Snuff

di Hi Asija
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buried all your secrets in my skin ***
Capitolo 2: *** Come away with innocence ***



Capitolo 1
*** Buried all your secrets in my skin ***


~~«Shady?» mi chiama Cottie. Sposto la testa alla mia sinistra, guardano negli occhi la nera. Lei sorride, poi abbassa lo sguardo, fissando intensamente le sue scarpe di marca, ma ugualmente distrutte.

«Dove ci vedi tra dieci anni?» mi chiede, spiazzandomi.

Ci penso un po' su. Ho molte idee nella testa, ma solo poche sono concrete e non troppo lontane dalle mie aspettative. «Io tra dieci anni mi vedo negli USA» le dico tranquilla.

Cottie fa uno scatto agile e scende dalla ringhiera. «Ma io ho detto ci» mi ricorda.

Annuisco, così penso ancora. «Io tra dieci anni ci vedo negli USA» ripeto.

Sul viso della nera si forma un sorriso enorme. «Magari» dice solamente.

Alzo lo sguardo, puntando gli occhi sul panorama che quotidianamente il tramonto di Johannesburg ci offre. Una leggera brezza si sta alzando, così lascio che il vento se infili nelle vie sconosciute dei miei capelli castani. Per la testa mi passano molti ricordi, insieme a parole e a musica. Una leggera e debole melodia si fa spazio nella mia memoria. Sono semplici accordi con una chitarra quasi scordata: come se l'autore non avesse nemmeno la voglia o il tempo di poterla accordare. La voglia e il tempo vanno a braccetto. Se hai tempo, non hai voglia di fare ciò che devi fare, ma se non lo hai, la voglia è sempre più forte. Continuo a ripetermi che questo mondo è nato al contrario, probabilmente.

Connie poggia la schiena su un muro alla mia destra, accendendosi uno spinello. Lo accende, poi ci sono svariati secondi di silenzio. «Io me ne voglio andare da qui» dice, passandomi lo spinello. Io accettò la sua proposta. «Al più presto.»

Annuisco, fumando. Prendo un grosso respiro, poi inspiro. «Io no» rispondo convinta.

Cottie ride. «Hai trovato qualcuno?»

Scuoto la testa. «No, nessuno» rispondo divertita. Fisso ancora un po' il tramonto, poi abbasso lo sguardo, schiudendo la bocca. Un raro tentativo di uscire dall'imbarazzo. «Sono affezionata a questo posto» dico infine.

Le passo lo spinello, poi lei si siede a terra. Altri interminabili secondi di silenzio. «Anch’io lo ero» comincia «Poi...» cerca di trovare le parole, ma dalla sua bocca sembrano uscire solo parole poco sicure «Poi è diventato questo» dice solamente.

«Questo cosa?» le chiedo.

Cottie sospira. «Un mattatoio pieno di ragazzini da riformatorio, Shady» mi risponde.

Annuisco. «Siamo noi a renderlo tale» rispondo, scendendo a mia volta dalla ringhiera «Insomma, guardati. Stai fumando uno spinello a sedici anni» le dico.

Un sospiro. «Cos'ho da perdere?» chiede. «Tutto quello che potevo perdere, ormai mi ha lasciato. Per colpa di persone come me... io ho perso tutto quello che avevo.»

«Non pensi a te?» le chiedo.
Lei annuisce. «A volte.»
«E non pensi che la tua persona sia una valida ragione per non finire come gli altri?»

Cottie trattiene una lacrima. «Shady, guardaci.»

Passano altri interminabili secondi colmi di silenzio e di singhiozzi da parte della nera. Nella mia testa sono in riproduzione a un volume più alto le note di quella melodia stanca e sofferente.

«Siamo peggio di loro» dice Cottie, riferendosi a Ninja e Gerhard. «Siamo peggio del peggio» conclude.

Scuoto la testa. «Non facciamo nulla, al contrario loro» sentenzio.

Cottie si alza, piangendo copiosamente. «Ne sei così sicura?» mi chiede con un tono frustrato. «Tu hai rubato un basso da uno dei musei più importati dell'intero Sud Africa» prende un respiro «Ho rapinato due volte un ospedale per bambini malati di cancro» dice infine.

Io abbasso lo sguardo, dando un occhiata alla stabilità del basso nominato poco prima da Cottie.

«Loro spacciano, e probabilmente uccideranno persone senza saperlo. Noi abbiamo solo cercato di inseguire i nostri sogni, anche senza le possibilità. Io ho seppellito i miei segreti dentro la mia pelle, solamente per cercare di essere migliore» le dico. «Sarei un angelo della morte?»

Lei scuote il capo colmo di piccoli riccioli. «Sarebbe il colmo, Shady» comincia a ridere. «Il punto non è questo, però.»

«E qual è?» chiedo.

«Il punto è che viviamo in una società dove se uccidi qualcuno, non sei colpevole, ma se cerchi di seguire i tuoi sogni...» viene interrotta da un assordante suono di una sirena della polizia robot. «Sì, insomma. Sei ricercato» dice infine, prendendomi per mano e chiamando gli altri due.

Ninja guida il gruppo verso il rifugio, mentre noi corriamo verso quello che poco prima avevo contemplato nella più tranquilla quiete della mia mente: il tramonto. Improvvisamente si sentono degli spari a vuoto, i quali sembrano provenire da una pistola a salve. Scaccio tutti i pensieri dalla mia testa, poi guardo in alto, un elicottero si sta calando nel giardino.

Una folata di vento ghiacciato si fa strada tra noi quattro, dividendomi dal resto del gruppo. L'elicottero atterra improvvisamente di fronte a me, aprendosi con uno scatto violento. Cinque o sei poliziotti della polizia robot scendono da esso, circondandomi. È impressionante come delle macchine possano sembrare così tanto umane.

Uno di loro si avvicina a me. Indossa una tuta grigia, un passamontagna e una sciarpa verde chiaro. Estrae dalla tasca dei pantaloni un microfono interno, poi lo porta alla sua bocca, l'unico pezzo di pelle scoperto. «Unità 11. Ne abbiamo una» dice infine una voce femminile.
Quella del poliziotto.

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Capitolo 2
*** Come away with innocence ***


~~Un maestoso silenzio inebria la stanza calda e sporca nella quale sono distesa da chissà quanto tempo. Guardo il soffitto e ascolto il rumore di una gocciolina d'acqua che continua a cadere a terra.
Decido di alzarmi dal pavimento umido e ormai fradicio, appoggiandomi all'unica finestra presente nella stanza. Il mio sguardo si punta sulla vista mozzafiato che mi si para davanti agli occhi: Robben Island.

Rimango ad osservare per un poco quelle onde salate scontrarsi contro la sabbia scura e umida dell'isola. È molto diversa rispetto alla classica Johannesburg industrializzata.

Lo scenario è monotono e rilassante, ma l'utilità di questa isola è sempre stata tutt'altro che i due aggettivi appena nominati. Sin dalla fine del XVII secolo, Robben Island fu definita dai coloni europei come un carcere; tra i suoi primi ospiti fissi c'erano capi politici provenienti da varie colonie olandesi, inclusa la mia famiglia.

Prendo un forte respiro, tremando. In questa stanza c'è un odore di morte, il quale mi ricorda che l'isola fu utilizzata come colonia per la lebbra.

Mi guardo attorno, alla mia destra ritrovo un poster di Nelson Mandela. Un poster che inneggiava alla sua vittoria.
Robben Island è effettivamente nota per essere stata il carcere per prigionieri politici nel periodo dell'apartheid.
Appunto, Nelson Mandela.

Mi avvicino con innocenza al poster, così mi accorgo di un foglietto attaccato alla parete. Lo stacco – tentennante –, ma capisco che è scritto in xhosa.

«Hai bisogno di un traduttore?» mi chiede una voce alle mie spalle. Lentamente mi giro verso di essa, riconoscendo la figura di fronte a me.
Una ragazza dai capelli azzurri e corti mi scruta da capo a piedi. Posso notare i suoi occhi scuri e dannatamente vivi, nonostante la sua anima dica il contrario, o semplicemente riveli la sua parte meno umana e sensibile.

«Che fai, non parli?» mi chiede lei, avvicinandosi a me. Faccio uno scatto felino, allontanandomi goffamente. Lei mi guarda, ridacchiando. In seguito, prende in mano il foglietto che avevo scrutato poco prima, cominciando a leggerlo.

«Sai leggerlo?» le chiedo solamente. La senza cuore alza lo sguardo, sorridendomi.

«Sono programmata per sapere tutte le lingue... » mi dice sincera.

Annuisco, poi alzo lo sguardo, cercando un modo per distrarla e scappare. «Come ti chiami?» chiedo, invece.

Lei continua a leggere il foglio che ha in mano, poi punta i suoi occhi scuri nei miei, di un verde scarlatto. «Hailey» dice, con uno strano sorriso in volto.

Annuisco. «Hailey.»

Lei fa lo stesso. «Shady.»

Mi giro, verso la finestra di prima. «È...» comincio, cercando di uscire dalla situazione imbarazzante «è sempre stato così?» chiedo, spaventata.

Hailey annuisce, avvicinandosi a me. «Nel periodo in cui l'isola fu una prigione, le misure di sicurezza erano molto rigide ed era vietato l'accesso a quasi tutti i civili» annusa l'aria, poi tossisce «lebbrosi inclusi.»

Il pensiero di non essere in carcere mi rende più tranquilla, ma non capisco, ancora.

«Negli anni i prigionieri si organizzarono molto bene... Insomma, lo sai, fondarono perfino delle squadre di calcio» ridacchia, indicandomi un campo da calcio a pochi metri da noi. «Prima del 1980, quasi nessun capetoniano aveva mai visto l'isola. Figuriamoci una ragazzina di Johannesburg come te.»

Tossisco, poi abbasso lo sguardo. «Perché sono qui?»

Hailey sorride, poi punta i suoi occhi su di me. «Sei qui perché te e i tuoi amici avete commesso il furto più grande di tutta l'Africa. Sai, ci sono svariate isole quaggiù, siete stati destinati a un mese di isolamento, ognuno in una di esse» mi dice. «Quest'isola era patrimonio dell'umanità, prima che arrivassimo noi. Lo sai, non starò qui a raccontartelo. La guerra del '77 è stata più dura di quanto tu possa mai credere» m’indica un albero abbattuto «È stata tutta colpa nostra. È, è andato tutto in fumi» dice lei. È impressionante come un robot possa avere sentimenti così forti e sensi di colpa così logoranti.

«Però voglio aiutarti...» comincia «Insomma, so che sei nei guai, ed io, come dire...» si interrompe.

La guardo.

«Sì, voglio aiutarti con le tue cose: il disegno, la musica...» sussurra, «e poi ho un compito specifico.»

Annuisco, sapendo che allude alla mia duratura segregazione qui. «Capisco...»

Hailey si allontana da me, uscendo dalla stanza.

«Ah, Shady.» mi chiama.

Mi giro.

«Xa umntu ahluthwe ilungelo lokuphila ubomi ukholwayo, uye nyanzelekile ukuba niphumele isihange» mi dice, ma io non la capisco.

Balbetto qualcosa. «Hailey, io...» provo a dire «Io non parlo xhosa...»

Mi interrompe. «Quando a un uomo è negato il diritto di vivere la vita in cui crede, questo non ha altra scelta che diventare un fuorilegge.»

«Azzeccato», penso.

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