Trilogia degli orfani

di Thalassa_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Harry ***
Capitolo 3: *** Fratelli Elric ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono,
Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Cecità, José Saramago

Ci sono cose che nessuno vede, cose sbagliate. Sono lì, evidenti, sotto gli occhi di tutti, talmente evidenti che ci si chiede come sia possibile che nessuno abbia visto prima, che nessuno abbia fatto niente. Ci si fanno tante domande, dopo.
Dopo che qualcosa di grosso succede e non si può più continuare a ignorare che c’è qualcosa di strano, qualcosa di tremendamente fuori posto.
Dopo è tutto un “Oh, quanto hai sofferto” e “Ma come è potuto accadere?” e “Avrei voluto saperlo prima”, ma la verità è che lo sapevano, prima. La verità era sotto gli occhi ciechi di tutti.

Ci sono dettagli insignificanti che nessuno nota, elementi stonati che si preferisce ignorare. Infastidiscono, perciò meglio non farci caso.
Basta poco. Un viso girato al momento giusto. Un ronzio nell’orecchio che fa dire “non può essere, sicuramente ho sentito male”. Basta pensare che in fondo, se davvero c’è un problema, beh, qualcuno dovrebbe proprio occuparsene, ma quel qualcuno non siamo noi. Non è mio dovere fare qualcosa; o ancora più sottile, non è mio diritto intervenire. Semplicemente, non spetta a me.

Ci sono cose che nessuno vede, cose molto, molto sbagliate.

La prima cosa sbagliata è un indirizzo vergato in eleganti caratteri dorati su una lettera viola: Sig. H. Potter, Ripostiglio del Sottoscala, 4, Privet Drive, Surrey.

La seconda cosa sbagliata è una lista della spesa, annotata con cura su un pezzo di carta strappato a un quaderno, scritta con una grafia rotonda e infantile: 35 l di H2O, 20 kg di C, 1.5 kg di Ca(OH)2, 800 g di P, 250 g di NaCl, 100 g di KNO3, 80 g di S, 7.5 g di F, 5 g di Fe, 3 g di Si.

La terza cosa sbagliata è un cartone del latte scaduto da due giorni poggiato sul tavolo in una casa troppo grande e troppo vuota.



Note

Ciao a tutti :)
Ho inserito la nota “crossover” anche se la definirei più che altro una raccolta multifandom; ogni capitolo è a sé stante, non ci saranno crossover tra i vari fandom, ma saranno uniti dal filo conduttore spiegato in questo prologo. Non so se ci sia un modo più corretto di segnalare una cosa del genere, nel caso fatemelo sapere nei commenti. 
Il tema è impegnativo, spero di affrontarlo al meglio!
Potete provare a indovinare i protagonisti dai riferimenti nel prologo. Per questo motivo per il momento non ho esplicitato tutti e tre i fandom, ma solo quello più evidente. Fatemi sapere nelle recensioni la vostra opinione. Qualsiasi commento e critica costruttiva sono molto ben accetti! 
Thalassa_

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Capitolo 2
*** Harry ***


Harry
 

“Harry, parlavi di nuovo nel sonno…”
“Non ti preoccupare, Hermione, non è niente…non era Vol…Tu-Sai-Chi”.
Hermione sospirò. “Non importa, Harry, non dovresti addormentarti con quell’affare al collo” disse, indicando il medaglione di Serpeverde che gli oscillava sul petto magro.
Harry le rispose con un grugnito, allungando automaticamente una mano per prendere gli occhiali.
“Non ho bisogno di quell’Horcrux per fare incubi” borbottò in tono cupo, mentre si stropicciava gli occhi. Dovette accorgersi dell’espressione addolorata sul suo volto, perché evitò il suo sguardo mentre si toglieva il medaglione dal collo e glielo porgeva. Hermione sospirò, indecisa.
“Chi è Squarta?” gli chiese a bruciapelo.
Harry apparve sorpreso. Evidentemente non ricordava un granché di quello che aveva sognato.
“Urlavi di togliertelo di dosso…” spiegò Hermione, la voce poco più che un sussurro.
Avanti, Harry. Parlami, rispondimi. Ci siamo solo tu e io adesso, ora che lui se n’è andato…
“Oh” rispose Harry, con una scrollata di spalle, “è solo il cane di mia zia Marge”.
“Quella che hai gonfiato come un palloncino?” chiese Hermione, senza riuscire a trattenere un piccolo sorriso.
“Proprio lei” confermò Harry. “Il mio unico rimpianto è di averlo fatto in cucina: avrei dovuto gonfiarla all’aperto, così sarebbe volata via e con un po’ di fortuna non l’avrei più rivista”.
In un altro tempo, un’altra Hermione si sarebbe scandalizzata e l’avrebbe rimproverato.
“Hai commesso una grave infrazione del decreto per la restrizione dell’uso della magia nei casi di minori, e inoltre non è una cosa carina da augurare a qualcuno, neanche a una persona sgradevole come tua zia” avrebbe detto l’altra Hermione.
Non questa, però. Questa Hermione era semplicemente contenta di vedere un sorriso sul volto di Harry, e avrebbe trasfigurato personalmente zia Marge in una mongolfiera seduta stante per prolungare ancora un po’ quel magnifico, rarissimo sorriso.
Hermione attese pazientemente che Harry aggiungesse qualcos’altro, qualcosa che spiegasse perché il cane di sua zia potesse causargli gli incubi, ma Harry rimase chiuso nel suo silenzio. Il suo sorriso si era spento. Erano seduti uno a fianco all’altro, sulla brandina su cui dormiva Harry, così vicini che poteva sentire il suo respiro.
Hermione decise di aver aspettato abbastanza.
“Harry?” chiamò con voce gentile. “Io…ecco, io non ti chiedo mai nulla, ma…sappi che puoi parlare con me, se ti va…”
“Non c’è nulla da dire, Hermione” ribatté Harry in tono piatto. “Abbiamo già abbastanza preoccupazioni così, non serve a nulla rivangare il passato…e comunque anche tu fai incubi, ti ho sentito…”
Hermione distolse lo sguardo, ferita. L’aveva sentita chiamare i suoi genitori nel sonno? A volte faceva un sogno, che cominciava come un sogno felice. La guerra era finita, Harry aveva sconfitto Voldemort, lui era tornato da loro o forse non se n’era mai andato… Hermione riabbracciava Ginny, la signora Weasley e poi correva incontro ai suoi genitori… Ma sua mamma le rivolgeva uno sguardo vuoto e suo padre le dava una pacca sulla spalla, imbarazzato. “Mi dispiace, ci ha scambiati per qualcun altro. Noi non abbiamo figli, vero signora Wilkins?”
Hermione si riscosse, decisa. Era di Harry che doveva preoccuparsi adesso, Harry che i suoi genitori non li avrebbe mai più rivisti, non li aveva neanche mai davvero conosciuti, Harry sempre pronto a minimizzare i suoi problemi anche se faceva più incubi di chiunque altro. Non sarebbe bastato il suo rifiuto, questa volta.
 “Harry, hai diciassette anni e hai affrontato la morte più volte di tutti noi; ti sei trovato di fronte a pericoli e terrori che non posso neanche immaginare, eppure fai incubi sognando il cane di tua zia. Mi devi una spiegazione”.
“Era un bulldog, Hermione, non un barboncino”.
“Non è divertente, Harry”.
“No” ammise Harry. “Non è divertente per niente. Non è stato divertente neanche restare sette ore sull’albero chiedendomi se mi avrebbero mai lasciato scendere o se avrei dovuto trascorrere il resto dei miei giorni su quel ramo”. Tacque un momento, lo sguardo perso nel vuoto. Quando riprese a parlare, lo fece con voce atona, quieta ma ferma, tenendo lo sguardo fisso sull’angolo della brandina come se fosse il suo interlocutore.
“Bene, se proprio ci tieni, la storia è questa. Mia zia Marge aveva poche, semplici passioni: viziare mio cugino Dudley all’inverosimile, maltrattare me e allevare una serie di bulldog spaventosamente aggressivi come se fossero i suoi figli. Squarta era il più grosso, bavoso e violento, e naturalmente era il suo preferito. Io ne ero terrorizzato. Dudley mi diceva che prima o poi, quando le punizioni non sarebbero più bastate, mi avrebbero dato in pasto a Squarta e sarebbero rimasti a guardare mentre mi sbranava”.
Hermione trattenne il respiro. 
“Ora so che non l’avrebbero mai fatto. Ora che ho visto di cosa sono capaci i Mangiamorte, so per certo che i Dursley mi avrebbero insultato, affamato, deriso, ma di sicuro non ucciso barbaramente. All’epoca, però, la distinzione non mi era così chiara. Un giorno, zia Marge era venuta a prendere il tè. Squarta era seduto su quella che in genere era la mia sedia e stava facendo a gara con Dudley per chi divorava il numero maggiore di biscotti nel minor tempo e nella maniera più disgustosa possibile. Gli adulti erano intenti a criticare le nuove manovre del governo e non stavano facendo caso a me, così trafugai un paio di biscotti e cercai di andarmene nel mio ripostiglio senza essere notato.
Squarta, però, aveva un eccellente fiuto per i biscotti al limone, e così si avventò su di me abbaiando e bloccando la mia fuga. Preso dal panico, scossi la gamba per togliermelo di dosso e gli pestai inavvertitamente la coda. A quel punto, non sapevo se essere più terrorizzato da Squarta o da zia Marge, che mi stava tuonando contro, così corsi via. Anni e anni di fughe da Dudley mi avevano reso agilissimo, perciò Squarta non riuscì a raggiungermi. Mi arrampicai sull’albero in giardino e Squarta rimase lì, ai piedi della pianta, abbaiando, ringhiando e sbavando furiosamente.
Era un cane tremendamente ostinato. Rimase lì a farmi la guardia finché zia Marge non decise che era il momento di tornare a casa. Restai su quell’albero dalle cinque a mezzanotte; zia Marge pensò che fosse un eccellente metodo educativo. Secondo lei l’esperienza avrebbe dovuto insegnarmi a stare ben attento a non pestare la coda del suo prezioso cane, molto più intelligente e pieno di valore di me, e a non rubare i biscotti da tavola. Come potesse essere considerato rubare, se i biscotti erano sulla tavola di casa mia, per me rimane ancora oggi un mistero” tentò di scherzare.
Gli occhi di Hermione erano pieni di lacrime.
“Mi hai chiesto come sia possibile che questo mi dia gli incubi, beh, è molto semplice. Ora ho affrontato cose ben peggiori, ma per un bambino di sette anni essere aggredito improvvisamente da un bulldog ben più grosso di lui, con tutte le storie che mi raccontava Dudley a riguardo, è stato un momento di terrore cieco e puro. È stata la prima volta che ho creduto di morire”.
“E i tuoi zii, e tuo cugino? Non hanno detto nulla?” chiese Hermione, sentendo la sua voce uscire spezzata e esitante. Harry sorrise, ma fu un sorriso amaro.
“Zio Vernon approvava totalmente i metodi educativi della zia, anche se si guardava bene dall’applicarli a Dudley. Quando si trattava di me quei due non facevano altro che parlare di disciplina. Zia Petunia era mortificata per l’imbarazzo che le avevo causato, e non faceva altro che scusarsi con la cognata e guardare ossessivamente le case dei vicini per vedere se qualcuno di loro aveva notato la mia presenza sull’albero. In quanto a Dudley, beh, non credo di averlo mai visto ridere così tanto. Penso che se mai Dudley avesse dovuto imparare l’Incanto Patronus, avrebbe senz’altro scelto questo ricordo”.
Hermione rimase in silenzio, divisa tra il rimpianto e lo sconcerto. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma sembrava che il suo prezioso cervello non avesse nulla di intelligente da suggerirle al momento. Probabilmente perché non c’era nulla che si potesse dire di fronte a una confessione del genere.
Gli occhi gentili di Harry la guardarono preoccupati.
“Non c’è bisogno che tu dica niente, tranquilla. È stato tanto tempo fa, non c’è bisogno di prendersela tanto. Abbiamo tante altre cose di cui preoccuparci adesso, per esempio trovare un altro modo di cucinare le bacche per colazione. Arrostite magari migliorano, che dici?”
Avrebbe voluto dire sì, magari migliorano, e sorridergli, e fingere ancora una volta che tutto andasse bene. Fingere che non le mancasse Ron, fingere che la loro ricerca li stesse portando da qualche parte, fingere di avere una vera missione e che non fosse solo un girovagare senza meta in cui rischiavano costantemente di morire di fame o di freddo. Fingere che fosse stato solo un semplice incubo, il ricordo di un brutto spavento preso da un bambino con la fobia dei cani.
Ma Harry non aveva la fobia dei cani. Nonostante Squarta, nonostante l’incontro ravvicinato con Fuffi al primo anno, nonostante avesse passato il terzo anno a credere che il Gramo lo perseguitasse come un presagio di morte, Harry era sempre stato felice di avere qualcuno che gli ricordasse Felpato che gli scodinzolava intorno. I cani gli erano sempre piaciuti, molto più dei gatti, Hermione questo lo sapeva, perché era la sua migliore amica ed era il suo compito sapere certe cose. A Harry piacevano i cani, il gelato alla frutta e il profumo di Ginny.  
Hermione avrebbe voluto dire sì, magari migliorano, ma il groppo in gola trasformò il sì in un singulto e le lacrime cominciarono a scorrere lungo le sue guance prima che potesse fermarle.
Harry le posò gentilmente una mano sulla spalla, tentando di placare il suo corpo scosso da singhiozzi.
“Hermione, non piangere, ti prego, non è successo nulla...”
Harry la stava consolando.
“Hermione, scusami, davvero, non so che mi è preso…”
Harry si stava scusando.
Era così profondamente assurdo e ingiusto che servì a scuoterla. Si alzò in piedi di scatto e lo prese per le spalle.
“Harry, smettila! Smettila di scusarti, non è giusto, lo capisci? Non hai nulla di cui scusarti!”
Si rese conto di aver urlato e sperò che il Muffliato bastasse a coprire la sua voce.
“Harry, io…ascolta, mi dispiace, mi dispiace, davvero. Io non credevo…non avevo capito…”
Ma io sapevo, si rese conto improvvisamente, io sapevo.
Harry a undici anni, due occhi verdi pieni di meraviglia per il mondo; non sa nulla del mondo dei maghi, ma neanche di quello dei Babbani. Non è mai stato in vacanza da nessuna parte, e Hermione pensa che forse i Dursley non possono permettersi di viaggiare, proprio come i Weasley, e così continua a raccontargli dei suoi viaggi in Europa e non fa altre domande.
Lo sguardo di Harry ogni anno a giugno sul treno che li porterà a casa. Tutti sono un po’ tristi quando arriva il giorno di lasciare Hogwarts, ma sono anche entusiasti per l’estate che li aspetta, senza studio e con le famiglie che non vedono da mesi. Hermione sa che i Dursley sono antipatici, e detestano la magia, e pensa che Harry si sentirà molto solo. In fondo è un sentimento normale, ma si tratta solo di poche settimane e poi si rivedranno a scuola o alla Tana. A nessuno farebbe piacere restare segregato a Little Whinging, perciò non fa altre domande.
Harry a settembre, sempre più magro di come l’ha lasciato a giugno, e le proteste della signora Weasley che rapidamente lo rimette in sesto. Un po’ dev’essere la mancanza della cucina di Hogwarts, tre lauti pasti al giorno preparati da un esercito di elfi domestici, un po’ è la crescita; sì, è così, non è poi tanto più magro se si considera quanto è cresciuto in altezza. Tutto nella norma, quindi. Non c’è bisogno di fare altre domande.
Ha aspettato un gelido mattino di dicembre, in una tenda in mezzo al nulla, per decidersi finalmente a fare domande, e scoprire che in fondo bastava chiedere, chiedere veramente, come qualcuno a cui importa.
“Harry, io…noi…abbiamo sbagliato tutto. Scusami, ti prego, se puoi. Per tutte le volte che non ho voluto vedere, e non ho fatto domande…io…io semplicemente non ci credevo. Una bambina normale amata dai suoi genitori non può credere che certe cose succedano veramente. Io pensavo che i Dursley ti trattassero male, ma non…in questo modo”.
Anche gli occhi di Harry erano lucidi, adesso. Le sue iridi risplendevano come foglie bagnate di rugiada. Inaspettatamente, goffamente, la abbracciò di slancio. Hermione lo strinse forte, nascondendo il viso sulla sua spalla. Sette anni di cose non dette furono comunicate silenziosamente in quell’abbraccio.
“Sei un eroe, Harry” gli sussurrò Hermione all’orecchio. “Non solo per quello che pensano tutti, combattere Tu-Sai-Chi… Sei un eroe e lo sei sempre stato, lo sei ogni giorno scegliendo di combattere le ingiustizie e schierarti dalla parte dei deboli. So che pensi di avere molto in comune con Tom Riddle, Harry, ma tu non sei diventato come lui. Tu hai saputo trasformare la tua sofferenza in gentilezza”.
Quando si staccarono, sul volto di Harry c’era un piccolo, brillante sorriso. Rovinarlo sembrava un crimine, ma Hermione doveva chiedere. Doveva sapere chi altro era colpevole, come lei, di aver guardato da un’altra parte.
“Harry, ti devo chiedere un’ultima cosa. Chi lo sapeva?”
Harry rifletté un attimo, prima di rispondere, riluttante:
“La mia lettera di ammissione a Hogwarts…la prima che è arrivata, sai, una di quelle che non sono riuscito a leggere…era indirizzata a me. Sulla busta diceva: “Harry Potter, Sgabuzzino del Sottoscala”. Quale bambino di undici anni dorme in un sottoscala quando al piano di sopra ci sono quattro camere da letto, Hermione?”
Lo sguardo di entrambi cadde sul volume poggiato sullo sgabello accanto al letto, Vita e Segreti di Albus Silente. Gli occhi azzurri del preside erano impenetrabili come sempre. Ho sempre pensato che i suoi occhi potessero leggerti dentro, pensò Hermione, ma forse nessuno è mai riuscito a leggere dentro di lui.  
Quante cose sapeva, e quante cose aveva taciuto? Aveva senso continuare a fidarsi delle istruzioni di un morto?
“Allora, arrostiamo queste bacche prima di sciogliere gli incantesimi di protezione e trasferirci?” domandò Hermione, con finta allegria.
Harry annuì, sorridendo. Un sorriso vero. Il terzo della giornata.
“Hermione?”
“Sì?
“Grazie”.
 



Note
 
Dopo molti tentennamenti, ho deciso di ambientare il capitolo durante la ricerca degli Horcrux, giusto perché in questa storia non c’era già abbastanza angst xD
Mi è sembrata l’atmosfera più adeguata, oltre che essere il momento di massimo avvicinamento tra Harry e Hermione nel corso della saga. Ho scelto Hermione perché ha una sensibilità fuori dal comune che le permette di capire Harry meglio di tutti. Per me il loro rapporto è di pura e profonda amicizia, perciò non ho segnalato la coppia (se qualcuno ci vede altro, faccia pure).  
Mi scuso con tutti gli amanti e possessori di bulldog per la descrizione poco simpatica che ne ho dato qui, ma era inevitabile ai fini della trama. E sì, sono innegabilmente bavosi.
Questo capitolo è stato faticoso da scrivere, perché sull’infanzia di Harry è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Io però non ho voluto calcare troppo la mano rispetto a quello che ci descrive la Rowling e quindi ho scelto di riprendere una scena dal canone. L’episodio di Squarta è tratto da “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban”, e mi è sembrato tra tutti il più esemplificativo del barbaro trattamento che Harry ha ricevuto dai Dursley.
Mi sono presa la licenza poetica di decidere che Harry è un amante dei cani, e a giudicare da come mal sopporta Grattastinchi e dalla sua immensa noia nel sentir parlare la signora Figg per ore dei propri gatti possiamo senz’altro concludere che non è un tipo da gatti.
Le prossime due puntate a settembre!
Un enorme grazie a Cryblack che ha recensito e ha individuato correttamente i riferimenti (che sollievo sapere di avere almeno un lettore che conosce tutti i fandom coinvolti xD).
Thalassa_

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Capitolo 3
*** Fratelli Elric ***


Fratelli Elric


Il tenente colonnello Mustang aveva ventisei anni, grandi ambizioni e nessuna simpatia per i bambini. Ne aveva visti morire troppi, durante la guerra.
Tamburellava nervosamente le dita sul legno, cercando di non sbuffare per l’esasperante lentezza del viaggio. Il vecchio che guidava il carretto dovette accorgersi della sua impazienza, perché disse gentilmente:
“Vi prego di scusarmi, ma qui in campagna le automobili sono molto rare”.
“Non c’è problema” rispose il tenente, cercando di rilassarsi, “anche questo ha il suo fascino”.
L’uomo che guidava il carretto parve soddisfatto della risposta e continuò a conversare amabilmente. SI chiamava Warren. O forse Walden? Era Riza che si occupava di quisquilie come i nomi al posto suo. Si preoccupava di un sacco di cose. Riza non era mai stata in guerra.
Rispose distrattamente alle domande di Warren, finché una parola non catturò la sua attenzione. “Piccoletti?” domandò scandalizzato. “Come sarebbe a dire, piccoletti?”
Scrutò freneticamente il documento. Dichiarava inequivocabilmente Villaggio di Resembool, Edward Elric, 31 anni, e Alphonse Elric, 30
“Nossignore” si incaponì Warren, scuotendo la testa. “Ne ha undici di anni, e suo fratello è un anno più piccolo”.
Mustang si rivolse con disperazione a Riza.
“Vista la situazione posso solo dedurre che il documento è errato” disse secca, con il sopracciglio alzato. La sua risposta lo gettò nello sconforto. Non poteva credere di aver viaggiato fino a quell’angolo sperduto di mondo a bordo di un carretto per un paio di ragazzini che con un po’ di fortuna avrebbero saputo trasmutare i propri trenini giocattolo.
Quando varcò la porta della ridente villetta in legno a due piani, capì che non avrebbe potuto essere più in errore. Rimase sulla soglia, paralizzato dall’orrore, incapace di distogliere la vista dal lago di sangue secco che si estendeva sul pavimento.
Esplorò la casa lentamente, senza dire una parola, sordo alle domande di Riza. La casa era deserta. Quando ebbe terminato la perlustrazione, disse una sola frase.
“Dove sono i fratelli Elric?”
 “Se non sono qui, saranno a casa della signora Rockbell” rispose allegramente Warren, che li stava aspettando fuori. Non era voluto entrare ed era parso molto a disagio alle insistenze del tenente. Probabilmente in paese si diceva che la casa fosse maledetta, o qualcosa del genere.
“Mi porti da lei” ordinò bruscamente. “È una parente stretta?”
“No, signore” rispose Warren, evidentemente confuso dal suo repentino cambio di atteggiamento. “È solo una vicina, la miglior fabbricante di automail della zona. I bambini sono orfani, signore”.
Dopo un paio di minuti, il carro accostò per farli scendere. Mustang quasi saltò giù mentre era ancora in corsa, e si precipitò alla porta. Venne ad aprire una donnetta anziana, con gli occhi miopi strizzati dietro gli occhialetti rotondi e i capelli grigi raccolti stretti sulla sommità della testa.
“Mi faccia entrare, signora Rockbell” intimò, costringendola a spostarsi. Sentì Riza scusarsi sospirando per i suoi modi, ma non gli importò. Solo dopo aver verificato che non ci fosse traccia di bambini nella stanza rivolse nuovamente la sua attenzione alla padrona di casa. La donna stava scrutando con cipiglio sospettoso le loro uniformi. “Che cosa vengono a fare qui dei militari?” domandò, più rivolta a sé stessa che a loro.
“Sono il tenente colonnello Roy Mustang, alchimista di stato” si presentò autorevolmente. “Stiamo cercando i fratelli Elric”.
La donna arricciò il naso in una smorfia di disgusto. “Maledetti cani dell’esercito” borbottò tra sé “sapevo che un giorno sareste arrivati anche qui”.
La vecchia ci disprezza, pensò amaramente Mustang. E francamente, come darle torto?
“Mia figlia e mio genero” annunciò la vecchia, e indicando con un gesto della mano le fotografie appese alle pareti. “Mia figlia e mio genero” riprese, perforandolo con uno sguardo carico d’accusa, “erano degli ottimi medici. Non hanno mai fatto ritorno dalla guerra di Ishval”.
La vecchia guardò lui e Riza con aria spavalda, come a sfidarli a discolparsi. Mustang si scoprì a fissare una fotografia che ritraeva due giovani sorridenti e nel mezzo una bambina bionda. Distolse lo sguardo, a disagio.
Vide che Riza stava per dire qualcosa, scusarsi di nuovo, forse. “Sono qui per parlare con i fratelli Elric” disse bruscamente. Come a dire: non sono interessato alle vecchie storie di famiglia. Lo scopo della mia visita è l’unica cosa che conta. Dalla sua voce aveva lasciato trapelare tutta l’impazienza che provava nei confronti di quell’incontro. Doveva sapere… non poteva credere che…
Riza sollevò un sopracciglio con evidente disapprovazione per i suoi modi ruvidi. Non sarebbe stato più delicato…? gli avrebbe sicuramente suggerito più tardi. Riza non era mai stata in guerra, ma questa donna sì, questa donna aveva la guerra negli occhi e perciò non si risentì. Storse la bocca e disse, semplicemente:
“Se li conosco bene, hanno origliato tutta la conversazione. Venite pure fuori, ragazzi”.
La porta che dava sul corridoio, che fino a quel momento era rimasta accostata, si aprì. Dalla penombra emersero due figure talmente male assortite da far apparire il loro ingresso surreale. Un cavaliere in armatura, con la celata abbassata, spingeva la sedia a rotelle di un bambino a cui mancavano un braccio e una gamba. Teneva la testa china sul petto. Mustang si sentì raggelare. Non era il primo bambino mutilato che vedeva – tanti, troppi per colpa sua, non si sarebbe mai lavato quel sangue dalle mani – ma questo bambino era mutilato nell’espressione, nello sguardo. Gli era stata strappata l’innocenza.
Prima di rendersene conto, si trovò faccia a faccia con il bambino. “Sono stato a casa vostra” urlò, strattonandogli la maglietta. “Volete spiegarmi cos’avete combinato?”
Sentì la sua stessa voce come dall’esterno, un’accusa dopo l’altra, mentre il bambino lo guardava con quegli occhi terribili.
“Scusi.”
Il tenente si girò, meravigliato nello scoprire che quella voce dolce e acuta proveniva dall’armatura.
“Ci perdoni, la prego”. Il cavaliere continuava a parlare con la voce di un bambino. Fu quello, più di tutto, ad ammutolirlo.
Chiese a Riza di lasciarlo solo con i fratelli Elric. Quella era una storia che poteva essere raccontata solo tra alchimisti.
Fu Alphonse a parlare, per quasi tutto il tempo. Il dolore nella sua voce era palpabile. Quando arrivò il momento, prese l’elmo in mano, rivelando l’armatura vuota. Il tenente si lasciò sfuggire un’espressione di sgomento. La visione dei due fratelli così profondamente lacerati gli lasciò un turbamento che non provava da anni.
La rabbia, sentimento a lui così familiare, continuava a ribollire nel suo stomaco, ma non li accusò più. Era evidente che quei bambini cercavano una sola cosa, che non era mai stata loro concessa: comprensione.
Al termine dell’incredibile racconto, fece rientrare la vecchia, a malincuore, perché era la cosa più vicina a un tutore che avessero. Mustang elencò loro i privilegi riservati agli alchimisti di Stato, sforzandosi di pensare a loro esclusivamente come a risorse dell’esercito. La sua voce era monotona, professionale.
Alphonse, tra i due, era il più pacato, ed era naturalmente quasi impossibile da sconfiggere in combattimento. Edward era un alchimista eccezionale e Mustang vide in lui lo scintillio di una fiamma quasi estinta che improvvisamente riprende a crepitare.
Era ormai l’imbrunire. “Edward ha bisogno di riposo” gracchiò la vecchia Pinako. “Alphonse, accompagnalo nella sua stanza”. Il tenente salutò i due ragazzi, raccomandando loro di presentarsi al quartier generale di East City se avessero deciso di accettare l’offerta. Quando furono usciti, non diede segno di volersi alzare dalla sedia.
Lui e la vecchia si scrutarono a lungo, in silenzio. Il tenente Mustang aveva ripreso la sua solita espressione fredda e distaccata, ma la sua mano destra era stretta in un pugno serrato. Sapeva che le unghie avrebbero lasciato il segno sul palmo.
“Com’è stato possibile?”
La vecchia non rispose subito. Si limitò a guardare nel vuoto, masticando la pipa che teneva nell’angolo della bocca.
“Non so nulla di alchimia” rispose infine. “Non avevo idea che stessero architettando qualcosa di così pericoloso. Se avessi avuto una minima idea, io…”. La sua voce si spense.
“Ma ha lasciato che due bambini vivessero completamente soli dopo la morte della madre” ribatté il tenente, implacabile.
Le gote avvizzite della vecchia si tinsero di rosso. “Sembravano in grado di cavarsela da soli…li invitavo sempre qui a mangiare, ma poi loro insistevano per tornare a casa, e io… non sono i miei nipoti, dopotutto”. Lo sguardo del tenente sembrava innervosirla. “Io devo occuparmi di Winry, ora che i suoi genitori non ci sono più. Devo occuparmi di Winry…loro non sono i miei nipoti, dopotutto…”
Mustang non rispose, ma spostò ostentatamente lo sguardo su una delle fotografie appese alla parete. Accanto alle foto dei due medici, c’era un’altra fotografia che ritraeva tre testoline bionde, due bambini e una bambina che si abbracciavano stretti.  
La vecchia seguì il suo sguardo. “Se ne vada!” urlò, scattando in piedi in un moto di rabbia e indicando la porta. “Se ne vada!”. La sua voce era rotta dal pianto.
Mustang se ne andò.
“Torniamo a Central City, signore?” domandò Warren, che lo aspettava con il suo carretto fuori dalla porta. Riza era già pronta per partire.
“Un attimo, c’è ancora una cosa che devo vedere”.
Quando entrò per la seconda volta nella casa dei fratelli Elric, non sapeva bene cosa stesse cercando. Girò per le stanze, cercando di immaginare come la casa fosse apparsa vuota agli occhi di due bambini che hanno perso la loro mamma. Arrivato alla biblioteca, riconobbe al primo sguardo la prova che aveva inconsciamente cercato, qualcosa che non aveva notato durante la sua visita di qualche ora prima.
Prese in mano il pezzetto di carta lasciato negligentemente come segnalibro in un manuale di alchimia. Lo studiò per qualche istante, poi lo accartocciò nervosamente e se lo mise in tasca.
Sapeva che avevano avuto bisogno di ingredienti particolari. La lista era scritta con una calligrafia rotonda, infantile, il tipo di grafia che sarebbe naturale trovare su una pagina di diario su cui è stata trascritta una filastrocca, o una lista di parole da imparare: A come Automail, B come Bosco, eccetera. Di certo da una grafia del genere non ci si aspettano parole come salnitro o zolfo.
La vecchia non aveva notato nulla. La loro maestra, che avrebbe dovuto guidarli e istruirli, non aveva notato nulla. Nessuno, a quanto pareva, aveva notato nulla.
Il tenente cercò di figurarsi la scena. Due bambini sugli otto anni entrano in farmacia e iniziano a snocciolare una lista di richieste alquanto peculiare. Forse qualcuno li conosce di vista come orfani e figli di un alchimista. Nessuno si chiede a cosa serva loro il salnitro. Nessuno si chiede perché non siano a scuola. Nessuno si chiede chi si prenda cura di loro, e curiosamente la risposta è proprio: nessuno.
I bambini spuntano allegramente alcuni punti dalla loro lista, pagano e escono. Nessuno ha notato nulla.
Mustang uscì dalla casa e raggiunse Riza e Warren, più determinato che mai. “Possiamo andare”.
Il tenente Mustang aveva ventisei anni, grandi ambizioni e non aveva tempo da perdere. Non gli erano mai piaciuti i bambini.
 
 
 
 
Note
Le prossime due puntate a settembre, dicevamo…ehm. Scusatemi moltissimo il ritardo e imparerò a non fare più promesse sulle scadenze. La genesi di questa storia è un po’ particolare: l’ho scritta senza andare a rileggere la scena e di conseguenza poi ho dovuto limarla parecchio per renderla compatibile con la scena del manga. Consideratelo un ampliamento di quanto ci viene mostrato, con qualche licenza.
Nel capitolo, mi ostino a chiamare Pinako “la vecchia” perché la scena è filtrata dal punto di vista di Mustang.
Spero di sentire presto le vostre opinioni.
Thalassa_

 

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