Gone

di cliffordsjuliet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II. Far away ***
Capitolo 3: *** Just Starting to Crawl ***
Capitolo 4: *** I just wanna feel free ***
Capitolo 5: *** 5. A chance to run away ***
Capitolo 6: *** Fear ***
Capitolo 7: *** Loosing everything ***



Capitolo 1
*** I ***






I. GONE
 
Ero stata abituata all’odio sin dalla nascita.
Quando vivi nelle periferie una cosa la sai: alle tue cose ti ci devi attaccare.
Diventi possessivo, diventi cattivo. Del mondo non te ne frega niente, quando hai qualcosa da perdere e vivi ogni giorno con il rischio di perderle davvero, quelle cose.
Inizi a farti delle domande, a guardarti in giro, ma quello che vedi non ti piace e allora fai finta di niente. Era così che andava, a casa mia. Ogni giorno facevamo finta di non sentire le urla provenienti dall’abitazione accanto alla nostra, fingevamo di essere immuni a quelle grida. Ogni giorno mio padre mi baciava sulla fronte e mia madre mi intrecciava i capelli, ed io tenevo gli occhi chiusi, cercando di scomparire.
Perché quelle urla della casa vicina io me le sentivo dentro. Mi strappavano l’anima, mi sconquassavano le viscere, portavano alla mia mente ricordi passati.
La casa accanto alla nostra era quella del mio maledettissimo miglior amico, Luke.
Erano sue le urla. Sue, di sua madre, di suo padre: che differenza faceva?
Le conosceva tutto il vicinato. Eravamo abituati, lì, a quel tipo di dolore. Quel tipo di sporcizia che ti si infila tra le costole, e inizia a renderti insoddisfatto.
Sapevo che anche i miei genitori gridavano, spesso, ma almeno lo facevano quando io non ero in casa. Con me fingevano che andasse tutto bene, che fossimo una famiglia normale. Non volevano capissi che anche noi, in fondo, eravamo come tutti i poveracci di quel quartiere: dimenticati da Dio, poveri in canna a cui non è rimasto nulla se non odiare. Almeno ci provavano, i miei genitori, a tenermi lontana da quello schifo.
Peccato che a me, l’odio, lo aveva insegnato proprio Luke.
Eravamo cresciuti insieme, lo avevo accolto nel mio letto tutte le notti in cui le urla dei suoi genitori si facevano un po’ più forti, più aspre. Lui scappava dalla finestra e poi bussava al mio balcone a pianterreno, scalzo e col pigiama.
Lo strapazzavo per bene, da piccola. Gli dicevo che era una storia inaccettabile, doveva chiamare i servizi sociali. Non poteva mica svegliarmi ogni sera, ogni volta che i suoi litigavano. Ché poi io mi concentravo sulle urla e non riprendevo più sonno.
Era quello che dicevo ma, in realtà, avevo solo paura per lui.
E quindi ogni volta il mio balcone era spalancato, e lui si issava dentro e poi restava a dormire insieme a me, nel mio stesso letto, il mio odore che diventava un po’ anche il suo. Restavamo così finché mia madre non veniva a svegliarmi e allora lo notava; faceva scenate, all’inizio, diceva che non era una cosa accettabile.
Penso capì abbastanza in fretta che a noi non importava molto di quello che era accettabile e ciò che non lo era.
Iniziò ben presto a limitarsi a scuotere la testa, a dirci “non fatevi scoprire da papà”.
Papà si arrabbierebbe, pensavo. Papà mi impedirebbe di rivedere Luke.
Avevo sempre paura, e la paura la mascheravo dietro la rabbia che scaricavo su Luke.
Mi metterai nei casini, gli dicevo. La verità era che poteva procurarmi quanti guai voleva lui, ma era il mio migliore amico, e gli volevo bene. Anche se non glielo avevo mai detto. Anche se non lo abbracciavo mai, pensavo lo sapesse.
Pensavo avesse capito che per lui avrei accettato qualsiasi peso.
Era per questo che mi incazzai, quella sera di settembre. Luke bussò al mio balcone, non ci volle molto perché gli aprissi. Mi limitai ad alzare gli occhi al cielo mentre superava l’inferriata scavalcandola con le sue gambe lunghe, per poi intrufolarsi malamente nella mia stanza.
«Vedi di non fare troppo rumore, idiota, ché i miei dormono già da un pezzo» lo apostrofai annoiata, buttandomi nuovamente sul letto di peso. Luke sbuffò, aggiustandosi l’enorme maglia nera – una delle tante con una qualche stampa di gruppi metal, quelli che lui adorava e che a volte aveva provato a far ascoltare anche a me, senza successo.
«Come la fai lunga, K» borbottò, stendendosi al mio fianco «Tanto tuo padre non ci scopre mica, lo sai. Potremmo fare sesso qui e ora e neanche ci sentirebbe»
Mi voltai verso di lui di scatto, gli occhi spalancati e sorpresi. Luke mi rivolse un sorrisetto insolente, uno dei suoi, uno di quelli che sapeva mi dessero fastidio da morire.
Gli tirai un pugno sul braccio. Sapevo che non l’avrei neanche scalfito, ma era così che mi facevo capire. Facendogli male. Facendomi male.
«Ahi, Kendra, che cazzo fai?» prese a massaggiarsi la parte colpita, lanciandomi un’occhiataccia. Inarcai le sopracciglia in risposta, mi scostai più lontana da lui.
«Certo che tu ne spari, di puttanate» lo rimbrottai poi decisa, puntando lo sguardo sul soffitto della mia stanza.
C’era qualche stella fosforescente ancora attaccata, ma la maggior parte di esse era caduta giù con gli anni. L’intonaco grigio era scrostato e veniva via a pezzi pure quello, ma i soldi per aggiustarlo di sicuro non c’erano.
«Cos’è successo stavolta?» domandai poi, visto che Luke non accennava a parlare.
Spesso era così, con lui: le cose dovevi cavargliele di bocca, col rischio che morisse a dire una frase di più. Io però sapevo farlo parlare. Lo conoscevo, sapevo quali fossero i suoi punti deboli.
«Niente» si strinse nelle spalle, a disagio.  
Sbuffai. Pensavo che finché se ne stava comodo nel mio letto me la dovesse, la verità, e invece lui taceva, e ogni volta era una battaglia per capire poi poco o niente.
«E allora cosa?» incalzai indispettita. Non mi piaceva che non mi parlasse. Se non con me, con chi voleva farlo? Gli tirai la maglietta, aspettavo la sua risposta.
«Che cazzo, Kendra, non sono cose che ti riguardano» Luke, come ogni volta, sbuffava e si girava su un lato, mi dava le spalle.
Mi faceva incazzare da morire, e lo sapeva. Gli diedi uno spintone con tutta la forza che avevo in corpo, cercavo di farlo cadere. Ci riuscii quasi, e mi sentii immediatamente meglio.
«Che palle, se devi fare così me ne vado. Ti ho capita, che c’hai voglia di farti gli affari miei solo per farmi la paternale»
«Gli affari tuoi sono affari miei, Luke. Sei nel mio fottutissimo letto, e poi che cazzo, sei il mio migliore amico!»
Luke si strinse nelle spalle, non si voltò a guardarmi.
«Ho preso una decisione riguardo a quello che farò dopo»
Dopo. Era un discorso che non avevamo affrontato mai, ma mi terrorizzava e Luke probabilmente lo sapeva. Avendo concluso appena le superiori ci si aspettava da me che io decidessi del mio futuro e di ciò che avrei fatto nella vita, ma io non lo sapevo mica.
Tutto ciò che sapevo era che volevo andarmene di là. Non ero come Luke, non avrei continuato a studiare. Io volevo andarmene da quella tristissima periferia e lavorare, avere i miei soldi. Vedere il mondo. Non ne avevamo mai parlato perché entrambi temevamo il momento in cui ci saremmo accorti che i nostri piani erano troppo diversi, ritrovandoci costretti a separarci. Io ce l’avrei fatta senza Luke, probabilmente.
Ero brava a fingere forza, a mantenere insieme i miei pezzi.
Lui no. Lui perdeva sicurezza ad ogni insulto, ogni litigio con i suoi. Aveva la mente di un folle, Luke, ma l’anima di un bambino. Un bambino aggrappato a me come fossi stata la sua ancora di salvezza. Lo ero stata, fino a quel momento. L’idea di lasciarlo, però, non mi era mai sembrata così concreta.
«Ah, sì?» simulavo indifferenza, l’unica emozione che mi era sempre riuscito di mostrare, se così potevo chiamarla. «Hai deciso cosa studiare?»
Sentii chiaramente la rigidità impossessarsi del corpo di Luke. La percepii sotto le mani che ancora stringevano la sua maglia, mentre la sua schiena si tendeva, rispecchiando il suo nervosismo. Scattai a sedere, guardinga. Conoscevo troppo bene quel corpo e le sue reazioni, sapevo che stavo per scoprire qualcosa che non mi sarebbe piaciuto.
«Perché tu vuoi studiare, vero, Luke?» ripresi, costringendolo a voltarsi per guardarmi in faccia. Erano azzurri, i suoi occhi, sembravano due squarci di cielo e in quel momento mi stavano urlando, gridando contro la verità. Ed io invece preferivo ignorarli, perché mi sarei fatta male, altrimenti.
«Ho cambiato idea» buttò lì semplicemente, abbassando lo sguardo.
Mi bloccai. «Che significa che hai cambiato idea?»
«Tu cosa pensi che significhi?»
«Stronzo, non provarci neanche, con me. Rispondi alla mia domanda» la voce mi tremava, immaginavo i miei occhi iniettati di sangue, da pazza. In quel momento avrei fatto paura a chiunque, anche a Luke. Lo sapevo. Lo percepivo, che aveva paura di me e della mia possibile reazione.
Quando riprese il suo tono era cauto. «Credo che lavorerò…»
«Lavorare? Che lavoro vuoi fare tu, scusa? A quelli come noi mica lo danno, un lavoro. Devi toglierti di dosso la puzza di queste strade, Luke, altrimenti col cazzo che puoi lavorare» sbottai, cattiva ed egoista. Gli rinfacciai la verità perché solo quello mi era rimasto. Perché io potevo sprecarlo, il mio futuro, ma Luke no. Luke in fondo era buono. Lui non si era fatto contaminare da quello sporco, quell’odio che invece aveva insegnato a me semplicemente volendomi bene. Era ancora pulito, volevo lo rimanesse.
«Grazie per la fiducia, K»
Gli tirai un calcio. «Lo sai che ho ragione, Luke, tu lo sai. Che lavoro vuoi fare?»
«Cristo, Kendra, con Ashton, va bene? Io lavorerò con Ashton»


Non ne parlammo più.
Non c’era molto da dire, a riguardo. Gli avevo riso in faccia quando me lo aveva detto, era una risata brutta, da psicopatica. La risata di una che stava prendendo le cose alla leggera, ma che in realtà avrebbe volentieri spaccato qualcosa. Gli dissi di stare zitto, che ne avevo abbastanza di cazzate. Ché non poteva fare sul serio. E lui mi aveva dato ascolto, lo stronzo, si era zittito e poco dopo si era addormentato. Nel mio letto, con la testa sul mio cuscino, le gambe intrecciate alle mie. Io no. Io non ero riuscita a dormire, quella notte, troppo terrorizzata all’idea che Luke potesse star facendo sul serio.
Ero uscita dalla stanza alle sei del mattino, prima che lui si svegliasse. Era camera mia, ma me ne stavo scappando come una ladra. Ero uscita da quella stanza ed ero rientrata solo quando mi ero sentita sicura che non l’avrei incontrato. Nei giorni seguenti feci di tutto per evitarlo, non volevo vederlo. Avevo paura di incontrare quegli occhi e scoprire la verità, e trovarmi ferita come mai. Avrei sentito l’impulso di distruggerlo.
Mi conoscevo, sapevo che ci avrei provato in tutti i modi: era il mio migliore amico, avrei saputo come e dove colpire.
Per cui lo evitai. Lo schivavo come la peste, smisi di frequentare i luoghi nei quali di solito ci incontravamo. Ogni sera abbassavo le persiane del mio balcone, le chiudevo ermeticamente, affinché non gli venisse in mente di venirmi a trovare.
Da qualche parte avevo anche un cellulare, ma conoscendomi dubitavo che Luke avrebbe mai potuto provare a contattarmi tramite quello. Odiavo quei cosi, mi facevano sentire costantemente spiata, sotto controllo. Ero paranoica, e gli aggeggi elettronici non facevano altro che aumentare la mia ansia patologica.
Riuscii ad evitarlo per due settimane intere. Ogni tanto veniva a trovarmi a casa Calum, che pure era mio amico. Mi chiedeva se era tutto okay. Voleva sapere se stavo bene, se fosse successo qualcosa di particolare negli ultimi tempi: io negavo, serafica, e poi cambiavo argomento. Sapevo che le domande non erano sue, ma era Luke che lo obbligava a chiedermi quelle cose. Orgoglioso com’era, in tanti anni non aveva mai avuto il coraggio di presentarsi alla porta di casa mia, farsi conoscere da mia madre più ufficialmente, da mio padre per la prima volta. Orgoglioso, si definiva. Per me era solo un codardo. Mio padre faceva abbastanza paura, per i suoi 38 anni: era alto, sapevo che da ragazzo aveva giocato a pallacanestro ed era anche abbastanza bravo. Aveva l’aria sempre incazzata, mio padre, era peggio di me. E Luke non ce le aveva, le palle di affrontarlo.
Lo avevo sempre dato per scontato, e in quelle due settimane cercai di starmene in casa il più possibile, che tanto stavo sicura, non lo avrei incontrato. Se pure i miei se ne erano accorti, poi, avevano fatto finta di niente. Mio padre era sempre troppo occupato a lavorare a chissà cosa per prestare attenzione a ciò che facevo io, e mia madre si limitava a sospirare e scuotere la testa, apprensiva. Forse sapeva che cosa stavo facendo.
Forse in me stessa, quella sua figlia dai diciott’anni fatti di rabbia e odio freddo, rivedeva i suoi fallimenti. Me lo sono sempre chiesta, ma non gliel’ho mai domandato davvero.
Fu anche per questo che, quando sentii quella voce, gelai sul posto.
«Salve, signora Saint. Cercavo Kendra, è in casa?»
Non avevo pensato. Non mi ero fermata a riflettere, non lo avevo fatto.
Ero corsa in camera mia, avevo indossato un paio di infradito chiare, al volo. Ero corsa al balcone e lo avevo spalancato, mi ero tuffata fuori di lì col rischio di rompermi qualcosa.
Il mio unico modo di preservarmi da quello che mi faceva male era scappare, ed era quello che stavo facendo. Scappavo da Luke, il mio migliore amico, perché la sua verità mi faceva male. Scappavo perché avevo paura anche io.
Scivolai sull’asfalto, mi scorticai un ginocchio ma non mi fermai. Correvo, non sapevo neanche dove stessi andando ma correvo. Mi sembrava di star facendo qualcosa.
Mi sembrava che avrei risolto qualcosa, così. Svoltai l’angolo della strada, superai due isolati di asfalto polveroso e appartamenti in decadenza, uscii dalla periferia, stavo correndo verso la campagna. Mi fermai in un vecchio parcheggio, piegata in due.
I polmoni deliravano, mi chiedevano aria. Il ginocchio scorticato bruciava da morire e i muscoli mi tremavano, che fiacca com’ero non ce la facevo mica a correre per così tanto tempo. Mi fermai, stremata, e solo in quel momento mi concessi di respirare.
Fosse dipeso da me io Luke non lo avrei guardato più in faccia fino all’anno dopo.
«Però, Kendra Saint. Chi lo avrebbe detto che le sapevi muovere così velocemente, le gambe?»
Mi voltai di scatto, pietrificata. Dio fa’ che non sia lui. Fa’ che non io non abbia corso per niente, non sono pronta, non sono pronta.
Non era Luke, però. Non era lui che se ne stava in piedi, appoggiato contro una moto, il sorriso bastardo e un piercing al sopracciglio a riflettere i raggi del sole pomeridiano, attirando l’attenzione su uno sguardo da pazzo.
Michael Clifford era sicuramente una delle ultime persone che avrei desiderato incontrare, in ogni caso. Ma non mi sarei mostrata debole.
«Cosa ti fa pensare di sapere qualcosa di me, Clifford?» Ero altezzosa, sdegnosa come mio solito. La solita rabbia trapelava dalle mie parole e a me stava bene, perché era così che avevo imparato a farmi scudo.
«Io so tante cose di te, ragazzina. Alcune di queste sono sconosciute anche a te»
Michael gettò la testa indietro e rise. Non vedevo cosa ci fosse da ridere, eppure lui lo faceva, e aveva una risata troppo cristallina, troppo limpida. Era diversa dalla risata che ti aspetteresti da uno come Michael Clifford.
«Di cosa stai parlando non lo sai neanche tu, Clifford» chiarii lapidaria.
«Perché, tu sì? Giochi a fare la grande, ma poi scappi davanti ad ogni cosa»
Le sue parole mi si conficcarono dentro come coltelli intrisi di rancore. Accesero la parte sporca di me, la peggiore che ci fosse. Quella che era venuta insieme a me in mezzo allo sporco della mia periferia, il luogo dove niente aveva un nome.
Era così, la Periferia. Io non ero Kendra Saint, non ero la figlia di Missi e Jackson.
Non c’erano nomi, in periferia. Eravamo tutti numeri, volti un po’ scambiati, copie sbiadite di chi, prima di noi, in quel posto ci era marcito.
Io non facevo differenza. Clifford nemmeno, ma lui dentro era più marcio di me.
«Non sai che merda stai dicendo» ribadii, dandogli le spalle. Me ne sarei tornata a casa, con calma, senza correre. Sarei arrivata lì e a quel punto non ci sarebbe stato Luke ad aspettarmi.
Pensavo che mi sarei sentita sollevata, invece mi sentivo solamente miserabile.
Le parole di Michael mi si erano conficcate dentro, facevano male. Mi impedivano di respirare.
Fu allora che lui riprese, quando ormai credevo di essere al sicuro, pronta ad andarmene.
«Quindi non è vero che sono due settimane che scappi da Luke, giusto?»
Arrestai i miei passi. Arrestai i miei passi e mi voltai, e gli occhi di ghiaccio di Michael erano lì, che mi perforavano il volto divertiti e crudeli, pronti a scorgere la minima traccia del mio cedimento. La verità era che Clifford non mi era mai piaciuto, lui e il suo amichetto, Ashton Irwin. Lo sapevamo, in Periferia, che erano coinvolti in qualcosa di pesante. Non sapevamo cosa, ma non ci piacevano, e noi non piacevamo a loro.
Lo avrei ammazzato volentieri, in quel momento. Luke, l’aveva chiamato, come se il mio amico fosse stata roba sua. Come se fossero stati compagni da tempo, in confidenza.
Luke. La sua voce che pronunciava quel nome continuava a girarmi in testa, mi dava la nausea.
«Che cazzo hai detto, scusa?»
«La verità. Nient’altro che la verità, Saint, e lo sai pure tu. Puoi sbraitare quanto vuoi, tanto lo sai che ho ragione»
Desiderai togliergli quel sorriso insolente dalla faccia. Volevo prenderlo a schiaffi, pugni, avrei gioito del suo dolore. Mi sarei divertita nel vederlo soffrire.
Mi avventai contro di lui di corsa, coprendo quei pochi metri di distanza che ci separavano già pronta per tirargli uno schiaffo, ma lui fu veloce a bloccarmi il polso.
Le sue dita riuscivano a circondarlo per intero, stringevano tanto da farmi male.
Mi stava facendo male. Mi stava facendo male, ma non glielo avrei mai dimostrato.
«Avanti, ragazzina, provaci. Cosa vuoi fare? Fammi vedere» mi schernì, e quella sua presa in giro mi mandò il sangue alla testa.
«Devi stargli lontano!» gridai, fuori controllo. «Tu e quell’altro coglione di Irwin, avete capito? Dovete stargli lontano. Per voi non è Luke, non è Hemmings, non è niente!
Non dovete toccarlo!»
Scalciavo, cercavo di tirare via il braccio. Clifford strinse ancora un po’, poi mi lasciò andare. Dove prima c’erano le sue dita aleggiava un segno scuro, brutto.
«Non sembrava te fregasse tanto, mentre lo evitavi» mi rinfacciò cattivo.
«Te lo dico un’ultima volta, non devi toccare il mio amico» sottolineai quel “mio” con talmente tanta forza che risultai più decisa di quanto già non fossi. Sembravo forte.
«Non è mica tuo, Kendra Saint. Ormai non lo è più da tanto tempo»
Disse quelle parole con uno sguardo che poteva significare: e quindi? Lo dovevi capire prima.
Le pronunciò con noncuranza, prima di salire a bordo di quell’assurda ed enorme moto nera, tirata a lucido. Una cosa da signori, non da ragazzini psicopatici sempre presi a far la guerra al mondo. Prima che potessi anche solo obiettare era già lì che sgommava via, ed io rimasi come una cretina a guardare la polvere sollevata da quella bestia di mezzo, scombussolata come non mi ero mai sentita.
Perché Michael Clifford aveva ragione.
Quanto, però, io non l’avevo ancora capito.
 
Il Paladar era il locale preferito dai ragazzi della periferia.
Era in piazza, questa piazzetta brutta e sporca di asfalto, l’odore della polvere che si mischiava a quello del catrame. Era un locale piccolo, ma tanto noi non è che eravamo chissà quanti. Poche anime abbandonate dal mondo, ecco cosa eravamo.
Quando entrai quella sera indossavo una felpa di Luke. Era estate ma faceva quasi freddo, e le mie gambe scoperte erano in preda alla pelle d’oca.
Mi strinsi nella felpa, inspirandone l’odore così conosciuto. Dovevo parlargli.
Dovevo farlo, perché avevo bisogno di capire cosa stava succedendo.
Perché Ashton, perché Michael. Cos’era tutta quella storia che mi faceva male, che mi stava dilaniando dall’interno. Le parole di Clifford ancora mi bruciavano dentro, erano una coltellata nuova ogni volta che ci pensavo.
Lo trovai che se ne stava seduto su un divanetto con Calum, il nostro solito angolo, all’interno e nella zona più buia. Era lì che beveva un drink dal colore scuro, e Calum annuiva a qualcosa che gli stava dicendo.
«… Io ci ho provato, capisci, ma non so che diavolo fare se lei neanche mi parla, io ho paura…» in quel momento alzò gli occhi, mi vide. Le parole gli morirono in gola mentre gli lanciavo un’occhiata delle mie, una di quelle che sembravano dire “scusa?” e anche
“in questo momento ti farei a pezzi”.
Si alzò dal divano, era cauto e io capivo anche perché. Lo capivo e mi dava incredibilmente fastidio, ma questo non glielo dissi.
«Quella felpa è mia» esordì, a un passo da me.
Inarcai un sopracciglio. «Davvero? Beh, adesso non più»
«Non puoi venire qui e fare finta di nulla, Kendra, e con la mia felpa per di più. Non puoi fottere così il cervello delle persone»
Era incazzato, Luke. Se ne stava lì con quei suoi occhi pieni di rancore, e le labbra screpolate e la sua voce roca, come quella di uno che non dorme da giorni.
Se ne stava lì e mi guardava, e nel frattempo aspettava una mia mossa.
Aspettava la prossima frase che avrei utilizzato per ferirlo.
Non feci niente del genere. Per la prima volta da chissà quanto tempo, mi gettai contro di lui e lo strinsi forte. Era un po’ ironico quell’abbraccio, visto che ero alta la metà di lui, ma non ci volle molto prima che Luke ricambiasse. Aveva bisogno di me.
Aveva bisogno di quel contatto fisico, aveva bisogno di credere, sperare che non mi aveva persa. Affondai il viso nel suo petto e mi sentii meglio, inalando il suo odore così familiare, un po’ alterato dall’alcool. Sapeva così tanto di Luke, quell’odore.
«Dai, sediamoci, che voglio bere qualcosa» dettai poi, staccandomi.
Che okay le dimostrazioni d’affetto, ma non ero così abituata. Semplicemente non erano cose che facevo, quelle. Non sapevo gestirle, io, le emozioni.
Senti Luke ridere amaramente, prima di percepire la sua mano sulla mia schiena, a sospingermi verso i divanetti.
«Ehi, K!» Calum mi salutò con il suo solito entusiasmo, mi diede il cinque.
Era bella, l’allegria di Calum. Ti faceva credere che le cose potessero davvero andare per il verso giusto.
«Ehi, Cal» ricambiai il saluto con un mezzo sorriso e poi feci scontrare il mio pugno con il suo. Non ero brava, a sorridere, non era qualcosa che facevo spesso. Le mie labbra sembravano quasi atrofizzate, gli angoli sempre piegati verso il basso. Era qualcosa che mia madre mi aveva fatto notare spesso, durante i nostri litigi, chiamandomi ingrata.
Che almeno noi avevamo un tetto sulla testa, e loro si sforzavano di non urlarmi contro, di non fare scenate. Mica come gli Hemmings di là. I miei ci provavano, a fingere di non essere anche loro bestie di quel posto marcio.
Un cameriere dall’aria svogliata si avvicinò al tavolo ed io ordinai una birra sale e limone, una tradizione mia e di Luke. Lui sorrideva, mi guardava e sorrideva, e tutta la stanchezza sembrava essersi volatizzata dai suoi occhi stanchi.
Questo finché non li vidi.
Erano appena entrati, Michael e Ashton. Erano diversissimi tra loro, ma avevano quel modo di camminare – indolente, strascicato, quasi flemmatico – che li avrebbe fatti passare per fratelli. Quei due erano cresciuti insieme in mezzo allo schifo di quei palazzi, esattamente come me e Luke. Solo che loro erano finiti peggio. Erano i ragazzi del «mostro», come li chiamavano lì. Quelli che non sai cosa fanno, ma qualcosa lo fanno.
Si avvicinarono al nostro tavolo con la calma di vecchi amici, mezzi sorrisi e mozziconi di sigaretta spenti in bocca. Michael occhieggiò nella mia direzione, mi lanciò un sorriso ammiccante ed io sentii il sangue andarmi al cervello.
«Che miseria vogliono, questi due?» sbottai sprezzante, mi rivolgevo al mio migliore amico che però non mi guardava in faccia. Luke fissava il proprio bicchiere e Calum si passava una mano tra i capelli, a disagio.
«Hey, ragazzi»
Ashton Irwin che ci salutava davvero come ci fosse qualcosa che ci legasse, come se fossimo stati seriamente amici, mi dava la nausea.
«Ehi, Ash» fu la risposta breve di Luke. Ash? Sgranai gli occhi, aspettando una risposta, ma tanto quel vigliacco del mio migliore amico mica mi guardava in faccia.
«Luke? Che cazzo succede?» Non gliel’avrei fatta passare, non gli avrei permesso di evitarmi. Luke si girò verso di me, mi faceva paura ma non glielo dissi, aveva gli occhi spalancati e uno sguardo così perso da fare male anche a me.
«Senti, K, loro sono…»
«Suoi amici» chiarì Michael, prendendo posto sul divanetto. Mi mandò in bestia.
«Voi non siete amici proprio di nessuno, stronzo»
«Attenta con il linguaggio, ragazzina» stavolta era stato Ashton, a parlare, e a me quella voce metteva i brividi. Non sapevo neanche perché, mi spaventava e basta.
Il che significava che semplicemente lo odiavo di più.
«Io vado a farmi un altro drink» annunciò Calum, alzandosi. Il piccolo Calum, il mio amico così buono che non sopportava nessun tipo di tensione. Mi chiesi cosa ne sapesse di tutta quella storia e nel frattempo dentro di me tremavo, avevo paura della risposta.
Non volevo credere che fossi stata tradita dalle uniche persone di cui mi fidavo.
Non volevo pensare che Luke stesse facendo qualcosa in cui io non ero compresa, mi faceva male, perché Luke era roba mia. L’idea di perderlo prima del previsto era inaccettabile. Soprattutto per colpa di quei due.
«Luke, com’è andata l’altra sera?» Ashton si rivolse al mio amico, lo sguardo serio.
Luke scrollò le spalle. «Come al solito»
«Com’è andata cosa?» m’intromisi. Proprio non ce la facevo, a stare fuori dalle faccende di Luke.
Irwin sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Cristo santo, ragazzina, fai troppe domande»
«Te l’avevo detto che era una rompipalle, Ash» Michael rise, neanche ci fosse qualcosa di divertente in tutta quella situazione di merda.
Mi alzai dal divanetto, stava diventando tutto troppo, per me.
«Quando stasera ti ritroverai da solo, ricordati che io almeno ci ho provato» pronunciai impietosa in direzione di Luke. Poi, senza un saluto, mi allontanai. Sapevo che lui avrebbe capito il significato delle mie parole. Sapevo che ci sarebbe stato male. E sapevo che, per una volta, non me ne importava.
Se erano i guai, che voleva, avrebbero portato il mio nome, non quelli di quei due idioti patentati che adesso, seduti lì su quel divanetto, sembravano i suoi nuovi migliori amici.
Se era il dolore che voleva, sarei stata io a fargli male.

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Capitolo 2
*** II. Far away ***







II. Far Away

I giorni che seguirono furono un inferno.
Mi sentivo una bestia, un diavolo spinto a calci nell’ultimo girone dell’inferno, l’ultima dei dannati. Ci avevo provato, io, con Luke. Volevo capire, volevo mandare a quel paese tutte le mie paranoie e ascoltarlo. Perché era la cosa giusta, ché era il mio migliore amico.
Pensavo che dovesse esserci una spiegazione a quella storia della quale io capivo sempre meno e mi sarei costretta ad ascoltarla, se avessi dovuto, gli avrei dato l’occasione di spiegarmi.
Eppure Michael e Ashton s’erano avvicinati a noi con quell’aria – l’aria sicura di chi una cosa del genere l’ha fatta tante volte – e non ci avevo visto più.
Mi alzai dal letto di scatto, il respiro ansante.
Ancora settimane senza nessun contatto col mio migliore amico.
Per sicurezza avevo detto a mia madre di non ammettere in casa neanche Calum – Cal, il mio Calum, il ragazzo così buono che probabilmente, se avesse saputo, si sarebbe fatto carico del mio tormento: stavo evitando anche lui. Una risata isterica mi sfuggì alle labbra mentre realizzai, apatica, quello che Luke mi aveva fatto. Aveva creato il vuoto intorno a me.
Mi alzai dal letto e lasciai la stanza di scatto, con movimenti febbrili. Sembravo un animale selvatico, mentre mi muovevo veloce e scoordinata lungo le scale, e poi giù, fuori dalla porta e sul vialetto di casa mia.
Erano le quattro del mattino. L’aria fredda mi faceva rabbrividire e tremare, mi stringevo le braccia intorno al corpo ma serviva a ben poco. Erano settimane, ormai, che avevo freddo.
«Non pensavo che t’avrei trovata sveglia così, a quest’ora»
Mi irrigidii immediatamente.
Era Luke, in piedi davanti a me, Luke con la sua camicia a quadri blu e il ciuffo scompigliato, Luke e il suo sguardo così indecifrabile che avrei voluto urlare e poi colpirlo, fargli male. Non era mai successo che non riuscissi a leggerlo, proprio io che ero la sua migliore amica, io che ero venuta su assieme a lui in mezzo al grigio del nostro mondo, come un rovo che s’attorciglia intorno ad una rosa e magari un po’ la soffoca, ma la rosa sopravvive, e in fondo è giusto così. Sono cresciuti insieme.
Scattai in piedi, feci per allontanarmi – non volevo sapere più nulla, avevo paura e volevo andarmene e volevo colpirlo ed ero sola, e non volevo saperne nulla.
Luke fu più svelto.
Mi raggiunse in pochi passi e mi bloccò per un braccio, strattonandomi.
«Ahia, cretino, mi fai male, no? Lasciami, lasciami ti dico» mi dimenavo come una pazza ma sussurravo, non avevo la forza per gridare, per farmi sentire da tutto il vicinato e magari ottenere aiuto. A m stessa dovevo pensare io, e forse non volevo neanche tanto farlo.
Luke continuava a scuotermi senza ritegno e intanto mi trascinava, e «No che non ti lascio, stavolta» continuava a ripetere febbrile.
Cercai di impormi coi piedi per terra, diventare di piombo. Non poteva fare così, costringermi ad accettare la sua presenza scomoda come aveva sempre fatto, facendomi fare carico delle sue assurde verità che mi facevano un male cane; non gliel’avrei permesso, avrei messo me stessa davanti a tutto il resto e non avrei accettato altro schifo.
Avrei accettato di andare avanti a metà, priva di una parte importante di me, ma libera dal dolore che provavo a causa sua.
«La smetti, ti sto dicendo che mi fai male» ribadii ringhiando, strattonando il braccio una volta di più. Ottenni solo di fargli stringere la presa.
«Ah, è così, eh? Ti faccio male, dici. Perché, tu cosa mi fai, Kendra? Cosa mi fai tu?»
La sua voce era intrisa di così tante cose che faticai a distinguere ogni sfumatura di essa. Aveva gli occhi spalancati, Luke, sbraitava e poi continuava a strattonarmi. Mi spinse verso una casa come tante, lì nella nostra periferia, una villetta bianca dal portoncino rossiccio un po’ scrostato. Una casa come tante – forse solo un po’ più pulita.
«Ma si può sapere che cazzo vuoi? Di chi è questa casa, allora, adesso ti dai anche alla violazione di domicilio? È questo che fai con i tuoi nuovi migliori amici?»
«Sei tu la mia migliore amica, cazzo!»
Quell’urlo fu capace di ferirmi come nient’altro era ancora riuscito.
Pensavo che fossi brava a sopportare il dolore. Avevo una soglia di sopportazione alta, dicevo. Pensavo che Luke mi avesse fatto tanto di quel male che ormai non avesse più nient’altro da scaricarmi addosso, ed io me ne sarei dovuta andare perché già mi aveva distrutta, avrei dovuto urlare affinché ci separassero, affinché la gente accorresse e vedesse il mostro trasfigurato dal tormento che il mio migliore amico era diventato.
E invece ero stata zitta, e Luke mi aveva ferita, dilaniata una volta di più. Perché ero stata Kendra Saint, una volta. Ero stata la sua migliore amica, il rovo intrecciato alla rosa che un tempo era Luke. Avevo respirato la sua aria, condiviso letto e vestiti e lividi, ed ero stata la sua migliore amica. Avevo smesso di esserlo quando lui aveva iniziato a tagliarmi fuori, però.
Almeno questo era quello che credevo.
«Io non sono la tua migliore amica, Luke, ficcatelo bene in testa» sbottai amara, le parole intrise del sapore di cianuro che sentivo in bocca. Le spalle del biondo si irrigidirono appena mentre apriva la porta della casa e mi spingeva dentro, ed io mi sentii felice, felice perché gli avevo fatto male. Felice perché qualcosa di Luke era rimasto, se ero riuscita a colpire nel segno.
Luke sospirò. «Sì che lo sei, brutta stronza»
«Non osare. Non permetterti di definirmi la tua migliore amica, Luke, gli amici non si distruggono così»
«Ma sentiti. Sei un’ipocrita del cazzo, lo sai, K? Sei sempre stata la più forte, tu. Mi hai sempre tolto tutto, sei sempre stata la prima ad andartene, a farmi male. Sarebbe stato così anche quando tu saresti andata al college ed io invece no, restando il povero idiota rinchiuso in questo buco di universo a marcire. Ho deciso di cambiare le carte in tavola, Kendra, non puoi biasimarmi per questo»
E invece ti urlerei contro per anni quanto la tua decisione faccia schifo, maledetto.
Gliel’avrei voluto dire ma non lo feci. Lo incenerii con lo sguardo, furiosa, nonostante la sua altezza che mi sovrastava, e non dissi niente. Mi strinsi le braccia intorno al corpo ed entrambi sapevamo che era qualcosa che facevo solo quando cercavo di non cadere in pezzi, tenendo il mondo fuori.
«No, questo non te lo permetto. Non mi tagli fuori un’altra volta» mi ammonì Luke, e si adoperò a sciogliere il nodo delle mie braccia. Mi staccai come avvelenata.
«Non mi toccare»
Lo sguardo sofferente che mi rivolse mi diede la nausea.
Erano ancora i suoi capelli biondi e il suo viso gentile, ma non era Luke – Luke la mia anima gemella nel modo più plateale al mondo, l’altra metà di me, quel Luke non esisteva più da tempo.
Mi guardai intorno per evitare i suoi occhi tristi.
Non poteva guardarmi così dopo che nella merda ci si era messo lui, non gliel’avrei permesso.
«Mi dici che diavolo è questo posto? Perché hai le chiavi di una casa non tua?» sbraitai poco dopo, cambiando argomento. Non avrei retto la tensione a lungo, prima o poi sarei scoppiata ancora una volta, ed entrambi sapevamo che non sarebbe finita bene.
Io sarei stata meglio. Luke no.
«Perché io qui ci abito, Kendra»
M’immobilizzai. «Che stai dicendo?»
«Mi hai sentito. È casa mia...» Luke prese un respiro, si sporse per premere un interruttore. «Speravo potesse essere la nostra»
La luce inondò quel posto che un po’ puzzava di umido, un po’ di cera e di qualcos’altro che non riconoscevo.
Sapevo di avere un’espressione ebete e stupita. La percepivo farsi spazio sul mio viso e avrei voluto che Luke non mi guardasse, non vedesse quanto stesse facendo effetto su di me.
La stanza era semplice. Un divano un po’ scambiato all’angolo, una porta bianca scrostata dall’altra parte. Un lampadario dalla luce fievole e ovunque cuscini e tappeti colorati: intorno al tavolino, sul divano, dappertutto.
Casa mia l’avrei arredata con cuscini e tappeti coloratissimi, e Luke lo sapeva bene.
«Spiegami cos’è questa storia. Spiegamelo una volta per tutte, Luke, perché io non so più chi sei»
Avrei voluto avere un tono duro, ancora distaccato, fargli capire che non mi aveva vinta, e invece la mia voce tremava. Tremava ed io mi feci schifo per questo, che a mostrare debolezza davanti a qualcun altro avrei sempre avuto da perdere, e poco importava se quello fosse Luke e gli volevo ancora bene, poco importava se quel posto sembrava riaccendere speranze.
Il biondo sospirò, scompigliandosi i capelli. «C’è poco da spiegare, K. L’ho fatto per me, e per noi. Per allontanarmi da quell’inferno che continuiamo a chiamare casa, per portarti con me. Lo sai che da sola non t’avrei lasciata. Volevo seguirti, se te ne fossi andata per studiare, ma i soldi da dove li avrei presi?»
Non risposi, non lo guardavo neanche in faccia.
Ci chiedevamo sempre da dove avremmo preso i soldi per andarcene e studiare, visto che quelli come noi un lavoro non lo ottenevano neanche a pagarlo oro, ma poi accantonavamo l’unica risposta possibile e ci fingevamo convinti che ce l’avremmo fatta. Sarebbe andata diversamente, per noi.
Io almeno qualche possibilità la avevo: sapevo che mia madre risparmiava da quando ero nata per potermi dare un giorno la libertà che sognavo.
La mamma di Luke, d’altra parte, il più delle volte era così ubriaca da non ricordare neanche il nome del figlio.
«Mio padre. È stato mio padre a mettermi in contatto con i genitori di Ash, e loro mi hanno trovato un lavoro. Questa casa è loro, sai. Posso starci quanto voglio, finché lavoro con loro. Non devo per forza restare con i miei. Volevo chiederti di venire qui con me, Kendra. Io senza di te non ci so più stare»
Luke non si mosse. Lo squadrai, annegai nel celeste limpido dei suoi occhi e vidi la fatica che gli era costata quell’ammissione, ad uno come lui, così fottutamente orgoglioso da lasciarsi andare a male anziché abbassare la testa. Eravamo identici, gemelli siamesi, la stessa persona in due corpi diversi, e a me questo non stava più bene. Stava diventando un affetto scomodo. La vicinanza con Ashton avrebbe peggiorato le cose.
«Dovevi dirmelo prima» affermai «Ti sei nascosto dietro un muro di menzogne per mesi, Luke, dovevi dirmelo prima»
Lui non rispose per un po’. Si limitò a squadrarmi, come ponderando la mia mossa successiva, ed io gli avrei voluto dire di smetterla con quella farsa, ché tanto aveva già capito che avevo abbassato le armi.
Ci mise alcuni attimi ad abbandonarsi ad un sospiro liberatorio; poi, come se qualcuno gli avesse dato il permesso di farlo, mi si scaraventò contro, stringendomi tra le sue braccia magre. Respiravo con la bocca, a denti stretti, per non essere costretta ad inalare quel profumo famigliare che, ne ero certa, mi avrebbe portata alle lacrime. Perché erano settimane che non stringevo così quel corpo, e ci stavo male. Luke era il mio migliore amico, la mia anima, era stato tutto e poi niente in poche settimane, ed io sarei crollata se me lo fossi permesso.
Così mi limitai a restare lì, inerme, stretta dalle sue braccia che quasi mi soffocavano, mi bloccavano come a non volermi lasciare andare più.
Sospirai. «Non farlo mai più»

 

 

Che Luke smettesse di mentire o nascondere la verità era praticamente impossibile, e questo lo imparai a mie spese. L’estate era finita e la scuola aveva ripreso il suo corso, e il mio migliore amico lo vedevo sempre di meno, anche se ci avevamo provato, per un po’, a far andare tutto meglio.
Mi aveva chiesto di vivere insieme. Avevo rifiutato. Nella casa di uno come Ashton non ci avrei messo piede neanche morta, e poco importava quanto colore e vitalità potesse portarci Luke. Lui comunque mi aveva lasciato una copia delle chiavi, in modo che potessi utilizzarla quando ne avessi sentito il bisogno.
Non l’avevo ancora fatto.
Le lezioni a scuola senza Luke erano, se possibile, ancora più una merda.
Tutto sembrò degenerare il giorno in cui nella mia aula ci trovai Ashton.
Mi bloccai sull’entrata della classe ancora semi vuota, lo squadrai da lontano come convinta che i miei occhi mi stessero mentendo. Bugiardi, fottuti bugiardi, cambiate immagine, ditemi che non è lui quello seduto lì, al mio posto.
Mi avvicinai lenta, guardinga, un animale selvaggio pronto ad attaccare.
Gli arrivai abbastanza vicina perché potesse sentirmi e «Che cazzo ci fai qui» proferii cattiva, lo sguardo pieno di rabbia malcelata.
Mi degnò di una sola occhiata. «Quello che fai tu. Cerchiamo di prendere un diploma, no? E meno male che Luke diceva che eri intelligente...»
Sentire il nome del mio migliore amico uscire dalle sue labbra mi mandò il sangue al cervello. «Se una testa di cazzo come te avesse frequentato questo liceo credo che me ne sarei accorta in quattro anni. E quello è il mio posto»
«Non sapevo l’avessi comprato»
«Si può sapere perché diavolo sei qui?» sbottai acida, un attimo prima che il professore di letteratura facesse il suo ingresso in classe. Con un’occhiata avvelenata in direzione di Ashton mi allontanai, sedendomi dall’altra parte dell’aula.
Lontano dalla finestra, la mia presa d’aria.
Quel ragazzo era stato messo al mondo per farsi odiare da me.

 

Mi sedetti sul muretto scorticato fuori al cortile del liceo, quella pietra ruvida che ci aveva ospitato tante di quelle volte, da bambini, e che aveva sentito tutti i piani che io e Luke facevamo insieme. Lui li aveva dimenticati, forse, accantonati insieme al legame che avevamo avuto. Io no.
«Che giornata di merda» proferii, non appena lui fu abbastanza vicino.
Luke mi diede una spinta «Cristo se la fai tragica»
«Parli bene tu, che un corso lo salti e l’altro pure. Tu non sei stato ore in un’aula con quel ritardato del tuo nuovo amichetto...»
Il biondo scattò, voltandosi verso di me. «Cos’hai detto?»
Ricambiai con uno sguardo perplesso. «Che salti tutti i corsi? Luke, che cazzo, non puoi negare anche questo»
«Che palle, K, non sto cercando di negare niente. Intendo dopo»
«C’era Ashton, in classe, e allora? A quanto pare si è trasferito qui. Perché?»
Luke non rispose. Si prese la testa tra le mani e stette zitto, e io lo spintonai con la mia solita grazia che comunque non l’avrebbe smosso di un centimetro, ma non poteva evitare di rispondermi. «Luke, parla» intimai, scendendo dal muretto per mettermi di fronte a lui.
Il suo sguardo era apatico quando rispose «Non sapevo che avrebbe frequentato qui, ecco tutto». Scrollò le spalle, poi «Domani riprendo a seguire anch’io, okay?» promise, ma per qualche motivo non mi sentii più tranquilla.
Luke aveva negli occhi un’ombra che non gli avevo mai visto.
Un’ombra che corrispondeva al nome di Ashton.

 

 

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Capitolo 3
*** Just Starting to Crawl ***







III. Just starting to crawl


Luke aveva tenuto fede alla sua promessa, e un po’ avrei preferito che non l’avesse fatto.
Si sedeva accanto a me, in classe, mi abbracciava possessivo all’improvviso, quando gli veniva, e mi mischiava addosso ancora un po’ del suo profumo.
Sembrava tutto normale, poi si girava verso Ashton ed io capitombolavo di nuovo, trascinavo la mia sedia più lontana e per un po’ diventavo silenziosa. Luke non l’aveva capito, cos’era che avessi, ormai non ci provava neanche i più. Era abituato alle grida, alle parole cattive. Non li sapeva prendere i miei silenzi.
A volte fuori alla scuola c’era anche Michael. A volte ci fermavamo insieme a lui e Calum, e poi Ashton e Luke si comportavano come se niente fosse, come se fossimo tutti amici, un gruppo di vecchia data. Io non sapevo fingere così bene. Io Clifford e Irwin non li avevo mai accettati fino in fondo, non l’avrei fatto mai.
«Dovresti venire da me» biascicò una sera Luke, ubriaco marcio, stravaccato su uno dei divanetti del Paladar. «Non mi piace stare lì da solo, voglio dormire con te» sospirò e poi mi si buttò addosso, nella sua versione alticcia di un abbraccio. Me lo scrollai di dosso con veemenza, allontanandomi.
«Puzzi da far schifo, Luke»
«Quello non è l’alcool, Kendra. Quello è lo schifo che mi porto dentro...» e un attimo dopo si addormentò con la testa sul tavolino unto, che mi veniva nausea solo a guardarlo.
Mi alzai stizzosa, rovistai nelle tasche della sua giacca fino a trovare le chiavi della macchina.
«Aiutami a portarlo a casa» intimai a Calum.
Il moro non faceva mai domande, si limitava a sorridere – o ridere, come in quel caso, e sicuramente se non fossi stata rosa dalla tensione anch’io avrei riso del mio migliore amico – e a fare come gli veniva detto. Pensavo che fosse perché Calum in fondo non aveva pretese, gli bastava stare con noi.
Avrei dovuto capirlo che era semplicemente troppo buono, troppo per me, per noi, per il nero verso il quale ci stavamo tuffando.

 

Quella casa era buia, tremendamente buia anche con le luci accese, e puzzava di chiuso.
Trascinare Luke verso la stanza da letto era stata un’impresa, soprattutto perché neanch’io avevo idea di dove si trovasse e l’avevo dovuta cercare a lungo, in quell’intrico di stanze e stanzine.
Poi ne avevo trovata una con la porta socchiusa, e appena l’avevo spalancata avevo sentito il suo odore, forte, ed erano i suoi panni quelli piegati sulla scrivania, e la sua chitarra contro il muro, nella custodia. Luke era un casino fatto persona, e perciò intorno a sé voleva l’ordine. Non come me, che portavo confusione ovunque mettessi piede.
Tornai in soggiorno, dove Luke se ne stava abbandonato sul divanetto, e «Alzati, andiamo» lo richiamai asciutta «Sai che non ce la faccio a trascinarti, io»
Mi diede ascolto contro voglia. «Perché stai urlando? Smettila, smettila che mi fa male la testa»
Alzai gli occhi al cielo, trascinandolo per un braccio mentre camminava pesantemente dietro di me. «Non sto urlando, Luke, sei tu che sei ubriaco marcio»
«Tu urli sempre… non mi dirai che proprio adesso non lo stai facendo»
Mi venne da ridere.
Mi venne da ridere ma non lo feci, limitandomi a spingerlo sul letto ordinato, così come stava, vestito.
Feci per allontanarmi, ma sentii la sua mano artigliarmi il braccio. «Non te ne andare»
Quella era la casa di Ashton.
Sarei voluta scappare da quel posto, mi ricordava quello che stavo perdendo del mio migliore amico, ma non lo feci. Non lo feci e mi stesi accanto a lui, e per la prima volta dopo tanto tempo mi addormentai così: aggrovigliata a Luke, il suo corpo contro il mio, le nostre gambe incrociate e il suo odore che nuovamente diventava il mio.
Dopo tanto tempo, sapeva ancora di casa.

 


Che le cose si stessero mettendo male lo capii quella sera al canyon, il nostro ritrovo in campagna. Era nascosto dal mondo, uno spiazzo dove non cresceva natura e c’era solo polvere e strada, un posto dimenticato da Dio.
Il luogo perfetto per quelli come noi, dei rinnegati come noi.
Ero seduta tra Luke e Ashton e un po’ mi stavo abituando, a quelle presenze malate, anche se non le avrei accettate mai. Ero seduta tra loro e aspiravo la nicotina che esalavano dalle labbra screpolate, quella che non avrei voluto mai per me.
Si respirava aria cattiva, a stare con loro.
Luke non mi aveva dato scelta: decidendo per sé aveva automaticamente imposto anche a me quella situazione malsana, quel peso nei polmoni, e non potevo fare altro che accettare. Non stavo rendendo le cose facili a nessuno di loro, no, ma sicuramente neanche sarebbe cambiato molto.
Quando Michael arrivò aveva uno sguardo da pazzo che notai in fretta, forse prima di Ashton, sicuramente prima di Luke. Gli lanciai un’occhiata e «Chi è morto?» domandai ironicamente.
Michael posò su di me quel suo sguardo, facendomi rabbrividire. Io due occhi così malati non li avevo visti mai.
«Che hai detto?»
«Che ho detto? Che hai la faccia di uno fuori di testa, questo ho detto...»
Ashton si alzò in piedi, andò accanto a Michael. Cercarono di abbassare la voce mentre parlavano tra loro, e intanto Luke cercava di distrarmi, mi abbracciava, chiacchierava, ma io lo ignoravo. Volevo capire di più. Più di quanto loro volessero farmi sapere.
«Allora è così. Stanno arrivando...»
«Che Cristo ne so, me ne sono andato, ti pare?»
«No, non mi pare per un cazzo! La ragazzina loro non la devono vedere»
«Anche se fosse è troppo tardi, Ashton. Ci si è ficcata lei in mezzo a tutto questo, perché la proteggi?»
Istintivamente tremai. Chi era che non doveva vedere chi? Chi stava proteggendo, Ashton?
«Kendra, ti ho chiesto se lunedì vieni da Charlotte e Jesse con me...» Luke mi diede una scrollata, io mi girai di scatto nella sua direzione. Charlotte e Jesse erano i suoi nonni materni, abitavano dall’altra parte della città, le uniche persone umane della sua famiglia.
Mi piacevano, quei due. Mi facevano credere che esistesse qualcosa di bello, al mondo.
«Certo che ci vengo, Lu»
Lui annuì, sollevato. «E se Charlotte riprende con la storia del matrimonio...»
«Io dirò che ci stiamo pensando, lo so. Tanto lo avrà dimenticato poco dopo»
Fu in quel momento, con una bottiglia di birra pescata dallo zaino e un mezzo sorriso, la sensazione che quasi mi sarei potuta adattare di nuovo, forse sarei riuscita a far funzionare quel casino, che li vidi.
Mi girai e laddove prima c’era solo il vuoto e il cielo del colore dell’alba, ora c’erano nuove persone dalle facce scure, brutte, che non avevo mai visto.
C’era questo ragazzo, che forse brutto non era, con quei lineamenti duri e gli occhi neri come pozzi senza fondo, come quei capelli incasinati che non si capiva da che parte volessero andarsene. Forse brutto non era, ma la sua espressione sottile e crudele mi spaventava. E, come sempre quando avevo paura, sentii una rabbia immotivata montarmi dentro. Accanto a lui la ragazza era bassa, forse più di me. I capelli portati a caschetto sembravano quasi bianchi, lei riluceva di un pallido bagliore, sembrava di un altro mondo, e Cristo se era inquietante. Gli occhi neri pure lei, li fece vagare svogliata sul nostro gruppetto prima di sorridere.
Si avvicinò ad Ashton e, senza troppi preamboli, gli stampò un bacio sulle labbra piene.
«Allora, Ash, trascini nuove persone nel giro e non ce le presenti? Sarebbe bello, avere un’amica» indicò con la testa nella mia direzione e rise, ed io mi agghiacciai.
Sentii Luke spingersi impercettibilmente più avanti, proteggendomi, tenendomi un po’ nascosta.
«Non vedi, Mor? Il suo ragazzo lì vicino è geloso. Non ti conviene provarci, secondo me» il ragazzo accanto a lei ci rivolse un occhiolino, poi salutò Michael ed Ashton. «Potevate invitarci, però. Morrigan la tengo a bada io, così non dà fastidio alla vostra amichetta»
Michael scrollò le spalle «Ora siete qui, no?»
Morrigan annuì. «Già, ora siamo qui… tu, come ti chiami?»
Anche senza guardarla in faccia seppi che si stava rivolgendo a me.
Non volevo parlarle, non volevo neanche muovermi, ero lì seduta e avrei solo voluto chiedere a Luke chi cazzo fossero quelle persone, e poi rinfacciargli la sua stupida preoccupazione, ricordargli che in quel casino mi ci aveva ficcata lui.
Mi alzai in piedi, andai verso di lei cercando di mostrarmi sicura. Non lo vedevo, ma ero sicura che il mio migliore mi avrebbe seguito, forse mosso dal senso di colpa per il verme che era stato, perché aveva esposto anche a me e adesso aveva paura. Adesso era colpa sua.
«Sono Kendra» risposi semplicemente, senza offrirle la mano.
Lei sorrise. «Kendra… mi piace»
«E quest’idiota qui non è il mio ragazzo»
Ashton mi affiancò, parandosi dall’altro lato rispetto a Luke. Mi sentivo piccola, a disagio in mezzo a loro due così dannatamente alti, e non mi piaceva. Mi sentivo in svantaggio ed era una cosa che detestavo, mi sembrava che così sarei stata più facile da controllare.
Volevo solo che mi lasciassero in pace, tornarmene a casa, dormire e magari dimenticare la sensazione di paura, l’idea che non avrei mai potuto avere un momento positivo.
Avrei voluto avere il tempo di coccolare il mostro di rabbia e risentimento che covavo dentro, e poi sputarlo in faccia a tutti, lasciare che distruggesse il mio mondo una volta di più.
«Strano. Ti proteggono tutti come fossi un pulcino, eppure da come parli direi che sono i nostri ragazzi, quelli che dovrebbero proteggersi da te» Morrigan inarcò un sopracciglio. «Capirai bene che delle mie cose sono un po’… gelosa»
Ashton alzò gli occhi al cielo. «Tu sei gelosa di tutto e tutti, Mor, piantala una buona volta che tanto sei qui solo per creare rogne»
«Ashton, Ashton… non te l’hanno mai insegnato, come si parla alle signore?»
Il ragazzo – Chester? - fece un movimento fulmineo, e in un attimo nella sua mano era piantato un coltellino che un attimo prima non c’era, ed era puntato contro la gola di Ashton. Di nuovo la paura e la furia si mischiarono in me, in una sensazione terribile, sgradevole, sentivo il mostro che iniziava a ruggire e non sapevo quando sarebbe venuto fuori, facendomi del male, facendo del male a chiunque. Istintivamente mi scagliai contro quel tizio, scrollandogli il braccio.
«Che cazzo ti viene?» gli sbraitavo contro e continuavo a scrollarlo, ci mettevo la mia rabbia, cercavo di smuoverlo. «Non so chi tu sia ma sei pazzo, Cristo, metti giù quella roba. Perché non fai niente?»
Mi girai d’istinto verso Michael che mi guardava con gli occhi spalancati, cercava di comunicare qualcosa, ma io non capii. Non me n’era mai fregato di capire sguardi e sottintesi, io volevo le parole, i fatti, l’apatia mi faceva schifo, in situazioni come quella.
«E aiutami, cazzo!» sbottai nuovamente, e mi girai anche verso di Luke, esortandolo.
Prima che potessero muovere un passo, però, Morrigan scoppiò nuovamente a ridere con quella sua risata acuta e insopportabile, gettando indietro la testa.
«Ne ha di palle, il pulcino» asserì, tra le risate «Non mi divertivo così da tempo. E tu, ‘Ter?»
Il ragazzo dagli occhi scuri sorrise, e abbassò il braccio che ancora stringevo.
Lo lasciai come avvelenata da quel contatto.
«No, neanch’io. Mai visto niente del genere. Magari ce ne andiamo, però. Non vogliamo che la ragazzina qui dia di matto. Però tu parlale, Ash, chissà… sarebbe un buon acquisto»
Fece un cenno alla ragazza e si voltò senza aggiungere altro, allontanandosi piano, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo. Come se non avesse appena puntato un coltello alla gola di un ragazzo.
«Mi spiegate che diamine è successo, eh?» sbraitai non appena se ne furono andati, girandomi verso i tre alle mie spalle. Odiavo quel silenzio, odiavo le loro facce apprensive, io semplicemente odiavo. Sentivo il sapore di fiele della cattiveria sulla lingua e l’avrei scaricata violentemente su tutti e tre, se avessi dovuto, ma quel silenzio io l’avrei spezzato.
Proprio quando stavo per scagliarmi contro di loro, però, venni immobilizzata da un paio di braccia che si strinsero intorno a me. Respirai un odore che mi era sconosciuto, e in quel momento mi resi conto che la persona che mi stava abbracciando, quasi aggrappandosi a me, non era Luke.
Era Ashton.
«Che cosa...» balbettai, incapace di muovermi, immobilizzata lì.
«Sei assurda, ragazzina» decretò lui.
Si scostò poco dopo, avvicinandosi alla propria auto nera, coi vetri oscurati, che adesso mi chiedevo a cosa servissero.
Forse in fondo non volevo saperlo.

 

 

Ashton era completamente pazzo, e pian piano iniziai ad accorgermene anch’io.
Aveva un modo di ridere brutto, roco e singhiozzante, che ti faceva accapponare la pelle.
A volte ti guardava, e aveva quella faccia da stronzo, l’aria di uno che non puoi fottere, che ne ha già viste e sentite troppe per la sua età. Ti guardava e non c’era niente nei suoi occhi, se non buio e sporco, lo schifo della nostra Periferia, il nero di un mostro come tanti, come quelli che ci portavamo appresso tutti noi.
Erano mesi difficili. Morrigan e Chester a volte ci raggiungevano, a volte se ne stavano per cazzi loro, ma anche quando stavano con noi era come se non ci fossero.
Alludevano a cose, fatti, persone di cui io non sapevo niente e questa cosa mi dilaniava da dentro, mi tormentava, era diventata il mio pallino fisso e forse Mor lo sapeva, per questo ne parlava così spesso. Chester invece era più silenzioso. A volte mi stava vicino e lo sentivo inspirare il mio odore, altre volte lo percepivo che mi guardava da lontano, assente, e rabbrividivo. In quei momenti mi allontanavo e mi distraevo con Luke, con il suo modo di parlare semplice e allegro, anche se un po’ macchiato del peso delle cose che faceva che, poi, non mi aveva ancora detto.
Avevo provato a tartassare Ashton e Michael. Loro si erano appropriati di pezzi della mia vita, ci si erano ficcati dentro con la forza, a testa bassa, come a voler sfondare il muro della mia diffidenza, e si erano costruiti un posto che io non gli avevo dato.
In cambio non avevo ottenuto mai niente.
«Di cos’è che parlano sempre Chester e Morrigan, Ashton? Cos’è la 332?»
«Niente, Kendra, niente»
«Sei proprio uno stronzo»
«E tu sei una scassapalle. Grazie per aver sottolineato l’ovvio»
Me ne andavo per giorni, quando faceva così. Tornavo a casa e scomparivo dalle loro giornate finché i miei lo permettevano, prima che mia madre venisse a cacciarmi dalla mia stanza a calci in culo, pur di mandarmi a scuola. Lei un’istruzione non l’aveva avuta, quindi voleva che me ne facessi una io. Io avevo avuto il desiderio di scappare, studiare, diventare qualcuno. Ci avevo creduto, un tempo. Adesso non riuscivo a vedere altro che i ragazzi e la Periferia e il canyon e le corse in motocicletta e le nostre sbronze colossali, e le giornate senza fine al liceo alle quali non facevamo neanche tanto caso.
Riuscivo a vedere solo il loro segreto, le cose che non mi dicevano, e mi facevo corrodere da esse, mi rodevano l’anima al punto che sentivo sarei diventata pazza.
Mai come Ashton, però. Lui la pazzia ce l’aveva nelle vene e sembrava che avrebbe potuto contagiarti con essa, a passarci troppo tempo insieme. Forse in fondo era ciò che sarebbe successo a me.
Tra me e Luke era sempre un dannato casino, ma ci stava bene così, finché ci appartenevamo ancora. Finché eravamo ancora un’anima sola smezzata in due corpi, e ancora riuscivamo a stare insieme. Finché ancora eravamo interi.
Non sapevamo quanto sarebbe durata, e quindi vivevamo la giornata, silenziosamente grati per ogni mattino che ancora passavamo insieme. Sapevamo che prima o poi anche quello stallo precario avrebbe trovato una fine.

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Capitolo 4
*** I just wanna feel free ***






IV. I just wanna feel free

C’erano giorni in cui Luke tornava a casa.
Lo sapevamo che succedeva, perché le urla ricominciavano e le sentiva tutto il vicinato. Però magari l’altra casa, quella di Ashton, si era allagata, oppure era saltata la corrente, e allora per un po’ Luke doveva tornare alla vecchia abitazione.
Suo padre quando era sobrio lo accettava quasi, quel figlio che gli somigliava così tanto, con gli occhi azzurri come i suoi e lo stesso sorriso sbilenco.
Però suo padre sobrio non era quasi mai, e allora capitava che il solo guardare in faccia Luke lo tormentasse, gli desse rabbia, e lui si sfogasse urlando e riempendolo di botte.
Non ce la faceva a guardare in faccia quel ragazzo magro e un po’ scavato.
Gli ricordava se stesso da giovane, il matrimonio in cui si era trovato incastrato un po’ per caso, e le possibilità che ormai non aveva più. Non ce la faceva a sopportare il suo viso, e quindi si sfogava con i colpi.
Erano i giorni in cui Luke tornava a dormire da me, ed io lo accettavo, mi facevo andar bene che lui si intrufolasse nella mia stanza, nel mio letto, come prima che iniziasse tutto il caos. Erano i giorni in cui tutto sembrava quasi normale, e allora io desideravo di poter tornare indietro, riavere la vecchia vita.
«Perché sta urlando, stavolta?» gli domandai una sera, in cui la voce di suo padre era più scura e il pianto di sua madre più forte. Piangeva sempre, Liz Hemmings, e a me faceva rabbia.
Luke scrollò le spalle, gli occhi ancora chiusi. «Che vuoi che ne sappia io? È fatto così»
«Non puoi dire che è fatto così e basta. Non puoi, Luke» sbottai, colpendolo all’addome.
La sua smorfia di dolore mi fece insospettire. Lo toccai di nuovo nello stesso punto, con calma, con una cura che non avevo avuto mai.
La smorfia era ancora lì.
«Alzati la maglietta» gli ordinai, impietosa.
Luke sbuffò.
«Alzatela ho detto»
«Oh, ma si può sapere che ti prende adesso? Sembri pazza»
«Tu muoviti e alza quella cosa»
Prima che potesse dire altro, afferrai con entrambe le mani la stoffa leggera della sua maglia e la tirai su con forza, strattonandola. Non c’era spazio per la delicatezza.
Il suo addome, il costato, il petto, erano completamente ricoperti di lividi.
Lividi freschi, nuovi, violacei. Alcuni si stavano ancora formando.
«Che cazzo ti ha fatto?» scattai a sedere, lasciando l’indumento libero di ricadergli addosso, come scottata. Non volevo vederlo, non volevo avere sotto gli occhi la prova del fatto che non potevo proteggerlo da tutto.
Luke scrollò le spalle e «Non è niente» minimizzò.
«Luke, Cristo santo, quello non è niente. Arriva la volta che tuo padre t’ammazza» sbottai con forza, lo scuotevo per le spalle, cercavo di smuoverlo. Si mise a sedere come me, incatenò i suoi occhi ai miei.
«Non posso farci nulla, K, torna a dormire»
In quei momenti lo avrei picchiato.
Non come suo padre, però. Non volevo colpirlo per fargli male, ma per svegliarlo.
«Non torno a dormire. Tu dovresti ribellarti e invece fai il povero stronzo che si fa usare come sacco da boxe prima di scappare qui da me. Questo non mi sta bene»
Il mio tono era duro, i suoi occhi pure. Mi guardava, Luke, e forse vedeva solo la cattiveria in me, forse non riusciva a capire l’ansia e la preoccupazione che provavo vedendolo stare male.
«Non posso ribellarmi, Kendra. È mio padre»
«Lo è, ma ti sta uccidendo»
«Smettila con questa storia. Hai rotto le palle, io torno a dormire»
Io lo guardavo, mi innervosivo, odiavo la sua accidia.
«Vattene» gli intimai nervosa. Luke spalancò gli occhi e mi guardò come fossi ammattita. «Dove vuoi che me ne vada, scusa?» replicò incredulo.
«Che ne so, ovunque. Io qui nel mio letto non ti ci voglio, non lo sopporto»
Mi lanciò un’occhiata astiosa. Mi guardò con l’odio nelle pupille a lungo, prima di alzarsi e, senza neanche rispondere, fiondarsi fuori dalla finestra.
Restai a fissare il punto dove era scomparso, ancora piena di rabbia.
Volevo proteggerlo e lo cacciavo, lo prendevo a calci, lo martoriavo. Volevo proteggerlo ma avevo lasciato che mi sfuggisse dalle mani, che scappasse, che si unisse al circolo di Ashton e Michael del quale non mi avrebbe detto mai niente.
Avevo diciott’anni e non capivo il male che gli facevo. Avevo diciott’anni e non capivo che ad ucciderlo non erano quei due ragazzi, e nemmeno suo padre.
La persona che lentamente lo stava distruggendo ero io.

 

 

«Oh, ma che cos’ha Kendra oggi?»
«Che ne so, non sono Luke. Quando lui non c’è lei parte, è sempre intrattabile»
Sentivo Ashton e Calum che discutevano tra loro, sapevo che parlavano di me, ma non volevo farci caso. Forse ero intrattabile senza Luke, era vero, ma lo ero ancora di più nelle sere in cui lui spariva con Michael, e io non sapevo che faceva. Allora me ne stavo a casa, ripescavo il cellulare da chissà dove, aspettavo che mi dicesse che stava bene.
Oppure uscivo e bevevo, così non ci pensavo e il giorno dopo erano entrambi con noi, e stavano bene.
Mi ero quasi abituata a Michael in quei mesi, avevo imparato a prenderlo e lui sapeva come comportarsi con me. Una volta smesso l’atteggiamento da psicopatico era quasi normale. Uno che ci avrebbe anche provato, a fare qualcosa di semplice, ma poi la vita gli aveva dato quello che poteva e lui si era accontentato, anche se la sua realtà non gli piaceva. A volte provavo a provocarlo, a smuoverlo, a fare leva sul suo amor proprio.
Michael però non era Luke. Non lo fregavi facilmente, non si lasciava manipolare.
Non era così cieco da non rendersi conto dei miei giochi.
Ashton era un altro paio di maniche ancora. Lui non mi vedeva con gli occhi di Luke, ma neanche nello stesso modo in cui mi percepiva Michael. Non avevo lo stesso rapporto, con lui, e questo era stato chiaro piuttosto presto.
Ashton era il più taciturno, tra i due, ma anche il più osservatore.
Era capace di stare zitto per ore, e fissarti con quei suoi occhi un po’ verdi un po’ marroni così sporchi, imperscrutabili, da far saltare ogni tuo singolo nervo, per poi uscirsene con qualche parola, o una semplice frase, capaci di farti sentire esposto. Vulnerabile.
Mi sentivo così, in presenza di Ashton.
Mi alzai dal divanetto del Paladar di scatto, sottraendomi al suo sguardo analitico, silenzioso. L’avevo capito, che aveva voglia di psicanalizzarmi, ma io proprio non lo reggevo.
Il Paladar ogni tanto organizzava queste serate a tema, e allora la musica la sentivi per tutta la piazza, e quei pochi ragazzi che di solito frequentavano il posto si moltiplicavano, diventavano una massa indistinta di corpi che si muovevano a tempo, ridevano, danzavano ubriachi.
Mi infilai velocemente nella mischia, prendendo poi a ballare anch’io.
Non mi piaceva nemmeno, quel pezzo, e forse in corpo avevo un po’ troppo alcool, ma ero felice così. Non ce la facevo, a stare seduta a rodermi il fegato chiedendomi dove fosse Luke, cosa stesse facendo, perché.
Mi muovevo senza un particolare senso, danzavo priva di logica, per il gusto di farlo.
Mi nascondevo dietro ai capelli che volavano da ogni parte, ridevo. Tutto pur di non pensare.
«Quando fai così sembri quasi normale. Ubriaca, ma normale»
La voce che sussurrò nelle mie orecchie mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto, sorridendo poi sorniona al viso di Ashton, incredibilmente vicino.
Mi scostai un po’, nonostante non lo permettessero molto le sue mani posate sui miei fianchi. Io tutta quella vicinanza non la volevo, mi metteva a disagio, mi faceva sentire indifesa.
«Hai un bel modo di parlare alle signore, tu» sospirai poi, continuando a muovermi.
Ashton finse un’espressione pensierosa.
«Io qui di signore non ne vedo» replicò poi, con un sorrisetto che in quel momento mi sembrò adorabile. Ero stordita dall’alcool.
«No, infatti. Io non sono una signora. Al massimo sono una per cui la guerra non è mai finita...»
Ripresi a ballare con più foga, mi distanziai ancora da lui, dalle sue mani sui miei fianchi. Volevo andarmene, allontanarmene da tutti, da lui e pure da me, ché se volevo stare bene avrei prima dovuto dimenticare anche il mio nome. Sono sempre stata egoista da far schifo, ma ipocrita mai; per questo, in quel momento, con l’alcool in corpo e gli occhi magnetici di Ashton, non potevo negare a me stessa quanto mi sentissi annebbiata, desiderosa di un contatto diverso, più intimo.
Quindi feci l’unica cosa possibile.
Voltai le spalle a quella pista, al Paladar, al suo viso stupito. Voltai le spalle anche a me stessa, al modo crudele e meschino con cui stavo concedendo nuovo territorio in me a quei ragazzi, e corsi via.
Avevo una faccia da schiaffi assurda, ad andarmene così sapendo i casini in cui avrei messo i miei amici quando Luke l’avesse saputo, ma in quel momento non me n’importava un accidenti.
In quel momento, ubriaca e col vento della notte tra i capelli, io volevo solo stare bene.

 

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Capitolo 5
*** 5. A chance to run away ***






V. A chance to run away

Col passare del tempo Luke, Ashton e Michael iniziarono a sparire sempre più spesso.
Io mi ero lentamente adattata, avevo accettato quella situazione che non mi piaceva e l’avevo resa la mia quotidianità. Mi stava bene pur di non lasciarli andare.
All’epoca non lo sapevo ancora, ma sarebbe stato sempre così.

Io non avrei mai capito nulla di loro.
A volte andavano via solo Luke e Michael, e quindi io restavo con Ashton anche giornate intere. Ci facevamo compagnia e basta, anche a stare zitti per ore, ché tanto le parole non sarebbero servite a dar giustizia al caos che sentivo dentro, che mi avrebbe fatta scoppiare in lacrime se glielo avessi permesso.
Ashton lo sapeva, e accettava i miei silenzi.
Passavamo giornate intere in giro per la Periferia, o al canyon senza far nulla di preciso.
A volte studiavamo, ma a lui non piaceva e a me era passata la voglia, se non c’era Luke insieme a me non riuscivo a concentrarmi su altro che non fosse il vuoto allo stomaco, la sensazione che una parte di me mi fosse stata strappata brutalmente.

«Domani tornano, lo sai» mi diceva Ashton in quei momenti. Io annuivo, ma non rispondevo niente.
Certo che lo so, avrei voluto dirgli. Certo che lo so, ma questo non lo rende un po’ meno schifoso, non toglie il fatto che lui è il mio migliore amico ed è mio fratello, me lo sono scelta io, ci siamo contaminati per anni ed ora non so nemmeno dove sia. Non toglie il fatto che potrebbe morire stasera, e l’ultima cosa che gli ho detto è stata di andare via.
Non toglie il fatto che sono un mostro, Ashton, e dovresti andartene anche tu, prima di restare intrappolato.

Tenevo per me tutti i miei pensieri, mi lasciavo affogare da essi, lasciavo che mi facessero male. Io ero forte, pensavo. Io ce l’avrei fatta a non crollare, a restare integra nonostante le crepe, nonostante gli scossoni che mi squarciavano il petto e l’anima, e mi facevano credere di essere sul punto di morire. Ero solo una ragazzina con la voglia di andar via e dimenticare tutto, e non sapevo quanto mi sbagliassi. Col tempo l’avrei capito.
Non sarei mai stata abbastanza forte per scappare da me stessa.


A volte capitava che anche Ashton andasse via.
Partiva con loro, stava lontano tutta la giornata, e a me quella lontananza dava i brividi, mi soffocava. Mi ero così abituata a passare le giornate insieme a lui, alla sua tranquillità e ai suoi occhi verde sporco così impenetrabili, che non capivi mai cosa gli passasse per la testa, che stare senza mi mandava in astinenza. Come una droga, la mia rota era la sua assenza. I giorni in cui non c’era neanche lui io li sentivo dentro le ossa, scandivo i secondi con i miei respiri lenti, con il mio sguardo vitreo fisso sulle mura della mia stanza.

I miei non lo capivano, cos’avessi.
È una fase, dicevano.
Presto passerà, sta facendo l’adolescente.
Loro non lo sapevano, che non sarebbe passato niente, che la mia vita sarebbe scivolata giù nel baratro insieme a quelle di quei tre idioti che ormai erano la mia seconda famiglia.
Calum mi veniva a trovare, qualche volta. Si sedeva sul letto accanto a me, chiacchierava, cercava di distrarmi. Era bella la sua voce, calda e invitante. Avrei voluto potermi appropriare di un po’ del suo calore, mettermelo dentro, sentirmi viva di nuovo.
Come un parassita, mi sarei nutrita anche della sua, di felicità, se fosse servito ad anestetizzarmi i pensieri. E invece Calum era lì e sorrideva ed io non potevo sentire altro che paura sorda e terrificante, e la sua voce mi giungeva ovattata, i suoi abbracci non me li sentivo addosso.

Avevano fatto un bel lavoro, Ashton e Michael.
Prima s’erano portati via Luke e poi anche me, mi avevano incatenata a loro, alle loro vite perennemente a rischio.
Non avrei capito mai quanto realmente mi stessi facendo cancellare da loro.

 

Io a Luke avrei chiesto di tutto.
Se ricordasse quella volta in cui eravamo scappati di casa per tre giorni perché io avevo preso una nota a scuola e avevo paura della reazione di mia madre, anche se poi quando ci avevano trovati le punizioni erano fioccate comunque.
Se pensasse mai a quando da piccoli non andavamo a lezione se non c’era pure l’altro, e tutte le notti passate nel mio letto. Tante cose che ho sempre dato per scontato e che non avrei riavuto più, e il ricordo faceva male, era incandescente e bruciava più di ogni altra cosa. Io non avrei dimenticato niente, dei giorni in cui eravamo ancora Luke e Kendra e non facevamo niente che potesse separarci. Pensavo che saremmo andati avanti così per sempre e invece era stato lui a staccarsi, a tagliare il filo immaginario che ci univa.

Si era allontanato in silenzio, un po’ alla volta per non farsi notare, e alla fine m’ero ritrovata sola e non sapevo neanche perché.
Quanto ci stavo male io, quando pensavo a ciò che avevamo avuto, non avrei mai saputo spiegarlo.
«Vaffanculo, Luke...» mormorai tra me, e la mia voce sembrò innaturalmente rauca, fragile come non ero mai stata. Avrei pianto. Avrei pianto per liberarmi, e invece solo una lacrima era riuscita ad abbandonare i miei occhi, prima che la scacciassi via con le mie dita fredde. Neanche a piangere ero più brava, non sapevo più fare nulla.
Mi affacciai alla finestra della stanza, quella che dava sulla casa di Luke: le luci erano spente e non si sentiva un rumore, e in quei momenti sembrava quasi un quartiere normale, il nostro. Sembrava una vita come tante, quella della Periferia, quando non c’era nessuno a tirar su qualche casino da matti.

Eppure lo sapevo che non sarebbe durata. La gente della Periferia era così: a stare calma non era capace, nessuno sapeva andare avanti senza il casino e le grida e il dolore fisico. Era quello a cui c’eravamo abituati tutti, non sapevamo vivere altrimenti, non conoscevamo alternative. E se pure un tempo ne avevo sognate, io, di strade diverse, avevo perso i miei stupidi ideali tra un drink e l’altro, tra un bicchiere troppo vuoto per riempire l’assenza che mi urlava dentro e mi martellava contro la cassa toracica e una giornata passata così, a fissare il vuoto. Ad aspettare che qualcosa cambiasse.
Uscii di casa senza fare un rumore, scivolando dalla finestra. Pensai a quante volte Luke se ne fosse scappato dalla mia stanza alla stessa maniera e quasi non riuscii ad impedirmi di ridere. Era con me anche quando non lo volevo, il disgraziato, era dentro le mie abitudini più radicate, i gesti che componevano la persona che ero. Forse in fondo Luke era me più di quanto lo fossi io. Forse era guardando lui che io ero diventata quel che ero, senza neanche accorgermene.
Le strade della Periferia così vuote mettevano i brividi. Pensai che avrebbero potuto ammazzarmi, a girare così da sola, di notte. Pensai che non me ne importasse, che avrei goduto nell’incontrare finalmente una fine.
«Cosa fa la protetta di Ashton da sola in giro ad un orario del genere? Penso che se lui lo sapesse farebbe il diavolo a quattro»
Mi voltai di scatto, riconoscendo quella voce. Riconoscendo quegli occhi come buchi neri, quel volto pallido, il sorriso da diavolo. Riconoscendo Chester e la sua camminata molleggiata, il passo di uno che ha il mondo tra le sue mani o che almeno ne è convinto. Mi dava i brividi, ma non lo avrei mai dato a vedere, quello. Non avrebbe mai saputo quanto i suoi occhi mi terrorizzassero, così scuri da sembrare vuoti, vacui.
Sembrava sempre trapassarti da una parte all’altra, lui,e quella cosa mi faceva stare da schifo. Non le volevo, le sue occhiate insistenti.

«Non so se te l’hanno detto, ma Ashton non ha nessun cazzo di diritto su di me»
«Lui però questo non lo sa»
«Io credo proprio di sì» replicai, facendo per allontanarmi. Chester si era avvicinato e la sua espressione saccente mi faceva desiderare di prenderlo a schiaffi. Mi chiesi se fosse stata la sua faccia da stronzo a procurargli quel taglio che gli spaccava il sopracciglio a metà.
«Non puoi scappare, Kendra» riprese lui, mantenendo il mio passo veloce senza il minimo sforzo. «Tu ancora non l’hai capito che noi non ce ne andiamo?»
«Io non so di cosa parli e tu m’hai già scocciato»
«Io lo vedo, sai. Il tuo modo di fare da dura, tratti male tutti… vorresti solo andare via.
Sei come gli altri, tu»

Mi fermai. Forse Chester aveva colpito nel segno. Forse davvero volevo andarmene, ma non volevo che lui lo sapesse. Volevo che lui non sapesse nulla di me, in realtà, il pensiero di essere stata così semplice da leggere mi dava la nausea.
«Perché mi stai seguendo?» domandai, fermandomi di colpo. Si fermò con me, con la sua solita calma, con il suo sguardo vuoto e il suo mezzo sorriso accennato.
«Perché voglio offrirti un modo per andar via»

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Capitolo 6
*** Fear ***






6. Fear

Paura.
La più semplice, sincera paura.
Paura di perdere qualcuno che si ama. Paura di restare intrappolati, di non riuscire ad arrivare in tempo per le cose importanti. Paura di non riuscire a vincere contro la vita.
Vivevamo di paura, ed io lo sapevo. Lo avevo capito molto tempo addietro, quando le urla dalla casa accanto mi facevano venire la pelle d’oca, ed io tremavo nel mio letto finché il viso del mio migliore amico non compariva alla mia finestra. Finché non sapevo che tutti quelli a cui volevo bene erano al sicuro.
Avevo imparato a convivere con quel sentimento scomodo incastrato tra le ossa, a svegliarmi con esso a chiudermi lo stomaco, ad andare a dormire spaventata dall’idea di poter perdere tutto e tutti da un giorno all’altro. Ché non c’è niente di duraturo, per quelli come noi, ed io lo sapevo bene.
Forse era stata la paura, in fondo, a farmi accettare la via di fuga che Chester mi offriva. Non avevo mai pensato che il sesso avrebbe avuto una qualche importanza per me.
Era un modo come un altro di sfogare le proprie debolezze, divertente, ma prima o poi la realtà tornava e farci i conti era ancora più difficile, dopo aver abbassato così tanto le difese. Con Chester era stato diverso. Non gli dissi che non l’avevo mai fatto, che ero una ragazzina, che forse mi spaventava quel salto nel vuoto e forse proprio per quello lo stavo compiendo. C’eravamo baciati con una violenza inaudita, era stato una lotta alla predominanza, a chi restava in piedi più a lungo. Nessuno dei due voleva cedere il controllo all’altro, nemmeno mentre le mie labbra erano premute contro le sue, nemmeno mentre la sua lingua incontrava la mia con violenza, un ringhio gutturale a risuonargli in gola. Quel suono mi faceva accapponare la pelle, ma mi andava bene così.
Mi ero abituata talmente tanto alla paura da aver iniziato a ricercarla, ad averne bisogno, che senza non ci sapevo stare. Non c’era stata delicatezza nel modo di Chester di spogliarmi, non erano state gentili le mie mani sulle sue spalle, le mie unghie conficcate nella sua carne. Non c’era stato altro che puro desiderio di annientarsi, nel modo in cui c’eravamo avuti, in cui il suo odore s’era mischiato al mio e lui aveva lasciato che i suoi contorni si confondessero in me per una notte.
Quello era Chester, pensavo.
Il gemello di Morrigan, come lo definivano. Quello dallo sguardo spaventoso, che poteva diventare una bestia da un momento all’altro. Quello era Chester ed io l’avevo odiato e avrei continuato a farlo la mattina dopo, alla luce del sole.
Ma durante la notte la solitudine è più forte.
Durante la notte Luke, Ashton e Michael lontani facevano più male, la loro assenza mi avrebbe piegata in due se gliel’avessi permesso.
Durante la notte i mostri come noi potevano essere semplicemente mostri e non pentirsene mai.
L’abitazione di Chester era meno buia di quanto mi aspettassi. Non era come la casa che Ashton aveva dato a Luke, era diversa, piena di vetrate, con muri e pavimenti bianchi.
La casa di una persona rispettabile, una casa piena di luce. Un’abitazione adatta a qualcuno senza preoccupazioni, senza niente da nascondere – un posto stridente con quelli come noi. Eppure Chester si esponeva al mondo con quella sua spavalderia, quel suo modo arrogante di essere solo ciò che era, ed avrei odiato anche quello, se non avessi perso troppo tempo ad invidiarlo. Non mi addormentai accanto a lui, quella notte.
Rimasi a guardare il soffitto e a pensare. A Luke, ad Ashton, Michael. Alle persone che avevo ferito e che avrei ferito di nuovo. A tutti coloro che mi avevano voluto bene e che finivano sempre con lo stare male. Cosa avrebbe pensato Luke, sapendo che la sua migliore amica aveva buttato via la propria verginità con uno come Chester? Per una notte di distrazione, per mettere una toppa al dolore, al casino dei pensieri. Chissà se Ashton sarebbe stato sorpreso. Michael di sicuro no. Mike non mi vedeva come gli altri, lo sapevo. Lui non si faceva abbagliare dalla mia finta sicurezza, dal veleno nelle mie parole.
In fondo, forse era quello che mi conosceva meglio di tutti, che aveva imparato a capirmi più in fretta.
Chester al mio fianco dormiva, il corpo scolpito appena coperto dal lenzuolo, arricciato intorno ai suoi fianchi spigolosi. Sembrava quasi bello, con gli occhi chiusi. Sembrava quasi una persona come tante.
Mi alzai dal letto quando le prime luci del mattino si fecero vedere attraverso le vetrate, scivolai nei vestiti silenziosa. Se c’era una cosa in cui eccellevo era il non farmi sentire, quando volevo, tanto quanto ero esperta nell’arte del far casino.
Sapevo rendermi un’ombra, e lo feci, mentre recuperavo le mie cose e sgusciavo fuori da quella casa, mentre camminavo sempre più velocemente in direzione di casa mia, per poi iniziare a correre.
Non era distante, solo qualche isolato più in là.
Rallentai la mia corsa solo quando, in lontananza, li vidi.
C’era Luke, con i suoi capelli biondi e un po’ incasinati, i vestiti con cui l’avevo abbandonato poche sere prima. C’era Michael e la sua camminata pesante, e i suoi occhiali da sole. Chi non c’era, invece, era Ashton.
«Dov’è?» domandai appena mi avvicinai, il tono abbastanza alto da farli sobbalzare.
Luke si voltò, mi guardò stravolto, e «Dio, Kendra» sospirò, prima di coprire in poche falcate la distanza che ci separava e avvilupparmi tra le sue braccia. Puzzava di sudore, di smog, di un odore che non era il suo. Puzzava di qualcuno che non mi apparteneva, che non riconoscevo, eppure lo strinsi lo stesso. Lo abbracciai perché sentivo quanto ne avesse bisogno, perché capisse che mi dispiaceva. Che dietro il mostro c’ero ancora io, che anche se l’avevo cacciato gli volevo bene, in fondo, e quell’affetto mi stava facendo impazzire, perché era la mia debolezza peggiore ed io non ne potevo più, di sentirmi debole. Ricambiai la sua stretta con forza per alcuni attimi e poi mi allontanai, guardai Michael. Non c’erano abbracci per noi, non c’erano parole – solo sguardi che dicevano tutto, che sapevano di “sono felice che tu sia vivo”.
«Che ci fai per strada, cazzo, è l’alba» sputò fuori Luke, a raffica, mentre riprendevamo a camminare insieme, stavolta verso casa sua.
Scrollai le spalle. «Non riuscivo a dormire, tanto tra un’ora mi sarei comunque svegliata per la scuola»
«Calum dice che non ci sei stata, a scuola, in questi giorni» Michael mi lanciò un’occhiata obliqua. Lui non lo sapeva, quanto mi distruggevo quando erano assenti.
«Avevo altro per la testa»
«Oggi è diverso?»
«Come avete fatto a parlare con Calum, se è appena l’alba?»
Luke portò una mano a scompigliarsi i capelli, a disagio. «Siamo arrivati ieri sera, eravamo da lui...» mormorò a bassa voce, lo sguardo ovunque tranne che sul mio viso.
Se le parole avessero potuto uccidere, io probabilmente sarei morta in quel momento, quella frase come una coltellata incandescente nello stomaco.
“Ieri sera”. Prima che io incontrassi Chester. Prima che decidessi di seguirlo solo per mettere a tacere il vuoto che gridava dentro di me, che mi corrodeva.
«Siete tornati ieri sera e non…» non riuscivo a finire neanche la frase, mi mancava il fiato.
Mi sentivo tradita e non sapevo neanche spiegare cos’era che provavo all’altezza dello stomaco, del petto. Una cosa però la ricorderò sempre, la sensazione di non riuscire neanche più a sentire rabbia oppure odio, di non sentire più nulla – ero completamente svuotata, come non ero stata mai.
«Non pensavo volessi vedermi. Non sapevo cosa aspettarmi» il tono di Luke era improvvisamente così duro, ed io che volevo solo urlargli che lo sapeva, che sarei sempre tornata da lui, ché non importava quanto mi impegnassi a fargli la guerra, lui sarebbe stato sempre casa mia. Non gli risposi, però. Rimasi immobile a guardare me stessa, le mie mani, il mio corpo di porcellana sul quale le crepe erano sempre più evidenti.
Forse però lo erano soltanto a me.
«C’è altro di cui preoccuparci adesso» s’intromise Michael, avvicinandosi e posandomi entrambe le mani sulle spalle, forse spaventato quanto me dalla mancanza di violenza nella mia reazione. «Si tratta di Ashton»
Mi sentii gelare il sangue nelle vene. «Cosa è successo ad Ashton?»
«Kendra… Ashton è finito in prigione»



#Chiara's corner
Hei people! Sto migliorando, non è passata neanche una settimana. In questi giorni sono stata più libera e ho deciso di impegnarmi parecchio, quindi ho portato avanti la revisione fino al nono capitolo - ergo, per le prossime tre settimane gli aggiornamenti saranno puntuali. Credo che arriveranno sempre tra il martedì e il giovedì, quindi stay tuned!!
Volevo solo dire poche cose riguardo questo capitolo:
1. Mi rendo conto che la scena con Chester forse è troppo veloce, immediata, per essere metabolizzata bene, ma credetemi, ho i miei perché;
2. Il capitolo è un po' più corto, ma... il cliffhanger finale? Cosa pensate sia accaduto? Fatemelo sapere in una recensione se vi va!!
È sempre bellissimo leggere i vostri commenti. Mi aiutano a trovar la volontà di continuare la storia.
Direi che per oggi è tutto, alla prossima!
Un abbraccio, xx


ps: se qualcuna di voi ha letto "Remember Me", che ne direste se la continuassi dopo aver concluso questa? Fatemelo sapere!

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Capitolo 7
*** Loosing everything ***






VII. Loosing everything

Avevo sempre pensato che al peggio non ci potesse mai essere fine.
Mi resi conto che era vero solo quel giorno, però. E capii anche che, fino a quel momento, non mi ero preparata davvero al peggio. Perché Ashton non c’era. Era in gabbia, dietro delle sbarre. Lui che come me sognava la libertà, lui che non poteva essere incatenato a nulla, improvvisamente era rinchiuso. Ed era questione di tempo, io lo sapevo.

Ché quel maledetto poteva anche non dirmi in cosa fossero coinvolti, lui e gli altri, ma il peso di ciò che si portavano addosso era difficile da ignorare. Persino per una come me, io che avrei fatto finta di nulla per una vita intera pur di tenerli vicino a me, di non perderli.
Luke, il mio Luke, il mio fratello non di sangue, quello che la vita m’aveva regalato, e quegli altri due disgraziati che mi ero ritrovata sulla strada da un giorno all’altro, e che avevo accettato con tutta la riluttanza e il casino che ero riuscita a smuovere.
«Che cazzo hai detto» sputai fuori con la poca aria che mi restava nei polmoni, che la forza di parlare l’avevo persa già da un po’. Perché avevo troppi scheletri nell’armadio, io, e la coscienza di Ashton e di quello che poteva aver fatto io non volevo averla. Non volevo immaginarmelo ingabbiato, il mio amico idealista, quello dalle mani sporche ma con lo sguardo pieno di illusioni. Quello che avevo odiato, e poi imparato a conoscere, che si era incastrato nella mia routine senza chiedere il permesso. Quello di cui conoscevo i silenzi, nei cui abbracci mi rintanavo quando Luke non c’era, e l’ansia era troppa e dilaniava la mente, lo stomaco, mi faceva venire voglia di gridare. Non potevo credere che si fosse fatto fottere proprio lui, e da cosa poi?
Da chi?

«Abbiamo incontrato… complicazioni sul lavoro. C’è stata una sparatoria, un sacco di casino, ma Ashton è innocente» Michael parlava con lentezza, non abbassava lo sguardo, come si fa con le bestie feroci. Forse in fondo ero davvero questo, un animale, una belva pronta a sbranare il mondo. Però io la rabbia dentro in quel momento non ce l’avevo, mi sentivo come morta, anestetizzata.
«Me lo spieghi cosa Cristo fate, adesso? O devo marciare fino all’inferno prima che voi parliate?» parlavo al plurale ma i miei occhi erano piantati sul volto cinereo di Luke, sui suoi lineamenti induriti. Non gli avrei permesso di chiudermi fuori, l’aveva fatto troppe volte, non ci sarebbe riuscito una volta di più.
Michael sospirò e «Le strade hanno occhi e orecchie, ragazzina. Ormai dovresti saperlo» replicò, il tono amaro, lo sguardo impassibile mentre marciava verso la porta dell’abitazione di Luke e la spalancava, lasciandosela poi aperta alle spalle, dopo essere entrato.
«Che fai, allora? Vieni?» il mio amico continuava a non guardarmi, aveva la voce bassa, fragile.
«Certo. Certo che vengo, questa storia deve finire una volta per tutte» sbottai, precedendolo. Non lo vidi, ma sentii i suoi occhi perforarmi la schiena. Non lo vidi, ma percepii con estrema precisione il momento in cui Luke inspirò il mio odore mentre gli sfilavo accanto e mi dirigevo verso la casa. Non lo vidi, ma seppi con assoluta certezza che non ci avrebbe messo molto, a realizzarlo: quello che avevo incollato addosso, alla pelle, era l’odore di qualcun altro. Ero stata contaminata di nuovo, ma stavolta era diverso, il colpevole era qualcuno di sconosciuto.
Qualcuno che non era lui.

 

Michael bevve esattamente tre whisky prima di iniziare a parlare. Io avevo appena finito il primo mentre Luke già versava a se stesso e all’amico il quarto, metodico, come se l’alcool potesse dar loro la forza di ammettere tutto. Come se potesse davvero servire.
«Cazzo, Mike, non posso aspettare che si faccia giorno inoltrato» sbraitai scocciata, anche se tanto di andare a scuola ormai di nuovo non se ne parlava. Il ragazzo dai capelli tinti mi lanciò un’occhiata di sbieco, prima di passarsi una mano sul viso.

Sembrava aver acquisito cent’anni di più, Michael, sembrava un vecchio costretto nel corpo di un ragazzo. Uno che ne aveva viste e sentite tante, questo sembrava Michael.
I suoi occhi erano troppo spenti, troppo consapevoli.

«A volte sei proprio stronza, ragazzina» proferii poi, buttando giù in un solo sorso il quarto whisky.
«Come ti pare. Parla, adesso»
«Il nostro è un semplice lavoro di routine. Spaccio, furti… è il padre di Ashton che gestisce la gang, gli adulti fanno il lavoro sporco. Noi per loro siamo ancora dei ragazzini e basta, non siamo coinvolti nella roba grossa»
Rabbrividii. Se spaccio e furti non erano “roba grossa”, non volevo immaginare cos’era che i loro genitori facessero, di cosa le loro mani fossero macchiate. Mi versai un secondo whisky, poi gli feci cenno di continuare. Non potevo permettermi di aprire bocca e commentare, non avrei più smesso di parlare.
Luke sospirò. «Nel nostro spazio si sono presentati tizi di una gang rivale da sempre alla nostra. Non avevano mai fatto niente del genere, al massimo si limitavano a cercare di fotterci i clienti, questo sì» Luke si rigirava il bicchiere tra le mani ossute, e il fatto che lui parlasse della gang utilizzando parole come “nostro” e “nostra” mi dava la nausea.
Io Luke non me lo volevo immaginare invischiato in qualcosa del genere. Avrei pensato che dopo tanto tempo ci avessi fatto l’abitudine, mi fossi anestetizzata contro il dolore provocato dal rendermi conto quanto tutto fosse cambiato. E invece la stilettata al petto era sempre lì, ne ricevevo una nuova ogni volta che lui parlava. Avrei voluto dirgli di starsi zitto, di far spiegare tutto a Michael. Invece non lo feci. Mi limitai ad annuire, stringendo più forte il bicchiere tra le mani, quel pezzo di vetro anche un po’ sporco, ma nel quale avrei affogato tutto ciò che provavo.

«C’è stata una sparatoria, te l’ho detto» riprese Mike. «I nostri stanno bene, solo qualche ferito. Ashton però deve sempre fare l’eroe tragico» sbuffò, gli occhi rivolti al soffitto, il tono ironico. «È rimasto troppo a lungo, lui. A difendere chi dei nostri era stato colpito, a nascondere le tracce. Peccato che non abbia saputo nascondere se stesso»
E, dallo sguardo che Michael mi lanciò, capii che il racconto era finito.
E capii che ne sapevo anche meno di prima. Mi chiesi perché fino ad allora non mi avessero detto niente, e poi anche perché all’improvviso avesse deciso che sì, potevo sapere. Perché non mentirmi anche sull’imprigionamento di Ashton, perché non inventare storie. Mi chiesi se in fondo non avesse mentito davvero, invece.
Scossi la testa. Una, due volte. Come a scacciare i pensieri, a scacciare il mostro che sentivo svegliarsi in petto, quella gelosia, quel dolore brutale.
«Come si fa a farlo uscire?»
Michael sgranò gli occhi. «Cosa?»
«Mi hai sentita»
«Non si fa. Ci pensa il padre di Ashton, però un po’ di tempo al gabbio dovrà comunque passarlo. È così che ragionano, sai. Prima si calmano le acque, poi ti tirano fuori»
Mi alzai di scatto dal tavolo. Lanciai solo un’occhiata ai due ancora seduti, che mi guardavano straniti, guardinghi. Come in attesa di una nuova pazzia da parte mia. Mi alzai, mi diressi al bagno, mi piegai in ginocchio e, con tutta la dignità che una persona in pezzi poteva trovare, vomitai anche l’anima. Non sapevo nemmeno cosa stesse rigettando, il mio corpo, visto che non avevo neanche mangiato, prima di andarmene con Chester. Forse stava solo rifiutando se stesso, me, tutto lo schifo che ero costretta ad inghiottire.
Non ci feci quasi caso, quando due mani fredde mi si posarono sulla fronte.
«Cacciare fuori tutto fa bene» sentii Luke mormorare, proprio mentre «Che schifo, Kendra» si lamentava Michael. Lo mandai mentalmente a quel paese, visto che fisicamente non ne avevo le forze. E probabilmente Michael sapeva cosa stavo pensando, perché si lasciò andare ad una risata priva di allegria.
«Ma ci pensate? Chi l’avrebbe detto. Qualche mese fa tu ci facevi la guerra, e adesso addirittura ti preoccupi. Non so se sia ipocrisia, la tua, o sei semplicemente fuori di testa»
Michael aveva ragione.

Lo sapevo, lo sentivo fin dentro le ossa. Era ipocrisia? Io che mi vantavo della mia correttezza, diventare un’ipocrita? Forse. Forse lo ero. Forse lo ero stata per essermi concessa il lusso di affezionarmi a qualcuno, persone così. Persone che avevo odiato a lungo, alle quali mi ero dovuta abituare con la forza.
Mi allontanai dal gabinetto, il sapore amaro della bile in bocca, e non risposi mentre metodicamente scaricavo, mi dirigevo al lavandino e bevevo avide sorsate.
C’era il mio spazzolino, lì. Quello che usavo quando dormivo da Luke, quelle poche volte in cui mi costringevo a farlo. Lavai i denti in silenzio, sentendo pure lo sguardo dei due addosso. Quello di Michael, un po’ canzonatorio, che però diceva “io sono qui e qui resto”. E quello di Luke, in cui percepivo l’accusa. Perché l’odore che aveva sulle mani, dopo avermi tenuto la fronte, non lo riconosceva. Non era il nostro.
«Non ci capisco un cazzo, di tutta questa storia» esordii dopo minuti che sembravano anni, perché il silenzio a volte pesa semplicemente troppo.
«Eh. Non sei l’unica, sai»
«C’era mai stato prima?» non specificai chi o dove, ma Michael dovette capire, perché scosse la testa. «No. Nessuno di noi c’era mai stato. Eravamo puliti, prima»
Prima. Perché adesso la fedina di Ashton era sporca. Perché adesso lui, agli occhi della polizia, esisteva. Lo conoscevano, avevano il suo nome, il suo DNA. Perché adesso lui aveva le luci puntate contro, ed ogni suo passo sarebbe potuto andare in fallo.
C’era stata la luce a filtrare dalle finestre. C’era stato il calore. In quel momento io sentivo solo freddo, il freddo che ti entra nelle ossa, che te le spacca e poi le rimodella a modo suo. E lo scheletro che ti ritrovi è più aguzzo di prima, ti ferisce la carne, sanguini dall’interno e nessuno se ne rende conto, e dopo un po’ neanche tu ci fai più caso.
Ti fai male e non importa neanche a te, finché non ti dissangui.
Dei colpi sulla porta ci fecero sobbalzare, nel silenzio asfissiante di quella casa. Luke aveva uno sguardo stravolto che, Dio, non me lo scorderò finché vivo. Erano in pochi a sapere chi ci abitasse, lì. Era appena passata l’alba. Chiunque bussasse alla porta ad un orario del genere non era amico, o non portava buone notizie.
Ricorderò per sempre ogni passo che facemmo verso la porta di casa, il momento in cui Luke la spalancò, e ciò che accadde dopo.
Un colpo di pistola al cuore, questo era ciò che ottenni. Perché non c’era nessuno, sulla soglia di casa.
Solo Calum, steso per terra, e il suo viso sempre colorito e sorridente era cinereo, e il petto si alzava a stento.
La sua maglia, forse inizialmente bianca, era ricoperta di sangue.

 

Avevo sempre odiato gli ospedali.
La puzza di disinfettante, quelle mura bianche, bianche come le luci artificiali che ferivano gli occhi, facevano male. Capaci di farti diventare pazzo, a starci sotto troppo tempo.
Non avrei pensato che avrei potuto odiare gli ospedali di più, eppure ci riuscii, perché era un mio amico, quello che ci veniva portato di corsa. Ci riuscii quando mi ritrovai sola, sola con i miei genitori, ché Michael e Luke non potevano farsi vedere dalla polizia, sarebbe stato troppo rischioso. Sola mentre i miei genitori ripetevano agli agenti la stessa solfa che avevo raccontato loro io. Che io stavo andando a scuola e lui era lì, sul vialetto di casa sua dove ci saremmo dovuti incontrare, e non c’era un’anima viva in giro, solo Calum, il mio amico Calum che adesso era in sala operatoria e aveva una fottuta pallottola nel fianco, e molteplici ferite da taglio. Era stato fortunato ad essere riuscito ad arrivare vivo all’ospedale, avevano detto i medici. Fortunato. Come se un povero Cristo squarciato in più punti e ricoperto di sangue potesse essere fortunato in qualche modo. Ero terrorizzata, il mondo intorno a me sembrava totalmente ovattato. Ashton è in carcere e Calum sotto i ferri e Luke l’hai perso tanto tempo fa e non hai più nessuno, Kendra, non ti resta più nessuno, prima o poi perderai anche te stessa.

Non sentii mio padre, quando mi venne a prendere per un braccio, chiedendomi di tornare a casa. Erano passate forse ore in quell’ospedale o forse no. Non me ne sarei accorta, non ci sarei riuscita. Il tempo sembrava non scorrermi più addosso, si era fermato a quel momento, quello in cui avevo visto il corpo esangue di Calum ed ero crollata a terra, e non ero stata capace neanche di urlare, non era uscito nessun suono dalle mie labbra spalancate dalla paura. Non me ne sarei andata, non avrei potuto neanche chiudere gli occhi. Nel buio il sorriso di Calum si frammentava e lui non c’era neanche più, era diventato un fantasma, l’ombra del ragazzo che aveva sempre sognato di essere.
Pensai che fosse colpa nostra. Avevo lo sguardo puntato fisso sul muro bianco di uno stupido ospedale e l’odore del sangue – il suo sangue – nelle narici, e pensai che sarei andata all’inferno. Che ci saremmo andati tutti, tranne Calum. Ma la Periferia era così.
Non potevi sfuggirle, non potevi cercare di essere migliore, in qualche modo ti fotteva.
Alla fine, nonostante tutto, era successo. La Periferia si era portata via pure lui.







#Chiara's corner
Ciao bellezze, chiedo scusa per il ritardo, ma eccomi qui. So che il capitolo è corto, purtroppo non ho molto da dirvi a riguardo, ma spero che nonostante la lunghezza vi sia piaciuto comunque: inizia a succedere qualcosa, delinearsi qualcos'altro... e come al solito mi farebbe tanto piacere sentire le vostre idee a riguardo!!
Un abbraccio forte,
Chiara. xx

 

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