Beauty and the Beast - Tale as old as time

di SusanTheGentle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Belle ***
Capitolo 3: *** 2. La creatura della foresta ***
Capitolo 4: *** 3. Prigioniera ***
Capitolo 5: *** 4. Invito a cena ***
Capitolo 6: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Beauty and the Beast





Prologo
 
 
C’era una volta, tanto tempo fa in un paese lontano, un giovane principe che viveva in un castello splendente. Era l’unico figlio di un bravo re e una buona regina, i quali governavano su un piccolo, pacifico regno dove nessun conflitto aveva mai disturbato i sonni dei suoi abitanti. Il re e la regina erano sempre molto impegnati e non potevano occuparsi di lui, ma non per questo si sentiva solo. Aveva infatti intorno una numerosa schiera di servitori pronti ad esaudire ogni suo desiderio.
Crescendo, Benjamin – questo il nome del principe – divenne un ragazzo molto attraente, alto, con capelli color dell’ebano e occhi ancor più scuri. Aveva modi eleganti, era colto, sapeva conversare in maniera adeguata come si conveniva al suo rango, e conosceva i passi di danza delle ballate d’epoca (al palazzo si davano spesso sontuosi ricevimenti, ai quali prendevano parte tutte le persone in vista dell’alta società del regno). Insomma, tutte cose che un principe deve saper fare.
Quando Benjamin compì ventun anni, il re gli regalò un magnifico castello in aperta campagna, per usarlo come riserva di cacciagione. Il castello sorgeva in una bella valle circondata da un bosco, che per tutto l’anno spargeva nell’aria il fresco odore dei pini. Quando il vento soffiava sui prati portava con sé il profumo dei frutti e dei fiori che crescevano là, tra le fronde degli altissimi alberi. C’erano pendii e collinette erbose, un crepaccio profondo che riecheggiava dei suoni tutt’intorno, un fiume cristallino dove il principe passava pomeriggi interi, seduto sul greto con il suo cavallo e il suo fedele cane da caccia. Il giovane preferiva di gran lunga trascorrere il suo tempo qui piuttosto che all’austero palazzo reale, nella capitale. Così, il nuovo castello in campagna divenne la sua dimora fissa, sua e del suo seguito: maggiordomi, valletti, camerieri in abbondanza, cuochi, chef, stallieri, una governante, e perfino una cantante lirica, amica della regina, che aveva accettato di far visita al giovane, di tanto in tanto, per deliziare lui e gli abitanti del castello con la sua musica. Tutti lo assecondavano e non gli si veniva mai detto di no, in quanto si pensava che il re e la regina non avessero approvato di negar qualcosa al loro amato figlio.
Se solo Benjamin avesse avuto un po’ di amore per il prossimo quanti erano gli agi da cui era attorniato…
Purtroppo, dimostrò di non possedere un buon carattere, era viziato, egoista e cattivo. Credeva che ogni cosa gli fosse dovuta. Se dava un ordine, si aspettava che venisse eseguito. Se incrociava un povero mendicante nel bosco si affrettava a cambiare strada, o semplicemente lo ignorava; e se mai bussavano al suo castello, egli cacciava via chiunque osasse disturbarne la quiete, a meno che non fosse stato invitato. Benjamin sceglieva di ignorare le disgrazie altrui piuttosto che provarne compassione. Non concepiva la miseria, poiché era sempre vissuto nella ricchezza; non gli piaceva nemmeno che se ne parlasse. Quando i servitori accennavano a quel che avrebbe potuto fare di buono il loro giovane signore per i meno fortunati e gli abbietti, egli lanciava sguardi di rimprovero intorno a sé, gridando di non voler ascoltare quei discorsi. Lui era un principe, che cosa aveva da spartire con la povertà e le sfortune altrui? Non aveva un problema al mondo, quindi, perché doveva esser costretto a sobbarcarsi le angosce  appartenenti a persone di cui ignorava l’esistenza? E poi, di questo si occupavano già i suoi genitori.
Il re e la regina, da canto loro, pensavano che il mondo di là fuori fosse troppo spietato e difficile per il loro giovane rampollo. Era preferibile che vivesse a quella maniera invece di esser turbato dalla malvagità. Ignoravano, o volevano ignorare, che loro figlio era esattamente tutte quelle cose che avevano cercato di tener lontane da lui.
Benjamin, nel suo cuore superbo, si disinteressava di tutto ciò che non gl’importava, pensando unicamente a sé stesso. Voleva solo starsene in pace nel suo castello, godere degli agi e dei divertimenti che il sangue blu gli riconosceva. Sapeva bene di poter fare tutto ciò che desiderava, poiché cosi era sempre stato: nessuno gli aveva mai negato niente, lo aveva contraddetto, o aveva obbiettato un suo parere.
Ma tutti dobbiamo estinguere le nostre mancanze, prima o poi.
Accadde una notte d’inverno, quando la neve era ancora soffice sui sentieri di campagna e il fiume non ancora completamente ghiacciato. Una vecchina arrancava sulla strada maestra, avvolta in un mantello logoro e sporco, un nodoso bastone tra le mani. Tremava di freddo la poverina, e le erano rimaste ben poche forze nel momento in cui si trovò di fronte al grande cancello di ferro del castello.
   «Aprite, miei signori. Aprite a una povera mendicante che non ha un posto dove andare in una notte tanto buia e fredda».
Un cameriere, mosso a compassione, andò ad aprirle il cancello, conducendola attraverso il cortile fino al portone principale. Fece accomodare la vecchina nell’atrio illuminato e caldo, poi andò a chiamare il capo maggiordomo, un uomo dall’aria severa ma di buon cuore. Quand’egli arrivò, si fermò un momento ad osservare la veccha, in piedi al centro dell’atrio. Il maggiordomo sbuffò una volta dal naso, non perché fosse in collera, ma perché era impensierito. Tirò fuori dalla tasca del panciotto una catenina dorata, alla cui estremità era agganciato un bell’orologio da taschino in oro finissimo; controllò l’ora, poi lo rimise via.
   «Il padrone dorme?» sussurrò al cameriere che aveva fatto entrare la donnina.
   «Si è ritirato mezz’ora fa» rispose questi.
   «Molto bene. Puoi andare, adesso, qui ci penso io».
Il cameriere sgattaiolò su per le scale, non prima di essersi guardato alle spalle con curiosità.
Il maggiordomo si rivolse dunque alla mendicante, accennando un sorriso cordiale.
«Venite, brava donna, seguitemi giù in cucina. Sono sicuro che il cuoco non ha ancora sparecchiato la cena della servitù. Mentre aspettiamo che la riscaldi, Mrs. Bric, la nostra governante, potrà offrirvi una tazza di buon tè bollente».
La vecchia fece una riverenza. La cosa colpì non poco il maggiordomo, perché era una riverenza davvero ben fatta.
   «Siete molto gentile, signore, e vorrei ringraziare per tanta ospitalità anche il vostro padrone».
Il maggiordomo si mosse nervosamente, controllando di nuovo l’orologio.
   «Mi rincresce, ma non sarà possibile».
La mendicante si appoggiò al suo bastone, osservando dritto negli occhi l’altro uomo.
   «In ogni caso, sarà ben felice di aver offerto il suo cibo ad una bisognosa».
La frase parve al maggiordomo una sorta di domanda inespressa, e la vecchia lo guardava come se si aspettasse una qualche risposta.
   «Uhm... certo, lui… sì, sarà molto…».
   «Un nobile signore che possiede un sì grande maniero, deve possedere anche un grande cuore» aggiunse la mendicante.
Il maggiordomo guardò per la terza volta il suo orologio con fare imbarazzato. A dire il vero, sapeva che il principe non sarebbe stato affatto contento se avesse saputo che una mendicante aveva varcato la soglia del suo castello. Tuttavia, il maggiordomo non avrebbe avuto il cuore di lasciare quella povera vecchietta in mezzo alla neve in quella gelida notte. Se facevano piano, il principe non si sarebbe svegliato e non avrebbe mai saputo niente di tutto ciò.
Infine, fece un cenno con il braccio verso la porta dalla quale era arrivato.
   «Prego, se volete seguirmi…».
Un rumore di altre porte sbattute provenne dai corridoi dei pani superiori, seguito da passi affrettati per le scale. Poi, una voce tuonò: «Tockins!».
Un bel giovane uomo avvolto in una vestaglia blu notte si stagliò contro la luce delle candele dell’ingresso, le cui fiammelle tremarono al suo arrivo improvviso, forse per lo spostamento d’aria da lui provocato o forse terrorizzate dal suo tono di voce. Era furente. Il cameriere che aveva accolto la vecchietta stava alle sue spalle.
Nel breve silenzio che seguì, gli occhi del principe vagarono pericolosamente dalla vecchia mendicante al maggiordomo per diverse volte.
   «Cosa succede qui, Tockins? Chi è questa persona?».
Tockins si torse le mani, cercando di riassumere il giusto contegno senza mostrare la preoccupazione. Era di sicuro in arrivo un putiferio.
   «Perdonatemi per non avervi avvisto, altezza, ma vi eravate già ritirato e non volevo…».
   «Quante volte ho ripetuto che non voglio estranei in casa mia?» lo interruppe bruscamente il principe, scoccando un’occhiata seccata alla mendicante. Ella se ne stava tranquilla, sempre immobile, con il suo mantello logoro e il suo bastone. Tutto di lei lo ripugnava: era sporca, gobba, alcuni ciuffi di capelli bianchi e stopposi sfuggivano da sotto il cappuccio, le mani nodose avevano unghie spezzate e troppo lunghe. Somigliava a un ramo rinsecchito dal sole.
   «Perché l’avete fatta entrare?» domandò nuovamente, sempre con quel tono brusco.
   «Fa molto freddo fuori stanotte, e la poverina chiedeva soltanto un riparo e un po’ di cibo», rispose Tockins.
Benjamin storse il viso in una chiara smorfia di riprovazione e disgusto per quella donna dal misero aspetto.
   «Potrà trovare cibo e riparo in una delle locande giù al villaggio» tagliò corto, voltandosi per tornare di sopra.
Tockins cercò di dire ancora qualcosa in difesa della poveretta, ma conosceva troppo bene il principe per illudersi che, per una volta, potesse comportarsi in modo diverso. La conversazione era chiusa e non avrebbe ammesso repliche. Si apprestò così a riaccompagnare la mendicante al cancello, riservandole un cenno di scuse.
   «Mio buon signore, prego, se voleste ascoltarmi» disse d’un tratto la vecchia. Il suo bastone produsse un sommesso clunk sul tappeto dell’ingresso quando si mosse in direzione del principe.
Benjamin si fermò, voltandosi verso di lei con espressione corrucciata e un po’ stupita.
«Siate buono, mio signore. Ho una cosa importante da dire solo a voi».
Normalmente, egli l’avrebbe spedita fuori senza tanti complimenti, ma c’era qualcosa di assolutamente strano in quella donnetta tutta rughe: lui la fissò e lei lo guardò di rimando senza sbattere mai le palpebre.
   «Tockins, ti puoi ritirare» disse allora, congedando il maggiordomo.
   «Ma… padrone…» balbettò quest’ultimo, facendo tintinnare la catenina del suo orologio.
   «Non ti preoccupare, penserò io a chiamare qualcuno perché conduca fuori questa donna tra un minuto. Và pure».
   «Come desiderate, signore. Buonanotte».
Perplesso e forse un po’ impensierito, Tockins fece un cenno al cameriere rimasto a spiare la scena da dietro le spalle del principe. Lo spedì giù in cucina, poi tornò di sotto a sua volta, diretto alle stanze della servitù, augurandosi con tutti il cuore che il suo padrone non decidesse di condurre personalmente fuori dal castello quella povera donnina, magari a calci.
   «Parla, dunque» la invitò con impazienza Benjamin quando furono soli. Iniziava a sentir freddo con indosso solo la veste da camera, non vedeva l’ora di tornarsene al caldo delle coperte e del fuoco scoppiettante del camino.
La mendicante infilò una delle mani rugose dentro le pieghe del mantello lacero, estraendone una splendida rosa rossa, tenendola alta sopra la testa così che la luce delle candele la illuminasse per bene.
   «Voi avete tutto ciò che ogni uomo possa desiderare, giovane signore, ma ditemi: di tutte le vostre ricchezze, avete mai posseduto qualcosa di tanto bello da essere paragonato a questa?».
Benjamin osservò la rosa con vaga curiosità. Sembrava che la mendicante si aspettasse che potesse travarla anche solo minimamente interessante, ma lui ne aveva a centinaia di rose nel suo giardino, in primavera erano un tripudio di sfumature.
   «Tutto qui quello che volevi dirmi?» domandò sprezzante.
   «Non è una rosa come tutte le altre. E’ una rosa incantata!» precisò lei con enfasi.
Benjamin fece un sorriso beffardo, chiaramente incredulo.
   «Non ho tempo di ascoltare le tue ciance, vecchia».
   «Non burlatevi di me, mio giovane principe» lo avvertì la mendicante , alzando un dito nodoso in segno di avvertimento. «Badate a non farvi ingannare dalle apparenze. Ciò che si vede non sempre è quel che è. Voi pensate che io sia brutta e povera, ma la vera bellezza si trova nel cuore. Se sarete gentile e mi ospiterete nel vostro castello solo per questa notte, vi farò dono di questa rosa: il bene più prezioso che possiedo. La pianterete nel vostro giardino ed essa vi donerà qualcosa che mai nessun altro potrà darvi, viveste cent’anni».
   «Non ho bisogno di nulla, possiedo già tutto quello che desidero» ribatté Benjamin con fare altezzoso, il sorriso beffardo ancora sulle labbra. «E adesso torna da dove sei venuta, mi stai annoiando con queste tue fandonie».
A quelle parole, gli occhi della mendicante mandarono uno strano bagliore, che a lui non sfuggì. D’un tratto, ella gli apparve meno logora, meno stanca e forse meno vecchia.
   «E’ vero, voi possedete tutto ciò» riprese la mendicante con voce chiara e forte. «Siete giovane, ricco e potente. La bellezza non vi manca, l’intelligenza nemmeno. Possedete molte altre virtù, ma non avete cuore».
   «Come osate dire questo?» s’indignò il principe, scosso dalla verità. Gli era stata sbattuta in faccia da una miserabile, quando mai nessuno aveva osato farlo prima.
   «Lo vedo scritto proprio qui, nel vostro stesso cuore». La mendicante si avvicinò di più al giovane, puntandogli un dito raggrinzito sul petto.
Benjamin l’allontanò bruscamente, tenendola a distanza con un ampio gesto del braccio.
   «Non toccarmi!».
   «Arrogante. Tronfio. Egoista» scandì con forza la vecchia, ogni parola era un passo verso di lui. La rosa che ella teneva stretta nel pugno vibrò e i petali emanarono una strana luce iridescente. «Non t’importa di niente se non di te stesso».
   «Basta!» tuonò il giovane. Strappò il fiore di mano alla vecchia e lo gettò via. «Sparisci immediatamente dalla mia vista, strega!».
   «Se non ti correggi, un giorno sarà troppo tardi per farlo» lo ammonì lei severamente, incurante delle sue grida. «Sei ancora in tempo. Accetta la mia richiesta: solo poche ore di ospitalità, e ti donerò ciò che non hai».
Per tutta risposta, Benjamin alzò il braccio, puntando il dito verso il portone in un gesto inequivocabile.
   «Non so che farmene dei tuoi avvertimenti!» esclamò furente. «Vattene da questo castello e non tornare mai più!».
   «Allora non ho scelta» disse gravemente la mendicante chinando il capo, nascondendo tra le ombre del cappuccio il volto rugoso.
Quando lo rialzò, Benjamin rimase sconcertato da ciò che vide. Al posto del viso di vecchia c’era quello di una donna giovane e bellissima, con due occhi più azzurri di uno zaffiro. Non era più ingobbita, era alta, sottile. Abbassò il cappuccio, liberando lunghissimi capelli biondo chiaro che emanavano un luccichio simile a quello delle stelle. Sul capo portava un diadema, il quale andava ad appoggiarsi appena sulla fronte in complicati intrecci di cristallo. Slacciò il mantello logoro e quello scomparve come per magia, sostituito da una ricca veste verde e oro. Il bastone era diventato una lunga bacchetta magica dorata che venne agitata nell’aria. Sotto lo sguardo sempre più sbalordito del principe, la rosa si sollevò dal pavimento, come sospinta da un alito di vento, per andare a posarsi nella mano tesa della giovane donna che era stata la vecchia mendicante.
Benjamin aveva sentito parlare di certi prodigi ma non vi aveva mai creduto. Solo adesso capiva di aver commesso un tragico errore a deridere quella stracciona. Per la prima volta in vita sua si sentì debole di fronte a qualcuno, perché sapeva (anche se non capiva come lo sapesse) che quella donna ricopriva un ruolo di sommo rilievo, molto più alto del suo.
   «Chi sei?», domandò con voce incerta.
La bella dama parlò con voce vellutata ma sicura.
   «Io sono la Fata della Rosa, colei che veglia da sempre sul regno e i suoi abitanti. E’ da molto che ti osservo, ormai era tempo che venissi qui per incontrarti».
Per quanto una parte di lui continuasse ad essere incredula, l’altra intuiva cosa sarebbe potuto accadere. Le fate erano solite mostrarsi quando dovevano avvertire gli uomini di lieti o spiacevoli avvenimenti, e Benjamin aveva ragione di sospettare che lei non fosse venuta per dargli una buona notizia.
   «Non fatemi del male, signora, vi supplico» implorò. «Io non immaginavo che…».
Cercò di scusarsi ma le parole gli morirono in gola.
   «Speravo avessi dimostrato almeno un po’ di misericordia e accettato il dono di una povera vecchia mendicante, per quanto misero» proseguì la Fata. Nella sua voce si alternavano severità e rammarico. «Non ti ho chiesto molto, solo una piccolissima parte di tutte le belle cose che possiedi: un letto e un po’ di cibo che cosa sono per te? Eppure, tu mi hai cacciata».
   «Voi mi avete ingannato» replicò debolmente Benjamin. «Come potevo sapere chi eravate davvero?».
La liscia fronte della Fata si corrugò per un istante. «Se avessi saputo chi ero mi avresti ospitata?».
   «Certamente!» affermò lui con calore. «Vi avrei dato tutto ciò che desideravate, sareste stata la benvenuta».
Negli occhi della Fata comparve l’ombra della pietà. «Ma se fossi stata davvero una povera mendicante, mi avresti dunque lasciato morire di freddo e di fame».
Benjamin non seppe che dire. Aprì la bocca  una volta e la richiuse. Lo sguardo della Fata era insopportabile, perciò distolse in fetta lo sguardo. Ancora una volta gli gettava addosso la nuda verità. Sì, se lei fosse stata una vecchia, l’avrebbe rimandata per strada senza curarsi del suo avvenire, dimenticandosene in poco tempo. Se invece si fosse presentata al castello adorna della sua bella veste verde e oro, e la corona di cristallo, l’avrebbe accolta con tutti gli oneri.
La Fata puntò un dito contro di lui, come aveva fatto prima quando ancora vestiva i panni della vecchia mendicante.
   «Ti avevo avvertito: non dovevi farti ingannare dalle apparenze, giovane principe. Ora conosci il mio vero aspetto e sai che ti sbagliavi».
Benjamin provò un tremito in tutto il corpo, il cuore gli batteva all’impazzata per la paura.
   «Chiedo perdono, mia signora. Se potessi tornare indietro…».
   «Adesso è tardi», lo interruppe lei, che aveva scorto l’approssimarsi del pentimento nel cuore del bel giovane. Purtroppo però, la decisione era presa.
Benjamin si guardò attorno smarrito. Era tardi per cosa? Che sarebbe successo ora? Avvertiva uno strano fruscio nell’aria silenziosa, come l’avvicinarsi di uno sciame di uccellini in volo, senza però capire da dove provenisse il suono. Era solo nella sua testa? Era la paura a giocargli brutti scherzi? O era il suo animo, il senso di colpa che per la prima volta si affacciava alla sua mente, dove la voce della coscienza sussurrava inesorabile, rinfacciandogli le tante azioni sbagliate commesse nel tempo?
   «Non sei un malvagio, principe» disse infine la Fata, «ma non conosci l’amore e non sai cosa sia la bontà d’animo. Ed io ho il dovere di insegnartelo».
Il tremito che si era impadronito di lui crebbe a dismisura quando la vide levare la bacchetta magica sopra la testa.
Benjamin cadde in ginocchio di fronte al lei, implorando ancora e ancora, ma oramai l’incantesimo era stato pronunciato. Una forte luce esplose davanti ai suoi occhi e fu costretto a serrarli con forza. Sollevò un braccio, proteggendosi il viso dal forte vento che si levò con una forza inaudita, spalancando le porte e le finestre del castello, spegnendo le fiamme delle candele. L’atrio piombò nell’oscurità, la neve vorticò all’interno, il gelo irruppe pungente attorno a lui, dentro di lui. Avvertì stilettate di ghiaccio penetrargli nella pelle, che d’un tratto parve squarciarsi. Gridò, di dolore e disperazione, non riuscendo a capire cosa stesse accadendo al suo corpo, se era la realtà o soltanto un terribile incubo. Pregò che i pugnali di ghiaccio invisibili cessassero di lacerare ogni punto del suo essere. Miste alle sue grida, udì anche quelle di molte persone attorno a lui. Passi e urla in tutto il castello: le porte sbattevano, le finestre stridevano sui cardini, qualche vetro si ruppe, qualcosa cadde poco distante da lui e si infranse. Doveva per forza essere un incubo…
Non voleva che i suoi servitori lo vedessero così. Non voleva eppure voleva, desiderava che accorressero, che lo aiutassero. Perché non venivano? Le voci le aveva sentite. Dov’erano, allora?
Perché nessuno rispondeva? Lui gridava e soffriva, e loro non facevano niente.
Poi, il gelo svanì rapido così come lo aveva aggredito, il vento si placò, le candele si riaccesero.
   «Alzati, principe».
La Fata troneggiava su di lui, la sua voce forte, limpida, ma sempre con un vago sentore di gentilezza, severità e pietà.
Di nuovo, attorno a sé udì voci mormorare, non più urlare. Alcuni trattennero il fiato.
Benjamin aprì gli occhi scuri, l’unica parte di lui ancora rassomigliante al bel giovane che era stato. In ginocchio suo tappeto, alzò il capo per guardare la Fata, poi si volse intorno per osservare la bizzarria di una scena che lì per lì non riuscì a comprendere. Nessuno ci sarebbe riuscito. Nel salone d’ingresso parevano essere stati stipati tutti gli oggetti del castello. Uno più di tutti attirò la sua attenzione, non perché avesse qualcosa di speciale, ma per ciò che era riflesso sulla sua superficie. Un grosso specchio non lontano da lui gli rimandava un’immagine spaventosa. L’urlo di terrore non gli uscì dalla gola solo perché una parte remota della sua mente sapeva già che cosa stava osservando: un’orrenda creatura era apparsa da chissà dove, forse richiamata dall’incantesimo della Fata, e adesso lo avrebbe ucciso, il suo aspetto feroce non dava modo di pensare altrimenti.
Benjamin si mosse e la creatura si mosse con lui: indietreggiò quando lo fece lui, si aggrappò al bordo di un tavolino nello stesso momento in cui lo fece lui, rovesciò la stessa sedia che rovinò a terra quando le andò contro.
Non poteva essere vero...
Alzò una mano per tastarsi la faccia, scoprendo con orrore che le sue mani erano quelle della creatura. Non più mani vere, ma zampe pelose dotate di cinque lunghi artigli, esattamente come lo erano i piedi. Le braccia, come le gambe e tutto il resto del corpo, possente come quello di un enorme orso, erano ricoperte di una spessa pelliccia bruna. Una lunga coda strisciava sul pavimento. Una criniera leonina ricopriva la testa e il collo, zanne lupesche erano cresciute nella sua bocca, due paia di corna lunghe e appuntite spuntavano dai lati del capo, minacciose, come quelle di un demone.
Era diventato… che cosa? Non lo sapeva, non avrebbe potuto spiegarlo. Era un mostro, un demonio. Una bestia.
   «Che cosa mi hai fatto?!» gridò con quanto fiato aveva in gola. Per un infinitesimo istante ringraziò il cielo di saper parlare ancora.
La Fata gli si avvicinò senza timore.
   «Questa è la punizione per ciò che sei. Era mio dovere».
   «Tuo dovere?!» ringhiò il principe, avanzando sulle zampe posteriori. Sentì che non riuscivano a reggere tutto il suo peso ora che era diventato enorme, perciò si abbandonò su tutte e quattro. Le voci attorno a lui mormorarono spaventate.
   «Tu non hai il diritto di farmi questo!».
   «Avevo il diritto di darti la possibilità di rimediare» disse la Fata, la voce molto più severa di quanto non fosse stata finora. «Non hai mai dimostrato affetto per nessuno, neanche per le persone che ti sono state vicine e ti hanno accettato nonostante i tuoi numerosi difetti. Non hai mai tenuto conto del bene di nessuno. Ho sperato per molto tempo che potessi cambiare, ma non è accaduto. E  ho sperato fino all’ultimo istante, questa notte, di non dover fare ciò che ho fatto. Non mi hai dato scelta. Per questo, adesso, hai l’aspetto di una bestia. La magia che ho gettato su di te rispecchia quello che sei».
La rabbia e la disperazione di Benjamin esplosero come fiamme ardenti. La bestia che era ringhiò così forte che le pareti del castello tremarono. Ebbe l’impulso di gettarsi addosso alla Fata ma non lo fece, non sarebbe servito a niente. Lei diceva il vero: lui non era una bella persona, eppure aveva preferito essere ipocrita piuttosto che dare ragione a qualcuno che non fosse sé stesso.
Gridò ancora, la voce di bestia simile a un tuono nella notte innevata.
   «La rabbia non ti porterà a nulla» proseguì imperturbabile la Fata, levando ancora la bacchetta. «Adesso ascoltami bene, principe Benjamin: finché non cambierai la disposizione del tuo cuore, non tornerai mai come eri prima. Ma hai una possibilità. Bada, una soltanto, se la sprecherai non ci sarà redenzione che possa spezzare l’incantesimo».
Benjamin le rivolse uno sguardo traboccante di risentimento.
   «Che cosa vuoi ancora da me?».
   «Che impari ad amare». La Fata alzò la mano sinistra, nella quale teneva la rosa rossa; eseguì un fluido movimento con la mano destra, quella con cui teneva la bacchetta, e una polverina scintillante scaturì dalla punta dorata, roteando attorno alla rosa per andare a posarsi sui suoi petali. Il fiore scarlatto sembrava ricoperto di rugiada. I granelli di polvere scintillante emanarono un altro lampo di luce, simile a quello che aveva colpito Benjamin, anche se meno luminoso. Quando si dissolse, la rosa era tornata ad essere un piccolo bocciolo, illuminato da puntini di luce rosata. Sopra di essa si era chiusa una campana di puro cristallo. La Fata la tenne in equilibrio nel palmo di una sola mano per mostrarla al principe.
   «La crescita di questa rosa scandirà il tempo del sortilegio. Inizierà a sbocciare lentamente, e rimarrà intatta e in fiore fino al giorno del tuo trentesimo compleanno. Se per allora avrai imparato ad amare, e sarai riuscito a farti amare a tua volta, l’incantesimo che ho lanciato su di te e su tutto il castello si spezzerà, e tu tornerai com’eri prima. Ma se ciò non avvenisse, se non riuscirai a sciogliere il gelo nel tuo cuore prima che sia caduto l’ultimo petalo, rimarrai una bestia per sempre».
Quelle ultime due parole penetrarono nel cuore di Benjamin, pesanti come macigni.
   «Tu chiedi l’impossibile. Guardami!» esclamò, in preda alla disperazione più cieca.
Quella donna aveva insinuato che lui non aveva cuore, e forse aveva ragione, ma lei non era da meno. Che cosa avrebbero detto tutti quanti vedendolo così? E i suoi genitori? Non lo avrebbero riconosciuto, era condannato a rifuggire il mondo intero. Non credeva che l’incantesimo si sarebbe spezzato, era impossibile che accadesse.
   «Ancora una volta dai importanza solo alle apparenze» disse la Fata, che aveva percepito le  angosce del giovane. Il suo viso candido era diventato davvero molto triste. Spesso, adempiere il proprio dovere non era affatto facile, ma ella confidava nella forza del cuore e per questo aveva fiducia nel principe, che un cuore l’aveva ma non sapeva di possederlo.
La Fata posò la campana di cristallo con dentro il bocciolo di rosa sul tavolino al quale il ragazzo si era aggrappato qualche istante prima. Poi, per la terza volta in quella notte, agitò la sua bacchetta dorata.
   «Prendi questo» disse, facendo apparire uno specchio ovale dal manico argentato, decorato di intagli eleganti. «Sarà la tua finestra sul mondo esterno. Lancerò un incantesimo anche sul palazzo reale dove vivono i tuoi genitori. Non verranno mai a sapere quello che è successo qui. Nessuno lo saprà mai. Spero che un giorno imparerai ciò che ho provato a insegnarti stanotte, principe Benjamin. Fino a quel giorno, addio».
In un vortice di vento e petali, la Fata della Rosa scomparve nel nulla, lasciando l’atrio del castello molto più buio di come era sembrato finché era stata lì.
Il portone e le finestre si erano richiuse. La luce delle candele illuminava l’atrio. Tutto era tornato come prima dell’arrivo della mendicante, tranne che per tutti gli oggetti che ingombravano una parte della stanza.
Infine, tre voci si levarono da quel gruppo composto di sedie, soprammobili, lampade, stoviglie e quant’altro.
   «Padrone! Altezza! Signore!».
Solo allora Benjamin capì che cosa – o chi – erano tutti gli oggetti in quella sala, e che cosa facevano lì.
   «Tockins… Mrs. Bric… Lumiere».
Tre figure, un orologio, una teiera e un candelabro si erano staccate dal gruppo, e venivano verso di lui. Dovette piegare le quattro zampe per poter parlare con loro. La Fata gli aveva detto che il sortilegio avrebbe colpito anche il resto del castello, non lui soltanto, di conseguenza anche tutti i suoi abitanti erano stati trasformati.
   «Che cosa dobbiamo fare, adesso, padrone?» chiese Tockins il maggiordomo, o l’orologio che una volta era Tockins.
Il principe si riebbe. Alzandosi sulle zampe posteriori che erano stato le sue gambe, si rivolse a tutti gli oggetti, cioè tutta la servitù.
   «Sbarrate il cancello, che nessuno entri. Tirate le tende, non mettete luci accanto alle finestre. Nessuno dovrà sapere che siamo qui. Ci nasconderemo dal mondo». Il suo sguardo cadde sullo specchio donatogli dalla Fata. Lo afferrò malamente in una zampa, ma non riuscì a tenerlo bene e lo fece cadere. Tockins, Mrs. Bric e Lumiere lo afferrarono tutti e tre insieme, al volo, facendo in modo che non si rompesse.
Il principe lo riprese in mano, serrando meglio gli artigli attorno alla superficie levigata.
   «Portate nelle mie stanze questo specchio e la rosa. Dovremo imparare a convivere con questa maledizione».
Uno sgabello e un attaccapanni si mossero per eseguire gli ordini.
   «Altezza, voi credete che sarà possibile…» iniziò Tockins, ma il principe lo interruppe subito.
   «Io non credo più in niente». E detto ciò, si rinchiuse nella sue stanze, rimanendovi per molti giorni.
Ci sarebbe voluto del tempo perché la gente del castello imparasse davvero ad accettare la sua nuova condizione, e ancor più ad eseguire le solite faccende disponendo di parti del corpo fatte di metallo o ceramica. Ma ci riuscirono.
Il tempo passò, trascorsero anni. La gente dei villaggi e delle città vicine non sospettava né dell’esistenza di un castello incantato, né che là dentro ci vivesse una bestia che era stata il loro principe. Nessuno aveva mai saputo che il giovane possedesse un palazzo proprio in quel bosco, il re aveva scelto un luogo piuttosto isolato proprio perché sapeva che a suo figlio piaceva la solitudine.
Sporadiche storie si raccontavano nelle locande, durante buie notti d’inverno. I più fantasiosi parlavano di una creatura così grande e spaventosa da sembrare uscita dalle fiamme dell’inferno. Ma, ovviamente, quasi nessuno ci credeva.
Dieci anni passarono lunghi e tetri. Il castello, da splendido quale era stato, divenne sempre più lugubre e silenzioso.
Vergognandosi del suo aspetto, Benjamin non tentò mai di uscire da quelle stanze. Di tanto in tanto dava un’occhiata nello specchio magico per vedere cosa accadeva nelle campagne, nelle foreste o nei villaggi, ma era troppo doloroso e così smise di osservare il mondo. Niente gli diceva che presto sarebbe giunto qualcuno a spezzare il sortilegio. I suoi servitori cercavano di sollevargli il morale, comportandosi come se nulla fosse, e sarebbe sembrato così se ogni specchio del castello non gli avesse restituito lo sguardo di un mostro abominevole. Ordinò che fossero tutti distrutti, o comunque nascosti alla sua vista, e quei servitori che si erano tramutati in specchi dovevano rimanere a debita distanza da lui.
Benjamin era così disgustato dal suo aspetto che un giorno distrusse il proprio ritratto appeso alla parete della sua camera, trasferendosi in un’altra ala del castello, per non essere costretto a vedere ogni giorno quello che rimaneva del suo volto umano. Tornava solo di tanto in tanto nella sua vecchia stanza, per controllare che la rosa non stesse appassendo. Ormai stava sbocciando, ma appariva ancora in tutto il suo splendore. I pulviscoli lucenti di cui scintillavano i suoi petali sembravano muoversi allo stesso ritmo della lancetta di un orologio, scandendo i secondi del tempo che passava inesorabile.
Benjamin se ne stava sempre solo, si comportava sempre più come una bestia vera e propria, rinchiudendosi in un ombroso silenzio. Non parlava quasi con nessuno se poteva evitarlo. Aveva perso ogni speranza di mutare la propria sorte, lo sconforto si era impadronito di lui e il suo carattere era peggiorato ulteriormente. Non riusciva a sperare, tantomeno a credere, che da un giorno all’altro sarebbe potuto cambiare qualcosa. Non credeva neppure di poter cambiare sé stesso, non riusciva ad essere diverso da quello che era. Il suo destino ero ormai segnato, benché in molti cercassero di dargli coraggio.
Doveva essere onesto con sé stesso per una volta, guardarsi dentro e accettare la dura realtà.
Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?

 
 



 
 -L'angolino di Susan-

Salve a tutti cari lettori, vecchi e nuovi!
Questa è la mia personale versione della fiaba de La Bella e la Bestia, e ovviamente il principe non poteva che essere il mio adorato Ben Barnes! Sì, lo so, ho avuto una fantasia sfrenata per il nome del suddetto principe, ahah, che volete farci? O vi va bene o niente xD
Stavolta ho pubblicato in una sezione nuova, visto che la ff ha sí Ben Barnes come protagonista, ma in un contesto differente dal solito. Insomma, non è un attore ma un principe. Speriamo mi vada bene (ansia!).
Sono contenta di avere iniziato una nuova storia, anche se ho ancora in corso due long, una di queste proprio su Ben. Il fatto è che sono stata un sacco di tempo senza scrivere quasi nulla, e non riesco ancora a sbloccarmi con le altre due, per cui ho pensato che potevo provare a rompere il ghiaccio per il mio ritorno su Efp buttando giù qualcosa di nuovo. Ammetto che il genere fantasy/fiaba è quello in cui riesco meglio, e recentemente ho avuto questa idea di una fanfic su questa fiaba. Sarà che sono stata influenzata dall’arrivo al cinema del live action, anche se io preferisco ispirarmi al film Disney a cartoni animati.
QUI potete trovare il cast come l’ho pensato io. La prossima volta, se ho tempo, faccio anche un banner per la storia.
Che dire? Vi aspetto alle recensioni, se volete.
E’ bello essere di nuovo qui!
Un bacio a tutti,
la vostra
Susan <3

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Capitolo 2
*** 1. Belle ***


Capitolo 1.
 Belle
 
 
 
Il cinguettio degli uccellini salutò lo spuntar del sole nell’ultimo giorno d’estate. Il gallo aveva appena cantato, giù al villaggio qualcuno era già in piedi e presto le vie di terra battuta si sarebbero animate di voci allegre che salutavano i vicini, ognuno indaffarato nelle proprie faccende.
Nell’ultima casa in fondo alla stradina, che saliva dolcemente sulle pendici della bassa collinetta  sovrastante il villaggio, un sottile filo di fumo si levava dal comignolo. Al primo piano, una finestra venne aperta e il viso di una splendida fanciulla comparve a salutare il nuovo giorno. I suoi occhi percorsero la campagna verde che si estendeva al di là del pendio. Da quella finestra poteva osservare il piccolo granaio, l’orticello, il casotto attorno al quale cinque o sei gallinelle e un gallo becchettavano il mangime; il cavallo bruno e le due caprette pascolavano poco più in là, i coniglietti al sicuro nel loro recinto.
La ragazza ritirò la testa per continuare le sue faccende, rassettando, finendo di sparecchiare la colazione.
Da quando mamma era morta era lei la donna di casa. Era accaduto quasi dieci anni prima, una brutta febbre se l’era portata via senza che nessuno potesse far nulla. Nei primi tempi si era sentita smarrita e molto sola, ma aveva papà. Maurice era il genitore più affettuoso del mondo, anche se possedeva una personalità decisamente originale… 
Maurice era un sognatore, come lei. Da ragazzo aveva avuto la possibilità di studiare un po’ più dei suoi coetanei e si era così appassionato alla scienza. Aveva ereditato la casa e il piccolo appezzamento di terra dal padre, ma il suo sogno era sempre stato quello di fare l’inventore. Da lui, la fanciulla aveva ereditato quella tenacia che, certe volte, quando la rimproverava, egli chiamava testardaggine; sua madre, invece, le aveva trasmesso la passione per i libri. Isabelle era il nome che mamma aveva scelto per lei, ma papà la chiamava sempre Belle.   
E Isabelle, bella lo era davvero. Possedeva un viso dai lineamenti delicati, occhi nocciola grandi ed espressivi, capelli castani molto mossi che ricadevano lungo la schiena, gambe dritte e snelle, le forme armoniose, la bocca più graziosa che i ragazzi del villaggio avessero mai visto. Non le avrebbero negato un bacio se Belle glielo avesse concesso. Ma lei non lo concedeva a nessuno. Inconsapevole della sua estrema bellezza, era però cosciente di possedere una personalità non comune. Anche questo aspetto lo aveva preso dal padre.
Belle amava stare per conto proprio, non perché detestasse la compagnia dei suoi coetanei (benché al villaggio ce ne fossero ben pochi), era soprattutto il fatto di sapere di non essere accettata che la spingeva a rifuggire per prima la loro compagnia. Alla maggior parte delle ragazze non era simpatica per via della sua bellezza fuori del comune, che catalizzava l’attenzione di tutti pur non facendo nulla per far sì che accadesse. Se avesse avuto un’indole civettuola sarebbe stata la regina di ogni festa di paese, con decine di corteggiatori intorno a pendere dalle sue labbra. Ma Belle non poteva essere più diversa di così. Era indipendente, badava a sé stessa e ragionava con la sua testa… e senza falsa modestia, certa di essere più intelligente di tanti uomini sciocchi e pieni di sé. Questi ultimi, per quanto affascinati da lei, non amavano particolarmente la sua loquacità. Isabelle aveva una mente acuta, aperta, spesso era lei a dirigere una conversazione e – cosa peggiore – sapeva fare lavori da uomini (grazie alle faccende in cui aiutava suo padre). Era soprattutto quest’ultimo aspetto a demoralizzare i ragazzi e scandalizzare tutti gli altri. Un conto era saper leggere e scrivere – la cultura era importante e al villaggio potevano dirsi fortunati di avere una buna scuola – ma tenere il naso tutto il giorno dentro i libri era cosa altamente bizzarra, a meno che non si trattasse di uno studioso.
Ma lei era una ragazza.
Terminate le faccende, dopo aver controllato che tutto fosse in ordine e non avesse dimenticato nulla, rassettò l’abito azzurro, riavviò i capelli nella bassa coda in cui era solita acconciarli, recuperò un libro dalla libreria del salotto e lo depose nel cesto di vimini che usava per andare a fare compere in paese. Si avvicinò a una porticina nell’angolo più remoto della cucina, al di là della quale proveniva un tramestio lontano. L’aprì, dando una voce giù per le scale.
  « Papà, io sto uscendo ».
 « Vai pure, mia cara, buona passeggiata » rispose una seconda voce da qualche parte nello scantinato.
« A più tardi! ». Belle ridacchiò richiudendo la porta, poi si avviò.
Suo padre era in piedi da prima dell’alba. Aveva ingollato il pasto del primo mattino in tutta fretta, per poi rifugiarsi nuovamente nel suo laboratorio a trafficare con la sua ultima invenzione. Sperava con tutto il cuore che quest’anno gli sarebbe andata bene alla fiera in città.
Immersa nei suoi lieti pensieri, oltrepassò la staccionata che divideva il giardino dalla strada. Il cinguettio degli uccelli l’accompagnò per tutto il tragitto. Un venticello fresco le scompigliò un poco i capelli, costringendola a ricacciare indietro il ciuffetto ribelle che le solleticò la fronte e che mai restava al suo posto. Svoltato un angolo, la casa scomparve dietro una folta macchia di faggi, rasenti il sentiero che scendeva verso il villaggio. Superò il vecchio mulino, le pale che infrangevano l’acqua del fiume che scorreva pigro e scintillante, attraversò il ponticello, ed infine mise piede sul primo tratto di strada acciottolata entrante in paese.
Non vi era luogo più tranquillo al mondo, un dipinto fatto di casette di mattoni strette tra loro, abbracciate dalla campagna francese che profumava di gelsomino e lavanda… anche se in quel momento non si sarebbe detto affatto un posto tranquillo. Le stradine erano animate dall’affaccendarsi dei padroni di botteghe, empori, chioschi e bancarelle, venditori e compratori battibeccavano sul prezzo di una merce, altri strillavano richieste facendo a gara a chi alzasse di più la voce. Dalle finestre ornate da vasi di fiori variopinti, le donne stendevano il bucato e occhieggiavano la piazza e le viuzze; mille suoni e profumi diversi si alternavano tra loro man mano che Belle passava di fronte ai diversi negozi: il fornaio, l’erborista, il macellaio, il carpentiere, il pescivendolo, la sartoria, il barbiere… il fioraio lasciò un istante il suo carretto per scattare in avanti e togliersi il berretto al suo passaggio, come non mancava mai di fare ogni giorno, sotto gli sguardi seccati della moglie. Nel chiasso di rumori e voci, tutti si salutavano tra loro e salutavano Belle. La ragazza era oggetto degli sguardi di tutti gli appartenenti al sesso maschile, giovani e meno giovani. Nessuno rimaneva indifferente alla grazia della bella figlia di Maurice. Ma Belle non dava peso a quegli guardi, e se non glielo avessero fatto notare non se ne sarebbe neppure accorta.
Si fermò alla bottega del fornaio, che le rivolse un gran sorriso e si interessò della sua giornata.
   « Bonjour, Isabelle, tutto bene? », la salutò l’uomo alto e corpulento.
   « Buongiorno a lei. Tutto bene, grazie. E voi? » rispose la ragazza.
Il fornaio posò le possenti braccia sul bancone. « Oh, non c’è male. Maurice come sta? Sempre indaffarato con la sua ferraglia? ».
   « Proprio così. In questo momento sta ultimando la sua ultima invenzione ».
Il fornaio annuì sapientemente. «Scommetto che anche quest’anno parteciperà alla fiera della scienza giù in città, eh? ». Emise una risata fragorosa, incartando per Belle due belle pagnotte calde e morbide.
La fanciulla le prese sorridendo educatamente. Ecco che, come al solito, la gente si premurava di ricordarle la stranezza di suo padre. Loro due erano glia tipici, gli strani, lui per il pallino delle invenzioni e lei a causa della sua passione per i libri. Sapeva anche che alcuni chiamavo Maurice ‘matto’, e questo la mandava fuori dai gangheri come nient’altro al mondo. Per fortuna, il fornaio non era tra questi. Non parlava mai di Maurice con vera cattiveria, anzi erano molto amici, gli piaceva solo accennare qualche battuta.
Belle infilò il pane nel cesto di vimini, estraendo i soldi per pagare. Mentre la osservava, il fornaio non poté fare a meno di notare quel che era posato sul fondo del cesto.
   « Ah, un nuovo libro? ».
A quella domanda, Belle si animò. Adorava parlare delle sue letture, era sempre pronta a farlo se qualcuno si mostrava interessato.
   « Sì! » esalò con un sorriso decisamente più ampio. « Sto andando a restituirlo. Era davvero  molto bello ». Si lanciò nel racconto della trama ma il fornaio non la stava più ascoltando. Gridava dietro alla moglie di sbrigarsi, c’era un sacco di lavoro da fare e lei se ne stava in strada a chiacchierare.
   « Allora… arrivederci » fece Belle, rimettendo il libro nella cesta con una certa delusione.
Il fornaio le rivolse un saluto distratto ma cordiale.
Belle scrollò le spalle, allontanandosi dalla bottega tra la folla vociante che riempiva le viuzze.
Mentre portava a termine le compere, non riuscì a impedire al solito sconfortante pensiero di farsi largo tra la mente: il paese era bello, ma la gente era tremendamente noiosa. La vita lo era. I giorni si susseguivano uno uguale a un altro, la cosa più emozionante mai accaduta era stata quando il parroco si era rifugiato sul campanile a causa di una gatto particolarmente affettuoso che voleva le sue attenzioni. Peccato che il parroco avesse la fobia dei gatti e non potesse soffrirli…
Lei non apparteneva a quella monotonia, non la sopportava, si sentiva fuori posto. Quel piccolo mondo le andava stretto. Se suo padre fosse divenuto presto un famoso inventore… o sei lei fosse riuscita a trovare un buon lavoro per potersene andare dal villaggio… Sognava un futuro diverso da quello che poteva offrirle il villaggio se fosse rimasta lì: un futuro fatto di avventure, incontri con persone interessanti, luoghi mistici e lontani da esplorare. Oh, come le sarebbe piaciuto che la sua vita fosse almeno un po’ simile a quella dei libri che leggeva!
Con questi pensieri in mente si avviò infine verso la sua meta: il libraio. Era un negozietto in fondo alla piazzetta del paese, un po’ polveroso e un po’ più buio degli altri, per via dei grandi e alti scaffali stipati al suo interno. Sopra di essi erano allineati alla bell’e meglio decine e decine di libri, molti di più di quanti potessero starcene davvero. Vecchi volumi per lo più, di tutte le dimensioni, le copertine consunte e le pagine ingiallite, ma ancora in grado di raccontare le loro mille, diverse storie.
Belle era una cliente fissa del libraio: fin da quando aveva imparato a leggere, fin dalla prima volta in cui vi aveva messo piede, non era passato giorno che non si fosse premurasse di andare a salutare il vecchio proprietario, per sfogliare qualche pagina dei suoi tesori di carta e inchiostro. Quando se ne stava lì dentro, il rumore della strada pareva sparire, sostituito dal silenzio interrotto solo dal fruscio delle pagine o dal grattare della penna del libraio su qualche documento. Lei lo chiamava semplicemente monsieur, ed egli era il solo in tutto il paese a chiamarla Belle e non Isabelle.
La campanella appesa alla porta tintinnò allegramente quando la fanciulla entrò nel negozio.
   « Buongiorno », salutò con un bel sorriso.
   « Ah, Belle. Buongiorno » salutò il libraio di rimando, lasciando la sua scrivania ingombra di fogli e volumi, venendo avanti con la schiena un po’ curva.
Se Belle poteva dire di avere un amico al villaggio, era proprio lui, il vecchietto con i capelli bianchi che gli crescevano in ciuffi disordinati sul capo, pochi denti e un paio di occhialetti rotondi portati in equilibrio sulla punta del naso.
   « Sono venuta a restituirle il libro » disse la ragazza, cavandolo dal fondo del cestino zeppo di incarti della spesa al mercato.
Il libraio ridacchiò benevolmente. « Benedetta ragazza, lo hai già finito? Sei venuta soltanto ieri a prenderlo! ».
   « Lo so, ma non riuscivo proprio a smettere di leggerlo ». Porse il libro all’ometto, veleggiando decisa verso gli scaffali più vicini. « Ha niente di nuovo? ».
Il libraio la raggiunse, zoppicando leggermente. « I nuovi arrivi li hai già divorati, mia cara ».
   « Oh… » fece Belle pensierosa, scorrendo con lo sguardo i titoli dei tanti romanzi che già conosceva. Ma ce n’era uno in particolare che non si sarebbe mai stancata di leggere.
   « Se permette, prenderei ancora questo ».
Belle si arrampicò sulla scala appoggiata alla libreria, traendone un volume da uno dei ripiani più alti. Il libro sembrava particolarmente usurato, sulla copertina blu era inciso il titolo in lettere che una volta erano state dorate, ma il colore era sbiadito, così come il piccolo dipinto rappresentante un giovane cavaliere dai capelli scuri nell’atto di far salire a cavallo una bella fanciulla bionda.
Il libraio sorrise mostrando i pochi denti rimastigli. « Chissà perché non mi stupisce che tu abbia scelto quello ».
Belle strinse il libro al petto con entusiasmo. « Lo so, ma è il mio preferito: dame e principi, stregoni, corse a cavallo, castelli incantati e mille avventure. E l'amore. Oh, il modo in cui i due si innamorano i due protagonisti è così bello e così impensabile!». Balzò agilmente  giù dalla scala, facendo una giravolta su sé stessa. « Lei lo ha letto, non è vero? Non crede sia incredibilmente avvincente? ».
Il libraio non smise di sorridere, approvando di cuore la passione che quella giovane fanciulla mostrava per la lettura.
   « L’ho letto molte volte, come te, e l’ho trovato entusiasmante ». Le fece l’occhiolino, poi tornò verso la scrivania ingombra. « A tal proposito, se ti piace così tanto, se vuoi posso regalartelo. Dopotutto, è più il tempo che se ne sta sul tuo comodino che su questi scaffali ».
   « Ma monsieur, non posso accettare! » fu la pronta risposta di Belle, che nonostante tutto sperava in quella grande fortuna.
   « Insisto! E non si discute »
   « Davvero me lo regala? Oh, la ringrazio! La ringrazio con tutti il cuore! ».
Qualche istante dopo, ancora senza credere di possedere finalmente quello che era senza dubbio il suo libro preferito, Belle lasciò la bottega del libraio, assicurando che sarebbe tornata  a trovarlo l’indomani.
Era stato proprio generoso a farle quel dono, per lei era raro potersi concedere una spesa in più del necessario. I libri cosavano molto, anche quelli vecchi o usati, per questo passava intere giornate in quel negozio polveroso: così facendo poteva sfogliare tutti i volumi che desiderava. Chiunque altro le avrebbe impedito di leggere i libri del negozio, tantomeno farle prendere in prestito qualcosa senza pagare, ma il vecchietto era talmente una cara persona che non si sarebbe mai sognato di mandarla via.
Iniziò la camminata verso casa, fresca di compere e il volto già immerso tra le familiari pagine ingiallite. Raggiunse la fontana al centro della piazza e guardò in alto verso il campanile della chiesa che spuntava dietro le case di sinistra. Aveva ancora qualche minuto prima di tornare a casa a preparare il pranzo. Saltellò sul bordo di pietra della fontana che stava al centro della piazza, incrociò le gambe facendo attenzione a coprirle bene con la gonna, in modo che le comari non andassero a dire che fosse una svergognata. Lì vicino, un gruppo di bambini saltava la corda, godendosi la libertà delle ultime giornate di sole, un gruppo di pecorelle corse scompostamente di qua e di là, rincorse dal loro inesperto e troppo giovane pastore.
L’aria fu improvvisamente invasa da risate fragorose, i cui proprietari risalivano la via che portava all’unica taverna del paese. Era un gruppo di giovanotti dall’aria spavalda, uno più degli altri: camminava al centro del gruppetto, portando sulle spalle un fucile da caccia. Dietro di lui veniva un ragazzotto più basso e rotondetto, reggendo tra le corte braccia un mucchio di pernici chiaramente morte. Evidentemente, il gruppo rientrava da una proficua battuta di caccia tra le campagne, e pareva che il più in gamba tra loro fosse il ragazzo che portava il fucile in spalla. Gli altri ridevano alle sue battute un po’ stupide, osservandolo con ammirazione. Egli, tuttavia, non faceva nulla per non vantarsi della sua posizione favorevole rispetto al resto degli amici (se così potevano chiamarsi), forse sapendo di essere più bravo, più audace, e anche più affascinante di loro. Si passò una mano tra i capelli corvini quando passò accanto a un terzetto di ragazze sospiranti. Le tre, appostate all’angolo della via, sembravano essersi piazzate lì appositamente per vederlo passare. Il giovane aitante fece loro un cenno di saluto e quelle iniziarono a strillare in risposta, poi, quando il ragazzo le ebbe sorpassate assieme al suo gruppo, si strinsero l’una all’altra iniziando a conversare tra risatine chioccanti, lanciando ancora sguardi di inequivocabile apprezzamento al bel giovane moro.
Raggiunto il centro della piazza, il gruppo si disfece, restarono solo il ragazzo col fucile e il ragazzotto più basso. Il primo si fermò a bere alla fontana, rinfrescandosi il viso.
   « Sei davvero grande, Gaston! » disse il secondo con eccessivo entusiasmo. «Sei il più grande cacciatore della contea. No, che dico! Di tutto il regno! Nemmeno il principe potrebbe fare meglio di te, e si dice che sia abilissimo ».
Gaston si rassettò la giacca con fare pomposo. « Lo so, LeFou » rispose con malcelato orgoglio.
« Hai visto che facce avevano gli altri quando hai preso la decima pernice? Eh? Le hai viste? ».
« Di sicuro non si aspettavano che le uccidessi tutte al primo colpo », si vantò Gaston. « Stasera berremo gratis alla locanda, mi devono un giro ciascuno ».
LeFou emise un risolino di gioia al pensiero che si sarebbero divertiti senza sborsare un soldo. Posò i trofei di caccia sul bordo della fontana, asciugandosi il sudore dalla fronte.
« E’ davvero un bel banchetto, amico mio, oh sì! Nessuna bestia può scamparla con te, e nemmeno le ragazze ».
LeFou protese il petto in fuori, facendo gemere le cuciture della sua camicia, risultando così molto ridicolo agli occhi delle tre ragazze chiacchierine, ancora ferme all’angolo della via. Quelle risero del tentativo di LeFou di apparire aitante almeno un quarto del suo compare, che era di trenta centimetri buoni più alto di lui. Aspettavano Gaston, nella speranza di ricevere un altro saluto e scambiare qualche parola.
Ma Gaston stava guardando da tutt’altra parte, interessato a una figura che aveva appena lasciato la piazza, scendendo lungo un vicoletto laterale.
  « Puoi ben dirlo. Nessuna ragazza sa resistermi ».
Cosciente di essere il ragazzo più bello del paese, amando l’adulazione, si divertiva a far cadere ai suoi piedi ogni ragazza. Con la mascella volitiva, i capelli neri, la corporatura robusta e la sua forza, con queste caratteristiche rappresentava il miglior partito che si potesse trovare nel raggio di chilometri. Non guastava nemmeno che possedesse una certa somma di denaro. Nessuna sfuggiva la suo fascino… tranne una. Ma Gaston sapeva che esiste sempre un’eccezione in tutto, solo che a lui non piacevano le eccezioni, specialmente se interferivano con i suoi piani.
 « Vuoi sapere chi sarà la mia prossima preda? » chiese a LeFou, continuando a fissare la figura in lontananza.
« Sì, certo » rispose distrattamente l’amico, che aveva rinunciato ad attirare gli sguardi delle ragazze. « Dove andiamo a caccia di pollastrelle, stanotte? E non sto parlando di pernici, eh eh… ».
Gaston lo prese per il bavero della giacca, costringendolo a voltarsi. « Tu non vieni da nessuna parte se si tratta di lei, piccolo barile ambulante », e con un gesto indicò la figura di Belle che si allontanava.
 « Cosa… come…? » balbettò LeFou, registrando l’informazione con una certa lentezza. « Chi? Isabelle? La figlia dell’inventore pazzo? Starai scherzando! ».
  « Io non scherzo mai » disse Gaston, marciando su per la strada.
Il compare riacchiappò le pernici, correndo per riuscire a tenere il passo con le sue corte gambe, osservandolo a bocca aperta.
Gaston adorava essere il centro dell’attenzione, e sapeva che il suo compagno era sempre il pubblico migliore. LeFou era un inetto, sciocco campagnolo che non era mai stato in grado di tenersi un lavoro per più di una settimana, così, Gaston lo aveva preso sotto la sua ala, assoldandolo come secondo nelle sue battute di caccia, lavoro che gli dava da vivere. La sua era sempre stata una famiglia di bravi cacciatori. Per di più, a Gaston piaceva portarselo dietro come una specie di attendente, poiché pensava che questo conferisse un tocco di importanza in più alla sua privilegiata posizione tra gli abitanti.
Di propria parte, LeFou stava volentieri con Gaston. Lui era basso e grassottello, cosa che lo rendeva poco agile, inoltre era un codardo, perciò, al servizio dell’uomo più ammirato e temuto della contea, non aveva nulla da temere. Felicitava della popolarità riflessa di cui Gaston era protagonista, riservandosi un posto in ombra, ma comunque un buon posto. Nessuno avrebbe osato avvicinarsi a lui fintantoché rimaneva al fianco di Gaston.
   « Ma…ma… senti, Isabelle non ti ha mai degnato di uno sguardo » continuò LeFou, spargendo piume di pernice per tutta la strada.
 « Ti devo insegnare proprio tutto delle donne! Quando una ragazza finge di non essere interessata, in realtà è tutto il contrario » ribatté Gaston con fin troppa sicurezza, facendo un gran rumore con gli speroni dei suoi stivali, con l’intento di attirare l’attenzione di Belle. Ma la ragazza era immersa nella lettura di un libro e camminava con il naso incollato alle pagine senza badare a nulla. In effetti era straordinario il fatto che non andasse a sbattere contro nessuno.
 « Tu si che sei intelligente, Gaston » canterellò LeFou, « sai davvero un mucchio di cose più degli altri. Quindi pensi sia innamorata di te? ».
 « Se ancora non lo è, lo sarà presto. In ogni modo, quando l’avrò conquistata le chiederò di sposarmi e lei accetterà. Di questo sono sicuro ».
LeFou sgranò gli occhi dall’incredulità. « Caspita, Gaston, vuoi proprio far sul serio! Però è una ragazza strana, voglio dire, non credo sia adatta a te ».
Gaston rise con sufficienza. « Non potevi chiamarti che LeFou, amico mio, sei davvero stupido. E’ logico che, una volta sposati, lei dovrà imparare a rispettarmi e perciò cambiare quel suo atteggiamento stravagante. Naturalmente non permetterò che la gente sparli di mia moglie ».
 « Naturalmente » fece eco LeFou. « Però, se per caso fosse già promessa a qualcun altro? Perché sai, dopo tutto questo tempo che la corteggi è strano che lei non abbia ancora… ».
   Gaston si fermò così bruscamente che l’amico gli rovinò addosso. Era livido, e LeFou si rese conto di aver commesso un madornale errore contraddicendolo. Gli venne la tremarella, aspettando il pugno che gli arrivò dritto sulla testa.
   « E' assolutamente impossibile! » abbaiò Gaston, afferrando il compare per il colletto della giacca, « Non ho voglia di discutere con te su questa faccenda: ormai ho deciso ».
  « Sì, sì, certo » sputacchiò LeFou, che al momento riusciva a stento a respirare. « Volevo solo dire che… ».
  « Silenzio! Si è fermata, finalmente ». Gaston lasciandolo andare il comare. Si sistemò i capelli un’altra volta e ostentò il sorriso più bianco che potesse esistere, molleggiando in direzione della fanciulla intenta ad acquistare un bel mazzo di fiori.
Gaston faceva la corte a Belle da quando erano fanciulli. Purtroppo per lui, LeFou aveva ragione: la ragazza non lo aveva mai degnato d'uno sguardo, probabilmente lo trovava persino insopportabile con quella sua aria tracotante. Ma nel suo smisurato ego, Gaston non era capace di concepire un rifiuto per quella che ormai era una certezza: Belle lo avrebbe sposato perché lui er al'uomo e lui aveva deciso. Discorso chiuso. La moglie del fioraio si era premurata di spedire il marito a fare una consegna, ed ora sembrava molto più amichevole con Belle.
« Guarda chi sta arrivando » le disse con un risolino.
Belle non si voltò. « Lo so già: Gaston… », disse con una smorfia.
« Non capisco come faccia a non piacerti, dico sul serio » ribatté la fioraia.
« Perché, a te piace? » chiese Belle, domandandosi come si potesse trovare interessante un uomo con la testa gonfia di sole tre cose: la caccia, l’alcool e se stesso. 
« Certo che mi piace!» dichiarò la fioraia. « Comprendimi: io sono felicemente sposata, ma è indubbio che Gaston sia un ragazzo estremamente… »
 « Borioso ».
« Oh, Isabelle! Dovresti smetterla di fare la preziosa »
« Come, scusa? ».
« Ma sì! Non è possibile che non ci sia un ragazzo che ti interessa qui al paese. La nipote del fabbro ha quindici anni ed è già sposata da un anno! ».
« Povera lei » fu il sincero commento di Belle. Come si poteva sposarsi così giovani?
Fece per prendere i fiori ma la fioraia, decisa a terminare la discussione, li allontanò dalla sua portata.
« Hai ventidue anni, Isabelle! ».
« E per la società, il fatto che non abbia ancora marito, fa di me una megera in pratica, lo so. Sopravvivrò alle maldicenze, non temere » sorrise Belle, come se per lei non avesse davvero importanza.
 « Secondo me dovresti farci un pensierino su Gaston. Lui pare bendisposto » insisté la fioraia.
  « Ehm... no, grazie ». Gaston si avvicinava pericolosamente e lei non voleva assolutamente incontrarlo. « Ora mi daresti i fiori? Se sono fortunata riuscirò ad evitarlo ».
Ma la fioraia allontanò di nuovo il mazzo dalle sue mani tese. « La verità è che dovresti smetterla con le fantasticherie », e agitò una mano ad indicare il libro che spuntava dal cestino che Belle portava sottobraccio « Non dico che la tua non sia una virtù, leggi più di tutte noi messe insieme, però non puoi… ».
Belle sbuffò tanto sonoramente da coprire le parole dell’altra, allungando le braccia e riuscendo finalmente a prendere il mazzo di fiori.
 « Ora devo scappare, scusami tanto. Ci vediamo!». Mise in mano alla fioraia due monetine d’argento, la salutò e camminò più veloce che poté per mettere una buona distanza tra lei e Gaston. Ma lui ormai l’aveva raggiunta.
Belle si concentrò più che mai sul libro, facendo finta di non vederlo finché le fu possibile. Ma la scena non durò molto…
Arrivati quasi al soglia del paese, dove la strada si trasformava in sentiero, Gaston le si affiancò e si mise a fissarla insistentemente.
 « Ciao, Belle », disse, dopo altri lunghi secondi di ostentato silenzio da parte di lei.
Ma adesso non poteva più ignorarlo.
  « Ciao, Gaston » gli rispose in tono piatto.
Vista l’imperturbabilità della fanciulla, che continuava a tenere gli occhi puntati sul libro, Gaston pensò bene di portarglielo via senza troppi complimenti. Glielo sfilò dalle mani e finalmente ottenne la sua attenzione.
« Gaston, potrei riavere il mio libro, per favore? » chiese Belle, voltandosi per affrontarlo. Lui si era messo a sfogliare distrattamente il libro, capovolgendolo, osservandolo da tutte le parti.
« Come fai a leggere questa roba, non ci sono neanche le figure », la canzonò il giovane. Udì LeFou sghignazzare: seguiva la scena qualche passo dietro di loro.
« Si chiama immaginazione » spiegò la ragazza con pazienza e un pizzico di esasperazione, come se parlasse a una persona un po’ tarda. « Sai, le figure si usano nei libri per bambini piccoli, quelli che ancora non sanno leggere vocaboli più articolati e romanzi impegnati ».
Gaston le lanciò un’occhiataccia. La sua lingua tagliente era una di quelle cose che si sarebbe premurato di correggere dopo il matrimonio…
 « Belle… » fece, scuotendo il capo.
Era davvero sfacciato, pensò lei, a chiamarla con quel nomignolo. Solo in famiglia era conosciuta come Belle.
   « Belle, sarebbe ora che la smettessi di perdere tempo dietro a queste sciocche fantasie e ti concentrassi su cose più adatte a una ragazza »
 « Ad esempio? ».
 « Ad esempio me ». Gaston sorrise, mettendo in mostra i suoi denti perfettamente allineati e bianchissimi.
Belle rimase lì, a braccia conserte, fissandolo con impassibilità. Forse si aspettava che arrossisse o qualcosa del genere.. povero illuso… Batté due volte le palpebre, attendendo che lui smontasse quella scenetta patetica. Scosse il capo, cercando di riprendersi il suo libro, ancora tra le mani di Gaston. Lui glielo impedì gettandolo via, e quello cadde al margine della strada, tra la polvere e il fango.
 « Ehi! » esclamò Belle, inginocchiandosi a terra per salvare il libro. Fortunatamente non si era rovinato: la copertina rigida aveva attutito gli spruzzi del fango. Belle lo ripulì con l’orlo del suo abito, rialzandosi per fronteggiare Gaston. Era parecchio più bassa di lui ma il suo cipiglio e la sua sicurezza eludevano la differenza di statura.
   « Dovresti scusarti, sarebbe il minimo! », esclamò furiosa, le mani puntate sui fianchi. Non le importava di apparire sgarbata, perché lui lo era sempre, la infastidiva e la corteggiava senza pudore da anni. Probabilmente, pensava Belle, era talmente immodesto da non rendersi conto di quanto fosse villano
   « Eh già, dovresti proprio, Gaston » sogghignò LeFou.
   « E’ solo uno stupido libro, non ti alterare » fece Gaston on voce  vellutata. « Certo, è bello che una donna voglia addottrinarsi, ma il posto della donna è tra le mura di casa. Non sta bene che una fanciulla legga di continuo, le vengono in testa certe strane idee, e poi comincia a pensare cose stupide che non rispecchiano assolutamente la realtà. Le distorce, capito? ».
« Insomma, una donna non dovrebbe pensare », proseguì Belle.
 Gaston e LeFou si scambiarono uno sguardo divertito.
  « Oh, ma le donne che pensano sono molto interessanti, solo che non dovrebbero farlo troppo, sono così delicate che non dovrebbero affaticare la testa a quel modo. E’ una cosa da maschi. Insomma, lo sanno tutti che gli uomini hanno il cervello più grande ».
  « Davvero? » esalò LeFou, ammirato. « Non lo sapevo mica io, come sei intelligente, Gaston! ».
Belle soffocò una risata, coprendosi la bocca con una mano.
 « Gaston, sei davvero primordiale ».
 « Ah, ah, ah! Grazie, Belle » sorrise Gaston, compiaciuto, che non aveva affatto capito cosa volesse dire ‘primordiale’, e aveva equivocato quella parola per un complimento. « Ora lasciamo perdere i libri. Perché invece non andiamo alla taverna, così posso farti vedere i miei ultimi trofei di caccia ».
Gaston le mise un braccio attorno al fianco e la strinse al fianco in una presa ferrea. Belle scivolò da sotto il suo braccio e indietreggiò di opportuna distanza.
  « Magari un’altra volta… o magari l’anno prossimo… ehm, volevo dire no, perdonami, devo andare a casa ad aiutare mio padre. Arrivederci ».
Si era già voltata per correre su per il viottolo di campagna, quando la risata fragorosa e acuta di LeFou le arrivò alle orecchie.
  « Quel vecchio matto di Maurice! Quello non ha tutte le rotelle al suo posto! ».
Gaston si unì alle risa. Belle non ci vide più dalla rabbia.
  « Smettete immediatamente di ridere! Non osate, vi avverto! ».
Gaston smise subito per far bela figura con lei, e tappò la bocca di LeFou con un mucchietto di piume di pernice.
   « Stupidi cavernicoli che non siete altro! Mio padre non è pazzo, è un genio! ».
Gaston capì di essersi giocato l’occasione, ma non appena una forte esplosione proveniente da lontano raggiunse le loro orecchie, non poté evitare di scoppiare in una nuova risata insieme a LeFou.
Belle si portò le mani al viso, terrorizzata vedendo il fumo che si alzava in rivoletti neri dalla sua casa. Volò attraverso il ponticello e su per il sentiero. Più si avvicinava più sentiva un preoccupante odore di metallo e legno bruciato.
Tuttavia, come constatò pochi minuti dopo, non vi era nulla di preoccupante a casa. Le esplosioni dentro il laboratorio di Maurice avvenivano abbastanza frequentemente, anche se tutto quel fumo non si era mai visto prima. Spalancò la porta del seminterrato e scese le scale, portandosi una mano sul fiso per coprire naso e bocca dalla puzzo di fumo soffocante.
« Papà, dove sei? Stai bene? ».
Una figura si districò dai rottami, agitando le braccia per disperdere le volute di fumo che ancora si levavano da un tubo contorto agganciato a quella che sembrava un motore a vapore.
« Eppure… coff coff… ieri funzionava… coff… benissimo ».
Maurice riemerse dal un mucchio di ferraglia, completamente coperto di fuliggine.
« Che cosa è successo? » chiese Belle, aiutandolo a mettersi dritto.
« E’ successo che non riuscirò mai a far funzionare questo stupido marchingegno! Ohu! » Maurice tirò un calcio alla macchina, con il solo risultato di ritrovarsi a saltellare su un piede sole e l’alluce
« Papà! », Belle rise di cuore. « Mi hai fatto morire di paura. Stavolta temevo davvero che fosse saltata in aria la casa ».
« Mi dispiace, tesoro. Sai, credo di averci messo un po’ troppo entusiasmo. Ero talmente certo di esserci riuscito che… ».
« E ci riuscirai » disse Belle, incoraggiante.  
« Tu credi? »
« Ne sono più che sicura ». Belle gli pulì il viso con il grembiule, poi gli diede un bacio affettuoso e il vecchio viso di suo padre si tinse di rosa. « Diventerai un inventore, papà, e quest’anno alla fiera vincerai il primo premio ».
« Oh cielo, non aspiro a tanto. Mi andrebbe bene anche il terzo posto. E va bene, mi rimetterò subito al lavoro! ». Maurice cominciò ad afferrare bracciate di rottami. « Aiutami, bambina, se non ti spiace ».
Belle lo aiutò a gettare da parte pezzi di ferraglia ormai inutilizzabili. Aprì la finestra del seminterrato per areare il locale e disperdere il fumo. Poi, una volta sistemata la spesa, e messe le verdure e la carne a bollire per lo stufato del pranzo, tornò di sotto con il suo libro, afferrò uno sgabellino traballante e vi sedette sopra, osservando a intervalli suo padre che aggiustava la macchina a vapore. Sdraiato a pancia all’aria sotto il marchingegno, ogni tanto Maurice le chiedeva di passargli qualche attrezzo.
« Allora, ti sei divertita oggi in paese? Hai incontrato qualcuno di interessante? ».
« Sempre il solito. Ho preso un nuovo libro » rispose Belle, la quale sospettava che ‘interessante’ volesse dire un giovanotto. « Comunque, non è che accada granché ».
« Purtroppo hai ragione » rispose Maurice, sparendo per metà sotto la macchina. « Ma vedrai che appena avrò vinto la fiera, la nostra vita cambierà ».
« Sì… ». Belle divenne pensierosa e non parlò per un po’. Si rigirò il libro tra le mani. Non ne aveva ancora letta una riga, troppo presa da alcuni pensieri improvvisi. Non riusciva a togliersi dalla testa le parole che la fioraia e Gaston le avevano rivolto quel mattino.
 « Papà? ».
« Sì, cara? ».
« Pensi che io sia strana? ».
Maurice riemerse da sotto la macchina. « Mia figlia strana? Come ti è venuta quest’idea? ». Le sue folte sopracciglia si unirono a formare un unico arco sotto la fronte aggrottata per l’indignazione. « Qualcuno ti ha detto qualcosa, tesoro? ».
« No, no, è solo che… non lo so » sospirò Belle. « Spesso mi sembra che quaggiù non ci sia nessuno che mi capisca, nessuno con ci parlare sul serio ».
« Passami la chiave inglese, per favore » borbottò Maurice, tornando al lavoro. Per quanto fosse felice che Belle vivesse ancora con lui, era dispiaciuto di sentire che si sentiva sola.
« Dì, che ne dici di Gaston? E’ un gran bel ragazzo ».
Belle fece una smorfia. « No, non fa per me. E’ bello sì, ma è villano e presuntuoso ».
« Mi dicono che ti fa la corte » ridacchiò Maurice.
Belle emise una specie di singhiozzo spaventato, sparendo dietro il suo libro, decisa a ignorare la conversazione. Maurice rise ancora, poi si rialzò da terra con un lieve lamento e si pulì le mani in uno straccio.
« Ecco fatto. Adesso dovrebbe funzionare ».
Belle balzò in piedi e fu al suo fianco. « Dici davvero? »
« E’ quello che spero. Sei pronta? ».
« Pronta! ».
Maurice spinse una leva, Belle si nascose dietro le sue spalle, e la macchina si scosse tutta, cominciando a sbuffare e cigolare. Un braccio meccanico si mosse, afferrò un ceppo di legno, lo mise su un ripiano e, con un altro sbuffo e un altro cigolio, una piccola ascia calò da sola sul ceppo tagliandolo in due.
« Funziona! » esclamò Maurice al colmo della gioia.« Funziona, Belle, ce l’ho fatta! ».
« Lo sapevo, lo sapevo! » gridò la ragazza saltellando sul posto e abbracciando il padre.
« Molto bene » annunciò allegramente Maurice, « iniziamo i preparativi per la fiera, figliola. Abbiamo solo pochi giorni ».
E poi, padre e figlia salirono le scale del seminterrato da braccetto, pronti a gustarsi un ottimo stufato, lasciando la macchina a sferragliare e tagliare ceppi di legno.

 
 
 

- L'Angolino di Susan -

Ecco il secondo capitolo della storia! Spero davvero che vi sia piaciuto.
Abbiamo presentato la nostra Belle, come la trovate? Personalmente mi è piaciuto moltissimo descriverla, diciamo che di solito le mie protagoniste non sono molto ribelli, invece lei lo sarà. Mi piacerebbe anche sapere cosa pensate della mia visuale degli altri personaggi. Purtroppo non sono riuscita a fare la copertina per la storia... spero di ritagliarmi un pò di tempo questa settimana.
Una domanda: secondo voi faccio bene a usare le battute originali? Vi piace?
Non so se qualcuno di voi lo ha notato, ma ho deciso che Belle sarebbe stata molto più giovane della Bestia, perché nel libro originale di
Beaumont sembra sia così. Inoltre volevo sfatare un po’ il cliché delle ‘sedicenni in età da marito’, poiché non era esattamente così. E’ una cosa che ho scoperto di recente: nelle classi sociali più elevate accadeva di sposarsi anche molto giovani, sebbene non sempre, ma nelle classi inferiori il matrimonio in età precoce era raro. L’età media per le femmine si aggirava intorno ai 20-23 anni, per i maschi intorno ai 25, anche se c’erano coniugi con grandi differenze d’età, e non sempre il maschio era più grande.
Ok, non ve ne fregava nulla, vero? D:
Va bene… vi lascio alle recensioni. Se ci sono errori perdonatemi, ma non ho avuto tempo per rileggere.
Alla prossima!
 
Susan <3

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Capitolo 3
*** 2. La creatura della foresta ***


Capitolo 2.
La creatura della foresta
 
 
 
 
  Per tutta la settimana, Belle e Maurice furono occupati nei preparativi per la partenza. Era difficile stabilire chi dei due fosse più emozionato. La ragazza gli regalò per l’occasione una nuova giacca e una cravatta in tinta di un bel color ocra brillante, mettendoli in valigia con il resto degli abiti migliori di Maurice. La sarta le aveva fatto uno sconto contro tutte le proteste dell’uomo, il quale volle mantenere una contenuta imperturbabilità per quel dono della figlia; ma Belle giurò di aver visto una lacrima brillare all’angolo dell’occhio del genitore quando l’aveva provata. Era un gran tenerone, incline alla facile commozione.
  Nei giorni restanti, Maurice fece ancora qualche piccolo ritocco alla sua invenzione, la lucidò per bene fino a farla brillare e infine la coprì con un telo bianco in attesa di caricarla sul carretto. Faceva la posta al seminterrato ogni volta in cui lo assaliva il terrore che qualcuno potesse  portargliela via. Era abbastanza improbabile che un ladro solitario potesse interessarsi di una macchina a vapore, e ancora più improbabile era l' eventualità che il suddetto, inesistente ladro fosse in grado di accenderla o farla funzionare in alcun modo. Ma era davvero uno spettacolo guardare Maurice saltar su dall’orticello, inciampare nelle pianticelle di pomodori e galoppare verso la casa perché gli sembrava di aver sentito un rumore sospetto, per poi scoprire che era solo il bollitore dell’acqua che borbottava troppo forte. O ancora, quando saltava in piedi di notte e correva dietro alla vecchia volpe rossa che cercava di intrufolarsi nel pollaio con la speranza di farsi uno spuntino notturno.
Belle trovava effettivamente buffo questo comportamento e non lo nascondeva. Maurice non si offendeva dei sorrisi della figlia, finendo per ridere assieme a lei di quelle scene bizzarre.
  La sera prima della partenza Belle preparò una cena da leccarsi i baffi, e Maurice andò a letto sazio e un po’ meno nervoso. Si alzarono di buon mattino, fecero colazione, Maurice tirò fuori il mantello da viaggio e caricò il bagaglio sul carretto, mentre Belle legava il cavallo alle aste sul davanti. Il cavallo bruno, Philippe, scalpitava impaziente. Insieme issarono sul retro del carretto l’invenzione coperta dal telo, assicurandola con robuste corde.
  « Molto bene, dovrei aver preso tutto » disse Maurice, allacciandosi il mantello. I gesti nervosi tradivano la sua emozione. Scrutando la giornata vide con piacere che il cielo era limpido, e prometteva di restare sgombro di nubi per almeno un giorno intero. Il viaggio per giungere in città durava tre giorni. Se avesse piovuto avrebbe sostato in una locanda sulla strada.
  « Fai molta attenzione, papà » gli raccomandò Belle, posando un bacio sulla sua guancia. Sorrideva ma avvertiva la familiare apprensione che le solleticava la bocca dello stomaco ogniqualvolta suo padre si assentava per più di ventiquattrore. Dopotutto non era più così giovane, anche se ancora piuttosto in gamba.
  Maurice le diede un buffetto sul viso, intuendo che la momentanea ansietà della figlia poco aveva a che fare con la vittoria della fiera, in quel momento.
  « Appena arriverò ti scriverò immediatamente. E’ una promessa ».
Belle annuì. « Promesso ».
  Maurice, le guance accese come quelle di un bambino pronto a partire per una grande avventura, agitò le redini accompagnando il movimento con un sonoro ‘Oho!’, e Philippe partì con un nitrito gioioso.
  « Arrivederci figliola! »
  « Arrivederci, papà! »
  « Stai bene, cara, e mi raccomando alla volpe: che non acchiappi tutte le galline! ».
Belle scoppiò in una risata che echeggiò sul fianco della collina. Sventolò la mano nell’aria per salutare, fino a che suo padre, il carretto e Philippe non ebbero oltrepassato la cima del colle ed iniziato la discesa dall’altra parte, scomparendo alla vista.
  Tre giorni sarebbero passati in un baleno. Suo padre non aveva niente da temere, cosa poteva accadergli? La campagna era pacifica, di briganti ce n’erano pochi, di solito si rintanavo tutti sulle strade più piccole e poco battute, o nella foresta. Maurice avrebbe percorso la strada maestra per giungere in città.
Belle osservò gli alberi scuri: dalla sua posizione apparivano simili a piccoli, verdi spilli appuntiti macchiati di giallo e arancio. I colori dell’autunno.
  Un ricordo affiorò nella mente della ragazza, un ricordo di alcuni anni addietro… un giorno di primavera in cui suo padre le aveva permesso di accompagnarlo nella grande città, dove carrozze enormi correvano su strade asfaltate e alti palazzi sembravano toccare il cielo. All’epoca, Belle aveva circa dodici anni. Maurice aveva promesso di portarla nella grande biblioteca. Durante il tragitto erano stati costretti a deviare in mezzo al bosco, poiché la strada maestra era stata bloccata dal fango dopo la piena del fiume. Attraversare la foresta non le era piaciuto granché. Belle aveva provato molto freddo e molta paura al momento di imboccare la scorciatoia che avrebbe permesso loro di aggirare il tratto di strada sbarrato. Ad un tratto, il cielo era sparito a causa degli alberi troppo fitti, quella che sarebbe dovuta essere la piacevole frescura dell’ombra le aveva ghiacciato la pelle. Rammentava la voce di suo padre dirle che era solo soggezione, non c’era nulla di spaventoso nascosto tra gli alberi… più avanti, forse, nel cuore della foresta, ma non lì. La curiosità insita in lei l’aveva spinta a chiedere di più riguardo quell’informazione inaspettata: cosa si nascondeva nella foresta?
  « Niente, cara, assolutamente niente » aveva risposto un Maurice molto più giovane. « Circolano molte voci, una meno verosimile dell’altra. Tu non credi ai mostri e ai fantasmi, non è vero? ».
  « Sì » era stata la sincera risposta della Belle dodicenne, risposta che aveva fatto sorridere Maurice.
  « Bè, anche io » aveva sussurrato lui con un sorriso. « Però a questa storia non credo ».
  « Quale storia, papà? » aveva chiesto Belle, avida.
Maurice si era schiarito la voce, il suono aveva riecheggiato un po’ sinistro nella quasi immobilità del sentiero.
 A detta di Maurice – e di altri prima di lui – c’era un punto nella foresta in cui non  andava mai nessuno, un posto strano che nascondeva ancor più strani segreti. Belle aveva chiesto perché la gente stesse lontana da quel luogo ma Maurice aveva risposto che non lo sapeva. L’aveva rassicurata continuando a spiegarle che loro non avrebbero mai avuto a che fare con la cosa che abitava il cuore della foresta, qualunque essa fosse.
  « Perciò non dovremo percorrere per quel sentiero per raggiungere la città » aveva chiesto Belle, tanto per esserne certa.
  « No, bambina mia, non ci addentreremo nella foresta. Ecco, vedi laggiù? ». Maurice aveva indicato un punto avanti a loro dove il sentiero pareva curvare. « Al primo bivio svolteremo per tornare sulla strada maestra. Non è lontano ».
  La notizia aveva rallegrato non poco la Belle ragazzina che si era rannicchiata contro Maurice, un braccio di lui le aveva circondato le spalle. Solitamente attratta da tutto ciò che era misterioso e fuori del comune, il pensiero della cosa che abitava la foresta aveva appena solleticato la mente della ragazza. Se suo padre diceva che non era bene andarci, lei non ci sarebbe andata.  Si era voltata solo una volta a guardare il sentiero misterioso che portava nel cuore di un luogo proibito e oscuro…
  L’aria del mattino la fece rabbrividire e la Belle del presente si riscosse dai pensieri. Scacciò un ciuffo di capelli dalla fronte e tornò verso casa. Non era il caso di stare in ansia. Tutto considerato, non credeva per davvero che in quei boschi si nascondesse qualcosa. Tutte superstizioni, nient’altro. E il consueto giro al villaggio ebbe il potere di placare le sue ansie: la vita scorreva al solito, i commercianti e gli artigiani aprivano le loro botteghe, si salutavano, s’informavano sugli ultimi pettegolezzi, alcuni forestieri giunti per lo scambio di merci raccontavano le novità dei borghi vicini. Niente di eclatante, comunque. No, non sarebbe successo assolutamente nulla di spaventoso a turbare la monotonia della campagna.
  Ciononostante, il dubbio persisteva. Quando a Belle ronzava un’idea, un pensiero o una preoccupazione per la mente, buona o meno che fosse, essa vi restava affacciata, come fosse stata un esserino bizzarro a spiare da una finestra in attesa di avere il via libera per agire.
  Fu così che Isabelle, quando quel giorno incrociò Gaston che risaliva le viuzze, LeFou al fianco con una cinghiale morto in spalla, liberò la preoccupazione e gli domandò se nelle sue scorribande di caccia avesse mai udito da altri cacciatori la storia della strana creatura che abitava la foresta.
  « Sicuro che ne ho sentito parlare », rispose il giovane, rivolgendole un sorrisetto di sufficienza. «Non ti sarai messa a leggere queste sciocche storielle per superstiziosi ». Sul viso di Gaston apparve un’espressione divertita.
  « Mi chiedevo soltanto se tu, dato che vai spesso a caccia nel bosco, avessi sentito questa storia, tutto qui. Ne parlavo con mio padre, ecco, e mi sono semplicemente incuriosita ».
  Gaston rise. « Te l’ho sempre detto che voi donne siete un pericolo quando leggete, prendete tutto alla lettera e e poi… ».
  Belle alzò gli occhi al cielo. Eccolo che ricominciava con la solita solfa delle donne che non dovrebbero leggere.
  « Va bene, ci vediamo Gaston ».
  « … perché siete troppo delicate per queste cose e poi va a finire che…Un momento! ». Gaston aveva continuato a parlare senza accorgersi che lei si era allontanata. « Non così in fretta, non così in fretta » le sorrise raggiungendola. « Scusa, è stato più forte di me ».
  Belle incrociò le braccia al petto. Era tropo curiosa di sapere, per cui si fermò. « Allora? Esiste o no questa creatura? ».
  Lui non si chiese perché lei fosse tanto interessata, gli bastava che lo fosse abbastanza da stare ad ascoltarlo, una volta tanto. Cosa migliore, era venuta lei a cercarlo, questa volta, non viceversa.
  « Alcuni ci credono » proseguì Gaston. « Ovviamente nessuno ha le prove che ci sia una bestia terrificante che abita la foresta, è più probabilmente che si tratti di un orso particolarmente grande che di un vero mostro».
  « Capisco » disse Belle, riflettendo. Già, poteva benissimo trattarsi di un grosso orso, ma la cosa non la rassicurava granché: era pur sempre un animale pericoloso.
  « In ogni modo » perseguì Gaston, gonfiando il petto e mettendo in mostra i muscoli, « mi sono promesso che qualunque bestia possa mai minacciare me o il villaggio, non sfuggirà alla mia mira micidiale. L’abbatterò in un colpo solo! ». Afferrò il fucile e lo fece roteare tra le mani abilmente, puntandolo in varie direzioni. LeFou rise e batté le mani, saltellandogli attorno in una penosa dimostrazione di venerazione che Belle trovò alquanto eccessiva.
  « Ho capito, ho capito! Ora metti giù quell’aggeggio se non vuoi rischiare di ammazzare qualcuno » gli intimò la ragazza, posando una mano sulla spalla di Gaston. « Non credo ti basterà un colpo solo per uccidere un orso gigante, sai? ».
  « Davvero? » disse Gaston, posando il fucile. « Si vedrà. Parlando d’altro, ho sentito che tuo padre è partito».
  « Questa mattina » confermò la ragazza, sospettosa. Era insolito questo interesse di Gaston nei confronti di Maurice.
  « Ciò vuol dire che sei libera di venire con me alla taverna, almeno oggi » le propose il giovane con entusiasmo, mettendole un braccio attorno alle spalle con la consueta sfacciataggine. Un paio di donne gettarono loro occhiate critiche, mormorando di giovani dagli atteggiamenti indecenti.
  « No, non credo, mi dispiace ». Belle prese tra pollice e indice la mano di Gaston che molleggiava sulla sua spalla, scostandola come fosse uno straccio sporco e puzzolente. « Devo andare a casa presto ».
  « Belle, Belle, hai già abbozzato questa scusa ieri, e l’altro giorno ancora. Abbozzi sempre questa scusa per liberarti di me ».
  « E’ quella che funziona meglio » fece lei.
Gaston non recepì la sottile vena di sarcasmo e la prese per una battuta particolarmente divertente.
 « Sei anche spiritosa, oltre che bella, è una qualità che apprezzo in una donna ».
 « Sì... io… Si è fatto davvero tardi », proseguì Belle come se non avesse udito l’apprezzamento. « Anche se mio padre è assente ho ugualmente un mucchio di cose da sbrigare, capirai che non posso trattenermi. Aure voire! ».
  Si dileguò in fretta, lasciando Gaston e LeFou sulla strada a guardarla allontanarsi.
  Un po’ rinfrancata al pensiero che niente di anomalo abitasse il cuore della foresta, pur con la possibilità che un animale di proporzioni esagerate saltasse fuori dalla propria tana per aggredire i viandanti, Belle tornò verso casa.
  Il resto della giornata trascorse tranquillo. Si mise di lena per far splendere la casa: voleva che suo padre la trovasse bella come non mai al ritorno dalla fiera. Chissà se avrebbe vinto? Oh, sarebbe stato così emozionante e meraviglioso vederlo rientrare brandendo il trofeo! Le cose avrebbero iniziato a girare meglio per loro. Forse sarebbero riusciti a lasciare il paesino.
  La sera, un vento freddo iniziò a soffiare da nord. Belle chiuse tutte le imposte e si assicurò che gli animali fossero al sicuro nei loro capanni. Sedette sul divanetto del salotto, davanti al camino, con il libro prediletto in grembo. Di tanto in tanto, i suoi pensieri migravano di nuovo sulla creatura della foresta e su suo padre. Era una paura emersa dal nulla, non riusciva del tutto a togliersi di mente la possibilità che Maurice potesse fare brutti incontri sulla strada verso la città. Non era la prima volta che suo padre affrontava un viaggio in solitaria, era andato anche più lontano di così.
  Lanciò un’occhiata al pendolo sopra a mensola del camino. A quell’ora, suo padre avrebbe dovuto essere nei pressi della prima taverna. Un ritmico ticchettio la fece sussultare. Un rametto sbatteva contro il vetro della finestra. Belle si avvicinò per controllare che fosse ben chiusa. Scostando le tendine azzurre a fiori vide grosse gocce di pioggia abbattersi sul vetro, la campagna buia, mentre il temporale borbottava in lontananza.
Rimise la tendina a posto, sperando con tutto il cuore che suo padre si trovasse all’asciutto e al sicuro.
 
 
 
  A diverse miglia di distanza, Maurice procedeva lentamente sul sentiero con il capo chino, il colletto del mantello alzato per proteggersi il volto. Il vento ululava tra le foglie, la strada era deserta, non c’erano viandanti oltre Maurice e Philippe. Il tempo aveva tradito le aspettative dell’uomo: il cielo si era annuvolato poco prima del tramonto, una piccola schiarita, poi ancora nubi, più scure e più nere, minacciose. Infine, grosse gocce di pioggia avevano punteggiando di cerchiolini scuri la bella terra bruna. In meno di un minuto ecco il temporale.
  « Proprio una bella fortuna » commentò Maurice al primo rombo del tuono, rivolgendo al cielo uno sguardo seccato. « Oho! Oho! Philippe, buono! », aggiunse in fretta, tenendo le redini più strette. Il suo cavallo non era mai stato un modello di coraggio equino.
  Di lì a poco, la pioggia aumentò di intensità.
  « Accidentaccio, accidentaccio » borbottò Maurice, « ci bagneremo completamente prima di scorgere la taverna ».
  C’era una rustica pensioncina lungo la strada, aveva sperato che il temporale tardasse almeno fino a quando lui e Philippe non fossero stati al riparo e con la pancia piena. Invece erano ancora in mezzo ai boschi.
Philippe girò la testa verso il padrone e scoprì i denti in un nitrito contrariato.
  « Lo so, lo so, non fare così » sbuffò Maurice. « Poteva capitare a tutti. Ora non mi terrai il broncio, spero? ».
In risposta, il musi del cavallo si incupì.
  « Ah, è così? Philippe, da te non me lo sarei mai aspettato, sei proprio un fifone ».
Un altro tuono fece sobbalzare entrambi. La terra parve tremare, i rami degli alberi si scossero in preda a un tremito. Ad un tratto, senza alcun preavviso, una saetta scese in picchiata dal cielo colpendo un albero poco distante da loro. Il bagliore rosso del fuoco guizzò nell’oscurità, i rami incendiati caddero sul suolo bloccando il passaggio. Philippe s’impennò, terrorizzato dalle fiamme, senza dar retta al padrone, che cercava disperatamente di farlo indietreggiare. Il povero cavallo era spaventato a morte. Maurice tirò e tirò ancora le redini, ma Philippe partì al galoppo per allontanarsi dal pericolo. Quando infine si calmò, si erano così inoltrati nella boscaglia che per Maurice fu difficile capire da che parte dovessero andare. Rifiutava categoricamente di credere che si fossero persi.
  Giunsero a un biforcazione che piegava a sinistra su una lunga strada spaziosa, mentre sulla destra si apriva un sentierino serpeggiante, nero come l’inchiostro. Alla luce dei lampi, Maurice intravide un’uscita in fondo al sentierino. Nella situazione in cui erano, una strada breve sarebbe stata preferibile, così, credendo fosse una scorciatoia, preferì girare a destra. Philippe non fu dello stesso parere, il suo istinto da animale gli suggeriva di non inoltrarsi tra quegli alberi. C’era qualcosa laggiù, qualcosa che si nascondeva dentro l’oscurità. Ma Maurice era più testardo di lui e lo convinse a proseguire nella direzione scelta.
  « Di qua, Philippe, andiamo. Su, bello, di che cosa hai paura? ».
Se Philippe avesse potuto parlare… ma si limitò a scuotere la criniera e obbedire, continuando a procedere con passo furtivo.
  Giunsero in un punto della foresta dove la pioggia non riusciva a penetrare le fittissime cime degli alberi. Il temporale sembrava ridotto a una pioggerelle fine. I grandi occhi del cavallo dardeggiarono da tutte le parti ed ebbe un sussulto: qualcosa si mosse tra le ombre e anche Maurice lo vide.
  Alberi, nient’altro che alberi, si disse. Ma gli alberi non ringhiavano, non avevano occhi galli e luminosi, e neanche denti appuntiti.
  Il branco dei lupi vene allo scoperto lentamente, accerchiando il carretto. Magri, il pelo arruffato, la bava la bocca, affamati e rabbiosi.
 « Via! Via! » gridò Maurice.
Philippe partì al galoppo, inseguito dal branco di lupi famelici che tentarono di attaccarlo, azzannarlo. Se fossero stati sani e in forze per cavallo e padrone ci sarebbe stata poca speranza, ma fortunatamente i lupi apparivano deboli, probabilmente per la prolungata mancanza, cosa che li rendeva anche più aggressivi.
Corsero lungo il sentiero, fuori da esso, attraverso una radura e infine si gettarono di nuovo dentro la foresta, sempre più a fondo tra grandi tronchi e intricati cespugli di rovi. Zuppo fino al midollo, Maurice agitava freneticamente le redini, voltandosi più volte per guardare dov’erano i lupi: correvano sul ciglio del sentiero, dietro i tronchi, sparivano, riapparivano, ora rallentavano. Forse li aveva seminati o si erano stancati di inseguirli, oppure…
  Con un energico strattone alle redini, Maurice evitò per un pelo di finire dentro un precipizio. Ecco perché i lupi si erano fermati, di sicuro sapevano che la strada finiva lì, mentre lui nella folle corsa non aveva prestato attenzione a dove andava.
  « Indietro, indietro, Philippe. Piano » ordinò senza fiato, il ringhio dei lupi dietro di loro.
  Le ruote cigolarono, gli zoccoli del cavallo scivolarono sulla roccia bagnata.
  Poi, un ruggito spaventoso squarciò l’aria.
  L’uomo gridò, i lupi fuggirono, Philippe si impennò di nuovo, il carretto si rovesciò e Maurice venne disarcionato. Philippe prese a corre come una furia trascinandosi dietro il carro, lasciando il padrone solo sul ciglio del burrone, in mezzo alla tempesta.
  « Philippe, torna… Philippe… » esalò Maurice. Chiamò il cavallo più volte senza osare alzare troppo la voce per non attirare di nuovo i lupi. « Philippe, non lasciarmi qui ».
  Un altro ringhio.
  Maurice si rialzò, bagnato e tremante. Nel buio era difficile distinguerla, quando lo schianto di un nuovo fulmine seguito da un lampo accecante illuminarono la sagoma nera stagliata sull’altro versante del precipizio. Non erano un lupo. Anche da lontano, Maurice capì che doveva trattarsi di una creatura enorme. Durò un attimo, poi scomparve quasi fosse stata un miraggio, ma Maurice sapeva che non era stata un’illusione.
  Prese a correre gridando aiuto, senza badare a dove mettese piede. Il ringhio della bestia gli rimbombava ancora nelle orecchie. Inciampò e cadde sul suolo fangoso, si rialzò a tentoni, l’acqua che gli incollava i vestiti addosso. Doveva trovare l’uscita di quel luogo infernale…
  E poi lo vide: un castello medievale, maestoso, proprio nel centro della radura in cui aveva appena messo piede. Rimase un istante ad ammirare le mura e le torri, chiedendosi da dove fossero spuntati. Dolorante e infreddolito, sorpassò le siepi diretto al grande cancello di ferro, quando udì un fruscio alle proprie spalle. I lupi erano tornati. Fuggiti al ringhio della bestia sul precipizio – o qualunque cosa fosse – ora erano pronti a tornare all’attacco. Maurice si gettò verso il cancello, andando praticamente a sbattervi contro, supplicando di aprire. Le inferriate si mossero da sole, aprendosi quel tanto che permise all’uomo di entrare e  richiudendosi un istante dopo. I lupi si abbatterono sulla cancellata, uno di essi infilò il muso scarno tra le sbarre e le sue mascelle si chiusero sullo stivale di Maurice, che era appena passato. L’uomo riuscì miracolosamente a liberare l’arto dalla bocca dell’animale e in men che non si dica fu davanti al portone. Una raffica di vento gelido gli tolse il cappello ma egli non pensò di tronare indietro a recuperarlo. Il castello poteva essere lugubre e inquietante, cionondimeno era un riparo, e in quel momento specifico era tutto ciò di cui aveva bisogno.
  Una volta all’interno, tutto divenne silenzioso. Il temporale con il suo frastuono erano rimasti là fuori. In pensiero di Maurice corse a Philippe: si augurava di cuore che sfuggisse ai lupi. La sua invenzione era andata, perduta, ne era certo. Perlomeno, lui era ancora vivo.
  Tirò un respiro e disse: « Permesso ».
La sua voce risuonò nell’atrio del maniero. Nessuno rispose. Riprovò più forte, schiarendosi la gola.
  « Ehilà, del castello! ».
Ancora niente. Forse era abbandonato.
  « Io… io mi chiamo Maurice Beauffremont*, sono spiacente di dar disturbo ma non ho posto dove andare. Ho perso il cavallo e il mio bagaglio, e credo di essermi perso ».
Un mormorio sommesso si levò da qualche parte nell’atrio. O era stato il soffio del vento attraverso le finestre? Difficile stabilire se ci fosse qualcuno nascosto nell’ombra a spiare, non c’erano candele accese, ancora una volta era merito dei lampi se riusciva a scorgere qualcosa più in là del suo naso.
  Maurice allungò le orecchie. I mormorii erano cessati.
  « Non vorrei disturbare, davvero », riprovò. «Tuttavia, se i lor signori fossero così gentili… ».
  E riecco le voci.
  « Pover uomo » disse una ( e questa volta Maurice le udì distintamente ), mentre un’atra soffiava per far tacere la prima.
  « Sssshhhttt! Zitto! ».
  « Chi c’è? » domandò Maurice.
  Un lumino si accese sopra un tavolino accanato alla porta.
  « No, che cosa fai? » fece la seconda voce, in quello che fu un sussurro davvero mal riuscito.
  « Ma chi è che parla? ». Maurice afferrò il candelabro d’oro sul tavolo, muovendolo di qua e di là. Non c’era anima viva, almeno in apparenza.
  « Ecco, adesso ci farai scoprire tutti! » gracchiò di nuovo la seconda voce.
  « Insomma, se è uno scherzo… ».
  « Monsieur, se foste così gentile da girarsi… » disse la prima voce, che suonava più garbata e morbida.
  « Cosa…? Chi…? » Maurice credeva davvero di esser impazzito. Poi, non seppe perché spostò lo sguardo sul candelabro. Due piccoli occhietti si aprirono dove avrebbe dovuto esserci solo metallo. Una bocca si aprì in un sorrisetto incerto, e c’era un naso, e le braccia del candelabro si mossero come vere braccia.
  « Santi numi! » gridò Maurice, lasciandolo cadere.
  « Ouch! ».
  « Oh! », esclamò l’uomo, pieno di meraviglia, chinandosi per osservare l’oggetto palante. «Davvero sorprendente. Che invenzione straordinaria! ».
  Il candelabro si sistemò il lume fissato sopra la sua testa. « Mon dieu, che capitombolo ho fatto, mi gira la testa ».
  « Chiedo scusa ».
  « Ah! Che bravo sei, Lumiere! » disse la seconda voce, che apparteneva a una bella pendola di legno con il quadrante di vetro. Dentro il quadrante c’era un’altra faccetta bizzarra.
  « Smettila di lagnarti, Tockins, abbi un po’ di compassione per il signore » disse il candelabro.
  « Compassione? No, no, no, non ce ne facciamo niente della compassione, ormai. Qui le regole sono cambiate e non si fanno più sconti a nessuno. L’ultima volta… Aiuto! ».
  La tirata di Tockins fu interrotta da Maurice, che lo aveva afferrato e messo a testa in giù per studiarlo meglio.
  « Si muovono e parlano! Cielo! Devo assolutamente scoprire come ci riescono! » commentò eccitato, tastando ogni angolo della pendola chiacchierina.
  « Signore, per favore, mi metta giù! » protestò Tockins tra le risate di Lumiere e l’interesse maniacale di Maurice. « Mi va il sangue alla testa, voglio dire, dentro gli ingranaggi. No, il solletico no! Ahahah!».
  « Ma sono vivi! » esclamò Maurice, lasciando cadere a terra anche la pendola.
« Non è piacevole quando non si ha la ciccia ad attutire la caduta, eh? » commentò divertito Lumiere, aiutando Tockins a rialzarsi.
  « Io non avevo la ciccia! » rimbrottò quest’ultimo, spazzolandosi via la polvere dal copro. Tirò un respiro profondo e guardò in su verso l’uomo. « Ehm-ehm. Buonasera, signore », salutò con tutta la dignità che una pendola può avere.
  « Buonasera » rispose educatamente Maurice. « Sono spiacente per l’intrusione, ma come dicevo mi sono perduto e non sapevo proprio dove andare. Ho visto questo castello, così sono entrato ».
  « Avete fatto benissimo » disse Lumiere, ignorando i segni di diniego di Tockins. « Siete il benvenuto ».
Maurice sorrise, Tockins emise un rantolo.
  « E’ davvero una nottataccia » continuò il candelabro, saltellandogli accanto, « e voi siete completamente fradicio, monsieur. Venite da questa parte, potrete scaldarvi davanti al fuoco del salotto ».
  « Vi ringrazio enormemente ».
  « No! Fermi! ». Tockins trotterellò loro dietro.
  Lumiere aveva già imboccato una lunga galleria ornata di statue di dei e dee greche, sulla quale si aprivano almeno otto porte.
  « Ma insomma, la mia autorità non vale più niente in questo castello? » continuò Tockins, le lancette tutte storte per la rabbia. « Tu sei solo un valletto, Lumiere, sono io il maggiordomo! Pertanto sono io che decido chi può entrare in casa e chi no! ».
  « Ma se non fai tu gli onori di casa, dovrò farli io » rispose Lumiere senza guardarlo.
  Tockins trattenne aria nei polmoni per dare più impeto alle proprie rimostranze, quando uno stranuto di Maurice risuonò forte nella galleria.
  « I lor signori mi perdonino » si scusò, estraendo dai calzoni un fazzoletto zuppo di pioggia, il quale servì a poco per soffiarsi il naso.
  Tockins osservò l’uomo tutto infreddolito, scatenandogli una lotta interiore tra dovere e indulgenza.
Lumiere si chinò al suo orecchio (anche se non possedeva parti effettivamente riconoscibili come orecchie), sussurrando: « Bene, mon ami, immagino vorrai tu a dire al signore che dovrà passare la notte all’addiaccio ».
  « Glielo dirò, certo, ehm… sì. Devo farlo ». Tockins emise diversi colpi di tosse per schiarirsi la voce, così tanti da poter credere che avesse contratto la tosse asinina.
Lumiere aspettava con un vago sorriso sul viso di cera.
  « Oh, va bene! » si arrese Tockins, « Un’ora, al massimo due. Quando si sarà scaldato se ne andrà».
  Lumiere picchiettò sulla spalla del suo amico. « Lo sapevo che si nascondeva un cuore sotto quella ferraglia. Orbene, andiamo in salotto ».
  « Sarebbe meglio lo studio » replicò Tockins «Il padrone non vorrebbe… ».
  Ma Lumiere lo ignorò ed aveva già bussato due volte contro una porta della galleria, la quale si aprì all’istante senza che nessuno ruotasse la maniglia.
  Il salotto era un’ampia stanza arredata con arazzi fiamminghi. Il monumentale camino faceva bela mostra di sé, decorato con l’effige di un re di cui Maurice non ricordava il nome, gigli, foglie e altri ghirigori complicati. Lunghi e pesanti tendaggi ricoprivano le finestre, alti candelabri stavano immobili e muti su tavolini dalle gambe intarsiate; divanetti dal comodo aspetto, pouf e poltrone riempivano il centro della stanza. L’ambiente appariva nobile ed elegante anche se molto trascurato e cupo.  
  « Molto bene, molto bene » cantilenò Tockins, ansioso, continuando a guardarsi le spalle come se da un momento all’altro dovesse arrivare qualcuno di molto indesiderato. « Dirò a Mrs. Bric di portar su una scodella di zuppa, e poi… No, cosa stai facendo!? » gridò in preda all’indignazione: Lumiere aveva appena fatto Maurice sulla più bella poltrona della stanza.
  « Non lì! Sei impazzito, Lumiere? Quella è la poltrona di sua altezza!».
  « Suvvia, suvvia, solo per questa volta » rispose Lumiere, lasciando che un attaccapanni alto e nero portasse all’ospite una coperta per asciugarsi, mentre un altro attizzasse il fuoco.
  « Sono secoli che sua altezza non passa una serata in salotto ».
  « Questa non è una buona ragione per far irrompere un estraneo nelle sue stanze » rimbeccò Tockins.
  Uno sferragliare di ruote annunciò l’arrivo di un carrello, che trasportava un vassoio sul quale erano adagiati una tazzina con il suo piattino, la zuccheriera, il bricco del latte, e una bella teiera di ceramica bianca dipinta a fiorellini violetti.
  « Ecco a voi, signore » disse quest’ultima, facendo un sorriso gentile a Maurice, ormai quasi dimentico della brutta avventura nella foresta.
  Egli accettò la tazza dentro la quale era stata versata una buona quantità di tè bollente. Dietro al carrello delle vivande era arrivato anche un poggiapiedi, che ora scodinzolava in direzione di Maurice. L’uomo alzò i piedi e lo sgabellino vi si sistemò sotto, uggiolando soddisfatto.
  Tockins osservava la scena con una certa disapprovazione. « Non ho detto di portar su il tè! ».
  « Per una volta che il padrone non c’è, potresti chiudere un occhio » disse la teiera.
  « Potrebbe tornare a breve, Mrs. Bric, lo sapete che non sta mai fuori molto ».
  « Chi è il padrone di questo castello? » chiese Maurice, provocando un improvviso silenzio tra gli oggetti.
  La tazza nelle sue mani sussultò. « Lui è cattivo » disse con una vocetta infantile, da bambino.
  « Chicco, non sta bene parlare così! » lo rimproverò Mrs. Bric.
  « Ma è vero, mamma, lo è. Proprio terribile ».
  « Niente può essere terribile come la bestia che ho visto stanotte » disse Maurice, ricordando lo spavento subito.
  « Come avete detto, signore? » chiese Tockins visibilmente preoccupato.
  Ma la risposta non giunse mai.
  Un fragore invase l’aria circostante e tutti i presenti tremarono come foglie. I due attaccapanni si dileguarono attraverso una porta, lo stesso fece il poggiapiedi, abbaiando. Alla folata di vento gelido che si abbatté sulla stanza, i candelabri che avevano illuminato il salotto si spensero all’improvviso, lo stesso le fiamme del camino, e l’oscurità invase ogni cosa. Tockins, Lumiere, Mrs. Bric e Chicco si strinsero tra loro, Maurice si rannicchiò sulla poltrona. Passi tonanti nel corridoio, poi la porta si aprì sbattendo sui cardini e un ringhio feroce salì dalla gola della presenza appena entrata.
 « Sento puzza di estranei » disse il nuovo venuto, esalando le parole dentro un sussurro minaccioso. « C’è qualcuno che non dovrebbe esserci ».
  Maurice avvertì passi pesanti far rimbombare il pavimento, accompagnati da un ticchettio di artigli sul pavimento.
  « P-padrone, mi rincresce tanto » fece Lumiere, avanzando di un passo. « Posso spiegare ».
  « Sarà meglio per te ».
  « Vedete, il signore ha bussato al nostro portone, era completamente fradicio e affamato, si era perso e… ».
Il ringhio si fece più alto. « Sapevi quali erano gli ordini ».
  « Certamente, certamente, però, vedete, egli… ».
  « Non è il benvenuto, qui! ».
  « Altezza » intervenne Tockins, ostentando una sicurezza che non provava affatto. « Io avevo avvertito Lumiere che vi sareste infuriato, ma come al solito ha fatto di testa sua. Credetemi, ho insistito più volte, io sapevo che voi non… ».
  « Basta! ». Un altro ringhio, basso e cupo da far accapponare la pelle. « Non voglio le vostre  scuse, voglio che se ne vada ».
  Maurice era completamene immobile. Sentì la presenza girare attorno alla poltrona, un puzzo di pelo bagnato, un’ombra gigantesca che si stagliava davanti a lui. Non osò alzare la testa, non osò guardare la bestia della foresta.
  « Sei comodo su quella poltrona? » domandò questa con ostentato sarcasmo misto a rabbia.
  « Io… io… ».
  « Che cosa vuoi? Chi sei? ».
  « Mi… mi chiamo…Maurice Beauffremont ».
  « osa credevi di fare venendo qui? Rubare? O scoprire qualche segreto ».
  « N-niente di tutto ciò, s-sono un uomo onesto, volevo soltanto… soltanto… ». Maurice udì di nuovo il ringhio, percepì il fiato caldo della creatura ed ebbe l’ardire di alzare lo sguardo.
  Non l’avesse mai fatto! Il grido gli morì in fondo alla gola, lasciando spazio solo a un rantolo di puro terrore. Era veramente la creatura che aveva visto poco prima nella foresta, non c’erano dubbi. Camminava a quattro zampe ora, il pelo sulla schiena ritto, fradicio, gli occhi neri socchiusi lo fissavano maligni.
   « Che cosa guardi, vecchio? ».
  Maurice si affrettò ad bassare il capo e si gettò in ginocchio. « Perdono, chiedo perdono, non uccidetemi! Ho una figlia, voglio solo tornare a casa da lei, vi supplico! ».
  Ma le preghiere dell’uomo urtarono ancor di più la bestia, che allungò un braccio possente e spedì un pouf dall’altra parte della stanza per avere via libera. Afferrò Maurice per il bavero del mantello e lo trascinò di peso fuori dalla salotto.
  « Altezza, che cosa fate? » gridarono Lumiere, Tockins e Mrs. Bric a una voce. Chicco era troppo spaventato per parlare.
  « Gli sto dando asilo », rispose beffarda la Bestia. « Non era quello che voleva? ».
  Con un balzo fu fuori dalla porta, lasciando i tre servitori completamente attoniti, increduli, benché non avessero sperato in niente di meglio. La voce del povero Maurice sparì tra i meandri del castello, chiedendo di essere lasciato andare, che avrebbe fatto qualunque cosa, ma la bestia fu sorda ad ogni richiesta. Poi fu silenzio.
 « Non dovevi farlo entrare » sbottò Tockins rivolto a Lumiere. « Sapevo che il risultato sarebbe stato questo ».
 « Ma io… ».
 « Ma tu cosa? Pensavi sul serio che lo lasciasse andare dopo averlo visto in faccia? ».
Lumiere tacque, sommerso dai sensi di colpa.
 « Non abbiamo alcuna speranza, ormai » disse Mrs. Bric con infelice buonsenso. « Il male è troppo radicato dentro di lui. Il sortilegio lo ha reso irragionevole. Nessuno riuscirà mai a farlo cambiare. Nessuno ».
 
 
 
  Belle era comodamente seduta sul divanetto del salotto con un libro in mano quando qualcuno bussò alla porta. Balzò in piedi, sperando si trattasse del postine che le recapitava una missiva di suo padre dalla città. Oramai doveva essere arrivato e la fiera cominciata. Elettrizzata, aprì la porta con un gran sorriso, il quale si trasfigurò in una lieve smorfia che le arricciò il naso in modo alquanto buffo. Le sue aspettative erano state tradite dall’arrivo dell’individuo a lei meno gradito.
  « Buongiorno, Gaston », si sforzò di sorridere.
  Gaston stava appoggiato allo stipite della porta, una gamba davanti all’altra, le mai nelle tasche del panciotto stirato di fresco, un sorrisetto baldanzoso sul viso rasato.
  « Buongiorno, Belle, come stai? ».
  « Molto bene, ti ringrazio. Che ci fai da queste parti? ».
  « Passavo di qui ».
  La ragazza non faticò a intuire che era una menzogna bella e buona. Gaston era stranamente elegante, tirato a lucido, non ci si vestiva in quel modo per una semplice visita di cortesia.
  Stava per snocciolare l’ennesima scusa che l’avrebbe liberata di lui, ma il giovane varcò la soglia di casa senza chiedere il permesso, come se fosse stato invitato ad accomodarsi. Con indolenza, Belle richiuse la porta. Lui si era già sistemato al tavolo della cucina, poggiandovi i piedi sopra. Dava l’impressione di trovarsi perfettamente a suo agio.
  « Hai davvero una bella casa » disse Gaston guardandosi attorno.
  « Grazie » rispose Belle, adocchiando il fango rappreso sulla suola degli stivali del giovane. Aveva appena pulito quel tavolo, dannazione a lui…
   « Perdona la franchezza, Gaston, ma, ti serve qualcosa? ».
   « Ah, ah, ah » fece Gaston, scuotendo il capo come se la risposta fosse ovvia e Belle troppo sciocca per arrivarci. « Belle, oggi sarà il giorno più felice della tua vita ».
   « Ah sì? ».
  Gaston rise ancora, facendo un cenno con la mano. « Siedi un momento, fanciulla, debbo farti un discorso molto serio ».
  Belle sedette, iniziando ad insospettirsi. Lei e Gaston non avevano mai avuto molto da dirsi, men che mai si erano intrattenuti in un discorso serio.
  « Ebbene, vorrei che ti immaginassi una scenetta, tu hai molta fantasia ». Gaston fece un ampio gesto con il braccio. « Immagina una rustica casetta in mezzo alla campagna, un luogo tranquillo, io che torno al tramonto accolto a braccia aperte dai miei cari che mi attendono sulla soglia ».
  « Oh… ehm, sì, molto carino come scenario » commentò prontamente belle quando lui fece una pausa.
  « Trovi? Già, molto carino, è vero. Ora, mia cara, immagina sei o sette bambini che corrono nel prato con i cani da caccia, perché naturalmente avremo cani da caccia visto che vivremo di quello, è il mio lavoro dopotutto, e tu ti occuperai di loro splendidamente ».
  « Sei venuti qui per dirmi che mi assumerai come guardia cani? », fece lei, domandandosi da quand’è che Gaston la chiamava ‘mia cara’. Avrebbe voluto rompergli il naso per questa libertà, era già passata sul fatto che gli permettesse di chiamarla Belle e non Isabelle come fossero amici per la pelle.
In risposta, Gaston rise più forte. « Ma no, ma no. Ho deciso di sposarmi! ».
  Lui allargò le braccia e si alzò, forse aspettandosi un grido di gioia o qualcosa di simile. Ma lei rimase a fissarlo per qualche secondo, interdetta.
  « Ah. Congratulazioni. E chi sarebbe la… fortunata? ».
  Gaston fece il giro del tavolo, mettendole le mani sulle spalle. « Non indovini? ».
  Lei schizzò via dalla sedia, cercando di mettere una certa distanza tra loro. « No, non lo so proprio. Ma sarò felice di fare da damigella d’onore alla sposa ».
  « Sari tu ad aver bisogno di damigelle d’onore, mia cara ».
  « I-io? ».
  « Sarai tu la mia sposa, Belle». Gaston le si avvicinò pericolosamente.
  Lei indietreggiò fino a trovarsi con le spalle al muro, o meglio alla porta. Istintivamente cercò la maniglia. Doveva buttarlo fuori di casa e chiudercisi dentro prima che la situazione precipitasse.
  « Oh, che gran sorpresa » disse con una risata tremolante. « Non avrei mai immaginato che tu… ».
  « Sei davvero ingenua, allora ». Gaston la imprigionò posandole le mani sui fianchi, piegandosi in avanti così che i loro volti potessero esser alla stessa altezza. « Dì di sì. Dì che accetti di sposarmi ».
  Belle scostò le sue mani, cercando di distrarlo parlando, armeggiando ancora con le mani dietro la schiena senza farsi notare dal giovane. Dov’era quella benedetta maniglia?
  « Non posso avere un po’ di tempo per pensarci? E’ stato così improvviso… sono rimasta senza parole ».
  Gaston le si fece ancora più vicino.
   « Perché aspettare? So che anche tu vuoi sposarmi, cara, è inutile fare tanto la preziosa ».
  Belle voltò la testa di lato, fingendo imbarazzo per tanta audacia, quando invece provava solo disgusto al pensiero che quel bell’imbusto stesse per baciarla.
  « Gaston, controllati! ».
  « Non ne ho alcuna intenzione. Fatti dare un bacio, mia bella sposina ».
  Lui chiuse gli occhi e sporse le labbra. Lei trovò la maniglia, la girò e si scostò rapida dalla traiettoria del bacio. Gaston fece per appoggiarsi con una mano alla porta, ma trovò il vuoto e perse l’equilibrio, finendo lungo disteso sui gradini d’ingresso e poi dentro una pozzanghera, lasciata dalla pioggia di due notti prima.
  « Credo di non poter accettare la proposta. Addio » disse Belle, sbattendogli la porta in faccia.
  La fanfara partì di lì a un secondo, un gruppo di bambine lanciò petali di fiori. Un buon assortimento di cittadini aspettava fuori dalla staccionata. LeFou, che dirigeva la banda, fece un cenno a tutti quanti di smettere di suonare. Qualcosa era andato indubbiamente storto.
  LeFou fu al suo fianco, la banda e il resto della gente li seguì a qualche passo di distanza mormorando tra loro.
  « Che cosa è accaduto? Lei dov’è? » chiese LeFou.
  « Mi ha rifiutato » rispose Gaston, riemergendo dalla pozzanghera tossendo e sputando acqua fangosa. La sua voce non era più lusinghiera e suadente, ma aspra, dura, colma di rancore.
  « Avevi detto che avrebbe accettato » rimbeccò confusamente LeFou.
  « So che cosa avevo detto, idiota! Ma la pagherà, mi ha umiliato e la pagherà, parola di Gaston ». Gli abiti e il volto macchiati e bagnati, si allontanò marciando giù per la strada che portava al villaggio, più infuriato di quanto non fosse mai stato in vita sua.
 
 
  Belle percorreva a grandi passi il soggiorno, cercando di arginare l’indignazione scaturita dopo la visita di Gaston. Era convinto che lei accettasse? Sul serio? Si era persino portato la fanfara e gli amici. Roba da non credere! E adesso, se fosse stato per lui, lei si sarebbe trovata alla taverna a festeggiare il loro fidanzamento. Puah! Non avrebbe sposato quell’egoista, tronfio, maleducato, stupido essere neanche sotto tortura.
  Innanzitutto, non avrebbe dovuto permettersi di piombarle in casa sapendo che suo padre era assente, chiunque avrebbe potuto vederlo risalire il sentiero e chissà quali dicerie si sarebbero scatenate al villaggio. Gaston non doveva minimamente preoccuparsi del suo comportamento, lui era un uomo e agli uomini era concesso intrattenersi con donne non sposate, donne di dubbia moralità. Ci mancava solo che, oltre a considerarla strana, la bollassero anche come una poco di buono. Di questo, comunque, non si preoccupò a lungo: c’erano stati dei testimoni e avrebbero sostenuto la verità, ovvero che la sua reputazione era intatta e il comportamento di Gaston era stato scorretto. E quando, l’indomani, Maurice sarebbe rientrato dalla città e lei gli avrebbe raccontato quanto accaduto, si sarebbe indignato quanto lei. Era contro ogni condotta chiedere una fanciulla in sposa senza prima aver parlato con il padre e ottenutone il consenso. Questa regola non valeva solo per chi possedeva sangue blu.
  Infuriata con sé stessa uscì sul retro e corse verso la collina. Era anche colpa sua se Gaston aveva creduto di poterle proporre le nozze. Non era mai stata chiara quanto avrebbe voluto, tutto perché in quel villaggio l’ipocrisia era ben tollerata e la sincerità veniva definita insolenza. Era così allenati a simulare il loro falso perbenismo da farlo divenire la normalità. Dovevi ingoiare il rospo se qualcuno ti faceva un torto, dovevi tollerare le chiacchiere per non farle aumentare, dovei tacere se avevi un’opinione differente, dovevi stare attento a come comportarti o a cosa dicevi, perché un atteggiamento stravagante non era ammesso. E dalle fanciulle ci si aspettava che fossero sempre cortesi, composte, e ponderassero ogni parola prima di pronunciarla. Bè, lei non ci stava. Avrebbe avuto voglia di gridare, di correre, dichiarare al mondo i suoi pensieri, i suoi sogni, volare alto e cadere lontano lontano, in un’altra parte della terra dove nessuno la conosceva; un luogo in cui non esistevano regole stupide e ognuno potesse vivere la propria vita come desiderava. Chissà se esisteva un luogo così, dove poter essere accettata per ciò che era, e non per ciò che gli altri si aspettavano che fosse.
Giunta sulla cima del colle, respirò a fondo l’aria pungente del primo autunno, l’odore dei pini, del legno umido, del fumo acre che si alzava dai comignoli del villaggio alle sue spalle. Belle sedette sul prato adorno di foglie ingiallite, ne prese una e se la rigirò tra le dita. Lo sconforto prese il posto della collera.
   Sarebbe stato sempre così? Sarebbe sempre stata esclusa, senza nessuno la capisse veramente e che l’amasse? Quello che Gaston provava per lei non era amore, era solo smania di vincere su di lei, sull’unica ragazza di tutto il paese immune al suo fascino, e questo non gli andava giù.
  Era davvero dura essere una donna, non poter alzare la voce e dire a Gaston una volta e per sempre di lasciarla in pace, che non aveva nessuna speranza. Perché lei avrebbe accettato di sposarsi solo se avesse trovato l’amore, quello vero, quello che le avrebbe fatto battere il cuore a mille, che l’avrebbe tenuta sveglia la notte, che le avrebbe tolto l’appetito; quel tipo di sentimento che ribolliva nel sangue, del quale le donne più anziane si vergognavano a parlarne e le ragazze più giovani arrossivano al solo pensare. Non aveva mai accettato di contrarre un matrimonio combinato, e ringraziava il cielo di non essere figlia di nobili. Lei era libera di scegliere, e avrebbe scelto secondo i dettami del proprio cuore e della propria coscienza.
  Il filo dei suoi pensieri si spezzò quando il nitrito di un cavallo giunse alle sue orecchie. Belle alzò la testa e fissò sorpresa l’animale uscito dalla macchia di alberi al limitare del colle. Non poteva sbagliare: era Philippe. Avanzava a testa bassa, la bava alla bocca per la sete. Il povero animale aveva vagato solo nella foresta per molto tempo ed era sfinito.
  Belle gli corse incontro, spaventata.
  « Philippe! Che cosa è successo? » esclamò. Philippe si era trascinato dietro il carretto insieme all’invenzione di Maurice e al suo bagaglio. E lui dov’era?
  Quasi aspettandosi di vederlo comparire, Belle lanciò un rapido sguardo nel punto da cui era giunto Philippe.
   « Dov’è papà? Philippe, dove lo hai lasciato? ».
  Il cavallo la fissò con gli occhi neri spalancati, scosse la criniera e pestò le zampe sul terreno, sbuffando nervoso. Cercava di dirle qualcosa. Non era coraggioso ma era decisamente intelligente.
  Belle sapeva che cosa fare, prima però doveva concedere al cavallo di riprendersi. Gli diede da bere e lui gettò il muso nel secchio d’acqua, avido. Staccò le stanghe del carretto dai finimenti, lasciandolo accanto al pollaio, dove coprì il tutto con lo stesso panno che Maurice aveva usato per proteggere la sua invenzione. Poi corse in casa a prendere il mantello da viaggio, se lo gettò sulle spalle, richiuse in fretta la porta della casa e i recinti degli animali, lasciandogli una generosa quantità di acqua e cibo. Non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato per trovare suo padre. Infine saltò in sella a Philippe, affidandosi al suo istinto. Rifocillato dall’acqua fresca e da un poco di erba brucata nel prato, il cavallo ripartì al galoppo verso la foresta.  
  Impiegarono quasi tutto il giorno per arrivare al il bivio che Philippe aveva imboccato con Maurice due notti precedenti. Belle era stata più volte sul punto di tornare indietro, solo la speranza di trovare suo padre l’aveva convinta a lasciare che fosse Philippe a decidere dove andare.
  Ormai faceva buio. La ragazza provò una stretta allo stomaco quando il cavallo si inoltrò tra gli alberi, sempre più in profondità, fermandosi in prossimità della diramazione. Ancora prima di esortarlo a procedere, lei sapeva quale delle due strade avrebbero percorso e la paura la schiacciò nel momento in cui il cavallo prese a destra, permettendo che il buio totale li inghiottisse. L’inquietante ricordo di sé stessa bambina in viaggio con suo padre fece di nuovo capolino nella sua testa. C’era qualcosa di terribilmente familiare in quella stradina. Non seppe fino a che punto fidarsi di Philippe, la stava portando dritto nel cuore della foresta, là dove si raccontava vivesse una creatura mostruosa. Doveva pensare dunque che suo padre era laggiù, ferito, forse in balia della creatura?
  Il sentierino serpeggiava tra tronchi contorti e fitti cespugli di rovi nei quali l’abito della ragazza s’impigliò più volte. Ad ogni passo, si addentravano di più nel labirinto di alberi, la luna scomparve tra i rami simili a un tetto naturale. Belle non vedeva a un palmo dal naso, poteva solo restare in sella e andare avanti, ancora avanti. La ragazza notò una cosa molto strana: non c’erano foglie su quegli alberi, erano  completamente spogli come se laggiù fosse già arrivato l’inverno. Alzò gli occhi al cielo e ringraziò la luna, unica fonte di luce in quel nero d’inchiostro che era la foresta. Quando riabbassò la testa, si rese conte che il sentiero era scomparso, soffocato dagli intricati arbusti. Emise un gemito di disperazione. Senza una via da seguire, tutto si complicava: sarebbe riuscita a trovare una via d’uscita per tornare indietro?
  Con suo sommo sollievo, sbucarono ina radura a cielo aperto. Ma la dispettosa luna si era nascosta dietro una nuvola.  la situazione non era cambiata di molto.
  « Dove siamo? ».
  Il cavallo scosse violentemente la grossa testa, scalpitando inquieto e Belle capì che più in là non poteva portarla. I secondi trascorsero lenti. Scrutando il buio, cercò di decidere rapidamente da che parte dirigersi.  Poi, la luna decise di far capolino tra le nubi. E fu allora, sopra le cime degli alberi più alti, che Belle scorse la sagoma di una e più torri. Rimase qualche istante a fissarle, la mente che lavorò velocissima: quelle torri appartenevano ad un castello, Maurice poteva essere là dentro, forse rapito, forse ospite, poco importava: lei vi si sarebbe precipitata. Si tuffò tra gli alberi di fronte a lei insieme a Philippe, più avanzavano, più la sagoma del castello si avvicinava, prendeva forma. Infine  furono difronte ad un altissimo cancello in ferro battuto che dava l’accesso all’oscuro e inquietante maniero.
  Non aveva mai saputo dell’esistenza di un posto simile. A chi apparteneva? Vi abitava qualcuno?
  Belle si sentì avvolgere da un’ondata gelida, ebbe l’impulso di fuggire via ma non lo fece. Scese da cavallo e si avvicinò all’entrata. Spinse piano il cancello e quello subito il cancello si aprì. Scivolò all’interno del cortile portandosi dietro Philippe. Il cavallo fu riluttante ma la seguì ugualmente.
  Sugli ultimi gradini in cima alle scale davanti al portone d’ingresso c’era qualcosa che da subito aveva attirato l’attenzione della fanciulla. Belle si chinò per raccogliere quello che riconobbe come il vecchio cappello di suo padre. Era davvero là dentro, non c’erano più dubbi.
  « Aspettami qui, hai capito? » disse a Philippe, il quale nitrì sommessamente guardandola con occhi intimoriti. Belle gli accarezzò il muso, poi varcò il portone ritrovandosi immersa nell’ingresso deserto e privo di luci.
  Prese un bel respirò e chiamò: « Papà? ».
  Le rispose la sua eco.
  Stringendo il cappello tra le mani, non indugiò oltre. Avanzò con cautela tra le stanze e i corridoi del castello, il puzzo di chiuso aleggiava ovunque, la pallida luce lunare penetrava dalle grandi finestre aiutandola a capire dove metteva i piedi. Trovò porte chiuse, sbirciò in quelle aperte, scrutò le stanze iniziando a chiedersi come fosse finito suo padre i un posto del genere e chi ce lo avesse portato. Sembrava disabitato da anni. Ragnatele pendevano dai lampadari, viaggiando da un quadro a un candelabro, sui corrimano, i tappeti erano impregnati di polvere. Belle registrò solo in parte tutte queste informazioni, chiamando e chiamando Maurice, non ricevendo risposta alcuna.
  Ad un tratto vide una luce. Un lumino tremolante ai piedi di una scala che non aveva ancora esplorato.
   « C’è qualcuno lì? ».
  Il lume tremolò ancora e poi sembrò allontanarsi.
  « No, aspettate, vi prego! Sto cercando mio padre! Per favore, aspettate! ».
  Belle corse su per una rampa di scale di pietra che girava attorno alla struttura di quella che si rivelò essere una torre. L’aria fredda la investì non appena si trovò sulla cima, in una stanza circolare dalle alte e strette finestre aperte sul cielo buio. Da una parte vi era solo nuda roccia, sull’altro lato spuntavano tre porticine di ferro con piccole griglie quadrate a fingere da visuale sul quella specie di carcere.
  « Non può essere » mormorò.
  La sua voce rimbalzò leggera sui muri. Decise di chiamare ancora, il cuore in petto che galoppava furioso.
  « C’è nessuno quassù? ».
  Le rispose una voce all’uguale disperata e felice. « Belle! Belle! ».
  « Papà! Oh, papà! ».
Il viso di Maurice spuntò dalla cella in mezzo, le braccia dell’uomo si sporsero attraverso le sbarre per afferrare le mani della figlia tra le proprie. Belle si precipitò da lui e gliele baciò.
  « Come sei arrivata qui? » domandò Maurice. La sua voce era affaticata.
  « Philippe è tornato a casa » rispose semplicemente la ragazza. Le spiegazioni potevano anche aspettare. Doveva tirarlo fuor di lì, anche a costo di buttare giù la porta della cella a calci. « Che cosa è accaduto? Chi ti ha fatto questo, perché? ».
  L’espressione sollevata sul viso di Maurice alla vista della figlia si trasformò in terrore.
  « No, no, non prenderà anche te. Fuggi, cara, svelta! ».
  « Che cosa dici? Non posso lasciarti ». Belle strinse di più le mani del padre. « Ti devo portare via, non permetterò che chiunque ti abbia rinchiuso qui la passi liscia ».
  « Non puoi ». Maurice scosse forte la testa, emettendo un colpo di tosse. Due giorni senza cibo combinati al freddo lo avevano fatto ammalare.
  « Tu non stai bene ».
  « Non ha importanza, adesso. Devi andartene subito. No, ascoltami! » esclamò l’uomo prima che lei potesse protestare. « Torna di corsa al villaggio, raduna gli uomini più forti. Da sola non puoi farcela ».
 « Ma chi è stato a rinchiuderti? Devi dirmelo, papà! ».
  Maurice stava per rivelarle la verità quando passi tonanti rivelarono qualcuno che saliva di corsa le scale della torre.
  « Scappa, bambina, scappa! » esclamò Maurice.
  La porta della torre sbatté con violenza. Lui gridò, Belle strillò in risposta e venne allontanata dal padre con violenza. Cozzò con la schiena contro la porta di ferro di una delle celle vuote, il dolore le mozzò il respiro per un attimo. Rialzato lo sguardo scorgendo un’ombra imponente, la luce della luna non riusciva ad illuminarla poiché essa si teneva lontano dalla essa, non voleva mostrarsi. Aveva qualcosa di umano ma la ragazza non era sicura che lo fosse del tutto. La sua voce fu qualcosa di spaventoso,  profonda come se provenisse dalla bocca dell’inferno. C’era qualcosa di animalesco in quel suono.
  « Chi sei? ».
  Belle deglutì più volte prima di riuscire a rispondere, la gola le si era seccata. « Sono la figlia di quest’uomo. E voi… voi chi…? ».
  « Io sono il padrone, qui » scandì con forza la figura nel buio.
  « Allora la prego, lasci andare mio padre ».
  « Non credo di potervi accontentare ». La voce vibro una risata, l’attimo dopo tornò cupa e accusatoria. «Vostro padre è entrato in casa mia come un ladro, è venuto spiare ».
  « Non ho fatto niente del genere, lo giuro! » esclamò Maurice in sua difesa.
  « Fa silenzio, vecchio! ».
  Belle si rialzò in piedi, sentendo montare la rabbia per il modo in cui quella figura ignota aveva trattato suo padre.
  « Lo avete rinchiuso qui solo perché è entrato in casa vostra? ».
  L’ombra avanzò di un passo, minacciosa. « Nessuno lascia questo posto una volta entrato. Chiunque mi veda non deve raccontarlo ».
  La ragazza avvertì un brivido gelido correrle lungo la schiena. « Se liberate mio padre, giuro che non racconteremo mai di questo luogo ad anima viva ».
  La voce di Belle tremò leggermente e la sua affermazione risultò più debole di quanto avrebbe voluto.
  « Sì, sì, giuro! » le venne in aiuto Maurice. « Non racconterò mai di voi, mai, a nessuno! ».
  La figura rise ancora, una risata senza allegria. « Le vostre preghiere sono inutili, fanciulla. Tornate da dove siete venuta prima che rinchiuda anche voi su questa torre ».
  « Perché non lo fate, allora? » lo sfidò Belle. Non seppe dove trovò il coraggio.
  « Voi non avete visto il mio volto » le rispose l’ombra. Il suo tono si era incupito maggiormente. « Vattene, prima che cambi idea ».
  Belle rimase immobile e in silenzio per lunghi secondi durane i quali la sua mente lavorò febbrilmente. Ci doveva essere un modo per convincere il padrone del castello a liberare suo padre, a lasciarli andare via…
  « Ascoltalo, bambina » la implorò Maurice. « Va via, te ne prego ».
  « No ». Belle si voltò verso di lui e gli accarezzò il volto attraverso le sbarre. « Non posso lasciarti qui, sono venuta per salvarti ». Diede le spalle a Maurice e fece un passo avanti. La luce della luna la investì in pieno. « Vi offro uno scambio » disse infine.
  L’ombra ebbe uno strano scatto, e se la ragazza avesse potuto scorgere il suo volto ne avrebbe visto dipinto puro stupore.
  « Pretendete di negoziare, fanciulla? Non sapete chi avete davanti ».
  « No, non lo so, ma ecco cosa vi propongo: lascerete andare mio padre e al suo posto prenderete me ».
  Le parole le costarono fatica, soprattutto quando Maurice gridò le sue vive proteste.
  L’ombra era tornata immobile.
  La Bestia non si era reso conto fino a quell’istante della possibilità che gli si presentava dinnanzi. Fu pronto a deridere la sua scelta ma la consapevolezza esplose davanti a lui come una fiammella, debole, seppur reale. La ragazza si offriva spontaneamente come prigioniera al posto del padre.
  « Voi non sapete ciò che dite ».
  Belle strinse le mani una nell’altra per darsi coraggio. « Non sto scherzando, so bene quello che faccio. Ma voi giurate di liberare mio padre ».
  Un gesto nobile pur se avventato, folle, ma quel gesto aprì uno spiraglio nella coltre oscura che avvolgeva il futuro del principe. C’erano pochissime, quasi nulle possibilità, ma non aveva nulla da perdere.
  Senza rendersene conto, la Bestia fece un passo verso la ragazza.
  « Lo fareste veramente? ».
  « Non ritiro mai ciò che dico ».
  La risolutezza negli occhi scuri di lei lo convinsero. « Dovrete promettere che rimarrete qui per sempre. Avete capito? Per sempre. Sconterete la colpa di vostro padre ».
  Belle annuì. Certo che avrebbe promesso, ne andava della vita di suo padre che ora piangeva sommessamente alle sue spalle. « Lo farò, giurerò ma… prima voglio vedere il vostro volto ».
  L’ombra indietreggiò, resasi conto di essersi avvicinata troppo al fascio di luce argenta. « Non è necessario che mi vediate in faccia ».
  Il viso di Belle si indurì, così la sua voce. « Voglio vedere il motivo per il quale mio padre è stato incarcerato. Voglio vedere per cosa sto cedendo la mia libertà ».
  « No ».
  « Per favore. Venite sotto la luce ».
  Fu il ‘per favore’ a riscuotere il principe, insieme allo sguardo triste disegnatosi sul bel volto della fanciulla. Senza una parola avanzò piano nel fascio di luce, vide gli occhi di lei spalancarsi dal terrore, un grido le morì in gola.
  Belle lo fissò ammutolita, troppo terrorizzata da due occhi stretti in uno sguardo penetrante, nero come un pozzo di oscurità. L’intero copro era ricoperto di una folta pelliccia bruna, indossava abiti laceri, unica parvenza di normalità nella figura gigantesca che di umano aveva soltanto la voce, o forse neppure. Lo sguardò di lei indugiò sulle quattro zampe, enormi, ricoperte di artigli. Si reggeva su quelle posteriori, ergendosi in tutta la sua altezza, ma era certa che se avesse camminato a quattro zampe l’effetto sarebbe stato ancor più terribile. E il volto… oh, quel volto! Ferino, semiumano, la bocca spaventosa dotata di zanne acuminate, quel volto sormontato da due orrende corna simili a quelle di un demonio, incurvate sopra la testa.
  Ed adesso, Belle seppe che le leggende erano vere.
  Era la creatura di cui le aveva raccontato suo padre quando era piccola, che tanti viaggiatori dicevano di aver solo intravisto. La creatura che viveva nel cuore della foresta, ed era lì, davanti a lei, e lei aveva accettato di essere sua prigioniera per sempre.

 

 
 
* E' il cognome della famiglia di Belle nell'adattamento cinematografico del 2014.



 - Angolo di Susan -
Questo capitolo è stato un parto, non per la difficoltà nel scriverlo quanto per il pochissimo tempo a disposizione. Purtroppo o per fortuna, credo che dalle prossime settimane avrò più possibilità di aggiornare velocemente dato che, a quanto pare, la mia capa ha deciso di lasciarmi a casa. Per la serie ‘mai una gioia’. Vedremo come andrà a finire…
Anyway, un capitolo bello lunghetto, spero non vi abbia annoiato. Belle ha incontrato la Bestia, siete contenti? So che molti aspettavano questo momento. L’altra volta avevo detto di non essere convinta di inserire dialoghi simili a quelli del film, di fatti stavolta ho dato libertà alla mia testa, cercando di distaccarmi completamente dalla storia originale pur seguendone le dinamiche.  La prossima volta inizierò a narrarvi la convivenza dei nostri protagonisti, dove darò ancor più largo spazio alla mia immaginazione.
 
Ringrazio le persone che hanno inserito la fanfiction tra le preferite/seguite e chi ha recensito gli scorsi capitoli:
Sempreverde03, marusk, Joy Barnes, JessAndrea, Aly_Effe, sole13, ChibiRoby, VelenoDolce.

Un bacio a tutti e Buona Pasqua!
Susan.

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Capitolo 4
*** 3. Prigioniera ***


Capitolo 4.
Prigioniera
  
 
 
La ragazza aveva accettato, contro ogni logica. Benjamin rimase a fissarla negli occhi per un solo, lungo istante. Lei lo fissava a sua volta benché tremasse di paura. Era una ragazza coraggiosa.
  « Resterò » dichiarò infine.
 « Ricordate di aver promesso » le disse il principe prima di sorpassarla e aprire la porta della cella dov’era rinchiuso il vecchio.
  Maurice venne afferrato dalla creatura e cercò di dimenarsi, chiamando il nome di Belle, pregando la bestia di non farle del male.
  « Papà! » gridò la fanciulla, cercando di raggiungerlo. Tese le mani, che non raggiunsero mai quelle del padre. « Aspettate, vi prego! Aspettate! »
  La creatura la spinse indietro ed ella ricadde a terra pavimento sudicio e freddo.
  « Non fatelo, non fatelo! » gridava di rimando Maurice.
  Benjamin non prestò attenzione a nessuna preghiera, aprì la porta della torre e la richiuse dietro di sé, facendo scattare la serratura per chiudevi dentro la ragazza. Discese in fretta le scale, trascinandosi dietro il vecchio che tentava di liberarsi invano dalla sua presa. Dalla cima delle scale giungevano le grida della ragazza, i colpi dei suoi pugni sulla porta sbarrata, suoni che svanirono nel silenzio a mano a mano che si allontanava dalla torre.
Maurice piagnucolava e inciampava ad ogni passo, quasi un peso morto che rimaneva in piedi per puro riflesso, perché in fondo sapeva che doveva seguire quella mostruosa creatura, che ormai la sua Isabelle era perduta.
  Quando passarono nel corridoio dove si trovava il salotto in cui era stato fatto accomodare Maurice, tre teste sbucarono dall’uscio per spiare: Tockins, Lumiere e Mrs. Bric osservarono il loro signore trascinare via il buon vecchietto che si erano prodigati di ospitare.
  Benjamin spalancò il portone d’ingresso, discendendo le scale verso il cortile immerso nell’oscurità della sera. Mentre il vecchio seguitava con la sua fastidiosa litania, chiamò un cocchiere che arrivò trottando sotto forma di una bella carrozza scura, aprì lo sportello e vi caricò sopra l’uomo senza troppe cerimonie.
   Maurice era troppo disperato per interessarsi al fatto che la carrozza si sarebbe mossa da sola, senza cavalcatura alcuna a trascinarla.
  « Vi prego, non fate del male alla mia bambina! » implorò, il viso bagnato di lacrime.
  « Si è offerta spontaneamente. La colpa è più sua che mia ».
  Maurice si accasciò sul sedile. « Come potete essere così crudele, come potete... ? ».
La Bestia posò una delle sue grosse zampe sullo sportello facendo trasalire Maurice, il quale smise subito di lamentarsi, gli occhi che indugiavano spaventati sugli artigli.
  « Dovresti esserle grato » ringhiò Benjamin. « Non avresti resistito a lungo in quella cella, te l’assicuro, ma lei sembra più forte di te, perciò ho accettato la sua proposta ».
  « Perché non potete lasciarci andare entrambi? » si arrischiò Maurice, tremando sotto quello sguardo malvagio.
  « Perché mi avete visto ».
  « Non lo dirò. Non parlerò ». Maurice scosse il capo, prima piano poi sempre più forte. « Non diremo niente, non lo racconteremo!».
  Gli occhi neri della creatura dardeggiarono come lampi oscuri. « Tu non lo racconterai. Bada, se dovessi parlare di ciò che hai visto stanotte in questo castello lo verrò a sapere. Starò allerta nei prossimi giorni, e se dovesse presentarsi un altro intruso allora sta certo che tua figlia morirà prima di te ».
  Maurice gemette qualcosa di incomprensibile.
  « Poi verrò a cercarti, e taglierò la gola anche a te » proseguì il principe, inesorabile. « Rammenta bene la mia faccia. E adesso dimenticala ».
  La Bestia chiuse lo sportello con un tonfo, e mentre la carrozza portava Maurice via dal castello, egli piangeva la sorte della sua unica figlia. Non c'era niente che potesse tentare. Lei si era offerta al posto suo e la Bestia non l’avrebbe restituita. Sapeva che parlava sul serio, che li avrebbe uccisi entrambi se lui, Maurice, avesse cantato. Avrebbe voluto avvisare gli uomini più forti del villaggio, farli accorrere in aiuto della sua bella bambina, ma non poteva farlo. Si erano imbattuti in un segreto troppo grande.
  La carrozza uscì dal cancello e si immerse negli alberi della foresta. Dall’alto della torre, Belle si era affacciata a una delle finestre aperte sul cielo, seguendo con lo sguardo la sagoma nera del veicolo – che si muoveva apparentemente senza alcun conducente – sul quale aveva visto salire suo padre. Non lo avrebbe mai più rivisto. Il pensiero le spezzò il cuore. Diede le spalle al cielo, accasciandosi contro la dura parete della torre, scivolando a terra abbracciandosi le gambe. Non riusciva nemmeno a piangere tanta era la confusione che provava in quel momento. Forse era solo un incubo.  
  Che cosa aveva fatto? Si era data in ostaggio a un mostro invece di portar via suo padre. Aveva capito di dover lottare per salvarlo quando lo aveva visto rinchiuso in quella cella, ma non poteva immaginare chi fosse in realtà il carceriere. Come avrebbe potuto combattere contro una creatura simile? A una bestia?
  Passò molto tempo, forse delle ore, Belle rimase rannicchiata contro il muro tremando, dando sfogo alle lacrime esplose contro la sua volontà. Poi udì un tonfo lontano, passi pesanti avvicinarsi sempre più. Attese con i nervi tesi che quel mostro ricomparisse sulla Torre. Trasalì quando il chiavistello cigolò e vide l’alta figura terrificante ricomparire sulla soglia, dove si fermò. Reggeva tra gli artigli un piccolo candelabro dorato. Belle non sapeva cosa sarebbe successo da quel momento in poi, tuttavia decise che non avrebbe abbassato gli occhi davanti a quell’essere che le stava rubando la vita e aveva minacciato quella di suo padre. Trattenne le lacrime che, prepotenti, avevano rigato il suo volto fino a un istante prima.
  « Dove avete portato mio padre? ». La sua voce era appena incrinata.
  « Vostro padre starà bene, l’ho rimandato al villaggio » rispose la creatura con freddezza impossibile.
  Belle si morse le labbra, ricacciando in gola un singulto. « Non lo rivedrò mai più, vero? ».
  « Siete stata voi a scegliere ».
  La ragazza abbassò lo sguardo, le spalle scosse da un brivido di dolore. Non lo avrebbe rivisto in ogni caso, non era possibile tornare indietro dopo aver visto il diavolo in volto. Era preferibile saperlo al sicuro anche senza possibilità di rivederlo, piuttosto che lasciarlo in balia di quel mostro. Avrebbe solo voluto dirgli addio, dirgli che gli voleva bene per l’ ultima volta.
  « Alzatevi » disse poi la creatura.
  Belle aprì gli occhi e tornò a guardarlo. Lui aspettava sulla soglia della torre, una zampa mostruosa posata sulla porta come se aspettasse che lei lo raggiungesse.
  « Cosa? » esalò, sorpresa, obbedendo suo malgrado a quella richiesta. Si alzò rimanendo con la schiena incollata alla parete.
  « Scendete » ordinò lui, brusco. « O volete restare quassù tutta la notte? ».
  « Certo che no! ». Belle fece qualche rapido passo verso di lui, bloccandosi di colpo. Non voleva stargli vicino.
  Benjamin colse nel suo gesto la ripugnanza nei suoi confronti, così le diede la spalle e la precedette lungo le scale. La ragazza lo seguì pur mantenendo una certa distanza.
  Attraversarono corridoi bui, altri semi illuminati, Belle si guardava attorno, incuriosita nonostante la paura. Quel luogo trasudava mistero da ogni angolo, e il fatto che fosse anche molto trascurato non giovava al suo aspetto già di per sé lugubre. Percepì di nuovo quel gelo che l’aveva sopraffatta sulla soglia del castello e un pensiero forse incoerente affiorò alla sua mente: immaginò che doveva essere accaduto qualcosa di terribile tra quelle mura.
  Benjamin, davanti a lei, le lanciava di tanto in tanto un’occhiata per essere certo che lo stesse seguendo. Ancora non si capacitava di quanto era accaduto. Certo era stata una fortuna che la ragazza avesse deciso di sua sponte, senza che lui insistesse, di vendere la libertà per quella del genitore. Benjamin non aveva mai sperato in nulla di simile, ormai le sue speranze si erano totalmente esaurite. Ed ora ecco che si preparava a condividere l’esistenza con una giovane fanciulla apparsa dal nulla, come per magia. Non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto davvero di lei, come comportarsi, cosa dirle. Lei avrebbe potuto essere la chiave per spezzare le catene del maleficio della Fata della Rosa, ma come? La fata aveva chiaramente detto – lo ricordava come fosse quell’istante – che solo l’amore poteva salvarlo, doveva imparare ad amare e farsi amare a sua volta. Utopia. Ecco come avrebbe riassunto quel concetto di amore. Un’ utopia, una chimera. La fanciulla provava ribrezzo per lui, lo aveva visto stampato sul suo volto.
  La guidò fino al secondo piano in totale silenzio. Aprì una porta chiusa a chiave e si spostò per farla passare.
  « La vostra camera ». Si rese conto di non sapere neanche il suo nome. Il vecchio l’aveva chiamata Belle…
  Lei rimase ferma sulla soglia. « Credevo mi avreste lasciato sulla torre », disse senza guardarlo.
  Di nuovo, Benjamin capì che lo faceva per non essere costretta a vedere il suo volto mostruoso e questo lo irritò.
  « Non è mia intenzione farmi morire di freddo e di fame ».
  Lei ebbe appena un fremito delle labbra, come fosse intenzionata ribattere, ma cambiò idea all’ultimo momento. Benjamin si soffermò un istante a guardare il suo profilo e formulò un solo pensiero con cui poteva esprimere una giusta definizione di lei: era bella. E lui un mostro.
  « Allora, grazie » balbettò la fanciulla, entrando nella stanza. Un paio di lumi erano stati accesi e si chiese se la creatura poteva aver avuto quella premura per lei.
  « Se avete fame, tirate il cordone accanto al letto, la servitù risponderà e verrà da voi » proseguì il principe in tono freddo.  Lei annuì. « Se volete cambiarvi e lavarvi, l’armadio contiene alcuni abiti che credo possiate trovare confortevoli e il bagno è dietro quella porta in fondo alla stanza ».
Belle annuì di nuovo.
  « Non andate in giro senza permesso. Non uscite da questa stanza. Sono stato chiaro? »
  « Sì ».
  I due si scambiarono il primo vero sguardo. Poi, rapidamente, Benjamin chiuse la porta e girò di nuovo la chiave nella toppa. Tockins aveva il doppione di tutte le serrature, avrebbe saputo come aprire in caso di necessità.
Una volta sola, Belle si gettò sul grande letto e non si trattenne più, piangendo tutte le sue lacrime. Tutti i suoi sogni di libertà erano infranti. Non aveva voluto sposare Gaston perché l’avrebbe condannata a una vita di sciocche norme e regole che per lei non valevano nulla, e adesso si era fatta spontaneamente prigioniera della creatura più orrenda della terra, gettando via deliberamene la sua vita e la sua libertà.
 
 
  Non mangiò ma dormì profondamente fino al mattino seguente. Si ritrovò distesa su quel letto quasi nell’esatta posizione della sera prima. Aveva ancora indosso l’abito azzurro sgualcito dall’avventura appena trascorsa. Non l’aveva svegliata il sole ma un rumore insistente proveniente dalla porta. Dovevano essere i servitori di cui lui le aveva parlato. Si alzò e nel percorrere il breve tragitto dal letto alla porta scorse il proprio riflesso nello specchio appeso alla parete. Aveva un aspetto orribile! I capelli in disordine, la faccia visibilmente segnata dalle lacrime, e che occhiaie!
  « Madmoiselle, siete sveglia? » fece una voce gentile da dietro l’uscio. Decisamente non era lui.
  « Sì, un momento ». Belle si pizzicò le guance per svegliarsi meglio e cancellare il pallore, cercando di riavviare anche la coda di cavallo. Poi si ricordò che la pota era chiusa a chiave. « Mi dispiace, non posso aprire. Sono chiusa dentro ».
  « Nessun problema, nessun problema » disse sbrigativa la voce.
  « Piano Tockins, mi stai mettendo un piede in un occhio! » fece un’altra voce più squillante.
  « Sta fermo, Lumiere, altrimenti non riesco ad aprire ». Si udì un breve tramestio, seguito il rumore inconfondibile di una chiave che gira nella toppa.
  Belle non vide subito chi era entrato, sentì solamente dei passettini attutiti dal tappeto. Poi li vide: un candelabro e una pendola le sorridevano dal basso, esibendosi in un garbato inchino.
  La ragazza indietreggiò istintivamente. « Che… che cosa...? ». Non era bello dir loro ‘che cosa siete’ , ma non le venne proprio in mente nient’altro, così si limitò a rispondere ai sorrisi a lei rivolti.
  « Non abbiate paura, madmoiselle, non avete nulla da temere » disse la pendola. « Mi presento: io sono Tockins, il capo maggiordomo, responsabile sopra tutta la servitù del castello ».
  « P-piacere » rispose Belle con una riverenza accennata. Tutto questo era decisamente folle, molto più che nei libri che leggeva.
  « Io sono Loius Lumiere, enchanté » si presentò invece il candelabro, allungando una delle sue braccia dorate. Belle si inginocchio di modo che egli potesse prenderle la mano (e non la scottò con la fiammella) per potergliela baciare come un vero galantuomo.
  Belle non trattenne una risata incredula. « Quale magia è mai questa? ».
  « Magia? Nessuna magia! » esclamò Tockins, agitandosi. « Or dunque, madmoiselle… ».
  « Isabelle » lo interruppe Belle. « Mi chiamo Isabelle ».
  « Molto bene, madmoiselle Isabelle ».
  « Solo Isabelle, vi prego. O Belle, se preferite. Mio padre mi chiama sempre così ». Un velo di tristezza oscurò i begli occhi scuri della fanciulla.
  Lumiere e Tockins si scambiarono un’occhiata, a disagio. Pensava al padre e loro non potevano far nulla per impedirlo. Capivano quanto ella soffrisse, tuttavia dovevano perlomeno tentare di rendere il suo soggiorno al castello – o per meglio dire la sua prigionia – meno penoso di come potesse essere. Farle apprezzare il posto era il primo passo verso una più serena, o altrimenti impossibile, convivenza con il principe. Sua altezza aveva sempre detestato circondarsi di persone tristi e ciniche, a dispetto del suo tremendo carattere; la ragazza doveva mostrarsi, se non proprio allegra, perlomeno sorridente.
  « Non temete per vostro padre, mon cher » tentò di confortarla Lumiere, « il padrone potrà essere terribile ma non avrebbe mai fatto veramente del male a vostro padre ».
  Belle non rispose. Non credeva affatto a quelle parole.
  Tockins tossicchiò per poi cambiare rapidamente discorso. « Dunque, madmoiselle, avete dormito bene? ».
  « Sì, grazie. Siete molto premurosi ».
  « Sarà nostra premura, d’ora in avanti » continuò Tockins, « assicurarci che la vostra permanenza possa risultarvi il più gradevole possibile ».
  « Oh… certo ». Belle soffocò la protesta che minacciò di evadere dalle sue labbra. Gradevole? Come poteva trovare gradevole quel luogo?
  « Potremmo iniziare da una buna colazione » intervenne Lumiere. « Che cosa ne dite? ».
  « Bè, in effetti avrei un po’ fame » ammise la ragazza, ascoltando per la prima volta le proteste del suo stomaco.
  Il sorriso di Lumiere si allargò. « Molto bene! Tockins, vai a dire di mettere un coperto per madmoiselle Isabelle, io andrò a chiamare Spolverina per aiutarla a cambiarsi ».
  Tockins fece una smorfia contrariata. « Insomma, che cos’è questa novità che ti metti a dare ordini! Li do io gli ordini, qui ».
  « Lo so, ma tu non li dai! ».
  « Stavo per farlo! ».
  Suo malgrado, Belle si lasciò andare a un sorriso disteso.
  « Bene » riprese Tockins. « Ora, noi torneremo in cucina a  dire di mettere un coperto per voi, intanto manderò Spolverina per aiutarvi a cambiarvi ».
  « Quello che ho detto io » protestò Lumiere a bassa voce.
  Tockins lo sospinse verso la porta facendo un inchino a Belle. Lei li vide fare una cosa molto strana: arrivati sulla soglia, Lumiere si abbassò e Tockins fece per salirgli in groppa per abbassare la maniglia alla quale, altrimenti, non sarebbe potuto arrivare. Belle pensò che doveva essere molto faticoso mettere in atto questa manovra ogni volta che dovevano entrare ed uscire da una stanza.
  « Ecco fatto ».
  « Oh, vi ringrazio, madmoiselle Isabelle » disse Lumiere, tirando un sospiro. « Sapete, di solito non chiudiamo le porte a chiave ed è molto più semplice andare e venire da una stanza all’altra. Ma il padrone ieri sera ha ordinato che si dovevano chiudere le camere in cui… ».
 « Lumiere, andiamo! » lo interruppe svelto Tockins. « A dopo, madmoiselle », e detto ciò sgusciò in corridoio seguito dal candelabro. Una volta usciti, si udì di nuovo un breve tramestio e Belle capì che dovevano aver chiuso a chiave con lo stesso metodo.   Quel posto iniziava a diventare strano oltre che lugubre.
  E così, pensò, il padrone aveva ordinato di chiudere le camere… Naturale, era per lei, perché non uscisse, perché non andasse in giro per il castello. La sua sarebbe diventata una sorta di prigione dorata.
  Mise in pausa le preoccupazioni e la frustrazione per un po’, il suo corpo reclamava cibo, era dal pranzo del giorno prima che non metteva niente sotto i denti.
  Ricordò che il mostro – il padrone, come lo avevano chiamato Tockins e Lumiere – le aveva detto che poteva usufruire di un bagno e di vestiario. La prima cosa che fece fu andare verso il grande armadio di legno bianco e dare un’occhiata agli abiti. Quando aprì le ante rimase meravigliata da tanta bellezza: stoffe colorate, ricchi pizzi, ampie gonne, merletti; i cassetti erano colmi di biancheria pulita, e scarpette decorate. Da dove saltava fuori tutto ciò? Aveva creduto che il castello fosse disabitato, eccetto la bestia, ed ora i suoi bizzarri servitori. Doveva pensare che esisteva – o era esistita – una signora del maniero?
  « Se vi state chiedendo di chi sono questi abiti, ho la risposta » disse una voce all’improvviso.
  Belle fece un balzo indietro, andando a sbattere contro una poltroncina sistemata accanto al letto. L’armadio! L’armadio aveva parlato: sul legno decorato a fiorellini, appena sotto le maniglie, erano comparse labbra che ora le sorridevano, più due occhietti in cima alle ante. Se non avesse visto prima il candelabro e la pendola si sarebbe messa a urlare. I piccoli oggetti erano stati meno impressionanti di un mobile alto due metri. La voce apparteneva a un soggetto femminile, profonda, corposa.
  « Dato che mi avrete sempre qui, tanto vale presentarsi, no? » disse l’armadio. « Potete chiamarmi  Madame Armoire. E voi siete?».
  « I-Isabelle » balbettò la fanciulla, ancora immobile accanto alla poltroncina. « Ma preferisco Belle ».
  « Molto bene, mia cara, allora per me sarete Belle. Tra donne ci intenderemo alla grande ». Madame Armoire spalancò le ante per benino, di modo che tutti gli abiti fossero in vista. « Dunque, vediamo: abbiamo un bell’assortimento qui, non è vero? Personalmente, oltre ad essere un eccellente cantante lirica, ho la presunzione di dichiarare il mio ottimo gusto in materia d’abbigliamento ». Madame alzò gli occhi sulla ragazza. « Suvvia, non avrete paura di me, vero? Venite avanti! ».
  Belle fu riscossa da quella vociona, dai cigolii delle ante, e dal leggermente sinistro scricchiolare del legno mentre si muoveva.
  Bussarono alla porta e una nuova vocina disse: « Madmoiselle, Spolverina è qui ».
  « Aprite, aprite! » esclamò Madame Armoire, emozionata. « Ora sì che ci divertiremo! ».
  Spolverina era un bel piumino per la polvere, davvero graziosa a vedersi con le vaporose piume color caffè somiglianti a un’ampia gonna, il manico snello che formava la parte superiore del corpo, sopra il quale portava una cuffietta da cameriera a misura di una bambola.
  « Sarò la cameriera personale di madmoiselle » assicurò.
  « Non ho bisogno di cameriere, so fare tutto da sola » protestò gentilmente Belle, che si sentiva tanto la protagonista di una fiaba male assortita.
  « No, no, il padrone ha disposto così ».
  « Il padrone? ». Il mostro aveva davvero ordinato che lei avesse una stanza tutta per sé, un armadio pieni di abiti e una cameriera personale? Impossibile. Che prigionia era quella?
  « Proprio lui » annuì Spolverina. « Vi preparo il bagno intanto che scegliete cosa indossare ».
  Non vi fu possibilità di replica: saltellando, Spolverina era già alla porta che conduceva alla stanza da bagno.
  « Molto bene, occupiamoci di voi » canterellò Madame Armoire, sputò fuori dal suo interno decine di abiti e scarpe, lanciandoli letteralmente sul letto, obbligando la ragazza a provarli tutti. Ci volle una buona mezz’ora per accontentare Madame Armoire, e Belle stava svenendo dalla fame e Spolverina scalpitava perché ‘madmoiselle’ doveva ancora lavarsi.
  « Non può scendere a far colazione senza aver fatto il bagno! ».
  « Non può nemmeno scendere senza un abito decente indosso » rimbeccò Madame Armoire.
  « Questo è vero » convenne Spolverina con un sospiro.
  « Cos’avete contro il mio vestito? » chiese Belle, incastrata dentro un corsetto troppo stretto. Il suo abito azzurro era appeso alla spalliera della poltroncina, sgualcito e impolverato. Non dava il meglio di sé in quelle condizioni, doveva ammetterlo, ma non era così tremendo. « Sono sempre vissuta in campagna » si giustificò, notando lo sguardo dubbioso che Madame e Spolverina si scambiarono.
  « Davvero? Bè, questo spiega molte cose » ridacchiò Armoire, ma senza cattiveria. « Magari con una ripulita… ».
  « Ci penso io! » disse prontamente Spolverina. « Lo porto subito giù in lavanderia. Vedrete, tornerà come nuovo! ».
  Belle stava per chiedere come avrebbe fatto a trasportarlo visto che era sprovvista di braccia con le quali afferrarlo, ma a quanto pare Spolverina sapeva il fatto suo. Saltò sulla poltrona, saltò dentro il vestito e veleggiò verso la porta con la stoffa azzurra che le svolazzava attorno, facendola somigliare a un piccolo, assurdo fantasma con un mantello troppo grande.
  Quando finalmente Madame Armoire fu soddisfatta, Belle si ritrovò fasciata in un comodo ma elegantissimo abito verde smeraldo con il corpetto ricamato di tante piccole pietruzze scintillanti.  Lumiere tornò  a prenderla e la scortò in sala da pranzo, un grande salone con un monumentale camino di pietra dorata sovrastato da un busto rappresentante re Enrico IV, le molte finestre drappeggiate da tendaggi rossi, mobili di rovere e con un lunghissimo tavolo rettangolare il quale avrebbe potuto ospitare una ventina di commensali, forse di più. C’era però una nota scordata che capeggiava sulla bella mobilia: le pareti e il soffitto erano ricoperte da uno spesso strato di rampicanti che parevano cresciuti spontaneamente, per qualche magico volere, dentro le mura. Si poteva credere fosse un bizzarro decoro,  ma dopo una più attenta ispezione, Belle ebbe la conferma che erano proprio rampicanti veri. La cosa  più curiosa era che luccicavano lievemente.
  Belle fu fatta accomodare al centro della tavolata, le spalle al camino. A servire il pasto furono cinque camerieri trasfigurati nei più disparati oggetti da cucina, capeggiati da una bella teiera di ceramica bianca abbellita con forellini lilla. Ovviamente, come la maggior parte degli oggetti del castello, parlava e si muoveva.
  « Mrs. Bric, al vostro servizio, cara » si presentò affabilmente. Dietro di lei sbucò una tazzina sbeccata, che sorrise timidamente alla ragazza.
  « E così sei tu la nostra ospite » disse.  Ciao, io sono Chicco. E tu? »
   Belle ricambiò il sorriso.  Essere definita ospite era un eufemismo bello e buono.  Tuttavia non se la sentì di guastare il buonumore di quelli che, con tutta probabilità, sarebbero stati i suoi unici seppur strani amici per molto, moltissimo tempo. Per sempre.
  « Mi chiamo Isabelle, ma tu, se vuoi, puoi chiamarmi Belle ».
  Chicco studiò il suo viso, annuendo. «Belle… Sì, ti si addice. Sei proprio bella, lo sai? Vero che lo è, mamma? ».
  « E’ vero » convenne Mrs. Bric, « ora però non seccare la nostra ospite con le tue domande e lasciala mangiare ».
  Chicco mise su un leggero broncio per via del rimprovero materno, ma si si riprese in fretta e ricominciò a tempestare Belle con domande di ogni genere, alle quali lei rispose volentieri tra un boccone e un sorso di tè.
  Era la colazione più buona che la ragazza avesse mai consumato in vita sua, così abbondante che dovette gentilmente insistere perché i camerieri cessassero di riempirle continuamente il piatto di nuove vivande. L’allegra compagnia di Mrs. Bric e Chicco, rimasti con lei in sala da pranzo, le fece dimenticare per un po’ la sua condizione da prigioniera. Era davvero piacevole discorrere con quelle strane figurette, erano tutti così gentili con lei!
  A metà del pasto, il suo sguardo vagò lungo la tavolata vuota e spontanea sorse la domanda.
 « Lui non mangia con noi? ».
 Mrs. Bric si scambiò uno sguardo ansioso con un porta tovaglioli d’argento.
 « Con lui, intendete il padrone? ».
 « Sì ». Belle posò coltello e forchetta. « Credevo… ».
  Non sapeva esattamente cosa credeva. Immaginava che una creatura simile non sedesse compostamente a tavola come una persona ‘normale’. La fantasia non faticava a rimandarle l’immagine di quella bestia in giro per la foresta a cacciare prede per i suoi pasti.
  Dopo un’accurata scelta delle parole per esporre la faccenda, Mrs. Bric spiegò: « Ecco, il padrone talvolta mangia… ehm, fuori ».
« Vuol dire che lui va a caccia » aggiunse Chicco, digrignando i denti nell’imitazione di un ruggito, imitazione che sua madre censurò con un altro rimprovero.
  Belle rabbrividì nonostante trovasse la cosa piuttosto normale. Normale per quella strana realtà con cui era venuta in contatto.
  Alla fine del pasto si aspettò di essere di nuovo scortata in camera sua, ma in quella giunse Tockins. Il maggiordomo aveva un’aria molto seria e si stropicciava nervosamente le lancette del quadrante.
  « Madmoiselle Isabelle, il padrone desidera parlarvi » annunciò, mentre la lancetta dei minuti scattava come in preda a un tic nervoso.
  Chicco esalò un respiro troppo forte e guardò Belle, la quale tentò di non scomporsi troppo; si alzò da tavola, ringraziò Mrs. Bric e Chicco e seguì Tockins in silenzio lungo il corridoi.
  « Non la mangerà, vero mamma? » chiese tremante il piccolo Chicco.
  « Certo che no, tesoro! » esclamò inorridita Mrs. Bric. « Sua altezza è un essere umano a dispetto della sua attuale forma ».
  « E se invece la mangiasse? ».
  « Suvvia, smettila di dire sciocchezze! Belle è qui per salvarci tutti, ricordalo ».
  Chicco annuì, non troppo convinto. Ricordava assai poco com’era il principe prima della trasformazione, perciò lo giudicava un uomo cattivo e pericoloso.
  Dopotutto, Benjamin non aveva alcuna intenzione di far del male a Isabelle, tantomeno di mangiarla. Vero però che il primo vero dialogo tra i due non fu dei migliori.
  Tockins scortò la fanciulla al primo piano, dentro uno dei tanti salotti. Anche qui, ella vide gli strani rampicanti che aveva notato nella sala da pranzo. Non arrivavano al soffitto ma ricoprivano quasi interamente le pareti e i mobili accostati ad esse. La curiosità di domandare cosa mai fossero quelle propaggini così fuori luogo in una stanza chiusa le venne meno quando, da una porta adiacente, fece il suo ingresso la creatura. Alla luce del giorno era ancora più spaventosa. Nonostante ciò, Belle non poteva fare a meno di fissarlo e registrare ogni singolo dettaglio del suo essere. Pensò che se si abituava in fretta a lui, non avrebbe più avuto l’impulso di fuggire ogni qualvolta avesse varcato l’ingresso di una stanza.
  Allo stesso modo, anche Benjamin appuntò mentalmente qualcosa di lei. La fronte contratta, la studiò per alcuni momenti, in silenzio: la postura diritta evidenziava la tensione, le mani stringevano la stoffa dell’abito, quasi dovesse farlo per aggrapparsi a qualcosa che la trattenesse dalla tentazione di allontanarsi da lui. Era coraggiosa, in ogni modo, poiché non rifiutava il confronto e cercava di non mostrare la paura e la repulsione. L’espressione di lei era quasi impassibile. Quasi. E di nuovo, per quanto comprendesse di possedere un aspetto ripugnante, Benjamin provò irritazione nel vedere la conferma dipinta sul volto di lei. Lei che era bella e non doveva nascondersi dal mondo, che poteva andare in giro a testa alta, uscire alla luce del sole quando lo desiderava. Bene, non sarebbe più stato così. Il pensiero di rinchiuderla dentro il castello gli diede una sorta di conforto.
  « Grazie, Tockins, puoi andare ».
  Il maggiordomo piegò il capo, indietreggiando vero la porta. Le lancette del quadrante avevano ricominciato a vibrare fenetiche. Non pensava fosse una buona idea lasciarli soli ma non si era mai sognato, nei tanti anni di servizio presso la famiglia reale, di venir meno a un ordine del suo signore.
  « Bene » esordì il principe, « vi ho fatta venire perché desidero chiarire alcune cose con voi riguardo la vostra permanenza qui ». Si arrestò, la guardò. Lei rimaneva sempre immobile accanto alla porta. Solo un cenno del suo capo gli fece intendere che lo stava ascoltando attentamente.
 « E’ mio desiderio che usufruiate di ogni camera, salotto e galleria di questo castello come fosse vostro ».
 « Pensavo… » lo interruppe lei. Si fermò a un’occhiata contrariata della creatura. Si schiarì la voce e riprovò un po’ più forte. «Pensavo di non poter uscire dalla mia stanza ».
  « Cosa ve lo ha fatto pensare? ».
  « Mi ci avete rinchiusa ». Fu lì lì per dire che, appena un’ora prima, Lumiere si erano fatto sfuggire che lui aveva ordinato di chiudere le camere del castello, non ultima la sua. Sottointeso era il perché, comunque intuibile.
  « Si è ritenuto necessario » tagliò corto Benjamin.
  « Pensavate potessi derubarvi? » domandò, indignata.
  « Potevate »
  « Come osate insinuarlo! »
  « Non insinuo, sospetto, e ne ho il pieno dritto dato che non ho la minima idea di chi voi siate ».
  Uno davanti all’altra si scrutarono, torvi.
  « Volevate dire qualcos’altro? » chiese Benjamin, notando il modo in cui aveva appena aperto la bocca per richiuderla subito e mordersi le labbra, come per trattenere le parole.
  « No » mentì Belle. Ripensandoci, non voleva mettere nei guai il povero candelabro, che con lei era stato tanto gentile, perciò rinunciò a parlare.
 « Allora lasciatemi continuare e non interrompetemi più ». Benjamin iniziò a misurare a grandi passi il salotto. « Ricordate che avete accettato volontariamente di essere mia prigioniera, perciò le vostre lamentele sono totalmente fuori luogo, madmoiselle. Purtuttavia, non voglio che restiate segregata in una stanza per tutta la vita. Ecco perché mi sono consultato col mio maggiordomo e ho deciso di stilare alcune regole che, mi auguro, siano di vostro gradimento ».
  « Regole? ».
  « Regole ». Benjamin si fermò di fronte a lei. « Se le rispetterete, non vi chiuderò più nella vostra stanza ».
  La proposta a Belle parve buona. Non avrebbe resistito chiusa tra le quattro pareti di una stanza, per quanto spaziosa. Era cresciuta in campagna e odiava restare segregata in casa. Così, ascoltò con attenzione senza più interrompere.
  « Avrete l’intero castello a vostra disposizione, potete uscire in giardino e passeggiare con il vostro cavallo – a proposito, si trova nella stalla, ho provveduto a farlo nutrire. Ovviamente ci saranno degli orari da rispettare per quanto riguarda i pasti, la puntualità è una cosa a cui ho sempre tenuto molto. Potete coricarvi quando lo desiderate, ma ricordate che al mattino dovrete essere in piedi per la colazione, alle otto, il pranzo viene servito a mezzogiorno in punto, si cena alle sette e mezza. Di qualunque cosa abbiate bisogno, come ho già detto, la chiederete ai domestici. Siete libera di occupare il vostro tempo come più vi aggrada, ricamando, passeggiando, dipingendo se lo preferite, oppure nella sala della musica, o ancora in biblioteca, se vi piace leggere ».
 « Adoro leggere! »
 « Molto bene. Vi consiglio di stare lontana dalla serra, le travi del soffitto sono cedute a causa della troppa neve che si è depositata sul tetto lo scorso inverno e stanno cedendo. Preferirei anche che non vi addentraste nelle cantine, sono piene di topi. Per il resto, avete libero accesso a tutte le ale del castello, eccetto l’ala ovest: da quelle parti vi è vietato andare ».
 « Perché? ».
  Benjamin la fissò minaccioso. « Perché lo dico io. E’ la regola fondamentale. Siete mia prigioniera dopotutto, perciò vi conviene obbedirmi. State lontana da quelle stanze o ne risponderete a me. Avete capito tutto? ».
  « Sì » scandì Belle, stringendo ancora le labbra. La sua mente lavorava già sui mille misteri che dovevano celarsi nell’ala ovest. « Grazie per aver dato da mangiare al mio cavallo ».
  Benjamin non rispose. Senza aggiungere altro, fece per andarsene.
  « Posso farvi una domanda? » lo fermò Belle.
  Benjamin si voltò lentamente. « Suppongo di sì »
  « Come vi devo chiamare? ».
  Fu stupito da quella domanda. Ora che ci pensava, nemmeno lui conosceva il suo nome.
 « Potete chiamarmi semplicemente signore ».
 Belle rimase delusa da quella risposta. « Non avete un nome? » chiese, incredula. Ma certo che l’aveva, solo non voleva rivelarlo.
 « A voi non deve importare se ho un nome o no » riprese lui, acido.
 « Volevo soltanto… »
 « Imparate a fare meno domande, fanciulla e tenete a mente quest’altra regola: non gradisco la gente ficchi il naso nei miei affari ».  Lui le rivolse uno sguardo penetrante sotto il quale si sentì intimorita più che mai.
 « Non volevo dire nulla sul vostro conto e non volevo farmi gli affari vostri » si affrettò a dire Belle. « Ero semplicemente curiosa di sapere il vostro nome. Solo questo ».
 Un sinistro ringhio sommesso uscì dala gola della Bestia. «  Potete chiamarmi come più vi aggrada. Magari bestia, come fanno tutti quanti »
 « Tutti chi? ».
 Lui fece una risatina. « Tutti quelli che mi vedono e credono di aver sognato. Quelli che, come vostro padre, hanno avuto la sfortuna di incrociarmi sul loro cammino. La Bestia… così mi chiamano. La bestia della foresta, il mostro, la creatura, come preferite ». Ghignò, motteggiando un inchino.
  Belle non sapeva se le stava dicendo quelle cose per spaventarla, certo era che diverse persone avevano raccontato strane storie e lei, da bambina, aveva creduto ai racconti.
  « Allora, vi chiamerò signore » disse infine. Le sembrava l’appellativo più cortese, sebbene al suo spetto non si addicesse affatto. Pensò che bestia sarebbe davvero stato un nomignolo perfetto ma non si sentiva così temerarietà da chiamarlo a quel modo. Anche se in cuor suo, d’ora in avanti, lo avrebbe apostrofato così.
  Si fissarono ancora qualche secondo, poi lui le passò accanto e aprì la porta per uscire. Belle rimase immobile, benché non avrebbe voluto essergli tanto vicino..
  Benjamin lottò per un momento contro la voglia di allontanarsi dalla commiserazione e il terrore che albergavano nello sguardo della ragazza, e allo stesso tempo contro la curiosità.
 « E voi, madmoiselle? Qual è il vostro nome? » domandò alla fine.
  La fanciulla alzò il capo e incrociò gli occhi neri della Bestia. Non erano più ostili, non la guardavano con alterigia, erano tristi, tormentati.
 « Isabelle » rispose a fil di voce.
 « Avete un bel nome ». Bello come tutto il resto, pensò Benjamin. Poi uscì dalla stanza, lasciando Belle sola e confusa.
 



-Angolino di Susan- 
Sono tornata con questa fanfiction! Mi scuso per la lentezza con cui aggiorno ma come al solito sono presa col lavoro. Ben venga l’influenza volte, che mi dà il tempo di postare (tanto, se domani mi è passata, me ne torno a lavorare...).
Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che inizia la convivenza dei protagonisti. Benjamin stilla delle regole non troppo ferree per Belle, ma a lei le regole non piacciono molto, perciò vedremo per quanto riuscirà ad attenervisi ;) Il capitolo era venuto molto più lungo, tuttavia non volevo annoiarvi e così ho deciso di dividerlo. Quindi, la prossima volta approfondiremo la convivenza come si deve.
 
Ringrazio chi ha inserito la storia nelle seguite:  
Aly_Effe, ChibiRoby, Fra_STSF, JessAndrea, Joy Barnes, VelenoDolce
chi l’ha inserita nei preferiti:  Aly_Effe,  JessAndrea, Joy Barnes, marusk, sole13 
chi nelle ricordate: Fra_STSF
e chi ha recensito lo scorso capitolo: Aly_Effe, JessAndrea, Sempreverde03, silverhawk, sole13
 
Grazie a tutte! Alla prossima!
 
Susan <3

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Capitolo 5
*** 4. Invito a cena ***


Capitolo 5.
Invito a cena
 
 
 
Benjamin ritornò nelle sua stanze e vi si barricò per tutto il giorno. Provava sensazioni strane e contrastanti davanti a quella ragazza, che lo mettevano a disagio. Non era mai stato quel che si dice un rubacuori, nonostante il suo aspetto avvenente. Le fanciulle che un tempo aveva frequentato a corte lo consideravano arrogante e vanesio, e questi aspetti le avevano portate ad allontanarsi. Non godeva di grande popolarità tra la giovane nobiltà. Non gli era mai importato, questo era certo. Era il principe, l’erede al trono del regno, che cosa contava il parere altrui quando sapeva perfettamente che ogni suo desiderio sarebbe comunque stato esaudito a un suo schiocco di dita?
Eppure, con la ragazza…
Con lei avrebbe voluto non essere così sgarbato, non per altro se non che ella era l’unica e sola speranza che il fato gli avesse mai inviato per spezzare l’incantesimo. Doveva tentare di essere gentile, ma lei era così irritante… Con quegli occhi così vivi ci quali esprimeva tutto il disprezzo e la paura per lui. Se non fosse stata così preziosa non gli sarebbe importato di tenerla segregata nella sua camera, o ancora meglio sulla torre.
Ma non poteva.
Indipendente, curiosa, intelligente: erano gli aggettivi che la sua mente aveva evocato per dare una definizione di lei. Oltre a possedere una bellezza fuori del comune, Benjamin aveva da subito intuito che anche la sua personalità doveva essere alquanto spiccata. Questo, in un certo modo, lo allarmava. Sarebbe stato molto più semplice se fosse stata silenziosa e accondiscendente. Sarebbe stato meno faticoso avere a che fare con una creatura dolce e remissiva. Invece no, lei era lì e scrutava ogni angolo, ascoltava ogni parola, aveva sempre la risposta per ogni cosa, e non sarebbe stata zitta finché la sua curiosità non fosse stata placata.
Nei giorni che seguirono la osservò attraverso lo specchio incantato che la fata della Rosa gli aveva donato.  Isabelle si era ingraziata quasi tutta la servitù. Si comportava assai poco da prigioniera e pareva farsi un baffo delle sue regole. Se non avesse avuto terrore di lui – del suo aspetto, in verità – quasi certo che il fatto che fosse un principe non l’avrebbe intimorita né fermata dall’esporre le sue rimostranze.
Più di una volta la vide fermarsi a sbirciare lungo la scala che portava all’ala ovest, da lui.
Benjamin fissava insistentemente la sua immagine riflessa nello specchio, sfidandola col pensiero ad insinuarsi per quel corridoio e su per quei gradini, mentre lei, indecisa, indugiava per lunghi secondi. Si fermava, osservava lassù il luogo a lei proibito e ignoto, che moriva dalla voglia di esplorare. Ma alla fine rinunciava.
Dopotutto, non era affatto una sciocca. Se avesse osato oltrepassare l’invisibile linea imposta da lui stesso, non sarebbe stato clemente. La cosa migliore per lei sarebbe stata quella di imparare a non contraddirlo.  Se fosse rimasta al suo posto obbedendogli…
Sospirò.
No, non era così che avrebbe dovuto agire.
Farla prigioniera si era ritenuto necessario. Se le avesse chiesto « Rimanete, perché ho bisogno di voi », lei non avrebbe capito e lui sarebbe stato obbligato a spiegarle. Nessuno, nemmeno la possibile candidata a spezzare l’incantesimo doveva venire a conoscenza della rosa, né della magia. Se lei avesse visto la rosa avrebbe iniziato a fare domande e Benjamin non voleva dare le risposte.
D’altro canto, se ella fosse venuta a conoscenza di tutta la storia, avrebbe accettato di aiutarlo a spezzare il maleficio? Forse sì. Ma l’incanto non funzionava in quel modo. Doveva provare interesse per lui, non compassione. La compassione non poteva tramutarsi in amore, ed era quello che a lui occorreva.
Ma lei non poteva amarlo, mai ci sarebbe riuscita, a meno che lui non l’avesse costretta.
Era la cortesia la chiave per far funzionare il loro rapporto. Doveva iniziare da lì.
Ma come?
La sua presenza la ripugnava oltre che infastidirla. In lui, la fanciulla vedeva il mostro, il carceriere, la bestia spietata che aveva minacciato, aggredito, e  maltrattato suo padre. Era impossibile che provasse solo un minimo attrattiva nei suoi confronti, assolutamente impensabile che divenissero amici, figurarsi il resto.
Occorreva trovare un’espedente, una scusa per avvicinarla, per conoscerla meglio e tentare di essere gentile.
Bussarono alla porta.
« Entrate ». Non dovette voltarsi per sapere chi era. « Chiudi la porta, Lumiere ».
« Sì, altezza ».
Il suo valletto veniva ogni giorno a fargli visita, proprio come Tockins. Lumiere e Tockins erano gli unici lì al castello di cui Benjamin si fidava ciecamente.
Lumiere saltellò verso il tavolino tondo a tre gambe dove era posata la cupola di cristallo in cui era custodita la rosa incantata. Era stata un bocciolo al momento in cui la fata l’aveva donata al principe. La donna aveva detto che negli anni sarebbe fiorita, e quando il tempo sarebbe scaduto avrebbe iniziato ad appassire. Il fatto che fosse ancora in fiore, nel pieno della sua bellezza, dava la speranza a tutti loro che avevano ancora tempo.
« Non vi si vede di sotto da alcuni giorni, altezza » disse Lumiere, allontanandosi dalla rosa. «Qualcosa non va? ».
« Tutto quanto » rispose bruscamente Benjamin.
Lumiere non badò al tono di voce, conosceva fin troppo bene quel ragazzo per offendersi. Non voleva veramente essere sgarbato con lui. « Vi farebbe bene uscire un po’, mio principe. Sono le ultime giornate di sole. L’inverno sopraggiunge in fretta, quest’anno ».
« Non mi va di uscire. E comunque non posso andare troppo lontano. Lasciami in pace se non hai nulla di particolare da dirmi ».
« In realtà, c’è qualcosa di cui vorrei discutere con voi ».
Benjamin gli fece segno di accomodarsi. Sedette su una vecchia poltrona consunta dall’alto schienale, mentre Lumiere si arrampicava sullo sgabello lì accanto.
« Vorrei darvi un consiglio » esordì il valletto.
« A che proposito? ».
« E’ ovvio, no? ». Lumiere ammiccò. « A proposito della ragazza ».
Il cipiglio oscuro che apparve sul volto mostruoso del principe non riuscì a offuscare il sorriso sul viso di Lumiere.
« Coraggio, parla » lo invitò impaziente Benjamin.
« Proporrei – e Tockins e Mrs. Bric sono d’accordo con me – che invitaste madmoiselle Belle a cenare con voi, una di queste sere ».
« A cena? ». Benjamin ponderò la proposta. Poteva essere il punto di partenza che cercava.
« Oui, mio signore. Non dovrete pensare a niente, ci occuperemo noi di tutto quanto. Voi dovrete solamente scendere, bussare alla sua stanza e pregarla di cenare con voi ».
Benjamin alzò un sopracciglio, i suoi occhi mandarono un lampo.
Povero me, pensò Lumiere, cosa ho fatto adesso per farlo innervosire?
« Hai detto pregarla? » ripeté il principe. « Io non pregherò proprio nessuno ».
« Intendevo solo dire che dovrete essere molto cortese » si affrettò a correggersi Lumiere. « La ragazza potrebbe essere colei che spezzerà la maledizione ».
« Questo lo so benissimo! » sbottò Benjamin.
« Allora converrete che è quanto mai necessario cominciare a.. ehm… suscitare la sua simpatia ». Lumiere sfoderò un sorriso smagliante, che però non ebbe il potere di smuovere il muso lungo del suo signore.
Che diavolo, era vero!, pensò Benjamin. Lui però non era un tipo simpatico, né espansivo, tantomeno sorridente e brillante come Lumiere. In quanto a conquiste il valletto era un vero esperto, ma lui…
Sbuffò dal naso così forte da smuovere le fiammelle delle braccia e sulla testa di Lumiere.
« Uhm…chiedo scusa ».
« Nulla, altezza, nulla… Alors, che ne dite dell’idea? Vi aggrada? ».
« Be’, devo dire che alla cena non avevo pensato. D’accordo, la inviterò ».
Lumiere non poté esserne certo ma ebbe la vaga impressione che, sotto tutta quella spessa pelliccia, il principe fosse arrossito.
La sola prospettiva di invitare una fanciulla a quello che nella sua testa equivaleva a un appuntamento, mandò Benjamin nel panico più completo. Non sapeva da dove iniziare, così ricorse all’aiuto dei fidati Tockins, Mrs. Bric e di nuovo Lumiere. I tre furono più che felici di dargli una mano. Insieme, si riunirono nel salotto del principe ed elargirono ognuno consigli su come comportarsi con Belle, cosa dire per suscitarne l’interesse, e cosa non dire per non rattristarla o urtarla.
« Un baciamano e d’obbligo disse Tockins con aria saputa. « Ma non siate troppo irruente come vostro solito. Fatele anche un bel complimento sul suo abito ».
« Ditele quanto la trovate bella ed elegante» aggiunse Lumiere con un sorrisetto, occhieggiando verso la porta semichiusa. Si dava il caso che proprio in quel momento, in corridoio stesse passando Spolverina, la quale rispose all’occhiata sbattendo le ciglia. « Alle donne fa sempre piacere, eheheh…».
Benjamin fece una smorfia di disgusto e ordinò a Tockins di andare a chiudere meglio la porta.
« Non parlate di suo padre, questo la deprimerebbe » disse saggiamente Mrs. Bric.
« Sua altezza non dovrebbe nemmeno parlare della sua famiglia, se è per questo » disse Tockins. «Madmoiselle Isabelle non deve sapere che è figlio del re ».
Benjamin posò il gomito sul bracciolo della sua poltrona preferita e lasciò cadere il viso nel palmo della mano. « Non guasterebbe se lo sapesse » sbuffò, « chissà se non le piacerei di più. Magari è in cerca di un buon partito ».
Tockins parve inorridito. « State scherzando, spero! Per nessun motivo il segreto deve giungere ad orecchie estranee. Se per caso la ragazza dovesse farsi sfuggire qualcosa e si venisse a sapere, che scandalo sarebbe! ».
Lumiere scoppiò in una risata non troppo allegra. « E con chi mai chi potrebbe parlare rimanendo chiusa qui dentro? »..
« Uh… ». Tockins arrossì. « Be’, ehm… be’, questo è… ».
« Non cambiamo argomento ». saltellò Mrs. Bric. « Altezza, non dite così » disse in tono consolatorio. “La ricchezza non conta nulla nel nostro caso specifico. Dovete mostrarle ciò che siete, non ciò che possedete ».
Benjamin le rivolse uno sguardo grato: i consigli della governante erano i migliori di cui poteva disporre.
« Comunque, ricordate che alle donne fa piacere essere notate anche per altro oltre il proprio aspetto ».
« Ad esempio? » chiese il principe con aria ingenua.
Mrs. Bric emise un sospiro paziente. « Stuzzicate il suo interesse. Parlatele di qualcosa che le piace».
« Non so che cosa le piace » replicò Benjamin, burbero.
« Chiedeteglielo, allora ».
I sorrisi incoraggianti di Mrs. Bric, Tockins e Lumiere non sortirono l’effetto da loro desiderato. Il principe non si tranquillizzò, non prese coraggio, al contrario la sua ansia parve salire di diversi gradi. Era facile capirlo dal ticchettio delle sue unghie sul bracciolo della poltrona.
« Oserei affermare »  intervenne Tockins, « che alla fanciulla piaccia oltremodo leggere ».
« L’ho notano anch’io » annuì Lumiere con entusiasmo. « Questo potrebbe essere un ottimo argomento di conversazione  ».
Benjamin lanciò uno sguardo a Mrs. Bric, che sorrise incoraggiante. Annuì.
« Colpitela con qualche racconto » suggerì ancora Lumiere, « magari riguardante una battuta di caccia particolarmente avventurosa ».
« Ricordate come si sta a tavola, e tutte le regole del galateo, vero? » chiese preoccupato Tockins.
« Io… ehm… sì, ovviamente » borbottò Benjamin. In verità erano anni che non sedeva a tavola coma un uomo qualunque.
« Non dimenticate di dire qualcosa di spiritoso » aggiunse ancora Lumiere, « funziona a meraviglia, ve lo posso garantire ».
« Le battute di spirito possono venire in un altro momento, vecchio mio» lo contestò Tockins. « Sua altezza non deve apparire come uno sciocco dongiovanni in paragone a te. Dovrà invece dar sfoggio di galanteria e intelligenza ».
« Un uomo galante e intelligente può ben essere allo stesso tempo un uomo spiritoso ».
« Perdonami, Lumiere, ma il tuo prototipo di spirito lo farebbe smogliare a un giullare di corte piuttosto che a un principe ».
Le fiammelle del candelabro mandarono pericolose scintille che si sparsero sul tappeto. « Mi hai dato del giullare? ».  
« Be’, non rientri nei parametri del comune valletto di corte, ma al re piacque la tua condotta animata ».
Altre fiamme sul tappeto, che iniziò a fumare. « Intendi dire che mi hai assunto perché faccio ridere?! ».
« E’ stata una delle ragioni » spiegò Tockins con semplicità. « Non prenderla a male, andavi a genio a tutti quanti, e così… ».
« Signore! ». Lumiere saltellò ai piedi del principe. « Avete sentito? Non potete permettergli di parlarmi in questo modo! Io, che per tanti anni vi ho servito con affetto, degradato a giullare di corte! ».
Benjamin sbuffò rumorosamente dal naso, un basso grugnito gli uscì dalla gola. Tockins e Lumiere smisero immediatamente di discutere. Il secondo mise su un cipiglio offeso.
Mrs. Bric tossicchiò rumorosamente. « Se avete finito con le vostre sciocchezze… molte grazie. Ora, mio signore » concluse poi rivolta a Benjamin. « Avete una base da cui prendere spunto per intavolare ottime conversazioni durante la cena. Ricordate i nostri consigli, ma tenete a mente che la cosa più importante è una soltanto: siate voi stesso. Non cercate di fingere di incarnare qualcuno che non siete. Pur tuttavia, cercate di controllare il vostro umore » lo redarguì la governante, « siate cortese e non innervositevi per un nonnulla. Fate uscire la parte migliore di voi – non guardatemi così, so che potete riuscirci – e vedrete che andrà tutto bene ».
Quanto alla parte migliore di lui, Benjamin dubitava di averne una nascosta nei meandri di sé stesso che potesse essere definita ‘migliore’. In realtà era anche un po’ confuso, non aveva capito granché in proposito agli argomenti da trattare.
Fare complimenti alla fanciulla… questo era abbastanza semplice. Chiederle cosa le piaceva… anche questo era semplice. Parlare di libri… non poteva dire di essere stato un gran lettore. Fin da bambino aveva prediletto le attività all’aria aperta più che quelle al chiuso, mentre la ragazza sembrava appassionata di letteratura.
Per riuscire a capire meglio quali fossero le attività ch’ella preferiva, la osservò ancora attraverso lo specchio, lasciandosi un margine di tempo di un paio di giorni prima di decidersi ad invitarla a cena.
Ma una vocina dentro la testa gli suggeriva che continuare a spiarla non era la cosa giusta. Non era nemmeno il più corretto dei comportamenti e se Belle lo fosse venuta a sapere non gli sarebbe affatto piaciuto. Lui lo avrebbe trovato un comportamento insolente, per non dire sgradevole, e il suo aspetto bestiale lo era già abbastanza.
Inoltre, se voleva conoscere Belle, doveva avvicinarla e smettere di rinviare. La rosa poteva iniziare ad appassire da un momento all’altro. Benjamin aveva bisogno dei quella fanciulla quanto prima.
 

Una sera, mentre il sole tramontava dietro le cime degli alberi della foresta, penetrando in grandi nastri di luce obliqui attraverso le alte finestre del castello, il principe si aggiustò gli alamari del logoro mantello che era solito portare. Da molto tempo non curava più il suo aspetto come faceva una volta, pensava di non averne molto bisogno. Si incamminò con passo pesante attraverso i corridoi, entrando in uno dei tanti salotti dove Belle sedeva al tavolo con ago e filo, intenta a rammendare un abito e conversare con Spolverina che terminava le faccende del giorno.
Benjamin aprì la porta senza bussare né senza farsi annunciare.
« Vi devo parlare » proferì senza mezzi termini, pentendosene subito.
No, non così, più gentile!, si rimproverò. Non doveva darle un ordine, doveva porgerle un invito.
Belle studiò quel volto perennemente adombrato divenire improvvisamente… ma no, se l’era immaginato. Quasi quasi, le era parso di scorgere un velo di gentilezza in più in quegli occhi così neri e cupi.
« Va bene » rispose.
Spolverina guardò dall’uno all’altra e, tutta un tremito tanto che alcune piume si staccarono dal suo copro svolazzando, chiese: « Il padrone desidera che lo lasci solo con madmoiselle? ».
« Sì, vai, per favore » rispose lui.
« Tornerò più tardi a prendere le mie cose ». Tutt’altro che dispiaciuta, la cameriera salterellò fuori dal salotto  trattenendo un sorriso. Rimase dietro la porta a cercare di capire cosa il principe e la ragazza si sarebbero detti. Per giorni interi, da quando era giunta al castello, lui aveva praticamente ignorato la sua presenza. Che si fosse infine deciso ad approcciarsi con Belle? C’era da sperarci, visto ch’ella era l’unica speranza per tutti loro.
La Bestia si schiarì la voce. Era in difficoltà. Aveva pensato di trovare la fanciulla intenta nella lettura di un libro; le avrebbe immediatamente chiesto di cosa parlava, se lo trovava interessante, ecc. Invece, per sua sfortuna, la trovava prodiga in un lavoro su cui non era preparato: il cucito.
Pensò che, dopotutto, sempre di abiti si trattava, perciò disse: « Ho interrotto il vostro passatempo?».
« Oh no, non c’è problema” rispose Belle. « Stavo solo facendo qualche accomodatura qua e là ».
Rimasta in piedi ad aspettare che lui la invitasse a risedersi, giocherellò per qualche secondo con un nastro di trina di un color rosa perlato che fasciava la sua vita e scendeva in riccioli lungo la gonna. Benjamin si fermò ad osservarla: era veramente molto bella vestita con i ricchi abiti che aveva messo a disposizione per lei, abiti che una volta erano stati della regina, sua madre.
« State molto bene » continuò, impacciato, lo sguardo cupo. « Voglio dire, il vestito. Il rosa vi dona ».
« Vi ringrazio » rispose Belle, stupita dal complimento.
« Gli abiti che ho messo a vostra disposizione sono di vostro gradimento? ».
« Sono tutti magnifici. Anche se alcuni mi stanno leggermente larghi ».
« Li faremo stringere » assicurò la Bestia.
« Non c’è bisogno, sto già provvedendo io » spiegò Belle, indicando il cestino da lavoro posato sul tavolino rettangolare davanti al divanetto.
« Spolverina è stata così gentile da prestarmi il necessario ».
La fronte della Bestia si aggrottò leggermente mentre tornava a posare lo sguardo sui tre o quattro vestiti posati sulle poltrone. Belle osservò con un certo timore la grande zampa afferrarne uno ed esaminarlo con attenzione.
« Sono piuttosto brava a cucire, perciò nessuno dovrà disturbarsi a sistemare i vestiti che non mi stanno. Ho anche apportato qualche modifica, ecco, se non vi dispiace… Oh, non fraintendete. Sono davvero belli ma un po’ ingombranti ».
Belle aveva previsto che lui non sarebbe stato troppo d’accordo, lo aveva detto a Spolverina e a Madame Armoire, ma le due avevano ribattuto che probabilmente il padrone non avrebbe neppure notato le modifiche su quei vestiti.
 « Qualche modifica, dite? ». D’improvviso, la voce di lui tornò ad essere aspra com’era sempre stata. La nota  di gentilezza che a Belle era sembrato di udire in essa, scomparve.
In piedi uno di fronte all’altra, si fissarono.
Poi, la Bestia strinse l’abito nel pugno. « Avete messo le mani su questi vestiti? Perché? ».
« Ve l’ho spiegato, alcuni mi stavano grandi, così ho pensato…».
« Li avete rovinati! » ruggì la Bestia, gettando il vestito a terra. « Avete idea di quanto valgano per me questi abiti? ».
Belle deglutì ma non si mosse. « Immagino siano molto costosi ».
Un ghigno rabbioso si formò sul volto del mostro.
« Costosi? » rise, una risata sommessa, sarcastica. La sua voce si abbassò pericolosamente. «Pensate che m’importi del denaro? Il valore che attribuisco a questi abiti non si può enumerare con del vile denaro ».
« Mi dispiace, non pensavo…».
« E’ evidente che non pensate! ». La Bestia fece un passo, un altro, attraversando il salotto lentamente.
Belle, la quale era sempre immobile accanto al divano, cercava di comprendere il perché della sua ira. Non poteva essere sul serio e soltanto per un paio di cuciture in più o in meno su vestiti dei quali, certamente, lui non sapeva che farsene.
Belle tentò di parlare ma la Bestia non glielo permise.
« Sono stato fin troppo buono con voi. Pensavo di farvi un grande regalo permettendovi di indossarli, cosa che non avrei mai permesso a nessuno ». Stupida ragazza che non aveva idea di cosa quei vestiti rappresentassero per lui, il valore affettivo, i ricordi legati ad essi: quando sua madre veniva a fargli visita la castello e passava con lui intere giornate lontano dala corte. Momenti rari di cui aveva fatto tesoro nei momenti più bui della sua vita. Avevano l’odore di sua madre, di un’esistenza lontana. Quel profumo era l’unica cosa reale rimastagli, la sola che lo aiutava ad evocare quelle immagini di dolcezza straziante, che lo aiutava a ricordare che aveva avuto una vita, che era stato un uomo, una volta.
Isabelle non poteva sapere. Non poteva capire.
« Credevo aveste capito che questa non è casa vostra, non siete qui su invito o per vostro piacere ». Girò attorno al divano e le si parò di fronte.  « Se non vi do il permesso di fare qualcosa, non potete farla. Se non vi do il permesso di curiosare in una certa ala del palazzo, non curioserete. E se vi dico che non dovrete mai più, in nessun caso, apporre modifiche a un qualsivoglia oggetto di questo castello, non l’apporrete. Mettete da parte l’iniziativa, non è gradita ».
Gli occhi di Belle non avevano mai lasciati quelli di lui. Dietro tanta collera c’era un profondo dolore. Lo vedeva. Tuttavia, non poté impedirsi di rispondergli a tono.
« Pensavo che non voleste trattarmi da prigioniera ». Raddrizzò la schiena, le mani strette a pugno. « Non sono la vostra schiava. Sto rispettando le regole che avete stabilito: non mi sono introdotta nell’ala ovest, non mi sono recata nelle serre, sono sempre puntuale ai pasti. Ho fatto come mi avete detto. Non capisco perché ve la prendiate tanto solo perché ho tolto qualche pizzo e qualche fiocco».
Le sembrava così sciocco litigare per questo!
La Bestia emise un basso ringhio. « Alle regole possono essere aggiunte altre regole: ed ecco, vi ho appena detto cosa non gradisco che facciate ».
« Quante altre modifiche farete? ».
« Tutte quelle che riterrò necessarie ».
« Bene, mi direte anche quando dovrò parlare o stare in silenzio? ».
Un altro ringhio. « Non sfidatemi, madmoiselle ».
« Nemmeno voi, signore ».
Tanta audacia avrebbe piacevolmente stupito Benjamin, ma in quel momento era così in collera da essere sconcertato.
« Come osate rivolgervi a me con tanta alterigia?! » esplose con un ringhio spaventoso.
« Non mi farò trattare come una marionetta, mettetevelo in testa! » esclamò Belle, per nulla impaurita. « Ho accettato di restare solo per salvare mio padre, ma ciò non significa che farò tutto quello che mi direte, anche se sarò vostra prigioniera per sempre. Preferisco essere rinchiusa nuovamente nella torre piuttosto che dar retta a un padrone così arrogante e dispotico come lo siete voi! ».
« State zitta! ».
« No, non sto zitta, parlerò quanto mi pare! ». Belle emise un verso esasperato. « Santo cielo, sono solo…vestiti! » esclamò, indicando con un gesto spazientito il divano dietro di sé. « Vi siete realmente adirato per questo? ».
« Voi…» la Bestia respirò profondamente molte volte. « Voi non capite! ».
« No, esattamente. Non capisco ». Belle respirò profondamente a sua volta, calmandosi. « Di chi erano? Perché sono così importanti per voi? ».
« Non avete il diritto di chiedere niente!” ringhiò la Bestia, voltandole le spalle in un ondeggiare di mantello. Riaprì la porta, dietro la quale stava ancora Spolverina, che strillò e scappò via.
« Rimettete a posto quegli abiti e non v’azzardate a toccarli di nuovo » ordinò la Bestia bruscamente. « Domani ve ne farò preparare altri della vostra esatta misura ». Si arrestò nel vano della porta e si voltò un’ultima volta verso di lei. « Oh, sì, un’altra cosa: voi stasera cenerete con me. E non vi conviene rifiutare! ».
La Bestia sbatté la porta così forte che pezzi di intonaco si staccarono dalla parete.
Sciocca ragazza! Stupida e ignorante! Se non capiva un concetto tanto semplice…
Certo, lei non poteva sapere che quelli erano stati gli abiti di sua madre, per cui aveva pensato non ci fosse nulla di male nel rassettarli un poco. Tuttavia non era un buon motivo per fare ciò che voleva quando le pareva.
Sentimenti contrastanti nacquero dentro di lui. Da una parte avrebbe voluto tornare sui suoi passi e dirle la verità, così che capisse da dove era nata tutta la sua collera e si rendesse conto della reale importanza che quegli indumenti rappresentavano, il valore affettivo che gli attribuiva realmente. Da un’altra, però, non riteneva opportuno metterla al corrente della verità. Se l’avesse preso in giro? Poteva, e lui non lo avrebbe sopportato.
Lei-non-poteva-capire. E questo era quanto.
I consigli di Tockins, Lumiere e Mrs. Bric erano stati gettati a vento. Quella serata, a tavola, non avrebbe potuto elargirle complimenti e parlare di alcunché, non dopo una discussione come quella. Non ne aveva neppure più la voglia.
Ma a cena lei sarebbe venuta, o l’avrebbe costretta lui.
 
 
Belle ricadde pesantemente sul divano, incrociando le braccia al petto con un verso rabbioso. La collera montava a ondate. Non poteva credere di aver discusso con la Bestia su una questione tanto futile! Abiti. Semplici abiti. Allora aveva avuto ragione nel credere che fossero appartenuti a qualcuno, o lui non avrebbe reagito in quel modo. Eppure li aveva messi lui nella sua stanza, no? Se non voleva che li usasse poteva semplicemente non farglieli avere. Perché infuriarsi tanto?
Afferrò la stoffa vellutata di uno dei vestiti, lisciandola con le dita. Che fossero di una donna che – incredibilmente – egli avesse amato? Ed ora dov’era questa presunta donna?  Che fosse stata prigioniera come lei e in seguito fosse fuggita? Oppure era… morta. Questo avrebbe spiegato la collera di lui.
Doveva essere così, Belle non trovava alte spiegazioni, per quanto si rivelava sconcertante, nonché impossibile, l’idea che chiunque al mondo avesse provato affetto per la Bestia. Era così indisponente, così irritabile, sgarbato, arrogante e crudele.
Tuttavia, considerando le sue congetture di poco prima riguardo una misteriosa ex proprietaria di quei vestiti, non poté impedirsi di provare compassione per lui. Dopotutto, anche i mostri hanno il diritto di amare.
Se il cielo le avesse donato un viso meno grazioso avrebbe pregato perché l’uomo della sua vita guardasse oltre il suo aspetto. In realtà lo desiderava da sempre, ma all’inverso: pur sapendo di non passare in osservata, avrebbe voluto che gli uomini mettessero da parte il fatto che fosse bella, una volta tanto, e si concentrassero sul conoscerla meglio, per quel che era e non per come appariva ai loro occhi. Se fosse stata meno bella, forse avrebbe trovato qualcuno in grado di amarla per ciò che aveva nel cuore e nell’animo, non all’esterno, sul suo viso: due labbra rosse, occhi grandi e luminosi, lunghi e morbidi capelli. Ma non v’era solo quello.
Per la Bestia, forse, era stato lo stesso. Non ne era certa e avrebbe voluto scoprirlo.
Comunque, pensò che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo, non dopo la sua reazione di poco fa al solo vederla rammendare quegli abiti. Le sembrava ancora illogico aver litigato con lui per questo.
Riportò gli abiti e il cesto da cucito in camera sua, chiudendovisi dentro. Madame Armoire sonnecchiava per cui decise di non svegliarla. Avrebbe risistemato le stoffe nell’armadio più tardi.
Il silenzio aleggiava sul castello. La Bestia doveva essersi calmata, o stava sfogando la sua rabbia da qualche altra parte.
Un paio di colpi gentili alla porta interruppero i suoi pensieri.
« Sì? ».
« Madmoiselle ». Era Tockins. Sfoggiava un sorriso enorme. « La cena è servita. Se volete accomodarvi in sala da pranzo, il padrone vi attende ».
Belle, seduta sul letto, fissò un momento il maggiordomo.
« No » disse. Secca, chiara, senza lasciare spazio a fraintendimenti.
Tockins sbatté le palpebre un paio di volte, il sorriso sempre al suo posto che gli conferiva un’aria alquanto buffa.
« No? » ripeté, come se lei avesse parlato un’altra lingua. In realtà aveva capito benissimo. Il sorriso si spense lentamente. « C-c-cos-com-io...i… » balbettò.
Belle cercò di essere ancora più chiara. « Non scenderò a cena ».
« M-m-ma dovete! ».
« Affatto! » replicò la fanciulla con forza. « Il vostro padrone è stato orribilmente scortese con me oggi. Non ho alcuna intenzione di cenare con un individuo simile! ».
Tockins avanzò a passetti ansiosi nella stanza. « Lo so, mia cara, ma se non scendete il padrone potrebbe reagire ancora peggio ».
« Oh, bene. Vi ha raccontato tutto, vedo. Allora comprenderete come mi sento in questo momento ».
« Certo, certo, sarete turbata ».
« Turbata? ». Belle alzò le braccia la cielo. «No, non sono turbata, sono furiosa! E tutto solo perché ho sistemato un paio di abiti! ».
Il viso da pendola di Tockins sbiancò, si torse le mani. Con tutta la fatica che avevano fatto per preparare gli argomenti di conversazione! Il principe aveva mandato all’aria tutto quanto! Certo, era pur comprensibile che si fosse infuriato dopo aver scoperto che la ragazza aveva rovinato i vestiti della regina, ma poteva immaginare il modo in cui Benjamin aveva esposto le sue rimostranze. Di sciuro l’aveva investita con la collera e lo sdegno peggiori di cui disponeva. Poteva comprender e lui, ma poteva comprendere anche lei. Tockins sapeva che non era affatto facile vivere con il principe Benjamin.
« Madmoiselle, se voleste ripensarci…».
« Dovrà prima chiedermi scusa” Belle afferrò il libro che aveva sul comodino e si stese sul letto nascondendo il viso tra le pagine.
« Vi prego, non fate così! Non siate cocciuta quanto lui ».
« Non sono affatto cocciuta ». Belle posò il libro sulle coperte e si mise a sedere. « Lui mi aggredisce e io dovrei fingere che non sia successo nulla? Per niente! Non sono disposta a giocare il suo gioco. Forse io ho sbagliato a non chiedergli il permesso, ma non può fare una scenata del genere per dei semplici vestiti ».
« Ah, mia cara, se voi sapeste la verità…».
« Che me la dica, allora, Tockins. Io non la so la verità. Come posso? ».
Tockins abbandonò le braccia lungo il corpo. « È vero, non sapete ».
« Io forse ho sbagliato – non lo so, perché quando gli ho chiesto una spiegazione è divenuto ancor più aggressivo – però lui non può trattarmi così ».
La ragazza e il maggiordomo si fissarono per qualche secondo. Lei distolse lo sguardo per prima. Era assurdamente dispiaciuta per la Bestia, pur detestandolo, perché aveva scorto nel suo sguardo un dolore a lei inspiegabile. Un segreto, probabilmente legato a quegli abiti e a molto altro, che lo faceva soffrire enormemente. E lei non era capace di restare indifferente davanti ala sofferenza altrui.
« Dovrò dire al padrone che non scendete, allora” disse Tockins, l’aria preoccupata. « Siete proprio sicura? ».
« Sì, sono sicura ». La Bestia era stato terribile con lei, non gliel’avrebbe data vinta. Non lo temeva più come i primi giorni, non dopo aver compreso tramite le parole dei servitori che non aveva nulla da temere da lui, eccetto gli scatti d’ira.
« Come desiderate ». Tockins si trascinò con passo nervoso verso la porta. Cosa avrebbe detto al principe?
« Aspettate ».
Il maggiordomo si voltò, speranzoso. Belle aveva cambiato idea?
« Quale segreto nasconde il signore? ». Belle era in piedi, avida di sapere. Tockins lo capì.
« Non posso dirvelo, mi rincresce ».
Belle aspettò che uscisse, poi richiuse la porta. Ritornò sul letto e riprese il libro. Madame Armoire non sonnecchiava più, invece la guardava aspettando che Belle le raccontasse cosa era successo.
 
 
Il povero Tockins scese nel salottino adiacente la sala da pranzo. Prima di entrare sbirciò da una fessura attraverso la porta la situazione all’interno. Il principe era in compagnia di Lumiere e Mrs. Bric. Il suo viso era più scuro di una giornata temporalesca, misurava il tappeto liso a quattro zampe e aspettava l’arrivo di Belle.
Dopo che il principe aveva raccontato loro del disastroso invito, avevano cercato di tranquillizzarlo e convincerlo a non demordere.  La cosa migliore da fare era scusarsi quanto prima, ovvero durante la cena. Lumiere e Mrs. Bric temevano che Belle rifiutasse di presentarsi a tavola, e quando Tockins aprì la porta ed entrò, la sua espressione confermò i loro peggiori timori.
Appena la porta si aprì, Benjamin si fermò, alzandosi in posizione eretta. Ecco, Isabelle era arrivata, alla fine aveva capito che obbedire avrebbe solo giovato alla loro convivenza. Meglio per lei. Se avesse assunto un atteggiamento conciliante le avrebbe persino spiegato la verità, almeno riguardo sua madre, anche se da una conversazione del genere sarebbero inevitabilmente sorte mille domande, alle quali lui non avrebbe potuto rispondere per non tradire il segreto dell’incantesimo.
Purtroppo, tutti quei ragionamenti servirono a poco. Dalla porta non era entrata Isabelle, ma Tockins, che sembrava in preda a un attacco di sudarella.
« Sei solo? » chiese immediatamente il principe.
« Chi? Io? Oh, sì. Sì, solo soletto, come un cane, altezza ».
Che diavolo stava dicendo Tockins?, pesò Benjamin.
« Lei dov’è? ».
Tockins sudò ancora di più e le gambe gli tremarono. Lanciò un’occhiata a Lumiere e Mrs. Bric, i quali capirono immediatamente che le cose non sarebbero andate come programmate.
« Ecco…ecco » si schiarì la gola. « Madmoiselle Isabelle è ancora di sopra ».
« Questo è evidente ».
Intervenne Mrs. Bric: « A noi ragazze piace farci attendere. Sono certa che Belle non è ancora pronta, vero? Vero, Tokins? ».
« Cosa…? Ah sì, sì… veramente no ».
Tre teste scattarono nella sua direzione.
« No? » fece Lumiere.
« No? » Mrs. Bric.
« No? » fece Benjamin, in tono molto più basso degli altri due.
In contrapposizione, la voce di Tockins si alzò di due toni. « Ecco, ecco, lei non è dell’idea di cenare con voi. È timida la ragazza, non credevo, così, ecco… sì, ehm, lei si è agitata e non si è sentita bene, sapete, per cui ha detto che… non vuole venire ».
« CHE COSA?! » fu l’urlo furibondo e sdegnato della Bestia.
Piccola screanzata! Si rifiutava di obbedire a un suo ordine! Era davvero così, osava sfidarlo!
Benjamin schizzò fuori dal salottino, in tre balzi attraversò l’androne e in altri due fece le scale, imboccando il corridoio che portava alle stanze di Belle. La porta era ovviamente chiusa a chiave (Ah! aveva paura di lui, eh?), quindi bussò così forte che per poco non la buttò giù.
« Madmoiselle, aprite immediatamente questa maledetta porta!”.
La voce di Belle arrivò ovattata dall’interno della camera, calma naturale, anche se si avvertiva una punta di sarcasmo e irritazione.
 « Non mi sento bene, mi rincresce ».
« NON FATE LA COMMEDIA CON ME! VI ORDINO DI APRIRE O LA BUTTERò GIù, VI AVVERTO! ».
« Fate pure. La porta è vostra ».
Altezzosa, sciocca e incosciente. Non sapeva con chi aveva a che fare.
Tockins, Lumiere e Mrs. Bric lo raggiunsero ansanti. Tanta fatica e poi ecco il risultato. Di certo, il principe poteva avere il carattere più difficile del mondo, ma la fanciulla in quel momento non era da meno.
 « P-padrone, vi prego, calmatevi » tentò Lumiere. « Non credo sia questo il modo di risolvere le vostre divergenze. E soprattutto, non è il modo migliore per conquisterete l’affetto della fanciulla ».
« In questo momento me ne infischio del suo affetto. Ha osato sfidare la mia autorità! ».
« Ah, è un caso perso » commentò Mrs. Bric con enfasi. « Altezza, santo cielo, tutto ciò è una sciocchezza! Belle non sapeva nulla degli abiti della regina, meno che mai avrebbe potuto immaginarlo. Cercate di essere comprensivo, vi supplico! ».
Benjamin fece qualche passo avanti e indietro davanti alla porta. Lo sapeva, ovviamente che Mrs. Bric aveva ragione. Doveva calmarsi, cercare di essere conciliante e perdonarla.
« Tenterò » disse, storcendo le labbra in un ghigno malevolo.
Benjamin si accostò alla porta, prendendo un profondo respiro. «Isabelle? Avrei piacere se cenaste con me, stasera ».
« No, grazie, non ho fame » rispose la voce di Belle.
Tockins, Lumiere e Mrs. Bric gli fecero cenno di continuare.
Benjamin chiuse gli occhi e prese un nuovo respiro. « Mi duole avervi offesa, ma mi avete fatto infuriare, lo capite? ».
Nessuna risposta.
« Madmoiselle, riconosco di dovervi delle spiegazioni e le mie scuse. Perciò, se voleste essere così gentile da scendere in sala da pranzo…».
«Ditele ‘per favore’ » suggerirono  una sola voce i tre servitori.
« Per favore » ripeté Benjamin tra i denti.
« No, non scenderò. Potete cenare da solo » fu la risposta secca di Belle.
La Bestia ringhiò di rabbia. La sua pazienza aveva un limite assai breve.
« TROVATE DIVERTENTE BURLARVI DI ME, È COSì?! MOLTO BENE! SE PREFERITE MORIRE DI FAME, FATE COME VOLETE! » Benjamin si allontanò dalla porta e tornò sui suoi passi. « VOI TRE! ».
Lumiere, Mrs. Bric e Tockins scattarono sull’attenti.
« GUAI A VOI SE VI SCOPRO DARLE DA MANGIARE, SONO STATO CHIARO? »
« Signore, non potete…».
« , POSSO, LUMIERE! SONO IO IL PADRONE QUI, NON DEVE SCORDARSELO NESSUNO! » Benjamin lanciò un’ultima occhiata alla porta della stanza di Belle, poi fece volteggiare il mantello mentre si girava e tornava nelle sue stanze.
Non mangiò, sfogò invece la sua rabbia e la frustrazione contro ogni oggetto a sua disposizione, oggetti che già molte altre volte avevano subito la sua ira.
Afferrò lo specchio magico e lo strinse tra gli artigli. « Mostrami Isabelle » ordinò.
Subito lo specchio si illuminò e mostrò l’immagine di Belle seduta sul letto della sua stanza, un libro in grembo. Madame Armoire tentava di parlarle.
« Avresti dovuto accettare, cara. Il padrone voleva solo di scusarsi , non lo hai capito? ».
Le mani di Belle strinsero tra le mani la copertina del libro così forte che le nocche imbiancarono.
 « Non credo affatto che stesse cercando di scusarsi. Lo hai sentito gridare, no? A lui importa solo che facciamo tutti ciò che ci ordina».
Madame Armoire tentò un sorriso incoraggiante. « Perché invece non provi a dargli il benefico del dubbio? Sono sicura che se ti soffermassi a conoscerlo meglio…».
Belle scosse il capo con decisione. « Non voglio conoscerlo. È un malvagio, lo detesto! ».
Benjamin posò lo specchio, voltandolo per non vedere altro.
Per lei, lui era solo un mostro, un malvagio e l’odiava. Non avrebbe mai creduto che una voce dolce come quelle potesse essere intrisa di tanto disprezzo.
Lei non avrebbe mai potuto affezionarsi a lui, tantomeno amarlo.
Lo sguardo del principe cadde sulla campana di vetro e la rosa al suo interno. In un impeto di disperazione scostò la teca scoprendo il fiore, fu sul punto di afferrarlo e stritolarlo nel pungo fino a far accartocciare i bei petali vellutati. Avrebbe dovuto farlo tanto tempo fa.
Perché non mettere fine una volta per tutte a qualcosa che tanto era destinata ad accadere? Forse, il suo era puro masochismo. Se l’avesse distrutta, avrebbe solo accelerato un processo inevitabile. Niente più attese, niente più false speranze. Sarebbe rimasta solo l’accettazione di restare una Bestia per tutta la vita.
Ma si fermò.
Attendere e sperare ancora avrebbero solo allungato l’agonia.
Eppure, quando osservò il primo petalo di rosa staccarsi e cadere lentamente sulla superfice del tavolino su cui stava, seppe che non avrebbe potuto disfarsene.
Rimase a fissarla per un istante con sguardo quasi assente.
La rosa appassiva. Il tempo stava scadendo.
Tutta la rabbia defluì e si dissolse. Benjamin rimise lentamente la campana sopra la rosa, proteggendola. La circondò con le zampe, piegandosi su di essa per sfogare tutto il suo dolore dentro un pianto straziante.

 
 
 
 
-Angolino di Susan-
 
Scusate se ho fatto passare un po’ di tempo dall’ultimo capitolo, ho tre storie all’attivo e devo stare al passo con tutte cercando di non far aspettare troppo nessun lettore.
Bene, bene, la faccenda degli abiti potrà sembrare un poco sciocca, ma se vi mettete nei panni di Benjamin capirete che un ricordo così prezioso, legato alla madre che non vede da una decina d’anni, lo ha fatto proprio uscire dai gangheri. Belle in questo capitolo inizia a tirar fuori il suo bel caratterino ;) Cosa ne pensate? Spero non vi risulti antipatica.
Se ho fatto degli errori pedonatemi, correggerò quanto prima.
 

Ringrazio:
 
Per le recensioni dello scorso capitolo: Aly_Effe, Sempreverde03, silverhawk, sole13
Chi ha inserito la storia tra le preferite:  Aly_Effe, JessAndrea, Joy Barnes, marusk, sole13
Le ricordate: Fra_STSF
Le seguite: Aly_Effe, ChibiRoby, Fra_STSF, JessAndrea, Joy Barnes, silverhawk, VelenoDolce
 
Grazie a chi leggerà e a chi lascerà un commento.
Alla prossima,

Susan <3

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Capitolo 6
*** AVVISO ***


Salve, cari lettori. Mi costringo a mettere questo annuncio per avvisarvi che non so quando tornerò attiva. Ho avuto recentemente un grave lutto in famiglia. La storia non rimarrà incompleta, ho promesso a me stessa che non la abbandonero', così come tutte le altre aperte, e quelle nuove che avevo in mente. È un periodo davvero buio e difficile, cercate di capire. Vi ringrazio per la pazienza, sperando di tornare presto da voi. Buone feste a tutti. Vostra Susan.

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