicarsi è spesso come mordere il cane perché lui ti ha morso.
(Austin O’Malley)

 

 

 

Non voglio affrontare la realtà.

Non voglio aprire gli occhi.

La realtà fa schifo.

Resto a cullarmi nella fantasia che quando li aprirò, mi ritroverò magicamente nella mia bellissima, vecchia camera e che non appena aprirò la porta, troverò papà nel suo grembiulino da cuoco intento a bruciare i pancakes. Ma credere in cose impossibili non è nella mia natura, perciò cautamente apro gli occhi, mettendo a fuoco la realtà che mi circonda. Tutte le mie valige e i miei scatoloni sono ancora nella stessa posizione in cui li ho lasciati. Non ho ancora sistemato nulla e non ho intenzione di farlo. Kafka mi dorme stravaccato sul collo, come un calda e pelosa sciarpa nera. Quando mi muovo, brontola infastidito e scivola via dalla gola. Rotolo tra le coperte cercando di riprendere sonno ed evadere da qui, ma prima che Morfeo mi accolga tra le sue braccia, mamma spalanca la porta e zampetta nella stanza.

“Sorgi e splendi, tesoro mio” Zigzaga tra i bagagli e apre le tende con un unico colpo, inondando la stanza di luce “Sono quasi le nove ormai, è ora di alzarsi. È una giornata magnifica”.

Nel linguaggio delle madri sono quasi le nove significa che sono le otto e mezza, infatti quando mi sporgo oltre il materasso per guardare la sveglia, sono le otto e ventisei. Un'irrefrenabile voglia di uccidere mi risale la spina dorsale fino ad arrivare al cervello. È sabato, cazzo.

“Mm mah” grugnisco infilando la testa sotto il cuscino di piume. Dopo la bizzarra e faticosa serata, il mio cervello ha impiegato ore a spegnersi, ho dormito si e no tre ore.

“Julianne...” mamma piroetta nella stanza, osservando il casino impersonale che la circonda “Non hai ancora disfatto i bagagli”. Chiaramente non è una domanda.

La sento trafficare con le scatole e i vestiti, mi tiro su a sedere di scatto “Cosa fai?”.

“Sistemo le tue cose, tesoro”.

“Non farlo”. Metto il broncio.

Si interrompe per osservarmi, stringe le labbra e sospira. Pur essendo in casa porta un abitino di cotone blu e delle décolleté cipria con il tacco. I capelli biondi perfettamente lisci e in piega. Mia madre incarna l'impeccabilità in tutte le sue forme.

Lascia cadere una maglia nello scatolone e si avvicina “È definitivo, Julianne. Per quanto tu possa opporti, la situazione è questa. Resterete qui fino al diploma”.

É la stessa cosa che mi ha detto mio padre ieri sera, ma non significava che io sia d'accordo o che non farò di tutto per tornare a San Diego.

“Nulla è del tutto definitivo”. Non una delle migliori argomentazioni della mia vita, ma a mia discolpa sono a corto di caffeina da troppe ore. La fisso mantenendo il punto e alzando il mento. L'unica risposta che ottengo e un sonoro sospiro di delusione.

“Metti a posto le tue cose” borbotta lasciandomi sola. Direi un inizio di giornata niente male.

 

Rimango a crogiolarmi nell'autocommiserazione altri dieci minuti e poi mi alzo. Mi trascino in camera di mio fratello trainando i vestiti del Musicista Tormentato. Fortunatamente li avevo lanciati dietro ad alcune scatole e mamma non li ha notati, non avrei trovato una scusa per spiegare la situazione. Quando entro nella tana del mostro, il suo letto è rifatto e di lui non c'è traccia. Scaravento la sua divisa sulla scrivania e mi lancio a peso morto su Henry, che dorme sepolto in un mare di cuscini. Con tutta la voce che ho, gli canto nelle orecchie Rise di Katy Perry.

 

“When, when the fire’s at my feet again 
And the vultures all start circling 
They’re whispering, "You’re out of time” 
But still I rise”
 

Mugugna e tenta di tapparsi le orecchie, ma gli blocco le mani contro il materasso. Continuo imperterrita.
 

“This is no mistake, no accident 
When you think the final nail is in 
Think again 
Don’t be surprised
I will still rise”

 

“Okay sono sveglio, smettila!” guaisce dimenandosi “Perché urli?” si stringe la testa.

“Il mio tono di voce è nella norma, fratellino”. Okay, forse sto urlando un pochino, ma in mia difesa si merita di avere mal di testa.

Mi sbuffa in faccia spingendomi via da lui. “Sei fastidiosa”.

“Infastidirti è il mio compito esistenziale”.

“Pensavo fosse proteggermi il tuo compito esistenziale”. Si tira su a sedere ondeggiando.

“Non quando bevi come un cretino e mi spaventi a morte”.

Si comprime le tempie e strizza gli occhi “Mi dispiace, Jules. Ieri sera mi sono lasciato trasportare dal momento e ho perso il controllo”.

“Spero sia un evento isolato, perché per ora il titolo di figlia incasinata e degenere appartiene a me”.

Mi rifila il suo sorrisino sghembo e mi attira tra le braccia, appoggiandomi il mento sulla testa. Lo stringo più forte che posso, perché attaccata a lui resto a galla e non mi perdo nel buco nero che è diventata la mia testa. Mi trascina con sé nel suo nuovo letto e mi racconta i dettagli piccanti del suo incontro con Dylan, il giocatore di lacrosse.

“Wow” È l'unico commento che riesco ad elaborare.

“Lo so. È pazzesco, non so nemmeno io come abbia fatto a lasciarmi andare. Di solito non sono così”.

“Devo dire che l'Henry sciolto e rilassato mi piace parecchio” ridacchio.

“A quanto pare anche a Dylan”.

Ridiamo insieme, sentendoci per una frazione di secondo a casa.

“Quindi ti ha prestato la sua divisa e tu te la sei messa?! E gli hai raccontato informazioni personali di tua spontanea volontà?!” ha gli occhi così spalancati che sembra strafatto. Il racconto di ciò che è successo dopo che lui ha perso i sensi, lo ha scioccato visibilmente. Sembra che abbia rivelato che ho nascosto un cadavere in giardino.

“Tu stavi russando sul sedile posteriore della sua auto, ero appena stata scaraventa in una piscina e umiliata pubblicamente, non ero nella condizioni di prendere decisioni ponderate”. Non è colpa mia se mi ha lasciata da sola con le mie brutte idee.

Inclina la testa e mi scruta tutto concentrato “Ti sei fidata di lui...”

“Si e quindi?”.

Odio quando mi guarda così, come se sapesse quello che sto pensando.

“Nulla...” sussurra criptico.

“Henry!”. Gli mollo una manata sul petto.

“Beh, mi sembra davvero strano, tutto qui”. Si massaggia il pettorale, scuotendo le spalle.

So che rimpiangerò di aver parlato a cuore aperto con Aaron, ma in quel momento non mi sembrava una cattiva idea.

“Mi ha chiamata papà ieri sera mentre tu sbavavi in coma”.

Aggrotta le sopracciglia “Tutto bene?”

“Si, sai, le solite cose. Ha detto che ti chiamerà oggi pomeriggio”. Per un secondo noto una strana espressione attraversargli gli occhi, rimorso o senso di colpa, ma sparisce così in fretta che non saprei dirlo con certezza. È diventato parecchio bravo a nascondermi le sue emozioni, dissimula ciò che prova nel tentativo di non turbarmi in alcun modo. Da quando la cortina di fumo che nascondeva i miei problemi si è dissipata, Henry mi ha infilata in una bolla protettiva lontano da qualsiasi tipo di turbamento.

 

“Devi disfare le valige, Jules. Non ti farà mai tornare a casa” asserisce, dopo che gli ho detto della sveglia della mamma.

“Non ci voglio stare qui. A casa avevo una vita, avevo una migliore amica e papà”.

“Lo so perfettamente, ma per il prossimo anno questa sarà casa tua, meglio che ti ci abitui subito”.

So che ha ragione, lui ha sempre ragione.

Si stiracchia, schiacciandomi e sbadiglia “È ora della colazione” salta fuori dal letto come una gazzella e mi trascina con lui. Vorrei protestare o impuntarmi, ma sono alquanto affamata, così lo seguo al piano inferiore. La casa è tranquilla e silenziosa, sembra che siano usciti tutti. In cucina troviamo la mamma che frigge frittelle e Jim che legge il giornale tutto corrucciato.

“Buongiorno!” esclama Henry radioso. Sembra che il post sbronza gli sia passato rapidamente.

“Buongiorno tesoro” tuba la mamma, facendo sfrigolare la padella.

“Avete dormito bene?” domanda Jim, senza staccare gli occhi dalla pagina sportiva.

“Meravigliosamente” assicura Henry arrampicandosi su uno sgabello di legno, posizionato davanti al bancone. Si muove come se fosse a casa, sicuro e a suo agio. Io, d'altro canto, non riesco neanche ad andare al bagno senza sentirmi a disagio.

“E tu, Julianne?” Jim mi inchioda con lo sguardo.

“Bene...” borbotto, ancora ferma sullo stipite della porta. Lui tenta un sorriso e torna a concentrarsi sul giornale.

“Ho fatto le frittelle ai mirtilli e cioccolato, Julie. Le tue preferite”.

Lo so benissimo, la stanza è impregnata di un odore fantastico che sta risvegliando il mio stomaco assopito. Fa scivolare un piatto carico di cibo sul marmo bianco, come un'offerta di pace o un'esca in una trappola. Qualsiasi delle due sia non importa, mi avvicino cautamente e mi siedo. Afferro il piatto e ingurgito tutto finché il mio corpo non dice basta. Per tutto il tempo la mamma blatera delle fantastiche attività che si possono fare in città, dei bar e della sua nuova boutique in centro. Jim ed Henry partecipano attivamente alla conversazione, mentre mi riempio di frittelle.

“Dove hai detto che è andato Aaron?” domanda la mamma.

“Aveva gli allenamenti di lacrosse, torna tra poco” comunica Jim “Andy e Cole sono in camera loro e Liv sta ancora dormendo”.

“Oggi ho delle commissioni da fare, mi accompagni?”. Queste conversazioni famigliari e quotidiane ancora non mi vanno giù.

“Devo andare in chiesa, cara. Magari ti possono accompagnare Julianne ed Henry, così vedono la città”.

“Splendida idea” concorda la mamma.

Prima che possano incastrarmi in qualsiasi interazione sociale, poso il mio piatto nel lavandino e scappo in camera. Una volta al sicuro mi rimetto nel letto insieme a Kafka e afferro il PC.

Scar risponde alla chiamata di FaceTime dopo due squilli.

“È l'apocalisse!” strilla.

“Cosa?!” stringo il gatto al petto.

“Julianne Roux è sveglia alle otto e quaranta di sabato mattina!” mi mostra l'orologio da cucù del negozio di sua nonna. Sta facendo il suo solito turno il sabato mattina al bancone della bottega. Di solito le facevo sempre compagnia, guardavamo serie in streaming finché qualche credulone ignaro entrava nel locale.

“Qui sono le nove e quaranta” mi giustifico.

“È comunque troppo presto per i tuoi standard. Ti fanno alzare all'alba per pregare?”

“Non ancora, ma mia madre stamattina mi ha fatto da sveglia umana e pimpante”.

“Terribile. Ha spalancato le finestre come nelle pubblicità delle brioche?”

Ridacchio facendo i grattini dietro le orecchie a Kafka. “Esattamente”. Ride inclinando la testa indietro, come suo solito.

“Ieri sera sono andata ad una festa”.

La sua espressione divertita si fa seria e si sporge in avanti verso il computer. Mi osserva nei dettagli, cercando segni visibili di una ricaduta nella mia vecchia dipendenza.

“Sto bene, Scar. Non ho perso il controllo” le assicuro.

Abbassa lo sguardo e giocherella con i ciondoli di pietra del suo braccialetto “Ne hai sentito il bisogno?”.

Mentirei se dicessi di no, ma con Scar l'argomento dipendenza è alquanto ostico. Da quando sono tornata dalla riabilitazione, le risulta difficile parlarne apertamente, perciò solitamente parlo con Henry se mi sento male.

“No” mento, ed è dolorosissimo. Odio mentire, in qualsiasi circostanza.

Si rilassa leggermente “Com'è stata?”.

“Ho scoperto che Matt, il ragazzo del campeggio musicale, è il bassista della band di Aaron e l'ho rincontrato. La versione dell'Utah di Candy Quinn Brown mi ha scaraventata in una piscina e umiliata pubblicamente. E ho fatto una lunga conversazione a cuore aperto con il Musicista Tormentato”.

Rimane immobile così a lungo, che per un secondo penso che si sia bloccata la connessione. “Scar?”

Sbatte le palpebre ripetutamente e spalanca la bocca “Sono un sacco di informazioni. Voglio i dettagli di tutto”.

 

Dopo il resoconto minuzioso della mia serata, l'unico commento che le esce è: “Lo sapevo”.

Sospiro “Cosa sapevi?”.

“Che è quello giusto per te”.

Tipico di Scar, a lei basta una conversazione ed è già ora delle nozze.

“Abbiamo solo parlato, Scar”.

“Si capisce tutto da una conversazione”.

Alzo gli occhi al cielo e sbuffo “Sei sempre la solita”.

Sto morendo di caldo, mi sfilo dalle coperte e rotolo infondo al letto con il computer.

“Di tutto quello che ti ho raccontato, ti sei fissata su Aaron?”.

“Beh il resto è alquanto normale. Le stronze sono sempre stronze e Matt...beh è pazzesco che sia saltato fuori così, ma lui non è il tuo tipo, non credo lo sia mai stato”.

“Non lo hai mai conosciuto”.

Non so perché lo difendo, sono d'accordo con lei, Matt era il tipo della vecchia me.

“Non scordarti del mio dono!” sbraita agitando un dito. Si gira verso il retro del negozio dove sua nonna sta sistemando i talismani “Verdad, abuela?” (Vero, nonna?).

Gabi si volta verso la nipote e sorride “Por cierto, mi amor”. (Certo, amore mio).

Mi nota incornicia nello schermo e scuote la mano “Hola, Juliannas”.

Storpia sempre il mio nome, ma all'abuela Gabi si perdona tutto “Hola, Gabi”.

Scar torna a guardarmi e fissa un punto oltre le mie spalle e ride “Sei sempre la solita. Non hai ancora disfatto i bagagli!”

Rido “No”.

Perde il sorriso e inclina la testa, scurendosi in volto “Pensi di riuscire ancora a convincerla?”.

“Assolutamente. Non mi arrendo”.

Sorride tristemente e annuisce.

L'urlo di Gabi fa sobbalzare entrambe “Scarlett, ven aquì!”.

“Devo andare Julie, fai la brava, ci sentiamo dopo”.

“A dopo”. Chiudo la telefonata e il computer.

 

Mi piacerebbe poter rimanere a letto per sempre, però credo che sia arrivato il momento alzarsi alla ricerca di caffeina e di una lunga doccia calda. Ancora nel mio pigiama con le pizze, sgattaiolo in corridoio diretta alle scale, ma un'imboscata mi blocca il passaggio. Cole salta fuori dalla nicchia delle scale che portano al piano superiore, imbracciando un fucile.

“Ferma o sparo!” sbraita puntandomelo contro. Nella foga del momento, alzo le mani in segno di resa e mi accartoccio sul pavimento.

“Ma che cavolo...” borbotto.

È uno stupido fucile di plastica! Mi sono buttata a terra come una demente, per uno stupido fucile per bambini. La punta del fucile perde acqua, quindi non è solo un giocattolo, ma è pure ad acqua e non a pallini. Bella figura da cretina.

Salto in piedi come un razzo “Ma sei scemo!?”.

Eppure, come ho già ripetuto diverse volte, non prendo molte decisioni ponderate ultimamente. Siccome non ho ascoltato lei sue istruzioni, Cole mi punta l'arma in faccia e fa fuoco. Vengo investita da un getto ad alta pressione dal colore rossastro. Nel giro di due secondo il mio pigiama preferito, le pantofole con gli elefanti e i capelli sono zuppi di un liquido che ho paura ad identificare.

“Ti prego dimmi che è solo acqua...” sussurro. Cole, in risposta, estrae dalle tasche due palloncini e me li tira contro, urlando “Invasore colpito ed eliminato!”.

Oltre a quello che presumo e spero sia vino, vengo ricoperta di farina bianca. Cole emette dei versi da guerra dalla bocca e scappa verso camera sua come una spia.

Il mio corpo reagisce all'aggressione e scatta lungo il corridoio, verso il bambino “Io ti ammazzo!”.

Due braccia forti mi afferrano per la vita, prima che possa infilzare gli artigli in quella piccola peste.

“Ehi, ehi, ehi” Aaron ferma la mia corsa “È solo un bambino, principessa”.

Me lo scrollo di dosso e scuoto le braccia cercando di staccare l'impasto appiccicoso dalla pelle.

“A tuo fratello servirebbe una museruola”

Ridacchia e mi squadra “Sono d'accordo. Fa sempre così, devi stare attenta agli agguati. Come mai ti sei lanciata a terra?” Ride come un cretino e la voglia di uccidere mi infervora di nuovo.

“Da dove vengo io, se ti puntano un'arma è per derubarti o per ucciderti!”

“Qui invece è per inzupparti e riempirti di farina”.

Lo guardo male e vorrei sotterrarmi. Indossa una canottiera larga e dei pantaloncini da basket, ha i capelli umidi ed scalzo. Sembra appena uscito dalla doccia e io sembro una cuoca pazza, in pigiama. Faccio qualche passo indietro, cercando di porre una certa distanza tra i nostri corpi. Mi sento a disagio. Odio sentirmi a disagio.

“Belle ciabatte” ridacchia “Bel pigiamino”.

“Va a quel paese” bofonchio, sbattendo i piedi verso la mia stanza.

 

Spalanco la porta del bagno e Liv caccia un urlo “Non si bussa?!”.

È seduta nella vasca da bagno completamente vestita e immersa in un mare di schiuma. Sul pavimento sono sparse un centinaio di bambole e di vestitini disparati.

“Liv, per favore mi serve il bagno” gemo.

“Dì per favore!” gracchia scuotendo una barbie nell'acqua.

“L'ho appena fatto!”.

“Non è vero! Vai via! Le mie amiche devo fare il bagno, le metti in imbarazzo!” urla coprendo le bambole nude con le mani.

Mi chiudo la porta alle spalle, sbattendola. Questa famiglia è un circo. Non posso vivere qui. Non voglio vivere qui.

“Hai bisogno?” domanda Aaron dallo stipite, bello come un dio greco. Vorrei conficcarmi qualcosa di appuntito negli occhi, non devo guardarlo, urta le mie capacità cerebrali.

“Vorrei lavarmi, ma a quanto pare l'igiene delle bambole di Liv ha la precedenza”.

“Puoi usare il nostro bagno, se vuoi”.

Aggrotto le sopracciglia scettica, ci sono mille campanelli d'allarme che mi gridano di dire di no.

“Prometto di fare la guardia”. Si stringe le braccia al petto e mi sorride, mandando in cortocircuito il mio sistema di difesa. La mia diffidenza vacilla, facendomi prendere la peggiore decisione di sempre, o quasi.

 

 

Mi accorgo della stronzata che ho fatto, quando ormai è troppo tardi.

Sono sotto il getto della doccia del bagno di Aaron e dei suoi fratelli, quando mi rendo conto dell'errore tattico che ho commesso. Mai abbassare la guardia, Julianne, soprattutto se è un modello di Abercrombie a proporti la soluzione ai tuoi problemi. Cerco di scrostare via il miscuglio di farina e vino, quando vedo un'ombra attraverso la tendina colorata della doccia. All'inizio penso che sia la mia immaginazione, ma poi la vedo una seconda volta. Aspetto l'attacco, coprendomi i punti strategici, ma non succede nulla. Finisco di lavarmi e cautamente ficco la testa oltre la tendina e sbircio la situazione. Il bagno è vuoto, non c'è nessuno. Strano...

No! No! No!

Il bagno è proprio vuoto. Non c'è il mio accappatoio, non ci sono gli asciugamani, non ci sono i miei vestiti. Non c'è un cavolo di niente. Controllo gli armadietti, ma nulla. Dietro la porta. Nulla. Si sono portati via tutti gli indumenti possibili, lasciandomi nuda nel loro bagno. Balzo nella doccia per nascondermi con le tendina di plastica.

Cazzo!

Più credulona di così si muore. Si sono appropriati pure del mio telefono! Non posso nemmeno chiamare aiuto. Esco fuori dal mio nascondiglio e sbatto sulla porta “Aaron!”.

Vedo l'ombra dei suoi piedi sotto la porta “Hai bisogno di qualcosa, dolcezza?”gongola.

“Dove diavolo sono i miei vestiti!?”

“Non so di cosa parli...” lo sento trattenere una risata a stento.

Va te faire foutre! ” sbatto il pugno contro la porta. (Vaffanculo)

Ride di gusto facendo rimbombare il corridoio.

“Henry!” urlo “Henry!”. Ti prego, ti prego...

“Tuo fratello è uscito con tua madre. Ci siamo solo noi qui”.

Merde!

Maledizione a Henry!

Maledizione a me.

Okay. Respira. Ci vuole un piano.

“Senti principessa, non hai molte possibilità: o esci come mamma ti ha fatta e ti arrendi alla nostra superiorità, o aspetti che qualcuno venga a salvarti, come una codarda. O ti arrendi o fai la vigliacca. A te la scelta”.

“Sei sicuro di questa cosa Aaron?” sento la voce di Andy attraverso il legno. Fermalo, ti prego.

“Sicurissimo” assicura.

Cole ride.

Oh, me la pagherà molto cara quando uscirò di qui. Il signor Intelligentone ha fatto male i conti, c'è una terza via d'uscita: Batterli al loro stesso gioco.

Okay, ho più QI di loro tre messi insieme, troviamo una soluzione. Il bagno ha due porte, una che da sulla camera di Aaron ed Henry e una che da sul corridoio. Da brava scema, ho chiuso a chiave solo quella da cui sono entrata, cioè dalla stanza del mostro. Mi fiondo verso l'altra porta e la blindo. Ora sono al sicuro da intrusioni esterne.

Ci sono due finestre ed entrambe danno sul giardino sul retro e siamo al primo piano, non sono così atletica. Saltare è escluso. L'uscita più rapida verso camera mia è la porta sul corridoio, proprio dove sono appostati loro. Hanno preso tutti gli indumenti possibili e visibili, ma è un bagno dei maschi, quindi ci deve essere qualcosa di imboscato. Raccolgo i capelli e mi metto alla ricerca di qualsiasi cosa possa coprirmi.

“Oooh, non mi dire che fai la vigliacca. Ti credevo un tipo diverso di persona” Tuba Aaron.

Quando esco di qui lo strangolo.

Sotto i mobili non c'è nulla. Frugo ovunque, ma zero. Non c'è assolutamente niente qui. Quando sto per perdere le speranze, mi metto a guardare dietro la vasca e il tunnel si illumina. C'è una maglia sporca di qualcosa che non voglio individuare, la infilo cercando di non toccarla troppo. Mi accontento di qualsiasi cosa. Coperta, faccio scattare la serratura e piombo nel corridoio. Aaron è spaparanzato sulle scale che salgono al piano superiore e tiene tra le mani una videocamera. Il sorriso sornione che gli decora la faccia, crolla non appena vede che sono vestita. La mia espressione feroce fa dileguare Cole ed Andrew, mentre Aaron si alza lentamente stringendo gli occhi. “Come...”.

Gli sfilo la videocamera, ne estraggo la scheda sd e la lancio contro il muro, frantumandola. È fortunato che non lancio lui.

“Per il tuo benessere ti consiglio di dormire con un occhio aperto”.

La minaccia non è a vuoto. Raccolgo il mio cellulare dal pavimento.

“Dove hai...”. Mi segue mentre marcio verso la mia camera.

“Triste. Pensavo non ti servissero trucchetti per far spogliare e bagnare una ragazza.”

Gli sbatto la porta in faccia godendomi la sua espressione delusa e infastidita. Chiudo entrambe le porte a chiave, mi cambio e asciugo i capelli.

Ripensandoci meglio, non avrei mai dovuto accettare il suo aiuto, ma la nostra conversazione della sera prima ha forviato la mia capacità di giudizio. Oltretutto, se rimetto insieme i pezzi, tutti gli avvenimenti dall'assalto di Cole in poi suonano un po' sospetti. Di solito non sono così sprovveduta, mi sono lasciata distrarre. Non succederà più.

Quando sento la maniglia muoversi, afferro la mazza da baseball che Jared mi aveva regalato e la brandisco pronta a difendermi. Faccio scattare la serratura e preparo il colpo, aprendo la porta.

Henry tira un urlo e salta indietro “Gesù! Jules, ma sei impazzita?!”.

Lo tiro dentro prima che possa dire altro e blindo la porta dietro di lui.

“Si può sapere dov'eri?!” lo aggredisco, ancora brandendo la mazza.

“Ma cosa fai con la mazza del tuo ex? Perché ci hai chiuso dentro?”

“Mentre eri chissà dove a farti i fatti tuoi, io sono stata aggredita da un branco di selvaggi pervertiti”.

Henry aggrotta le sopracciglia confuso “Cosa?”.

La mia concentrazione sciama “Cosa sono?” chiedo indicando il bicchiere e il sacchetto di carta bianco che ha in mano.

“Ho accompagnato la mamma ha fare le sue commissioni e ti ho preso un caffè e un dolcet...”.

Non lo lascio nemmeno finire, afferro il caffè, il sacchetto e mi butto sul letto. Sono a corto di zuccheri e caffeina, senza non ragione lucidamente.

“Mi dici cos'è successo?”.

Affondo la faccia nel cupcake al cioccolato, con molta più passione del necessario e ingurgito caffè, come se ne dipendesse la mia vita. Mio fratello attende tranquillamente che smetta di ingozzarmi, prima di farmi il terzo grado. La pazienza non è una dote che condividiamo.

“Ora che ti sei rifocillata, mi dici cos'è successo?”

“Durante il tuo stupido momento madre-figlio, Aaron e io suoi terrificanti fratelli mi hanno teso un agguato”.

Mi fissa sbattendo le ciglia.

“Cole mi ha imbrattata di un liquido non identificabile e farina, Liv ha occupato il bagno, presumibilmente spinta da i suoi fratelli, e Aaron mi ha offerto il vostro bagno come soluzione”.

Inspira rumorosamente “Ti sei fidata? Ti ha sorriso, vero?”.

Grugnisco, ignorandolo “Mi hanno rubato gli asciugamani, i vestiti e mi hanno aspettata fuori dal bagno con una video camera”.

Henry si irrigidisce, assumendo la sua posa protettiva.

“Va tutto bene” mi affretto a dire “Ho smontato il loro scherzo e distrutto la scheda sd”.

Sospira e rilassa la schiena “Hai intenzione di fargliela pagare?”.

“Puoi giurarci”.

 

 

La mattina successiva decido di mettere in atto la mia spietata e crudele vendetta. Aaron è intento a rimirarsi nello specchio, ringraziando il cielo di tanta perfezione, quando sgattaiolo in camera sua come un ladro. Da quello che Henry mi ha detto, prima di andare a dormire lucida la sua chitarra preferita, Angelina ( sì, lasciamo perdere), e la bacia come se fosse l'incarnazione dell'attrice. Lasciando Henry in corridoio a fare il palo, afferro Angelina e la rapisco. So perfettamente come nascondere qualcosa in modo che nessuno lo trovi. Dopo aver imboscato il corpo del reato, saltello al piano inferiore a gustarmi una sana e esultate colazione. Henry mi siede accanto teso come una corda di violino, sfogliando la sua settimana enigmistica.

Non è il tipo da vendette.

Carico una badilata di cereali alla frutta sul cucchiaino, quando la porta sul retro si apre cigolando.

“Ehi, Julie!” esclama Matt entrando in cucina, seguito da Lip e Tyson. “Ciao Henry”.

“Buongiorno!” cinguetto sorridendo.

“Sei stranamente allegra...è un bruttissimo segno” mormora, scoccandomi un bacio sulla testa.

Lip spalanca il frigorifero come se fosse a casa sua e afferra il cartone del succo d'arancia. Tyson si appoggia al lavello studiando silenziosamente la stanza. Vedo Henry sbirciarlo di soppiatto, fingendo indifferenza.

“Credo che sia una mattinata magnifica, non trovate?” trillo, inspirando sprofondamento.

Matt sgrana gli occhi sorpreso e mi analizza “Ora sono preoccupato. Cosa hai combinato?”.

Lip si svuota il succo di arancia in gola, direttamente dal cartone, facendo incrinare il mio buon'umore “Ehi, bestia! Lo sai che esistono i bicchieri”.

Si asciuga la bocca con il dorso della mano “Vuoi che ti faccia vedere la vera bestia, bellezza?”.

“Lip” lo ammonisce Matt.

“Preferire bere candeggina” grugnisco schifata.

“Sempre a disposizione” ammicca verso di me e muove le sopracciglia. Infila la mano nella credenza e si impossessa dei biscotti alla cannella.

Mi giro verso Matt “Come mai siete qui? Oltre a svuotare la dispensa, ovvio”.

“Abbiamo le prove della band, ci esercitiamo nel garage di Aaron. Scommetto che è sotto la doccia ora”. Annuisco.

Fisso Tyson incuriosita, da quando l'ho conosciuto non ha mai detto una parola, mentre Lip ne ha dette anche troppe. Vorrei sapere cosa nasconde dietro quegli occhi scuri e quell'espressione imperturbabile. Da come mio fratello lo guarda, direi che pensa lo stesso.

Un urlo assolutamente privo di virilità infrange i miei pensieri. Si comincia...

“Jules...”borbotta Henry agitandosi sullo sgabello.

“Non dire nulla e il tuo nome non salterà fuori”.

“Cosa sta...” domanda Matt. Aaron ruzzola lungo le scale, verso la cucina come una furia, stringendosi un asciugamano in vita. Mi ci vuole uno sforzo immane per non ammirargli gli addominali.

“TU!” ulula agitando le braccia. Ha i capelli neri bagnati, sparati in tutte le direzioni. È davvero arduo non guardarlo, ma resto concentrata sulla mia colazione e la mia indifferenza.

“Dove l'hai messa?!” strilla facendo rimbombare la stanza.

“Cosa? La tua dignità? Prova nella spazzatura” indico il cestino col cucchiaio.

“Sei hai torto un solo capello ad Angelina io...”

“Tu cosa?! Mi tenderei un agguato mentre sono nella doccia? Ah, no. Lo hai già fatto!”.

“Si può sapere cosa sta succedendo?” si intromette Matt.

Aaron sbuffa dalle narici “Questa...” soppesa le parole indicandomi con la mano “Questa t...”

“Occhio a cosa dici, ho un martello e uno strumento musicale che non mi appartiene!” sbraito balzando giù dallo sgabello. Scelta poco studiata, perché lo sgabello mi dava qualche centimetro in più, che non fanno mai male e stare in piedi mi porta ad altezza pettorali, che intaccano la mia osticità. I muscoli a V del suo bacino chiamano il mio nome.

“Julie...”

“Dov'è'!?” mi afferra un polso con un po' troppa irruenza. Matt ed Henry fanno un passo in avanti nello stesso istante, facendo mollare la presa ad Aaron, come se scottassi.

“Ha preso in ostaggio Angelina!” si giustifica.

“La Stratocaster nera?!” geme Lip.

“Prendere in ostaggio presuppone che lei sia ancora viva e io non ho mai detto questo”.

Aaron geme come se gli avessi sparato.

“Julie, dov'è la chitarra?” domanda Matt.

“Gliel'ho detto. Guarda nella spazzatura”.

Aaron sbianca avvicinandosi al cestino, alza il tappo ed inspira. Infila una mano tremante tra l'immondizia e ne estrae due corde da chitarra tagliate.

Okay, sia chiaro, so quanto siano importanti gli strumenti musicali per un musicista e infatti Angelina riposa incolume sotto il mio letto, ma questo Aaron non lo sa. Quelle che tiene in mano sono vecchie corde rotte del mio violino. C'è differenza tra le corde, ma Aaron è troppo sconvolto per notarlo.

La faccia di Aaron raggiunge la tonalità del bianco più chiara che abbia mai visto e io mi sento irradiata.

“Tu...hai....lei...” balbetta. Boccheggia e annaspa, indietreggiando fino ad aggrapparsi a qualcosa di solido.

“Ti avevo avvertito di guardarti le spalle”. Vederlo soffrire risana lo smacco dovuto dell'agguato nella doccia. Matt cattura il mio sguardo furioso “Julie, avanti ridagli la chitarra, qualsiasi cosa ti abbia fatto, adesso è pentito”.

“Tentare di riprendermi nuda sotto la doccia non merita pietà”.

Matt spalanca la bocca e scuote la testa“Aaron!”.

L'unica espressione che attraversa gli occhi di Tyson, è una leggera sorpresa. Lip si piega in avanti ridendo “Ben fatto, amico!” Alza la mano attendendo un cinque, che Aaron non ricambia.

Lui ignora entrambi, mi si piazza davanti e mi fissa. I suoi occhi verdi e furiosi mi scorrono sul viso, alla ricerca di un segno di cedimento, ma non lo trovano. Il suo sguardo si sofferma un po' troppo sulle labbra, facendomi guadagnare altro vantaggio. In ogni caso, il mio corpo non resta indifferente. È tremendamente figo, ho la bocca secca e mi trema la pancia, ma non cederò. Ho imparato negli anni che al fisico possono piacere cose che la testa odia, e la mente predomina sempre.

Nessuno si muove, ho la situazione stretta in pugno e ho intenzione di usarla come arma.

Avanzo verso di lui, arrivandogli praticamente addosso “Magari, e dico magari, se implori perdono rivedrai Angelina quasi incolume”.

Inspira tra i denti e il suo petto scultoreo mi sfiora dandomi i brividi. Vedo gli ingranaggi del suo cervello soppesare l'idea ed elaborare una risposta. Vorrei dirgli di non sforzarsi troppo o finirà per sovraccaricarsi, ma resto in silenzio e aspetto di vederlo strisciare.

“Mi dispiace e ti chiedo scusa per...” borbotta a denti stretti “...lo scherzo della doccia. Posso riavere la mia chitarra adesso?”.

Inclino la testa, picchiettandomi le labbra con l'indice “Fammici pensare...”.

“Julie avanti, non torturalo, ti ha chiesto scusa” mi fa notare Matt, intromettendosi come suo solito. Ma il punto di tutto questo è la tortura, farlo sentire a disagio e in trappola come lui ha fatto sentire me. La mia vena sadica si è sviluppata durante il periodo buio con Jared, lui era bravissimo ad ottenere tutto ciò che voleva e a farla pagare a chi gli mancava di rispetto.

“Cosa sta succedendo?” la voce della mamma fa voltare tutti verso la porta “Sembra che stia per scoppiare la terza guerra mondiale...Aaron perché sei in asciugamano?”. Posa le borse della spesa vicino ad Henry e si acciglia.

Aaron indietreggia e la guarda infastidito “Stavo appunto andando a vestirmi”. Mentre si dirige al piano superiore non posso fare a meno di squadrargli il sedere e di gongolare per la vittoria appena ottenuta.

“È un piacere avervi qui ragazzi, volete restare per pranzo?” domanda melensa.

Si scambiano un'occhiata e annuiscono in contemporanea, come se riuscissero a comunicare mentalmente.

“Mangeremo in giardino, siamo un numero considerevole...cosa posso cucinare?”

“Se siamo di disturbo noi...” inizia Matt, ma la mamma lo blocca.

“No! Assolutamente no. Mi fa piacere avere ospiti, più siamo meglio è. Però avrei bisogno di una mano con la cena...”

Henry balza giù dalla sedia e mi agguanta “Noi abbiamo delle cose da fare, mamma, dopo veniamo ad aiutarti a cucinare” promette, tirandomi in mezzo. Si, certo.

“Perfetto” sorride “Ah! Ricordatevi che domani comincia la scuola, dovete andare un po' prima perché avete il colloquio con il preside Richmond”.

“Certo” assicura mio fratello. Mi scorta oltre la soglia della stanza.

“Noi andiamo a cercare Aaron” dice Matt. Seguito dai ragazzi, Henry mi tira al piano di sopra e mi spinge in camera mia.

“Tira fuori la chitarra, sorellina, prima che questa battaglia diventi una guerra”.

“Troppo tardi” Aaron è sulla soglia completamente vestito e con un ghigno soddisfatto dipinto sul volto. “Per un secondo ho quasi creduto che tu l'avessi davvero rovinata, una musicista non rovinerebbe mai una stratocaster fender, vero bambolina?” Stringo i denti, perché ha perfettamente ragione, quella chitarra è stupenda. “Quelle erano corde da violino, oltretutto. Mi hai quasi fregato”.

Non poteva non accorgersene “Molto intuitivo complimenti”. Ignora il sarcasmo.

“Tieniti pure la chitarra se ti fa pensare a me durante la notte. Uno a uno, palla al centro. D'ora in poi è guerra” Mi sgancia uno dei suoi sorrisi e si volta “Andiamo ragazzi, abbiamo delle prove da fare”. Lo seguono fuori, chiudendosi la porta alle spalle.

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Capitolo 9
*** Julianne ***



Julianne

Nella mia camera sembra che sia scoppiata una bomba atomica.

Evidentemente Aaron ha frugato tra le mie cose, alla ricerca della chitarra, causando l'esplosione di tutti i miei scatoloni e del loro contenuto, che ora è sparpagliato a macchia d'olio sulla moquette. Stanca, rinuncio allo sciopero del disimballaggio dei miei effetti personali e sistemo la stanza. Come sospettavo, non ho abbastanza vestiti per riempire completamente l'armadio, che resta per metà vuoto. Riempio le mensole di libri e utensili da pittura. Posiziono le foto sui comodini e sui muri, il laptop sulla scrivania e il mio violino difronte alla finestra. A lavoro concluso, la stanza ha l'aria di essere abitata e non sembra più la camera impersonale degli ospiti. A metà mattina, mamma trascina i figli più piccoli ed Henry in chiesa, io mi ritrovo seduta sulla poltrona di pelle rossa con le finestre spalancate ad origliare le prove degli Hazy Heavy. Il garage si trova esattamente sotto una delle mie finestre e loro provano con la serranda di metallo alzata, permettendo alla musica di fluttuare verso la mia stanza. Sono molto bravi, ma mancano di originalità. Tutte le canzoni che mettono in atto sono cover, guadagnerebbe una marcia in più se provassero a concretizzare le loro emozioni in un testo. Ma immagino che se possiedi la gamma di emozioni di un termosifone, scrivere testi decenti non sia una passeggiata. Comporre canzoni ti libera da pesi e sensazioni che non riesci ad ignorare o assimilare. Molti dei miei testi sono parti della mia vita che non ho mai raccontato a nessuno e che nessuno conoscerà mai. Da dopo la riabilitazione ho smesso di scrivere, è come se durante la convalescenza mi avessero asportato l'organo che mi faceva creare testi unici. Un po' mi manca, ma non ce nulla che dipingere non possa sistemare. Passo la mattinata ad ascoltare musica di soppiatto e a schizzare sul mio quaderno ragazzi senza volto. Quando mamma ritorna dalla messa domenicale insieme a Jim, Henry scivola nella mia camera con fare furtivo.

“Non ero mai stato ad una messa così avvincente” commenta buttandosi sulla moquette di fianco a me.

“Non eri mai stato a messa in generale” puntualizzo.

“Jim è davvero appassionante quando spiega il vangelo, ti fa capire cose che prima ti sembravano insensate”.

Le mie orecchie non credono a quello che sentono. “Oh mio dio! Ti stai facendo fare il lavaggio del cervello”.

“Ahi! Perché mi colpisci?!” Si stringe la nuca sconvolto, dopo che l'ho colpito.

“Perché ti stai facendo abbindolare, ecco perché! Lo sai cosa dice la Bibbia sull'omosessualità o vuoi che ti rinfreschi la memoria?”.

Henry è molto aperto verso chi la pensa diversamente, gli piace capire cosa spinge le persone verso un certo tipo credenza.

Sospira “Lo so, Jules. Sto solo cercando di conoscere il loro mondo, così da poter trovare un punto d'incontro. Vorrei che ci provassi anche tu”.

Non se ne parla. Non fingo che mi piaccia qualcosa, per assecondare la messinscena della famiglia felice.

“No. Puoi giocare al figlio perfetto quanto vuoi, ma non tirarmi in mezzo”.

Sa che è una battaglia persa in partenza. “Va bene, d'accordo. Cambiamo argomento. Cosa ci fai appostata davanti alla finestra?” Inclina un sopracciglio dorato.

Beccata.

Okay, niente panico. Una scusa decente?

Afferro il quaderno degli schizzi “Stavo disegnando. Mi rilassa”.

Si siede difronte a me sulla poltrona rossa e osserva il paesaggio, che la mia vista offre. Non è un granché, ci sono solo tetti e case tutte simili alla nostra. Come bugia non sta proprio in piedi, lui lo sa che non ricopio dal vero, ma uso l'immaginazione e i ricordi. Mi guarda scettico, ma annuisce. Quando penso di essere riuscita ad evitare le sue supposizioni su il mio interesse a proposito di Aaron, dal garage fluttua la sua bellissima voce roca, che investe Henry come un treno.

Cattura il mio sguardo e inclina la testa, sorridendo come un serial killer. “Stavi disegnando, eh?”.

“Esatto...” mi allontano voltandogli le spalle, se non mi guarda in faccia non può sapere se mento. La mia tecnicamente non una bugia, direi più un'omissione.

“Lui ti piace! Ti piace un sacco!” Esulta.

“Assolutamente no”.

Mi segue come un ombra. “Oh, andiamo! Ammettilo e non ti tartasserò più, lo giuro”.

“Non c'è nulla da ammettere, Henry, smettila!”.

“Jules, avan...”

La voce acuta e perennemente allegra della mamma risale dalle scale e lo interrompe “Henry! Julie! Ho bisogno del vostro aiuto!”.

Non sono mai stata tanto felice di dover andare da mia madre.

“Dobbiamo scendere” borbotto “ Non vorrai far aspettare la mammina”.

Sbuffa. Gli è fisicamente impossibile non accontentarla.

“Questa conversazione non finisce qui” assicura.

Questo è tutto da vedere.

Apre la porta e insieme scendiamo al piano inferiore. In cucina la mamma è circondata da buste della spesa mezze vuote e una distesa di pentole disparate. Il suo bellissimo abito è avvolto in un'orribile grembiule da cucina. Anche se ha l'aria di chi stia cucinando da ore, non ha una ciocca fuori posto o una macchia sul vestito.

“Oh, bene siete scesi” sospira quando ci nota imbambolati sulla soglia “Ho bisogno del vostro aiuto per organizzare il pranzo. Siamo un gran numero oggi e due paia di mani in più non mi farebbero male”.

“Ti aiutiamo volentieri” sentenzia Henry per entrambi.

Aiutarla non è esattamente il mio passatempo preferito, ma non ho intenzione di riprendere la conversazione con Henry, quindi mi limito ad alzare le spalle.

“Ottimo” trilla la mamma “Allora, Henry tu occupati di apparecchiare il tavolo sotto il gazebo in giardino, mentre tu Julie, dovresti aiutarmi a tagliare queste verdure”.

Henry annuisce, fiondandosi ad esaminare i cassetti, mentre pigramente mi accosto all'isola di marmo. La mamma mi posiziona davanti un tagliere di legno scuro, un enorme coltello in ceramica e un sacchetto pieno di vegetali.

“Tagliali in pezzetti tutti più o meno della stessa grandezza e mettili in queste scodelle” dice, porgendomi delle bacinelle in plastica. Sminuzzo le verdure in silenzio e con ritmo costante. Henry mi sfreccia intorno frugando nei pensili alla ricerca dei piatti e delle posate. La mamma spennella le pirofile con il burro e monitora la torta alle carote come un falco. Mi sembra di essere stata catapultata in una versione casalinga di MasterChef.

“Mamma, non riesco ad aprire il tavolo da giardino”

“C'è un trucco, vengo ad aiutarti. Julie controlla che la torta non si bruci, per favore”.

Zampetta fuori così in fretta che non mi da nemmeno il tempo per un commento sarcastico. Sembra che debba venire a pranzo la Regina dall'impegno che ci sta mettendo. Insomma non c'è bisogno di tutto questo trambusto, è solo un pranzo del cazzo. Sfogo tutto il mio nervosismo su una zucchina innocente, che ha preso temporaneamente le sembianze della mamma. A peggiorare la situazione ci si mettono Aaron e i suoi amici idioti, che entrano dalla porta che collega il garage alla cucina. Si sparpagliano per la stanza esaminando cosa bolle in pentola.

“Che profumino” esulta Matt avvicinandosi al piano-cottura “ La signora Raisman è una maga in cucina”. I suoi commenti deliziati e perennemente educati irritano la pazza isterica, che brandisce una mannaia seduta nel mio cervello. Lip infila una mano in una ciotola piena di anacardi e se ne infila una manciata in bocca.

“Eri in bagno quando distribuivano l'educazione?!” sbotto, sminuzzando una carota.

“Sai, bambolina” si pulisce la bocca con la mano, intercettando i miei occhi “Non ti facevo una che cucina”. Ci fissiamo, sfidandoci a vicenda. Pensa di vincere, ma ha sbagliato a fare i suoi calcoli, io non indietreggio difronte ad una sfida.

“In realtà sono quella addetta alle armi da taglio”.

Si avvicina “È alquanto eccitante questa tua versione casalinga. Passi anche lo straccio per terra?”.

Aaron si irrigidisce contro la mensola contro cui è appoggiato.

“Lip!”. Grugnisce Matt, scuotendo la testa. Ma il suo amico lo ignora e mi si affianca, stagliandosi su di me con il suo fisico di marmo “Sto solo facendo qualche innocua domanda”.

Non credo che sappia cosa significa innocua, ma l'unica cosa su cui riesco a concentrarmi è il fatto che mi sta inchiodando al bancone, imprigionandomi con le braccia. Non ha idea di cosa sia lo spazio personale?

“Se non ti sposti, la tua lingua e le tue palle finisco sminuzzate con il resto della verdura” gli punto contro il coltello e mi pesa ammettere che non è la prima volta che lo faccio.

La sua testa si china in avanti verso la mia faccia “Ti ho già detto che mi piace un po' di violenza”.

Prima che possa conficcargli le unghie nella faccia, Matt mi sfila di mano l'arma ed Aaron afferra rudemente il suo amico per la spalla, allontanandolo. “Ti ho già detto di non fare il coglione! Se non vuoi che ti spacchi la faccia, lasciala in pace” sibilla.

Matt mi tiene per un braccio “Ti posso assicurare che ti avrebbe pugnalato, se avessi continuato”.

Sì, è vero. “Hai una vaga idea di cosa siano le molestie sessuali?!” sbraito riprendendomi il coltello.

“Scusa dolcezza, stavo dimostrando una mia tesi” si giustifica con un'alzata di spalle.

Ma che razza di coglione. “Che diavolo significa?” brontolo. Lip si limita a scoccarmi un sorrisetto. Non posso indagare oltre, perché mamma si fionda in cucina come un razzo e li spedisce ad apparecchiare con Henry.

 

Una volta che le trecento inutili portate sono disseminate sulla tovaglia shabby grigia, possiamo finalmente sederci a mangiare. Mi ritrovo posizionata tra mio fratello e Matt, con di fronte Aaron e i suoi amici scemi. Anche se il tavolo è aperto al massimo, in undici si sta stretti comunque, sebbene sembri l'unica a cui infastidisce la mancanza di uno spazio personale.

La conversazione si mantiene su argomenti standard, che mi entrano da una parte ed escono dall'altra. L'unica nota positiva è la meravigliosa lasagna di verdure, che mia madre ha cucinato appositamente per la sua strana e indisponente figlia. Come previsto, Tyson non spiccica una parola, Lip si rimpinza di cibo fino agli occhi, Aaron risponde a monosillabi e Matt conduce una brillante e arguta conversazione con mia madre. Non ho la più pallida idea di come questi quattro possano essere così amici avendo caratteri così diametralmente opposti.

Tra Aaron ed Lip si nota una strana tensione, che presumo sia legata alla tesi di quest'ultimo, sinceramente non è un mio problema. La prossima volta che proverà un esperimento su di me, si beccherà una ginocchiata nei gioielli di famiglia. Mi perdo tra tutti i possibili modi in cui posso causargli dolore fisico e sobbalzo quando sento il mio nome.

“Allora Julianne, tu e Matt vi conoscevate già?” sollecita Jim interessato. Dovrebbe proprio farsi i fatti suoi, non credo che gli piacerebbe sapere di che natura è la nostra relazione.

Annuisco “Esatto”. Nessun discorso articolato. Mai. Porta solo ad altre domande.

“Come vi siete conosciuti?” continua.

“Al campo estivo”. Non lo guardo nemmeno negli occhi, devo proprio sembrare maleducata. Mi dispiace, ma non ho intenzione di fornire informazioni personali di alcun tipo.

“E da quanto vi conoscete?”. Jim non è un tipo che molla, non c'è che dire.

“Parecchio tempo”. Ma il premio per la più testarda resta in mano mia.

Jim sospira e passa a dialogare con qualcun altro. La nostra vaga chiacchierata ha scoraggiato altre possibili conversazioni, così finisco di pranzare in pace.

Siccome ho aiutato a cucinare, non devo aiutare a sparecchiare e posso fiondarmi nella mia camera. Spendo il resto della mia domenica a dipingere via tutta il nervoso che la mattinata mi ha trasmesso. Dopo cena chiacchiero con Scar su Skype, facendole il resoconto della giornata e dopo provo a dormire un po'. È alquanto bizzarro, ma non mi piace dormire quando fuori è tutto buio. Preferisco di gran lunga passare le ore notturne impiegando il tempo in qualcosa di costruttivo. A San Diego suonavo il violino mentre tutti dormivano. Henry e papà si erano abituati a questa mia stranezza, ma qui non penso di poterlo fare alle due del mattino. Perciò, mi limito a leggere finché il mio cervello non collassa e il sonno non mi aggredisce.

 

 

Per quanto mi piaccia, la luce arriva troppo in fretta e sono costretta ad alzarmi. L'idea di dover ripetere il supplizio del primo giorno di scuola, mi imposta automaticamente l'umore su INDISPONENTE.
Ruzzolo fuori dalle coperte sbuffando e scalciando, mi infilo in bagno e mi ci blindo dentro. Immergo la faccia nell'acqua gelida per essere sicura di essere sveglia e reattiva, mi rendo quantomeno presentabile e infilo dei jeans e una maglietta. Mentre mi sto infilando le Vans, Henry spalanca la porta radioso ed esuberante “Buongiorno raggio di sole!”.
Dio, vorrei strangolarlo.

Borbotto un insulto che lo fa ridacchiare “Vedo che sei particolarmente solare stamattina”.

“Come fai ad essere felice già così presto?”.

Mi porge una tazza di caffè “Il sole splende, è ora di uscire di casa e stiamo per andare a scuola! Come fai tu a non essere radiosa?!”.

Mi scolo il caffè come uno shottino “Nessuna delle tre cose che hai nominato migliora il mio umore, in particolare l'ultima”.

Mi conduce verso le scale, praticamente trascinandomi “Conoscerai delle persone nuove, non sei contenta?”.

Lo fisso inespressiva.

“Okay, sapevo che il tuo umore sarebbe stato tragico quindi ho chiesto alla mamma di farti la torta al cioccolato”.

Mi blocco a metà scale annusando l'aria come un segugio. È vero, c'è odore di torta.

Gli salto addosso spingendolo contro il corrimano “Oh, ti adoro!”

“Si lo so, ma ora andiamo”.

 

Come promesso in cucina mi aspetta una mastodontica fetta di torta al cacao e un altro galeone di caffè. Va bene, la giornata sta migliorando.

Quando varco la soglia della stanza vengo immersa in una strana routine a cui non appartengo. Aaron è appoggiato al lavabo con una scatola di cereali e un cucchiaio, Andrew e Cole si litigano un muffin ai lamponi seduti sugli sgabelli dell'isola di marmo, mentre la mamma è accostata al piano cottura, intenta a preparare il pranzo per tutti. Jim è in piedi davanti alla finestra che legge il giornale e supervisiona che Liv mangi tutto il suo pasto. Mi siedo anche io e mi concentro sul mio dolce preferito. Henry partecipa alla preparazione del pranzo al sacco e sulla colazione scende una strana atmosfera, come se ci fosse qualcosa che stona nel quadretto famigliare. Oh, già. Questa non è una vera famiglia. Quando la mamma era a casa nessuno aveva mai il tempo di fare colazione, figuriamoci di impacchettare il pranzo. È tutto così ridicolo che mi viene da ridere.

“Va tutto bene, Julie?” domanda la mamma, quando mi deve sogghignare come una squilibrata.

“È solo un po' nervosa per il primo giorno di scuola” sentenzia mio fratello al posto mio. Non è vero, ma credo che sappia perché sembro fuori di testa, lo ha notato anche lui.

“Oh, non ti preoccupare, andrà tutto benissimo. Ti troverai fantasticamente nella nuova scuola” per lei ogni situazione è correlata ad un aggettivo superlativo. “Dovete sbrigarvi però, tra poco avete l'incontro formativo con il preside Richmond”.

Finisco il caffè e infilo il piatto nel lavandino, sbattendo di proposito contro il braccio muscoloso di Aaron. “Come ci dovremmo arrivare a scuola? Per i campi passa per caso la metro?” domando sprezzante. Prevedibilmente nessuno ride.

“Aaron può portarvi a scuola in macchina” propone Jim, chiudendo il quotidiano. Porta una terribile camicia giallo canarino e una cravatta grigia.

“Col cavolo!” grugnisce al padre “Non sono un fottuto taxi”.

“Aaron! Il linguaggio!” lo rimbecca “Ti devo ricordare che la tua punizione non è stata ancora del tutto revocata? Se vuoi andare agli allenamenti oggi pomeriggio cerca di essere accondiscendente”.

Aaron grugnisce ma non ribatte.

“Per il momento è così, in settimana ci adopereremo per trovare una soluzione” conclude la mamma.

Do una pacca sul bicipite sinistro di Aaron, sia per attirare la sua attenzione che per godermi una veloce palpatina al suo muscolo “Su sbrigati Armando, non vorrai farci fare tardi a scuola il primo giorno” bisbiglio con l'accento da snob più marcato che la mia voce riesce a produrre. Lui, in risposta alla mia provocazione, apre al massimo il rubinetto dell'acqua, che schizza contro il piatto e mi infradicia la maglia. Senza pensare, afferro la tazza di ceramica piena d'acqua e rimasugli di caffè e gliela scaravento sulla maglietta cobalto.

“Aaron!” “Julianne!” esplodono i nostri genitori. “Andate a cambiarvi e poi subito a scuola!”.

Lo supero procedendo verso le scale, dopo avergli squadrato velocemente gli addominali messi in risalto dalla maglietta bagnata. Sorrido e mentalmente mi do il cinque, quando sento il suo sguardo sul sedere mentre mi allontano. Cambio la maglietta e cinque minuti dopo mi devo rannicchiare sul sedile posteriore della Boss di Aaron. Andrew è seduto accanto a lui sul sedile anteriore ed Henry è accanto a me con le ginocchia in bocca.

“Sicuro che non vuoi farla sedere davanti?” sussurra a suo fratello maggiore.

“Sta bene dove sta” lo zittisce. Andy, in ogni caso, sposta avanti più che può il sedile, facendo spazio alle lunghe gambe di mio fratello. Aaron si limita ad inserire le chiavi nel quadro ed ad azionare la musica a tutto volume. Vorrei colpirlo, ma non voglio morire spappolata nella sua stupida e bellissima macchina.
Suppongo che tenga il broncio perché ho rovinato il suo outfit da primo giorno e il suo trionfale ingresso a scuola. Non mi importa, la strana tregua della sera della festa è solo un ricordo lontano.
Cercando una posizione comoda mi sporgo in avanti e noto che Andy tiene tra le mani una videocamera. Durante il tragitto riprende il paesaggio e su fratello che guida. Da quello che ho capito possiede un canale YouTube ed è molto seguito.

Aaron spegne il motore in un orribile parcheggio di cemento e automaticamente infilo le unghie nel sedile di pelle. Ho la bocca improvvisamente secca. Sento il panico che mi risale nella gola. Urlerei se fossi sola. Tutto il mio famoso stoicismo si sgretola e sento il sudore colarmi lungo la schiena. Perché diavolo sono qui? Il mio piano geniale doveva riportarmi a casa prima della scuola, questo giorno non sarebbe mai dovuto arrivare.
Comment vas-tu?” mi bisbiglia Henry. Come sto? In panico, ecco come sto. È dalla terza elementare che non affronto un primo giorno di scuola senza Scarlett al mio fianco.
“Bene” gracchio. Lui mi stringe la mano e mi bacia la tempia. So che è qui con me, ma questo non cambia il fatto che sarà una merda. Colgo lo sguardo di Aaron attraverso lo specchietto retrovisore, mi scruta corrucciato e questo non mi aiuta.
Allez” mi incoraggia Henry. Andy e Aaron smontano dalla macchina. Andy sposta il sedile, facendo passare mio fratello, mentre Aaron sposta il suo facendomi uscire. Involontariamente, immagino, mi porge la mano per aiutarmi. Toccarlo non agevola il mio nervosismo, ma è un ottimo corroborante. Mi schiaffeggio mentalmente quando mi rendo conto che mi piace l'idea della mia mano nella sua. Sebbene abbia entrambi i piedi ormai per terra, continuo ad aggrapparmi a lui. Ci guardiamo negli occhi ed è un grosso errore per entrambi. Per un secondo mi perdo nel verde dei suoi occhi e mi lascio cullare dal ricordo del parco dell'altra sera. Mi passa delicatamente il pollice sul dorso ed è il campanello che mi fa lasciare la presa. Faccio qualche passo indietro, allontanandomi dal suo corpo. Lui recupera lo zaino, chiude la macchina e si avvia verso l'ingresso. Henry mi si materializza vicino e mi appoggia il braccio sulle spalle, assicurandosi che non scappi via. “Andrà tutto bene, sorellina. C'è la faremo”.

No, io non credo, ma nonostante lo scetticismo lo seguo verso la scuola. 

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Capitolo 10
*** Julianne ***


La scuola superiore di Orem è la “Casa delle Tigri Dorate”.
O almeno così è scritto sulla facciata in mattoni rossi dell'edificio. Tutta la struttura è composta da finestre e facciate color argilla, circondate da un numero significativo di aiuole e alberi. Il parcheggio chilometrico si riempie velocemente di auto, man mano che ci avviciniamo all'ingresso a vetri della scuola. Cerco di non guardare nessuno negli occhi, mentre arranchiamo dietro al passo spedito di Aaron. Pur essendo solo le sette e trenta afferma che siamo in ritardo. Vorrei obbiettare, ma non voglio rischiare di fermarmi e attirare l'attenzione. Oltrepassata la porta d'ingresso, ci ritroviamo in un corridoio lunghissimo, con pareti bianche adornate da una fila interminabile di armadietti blu e oro. Le mie scarpe da ginnastica sguisciano sul linoleum lucido del pavimento. Saluti e risate riempiono l'aria, non riuscendo comunque a sovrastare il rimbombo del panico, che mi risuona nel petto. Andrew si stacca dal gruppo raggiungendo degli amici fermi davanti ad una finestra.
“L'ufficio del preside Richmond è di qua” afferma Aaron, guidandoci verso la rampa di scale blu che porta al piano superiore. Una volta saliti, raggiungiamo la presidenza seguendo le orme blu di tigre, che adornano il pavimento. Secondo Aaron è una trovata della vicepreside per facilitare l'orientamento. Per me è una gran cazzata e uno spreco di fondi scolastici. Ma che ne so io, infondo nella mia vecchia scuola il simbolo era un cavernicolo con un clava, perciò.

Aaron ci scarica davanti alla porta “Siamo arrivati. Se mi vedete in giro fate finta di non conoscermi”. Detto questo sparisce, infilandosi in un altro corridoio.
“Simpatico” borbotto.
Henry sospira “Andiamo”. Bussa con decisione sul legno e una voce forte ci ordina di entrare.
Il preside Richmond è esattamente come me lo aspettavo. È pelato, ha un leggero velo di barbetta rossiccia sul mento, indossa una polo verde che non valorizza la sua fisicità abbondante e ci sorride come se fossimo una benedizioni dal cielo.

“Henry e Julianne Roux!” sospira estasiato “Sono così felice di conoscervi finalmente”. Si alza, facendo traballare la pancia e si allunga per darci la mano. Henry ricambia il suo sorrisone e gli stringe la mano con entusiasmo “Anche per noi è un piacere”. Adoro che parli per entrambi, io non direi mai che sono felice di conoscere il cugino brutto di Babbo Natale. Dopo una veloce stretta di mano, ci fa accomodare sulle sedie in legno davanti alla scrivania. “ È da parecchio che non abbiamo nuovi studenti dell'ultimo anno, ma scommetto che vi ambienterete subito” ci porge due enormi buste di carta “Qui dentro ci sono i vostri orari, una mappa della scuola, il numero dell'armadietto e una copia del regolamento della scuola. Cercate di imparare al più presto le nostre norme di comportamento e ci troveremo alla grande”. Faccio scivolare il libro delle regole fuori dalla busta e una mattone con un'enorme tigre blu e oro mi atterra sulle ginocchia.
Il preside indica il testo con un cenno del capo “Lì dentro c'è tutto ciò che vi serve. Dagli orari alla canzone della scuola, che intoniamo durante le partite. C'è anche un elenco di tutte le attività pomeridiane tra cui potete scegliere, entro la fine della settimana dovete iscrivervi a due di esse. Una sportiva e una artistica”.
Le attività vanno dalla A di architettura 3D alla Z di zoologia. C'è addirittura un club che si occupa di apicoltura.
“Lei, signor Roux, è esonerato dalle attività fisiche a causa dei suoi problemi di respirazione, può scegliere due attività ricreative al posto di una. Mentre lei signorina Roux ha un appuntamento settimanale con la nostra consulente, la dottoressa Dawson. Quale giorno è a suo discrezione”. I suoi occhietti marroni si posano sul mio viso e in essi noto una nota di compassione, che mi innervosisce. Non ho mai detto di aver bisogno di una strizzacervelli, di questo particolare la mamma non aveva fatto parola.
“La prima campanella suona alle sette e quaranta, entro cinque minuti dovete essere in classe o rischiate una punizione. In aula i cellulari sono severamente vietati, se doveste essere colti in fragrante, il tipo di provvedimento è a discrezione del docente. L'armadietto che vi viene assegnato è di proprietà della scuola, ed essa si riserva il diritto di perquisirlo in ogni momento, perciò non conservateci nulla di illegale” ci fa l'occhiolino e ridacchia. Henry sorride educato, io no.
La campanella suona e dal corridoio si alza un fastidioso vociare di adolescenti “Bene, il resto delle regole è compito vostro memorizzarle, se avrete qualche dubbio potete chiedere a me. Ora vi porto a fare un giro della scuola e poi in classe”. Si alza facendo cigolare la poltrona di pelle nera, si infila la camicia bene nei pantaloni e si aggiusta il maglione. Spalanca la porta e ci fa segno di seguirlo.
Ci trascina ad ammirare ogni struttura che fa parte del complesso scolastico, dall'aula di chimica al campo da softball. Alla fine del giro turistico, ad Henry servono due spruzzate di inalatore per riprendere fiato. Il cugino di Babbo Natale ci molla davanti ai nostri armadietti, augurandoci buona giornata. Sono a qualche metro di distanza, ma sullo stesso corridoio e visto che il mondo mi prende per il culo, a me è capitato quello con la zampa di tigre d'orata sopra. Inserisco la password temporanea e apro l'antina. Secondo il mio orario alla prima ora del lunedì ho letteratura inglese, seguita da chimica, storia, algebra e conversazione francese. Afferro i libri per le prime tre ore e li butto nello zaino. Henry fa lo stesso e si avvicina “Ci vediamo a pranzo, mi raccomando non litigare con nessuno” mi da un bacio sulla testa e, orientandosi con la cartina, parte alla ricerca della sua aula. I nostri orari sono molto diversi, lui segue tutti i corsi avanzati.
Prendo la mappa e mi metto anche io alla ricerca della classe. Quando ci arrivo, la lezione è ormai a metà e sono costretta all'imbarazzante entrata difronte a tutti che ti fissano. Sbuffo e mi lamento per qualche minuto prima di raccogliere il coraggio e bussare. La voce del professore mi acconsente di entrare e così faccio. Venti paia di occhi mi si piantano addosso, non appena varco la soglia. Il professor Ellingford, o almeno così c'è scritto sul mio orario, mi fa cenno di avanzare. Forza, Julianne. Strascico i piedi sul pavimento fino alla sua cattedra e gli consegno il foglio informativo che dovrò dare ad ogni professore che conoscerò durante la settimana. Ellingford sembra un boscaiolo inglese. Ha una folta barba nera munita di baffi a manubrio, due brillanti occhi azzurri nascosti dietro un paio di occhiali da lettura e una giacca scamosciata con le toppe sui gomiti. Dopo aver letto il foglio, mi osserva e mi sorride incoraggiante “ Benvenuta alla Orem High, Julianne. Finita la lezione vorrei scambiare due parole, ma per ora vai a sederti nel posto libero accanto a Matthew”. Lo posiziono sul piedistallo del rispetto per avermi evitato il patetico rituale dell'introduzione personale alla classe. Annuisco e zigzago tra i banchi infilandomi in quello che mi è stato indicato. Quando mi accomodo, Matt mi sorride e mi fa l'occhiolino. Direi che per ora la giornata sta andando a gonfie vele.
Quando suona la campanella posso dire di essere sopravvissuta alla prima lezione della giornata senza danni.
“Come sta andando il primo giorno?” mi chiede Matt, mentre infilo i libri nello zaino.
“Per ora bene”.
“Come ti è sembrato il preside Richmond?”.
“Matt” strilla una vocina alle nostre spalle. Nicole e Giselle sono ferme sulla soglia ad osservarci. Non mi ero accorta che ci fossero anche loro a lezione, prima nota negativa.
“Andiamo amore, facciamo tardi alla prossima lezione” gli ricorda la sua ragazza.
“Un secondo” le assicura, per poi tornare a guardare me.
“Mi sembra un tipo a posto, magari un po' troppo allegro” rispondo.

“Per te sono tutti troppo allegri” ridacchia, facendo sbuffare Nicole “Qual è la prossima lezione?”.
“Chimica, con la professoressa Layosa. Dio, faccio schifo in chimica” mi lamento chiudendo lo zaino. Matt contrae la faccia in una strana espressione “La Layosa è all'antica e un po' pedante, ma non morde, tranquilla. Anche Lip segue quel corso”.
Meraviglioso, davvero. Sbuffo.
“Matthew” squittisce Nicole. Matt sospira molto silenziosamente, ma lo sento comunque.
“Devo andare. Ci vediamo a pranzo” mi assicura. No, non credo. Non mangerò mai con le troie che mi hanno lanciato in una piscina. Nicole si abbarbica al suo ragazzo non appena sono abbastanza vicini e Giselle mi fissa con così tanta intensità, che penso mi voglia fare un buco in testa.
“Julianne” mi convoca il professore. Mi avvicino alla cattedra, circospetta. “Sono felice di conoscerti. Da quello che mi ha scritto la tua ex professoressa di inglese, mi sembra di capire che ti piace la letteratura e che sei parecchio portata per la scrittura, anche i tuoi voti lo confermano”.
Scuoto la testa, arrossendo come un pomodoro “La signorina Scott esagera sempre”. Non faccio la modesta, ma non sono il tipo che riceve lusinghe. Non voglio creare aspettative che magari non posso soddisfare.
Lui continua “Non direi, mi ha mandato alcuni dei tuoi saggi e sono davvero impressionanti. Mi piacerebbe vederti lavorare per il giornalino della scuola” sorride e stranamente ricambio.
“Ci penserò” borbotto. Non so ancora cosa voglio scegliere come attività pomeridiana non sportiva.
“Ottimo, ci vediamo domani a lezione”.
“Arrivederci”. Mi fiondo in corridoio così velocemente, che quasi investo una matricola. Ci metto il doppio del tempo a trovare le aule quindi mi vedo sbrigare. Fortunatamente l'aula di chimica è una delle tappe del giro turistico di Richmond, quindi la trovo prima che suoni la campanella. Quando varco la soglia una lampante verità mi colpisce in faccia. Sono nell'aula di chimica degli idioti. Due cose me lo fanno capire: la prima è che il massimo che ho mai preso in chimica in tutta la mia vita è stato C; la seconda è la presenza di Lip e Savannah nella stanza. Lip si illumina come una abajur mentre Savannah mi inchioda al pavimento con lo sguardo, nello stesso identico modo di Giselle. Immagino mi incolpi per la rottura con Aaron. Non è un problema mio. Ignoro la pazza, anche quando passandole vicino mi fa lo sgambetto e proseguo verso un banco vuoto. Quest'anno niente guai, deve andare tutto liscio se voglio tornare a casa. Continua a fulminarmi e devo mordermi la lingua per non dirle che quell'espressione rugosa non le dona affatto. Tiro fuori il libro e mi preparo a perdermi dopo dieci minuti di lezione. Alzo lo sguardo quando una figura mi oscura il sole. Lip mi osserva furbo e sorridente seduto sullo sgabello di metallo accanto al mio.
“Cosa fai?” domando squadrandolo male.
“Sarò il tuo compagno di laboratorio per questo semestre, dolcezza” gongola.
“Oh no. Assolutamente no. La mia risposta è categorica” affermo. Provo a spingerlo giù dalla sedia ma è come spingere un bue muschiato.
“Non ti stavo chiedendo il permesso, bellezza. La Layosa mi venera e poi le piace che le coppie siano miste, quindi acconsentirà” Ammicca e sorride osservando le mie mani che gli toccano il petto nel tentativo di allontanarlo. Levo le mani di scatto e sbuffo. Magari la professoressa non acconsentirà, speriamo in un miracolo. Però, non appena entra il classe, le mie speranze si sgonfiano come un palloncino.
“Buongiorno” gracchia lanciando la valigetta sul tavolo. Assomiglia ad una strega degli horror, tutta spigoli e linee dure. Ha gli occhi verdi piccoli e veloci, incorniciati da un ventaglio di zampe di gallina. Indossa un tajer color melanzana che non la valorizza. Il caschetto biondo e rigido non aiuta a migliorare il tutto. “Roux!” invoca, facendomi sobbalzare. Mi alzo catturando il suo sguardo “Venga qui” ordina. Zampetto verso la cattedra e aspetto. Legge la mia scheda e poi mi squadra dalla testa ai piedi. Il suo sguardo arrabbiato si condensa sulla rodine sul braccio, sull'anellino al naso e sulla t-shirt con la scritta I HATE YOU. Arriccia le labbra sottili cariche di rossetto color pesca e sembra sul punto di sputarmi addosso. “Da quello che vedo dai suoi voti direi che abbiamo un altro caso pietoso da aggiungere alla collezione. Come ci si sente a fare così schifo?” domanda. La classe ridacchia, Savannah con il volume più alto di tutti. É una domanda retorica ma vorrei comunque risponderle. Apro la bocca per farlo ma mi pianta in faccia una mano smaltata “Non risponda, non mi interessa. Torni a sedersi e veda di imparare qualcosa”. Torno al mio banco mordendomi così forte la lingua che a fine giornata non sarà più attaccata al resto del corpo.

 

Lip aveva ragione. Questa frase è un crimine contro l'umanità, ma fa nulla. Comunque è vero, la Layosa lo venera. Scombina tutte le coppie tranne la nostra, richiama tutti (me tre volte) eccetto lui e ritira tutti i compiti estivi fatta eccezione per i suoi. Mi becco una ramanzina per non essermi messa in pari con lo studio e un commento sulla mia mancanza di intelligenza. A fine lezione mi sembra di aver combattuto contro un orso dalla stanchezza che provo. Dover trattenere le risposte piccate è davvero estenuante. Lip non ha aiutato con i suoi continui movimenti e le sue casuali strusciatine. Avrei dovuto infilargli un becher nel naso, ma avrei rischiato di far infuriare l'arpia in viola.
Mi trascino come uno zombie lungo i corridoi e mi rendo a malapena conto che tutti mi fissano. Non solo mi osservano, ma ridono anche. Ho forse la carta igienica sotto la scarpa? Impossibile, non sono andata in bagno. Magari ho una macchia da qualche parte. Mi infilo nell'aula di storia e cerco qualcosa che mi renda ridicola, ma non trovo niente. Vorrei tirare fuori il cellulare e chiamare Scar, ma non voglio rischiare che me lo ritirino. Appoggio la testa al tavolo e aspetto che la terra si spacchi e mi inghiotta.
“Sei già depressa il primo giorno?” ridacchia una vocetta fastidiosa. Se non alzo la testa scomparirà insieme al suo ego e alla scopa che ha parcheggiata nel culo. Giselle si avvicina perché vengo sommersa dal suo profumo sgradevole “Immagino che sarei anch'io a rischio suicidio se fossi in te”. Scoppia a ridere così forte che vorrei strapparle le corde vocali con i denti. Alzo la testa per insultarla o darle un pugno sui denti, ma mi blocco. È circondata da una leggera folla e tutti ridacchiano. Che problema hanno le persone?

“È sempre un piacere parlare con te, Fanali” gracchia allontanandosi. Cosa? Fanali?
Tyson entra nell'aula e senza esitazione si accomoda nella sedia accanto alla mia. Non credo che sarà di molta compagnia, ma almeno non starò sola. Senza emettere un fiato, mi fa scivolare difronte il cellulare. Lo schermo mostra la pagina di Facebook degli studenti della scuola in cui compare una mia foto. La foto in questione è della sera della festa, dopo che mi avevano tirato fuori dalla piscina. Essa mette in bella mostra la mancanza del reggiseno e mostra chiaramente i capezzoli. Sotto la foto c'è un'unica frase : Date il benvenuto alla nuova studentessa, Fanali.

Molto divertente. Davvero maturo, oltretutto. Gli restituisco il cellulare e mi lascio andare ad un rumoroso sospiro. Odio gli adolescenti. “Che razza di troia” borbotto. Tyson mi stringe l'avambraccio con solidarietà e gli sorrido. Non è assolutamente la cosa peggiore che mi sia mai capitata, posso sopravvivere a tutto.
 

La lezione di storia scorre tranquilla, se non si calcolano le occhiate e le risatine. Il professore Rise mi da il benvenuto davanti a tutta la classe ma non mi obbliga a presentarmi.

Quando attraverso il corridoio alcuni ragazzi fischiano e commentano, ma ignoro loro e l'imbarazzo. Prima dell'ora di algebra, mi fermo all'armadietto e recupero i libri che mi servono e lascio gli altri. Una massa di muscoli si lascia cadere contro l'armadietto accanto al mio “Ehi, Fanali” ridacchia. Non ho la più pallida idea di chi sia ma mi è troppo vicino e mi sta insultato, quindi presumo sia un'aspirante suicida. Quando lo guardo in faccia, tutto diventa chiaro. È l'idiota che mi ha buttata in piscina alla festa e ed è anche quello che ha fatto notare alla folle le mie tette, perciò il mio adorabile soprannome è colpa sua. Stringo l'anta di metallo immaginandomi che sia il suo collo.
“Sai, mi dispiace per la storia del tuffo in acqua, però alla fine abbiamo scoperto una tua qualità...notevole” mi fissa platealmente il seno. Respingo l'impulso di coprirmi o di dargli una ginocchiata. Ha il naso livido, quindi immagino che qualcuno lo abbia già sistemato.
“Immagino che tu non ci tenga alle palle”.
“E perché ?” domanda l'idiota.
“Perché mi stai servendo un ottimo pretesto per tranciartele di netto” ringhio, sbattendo l'anta.
“Oh, avanti, Fanali stiamo solo giocando un po', scommetto che sei una a cui piace divertirsi” allunga una mano verso di me, come per toccarmi, ma qualcuno gli afferra il polso con violenza.
“Mi sembrava di averti detto di imparare a tenere la bocca chiusa, Donovan” sibilla Aaron sovrastandolo. Gli strattona il braccio e lo allontana di qualche passo “Oppure hai bisogno che ti spacchi il naso anche dall'altra parte?”.

È stato lui ha dargli un pugno? Dalla faccia spaventata di Donovan immagino di sì. La cosa un po' mi piace, ma solo un po'.
“Vai al diavolo, Anderson” gracchia allontanandosi.

Aaron mi scruta alla ricerca di lividi o segni “Cosa ti ha fatto?”.
“Non mi ha fatto nulla, sto bene, non c'era bisogno che corressi in mio soccorso. Non sono una damigella in pericolo!” brontolo, incamminandomi verso l'aula.

Mi segue “Un grazie sarebbe carino”.

“Non ti ho chiesto di aiutarmi”.
Sbuffa “Sei sempre così indisponente, ti allontanato da uno squilibrato potresti anche esserne felice”. Si, è vero.
“Potevo cavarmela benissimo da sola”. Non esiste che rinunci alla mia testardaggine e all'orgoglio per ringraziarlo. Arriviamo all'aula di algebra e lui si ferma “Lasciamo perdere, è impossibile discutere con te” Brontola. Mentre se ne va gli guardo il sedere stretto nei jeans chiari e la schiena fasciata dalla giacca della squadra di lacrosse.
Grazie, Aaron.

 

 

Ad algebra mi siedo più in fondo che posso e fingo di essere altrove. Per il momento non c'è nessuno che conosco e con cui vivo, quindi è già qualcosa. Mi irrigidisco quando qualcuno mi si siede accanto. Sento un paio di occhi che mi fissano e non riesco a non guardare. Seduta nel banco vicino, c'è una ragazza dagli occhi enormi che mi spia attraverso la massa di capelli ricci e biondi. Ad ogni occhiata che mi lancia, le sue guance si tingono di una sfumatura più intensa di rosso. Il mio livello di sopportazione è davvero poco. “Cosa c'è?! Anche tu vuoi fare un commento sulle mie tette?!” grugnisco. Lei sobbalza e si stringe nel cardigan “N-no...i-io” tartaglia.
Okay, sono una persona antipatica, ma non credo che sia del tutto colpa mia.
“S-scusa” balbetta, nascondendosi dietro i capelli “N-non volevo disturbarti”. Ha la voce così bassa che a malapena la sento.
“Cosa vuoi da me, allora?” domando, questa volta con più calma. Ha gli occhi così blu da sembrare neri e la pelle così lattea da far vedere ogni singola vena. Si sporge leggermente in avanti “Tu sei Julianne Roux? La nuova studentessa?”. Annuisco e lei continua. “Sei una leggenda tra noi esclusi”. Scuoto la testa “Una leggenda?”
“Si, sai per tutti quelli che vengo giornalmente vessati da Giselle, tu sei una fonte di ispirazione. Ti ha disintegrata e sei comunque in piedi e te ne freghi”.

“Come sai che me ne frego?” domando, facendola arrossire.
“Dopo una foto del genere, io mi sarei nascosta in bagno o in infermeria per tutta la giornata, ma tu sei qui e affronti chi ti guarda storto”.
Questa ragazza mi piace, per qualche ragione mi ricorda Scar, solo in versione pallida e candida.
“Come ti chiami?” le chiedo.
“Dorothea, Dorothea Callister. Ma per gli amici sono Dottie” sorride impacciata.
“È un piacere conoscerti Dottie”.  

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Capitolo 11
*** Aaron ***


Aaron
 

Fanali.
Sul serio?
Cazzo, Giselle ha proprio perso il suo smalto. È il soprannome più stupido e meno divertente che si sia mai inventata. La figlia di Satana non ha più idee.
Anche se fa pena, tutti ridono, perché se Giselle dice di ridere la plebe ride.
L'unica cosa negativa che è riuscita a trovare in Julianne, è la reattività dei sui capezzoli. Insomma, è una cosa naturale. Qualcuno dovrebbe dirlo alla stronza, ma è improbabile poiché nessuno prova a remare contro la regina della Orem High. Se ci provi finisci sul fondo e da lì è dura risalire.
A Julianne sembra non fregare di nulla. Cammina per il corridoio come se non sentisse i commenti e le risate che la seguono, e questo alla regina non piace. Nessuno deve mostrarsi indifferente alle sue cattiverie.
Per tutta l'ora di chimica la sento borbottare a Nicole di quanto Julianne sia patetica e insulsa, anche se non la conosce minimamente. Ogni volta che la stronza apre la bocca, Matt si agita sullo sgabello accanto al mio. La sua ragazza non si smentisce e annuisce ad ogni commento. So che lui vorrebbe ribattere, ma è troppo legato al suo stato sociale e alla sua buona educazione per farlo. Sento l'impulso primordiale di difenderla, ma non gli do retta. Sarebbe un suicidio e Julianne nemmeno mi tollera.

Al suono della campanella il mio umore striscia sul pavimento. È arrivata l'ora che più detesto in tutta la giornata, preferirei di gran lunga passarla a fare dei suicidi.
“Ci vediamo a pranzo” Matt mi da una pacca sulla spalle e scompare in corridoio. Vorrei infilarmi in infermeria o nello stanzino dei bidelli, ma se il preside mi becca anche quest'anno a saltare francese, non mi fa più giocare a lacrosse. Sbuffando e grugnendo mi trascino fino al secondo piano e mi infilo nell'aula della signora Bernard. Il corso che seguo è quello più facile di tutti quelli in programma per gli studenti dell'ultimo anno. Infatti la classe è composta da ragazzi di terza e quelli messi peggio di quarta.
Credo di essere l'unico del nostro gruppo che fa così pena in francese, ma è proprio una lingua che non capisco e che trovo inutile. Mi crogiolo nell'autocommiserazione, finché la professoressa non entra in classe. “Bonjour étudiants” trilla, appoggiando i libri sul tavolo. Sto per sbattere la testa sul banco, quando la luce entra dalla porta, e per luce intendo Julianne. Mi sembra strano che sia qui, per lei il francese è la lingua madre, forse ha sbagliato classe. Cammina sicura, in quei fantastici jeans stretti, fino alla signora Bernard e le porge un foglio. Lei lo scruta accigliata, per poi illuminarsi come un faro. “Roux? Tu étais français?”.

Julianne si stringe nelle spalle a disagio “Mio padre è francese”. Lei lo è per metà.
La signora Bernard si gonfia come un pavone, tutta estasiata “C'est fantastique!
“Già” borbotta.
La Bernard si acciglia, confusa. Forse non capisce perché Julianne non le risponde in francese. È troppo orgogliosa per vantarsi di qualcosa che sa fare ed è troppo testarda per cedere.
J'ai une mission pour toi”. Ha la voce atrocemente nasale quando parla in francese, non è piacevole come ascoltare la voce di Julianne.
“Quale?” chiede la ragazza.
La Bernard perde la pazienza e si irrigidisce “En français!” sibilla.

Julianne stringe i denti e sospira “ Laquelle ?” sbuffa cedendo.
La professoressa sorride trionfante “ Tu dois aider l'etudiant moins porté”.
Non sto capendo molto, ma Julianne non sembra affatto contenta. Sobbalzo quando la Bernard fa il mio nome “Aaron”.
Julianne sgrana gli occhi, come se si fosse accorta solo in questo momento della mia presenza e scuote la testa “Non penso di avere le capacità per aiutare qualcuno, non sono così brava”.

Aiutare? Cosa? Chi?

“Sciocchezze! Gli farà solo bene” Ridacchia e la sua voce in inglese fa anche più schifo.
“Su, vai” le da una leggera spintarella verso il mio banco. Julianne prova a protestare di nuovo, ma non c'è modo di convincerla, così è costretta a sedersi accanto a me. Emana così tanta rabbia, che mi sorprende non vederle fumare la cima della testa.
La Bernard afferra un gessetto e scrive sulla lavagna con la sua calligrafia da gallina “Come tutti sapete, dividiamo le quattro ore di francese in due: conversazione e grammatica. Oggi cominceremo con un po' di conversation, passerò tra i banchi a vedere come va. Iniziate”.
Ognuno si gira verso il suo compagno di banco e comincia una conversazione a caso e completamente sgrammaticata in francese.
Solitamente io finivo per parlare con la Bernard, nessuno vuole la pecora nera.
Julianne si infila una mano tra i capelli scuri e chiude gli occhi. Sembra che le abbia appena rovinato la giornata.
“Come mai non sei nel corso avanzato?” Non ci posso fare nulla, sono curioso. Non riesco mai a capirla.
“La curiosità uccide il gatto, Aaron”. Il mio nome che esce dalle sua labbra mi procura un brivido, che mi percorre la colonna vertebrale fino alle mutande. Dillo di nuovo.
“Quale gatto?” Chiedo, fingendo di non capire a cosa si riferisce. Conosco la teoria di Schrödinger, solo che mi piace innervosirla.
Si lamenta così forte che la maggior parte degli studenti si gira a guardarla. Il verso che fa è davvero sexy, metà tra un sospiro e un gemito “Non importa”.
“Allora perché sei qui e non nel corso avanzato?” ci riprovo.

“Mi piace vincere facile” stringe il bordo del libro.

Non è vero. “Non ti credo”.
“Non è un problema mio” ribatte. I suoi occhi indefiniti mi si piantano addosso, incastrati in un'espressione infastidita e arrabbiata. È dannatamente bella, oggi. Ha i capelli mossi e leggermente scombinati, come se ci avesse passato in mezzo le dita tutto il giorno. Indossa una maglietta che rispecchia perfettamente la sua personalità e dei jeans che dovrebbero essere resi illegali. Il sole che filtra dalla finestra dietro di me le illumina il viso. I suoi occhi strani assumono una sfumatura verdastra. Non mi sorprende che la maggior parte dei ragazzi l'abbia squadrata per tutto il giorno.

La punzecchio con la penna “Avanti, principessa, rivelami i tuoi segreti”.

Arriccia il naso e sospira “Henry fa tutti corsi avanzati, anche quello di francese”.
Annuisco. Lo so, è con me a fisica, l'unico corso avanzato del mio orario.
“Qual è il problema?” tengo sott'occhio la Bernard, se ci becca a parlare normalmente ci divide e non ho intenzione di lasciare che questo accada.
“Lui è bravo a scuola, in tutte le materie. È sempre stato così e così deve essere” mi guarda, aspettandosi che capisca e lo faccio.
“Quindi segui il corso per imbranati ,piuttosto che rischiare di essere la migliore in francese?”.

Annuisce piano, infilandosi una ciocca dietro l'orecchio “Capisci?”.
Sì, penso di sì. Nei pochi giorni che ho passato con loro due, ho capito che Julianne si lancerebbe nel fuoco per suo fratello. Si guardano come se si capissero sempre senza il bisogno di parole.

Pur di non lasciare che arrivi secondo, passa quattro ore alla settimana nel corso per sfigati. È abituata a proteggerlo e questo lo capisco perfettamente.
“Si, capisco”.

Un leggero sorriso le adorna il viso, facendomi sentire accaldato. Mi piace quando sorride.
Alors” comincia aprendomi il libro difronte Voyons de quoi vous êtes capable”.

La guardo vacuo, sbattendo le palpebre e cercando di capire cosa ha detto.
Sospira “Okay, cominciamo dalle basi. Comment tu t'appelles?”.

Questa la so! Annuisco “Aaron”.
Le scappa un sorriso e scuote la testa “La risposta completa, non barare”.

Mi sento a disagio a parlare in francese davanti a lei “J-Je m'appelle Aaron” bofonchio. Il fatto che continui a sorridere non attenua il nervosismo.

“Ottimo. Quel âge as-tu?” scandisce bene le sillabe, come se stesse parlando a un bambino piccolo.

J'ai 17 ans”.

“Okay, direi che le basi ci sono, cosa ti viene peggio?” domanda sporgendosi in avanti.

“Tutto il resto, insomma è una lingua inutile!” brontolo. Odio non essere capace di fare qualcosa.

Julianne corruga la fronte “Perché non hai scelto spagnolo?”.

“Faccio pena anche in quello, diciamo che lingue straniere non sono il mio elemento”.

“Lo spagnolo non è male, la mia amica Scar me lo ha insegnato e io le ho insegnato il francese. Se sono riuscita ad aiutare lei, ci riuscirò anche con te”.

La signora Bernard ci passa davanti e Julianne attira la sua attenzione “Madame Bernard”.
La Bernard si avvicina al nostra banco e le sorride “Oui?”.
J'adorerais aider Aaron pour tout le premier trimestre, si vous êtes d'accord”.

Riesco solo a capire che c'entro qualcosa.
La Bernard si illumina per la pronuncia perfetta di Julianne e annuisce estasiata “Ce serait bien”.
Merci” la ringrazia.
La professoressa di allontana sospirando contenta.

“Che cosa le hai detto? Sembra appagata sessualmente” commento scrutandola.

“Niente che debba preoccuparti, adesso concentrati, entro la fine dell'ora devi saper dare indicazioni stradali ad un turista francese”.

 

Per tutta l'ora, Julianne mi parla solo ed elusivamente in francese, facendomi sentire un incapace. È molto più brava a spiegare della professoressa, ma ha molta meno pazienza. Ogni volta che provo a sbuffare o a cambiare lingua, mi colpisce sul braccio con più forza di quanta ci si aspetti da una creatura così minuta. Per tutto il tempo mi concentro sul modo in cui sorride quando rispondo in modo corretto e sul modo in cui arriccia il naso quando dico una stronzata.
È seduta così vicina che riesco a contarle le lentiggini sugli zigomi e riesco a sentire il calore del suo ginocchio appoggiato alla mia coscia. Man mano che il tempo scorre le sue barricate si abbassano e riesco a vedere la luce che le brilla dentro. In qualche modo riesce a farmi dare indicazioni stradali al turista francese immaginario. Contro le mie previsioni, è l'ora migliore della giornata.

 

Quando suona la campanella del pranzo, l'incantesimo si spezza e i muri che la circondano si rialzano chiudendomi fuori. Infila tutta la sua roba nello zaino e si tuffa nel mare di gente, scomparendo. Sospiro e mi dirigo verso la mensa, intercetto Lip in coda per il pranzo e mi sistemo accanto a lui.

“Ehi, amico” mi da una pacca sulla spalla tutto sorridente. Mi passa un vassoio blu e ne tiene uno per sé “Com'è andata l'ora del supplizio?”. Sanno tutti della mia repulsione per il francese.
“Al solito” borbotto. Se gli parlassi di Julianne ricomincerebbe con la sua tesi, secondo la quale ho una “cotta da femminuccia” per lei. L'ultima volta che ha provato a dimostrarmelo si è quasi fatto accoltellare da Julianne e farsi dare un pugno in faccia da me. Non mi importa cosa crede, non ho nessuno cotta. Lei è sexy e indecifrabile, è ovvio che attiri la curiosità di qualsiasi ragazzo.

“Hai visto la faccia di Giselle di recente?” mi chiede scaricando una tonnellata di spaghetti sul vassoio.

“No” rispondo prendendo una bistecca.
“Beh ti sei perso una spettacolo! Nell'ultima ora tutta la scuola ha commentato l'indifferenza di Julianne su Facebook, la trovano fantastica” spinge in vassoio e avanziamo verso i contorni.

“Ha la faccia da palo nel culo?” chiedo ridendo.
“Proprio quella” esclama Lip afferrando il cucchiaio delle patate. La faccia da palo nel culo è l'espressione che Giselle ha collaudato negli ultimi anni. Ogni volta che qualcosa la disturba, le sopracciglia si arcuano in modo irregolare, la bocca si raggrinzisce come se stesse succhiando un limone e le spalle le si irrigidiscono, dando l'impressione che abbia una scopa su per il culo. È la nostra espressione preferita, anche se porta solo guai. Paghiamo alla cassiera e ci dirigiamo verso il nostro tavolo, a cui sono già seduti Matt e Nicole. Sebbene April si ostini a prepararci il pranzo al sacco, compro lo stesso il cibo della mensa. Solo gli sfigati mangiano il pranzo al sacco, il mio l'ho mollato a Lip, che lo ha divorato durante letteratura.
Molliamo il vassoio sul tavolo e ci accomodiamo nel trambusto della stanza. Nicole è in modalità fidanzata psicopatica, da quando è apparsa Julianne, non fa altro che toccare Matt con ogni scusa possibile. Lo bacia più del necessario e gli sistema in continuazione la giacca. Sembra un furetto fatto di caffeina per endovena. Lip scrolla le spalle e mi scocca uno sguardo di intesa, prima di lanciarsi negli spaghetti al sugo.

“Com'è andata la giornata?” si informa Matt, allontanando delicatamente la mano della sua ragazza dai capelli.
“B-efeene” grugnisce Lip con la bocca piena. Matt scuote la testa e sospira dell'assenza di buone maniere del suo amico. Mi guarda “E tu capitano?”.
“Al solito, una palla” Non ho intenzione di condividere informazioni finché le orecchie di Nicole saranno a questo tavolo. Ty scivola tacitamente sulla sedia affianco alla mia e saluta tutti con un cenno della testa. Purtroppo, dietro di lui, appaiono Giselle e Savannah strizzate nelle loro divise da cheerleader blu e oro. “...e io gli faccio: ti conviene sparire prima che quella gonna diventi ancora più fuori moda di quello che già è” gracchia Satana sedendosi accanto a Nicole. Savannah scoppia in una risata così finta, che mi sorprende che Giselle non lo noti. Ma non lo fa e si gira verso Nicole “Tutto pronto per dopo, Niki?” esige sapere. Ho paura di sapere a cosa si riferisce.
“Tutto pronto” assicura.

“Avete le prove delle cheerleader?” chiede Matt, appoggiando un braccio sulle spalle della sua ragazza. Lei annuisce.

“Come se una di quelle vacche potesse veramente avere l'opportunità di entrare in squadra, sono provini fittizi. La coach Jacobs ci obbliga a farli, ma non dobbiamo per forza prendere qualcuno” Giselle sembra sinceramente compiaciuta.

“Pensavo che essere una vacca fosse un requisito base per entrare in squadra” commenta Lip, pulendosi il mento con il tovagliolo. Giselle si indurisce, mettendo in mostra la sua faccia da palo nel culo e incenerendolo. L'odio tra i due è nato durante la prima superiore. Lip era magro e basso, non ancora un puttaniere e Giselle era ai margini del cerchio sociale.
In quel periodo sono stati insieme per qualche mese, prima che Giselle, nella sua scalata verso la vetta sociale, non lo tradisse ripetutamente. Da quello che so, Lip si era innamorato di lei e lei lo masticato e risputato. Da allora si fa qualsiasi cosa abbia una gonna e respiri, ma soprattutto non si lascia coinvolgere in nessun tipo di sentimento. Passa il tempo ad allenarsi con i pesi ed a farsi tutte le ragazze di Orem, alcune più di una volta.
“Devi fare attenzione ad usare troppi steroidi che ti si avvizziscono le palle” squittisce.

“Ti posso assicurare che le mie palle stanno benissimo, chiedi a una ragazza qualunque”.

Giselle mugugna schifata, smettendo di dargli attenzioni e Lip si riconcentra sulla pasta, tronfio.

“Oh, non ci credo...” sospira Savannah, fissando un punto oltre le mie spalle “Si è presentata in mensa”. Tutto il nostro tavolo dirige lo sguardo verso il centro della mensa, dove Julianne, suo fratello e una ragazza stanno camminando.

Dopo le umiliazioni pubbliche, la mensa è il posto peggiore in cui una persona si possa trovare, non ci sono sorveglianti e Giselle possiede il corpo studentesco. La maggior parte della scuola la sta guardando, ma lei ascolta tranquilla le farneticazione piene di gesti di suo fratello e si trascina al fianco una ragazza riccia. Stringe il suo vassoio, su cui spunta dell'insalata, della frutta e una bottiglietta d'acqua. Mentre ci passa affianco, Matt stupidamente la ferma “Julie”.

Lei si blocca, se pur riluttante e si accosta al tavolo “Ehi, Matt”.

“Com'è stato il vostro primo giorno di scuola?” chiede ai gemelli. Nicole dilata le narici e stringe i denti. Il suo fastidio è alquanto evidente.
“Meraviglioso, ci sono dei corsi fantastici qui” esala Henry.

“Bene” taglia corto la sorella.

“Solo bene? Non hai trovato estasiante il caloroso benvenuto del corpo studentesco” ridacchia Giselle. Si guardano negli occhi, sfidandosi. Sembra di guardare lo scontro tra una anaconda e una tigre. “Di sicuro non è stato freddo” aggiunge Savannah ghignando. La sua battuta non si capisce e nessuno ride.

“Okay, se hai dispensato le tua battuta inconsistente, vado a mangiare prima di rischiari di vomitare” fa per muoversi, ma Gisella la trattiene ancora.
“Fai bene a scegliere l'insalata, le coscione non spariscono da sole”. Non sapendo come scalfirla, Giselle passa al fattore fisico. È la sagra dello stereotipo.
Julianne ridacchia “Visto i risultati su di te, non credo funzioni. Buon pranzo a tutti” si gira e si dirige verso un tavolo vuoto, graziandoci con la vista del suo spettacolare fondoschiena. Lip ride di gusto, osservando la faccia da palo nel culo di Giselle che sviluppa una nuova caratteristica, un terrificante tic all'occhio destro. 

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Capitolo 12
*** Julianne ***


Julianne

“È stato pazzeschissimo!” squittisce Dottie, mentre raggiungiamo il tavolo vuoto in fondo alla mensa. Trema come una foglia dall'agitazione e i riccioli biondi le danzano intorno al viso, fuori controllo. Ha gli occhi blu spalancati e luminosi, ha l'aria un po' stralunata. Da quello che mi ha raccontato durante algebra, Giselle e le sue amiche la prendono in giro dicendogli che assomiglia ad un alieno o qualcosa del genere. Dice che è a causa della pelle pallida, delle vene molto visibili e degli occhi enormi. Nel mio cervello gli alieni sono verdi, alti e con la testa enorme, nulla che si possa trovare su Dorothea.
“Nessuno ha mai lasciato senza una risposta decente Giselle. È un momento epico” gongola depositando il vassoio sul tavolo. Henry mi appoggia un mano sulla nuca “Stai bene?”.

Pur considerandomi di marmo, il commento sulle cosce non mi è semplicemente passato attraverso, ma sto bene. Annuisco e lui sorride “Okay, ti stavo raccontando...”. Henry riparte con il suo sproloquio sulla fantastica e stimolante giornata che ha passato, ma non riesco ad ascoltarlo. Da dove sono seduta, appositamente con le spalle verso il muro, riesco a vedere alla perfezione il tavolo di Matt. Giselle straparla alle sue amiche e i ragazzi parlottano tra loro, ridendo. C'è solo uno sguardo che si aggancia al mio: quello di Aaron. Resto impantanata nel verde dei suoi occhi e stregata dal modo in cui mi fissa, come se non riuscire a guardare altrove. Lo so perché non ci riesco nemmeno io.
Avevo pianificato di iscrivermi al corso di francese per principianti appositamente per non incontrare una faccia conosciuta, ma non ha funzionato. Nonostante tutto, il rovescio della situazione si è rilevato anche meglio del mio piano originale. È stato davvero bello parlare con lui lontano da il resto del mondo, come la sera della festa. L'ora di francese è stata la migliore dell'intera giornata, non voglio mentire, sentirlo incespicare e cercare di pronunciare le parole alla perfezione è stato adorabile e eccitante allo stesso tempo.

Forse mi sto ammalando.

Di sicuro mi serve una doccia fredda.

Magari due.

Magari una con lui.

No! Assolutamente no. Non ho intenzione di cadere in nessuno stereotipo, non se ne parla. Eppure lo sto ancora fissando. Vorrei non sentirmi così, non siamo fatti per poter stare insieme, nemmeno per sogno. I nostri genitori vivono insieme e molto probabilmente finiranno per sposarsi. Oltretutto, coesistiamo all'interno dell'habitat scolastico in categorie sociali che nemmeno si possono sfiorare. È inutile sperare nei miracoli, non si avverano mai.
“Terra chiama Jules!” Henry mi schiocca le dita davanti alla faccia, facendomi sobbalzare. “Ci sei?”

Smetto di guardare Aaron e metto a fuoco mio fratello.“Scusa, Hen. Stavo pensando ad una cosa. Dicevi?”.

Mi guarda scettico e si volta verso la direzione del mio sguardo “Più che a un cosa direi un qualcuno..”.

Dottie ridacchia nella sua pasta. Sbuffo “Cosa stavi dicendo?”.

“Prima che tentassi di spogliare qualcuno con lo sguardo...”

“Henry!”.

“...stavo dicendo che sono tremendamente indeciso su quale club pomeridiano scegliere. Ti stavo chiedendo un consiglio, ma a quanto pare sono sceso in graduatoria nelle tue priorità”.

Sotto il tavolo, gli tiro un calcio ben assestato sullo stinco “Sceglili a caso, come farò io”.

“I tuoi consigli sono sempre molto utili” brontola, massaggiandosi la gamba.

“Per tutta la prima settimana si può partecipare a tutti i club e a tutte le attività sportive, così si può decidere cosa scegliere” ci informa Dorothea “Provane qualcuno e vedi quale ti aggrada di più”.

“Ti ringrazio di cuore, mia nuova sorella putativa” sorride e le stringe la mano. Dottie arrossisce e ridacchia.

“Avrei dovuto mangiarti nell'utero” grugnisco addentando una forchettata di insalata. Henry mi fa la linguaccia e continua a sfogliare il libro delle regole.
Un mucchietto di ragazzi allampanati si avvicina al nostro tavolo “Henry Roux?” chiede quello in testa. Ha i capelli castani tagliati corti e gli occhi azzurri. Porta degli occhiali sottili e una camicia a quadretti rossi, sotto un maglioncino con un razzo.
“Si?” Henry sorride cordiale, io d'istinto mi irrigidisco.

“Mi chiamo Christopher Reed, sono il presidente del club di robotica e di scienze, siamo insieme in praticamente tutti i corsi avanzati” ha la voce stridula e continua ad asciugarsi la mano su i jeans.

“Sì, mi ricordo. È un piacere conoscerti” gli porge la mano e Christopher gliela stringe rapidamente.

“Abbiamo indagato su di te e ci farebbe molto piacere se partecipassi ai nostri club” fa un cenno verso i suoi amici “Stiamo andando nelle aule adesso, se ti va di venire con noi puoi dare un'occhiata”.

Henry esita e si volta a guardarmi indeciso. So cosa pensa, lo so sempre.

“Vai. Ci vediamo più tardi” lo rassicuro. So che non vuole lasciarmi da sola qui.

Es-tu sûre? Je peux rester( Sei sicura? Posso restare) ” So che lo farebbe, ma non voglio che non si faccia degli amici.

Allez! (Vai)”.
Mi scocca un bacio sulla testa, afferra il vassoio e segue i nerd fuori dalla mensa.

“Tuo fratello è davvero stupendo...” esala Dottie, osservando la schiena di Henry che si allontana. Ha le guance rosse e gli occhi luminosi. Vorrei poterle dire che spreca il suo tempo, ma Henry mi ha fatto promettere di appoggiare la sua bugia, quindi resto in silenzio e finisco il mio pranzo. “Aveva una ragazza in California?” Chiede lei tutto d'un fiato. Ignoro la sua domanda “Come sai che veniamo dalla California? Non mi sembra di avertelo detto”. La sua faccia raggiunge una nuova tonalità di rosso ma, prima che possa rispondere, una ragazza si butta sulla sedia affianco a lei. “Scusa Dots! Sono in ritardo, ma ho passato gli ultimi venti minuti a tentare di scollare la borsa dal banco di algebra” prende una sorsata dal succo di frutta e mi fissa “Perché è seduta con noi?”. I suoi occhi castani mi guardano in cagnesco attraverso la frangetta rosso sangue e sotto due dita di brillantini dorati. Indossa una maglia fatta a kimono color fuoco e, in quella che immagino sia una parrucca, porta dei bastoncini cinesi che le tengono le ciocche raccolte dietro la testa. So che fissare è da maleducati, ma non riesco a smettere di guardarla. Ha un aspetto davvero pazzesco.

“Pey, lei è Julianne, la nuova studentessa. Julianne, lei è Peyton Jackson, la mia migliore amica” bisbiglia Dottie a disagio.

“Sì, so chi è. Ti ho chiesto perché si siede con noi”.
Non avevo mai incontrato una persona più sul chi vive di me. È interessante. “Se non vuoi sederti qui, puoi anche andartene. Non mi sembra che ci sia scritto il tuo nome sul tavolo” ribatto.

“Sei qui da nemmeno un giorno e già credi di poter dare ordini a tutti? Credo che tu abbia sbagliato tavolo, sono sicura che alla cricca della Troia manchi una stronza” abbaia. Aggressiva, mi piace.

“Peyton!” squittisce la sua amica, con la faccia bordeaux.

“Ti avevo già detto di non raccogliere randagi, non ti si scollano più” la sgrida.

“Lascia stare Dottie, lei non ha fatto nulla”.

“Non chiamarla Dottie! E non parlare come se ci conoscessi, non sai un dannato cazzo di noi!” sbraita senza controllo. Ha l'aria di essere sull'orlo di una crisi isterica.

“Peyton...” sussurra Dottie, afferrandole la mano e stringendogliela. Peyton ha gli occhi lucidi, impugna la forchetta con forza e le trema il labbro inferiore. Ha l'aria esausta e credo di sapere perché. La sua borsa di stoffa intrecciata ha un buco sfilacciato e sporco di colla sul fondo, proprio dove deve essersi appiccicata al tavolo. È debilitante provare ad esprimere se stessi se si viene costantemente incoraggiati a non farlo.
Diversi bisbigli si levano intorno a noi, la nostra conversazione ha dato spettacolo.
“Pey...”.

“Lascia perdere...” la voce le si spezza. Si alza, spinge da una parte il vassoio, svuota la borsa e, solo con il contenuto, esce correndo dalla mensa. Dottie prontamente la segue, zigzagando tra i commenti e le risate.
Resto sola a fissare il buco nel cadavere della borsa. Sembra un guscio vuoto. Proprio come le persone come Giselle fanno sentire le loro vittime. Vorrei urlare o rompere qualcosa, ma non servirebbe a nulla. Perciò mi limito a sistemare i vassoi, raccogliere le mie cose, la borsa martoriata ed ad uscire dalla mensa.

 

 

 

Seduta sul pavimento del bagno delle ragazze, cerco maldestramente di rattoppare lo squarcio nell'animo di Peyton. E per animo intendo la sua borsa. È di un bel giallo brillante, ha uno strano uccello stampato sul davanti e numerose scritte fatte da Peyton sul didietro. Sono versi di canzoni, alcune le riconosco.

Dal portafoglio tiro fuori in set da viaggio per il cucito e mi metto al lavoro. Mia madre mi ha passato la bizzarra abitudine di portarmi sempre dietro ago, filo e qualche bottone, non sai mai cosa può succedere. Mi ha anche insegnato a cucire, anche se dopo che se ne è andata ho smesso di farlo. Però me la cavo ancora benino. Cerco di rattoppare lo strappo senza bucarmi le dita e senza macchiare la borsa di sangue. Alla fine, lo strappo è riparato e la borsa è di nuovo utile. Sembra un po' l'addome di un uomo sventrato, ma può andare.

Fuori dal bagno, mi metto alla ricerca di Dottie e Peyton. La maggior parte del corpo studentesco è ancora in mensa, quindi non sarà troppo difficile trovarle. Dopo eccessive rampe di scale e numerose porte aperte a vuoto, trovo le due ragazze nell'aula del giornalino scolastico. Sono sedute sul pavimento lucido, Dottie tiene la testa di Peyton in grembo e le accarezza la testa con dolcezza. “Lei non c'entrava nulla” le bisbiglia.

“Lo so” singhiozza Peyton.

“Hai visto la foto. È la nuova vittima di Giselle, non una sua amica”.

“Mi dispiace, ma non riesco a fidarmi di nessuno. Dopo Nicole, io...”.
Busso piano sul legno della porta e lei smette di parlare. Entrambe mi fissano mentre mi avvicino e deposito la borsa sul pavimento. Dottie sorride, osservando il rammendo con l'aria di chi sa di avere ragione. Peyton afferra la sacca e la scruta sorpresa.

“Mi dispiace per la tua borsa” mi volto e punto alla porta. Non ho energie da sprecare con qualcuno che non mi vuole, alla fine sto bene anche da sola.

“Aspetta” strepita Peyton, facendomi voltare “Mi dispiace, Julianne”. Si asciuga una lacrima, mettendosi a sedere diritta. “So di essermi sbagliata su di te. Da l'anno scorso non sono più nella pagina di Facebook della scuola, quindi non sapevo che fossi uno dei capri espiatori di Satana. Scusa se ti ho giudicata frettolosamente”.
So bene che l'attacco è la miglior difesa, uso anche io questo metodo “In ciò che sembriamo veniamo giudicati da tutti; in ciò che siamo da nessuno”.

Peyton sorride, mostrando un leggero spazietto tra gli incisivi “Friedrich Schiller”.

Nessuno capisce mai le citazione che faccio, sono sorpresa. Lei continua “Sei nel mio corso di letteratura e anche in quello di storia. Non ho mai visto il signor Ellingford proporre il giornalino scolastico a qualcuno che non sia un suo studente da parecchio” alza una mano indicando la stanza “Sono il capo redattore”.

Non so cosa dire. La mia fiducia nelle persone si è deteriorata negli anni e si è consumata, non sono molto incline alle seconde opportunità.
“Ricominciamo da capo?” mi porge la mano, visibilmente desolata. Capisco il suo estro creativo e capisco anche che è difficile sopravvivere nel mondo degli stronzi, perciò perché no.

Torno verso di loro, mi chino e le stringo la mano in segno di resa. Peyton sorride e Dottie squittisce compiaciuta “Sapevo che sareste andate d'accordo alla fine!”.

Peyton sorride e si sistema il trucco sbavato “Hai delle belle tette, Fanali” scherza, cercando di alleggerire la tensione.
Ridacchio “Lo so”.

Sospira, appoggiandosi le mani sul viso “Dio, non fa nemmeno ridere”.

“Credo sia invidiosa, le sue nemmeno rientrano in una taglia” suppone Dottie.
“Immagino di sì”.
La campanella suona facendo vibrare le pareti. Peyton si alza spolverandosi la gonna di jeans “È ora di mettersi al lavoro”. Gli studenti iniziano ad invadere la stanza e i computer.
“Ti va di fare il giro dei laboratori? Ti faccio da guida” si propone Dorothea.

Annuisco.
“Ci vediamo dopo, Pey”.
Ci fa un sorriso stanco e si mette a parlare con gli altri giornalisti.

 

Dottie e io passiamo il pomeriggio girando per le aule e osservando le attività pomeridiane. È sorprendente come in ogni stanza lei sappia chi ne è a capo e chi fa parte del club.
“Personalmente, ti sconsiglio le cheerleader e l'annuario. Sono il territorio di Giselle e delle sue amiche” mi informa sulle scale.

“Seguono tutte gli stessi club?”.

“Sì. Sono tutte e tre nelle cheerleader e nell'annuario. È un'imposizione che presumo arrivi da Giselle”.

“Triste” commento.

“Già, ma è un bene perché infettano solo due attività su cinquantotto” asserisce mentre entriamo nel club di scacchi. Immagino abbia ragione.
Le prime tappe del suo tour sono i club che a lei piacciono di più e quelli in cui è stata.

“Quest'anno sono nel club di matematica e nella squadra femminile di tennis” mi bisbiglia nell'aula di cinese. “Pey è nel giornalino scolastico e nella squadra di pallavolo”.

Ci sono così tante attività che è davvero difficile sceglierne una.

“Alla fine del trimestre puoi cambiare attività o decidere di restare”. Beh è già qualcosa.

Come ultima parte del tour di Dorothea, raggiungiamo l'esterno della struttura e mi mostra tutte le attività fisiche. Alla fine mi scorta fino ad una gradinata di metallo e ci sediamo sui sedili di plastica blu. Davanti a noi, un mare di ragazzi in divisa si riscalda sull'erba. “Questa è la parte che preferisco” sospira, quasi gemendo. “La squadra di lacrosse è il gruppo sportivo più importante della scuola, vincono sempre e sono la squadra del cuore del preside. Aaron è il capitano, il numero sedici”. Ha in tono di voce che uso io quando parlo di cioccolata. Il suo sguardo è fisso su un paio di spalle larghe che fendono l'aria in un giro di corsa di riscaldamento. Inquietantemente, riesco a riconoscerle anche io. Lo guarda come se fosse un dolcetto alla crema e un leggero sospetto mi solletica il cervello. “Sa che ti piace?” domando curiosa.
Dorothea arrossisce fino alle orecchie e dondola sul seggiolino blu “Oddio no!” squittisce nervosa “Non sa nemmeno che esisto...”.

“Perché non ti presenti?” la incoraggio.

Sobbalza “No! Insomma non sono assolutamente il suo tipo. Lui esce con le cheerleader e con le reginette di bellezza, io sono solo un puntino nel suo campo visivo” sussurra. Vorrei consolarla, ma non sono brava con gli incoraggiamenti e la motivazione, perciò le snocciolo un po' della mie esperienza passata “Ho imparato che se vuoi qualcosa veramente, un modo per ottenerlo lo trovi sempre”.
Dottie sospira e si lascia cadere contro lo schienale “Si dice in giro che abbia lasciato Savannah alla festa di venerdì e che sia in cerca di una nuova distrazione. Con lei c'era stato per parecchio tempo, più che con tutte le altre”.

“Le altre?”. Il sospetto che fosse un donnaiolo incallito mi aveva sfiorato la mente, ma speravo di sbagliarmi. “Beh, sì. Non sono state molte, non come Lip almeno, però le ragazze che morirebbero per lui sono più o meno tutte. Aaron Anderson si lascia dietro una lunga scia di cuori infranti”. Suppongo che in mezzo ci sia anche il suo. Dorothea scrolla le spalle e recupera la borsa “Devo andare al club di matematica ora, vuoi venire?”.
Preferirei amputarmi un piede “No, grazie. Penso che resterò ancora un po' qui”.

Dottie si alza “Okay, se hai bisogno sai dove sono” sorride e scende gli spalti facendo ondeggiare la matassa di riccioli.

Sono esausta, la giornata non è ancora finita e non vedo l'ora di andare a casa. Per quanto poco lo voglia ammettere, questa scuola non è affatto male. Sarebbe tutto perfetto se papà e Scarlett fossero qui con me.
Mi sdraio sulle sedie e chiudo gli occhi, lasciandomi cullare dal calore del sole. Se mi concentro mi sembra quasi di essere distesa sul tetto di casa con Scarlett, durante una qualsiasi giornata d'estate. Percepisco la sua risata scomposta, l'odore della crema solare alla vaniglia e lo scoppiettio delle bollicine di limonata contro i cubetti di ghiaccio.

“Ehi, principessa”.
Ignorando i comandi, il mio cuore esegue un carpiato al suono della sua voce. Sento il suo sguardo risalire i contorni del mio corpo e vorrei non trovarlo così appagante. Apro lentamente un occhio nella direzione della voce e la figura possente di Aaron mi fissa dal prato. È appoggiato con i gomiti alla barra di protezione di metallo delle gradinate. Ha i capelli arruffati e umidi, è sporco di erba mista a fango e gronda sudore come una cascata. Nonostante questo sento l'impulso primordiale di leccarlo. La divisa da lacrosse risalta alla perfezione il suo fisico massiccio.
“Non dovresti essere in qualche club da cervelloni a mostrare le tue sconfinate capacità intellettive” mi stuzzica, facendomi scivolare lo sguardo addosso.
“Quanti paroloni Anderson, sono stupita” allungo le braccia sopra la testa stiracchiandomi e lasciando che la maglia risalga oltre l'orlo dei jeans. “Come mai ti interessa?”.

Aaron sospira rumorosamente “Voglio solo assicurarmi che la nuova arrivata si goda al meglio ogni esperienza che la scuola può offrire”. Il suo sguardo rimane puntato sul brillantino che luccica sul mio ombelico scoperto “E poi il tuo pisolino di bellezza sta interferendo con l'allenamento della mia squadra”. Mi tiro su a sedere “Interferendo?”.

“Beh, sì. La tua bellezza e il tuo corpo sexy distraggono la mia squadra dal gioco. Lip si è fatto buttare a terra come un'idiota proprio due secondi fa”. Sposto lo sguardo oltre le sue spalle massicce e incontro gli sguardi divertiti di tutta la squadra che mi fissano. Stiamo dando spettacolo. Il gruppetto di avvenenti giocatori di lacrosse mi scruta curioso e alquanto interessato. I loro sguardi indagatori quasi mi distraggono dalle parole di Aaron. Scollo il sedere dal sedile di plastica e scendo i gradoni di metallo verso di lui “Aspetta un secondo” Mi fissa. “Erano dei complimenti quelli che le mie orecchie hanno appena percepito?”.
Aaron inclina la testa e sfoggia un sorrisetto sexy e ammiccante, condito da un leggero rossore alle guance. È la tipica espressione di chi sa di essere assolutamente irresistibile e, solo nella mia testa, sono pienamente d'accordo con lui.

“Sto solo costatando quello che vedono i miei occhi, principessa”. Immagino sia una tecnica ormai collaudata da anni, perché funziona alla perfezione, ma con il cavolo che glielo lascio credere.
Recupero gli occhiali da sole dalla borsa e li indosso “Immagino ti serva un buon oculista allora. Buon allenamento”. Raggiungo la scuola godendomi il suo sguardo che mi scalda la schiena.

 

 

Una volta nel complesso scolastico, mi lascio scivolare sul pavimento del corridoio e aspetto che la campanella termini il supplizio del primo giorno. Mentre spilucco un barretta alla frutta, una donna alta e formosa mi oscura dalla carezza del sole. “Julianne Roux?” Pronuncia il mio nome più come un'affermazione che come una domanda. “Chi vuole saperlo?” addento un altro pezzo di barretta.

I suoi occhi neri sorridono mentre si china verso di me “ Sono Jana Dawson, la consulente scolastica”. Ha i capelli neri raccolti in una coda alta e ordinata, il vestito di cotone blu le svolazza intorno alle cosce quando si muove. Come tutti gli psicologi che ho incontrato, trasuda sicurezza e tranquillità da ogni poro. “Non ho bisogno di una strizzacervelli”.

La dottoressa si inginocchia appoggiando il suo costoso vestito di marca sul linoleum sporco “Non sono una strizzacervelli”. Cerca il contatto visivo e rimane sempre ad una certa distanza, lasciandomi il mio spazio personale. Conosco tutte le mosse che potrebbe giocarsi per cercare un punto di contatto. “Io dico di sì, invece. Il termine consulente scolastica è un modo carino per far credere agli studenti che non stanno veramente andando in terapia, ma semplicemente fanno due chiacchiere con una professoressa. Scommetto che nel suo ufficio c'è una bella cornice in cui è deposto un diploma di Stanford o Yale che attesta i suoi studi in psichiatria e il fatto che lei è realmente un medico, ma siccome i suoi pazienti sono troppo concentrati su se stessi e su i propri problemi non lo notano finché non è troppo tardi e ormai hanno bisogno di lei”.

Inclina un sopracciglio e stringe le labbra.

“Mi sbaglio?” domando sarcastica “Vuole un consiglio su come avere a che fare con me? Non mi menta mai, non le darei più retta dopo”.

La dottoressa sospira, mostrandomi le fossette intorno al sorriso perfetto “Sono colpita, Julianne”.

“Non è la prima”.

“Va bene, allora vada per la completa sincerità. Sì, sono una psichiatra, mi sono laureata a Yale e nel mio ufficio c'è una bella cornice con il mio attestato. Il motivo per cui sono qua è che devi venire da me almeno una volta a settimana perché la tua iscrizione sia valida. Il preside non avrebbe mai accettato un ex-tossicodipendente con precedenti penali senza qualche compromesso”.

Le sue parole mi schiaffeggiano e sgonfiano l'arroganza che mi dava sicurezza. La fisso veramente negli occhi, sorpresa. Nessuno usa mai apertamente quella parola con me.

“Scommetto che è la prima volta che qualcuno ti definisce in questo modo davanti a te”.

Annuisco.

“Se vuoi la sincerità sarà quello che ti darò, nessun giro di parole, promesso. Tua madre ha fatto i salti mortali per farti entrare in questa scuola, le altre due in cui ha fatto domanda hanno rifiutato. Ha corrotto il preside Richmond con ogni mezzo possibile e alla fine lui ha ceduto con qualche condizione. Se vuoi portare avanti la tua istruzione immagino che dovrai avere a che fare con una strizzacervelli come me”.

“Va bene” borbotto. Non avevo idea che la mamma avesse dovuto fare tanta fatica per trovarmi una scuola “Ci sono altre condizioni?”.

“Vieni” si alza porgendomi una mano “Continuiamo a parlarne nel mio ufficio”.

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Capitolo 13
*** Julianne ***


Julianne

L'ufficio della dottoressa Dawson è esattamente identico a tutti quelli in cui sono già stata.

Mi fa accomodare su un terrificante divano di finta pelle marrone, mentre lei fruga negli archivi dietro la sua scrivania in legno scuro e cristallo. Tutto in questo ufficio grida tranquillità e pace. Ci sono piante verdissime, mobili tondeggianti e colori rassicuranti ovunque. Neanche l'ombra di farmaci, spigoli o oggetti contundenti. Sulla parete alle mie spalle, vicino all'aquario con i pesci esotici, è appeso il suo famoso diploma. Sul tavolino davanti a me ci sono fazzoletti e riviste con gattini e cuccioli vari, dietro di esso c'è una poltrona in tinta con il divano.

“Scusa per l'arredamento, ma sono vincolata da alcune regole di design” mi raggiunge posizionandosi sulla poltrona e stringendo un fascicolo spesso due dita con su scritto il mio nome. Ho sempre odiato quell'ammasso di carta, era sempre in mano a qualche dottore e nessuno me lo faceva mai leggere.
Si sistema una ciocca dietro l'orecchio e spalanca la cartella “Julianne Jade Roux, diciassette anni, nata a Parigi il 18 febbraio. Ricoverata presso l'istituto di disintossicazione Blue Water, a San Diego, a maggio di quest'anno dopo un'overdose di eroina”. Alza lo sguardo e mi osserva attraverso le lenti degli occhiali da lettura “Sono quattro mesi che sei pulita?”.

“124 giorni, 2 ore e 15 minuti” preciso “Al centro ti fanno tenere il conto per ricordarti i miglioramenti”.

“Secondo quello che c'è scritto qui la tua riabilitazione è stata una delle più rapide e efficaci, secondo i tuoi esami non ci sei più ricaduta”.

“Facevo pipì in un barattolo ogni giorno e esami del sangue ogni settimana, quindi direi che non c'era modo di sgarrare. Volevo uscire e l'unico modo per farlo era seguendo le loro regole, perciò”.

“Anche gli esami successivi alla tua dimissione sono risultati puliti e perfetti, nemmeno l'ombra di un antidolorifico” la luce che le si riflette nello sguardo è stranamente impressionata.

“Ho fatto una promessa e mantengo sempre le promesse” mi raggomitolo contro i cuscini.

“Hai una forza di volontà davvero impressionante, Julianne”.

“Non si fermi alla prima pagina, quelle successive le faranno cambiare idea. Se non sbaglio mi definiscono terrorizzata all'idea del rifiuto, instabile nelle relazioni a lungo termine, piena di sé, impulsiva, rancorosa verso la figura materna, autodistruttiva e determinata ai limiti della sconsideratezza”. Conosco il contenuto di quelle pagine a memoria.

La dottoressa mi osserva “Ti hanno lasciato leggere la cartella clinica?”.

“Oh, no. L'ho rubata durante la riabilitazione, mentre il custode dormiva. Ho scassinato l'armadietto dei fascicoli e ho fotocopiato il mio, poi l'ho rimesso a posto. Nessuno si è accorto di nulla”.

“Non mi sorprende affatto” chiude la cartella e la posa sul tavolo “ Se vuoi guardarci ancora dentro fai pure, non mi interessa cosa dicono di te gli altri dottori, noi cominciamo da zero. Il tuo fascicolo per me è vuoto, niente precedenti e niente dipendenza. Verrai da me ogni settimana quante volte vuoi, una minimo, e parliamo di qualsiasi cosa tu voglia”.

“Qualsiasi?”. Sono sorpresa, di solito voglio parlare tutti dei perché e dei miei sentimenti a riguardo.

“Qualsiasi. Della musica, del tempo, del tuo gatto. Tutto ciò che vuoi” assicura.

“Come sa che ho un gatto?”.

“Sono un'ottima osservatrice. E poi hai il fondo della borsa pieno di peli” sorride. “Siamo d'accordo?”.

Mi stringo nelle spalle “Okay”.

“Vuoi sapere quali sono le altre condizioni della tua iscrizione? Immagino che nessuno te le abbia dette”. Ha perfettamente ragione, perciò annuisco.

“Tolto il nostro appuntamento settimanale, il preside perquisirà il tuo armadietto ogni settimana. Dovrai evitare qualsiasi coinvolgimento con la polizia, se finirai in punizione per più di tre volte in un mese verrai cacciata e dovrai consegnare un campione di urine su richiesta mia o del preside Richmond”. Sento letteralmente la mascella sbattere contro il parquet dello studio. Mamma non ha accennato a nessuna di queste assurde richieste in tre giorni in cui siamo state nello stesso stato. Neanche fossi una pregiudicata! Beh, tecnicamente ho dei precedenti, ma sono archiviati e secretati. È come essere tornata nel centro per disintossicarsi, almeno lì c'era la piscina e la compagnia era gradevole.

“E quando pensavano di condividere con me questi piccoli dettagli?” mi agito sul divano.

“Tua madre ha pensato che sarebbe stato meglio che fossi stata io a dirti delle condizioni” tenta di far sembrare April una madre decente.“ Senti, Julianne, ci sono solo tre scuole superiori ad Orem, se tua madre non avesse accettato questo compromesso non avresti potuto frequentare e so che ti avrebbe dato fastidio”. Vorrei contraddirla o sbuffare sonoramente come una bambina, ma ha perfettamente ragione. Devo solo ingoiare questa amara pillola e stare alle loro regole. “Sì, va bene” borbotto fissando il cielo oltre le sue spalle. Questo però non significa che non posso avercela con la donna che mi ha generata.

“Ci restano ancora quindici minuti, vuoi parlare di qualcosa in particolare?” domanda sistemandosi meglio sulla poltrona. Porto le ginocchia al petto e faccio l'unica cosa che so fare quando qualcosa mi turba, mi richiudo in me stessa. La Dawson prova a parlare di qualsiasi cosa, ma senza successo. Rimango incatenata al mio orgoglio e alla testardaggine, chiudendola fuori dalla mia testa. Allo scadere dei quindici minuti mi lascia andare con un sospiro, vorrei dirle che non è colpa sua se mia madre ha la capacità innata di deludermi.
Esco dalla stanza senza salutare e mi chiudo la porta alle spalle. Nel corridoio ancora vuoto cammino verso l'uscita, diretta al parcheggio. Aspetto Aaron alla sua macchina e conto i minuti che mi separano dal mio letto e dalla mia meritata solitudine. Quando gli studenti iniziano a sgorgare fuori dall'edificio, il cielo inizia a scurirsi e l'azzurro viene sostituito da una matassa di minacciose nuvole grigie.
Aaron, Henry e Andrew raggiungono la macchina e finalmente possiamo lasciare il complesso scolastico. Mio fratello mi tartassa di informazioni riguardanti il club di scienze e di matematica, mentre Aaron guida e Andrew riprende il cielo che si prepara ad un temporale. “Jules stai bene? Sei più silenziosa del solito” la mano di Henry mi sfiorala spalla e mi scalda la pelle. Annuisco silenziosamente e fisso la strada finché non vedo spuntare la nostra via. Parcheggiati, mi lancio fuori dalla macchina e mi rifugio in casa prima che la pioggia possa toccarmi. Entrando nel soggiorno c'è odore di biscotti appena sfornati e di biancheria pulita. Mamma balza in piedi dal divano e mi viene incontro “Amore! Com'è andato il primo giorno di scuola?”. È sporca di farina in faccia e porta il suo ridicolo grembiule da mamma-casalinga. Vorrei vomitare. La ignoro e punto alle scale. Sento la porta aprirsi alle mie spalle e la voce di Henry che si scusa da parte mia. Raggiungo la mia stanza e mi ci chiudo dentro, lasciando fuori tutto il resto. Mi raggomitolo sulla moquette e ascolto il rumore della pioggia, finché il cuore smette di rimbombarmi nel petto e il fiato non mi torna nei polmoni.

Quando la terra smette di tremarmi sotto i piedi, mi alzo e mi infilo nei vestiti più comodi che trovo, mi butto sul letto con Kafka e chiamo Scar su Skype.

“Ecco la migliore amica del mondo!” trilla non appena si apre il collegamento. “Com'è andata la giornata della mia piccola Julie?”.

“Come sei pimpante, cosa hai combinato?” ignoro la sua domanda e mi concentro su di lei.

“Oggi ho conosciuto un ragazzo bellissimo! Si è appena trasferito in California, dovresti vedere che figo! Gli ho scattato una foto di nascosto, ora te la mando!” trilla agitando la chioma porpora.

Sul cellulare mi compare la foto sgranata di un ragazzo biondo di spalle. “Scar non si vede nulla da questa foto”.

“L'ho fatta di fretta, domani gliene faccio altre. Comunque guarda che spalle” mi sbatte davanti il suo telefono “Si chiama Lucas, arriva da New York. Lo hanno messo in banco con me a storia!” sembra sull'orlo di una crisi emotiva.

“Ha davvero...” Non so che dire “...delle belle spalle” commento.

“Vero? Sono innamorata” esalata abbassando le palpebre. Scuoto la testa “Vi conosce da si e no un giorno!”.

“Quando è amore a prima vista lo sai. È una sensazione pazzesca che ti prende lo stomaco, il petto, la testa...” cinguetta fissando la foto sfuocata del suo nuovo amore.

“Sembrano terrificante”.

Scar sbuffa “Lascia perdere, è impossibile spiegare l'amore ad una che non ci crede neanche se lo vede”.

“Quando vedrò veramente l'amore, sarai la prima a saperlo”.

“Ottimo” sorride “Allora il tuo primo giorno?”.

Il buonumore è tornato e sono pronta per raccontarle tutto. Le faccio il resoconto della giornata e verso l'ora di cena ci salutiamo. Rimango sdraiata con Kafka finché la porta del bagno non cigola e una testolina scura fa capolino oltre lo stipite. “È pronta la cena” gracchia Liv stringendo il pomello.

“Non ho fame” brontolo nel tentativo di cacciarla. Aggrotta la fronte e zampetta incerta nella stanza. Lentamente si arrampica sul mio letto. La gonna a paillettes viola fruscia quando si siede difronte a me tra le coperte. Si china in avanti e allunga una manina sporca di pennarelli facendomi, indietreggiare. Mi posa le dita sulla fronte e mi fissa con i suoi occhioni azzurri. “Non sei calda, non hai la febbre”.

“Sono stanca, non ho voglia di mangiare” provo ad allontanarla, ma lei si avvicina ancora. Mi prende il viso tra le mani e mi scruta concentrata “Non hai l'aspetto da malata”.

“Esiste un aspetto classico da malata?” domando.

“Non sei pallida o verde, non sudi e non hai il naso che cola. No, non sei malata” afferma.

“Resta il fatto che non ho fame”.

“Bisogna sempre mangiare, se no finisci per ammalarti. April ha fatto la pizza” si lecca e baffi e sorride. Un miagolio indispettito di Kafka attira la sua attenzione, distraendola dal suo ruolo di medico. Lo guarda in adorazione e allunga una mano per accarezzarlo. “Posso dargli da mangiare?” chiede speranzosa. Il suo faccino dolce scalfisce la corazza da mostro indisponente e annuisco. “Fantastiglioso!” trilla, mi prende per mano tirandomi via dal letto. In qualche modo riesce a trascinarmi verso il piano terra e quando il mio naso avverte l'odore della pizza fatta in casa, è troppo tardi.


Mangio la mia fetta ignorando qualsiasi voce e tentativo di conversazione, specialmente quelli della mamma. A cena finita, Liv riempie la ciotola di Kafka di tonno in scatola e, con mio incredibile piacere, scopro che Henry ed io siamo ufficialmente integrati nel giro dei lavori domestici. Il turno di stasera dei lavapiatti è diviso tra me e Aaron.
Mi vengono porti dei guanti di plastica fucsia e una spugna da cucina a forma di coniglietto. Fisso il lavabo carico di stoviglie nella speranza che si smaterializzino e mentalmente maledico l'ideatore delle faccende. La spalla di Aaron mi sfiora quando mi si piazza vicino con uno strofinaccio arancione sulla spalla. “Che dici principessa, tu lavi e io asciugo?”. Ottimo.

 

Mi ritrovo così con l'acqua fino ai gomiti e a scrostare residui di cibo dai piatti con una spugnetta per bambini.

“Avanti, principessa, perché quel muso lungo?” ridacchia Aaron appoggiato al bancone alle nostre spalle. Per il momento ho lavorato solo io, lui sta lì in tutta la tua bellezza a fissarmi mentre strofino nell'acqua putrida.

“Potresti anche fare finta di fare qualcosa. Lo strofinaccio che hai sulla spalla lo hai intenzione di usare o è solo una nuova moda che stai provando a lanciare?” gracchio grattando una teglia.

“Perché? Sta funzionando?” ride di gusto e si sistema la chioma scura come un modello. Sbuffo sbattendo con un po' troppa forza una scodella. Mi infila un dito tra le costole facendomi contorcere “Sto scherzando, dolcezza, rilassati”.

“Mi rilasserò quando vedrò il fondo del lavandino”.

“Lo stai facendo male, non riuscirai a finire velocemente se usi la spugnetta dal lato sbagliato” afferma l'esperto di piatti. In un nano-secondo si sistema dietro di me, la sua mano mi scivola lungo il braccio verso il guanto e posiziona il coniglietto nel verso giusto. La sua figura possente domina il mio spazio personale. Il suo corpo aderisce perfettamente al mio. Il mento mi sfiora i capelli, procurandomi brividi lungo tutta la spina dorsale. Sento ogni suo singolo muscolo appoggiato contro di me e il suo profumo mi avvolge, interferendo con il collegamento dei miei neuroni. Il cuore mi galoppa nel petto senza controllo, chiudo la bocca nel tentativo di celare l'iperventilazione. La sua mano sinistra mi si posa sul fianco e attraverso la maglietta sento la pressione dei suoi polpastrelli contro la pelle.
“Devi grattare contro il senso della pentola...” mormora roco, guidandomi nel movimento corretto. Non avevo idea che il lavaggio dei piatti potesse essere così eccitante. L'aria intorno a noi si condensa, caricandosi elettricamente. C'è una strana attrazione, quasi magnetica. È forte, bollente e impossibile da contrastare, come se fossimo fatti per essere attaccati.
Molliamo contemporaneamente la spugnetta e Aaron mi fa voltare, spingendomi contro il lavabo. Devo indietreggiare, ma non posso, sono bloccata senza vie di fuga. Non riesco a sfuggire alla carica che si è instaurata tra noi.
Scorgo ogni singolo muscolo sotto la t-shirt bianca, vorrei infilarci sotto le mani e toccare ogni curva e avvallamento. I suoi occhi incatenato i miei e non riesco più a guardare altrove. So che tutto questo non va bene, ma non riesco a resistere.
China la testa, concentrato sulle mie labbra, la bocca a pochi millimetri dalla mia.

Sono ipnotizzata.

Dal velo di barba che gli ricopre il mento.

Dalle labbra carnose.

Dalla sfumatura verde dei suoi occhi.

Un bacio non è poi la fine del mondo, vero? Insomma, non mi sto arrendendo ai suoi poteri da essere super sexy, è una mia decisione. Sono io che controllo la situazione.
Solleva una mano e la posa sulla mia guancia. Rabbrividisco.

“Julianne...” ringhia. È la prima volta che lo sento dire il mio nome e mi piace da impazzire.

Gli afferro il viso e spingo le sue labbra sulle mie, baciandolo come se fossi posseduta. Geme contro la mia bocca e mi fa scivolare le mani lungo i fianchi, afferrandomi il sedere. Non riesco a pensare ad altro che al suo corpo premuto contro il mio e al battito incontrollabile del mio cuore.

Con un movimento fluido mi tira su e mi fa sedere sul bordo del lavabo, posizionandosi in mezzo alle mie gambe.

Sposa l'attenzione della sua bocca sul mio collo e infila lentamente le mani sotto il bordo della t-shirt, bruciandomi la pelle. Mi aggrappo alle sue spalle larghe, incapace di fermare tutto questo.

Risale con i baci fino alle mie labbra e ci si rituffa, facendomi gemere. Lo desidero così tanto che fa male, e lui lo sa. Vorrei che non smettesse mai, ma naturalmente non vai mai nulla nel verso giusto.

“Anderson!” abbaia una voce dall'ingresso della casa. Aaron si scosta così velocemente che mi sorprende che non lasci i segni sul pavimento. Si allontana il più possibile da me, lasciandomi infreddolita e con le labbra socchiuse. Scendo dal lavabo, ricaccio in gola un lamento e mi rimetto a lavare i piatti. Gli amici di Aaron entrano in cucina con la solita sicurezza e portando rumore. Nascondo il viso arrossato dietro i capelli e fisso l'acqua cercando di sparire.
“Aaron” ruggisce Lip, dandogli una pacca sulla schiena “Sei pronto per le prove?”. La sua attenzione si catalizza successivamente su di me, come sempre. “Ehi, bambola, sempre in cucina ti trovo”. Sono ancora sottosopra e non gli do retta, fisso l'acqua in cerca di una scialuppa di salvataggio. Matt si avvicina e mi bacia sulla tempia “Hai bisogno d'aiuto con i piatti, Julie?”. Sorpresa, sobbalzo leggermente di lato.
Prima che possa dargli una risposta sensata, Aaron si intromette. “No, Matt, non ha bisogno del tuo aiuto. Andiamo a provare”.
Matt aspetta comunque una mia risposta, perciò mi costringo a far uscire qualche sillaba dalla gola “No, vai pure” bofonchio roca. Loro spariscono in garage, lasciandomi sola con il miscuglio di eccitazione e delusione che mi si rimescola nell'addome.

Finito il lavaggio dei piatti, mi nascondo in camera sperando che la notte arrivi presto e che porti consiglio. Mi sdraio sotto la finestra e ascolto Aaron cantare,immaginando cosa sarebbe potuto succedere se non fossimo stati interrotti.

 

 

La mattina seguente mi ritrovo sdraiata nello stesso punto e nella stessa pozione. Prevedibilmente, la notte non ha aiutato a capire nulla, pertanto mi alzo e mi trascino nel bagno. Mi rendo presentabile e scendo a in cerca di caffeina e cibo. Il rifornimento di energia procede senza intoppi, incontro solo Cole seduto al bancone della cucina che divora ciambelle glassate. Henry entra in cucina quando sono ormai sazia. “Buongiorno a tutti” cinguetta. Cole lo saluta con una cenno della mano e poi sparisce verso camera sua. Henry si versa una tazza di tè e poi mi guarda radioso. Mi scruta attentamente e si acciglia “Cosa hai fatto?” chiede sospettoso.
Infilo il naso nel caffè, guadagnando tempo. Lui presumibilmente se ne accorge “Stai tergiversando! Jules! Cosa hai combinato?”.

“Smettila!” gli tiro la carta del muffin “In camera mia, tra cinque minuti”.

Invece di aspettare, mi segue con la sua tazza di tè e una ciambella, si siede sul letto e aspetta. Inizio ad andare avanti e indietro lungo il perimetro della stanza e a mordicchiarmi il mignolo.
Lui sbuffa “Hai intenzione di creare un tracciato, oppure mi dici quello che succede? Se per caso sei ricaduta...”

“No! Mio Dio, quanto sei noioso, non gira tutto intorno alla droga” brontolo.

“Allora cosa hai fatto?” addenta la ciambella.

“Ieri sera stavo lavando i piatti con Aaron...” comincio.

“Si...?” mi imbecca.

“E secondo lui lo stavo facendo nel modo sbagliato, allora mi ha afferrata e mi ha toccata. In qualche modo mi sono ritrovata schiacciata tra il suo corpo e il bancone, e lui...”.
Il sorriso sulla faccia di Henry si allarga “Sì?”.

“E lui si è chinato come per baciarmi e io volevo che mi baciasse, non hai idea di quanto lo volessi in quel momento...”.

“Si!” strilla.

“Allora l'ho baciato e lui ha ricambiato, e mi sono ritrovata seduta sul lavandino con lui tra le gambe mentre mi baciava il collo...”.

“Si!”.

“E quando tutto stava andando nel verso giusto, sono arrivati i suoi amici e ci siamo allontanati”.

“No!” guaisce. “E poi?”.

“E poi se ne è andato e io sono rimasta lì come una scema. Poi però mi sono resa conto che sarebbe stato un'errore madornale e che la situazione si sarebbe complicata. E non ho bisogno di ulteriori complicazioni nella mia vita”.

“No!” strilla facendo ondeggiare il tè “Non è un errore madornale! Sarebbe una cosa meravigliosa! Una storia alla Romeo e Giulietta ai tempi moderni. Sareste così belli insieme” mugola.

Gli schiocco le dita davanti al naso “Pronto? Cerco mio fratello, quello coscienzioso e rispettoso delle regole. Quello che sa sempre cosa è giusto e cosa no. Sai dove posso trovarlo?”.

“Smettila con le regole, non le hai mai seguite in vita tua, perché cominciare adesso?”.

“Guarda dove mi ha portata quello stile di vita! Vengo ammessa in una scuola solo se sono disposta a dare la mia pipì ogni volta che qualcuno lo chiede”.

Henry scuote la testa “Cosa?”.
Gli faccio un veloce reso conto del colloquio con la dottoressa Dawson. Henry vuota la sua tazza e sospira “Ecco perché eri così strana ieri” si gratta il mento “Era scontato che ci sarebbero state delle condizioni, in fin dei conti sei schedata negli archivi della polizia”.

“Sono schedata come minore e come testimone collaborativo” preciso.

“In ogni caso, era ovvio che in qualche modo ti avrebbero tenuta d'occhio. Però alla fine non mi sembrano delle condizioni impraticabili, devi solo restare pulita e fuori dai guai” finisce la sua ciambella e posa la tazza vuota sul mio comodino. Si pulisce il mento con il dorso della mano “Aspetta un secondo. È per la storia di Aaron che sei vestita così carina?”.

Abbasso lo sguardo sugli abiti che indosso. Una gonna di jeans, una maglia nera dei Guns 'N Roses e una camicia extra-large a quadretti rossi. Il mio abbigliamento è normale.

“Sono vestita come tutti i giorni” mi difendo. Non mi vesto carina per un ragazzo, non esiste.

“Lo sai di indossare una gonna, vero?” ridacchia.

“Sai che c'è? Ora me la tolgo” infilo le dita nei passanti della cintura.

Henry balza in piedi, bloccandomi “Non se ne parla, stai benissimo. Ignorami e andiamo a scuola, forza”.
Mi spintona fuori dalla stanza e contro il corpo statuario della mamma. Ci fissa entrambi leggermente rossa in viso, ma perfettamente vestita e truccata. “Ecco i miei adorati figli”.

“Cosa fai ora origli le nostre conversazioni attraverso il buco della serratura?” domando velenosa. Henry mi molla una gomitata “Puoi dire ad Aaron che siamo pronti per uscire”.

April aggrotta la fronte, completamente priva di rughe “Oh, non vi ha avvisati? Oggi è dovuto uscire prima per qualche progetto scolastico, vi porto io a scuola”.

La scuola è cominciata da un giorno. Non hanno assegnato nessun progetto scolastico. È un modo per evitarmi? Si capisce lontano un miglio che è una balla enorme, ma lei sembra convinta e sicura. “Non siete contenti?”.

“Estasiati” mugugno.

 

Il viaggio in macchina con April è anche più patetico e ridicolo di quanto potessi aspettarmi. Henry mi ha incastrata per farmi sedere davanti e la mamma continua a straparlare e a cercare di sfiorarmi.

Vorrei incollarle le mani al volante con la super colla. È ovvio che avrei preferito un'imbarazzante viaggio in macchina con Aaron, piuttosto che ascoltare i vaneggiamenti di una finta madre. Almeno avrei potuto osservarlo guidare attraverso lo specchietto retrovisore.

“Zuccherino” mi appoggia la mano sul gomito e io mi ritraggo di scatto “Hai avuto modo di parlare con la signorina Dawson?” chiede titubante.

Mi sorprende che abbia sollevato lei l'argomento, stavo aspettando il momento giusto per farle una scenata. La macchina non è il posto migliore, non ho testimoni e nessuna via di fuga.

“Intendi la strizzacervelli della scuola?”.

“È una consulente scolastica...”.

“No, è una psichiatra. È diverso”. Immagino le piaccia soffrire, perché sta punzecchiando la bestia che sto cercando di far assopire. “Comunque sì, madre, l'ho conosciuta. Abbiamo parlato di una sacco di dettagli interessanti”.

“Davvero? E quali?” sterza a sinistra e sorride radiosa, come se non notasse minimamente il mio sarcasmo. Appoggio un dito sul mento “Mmmh vediamo...Oh, sì, magari il fatto che devo andare da lei ogni settimana, oppure che devo subire perquisizioni nel mio armadietto più di ogni altro studente della scuola, oppure la mia preferita: il fatto che devo fare pipì a comando ogni volta che qualcuno ha solo il sentore che io abbia ricominciato a farmi”. Frena al semaforo rosso.

Per la prima volta, la sua espressione solare si incrina “È solo una precauzione temporanea, amore. Una volta che la dottoressa sarà sicura che sei completamente...”.

“Sono completamente pulita!” strillo, facendola sbandare leggermente lungo la carreggiata. “Quattro mesi! Neanche un fottutissimo antidolorifico per i dolori da ciclo. Nemmeno un'aspirina per l'influenza! Ma tu non lo puoi sapere perché non eri lì. Non hai la più vaga idea di cosa io abbia passato durante la disintossicazione. Il vomito, l'insonnia, il dolore ovunque, le allucinazioni e i tremori. Non ci sei stata e non hai nemmeno le palle per dirmi le cose come stanno!”. Spalanco la portiera e salto giù dalla sua stupida macchina, allontanandomi da lei e dalla sua raccapricciante espressione ferita. Sento la voce di Henry alle mie spalle, ma continuo a camminare lungo la strada sotto il leggero velo di pioggia. Le goccioline si condensano sui capelli inumidendoli e l'aria fredda mi vibra attraverso le ossa. Vedo il profilo dell'edificio scolastico in lontananza e gli corro incontro finché non mi ritrovo ansimante nel parcheggio. Sento i passi di Henry alle spalle, boccheggia e cerca di riprendere fiato. “Jules...” esala. Tra le macchine già parcheggiate scorgo la Boss di Aaron e gli vado incontro, non sicura della ragione. Non so cosa voglio da lui o cosa mi aspetto di trovare, ma l'unica cosa che voglio in questo momento è distrarmi.
Raggiungo il lunotto posteriore e intravedo due figure sedute sui sedili anteriori. Il sistema di bloccaggio delle mie gambe mi inchioda le vans sull'asfalto. Vorrei non poter vedere attraverso le gocce della pioggia. Vorrei non poter vedere attraverso il vetro leggermente oscurato. Vorrei non essermi diretta da questa parte. Perché allora non mi sentire così delusa da vedere Aaron con Savannah sulle ginocchia, intenta a frugargli tra le tonsille con la lingua.
La delusione è un sentimento a cui ormai ho fatto il callo, perciò perché mi brucia ancora così tanto?

Giusto. Ho scordato la prima regola. Non abbassare mai la guardia.
Henry mi circonda con un braccio “Jules...”.
Me lo scrollo di dosso e parto diretta verso l'ingresso della scuola. “Andiamo in classe”.

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Capitolo 14
*** Aaron ***


Aaron

 

Va sempre tutto nel verso sbagliato.

Non sono catastrofico, semplicemente molto realistico. La maggior parte delle volte che ho in mente un piano da seguire, finisco sempre per commettere una stronzata madornale. Me ne rendo tristemente conto quando la borsa di Julianne sbatte contro la portiera, mentre sfreccia come un missile di fianco alla mia auto. Non le vedo la faccia, ma sono sicuro che non ci troverei stampato sopra un bel sorriso.

Io?

Io sono nella merda.

Ci sono finito nell'esatto istante in cui ho permesso a Savannah di salire su Scarlett per parlare. Il suo parlare è finito per diventare lei che mi monta in braccio, neanche fossi un toro, e mi infila la lingua in bocca come se stessimo ancora insieme. Da bravo scemo quale sono, per un secondo mi sono lasciato distrarre e ho perso di vista il mio obbiettivo. In quel secondo ho visto il riflesso dei contorni di Julianne nello specchietto e ho capito di essermi infilato nella merda.
“Ma guarda tu che stronza” commenta Savannah ancora seduta sul mio pacco. La faccio scivolare il più lontano possibile da me e cerco di uscire dalla macchina.
“Aaron, aspetta” mi artiglia un braccio “So che le cose tra noi non sono andate nel verso giusto, ma non dobbiamo arrenderci alla prima difficoltà”. Tenta di salirmi di nuovo addosso “Ricordati cosa sappiamo fare noi due insieme” miagola.

La afferro per le braccia, cercando un po' di spazio “Mi dispiace, Savannah, ma non esiste nessun noi”. Cerca di nascondere l'irritazione e ostenta un sorriso “Tu pensaci”. Mi scocca una bacio carico di rossetto sulla guancia e finalmente esce dalla mia macchina.

Quando entro nell'edificio sono ormai quasi in ritardo e corro in classe prima di finire in punizione. Entro nell'aula di fisica con una sgommata e mi lancio nel primo banco vuoto che trovo. Mi rendo conto una volta seduto che al mio fianco c'è Henry. Siede rigido e non alza lo sguardo dal suo libro, pur sapendo che sono accanto a lui.

“Ehi, Henry...” esalo. Il professor Chase entra in classe interrompendo qualsiasi tipo di conversazione.
A lezione terminata lo blocco prima che possa andarsene “Henry”.

“Senti non mi interessa con chi ti sollazzi nel tempo libero, ma non ti avvicinare in nessun modo a mia sorella se non intendi restare. Quando nostra madre è andata via Julianne si è opacizzata e non è più stata la stessa. Non lascerò che accada di nuovo, quindi pensa bene a quello che fai”. Per la prima volta da quando l'ho conosciuto mi sembra imponente e minaccioso. Stringe i denti con forza e i suoi occhi, sempre cordiali e sorridenti, sono ombrosi e scuri come quelli di Julianne.

Non mi lascia replicare e se ne va senza aggiungere altro.
Mi trascino verso l'aula successiva e una volta raggiunta mi rendo conto che è quella di francese. Sulla soglia riesco a scorgere Julianne seduta al nostro banco. Disegna concentrata su un blocco per appunti e si rigira nel dito una ciocca scura. La raggiungo il più lentamente possibile, cercando di avvertirla della mia presenza prima di sedermi. Non alza mai lo sguardo verso di me, ma so che sa che sono qui. Stringe la matita con più forza e si morde l'interno della guancia. Le siedo accanto e prendo aria, pronto al mio discorso di scuse. “Mi dispiace per ieri sera e per stamattina”. Lei non si scompone. “Mi sono comportato da stronzo e vorrei spiegarti cos'è successo, non sono un doppiogiochista o qualcosa del genere. Io volevo solo...”

“Non so a cosa tu ti riferisca” dice piatta.

Aggrotto la fronte confuso e abbasso la voce. “Ieri sera mentre lavavamo i piatti...”.

“Non so di cosa parli”. Chiude il quaderno e infila le sue cose nella borsa.
La signora Bernard fa il suo ingresso in classe “Bonjour étudiants”.
Julianne si alza e raggiunge la cattedra. Sussurra qualcosa in francese alla professoressa e lei annuisce indicandole la porta. Julianne esce dall'aula lasciandomi solo e confuso.

Forse è andata in bagno.

Anche se dopo un quarto d'ora sono ormai certo che non torni più, ogni volta che dei passi risuonano nel corridoio spero che la porta si apra e lei torni a sedersi accanto a me.

Finita l'ora, Julianne non è tornata e io ho finito per fare un casino assurdo con le coniugazioni dei verbi. Non ha ascoltato nulla di quello che cercavo di dirle. Ha fatto finta che fosse tutto normale e che non ci fossimo divorati a vicenda contro il lavandino della cucina. Non ci credo che non ha sentito quello che ho sentito io quando ci siamo toccati. Un'energia indomabile a cui non avevo intenzione di resistere.
Il tempismo dei miei amici ha rovinato l'attimo e Savannah ha fatto il resto. Devo rimediare. Assolutamente.

Cammino verso trigonometria scrutando la folla nel tentativo di scorgerla. Anche se brilla di luce propria, non riesco a vederla nel mare di gente. Mi rifugio in classe e la lezione passa troppo lentamente. Corro verso biologia e occupo un banco vuoto, sperando che resti solo il posto libero accanto a me. Matt e Nicole entrano in classe mano nella mano e si siedono davanti a me, come sempre. Julianne fa il suo ingresso con i libri sotto il braccio e rigirando l'orario sotto sopra, tutta concentrata. Il giorno prima, durante francese, ho sbirciato il suo orario e so che abbiamo in comune più corsi di quanto creda. Non si liberà così facilmente di me.

Nicole sbuffa e si lamenta silenziosamente. Matt balza in piedi e le va incontro. “Julie” la chiama. Lei alza i suoi bellissimi occhi indefiniti e gli sorride. Sento l'impulso irrefrenabile di colpire il mio migliore amico proprio in faccia. “Vieni a sederti con noi. Io mi siedo vicino ad Aaron, tu puoi stare accanto a Nicole, così fate amicizia”.

“No” rispondiamo all'unisono Nicole ed io. Lei arrossisce, io inchiodo Julianne con lo sguardo. “Puoi sederti vicino a me” do una pacca sulla sedia accanto alla mia. Lei mi fissa con il fuoco nello sguardo. Se potesse mi avrebbe già incenerito.
Valuta i pro e i contro di entrambe le situazioni e alla fine si lascia cadere vicino a me con un sospiro. Appoggia i libri sul tavolo e nasconde il viso dietro una cascata di capelli scuri.
Non le basteranno certo per tenermi lontano.

“Allora...” comincio. Mi pianta l'indicine davanti alla faccia “Sai, non mi piace stare seduta vicino a chi prova a fare conversazione durante la lezione” si alza “Credo che cercherò un posto...”.

“Oh, no, no, no” la trascino con di nuovo giù “Starò muto come un pesce, parola di scout” Chiudo una serratura immaginaria lungo le labbra e lancio la finta chiave oltre le sue spalle. Julianne alza gli occhi al cielo e scrolla le spalle. Sistema i libri sul tavolo e apre il quaderno degli schizzi.

“Quindi...” ricomincio. Le mi guarda male. “La lezione non è ancora iniziata”.

Riporta l'attenzione sui suoi disegni, ma non obietta e lo prendo come un invito a continuare.

“Hai scelto a quali club iscriverti?” domando. Di certo non parleremo di ieri sera mentre le orecchie di Nicole sono nella stanza.

“No” grugnisce. Traccia con la penna i contorni di un viso senza identità.

“Hai almeno qualche idea su cosa fare?”.

Serra la mascella. “No”.

“Sei di cattivo umore, Julie?” chiede Matt voltandosi verso di lei.
Lei gli regala un sorriso da capogiro, che fa innervosire me e sbuffare Nicole. “Assolutamente no, è solo che non ho ancora la minima idea di cosa fare”. Ho capito il tuo gioco, principessa.

Lui ricambia il sorriso “Potresti entrare nella banda. Suoni ancora il violino, vero?”.

“Sì, la banda mi sembra perfetta per te” cinguetta Nicole, con un luccichio perverso nello sguardo. È un modo velato per insultarla, ormai non prova più nemmeno a fingere. Solo gli sfigati della scuola sono nella banda. E poi non ce la vedo Julianne nella divisa oro e blu della banda, con tutti quegli alamari e con le spalline rigide.

Julianne la guarda con indifferenza e con un pizzico di fastidio. Come se guardasse un moscerino nella zuppa di carote. “Sì, lo suono il violino. Ma n, non voglio fare parte di nessun tipo di gruppo. Il lavoro di squadra non è il mio forte”.

“Allora ti sconsiglio le cheerleader” si affretta a dire Nicole. Il solo pensiero che possa fare parte del team la fa assomigliare ad un fantasma. Comunque non ce la vedo nemmeno a fare la ragazza-pompon, anche se la loro divisa le starebbe uno schianto.

“Si” esclama Matt “Durante le medie eri il capitano della squadra”. È fastidioso come continui a snocciolare informazioni e a vantarsi di tutte le cose che sa di lei.

“Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora” asserisce criptica. So che in quell'affermazione c'è più di quanto voglia far intendere.

“Beh, comunque non te lo consiglio, dopo un po' di anni si perde la forma per quel tipo di sport” le dice Nicole. Julianne la fissa incarnando un sopracciglio, incerta a mio parere se risponderle a tono o ignorarla. Il professor Smith entra il classe scegliendo per lei.

“Buongiorno studenti” declama solare “Oggi diamo ufficialmente inizio al corso di biologia di base di quest'ultimo anno scolastico. O almeno si spera sia l'ultimo”. Tutta la classe ridacchia educatamente. Il signor Smith posa la sua valigetta di pelle sul tavolo e fa scattare la serratura “Il nostro amato corso oggi da il benvenuto ad una nuova studentessa dell'ultimo anno. È una novità per questa scuola avere una matricola dell'ultimo anno”.

Sì, la nostra città è una noia.

Julianne cerca di ridurre le sue già minute dimensioni accartocciandosi contro il tavolo. Non ama dare spettacolo e credo abbia intuito che il professore è uno che ama l'interazione durante la sua lezione. Lui inforca un paio di occhiali fuori moda da almeno trent'anni e prende in mano una manciata di fogli “Julianne? Julianne Roux?” strizza gli occhi verso gli studenti alla ricerca della ragazza. Tutta la classe, che ormai conosce la faccia di Julianne nel dettaglio, si volta a guardarla. Lei alza debolmente due dita e il professore la inquadra. “Eccoti lì!” tuba “Avanti, vieni qui vicino a me e presentati al resto della classe”. Lei resta immobile, come un cervo davanti ai fanali di un furgone. “Avanti!” la sollecita.

“Forza, Fanali, presentati” borbotta qualcuno sul fondo. Non so chi sia ma vorrei strozzarlo. Lei espira lentamente, come se stesse contando mentalmente fino a dieci, poi alza fieramente la testa e raggiunge il signor Smith. Calza un'espressione indifferente e fredda come il ghiaccio.

“Allora cara Julianne, perché non ci racconti qualcosa di te” la sprona.

“È davvero necessario?” gli domanda, implorante. Se il professor Smith non fosse così lento a cogliere i segnali, noterebbe subito che sta forzando una situazione potenzialmente dannosa.

“Credo che sia un ottimo modo per farti conoscere e fare amicizia con i tuoi coetanei”. Si crede un esperto educatore.

“Io in realtà...” riprova, cocciuta.

“Avanti, ti farà solo bene” conclude. Julianne sembra sul punto di commettere un omicidio, ma alla fine sospira e annuisce. “Mi chiamo Julianne, vengo da San Diego, in California”.

“Che liceo frequentavi prima?”.

San Diego High School”.

“Ne ho sentito parlare molto bene. Come mai ti sei trasferita?”.

Lei si morde l'interno della guancia e stringe i pugni dentro le tasche della camicia. Deve parlare di sua madre davanti ad una classe di estranei e sono sicuro che le costi uno sforzo enorme.

“Sono andata a vivere con mia madre”. È tutto quello che riesce a scucirle al riguardo.

“April Raisman, giusto?” domanda cauto.

Julianne annuisce, rigida come un tronco. Il signor Smith diventa rosso come un pomodoro e si sistema convulsamente il nodo della cravatta. È un fatto noto che April sia una donna bellissima e il suo arrivo in città aveva attirato l'attenzione di tutti gli scapoli. Ma a lei non erano mai interessati, l'unico uomo con cui è mai uscita, da quello che so, è mio padre. Certo non cambia il fatto che sia una donna bellissima e che i single ancora sperino ancora nella loro separazione.

“Tua madre è uno schianto” ringhia un'altra voce sul fondo.

“Silenzio!” lo richiama il professore.

Julianne si dondola sulle gambe inquieta “Posso sedermi ora?”.

“Certo vai pure” si asciuga il viso con il fazzoletto da taschino e cerca di ricomporsi “Allora iniziamo ufficialmente la lezione”. Julianne si rituffa nella sedia e cerca di ignorare le occhiate furtive.

“Spero che abbiate scelto con accuratezza il vostro compagno di banco...” Smith inizia a scrivere sulla lavagna, mostrando inavvertitamente una macchia di sudore alla classe, che sghignazza alle sue spalle “...perché sarà questa la disposizione dei banchi per tutto il trimestre. E questo significa che ogni ricerca, presentazione o laboratorio vario sarà fatto con queste coppie”.

La testa di Julianne sbatte con forza sul banco di metallo, producendo un suono sordo. Guaisce e si lamenta in silenzio. Io d'altro canto non sono mai stato così contento.

 

Per tutta la lezione, non faccio altro che toccarla e andarle addosso di proposito. Ogni volta che le devo passare il microscopio le sfioro le dita di proposito. Cambio posizione sulla sedia toccandole per sbaglio le gambe nude. E per la cronaca, quella gonna andrebbe bandita dal suo guardaroba.

Da tutto l'Utah.

Da tutto il fottuto pianeta.

Ha le gambe snelle, bianche come la neve e dall'aspetto assolutamente tonico. Quando si è alzata per recuperare un vetrino le ho guardato attentamente il sedere fasciato dalla stoffa di jeans. Ha un culo pazzesco. E lo so perché l'altra sera, durante il nostro momento, gliel'ho ispezionato a dovere. Tutto ciò che può offrire non ti può bastare una volta sola. Ho intenzione di farle capire che quello che è successo non sarà un episodio isolato. Succederà ancora. E ancora. E ancora. Finché non sarà dipendente da me, come io lo sono diventato da lei dopo un solo assaggio. Non se la caverà con un non so di cosa parli. Neanche fossi una ragazza appiccicosa dopo una scopata da ubriachi. Non se ne parla. Di Aaron non ci si dimentica. Mai.

Mi sporgo in avanti verso gli oculari del microscopio, invadendo il suo spazio personale e posandole delicatamente una mano sull'interno della sua coscia nuda. Il contatto della sua pelle fredda contro la mia bollente mi provoca un brivido. So che le succede lo stesso perché sobbalza sulla sedia e si ritrae. Mi molla una calcio nello stinco “Smettila!” bisbiglia rabbiosa. Vederla arrossata e senza fiato è una visione paradisiaca.

“Di fare cosa?” chiedo con innocenza e cercando di nascondere il dolore.

Lei sbuffa infastidita “Lo sai benissimo cosa stai facendo. Non fare il finto tonto con me!”.

“Io veramente sto solo completando il compito per entrambi, visto che tu sembri alquanto distratta”.

Spalanca la bocca, offesa “Non sono affatto distratta. Tu piuttosto non fai altro che infastidirmi”.

“Non lo chiamerei affatto fastidio”. Mi piace pungolarla. Le sue sopracciglia si inarcano in modo adorabile quando è arrabbiata. Infilo una scarpa tra le gambe della sua sedia e lentamente la tiro più vicino al microscopio in mezzo a noi. I nostri gomiti tornano a toccarsi. “Devi vedere bene se no ti perdi i passaggi della divisione cellulare”.

“Qualsiasi mossa da playboy pensi di usare su di me non funzionerà, non cambierò idea. Perciò torna pure a spupazzarti una cheerleader” grugnisce velenosa. Gelosia. Che sentimento eccitante. Beh, solo se riguarda lei. Perché personalmente odio essere geloso di qualcosa.

“Se menti, il tuo bellissimo, minuscolo, nasino crescerà e ci toccherà appenderci sopra i cappotti” le sfioro la punta del naso.

“Non mento proprio su nulla” brontola scacciando la mia mano.

“Quando dici di non ricorda nulla di ieri sera stai mentendo, principessa” sussurro guardandola nei suoi occhioni indefiniti. C'è un sentimento strano che le galleggia tra le pupille, un misto di incertezza e diffidenza. Come se non fosse sicura se fidarsi di me o no.

“Sai cosa mi ricordo di ieri sera?” sussurra avvicinandosi, leccandosi le labbra e facendomi eccitare. Schiudo le labbra.

“Che mi hai mollata da sola a finire di lavare i piatti” si allontana lasciandomi in sospeso come un'idiota. “Non ti aspettare il mio aiuto la prossima volta”. La ragazza sa quello che fa.

Al suono della campanella sospira estasiata e scappa letteralmente fuori dalla classe. Non c'è nulla che possa salvarla, può correre quanto vuole.

 

L'ora successiva la passo insieme a Lip nella noia più totale. Letteratura americana mi fa salire il latte alle ginocchia ogni anno. Oltretutto, ogni trenta secondi, Savannah si gira e mi strizza l'occhio o fa scivolare l'orlo della divisa ben oltre il limite imposto dal codice scolastico. Non accetta un no come risposta. D'altro canto nemmeno io. Vorrei dirle che ormai non c'è nessuna possibilità che torni sui miei passi. Se c'è una cosa che non faccio con le ragazze sono le corna. Se sto con una ragazza sono concentrato solo su di lei e su nessun altro. Nel mio mirino c'è Julianne e la cosa non cambierà in tempi brevi.

Cerco di ignorarla e di prendere uno straccio di appunto. Alla fine dell'ora sento la testa pesante e le palle che strusciano sul pavimento. Quando la campanella suona, volo fino in mensa e aspetto il suo ingresso, ingozzandomi di carne e patate al forno. Ignoro gli sproloqui di tutti e fisso l'ingresso.

“Capitano, stai bene?” chiede Matt. Devo sembrare un folle, visto che fisso la porta a doppio battente da almeno dieci minuti di fila. “Alla grande” bofonchio.

Lip scuote la testa “Per caso stai aspettando qualcuno?” inclina un sopracciglio color pompelmo.

Lo guardo male e continuo a mangiare “No, nessuno”.

Scrolla le spalle “Certo... Matt hai deciso che attività non sportiva fare quest'anno?”.

“Come tutti gli anni, il club Model U.N” sospira.

“Ancora quella stronzata di simulazione sulle assemblee dell'ONU?” domanda.

Matt fissa corrucciato la sua pasta “Mio padre crede che sia un'ottima esperienza da aggiungere al curriculum per Stanford”. Ogni frase di Matt che comincia con mio padre crede che sottintende che suo padre gli ha ordinato di fare qualcosa e che lui non ne è felice. Il signor Carter è un uomo esigente che si aspetta solo il meglio da suo figlio e che se non lo ottiene diventa silenzioso e anaffettivo. Matt subisce molta più pressione di quanta ne faccia vedere. Se fossi in lui sarei già uscito di testa.

“Cos'è successo al suo piano di mandarti ad Harvard?” chiedo smettendo di fare la guardia all'entrata. Si gratta il petto, proprio in mezzo ai pettorali. È un tic nervoso che si porta dietro da quando i suoi voti hanno iniziato ad essere la priorità di suo padre “Ha deciso che Stanford è più adatta a me, con Harvard puntavamo troppo in alto”. In altre parole, secondo il signor Carter, Matt non è abbastanza intelligente. Gli stringo la spalla “In qualsiasi college verrai preso sarai di sicuro il più cervellone e anche quello con più ragazze”. Mi sorride grato, ma nei suoi occhi c'è ancora un velo di tristezza. “Tu cosa farai questo trimestre?” tenta di distogliere l'attenzione dai suoi problemi, come se non fossero importanti. Non ama lamentarsi.

“Non ne ho idea” In realtà sì, ma il mio piano al momento è un segreto. “Farò qualcosa a caso come sempre”. Lip sghignazza “Come lo scorso trimestre che hai fatto economia domestica, neanche fossi una donnetta del cazzo”.

“Parla quello partecipa al club di fotografia” lo accuso.

“Ehi! La mia è una tecnica. Il club di fotografia è pieno di bellissime artiste piene di sentimenti da esprimere e desiderose di una spalla su cui piangere. E poi la fotografia è di sicuro più mascolina della cucina”.

“Ad economia domestica ci sono solo ragazze, brutto scemo. Perché credi che mi ci sia iscritto?” mi difendo. In realtà mi piace parecchio cucinare e lo trovo molto rilassante, ma Lip questo non lo deve sapere.

Cambia espressione di colpo e smette di ridere “In effetti, ora che ci penso la cosa ha un senso” vedo gli ingranaggi del suo cervello che valutano la cosa “Non so neanche tostare il pane, ma sono sicuro che troverò qualche bella ragazza che mi aiuti a far montare il mio soufflé” dice, facendo ondulare le sopracciglia.

“Mi dispiace deluderti, ma i lavori sono rigorosamente individuali” lo informo.

Lui si sgonfia “Allora credo che resterò al club di fotografia, almeno quel corso sono sicuro di passarlo e di scopare”.

“Ottima scelta” concorda Matt. Da questa conversazione si individuano bene le priorità di Lip.

“Dov'è Tyson?” chiedo. Anche se di solito resta in silenzio oggi che siamo solo noi ragazzi avrebbe detto qualcosa sulle idee di rimorchio di Lip.

“Dopo fisica è andato nel teatro con i suoi amici. Stanno già organizzando lo spettacolo d'inverno” ci informa Matt.

“E la mia dolcezza?” chiede Lip. Si, gli piacerebbe che Julianne fosse la sua dolcezza.

“Se intendi Julianne è spartita anche lei dopo fisica. Oggi è particolarmente strana.” Sono piuttosto sicuro di essere io la causa. “Comunque ti consiglio di non chiamarla così mentre è presente, una volta l'ho vista rompere il naso ad un ragazzo che l'ha chiamata bambola” lo avverte.

“Pagherei per vederlo” ridacchia compiaciuto Lip.

 

A pranzo concluso Julianne non si è fatta vedere e sono alquanto deluso.
Camminiamo per i corridoi verso un club a caso in cui passare la prima settimana di prove gratuite. Finché possiamo passiamo il pomeriggio a cazzeggiare insieme.

“Che ne dite del club di scienze?” azzarda Matt “Potete far esplodere qualcosa”.

“Preferisco fare il cheerleader piuttosto” si passa le mani lungo gli addominali “In effetti sarei uno schianto con la divisa”.

“Il club degli scacchi allora” ritenta Matt. Camminiamo in schiera superando aule vuote e ragazzi che cercano anche loro qualcosa da fare.

“Perché le tue proposte sono sempre così noiose?” domando.

“Perché voi non proponete nulla!” si giustifica scuotendo la testa.

Lip alza la mano e saltella “Io! Io! Perché non andiamo al club di cinema? Ci guardiamo un film o dormiamo nelle ultime file”. Per ora è la proposta migliore.

“Per me va bene” concordo. Lip agita il pugno in aria in segno di vittoria.

“Potremmo fare qualcosa di produttivo invece” si oppone Matt. Mettere d'accordo tre teste completamente diverse è un'impresa titanica.

“Siamo due contro uno, abbiamo deciso” si impunta. Mentre attraversiamo il corridoio delle aule di musica qualcosa attira la mia attenzione. Le note di un piano forte invadono lo spazio che stiamo percorrendo. Una voce risuona lungo le pareti e attraverso l'aria. Inchiodiamo tutti e tre contemporaneamente e zittendoci all'unisono.
 

We all got nightmares in our dreams

We look for someone to believe in us and show us the way

And make it okay.

 

La voce più bella che io abbia mai sentito ci circonda, avvolgendoci e intrappolandoci nella sua magia. Canta ogni nota perfettamente, con un timbro caldo e leggermente roco.

 

The world can be dangerous

There's something so rare in your veins

Not a single thing I would change.

 

Restiamo incantati e senza fiato. Matt inclina la testa confuso, come se cercasse di ricordare dove ha già sentito la voce. Simultaneamente, come schiavi di un incantesimo marciamo verso la melodia. La porta dell'aula di canto a cappella è socchiusa e la voce sembra provenire dal suo interno.

 

And oh, if you only knew how I see you

Would you come alive again, alive again?

I, I need you to understand

 

Lentamente Lip afferra la maniglia e apre del tutto la porta. Entriamo cautamente nella stanza, cercando di non emettere suoni. Seduta di spalle al pianoforte a coda c'è Julianne. Sfiora i tasti con delicatezza, tenendo gli occhi chiusi e oscillando leggermente insieme alle note. Appoggiato al leggio per gli spartiti c'è un diario logoro e dalla copertina nera ricoperta di scritte.

 

I don't mind your shadows

Cause they disappear in the light

I don't mind your shadows

Cause they look a lot like mine

 

Non ho mai sentito questa canzone e sono alquanto sicuro che sia stata lei a scriverla. Mentre canta sembra fragile, vulnerabile e priva delle mura che di solito la isolano dal mondo. Sta esponendo i suoi demoni e non sa di essere osservata.
Non avevo idea che sapesse cantare così. Non avevo idea che sapesse cantare in generale. Pensavo che suonasse solo il violino.

 

And listen to me, it's okay to be afraid

Just walk like you're never alone

I don't mind your shadows, your shadows

Baby, I don't

 

È meravigliosa. Se pensavo di essere fregato prima, ora sono proprio fottuto.

Suona l'ultima nota e si lascia andare ad un sospiro carico di sollievo. Come se si fosse tolta un peso dalle spalle suonando quella canzone. Scribacchia sul quaderno ai lati del testo e giocherella con un bottone della camicia. A questo punto dovremmo girarci e andarcene cercando di non fare rumore. L'abbiamo vista mentre esponeva la sua anima e quando se ne accorgerà sarà parecchio incazzata.

Matt mi guarda e lentamente indietreggiamo cercando di trascinare Lip, che invece fa la cazzata della storia. Si mette a battere le mani. Julianne balza in piedi come un fulmine e fa ruzzolare a terra lo sgabello. Ci guarda spaventata e si affretta a chiudere il diario. “Meravigliosa” sbraita Lip, continuando ad applaudire “Che dire dolcezza, sei una sorpresa continua”. Non ha tutti i torti.

“Philip” lo richiama Matt. Julianne stringe al petto il diario come uno scudo e si nasconde dietro la sua consueta espressione indecifrabile. “Dio! Ma che razza di guardoni! Non vi hanno insegnato cos'è la privacy?”. Raccoglie le sue cose, pronta alla fuga.

“Julie sei eccezionale. Non sapevo scrivessi ancora canzoni...” Matt tenta di rabbonirla. Non funziona. “La porta era chiusa. Non sapete come si bussa?”.

“Veramente era socchiusa...” la corregge Lip. Gli mollo una gomitata, ma rimango in silenzio. Sono assolutamente senza parole. Lei mi guarda e io non so cosa dire.

“Julie” riprova Matt.

“No”. Si butta in spalla lo zaino e si affretta verso la seconda porta dell'aula.

“Aspetta”. Lei però non si ferma e sparisce, lasciandoci confusi e sottosopra.

 

Alla fine passiamo il pomeriggio nel club di cinema accontentando Lip. Ne io ne Matt siamo in vena di discutere con lui. Mentre lui russa stravaccato nelle ultime file dell'aula, io e il mio migliore amico sediamo rigidi e in silenzio fino al suono della campanella. Vorrei dire qualcosa, ma nella testa sento risuonare solo la voce melodica di Julianne e rivedo il modo aggraziato con cui si è abbandonata alla musica. Sembrava del tutto un'altra persona.
Matt sembra turbato quanto me, come se in quell'aula avesse rivisto un fantasma.

Una volta liberi ci salutiamo e io mi dirigo alla mia macchina. Appoggiato alla portiera del passeggero c'è solo mio fratello Andy. “Henry e Julianne si sono fatti dare un passaggio da un'amica” mi informa prima che possa chiederglielo.

“Quale amica?”. Sono a scuola da due giorni, come fanno a fidarsi di qualcuno e andarci in macchina insieme?

“Peyton qualcosa. La ragazza dell'ultimo anno che indossa le parrucche” mi spiega Andy accomodandosi davanti. So chi è. Non è male, una tipa a posto. Un po' stranetta, ma chi non lo è.

Infilo le chiavi nel quadro e accendo il motore. “Mi accompagni al negozio di elettronica? Mi serve un nuovo cavo USB” mi chiede Andy mentre faccio la retro per uscire dal parcheggio.

“Non può accompagnarti qualcun altro? Non sono un fottuto taxi” brontolo burbero. Andy si acciglia, corrucciando le labbra. È l'espressione che fa quando qualcosa lo ferisce. “Si, certo” mormora accendendo la videocamera. Mi sento un fratello terribile. Me la prendo con lui perché lei ha preferito la tipa delle parrucche alla mia macchina. Sono davvero senza speranza.

Gli appoggio una mano sulla testa “Scusa, Andy, è stata una giornata lunghissima. Ti ci porto, ma cerca di fare in fretta, okay?”.

Ritrova il sorriso “Certo”.

 

Dopo il giro a TechnoCity, torniamo a casa e finalmente mi lascio cadere sul letto, esausto. Henry mi osserva dal suo, circondato da libri e quaderni. Dopo due giorni è già pieno di appunti, questo ancora non so spiegarmelo. Mi guarda circospetto e con l'aria di chi la sa lunga.

“Fammi indovinare: ti ha ignorato tutto il giorno?”. Non mi sorprende che sappia tutto.

Annuisco infilando le mani tra i capelli.

“Non mi meraviglia” asserisce continuando a scrivere. Rotolo giù dal letto e mi avvicino “Che devo fare? Sai, per tornare nelle sue grazie”.

Henry mi guarda infastidito “Non è una ragazza che il giorno prima puoi far entrare nel tuo letto e il giorno dopo buttare fuori. Non abbasserà ma più la guardia con te dopo la doccia fredda che le hai dato stamattina. Sei vuoi una scopata facile smetti di cercarla da mia sorella. Se vuoi entrare nelle sue grazie ci vuole pazienza e determinazione. Per buttare giù i suoi muri ci vuole tempo e sopratutto ci vuole costanza, se avrà il sentore che stai per allontanarti ti scaccerà. Se non è veramente qualcosa che vuoi non ci provare nemmeno, perderesti solo del tempo”.

Mi fissa dritto negli occhi “Se è una distrazione quella che cerchi, lei non fa per te. Julianne ti entra dentro e una volta che sarà in te, non sarai più capace di farla uscire. È questo quello che vuoi?”. Smette di guardarmi e ritorna ai suoi appunti.

È questo quello che voglio?

Dio, non lo so.

L'unica cosa di cui sono sicuro è che non sono uno che si arrende e che voglio sapere cosa nasconde sotto la corazza di ghiaccio che la circonda.

“L'ho sentita cantare oggi, in sala musica. Si è arrabbiata parecchio”. Non so perché ma parlare con Henry è la cosa più facile del mondo.

Lui alza lo sguardo e mi scruta, come se cercasse qualcosa. Quando lo trova sorride e scuote la testa “Sei fottuto. Lei ti è già entrata dentro”.

Sì, lo so. Sono fottuto. Ora ne sono certo.

“Sentirla cantare è qualcosa di unico al mondo. È dal divorzio dei nostri genitori che non canta più”.

“Stava cantando una canzone bellissima...”.

“Scriveva canzoni prima di tutto quanto. Ora non suona neanche più il violino...” mormora tristemente. “Se oggi ha cantato significa che qualcosa è cambiato e, se sei riuscito a creare una piccola breccia, ti conviene infilartici prima che la cementi di nuovo”.

Sono d'accordo. Mi alzo in piedi, pronto a rimettere in atto la missione. “Qualche altro consiglio?”.

“Adora il cibo piccante, qualsiasi cosa dolce e il caffè. Non ti arrendere ai primi no e soprattutto non toccare l'argomento mamma se non è lei a farlo”.

“Grazie” mi avvio verso la porta.

Henry mi ferma “Aaron”.

“Sì?”.

Si storce un polsino della felpa “Non farle del male, ti prego”.

“Mai”. 

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Capitolo 15
*** Julianne ***


Julianne

 

Quando qualcosa mi turba mi richiudo dentro me stessa. Mi raggomitolo su una superficie morbida e aspetto che il dolore sciami e che la crisi rientri. Il dolore insopportabile mi ha spinta a trovare conforto in soluzioni chimiche e prima di quelle in situazioni potenzialmente pericolose. Taccheggiavo. Guidavo a velocità elevata verso oggetti immobili. Andavo a letto con ragazzi appena conosciuti. Qualunque cosa mi distraesse e innescasse l'adrenalina che faceva dissipare momentaneamente il dolore. Nel momento in cui le azioni spericolate non sono state più abbastanza, ho cercato una soluzione più duratura. Ho cominciato a drogarmi e a scivolare lentamente nel baratro. Ora che non posso e non voglio più drogarmi non c'è nulla che mi aiuti a portare via la sofferenza.

Dopo una giornata provante mi infilo sotto le coperte e spengo il cervello. La confusione nella mia testa ha raggiunto picchi storici ed è tutto merito di Aaron. I suoi strusciamenti e le sue mosse furtive durante biologia hanno messo in cortocircuito il mio cervello. La parte emotiva di me ha fatto a botte con la parte razionale per tutto il giorno. Ancora non so chi delle due abbia vinto. Lo voglio, ma non voglio volerlo. Ha senso? No, immagino di no. Sono troppo stanca che mettere insieme pensieri lineari. Ero così sottosopra che mi sono rifugiata in un'aula di canto vuota e ho lasciato uscire un po' di tutto quello che stavo accumulando dentro da mesi. Ovviamente qualcuno mi ha sentita. E naturalmente quel qualcuno dovevano essere Aaron e i suoi amici. Sono scappa via. Cos'altro potevo fare? Nel momento in cui avevo sfilato l'armatura qualcuno mi stava osservando. Sono andata via e mi sono nascosta. Se vuoi che tutto rimanga in ordine non puoi fare nessun tipo di casino. Celare e sopravvivere. Questo è il mio motto.

 

Quando sento bussare alla porta, il mio primo pensiero è che Henry è qui per parlare. Nel viaggio verso casa, gentilmente offerto da Peyton, non ho detto nulla nemmeno a lui. Lui però ha capito che qualcosa non andava. Ha un sesto senso per queste cose. Mi ha lasciato un po' di spazio e ora è qui per controllare i danno.

Bussano di nuovo. Sospiro e mi sfilo dalle coperte, ruzzolando giù dal letto. Cammino come uno zombie verso la porta e la spalanco. Ma non è Henry. È Aaron.

“Ehi, principessa” varca la soglia senza invito e con un gran sorriso. “Che aria tetra che ha la tua stanza”. Ho accostato tutte le tapparelle e ho solo una lucina accesa sul comodino.

“Cosa vuoi?”.

“Sono qui per risollevarti il morale” afferma avanzando nel mio territorio.

“Il mio morale non è a terra” lo informo. Lui sorride appoggiando un pacchetto di Doritos e delle lattine di Coca-Cola sul letto. Si toglie la felpa e la lancia sulla poltrona.

“Su questo non ci giurerei” prende in braccio il mio gatto e si stende sul mio materasso come se fosse il suo. Tengo ancora la mano sulla maniglia “Non ho bisogno che nessuno mi tiri su il morale, quindi puoi tornare da dove sei venuto”. Gli indico l'uscita, ma lui mi ignora. Si stravacca tra le coperte e si allunga verso il computer su cui stavo guardando una soap. “Che cos'è?” domanda indicando lo schermo.

Sospiro “Seconde chance. È una soap opera francese”.

“Orrore” grugnisce schifato. Apre il pacchetto di patatine e inizia ruminarle sbriciolando tra le mie lenzuola. Mi guarda ferma sulla soglia. “Cosa fai non ti siedi?”.

“No, finché non te ne vai”.

“Perché?”. Sembra un cucciolo bastonato e io un mostro senza cuore. Non ho voglia di compagnia di nessun tipo. Soprattutto non della sua. “Perché ti sei imbucato nella mia stanza senza invito e stai sdraiato sul mio letto senza permesso. E soprattutto perché non ti voglio qui”.

“Questo è quello che dice il cervello razionale, ma cosa dice il cervello irrazionale? Sai, lo preferisco” domanda appoggiandosi su un gomito. Cosa dice? Che un figo allucinante se ne sta stravaccato sul mio letto e che io, invece di sfilargli i pantaloni, stringo il pomello di ottone della porta come una scema. Il fatto che voglia divorarlo non implica che debba farlo per forza.

“Dice di colpirti con qualcosa di appuntito e di nascondere il cadavere in giardino” mento.

Scuote la testa “In giardino lo troverebbero subito, ti consiglio di buttarmi nel lago con dei sassi ai piedi”.

Sono confusa. “Mi stai consigliando come ucciderti?”.

“Se lo devi fare fallo nel modo migliore, no?” ridacchia. Scuoto la testa tentando di dissimulare un sorriso che viene subito scoperto “Non ci provare ti ho vista. Avanti principessa tenerti aggrappata alla maniglia non ti aiuterà, non hai nessuno scampo con me. Arrenditi e vieni a sederti qui con me a mangiare Doritos piccanti e a guardare la soap. Non mi schiodo da qui per nessuna ragione”. So che non lo farà. Potrei aspettare che si stufi di stare lì sdraiato, ma con il rifornimento di cibo e la sua sconfinata cocciutaggine potrebbe volerci troppo tempo. Non posso fare altro che assecondarlo e chiudere finalmente la porta. Lo raggiungo sul letto “C'è una condizione: non provare a sconfinare nella mia parte. Ognuno nella sua metà di letto”. Mi infilo sotto le coperte e lui posiziona il computer al centro. “Assolutamente. Parola di scout” si posa una mano sul cuore. Alzo gli occhi al cielo e mi raggomitolo sui cuscini con il pacchetto di patatine alla salsa piccante. Le mie preferite. Strano.

Aaron si siede contro la testata del letto e ci appoggia un braccio sopra. Se lo lasciasse cadere mi circonderebbe alla perfezione. Stranamente mi sento incredibilmente protetta e al sicuro in questa posizione. Il suo odore si posa lentamente tra noi e il mio corpo lo riconosce come un cane da tartufo. Faccio ripartire l'episodio e dopo trenta secondi Aaron lo blocca. “Aspetta un attimo” mi punta una patatina contro “Lo stai guardando in lingua originale e senza uno straccio di sottotitolo?”.

“È in francese. Non mi servono i sottotitoli”.

“E per noi comuni mortali? Cosa dovrei fare guardare le figure?” armeggia con il portatile cercando i sottotitoli. Gli do un colpetto sulla mano “Non se ne parla. Se vuoi restare qui ti devi arrangiare, al massimo ti metto i sottotitoli in francese”.

Sbuffa ma smette di protestare “Va bene. Fammi un riassunto. Di cosa parla questa soap?”. Pronuncia la parola soap come se stesse parlando di escrementi di cane.

Gli imposto i sottotitoli in francese “È la storia di Alice Lerois, una casalinga parigina di 35 anni che viene lasciata dal marito Mathieu. Ha due due figli da mantenere, non ha alcuna esperienza lavorativa. Un giorno incontra la sua vecchia amica Lætitia Demarsey, che le offre un lavoro come segretaria. I primi giorni si dimostrano difficili, ma lei non si perde d'animo. Lætitia le rende la vita molto difficile, in quanto l'accusa di averle "rubato" in passato il fidanzato Mathieu, ora ex marito di Alice. Successivamente scopre di avere un certo successo nel settore creativo e così inizia a collaborare con Marc Broman, figlio del co-proprietario della Broman & Barow dove lavora. Lætitia, fidanzata di Marc, prova un sentimento di gelosia e cerca di tenerla lontana dal futuro marito.”.

“Che trama avvincente” commenta sarcastico, sorseggiando la coca-cola.

“Lo so. Poi Marc scopre di avere un aneurisma al cervello e Alice lo viene a sapere leggendo, per sbaglio. L'uomo decide di non parlare della sua malattia e si concentra sul lavoro, trascurando Lætitia”.

“Posso sapere perché guardi una soap opera per signore di una certa età?” chiede ridacchiando.

Aggrotto la fronte offesa “È una storia molto avvincente e ci sono un sacco di colpi di scena. Non mi devo giustificare con te. Se vuoi restare zitto e guarda”.

Alza le mani in segno di resa “Va bene, va bene. Sto zitto”. Fa partire la puntata e mi porge le patatine.

Ogni dieci secondi, più o meno, interrompe l'episodio per ricevere dei chiarimenti e per capire cosa hanno appena detto. Fa in continuazione domande finché non sbuffo esasperata e gli metto i sottotitoli in inglese. Nonostante la traduzione continua ha chiedere chiarimenti su ogni scena.

“Ma il capellone con i baffi chi è?” chiede appoggiando un dito contro lo schermo.

“Lui è Vincent Valberg, è uno dei creativi dell'agenzia, sta con Alice adesso” spiego.

“Ma lei sbava per Marc si vede lontano un miglio!” commenta.

“Lo so! Ma Marc è impegnato e poi non va bene per lei”.

“Ma lui la ricambia, chi se ne frega del resto” asserisce tutto agitato. Ha l'aria di essere molto preso. Soap per donne di una certa età un cavolo.

 

Guardiamo quattro episodi di fila, finendo le scorte di cibo e commentando animatamente ogni scena. Senza rendercene conto annulliamo la barricata invisibile che avevo alzato tra le due metà del materasso. Non so chi dei due ha oltrepassato il confine per primo, anche se sono quasi certa che sia stato lui, sta di fatto che mi ritrovo raggomitolata contro il suo fianco con la testa troppo vicina alla sua. Sento il suo calore lungo tutto il fianco e riesco a percepire quando inspira e quando espira. Alla fine della quinta puntata accartoccia il pacchetto di Doritos e fa canestro nel mio cestino “Io lo sapevo che sarebbero finiti insieme. Andiamo, si vede lontano un chilometro che sono innamorati” commenta compiaciuto.

“Sono dei traditori” borbotto. Si volta a guardarmi “Cosa?” chiede sorpreso.

“Stavano insieme ad altre persone e le hanno tradite” spiego. Lui scuote la testa e si gira completamente verso di me. “Si amano. Il resto non conta”.

“Sono comunque dei traditori bugiardi” affermo cocciuta.

Mi tira piano una ciocca di capelli “La smetti con la storia dei traditori. Se trovi l'amore della tua vita non puoi resistere al sentimento”.

Cerco di togliere un po' di briciole dal letto “Sta di fatto che erano entrambi impegnati con qualcuno e hanno tradito quell'impegno senza riguardi. Ergo sono dei traditori”.

Mi osserva, scavando nella mia espressione alla ricerca di qualcosa di più profondo. So che c'è qualcosa di più profondo. E lo sa anche lui.
“L'amore vero non segue delle regole, principessa. Ai sentimenti non si comanda” mormora roco. È irremovibile. Mi guarda negli occhi, intrappolandomi. Allunga una mano e mi toglie un capello dalla fronte, depositandolo dietro l'orecchio. La pelle brucia al ricordo di lui che mi tocca il viso mentre mi bacia. La situazione si sta incasinando. Mi sfiora il mento con il pollice, facendomi rabbrividire. So come finisce questo scenario e non ho intenzione di lasciare che accada.

Mi scosto e scendo da letto “Devo andare in bagno”.

Scappo.

Come sempre.

In bagno conto fino a dieci, mi sciacquo il viso e poi torno in camera. Apro la porta e sento Aaron ridacchiare. “Sono completamente d'accordo con te”. È seduto con il mio pc sulle ginocchia e sorride verso lo schermo.

“Con chi parli?” chiedo confusa. Lui mi sorride e gira il computer verso di me. Il viso compiaciuto di Scar luccica nella penombra della stanza.

Merde” bofonchio.

“Ciao Julie!” esclama allegra. Corro verso di loro e balzo sul letto. Acciuffo il pc e lo allontano dalle sue manacce. “Ma che cavolo!” esclamo.

“Oh, non lo sgridare. È colpa mia” si intromette Scar.

“Cosa?”.

“Ti ho scritto che era un'emergenza in chat e lui ha risposto alla chiamata successiva pensando fosse una cosa importante. Beh, in effetti è una cosa importante...ma mai come voi due che...”

“Scarlett!” la richiamo. Lei chiude la bocca e mi sorride colpevole.

“Stavo dicendo” Aaron mi toglie il pc di mano “Mi ha fatto vedere cinque episodi di fila di una soap francese noiosissima e oltretutto voleva farmela vedere senza sottotitoli! Ho dovuto esasperarla per farglieli mettere” esclama oltraggiato. Che razza di bugiardo. Cinque minuti fa era completamente preso dalla storia e ora è una soap noiosissima.

Seconde chance?” domanda curiosa. Aaron annuisce e lei continua “Ha provato a farla vedere anche a me, ma mi sono addormentata dopo mezza puntata e ho cominciato a sbavarle addosso. Ha lasciato perdere. Il francese mi fa dormire, non so spiegarlo” lo informa. Tutta la scena ha un che di ridicolo.

“Così dovevo sbavarle addosso, buono a sapersi” mi lancia un occhiolino e un sorrisetto malizioso.

“Okay, ora basta” gli tolgo la mia migliore amica di mano “Scarlett ti richiamo dopo”.

“No! Sono ancora in piena emergenza, mi serve una mano” strilla impedendomi di chiudere la chiamata.

“Parla e sarai ascoltata” le dice lui, poi si siede più comodo e posa il computer in mezzo a noi. Lei sorride radiosa “Oggi ho parlato con Lucas, il ragazzo nuovo di New York!” trilla estasiata. Batte le mani facendo tintinnare i braccialetti.

“È meraviglioso, Scar”. Sono davvero felice per lei. “Perché non ne parliamo quando qualcuno sarà tornato in camera sua?”. Fulmino Aaron nel tentativo di fargli capire che deve sloggiare. Non funziona. “Voglio sapere anch'io del ragazzo di New York” si giustifica. “Do consigli certamente migliori dei tuoi in fatto di amore e relazioni”.

“Ma che presuntuoso! Do fantastici consigli, non è vero Scar?”. La guardiamo. Lei mi fissa, poi fissa Aaron e poi di nuovo me. “Sai che mi chiamo come la sua macchina?” chiede tentando di cambiare discorso. Sospiro e scuoto la testa “Racconta”.

Durante il resoconto sull'incontro ravvicinato tra lei e il newyorchese, Scar si agita e scuote i capelli mimando ogni scena. Aaron e io restiamo in silenzio ad ascoltarla mentre parla di come lui le abbia prestato una matita e da lì sia scattata la scintilla. Del loro pranzo insieme vicino alla fontana e di come lui le abbia chiesto il numero a fine giornata.

“Non è meraviglioso?” chiede inebriata, con gli occhi che le brillano. “Siamo fatti per stare insieme”.

“Dopo un solo giorno?”. Chiedo scettica.

Aaron fa schioccare la lingua “Il vero amore è un sentimento immediato. Se lo sai, lo sai”.

“Il vero amore non esiste” brontolo.

Scar sospira “Lo so come la pensi, Julie. Ma ti posso assicurare che tra noi si è formata una strana connessione quando ci siamo toccati. Come se fossimo fatti per stare vicini”.

Aaron mi guarda e l'intensità che arde nei suoi occhi mi fa accelerare il battito cardiaco. Così da vicino, spalla contro spalla, riesco a scorgere le pagliuzze dorate mischiate con il verde splendente. Abbassa lo sguardo sulle mie labbra e io faccio lo stesso.

Scar si schiarisce la voce e noi torniamo a guardare lei.

“Se ti ha chiesto il numero ti chiamerà di sicuro, ma aspetterà almeno due o tre giorni. Per non fare la figura della femminuccia” le dice Aaron.

“Quindi non devo scoraggiarmi se non chiama subito?”.

“No, assolutamente. I ragazzi ci mettono un po' nelle cose. Sono certo che ti chiederà di uscire con lui” le assicura dolcemente.

“Grazie. Sei molto più bravo di Julie con i consigli femminili...” ridacchia.

“Ehi!” esclamo offesa.

“...ma non la cambierei con nessuno nell'universo” conclude. Le sorrido. “Okay, è quasi ora di cena, devo andare. Devo aiutare abuela con la cena. Grazie per l'aiuto Aaron”.

“È stato un piacere conoscerti. Non farti problemi ha chiedermi consigli sul newyorchese, sono un campione per le questioni di cuore” si alza dal letto e raccoglie le sue cose che ha sparpagliato per la stanza “Torno nel regno degli uomini, tutti questi estrogeni mi faranno crescere il seno” ridacchia, mi fa l'occhiolino ed esce dalla stanza. Lo guardo andarsene più a lungo nel necessario

“Ti vedo” asserisce Scar.

“Cosa?”.

“Lo guardi come si guarda una torta al doppio cioccolato. Il che è normale perché è meraviglioso, ma anche lui guarda te come se fossi un dolcetto. Ti ha guardato...affamato, come se dopo una fetta ne volesse un'altra. È successo qualcosa che dovrei sapere?”.

Mi fisso le punte dei capelli “Potremmo esserci...ecco baciati”.

Fa scattare le sopracciglia “Potremmo!? Cosa cavolo vuol dire?”.

“Ci siamo baciati” affermo.

Strilla e saltella sulla sedia come un grillo fatto di caffeina “È fantastico!”

“No. Non succederà di nuovo”.

“Perché?” chiede scioccata.

“Perché è tutto così complicato. Viviamo sotto lo stesso tetto, i nostri genitori stanno insieme, lui ha uno sciame di ragazze che gli svolazzano intorno...”.

Scar scuote la testa “Qual è la vera ragione, Julie?”.

Sento uno squarcio formarsi all'altezza del cuore. La sensazione di solitudine mi avvolge, stringendomi in una morsa. “Le persone vanno via. Sempre e comunque. Nonostante i tuoi sforzi la gente si allontana, ti lascia indietro. Se gli aprissi il mio cuore e mi lasciasse indietro io credo che non sopravviverei ad un altro baratro” gli occhi mi bruciano.

Abbassa lo sguardo afflitta “Non tutti vanno via. Non è una costante, Julie”.

“Per me sì”.

Allunga la mano verso la webcam “Io non vado da nessuna parte”.

Imito il suo gesto “Nemmeno io, Scar”.

 

Per qualche ragione la mamma ha invitato a cena i vicini. Non sapevo neanche che avessimo dei vicini finché non sono scesa e ho trovato quattro persone sconosciute sedute sul divano. Sembrano usciti da un fotogramma della pubblicità dei biscotti. Sapete quella dove la famiglia perfetta mangia i biscotti più buoni del mondo, in una cucina perfetta, durante una mattinata perfetta. Sono tutti ben vestiti e perfettamente pettinati, neanche un capello fuori posto. Scendo le scale lentamente, cercando di capire se siano veri o dei manichini di qualche azienda di vestiti.

“Julianne!” cinguetta la mamma dalla poltrona del salotto. I quattro robot si girano a guardarmi in contemporanea, facendomi venire i brividi. “Amy ti devo presentare la mia Julie” dice alla donna con l'abito lungo fino alle caviglie, a fiori colorati. Tra le quattro teste scorgo una faccia alquanto familiare. Quando anche lui mi riconosce, le sue guance si tingono di rosso acceso. Dylan Rogers, il ragazzo che stava con mio fratello nella vasca idromassaggio alle festa di Giselle. Abbassa lo sguardo e si concentra sul motivo colorato del tappeto.
Mamma zampetta verso di me, mi agguanta un braccio e mi trascina in salotto. Mi posiziona difronte agli ospiti e sorride estasiata. La donna mi allunga una mano smaltata di fresco “Tu devi essere la famosa Julianne, April non fa altro che parlare di te. Io sono Amanda Rogers molto piacere”. Ha i capelli castani sistemati in una coda perfetta, gli occhi grigi truccati magnificamente e una lunghissima collana di perle splendenti che le adorna il collo. Allungo la mano e gliela stringo velocemente.

L'uomo al suo fianco si presenta “Io sono Brandon Rogers, suo marito”. Ma dai. “Loro sono i nostri figli, Dylan e Chastity”. Il signor Rogers ha i capelli biondi e gli occhi neri. Indossa un completo giacca e cravatta grigio e una cravatta con dei dolcetti stampati sopra. Dylan è identico alla madre e continua a non guardarmi negli occhi. Chastity invece non smetti di fissarmi. Ha i capelli biondi legati in una treccia laterale, gli occhi grigi ombrosi e i lineamenti incredibilmente delicati. Mi osserva come se cercasse di capire dove mi ha già vista.

Stringo la mano al signor Rogers e faccio un cenno ad entrambi i figli. Pensando che la mia presenza ormai è inutile, faccio per andarmene ma mia madre mi blocca. “Julianne è all'ultimo anno come Dylan. Anche suo fratello Henry. Ora è sotto la doccia, appena scende ve lo presento”.

Amanda mi fissa “Tua madre mi ha parlato un sacco di te, sono felice di conoscerti finalmente”.

Vorrei poter dire lo stesso, ma non ho idea di chi sia questa donna. Semplicemente annuisco.

“Abitano accanto a noi, nella casa di destra” mi informa la mamma.

“Bene” bofonchio a disagio.

Amanda ricomincia a parlare “April ha detto che suoni il violino” aspetta che annuisca e poi continua “Chastity suona il clarinetto nell'orchestra della chiesa”.

“Dovresti fare il provino anche tu” propone il signor Rogers. “È un'ottima esperienza da aggiungere al curriculum”. Preferirei farmi divorare da dei cani rabbiosi.

Mamma si intromette “È una magnifica idea, ci penserà di sicuro. Sai, Julie, Brandon fa l'agente immobiliare, mentre Amanda gestisce una deliziosa pasticceria in centro”. Non ho mai chiesto nulla a riguardo, ma annuisco ostentando coinvolgimento.

Jim entra dalla porta d'ingresso tutto trafelato “Scusate il ritardo” si sfila la giacca “Un battesimo infinito. Gemelli”. Ridacchia e si immette nel salotto. “Che piacere vedervi” saluta tutti e si accomoda su una sedia. “Allora chi manca all'appello?” domanda alla mamma.

“Olivia è da un'amichetta a dormire, Cole è a cena da Brian, infondo alla strada. Andy è in cucina a fare i compiti. Henry e Aaron devono ancora scendere”. Sembra la lista della spesa.

Jim sospira e sorride “Famiglia numerosa, ci vuole organizzazione”. Gli ospiti ridacchiano educati mentre io mi fisso sulla parola famiglia. Noi non siamo neanche lontanamente una famiglia. Una ammasso di persone incasinate che vivono insieme? Si, assolutamente.

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Capitolo 16
*** Aaron ***


Aaron

 

L'operazione ConvincereJulianneCheNonSonoUnCazzoneECheNonSpariròAllaPrimaDifficoltà è ufficialmente cominciata. Magari mi serve un nome un po' più facile.

Comunque, il primo passo è stato auto-invitarmi nella sua camera e starle tra i piedi fino all'ora di cena. Mi sono sorbito ore di soap francesi (che alla fine non era poi così male) e le sono stato seduto vicino senza muovere un dito. Non mi ero mai seduto con una ragazza a fare qualcosa che alla fine non portasse al sesso. È stato diverso. Sorprendentemente piacevole. Sono riuscito a carpire molte informazioni su di lei senza che dicesse niente.

I Doritos piccanti le piacciono da morire, si è leccata ogni singolo dito dopo che sono finite. Cosa che ha fatto agitare notevolmente il piccolo Aaron.

Ho scoperto che quando è sovrappensiero si mordicchia il mignolo.

Mentre guarda un programma senza volerlo contrae il volto in numerose espressioni diverse, molte più di quelle che usa con le persone reali.

Al suo gatto piacciono i grattini dietro le orecchie.

Il suo letto profuma di cocco e mare, proprio come lei.

Nella sua stanza ci sono un sacco di foto di una ragazza dai capelli viola, che poi ho scoperto essere Scarlett, la sua migliore amica. Si vede che si vogliono bene e che si conoscono alla perfezione. Scarlett non è affatto male.
Ho scoperto inoltre che quando è sotto le coperte non porta i calzini. Ha diversi quadri finiti sul pavimento che non sono riuscito a vedere bene.

Sul comodino ha uno scatto insieme al padre, la loro somiglianza è impressionante.

Nella sua stanza non c'è nemmeno una foto della madre.

In ogni caso, se il mio pomeriggio venisse reso pubblico molto probabilmente mi verrebbe requisita la tessera di maschio. Tra la soap e i consigli sui ragazzi farei la figura della femminuccia.

Comunque ne è valsa veramente la pena. Dopo il terzo episodio, Julianne ha iniziato a scivolare lentamente verso il centro del letto e io ho fatto lo stesso. Ci siamo ritrovati l'uno premuto contro l'altra. È stata la parte migliore.

Dopo di che la serata è peggiorata.

 

La voce di mio padre risuona su per la tromba delle scale fino in camera. “ Henry!Aaron!”.

Henry mi guarda mentre si infila una maglietta pulita. “Deve essere pronto” azzarda.

Scendiamo insieme la scalinata e invece non è affatto pronto. Dal salotto ci fissa la famiglia Rogers al completo. Merda. Chastity mi guarda dritto negli occhi e arrossisce come un peperone. Non va affatto bene. Arriviamo a metà scala e Henry si rende conto che al piano inferiore c'è seduto Dylan Rogers, il ragazzo che gli avevo presentato alla festa e con cui aveva finito la serata nell'idromassaggio. Dall'agitazione fa un doppio passo,manca un gradino e finisce rovinosamente in fondo alle scale con un tonfo.

“Henry!” strilla April. Julianne corre verso di lui e si accovaccia a controllarlo. “Stai bene?”.

Henry mugugna e si afferra il ginocchio, gemendo di dolore “Bene” bofonchia.

April si avvicina tutta agita “Stai bene, caro?”. Lui annuisce, facendola rilassare.
Lo aiutiamo ad alzarsi. “Vieni, mettiamoci del ghiaccio” gli bisbiglia Julianne, strascinandolo in cucina. Non potendo seguirli mi tocca entrare in salotto e barcamenarmi tra i convenevoli.

“Buonasera, Aaron” mi saluta il signor Rogers. In giacca e cravatta come al solito, si sporge per tendermi la mano. È l'uomo più impostato e rigido del pianeta.
Gliela stringo “Salve Signor Rogers” rispondo.

“È un piacere vederti, caro Aaron” esclama Amanda, la madre di Dylan. “Come stai?”.

“Bene, grazie. E lei?”. La signora Rogers mi ha sempre messo un sacco di soggezione. Sempre così perfetta e composta, così innaturale. “Molto bene, ti ringrazio”.

Faccio un cenno a Dylan “Ehi, D.”. Lui mi sorride e risponde al saluto.

Chastity si china verso di me, mettendo leggermente in risalto il seno “Ciao Aaron” miagola.

“Chastity” mormoro piatto. Quella ragazza porta solo guai. Il suo nome significa di castità, ma in lei non c'è assolutamente nulla di puro. Parlo per esperienza personale.
“Vado a vedere come sta Henry” asserisco camminando verso la cucina e mettendo più distanza possibile da lei.

Entrando nella stanza la prima cosa che mi colpisce è la sincera e dolce risata di Julianne. Sghignazza di gusto tenendosi la pancia. Henry sbuffa seduto sul bancone di marmo della cucina. “La vuoi piantare?” domanda irritato. Lei gli appoggia una mattonella di giaccio sul ginocchio sinistro. “Oh, ma dai!È la scena più esilarante della storia” ridacchia. Il libro e gli appunti di Andy sono abbandonati sul tavolo e di lui non c'è traccia. Dalla cantina arriva un leggero brusio, deve essere sceso a guardare la tv.

“Certo, perché non ci sei finita tu con il culo per terra!” borbotta lui incrociando le braccia. Avanzo verso di loro e gli appoggio una mano sulla spalla “Stai bene?”.

Lui annuisce, alzando gli occhi al cielo alle continue risatine della sorella. “Ti giuro dal mio punto di vista fa sbellicare” dice scostandosi una ciocca dal viso “Di solito sono io quella che crea situazioni potenzialmente distruttive, ma fratellino questa sera il palcoscenico è tutto tuo”.

Lui le afferra la punta del naso con due dita “La smetti per piacere!? Se continui a mettere i manifesti questa cosa si trasformerà in un casino”.

Julianne smette di ride e annuisce “Sì, signore”. Gli passa la tavoletta e si appoggia al lavabo. Mi colloco accanto a lei “Tranquillo, Dylan non dirà nulla di voi. I suoi genitori sono i più attivi partecipanti al club dei bigotti di mio padre”. Henry mi fissa sbigottito stringendo con più forza la tavoletta ghiacciata “Cosa gli hai detto?!” sibilla contro la sorella.
Julianne squittisce offesa “Come ti permetti! Ho promesso che non avrei detto nulla e così è stato”.

Mi intrometto “No, no. Non mi ha detto nulla. È che ho un sesto senso su certe cose” gli spiego “Ti ho presentato a Dylan apposta”. Henry mi guarda in faccia esitante, come se avesse paura di leggerci il mio disgusto o la mia disapprovazione. Ma non ci troverà nulla del genere, non c'è nulla che non vada o che debba disgustarmi in Henry. Gli piacciano gli uomini e allora? Al cuore non si comanda.

“Oltretutto c'era anche lui quando ti ho trovato svenuto nella vasca idromassaggio” lo informa Julianne.

Lui sospira scuotendo la testa. “Meraviglioso”.

“Senti” si avvicina e gli prende il viso tra le mani “Se in qualche modo la situazione si complica o salta fuori qualcosa, faccio la pazza con la mamma e riporto l'occhio di bue su di me. Va bene?”. Gli accarezza dolcemente i capelli “Saranno più interessati ai gossip su una figlia fuori di testa e drogata piuttosto che su di te”.

“Drogata?” domando.

Lei si blocca e fissa gli occhi di suo fratello. Tra i due scorre una conversazione fatta di soli sguardi. Julianne si gira a guardarmi “Sai, è un modo di dire. Come per dire una scapestrata”. Mi guarda dritto in faccia. Se fosse un'altra persona darei per scontato che si tratta della verità, ma dalla sua espressione ombrosa direi che sta mentendo e che è sta nascondendo più di quanto sembri dietro quegli occhi indefiniti.
Comunque fingo di crederle e annuisco. “Ci conviene tornare di là prima che mandino qualcuno a recuperarci”.

Annuiscono in contemporanea e mi seguono. Torniamo in salotto aiutando Henry a non appoggiare troppo peso sul ginocchio che ha sbattuto e lo facciamo accomodare su una sedia. April gli si materializza al fianco “Stai bene, pulcino mio?” gli passa una mano tra i capelli, ma a differenza del gesto di sua sorella questo è più forzato, quasi dovuto e poco sentito.

“Alla grande. Solo una lieve contusione” la tranquillizza.

April sorride “Bene. Torno in cucina a finire di preparare la cena”.

“Ti aiuto, cara” afferma papà seguendola.

Dopo la loro dipartita cala un silenzio imbarazzante che avvolge tutti. Dylan ed Henry guardano ovunque tranne che l'uno verso l'altro. Chastity non fa altro che fissarmi intensamente come un leonessa a caccia. I signori Rogers indossano il solito sorriso cordiale di circostanza, mentre Julianne resta ferma al fianco di suo fratello, come una guardia del corpo in miniatura.

“Allora” comincia Amanda “voi due siete gemelli, non è vero?”. Mi sembra alquanto scontato.

“Sì, eterozigoti” conferma Henry scoccando uno sguardo affettuoso alla sorella.

“Strano, non vi assomigliate molto” commenta. Non esteticamente. Julianne ed Henry sono come l'acqua e il fuoco. Dolce e salato. Venere e Marte. Ma sono molto più simili di quanto sembri. Hanno espressioni e modi di fare completamente identici. Si guardano come se i loro cervelli fossero collegati telepaticamente. E sono certo che non ci sia nessuno che conosce Julianne come Henry, e viceversa.

“No, direi di no” asserisce Henry cordiale. Julianne fissa Amanda assolutamente inespressiva.

“Avete gli stessi gusti?” chiede curioso Brandon. Alcuni direi di si.

I fratelli si guardano complici, comunicando mentalmente.“Diciamo che abbiamo qualche interesse in comune” mormora lei, cercando di soffocare un sorriso.

“Sai, Julianne” comincia Amanda, facendo storcere impercettibilmente il naso alla diretta interessata. “La tua foto che April ha nella sua boutique non ti somiglia molto”.

Julianne dietro la schiena si pizzica l'interno del braccio e sopprime la sua vera risposta nel profondo del suo cervello. “Le persone crescono in due anni” mormora piatta.

Amanda si aggiusta la gonna “Il tuo è stato un vero e proprio cambiamento radicale”.

Julianne diventa di legno “Immagino di sì”.

Amanda non percepisce il segnale di pericolo e continua dritta come un treno “ Suppongo che in assenza di una figura materna e con un padre del genere..”

“Come prego?” la interrompe alzando la voce. Henry gli prende la mano e gliela stringe, ma non credo che una strizzatina basti a rimettere la bestia in gabbia.

“Dico soltanto che con un padre così poco presente e così inaffidabile, è quasi scontato che una giovane donna perda la retta via”. La signora Rogers non è famosa per il suo tatto.

L'espressione di Julianne diventa glaciale, i suoi occhi si scuriscono diventando quasi neri e mi sorprende non sentirla ringhiare. È come osservare un disastro aereo e non poter far nulla per fermarlo.

“Nostro padre è una persona eccezionale e papà fantastico” si intromette Henry “Così come nostra madre. Noi non facciamo distinzioni di nessun tipo e gradiremmo che altre persone facessero lo stesso”. La sua intrusione blocca la rabbia di sua sorella e chiude la bocca della signora Rogers. Ha espresso i pensieri di Julianne, ma in maniera più educata e priva di imprecazione.

“Ma certo” asserisce Brandon. Evidentemente è il segnale che impone alla moglie di smetterla perché lei cambia bersaglio.

“Aaron, caro” mi guarda “Come va la scuola?”.

“Bene” borbotto. È iniziata da due giorni ma per ora va bene.

“Sei stato rinominato capitano della squadra di Lacrosse” afferma Brandon fiero “Cos'è il tuo secondo anno di fila come capitano?”.

“Il terzo, in realtà” lo correggo “Ma lo sono solo grazie alla decisione dei miei compagni” sorrido verso D.

“Ho cercato di convincere Dylan a proporsi come capitano ma si è rifiutato categoricamente” afferma scontento.

Lui si intromette “A. è il nostro capitano da tre anni, papà. La squadra va alla grande con lui al comando, perché cambiare qualcosa che funziona alla perfezione?”. La verità è che Dylan non ama prendere decisioni definitive e sotto pressione, ma soprattutto non ama stare al centro dell'attenzione. Il compito del capitano è proprio quello. Le mie decisioni sono quasi sempre prese di getto e completamente prive di ponderatezza.

“Alcune volte, delle idee nuove posso migliorare una situazione già perfetta”. Non sono sicuro sia un insulto oppure no. In ogni caso non mi interessa, la squadra ha scelto me e così resterà per tutto l'anno.

“La leadership di Aaron funziona magnificamente, papà” mi difende Dylan.

“Sì, certo” conclude Brandon. Sono quasi sicuro che avrebbe voluto ribattere ancora, ma non mentre sono presente. “Voi praticate qualche sport?” si rivolge ai gemelli.

Henry scuote la testa mostrando l'inalatore “No, l'asma non me lo permette”.

Brandon fa una smorfia dispiaciuta e un po' schifata, poi fissa Julianne “E tu?”.

“Preferirei farmi tagliare un gamba piuttosto che fare sport, ma siccome siamo obbligati a scegliere dovrò fare qualcosa per forza. Non so ancora cosa però”.

Amanda squittisce “Perché non provi per le cheerleader! Sono sicura che Chastity potrebbe mettere una buona parola per te con Giselle”.

Chastity inclina il labbro inferiore, visibilmente inorridita “Non servirebbe. Giselle non ascolta nessuno quando si tratta di comandare”. Lei è solo al terzo anno e si sa che Giselle non calcola nessuno più giovane di lei.

“I pon-pon non sono nel mio stile, comunque” grugnisce Julianne.

“Oh, beh tentare non nuoce” afferma Amanda.
In realtà nuoce eccome. Giselle imploderebbe di spontanea volontà se vedesse Julianne con addosso una delle divise della sua squadra. Successivamente proverebbe a strappargliela di dosso con i denti.

April salta fuori dalla cucina tutta estasiata “È pronto!” trilla. Ci alziamo tutti velocemente, felici di poter abbandonare una conversazione imbarazzante e priva di qualunque sentito interesse.

“Per voi ragazzi abbiamo apparecchiato in cucina, siamo troppi per il povero tavolo del salone” ci scorta in cucina facendoci accomodare intorno all'isola di marmo. Andy riappare dalla taverna e si siede accanto a me con l'aria annoiata. Ogni coppia di fratelli è seduta ad un lato del tavolo e cerca di mascherare l'imbarazzo. April appoggia in mezzo a noi diverse pirofile piene di cibo e poi sparisce in sala con papà alle calcagna.

Nella camera cala un denso silenzio pieno di tensione. Nessuno guarda negli occhi nessuno e tutti fissano il proprio piatto che si riempie di cibo. Andy osserva Chastity con la bava alla bocca, mentre mette in bocca una foglia di insalata. Per i ragazzi del suo anno lei è praticamente una divinità irraggiungibile e per lui averla così vicina è un'esperienza mistica. Vorrei dirgli di starle lontana, che lo potrebbe divorare in un sol boccone lasciandolo con il cuore in mille pezzi, ma tanto non mi darebbe retta.

Il nostro silenzio si mescola alle risate e alle chiacchiere inconsistenti provenienti dal salone. Nessuno di noi vorrebbe davvero essere qui. Forse solo Andy.

“Allora” comincia Chastity “come vi trovate nella città dei predicatori e degli anziani?”.

“Non è poi così male” asserisce Henry prendendo una cucchiaiata di purè.

“Scommetto che la California era un molto meglio di questo posto dimenticato da Dio” mormora sognante lei.

“Come sai da dove veniamo?” chiede scortese Julianne.

Si guardano negli occhi, valutando gli esiti di un possibile scontro. Tra una leonessa e una tigre non saprei chi ne uscirebbe trionfante. Scommetterei su Julianne solo perché l'ho vista in azione e Chastity in fondo non è affatto una stronza.

“Giselle ha ordinato a tutte le ragazze della squadra di indagare su di te” le risponde senza mezzi termini. Julianne stringe i denti “E come mai me lo vieni a dire?”.

“Sono piuttosto sicura che da questa storia l'unica che ne uscirà in piedi sarai tu, perciò”. Lo penso anche io. Tra le due scorrono una serie di sguardi di valutazione. “E perché dovrei fidarmi di quello che dici?”. La diffidenza di Julianne è quasi scontata.

“Perché, a differenza di Giselle, tu mi piaci” afferma mescolando l'insalata “E poi perché voglio il trono su cui è seduta a scuola. Mi tratta sempre come se fossi la mascotte e mi assegna sempre compiti schifosi. Voglio il suo scettro del potere e tu sei l'unica alleata che sono sicura non farà il doppio gioco”.

“Chas...” borbotta Dylan scuotendo la testa “Finirai per farti distruggere. Perché non ti limiti a sopravvivere?”.

Lei lo guarda scocciata “Il tuo esistere nell'ombra non fa per me, fratellone. Nascondere la testa nella sabbia è più il tuo stile, io voglio vivere a modo mio”. Dylan guarda per la prima volta Henry da quando è arrivato. Nei suoi occhi rimbomba una tristezza disarmante. Deve essere mostruoso non poter essere ciò che realmente si è.

“Continuo a non fidarmi di te” la informa Julianne addentando una carota.

Chastity ridacchia “Lo sospettavo. Giselle ha saputo della cena a casa degli Anderson e mi ha ordinato di frugare in camera tua alla ricerca di qualcosa di scandaloso con cui colpirti”.

Julianne spalanca la bocca scioccata. Sì, Giselle è un mostro infido, su questo non c'erano dubbi.

“E quali sarebbero le tue intenzioni?” domanda inclinando un sopracciglio.

Chastity si sistema la lunga treccia e le sorride “Dipende tutto da te. Mi aiuterai a soverchiare la regina delle stronze?”.

Julianne fissa il piatto pensierosa. Gli ingranaggi della sua testa valutano la situazione accuratamente. So che non si fida di lei, non credo che si fidi di nessuno in questa stanza a parte Henry. “Non posso permettermi di fare casini” mormora piano.

Chastity inclina la testa “Non dovrai fare nulla di eccezionale. Essere te stessa è già abbastanza, al resto penso io”.

“Okay, allora” asserisce alzando le spalle.

Chas batte le mani estasiata e afferra l'Iphone. Digita veloce sulle schermo e ridacchia contenta.

“Le ho detto che la tua camera è chiusa a chiave e che non riesco a trovare nulla. Non ne sarà affatto contenta”. Il suo cellulare bippa e lei ride più forte “È incavolata marcia. Meraviglioso”.

“Non se la prenderà con te?” chiede Henry

“Oh, no. In questo momento il tormento della sua vita è Julianne, al resto non pensa” le punta un dito contro “Stai pronta, sguinzaglierà tutte le sue cagne per trovare un tuo punto debole. Appena so il suo nuovo piano ti avverto” si allunga oltre il tavolo e afferra il cellulare di Julianne. Digita rapida e poi glielo ripassa. “Ti ho salvato il mio numero e mi sono presa il tuo. Dobbiamo tenerci in contatto” le fa l'occhiolino e si rimette a mangiare.

 

Il resto della cena passa senza altri colpi di scena o altri patti segreti tra ragazze. La conversazione si stanzia su argomenti leggeri e privi di significato. Julianne mangia in silenzio e inespressiva, chiudendo tutti fuori dalla sua testa. Henry e Dylan si scambiano occhiate furtive di continuo, Chastity ridacchia e pianifica ed Andy la guarda estasiato. Io osservo il profilo di Julianne mentre rimugina internamente sulle decisioni prese. Mentre è concentrata le si forma una rughetta tra le sopracciglia. È bellissima, ma non come quando sorride. Non c'è nulla di più bello di lei che sorride con sincerità.

April infila la testa in cucina “Siete liberi di andare una volta finito di mangiare. Limitatevi a mettere i piatti nella lavastoviglie, al resto ci penso io” sorride e torna nell'altra stanza.

Eseguiamo tutti i suoi ordini. Andy si rifugia in camera sua, Henry si fionda nel bagno, io trascino D. in camera mia, mentre Chastity segue Julianne in camera sua.

Dylan siede rigido sul mio letto fissando intensamente la porta del bagno. Lo guardo tentare di sopprimere le sue emozioni e non resisto più. “Oh mio Dio!” gemo “Vai a parlare con lui”.

Mi guarda sofferente “Io non posso...”

Lo afferro per braccio muscolo e lo tiro in piedi “Tu puoi fare tutto” lo spingo verso la porta.

Esita con la mano sulla maniglia. “Avanti D. È la tua occasione per essere felice” lo sprono.

Sospira facendosi forza ed entra in bagno con un movimento fluido. Mi allontano dalla stanza lasciandogli la privacy che si meritano. In piedi in corridoio osservo Chastity che tocca tutte le cose in camera di Julianne e quest'ultima che la fissa assassina. “Per essere una che non deve ficcanasare, stai frugando dappertutto” grugnisce infastidita.

Chastity posa una palla con la neve di Los Angeles da dove l'aveva presa “Scusa” si guarda intorno “È che la tua stanza è fantastica. E poi hai vissuto in una grande città quindi chissà quante cose hai visto e quante esperienze ti sei fatta”. Vivere in un buco limita moltissimo i sognatori.

“Tra due anni andrò via di qui verso una delle due coste. Molto probabilmente verso la est. Voglio il sole e il mare” sospira. “Tu dove andrai dopo il diploma?” chiede curiosa.

“Non lo so” borbotta Julianne piatta. Non le dirà mai dove vuole andare, soprattutto non dopo un'ora di conoscenza.

“Il mio sogno è la UCLA, a Los Angeles” spiega. Julianne non commenta e Chastity lo prende come un invito a continuare “Vorrei laurearmi in Scienze Politiche”. Non mi sorprende. Ha di certo un futuro in politica.

“Chastity! Dylan!” trilla la voce del signor Rogers su per le scale. Lei si alza dal letto e si sistema i capelli “È stato un piacere conoscerti” si avvia verso la porta “Ti tengo informata sulla nostra campagna di detronizzazione”.

“Okay” sospira Julianne indifferente.

Chastity mi passa vicino e mi sfiora il braccio “Aaron” miagola. Il solito formicolio che mi procurava non arriva e ne sono davvero felice. “Ciao” biascico allontanandomi di qualche passo. Julianne ci osserva corrucciata. Vedo quello che pensa attraverso i suoi occhi. Sa che Chas e io non eravamo solo amici un tempo.

Dylan esce dal bagno tutto trafelato, intento a sistemarsi la maglietta e a celare il rossore alle guance. Chastity lo osserva curiosa e inclina la testa “Interessante” mormora.

Lui la spinge verso le scale “Andiamo”. Insieme scendono al piano inferiore, sparendo.

Henry sbuca dal bagno lentamente e guardandosi intorno. Ha anche lui le guance rosse ed è leggermente spettinato. Ha gli occhi che luccicano e sembra davvero felice, più rilassato.

Julianne gli molla un pizzicotto in un fianco “Proprio discreto” ridacchia.

“Wow” commenta inebriato. Julianne ridae e torna in camera sua, Henry ed io la seguiamo.

“Ti fidi di quella Chastity?” le chiede il fratello.

Julianne si infila tra le coperte “Nemmeno un po'. Per il momento mi limito a stare al gioco”.

“Non è una stronza come Giselle o Savannah. Puoi fidarti” affermo. Lo sguardo freddo di Julianne mi trapassa, ma non dice nulla. Henry le si siede accanto “In ogni caso stai attenta, mi raccomando”.

Sbadiglia “Sì, tranquillo. Ora andate via, ho avuto troppe interazioni sociali per oggi” lo spinge verso il bordo. Lui le scocca un bacio sulla testa e si alza. Mi accompagna fino fuori dalla stanza e poi si chiude la porta alle spalle.

“Lasciala un po' sola. Ha bisogno di spazio alcune volte” mi consiglia. “Quando vedrai la porta aperta allora potrai tornare a tormentarla. Ora come ora faresti solo danni”.

Siccome è il miglior intenditore di Julianne, ascolto il suo consiglio e torniamo in camera nostra.

 

Verso le tre del mattino mi ritrovo sveglio come grillo a rigirarmi nel letto. Le coperte mi si aggrovigliano intorno alle gambe, intrappolandomi. Ho caldo e sete. Vorrei alzarmi e correre un po' ma tra quattro ore c'è scuola, dovrei provare a riaddormentarmi. Chiudo gli occhi e mi concentro su qualcosa di bello. Nulla. Provo a contare le pecore, ma nulla. Fisso il buio che ricopre la stanza e ascolto il leggero russare di Henry che sbatte contro le pareti. Nulla, il sonno ha deciso che per stanotte abbiamo finito.

Scaccio le lenzuola e mi alzo. Faccio una capatina in bagno e poi attraverso il corridoio verso le scale. Punto verso la cucina alla ricerca di qualcosa da bere. Passando davanti alla stanza di Julianne trovo la porta spalancata. Sbircio dentro e il suo letto è vuoto. Lei è sdraiata sotto la finestra intenta a fissare il cielo. Indossa dei pantaloncini del pigiama e una maglietta. I capelli le ricadono intorno alla testa come un'aureola scura. Mentre pensa di non essere osservata ha l'aria così triste e malinconica. Guarda il cielo come se potesse rispondere ai suoi quesiti esistenziali.

Entro silenziosamente nella stanza e piano mi sdraio al suo fianco sulla moquette. Non si volta a guardarmi e non protesta.

La luce della luna le illumina il viso.“Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano verso le stelle” sussurra “Oscar Wilde”. Allunga un dito verso il cielo e sfiora una stella.

“Non riesci a dormire?” le chiedo.

Chiude gli occhi e sospira piano “Di notte dormo molto raramente”.

“Come fai a non crollare di giorno?”.

“Dormo quando c'è il sole. Di notte preferisco guardare il cielo. Pochissime persone vedono le stelle nel cuore della notte, ma quasi tutti vediamo il cielo di giorno” allunga le braccia e appoggia la testa sui palmi. Muovendosi alza una nuvola di profumo al cocco che mi avvolge.

“Tu e Chastity siete stati insieme, vero?” chiede di botto. So che non è una vera e propria domanda.

“L'anno scorso, per un mesetto. È completamente finita” affermo serio. Su questo punto non transigo.

“Lei non sembra dello stesso parere” si gira verso di me. Faccio lo stesso e ci troviamo faccia a faccia, sulla moquette e sotto le stelle. “Non è un problema mio se non l'ha superata”.

La luna le crea delle strane ombre sul volto “Credi sia così facile? Ti insinui nella vita di qualcuno e poi ne esci sperando che a lei passi come è passata a te?”.

“Per me non era mai cominciata. Se fosse iniziata davvero non l'avrei più lasciata andare”. La guardo dritto negli occhi sperando che capisca.

“E come fa una ragazza a capire se per te è iniziata davvero o è solo un nuovo passatempo?”.

“Se fossi sdraiato sulla moquette con qualcuno alle tre di notte allora sarebbe cominciata” mormoro. È la cosa più vicina ad una dichiarazione che abbia mai fatto. Il suo sguardo viaggia su ogni singolo dettaglio del mio. “No” sussurra. “Non posso lasciarti entrare senza avere la certezza che resterai”.

“Io resterò” affermo serio. Sono fottutamene serio. Come mai nella vita. “Te lo proverò”.

Mi osserva a lungo poi torna a guadare il cielo. Restiamo in silenzio per parecchio prima che mi decida a parlare. “Julianne?”.

“Si?”.

“Dove vuoi andare dopo il diploma?” Mi è rimasto il pallino da quando glielo ha chiesto Chas.

Mi guarda negli occhi “Juilliard” afferma.

“New York?”. Annuisce. “Pensavo volessi tornare in California”.

“Tornerei in California per non stare qui, ma questo non significa che voglia vivere lì per sempre”.

“Ti ci vedo alla Juilliard” commento. La vedrei ovunque a dire la verità.

“Tu?” chiede. I suoi occhioni splendono al buio.

“Pensavo alla Brown per il lacrosse. Ma sto valutando anche la Berklee, la scuola di musica”.

“Quale preferiresti?” domanda.

“In realtà la Berklee. Vorrei vivere di sola musica, ma papà crede che non sia un'idea grandiosa e che dovrei fare qualcosa di più concreto”.

Giocherella con una ciocca di capelli “Penso che non ci sia nulla di più concreto della musica e che alla fine se è veramente quello che vuoi, è quello che devi fare. Degli altri chissene frega”.

“Non è mai così facile”.

“Già”. Sospira e si stiracchia.
Restiamo in silenzio per un po', ascoltando l'uno il respiro dell'altra.

Passiamo la notte sotto una finestra a parlare di tutto tranne delle cose importanti. Mi parla dei suoi tatuaggi. La rondine le ricorda il padre, che la chiama J-Bird sin da quando è piccola. Il simbolo della pace che ha dietro l'orecchio lo ha fatto insieme e Scarlett, la sua migliore amica. Sul dito medio della mano destra ha la scritta Truth, verità. Il pennello sull'altro braccio è dedicato alla sua passione per la pittura. E ha anche una chiave di violino sulla spalla destra.
Mi racconta del perché è diventata vegetariana e della sua nemesi al liceo. Mi racconta di alcune delle cicatrici che le vedo sul corpo e di alcune rimane in silenzio. Quando lo fa attacco io a parlare. Le dico tutto quello che c'è da sapere su di me. Su come abbiamo formato la band e su come sono diventato amico di ognuno dei ragazzi. Le parlo del lacrosse e di come me ne sono innamorato in quarta elementare. Le spiego che ho scelto come numero di maglia il sedici perché era il numero preferito di mia madre. Mentre parlo di lei, Julianne fa scivolare una mano nella mia e mi accarezza il dorso con il pollice. Le parlo della nascita di Liv e di come le complicazioni del parto abbiano dato alla luce una vita, ma ne abbiano portata via un'altra. Le confesso che per un po' ho odiato Olivia fino allo sfinimento, incolpandola della morte della mamma. Qualsiasi cosa dica lei continua a guardarmi con la stessa espressione rilassata. Non giudica. Non commenta. Si limita ad ascoltarmi e a compiere giri circolari sul mio dorso con il pollice.

Verso le cinque del mattino si raggomitola contro la mia spalla e chiude gli occhi. La guardo dormire mentre il sole sorge e la stanza si illumina lentamente. Verso l'ora di colazione la prendo in braccio e delicatamente la poso sul suo letto e la copro con il lenzuolo.

Esco dalla stanza lasciandola riposare e torno in camera mia.
Henry è seduto tra le coperte con i capelli tutti arruffati e una strana espressione confusa dipinta in faccia. Quando varco la soglia mi guarda stralunato “Dov'eri?” biascica.

“Non ho dormito molto stanotte”. Mi guarda corrucciato. “Mi sono alzato a prendere da bere e la porta della camera di tua sorella era aperta”.

Si stropiccia gli occhi “Stava guardando il cielo?”. Annuisco facendolo sorride “Hai colto il momento migliore. Ottima mossa”. Sbadiglia e si ributta sul cuscino “Cerca di non fare stronzate durante la giornata”. Sembra più facile a dirsi che a farsi. 

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Capitolo 17
*** Julianne ***


Julianne

 

È stata la notte più strana di sempre.

Bella, ma davvero strana.

Passare le ore notturne sdraiata sul pavimento a fissare il cielo è diventata ormai un'abitudine per me. È fantastico osservare il firmamento nel silenzio più totale.
Non immaginavo che potesse essere ancora meglio con qualcun altro. Stare insieme ad Aaron, parlando di tutto e di niente, si è rilevato incredibilmente piacevole. Non lo ammetterò ad alta voce neanche sotto tortura, però mi sono divertita davvero. È così facile conversare con lui, ed è altrettanto facile ascoltarlo. Mi ha sommerso di leggere domande senza molta importanza. Quel tipo di cose che chiedi alle elementari quando ti stai facendo degli amici. Qual è il tuo colore preferito? Il mio il verde. Il suo il rosso. Quand'è il tuo compleanno? Il mio il 18 febbraio. Il suo il 26 aprile. Naturalmente l'ho preso in giro perché tecnicamente è più piccolo di me. La sua risposta matura è stata darmi un pizzicotto in un fianco, che mi ha fatto ridare come una scema.

Qual è il tuo animale preferito? Il mio il gatto. Il suo l'ornitorinco. L'ho preso in giro di nuovo meritandomi un altro pizzicotto. Ha giustificato la sua scelta dicendo che l'ornitorinco è il mammifero più strano e unico al mondo. Ha le caratteristiche di moltissimi altri animali ed è molto sottostimato. Poi ha criticato la mia scelta, giudicandola banale e allora sono stata io a pizzicare lui. La nottata è andata avanti così finché non si è messo a seguire i contorni dei miei tatuaggi con l'indice, facendomi palpitare il cuore. Gli ho spiegato i significati di quelli visibili e alcuni di quelli che non aveva notato. L'unico di cui non ho parlato è la scritta sulle costole.

Successivamente la sua esplorazione del mio corpo è passata alle cicatrici visibili. Le ha sfiorate tutte ascoltando attentamente le loro storie e facendo finta di niente quando per alcune restavo in silenzio. Poi è arrivato il suo turno di parlare. Mi ha raccontato della sua famiglia, dei suoi amici e della musica. I suoi occhi verdi si sono adombrati quando mi ha parlato della morte della sua madre. Allora ho fatto l'unica cosa che non mi sembrava banale e gli ho stretto la mano con la mia.

Dopo qualche ora il mio corpo ha cominciato a rilassarsi e ad abbassare i muri e mi sono addormentata addosso a lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

 

Quando riapro gli occhi il calore di Aaron non mi culla più e mi ritrovo tra le lenzuola del mio letto, completamente sola. Il sole illumina la stanza ed è ora di tornare alla realtà. Mi alzo, mi lancio sotto la doccia e mi vesto. Indosso un paio di jeans sbiaditi e un maglione color smerlando, infilo le Converse e prendo la borsa. Scendo in cucina e quando varco la soglia mi ritrovo in una caos bestiale. Liv è ricoperta dalla testa ai piedi di cereali e latte al cioccolato. Mamma e Jim tentano di asciugarla e di pulire il macello che ha combinato. Cole e Andrew litigano per l'ultimo muffin facendo a spadate con le forchette. Henry è fermo con la schiena premuta contro il frigorifero e gli occhi sbarrati. Stringe la sua tazza frapponendola tra se stesso e il caos.

“Livvie avanti, ti devi asciugare. Non puoi fare tardi a scuola” le dice mamma. Liv sbatte la tazza di plastica schizzando altro latte al cioccolato. “Io non ci vado! La scuola elementore fa schifo!” urla e tira cereali. Jim sospira “Elementare, amore” la corregge. Non mi sembra esattamente il momento per discutere gli errori ortografici.

“La scuola piace a tutti, Livvie” riprova la mamma.

“Non è vero” ribatte Cole parando un affondo del fratello con il cucchiaio.

“Non adesso!” lo rimprovera severamente il padre, poi si rende conto del loro duello e si intromette “Smettetela voi due! Non fatemi venire lì” grugnisce tentando di avvolgere Liv con un asciugamano. Lei continua ad urlare e ad agitare la tazza.

Sembra di essere nella giungla.

Il profumo mascolino di Aaron mi avvolge quando appoggia una mano sullo stipite sopra la mia testa. Alzo il capo e lo guardo osservare la cucina. È bellissimo con i capelli umidi e spettinati.

Mi negli occhi e sorride “È un tipico mercoledì mattina”. Entra nella stanza, si infrappone tra i fratelli e agguanta il muffin tanto conteso. Me lo lancia e lo afferro al volo. Prende tre thermos, li riempie di caffè e ne porge uno a Henry, togliendogli di mano la tazza vuota.

“Chi vuole un passaggio a scuola si muova ora, se no vi arrangiate con l'autobus” asserisce a tutti i presenti. Mi porge uno dei due thermos e mi conduce delicatamente verso la porta d'ingresso. Henry ci segue, così come Cole e Andrew.
April salta fuori dalla cucina spettinata e macchiata di cacao. “Non ho potuto farvi il pranzo stamattina, siamo in piena crisi scuola elementare” si aggiusta una ciocca “Puoi accompagnare anche Cole, Aaron?”. Lui la guarda infastidito ma annuisce.

“Grazie” afferra il portafoglio e passa a tutti dei soldi per il cibo, poi corre di nuovo in cucina.

Aaron se li infila in tasca “Forza, muovete le chiappe” spinge tutti fuori, verso la sua macchina.

Saliamo tutti sulla Boss, Cole davanti perché è il primo a scendere. Mangio il mio muffin e bevo il caffè guardandolo guidare. Ogni tanto lo becco a sbirciarmi attraverso lo specchietto retrovisore e mi ritrovo a sorride.

 

Una volta arrivati a scuola ognuno si muove verso la propria destinazione. Raggiungo la classe di trigonometria svuotandomi in gola tutto il caffè rimasto. Entrando, Dottie mi saluta con la mano e mi fa segno di raggiungerla. Mi siedo accanto a lei, guadagnandomi un abbraccio da orso. “Come stai?” trilla allegra.

“Sono sopravvissuta alla colazione, quindi direi bene” appoggio i libri sul tavolo.

I riccioli biondi sballonzolano quando ridacchia “Scommetto che in otto si sta un po' stretti”.

“Non ne hai idea” sospiro.

“No, nemmeno un po'. Sono figlia unica” asserisce tristemente.

“Vuoi fare a cambio? Ti cedo tutti tranne Henry. Lui è l'unico salvabile” le propongo.

Dorothea ride scuotendo la testa “Non potrei mai essere la sorella di Aaron, fare troppi pensieri impuri” arrossisce come un peperone. Già, a chi lo dici.

“Sei pronta per una entusiasmante lezione di trigonometria!?” squittisce piena di vita “Non trovi che la matematica sia meravigliosa?”. Come un dito in un occhio.

“No. Assolutamente no” Lego i capelli in una coda.

Dottie si imbroncia “Come fa a non piacerti? Non c'è nulla di più lineare della matematica”.

“Io trovo che sia un casino. Soprattutto da quando si è mischiata con l'alfabeto” spiego. Lei apre il suo quaderno di appunti. Ogni scritta e ogni calcolo è perfettamente ordinato e pulito. Niente sbavature o cancellature nervose. Il mio in confronto sembra un campo di guerra.

“La matematica è una delle mie passioni. Adoro come ogni cosa vada al suo posto e che abbia una spiegazione logica”. Vorrei poter essere d'accordo.

Il professore entra nella stanza e la classe si azzittisce. Durante la lezione mi ritrovo a fissare la lavagna cercando di capire come diavolo sia possibile fare un calcolo senza che ci sia nemmeno un dannato numero. Ci sono tutte le lettere dell'alfabeto ma neanche uno straccio di numero. Mi lamento così di frequente che Dottie si impietosisce e mi fa sbirciare il suo quaderno. Quando vengo chiamata alla lavagna, resto imbambolata con il gesso in mano e completamente priva della più pallida idea di cosa fare. Il professore mi fissa e io fisso lui. Quando capisce che non cavo un ragno dal buco, mi manda a posto con una sfilza di esercizi da fare a casa per rimettermi in pari con il programma. Alla fine dell'ora, ho sbattuto la testa sul tavolo talmente tante volte che sono sicura di aver un bernoccolo enorme proprio in mezzo alla fronte.

“Ti posso aiutare io” si propone Dottie “Se vuoi oggi pomeriggio puoi venire da me e facciamo insieme i tuoi esercizi. Sono un'ottima tutor, o almeno così dice Pey”. Il mio primo istinto sarebbe quello di dire di no, di non creare alcun legame con nessuno. Non resterò qui, quindi non è necessario cercarsi degli amici. Ma Dorothea è così dolce e sincera che non resisto e le dico di sì. Ci diamo appuntamento davanti alla mensa, lei si incammina verso la sua prossima lezione e io faccio lo stesso. La lezione di fisica si svolge nello stesso identico modo di quelle di matematica. Non capisco nulla e finisco per sbuffare e lamentarmi. L'unica cosa diversa è che qui Dorothea non c'è, ma in compenso c'è Matt che continua a provare a fare conversazione anche quando è chiaro che non ne ho voglia. La giornata sono sicura che peggiorerà. Nell'aria c'è una strana elettricità, come se si percepisse che sta per succedere qualcosa di terrificante.

Mi trascino verso chimica sperando che un fulmine mi colpisca in pieno, fornendomi una buona giustificazione per non andare a lezione. Potrei usare il bonus della consulente scolastica ma sono già due giorni di fila che vado da lei. Se continuo così penserà che lo faccio perché voglio veramente parlare con lei. Ieri l'ho usato per evitare francese con Aaron, oggi devo resistere tutto il giorno senza scappare.

Entro in classe e mi dirigo verso il mio banco. Sono così immersa nei miei pensieri che non vedo la gamba secca di Savannah finché non ci inciampo in mezzo. Finisco a terra con un botto e sparpagliando per l'aula tutte le mie cose. La mia rovinosa caduta fa scattare una risata di gruppo. La bestia nel mio cervello ringhia affamata di carne di stronza. Savannah mi fissa schifata dal suo tavolo “Oopss” si porta una mano alla bocca, fingendo stupore “Non l'ho fatto apposta. Colpa mia”.

“Signorina Roux!” gracchia la professoressa Layosa dalla cattedra “Ha intenzione di passare la lezione sul pavimento?”. Nemmeno le frega se mi sono spaccata l'osso del collo.

Due mani enormi mi afferrano per i fianchi e mi ritrovo in piedi. Lip mi tiene saldamente mentre fisso con odio la stronza che mi ha fatto inciampare. “Non puoi pestarla qua dentro” mi bisbiglia passandomi i libri. Dio quanto lo vorrei.

“Dobbiamo aspettare che faccia notte o ha intenzione di raggiungere il suo banco prima o poi?” chiede perfida la Layosa. Lip mi da una spintarella verso il nostro banco, ci sediamo e la professoressa comincia a spiegare.
Savannah mi fissa dal suo trespolo di presunzione fiera di se stessa. Quanto vorrei strapparle quell'espressione compiaciuta dalla faccia a pugni. Lip mi tira il braccio e alza la manica del maglione “Ti sei sbucciata il gomito” afferma fissando il sangue che gocciola fuori dal taglio. Mi porge un fazzolettino e mi tampono l'abrasione immaginando i possibili modi per spaccarle tutti i denti.

“Fissarla in quel modo non la farà andare a fuoco magicamente” mi comunica.

“Nessuno mi impedisce di sognare” borbotto. Lui ridacchia e inizia a prendere appunti.

“Signorina Roux!” sbraita la strega. Salto sulla sedia sfiorando il contro-soffitto e la guardo infastidita. Oggi è particolarmente brutta. Indossa un completo giacca-pantalone fucsia con le rifiniture nere, ha delle orrende scarpe di camoscio scuro ed è truccata su i toni del viola.

Tutto quell'ombretto non le dona affatto.

“Mi sa dire come si bilancia questa reazione?” indica la lavagna con un dito rugoso. Mi porge da lontano il gesso, aspettandosi che mi alzi e che vada alla lavagna a fare non so esattamente cosa. Inclina un sopracciglio color paglia e aspetta. So che devo alzarmi e che alla fine non mi farà nemmeno provare a risolvere il quesito che mi ha posto.
Mi tiro su e la raggiungo, evitando accuratamente di passare vicino a Savannah. Non voglio finire di nuovo con il muso sul pavimento. La professoressa mi da il gesso e si accomoda sulla sedia con un'espressione perfida. Fisso la reazione con tutta la concentrazione che riesco a trovare. So che devo aggiungere dei numeri, ma la formula è così lunga che non so da dove cominciare. Allungo la mano verso una molecola a caso e la Layosa fa schioccare la lingua. “Mi pare ovvio che non abbia la più pallida idea di cosa fare” gracchia “È evidente che era troppo concentrata sulle interazioni interpersonali per ascoltare la lezione”. La classe ridacchia. “Ma dall'atterraggio che ha effettuato prima direi che ha ancora da lavorarci, non le pare?”.

Domanda retorica. Stai zitta, Julianne. Mi mordo la lingua.

Mi afferra il braccio sbucciato e lo osserva critica. I suoi artigli rossi mi si infilano nella pelle e sento l'impulso di staccarmi il braccio a morsi per liberarmi.

“Che peccato che non le si è rovinato uno di questi capolavori” mormora sarcastica.

Stronza.

Libero il braccio con irruenza “Non credo che le sia permesso toccare gli studenti in modo inappropriato” borbotto infastidita. Può insultare la mia intelligenza quanto vuole, ma non può insulare la mia arte.

Mi squadra rabbiosa “Sa invece cosa credo io, signorina Roux?” mi fissa dall'alto in basso “Che questo pomeriggio lo passerà in punizione” mormora divertita.

“Con quale motivazione?” esplodo.

Lei ride “Oh, cara. Non ho bisogno di nessuna motivazione, se dico una cosa è così” scribacchia su un foglietto rosa e me lo passa. La nota mi conferisce un'ora di punizione dopo le lezioni. Meraviglioso.

Vedo Lip che mi fa segno di chiudere la bocca ma da brava testarda quale sono non mi fermo davanti a niente. “Non può farlo!” protesto. “Questo è abuso di potere”.

“Io posso fare tutto. Come ad esempio spedirti dal preside per insubordinazione”.

“Insubordinazione?” sbraito.

Mi passa un altro foglio. “Esattamente” mormora piatta “Ti conviene avviarti. Sono sicura che imparerai in fretta la strada” mi guarda fredda e piena di rabbia. Vorrei sapere chi l'ha ridotta così. Smetto di protestare, raccolgo le mie cose e mi avvio verso l'ufficio del preside.

 

 

Fisso la porta del signor Richmond così a lungo che non mi sorprende affatto vederlo aprirla per primo. Mi osserva sorpreso “Julianne?” chiede. Sbuffo e gli porgo il foglio che mi ha dato l'arpia. Lui lo osserva corrucciato e la sua espressione da gigante buono scompare e viene sostituita da tanta rabbia e delusione. “Entri” grugnisce. Eseguo e mi siedo sulla sedia davanti alla scrivania. Lui si accomoda sulla sua poltrona e mi incenerisce con lo sguardo. “Mi aspettavo molto di più da lei, signorina Roux”. Già. Non è la prima volta che sento una frase del genere e non sarà di certo l'ultima.

“Ho scommesso molto ammettendola nel corpo studentesco della nostra scuola e mi aspetto che lei si comporti come una studentessa modello. Sopratutto visti i suoi precedenti”.I suoi occhioni marroni intrisi di delusione mi perforano la pelle. “Spero si tratti di un episodio isolato e privo di alcun retroscena.” Si piega e apre un cassetto della scrivania “Ma siccome non posso permettermi di commettere errori di valutazione, le chiedo di riempire immediatamente questo” appoggia sul tavolo un barattolo per l'analisi delle urine con il tappo rosso. Dio quanto odio quell'affare. Ne ho riempiti così tanti che lo stato dovrebbe regalarmi litri di acqua in omaggio.

“Dopo di che controllerò il suo armadietto” asserisce serio.

Vorrei urlargli contro che è un uomo pieno di pregiudizi e che quel barattolino se lo può ficcare su per il culo, ma sono in cima ad un cornicione e non posso rischiare di finire di sotto.

“La dottoressa Dawson la raggiungerà nel bagno”.

Raccolgo il dispenser della pipì e mi avvio verso la porta.

“Cerchi di non finire di nuovo in punizione signorina Roux, mi dispiacerebbe doverla espellere”.

Sì, certo, come no. Scommetto che non vede l'ora di avere una scusa valida per buttarmi fuori di qui.

Apro la porta ed esco finalmente dall'ufficio. Mi trascino fino al bagno delle donne e mi ci infilo dentro. Ogni gabbiotto è vuoto e sono felice che nessuno possa osservarmi precipitare nel vuoto. Scaglio il barattolino contro il muro con irruenza. Spero si frantumi in mille pezzi e che in tutta la città non ce ne sia un altro disponibile. Ma non va mai nulla come vorrei, perché il contenitore rimbalza contro lo specchio e rotola nel lavandino.

Sento l'impulso primordiale di urlare e di scappare il più lontano possibile da tutti. Vorrei poter bucare il soffitto e volare via da questo posto infernale. Vorrei poter finire nei guai senza che si pensi che ho ricominciato a drogarmi. Vorrei che tutto quanto andasse in modo diverso.

Il cuore inizia a martellarmi contro la cassa toracica, mozzandomi il respiro. Il sudore mi scorre lungo la schiena come una cascata. Mi accascio sulle mattonelle luride del bagno senza fiato. Iperventilo e la stanza comincia a girarmi intorno come una trottola. Stringo la testa fra le mani tentando di riacquistare il controllo.

Diventa tutto pesante.

Tutto così fottutamente pesante.

Mi raggomitolo in posizione fetale e provo a scacciare la crisi, ma non funziona. L'onda del panico mi sommerge e mi strascina sott'acqua. Chiudo gli occhi e immagino di essere altrove.

Inspira. Espira. Sento la voce della strizzacervelli del centro. Visualizza qualcosa che ti da serenità. Qualcosa che mi da serenità? Mi concentro sulla risata divertita di Henry. Sul viola dei capelli di Scarlett. Dipingere l'alba con papà...

Qualcuno mi tocca.

Delle mani mi accarezzano i capelli e una voce mi culla nella mia ricerca della serenità.

...le fusa di Kafka. Il suono delicato del violino. Due fantastici occhi verdi. Il cielo stellato e le dita che mi sfiorano la pelle.

Il cuore torna a battermi normalmente, il respiro si regolarizza e il bagno smette di vorticare. Mi ritrovo ad osservare le luci al neon che sfarfallano e gli occhi castani della dottoressa Dawson. Ho la testa coricata sulle sue ginocchia e lei mi accarezza i capelli dolcemente. “Stai meglio?” chiede delicata. Il modo materno che ha di toccarmi scopre una sensazione che per troppo ho cercato di celare nella zona più buia del mio cervello. La nostalgia della mamma brucia così intensamente che mi costringe a scostarmi con irruenza dalla dottoressa. Rotolo il più lontano possibile e cerco di mettermi seduta.

“Non sapevo soffrissi di attacchi di panico” si acciglia “sulla tua cartella non è riportato”.

Mi alzo ondeggiante, come un cucciolo di giraffa ai suoi primi passi. “La dottoressa del centro non lo riteneva un fatto rilevante” spiego.

Si alza da terra stizzita e si spolvera i pantaloni “Come poteva non ritenerlo un fatto rilevante?”.

Stringo il lavabo per darmi stabilità “Ha supposto fossero dovute all'astinenza, ma li avevo anche prima di drogarmi”. Infilo le mani sotto l'acqua gelata e riprendo lentamente coscienza di me.

“Perché non lo hai comunicato al centro?” chiede.

Scrollo le spalle e mi chino per bagnarmi il viso.

Gli attacchi di panico non sono una novità, li avevo anche prima che Jared mi introducesse alle droghe e anche prima che mamma ci lasciasse. Dopo essermi riabilitata sono diventati un po' più frequenti e, man mano che passa il tempo, sono sempre più rari. Era da un po' che non perdevo il controllo.

“Stai meglio ora?” si avvicina e mi tocca una spalla.

Me la scrollo di dosso e mi allontano di un passo “Alla grande”.

Annuisce incerta “Okay. Ora arriva la parte difficile” recupera il malefico barattolino di plastica e me lo porge.

“La vorrei informare che è uno spreco dei fondi scolastici. Sono pulita e intendo rimanerci. Solo perché quella strega della Layosa mi odia, non significa che io debba subire una violazione dei miei diritti” brontolo afferrandolo e dirigendomi verso un water a caso.

“Non mi sorprende che ti dia del filo da torcere” asserisce la dottoressa.

Mi fermo “Perché?”.

“Vedi, quando tua madre ha deciso di iscriverti qui, ha avuto un incontro con il corpo docenti al completo” mi spiega “Ha parlato con tutti della tua situazione assicurando che non avresti creato alcun problema e che eri una ragazza fantastica. Il preside era molto favorevole, ma essendo il suo regno una democrazia, ha chiesto il parere dei professori. Ognuno ha votato a favore o contro”.

“Mi faccia indovinare: la Layosa ha votato contro?” mormoro.

“Esattamente. La maggior parte ha votato a favore, i tuoi voti e le raccomandazione dai tuoi vecchi professori promettevano molto bene, ma la professoressa Layosa si è impuntata. Non credeva che saresti stata un bene per questa scuola e che eri solo una causa persa”.

“Simpatica”.

“È una donna vecchio stampo, molto legata ai suoi valori e alle sue idee. È intelligente, testarda e convinta di avere ragione” arriccia il naso divertita “In effetti vi assomigliate parecchio”.

“Lo prendo come un insulto” brontolo offesa.

“Sono sicura che cambierà idea su di te non appena vedrà che splendida persona sei” mi assicura con un sorriso. Annuisco e cerco di ricambiare il sorriso meglio che posso.

Mi infilo nel cubicolo e lei si volta di spalle osservando il soffitto, mentre riempio l'ennesimo barattolino della mia richiestissima pipì.

 

“Pulita al cento per cento” afferma la dottoressa Dawson mostrando il test delle droghe al preside Richmond. Lui indietreggia leggermente schifato quando lei gli avvicina il barattolino con la pipì. È stato lui ha volerlo e ora si deve arrangiare con le conseguenze.

Quando è abbastanza lontano, sospira soddisfatto. “Ne ero sicuro”. Sì, certo. “Credo che possiamo evitare la perquisizione nell'armadietto, lei che dice dottoressa?”.

Lei annuisce convinta “Sono pienamente d'accordo”.

“Bene, Julianne, puoi tornare alle tue lezioni. Cerca di non finire di nuovo nei guai” sorride congedandomi.

Esco dal suo ufficio alla velocità della luce e corro verso la prossima lezione. Entro nell'aula di francese proprio mentre sta suonando l'ultima campanella e mi lancio nel banco accanto ad Aaron con un tonfo. Della professoressa non c'è ancora traccia, meno male.

“Ehi, Speedy” sorride scrutandomi. Devo sembrargli una pazza, scompigliata e sottosopra come sono. “Tutto bene?”.

“Sì” appoggio i libri sul banco e cerco di sistemarmi al meglio. Sono tutta sudata. Mi alzo le maniche del maglione e cerco di sistemare la coda spettinata. I suoi incredibili occhi verdi seguono ogni mio movimento con attenzione, facendomi surriscaldare.

“E quello cos'è?” domanda indicandomi il gomito sbucciato. Mi ero completamente scordata di averlo. Durante il prelievo della pipì, la ferita ha continuato a sanguinare e mi ha macchiato l'interno della manica del maglione.

Inclino il braccio per mostrarglielo “Ho avuto un piccolo diverbio con la tua ex”.

Si acciglia “Quale?”. Sbuffo alzando gli occhi al cielo e lui ridacchia “Scherzo. Scherzo” alza le mani “Hai fatto a botte con Savannah?”.

Scuoto la testa “In realtà è stato più un incontro tra me e il pavimento, gentilmente offerto dal piede di Savannah”.

Sospira “Vorrei poter dire che è la prima volta, ma sarebbe una bugia. Mi dispiace per la sua stronzaggine”.

“Non è importante” affermo con un'alzata di spalle.

Mi prende la mano, intrecciando le dita con le mie. I suoi occhioni verdi si incastonano nei miei. “È importante invece”. È così serio e sincero che mi mette estremamente a disagio. Sfilo la mano, sorridendo imbarazzata. Lui non si scompone di un millimetro. “Grazie” bofonchio infilando l'unghia tra le pagine del libro di testo. Sento che mi guarda ma non riesco a fare lo stesso.

“Oh!” scatta facendomi sobbalzare. Si china verso lo zaino, ci fruga dentro come un minatore e ne estrae qualcosa. Infila la scarpa tra le gambe della sedia e mi tira verso di lui con un movimento fluido. Quando le nostre gambe si sfiorano, mi afferra il polso e mi alza la manica con delicatezza.

“Mia madre mi ha passato la fissa di portarmi dietro sempre qualche cerotto, per sicurezza” mi sventola davanti al naso un cerotto con dei cowboys e dei cactus blu. Molto western e mascolino, non c'è che dire.

Con attenzione scarta la medicazione e con la precisione di un chirurgo copre il taglio. “Ecco fatto” dice tastando il cerotto per assicurarsi che si attacchi bene.

Le sue dita mi sfiorano la pelle creando cerchi concentrici e facendomi mancare l'aria nei polmoni.

“Ora il tocco finale” si porta le nocche della mia mano alle labbra e, guardandomi dritta negli occhi, deposita un bacio delicato sulla pelle del dorso. Una serie infinita di brividi risale il braccio andando diritta al cuore e facendomi deglutire a vuoto. “Con un bacio passata tutto” mormora roco.

Ritraggo la mano cercando di non far trasparire l'agitazione, ma dal suo sorrisetto compiaciuto direi che non ci sono riuscita.

Siamo ancora attaccati e per la mia sicurezza mentale è meglio se non lo tocco per un periodo prolungato. Cercando di essere furtiva scivolo verso il bordo del banco e ripristino una cerca barriera tra noi.

La signora Bernard fa finalmente il suo ingresso in classe e non è dei migliori. È tutta trafelata e piena di libri e di fogli. Sembra che la sua giornata stia procedendo un po' come la mia.

Bonjour!” trilla scaraventando ciò che ha in mano sul suo tavolo. “Scusate il ritardo, ho avuto un problema da risolvere. Ora possiamo cominciare. Iniziate pure a conversare”. Si accascia sulla sedia e la classe esegue i suoi ordini.

L'ora di francese passa perfettamente senza intoppi. Aiuto Aaron con le coniugazioni dei verbi più ostici e lui mi osserva attentamente e ascolta. Finita la lezione, ci alziamo e insieme usciamo dall'aula. Mi dirigo verso l'ora di dibattito e mi rendo conto che Aaron mi cammina a fianco, mantenendo il mio passo.

Mi blocco in mezzo al traffico di studenti “Cosa fai?”.

Lui si ferma a sua volta, colpendo involontariamente un ragazzo più piccolo “Vado a lezione”.

“Nella mia stessa direzione?”. Mi guadagno una borsata da una ragazza e credo fortemente che l'abbia fatto di proposito. Aaron mi conduce nel corridoio e verso le scale “Si da il caso che frequentiamo la stessa lezione di dibattito. Ora sbrigati o finirai per essere calpestata”.

Saliamo i gradini “Perché solo io vengo calpestata?”.

“Perché sei alta un metro e un'oliva”.

Sbuffo stizzita “Non sono bassa! Sono alta nella media”.

Lui ridacchia “Certo, principessa”. Lo guardo male, facendolo ridere di nuovo. “Comunque è perché Giselle ha messo una taglia sulla tua testa e di sicuro una decina dei colpi che ti arrivano sono intenzionali” mi circonda con un braccio spostandomi dalla traiettoria di un bestione di duecento chili. Sì, forse ha ragione.

Arriviamo in classe tutti interi e ci sediamo al banco. Mi si siede vicino e non protesto, sto iniziando ad abituarmi alla sua vicinanza.
La stanza lentamente si riempie e ognuno trova il suo posto. Quando sembra che la lezione sarà tranquilla, Satana compare sulla soglia munita di corna e forcone. Gemo di fastidio e Aaron sospira scocciato. Giselle fa il suo ingresso come se fosse la regina del mondo e oltrepassa tutti con la sua solita aria altezzosa. Dietro di lei due cheerleader la seguono come due ombre lecca-culo. Spero con tutta me stessa che non ci abbia notato, soprattutto spero che non abbia notato me, ma come dico sempre non va mai nulla nel verso giusto.

I suoi occhietti da strega malefica si posano su di me e il fuoco le si accende dentro. “Bene, bene, bene” gracchia avvicinandosi “A quanto pare una squinternata è seduta al mio banco”. Le due minion sghignazzano in modo automatico.

“Piantala Giselle” ringhia Aaron.

Lei sorride sadica “Non posso proprio. Ho scoperto che il mio compito esistenziale è quello di far capire ai meno fortunati qual è il loro posto nella catena sociale” il suo sguardo è intriso di cattiveria “Il tuo è quello è quello là in fondo, vicino a Ciccia-Bob ”. Le amiche ridacchiano mentre mi giro a guardare un ragazzo in sovrappeso raggomitolato in un banco in fondo all'aula. La crudeltà non ha alcun limite. Scuote il ciuffo biondo come una diva del cinema “Oppure preferisci tornare a baciare il pavimento del cesso?” mi piazza in faccia il suo cellulare dove una foto, scattata nel momento peggiore, mi ritrae raggomitolata in bagno in pieno attacco di panico.

Le minion ridono e scuotono i capelli come cavalle imbizzarrite. Giselle mi osserva presuntuosa e fiera di quello che fa. Scoppio a ridere così forte che faccio vacillare il suo piedistallo di superbia “Pensi veramente che me ne freghi qualcosa di quello che pensi? Credi che ora scapperò via perché mi hai fatto una foto e mi prendi in giro?”.

Giselle smette di sorridere e stringe i denti.

“Mi dispiace deluderti, tesoro, ma non me ne frega nulla di te. Quindi, prima di che io perda la pazienza e ti dia un pugno in faccia, perché non ti trovi un altro hobby e la smetti di darmi fastidio?”. Le minion spalancano la bocca all'unisono e in classe scende uno strano silenzio. La faccia di Giselle si accartoccia in un'espressione terrificante e inizia a produrre un strano brontolio.

“Signorina Duvall?” la chiama la professoressa “Si siede?”. Giselle sbuffa e mi fulmina con lo sguardo “Non finisce qui” ringhia. Già, lo immaginavo. Si volta e si siede al suo banco, seguita dalle sue amiche. La professoressa Evans mi punta lo sguardo contro e sorride “Signorina Roux” mi fa segno di avvicinarmi e così faccio. La signorina Evans è davvero bellissima. Ha i capelli rosso fuoco, ricci e ribelli, gli occhi castani e un mare di delicate lentiggini sul naso. Indossa un abito blu che riconosco al primo sguardo. È uno della collezione di mia madre, non c'è dubbio.

Mi accosto alla cattedra “Salve” mormoro piano.

Lei mi sorride cordiale “È un piacere conoscerti Julianne, ho sentito molto parlare di te in questa settimana” mi squadra da capo a piedi “Le voci di corridoio sono proprio ridicole, non hai affatto l'aria da teppista. In ogni caso sono felice di averti nella mia classe, i tuoi voti in dibattito sono molto promettenti e dal discorsetto che hai rifilato a Giselle direi che ci sai fare con le discussioni”. Mi fa l'occhiolino e abbassa ancora di più la voce “Non sei l'unica in questo posto a non trovarla particolarmente simpatica”.

Sorrido “Non mi sorprende affatto”.

Lei ridacchia dal naso e si agita sulla sedia “Lo so. Comunque l'unica cosa su cui avrei da ridire è la tua scelta del compagno di banco. Aaron si distrae facilmente e non è molto collaborativo nei lavori di gruppo. Sicura della tua scelta? Posso spostarti senza che debba essere colpa tua”.

Mi giro a guardare Aaron che mi sta osservando preoccupato. Quando incrocia il mio sguardo, sorride e ammicca. Il mio cuore scalpita e le farfalle nello stomaco si agitano impazienti.

“No, va bene così” mi rigiro a guardarla “Farò in modo che si concentri e che collabori nei progetti”.

La Evans mi osserva a lungo e poi sorride criptica “D'accordo. Puoi tornare al tuo posto”.

Mi risiedo e lei comincia la lezione, introducendo la materia e cosa andremo ad affrontare. L'ora passa veloce, anche se sento le continue occhiatacce di Giselle contro schiena. Non ha capito con chi ha a che fare. Non mi lascio turbare da una stronza troppo piena di sé, dovrà imparare a conviverci.

 

A lezione conclusa, Aaron ed io ci dirigiamo insieme verso la mensa. A quanto pare il mercoledì è la giornata corta, nessuna attività pomeridiana. Ma siccome la mia boccaccia non sta mai chiusa, io devo restare comunque qui in punizione.

Di fianco alla porta, scorgo Dottie appoggiata al muro e con lo sguardo leggermente spaventato. Quando mi vede sorride e quando nota Aaron si illumina come un albero di Natale in piena festività. Mi abbraccia e arrossisce come un peperone quando Aaron le scocca un sorrisetto. Ci mettiamo in fila e aspettiamo che la scuola di serva del cibo quanto meno decente.

“Allora” comincia Aaron “Come hai detto che ti chiami?” chiede a Dorothea. Lei impallidisce, poi arrossisce e in fine inizia a boccheggiare come un pesce senza acqua. Aaron la guarda confuso e in attesa di una risposta. Le mollo una gomitata, cercando di sbloccarla.

“Dorothea...” esala “D-dottie...per gli...amici...”.

“Dottie” sorride lui “Ottimo, è un piacere conoscerti. Non penso ci fossimo mai visti prima”.

Lei tortura un lembo del maglione “F-facciamo fisica insieme e...storia”.

“Oh” fa lui a disagio. Immagino non se ne fosse mai accorto. Scorriamo in avanti con i vassoi e Aaron mi guarda colpevole.

“Non è importante” conclude Dottie senza guardarlo. So che per lei lo è, lo è per ogni ragazza. Essere ignorate è orribile.

Lei si rivolge a me “Sei pronta per il nostro pomeriggio di studio?” domanda con un sorriso. Merde. Mi ero dimenticata dell'appuntamento con Dottie, spero non ci rimanga male.

Intuisce qualcosa dalla mia faccia “C'è qualche problema?” appoggia la pasta sul suo vassoio e io faccio lo stesso. “Mi dispiace tanto, ma la professoressa Layosa mi ha reclusa in punizione senza alcun motivo”. Che brutta persona che sono.

Lei sorride dolcemente “Tranquilla, non importa”.

“Facciamo domani?” domando.

Lei annuisce contenta.

“Cercherò di non farmi punire, lo giuro”. Dottie ridacchia e scorre in avanti nella fila.

“Come ci sei finita in punizione il terzo giorno di scuola?” chiede Aaron divertito.

“Non è stata affatto colpa mia. Quella strega mi odia e mi ha punita a caso” mi difendo.

“È successo a tutti, tranquilla” mi rassicura Dottie.

“Anche tu sei stata punita dalla Layosa?” chiedo speranzosa.

Lei scuote la testa “No, lei mi adora e non sono mai stata in punizione, ma so che con alcune persone è particolarmente severa”. Beh, saperlo un pochino aiuta.

Paghiamo e ci dirigiamo al nostro tavolo. Una volta sedute notiamo che Aaron è seduto accanto a noi, più precisamente accanto a me.

“Cosa fai?” domando. Lui raccoglie una badilata di pasta al pesto e se la scaraventa in bocca “Mi siefo fui” borbotta con la bocca piena. Dottie e io ci scambiamo un'occhiata. La sua è estasiata, la mia è scettica.

“Perché?” chiedo. Lui alza le spalle come se nulla fosse e fa quel suo sorrisetto impertinente che mi fa galoppare il cuore nel petto. Smetto di guardarlo e mi concentro sul mio cibo.

Piano piano il nostro tavolo si riempie. Arrivano Henry, Tyson, Matt e Lip. Ognuno da un'occhiata incerta al tavolo poi si siede e comincia a mangiare come se fosse tutto normale.

Peyton si avvicina con cautela come se si aspettasse un'imboscata imminente “Si può sapere che succede? Perché mangiamo con i tizi del lacrosse?”. Dice tizi come se intendesse cacca.

I ragazzi grugniscono ma non dicono nulla.

Oggi Peyton è particolarmente colorata. Indossa una parrucca acquamarina e una strana gonna che la fa sembrare una sirena. Guarda Dottie, poi me e poi di nuovo Dottie. “Cos'è oggi è il giorno del contrario e non lo sapevo?”.

“Siediti e basta Pey” asserisce Dottie tirandola sulla sedia. Lei esegue e continua a guardare stranita il tavolo. Non posso darle torto, anche il resto degli studenti guarda nella nostra direzione curiosi.

Ognuno mangia il suo pranzo e conversa con il proprio vicino. Henry mi racconta la sua giornata e io lo ascolto attentamente ingurgitando pasta.

Quando il branco di stronze fa il suo ingresso le loro facce andrebbero fotografate e appese in corridoio per ricordare questo giorno per sempre. Peyton ride così forte che mi sembra strano che non le esca il cibo da naso.

Giselle si avvicina lentamente con la testa che le fuma e lo sguardo indemoniato. “Cosa state facendo?” chiede inferocita.

“Mangiamo” risponde Aaron.

“Perché a questo tavolo?” chiede Savannah con un gridolino.

“Perché un tavolo della mensa come un altro” grugnisce Lip. Giselle stringe i denti e afferra con più forza il vassoio.

Nicole si accosta al suo ragazzo “Matt” gli passa una mano sulla spalla “Vieni a sederti con noi?”. Lui le prende una mano “Perché non ti siedi con noi? C'è posto”. Il suo sguardo mi trapassa con cattiveria e poi scivola verso Peyton con la stessa intensità. Si guardano con dolore e risentimento e Nicole distoglie lo sguardo per prima. “Mi siedo con le mie amiche. Tu vuoi sederti con la tua ragazza?”.

Matt apre la bocca e prende aria. Valuta la situazione attentamente e riesco a vedere la ghigliottina sociale che gli dondola sopra la testa. Alla fine annuisce e la segue al tavolo “Ci vediamo dopo, ragazzi”. Si allontana con la sua ragazza che gongola di felicità.

 

Il resto del pranzo scorre tranquillo e al suono della campanella ognuno si avvia verso la propria auto e verso casa. Mi costringo ad arrivare all'aula di punizione ed ad entrarci. Un vecchio signore dai capelli grigi e in sovrappeso è coricato su una poltrona di pelle stracciata ed è intento a leggere il giornale sportivo. Sul tavolo davanti a lui ci sono avanzi di cibo e bottigliette di Gatorade vuote. Indossa una tuta di cashmere color topo e un un berretto da baseball degli Red Sox. Quando varco la soglia mi scruta da sopra gli occhiali da lettura e mi grugnisce di sedermi. L'aula è completamente vuota e mi siedo in una banco vuoto in terza fila. Tiro fuori un libro e mi preparo a un'ora di totale noia e solitudine. Invece, al suono della seconda campanella, un'altra figura si infila nell'aula. O il mio cervello è ufficialmente imploso e ho le allucinazioni oppure la figura muscolosa di Aaron è appena entrata in classe.

“Salve, Coach Campbell!” trilla avvicinandosi all'uomo. “Come sta?”. Il signore alza lo sguardo e fulmina il ragazzo “Porca puttana, Aaron! È colpa tua e di quella bella signorina se sono bloccato in questa cazzo di aula di detenzione, invece che nel mio comodo ufficio! Quindi non sto un cazzo bene!” sbraita posando il giornale. Non avevo mai sentito tante imprecazioni da un'insegnate prima d'ora. “Si può sapere perché cazzo vi siete fatti punire proprio nel giorno più corto della settimana!?” ci grugnisce contro quando Aaron si siede accanto a me.

“Professoressa Layosa” mi giustifico. Lui annuisce comprensivo e guarda Aaron “E tu stronzetto?”.

Aaron ride di gusto, come se fosse abituato agli insulti e al tono incazzato “A quanto pare nessuna emergenza giustifica il correre in corridoio”.

Il coach Campbell sbatte la manona sul tavolo “Porca troia, Anderson! Chi è il pirla che si fa beccare a correre in corridoio e che oltretutto riesce anche a farsi punire?!”.

Aaron mi molla un'occhiata “Avevo le mie buone ragioni, coach”.

Campbell grugnisce infastidito e scuote la testa “La bella ragazza è giustificata, tu sei solo un pirla”.

Aaron ride tenendosi la pancia “Lei è una sagoma”.

“Te la faccio vedere io la sagoma!” strepita “Ora fate qualcosa si costruttivo mentre schiaccio un pisolino”. Si cala il berretto sugli occhi e comincia a russare disteso sulla poltrona.

“All'anima del sonno facile” commento a bassa voce.

Aaron ride “Quest'uomo è una leggenda. È qui da i tempi della guerra e insegna ancora baseball agli studenti. Cercano di farlo andare via rifilandogli compiti ingrati, ma lui non si lascia mai abbattere da nulla”.

“Come lo conosci?”.

“Era il mio coach quando giocavo a baseball nella squadra dei pulcini, poi ho incontrato il lacrosse e me ne sono innamorato”.

Il coach russa fortissimo e la sedia ondeggia “È sempre così la punizione?” chiedo.

“Quando c'è lui, sì. Ehi! Hai appena dato per scontato che ci finisco regolarmente!” borbotta stizzito.

“Era una supposizione che tu hai avvalorato”spiego. “Allora come hai fatto a farti punire quando le lezioni erano ormai concluse?”.

“A quanto pare se corri a tutta velocità contro l'infermiera della scuola e la travolgi davanti alla professoressa di storia, finisci in punizione” spiega. Si gira verso di me allungando le lunghe gambe verso il mio banco. Mi giro anche io incrociando le mie sopra la sedia. “Lo fai spesso?”

“Cosa? Finire sopra infermiere sessantenni? No. Però c'è una prima volta per tutto”.

Rido scuotendo la testa “Intendevo correre lungo i corridoi a tutta velocità, ma buono a sapersi”.

Il suo sguardo mi scorre addosso “Per alcune cose vale la pena correre”.

Ci guardiamo per troppo tempo e celando troppe cose che non possiamo dire. Distolgo lo sguardo per prima e mi riconcentro sul mio libro. Aaron si china in avanti e me lo strappa di mano. “Non si legge in aula di punizione” si alza.

“E cosa dovremmo fare? Guardarci nelle palle degli occhi per un'ora?” borbotto infastidita. Lui ridacchia “Sei così poco romantica”. Alzo gli occhi al cielo. Non lo sono proprio.

Aaron apre un armadio e ne tira fuori delle scatole “Allora abbiamo: battaglia navale, forza quattro e indovina chi. Valuta attentamente la tua scelta, ne dipendono molte cose future”.

Calcolo in quale gioco lo potrei stracciare meglio e prendo la mia decisione. “Battaglia navale”.

Aaron annuisce fiero “Ottima scelta”.

Passiamo la maggior parte dell'ora immersi in una lotta nautica e cullati dal russare grave del coach. Quando ho affondato tutte le sue navi e mi ha accusato di barare almeno una decina di volte, il coach si sveglia dal suo letargo con un'enorme sbadiglio e si alza grattandosi la pancia. “Vado al cesso, non provate a darvi alla fuga”. Annuiamo e lui esce dall'aula traballando.

“Che uomo” commento chiudendo il gioco nella scatola. Riponiamo battaglia navale e torniamo a sederci. L'ora della tortura, che si è trasformata nell'ora del stracciare Aaron ad un gioco da tavolo, è ormai quasi finita.

Inizio a riordinare le mie cose nella borsa. “Allora...” comincia Aaron “A proposito di quella foto che Giselle ha messo in giro...”.

“Non c'è nulla da dire” chiudo la zip evitando il suo sguardo.

“Ci sono un sacco di cose di cui non vuoi mai parlare” commenta perspicace.

Non ha idea di tutto quello che è nascosto sotto la superficie.

“Significa che non hanno rilevanza o che non me ne frega nulla”. Bugiarda.

Mi prende la mano facendomi voltare “Sento odore di bugia”.

“Credo siano gli avanzi del coach”.

Mi guarda negli occhi serio “Vuoi dire che di quel bacio non te ne frega nulla?”. È la prima volta che tira in ballo la questione con così tanta nitidezza. Non ne volevo parlare allora e non voglio farlo adesso.

“Esattamente” asserisco annuendo. Lui inclina la testa infastidito “Ti cresce il naso, principessa”.

“Se credere che io stia mentendo ti fa dormire meglio la notte fai pure, ma come ho già detto non c'è nulla da dire” confermo testarda. Mi alzo cercando la distanza, lo spazio aiuta a mantenere il controllo. Lui però si alza a sua volta, seguendomi.

“Stai mentendo e posso dimostrarlo” afferma continuando ad avanzare e costringendomi ad indietreggiare.

“Ah sì? E come?” chiedo arrogante. Lui sorride con uno strano luccichio nello sguardo. “Se ti baciassi di nuovo non riusciresti a resistere” mormora roco. Quando usa quel tono mi tremano le ginocchia.

“Io invece credo di sì” rispondo ostinata. Non ho intenzione di cedere, però mi trovo con le spalle al muro. Letteralmente. Ho la schiena contro il cemento freddo e lui mi sovrasta in tutta la sua altezza. Siamo troppo vicini, questa situazione può solo peggiorare.

“Credi davvero di poter resistere?” il suo naso mi sfiora il collo. Una sua mano è appoggiata vicino alla mia testa, sul muro, e l'altra è posata delicatamente sul mio fianco.

“Certo” rispondo con un sussurro. Ho il corpo in fiamme e mi tremano le mani, non perché sono nervosa ma perché so cosa sta per accadere. Quando immagino la sua bocca sulla mia, il cuore inizia a battermi più veloce di un cavallo da corsa. Quale cavolo è il mio problema?

Aaron si avvicina ancora, facendo aderire i nostri corpi. La sua mano mi risale il fianco fino alla guancia. Mi accarezza la mascella con il pollice e aspetta di vedere se lo fermo, ma non lo faccio e finalmente si china a baciarmi. Nel momento in cui le nostre labbra si toccano il fuoco divampa e si riaccende l'inarrestabile forza chimica che aleggia tra noi.

Delle vampate di calore mi percorrono tutto il corpo partendo dal petto. Quando il bacio si fa più profondo, Aaron emette un ringhio dal profondo della gola che mi fa eccitare da morire.

Senza preavviso, si allontana e mi guarda negli occhi. “Allora?”. Siamo entrambi senza fiato.

“Non saprei, è durato troppo poco” lo provoco. Sorride e accoglie il mio invito a continuare. Mi posa una mano dietro la schiena e ricomincia a baciarmi. Dovrei allontanarmi e invece mi avvicino ancora di più e gli faccio scivolare le braccia intorno al collo.

Mi fa accapponare la pelle in modo incredibile, proprio come il primo bacio che mi ha dato.

Quando la sua lingua scivola sulla mia, Aaron mi infila una mano sotto il sedere e io gli aggancio le gambe intorno ai fianchi. Mi ritrovo premuta contro il muro e senza più la terra sotto i piedi a tenermi ancorata.

Mi spinge con più impeto contro la parete e dentro di me qualcosa si sblocca. Ne ho bisogno, non me lo aspettavo ma cazzo se ne ho bisogno. Con un gemito piego la testa e approfondisco il bacio.

Mi sta accadendo qualcosa. Non riesco più a smettere di baciarlo, mi piace troppo.

La situazione è completamente fuori controllo.

Le sue labbra calde si staccano dalle mie e mi scorrono lungo il collo. Mugolo di disappunto e lo ritrascino dove lo voglio. Gli infilo una mano tra i capelli e lui riporta la sua bocca sulla mia.

Quando la sua mano trova una via sotto il mio maglione, la porta dell'aula si spalanca. “A. devi muoverti gli allenamenti supplementari stanno iniziando e...” la voce di Lip si affievolisce e ci fissa sorpreso. Aaron mi fa scendere dal muro e mi sistemo il maglione imbarazzata.

Lip spalanca la bocca e la richiude diverse volte, come un pesce e poi sorride come un ebete “Lo sapevo!” strepita.

Aaron sospira e si passa una mano tra i capelli cercando di sistemarli “Arrivo. Mi serve un secondo”.

“O'Connor!” strepita il coach da dietro la montagna di muscoli di Lip “Si può sapere perché sei in mezzo alla palle! Levati dai coglioni, non puoi stare qui” lo spintona ed entra in classe. Lip mi sorride complice e mi scocca un occhiolino.

Il coach raccoglie le sue cose “Potete andare. Punizione finita” ci congeda. Non ha la più pallida idea di quello che è appena successo, ma io sì. Eccome se lo so.

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Capitolo 18
*** Aaron ***


Aaron

 

Il coach Campbell ci butta fuori dall'aula con uno spintone e una sonora imprecazione. Chiude la porta a chiave e si dirige verso il suo ufficio, maledicendo la stupidità degli adolescenti d'oggi. Ci lascia da soli in un corridoio silenzioso e allo stesso tempo traboccante di domande.

Lip ci guarda compiaciuto e soddisfatto di aver intuito quello che stava succedendo prima di tutti. Julianne, d'altro canto, fissa il pavimento con i capelli sottosopra. Non riesco a capire cosa stia pensando, il suo viso è completamente inespressivo.

Fortunatamente, Lip lascia scomparire la sagoma del coach prima di aprire la sua enorme boccaccia “Allora...” sogghigna “Voi due...” alza le sopracciglia allusivo.

“Stai zitto” taglio corto. Sono felice che non ci abbia beccato il coach e so che Lip non lo sbandiererà ai quattro venti come uno studente qualunque, ma non lascerà che la cosa venga infilata sotto la sabbia con tanta facilità. “Ci lasci da soli un secondo? Di al coach che arrivo” domando implorante. Lui sembra titubante ma, quando legge la supplica nel mio sguardo, si avvia verso gli spogliatoi senza obiettare.

Una volta che Lip non è più nei paraggi, Julianne si sistema la borsa sulla spalla.“Beh, ciao” borbotta e si avvia verso l'uscita.

Oh, neanche per sogno. Non le permetterò di scappare questa volta.

“Aspetta” le afferro una mano “Come pensi di tornare a casa?”.

“Credo che mi arrangerò a piedi” lascia la mano nella mia, ma non mi sfugge l'occhiata incerta che lancia verso il corridoio alle mie spalle.

“Se aspetti sugli spalti che finiamo gli allenamenti, ti riporto a casa in macchina”.

Non voglio che vada a casa a piedi, ma sopratutto mi serve una scusa per parlare senza che possa darsela a gambe.

“Preferisco camminare per chilometri, piuttosto che guardare degli adolescenti sudati che si inseguono con dei bastoni”.

Cerco di ignorare la sua concezione del lacrosse e la tiro verso il campo. “Andiamo principessa, so che muori dalla voglia di vedermi correre tutto sudato e coperto di fango” le tolgo un capello dalla guancia “So che non vuoi veramente tornare a casa a piedi”.

Mi guarda e l'indecisione nel suo sguardo è più che palese.

Non si ritrae quando continuo a sfiorarle la guancia dopo che il capello è ormai sparito, e questo mi da il coraggio di insistere.

“Se accetti ti lascio incasinare i cd nella mia macchina quanto vuoi”.

I suoi occhioni si incastonano ai miei, facendomi contorcere lo stomaco.

“E pensa, ti lascio addirittura appoggiare i piedi sul cruscotto”. Beh, forse di questo possiamo farne a meno. Julianne si mordicchia il labbro cercando di stroncare un sorriso sul nascere, ma non funziona, ormai l'ho vista.

“Andiamo” la tiro verso la porta e lei non si oppone. Percorriamo il resto del corridoio ancora con le dita intrecciate e ci separiamo solo quando entro nello spogliatoio. Varcando la soglia vengo avvolto dal consueto odore mascolino che ristagna tra gli armadietti.

La squadra al completo è sparsa per la stanza, intenta a preparasi per gli allenamenti supplementari. In teoria oggi non ci dovrebbe essere alcun tipo di attività pomeridiana, ma il coach Jackson è ancora incazzato per il secondo posto della scorsa stagione e ci va giù pesante con gli allenamenti aggiuntivi.

“Aaron!” tuona “Finalmente ci hai degnato della tua presenza”. Mi guarda storto dal muro dello spogliatoio e scuote la testa. Sospetto da anni che la sua espressione naturale sia accigliata e che i sorrisi siano una vera e propria eccezione. Il coach è un uomo sulla quarantina, con i capelli scuri e gli occhi marroni. Come dimensioni sembra un armadio a sei ante che fa sembrare Lip uno scricciolo.

Indossa sempre delle tutone colorate, un capellino della sua squadra del cuore (la nostra) e il fischietto dorato che ogni anno, per il suo compleanno, gli nascondiamo in un posto diverso e sempre più strano. All'apparenza sembra sempre incazzato, ma è una delle persone più comprensive e affettuose che io abbia mai conosciuto. So di poter parlare con lui se qualcosa non va.

“Scusi coach, ho avuto un contrattempo” mugugno raggiungendo il mio armadietto.

Lip cerca di soffocare una risata che invece rimbomba come un tuono contro il contro-soffitto. Devo strozzarlo. Assolutamente.

Il coach ci trapana le orecchie con un lungo fischio. “Vedete di muovervi signorine, abbiamo un allenamento da fare” batte le mani ed esce verso il campo.

Infilo le protezioni, la divisa, afferro il mio bastone e mi lancio fuori il più velocemente possibile. Il coach è buono ma non bisogna mai farlo incazzare.

Una volta in campo, ci disponiamo in cerchio intorno a lui. “Allora signorine, l'anno scorso abbiamo fatto una figura pietosa durante il campionato e quest'anno mi aspetto che ognuno di voi dia il centodieci percento ad ogni partita ed ad ogni allenamento. Non giustificherò più nessuna mancanza quindi vedete di mettere tutto quello che avete in questo sport, se no quella è la porta. Dalla prossima settimana inizierà ufficialmente il campionato, quindi se volete mollare è questo il momento”. Si zittisce e ci osserva uno ad uno. Nessuno si muove e lui annuisce. “Bene, cominciamo”. Fischia e la squadra si disperde.

Iniziamo il riscaldamento con le rotazioni e le flessioni del busto.

Mi giro furtivamente verso gli spalti scorgendo la figura piccola e minuta di Julianne, che brilla tra il metallo. È seduta rannicchiata tra i sedili della terza fila con un libro in mano. Il suo cervello percepisce che la sto guardando e le fa alzare lo sguardo verso di me. Sorride e torna a guardare il testo. Io torno ai miei esercizi.

 

Quando penso di essermela cavata con Lip, lui mi appare di fianco e si piega stirando la schiena. “Allora...” comincia.

“Chiudi il becco, Lip” lo zittisco “Non devo darti nessuna spiegazione”.

Mi inchioda all'erba con lo sguardo “Invece ti vedi beccare un mio te lo avevo detto, perché io te lo avevo detto!” agita un dito in aria con fare accusatorio.

Sbuffo e mi guardo intorno, controllando che nessuno ci sta ascoltando. “Dillo, ma dopo che avrai parlato non avrai più il permesso di dire nulla”.

“E invece ho un sacco di cose da dire al riguardo”.

Cominciamo le rotazioni delle braccia.

“Fai un discorso unico così possiamo smettere di parlarne, per favore”.

Lip allunga le braccia “Prima di tutto sei uno stronzo, perché avevo messo il mio veto su di lei ed è una regola dei maschi che non si può infrangere”.

“Non sai neanche cosa vuol dire veto” lo interrompo seccato. Non me ne frega un cazzo delle regole dei maschi in questo momento.

“Non ha importanza! Ti ho detto che volevo farmela e tu hai detto che non ti importava”.

Grugnisco e lo guardo male “Beh, ho cambiato idea”.

Ci sediamo sull'erba e iniziamo con gli addominali. “In ogni caso, sei uno stronzo”.

“Va bene, ora vai avanti”.

“Secondo, sei anche un bugiardo perché quando ti ho detto che ti comportavi come una femminuccia con una cotta, mi hai mandato a fanculo. E ora ti becco a sbatterla contro i muri mentre le rovisti in gola con la lingua”.

Una matricola appena entrata in squadra ci lancia un'occhiata preoccupata, ma appena incrocia il mio sguardo si mette a fissare il prato. “Non ho mai detto di avere una cotta per lei. Ogni volta che baci una ragazza lei ti piace davvero o vuoi solo infilarti nelle sue mutande?”.

Spero che se la beva, perché sembra una giustificazione fiacca pure ai miei occhi.

“Quindi mi stai dicendo che ti vuoi solo fare una scopata? Tutto qui?” chiede scettico.

No. “Si”.

Lip mi guarda serio “Allora sprechi il tuo tempo, perché quella ragazza ha un cartello divieto d'accesso appeso alla zip dei pantaloni e quando finalmente sarai arrivato in mezzo alle sue gambe, non riuscirai più ad uscirne”.

Odio il modo in parla delle donne, ma so che ha ragione. Anche Henry mi ha avvertito, io però non mi tiro indietro. “E allora?” ci alziamo in piedi, petto contro petto.

“Da quando ti interessano le relazioni complicate?”.

“Da adesso. Da quando facile è diventato noioso”.

In realtà è da quando c'è lei, ma questo a Lip non lo dico.

Ci guardiamo a lungo. Il suo cervello valuta la conversazione e ne trae le sue conclusioni. “Se sei contento tu, a me va bene” conclude.

“Siamo a posto? Terrai questa cosa per te?” domando.

Lip mi fissa e poi si mette a ridere “Certo. Che amico di merda sarei se non lo facessi?”.

Sì, Lip è un buon amico.

“Anderson! O'Connor” ruggisce il coach “Volete restare lì a farvi gli occhi dolci o iniziamo con il vero allenamento?”. Tutta la squadra ci fissa insieme al coach. Deve dare l'idea sbagliata il fatto che ci troviamo così vicini e che parliamo così fitto.

Ci allontaniamo di scatto e iniziamo a provare gli schemi di gioco.

 

Ad un certo punto il coach inforca il megafono e lo punta verso gli spalti “Signorina!” urla. Julianne salta per aria e il libro le scappa di mano. “È un allenamento a porte chiuse, si può sapere cosa ci fa sui miei spalti?”.

Julianne prova a giustificarsi ma il coach non riesce a sentirla. “Cosa?!” scuote la testa “Venga qui”.

Matt mi si avvicina ansimando per la corsa “Cosa ci fa Julie qui?”.

Lei attraversa il campo sotto gli occhi di tutti e si dirige verso la postazione del coach. Il vento freddo del tardo pomeriggio le fa ondeggiare i capelli mentre cammina.

Non riesco ad ignorare gli sguardi interessati che i ragazzi della squadra le lanciano.

Quando è davanti al coach, ci avviciniamo tutti per ascoltare meglio.

“Allora?” domanda lui “Cosa fa seduta lì al freddo?”

Julianne apre la bocca, ma il coach parla di nuovo “Un secondo, sei Julianne per caso?”.

Lei lo guarda confusa e annuisce.

Jackson salta per aria e batte la mani “Lo sapevo! Ti ho riconosciuta subito! Peyton mi ha parlato di te a cena l'altra sera!”.

Julianne inclina la testa ancora più confusa.

“Sono suo padre. Patrigno in realtà, ma non fa differenza per noi”.

La famiglia Jackson è la più numerosa della città. Hanno almeno otto o nove figli. Due di loro sono nella squadra, oltretutto.

“Oh. Salve” sorride Julianne. Peyton non è veramente una Jackson, ma considerato chi è suo padre lei preferisce considerarsi una di loro.

“Allora, cosa ci fai seduta sugli spalti e perché non sei a casa tua? Non dirmi che stai con una di queste bestie, te lo sconsiglio caldamente, sopratutto Lip”.

La squadra ride.

“È colpa mia” mi intrometto “Sono il suo passaggio per andare a casa”.

“Aaron” asserisce il coach “Naturalmente. Bene visto che sei costretta a restare, perché non ti accomodi qui accanto a me. Da due anni ho fatto installare queste lampade riscaldanti che sono una meraviglia, prima mi si gelava sempre il culo agli allenamenti”.

Julianne sorride imbarazzata “Mi piacerebbe”.

Il coach da una pacca sulla sedia di plastica accanto alla sua “Accomodati, cara. Restando così vicina al campo assorbirai meglio lo spirito del lacrosse”. È innamorato di questo sport da quando era nella pancia di sua madre, o almeno è quello che ci dice sempre. Suo padre era un giocatore di lacrosse professionista, lui è stato il capitano della squadra mentre era al liceo e ora allena i giovani talenti. Immagino che non si possa essere più invaghito di così di uno sport.

“Sai di cosa si tratta?” le chiede.

Julianne annuisce accomodandosi sulla sedia “Sì, so come si gioca” si friziona le braccia alla ricerca di calore.

Il coach si infiamma. “Razza di caproni maleducati! Non vedete che sta congelando? Qualcuno le dia una felpa” ordina il coach.

All'unisono, venti paia di felpe le appaiono sotto il naso e Julianne afferra quella più vicina, cioè quella di Matt.

“La cavalleria è proprio morta, non c'è nulla da fare” scuote la testa sconfortato, poi si rivolge alla ragazza con un sorriso “Va meglio?”.

“Sì, grazie” si stringe nel tessuto blu e sospira grata.

Il fatto che si stia ricoprendo del profumo di Matt mi fa contorcere le budella dal fastidio.

“Bene” asserisce dolce, poi torna a guardare noi tutto accigliato “Forza signorine, continuiamo con gli schemi”. Fischia e ricominciamo con i passaggi.

 

Non sono sicuro se dare il merito a lei o al fatto che sono molto incazzato, ma l'allenamento si conclude benissimo. Tutti i miei passaggi sono corretti, ogni tiro finisce dritto in porta e ogni azione è calcolata alla perfezione. Ad ogni movimento avverto i suoi incredibili occhi che mi scaldano la pelle. Tutte le volte che faccio un punto la guardo dritta negli occhi e, quando i nostri sguardi si incrociano, le sue guance si tingono di un'adorabile sfumatura rosa.

La voglio. Non c'è alcun dubbio. Questo allenamento intensivo mi ha schiarito completamente le idee. Voglio lei, ad ogni costo. E so che anche lei vuole me, solo che non vuole ammetterlo.

Devo solo capire come convincerla ad esprimere quello che sente.

 

Nel momento in cui il livello di fango mischiato a sudore raggiunge picchi storici, il coach si decide a fischiare il termine dell'allenamento.

“Okay, signorine. Per oggi la finiamo qui, ci vediamo domani pomeriggio” raccoglie le sue cose “Vi voglio tutti puntuali” mi scocca un'occhiata ammonitrice e poi finalmente ci lascia andare.

Mi infilo nella doccia con un balzo, mi vesto ed esco dallo spogliatoio il più rapidamente possibile. Nel corridoio trovo Julianne intenta a conversare con il coach.

“Eccomi” asserisco quando li raggiungo.

“Bene, è stato un piacere conoscerti Julianne, ricordati cosa ti ho detto” le fa l'occhiolino e lei ridacchia. “Certo, coach”.

Mi fa un cenno “Aaron”.

“Arrivederci”.

Si allontana e restiamo finalmente soli.

“Sei pronta ad andare?” chiedo.

Julianne si stiracchia e sospira “Sì, ti prego. Non ne posso più di questo posto”.

Usciamo nel parcheggio e montiamo in macchina. Come promesso, le lascio scegliere la musica e mi sorprende mettendo su i Sum 41. Quando la musica risuona dagli altoparlanti, allunga le sue bellissime gambe verso il cruscotto e si accomoda appoggiandoci i piedi sopra.

Al terzo mugolio di dolore che le lancio, sbuffa e riappoggia i piedi sul tappetino.

“Sei un gran bugiardo” mi accusa “Mi avevi dato il permesso di farlo e ora frigni come un cucciolo ferito”.

Non ha tutti i torti. “Gli uomini non frignano” inserisco la freccia e giro verso sinistra. Sto di proposito percorrendo la strada più lunga per arrivare a casa.

“Eccome se lo fanno” ribatte sporgendosi verso di me. Quando fa quel sorrisetto impertinente vorrei darle un morso.

“Evidentemente gli uomini che conosci tu sono delle mammolette. Ti posso assicurare che io non frigno mai”. Freno al semaforo rosso.

Lei ridacchia e si aggiusta la cintura “Sì, certo”.

Il suo armeggiare mi fa cadere l'occhio sulla scollatura del maglione e sul triangolo di pelle chiara che sbuca da sotto il tessuto. Dovrei assolutamente smettere di fissarla, sopratutto perché lei mi becca subito. “Mi stai guardando le tette, per caso?”.

Le faccio un sorrisetto e alzo lentamente lo sguardo verso i suoi incredibili occhi, indugiando sulle labbra un po' troppo a lungo. Ed eccolo di nuovo, quel rossore, che le tinge le guance e che mi fa impazzire. Il castano-verde dei suoi occhi si fa più intenso, fino a sfiorare il nero.

Beccata.

Quello che prova le si riflette nello sguardo, non può nasconderlo.

“Non mi permetterei mai”.

Julianne scuote la testa ridacchiando e torna a guardare la strada. Io non smetto di osservarla.

“Aaron?”.

Mi piace il modo il cui le sue labbra si muovono quando dice il mio nome. “Si?”.

“É verde” mormora indicando il semaforo.

A dire la verità, speravo in qualcosa diverso. Premo sull'acceleratore e ripartiamo.

 

Prendo aria diverse volte per aprire un discorso serio con lei su di noi, ma mi blocco ogni fottuta volta. Apro la bocca, inspiro e la richiudo come uno scemo.

Julianne resta appoggiata al finestrino, intenta a fissare il paesaggio che scorre.

Prendo aria per la quarta volta. Questa deve essere quella buona, siamo quasi arrivati a casa.

“Hai intenzione di dire qualcosa o stai solo fingendo di essere un pesce che boccheggia” chiede Julianne con un sorrisetto.

Okay, è il momento. “Ti ho baciata”. Wow. Molto arguto, non c'è che dire.

Julianne non dice nulla, così continuo a scavarmi la fossa da solo. “Due volte. E mi è piaciuto. E so, inoltre, che è piaciuto anche a te”. Sono contento di dover fissare la strada, perché in questo momento non riuscirei a guardarla negli occhi.

La sento trattenere una risata e il calore mi risale lunga la schiena. So di star facendo la figura dell'idiota.

“Wow” esala “È questo il tuo approccio con le ragazze? Sono sorpresa che abbia funzionato in questi anni”.

Sento il suo sguardo sulla pelle. “Prendersi gioco della mia goffaggine, non mi farà cambiare discorso. Farò sei giri dell'isolato intorno a casa se necessario, voglio una risposta”.

Julianne sbuffa e si agita sul sedile “Perché le persone hanno bisogno di etichette per tutto?”.

“Le etichette evitano le incomprensioni”.

“Sei confuso?” domanda.

“Parecchio”. Svolto l'angolo per la terza volta di fila. Papà e April ci avranno dati per dispersi.

Mi sfiora la mano che stringe il cambio “Accosta”.

Ci fermiamo sul ciglio della strada, tra una fila di case e il parcheggio della chiesa. Si slaccia la cintura e mi costringe a voltarmi a guardarla.

Quando i suoi occhi incontrano i miei, lo stomaco mi finisce infondo ai piedi.

“Ci siamo baciati ed è piaciuto ad entrambi, su questo non ci piove” si sporge in avanti e mi fa un sorrisino “Sappiamo tutti e due che questa strana attrazione non svanirà nel nulla e che alla fine ci farà diventare entrambi pazzi. Perciò perché non viviamo il momento e vediamo come va”.

Sono confuso.

Più che confuso direi allibito. È stata chiara, schietta, non è scappata e mi sta guardando negli occhi in attesa di una risposta. Nel suo sguardo aleggia dell'incertezza e dell'insicurezza, che montano ogni secondo che passa, in cui sto in silenzio.

Non so cosa dire.

Il mio cervello si spacca in due.

Una parte urla: Sì! Cazzo! Baciala e basta!

L'altra parte meno istintiva e più intelligente grida di chiarire quel viviamo il momento.

Tutto quello che ha detto ha senso, perché tergiverso?

Nell'abitacolo ormai si respira solo il suo profumo al cocco e la cosa non mi aiuta a concentrarmi.

Julianne si stringe nelle spalle e si allontana, prendendo il mio indugiare come un no.

Cazzo.

Non mi interessa a che condizioni, la voglio e basta.

Slaccio la cintura, la afferro per i fianchi e me la trascino in grembo. Julianne si ritrova con il culo sulle mie ginocchia, la schiena contro il volante e il viso ad un centimetro dal mio.

Sollevo una mano e le sfioro le labbra con le dita. Il cuore mi martella nel petto. Scendo verso il profilo la mascella e poi lungo il collo. Percepisco il battere del suo cuore attraverso la pelle. Julianne mi appoggia entrambe le mani sul petto e si sporge verso di me, facendo sfiorare i nostri nasi.

“Okay, principessa. Viviamo il momento” mormoro roco. Le infilo le dita tra i capelli e la attiro a me. Le nostre labbra si toccano ed ogni cosa prende il suo posto nell'universo.

Le faccio scivolare le mani sotto il maglione e il contatto con la pelle calda dei suoi fianchi mi manda a fuoco. Julianne mi strige la maglietta tra le dita, attirandomi contro il suo corpo. Approfondisco il bacio, facendola gemere. Il suono gutturale che emette mi sprona a spingermi oltre. Afferro l'orlo del maglione, glielo sfilo dalla testa e lo lancio sul sedile accanto. La canottiera sottostante fa la stessa fine.

Per un secondo resto fermo ad osservare quanto sia incredibilmente bella e meravigliosa.

“Cosa c'è?” chiede con un filo di voce.

Le faccio scorrere le dita sulle costole e sfioro il bordo del reggiseno nero. “Sei perfetta”.

Le sue mani mi risalgono lungo il collo e si fermano sulle guance. Mi guarda con quei suoi incredibili, indecifrabili occhi e percepisco qualcosa di indescrivibile in mezzo al petto. Una sensazione calda e rassicurante, come se ogni cosa fosse al suo giusto posto finalmente.

Si china in avanti e ricominciamo a baciarci.

Ad un certo punto la mia maglietta fa la stessa fine dei suoi vestiti. La sua bocca scivola lentamente lungo il mio collo e la sua mano sinistra mi accarezza gli addominali. Nel momento in cui inizia a giocherellare con la cintura dei miei pantaloni un campanello di allarme mi trilla nel cervello.

“Okay...” bofonchio “Credo che dovremmo fermarci”.

Julianne smette di mordicchiarmi il collo e mi guarda confusa. “Ho fatto qualcosa che non va?”.

“No!” le sfioro una guancia “È fantastico, solo che non voglio che vada così. Non qui. Non subito”.

Mi osserva stupita e poi annuisce “Sì, okay, va bene”. Le do un ultimo bacio, le passo gli abiti e ci rivestiamo.

“Sei il primo ragazzo che vuole fare le cose con calma” mi informa mettendosi il maglione.

“Evidentemente i ragazzi che hai incontrato non erano un granché” cerco di sistemare i capelli in modo che non facciano capire che Julianne ci ha passato in mezzo le dita. “Voglio solo fare le cose per bene, okay?” mi volto a guardala.

Julianne si lega i capelli e poi sorride “Certo, principessa”.

Scuoto la testa e le mollo un pizzicotto su un fianco. “Spiritosa”.

Ridacchia e si allunga per baciarmi di nuovo.

“Andiamo prima che i nostri genitori allertino la polizia” dice riallacciando la cintura.

Accendo il motore e ci avviamo verso casa. 

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Capitolo 19
*** Aaron ***


Aaron

 

Non appena oltrepassiamo la porta d'ingresso, April e mio padre implodono come due bombe atomiche appena innescate. Urlano all'unisono e la casa trema.

“Si può sapere dove eravate?!”.

“Eravamo così preoccupati!”.

“Il cellulare lo usate solo per le stronzate!?”.

“Potevate avvisare!”.

“Voglio proprio sapere qual è la vostra giustificazione!”.

“Vi è successo qualcosa di brutto?”.

Sembra di assistere ad una cazzo di partita di tennis.

Quando smettono di parlarsi sopra, apro la bocca per giustificare il nostro ritardo. “Julianne ha voluto assistere agli allenamenti di lacrosse e quando siamo andati alla macchina per tornare a casa, il motore non andava. Abbiamo impiegato mezz'ora a farla partire”.

È una balla colossale, ma se sapessero la verità l'incazzatura sarebbe ancora maggiore.

“Potevate avvertire!” sbraita papà. Ha la pelle della faccia così rossa che sembra un peperone.

“Ci dispiace, non ci abbiamo pensato, non volevamo farvi preoccupare” si scusa Julianne.

April appoggia la mano sulla schiena di papà “Ormai è inutile arrabbiarsi. Sono tornati sani e salvi, questo è l'importante”. Ci lancia un'occhiataccia “La prossima volta avvisate, eravamo molto preoccupati”.

“Ci dispiace” borbottiamo all'unisono.

Papà riprende un colorito normale e la questione è chiusa.

Finalmente ci lasciano entrare in soggiorno, dove i miei fratelli ed Henry stanno guardando un programma orrendo sul cibo spazzatura.

Ron-Ron!” strilla Livvie correndomi incontro. “Vieni a vedere il cibo sporco con noi”. La prendo in braccio e lei si abbarbica al mio collo come una scimmietta.

Odio il soprannome con cui mi chiama, ma non potrei mai dirglielo, sarebbe come sparare ad un unicorno.

“Magari dopo, ranocchietta” le do un bacio sulla testa e la faccio scendere. Lei ridacchia e torna sul divano tra Cole e Andy.

Julianne si avvia verso le scale e lancia un cenno al gemello. Henry si alza e fa per seguirla.

“Ferma dove sei, signorina” le impone la madre.

Lei inchioda sul primo gradino “Cosa c'è?”.

“Non credi di avere qualcosa da dirmi? Come per esempio che sei finita nell'ufficio del preside? Oppure l'ora di punizione che la professoressa Layosa ti ha assegnato?”. Stringe le mani sui fianchi e aggrotta la fronte. L'aria da genitore autoritario vacilla a causa del grembiule da cucina con le mucche.

“Sei finita in punizione?” si intromette papà burbero. Se c'è una cosa che non sopporta sono i casini a scuola.

Julianne sembra particolarmente calma. “Non è stata colpa mia”.

April scuote la testa “Come può non essere colpa tua?” domanda seccata.

“La Layosa mi odia e mi ha punita senza ragione”.

Papà grugnisce “Avrà avuto le sue motivazioni, d'altro canto è una professoressa”.

Non capisco perché si intromette. E dalla faccia di Julianne, immagino che lei stia pensando la stessa cosa. “Non ho fatto assolutamente nulla, potete chiedere a chiunque” si giustifica stringendo il corrimano. “Chiama la dottoressa Dawson, lei ti spiegherà ogni cosa” si volta per salire le scale.

April avanza fermandola. “Non voglio parlare con lei, Julianne, voglio parlare con te”.

“Da quando?!” sbotta voltandosi con forza. Ormai tutta la famiglia ha smesso di guardare il programma alla televisione e le sta fissando. “Non ti è mai fregato nulla di quello che facevo, perché cominciare adesso?”.

“Julianne...” sussurra April a mezza voce.

“Vuoi sapere cos'è successo?” scende le scale per trovarsi faccia a faccia con la madre “Una strega che evidentemente mi disprezza, mi ha punita eccessivamente per via del mio aspetto e del mio passato. Sono finita in presidenza dove mi hanno obbligata a fare uno stupido test totalmente innecessario, che ha fatto capire al preside che i giudizi affrettati sono sempre sbagliati. Quando finalmente torno a casa, mia madre tassativamente non si fida di quello che dico. Perché non ti fidi?”.

Per un secondo, il silenzio avvolge tutti. Nessuno si muove e nessuno fiata.

Alla fine April sospira rumorosamente “La mia fiducia in te si è esaurita da parecchio tempo, Julianne. Non capisco perché la cosa ti sorprenda tanto”.

La ragazza fa un passo indietro ferita.

April stropiccia il grembiule “Più tardi chiamerò la dottoressa Dawson, ora devo finire di preparare la cena”. Si volta e scappa in cucina, lasciando Julianne immobile con gli occhi pieni di tristezza.

Papà si avvicina “Più tardi decideremo se sarà necessaria una punizione”. Detto ciò segue April nella stanza accanto.

Julianne scrolla la testa alzando gli occhi al cielo e risale le scale, sparendo al piano superiore. Henry ed io le andiamo dietro. Quando arriviamo di sopra la sua camera è chiusa e il fragore della musica a tutto volume scivola da sotto il legno della porta.

“Non capisco cosa sia successo” borbotto.

Henry si passa una mano sul viso e espira stanco. “Non importa quanto ci provino, non riusciranno mai a sotterrare l'ascia di guerra. Sono arrabbiate l'una con l'altra e sono troppo testarde per chiedere scusa”.

Sono comunque confuso. È come se mi fossi perso dei pezzi, ma Henry non sembra intenzionato a dirmi altro.

“Per una volta che sembrava di buon umore” mi lancia un occhiata e inclina la testa “Hai la maglia al contrario”. Ridacchia, apre la porta, entra in camera di sua sorella e se la richiude alle spalle.

 

 

Julianne non esce dalla sua stanza per tutto il resto del pomeriggio. Salta la cena, che si svolge in uno strano e imbarazzate silenzio. April non squittisce allegra e non ci rifila le solite domande curiose su come abbiamo passato la giornata. Sembra spenta come la figlia e lo diventa ancora di più quando dopo il caffè telefona alla consulente scolastica.

“Mi sta dicendo che va tutto bene?” Aggrotta la fronte e si sistema una ciocca bionda.

“È negativo? Al cento per cento?”.

Negativo? Cosa è negativo?

“Sì, lo so degli attacchi di panico. Pensavo fossero scritti sul suo fascicolo”. Inizia a torturare un fazzolettino di carta con le unghie. “Non ho idea del perché non lo abbiano segnato, ne soffriva anche prima”.

Julianne soffre di attacchi di panico? Non ne avevo idea, sembra sempre così sicura.

“Quindi pensa che la professoressa sia stata eccessiva per via del passato di Julianne?”.

Quale passato? Perché sono tutti così guardinghi in quella famiglia.

“Sì, la ringrazio. Glielo dirò”. Attacca e si stringe la radice del naso.

“Cosa ha detto?” chiede papà si sistemando i piatti.

“Che non è stata colpa sua e che avrei dovuto crederle” ha la voce così stanca e triste.

“Vai a parlarle” la sopra papà “Ci pensiamo noi ragazzi a sistemare”.

“Non vorrà parlarmi”.

Henry le posa una mano sulla spalla “Vai. Fai un passo verso di lei”.

April gli sorride dolcemente e si alza per andare dalla figlia.

 

 

Papà ci fa pulire la cucina con se fossimo degli operai di una fabbrica. Divide i compiti a seconda della zona della cucina e da ad ogni figlio (Henry compreso) qualcosa da fare. Cole ed Andy sono gli addetti agli avanzi e alla spazzatura. Henry carica la lavastoviglie e lava le pentole più grosse, mentre io e Liv sparecchiamo la tavola.

Papà invece dirige semplicemente le operazioni, senza muovere un muscolo.

In ogni caso il suo metodo funziona e riusciamo a finire le faccende velocemente. Quando è tutto pulito salgo al piano superiore insieme ad Henry. La porta di Julianne è aperta e lei e la madre siedono insieme sul letto. Stanno sempre ad una certa distanza, ma sembrano molto più calme di prima. Julianne stringe Kafka in grembo, frapponendolo tra lei e la madre. April, invece, siede sul bordo del letto e si tortura le mani nervosamente.

“Ti voglio bene” prova a sfiorarle una guancia, ma la ragazza si ritrae e April finisce per darle un buffetto sul ginocchio. Siccome la figlia non ricambia l'affermazione, si alza ed esce dalla camera. Ci lancia un sorriso e scende di sotto. Noi entriamo nella stanza e chiudiamo la porta.

Henry si precipita sul letto e la guarda preoccupato. “Da uno a dieci. Dimmi l'entità dei danni”.

Julianne sospira. “Va tutto bene. Mi ha chiesto scusa e ha detto che d'ora in poi mi crederà sulla parola”. Le scappa una smorfia scettica.

Henry sembra confuso “Tutto qui? Non hai fatto la drammatica come al solito? Urla. Parolacce. Uscite ad effetto”.

Gli molla un colpo. “Non faccio mai la drammatica, scemo”.

Lui si rotola sul materasso “Si, certo. Comunque, ora parliamo di cose serie”. Fa scivolare lo sguardo allusivo su entrambi. “Come funzionerà la questione tra voi due? Mi devo preparare a dover mentire ogni giorno? Non sono bravo a dire le bugie, forse dovrei esercitarmi allo specchio...”.

Julianne sorride e interrompe il suo sproloquio accarezzandogli la testa “Non ti preoccupare, non dovrai dire nessuna bugia” mi guarda negli occhi “Penseremo a tutto noi”.

Annuisco verso lo sguardo diffidente di Henry.

Lui alza le spalle “Sono comunque dell'idea che vivere il momento sia il miglior modo per combinare guai di ogni genere”.

“Tu non ti preoccupare, abbiamo la situazione sotto controllo” afferma sicura Julianne.

Henry smette di controbattere e annuisce “Se lo dici tu, sorellina, mi fido”. Si alza dal letto diretto alla porta “In ogni caso...essaie de ne pas tomber enceinte”.

Julianne squittisce “Henry!” gli tira un cuscino che il fratello prontamente schiva.

“Era solo un consiglio” ridacchia e apre la porta “Vi lascio parlare”. Esce dalla stanza e ci lascia soli.

“Che cosa ti ha detto?” domando curioso. Credo di aver capito qualcosa, ma non sono sicuro delle mie traduzioni. La parola enceinte centra qualcosa con il restare incinta.

Julianne arrossisce e fa scendere il gatto dalla ginocchia. “Nulla, faceva solo lo stupido”. Dal rossore sul suo viso credo di aver capito cosa ha detto.

Si avvicina scivolando sulla trapunta “Allora, cosa nascondi dietro la schiena?”. Sapevo che se ne sarebbe accorta, è da quando sono entrato che ho le mani dietro di me.

“Ti comunico che sono un'ottima osservatrice e che riesco a fiutare l'odore di cioccolato da chilometri”. Sorride alzandosi sulle ginocchia e appoggiandosi alle mie spalle per restare in equilibrio. “E in questo momento odori di dolci da morire e la cosa mi piace parecchio”.

È adorabile l'espressione curiosa che le adorna il viso.

Smetto di nascondere la fetta di torta dietro la schiena e gliela piazzo davanti. “Il tuo nasino da segugio ha rovinato la mia sorpresa”.

Mi fa la linguaccia.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare, scommetto che stai morendo di fame”. Le passo il piatto con il dolce e Julianne emette un sospiro estasiato. Mi da un bacio veloce e si lancia sulla torta. La addenta come se non mangiasse da mesi e mugugna estasiata ad ogni morso. “Grafie” borbotta con la bocca piena.

Dopo che si è rifocillata il suo umore è nettamente migliorato.

“Allora, stai bene?” chiedo.

Julianne si pulisce la bocca con il dorso della mano “Alla grande. Le discussioni con la mamma sono una cosa a cui ormai ho fatto il callo. Urliamo, ci feriamo a vicenda, poi lei si scusa e io fingo di crederle”. Sembra sicura di quello che dice, ma riesco comunque a cogliere una sfumatura triste nei suoi occhi.

Le siedo accanto e intreccio le dita con le sue. “Se qualcosa ti turba puoi parlarne con me”.

Julianne sorride dolcemente e mi fa scorrere il pollice sulla guancia “Sto benissimo, credimi”.

Non lo faccio, ma decido comunque di cambiare argomento. “Tua madre ha chiamato la signorina Dawson dopo cena...”.

Al nome della psichiatra Julianne si irrigidisce. “Ha telefonato davanti a tutti?”.

Annuisco.

Abbassa lo sguardo e impercettibilmente si ritrae. Non voglio che si chiuda di nuovo in se stessa.

“Sono andato anche io dallo psichiatra” riesco a rintracciare i suoi occhi “Dopo la morte di mia madre non facevo altro che cacciarmi nei guai e comportarmi come se mi fosse tutto dovuto. Mio padre mi ci ha mandato dopo che ho rubato l'auto del vicino e l'ho schiantata contro la cassetta della posta”.

“Ti ha aiutato?” domanda giocherellando con una ciocca.

“Cosa? Schiantare un'auto?”.

Ride “No. Parlare con lo psicologo”.

“Moltissimo. Mi ci dovevano trascinare, ma alla fine mi ha aiutato molto più di quanto potessi immaginare”.

Mi guarda a lungo, scegliendo le parole giuste. “Ci andavo anche prima”. Si ferma. “Dallo psichiatra intendo”. Un'altra pausa. “Anche prima di venire qui”. Fa un lungo e intenso sospiro “A quanto pare sono parecchio incasinata”.

“E chi non lo è?”.

“Già”. Il suo sguardo si fa lontano. “Mia madre ha detto altro?” si informa esitante.

Non sono sicuro di cosa dovrei dire. Ho così tante domande senza risposa che mi sembra di impazzire, ma non voglio rischiare che si chiuda in se stessa di nuovo.

“Solo qualcosa a riguardo gli attacchi di panico” mormoro.

Lei sospira e scuote la testa “Non ha proprio idea di cosa sia una conversazione privata”.

“Non sapevo ne soffrissi”.

“È una stupidaggine. Ogni tanto mi succedeva, ora non più”. So che sta mentendo.

“Abbiamo già affrontato l'argomento Pinocchio, giusto?” domando sarcastico.

Julianne sbuffa “E va bene. Oggi ha avuto un piccolo episodio ma non mi succedeva da tantissimo”. Disegna una croce immaginaria sopra il cuore. “Lo giuro”

La guardo dubbioso “Non so se mi dovrei fidare”.

Mi fa un sorrisetto furbo sfiorandomi una gamba “Dovresti, invece.

Il suo tocco mi accende come un fiammifero. “Credo proprio che dovresti persuadermi”.

Una magnifica scintilla affamata le attraversa lo sguardo. “Sì, dovrei proprio”. Mi appoggia entrambe le mani sul torace e le fa scivolare fino sul collo. La sua gamba destra mi scavalca entrambe le cosce e Julianne mi si siedi in grembo, proprio come qualche ora prima, in macchina. Ogni fibra e ogni nervo del mio corpo si risveglia al contatto con il suo.

Le stringo i fianchi con le mani per farla avvicinare ancora di più. “Mi piace come si sta svolgendo questa conversazione”.

Julianne sospira mentre le infilo le mani sotto la maglietta e contro la pelle nuda. “Ed è soltanto l'inizio”.

Mi accarezza la nuca e mi passa le dita tra i capelli. I nostri sguardi si incrociano. Inclina la testa finché le nostre labbra non si sfiorano. All'inizio è un bacio delicato e lento, che gradualmente si infiamma come un vero e proprio incendio.

Mi stendo sulla schiena trascinando Julianne con me. Ogni sensazionale parte del suo corpo è completamente a portata di mano. Le sfioro una coscia rendendomi conto solo ora che indossa dei pantaloncini striminziti. Il contatto con la pelle nuda mi provoca un lunghissimo brivido lungo la schiena.

Le afferro i bordi della maglietta e gliela sfilo sopra la testa. Il suo copro mozzafiato è strabiliante illuminato dalla luce del sole che tramonta.

Le passo il pollice sulla scritta Rebirth che ha tatuata sulle costole. È il tatuaggio che mi incuriosisce di più ed è l'unico di cui non ha mai detto una parola. Vorrei disperatamente sapere, ma questo non mi sembra il momento migliore.

I suoi bellissimi denti smettono di giocare con il mio labbro inferiore e si spostano lungo il collo, facendomi gemere con forza.

“Shhh” mi appoggia un dito sulla bocca “Finiremo nei guai se fai troppo rumore”.

“È colpa tua” sospiro sorridendo.

Lei ridacchia e torna a baciarmi il collo.

“Dobbiamo cambiare posizione. Averti sopra non aiuta il mio autocontrollo”. Le do una leggera spintarella e invertiamo la situazione. “Così è anche peggio” brontolo. Julianne sdraiata sotto di me, arrossata e senza maglietta non aiuta.

Lei ridacchia di nuovo. Afferra l'orlo della mia maglietta e la solleva fino a sfilarmela. Con l'indice percorre ogni centimetro del mio petto. Sospira inebriata quando percorre il profilo dei muscoli a V del bacino. “Questa è in assoluto la mia parte preferita”.

“Non mi sorprende affatto”.

Ricominciamo a baciarci finché non arriviamo al limite e ci tocca fermarci. Ci rinfiliamo i vestiti che sono volati per la stanza e cerchiamo di calmare i bollenti spiriti.

Ci stendiamo sul suo letto e parliamo finché gli sbadigli di Julianne diventano incontrollabili.

Mi chino per darle il bacio della buonanotte e torno in camera mia.

Entrando nella stanza, Henry mi lancia una lunga occhiata da sopra il libro di fisica. Inclina la testa divertito. “Hai di nuovo la maglietta al contrario”. Abbassa lo sguardo compiaciuto e si rimette a studiare.

Devo proprio migliorare la parte del rivestirsi.

 

 

La fine della settimana arriva velocemente. Ogni sera, dopo che tutti sono andati a dormire, sgattaiolo nella camera di Julianne e passiamo del tempo insieme. Principalmente la guardo leggere, studiare o dipingere.

Ad un certo punto della notte, la infastidisco finché non si distrae da quello che sta facendo e si concentra su di me. Finiamo sempre per sfilarci a vicenda i vestiti di dosso finché non sfioriamo ripetutamente il limite che abbiamo stabilito.

Capisco cosa voleva dire Henry con il fatto che Julianne ti entra dentro e non riesci più a farla uscire. Ogni molecola dentro di me si infiamma ogni volta che lei si muove, o che sorride, oppure che semplicemente sta ferma. Alcune volte è davvero difficile resistere alla voglia di baciarla. Durante tutta la settimana successiva cerco di escogitare dei modi per poter stare insieme in ogni momento possibile. Lo sgabuzzino della scuola è diventato una delle nostre mete più frequentate.

Non abbiamo più parlato della nostra relazione e credo che per adesso vada bene così.

 

Il weekend successivo, le prove con i ragazzi non filano lisce come al solito.

“Così non funziona” sospira Matt stringendosi il mento.

Siamo riuniti nel mio garage a provare come ogni domenica pomeriggio. È da un'ora che suoniamo ed alla fine di ogni pezzo Matt borbotta qualche critica.

“A me sembrava okay” controbatte Lip seduto dietro la sua mastodontica batteria.

“Esatto!” sbraita Matt “Era solo okay. Dobbiamo essere eccezionali se vogliamo partecipare al Rock Band Contest”.

Giovedì, all'ora di pranzo, Ty è arrivato con un volantino del Rock Band Contest, una gara nazionale di band sconosciute che vogliono farsi notare. A novembre, a Salt Lake City, vengono selezionate le band migliori dell'Utah. Una volta che sono state scelte, si sfidano finché ne rimane solo una. La band vincitrice ottiene un contratto discografico con la Planet Music, la miglior casa discografica di tutto lo stato.

Non appena abbiamo letto la locandina siamo stati tutti d'accordo che avremmo dovuto partecipare. Sapevo che questa storia avrebbe creato qualche disordine tra di noi. Soprattutto su Matt e sul suo bisogno fisiologico di eccellere.

“Siamo solo a settembre. Abbiamo un sacco di tempo per migliorare” mi intrometto cercando di smorzare i toni.

Matt spalanca la bocca costernato. “Due mesi scarsi ti sembrano un sacco di tempo?! Abbiamo bisogno di molto più tempo per migliorare”.

Lip grugnisce infastidito. “Da quando esattamente pensi che facciamo schifo?” chiede agitando una bacchetta con lo sguardo duro.

Oddio, non finirà bene. Ty mi lancia un'occhiata preoccupata.

“Non ho mai usato la parola schifo, Philip” si difende alzando la voce “Se dobbiamo affrontare un giudizio, dobbiamo essere pronti per raggiungere il massimo. Se fai qualcosa per essere mediocre tanto vale che resti a casa”.

Lip stringe i denti e si alza. “Questa perla di saggezza arriva dal culo di tuo padre?”.

Matt impugna con forza il manico del basso e fa un passo in avanti. “Come prego?”.

Mi frappongo tra i due interropendo lo scontro. “Okay, ora datevi una calmata”. Spingo Matt il più lontano possibile da Lip. “Dobbiamo valutare i nostri pro e i nostri contro. Qualcuno ha qualche idea?”.

C'è un attimo di silenzio, poi Matt riapre la bocca. “Ci servono canzoni originali. Basta cover” asserisce serio. Non ha più lo sguardo furioso.

“Dobbiamo migliorare l'armonia” aggiunge Lip avviandosi verso la porta.

La crisi sembra essersi riassorbita.

“Okay, che altro?” li sprono.

“Una nuova voce” afferma piano Ty.

“Ci serve qualcuno che se ne intenda veramente di musica” Lip apre la serranda del garage e tira fuori le sigarette. “Cazzo, a parte Matt nessuno di noi ha veramente studiato musica da qualche parte”.

“Non credo che il campeggio della musica conti come esperienza” asserisce Matt. Arriccia il naso all'odore di tabacco e si allontana dalla fonte di fumo.

“Ci serve un'insegnate” conclude Tyson.

Matt fissa il vuoto per qualche secondo e poi sorride come un cretino “Ma certo!” si batte la mano sulla fronte “Julie!”.

“Cosa c'entra Julianne ora?” chiedo leggermente seccato. Spero che non si noti che mi da fastidio il modo in cui pronuncia il suo nome. Dall'occhiata che Lip mi lancia direi di no.

“Lei ha studiato musica per anni. È una cantautrice, se ne intende di armonia e sarebbe una voce fantastica da aggiungere al nostro gruppo”.

Lip manda fuori una nuvola di fumo “E come pensi di convincerla?”.

“Ci basterà chiederglielo”.

Sì, certo. Non accetterà mai, nemmeno sotto tortura. “Mi sembra un'opzione azzardata” mormoro.

“Ma dai, Aaron” brontola Matt “È perfetta per questo ruolo e tu lo sai. L'abbiamo sentita cantare. È la soluzione migliore e più veloce che potessimo trovare. Perché sei contrario?”.

Lip ridacchia sbuffando fumo dal naso. “Già, A., perché sei contrario?”.

Odio le frecciatine che mi manda ogni santo giorno. Da quando mi ha beccato con Julianne non fa altro che ridacchiare e bofonchiare battutine. È da più di una settimana che vorrei dargli un pugno in faccia.

“Va bene” cedo “Se vuoi chiederglielo fai pure, ma non ti dirà mai di sì”.

Matt fa una risata strana. “Invece sì, vedrai”.

Voglio proprio vedere, infatti.

 

 

Saliamo tutti e quattro al piano della camere e Matt bussa alla porta di Julianne. La sua bellissima voce ci dice di entrare. Spalanchiamo la porta e varchiamo la soglia. Julianne è avvolta in una strettissima tenuta da yoga, composta da dei leggings neri e da un reggiseno sportivo blu scuro. Tutto troppo aderente e troppo poco coprente.

È appoggiata ad un tappetino da yoga color pastello nella posizione del cane a testa in giù.

In questo momento vorrei strappare gli occhi a tutti e tre i miei amici. Soprattutto a Lip che sta cominciando a sbavare.

“Ho cominciato senza di te, Henry” afferma Julianne senza guardare chi è entrato “È da mezzora che ti aspetto, mi sono stufata. Dovrai accontentarti di partire dalla posizione del cane”.

“Oh” geme Lip in modo imbarazzante “Non voglio altro dalla vita”.

Gli mollo un scappellotto sulla nuca sperando di sistemargli finalmente il cervello.

Julianne sobbalza e atterra sulla moquette con un tonfo. Sbuffa con irruenza e si volta a guardarci furente. “Non sapete cos'è la privacy?”.

“Se è questo che fai in camera tua tutto il giorno, voglio vivere qui” sospira Lip, guadagnandosi un secondo scappellotto.

“Ahi” brontola massaggiandosi la nuca.

Julianne si alza dandoci una visione spettacolare della parte davanti del suo corpo. “Cosa diavolo ci fate in camera mia?”.

Quel completino da yoga dovrebbe essere reso illegale.

“Matt ha qualcosa da chiederti” la informo. Il mio sguardo viaggia su ogni particolare del suo aspetto. Lei arrossisce lungo il collo. Sa esattamente a cosa sto pensando.

“Cosa devi chiedermi?” si sistema lo chignon spettinato. “Ho sete. Parla mentre camminiamo”.

Ci supera ed esce dalla stanza, diretta alla cucina. Noi la seguiamo e Matt comincia a parlare. “Allora, abbiamo scoperto che c'è questo concorso di band a cui vogliamo davvero partecipare” scendiamo le scale “Si chiama Rock Band Contest. È un concorso per band emergenti che vogliono farsi conoscere”. Julianne entra in cucina e apre il frigo. “È un concorso molto serio e non vogliamo fare brutte figure. Abbiamo capito che abbiamo alcune carenze in alcuni punti specifici”.

Julianne beve una sorsata di succo di frutta e poi sospira. “Matt?”.

“Si?”.

“Vai al dunque”.

Lui annuisce. “Sì, allora, noi ci stavamo chiedendo se...insomma se...se tu...”.

Lip sbuffa annoiato. “Vuoi farci da coach e magari unirti al gruppo come nuova voce?”.

Julianne ci fissa a lungo, prende un altro sorso di succo poi scuote la testa. “No”. Si riavvia verso camera sua.

Matt agita la testa confuso. “Aspetta, cosa?”.

“Ho detto no” spiega fermandosi a metà scale.

“Perché?” chiede ancora più confuso.

“Mi avete fatto una proposta a cui non voglio partecipare e io ho detto no”.

“Ma perché no? Tu ami la musica”.

“Perché no” ribatte con forza “Avevo due opzioni e ne ho scelta una. Fatevene una ragione”.

Finisce di salire le scale e ci lascia soli.

Matt ha la faccia di un bambino a cui hanno appena detto che Babbo Natale non esiste.

“Ti avevo avvertito che non avrebbe acconsentito” mormoro.

“Non capisco” bofonchia “Julie adora la musica”.

“Forse non più” azzarda Lip.

Ci ritiriamo in cucina sconfitti.

“E ora?” chiede Ty.

“Dobbiamo trovare un'altra soluzione” dice Lip frugando nella dispensa.

La porta della cucina si apre e dal giardino sul retro entra Henry. Ha i capelli disordinati e l'aria appagata. Appena ci vede arrossisce come un pomodoro. “Ehi...ciao...io...ciao” tartaglia con aria colpevole. È da qualche giorno che sparisce per un'oretta e riappare dal giardino scombinato e felice. Immagino abbia capito i vantaggi di vivere accanto a Dylan.

“Ehi” lo salutiamo.

Lui fa per andarsene ma Matt lo blocca “Henry. Aspetta. Ho una cosa da chiederti”.

Gli fa un riassunto della conversazione con Julianne e lui scoppia a ridere.

“Cosa?” chiede confuso Matt.

“È ovvio che vi abbia detto no. Sono quasi due anni che Jules non suona e non canta più davanti ad un pubblico. Non ricomincerà certo perché glielo chiedete voi. Al massimo riuscirete convincerla a darvi qualche dritta ma vi servirà una strategia intelligente ed efficace”.

“Tu la conosci come le tue tasche, non puoi aiutarci?” chiede Matt avvilito.

Henry scuote la testa con forza. “Non se ne parla. Abbiamo un codice tra gemelli e include il fatto di non complottare con altre persone per raggirarci. Mi dispiace”.

“Non ci dai nemmeno un dritta?” lo incalza Lip.

Henry si gratta il mento. “C'è soltanto un'altra persona che conosce Jules come il palmo della sua mano e che abita abbastanza lontano da non avere paura di essere uccisa”.

Ma certo! “Scarlett” asserisco.

“Esatto. Scar vi aiuterà di sicuro. Dovete solo trovare il modo per parlarle senza che Jules lo sappia. Vi posso solo dire che dopo lo yoga fa un lungo bagno e che la sua camera sarà incustodita”. Dopo di che si avvia verso camera sua.

 

Tiriamo una moneta e a Ty tocca il pericoloso compito di intrufolarsi in camera di Julianne e sottrarle il portatile.

Dopo quelle che sembrano ore, Tyson scivola in cucina stringendo il pc. Ci nascondiamo in garage e lo appoggiamo sul tavolo da ping pong. Ci stringiamo davanti allo schermo sperando di non essere scoperti.

“Okay” asserisco inserendo la password “Ora dobbiamo solo contattare Scar via FaceTime”.

Avvio la chiamata e dopo tre secondi la faccia sorridente di Scarlett ci appare davanti. “Ehi! Super Jay! Come va la tua relazi...” inghiotte le ultime parole nascondendole con un colpo di tosse. Ci fissiamo per alcuni secondi poi Scarlett inclina la testolina viola e ci guarda sospettosa. “Voi non siete la mia Jay. Cosa fate con il suo computer? Volete morire giovani?”.

“Abbiamo bisogno del tuo aiuto. È un'emergenza” asserisco serio.

Lei smette subito di sorridere e annuisce “Ditemi tutto”.

Dopo un veloce riassunto della situazione, Scar scoppia a ridere così forte che ho seriamente paura che ci faccia scoprire. “Siete davvero degli ingenui” ride più forte “Jay è riservata e introversa come una spia russa e voi le avete chiesto di fare qualcosa che metterebbe a nudo la sua anima. È ovvio che vi abbia detto no”. Si asciuga un lacrima nera di mascara. “Cosa le avete portato per rabbonirla?”.

“Che cosa?” Matt si acciglia.

Scarlett scuote la testa delusa. “O mio dio. Siete andati li a mani vuote? Siete proprio dei principianti”. Smette di guardarci e giocherella con il braccialetto “Eppure qualcuno dovrebbe conoscerla bene”. So che parla con me, ma sinceramente non avevo pensato a qualcosa per metterla di buon umore.

Matt si sente chiamato in causa. “Non pensavo che in questi ultimi anni si fosse trasformata in una specie di mostro introverso”. Scarlett gli lancia un'occhiataccia. “Era così solare prima”.

“Non è più la stessa persona, Matthew” mormora scorte “In ogni caso, al prossimo tentativo vi servirà qualcosa per rabbonirla. Consiglio qualcosa fatto di cioccolato”.

“Okay, poi cosa facciamo?” chiedo.

“Qualcuno deve rifarle la domanda, ma posta in modo diverso. Quel qualcuno deve essere Tyson” gli punta il dito contro e ammicca.

Tyson spalanca la bocca e scuote la testa con forza.

“Perché Ty?” domando.

“È l'ultima persona che lei si aspetta di sentir parlare. Se glielo chiederà lui, Julianne si distrarrà e sarà il momento di Lip”

“Il mio?”.

“Sì, la irriti come nessuno e sarà proprio questo il tuo compito. Dovrai fare in modo che si senta sfidata a dimostrare le sue capacità” afferma Scar.

“Come sai tutte queste cose su di noi?” le domanda Lip.

“Io so tutto su di voi. Jay mi tiene aggiornata su ogni cosa”.

“Quindi parla di noi” fa un sorrisetto malizioso davvero fastidioso.

“Non ti montare la testa, carotino, le parole che usa per descriverti non sono affatto lusinghiere” Ridacchia e poi continua. “Comunque, se sarai abbastanza bravo, vi mostrerà cosa sa fare e allora le sue barriere cadranno e dovrete essere pronti a chiederle di nuovo di aiutarvi. A quel punto vi dirà di sì, ma dovrete accettare qualsiasi compromesso vi proporrà”.

“Va bene” acconsente Matt. “Dobbiamo fare altro?”.

“No. Attenetevi al piano e sperate che la luna sia allineata nella giusta posizione”.

“Grazie, Scar” le sorrido “Ti siamo immensamente grati”.

“Prego, ma ricordatevi che se questa storia viene fuori, negherò tutto fino alla morte”.

“Mi sembra giusto” concludo.

La salutiamo e chiudiamo la conversazione.

 

Dopo un altro lancio della moneta tocca a me rimettere a posto il pc.

Corro al piano di sopra, mi infilo nella sua stanza e lascio in fretta il computer sulla scrivania.

Quando sono quasi fuori, la porta del bagno si spalanca e Julianne mi osserva dalla soglia stretta in un accappatoio color porpora. “Cosa fai qui?” domanda tamponandosi i capelli bagnati con l'asciugamano.

Panico.

Okay, improvvisiamo. “Fingo di andare in bagno per rubarti un bacio veloce”. Riducono la distanza tra noi e le afferro il viso. Ha la pelle così morbida e calda. Una gocciolina le scivola lungo la tempia e gliela asciugo con il pollice. Chino la testa e premo le labbra sulle sue.

Julianne si alza sulle punte e mi circonda il collo con le braccia. Ha un profumo fantastico.

Il bacio si fa subito rovente. Non riusciamo a toccarci senza che la stanza prenda fuoco.

Adoro baciarla. Lo farei per tutto il giorno.

Devo allontanarmi prima di perdere di vista l'obbiettivo.

Mugola di disappunto quando mi stacco.

Appoggio la fronte sulla sua “Questo accappatoio mina seriamente alla mia salute mentale” mormoro senza fiato.

Lei sospira “È perché sono tutta bagnata o perché non porto nulla sotto?”.

“Tutti e due” ringhio.

Julianne ridacchia e si allontana “Mi dispiace di essere stata scontrosa poco fa, ma io non...Cantare per me è personale...e...”.

Le prendo una mano interrompendo i suoi tartagliamenti .“Lo so, piccola. Lo so”. Le sfioro la punta del naso. “Te lo hanno chiesto perché è davvero importante per noi. Per me. Il tuo aiuto ci avrebbe davvero fatto comodo, ma so perché hai detto di no”.Abbassa lo sguardo visibilmente triste. “Non ti preoccupare”. Le do un bacio veloce ed esco dalla stanza.

 

 

Lip e Ty escono a comprare una scatola enorme di cupcakes al cioccolato fondente e marshmallow. I suoi preferiti.

Ripetiamo il piano diverse volte e quando riusciamo a racimolare abbastanza coraggio, ci dirigiamo verso la camera di Julianne. La sua porta è aperta e lei è sdraiata sul letto con i libri aperti davanti. Kafka le dorme accanto, per metà adagiato sul libro di storia.

Ha sostituito l'accappatoio con una felpa extra-large e dei pantaloncini di jeans. Ha i capelli ancora umidi ed è scalza.

Bussiamo sullo stipite facendole alzare lo sguardo. Annuisce acconsentendoci di entrare. Ci disponiamo intorno al letto e la fissiamo. Ty le appoggia davanti la scatola rosa con i dolci. Julianne inclina la testa e annusa l'aria. Il suo bel nasino percepisce odore di cioccolato e le scappa un sorriso. Si fionda sulla scatola e ne estrae un cupcake. Lo guarda come se fosse la cosa più bella al mondo e lo addenta con passione. Mugugna e ci guarda “Ora avete la mia attenzione”.

Ty prende aria ma richiude subito la bocca. Quello che gli ha ordinato Scarlett lo mette terribilmente a disagio. So quanto gli costa parlare con persone che non conosce.

Potrebbe farcela o potrebbe finire tutto malissimo.

Tyson inspira con forza poi riapre la bocca. “Abbiamo bisogno di te”.

Julianne lo fissa scioccata con il cioccolato spalmato su metà faccia. È la prima volta che le parla direttamente.

Ty espira. “Vuoi aiutarci?”.

Julianne lo fissa come se fosse un alieno. Ha addirittura smesso di amoreggiare con il dolce. Lo guarda in modo strano e gli ingranaggi del suo cervello si muovo veloci mentre assimila le informazioni.

“Perché lo stiamo chiedendo a lei?” si intromette Lip mettendo in atto la sua parte “Non credo che sia così brava...”

“Va bene” sussurra Julianne ancora fissando Ty.

Aspetta. Cosa?

“...come pensate. Come facciamo a sapere se ne sa qualcosa si musica”.

Ha detto va bene?

“Insomma io non credo...” ricomincia Lip.

“Zitto!” mormoro brusco. Guardo Julianne negli occhi “Cosa hai detto?”.

Mi lancia un sorrisino “Ho detto va bene”.

La fissiamo tutti e quattro a bocca aperta.

“Hai detto va bene?” domanda Matt confuso. “Meno di un'ora fa mi hai detto no almeno tre volte”.

“Ho cambiato idea” fa le spallucce “Le ragazze sono volubili”. Mi guarda negli occhi e sorride “Poi ho capito che è molto importante per voi, perciò ci sto”.

“Ci aiuterai?” chiedo speranzoso.

“Sì. Non ho intenzione di esibirmi con voi o altro ma, vi aiuterò come posso dietro le quinte”.

Dio, la adoro.

“Grazie” le sussurra Ty.

“Ma non è giusto!” si lamenta Lip “Io ero prontissimo per la mia parte del piano!”.

“Come?” Julianne aggrotta le sopracciglia confusa.

Mollo una gomitata a Lip e scuoto la testa “Nulla. Nulla”.

Lei fa una strana espressione, come se sapesse esattamente cosa sta succedendo. Spero davvero di no, non voglio che cambi idea.

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Capitolo 20
*** Julianne ***


Non ci posso credere ho accettato di aiutarli così facilmente. Sto davvero perdendo la mia vena introversa e scontrosa. È tutta colpa di Aaron. Lui e i suoi fantastici baci mi rendono sentimentale ed emotiva. Quando mi ha detto che era davvero importante per lui che li aiutassi, i suoi stupendi occhioni verdi hanno dissolto la corazza acida che riveste il mio cuore e non ho resistito.

Merda. Mi sono infilata in una situazione scomoda e potenzialmente distruttiva.

Maledetto lui e la sua bellezza disarmante.

Oltretutto, mentre il mio cervello saturo di ormoni stava valutando le sue parole, Tyson ha deciso che oggi era il giorno giusto per parlarmi e farmi andare completamente a fanculo. È stato strano e disarmante, assolutamente inaspettato. La sua voce bassa e armoniosa ha disintegrato quello che restava dei miei muri e alla fine non ho potuto fare altro che acconsentire.

In ogni caso ormai non mi tiro indietro, ho detto che lo farò ed io mantengo sempre la mia parola. Così mi ritrovo seduta su una scomoda sedia da giardino a studiarli mettere in mostra ciò che sanno fare. Li ho già sentiti suonare diverse volte, ma ora mi sembra che si stiano sforzando davvero di dare il meglio. Sono molto bravi, non c'è che dire. L'unica grossa pecca che si nota subito è la mancanza di originalità. Ci sono migliaia di cover band al mondo, loro devono trovare il loro sound e iniziare a scrivere i propri pezzi. Non passeranno nemmeno le selezioni iniziali in questo stato.

Dopo la terza canzone gli faccio segno di fermarsi.

“Cosa ne pensi?” chiede Matt esaltato.

Si siedono sul rialzo di legno sopra cui provano e mi fissano. Mi stringo le ginocchia al petto. “Siete sicuri di voler sentire cosa penso? L'ego degli uomini è così delicato e non voglio che...”

“Dillo e basta” si intromette Aaron “Sei qui per questo. Promettiamo di non offenderci”.

È così bello illuminato dalle luci al neon del garage. Non voglio ferirlo con troppa sincerità. Prendo un bel respiro. “Okay”. Abbasso le gambe e ostento sicurezza. “Siete una rock band, giusto?”.

Annuiscono.

“Bene. Vi serve un chitarrista in più”. Aaron aggrotta la fronte nel tentativo di celare il fastidio. “Tu vai benissimo, davvero” aggiungo in fretta “Ma vi serve una nuova chitarra da aggiungere alla band. Soprattutto mentre canti hai bisogno di qualcuno che ti dia supporto e oltretutto migliorerebbe il suono che producete”.

Aaron spina la fronte e annuisce.

“Tu suoni la chitarra...” butta lì Matt con aria innocente.

No, non di nuovo.“Vi ho già detto di no” taglio corto.

“Va bene” acconsente Aaron. “Che altro?”.

“In alcuni pezzi sembra quasi che ognuno di voi vada per la sua strada. Non seguite Lip che vi da il ritmo e date l'idea di voler primeggiare come singoli, non come band. Dovete imparare ad ascoltarvi e a lavorare come un team”.

“Okay, ci lavoreremo. C'è altro?” domanda Matt. Hanno l'aria alquanto afflitta, non vorrei continuare ma sono qui per questo.

“Questa è la parte più importante” mormoro “Avete bisogno di pezzi originali. Chiunque sa suonare una cover, dovete davvero iniziare a lavorare sul vostro sound personale”.

Aaron si stringe nelle spalle. “In questo facciamo davvero schifo. Nessuno di noi ha mai scritto niente”.

“Questo potrebbe essere un problema” li informo.

Lip si illumina. “Io ho scritto una canzone. Vuoi leggerla?”.

“Certo” annuisco.

Aaron sospira e si sfrega la faccia “Non ti conviene”.

Lip fruga tra degli spartiti e mi passa un foglio stropicciato e macchiato di cibo.

“L'ho scritta durante una pausa pranzo” dice spiegandomi l'unto e gli schizzi di sugo. Leggo il testo velocemente e per un secondo penso di aver interpretato male delle parole. Lo riguardo e trasalisco. “Questo ti sembra un testo decente?”.

“Ti avevo avvertita” borbotta Aaron.

Lip annuisce estasiato. “È il migliore che io abbia mai scritto”.

Sta scherzando. Ti prego dimmi che sta scherzando. “Ci sono solo parolacce e azioni oscene. Gesù! Chi è che parla in questo modo?!” lo fisso sconvolta “Ma tu ti rivolgi così alle ragazze?!”.

“Il più delle volte” fa un sorrisetto malizioso “Le eccita il mio linguaggio sconcio”.

“Che schifo. Non c'è proprio speranza per l'umanità” sospiro e gli ripasso il foglio “Tieni. Questo non va assolutamente bene”.

Lip mugugna indispetitto e si stringe al petto il foglio come se fosse una cosa di estremo valore.

“A parte il porno musicale di Lip, qualcuno a scritto qualcos'altro?” domando.

Scuotono la testa all'unisono.

“Nulla? Dove sfogate le vostre emozioni?”.

“Lacrosse” rispondono Matt e Aaron.

Ovvio.

“Sesso” asserisce Lip.

Non mi sorprende. I maschi sono così semplici.

Tyson rimane in silenzio come sempre. Dopo quelle poche sillabe non ha più aperto bocca e la cosa mi innervosisce parecchio.

“E tu?” gli chiedo.

Lui mi fissa inghiottendomi nel buio dei suoi occhi. Noto qualcosa nel suo sguardo, una strana oscurità che mi è decisamente familiare. So cosa significa. Segreti.

“Ty è nel club di teatro” mi spiega Matt. E che parte fa? L'albero? Okay, questa era cattiva.

“Lo avevo chiesto a lui” brontolo “Comunque abbiamo bisogno di testi, se no siamo nella cacca”.

“Tu scrivi testi” asserisce Matt grattandosi la nuca.

Proprio non demorde.“Non miei testi. I vostri, siete voi la band” spiego “Iniziate almeno a pensarci, va bene?”.

“Va bene” approvano.

“Ci aiuterai a farcela?” chiede Matt preoccupato.

“Sarò sincera, è un vero casino. Dobbiamo lavorare duramente, impegnarci al massimo e non perdere neanche un minuto. Sarà difficilissimo”.

Aaron mi sorride “Quindi ci aiuterai”.

“Le cose difficili sono le più divertenti” dico ricambiando il sorriso.

 

Passiamo il resto del pomeriggio chiusi in quel polveroso garage a provare e a lavorare sull'armonia. All'ora di cena siamo esausti e terribilmente affamati. Divoriamo tutto il mangiabile e poi i ragazzi tornano alle loro case.

Aaron invece mi segue in camera mia. Mi butto sul letto e sospiro. “Sono sfinita”. È stata una giornata lunghissima e non vedo l'ora di poter passare un po' di tempo da sola con lui.

Aaron mi tira per le caviglie fino al bordo del letto e mi afferra i fianchi. “Sei davvero così stanca?” mormora roco. Il suo tocco mi infiamma la pelle e dissolve qualsiasi tipo di affaticamento.

“Nemmeno un pochino” sussurro allacciandogli le gambe intorno alla vita e le braccia intorno al collo. Mi tira su come se fossi fatta di piume e mi stringe a sé. Si gira e si sdraia sul letto, trascinandomi con lui. La sua mano mi accarezza una coscia “Ho immaginato tutto il pomeriggio di strapparti di dosso questi pantaloncini” mi bacia il collo “Ti è severamente vietato metterli quando ci sono i miei in casa. E anche quella tutina da yoga indecente. Lip si è disidratato a forza di sbavare”.

Ridacchio accarezzandogli gli addominali. “E cosa vorresti che indossassi esattamente? Un burqa?”.

“Precisamente” inspira infilandomi le mani sotto la felpa.

“Non se ne parla nemmeno” gli strofino il naso nell'incavo del collo “Vuoi sapere qual è la parte migliore di vedermi indossare quei vestiti indecenti?”.

Aaron geme annuendo.

“Loro possono sbavare quanto vogliono, ma solo tu puoi sfilarmeli”.

Ed è esattamente quello che fa.

 

Sono uscita con un numero considerevole di ragazzi e molti di loro si sono guadagnati il permesso di spogliarmi, ma nessuno mi ha mai lanciata in orbita come fa Aaron. Ogni volta che mi tocca o che mi sfiora, il mio corpo risponde con veemenza. Vorrei che fosse solo una cosa fisica, ma il mio cervello non si stacca mai dal corpo quando stiamo insieme. Mi piace passare il tempo con lui. Mi fa ridere e mi rende pericolosamente felice. Quando si intrufola nella mia stanza nel cuore della notte solo per sdraiarsi accanto a me, il mio cuore parte a mille e il cervello lo segue a ruota, inculcandogli idee sbagliate. Sto iniziando a sospettare che non stiamo solo vivendo il momento.

Stiamo insieme come una coppia e questo potrebbe essere un grosso problema.

“Tieniti pronta più tardi” mi dice rinfilandosi i pantaloni “Ti porto in un posto”.

“Posso sapere dove andiamo?” chiedo curiosa.

“Assolutamente no. È una sorpresa” sogghigna infilando la maglia. “Indossa il costume da bagno sotto i vestiti”.

Cosa? “Ti ricordi che non so nuotare, vero?”.

“Certo. Tu mettilo e fidati di me” mi da un bacio e scappa via prima che possa rubargli altre informazioni.

Mi lascio cullare dalla morbidezza del mio letto e mi godo le fantastiche sensazioni paradisiache che mi ha appena fatto provare. Sono un'esperta di assuefazioni e so per certo che sto diventando dipendente da lui. Non va affatto bene.

Henry si infila nella stanza e mi fissa dall'alto con le mani su i fianchi. “Oh, santo cielo” squittisce “Hai l'aria appagata. Che schifo, sto interrompendo il tuo momento post-coito”.

La sua faccia terrificata mi fa ride. “Smettila di fare la signorina e sdraiati vicino a me”.

“Io lì sopra non mi ci metto” afferma.

Rido più forte. “Non abbiamo fatto niente, tranquillo”.

“Non ci credo” ribatte diffidente. Beh tecnicamente qualcosa abbiamo fatto, ma non quello che pensa lui.

“Te lo posso giurare” disegno una croce sul cuore.

Mugugna ma si sdraia accanto a me. “Nella lista delle cose pazze fatte prima del college non penso che dovresti aggiungere rimanere incinta”.

Gli appoggio la testa sulla spalla. “Se non fai sesso non puoi rimanere incinta”.

Mi guarda in faccia “Non lo avete fatto? Mai?”.

Scuoto la testa. “Vuole fare le cose con calma e a me va bene così”.

Mi accarezza la testa “Caspita, hai completamente cambiato genere di uomini con cui spassartela”.

“Le persone crescono, fratellino”.

Giocherella con un ricciolo. “Ma se non fate nulla come mai hai questa faccia?”.

“Ci sono altri modi per divertirsi”.

Henry rabbrividisce “Che schifo”.

Gli do un pizzicotto in un fianco. “Non fare il moralista! Hai un succhiotto grande come una palla da golf sul collo”. Sposto il bordo del suo maglione a collo alto per esporre la macchia violacea.

Henry mi schiaffeggia la mano e rimette a posto la stoffa. “Non sono faccio il bacchettone, è solo che pensarti in certi frangenti mi fa venire i brividi”.

“Allora non farlo” mi giro su un fianco “Piuttosto parliamo di cose importanti, cosa combinate tu e Dylan?”.

Henry inizia a intrecciare la ciocca con cui stava giocando e sospira. “Proprio non lo so. Quando siamo da soli è affettuoso e incredibile, ma appena qualcun altro entra nella stanza lui finge di non conoscermi”.

“Pensavo che fossi d'accordo nel mantenere un profilo basso”.

Si mordicchia un labbro “Lo sono, davvero. Solo che Dylan non vuole neanche che fingiamo di essere amici in pubblico. Almeno potremmo uscire e nessuno penserebbe nulla di male”.

“Hai provato a parlargliene?” domando. Odio vederlo così. Henry è la persona più dolce e gentile del mondo, si merita solo il meglio.

“Ne abbiamo parlato e lui ha tirato in ballo la famiglia e la scuola. Non può rischiare di uscire allo scoperto in questo momento” fa un lungo sospiro “Io l'ho fatto a San Diego e sono finito nell'occhio del ciclone per un po', ma era una città enorme e dopo un paio di settimane a nessuno fregava più niente. Questo posto è un buco pieno di religiosi, uno scandalo del genere lo perseguiterebbe per sempre”.

Lo stringo più forte. “Mi dispiace tanto, Hen”.

Lui scrolla le spalle ed esibisce la sua solita espressione stoica. “Sto bene, tranquilla. Ci vediamo in segreto a casa sua e per ora va bene così”.

“Dovresti essere libero di essere te stesso” borbotto seria.

“Sto bene così, Jules, davvero” mi da un bacio sulla fronte “Ora parliamo un po' del tuo nuovo impiego come coach” ridacchia.

“Mi sono fatta incastrare, Henry. Sono riusciti a convincermi ad aiutarli senza che ricevessi niente in cambio” sospiro.

Henry ride di gusto. “Quel ragazzo ti sta proprio ammorbidendo. Ora li aiuterai ad essere pronti per il contest?”.

“Già, sarà un lavoraccio”.

“Secondo me ti farà bene” asserisce serio.

“Se lo dici tu”.

 

 

Verso le due Aaron scivola nella mia stanza pronto per uscire. Indossa una felpa nera, dei pantaloncini cargo, arancioni, da bagno e delle vans. Ha uno zaino blu sulle spalle. “Sei pronta?” bisbiglia nel buio.

Non so se lo sono.

Mi ha detto di mettere il costume da bagno e io ho indossato il mio bikini rosso preferito. L'ho indossato così poco che è ancora quasi nuovo. Se non sai nuotare e non ami le spiagge di rado ti capita di mettere il costume da bagno.

Vorrei sapere disperatamente cosa faremo, ma rimango in silenzio e annuisco. Aaron si avvicina alla finestra e la spalanca.

“Cosa fai?” chiedo affiancandolo.

Aaron lancia lo zaino nel buio della notte. “Dobbiamo calarci dalla finestra. Se usciamo dalla porta ci beccano subito”mi accarezza una guancia “L'ho fatto un sacco di volte, tranquilla”. Notando la mia agitazione continua a parlare. “Quando April mi ha detto che dovevo darti la mia camera, mi sono infuriato all'inizio perché questa stanza ha la finestra che da proprio sopra il garage. Ogni volta che volevo svignarmela mi bastava camminare sulle tegole fino alla grondai e poi calarmi giù. È facilissimo, ti aiuto io”.

“Non sono molto sicura di questa cosa. La mia agilità è pari a zero” lo informo mentre scavalca la finestra. Una volta in piedi sul tetto del garage, mi allunga una mano. “Forza, piccola”.

Afferro la sua mano e mi faccio tirare oltre il traverso di legno. Non appena noto la distanza che ci divide dal suolo mi irrigidisco come una statua di marmo. L'aria che ci avvolge è fresca e profuma di erba appena tagliata. Il silenzio che ci circonda è interrotto sporadicamente dal gracchiare dei grilli.

Aaron fa cadere lo zaino sul cemento del vialetto, si avvicina al bordo e lentamente si cala giù. Atterra perfettamente in piedi e mi sorride “Ora tocca a te”.

Scuoto la testa con vigore. “No”.

Sospira dolcemente “Amore, saranno si e no due metri. Ce la puoi fare”.

Le infradito sguisciano sulle tegole umide mentre mi muovo verso la grondaia. Pessima decisione in fatto di calzatura. Se avessi saputo che dovevamo saltare da un dirupo avrei messo qualcos'altro.

“Ti prendo io. Devi solo lasciarti cadere” mi assicura allungando le braccia verso di me.

Mi siedo sul bordo e lascio le gambe a penzoloni. La paura mi scorre sotto pelle, irrigidendomi.

Oh, fanculo. Ho guidato una moto non mia, senza casco, strafatta e dopo due bottiglie di tequila. Posso fare tutto. Mi do una spinta oltre il bordo e finisco nel vuoto per un secondo, prima che le braccia muscolose di Aaron mi afferrino saldamente. “Presa” mi sussurra tra i capelli. Sì, mi ha presa.

Mi posa a terra con delicatezza e raccoglie lo zaino. “Andiamo, dobbiamo camminare un po'”. Intreccia le dita con le mie e ci avviamo lungo la strada.

 

 

“Stai scherzando, vero?” borbotto secca fissando l'insegna di plastica che ci sta davanti.

Aaron scuote la testa e mi acceca con un sorrisone. “Sono serio come un infarto, piccola”. Le luci colorate dell'insegna della piscina pubblica creano strani disegni sul suo volto. La rete di ferro che circonda l'edificio cigola al soffiare del vento.

“Quale parte di non so nuotare non capisci?” chiedo sarcastica.

Aaron mi prende per mano. “Siamo qui per questo. Mi sono preso carico dell'arduo compito di insegnarti l'arte del nuoto”. Mi conduce fino a un cancello laterale. “So che sarà durissima e che molto probabilmente rischierò la morte, ma ormai ho deciso” asserisce cercando di restare serio.

“Come mai hai ti sei fatto carico di questo fardello?” mormoro cercando di restare seria.

Tira fuori un mazzo di chiavi attaccate ad delfino di gomma “Non posso sopportare l'idea che ti manchi una delle conoscenze di base per sopravvivere ad un'apocalisse” infila la chiave blu nella serratura. Quella scatta e il cancelletto si apre stridendo.

Scuoto la testa confusa “Un'apocalisse...io...ma come fai ad avere le chiavi?”.

“Ho le mie conoscenze” mi fa l'occhiolino e mi tira dentro il cortile della piscina. Camminiamo fino ad un edificio di cemento e ci fermiamo davanti ad una porta di metallo verde. Aaron estrae di nuovo il mazzo di chiavi e afferra quella verde. “Sul davanti dell'edificio ci sono le piscine scoperte e gli scivoli, ma sono state svuotate qualche settimana fa in previsione dell'inverno. Le piscine coperte sono funzionanti e piene d'acqua”. Spalanca la porta e mi trascina dentro l'edificio. Una vampata di calore asfissiante all'odore di cloro ci avvolge. I vestiti mi si appiccicano alla pelle e i capelli reagiscono all'umidità cominciando ad arruffarsi. Attraversiamo diversi sgabuzzini colmi di attrezzature per piscine e superiamo gli spogliatoi e le docce.

“Sei sicuro che possiamo stare qui? E se ci beccano?” sussurro nel buio stringendogli la mano.

“Conosco il custode notturno, è lui che mi ha dato le chiavi. Possiamo stare un paio di ore, poi dobbiamo sparire senza lasciare traccia” mi assicura avanzando. Varcando un'ultima porta raggiungiamo il cuore della struttura. Un'enorme stanza fatta di mattonelle chiare, al cui centro risplende una vasca imponente e stracolma d'acqua cristallina. Il tetto della stanza, composto da finestroni imponenti, lascia filtrare il chiarore della luna e delle stelle. La maggiore fonte di luce proviene dalle lampade disposte sul fondo della piscina.

“Fantastico, vero?” domanda Aaron notando il mio stupore. “Ti piacerà, vedrai”. Si sfila la felpa e la maglietta, lancia le scarpe in un angolo e si arrampica su un trampolino basso. Con un salto incredibilmente aggraziato, infrange la superficie della vasca e sparisce sott'acqua. Degli schizzi mi colpiscono il viso e il panico ritrova il mio stomaco. È tutto stupendo e romantico, ma l'idea di affogare non mi alletta minimamente. L'acqua mi ha sempre fatto paura. Un momento sei a galla e il momento dopo potresti essere sul fondo, senz'aria e senza via di fuga. Annaspare nel buio, combattendo con l'istinto di respirare. No, grazie. Preferisco restare sulla terra ferma. Ma dopo tutto questa è solo una piscina. Non posso perdermi nell'oscurità se vedo il fondo, giusto?

Mi piacerebbe saper nuotare. Poter galleggiare con Aaron in una vasca bollente e solo con dei costumi striminziti è una fantasia che si avvera. Però l'idea che mi spieghi come nuotare, nemmeno fossi una bambina di due anni, non è affatto sexy.

“Jay...” sussurra appoggiato al bordo. Mi piace che mi chiami così e non Julie. Mi ricorda casa.

Si da una spinta e si siede sul bordo gocciolando sulle mattonelle. “Se non te la senti facciamo qualcos'altro. Potremmo...”.

“No” lo interrompo “Voglio farlo”. Ha organizzato tutto questo, non ho intenzione di deluderlo.

Mi sorride “Ottimo. Ti ho portato delle cose per stare più tranquilla”. Si alza, agguanta lo zaino e tira fuori dei braccioli e una salvagente a paperella sgonfi. Le nostre risate rimbalzando sull'acqua e lungo le pareti.

“I braccioli puoi tenerteli, ma vorrei il salvagente a forma di papera” asserisco ancora ridendo.

“Perfetto” rimette i braccioli nello zaino e rigira la paperella cercando il beccuccio per gonfiarla. Lo trova e ci appoggia le labbra. Soffia nel salvagente contraendo gli addominali bagnati. È uno spettacolo per gli occhi. È completamente fradicio, indossa solo dei calzoncini e ha tutti i muscoli in bella mostra. Non so se è colpa sua o del riscaldamento a manetta, ma vado a fuoco e ho bisogno che lui mi raffreddi.

“Se continui a guardarmi in quel modo, non imparerai mai a nuotare” asserisce tra un soffio e un altro.

“Come ti sto guardando?” domando fingendo innocenza.

“Come se volessi che ti strappassi i vestiti di dosso”.

“È esattamente quello che voglio”.

Ridacchia e continua a gonfiare la paperella. Siccome non mi aiuta, mi sfilo da sola di dosso la maglia e i jeans. Lo faccio lentamente e dandogli le spalle. Impreca e la paperella di gomma sibila perdendo aria. “Dio...non sei per niente d'aiuto per la concentrazione di un uomo” sospira celando un sorriso. “Quel costume entra assolutamente nella lista dei vestiti indecenti”.

Una volta che il salvagente è pronto, Aaron torna in acqua e mi osserva fissarlo dall'alto. “Qui si tocca” mi allunga le mani, invitandomi ad entrare.

Mi siedo sul bordo e faccio scivolare le gambe in acqua. È piacevolmente calda.

Mi posa le mani sui fianchi.“Non lascerò che ti succede niente. Ti fidi?”.

Mi fido?

Dio, sì.

Gli appoggio le mani sulle spalle e mi lascio trascinare in acqua con lui. Il liquido mi avvolge ed è una sensazione pazzesca. È come fluttuare nel vuoto. Senza limiti e senza restrizioni. Il calore ci circonda e le sue braccia mi stringono facendomi sentire al sicuro.

Gli stringo le gambe intorno alla vita e lo attiro a me. Per un po' galleggiamo insieme, godendoci il tepore della vasca e il silenzio della notte.

“Sai” mi sfiora il naso con il suo “Stavo pensando che non abbiamo mai avuto un primo appuntamento come si deve”. Lo dice piano e con cautela, come se avesse paura di spaventarmi. E un po' mi spaventa. Un appuntamento vero significa che stiamo insieme come un coppia. Ufficialmente.

“So che stiamo vivendo il momento e tutto ma...” Ha una strana espressione. “Vorrei portarti fuori tra le persone, come una coppia normale. Mi piace fare le cose in segreto, ma...ecco vorrei andare al cinema e al ristorante. So che non sarà una passeggiata e che dovremmo trovare un modo, ma...”.

Troppi ma, non va bene. Qui ci vuole chiarezza. Basta timori e insicurezze. Bisogna fare un passo in avanti. “Credo che dovremmo rivedere lo stato della nostra...situazione” sussurro.

La paura gli attraversa lo sguardo. “In che senso?”.

“Direi che dovremmo smettere di vivere il momento...”. Abbassa lo sguardo e lascia andare un sospiro triste. Non ha proprio capito cosa voglio dire. “Non sono brava in queste cose, ma mi piacerebbe che non vivessimo solo il momento...” sbuffo “Ma come fanno le persone a fare queste cose?...Dio” sbuffo di nuovo e Aaron si acciglia confuso. “Insomma, vorrei che fosse ufficiale, sai...noi. Se lo vuoi anche tu”.

Aaron spalanca la bocca e aggrotta ancora di più la fronte. Inclina la testa e poi sorride come un'idiota. Mi spinge contro il bordo e si avventa sulle mie labbra con foga. Si impadronisce della mia bocca con un bacio che mi scuote nel profondo. Stringe le mattonelle, imprigionandomi tra le sue braccia.

Quando si stacca da me siamo entrambi senza fiato. “Questo era un sì?” sospiro sfiorandogli il mento. Appoggia la fronte contro la mia. “Era un: Cazzo! Sì!” mi guarda negli occhi “Sempre se quello che intendevi era di essere una coppia ufficiale. Beh, ufficiale solo per noi”.

“Era quello che intendevo” affermo sicura. È quello che voglio. Di questo sono certa.

Mi bacia la punta del naso. “Fantastico”. Gli brillano gli occhi e non riesce a smettere di sorridere. È bellissimo. “Okay” mi scocca un bacio veloce “Dobbiamo cominciare la tua lezione”.

 

 

Dopo quelle che sembrano ore, ho imparato a muovermi senza ingoiare tutta l'acqua della piscina. Non mollo quasi mai la paperella e non infilo mai la testa sotto, ma direi che sto facendo progressi.

“È quasi ora di andare, non vuoi provare neanche ad andare sott'acqua?” domanda Aaron. Ha l'aria stanca, ma non ha mai smesso di sorridermi e di incoraggiarmi per tutto il tempo.

“Non è un'idea che mi ispira più di tanto” brontolo.

Aaron mi prende per mano e mi attira a sé. “ Scendiamo insieme e torniamo su insieme”.

Il contatto con il suo corpo mi deconcentra e mi ritrovo ad accarezzargli i pettorali. “Jay” mi ammonisce “Non distrarti”.

“Sei tu che mi distrai con tutto questo” mi giustifico.

Ridacchia e scuote la testa “Chiudi gli occhi”.

Faccio come dice. Le sue mani mi sfiorano le guance e le sue labbra si posano delicate sulle mie. Prima che me ne renda conto, mi trascina con lui sott'acqua senza mai smettere di baciarmi. La quiete ci sovrasta e il mondo sparisce. Ci siamo io e lui. Nessun altro conta. Nessun altro esiste. Nessuna famiglia complicata. Nessuna relazione segreta. Nessun passato nascosto. Vorrei restare così per sempre. Per l'eternità nella bolla felice.

Purtroppo però la vita non funziona in questo modo e ci tocca risalire in superficie.

Usciamo dalla piscina, Aaron tira fuori degli asciugamani dallo zaino e me li passa. Ci rivestiamo, sgonfiamo Ducky e ce ne andiamo dall'edificio. Aaron consegna le chiavi ad un uomo in un gabbiotto di guardia e ci avviamo verso casa.

“Pensi che ce la faremo?” domando battendo i denti, mentre camminiamo sul marciapiede “A stare insieme come una coppia normale”.

Si sfila la felpa e me la porge. “Ci riusciremo. Insomma dobbiamo solo escogitare un modo. Henry e Lip lo sanno, quindi possiamo contare sul loro aiuto”. Mi infilo la felpa e Aaron continua. “Sarà difficilissimo” mi attira a sé per un bacio veloce. “Ma le cose difficili sono le più divertenti, no?”.

Lo sono. “Esatto” affermo. Dio, è stupendo. Mi circonda con un braccio e riprendiamo a camminare verso casa.

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Capitolo 21
*** Julianne ***


Julianne

 

Camminiamo fianco a fianco nel buio della notte.

Non mi sono mai sentita così serena e tranquilla. Ogni cosa intorno a noi tace, le luci della strada sono flebili e la calda mano di Aaron stringe con dolcezza la mia.

Ogni volta che passiamo sotto un lampione, mi afferra per la vita e mi bacia con trasporto. Il viaggio di ritorno si sta prolungando più del previsto.

“Finiremo per non arrivare più, se continui così” gli faccio notare una volta che ha smesso di divorarmi.

Mi fa un sorrisetto scaltro. “Pensavo che i miei baci ti piacessero” fa aderire meglio i nostri corpi, stringendomi a lui “I gemiti che fai sono un chiaro segnale”.

Gli mordo il mento. “Che ego smisurato” inclino la testa in una finta espressione presuntuosa “Chi ti dice che non fingo?”.

Increspa le sopracciglia e arriccia le labbra “Stavi fingendo?”.

Non mi dire che ci crede. “Assolutamente no” gli assicuro. Non potrei mai fingere. Gli scocco un bacio veloce e ricominciamo a camminare.

“Ti va di fare qualcos'altro?” mi chiede mentre passiamo davanti ad un Fast-food.

“Sono quasi le cinque. Tra due ora andiamo a scuola” puntualizzo.

“Non sono affatto stanco” mente. Due secondi dopo quella fiacca affermazione, gli scappa uno sbadiglio colossale.

“Bugiardo. Non devi restare sveglio per forza tutte le sere, non dimenticare che il sonno è bellezza”.

“Questa affermazione non sta in piedi. Sei meravigliosa e non dormi quasi mai, quindi non è vero”. Il cuore mi galoppa agitato nel petto. Non mi abituerò mai al suo modo naturale di dirmi che sono bella. “Io sono un'eccezione a moltissime regole”. Entriamo nella via di casa.

“Su questo non ribatto” sorride “Comunque non resto sveglio perché devo. Mi piace stare solo con te e di notte ci sono molte meno possibilità che ci becchino”.

Arriviamo davanti al garage. “Troveremo un modo per vederci di giorno, così potrai tornare a fare il tuo sonnellino di bellezza”.

“Non puoi migliorare ciò che è già perfetto, piccola”. Che presuntuoso. “Allora, ora arriva la parte difficile. Fai quello che faccio io”.

Appoggia un piede su un bidone basso di metallo, si issa e appoggia l'altro piede sul bidone verde più alto. Afferra la grondaia e, con un colpo di reni molto sexy, si solleva sopra il tetto del garage. Una volta stabile sopra le tegole, si sporge e sorride “Ora tocca a te”.

Lo guardo malissimo, sperando che il buio non nasconda la mia espressione sarcastica. “Chi pensi che sia? Spider-woman?”.

Sospira sognante. “Sì, è una delle mie fantasie” asserisce malizioso.

“Aaron!” brontolo.

Alza le mani in segno di resa. “D'accordo, sali sul bidone verde e ti tiro su”.

Faccio come dice e, quando sono sopra il cestino, mi afferra per le braccia e come una bambola mi tira su.

“Devo dire che è stata più facile la salita” commento in piedi sulle tegole accanto a lui.

Mi lancia un'occhiata storta. “Ci credo, non hai fatto nulla!”.

“Puntiglioso”.

Mi da un pizzicotto in un fianco e ridacchiando il più piano possibile rientriamo dalla finestra. Quando siamo all'interno e siamo sicuri che nessun ha notato la nostra assenza, Aaron si china per baciarmi. “Buonanotte”.

Non voglio che vada via, voglio che resti qui con me fino all'alba. Gli afferro la mano “Resta”.

Lui inclina la testa, combattuto.

“Solo a dormire, nessuno sconfinamento che rechi danno al tuo sonno di bellezza”. Scateno il labbruccio. “Ti prego”.

Mugugna sofferente. “Sai che non resisto quando fai quella faccia” sospira “Va bene. Vado a mettere via lo zaino e torno”. Quando è uscito dalla stanza, mi tolgo i vestiti e il costume umidiccio, indosso il pigiama e mi infilo sotto la trapunta.
Aaron rientra dieci minuti dopo con addosso la maglia del pigiama, i boxer e si tuffa sotto le coperte con me. Il suo corpo caldo sdraiato accanto al mio risveglia tutti i miei sensi, ma siccome gli ho presso che avremmo dormito, mi raggomitolo nella mia fetta di letto e chiudo gli occhi.

Lentamente, come un serpente a caccia, il braccio di Aaron afferra un fianco e mi tira verso di lui. Mi stringe a sé circondandomi con un braccio, mi fa posare la testa sul suo petto e gli io appoggio una gambe sulla coscia.

“Buonanotte, piccola” mi sussurra tra i capelli.

“Notte”.

Il suo respiro diventa subito regolare sotto il mio orecchio. Lo sapevo che era stanchissimo.

Il battito regolare del suo cuore contro l'orecchio mi tranquillizza. È come ascoltare la sinfonia personale di una persona. Un suono che solo lui produce dentro di sé.

È la prima volta che dormiamo sotto le coperte e abbracciati in questa posizione. Mi sento strana.

È la cosa più rilassante del pianeta e al tempo stesso mi spaventa a morte.

Cosa faccio se il mio corpo si abitua al suo e poi lui se ne va?

Lo stringo più forte che posso, come se questo potesse davvero impedire alle persone di andarsene.

 

 

 

 

La sveglia strepita a tutto volume.

Non mi ricordo di aver impostato questo rumore terrificante. È come se un tritarifiuti e un antifurto avessero fatto un figlio e quel rumore avesse trovato lavoro sul mio comodino.
È seccante il modo in cui mi urla che il giorno è di nuovo qui e che dobbiamo tornare alla realtà.

Provo a muovermi per spegnerla, ma la massa di muscoli di Aaron mi blocca contro il materasso.

Le posizioni dell'altra sera si sono decisamente invertite. Ha la testa sul mio petto, il braccio destro mi inchioda al materasso e la sua mano indagatrice si è infilata sotto la maglietta e mi stringe un fianco.

Non voglio lamentarmi, anche perché mi piace che mi tenga così stretta, ma il suo enorme bicipite mi sta bloccando la respirazione e sono quasi le sette. Dobbiamo alzarci prima di combinare un casino.

“Aaron” sussurro.

Lui mugugna e affonda il naso nel mio collo.

Lo scuoto un po'. “Aaron” ripeto con più forza.

Sbuffa e sospira infastidito, mi lascia andare e si sdraia sulla schiena nel centro del letto.

Spengo rapidamente la sveglia e mi giro a guardarlo. I rumori del resto della famiglia filtrano da sotto la porta.

Merda.

“Aaron” lo chiamo più forte. Non percependo segni di vita, mi chino su di lui e premo le labbra sulle sue. Gli stuzzico il labbro inferiore finché il suo respiro non accelera e non ricambia il bacio. Mugugna di piacere e mi tira per i fianchi facendomi sedere su di lui. Mi stringe e io gli butto le braccia al collo.

Quando smette di baciarmi, apre finalmente gli occhi. “Cristo, Julianne” ansima.

“Buongiorno” cinguetto sfiorandogli il naso.

“Dove devo firmare per farmi svegliare così ogni mattina?” sospira stropicciandosi gli occhi “Che ore sono?”.

Rotolo giù da lui e torno nel mio lato del materasso. “È tardi. Devi sgattaiolare in camera tua in fretta”.

Sbuffa e si stiracchia scricchiolando. “Il mattino arriva sempre troppo in fretta”.

Già non dirmelo.

“Julie!” trilla la voce della mamma attraverso la porta “Sei sveglia?”. Bussa un paio di volte e poi afferra la maniglia facendola tremolare.

“Cazzo!” colpisco Aaron il più forte possibile, facendolo ruzzolare oltre il bordo del materasso. Il suo sedere tocca il suolo nel momento esatto in cui la mamma spalanca la porta.

“Allora sei sveglia!” cinguetta la mamma sulla soglia.

Do un calcio alla trapunta, facendola cadere verso il lato in cui si è nascosto Aaron. “Sì, sono sveglissima”.

“Sai per caso dov'è Aaron? Il suo letto è vuoto e Henry non ha saputo dirmi dove fosse” asserisce.

Cazzo. Cazzo. Cazzo!

Mi alzo e le vado incontro, cercando di occupare tutto il suo campo visivo “Non ne ho idea. Magari è in bagno o da qualche altra parte” la blocco prima che possa fare qualche passo in camera “Devo prepararmi, sto facendo tardi”.

“Oh, certo. Vado a farti la colazione” sorride.

“Sì, grazie” le do il via per andarsene ma lei inchioda all'improvviso.

“Julianne?”.

Il sangue mi si ghiaccia nelle vene. “Cosa?”.

“Odori di cloro” mi informa accigliata.

“Cosa? No! È il mio nuovo shampoo, ha un odore particolare. Bambù o eucalipto, una cosa così” la spingo fuori. “Mi devo sbrigare, non voglio arrivare in ritardo. Puoi prepararmi un caffè, per favore?”.

La sua espressione confusa si trasforma in un bel sorriso contento. “Certo, tesoro. Vado subito”.

Prima regola della mamma: se vuoi che se ne vada, dalle qualcosa da fare.

“Grazie” borbotto. Chiudo la porta e aspetto che il rumore dei suoi passi si faccia lontano prima di ricominciare a respirare.

Ci è mancato un cazzo di pelo.

Aaron ridacchia come una ragazzina isterica “Shampoo al bambù?”.

“È la prima cosa che mi è venuta in mente” mi giustifico. “Devo farmi una doccia prima che le venga qualche altro sospetto. La dovresti fare anche tu, prima che faccia due più due”.

Si alza e sistema la trapunta “È andato tutto bene. Non si è accorta di nulla”.

Mi passo le dita tra i capelli arruffati. “Per un soffio e grazie ai miei riflessi felini”.

Mi cinge la vita con un braccio. “Butti fuori dal letto così tutti i ragazzi?”.

Gli do una spintarella. “Vai via, scemo”.

Mi scocca un bacetto e scappa fuori il più furtivamente possibile.

Affondo la faccia nelle mani per soffocare un lamento. Cazzo. Abbiamo rischiato grosso. Ci siamo rilassati e siamo diventati incauti. Se qualcuno dovesse scoprirci sarebbe un guaio enorme, soprattutto se è uno dei nostri genitori.

Che cazzo di situazione.

 

 

Salto nella doccia così velocemente che rischio di scivolare e di spaccarmi l'osso del collo. Lavo i capelli due volte, cercando di eliminare del tutto il persistente odore di cloro della piscina. Infilo dei jeans e una felpa e corro in cucina per riempirmi di caffè.

Mamma è davanti ai fornelli che fa saltare qualcosa in padella, Jim siede al bancone leggendo il giornale con Cole e Andrew che gli fanno colazione accanto. Henry divora un pancake sfogliando il libro di storia con un cipiglio confuso.

Varco la soglia cercando di non sembrare colpevole o in qualche modo preoccupata. Mi siedo accanto a mio fratello e cerco di tenere un profilo basso.

“Eccoti qui” squittisce mamma quando mi vede. Mi appoggia un piatto di pancakes e una tazza di caffè sotto il naso. “Hai dormito bene?”.

Oh non ne hai idea. “Bene, sì”.

Mi sorride radiosa. Sotto il grembiule indossa un abito color corallo e ha i capelli dorati bene pettinati dietro le orecchie. Non ha l'aria preoccupata o sospettosa, ha la solita espressione troppo solare e troppo zuccherosa.

Non ha visto nulla.

Rilasso le spalle e mi dedico ai miei pancakes.

“Pronti per una nuova fantastica settimana di scuola?” chiede Jim abbassando il giornale e sorridendo a tutti.

Andrew fa una smorfia “Certo” giocherella con un rimasuglio di sciroppo “Perché fantastica e scuola stanno benissimo nella stessa frase”.È da qualche giorno che è dello stesso umore di un orso grigio.

“Assolutamente” concorda mamma, non notando il sarcasmo.

“Va tutto bene, Andy?” gli chiede il padre.

Lui emette uno strano sospiro poi annuisce. “Alla grande”. Spinge via la sedia ed esce dalla cucina con Cole che lo segue come un'ombra.

Jim si gratta il mento velato di barba e osserva la schiena del figlio che si allontana.

“Cosa gli succede?” gli chiede mamma.

“Non ne ho idea” sospira “L'adolescenza porta un sacco di sentimenti contrastanti, lo sai. Sarà solo un momento così”.

Mamma annuisce d'accordo.

Si vede che non ci capiscono nulla di adolescenti.

Henry sbuffa girando una pagina macchiata di sciroppo d'acero. “Ma dai” borbotta litigando con il foglio appiccicoso.

“Ma che fai?” gli chiedo.

“Sto ripassando” risponde scocciato “Non si vede per caso?!”.

Quando Henry è così scontroso significa che ha un test e che sa tutto ma non crede di essere pronto.

“Andrà benissimo, come sempre” gli assicuro aiutandolo a girare la pagina.

“Il signor Peterson è molto severo ed esige che le risposte siano complete e articolate” sbuffa.

“Ha fissato un test dopo due settimane di scuola?” chiedo sorpresa.

“È il corso avanzato, Jules” asserisce come se fosse un'ovvietà “Logicamente fa un test ora, ha già spiegato cento pagine”.

Mi strozzo con il caffè “Cento?!”.

Sospira disperato e fa scorrere altre pagine “Se non lo passi, ti fa cambiare corso. Vuole solo l'eccellenza”.

Che mostro. Sono soddisfatta della mia mediocrità. Gli afferro la mano con cui gira convulsamente le pagine. “Non c'è nessuno più bravo di te”.

“Sono dello stesso parere di tua, sorella” aggiunge la mamma e Jim annuisce convinto.

Henry espira con calma e finalmente mi fa un sorriso “D'accordo” chiude il libro e si concentra sul cibo.

Aaron fa il suo ingresso in cucina con indosso dei jeans blu scuro stracciati sul ginocchio, un maglia bianca e la giacca della squadra. Il suo aspetto attenta alla mia salute mentale. Mi ci vuole uno sforzo enorme per non sbavare o per non dirgli che è uno schianto. Sento il bisogno istintivo di morderlo.

Afferra una tazza e la riempie di caffè e latte. “Buongiorno” asserisce verso tutti.

“Dov'eri?” gli chiede la mamma.

Lui la fissa confuso. “Nella doccia”.

“Non adesso. Stamattina sono venuta a svegliarti e non eri in camera tua” dice la mamma con più convinzione. Jim osserva il figlio con aria sospettosa.

“Ero in bagno” fa un pausa eloquente “Sai, emergenza mattutina da uomini” le lancia uno sguardo significativo “Se vuoi la prossima volta ti avviso di quello che sto facendo”.

“Aaron” brontola Jim lanciandogli un'occhiataccia di rimprovero.

La mamma capisce a cosa si riferisce e scuote la testa con energia. “Non importa. Fa nulla” arrossisce tutta a disagio “Vuoi dei pancakes?”.

“Certo” conferma Aaron. Si siede vicino a me e si fa riempire il piatto di cibo.

 

 

Il viaggio in macchina verso la scuola scorre in silenzio. Nessuno parla e sembra che nessuno respiri. Ognuno è preso dai proprio pensieri e dai proprio grattacapi. Aaron fissa la strada e ogni volta che cambia la marcia la sua mano guizza in modo strano, come se provasse a sporgersi per toccarmi, per poi ricordarsi che non può perché non siamo soli. Henry fissa il libro con intensità e borbotta date a bassa voce. Andy punta lo sguardo fuori dal finestrino verso qualcosa di impreciso.

Quando finalmente siamo arrivati, Aaron ferma l'auto nel parcheggio di cemento. Gli studenti si affrettano ad entrare nell'edificio e noi li seguiamo. Una volta dentro, ognuno si dirige verso la propria aula. Aaron mi lancia un ultimo sguardo sofferente. So che vorrebbe baciarmi e lo vorrei anche io, ma proprio non possiamo. Mi fa l'occhiolino e sparisce lungo il corridoio.

Entro nell'aula di letteratura e la solita occhiata fredda e carica di disprezzo di Giselle mi colpisce la schiena. Le ignoro e mi siedo vicino a Peyton. Oggi è particolarmente colorata. Porta una parrucca color melograno con la frangetta, un insolito poncho fatto all'uncinetto e una gonna di tulle nera. Hai piedi porta degli stivaletti di pelle. Sembra un incrocio tra un messicano e un ragazza pronta per il ballo. Per qualche stranissima ragione, questo look le sta benissimo.

“Buongiorno” sospiro sedendomi.

Lei sorride e la gonna di tulle fruscia sotto di noi “Giorno. Com'è andato il week-end?”.

Mmmh, vediamo.

Ho accettato di aiutare gli Hazy Heavy perché sono cotta del cantante, che tra l'altro è il figlio del compagno di mia madre. Abbiamo una storia segreta e l'altra sera mi ha portata a nuotare e poi abbiamo dormito abbracciati. Mia madre oltretutto ci ha quasi scoperti.

Vorrei poterlo tenere per mano nei corridoi e invece dobbiamo vederci solo di notte, perché i nostri genitori si sono trovati prima di noi.

Sarebbe così facile spiattellare tutto, ma perché caricare qualcun altro di questo segreto?

“Normale. Sono rimasta a casa” le dico. “Il tuo?”.

“Una noia mortale. Quel cretino di mio fratello a pensato bene di vedere cosa succede se cuoci una parrucca. Il risultato? La cucina puzza di plastica bruciata, ha rovinato una padella di mamma e la mia parrucca arcobaleno sembra un opossum carbonizzato e spelacchiato”.

“Quale dei tuoi fratelli?” chiedo.

Lei sbuffa infastidita “Non ha importanza, sono tutti dei cretini! Quanto vorrei essere figlia unica”.

“Non dire così. Sono sicura che ti annoieresti senza di loro” tiro fuori il libro di letteratura.

Lei scuote la testa e i campanelli che ha alle orecchie tintinnano “No, sono certa che vivrei una vita fantastica”.

“Se non fossi così stramba probabilmente sì” ghigna Giselle davanti a noi. Non l'ho nemmeno sentita arrivare. È come un serpente velenoso, striscia e attacca quando le prede non la vedono.

“Nessuno ha chiesto il tuo parere, strega” la rimbecca Peyton.

Giselle scuote il caschetto biondo e si china in avanti. È fastidioso come quella divisa da cheerleader le stia bene. Nessuno dovrebbe essere così bello e al tempo stesso così cattivo.

“Tutti vogliono sapere il mio parere perché li aiuta a migliorare le loro vite patetiche. Il mio consiglio per te è di smetterla con le parrucche da clown, con gli abiti del negozio di seconda mano e di ammettere finalmente al mondo che vieni dal pianeta di lesbo”. Giselle ci guarda dall'alto in basso e sorride orgogliosa di se stessa.

Peyton stringe i denti e afferra con forza una piega della gonna. “Sai che ti dico, Giselle” esala arrabbiata “Sei solo una persona patetica che sfoga la sua rabbia repressa sugli altri. Sei triste perché la tua mammina non fa altro che ricordarti di stare attenta alla cellulite, il tuo papino non ti guarda nemmeno più in faccia quando ti parla, i ragazzi ti vedono solo come un buco da riempire e le tue amiche hanno più facce di un dado da gioco” le lancia un'occhiata schifata “Preferirei morire che prendere consigli sa una persona così pietosa”.

Mi scappa una risatina che tento di nascondere con la mano.

Giselle diventa di ghiaccio. Guarda Peyton con astio e il tono velenoso con cui parla mi spaventa a morte “Almeno mio padre mi considera sua figlia e non un incidente da sotterrare e di cui vergognarsi”.

Peyton si alza di scatto facendo cadere la sedia. Il botto del metallo contro il pavimento fa zittire la classe. Peyton fa per lanciarsi contro Gisella ma la afferro prontamente per un braccio.

“Avanti! Colpiscimi!” la aizza.

“Vattene a fanculo, Giselle” borbotto tenendo Pey per il braccio.

“Non ti impicciare squinternata, ce ne è anche per te” mi ringhia contro.

“Cosa sta succedendo qui?” tuona il professor Ellingford entrando in aula.

La faccia incazzata di Giselle si trasforma in quella di una viscida serpe spaventata. Finge un singhiozzo e si avvicina al professore “Professore! Peyton voleva colpirmi!” guaisce.

Il signor Ellingford da un'occhiata veloce alla scena e poi scuote la testa. “Tornate tutti al vostro posto”.

“Ma...” si lagna Giselle.

“Subito, signorina Duvall” risponde.

Lei smette di fare la faccia da cane bastonato e torna a sedersi con l'aria di chi ha subito una tremenda ingiustizia dalla vita.

Peyton e io ci accomodiamo a nostra volta e il professore comincia ufficialmente la lezione. Mentre il signor Ellingford va avanti con la spiegazione dell'autore che analizziamo al momento, io osservo Peyton. Resta seduta rigida, passa convulsamente le dita sulle cuciture della gonna e nasconde il viso dietro una cascata di capelli colorati.

Non ho capito bene cosa intendesse Giselle con il suo insulto, pensavo che il padre di Pey fosse il coach Jackson.

Cosa voleva dire?

Evidentemente non mi ha raccontato tutto della sua famiglia. Forse è meglio così, non voglio intromettermi in situazioni complicate.

 

 

Peyton scappa subito via. Non mi lascia dire nulla, neanche ci vediamo dopo. Va via e basta.

Giselle la osserva compiaciuta. Quanto vorrei spaccarle la faccio solo per cancellarle quell'espressione soddisfatta.

Raccolgo le mie cose e mal volentieri mi dirigo verso chimica. L'idea di passare un'ora divisa tra gli insulti insipidi di Savannah e i tentativi molesti di approccio di Lip, mi fa venire voglia di scappare. Potrei rifugiarmi dalla dottoressa Dawson, ma ho già programmato di saltarmi l'ora di algebra, quindi mi tocca entrare in aula.

Savannah allunga la sua gambetta secca per farmi lo sgambetto ma ormai conosco la sua tattica e, invece di inciampare, le schiaccio il piede con forza. Guaisce e ritrae la gamba come un polipo ferito. Le faccio un sorrisetto appagato e vado a sedermi al mio posto.

“Buongiorno, dolcezza” trilla Lip allegro.

“Ciao” ribatto fiacca posando ili libro sul tavolo.

Allarga le enormi braccia e sorride “Dov'è il mio abbraccio mattutino?”.

“Non so di cosa parli” borbotto.

Invece di cogliere il mio velato rifiuto, mi circonda con i suoi marmorei bicipiti e mi stritola. Finisco per affogare in un mare di muscoli inzuppati in della colonia muschiata.

“Ma che fai!” brontolo cercando di liberarmi.

Mi lascia finalmente andare e mi da un buffetto sulla guancia “Mi sembravi di cattivo umore e quindi ti ho dato un po' zucchero di Lip”.

“Ti sei drogato?” chiedo infastidita dal contatto fisico indesiderato.

“Sono solo felice che tu sia la mia compagnuccia di laboratorio” mi fa l'occhiolino e apre il libro.

C'è qualcosa sotto, per forza.

“Cosa mi stai nascondendo?” chiedo.

Lip fa una fintissima espressione amareggiata “Non potrei mai nasconderti nulla, zuccherino”.

“Zuccherino? Avanti, dimmelo” lo sprono.

Lip si mordicchia l'angolo della bocca e fa scorrere il dito lungo la costola del libro. Quando si tortura la bocca significa che sta cercando di nascondere qualcosa di brutto.

Ed è allora che la sento. La voce nasale e fastidiosa di Savannah mi riempie i timpani. “Sì, ieri sera ci siamo visti e lo abbiamo fatto”. Mi giro lentamente verso di lei.

La sua amica, un'altra cheerleader beota, squittisce estasiata. “Tu e Aaron siete tornati insieme?”.

“Non ancora. Per il momento ci diamo dentro e basta, sai com'è fatto” alza gli occhi a cielo e scuote la chioma rossa “Non ama le cose ufficiali”.

Ridacchiano all'unisono e si agitano come due galline in un pollaio.

“Spara stronzate, lo sai” mi borbotta Lip all'orecchio “Non la toccherebbe più con un dito, non da quando ci sei tu. Quello che stai vedendo è una disperata in cerca di attenzioni”.

“Lo so” asserisco convinta. “Ne sono più che certa”.

Mi lancia una lunga occhiata obliqua “Ah sì?”.

Annuisco. “Era con me ieri sera” sussurro.

La sua enorme boccaccia si inclina in un sorriso eccitato e le sue pupille si dilatano come tappi di bottiglia “Voglio tutti i dettaglia più scabrosi”.

“Non ci pensare neanche!”.

“Ti ha soddisfatta?”.

Mugugno schifata “Piantala”.

“Scommetto di sì, Aaron ci sa fare” dice

“Sei davvero disgustoso” gemo infastidita “Cosa devo fare per mettere fine a questa conversazione?”.

“Raccontami ogni cosa!”.

Per il dispiacere di Lip e per mia fortuna, l'arpia che insegna chimica varca la soglia sulla sua scopa.

“Seduti in silenzio!” tuona posando la borsa sul tavolo. La classe ubbidisce perché oltre ad essere tremendamente brutta oggi sembra anche essere parecchio incazzata.

“Oggi iniziamo il primo progetto a coppie del trimestre” annuncia infilando le mani nel tajer color carota. “Siccome amo vedervi soffrire, dovrete consegnare il lavoro per la prossima lezione, cioè per mercoledì”. Dalla classe si alza un brusio infastidito. “Non mi interessa se rovina i vostri progetti, anzi mi fa molto piacere”. Le servirebbe davvero una bella dose di sesso.

“Allora, il progetto consiste nel purificare dell'allume di potassio mediante cristallizzazione. Dopo l'esercizio dovrete scrivere una relazione con tutti i passaggi e le spiegazioni. In fondo voglio tutte le frasi H e i consigli P relativi all'esperimento”. Ci lancia un'occhiata infastidita. “Cosa state aspettando, cominciate!”.

Tutta la classe si muove agitata per raccogliere i materiali e per cercare di finire l'esperimento in fretta. Lip e io facciamo lo stesso.

Incredibilmente, riusciamo ad ottenere i nostri benedetti cristalli e a pesarli sul vetrino di orologio. La maggior parte del merito della riuscita del progetto va a Lip. Non so come, ma è particolarmente portato per la chimica. Evita che un paio di volte mi bruci con la piastra riscaldata e riesce a salvare un becher da una rovinosa caduta dovuta al mio braccio.

Sono un disastro in chimica.

“Che ne dici se dopo la scuola vengo da te e scriviamo la relazione?” mi domanda mentre usciamo dall'aula “Così finalmente ho una scusa per sbirciare nel tuo cassetto delle mutandine”.

Che schifoso. “Mi dispiace rovinare i tuoi piani ma oggi non posso, vado da Dottie. Domani?”.

“Aggiudicato” mi fa l'occhiolino “A dopo, dolcezza”.

Gli faccio un cenno con la mano e mi avvio verso Storia.

 

 

“Allora come sta procedendo il tuo inserimento in questa fantastica scuola?” mi chiede la dottoressa Dawson dalla sua poltrona.

“È una domanda retorica o qualcosa del genere?” allungo le gambe sul divano di pelle e mi accuccio meglio tra i cuscini.

Ridacchia “No, Julianne, è una domanda seria. Come sta andando?”.

Ci penso un po' su. “Ho conosciuto due ragazze e credo che siamo diventate una specie di amiche. Poi ci sono gli amici di Aaron, che sono forti”.

Annuisce contenta. “Ti piacciono?”.

“Sono tutti tipi a posto. Sono fatti a modo loro e ne sono orgogliosi. È una cosa che apprezzo nelle persone” giocherello con un filo del divano “È strano”.

“Che cosa?”.

“Quando sono arrivata non volevo farmi degli amici” ammetto.

“Perché?” chiede.

“Beh, perché pensavo di tornare a San Diego e non volevo lasciare nulla indietro”.

Si inclina in avanti “Perché ora non vuoi più tornarci?”.

“Ora è diverso, credo” sospiro “Ho anche qui qualcosa che non voglio lasciare indietro”. Aaron.

“Perdere le cose e le persone è una parte fondamentale del crescere”.

Incrocio le gambe sotto il sedere “Ho premesso a Scar di tornare da lei, ma ora...” sbuffo “Ora mi piace qui, con tutti i pro e i contro”.

“Da quello che mi hai raccontato, sono sicura che sa già che non tornerai e che lo accetta. Anche lei va avanti con la sua vita” scribacchia sul fascicolo “Non tutte le promesse possono essere davvero rispettate”.

“Allora non sono delle promesse, sono solo parole a vuoto”.

Scribacchia di nuovo e decide di cambiare discorso. “Allora? Come si chiama?”.

Aggrotto la fronte “Chi?”.

Mi fa un sorrisetto complice “Il ragazzo o ragazza che non vuoi lasciare qui e che ti ha marchiata come sua” con la punta della penna fa un cenno verso il mio seno.

Abbasso lo sguardo e vicino al bordo della canottiera c'è un bel succhiotto violaceo. Squittisco e tiro su la cerniera della felpa per coprire il décolleté. “Nessuno. Sarà un livido”.

Maledizione, Aaron.

“Un livido a forma di bocca?” domanda cercando di nascondere un sorrisetto.

Che antipatica. “Non le parlerò della mia vita sentimentale se lei non mi parla della sua”.

“Mi sembra giusto. Ti va una domanda a testa?” chiede.

Annuisco. “Sì, ma comincio subito con il dirle che non le dirò il suo nome”.

Appoggia la penna sul fascicolo. “D'accordo. Inizia pure”.

“È sposata?”.

“No. Lo conosco?”.

“Perché presume che sia un maschio?”.

“É una ragazza?”.

“No”.

Sorride. “Non hai risposto alla mia domanda”.

“Non sono sicura che lo conosca”.

“Quindi vieni in questa scuola?”.

“È il mio turno di fare la domanda” ribatto.

“Hai ragione” ammette.

“Sta con qualcuno?”.

“Sì, ho un fidanzato” tocca lo schermo del telefono e mi fa vedere la foto. È abbracciata a un bel uomo biondo che sorride solare alla fotocamera. “Si chiama Zeke, è un medico”.

“Carino” commento.

Mette via il telefono “Ho una sola domanda per te, Julianne”.

“Dica”.

“Ti rende felice?”.

Resto in silenzio e la fisso.

Aaron mi rende felice?

Sorrido “Molto”.

 

 

 

“Ti sei persa una lezione di algebra davvero fantastica” mi comunica Dottie mentre siamo in fila per il pranzo.

“Ci scommetto” borbotto sarcastica.

“Dov'eri piuttosto?”.

Merda. E ora? “Avevo una cosa da fare. Nulla di che” farfuglio facendo scorre il vassoio e evitando il suo sguardo.

Coglie i miei vaneggiamenti e annuisce. “Okay, vorrà dire che oggi pomeriggio ti spiegherò cosa ha spiegato il professore in classe”.

Ti ringrazio. “Perfetto”.

Il cellulare mi vibra in tasca. Un messaggio di Chastity. Dobbiamo parlare, è urgente. Dove sei?

Digito sullo schermo. In mensa, perché? Cosa succede?

Scorriamo lungo la fila e ci fermiamo davanti a Dolores, la signora che serve il cibo della mensa. La mamma si è finalmente accorta che non mangiavamo il pranzo al sacco che ci cucinava e ha deciso di darci solo i soldi.

“Buongiorno, ragazze. Cosa prendete?” chiede allegra.

“Io vorrei la pasta, le patatine fritte e una bottiglietta d'acqua, per favore”. Dolores esegue e passa a Dorothea tutto ciò che ha chiesto.

“Grazie mille” sorride Dottie scorrendo in avanti.

“E tu, cara?” mi chiede.

Fisso il cibo attraverso il divisorio. Oggi servono pasta al ragù, bistecca ai ferri e patatine fritte o insalata scondita. Carne. Carne. Carne.

“Non c'è nulla senza carne o pesce?” chiedo.

Dolores mi guarda addolorata. “Mi sa proprio di no, cara. Posso darti l'insalata e doppia frutta se vuoi”.

“In questa scuola la mancanza di piatti vegetariani è vergognosa. Dove posso protestare?”.

“Il presidente del corpo studentesco si occupa di questo tipo di problemi, cara”.

Dottie emette un verso schifato.

“Che significa?” domando.

“Il presidente del corpo studentesco è la signorina Duvall” mi informa Dolores.

“La signora Duvall è...”

“Giselle” conclude Dottie con disgusto.

“Meraviglioso. Davvero meraviglioso” asserisco sarcastica “Vada per l'insalata e la doppia frutta”.

Quando abbiamo pagato, prendiamo i nostri miseri vassoi e ci avviamo al tavolo dei ragazzi. La tasca vibra di nuovo. Vai via dalla mensa. Subito.

Le rispondo il più in fretta possibile. Cosa succede?

Senza volerlo incrocio lo sguardo di Giselle che emette un ghigno spaventoso e si alza.

No. Ti prego, no.

Invece di venire verso di me, sale sulla sedia e poi sul tavolo. “Silenzio!” grida alla mensa “Vorrei l'attenzione di tutti!”.

L'intero corpo studentesco esegue i suoi ordini e la stanza cala nel più totale silenzio.

“Bene. Ora che tutti stanno ascoltando vorrei fare un annuncio molto importante” declama a voce alta.

Dotti cerca di farsi piccola e di nascondersi alle mie spalle.

Tranquilla. Questo casino è solo per me, ne sono sicura.

“Come vostro presidente è mio compito mettere l'intera scuola a conoscenza di tutto ciò che è potenzialmente dannoso. Vorrei comunicarvi che la nostra nuova studentessa, Julianne Roux, nasconde a tutti un enorme e succoso segreto, che è giusto che tutti sappiano”.

Via via.

Muovi i piedi e lasciala lì.

Non farti distruggere pubblicamente.

Dio sa quanto vorrei andare via, ma i miei piedi sono incollati al suolo. Chastity mi guarda dal tavolo delle cheerleader con aria terrorizzata. Dovevo ascoltare il suo consiglio appena me lo ha scritto.

Giselle mi osserva dall'alto al basso e ghigna “Julianne è obbligata dalla scuola ad andare ogni settimana dalla nostra consulente scolastica, cioè da una strizzacervelli”.

La mensa mormora e Giselle si gode il suono.

“Tutto qui?” le chiedo. “È solo questo? Sai quanta gente va dallo psicologo?”.

La sua faccia da serpe mi guarda soddisfatta “Ovvio che non sia solo questo”.

Naturalmente, non so neanche perché l'ho chiesto.

“Dovete sapere tutti il perché” annuncia.

Cosa?

Lei non lo sa il perché. Non può saperlo, è confidenziale. Nessuno oltre al preside e la dottoressa Dawson conosce davvero tutta la storia. Scorgo lo sguardo preoccupato di Henry in mezzo alla folla.

“Il perché è molto semplice” asserisce “La nostra cara Julianne quest'estate è stata ricoverata in un centro di recupero”.

Il vassoio mi scivola di mano e il mio pranzo si sparpaglia al suolo, insieme alla mia sicurezza e al mio orgoglio.

Lo stomaco tocca il suolo. Mi tremano le dita delle mani e la mensa comincia a girare.

Non ora. Non posso avere un attacco proprio ora.

Gli studenti mormora e bisbigliano tra loro con più forza, facendo teorie e borbottando commenti. Dio, fatevi gli affari vostri! È così difficile?

“L'unica cosa che manca, è sapere la ragione. Io ipotizzo per autolesionismo” si guarda intorno “Voi cosa dite?”.

Il brusio aumenta, così come il turbinio nella mia testa.

Dottie al mio fianco trattiene il fiato. Ti prego, non giudicarmi.

Giselle ridacchia “Allora, Julianne, dicci la vera ragione”.

Vorrei andarle incontro, afferrarla per i capelli e sbatterle la testa contro il tavolo finché il suo cervello non gocciola fuori.

Potrei farle il dito medio e andarmi a sedere, fregandomene di tutti, ma queste non sono le mie tette fotografate ad una festa. Questo è il mio passato incasinato che nascondo sotto il tappeto da mesi e lei lo sta sventolando come una bandiera.

Giselle mi guarda felice, sicura di aver colpito dove fa più male. Ed è vero, ha trovato il mio nervo scoperto e io non so che fare. Come rimani a testa alta dopo che qualcuno ti ha dato un calcio sui denti?

Non lo so, perché invece di dirle di andare a farsi fottere, mi giro e me ne vado.

Scappo.

È la cosa che so fare meglio. 

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Capitolo 22
*** Julianne ***


Julianne

 

 

Il bagno delle ragazze puzza di profumi da donna mescolati e disperazione. Una perfetta combinazione che descrive la mia attuale situazione. Sono seduta a gambe incrociate sulla tazza del cesso e sto frugando nella borsa alla ricerca di delle caramelle alla cannella. Ho una fame del diavolo e il mio pranzo, che tra l'altro avevo già pagato, è spiaccicato sul pavimento della mensa insieme al mio orgoglio. Durante la mia ritirata da codarda vorrei essermi portata dietro il vassoio.

La porta cigola e qualcuno varca la soglia. I passi rimbombano sulle mattonelle e contro le pareti. Smetto di rovistare e trattengo il fiato.

“Julianne?” la vocina preoccupata di Chastity risuona per tutto il bagno. “Sei qui?”.

Lascio cadere i piedi sul pavimento e apro la porta di plastica del cubicolo. “Sì”.

I suoi occhioni grigi si rabbuiano. “Mi dispiace così tanto! Ho provato ad avvisarti, ma era troppo tardi. Quando ho saputo cosa voleva fare, eri già in mensa. Non mi considera abbastanza importante da condivide con me i suoi orrendi piani. Se lo avessi saputo prima...” sospira “Scusami”.

“Non è colpa tua. Avrebbe fatto il suo annuncio pubblico in ogni caso. Se non oggi allora domani, sarebbe successo comunque” scrollo le spalle “Non fartene una colpa”.

Si mordicchia un labbro con aria preoccupata ma annuisce. “Ti ho portato questa” infila la mano nella borsa e ne tira fuori una mela rossa e lucida “Scommetto che hai fame”.

“Grazie” afferro la mela e la metto nello zaino. La fame nervosa è passata e ha fatto spazio alla preoccupazione. “Sai come ha fatto a scoprirlo? Dovrebbe essere un'informazione riservata”.

“Non ne ho idea. Fino a due giorni fa sbatteva la testa contro il muro in cerca di qualcosa con cui farti del male. Non so proprio quando ha scoperto quella cosa”.

Non mi sfugge affatto il modo con cui pronuncia quella e l'espressione curiosa che le adorna il viso. “Se non hai altro da dirmi, puoi andartene. Sono chiusa in questo schifo di bagno per evitare che la gente mi guardi in quel modo”.

Si stringe le braccia al petto e distoglie lo sguardo “Scusa, è che...”

“Vorresti sapere” scuoto la testa “Le persone fanno davvero schifo. Giudicano ma voglio comunque saperne i dettagli. È patetico”.

“Non ti sto giudicando” si difende.

“Invece sì. Dimmi cosa stai pensando, senza peli sulla lingua” la sprono.

Chastity si stringe nelle spalle e mi guarda dritto negli occhi. “Non me ne frega nulla di quello che hai passato. Non siamo amiche per la pelle o altro. Siamo socie in un piano di detronizzazione, niente di più. Non voglio nessuna spiegazione, voglio solo sapere se ci stai ancora con il nostro accordo”.

Wow.

Non me lo aspettavo. Questa ragazza è una sorpresa continua. “Sì, ci sto”.

“Ottimo, perché ora è il nostro turno di attaccare e noi saremo anche più cattive di Giselle” assicura.

“Non credo sia possibile”.

“Lo sarà. Le faremo male e la guarderemo sanguinare, proprio come lei ha fatto con te”.

Mi piace il suo sguardo determinato. “Va bene. Cosa proponi?” domando.

Chastity sguaina un sorrisetto perfido. “Per prima cosa scopriamo come ha saputo del tuo passato e poi noi indagheremo sul suo. Tutti hanno degli scheletri nell'armadio, credimi”.

“D'accordo” affermo.

Ridacchia. “Vado a mettermi all'opera. Se hai bisogno di me, scrivimi”.

“Certo”.

Sorride e scappa fuori.

Resto seduta sul water a mangiare la mela finché qualcun altro entra nel bagno.

“Jules?” chiede Henry titubante.

Salto fuori dal cubicolo e gli balzo addosso. Henry mi stringe e mi accarezza i capelli. “Va tutto bene. Tranquilla. Va tutto bene”.

Mi rannicchio nel suo maglione e lascio che lui scacci via i brutti pensieri. “Tranquilla. Entro un paio di giorni se lo saranno dimenticato tutti. Non frega a nessuno cosa ti è successo, soprattutto non alle persone che ti vogliono bene”.

Merda.

Aaron.

“Come glielo spiego?” farfuglio contro la sua spalla.

“Capirà. Qualsiasi cosa decidi di dirgli, lui capirà. Ho visto il modo in cui ti guarda, non smetterà di farlo se gli dici la verità”.

Lo guardo negli occhi. “Ne sei sicuro?”.

Mi scosta una ciocca dalla guancia. “Al cento per cento. Prima era tutto incazzato con Giselle. Dovevi vederlo, se Lip non lo avesse trattenuto le avrebbe spaccato la testa.”.

“Vorrei spaccargliela io la testa”.

La campanella suona annunciando l'inizio delle attività ricreative pomeridiane.

“Devo andare al club di matematica, ci vediamo dopo. Se hai bisogno di me, chiamami” mi da un bacio sulla fronte.

“Aspetta” gli afferro il braccio “Com'è andato il test di storia?”.

Sorride orgoglioso. “Benissimo, A+”.

“Li ha corretti subito?”.

“Sì” afferma allarmato “È stato un vero massacro”.

“Sono fiera di te”.

“Anche io sono fiero di te. Qualsiasi cosa pensino le altre persone, io so chi è mia sorella e ne sono orgoglioso” mi abbraccia stretta e poi scappa via.

Resto in bagno finché la maggior parte degli studenti non ha lasciato il corridoio. Una volta che la via è sgombra, mando un messaggio a Dottie dicendole di dire all'insegnate di tennis che sto male e che sono in infermeria.

Vado dalla signorina Stone, l'infermiera sessantenne, le dico che ho dei crampi fortissimi alla pancia e che vorrei sdraiarmi. Lei mi fa stendere sul lettino, mi porta una coperta e un secchio.

Il catino è inutile, non ho mangiato nulla, non vomiterò.

Mi rannicchio sotto la coperta e fingo di dormire, mentre mi nascondo dal mondo infausto.

È colpa mia se mi sento così male. I segreti, soprattutto quelli grossi, vengono sempre a galla e di solito lo fanno con un botto enorme. In circostanze diverse me ne fregherei altamente di quello che pensa la gente, ma ora ci sono persone che mi piacciono e che non voglio assolutamente perdere.

Ormai ho capito che deludere le persone è una delle mie caratteristiche peculiari. Non importa quanto ci provo, finisco sempre per combinare qualche casino e allontanare tutti. Dovrei aver imparato ormai.

Do le spalle alla porta quindi non vedo chi bussa contro lo stipite di legno. L'infermiera balza in piedi facendo stridere la sedia di metallo. “Dottoressa Dawson” annuncia “Posso fare qualcosa per lei?”.

Merda.

“Salve signorina Stone” saluta cordiale “Avrei bisogno di Julianne”.

L'infermiera sospira con lentezza. “La ragazza non si sente bene. Dovrebbe rimanere qui nel caso avesse bisogno di me”.

La dottoressa avanza facendo rumore con i tacchi alti sul parquet. “Non si preoccupi, so gestire un mal di pancia. Potrà sdraiarsi nel mio ufficio e se si sentirà peggio la farò subito chiamare”.

L'infermiera sbuffa dal naso infastidita. “Come desidera, dottoressa”. Non sembra della stessa idea della signorina Dawson, ma non prova a contraddirla oltre. Le starà facendo la sua faccia rassicurante e leggermente inclinata che usa anche con me. A quella nessuno resiste. Un po' mi dispiace per il suo fidanzato.

“Julianne” l'infermiera Stone mi sfiora la testa “La dottoressa Dawson ti cerca”.

Sbuffo e mi giro verso la donna che ha interrotto il mio momento di autocommiserazione. Mi alzo contro voglia e, ancora avvolta nella coperta e insieme al mio catino, seguo la dottoressa nel suo ufficio.

 

“Vengo avvertita ogni volta che manchi ad una lezione” mi comunica una volta che ci siamo sedute.

“Bene” borbotto. Mi stringo nella coperta e incrocio le gambe sotto il sedere.

La dottoressa Dawson mi guarda dalla sua poltroncina. “So quello che è successo”.

Ottimo. “Non mi sorprende. Sto cominciando a pensare che Dio le abbia regalato il dono dell'ubiquità insieme al quel fastidioso tono rassicurante”.

Accavalla le gambe. “Siccome la signorina Duvall non è al momento presente, proietti la tua rabbia su di me. Lo capisco”.

“Io non proietto proprio niente. Sono arrabbiata con lei perché mi ha strappata al mio pisolino in infermeria e perché, in qualche modo, la cugina di Satana ha scoperto un'informazione che lei dovrebbe dovuto tenere segreta” ringhio.

Okay, forse sto proiettando un po' della mia rabbia.

“Nascondersi dai propri problemi non li farà sparire magicamente, Julianne” dice calma “Per la storia della tua riabilitazione non ho colpa”. Apro la bocca per ribattere ma lei alza un indice e me lo pianta in faccia. “Ho fatto le mie ricerche. I miei fascicoli sono sempre, e dico sempre, chiusi in archivio e la chiave è una sola ed in mano mia. Oltretutto, da quello che ho capito, Giselle ha detto che sei stata in un centro di recupero, però non sa il perché e non sa nemmeno quale. Se avesse saputo qual è, avrebbe capito che ti hanno ricoverata per droga. Il centro in cui sei stata si occupa solo di casi di dipendenza da sostanze”.

Beh, non fa una piega. “Allora come cavolo ha fatto a saperlo?”.

“Immagino abbia usato Beth”.

La guardo vacua “Chi cavolo è Beth?”.

“Beth Cage è la segretaria del preside e lui è l'unico oltre a me a sapere della tua storia. Immagino si sia fatta corrompere, i Duvall sono molto ricchi e potenti”.

“Ma non è una cosa legale!” squittisco.

“Non è legale e non è nemmeno corretto, ma il mondo gira così. Il padre di Giselle è il sindaco e Beth vorrebbe lavorare in municipio, perciò immagino abbiano fatto un accordo” mi spiega.

“Che sistema di merda” brontolo “Potrebbe scoprire altro?”.

“No. Non da Beth, almeno. Il preside è stato informato e starà molto attento ora”. Mi fa un sorrisetto “L'ho personalmente minacciato”.

“Cosa significa?” chiedo impressionata. Ora sì che inizia a piacermi.

“Gli ho solo ricordato che abbiamo con noi una ragazza con dei problemi delicati e con un animo fragile, e che se dovesse succederti qualcosa lui sarebbe l'unico responsabile” ridacchia orgogliosa.

Aggrotto la fronte “Io non ho un animo fragile e non sono nemmeno delicata”.

“Oh, lo so. Sei una delle persone più forti che abbia mai conosciuto” mi fa l'occhiolino “ma il preside questo non lo sa”.

Ma guarda un po'. “Ha mentito” le faccio notare.

Scuote la testa “Diciamo che ho abbellito la verità”.

“Se la fa dormire la notte” sogghigno.

Si sistema una ciocca dietro l'orecchio “Allora, come pensi di affrontare la situazione?”.

“Pensavo di sdraiarmi su una superficie morbida e aspettare il giorno del giudizio universale”.

Sbuffa. “È questa la tua soluzione ai problemi? Infilare la testa nella sabbia?”.

Mi sporgo in avanti. “Beh, qualche mesetto fa, quando la realtà mi strozzava mi facevo come una pigna e lasciavo che la droga portasse via tutti i pensieri brutti” mi lancia un'occhiataccia di sufficienza “Lei cosa propone?”.

“Prima di tutto direi di essere sincera con le persone che ami. Se le consideri importanti, meritano di sapere la verità” asserisce tutta seria “Potresti cominciare con il ragazzo misterioso”.

“Non capirà” sentenzio.

Lei scuote la testa convinta. “Non lo saprai mai se non gli lasci vedere sotto la superficie”.

“No” sospiro “Se guardasse sotto, dove è più profondo, vedrebbe tutti i mostri e non vorrebbe avere più nulla a che fare con me”.

“In queste settimane ho imparato a conoscerti. È stato difficile e molto debilitante, perché costruisci muri e tieni tutti fuori. Però quando finalmente superi i fossati, trovi una ragazza fantastica e con un animo incredibile, che vive la vita a modo suo e che ama gli altri con tutta sé stessa. Se lo hai lasciato avvicinare, significa che anche lui ha scavalcato i recinti e ha trovato la stessa ragazza che ho trovato io. E se lo ha fatto, non andrà via perché il tuo passato è più buio di quello degli altri” sospira e mi guarda dritto negli occhi “Devi prendere una decisione, Julianne, perché i confini che tracci tengono fuori gli altri, è vero, ma rischiano anche di soffocarti”.

 

 

Aspetto che la massa di studenti lasci i corridoi, prima di avviarmi verso il parcheggio. La dottoressa Dawson mi ha giustificato l'assenza del pomeriggio ma è stato un episodio isolato, la prossima volta mi costringerà ad affrontare il mondo.

Invece di andare alla Boss di Aaron, cammino fino alla macchina di Peyton, un vecchio maggiolino color verde acqua. Dopo pochi minuti la vedo arrivare insieme a Dottie. Mi sorridono entrambe mentre si avvicinano alla macchina. Buon segno.

“Allora vieni comunque a studiare da me!” trilla allegra Dottie.

“Se vuoi ancora che venga, certo” mormoro.

Peyton grugnisce “Che scema. Non ci frega nulla di quello che dice la regina delle stronze, noi giudichiamo le persone per conto nostro”.

“Vorrei raccontarvi la mia versione, se volete saperla” dico.

Loro si scambiano uno sguardo e poi annuiscono all'unisono.

“Okay, ottimo”.

Peyton si guarda intorno. “Andiamo a casa di Dottie, saremo più tranquille”.

 

 

Peyton guida come un pilota di auto da corsa. Inchioda di colpo, accelera bruscamente e fa quasi le curve su due ruote. Ogni volta che prende una buca, sbattiamo tutte la testa sul soffitto in tela dalla macchina. Durante il tragitto scrivo a Henry che vado da Dottie e che sto bene. Mandare messaggi con Niki Lauda alla guida è davvero difficile, il cellulare rischia di volarmi fuori dal finestrino almeno un paio di volte.

Quando finalmente Peyton inchioda davanti al vialetto di Dottie, mi sottraggo con gioia alla sua guida sportiva. La casa dei Callister è una villetta color salmone con gli infissi bianchi. La porta del garage e le tapparelle sono ben serrate, evidentemente i suoi genitori sono entrambi al lavoro.

La famiglia di Dottie possiede da diverse generazioni una farmacia in centro, il che è molto ironico visto che entrambi i suoi genitori sono strenui sostenitori della medicina alternativa.

La prima volta che sono stata qui, Grace e Sawyer mi hanno trattata con gentilezza e con rispetto. Sono molto simpatici e anche molto hippie, completamente diversi rispetto a Dorothea.

“Mamma e papà sono ancora in farmacia. Shane si è dato malato anche oggi”. Shane è il ragazzo che lavora per i Callister. “Si sta dimostrando uno scansafatiche proprio come sua sorella”.

“Nicole non è una scansafatiche” borbotta Peyton mentre camminiamo sul vialetto “È solo una grandissima stronza”. Non mi è ancora ben chiaro il passato tormentato tra Pey e Nicole, pare esserci molto più di quanto sembri tra le due.

Dottie infila la chiave nella toppa e spalanca la porta d'ingresso. Il solito odore di canapa mista a zenzero ci investe in pieno mentre entriamo nella dimora. L'interno della casa assomiglia terribilmente alla camera del tizio da cui compravo l'erba a San Diego. Ci sono mobili spaiati di colori diversi, tappeti ricamati con forme geometriche e disegni confusi, e i pensili di legno sono pieni di candele profumate e vasi di cristallo. Durante il primo giro turistico della casa ho contato almeno sei bambù, oggi giurerei che ce ne sono almeno un paio in più.

“Scusate il disordine” sospira Dottie conducendoci verso camera sua. Dopo aver camminato nella casa dei Callister, entrare nello spazio privato di Dorothea è la sensazione più strana al mondo. Dalla soglia in poi ti sembra quasi di entrare in un altro mondo. La sua stanza è organizzata al millimetro, tutti i libri sono disposti in ordine alfabetico e ogni oggetto ha il suo posto preciso. La tastiera e il mouse sono sistemati parallelamente al verso del tavolo. Il letto è ben fatto e per terra non c'è nemmeno l'ombra di un granello di polvere.

Sulla parete più lunga è appeso un enorme poster della visione della Terra dallo spazio. Il telescopio elettronico è ben piantato davanti alla grande finestra sul lato opposto, il tappetto è rosso a tinta unita e il copriletto sfoggia la foto di Einstein con la lingua di fuori ricamata sopra. Appeso al soffitto gira senza sosta una lampadario a forma di sistema solare.

“Ti conosco da sempre e ancora non riesco a concepire come cavolo fai a dormire con questo qui che ti fissa” commenta Pey sedendosi sul materasso e sulla faccia di Einstein.

Quello lì” ribatte Dottie con sdegno “È Albert Einstein, Peyton, ed è l'unico che per il momento lascio dormire con me”.

Peyton ridacchia e si sistema meglio sulla faccia dello scienziato. “Quindi Albert è il primo uomo a cui hai fatto vedere la mercanzia?”.

Dottie arrossisce e la colpisce sul braccio “Quanto sei schifosa e irrispettosa!”.

“Era solo una domanda” sogghigna.

Dottie scuote la testa e sbuffa, cercando di nascondere un sorrisetto. “Ora smettila con le domande idiote e concentriamoci” mi punta gli occhioni blu addosso “Siamo qui per Julianne”.

Mi fissano entrambe e di colpo l'idea di raccontare tutta la verità non mi sembra affatto geniale. E se dopo averla saputa non vorranno più parlarmi? Se mi guarderanno in modo strano? Non voglio che nei loro sguardi si dipinga la pietà, non lo sopporterei.

Dottie si siede sul letto accanto all'amica e entrambe mi osservano pazienti. Io resto sulla soglia e non mi tolgo nemmeno lo zaino. Resto lontana, non voglio essere respinta.

E se non capissero?

E se evitassi alcune parti?

E se mentissi?

Potrei farlo.

Potrei dire che Giselle si è inventata tutto, che sono innocente come un agnellino.

Potrei e forse dovrei anche, le persone non voglio davvero sapere delle cose brutte.

Sto per aprire la bocca per spiattellare un'immensa bugia quando Dottie squittisce e si copre il viso con le mani “Noi lo sappiamo! Sappiamo tutto!”.

Peyton sbuffa e le da un colpetto sulla coscia “Ti avevo detto di lasciarla parlare! Doveva essere una sua decisione, non tua” la guarda male “Non mi ascolti mai”.

La testa ricomincia a girare, proprio come in mensa. Mi pizzicano le punte delle dita e il petto mi schiaccia i polmoni, mozzandomi il fiato.

Dottie si agita facendo ondeggiare i ricci “Mi dispiace! Sembrava così a disagio, non volevo che si sentisse male per raccontarci qualcosa che sappiamo già”.

“Non era una tua decisione” ribatte Peyton arrabbiata.

“Zitte” guaisco alzando le mani “Fatemi capire” ammutoliscono entrambe e mi fissano preoccupate “Come cavolo fate a saperlo?”.

Dottie spalanca gli occhi, facendoli sembrare ancora più grandi “Quest'estate si è sparsa la voce che due nuovi studenti dell'ultimo anno sarebbe venuti a studiare nella nostra scuola. Non si sapeva nulla di voi, nemmeno le pettegole della città ne sapevano qualcosa. Un giorno mi annoiavo a morte e volevo disperatamente sapere come eravate fatti e cosa vi piaceva, così saremmo potuti essere subito amici” infila l'indice in un ricciolo e ci giocherella nervosamente “Così ho hackerato il sito della scuola e ho scaricato i file su di te e su tuo fratello”.

Cosa? “Hai hackerato il sito?” domando confusa.

“Sì, è stato facile. Si tratta più che altro di schemi matematici e...” Peyton le lancia un'occhiata “e...in ogni caso, il preside teneva ancora i file di tutti gli studenti nella sua area personale, così ho scaricato i vostri due fascicoli. Dopo la mia intrusione, ha eliminato il tuo dagli archivi digitali”.

Non riesco a capire.

Ho uno strano ronzio nella testa e la stanza sembra di colpo troppo piccola per tre persone. Loro sanno tutto. Non posso filtrare la verità per renderla meno terrificante. Loro sanno già tutto. “Tu-tu lo hai letto?” tartaglio senz'aria.

Dorothea si accartoccia su se stessa con aria triste “Julianne...io...mi dispiace” produce uno strano suono con la bocca, una specie di mugolio da cucciolo ferito “Non volevo ficcanasare, non pensavo...”.

Alzo la mano per zittirla e lei tace.

Odio espormi.

Odio qualsiasi cosa possa mostrare una qualche debolezza. Loro sanno la parte peggiore di me senza che io abbia potuto prendere la decisione di condividerla e questo alimenta la pazza rancorosa dentro di me. “Non solo hai letto qualcosa che non ti riguardava, ma lo hai fatto leggere a qualcun altro!”.

Si ritrae spaventata “So-solo a Peyton...”.

“E pensi che questo mi faccia stare meglio?” ringhio.

“Okay, ora calmiamoci” si intromette Pey “Non c'è bisogno di alzare la voce. So che quello che ha fatto Dottie è imperdonabile ed un enorme violazione della privacy”. Le lancia un'occhiata storta “Ma non aveva cattive intenzioni, te lo assicuro”.

Non so cosa dire, tutta questa situazione è assurda.

Peyton si alza facendo frusciare la gonna di tulle “Senti, quando ha letto il fascicolo non me lo ha fatto vedere subito. Quando ti ho conosciuta e siamo diventate amiche, me ne ha parlato e abbiamo deciso di tenercelo per noi. Non sono affari nostri e non lo sono mai stati. Quelle cose non cambiano la visione che abbiamo di te”.

In effetti, ora che ci penso, Dottie il primo giorno sapeva già chi fossi, eppure è voluta diventare mia amica comunque. La rabbia sbolle via e finalmente vedo la situazione per quello che è. Loro lo sapevano già da un po', eppure mi hanno trattata allo stesso modo.

Evidentemente la dottoressa Dawson qualche volta ha ragione.

“Che fine hanno fatto i file che hai scaricato?” le chiedo con calma.

Dottie mi guarda incerta “Li ho cancellati tutti”.

“Puoi fidarti di noi, davvero” assicura Peyton.

“Va bene” Lascio cadere lo zaino in un angolo della stanza e mi siedo sul letto con loro. Restiamo un po' in silenzio, poi finalmente mi decido a parlare. “Se avete delle domande fate, chiedete pure”.

“È stato doloroso?” chiede Dottie con un sussurro “Sai, disintossicarti”.

Non credo esista un termine appropriato per descrivere quel dolore. “È stato come passare attraverso un tritarifiuti, per poi essere ricoperte di acido ed essere prese a pugni da un bodybuilder”. Mi guarda terrorizzata “Ma dopo che quel ciclo di dolori è passato e che il mio corpo ha ricominciato a guarire, sono stata davvero bene. Come rinata”.

Peyton si sdraia sulla pancia e appoggia il mento sulle mani. “Com'era essere fatta?”.

“Com'era?” ci penso un po' su “Dipende da cosa avevo preso e quanto ne avevo preso, ma la sensazione che cercavo con più desiderio era l'effetto sedativo. Sentirsi nell'ovatta, lontana da tutti e lontana dalla realtà, era la sensazione più piacevole”.

“I miei fumano erba quando pensano che io stia dormendo” dice Dottie in un sussurro.

Non trovo la cosa troppo sorprendente, ne ho sentito l'odore la prima volta che mi ha invitata a casa sua.

“È solo erba, Dottie. Tutti si fanno almeno una canna nel corso della loro vita” la informa Pey.

“È vero” concordo “Non ti devi preoccupare”.

Mi guarda a lungo, indecisa. “Qual è stata la prima droga che hai preso?”.

“Io non conto”.

“Perché no?” chiede confusa.

“Io non volevo divertirmi un po' o alleggerire la giornata, io volevo proprio dimenticarmi chi ero”.

 

 

 

Passiamo il pomeriggio tra confessioni e segreti sussurrati a mezza voce. Scopro diverse cose interessanti che mi fanno capire che siamo tutti umani a questo mondo. I genitori di Dottie dopo di lei hanno provato ad avere altri figli ma non ci sono più riusciti. Hanno avuto più aborti di quanti un'intera città vorrebbe mai avere ed è per questo che hanno cominciato ad interessarsi alla medicina alternativa.

Quando è il turno delle confessioni di Peyton, quello che mi rivela mi lascia senza parole.

“Intendi Duvall-Duvall? Il signor Duvall? Il padre del mostro degli inferi a.k.a Giselle La Stronza?” chiedo con le sopracciglia ormai appiccicate al sistema solare sul soffitto.

“Proprio lui” conferma Peyton con aria schifata.

“Il signor Duvall è tuo padre?!”.

“Padre biologico” specifica.

“Ma questo fa di te la sorella di Giselle!” affermo senza parole.

“Sorellastre” puntualizza.

Ora capisco tutto. “Ecco cosa intendeva stamattina in classe”.

“Già” mormora “Le piace ricordarmi che sua padre ha messo incinta mia madre e poi ha fatto finta che io non esistessi. Carina, vero?”.

“Ma com'è possibile? I suoi genitori non era già sposati?” chiedo.

“In pratica, diciannove anni fa, mia madre lavorava come cameriera per i Duvall per pagarsi gli studi. Dopo una brutta lite, la signora Duvall è andata a Rio per schiarirsi le idee e il signor Duvall ci ha provato subito con mia madre. Un vero porco a mio parere, però lei ha detto che la trattava bene e che era un uomo buono e che se ne è innamorata. La signora è stata via per un paio di mesi, alla faccia della pausa, e il quel periodo mamma e il padre di Giselle mi hanno concepita”.

Sono ancora confusa. “E perché lui fa finta di nulla?” domando.

I suoi occhi castano chiaro si fanno bui e pieni di rancore. “Dopo che mia madre è rimasta incinta, la madre di Giselle è tornata e ha fatto pace con il marito. La signora è piena di soldi e il signor Duvall ha preferito una vita di lussi con una iena, che una vita modesta con la donna che amava.

Successivamente si è candidato per diventare sindaco e quando stava per essere eletto, mia madre è andata a dirgli che aveva infilato la pagnotta nel forno. Lui ha reagito malissimo dicendo che erano solo balle e che non aveva niente a che fare con lei”. Scuote la testa schifata “Alla fine è stato eletto e quando sono nata non mi ha voluta vedere e non mi ha voluta riconoscere come sua”.

“Che stronzo epocale” commento. Pensavo che la mia famiglia fosse un casino, non mi aspettavo questo retroscena nascosto dietro Peyton.

“Non dirmelo. Alla fine lui ha avuto tutto quello che voleva, i soldi e la sua posizione politica, però ci ha lasciate sole e non è una cosa che gli perdonerò. Mai”.

“Mi dispiace tanto, Pey” le sfioro un braccio.

Lei sorride mostrandomi lo spazietto tra gli incisivi “Non ti preoccupare. È stato un bene. Se lui non si fosse levato di scena, la mamma non avrebbe mai conosciuto il mio papà. Dopo un paio di anni dalla mia nascita ha conosciuto il coach Jackson. Si sono innamorati, poi si sono sposati e hanno avuto una marea di figli casinisti. I fratelli mostri potevano risparmiarseli”.

Dottie e io ridacchiamo.

“Aspetta” la fermo “Ma secondo la datazione di questo racconto tu dovresti aver già compiuto diciotto anni”.

Annuisce. “Esatto. Li ho fatti ad agosto”.

“Ma sei ancora all'ultimo anno”.

“Mi hanno bocciata in prima superiore. Ero parecchio incasinata” asserisce.

Ora capisco. “Beh, wow. Non me lo aspettavo”.

“Te l'ho detto che non ti avremmo giudicata, siamo un casino proprio come lo sei tu” afferma con un grande sorriso.

Sì, è vero. Siamo tutte un bel casino, ma lo siamo insieme.

 

 

La signora Callister arriva verso sera con addosso il camice della farmacia e un leggero aroma di canna. Ci invita per cena e, sia io che Peyton, accettiamo con gioia. Mangiamo uno strano pasticcio di verdure insieme alla famiglia di Dottie e, dopo cena, Pey mi riaccompagna a casa.

“A domani!” strilla dal finestrino aperto.

“A domani” le urlo di rimando salendo i gradini del portico. Mi saluta con la mano e sfreccia via come un fulmine. È proprio un pericolo pubblico.

Rientro in casa con un sorriso e trovo buona parte della famiglia rannicchiata sul divano.

“Sono a casa” grido varcando la soglia del salotto.

“E una è tornata, ne manca un altro” commenta Jim con un sorriso.

Cosa?

“Ciao, tesoro!” trilla la mamma “Com'è andata con le tue amiche?”.

“Molto bene. I signori Callister sono molto simpatici” commento.

“Sì, lo so” guarda Jim “Dovremmo invitarli per cena una di queste sere”.

Lui annuisce “Certo”.

“Shhh” brontola Cole “Sto cercando di seguire”. Lui e Liv fissano lo schermo, rapiti da una serie sui crimini a New York.

“Buona notte” dico verso tutti.

“Notte, tesoro” mi manda un bacio e torna a guardare il televisore.

Inizio a salire le scale e sbadiglio con forza. È arrivato il momento di parlare con Aaron, ora sono più tranquilla. Dottie e Peyton l'hanno presa bene e mi hanno tranquillizzata come mai prima.

Andrà bene, ne sono certa.

A metà scale la voce di mamma mi fa bloccare. “A che ora hai detto che torna Aaron?” chiede verso Jim.

“Non lo so, mi ha detto solo che andava da Savannah. Di sicuro tornerà prima del coprifuoco”.

Le mie certezze vanno in mille pezzi.

Si sparpagliano.

Rotolano per le scale.

Alcune mi finiscono nel petto.

Il dolore è lancinante e terrificante.

È come ricevere una coltellata dritta al cuore.

Solo che fa più male.

 

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Capitolo 23
*** Aaron ***


Aaron

 

“Non ho ancora ben chiaro cosa stiamo facendo” mi comunica Lip sbuffando una nuvola di fumo nell'aria, rilassa le spalle contro il sedile della mia macchina e riapre la bocca. “Mi hai portato qui per approfittarti di me? Perché se è così ti devo avvisare che ho una morbosa ossessione per la passera”.

Non riesce proprio a stare zitto per due minuti di fila! E io che l'ho anche lasciato fumare nella mia bimba. Sospiro infastidito. “Puoi semplicemente stare in silenzio e goderti il momento, per favore?”.

Mi lancia un'occhiata confusa. “Ma quale momento?” fa un tiro dalla sigaretta “Mi hai chiesto di uscire e io ho detto cazzo sì, poi però, invece di accompagnarmi a rimorchiare, mi hai portato in questo parco desolato e mi tieni rinchiuso nella tua auto a fissare il cielo. Lo sai che esistono le ragazze per queste cose?” lancia il mozzicone nell'erba “Tu ce l'hai già una farfallina con cui divertirti, perché diavolo non sei con lei?”.

Grugnisco seccato e stringo le mani intorno al volante. Julianne non vuole davvero stare con me.

“Oh” mugola “Ora capisco”.

“No, non capisci proprio un cazzo” ribatto con forza.

“Senti, mi diverto tantissimo qui con te, davvero, ma se hai dei problemi con lo zuccherino ti conviene andare a casa ad affrontarli” mi molla una manata sulla spalla “Non buttare tutto alle ortiche, perché incontri un po' di resistenza nella scalata alle sue mutande”.

Non avrei usato gli stessi termini, ma il concetto di base è giusto.
Perché butto tutto alle ortiche?

“Va bene” metto in moto e faccio la retro.

“Però, prima, mi accompagni a rimorchiare. Me lo devi” esige.

Che palle, ha ragione. “Okay, ma vedi di muoverti”.

“Mi basterà schioccare le dita e le conigliette vorranno tutte il mio bazzuca” fa ondeggiare in fianchi e ridacchia.

“Ti prego, non fare più quel movimento sui miei sedili” esco dallo sterrato e mi infilo in strada.

 

 

Quando Lip riesce a rimorchiare una brunetta, che a detta sua va all'università, posso finalmente tornare a casa. Mi lancio oltre la soglia d'ingresso nel minuto esatto in cui scatta il coprifuoco. Appoggiato alle scale trovo papà in vestaglia, con in mano l'orologio e una tazza di latte fumante.

“Il solito fortunato” borbotta con una risatina “Vai a dormire, forza”.

Raggiungo in fretta la mia stanza e mi butto sul letto. Henry russa con la bocca aperta e con il libro di biologia aperto sulla pancia. Gli appoggio il libro sul comodino e spengo l'abajur. Mi infilo il pigiama e aspetto che papà vada a dormire e che cominci a ronfare.

Quando la casa è silenziosa, sgattaiolo fino alla porta di Julianne e afferro la maniglia. Provo ad aprirla ma la serratura è bloccata. Spingo finché il mio cervello non si convince che la porta è veramente chiusa. È una sensazione terribile. In tutte queste settimane mi ero infilato con facilità nella sua camera e l'avevo sempre trovata ad aspettarmi bella come il sole. Ma ora mi ha chiuso fuori. Di nuovo. Ha tracciato un'altra linea e mi ha spinto oltre. Proprio come oggi, quando tutto quanto le è crollato sulla testa. È scappata e mi ha lasciato indietro a guardarla scomparire.

Non si fida di me. È inutile provare a cambiare questo fatto.

Fisso la porta finché non mi rendo conto che è del tutto inutile. Mi giro e torno in camera mia. Non ha senso provare ad aprire una porta che sai che rimarrà chiusa.

 

 

 

Mi sveglio sudato e di pessimo umore. Non ho mai dormito così male, mi sembra di aver lottato con un leone o di aver corso una maratona. Mi rigiro contro il cuscino sbuffando e scricchiolando come un vecchio.

Henry, nella sua parte di camera, è già pronto e vestito. “Buongiorno!” trilla ad un volume esorbitante “Ben svegliato! Come hai dormito?”. Ha una strana espressione malvagia dipinta in faccia, ho la terrificante sensazione che sappia che ho dormito male e che ne sia felice.

“Una meraviglia” borbotto sarcastico, calciando le coperte.

“Oh, e come mai?” domanda con una fintissima nota di sorpresa nella voce.

“Okay, ora basta con la recita, dimmi cosa sai” sbuffo.

Mi guarda dall'alto al basso e incarna un sopracciglio “So tutto e sono contento che tu abbia dormito male. È uno dei sintomi”.

“Quali sintomi?” mi strofino la faccia con le mani.

“Da astinenza da Julianne” spiega “È un fenomeno che ho riscontrato in molti dei suoi ex”.

Molti? “Mi ha chiuso fuori” asserisco.

“Ha fatto bene. Sei un grandissimo stronzo” riempie lo zaino di libri.

“Non sono io lo stronzo qui, è lei che mi taglia fuori ogni volta che qualcosa non va come dovrebbe”.

Henry mi incenerisce con lo sguardo, visibilmente incazzato. “E andare dalla tua ex la trovi una soluzione intelligente?!” mi punta un dito accusatorio contro “Ti avevo avvertito che sarebbe stato duro e faticoso. Lei ti butta fuori per autodifesa, non perché si diverte a farlo. Non hai la più pallida idea di quello che ha passato e se lo sapessi, capiresti. Ora, per piacere, smettila di commiserarti e trova una soluzione per sistema il casino che hai combinato”.

Pensavo mi imponesse di starle lontana. “Sono stato da Lip, non da Savannah.” gli spiego “L'ho detto solo per farla arrabbiare”.

Mi fissa a bocca aperta. “Sei veramente uno stronzo”.

“Già” confermo. Ha ragione, sono un pezzo di merda.

“Ti avevo chiesto di non farla soffrire” mi ricorda deluso.

“Mi dispiace, Henry” sospiro.

Lui scuote la testa e mi lancia l'occhiata più delusa che qualcuno mi abbia mai rivolto. “Non con me che dovresti scusarti”.

 

 

Quando scendo per fare colazione, Julianne è già uscita. Ha chiesto un passaggio alla sua amica Peyton per evitarmi. Non mi aspettavo niente di diverso. In ogni caso, in macchina non avrei potuto parlarle, perciò va bene così. Le darò un po' di spazio e poi partirò con il mio attacco ben calcolato.

Passo l'ora di fisica a fissare l'orologio e a schivare le occhiatacce deluse di Henry. È parecchio rancoroso, non me lo aspettavo. In effetti gli avevo promesso che non l'avrei fatta soffrire e invece è proprio quello che ho fatto, oltretutto di proposito. Mi sono comportato da vero stronzo patetico.

Al trillo della campanella, sono il primo a schizzare fuori dalla classe e a correre alla lezione successiva. Entro in classe e mi fiondo nel nostro banco. Fisso la soglia aspettando il suo ingresso e, quando lo fa, il senso di colpa mi da un bel calcio in faccia.

È stupenda come al solito, ma c'è qualcosa di diverso. Ha l'aria stanca e non brilla di luce propria. Cammina a testa bassa ed evita il contatto visivo con gli altri studenti. Ogni volta che qualcuno si accorge della sua presenza, una serie di commenti e di sussurri le si condensa intorno.
Alza gli occhi al cielo alle risate stupide di un paio di ragazze e si lascia cadere accanto a me.

Non mi guarda e non parla, si limata a stare seduta e a fingere di non sentire le critiche che gli altri studenti le riservano.

“Jay...” comincio.

Lei scuote la testa zittendomi. “No” tira fuori il libro “Non voglio sentire nulla di quello che hai da dire. Devo stare in classe perché la mia strizzacervelli mi impone di affrontare la realtà, ma questo non implica che io sia costretta a parlarti o ad ascoltarti, perciò chiudi la bocca” il tono tagliente mi spinge a stare in silenzio.

Non mi aspettavo che mi ascoltasse subito, ma non credevo di trovarla in questo stato. Sembra pericolosamente vicina ad una crisi isterica. Non deve aver avuto una mattinata facile e la mia stronzata di ieri non l'ha di certo aiutata.

Sono proprio un cretino.

Un ragazzetto del terzo anno con un cespuglio al posto dei capelli le si avvicina. “Mi stavo chiedendo se il centro in cui sei stata era per sesso-dipendenti, perché se così fosse mi offrirei volontario per una ricaduta” dice facendo ridacchiare i suoi amici.

Non riesco a capire se nasconde uno inconsueto desiderio di morte o se semplicemente sia un demente, perché ha appena stuzzicato una tigre con un bastone incandescente e la tigre ha un'irrefrenabile voglia di uccidere.

Julianne gli afferra il bavero della maglietta con irruenza e lo abbassa alla sua altezza. “Ascoltami molto attentamente, capellone. Non mi frega un cavolo se oggi ti senti coraggioso e hai voglia di scalare la piramide sociale a forza di battute pessime, non mi rivolgere mai più la parola” ringhia “Secondo le voci che girano sono una pazza furiosa, quindi la prossima volta che tu o uno dei tuoi amichetti provate a sfottermi, ti giuro su Dio che ti disintegro” lo guarda dritto negli occhi e il ragazzino deglutisce a vuoto “Sono stata chiara?”. Lui annuisce con forza. “Stammi lontano” gli molla la maglia e lo allontana con una spinta. Il ragazzo scappa con la coda tra le gambe dai suoi amici che smettono di ridere.

Julianne si stringe le tempie con forza e sospira stanca “Che cazzo di giornata”.

“Devi solo ignorarli” le sfiora la mano e lei si ritrae “Jay, io...”

La professoressa Bernard entra in classe “Bonjour!”. La classe si zittisce e lei comincia la lezione di grammatica.

 

 

Per tutta l'ora non faccio altro che fingere di ascoltare la signorina Bernard e cercare di comunicare con Julianne. Ogni volta che provo a bisbigliarle qualcosa vengo richiamato dalla professoressa e ogni volta che provo a passarle un bigliettino, lei puntualmente lo accartoccia e lo fa cadere per terra.

È incazzata e non vuole ascoltarmi, lo capisco, ma non mi sta dando nemmeno un possibilità per spiegarmi. È così testarda.

Mi ascolterà. Deve ascoltarmi.

Al suono della campanella sparisce così in fretta che penso che abbia utilizzato il teletrasporto.

Dopo trigonometria, corro fino a biologia e la aspetto. Entra in classe strascicando i piedi e con al seguito un branco di risatine idiote.
Si siede e sbuffa con forza “Vorrei proprio sapere cos'hanno da ridere”.
“Sono solo degli stronzi, devi ignorarli” assicuro.
Si infila le dita tra i capelli, alzando una nuvola di profumo al cocco. “Non parlavo con te”.
“Ci sono solo io qui” puntualizzo, facendole stringere i denti.

“Parlavo da sola” ribatte asciutta.

“Scommetto che sarebbe una conversazione davvero poco stimolante”.

Mi guarda con il gelo negli occhi. “Invece parlare con un bugiardo fedifrago è stimolante?”.

È passata all'attacco, bene. “Tecnicamente non sono un traditore, solo un po' bugiardo”.
“E ne vai fiero?” domanda con astio.
Com'è difficile avere una conversazione con lei quando è incazzata. “Se mi lasciassi spiegare...”.
“Non voglio sentire le tue scuse patetiche” ribatte con forza. “Avevi una sola occasione e l'hai bruciata, ora arrangiati”.
Matt e Nicole si siedono davanti a noi, interrompendo la conversazione. “Julie” esala Matt, tutto preoccupato. “Come stai?”.

“Sono stata meglio” borbotta.
“Mi dispiace per quello che ha detto Giselle ieri in mensa” le stringe una mano abbandonata sul banco. Le loro dita che si sfiorano mi fanno accartocciare lo stomaco. “Non riesco a capire come il corpo studentesco possa credere a tali cretinate”.
Nicole squittisce sbattendo i piedi sul pavimento “Magari perché è la verità”.

“Niki!” la rimprovera Matt.
Julianne sfila la mano dalla sua “Ha ragione la tua ragazza, è la verità” Nicole spalanca la bocca, sorpresa. “Ma questo non significa che siano in qualche modo cazzi vostri”. Raccoglie i libri, marcia verso la porta e sparisce in corridoio.
“Che tatto Nicole, complimenti” borbotto sarcastico.
Lei mi lancia un'occhiataccia “Non mi scuserò perché ho ragione”.

“C'erano altri modi per affrontare la situazione” la ammonisce il suo ragazzo “Ognuno di noi ha qualcosa che non vorrebbe che gli altri sapessero, anche tu”. Nicole inspira tra i denti .“Potevi essere più gentile con lei”.

“Perché mai!? Ci sei già tu che sei gentile con lei per entrambi!” squittisce arrabbiata.
“E adesso questo cosa significa?” farfuglia Matt indispettito.

Il professor Smith entra in classe e mette fine, grazie al cielo, a quella patetica lite.

 

 

Julianne sparisce dai corridoi per tutto il cambio aula successivo.

Non mi aspetto di vederla a pranzo, non dopo l'umiliazione sociale del giorno prima.
I ragazzi ed io ci sediamo al nostro tavolo e cominciamo a ingozzarci di tacos.
“Adoro il martedì dei tacos, è il mio giorno preferito” afferma Lip addentando la tortilla messicana con enfasi.
“Pensavo che il giovedì dell'enchilada fosse il tuo giorno preferito” puntualizza Matt, ricordandogli quello che aveva detto la scorsa settimana.
“Ho due giorni preferiti” sentenzia Lip.
“E il lunedì dei nachos?” chiedo, aggiungendo salsa al mio tacos.
“Siete degli stro-fi!” borbotta con la bocca piena “Ho molti giorni preferiti, come le ragazze”.
“Paragoni una ragazza alla giornata in cui fanno i tacos?” domando ridacchiando.

“Assolutamente” si pulisce la bocca con il braccio “Posso mangiare entrambi ed entrambi mi fanno godere da matti”.

“Analogia disgustosa, Philip” commenta Matt scuotendo la testa e facendo ridere Tyson.

Lip fa un sonoro rutto e punta lo sguardo oltre la mia spalla. “Porco cazzo”.
“Abbiamo già discusso delle esclamazioni fuori luogo” sospira Matt “Non farmi ripetere”.

Lip alza gli occhi al cielo. “Era l'affermazione più azzeccata, guardate” allunga un dito macchiato di pomodoro verso l'ingresso della mensa e noi ci giriamo.
Porco cazzo. Julianne è in fila per il pranzo, insieme alle sue amiche, come se nulla fosse. Sorride a Peyton e appoggia dei tacos sul piatto. È bellissima, vorrei alzarmi e baciarla davanti a tutti.
“Non ci credo...” mugugna Matt.

Lip batte le mani e ridacchia “Io l'ho sempre detto che quella ragazza ha le palle!”.
“Altro che palle...” bisbiglia Tyson fissando Jay a bocca aperta.

“Dopo quello che le ha fatto Giselle, chiunque si sarebbe sotterrato per sempre” commenta Matt.

“Lei non è chiunque” mormoro.

Julianne e le sue amiche si fanno strada tra i tavoli e verso di noi. Ogni volta che fanno un passo in avanti, una decina di teste in più si voltano a guardarla. C'è chi è sorpreso e chi è spaventato per lei. Giselle non sarà affatto contenta di questa cosa.

“Dolcezza!” esclama Lip alzandosi “Sedetevi con noi”.

Lei gli sorride “Siete sicuri di volere un'appestata al vostro tavolo?”.
“Non dire stupidaggini” ribatte Matt spostando una sedia “Coraggio, sedetevi”.

Le ragazze si siedono e riprendiamo a magiare. Tyson e Peyton bisbigliano a bassa voce del club di teatro e dei costumi che lei sta realizzando per lo spettacolo, Matt e Dottie scambiano commenti noiosi su i compiti di storia, che il professore ha appena assegnato e Julianne, invece, mastica in silenzio il suo tacos vegetariano, seduta tra me e Lip. Le faccio scorrere una mano sulla coscia, sperando di ricevere un feedback positivo e invece lei mi molla un calcio in uno stinco che mi fa sobbalzare.
“Oh, scusa. Era il tuo piede?” domanda sbattendo le ciglia con aria innocente.

“Nulla” bofonchio a denti stretti, mentre mi massaggio la caviglia martoriata.
Lip, dopo aver finito di mangiare, allunga un braccio e lo piazza sullo schienale di Julianne. “Dolcezza” le appoggia le dita sulla spalla “Ricordati che oggi pomeriggio ho un appuntamento con il cassetto della tua biancheria”.

Cosa? “Cosa?” chiedo con la voce un po' troppo alta.

Julianne mi guarda di sbieco e poi si gira verso Lip confusa. “Cosa vuol dire?”.

“Dobbiamo scrivere la relazione di chimica e mi hai promesso un giro turistico del cassetto delle tue mutandine” spiega.

Sì, gli piacerebbe.

“Philip” lo ammonisce Matt scuotendo la testa.

“Sì, è vero” concorda Julianne, lasciando tutti a bocca aperta. “Non la cosa del cassetto. Dobbiamo davvero scrivere la relazione di chimica”.

“Quindi non ti serve un passaggio per il ritorno?” domanda Peyton.

Julianne guarda Lip. “Mi porti tu?”.
Lui annuisce. “La Lipmobile è al suo servizio, signorina”.

Julianne ridacchia. “Perfetto”.

Perfetto un corno, lei non ci sale in macchina da sola con Lip.
“Aspettate” si intromette Dottie “La Baker, la professoressa di arte, è malata. I ragazzi del club di arte possono tornare a casa prima oggi”.

Sia ringraziato il cielo!

Qualche settimana fa, quando abbiamo dovuto scegliere i corsi facoltativi, Julianne si è iscritta al corso di arte e io l'ho seguita per avere un altro corso facile e per passare del tempo con lei senza nessuno che conosciamo intorno. Ora io e lei possiamo andarcene prima e Lip non può più portarla a casa.
“Ti porto io a casa” le comunico “Poi Lip ci raggiunge quando le lezioni sono finite”.

Julianne mi guarda a lungo, con la fronte aggrottata. So cosa pensa. Se non fosse arrabbiata con me, avremmo una scusa per stare da soli da qualche parte. Però, invece della felicità, nel suo sguardo c'è solo tanta delusione.

“No” afferma per poi voltarsi verso Lip “Ti aspetto e intanto mi porto avanti con il progetto di arte”.

Lip ci guarda indeciso su cosa fare e naturalmente prende la decisione sbagliata. “Okay, come vuoi tu”. Devo trovare un altro modo per parlarle.

“J-Julianne” balbetta Dottie spaventata “Guai in vista” indica Giselle e le sue amiche che avanzano verso di noi con aria furiosa.
“Ma che cazzo!” tuona Giselle con le mani sui fianchi “Pensavo di averti già spiegato qual è il tuo posto”. La mensa si acquieta al suo della sua voce incazzata.

Julianne la guarda annoiata “Io pensavo di averti già fatto capire che non me ne frega un cavolo di quello che dici”.

Giselle avanza minacciosa “Sei una pazza psicolabile che merita di morire”.

“E tu sei una bambinetta viziata che urla ogni volta che qualcosa non va come vorrebbe” ribatte Julianne impassibile “La differenza tra me e te, è che io non me la prendo con gli altri per sentirmi un po' meno patetica”.

Giselle digrigna i denti e stringe i pugni lungo i fianchi. Apre la bocca come un pesce senz'acqua e gli ingranaggi del suo malefico cervelletto ragionano una risposta pungente. Il silenzio e la tensione ci avvolgono come una coperta pesante. È la prima volta che Giselle non sa cosa fare e il bastone del potere le sta scivolando di mano lentamente, ogni secondo che passa.

Savannah al suo fianco stringe un frullato alla frutta e quando nota che l'amica non sa cosa ribattere, sfila il tappo e lo rovescia tutto in testa a Julianne. “Ora chi è patetico?!” strilla con gusto.

Il liquido gelato le cola sui capelli e lungo il viso, gocciolandole su i vestiti. Dal colore e dal profumo che si sprigiona direi che è al mirtillo. Julianne si blocca con la bocca aperta, come un gatto a cui è appena stato fatto un bagno. La mensa scoppia a ridere e Giselle ritrova il sorriso.
“Scusa, ti ho scambiata per il cestino dei rifiuti” si giustifica Savannah con un terrificante sguardo crudele.

“Ma sei impazzita!?” tuona Matt alzandosi in piedi e cercando disperatamente dei fazzolettini di carta. Savannah ride e mi lancia un occhiolino non richiesto. Il gesto sembra risvegliare Julianne dal trans al frullato. Ci guarda entrambi e, quando alza lo sguardo verso Savannah, la rabbia che le si riflette dentro non c'entra nulla con la doccia che le ha appena fatto. Le balza addosso così velocemente che nessuno riesce ad agguantarla per impedirglielo. Entrambe finisco sul pavimento in un misto di frullato e urla terrorizzate. Si strattonano e si colpiscono a vicenda. Savannah prova a spingere via Julianne, ma ormai è impossibile fermarla. Il corpo studentesco intona un corro incitatore e si accerchia intorno alle due ragazze.

È assolutamente la scena migliore di sempre.

“Toglietemela di dosso” guaisce Savannah tirandole i capelli. Julianne risponde alla tirata di capelli con un morso sulla mano. L'avversaria piagnucola e replica sfoderando gli artigli rossi. Riesce a graffiare Jay sulla guancia, che questa volta la colpisce con un pugno in piena faccia.

La scuola le aizza e fa il tifo per Julianne, che sta decisamente avendo la meglio. Forse dovremmo intervenire, ma è troppo bello vedere Savannah che viene sbranata.

“Ma cosa sta succedendo!?” tuona una voce femminile che fa cessare il coro.

Merda. Sono arrivati i guai.

Lip e io afferriamo Julianne e la allontaniamo dalla faccia della sua vittima, mentre Giselle e Nicole tirano Savannah in piedi.

La consulente scolastica si fa strada tra la folla e si infila nel cerchio in cui si stavano picchiando “Cosa sta succedendo?”.

Il silenzio cala sulla folla e nessuno osa dire nulla. La dottoressa Dawson osserva le due ragazze scarmigliate e sporche di frullato e inclina un sopracciglio. “Cos'è successo? Voglio una spiegazione, subito”.

“Quella pazza mi ha aggredita senza nessuna ragione!” frigna Savannah indicando Julianne e tamponandosi il naso sanguinante.

La dottoressa la guarda, poi guarda Julianne. “E la doccia di frullato se l'è fatta prima o dopo averti aggredita senza ragione?”.

Savannah chiude la bocca e si aggiusta la canottiera strappata.

“È una pazza che è stata internata, è ovvio che l'abbia attaccata senza un motivo” ribatte acida Giselle.

La dottoressa Dawson la guarda dall'alto al basso “Non ho chiesto il suo parere, signorina Duvall”.

“Ma..” ribatte.

“Quando vorrò sapere cosa pensa, glielo chiederò” insiste la dottoressa “Voi due” indica le ragazze “Voglio la vostra versione”.

“Mi è saltata addosso come un selvaggia” spiega Savannah.

Che esagerazione.

La dottoressa le fa segno di tacere e guarda Julianne “La tua versione?”.

Lei si tampona con la manica la guancia graffiata “Non faccio la spia” mormora. Savannah spalanca la bocca sorpresa e leggermente confusa.
Sapevo che si sarebbe rifiutata di accusare qualcuno, è fatta così. Finirà solo lei nei guai e non è giusto, qualcuno deve difenderla e quel qualcuno voglio essere io.

“Savannah le ha rovesciato addosso un frullato” mi intrometto.

Entrambe le ragazze mi guardano male.

“Grazie, signor Anderson, ma non l'ho chiesto a lei” mi risponde la Dawson con calma. “Venite con me, tutte e due” indica la porta con un cenno della testa e le due ragazze la seguono fuori.

 

 

Il resto del pranzo scorre senza ulteriori risse o colpi di scena. Entrambe le ragazze non tornano più in mensa e nessuno sembra voler parlare d'altro. La maggior parte degli studenti simpatizza per Julianne, mentre solo le cheerleader sono dalla parte di Savannah. La cosa su cui sono tutti d'accordo è che è stata la migliore lite dell'ultimo anno.

Al suono della campanella la storia passa un po' in secondo piano e ognuno si dirige verso la propria attività pomeridiana.

Mi incammino per i corridoi alla ricerca di Julianne e la trovo seduta davanti ad un cavalletto, nell'aula d'arte. È la classe più luminosa e spaziosa di tutto l'edificio scolastico, ci sono tre enormi finestre che inondano la stanza di luce naturale. Al centro c'è un tavolino su cui viene appoggiato il modello da ritrarre e intorno ad esso sono disposti numerosi cavalletti e sgabelli di legno. Ai lati della stanza, ci sono diversi armadietti e ripiani pieni di utensili e pitture varie.
Lei siede davanti al cavalletto meglio illuminato, ha i capelli bagnati raccolti sulla cima della testa, indossa dei pantaloncini della tuta grigi e una maglia sformata della squadra di baseball. Ha l'aria di essersi tuffata nel cesto degli oggetti smarriti e di esserci uscita con i vestiti migliori che poteva trovare. Nonostante il completo stravagante è comunque stupenda.

Busso sullo stipite della porta, facendole alzare lo sguardo. “Posso?”.

“Se dicessi di no, andresti via?” domanda colpendo la tela con il pennello.

“No” ammetto entrando nella stanza e chiudendo la porta “Ma puoi sempre provarci”.

“Sarebbe fiato sprecato” intinge il pennello e non mi guarda.

“Sei finita nei guai?” chiedo avanzando.

Scuote la testa. “No, solo un lavoretto socialmente utile che devo fare con la tua amichetta”.

Il tono astioso con cui lo dice mi fa scappare un sorriso. “Non è la mia amichetta”.

“Su questo ho dei forti dubbi” ribatte con forza, colpendo la tela.

Questo limbo mi ha stancato, è ora di mettere le cose in chiaro. “Ieri sera sono uscito con Lip, non con Savannah” ammetto.

Alza finalmente lo sguardo, ma solo per incenerirmi “E ci dovrei credere”.

Mi siedo sullo sgabello accanto al suo “È la verità, Jay”.

“Non è quello che ha detto tuo padre ieri sera” ribatte.

“Lo so” asserisco “Gli ho detto che andavo da lei per farti arrabbiare”. Ammetterlo ad alta voce è anche più patetico.

Smette di dipingere e mi fissa. Ha l'aria arrabbiata e allo stesso tempo molto triste. Vorrei abbracciarla e scacciare via quell'espressione dal suo bellissimo viso.

Appoggia il pennello con cautela, si gira e mi molla uno schiaffo sonoro sulla guancia. Nell'aula vuota, il suono rimbomba sulle pareti. “Sei un cretino”.

“Perdonami” la supplico.

Le trema il labbro inferiore. “Sei proprio un coglione”.

“Mi dispiace, Jay” le sussurro.

Lei scuote la testa e stranamente comincia a ridere. Una risata nervosa, non una felice. “Posso sapere cosa ho fatto per meritarmi questo patetico sotterfugio?”.

“Ieri, dopo quello che ha detto Giselle, volevo parlarti e tu sei sparita tutto il giorno. Ho pensato che mi stessi buttando fuori dalla tua vita come ogni...”.

Mi colpisce di nuovo, con più forza “Sei un coglione!” sbraita.

Alzo la voce per sovrastare i suoi insulti “Ogni volta che qualcosa non va, tu mi tagli fuori. Non mi dici mai se stai male o se sei turbata”.

Prova a colpirmi di nuovo ma prima che lo faccia le afferro il polso. “Con me non devi fingere, puoi essere te stessa” prova a colpirmi con l'altra mano, ma le afferro anche l'altro polso “Non voglio che mi dici cosa ti è successo”.

Smette di dibattersi e si blocca. “No?” sussurra.

Le libero i polsi e intreccio le dita con le sue. “Non devi dirmi cosa ti è successo se non vuoi, ma devi capire che io non me ne vado per nessuna ragione. Non mi interessa come sei diventata ciò che sei, mi piaci così e non ti vorrei in nessun altro modo”.

Quando finalmente mi guarda negli occhi, il suo sguardo è vulnerabile e spaventato a morte. Le sposto una ciocca umida dietro l'orecchio “Mi dispiace per quello che ho fatto, davvero. Ho ragionato come un'idiota e mi dispiace. Mi perdoni?”.

Sfila le dita dalle mie e si allontana. Per un secondo, la paura mi si arrampica sulla schiena, schiacciandomi i polmoni. Non può lasciarmi. Non potrei sopportarlo. Non lasciarmi.
Si gira, inzuppa la mano nel barattolo della pittura verde, si rigira e me la spalma su tutta la faccia con movimenti regolari. “Sei un cretino. Vicino alla parola cretino, nel vocabolario, hanno appiccicato la tua foto” ricarica la mano di un altro colore e me la spalma di nuovo sul viso “Non solo ti sei comportato da ragazzina ormonale e stronza, ma mi hai anche mentito e io odio le bugie”. Lascio che si sfoghi e che mi riempia la faccia di pittura, perché fa bene a lei e sopratutto me lo merito. “Dopo che la regina di tutti gli inferi ha sbandierato la mia vita privata ai quattro venti, invece di aspettare che tornassi a casa da Dottie, dove tra l'altro dovevo andare indipendentemente dall'umiliazione pubblica, hai pensato bene di farmi credere che fossi andato dalla tua ex per giocare al salto della quaglia. È corretto?”. Annuisco e lei cambia colore. “Ma tu non ci sei veramente andato, volevi solo che credessi che ci fossi andato, il che credo che sia anche peggio”.

Annuisco di nuovo e lei smette di dipingermi. “Bene, volevo solo essere sicura di non essermi persa nessun passaggio”. Si china in avanti, mi allaccia le braccia al collo e appoggia le labbra sulle mie. Mi coglie così di sorpresa, che per un secondo mi sembra di sognare. “Però per qualche maledettissima ragione, anche dopo questo sotterfugio da ragazzina, continui a piacermi un sacco”. Mi stringe a sé riempiendosi di tutti i miei colori e ridandomi il diritto di respirare. Mi passa le dita tra i capelli e approfondisce il bacio.

Non c'è che dire, mi piace un sacco anche lei.

“Non mi piacciono le bugie” esala staccandosi. Ha le labbra tutte colorate.

“Lo so” le sfioro la guancia dove c'è il graffio di Savannah.

“Mentimi un'altra volta e sarà l'ultima” sentenzia seria.

Non ci sarà una prossima volta. “Te lo prometto, niente bugie” le assicuro.

“Bravo” si avvicina di nuovo e ricomincia a baciarmi. Mi stringe il collo con le braccia e io la tiro a me, stringendole i fianchi. La sua bocca si muove con passione sulla mia e io ricambio il bacio, voracemente, avvolgendola con le braccia e accarezzandole la schiena. Mi è mancato da morire poterla baciare.

“Fermo” mi appoggia le mani sul petto e mi allontana “Vorrei parlarti di alcune cose, se ti va di ascoltarle”.
“Si, certo” affermo “Però prima posso lavarmi la faccia?”.

“E perché mai? È uno dei miei lavori migliori” afferma seria.

“È ovvio che lo sia, sei partita da una tela che è uno spettacolo” mi indico la faccia.

Lei ride di gusto, riempiendo la stanza.

Un suono meraviglioso che mi era mancato più di tutto.

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Capitolo 24
*** Julianne ***


Julianne

Ieri sera sono uscito con Lip, non con Savannah.
Adoro come il suono di questa frase mi rimbalzi nella scatola cranica. È come la pallina impazzita di un flipper senza controllo. Se potessi ne creerei un jingle e lo ascolterei a ripetizione.
Mi sembra di galleggiare di nuovo, l'enorme mattone che mi si era piantato tra lo stomaco e l'intestino ha preso il volo e posso respirare di nuovo.
Stringo con forza la maniglia della portiera cercando di non fluttuare via su una nuvola di contentezza. Il modo in cui Aaron mi rende felice mi spaventa a morte e allo stesso tempo mi fa sentire leggera come una piuma. È un limbo emotivo che mi rende euforica e simultaneamente rischia di essere un catastrofe di proporzioni atomiche.
Aaron mi fa sentire bene e questa peculiarità porta con sé la possibilità che un giorno invece mi faccia sentire l'opposto. Non posso evitare di pensarci, è un chiodo fisso che ho piantato in mezzo alla fronte e che non dovrei proprio ignorare. Però, ogni volta che lo guardo, l'enorme segnale luminescente di pericolo si vaporizza e al mondo esistiamo solo io e lui. E proprio non riesco a non guardarlo. Ogni suo minimo particolare mi fa andare a fuoco la pelle. Il modo in cui ingrana le marce, in cui stringe il volante e il modo in cui osserva concentrato la carreggiata davanti a noi. Tutto in lui è assolutamente incredibile. Schiaccia sull'acceleratore con una mano sul volante e una posata con dolcezza sulla mia coscia nuda. Se Savannah non mi avesse trasformata in un latticino ambulante, ora ci sarebbe la stoffa dei miei jeans ad evitare che il suo tocco mi divampi un incendio dentro. Invece, la sua mano bollente mi accarezza la pelle e fa vacillare il poco autocontrollo che mi è rimasto. Mi sfiora il bordo degli shorts con il pollice, scatenandomi una serie di brividi incontrollati lunga la spina dorsale. Gli afferro la mano e la intreccio con la mia, portandolo a distanza di sicurezza. Fa un sorrisetto birichino e si porta la mia mano alle labbra. Sa l'effetto che mi fa e la cosa gli piace parecchio. Mi bacia il dorso ridacchiando e riappoggia le nostre mani intrecciate sulla mia gamba.

Raggiungiamo il nostro parco cullati dal suono del vento e da un leggero sottofondo di musica. Ci fermiamo sotto un albero rigoglioso e lasciamo che il silenzio del parco deserto ci avvolga come una rassicurante coperta. Mi concentro sul calore del sole che ci picchia contro e prendo un lungo respiro. Odio raccontare la Storia, è patetica e imbarazzante, ma soprattutto ogni volta che la ripeto mi da la sensazione di versare acido su una ferita che sta cercando di rimarginarsi. Porta a galla ricordi e sensazioni sgradevoli, come cadaveri che riaffiorano in un fiume. Però Aaron merita la verità e questo batte qualsiasi impulso primordiale di fuga mi si scateni dentro al momento.

“Il matrimonio dei miei genitori non era perfetto, non lo è mai stato, ma sono sicura che insieme fossero molto felici. Qualche volta litigavano ma come tutti del resto. Sono due persone completamente diverse e molto spesso i loro due caratteri forti si scontravano violentemente. Avevano accese discussioni che si dissipavano così com'erano cominciate. Si volevano bene e in fin dei conti la nostra famiglia era un po' incasinata, ma era una famiglia felice” fisso il cielo e percepisco lo sguardo di Aaron che mi studia “Un giorno, esattamente il primo giorno delle vacanze estive dopo il primo anno di liceo, mi sono svegliata e ho trovato un biglietto attaccato alla porta di casa. Era una lettera della mamma in cui diceva che aveva bisogno di spazio, di una pausa e che si sarebbe fatta sentire molto presto. Se n'era andata nel nulla, senza dire una parola. Tutte le sue cose non c'erano più. Era come se lei non ci fosse mai stata” mi sale un groppo enorme in gola e mi tocca schiarirmi la voce diverse volte per riuscire a scacciarlo “Henry ed io non avevamo idea di cosa fosse successo, papà era chiuso nel suo studio a dipingere e non ci parlava. Era uno dei suoi periodi artistici in cui viveva per la pittura, a volte dimenticava pure di andare in bagno o di mangiare. Non si era nemmeno accorto che mamma era andata via”. Faccio un lungo respiro e Aaron mi stringe la mano con dolcezza “Un paio di settimane dopo sono partita lo stesso per il campeggio, sperando di dimenticarmi di tutto e che al mio ritorno avrei trovato la mamma ad aspettarmi. Finché sono rimasta lì ha funzionato, ma quando sono tornata a casa la realtà mi ha investita come un treno in corsa. Lei non era tornata, non aveva chiamato e l'unico segno del fatto che fosse ancora viva erano i documenti per il divorzio che ci aveva inviato” abbasso lo sguardo sulla punta delle scarpe “Da quel momento in poi non ho fatto altro che scivolare sempre di più in un enorme baratro nero. Ogni giorno che passava facevo un gradino in più verso il buio. Ho iniziato ad uscire con le persone sbagliate, ho cercato metodi diversi per smettere di pensare e sono finita in uno di quei casini da cui non ti tiri più fuori” Eccoci alla parte difficile “Ad un festa di una confraternita ho conosciuto Jared. Non ho capito subito chi fosse finché non ero troppo incastrata per filarmela. Jared spacciava. Non l'erba che vendono alle feste delle superiori, che il più delle volte è origano. Jared era un vero e proprio spacciatore, uno di quelli che non vorresti mai incontrare e a cui non dovresti mai fare un torto. Ma, in quel momento, era esattamente ciò che volevo e ciò di cui credevo di aver bisogno, perciò abbiamo iniziato ad uscire. Lui mi ha iniziata alla droga. Ogni tipo di droga, qualsiasi cosa scacciasse i pensieri. Ha un funzionato per parecchio, finché non ha iniziato a non durare più come prima. Meno durava e più ne volevo. Jared mi ha riempita e allo stesso tempo mi ha completamente svuotata. Sono arrivata a non tornare a casa per settimane, a non avere idea di dove diavolo fossi o con chi fossi. Mi sono persa completamente e alla fine mi sono ritrovata sull'orlo del baratro ad ondeggiare pericolosamente” inspiro dal naso ed espiro dalla bocca “Un giorno quello che avevo preso non mi aveva saziata come volevo e ho esagerato. Sono finita in overdose sul divano di uno sconosciuto. Gli amici di Jared mi hanno scaricata davanti al pronto soccorso con ancora l'ago nel braccio. Ho sfiorato la morte con le dita e non è una sensazione che dimentichi. Quando mi sono svegliata in ospedale mio fratello era seduto accanto a me, stravolto e con il viso rigato di lacrime. Mi ha urlato contro di tutto, mi ha sgridata come nessuno aveva mai fatto prima e poi mi ha implorata di smettere. Vederlo in quello stato ha fatto scattare una molla nel mio cervello bacato e gli ho promesso che avrei smesso con tutta quella merda. Per sempre. Ho parlato con la polizia, ho detto tutto ciò che sapevo e poi mi sono fatta portare in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti. Mi sono ripulita e sono rinata. Ho fatto una promessa a mio fratello e l'ho mantenuta e la manterrò per sempre”.

Lo guardo finalmente in faccia, pronta allo schiaffo del disgusto, ma ciò che ci vedo è solo tanta comprensione. Si allunga e mi sfiora le costole “Rebirth. È questo che significa”.

Mi accarezzo il tatuaggio sopra la stoffa della maglia. “Sì. È il mio promemoria” sospiro “Ti sembrerò incredibilmente patetica”.

La sua mano sale e mi accarezza una guancia “E perché mai? Perché mia madre è morta?”. Annuisco. “Jay, il dolore è dolore. Non c'è una regola o uno standard da rispettare, ognuno lo affronta a modo suo. Tua madre s'è andata senza dire una parola, capisco perfettamente perché hai perso la testa”.

Non dovrebbe essere così comprensivo. “Non avrei voluto raccontarti questa storia” bofonchio a disagio.

Lui continua ad accarezzarmi con dolcezza. “Io invece sono felice che tu lo abbia fatto”.

“E perché mai? Ora sai la parte peggiore di me”.

“Esattamente” Mi afferra le braccia e mi fa voltare, in modo che sia costretta a guardarlo negli occhi “So cosa ti ha resa così spettacolare e intrigante. Riesco a guardare sotto l'armatura e credimi mi piace ciò che vedo”.

“Non dovresti...”.

“E invece mi piace, un sacco. In questa stupida città cercano tutti di essere perfetti, di non avere nessuna cicatrice sulla pelle e soprattutto aspirano ad essere orrendamente ordinari. Tu sei reale. Sei caduta e ti sei rialzata. Hai lottato. Non hai la più pallida idea di quanto questo di renda meravigliosa” mi sposta una ciocca dietro l'orecchio “Non ho conosciuto la Julianne di prima, quella bionda e spensierata. Non sono sicuro che mi sarebbe piaciuta. Perché a me piaci tu, Jay. La ragazza con il peso del mondo sulle spalle e con gli occhi indecifrabili. Non vorrei nessun altro”.

Il suo mare di parole sfonda una diga di cartapesta e tutto ciò che tentavo di sopprimere straborda oltre gli argini. L'armatura va definitivamente in frantumi e mi ritrovo esposta davanti al suo sguardo dolce. Vorrei coprirmi, o rintanarmi o semplicemente correre via. Dovrei scacciarlo, allontanarlo per sempre, impedirgli di avere tutto questo potere su di me, ma non è ciò che voglio. Quello che voglio è stare con lui e non lasciarlo più andare. Ed è esattamente ciò che faccio.

Con rapidità gli scivolo in braccio, gli afferro il viso con entrambe le mani e premo le sue labbra contro le mie. Lo colgo di sorpresa, perché sobbalza leggermente, ma dura un secondo e quando passa mi avvolge la braccia intorno al corpo e mi stringe a sé. Ricambia il mio bacio con trasporto, affondandomi le dita nella pelle e facendomi gemere. Gli passo le dita tra i capelli soffici e lascio che il leggero velo di barba che ha sul viso mi graffi la faccia, che le sue mani mi accarezzino e che tra i nostri corpi non ci sia neppure lo spazio per l'aria.

Le sue dita di insinuano sotto la mia maglietta lasciandomi una scia rovente sulla pelle. Il cuore mi batte così forte da conquistarmi tutto il corpo. Mi sfila la maglia della squadra di baseball dalla testa e la lancia verso i sedili posteriori. Mi bacia la linea della mandibola fino al collo, mordicchiando dove la pelle si unisce alla spalla.
Voglio toccarlo, esplorare la sua pelle ma è decisamente troppo vestito. Gli afferro l'orlo della maglia e gliela sfilo. È assolutamente perfetto. Il suo torace scolpito mi chiama e mi ordina di toccarlo.

Proprio quando le cose si stanno facendo interessanti nell'abitacolo implode una bomba sonora proveniente dal cellulare di Aaron. Eminem ci urla nelle orecchie e ci fa sobbalzare entrambi contro la capote della macchina.
Merda” impreca Aaron allungando il braccio verso l'Iphone su cruscotto e risponde sbraitando “Cosa c'è?!” .
La voce di Lip rimbomba nello spazio tra noi senza che lui abbia dovuto mettere il viva-voce “Smettetela di trusciarvi e riportate il culo a casa. Le lezioni sono quasi finite e non voglio venire a casa vostra e dovervi aspettare come uno stronzo, perché state facendo ginnastica i qualche cespuglio”. Sempre molto fine il ragazzo. Aaron sbuffa “Non ti agitare, stiamo arrivando”.

Gli sfilo il cellulare di mano e me lo porto all'orecchio “Puoi portare a casa i nostri fratelli, per favore?”.

“Voi due ve la spassate come conigli e io mi devo fare carico del fardello dei fratelli?” borbotta seccato.

“Grazie, Lip” ribatto con dolcezza.

Lo sento sospirate e cercare di trattenere una risata “Sei nuda in questo momento?”.

“Ciao, Lip” ribatto e chiudo con irruenza la telefonata.

Aaron e io ci rivestiamo e ci trasciniamo contro voglia verso l'altra parte della nostra vita.

 

 

Lip è fastidioso a livelli cosmici. È come un bambino di quattro anni: si muove in continuazione, tocca tutto ciò che gli capita davanti e non la smette mai di farmi domande stupide. Resto seduta sul mio letto e lo osservo ispezionare con cura la mia scrivania. Mi sono stufata di dovermi alzare per togliergli le cose di mano e ho deciso di lasciarlo fare, spreco meno energie.

Agita tra le mani la pallina con la neve di Los Angeles “È vero che a LA le ragazze sono tutte bionde e super sexy?”.

Ignoro la sua domanda e gli faccio segno di sedersi accanto a me “Puoi per favore concentrarti su chimica? Mi hai costretta a fare questa stupida relazione insieme, quindi vieni qui e aiutami”.
“Se mi preghi con quell'espressione di raggiungerti sul letto, non posso che ubbidire” mormora facendo ondeggiare le sopracciglia.

Mi asseconda e con un tonfo lascia cadere la sua valanga di muscoli sul mio letto. Sia io che il materasso oscilliamo pericolosamente. Al rumore delle molle che cigolano, Aaron spunta sulla porta preoccupato e allarmato. Ci guarda entrambi e sospira. “Si può sapere perché non potete studiare in salotto?” chiede corrucciato.

Mi piace che sia geloso ma non a livelli maniacali “Liv sta guardando i cartoni animati, non riusciremmo a concentrarci”.

Sbuffa di nuovo e si stringe la braccia al petto “Potreste studiare in cucina” propone.

Mi alzo da letto e gli vado incontro “Siamo comodi qui” lo spingo leggermente verso l'uscita. Lui si impunta contro la moquette “Magari posso darvi una mano”.

Scuoto la testa e lo spingo più forte “Ce la caviamo alla grande da soli”.

“Ce la caviamo proprio alla grandissima da soli” gli comunica Lip stravaccandosi platealmente sul mio letto. Il modo in cui pronuncia l'intera frase fa irrigidire Aaron come un pezzo di legno.
Lo fulmino con lo sguardo “Grazie Lip” riesco a spingere Aaron oltre lo stipite della porta e a togliergli dal campo visivo l'immagine di Lip sdraiato sul mio letto. “Devi rilassarti” gli bisbiglio.

Lui scuote la testa con forza “Non ci riesco, non sai com'è con le ragazze...l'idea di voi due da soli su un letto...proprio non...”.

Intreccio le dita con le sue “Ti fidi di me?”.

“Certo”.

“Allora fallo. Ti prometto che se fa lo stupido caccio un urlo e ti do il permesso di prenderlo a calci” gli do un bacio veloce “Ora vai, prima iniziamo prima finiamo”.

Sbuffa sonoramente ma fa come gli dico e posso finalmente tornare in camera.

Lip ha la faccia infilata nel cassetto del comodino “Allora, gli hai detto di smetterla di fare pipì sullo stipite della porta?”.

Lo chiudo con uno scatto tranciandogli via quasi due dita “Non dovrebbe marcare il territorio se tu la smettessi di fare l'idiota”.

Scivola di lato facendomi spazio “Mi piace vederlo così agitato. È la prima volta che mi ritiene una minaccia”.

Raduno i fogli e apro il quaderno “E la cosa ti diverte?”.

Lui si appoggia contro la testata del letto e ridacchia “Immensamente. Significa che ci tiene a tal punto che mi prenderebbe a calci. E io sono il suo migliore amico”.

La frase mi solletica piacevolmente il mezzo al petto. “In ogni caso ti consiglio di smetterla, non so il suo destro com'è ma il mio è micidiale, quindi non sconfinare”.

Lip ride con forza “Oh, lo so dolcezza. Basta guardare la faccia di Savannah per saperlo”.

Al pronunciare del suo nome, il graffio sul viso comincia a bruciare fastidiosamente. Non avevo più pensato alla rissa con Savannah da quando siamo andati via da scuola. Chissà quale punizione ha in menta la dottoressa Dawson? Spero che non provi a farci fare il gioco della fiducia perché se mi dovessi trovare alle spalle di Savannah probabilmente la colpire con qualcosa di appuntito.
“Dolcezza?” mi chiama Lip schioccando le dita “Hai l'aria di chi sta preparando un piano malvagio. Tutto okay?”.

“Sì” annuisco “Che ne dici di metterci al lavoro?”.

Fa il saluto militare “Agli ordini”.

 

Lavoriamo per un'oretta buona finché qualcuno non interrompe il nostro ritmo perfetto. “Julianne?” mi chiama Jim dalla soglia della porta. Rimane rigorosamente fuori dal mio territorio e ci osserva con uno strano sguardo preoccupato. Stringe dei libri enormi contro il cardigan a quadri e si sistema convulsamente gli occhiali “Puoi venire un momento?”.

Ruzzolo giù dal materasso e lo raggiungo in corridoio “Si?”.

Stringe le dita contro i libri “Cosa state facendo?”.

Aggrotto la fronte a quella domanda stupida. “Cosa stiamo facendo?” ripeto confusa.

Lui annuisce.

“Stiamo studiando chimica, perché?”.

Deglutisce “Perchè non siete in salotto?”.

Sono ancora più confusa, non capisco perché gli interessi. “Beh, siamo più comodi in camera e poi Liv guarda la televisione ad un volume esorbitante e noi...”. Mi blocco di colpo perché ho capito. La sua aria sudaticcia e agitata doveva farmelo intuire subito. Lo guardo in faccia “Stiamo solo studiando, Jim” meglio metterlo in chiaro fin da subito.

“Preferirei che lo faceste al piano di sotto” mi informa.

Io preferirei essere ancora con Aaron nella sua macchina a cancellare l'esistenza del mondo dalle nostre menti, ma non tutti hanno ciò che vogliono. “Se si trattasse di una ragazza non ci sarebbe alcun problema, perché con Lip è diverso?”.

Lui abbasso lo sguardo sul pavimento e sospira lentamente “Lip è un uomo”.

Ma dai. “Questo lo so bene”.

La voce allegra di Lip arriva dall'interno della stanza “Non si preoccupi signor Anderson, non lascerò che Julianne tocchi la mia virtù. L'ho messa sotto spirito fino al giorno delle mie nozze”.

Mi scappa una risata che Jim non gradisce. Mi prende per il gomito e mi tira verso le scale abbassando in tono di voce “La sua reputazione lo precede,Julianne. So che è un bravo ragazzo ma non voglio che parlino di te nello stesso modo in cui parlano di lui”.

È la frase più stupida della storia, non ho parole. “Le persone mi giudicano indipendentemente da chi frequento, quindi perché lasciarsi influenzare?”.

Scuote la testa stufo di dibattere con me “Andate in salotto o sarò costretto a chiedergli di andarsene”. Batte sul suo martelletto immaginario e si dilegua.

Torno in camera sbuffando e sbattendo i piedi come una bambina. Lip mi da un colpetto sulla spalla mentre raccolgo i libri e i fogli “Non ti preoccupare, dolcezza, non è la prima volta e non sarà di certo l'ultima”.

“È così stupido”.

“Non importa cosa fai o cosa dici, le persone ti giudicano in ogni caso. Non mi importa cosa pensano di me, è la mia vita e la vivo come mi pare”.

Si è appena guadagnato una ventina di punti. Abbassa la voce e si fa più vicino “Immaginati la sua faccia se gli avessi detto cosa fai con suo figlio quando lui si addormenta”.

“Pagherei per vedere quell'espressione”.

Lip ride di gusto. “Anche io”.

 

 

Dopo lo spostamento al piano inferiore, veniamo interrotti così tante volte che rischiamo di non riuscire a finire. Liv urla e sbraita davanti ai cartoni interattivi e Cole ed Andy provano a girare un video di un salto con lo skateboard, proprio dove noi abbiamo deciso di studiare. A peggiorare la situazione ci si mette la mamma che decide di iniziare a cucinare due ore prima dell'orario prestabilito per la cena e Henry naturalmente si offre di darle una mano. Vorrei urlare come una pazza isterica ma il rumore intorno a noi è già sufficiente così com'è. Lip sembra non essere minimamente disturbato da tutto ciò che ci accade intorno. “Come fai a non dare di matto?” borbotto dopo che Cole mi ha colpito lo stico con il bordo dello skateboard. Lip alza le spalle e sorride osservando la scena “A casa mia non c'è mai nessuno. Sono figlio unico e mamma lavora tutto il giorno, perciò un po' di casino non mi dispiace”.

Sono così satura che mi scappa una domanda idiota “E tuo padre?”.

Lui si rabbuia leggermente e abbasso lo sguardo sulla relazione “Lui è morto diversi anni fa”.

Mi sento terribilmente idiota “Scusa” borbotto.

Lui scuote le spalle e ritrova la solita espressione strafottente “Ma va, tranquilla, non me lo ricordo nemmeno”.

Mi dispiace terribilmente per lui. Certe volte la sua armatura da puttaniere senza pensieri mi fa scordare che sotto si nasconde una persona molto sensibile che cela i propri segreti agli occhi del mondo.

“Julie” trilla la mamma dai fornelli “Come mai state studiando qui, potevate stare in camera”.

“Eravamo in camera, mamma” ribatto piccata “Ma poi Jim ci ha ordinato di scendere perché Lip rischiava di portarmi via la mia innocenza”.

Henry si strozza con il succo di frutta e tossisce diverse volte per eliminare il liquido dai polmoni.

La mamma mi lancia occhiata storta e arrossisce. “Sono sicura che non intendesse questo”.

“Oh, sì, intendeva proprio questo” ribatto “Ma tranquilla non gli ho detto che non ci sarebbe stato nulla da portare via”.

Julianne” sibila la mamma guardandomi male. La verità è la scelta migliore solo se è di loro gradimento. “In ogni caso, se ti ha consigliato di scendere allora aveva le sue ragioni”.

“Era più un ordine” borbotto ma lei non ci fa caso e invita Lip a cena. Lui naturalmente accetta. A quanto pare gli piace in caos di questa casa.

 

 

Miracolosamente riusciamo a concludere la relazione prima di cena. Così dopo il pasto abbondante gentilmente offerto dalla mamma, ci trasciniamo pieni come dei palloni in garage ad aspettare gli altri per le prove.

“Non ho alcun dubbio, tua madre è la migliore ai fornelli” sentenzia Lip accendendosi una sigarette e alzando la claire del garage.

Vorrei contraddirlo ma è assolutamente vero. Aaron chiude bene la porta che divide il garage e la cucina e mi attira tra le sue braccia. Mi appoggia il mento sulla testa e prende un lungo respiro, come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato. La mia schiena combacia perfettamente con il suo petto. Mi fa voltare prendendomi per i fianchi e si abbassa per baciarmi nell'instante in cui mi alzo sulle punte per fare lo stesso. Un bacio lento e intenso che mi si propaga dalle punte dei capelli alle dita dei piedi.

Peccato che non siamo soli. “Sei disgustosamente belli insieme, mi state facendo venire le carie ai denti” la voce fastidiosa di Lip infrange il momento come un martello.

Aaron mi fa l'occhiolino e mi sussurra all'orecchio “Ne riparliamo dopo”. Una promessa che gli ricorderò di mantenere.

Ci allontaniamo e aspettiamo l'arrivo di Ty e Matt.

All'arrivo degli ultimi componenti della band possiamo finalmente cominciare le prove. Mi siedo sulla mia sedia da giardino e i ragazzi si posizionano sul palchetto di legno. “Allora avete fatto i compiti a casa?”. Mi guardano confusi .“Qualcuno ha scritto qualche canzone?” specifico.

Ty si fa avanti e mi porge un pezzo di carta ripiegato. Sul foglio a righe è riportato il testo di una canzone. “L'hai scritta tu?”. Lui annuisce con convinzione. Mi appresto a leggerla e i versi mi lasciano senza parole.

 

Tell me what you're feeling

I can take the pain

Tell me that you mean it

That you won't leave again

 

Tell me what your heart wants

Such a simple thing

My heart is like paper

Yours is like a flame

 

I can't make you see

If you don't by now

I'll get through these chains

Somehow, somehow

 

Take it if you want it

I'm so tired I just don't care

Can't you see how much you hurt me?

It's like I wasn't there

 

“È meravigliosa. Davvero tragica”. Tyson arrossisce e alza le spalle con aria timida. “È davvero una buona base da cui partire” gli faccio un sorriso enorme “Ottimo lavoro, davvero”.
Lui abbassa lo sguardo ma ricambia il sorriso e lo sento bisbigliare un grazie.
Batto le mani “Okay, ora al lavoro, abbiamo una sacco di cose da fare”.

 

Mi rigiro il foglio di Tyson tra le mani e fisso l'oscurità sdraiata sul materasso. Al termine delle prove siamo riusciti ad ottenere una buona base su cui cantare la sua canzone, dobbiamo ancora lavorarci ma si sta sviluppando davvero bene. Avere un testo è già un ottimo passo avanti rispetto alla loro situazione precedente.

Tenere le sue parole tra le mani mi fa uno strano effetto. È come se avessi in mano un suo ricordo e potessi osservarlo solo attraverso lo spioncino della porta. Ho un sacco di canzoni così nel mio quaderno e se dovessi lasciarle ascoltare a qualcuno, attraverso lo spioncino si noterebbe più di quanto vorrei lasciar vedere. Tyson è più coraggioso di quanto pensassi.

Sento la maniglia della porta che cigola e il legno che fruscia sulla moquette. Due secondi dopo, Aaron è sdraiato accanto a me sul letto. Mi circonda con un braccio facendomi appoggiare la testa sul suo petto e la gamba sulla sua coscia. “Stai bene?” mi sussurra tra i capelli.

Mi stringo contro il suo corpo “Sì, ora sì”.

“Cosa ti va di fare?” domanda.

Appoggio i foglio sul comodino e mi giro a guardarlo “Se non sbaglio abbiamo interrotto un discorso che hai promesso di portare avanti”.

Fa un sorrisetto scaltro e mi attira verso di sé “No, non sbagli affatto”.

 

 

“Aaron” bisbiglio punzecchiandogli un fianco con un dito.

Nessuna risposta.

“Aaron” ripeto più risoluta.

Lui in compenso russa più forte.

Meraviglioso, davvero. “Aaron devo andare a scuola a scontare la punizione che la tua perfida bugia ha scatenato, ti devi alzare”.

Fa un verso strano che sembra un grugnito misto ad uno sternuto. “Che ore sono?”.

Do un'occhiata all'orologio “Lei sei e un quarto”.

Fa un lamento orrendo, come se lo avessi colpito con una mannaia. “Perchè?”.

“È colpa tua. Ho spaccato la faccia di Savannah per colpa tua, quindi vedi di alzarti” ribatto saltando giù dal materasso e mi dirigo verso l'armadio. Frugo alla ricerca di qualcosa di decente da indossare e poi mi dirigo in bagno. Mi lavo il viso, i denti e mi trucco. Quando ritorno in camera Aaron si è spostato al centro del letto e ha allungato le braccia e le gambe come una stella marina. È adorabile, dovrei fargli una foto.

“Ti comunico che mi sto spogliando” lo informo con un sorrisetto. La frase sembra rianimarlo di colpo. Si tira su a sedere come spiritato e mi fissa con gli occhi sgranati. Ha i capelli tutti arruffati, per colpa mia, e la faccia stropicciata. “Sono sveglissimo” biascica.

Mi avvicino “Perfetto” gli mollo un bacio veloce “Così puoi accompagnarmi a scuola”.

Mugugna ma non protesta, anzi si siede più comodo.

“Cosa fai?”.

“Pensavo mi facessi uno spogliarello mattutino” asserisce con aria innocente.

“Scordatelo” lo tiro per un braccio “Devi andare a vestirti”.

“Ma...”.

“Niente ma. Su muoviti” lo spingo verso la porta. “E poi lo sai che preferisco quando sei tu a spogliarmi” detto ciò lo spintono fuori dalla porta e gliela chiudo alle spalle.

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Capitolo 25
*** Julianne ***


Julianne

 

Sono fermamente convinta che la dottoressa Dawson in un'altra vita fosse un boia. Uno di quei tipacci mascherati che durante le esecuzioni tirano la corda che uccide il condannato. È troppo sadica per non avere un passato spietato.
Mi lancia un'occhiata strana, come se stesse intercettando i miei pensieri indispettiti. È normale che li abbia, visto che mi costringe a stare in una stanza con quella bestia di Savannah. Ci fa sedere sullo stesso divano di pelle su cui mi siedo sempre e ci fissa con speranza. La bestia e io sediamo ai due lati opposti, abbarbicate ognuna su un bracciolo diverso. Lasciamo che un mare di cuscini ci divida e che il silenzio si faccia strada nella stanza.

“Bene” sospira la dottoressa accarezzando la gonna di seta “So che non andate molto d'accordo, ma sono sicura che infondo abbiate in comune più di quanto pensate”.

L'unica cosa che abbiamo in comune è che non ci piacciamo per nulla. E anche Aaron, immagino.

“Mi piacerebbe sentirvi comunicare in maniera non aggressiva” sentenzia.

So che è un ordine, riconosco il tono delicato ma deciso che usa con me. Non so esattamente come, ma sia io che Savannah apriamo la bocca nello stesso momento e incominciamo ad urlarci addosso insulti.

“Non è colpa mia se la punkettona qui si crede una dea scesa in terra!”.

“Lei mi ha fatto una doccia di frullato!”.

“Era una doccia di cui avevi assolutamente bisogno”.

“Come quella che servirebbe a te per poter cancellare tutto quel trucco da clown che hai in faccia?”.

“Almeno io so cos'è la moda! Quel vestito l'hai rubato dall'armadio di tua nonna?”.

“Indossare una cintura come una gonna non mi sembra un sinonimo di buon gusto!”.

“Non riconosceresti il buon gusto nemmeno se ti ballasse davanti! Questa gonna è di Gucci!”.

“Allora mi sa che il negozio ti ha fregata, perché ti hanno venduto metà dell'indumento!”.

La dottoressa Dawson fischia con forza in un fischietto metallico facendo sobbalzare entrambe e interrompendo la nostra litigata. “Smettetela, subito” ci guarda delusa “Siete due donne forti e con un bel carattere esplosivo, dovreste spalleggiarvi non cercare di abbattervi a vicenda”.

So che ha ragione, ma proprio non riesco a sopportarla. È vanitosa, superficiale e crede che il mondo le giri intorno. E poi pensa di avere qualche diritto su Aaron e la cosa non migliora la situazione.

“Alzatevi, ho un lavoro da farvi fare” annuncia appoggiando il blocco-note sulla scrivania.

“La prego, mi dica che non è l'esercizio della fiducia, perché le dico già che non la afferrerò” asserisco avvisandola.

Savannah annuisce “Nemmeno io”. Almeno siamo d'accordo su qualcosa.

Dawson scuote la testa “No. Ho in mente qualcosa di molto meglio”.

 

 

 

“Sta scherzando, vero?” brontola Savannah. Oh, lo spero davvero.

La dottoressa scuote la testa tronfia “Sono seria come un infarto”.

Le lancio un'occhiataccia. “Non può essere legale”.

“E invece ho il permesso del preside e siete entrambe giustificate per le ore che perderete”.

Savannah e io fissiamo il mucchio di piatti sporchi, di stoviglie e di posate incrostate e sospiriamo all'unisono. “Dovrà essere tutto pulito e asciugato perché possiate andarvene. Se una delle due se ne va, finite entrambe in punizione. Per ora il preside non sa della rissa e non sa che questo è un castigo e se volete che resti così vi consiglio di iniziare a lavare”. Raccoglie le sue cose e va verso la porta “Io sarò nel mio ufficio, non vi uccidete a vicenda e non combinate altri guai. Se lavorerete insieme finirete in un baleno. Buona fortuna”. Detto ciò sparisce in corridoio in una nuvola di profumo e sadismo inespresso. Proprio quando stava iniziando a piacermi.

“Forza, cominciamo, non voglio passare la mia vita qui a lavare piatti” borbotto prendendo uno strofinaccio.

“Non se ne parla” ribatte Savannah con un colpo di coda rossa.

Oggi è particolarmente scosciata, indossa una gonna/cintura di pelle, un orrendo top fucsia e una pelliccia finta color topo. Il fantastico pugno che le ho regalato durante la nostra rissa le ha lasciato un segno violaceo sullo zigomo destro. Ha provato a nasconderlo con il fondotinta, fortunatamente però si vede ancora.

“Hai sentito la dottoressa Dawson. Porta il culo al lavello e comincia a pulire” rispondo infastidita.

Lei scuote di nuovo la sua minuscola testolina “Nessuno, e dico nessuno, mi obbligherà mai a fare le faccende domestiche come una cameriera”.

Ogni singola cellula del mio corpo vorrebbe infilarla nella lavabo e guardarla soffocare tra i residui di cibo. “Non mi sorprende affatto che tu non abbia mai lavato i piatti”.

“C'è Rosario per questo tipo di lavoro”.

“Ti rendi conto di quanto questa frase suoni viziata e superficiale?” afferro un spugna e un paio di guanti.

I suoi tacchi alti risuonano sul pavimento quando si avvicina “È la verità! Rosario fa le faccende domestiche”.

“Non stai migliorando la situazione. Fammi indovinare hai anche un cuoco personale, un'assistente e un maggiordomo grigio ma arzillo?”.

“Alfred è solo il giardiniere!”.

“Lo sapevo”.

“Mio padre preferisce che non mi affatichi in faccende inutili”.

“Mi dispiace, ma nessuna delle frasi che stai dicendo migliora l'immagine di bambina viziata che mi trasmetti”.

Sbuffa e mi guarda infastidita “Sono cresciuta in questo modo, non capisco perché continui a giudicarmi sulla base di scelte che non fatto io”.

È la cosa più intelligente che le abbia mai sentito dire e anche quella che mi fa più riflettere. Perché la giudico in base al suo aspetto? Non sono di certo migliore di lei o di Giselle. Passando diversi mesi nel centro di recupero ho capito che le persone, anche quelle che sembrano avere tutto ciò che vogliono, nascondono scheletri orrendi nei propri armadi come tutto il resto del mondo.

“Immagino perché tu fai lo stesso con me”. Non è assolutamente una giustificazione. “Scusa”. Infilo le mani nell'acqua putrida e comincio a lavare le scodelle della colazione. Mentre scrosto le macchie di caffè dalla tazza sbeccata, una nuvola di Chanel mi avvolge e Savannah si avvicina al lavello accanto al mio. Rimane immobile a fissare i piatti e non dice una parola. Alla fine sbuffa e stringe con forza la cerniera della pelliccia. “MiDispiacePerLaDocciaDiFrullato” esala tutto d'un fiato.

Come? Un momento. Si è appena scusata di essere stata una stronza? Davanti a me? Lancio un'occhiata verso la finestra per accertarmi che non stia nevicando viola. Il cielo è sereno e Savannah mi ha appena chiesto scusa. Tutto ciò è assurdo.

La fisso con la bocca aperta “Cosa?”.

Lei sbuffa con energia “Devo ripeterlo per forza?”. Annuisco con convinzione “Va bene. Mi dispiace di averti rovesciato addosso il frullato, è stato un po' esagerato e me ne sono resa conto solo quando era troppo tardi”.

La ragazza che ha organizzato di farmi lanciare in piscina sapendo che non so nuotare, che ha messo in rete foto delle mie tette e che mi deride di continuo, si sta scusando per la doccia di frullato?

Ci guardiamo a disagio e senza avere la minima idea di cosa dire. Tossisco e muovo la testa “Ehm, grazie”.

“Questo non significa che mi stai simpatica o altro”.

Ricomincio a sfregare le pentole con la spugna “Il sentimento è reciproco”.

“Però ammettere le proprie colpe è uno dei primi passi della guarigione, giusto? Almeno credo, in fondo sei tu quella che se ne intende di riabilitazione”.

Ed eccola di nuovo qui, per un secondo mi aveva spaventata. “Perchè non prendi lo strofinaccio e asciughi quello che ho lavato? Così non devi toccare l'acqua sporca”. Non ho voglia di ribattere con cattiveria al suo insulto velato, per il momento cerchiamo di rimanere neutrali l'una verso l'altra.

Annuisce “Si, questo penso di poterlo fare”. Le porgo lo straccio e lei lo afferra usando solo due dita e con la faccia disgustata. “Ma non li lavano mai questi cosi?”.

Sciacquo una tazza sbeccata e gliela passo “Immagino che sfori dal baget avere degli stracci di questo secolo”.

Savannah mugugna schifata e inizia ad asciugare la tazza come se fosse radioattiva. “Questo è sfruttamento minorile, non credo che la strizzacervelli abbia il diritto di farci fare certe cose”.

Mi sorprende sentirla usare la parola sfruttamento. “Non credo che qualcuno degli altri insegnati si lamenterebbe a vederci sgobbare”.

“No, immagino proprio di no” ribatte stringendo la padella da asciugare con meno disgusto. Sta migliorando.

“E poi è colpa nostra e della rissa” asserisco.

Lei ridacchia e mi punta un dito vero il graffio sulla faccia “Mi dispiace per quello, mi stavi tirando i capelli ed io ho reagito come ho potuto”.

Si è scusata di nuovo di sua spontanea volontà, oggi è una giornata che resterà negli albi per sempre. “Scusa per il pugno, ma dopo che mi hai morsa ho completamente perso la testa. Scommetto che fa male”.

Asciuga un bicchiere e lo posa sul lavello “Un po', soprattutto quando stamattina l'ho truccato”.

Mia madre ha fatto uno strano verso quando ha visto il graffio, ho dovuto dare la colpa a Kafka e lui si è beccato un'occhiataccia e un sonoro rimprovero. Non oso immaginare cosa le abbiano detto i suoi. “Tua madre è impazzita quando ha visto il livido?”.

Savannah abbassa lo sguardo e si mordicchia con forza l'interno della guancia “I miei sono alle Barbados fino alla prossima settimana, quindi no” espira sbuffando fuori un sacco di sentimenti repressi “In ogni caso non lo avrebbero mai notato, non mi calcolano molto”.

Osservandola le vedo. Le crepe dolorose di una famiglia incasinata risplendono come delle lampadine. Mentirei dicendo che non la capisco,ora comprendo perché si comporta così. L'ho fatto anch'io. Vorrei farle capire che lo so come ci si sente, ma non voglio mostrarle le mie cicatrici, non voglio rischiare di farmi fregare. Questo suo lato vulnerabile mi sta destabilizzando, rivoglio la Savannah aggressiva e stronza.

“Chissà quante feste potrai organizzare mentre non ci sono” il mio commento non alleggerisce la tensione.

Lei sorride in modo meccanico e scuote le spalle “Sabato sera organizzerò la festa dell'anno, puoi giurarlo”. Mi guarda a lungo e inclina la testa “Vuoi... vuoi venire?”domanda titubante.

Aspetta, sento odore di guai. “Mmmh” borbotto sfregando su una paletta. “Mi stai seriamente invitando alla tua festa?”

Lei sorride in modo stranamente sincero. “Ti giuro che non è una trappola, fingerò di non averti invitata ovviamente, ma cercherò anche di tenerti lontana Giselle. Che ne dici?”.

Camminiamo su un terreno neutrale e cerchiamo un punto in comune. È una zona pericolosa che potrebbe nuocere entrambe, non la capisco proprio. “Perchè sei gentile con me?”.

Scrolla le spalle “Non saprei. Alla fine non sei male come pensavo e poi se vieni tu verrà anche Aaron e quel figo di tuo fratello”.

Sentirla pronunciare il nome di Aaron mi fa stringere i denti con forza, ma è la parte su mio fratello che mi turba di più. “Cosa? Henry?”.

Asciuga una serie di posate con aria sognante “Tuo fratello è un tale schianto e per ora non è uscito con nessuna, quindi è ancora completamente sulla piazza”.

L'idea di Henry e Savannah mi fa venire un conato. “Vuoi uscire con mio fratello?”.

“Certo! Aaron ha smesso di calcolarmi, quindi ho deciso di cambiare completamente genere. E se me lo prendo per prima le altre gli staranno alla larga”.

Parla del mio fratellino come di un bel paio di scarpe. “E cosa ti farà credere che le altre staranno lontane?”.

“Beh, è un po' come te e Lip, siccome lui ti gira sempre intorno le altre ragazze hanno paura della tua reazione se provassero a toccarlo e allora lui non esce con una ragazza da parecchio. Molte pensano che tu sia riuscita a mettergli il guinzaglio”.

“Lip e io siamo solo amici” metto in chiaro.

“Con Lip non si può essere solo amici, è troppo sexy. Comunque è una cosa fortissima, l'ultima ad averlo ammaestrato è stata Giselle” stringe gli occhi e ci riflette sopra “Forse questo spiega un po' della sua rabbia nei tuoi confronti, non le piace chi tocca le sue cose”.

Non credo che Lip centri qualcosa con la nostra faida. “È ridicolo, Lip e io siamo amici e basta”.

“Se lo dici tu, comunque non sembrerebbe” afferma.

Questa cosa porterà solo guai, me lo sento.

 

La pace appena stabilita regge alla perfezione e riusciamo a lavorare in armonia. Io resto in silenzio e rifletto su quello che mi ha detto, mentre Savannah blatera in continuazione come se fossimo amiche da una vita. In fin dei conti è abbastanza simpatica.

Una volta finito, lei zampetta verso la sua classe ondeggiando i fianchi e io torno verso l'ufficio della dottoressa Dawson. Mi lascio cadere sul divano con un tonfo e sospiro con forza.

Lei mi regala un mega sorriso “Sono assolutamente fiera di te”.

“A cosa devo questo onore?” mi stiracchio allungando le gambe sui cuscini.

“Sei stata matura ed educata, le hai parlato con gentilezza e hai capito che alla fine non siete così diverse”.

Mi tirò su di colpo “Ha origliato!”.

Annuisce “Ovviamente, non vi avrei mai lasciate sole insieme ad degli oggetti affilati, non sono mica così sprovveduta”.

Beh sì, in effetti. “Comunque non è educato ascoltare le conversazione altrui”.

“Mi scuso. Sono comunque molto fiera di te”.

Anche io lo sono di me. “Direi che in fondo, ma proprio molto in fondo, Savannah non è così male come pensavo”.

“Ti ha addirittura invitata ad una festa, è un passo enorme per lei”.

Mi chino in avanti “Pensa che dovrei andarci? E se fosse una trappola?”.

“Lo scoprirai solo se ci vai. Quello che ti consiglio è di vivere la vita senza paura dei ma o dei se”.

“Ci penserò”.

Annuisce e mi lancia una strana occhiata complice “Quindi è Philip il ragazzo che ti marchia con i suoi succhiotti?”.

Sbuffo con forza e alzo gli occhi al cielo “Oddio, no! Siamo solo amici”.

Dawson alza le mani in segno di resa “Se lo dici tu mi fido, ma sappi che hai la mia approvazione”.

 

 

Raggiungo l'aula di chimica con una derapata e mi lancio in classe prima dell'arrivo dell'arpia. Non ho intenzione di scontare un'altra punizione oggi. Mi accascio sullo sgabello del laboratorio e lascio che l'aria mi riempia i polmoni.

“Eccoti finalmente” trilla Lip “Si può sapere dove sei stata tutto il giorno, dolcezza? Pensavo ti fossi dimenticata di me” fa la faccia da cucciolo triste facendomi ridere.

“Dovevo scontare la mia punizione per la mega rissa con Savannah” spiego “E comunque smettila di chiamarmi dolcezza, diamo l'idea sbagliata”.

Le sue sopracciglia color aragosta si scontrano confuse “Diamo l'idea sbagliata?”.

“Sì, le persone pensano che ti ho messo il guinzaglio o roba simile” appoggio i libri sul tavolo “Non voglio che pensino che stiamo insieme”.

Mi guarda così a lungo e con la faccia così confusa che per un secondo penso di averlo rotto, poi si piega in due e comincia a sghignazzare. “Mi hai messo cosa?!”.

Gli afferro un braccio nel tentativo di raddrizzarlo. “La pianti di fare casino! Attiri l'attenzione”.

Si asciuga gli occhi “Pensano che mi ha accalappiato?”.

“Già! La cosa ti fa ridere?”.

Annuisce con convinzione. “Certo! Nessuno e dico nessuno metterà mai questo stallone nella stalla”.

“Ti autodefinisci uno stallone?”.

“Le signore mi definiscono uno stallone. E comunque perché ti frega quello che pensano questi sfigati?”.

Alzo le spalle “Non lo so, perché magari è una bugia”.

Mi appoggia un braccio pesantissimo sulle spalle “Vedi, dolcezza, in questa scuola ci sono alcune persone incredibili, come me e te, e un sacco di persone noiose. Le persone incredibili fanno qualcosa di strano e fuori dal palloso ordinario e le persone noiose ci ricamano sopra. Inventano storie, aggiungono dettagli e fanno viaggiare le notizie, così che la loro vita pallosa brilli un po' come la nostra. Quindi quando sento qualche stronzata ci rido sopra, perché io e le persone che reputo importanti sappiamo la verità e a me basta”.

La sua filosofia di vita mi lascia un po' perplessa ma non ribatto, in fin dei conti non ha tutti i torti.

La sua mano calda mi scivola contro il braccio e il suo corpo si fa più vicino “E poi alimentare le loro storielle mi diverte da morire” avvicina la bocca al mio orecchio e il mio corpo reagisce rabbrividendo e cercando di allontanarsi.“E poi noi due sappiamo chi ti rende felice di notte, quando nessuno guarda”. Oh, non se ne parla. Non gli permetterò di fare i suoi giochetti su di me. Gli do un spintone in pieno petto e riottengo il mio spazio personale. Non è il suo corpo che voglio addosso. “Smettila di fare il cretino!”.

Lui si agita sulla sedia e ridacchia “Sei arrossita! Allora ti faccio scaldare, buono a sapersi”.

“Più che altro mi hai fatto venire i brividi, ti devo ribadire il discorso dello spazio personale?”.

Sospira e si sistema bene al centro del suo banco “Lo so, non c'è bisogno che ti ripeti. Comunque per me sei off-limits, le ragazze dei miei amici hanno i baffi”.

Mi rilasso contro la sedia. “Meno male, non vorrei doverti allontanare con una ginocchiata nei paesi bassi”. Lip e io funzioniamo bene come amici, non vorrei cambiare questa situazione per nulla al mondo.

“I miei paesi bassi sono un'opera d'arte!” ribatte offeso “Sono patrimonio nazionale, non puoi rovinarli”.

“Disgustoso” ribatto.

Savannah entra in classe seguita dall'arpia. Mi lancia un'occhiata quasi sorridente e si siede al suo posto.

“Sbaglio o Savannah ti ha appena sorriso?” mi bisbiglia Lip.

Negare. “Starà pensando a come farmi del male”. Non voglio che nessuno sappia che siamo arrivate ad un compromesso.

“Ti copro le spalle, dolcezza” borbotta imitando un saluto militare.

“Silenzio!” sbraita la strega dalla cattedra “Oggi c'è la consegna delle relazioni di coppia, le voglio impilate sul mio tavolo, muovetevi”.

Dalla gioia che sprizza di preannuncia una lezione meravigliosamente allegra.

 

 

L'ora di chimica scorre immersa nelle lacrime e nella disperazione. La Layosa decide di correggere le relazioni ad alta voce davanti agli studenti, il risultato è una strage di massa. Commenta e ride di ogni errore, si burla degli studenti e spara F a raffica. La nostra si becca una B- solo perché con me c'è Lip e la sua non è una A perché con lui ci sono io. In fin dei conti siamo quelli messi meglio. Per tutti gli ultimi venti minuti la professoressa si prende gioco di una ragazza che piange. Più le lacrime aumentano più la cattiveria si amplifica. Sembra di assistere alla tortura di un cucciolo indifeso. Vorrei intervenire ma non ho intenzione di finire nel mirino della sadica oggi.

Mi dirigo verso francese ancora turbata dallo sterminio. Mi siedo sovrappensiero al mio banco e neanche mi rendo conto che è arrivata l'ora migliore della giornata.

Aaron mi sfiora il braccio nudo “Jay...” la sua voce mi risveglia dal coma “Stai bene?”.

Mi giro a guardarlo e il mio cuore fa una capriola con doppio avvitamento. È bello in modi indescrivibili. Ha ancora i capelli un po' spettinati dalla nottata, la camicia che indossa gli valorizza le spalle e gli stupendi occhi verdi mi guardano con dolcezza. Vorrei mettergli le mani ovunque e vorrei sentire il suo corpo contro il mio. Vorrei che mi toccasse e che mi baciasse, ma devo aspettare che questa giornata lunghissima finisca prima.

Si china in avanti e abbassa la voce “Non puoi guardarmi così mentre siamo a scuola”.

Mi scappa un sorrisetto. “In che modo ti sto guardando?”.

“Nello stesso modo in cui mi guardi quando ti sfilo i pantaloni” deglutisce e mi guarda con intensità la bocca. “Affamata”.

Sì, lo sono, di lui. “Questa è la mia faccia normale”.

Scuote la testa “No, non lo è. È la tua espressione provocante”.

La Bernard entra in classe con una piroetta “Bonjour” scaraventa i fogli sulla cattedra e si gira a guardarci “Cominciate pure, buona conversazione”.

Ogni coppia si mette a parlottare in un francese sgrammaticato e Aaron e io faccio lo stesso. Mi appoggia la mano sulla coscia, fa scivolare il suo ginocchio contro il mio e fa vagare lo sguardo dal mio viso alla scollatura del vestito. E poi sono io quella che lo provoca.

Tra una frase scomposta e l'altra, Aaron abbassa il tono di voce e si china verso di me “Tu es superbe aujourd'hui (Sei bellissima oggi)” si asciuga i palmi contro i jeans “Sérieusement, je ne peux me concentrer sur rien”. (Seriamente, non riesco a concentrarmi su nient'altro).

La pronuncia e la frase corretta mi colgono di sorpresa. Lui fa un sorriso agitato e continua “D'ailleurs, que fais-tu ce soir?”(A proposito, cosa fai stasera?).

Sembra quasi che sia preparato un copione. “J'ai rien de prévu”. (Non ho impegni). Mi guarda un po' confuso confermandomi che sa solo quello che sta dicendo lui e che non si è trasformato magicamente in un genio del francese. Tutto ciò è terribilmente adorabile. “Non ho impegni” bisbiglio. Sorride e annuisce contento “Tu veux sortir avec moi ce soir?”. (Vuoi uscire con me stasera?).

Perché mi batte così forte il cuore? “J'adorerais”. (Mi piacerebbe molto).

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Capitolo 26
*** Aaron ***


Aaron

 

 

Non mi sono mai sentito così imbranato e umidiccio di sudore in tutta la mia vita. Mi asciugo le mani fradice sui jeans neri e tento di dilatare correttamente i polmoni. È ridicolo. Io non sbavo per le ragazze, non mi agito quando mi guardano e sopratutto non fatico per ottenere un appuntamento. Con Julianne è tutto così complicato. Lei sorride e il mio stomaco spolvera il pavimento. Si muove, alzando una nuvola del suo profumo, e il cuore mi galoppa senza freno nel petto.
J'adorerais” sospira. Non sono certo che sia un sì. Spero con tutto il cuore che sia un sì. Dalla mia espressione confusa capisce che non sono sicuro della risposta e allora continua “È un grosso sì”.

Oddio, grazie. Non credo che sarei sopravvissuto ad un rifiuto dopo tutta la fatica che ho fatto per imparare le tre frasi che le ho detto. Ho usato Google traduttore e ho cercato di imitare la pronuncia della signorina ma con scarsi risultati. Il sorriso dolce che mi regala mi conferma che ne è valsa assolutamente la pena.
Alors, qu'est-ce qui se passe ce soir?” domanda con delicatezza.
Oh, merda. E adesso? Non ho programmato nessun'altra interazione in francese. “Io..” balbetto. Julianne ridacchia “Ti prendo in giro. Dove mi porti stasera?”.
“Sarà una sorpresa, dovrai aspettare e trovarti un alibi per la serata” le faccio l'occhiolino.

“Un alibi? Hai intenzione di commettere un crimine?” ridacchia.

“Ti porto a rapinare una banca? Non è romantico?” chiedo con sarcasmo.

Julianne ride facendomi vibrare lo stomaco “Non vedo l'ora”.

Già, anche io.

 

 

“E quindi lei è scoppiata a piangere e la Layosa ha riso così forte che per un attimo abbiamo pensato che le sarebbe partito qualche bottone della giacca” spiega Julianne gesticolando mentre camminiamo verso la mensa. Lip sghignazza “Ti giuro, amico, avevo seriamente paura che la scopa che ha nel culo le partisse fuori a razzo”.

“Che scena raccapricciante” commento aprendo la porta a doppio battente.
“Sembrava di guardare un disastro aereo. È terrificante, ma non puoi smettere di guardare” esala Jay mettendosi in fila per il pranzo.

“A voi com'è andata?” chiedo afferrando un vassoio.

“B -” mi risponde e poi si gira verso Lip “Mi dispiace a proposito, senza di me magari ti sarebbe andata meglio”.
Lip sbuffa dal naso “Non ti preoccupare, dolcezza, va benissimo. Senza di te mi sarei annoiato a morte a fare la relazione” le fa l'occhiolino e lei ridacchia. Questa loro dinamica un po' mi infastidisce, non voglio mentire, ma la loro amicizia sembra rendere allegra Jay quindi me la faccio andare bene.

“Ancora niente di vegetariano, Dolores?” mugugna Julianne alla signora della mensa. Lei si sistema la cuffietta e le regala un sorriso comprensivo “No, zuccherino, mi dispiace. La presidentessa ha addirittura aumentato la quantità di carne settimanale”.

“E lo può fare?” domanda incredula.

Dolores annuisce con lentezza “Purtroppo sì. Lo sai se vuoi dei cambiamenti devi parlarne con lei”.

Jay annuisce scoraggiata “Lo so”.
Vedendo il suo faccino da cucciolo triste, Dolores si sporge in avanti “Facciamo così, zuccherino, domani ti preparo qualcosa di vegetariano solo per te, ma deve rimanere un segreto”.

Julianne le sorride da orecchio a orecchio “Dolores sei magica, grazie!”.

Dolores le fa l'occhiolino “Solo con te, zuccherino”. È incredibile come le persone la trovino fantastica, le basta sorride per accaparrarsi i cuori di tutti. In effetti lo ha fatto con me. Dolores le passa un piatto di insalata scondita, una pera e la bottiglietta dell'acqua. Jay la ringrazia e scorre in avanti. Quando abbiamo tutti da mangiare ci dirigiamo verso il nostro tavolo e ci sediamo. Matt e Ty ci raggiungono poco dopo seguiti da Peyton e Dottie. Il nostro gruppo è mutato in maniera radicale. L'anno scorso a questo tavolo erano ammessi solo giocatori di lacrosse e cheerleader. È tutto cambiato con l'arrivo di Julianne. Le ragazze seguono Jay, io seguo lei e i ragazzi seguono me e anche lei. Quindi è diventata il centro del nostro universo sociale, un po' come un sole bellissimo e meraviglioso intorno a cui noi tutti orbitiamo come pianeti.
“Allora, Pey, domani c'è la prima stampa del giornalino scolastico. Sei nervosa?” domanda Jay giocherellando con un foglia di lattuga grigiastra.

Pey sbuffa dal naso con forza e il ciuffo della parrucca fucsia le si scompiglia. Oggi è vestita in modo strano come al solito. Ha una gonna di jeans tutta stracciata e una giacca rosa che riflette le luci al neon della mensa. Sembra sempre uscita da qualche ricovero per matti ma lei porta il suo stile con fierezza ed è una cosa molto coraggiosa, sopratutto se si frequenta ancora il liceo.

“Lascia perdere” mormora sconsolata “I miei collaboratori sono scadenti e incompetenti. Il solito fotografo a cui facevo affidamento mi ha scaricato all'ultimo per scattare delle foto alle nuove divise delle cheerleader. Le foto per domani non sono pronte e di conseguenza non è pronto nemmeno il giornalino. Sono nella merda fino alle orecchie”.

Lip si raddrizza sulla sedia come un cane a caccia “Qualcuno ha espresso il disperato bisogno di un fotografo?”.

Peyton affonda la forchetta nella pasta “Ne conosci uno bravo?”.

Lip si indica “Lo hai davanti”.

Pey si gratta il mento e gli lancia un'occhiata alle spalle e intorno. “E dov'è?”.

“Spiritosa” mugugna Lip “Sono io il fotografo”.

Peyton emette uno strano suono, un incrocio tra una risata e un verso di scherno. “Fotografare sotto le gonne delle ragazze non ti da il titolo di fotografo”.

Philip incrocia le braccia contro il petto, gonfiando i muscoli. È un movimento involontario che fa quando si sente personalmente offeso. “Però a quanto pare vestirsi da stramba ti da il titolo di matta del villaggio”.

Peyton sussulta e stringe i denti.

“Philip!” sibila con violenza Matt.
“Okay, smettetela” si intromette Julianne “Siete due persone con due personalità molto forti e invece di affossarvi a vicenda dovresti aiutarvi a brillare. Forza, chiedetevi scusa”. Entrambi si girano a guardarla male. “Non fatemi alzare” gli intima puntandogli contro l'insalata.

Lip sospira con energia. “Va bene. Scusa, non volevo ferirti, ma hai cominciato tu”.

Peyton annuisce e gli porge la mano in segno si pace “Scuse accettate”. Julianne si schiarisce la voce con forza facendo sbuffare Peyton “Mi scuso anche io”. Si stringono la mano e la questione è chiusa.

“Lip fa davvero delle belle foto, dovresti dargli una chance” la informa Jay.

Peyton la osserva a lungo soppesando le sue parole e il suo giudizio, poi si gira verso Philip. “Va bene, puoi aiutarmi con le foto del giornalino, però prima voglio vedere il tuo portfolio”.

Lip addenta la carne e sorride “Andata”.

“Ottimo lavoro, Julie” commenta Matt. “Da quando sei così diplomatica?”.

“Ho passato due ore della mia vita a pulire stoviglie con Savannah e non ci siamo uccise a vicenda, quindi ormai credo chiunque possa andare d'accordo con chiunque”.
“Avevi a portata di mano degli oggetti affilati e non glieli hai piantati nella schiena? Così mi deludi, amica mia” borbotta Peyton sconsolata, facendo ridacchiare tutto il tavolo.

“Lo so, ho proprio perso un'occasione” acconsente.

Mangiamo in tranquillità finché il cellulare di Jay non vibra con forza contro il tavolo. Sullo schermo appare una foto di lei e suo fratello che la fa sorridere quando risponde. “Ehi, Hen. Dove sei finito?”. Il suo bellissimo sorriso sparisce oscurato da una smorfia bizzarra. Aggrotta la fronte ripetutamente, alza le sopracciglia e spalanca la bocca sorpresa. “Come fai ad avere il telefono ma non i pantaloni?”. L'urlo che scoppia dalla cornetta ci fa sobbalzare tutti. “D'accordo, piantala di fare la primadonna, arrivo. Sì, sto arrivando. Sì”. Conclude la telefonata, si alza e afferra la pera “Scusate, emergenza fraterna, ci vediamo all'uscita”.

 

 

 

L'emergenza fraterna si risolve prima dell'ultima campanella e i fratelli Roux riescono ad arrivare alla macchina prima che ad Andy venga una crisi isterica. Non ho proprio idea del perché ma in questo periodo è sempre di pessimo umore. È scontroso, irascibile e sempre sulle sue. Ogni volta che gli chiedo cosa succede, lui sbuffa e se ne va borbottando contro il mondo.

“Scusate il ritardo” bofonchia Henry avvicinandosi alla portiera. Non ha su gli stessi vestiti che aveva stamattina. Indossa una tuta sformata della squadra di lotta e una felpa chiaramente da donna.

Jay ha la faccia rossa, gli occhi lucidi e l'aria di chi si è appena sganasciato dalle risate.
“Ci vogliamo muovere? Meno sto in questo posto, meglio sto” farfuglia Andy spalancando la portiera con forza. Jay ed Henry salgono dietro, Andy davanti e io al posto di guida. Raggiungiamo casa velocemente, ma non abbastanza velocemente per Andy, e finalmente ognuno può rinchiudersi nel proprio spazio personale. April prova a farci delle domande sulla scuola ma le schiviamo tutte e saliamo nelle nostre camere. Henry ed io ci barrichiamo dentro così che lui possa togliersi quegli strani vestiti. April ha fatto delle domande a riguardo ma il risultato è stato solo far camminare Henry più velocemente.
“Se te lo chiederò non mi risponderai, vero?” chiedo cercando di non ridere.

Scalcia via i pantaloni con rabbia “No” abbaia.

“Va bene, vado da tua sorella” annuncio.

“No!” sbraita “Non puoi stare con lei, ho bisogno di Jules adesso. Rimandate le vostre effusioni a più tardi, ho bisogno di mia sorella”.

Ha l'aria disperata e stanca, ed è anche la prima volta che lo vedo così, perciò annuisco. “Certo, farò finta di studiare allora”.

“Grazie” sospira.

 

Nel tardo pomeriggio decido di smettere di fissare il libro di storia e di dare un'occhiata in giro. Cole è seduto in corridoio circondato da pezzi di cartone e scotch di carta. “Ehi bello, che fai?”.
“Un'arma spaziale” risponde appiccicando insieme due cilindri di cartone.

“Figo. Vuoi una mano?”. Sembra divertente e non ho assolutamente nulla da fare.

“No, grazie. Ho quasi finito” ribatte facendomi un sorriso riconoscente.
Speravo in un sì. “Come mai sei in corridoio?”.

“Andy mi ha cacciato dalla stanza, deve riflettere e io gli do fastidio con i miei versi spaziali” mormora facendo il verso ad Andrew. Se ha cacciato anche Cole deve essere proprio di cattivo umore oggi. Gli accarezzo la testolina impiastricciata di scotch e mi avvio verso la loro stanza. Da sotto la porta filtra una melodia tetra e malinconica. Busso e l'unica risposta è un borbottio infastidito. Afferro la maniglia e spalanco la porta. Andy è sdraiato sul pavimento con in mano la videocamera. Fissa lo schermo con aria triste e sconsolata.
“Cosa fai per terra?” chiedo.
Lui sbuffa e mi guarda storto “Ti avevo detto di non entrare”.

“Questa musica da funerale ha attutito la tua voce da funerale”.

“Simpatico” ribatte monocorde. Sfiora lo schermo con l'indice e sospira.

“Andy mi dici cosa cavolo ti succede?”.

“No”.

Mi innervosisco. “Perchè no?”.

Lui sospira “No”.

Oddio, che drammatico, vorrei strozzarlo. “Avanti, sono qui per ascoltarti”.

Sbatte con forza lo sportellino della videocamera. “Non sono affari tuoi, Aaron. Non hai nessun problema nella tua vita perfetta, perché diavolo vuoi accollarti i miei? Torna nel tuo mondo felice e lasciami in pace!” sbotta.

Il suo tono furioso e scocciato mi fa imbestialire. “Come ti pare! Quando la smetterai di piangerti addosso sai dove trovarmi”. Sbatto la porta e le pareti tremano.

“Cosa sta succedendo qui sotto? Cole cosa fai con il cartone? Aaron!” esala papà scendendo dalle scale che portano alla sua camera. “Aaron cosa succede?”.

“Cole costruisce una pistola spaziale, Andy maledice il mondo dal pavimento della loro camera e io mi sto chiedendo perché tu e mamma non vi siete fermati ad un figlio solo, avremmo molti meno problemi ora”.

“Aaron!” tuona “Invece di fare del sarcasmo perché non tenti di aiutarli?”.

“Cosa pensi che abbia appena provato a fare?” ribatto sempre più infastidito. Il suo tono saccente è anche peggio del tono depresso di Andy.

“A parte lamentarti, direi nulla” appoggia le mani sui fianchi e mi guarda deluso.

“Certo, vedi solo quello che vuoi, come sempre” bofonchio trottando verso le scale.
“Aaron stiamo parlando!”.

“No, tu parli, io me ne vado” scendo le scale prima che possa urlarmi contro di fermarmi. Raggiungo velocemente il garage e mi barrico dentro.

Che vita difficile. Certe volte mi chiedo in che situazione saremmo se mamma non fosse morta, se invece di essere una famiglia disfunzionale fossimo una famiglia perfetta.
Ron-Ron!” squittisce Liv facendomi sobbalzare “Vieni ad aiutarmi!”. È rannicchiata sul palco di legno che usiamo per le prove, è sporca dalla testa ai piedi e probabilmente sta combinando un guaio. Mentre le vado incontro la sensazione diventa una certezza. È completamente coperta di pittura e sta cercando di dipingere con dei pennelli che non sono i suoi, su una tela che non è di sicuro la sua. Tutto quello che sta usando ha un aria tremendamente familiare.

Oddio.

Julianne. Quelle sono le cose che Julianne utilizza per dipingere di notte. Oddio.
“Liv cosa hai fatto?” domando togliendole il pennello di mano .

“Faccio il pittore!” trilla allegra. Non ha idea di quello che ha appena combinato.

“Dove hai preso queste cose?”. So dove le ha prese, ma spero comunque in una risposta diversa.

“La camera di Julianne” ribatte sorridendo.

Oh santo cielo. “Le hai chiesto il permesso per usarle?”. Perché faccio domande se so già la risposta?

Olivia mi guarda vacua poi scuote la testa. “Dovevo?”.

“Quando vuoi qualcosa di qualcun altro devi chiedergli il permesso” le spiego.

L'allegria scompare e di colpo sembra tremendamente dispiaciuta. “Non dirglielo. Nascondiamo”.

“Non funziona così, ranocchietta, se combini un guaio devi chiedere scusa e dire che non lo farai più”.
“Dobbiamo proprio?”. Mi fa gli occhioni dolci cercando di dissuadermi. Diventerà una combina guai da grande, io lo so già. Farà strage di cuori, proprio come il suo fratellone.
“Mi sa proprio di sì” le allungo una mano “Coraggio, ti accompagno”.

 

 

Raccolte le prove del delitto risaliamo verso la camera di Jay. Lei ed Henry sono seduti sul suo letto con le gambe per aria appoggiate contro la testiera del letto e con i sederi sul cuscino. Parlottano e sgranocchiano patatine piccanti. Lui sembra rinvigorito ed è di nuovo rilassato e solare. Aveva davvero bisogno di sua sorella.

Busso sullo stipite della porta “Si può?”.

Si girano verso di noi e Jay mi regala un sorriso da capogiro. “Entrate”.

Liv ed io avanziamo e loro due si mettono seduti bene.
“Cosa ti è successo?” domanda Henry verso Liv.

Lei arrossisce e prova a nascondersi dietro la mia gamba. “Hai promesso di essere sincera, forza Liv” la spintono con dolcezza verso Jay.

“Mi dispiace” piagnucola “Ho giocato con i colori e non ho chiesto il permesso”. Le passo le cose che ha usato e il sorriso di Julianne scompare. Ha la bocca spalancata e le trema il labbro “I miei colori preferiti...Come...? Cosa hai fatto...?” balbetta sfiorando i tubetti completamente vuoti. “ Hai rovinato i miei colori e il mio pennello!” sbotta facendo piangere del tutto Liv.
“Jules!” le sussurra con forza Henry “È solo una bambina”.

Consapevole di non potersi arrabbiare, cambia espressione e la prende in braccio. Se la tira in grembo con un movimento fluido e la circonda con le braccia. “Quelli erano i colori che il mio papà mi aveva regalato per il mio compleanno, erano molto importanti per me, lo capisci?” domanda accarezzandole la testolina sporca di rosso. Liv annuisce tra le lacrime. “So che non lo hai fatto di proposito e che volevi solo colorare, perciò non preoccuparti. La prossima volta che lo vuoi fare, me lo chiedi e te li do io, okay?” le asciuga le guance umide con il pollice e sorride affettuosamente. Sento uno strano pizzicore alla bocca dello stomaco. Il modo in cui coccola Liv mi fa sentire il cuore nella pancia.
Liv le affonda la faccia nel collo e annuisce abbracciandola. “Mi dispiace” mugugna.

Jay le accarezza piano la schiena “Lo so, tranquilla, non piangere”.

Liv tira su con il naso e la guarda tutta rossa in volto. “Facciamo così” propone Julianne “La prossima volta che vuoi dipingere lo facciamo insieme, che ne dici?”.

Liv annuisce con entusiasmo “Sì!”.

“Ottimo. Ora perché non mi firmi questo capolavoro” le passa la tela pasticciata “Lo posso tenere?”.

Liv ritrova il sorriso e afferra il pennello che le sta porgendo “Certo!”. Firma il disegno astratto e tutta contenta torna in camera sua.

 

 

Verso le sette faccio la doccia, indosso la mia camicia preferita, i jeans strappati e le sneakers. Mi inzuppo di profumo, afferro il portafoglio, le chiavi ed esco dalla stanza. Nello stesso momento Julianne esce dalla sua. Nell'instante in cui si gira, il tempo si cristallizza e mi sembra di star vivendo un sogno. I suoi capelli fluttuano nell'aria, il vestito rosso le svolazza intorno alle gambe e la luce della sera la illumina. Mi sorride e tutto sembra così poco colorato in confronto a lei. Il vestito che indossa le sta meravigliosamente. Ha le maniche e lo scollo di pizzo trasparente, il corpetto stretto e la gonna corta e fluttuante. Non credo di aver mai visto nulla di più bello in vita mia.

Ho la bocca secca, l'aria non mi entra correttamente nei polmoni e mi ritrovo a tossire cercando di ingoiare la saliva. La mia reazione esagerata la fa sorride il doppio e la cosa non mi aiuta.

“Sei bellissimo anche tu” sussurra.

Faccio un passo avanti con l'intenzione di toccarla, ma mi rendo subito conto che non sarebbe una grande idea, perciò mi fermo a metà del passo con la fame negli occhi. Julianne si agita sulle gambe e mi guarda con la medesima intensità. “Dopo” esala per poi voltarsi verso le scale. Lascio che scenda per prima e aspetto qualche minuto prima di fare altrettanto. Sento la voce altissima di April che le dice che è bellissima e le fa domande su i suoi programmi per la serata.
Scendo le scale lentamente e entro in salotto fingendo di non avere un piano segreto.
“Oh, Aaron” tuba April “Sei proprio un figurino stasera. Anche tu hai dei bei programmi per la serata?”.

“Esco con Lip, nulla di speciale” mormoro con poco entusiasmo. Lip è la mia copertura e lo sa, perciò deve evitare il mio quartiere e le zone in cui potrebbe incontrare papà o April.
Julianne infila la giacca di pelle “Io vado, devo avviarmi o non arriverò mai in tempo”.

“Vai a piedi da sola?” chiede papà dalla poltrona.

Lei fa spallucce “La casa di Peyton non è lontana”. Pey è la sua copertura, non le ha detto con chi esce ma lei ha accettato comunque di coprirla.

“È lontana invece. Forse è meglio se ti accompagno in macchina, non si sa mai” si offre papà ripiegando il giornale.
“Magari potrebbe accompagnarla Aaron” si intromette April “In fondo è di strada, giusto?”.

Sta andando tutto come previsto, perfetto. “Sì, va bene” affermo.

April batte le mani contenta “Perfetto. Divertitevi, mi raccomando”. Oh, su questo puoi giuraci.

“Tornate per il coprifuoco. Julianne se non hai un passaggio, chiama e ti vengo a prende” le intima papà.

“Certo” assicura lei.

In qualche modo schiviamo le precauzioni e gli avvertimenti e riusciamo a guadagnare la porta. Saltiamo in macchina e quando siamo abbastanza lontani accosto. Julianne mi salta addosso prima che io possa fare lo stesso con lei. Mi stringe le braccia intorno al collo per poi chinarsi e baciarmi con lentezza le labbra. Le passo le dita sulla stoffa del vestito e contro la pelle soffice. Le stringo le mani sui fianchi e approfondisco il bacio lasciando che mi passi le dita tra i capelli appena pettinati. La sensazione è così paradisiaca che non mi interessa minimamente se mi sta spettinando. Le accarezzo la schiena alla ricerca della zip del vestito e quando la trovo, provo a tirarla. “Fermo” mugugna contro le mie labbra. Si stacca dal bacio e mi guarda intensamente “Per quanto mi piacerebbe che mi sfilassi subito il vestito, abbiamo dei piani”.

So che ha ragione, è che sento il disperato bisogno di toccarla in continuazione. “Hai ragione, meglio andare” le accarezzo la pelle liscia della guancia. Lei chiude gli occhi e sospira. Prima di scendere dalle mie gambe mi avvicina le labbra all'orecchio “Quando torniamo a casa potrai sfilarmi tutto quello che vorrai” mi scocca un bacio veloce e torna sul suo sedile.

 

 

Guidare per mezz'ora mentre si è terribilmente eccitati, perché la tua stupenda ragazza continua ad accarezzarti e a sfiorarti, non è assolutamente facile. Vorrei dirle che se continua così ci schianteremo contro il prossimo palo, ma non voglio che smetta. La sensazione delle sue dita sulla pelle è così piacevole che non mi interesserebbe di colpire un muro, morirei felice.
“Ci siamo quasi” la avviso quando sorpassiamo il cartello che annuncia l'ingresso a West Jordan. Per stare insieme in un ristorante carino siamo dovuti andare nella città vicina, è così ingiusto.

“Com'è West Jordan?” domanda giocherellando con uno strappo dei miei jeans.

“È molto simile ad Orem, solo un po' più grande. Qui sono sicuro che non incontreremo nessuno che conosciamo”.

Osserva il paesaggio mentre attraversiamo la città “Come mai?”.

“Tra Orem e West Jordan c'è una strana faida dovuta alle squadre sportive dei licei. Durante i campionati scoppia sempre qualche rissa tra i tifosi e ogni anno ci facciamo un sacco di scherzi a vicenda, anche poco piacevoli. Quindi è difficile beccare qualche nostro coetaneo qui” spiego guidando verso il ristorante.

“Mi sa che prendete lo sport un po' troppo sul serio”.

“Il lacrosse è una religione” mormoro serio facendola ridacchiare.

“Qual è il programma per la serata?” chiede sorridendo curiosa. Adoro quando fa quella faccia.

“È una sorpresa, quindi non farmi gli occhioni dolci perché sono irremovibile” sentenzio.
Jay sbuffa ma non prova a ribattere. So che è curiosa, ma ho organizzato la serata nel dettaglio e voglio che sia tutto magnifico.

Intravedo l'insegna del ristorante, giro a sinistra e mi infilo nel parcheggio. “Siamo arrivati. Resta seduta”. Smonto dalla macchina, faccio il giro e con eleganza le apro la portiera e le porgo la mano. Julianne ride e arrossisce “Che galantuomo, grazie”.

Raggiungiamo mano nella mano l'ingresso del ristorante e quando entriamo lei resta senza fiato. Ho scelto il posto pensando a lei.
“Un ristorante vegetariano?” mi guarda con gli occhi che luccicano “Non dovevi sacrificarti per me, potevamo mangiare una pizza”.

Le stringo le braccia intorno alla vita. “Assolutamente no, voglio il meglio per la mia ragazza”. Poterlo dire ad alta voce lo rende ancora più incredibile. E immagino che sia lo stesso per lei perché mi attira verso di lei e mi divora. Non ci importa di essere all'aperto. Non ci interessa se qualcuno ci vede. Qui non siamo nessuno e non conosciamo nessuno. Possiamo essere ciò che vogliamo e in questo momento siamo una coppia come le altre.

Il cameriere si schiarisce la voce con forza, facendoci staccare di colpo. “Avete prenotato?” domanda con un finto sorriso di cortesia.

“Sì” ribatto con voce roca “Aaron, per due”.

“Da questa parte” annuncia indicandoci di seguirlo. Il locale è anche più bello di quello che sembrava dalle foto su internet. È fatto interamente di mattoni rossi e legno scuro, poco lavorato, con le luci soffuse e diverse fontane di pietra che zampillano acqua. Al soffitto sono appesi dei drappeggi di tela bianca e dei vasi da cui spuntano dei fiori colorati. Ogni tavolo è separato e appartato dagli altri grazie a dei separé di bambù verde. Julianne si guarda intorno e sorride ad ogni dettaglio che scopre. È estasiata e la cosa mi rende felicissimo.

“Ecco il vostro tavolo” annuncia il cameriere “Torno subito con il menù”. Noi ci accomodiamo e il cameriere torna come promesso. Ci lascia le liste e sparisce tra i bambù. “È davvero bellissimo questo posto” esala sorridendo.

“Sono felice che ti piaccia”. Lo sono davvero.

Quando siamo pronti ad ordinare, il cameriere che dalla targhetta sembra chiamarsi Tom segna i nostri piatti e ci porta da bere. Ogni volta che ci porta qualcosa, guarda un po' troppo a lungo Julianne facendomi innervosire. Lei però non lo nota nemmeno, mi guarda e sorride in continuazione. È bellissima.

I nostri piatti sono strani e tremendamente colorati, mangio guardingo il mio tofu al forno con verdure per poi scoprire che non è affatto male. Parliamo, ridiamo e ci scambiamo forchettate di cibo. Mi racconta un sacco di cosa sulla sua vecchia vita e io la guardo mentre le due candele bianche la illuminano nella penombra, chiedendomi come avessi fatto prima del suo arrivo.

 

A cena conclusa, bisticciamo davanti a Tom su chi dovrebbe pagare il conto. Lei tira in ballo i diritti delle donne e la parità dei sessi e il cameriere ci osserva preoccupato. In qualche modo riesco a tenerla ferma e a passare i soldi a Tom e posso a pagare io il conto.

Fuori dal ristorante continua a lamentarsi che non è giusto e io la corrompo riempiendola di baci. In macchina ci mettiamo venti minuti a ripartire perché non riusciamo a smettere di baciarci. Quando finalmente riesco a mettere in moto, ci dirigiamo verso la seconda parte del nostro appuntamento.

Le luci e il rumore le fanno capire dove ci stiamo dirigendo prima che ancora di arrivarci “Mi stai portando al luna park?” chiede estasiata.

Rido “Sì, quello ad Orem sarà tra due settimane e insieme non potremmo andarci, così ti ho portata qui. Non dirlo in giro ma quello di West Jordan è molto meglio del nostro”.

Quando parcheggio nello spazio, Julianne salta giù dalla macchina prima ancora che abbia spento il motore. Saltella eccitata e mi tira per la mano verso l'entrata. Sembra una bambina la mattina di Natale, è adorabile.

Ignorando le mie proteste paga lei l'ingresso e mi trascina nel prato. Le luci delle giostre risplendono contro il cielo nero e l'odore di zucchero filato e caldarroste ci riempie le narici. Mi fa salire su tutte le giostre, su ogni montagna russa e su ogni autoscontro. Quando ci viene la nausea ci dirigiamo verso la zona del tiro a segno. Mi fa gli occhioni dolci finché non mi arrendo e provo a vincerle un orrendo coniglio viola di peluche. Faccio così tanti tentativi che tanto valeva che glielo comprassi in un negozio, ma alla fine riesco a vincerglielo sparando con uno strano fucile contro delle anatre di carta. Quando il negoziante glielo passa, lei lo afferra lo stringe come se fosse un coniglietto vero. Lo porta in braccio per tutto il parco e sorride a tutte le bambine che la guardano invidiose.

La sua attenzione viene poi catturata dal venditore di zucchero filato che le fa rifare quella faccia da cucciolo abbandonato e desideroso di zucchero filato e io non riesco a resistere.

Nell'attimo in cui finisce di divorare la nuvola rosa, la sua attenzione viene nuovamente catturata dal Carrousel. Mi tira verso che cavalli luccicanti che girano a ritmo di musica lenta. Sale in groppa ad un cavallo bianco con le bisacce rosa, fregandosene della gonna. Io resto fuori, in piedi vicino alla piattaforma di legno. La giostra comincia a girare e Julianne emette un gridolino di felicità. Mi sorride stringendo le redini di stoffa rovinata e dentro di me si muove qualcosa. Una sensazione bollente mi attraversa lo stomaco fino ad arrivare al cuore. Una rivelazione che mi fa arrivare ad una conclusione certa: mi sono innamorato di lei.

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Capitolo 27
*** Julianne ***


Julianne

 

 

Seguo le bollicine di ossigeno che fluttuano verso la superficie con la punta del dito. La luce fosforescente della vasca mi illumina e mi scalda la pelle. Le piante di plastica ondeggiano seguendo la lenta corrente creata dai pesci. Sento i collant tirare all'altezza del ginocchio, dove stamattina le ho strappate con il bordo del banco di dibattito. Non è stata del tutto colpa mia, Aaron continuava a sfiorarmi e la cosa ha leso la mia concentrazione e la mia capacità di movimento.
“Ti ho fatto una domanda, Julianne. Vuoi davvero ignorarla?” chiede la dottoressa Dawson alle mie spalle.
Amelia, il pesce giallo e nero con cui ho stretto una strana amicizia, da un colpetto con la bocca nel punto in cui ho appoggiato il dito. L'ho chiamata così in onore di Amelia Earhart, la prima donna che attraversò in volo gli Stati Uniti. La pesciolina me la ricorda molto. Nuota contro corrente, sfida tutti gli altri pesci per il cibo ed è quella che si avvicina di più al filtro dell'acqua.
Smetto di giocare con la mia amica acquatica e mi siedo bene sul divano scuro. “Qual'era la domanda?”.

Lei sospira cercando di celare un sorriso. “Se non avessi fatto la tua promessa, avresti ricominciato a far uso di droga dopo l'overdose?”.

Mi piace che non usi giri di parole. “Sì, assolutamente”.
Non batte ciglio, inclina la testa in avanti invitandomi a continuare. Mi ha trovata in una giornata particolarmente buona, forse dipende dall'appuntamento della sera precedente oppure sono semplicemente di ottimo umore oggi. “Insomma, la vita da tossico è dieci volte più semplice di quella di una persona normale”.
“Perchè lo credi?”.

Giocherello con il filo della calza “Non lo credo, lo so. Prima che smettessi di farmi la vita era leggera come un palloncino. Ero fuori dal mio corpo venti ore su ventiquattro e le altre le passavo a fare festa e a bere. Non pensavo a nulla, non mi importava di nulla. Una volta mi sono svegliata pensando che fosse domenica pomeriggio e invece era martedì mattina e io sarei dovuta essere a scuola. Ma invece sa cosa ho fatto?”.

La dottoressa annota qualcosa sul taccuino scuotendo la testa “Cosa hai fatto?”.

“Sono andata con Jared a Tijuana a giocare al casinò”.

Mi guarda a lungo. “Ti va di parlarmi di lui?”.
“Di Jared?” domando inutilmente. So già quale sarà la risposta.

Lei annuisce. “Lo hai nominato un paio di volte ma non abbiamo mai affrontato il discorso. Se te la senti vorrei parlarne”.
Parlare di Jared è come infilarsi dei carboni ardenti sotto le unghie. Ha lasciato una cicatrice sul mio corpo che non si rimarginerà mai. Non vorrei farlo ma la dottoressa Dawson sembra molto interessata all'argomento, come se fosse una cosa importante di cui parlare. “Va bene” sussurro.
Sorride orgogliosa “Vuoi parlarne tu o vuoi che ti faccia delle domande?”.
“Domande”.

Appoggia il taccuino sul tavolo in mezzo a noi e si china in avanti, cercando di far sembrare la conversazione il più possibile privata. “Okay. Come lo hai conosciuto?”.

“Me lo ha presentato Skylar ad una festa”.
“Chi è Skylar?”.

“Non c'è una sola risposta a questa domanda” sbuffo “Skylar è la persona più complicata che abbia mai conosciuto. Alcune giorni è solare e scatenata, altri giorni rimane sdraiata sul pavimento per ore. È capace di raggirare tutti gli uomini che la avvicinano e allo stesso tempo si lascia fregare da un tossico che dice di amarla e che invece la tradisce di continuo. È la donna più furba e più spigliata del pianete, ma davanti allo sguardo deluso del padre diventa di gelatina. È stata la mia roccia e anche la mia peggior nemica”.

“Sembra una persona molto difficile con cui avere a che fare” sentenzia “Come l'hai conosciuta?”.
“Ci siamo incontrate ad una festa di un tizio del mio liceo. Ero all'inizio del mio periodo buio ed ero ubriaca fradicia. Un ragazzo di cui non riesco a ricordare il nome ha cercato di sfruttare la mia situazione poco lucida per divertirsi senza fatica e Skylar gli ha spaccato una lampada sulla testa. Lo ha messo al tappeto e mi ha portata via. Quando mi sono ripresa dalla sbornia ero nel suo monolocale e lei si stava prendendo cura di me. Quando le ho chiesto il perché lei ha detto solo una frase”.

“Cosa ha detto?”.

Le ragazze sperdute si aiutano a vicenda”.

“Cosa le ha fatto credere che voi due foste simili?”

“Non lo so, forse perché le nostre storie familiari sono simili. Comunque siamo diventate subito amiche e grazie a lei ho conosciuto Jared”.
“Come era legata a Jared?” domanda.
Sospiro. “Era una delle sue spacciatrici di basso rango. Vendeva solo erba e solo ai fessi alle feste. Ho scoperto molto dopo che la loro relazione era un po' più complicata di quanto mi avesse detto”.

“Complicata quanto?”. Abbasso lo sguardo e chiudo la bocca. A questa domanda non ho intenzione di rispondere. Lei lo intuisce e cambia soggetto. “Perchè te lo ha presentato?”.

“All'inizio credevo che mi avesse trovata come possibile spacciatrice, poi le cose tra me e Jared sono diventate intime e sono diventata la ragazza del suo capo. La nostra amicizia ha iniziato ad incrinarsi da quel momento in poi”.
“Ne sei dispiaciuta? Ti manca Skylar?” chiede curiosa.
“Ora, ripensandoci, immagino che se avessi gestito la situazione in modo diverso saremmo rimaste amiche per sempre. Forse. Non lo so, io e lei siamo troppo simili per essere sicura della risposta”.
“E in quel momento?” domanda.

“Cosa?” chiedo confusa.
“Hai detto che ora avresti gestito la situazione in modo diverso, ma allora cosa hai fatto? Perché non hai girato i tacchi e non te ne sei andata?”.

Mi sporgo verso di lei per guardarla meglio in faccia. “Ha mai conosciuto qualcuno così disarmante e affascinante da portarle via qualsiasi capacità di giudizio?”. La dottoressa annuisce piano e io continuo. “Jared non mi ha dato nessuna possibilità di scelta, mi ha vista e ha deciso che sarei stata sua. Nessuno aveva le capacità per impedirlo, nemmeno io”.

 

Cammino verso l'aula di studi sociali come uno zombie. La conversazione su Jared e Skylar mi ha succhiato via tutte le energie e sono stremata. Portare verso la superficie così tante emozioni mi rende nervosa e stanca come dopo un mese di notti insonni. Vorrei raggomitolarmi in una stanza buia, ma se non vado a lezione finirò nei guai.
L'aula in cui entro è il peggior incubo di qualsiasi adolescente timido e che odia le interazioni alunno-insegnate. Naturalmente l'ho detestata dal primo istante in cui ho iniziato il corso. È una stanza simile a quelle di arte, ha finestre alte ed è molto ariosa. I banchi sono collocati in un semicerchio enorme in cui riesci a vedere tutti in faccia. Se devi intervenire devi alzarti e parlare al centro del cerchio. Non avendo qualcuno davanti non hai nessuno posto dove nasconderti.
La professoressa Stuart non è male, è dolce e sempre sorridente. Ha la pelle color cacao, i capelli ricci e scuri e gli occhi nocciola. Porta sempre dei vestiti lunghi fino alle ginocchia e pieni di fiori colorati. L'unico difetto che le si può attribuire è che è la madre di Nicole. Per il resto è perfetta.
Scivolo nel mio banco e stiracchio le gambe verso il centro del semicerchio. Avrei preferito saltare questa lezione e andare dalla dottoressa Dawson, ma è uno dei pochi corsi che faccio con Aaron e non mi andava di perdermelo, nemmeno se è una tortura cinese.

Sento la sua risata prima di vederlo entrare dalla porta. Mi sorride facendo fremere ogni atomo del mio corpo e facendomi andare a fuoco la faccia. È bellissimo. I jeans scuri e il maglione grigio topo lo fanno sembrare un modello. Dal colletto gli spunta un succhiotto che continua giù lungo il pettorale. Lo so perché sono stata io a farglielo. Ieri sera quando siamo tornati dal fantastico appuntamento, abbiamo parlato e ci siamo coccolati un sacco. Anche se non è stata l'unica cosa che abbiamo fatto.
Si siede nel banco accanto al mio, appoggia con noncuranza il braccio sul mio schienale e si piega verso di me. “Ehi” sussurra. Bastano tre lettere per mandare il cortocircuito il mio cervello e farmi dimenticare del mondo che ci circonda. “Come va?”.
“Bene” farfuglio “Sto bene”.
Sorride di nuovo e prima che possa aggiungere altro, Lip si scaraventa sulla sedia vuota dall'altro lato. “Ciao, dolcezza” trilla allegro.
“Lip” saluto.
La professoressa Stuart entra in aula carica di fogli e con indosso un bell'abito nero con i fiori rossi e gialli. “Buongiorno, classe!” squilla con entusiasmo “Oggi sarà una lezione un po' speciale”. Scaraventa i fogli sul tavolo e li sistema in delle pile. “Voglio iniziare il primo progetto di gruppo dell'anno. Siccome gli argomenti che ho raccolto sono parecchi, vi chiedo di dividervi in gruppi da tre”.

Prima che possa dire qualsiasi cosa, Lip e Aaron appoggiano le braccia sul mio banco marcando il territorio. Che cafoni. “Neanderthal. Io non ho possibilità di scelta?” borbotto a bassa voce.
“No” affermano all'unisono.

Meraviglioso.
“Sulla cattedra disporrò delle ricerche su gli argomenti che potete scegliere” continua la professoressa “Alla lavagna vi riporto i vari temi, dovete scrivere sul foglio che farò girare il nome dei partecipanti al gruppo e l'argomento scelto”. Porge il foglio alla prima ragazza della fila. “Tra due settimane esporrete l'argomento con ricerche più approfondite che dovrete svolgere a casa e a lezione. Chi lo desidera può abbellire l'esposizione con presentazioni al computer e cartelloni”.

Mentre parla fa scorrere velocemente il gesso sulla lavagna. Gli argomenti che ci propone sono tutti riguardanti la sanità e le leggi che la riguardano. I ragazzi e io scegliamo di parlare della sanità nelle scuole e ci segniamo sul foglio che gira.
Non ho idea di come far funzionare questo gruppo, ogni volta che Lip scherza con me Aaron si irrigidisce e diventa scontroso. Sarà una lotta farli stare tranquilli.

 

 

 

Nel pomeriggio mi ritrovo a dover sovrastare tre voci diverse che tentano di primeggiare e di avere ragione. Lip, Matt e Aaron discutono così forte che le pareti del garage tremano. Ty e io assistiamo alla scena cercando di non finire nella rissa.
“Io l'ho detto dall'inizio che sarebbe stata una pessima idea!” sbraita Matt puntando in aria un dito accusatore.
“Lo sappiamo tutti che hai problemi di autostima, Matt!” ribatte Lip sbattendo la bacchetta contro il muro.
“Non puoi criticare gli altri se sei il primo ad essere un casino!” lo rimprovera Aaron.
“Io almeno io non mi credo il Dio della musica sceso in terra!” lo critica Lip.

“Io non mi credo il Dio della musica!” tuona Aaron.

“Ti credi il Dio di tutto il resto, però” lo rimbecca Lip.
“Io non mi credo il Dio di niente!” ribatte con forza Aaron.
Matt fa l'errore di cercare di reprimere una risata e Aaron smette di spalleggiarlo. “Almeno non mi fustigo con il filo spinato ogni volta che papino mi dice che sono stato un bimbo cattivo”.
Matt stringe i denti con forza e la vena sul collo si gonfia come un pallone. “Almeno mio padre mi presta attenzioni”.

“E con questo cosa vorresti insinuare?” esplode Aaron.
È ora di intervenire. Faccio segno a Ty di tapparsi le orecchie, avvicino il microfono accesso alla cassa e un fischio doloroso riempie la stanza facendoli smettere. Imprecano all'unisono e mi guardano infastiditi. “La dovete smettere” sentenzio “Siete una band e una squadra, questo modo che avete di darvi la colpa a vicenda dei problemi finisce ora. Chiedetevi scusa, forza”.
Mi guardano scettici e nessuno si muove o parla. “Siete diventati sordi? Sono il vostro coach e finché non fate la pace, da questa stanza non esce nessuno”.

“Ma abbiamo una partita stasera” mi fa notare Aaron.
Gli do fuoco con lo sguardo “Non mi interessa. Forza!”.
Matt sbuffa contro il pavimento “Mi dispiace di aver detto quello che ho detto. Non lo pensavo”.

“Dispiace anche a me” aggiunge Aaron.
“Idem” bofonchia Lip.
Finalmente. “Bravi i miei bambini” sorrido “Ora ditemi con calma cosa non va”.
“Siamo troppo indietro” spiega Matt “Abbiamo troppe poche canzoni, non possiamo creare una scaletta con due brani miseri. In due mesi non riusciamo a creare abbastanza pezzi, non riusciremo mai a passare le selezioni del contest, ci conviene gettare la spugna”.
“È davvero quello che volete?” chiedo.

“Ovviamente non lo è!” brontola Lip “Non vogliamo arrenderci, ma non siamo abbastanza creativi per spiattellare dieci brani come si deve in così poco tempo”.
Mi si spezza il cuore a vederli così abbattuti e senza speranza. Non so cos'è che mi fa parlare, probabilmente gli ormoni, ma nel giro di un secondo dalla bocca mi esce una stronzata epocale. “Magari posso prestarvi qualche mio testo”.
Mi saltano addosso contemporaneamente e mi trapanano le orecchie con ringraziamenti e frasi smielate. “Fermi!” sbraito cercando spazio “La musica dovete crearla voi però, io vi regalo solo le parole”.
“Grazie Julie!”.
“Sei unica, dolcezza”.
“Conserva i salamelecchi per qualcuno a cui piacciono” brontolo allontanandomi da tutti quegli apprezzamenti. “I testi non sono perfetti, dovremmo sistemarli insieme”.
“Magari puoi lavorarci con Tyson, lui è il più bravo con le parole” suggerisce Matt.
Lo guardo. “Per te va bene?”.
Lui annuisce lentamente senza mormorare una sillaba. Cazzarola. Sarà davvero un'impresa.

 

 

“Sei meravigliosa, lo sai vero?” mugola Aaron tra i miei capelli. Il suo respiro vicino all'orecchio mi infiamma lo stomaco come del gasolio. Mi passa le braccia intorno ai fianchi e mi stringe contro il suo corpo.
Smetto di sistemare l'armadio e anche di respirare. “Ovviamente, ma a cosa devo l'onore?” ridacchio girandomi verso di lui.
Appoggia la fronte contro la mia facendoci finire tra i vestiti. “Ci lasci usare i tuoi testi e so che è un sacrificio enorme per te, quindi sei meravigliosa” mi bacia la punta del naso “Lo eri anche prima, naturalmente. Non smetterai mai di stupirmi”. Gli allaccio le braccia al collo passandogli le dita tra i capelli e lui si appropria delle mie labbra. Mi bacia con intensità, come se non volesse fare altro nella vita e stringendomi come se non volesse più lasciarmi andare. Scivoliamo sempre di più tra i vestiti e io vorrei disperatamente sfilargli i suoi. Purtroppo per noi, lui non ha affatto tempo.
“Aaron!” tuonò suo padre “Sei pronto? Non vorrai fare tardi!”.
Ci staccammo istintivamente al suo della sua voce. Aaron si affaccia fuori dall'armadio “Arrivo”. Poi si rigira verso di me “Vieni alla partita stasera, vero?”.
Annuisco con convinzione. “Ovviamente, non potrei mai perdermela”.
Mi bacia di nuovo e finisce di nuovo troppo presto. “Ci vediamo dopo”. E detto ciò scappa fuori dall'armadio e sparisce.

 

 

Riesco ad appropriarmi delle chiavi della macchina della mamma e a portare me ed Henry alla partita di lacrosse di Aaron. Andy e Cole preferiscono viaggiare insieme a noi che al loro padre e mia madre. Li capisco benissimo, le loro dinamiche di coppia fanno venire i brividi a me, figuriamoci a loro due. Liv è l'unica che sembra non avere problemi, anche se l'altro giorno l'ho sentita chiamare mia madre mamma. Non credo che capisca a pieno la situazione che stiamo vivendo.
Mi fermo nel parcheggio denso di macchine e smontiamo. Liv e Cole hanno preparato uno striscione di incitamento per Aaron, Andy indossa la sua vecchia maglia e Jim porta un capellino della squadra tutto logoro.

Macchie oro e blu ci vorticano intorno, tifosi sovreccitati sghignazzano ed esultano. Ero andata ad alcune partite del mio vecchio liceo, ma nessuna è mai stata così. Sembra di essere ad un vero stadio, con veri giocatori e veri tifosi.
“All'anima dello spirito sportivo” commenta Henry al mio fianco.
Mamma ridacchia. “Quando giocano le tigri blu del lacrosse è sempre così, sono delle celebrità”. Non immaginavo a questi livelli. Seguiamo il mare di folla che si muove verso il campo e gli spalti. Saliamo i gradoni di metallo e ci sediamo sulle panchine di plastica. L'aria fredda dell'autunno che si avvicina ci soffia contro con impeto. Peyton e Dottie intercettano il mio sguardo e mi fanno segno di avvicinarmi. “Vado a sedermi con le mie amiche” annuncio. “Vuoi venire, Henry?”. Lui annuisce e mi segue tre file più in basso. Ci sediamo tra le ragazze. “Ciao!” trilla Dottie stritolandomi tra le braccia. “Ma che freddo che fa stasera” commenta stringendosi nella giacca di jeans.
“Io sto bene” ribatte Peyton agitandosi nel suo maglione peloso e arancio. Ad esso ha abbinato dei pantaloni a zampa di elefante color lime e delle zeppe gialle.
“A che ora siete arrivate per avere dei posti così vicini?” domanda Henry.
“È uno dei vantaggi ad essere la figlia dell'allenatore” spiega Pey “E poi lavorando per il giornalino mi tengono un buon posto per scrivere l'articolo sulla prima partita dell'anno”.

Il telefono mi fa vibrare la tasca della giacca. Lo tiro fuori e leggo il messaggio di Aaron. Tieni gli occhi verso il campo, bimba, il primo punto lo dedicherò a te.
Sospirò con così tanta forza che si girano tutti e tra a guardarmi. “Che freddo” mento facendo accigliare Henry.
Dagli altoparlanti parte una canzone pop e le tribune si zittiscono di botto. “Ed ecco a voi il puttan-show” gracchia Peyton sarcastica. Un secondo dopo il suo commento, un branco di cheerleader eccitate e poco vestite raggiunge il centro del campo tra urletti e saltelli. Giselle e le sue amiche si posizionano e, quando la seconda strofa della canzone parte, loro cominciano il loro numero. Saltano, scuotono il sedere ed agitano i pompon. Si afferrano a vicenda, fanno capriole e scuotono di nuovo i pompon. Il pubblico le incita e urla insieme a loro. Il loro balletto finisce quando le ragazze creano una piramide pericolante e Giselle è in cima sorridente e raggiante. Qualcuno dovrebbe spingerla di sotto.
“Sarebbe davvero bello dare un colpetto alla ragazza più in basso e guardarle precipitare una ad una” brontola Peyton beccandosi una gomitata da Dottie e un'occhiataccia da una mamma.

Ridacchio “Concordo”.
Giselle raggiunge la mascotte a forma di tigre e afferra il megafono che le sta porgendo. Non so di chi sia sta quest'idea ma non mi piace affatto.
“Chi vincerà stasera?!” grida al pubblico.
“Tigers!” grida la folla.

Il pubblico della squadra avversaria innalza un coro di insulti e Giselle urla più forte. “Chi vincerà stasera?!”.

“Tigers!!” grida la folla altrettanto forte.
“Esatto, i Tigers! Ed eccoli qui!” strilla indicando un lato del campo. Dallo spogliatoio entrano in campo i giocatori di lacrosse con i bastoni e i caschi in mano. Aaron apre la fila in veste di capitano. I ragazzi corrono attraverso il campo agitando i bastoni e incitando la folla. Dall'altro lato, la mascotte della squadra avversaria, i Bulldogs della scuola superiore di Provo, incita i tifosi a gufare contro i Tigers. Più loro urlano, più i giocatori e le cheerleader fanno gridare la folla in cui siamo seduti. Tutto questo frastuono è infervorante, sembra di essere ad una battaglia.

Giselle inforca di nuovo il megafono “Sapete chi perderà stasera?!”.

“Bulldogs!” urla la folla.
“Non vi sento! Chi perderà stasera?”.
“Bulldogs!”.
“Esatto! I Bulldogs perderanno. Eccoli qui” annuncia. La squadra avversaria entra in campo accolta da un misto di urla e insulti vari e si posiziona nel proprio lato del campo. L'arbitro si avvia verso il centro del prato facendo zittire la folla. Le due squadre si avvicinano creando un miscuglio blu e verde.
“Non capisco perché diano a Giselle il compito di annunciare le squadre. Insomma a chi è venuta la brillante idea di darle un megafono?” grugnisce Peyton.
Dottie le molla una gomitata “Smettila di fare la musona e prova a goderti la partita”.

Non acconsente ma smette di borbottare.

L'arbitro fa avvicinare i capitani, gli mormora qualcosa a bassa voce e gli fa stringere le mani facendogli assicurare un gioco pulito. La squadra si mette in posizione e due giocatori si sistemano sulla linea al centro del campo. Si accucciano con i bastoni vicini e l'arbitro appoggia la palla in mezzo ai alle racchette. Tutto resta immobile, nessuno fiata. L'arbitro soffia con forza nel fischietto e i due giocatori si contendono con foga la palla. I Tigers riescono ad ottenere velocemente la palla e la partita comincia. Fanno passaggi così rapidi e furtivi che è molto difficile capire chi ha la palla. Capisco che Aaron ha la palla quando quattro giocatori dei Bulldogs lo accerchiano. Il panico mi stringe le budella facendomi agitare sulla sedia. Lui con un abile gioco di piedi scarta tutti i difensori e mira alla porta. Corre veloce sull'erba alzando nuvole verdi con i tacchetti. I Bulldogs gli stringono la strada e quando un ragazzone enorme sta per colpirlo con il bastone, Lip si mette in mezzo. Aaron prosegue senza sosta e quando è abbastanza vicino alla porta agita il bastone e la pallina vola in aria ed entra perfettamente dentro la rete. La folla salta sulle tribune e noi con loro. Urliamo ed esultiamo agitando le braccia.
I giocatori inseguono Aaron incitando la folla e lui corre verso le tribune e mi punta un dito contro sorridendo. Nessuno può sapere che è proprio verso di me che sta indicando, in questo punto delle tribune saremo almeno in cinquanta. Però non mi importa, lui ed io sappiamo la verità e questo mi basta. Il cuore mi batte all'impazzata nel petto e le farfalle mi solleticano la bocca dello stomaco.
Smette di indicarmi solo quando è sovrastato da una valanga di giocatori che lo acclamano. Interrompono i festeggiamenti e tornano velocemente in campo. Henry si china verso il mio orecchio “È stata la cosa più dolce ed eccitante della storia”. Sì, lo è stato.
“Oddio” mugola Dottie “Chissà per chi era? Starà uscendo con qualcuna?”.

Peyton sbuffa “Non penso, sarà stato un gesto verso la folla”. Non sembra molto convinta della sua teoria però sembra rabbonire Dorothea.

 

La partita va avanti meravigliosamente. I Tigers rimangono in vantaggio per tutti gli ottanta minuti, Aaron segna la maggior parte dei punti e la folla non fa altro che acclamare il suo nome. Il game si conclude con una nostra vittoria schiacciante.
I ragazzi vanno a festeggiare insieme al coach con qualche orrendo cibo spazzatura e noi torniamo a casa.
“Non l'ho mai visto giocare con tanto impeto” commenta Jim mentre attraversiamo il soggiorno “Sembrava tremendamente motivato, scommetto che è per la borsa di studio”.
Mamma ridacchia “Secondo me è per una ragazza. Hai visto che ha dedicato il primo punto ad una fanciulla nella folla”.
Stringo Liv con più forza e comincio a salire le scale. Durante il viaggio di ritorno si è addormentata come un sasso ed è toccato a me prenderla per portarla a letto.
Jim scuote la testa con poca convinzione “Quello lo fa sempre. Ogni volta è per una ragazza diversa, la scorsa stagione ha baciato Savannah davanti a tutta la folla”.
Manco il gradino e rischio di ruzzolare sulle scale insieme ad Olivia. Squittisco e mi aggrappo al corrimano con la mano libera. Henry mi stringe per la vita evitando una catastrofe.
“Tutto bene, Julie?” chiede la mamma.

Non sto bene per un cavolo. Cerco di sorriderle “Sto bene, ho solo perso l'equilibrio”.

Jim annuisce. “Liv è diventata pesante, lo so. Cresce così in fretta”.
Henry mi sorregge per il resto della scala “Cerca di non farle battere una testata perché sei verde di gelosia”.
“Non sono minimamente gelosa” mento aprendo la porta della sua stanza.
“Sì, certo” mugugna spostando le coperte. Sfiliamo le scarpe, il completino da tifosa e in qualche modo riusciamo a metterle il pigiamino. La muoviamo e la svestiamo ma lei non si sveglia, sembra in coma. Una volta pronta, la infiliamo nel lettino e accendiamo il lumino da notte a forma di rana.
Usciamo come due ninja dalla camera e ci dirigiamo verso le nostre camere.
“Notte, Jules” mi da un bacio sulla testa.
“Notte”. Mi infilo nel letto e aspetto il magico momento in cui Aaron entrerà nella mia stanza e finalmente potrò sentirmi completa di nuovo.

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Capitolo 28
*** Julianne ***


Julianne

 

Ho sempre amato il sabato. È il giorno migliore della settimana. Ti svegli con la paura che dovrai andare a scuola e invece arriva subito quella magnifica sensazione che ti ricorda che è il weekend e non devi andare proprio da nessuna parte. Puoi dormire fino a tardi, puoi fare una mega-colazione nella più totale calma ma soprattutto puoi restare tra le coperte cullandoti con il magnifico ricordo del sogno che hai fatto qualche ora prima. Nel mio caso però, il sogno non è nulla in confronto alla mia meravigliosa realtà.

Sono sveglia da qualche minuto e non sono sicura se sto sognando oppure no. Aaron mi dorme accanto con le mani appoggiate sul cuscino, il lenzuolo ad altezza fianchi e il torace nudo. La maglia che indossava ieri sera è finita sopra una delle mie mensole e lì è rimasta. Il sole entra dolcemente dalle finestre e gli illumina gli addominali scolpiti. Desidero terribilmente toccarlo ma non voglio rischiare che si svegli, sembra così in pace. Ieri, quando è tornato dalla partita, era euforico e a dir poco eccitato e abbiamo finito per fare le ore piccole.

Per non lesionare la mia sanità mentale mi giro dall'altra parte e provo a dormire ancora un po'. Dopo un secondo che ho chiuso gli occhi, le sue braccia mi afferrano e i nostri corpi aderiscono alla perfezione, schiena contro petto. Aaron mugola e mi struscia il naso contro il collo e tra i capelli. Le sue mani mi stringono i fianchi sotto la maglietta e mi sfiorano con dolcezza la pelle. La sensazione che mi scorre nelle ossa è meravigliosa e terrificante. Mi sento a casa, al sicuro, nell'unico posto in cui vorrei stare per sempre. Tutto ciò è spaventosamente bello e allo stesso tempo è una cosa incredibile che non voglio assolutamente perdere.
“Ti ho vista sai” mormora con la voce impastata.

“Cosa hai visto?”.

Mi stringe con più forza a sé e sospira di piacere. “Mi stavi osservando mentre dormivo, come una psicopatica. Non immaginavo fossi quel tipo di fidanzata”.

La parola fidanzata mi procura un brivido allo stomaco. “E quale tipo pensavi che fossi?”.

Ridacchia facendo ondeggiare il letto. “A questa domanda risponderò solo in presenza di un avvocato”.
Mi giro con fatica verso di lui, finché non siamo naso a naso. “Hai un bel po' di domande a cui devi rispondere in presenza dell'avvocato”.

Mi sorride “Del tipo?”.
“Oh, per esempio, ero la prima a cui dedicavi un punto?”. Mi fissa vacuo e sbatte le palpebre velocemente. “Oppure, è vero che hai dedicato un goal a Savannah e l'hai baciata davanti a tutta la scuola?”. Apre la bocca e poi la richiude subito. “A quante ragazze hai fatto questo giochetto?”. Cerco di sembrare arrabbiata ma non mi riesce molto bene perché lui scoppia a ridere di botto. “Sei gelosa!” afferma.

“No che non lo sono” ribatto cercando di non arrossire.
“Eccome se lo sei”. Si tira su e mi scavalca con una gamba, sdraiandosi su di me. “Sei verde di gelosia”.

“Non è assolutamente vero” ribatto cercando di sfuggire al suo corpo tentatore.

Mi morde una spalla nuda “Non costringermi a torturarti per farti ammettere la schiacciante evidenza”.

“Non so di che certezza parli” mormoro ostentando indifferenza. Il mio ulteriore negare gli fa scattare una strana scintilla nello sguardo. Prima che possa reagire, mi infila le dita nelle costole facendomi contorcere dalla risate. Mi solletica entrambi i fianchi facendomi salire le lacrime agli occhi. “Ammetti la verità e smetto”.

“Mai” grugnisco tra le risate.
Aumenta l'intensità facendomi ridere più forte. Quando rischio di farmi la pipì addosso decido di alzare bandiera bianca. “Okay. Okay” mormoro senza fiato “Mi arrendo. Sono gelosa”.

Smette di torturarmi e mi accarezza dolcemente la pelle. “Visto, non era difficile”. Si china verso di me e mi bacia con dolcezza, facendomi fremere dalla testa ai piedi. Vorrei che non smettesse mai. È come se fluttuassi tra le nuvole.

Come se galleggiassi tra le onde.

Come si fossi sdraiata tra i fiori.

Si stacca e mi guarda negli occhi accarezzandomi i capelli. L'intensità nel suo sguardo mi lascia senza fiato. Succede qualcosa di incredibile, il mondo condensa, l'attimo che stiamo vivendo si ferma e capisco che è quel Momento. Il momento delle grandi rivelazioni, il momento in cui ti senti coraggioso e vuoi ammettere ciò che provi. Il momento in cui capisci che quello che senti va oltre i confini dell'immaginabile. Lo vedo nel suo sguardo, nel modo in cui mi tocca e lo percepisco dal suo cuore che batte. Prende aria e la paura mi attanaglia lo stomaco. Non può dirlo, non può provarlo, non posso rischiari di ricambiare un sentimento tanto forte. È pericoloso e fa male.
“Sto morendo di fame” butto fuori di colpo. Scappo. È il mio miglior talento. “Ho bisogno di cioccolato”.
Aaron espira lentamente e sorride “Andiamo a fare colazione?”.

“In realtà avrei bisogno di una doccia” affermo scivolando via dal letto e dal suo corpo caldo.

Si mette alla ricerca della maglietta “Allora ti aspetto in cucina”.
“Volevo dire che entrambi abbiamo bisogno di una doccia” mormoro appoggiata allo stipite della porta del bagno.

Aaron alza la testa di scatto con la maglietta stretta tra le dita. “È un invito?”.

Mi sfilo la canottiera da sopra la testa “È una proposta”. Mi tolgo i pantaloncini “La tua risposta?”.
Non mi da il tempo di sfilarmi nient'altro, mi prendi in braccio e mi trasporta con impeto verso la doccia di plastica.

 

 

“Jules?” rimbomba la voce di mio fratello contro le mattonelle. “Sei qui dentro?”.

Il getto caldo della doccia gocciola sulla testa bagnata di Aaron per poi scorrere sul mio viso. Gli stringo le braccia al collo con più impeto e lui approfondisce il bacio. È da almeno mezz'ora che siamo sotto la doccia e non ci siamo ancora nemmeno insaponati.
“Jules” chiama Henry più forte. Sobbalzo e scivolo sulle mattonelle viscide rischiando di uccidermi. Aaron mi afferra prontamente e cerca di soffocare una risata.
“Henry cosa c'è?” domando appoggiando una mano sulla bocca di Aaron. Le sue spalle sobbalzano mentre cerca di non ridere troppo forte.

“Ho bisogno di parlare con te” afferma. La tavoletta della tazza sbatte e lui si siede sul water chiuso.

“Ora? Proprio ora?” chiedo. Aaron si libera dalla mia mano e mi appoggia la bocca sul collo.

“È urgente, Jules. Ho un dubbio esistenziale e mi serve un consiglio” afferma criptico.
Aaron mi mordicchia la spalle e il cervello si scollega dal resto del corpo. “Possiamo parlarne dopo che ho finito la doccia?” sospiro.

“No. Ma cosa ti prende? Non è la prima volta che parliamo mentre sei in bagno” mormora confuso.

Aaron sbuffa e infila la testa fuori dalla tendina della doccia “Al momento è già impegnata, puoi passare più tardi?”.

“Oh Dio!” squittisce Henry schifato “Okay torno dopo, potevate dirlo prima! Metti gli slip sulla maniglia se sei impegnata con lui” brontola scappando fuori dal bagno seguito dalle nostre risate.

 

 

La doccia più lunga della storia ci sfibra e ci prepara per una grandiosa colazione. Ci abbuffiamo di pancakes e caffè. Henry giocherella con il suo cibo con l'aria di chi si sente terribilmente nauseato. La prossima volta mi conviene chiudere la porta a doppia mandata.

“Come avete dormito?” trilla la mamma sorseggiando il suo tè allo zenzero.

Aaron le sorride “Magnificamente”.

Sì, concordo. “Immagino” tuba la mamma con una strana intonazione. Sembra quasi maliziosa.

Aaron la guarda titubante. “Perchè?” ha la voce impregnata di paura.

La mamma ridacchia “Ieri sera avete vinto la prima partita della stagione, sarai euforico”. Le sue spalle si rilassano mentre annuisce. “E poi per la ragazza misteriosa”.

Il caffè mi va di traverso e mi brucia le narici. Tossisco e mi asciugo il mento con un tovagliolo. Henry mi batte con impeto la mano sulla schiena.

“Stai bene, tesoro?” chiede mamma. Annuisco cercando di respirare come si deve. Lei si rigira verso Aaron “Ce la presenterai?”.

Lui si chiude a riccio e scuote la testa “Non capisco di cosa parli”.

“La ragazza a cui hai dedicato il primo punto ieri sera, quella che hai indicato nelle tribune” spiega lei.

Aaron indietreggia e la sua espressione si rabbuia “Era un punto per la folla, non per qualcuno di speciale. Non esco con nessuno e non capisco perché ti interessi la mia vita privata”.

“Aaron” brontola Jim dal suo sgabello e da dietro il giornale. “Non essere sgarbato”.

“Dille di non impicciarsi e io non sarò sgarbato” ribatte uscendo dalla cucina.

Jim sbuffa guardandolo uscire. “Gli adolescenti hanno certi sbalzi di umore”.

“Ho detto qualcosa di male?” chiede mamma. Eccome se lo hai fatto.

“No, cara, sono gli ormoni. Non preoccuparti” le assicura Jim.

Lei non sembra convinta ma non replica oltre. Se solo sapesse la verità, la sue espressione non sarebbe di certo quella.

 

 

“Mi dispiace per la sfuriata di prima” mugugna Aaron accarezzandomi le guance con entrambi i pollici. Seduto sul tavolo da ping-pong del garage è alto quasi quanto me. Quasi. “Non volevo aggredirla ma ha detto la cosa sbagliata e mi sono innervosito”.
Infilo un dito nel passante della sua cintura. “Le piace impicciarsi dei fatti altrui, potevi dirle una bugia. Ora sembra quasi che tu stia nascondendo qualcosa, e in effetti è così”.

Si acciglia nervoso. “Avrei voluto dirle la verità: Guarda, April, la ragazza con cui esco è tua figlia, mi piace da impazzire e mi uccide dover fare tutto nel buio. Ti prego dacci la tua benedizione e lascia mio padre per sempre” afferma sarcastico “Suona bene. Tu che dici?”.

Sbuffo “Non c'è bisogno di essere ironico, questa situazione fa schifo anche a me”.

“Tu dici? A me sembra che ti trovi bene fare cose di nascosto” ribatte con forza.

Ahi.

Questa fa male. Smetto di toccarlo e lui mi afferra la mano impedendomi di allontanarmi. “Scusa, Jay, scusa. Non volevo dire quello che ho detto. Dio mio, sono orribile. Scusa”.
“Se credi che mi piaccia tutto questo ti sbagli di grosso. Credi che mi diverta a vederti sempre circondato da qualche oca che ti starnazza intorno? Credi che mi piaccia non poterti toccare se non quando siamo soli?”.

“No, lo so”.

“Non mi sembra” ribatto con rabbia.

La porta di metallo del garage si apre e i ragazzi fanno il loro ingresso immersi nel rumore. Mi allontano da Aaron e mi accomodo sulla mia sedia da giardino. Vorrei andarmene nella mia camera a dipingere o semplicemente a dormire, ma non posso abbandonare i ragazzi perché ho litigato con Aaron. Non sono così superficiale.
La manona di Lip mi accarezza la testa “Buongiorno, dolcezza”.

“Giorno” mormoro con poco entusiasmo.

Lui si china su un ginocchio e mi guarda in faccia “Stai bene?”. Annuisco cercando di sembrare sincera. Lui non sembra molto convinto “Sicura?”.

“Lip!” abbaia Aaron “Ci muoviamo, non abbiamo tutto il giorno”.

Lui sembra collegare i fili che Aaron e io gli stiamo porgendo, smette di fare domande stupide e si mette a sistemare gli strumenti.

Quando l'attrezzatura è pronta, i ragazzi provano le due canzoni che abbiamo sistemato e che ha scritto Ty. Funzionano alla perfezione e ne siamo tutti entusiasti.

“Va davvero benissimo” mormoro osservandoli sorridere “Ora è il momento di lavorare su qualche nuovo pezzo” frugo tra i fogli che ho appoggiato sulle cosce “Vi ho portato un paio di testi che potrebbero già andare bene e che non sono troppo femminili”.

Gli porgo le fotocopie che ho fatto del mio diario e loro se le scambiano. Non è stato affatto facile trovare dei testi che andassero bene per il loro sound e che non rivelassero troppo di me. Ho dovuto rileggere tutto ciò che avevo scritto e alcuni ricordi che ho fatto tornare a galla non sono stati affatto piacevoli.

“Sono fantastici, dolcezza, ma secondo me dovresti portare qui sopra il tuo bel culetto e farci sentire come li canteresti tu” asserisce Lip.

“Non se ne parla”.

“Dai, Julie, sei il nostro coach. Tu ci sproni sempre a superare i nostri limiti e dovresti darci il buon esempio” aggiunge Matt.

“Non forzatela, se non vuole non è obbligata” li riprende Aaron. Ed eccolo qui, il principe dalla scintillante armatura. Mi difende dai mostri e lotta per il mio onore, però io non ho bisogno di protezione. Non ho paura del buio e non ho paura dei mostri, quindi perché dovrei avere paura di cantare davanti a delle persone che mi vogliono bene?

Al diavolo. “Va bene”. Tutti e quattro si girano contemporaneamente verso di me. “Canterò”. Mi alzo dalla mia postazione e salgo sul piccolo palco.
“Sei sicura?” mi bisbiglia Aaron. Annuisco guardandolo dritto negli occhi. Voglio che mi guardi. Non ho paura. “Sicurissima”. Sebbene non molto convinto, si sfila la chitarra e con dolcezza me la porge. Mi posiziono davanti al leggio di ferro e fisso il testo che ho scritto. La macchia a forma di foglia causata da uno spruzzo di ketchup mi ricorda di quella serata. Skylar e io ci stavamo rimpinzando di schifezze alle quattro del mattino, dopo una nottata folle. Avevo conosciuto un ragazzo, Grady, mi aveva tenuta lontano dai pensieri opprimenti per tutta la notte e poi si era dileguato come un fantasma. Non che volessi altro da lui ma di solito gli altri ragazzi fingevano di volere il mio numero, lui se ne era semplicemente andato. Mi ero resa conto di quanto poco gli fosse importato di me e di quanto poco mi fosse importato di lui. Così mentre riprendevamo le energie ho buttato giù tutto quello che pensavo di lui.

Sfioro le corde della chitarra e chiudo gli occhi. Non mi serve uno spartito, so che melodia segue le mie parole. Non ho bisogno di guardare il testo, so alla perfezione ogni sillaba del mio diario.

 

Taking me high up where I've never been before

I'm holding it back, just one sec, I won't be long

You're just a hideaway, you're just a feeling

You let my heart escape, beyond the meaning

Not even I can't find a way to stop the storm

Oh, baby, it's out of my control, it's going home

You're just a chance I take to keep on dreaming

You're just another day that keeps me breathing

 

Baby, I love the way that there's nothing sure

Baby, don't stop me, hide away with me some more!

Uh, you send me the shiver and the spine might overflow

You're bringing me closer to the edge of letting go

You're just a hideaway, you're just a feeling

You let my heart escape, beyond the meaning

 

Cover my head into the clouds I'm heading home

When you get me going I can't find a way to stop

You're just a chance I take to keep on dreaming

You're just another day that keeps me breathing

You're just a chance I take to keep on dreaming

You're just another day that keeps me breathing

 

Hide away with me some more

You're just a feeling

You're just a feeling

You're just a feeling

 

Cover my head into the clouds I'm heading home

When you get me going I can't find a way to stop

You're just a chance I take to keep on dreaming

You're just another day that keeps me breathing

You're just a hideaway, you're just a feeling

 

Vorrei che non fosse così ma una cascata gelata di ricordi mi si riversa addosso. Le sensazioni mi attraversano e le emozioni fanno capolino dalla scatola in cui le tengo. Vedo tutto, sento tutto e non mi piace. È per questo che non canto mai in pubblico.

“Dio santissimo, dolcezza” prorompe Lip facendomi aprire gli occhi. Mi fissano tutti e quattro con espressioni simili. Matt mi guarda come se finalmente avesse ritrovato qualcosa che aveva perso da tempo. Tyson e Lip sono sorpresi ed estasiati, ma è l'espressione di Aaron a farmi tremare le ginocchia. Ha di nuovo quello sguardo, quello con cui mi ha guardata stamattina. Quell'espressione di completezza e realizzazione, ha la faccia di chi ha capito tutto quello che voleva sapere.

“Come vi è sembrato?” chiedo titubante. “Era okay?”.

“Okay?!” bofonchia Matt “Non era okay, Julie. Era straordinario”.

“Vuoi nascondere al mondo tutto questo!” mi accusa Lip “Ma quanto sei egoista?”.

“Dovresti cantarla tu” parlotta Tyson a bassissima voce.

Sbuffo. “Adulatori. Smettetela, vi ho solo fatto sentire il ritmo, siete voi il gruppo, ricordate?”.

“Davvero non vuoi cantare?” chiede confuso Matt “Forse non te ne rendi conto ma sei completamente nel tuo elemento e ti assicuro che le persone rimarrebbero estasiate nel sentirti cantare”.

No, non davanti alla folla. Non voglio. “Vi ho già detto che sono solo il coach, smettetela di chiederlo. Ora tocca a voi”. Interrompo le loro proteste scendendo dal palco e sedendomi al mio posto.

 

 

 

 

Stiracchio i muscoli sul il copriletto a fiori. Quella stupida sedia da giardino mi farà venire la scoliosi. Mi porto le ginocchia alla fronte e provo a far scrocchiare la schiena.
“Wow. Stai provando qualche nuova posizione?”. Henry mi guarda dalla soglia con un sorrisetto e con il braccio appoggiato allo stipite.

“Sto tentando di combattere la vecchiaia che avanza” ribatto mettendomi seduta “Tu invece cosa fai?”.

“Sto aspettando che la mia sorellina trovi un buco nella sua agenda piena di impegni per dedicarmi un po' di attenzioni” mormora piccato.

Afferro un cuscino con le paillettes viola e glielo tiro in faccia. “Spiritoso. Ora sono libera”.

Henry lo afferra ed entra in camera chiudendosi la porta alle spalle. “Ho bisogno di un po' di Jules-terapia”.

Gli indico la metà del letto libera “Si accomodi nel mio ufficio, signore”. Si lancia al mio fianco e si stende “Cosa la affligge?”.

 

Parliamo per un'ora di Dylan e della situazione incasinata che stiamo vivendo. Henry mi aiuta a far scrocchiare le vertebre e poi si concentra sulla stesura di due perfetti strati di smalto nero sulle mie unghie dei piedi.

“Ieri eravamo in camera sua” mi spiega sistemando il mignolino “La situazione si stava scaldando e suo padre è tornato prima dal lavoro. Avevamo tutto il tempo per rivestirci e fingere di star semplicemente studiando e invece lui mi ha spinto nell'armadio”.

“Mi sembra una sua caratteristica fondamentale quella di buttarti in qualche nascondiglio quando siete insieme. Sei sicuro che non sia una sua fantasia?”.

Mi soffia sullo smalto per farlo asciugare “Non lo so, Jules. Lui mi piace un sacco, è esattamente quello che ho sempre sognato ma solo quando siamo totalmente soli. Come andare avanti se funziona solo quando siamo soli?”.

Già, bella domanda fratellino. “Non credo di avere la risposta a questa domanda”.

“Scusa, non ci stavo pensando”.

“Sei difronte ad un bivio, Henry. O decidi che è l'amore della tua vita e accetti pro e contro oppure lo lasci e cerchi qualcuno che non abbia paura di affrontare il mondo a viso aperto”.

“Sai che non è affatto facile affrontare il mondo a viso aperto, rischi di beccarti uno sputo in un occhio”.

Gli accarezzo la testolina bionda “Lo so, ma è uno dei rischi che corri se decidi di vivere la vita come vuoi tu”.

Annuisce con lentezza “Ci penserò. Tu cosa farai?”.

“Cosa intendi?”.

“Sei nella mia stessa situazione, ma non vieni spinta negli armadi” afferma “Anche tu sei difronte ad un bivio”.

Scuoto la testa “Non è la stessa cosa”.

“Ne sei proprio sicura?”.

 

 

Resto a fissare il soffitto in cerca di una risposta. Ho assicurato ad Henry che la mia situazione è completamente diversa dalla sua, ma è davvero così? Vale la pena vivere nel buio per Aaron?

“Jay?” domanda. Ogni volta che penso a lui appare, come se lo evocassi. “Possiamo parlare?”.

Annuisco, entra e si stende al mio fianco. Il suo profumo mi avvolge e il calore del suo corpo scalda il mio. Ogni dubbio si dissolve, la sua sola vicinanza mi fa sentire dieci volte meglio.

“Mi dispiace” afferma “Ho detto una stronzata prima delle prove, so che questa situazione fa schifo anche a te. Ma siamo su questa barca sgangherata insieme e non vorrei nient'altro” intreccia le dita con le mie “Mi perdoni?”.

Giro il viso verso di lui per guardarlo negli occhi. Non ho bisogno di una conferma, so che è sincero, guardarlo rende solo il mondo più bello.
“Non saprei, dovresti persuadermi” sorrido.
Aaron si infila una mano in tasca e tira fuori una barretta al cioccolato. “Va bene come inizio?”.

“È fondente?”.

Alza gli occhi al cielo “Ovvio che è fondente, con chi credi di parlare?”.

Lo ricopro di baci e poi mi gusto la mia offerta di pace assolutamente innecessaria ma totalmente apprezzata.

 

 

“Non è affatto corretto!” brontola Aaron seduto sul letto. “Non puoi farlo”.

Infilo il cuscino nella federa ricamata. “Non fare i capricci, è solo per una notte”.

“Sarà anche solo per una notte ma non è giusto” stringe le braccia al petto come un bimbo arrabbiato “Non puoi abituarmi a dormire con te e poi buttarmi fuori dal tuo letto alla prima occasione”.

“La prima occasione?” brontolo sistemando il lenzuolo sul lettino singolo “Dottie e Pey vengono a dormire qui solo stanotte, da domani sera sono di nuovo tua. Smettila di fare il bambino e aiutami a fare il letto”.

Per un secondo rimane in silenzio, poi riapre la bocca con un tono completamente diverso. “Ridillo” impone con voce roca.

“Cosa?”.

“Quello che hai detto prima”.

“Che Dottie e Pey...”.

“No, l'altra cosa” afferma.

“Smettila di fare il bambino?”.

Cerca di non ridere. “Quello che hai detto in mezzo”.

Smetto di sistemare la coperta e mi giro verso di lui. “Che sono tua?”.

Annuisce. Mi avvicino, mi siedo sulle sue gambe stringendogli le braccia intorno al collo. Aaron mi passa le dita sulla pelle dei fianchi senza mai smettere di guardarmi. “Sono completamente e irrimediabilmente tua”.

 

 

 

Dottie e Peyton arrivano nel tardo pomeriggio cariche di valige e con l'aria estasiata. Entrano in casa titubanti e guardandosi intorno come se si trovassero nel giungla più selvaggia. Il che non è affatto sbagliato, la vena artistica di Liv si è sviluppata contro le pareti del salotto e la colpa è ricaduta su di me per averle dato i colori per dipingere. Cole ha preparato uno strano intruglio color vomito che è esploso sui fornelli di mamma e Andy ha passato la giornata in camera sua ascoltando rap ad un volume esorbitante. Aaron e io d'altro canto siamo spariti per tutto il pomeriggio e abbiamo esplorato ogni parte di noi nella sua macchina e nel nostro parco.

“Benvenute” squittisce la mamma dal soggiorno. Indossa un bellissimo e svolazzante vestito color cipria e delle zeppe bianche. Sembra appena uscita da un pubblicità e so che lo ha fatto apposta, adora essere perfetta quando incontra qualcuno di nuovo. Non importa se si tratta della Regina o di Lou, il barbone che vive sotto il ponte, lei deve essere eccezionale per chiunque. “Benvenute nella nostra umile dimora”. Vorrei ricordarle che non siamo nel 1800 ma non ho voglia di discutere davanti alle ragazze. “Sono felice di fare la vostra conoscenza. Io sono April, la mamma di Julianne”. Ma non mi dire.

Pey le porge la mano. “Peyton Jackson, molto piacere”.

Dottie arrossisce mentre sorride timidamente “Dorothea”.

“Sì, conosco già i vostri nomi, Julie mi ha detto tutto di voi”.

Non è affatto vero. “Noi andiamo di sopra, mamma”. Tiro le mie amiche verso le scale prima che April possa fargli delle domande imbarazzanti o dica qualcosa di stupido.

“Ma certo, divertitevi. Chiacchiereremo a cena” assicura lei.

No, non succederà. Saliamo velocemente le scale e ci chiudiamo la porta alle spalle. Entrambe si guardano intorno studiando i dettagli del mio privato e assimilandone i segreti.

“La tua camera è meravigliosa” esala Dottie sfiorando la carta da parati.
“Concordo pienamente” conferma Pey.

Indico le valige che intasano il mio pavimento. “Vi siete portate dietro la casa?”.

“Dottie si siede sulla poltrona “Non sapendo cosa avevi in mente di fare ho portato ogni possibilità di vestiti possibile”.

“I miei vestiti sono pochi ma molto ingombranti” si giustifica Pey. “Quindi qual è il piano per la serata?”.

Ecco la nota dolente. “Pensavo di andare ad una festa...”.

Si scambiano un'occhiata strana. “Quale festa?” domanda Peyton.

Mi gratto il mento fissando la moquette “La festa di Savannah...” bofonchio.

Entrambe strabuzzano gli occhi. “Prego? La festa di chi?” domanda Pey con sarcasmo.

“Savannah” ripeto con più impeto.

“Scherzi, vero?” sussurra Dottie.

“Sentite è solo una festa, la sua casa sarà enorme, piena di gente e non ci noteranno nemmeno. Sarà divertente”.

Peyton scuote tutto il corpo facendo ondeggiare i campanellini appesi al maglione color sabbia “No, sarà un suicidio. Sai cosa ti fanno le streghe se ti presenti ad una delle loro feste senza invito o semplicemente se sei una di noi? Mi sembra che tu sappia già la risposta oppure ti devo ricordare in tuffo in piscina”.

Sbuffo. “Avete così paura di vivere la vita?”.

“Non è paura” mette in chiaro Peyton “È autoconservazione”.

“Sentite, non mi interessa cosa pensano di noi quelle stronze. Voglio divertirmi e vorrei farlo con voi” affermo “E poi non è vero che non siamo state invitate”.

“Qualcuno ti ha invitata? E chi?” chiede Dottie.

“Savannah”.

Pey sbuffa “Allora è di sicuro una trappola”.

“Potrebbe esserlo o potrebbe essere un'occasione per una fantastica serata, lo scopriremo solo se ci andremo”.

Si guardano a lungo, nello stesso modo in cui guardo mio fratello quando comunichiamo mentalmente. Dorothea muove impercettibilmente la testa e Pey sospira. “Va bene, ma se ci aggrediscono me la prenderò con te”.

“Accetto il rischio” confermo sorridente “E poi saremo accompagnate da degli uomini forti e prestanti, non avete nulla di cui preoccuparvi”.

“Aaron viene con noi alla festa?” chiede Dorothea illuminandosi come un'insegna pubblicitaria.

Il suo sguardo estasiato fa incendiare il mio senso di colpa come dei carboni ardenti. Annuisco “Anche Henry, Lip e Tyson”.

Batte le mani contenta “Meraviglioso, ora devo decidere cosa mettermi”.

 

Passiamo il pomeriggio tra maschere di bellezza, video di tutorial per il makeup e immerse tra i vestiti. Per evitare una cena imbarazzante con la famiglia degli orrori ordiniamo delle pizze e le mangiamo in camera. All'ora prestabilita indossiamo i nostri vestiti e finiamo di pettinarci. Dottie indossa un abito floreale, stretto in vita e con le spalline sottili e un paio di saldali con il tacco color champagne. Peyton, dopo una lunghissima discussione, decide di indossare un mio vestito. Un tubino blu e degli stivaletti neri, che decide di abbinare ad una parrucca nera e spettinata.

Io metto un vestito color borgogna, sfasato e con le spalline spesse e cascanti. Hai piedi porto degli stivali alti fino al ginocchio e senza tacco, sono l'autista designata quindi meglio indossare qualcosa di comodo.

Spingo le ragazze in corridoio e verso le scale. “Wow, signore siete uno schianto” apprezza la voce calda di Aaron. Quando entra nel mio campo visivo mi manca l'aria nei polmoni e mi devo sorreggere alla maniglia della porta per non restarci secca. I jeans neri gli fasciano le gambe alla perfezione, la maglia bianca lascia intravedere il segno degli addominali e la giacca color tortora completa un quadro già perfetto. Vorrei che fossimo soli così potrei dire tutto ciò che penso. È spettacolare e lo sa. Dal modo in cui mi guarda immagino stia pensando la stessa cosa.

“Siete davvero bellissime” commenta Henry da dietro Aaron. La sua voce alleggerisce la tensione e interrompe il momento imbarazzante. “Andiamo?”.

 

 

Dopo soli venti minuti in mezzo alla folla che si dimena e che suda ho bisogno di una pausa. Lascio Dottie e Peyton in pista e sparisco nel corridoio. La casa di Savannah è così grande che mi ci vogliono diversi tentativi prima di trovare il bagno. Una volta dentro mi rinfresco il viso e ritrovo il controllo del mio corpo. Prima che riesca a tornare in soggiorno la proprietaria della casa mi abbranca in un abbraccio invadente e molto alcolico. Il suo profumo di Chanel è completamente coperto dall'odore pungente della vodka che si sta scolando senza sosta. “Sei venuuuuta!” squittisce ridendo e ondeggiando pericolosamente. “Sono cooosì felice che tu sia qui!”.

“Sì, pure io” mormoro senza il suo stesso entusiasmo.

“Dopo facciamo il gioco dell'oca alcolico, stai in squadra con me vero?”. È così sbronza che ho paura che mi abbia scambiato per qualcun altro.

“Ma certo” assicuro.

Ride e saltella eccitata, poi la sua attenzione viene catturata altrove e mi lascia andare. Me la svigno prima che mi si appiccichi di nuovo addosso. Scivolo lungo il corridoio e mi infilo in cucina. Un gruppo di ragazzi prepara dei cocktail colorati e dall'odore familiare. Tutto questo è tremendamente faticoso, il mio corpo ricorda quanto è divertente sballarsi e divertirsi e il mio cervello si oppone strenuamente alla sensazione. È sfibrante litigare con se stessi. Un ragazzo mi passa un bicchiere rosso e stracolmo di tequila e decido che è il momento di una fuga rapida sul pianeta Aaron. Mi infilo di nuovo nel bagno e frugo nella borsa alla ricerca del telefono. Ma prima che possa scrivergli qualcun altro si infila nel bagno con me.

“Julie!” esala Matt. Dal modo in cui si aggrappa alla parete di mattonelle e dallo sguardo vacuo capisco che ha esagerato anche lui con gli alcolici. Ma c'è qualcuno sobrio a questa festa?

“Matt” mormoro “Cosa c'è?”.

“Ti stavo cercando”.

“Sono qui”.

Avanza dondolando e si siede sul bordo della vasca. “Ti devo parlare”.

Resto ferma di fianco al lavabo, non ho paura di Matt ma questa situazione grida guai da ogni angolazione la si guardi. “Perchè non parliamo fuori da qui, magari mentre bevi un po' d'acqua”.

Provo ad avanzare ma lui alza la mano “Ho bisogno di dirti una cosa, è importante e ci serve privacy”.

“Qualsiasi cosa tu debba dirmi la posso ascoltare anche fuori di qui”.

“Io ti amo ancora”.

Il cuore mi sprofonda tra le viscere. È come se si staccasse dalle vene e dalle arterie e cadesse contro il mio intestino. È una sensazione sgradevole e annuncia solo guai. La sua affermazione ha condensato almeno una decina di problemi.

“Non dici sul serio, sei ubriaco marcio”. La negazione è la prima risposta che il mio cervello ingrippato riesce ad elaborare.

“Mi sono ubriacato perché non sapevo come affrontare le sensazioni che provo. Da quando sei riapparsa nella mia vita è tutto più chiaro, ti amo ancora. Non ho mai smesso, è dal campeggio che volevo dirtelo”.

“No” ribatto “Non è vero, tu stai con Nicole e ami lei, quello che senti è un mix di l'alcol e ricordi di avventure di due bambini”.

“So perché fai così” si alza precario sulle gambe.

“Cosa?”.

“Neghi perché hai paura delle conseguenze, ma lo so che anche tu ricambi”.

Non solo è ubriaco, ma è anche presuntuoso. “E cosa ti farebbe crede che io ricambio?”.

“Beh” alza le spalle come se fosse la cosa più ovvia del mondo “Sei sempre intorno a me a scuola, ti sei unita alla band per me e tratti male Nicole perché sei gelosa”.

Non so se ridere o prenderlo a sberle. “Hai completamente frainteso, Matt”. Sono stufa di questa conversazione. Mi avvio verso la porta cercando di scansarlo ma lui è stranamente più veloce e mi blocca contro le piastrelle fredde. Non mi lascia nemmeno il tempo di protestare e si china a baciarmi.

È diverso.

Sbagliato.

Fastidioso.

Nulla a che fare con quello che provo con Aaron. Ho l'istinto di lottare e scappare via. Voglio il mio ragazzo.

Quando prende fiato, faccio l'unica cosa che mi viene in mente, gli mollo una ginocchiata nei paesi bassi. Matt si accascia e colgo l'occasione per una fuga. Mi lancio in corridoio e verso le scale, corro su per i gradini e il più lontano possibile da quel bagno. Due mani mi afferrano e tiro un urlo di aiuto come una balena arenata.

“Ehi, Jay, sono io, tranquilla” la voce di Aaron mi tranquillizza all'istante. Mi fiondo tra le sue braccia e mi nascondo contro il suo petto. “Ti stavo cercando, stai bene?”.

“Portami via”.

 

 

 

Restiamo sdraiati su un'enorme sdraio morbida posizionata su un terrazzino, in una della camere padronali. Non so esattamente quanto tempo passa, la musica ci arriva leggera e le voci dei ragazzi sembrano così lontane. Aaron mi chiede più volte se sto bene e io mento assicurandogli di stare una favola. Non posso dirglielo, proprio no. Scenderebbe al piano di sotto come una furia facendo fuoco e fiamme contro il suo migliore amico. Non è questo che voglio, Matt domani non si ricorderà nulla e sarà tutto dimenticato. Sì, andrà così.

La magia della terrazza si interrompe dopo un leggero trambusto proveniente da fuori e da un messaggio di SOS di Peyton. Quando la raggiungo in salotto capisco entrambi i segnali. Dottie è in piedi sul tavolo da biliardo, ubriaca fradicia, che balla con altre ragazze. Intorno a loro si è radunata una folla eccitata e altrettanto alticcia.

Pey mi arpiona il braccio. “Si può sapere dove diavolo eri?! Qui abbiamo un problema enorme”.

“Sì, lo vedo” affermo “Hai provato a farla scendere?”.

“Secondo te me ne sono stata qui a guardarla come una scema? Ovvio che ho provato, non mi ascolta”.

“Ora provo io”. Mi faccio largo tra il mare di folla e afferro la mano di Dottie che ondeggia a ritmo di musica. Mi sorride vacua e con gli occhi lucidi. “Julianne! Vieni a ballare con noi!”. I ragazzi che le fissano, la sostengono eccitati. Che schifo.

“No, Dottie, grazie. Sai è ora di andare a casa, perché non scendi da lì?”.

Scuote la testa come una rock star “Noooo. Mi sto divertendo”.

“Noi stiamo andando, avanti vieni con noi”.

Si passa le mani lungo il corpo come una spogliarellista. Questo suo lato sicuro e sensuale un po' mi turba. “No, voglio restare. Uno di questi bei ragazzi mi porterà a casa”.

I ragazzi in questione confermano con entusiasmo. “Non se ne parla proprio” la tiro per il braccio “Forza scendi, non siamo in un locale per lo spogliarello, avanti”.

“Lo spogliarello?” domanda confusa “Va bene”. Cerca la lampo dell'abito e prova a sfilarselo. Prima che possa tirarla giù dal tavolo di forza Aaron mi precede. Se la carica in spalla ed evita che mostri le sue grazie a tutta la scuola. “È ora di andare a casa, pazzerella”.

 

 

Dopo avere caricato Dorothea in macchina riusciamo finalmente a dirigerci verso casa. Peyton la osserva dal sedile del passeggero mentre le sbava sui sedili posteriori e russa come un trombone ubriaco. Prima di raggiungere la macchina ha vomitato nel giardino di Savannah e ha riprovato a sfilarsi il vestito altre due volte. Aaron l'ha sbrancata in entrambe le occasione e poi ci ha aiutate a metterla in macchina. Avrei voluto ricoprilo di baci ma Peyton ci stava osservando, perciò.

“Che serata assurda” commenta Peyton.

“Già, non dirmelo”.

“È stata divertente, però” afferma “Ci siamo scatenate ad una festa di Savannah, non lo avrei mai potuto credere possibile”.

Svolto a sinistra e il maggiolino cigola. “Bastava un po' di fiducia”.

“Grazie di averci tirate fuori dal guscio, alcune volte è davvero difficile fingere di adorare la vita da emarginate”.

“Di nulla, forse qualcuno ha bisogno di un po' di pratica con gli alcolici. Quanto ha bevuto?”.

Pey ridacchia “Credo solo un paio di bicchieri, dei ragazzi le hanno offerto da bere e lei si è lasciata convincere, comunque la stavo tenendo d'occhio”.

“Scusa se sono sparita, ho avuto una cosa da fare” borbotto.

Peyton fa un verso strano “Ne sono sicura” mormora sarcastica.

“Che vorresti dire?”.

“Non devi mentire con me, Jay, ho capito cosa nascondi”.

Mi si gela il sudore lungo la schiena “Cosa?”.

“Oh avanti!” tuba “Vi ho visti, tu e Aaron”.

A quella affermazione per poco non finiamo fuori strada. “Cosa? Come?”.

“Il modo in cui vi guardate, il modo in cui vi muovete quando siete vicini, il modo in cui fingete di non volervi saltare addosso. Si vede che c'è qualcosa sotto, o almeno io l'ho notato. Capisco facilmente certe cose”.

La paura mi stringe il petto in una morsa, ho quasi l'intenzione di lanciarci tra l'erba per evitare questa conversazione. “Io...”.

“Jay tranquilla. Non ho intenzione di farti la morale o giudicarti. Ti capisco, sono un'esperta di relazioni complicate”.

“Anche tu hai una storia segreta con il tuo fratellastro?” domando.

Lei fa un verso schifato. “I miei fratelli sono terrificanti. Io ho qualcosa di simile”.

“Sarebbe a dire?”. Sapevo che nascondeva qualcosa di grande, ma non credevo di questo genere.

“Ti giuro che te ne parlerò, solo non ora, okay?”.

Annuisco “Quando vuoi”.

“E stai tranquilla, manterrò il tuo segreto”.

“Davvero?”.

Ride che se avessi detto un'ovvietà. “Ovvio” li accarezza la mano “Le ragazze incasinate si aiutano a vicenda, giusto?”.

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Capitolo 29
*** Aaron ***


Aaron

 

Fisso l'intonaco scheggiato del soffitto con intensità. Conto le pecore, le capre e pure le mucche ma il sonno ignora i miei tentativi disperati di raggiungerlo. Henry russa come sempre e il ronzio regolare del suo naso mi da ai nervi. Non capisco come faccia a dormire così serenamente in qualsiasi situazione. L'idea di tirargli una pantofola mi sfiora l'anticamera del cervello così tante volte, che arrivo ad allungare la mano verso il pavimento per raccogliere la mia arma. Questa situazione è solo colpa di Julianne. Mi ha viziato, mi ha abituato al suo corpo caldo e io ne sono diventato dipendente. Senza il suo odore intorno non riesco a prendere sonno, è come se mi mancasse un cuscino o come se ci fosse un fagiolo sotto il materasso.
Ecco, mi ha trasformato nel principe sul pisello dei poveri.
Ottimo.
Sono così perso nei miei vaneggiamenti, che quando qualcosa mi sfiora la gamba per poco non urlo come una donzella in pericolo. Una manina liscia mi tappa la bocca e la risata silenziosa della donna più bella del mondo mi solletica l'orecchio. Il suo odore mi avvolge e il mio corpo si rilassa. Una valanga di capelli mi solletica il naso e la sento che si infila sotto il copriletto, abbarbicandosi al mio corpo.
“Si può sapere perché sobbalzi come una vecchietta che cammina di notte?” ridacchia appoggiandomi la testa contro il pettorale.
Le stringo le braccia intorno alla vita. “Tu mi afferri nella notte, come posso sapere che non hai cattive intenzioni?”.
La sua mano mi scorre lungo gli addominali. “Dovrai correre questo rischio”.
Oh, eccome se voglio.

 


Sbatto le palpebre lentamente, socchiudendole per la troppa luce. Mugugno e mi ritiro tra le lenzuola. Stringendomi le braccia al petto, mi rendo conto di un dettaglio enorme: Julianne non è più qui. Tiro fuori la testa dal mio sarcofago e mi guardo intorno. Henry fissa il libro di chimica mordicchiando la gomma della matita. È vestito, pettinato e sembra fresco come una rosa.
“Buongiorno” esala “Anche se non è quasi più mattino”.
Mi schiarisco la gola con un colpo di tosse. “Che ore sono?”.

Lancia un'occhiata all'orologio. “Mezzogiorno meno un quarto”.
Ho dormito tutta la mattina. “Perchè non mi hai svegliato?”.
Scribacchia su un lato del foglio. “Non è stata una mia decisione, Jules mi ha chiesto di lasciarti dormire” mi guarda “Le sembravi esausto”.
Lo ero. “Ti ha detto qualcos'altro?”.

Inclina la testa e si acciglia “Ho l'aria di una segretaria?”.

Wow. Qualcuno è di cattivo umore. Scalcio le coperte e mi alzo. “Va tutto bene?”.
Henry sospira e si passa le mani sul viso. Quello esausto sembra lui. “Ho molte cose per la testa, scusa i miei modi scortesi”.
“Ti va di parlarne?”.
“No” accenna un sorriso “Ma grazie per l'interesse, lo apprezzo molto”.
“Figurati” mi alzo “Penso che farò una doccia”.

 

 


Dopo una rinfrescata tonificante, mi metto alla ricerca di Julianne. Della musica soffusa fluisce dolcemente dalla sua camera. Mi affaccio e il cuore mi si fonde come una candela in mezzo ad un incendio. Liv e Jay sono davanti a due cavalletti di legno con in mano i pennelli ed entrambe stanno dipingendo su delle tele di cotone. La mia sorellina la osserva e prende spunto da ciò che fa. Ridacchia ad ogni pennellata, le tira la manica e le fa osservare il lavoro. Julianne le sorride nello stesso modo in cui sorride a me. Con amore e dolcezza. Non capisco come facciano le persone intorno a noi a non notarlo mai.
“È meraviglioso, Livvie” commenta “Tra qualche mese sarai più brava di me. Dovrei essere invidiosa?”.
Liv ride e si sporca di pittura il mento. “Ma tu sei la più bravissima del mondo!”.
Julianne le accarezza i capelli “Allora sarai la più bravissimissima del mondo. Ora firmalo, così il mondo saprà quanto talento hai”.
Liv scribacchia sul fondo della tela il suo nome e poi lo afferra “Vorrei regalarlo a papino, posso?”.
“Certo”.

Faccio un passo avanti, entrando nella stanza. “E per me nessuno dipinge un quadro?”.
Livvie strilla e con ancora il quadro tra le mani macchiate, mi salta addosso. “Ron-Ron! Guarda!”.

Mi mostra il suo capolavoro. “Cosa ne dici?”.
La serie di macchie confuse e multicolore assomiglia vagamente ad un ippopotamo con sei piedi. “È un vera opera d'arte. Ne avrò mai uno per me?”.
La rimetto a terra. “Se farai il bravo” sentenzia. Poi corre fuori dalla stanza agitando il suo lavoro e chiamando papà.
“Lavati le mani” le urla dietro Julianne, poi si gira verso di me e fa di nuovo quello sguardo dolce. “Hai dormito bene?”.
Mi posiziono alle sue spalle osservandola colorare la tela. Il suo soggetto è una piccola Livvie che dipinge un quadro tutta concentrata. Ci sono spruzzi di colore che la fanno sembrare al centro di una galassia. “Avrei preferito svegliarmi con te” le passo le dita sulla pancia, sopra la maglietta. Si lascia leggermente andare all'indietro e si appoggia a me. Il suo corpo si rilassa seguendo il mio tocco.
“Sembravi bisognoso di riposo, ho preferito che non avessi distrazioni” mormora roca.
Le bacio la testa. “Come mai non mi ritrai mai nei tuoi quadri?”.
“Chi ti dice che non l'ho fatto?”.

La faccio girare verso di me e posare il pennello. “Voglio vederlo”.
Ridacchia. “Okay, aspetta”. Si piega tra le pile di tele dipinte e fruga. Quando ha trovato quello che cerca, lo nasconde dietro la schiena. “Prometti di essere clemente” esige.
“I tuoi quadri sono meravigliosi e il soggetto sono io, quindi ovviamente sarà una bomba” cerco di afferrarlo “Fammi vedere”.
“Va bene. Come siamo impazienti” me lo porge e resto senza parole. Non è solo una bomba, è la cosa più spettacolare che abbia mai visto. Sono io su un palco mentre suono la chitarra. Ha usato solo il nero, il bianco e il rosso ma sembrano mille colori diversi. È come se avesse racchiuso la musica in quadro.
“È la sera che siamo andati alla festa di Giselle, mentre suonavi sul gazebo...è stupido non dovevo fartelo vedere”. Prova a riprenderlo ma glielo allontano. La afferro per la vita con un braccio e mi fiondo sulle sue labbra. Non è sorpresa, ormai si è abituata ai miei assalti lampo. Mi passa le dita tra i capelli e cancella la distanza fra noi. È tutto perfetto finché una vocina da infondo alla testa mi ricorda che non ho chiuso la porta. Mi allontano il meno rudemente possibile e faccio un passo di lato. Vederla arrossata che mi guarda con desiderio non aiuta.
“È la cosa più bella che abbia mai visto” mormoro “Anzi è la seconda”.
Sorride. “Puoi tenerlo, ne ho fatti altri”.
“Vediamoli” affermo.
“No”. Scuote la testa con vigore. “Li vedrai quando saranno finiti”.
“Uffa” brontolo “Stai usando la tecnica del bastone e della carota?”.
Sorride scaltra “Perchè? Sta funzionando?”.
“Puoi giurarci”.

 

 

Dopo pranzo aspetto i ragazzi in garage, mentre Julianne finisce un compito di storia. Accordo la chitarra e sistemo gli spartiti. La porta di metallo si apre prima del dovuto e Matt appare con in mano il suo basso. Ha l'aria distrutta e la faccia di chi ha vomitato tutta la notte.
“Stai bene?” domando alzandomi.
Sospira e appoggia lo strumento sul tavolo da ping-pong “No. Sono uno straccio” si butta su una sedia da giardino “Non mi ricordo l'ultima volta che ho bevuto tanto, ma questa sarà decisamente l'ultima”.
“Perchè hai esagerato tanto? Di solito sei sempre morigerato” commento sedendomi vicino a lui.
Si stropiccia il viso e sbuffa. “Dovevo fare una cosa stupida che ora rimpiango”.
“Sarebbe a dire?”.
“Mi prenderai per un cretino” mugugna.
Gli do un colpetto sulla spalla. “Probabilmente, ma tu dimmelo lo stesso”.
Prende aria e poi sgancia la bomba “Ieri sera ho baciato Julie”. Lo stomaco mi tocca terra e poi rimbalza contro gli altri organi come un flipper. Non ho idea di quali siano i sintomi di un infarto, ma sono sicuro di avere uno in corso. “Le ho detto che la amo ancora e che non ho mai smesso” lui continua a strapparmi le budella. Se vomito sospetterà qualcosa? Non mi sono mai sentito così. Come faccio a farlo smettere? “E poi l'ho baciata” sbuffa “Non ho mai fatto una cavolata simile, cosa dirà Nicole? E di sicuro Julie non vorrà più parlarmi”.
Ho la gola secca e arida come il deserto. “Perchè?” domando roco. È un domanda generale, voglio la spiegazione a tutto.
“Le sono saltato addosso come un maniaco” chiude gli occhi “Sono proprio uno stronzo”.
La sensazione si intensifica, è come se qualcuno mi stesse risucchiando la felicità dal naso con un aspiratore gigante.
Mi guarda con tristezza “Cosa mi consigli di fare?”.
Non può chiedere a me una cosa simile, in questo momento vorrei spaccargli il naso perché ha toccato la mia ragazza, non sono in vena di suggerimenti. “Non lo so” borbotto.
“Forse dovrei parlare con Julie, magari possiamo capire cosa succede” afferma.
Stringo i braccioli della sedia per non mettergli le mani addosso. “Cosa pensi che succeda?”.
Alza le spalle e si mette in piedi “Non ne ho idea, ma tra noi c'è qualcosa. Lo sento”.
Già, tra di loro ci sono io. “Forse te lo stai immaginando”.

Sbuffa dal naso. “Sai come si è sviluppata la storia tra di noi, quel tipo di relazione non ti lascia mai”.
Mi alzo e cerco di mettere più distanza possibile tra di noi. “Non credo che sia una buona idea”.
Aggrotta la fronte e mi guarda con fastidio. “Perchè no? Lei non ti è mai piaciuta, ammettilo”.
Io la amo pezzo di cretino. Vorrei urlarlo ma non faccio in tempo. La porta si apre e Jay entra nella stanza sorridente e ignara della voragine che si sta formando. Nota Matt e il modo in cui stringo i pugni lungo i fianchi e finalmente trovo la risposta nel suo sguardo. Ha capito cosa sta succedendo perché quello che dice Matt è vero, l'ha baciata e lei non mi ha detto nulla. L'ha tenuto per sé, di nuovo, dietro uno dei suoi muri.
“Le prove sono annullate” borbotto avviandomi verso casa.
“Ma Aaron...” inizia Matt ma io non lo sento. Trotto come un treno fino alla mia camera e mi ci barrico dentro. Passano due minuti e Julianne si infila nella mia camera come un cucciolo con la coda tra le gambe. Resta ferma contro la porta e mi guarda. Ha paura, lo vedo, ma non quanta ne ho io.
“Aaron...” comincia.

“Lo hai rifatto” mormoro seduto sul letto. “Mi hai chiuso fuori”.
“Te lo volevo dire, davvero, ma non era nulla e non volevo che te la prendessi con lui” deglutisce “Era completamente ubriaco”.
Scatto in piedi “Ora non lo è, ma ti vuole comunque! Non lo capisci? Ti ama e la cosa mi fa andare fuori di testa”.
Fa un passo in avanti e alza le mani per farmi abbassare la voce. “Non mi interessa cosa prova”.
Raddoppio i toni, non mi frega se ci sentirà tutta la casa. “A me sì! È il mio migliore amico”.
“Ti ho detto che non mi importa!”.
Mi stringo la testa tra le mani. “Non è comunque questo il punto, non me lo hai detto. Abbiamo parlato a lungo di questa cosa, pensavo che fosse superata e invece continui a farmi stare nella tua vita solo a metà”.
“Sei completamente dentro alla mia vita, come fai a non vederlo?” guaisce.
La porta si spalanca e April irrompe nella stanza. “Cosa sta succedendo? Perché urlate?”.
Ci mancava solo lei ad impicciarsi. “Nulla” ribatto con astio “Non succede proprio nulla”. Supero entrambe e scendo di sotto. Esco di casa e salgo in macchina. Mi allontano. Guido senza meta, con l'unico scopo di mettere distanza tra me e l'oceano di sensazioni che mi sta trascinando in profondità.

 

 

 

Siedo sul cofano della mia macchina ormai da un'ora buona. Ho guidato con il pilota automatico fino al mio parco e ho parcheggiato. Ho fissato il cielo così a lungo che le nuvole mi sembrano dei coniglietti alieni a caccia di pecore spaziali.
Mi stringo le braccia al petto rabbrividendo. Ho ringraziato il cielo di avere una felpa nel bagagliaio, l'autunno è ormai arrivato.
Il rumore di una macchina che si avvicina mi strappa ai miei vaneggiamenti sulle nuvole spaziali. Non mi giro a guardare, ne sono già passate tre che non avevano il conducente che agognavo e la delusione è stata troppo forte. La macchina si ferma, il motore si spegne e una portiera si apre e si chiude. Dei passi leggeri calpestano l'erba e il vento trasporta una nube al cocco nella mia direzione. Grazie.
Mi tiro su e un paio di stupendi occhi indefiniti mi scrutano dispiaciuti. Scendo dal cofano e la stringo a me più forte che posso. Sembra più piccola di quanto mi ricordassi. Affondo il naso nei suoi capelli e ogni sensazione sgradevole si disintegra.
“Mi dispiace” sussurra allacciandomi le braccia intorno al collo.
“Anche a me” mormoro. “Non sai quanto”.

Ci sediamo sull'erba. “Sono andato fuori di testa, ho fatto una scenata per una sciocchezza”.
Mi accarezza la guancia con dolcezza. “Avevi tutto il diritto di arrabbiarti, ma vorrei raccontarti il mio punto di vista di quello che è successo ieri sera”.
La lascio parlare, lascio che mi spieghi ogni cosa e alla fine mi sento anche più stupido di quanto non mi sentissi già. “Gli hai dato una ginocchiata nei paesi bassi?” chiedo cercando di celare un sorriso sotto i bassi.
Ridacchia. “Non so cosa ti ha detto lui, ma sono stata molto franca su i miei sentimenti. Ora gli ho parlato e ha capito che non c'è spazio per lui nel mio cuore”.
Mi vibra lo stomaco. “A no?”.
Scuote la testa “No, mi dispiace, ma tu occupi tutto lo spazio disponibile”.
“Jay...”.
“Non sono brava a esprimere le mie emozioni e alcune volte, quando sono troppo forti, non riesco a gestirle. Per comunicare uso l'arte” fruga nella borsa e ne estrae un blocco “Aprilo”.
Faccio come dice e resto senza fiato. Su ogni pagina ci sono io. Profili, dettagli, attimi di me che lei ha congelato sulla carta. Intorno ad ogni immagine ci sono delle frasi, delle parole, tutti i sentimenti che si tiene dentro. “Ora hai capito? Non sei chiuso fuori dai muri, sei dentro al castello di ghiaccio con me e mi stai facendo sciogliere”.
Infrango le mia labbra contro le sue, come onde sulla sabbia. Non riesco a governare tutte le sensazioni che sento. Sono travolgenti, indomabili, proprio come lei. Non mi sono mai sentito così prima. È spaventoso e inebriante.
Mi accarezza i capelli con le dita e mi stringe contro il suo corpo. Ogni parte di me risponde in modo automatico.
Si allontana per prendere fiato e appoggia la fronte alla mia. “Jay...” dico il suo nome come una preghiera. “Non volevo dare di matto, ma lui mi ha fatto perdere il controllo”.
Mi sfiora il naso “Perchè?”.
“Ho sempre saputo che provava qualcosa per te, sei stata il suo tutto per un sacco di tempo e ho avuto paura che per te fosse lo stesso”.
Cerca il mio sguardo e si assicura che la stia ascoltando attentamente. “Lui è stato importante e questo non posso cambiarlo, ma ora sei tu il mio tutto e non vorrei che fosse diversamente, per nulla al mondo” mi scocca un leggero bacio e poi si allontana.
“Jay?” la chiamo.
Si alza in piedi e mi guarda. “Si?”.
“Ti amo”.
Resta congelata con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa. Non è spaventata, sembra solo sorpresa. “Cosa?”.
Stringo il coraggio tra le dita e respiro a fondo. “Ti amo, non posso più nasconderlo” mi alzo e le prendo le mani tra le mie “Non voglio che tu mi risponda o altro, voglio solo che tu lo sappia”.
“Mi ami?” balbetta incredula.
“Ti amo” sorrido “Quante volte dovrai farmelo ripetere prima di crederci?”.
Non risponde, mi salta addosso e cadiamo a terra. Rotoliamo tra i fili d'erba e baci appassionati, non ho bisogno che mi dica che ricambia, lo so. Il modo in cui mi guarda spiega ogni cosa. Vorrei solo avere la certezza che la decisione di amarci non porti a guai molto più grandi di noi.

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Capitolo 30
*** Henry ***


Henry

 

Durante i miei lunghi e faticosi diciassette anni di vita, ho potuto contare su tre certezze assolute: mia sorella è la persone migliore del pianeta, studiare è ciò che so fare meglio e mi piacciono i ragazzi nel modo in cui dovrebbero piacermi le ragazze. Non ho mai dubitato di nessuna di queste cose. Nemmeno dopo un brutto voto, nemmeno quando Jules si è persa nei meandri della tossicodipendenza e nemmeno quando Emily Hall mi ha infilato le mani nei pantaloni ad una festa in terza superiore. Anzi credo di aver appurato le mie certezze proprio quando queste hanno rischiato di vacillare.
Ora, perso tra la nebbia di insicurezze e dubbi, mi aggrappo alle mie convinzioni come ad una scialuppa di salvataggio. Vorrei che qualcuno mi lanciasse una salvagente, perché sono sicuro di non poter nuotare in mare aperto in questo modo.

“Zuccherino, stai bene?” domanda la mamma appoggiata allo stipite della porta. Guardarla ogni giorno così felice e spensierata mi lacera dall'interno ogni minuto di più. Osservarla mentre si destreggia nel suo labirinto di bugie e apparenza mi fa uscire di testa. Si comporta come se fosse tutto normale, come se il fatto di aver lasciato i propri figli da un giorno all'altro non fosse più un problema.
Sorrido meccanicamente e le mostro il libro di letteratura. “Sono solo un po' stanco, troppo studio”.

Inclina la testa perfettamente pettinata e arriccia le labbra. “Dovresti rilassarti un po'. Lascia quei libroni enormi per un paio di ore, ti farà bene”.
Non le entra in testa che questi libroni enormi determinano il mio futuro e la vita che sto provando a costruire con fatica e dolore. Se lasciassi andare ora, tutto il lavoro sarebbe sprecato. Vorrei urlare. “Sì, hai ragione. Probabilmente farò una pausa, ora”.
Sorride fiera di sé “Bravissimo. Tra un paio di ore si mangia, sai che fine hanno fatto Aaron e Julianne?”.

Probabilmente stanno facendo sesso nella macchina di Aaron alle tue spalle. “Non ne ho idea, se so qualcosa te lo dico”.
Sospira affranta. “Pensi che si odino?”.
Mi mordo la lingua per non ridere. “Cosa?”.

Si avvicina. “Prima hanno discusso e Aaron è scappato via. So che non vanno molto d'accordo, ma pensavo avessero trovato una sorta pace”.

Sì, mamma, hanno trovato una sorta pace. Vanno molto d'accordo, più di quanto potresti mai immaginare. “Non lo so, mamma. Forse fanno ancora un po' di fatica a gestire la nuova sistemazione”. Voglio una medaglia per le bugie che riesco a tessere ogni giorno.

Entra definitivamente in camera e si siede senza permesso sul mio letto. “So che è stato difficile ma ormai siamo una famiglia, non trovi?”.

No, non lo penso. “Certo, mamma”.

Giocherella con un filo del cardigan. “Hai parlato a tua sorella della storia di tuo padre?”.

Le budella si capovolgono nell'addome colpendo in pieno il cuore. Il senso di colpa si sovrappone alla vergogna in un miscuglio acido che infiamma la mia pazienza. “No” borbotto “Ancora non capisco perché me lo hai detto”.
Mi accarezza una mano. “Volevo che capissi le mie scelte e che capissi quelle di tuo padre”.
Sbuffo. “Potevi dirlo anche a Jules. Odio mentirle”.
Accartoccia la faccia in un'espressione triste. “Lo so, ma tua sorella è ancora fragile...tutto quello che ha passato...”.

Salto in piedi come una molla. “Jules non è fragile!” tuono “È la persone più forte e tenace che abbia mai conosciuto e se fossi sincera con lei, ci sarebbero molti meno problemi tra di voi”. Sono stanco di questa situazione. “Ci sarebbero molti meno problemi in generale”.
Si incupisce e mi regala una delle occhiate che di solito sono destinate a mia sorella. “Quindi è colpa mia se si droga...”.
Il suo vittimismo mi manda il sangue alla testa. “Non si droga più! E sì, in parte è colpa tua”.

Si alza oscillando sui tacchi. “Non le ho messo io in mano la droga!”.

“Le hai spezzato il cuore, però!” ribatto con forza.
Inclina le spalle e abbassa lo sguardo verso il pavimento. “Questo lo so” singhiozza “Lo so, perfettamente”.
Il fatto che lo sappia non la spinge a scusarsi, mai. In questi momenti capisco benissimo gli scatti di Jules e tutto il suo odio. Lei non lo cova, non lo nasconde e non la lacera dall'interno. “Scusa, mamma” la stringo tra le braccia cercando di non romperla “Non è colpa tua, dimentica quello che ho detto”.
Sorride debolmente e ricambia la stretta. “Non ti preoccupare, tesoro. So che sei stressato per la scuola. Ne riparleremo più avanti”.
No, non lo faremo. “Va bene”.

La lascio andare e lei si allontana. “Ti voglio bene”.
“Anche io”. Provo a volerle bene, davvero, ma alcune volte è davvero difficile. La guardo andare via e mi lascio cadere sul letto a peso morto. Che situazione disastrosa.
Il cellulare vibra sul comodino sfiorando il bordo. Lo afferro e leggo il messaggio.

Casa libera. Ti va di fare un salto? D.

Ed ecco un'altra situazione disastrosa. La differenza è che questa, in parte, mi rende estremamente felice.

 

Sgattaiolo giù per le scale, attraverso il salotto e la cucina. Lascio un biglietto sul frigorifero avvisando che sono andato a fare due passi ed esco di soppiatto in giardino.
La casa dei Rogers si trova alla destra della nostra e i giardini sono separati da una siepe bassa e uno steccato di legno bianco. Appoggio il piede sul barbecue di mattoni, afferro lo steccato e salto dall'altra parte. Il giardino dei Rogers è perfettamente potato e curato, quasi in modo maniacale. La porta del garage è socchiusa e io mi ci infilo dentro.
La prima volta che sono sgattaiolato in casa di Dylan avevo il cuore a mille e l'inalatore costantemente in mano. Ora mi sembra di essere diventato Diabolik.

Salgo la scala a chiocciola, attraverso il corridoio pieno di foto di famiglia e raggiungo la camera di Dylan. Lui è appeso al barra per le trazioni che è inchiodata al soffitto. Flette le braccia tirandosi verso l'alto e facendo guizzare la schiena muscolosa. Il sudore gli cola lungo la spina dorsale finendogli nei pantaloncini di spugna che gli sono calati leggermente lungo i fianchi. Non importa la sessualità, Dylan Rogers è un'opera d'arte per chiunque lo osservi.
Senza fiato e con la bocca secca mi schiarisco la gola per non rischiare di strozzarmi. Lui molla la sbarra e atterra sul parquet. Si gira lentamente disarmandomi con la visione dei suoi addominali perfettamente scolpiti. Sorride facendomi tremare le ginocchia e inclina la testa di lato toccandosi la nuca con la mano. Cerco a tentoni l'inalatore nella tasca, mi spruzzo in gola il medicinale e ricomincio a respirare correttamente.
Si morde il labbro cercando di non ridere. “Lo prendo come un complimento”.
La sua voce calda e passionale mi fa vibrare lo stomaco. “Lo è”.

Elimina la distanza fra noi e mi cattura le labbra con le sue. Il mio corpo risponde come stregato. Ogni preoccupazione si dissolve. Ogni dramma scompare. Ci siamo solo noi e nessun altro al mondo. Vorrei restare così per sempre.

Mi infila le dita tra i capelli e mi tira verso il letto. “Mi sei mancato da morire”.

“Anche tu” bofonchio contro le sue labbra. Eccome se è così.

 

 

Sono uscito con ragazzi di ogni tipo, dichiarati e non, ma nessuno mi ha mai fatto sentire al settimo cielo come Dylan. Con lui è come avere a disposizione la più grande biblioteca del mondo tutta per te e per tutto il tempo che vuoi. È come risolvere il cruciverba più difficile al primo colpo. È come immergersi nell'oceano per la prima volta.
“A cosa pensi?” domanda rotolando tra le lenzuola color mattone. Mi osserva con dolcezza intrecciando la le sue dita con le mie.
Mi giro sul fianco. “Nulla in particolare”.
Sorride avvicinando il naso al mio. “Vuoi sapere a cosa sto pensando io?”.
Chiudo gli occhi godendomi la sensazione e annuisco. Mi accarezza il collo con la mano libera. “Stavo pensando che non mi sono mai sentito così bene come adesso”. Mi ritrovo disteso sulla schiena e lui sopra di me. Lo guardo e non riesco a respirare. “Amo passare il tempo con te, lo sai?”. Il cuore mi batte in gola. Si china per baciarmi con lentezza. Il primo tocco è delicato, come una piuma, poi le nostre labbra si dischiudono e mi abbandono in lui. I nostri cuori battono all'unisono, le mani afferrano e stringono.

Ci perdiamo.

Ci ritroviamo.

Più volte.

Finché non siamo storditi e senza fiato. I contorni si confondono, la vita è messa da parte e di conseguenza abbassiamo anche la guardia.
“Cosa...” squittisce una vocina sulla soglia della camera.
Entrambi sobbalziamo tra le lenzuola e osserviamo terrorizzati Amanda Rogers, la madre di Dylan. Lei ci guarda schifata e furiosa. Tremola come una bomba sul punto di esplodere. “Dylan...cosa...lui...”.
“M-mamma, posso spiegare” balbetta Dylan allontanandosi il più possibile da me. “Non è come sembra”.
Lei si stringe l'orlo dell'abito tra le dita e lo accartoccia. “Non provare a negare!” strepita “Credi che sia stupida! So quello che sta succedendo!”.
Lui si alza e infila i pantaloni. “N-no, mamma, io...”.

Alza la mano con un gesto freddo. “Non voglio sentire le tue bugie! Hai idea di che razza di abominio tu stia commettendo?!”.
Mi infilo i jeans e la maglietta il più rapidamente possibile. “Signora Rogers”.
Mi punta gli occhi grigi addosso e mi incenerisce. “Stai zitto! Non voglio sentire la tua voce!Tu e tua sorella siete due mele bacate, proprio come vostro padre!”.
Stringo i denti cercando di accusare il colpo. “Noi stiamo...”.
Lei afferra Dylan come un rapace. “Voi non siete niente e mai lo sarete! Va contro natura!” strattona il figlio verso la porta “Venite entrambi con me! Subito!”.

Senza darci modo di opporci, ci trascina verso casa mia. Spalanca la porta senza essere stata invitata e si mette ad urlare come una allarme antincendio. Jim e mamma smettono di guardare la televisione e sobbalzano spaventati.
“Cosa succede?” domanda mamma andandole incontro.
“Vostro figlio! Ecco cosa succede!” sbraita.
Jim spegne il televisore e salta in piedi. “Amanda, spiegati per favore”.
Lei si passa le mani nei capelli arruffandoli in un nido. “Li ho trovati a fornicare!” guaisce “Insieme!”.
Dylan cerca di rimpicciolirsi ma la mano artigliata della madre non glielo permette. Mamma abbassa lo sguardo a terra, consapevole della situazione, e Jim sembra congelato. Fissa Amanda con il vuoto negli occhi.
“Non stavamo...” sospiro “Non è...”. Non so davvero da dove cominciare.

April strilla. “Esigo dei provvedimenti!”.
Jim si mette in mezzo alzando le mani. “Cerchiamo di non correre, magari si è trattato di un fraintendimento”.
“Non ho frainteso un bel niente, Jim!” strepita lei “Erano nudi a letto insieme! Tira tu le somme”.
Lui si gira verso di me con lo sguardo carico di disgusto e delusione. La sensazione che mi provoca è così forte che mi ritrovo ad indietreggiare.
“Mio figlio non è un finocchio!” strilla lei “È tutta colpa sua!”.
La realtà su cui poggio i piedi comincia ad ondeggiare e proprio quando ho più bisogno di lei, Jules entra dalla porta insieme ad Aaron. Sorridono immersi nei loro sentimenti finché non si trovano in mezzo alla situazione.
Jules si guarda intorno “Cosa succede?”.

Amanda le punta un dito contro. “È lei la causa di tutto questo! È un parassita che intossica tutto ciò a cui si avvicina”.

Jules sbatte le palpebre velocemente e indietreggia verso Aaron. Lui si irrigidisce. “Signora Rogers ma che diavolo dice?”.
“Amanda abbassa la voce per favore” la riprende la mamma.
“No! Non provare a dirmi cosa fare, tuo figlio a corrotto il mio!”.
Aaron e Jules si avvicinano e lei mi stringe la mano confusa. “Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?” brontola Aaron facendoci da scudo.
Amanda spalanca le braccia con un'espressione folle dipinta sul volto. “Non è chiaro?! Quella tossica ha influenzato negativamente suo fratello facendolo diventare un finocchio!”.

La mano di Jules mi stringe con più forza. “Crede davvero che la sessualità funzioni così? E per l'amor di Dio siamo nel ventunesimo secolo, apra gli occhi e si evolva!”.

Amanda avanza verso di lei e Aaron le si piazza davanti. “Sei una criminale e una tossica, non meriti nulla dalla vita!”.
Jules stringe i denti. “Crede che me ne freghi qualcosa di quello che pensa una donna bigotta come lei?” ride senza allegria e inclina la testa “Crede davvero che sia colpa mia o di Henry se a suo figlio piacciono gli uomini? Davvero? Non le è passato per la testa che magari la cosa sia nata un bel po' prima del nostro arrivo”.
Sbianca e smette di colpo di urlare. Si gira lentamente verso il figlio e comincia a tremare. “Dylan” mugola con voce lacrimevole “Ti prego...” sospira singhiozzando “No-n è così, vero?”.
Dylan la fissa congelato, non respira e non si muove. Si stringe le braccia al petto e soppesa le sue scelte. Da un lato la vita che ha sempre sognato che è piena di lotte e sofferenze, dall'altra la sua vita vuota e semplice avvolta in una menzogna. Lo fisso con tutta l'intensità possibile ma lui non mi guarda mai. Sono fermo davanti ad un dirupo aspettando che mi afferri o che se ne vada, ma non fa nessuna delle due cose. Lui mi spinge nel vuoto senza rimorso.
“È colpa sua, mamma. Io non sono così, te lo giuro” mormora piatto “Non sono così”.
Il ronzio che mi riempe le orecchie non mi permette di sentire altro, non ne ho bisogno. Precipito nel vuoto, senza fiato e con un buco al posto del cuore. Vorrei rannicchiarmi oppure urlare, ma non riesco a fare nulla.
La mano calda e rassicurante di Jules mi stringe con impeto e decisione, mi tiene saldo ad una realtà in cui non vorrei rimanere per nulla al mondo.

La voce di Amanda mi arriva da lontano. “Non lo voglio più vedere vicino ai miei figli” sentenzia “Nemmeno quell'altra”.

Jim sospira “Mi sembra una decisione prematura, potremmo parlarne e trovare lo sbaglio alla base delle loro decisioni”.
Lei arriccia il naso disgustata. “Io non credo. Da quando sono qua non hanno portato che guai, sono due mele marce”.
La mamma le si avvicina “Amanda, avanti...”.
“No. Sei una mia cara amica April e questo non cambierà, ma i miei figli non entreranno più in questa casa” spinge Dylan verso la porta. “Spero possiate curare tutte le serpi che si annidano in questa famiglia dimenticata da Dio”. Esce sbattendo la porta e portandosi via il mio cuore.
Il silenzio cala sulla stanza e nessuno si muove, finché Jim non esplode. “Tu ne eri a conoscenza?”.
Mamma alza le mani “N-no” balbetta “No, della loro relazione no”.
“Ma del fatto che è...è...” perde la voce e stringe la mascella.
“Omosessuale” mormora Jules “Non è una brutta parola, ne una malattia. È quello che è, fatevene una ragione”.

È tutto troppo, ecco cos'è. Mi muovo verso le scale come se qualcosa mi tirasse. Diverse voci mi chiamano ma le ignoro tutte. I miei piedi mi portano al bagno e io li seguo. Mi chiudo a chiave nella stanza e lascio che crolli tutto.

Il dolore.

La rabbia.

La delusione.
Le onde del dolore mi sovrastano, mi avvolgono e mi trascinano a largo.

 

 

Una voce calda e familiare mi culla. Arriva da lontano scaldandomi e ridestandomi dal mio coma di lacrime. Apro lentamente gli occhi e il bagno mi appare come attraverso una goccia d'acqua.

Don't let them in, don't let them see

Be the good boy you always have to be

Conceal, don't feel, don't let them know

Well, now they know

 

Lentamente mi alzo e mi stropiccio gli occhi incrostati. Rotolo fino alla porta e mi ci appoggio. La voce melodiosa di Jules filtra da sotto il legno, accompagnata da lo strimpellare della chitarra.

Let it go, let it go

Can't hold it back anymore

Let it go, let it go

Turn away and slam the door

 

Frozen?” domando rauco “Davvero?”.
Canta l'ultima strofa ridacchiando e poi smette di suonare. “Mi sembrava azzeccata come scelta” sospira “Il testo è molto profondo”.
Annuisco anche se non può vedermi. “Sì, hai ragione”.
Si muove e appoggia la chitarra a terra. “Posso entrare?”.
Non capisco neanche perché lo chiede. “Si, certo”.
Scivolo di lato lasciando che apra la porta. Entra nella stanza e si siede al mio fianco sul tappetto polveroso del bagno. Mi appoggia la testa sulla spalla e mi stringe la mano. “Mi dispiace da morire, Hen”.
Il dolore mi sovrasta nel momento in cui mi torna tutto in mente. “Non dirmelo”.
“Non per le stronzate della bigotta, ma per Dylan” stringe la mascella “È stato un codardo”.
Sentire il suo nome mi fa bruciare il cuore. “Non lo biasimo” borbotto.
Spalanca gli occhi. “Scherzi, vero?”.

Alzo le spalle. “Perchè dovrei biasimarlo? La sua famiglia lo stringe alla gola da quando è nato, soprattutto sua madre. Questa città è un covo di religiosi e pettegoli che non lo lascerebbe vivere. Ha fatto bene a negare tutto, avrei fatto lo stesso se non fossi... se non lo...”. Resta in silenzio troppo a lungo. “Cosa stai pensando?”.

Mi afferra il viso con entrambe le mani e mi costringe a guardarla negli occhi. “Io ti amo più di quanto ami me stessa, lo sai vero?”. Annuisco. “Mi uccide che tu debba vivere in questo modo e se mi troverò vicina a Dylan, non ti prometto che farò la brava”. Oh, sono sicuro che non la farà. “Non mi interessa assolutamente se ti piacciono i ragazzi, le ragazze, le mucche o i tricicli, sei mio fratello nonostante tutto. E dico tutto Henry”. So che è così, ma è fantastico sentirselo dire. “E sappi che farò il culo a chiunque provi a dirti che quello che senti è sbagliato”. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e la vedo sfuocata. “Sei perfetto come sei, Henry, perché sei davvero tu”. Mi stringe forte a se e finalmente la terra smette si vorticare. Jules mi rende saldo, scaccia la paura e rende il mondo un po' meno spaventoso.
La lascio andare. “Se lo dici tu”.
Annuisce con forza. “Io ho sempre ragione” si tira su e mi porge una mano “Ora usciamo da questo bagno e affrontiamo il mondo”.
 

 

Fisso con intensità la macchia di sugo incrosta sul bancone della cucina e cerco di grattarla con l'unghia del pollice.
“Io proprio non capisco” sospira Jim stropicciandosi la faccia “Vorrei sapere perché non sono stato messo a conoscenza di questa...situazione”.

Mamma sgualcisce un guanto da cucina. “Volevo parlartene davvero... solo che...”.
Jim sbatte la mano sul tavolo. “Cosa? Pensavi che avrei fatto storie? Che gli avrei impedito di venire a vivere qui?” allunga una mano verso Jules “Non mi sembra di aver fatto nessun dramma su di lei e sappiamo tutti quello che ha fatto”.
Mia sorella schiocca la lingua e si sporge verso di Jim. “Sono davvero felice di essere il metro di paragone per ogni situazione”. Aaron le accarezza la mano dietro il bancone. “Ma qui la questione è un po' diversa”.
Jim la guarda con astio. “In che modo sarebbe diverso?”.
Aaron intreccia le dita con Jules e lancia un'occhiataccia al padre. “Papà, per favore. Pensi davvero che l'omosessualità sia una malattia?”.
Lui sbuffa. “No, certo che no, ma non è di certo normale. Non è quello che vorrebbe il Signore”.
“Perchè tu sai esattamente cosa vuole” mormora sarcastico.
Jim scaccia le parole del figlio con la mano. “Non ha importanza. Amanda non parlerà di questa storia con nessuno e noi faremo lo stesso”.
Jules molla la mano di Aaron e mi affianca. “Davvero? Altre bugie?”.
“Va bene” acconsento.
“No” strepita lei “Basta, non devi essere costretto a stare dietro al loro velo di menzogne”.
Jim si avvicina guardandomi per la prima volta negli occhi. “Puoi essere ciò che vuoi, basta che tu lo tenga per te e lontano da questa casa” sospira “Non voglio che Liv si confonda o altro”.
Jules annuisce “Certo! Nascondiamo la verità sotto il tappeto, tanto non vederla significa che non esiste” mormora sarcastica.
“Non credo che tu sia nella posizione di fare commenti, Julianne” sospira Jim. Lei lo guarda con odio e risentimento, nello stesso modo in cui osserva la mamma. “Faremo come ho detto, fine della discussione. Non parlerete più con i Rogers, non li vedrete più e ogni domenica verrete con noi in chiesa. Questa famiglia ha bisogno di una sana dose di religione”.
Jules ride con forza. “Io non vengo proprio da nessuna parte”.
“Non ho mai detto che puoi scegliere” ribatte Jim alzando la voce. “Siamo una famiglia e da ora in poi farete ciò che diciamo noi. La pacchia è finita”.
Jules si volta verso la mamma “Non hai intenzione di fare nulla?”.

Lei smette di guardare il pavimento e alza lo sguardo vuoto verso la figlia. “Farete quello che decidiamo Jim e io, che è il meglio per voi”.

 

 

Jules marcia con rabbia avanti e indietro, con mani strette sui fianchi e lo sguardo furioso che viaggia lungo la sua stanza. Aaron sbuffa e le afferra il braccio. “Smettila, Jay, mi fai venire il mal di mare”.
Lei lo respinge. “Non riesco a stare ferma, tutto questo è completamente ingiusto”.
Mi stringo il suo cuscino al petto. “Ha ragione lui”.
Lei mi punta un dito contro “Non ci provare! Non ha ragione, non in questo caso. Devi essere libero di fare quello che vuoi, con chi vuoi”.
Alzo le spalle. “Stavo facendo quello che volevo e guarda il risultato. Ho quasi rovinato la vita di Dylan e ho perso la stima di Jim”.

“Che si fotta!” sbraita. “Dovresti avere la sua stima indipendentemente da tutto. Se non gli piaci può andare al diavolo”. Guarda Aaron. “Senza offesa”.
Lui le sorride con dolcezza. “Sono d'accordo con te”.

“Io non sono come te, Jules” mormoro “Non riesco a fregarmene di tutto”.
Sale su letto con noi e mi accarezza la guancia. “Devi cominciare, fratellino. Le persone fanno troppo schifo perché tu possa accontentarle tutte”.
So che ha ragione, ma proprio non ci riesco. Non voglio essere felice se la mia felicità può andare a discapito degli altri. “Farò finta di essere qualcun altro, non è un problema. Manca poco alla fine del liceo, una volta lontano da qui sarà diverso”.

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Capitolo 31
*** Julianne ***


Julianne

 

Fino a ieri, la nottata peggiore della mia vita era quella in cui avevo sperimentato per la prima volta i sintomi dell'astinenza. Avevo vomitato dieci volte di fila, tremato e sudato alla stesso tempo e urlato così a lungo che avevo perso la voce. Tutto ciò non è stato nulla in confronto a dover sentir piangere mio fratello per tutta la notte. Henry ha singhiozzato nel mio cuscino così a lungo che ormai è da strizzare. Non ho chiuso occhio nemmeno per dieci minuti, nemmeno quando ha finito le energie e si è assopito. Ho continuato a guardarlo per controllare che stesse respirando e che non andasse in mille pezzi tra le mie lenzuola. Tutta la storia di Dylan lo ha prosciugato, soprattutto quando lui ha negato i suoi sentimenti davanti a tutti, incolpando Henry della sua sessualità. Oggi gli conviene non arrivarmi troppo vicino, non sono sicura di riuscire a controllarmi.
“Jules” sospira roco rigirandosi tra le lenzuola. “Che ore sono?”.
Lancio un'occhiata alla sveglia. “Le sei e trenta. Dormi ancora un po'”.
Si stropiccia gli occhi gonfi e arrossati. “Devo prepararmi, oggi c'è scuola”.
Gli accarezzo i capelli. “Magari possiamo rimanere a casa. Mangiamo schifezze, guardiamo pessimi programmi alla tele e ci dimentichiamo del mondo. Che ne dici?”.
Scuote la testa. “Ho il compito di biologia”.
Sbuffo. “Potresti saltarlo, non morirà nessuno se oggi ti prendi una pausa”.
Scalcia le coperte. “Ho già creato abbastanza problemi, non voglio che la scuola ne diventi un altro” Si alza ondeggiando. “Jim non mi guarda più negli occhi e non credo che ricomincerà a farlo molto presto”.
“Mandalo al diavolo!” sbraito “Mandali tutti al diavolo. Non hai bisogno di persone del genere nella tua vita”.
Corruccia la fronte infastidito “So che ami fare terra bruciata intorno a te, Jules, ma questo non significa che io debba fare lo stesso. So più maturo di così”.
Stringo le braccia al petto cercando di non offendermi. “Grazie, Henry”.
“È la verità e ogni tanto fa male” sospira “Impara ad accettarla prima che sia troppo tardi”. Apre la porta e sparisce lasciandomi a digerire le sue parole cariche di dolore e risentimento.

 

 

Dopo una doccia bollente, indosso un paio di jeans a vita alta, una canottiera, un cardigan morbido e mi dirigo verso la cucina. Saltello ondeggiando pericolosamente mentre entro nella stanza e mi infilo gli stivali. Il caos mi avvolge prima che riesca ad alzare la cerniera. Liv urla così forte che ho quasi l'impressione che i vetri tremino. Mamma cerca di calmare la sua crisi abbracciandola e cercando di mettergli in mano la sua rana preferita. Cole si scaraventa in bocca secchiate di cereali e sbatte le dita contro il telefonino. Andrew fissa il vuoto nel bel mezzo di uno dei suoi momenti depressi e ha la stessa espressione che ha Henry mentre spilucca il suo muffin in un angolo.
“Tesoro, ti prego” mugola la mamma “Devi prepararti o finiremo per fare tardi”.
“Voglio papà!” strilla Liv sbattendole contro la rana arancione “Voglio il mio papà!”.
“Papà è andato a lavorare molto presto, oggi non può portarti all'asilo” sospira la mamma “Ma ci sono io”.

Liv grugnisce schifata e agita la rana con più irruenza. “Non voglio te! Voglio papi!”.
Entro in cucina in più silenziosamente possibile e afferro una ciambella glassata e una tazza di caffè.
“Julie”sospira.

Merda. “Dimmi, mamma”.
“Ho bisogno del tuo aiuto” geme “Devo finire di impacchettare i dolci per la fiera della scuola di Cole, puoi aiutare Liv a preparasi?”.
Ovvio, tocca a me la patata bollente. “Posso sistemare io i dolci”.
Mi lancia una lunga occhiata assassina. “Per favore”.
Che palle. “Va bene”. Mi avvicino e cerco di prendere in braccio Olivia, ma lei in risposta mi colpisce con la rana di peluche dritta sul naso. “Ahi”.
“Non voglio te” brontola.
Nemmeno io. “Liv, collabora, per favore”.
Mamma si dilegua come una razzo, lasciandomi con una bimba capricciosa e un umore sempre più nero. Cerco di prenderla ancora in braccio ma lei usa di nuovo la rana per malmenarmi, questa volta in un occhio. “Non voglio!”.

“Ranocchietta!” la rimprovera Aaron dalla soglia “Cosa abbiamo detto sulle botte?”.
Mi giro verso di lui e la rabbia evapora come limonata al sole. È bello da fare invidia ad un dipinto di Monet. I capelli spettinati, la giacca di jeans e i pantaloni sdruciti completano un'opera già perfetta di partenza. Mi tremano le ginocchia e quando si avvicina il cuore mi sbatte contro le costole con forza. “Non bisogna mai picchiare nessuno, nemmeno per gioco” borbotta Liv imitando il tono di Aaron. “Scusa, Julie”.
Solo con lui si comporta come un cucciolo dolce e ubbidiente, non è giusto. “Tranquilla”.
La afferra per la vita tirandola su dal tavolo. “Perchè ora non viene con me e Jay e ti aiutiamo a prepararti? Puoi vestirti come preferisci”.
Le ridacchia arrampicandosi sul fratello. “Va bene, Ron-Ron”.
Se bastava così poco, ero capace pure io. Mi fa l'occhiolino e si avvia verso le scale. Sbruffone. Mi godo la visione del suo sedere stretto nei jeans scuri e il modo in cui la giacca gli fascia la schiena. È uno sbruffone molto sexy.
 

Al piano superiore, Liv lancia per aria tutto il suo armadio e opta per un look molto audace. Sceglie un paio di pantaloncini color mela, delle calze con le stelline e un bel maglione arancione con delle rane di brillantini. Tutto quanto è messo in risalto da una coroncina da principessa. Vorrei avere la sua sicurezza nel vestirsi.
La piccola peste si chiude in bagno e comincia a prepararsi lasciandoci soli in camera sua. Aaron mi stringe tra le braccia prima ancora che Liv abbia del tutto chiuso la porta. Il suo odore mi rilassa all'istante. Mi aggrappo alle sua spalle come ad una scialuppa di salvataggio.
“Mi sei mancata” sospira tra i miei capelli.

“Anche tu”.
Allenta l'abbraccio ma continua a tenermi le mani sui fianchi. “Henry come sta?”.

È bellissimo ma non riesco a non notare che ha il viso stanco e gli occhi arrossati. “Male. Non sembra neanche più lui. Tu come hai dormito?”.

“Mi dispiace da morire per lui, vorrei poterlo aiutare. Dylan ha fatto proprio lo stronzo” Inclina la testa e sorride. “Ho dormito molto bene”.
Gli accarezzo la guancia lievemente ispida. “Non ho chiesto una bugia, Aaron”.
Si china verso di me sfiorandomi il naso con il suo. “Non voglio dirti che non ho chiuso occhio tutta la notte perché ormai mi sono abituato a dormire nell'incavo del tuo collo ed ad avere intorno il tuo profumo meraviglioso. Non voglio dirtelo perché so che ti sentiresti in colpa e perché sono convinto che hai fatto bene a dormire con tuo fratello, visto che ieri sembrava molto più che a pezzi”.

Mi sento comunque in colpa. “Mi dispiace”.
“Non devi”. Chiude gli occhi e appoggia la fronte alla mia. “Ma sono sicuro che saprai come farti perdonare...”.
Il suo tono caldo mi fa vibrare lo stomaco. “Ho una mezza idea...”.
Mi posa un braccio intorno alla vita attirandomi contro il suo corpo. Lo bacio piano sulle labbra. Un bacio dolce, tenero e perfetto, come lui. Dura un secondo, perché prima che riesca a rendermene conto tutto si fa più intenso. Le sue dita mi stringono sopra i vestiti e tra i capelli. Ogni muscolo del mio corpo si tende come una molla pronta a scattare. Mi spinge delicatamente contro il muro e intensifica il bacio. Lo sento ovunque, dalla testa ai piedi. Vorrei che non smettesse mai, ma proprio quando l'elettricità si intensifica la voce di Liv arriva dal bagno. “Sono pronta” annuncia “Volete vedere?”.
Aaron si allontana con un sforzo e geme di frustrazione. “Ne riparliamo dopo”. Si sposta di lato aggiustandosi i capelli e i pantaloni. “Vieni fuori, Livvie”.
Lei esce dal bagno con una piroetta e sfilando come una modella di Victoria. Il suo completo la fa assomigliare ad un cono stradale, ma è adorabile quindi fingiamo che vada bene così.

“Sei bellissima, ranocchietta” sentenzia Aaron.

Lei ridacchia come una delle ochette che di solito gironzolano intorno a lui. “Grazie”.
Oh, come ti capisco. “Forza” li esorto “È ora di andare a scuola”.

 

 

Davanti al mio armadietto, infilo i che mi servono nello zaino e lascio quelli che mi ero portata a casa. Cerco di auto convincermi che, se ci credo con fermezza, la giornata migliorerà. Non riesco a far passare nemmeno un minuto da quel pensiero, che la situazione si capovolge in maniera indicibile. L'anta di metallo sbatte con irruenza rischiando di tranciarmi la mano di netto. “Sei solo una puttana!” sbraita Nicole con il viso rigato di lacrime al mascara.
Sono del tutto impreparata. “C-cosa?” balbetto.
Lei non mi risponde, alza la mano e mi colpisce con forza la guancia. Non sono pronta ad incassare e arranco all'indietro, cadendo rovinosamente a terra. Il mio culo sbatte sul linoleum, procurandomi una fitta che si sovrappone al bruciore al labbro. In corridoio cala il silenzio e gli studenti incuriositi ci accerchiano. Vorrei parlare o fare qualcosa ma sono del tutto congelata. Nicole trema come una foglia in mezzo ad una tempesta e fissa la sua mano ancora alzata a mezz'aria. Sembra bloccata tra lo stupore e l'appagamento, indecisa su come reagire. Non impiega molto a decidere e prova a saltarmi addosso, ma il braccio di Matt la intercetta. “No, Niki, smettila!” tuona stringendola e trascinandola nella direzione opposta.

Lei scalcia e si dimena. “No! Lo devono sapere tutti!”.

La folla borbotta ipotesi a mezzavoce mentre nella mia testa esplode il caos. Sento il panico risalirmi lungo le gambe come un serpente.
Nicole scivola via dalla presa del suo ragazzo e avanza verso di me. “Sei una puttana malata! Ti sei divertita a scopartelo? È stato liberatorio?!”. La sua rabbia mi investe, il suo dolore mi si riversa addosso e io non faccio niente per bloccarla. “Spero ne sia valsa la pena, perché hai rovinato la mia vita e anche la sua!” si infila le mani nei capelli con rabbia “Sei una puttana disperata e con un mucchio di problemi e questo non cambierà mai!”.
Le sue parole mi schiacciano contro il pavimento come un macigno.
Matt le afferra il braccio. “Smettila, ti ho detto che lei non c'entra”.
Nicole si ritrae come se la scottasse. “Non toccarmi! Non devi più toccarmi, mi fai schifo!”.
“Niki...” sospira Matt.
“Mi fate schifo entrambi”. Con occhi furenti e carichi di dolore mi sputa addosso. Letteralmente. La sua saliva mi macchia i pantaloni e aggiunge un crepa ad un muro che sta andando in mille pezzi.
“Si può sapere cosa sta succedendo?” la voce del preside Richmond rimbomba tra gli studenti “Si sposti, signor Brown” esala scostando uno studente “Ma cosa...”. I suoi occhioni marroni scrutano la scena con stupore e confusione, finché il suo cervello non trae le conclusioni. “Voi due” ci indica “Nel mio ufficio. Subito”.

 

 

Il preside Richmond fissa lo schermo con gli occhi sgranati e la bocca socchiusa. Ha lo stesso sguardo di un pesce palla sorpreso. La ripresa delle telecamere del corridoio mostra perfettamente Nicole mentre mi colpisce, mi insulta e alla fine mi sputa con disprezzo addosso.
“Tutto ciò è inconcepibile...” sospira “Nella mia scuola...”.
Nicole si raddrizza sulla sedia come un cagnolino ubbidiente. “È stata lei a cominciare”.

Non concepisco la ragione, ma in qualche modo mi trovo d'accordo con lei. Resto in silenzio nel tentativo di acquietare le voci assordanti che mi urlano nella testa.
“E in che modo esattamente, signorina Stuart? Perché da quello che vedo è lei che comincia” afferma il preside Richmond.
La porta si apre con uno scatto e la dottoressa Dawson fa il suo ingresso tutta trafelata. “Scusate il ritardo”.
Nicole sbuffa “Non abbiamo bisogno del supporto psicologico, almeno non io”.
Il preside mostra la ripresa alla dottoressa e lei si acciglia preoccupata. Mi guarda a lungo, sento il suo sguardo addosso ma non lo ricambio mai, non riesco.
“Mi sembra chiaro che qui Julianne sia la vittima” afferma.
Nicole squittisce “Non è vero! Sono io la vittima, lei è solo una puttana!”.
“Signorina Stuart!” tuona il preside “Moderi il linguaggio”.
Nicole sbatte la mano sulla scrivania “È la verità! È andata a letto con il mio ragazzo, se l'è meritato!”.

Il collo del preside si tinge di rosso accesso. “Qualsiasi cosa sia successa al di fuori delle mura scolastiche non giustifica una aggressione di quel genere” si agita sulla poltrona “Suo padre è lo sceriffo e per questo sarò clemente, poichè sono sicuro che lui saprà come gestire la faccenda. In ogni caso, sconterà un'ora di punizione ogni pomeriggio per due settimane”.
“Ma non è giusto!” sbraita “E lei niente? È stata lei a causare tutto questo”.
Il preside alza il mento e le indica la porta. “La mia decisione è presa e se continua a ribattere aumenterò le settimane”. Lei abbassa la testa e chiude la bocca. “Molto bene, ora vada a lezione”.
Si alza di scatto e mi molla un colpo sulla spalla con la borsa.
“Le settimane sono diventate tre!” sbotta il preside mentre Nicole fila fuori dalla porta.
Il silenzio cala sulla stanza ed entrambi mi fissano. Lui fruga nei cassetti e tira fuori dei fazzolettini e del disinfettante. Inumidisce il fazzoletto e me lo porge indicandomi il labbro. Tampono il taglio sul labbro stringendo i denti quando questo inizia a bruciare.
“Signorina Roux...” sospira. Quel tono deluso e rammaricato mi scava un buco in mezzo allo stomaco. “Non le assegno nessuna punizione perché è alquanto ovvio che lei non ha reagito e non ha nemmeno causato la rissa, ma voglio lo stesso che riempia questo”. Il barattolino con il tappo rosso mi fissa e il muro va in mille pezzi. Il panico mi investe come un carrarmato e la stanza comincia a girare su se stessa e intorno a me. Il pavimento mi risucchia tra le travi di legno e mi fa cadere in un burrone di oscurità. Mi precipita tutto addosso. Dolore, vergogna, consapevolezza. Si riversa tutto insieme, condensandosi a livello dei polmoni. Mi manca l'aria. Vorrei respirare ma non ci riesco. Vorrei urlare ma non ci riesco. Vorrei fare qualcosa ma non riesco, quindi smetto di lottare e lascio che il vuoto abbia la meglio.

 

 

 

Riapro lentamente gli occhi e fisso il soffitto candido. Una mano delicata mi accarezza la testa con movimenti ritmici. Sposto lo sguardo incrociando gli occhi della dottoressa Dawson che mi osservano con dolcezza. “Bentornata” sospira sfiorandomi la guancia.
“Perchè? Dov'ero andata?” chiedo con voce roca.
Lei sorride. “Sei svenuta per un po'”. Cerco di alzarmi ma lei me lo impedisce. “Vacci piano. Hai avuto un attacco di panico davvero forte e hai iperventilato fino allo svenimento. Non mi era mai capitato, mi sono preoccupata molto e dovevi vedere il preside. Si è spaventato così tanto che voleva chiamare l'ambulanza, la polizia e la guardia costiera” mi accarezza la fronte con l'indice.

“Ma qui non c'è la costa” mormoro.

Ridacchia piano. “Esatto. Si è pure scordato del test delle urine, ha buttato il barattolino nella spazzatura. Suppongo pensi sia colpa sua”.
Chiudo gli occhi. “Mi dispiace”.
“Non hai nulla di cui scusarti, Julianne. Hai subito un'aggressione e hai reagito come hai potuto, è molto forte da parte tua”.
Mi alzo lentamente cercando di sopprimere un giramento. “Non è stata un'aggressione”.
Incrocia le braccia al petto. “Nicole ti ha aggredita verbalmente e fisicamente, non provare a minimizzare. Tre settimane di punizione sono una sciocchezza, solo perché suo padre è lo sceriffo. Patetico. Ho chiesto al preside di consigliare ai suoi genitori di mandarla da me o da un altro psicologo”.
Sospiro massaggiandomi il viso. “Non penso che la terapia possa aiutarla”.
“La terapia può aiutare chiunque, Julianne” sorride “Soprattutto se fatta da me”.

Sorrido e il taglio sul labbro brucia. “Ahi” mormoro toccandolo con la punta del dito.
“Ti ha lasciato un bel segno” afferma “Forse ti rimarrà la cicatrice”.
Mi giro verso l'acquario cercando di specchiarmi. “Il suo stupido anello della castità mi ha tagliata”.

“Perchè crede che tu sia andata a letto con Matt?” chiede alzandosi a dirigendosi verso la sua poltrona.
“Non mi domanda se è vero?” dico mettendomi a sedere tra i miei cuscini.
Sorride inclinando la testa. “So che non è lui il ragazzo misterioso e so anche che non sei il tipo che va con i ragazzi fidanzati”.
Giocherello con un bottone. “Un tempo lo facevo. Sono andata a letto con un sacco di ragazzi fidanzati” sbuffo “Ero proprio una stronza”.
Mi punta la penna contro. “Vedi, eri. Questo è l'importante”.

Spero che abbia ragione. “Comunque penso che creda che ci sia andata a letto perché lui mi ha baciata alla festa di Savannah”.
Strabuzza gli occhi. “Raccontami”.

 

Dopo il resoconto della festa, la dottoressa annuisce convinta. “Non mi sorprende affatto, Matt è molto insicuro. Suo padre è un avvocato eccezionale, forse il migliore della città. Si aspetta sempre troppo dal figlio e lui ne risente molto”.

Scuoto la testa. “Non capisco cosa c'entri con me”.
“La sua vita deve seguire sempre degli standard. Voti perfetti, comportamento perfetto e ragazza perfetta. Magari nulla di questo lo rende felice e allora prova ribellarsi nell'unico campo che a suo padre non importa molto”.
Sospiro. “Nicole”.
Annuisce. “Esatto. E cos'è il contrario di una ragazza perfetta che non ti piace sul serio?”.
Ridacchio. “Io?”.

Scuote la testa. “Si. Cioè l'unica ragazza che lo abbia fatto sentire vivo e per cui prova vere emozioni”.

Ha senso ma non del tutto. “Ancora non capisco perché ha mentito sul sesso”

Lei scribacchia sul quaderno. “Magari non lo ha fatto, magari è Nicole che ha equivocato”.

“Sì, forse” sospiro fissando la macchia della saliva velenosa di Nicole.

La dottoressa si alza, si avvicina e si siede sul tavolino proprio davanti a me. “Questo” dice indicando lo sputo “É il tentativo più abietto e laido di una ragazza disperata di mortificarti. Non ti definisce come persona e non lo meriti per nulla, chiaro?”.

Annuisco cercando di deglutire l'enorme nodo che mi stringe la gola. È davvero così? Non lo merito?

Non ne sono molto sicura.

 

 

 

Raggiungo la lezione di chimica avvolta dagli sguardi indiscreti e le risatine sommesse. Mi stringo al petto i e cerco di tenere la testa più in basso che posso. Scivolo in classe cercando di risultare invisibile e mi siedo al tavolo. Sistemo gli appunti e tengo gli occhi bassi cercando di mimetizzarmi con il tavolo di metallo. Quando penso di esserci riuscita, Lip entra in classe urlando come una tromba nautica. “Dolcezza!”. L'intera classe si gira verso di me e comincia a bisbigliare. Meraviglioso. Lip avanza con la delicatezza di un lamantino affamato e mi raggiunge. Salta sullo sgabello e mi afferra il viso con entrambe le mani. “Cazzo!” esclama mentre esamina le mie ferite di guerra. “Che stronza ignobile!”.
Lo scaccio agitando la mano. “La pianti di fare tutto questo casino, per favore? Sto cercando di allontanare l'occhio di bue dalla mia vita, non di vendere più biglietti per lo spettacolo”.
Sbuffa. “Quante metafore. Dai, non dirmi che ti da fastidio un po' di attenzione?”.
Lo guardo esterrefatta “No” sospiro con sarcasmo “Adoro che la gente mi dia della puttana e mi sputi addosso”.
Abbassa lo sguardo colpevole. “Scusa, dolcezza, non era quello che intendevo. Non hai fatto nulla di male, è lei che ha perso la testa. Sappiamo che non sei andata a letto con Matt”.
Noi lo sappiamo” ribatto “Ma il resto del mondo pensa che io sia una troia”.
Mi tira una ciocca. “Devo ripeterti il discorso sul lasciare che la plebe parli?”.
“No, però...”. Soffio allontanandolo dai miei capelli.
“Però nulla, dolcezza” asserisce dandomi un colpetto sul naso.
“Wow, non perdi tempo” esala una voce alle mie spalle. Sia io e che Lip ci giriamo verso il ragazzo. “Scusami?” chiedo con fastidio. Non lo conosco e non ho idea del perché mi stia parlando. Beh, forse una sì.
Il ragazzo avanza appoggiando un braccio sulla mia sedia. “Sei una che non perde un colpo a quanto vedo” si china verso di me leccandosi le labbra “La cosa mi piace parecchio”. Un brivido di puro disgusto mi attraversa la spina dorsale.
La mano enorme di Lip lo afferra all'altezza del colletto e lo strattona indietro. “Levati dalle palle, Russell, o ti insegno a contare facendoti raccogliere i denti dal pavimento”.
Il ragazzo si sottrae alla presa e si scosta di lato. “Rilassati, O'Connor. Dovresti sul serio imparare a condividere, sei troppo ingordo”.
“Ottima idea”. Lip si fa avanti come un bulldozer e mi sovrasta come un bodyguard. “ Ho deciso che sarò generoso, condivido entrambi i miei pugni con la tua faccia da cazzo, che ne dici?”.
Russell indietreggia e alza le mani in segno di resa. “Scusa, amico, stavo scherzando”.
“Ti conviene girarle a largo o scoprirai se io sto scherzando invece” afferma con rabbia. Russell si allontana con la coda tra le gambe e Lip si risiede con un tonfo. “Che razza di porco”.
Cerco di sopprimere un sorriso con difficoltà. “Wow. Ci si può annegare in tutto questo testosterone”.
Ridacchia. “E quello era niente. Se qualcuno ti da fastidioso come Russell dimmelo, so io come raddrizzarli”.
Gli regalo il sorriso migliore del mio repertorio. “Grazie, Lip”.
Mi accarezza la nuca. “Dovere, dolcezza”.

 

 

 

Le due ore successive sono uno strazio. Giselle infierisce in ogni modo possibile sulla scenata di Nicole e si destreggia in una serie di frecciatine perfettamente affilate e molto dolorose. Peyton mi stringe il braccio così forte, per impedirmi di colpirla, che probabilmente mi spunterà un livido.
Durante algebra il professore mi chiama alla lavagna e sono così distratta dai commenti che sbaglio un'equazione che con fatica avevo imparato a fare. Dorothea non aiuta, arrossendo e cercando di sprofondare nel pavimento insieme a me.
Mi trascino nel fango di adolescenti impiccioni e maleducati come un soldato solo per arrivare all'ora di francese. Corro in classe ignorando tutto e tutti e travolgendo un paio di studenti. Quando varco la soglia Aaron è già seduto al nostro banco e fissa nella mia direzione con la fronte completamente corrucciata. Stringe i denti e increspa le sopracciglia, come un cucciolo imbronciato. Non serve dire che è perfetto anche mentre è tutto corrucciato. Quando mi vede espira con irruenza, come se fino ad adesso avesse trattenuto il fiato. Si muove a scatti come se fosse tentato dalla voglia di corrermi incontro, ma fosse trattenuto dalla consapevolezza del mondo che ci osserva con occhio critico.

Lo raggiungo velocemente e mi siedo al suo fianco. Mi osserva a lungo, mi esamina nei dettagli e quando i suoi occhi si fermano sul taglio al labbro inferiore, i suoi bellissimi occhi verdi si rabbuiano. “Jay” sospira con sofferenza.
Allungo la mano verso la sua e gliela stringo nascondendola tra le nostre ginocchia. “Lo so. Non ci pensare”.
Mi accarezza il dorso con il pollice. “Dovevo essere lì. Dovevo proteggerti. Non è giusto, lei...”.
Gli strattono la mano. “Smettila. Sto benissimo”.
“Hai miei occhi non sembra” esala con rabbia.
“Ti assicuro che sto bene, è passato” affermo con decisione.
Mi accarezza la mano con dolcezza e smette di ribattere, anche dal suo sguardo so che non mi crede. Passa tutta la lezione ad accarezzarmi, toccarmi e cercare di sorridermi il più delicatamente e furtivamente possibile.

Camminiamo insieme verso la mensa e ogni volta che qualcuno prova a parlare, ridere o bisbigliare Aaron si trasforma in un materasso umano e attutisce qualsiasi colpo. In coda per il pranzo mi lascia insieme alle mie amiche e raggiunge i suoi.
“Come stai?” domanda cauta Peyton.
Faccio scorrere il vassoio. “Bene”.
Arriccia il naso e mi osserva. “Non si direbbe”.
Sbuffo. “Sono così orribile?”.
Le scuote la parrucca bianca. “No, hai solo la faccia di chi è al limite della sopportazione”.

Perché è così. “Non so di cosa parli, io sto alla grande”.
Una cheerleader non identificabile ci passa accanto e gracchia. “Puttane!”.
Peyton le mostra il dito medio. “Parli per esperienza, Millie?” strilla facendomi ridacchiare.

Dottie squittisce e si raggomitola il più lontano da noi. “Che c'è Dots?” le domanda Pey.
Dorothea la guarda esterrefatta. “Cosa c'è? Scherzi? È tutto il giorno che mi becco insulti del genere e io non ho fatto nulla”.
Peyton si stringe nella giacca. “Pure io, ma che ci vuoi fare”.
Le guance le si tingo di rosso. “Beh, ma io non ho fatto nulla di male”.
Mollo il vassoio e la squadro. “Perchè pensi che io abbia fatto qualcosa di quello che dicono?”.

Lei sospira e si gratta il collo arrossato. “Non lo so, io...”.
“Non l'ho fatto” metto in chiaro.
“Dottie ma che cavolo fai?” chiede brusca Peyton.
Dorothea sbatte velocemente le ciglia. “Se si ha un certo comportamento alla fine si raccoglie quello che si semina. Io non ho seminato nulla e mi sto beccando comunque i frutti”.

Peyton strabuzza gli occhi.
“Quindi pensi che io mi comporti come una troia?” domando stupita “Davvero?”.
Lei abbassa lo sguardo sulle scarpe. “Io...”.

Spalanco la bocca . “Wow. Grazie, Dorothea”.
Lei si stringe le braccia al petto. “Sto solo dicendo...”.
Alzo la mano. “No, non mi interessa” la interrompo “Per tutto il giorno ho ignorato i commenti di persone che non ho mai visto, perché loro non mi conoscono. Pensavo che almeno da voi non sarei stata giudicata colpevole sulla base di delle voci”.
“Noi non ti giudichiamo, non lo abbiamo mai fatto. Vero, Dottie?”.
Dorothea mi osserva incerta e poi abbassa lo sguardo sul pavimento. Nessuna parola e allo stesso tempo una grossa risposta. La pugnalata scivola a fondo colpendo il centro più delicato del mio corpo. Brucia e fa più male di tutto lo sporco che mi hanno tirato addosso oggi. “Buono a sapersi” sospiro per poi voltarmi e allontanarmi da loro.
Pey mi chiama ma la ignoro ed esco dalla mensa.

 

 

 

Vago per i corridoi come un fantasma. Il mio cervello macina pensieri e ragionamenti che non fanno altro che allargare il solco. Vorrei dire che le parole mi scivolano addosso come acqua e la maggior parte lo fa, ma non quelle delle persone a cui tieni. Quelle ti restano dentro e come un seme danno vita ad una pianta velenosa che ti intossica.
 

I ain’t playing no games

'Cause I’ve got nothing left to lose

 

La voce calda e carica di emozioni mi fa bloccare in mezzo al corridoio. Il fiume di emozioni arriva dalla porta socchiusa dell'aula di musica.

 

I'm so tired of circular motions

They leave me dizzy and confused

 

Seguo la voce come un attirata dal canto di una sirena. Sbircio nella stanza e il profilo ombroso di Tyson si riflette nel pianoforte lucido.

 

My heart, oh no, is not your revolving door

I get stuck spinning and spinning and spinning

 

Preme sui tasti bianchi con così tanta passione da far perdere il fiato. Il suo volto, di solito di ghiaccio, sembra in frantumi ed attraverso ogni crepa si vede tutto il suo dolore. Sembra quasi un'altra persona.

Spingo la porta per vedere meglio e il cigolio improvviso lo fa voltare nella mia direzione. Non sembra infastidito, solo sorpreso. “Scusa” sospiro “Non volevo origliare”.
Mi osserva a lungo, poi scivola di lato sullo sgabello e mi fa segno di sedermi. Sorpresa lo raggiungo e mi accomodo al suo fianco. Sul leggio davanti a noi spicca un quaderno di rovinato su cui si trova il testo della sua canzone. Assomiglia molto al mio diario delle canzoni e la cosa mi fa scappare un sorriso.
Tyson ignora i miei risolini da pazza e ricomincia a suonare. La musica ci avvolge nel suo bozzolo caldo e rassicurante. Non ci sono più epiteti dolorosi, amiche che non credono in te e amori impossibili. Non ci sono confini e restrizioni. C'è solo amore, passione e tutto ciò che vogliamo immaginare.
Riapro gli occhi solo quando Ty smette si suonare. Non ricordo nemmeno quando li ho chiusi. Lui allunga un pollice verso la mia guancia e cattura una lacrima fuggiasca. Non mi sono nemmeno resa conto di aver pianto.
“Grazie” sospiro piano.
Lui mi scandaglia con i suoi strani occhi scuri. “Lascia pure che parlino ma non credere a nulla di ciò che dicono. Non sono nessuno e mai lo saranno. Hai molto più talento di chiunque in questo posto. Lascia che vivano il loro momento di gloria, perché il liceo finisce e un giorno si sveglieranno e scopriranno che non hanno niente di quello che volevano e invece noi abbiamo tutto. Sei una persona fantastica, Julianne. Non provare mai a dubitarne”.
È la frase più lunga che gli abbia mai sentito dire ed è anche la migliore di tutta la giornata. “Grazie, Ty”.

Sorride e si rimette a suonare come se nulla fosse. Non provo a riaprire il discorso e allungo le mani verso il piano e suono con lui. Non abbiamo bisogno di parole quando c'è la musica a parlare per noi.

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Capitolo 32
*** Aaron ***


Aaron

 

Cammino nervosamente avanti e indietro. La suola delle scarpe gratta sull'asfalto ogni volta che mi giro per cambiare direzione. Le chiavi tintinnano tra di loro mentre le rigiro tra le mani.
“Aaron” brontola Andy “Mi stai facendo venire da vomitare. Stai fermo”.
Non riesco a stare fermo. Jay è sparita di nuovo e non ho idea di come stia o di dove sia. L'ho vista correre via di sfuggita in mensa e poi ho sentito la discussione accesa tra Peyton e Dorothea. Il commento di Dottie non mi ha sorpreso, la sua aria da santarellina non è soltanto un'aria.
Ho notato un sacco di ragazze lanciarle commenti velenosi e bigliettini carichi di prese in giro, che con lei non hanno nulla a che fare. Di certo non la giustifico, ma ho capito il suo sfogo.
Quando sono ad un passo dal lanciare le chiavi per la frustrazione, Jay e Tyson appaiono all'orizzonte immersi in una fitta e quieta conversazione. Borbottano a bassissima voce, tenendosi a braccetto come una coppia di vecchietti. Vicini alla macchina sorridono entrambi e smettono di parlare.
“Tutto okay?” chiedo di botto.
Lei annuisce. “Si” fa l'occhiolino a Tyson “Tutto benissimo”.
Lui le da un colpetto con il fianco e ci fa un cenno, per poi allontanarsi.
Mi sono perso un altro pezzo. La fisso in attesa di spiegazioni ma lei si limita a sorridere. “Andiamo? Sono stufa di questo posto”.
Andy sbatte il piede a terra. “Non dirmelo”.

 

 

Torniamo a casa avvolti da un silenzio saturo di parole e di pensieri. Andy nascosto nel suo mondo, Jay nel suo castello di ghiaccio e Henry rannicchiato tra le sue paure più grandi. Vorrei poterli aiutare tutti, ma l'unica chiave che possiedo è quella della fortezza di Jay ed è forse l'unica per cui ucciderei.
Una volta varcata la soglia, April ci accoglie con il suo solito sorriso eccessivo e una teglia di biscotti. Appena il suo sguardo si posa su Jay, inizia ad urlare come una sirena. “Cos'hai fatto alla faccia!?”.
Papà salta fuori dalla cucina come un ninja e con ancora un mestolo in mano. “Cosa succede?”.
Julianne sorpassa la madre. “Nulla, un incidente durante educazione fisica”.
April le afferra il gomito e la tira verso la luce. “Non provare a mentirmi, Julianne! Ho parlato al telefono con il preside Richmond, so tutto”.
Jay si ritrae. “Allora perché domandi se sai già tutto?”.
April punta le mani all'altezza dei fianchi. “Per vedere se per una volta decidi di essere sincera con me”.
Julianne sbuffa. “Va bene. Vuoi la verità? Nicole mi ha colpita in piena faccia, perché pensa che abbia fatto sesso con il suo ragazzo”. Papà fa per aprire la bocca ma Jay alza entrambe le mani per fermarlo. “Il che non è affatto vero, Matt ed io siamo solo amici”.
April inclina la testa della figlia per guardare meglio il taglio sul labbro. “Allora perché lo pensa?”.
“Non ne ho idea” sospira “È quello che ho intenzione di scoprire”.
“Nicole Stuart ti ha aggredita? La figlia dello sceriffo?” domanda curioso papà. Jay annuisce. “Che strano. Pensavo che avesse educato meglio i suoi figli”.
Lei fa spallucce e punta di nuovo alle scale. “Ora vado a studiare”.
April la blocca di nuovo. “Non se ne parla, tu vieni in cucina con noi. Dobbiamo discutere di questa storia”.

Papà ci indica “Voi tre andate in camera vostra a studiare”.

Eseguiamo gli ordini e io mi ritrovo di nuovo a camminare avanti e indietro come un pollo. Henry mi ignora e fissa mono-espressivo il libro di fisica. So che sta fingendo, quando studia davvero aggrotta la fronte e si tortura il labbro inferiore. La storia di Dylan lo ha segnato più di quanto voglia dare a vedere.
Finge che i miei movimenti nervosi non lo infastidiscano finché non perde del tutto la pazienza. “Se il tappeto prende fuoco non aspettarti che ti aiuti a spegnerlo” borbotta chiudendo il libro di scatto. “Piantala di muoverti come un criceto dopato, lei sta bene”.
“Ne sei convinto? O speri che stia bene perché non riusciresti a reggere qualcos'altro?”.
“Sta bene”. Mi fissa con decisione e contrae la mascella. “È più forte di tutti noi messi insieme”.

“Questo lo so benissimo” mormoro “Sono solo preoccupato”.

“Lo so, Aaron” sospira “Scusa, sono... preoccupato anch'io”.

Smetto di muovermi e senza permesso mi siedo al suo fianco. “Tu come stai?”.
“Bene” esala rapidamente.
Gli appoggio una mano sulla spalla. “Io non mi impiccio quasi mai della vita degli altri e se lo faccio è perché mi interessa davvero. Ti ho chiesto come stai perché voglio la risposta vera, non quella di circostanza”.

Socchiude le labbra e il labbro inferiore comincia a tremare. Gli occhi di solito radiosi e gentili si riempiono di lacrime. “Non sto...” singhiozza “..io...”. Chiude gli occhi e ingoia con fatica il groppo che gli stringe la gola. “Male. Sto male”.

Gli stringo la spalla. “Mi dispiace davvero, Henry”.

Annuisce piano. “Lo so”.

Senza pensare mi allungo per stringerlo in un abbraccio. Non credo di aver mai fatto un gesto di questo tipo verso di lui in tutto il tempo che sono rimasti qui. Henry all'inizio rimane un po' sorpreso, poi si rilassa e ricambia appoggiandomi la testa sulla spalla. “Andrà sempre meglio, te lo assicuro. Ci sono battaglioni di ragazzi che si ucciderebbero per averti e che non hanno paura del mondo”.

Ridacchia sommessamente e tira su col naso. “Battaglioni?”.
Mi scosto annuendo. “Assolutamente. È una parola, vero?”.
“Sì, Aaron, è una parola” asciuga la guancia con la manica “Grazie”.
Gli do un colpetto sul braccio e poi mi alzo. “È il minimo”.
Sorride con più sicurezza. “Grazie, davvero”.

 

 

 

Non appena Henry si mette a studiare veramente e smette di riempire la camera di lacrime, sgattaiolo in corridoio e verso la camera di Jay. Varco la soglia come un ladro e mi chiudo la porta alle spalle. Prima che possa fare anche solo un passo, lei mi salta addosso come una ragno. Mi stringe le gambe intorno alla vita e le braccia al collo. Le afferro il sedere con le mani e, prima che possa dire qualsiasi cosa, mi tappa la bocca con un bacio. Come ogni santissima volta, il cuore mi scalpita nel petto e la realtà si fa più leggera e brillante.
Le sue labbra piene si muovono contro le mie, mordicchiando e succhiando. Intensifico la presa attirandola più vicina al mio corpo e riuscendo a percepire il suo calore attraverso i vestiti.
Le sue mani mi risalgono la nuca e affondano nei capelli, procurandomi brividi di piacere.
Si tira indietro. “Sei meraviglioso”.
Ridacchio strofinandole il naso con il mio. “A cosa devo l'onore?”.
“Ti ho sentito parlare con Henry prima”. Mi accarezza il collo con il pollice. “Grazie”.
“Ti sorprenderà ma lui mi piace molto. È stato naturale cercare di dargli un po' di conforto”.
Sorride facendomi tremare le ginocchia. “Grazie”.
“Figurati” mi dirigo verso il materasso tenendola in braccio “Tu come stai?”.

Mi lascio cadere all'indietro facendola sedere sul mio bacino. “Sto bene” mi accarezza il petto sopra la maglietta “Mi hanno fatto un lungo discorso sul sesso e sulla reputazione che ho fatto finta di ascoltare e poi hanno deciso che, siccome non ho scatenato io la rissa, non ho bisogno di una vera punizione, ma dovrò fare qualche faccenda domestica in più. Tutto qui”.
Le accarezzo la guancia lentamente. “Ne sono felice. Ero preoccupato che mio padre ti mettesse una cintura di castità”.
“Secondo me ci ha pensato”. Ridacchia per poi gemere toccandosi il taglio sul labbro. “Ahi”.
“Fa male?”.
Alza le spalle. “Tira un po' quando rido o parlo, ma è sopportabile”.
“Mi dispiace che ti abbia colpito e che ti abbia fatta sentire in qualche modo colpevole” sospiro “E mi dispiace per quello che ti ha detto Dorothea”.
“Niente di tutto questo è colpa tua”. Inclina le testa e mi bacia il palmo della mano. “Dottie...beh, non me lo aspettavo”.
“Sono sicuro che farete pace” affermo.
Mi spinge verso il materasso e si sdraia su di me. “Non mi va di parlarne”. Le sue labbra catturano di nuovo le mie come una calamita con il metallo. I suoi capelli mi scivolano sul viso oscurandomi dalla luce. Con fatica le poso le mani sui fianchi per allontanarla. “Vorrei parlare con te e mi stai distraendo”.
“Lo so”. Mi bacia di nuovo con più intensità.
La pelle brucia. “Jay” sospiro contro le sue labbra. “Davvero, voglio sapere come stai?”.
Sbuffa e si sposta di lato. L'assenza del suo corpo mi fa rabbrividire. “Ti ho detto che sto bene”.

“La verità per favore”.
Annuisce. “Okay, come vuoi. Ma non dare di matto, ora sto bene”. Annuisco. “Dopo la scenata di Nicole ho avuto un piccolo attacco di panico e dopo il commento di Dottie mi sono sentita molto male ma ho incontrato Tyson e mi ha aiutata parecchio. Il silenzio è terribilmente confortante”.
Intreccio le dita con le sue. “Si Ty è bravissimo nel conforto muto, mi ha aiutato un sacco di volte. Definisci piccolo?”.
Fissa una macchiolina di cioccolata sul copriletto. “Nulla di che, solo un leggero attacco”.
“Sai di essere una pessima bugiarda?” sbuffo.

“Va tutto bene, Aaron” mi bacia il dorso della mano intrecciata con la sua. “Ora che sono qui con te è tutto perfetto”.

 

 

Restiamo a cullarci nell'illusione di esserci solo noi fino all'ora prestabilita per le prove con i ragazzi. Per tutto il tempo, non faccio altro che coccolarla e assicurarmi che sul suo viso si scorgano solo sorrisi raggianti.
Una volta in garage, la osservo giocherellare con le corde della mia chitarra seduta sul tavolo da ping-pong e mi godo il piccolo segno rosso che le ho lasciato sulla scapola poco prima. Non credo di aver mai visto qualcosa di così bello.
La porta del garage si apre con un lamento e il resto della band fa il suo ingresso. Lip, Matt e Tyson trasportano all'interno gli strumenti spezzando il momento e portandosi dietro il caos.
Lip le passa accanto sfiorandole la testa. “Stai bene, piccola guerriera?” domanda.
Jay mi lancia un'occhiata complice e sorride. “Sto molto bene, grazie”.

Lip nota il suo sguardo e fa ondeggiare le sopracciglia nella mia direzione. “Immagino” borbotta cercando di non ridere.
Matt appoggia il basso e le si avvicina lentamente. “Julie possiamo parlare? In privato”.
Lei si stringe una gamba al petto a disagio. “Preferisco parlare qui”. Da quando le è saltato addosso, lei cerca di girargli il più alla larga possibile.
“È importante” sospira lui.
Jay alza il mento. “Perchè prima non mi spieghi perché la tua ragazza mi ha usata come una sacco da box?”.
Matt si strofina il centro del petto con la mano. Brutto segno. “È di questo che voglio parlarti”. Ci lancia uno sguardo strano. “In privato, però”.
Lei scuote la testa. “Matt non ho intenzione di spostarmi da qui, quindi se vuoi che ti ascolti inizia a spiegarti”.

Lui espira lentamente e stringe i pugni per non lasciare trasparire il tremore delle mani. “Dopo quello che è successo alla festa di Savannah, volevo essere chiaro con Nicole su i miei sentimenti e allora le ho parlato”.
Lip inclina la testa. “Perchè? Cos'è successo alla festa?”.
“Matt mi ha baciata e si è beccato una ginocchiata nei gioielli di famiglia” spiega lei.
Lip sgrana gli occhi. “Oh”.
Matt fa un passo in avanti. “Trovi rilevante solo questo fatto? Il mio ti amo lo hai cancellato?”.
Lip mi lancia un'occhiata. “Ho cercato di cancellare tutta la scena, soprattutto l'odore di alcol che emanavi” risponde fredda. Lui prova a ribattere ma lei lo ferma alzando la mano. “Abbia già chiarito questa storia, Matt. Voglio sapere perché lei mi ha colpita”.
Lui si infila le mani nei capelli spettinandoli. “Dopo che hai chiarito che non provi affatto la stessa cosa, ho deciso di andare da Nicole per dirle tutta la verità e ho...” sospira con forza “...perso il controllo della situazione”.
Lei fa cadere la gamba oltre il bordo del tavolo e inclina la testa. “Cosa vuol dire?”.
Matt indietreggia. “Le ho detto che sono innamorato di te, che ti ho baciata e che per lei non provo più nulla ed è impazzita. Ha iniziato ad insultarmi, a colpirmi e poi...”.
Scende definitivamente da tavolo. “E poi cosa?”.
“Ha toccato un nervo scoperto e allora ho cominciato a parlare senza pensare”.
Jay stringe i denti visibilmente incazzata. “Vai avanti”.
Lui abbassa lo sguardo a terra. “Ogni volta che eravamo li per fare...per... farlo io non riuscivo a...non...” sospira a disagio. So a cosa si riferisce, me lo aveva confidato. Ogni volta che avevano provato a fare sesso la sua testa si era riempita di pensieri, di parsanoie e preoccupazioni e lui non era riuscito a fare proprio nulla. Io avevo ipotizzato che fosse colpa del suo opprimente padre.
“Allora si è messa a ridere e ha detto che ero ridicolo, che la stavo lasciando perché non ero abbastanza uomo per fare quello che dovevo. Che non valevo nulla” alza lentamente lo sguardo da terra per incrociare quello glaciale di Jay. “Mi sono infuriato e la rabbia per lei si è mischiata alla collera e alla frustrazione per te e per il fatto che non mi volessi e io...”.
“Hai detto che hai fatto sesso con me” conclude Jay. La sua voce ferita è peggio di una coltellata. “Le hai detto che con me c'eri riuscito e le hai fatto credere che fosse lei il problema”. Il silenzio cala sulla stanza, anche Lip fissa Matt scioccato.
Lui annuisce lentamente. “Julie mi dispiace tantissimo, io non ho pensato”. Fa un passo verso di lei allungando le mani e Jay indietreggia sbattendo il sedere contro il tavolo.
“Tu non hai idea di quello che hai fatto” esala con la voce incrinata “Cosa pensavi che facesse? Che si rintanasse in casa a piangere? Non hai pensato minimamente che si sarebbe rivoltata contro di me?”.

Le mani di Matt tremano. “Io...mi dispiace”.
Jay ride senza allegria. “Ti dispiace?”. Si gira, afferra lo zaino e lo rovescia sul pavimento. Insieme ai e ai quaderni, volano a terra una valanga di foglietti di carta stropicciati. “Per tutto il dannato giorno, ho ricevuto bigliettini pieni di cattiverie, provocazioni e insulti. Qualcuno ha scritto puttana a caratteri cubitali con il pennarello indelebile, sul mio armadietto dello spogliatoio”. Matt si stringe le braccia al petto. “Addirittura le mie amiche pensano che quello che hai detto è vero! Ho passato l'intera giornata a lottare per non affogare nella sensazione che tutto questo fosse colpa mia!”. Gli punta un dito contro. “La verità invece è che è colpa tua. Solo colpa tua!”.
“Julie...”.
“No!” sbraita “Io sono un casino sotto ogni punto di vista, non lo negherò mai, ma anche nei miei momenti peggiori non ho mai trascinato nessuno a fondo con me, come hai fatto tu”.
Lo supera puntando alla porta. “Julie...” singhiozza afferrandole un braccio.
“Non devi toccarmi. Non siamo amici, non siamo assolutamente niente e se pensi che questo sia amore, hai molti più problemi di quelli che pensi”. Strattona il braccio liberandolo dalla sua presa.

“Mi dispiace” rantola lui.

“Delle tue scuse non me ne faccio di nulla, Matt. Stammi il più lontano possibile” ringhia allontanandosi e sparendo oltre la porta.

Restiamo tutti immobili, incollati al silenzio opprimente che lei ha lasciato. Il mio cervello si spacca in due. Da una parte, la collera verso Matt e quello che a fatto a Jay. E dall'altra, la consapevolezza che quello che ha fatto è stato alimentato dalle sue paure e dalle sue debolezze.

“Porca troia” sospira Lip stropicciandosi la faccia. “Hai combinato un cazzo di casino”. Il suo poco tatto desta tutti quanti e fa scappare Matt fuori dal garage.

“Potevi scegliere parole diverse” lo rimprovera Tyson.

“Cosa dovevo dire?” brontola Lip “Ottimo lavoro, Matt! Ti sei comportato come uno stronzo senza palle e hai fatto incazzare l'unica possibilità che avevamo di vincere la gara tra band” guizza sarcastico “Complimenti!”.
“Philip” lo rimbrotto “Il sarcasmo è l'ultima cosa che ci serve adesso”.

Ci fissa infastidito e si stringe le braccia al petto. “Perchè state sgridando me? È lui che ha fatto un macello”.
Sbuffo. “Perchè sei inutile in questo momento”.

“Allora mi renderò utile” afferra Tyson per il braccio. “Andiamo da Julianne, mentre tu vai da Matt”. Non era questo che avevo in mente. “So che vorresti andarci tu da lei, ma Matt ha bisogno di te e non di noi al momento”.
Odio quando usa la testa e ha ragione. “Va bene”.
Trotto fuori dal garage e mi metto alla ricerca di Matt. Lo trovo seduto sul dondolo con la fiaschetta delle emergenze di Lip in mano. Svita il tappo di metallo, appoggia il beccuccio alle labbra e si riversa una sorsata di alcol in gola.
Lo raggiungo il più velocemente possibile e gli strappo la fiaschetta di mano con irruenza. “Vuoi peggiorare ancora di più la situazione?”.

Ride senza la minima allegria. “Credi che possa andare peggio di così?”.

“Annegare i problemi nell'alcol di certo non cambierà le cose” obbietto.
Alza le spalle con poca convinzione. “Almeno può migliorarle un po'”.
Sospiro e mi siedo al suo fianco. “Matt, ma che cos'hai fatto?”.

Affonda le mani nel viso incurvandosi come una bambù. “Non lo so, Aaron. Lei ha infilato il dito in una ferita enorme e dolorosa e poi Julie...” sbuffa “Sono andato nel panico e ho fatto un passo falso enorme”.
Gli appoggio una mano sulla schiena. “Direi dieci passi falsi”.
“Grazie” brontola burbero.
“Ma” gli do un colpetto “C'è sempre una soluzione ad ogni cosa. Una volta che si sarà calmata, le parlerai e chiarirete. Lei è molto comprensiva”.

“Questa volta non credo” scuote la testa “L'ho gettata in pasto ai leoni senza pensarci minimamente”.

Mi lascio andare contro lo schienale del dondolo. “Su questo non ci piove, però nessuno ti impedisce di provarci”. Chiude gli occhi e affonda la faccia nelle mani. Il suo dolore mi arriva forte e chiaro. “Dobbiamo svagarci, siamo tutti troppo tesi. Ci vuole una serata tra uomini”.

Sbuffa tra le mani producendo uno strano suono. “Non penso sia una buona idea”.
Mi alzo in piedi con impeto. “Sì che lo è. Possiamo andare tutti da Lip, sua madre ha il turno di notte, quindi possiamo dormire da lui”.
Mi guarda incerto. “E domani? Cosa facciamo domani?”.

“Domani è un altro giorno, Matt. Ci penseremo quando arriverà”.

 

 

Stringo la maniglia e la osservo con irruenza sulla carta. La penna gratta contro il foglio ruvido riempiendo la stanza. “Jay”.
La mano si blocca a metà di una frase. “Non mi va di parlarne, Aaron” mormora. La sua figura minuta è illuminata dalla luce del tramonto che filtra dalla finestra e che investe la poltrona su cui è raggomitolata. “Ne sei sicura?”.
Posa il quaderno sul bracciolo e si gira. “Per ora non voglio parlarne, lo capisci?”.
Entro del tutto nella sua camera e mi chiudo la porta alle spalle. “Sì, totalmente”.

Mi fa cenno di avvicinarmi e io eseguo. Mi posiziono ai piedi della poltrona e le stringo le mani intorno ai fianchi facendola scivolare in avanti verso di me. Mi allaccia le gambe intorno ai fianchi e in un secondo mi ritrovo seduto al suo posto con lei comoda sulle ginocchia. La vicinanza con il suo corpo mi rilassa istintivamente. Il suo braccio mi risale le spalle e le sue dita mi sfiorano la nuca. Appoggio la fronte alla sua. “Stai bene?”.

Ridacchi sommessamente e mi bacia le labbra con dolcezza. “Non devi chiedermelo ogni secondo, non sono un fiore delicato”.
La stringo a me con più decisione. “Lo so, Jay. Non voglio che tu stia male, per nessuna ragione. E se per caso tu dovessi stare male, vorrei essere il primo a saperlo e vorrei essere quello che ti aiuta a stare bene” sospiro “Capisci cosa intendo?”.

“Perfettamente”. Mi accarezza le labbra con il pollice. “Ti assicuro che se dovessi sentirmi male in qualsiasi modo sarai il primo a saperlo”.
“Perfetto” sospiro. Mi chino verso di lei, premo le labbra contro le sue e la bacio a lungo con dolcezza. La mia lingua cerca la sua e viceversa. Mi getta entrambe le braccia al collo e approfondendo il bacio e lasciandomi perdere felicemente in lei. Spinge i fianchi verso di me e io le afferro il sedere, assaporandola. Dio, è fantastica.

Ansiamo con forza cercando i bottoni di qualsiasi cosa abbia addosso. Le mie labbra le scivolano sul collo e le mani si intrufolano sotto i vestiti. “Aaron...” sospira.

“Aspetta...” mugugno alla ricerca della lucidità. Allontano la bocca dal suo corpo e lei sbuffa sonoramente. “Sto insieme ad una suora” borbotta alzando gli occhi al cielo.

Spalanco la bocca cercando di non ridere. “Rispettare te e il tuo corpo mi rende una suora? Buono a sapersi!”.
Ridacchia nascondendomi il viso nell'incavo del collo. “Sì, esatto”.
“Non mi sono fermato solo per quello, non sono venuto qui per farmi distrarre dal tuo corpo” affermo “Dovevo solo vedere come stai, i ragazzi mi stanno aspettando”.

Ride mordicchiandomi la spalla. “Beh, possono aspettare un'altra mezz'ora”.
“Julianne” la rimbecco.
Sospira e si allontana. “Dire il mio nome non aiuta”. Mi accarezza la guancia e si issa per sedersi sul bracciolo. “Come mai ti stanno aspettando?”.
“Portiamo fuori Matt. Una serata tra ragazzi gli farà bene” asserisco.

Annuisce. “Fate bene, ha bisogno di voi”.
“Sei ancora arrabbiata?”.
Si stringe la braccia al petto. “Sì. Non è qualcosa che posso ignorare, ha fatto una cosa terribile. So che ha molti più problemi di quelli che vuole dimostrare ma per il momento non riesco a scusarlo con sincerità”.
“Lo capisco” dico. Il cellulare vibra e un messaggio di Lip appare sullo schermo. “Devo andare”.
Mi bacia velocemente. “Divertiti”.
Doverla lasciare andare è una sensazione che mi dilania ma questa sera Matta ha bisogno di me e io non mi tiro di certo in dietro.

 

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Capitolo 33
*** Julianne ***


Julianne

 

 

Il rumore del mio cuore che rimbalza contro la cassa toracica si amplifica dentro lo sgabuzzino striminzito. È l'unico suono che sento mentre le mani di Aaron mi percorrono affamate. Mi concentro sul rimbombare ritmico per non rischiare di perdermi. Anche se a questo punto, non sono sicura di dove comincio io e dove finisce lui, quindi non so se è il mio o il suo di cuore che mi tiene salda a terra.

“Sei perfetta” sospira solleticandomi il collo con il naso. Vorrei poter ammettere a gran voce che lui non mi fa impazzire e che ogni volta che mi tocca non sento assolutamente nulla di speciale. Ma con lui ogni cosa è così reale, così dannatamente profonda che la percepisco fin dentro le ossa.

“Questi pantaloni di pelle sono ufficialmente saliti al primo posto dei vestiti che vorrei poterti vedere addosso solo io” mormora passandomi la mano lungo la coscia.
Evviva, li ha notati. Gli accarezzo la schiena muscolosa sotto la camicia. “Addirittura? Pensavo fosse il mio bikini al primo posto”.

Mi spinge con più decisione contro la parete e sul mobile di legno. “Beh, per quello ormai sta passando la stagione, quindi vincono i pantaloni”. Mi bacia il mento. “Ho visto almeno una ventina da ragazzi fissarti con la lingua a terra oggi, per non parlare di Lip”.

Gli afferro la nuca tirando le sue labbra verso le miei. “Mi dispiace per loro”.
I nostri respiri si fondono come tutto il resto di noi. “E perché mai?”.
Gli accarezzo la guancia ispida. “Perchè nessuno di loro è te”.
Le sue labbra si infrangono sulle mie con un ringhio di desiderio. Una mano mi risale lungo la schiena per stringermi a lui, mentre l'altra è puntellata contro il muro vicino alla mia testa. Le mie gambe gli stringono i fianchi azzerando qualsiasi spazio fossimo riusciti a mantenere. Le sue labbra scivolano sulle mie con frenesia e desiderio. La sensazione del suo corpo contro il mio rompe la diga e il piacere mi invade da cima a fondo. Gli afferro la cintura cercando di sganciarla ma lui mi blocca. “No” espira appoggiando la fronte contro la mia “Non qui”.
Mollo la fibbia frustrata. “Non è mai il momento giusto per te”.
“Jay...”.

Sbuffo. “Lo so, ho capito, non c'è bisogno che mi ammonisci” gli accarezzo le labbra con l'indice “È solo che mi sembra che tu non voglia farlo con me perché sono io”.

Mi afferra il viso con entrambe le mani e mi inchioda con lo sguardo al mobile. L'intensità del suo sguardo mi fa bruciare come un carbone ardente. “Lo sai cosa vorrei fare in questo momento?”.
“Cosa?”.
“Vorrei cementare quella porta, strapparti di dosso i pantaloni e passare il resto del giorno a farti capire quanto ti voglio” mi bacia “Ancora, e ancora, e ancora”.
Deglutisco cercando di respirare correttamente.
“Non lo faccio perché ti rispetto e perché voglio che la prima volta sia in un posto speciale, lontano da tutti quelli che potrebbero renderlo meno eccezionale”.
Gli accarezzo il collo. “Va bene”.
“Ti voglio da morire, Jay, più di qualsiasi cosa abbia mai voluto in vita mia”.
“Anche io ti voglio”. Mi bacia la punta del naso. “Ora andiamo, siamo già in ritardo per la lezione”.

Lo scosto scendendo dal mobile con un salto. “Aspetta, io ho un problema” asserisce.
“Sarebbe?” domando spazzando via la polvere dai pantaloni.
Si indica il cavallo dei jeans. “Non posso uscire così”.

Ridacchio. “È un problema tuo, se non mi avessi fermata a quest'ora non lo avresti affatto”.

“Non è per niente divertente” brontola “Dimmi qualcosa di poco eccitante”.
“Mmmh”. Ci penso su un secondo. “Nonnine, orsetti di peluche, gattini bagnati...”.
Geme per la frustrazione. “Perchè riesci a rendere ogni cosa dannatamente sexy?”.
“È una dote di famiglia” affermo prima che mi sia accenda la lampadina “Ho trovato! La professoressa Layosa oggi aveva addosso una gonna di finta pelle marrone molto aderente e un cardigan color lampone troppo scollato per la sua età”.
Aaron fa un verso simile ad un rigurgito. “Che schifo, sono ufficialmente nauseato”.
“Il problema si è sgonfiato?” chiedo soddisfatta.

“Sì, completamente” rabbrividisce e mi da un colpetto verso la porta “Andiamo”.

Lo stanzino del bidello da su un corridoio cieco e, per nostra enorme fortuna, senza telecamere di sicurezza. Non essendoci aule in uso o armadietti, la scuola ha risparmiato sul baget rendendo quel corridoio a prova di spioni. La soffiata ci è arrivata da Lip e per questo dovremmo erigergli una statua.
Aaron sbircia oltre lo stipite e mi da il via libera. Camminiamo lungo il corridoio tenendoci per mano e lasciandoci trasportare dalla leggerezza. Mentre mi fa piroettare sul linoleum un rumore sordo infrange lo specchio che ci separa dalla realtà. Prontamente lui mi tira dietro una colonna, nascondendomi dietro il suo corpo.

“Sono stanca di questa situazione, Brian” sospira una voce femminile.

Due figure escono da un'aula piena di vecchi computer e monitor rotti. Mi sporgo oltre il fianco di Aaron e un paio di pantaloni a zampa, pieni di paillettes, brillano sotto le luci al neon.

“Che cosa vuoi che faccia esattamente?” domanda il professor Ellingford “Vuoi che molli la mia carriera?Vuoi che mandi al diavolo lavoro della mia vita? È questo che vuoi Peyton?”.
“Certo che no!” squittisce la mia amica “Vorrei solo non essere costretta a vivere in questo oceano di bugie”.
Il professore le afferra il viso con dolcezza. “Lo so, è estenuante, ma non possiamo fare altrimenti. Se venissimo allo scoperto adesso mi licenzierebbero e questa città ti etichetterebbe come la persona che non sei” sospira e Peyton gli stringe le braccia al collo “Non sai quanto vorrei che fosse tutto diverso ma per ora è meglio così, manca poco alla fine del liceo e da allora saremo liberi”.

Le scosta una ciocca corvina della parrucca dal viso. “Sai che ti amo, vero?”.
Peyton annuisce addolcendo lo sguardo severo. “Ti amo anche io, Brian”. Lei si allunga per baciarlo, ma non posso sostenere la scena e volto lo sguardo. Aaron abbassa gli occhi verso di me stranito e confuso. Capisco perfettamente come si sente.

Aspettiamo finché non li sentiamo allontanarsi e usciamo dal nostro nascondiglio. Aaron si stropiccia la faccia. “Hai visto quello che ho visto io, vero?”. Annuisco senza proferire parola. “Non va affatto bene, dovremmo dire qualcosa a qualcuno. Lui è un professore” espira “Forse dovremmo parlarne con il preside”.
Le sue parole sono l'equivalente di una doccia gelata. “Non se ne parla”.
“Jay” brontola “Quello che abbiamo visto non è giusto”.
“Non sappiamo tutta la storia” puntualizzo.

“Qualsiasi sia la storia di base, la loro relazione non è corretta” afferma.

Le gambe mi tremano. “Perchè quello che c'è tra noi segue degli standard? Secondo questa logica nemmeno io e te dovremmo stare insieme”.
Scuote la testa. “Non è la stessa cosa”.

“E cosa cambia?”.
“Non abbiamo una relazione insegnate-studente”.
Sbuffo. “Ma abbiamo una relazione complicata. I nostri genitori stanno insieme, te lo sei dimenticato?”.
Si passa una mano tra i capelli, spettinandoli più di quanto già non fossero. “Sì, hai ragione”.
“Non sono affari nostri, Aaron”. Lo agguanto per il braccio, cercando di fermare i suoi movimenti scoordinati. “Promettimi che non dirai niente a nessuno”.
Mi fissa inquieto. “Tu le parlerai?”.
Strabuzzo gli occhi. “Perchè?”.
“Per farle capire che non va bene”.

Scuoto la testa con fermezza. “Chi siamo noi per giudicare le sue scelte?”.
Mi osserva a lungo, facendo girare nel verso giusto gli ingranaggi nella sua bellissima testa. “Nessuno”.
“Esattamente” espiro, accarezzandogli gli avambracci scoperti “Non ci immischieremo, promettimelo”.

Annuisce lentamente. “Promesso”.
Fingo di essere assolutamente sicura della mia decisione, anche se in realtà nella mia testa si condensa solo una domanda: cosa diavolo combini, Peyton?

 

 

Il libro di matematica mi fissa con aspettative che non posso soddisfare, mentre io fisso inespressiva il copriletto ricamato. È tutto il giorno che ho il cervello scollegato dal resto del corpo. Ogni cosa mi scorre intorno molto velocemente e io riesco a concentrarmi solo su tutti i problemi che si stanno incastrando nel pettine che è diventata la mia vita. Se non trovo delle soluzioni intelligenti finirò per strapparmi tutti i capelli, metaforicamente e letteralmente.

“Toc toc” cinguetta una vocina dalla soglia della mia camera.

Giro lentamente la testa e una terribile divisa da cheerleader e due enormi occhi grigi mi fissano con allegria. “Non sono dell'umore, Chastity”.

Lei alza le spalle in coordinazione ad un risolino. “Non sei quasi mai dell'umore, quindi che differenza fa?”.

Non ho le energie mentali per discutere. “Cosa fai qui? Pensavo che tua madre ti avesse proibito di entrare in questa casa di peccatori”.

Si ravviva la coda ed entra in camera. “Sì, è vero, me lo ha proibito categoricamente”.

“Allora cosa fai qui?” chiedo, infastidita dal suo buon umore.

“Non sono la brava bambina che mamma pensa che io sia” si accomoda sul materasso come se fosse casa sua. “Volevo vedere come stavi e cominciare il nostro lavoro”.

“Sto bene”. Chiudo il libro di matematica. “Quale lavoro?”.

“Dalla tua faccia non si direbbe” si china in avanti per guardarmi meglio “Non pensavo che Nicole potesse essere così aggressiva”.

“È solo un taglietto” taglio corto.

“Mi riferivo a tutta la merda che ti sta lanciando addosso” abbassa lo guardo dispiaciuta “Le ho viste tartassarti oggi”.

Sì, lo hanno fatto. “Non è nulla di che”. Sì, che lo è. “A che lavoro ti riferivi?”.

Nasconde il faccino da cucciolo triste con un'espressione determinata. “La tua scalata verso il trono, naturalmente” mormora.

Sbuffo, rotolando via dal suo sguardo assetato di gloria. “Non è una buona idea. Sono finita in mezzo a troppi drammi in questo periodo, preferire restare fuori dall'occhio del ciclone per un po'”.

Si aggiusta la gonnellina e sorride felina. “Tecnicamente, uno degli unici posti sicuri durante un tornado è proprio l'occhio del ciclone, lì c'è la tranquillità più assoluta” alza le spalle “Quindi, in realtà, quello che hai detto non è corretto”.

Concentrati, Julianne, non puoi strangolarla. “È così che pensi di mettermi di buon'umore? Correggendomi?”

“No” sorride tronfia “Con questo sì, però”.

Mi porge un plico di fogli disordinati e scribacchiati. “Cos'è?”.

“Oggi ho fatto girare un sondaggio anonimo riguardo Giselle e la sua carica di rappresentante del corpo studentesco”. Afferro i fogli. “Circa il 70% degli studenti non la vuole più al comando”.

Sfoglio il plico distrattamente. “Non mi sorprende affatto”.

Arriccia gli angoli della bocca come il Joker. “Quello che ti sorprenderà è il nome che gli studenti hanno suggerito come possibile sostituto”.

Incarno un sopracciglio. “Il tuo?”.

“No” ridacchia “Il tuo, Julianne”.

Osservo attentamente la carta e nella zona dei suggerimenti c'è il mio nome scritto in numerosi fogli. “Perchè?”.

Alza le spalle. “Immagino suppongano tu abbia abbastanza palle per opporti al regime della strega cattiva. Ed è così”.
Un altro nodo si incastra nel pettine metaforico, strozzandomi. “Non lo so, Chastity...”.

Alza le mani. “Non devi fare nulla di speciale, ho già preparato tutto quanto...”.

“Io...” borbotto mentre il mio telefono trilla, ricordandomi i miei impegni.

“...Devi solo iniziare con i prima passi, io ti aiuterò e...”.

“Chastity” sbraito zittendola “In questo periodo ho mille cose da fare. Ora, per esempio, devo andare da Lip per un progetto scolastico. Possiamo parlarne dopo?”.

Scuote la testa. “Posso venire qui solo quando mamma non c'è” espira “È importante, Julianne”.

Sbuffo. “Va bene, ma sii rapida”.

Sistema i suoi fogli velocemente. “Devi organizzare una festa”.
“Una festa?”.

Annuisce facendo ballonzolare la coda bionda. “Sì, ad Halloween Giselle organizza la migliore festa in maschera della storia e invita solo alcuni eletti. Ogni volta taglia fuori più della metà degli studenti e se ne vanta per tutto il mese successivo” addolcisce il viso di ceramica “Non sono mai stata invitata e sono in squadra con lei. Lo fa per far sentire esclusi tutti quelli che non le piacciono”.
La fisso confusa. “Come ti aspetti che organizzi una festa qui? Non è nemmeno casa mia!”.

Corruga la fronte. “Certo che lo è”.

Non ho tempo per spiegarle i miei ragionamenti. “Va bene, supponiamo che mia madre e Jim dicano di sì. Secondo te verrà una festa da urlo con qui il reverendo? Te lo immagini? Comincerebbe a fare sermoni sull'alcol e a parlare di quanto il sesso sia terribile per la tua anima immortale” mormoro.

Alza le mani cercando di calmare i miei vaneggiamenti. “Lo so, per questo dovremmo chiedere aiuto al tuo ragazzo”.

Infilo le unghie nel cuscino, sentendo il sangue gelarsi nelle vene. “Cosa?” mormoro con voce tremante.
“Sì”. Tira un filo della divisa che le spunta dall'orlo della gonna. “Lip”.

Espiro di colpo, mollando il macigno che mi stava soffocando. Oddio, grazie. “Lip non è il mio ragazzo”.

Ridacchia e allunga la mano verso la mia scapola. “E allora chi ti ha lasciato quel bel succhiotto”.

Dannazione, Aaron. Okay, niente panico, basta mentirle. Perché non mi viene in mente niente? Dove diavolo ho lasciato la mia scatola delle bugie? “Non devi giustificarti con me, Julianne. Ognuno etichetta le sue relazioni come vuole, in ogni caso abbiamo bisogno del suo aiuto”.
Non provo a contraddirla di nuovo, non saprei cosa dire. “In che modo?”.

 

 

 

 

 

“Mamma!” sbraito dal soggiorno “Dove sono le chiavi della macchina?”.

La sua voce cinguettante mi arriva dalla cucina. “A cosa ti servono?”.

Devo potarci le piante. “Devo uscire!” strillo, cercando di sopprimere le risposte sarcastiche. Ho davvero bisogno delle chiavi.

Esce dalla cucina con in mano un abito con mezzo orlo fatto. “Dove devi andare?”.
Sembra di essere al Pentagono. “Vado da Lip, abbiamo un progetto di studi sociali da completare” la guardo inarcare un sopracciglio. “Posso avere le chiavi? Sono in ritardo”.

Posa l'abito sulla sedia e si sistema gli occhiali tra i capelli. “Prima mi è sembrato di veder uscire Chastity da casa nostra”.

Non ho capito la domanda. “Sì...”.

“Siete amiche?”.

Alzo le spalle. “Non saprei, penso di sì...” borbotto ricominciando a frugare tra i cuscini del divano.

Resta in silenzio a fissarmi perlustrare come un cane da tartufi, facendomi irritare terribilmente. “Ne sono davvero felice”.

Mi blocco. “Davvero?”.

“Certo”. Si siede al tavolo accertandosi di non spiegazzare la gonna. “Amanda ed io siamo molto amiche e speravo tu potessi legare con sua figlia”.

È ancora amica della donna che ha insultato suo figlio, chiamandolo finocchio, e che mi ha dato del parassita che intossica tutto ciò che tocca. Non so perché ma la cosa non mi sorprende.

“Stiamo solo cercando di raggiungere un territorio neutrale” mento ispezionando il tavolino.

Lei sospira con forza. “So che quello che ha detto Amanda non è stato piacevole, ma mettiti nei suoi panni”.

“Preferire di no” sbotto “Non ha scusanti per quello che ha detto ad Henry, per come lo ha fatto sentire”.

Annuisce. “Lo so, Julie, ma lei ha le sue convinzioni...”.

“Non mi interessa” affermo “Non condivido le sue idee da milleottocento e non ho intenzione di giustificarla, ho solo bisogno delle chiavi”.

Si porta una ciocca scappata allo chignon dietro l'orecchio. “Magari alcuni dei suoi ideali non sono così sbagliati”. Non lo ha detto davvero. “Per esempio questa tua relazione con Philip...”.

“Hai qualcosa da ridire sulla nostra amicizia?” domando seccata.

Alza le spalle. “Non vorrei vederti commettere altri sbagli di cui ti pentiresti. Non vorrei commettessi il mio stesso errore...”.

Le sue parole mi trafiggono come una valanga di frecce. “Henry ed io siamo un tuo errore? Wow, sapevo che lo pensassi di papà ma non di noi due”.

Spalanca gli occhi spaventata. “No, Julie...”.

Addio al piano di mantenere la calma. “Sai, avevi molte opzioni. Potevi abortirci o darci in adozione, almeno avresti evitato di subire tutte le delusioni che ti procuriamo ogni giorno”.

“Non vi ho mai definito delle delusioni!”. Stringe le mani con forza. “Puoi anche odiarmi ma non ti permetto di dire che non vi amo più di ogni altra cosa al mondo”.
Spalanco la bocca. “Quindi ci amavi quando hai deciso di lasciarci?!”.

“Ovviamente!” sbraita “È stata la decisione più difficile della mia vita, ma non potevo fare altrimenti. In quella situazione...”.

“Quale situazione?”. Ci sono troppi punti di domanda in questa storia. Chiude la bocca di colpo e abbassa lo sguardo colpevole. “Quale situazione, mamma!”.

Con lentezza si alza, raggiunge la borsa depositata sul mobile e la apre. Raccolte le chiavi della sua macchina me le porge. “Vai”.

È possibile che la breccia tra di noi si faccia ancora più profonda? “Mamma...” sospiro.

Mi mette le chiavi in mano. “Vai da Lip e fai attenzione”. Allunga la mano per accarezzarmi il viso, ma a metà del gesto ci ripensa e si allontana verso la cucina. Mi lascia da sola, portandosi dietro un lembo della crepa e allungando la distanza tra me e lei.

 

 

 

 

“Finalmente!” brontola Lip dalla soglia di casa sua “Stavo quasi per chiamare la guardia nautica. Si può sapere perché ci hai messo così tanto, dolcezza?”.
Gemo. “Storia lunga...”.

Chiude la porta alle nostre spalle e mi appoggia una braccio sulle spalle. “Stai bene?”.
“No”. Mi guida dentro il soggiorno e seduto sul divano, illuminato dalla calda luce della sera, c'è l'unica persona che può migliorare il mio umore. “Aaron” sospiro.

Non appena mi vede, sorride facendomi tremare le gambe e battere il cuore all'impazzata. Lip ridacchia alle mie spalle. “Hai bisogno di qualcosa?”.

Sì, un defibrillatore. “Qualcosa da bere”.

“Vado” asserisce infilandosi in cucina.

Quando Lip non è più nei paraggi, saltello fino al divano e mi catapulto su Aaron come su un tappeto elastico. Lui mi afferra prontamente per i fianchi e mi stringe al suo corpo. Si avventa subito sulle mie labbra. Baci lenti e inebrianti che mi fanno sciogliere tra le sue braccia. Le mie mani gli risalgono lungo le braccia, accarezzando i muscoli tesi, fino alle spalle e poi tra i capelli scuri e morbidi come la seta. Emette un suono di piacere dalla gola che mi fa fremere in ogni parte del corpo. In un secondo mi ritrovo sotto di lui, sdraiata sul divano di velluto blu.

“Devo innaffiarvi con dell'acqua gelata?” domanda sarcastico Lip “Perchè quel divano è il mio posto preferito e, a meno che non mi invitiate a partecipare, vi chiederei di non copularci sopra”.

“Che tempismo, amico” grugnisce Aaron allontanando le mani dalla mia pelle bollente.

“Sempre a disposizione”. Lip posa i bicchieri pieni di succo sul tavolino. “Però, ora che ci penso, non mi dispiacerebbe guardare” corruccia la fronte ed annuisce “Ovviamente per Jay, non per te”.

Intercetto il braccio di Aaron prima che lo colpisca sulla testa, già alquanto bacata, e mi infilo in mezzo. “Okay” sospiro “Fate i bravi, dobbiamo finire il progetto senza versa sangue sul pavimento”.

Lip alza le spalle. “Io ho solo condiviso i miei pensieri”.

Gli do un colpetto sulla spalla. “Perchè per un paio d'ore non li tieni dove sono?”.

Sorride sornione. “Se me lo chiedi tu, dolcezza” mormora facendo sbuffare Aaron.

“Ottimo” raccolgo lo zaino da terra “Mettiamoci al lavoro”.

 

 

 

Le due ore successive si trascinano con una lentezza esorbitante. Devo destreggiarmi tra i commenti inappropriati di Lip e i tentativi di colpirlo di Aaron.

Quando il mio livello di sopportazione viene del tutto superato, decido di darci un taglio. “Okay per oggi basta” sospiro “Ho il cervello fuso”.

Aaron mi accarezza la schiena. “Forse dovremmo tornare a casa”.

Sbuffo. “Non ne ho voglia”.

“Nemmeno io” concorda.

Lip afferra il telecomando. “Potete restare se volete. Mamma ha di nuovo il turno di notte”.

Osservo Aaron illuminarsi. “Sei sicuro, Lip?”.

Lui annuisce scorrendo tra i vari canali. “Ovvio. Possiamo ordinare una pizza o altro”.

Gli sorrido. “Grazie”.
Mi fa l'occhiolino. “Figurati, dolcezza”.

Non importa quanto si impegni per essere fastidioso, resta una persona meravigliosa in ogni caso.

Afferra il cellulare. “Due con la salsiccia piccante e una vegetariana?”. Aaron ed io annuiamo in contemporanea. Lui si alza e si incammina verso il corridoio. “Bene, vado ad ordinare in camera così voi potete...parlare”.

“Aspetta” lo chiamo seguendolo “Ho un altro favore da chiederti”.

“Dimmi tutto”.

Sfoggio il mio miglior sorriso. “Avrei bisogno di casa tua ad Halloween”.

“Cosa?”.

“Vedi, Chastity ed io stiamo progettando un colpo di stato verso Giselle e comincia con l'organizzare una festa la stessa sera della sua, ma senza inviti esclusivi” indico Aaron “Da noi è impossibile, con sua padre poi, quindi mi chiedevo se potevamo organizzarla qui”.

Lip resta in silenzio a lungo, per così tanto che penso di averlo rotto. Poi di colpo comincia a sghignazzare. “Ovvio che sì! Le roderà un sacco il culo appena lo scoprirà!”.

Espiro. “Quindi va bene?”.

Annuisce. “Certo, devo solo essere sicuro che mamma lavori e possiamo organizzare quello che vuoi”.

Gli salto addosso. “Grazie, Lip”.

“Figurati, dolcezza, qualsiasi cosa per te” mi fa l'occhiolino “Io vado di là, avete tempo finché non arriva la cena”.

Ridacchio. “Grazie”.

Esistono poche persone come Lip e quando le incontri devi fare di tutto per non perderle.

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Capitolo 34
*** Julianne ***


Julianne

 

“Okay” esala Aaron dal sedile del passeggero “Ho trovato. Preferiresti bere per sempre solo caffè o non poterlo bere mai più?”.

Rallento lentamente fino alla riga dello stop e scalo la marcia. “Mai più? Nemmeno un volta ogni tanto?”.

Scuote la testa. “No, mai più”.

Abbiamo cominciato a giocare a questo stupido gioco dopo che abbiamo lasciato casa di Lip. Abbandonare il suo salotto, in cui potevamo essere noi stessi, è stato davvero arduo, ma non potevamo restare lì per sempre.

Aspetto che la Volvo superi l'incrocio e riparto. “Beh, è fisicamente impossibile bere solo caffè per il resto della vita. Ad un certo punto il tuo corpo imploderebbe” sospiro mettendo la freccia a destra “Però, devo ammettere che probabilmente impazzirei anche se dovessi vivere senza...”.

Si sporge verso il mio lato e mi pizzica un fianco. “Non devi ragionarci sopra, il gioco non segue le leggi che controllano la vita sulla terra. Devi solo scegliere cosa preferiresti”.

Gli lancio un'occhiata veloce. “Allora vivrei solo di caffè”.

Ride. “Lo sospettavo”.

“Va bene, è il mio turno”. Imbocco la rotonda. “Preferiresti rinunciare al sesso o al lacrosse?”.

Con la coda dell'occhio, lo vedo irrigidirsi e cominciare a fissare il cruscotto inespressivo. Una volta ferma al semaforo rosso, mi volto a guardarlo. Ha la faccia di chi si trova davanti ad un dubbio esistenziale mischiata all'espressione di chi deve disarmare una bomba.

“Oddio”. Mi mordo il labbro per non ridere. “Ti ho ingrippato il cervello”. Mi sporgo verso il suo sedile e gli tasto gli addominali di ferro. “Dov'è il pulsate per riavviare?”.

Agita la mano interrompendo i miei palpeggiamenti. “Sto valutando pro e contro” si giustifica.
Scatta il verde e mi tocca ripartire. “Spiegameli”.

“Allora” si gira e alza le mani per gesticolare “Il lacrosse è lo sport migliore di sempre e sarebbe il mio sogno essere un giocatore professionista”.

“Allora niente sesso?”.

Alza l'indice. “Però...”.

“Oh, c'è un però” mormoro.

“...potrei farmi male un giorno e non poter più giocare. E poi quando sarò vecchio non lo praticherò più comunque” afferma “D'altra parte il sesso...”. Fa un verso strano, un misto tra un gemito e un sospiro, che mi costringe a stringere il volante e a pensare alla Layosa per combattere la voglia di inchiodare e fargli capire cosa preferirebbe.

“...se sei fortunato puoi farlo finché sei vecchio e se è con la persona giusta batte qualsiasi cosa senza nemmeno impegnarsi. Però tecnicamente si può vivere senza, come sto facendo ora...”.

“E di chi è la colpa?” squittisco stizzita.

“Dovrei rinunciare a tutto o solo all'atto vero e proprio?” domanda, ignorando il mio commento.

“Tutto” affermo.

Arriccia il naso. “È impossibile, non si può scegliere. È come se ti chiedessi di scegliere tra il cioccolato e il caffè”.

“Non posso, l'universo collasserebbe” scuoto la testa “Che razza di vita sarebbe?”.

“Vedi” afferma risoluto “Ecco cosa intendo”.

Ridacchio osservando la carreggiata. “Però tra cioccolato e sesso...”.

Si tappa le orecchie. “No, non dirlo”.

“Scelgo il cioccolato!” sghignazzo alzando la voce.

“Ah!”. Sospira di dolore prima di lanciarmi un'occhiataccia. “Non ci crede nessuno, Jay, ma proprio nessuno”.

Rallento vedendo avvicinarsi casa nostra. “Sei libero di credere quello che vuoi” mormoro.

Sento il suo sguardo percorrermi. “Beh, lo vedremo” asserisce cercando di sopprimere un sorriso.

Oh si, per favore. Giro imboccando il vialetto e una volta davanti al garage spengo la macchina. “Siamo arrivati” annuncio con pochissimo entusiasmo.

Aaron si slaccia la cintura e sospira con rammarico. “Dobbiamo entrare per forza?”.

“Temo di sì”.

“Potremmo fare un altro giro dell'isolato” propone.

“Non cambierebbe nulla, dobbiamo tornare prima o poi”.

Intreccia le dita con le mie. “Preferirei poi”.

Gli accarezzo il dorso della mano. “Anche io”.

Con immensa sofferenza smontiamo dalla macchina e molto, molto lentamente raggiungiamo l'ingresso di casa. Aaron infila le chiavi nella toppa e apre la porta. Il dolce e caldo profumo della cena ci scivola addosso, accompagnato da un miscuglio di voci proviene dal soggiorno. Mollo le chiavi della macchina sul mobile e seguo Aaron nell'altra stanza. Mamma e Jim siedono al divano sorseggiando té con il nemico. Letteralmente. La famiglia di Nicole ci osserva varcare la soglia e spalancare le bocche come due pesci. La professoressa Stuart e lo sceriffo siedono ai lati della figlia tanto amata, che stringe le mani in grembo e tiene la testa china come un perfetto angioletto.

“Eccovi, finalmente” trilla mamma sorridendo “Vi stavamo aspettando”.

“Cosa succede?” domando restando ferma sulla soglia.

Jim appoggia la mano sulla spalla dello sceriffo in modo fraterno. “Cyrus e Cara hanno saputo cos'è successo tra voi ragazze e hanno pensato che fosse il caso di parlare tutti insieme a cuore aperto”.

Lo sceriffo sorride all'amico e poi mi fissa dritta in faccia. “Appena il preside ci ha informati dell'accaduto, abbiamo preso subito provvedimenti e abbiamo pensato che il miglior modo per risolvere un conflitto è parlare”.

Jim annuisce. “Non potrei essere più d'accordo” lancia un'occhiata al figlio “Aaron perché non vai di sopra, non credo che tu voglia rimanere”. Lui mi guarda aspettando un cenno e quando lo faccio saluta tutti e sale le scale.

“Julie vieni a sederti qui” asserisce mamma dando dei colpetti al divano.

Entro definitivamente nella stanza e mi piazzo il più lontano possibile da Nicole. “Preferisco restare in piedi”.

Lo sceriffo stringe la mano alla figlia. “Nicole è terribilmente dispiaciuta per quanto è successo e Cara ed io abbiamo già stabilito una punizione più che consona al terribile gesto che ha compiuto” mi trapassa con lo sguardo severo “Non tolleriamo nessun tipo di violenza in famiglia, credimi”.

La professoressa sorride con dolcezza. “Siamo molto dispiaciuti, Julianne, davvero”.

Annuisco lentamente. “Okay”.
“Siamo qui perché possiate fare pace e perché Niki possa scusarsi come si deve”.

Fare pace? Cosa abbiamo? Cinque anni? “Va bene”.
La madre le fa un cenno e lei si alza. Mi si piazza davanti con le mani nel cardigan e lo sguardo umido. “Sono terribilmente mortificata e anche notevolmente imbarazzata. Il mio comportamento è stato inaccettabile e totalmente discutibile. Vorrei poter tornare indietro ma è impossibile, quindi ti chiedo perdono. Ora so che ho agito spinta dalla gelosia e dalla rabbia, ma nessuna di queste emozioni può giustificare un'aggressione fisica e verbale. Ho chiesto hai miei genitori una punizione maggiore di quella che volevano darmi perché capisco di aver superato ogni limite” una perfetta e limpida lacrima le riga la guancia di velluto “Scusami davvero, Julianne”.

Mi guardo intorno per osservare i visi dei nostri genitori e non mi sorprende constatare che ci sono cascati tutti. La guardano con amore e con comprensione, come se la vittima qui fosse lei. Mi dispiace, Nicole, ma ho passato così tanto tempo circondata da bugiardi patologici che ormai ho un radar per le stronzate. Questa performance non mi incanta e non mi fa abbassare la guardia.

Lei tira su con il naso. “Possiamo fare pace?” allarga le braccia e fa un passetto in avanti.

Sento gli sguardi carichi di aspettative dei nostri genitori, quindi avanzo verso la serpe e lascio che mi abbracci. Loro tubano felici, mentre le sue braccia secche mi stritolano come un cobra.

Nicole approfondisce l'abbraccio finché le nostre teste non di allineano. “Renderò la tua vita un inferno” mi bisbiglia all'orecchio, facendomi rizzare i peli sulla nuca “Farò di tutto perché tu soffra quanto soffro io, è una promessa”. Mi lascia andare e sorride con dolcezza ai nostri genitori. Resto immobile, intontita dall'intensità del suo odio nei miei confronti. Vorrei poter urlare che mi ha appena minacciata e che probabilmente è una sociopatica, ma da fuori questa scenetta sembra un perfetto riconciliamento e so che nessuno mi crederebbe, nemmeno mia madre.

 

 

 

Quando la famiglia degli orrori è finalmente andata via, mi lascio cadere tra i cuscini soffici. La morsa che mi stringe la testa si fa sempre più stretta, vorrei disperatamente un antidolorifico ma anche solo l'idea di ingerire una pastiglia mi fa tremare come una foglia. Riesco ancora a percepire il mostro della dipendenza che mi alita sul collo, aspettando che io inciampi in un buco abbastanza grande da permettergli di inghiottirmi di nuovo. Non importa quanto il dolore sia lacerante, non mi lascerò prendere di nuovo.

La porta cigola e poi si richiude. “Jay?”.

La voce vellutata di Aaron mi solletica come una piuma. “Tutto bene” rispondo monocorde.

Tengo il braccio sugli occhi, quindi lo sento avvicinarsi ma non lo vedo. “Non sembrerebbe”.

Odio terribilmente il fatto che sappia esattamente quando non mi sento affatto bene e soprattutto quando sto mentendo. “Ho solo bisogno di riposare, va tutto bene” mugolo.

“Sicura?”.

“Sì, al cento per cento” sbuffo infastidita.
Avanza. “So che non è così. Vuoi che...”.

“Sto bene, Aaron, voglio solo restare sola! Ti è così difficile lasciarmi stare?”. Non volevo essere sgarbata ma sono oltre il mio limite di sopportazione.

“Okay” sospira “Quando mi rivuoi nella tua vita, avvisami”. La porta si richiude di botto facendo acutizzare l'emicrania e avvicinare la bestia di un passo.

 

Dopo una lunga e bollente doccia ristoratrice, mi stendo sul materasso e mi rotolo tra le lenzuola, guardando la sveglia avanzare lentamente. Senza il corpo di Aaron, il letto sembra enorme e non riesco a trovare una posizione comoda. Tutto questo è solo colpa mia, l'ho invitato io nel mio letto la prima volta e ora non riesco a dormire senza di lui. Dovevo pensarci meglio.
Mi rigiro come una frittella in padella e sbuffo sonoramente. Perché non vai da lui? Mi bisbiglia una vocina all'orecchio. Perché? Perché sono testarda e orgogliosa come una caprone di montagna, ecco perché.
I cardini di metallo cigolano silenziosamente e il legno sfruscia contro lo stipite. Le coperte scivolano lentamente di lato e il materasso si inclina quando qualcuno ci si sdraia sopra. Le braccia di Aaron mi trovano anche al buio e mi attraggono contro il suo petto. Mi stringe a sé espirando di sollievo. “Non riesco a dormire” bisbiglia.

Affondo le mani sotto la sua maglietta, cercando il contatto con il suo corpo caldo. “Nemmeno io”.

Mi appoggia il mento sulla testa ancora umida. “Scusami” sospira con sofferenza.
Dio. Non è lui che dovrebbe scusarsi. È lui che è venuto da me quando sarei dovuta andare io da lui. Come faccio ad essere sempre così pessima? Lui è fantastico ed io sono assolutamente e completamente sbagliata.

Alzo il mento sfiorandogli il naso con il mio. “No, Aaron, è solo colpa mia. Ero stanca e nervosa”. Non voglio giustificarmi. “Scusa”.
Mi accarezza le labbra con un bacio leggero. “Lo avevo intuito, dovevo lasciarti spazio e non assillarti”.

Gli sfioro la guancia ruvida con la punta delle dita. “Che ne dici se smettiamo di cercare di prenderci la colpa e proviamo a dormire un po'?”.

Sorride. “Ottima idea”.

Ci incastriamo come due pezzi di un puzzle che combaciano alla perfezione e lasciamo che il sonno cancelli ogni problema.

 

 

“Ancora non ho capito” esala Lip, il giorno successivo, osservandomi versare l'acido nel becher “Perchè non hai detto ad Aaron della minaccia di Nicole?”.

Sbuffo asciugando il tavolo con un pezzo di carta. “Non aveva alcun senso caricarlo di un'altra preoccupazione, oltretutto non è stata una vera e propria minaccia”.

Mi colpisce la spalla con la propipetta rossa. “Bugiarda. Stamattina quando me ne hai parlato eri spaventata, l'ho notato”.

Sospiro mentre agito la soluzione con la bacchetta. “Sì, mi ha spaventata ma non così tanto da doverlo dire ad Aaron. Sai com'è fatto, cercherebbe di sistemare la situazione e non ha bisogno di distrazioni, soprattutto in previsione di sabato”.
Lip annuisce comprensivo. “La partita contro i Red Devils di Springville sarà un massacro”.

Giocherello con il guanto di lattice. “Vedi che ho fatto bene”.

“Mi dispiace, dolcezza, ma non sono d'accordo” posiziona la beuta in mezzo a noi “Se fossi lui vorrei sapere chi minaccia la tua sicurezza, che sia fisica o mentale. Proteggere la propria donna è la prima regola del Grande Libro dei Maschi”.

Alzo gli occhi al cielo. “Questa donna sa difendersi da sola e poi che cavolo è il libro dei maschi?”.

“Il Grande Libro dei Maschi” precisa alzando l'indice inguantato.

Scuoto la mano. “Sì, quello che è”.

“È la Bibbia di tutto il mondo maschile, c'è tutto quello che un uomo che si rispetti deve sapere”.

Ridacchio. “Come ruttare l'alfabeto o scrivere il proprio nome con la pipì?”.

“Quanti stereotipi, dolcezza”. Scuote la zazzera rossa. “Pensi che gli uomini siano così?”.

“Tu sì” asserisco con un sorrisino.

Mi fa la linguaccia. “Beh, non ci sono scritte solo quelle cose. C'è tutto di cui puoi avere bisogno”.
“Posso trovarlo in rete?” chiedo.

Versa un po' di soluzione per avvinare la vetreria. “Mi dispiace, dolcezza, lo possono trovare solo i penimuniti”.

Sospiro con finta tristezza. “Peccato”.

Mi passa la spatola. “Tornando al discorso di prima...”.

“Speravo di averti distratto”.

Sorride. “Ci sei quasi riuscita”. Poi il suo sguardo cambia, diventa più serio di quanto non lo abbia mai visto. “Secondo me dovresti dirlo a qualcuno, Julianne. Con il bullismo non si scherza, credimi”.

La serietà nel suo tono e il fatto che mi abbia chiamata per nome fanno scattare dei campanelli d'allarme. Il suo sguardo freddo e sofferente mi fa supporre che dietro le sue parole ci sia una storia che non conosco e che deve averlo fatto stare male. Ma chi mai potrebbe dare fastidio a Lip? È il ragazzo più grosso che conosco e anche la persona più dolce e meravigliosa del mondo. Come potrebbe qualcuno fargli del male di proposito?

Sono così assorta nei miei pensieri che non mi accorgo di aver afferrato l'imbuto dall'estremità sbagliata e di essermi tagliata. Solo quando Lip impreca balzando sulla sedia, mi rendo conto che la macchia rossa sul bancone è il mio sangue.

“Dannazione, dolcezza” sbuffa cercando della carta “Sapevo che dovevamo cambiarlo quando l'ho rotto”.

Il blu del guanto si mischia al rosso intenso del mio sangue, creando una bizzarra sfumatura. “Non fa nulla, è solo un taglietto”.

Lip mi afferra la mano e la stringe in un fazzolettino. “Sembra profondo, dobbiamo andare in infermeria”.

Cerco di oppormi. “L'arpia si infurierà, non ne vale la pena”.

Lip mi tira con un più forza. “L'imbuto era sporco di chissà cosa, andiamo a disinfettarlo. Non farti prendere di peso”.

Sbuffo sonoramente ma smetto di oppormi. So che non si farebbe problemi a sollevarmi e a portarmi in infermeria come una damigella in difficoltà. Sarebbe divertente ma il mio ego non potrebbe mai sopportarlo.

Lip mi tira verso la cattedra e attira l'attenzione della Layosa. “Professoressa, Julianne si è tagliata la mano con l'imbuto rotto”.
La professoressa ci squadra alzando le spalle. “E io cosa dovrei farci?”.

Lancio un'occhiata verso Lip. Te lo avevo detto. Lui mi ignora e si infila nel campo visivo della professoressa, nel tentativo di coprire me. “Necessita di andare in infermeria. L'imbuto era sporco e il taglio potrebbe infettarsi”.

La Layosa sbuffa. “Non sia mai, per carità”. Il suo sarcasmo mi fa venir voglia di tirarle l'imbuto sbeccato proprio in faccia. Lip le sorride cordiale, afferra i due permessi per il corridoio e mi trascina fuori dalla classe.

 

Una volta che mi ha fatta sedere al sicuro sul lettino dell'infermeria, le sue enormi spalle si rilassano. Mi tiene la mano ben stretta nel fazzoletto e guarda ovunque tranne che verso la mia ferita. Cerco di non ridacchiare. “Per caso ti fa impressione il sangue?”.

Osserva con troppo interesse un cartellone sull'apparato genitale femminile. “Ma che...” borbotta a mezza voce.

Inarco un sopracciglio. “Quindi se ora alzassi il fazzolettino...”.
Scatta come una molla, bloccandomi l'altra mano. “No!”. Sospira alla mia espressione sorniona e mi lascia andare. “È solo che non amo i tagli, il sangue e tutta quella roba li. Non mi fanno impressione”.

“Oh” tubo “Il grande e forte Lip ha paura del sangue?”.

Mi pizzica il ginocchio sopra i jeans. “Non ho paura, mi fa solo schifo”.

Ridacchio. “Beh, vedila così, è solo un miscuglio di eritrociti, leucociti, piastrine e plasma”.

Mi guarda disgustato e arriccia il naso. “Questa spiegazione non lo fa sembrare meno nauseante”.

“Ci ho provato”.
L'infermiera, la signorina Stone, entra nella stanza con un carrellino e un finto sorriso rassicurante. “Eccomi qui” annuncia “Vediamo cos'hai combinato”. Alza lentamente il fazzoletto e osserva il taglio con aria critica. Lip trova di colpo il soffitto molto interessante mentre io guardo la mia mano ricoperta di sangue. La lacerazione parte da metà palmo, tra il medio e l'anulare, e finisce sotto il mignolo. Non è un graffietto, ma non è nemmeno da pronto soccorso. Ho visto di peggio.

“Allora, tesoro, il vetro non è andato troppo in profondità ma necessiti di un paio di punti” mi comunica l'infermiera “Ora la disinfettiamo e poi ti ricucio, sarai come nuova in un attimo”.

Recupera un po' di garza e del disinfettante dal carrellino e mi tampona la ferita con cura. Una volta sterilizzato, recupera una piccola siringa e me la mostra. “Questo è anestetico locale, così non sentirai dolore mentre ti suturo”.

Lip sbianca alla vista dell'ago ma questa volto sono io a sobbalzare. “No” affermo risoluta “Non lo voglio”.

La signorina Stone mi accarezza il braccio. “Tranquilla, sentirai solo un pizzico”.
Indietreggio verso Lip. “No”.

“Julianne...”.

Scuoto la testa. “Lei non capisce, non posso. Non può darmelo”.

Mi osserva confusa. “Io...”.

Prendo fiato. “Sono una ex-tossicodipendente”.

Nella stanza cala il silenzio e io resto a fissare l'ago. Prima essere così vicina ad una siringa mi dava un sensazione di euforia senza uguali, ora sento solo disgusto e una pressante voglia di scappare.

“Scusami, tesoro, non volevo turbarti”. L'infermiera ripone il farmaco nel cassetto. “Il preside mi aveva avvisata, ma non pensavo che l'anestetico potesse essere un problema”.

“Non fa nulla” sospiro. “Non è che non posso e che non voglio. Preferisco non prendere nulla che non sia vitale, soprattutto se accompagnato da un ago”.

“Capisco perfettamente”. Mi guarda dispiaciuta. “Dovrò metterti i punti a crudo però, farà male”.

“Lo so” gemo “Ma preferisco così”.

Lip mi prende la mano non ferita. “Sentiti libera di stritolarmi pure quanto vuoi. Sono grande e forte, posso resistere”.

Non appena l'infermiera si avvicina al taglio, Lip apre la bocca e comincia a blaterare. “Te l'ho mai detto che al primo anno uscivo con Giselle?”.

Sono così sorpresa che quasi non sento il dolore alla mano. “Cosa?!”.

Annuisce rammaricato. “Sì, per ben quattro mesi”.

“Voglio sapere tutto”.

“Non era per niente male all'inizio, lei era davvero divertente e bellissima. Mi piaceva da morire, a dire la verità credo di essermi innamorato di lei”. La mascella mi sbatte contro il lettino. “Non ne sono sicuro, non ho mai provato più nulla del genere per nessuna, quindi immagino fosse amore”.

“Cos'è successo?”.

“Uscivamo insieme ed era tutto perfetto, almeno per me lo era. Non eravamo popolari come adesso, non eravamo nemmeno così come siamo ora, però mi piaceva davvero stare con lei. Della popolarità non mi è mai importato nulla, mentre Giselle era fissata” giocherella con le mie dita “All'epoca mi era sembrata una cosa improvvisa, ma ora mi rendo conto che è stata una graduale metamorfosi da ragazza della porta accanto a mostro senza anima ne sentimenti”.

Non sembra voler entrare nei dettaglio, perciò non lo sforzo. “Ti ha spezzato il cuore?” domando cauta.

“Me lo ha del tutto polverizzato”. Lo sguardo triste che gli rabbuia il viso mi fa stringere lo stomaco. “Mi ha tradito senza ritegno solo per raggiungere i suoi scopi”.

Gli accarezzo il dorso della mano con il pollice. “Mi dispiace, Lip”.

Nasconde la tristezza con un sorriso un po' troppo ampio. “Non preoccuparti, dolcezza, ho imparato la lezione”.

“Lip...”.

“Cos'è successo?” la voce squillante della dottoressa Dawson interrompe la mia frase. “Perchè sanguini?”.

Sempre un tempismo perfetto. “Un piccolo incidente, nulla di grave”.

Mi osserva dalla soglia dell'infermeria con aria preoccupata. “Ti va di spiegarmi?”.

“Sì, tra un attimo”.

L'infermiera avvolge il taglio nella garza pulita e mi regala un lecca-lecca alla frutta. “Ecco, tesoro, sei come nuova. Sei stata molto coraggiosa”.

“Grazie”.

Lip si sporge verso la signorina Stone con un sorriso seducente. “Posso averne uno anche io? Sono stato di vitale importanza, ho distratto la paziente”.

L'infermiera arrossisce leggermente e ridacchia. “Solo perché sei tu, Philip”. Gli porge un lecca-lecca rosso e lui le ammicca.

 

Usciamo dall'infermeria seguendo la dottoressa Dawson. “Grazie del sostegno, Lip. L'ho apprezzato molto”.

“Figurati, dolcezza, è stato un piacere”.

“A dopo”.

Mi giro per seguire la psicologa ma Lip mi richiama. “Jay”.

“Sì?”.

“Sei davvero tosta, lo sai, vero?” chiede. Alzo le spalle. “Lo sei, moltissimo”. Mi fa l'occhiolino. “Ci vediamo dopo, splendore”.

 

Mi siedo sul divano di pelle tenendo la mano ferita con cautela. La dottoressa mi osserva, in attesa.

“Mi sono tagliata per sbaglio con della vetreria rotta” sfioro la garza “Il laboratorio di chimica è più pericoloso di quanto pensassi”. Mi scruta con circospezione per troppo tempo. “Cosa? Pensa che l'abbia fatto apposta? No, mi creda, preferisco autodistruggermi in altri modi”.

Scribacchia sul taccuino. “Vorrei che avessi un po' più di cura di te stessa, Julianne”.

“Ho molta cura del mio corpo” sospiro.

“Non sono particolarmente d'accordo” corruccia le labbra “La rissa con Savannah, quella con Nicole, questo incidente a chimica e non parliamo di tutta la violenza psicologica che Giselle ti sta buttando addosso in questi giorni”.

“Nessuna di queste cose è colpa mia”. Inclina la testa. “Okay, forse la rissa con Savannah è stata un po' colpa mia, ma il resto no”.

Si sporge in avanti. “Sono solo preoccupata, Julianne. Sostituire un comportamento distruttivo con un altro ti porta sempre allo stesso risultato”.

Ha ragione? Mi infilo in situazioni potenzialmente dolorose di proposito? Può darsi, in effetti ho sempre cercato guai da quando mamma se ne è andata. “Farò in modo di prendermi più cura di me”.

“Brava”. Sorride. “Ora perché non parliamo un po' di Philip? Sembra proprio preso da te e devo ammettere che è proprio un bel ragazzo”.

Sospiro sprofondando tra i cuscini. Sarà un'ora proprio lunga.

 

 

Le dita di Aaron mi sfiorano la guancia mentre mi sposta i capelli dietro l'orecchio. “Mi sei mancata oggi a francese, la professoressa mi ha fatto i complimenti per i miei miglioramenti. Sono stato tentato di dirle che era solo merito tuo e non suo”.

“Sono sicura che ne sia consapevole”. Giocherello con un bottone della sua camicia. “Scusa se ti ho abbandonato ma la strizzacervelli mi ha rapita per parlare del mio comportamento autodistruttivo”.

“Quale dei tanti?”.

Gli mollo un pizzicotto sulla coscia. “Simpatico”.

Ridacchia. “Scherzo. Di cosa voleva parlare?”.

“Di tutte le volte che mi faccio male” sospiro “E del mio ragazzo”.

Strabuzza gli occhi. “Prego?”.

“Si, pensa lo faccia apposta”.

“Ma non è così, vero?”.

“No”. Gli accarezzo il mento ispido. “Ma le ho promesso di fare più attenzione”.

Mi stringe le mani su i fianchi. “Lo premetti anche a me?”.

“Lo pensi anche tu?”.

Scuote la testa. “No, però ogni volta che ti lascio sola ti ritrovo con qualche segno nuovo”.

Lo bacio lentamente. “Allora non lasciarmi più sola”.

Geme e sfodera la sua migliore faccia da cucciolo. “Sei tu che vuoi andare da Peyton, invece che stare sdraiata a letto con me tutto il pomeriggio”.

“Devo parlare con lei, Aaron. La storia del professor Ellingford non mi va giù” affermo. Le ho chiesto di vederci dopo scuola per passare un po' di tempo insieme e per provare a sfiorare l'argomento Amore Proibito.

“Lo capisco”. Si stende sul materasso, mi tira con se e poi rotola imprigionandomi sotto il suo corpo. “Però prima voglio sapere di che ragazzo avete parlato tu e la dottoressa Dawson”.

Ridacchio stringendogli le gambe intorno al busto. “Lei pensa che io esca con Lip. Lo ha visto in infermeria”.

Corruga la fronte. “E tu non l'hai smentita?”.

Gli accarezzo i pettorali. “Non posso. Sa che esco con qualcuno, se le dico che non è lui ricomincerà ad indagare e non voglio che faccia due più due. È molto intelligente”.

Sbuffa ma annuisce. “Va bene, ma non mi piace per niente questa cosa”.

Gli affondo le mani nei capelli e lo attiro a me. “Vediamo se riesco a farti sparire questo broncio”.

Il suo sguardo si infiamma. “Voglio proprio vedere”.

 

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Capitolo 35
*** Julianne ***


Julianne

 

 

Arrivo da Peyton in ritardo ma con l'elettricità che mi scorre sotto pelle. Stare con Aaron, anche pochi minuti, mi fa toccare il cielo con un dito.

Smonto dalla macchina, attraverso il prato leggermente incolto e disseminato di biciclette, e raggiungo la porta. La casa dei Jackson è un edificio di due piani, fatto di cemento dipinto di verde pallido. Le imposte bianche sono tutte spalancate e del rumore soffuso filtra da sotto la porta mentre mi allungo verso il campanello. Dopo aver suonato, osservo lo spioncino finché sull'uscio non appare Dwight. “Ehi” sorrido.

Il fratellino di Peyton tiene in una mano una macchina radiocomandata e con l'altra stringe la maniglia di metallo. “Julianne” asserisce “Qual è la parola d'ordine?”.

La prima volta che sono andata a trovare la mia amica, un altro dei suoi fratelli mi ha fatto la stessa domanda lasciandomi poi fuori di casa alla risposta sbagliata. Ma questa volta sono preparata.

Sospiro. “Peyton puzza”.

Dwight ridacchia ma scuote la testa. “Errata. È della settimana scorsa”.

“E io come faccio a saperlo?”.

Alza le spalle. “Non è un mio problema”. Sbatte la porta e mi chiude fuori.

“Dwight!” strillo pigiando con foga sul citofono. “Avanti!”.

La porta si apre di nuovo ma questa volta sull'uscio appare Drew, uno dei più grandi. “Cosa succede qui?”.

Espiro e non per la gratitudine. “Ciao, Drew, posso entrare?”.

Mi rifila uno dei suoi sorrisetti sornioni e inclina la testa di lato per squadrarmi. “Sei uno schianto oggi, Julianne. Ne sei consapevole?”.

Sbuffo e cerco di sorridere. “Sì, ne sono conscia. Mi fai entrare? Pey mi sta aspettando”.

Si appoggia allo stipite. “Lo farò molto volentieri una volta che avrai accettato di uscire con me”.

Cerco di soffocare una risata sul fondo della gola. Drew è davvero carino, i capelli biondo scuro e gli occhi castani da cucciolo creano un mix niente male, ma al momento non sono sulla piazza e oltretutto lui ha solo quindici anni.

“Ascoltami, tesoro, perché è la seconda volta che te lo dico”. Faccio un passo in avanti cercando di riuscire ad entrare. “Tra noi non succederà mai niente. Non sono disponibile, sei troppo piccolo per me e oltretutto sei il fratellino di Peyton. Sarebbe strano”.

Aggrotta le sopracciglia. “Ho molte più qualità di O'Connor e posso provartelo”.

Anche lui crede che io esca con Lip. “Non mi interessa, Drew, voglio solo entrare”.

“Lui non ti rispetta” asserisce risoluto.

“Drew? Con chi stai parlando?”. Tori, la madre di Peyton, sbuca all'orizzonte come un raggio di sole. “Ciao, Julianne!” trilla allegra, spingendo il figlio di lato. “Cosa fai li ferma sullo zerbino, entra”.

Finalmente. Varco la soglia e mi inoltro nel soggiorno. “Salve, signora Jackson. Come sta?”.
“Oh, tesoro, ti ho detto già mille volte di chiamarmi Tori e di darmi del tu”. Sorride nello stesso modo di Peyton.
“Giusto, scusami Tori”.

“Mamma” brontola Drew “Stavo parlando io con Julianne”.
Lei gli accarezza la guancia. “Perchè non vai di sopra ad aiutare Dwight ad aggiustare la sua macchinina”.

“Ma mamma...”.

“Pasticcino, non era una domanda”. Lo sguardo autoritario stona con il tono zuccheroso della voce.

Drew sbuffa ma ubbidisce salendo al piano superiore. “Grazie” esalo.

Mi fa l'occhiolino. “Figurati, tesoro. Ho notato che ha una piccola cotta per te”.
Piccola è un eufemismo”.
Tori si siede con lentezza sulla poltrona fiorita e sospira con stanchezza. “Già”.
Il viso di solito armonioso è pallido e vagamente scavato. Ha delle profonde occhiaie e sembra più magra di quanto me la ricordassi. “Va tutto bene?”.

Si accorge del mio sguardo preoccupato e nasconde l'espressione sofferente con un sorriso caloroso. “Oh, no, tesoro. Sto benissimo, tranquilla”.

Non ci vuole certo un genio per capire che sta mentendo. “Sicura?”.

“Certo” si alza con un po' troppa foga “Vai da Peyton, ti sta aspettando. Io continuo le mie faccende”.

Cerco di protestare ma lei scompare in cucina, quindi decido di lasciar stare. Attraverso il salotto inciampando in un mucchio di giocattoli sparsi per terra ed esco nel giardino sul retro. Supero l'altalena, lo scivolo e finalmente arrivo alla camera di Peyton. La sua stanza si trova fuori dalla casa, nel punto in cui prima c'era il garage. Mi ha raccontato che dopo una crisi nervosa per via della convivenza con i suoi fratelli, suo papà le ha ristrutturato il garage in modo che fosse abitabile e che avesse il suo bagno. È sempre un po' più freddo della casa e odora ancora un po' di pneumatici e olio per motori, ma lei ne è entusiasta.

Busso sul legno arancione della porta e Peyton apre la porta. “Finalmente, mi stavo preoccupando. Ero quasi pronta a darti per dispersa”.

Si sposta di lato per farmi entrare e mi abbraccia quando le passo accanto. “La tua famiglia mi stava risucchiando, ma tua madre mi ha salvata”.
Richiude la porta e si accomoda sul letto. “Lo so, è la migliore”.

Appoggio la borsa sulla scrivania. “Sta bene?”.
Peyton annuisce con troppa foga. “Sì, certo, sta benissimo. È solo stanca”.

La osservo raggomitolarsi nella coperta arcobaleno. Non indossa nessuna parrucca e i suoi capelli castani sparano in ogni direzione. Il pigiama mimetico che porta stona con il caleidoscopio di colori che ricopre la stanza, dalle perline rosse che dondolano sopra alla testata del letto, alle ante dell'armadio color prugna. “Lei dice di essere solo stanca, però non lo so” alza le spalle “Ho paura che stia sottovalutando qualsiasi cosa abbia”.

Mi sfilo gli stivali e la raggiungo sotto la coperta. “Pensi che stia male?”.

“Non lo so, non mi fa partecipe dei suoi malesseri. Per lei vengono prima tutti gli altri e ho il terrore che questa cosa possa danneggiarla. Sabato ci sarà la partita contro i Red Devils e papà è molto agitato e poi la storia di Dominick, credo che la mamma stia nascondendo qualsiasi cosa abbia per non aggiungere problemi”.

“Cos'ha Dom?”.

Si stende allungando le braccia sopra la testa. “La sua insegnante pensa abbia un qualche tipo di ritardo mentale”.

“Davvero? Dominick?” chiedo confusa.

“Già, fatico anche io a crederci, ma lei ne sembra convinta. Mamma sta prendendo appuntamento per fargli fare dei controlli. Lo scopriremo presto”.

“Mi dispiace, Pey”.

Sospira ostentando noncuranza. “Non è nulla, andrà tutto bene”.

Sapere che è così piena di preoccupazioni e di pensieri mi blocca. Come posso costringerla ad affrontarne un altro quando ne ha già altre mille per la testa? Ma, d'altro canto, che amica sarei se ignorassi il fatto che si è infilata in una situazione potenzialmente distruttiva?

Restiamo in silenzio a lungo, finché non mi decido. “Peyton?”.

Inclina la testa e mi guarda. “Dimmi”.

Stringo i denti e afferro il coraggio con due mani. “L'altro giorno ti ho vista con il professor Ellingford”. Buttarmi di testa nelle cose non è mai stato un problema. “Vi stavate baciando”.

Sono le conseguenze dei miei salti nel vuoto a fottermi.

“Cosa?”. La voce di Peyton tremola quando lentamente si mette seduta.

“Io sono preoccupata per te. Lui è un professore e tu una sua studentessa, so che non sono fatti miei, ma...”.
Lei balza in piedi come una molla. “No, non lo sono! Non sono fatti tuoi, cazzo!”.

“Peyton” sospiro.

Ride con sarcasmo. “Wow! Complimenti, Julianne, per essere un fottuto macello sei sempre pronta a giudicare gli altri”.

“Io non ti sto...”.

“Sai, mi fa sbellicare questa tua ipocrisia. Sei un ex-tossica piena di insicurezze che si sbatte il suo fratellastro perché, ammettilo, adori auto-punirti e quando questa bolla con Aaron esploderà, finirai davanti all'occhio di bue più grande della storia e la tua mamma finalmente si renderà conto che esisti” mi punta un dito contro “Perchè è questo quello che vuoi di più al mondo, essere vista, perché se no non si spiegherebbe il tuo costante bisogno di infilarti in situazioni di merda”.

Man mano che gli occhi mi si riempiono di lacrime la vedo sempre più sfuocata ma continuo comunque a fissarla. I coltelli che mi ha tirato erano così ben affilati e precisi che hanno fatto tutti centro nel punto giusto, dove fa più male. Sbatto le palpebre e le lacrime mi scivolano lungo le guance rendendo Peyton un po' più nitida. “Grazie” esalo a bassa voce “Ti ringrazio per questa valanga di acido che mi hai versato addosso”. Scivolo giù dal suo letto e arranco per mettermi in piedi. Il mio istinto di autoconservazione cerca le scarpe e la via d'uscita più vicina. Raccolgo le mie cose e afferro la maniglia, pronta alla fuga. Poi però il mio cervello mi ricorda un dettaglio fondamentale: lei è Peyton. Non è un'estranea, non è una stronza qualunque, è la mia amica Peyton. È aggressiva, brusca, sempre sulla difensiva ma è leale, dolce e non mi hai mai giudicata. Beh, fino ad ora.

Se fossi nella sua posizione anche io attaccherei per difendermi, quindi raccolgo i cocci del mio orgoglio frantumato e lentamente mi giro. “Hai altro che vuoi rovesciarmi addosso?”.

Scuote piano la testa. “Bene, allora è il mio turno. Se mi avessi lasciata parlare ti avrei detto che capisco cosa voglia dire amare qualcuno in modo non convenzionale e che capisco la tua situazione e che se ne vuoi parlare con me, sarei molto felice di ascoltarti. Volevo dirti che ti voglio bene e che sono solo preoccupata per te e per il tuo futuro. Non conosco il professor Ellingford e non conosco la vostra storia, ma non ti sto giudicando Peyton”. Asciugo la guancia con il dorso della mano. “Tutto quello che hai detto è vero, non lo nego, non l'ho mai negato. Mi infilo in situazioni di merda, vorrei più attenzioni da mia madre e sono ex-drogata, ma non ti permetto di direi che sto con Aaron perché mi farà finirei nei guai. Non sai cosa provo e nemmeno cosa voglio, perciò non ti azzardare mai più”.

“Julianne...” pigola.

Non è su di me che dobbiamo concentrarci. “Vorrei che mi raccontassi la tua versione della storia” tiro su con il naso “Perchè dal mio punto di vista sembra davvero brutta”.

“Okay” espira e torna a sedersi tirandomi con lei sul letto “È cominciata più o meno cinque mesi fa, quando ho deciso di seguire dei corsi di e di inglese all'università statale. L'ho incontrato lì, era l'assistente del professore. All'inizio non lo avevo nemmeno notato, poi un giorno il professore si è assentato e lui ha tenuto la lezione. È stato brillante, divertente e così intelligente, sopratutto quando mi ha lodata davanti a tutti per le mie risposte. A fine lezione mi ha chiesto di rimanere, abbiamo parlato e mi ha invitata a prendere un caffè. Ci ho messo un po' a riconoscerlo e per lui credo sia stato lo stesso, prima di quest'anno non avevo mai seguito il suo corso di a scuola. Abbiamo scoperto chi eravamo e abbiamo deciso di chiudere qualsiasi cosa stesse nascendo”. Arrossisce sempre di più ad ogni parola che aggiunge. “Però è stato come se il destino mi dicesse che eravamo fatti per stare insieme. Ogni volta che andavo da qualche parte finivo per incontrarlo o per pensare a lui. Ti giuro che ci abbiamo provato ma è stato impossibile ignorare l'attrazione e il desiderio di stare insieme che ci ha investiti. Quindi abbiamo iniziato ad uscire e a stare insieme. L'estate è voltata e quando è ricominciata la scuola abbiamo deciso di tenere un profilo basso e di vedere se riuscivamo a farla funzionare. Però ora...”.

“Vorresti uscire alla luce del sole?”.

Annuisce. “Sono stufa di dire così tante bugie per stare insieme solo per cinque minuti, vorrei poter dire che stiamo insieme a tutto il mondo”.

“Capisco perfettamente la sensazione” mormoro.

Il suo sguardo è carico di tristezza. “Lo so, perdonami se ti ho urlato addosso tutte quelle cattiverie, mi sono spaventata. Ogni giorno vivo nella paura che il castello di bugie sotto cui mi ha tirato crolli e che ci si rovesci tutto addosso. Per questo gli ho chiesto di trovare una soluzione, di cercare magari un altro lavoro in un'altra scuola o magari qualcosa di diverso, così da poter piano piano dire a tutti che usciamo insieme. In fondo abbiamo solo dieci anni di differenza, ma lui pensa sia meglio così e mi ha chiesto di non incasinare tutto, quindi”.

Qualcosa mi ribolle all'altezza dello stomaco, è una strana sensazione che non riesco a fermare. “Ho capito”.

Mi osserva incerta. “Cosa stai pensando?”.

Verità o bugia? Sono pronta ad un'altra doccia di acido? “Prometti di non urlarmi di nuovo addosso?”.

“Promesso” appoggia la mano sul cuore.

“Io non so come funziona la vostra storia e non so nemmeno come siete tra di voi, ma vorrei raccontarti una mia esperienza simile. Uscivo con un ragazzo più grande un po' di tempo fa. Non era un bravo ragazzo, neanche un po'. All'inizio lo trovavo meraviglioso, sexy, divertente e passavo sopra a tutte quelle piccole cose che mi gridavano di darmela a gambe. Poi ad un certo punto è del tutto cambiato, era aggressivo, nervoso, voleva controllarmi costantemente e non mi lasciava mai fare nulla che mi andasse davvero di fare. Era...non voglio dilungarmi con inutili dettagli, il mio punto è, Peyton, che in un attimo mi sono ritrovata senza vie di fuga. Mi aveva fatto terra bruciata intorno e non avevo più nessuno disposto a tendermi la mano per aiutarmi e mi sono persa. Non voglio insinuare che tu sia nella mia stessa situazione, quello spetta a te capirlo, sopratutto perché non sono nella posizione di giudicare. Hai capito?”.

Annuisce con decisione. “Sì, perfettamente”.

“Bene”.

Restiamo sdraiate sul suo letto a parlare di tutto e di niente per il resto del pomeriggio. Vorrei poter dire che ciò che mi ha detto mi è scivolato addosso, ma non è così. So che era tutta rabbia mischiata a paura ma questo non rende le sue parole meno vere e dolorose.

In ogni caso, fingo di crederle quando si scusa per la dodicesima volta di fila e mi assicura che non lo pensa davvero. Ma è questo il punto, se non pensiamo qualcosa perché lo diciamo?

 

 

 

Le ginocchia perfettamente lisce di Chastity luccicano sotto la luce al neon del bagno. Non capisco proprio come faccia ad avere la pelle così radiosa e perfetta. Siede sul bordo della finestra del bagno mentre controlla che l'accendino non le abbia graffiato le unghie rosa. La divisa blu delle cheerleader è nascosta sotto un giaccone della squadra di lacrosse. Anche avvolta in un indumento non della sua taglia riesce ad essere perfetta. La luce pallida che filtra nel cubicolo le illumina i capelli biondi, facendola sembrare quasi angelica. Io, d'altro canto, devo sembrarle un disastro. Seppur abbracciata ad Aaron, ho dormito da schifo. Le parole di Peyton mi sono risuonate in testa per tutta la notte.

Prende una boccata di fumo dalla sigaretta e si massaggia lo spazio tra le sopracciglia. È corrucciata da almeno cinque minuti, da quando le ho detto che la casa di Lip non è disponibile per la festa di Halloween. Non voglio interrompere la sua riflessione ma stiamo finendo il tempo di pausa che ci danno tra una lezione e l'altra. “Di chi è la giacca che indossi? Da quand'è che fumi?”.

Soffia il fumo fuori dalla finestra. “Oggi sei in vena di fare conversazione, eh?” ridacchia “Di solito sono io che parlo mentre tu resti zitta”.

Mi appoggio al divisorio di plastica. “Lo so, mi fa strano vedere che resti in silenzio così a lungo”.

Accarezza la giacca con la mano libera. “Esco con Emmett Gray”.

“Il portiere?”. Le luccicano gli occhi. “È molto carino”.

“Lo so” gongola “Oltretutto non è mai caduto nella rete di nessuna stronzetta della mia squadra, perciò il suo punteggio raddoppia”.

Sono felice per lei. “Che mi dici di quella?” domando indicando la sigaretta che le pende dalle labbra.

Scrolla le spalle. “È un vecchio vizio che si risveglia quando sono stressata”.

“C'è qualcosa che ti preoccupa?”.

Osserva il profilo delle montagne con aria stanca. “Sabato ci sarà la partita e nell'intervallo ci esibiremo come ogni volta che si gioca in casa. Giselle ha deciso che metteremo in atto un esercizio difficilissimo in cui praticamente verrò lanciata in aria e ho paura che stia provando ad uccidermi. Tutte le amiche che ho sono delle pugnalatrici alle spalle senza cuore, la scalata per detronizzare la regina del male sta andando sempre peggio e mia madre non fa altro che ripetermi quanto il mio culo si stia allargando e che dovrei assolutamente smettere di mangiare tutto ciò che ha un sapore”.

Wow. Vederla vomitare ogni singolo problema che le frulla nella testa la fa sembrare un po' meno di ghiaccio. Meno perfetta e molto più umana. Una Chastity che potrebbe piacermi davvero.

“Mi dispiace, Chas”.

Lei spegne la sigaretta e butta il mozzicone nel cestino. “Tranquilla, ho tutto sotto controllo”. Indossa la sua maschera di porcella e sorride. “Andrà tutto bene”.

Conosco bene la parte che sta recitando e se continua così finirà per distruggersi. “Che ne dici se domani sera usciamo insieme? Una serata tra ragazze che non vogliono accoltellarsi a vicenda potrebbe farti bene, così magari possiamo pensare ad un piano per la festa”. Non so che cosa si sia impossessato di me ma non mi pento di quello che le ho chiesto.

Lo stupore sul suo viso muta lentamente in una sorriso vacillante, per poi trasformarsi in una risata sguaiata. Il mostro rancoroso dentro di me ingrana la retro. “Fa nulla, lascia perdere”.

Salta giù e mi afferra un gomito. “No, no. Ferma. Ovvio che voglio uscire con te. Pensavo di non piacerti per nulla, per quello ho riso. Sono riuscita a scalfire la superficie”.

Sorrido ma non riabbasso la guardia. “Ora non montarti la testa”.

Mi da un colpetto. “Ammettilo che sto cominciando a starti simpatica”.

“Ti piacerebbe”.

Non mi va di ammetterlo davanti a lei ma sì, Chastity, stai cominciando a piacermi.

 

 

 

“Il campo elettrico è descritto anche dal potenziale elettrico, definito come il valore dell'energia potenziale di una carica elettrica posta in un punto dello spazio divisa per la carica stessa” asserisce Aaron puntando il dito sul libro “L'energia potenziale della carica è quindi l'energia che la carica possiede a causa della sua posizione all'interno del campo elettrico. Tutto chiaro fin qui?”.

Sfodero il mio sorriso migliore. “Ti arrabbi se ti dico che vedo le tue labbra muoversi ma non sento assolutamente nulla?”.

Sospira. “Un pochino, ma d'altra parte mi piace il fatto che la mia bellezza celestiale ti distragga da tutto il resto”.

Gli accarezzo la guancia. “Sì, possiamo dare la colpa a te e non alla fisica se questo ti fa sentire meglio”.

“Come fa a non piacerti?”.

Chiudo il libro e lo spingo lontano. “Nello stesso modo in cui non mi piacciono le cavallette, i broccoletti e Giselle. Li trovo schifosi, fastidiosi e uno spreco di ossigeno”.

Si posa una mano sul cuore con dolore. “Come puoi paragonare la fisica a Giselle? Così mi uccidi tesoro”.

Mi sdraio appoggiando la testa sul cuscino. “Forse è un'esagerazione, ma almeno hai capito il mio disgusto”.

“Vero”. Si stende su un fianco posando la testa sulla mano e con l'altra giocherella con il bottone del mio cardigan. “Com'è andata la chiacchierata con Peyton?”.

“Mi ha raccontato tutta la storia, io le ho raccontato la mia e le ho detto che l'unica che può sapere come stanno davvero le cose è lei. Ha capito il mio punto e sono sicura che farà la scelta migliore”.

Mi accarezza la pelle dell'addome con il pollice. “Pensi che lo lascerà?”.

“Non ne ho idea, però so che farà ciò che è meglio per lei”. Corruga la fronte leggermente contrariato, ma rimane in silenzio. Con l'indice gli alzo il mento in modo che mi guardi negli occhi. “Sa prendersi cura di se stessa, non preoccuparti”.

Sospira. “Se me lo assicuri tu”. La sua mano mi risale lungo le costole. “Allora mi fido”. Il suo naso sfiora il mio. “Mi fido al diecimila per cento di te”.

Gli accarezzo la nuca. “Sai che è matematicamente impossibile?”.

Ride solleticandomi lo stomaco. “Beh, in qualche modo lo rendi possibile. Rendi qualsiasi cosa possibile”. Ormai ad un centimetro dal mio volto, posa le labbra sulle mie. Con una mano mi cinge la vita, attirandomi a sé, e con l'altra mi accarezza i capelli. Trattengo il fiato mentre delicatamente mi mordicchia il labbro inferiore. Unisco le mani dietro la sua nuca e lo attiro più vicino. Non mi sembra mai abbastanza vicino. I suoi baci sono infuocati, disarmanti e fanno salire l'eccitazione alle stelle. Sento ogni curva del suo corpo aderire al mio.

Il colpo secco che proviene dalla porta ci fa sobbalzare entrambi. Aaron si ritrae verso il fondo del letto e io mi raggomitolo sui cuscini. Il colpo successivo è seguito dalla voce squillante e fastidiosa della mamma. “Julie? Posso entrare?”.

Aaron lancia il libro di fisica tra di noi e si sistema freneticamente i capelli con le dita. Mamma non aspetta la risposta e spalanca la porta. Scandaglia la stanza, risplendendo sulla soglia come una diva del cinema. “Aaron? Cosa fate?”.

Il cuore mi batte a mille. Ci stavamo baciando. “Studiamo fisica, mamma. Aaron mi stava dando una mano”. Aveva le mani ovunque tranne che sul libro. Ogni tanto mi stupisco della facilità e della bravura con cui mento.

Aaron annuisce con vigore. “Sì, stavamo studiando. Sì”. Lui un pochino meno.

“Che bravi”. Lei sorride radiosa. “Non volevo disturbarvi, però c'è un ospite per te, Julie”.

“Scendo tra un secondo” affermo cercando di tenere chiuso il cardigan sbottonato.

Si ravviva i capelli. “Oh, no, tesoro. Lei è qui”.

“Lei chi?”.

Dorothea spunto dietro la mamma, stringendosi le braccia al petto e ostentando un sorriso timido. Sono quattro giorni che mi evita nei corridoi e che ignora le mie chiamate. Vederla sulla soglia di camera mia con un ramoscello d'ulivo in mano mi mette automaticamente sulla difensiva.

“Ciao Jay” biascica. “Aaron”. Il rossore che le adorna le guance aumenta la mia rabbia.

“Bene, ora vi lascio soli. Fate i bravi”. Mamma si allontana facendo svolazzare i capelli e lasciandoci ad avere a che fare con l'elefante nella stanza.

Dottie si avvicina guardinga e cercando di sorridere. Aaron percepisce il mio cambiamento di umore e si china in avanti. “Vi devo lasciare sole?”.

Vorrei disperatamente che rimanesse, ma ho bisogno di parlare con lei sinceramente e con lui nella stanza è impossibile. Scuoto la testa. “No, vai pure”.

Mi lancia un'ultima occhiata per essere sicuro che sia veramente quello che voglio, poi si alza ed esce dalla stanza. Una volta che la fonte dell'imbarazzo di Dorothea si è allontanata, lei si accomoda sul letto e comincia a giocherellare con un ricciolo che le sfiora la guancia.

Lancio il libro sul pavimento e mi avvicino a lei. “Come mai sei qui? Pensavo avessi deciso di evitarmi come la peste”.

Sobbalza come se le avessi sparato alla schiena e si fa più piccola. “Mi dispiace, Julianne”.

“Per?”. Non ci vado leggera, non voglio e sopratutto non ne ho la forza.

“Tutto” sospira lentamente “Quello che ho detto, il fatto che ti abbia ignorata, ma soprattutto mi dispiace di non averti creduto da subito”.

Chiedere scusa basta davvero a risanare le ferite che causiamo alle persone? È davvero sufficiente?

“Ascolta, Dorothea...”.

“Subito dopo che ho detto quelle cose mi sono pentita, non le pensavo davvero” afferma interrompendomi “Volevo venire subito a scusarmi, ma avevo così paura che non volessi avere niente a che fare come. Pensavo mi odiassi già. Ho sbagliato ma davvero non volevo ferirti”.

Ed eccoci di nuovo. Perché diamo fiato alla bocca senza pensare? Scusarsi dopo aver lanciato un coltello non ricuce la ferita che si è causata.

I suoi enormi occhi blu diventano lucidi ed acquosi. “Scusa, davvero”.

“Perchè hai detto quelle cose se non le pensavi?”.

“Sono anni che mi tartassano senza sosta. Nell'ultimo periodo ero riuscita a sparire dai loro radar, a non farmi più notare, ma essere tua amica lo rende impossibile. Sei troppo per essere ignorata e di conseguenza esponi tutti quelli che ti circondano”.

Troppo? Troppo cosa?”.

Le lacrime le rigano le guance pallide come porcellana rotta. “Troppo tutto, Julianne. Sei meravigliosa, intelligente, sicura, talentuosa. Cercare di essere come te è impossibile. Non te ne rendi conto?”.

“No”.

“Loro voglio essere come te ma non possono, quindi piuttosto che ammettere la sconfitta ti attaccano. Perché pensi che Nicole ti odi tanto?” mi accarezza la mano “Sono stata una codarda, lo ammetto e non come una giustificazione. Io non sono forte come te e avevo paura di non riuscire a sopportare tutte quelle voci addosso. Però poi ho realizzato che perderti come amica è mille volte peggio che dover sopportare le loro vessazioni”. Un piccola breccia mi si forma all'altezza dello sterno. “Potrai mai perdonarmi?”.

L'istinto mi dice di no. Se ti voltano le spalle una volta, lo rifaranno. Però voglio bene a Dottie e il cuore mi dice che tutti possono sbagliare. Una seconda possibilità si concede sempre.

“Sì” affermo abbracciandola “Sì, Dottie”.

 

 

 

 

Il giorno successivo mi ritrovo in mezzo ad una zuffa tra uomini di Neanderthal. Aaron e Lip agitano le clave e grugniscono per decidere chi dei due ha avuto l'idea migliore e, naturalmente, tocca alla sottoscritta decidere chi ha ragione.

“Dolcezza, puoi dire a questo cretino che il mio è il migliore! Con il suo non ci pulisci nemmeno il culo di un barbone”.

Aaron sbuffa agitando il suo foglio. “Ma ci vedi almeno? Questo è un vero e proprio capolavoro!”.

Ignoro il loro sfogo da primedonne e continuo ad accordarmi con Chastity sulla serata. Abbiamo esteso l'invito anche a Peyton e Dottie. L'idea è stata mia, sono sicura che ci farà bene uscire un po' insieme.

“Un capolavoro? Ma sei serio? Dio, dolcezza, ma come fai a stare con lui? Non ha il minimo gusto”.

J: Tutto pronto per questa sera? Hai trovato un alibi?

C: Assolutamente sì. Non vedo l'ora di essere sommersa da una valanga di ragazzi e un mucchio di alcolici.

Lei, d'altro canto, ha invitato i due scimmioni che discutono. Ho acconsentito solo perché Chas mi ha chiesto una ragione valida per non farli venire e io non la avevo. O almeno non potevo dirgliela.

“Jay” brontola Aaron “Puoi dirgli di chiudere il becco prima che si becchi un pugno”.

“Sì, provaci” lo istiga Lip.

J: Pensavo uscissi con Emmett.

C: Occhio non vede...

Non mi sorprende, sinceramente. Chastity è un tipetto davvero vivace, mi sorprenderebbe vederla in una relazione stabile.

C: Comunque arriverò da voi verso le 21:30. Andiamo con la tua macchina e quella di Lip, giusto?

J: Sì. Guidiamo lui ed io.

“E poi quello cosa dovrebbe rappresentare? È una specie di animale?” chiede confuso Aaron.

Lip sventola il foglio. “Ovviamente è un dito medio. Sicuro di vederci?”.

C: Mi dispiace, però a qualcuno tocca.

J: Lo faccio molto volentieri, non preoccuparti.

“Un dito medio?” sghignazza Aaron “Ma su quale pianeta?”.

C: Fatti super bella, voglio vederti conquistare qualche bel manzo stasera.

J: Manzo? Davvero?

C: Sì, tesoro. Lì fuori ne è pieno e aspettano solo te.

“Stai mettendo in discussione la mia arte? Dolcezza! Digli qualcosa!” ruggisce Lip.

Aaron ride di gusto. “Arte? Sei serio? Jay digli che ho ragione”.

“Dolcezza?”.

“Jay? Ci sei?”

J: Se lo dici tu. Ora devo andare, devo dividere due gorilla che si tirano le banane. A dopo.

C: Bye.

“Si può sapere con chi parli? Ci stai ignorando?” sbuffa Aaron sfilandomi il cellulare di mano e infilandosi nel mio capo visivo.

“No, purtroppo ho sentito tutto”. Sospiro scendendo dal letto e prendendo i loro disegni. “Noi donne siamo multitasking”. Afferro i loro schizzi. “Fatemi vedere un po' a cosa avete pensato”. Stamattina, li ho incaricati di progettare un logo per la band da dipingere sulla batteria di Lip e da mettere sui futuri volantini e magliette. Entrambi i disegni sembrano fatti da dei bambini dell'asilo. Liv disegna molto meglio.

“Carini” pigolo, ostentando un sorrisetto.

Aaron geme e si lascia cadere sul materasso. “Non ti piacciono”.

“No” mento “Sono carini”.

Alza un sopracciglio. “Hai detto la stessa cosa quando ti ho fatto vedere la nuova mazza da lacrosse che voglio comprare. Ormai conosco i tuoi veri versi di piacere”.

Lip si raddrizza come un cane. “Davvero?” domanda con aria maliziosa.

Lancio un'occhiataccia ad Aaron. “Ottima scelta di vocaboli”.

Lip mi da un colpetto sulla spalla. “Noi non siamo artisti, non puoi aspettarti che tiriamo fuori dei capolavori da un giorno all'altro”.

Raccolgo la borsa e tiro fuori il mio quaderno. “Volete vedere qualche mio progetto? Sono solo bozze, però”.

“Certo” affermano insieme.

 

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Capitolo 36
*** Aaron ***


Aaron

 

Julianne osserva corrucciata la sua cabina-armadio. Inclina la testa e si mordicchia il labbro, ballonzolando sui piedi. “Cosa pensi che dovrei indossare?”. Fa scorrere le grucce con aria indecisa. “Chastity ha detto che il locale è super extra e che quindi devo indossare qualcosa di on fleek”. Scuote la testa. “Oh, Dio. Non avrei mai pensato di dire una frase del genere in vita mia”.

Si sfrega il ginocchio con il piede e, per qualche stranissima ragione, lo trovo un movimento davvero sexy. Qualunque cosa faccia mi manda su di giri, ormai ho smesso di sorprendermi. “Qualsiasi cosa andrà benissimo” affermo. Sbuffa massaggiandosi il mento. Per quanto mi riguarda potrebbe uscire anche in pigiama. Qualsiasi cosa indossi le sta anche troppo bene.

Dopo che ha vibrato, Jay afferra il cellulare e lo osserva con aria afflitta. “Oh, ma dai! Come fa a sembrare una dea scesa in terra anche con un vestito di tulle. Il tulle non sta bene a nessuno”. Inclino le labbra cercando di non ridere. “Va bene, forse sto generalizzando, però non è giusto” mi mostra la foto che Chastity le ha inviato “Vestita così sembrerei un incrocio tra un profiterole e una lasagna”.

“Due cose deliziose” puntualizzo alzandomi dal letto.

Con irruenza appoggia il cellulare su una mensola. “Due cose a cui nessuno vorrebbe assomigliare”.

Le stringo le braccia intorno alla vita, attirandola contro il mio petto. “Come mai tutte queste paranoie?”.

Si osserva allo specchio, stringendosi tra le mie braccia. “Io non sono come lei. Non ho l'addome piatto, le cosce magre o la pelle di porcellana” si indica la tempia “Questo brufolo è così grande che gli ho dato un nome”.

È il discorso più assurdo che abbia mai fatto. Ogni parte di lei è perfetta. “Ah, sì? E come si chiama?”.

“Virgil, Aaron. Aaron, Virgil” mormora.

“Molto piacere”. Le inclino la testa di lato, avvicinandomi al suo nuovo amico. “Spero che la condivisione di Jay non ci faccia litigare, la trovo già molto simpatico”.

Scuote la testa cercando di celare un sorrisino. “Dico sul serio, Aaron”.

“So che credi che lei sia perfetta, ma non è così, nessuno lo è”. Le accarezzo i fianchi con dolcezza “È questo il bello del mondo. Siamo tutti un po' imperfetti ed è giusto che sia così”. Le sfioro il collo con le labbra. “Però, se mi chiedi un parere davvero oggettivo, non posso che affermare con certezza che l'unico essere davvero perfetto...”.

Ridacchia. “Sei tu?”.

Le bacio la testa. “Stavo per dire che sei tu, però ora che mi ci fai pensare hai proprio ragione. Sono io”.

Ride accarezzandomi le braccia. “Ma come siamo modesti”.

Le pungolo le costole. “Ammettilo che non esiste cosa più bella e eccezionale di me”.

Inclina indietro la testa e mi bacia il mento. “Si, baby, sei meraviglioso. L'ottava meraviglia”.

“Mi sembrava”. Le infilo la mano sotto la felpa che mi ha rubato e le sfioro la pelle soffice. Non capisco come possa non ritenersi assolutamente perfetta. “Jay?”.

Il suo sguardo cattura il mio attraverso lo specchio. “Sì?”.

“Sei in assoluto la donna più bella e meravigliosa che io abbia mai incontrato” affermo serio “Ogni millimetro del tuo corpo mi fa letteralmente impazzire. Amo tutto di te”.

Schiude le labbra lasciando trapelare un sospiro tremolante. I suoi occhi stupendi si scuriscono di almeno tre tonalità, rivelando tutto il desiderio e tutti i sentimenti che Julianne tiene ben celati. Si gira lentamente, mi cattura il viso con entrambe le mani e mi attira a sé. Il bacio è così impetuoso che mi tremano le ginocchia. Nonostante la sua riluttanza nel condividere i propri sentimenti, Julianne esprime tutto ciò che prova attraverso il corpo. Ogni sguardo, ogni carezza, ogni suo movimento mi dà la certezza che proviamo lo stesso.
Senza mai allontanarsi dalle mie labbra, mi afferra la nuca e mi tira dentro la cabina-armadio. Chiude le ante con un calcio e la penombra ci avvolge. Le sue mani afferrano l'orlo della mia maglietta e la tirano verso l'alto. “Lip potrebbe tornare da un momento all'altro” puntualizzo.

“Gli ho detto di saccheggiare il frigorifero quanto vuole” si sfila la felpa “Abbiamo tutto il tempo del mondo”. Scivolo tra i vestiti trascinandola con me. Finisco con il sedere a terra e con Julianne seduta in braccio. “A meno che tu non voglia andare giù a discutere con lui di arte”.

Rispondo a quella sua proposta ridicola, attirandola a me in un altro bacio bollente. Le sue dite mi scorrono tra i capelli e lungo la nuca. Le stringo i fianchi cercando di annullare qualsiasi distanza ci sia ancora tra di noi. Dovunque i nostri corpi si toccano, volano scintille.

Senza fiato, le accarezzo la guancia scivolando con la bocca lungo il collo. Lei sospira inclinando la testa, lasciandomi libero accesso alla curva delicata tra la spalla e la gola. “Aaron...”.

 

 

Non so esattamente per quanto tempo restiamo chiusi in quell'armadio, ma con lei il tempo sembra non essere mai abbastanza.
Senza troppo entusiasmo, ci rinfiliamo i vestiti e sgattaioliamo in camera. Julianne si stende sul letto e giocherella con il cellulare. Ha le labbra gonfie e i capelli arruffati. Non ho mai visto niente di così spettacolare in vita mia.

Il computer posto ai piedi del letto comincia a suonare. Lei rotola sul copriletto e se lo porta alle ginocchia. Schiaccia qualche tasto e sorride. “Ehi, Scar. Dimmi che hai trovato i miei stivali, non so cosa farei se li avessi persi”.

Mi siedo accanto a lei e mi sporgo verso la webcam. “Ciao, Scar”.

La sua amica sorride debolmente. “Ciao, Aaron”.

“Mi sono dimenticata di chiederti di cercare la mia giacca di pelle verde scuro” mormora Julianne “Sai quella che ho comprato per la festa di Carter?”.

Scar si mordicchia il labbro. “Jay...”.

Julianne non le presta attenzione. “Ho il terrore di averla dimenticata sul pavimento della sua stanza quando me l'ha sfilata...” si accorge della mia espressione accigliata e fa retromarcia “...No, cioè, quando me la sono tolta da sola perché faceva un sacco di caldo”. Chi diavolo è Carter?

Scarlett alza la voce. “Jay”.

“Li hai trovati?” domanda con apprensione.

Scar mi guarda titubante. “Possiamo parlare da sole?”.

Faccio per alzarmi ma Jay mi appoggia la mano sulla gamba. “Non c'è nulla che tu non possa dire davanti a lui”.

Le accarezzo le dita. “Magari vuole parlarti di qualcosa di importante per lei”.

Scar si sfiora la frangetta. “Non...non riguarda me...”.

Julianne si irrigidisce tra i cuscini e mi prende la mano. “Resta”. Intreccio le dita con le sue cercando di tranquillizzarla. “Cosa c'è Scar? Papà ti ha detto qualcosa? Se era in uno dei suoi momenti artistici mi scuso. A volte sa essere un po' strano”.

Non abbiamo mai approfondito la storia dei momenti artistici del signor Roux. Non so esattamente a cosa si riferisce.

Scar giocherella con il braccialetto mentre soppesa mentalmente le parole. “Io...”.

“Scar” la sprona “Avanti”.

“Sono andata a casa tua per cercare gli stivali che mi hai chiesto e quando ho bussato alla porta del tuo vecchio appartamento, tuo padre non c'era”.

Julianne alza le spalle. “Magari è uscito a fare una passeggiata”.

Un'orribile sensazione mi attanaglia lo stomaco. Scar inclina la testa. “No, Jay, mi ha aperto una signora e mi ha detto che ora è casa sua”.

“Cosa?” guaisce Julianne.

“Ho parlato con il proprietario e mi ha detto che tuo padre non vive più qui” prende fiato “Mi ha detto che è partito più o meno due settimane fa”.

Julianne fissa lo schermo con le labbra socchiuse. Sento la rabbia e la confusione irrigidirla e scacciare la bellissima espressione rilassata, che ero riuscito a farle spuntare sul viso. “Io non...”.

“Ha venduto l'appartamento e si è portato via tutto ciò che c'era dentro, quindi non ho trovato i tuoi stivali”. Non credo che sia il problema più grande al momento.

Julianne spinge il pc infondo al materasso e salta in piedi. Sfreccia fuori dalla stanza, prima che abbia il tempo di rendermene conto.

“Jay! Aspetta” squittisce Scar “Vai con lei, Aaron”.

Non me lo faccio di certo ripetere due volte. Scappo fuori dalla stanza e giù per le scale. Julianne si infila le mani tra i capelli mentre osserva con rabbia la madre seduta sul divano. “Quando avevi intenzione di dirmelo? Pensavi che non lo avrei mai scoperto?”.

April si alza. “Julie...”.

“No!” strilla “Niente Julie. Dove lo hai cacciato? Cosa gli hai detto? Perché non è più a casa nostra?”.

Mio padre cerca di mettersi in mezzo. “Julianne, non mi sembra il caso di...”.

“Stai zitto” ringhia “Non ti immischiare, non sono fatti tuoi”. Lui stringe i denti, ma saggiamente decide di farsi da parte. “Dov'è?” strepita verso April.

Sentendo puzza di guai, Cole afferra Olivia e la trascina verso la cucina. Henry si alza dalla poltrona e prende la sorella per il braccio. “Jules...”.

Lei si gira a guardarlo negli occhi e poi, lentamente, indietreggia. “Lo sapevi?”

“Jules” mugola.

“Lo sapevi e non me lo hai detto” si libera il braccio con uno strattone “Mi hai mentito”.

“Gli ho chiesto io di farlo” afferma April. Questo non migliora la situazione, anzi amplifica la rabbia che brucia negli occhi di Julianne.

Vedo Lip in piedi sulla soglia della cucina. Mi lancia un'occhiata preoccupata ma resta in silenzio.

“Dov'è?” mugola Julianne. Il suo tono ferito mi fa bruciare in mezzo al petto.

April si aggiusta il maglione con le dita che tremano. “Tuo padre è tornato in Francia”.

Julianne stringe i pugni. “Quando lo ha deciso?”.

“Poco tempo fa...”.

“Mamma” sospira Henry “Dille la verità”.

Julianne lancia un'occhiataccia al fratello e poi si riconcentra su sua madre. “Mamma...”.

April si siede stancamente sul bracciolo del divano. “Lo ha deciso dopo il tuo ricovero. Gli hanno offerto un posto prestigioso all'accademia di belle arti e lui ha accettato”.

“Questo è successo cinque mesi fa, perché non me lo hai detto prima?”. April abbassa lo sguardo verso il pavimento con aria colpevole. “Ma certo. Perché sarei voluta andare a vivere con lui e non con te”.

“Julie...”.

“A quest'ora potrei essere con papà e con la nonna a Parigi, invece che in questo buco dimenticato da Dio con te” si afferra la testa con entrambe le mani “Mi hai trascinata qui senza darmi possibilità di scelta perché pensavi che ci saremmo ritrovate? Che saremmo state come una volta?” ride senza ilarità “Sei più stupida di quanto pensassi”.

“Julianne” ringhia mio padre.

Lei lo ignora e continua a massacrare sua madre. “Ogni volta che ti chiedevo se potevo tornare da papà per Natale, così da rivedere anche Scarlett, tu mi dicevi che ci avresti pensato, che se mi fossi comportata in modo impeccabile ci sarei potuta andare. Ma tu stavi mentendo, mi stavi ingannando”.

“Julie” mugola “Non sapevo come dirtelo, tu sei sempre così lontana e io avevo paura della tua reazione”.

“Quindi è colpa mia? Mi hai mentito ed è colpa mia?”. April singhiozza con forza e nasconde il viso nelle mani. Il tono tagliente con cui si rivolge alla madre sorprende anche me. Niente di così freddo dovrebbe mai uscire da una persona così straordinaria.

Henry si infila tra la madre e la sorella. “Jules basta”.

Gli punta un dito contro. “Ne ho anche per te, stai tranquillo”.

Lui le afferra la mano. “Non è colpa sua”. Il bisogno di intervenire mi fa prudere le mani.

“Tu la difendi sempre. Per te non è mai colpevole di nulla”.

“Perché non lo è”. Lascia andare la sorella, lancia un'occhiata alla madre e poi sgancia la bomba. “Papà non ci ha voluto con lui”.

April tira su con il naso. “Henry, no...”.

“Non è vero” pigola Julianne.

“Voleva tornare in Francia da solo” arriccia le labbra “Non proprio da solo, con la sua nuova fidanzata”.

Julianne indietreggia come se il fratello le avesse dato uno schiaffo. Tremola e si stringe le braccia al petto. “Non ci credo, stai mentendo”.

“No, Jules, non sto mentendo” allunga la mano e cerca di sfiorarla “Mi dispiace”.

Allontana il fratello con uno schiaffo sulle dite. “No!”. Corre verso la porta, afferra le chiavi della macchina ed esce.

La sua fuga lascia tutti senza parole e il silenzio cala opprimente sulla stanza. April si alza torturandosi le mani. “Devo andare a parlarle. Dobbiamo chiarire”.

Henry sospira. “No, non vorrà nemmeno vederti in questo momento. Lasciale metabolizzare la situazione”.

“Dovevi proprio dirle di suo padre così?”.

Henry aggrotta la fronte. “Cosa dovevo fare? Se la stava prendendo con te per qualcosa che non hai fatto. Non è giusto che ti prendi tutto il suo odio per nulla” si massaggia la mascella “Dovevo dirle ogni cosa”.

“No!” strepita April “Non ti azzardare”.

Papà le prende la mano con dolcezza. “Henry ha ragione, cara. Lei pensa che sia colpa tua perché tu lasci che sia così. Dovresti dirle che suo padre...”.

“No!” lo interrompe “Non lascerò che succeda. Lei ama suo padre più di chiunque altro al mondo, non lascerò che tutto questo comprometta il loro rapporto”. Papà le appoggia un braccio intorno alle spalle attirandola verso di sé.

Le stanno ancora mentendo. Pur sapendo che Julianne odia le menzogne, le stanno ancora celando la verità. Non voglio sapere di cosa parlano, non ho intenzione di finire nella lista dei bugiardi con loro.

Lip mi compare di fianco con in faccia una stranissima espressione. Un misto di preoccupazione e stupore. Non ho mai visto quel mix nei suoi occhi prima d'ora. “Andiamo a cercarla, che dici?”.

Annuisco e ci avviamo verso la porta. Non annunciamo dove stiamo andando, mi sembra alquanto chiaro a tutti.

 

 

 

Non ho bisogno di girare per tutta la città per trovarla, so esattamente dov'è. Lip ferma la macchina a qualche metro da quella della madre di Julianne e spegne il motore.

“Resta qui”.

Lui annuisce. “Sì, signore”.

Apro la portiera e mi avvicino alla vettura. Julianne siede raggomitolata sul cofano e schiaccia convulsamente sullo schermo del cellulare. “Andiamo...Rispondi” geme “Ti prego...rispondi”.

“Jay?”.

Si gira di scatto frustando l'aria con i capelli. Scivola giù dal cofano e mi corre incontro. Si fionda tra le mie braccia e affondandomi il viso nel petto. È completamente gelata. È uscita di casa così in fretta da non essersi messa né la giacca né le scarpe. I suoi calzini pelosi sono bagnati e sporchi di fango. Siamo quasi alle fine di ottobre, ormai l'estate sta diventando un lontano ricordo. Mi sfilo la giacca e gliela appoggio sulle spalle. Sospira di sollievo. “Grazie”.

“Vieni”. La tiro gentilmente dentro la macchina e accendo il riscaldamento. Quando si è scongelata, le accarezzo la guancia. “Vuoi parlarne?”.

Julianne alza le spalle. “Non lo so”.

Le stringo la mano. “Stavi cercando di chiamare tuo padre?”.

“Sì”. Il mondo in cui i suoi meravigliosi occhi indefiniti si adombrano mi fa stringere lo stomaco. “Non mi risponde. Ho la bruttissima sensazione che quello che mi ha detto Henry sia la verità”. Giocherella con le mie dita. “Mi sembra così strano, papà che non mi vuole con lui e la storia della fidanzata. Lui ha sempre amato la mamma, non mi sembra possibile che si sia trovato un'altra”.

“Sono passati un paio di anni da quando tua madre lo ha lasciato, è quasi normale che abbia cercato una nuova relazione”.

“Lo so” scuote la testa “Quando mi richiamerà mi spiegherà tutto. Di sicuro Henry ha frainteso un po' di cose”.

Temo proprio di no. “E se fosse la verità?”.

Aggrotta le sopracciglia. “Non lo è. Te lo assicuro”.

Il piedistallo su cui ha posto suo padre è così alto che quando si romperà, la caduta disintegrerà il loro rapporto.

 

 

 

Durante il viaggio di ritorno provo a distrarla in ogni modo possibile. Cerco di farle tornare il sorriso ma qualunque cosa io faccia, nei suoi occhi resta sempre un'ombra scura che non riesco a scacciare.

Henry si infila in camera della sorella prima ancora che lei abbia avuto il tempo di sfilarsi i calzini macchiati. “Jules”.

Julianne si irrigidisce e si volta a guardare il suo gemello. “Cosa vuoi?”.

“Possiamo parlare?”.
“Non ho niente da dirti” afferma “E quanto pare da quella bocca escono solo bugie quindi nemmeno tu hai qualcosa da dirmi”.
“Non fare così, Jules. Non volevo mentirti”.
Si alza di scatto. “Allora perché lo hai fatto? Ci siamo sempre giurati di dirci la verità, non importa quanto dolorosa essa possa essere, e tu hai buttato quella promessa nel cesso”.

Henry si infila le mani nei jeans. “Esistono delle eccezioni”.
“Io non penso proprio” rimbecca.

Henry stringe le labbra in una linea sottile. “Tu non ti sei fatta problemi a mentirmi quando te la facevi con Jared e volevi drogarti”.

Lo sguardo di Julianne si fa ancora più scuro. “Vattene, Henry”.
Lui alza le mani. “Non volevo…”.

“Ogni giorno le assomigli sempre di più”. Ostenta sicurezza ma le trema il labbro inferiore. “Hai così paura di essere te stesso che piuttosto che essere genuino e un totale casino, preferisci essere una menzogna che cammina. Proprio come la mamma”. Si allontana sbattendo la porta.

Henry si lascia cadere sul materasso con il viso tra le mani. “Cosa ho fatto…?”.
Mi siedo al suo fianco. “Non diceva sul serio. È solo arrabbiata”. Gli stringo una spalla. “Domani sarà tutto come al solito”.

“Non penso” mugola “Non l’ho mai vista così in collera nei miei confronti. Cosa dovrei fare?”.

“Lasciale sbollire la rabbia” sospiro “Se c’è una cosa che ho imparato su Julianne è che bisogna lasciarle lo spazio per respirare, soprattutto quando è sconvolta”.

 

 

Lip pigramente stringe il volante. “Sta meglio?”.

Osservo i fanali della macchina davanti a noi dentro cui ci sono le ragazze. Jay è al volante e tutti insieme ci stiamo dirigendo verso il locale che Chastity ha scelto. Naturalmente a me è toccato andare in macchina con Lip. Il tragitto per arrivare a Salt Lake City non mi è mai sembrato così lungo.
“Non lo so” borbotto contro il finestrino “Mi è ancora difficile capire cosa le passa davvero nella testa. Dice di stare bene ma non mi fido molto”.
Si gratta il mento con l’indice. “La bomba che le hanno sganciato addosso era piuttosto pesante, siamo sicuri che questa uscita sia una buona idea?”.

Mi giro a guardarlo confuso. “Da quando sei così materno? E da quando rifiuti una serata in cui puoi rimorchiare?”.

Alza le spalle. “Sono solo preoccupato per Julianne”. Fa una pausa. “Perché siamo amici”.

Lo squadro. “Siete amici? Sicuro che sia solo questo?”.
Si mordicchia l’interno della guancia. “Certo”.

Sento puzza di bruciato. “Lip mi stai nascondendo qualcosa?”.

“No” brontola “Sto solo dicendo che lei pensa di essere fatta di acciaio, ma anche il metallo più resistente alla fine si piega sotto troppa pressione”.

Sono più dubbioso di prima. “Da quando sei così filosofico?”.

Sbuffa. “Senti, lasciamo perdere”. Accende la radio e ignora i miei tentativi di scucirgli qualche tipo di informazione.

Una mezzora più tardi, parcheggiamo davanti al locale e insieme raggiungiamo l’ingresso. Jay resta tra le sue amiche cercando di sorridere il più possibile. So che sta fingendo, i suoi veri sorrisi sono molto più armoniosi. Chastity si gira verso il gruppo. “Avete tutti il vostro documento falso, vero?”.
L’unico no si alza silenzioso da Dorothea. Chastity alza le sopracciglia. “Non hai un documento falso? E come entri nei locali il sabato sera?”.

Dorothea la guarda allarmata. “Non ci entro, non ho l’età per farlo”.

Chastity squittisce. “Oh, perfetto. Ora ci tocca tornare a casa perché Madre Teresa non sa come ci si diverte”.
Peyton appoggia un braccio sulle spalle di Dorothea. “Ehi, Miss Pompon, attenta a quello che fai uscire da quella ciabatta. Non ho ancora deciso se mi stai a genio oppure no”.
Julianne si infila in mezzo. “Okay, ora basta”.

Peyton lancia un’occhiataccia a Chastity. “Per me lei è solo una spia del nemico, non so nemmeno perché l’hai invitata ad uscire con noi”.

Chas scuote la chioma. “In realtà siete voi che vi siete aggregate alla nostra serata”.

Julianne la spinge lontano da Peyton. “Piantatela, tutte e due. Siamo qui perché dobbiamo divertirci, quindi smettetela di bisticciare. Come facciamo a far entrare Dottie senza documento?”.

Chastity lancia un’occhiata al buttafuori. “Ci penso io. Però mi devi un drink”.

Julianne sorride sinceramente per la prima volta. “D’accordo”.

 

 

In qualche modo, Chas distrae il buttafuori e riusciamo tutti ad entrare. I muri di cemento della struttura sono decorati con pittura fosforescente, vinili lucidi e luci colorate. Da un lato della struttura si trova il bar con i tavolini e le sedie, mentre dall’altro si estende una smisurata pista da ballo con il DJ e un oceano di persone che si agitano. Ciascuna indossa un paio di voluminose cuffie colorate.
“è una silent disco” mormoro.
Chastity squittisce. “Troppo on fleek!”.

“è la prima volta che sono in una discoteca” sospira estasiata Dorothea.
Chas mugola e le accarezza la spalla. “è così triste e anche un po’ patetico”.
Peyton si muove in avanti ma prontamente Lip le prende il braccio. Julianne si infila tra le due e spinge Chastity verso il bar. “Noi andiamo a cercare un divanetto, voi andate a recuperare le cuffie”.

 

“Non puoi dire sempre quello che ti passa per la testa” bisbiglia Julianne a Chastity, mentre ci accomodiamo con loro su un divanetto “Le altre persone non sanno che ti hanno fatta senza il filtro tra la bocca e il cervello”.
Chas alza le spalle nude. “Non sono responsabile di quello che mi esce dalla bocca”.

“So che ti è difficile, ma potresti essere gentile con loro? Sono le mie amiche e vorrei che fossero anche le tue”.

Chas prende un menù dal tavolino. “Va bene, se me lo chiedi con tanta gentilezza vuol dire che è importante. Farò la brava”.

“Grazie” sospira.
“Allora cosa si beve?” ulula Lip.
Julianne lo guarda in cagnesco. “Sei l’autista designato insieme a me, non puoi bere”.

Lui si sgonfia come un palloncino. “Ah, già. Mi ero scordato”.

Julianne gli accarezza la spalla. “Non ti abbattere, ragazzone, ci sono io qui con te”.
Lui le fa l'occhiolino “Grazie, dolcezza”

“E poi neanche Aaron beve stasera” continua lei.

“Come mai?” domanda Dorothea con un filo di voce.
“Domani abbiamo un partita davvero importante” spiego “Non bevo mai la sera prima, niente deve interferire con le mie prestazioni”

Chastity branca un cameriere. “Possiamo avere una bottiglia di tequila con sale e lime a volontà? E anche tre bottigliette d'acqua”.

Lui le sorride mellifluo. “Certo”.

Peyton le lancia un'occhiataccia mentre il cameriere si allontana. “Magari potevi domandarci cosa volevamo, prima di ordinare”.

Chastity si sistema l'abito. “Rilassati, tesoro. La tequila è per sciogliere i nervi per non essere degli stoccafissi sulla pista da ballo, dopo potrai ordinare quello che vuoi”.
“Oh” sospira sarcastica Peyton “Grazie di avermi dato il permesso”.

“Basta voi due” brontola Julianne “Siamo qui per divertirci, quindi smettetela”.

“Va bene”. “Okay”. Bofonchiano entrambe.

 

 

La folla intorno a noi si agita senza freno. Le luci stroboscopiche e il fumo rendono i contorni confusi e la musica ci rimbomba nelle cuffie luminose ad un volume esorbitante. Nonostante tutto ciò che accade intorno, il mio cervello si focalizza su un solo e meraviglioso dettaglio: Julianne.

Tutto di lei mi ipnotizza. Il mondo in cui i capelli le accarezzano la schiena nuda. Il mondo in cui muove i fianchi nei pantaloni di pelle. Il mondo in cui chiude gli occhi abbandonandosi alla musica

Lip mi sposta la cuffia dall'orecchio. “Stai sbavando, amico”.
Gli do una spintarella. “Non è vero”.

“Vuoi ballare con lei?”.

Lo guardo di sbieco. “Secondo te?”.

“Okay, ho un piano. Appena te la passo allontanati da qui il più possibile”. Senza altre spiegazioni, si rimette le cuffie e si lancia nella mischia. Per essere così grosso si muove davvero in modo aggraziato. Si infila tra le ragazze, escludendo Julianne dal gruppo e poi, con una notevole mossa di fianchi, la spinge nella mia direzione. Julianne mi finisce tra le braccia ridacchiando. “Ma cosa fa?”.

Senza pensarci due volte, la tiro per il gomito lontano da i nostri amici. Raggiungiamo un angolo appartato dove il fumo si condensa e le luci sono meno forti. Julianne si abbassa le cuffie e mi accarezza la nuca con le mani. “Ciao” sospira.

Le stringo i fianchi tra le braccia. “Ciao”.

“Hai usato Lip come diversivo? Ottimo piano”.

I nostri nasi si sfiorano. “Si è offerto lui, dobbiamo trovare un modo per ringraziarlo”.

“Assolutamente” sospira.

“Sei bellissima” esalo contro le sue labbra “Vorrei disperatamente baciarti”.

Mi studia attraverso le ciglia. “Allora fallo”. Osservo la folla intorno a noi con aria dubbiosa. “Nessuno ci sta prestando attenzione, Aaron. Siamo due persone qualunque che ballano in una discoteca qualunque”. Mi accarezza la guancia. “Baciami, Aaron”.

Esito di nuovo e Julianne prende il controllo della situazione, come sempre. Allunga il collo e le sue labbra sfiorano le mie. Non c'è spazio per la delicatezza e la timidezza quando si tratta di Julianne. Mi bacia come se ne dipendesse la sua vita, come se fossi l'ossigeno di cui ha bisogno, come se fossi tutto ciò che le manca. Per quanto mi riguarda, lei è tutto ciò di cui necessito.

 

 

 

Dopo una veloce sosta al bagno, torno al tavolino per reidratarmi. Peyton e Dorothea sghignazzano dietro a dei cocktail colorati. Lip le osserva corrucciato. “Se una di voi vomita nella mia macchina, non risponderò di me”.

Mi siedo a suo fianco. “Dove sono le altre due?”.

“Chastity è al bar a flirtare con il barista mentre Jay si è dileguata quando le è suonato il telefono”.

Chas riappare con un sorriso assassino e una bottiglia di liquore tra le grinfie. “Questa la offre Stuart”.

Dottie e Peyton squittiscono estasiate.

“Chi diavolo è Stuart?” domanda Lip accigliato.

“Non è il momento di dire basta con gli alcolici?” mi intrometto cercando di afferrare la bottiglia.

Lei la allontana. “Rilassati, papino. È solo l'una, la notte è ancora giovane”.

Indico le amiche di Jay. “Loro sono sbronze marce, tu sei sull'orlo di esserlo e noi non abbiamo intenzione di tenervi i capelli mentre rigettate in qualche cassonetto”.

Lip alza un dito. “Nessuno si avvicina alla mia auto se ha anche solo l'idea di vomitare”.

Chastity stappa la bottiglia e versa il liquido nei bicchierini. “Rilassatevi”.

Julianne riappare in mezzo alla folla e ci raggiunge sbattendo il cellulare sul tavolino. “Cos'è?” chiede indicando ciò che Chas ha appena versato.
“Vodka alla pesca”.

Jay storce la bocca ma afferra il bicchierino e si riversa il liquido in gola. Fa lo stesso con quello successivo. “Ma che diavolo fai?” le chiedo afferrandole il braccio, mentre si allunga per prenderne un altro.
Alza le spalle. “Sto bevendo, non mi sembra difficile da capire”.

Lip la guarda storto. “Sei l'autista designata”.

Lei allontana la mia mano e ne beve un altro. “Nessuno mantiene le proprie promesse, perché io dovrei farlo?”.

Abbasso la voce. “Tu non bevi”.

Non mi guarda in faccia. “Stasera sì”.

“Julianne” sospiro “Cosa succede?”.

Alza lo sguardo e nei suoi occhi ristagna una profonda tristezza. “Ci sono tante cosa che non faccio e che vorrei fare. Ora voglio divertirmi anche io e tu mi stai infastidendo”.

Chas batte le mani “Ben detto, sorella” prende un bicchiere e glielo porge. “Butta giù, la pista ci aspetta”.

 

 

 

“Perchè sei così teso?” mi chiede Lip mentre osserviamo le ragazze ballare “Ha bevuto un po', pazienza. Io e te siamo sobri, le riportiamo a casa e fine della storia”.

Scuoto la testa. “No, c'è qualcosa che non va”.

“Cosa te lo fa pensare?”.

Julianne scuote i capelli e sorride. “La conosco”. Il modo in cui si muove, in cui sorride agli stronzi che le ballano intorno, il modo in cui ha bevuto. È tutto sbagliato.

“Magari vuole solo rilassarsi un po', non mi sembra la fine del mondo. Ha avuto una giornata pesante”. Ho paura che lo sia invece.

Cerco di dissimulare l'ansia e l'apprensione che mi attanagliano lo stomaco, ma quando un enorme imbecille prova a palpeggiarla, perdo completamente il controllo. Gli vado incontro come un bulldozer. “Ehi, coglione, mettiti le mani in tasca”.

L'armadio si gira verso di me, infastidito. “Fatti gli affari tuoi, stronzo”.

Afferro Julianne per il braccio, allontanandola dal gorilla sotto steroidi. “Mi sto facendo gli affari miei”.

Julianne si scrolla la mia mano di dosso. “Calmati, Aaron. Stavamo solo ballando”.

“L'hai sentita?” ghigna “Perchè non te ne torni nel tuo angoletto e ti levi dal cazzo?”.

Lo spintono, senza grossi risultati. “Che ne dici invece se ti prendo a calci in culo?”.

Il gorilla muove il pugno in direzione della mia faccia ma, per qualche ragione, non arriva a destinazione. “Pessima mossa, amico” esala Lip stringendo il pugno del cavernicolo nella mano destra “Nessuno ti ha insegnato le buone maniere?”. Lo spinge indietro frapponendosi tra di noi. Vicino a Lip lo scimmione sembra una bertuccia spaventata. “Perchè non te ne vai con ancora i denti in bocca?”.

Ormai in svantaggio, alza le spalle e si allontana borbottando. “Al diavolo, non ne vale la pena”.

Lip annuisce. “Come pensavo”.

“Me la cavavo benissimo da solo” brontolo.

Lip mi guarda di traverso. “Ma se stava per usarti come sacco da box”.

“Non penso proprio”. Prendo Julianne per mano. “Andiamocene”.

 

Con molta fatica, riusciamo a convincere le ragazze a salire in macchina e a tornare a casa. Lip riporta Peyton e Dorothea, mentre io mi occupo di Julianne e Chastity. Per fortuna, durante il tragitto, gli effetti dell'alcol iniziano a svanire e Chas rientra in casa sulle sue gambe, oscillando leggermente ma senza fare rumore.

Una volta che la porta della camera è chiusa, posso ricominciare a respirare. Julianne si siede sul suo letto e si sfila gli stivali. “Non reggo più l'alcol come una volta”.

Mi metto al suo fianco. “Perchè hai bevuto?”.

Mi accarezza la guancia con il pollice e si allunga per baciarmi. Resto un secondo paralizzato, incerto se ricambiare il bacio oppure no. L'istinto prevale sulla ragione, spingendomi a ricambiare il bacio. Julianne mi scavalla le cosce con una gamba e si siede su di me. Le accarezzo la schiena nuda con le dita. La sua pelle morbida mi manda il cervello in cortocircuito.

La spingo sul materasso e sotto di me. Con uno strattone mi apre la camicia e mi accarezza l'addome, mandandomi a fuoco. Il bottone dei suoi pantaloni si apre senza proteste e l'indumento vola dall'altro lato della stanza. Le sue gambe mi intrappolano i fianchi mentre la sua bocca mi esplora il collo.

È tutto così dannatamente bello e così dannatamente sbagliato.

“Julianne...” sospiro.

Lei lo prende come un invito a continuare e allunga le mani verso la fibbia della cintura. Il rumore della zip ha lo stesso effetto di una doccia fredda. Le afferro le mani. “Julianne”.

“Perchè...?”.

“No” esalo. Rotolo di lato, allontanandomi da tutto ciò che il mio corpo agogna. Mi alzo cercando di frapporre una certa distanza tra di noi. “Cos'è successo alla silent disco?”.

Lei sbuffa. “Nulla, volevo rilassarmi un po'”.

“Rilassarti un po'? Scherzi, vero?”.

Alza le spalle. “C'è qualcosa di male nel volersi divertire una volta ogni tanto?”.

Scuoto la testa. “Tu non bevi, me lo hai detto tu. Fa parte della tua promessa”.

“Nessuno mantiene le proprie promesse, perché io dovrei fare lo stesso?”.

“Questo lo hai già detto, ma non capisco cosa vuoi dire. È per la storia di tuo padre?” domando.

Si stringe le gambe al petto. “Possiamo non parlarne?”.

“No” sospiro “Chiaramente c'è qualcosa che ti turba”.

“Cosa diavolo ne sai? Non sei nella mia testa” sbuffa “Dovevo finire la serata con il tipo della discoteca, lui di sicuro non vorrebbe parlare in questo momento”.
Stringo i denti, cercando di assestare il colpo. “Julianne, sto cercando di aiutarti. Non stai bene...”.

“Sono stufa di sentirmi dire che non sto bene. Io sto benissimo. Parliamo di te piuttosto, qual è il tuo problema? Cos'è che ti spaventa tanto nel sesso?”.

“Te l'ho già detto...”.

Ride senza ilarità. “Sì, sì. Vuoi che sia speciale e tutte quelle stronzate lì. È solo sesso, Aaron. Cresci”.

“Io devo crescere?” domando con rabbia “Quella che si comporta come una bambina qui sei tu. Ripeti sempre lo stesso schema. Qualcosa ti turba e ti rifugi nelle solite scappatoie. È così che hai cominciato? Alcol e sesso squallido con dei trogloditi? Il prossimo passo è un ago nel braccio?”.

So di aver superato il limite quando, nei suoi occhi ormai lucidi, intravedo la stessa tristezza che sua madre le causa ogni giorno. Vorrei rimangiarmi ogni parola ma so che non servirebbe a nulla.

“Vattene” mugola.

“Jay...”.

“Vai via” si rannicchia dandomi le spalle “Subito”.

Vorrei restare più di ogni altra cosa al mondo, ma ormai la conosco. Restare mi porterebbe a fare altri danni. Anche se non sono sicuro di poter fare peggio di così.

 

 

 

“E poi Peyton si è asciugata la bocca e si è messa a ridere. Si è messa a ridere! Dopo che ha vomitato tipo l'esorcista dal finestrino della mia macchina, si è sganasciata dalle risate” asserisce Lip infilando la divisa “Anche io volevo fare la cometa di vomito dalla macchina, ma no sono rimasto sobrio come uno stronzo. La prossima volta cerchiamo un metodo più corretto di decidere chi fa l'autista. Sasso, carta e forbice è troppo imbrogliabile”.
Sinceramente non ho ascoltato nemmeno una parola da quando ha iniziato a parlare. Nella testa mi frulla in continuazione la discussione che ho avuto con Julianne ieri sera. Ho passato tutta la notte a fissare il soffitto soppesando ogni parole che le è uscita dalla bocca e ogni singola sillaba che ho pronunciato senza pensare. Vorrei sbattere la testa contro lo stipite. Magari potrebbe spaccarsi e tutte le parole che mi saturano il cervello volerebbero via come palloncini.

Il coach Jackson entra nello spogliatoio e il silenzio cala soffocante. “Allora, signorine, voglio solo una cosa da voi oggi: Fuoco. I Red Devils sono degli assatanati figli di puttana e sappiamo che non giocano mai in modo pulito, ma noi non fare lo stesso. Siamo superiori e migliori di loro sotto ogni punto di vista, perciò voglio che ognuno di voi ora raccolga i propri problemi e le proprie insicurezze e lasci tutto in questa stanza. Una volta la fuori voglio solo il meglio, chiaro?”.

“Sì, coach” borbotta la squadra.

“Non vi ho sentito!” strilla il coach.

“Sì, coach!” urliamo tutti.

“Ora si ragiona! Forza, uscite di qui e fategli vedere di che pasta sono fatti i miei ragazzi”.

 

 

Pasta frolla. Ecco di cosa siamo fatti. Siamo già a metà partita e siamo ancora sotto di dieci punti, abbiamo due uomini in meno e le ammonizioni alle stelle. Lip è ad un passo dall'essere buttato fuori o da togliersi i guanti e spaccare la faccia all'altra squadra.
I Red Devils ci stanno mettendo in ginocchio e tra poco ci faranno fuori con un colpo alla testa.

E io li sto aiutando. Il coach ci ha detto di lasciare fuori i problemi, io ho dimenticato la testa in camera di Julianne e il cuore tra le sue mani. L'idea che sia sugli spalti mi manda in pappa il cervello, ma il pensiero che non ci sia mi sta davvero uccidendo. E se non volesse più parlarmi? E se avessi mandato tutto al diavolo? Perché me ne sono andato? Perché non ho detto qualcosa quando mi ha cacciato?

Sono così preso dai se e dai perché che non mi ricordo che ho la palla. Ci pensa il difensore dell'altra squadra a ricordarmelo. Mi carica come un toro e mi butta a terra come se gli avessi insultato la madre. Cento chili di muscoli mi schiacciano contro l'erba in modo innaturale e quando un raccapricciante scricchiolio mi riempie le orecchie, finalmente la testa si svuota da ogni pensiero.

 

 

Giocherello con la fasciatura che mi tiene il braccio appeso al collo. Ci sono volute due costole incrinate e una spalla slogata per farmi smettere di pensare a Julianne. Ottimo. Peccato che ora che l'antidolorifico sta facendo effetto, la foschia sta tornando.

“Aaron”. Ti prego non essere un'allucinazione sonora dovuta ad un trauma cranico. Lentamente mi giro e Julianne mi osserva preoccupata. “Come stai?”.

È più bella di quanto mi ricordassi. “Solo un po' ammaccato. Come sei entrata negli spogliatoi?”.

“Peyton mi ha dato una mano e ora sta facendo il palo”. Infila le mani nei jeans sbiaditi. “Cosa ti ha detto il medico?”.

“Spalla slogata e qualche costola un po' incrinata, nulla di preoccupante” sospiro “Nulla in confronto a quello che mi farà il coach a fine partita”.

“Mi dispiace” mugola.

“Non è colpa tua. Il difensore che mi è venuto addosso pesa come un bue muschiato”.

Si avvicina, timorosa. “Mi dispiace di averti rovinato la partita”.

“Non è...”.

“Sì, è colpa mia” afferma “Eri distratto a causa mia, per ieri sera”.

“Julianne” esalo.

“Lasciami parlare, per favore” si avvicina al lettino sul quale sono sdraiato “Ci ho pensato tutta la notte, non che avessi altro da fare, non riuscivo a dormire”. Nemmeno io. “Ho pensato a tutte le stronzate che ti ho detto e tutto quello che ho fatto e mi dispiace da morire. Avevi ragione, non stavo bene e mi sono comportata come al solito” sospira pesantemente “Ieri sera mio padre mi ha mandato un vocale, non ha avuto nemmeno la cortesia di chiamarmi”. Si sfila il cellulare dalla tasca e me lo avvicina. La voce del signor Roux risuona chiara dalle casse.
- Ehi, J-Bird. Tua madre mi ha detto che avete parlato finalmente, ero stufo di tutti quei suoi sotterfugi. Magari quando starai bene potrai venirmi a trovare, così potrai passare un po' di tempo con Lauren. So già che andrete molto d'accordo, lei è meravigliosa.

Ti voglio bene, passerotta-

Mette via il telefono. “L'ho dovuto ascoltare tre volte per essere sicura di aver capito bene, poi sono andata su Facebook e ho cercato Lauren. È esattamente chi pensavo che fosse. La sua ex-assistente ventitreenne” si tortura le mani “Ho provato a chiamarlo ma scattava sempre la segreteria. Così il mio cervello si è inceppato su il suo messaggio ed ha iniziato a sezionarlo e a mandarlo a ripetizione come un disco rotto”. Le prendo la mano e le accarezzo il dorso. “Non si è spiegato, non si è scusato, ha dato tutta la colpa alla mamma e quella frase...” espira “...quando starai bene...come se tutti i progressi che ho fatto fossero inesistenti, come se fossi ancora fragile. Ho perso la testa e ho fatto quello si aspettano da me. Poi sei arrivato tu, che non so come ma sai quando sono turbata e...”

Ora è tutto molto più chiaro. “Ho insinuato che non stessi bene”.

Annuisce. “Ho perso di nuovo il controllo e ti ho detto un sacco di stronzate che non stavo pensando, solo per allontanarti. Mi dispiace tantissimo, Aaron”.

Le bacio il dorso della mano. “Sono io che dovrei scusarmi, Jay, quello che ti ho detto è stato orribile. Non volevo ferirti”.

“Avevi ragione, mi stavo comportando come la Julianne di prima” mormora tristemente.

“Facciamo così” la faccio sedere sul bordo del lettino “Da ora in poi ogni volta che sei turbata me ne parli tu e bandiamo per sempre la frase non stai bene dal vocabolario, okay?”.

Sorride, illuminandomi. “Okay”.

Allungo il braccio sano e le sposto il capelli dietro l'orecchio. Si china in avanti sfiorandomi il naso con il suo. “Io ti...”.

La porta dello spogliatoio sbatte e Peyton entra sgommando. “Lo struzzo è nel pollaio”.

La guardiamo confusi. “Cosa vuol dire?”.

“Che dobbiamo filarcela. Subito”.

Julianne mi bacia velocemente e scende dal lettino. “A dopo”. Scompaiono nel momento esatto in cui il coach e la squadra entrano nello spogliatoio. I musi lunghi e lo sguardo di fuoco vogliono dire solo una cosa: i Red Devils alla fine ci hanno sparato alla nuca.

 

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Capitolo 37
*** Julianne ***


Julianne


“Ma Halloween è il prossimo weekend” puntualizzo “Come pensi di organizzare una festa, quanto meno decente, in meno di cinque giorni?”.
Chastity sbuffa, buttando la testa indietro. “È da mezz'ora che ti spiego il piano, mi stai ascoltando?”.
La verità? No, non la sto ascoltando.
A mia discolpa si è infilata nella mia camera nel momento peggiore di sempre. In realtà, prima che facesse la sua trionfate entrata, era il momento migliore della giornata. Aaron e io stavamo guardando un film.
Bugia.
È entrato in camera mia con l'intenzione di vedere un film, ma poi il dolore alla spalla e al fianco si è fatto sentire e il mio senso civico mi ha imposto di farlo sentire meglio.
Sì, possiamo dire così. 
Stava andando tutto benissimo, finché la mia amica non ha deciso che era il momento giusto per bussare alla mia porta. Ora sto cercando di ascoltare i suoi vaneggiamenti e di non pensare al fatto che Aaron è sotto il mio letto con solo i boxer.
“Julianne” brontola “Mi stai ignorando di nuovo. Cos'hai per la testa? C'entra qualcosa con il fatto che sei in mutande? Ho interrotto qualcosa?”.
“No, non stavo facendo nulla”. Mi abbasso la maglietta lungo i fianchi.  “Fino a prova contraria questa è ancora camera mia, quindi posso starci vestita come voglio”.
Mi lancia un'occhiata di sbieco. “Come siamo sulla difensiva...”.
“Senti” sbotto “Parliamone domani a scuola”.
Cerco di spingerla verso la porta, ma lei si impunta. “No, dobbiamo decidere adesso. Domani sarà troppo tardi”.
“Allora decidiamo in fretta” mormoro.
“Non dobbiamo stabilire nulla” puntualizza “Devi solo dire sì”.
Sospiro. “Sì a cosa?”.
“Al mio pazzesco e perfetto piano a prova di proiettile” risponde tronfia.
“Sono un sacco di p” afferro i pantaloni della tuta “Perché non me ne parli mentre andiamo in cucina?”.
Si guarda intorno “E vuoi lasciare il tuo bocconcino nascosto in qualche anfratto? Sei un'amante davvero pessima”.
Infilo la felpa. “Non so proprio di cosa parli”.
Arriccia le labbra. “Vuoi basare la nostra amicizia nascente su una bugia?”. La fisso seccata. “Se è così, allora ne parliamo proprio qui”. Si siede sul letto e accavalla le gambe. “Vieni”. Da una pacca sul materasso. “Sono più testarda di te, Jay. È una battaglia persa in partenza”.
Irritata come non mai, mi siedo al suo fianco. “Parla velocemente”.
“Ho pensato a quello che mi hai detto e mi è venuta in mente un'idea strepitosa” dalla borsa tira fuori un opuscolo e me lo porge “Ho scovato un ritiro spirituale che si terrà a Logan questo week-end”.
“E?” chiedo.
Aggrotta la fronte. “Oggi sei poco perspicace”.
“Chissà come mai”.
Mi sventola la mano davanti alla faccia. “Il ritiro si terrà da venerdì pomeriggio a domenica pomeriggio. Si faranno escursioni lungo Logan Peak, preghiere al chiaro di luna e si dormirà in orrende tende da campeggio”.
“E ne siamo felici perché?”.
“Perché è la scusa ideale per tenere i nostri genitori lontani e fuori dal campo dei cellulari per tutto il week-end”.
“E cosa ti fa pensare che ci andranno?” domando scettica.
Si liscia i capelli. “Il fatto che sono un genio del male. Stamattina, prima della messa, ho distribuito su tutte le panche questi opuscoli e ora metà della comunità vuole andare. Hanno tirato in mezzo il reverendo, che non ha potuto dire di no e i miei genitori non posso sfigurare e ci devono andare anche loro”.
Ogni tanto mi fa paura. “E non pensi che vorranno portarsi anche noi?”.
Sorride come il Joker. “Ho pensato anche a questo. Quando me ne hanno parlato, ho detto loro che venerdì ho gli allenamenti delle cheerleader e lunedì mattina un compito super importante di biologia e che devo studiare per tutto il week-end”.
La osservo colpita. “Sei quasi spaventosa”.
Ridacchia compiaciuta. “Lo so. Ora l'unica cosa che devi fare è trovare una scusa molto plausibile per restare a casa e possiamo organizzare la festa”.
Annuisco. “Va bene, tutto chiaro. Ora vai via?”.
“Non ancora” afferma “Dobbiamo discutere di altri dettagli”.
“Cioè?”.
“Alcolici, inviti e tema. Ovviamente sarà una festa in maschera, è Halloween. Io pensavo di occuparti di spuntini e decorazioni varie. Puoi occuparti tu dell'alcol?”.
Una brutta sensazione mi stringe lo stomaco. “No”.
“Jay...”.
“No, Chastity. Non posso comprare gli alcolici” mormoro.
“Perché? Hai un documento falso, e immagino non sarebbe la prima volta”.
Mi alzo. “Non posso. Se mi beccano, finisco in un mare di guai. E non guai da un colpetto sulle mani, non posso avere problemi con le forze dell'ordine. Non posso”.
“Okay, allora magari...”.
“Non possiamo nemmeno averli qui, se arriva la polizia cosa facciamo? La festa è mia, non tua” sto iperventilando “Non possiamo, non posso...”.
“Okay. Okay”. Mi mette le mani sulle spalle. “Non svalvolare, ora penso ad una soluzione. Tu inventati una scusa con i tuoi e pensa ad un bel costume, al resto provvedo io”.
Annuisco. “Va bene”.
“Ora devo andare, ti scrivo più tardi”. Raccoglie la borsa. “Ciao, ragazzo misterioso”. Quando finalmente chiude la porta, posso respirare.
Con un grugnito poco piacevole, Aaron rotola fuori da sotto il letto. Cerco di aiutarlo ad alzarsi. “Stai bene?”.
Si sistema il reggibraccio. “Questa relazione mi sta uccidendo, è almeno la quinta volta che mi butti giù dal tuo letto come un cuscino di troppo”.
Gli passo la maglietta che avevo nascosto dietro la lampada. “Mi dispiace, non mi aspettavo certo che si facesse viva o non avrei iniziato il discorso di prima”.
Saltella per infilarsi la tuta. “Discorso che mi stava appassionando, tra l’altro”.
Ridacchio. “Ci scommetto”.
Si siede al mio fianco e mi accarezza la guancia. “Ti va di dirmi perché la storia dell’alcol ti ha messa così in difficoltà?”.
“Hai visto cos’è successo l’ultima volta che mi sono avvicinata ad un drink, non mi va di ripetere l’esperienza. Non voglio mandare al diavolo tutti i progressi che ho fatto per una stupida festa di Halloween”.
Annuisce comprensivo. “Lo capisco, Jay. Però Chastity l’ha descritta come la mossa decisiva per l’inizio della campagna di detronizzazione, non vuoi almeno pensarci?”.
“Non sa quello che dice” bofonchio “Poi non ho mai detto che voglio soverchiare Giselle, non voglio il suo posto”.
Inclina la testa. “Io credo che saresti un’ottima rappresentante del corpo studentesco. Sei una leader, ti sai far rispettare, hai idee pacifiche e, soprattutto, sei stupenda”.
Non posso far a meno di sorride. “Non credo che l’ultimo sia un requisito significativo”.
Si china per baciarmi lentamente. “Lo è per me”.
“Stai cercando di ammorbidirmi?” sussurro contro le sue labbra.
“Un pochino” sospira per poi darmi un altro bacio “Funziona?”.
Il cuore mi batte all’impazzata nel petto. “Solo un pochino”.
Sorride, sfiorandomi il naso. “Ci rifletterai almeno?”.
Annuisco. “Va bene”.
La sua mano mi risale sotto la maglietta. “Ora, riprendendo il discorso di prima…”. Mi spinge contro il materasso. “Mi sembrava che stessi dimostrando un punto molto interessante”.
Mentre lo tiro verso di me, l’occhio mi cade sulla sveglia sul comodino. “Merda”.
“Non credo che…”.
Lo scosto con delicatezza e rotolo giù dal letto. “È tardissimo”.
Lancia uno sguardo all’ora e si acciglia. “Non è vero, le prove sono tra più di quaranta minuti”.
Infilo la testa nell’armadio alla ricerca di qualcosa decente da mettermi. “Ma quali prove, ho il colloquio di lavoro al negozio di musica”. Infilo i jeans il più velocemente possibile. “Arrivare in ritardo non è il miglior modo per farsi assumere”.
Si mordicchia il labbro nervosamente. “Quindi salti anche queste di prove?”.
Mi sfilo la felpa. “Aaron…”.
“Ho capito che sei ancora arrabbiata con Matt e che quello che ha fatto è davvero terribile, ma sei sicura che la tecnica del Fantasma sia il modo migliore per affrontare la situazione?”.
Infilo una t-shirt. “Non lo sto punendo con il silenzio, ho avuto molte cose da fare”.
“Mi sembrava avessimo un accordo riguardo alle bugie” brontola.
Infilo la camicia e mi giro per guardarlo male. “Perché fissi il soffitto?”.
Incrocia il braccio sano al petto. “Sto cercando di farti capire il mio punto di vista e lo spogliarello mina la mia capacità di attenzione”.
Cerco di non ridere e di non sembrare compiaciuta. “Sono arrabbiata, è vero, ma non sto cercando di farlo soffrire. Si sono presentate un serie di vicende che mi hanno impedito di venire alle prove, tutto qui”.
Abbassa lo sguardo per incrociare il mio. “Quindi finito il colloquio vieni ad aiutarci?”.
Non voglio mentirgli, perciò mormoro la cosa più simile alla verità. “Ci proverò”.
 
 
 
La campanella di metallo tintinna quando apro la porta del Paradise City. Lunghi scaffali pieni di cd e vinili separano la stanza in settori, le pareti sono quasi completamente oscurate dagli strumenti ad esse appese e il soffitto è coperto di poster di band famose e sconosciute.
“Posso aiutarti?”.
Smetto di fissare il soffitto e osservo la donna che mi sta difronte. Faccio un passo incerto in avanti. “Mi chiamo Julianne, sono qui per il colloquio”.
La donna mi lancia una lunga occhiata di sbieco. I capelli castani le arrivano quasi fino all’ombelico, gli occhi a mandorla sono circondati da una generosa riga di eyeliner e indossa un vestito grigio un po’ sfalsato e degli anfibi che sono sicura di avere uguali.
Indica lo stereo appoggiato al muro. “Metti su un vinile, Joel”.
“Julianne” sospiro.
Lei si mette a sistemare uno scaffale. “Sì, uno qualsiasi”.
Scorro tra la vasta raccolta di musica e faccio la mia scelta. Alzo il coperchio, colloco il disco sul piatto, lo accendo, sollevo il braccio e lo posiziono sulla canzone che voglio. Dead! dei My Chemical Romance fluisce fuori dalle casse e inonda il negozio.
Dopo un minuto circa, la donna si gira verso di me con aria sorpresa. “Devo essere onesta, non pensavo fossi nemmeno in grado di accenderlo” mi osserva “Però a quanto pare ci sei riuscita, e hai pure gusto”.
Mio padre mi faceva sempre scegliere la musica quando dipingevamo insieme e l’unico tipo di musica che riusciva a concepire era quella che proveniva da un vinile. “Le prime impressioni non sono sempre affidabili” mormoro.
Annuisce con aria criptica, mentre mi studia nei dettagli. “Vaniglia o cioccolato?”.
Cosa? Colta di sorpresa, balbetto. “C-cioccolato”.
“Metropolitana o autobus?”.
Okay, sono confusa. “Metropolitana”.
“Coccodrillo o squalo?”.
Questa donna è fuori di testa. Che razza di colloqui è? “Coccodrillo”.
AC/DC o Guns N’ Roses?”.
Guns N’ Roses” asserisco.
Mi guarda negli occhi e di punto in bianco sorride. “Come hai detto che ti chiami?”.
“Julianne”.
Mi allunga la mano. “Benvenuta a bordo, Julianne. Io sono Astrid”.
 
Dopo il giro completo del negozio, Astrid mi mostra il soppalco dei dipendenti e mi tira su un divano dai colori psichedelici con lei. “Questo conclude il tour di assunzione, sei ufficialmente una dipendente in prova”.
Sto cercando di celare la mia eccitazione. “Quanto durerà la prova?” domando.
Giocherella con una ciocca chilometrica. “Di solito un mese, ma tu sembri avere il giusto sound. Magari per te durerà di meno, chi lo sa”.
Non vedo l’ora, finalmente non dovrò più chiedere neanche un centesimo a mamma. “Cos’è successo all’ultimo dipendente?”.
Appoggia gli anfibi sul tavolino di metallo davanti a noi. “Brody” fa un verso di scherno “Ha confuso Halsey con Kesha”.
“Oltraggioso” mormoro.
Astrid alza le spalle. “È stato tanto tempo fa. Dopo di lui mi sono rifiutata di assumere altri dipendenti incompetenti, non volevo ripetere l’esperienza. Ma ora…beh, avrò bisogno di una mano”.
Non siamo abbastanza in confidenza perché le chieda dei chiarimenti riguardo la sua pragmaticità, perciò mi limito ad annuire.
“Forza, delineiamo i tuoi orari” afferma tirandosi in piedi.
 
Varco la soglia senza troppo entusiasmo ed entro in salotto. “Sono tornata” annuncio al vuoto. Non ricevendo risposta, mi avvio verso le scale. “Siamo in metà di mille in questa casa e non c’è mai nessuno”.
“Eccoti, finalmente” sospira Lip dalla cucina. Mi viene incontro con passo deciso, mi afferra per la vita e mi tira su come se fossi un trolley. “È più di un’ora che ti aspettiamo”.
“Lip? Cosa fai? Mettimi giù” brontolo. Non provo neanche a divincolarmi, sarebbe inutile.
“Dobbiamo provare, ti metterò giù in garage” afferma.
“No!” ribatto “Il tempo delle prove è finito”.
Entra in cucina. “Dobbiamo ancora cominciare, ti abbiamo aspettato”.
Gli artiglio un braccio. “Fermati, Lip. Sono seria”.
Mi deposita vicino al frigorifero. “So che sei arrabbiata con Matt, dolcezza, però abbiamo bisogno di te. Quindi metti da parte l’orgoglio e porta il tuo bel culetto di là”.
“Lip…”.
“Aaron non riesce a suonare con la spalla conciata in quelle condizioni e non potrà farlo per le prossime due settimane. Il contest si avvicina sempre di più e l’ansia si sta facendo sentire. Ti prego, Jay”.
Il senso di colpa mi attanaglia le stomaco in una morsa gelata. La spalla di Aaron è messa così male solo per colpa mia, se non lo avessi distratto con il mio solito modo da stronza ora starebbe bene. Rovino ogni cosa che tocco.
“So che guardarlo ti fa andare il sangue alla testa” continua Lip “So che per colpa sua non stai passando un bel periodo. Però puoi mettere da parte il risentimento per un paio di ore?”.
Che razza di amica schifosa sarei se non lo facessi? “Va bene”.
Le sue enormi spalle si rilassano. “Sei un angelo”.
“Mi fai una promessa?” chiedo.
Lip annuisce con sicurezza. “Quello che vuoi?”.
“Impediscigli di mettermi all’angolo. Se viene a parlarmi di qualcosa che non sia la band, placcalo” sospiro.
Lip sorride. “Sì, signora”.
 
 
 
Non so di chi sia la faccia più sorpresa di vedermi. Matt si raddrizza come fuso e mi punta gli occhi addosso. Scende dal palco incespicando nei fili e con qualche falcata mi si para davanti. “Julie…” sospira.
Prima che possa dire qualsiasi cosa, Lip gli appoggia una mano sulla spalla. “Scusami amico, ma la signorina è qui solo come coach. Per sistemare il casino che hai fatto, dovrai cercarla in un altro momento”.
Matt lo guarda storto. “Fai sul serio?”.
Lip lo fa indietreggiare di qualche passo. “Assolutamente. Ho anche il permesso di placcarti se non ti comporti bene”.
Matt fa per ribattere ma Aaron interviene. “Avanti, Matt, torna qui. Hai promesso che se si fosse presentata l’avresti lasciata stare”.
Al tono fermo e deciso di Aaron, Matt scuote la testa e si rimette al suo posto. Lip mi da un buffetto e raggiunge la batteria.
“Quando è pronta lei, coach” mormora Aaron.
Il suo sguardo carico di affetto e orgoglio mi dà la forza di sedermi alla mia sedia, come se nulla fosse, e aiutarli a provare.



Alla fine, le due ore le passo sul palco con la chitarra di Aaron tra le braccia. Il dolore alla spalla e la fasciatura gli impediscono di suonare, così si accomoda su uno sgabellino al mio fianco e segue i miei movimenti come falco.
Proviamo tutte le canzoni di repertorio almeno un paio di volte e per tutto il tempo Aaron mi sfiora cautamente e, invece di concentrarsi sulle mie mani, mi guarda negli occhi. È davvero difficile concentrarsi e non lasciare che la mia mente svolazzi via, in pensieri tutt’altro che casti.
Ogni tanto si alza, mi si mette alle spalle e appoggia la mano sulla mia per copiare gli accordi. La vicinanza con il suo corpo mi rilassa e rende la situazione con Matt un po’ più accettabile.
Ogni qual volta i nostri corpi restano un po’ troppo attaccati e la situazione si fa imbarazzante, Lip tira un colpo di tosse o svia l’attenzione facendo rumore.
A prove concluse batto in ritarata così velocemente, che Matt deve fare uno scatto per afferrarmi il gomito. “Julie, aspetta”.
Mi scrollo le sue mani di dosso. “Avevamo un patto”.
Il suo sguardo si riempie di tristezza. “Lo so. Vorrei solo parla un paio di minuti con te”. La sconforto nella sua voce fa vacillare la mia rabbia. “Per favore”.
Non posso evitarlo per sempre. È fisicamente impossibile e mi risulta davvero fastidioso dover scappare ogni volta che lui è nella stanza. Dobbiamo mettere un punto a questa faccenda. “Va bene”. Gli faccio cenno con la testa verso la porta del garage e lui mi segue.
Una volta fuori, alzo la mano prima che possa aprire la bocca. “Non voglio sentire altre scuse o altre giustificazioni, sono stufa” asserisco “Hai fatto una cazzata e vorrei metterci una pietra sopra”.
“Anche io, totalmente”. Espira, visibilmente sollevato. “Sono così felice che tu…”.
“Non ti sto perdonando” lo interrompo “Sto solo dicendo che non ho più intenzione di parlare di questa cosa”.
“Julie…”.
“Sai cosa penso della fiducia e delle menzogne, quello che hai fatto ha disintegrato qualsiasi amicizia ci fosse tra di noi. Non mi fido di te e non penso che ricomincerò a farlo in tempi brevi, quindi di prego smettila di cercare di sistemare l’insistemabile. Ho bisogno di tempo e spazio, e vorrei davvero che tu lo rispettassi”.
Sembra completamente spaesato. “Non siamo più amici?”.
Raddrizzo le spalle cercando di ostentare sicurezza e nascondendo la sensazione di disagio che mi causa bruciare i ponti con lui. “No, per ora no. Vi aiuterò per il contest e ci vedremo a scuola, ma oltre a questo non voglio altro da te”.
 
 
 
Ripenso al dolore sordo che ho visto ristagnare negli occhi di Matt dopo che gli ho messo in chiaro la situazione. Mi sembra di conoscerlo da una vita e ma ora, quando lo guardo, vedo un completo estraneo.
“Julie?” esala mamma al mio fianco “Vuoi altri broccoli?”.
Allungo il piatto verso di lei. “Grazie”.
Mi lancia un’occhiata. “Sei triste? C’entra qualcosa con l’espressione desolata di Matthew?”.
I nostri genitori sono rientrati nel momento esatto in cui i ragazzi stavano andando via. Mamma gli ha domandato se volessero restare per cena ma hanno declinato tutti, soprattutto Matt. Lui non ha neanche risposto, è salito in macchina ed è sparito.
Ignoro la sua domanda e lo sguardo preoccupato di Aaron e cambio argomento. “Oggi ho fatto un colloquio di lavoro”.
Jim si ridesta dai suoi pensieri. “Ah, sì? E dove?”.
Paradise City, il negozio di musica in centro” affermo “Mi hanno assunta”.
Lui sorride, per la prima volta in modo quasi orgoglioso. “Ben fatto, Julianne. Avere un lavoretto è un’ottima cosa, sia per te che per la tua domanda per il college”.
Sì, questo lo sapevo anche io. “Sono molto contenta, sì”.
Mamma sorride. “Anche io, tesoro”.
Per un nano secondo sembriamo quasi una vera famiglia.
Solo per un secondo.
Cole sbuffa sonoramente spingendo i broccoli per tutto il piatto. “Io non ci voglio venire in campeggio con la chiesa, devo proprio?”.
Henry guarda confuso la mamma. “Quale campeggio?”. Sentire la sua voce mi fa strano, sono tre giorni che siamo in silenzio stampa.
Jim si allunga verso il mobile, tira su un dépliant e glielo porge. “Questo week-end andremo tutti insieme ad un ritiro spirituale a Logan. Farà bene a tutti, quindi sì, Cole, devi venire per forza”.
Aaron e io ci scambiamo uno sguardo. “Questo week-end? Papà io non posso. Venerdì ho gli allenamenti”.
Jim aggrotta la fronte. “Non puoi di certo allenarti con quella spalla”.
Aaron tentenna. “Devo comunque andare per imparare le strategie e le azioni”.
Jim scuote la testa. “Per un giorno puoi anche saltarli, ti farà bene staccare un po’ dopo quello che è successo alla partita”.  
La bugia di Aaron non regge e il suo sguardo vacilla. Mi metto in mezzo prima che venga trascinato al raduno. “Questo week-end dobbiamo assolutamente studiare francese” indico Aaron con la forchetta “Gli sto dando ripetizioni e lunedì c’è il primo compito importante, non possiamo saltare così tanti giorni di studio”. Jim sembra ancora incerto, così rincaro la dose. “Penso proprio che riusciremo ad alzargli la media, se continuiamo così”. Il compito c’è veramente, non ho mentito, ho solo enfatizzato un po’ più l’importanza che il mio contributo potrebbe dare alla sua media.
Jim si illumina come un cartellone pubblicitario. “Sarebbe meraviglioso, soprattutto in vista del college. Voi due siete esclusi” sentenzia “Qualcun altro ha qualche compito importante?”.
Andy alza la mano. “Io”.
Jim lo guarda dubbioso. “E quale?”.
Andy esita. “Mhmm, fisica?”.
Jim inclina la testa con uno sguardo sprezzante. “Lo stai chiedendo a me? Perché se lo stai chiedendo a me è no, anche perché poi lo voglio vedere questo fantomatico compito”.
Andrew sbuffa sonoramente. “Che palle! Non ci voglio venire al tuo stupido ritiro, cazzo”.
Mamma squittisce. “Andrew!”.
“Modera il linguaggio” brontola Jim “Stiamo parlando con toni civili, quindi abbassa la voce. Verrai con noi, fine della discussione”.
Andrew sbatte la mano sul tavolo. “Non è stata una conversazione, ci sei solo tu che parli e che decidi ogni cosa! Perché dobbiamo fare sempre quello che vuoi tu?!”.
Jim alza la voce. “Perché finché vivrai sotto il mio tetto sarà io a decidere, ecco perché!”.
Andy si alza di scatto, buttando indietro la sedia. “Andate tutti al diavolo!”.
Sale le scale come se gli andassero a fuoco le scarpe. Jim si alza per andargli dietro, ma Aaron si infila nella sua visuale. “Ci parlo io, papà. È un periodo che ha la testa da un’altra parte, sono sicuro che non volesse essere così impertinente”. Gli posa le mani sulle spalle accompagnandolo verso il tavolo. Sta cercando di evitare che Andy finisca in un mare di guai, anche se lui ultimamente è sempre molto scorbutico. “Vado io, voi finite di cenare”.
È strano, per una volta, non essere il centro dell’uragano di problemi.
Strano ma alquanto piacevole.
 
 
 
Lunedì mattina, Chastity mi tende un agguato mentre mi dirigo stancamente verso l’armadietto.
“Sono davvero felicissima che hai detto di sì!”.
La guardo spaesata. “Cosa?”.
“Per la festa” trilla agitando il cellulare “Aaron mi ha appena scritto”.
Sono sempre più smarrita. “Chas non sto capendo”.
Lei mi guarda come se fossi scema. “Aaron mi ha scritto che la festa si fa. Ha detto che lui e Lip si occuperanno degli alcolici, Peyton e Dorothea del cibo e io e te dobbiamo pensare agli addobbi”.
Ieri sera, mentre ci stavamo coccolando, abbiamo parlato un po’ della festa. Ho detto ad Aaron che non la volevo organizzare perché ho paura di tutto quello che potrebbe andare storto, dell’alcol e delle responsabilità che comporta.
Chas fa un piccolo broncio. “L’unica clausola che ha messo è che noi dobbiamo rimanere tutti sobri. È una noia ma mi ha detto che lo facciamo per te, perché così possiamo aiutarti a tenere le redini della festa”.
Non ci posso credere. Non so se essere felice o arrabbiata. “Sì, beh” borbotto aprendo l’armadietto. Però, prima che possa formulare un pensiero completo, dall’armadietto scivola fuori una valanga di profilattici. Si sparpagliano tra nostri piedi e lungo il pavimento come una macchia arcobaleno.
Chastity strabuzza gli occhi. “Hai svaligiato il distributore in farmacia?”.
Risatine e sussurri ci circondano. “Chiaramente non sono miei”.
Ci abbassiamo entrambe per raccogliere il mare di condom. “È uno scherzo stupido” commenta lei. “Con quello che costano, è più un favore che uno scherzo” sospiro.
Due enormi scarpe da ginnastica entrano nel nostro campo visivo. Luke Donovan, il cretino che mi ha lanciata in piscina e il presunto giocattolino di Giselle, raccoglie un preservativo e scoppia a ridere. “Wow. Hai in programma di darti da fare parecchio, posso unirmi?”.
Il brusio intorno a noi aumenta, fomentando la mia rabbia. Gli lancio un’occhiata e poi mi alzo. “Oh, certo” prendo il condom extra large che tiene tra le dita “Ma cerchiamo qualcosa della tua taglia. Chas vedi qualcosa che vada bene il nostro amico qui?”.
La mia amica stringe le labbra e scuote la testa. “Non c’è nulla di così piccolo, mi spiace”.
Sospiro con finta tristezza. “Che peccato”.
Le risatine dirette a Donovan lo fanno irrigidire. “Stronze” grugnisce allontanandosi.
Chas mi fa l’occhiolino. Ridacchio e mi giro verso gli studenti impiccioni. “Qualcuno vuole un preservativo? Sono gratis”.
 
 
 
“Julianne?” mormora la dottoressa Dawson “Qualcosa ti turba?”.
Smetto di giocherellare con i pesci e mi giro. “Perché lo chiede?”.
Mi fa un sorrisino. “Quando ti concentri sull’acquario, di solito, c’è qualcosa che ti ronza nella testa”. Un po’ mi innervosisce che mi conosca già così bene.
Prendo lo zaino, ci ficco la mano dentro e rovescio una manciata di condom sul suo tavolo.
Lei alza le sopracciglia nere. “Vuoi parlare di sesso?”.
Scuoto la testa. “No, sono abbastanza informata sull’argomento, grazie. Quelli erano nel mio armadietto”.
Le dà un colpetto con la penna alla pila. “E come mai hai così tanti preservativi? Sai che il sesso da dipendenza?”.
Cerco di soffocare una risata. Mi darebbe dipendenza se lo facessi. “Qualche burlone ha riempito il mio armadietto con un trilione di profilattici” li indico “Quelli non sono nemmeno tutti. Il corridoio sembrava uno stand sul sesso sicuro. Sono riuscita a distribuirne qualcuno, sa per contribuire alla sicurezza dei giovani d’oggi e per evitare che qualcuna di quelle menti così superbe rischi di riprodursi, ma ho ancora la borsa piena. Ogni volta che tiro fuori un libro, ne salta fuori qualcuno. Al professore di storia è venuto quasi un piccolo scompenso quando l’ho colpito accidentalmente con un preservativo volante”.
So che sta cercando di non ridere. “Non ho ancora capito cosa vuoi sapere da me”.
Accavallo le gambe. “Vorrei capire il ragionamento alla base di questo divertentissimo scherzo. Perché, per come la vedo, io è stato un favore. Posso farmi l’intera città e avrei ancora un eccesso di profilattici”.
Posa la sua agenda sulle ginocchia e mi scruta con cura. “Quale parte di tutto questo ti turba di più?”.
“Non sono turbata” esalo in fretta.
Lei inclina silenziosamente la testa.
“Perché se la prendono con me? So che non gli piaccio, ma perché si accaniscono così tanto? E perché l’unica cosa che fanno è darmi della poco di buono?”.
Sospira. “Vedi, Julianne, per quanto tu possa discordare, hai una personalità molto carismatica. Spesso cerchi di celarla sotto uno massiccio strano di cinismo e sarcasmo ma lei è sempre lì. Sei forte, determinata e non ti pieghi facilmente, oltretutto sei completamente diversa da loro” si sistema la treccia “Per secoli l’umanità ha condannato tutto ciò che riteneva diverso, non cambierà oggi e non cambierà qui”.
Non so se sentirmi demoralizzata oppure no. “Cosa posso fare?”.
“Puoi piegarti. Uniformarti” sospira “Oppure puoi opporti ed essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.  
La guardo di sbieco. “Sta citando Gandhi per spronarmi?”. 
Sorride. “Speravo non te ne accorgessi”.
Annuisco. “Ci penserò su”.
“Penso tu sappia già cosa vuoi fare” azzarda. Sì, lo penso anche io. “Comunque sono quasi sicura che non fosse questo quello che ti riempiva la testa poco fa, vero?”.
Sì, mi conosce bene ormai.
Le faccio il resoconto dettagliato del week-end, ovviamente tagliando le parti su Aaron.
“Sono stati tre giorni molto intensi” afferma “Come ti sei sentita dopo aver bevuto? Meglio?”.
Scuoto la testa. “Non mi sono mai sentita tanto stupida, mi è sembrato di aver buttato mesi di progressi nel cesso”.
Mi guarda comprensiva. “Uno scivolone lungo la via può capitare a tutti. Sei umana, Julianne. Devi imparare anche ad essere più comprensiva con te stessa. Hai superato i tuoi limiti, lo hai capito e sei tornata in asse. Significa che stai migliorando ancora. Hai esagerato come facevi prima?”.
“No” assicuro “Neanche lontanamente. Quello che ha detto mio padre mi ha turbato più di quanto immaginassi. Ho sempre pensato che lui non avesse colpe, che tutto quanto fosse solo dovuto a mia madre. Non credo di sbagliarmi”.
Scribacchia sulla sua agenda. “Le storie hanno sempre più di un lato, magari osservare quella dei tuoi genitori dalla parte anche di tua madre potrebbe chiarirti le idee. Hai parlato con lei?”.
Abbasso lo sguardo sulle scarpe. “Non importa quanto ci provi, lei non mi dirà mai tutto come sta”.
“Provare ad aprire un dialogo calmo e controllato potrebbe essere d’aiuto per entrambe” asserisce seria.
Mi scappa una risata senza allegria. “Calmo e controllato non è esattamente il mio stile”.
 
 
“Non ci posso credere che le hai detto che la festa si farà” bisbiglio contro Aaron durante francese. La professoressa è troppo presa da qualcosa sul computer per controllarci. “Ieri sera ti ho detto che non volevo”.
Aaron si mordicchia il labbro, distraendomi. “So quello che hai detto, non ero totalmente distratto dal tuo bellissimo viso”.
Fingo indifferenza. “Non provare a lisciarmi, carino”.
Mi fa un sorrisetto colpevole. “Mentre tu russavi come un trombone…”.
“Non è vero che russo” sibilo contrariata.
“…Ho pensato a quello che hai detto e mi è venuto in mente un modo per farti fare la festa senza metterti in una posizione scomoda. Noi saremo tutti sobri e lucidi per affiancarti nel dare la festa dell’anno, che ti porterà alla conquista del popolo studentesco. Ho delineato tutto con Chastity. Ho bisogno che tu mi aiuti con una cosa sola”.
“Cioè?”.
“Devi aiutarmi con il costume” sospira “Non ho proprio nessuna idea”.
 Alzo gli occhi al cielo. “Non ho detto che mi va bene la tua decisione”.
Mi accarezza furtivamente la gamba. “Sì, che lo sei. So che vuoi fargliela vedere a quelle stronze e io voglio sostenerti in tutto e per tutto. Credo moltissimo in te” il cuore mi si scioglie nel petto “E poi se vinci contro di lei sarò la First Lady, un po’ come Michelle Obama”.
Ridacchio. “Ti piacerebbe”.
Intreccia le dita con le mie sotto il tavolo. “Scusa se non ti ho interpellato, se vuoi annullare va bene. Facciamo qualsiasi cosa tu voglia”.
Ha trovato un modo per rendere tutto più facile, per semplificarmi la vita.
Rende tutto migliore, indipendente se ci prova o no. Al contrario di me, lui rende tutto meno complicato.
Gli accarezzo il dorso della mano. “Acconsento solo perché sei carino”.
Mi guarda malizioso. “Solo carino? Mi sembra che l’altro giorno tu mi abbia definito una vera e propria opera d’arte”.
Spalanco la bocca. “Non credo proprio. Probabilmente eri davanti allo specchio. Vedevi un ragazzo alto, capelli scuri, occhi verdi, un po’ presuntuoso…?”.
Annuisce. “Muscoloso? Sexy? Il Dio del genere femminile? Mi sa che parliamo proprio della stessa persona”.
Sbuffo. “Spaccone”.
Lui ridacchia abbassando lo sguardo verso la mia borsa, abbandonata tra le nostre sedie. “Julianne?”.
“Sì?”.
“Perché hai lo zaino pieno di profilattici?”.
 
 
 
Mercoledì pomeriggio, scavalco il recinto che separa la mia casa da quella di Chastity con un balzo poco elegante. Uno dei passanti dei jeans si incastra in un ramoscello, aprendo uno piccolo squarcio proprio sul sedere. Impreco, cercando di abbassare la felpa in modo che non mi si vedano le mutande.
Mi infilo nella porta del garage socchiusa e salgo la scala a chiocciola.
La casa dei Rogers è fredda e priva di qualsiasi colore. Ogni soprammobile è posto con cura e precisione, ogni oggetto è perfettamente allineato al bordo e sono sicura che il pavimento sia così pulito che potrei mangiarci sopra.
“Chas?” sospiro salendo un’altra rampa di scale “È tutto il giorno che ti cerco, si può sapere che fine hai fatto? Dovevamo vederci per comprare le decorazioni e i costumi mezz’ora fa”. Spingo la porta della sua camera. “È stata tua l’idea di andarci insieme oggi. Tra un paio d’ore devo andare al lavoro, non posso fare tardi”. La sua stanza è in soffitta, proprio come quella di mia madre e di Jim. L’unica differenza sostanziale è che quella di Chastity sembra l’interno del sedere di un my little pony.
Le pareti sono così fucsia da far venire il mal di testa, il pavimento è coperto da tappetti pelosi lilla e su ogni mobile bianco c’è qualcosa di almeno una tonalità diversa di rosa.
“I tuoi sono in casa? Non mi va di imbattermi in tua madre per sbaglio, soprattutto se uso la porta sul retro” sbuffo “Okay, così suona davvero male”.  
Il suo letto è disposto sotto una grande finestra, che solitamente illumina la stanza come un faro, ma che oggi è oscurata dalle spesse tende. La figura minuta di Chastity è rannicchiata sotto un enorme piumone magenta. “Chas? Stai bene?”.
“Vai via” mugola.
Inciampo in un paio di ballerine abbandonate sul pavimento e mi avvicino. “No, non vado via. Dimmi cosa succede, perché sei mummificata lì sotto?”.
“Vattene, Julianne” brontola con un sospiro leggerissimo.
Il caos che ci circonda sembra rispecchiare il suo stato d’animo. Sono stata nella sua camera due volte, tre se contiamo questa, ma non l’ho mai vista così sottosopra. L’armadio sembra esploso, lo specchio ovale è coperto da quella che sembra un lenzuolo e ogni luce nella stanza sembra essere stata strappata dalla presa della corrente.
Ho una vaga idea di quello che le sta succedendo, ma spero di sbagliarmi.
Mi sfilo le scarpe e le poso vicino all’armadio insieme alla giacca. Alzo con cautela un angolo della trapunta e mi ci infilo sotto. Chastity è rannicchiata in posizione fetale nel suo pigiama con gli unicorni. Si stringe le braccia con le mani e tieni gli occhi bassi. “Ehi” sussurro.
Alza lo sguardo vacuo verso di me. “Ehi”.  
Se sua madre dovesse entrare in questo momento, penserebbe che un altro di noi stia tentando di irretire anche sua figlia. “Ti va di dirmi cosa succede?”.
Le trema la voce. “Fa tutto schifo. La vita fa schifo” singhiozza “Io faccio schifo”.
Al diavolo sua madre, che mi becchi pure, non posso lasciarla in questo stato. “Non è vero”.
Una lacrima silenziosa le scivola lungo la guancia. “Sì, invece. Mi hai vista?”.
So che le emozioni che la stanno sovrastando sono difficilissime da controllare, ma proprio non riesco a capire come faccia a considerarsi schifosa. “Eccome se ti ho vista. Sei riuscita a farmi venire un sacco di complessi e io ho molta autostima”.
“Mentire non ti si addice, Julianne” mugugna.  
 “Mia madre la pensa diversamente” ribatto “Ti assicuro che non sto mentendo. Sei una delle ragazze più belle che io abbia mai visto, e ne ho viste molte. Credo che tu sia anche più bella di un sacco di ragazzi con cui sono uscita, io scelgo solo il meglio”.
Per la prima volta mi guarda davvero negli occhi. “Dici sul serio?”.
Annuisco con vigore. “Assolutamente. Siamo amiche, non ti direi mai una bugia”.
“Lo siamo? Siamo amiche?” ha la voce impastata “Amiche vere?”.
Le tolgo una ciocca bionda dal viso. “Ho paura proprio di sì. Hai fatto una pessima scelta però, io sono un disastro”.
“Lo sono anch’io”.
Le faccio un sorrisino. “Allora siamo in buona compagnia”.
“Già” soffia. Restiamo in silenzio finché lei non si tende per prendermi la mano. “Possiamo restare qui così ancora un pochino?”.
Vederla così succube dalle proprie emozioni è una sofferenza. “Per tutto il tempo che vuoi” assicuro “Ma ti avviso che se torna tua madre, probabilmente mi butto dalla finestra per evitarla”.
Un piccolo e incerto sorriso le sfiora le labbra. “Non ti biasimo, cerca solo di centrare un cespuglio”.
“Ci proverò”.
Restiamo sdraiate così per quella che mi sembra un’ora, lei persa nella sua testa e io a domandarmi come sia possibile che la tua stessa mente possa essere una trappola così devastante.

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Capitolo 38
*** Julianne ***


Julianne
 
 
“Oh, Dio, grazie per avermi fatto arrivare tutto intero!” esclama Lip, quasi baciando l’asfalto. “Grazie, Signore!”.
Peyton sbuffa dal naso. “Oh, smettila! Quante scene”.
Scendo dal maggiolino di Peyton con meno enfasi, ma con la stessa gratitudine di essere viva di Lip. Peyton non è esattamente cauta mentre è al volante. 
Lui le lancia un’occhiataccia. “Guidi come una pazza svalvolata, ne sei consapevole?”.
Lei si posa una mano sul cuore. “Oh, perdonami fiorellino, la mia guida ti ha fatto tremare le giarrettiere?”.
Lip alza il mento. “No, ma ci ha quasi uccisi. Julianne concorda con me”.
Si girano entrambi a guardarmi. “Non tiratemi in mezzo” brontolo, sistemandomi la borsa sulla spalla “Ho mille cose da fare e pochissimo tempo, l’arbitro non rientra tra i miei compiti”.
Li supero, puntando al negozio di articoli per le feste. Ieri, alla fine, Chastity e io non ci siamo più andate. Lei era troppo triste anche solo per alzarsi dal letto, quindi ho deciso di andarci oggi con Peyton e Lip. Mai presa una decisione peggiore.
“Sono sicuro che tu abbia superato tutti i limiti di velocità della città” asserisce lui “E non pensare che non abbia visto la cassetta della posta che hai abbattuto mentre facevi manovra”.
Le porte scorrevoli si aprono e l’aria fresca del condizionatore ci accoglie. Scivolo tra i vari scaffali, curiosando tra gli addobbi e i costumi.
“Non ho abbattuto assolutamente nulla, mi sa proprio che non ci vedi” ribatte Peyton con astio.
La cassetta con i gattini e gli uccellini dipinti sopra che è stesa nel vialetto della vicina di Lip direbbe il contrario.
Raccolgo un cestino di plastica e comincio a buttarci dentro tutto ciò che mi ispira. Piattini, bicchieri e un pacchetto di ragnatele finte.
“Ci vedo benissimo, invece. Più tardi, dovrò aiutare la signora Hollis a sistemare il suo vialetto che tu hai distrutto”.
Raccolgo dei ragnetti di plastica da appendere al soffitto e continuo ad addentrarmi. I due litiganti mi seguono, portando avanti la loro scenetta. Ormai tutto il negozio li sa osservando, ridendo sotto i baffi.
Peyton fa uno strano verso. “Come se tu fossi il tipo che aiuta le signore anziane, mister bicipiti”. 
Lip flette il braccio. “Ti piacerebbe toccare bicipiti come questi, eh, Jackson?” la provoca.
La commessa mi fissa preoccupata, avvertendomi che è il momento di intervenire. “Okay, basta”. Spingo Lip in avanti. “Vai a cercare qualche costume, forza”.
Cerca di protestare. “Ma, Jay…”.
“Muoviti” ribatto. Mi sento una mamma al supermercato.
Si allontana sbuffando e borbottando insulti contro Peyton. Lei gli fissa la nuca con una strana luce nello sguardo.
“L’hai buttata giù davvero la cassetta” le faccio notare con delicatezza.
Lei continua a guardare Lip. “Lo so, non volevo dargli la soddisfazione di avere ragione. È così irritante. Perché lo hai invitato?”.
Tiro su degli strani pipistrelli di carta. “Mi mette di buon umore”.
“A me no” soffia.
Le giro intorno. Il vestito turchese in stile giapponese le sta davvero bene ed uno dei più sobri che le abbia visto addosso. Inoltre, ha adornato la parrucca lilla sbiadito con delle forcine piene di fiori. È veramente molto bella.
“Strano” sussurro “Perché non hai smesso di fissarlo da quando si è allontanato”.
Si gira di scatto e ravana tra gli addobbi. “Solo perché mi fa venire il sangue acido” mormora velocemente “Cosa dobbiamo cercare?”.
Ignoro il suo repentino cambio di discorso e ci mettiamo a riempire il cestino. Quando con le decorazioni abbiamo finito, Lip salta fuori da un espositore stringendo due costumi.
Beh, chiamarli costumi è un parolone.
“Poliziotta sexy?” domanda “O infermiera sexy?”.
Assottiglio lo sguardo. “Con il tuo fisico, io opterei per infermiera sexy” lo scosto, camminando verso l’espositore dei costumi “Per me voglio qualcosa che non includa la parola sexy”.
Lip sembra ferito in modo personale. “Perché?”.
Pey gli toglie di mano i microabiti. “Perché sono un insulto al femminismo, ecco perché”.
Lui scuote la zazzera rossa. “Non sono d’accordo. Esaltano la figura femminile e ne riconosco l’importanza in ambiti in cui spesso è sottovalutata”.
Peyton e io alziamo gli occhi al cielo. “Non esiste che mi metta quella cosa, voglio qualcosa di originale”.
Peyton raccoglie un costume da pagliaccio. “Ho trovato quello adatto a te, O’Connor”.
Lui la fulmina. “Beh, a te non serve un costume, ti mascheri già tutto l’anno”.
“Ehi” lo rimbecco.
Peyton alza le spalle. “Tranquilla, non mi dà fastidio. Esprimere la mia creatività non mi mette a disagio e non mi fa vergognare. Il mio stile mi fa emergere in un agglomerato di adolescenti anonimi, non mi interessa se a lui non piace”.
Lip si corruccia. “Non ho mai detto che non mi piace”.
Una strana tensione aleggia tra i due, ma grazie al cielo il commesso decide che il momento giusto per controllare se ci serve aiuto.
“Avete bisogno ragazzi?” domanda educatamente. È alto, non quanto Lip, ma in ogni caso molto più di me. Ha i capelli neri tagliati corti, la pelle scura e due stupendi occhi marroni. Un velo di barbetta gli adorna un sorriso da capogiro. È bello, molto bello, ma mai quanto Aaron.
Sorrido, grata del suo tempismo. “Sì, stiamo cercando dei costumi per una festa e abbiamo qualche problemino”.
Il suo sguardo caldo mi percorre lentamente. “Avevate qualcosa in mente?”.
Indico un ridicolo vestito da diavolo. “Niente che sia composto solo da trenta centimetri di stoffa e un paio di corna”.
Ride arricciando il naso. “Allora siete nella corsia sbagliata, vieni”. Mi posa una mano sulla schiena e mi guida lungo il negozio. “Da questa parte ci sono i costumi migliori. Dove eravate teniamo quelli che di solito vengono usati agli addii al celibato o festini simili”.
Non mi sorprende che Lip si sia fermato proprio lì. “Grazie dell’aiuto…”.
Mi porge la mano. “Tobias”.
Ha le nocche sbucciate e arrossate, ma la pelle è calda al tatto. “Julianne”.
Si mordicchia il labbro. “Sì, so chi sei. Andiamo nella stessa scuola”.
Ecco, ora sono a disagio. “Davvero?”.
Un certo rossore gli adorna le guance. “Facciamo studi sociali insieme”.
Che figura di merda. Cerco di celare l’imbarazzo con una risatina e un’alzata di spalle. “Non sono bravissima a ricordami le facce o i nomi”. La verità è che durante studi sociali di solito mi concentro su Aaron e il resto scompare totalmente.
Lui sorride di nuovo, toccandomi il braccio. “Tranquilla, ho notato che di solito passi il tempo con i tipi del lacrosse”.
Lip e Peyton hanno finalmente smesso di bisticciare e ci hanno seguito. Lip fa un cenno con il mento verso Tobias. “Guerrero”.
Lui ricambia il gesto. “O’Connor”. Fa un sorriso alla mia amica. “Ciao, Peyton”.
Lei ricambia. “Ehi”. 
A quanto pare ero l’unica che non lo conosceva. Ottimo.
Lip fissa Tobias con circospezione e fastidio. Dopo una lunga occhiata, che io definirei di ghiaccio, fa un passo in avanti e mi appoggia un braccio enorme sulle spalle. “Grazie dell’aiuto, Guerrero, penso che ce la possiamo cavare da soli, da qui”.
Tobias annuisce, comprensivo. “Di nulla, ci vediamo a scuola”. Si allontana silenziosamente e senza il bel sorriso di prima ad abbellirgli il viso.
Quando è lontano, mollo una gomitata nelle costole di Lip. “Si può sapere perché mi hai fatto la pipì intorno come un cretino? Non ci stava provando, era solo gentile”.
“Ci stava provando eccome” si giustifica “In assenza di Aaron, è mio compito difendere il suo territorio”. Sgrana gli occhi e lancia un’occhiata verso Peyton. “Voglio dire…io…non”.
Lei alza gli occhi al cielo. “Rilassati, carotino, so tutto”.
Mi guarda come se fossi fuori di testa. “Glielo hai detto?”.
Peyton fa un verso di scherno. “Non mi ha dovuto dire un bel nulla, ho capito tutto da sola. Io sono intelligente”.
La guarda di sbieco. “Di solito le persone che sottolineano di essere intelligenti, non lo sono poi così tanto”.
Mi infilo in mezzo. “Non ricominciate” brontolo “Cerchiamo questi maledetti costumi e andiamo. Devo andare al lavoro”.
 
Una volta che abbiamo riempito due cestini di cianfrusaglie e recuperato i costumi meno volgari e scontati, mi appresto alla cassa. Tobias mi lancia un’occhiata alle spalle. “Il tuo ragazzo è sempre così minaccioso con chiunque ti parli?”.
Seguo confusa il suo sguardo. Lip e Peyton stanno di nuovo discutendo, questa volta riguardo a chi dei due dovrebbe guidare al ritorno. Si litigano le chiavi come due bambini, quindi immagino che toccherà a me guidare. “Lip non è il mio ragazzo, è solo un amico molto protettivo” metto in chiaro. 
“Sembrava volesse stendermi poco fa” asserisce, battendo i nostri acquisti “Gioco a hockey e me la vedo con un sacco di tipi enormi, ma O’Connor mi fa un po’ paura”.
L’hockey spiega le nocche arrossate e le spalle ampie. “So che può sembrare uno yeti un po’ burbero ma in realtà è un pacioccone”. Lip è una montagna di muscoli e testosterone, ma dietro a tutta quella spavalderia c’è un cuore buono e un animo gentile, basta chiedere alla signora Hollis.
“Se lo dici tu”. Sembra ancora un po’ incerto. “Sono quarantacinque dollari e settanta”.
Tiro fuori il portafoglio e gli passo i soldi. “In ogni caso, scusalo. Era in bagno quando distribuivano il buon senso”.
Ridacchia. “Tutto a posto, tranquilla”.
Non so da dove mi esce ma quando mi passa in sacchetti non posso evitare di chiederglielo. “Hai da fare sabato sera?”. Alza le sopracciglia sorpreso, facendomi realizzare che posta così sembra che gli sto chiedendo di uscire. “Intendevo dire che sabato do una festa per Halloween”.
Annuisce. “Sì, l’ho sentito dire”.
“Potresti fare un salto, se ti va” indico i miei amici con un pollice “Così potresti renderti conto che Lip non è poi così minaccioso e che siamo molto simpatici”.
Il suo sguardo caldo mi scandaglia da cima a piedi. Non so cosa sta tentando di scovare, forse sta solo cercando di capire quali sono le mie intenzioni. Spero abbia capito che è un invito del tutto amichevole.
Si mordicchia il labbro. “Posso portare qualcuno?”.
“Certo”.
“Allora ci vediamo sabato, Julianne” annuncia.
 
 
 
Fisso la ricrescita bionda con fastidio. Sono un paio di giorni che mi sono accorta che la mia testa sta lentamente cercando di tornare bionda, e io proprio non posso permetterglielo.
Lancio un’occhiata scettica alle istruzioni della tinta color cioccolato. Ho già il presentimento che combinerò un disastro, non me la sono mai fatta da sola. Immagino che tra un paio d’ore mi ritroverò, irrimediabilmente, con la faccia macchiata.
“Hai bisogno di aiuto, sorellina?”.
La voce dolce e cauta di Henry mi fa irrigidire la schiena. Gli lancio un’occhiata attraverso lo specchio e il rimorso che gli vedo dipinto sul volto mi fa innervosire. “No, posso farcela benissimo da sola”.
Fa un passo incerto in bagno. “Strano. A me risulta che quando facciamo le cose insieme vengono molto meglio” si alza la manica mostrandomi il tatuaggio che abbiamo fatto insieme “Due pezzi che si incastrano e si completano, ricordi?”.
Apro la scatola, tenendo gli occhi bassi. “No, non ricordo affatto” uso il tono più freddo e distaccato possibile “In realtà, non ho la più pallida idea di chi tu sia”.
Sospira mestamente. “Io invece so chi sei, sono diciassette anni e nove mesi che ti conosco. Mi hai insegnato ad andare in bicicletta. Ti sei rotta il pollice dando un pugno in faccia al vicino, quando mi ha spinto e insultato. Mi hai dato la tua lucina per la notte, quando la mia ha smesso di funzionare, anche se avevi una paura assurda del buio. So che fingi di non essere brillante a scuola perché vuoi che io sia il migliore. Cerchi sempre di aiutarmi e di proteggermi e, per quanto ti possa sembrare assurdo, io stavo cercando di fare lo stesso, Jules”.
La rabbia, che negli scorsi giorni mi era sembrata così cocente e insormontabile, si scioglie lentamente sotto lo sguardo dispiaciuto del mio fratellino. So che non voleva mentirmi per farmi del male, ma che lo ha fatto solo perché voleva evitarmi una delusione. Henry è l’unica persona al mondo di cui mi sono sempre fidata e di cui mi fiderò sempre, non importa quello che succederà. So che mi ha fatta imbestialire, ma voglio davvero cacciarlo dalla mia vita perché mamma e papà si comportano come dei bambini? La risposta è, e sarà sempre, no.
Cerco di ostentare un’espressione neutrale. “Se decidessi di perdonarti, cosa ne guadagnerei?”.
Stringe le labbra per non sorridere. “Che ne diresti di un dolcetto ripieno di cioccolato, che ho rubato in cucina e una tinta da sogno?”.
Mi picchietto sul mento per valutare la sua offerta. “Come inizio può andare, sì”.
Prima che me ne renda conto, lui separa la distanza che ci separa e mi stritola a sé. “Mi sei mancata tantissimo, sono stati i sei giorni più lunghi della mia vita. Non mi hai tenuto il muso per così tanto nemmeno quando ti soffiato Liam Graham, in prima superiore”.
È stata una tortura sia per me che per lui. Sorrido contro la sua spalla. “Liam era proprio bellissimo”.
“E baciava da Dio” mormora.
Mi scosto per guardarlo in faccia. “Che sia l’ultima bugia che mi dici in tutta la tua vita, okay?”.
Annuisce con enfasi. “Assolutamente”.
“Bravo” sospiro “Ora fammi tornare scura e dammi il mio dolcetto”.
Henry ride e mi fa sedere sul bordo della vasca. “Sì, sorellina”.
 
Mentre mi spennella la testa con attenzione, io gli faccio il resoconto dell’ultima settimana e amoreggio con un muffin ripieno.
“Quindi hai deciso che vai con loro in campeggio tra le capre? Non hai trovato una scusa decente per scappare?” domando.
Lui scuote la testa. “Vorrei cercare di costruire un rapporto con Jim e di riguadagnarmi la sua stima, e se questo significa pregare tra i montoni e la salsola, che così sia” abbassa il tono “Poi ho pensato di lasciare a te e Aaron un weekend di totale solitudine e amoreggiamenti”.
Piego la testa indietro per guardarlo con amore. “Sei il miglior fratello del mondo”.
Fa schioccare la lingua. “Ricordatelo la prossima volta che ti faccio arrabbiare. Mi cucco zecche e preghiere nel deserto per te”.
“Lo apprezzo molto, Hen” gongolo. Un fine settimana da soli sembra quasi un sogno, eppure da domani pomeriggio saremo ufficialmente soli per la bellezza di quarantotto ore. Voglio battezzare ogni superficie della casa. 
Prima che possa esprimere i miei pensieri osceni, Liv sbuca dalla porta. “Cosa fate?”.
Henry muove le dita fasciate dai guanti e sporche di tinta. “Jules cerca di nascondere al mondo il fatto di essere una bionda naturale e ne rinnega i poteri”.
Liv ridacchia. “Anch’io voglio i superpoteri, tingi anche me”.
La scruto mentre si avvicina. “Con quegli occhi azzurri, bionda starebbe da Dio”.
Henry mi guarda male. “Non abbiamo il permesso di farle la tinta”.
Un’idea strana mi solletica il cervello. Mi alzo, stringendo l’asciugamano sulle spalle, e apro l’armadietto del bagno. Raccolgo due tubetti. “Che dici Liv, blu o verde?”.
Lei spalanca gli occhioni, estasiata. “Blu!”.
Henry scuote la testa con disappunto. “Suo padre ti spara, Jules”.
Gli mostro il tubetto. “È la tinta che sparisce dopo un paio di lavaggi, non se ne accorgerà nemmeno”.
Con cura faccio sedere Liv a terra e le coloro le punte dei capelli. Quando siamo entrambe pronte, ci sciacquiamo i capelli e li asciughiamo. Una volta in piega, i capelli di Liv sono un po’ più scuri di quanto mi aspettassi.
“Come sto?” domanda specchiandosi con cura.
“Sei bellissima” affermo.
Lei mi guarda sorridendo. “Pure tu, anche senza i poteri biondi”.
“Grazie, Livvie”.
Salta giù dal lavandino e corre verso la porta. “Vado a farmi vedere da papino”.
Henry sospira. “Speriamo non gli venga un colpo, rovinerebbe il tuo week-end”.
Mi rigiro la tinta di Liv tra le mani. “Speriamo invece che sia quella che sparisce dopo qualche lavaggio…”.
Lo sgrana gli occhi. “Prego?”.
Alzo le spalle con innocenza. “Non mi ricordo dove l’ho comprata e nemmeno quando, alcuni giorni degli ultimi anni sono ancora un po’ nebbiosi”.
“Oh, Dio” geme.
“Credi che si arrabbierà molto perché gli ho tinto la figlia?” domando.
Il ruggito prorompente e assordante di Jim scuote la casa. “Julianne!”.
Ad Henry scappa una risata. “Nooo”. 
Alzo le spalle fingendo dispiacere. “Ops”.
 
 
“Le chiavi di scorta sono nascoste nel nano da giardino vicino alla gardenia, i numeri di emergenza sono sul frigo e se succede qualcosa chiedete aiuto alla signora Stanford, infondo alla via” mormora Jim tirando il trolley verso la porta “La cassetta del pronto soccorso è sotto il lavello del bagno, mentre…”
“Papà”. Aaron gli posa una mano sulla spalla. “Non siamo due lattanti, sappiamo cavarcela”.
Lo sguardo di Jim si posa su di me. So che la sua preoccupazione non è dovuta al figlio,
ma a me e al mio passato da galeotta.
“Andrà tutto benissimo, promesso” gli assicuro. Non gli ho assicurato che faremo i bravi bambini, quindi tecnicamente non è una bugia.
Jim sospira, come se lasciarci da soli fosse lo sbaglio più grosso della sua vita. “Va bene. Mi raccomando, se succede qualsiasi cosa avvisatemi”.
Aaron spinge e il padre e le valige verso l’ingresso. “Sì, papà”.
Mamma mi affianca e mi porge un post-it lilla. “Qui c’è il numero della dottoressa Dawson, se ne dovessi avere bisogno”.
Non penso proprio che lo userò, ma per farla stare tranquilla lo prendo. “Okay, grazie”.
Mamma sorride e prende la sua borsa. “Divertitevi”.
Jim raccoglie la valigia di Liv e la sua rana di peluche. “Ma non troppo”. Mi lancia un’occhiata un po’ storta e sono sicura sia dovuta al nuovo look di sua figlia.
Cole e Liv abbracciano Aaron e insieme ad Andy zampettano fuori. Henry mi stringe a sé, abbassando la testa vicino al mio orecchio. “Quando torno voglio tutti i dettagli più scabrosi” sussurra.
“Assolutamente” bisbiglio.
Dopo quello che sembra un secolo, l’allegra combriccola monta in macchina e finalmente sparisce oltre la curva. Per qualche minuto fissiamo entrambi la via, aspettandoci un’inversione a U e che il nostro piano vada in fumo, ma la monovolume sembra essersi volatilizzata.
“Siamo soli?” esalo con ancora la tenda in mano.
“Aspetterei ancora un pochino prima di gridare vittoria” afferma Aaron al mio fianco “Rimanderei la corsa senza vestiti a quando avremo la conferma che sono arrivati”.
Mi giro e gli stringo le braccia intorno al bacino. “È questo che include il tuo programma? Una corsa come mamma ti ha fatto?”.
Mi accarezza le guance, appoggiando la fronte contro la mia. “Perché il tuo no? Dobbiamo sincronizzare le agende, tesoro. Ho un sacco di idee per queste quarantotto ore di pura spensieratezza”.
Mi bacia piano, tenendomi il viso tra le mani, come se avesse paura che scomparissi. Come se quest’attimo potesse durare per sempre e al contempo non abbastanza.
“È la prima volta che mi baci in salotto” esalo tra le sue labbra.
Apre lentamente le palpebre. “Ci sono un sacco di stanze che dobbiamo ancora rendere nostre”. Mi solleva senza il minimo sforzo. “Da quale vuoi cominciare?”.
Gli allaccio le gambe intorno ai fianchi. “Cucina”. Non so perché, ma l’idea di amoreggiare con lui tra le sacre pentole di mamma rende la cosa ancora più eccitante.
Mi deposita con delicatezza sull’isola di marmo e si riappropria delle mie labbra. Le sue mani mi scivolano sotto la maglietta e lungo le costole. Esplorano, sfiorano e accarezzano, mandandomi a fuoco la pelle. È come se ogni cellula del mio corpo si incendiasse sotto il suo tocco.
“Ci siamo già baciati qui” mormora tra un bacio e l’altro “Ti ricordi?”.
“Tecnicamente, io ho baciato te” sorrido.
Mi lambisce il collo con la bocca. “Quindi, alla fine, è colpa tua”.
Sospiro mentre mi mordicchia la spalla. “Colpa mia?”.
Mi stringe, facendo aderire ancora di più i nostri corpi. “Mi hai attirato nella tua tela e mi hai intossicato”.
Piego la testa per guardarlo in faccia. “Come una vedova nera?”.
Ha gli occhi dello stesso colore di un prato appena tagliato. “Non mi sto lamentando, Jay. Lo rifarei un altro milione di volte”.
Il calore che mi scorreva sottopelle non è nulla in confronto a quello che mi si sprigiona in mezzo al petto. “Pro e contro?”.
Mi sposta una ciocca scura dietro l’orecchio. “In ogni caso, anche se i contro dovessero quadruplicarsi”.
Non dovrebbe essere possibile volere una persona così intensamente. È pericoloso e potenzialmente una catastrofe, ma diavolo se non mi importa. Vorrei avere il coraggio di dirglielo, di spiegargli che il cuore mi batte a mille proprio come il suo. Vorrei avere il modo giusto per spiegare quello che provo, ma purtroppo a parole sono negata. Posso solo baciarlo con tutto quello che mi frulla dentro e sperare che sia abbastanza.
La vibrazione tenta di lanciare il mio cellulare giù dal bancone. Lo afferro prima che vada in mille pezzi. “Potrebbe essere Henry, gli ho chiesto di avvisarci nel caso dovessero tornare prima”. Aaron non si allontana di un millimetro, si limita a mettersi più comodo per sbirciare il messaggio. 
Abbasso lo sguardo verso lo schermo. “È Chas. Devo andare a farle vedere i costumi per sabato” sospiro.
“Hai preso anche il mio?” chiede, sistemandomi la maglietta lungo la pancia.
Annuisco scivolando via dalle sue braccia. “Dopo te lo faccio vedere”. Prendo il sacchetto con dentro i costumi e mi avvio verso la porta. “Torno tra poco”.
Sorride dolcemente. “Ti aspetto qui”. 
 
 
“Mi prendi in giro?”. Chastity mi squadra come se mi fosse spuntato un corno irsuto in mezzo agli occhi. “È uno scherzo?”.
Mi infilo le mani in tasca, per non gesticolare con rabbia. “Non è uno scherzo” proferisco piano.
Lei afferra la gruccia di metallo con aria nauseata. “Allora ti sei rimbecillita se credi che mi metterò questo scempio. Non mi vesto da cameriera per nessuna ragione al mondo, nemmeno per Halloween”.
Stringo i denti finché non mi fa male la mascella. “Non è un costume da cameriera, è il costume di Magenta”.
“Non mi interessa come si chiama la donna delle pulizie, io non lo metto” ribatte con astio.
Sospiro mestamente. “Magenta è la domestica che presta servizio a Frank -N- Furter nel film The Rocky Horror Picture Show. Non l’hai mai visto?”.
Si passa le mani tra i capelli. “Io non sono come te, non passo la mia vita a guardarmi film da sola nella mia camera, come una perdente”.
Ahi. Assesto il colpo facendo un passo indietro. “Grazie, Chastity”.
Mi ignora e raccoglie l’altro costume. “E questo cosa dovrebbe essere? Un clown?”.
“È il costume da Columbia, fa sempre parte del film…” mormoro lentamente.
Chastity lo butta a terra come se fosse radioattivo. “Stai cercando di sabotare il mio lavoro? Mandi al diavolo tutta la fatica che ho fatto per metterti in lizza per il posto di presidente del corpo studentesco? Per cosa? Per vestirti come una sfigata?”.
“Cosa? Io non capisco cosa…”.
Mi punta un dito contro. “È questo il tuo problema, Julianne, tu non capisci mai niente. Te ne freghi di tutto e di tutti…”.
“Ma di che diavolo stai parlando?” sbotto.
“Sei andata a prendere i costumi senza di me e hai fatto un casino!” sbraita “Hai preferito i tuoi amici scemi…”.
Le afferro la mano. “Smettila. Puoi insultarmi, ma non tirare in mezzo gli altri”.
Scivola via dalla mia presa e comincia a muoversi convulsamente. “Hai preferito loro a me! Tutti preferiscono chiunque altro a me!”.
“Chastity…” pigolo.
Le tremano le mani e gli occhi di solito luminosi sembrano opachi e spenti. Ha i vestiti sgualciti e i capelli in disordine. La camera è nello stesso stato dell’ultima volta che l’ho vista. Ha un occhio poco allenato sembrerebbe quasi in ordine, ma io riconosco il caos mentale quando lo vedo. Lei sembra ancora nel bel mezzo di una crisi.
“Ehi” mormoro sommessamente “Avanti, sediamoci e parliamo un po’. Magari possiamo…”.
“Non mi dire cosa fare!” strepita “Non seguo gli ordini di nessuno!”.
“Chas”.
“Vattene” borbotta dando un calcio ai vestiti “E portati via questo schifo!”.
La mia pazienza si è esaurita circa cinque minuti fa. È durata più di quanto mi aspettassi. Stavo cercando di essere gentile, ma a quanto pare a lei non frega niente. “Arrangiati allora”. Raccolgo i miei stracci e mi allontano dall’uragano Chastity il più velocemente possibile.
Rientro in casa inciampando e proferendo esclamazioni colorite. Lancio i vestiti sull’attaccapanni e, quando mi giro, la rabbia si dissolve in una bolla di sapone. Aaron mi osserva dai fornelli, con un grembiulino pesca molto virile legato ai fianchi e un capello da chef calato in testa.
“È successo qualcosa?” domanda.
Lo fisso qualche secondo, indecisa se fargli una foto o se mettermi a ridere. Opto per entrambe. Sfilo il cellulare dalla tasca e gli faccio una foto. “Ma come sei vestito?” domando ridendo. “Sto cucinando, ovviamente” gongola indicando il suo lavoro con la mano “Lo chef questa sera propone: hamburger di ceci, sformatino di zucchine e dolce a sorpresa”.
La cucina ha un odore buonissimo. “Non pensavo sapessi davvero cucinare”.
Si appoggia una mano sul petto. “Sono husband-material, tesoro”.
Ridacchio. “Se lo dici tu”.
Si abbassa per controllare il forno con aria critica. “Hai dato il costume a Chastity?”.
Mi avvicino ai fornelli. “Non puoi capire che cavolo è successo” sospiro “In realtà, non l’ho capito nemmeno io”.
Mi guarda spaesato. “Ne vuoi parlare?”.
Scuoto la testa. “Dopo. Ora sento il bisogno primordiale di baciare il cuoco”.
Chef” precisa, sorridendo malizioso “È il potere del cappello” mi stringe i fianchi “Ne sarai presto succube, non provare a lottare”.
“Non ne avevo intenzione” mormoro, alzandomi sulle punte per baciare lo chef più bello del mondo.
 
 
“E ha buttato i costumi a terra?”. La luce della candela illumina fioca la stanza, mentre Aaron mi imbocca un pezzo di soufflé al cioccolato. Il dessert a sorpresa è la ciliegina sulla perfetta cena che ha preparato. È davvero bravo, non me lo aspettavo. Mi ricordavo mi avesse detto di aver frequentato economia domestica, ma non pensavo fosse così portato.
“Sì e li ha chiamati schifo” brontolo, gustandomi il cioccolato fuso.
Prende una forchettata per sé. “Non è molto carino”.
La sua mano mi accarezza lentamente la gamba. Siamo così vicini che a questo punto basterebbe una sedia per entrambi. “Non la capisco. Non siamo andate insieme perché era triste e non le andava di uscire, non perché io non volessi andare con lei”.
Mi porge un’altra forchettata. “Non è colpa sua, Jay”.
Mastico con gusto. “E di chi? Mi sto perdendo qualcosa?”.
Si pulisce un angolo della bocca con la mano, facendo vacillare la mia concentrazione. “Non conosco i dettagli o il nome esatto, ma so che lei ha un qualche tipo di disturbo. La psicologa della scuola le ha fatto la diagnosi l’anno scorso, dopo un crollo e le ha dato una terapia. Non credo però che i suoi genitori gliela abbiano fatta seguire, sai come sono”.
Ora tutto acquista un senso. La depressione, gli scoppi d’ira e il suo comportamento impulsivo sono tutti figli di un mostro che conosco bene. “Oh, cavolo. Dovevo intuirlo”.
Mi passa altro soufflé. “Non potevi saperlo. Lei non ama spiattellare i fatti suoi e i suoi genitori adorano fingere che non esista niente di diverso dalla perfezione, quindi Chastity è abituata a fare finta che sia tutto a posto”.
Avrei dovuto capirlo in ogni caso, non è la prima volta che me lo trovo davanti. “Domani provo a parlarle, magari posso aiutarla”.
“È un’ottima idea” concorda.
Finito il dolce e sistemata la cucina, ci traferiamo sul divano. Porto i costumi in salotto e glieli mostro. “Il tuo è questo qui. Sei Riff Raff”.
Mi guarda spaesato. “Chi?”.
Sbuffo. “Oh, mio Dio. Cosa c’è che non va in questa generazione? Nessuno guarda i bei film?”.
Alza le spalle con aria innocente. “Sai che non sono un cinofilo”.
“Cinefilo” ridacchio.
“Sì, quello lì. Ci sei tu a istruirmi” asserisce “Sono super sicuro che hai il film e che ora vorrai farmelo vedere, vero?”.
Stropiccio il mio costume da Magenta. “Sono così prevedibile?”.
Fa un sorrisino. “Non sarò un cinefilo ma sono assolutamente un Juliannefilo”.
Gli bacio la punta del naso. “Di sicuro sei strano forte”.
Raggiungo la mia stanza, recupero il film e torno di sotto.
“Quindi chi è questo Ruff Ruff?” domanda rigirandosi il costume tra le mani.
Riff Raff. È l'inquietante, gobbo, tenebroso servitore di Frank -N- Furter” spiego “Io sarei Magenta, la cameriera. Chas potrebbe essere Columbia e Lip è Frank -N- Furter”.
Mi guarda sorpreso. “Lip vuole fare il travestito?”.
Gli mostro i costumi indossati da delle persone attraverso il cellulare. “Ha detto che è così sexy e mascolino che non importa cosa indossa, resta un Dio in ogni caso” alzo le spalle “Non ho voluto commentare e nemmeno ribattere”.
Indica lo schermo. “Ho la pelata?”.
“Già” sospiro “Caspico se non vuoi indossarlo. Magari domani mattina possiamo andare a cercarne altri”.
Scuote la testa con decisione. “Se Lip indossa le autoreggenti, io voglio la pelata. Sarà divertentissimo”.
Ridacchio. “Va bene”.
Scorre le foto per vedere gli altri personaggi. “Riff Raff e Magenta stanno tipo insieme?”.
Mi gratto la fronte con il pollice. “Sono fratello e sorella” pigolo.
Aaron contrae il viso, schifato. “Ora sì che fa paura”.
“Lo so” mugolo “Non potevo prendere un costume di coppia, la gente avrebbe fatto supposizioni e domande. Siamo in quattro e tutti legati, diamo meno nell’occhio”.
Annuisce. “Capisco”.
“E alla fine è un po’ come nella realtà” spiego “Interpretiamo solo delle parti”.
Stringe le labbra, acconsentendo. “Lo so, Jay. Speravo solo fosse tutto un po’ meno complicato”.
Non ha idea di quanto lo vorrei. “È complicato se lo rendiamo tale”. Intreccio le dita con le sue. “Ora come ora, siamo solo due ragazzi qualsiasi che guardano un film, sgranocchiando popcorn”.
Mi guarda di sbieco. “È un modo sottile per chiedermi di fare i popcorn?”.
Sorrido dolcemente. “Forse”.
Si alza scuotendo la testa con disapprovazione, ma non riesce a non sorridere. “Sarà un disastro quando vivremo insieme, finiremo in bancarotta solo per colpa dei dolci. Cosa ci vuoi sopra?”.
La prima parte della frase mi lascia spaesata. “C-cioccolato” asserisco.
Si avvia verso la cucina. “Naturalmente, non so nemmeno perché l’ho chiesto”.
Quando vivremo insieme? Non lo pensa davvero. Non può pensarlo. Questa situazione non ha un vero futuro, alla fine dell’estate andremo al college e molto probabilmente mia madre e Jim si sposeranno. Non c’è un domani assicurato per noi due e non credo ci sarà mai. Pensavo lo avesse capito ormai.
Il messaggio di Chastity mi riscuote. Mi dispiace tanto.  
Fisso la notifica senza sapere cosa fare. Dovrei perdonarla? Dovrei chiederle spiegazioni? Dovrei ignorarla?
“Chastity mi ha scritto che le dispiace” asserisco alzandomi ed entrando in cucina. “Che dovrei fare?”.
Aaron scuote il sacchetto dei popcorn nella ciotola di plastica. “Dille che la perdoni. Dille che è tutto okay”.
“Dovrei?”.
Butta il sacchetto vuoto nel cestino. “Cosa ti blocca?”.
Lo osservo mettere una barretta di cioccolato in un pentolino e accendere il fornello. “Non lo so”.
“Jay…” mi esorta.
“È un altro problema, un'altra cosa da aggiungere alla lista delle preoccupazioni” sospiro “Sono uscita con persone come Chastity e molto spesso mi ha portato solo guai”.
Gira il cioccolato con un cucchiaio di legno. “È tua amica?”.
Lo è? Beh, mi ha sempre coperto le spalle ed è stata sempre leale. E, in fin dei conti, mi piace stare con lei. Voglio davvero scaricarla perché non è tutto sempre rose e fiori? Non esiste. “Sì, lo è”.
“Allora sai cosa fare” afferma.
Non ho idea di come faccia ad avere sempre la risposta giusta o come faccia a sapere sempre quale sia la cosa migliore da fare.  
J: Dispiace anche a me.
La sua risposta non tarda ad arrivare. C: Ti va di venire qui? Mi sento tanto sola.
Aaron versa il cioccolato sui popcorn. “Dovresti andare” mormora dopo che gli ho letto il messaggio.
“E la nostra serata?” mugolo. Non voglio mollarlo per correre a coccolare Chastity, questo mi rende una brutta persona?
“Sta male e ha bisogno di qualcuno che le dica che è tutto a posto e che non è sola” sospira “Ha bisogno di te”.
Perché deve essere sempre così perfetto? “Non voglio lasciarti qui” brontolo “Abbiamo dei piani”.
“Allora dille di venire a vedere il film con noi” propone.
“Non potremmo essere noi stessi se lei è qui” gli ricordo.
Mi sfiora la guancia. “Lo so, ma è solo per un paio d’ore. Finito il film, lei torna in casa sua e noi riprendiamo da dove abbiamo lasciato”.
So che è la cosa giusta da fare, questo però non significa che sia quella che mi rende più felice. Se Aaron non mi avesse convinto, non so se le avrei detto di venire. Lui è veramente una persona straordinaria, mentre io sono un mostro egoista. “Sei meraviglioso” esalo facendo dondolare il telefono.
Mi passa un popcorn avvolto nel cacao. “Lo so, tesoro”.
 
 
Alla fine, mi ritrovo seduta tra Aaron e Chastity, con la ciotola di popcorn in mano e una coperta ricamata sulle gambe. Lui mi accarezza la coscia sotto il plaid, mentre Chas spilucca qualche popcorn con aria distrutta. Ha il viso arrossato e il naso screpolato. Ha l’aspetto di chi ha pianto per ore e poi ha cercato di cancellare i segni stropicciandosi la faccia. Ho fatto bene a farla venire, Aaron aveva ragione, ha bisogno di qualcuno che le dica che è tutto okay.
Sistemo le impostazioni del film con il telecomando e poi lo mollo sul tavolino. Il codino alla fine della treccia di Chastity le è scivolato sulla spalla. Mi allungo per aggiustarle l’intreccio e per legarle bene insieme le ciocche d’orate. I suoi occhi ombrosi si scontrano con i miei e due oscurità parallele sbirciano l’una nell’altra. Riconosco i segni di chi sta lottando con ferocia contro sé stesso, perciò, dopo averle lasciato i capelli, le sfioro la guancia con la mano. Un gesto alquanto insolito per me, ma che in qualche modo la fa rilassare contro il divano e le fa appoggiare la testa sulla mia spalla. Con la coda dell’occhio, vedo Aaron sorridere e sento la sua mano stringermi dolcemente la gamba. Perciò, mi accucciolo contro di lui e stringo la mano alla mia amica, sperando che questo basti a darle conforto.


Più o meno a metà film, Chastity si raggomitola contro il bracciolo del divano e crolla tra le braccia di Morfeo. Sembra assolutamente devastata, perciò la lasciamo riposare.
Quando i titoli di coda ci scorrono davanti, mi giro lentamente verso Aaron.
“Che facciamo? La svegliamo?” chiedo.
Lui scuote la testa. “Forse è la prima volta in diversi giorni che dorme profondamente, lasciala restare qui”.
“E noi che facciamo?” bisbiglio spegnendo il televisore.
“Andiamo a dormire?” ribatte.
“Non possiamo” spiego “Se si dovesse svegliare nel cuore della notte e venisse in camera mia, ti troverebbe nel mio letto. Come glielo spiegheremmo?”.
Soppesa la mia affermazione con cura, poi si allunga e recupera due coperta dalla poltrona. “Mettigliene una addosso”.
Faccio come ha detto ma non posso non protestare. “Vuoi dormire qui? Sei impazzito?”.
Ci copre con un’altra coperta. “L’unico modo che abbiamo di dormire insieme è fingere di essere crollati tutti sul divano”.
“Quando si sveglierà ci troverà abbarbicati, tu non sai stare nel tuo spazio” affermo.
“Senti chi parla” borbotta mettendosi comodo “Daremo la colpa al sonno. Le diremo che ci siamo mossi senza pensare mentre dormivamo, tutto qui”.
“Non lo so…”.
Mi tira verso il suo petto. “Non possiamo avere sempre paura, Jay”.
Non sono molto d’accordo. La paura ti rende vigile e ti tiene in vita, non bisogna denigrarla.
Con ancora qualche rimostranza, mi sdraio contro il suo torace. Non mi sembra un buon piano, ma l’idea di dormire da sola mi sembra cento volte peggio.     


 
Rotolo lentamente su un fianco, presumibilmente alla ricerca di Aaron, ma l’unica cosa che trovo è la distanza che mi separa dal pavimento. L’impatto con il tappeto ispido mi fa aprire gli occhi di scatto. Mi ritrovo stesa tra il divano e il tavolino, insalamata nelle coperte come un burrito. Mugolo di disappunto contro la gravità e contro la luce accecante che mi inonda la faccia.
“E poi ero io quello che non sapeva stare nei suoi spazi, eh?”.
Quanto vorrei avere qualcosa da lanciarli in faccia. “Dov’è Chas?”.
“È andata via mezz’ora fa, mi ha chiesto di ringraziarti e di dirti che russi come un trattore” afferma.
Lentamente mi metto a sedere. “Io non russo”.
Sorride, rendendo sempre più difficile trovarlo fastidioso. “Russi e sbavi pure”. Sfilo le braccia dalle coperte, afferro un cuscino e glielo tiro. Il lancio è così scarso che la mia arma rimbalza debolmente sul divano. “E tiri proprio come una ragazza”.
Gli faccio una pernacchia. “Sei antipatico”.
“È tu sei proprio un raggio di sole la mattina” ridacchia “Vieni, la colazione è pronta”.
Mi alzo come un’antilope appena nata. “Hai preparato la colazione?” sospiro estasiata.
“Basta così poco per farti cambiare umore? Del cibo?” domanda.
“Dipende” mormoro “Include del cioccolato?”.
Annuisce chiudendo gli occhi. “E una cascata di caffè”.
Mugolo. “Sembra il paradiso”.
Appoggia un braccio sulle mie spalle. “Mi stavo domandando una cosa, ora che ci penso”.
Mi godo il contatto con il suo corpo caldo. “Cioè?”.
“Cosa succederebbe se mi trovassi in una vasca di caffè, spalmato di cioccolato dalla testa ai piedi?”.
Inchiodo, bloccando anche lui. “Annulliamo subito la festa, ho cambiato idea su quello che voglio fare”.
Aaron ride, baciandomi la testa. “Un giorno, baby. Un giorno”.
 
 

“Te lo chiedo per favore” mugugna Aaron, tirandomi il calzino “Solo una canzone, una qualsiasi. Ti prego”.
Appoggio i contenitori vuoti del cibo cinese sul pavimento. “Non ne concepisco la necessità”.
Toglie un chicco di riso dal mio copriletto viola. “Sarebbe una cosa carina che faresti per me”.
Alzo le spalle e i capelli umidi mi scivolano lungo la schiena. “Non mi sembra un buon motivo”.
Mi afferra entrambe le caviglie e mi tira contro di lui. “Sei proprio antipatica oggi”.
Mi siedo sul suo bacino e giocherello con i laccetti della sua felpa. “Magari è correlato con l’aver dormito raggomitolata sul divano più scomodo del mondo, chissà”.
Apre la bocca, offeso. “Ma se hai dormito sopra di me, non lo hai nemmeno sfiorato il divano. Sono io che dovrei lamentarmi”.
In effetti, ho riposato come una bambina sdraiata sopra il corpo di Aaron, ma col cavolo che gliela do vinta. “Ti stai lagnando perché ti ho fatto da coperta umana?”.
Mi pizzica un fianco. “Le coperte non ti sbavano addosso, di solito”.
Sbuffo. “Io non sbavo, e non russo nemmeno”.
Sospira scuotendo la testa. “Va bene, cambiamo approccio”. Mi prende il mento tra l’indice e il pollice e china la testa per baciarmi. Lentamente e profondamente, così da far agitare ogni cellula del mio corpo.
“Così non vale” esalo.
Mi bacia la punta del naso. “Vale perché funziona”.
Gli accarezzo il mento ispido. “Okay, ma solo una canzone”.
Sorride, accecandomi. “Grazie”.
Rotolo via dalle sue braccia per recuperare il mio quaderno e la chitarra. Mi siedo tra i cuscini e sfoglio le pagine. Trovare qualcosa di non troppo personale e di non troppo pesante sembra un’impresa. Ci sono canzoni incise sulla carta che farebbero venire la pelle d’oca anche alla persona più temprata del mondo. Non voglio spaventarlo, ma soprattutto non voglio aprire porte che condurrebbero a discorsi scomodi che non voglio assolutamente affrontare.
Quando trovo quello che cerco, posiziono il diario difronte a me e imbraccio la chitarra.
“Sii magnanimo, okay?”.
Annuisce solennemente e si mette comodo.
Espiro lentamente, cercando di non perdere il controllo, e poi lascio che la musica faccia il resto.

Darling, I've just left the bar
And I've misplaced all my credit cards
My self-preservation and all of my reservations
Are sittin' and contemplating what to do with me, do with me
Think I took it way too far
And I'm stumblin' drunk, getting in a car
My insecurities are hurtin' me
Someone please come and flirt with me
I really need a mirror that'll come along and tell me that I'm fine
I do it every time
 
I keep on hanging on the line, ignoring every warning sign
Come on and make me feel alright again
 
'Cause it's 3 AM
And I'm callin' everybody that I know
And here we go again
While I'm runnin' through the numbers in my phone
And yeah, I'll take fake moans and dial tones
Let 'em spill right down the microphone
I need it digital 'cause, baby, when it's physical
I end up alone, end up alone
 
I need it digital 'cause, baby, when it's physical
I end up alone, end up alone
 
And every night, I wanna live in color through a white-blue screen
I got a technicolor vision going vivid in my white-blue jeans
I know it's complicated
'Cause everyone that I've dated says they hate it
'Cause they don't know what to do with me, do with me
Know that my identity's always getting the best of me
I'm the worst of my enemies
And I don't really know what to do with me
Yeah, I don't really know what to do with me
 
I keep on hanging on the line, ignoring every warning sign
Come on and make me feel alright again
 
'Cause it's 3 AM
And I'm callin' everybody that I know
And here we go again
While I'm runnin' through the numbers in my phone
And yeah, I'll take fake moans and dial tones
Let 'em spill right down the microphone
I need it digital 'cause, baby, when it's physical
I end up alone, end up alone
 
I need it digital 'cause, baby, when it's physical
I end up alone, end up alone
 
I'm reckless, treat it like a necklace
Take a different version and I try it on for size with everybody that I know
And will you please pick up the fucking phone?
 
'Cause it's 3 AM
And I'm callin' everybody that I know
And here we go again
While I'm runnin' through the numbers in my phone
And yeah, I'll take fake moans and dial tones
Let 'em spill right down the microphone
I need it digital 'cause, baby, when it's physical
I end up alone, end up alone
 
I need it digital 'cause, baby, when it's physical
I end up alone.
 
   
Riapro gli occhi solo quando l’ultima nota si è librata leggera in mezzo a noi. Aaron mi scruta dall’altro capo del letto, intento a cercare di non sorridere come un idiota. I suoi occhi verdi traboccano di così tante emozioni da spaventarmi. Appoggio la chitarra tra noi, cercando di creare una sorta barriera. “Com’era?” sibilo.
Si stropiccia il mento. “Jay…Wow”.
“Wow buono o Wow schifo?”.
Ride. “Wow fantastico. Non so come tu faccia a non rendertene conto ma sei assolutamente spettacolare. So perché non canti più in pubblico e lo capisco, ma posso assicurarti che potresti intonare le canzoni dell’asilo e il mondo impazzirebbe per te lo stesso. Sono sempre dell’idea che dovresti fare domanda alla Julliard, ucciderebbero per averti”.
Questa sua totale e incondizionata fiducia nelle mie capacità mi fa sentire vulnerabile. “Ci sto pensando, lo sai”.
Annuisce lentamente. “Lo so, sto solo dicendo che sei fenomenale e che credo da morire in te”.
Gli sorrido. “Anche tu dovresti fare domanda ad una scuola di musica, sul palco sei grandioso”.
Alza le spalle. “Non credo di avere quello serve, e poi dovrei scavalcare il cadavere di mio padre per poter fare della musica la mia vita”.
“Quando vinceremo il concorso tra band non potrà obbiettare in nessun modo” assicuro.
“A proposito del contest”. Si alza e sparisce in corridoio. Ritorna un minuto più tardi con un foglio tra le mani e un sorriso timido che non gli ho mai visto prima. “Ho buttato giù un testo che mi piacerebbe farti sentire”.
Annuisco sorpresa. “Certo”.
Prende la mia chitarra e si siede. “È ancora in lavorazione e non sono sicuro di aver rispettato…”.
“Aaron” i suoi occhi si piantano nei miei “Suona”.
Si morde il labbro inferiore. “Okay”.

When you’re talking to your girls
Do you talk about me?
Do you say that I’m a sweetheart?
Do you say that I’m a freak?
Do you tell them white lies?
Do you tell 'em the truth?
Do you tell 'em that you love me
The way I been lovin’ you?
 
'Cause every night you and I find ourselves
Kissing and touching like no one else
Falling and falling until I fell
For you
 
'Cause I been talking to my friends
The way you take away my breath
It’s something bigger than myself
It’s something I don’t understand, no, no
I know we’re young and people change
And we may never feel the same
So, baby, tell me what you say
When the girls, when the girls talk
When the girls talk boys
I can hear ‘em talking
Oh, when the girls
When the girls
When the girls talk
When the girls talk boys, hey
 
When you’re talking to your girls
Do you talk about me?
Do you tell I’m your lover?
That I’m all that you need?
Do you tell ‘em white lies?
Do you tell ‘em the truth?
(Do you tell 'em that you love me)
The way that I’ve been loving you?
 
'Cause every night you and I find ourselves
Kissing and touching like no one else
Falling and falling until I fell
For you
 
'Cause I been talking to my friends
The way you take away my breath
It’s something bigger than myself
It’s something I don’t understand, no, no
I know we’re young and people change
And we may never feel the same
So, baby, tell me what you say
When the girls, when the girls talk
When the girls talk boys
I can hear ‘em talking
Oh, when the girls, when the girls talk
When the girls talk boys
When the girls talk boys
Talk talk talk talk
Talk talk talk talk
When the girls talk boys
Talk talk talk talk (when the girls)
Talk talk talk talk, hey
 
Stringo il cuscino al petto con irruenza. Ho il bisogno fisiologico di frapporre qualcosa tra di noi, non importa se si tratta di piume o di un muro di cemento, ho solo bisogno che non mi veda tremare come una foglia.
Una goccia bollente mi piomba sulle braccia.
“Jay…” sospira.
Quando ho iniziato a piangere?
Perché sto piangendo?
“Non volevo farti stare male” afferma allungando la mano verso di me “So che non è un granché…”. Ruzzolo giù dal letto come se ne dipendesse la mia salute mentale, e al momento sembra che sia così. “Julianne”.
Come fanno le persone a farlo? Come snoccioli l’amore per qualcuno con tanta facilità, come se fosse facile come respirare? Io non so farlo, non so spiegare tutto quello che mi ribolle sottopelle. Non so come dirgli che per me è lo stesso. E se non ne sarò mai capace? Aspetterà? Perché deve essere tutto così complicato nella mia testa?
Aaron mi segue mentre esco in corridoio. “Jay, non volevo…”.
Sbatto contro un torace solido. Lip mi afferra gli avanbracci. “Dolcezza, va tutto bene? Perché piangi?”.
Mi scrollo la sua apprensione di dosso. “Tutto okay” gracchio “Devo sistemare una cosa, ci vediamo in garage tra poco”.
Scendo le scale di corsa, con la coda tra le gambe e la voce di Aaron che mi segue.
 
 
Fisso il succo alla pesca aspettandomi che abbia le risposte alle mie domande.
“Julianne”. La voce di Aaron mi fa sobbalzare e metà del succo finisce nel lavandino.
Mi asciugo la guancia freneticamente e mi giro per aprire il rubinetto. “Mi dispiace, dovevo…”.
“No, è a me che dispiace” sospira “Ti ho spaventata”.
Mando giù una lunga sorsata per inghiottire il nodo che mi stringe la gola. “No, io…”.
Mi prende le mani per farmi girare. “Ti conosco ormai, quella era una fuga in piena regola”.
Mi fisso i piedi. “Scusa”.
Mi accarezza le guance ancora umide e mi fa alzare lo sguardo verso di lui. “Sono spaventato anche io”. Non credo che le nostre paure si assomiglino. “Ma non c’è nulla che mi farà allontanare da te”.
Come fa ad esserne sicuro? Gli sfioro le braccia. “La canzone è stupenda”.
“Ti è piaciuta davvero?”.
Sorrido timidamente. “Direi che la mia reazione può darti la conferma”.
“Mi aiuti ad arrangiarla?”.
Giocherello con la sua maglietta. “Assolutamente”.
Si china leggermente in avanti, come per baciarmi, ma una gola che si schiarisce interrompe il suo movimento. Matt ci osserva dalla soglia con aria confusa. Il suo sguardo spaesato si sposta tra di noi, viaggiando dalle mani di Aaron che mi toccano alla poca distanza che ci separa. Facciamo qualche passo indietro cercando di non sembrare colpevoli.
“Andiamo a provare” sentenzia Aaron.   
Matt lo segue senza proferire parola ma con lo sguardo di qualcuno che sta tirando lentamente le somme.

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Capitolo 39
*** Aaron ***


Aaron
 
 
Le prove si svolgono in un clima che definire pesante è un eufemismo. Jay è immersa totalmente e completamente nella sua testa, in buona parte per colpa mia, mentre Matt è avvolto da una foschia strana, un misto di circospezione e confusione. Barcolla lievemente ogni volta che si muove sul palco. Ha tutta l’aria di qualcuno che si è scolato mezza bottiglia di gin prima di uscire di casa. Quando mi avvicino, il suo odore conferma i miei sospetti. So di non essere l’unico ad averlo notato, ma per amor della tranquillità nessuno apre bocca.
Nonostante i miglioramenti, la spalla e le costole mi stanno uccidendo. La nottata sul divano e tutte le acrobazie con Julianne hanno disintegrato parte dei progressi e ora ne pago le conseguenze. Non che me ne penta, anzi, però ora mi tocca rimettere la fascia reggibraccio e non posso provare. Julianne mi relega sulla sedia del coach e occupa la mia posizione. Amo suonare, ma osservarla imbracciare la mia chitarra e strimpellare come la dea del rock ha qualcosa di catartico, che proprio non riesco a spiegare.
Proviamo tutto il nostro nuovo repertorio, inclusa la mia canzone. Per tutto il tempo in cui canto, Jay tiene gli occhi bassi sulla chitarra e non incrocia mai il mio sguardo. Mi sono accorto di averla spaventata, ma non so fino a che punto.
Abbiamo messo insieme abbastanza canzoni da essere finalmente pronti per il Rock Band Contest. Mancano meno di due settimane e mentirei se dicessi che sono totalmente tranquillo.
Jay appoggia la chitarra sul supporto. “Direi che ci siamo. Nei prossimi giorni affiniamo tutto ciò che può essere migliorato e basta”.
“Le nostre chance?” domanda Lip.
Scende dal palco, mettendo una certa distanza tra lei e Matt. È da quando siamo nel garage che cerca di evitarlo. “Direi settanta percento”.
Matt grugnisce. “Siamo messi bene, allora”.
Julianne lo fissa per la prima volta in due ore. “Quando abbiamo iniziato, due mesi fa, erano del dieci percento” incrocia le braccia al petto “Direi che è una buona percentuale di miglioramento”.
Ondeggia giù dal soppalco di legno e le si avvicina. “Per te il settanta percento è buono?”.
“È ottimo, direi” sibila. Lip mi lancia un’occhiata.
Matt fa un verso di scherno. “Questo spiega molto di te”.
Julianne alza il mento, inforcando la sua espressione glaciale. “Sarebbero più alte se qualcuno qui non fosse sbronzo marcio”.
Matt ridacchia senza la minima allegria. “Tu che fai la morale a me sulle cattive abitudini? Scherzi?”.
Mi alzo, mettendomi tra di loro. “Ora basta”.
“E naturalmente il difensore delle damigelle in pericolo si mette in mezzo” gracchia lui “Sempre a fare l’eroe, eh, Aaron? Non ti stufi mai di essere così fottutamente perfetto?”.
Stringo i denti e ricaccio qualsiasi risposta mi baleni in mente. Non voglio litigare con il mio migliore amico, soprattutto perché ha bevuto e questo non è lui. So che tutto quello che gli ronza in testa lo sta avvelenando lentamente e so che presto avrà bisogno del mio aiuto, anche se ora mi fa incazzare.
La mano di Julianne mi accarezza la base della schiena. La sua vicinanza mi rilassa all’istante. Afferro la spalla di Matt. “Andiamo in cucina, ti faccio un caffè”.
Lui mi allontana con un gesto brusco. “No, grazie. Me ne vado a casa”.
“Non dire stronzate, Matt” asserisce Lip “Non sei in condizioni di guidare. E poi tra poche ore inizia la festa, puoi farti passare la sbronza qui”.
Il suo sguardo si pianta su Julianne. “Come se fossi invitato”. Lei mantiene il contatto visivo ma non si azzarda a parlare. È arrabbiata e sono sicuro che si aprisse la sua bella boccuccia non ne uscirebbe niente di dolce o di delicato, ma so anche che non vorrebbe mai che gli succedesse qualcosa di brutto.
“Non fare l’idiota” esalo “Certo che sei invitato. Stasera dobbiamo esibirci, te ne sei dimenticato?”.
“Potete fare a me no di me”. Raccoglie la sua giacca e mi sorpassa, fermandosi a pochi passi da Jay. “Siamo tutti sostituibili, no?”. Tra i due scorre una conversazione fatta solo di sguardi carichi di emozioni e di ricordi, di cui sono a conoscenza solo loro. Non so chi siamo più amareggiato, ma entrambi si allontanano in direzioni opposte.
“Potete andare da Julianne?” domando “Io vado ad evitare che quell’idiota abbracci un palo con la macchina”.
Esco in giardino senza dargli il tempo di rispondere. Grazie a Dio, Matt sta litigando con le chiavi che sembrano avere vita propria. Gliele sfilo da sotto il naso e lo spingo verso il lato del passeggero. “Sali, ti porto a casa”.
Mi guarda truce. “Non ti ho chiesto aiuto”.
“Infatti io faccio quello che mi pare” ribatto “Monta in macchina”.
“Stronzo” borbotta aprendo lo sportello.
Durante tutto il tragitto, Matt fissa fuori dal finestrino con le braccia strette al petto e una malinconia negli occhi che non gli ho mai visto prima. Osserva un film di ricordi che non conosco e che non credo di voler sapere. Julianne, Nicole, suo padre…tutti pezzi del pavimento della sua realtà che stanno traballando e rischiano di farlo ruzzolare. E qual è il modo migliore per fuggire dalla propria opprimente realtà? Rifugiarsi nelle proprie pessime abitudini. Lo facciamo tutti, ma alcune sono meno salutari di altre.
Fermo lentamente la macchina davanti al suo vialetto. “Ti va di dirmi cosa succede?”.
Si stropiccia il viso e sospira. I suoi occhi scuri mi scrutano vacui. “Ti farà a pezzi a poco a poco, credimi”. Detto ciò, smonta dalla macchina e ondeggia verso casa.
 
 
Dopo che Tyson mi ha recuperato, torniamo a casa per aiutare Julianne a preparare per la festa. Troviamo lei e Lip in soggiorno, intenti ad appendere al soffitto dei pipistrelli di carta.
“Posso sapere perché sono io sulla scala, quando quello alto come un palazzo sei tu?” borbotta in bilico, sulle punte, sull’ultimo piolo.
“Io ho un compito essenziale, dolcezza” asserisce, stringendo la presa sulle sue cosce.
Lei lo guarda di sbieco, dalla poca distanza che li separa. “Palparmi il sedere?”.
“Prenderti al volo se dovessi cadere, naturalmente” mormora “Se ci fossi io lassù chi mi prenderebbe?”.
Incolla un filo trasparente alla trave di legno. “Propongo il pavimento”.
Mi sfilo la giacca e mi avvicino. “Ti do il cambio”.
“No” asserisce “Vai a sederti, devi riposarti. Ci aiuta Tyson”.
“Jay…”.
“Non credere che non abbia visto come ti massaggi la spalla” sibila “Siediti. Tra poco arrivano le ragazze, non abbiamo bisogno del tuo aiuto”.
Faccio come dice, perché ha ragione e perché ha quell’espressione seria che un po’ mi spaventa. Mi accomodo al tavolo della sala e giocherello con la carta pesta. “Come ci organizziamo per l’esibizione? Suoniamo senza basso?”.
Lip si gira verso di me. “Non vuole proprio venire?”.
“È irremovibile”.
Julianne sbuffa. “Non provate a dare la colpa a me, si sta scavando la fossa da solo”.
Lip la regge mentre si sporge in avanti. “Magari potevi essere un pochino più delicata”.
“Ha iniziato lui” scoccia l’ultimo filo “E, credimi, avrei potuto fare di peggio”.
Lip la afferra per la vita con un braccio e, senza il minimo sforzo, la deposita a terra.
Sembra piacevolmente impressionata. “Potevo scendere da sola”.
Lui le fa un sorrisetto. “Così è più divertente”.
Lei alza le spalle. “In ogni caso, stasera non suonate”.
“Perché?” mormoriamo all’unisono.
Le ci scocca un’occhiata da mamma arrabbiata. “La spalla di Aaron deve riposare e vi manca il bassista”.
“L’invito di Chas dice che ci esibiamo” le ricordo.
Scarta le ragnatele dalla plastica. “Faremo qualcos’altro, ora ci penso” guarda Lip “Dove hai messo gli alcolici?”.
“Ho portato il frigobar in cucina, mentre la birra l’ho messa di sotto”.
“Perfetto” asserisce “Tra poco arrivano le ragazze con il cibo e dovrebbe esserci tutto”.
Tyson le si avvicina e le bisbiglia qualcosa all’orecchio. Julianne spalanca le palpebre. “Davvero?”. Lui annuisce solennemente facendola sorridere. “Mi piace, sì. Facciamolo”.
Lui le ghigna scaltro. Lip e io siamo molto più che confusi. “Cosa? Cosa facciamo?”.
“Vedrete”.
 
Lip e io sediamo sul letto di Julianne circondati da trucchi e parrucche. Peyton è intenta a trasformare la faccia di Dottie in quella di uno zombie famelico di cervelli, mentre Julianne spennella le palpebre di Lip con dell’ombretto scuro. Osservarlo mentre si fa mettere l’eyeliner mi riempie di una bieca soddisfazione. “Ahi!” mugola allontanando la mano di Julianne dalla sua faccia.
Lei strabuzza gli occhi. “È mascara, non un punteruolo incandescente”.
Gli siede praticamente in braccio, mentre cerca di truccarlo da Frank-N-Furter. Lui giocherella con i suoi capelli e la tocca un po’ troppo, se devo essere sincero, ma Julianne è totalmente concentrata sul suo lavoro, come ogni volta che dipinge.
“È fastidioso” si lamenta Lip.
Peyton sbuffa dal naso. “Il grande e possente Philip ha paura dello scovolino”.
Julianne scuote la testa. “Prova a fare la ceretta all’inguine, poi ne riparliamo. Ora stai fermo, ho quasi finito”.
“Solo perché me lo chiedi tu, dolcezza” asserisce.
Ricomincia a truccarlo e lui la osserva. So perfettamente cosa vede da così vicino, i dettagli del suo viso sono spettacolari.
“Sapevi di avere un neo minuscolo sul labbro?” domanda.
Julianne gli inclina il viso. “Fermo”. Appoggia il mascara in una borsetta ed estrae il rossetto. Ricopre le labbra di Lip con una generosa passata e poi si avvicina per esaminare il suo lavoro.
“Sei quasi al limite” le fa notare lui.
Jay inclina un sopracciglio. “Quale limite?”.
“Sotto i dieci centimetri scatta il bacio automatico, è una legge cosmica”. Sopprimo l’impulso di colpirlo alla nuca con una palette di ombretti.
Lei gli sistema il bordo del labbro con il pollice. “Questa te la sei appena inventata”.
Peyton soffia su un pennello. “Non per dare ragione al troglodita, ma è una regola alquanto comune”.
Lip indica Peyton. “Se mi dà ragione lei allora è per forza vero”.
Julianne ride. “Se lo dice Pey, allora ci credo”.
“Quindi…” mugugna Lip umettandosi le labbra.
“Vuoi sapere qual è un’altra legge cosmica?” sospira lentamente “Se provi a baciarmi scatta la testata automatica”.
Questa è la mia ragazza.
Gli mette la parrucca corvina in testa e sorride. “Sei pronto, dottore”.
Julianne rotola di lato e Lip si alza. Il suo fisico da culturista spicca in modo incredibile nel top di pelle e nelle calze a rete. Non so esattamente come, ma vestito così riesce ad essere sexy.
“Come sto?” domanda facendo una piroetta.
Julianne gli aggiusta i reggicalze. “Incredibilmente bene”.
“Ve lo avevo detto” gongola allo sguardo allibito di Peyton “Vado a far sbavare Tyson”.
Tacchi permettendo, esce velocemente della stanza. “Non correre per le scale e non rovinare la mia opera d’arte” gli urla dietro Jay. Scuote la testa e poi mi fa un cenno. “È il tuo turno, Aaron”.
Si alza per raccogliere ciò che le serve e quando passa di fronte allo specchio si ferma di colpo. “Oh, mio Dio” squittisce “Perché Lip sembra un fotomodello e io assomiglio ad un fungo con un vestito da cameriera?”.
“Sei molto carina” la rincuora dolcemente Dottie.
Si rigira nel vestito da Magenta. “Perché sono così bassa?”. La gonna le arriva molto sotto il ginocchio e le maniche le cadono un po’ lungo le spalle. Nel complesso è sempre bellissima, ma si nota che il vestito non è esattamente della sua taglia.
 “Sei già bella e talentuosa, non potevano anche farti alta come Gigi Hadid. Non sarebbe stato giusto” asserisce Peyton. Julianne in risposta mugugna. “Posso farti un orlo al volo se vuoi?”.
“Sì, ti prego” mugola.
Peyton smette di impiastricciare il viso di Dorothea e recupera un astuccio di pelle. Tira fuori degli spilli e comincia a sistemarle il vestito. “Posso stringere qui e qui” le tira la gonna sopra le ginocchia “Posso alzarla fino a qui, così non ti sega le gambe” le aggiusta il corpetto “E se metti un reggiseno imbottito, davanti sei a posto”.
Julianne le sorride. “Sei un angelo”.
Pey le dà un buffetto sulla testa. “Toglitelo, Pollicina. Fai attenzione agli spilli”.
Julianne tira la cerniera e con delicatezza fa cadere a terra il costume. Il suo corpo meraviglioso rivede la luce del sole avvolto solo dalla lingerie e dalle autoreggenti nere. L’ho già detto che è la donna più bella del mondo? Non importa, non mi dispiace ripetermi. È veramente un’opera d’arte, non mi abituerò mai al modo incredibile con cui mi toglie il fiato. Potrei passare il resto della mia vita ad ammirarla senza mai stancarmi.
Ormai perso nelle sue curve mozzafiato, mi rendo conto troppo tardi che non siamo soli. Anche sotto strati di trucco, percepisco il rossore e il disagio di Dorothea. Il suo sguardo si sposta tra di noi come la pallina di un flipper. Peyton si schiarisce la voce e, senza troppe cerimonie, porge a Julianne una vestaglia che è abbondonata sulla poltrona. Jay si copre e recupera il costume da terra. “Quindi puoi sistemarmelo?” mormora con tono acuto.
Peyton prende l’abito. “Sì, se hai una macchina da cucire”.
“Al piano di sopra, nello studio di mia madre” asserisce indicando il soffitto con l’indice.
Peyton raccoglie la sua borsa e fa un cenno a Dottie. “Vieni con me, Dots? Così nel mentre finisco di truccarti”.
Dorothea annuisce rapidamente. “Certo”.
Quando le sue amiche sono ormai lontane e la porta è chiusa, Julianne mi raggiunge sul letto. “Mi dispiace da morire”.
“E fai bene” esalo “Quando ti chiedo io uno spogliarello mi becco un’occhiataccia, ma non ti fai problemi a farlo davanti alle ragazze”.
Mi colpisce sulla gamba. “Non scherzare, stiamo diventando troppo incauti. Prima Matt e ora Dottie, dobbiamo fare più attenzione”.
“Jay” sospiro accarezzandole il viso “Non è successo nulla”.
“Scherzi?” brontola “Mi sono appena denudata come se niente fosse, come se mi vedessi così tutti i giorni”.
Non che sia molto lontano dalla verità. “Eri sovrappensiero, tutto lì”.
“Esatto” mugugna “Siamo troppo a nostro agio e stiamo commettendo errori idioti. Lip lo sa, così Peyton e mio fratello, sono già tre persone di troppo”.
Le sposto i capelli scuri oltre la spalla, per evitare i suoi occhi. “Sarebbe così terribile se lo sapessero tutti?”.
Mi prende la mano tra le sue e cerca il mio sguardo. “Lo sai che non possiamo”.
“Cosa potrebbe succedere di tanto grave? Viviamo già come clandestini, cosa c’è di peggio?”.
I suoi occhi si rabbuiano. “Un sacco di cose, Aaron. Potrebbero dividerci, per esempio”.
“Lo so” asserisco “Ma dobbiamo anche pensare a cosa fare in futuro, non possiamo andare avanti così per sempre”. Si mordicchia il labbro con nervosismo e facendo agitare anche me. “Dimmi cosa pensi”.
“Io non…” sospira.
“Per favore, non chiudermi fuori” esalo.
Si alza, mettendo una certa distanza tra di noi. “Non voglio escluderti, ma nella mia testa c’è così tanta confusione a volte, che non capisco nemmeno io cosa provo”.
Il senso di colpa mi colpisce alle spalle. “Non volevo sforzarti, scusami”.
Si stringe il viso tra le mani. “Non scusarti per la mia incapacità nel comunicare, non sei tu il problema qui”.
“Non sei un problema, Julianne”. Come può anche solo pensarlo?
“Ah, no? Davvero?” mormora con freddezza “Vuoi sapere perché mi spaventa che le persone sappiano di noi? Perché lo rende reale e non più una cosa solo nostra”.
La paura mi stringe le budella. “E dov’è il problema se diventa reale?”.
Si indica. “Qui! Sono io il problema, Aaron. Io incasino sempre tutto quanto, anche senza provarci”.
“Non è assolutamente vero” ribatto con forza.
Fa un cenno verso il mio braccio fasciato. “Hai un esempio proprio sotto il naso”.
“Non è stata colpa tua” asserisco “Un difensore enorme mi ha placcato, tu non c’entri nulla”.
“Ne sei proprio sicuro?”.
No, ma non ho assolutamente intenzione di dirglielo. La sua testa la sta trascinando in un vortice di pensieri negativi, non voglio contribuire dandole ragione.
“Penso…” sospira “Credo sia meglio se stasera stiamo un po’ separati, tu con i tuoi amici e io con le mie”.
Ed eccola di nuovo, la paura strisciante che mi risale le gambe e mi stringe la gola, mi sorride con fredda allegria. Julianne ha paura di incasinare ogni cosa, io invece ho il terrore che lei mi scivoli tra le dita proprio mentre provo a trarla a me.
Si avvia verso la porta, intensificando il timore e facendomi guaire con un cucciolo sul ciglio della strada. “Dove vai?”.
“Ho bisogno di un bicchiere d’acqua” esala.
“Torni?” mugugno, cercando di non sembrare disperato.
Annuisce lentamente. “Sì, devo ancora truccarti”.
Non è di certo per questo che gliel’ho chiesto, però mi basta lo stesso.
 
 
I bassi che pompano fuori dallo stereo fanno vibrare il pavimento. Le luci soffuse e le decorazioni fosforescenti rendono la casa quasi spettrale. Giocherello con il bicchiere di plastica contenente solo aranciata e la fisso. So di sembrare un maniaco ma non posso fare altrimenti. L’uniforme, che prima le cadeva addosso, ora la stringe nei punti giusti, avvolgendola come un guanto. Il suo bellissimo viso è perfettamente truccato e circondato dai ricci rosso scuro della parrucca. Mi chiedo se ci sia un colore di capelli che non le stia bene.
Peyton le porge un biscotto a forma di fantasma e le parla contro l’orecchio, per sovrastare il frastuono della musica e della settantina di persone che infestano la casa. Julianne ride e le dà un colpetto sulla spalla avvolta dall’abito.
“Sai che dovresti cercare di ignorarla e non fissarla come un cane senza il suo osso, vero?”. Lip mi lancia un’occhiata saccente. Per essere uno che indossa degli zatteroni è davvero silenzioso.
Mando giù un sorso di aranciata. “Ha detto che dovremmo stare distanti, non che non posso guardarla”.
Si aggiusta la nuova chioma corvina. “Ha detto che dovete dare meno nell’occhio, e ti posso assicurare che standotene qui in un angolo a reggere la mensola e a scrutarla con il binocolo, non dai meno nell’occhio”.
“E cosa dovrei fare secondo te?” brontolo.
Alza le enormi spalle. “Se lei non fosse nella tua vita, ora saresti da qualche parte a rimorchiare una pollastrella a caso” allunga l’indice verso la cucina “Come quella lì, vestita da angelo sexy, che ti sta facendo la radiografia da almeno mezz’ora”.
Non mi giro nemmeno a guardare. “Non voglio rimorchiare proprio nessuno”.
“Come vuoi” sospira “In ogni caso, ti consiglio di fare un giro perché la tua Magenta sta proprio per essere rimorchiata, invece”.
“Cosa?” lo spingo di lato e cerco di Julianne con lo sguardo. Sorride cordiale e muove la mano verso Tobias Guerrero, l’ala destra della squadra di hockey. Lui, nel suo stupido costume da scheletro, ricambia il sorriso con un po’ troppo entusiasmo. Con un impacciato movimento di mani, introduce i suoi due amici e compagni di squadra.
“Cosa ci fanno Guerrero e i suoi compari qui?” borbotto verso Lip.
Lui storce la bocca. “Lo abbiamo incontrato al negozio di addobbi e Jay l’ha invitato”.
“Perché?” mugolo.
“Potrebbe essere colpa mia” mormora alzando le sopracciglia “Ho fatto un po’ lo stronzo, ma dovevi vedere il modo in cui la guardava”.
Come la sta guardando ora? Merda. Mollo il bicchiere sul mobile e avanzo. Lip mi piazza una mano sulla spalla. “Dove stai andando?”.
“Vado a salutare i nuovi ospiti” mi allontano dalla sua presa “Questa è pur sempre casa mia”. Lei è pur sempre mia.
Affianco le ragazze e batto il pugno sul braccio muscoloso di Tobias. “Ehi, Guerrero. Come va?”.
Lui fa un mezzo sorriso. “Tutto okay, Anderson. Tu?”.
“Alla grande” mormoro “Mi fa piacere che siate riusciti a venire. Gli alcolici sono in cucina e gli stuzzichini sono sul tavolo, servitevi pure”.
I suoi due amici si dileguano alla ricerca di beveraggi, mentre lui resta imperterritamente fermo. Nonostante le lenti a contatto bianche, riesco a percepire chiaramente il modo bramoso con cui guarda Julianne. La mia bocca si apre prima che riesca a formulare un ragionamento ponderato. “Carino il costume” mormoro “Magari un po’ carente di originalità”.
Finalmente i suoi occhi incontrano i miei. “Ho deciso di venire all’ultimo minuto, perciò”. Inclina un angolo della bocca. “La gobba ti dona, soprattutto si intona con la fascia reggi braccio”.
Jay sospira lentamente, in coordinazione alla risata strozzata di Peyton. Ignoro entrambe. “Sì, beh, capita di farsi male nei campionati importanti” sorrido “Lo capirai una volta che la vostra squadra ci sarà arrivata” inclino la bocca ad imitare la sua stessa espressione strafottente “Se ci arriverete”.
Tobias si raddrizza allargando le spalle e stringendo i denti. Prima che possa ribattere, Julianne mi infila le unghie nel gomito sano. “Aaron” ringhia “Posso parlati un secondo?”.
“Ma certo” esalo.
Lei mi tira per il braccio verso lo studio di mio padre e mi ci spinge dentro. Una volta chiusa la porta, guina le zanne. “Si può sapere che diavolo era quello?”.
Mi appoggio al tavolo di legno. “Non so di cosa parli, stavo cercando di essere cortese”.
“Non provarci” abbaia.
“Dovrei farti la stessa domanda” brontolo “Si può sapere perché li hai invitati?”.
Stringe le mani lungo i fianchi. “Ho invitato Tobias perché Lip lo aveva trattato come un idiota al negozio e mi sono sentita in dovere di rimediare”.
“E per quale ragione?”.
“Perché il tuo stupido amico ha agitato la clava come un cavernicolo per difendere il tuo territorio” ringhia virgolettando con le dita “E ho pensato che siccome tu sei una persona matura avresti capito, ma chiaramente mi sbagliavo”.
Indico la porta. “Quello ci stava provando con te”.
“Credi che non lo sappia?” mormora “Non sono stupida, mi accorgo quando qualcuno ci prova. Stavo aspettando che mi chiedesse qualcosa, in modo da poter declinare educatamente”.
Un leggere bussare sul legno è seguito dalla voce di Chastity. “Julianne avrei bisogno di parlati”.
“Arrivo subito, Chas”. Fa un passo in avanti e abbassa il tono. “Ti avevo già dimostra di sapermela cavare con le avance indesiderate e speravo che avessi ormai capito che mi interessi solo tu”.
Mi accarezza fugacemente la guancia e poi si dilegua, lasciandomi solo come un idiota.
 
 
Sgranocchio patatine alla paprika appollaiato su una sedia. Lip e Peyton discutono a qualche passo da me. “Cosa dovresti essere? Una bibliotecaria single?”.
Lei lo fulmina attraverso le lenti degli occhiali. “Sono Rosa Parks, imbecille”.
Lui si scola una Red Bull come se fosse uno shottino. “Chi?”.
Peyton sbuffa dal naso come un toro. “Rosa Parks è stata una paladina dei diritti civili”.
La osserva annoiato. “E perché dovrebbe importarmi?”.
Peyton spalanca la bocca e la richiude di scatto. “Non so nemmeno perché sto qui a perdere fiato con te” afferra due bicchieri che stava riempiendo e si allontana di fretta.
“Perché la stuzzichi in continuazione?” sospiro.
Lui mi lancia un’occhiata divertita. “Adoro quando si incazza”.
“Finirà per darti un pugno, prima o poi” asserisco.
Si butta in bocca una manciata di anacardi. “Non vedo l’ora”. Sogghigna e si allontana ruminando come un caprone.
Mi verso da bere e mi metto alla ricerca di Tobias. Riesco ad intercettarlo mentre è in coda per fare pipì. Gli do un colpetto sul braccio. “Posso parlarti un secondo?”.
Annuisce. “Certo, parla pure”.
Mi schiarisco la gola e spingo l’orgoglio in un angolo. “Mi spiace se prima sono stato scortese, non era mia intenzione. Sono stato uno stronzo senza motivo e ti chiedo scusa”.
Tobias mi lancia una lunga occhiata e poi fa un cenno. “Andiamo, lo sai il motivo”.
Per un secondo la realtà mi tremola intorno e la paura mi accoltella nei reni. “Cosa?”.
Indica le scale con il pollice. “È meravigliosa. Scommetto che non sono il primo a cui fai il muso duro, ma lo capisco. Faccio la stessa cosa per le mie sorelle”.
Un’orribile sensazione mi stringe lo stomaco. “Julianne non è mia sorella”.
Tobias alza le spalle. “Sai cosa intendo, i vostri genitori stanno insieme e tu le guardi le spalle” mi dà un buffetto in mezzo al petto “Ho capito, no problem”.
No, eccome se c’è un problema. E anche uno bello grosso. “Okay” bofonchio allontanandomi. Scendo rapidamente le scale cercando Jay. La trovo in soggiorno, intenda a bisticciare con Chas. “Non ci voglio andare” esala.
Chastity si aggiusta il capellino d’orato di paillettes. “Devi fare il discorso di presentazione. L’apertura alle candidature è lunedì e tu hai bisogno di sostenitori per poterti proporre”.
Julianne scuote la capigliatura. “Fallo tu, sei bravissima a dare fiato alla bocca. Io odio parlare in pubblico da sobria, sono impacciata e imbarazzante”.
Chastity le sistema la divisa. “Allora fatti un bicchierino”.
“No!” ribatte con impeto Julianne.
“Devi fare il discorso in ogni caso, Julianne” sospira “E durante la campagna dovrai farne molti altri, ti conviene iniziare davanti ad una piccola folla”.
Julianne sgrana gli occhi davanti agli invitati. “Quelli ti sembrano pochi?”.
“Sei più brava con le parole di quanto pensi” esala “Ora gambe in spalla. Io vado ad introdurti”.
Non appena Chastity le volta le spalle, Julianne cerca di defilarsi verso la porta. Le afferro la mano prima che possa darsi alla fuga come Beep Beep. “Non puoi scappare, Jay”.
“Sì, invece” ribatte.
“Jay…”.
“Non ci riesco” sbotta “Non sono capace. Non posso”.
“Cosa ti spaventa davvero?” chiedo.
Lei mi stringe la mano. “Se faccio il discorso, vuol dire che poi lunedì dovrò candidarmi. Se mi candido poi dovrò gareggiare contro Giselle e sono sicura che perderò e che lei mi farà a pezzi”.
“Non puoi saperlo” affermo.
Ballonzola sulle gambe, guardandosi intorno. “Rideranno di me”.
Mi chino verso di lei, in modo che sia l’unica a sentirmi. “Nessuno riderà mai di te, Jay, perché sei fenomenale. Quando la gente ti guarda vede solo quanto sei fantastica e pensa a quanto vorrebbe somigliarti. Sei la persona più coraggiosa che conosco”.
“Non mi sento molto impavida ora, Aaron” sospira.
Le prendo il viso tra le mani, così che mi guardi negli occhi. “Sei la persona più coraggiosa che conosco, puoi fare tutto. Io credo in te”.
“Davvero?”.
“Assolutamente” asserisco.
Chastity toglie la musica allo stereo e si arrampica sul tavolino da caffè. Il costume da Columbia scintilla sotto le luci colorate. “Posso avere la vostra attenzione?” mormora a voce alta. La folla sparpagliata per la casa smette di chiacchierare e si addensa vicino al palco di fortuna. “Abbiamo deciso di organizzare questa festa stupenda, non solo per festeggiare Halloween, ma anche perché per la prima volta da parecchio tempo qualcuno ha deciso candidarsi contro Giselle per il titolo di rappresentate degli studenti”. Un leggero brusio si alza tra la calca “Quindi fate un caloroso applauso a Julianne”.
Chastity si gira verso la mia ragazza ed applaude insieme alla folla. Jay sbianca come un lenzuolo e tentenna. Mi abbasso vicino al suo orecchio e sussurro. “Sii te stessa, la gente ti adora. Sei hai paura guardami, sono proprio qui”. Lei mi fa un debole sorriso e poi si avvicina a Chas. L’amica scende dal tavolino e le lascia il posto. Julianne si innalza esitante davanti al mare di adolescenti, con l’aria di chi sta per vomitare. “Ciao” sospira torturandosi le mani “Io sono Julianne”.
“Ciao, Julianne” mormora la folla.
Qualcuno ridacchia. “Siamo agli alcolisti anonimi?”.
La massa ride della battutina e agita Julianne. Si gratta l’incavo del braccio e si gira verso di me. Le sorrido incoraggiante e muovo le labbra in una frase silenziosa. Sii te stessa.
Lascia cadere le mani lungo i fianchi e alza la testa. “Sì, suonava un po’ da gruppo di sostegno. Però, se siete qui, significa che avete il mio stesso problema. Io sono nuova quindi non so bene da quando vada avanti questa tirannia, ma negli ultimi mesi sono stata la vittima numero uno di Giselle” sospira “Ha messo in giro così tanti pettegolezzi su di me, che ormai ho perso il conto. Non so voi, ma io mi sono stufata di subire e basta. Gandhi una volta ha detto: sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo. Quindi ho deciso che sarò quel cambiamento e se volete partecipare sapete chi votare”.
Chastity la affianca. “Lunedì, alle dodici, sostenete Julianne e insieme detronizzeremo la stronza!”.
La folla applaude e fischia in approvazione. Julianne si gira graziandomi di uno dei suoi sorrisi da capogiro.
Chas le mormora qualcosa all’orecchio. Julianne si volta di nuovo verso gli studenti. “So che vi avevamo promesso gli Hazy Heavy stasera, ma la band si sta preparando per il Rock Band Contest e stasera purtroppo non possono esibirsi” Tyson le passa un microfono “Quindi per rimediare abbiamo pensato di dare l’opportunità a tutti di essere delle superstar. Chi è pronto per il Karaoke?”. 


Julianne mi sfiora la pelle della spalla con la punta delle dita. Segue i contorni dei lividi ormai quasi del tutto svaniti. Nella penombra non riesco a distinguere la sua espressione, riesco a scorgere solo la curva piena della guancia e lo sfarfallare leggero delle ciglia.
“Mi dispiace” sussurra.
“Per cosa?”.
Il suo respiro mi solletica il mento. “Rendo sempre tutto così complicato”.
“Julianne…”.
“Stare lontani è stata un’idea stupida” esala “Senza di te non sarei mai riuscita a fare il discorso”.
Infilo la mano sotto il bordo della sua maglietta. “Avevi ragione tu, il mondo non è affatto pronto per noi. Tobias ti ha definita mia sorella”. Fa un verso schifato. “Già, non dirmelo. Stavo per vomitargli sulle scarpe. Chiaramente non sarebbe una buona idea farlo sapere a tutti”. Le accarezzo il fianco. “Non mi ero reso conto di quanto fosse assurda la nostra situazione, fino ad adesso”.
“Un giorno sarà tutto più facile” sospira.
“Sì”. La stringo a me. “Un giorno”.
 
 
“Devi coniugare il verbo” borbotta Julianne dall’altro lato del divano.
“Non mi piace” brontolo scuotendo il libro di francese “Mi fa strano, sembra un’imprecazione”.
Si passa lo smalto blu sull’unghia dell’indice. “Perché lo pronunci male”.
“Chi lo avrebbe mai detto” sbuffo e le do un colpetto con il piede “E poi che ne sai che devo coniugarlo per forza, non stai nemmeno guardando l’esercizio”.
Il suo libro è abbandonato sul tavolino da caffè vicino ai cartoni vuoti della pizza. Smette di spennellare per lanciarmi occhiata. “Vuoi davvero metterti a discutere con me sul francese?”.
Sbuffo tirandomi al petto la coperta che condividiamo. “No”.
“Mi sembrava”. Ridacchia. “Avanti, se lo coniughi bene ottieni un premio”.
Ora si che si ragiona. “Questo metodo educativo mi piace” mi metto dritto “Okay, allora: nousouvrirons?”.
Julianne sorride e batte le mani. “Abbiamo un vincitore”.
“Qual è il mio premio, signorina?”.
Alza le spalle e soffia sulle unghie. “Una migliore dimestichezza con la lingua?”.
Scuoto la testa e mollo il libro sul pavimento. “Non mi sembra adeguato, ho paura che dovrà sacrificarsi per la causa”. Le afferro la caviglia e la tiro in avanti. Con uno squittio Julianne scivola lungo il divano e sotto di me. Mi stringe le gambe intorno al bacino e mi accarezza la guancia. “Se proprio devo” esala.
Baciarla ormai mi sembra necessario come respirare. Se ci penso non riesco a ricordare com’era la vita prima che il mio corpo cominciasse ad avere bisogno di lei. Prima che diventassi dipendente dalla sua risata, dal profumo della sua pelle e dal modo in cui sospira il mio nome.
Il suo cellulare trilla fastidiosamente, costringendola ad allungare la mano per afferrarlo. “Stanno arrivando” esala dopo aver osservato lo schermo.
Mi allontano dal suo collo per guardala negli occhi. “La pacchia è finita”.
“Già, si torna in modalità invisibile”. Mi bacia piano le labbra e deliacamente mi spinge verso l’altro lato del divano. Ci sediamo compostamente e fingiamo che questa distanza sia naturale.
Pochi minuti più tardi, l’intera famiglia varca la soglia tra valige e urla. Andy spinge Henry di lato. “Finalmente! Non ne potevo più! Che sia messo a verbale, io non verrò mai più nessun campeggio della famiglia. Mai più!”.
Papà sbuffa. “Che melodrammatico, io trovo che sia stata un’esperienza davvero educativa”.
Andy afferra la sua borsa e sale le scale. “Mi sono preso una zecca, papà! Non c’è niente di educativo in questo”.
Julianne salta giù dal divano e si abbarbica sul fratello. “Mi sei mancato”.
Lui le stringe un braccio intorno alla vita. “Anche tu”.
Julianne indietreggia leggermente. “Tu non hai zecche, vero?”.
Lui ridacchia. “No. In realtà, Andy è stato l’unico in tutto il campeggio a beccarsi una zecca”.
“Chissà come avrà giovato al suo umore” esalo.
Cole mi batte il pugno. “Non ne hai idea”. Raccoglie le sue cose e segue Andy al piano superiore.
April varca la soglia reggendo Liv tra le braccia. Sorride radiosa alla figlia. “Ciao, Julie”.
Jay le fa un sorrisino quasi felice. “Ciao, mamma”.
April porge mia sorella ad Henry. “Tesoro puoi portarla di sopra? Il viaggio in macchina l’ha stesa”.
“Certo” mormora.
April si azzarda ad abbracciare la figlia, che stranamente non si ritrae e ricambia leggermente. “Com’è andato il vostro weekend?”.
“Tutto bene, abbiamo studiato e mangiato qualche schifezza. Nulla di particolare” esala Jay.
Papà le lancia un’occhiata obliqua che mi fa innervosire. “In mezzo a tutti i bagordi siete riusciti a trovare il tempo per studiare?”.
Jay alza le spalle. “Non ci sono stati bagordi, non abbiamo fatto nulla di speciale”. La naturalezza con cui mente alcune volte mi spaventa.
Papà infila le mani in tasca. “Davvero?”. Pessimo segno. Qui c’è qualcosa che non va.
“Davvero” afferma Julianne.
Lui sposta lo sguardo verso di me. “Tu hai qualcosa da dire?”.
Oh, no. “No” sospiro. Mentire non è il mio forte.
“Quindi non avete dato una festa con alcolici e musica a tutto volume?” papà si gratta il mento “Perché la signora Stanford giura di aver assistito ad una festa epica ieri sera e giura anche un qualche ragazzo sbronzo ha urinato nel vaso delle sue peonie”.
Merda, siamo fregati. Julianne non vacilla minimamente. “La signora Stanford ha un’ottima immaginazione”.
Papà inclina la testa con aria di sfida. “E un grande occhio per la fotografia. Mi ha mandato una foto di quello che sembra il party dell’anno. La volete vedere? O magari prima volete dirmi di chi è stata l’idea di trasformare il nostro salotto nel Festival di Woodstock?”.
Sta sgridando entrambi ma i suoi occhi fiammeggianti sono fissi su Jay. Sono sicuro che creda che la festa sia opera solo sua.
“Mia” mormoriamo all’unisono.
“È stata un’idea mia” asserisco.
Julianne mi lancia un’occhiataccia. “Non è vero, l’ho organizzata io. Come sappiamo, sono io la pecora nera qui”.
“Sta mentendo” affermo “Ho fatto tutto io”.
Papà tuona. “Siete incredibili! Vi abbiamo lasciato qui da soli perché pensavamo che foste responsabili. Invece, non appena giriamo le spalle, organizzate una festa con alcoli e Dio sa cos’altro!” scuote la testa “Siamo davvero molto delusi”.
“Papà, noi…” esalo.
Lui alza la mano. “Non voglio giustificazioni di alcun tipo, siete entrambi in punizione per un mese”.
“Oh, andiamo, era solo una festa” ribatte Julianne “Tutti l’avrebbero fatta”.
“Due adulti responsabili no, Julianne” abbaia.
“Nel mondo dei sogni forse” esala, girandosi verso April “Mamma puoi intervenire, per favore”.
April commette l’errore di schierarsi dalla parte della figlia nel momento peggiore di sempre. “Caro, magari stai esagerando un pochino…”.
“Io esagero?” ringhia “Tu dovresti essere più furiosa di me, chissà cosa girava a quella festa”.
“Ed ecco il problema” mormora Julianne “Sono io, vero? Se si trattasse solo di Aaron avresti già chiuso un occhio, ma la mia presenza cambia tutto. Juliane uguale droga. Perché prima di parlare di adulti responsabili non provi a mollare qualche pregiudizio ed allentare il collarino, mi sa che non ti arriva abbastanza sangue al cervello”.
Papà stringe i pugni lungo i fianchi ed espira dal naso. “Forse non ti è ancora chiaro, Julianne, che se vivi sotto il mio tetto devi seguire le mie regole. Questo tuo atteggiamento magari non era un problema a San Diego ma lo è qui. Quindi, complimenti, hai appena guadagnato una nuova punizione: Sia tu che Aaron non potrete andare al Rock Band Contest”.

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Capitolo 40
*** Julianne ***


Julianne
 
Stringo il bordo del blocco di carta mentre rifinisco i contorni del logo. La penna a sfera gratta rudemente contro la pagina, lasciando segni marcati su quella sottostante. Vorrei poter affermare che dopo tre giorni la rabbia è finalmente sciamata, ma mentirei. Non ho mai odiato così intensamente la mia totale e completa incapacità di chiudere la bocca.
“Julianne”. La dottoressa Dawson picchietta sul suo quaderno con le unghie color ametista. “Posso sapere perché sei così particolarmente silenziosa oggi?”.
Ripasso un’ultima volta i contorni del logo che sto progettando e poi lo studio con aria critica. Le due H nere si sfiorano fino quasi a toccarsi e sono piegate verso destra, per formare insieme una saetta. Tutto ciò è incastonato in una nuvola bianca e lanosa. L’idea di base mi piace, ma non sono ancora sicura dei colori. Pensavo a qualcosa di scuro ma con tocco di colore, qualcosa che possa diventare un marchio distintivo.
“Julianne?”.
Alzo lo sguardo dal mio lavoro e incrocio gli occhi castani e preoccupati della dottoressa. “Che c’è?”.
Arriccia un angolo della bocca. “Ammiro molto la tua capacità di concentrazione in un progetto, però, non so se te ne sei accorta, ma questa dovrebbe essere l’ora che dedichi a parlare con me”.
Picchietto la penna contro le labbra. “Qualcuno si sente trascurato?”.
Sorride in modo felino. “Ad essere sincera sì, ma sono più preoccupata che altro”.
Aggrotto la fronte. “Preoccupata?”.
Annuisce lentamente. “Di solito, quando ti chiudi così in te stessa vuol dire che c’è qualcosa che ti angoscia. Solitamente è un pensiero in particolare che ti riempie la testa e che ti estranea dalla realtà” asserisce “Sbaglio?”.
Sospiro irritata. “No”.
Scribacchia sul suo quadernetto. “Ti va di parlarne con me?”.
Le faccio il resoconto del week-end, evitando ovviamente tutto ciò che riguarda Aaron. A mio parere sono le parti migliori, non credo però che lei sarebbe della stessa idea.
“Che cosa ti fa stare male di questa faccenda?” chiede.
“Ho deluso Aaron” mormoro “Lui ha detto che non è colpa mia, ma so che è così. Se mi fossi limitata a maledire Jim nella mente, ora loro potrebbero lo stesso partecipare al concorso”.
“E perché hai sentito il bisogno di ribattere?”.
Sbuffo. “Perché ho la meravigliosa capacità di rovinare tutto quello che mi gravita intorno”.
Scuote la testa. “È un pensiero molto tossico, Julianne”.
“È vero” ribatto “Ho mandato al diavolo il loro duro lavoro nel giro di un secondo”.
Mi lancia uno dei suoi sguardi incoraggianti. “Rimedia”.
“Come?” chiedo “Jim è irremovibile e sono piuttosto sicura che mi odi”.
“Non penso che ti odi, Julianne. Credo invece che sia molto preoccupato per te”.
A momenti mi strozzo. “Come prego?”.
Lei incrocia le braccia al petto. “Cosa avrebbe fatto tuo padre se avesse scoperto che avevi dato un festa di nascosto?”.
Ridacchio. “Non glielo avrei mai nascosto, lui era l’anima della festa. Mi avrebbe aiutato ad organizzarla”.
Alza le sopracciglia. “Ti avrebbe aiutato a dare una festa con alcolici?”.
A disagio, giocherello con la penna. “Già”.
“Mhmm” mugugna e scribacchia velocemente sul quaderno “E tua madre?”.
“Avevo quindici anni quando ha fatto Houdini, non ero ancora una festaiola allora”.
Accavalla le gambe. “Cosa ha detto quando ha scoperto di questa festa?”.
Mi gratto la nuca. “Non era furiosa come Jim. Le ho spiegato la storia e stranamente si è schierata dalla mia parte. Non che sia servito a molto”.
“Stranamente?” chiede.
Scrollo le spalle. “Sa cosa intendo. Qualche settimana fa le sarebbe esplosa la testa a sentir parlare di alcolici e party, ma ora è diverso. Ha promesso che si sarebbe fidata di me e così sta facendo”.
“Evidentemente sta notando anche lei i tuoi cambiamenti” afferma.
“Quali cambiamenti?”.
Sorride. “Sei più allegra, più felice, ti stai impegnando nello studio, hai trovato un lavoro e ti sei addirittura candidata per la presidenza studentesca. Sono tutti ottimi passi in avanti”.
Sospiro. “A me sembra ancora di brancolare nel buio”.
Si piega in avanti. “Tutti barcollano nell’oscurità, Julianne, ma c’è chi smette di lottare e si siede e c’è chi, come te, che lotta con le unghie e con i denti per cercare la propria luce. Vuoi rimediare con il signor Anderson?”. Annuisco con decisione. “Mostragli che sei disposta a tutto per aiutare chi ami”.
 
 
Digito velocemente sullo schermo, mentre attraverso il corridoio.
Dove sei?
La risposta di Aaron non tarda ad arrivare.
Il coach ci fa fare degli allenamenti aggiuntivi oggi. Non posso accompagnarti al lavoro, scusa. :(
Merda. Henry è già andato via, così come Peyton e Dorothea. Mi toccherà camminare fino a casa. Non preoccuparti. Buon allenamento. :)
Mi appresto al mio armadietto e recupero il libro di algebra. Il compito di venerdì ucciderà la mia media, sono sicura. Dottie ha cercato di aiutarmi, ma a quanto pare il mio cervello non è abbastanza sviluppato per concepire la matematica. Non che mi dispiaccia poi così tanto, una laurea in aritmetica non è nei miei piani.
Ti passo a prendere quando hai finito il turno. Mi manchi.
Fisso il messaggio di Aaron con quella che un tempo avrei definito come faccia da fessa. Non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa posizione, ma cavolo se non mi dispiace.
“Tutto okay?”.
Sobbalzo e il cellulare mi scappa di mano, finendo rovinosamente a terra. Tobias si appresta a raccoglierlo, prima che possa farlo io. “Cavolo, mi dispiace”. Quando me lo porge, non mi sfugge l’occhiata curiosa che lancia alla chat. Glielo sfilo di mano prima che possa ficcanasare oltre. “Grazie” borbotto.
“Non volevo spaventarti” sospira.
Chiudo l’anta dell’armadietto e mi metto lo zaino sulla spalla. “Tranquillo, ero solo sovrappensiero”.
“Cosa fai ancora qui?” domanda gentilmente.
“Potrei farti la stessa domanda” esalo. Perché sono così sulla difensiva?
Ci avviamo verso l’uscita. “Avevo un incontro con il mio consulente scolastico. Sto cercando di ottenere la borsa di studio per l’hockey della Northwestern”.
“Chicago?” chiedo “È lì che vuoi andare dopo il liceo?”.
Annuisce. “Sarebbe il mio sogno, sì. La Northwestern e poi ala destra dei Chicago Blackhawks”.
Mi piace chi sogna in grande. “Ti ci vedo con la divisa rossa”.
Ridacchia. “Ovviamente prima devo riuscire a diplomarmi”.
Apre la porta a doppio battente e mi lascia passare per prima. “Il che non è poco” mormoro.
“Già” esala “Tu cosa ci fai ancora qui?”.
Mi stringo nella sciarpa. L’inverno si sta avvicinando sempre di più e il mio corpo non è abituato a queste temperature polari. “Strizzacervelli”.
Si infila le mani nelle tasche della giacca della squadra. “La dottoressa Dawson è il massimo”.
Per qualche ragione, mi sento confortata dall’idea che ci sia qualcun altro la mondo che ha bisogno di aiuto. “Già”. Una strana idea mi solletica l’anticamera del cervello. “Sbaglio o alla festa hai detto di essere un genio della grafica?”.
Inclina la testa in un modo davvero carino. “Non penso di aver usato la parola genio, ma sì me la cavo”.
“Se ti dessi l’idea sapresti creare un logo?” domando speranzosa.
I suoi occhioni castani mi scandagliano il viso. “Sì, penso di sì. Dipende sempre da quanto è complicato” esala.
Sfilo il quaderno dallo zaino e glielo porgo. “Il mio progetto è questo”.
Lo studia per qualche secondo e poi annuisce. “Sì, posso fartelo anche subito”.
“Davvero? Sarebbe fantastico” mormoro sorridendo “Posso pagarti…”.
Scuote la mano. “Ma va, figurati. Lo faccio volentieri” tocca la borsa “Ho il pc qui con me, se vuoi possiamo tornare in biblioteca e possiamo abbozzarlo lì”.
“Devo andare al lavoro tra quarantacinque minuti e oggi sono sprovvista di un mezzo di trasporto, quindi sarebbe un po’ scomodo” mormoro.
“Dove lavori?”.
Paradise City” esalo in una nuvola di vapore.
Tobias ci pensa su un secondo e poi dice. “Conosco un bar con il wi-fi gratis che è lì vicino, possiamo prende un caffè e nel mentre ti aiuto con il logo”. Tentenno. Suona molto come un appuntamento e, per quanto sia carino, io non voglio uscire con lui. Tobias sembra leggermi nel pensiero. “Non ti sto chiedendo di uscire, se lo stessi facendo te ne accorgeresti” alza le enormi spalle “Lavoro meglio con un buona dose di caffeine nelle vene e così puoi arrivare al lavoro in tempo”.
Il suo ragionamento non fa una grinza perciò annuisco. “Va bene”.
Sorride in modo affascinante. “Ottimo” mi fa cenno di seguirlo “Vieni, ho parcheggiato da questa parte”. Camminiamo verso una bella Ford blu elettrico e io già pregusto il meraviglioso tepore delle bocchette del riscaldamento centralizzato. Purtroppo per me, Tobias vira di colpo e si accosta ad una motocicletta nera. Tira fuori le chiavi dalla tasca dei jeans e toglie il bloccasterzo.
“Vai in moto d’inverno?” guaisco.
“Tecnicamente è ancora autunno” mi porge un casco scuro “La uso finché non arriva la neve o finché le strade non ghiacciano, poi mi tocca prendere lo scuolabus”. Mi rigiro il casco tra le mani. Tutto questo ha un non so che di déjà-vu. “Se è un problema possiamo prendere il pullman”.
La vernice color notte e gli inserti gialli mi trascinano in vecchi ricordi opachi. Una strana sensazione mi vibra nel petto. “No, no va bene. Il mio ex aveva una moto molto simile alla tua, tutto qui”.
“Ha decisamente buon gusto allora” asserisce. No, non direi. “Non lo ha se ti ha spezzato il cuore, però”.
Sorrido per evitare di dover rispondere. Mi infilo in casto in testa, lo allaccio e poi con la delicatezza di un t-rex mi siedo dietro di lui. Ovviamente non c’è neanche l’ombra di una maniglia, così mi tocca stringergli le braccia intorno al busto. Non che sia poi così una tragedia, il ragazzo ha un torace niente male, ma non è il petto che vorrei esplorare in questo momento.
 
Prima che me ne renda contro, Tobias parcheggia abilmente davanti ad un coffee shop e mi fa scendere dal suo destriero.
“No, mai più” borbotto battendo i denti “La prossima volta piuttosto il pullman puzzolente”.
Si toglie il casco con un movimento fluido. “Guido così male?”.
“Non sei tu” esalo avviandomi vero l’ingresso “È questo freddo polare”.
Ridacchia aprendomi la porta. “Questo non è nulla, vedrai tra qualche settimana”. Mugolo di disappunto. “Vuoi qualcosa di caldo?”.
“Una damigiana di caffè, per favore”.
Si avvicina al bancone di legno. “Cerca un tavolino, io ordino”.
Il bar in cui mi ha portato ha l’aria un po’ rustica ma è molto accogliente. È fatto quasi tutto di legno e piastrelle bianche, ci sono tavolini sparsi ovunque e lavagne piene di specialità appese ad ogni parete. Ci sono diversi clienti, tra i quali alcuni nostri compagni di scuola. Scelgo un tavolino non troppo appartato e mi ci siedo. Mi sfilo la giacca, i guanti e la sciarpa.
Una tazza enorme di caffè mi viene posata davanti e Tobias si siede accanto a me.
“Grazie” sospiro, stringendo la ceramica calda.
Tobias tira fuori il portatile e lo accende, sorseggiando il suo latte. “Posso chiederti per cos’è il logo?”.
Bevo un po’ di caffè. “Per gli Hazy Heavy, la band di Aaron”.
“Okay”. Apre il programma. “Posso rivedere il tuo progetto?”.
Estraggo dallo zaino il blocco e glielo porgo. Lui lo studia per qualche secondo e poi si mette al lavoro.
Passiamo i primi venti minuti in silenzio, io lo osservo lavorare e lui muove con maestria il mouse lungo lo schermo. Non mi fa domande personali e non prova a fare conversazione. Mi chiede direttive e pareri, e non potrei esserne più felice. Alla fine, il logo viene esattamente come me lo avevo visualizzato nella testa. “È perfetto”.
Tobias arrossisce. “Stavi pensando a qualche colore in particolare?”.
“Di sicuro nero e bianco, ma sono indecisa se metterci il rosso o il blu” asserisco.
Apre la tavolozza dei colori. “Che ne dici di un compromesso?”. Tobias butta una secchiata di viola dietro il logo, facendo emerge le lettere e la forma della saetta.
“Stupendo” sospiro “Grazie”.
“Figurati” ridacchia “Te lo mando per email”.
“Ottimo”. L’occhio mi cade sull’orologio appeso alla parete. “Cavoli, devo andare o faccio tardi”. Mi alzo e infilo il cappotto e la sciarpa. Tobias mi lancia un’occhiata nervosa. “Posso chiederti una cosa?”.
Raccolgo lo zaino. “Certo”.
“Ti andrebbe di uscire con me una di queste sere?” domanda speranzoso.
Oh. Cavoli e ora come gli dico di no con gentilezza? Scusa, ma sono già impegnata. E se mi chiede con chi? La verità sarebbe l’opzione migliore. No, Tobias, non possiamo uscire insieme perché sono innamorata dal figlio del compagno di mia madre. Aspetta. Cosa ho appena detto?
“Non volevo metterti a disagio” esala dolcemente.
“Non sono a disagio”. Bugiarda. “La verità è che sono appena uscita da una storia complicata e non mi va ancora di uscire con qualcuno”. Non è una frottola, la storia con Jared è stata molto più che contorta. Diciamo che è una mezza verità.
“Capisco”. Non c’è alcun segno di rabbia o fastidio nella voce, solo tanta comprensione. Perché non poteva piacermi un ragazzo così? Perché doveva essere per forza così complicato? “Possiamo uscire come amici?”.
“Assolutamente” assicuro “Ora devo andare, però. Grazie ancora dell’aiuto”.
“Ci vediamo in giro, Julianne”.


 
 
Il giorno dopo mi ritrovo attaccata da entrambi i lati. Dorothea e mio fratello mi blaterano all’orecchio nozioni e formule matematiche a profusione. Fisso il foglio che mi hanno messo davanti e nel mentre giocherello con il mio pranzo.
“In questo caso specifico ci vuole un formula diversa” espira Dottie.
Henry annuisce. “Sì, si tratta di un’eccezione abbastanza peculiare”.
“E io come faccio a saperlo?” borbotto. Il fastidioso vociare della mensa non aiuta il mio cervellino a concentrarsi.
Dorothea si arrotola con un ricciolo biondo intorno al dito. “Ci puoi arrivare usando le formule che sai e facendo un ragionamento basilare”.
“Basilare per me o basilare per voi?”. Loro si scambiano uno sguardo che trasuda pietà. “Lasciamo perdere, tanto so già che il massimo a cui posso aspirare è una D”.
Peyton sghignazza dietro al suo libro, dall’altro lato del tavolo. “Come ti capisco, sorella”.
Henry mi accarezza la spalla. “Ci puoi riuscire, Jules, devi solo sforzarti un pochino”.
Allontano il foglio e raccolgo una forchettata di pasta. “Mi sforzo già per un sacco di altre cose, per la matematica mi accontento del minimo”. Il dispiacere gli adorna il viso. “Grazie di averci provato, lo apprezzo molto”.
Henry abbozza un sorrisino. “Va bene, sorellina. Oh!” esclama, illuminandosi di colpo “Dottie devo assolutamente farti vedere questo libro che ho scovato il biblioteca”. Si alza e mi spinge di lato senza tante cerimonie. Non mi lamento però, questo suo scatta da lamantino allupato mi spinge praticamente sopra Aaron. Lui mi stringe il fianco per impedirmi di finirgli del tutto addosso e mi regala un sorriso da capogiro. È così bello poterlo sfiorare liberamente, che quando mi tocca tornare nel mio spazio personale, per poco non mi scappa un lamento. Lui mi fa l’occhiolino e mima con la bocca la parola dopo. Oh, puoi giurarci, tesoro.
Lip allunga silenziosamente la mano verso il vassoio di Peyton, intento a fregarle il budino mentre ha il naso affondato in un volume enorme. Sfiora l’involucro di plastica con la punta delle dita e la mano di Pey scatta come un cobra, afferrandogli il polso. “Non ci pensare nemmeno”.
Lip spalanca gli occhi. “Come hai fatto…?”.
Lei abbassa il volume e gli lancia un’occhiataccia. “Ho sette fratelli più piccoli, carino, ormai ho sviluppato i supersensi per certe cose. Molla il budino o di addio alla mano”.
Lui molla il dolcetto sbuffando stizzito. “Ti sei presa l’ultimo al pistacchio e non lo stai nemmeno toccando”.
Peyton alza le spalle. “Chi prima arriva, meglio alloggia. È il succo della vita” prende il barattolino di plastica “Quello al pistacchio oltretutto è il mio preferito, quindi me lo gusto quando decido io”.
Lip le lancia una strana occhiata. “È anche il mio preferito”.
Lei in tutta risposta affonda il cucchiaino nella crema verde e si porta alla bocca una generosa spatolata. Trangugia con gusto, emettendo mugolii di piacere e irritando Lip all’ennesima potenza. Lui si gira verso Aaron e me. “Perché dobbiamo sederci con lei? Mi bullizza di continuo”.
Soffoco una risatina. “Fai il bravo” sospira Aaron allungando il braccio sul mio schienale “Puoi avere il mio di budino”.
Lip osserva schifato il barattolino. “Ma il tuo è al caramello. Mi fa schifo il caramello”. Nonostante la sua presa di posizione nei confronti del caramello, lo scarta e comincia a trangugiarlo.
Aaron scuote la testa ridacchiando e giocherellando con le punte dei miei capelli. La sua mano mi sfiora di tanto il braccio, procurandomi una serie di brividi meravigliosi. Alzo lo sguardo verso di lui e i suoi bellissimi occhi verdi mi osservando con calore. Mi ispeziona il viso e si sofferma sulle labbra. Le osserva come se stesse progettando di passarci il resto della vita. Vorrei afferrargli il bavero della felpa e mettere in opera i suoi piani, ma purtroppo siamo ancora in questa stupida scuola. Quando finisce questa giornata?
“Julianne?”.
Mi giro cercando di non far trasparire il fastidio. “Sì?”.
Tobias mi lancia un sorrisino timido. “Ciao”.
“Ciao” esalo.
Tutti quelli seduti al tavolo si girano verso di lui, facendolo arrossire come un idrante. “Volevo ridarti questi” mi porge i miei guanti color petrolio “Ieri li hai dimentica sul tavolino del bar”.
Non devo girarmi per sapere che ho tutti gli occhi puntati addosso. Soprattutto quelli di Aaron. “Grazie” bofonchio afferrandoli.
Si accarezza la nuca. “Spero di essere stato di aiuto”.
Il braccio di Aaron scivola via dallo schienale della mia sedia, lasciandomi di colpo infreddolita. Stringo i guanti per evitare di stringere il collo di Tobias. “Sì, grazie”. So che sta solo cercando di essere gentile, ma non sa i danni che sta combinando. Spero solo che Aaron non tiri le conclusioni sbagliate.
“Ci si vede in giro” esala per poi allontanarsi.
Mi volto verso il tavolo giocherellando con la stoffa. Come sospettavo, mi stanno guardando tutti. “Cosa c’è?”.
A parte Dorothea, qui sanno tutti di me e Aaron quindi so perché mi guardano così e, proprio per colpa sua, non posso spiegare bene il malinteso.
Peyton si sporge in avanti. “Come mai Guerrero aveva i tuoi guanti?”.
“Ieri mi ha aiutata con un progetto” esalo ringraziandola con lo sguardo “Abbiamo bevuto un caffè e mi ha dato un mano con una cosa”.
“Con cosa?” domanda Lip.
“Solo…una cosa…” mugugno. Non voglio dirglielo ora, rovinerei la sorpresa. Ho diverse idee riguardo il logo e voglio metterle in atto prima di farglielo vedere.
Aaron sospira e si alza. Raccoglie lo zaino e il vassoio e si avvia verso l’uscita. Prendo anche io la mia roba. “Ci vediamo a tennis, Dottie”. Scappo fuori prima che possa rispondermi e inseguo Aaron lungo il corridoio. Cammina a passo deciso e con le spalle curve.
“Aaron” strepito. Lui continua imperterrito. “Aaron, per favore”.
Si ferma di botto e per poco non gli vado addosso. “Cosa penseresti se fossi al mio posto?”.
“Come?” sospiro.
“Cosa penseresti se una ragazza, che chiaramente vuole infilarsi nei miei pantaloni, si presentasse con in mano le miei mutande?” chiede seccato.
“Penserei che vuole morire giovane” ribatto “Ma erano guanti, non un paio di slip”.
“C’è differenza?”.
“Abissale” brontolo “Ti prego, non è come pensi”.
Si infila le mani in tasca. “Allora com’è?”.
“Mi ha aiutata con una cosa a cui sto lavorando e mi ha offerto un caffè” esalo “Tutto qui”.
Aggrotta la fronte. “E a cosa stai lavorando?”.
“È una sorpresa” mormoro cercando di sfoggiare la mia migliore espressione adorabile.
“Non mi piacciono le sorprese” borbotta.
“A tutti piacciono le sorprese” gli afferro il viso accarezzandogli le guance ispide “Ti fidi di me?”.
Non esita neanche per un secondo. “Con tutto me stesso” sospira “Ma non mi fido di lui”.
 
L’Ink Lab, il negozio di magliette personalizzate, dista solo qualche kilometro da Provo, la città vicina. A quanto pare, la vecchia e cara Orem ne è sprovvista. Non è di certo un problema. Non mi dispiace affatto allontanarmi dalla minuscola bollicina in cui vivo e vedere un po’ cosa c’è intorno. Ovvio, se non fosse per Peyton. Gentilmente si è offerta di accompagnarmi e, essendo sprovvista di quattro ruote motrici, ho accettato di buon grado. Ogni volta che scendo dalla sua macchina, non so perché, ma il mio cervello dimentica quanto guida male. Credo sia tutto merito dell’istinto di autoconservazione, che elimina le esperienze traumatiche e mi spinge di nuovo nelle braccia del pericolo.
In ogni caso, mi ritrovo a stritolare la cintura seduta accanto alla mia amica e a pregare tutte le divinità del mondo di riuscire ad arrivare a destinazione senza investire niente. Di nuovo.
Finalmente parcheggia davanti al negozio e io posso ritirare le unghie dalla cintura di sicurezza. Ho paura di averle lasciato dei segni.
“Arrivate” canticchia. Grazie a Dio. Rotolo fuori dalla macchina e prendo una generosa boccata d’aria. Lei si rigira le chiavi tra le dita. “Tutto okay? Sei verde”.
Annuisco lentamente. “Sì, andiamo”.
Apriamo la porticina di vetro, facendo ondeggiare una campanella sopra le nostre teste. Il negozio è angusto, stracolmo di magliette e odora leggermente di prodotti chimici. Il signore alla cassa abbozza un sorriso. “Posso aiutarvi?”.
Mi avvicino al bancone di plastica. “Si, dovrei stampare il logo che è dentro questa chiavetta”.
“Che tipo di maglia desideri?”.
Gli porgo la chiavetta. “Per iniziare me ne servono cinque. Una M e quattro XL”. Forse per Lip serve una taglia in più. “No, ripensandoci è meglio una M, tre XL e una XXL. Peyton ne vuoi una?”.
La sento spostare le grucce appese alle pareti. “Certo che sì”,
“Allora faccia due M” esalo “Poi c’è Dorothea, Chas, mio fratello, Cole, Andrew, Liv…”.
Il commesso ridacchia. “Posso farti una sconto se superi le quindici magliette”.
“Per ora riesce a fare le sei che le ho detto?” domando.
“Certo” mi porge un blocco e una penna “Scrivimi tutte quelle di cui hai bisogno e le relative taglie. Che colore vuoi la base?”.
“Nera” rispondo scribacchiando.
Il commesso si mette all’opera e io riempio il foglio con tutte le persone a cui potrebbe interessare la maglietta. Verrà a costare più del previsto.
Peyton si appoggia al bancone. “Anderson ti tiene ancora il muso?”.
Mollo il blocco e lo porgo al commesso. “Come un bimbo che fa i capricci, ma ho intenzione di rimediare”.
Si infila un paio di pacchianissimi occhiali da sole, che sono abbandonati su uno stand. “Gli darai il suo giocattolino preferito?”.
“Cioè?”.
Si fa scorrere gli occhiali da sole sul naso e fa ondeggiare le sopracciglia. “Il tuo corpo”.
Ridacchio. “No. Cioè, sì. Non solo”.
“Gli passerà” assicura “Devi ammettere però che la scena era alquanto equivocabile”.
“Ti ho già spiegato com’è andata” sospiro.
Ci mettiamo a curiosare tra le magliette appese alle pareti. “Lo so, però devi anche ammettere che Tobias è un gran bel pezzo di manzo”.
Manzo?” squittisco “Inizi a parlare con Chastity ora?”.
 Fa una strana smorfia. “Sto passando troppo tempo con quell’ebete bionda”.
“Peyton” la ammonisco.
“Cosa?”. Sorride con aria innocente. “Sto migliorando, qualche settimana fa l’avrei definita una stronza senza cervello bionda. Sono progressi”.
Scuoto la testa. “Comunque, a proposito di manzi, come va con il professor Ellingford?”.
So che l’argomento è ancora un tasto dolente per lei, lo noto dal modo in cui si irrigidisce e dal modo in cui di colpo sembra lontana anni luce. “Gli ho detto che ho bisogno di una pausa” sospira “Voglio capire cosa voglio e soprattutto cosa è meglio per me”.
“Come l’ha presa?” chiedo.
Lei sfiora una maglia con un gatto su uno skateboard. “Meglio di quanto immaginassi”.
Non so se sia una cosa positiva o no. “E tu come l’hai presa?”.
Arrotola la punta della treccia rossa tra le dita. “Non lo so, Jay. Ogni tanto quando lo guardo mi sembra di vedere tutto il mio mondo, ma alcune volte riesco solo a scorgere tutto quello che non va. Lui progetta di restare qui e io non vedo l’ora di raccogliere tutta la mia roba e darmela a gambe. Non gli ho nemmeno detto che voglio fare domanda a Princeton”.
Aaron e io parliamo spesso del futuro e di quello che vogliamo dalla vita, non riesco ad immaginare di non riuscire a dirgli quali sono davvero i miei sogni. “Sono sicura che sarà molto felice per te e che ti sosterrà in qualunque caso”.
Sorride mestamente e lascia cadere il discorso. Gironzoliamo per il negozio finché a Peyton non si accende la lampadina. “Ah! Congratulazioni per essere ufficialmente in lizza per la carica di presidentessa del corpo studentesco. Scommetto che Giselle è andata in bordo di giuggiole”.
Ridacchio. “Chastity mi ha detto che voleva dare fuoco alla mensa. Pensa che è riuscita a candidarsi solo perché tutta la squadra delle cheerleader ha votato per lei, il resto della scuola è dalla mia parte”.
Si picchietta il mento con il dito. “Mi chiedo perché non piaccia alla gente…”.
“Chissà come mai” sospiro sarcastica.
Ride producendo uno strano suono dal naso. “Comunque, se vuoi levarti di dosso Nicole dille che sai tutta la storia di Peyton” esala “Ti lascerà in pace”.
Nell’ultima settimana, Nicole ha rispettato diligentemente la sua promessa e ha reso la mia vita scolastica il meno piacevole possibile. Mi ha infilato un pesce putrido nell’armadietto, mi ha scatto una foto di nascosto mentre sternutivo e l’ha messa ovunque, e mi ha fatto rovesciato addosso il pranzo così tante volte che ho smesso di contarle. Tutte mosse laide e patetiche, degne di una ragazzina di dieci anni ma comunque alquanto fastidiose. Vorrei solo che la smettesse di delegare sottoposti e mi affrontasse da donna, faccia a faccia.
“E cosa sarebbe la storia di Peyton?” domando cauta.
Scrolla le spalle. “Non c’è bisogno che tu la sappia, falle solo credere te l’ho detto”.
“Non sono una brava attrice” borbotto. La verità è che sono molto curiosa, sia lei che Dorothea hanno entrambe accennato alla faccenda, ma non sono mai entrate nel dettaglio. Peyton mi studia attraverso la frangetta color fuoco. “Puoi fidarti di me, lo sai” le ricordo.
“Non è un mio segreto, Jay” spiega “Se te lo dico devi promettermi che non lo dirai a nessuno”.
“Prometto” asserisco.
“Okay” prende un bel respiro “Un paio di anni fa, Nicole era la mia migliore amica. Facevamo tutto insieme e con Dottie formavamo un trio inseparabile. Alla fine del secondo anno, Dorothea è andata dai nonni a passare l’estate e Nicole e io ci siamo avvicinate. Molto”. Si tormenta il cinturino dell’orologio. “Non so esattamente quando abbiamo superato il confine tra amore e amicizia, non mi è mai importato. È stata l’estate più bella della mia vita, ma come tutte le cose belle è finita troppo velocemente. Siamo tornate a scuola e lei aveva un piano per quell’anno, voleva entrare a far parte della combriccola degli orrori. Non ero d’accordo, ma la appoggiavo lo stesso”. Fa una risata amara. “Per entrare nelle grazie di Giselle devi darle qualcosa, un po’ come un sacrificio in nome di Satana. Vuole un segreto, un’informazione oppure ti fa fare qualcosa di spregevole”.
Le prendo la mano per evitare che strappi il cinturino. “Che cosa ha dovuto fare Nicole?”.
Un velo di tristezza le opacizza lo sguardo. “Ha dato a Giselle tutte le lettere che le ho scritto, tutti i miei messaggi e le dichiarazioni d’amore. Ha fatto credere a tutti che fossi ossessionata da lei e che la nostra relazione fosse a senso unico. Mi ha strappato il cuore dal petto, ci ha messo un bel fiocco sopra e poi lo ha offerto alla regina del male come un dono. Ha avuto quello che voleva, un posto al fianco di Giselle, ma a quanto pare ha dovuto vendere l’anima”.
È l’ultima cosa che mi aspettavo di sentire. “Avevi di sicuro delle prove che stesse mentendo. Perché non hai detto nulla?” chiedo.
“Non le avrei mai fatto una cosa del genere. Questa città è un buco nero, non mi sarei mai permessa di spiattellare la sua sessualità al posto suo. Non sono come lei e mai lo sarò”.
Le stringo la mano. “Mi dispiace che ti abbia trattata così”.
Inforca un’espressione indifferente. “Tranquilla, ormai non mi importa più. Promettimi solo che non lo dirai in giro”.
“Non lo farei mai” assicuro.
 
Quando ritorno a casa, trovo Aaron seduto sul letto che fissa con poco entusiasmo il libro di storia.
“Mi tieni ancora il muso?” domando appoggiata allo stipite della porta.
Stappa l’evidenziatore giallo e mi lancia un’occhiata fugace. “Sei uscita con qualche altro hockeista? O il giovedì lo riservi per i giocatori di baseball?”.
Questa sua gelosia dovrebbe darmi fastidio, ma non riesco a non trovare adorabile quella sua espressione di finta stizza. “Oggi sono uscita con Peyton”. Entro nella sua stanza e chiudo la porta. “Vuoi vedere il mio progetto ora?”.
Alza le enormi spalle, cercando di ostentare indifferenza. “Come vuoi”.
Mi avvicino al letto e gli sfilo il tomo dalle mani. “Toglimi la felpa”.
“È questa la tua grande sorpresa? Perché sono bene cosa c’è qui sotto” borbotta con uno strano luccichio negli occhi.
Gli mollo un colpetto sul braccio. “Stai zitto e sfilamela”.
Con un sorrisino, si sporge oltre il bordo del letto e afferra la cerniera di metallo. Tira la zip e divide le due metà dell’indumento. Mi fissa l’addome con la bocca aperta e con un’espressione sorpresa che è carinissima e allo stesso tempo un po’ da fesso.
“Cosa ne pensi?” chiedo.
Le sue mani mi risalgono le braccia fino ad arrivare alle spalle. Tira il tessuto della felpa finché non mi scivola lungo le braccia e cade a terra. La maglietta degli Hazy Heavy è venuta meglio di quanto pensassi. Il logo sta a meraviglia sullo sfondo nero e il viola è stata una scelta davvero azzeccata. Quando il commesso me l’ha data per poco non lo abbracciavo. Naturalmente l’ho dovuta Jayficare un pochino, con qualche buco e un paio di spille da balia ha raggiunto un nuovo livello di perfezione.
“È la cosa più bella del mondo” esala “La persona più bella del mondo indossa la cosa più bella mondo. Credo che mi esploderà la testa”.
Ridacchio. “Ti piace quindi?”.
“Da morire” afferma accarezzando il logo in rilievo “È fantastica”.
Sfilo quella che avevo appeso alla tasca dei jeans e gliela porgo. “Questa è la tua, provala”.Aaron non se lo fa ripetere due volte e indossa subito la nuova maglietta. “Come sto?”.
“Sexy, come al solito” mormoro sfiorandogli la guancia.
Mi agguanta per i fianchi e mi trascina sul letto con lui. Affonda la mano nei miei capelli e preme le labbra contro le mie. “Grazie”.
“Di cosa?” espiro contro le sue labbra.
Mi sposta i capelli dietro l’orecchio. “Di essere te e di sopportare le mie stranezze, gelosia inclusa”.
“Tu sopporti le mie, quindi siamo pari”. Gli accarezzo il labbro inferiore con il pollice. “Sistemerò ogni cosa”.
“Jay non devi sistemare nulla”. Mi bacia la punta delle dita. “Non hai fatto niente di male”.
“Sappiamo entrambi che non è vero, ma sei carino a provare a non farmi sentire in colpa”.
“Non ti colpevolizzo per quello che è successo, lo sia vero?” chiede dolcemente.
“Dovresti”. Già, dovrebbe proprio. “Ma ho un piano, quindi si sistemerà tutto quanto”.
“Devo preoccuparmi?”.
“No”. Gli scocco un bacio e scivolo giù dalle sue ginocchia. “Piuttosto, sei pronto per il compito di storia?”.
Scuote i riccioli scuri. “Macché. Mi interroghi?”.
Gli rubo il libro e me le lo apro sulle gambe. “Certo, solo se dopo prometti di aiutarmi con matematica”.
Arriccia un angolo della bocca. “Va bene, ma non posso fare miracoli, piccola”.
Lo colpisco con la costola del tomo di storia. “Dopo questa affermazione sarò sadicamente brutale, preparati”.
“Cosa fai? Mi sculacci con un righello se sbaglio?” mormora roco.
“Ti piacerebbe…” esalo.
 “Oh, non ne hai idea” sospira.
E invece credo proprio di avercela.
“Secondo me stai facendo uno sbaglio” mi informa Chastity dal sedile del guidatore. Le sue belle manine spariscono tra la pelliccia fucsia del suo copri volante mentre svolta all’incrocio.
Mi giro a guardarla e vengo accecata dalla coroncina di vetro che pende dallo specchietto retrovisore. “Perché?”. Mi paro gli occhi con la mano. “Di che sbaglio parli?”.
Frena lentamente allo stop. “Non dovresti strisciare e chiedere scusa, non hai fatto nulla di male”.
Allontano la cintura color porcellino che mi sta segando il collo. Quest’auto è ridicola. “Non ho intenzione di strisciare, Chas. Sto andando a parlare con Jim per rimediare al disastro che la tua idea ha causato”.
Aggrotta le sopracciglia color paglia. “Non sono stata io a dire al reverendo di allentare il collarino perché non gli arriva abbastanza sangue al cervello. Quella è tutta farina del tuo sacco”.
Sbuffo. “Okay, magari quella potevo evitarmela. La festa, però, è stata una tua idea”.
Passa le dita nel pelo come se accarezzasse un furetto. “La festa ti ha permesso di entrare finalmente in competizione con Giselle e le ha fatto venire una crisi isterica che mi ha fatto sganasciare. Le è pure venuto un foruncolo sul naso così grosso, che oggi si è data malata. Sai che questo tipo di soddisfazioni non hanno prezzo”.
“Lo scotto però non lo sto pagando solo io. Aaron e la band si sono impegnati tantissimo e non ho intenzione di essere l’ostacolo che si frappone fra lui e i suoi sogni”.
Chastity mi lancia un’occhiata veloce. “Loro”.
Ops. “Sì, i loro sogni”.
Chastity entra nel parcheggio della chiesa e ferma la confetto-mobile. “Va bene, ho capito. Sei sicura però che ne valga la pena? Il reverendo è un uomo di chiesa e bla bla bla, ma è anche un grandissimo testardo, non te la caverai con poco”.
Ne vale la pena per Aaron? Non credo esista qualcosa che non farei per lui. “Sono sicura. Grazie del passaggio”.
“Ti aspetto qui fuori” afferma slacciandosi la cintura “Sai nel caso la situazione degenerasse e avessi bisogno di una mano per nascondere il corpo”.
Reprimere il sorriso mi sembra impossibile. “Mi aiuteresti a occultare un cadavere?”.
“Ho una vanga nel porta bagagli”. Mi strizza l’occhio.
“È rosa anche quella?”.
“Ovvio” scrolla le spalle “E poi sono sicura che tu faresti lo stesso per me”. Non lo ammeterei così a voce alta ma ha ragione. “Mandami l’emoji della pannocchia se hai bisogno di me”.
Mi lascio la cintura e prendo un bel respiro. “Se non torno vuol dire che sono andata a fuoco e sono finita all’inferno”.
“Tienimi un posto”.
Spalanco la portiera e scendo dalla cinquecento rosa perla. Percorro il parcheggio a passo sostenuto e apro il portone di legno, prima che il mio istinto mi spinga a darmela a gambe. L’odore di incenso e le luci soffuse mi fanno irrigidire come un blocco di marmo. Abbasso la testa e attraverso la navata senza guardarmi intorno. Raggiungo la porta dell’ufficio di Jim e busso. La sua voce profonda mi invita ad entrare e così faccio. Lui è seduto ad una scrivania di legno scuro, intento a scribacchiare su un quaderno di pelle. Due poltrone marroni gli sono disposte difronte e una croce mastodontica pende dalla parete alle sue spalle.
Alza gli occhi verdi, così assurdamente familiari, su di me. La sorpresa che ci leggo dentro è alquanto palese. “Hai un momento?” sospiro.
Mi indica la poltrona con la mano. “Accomodati”. Mi siedo educatamente di fronte a lui. “Sono sorpreso di vederti qui, Julianne. Mi hai ripetuto più di una volta che non saresti mai entrata in chiesa, che avevi troppa paura di bruciare…cos’è che hai detto?”.
Sapevo che me lo avrebbe fatto notare. “Bruciare come una strega a Salem” ripeto mestamente.
Mi lancia un’occhiata sarcastica. “Eppure eccoti qui, cruda e salva”.
Alzo le spalle. “Non ho mai affermato di avere sempre ragione”.
Congiunge le mani davanti a sé. “È abbastanza evidente che non sei qui per pregare”.
“No, infatti. Volevo parlare con te”.
Spalanca gli occhi, meravigliato. “E di cosa?”.
Afferro il coraggio con entrambe le mani e ingoio tutto il mio ego. “Vorrei parlarti della festa”.
“Non ho intenzione di abolire la punizione” afferma velocemente.
“Lo so” sospiro “Volevo scusarmi del mio comportamento e della terribile mancanza di rispetto che ho dimostrato nei tuoi confronti. Sono stata maleducata e ho abusato della tua fiducia e di quella della mamma. L’idea della festa, degli alcolici e di tutto quanto è stata solo e solamente mia. Volevo sentirmi a casa e meno sola, e ho sbagliato su tutta la linea. Soprattutto mi dispiace di aver coinvolto Aaron nei miei disastri, lui non ha fatto nulla”. Ricopro gli occhi con una leggera patina umida. “Non è giusto che per colpa mia debba rinunciare ai suoi sogni, quindi sono venuta a chiederti di lasciarlo partecipare al Rock Band Contest. I miei errori non dovrebbero avere un peso su di lui e i ragazzi”.
Sono così fiera delle mie capacità interpretative, che devo trattenermi da darmi una pacca sulla spalla. Credo in quello che ho detto, non è assolutamente colpa sua, ma tutta questa tristezza e questa arrendevolezza sono una messinscena bella e buona. Oltre ad usare una siringa, Jared mi ha insegnato anche questo. Mi ha spiegato come manipolare la gente e fingere rimorso. Non è proprio un’abilità di cui vado fiera e, a dirla tutta non la uso quasi mai, ma all’occorrenza può tirarti fuori dai pasticci.
Jim inclina la testa e soppesa ogni mia parola. “È questo il problema con gli sbagli, Julianne, molto spesso i danni ricadono sulle persone che ti circondano e non su di te” mormora serio.
“Me ne sono resa conto e sono disposta a fare qualsiasi cosa per rimediare” mugolo.
Inarca un sopracciglio. “Qualsiasi cosa?”. Annuisco con un bravo soldatino. “Okay, queste sono le mie condizioni: da domenica prossima verrai in chiesa con noi ogni settimana, aggiungerai al periodo di punizione che ti manca da scontare quello di Aaron, resterai a casa mentre loro andranno al contest ed eviterai qualsiasi tipo di guaio, soprattutto quelli che riguardano alcolici e comportamenti inappropriati”. Un gelido e perfetto robot, ecco quello che vuole da me. “Accetta queste condizioni e io libererò Aaron dalla punizione”.
Sermoni, due mesi di clausura e assolutamente zero divertimento. Ne vale la pena? La me di un anno fa avrebbe fatto una grassa risata, gli avrebbe fatto il dito medio e avrebbe levato le tende alla velocità della luce. Purtroppo, o per fortuna, quella ragazza non c’è più. Al suo posto c’è quest’estranea che ha sentimenti, amore e non pensa solo a sé stessa.
“Accetto” asserisco con voce ferma.
La faccia stralunata di Jim vale più di qualsiasi gestaccio potessi fargli.

“Non esiste” grugnisce Lip “Non andiamo senza di te”.
Finisco di attaccare il logo della band sulla gran cassa e poi gli lancio un’occhiata oltre la spalla. “Non farmi ripetere, per favore. Abbiamo avuto questa discussione una settimana fa e abbiamo deciso di comune accordo che oggi sareste andati senza di me”.
Lui scuote la zazzera rossa. “Noi non abbiamo deciso nulla, tu ci hai imposto di andare! Sei stata dittatoriale”
“E non ho voglia di esserlo di nuovo”. Gli afferro un avanbraccio marmoreo e lo tiro vicino. “Smettila di fare i capricci, ho bisogno che mi aiuti. Aaron farà mille storie e ho bisogno che tu prendi il tuo migliore amico, lo metti sul furgone, guidi fino a Salt Lake City e lo costringi a partecipare al contest”.
“Ma…” brontola.
“Niente ma, Philip. Ho accettato due mesi di clausura e i sermoni per voi, non ti azzardare a contraddirmi” ringhio.
“Mi fai un po’ paura” sospira.
“Allora fai come dico” sibilo.
Alza le mani in segno di resa. “D’accordo”. Rimette la gran cassa sul furgone e chiude il portellone. Aaron, accompagnato da Jim e mamma, ci raggiunge fuori. Ha la sua chitarra in spalla e un’espressione furiosa dipinta in faccia. “Ora sarebbe un buon momento per darle il permesso di venire con noi” borbotta verso suo padre.
Jim alza le spalle con innocenza. “Abbiamo un accordo, figliolo”.
“È un accordo stupido” mugugna mettendo lo strumento sul sedile.
“Va bene così” assicuro “Sarete fantastici anche senza di me”. L’occhiata di Aaron mi trapassa come un coltello nel burro. So cosa pensa, abbiamo discusso a lungo di questa storia. Mi ci è voluto un pomeriggio e un numero considerevole di baci per riuscire a persuaderlo ad andare.
“Buona fortuna. Fategli il culo” esalo. Vorrei auguragli in bocca al lupo in un altro modo, ma qui fuori non posso dargli altro che un semplice sorriso.
Lip riesce a trascinare Aaron nel furgone e a sparire prima che lui decida di buttarsi giù e tornare indietro.
Un’ora più tardi, apro la porta d’ingresso con la bocca piena e il sacchetto dei biscotti al cioccolato stretta al petto. Lo sguardo di Chastity mi scorre addosso. “Hai deciso di mollare il punk per abbracciare il trasandato?”.
Mi liscio il pigiama con le pizze. “Sono in convento, non giudicarmi”.
Bella come un raggio di sole, entra in casa e sorride a mamma e Jim. “Salve, signori Anderson”.
Loro ricambiano l’entusiasmo. “Chastity, tesoro, che piacere. Cosa fai qui?”.
Esibisce un sorrisino da angelo. “Il gruppo religioso di cui faccio parte, Le Ancelle del Signore, si raduna per una giornata dedicata alla preghiera, alla sorellanza e all’importanza della purezza. Ci spingono sempre a cercare nuove possibili ancelle, così ho pensato che magari avrei potuto portare Julianne con me”.
Giuda! Col cavolo che passo la giornata con lei e le sue amiche adoratrici della castità e della noia. “Oh, che peccato” mugolo “Sono in punizione fino alla fine dei tempi, perciò”.
La voce di Jim ha lo stesso effetto delle unghie contro la lavagna. “Mi sembra un’idea eccezionale”.
“No” sbotto “A me non sembra”.
Chastity scuote la coda di cavallo. “Il ritiro comprende un pranzo con le ex ancelle, un pomeriggio di preghiera tra i boschi, la cena con le sorelle e poi un pigiama party nell’hotel”.
“No” brontolo.
“Torneremmo domani per la messa” continua zuccherosa.
Jim sembra in brodo di giuggiole. “Dove si terrà?”.
“A Nephi. La quota per partecipare sono cinquanta dollari”.
“No” ribatto.
Jim balza in piedi e raggiunge il portafoglio. “Io penso che ti farà bene e che dovresti proprio andare. Cosa ne pensi, tesoro?”.
Mamma annuisce. “Mi sembra un’idea meravigliosa! Conoscerai un sacco di ragazze simpatiche e così potrai distrarti un po’”.
Uso i biscotti come uno scudo. “Io non ci vado”.
Lui porge i soldi a Chas. “Allora è deciso, vai a fare lo zaino”.
“Sono diventata invisibile, per caso?” sbraito.
A quanto pare si, perché Jim mi obbliga a fare la doccia, lo zaino e a seguire la traditrice fino alla sua macchina.
“In questo momento ti sto odiando” borbotto “Sappi che pur di non andare tra le ancelle ci faccio finire fuori strada”. Lei mi ignora e sale sulla confetto-mobile. “Te lo giuro, Chas”. Mette in moto e si allontana dalle nostre case. “Sai quanto odio queste stronzate, eppure mi ci stai trascinando lo stesso”. Stringo le braccia al petto e ci manca poco che mi metto a battere anche i piedi. “Fammi scendere, piuttosto che passare la notte con te dormo su una panchina”.
“Julianne?” esala esasperata.
“Sì, Giuda?”.
Lei ridacchia. “Stai zitta”.
Metto il broncio e mi abbandono contro il sedile. Lei esce dalla periferia e imbocca l’autostrada. “Lo sai che Nephi è dalla parte opposta, vero?”.
Un sorrisino scaltro le adorna il viso. “Guarda dietro”.
Confusa, mi sporgo dietro al sedile e per poco non mi viene un infarto. Peyton e Dorothea balzano fuori facendomi mancare un battito. “Sorpresa!”.
“Cristo Santo” esalo stringendomi il petto “Voi cosa fate qui? Stai trascinando anche loro nella tua setta?”.
Chas ride. “Non andiamo al ritiro delle ancelle, per chi mi hai presa?”.
Un meraviglioso sospetto mi solletica la mente. “Dove stiamo andando?”.
Mi scocca un sorrisino complice. “Salt Lake City, baby. Andiamo al Rock Band Contest, i ragazzi ci stanno aspettando”.
“Loro lo sanno?” chiedo sbalordita.
“Aaron mi ha aiutato a organizzare ogni cosa” spiega “È stata sua l’idea. Ci abbiamo lavorato insieme tutta la settimana”.
“Perché non mi avete detto nulla?”.
Sistema lo specchietto. “Ci serviva che la tua reazione fosse al cento percento autentica, non sei poi una così brava attrice come pensi”.
Mi assalgono un sacco di dubbi. “E sei sicura che non lo scopriranno? Le ancelle non faranno la spia?”.
Mi lancia un’occhiata saccente. “Abbiamo pensato a tutto, tesoro. Ho chiamato fingendomi mia madre e dicendogli che non stavo bene e che non avrei partecipato”.
Dottie si sporge in avanti. “Io ho detto che dormivo da Pey”.
Peyton ridacchia. “Io ho detto che dormivo da Dottie”.
“Non pensi che controlleranno? A mia madre hai dato un opuscolo”.
Peyton me ne porge una copia. “Lo abbiamo modificato, il numero che si può chiamare è del mio cellulare”.
“Così se tua madre o Jim dovessero chiamare per controllare, noi saremo pronte” conclude Dots.
Chastity accarezza il volante peloso. “Oltretutto i miei genitori e i tuoi pensano che io sia un angelo dolce e perfetto, non sospetteranno assolutamente nulla”.
“Non ci credo” sospiro.
Chastity si appoggia sul naso un paio di occhiali da sole. “Credici, tesoro. Abbiamo pensato a tutto noi, l’unica cosa che devi fare è scegliere la musica e preparati per la migliore serata della tua vita”.

Le audizioni per il Rock Band Contest si tengono al 801 Event Center, un locale che normalmente ospita concerti dal vivo. Dopo un pranzo al volo, raggiungiamo i ragazzi all’interno della struttura. Nervosismo e agitazione infestano l’aria con gas nervini. Gruppi di ogni tipo e stile vagano per l’edificio, trascinando strumenti e facendo vocalizzi. Troviamo la nostra band in un angolo presa dalla conversazione. Lip è il primo a vederci. “Siete arrivate, finalmente!”. Mi trotta incontro e in un secondo mi ritrovo a volteggiare come una bambola di pezza. “Se ti fa stare meglio non lo avevano detto nemmeno a me”.
Mi posa a terra e per un secondo tutto gira. “No, non mi fa stare meglio” esalo “Forse è anche peggio”.
Aaron sorride, facendomi tremare le ginocchia già instabili. “Lip non sa tenere un segreto”.
“Beh, ma io sì” ribatto mettendomi al collo il badge che Tyson mi sta porgendo.
“Lo so” espira “Posso parlarti un secondo?”.
Annuisco e lo seguo lungo il corridoio e dentro la prima stanzetta aperta. Mi spinge contro il muro di cemento di una stanza adibita a magazzino e vi avventa sulle mie labbra prima ancora che abbia il tempo di rendermene conto. Appoggia un braccio sopra la mia testa e con l’altro mi stringe il fianco. La sua mano si insinua subito sotto la maglietta e mi manda a fuoco la pelle.
“Non te lo aspettavi, vero?” esala roco.
Mi bacia la guancia. “Il tuo ingegnoso piano mi ha quasi fatto uccidere Chastity” sospiro.
Le sue labbra mi scivolano lungo il collo. “Me ne sarei fatto una ragione”. La mia mano trova i suoi riccioli come se avesse mente propria. “Ma non avrei mai permesso che restassi a casa. Ho bisogno di te qui”. Gli alzo il viso e cerco i suoi occhi. Deve guardarmi quando dice queste cose. Ho necessità che mi guardi. “Non sacrificarti mai più per me”.
Non è una promessa che posso fargli.
E so che non è una promessa che potrebbe fare lui.
Gli prendo il bavero della t-shirt e annullo qualsiasi tipo di distanza sia rimasta fra noi. Non ci deve essere distanza. Non lo sopporterei.
Qualcuno si schiarisce la gola facendoci girare verso la porta. Peyton cerca malamente di trattenere un sorriso. “Vi hanno chiamati”.
Usciamo dalla stanzetta, raccattiamo li strumenti e seguiamo un dipendente lungo uno stretto corridoio. Ci ritroviamo in una sala smisurata, alla cui fine è disposto un palco e davanti ad esso un lungo tavolo pieno di giudici. Le luci colorate che pendono dal soffitto creano un’atmosfera soffusa, che un po’ attenua il panico.
L’addetto scribacchia il nome della band su un plico. “Ora tocca ai Blood Rain, poi i Daisy Seeds e poi ci siete voi. Siete gli ultimi di questo gruppo, quindi una volta che avrete finito i giudici sceglieranno le due band che passano. Tutto chiaro?”.
Peyton si sporge verso di lui. “Quante sono le band per gruppo?”.
“Dodici” risponde il ragazzo.
Ah. Peyton chiude la bocca e annuisce. La mano di Aaron cerca la mia nella penombra. Intreccio le dita con le sue e gli accarezzo il polso con il pollice.
I Blood Rain salgono sul palco con sicurezza e decisione. Il cantante afferra il microfono come se non facesse altro nella vita e se lo avvicina alle labbra piene. “Salve a tutti, noi siamo i Blood Rain e questo è il nostro singolo, Walls Could Talk”.
Iniziano a suonare e il sottile vetro delle certezze si incrina. Il loro sound è pazzesco, insieme creano un’armonia perfetta e senza sbavature e, per quanto sia difficile ammetterlo, la canzone spacca di brutto.
Le pareti vibrano e il famoso settanta percento che avevo assicurato ai ragazzi inizia a colare a picco. I Blood Rain somigliano terribilmente agli Hazy Heavy. Sono quattro bei ragazzi, che fanno rock e ti fanno tremare la gonna. Il problema che ormai mi sembra più che lampante è che i Blood Rain hanno una marcia in più. Sono più connessi, sono più sicuri e soprattutto hanno del tutto incantato la giuria.
Siamo fottuti.
Fottuti al quadrato.
 
 
“Oh, beh” ridacchia Matt “Cosa avevi detto? Settanta percento? A quanto stiamo ora? Dodici?”.
Ho sei paia di occhi puntati addosso. Mi fissano tutti. Si sono addirittura messi a semi cerchio intorno a me, come se fossi il fottuto generale. Io non ho le loro risposte.
Lip mi lancia un’occhiata nervosa. “Cosa facciamo? Quelli hanno appeno reso la nostra band un escremento di sorcio”.
“Cerchiamo di pensare positivo”. Dio, è davvero questo il mio consiglio?
Matt oscilla. “Scherzi? Non gli facciamo nemmeno le scarpe a quelli lì, cosa abbiamo più di loro?”.
Tyson mi guarda. “Jay”.
“Cosa?” chiedo stupidamente.
La sua voce è quasi un sussurro. “Abbiamo te”.
Oh, beh, che culo. Hanno proprio uno splendido vantaggio.
Il fastidio addetto si avvicina con passo svelto. “Stanno salendo i Daisy Seeds, poi tocca a voi”.
“Grazie!” rispondo con astio facendolo allontanare di corsa.
Mi stropiccio il viso. “Okay, questo è il piano” indico Matt con l’indice “Tu trova del caffè e fatti passare la sbornia, ci servi lucido. Ty controllalo e assicurati che non beva nulla di alcolico. Ragazze aiutate Lip a preparare tutto quanto. Io cerco Aaron. Qualcuno ha visto dov’è andato?”.
Lip fa un cenno con il mento. “Credo sia in bagno”.
“Ci rivediamo qui tra cinque minuti” ordino.
Scappano tutti in direzioni diverse e io mi dirigo verso la toilette dei signori. L’odore di pipì e di uomo mi investe non appena varco la soglia. “Aaron?” mugolo. Il pavimento è umido e appiccicoso allo stesso tempo. “Sei qui?”.
Lo trovo seduto su un water chiuso, con i gomiti sulle ginocchia e le mani nei capelli. “Mi sembra di non riuscire a respirare”
“Hai scelto un posto orrendo per prenderti una boccata d’aria” esalo.
Lui non si scompone, quindi faccio l’ultima cosa che vorrei fare in un posto simile. Poggio prima un ginocchio, poi l’altro e mi accuccio davanti a lui. Gli prendo il viso tra le mani, il suo sguardo spaventato incontra il mio e mi sento morire. “Aaron…”.
“Farò un disastro. La mia spalla è appena guarita, non riuscirò a suonare e cantare insieme. Manderò tutto a puttane” soffia.
“Quella è la mia battuta”. Gli accarezzo le guance. “Tu non incasini mai niente, Aaron. Sei il tipo di persona che aggiusta le cose. Non sei come me, tu rendi tutto migliore”.
“Non voglio rovinare tutto anche per loro” sospira.
“È solo la paura a parlare, non devi ascoltarla”. Non riesco a vederlo così. Lui è il mio punto solido, non può vacillare. Se traballa lui vuol dire che devo rimare ferma io. “Cosa vuoi che faccia? Vuoi scappare? Posso rubare una macchina. Vuoi che ci ritiriamo? Vado a cercare un addetto. Vuoi che ti incoraggi? Sei assolutamente e totalmente la persona più talentuosa che conosca. Puoi farcela, Aaron. Io so che puoi. Dimmi di cosa hai bisogno, perché mi sono inginocchiata nel posto più schifoso del pianeta per te ed è solo il minimo che farei”.
Deglutisce rumorosamente. “Canta con me” sussurra.
“Come?”.
La paura comincia a diradarsi dai suoi occhi. “Canta con me”.

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Capitolo 41
*** Julianne ***


Julianne
 
Che. Idea. Del. Cavolo.
Perché sono in piedi davanti a questo stupido microfono?
Ah, già. Perché sono diventata sentimentale. Mannaggia al momento esatto in cui ho deciso di smetterla di essere un orso bruno e ho deciso che dovevo essere migliore. Ma a cosa pensavo?
Un faretto accecante mi illumina e io ringrazio mentalmente Chastity di avermi costretta a truccarmi, in macchina. Faccio un passo incerto verso l’asta di metallo. “Salve” gracchio. “Noi siamo gli Hazy Heavy”. Grazie al raggio luminoso non riesco a scorgere niente di quello che si trova al di sotto del palco. Ne sono estasiata, perché se vedessi le facce indifferenti dei giudici probabilmente darei di stomaco.
Mi giro verso Aaron. Non penso di farcela, ho bisogno che mi incoraggi. I suoi occhi verdi sono già su di me e mi guardano pieni di amore. Essere amati così tanto e così profondamente ti rende forte. Ti fa saltare muri, ti fa combattere battaglie e, soprattutto, ti fa dimenticare cosa cavolo sia la paura.
Stringo il microfono con più sicurezza. “Il nostro singolo si chiama Finally Free, speriamo che vi piaccia”. Faccio un piccolo cenno a Tyson e lascio che le sue mani compongano l’armonia. Note delicate si librano nell’aria e intorno a noi. Non penso a nulla e lascio che la musica sia la guida.
Hearts on fire
We’re no liars, so we say what we wanna say
I'm awakened, no more faking
So we push all our fears away

Don't know if I'll make cause I'm falling under
Close my eyes and feel my chest beating like thunder

I wanna fly
Come alive
Watch me shine

La batteria mi rimbomba alle spalle, seguita dal basso e dalla chitarra. Sfilo il microfono dal supporto e perdo qualsiasi tipo di inibizione. Il palco è di nuovo il mio regno.
I got a spark in me
Hands up if you can see
And you're a part of me
Hands up if you’re with me
Now til eternity
Hands up if you believe
Been so long and now we’re finally free

I ragazzi suonano con impeto, seguono la musica e il ritmo pulsante del cuore. Non c’è spazio per la paura o per l’incertezza quando ci siete solo tu e la tua canzone.
We’re all bright now
What a sight now
Coming out like we’re firеworks

Marching on proud
Turn it up loud
Cause now we know what we’rе worth

Aaron si avvicina al microfono che gli sta difronte e, strimpellando con il dio del rock, lascia che la sua voce si fonda con la mia.
We know we can make it
We’re not falling down under
Close my eyes and feel my chest
Beating like thunder

I wanna fly
Come alive
I got a spark in me
Hands up if you can see
And you're a part of me
Hands up if you’re with me
Now til eternity

Hands up if you believe
Been so long and now we’re finally free

I got a spark in me
Hands up if you can see
And you're a part of me
Hands up if you’re with me
Now til eternity
Hands up if you believe
Been so long and now we’re finally free

Mi avvicino a lui finché il mondo non scompare. Condividiamo il microfono, l’aria e il cuore. Non c’è nessun altro. Non c’è spazio per nessun altro.
I suoi occhi mi trasmettono tutto, ogni cosa detta e tutto ciò che non è riuscito a spiegarmi.
Io faccio lo stesso, voglio che sappia tutto. Perché qui e adesso sono una parte di lui e lui è una parte di me. Fino all’eternità.
Inevitabilmente e completamente.
I got a spark in me
And you’re a part of me
Now till eternity
Been so long and now we’re finally free
I got a spark in me
Hands up if you can see
And you're a part of me
Hands up if you’re with me
Now til eternity
Hands up if you believe
Been so long and now we’re finally free

Oh, oh oh
Been so long and now we’re finally free

La musica si dirada lentamente, come la nebbia.
Sudata e senza fiato riposiziono il microfono sull’asta. “Grazie” espiro.
Il faretto che mi acceca si spegne e un applauso scrosciante riempie l’aria. Tutti e cinque i giudici sono in piedi e battono le mani con entusiasmo.
Mi giro e scendo dal palco con le gambe che tremano, come gelatina durante un terremoto. Le ragazze ci sono addosso in un attimo. Le loro voci si mescolano al rimbombare concitato del sangue che mi pulsa nelle orecchie.
“Oh, mio Dio! È stato spettacolare!”.
“Ho letteralmente i brividi”.
“Siete stati fantastici”.
Il braccio di Aaron mi stringe la vita e mi attira contro il suo corpo. Ci fa piroettare sul posto, aumentando la sensazione di essere finita in mezzo ad un tornado. “Grazie”. È l’unica parola che mi sospira tra i capelli prima di posarmi delicatamente a terra.
Un addetto ci esorta a radunarci vicino alle altre band e ad aspettare il verdetto dei giudici che bisbigliano freneticamente tra loro.
Finalmente, una delle giurate si alza dal tavolo rettangolare e lentamente si avvia verso il soppalco. Lip mi agguanta la mano e la stritola, rischiando di sbriciolarmi qualche falange.
Lei si accosta al microfono e lancia un’occhiata verso la cartelletta di legno. “Grazie a tutti i giovani talenti che si sono esibiti in questa manche, siete stati tutti davvero bravissimi. Purtroppo, però, ad ogni turno possiamo far passare solo due band. Non prendetela come una sconfitta, ma come un’opportunità per capire dove e cosa si può migliorare”. Esibisce un sorriso di repertorio. “Le due band che passano questa fase sono…”. Chiudo gli occhi e stringo la mano di Aaron. “I Dysmorfic…”. Un boato eccitato si alza alla nostra destra.
Ti prego.
Ti prego
.
Il cuore mi martella freneticamente nel petto. “…e i Blood Rain! Congratulazioni ad entrambe! La prossima manche si terrà tra tre settimane, sempre qui a Salt Lake City”. La mano di Lip scivola via dalla mia, mentre quella di Aaron mi stringe con più forza. Una colata di gelida delusione mi scivola nell’esofago. “Ancora grazie a tutti i concorrenti per averci provato e per essersi messi in gioco. Mi raccomando, non smettete mai di fare musica”.
 
Con il morale ormai sottoterra, ci rifugiamo in un ristorantino giapponese e affoghiamo la delusione in un pasto all you can eat. Sfortunatamente, nemmeno tutti gli uramaki del mondo possono cancellare la delusione e la tristezza che aleggiano tra noi come dei fantasmi.
Vorrei avere qualcosa da dire, una frase di incoraggiamento o un discorso motivazionale che possa aiutare. La verità, però, è che ci speravo davvero anche io. Ero così sicura che ce la avremmo fatta e che il mio contributo alla fine fosse servito davvero a qualcosa. Invece, siamo rimasti a bocca asciutta e la mia collaborazione è stata del tutto irrilevante.
“Okay”. Aaron si raddrizza. “So che siete incazzati e delusi, lo sono anche io, ma questo non ci fermerà e non ci porterà a smettere. Vi concedo la serata per autocommiserarvi, ma da domani si cambia registro. Ricominceremo più cazzuti e determinati di prima, mettetevelo bene in testa”.
Matt si sporge verso di lui. “Abbiamo fatto schifo, Aaron, accettalo”.
Lui scuote la testa. “Non è vero, siamo arrivati terzi”.
Ci giriamo tutti verso di lui. “E tu come lo sai?” domanda Lip.
Alza le spalle. “Ho sbirciato la cartelletta dei giudici. Siamo arrivati terzi, non ultimi, non sesti, ma terzi. Significa che ci manca un passo, solo mezzo metro al traguardo. Vogliamo veramente smettere quando ci siamo così vicini?”.
Lip si infila in bocca un gamberetto. “No, cazzo”.
Aaron aspetta che scuotiamo tutti la testa e poi continua. “Bene. Allora fate sparire quei musi lunghi e rendiamo questa serata memorabile”.
Dopo aver ingurgitato tutto il cibo possibile, ci stabiliamo dentro un localino rustico e diamo il via all’incontro del secolo. Donne contro uomini che si fronteggiano su un tavolo da biliardo consunto, per stabilire quale squadra avrà l’arduo compito di comprare da bere. L’idea di partenza era solo quella di un match amichevole per svuotare la mente e per alleggerire l’atmosfera, ma l’astio tra Peyton e Lip lo ha trasformato in uno scontro all’ultimo sangue.
La prima partita si conclude con un assurdo pareggio, che alimenta inevitabilmente il loro patologico bisogno di vincere. Durante la seconda, Lip, ormai in totale svantaggio, fingendo di stiracchiarsi incasina la disposizione delle palle, portando ad un risultato inconcludente.
Ormai stufi del loro teatrino, decidiamo di comprarci da bere da soli e di lasciargli il piacere di disputare l’ultima partita solo tra loro due.
Purtroppo, però, abbiamo decisamente sottostimato la loro capacità di comportarsi da adulti. Lip colpisce il sedere di Peyton con la stecca, facendola imbestialire e spingendola a cercare di colpirlo con la palla 6. Lip, fortunatamente, si scansa evitando il trauma cranico, ma sfortunatamente la palla finisca tra i bicchieri del tavolo vicino. Vetri e alcolici schizzano per aria, inzuppando i muri e i clienti. Il padrone del locale ci butta fuori senza tante cerimonie, bandendoci a vita dal suo bar.
Sghignazzando ci ritiriamo in hotel, chiudendo definitivamente la giornata.
 
Stanza 309. Dieci minuti.
Esamino il messaggio di Aaron mordicchiandomi il pollice. Il piede sbatacchia autonomamente contro il tappeto, seguendo il ritmo delle farfalle che si rimescolano esagitate nello stomaco.
La testa di Chas sbuca dalla porta del bagno. “Tutto okay? Stai lanciando segnali morse a quelli del piano sottostante?”.
Stacco la gamba dal pavimento e me la infilo sotto il sedere. “Tutto bene” sbiascico.
Mi guarda un po’ scettica, ma non aggiunge altro e si ritira in bagno. “Stavo pensando che potremmo farci qualche maschera e magari guardare un film. Oppure possiamo invadere la camera di Peyton e Dorothea e saccheggiare il loro minibar” mormora.
Scivolo giù dal letto e mi infilo velocemente le scarpe. Butto tutta la mia roba nello zaino e me lo appoggio sulla spalla.
“Ma forse tu hai altri piani…”. Mi giro lentamente verso di lei e i suoi occhioni grigi mi osservano divertiti. “Devi andare da qualche parte, Julianne?”.
“Ecco…” sospiro.
Incrocia le braccia al petto. “Sì?”.
“È un problema se sparisco, diciamo, per tutta la notte?” esalo. Chastity inarca un sopracciglio. “Non voglio abbandonarti qui ma siamo lontani da casa, praticamente su un altro pianeta, e vorrei davvero cogliere l’occasione”.
Chas arriccia le labbra. “Oh, ma che carina. Mi chiedevo perché fossi ancora qui ed è per me”.
“Cosa?”.
Mi sventola la mano davanti. “Appena tornate in hotel pensavo che saresti sparita tipo subito, invece sei rimasta per non ferirmi. È la cosa più dolce del mondo, davvero”.
Sono più confusa che mai. “Perché ti aspettavi che sparissi?”.
Inclina la testolina bionda. “Beh, siamo in un edificio pieno di letti e privo di qualsiasi supervisione parentale, la risposta è alquanto ovvia”.
Mi avvicino alla porta. “E mi lascerai uscire senza farmi domande?”.
“Ho moltissime domande, ma solitamente quando tocco l’argomento ragazzo misterioso ti chiudi a riccio; quindi, mi limiterò a sorridere e a dirti di divertirti”.
Afferro la maniglia di metallo. “Davvero?”.
“Sono sicura che me lo dirai quando sarai pronta a fidarti al cento percento di me”.
Il senso di colpa mi fa vacillare. “Io mi fido di te, Chas. È che…è davvero molto complicato”.
Sorride dolcemente. “Lo so. Aspetterò”. Mi da una leggera spintarella. “Vai, non preoccuparti per me. Non sei mica l’unica che avrà compagnia stanotte”.
“Okay” sospiro. Esco dalla stanza e mi incammino verso l’ascensore. Quando sono ormai a metà corridoio, la sua testa sbuca fuori dalla camera e urla. “Fai tutto quello che farei io! E ricordati le protezioni!”.



I tre numeri di metallo inchiodati alla porta stanno ormai ridendo di me. È da ben sette minuti consecutivi che li fisso senza muovermi. Probabilmente ho smesso pure di respirare. Sono morta, è ufficiale. Se no non si spiega perché diavolo non riesco a bussare su questa stramaledettissima porta.
Da dove viene tutta questa agitazione?
Perché sto sprecando tempo prezioso ad esaminare le rifiniture del legno di balsa invece di fiondarmi sul ragazzo più bello del mondo?
Il sesso non mi ha mai messa a disagio, è sempre stato molto facile, quasi scontato. Certo, le ultime volte ero completamente in un’altra dimensione, ma anche al mio massimo di lucidità non ho mai avuto così tanta paura, nemmeno la prima volta.
Aaron porta l’intimità a un livello diverso, estraneo, al quale non sono mai arrivata. Con lui non sarà mai semplicemente sesso.
E se non ci sono scintille?
E se faccio schifo?
E se mi sono dimenticata come si fa?
La porta si spalanca diradando le mie farneticazioni. “Sei qui” sospira Aaron “Pensavo ti fossi persa”.
Stringo il manico della borsa. “Chastity mi ha fatto il terzo grado, non voleva lasciarmi andare”.
Da quando gli mento? “Cosa le hai detto?”.
Si sposta di lato per farmi entrare. “Le solite balle”. Alzo le spalle e faticosamente abbandono il solco nel tappeto in cui mi ero rintanata.
La stanza è più ampia e molto più elegante della doppia che condivido con Chas. “Pensavo che stessimo tutti al secondo piano”.
Aaron chiude la porta e si avvicina. “Diciamo che questa è un extra, non potevo certo farti venire nella stanza che divido con Lip. Siamo qui da un paio di ore e la sua metà è già diventata un porcile”.
Le pareti color mandarino sono in tinta con il copriletto ricamato e con il quadro di tulipani che sovrasta il letto king size. È davvero una bella stanza. “Come hai fatto a pagarla?”.
Ridacchia. “Potrei aver sovrastimato la spesa necessaria per il weekend”.
“E Jim ci ha creduto?”.
“Da quando ti sei presa la colpa per le festa di Halloween non questiona più nulla di quello che gli dico” asserisce avvicinandosi.
Il suo avanzare inspiegabilmente mi spinge ad indietreggiare frettolosamente. La stupida borsa, che tengo ancora appesa alla spalla, collide con la lampada a fungo appoggiata sul tavolino, trascinandola rovinosamente a terra. Lo spesso strato di moquette evita che il supporto di ceramica vada in mille pezzi, ma non impedisce al paralume di staccarsi.
“Merda” borbotto acquattandomi per recuperarla.
Aaron imita il mio movimento. “Jay?”.
“Mi dispiace”. Cerco di rimettere insieme i due pezzi. “Come sono imbranata”.
Appoggia le mani sulle mie. “Julianne”.
Alzo lo sguardo e i suoi bellissimi occhi verdi mi guardano divertiti. “Sì?”.
“Cosa succede? Ti comporti in modo strano”.
Forza. Carte in tavola. “Sono un po’ nervosa”. Incurva le sopracciglia corvine. “Okay, forse sono molto nervosa”.
“Per quale ragione?”. Indico con un cenno della testa il letto e Aaron sorride dolcemente. “È solo una stupida stanza, Jay”.
“Lo so” sbuffo “Ma non è davvero così. È un cubo pieno di aspettative e pressione. Ci siamo andati vicino un sacco di volte e ora, qui, in questa camera, sembra quasi…”.
“Forzato?” ipotizza.
“Doveroso”.
Mi sfiora la guancia con la mano. “Non c’è nulla di imposto, Jay. Nessuno ci obbliga a fare qualcosa. Anzi, sai che ti dico, stanotte non succederà proprio niente”.
“Cosa?”.
Recupera i pezzi della lampada e si alza. “Questa stanza è tutta per me. Dormirò a stella al centro del letto come non faccio da mesi”.
“Ehi” brontolo tirandomi su.
“Svaligio il minibar, mi infilo un accappatoio enorme e faccio zapping tra i canali per adulti” asserisce rimontando la lampada.
“Aaron” ridacchio.
Mi passa un braccio intorno alla vita. “Credevi di poter mettere mano nel mio giardino privato senza prima offrirmi una cena? Che screanzata. Mia madre ha cresciuto un gentiluomo, ormai dovresti saperlo”.
Gli passo le dita sulla nuca. “Sei proprio scemo”.
“E tu sei bellissima” sospira baciandomi delicatamente. Ma perché diavolo ero nervosa? “Ho una sorpresa per te”.
“Cioè?”.
Scioglie l’abbraccio e si mette a frugare nel suo zaino. “Se ti dico cos’è non è più catalogabile come sorpresa, no?”, Beh, in effetti. Mi lancia un ammasso di stoffa e fili. “Mettitelo”.
La matassa è in realtà il mio bikini rosso. “Quando lo hai preso questo?”.
“Henry”.
Naturalmente. “Perché devo metterlo? Ti ricordi che a malapena riesco a stare a galla? Oltretutto è metà novembre”.
Aaron mi porge un accappatoio di spugna. “Smettila di fare domande e fidati di me”.

Venti minuti più tardi scivoliamo lungo il corridoio dell’ultimo piano come due ladri. Ci fermiamo davanti ad una porta di metallo, su cui è appeso un enorme cartello di divieto d’accesso.
Aaron infila la mano tra le fronde di una pianta dai colori sgargianti e ne estrae una piccola chiave luccicante. La inserisce nella serratura e la porta si apre con un cigolio. Mi strascina all’interno e richiude la porta dietro di noi.
Un’ampia vasca dalla forma ovale è l’unica fonte di luce nella stanza semibuia. Diverse sdraio pieghevoli sono disposte intorno alla piscina e dalle grosse finestre si scorge il profilo della città e il cielo plumbeo.
L’odore di cloro mi fa prudere il naso. “Conosci gli addetti alle piscine di tutto lo stato, per caso?”.
Alza le spalle con aria tronfia. “Sono bravo ad ottenere ciò che voglio, se ho le giuste motivazioni”.
“E quali sarebbero le tue motivazioni?”.
Afferra il nodo del mio accappatoio e lentamente lo scioglie. “Dobbiamo festeggiare”. Intrufola le mani sotto il tessuto di spugna e lo spinge, in modo che mi scivoli lungo le spalle e finisca a terra. Il suo accappatoio segue il mio poco dopo. Il suo torace ampio e cesellato mi saluta calorosamente.
Ho la bocca di colpo alquanto secca. “E cosa festeggiamo?”.
Si inclina in avanti, attirando il mio campo gravitazionale verso il suo. “Tutto quanto” bisbiglia a un centimetro dalla mia bocca.
Prima che possa impossessarmi delle sue labbra, Aaron sguscia di lato e salta nell’acqua cristallina. Riemerge pochi istanti dopo, nuota fino al bordo e allunga una mano nella mia direzione. “Ti unisci a me?”. Il cuore mi palpita impetuosamente nel petto. Io e le piscine ancora non andiamo d’accordissimo. “Ti sorreggo io, promesso” afferma serio.
La vocina alla base del cranio urla di darmi una dannata mossa. Così, mi siedo sulle mattonelle chiare e faccio scivolare le gambe in acqua. Il tempore del liquido mi procura brividi piacevoli lungo la schiena.
Aaron mi afferra per i fianchi e mi sorregge mentre sprofondo in acqua fino al mento.
La piscina non è molto profonda, riesco a sfiorare il fondo con le punte dei piedi, ma è comunque troppo alta per me.
Allaccio le gambe intorno alla vita di Aaron e mi aggrappo alle sue spalle muscolose per mantenermi in equilibrio. “Non mi hai mai detto come mai ti piacciono così tanto le piscine”.
Le sue dita mi accarezzano le costole. “Adoro nuotare in generale. C’è qualcosa di veramente catartico nel potersi muovere quasi senza peso” sospira. “Mia madre ci portava tutte le estati al lago Bear, nella baita dei nonni. Passavamo quasi tutto il tempo in acqua, anche quando era praticamente gelata. È lì che ho imparato a nuotare, me lo ha insegnato lei. Io poi l’ho insegnato a Cole e Andy”. Il suo sguardo si perde tra ricordi dolceamari. “Abbiamo smesso di andarci quando è morta”.
Non nomina molto spesso sua madre e, quando lo fa, lo vedo allontanarsi in una nebbia che non conosco. Vorrei che me ne parlasse di più, ma non voglio sforzarlo e soprattutto non voglio che diventi triste.
Sorride scacciando via le nubi. “È un posto davvero magico. Ti ci devo portare”. 
Gli passo le dita tra le ciocche bagnate. “Certo”. Gli sfioro la guancia con il naso e cambio discorso. “Cosa festeggiamo?”.
Mi stringe più saldamente. “Festeggiamo la giornata migliore di sempre”.
“Abbiamo perso” gli ricordo.
Scuote la testa. “No, Jay, abbiamo vinto”.
“Eravamo a due contest diversi?” ridacchio.
Si da una spinta contro il fondo e ci fa fluttuare verso l’altro capo della vasca. “So che siamo stati eliminati, non sono impazzito. Stavo cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno”.
“Il bicchiere ha la stessa quantità di acqua sia che sia mezzo pieno che mezzo vuoto” ribatto.
Mi morde una spalla. “Non fare la pessimista”.
“Sono realista, Aaron” sospiro “Abbiamo perso, è un fatto inconfutabile”.
Aggrotta la fronte. “Io non la vedo come una sconfitta, penso invece che sia un ottimo punto di partenza” spiega. “Ci siamo messi in gioco e ci siamo scontrati con artisti più capaci e più preparati di noi. Sappiamo cosa migliorare e cosa non rifare. E non tralasciamo l’aspetto più significativo di tutta la faccenda”.
“E quale sarebbe?”.
“Hai cantato davanti ad un pubblico per la prima volta dopo quanto, due anni?” esala orgoglioso. “È un traguardo stupefacente, Jay”.
“Sì, ma non ha fatto molta differenza”.
Inclina la testa per guardarmi negli occhi. “Pensi questo perché non siamo passati?”. Annuisco. “Sei l’unica ragione che ci ha permesso di sfiorare la vittoria, senza di te avremmo fatto schifo e basta. Non sarei riuscito a salire sul palco senza di te”.
“Penso tu stia sovrastimando il mio contributo. Non ho fatto nulla di speciale” espiro.
Mi sposta una ciocca umida dietro l’orecchio. “Perché sei sempre così dura con te stessa?”.
Ho così tante risposte a questa domanda che non saprei da dove cominciare. Forse semplicemente qualcuno deve esserlo. “Non sono dura, sono solo…”.
Realista?” azzarda.
Avrei detto obbiettiva, ma va bene anche la sua risposta. “Già”.
“Okay” mormora “Visto che sei così determinata a voler essere la Realista, allora io sarò il Sognatore”.
“Hai bevuto l’acqua della piscina?”.
Ridacchia. “Vedi, ci sono due tipi di persone al mondo: i Realisti e i Sognatori” spiega. “I realisti sono pratici, sicuri, concreti. Non si lasciano trarre in inganno dalle illusioni, ma sono anche tristemente saldati alla realtà. I sognatori invece vivono di sfumature, non ci sono solo bianco e nero, ma milioni di strade che portano in tutte le direzioni possibili e immaginabili. I sognatori non si arrendono e trovano sempre il lato positivo, ma spesso finiscono perdersi tra i colori”. Mi accarezza la guancia con il pollice. “Non accade di frequente ma quando un realista e un sognatore si mettono insieme formano la coppia perfetta, perché si completano, come noi”.
“Wow”. Inclino la testa cercando di non ridere. “È parecchio sdolcinata come cosa. Persino per i tuoi standard”.
Mi pungola il fianco con un dito. “Giudicami quanto vuoi, ma lo so che siamo fatti per stare insieme”.
“Perché sono la palla che ti tiene inchiodato a terra?” ridacchio.
 Mi sfiora dolcemente. “Direi più l’ancora che mi tiene ormeggiato alla realtà”.
“Molto filosofico” esalo. “Se io sono la palla, tu cosa sei?”.
“Ovviamente io sono le ali” mormora con arroganza.
Presuntuoso. “Ovviamente” borbotto sprezzante. “Io sono un peso opprimente e tu le ali d’angelo, certo”.
Alza le spalle con innocenza. “Non le faccio io le regole, piccola”.
“Certo che no”. Provo a scivolare via dalle sue braccia. “Sono mortalmente offesa, sappilo”.
Aaron mi stringe più forte. “Okay, okay. Se vuoi puoi essere un quadratino di uranio piccolissimo”.
Inarco un sopracciglio. “Uranio?”.
“È l’elemento più pesante sulla Terra” chiarisce con un sorrisino.
Spalanco la bocca con finta indignazione e guizzo via come una lontra in fuga. “Non sono più solo pesante ma pure radioattiva, incredibile!”.
Aaron ride cercando di riafferrarmi. “Sto scherzando. Sto scherzando”.  Riesce ad acchiapparmi per una caviglia e a riportarmi tra le sue braccia. “Scherzo”.
Gli stringo le braccia al collo con un fintissimo broncio. “Ti conviene”.
Il suo respiro mi solletica la guancia. “O cosa?”.
Avverto il battito burrascoso del suo cuore contro la pelle. È così forte che riesco quasi a udirlo.
Scosto una ciocca ribelle dalla fronte e gli sfioro le labbra con le mie, dolcemente. La sua bocca è morbida e calda. L’accenno di barba sul mento mi gratta la pelle, e mi piace.
Gli passo la lingua sul labbro inferiore e lui schiude la bocca per me. Le sue mani mi stringono con foga i fianchi e mi attirano più vicino.
Dopo troppo poco, interrompe il bacio e mi fa scorrere le labbra fino all’orecchio. “Scelgo il o cosa”.
Aaron mi solleva delicatamente sul bordo della vasca, senza smettere di baciarmi. Scivolo all’indietro sulle mattonelle, trascinandolo con me. Il suo corpo bollente mi fa da scudo contro lo sbalzo di temperatura.
“Possiamo fermarci…” respira sopra di me.
Scuoto la testa. “No”.
“Sei sicura?” domanda accarezzandomi il viso.
L’ansia e la paura che qualche ora fa mi stritolavano le budella ora sono del tutto scomparse. Non so come abbia fatto, ma le ha completamente dissolte. Ci siamo solo noi.
Non c’è pressione.
Non ci sono aspettative.
Solo un momento che vorrei cristallizzare per sempre.
“Mai stata più sicura in vita mia” esalo.
Sorride delicatamente. “Ti amo”.
Lo so.
Lo percepisco.
E io amo lui. Ne sono consapevole da un pezzo, ma è difficile ammetterlo, figurarsi fare uscire quelle due dannate paroline dal fondo del mio essere.
Ti amo. Ti amo. Ti amo.
Vorrei urlarlo, ma il mio corpo si rifiuta di cooperare. Così lo bacio e glielo spiego così, ancora e ancora, tra un battito e l’altro mentre Aaron si muove su di me, dentro di me, finché non rimane altro al mondo che noi due e questo attimo perfetto.

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Capitolo 42
*** Aaron ***


Aaron



“Ancora non ci credo” sospiro estasiato.
Julianne mi lancia un’occhiata divertita. “Hai intenzione di lasciarlo andare prima o poi, o ci dormirai anche insieme?”.
“Lo porterò con me ovunque, anche in bagno” affermo serio.
Ridacchia, o almeno credo. L’unica cosa che riesco a scorgere di lei in mezzo alla lana e al cotone sono i suoi occhi. Si è avvolta in così tanti strati che comincia ad assomigliare ad una mummia.
Henry mi guarda stranito. “Lo sai che si tratta solo di una A meno e non del premio Nobel, vero?”.
Gli sventolo il foglio davanti al naso. “È molto meglio del premo Nobel, è una A meno in francese. Praticamente sto stringendo tra le mani il Sacro Graal”.
Henry sbuffa. “Mi sembra un’esagerazione”.
Julianne chiude la macchina e si stringe con più furore nella sciarpa. “Non lo è, credimi. Ho partecipato alla preparazione di quel capolavoro e la coppa con il sangue di Gesù non è nulla in confronto”.
Henry scuote la testa e si avvia verso la porta. “Secondo me state esagerando. Comunque, congratulazioni, sono sicuro che tu te lo sia meritato”.
Julianne mi sfila il tema dalle mani. “Sei stato davvero bravissimo, lo sai vero? La professoressa era così sorpresa ed estasiata, che avevo paura che saltasse la cattedra per sbaciucchiarti dalla felicità”.
“Per me ci ha pensato” mormoro inorridito.
“Avrei filmato la scena volentieri”.
Mi riprendo il compito e le stringo la mano avvolta nel guanto. “Grazie di avermi aiutato”.
Scuote la testa. “No, quello è interamente merito tuo. Io ti ho dato una spintarella, ma la fatica l’hai fatta tutta tu. Sono molto fiera di te”.
Vorrei rovistare tra la lana per darle un bacio, ma siamo davanti a casa e non è il caso di rischiare. “Grazie”.
Gli occhi di Julianne guizzano di lato, verso qualcosa alle mie spalle. Mi giro e osservo la macchina luccicante parcheggiata dall’altro lato della via. “È una Rolls Royce?”. 
Jay aggrotta le sopracciglia. “Ho già visto quella macchina”.
“Sì, anche io” sospiro. “Nei miei sogni”.
Henry ballonzola davanti sul portico. “Vi date una mossa? Mi sto congelando”.
Jay smette di fissare la macchina e si avvia verso il fratello. “Puoi entrare anche senza di noi”.
“Ho dimenticato le chiavi” brontola.
Julianne sfila le dita dalla muffola verde e si fruga in tasca. “Dio. Perché fa così freddo?”.
“Siamo solo a fine novembre, non fa ancora così freddo” asserisco raggiungendoli.
Jay estrae le chiavi dalla tasca e lancia un’occhiataccia alla mia giacca di pelle. “Forse per te che abiti sotto l’ascella di Babbo Natale da tutta la vita, ma noi veniamo dalla terra del sole”.
Henry si stringe nelle braccia. “Credo tu ti stia confondendo con la Terra del Fuoco, ma a discapito del nome lì fa molto più freddo che qui. Forse quello che intendevi è lo Stato del Sole”.
Fulmina il fratello. “Vuoi restare fuori, Hen?”.
Lui scuote visibilmente la testa. “No, ti prego”.
Deve essere difficile passare dal caldo quasi perenne della California, al rigido inverno dello Utah. Vorrei poterli consolare, ma le temperature non sono ancora davvero precipitate. Verso fine dicembre e inizio gennaio farà davvero freddo e arriverà finalmente la neve. Sarà divertente vederli alle prese con il ghiaccio e con le nevicate, se sono scontrosi adesso figuriamoci più avanti.
Julianne spalanca la porta e possiamo tutti sgusciare all’interno. Appendo la giacca al gancio mentre i fratelli si sfilano i piumini e le sciarpe.
“Mi aiuti ad incorniciarlo?” mormoro.
Julianne si toglie il capello e finalmente posso rivederle il viso. “Vuoi davvero incorniciarlo? Non vuoi farlo vedere a tuo padre?”.
“Ovviamente, così magari ti libererà di quella stupida punizione”.
“Non è un problema, Aaron. Un mese l’ho già praticamente scontato, me ne resta solo un altro e poi sono libera” afferma rimettendosi lo zaino in spalla.
“Sì che è un problema. Stai pagando anche la mia parte e non è giusto. Oltretutto un altro mese significa che passerai le vacanze invernali in casa e io avevo dei piani”.
Sorride dolcemente. “Che piani?”.
“È una sorpresa” esalo “Oltretutto ci sarà il ballo d’inverno…”.
“Jules? Puoi venire qui un momento?” domanda Henry dal salotto.
L’urgenza del suo tono fa innervosire entrambi e ci fa varcare la soglia con più impeto del necessario.
Seduti compostamente sul divano ci sono un uomo e una donna di una certa età. Hanno un’aria familiare ma non ho idea di chi siano. La donna ha i capelli biondi raccolti dietro la testa, un abito grigio lungo fino alle ginocchia e dei tacchi vertiginosi. Stringe la borsetta di marca sulle ginocchia, come se avesse paura ad appoggiarla per terra o da qualsiasi altra parte. Ha l’aria adirata e infastidita, di chi vorrebbe essere da un’altra parte.
L’uomo è meno contrito ma altrettanto vistoso. Il completo scuro e l’orologio luccicante urlano denaro da ogni angolazione li si guardi. I capelli grigi e i baffi folti gli conferiscono un’aria gentile ma si vede che anche lui non vorrebbe davvero essere qui.
Julianne molla lo zaino sulla poltrona vuota. “Mi sta prendendo in giro?”.
April si alza cautamente dalla sedia e sorride ai figli. “Siete tornati, finalmente”.
Henry ficca le mani in tasca e abbassa lo sguardo ferito verso il tappeto. Sembra aver del tutto perso la voglia di parlare che aveva poco fa.
Jay invece sembra non voler chiudere la bocca. “Che cosa cazzo ci fanno loro due qui?”.
La donna alza il mento appuntito con arroganza e stringe gli occhi castani. Qualcosa in quell’espressione attira la mia attenzione. È come se l’avessi già vista ma in una versione più giovane e meno affilata.
“Vedo che certe cose non cambiano” sibila la donna.
“Anche tu sei ancora la stessa stronza, Vivian” ribatte Julianne.
April sobbalza. “Julie”.
La figlia non stacca gli occhi dalla donna. “Cosa? Sono stata sgarbata? Pensavo dovessimo chiamare le cose con il loro nome”.
“Julianne…”.
Vivian alza una mano. “Non importa, April, non mi aspettavo nulla di diverso”.
April si stringe le spalle. “Forse dovevamo parlarne prima, questa imboscata non è stata una grande idea”.
Vivian inarca un sopracciglio biondo. “Sai benissimo che lei non si sarebbe presentata”.
Jay si fa avanti, comprendo il fratello con il suo corpo minuto. “Finalmente qualcosa su cui siamo d’accordo”. Lancia un’occhiata siderale alla madre. “Posso sapere perché siedono sul nostro divano come se nulla fosse?”.
April si sistema nervosamente il maglione. “In quest’ultimo periodo, abbiamo cercato di ricucire i rapporti e abbiamo fatto enormi passi avanti. Così, ho pensato che sarebbe stato bello se anche voi…”.
“No” ringhia Julianne “Neanche per sogno”.
“Julie…” sospira.
“No, sono i tuoi genitori. Per noi non sono altro che due vecchi con il portafoglio bucato che non ci sono mai stati”.
“Sono pur sempre i tuoi nonni, Julie” mugola April.
“No!” ribatte “Mia nonna sia chiama Geneviève, vive a Parigi e c’è sempre stata. Era lì quando siamo nati, era lì quando ci siamo presi la varicella ed era lì quando avevamo bisogno di lei. Ti ricordi? C’è sempre stata anche per te, anche quando sei rimasta incinta e qualcuno ti ha detto di non disturbarti a tornare”.
April chiude gli occhi, percorsa da un dolore sordo alquanto lampante. “Non è così semplice”.
“È molto semplice, invece. Da quando hai deciso di ricucire i rapporti?”.
Vivian inclina la testa. “Da quando ha iniziato a prendere decisioni sensate, come quella di lasciare quel fallito di vostro padre”.
Henry si risveglia in tempo per afferrare il braccio della sorella, impedendole di avanzare. “Jules”
“Non ti azzardare” ringhia lei. “Non sai nulla di noi o della nostra famiglia”.
“So abbastanza” soffia.
L’uomo si muove a disagio. “Vivian”.
Lei lo guarda con sufficienza. “Non fingere di non essere d’accordo, Quentin”.
“Cerchiamo di calmarci, per favore” sospira April. “Ora ci sediamo tutti insieme, beviamo un bel thè e cerchiamo di conoscerci”.
Julianne si scrolla la mano di Henry di dosso. “Noi non lo faremo. Ci abbiamo già provato ed è stata tutta fatica sprecata”.
April sembra disorientata. “Cosa significa?”.
Jay si gira verso il fratello. I loro sguardi così simili sono perfusi da emozioni completamente diverse. Quelli di Julianne traboccano di collera e risentimento, mentre quelli di Henry sono tristi e amareggiati.
“Non mi sorprende che tu non glielo abbia detto, Vivian. Non è stato uno dei tuoi momenti migliori, eh?”. Vivian la fissa con la stessa espressione rabbiosa. “Dopo diversi mesi dalla tua sparizione, mamma, Henry e io abbiamo deciso di cercarti. Volevamo una spiegazione un po’ più sostanziosa di quella che avevi lasciato. Nessuno di noi sapeva ancora guidare, quindi abbiamo comprato i biglietti del treno e ci siamo messi in viaggio. Da San Diego a Phoenix ci voglio più o meno sei ore, così ci siamo svegliati presto e muniti di buona volontà abbiamo raggiungo la loro casa”.
Henry le stringe delicatamente la mano. “Abbiamo viaggiato tutta la mattina per ricevere una porta in faccia. Non hanno avuto nemmeno la decenza di farci entrare o di assicurarsi almeno che tornassimo a casa tutti interi”.
Vivian si raddrizza. “Oh, ma davvero? È questo che gli hai detto?”.
“È quello che è successo” ribatte Julianne.
Vivian arriccia le labbra. “Io ricordo di averti fatta entrare, invece”.
Julianne si irrigidisce e Henry corruga la fronte. “Jules?”.
“Non mi sorprende che tu non glielo abbia detto”. I suoi occhi scuri si riempiono di scherno. “Non è stato uno dei tuoi momenti migliori, Julianne?”.
“Ti ha fatta entrare? Mi hai detto che ti ha detto di andartene e che ha sbattuto la porta” mormora Henry.
“È entrata e mi è bastata un’occhiata per capire cosa volesse. Non era la prima volta che vedevo una drogata” sibila.
Quentin sospira. “Vivian, basta”.
“Sto solo chiamando le cose con il loro nome” sibila velenosa per poi squadrare Jay dalla testa ai piedi. “Si vedeva che ti facevi di qualcosa, eri scattosa, agitata e con gli occhi vacui. Ti ho dato l’assegno e te ne sei andata, non provare a dipingere me come la cattiva”.
Henry sembra sempre più confuso. “Ti hai dato un assegno?”.
Vivian ride freddamente. “Perché mi sorprende che tu non lo abbia condiviso con tuo fratello? Forse perché avevo ragione, dopotutto”.
Julianne stringe la mascella e fissa sua nonna con lo sguardo più ferito che le abbia mai visto. Vederla così dilaniata mi provoca una fitta al centro del petto.
“Mi ha dato un assegno, è vero. Mentre cercavo di farle capire che volevamo solo nostra madre e che conoscerli nonostante tutto sarebbe stato bello, lei ha tirato fuori il libretto degli assegni” mormora roca “Ha scritto il valore della nostra relazione e me lo ha sbattuto in mano. Mi facevo allora, non ancora a livelli assurdi, ma comunque abbastanza da esserne dipendete. Una cifra del genere mi avrebbe fatta sballare per un sacco di tempo e con la roba giusta, ma poi hai detto una frase che non mi scorderò mai e che ha sovrastato addirittura la mia dipendenza”. Prende un respiro tremolante. “Te la ricordi, Vivian?”.
“No” sospira.
Julianne le sorride sprezzante. “Non importa quanto denaro ci metti dentro o con cosa la avvolgi, la spazzatura puzzerà ugualmente”.
Il silenzio cala opprimente. Nessuno respira, non c’è spazio per nient’altro che lo sgomento. L’intera stanza fissa Vivian, io non riesco a non osserva la ragazza che amo mostrare una delle sue ciccartici più profonde senza nemmeno vacillare.
“Quella frase è incisa a fuoco nel mio cervello. L’hai pronuncia nel momento peggiore possibile, è stato come versare benzina su un incendio che aveva già divampato da parecchio. E purtroppo avevi ragione, sono spazzatura, sotto sotto lo sapevo già. Lui, però…”. Indica il fratello. “Lui è meraviglioso. È intelligente, gentile, divertente e la persona più comprensiva e incline al perdono che io abbia conosciuto. Quindi no, non gli ho detto dell’assegno e non gli ho detto che mi avevi liquidata senza nemmeno cercare di conoscermi, non volevo che pensasse di non valere niente”.
Afferra bruscamente la borsa, fruga all’interno e ne estrae il portafoglio. “Ho aspettato a lungo, ma sapevo che ne sarebbe valsa la pena”. Estrae un rettangolo di carta stropicciato e lo sbatte in mano a Vivian. “Puoi riaverlo”.
Vivian stringe la carta tra le dita sottili. “Lo hai tenuto?”.
“Non abbiamo mai voluto i tuoi schifosi soldi, volevamo soltanto una famiglia. Volevo bruciarlo ma poi ho pensato che sarebbe stato più gratificante vedere la tua faccia quando te lo avrei ridato”. Le lancia un’occhiata siderale. “Avevo ragione, dopotutto”.
“Io…” sospira Vivian.
“Oltretutto, mi è servito come monito in questi anni. Il sangue non determina la famiglia e le seconde occasioni si devono poter contare sulle dita di una mano” afferma per poi girarsi verso la madre. “Quindi, no, mamma. Non ho alcun interesse nel conoscere queste persone, nello stesso modo in cui loro non hanno voluto conoscere noi”. April annuisce con gli occhi lucidi. “Ora, se volete scusarmi, ho un sacco di compiti da fare”.
Recupera la borsa e, senza la minima esitazione, sale le scale verso la sua camera.
Henry fa qualche passo in avanti. “Fino a venti minuti fa avrei fatto di tutto per convincerla a darvi un’altra occasione. Avrei perdonato qualsiasi cosa, ma nessuno in questo universo è migliore di mia sorella. Lei…voi non avete proprio idea, non ci avete nemmeno provato…”. Gli stremano le mani lungo i fianchi. “Spero torniate a casa senza problemi e che ci restiate”.
Dovrei seguirlo di sopra, ma non riesco a muovermi. Ho così tante cose che vorrei dire, mille esempi che gli farebbero capire quanta immensità si sono persi. Le parole, però, mi restano bloccate in gola.
Quentin si gira verso la moglie, per la prima volta con un’espressione diversa dalla noia. “Le hai dato dei soldi? Mi avevi detto che te li aveva estorti, che li esigeva per lasciarci in pace. Non mi hai mai detto che erano venuti solo per conoscerci”.
Vivian sbuffa. “Non fare il santo ora, nemmeno tu hai fatto il minimo sforzo”.
“Perché non pensavo che ne sarebbe valsa la pena. Mi hai detto che non ci avevano mai cercati”.
“Cosa?” squittisce April. “Tutte le lettere ho spedito e le telefonate che ti ho fatto? Te le sei tenute tutte per te? Perché?”.
Vivian si raddrizza con sdegno. “Lo sai benissimo perché, April. Quando hai deciso di rimanere in Francia e di sposare quel mentecatto, io…”.
“Deciso?! Io non ho deciso nulla, mamma. Mi hai dato un ultimatum e niente di più”.
“Ti ho messa davanti ad una scelta” ribatte alzando la voce.
“Abortire o restare dov’ero e arrangiarmi? È questa la scelta di cui parli?” ringhia.
“Esattamente”. Lancia un’occhiata stomacata verso le scale. “Ti saresti evitata parecchie grane”.
Quentin si stropiccia il viso. “Dio, Vivian”.
April stringe i fianchi con le mani. “Non è mai stata una scelta! Non ho avuto alcun dubbio e non credere che abbia mai avuto qualche ripensamento. I miei figli sono straordinari e, credimi, evitando di conoscerli ci perdi solo e solamente tu”.
Vivian si alza dal divano come se la stanza fosse in fiamme. “È stato decisamente un errore venire qui”.
April non indietreggia. “Su qualcosa siamo d’accordo allora”.
“Presumo che l’invito per il ringraziamento sia revocato” asserisce recuperando il cappotto dal bracciolo del divano.
“Presumi bene”.
Si infila quello che sembra l’intero manto di una famiglia di ermellini. “Quando deciderai di ragionare di nuovo, sai qual è il mio numero”.
April scuote la testa lentamente. “Non ti struggere accanto al telefono, mamma, non suonerà molto presto”.
“Non l’ho mai fatto, April, non preoccuparti” sibila. Detto ciò, esce dalla porta in un alone di superbia e bieca meschinità.
Quentin raccoglie i suoi averi e allunga il braccio come per accarezzare la guancia di sua figlia, ma all’ultimo desiste e lascia cadere la mano. “Mi dispiace. Cercherò di farla ragionare, ma sai com’è quando si impunta sulla sua versione della storia”.
April abbassa lo sguardo tristemente. “Lo so, non preoccuparti”.
Dopo un sospiro sconfitto, Quentin segue la moglie fuori dalla casa.
April si accascia sulla sedia come un palloncino sgonfio e affonda il viso nelle mani. “Diamine”.
“Mi dispiace”. Sobbalza, come se non si fosse resa conto che sono rimasto nella stanza. “Deve essere terribile avere una madre del genere”.
Si stringe nelle spalle esili. “È tutta la vita che litighiamo, non smetteremo certo da un giorno all’altro e di sicuro non grazie alla sua facile personalità”. Si alza i piedi. “È il caso che parli con Julianne”.
La accompagno mentre sale i gradini e si dirige in camera dei gemelli.
Siedono vicini sul letto di Jay e confabulano a bassa voce in francese. Appena ci notano, Julianne scivola giù dal materasso e marcia verso la madre. Sbalordendo tutti i presenti, le avvolge le braccia intorno al collo inghiottendola in un abbraccio inaspettato.
Sono quasi quattro mesi che vivono qui e questa è la primissima volta che la vedo iniziare un contatto fisico con April di sua spontanea volontà.
April sembra totalmente stupefatta e le ci vogliono un paio di secondi per ricambiare la stretta. “Oh, tesoro. Mi dispiace così tanto”. Julianne la stringe con più decisione. “Lei non si sarebbe mai dovuta permettere, quello che ha detto è imperdonabile. Mi dispiace da morire”.
Lo sguardo di Julianne trabocca di sofferenza e di malinconia. È molto diverso dal solito però, sembra più profondo, più ombroso e più devastante.
Dura una frazione di secondo, sparisce nel momento in cui si staccano e April le rivede il viso. Io, tuttavia, l’ho notato e non mi piace per niente.
“Grazie per averla rimessa al suo posto”.
“Oh, Julie” pigola “Tu e tuo fratello siete le due cose più importanti della mia vita. Venite prima di tutto e tutti, e questo non cambierà mai, per nessuna ragione al mondo”.
Henry salta in piedi e si intrufola nell’abbraccio facendole ridacchiare. Per la prima volta da parecchio, sembrano finalmente una famiglia felice.
Dopo che Henry e April se ne sono andati, Julianne si raggomitola sul letto e apre il libro di letteratura. Ha un’aria stanca e opaca con cui ho una certa familiarità. “Vuoi restare sola?”.
Mi osserva mordicchiandosi il labbro e poi scuote la testa. “No”.
“Vuoi parlarne?”.
“Nemmeno” sospira.
Non ho idea di come aiutarla. “Cosa ti va di fare?”.
Sorride debolmente. “Voglio fare il compito di letteratura, poi voglio incorniciare il tuo tema e poi, non lo so, magari un film?”.
“Mi piace come suona questo programma, sono invitato?”.
Il suo sorriso si fa un po’ più luminoso. “Sempre”.
 


“Sembro una bomboniera” brontola Julianne.
“Secondo me sei carina” mento.
Mi lancia un’occhiataccia che si può solo definire come assassina. “Sembro appena uscita da Hairspray”.
Sì, non posso smentirla. “Tu adori quel film” ribatto.
Si gira verso di me e la gonna ampia produce un suono strano. “Questo non significa che voglia farne parte”.
Il vestito che indossa non è esattamente in linea con il suo stile. Ha la gonna lunga fino alle ginocchia, è smanicato e il corpetto le arriva fino al collo. Il colore e la stoffa non sono dei migliori, è così lucido da sembrare scivoloso. Sua madre glielo ha confezionato personalmente per il giorno del Ringraziamento e, siccome hanno trovato una specie di punto di incontro, Jay non ha voluto replicare. Sono piuttosto certo che ora se ne stia pentendo amaramente.
“Sembro l’incrocio venuto male tra una ciotola di pot-pourri e un budino al cioccolato” bofonchia tirando il fiocco nero che le stringe la vita.
Mi scappa una risata. “Ecco cosa mi ricordavi”.
Stringe i denti. “Una volta che sarà tutto finito, brucerò questo obbrobrio in una pira”.
April ci trotta davanti trasportando una pirofila e sfoggiando un vestito abbinato a quello della figlia. Ne ha confezionato uno anche per Liv, sembrano tre piccole matriosche. Fortunatamente, a noi ragazzi ha dato solo una cravatta della stessa stoffa e dello stesso colore. Sembriamo una famiglia di sociopatici.
“Non penso sia una grande idea, le esalazioni potrebbero intossicarti” constato.
Lei sorride con un gatto. “Perfetto, così magari mi scorderò di questa giornata infernale”.
“Non sarà poi così male, vedrai”.
Il tavolo è imbandito di pietanze dall’aria succosa, il salotto è decorato con festoni colorati e sagome storte di tacchini, e la casa si sta lentamente riempiendo di parenti e consorti.
Dopo le dovute presentazioni, recuperiamo dei piatti di carta e li carichiamo di cibi misti. L’abbondanza di parenti non ha permesso la classica cena al tavolo, così April ha organizzato un buffet davvero variegato e ha disposto sedie in ogni angolo del soggiorno.
I gemelli e io ci sediamo sul pavimento davanti al televisore e sbocconcelliamo gli antipasti osservando distrattamente la parata.
“Posso unirmi a voi?”. Quentin stringe il piatto con aria imbarazzata. “Non conosco nessuno a questa festa”.
Sia io che Henry aspettiamo che sia Julianne a scegliere. “Non lo sapevi, vero?”.
Lui scuote la testa. “Vivian mi ha dato la sua versione della storia, non sapevo che ce ne fosse un’altra”.
Jay raccoglie un cuscino e lo appoggia accanto a lei. Con un’agilità davvero rimarchevole, Quentin si accomoda al tavolino. “Tua madre è una cuoca davvero eccezionale, sembra tutto delizioso”.
Julianne non sembra favorevole alla conversazione spicciola. “Vivian lo sa che sei qui?”.
“Sì, le ho detto che sarei venuto” sospira “Non è stata…entusiasta”.
“Immagino” borbotta.
Quentin abbassa lo sguardo sugli involtini di gamberi. “Tua nonna non è cattiva, Julianne, è solo…”.
“Meschina? Fredda? Intollerante?” propone “Ne ho altre”.
Sospira tristemente. “Vivian è fatta a modo suo. La vita l’ha resa così dura. La sua famiglia è…beh, diciamo che è molto complicato. Non si fida facilmente delle persone, è sempre stato così”.
Lo sguardo di Julianne si rabbuia. “Nemmeno di sua figlia?”.
Quentin sorride malinconicamente. “Le è costato parecchio persino fidarsi di me. Ho impiegato anni a oltrepassare le sue barricate e, ogni volta che pensavo di averle superate tutte, ne spuntavano di nuove. Si è chiusa in sé stessa molto tempo fa, è un meccanismo di difesa, Julianne”.
“Mi sembra un grandissima stronzata”.
China le spalle, spossato. “Non soffriamo tutti nella stessa maniera. Ognuno ha il proprio modo di reagire al dolore”.
“Non è una giustificazione” mormora.
“Sono quarantatré anni che siamo sposati e ancora faccio fatica a capirla”. Scrolla la testa. “Non esprime mai i sentimenti che le imperversano la testa. Ha imparato che lasciarli dove sono le permette di controllarli. Ha il terrore di essere ferita di nuovo e quindi allontana tutti prima che possano deluderla”.
Julianne aggrotta la fronte. “Perché vi siete sposati?”.
Quentin addolcisce lo sguardo. “Non decidi chi amare, Julianne. Lo fai e basta”.
Lei abbassa lo sguardo sulle patate al forno. “Suppongo di no”.
“Vi assomigliate molto, sai?”.
“Lo prendo come un insulto”.
Quentin ridacchia. “È un dato di fatto, non deve per forza farti piacere, ma vi assomigliate. Avete lo stesso sguardo sprezzante, la stessa testardaggine e lo stesso modo di nascondervi dietro il risentimento”.
Arriccia le labbra. “La genetica è terrificante”.
“Qualcosa l’hai preso anche da me, tua madre mi ha detto che suoni. Un tempo lo facevo anche io” asserisce.
Julianne abbozza in sorrisino. “Davvero?”.
“Volevo diventare un musicista da giovane, ma i miei genitori pensavano fosse una stupidaggine, così sono diventato un bancario” mormora amareggiato.
“Aaron e io suoniamo spesso in garage, se vuoi più tardi posso farti sentire qualcosa”.
Quentin annuisce serenamente. “Mi piacerebbe molto”.   


 
Il verso strozzato di un rospo che tossisce un’iguana risale lungo in corridoio e riempie la mia camera. È così raccapricciante da farmi rizzare i peli lungo le braccia. Mollo il libro di storia sul materasso e slitto in corridoio.
Trovo l’origine del suono abbarbicata al water di ceramica come se fosse una salvagente. “Jay?”.
Un altro conato sgraffiante riempie la stanza. “S-sto…b-eene”.
Mi inginocchio sulle piastrelle e le raccolgo i capelli alla base della nuca. “Cosa succede?”.
“N-niente” espira lentamente.
La pelle cerea e imperlata di sudore la contraddice sonoramente. “È qualche giorno che dici di avere mal di stomaco, cosa hai mangiato recentemente? Forse qualcosa ti ha fatto male”.
Scuote la testa e un altro conato la costringe ad abbassare la testa nella tazza. Devo lottare contro ogni fibra del mio essere per non fare lo stesso. “Cos’altro potrebbe essere?”.
Una carrellata di probabili ragioni che possano causano vomito e mal di stomaco mi attraversa la mente come un treno. Solo una sembra cristallizzarsi più vivida delle altre. 
“Smettila di fare quella faccia” sospira appoggiando la guancia al bordo per guardarmi negli occhi.
Oddio. Oddio. Oddio. È incinta. “Che faccia starei facendo?”.
“Da idiota” mormora con voce rauca “La faccia da: oddio, è incinta”.
Odio essere così prevedibile. “Non è assolutamente quello che stavo pensando”.
Ridacchia sommessamente. “Fai schifo a mentire, Aaron”.
Sì, lo so. “Potrebbe…”.
“No” ribatte perentoria.
Abbasso il tono. “Non siamo stati attenti la prima volta”.
Allunga la mano per tirare lo scarico. “Lo so, me lo ricordo. Quello che non ti ricordi tu è che ho l’impianto sottocutaneo. Te l’ho detto all’hotel, ma suppongo che il panico da idiota azzeri la memoria”.
Sì, me lo ha detto, è vero. Sono successe talmente tante cose fantastiche quella sera che questo dettaglio è scivolato in secondo piano. “Ops”.
“Quell’espressione scema ti dona” ridacchia.
“Sei antipatica quando stai male, ne sei consapevole?” brontolo.
Un conato la costringe a stringere di nuovo la tazza e le impedisce di ribattere. Se non stesse così male potrei anche gongolare.
“Julie?”. April entra in bagno praticamente correndo. “Stai male?”.
Mi scosta bruscamente di lato e mi ruba il lavoro. Accarezza la schiena della figlia eseguendo giri concentrici e le stringe i capelli con mano ferma. “Cosa ti senti, tesoro? Come posso aiutarti?”. Mi lancia uno sguardo preoccupato. “Cosa succede?”.
“È qualche giorno che ha mal di pancia e ora sta vomitando”. Le mi informazioni non sono un granché. “È tutto quello che so”.
Julianne riemerge e guarda la madre con il viso della stessa tonalità dei sanitari. “Non sono incinta…”.
April strabuzza gli occhi. “Non lo stavo di certo pensando. Perché dovresti…”. Chiude la bocca, la riapre e poi la richiude. Dopo una lunga e imbarazzante pausa, la riapre e starnazza. “Julianne Jade Roux! Stai facendo del sesso non protetto?!”.
Il conato che le scuote le spalle come un terremoto è l’unica risposta che la domanda riesce a generare. Io mi faccio più indietro e cerco di confondermi con gli asciugamani. Abbiamo già appurato che non so mentire, non tentiamo la fortuna.
April le scosta i capelli umidi dalla fronte e sobbalza. “Oddio, scotti tantissimo”.
Julianne si stringe lo stomaco con il braccio ed emette un rantolo. Vederla così in sofferenza mi fa tremare le mani. “Dovremmo portarla all’ospedale. Potrebbe essere qualcosa di serio”.
April annuisce. “Ora chiamo il dottor Allen”.
“Non dovremmo aspettare, potrebbe peggiorare. Dobbiamo portarla all’ospedale!”.
“Calmati, Aaron” ribatte “Ora la aiutiamo. Chiamo il dottore dalla macchina, riesci a sollevarla?”.
Le passo una mano sotto le ginocchia, una intorno alle spalle e la sollevo dal pavimento freddo. Julianne emette un gemito dolorante. “Scusami” le sospiro all’orecchio.
Sua madre ha ragione, è bollente. Riesco a percepire il suo calore corporeo anche attraverso due strati di vestiti.
Seguo April al piano di sotto, lei raccoglie le chiavi e la sua borsa e insieme usciamo in garage. Deposito Jay sul sedile posteriore e mi avvio verso quello del passeggero. April mi afferra il braccio. “Devi restare qui”.
Sì, col cazzo. “Assolutamente no”.
Le sopracciglia bionde le schizzano in aria. “Come?”.
“Tu non riesci a trasportala e non voglio lasciarla da sola” ribatto.
April inclina la testa, confusa. “Non è da sola, ci sono io con lei, Aaron. Liv invece è sola, devi restare con tua sorella”.
Tentenno. So di non poter lasciare Olivia in casa, ma separarmi da Jay mi sembra fisicamente impossibile. “Non preoccuparti, vi chiamo appena so qualcosa. La cena è già pronta, dovete solo metterla in forno. Avvisa tu tuo padre e anche Henry, per favore”. Mi stringe la mano. “Andrà tutto bene, tranquillo”.
 
Passiamo la cena in totale silenzio. Nessuno sembra aver voglia di parlare, nemmeno papà.
Henry assomiglia ad un fantasma. Fissa il pasticcio di carne da quando glielo hanno schiaffato nel piatto. Ha provato in tutti i modi ad andare in ospedale ma papà glielo ha impedito. Ho provato ad appoggiarlo ma non c’è stato verso. Hanno discusso per almeno un’ora e per la prima volta da quando l’ho conosciuto Henry è stato insolente con un adulto. Sembrava di essere in una realtà parallela, avrei dovuto filmarlo per Jay.
Dopo aver ripulito, lui ed io ci rifugiamo in camera e aspettiamo. Sediamo entrambi sul pavimento e ci facciamo compagnia l’uno nel silenzio dell’altro.
Non so esattamente quanto è passato, ma il cielo è diventato completamente nero, quando Henry decide di parlare. “Odio quando veniamo separati” mormora “Il periodo in cui era in riabilitazione è stato terribile”.
“Quanto ci è rimasta?”.
“Due mesi” sospira “Non le era permesso usare il cellulare o il computer, poteva telefonare costantemente supervisionata. È stato tremendo non vederla per così tanto tempo”.
“Com’era?” bisbiglio “Sai, prima”. Jay odia parlarne, perciò non la sforzo, ma sono lo stesso curioso.
“Era come se ci fossero due Jules” sospira pesantemente “All’inizio non me ne sono accorto, lei è particolarmente brava a dissimulare il suo dolore. Però, più si addentrava nel mondo chimico più diventava distratta e sbadata, e mi sono accorto della differenza”.
“Quale differenza?”.
“Era come se due Jules si alternassero. Quando stava male ed era in astinenza era rabbiosa, irrequieta, qualsiasi minima perturbazione la faceva andare fuori di testa. Se la prendeva con chiunque le stesse tra i piedi e poi incolpava mamma. Invece quando era fatta era come se non ci fosse. Passava il tempo sdraiata a fissare oggetti che vedeva solo lei o a dormire. Era un fantasma, opaca e inespressiva”.
Non riesco nemmeno ad immaginarmela. “Deve essere stato terribile”.
Si mordicchia il pollice. “C’era un momento tra i due stati, una frazione minuscola in cui era Jules. Era solare, divertente, faceva piani e si occupava di me e di papà. I primi tempi era la fase che durava di più, quando ha perso il controllo era perennemente un’ombra. Ad un certo punto, mi sono accorto di quello che stava facendo e ho provato ad affrontarla. È allora che ha smesso di fingere. Ha lasciato perdere tutto e tutti ed è scappata tra le braccia di Jared. Tornava a casa di tanto in tanto ma non ci restava mai. Ho provato a fare qualcosa, anche insieme a Scar, ma più provavamo a riportala indietro più si allontanava”. Strappa una pellicina e una gocciolina di sangue si raggruma vicino all’unghia. “E ad un certo punto abbiamo smesso di provarci”. Il senso di colpa gli incrina la voce.
“Vostro padre? Lui non ha fatto nulla?”. Mi sembra assurdo che sia semplicemente rimasto lì a guardare sua figlia autodistruggersi.
“Voglio bene a mio padre, davvero, ma alcune persone non sono fatte per essere genitori”. Henry pulisce il dito con un fazzolettino. “Jules lo idolatra così tanto da rendere distorta la realtà. Ha fatto la stessa cosa ma al contrario con nostra madre. Nella sua mente, lei è la peccatrice e lui il santo, ma non è così. Nessuno dei due manca di difetti, come ogni essere vivente del resto, però papà…lui si è sempre comportato come un amico. Con lui non c’erano regole, non c’erano limiti e non c’era stabilità. Passava le giornate a dipingere e si dimenticava di tutto il resto, persino di noi”.
È assurdo come la stessa persona venga descritta in modo completamente diverso da due osservatori che dovrebbero vederla allo stesso modo. “Jay non me ne ha mai parlato in questo modo”.
Henry sorride amaramente. “Lei tende a vedere il mondo solo attraverso i suoi occhi. O ti adora o ti odia, non ci sono vie di mezzo”.
C’è una domanda che mi solletica la curiosità da diverse settimane, ma che non ho mai avuto il coraggio di pronunciare. “Hai mai conosciuto Jared?” sussurro e non so nemmeno bene il perché.
Henry scrolla le spalle. “No, lei non me lo ha mai permesso. Anche completamente fatta, non ha mai lasciato che i due lati della sua vita si mescolassero. Non lasciava entrare in casa Jared o la roba, l’unica persona che ho conosciuto è stata Skylar. Lei e Jules avevano una strana amicizia, ma non ci ho mai interagito a parte i soliti convenevoli”.
“Non me ne ha mai parlato. Ha accennato qualcosa su Jared ma niente di rilevante” sospiro.
“E non ti aspettare che lo faccia. Quella parte della sua vita è un intreccio caotico e nebuloso di cui conosce i dettagli solo e solamente Jules. Ti ha detto tantissime cose rispetto ai suoi standard, ma ci sono parti che non condividerà mai con nessuno”.
Lo so bene. “Non voglio che lo faccia se non lo desidera lei”. Non la costringerei mai a fare nulla contro la sua volontà. “Dove pensi che sia Jared ora?”
Henry allunga le gambe avvolte nel pigiama. “Quando si è ripresa dall’overdose ha raccontato alla polizia tutto quello che sapeva su Jared e il suo giro, quindi, immagino che ora sia in prigione. Spero a marcire”.
“Come l’hai convinta? Molte persone dopo la riabilitazione ricadono nelle vecchie abitudini. So che te lo ha promesso ma mi sembra un po’ debole come motivazione” constato.
Si stringe nella felpa. “Dopo che l’hanno ricoverata hanno telefonato a casa, papà era nel suo studio e ho risposto io. L’infermiera non arrivava al punto e il mio unico pensiero è stato: ci è riuscita, si è autodistrutta. Non ho mai provato un tipo di paura peggiore. L’idea che non ci fosse più mi ha annientato. Ma era viva, per miracolo, ma era viva. Perciò, sono andato in ospedale con un solo obbiettivo: impedirle di riprovarci. Mi giurato e spergiurato che non si sarebbe più drogata e che sarebbe tornata ad essere la Jules di sempre, ma sapevo che le sue promesse in quel momento erano buttate al vento”.
“Cosa hai fatto allora?”.
“Le ho giurato che se avesse infranto la promessa e si fosse drogata di nuovo, lo avrei fatto anche io”.
Il fiato mi si ferma in gola. “Cosa?”.
“Era l’unico modo per spaventarla. L’idea di morire non le faceva terrore, quindi mi sono avvalso di qualcos’altro. E, a quanto pare, lei mi ama più di quanto ami sé stessa, perciò, ha funzionato” mormora.
Wow. Sono senza parole. “Lo avresti fatto davvero?”.
“Per Jules? Assolutamente” dichiara senza esitazione.
La porta della stanza si apre lentamente e April appare sulla soglia. Il viso stropicciato e i capelli spettinati ci mettono immediatamente sull’attenti.
Henry salta in piedi come se il pavimento fosse incandescente. “Mamma?”.
“Siete ancora svegli” sospira stancamente.
“Ti stavamo aspettando. Allora? Cos’è successo?” trepida Henry.
“Il cellulare si è completamente scaricato, mi dispiace non aver chiamato” esala entrando nella stanza e sedendosi fiaccamente sul letto del figlio.  
Perché non parla? “April? Come sta Julianne?”.
“Ha avuto una brutta appendicite che è progredita in peritonite. L’hanno operata d’urgenza poco prima di cena e l’hanno riportata in stanza qualche ora fa. È stata sotto i ferri parecchio, il dottore ha detto che era messa maluccio e che non sono potuti intervenire in laparoscopia”.
Henry espira. “Quindi sta bene, ora?”.
April si passa una mano sul viso affaticato. “L’operazione è andata bene, però le hanno dovuto dare dei farmaci, antidolorifici e cose simili…Stava così male e hanno detto che siccome ha solo diciassette anni spettava a me decidere, e io ho detto sì”. Alza lo sguardo affranto e colpevole verso il figlio. “Provava tanto dolore, non potevo…io…ho pensato…e il dottore mi ha consigliato…”.
Henry le siede accanto stringendole il braccio intorno alle spalle tremolanti. “Mamma. Mamma, va tutto bene”.
“Era così arrabbiata quando si è svegliata, Henry. Era furiosa con me e con il dottore, voleva andarsene e ha provato a togliersi la flebo. Sono dovute intervenire le infermiere e mi hanno mandata a casa”. Affonda il viso nelle mani “Stava malissimo, pensavo di aiutarla. Non credevo sarebbe stato un problema così…”.
Henry la stringe più saldamente. “Va tutto bene. Andrà tutto bene. Domani vedremo cosa fare. Adesso però vai a dormire perché sei esausta, okay?”.
April annuisce mestamente. “Okay”.
Henry le bacia una tempia. “Domani è un altro giorno”.
“Sì”. April si alza e incertamente si avvia alla porta. “Buonanotte”.
“Notte” ribattiamo entrambi.
Dopo che April è uscita, ci infiliamo anche noi nel letto e spegniamo la luce. Al buio la consapevolezza della situazione mi colpisce alla nuca. Se le hanno dato dei farmaci significa che non è più sobria e che probabilmente si sente da schifo. È in un posto sconosciuto, da sola e con solo i suoi incubi a tenerle compagnia. E io non posso aiutarla.
Non posso darle supporto.
Non posso fare niente.
Potrei scappare fino all’ospedale. A piedi arriverei all’alba, perciò dovrei prendere la macchina e non c’è modo di non svegliare tutta la casa. Potrei chiedere a Lip, sono sicuro che per Jay si farebbe la notte in bianco.  
“Non è una buona idea” bisbiglia Henry “Qualsiasi piano tu stia tessendo per andare in suo soccorso è inutile”.
Come diavolo… “Perché?”.
“L’ospedale ha le guardie e l’orario di visita è terminato. E, anche se tu riuscissi a superare questi due ostacoli, l’ala dove mettono i pazienti come Jules è sorvegliata costantemente. Oltretutto, la tua presenza non cambierebbe la situazione in cui si trova e sai bene che quando è di pessimo umore di solito predilige restare sola. Perciò smettila di creare una corda con le lenzuola e prova a dormire”.
Il suo ragionamento non fa una piega. “Mi sento completamente impotente” ribatto.
“Lo so, è una sensazione con cui ho una certa familiarità. Purtroppo, non puoi fare nulla eccetto dormire, quindi segui il consiglio che ho dato a mamma e dormi. Domani è un altro giorno”.
 
Sbatto incessantemente il piede contro la gamba della sedia e aspetto che Lip si decida ad entrare in aula.
La classe di storia è l’ultimo posto in cui vorrei stare, il primo sarebbe la camera di ospedale di Julianne ma a quanto pare viviamo sotto una ferrea dittatura tirannica. Papà è stato irremovibile, non si salta la scuola per nessuna ragione al mondo. Non lo ha permesso nemmeno ad Henry e Jay è la sua gemella. Hanno discusso animatamente durante tutta la colazione, ma non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Henry lo ha pure paragonato ad un certo dittatore coreano. April si è messa in mezzo e lo scontro non è arrivato ad una conclusione decente.
Lip entra in classe con passo stanco e si dirige verso di me senza fretta. Si siede al mio fianco e butta lo zaino a terra.
“Allora, quali sono le informazioni che sai?”.
“Buongiorno anche a te” ribatte sprezzante.
Gli scuoto la mano davanti alla faccia. “Sì, ‘giorno. Che cosa sai?”.
Ridacchia. “Mia madre ieri ha fatto il turno di notte e quando mi hai detto che Jay era in ospedale le ho chiesto di darle un occhio”.
“Cosa ti ha detto?”.
“Il dottore che l’ha operata è un imbecille, o almeno così dice mia madre. Però ha detto che fisicamente sta bene e che tutto è andato come doveva andare. Mi ha detto che il medico le ha dato la morfina anche se sulla cartella c’era scritto della sua dipendenza e che hanno provato a dargliela anche dopo l’operazione, ma Jay si è opposta come una pazza. Mamma mi ha detto che si è tolta la flebo dal braccio un paio di volte, allora è intervenuta personalmente”. La signora O’Connor è la capo infermiera del reparto di chirurgia e una donna davvero eccezionale. “Ha parlato con Julianne e le ha promesso che nella flebo ci sarebbero stati solo i liquidi e qualche antibiotico, ed è riuscita a convincerla a lasciarla dov’è. Le ha fatto compagnia ogni volta che poteva e quando stamattina è venuta via, Jay stava bene, aveva mangiato ed evacuato”.
“Sai quando potrà uscire?”.
“Ha detto che le hanno fatto una bella incisione e che a causa della peritonite le hanno messo un drenaggio. Dovrà restare lì almeno altri tre giorni, devono darle gli antibiotici e reintegrare i liquidi” afferma.
“Tre giorni?”.
Il professore entra in classe e Lip abbassa la voce. “Non ti disperare, poteva andare peggio. Vedrai che passeranno in un lampo”.
 
Nessun lampo. Nessun fottutissimo baleno. Le settantadue ore più lente della mia vita. Ad ogni occhiata l’orologio sembrava arretrare sempre di più.
Quand’è successo?
Quand’è diventata così indispensabile?
Come può una sola, minuscola persona riuscire ad occupare una porzione così grande della mia vita?
Salgo le scale di casa apaticamente, come un’anima in pena. Sono patetico. Il me di un anno fa mi riderebbe in faccia se mi vedesse. Sono tre giorni che salgo con la bieca speranza di trovarla seduta sul letto ad aspettarmi ed ogni volta rimango fregato. Oggi no, non ho intenzione di guardare.
Henry mi passa accanto con la stessa espressione mesta. Lui almeno non deve fingere di non essere triste.
“Ehi, voi due. Dov’è il mio abbraccio di bentornato?”.
Ci giriamo di scatto nello stesso momento. Julianne è raggomitolata sotto una pila di coperte, con i capelli raccolti scompostamente in cima alla testa, il viso pallido e un tubo di plastica che le sbuca dalla mano sinistra.
Dio, non è mai stata così bella.
Henry balza dal corridoio sul letto come un canguro esaltato. La stringe con foga, rischiando di far cadere l’asta con la flebo. “Oddio, quanto mi sei mancata!”.
Jay ride e si lamenta allo stesso tempo. “Ahi! Henry, i punti”.
Henry si tira indietro. “Scusa, mi sei mancata tantissimo”.
“Anche tu, la televisione dell’ospedale è sintonizzata solo su canali orribili”. Si gira verso di me e un velo di rosa le colora le guance. “Ehi”. Allunga la mano da cui le spunta la flebo verso di me. “Vieni qui”.
Intreccio le dita con le sue senza la minima esitazione e mi siedo al suo fianco con meno impeto di Henry.
“Come stai?” le domanda il fratello.
“Bene. Sto bene. Molto bene. Voi come state?”.
“Jules…”. Henry le accarezza la gamba. “Mamma ci ha detto della morfina”.
Lei scrolla le spalle. “Ho reagito eccessivamente la mattina dopo l’operazione. Sto benissimo, era solo una piccola dose…quantità. Va tutto bene. Il dottore ha detto che è andato tutto alla perfezione, ieri sera mi ha tolto il drenaggio”. Ci mostra l’agocannula avvolta nel cerotto adesivo. “Mi hanno dato gli antibiotici per via endovenosa. Questa è l’ultima. Pur di permettermi di uscire oggi pomeriggio, Erin si è offerta di venire a togliermela personalmente”.  
Henry corruga la fronte. “Erin?”.
“È la madre di Lip” spiega Julianne “È un’infermiera eccezionale e una persona fantastica. Mi ha fatto compagnia ad ogni turno. Abbiamo letto riviste, guardato programmi orrendi e mi ha raccontato un sacco di storielle interessanti sull’infanzia di Lip, che userò sicuramente contro di lui”.
“Quindi stai bene? Nessun problema?” domanda cauto Henry.
Lei scuote energicamente il capo. “Nessun problema”.
Henry è alquanto scettico e devo dire che lo sono anche io. “Va bene, sorellina. Ho un compito di biologia da preparare, ma stai pronta perché stasera ci guardiamo almeno due film strappalacrime”.
Julianne ridacchia. “Sì, signore”.
Si china in avanti e le bacia la fronte. “Sono felice che tu sia a casa”.
“Anche io”.
Una volta che è uscito, occupo il posto di Henry accanto a Julianne. Scivoliamo tra le coperte e la stringo tra le braccia facendo attenzione a non tirare il tubicino.
Julianne si ritrae leggermente. “È da qualche giorno che non faccio la doccia”.
“Non mi interessa” esalo strascinandola verso di me.
Appoggia il viso sul mio petto ed espira stancamente. “Mi sei mancato”.
“Anche tu. Un sacco”.
Chiude lentamente le palpebre. “Mamma viene a controllarmi ogni mezz’ora, non possiamo restare così per sempre”.
“Solo per un minuto” biascico. Non mi ero reso conto di essere così stanco fino a questo momento. È come se avessi trattenuto il fiato e ora potessi respirare di nuovo.
“Un minuto” concorda.
 
Salgo faticosamente le scale, trascinandomi dietro il borsone di lacrosse e lo zaino. Il coach oggi ci ha massacrati, mi sembra di avere della gelatina al posto delle gambe.
Dopo le vacanze invernali verranno ad osservarci gli scout delle varie università e dobbiamo dare il massimo. Le borse di studio per il lacrosse sono poche e sono destinate solo ai veri talenti. È quasi impossibile che ne assegnino più di una nella stessa scuola e la nostra squadra è composta solo dal meglio. Sarà una vera e propria strage.
Butto le borse sul letto e mi avvio verso la camera di Jay. Il dottore le ha ordinato di riposare per almeno una decina di giorni e questo comprende anche la scuola. Oggi abbiamo avuto una sfilza di test e non le ho potuto scrivere nemmeno un messaggio.
Varco la soglia e mi blocco di colpo. “Jay?”.
Julianne siede sotto la trapunta ricamata con il vassoio da letto sopra le gambe e un barattolino arancione stretto nella mano sinistra. Una manciata di pillole bianche sparse sul vassoio attira particolarmente la mia attenzione. Julianne le divide in piccoli mucchi di dimensioni diverse e poi le rimette insieme.
“Jay? Che cosa fai?” mormoro titubante.
Recupera una pastiglia con la punta del dito. “Con una ti senti bene, niente dolore, niente fatica”. Ne recupera un’altra. “Con due inizi a sentirti leggero e un po’ assonnato”. Poi un’altra. “Con tre ti ritrovi a galleggiare in uno stato catartico. Come se il corpo e la mente fossero in due dimensioni diverse”.
“Jay…”.
Ne spinge un’altra fuori dal mucchio. “Con quattro non senti più niente. Niente corpo. Niente mente”.
“Julianne”.
Alza lo sguardo incavato verso di me. “Ventotto compresse. Un intero barattolo. Gli ho detto di non darmelo ma nessuno mi ascolta. Al dottore non importa. Erin non può farci nulla. Mia madre…” ride senza allegria “Lei continua a spostarle. Le appoggia sul comodino ma sono troppo vicine. Le mette in bagno ma sono troppo lontane. Le appoggia sulla scrivania ma mi costringerebbero ad alzarmi, allora le riappoggia sul comodino e il circolo ricomincia”. Raggruppa le pastiglie e le rimette nel barattolo con rabbia. “Ventotto pastiglie. Sai quanto avrei pagato per averle un anno fa?”. Chiude il tappo. “Qui sopra c’è il mio nome, significa che sono mie. Non devo lavorare o faticare per averle. Sono mie, lo capisci?”.
Mi siedo accanto a lei sul materasso. “Non capisco, spiegami”.
“Ho mandato via mamma perché mi stava facendo impazzire e sono rimasta completamente sola e per tutto il giorno questa voce, che proviene da un lato della mia testa che pensavo si fosse calmato, mi ha ripetuto sempre e solo la stessa cosa: prendila. Cosa vuoi che succeda se ne prendi solo una? Una non è un problema. Solo per far assopire un pochino questa angoscia”. Si mordicchia il pollice. “Sarebbe comunque inutile. Questo tipo di brama non si assopisce mai”
“Io…”.
Le tremano le mani. “Perché deve essere così difficile? Perché il mio cervello si ricorda così vividamente quando bene mi facciano sentire?”.
Un brivido gelato mi trapassa lo stomaco. “Cosa posso fare?”.
Mi mette in mano il barattolo. “Nascondimele”.
“D’accordo”.
Mi artiglia il polso. “Nascondile bene, Aaron. Dove non guarderei. Devi pensare come me, okay? Per favore. E contale, devono essere ventotto”.
Stringo il tubetto di plastica con determinazione. “Ci penso io. Resta qui”.
Esco dalla stanza e mi avvio verso le scale. Nonostante la rigidezza delle gambe, scendo i gradini praticamente correndo. Entro in cantina, afferro la custodia impolverata della mia vecchia chitarra e la apro. Svito il tappo di plastica e conto le pillole bianche, poi sgancio un paio di corde e infilo il baratto nel foro di risonanza. Stringo di nuovo le corde e rimetto la chitarra al suo posto. La infilo dietro diversi scatoloni nel punto più alto della mensola.
Torno in camera di Julianne con la stessa velocità con cui sono sceso. Mi sfilo le scarpe e mi arrampico sul letto accanto a lei.
“Grazie” sospira intrufolandosi tra le mie braccia.
“Va tutto bene” esalo senza fiato “Non le hai prese. Va tutto bene”.
Continuo a dirglielo. Glielo ripeto finché non si appisola contro la mia spalla, ma non va tutto bene. Vorrei riuscire ad autoconvincermi, ma i problemi non spariscono solo perché cerchiamo di illuderci di non vederli.
Julianne ha bisogno di aiuto e so di non poterglielo offrire, ma di sicuro posso fare in modo che lo abbia.
Quando sono sicuro che dorma davvero, scivolo fuori dalla sua camera e scendo al piano inferiore. April svuota le buste della spesa sul bancone della cucina. “Aaron. Tutto bene, tesoro?”.
“Julianne ha bisogno di aiuto, April”. Le parole mi sgattaiolano fuori dalla bocca con più facilità di quanto pensassi.
April si immobilizza a metà del movimento e mi fissa apprensiva. “È successo qualcosa? Sta male? Le è venuta la febbre?”.
“No” sospiro. “È per via degli antidolorifici”.
Contrae le labbra. “Li ha presi?”.
“No, ma ci è andata vicino”. Faccio qualche passo in avanti e la guardo dritta negli occhi. “Deve parlare con qualcuno. Deve parlare con la dottoressa Dawson. Ha bisogno di aiuto. Le piace fingere di poter tenere questo macigno tutto da sola, ma non ne è in grado e soprattutto non è costretta. Per qualche stupida e complicata ragione, che proprio non comprendo, non riesce a fare affidamento sugli altri”.
April si stropiccia la fronte cercando di appianarla. “Credo di conoscerla la ragione”. Si allontana dalla spesa e agguanta la borsa. “Chiamo immediatamente la dottoressa Dawson”.
“Ci penso io qui” asserisco.
Digita sullo schermo e annuisce senza guardarmi. “Grazie, Aaron”.
Esce rapidamente dalla stanza e io sistemo la spesa con movimento meccanici. Quando ogni cosa è al suo posto, l’ordine che mi circonda diffonde una certa tranquillità che attenua la tensione che mi irrigidisce le spalle.
“Sai cosa succede?” domanda Henry sulla soglia. “Mamma mi ha vietato di andare da Jules e ha quell’espressione determinata e preoccupata che mi fa venire l’ansia”.
Gli afferro il braccio. “Vieni, dobbiamo fare una cosa”.
Mi segue confuso in soggiorno. “Cosa?”.
Liv protesta vigorosamente quando la scollo dal divano e da davanti al televisore. “Ehi! È la mia mezz’ora di cartoni animati”.
“Abbiamo una missione importantissima, ranocchietta”.
Mi stringe le braccia al collo con aria scettica. “Cioè?”.
Saliamo al piano superiore ed entriamo in camera di Andy e Cole.
Andy aggrotta più profondamente la fronte mentre osserva torvo il computer. “Non si bussa più in questa casa?”.
Appoggio Liv accanto a Cole. “Ho un favore da chiedervi”.
Andy digita sulle tastiera. “Ma tu pensa. E io che credevo che fossi qui per un po’ di salutare tempo fraterno”.
Infilo le mani nelle tasche dei jeans per evitare di colpirlo in testa con il mouse. “Hai snobbato ogni mio tentativo di tempo fraterno”.
“Ero sarcastico, infatti” mormora apatico.
Henry si stringe le braccia al petto. “Cosa succede? Di che favore parli?”.
“Julianne passerà la prossima settimana a letto e ha bisogno che noi le facciamo compagnia ogni volta che è possibile. Ho un mucchio di allenamenti extra in questo periodo quindi non potrò tornare a casa subito dopo scuola, perciò ho bisogno che mi aiutiate”.
Andy scuote lentamente la testa. “Non se ne parla. Non faccio il babysitter, anche io ho la mia vita”.
Liv mi guarda inquieta. “Julianne non sta bene?”.
“Lei…non…” sospiro. Come diavolo glielo spiego? “Sai quando ti ammali e papà resta a casa con te? Passate la giornata insieme sul divano a guardare i cartoni animati e anche se non ti senti bene la cosa però ti fa stare meglio, giusto?”. Annuisce. “Ecco è lo stesso. Julianne non si sente benissimo e per guarire più velocemente e sentirsi meglio ha bisogno della nostra compagnia. Ti va aiutarla?”.
Non esita nemmeno un secondo. “Certo”.
“Cole?”.
Sorride. “Ovvio”.
Non mi aspettavo niente di diverso. “Andy?”.
“A una sola condizione”.
Mi aspettavo anche questo. “Quale?”.
“Mi insegni a guidare”.
Oh. Questa invece non me la aspettavo. “D’accordo, possiamo…”.
“Con la tua macchina”.
Il rumore del cambio che gratta e della vernice che viene raschiata contro il marciapiede mi procura un brivido di orrore lungo la schiena. Mi ci vuole più del previsto per rispondere e alla fine le parole mi esco fuori un po’ strozzate. “Va bene”.
Andy sogghigna come il Joker.
“Solo se rispetti il patto e collabori davvero, se non lo fai te la sogni la mia macchina” aggiungo.
Andy annuisce lentamente. “Andata”.

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