Back for love 2

di Sospiri_amore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Riepilogo dei personaggi ***
Capitolo 2: *** OGGI: Non ho più voglia di nascondermi ***
Capitolo 3: *** IERI: Come è dolce affogare ***
Capitolo 4: *** IERI: Chiacchiere da camerino ***
Capitolo 5: *** IERI: Quando finisce l'estate ***
Capitolo 6: *** IERI: Il primo giorno di scuola ***
Capitolo 7: *** IERI: Emozioni sfuocate ***
Capitolo 8: *** IERI: Bigliettini e spaghetti al pomodoro ***
Capitolo 9: *** IERI: Una faccina sorridente ***
Capitolo 10: *** IERI: Tutti in fila ***
Capitolo 11: *** IERI: Regali inaspettati ***
Capitolo 12: *** IERI: Cellule ***
Capitolo 13: *** IERI: Doppia punizione ***
Capitolo 14: *** IERI: Amici, conoscenti e amare sorprese ***
Capitolo 15: *** IERI: Polvere negli occhi ***
Capitolo 16: *** IERI: Faccia da schiaffi ***
Capitolo 17: *** IERI: Le dieci regole di Andrew ***
Capitolo 18: *** IERI: Innocue bugie ***
Capitolo 19: *** IERI: il rumore del potere ***
Capitolo 20: *** IERI: Maschere e menzogne ***
Capitolo 21: *** IERI: Paparazzi ***
Capitolo 22: *** IERI: Cenerentola ***
Capitolo 23: *** IERI: Aprire gli occhi ***
Capitolo 24: *** IERI: Un mucchio di stracci ***
Capitolo 25: *** IERI: Le chiavi dei ricordi ***
Capitolo 26: *** IERI: A tu per tu ***
Capitolo 27: *** IERI: Arte e cibo ***
Capitolo 28: *** IERI: Non perdere di vista l'obbiettivo ***
Capitolo 29: *** IERI: Ombre ***
Capitolo 30: *** IERI: Ostaggio ***
Capitolo 31: *** IERI: Fare i conti con la realtà dei fatti ***
Capitolo 32: *** IERI: Pronti a combattere ***
Capitolo 33: *** IERI: Ricominciare tutto da capo ***
Capitolo 34: *** IERI: Ciao mamma ***
Capitolo 35: *** IERI: 31 dicembre ***
Capitolo 36: *** IERI: Pronti, esami, via ***
Capitolo 37: *** IERI: Il processo ***
Capitolo 38: *** IERI: Homecoming Queen ***
Capitolo 39: *** IERI: La lunga strada verso casa ***
Capitolo 40: *** IERI: Una vita fatta di bugie ***
Capitolo 41: *** IERI: Inconcepibile! ***
Capitolo 42: *** IERI: Facce da stoccafisso e pesce lesso ***
Capitolo 43: *** IERI: Strade, percorsi, scelte ***
Capitolo 44: *** IERI: Rompere la routine ***
Capitolo 45: *** IERI: Seguire le tracce ***
Capitolo 46: *** IERI: Una giornata storta ***
Capitolo 47: *** IERI: Lustrini e tacchi a spillo ***
Capitolo 48: *** IERI: Riflettori puntati ***
Capitolo 49: *** IERI: Non credo tu capisca ***
Capitolo 50: *** IERI: Ho bisogno di te ***
Capitolo 51: *** IERI: Una giornata indimenticabile ***
Capitolo 52: *** IERI: La lettera ***
Capitolo 53: *** IERI: Soffocare ***
Capitolo 54: *** Epilogo: (IERI) Questa sedia è fredda ***
Capitolo 55: *** È ONLINE BACK FOR LOVE 3 ***



Capitolo 1
*** Riepilogo dei personaggi ***


ELENA: Elena è accusata da James di avergli mentito riguardo la morte di Demetra, per questo non sono più una coppia. Elena resta a New Heaven per l'estate e lavora in gelateria. Nik le ha proposto di fare da assistente visto che sta seguendo un grosso caso.

 Non sappiamo se ha accettato o meno.

 

KATE: Kate è la migliore amica di Elena, le sta vicina. L'ultimo anno si è appassionata di fotografia ed ha stretto amicizia con Stephanie e Jonathan.

 

JAMES: James è distrutto dalla perdita della madre. Lascia New Heaven per l'estate e va in California, nella casa al mare di Rebecca. Con lui ci sono Adrian e Lucas.

 

JONATHAN: Jo è molto legato a Kate ed Elena. Riconfermata borsa di studio, voti più alti della scuola. Il suo desiderio di studiare a Yale si sta avverando, inoltre sarà un assistente di Nik.

 

NIK: Nik riabilitato dallo scandalo della foto a scuola, ha vinto la gara di Dibattito con quelli del Saint Jude. Ha un grosso caso per le mani. Non insegnerà al Trinity visto che è diventato socio dello studio McArthur.

 

REBECCA: Rebecca, dopo lo scandalo della fotografia, sembra aver messo la testa a posto. Si è riconciliata con i suoi amici e pare tollerare meglio Elena e Kate. La morte di Demetra mischia le carte in tavola. Va in vacanza con James, Adrian e Lucas.

 

STEPHANIE: Stephanie è sempre più legata a Kate ed Elena, decide di non partire per la California e restare a New Heaven insieme alla sua famiglia, inoltre sarà una assistente di Nik. Ha avuto un diverbio con il fidanzato Lucas, ognuno ha preso strade diverse.

 

ADRIAN: Adrian va in California con James, Rebecca e Lucas.

 

LUCAS: Lucas prende la decisione di andare in vacanza con gli amici, per consolare James, lasciando Stephanie da sola a New Heaven.

 

ANDREW: amico di James, Rebecca, Adrian, Lucas e Stephanie. Frequenta il Saint Jude, la scuola rivale. Appena accennato nel libro precedente, avrà molta importanza in questo libro.

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Capitolo 2
*** OGGI: Non ho più voglia di nascondermi ***


OGGI:
Non ho più voglia di nascondermi




Oggi 
Sono passati quattordici anni, molte cose sono cambiate.

La foto che ho di fronte a me lo dimostra. Kate mi ha invitato alla sua mostra solo perché vuole qualcosa. Tutti hanno sempre voluto qualcosa da me.

Guardare il mio passato fa male, sentire quella voce è come venire accoltellata direttamente al cuore.

 

«Perché sei venuta?», mi richiede l'uomo in giacca e cravatta.

Non voglio che sappia come mi sento veramente: «Semplice curiosità», gli rispondo glaciale, poi mi volto a guardare la foto appesa alla parete dandogli le spalle.

«Vattene. Questo è un momento felice per Kate, non puoi farle questo», mi dice.

«Guarda che mi ha invitato la tua amica. Ho pensato fosse carino esserci», non mi muovo dalla mia posizione, il mio sguardo è incollato alla foto.

Rumore di tacchi. Un leggero brusio arriva alle mie spalle.

«Ma guarda chi si vede. La feccia è tornata», era da anni che nessuno mi chiamava così, solo lei si sentiva in diritto di farlo. 

Schierati lì vicino ci sono tutti i protagonisti della foto, sembrano soldati di un esercito pronti a colpire. 

 

Sento dentro di me animarsi un mostro assopito per troppo tempo. Un groviglio di rabbia, frustrazione e dolore, sta prendendo vita. Non ho più voglia di stare male, non ho più voglia di sentirmi soffocare ogni volta che penso a tutti loro. Voglio poter essere libera di vivere senza i fantasmi dei miei amori passati, voglio poter crescere mio figlio senza paura. Voglio provare ad essere felice.

 

Sebastian mi corre incontro, lo prendo in braccio. Ha la bocca sporca di briciole, il mio accompagnatore porta in mano un piattino colmo di patatine: «Ha voluto solo queste. Le altre cose non gli piacevano», mi dice sgranocchiandone una.

«Va bene, l'importante è che abbia la pancia piena questo mostriciattolo», dico io sorridendo a mio figlio.

 

Grida silenziose.

Occhi sbarrati.

Bocche spalancate.

Non dicono niente, ma intuisco i pensieri di tutti loro. Mi osservano come fossi un fantasma, un incubo direttamente dal loro passato. Sento le urla che crescono dentro ai loro cuori, leggo sui loro volti la rabbia e il fastidio che provano ad avermi lì. 

Io sono l'unica che li conosce per quello che sono, non possono mentirmi. Possono fingere di essere persone per bene, ma nel profondo sanno di essere il peggio che possa esistere. 

 

Guardano me.

Guardano mio figlio Sebastian.

Poi guardano il mio accompagnatore.

Stentano a credere che lui avrebbe mai potuto amarmi.

Non lo credevano perché io non ho mai voluto farglielo sapere.

 

Non ho più voglia di nascondermi, sono venuta alla mostra perché non ho più paura del loro giudizio.

Tutti loro hanno rubato quattordici anni della mia serenità.

Tutti loro pagheranno per il male che mi hanno fatto. 

Se si intrometteranno nella mia vita sarà guerra, non farò sconti per nessuno.

 

Fisso i loro volti, il tempo è passato per tutti. Ho di fronte a me uomini e donne e non più ragazzini. Scorgo, tra i segni del tempo, ciò che erano. Le immagini dei ricordi e le emozioni del passato, si fondono. Ripensare all'ultimo anno al Trinity è come essere sballottata sulle montagne russe, alti e bassi che fanno mancare il fiato. Quell'anno sono successe così tante cose che, chiudendo gli occhi, mi sembra di ritornare a quei giorni e viverli come fossero adesso.

Un battito di ciglia.

Un respiro profondo.

Un attimo e rivivo tutto, come se ogni istante di quell'anno fosse il mio presente.

 

>>>>>>>>>>>

Spazio autrice:

 

Se avete dubbi rileggete il primo capitolo del primo libro "Solo una foto". Questo capitolo continua quel momento.

Da quel che di capisce Elena è furiosa con tutti.

Chi è l'uomo con Sebastian?

Cosa sarà successo?

 

Avete un libro per scoprirlo.

🌙

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Capitolo 3
*** IERI: Come è dolce affogare ***


IERI: 
come è dolce affogare




L'acqua deforma la realtà, i suoni sono attutiti.

Sono immersa da diversi secondi, mi piace stare lì sotto a galleggiare immobile. Non posso far molto, solo ascoltare, aspettare che l'ossigeno finisca e l'istinto mi costringa a risalire. Una boccata d'aria tra le gocce che schizzano da tutte le parti. Riprendere fiato per immergermi di nuovo, sperando che quella quiete possa entrarmi dentro fino alla mia anima ferita. È così bello stare lì sotto, sembra di essere abbracciati, stretti in un bozzolo dentro il quale nessuno può entrare. Ogni volta lo spero, ogni volta desidero che nulla sconvolga quei secondi, ma purtroppo, puntuale, il pensiero di James bussa e squarcia quella pace.

I ricordi legati a lui mi invadono ogni notte, ogni istante del giorno. Il dolore affiora nel mio cuore intristendomi. Le parole di Demetra si confondo con gli ultimi istanti in cui mia madre mi ha parlato. Perdere una vita e perdere un amore. 

Mi sento come fossi stata fatta a pezzi e ricucita, come se la mia essenza fosse tenuta insieme da sottili fili. Fili pronti a spezzarsi da un momento all'altro.

Fingo, mi faccio forza, ma ciò che ero non sarò più.

 

«Il cliente dello studio se ne sta lì tutto impettito, all'improvviso arriva Nik che lo guarda con freddezza. Hai presente i film in cui due nemici si guardano, l'alternanza degli sguardi fatta con la cinepresa? Non so chi fosse più cattivo!», Jonathan ride, se ne sta a bordo piscina con i piedi a mollo nell'acqua. Stephanie è seduta su un materassino di fronte a lui.

«E tu che hai fatto?», chiede Kate attaccata a bordo piscina.

«Io stavo immobile. Avrebbero potuto prendersi a pugni o chissà cos'altro. Una causa del genere è un vero rompicapo. Tutti gli avvocati dello studio sono indaffaratissimi», Jo schizza con il piede Stephanie che ridendo si butta in acqua.

«Tu l'hai visto Elena? Quel tizio strano, il cliente nello studio dove lavori», Kate mi si è avvicinata, «Fa davvero così paura come dice Jo?».

«Non so, forse. Non ho fatto caso al suo modo di fare. Di solito faccio il caffè per gli avvocati e cose simili», con le mani mi tolgo l'acqua che ho sul volto.

«Ma che hai? Sembri su un altro pianeta!», Stephanie mi si avvicina nuotando.

«Stavo... Stavo pensando a... Ecco... Tra poco più di una settimana riprende scuola e ho un milione di pensieri che mi frullano in testa, chissà se Jam...», il tuffo a bomba di Jo nella piscina non mi fa finire la frase.

 

Stephanie, Kate ed io, saltiamo addosso a Jo e lo teniamo immerso nell'acqua. Dopo pochi secondi riesce a sfuggirci riempiendoci di schizzi.

 

«Basta!», Stephanie prende il materassino e lo usa come scudo.

Kate ride come una matta mentre mi sale sulle spalle.

«Tregua!», urlo.

Jo smette di schizzare. Sgocciolanti e affaticati dalla lotta, ci sediamo a bordo piscina, uno di fianco all'altra. Stephanie non smette di parlare, Kate ribatte ad ogni frase e Jonathan commenta tutto. Sembrano in preda ad una strana frenesia.

 

«Che vi prende? Come mai avete tutta questa energia? Tra il lavoro con Nik, quello in gelateria, lo studio e le mille cose che facciamo, io la sera crollo», mi sdraio sulle piastrelle a bordo piscina lasciando i piedi a penzoloni nell'acqua, «Senza contare che tra poco riprende scuola e devo ancora finire di leggere un libro».

«Se vuoi ti passo la scheda, l'ho fatta da un po'. Avevo già letto quel libro l'anno scorso», Stephanie è la più brava in letteratura, un suo aiuto non mi dispiacerebbe.

«Facciamo così: io leggo il libro, scrivo la scheda, se poi ho problemi ti chiamo. Ok?». Stephanie mi schiaccia l'occhio complice.

«Credete che Jam...», non faccio in tempo a parlare che Kate ride sguaiatamente.

«Che ti prende?», non è certo da lei comportarsi in quel modo.

«Io... Io... Mi è venuto in mente che al negozio di fotografia ho dovuto sviluppare una montagna di rullini per un cliente. Dico io, esiste la fotografia digitale, perché si ostinano ad usare ancora i rullini?», Kate continua a ridacchiare.

Mi siedo e fisso la mia amica con preoccupazione: «Sicura di stare bene?».

«Certo! Sto benissimo. Perché me lo chiedi?», Kate sorride forzatamente.

«Forse perché anche tu fai foto su pellicola?».

Kate si guarda intorno, cerca supporto in Jo e Stephanie. 

 

Questa storia mi puzza.

 

«Kate avrà preso una insolazione. Sta sempre con la fotocamera in mano... A proposito come è andato il tuo primo matrimonio? Ti sei divertita?», Jo parla con un tono più alto del normale. Ha un sorriso fisso stampato sul volto.

Kate racconta del matrimonio, di come abbia aiutato il fotografo, della sposa isterica e degli invitati ubriachi. Parla, parla, parla. Non smette di muovere la bocca e se per caso fa una pausa per prendere fiato, Stephanie e Jonathan intervengono a ruota libera.

Sembrano sotto l'effetto di qualche medicinale.

 

«Che cavolo succede?», chiedo ai miei amici.

«Perché?», tutti e tre mi rispondono in coro.

«Vi hanno rapito gli alieni? Siete entrati a far parte di una setta? Siete strani... Non che di solito siate proprio normali, ma oggi sembrate un po' troppo euforici».

Jo ride: «Nulla, non ti preoccupare. Abbiamo molte cose da fare. Stasera, dopo il turno in gelateria, torni qui da Stephanie, così ceniamo con sua madre. Domani vai a fare shopping con Hanna e Kate e, se non mi sbaglio, hai il turno di sera in gelateria...».

«Ma conosci la mia agenda a memoria? Sembra quasi che mi stiate organizzando la vita», sono un po' scocciata, avere i miei amici sempre presenti quest'estate mi ha fatto bene, ma adesso stanno esagerando. Capisco che non vogliano lasciarmi sola, ma quando è troppo è troppo.

«Vorremmo fare più cose possibili. Mia madre è felice di averci qui a casa. Di solito siamo solo io e lei, un po' di compagnia le fa bene», Stephanie mi sorride dolcemente.

«Hmm, ok. Se c'è qualcosa che dovete dirmi non fatevi problemi. Non mi piace quando fate così».

«Ok!», tutti e tre rispondono in coro con un'espressione forzatamente felice.

«Vi detesto, lo sapete?», con il piede li schizzo d'acqua per poi scappare alla doccia vicino alla piscina. Mi voglio dare una rinfrescata prima di andare in gelateria.

Kate è saltata sul materassino mentre Stephanie cerca di arrampicarsi cercando di rovesciare l'amica in piscina. Entrambe ridono come due bambine. Jo non le aiuta, sta muovendo i piedi così velocemente da creare delle onde che rendono instabile il materassino.

Kate afferra Stephanie per le spalle e, con un piccolo salto, la sommerge. 

Quei tre mi fanno morire dal ridere.

 

Finisco di farmi la doccia togliendomi tutto il cloro dal corpo e i capelli. Per qualche minuto l'acqua tiepida mi avvolge, mi rilasso e cerco di non pensare a nulla. 

 

«Quando hai finito porta un po' di gelato alla frutta. Alla mamma di Stephanie piace molto», Jo mi sta tendendo un asciugamano.

«Certo», afferro il telo ed inizio ad asciugarmi. Mi infilo un paio di pantaloni leggeri, una canottiera. Il caldo sole pomeridiano asciugherà i cappelli.

«Non vuoi che ti accompagni?», Jo mi accarezza il volto asciugando le gocce che cadono dalla fronte.

«No, tranquillo. Con la bicicletta ci impiego poco».

«Vieni qua», Jo mi bacia sulla guancia tenendo il volto con le mani, «Per qualsiasi cosa chiamami, capito?».

«Sissignore», scatto come un militare, «Adesso vado, altrimenti rischio di fare tardi, non ho voglia di litigare con Karl».

 

Inforco la mia bicicletta e lascio la villa di Stephanie che per tutta estate è stata un ottimo rifugio. Ho passato molti pomeriggi in piscina da lei, a volte anche solo per studiare in pace. Il mio appartamento si è trasformato in una succursale della casa editrice dove lavora papà: assistenti, appunti, vocabolari, fogli e cascate di caffè per tutti.

Sono felice per lui, il lavoro sta andando bene, in questo modo non ha tempo per darmi troppa attenzione. Non credo avrei la pazienza di sopportarlo.

Guardo l'orologio, mancano dieci minuti all'inizio del turno. Pedalo più in fretta che posso, saltando da un marciapiede all'altro, percorrendo le strade semi deserte sotto il caldo sole pomeridiano.

Quando arrivo in gelateria i capelli sono completamente asciutti, la pelle è accaldata e ho il fiatone. L'aria condizionata del negozio è un sollievo.

 

«Ciao Elena. Ho avuto un ordine per una festa di compleanno. Sono sul retro a fare la torta, tu sistema le vaschette e riordina tutto... Sai quel che devi fare, va bene?», Karl sta portando due vaschette colme di gelato nell'espositore. 

«Certo. I gusti sono quelli di ieri?», chiedo mentre mi infilo la divisa e osservo le vaschette esposte.

«Sì, al mercato ho trovato ottima frutta fresca: pesche, albicocche, anguria, melone piu tutti gli altri», Karl mi da una pacca sulla schiena augurandomi buon lavoro.

 

Nel pomeriggio, di solito, arrivano un sacco di clienti: gruppi di bambini golosi, adulti in vacanza, turisti di passaggio. L'Italian Cream è una certezza, non esiste gelato più buono a New Heaven.

Inizio a pulire il bancone e sistemare gli sgabelli intorno ai tavolini, poi riempio i porta tovaglioli e svuoto i cestini. Pulisco con attenzione il vetro dell'espositore di gelati, avvicino il cartellino al proprio gusto. Passo poi a svuotare la lavastoviglie mettendo le coppe di vetro in bella mostra sulle mensole, vicino agli sciroppi alla frutta.

Sto per accendere la macchina per i frappé quando il campanello dell'ingresso tintinna allegro.

«Buongiorno, benvenuto all'Italian Cr... », le mie labbra si serrano.

Andrew Cossé-Brissac del Saint Jude è di fronte a me. È più abbronzato di come lo ricordavo alla gara di dibattito, indossa una camicia di lino bianca, pantaloni blu e mocassini abbinati. 

Si avvicina al bancone con una mano in tasca e osserva con attenzione i gusti di gelato.

«Credo prenderò un cono. Che gusti mi consigli?», Andrew sorride diabolico.

«Che cosa vuoi veramente?», la mia faccia è senza espressioni, non ho intenzione di dargli corda.

«Che modi sgarbati. Mi hanno parlato tutti bene di questo posto. Sono venuto solo a prendere un gelato».

Osservo per qualche secondo Andrew, tipi come lui hanno sempre qualcosa in mente, l'ho imparato a mie spese: «Se vuoi solo un cono ti consiglio il gusto pesca. Karl produce il gelato con frutta fresca, qui in zona sono una specialità», con la cialda in una mano e la paletta nell'altra aspetto che mi dica che gusti vuole.

«Sono indeciso. Vorrei qualcosa di saporito, con personalità, ma allo stesso tempo non voglio che mi annoi il sapore. Sai, tendo a stancarmi piuttosto facilmente delle cose», Andrew non mi sta guardando, chinato osserva le vaschette di gelato, «Credo il gusto pesca sia troppo dolce, un po' stucchevole. Mi piacciono i gusti più grintosi. Oggi però voglio lanciarmi in esperienze nuove. Posso avere un assaggio del gusto pesca?».

 

Con calma prendo un cucchiaino e prelevo una piccola porzione di gelato che porgo a Andrew. 

 

«Delizioso. Non mi aspettavo un retrogusto asprigno. Si bilancia bene con la dolcezza del frutto... Credo potrei impazzire per un gelato del genere», mordendosi le labbra Andrew mi guarda fisso negli occhi.

«Quindi che gusti vuoi?», non ho voglia di cedere alle sue provocazioni.

«Tutto pesca, grazie».

 

Con la paletta compongo il cono con una dose generosa di gelato.

Cerco di mantenere la calma nonostante senta il peso dello sguardo di Andrew, mi squadra con insistenza.

«Ecco», dico porgendo il cono.

«Grazie», Andrew assaggia il gelato gustandolo con attenzione, «Devo dire che quest'estate non ho mangiato gelati così buoni. In California non ho trovato gelaterie all'altezza, certo mi sono divertito a casa di Rebecca, ma non era molto attrezzata per i dolci».

 

California?

Casa di Rebecca? 

Se Andrew è a New Heaven significa che anche James è tornato.

Impallidisco, le gambe mi tremano. L'idea di rivederlo mi fa mancare il fiato.

 

«Ho passato un'estate molto divertente, un sacco di feste, locali e seratine niente male. Le ragazze californiane sanno come fare baldoria», Andrew morde il gelato senza smettere di guardarmi.

 

Elena mantieni il controllo.

Elena mantieni il controllo.

 

«Quanto ti devo?», mi chiede.

«O-Offre la casa. Un omaggio di bentornato», la voce è flebile, il cuore batte forte nel petto.

«Meglio così. Adesso devo andare», come se nulla fosse Andrew si gira e si incammina verso la porta, «Un'ultima cosa... Di' alla tua amica, la rossa, che Lucas le vuole parlare. Da quando è tornato, lei si rifiuta di vederlo. L'ha cercata così tante volte che ormai ha perso il conto».

«Va bene, riferirò», rispondo cercando di mantenere il controllo della voce e del mio corpo.

Con flemma e arroganza Andrew spalanca la porta della gelateria, un'ondata di calore penetra nel locale. Prima di uscire allunga il braccio e butta il cono gelato nel cestino: «Te l'ho detto che mi annoio facilmente... È troppo dolce», poi se ne va.

 

Come una furia mi lancio sulla borsa e prendo il telefonino. Con le dita che mi tremano schiaccio i tasti.

Il telefono squilla libero.

«Pronto. Ciao Elena tutto bene?», mi chiede Jo dall'altra parte dell'apparecchio.

«Perché non mi avete detto che James è tornato? Perché me lo avete tenuto nascosto?», urlo, le lacrime cadono come una cascata, erano settimane che non piangevo. L'ansia, provata alla morte di Demetra, mi assale tutta in un colpo.

Jo tentenna: «Hmm... James è ancora in California, non è rientrato in città con Rebecca, Lucas e Adrian. Non credo lo rivedremo presto. Per questo non ti abbiamo detto niente, forse non viene più... A New Heaven intendo». 

 

Le ginocchia cedono al peso di quelle parole. 

Mi manca il fiato al solo pensiero di non poterlo più vedere.

La sola idea mi distrugge.

James non frequenterà l'ultimo anno al Trinity? 

E io? Sarò in grado di reggere il peso della vita senza lui?

 

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Capitolo 4
*** IERI: Chiacchiere da camerino ***


IERI:
Chiacchiere da.camerino




Il centro città si è ripopolato, sembra che le vacanze siano un ricordo lontano. L'abbronzatura sta scolorendo dai volti, i sorrisi si sono spenti lasciando il posto alle preoccupazioni di ogni giorno: lavoro, traffico, impegni e scadenze. Nulla è cambiato, ognuno segue il percorso che conosce, ricalca la vita che faceva mesi fa. Marionette. Anch'io mi sento una marionetta.

 

«È una giornata importante oggi. Ho preso un giorno di ferie proprio per accompagnarvi», Hanna sta guidando la macchina e non smette di parlare, «Ho prenotato le divise nuove, vedrete che meraviglia».

«Mamma, saranno uguali a quelle dell'anno scorso. Perché spendere soldi per delle divise che già possediamo?», Kate lancia un'occhiataccia a sua madre.

«Il decoro è importante al Trinity. Non avrei mai potuto lasciarvi andare a scuola con divise vecchie e consumate».

 

Come fosse quello il problema. 

La cosa più importante a scuola è l'apparenza, fare parte del gruppo di quelli popolari e prendere i voti più alti. Non importa a nessuno se, per fare questo, si debba mentire, ingannare e complottare. Le bugie e le maschere indossate da tutti sono il vero problema, non le divise consumate.

 

«Eccoci arrivate», Hanna parcheggia di fronte alla sartoria.

Scendo dalla macchina senza la minima voglia, Kate mi prende per mano.

Da quando ho incontrato Andrew in gelateria, non ho avuto ancora modo di chiarire, con lei. Non ho voluto approfondire il perché non mi abbia detto nulla sul rientro di Rebecca e gli altri a New Heaven. Non ne ho la forza.

Penso solo a James.

Il fatto che non torni più a New Heaven è una cosa che non mi aspettavo. In queste settimane ho pensato un miliardo di volte a come mi sarei comportata la prima volta che l'avrei rivisto. Un miliardo di ipotesi e un miliardo di lacrime. 

Mi sento vuota, come se non avessi più nulla da aspettarmi.

 

Entriamo nel negozio, è pieno di studenti del Trinity. Ci sono le matricole agitate, quelli dell'ultimo anno che si specchiano in continuazione e ragazzine che spettegolano senza sosta e ridacchiando. Decine di divise verdi e blu che sfilano davanti ai miei occhi.

«Oddio», mi scappa da dire.

«Che c'è Elena? Non è stupendo. Sembra di essere tornati a scuola», Hanna spinge un gruppo di ragazzi che occupano parte dell'ingresso, sventolando il foglio con la prenotazione delle divise.

«Appunto. Un incubo», bisbiglio. 

A testa bassa seguo Hanna e Kate che al bancone aspettano il loro turno. Non vedo l'ora di uscire da lì, vorrei che tutto finisca il prima possibile.

 

Tre ragazzine mi si avvicinano con aria risoluta, la più bassa mi si piazza davanti: «Come hai potuto lasciare James? Voi due siete bellissimi insieme, non ci è piaciuta la tua mossa. Sappi che James è il numero uno e quando il numero uno diventa il tuo ragazzo non lo puoi mollare. Sei matta?».

«Cosa state dicendo?», quella ragazzina parla così velocemente che ho capito la metà di quello che ha detto.

«Non dovevi lasciare James. Noi tifavamo per voi, capito? Quando comincerà la scuola dovete rimettervi insieme, altrimenti quelle smorfiose che adorano Rebecca l'avranno vinta».

«Vinta?», ripeto a pappagallo.

Le tre ragazzine mi guardano come fossi una aliena: «Credevo fossi più... Più... Perspicace. A questo punto credo che Rebecca avrà la meglio», poi si girano di scatto e raggiungono le altre ragazze spettegolanti.

 

Intontita e confusa, dalla raffica di parole, raggiungo Kate nei camerini che sta iniziando a indossare la divisa.

 

«Una ragazzina mi ha detto che devo ritornare con James e che tifano per me. Almeno credo... Sai qualcosa?», inizio a sfilarmi il vestito. La camicia di cotone bianca, con ricamato il simbolo del Trinity è appesa di fronte a me. Con le dita sfioro i bottoni e il morbido tessuto.

«Il fatto che una ragazza semplice come te, uscisse con James, è piaciuto a molte persone al Trinity. James era... Come dire... Inavvicinabile. Credo lo abbiano visto più umano», Kate si sta abbottonando la camicia.

«Non mi importa molto di quello che pensano gli studenti del Trinity e...».

Kate mi interrompe: «Non riesco più a trattenermi... Jo ci ha detto che hai visto Andrew del Saint Jude e che ti ha detto che ha passato l'estate in California», Kate si sta infilando la gonna, «Mi dispiace non averti detto nulla, ma dato che James non è tornato in città non volevamo turbarti».

Sento un groviglio di rabbia che si agita nel petto. Irrazionale. Animalesco. Totalmente privo di logica. Nonostante sappia che non è colpa della mia amica, non posso fare a meno di sentirmi tradita da lei: «Avrei voluto saperlo. Non sono ammalata, non sono stupida. Ho il cuore a pezzi, tutto qui».

«Hai ragione. Ma cosa avresti fatto appena avresti saputo che Rebecca e gli altri erano tornati? Saresti corsa da James, vero? Stephanie, Jo oppure io, avremmo mai potuto fermarti?».

«No. Avrei fatto di tutto pur di vederlo», è inutile che menta a me stessa, sarei impazzita se avessi saputo che James fosse tornato in città. 

 

Mi infilo la camicia, il tessuto fresco mi fa venire la pelle d'oca. Kate mi toglie i capelli incastrati tra la schiena e il tessuto per poi farli ricadere morbidi.

 

«Grazie. Credo abbiate fatto bene a non dirmi nulla», le dico a bassa voce.

Kate mi abbraccia da dietro stringendomi forte.

«Non volevamo farti stare male inutilmente», mi dice.

«Avrei voluto solo saperlo», le prendo le mani intrecciandole con le mie.

 

La faccia di Hanna sbuca dietro la tenda del camerino: «Allora! Siete pronte?».

«Un attimo mamma!», Kate guarda in cagnesco la madre che sparisce con la stessa velocità con cui è comparsa.

 

«S è sconvolta, non lo ha dato a vedere, ma il ritorno di Lucas l'ha molto turbata. Non si sono lasciati bene», Kate ha gli occhi lucidi.

«Non avevo pensato a Lucas... Mi dispiace per lei», in tutti questi mesi non ho pensato a Stephanie neanche una volta. Si è lasciata con il ragazzo con cui stava da anni, per colpa mia per giunta. Sono veramente pessima.

«Tranquilla. Nell'ultimo periodo le cose tra loro non andavano molto bene. Lucas può essere un po' autoritario volte», dice Kate infilandosi la giacca.

«Un po'? Un dittatore, a suo confronto, è un pacifista!», sbotto io.

Kate ed io ci guardiamo un millesimo di secondo e poi scoppiamo a ridere, proprio come facevamo fino a pochi mesi fa. È bello rivedere la vecchia me stessa ogni tanto.

«La madre di Stephanie era molto legata a lui, negli ultimi anni ha fatto affidamento su Lucas per tutto. Ha preso un po' male la rottura tra i due, ma poi ha accettato la scelta della figlia. È così serena S e molto più sicura di se stessa, non trovi?».

 

Ripensandoci, nell'ultimo periodo, Stephanie è come fosse sbocciata. Sembra più felice. Anche la sua bellezza pare esplodere, i suoi capelli rossi e gli occhi verdi sembrano più luminosi. A volte una rottura può migliorare una persona, mentre altre volte no. Io ne sono l'esempio: occhiaie perenni, sguardo spento, ho smesso pure di mangiare cioccolata.

 

«Come ti sembra la divisa?» Kate fa una piroetta.

«Hmm... Uguale a quella dell'anno scorso», effettivamente non c'è differenza.

«Detesto mia madre, uno spreco di tempo e denaro», Kate mi passa la giacca «Mettila prima che venga lei a vestirti di persona».

Indosso la giacca, mi osservo per pochi secondi allo specchio. Quella divisa significa così tante cose e mi rimanda a una moltitudine di emozioni, che mi manca il fiato. Ho vissuto talmente tante esperienze nell'ultimo anno che non posso fare a meno di amare e odiare, allo stesso tempo, la divisa che indosso.

 

Kate esce per prima dai camerini accolta dai gridolini eccitati di Hanna. La seguo a ruota.

«Siete bellissime, stratosferiche, mega galattiche, indescrivibili...», Hanna batte le mani, sembra una bambina in un negozio di giochi.

Kate ed io arrossiamo, mezzo negozio si è girato a guardarci.

«Ha ragione, state benissimo», Jonathan sbuca con un paio di cravatte in mano.

«Che ci fai tu qui?», chiedo al mio amico.

Dalle sue spalle spunta la madre di Jo, ci saluta con molta discrezione. È una donna estremamente riservata, non dice una parola a differenza di Hanna che inizia a chiacchierare a ruota libera tartassandola di domande. 

«Mi dispiace, mia mamma la prosciugherà di ogni energia», dice Kate a Jonathan.

«Non ti preoccupare, mia madre ha le spalle larghe, saprà resistere», Jo mi prende per mano e mi osserva con attenzione, «Sei fantastica Elena».

Arrossisco: «Non sono molto diversa dall'anno scorso, la divisa è identica».

«Ti sbagli...», mi sussurra dolcemente in un orecchio.

 

Sono completamente in fiamme, il mio volto è rosso. Non ho pensato più a Jo come un ipotetico ragazzo, per me il discorso è archiviato. Non ho mai illuso Jo. Certo abbiamo passato l'estate insieme: a casa di Stephanie, nell'ufficio di Nik o durante le gite in campagna. Abbiamo legato molto, tra noi c'è una alchimia particolare, ma niente di più che un'amicizia. Ho molta confusione per quanto riguarda i miei sentimenti, non voglio complicarmi la vita ancora di più.

 

«Ti sbagli...», mi ripete, «... Adesso sei più vecchia dell'anno scorso! Vedo diverse rughe, e qualche capello bianco», Jonathan mi strofina il pugno sulla testa arruffandomi i capelli.

«Idiota», eccolo il Jo che conosco.

Kate ridacchia mentre Jo mi tortura di pizzicotti.

 

Un rumore di tacchi proviene alle nostre spalle.

Le leccapiedi di Rebecca sono schierate una di fianco all'altra e ci osservano disgustate.

Hanno in mano diverse custodie di plastica con delle nuove divise.

 

«Dalle stelle alle stalle», mi dice una tizia truccatissima. Le sue amiche ridacchiano come tante oche. 

«Rebecca ci ha chiesto di ritirarle dei pacchi qui in sartoria», dice una ragazza con l'aria snob, «Non credevo che avrebbero permesso a doppi occhi, a pezzenti e immigrati di mettere piede qui dentro».

«Rimangia subito quello che hai detto, altrimenti...», Jo è scattato come una molla.

«Altrimenti cosa? Vieni dai quartieri popolari e inoltre hai corrotto una ragazza due anni fa...», dice quella truccatissima.

«Jo non ha corrotto nessuno. Rebecca lo ha incastrato per non farlo entrare al club di Dibattito al secondo anno», ribatte Kate.

«Questione di punti di vista. Resta il fatto che lui è feccia, noi no».

 

Jo sta tremando per la rabbia mentre Kate ha gli occhi lucidi.

 

«Credo sia meglio che ve ne andiate», dico seria.

«Perché dovrei darti ascolto? Non vali nulla adesso che non stai più con James», mi dice la ragazza con l'aria snob.

«Può anche darsi... Sta di fatto che io, in pochi mesi al Trinity, sono entrata nel Gruppo A del Club di Dibattito, ho conquistato il ragazzo numero uno della scuola e ho fatto altre cose che voi non avreste neanche l'intelligenza di capire. Quindi, se non volete che vi prenda di mira o mi accanisca contro di voi, credo sia il caso la smettiate di scimmiottare Rebecca. Di lei ce ne è una sola e più di una volta l'ho battuta. Quanto credete mi ci voglia a distruggervi?», sto guardando quelle ragazze con l'aria più minacciosa che possiedo. Sto bluffando alla grande, non ho la minima intenzione di entrare nei giochi contorti e malati del Trinity, non ho voglia di complotti e inganni, ma quelle quattro sceme hanno esagerato.

«Co-come osi. Ri-riferiremo a...», balbetta la ragazza truccatissima.

«A Rebecca? La vostra mammina?», il mio tono di voce è palesemente ironico.

Le tirapiedi, con la bocca aperta, pallide e spaventate, indietreggiano molto lentamente. In pochi secondi si confondo con gli altri studenti, sparsi nel negozio, sparendo dalla mia vista.

 

«Questa è la Elena che conosco!», Kate mi da una pacca sulla schiena.

«Era ora! Dove tenevi nascosto il tuo carattere?», mi chiede Jo.

«Stop!», i miei due amici mi guardano perplessi, «Niente bugie, intrighi, Club di Dibattito, guerre, litigi, sfide o altro. Io ne sono fuori. Quelle quattro oche dovevano essere zittite, ma non si ripeterà più. Frequenterò il Trinity come una studentessa qualsiasi. Voglio restare il più anonima possibile e farmi gli affari miei».

«Scusa Elena, ma non credo tu possa resistere. Fa parte di te essere... Essere... Essere come sei», Kate mi guarda divertita mentre Jo annuisce.

«No, questa volta dico sul serio. Non ho più voglia di giocare sporco, sono stanca», senza aggiungere altro mi dirigo verso i camerini a togliere la divisa.

 

Jo e Kate non capiscono, non voglio intromettermi nella vita di nessuno, non voglio attirare l'attenzione degli altri studenti, non voglio fare nulla che mi ricordi James. 

Vorrei sparire, cambiare scuola, cambiare nazione, vorrei cancellare parte dei miei ricordi. Vorrei provare a vivere senza sapere cosa vuol dire amare ed aver perso l'oggetto del desiderio, aver perso James, il mio grande amore.

Vorrei tante cose che non posso. Il tempo non può riavvolgersi e tornare indietro, non posso rimediare agli errori fatti. Posso solo fingere di stare bene, illudermi di essere felice e sperare che il vuoto che ho dentro smetta di crescere aumentando la sofferenza.

Devo attendere e dimenticare.

Stringere i pugni e trovare un motivo per cui lottare.

 

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Capitolo 5
*** IERI: Quando finisce l'estate ***


 

IERI:
Quando finisce l'estate
 





Detesto il caffè americano, un'insulsa brodaglia senza sapore. 

Apro la macchina.

Infilo la cialda formato extralarge.

Chiudo e accendo.

Il liquido ottenuto lo verso nelle tazze che consegno ai vari avvocati.

Corro da un ufficio all'altro per poi ricominciare tutto da capo.

Avrò preparato migliaia caffè quest'estate, quando Nik mi ha detto che sarei stata la sua tuttoffare aveva perfettamente ragione. Anche Stephanie, tra fotocopie, fare punte alle matite e ordinare gli appunti, si è completamente esaurita.

 

«Non si riposano mai?», Stephanie ha sulle gambe tre grossi tomi con le trascrizioni delle deposizioni.

«Credo che tutto il caffè che hanno in corpo li renda il triplo più attivi», con la fronte appoggiata alla parete aspetto che il caffè sia pronto, «Se qualcun altro oggi mi chiede un caffè, lo strozzo».

«Se vuoi ti cedo il lavoro che sto facendo per l'avvocato Spencer. Mi manda da un ufficio all'altro in cerca di faldoni. Ho le braccia a pezzi», Stephanie, di solito composta e contenuta, è sudata e spettinata.

«No grazie. Fortuna che oggi è l'ultimo giorno, non ne potevo più», il caffè borbotta. È pronto. Spengo la macchinetta in attesa che qualche avvocato reclami la sua dose di caffeina.

«Solo Jonathan si è divertito. Non si è mai lamentato, anzi, pareva molto felice», Stephanie si alza tenendo i tomi ben stretti tra le braccia, «In tutta sincerità, tu faresti questo per il resto della tua vita? L'avvocato intendo. Io no, neanche se mi pagassero profumatamente».

«Scherzi, non voglio diventare pazza. Non fa per me».

«Stephanie fai questo. Stephanie fai quello. Mai una volta che gli andasse bene qualcosa. Lo sai che l'avvocato Spencer mi ha chiesto di andargli a prendere il pranzo dall'altra parte della città? Ho perso un'ora come minimo e poi non l'ha neanche mangiato. E Nik? Ha voluto che cercassi l'audio della deposizione del cliente che ha fatto tre mesi fa. Ho passato quattro ore a sentire registrazioni, chiacchiere e discussioni. Una noia mortale».

«Quei due dirigono lo Studio McArthur peggio che dei mastini», dico mentre mi stiracchio.

 

L'esperienza nello studio legale mi ha fatto capire che questo non è il lavoro che fa per me, non ci sono proprio portata. Mi sarebbe difficile trattenere le emozioni e controllare i miei malumori con i clienti. Impazzirei dopo una settimana, ci sono troppe responsabilità e complicazioni che minerebbero la mia scarsa capacità di autocontrollo. 

Per Nik invece è tutto l'opposto, sembra un'altra persona qui dentro: giacca, cravatta e fronte corrugata perennemente. Non che ci sia nulla di male, solo che mi fa strano vederlo cupo e sempre indaffarato a leggere qualche scartoffia. Ha molte responsabilità, visto che George ha affidato a lui e all'avvocato Charlie Spencer la direzione dell'ufficio a New Heaven. Sono entrambi molto determinati, professionali ed estremamente precisi, per questo sono stati nominati soci, sono considerati i migliori giovani avvocati di Boston. 

 

Dal corridoio sento urlare, qualcuno vuole il caffè. 

Prendo la caraffa e mi dirigo alla ricerca del caffeinomane di turno. 

Il viavai nell'ufficio è frenetico, da ogni porta del corridoio escono avvocati, assistenti o praticanti che telefonano, leggono o controllano grossi faldoni.

Devo stare attenta a schivare quelle schegge impazzite, potrebbero colpirmi e farmi ustionare. 

«Caffè!», un vocione rimbomba forte.

Mi affretto, guardo nei diversi uffici alla ricerca dell'avvocato che mi ha chiamata.

«Caffè!», la voce arriva dal fondo del corridoio. È l'ufficio di Nik.

Busso alla porta semichiusa.

«Vieni Elena, chiudi la porta e dammi un secondo», Nik sta consultando un grosso plico di fogli.

 

Ubbidiente aspetto che finisca di leggere il documento. Gli occhi di Nik si muovono velocemente sul foglio, con un evidenziatore sottolinea delle frasi, è concentratissimo. Il buon professor Martin è uno squalo sul lavoro, meticoloso e puntuale. 

L'ho osservato per settimane, ho visto come i suoi occhi luccicano quando riesce a fare un passo avanti nella causa, a torchiare un sospettato o avere le prove che servono per chiudere il caso. È come se fosse più vivo, come se essere avvocato fosse parte integrante di lui.

Non ho avuto molto tempo per parlargli quest'estate, è stato molto indaffarato con l'ufficio. Non ho voluto ossessionarlo con le mie paturnie, del resto non mi ha chiesto mai nulla di James, forse per non farmi soffrire o forse perché non gli interessa. Non lo so, tra noi c'è un'amicizia che va oltre, è come se mi avesse presa a carico e volesse proteggermi, come se cercasse di farmi stare bene, per quanto possibile. 

 

Nik appoggia il foglio, mi fa cenno di avvicinarmi.

Raggiungo la scrivania alla ricerca della tazza da riempire, non la trovo.

«Non volevo il caffè», mi dice mentre si toglie gli occhiali e si strofina gli occhi.

«Ma... Io...», mi sento un'idiota con la caraffa in mano.

«Oggi è l'ultimo giorno, tra poco ricomincia la scuola. Volevo dirti che hai fatto un ottimo lavoro, se avrai bisogno di una lettera di raccomandazione per Yale puoi chiedere a me», Nik è serio, mi osserva da dietro la scrivania.

«Grazie, ma non credo che essere un'avvocato sia la mia strada. Penso che il Club di Dibattito e Yale non siano cose che fanno per me, c'è troppo stress, non potrei sopportarlo».

«Sono in contatto con il rettore e i migliori docenti dell'ateneo, potresti entrare senza problemi. Ti manca la base, ma puoi sempre impararla, basta lo studio. Hai un intuito fenomenale, non puoi buttare tutto via», Nik si è alzato in piedi. Con calma mi raggiunge, prende la caraffa calda del caffè dalle mie mani e l'appoggia sulla scrivania. 

«Nik, io... io, non ho voglia di...».

«... Vedere James o frequentare i Club in cui c'è lui? Significa che rinuncerai a quello che ti piace, e per cui sei portata, solo perché c'è James? È una follia, non puoi rinunciare a vivere per lui», il tono che usa è duro, troppo duro. I suoi occhi azzurri sono un libro aperto, riesco a capire in un secondo quando è felice, preoccupato o arrabbiato, come in questo momento. Rabbia, in lui c'è molta rabbia.

«Io non rinuncio a niente, solo che...».

«Guardati, sembri lo spettro di te stessa», Nik mi prende le braccia, cerca il contatto visivo con me, lo evito. 

 

Non voglio che mi guardi. 

Non voglio che mi dica ciò che già so. 

Non voglio che renda reali le paure che non voglio affrontare.

 

«La Elena che conosco è vitale, cocciuta, emotiva e brillante. Ora sembri un guscio vuoto, smunto, triste e stanco. Non puoi lasciarti andare così per James, cosa succederà quando seguirete uno stesso corso al Trinity? Non andrai più a scuola?».

«Non c'è pericolo, James non tornerà al Trinity. È rimasto in California», le parole mi escono di getto, quasi urlate. Trattengo le lacrime che riempiono gli occhi.

«Cosa? Non ha senso... Perché dici una cosa del genere?», Nik mi si è avvicinato, mi sta tenendo il volto tra le mani, «Sei sicura? Magari è uno scherzo».

«Rebecca, Adrian e Lucas sono a New Heaven da qualche giorno, di James non c'è traccia», gli rispondo con un filo di voce.

 

Nik muove delicatamente le mani sul mio volto, il suo massaggio mi rilassa e conforta. Le lacrime, che fino ad ora ero riuscita a trattenere scivolano sulle mie guance.

Vorrei riuscire a trovare le parole per quello che provo, vorrei riuscire a spiegare ai miei amici come fa male, ma non riesco. Non riesco neanche a dirlo a Nik, non riesco perché il vuoto che ho dentro è così grande che non si può descrivere.

 

«Non puoi e non devi farti influenzare così dalle persone. Devi diventare più forte e capire che tu sei speciale per come sei. Non sono le persone a definirti, ma sono le tue azioni. Dimentica James, hai solo diciassette anni, ti innamorerai un milione di volte e vivrai esperienze che ti aiuteranno a crescere», Nik mi guarda con il suo sguardo intenso, quello che ho imparato ad adorare di lui. La sua dolcezza mi investe, mi avvolge.

«Innamorarmi un milione di volte, non ti sembra un po' eccessivo? Per ora non ho voglia di impegnarmi con nessuno», sorrido timidamente.

«Non buttare i tuoi sogni, i tuoi talenti le tue capacità. Non ne vale la pena, un amore finito non può distruggere la bella persona che sei. Ritrova te stessa e combatti per la vita che ti meriti».

 

Nik ed io ci fissiamo. In lui trovo quel conforto che mi è mancato negli ultimi anni. È come se, quando siamo insieme, fossi avvolta da qualcosa di morbido, caldo e protettivo. 

 

«Nik, continuo a perdere tutto ciò che amo. Ho perso mia madre, Demetra, James e... e adesso anche te. Non sarai più il mio professore, non avrò più la certezza di vederti gironzolare per scuola, spiegare una lezione o tartassare Rebecca. Ho solo Kate, Jo e Stephanie. Nient'altro. Per quanto riusciranno a tenermi impegnata? Per quanto riusciranno a sollevare la mia tristezza? È come fossi in fondo al mare, ancorata al fondo sabbioso. Ho una zavorra che non riesco a togliere... Ci provo, ti giuro, ma non riesco», tremo leggermente, mi è difficile confrontarmi con il mio dolore.

«Elena. Elena. Elena», le mani di Nik raccolgono più lacrime possibile, le sue dita si muovono sul mio volto freneticamente, «Sei una ragazzina che sta iniziando a scoprire il mondo, a volte farà male e altre volte no. Ritornerà la felicità, stanne certa».

 

Mi tuffo tra le braccia di Nik desiderando che mi stringano il più forte possibile. Voglio sentirmi capita, nulla di più. Voglio poter sfogare le mie emozioni senza sentirmi giudicata. Lui è lì per me, mi è sempre stato vicino, anche se non mi sono sempre accorta. Lo stage, i caffè, le fotocopie e tutto il resto, erano il suo modo per dirmi di continuare a vivere, a crescere e lottare.

 

«Passerà, fidati. Il tempo guarirà le tue ferite», mentre mi abbraccia Nik mi bacia più volte la testa, «Sarai una fantastica donna, avrai una vita meravigliosa e... e spero ti ricorderai del tuo vecchio amico Nicholas Martin».

«Finisce l'estate e finisce anche lo stage. Quindi è il momento di dirsi definitamente addio?», cerco di non pensare che questo sarà l'ultima volta che potremo stare così vicini.

«Non ho idea quando succederà, ma gira voce che George voglia tornare presto a Boston... Una volta che l'ufficio sarà trasferito, io andrò definitivamente via da New Heaven».

«Posso chiamarti ogni tanto? Tanto per romperti un po' con le mie lagne adolescenziali», mi viene da ridere e da piangere allo stesso momento.

«Certo, quando vuoi», Nik mi passa un fazzoletto sulle guance, «Cara Elena Voli, hai ufficialmente terminato il tuo stage tre minuti fa. Credo che Stephanie non veda l'ora di fuggire da questo ufficio, come te del resto».

«Siete tutti matti qui dentro», dico sghignazzando tra le lacrime, cercando di stemperare la tensione che si è venuta a creare.

Nik si sta mordendo un labbro. Sorride, ma capisco che è nervoso: «Addio Elena, è stato un onore conoscerti». Con delicatezza mi bacia sulla guancia, i nostri visi sono a pochi centimetri l'uno dall'altro. Fisso i suoi occhi azzurri come il cielo, umidi di lacrime.

«Addio Professor Martin, l'onore è stato mio», la mia voce è fragile, rotta dalla commozione.

Le nostre dita intrecciate si sciolgono, per l'ultima volta si sono sfiorate.

 

Non c'è dolore più grande di perdere ciò che si ama con candore, senza malizia.

Io amo Nik. Lo amo perché è una roccia, perché sa ascoltare, perché è come un fratello, perché mi protegge, perché capisco le sue fragilità. Lo amo perché mi è stato vicino, sempre, senza intromettersi mai nelle mie scelte.

 

Esco dall'ufficio di Nik, mi asciugo gli occhi cercando di darmi un certo contegno. Stephanie è fuori dalla porta, mi aspetta con la mia giacca in mano: «È finita! Non vedo l'ora di uscire da qui», mi dice euforica.

«È stata una fatica, ma ne è valsa la pena», le rispondo mentre mi infilo la giacca.

«Se ci pensi l'estate è proprio finita: ultimo giorno di stage e ultima prova con Kate prima che inizi la scuola. Stasera viene anche Jo a sentirci cantare?», mi chiede Stephanie.

«Non so, dopo lo chiamo», rispondo senza pensare.

 

Il mio corpo, la mia pelle e i miei sensi sono come anestetizzati. Le parole di Stephanie paiono distorte, non la ascolto più.

Con la mano mi tocco la testa, sopra, in mezzo ai capelli.

Cerco un punto preciso.

Un anno fa circa, un libro mi è caduto in testa.

È stato Nik. 

Quel libro è scivolato dalle mani di Nik in libreria.

Allora mi chiesi se, quel ragazzo con gli occhiali e la felpa di Yale, l'avrei mai più rivisto.

Adesso mi chiedo lo stesso e, come allora, non ho risposta.

 

Il corridoio è pieno di avvocati, assistenti e praticanti che telefonano, leggono o controllano grossi faldoni. Schivo le persone evitando che mi colpiscano.

Trascino i piedi fuori dallo studio McArthur con un peso che mi àncora come fossi ingabbiata al fondo sabbioso del mare. 

Ho una zavorra che non riesco a togliere.

Ci provo, lo giuro, ma non riesco.

Non posso più nascondermi, non avrò più il mio rifugio caldo e dolce come il miele.

Il mio caro Nik non ci sarà più, il mio salvagente è affondato con me.

 

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Capitolo 6
*** IERI: Il primo giorno di scuola ***


IERI:

Il primo giorno di scuola




«Elena, il tè è pronto», papà mi chiama dalla cucina, «Non fare tardi, oggi è il primo giorno di scuola».

«Un attimo due minuti e arrivo».

 

Me lo immagino papà, con una fetta di pane in bocca, il caffè in mano mentre controlla gli impegni della giornata. Starà pensando che sia ancora nel letto a poltrire e non abbia voglia alzarmi. Invece sono sveglia da un paio d'ore, accoccolata sulla poltrona in camera, avvolta nel lenzuolo, a guardare fuori dalla finestra. Non sono riuscita a dormire bene stanotte.

Troppi pensieri.

Il buio della notte ha lasciato, pian piano, spazio alla luce che come ogni mattina, puntuale e carica di energia ha illuminato la città. Le strade di New Heaven si sono riempite di persone man mano che il sole faceva capolino: gli spazzini a raccogliere i rifiuti, gli operai pronti ad andare al lavoro, mamme con passeggini e uomini d'affari in giacca e cravatta.

Una normalità che anche io andrò a completare, sarò una delle decine di divise verdi e blu che scorrazzeranno per la città, dirette al Trinity Institute per affrontare il primo giorno di scuola.

 

Mi alzo con malavoglia dalla poltrona, mi sento al sicuro avvolta nel lenzuolo. L'idea di rivedere Rebecca e gli altri non mi va proprio. Mi disturba parecchio l'idea che dovrò seguire dei corsi con loro. 

Raggiungo mio padre in cucina, con i capelli piazzati davanti al volto fingo di essere assonnata, in questo modo non mi assillerà con troppe domande.

Il profumo del mio tè preferito mi inonda le narici, il pane con il miele spalmato mi aspetta. Ne mangiucchio qualche boccone, tutta quella dolcezza mi nausea un po'.

Doccia veloce, una spazzolata ai capelli, un filo di matita nera. 

Indosso la divisa.

Sono pronta, Kate dovrebbe passare da un minuto all'altro.

 

Papà è al telefono con Tess, una sua assistente, sta parlando della collana di romanzi che sta traducendo. Ormai è talmente preso dal lavoro che non si rende neanche conto di come sto. Lo osservo, credo non si sia nemmeno accorto che sono seduta sulla sedia in salotto davanti a lui. Era da molto tempo che non lo vedevo così coinvolto, mi fa piacere vederlo attivo. Almeno lui è felice.

 

Kate mi scrive un messaggio in cui mi avvisa che è sotto la mia palazzina.

Esco di casa salutando mio padre che non mi sente neanche. 

 

In macchina con Kate ci sono pure Stephanie e Jo: «A che ora ti sei alzata per recuperare la cavalleria?», chiedo ironicamente.

«È il primo giorno dell'ultimo anno al Trinity, ho pensato sarebbe stato carino andarci tutti insieme», Kate mette in moto la macchina e inizia a guidare verso la scuola.

«Sì, come no», dico mentre Jo ridacchia, «Guarda che a me sarebbe andato bene l'autobus, come sempre. Se avete paura che possa fare scenate con Rebecca, scordatevelo. Non ho intenzione di dare corda a nessuno. Sarò neutrale».

«A noi importa che tu stia bene, il fatto che non ci sia James a scuola, non significa che tu non soffra. Rivedere certi posti potrebbe scatenare ricordi che fanno male», Stephanie, seduta di fianco, mi stringe la mano.

L'ultima frase che ha detto non è rivolta solo a me, Stephanie sta parlando anche a se stessa. Anche se in questi giorni mi ha ripetuto un milione di volte che Lucas è un capitolo archiviato, non posso fare a meno di pensare che anche lei possa soffrire ricominciando a frequentare il Trinity. Sono stati una coppia per così tanto tempo, lei e Lucas, che non riesco neanche ad immaginare come si possa sentire.

«Se siamo uniti andrà tutto bene», le mie parole vogliono confortare Stephanie e anche un po' me.

 

Il parcheggio della scuola è pieno di automobili di lusso, sono perlopiù matricole, quelli del primo anno che si fanno accompagnare dall'autista o da un genitore.

Sembrano bambini confronto a noi. Quest'estate Jo ha preso una spanna d'altezza, Kate ha accorciato i capelli e quando scatta le foto usa le lenti a contatto, Stephanie è così bella che non si può non notarla. Ci sono poi io, che invece non sono cambiata affatto, forse ho perso qualche chilo, ho l'aria più triste, ma resto sempre la solita pallida e lentigginosa Elena.

 

Jo mi appoggia un braccio sulle spalle, chiacchiera allegro. Essere arrivato all'ultimo anno, in una scuola tanto prestigiosa, è un sogno per lui. Yale è sempre più vicina: «Che peccato non poter lavorare più con Nik e Charlie allo studio legale, non capisco perché non abbiano voluto che proseguissimo?».

Stephanie ed io ci guardiamo divertite: «Solo tu potevi trovare appagante fotocopiare o versare caffè», gli rispondo.

«Non si tratta solo di quello, ma dell'adrenalina, del conflitto, dell'energia. Non vedo l'ora di poter essere come loro», gli occhi neri di Jo brillano, si capisce che ci crede veramente.

«Io non lo farei mai. Impazzirei, questo è certo. Dovrei stare tutto il giorno ad ascoltare gente lagnarsi e passar il resto del tempo a leggere fogli noiosissimi o cercare prove», Stephanie prende a braccetto Kate ridacchiando.

«È proprio quello il bello, c'è avventura, mistero, suspance...», dice Jo.

«... Una noia mortale!», aggiungo io.

Tutti e quattro ridiamo nello stesso momento.

 

Per un attimo mi scordo di essere a scuola, di correre il rischio di imbattermi in Rebecca e di dover iniziare la scuola senza Nik tra i miei professori.

Solo per un attimo.

Un gruppo di ragazzine, comprese quelle che ho incontrato in sartoria, mi fissano accigliate. Con le braccia conserte squadrano Jonathan da capo a piedi inorridite. Alcune fanno cenno di no con la testa.

«Ahia», dico bassa voce.

«Che succede?», Kate si guarda in torno.

«Quelle svitate dell'altro giorno mi stanno guardando, sembrano arrabbiate», spiego stringendomi a Jo.

Kate sghignazza: «A quanto pare Elena ha un fan club. Le hanno imposto di tornare a fare coppia con James... Non credo apprezzino il fatto che Jo ti stia abbracciando».

«Ma che scemenza è questa? Un Fan club?», Jo fa delle linguacce verso quelle ragazzine che indietreggiano per lo spavento.

«È normale. Pure io e Lucas ne avevamo uno. Ogni nostro anniversario ci facevano un cartellone con delle nostre foto o cose del genere», racconta Stephanie mentre ci dirigiamo verso l'ingresso.

«È una cosa morbosa. Perché lo facevano?», chiede Jo allungando l'altro braccio sulle spalle di Stephanie.

«Essere i più popolari della scuola ha dei vantaggi. Nessuno ti mette i bastoni tra le ruote, puoi decidere molte cose e soprattutto tutti ti ascoltano. La pressione sociale è forte, devi essere sempre all'altezza e imporre una linea guida che tutti devono seguire. Molti ragazzini dei primi anni tifano per delle persone piuttosto che altre... È grazie a loro che Rebecca, Adrian, James, Lucas ed io facevamo parte degli studenti più popolari. Si crea un consenso tra tutti gli studenti. Non so bene come funzioni, ma alla fine tutti fanno quello che dicono gli studenti che contano di più».

 

Le parole di Stephanie mi fanno ritornare in mente a quando girava per la scuola la foto di Miss Scarlett abbracciata ad Adrian. Allora James mi aveva detto che nessuno a scuola avrebbe mai avuto il coraggio di opporsi a loro. Mi chiedo, come allora, non abbia pensato subito che fosse stata Rebecca a scattarla, a ripensarci oggi mi sembra così ovvio. 

 

«Poi sei arrivata tu e le cose sono cambiate», continua Stephanie, «Ribellarsi a Rebecca non è una cosa di cui tutti sarebbero capaci».

«Tutti forse no, ma noi quattro ci siamo riusciti. Kate ha smesso di darle retta nella mensa della scuola, riprendendo a mangiare; Jo l'ha affrontata presentandosi al Club di Dibattito l'anno scorso, superandola in graduatoria e tu, le hai tenuto testa a casa della McArthur...», il ricordo dell'ultima discussione con James, a casa di sua nonna, mi investe. Mi mordo il labbro per trattenere le lacrime che sgorgano ogni volta che ci penso.

«Già, anche io sono stata coraggiosa», Stephanie spalanca gli occhi, color smeraldo, sorpresa dalla sua audacia.

 

Il suo candore non può che farmi sorridere cancellando i brutti ricordi che mi hanno invasa per pochi istanti.

 

«Quindi significa che sono abbracciato a due ragazze vip della scuola?», chiede Jo divertito.

«Non credo... Insomma, io non sto più con Lucas. Non esco più con Rebecca e gli altri, quindi credo di aver perso importanza», Stephanie si ferma un secondo poi continua, «Cavolo è tristissimo che dica così. Aver perso importanza perché non sono più nel gruppo di quelli popolari».

Jo la bacia sulla testa mentre Kate le si avvinghia al braccio.

«C'è da dire che Kate con le sue bellissime foto ha acquisito prestigio e,Jo, entrando al secondo posto in graduatoria al Club di Dibattito, ha riscosso parecchie attenzioni. Il fatto che tu e Rebecca non siate più amiche, credo non sia passato inosservato», dico indicando Stephanie.

«Forse hai ragione... Inoltre, senza James a scuola, Rebecca perde molto. Adrian è dolcissimo, ma senza il suo migliore amico... Beh, anche se molto carino non ha lo stesso successo con le ragazze», dice Stephanie.

«Questo vuol dire che adesso siamo noi i più popolari della scuola?», Kate è terrorizzata è divertita allo stesso tempo.

 

Tutti e quattro ci fermiamo e ci guardiamo intorno.

Decine di studenti ci stanno fissando, alcuni sorridono, altri ci guardano male. Molti bisbigliano tra di loro, indicano o sghignazzano. Diversi ci guardano ammirati.

La situazione è piuttosto imbarazzante.

 

«C-che sta succedendo?», Jo, che ha sempre la battuta pronta, si trova spiazzato.

«Credo che adesso anche noi abbiamo un fan club», dice Kate rossa per l'imbarazzo.

«È ridicolo», aggiungo io, trascinando i miei amici verso la scalinata dell'ingresso, «Non dobbiamo immischiarci. Entrare nelle dinamiche del Trinity significa che alla fine rischieremo di metterci uno contro l'altro. Ne sappiamo qualcosa tutti, guardate cosa è successo l'anno scorso».

Jo annuisce anche se non smette di guardarsi intorno, lo stesso fa Kate.

«Ha ragione Elena, anche se... Pensate come sarebbe il Trinity se noi cambiassimo le cose. Niente competizione, intrighi e bugie. Potrebbe diventare un posto migliore, no?», dice Stephanie radiosa.

«... Un posto migliore...», ripete Jo fantasticando ad occhi aperti.

«Sarebbe bello», dice Kate con aria serena.

 

Quei tre stanno sognando ad occhi aperti, il Trinity non cambierà mai, neanche volendo.

 

«Sveglia!», dico battendo le mani e facendo saltare i miei amici, «Non ho intenzione di fare nulla e neanche voi. Dobbiamo restare noi stessi, questa è l'unica cosa che conta».

Jo e Kate si scambiano occhiate imbarazzate.

«Era tanto per dire», dice Stephanie arrossendo leggermente.

 

La campanella suona.

Il primo giorno dell'ultimo anno di scuola è appena iniziato.

 

«Hai ragione Elena, adesso basta fare questi discorsi. Andiamo, non voglio fare tardi», Jo mi prende per mano, Kate e Stephanie ci seguono.

In pochi secondi raggiungiamo i nostri armadietti, Jo ed io abbiamo quelli dell'anno scorso, uno di fianco l'altro. Prendiamo le cose che ci servono, ci mettiamo poco.

Il resto degli studenti corre da una parte all'altra recuperando i quaderni nuovi per le lezioni che inizieranno tra poco. Il chiacchiericcio è aumentato, nessuno sembra darci più attenzione, sono tutti presi dal correre per il corridoio: gli ultimi saluti, le ultime chiacchiere e gli ultimi pettegolezzi prima di incominciare a sgobbare.

 

«Ci vediamo in mensa, ok?», Kate mi schiaccia l'occhio.

«Che ne dite se pranziamo nel giardino e...», Jo non finisce la frase.

Qualcosa non va, è come se l'atmosfera fosse improvvisamente cambiata.

Per il corridoio è sceso un silenzio agghiacciante, gli studenti presenti si sono appiccicati contro gli armadietti lasciando buona parte del passaggio libera.

 

Rumori di tacchi.

Tintinnio di braccialetti.

Capelli color oro che svolazzano.

Una divisa blu e verde ondeggia elegantemente.

Rebecca.

Rebecca perfettamente truccata, abbronzata e sicura di se, sta attraversando il corridoio

Un passo dietro lei, a destra ed a sinistra, ci sono Lucas e Adrian. Entrambi abbronzati e con la mano in tasca, camminano a testa alta.

 

Trattengo il fiato, sono così belli che è impossibile non fissarli. Sono magnetici.

D'istinto appoggio la mano sulla spalla di Stephanie che è proprio di fronte a me.

Jo e Kate sono a bocca aperta.

 

Il camminare sinuoso di Rebecca è ipnotico, emana sicurezza da tutti i pori. La sua espressione è fiera, orgogliosa. Non degna nessuno del suo sguardo, sfila dritta per il corridoio disinteressandosi di tutti gli studenti. 

 

Tre metri da noi.

Rebecca scuote i lunghi capelli biondi.

Due metri da noi.

Rebecca accenna ad una specie di sorriso.

Un metro da noi.

 

Bam.

 

La spalla di Rebecca colpisce quella di Stephanie violentemente facendola cadere per terra come un sacco di patate. Senza smettere di camminare, Rebecca, percorre il resto del corridoio con la stessa arroganza.

Né Adrian e nemmeno Lucas si fermano per aiutare Stephanie ad alzarsi. La ignorano.

 

«Bastardi», dice Jo tra i denti, soccorrendo l'amica che, con le lacrime agli occhi, si massaggia la gamba che ha sbattuto sul pavimento. Kate raccoglie i quaderni e la borsa di Stephanie sparsi per terra.

«Tutto bene Steph...», sto per chiedere quando un rumore di passi attira la mia attenzione.

Alzo lo sguardo verso l'ingresso.

Il resto degli studenti è immobile come fosse paralizzato. Sono tutti appiccicati agli armadietti, nessuno osa muoversi.

 

Le mie gambe tremano.

Il mio cuore accelera.

Il mio respiro è affannato.

 

Una sagoma, che conosco fin troppo bene, sta avanzando.

Camicia sbottonata, occhiali da sole e cravatta slacciata.

James.

James, abbronzato e con i capelli spettinati, avanza per il corridoio fumando una sigaretta.

 

Non ho parole, non ho pensieri. Mi sento come se fossi in caduta libera senza paracadute, come se stessi scivolando in un pozzo senza fondo. Il ragazzo che amo è a pochi metri da me, proprio lui, quello che credevo non sarebbe più tornato.

Con la bocca spalancata seguo il suo incedere, studio ogni movimento della sua mano che si avvicina alle labbra per prendere la sigaretta che sta fumando.

 

Sono incantata, non posso fare a meno di ammirarlo.

 

James si ferma a pochi centimetri da noi quattro e si toglie gli occhiali, li appoggia sulla testa e sorride. Sorride nel suo solito modo, con furbizia, malizia e un po' di strafottenza. 

Senza degnarci di attenzione, lancia il mozzicone incandescente per terra, vicinissimo a Stephanie e Jo, colpendoli di striscio con le scintille.

Con il piede schiaccia la sigaretta. C'è disprezzo nel suo modo di fare.

Poi, con le mani in tasca, se ne va.

 

Jo, Kate e Stephanie sono ammutoliti.

Anch'io sono senza parole, anche se dentro un urlo di dolore mi squarcia il cuore.

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Capitolo 7
*** IERI: Emozioni sfuocate ***


IERI:

Emozioni sfuocate


 

Seduta su una sedia in salotto, gioco con la cinghia e passo le dita tra i solchi sulla pelle color cuoio della mia borsa. Sono in attesa di Kate per vivere un'altra giornata al Trinity e sperare che oggi faccia un po' meno male dei giorni scorsi.

La scuola ha ripreso da poco più di una settimana ed io non mi sono ancora abituata a vedere James camminare per i corridoi e ignorarmi. È come se non esistessi, come se fossi invisibile ai suoi occhi.

Rebecca, Adrian e Lucas si muovono come fossero agganciati ad una corda invisibile, ronzano intorno a James come mosche sul miele. Lo difendono, lo proteggono, come Stephanie, Jo e Kate fanno con me. 

James è triste, lo capisco dal suo sguardo annoiato, dal fatto che non gli importa di nulla. Gira per scuola senza cravatta con i bottoni della camicia aperti. Spesso l'ho beccato a fumare tra una lezione e l'altra. 

Vorrei parlare a James.

Vorrei capire come sta.

Vorrei molte cose, ma non faccio nulla.

 

«Elena sai per caso dove tuo padre tiene il lavoro che abbiamo fatto l'altra sera?», Tess sta sfogliando una pila di fogli che svetta sul tavolo del nostro salotto, la sua voce squillante mi scuote dai miei pensieri. È una delle assistenti principali di papà, ha studiato italiano per molti anni, adesso si occupa di traduzioni, «Shit!», dice. Quando qualcosa va storto fa sempre così.

«Non lo so, mi dispiace. Hai cercato in cucina? C'erano dei fogli stamattina. Altrimenti chiedi a Victor», mi guardo intorno, ma vedo solo un gran disordine.

«Lo dico sempre a Bruno che Victor dovrebbe andare a fare fotocopie in ufficio, ha la capacità di incasinare tutto», Tess ha una montagna di capelli raccolti in uno chignon, bloccato con un paio di matite, e gira per l'appartamento come una trottola.

«Ti diverti a parlare male di me, vero?», Victor compare dalla cucina con dei fogli in mano e li sbatte sulla testa della collega che gli fa una linguaccia di tutta risposta.

«Ovvio! Il tuo Italiano è pessimo. La tua pronuncia rasenta il ridicolo... Chiedi a Elena se non è vero?», Tess mi guarda aspettando conferma delle sue parole.

«Io... Io», tentenno.

«Vedi è troppo imbarazzata per dirti che sei un caprone», continua Tess.

«E tu una capra...», Victor è a un palmo dal volto della collega, «... Una capra con una pettinatura orribile».

Con un gesto rapido Victor toglie una matita dallo chignon di Tess facendo crollare una massa riccia, color nocciola, che sembra esplodere sulla testa della ragazza.

«Idiota», Tess prende i fogli dalle mani del collega guardandolo in cagnesco, «Sei perdonato per questa volta... Caprone».

Tess scatta rapida mentre Victor sta provando a darle un calcio nel sedere.

 

Anche se hanno occupato il nostro appartamento, quei due sono davvero una forza.

 

Papà entra in salotto di corsa, è al telefono con un dirigente della casa editrice Golden Rose che lo tartassa con richieste da mattina a sera. Ha l'aria stanca, con una tazza di caffè in mano ripete quello che sente al telefono: «... Sì... Contattare la casa editrice italiana... Ok, certo sara fatto... Ovvio, anche gli illustratori e far preparare bozzetti... No, no, ci mancherebbe... Creare una presentazione per la riunione di giovedì?», papà guarda Tess e Victor che annuiscono mentre prendono appunti su un blocco, poi continua a parlare al telefono, «... Nessun problema. Per giovedì sarà tutto pronto».

Appena chiude la telefonata si butta su una poltrona, allunga il braccio e stancamente chiede del caffè.

Tess riempie la tazza mentre Victor gli passa dei fogli.

«Quando arriveranno gli apprendisti? Dobbiamo riordinare una marea di fogli, ho bisogno di giovani braccia e menti fresche», papà beve un grande sorso di caffè.

«Tra un'ora al massimo saranno qui. Hai bisogno d'altro Bruno?», chiede Tess in italiano perfetto.

Papà scuote la testa. Solo in quel momento si rende conto che sono ancora in casa.

«Cavolo Elena sei in ritardo per la scuola! Dove sono le chiavi della macchina?», urla scattando in piedi.

«Papà sono solo le otto del mattino, tra poco arriva Kate», gli dico ridacchiando.

«Sono solo le otto? Oh no... Oggi non passa più», papà si accascia sulla poltrona sconfitto.

Tess, Victor ed io tratteniamo a stento le risate.

 

Il consueto messaggio di Kate mi avvisa che è arrivata.

Bacio papà sulla fronte per poi scendere di corsa le scale di casa. 

 

Kate mi aspetta con il motore acceso: «Hai studiato storia? Io mi sono addormentata sui libri. Papà mi ha messa a letto come fossi una bambina... Ho avuto incubi per tutta notte. Possibile che esistano tante date da imparare?», ha l'aria stanca, le sue occhiaie sono belle marcate.

«Detesto la scuola e detesto i professori. Hanno iniziato a tartassarci fin da subito, ma ti sembra normale? Inoltre la professoressa di Fisica ha iniziato a parlare dei college per l'anno prossimo. Come se una persona dovesse sapere già cosa vuole fare nella vita!», sono nera. Detesto tutta quest'ansia che mi stanno buttando addosso il Trinity.

«Io... Io ho visto una scuola che mi piacerebbe frequentare», Kate è arrossita.

«Davvero? Quale? Fammi indovinare... Yale» dico ironica.

«A dire il vero, no. A New York c'è l'Accademia Nazionale di fotografia. È molto importante e prestigiosa, mi piacerebbe richiedere l'ammissione, solo che è a numero chiuso».

«È fantastico, devi assolutamente provarci», sono sincera, Kate è fenomenale, «Quest'anno proverai ad entrare in quale Club?».

«Niente Club di Teatro, non ho voglia di rivivere le brutte esperienze dell'anno scorso. Quest'anno scelgo Canto e Fotografia», mi dice.

«Hai ragione, potrebbe tornare Vivian nel Club di Teatro, non voglio dover lavorare con lei. Se poi consideri che anche Rebecca mi detesta, sono a posto. Dover affrontare madre e figlia sarebbe troppo», mi dispiace molto abbandonare il gruppo di scenografia, ma non ho la forza per sopportare nessuna di quelle due.

«Quindi che Club farai?», mi chiede Kate mentre parcheggia vicino la scuola.

«Nessun Club, niente di niente», dico soddisfatta.

«Ma la tua media ne risentirà, per accedere a Yale...».

Interrompo Kate: «Niente Yale, non fa per me diventare avvocato, non ne ho la stoffa. Non frequenterò nessun Club, così avrò più tempo per studiare».

«Elena», il tono di Kate è di rimprovero, «Non pensare a James, non fare scelte legate a lui, devi essere te stessa. In questa settimana l'abbiamo visto decine di volte a scuola, ogni volta ti ha ignorata. Non per essere cattiva, ma credo che dovresti dimenticarlo».

«Certo... L'ho già dimenticato», le dico mentre scendo dalla macchina. 

Sto mentendo.

Lo so io e lo sa lei.

Anche se Kate non dice nulla so benissimo cosa pensa. Non voglio che creda che rinuncio al college per James, desidero solo stare lontana dai guai e da tutto ciò che potrebbe farmi soffrire. 

James non c'entra, non voglio Yale e non voglio Dibattito, tutto qui, semplice.

 

Jonathan e Stephanie ci aspettano davanti l'ingresso. Ci accolgono con un abbraccio.

«Storia. Storia. Hai studiato?», Stephanie sta leggendo un plico di appunti, gira i fogli come una matta.

«Odio ogni guerra sul pianeta, odio ogni data, odio qualsiasi cosa di importante successo nel passato», le risponde Kate.

«Vi stanno già tartassando a Storia?», chiede Jo preoccupato, «La professoressa di matematica ci ha dato una pagina di esercizi da fare in due giorni. Vedo numeri da tutte le parti».

 

Le urla stridule di un gruppetto di ragazzine mi assordano.

Sembrano tante oche stonate.

 

«Ma che succede?», chiede Kate tappandosi le orecchie.

Tutti e quattro ci sporgiamo verso il giardino della scuola cercando di capire cosa stia succedendo. Adrian sta ridendo con delle ragazzine del primo anno che sembrano pendere dalle sue labbra. Il timido e impacciato ragazzo che ho conosciuto mesi fa è scomparso, ora Adrian sembra molto più sicuro di se.

 

«La California porta beneficio», Lucas spunta da dietro le nostre spalle.

Tutti e quattro trasaliamo per lo spavento.

«Il sole fa bene, dona energia e mette di buonumore. Il caro Adrian ha sperimentato i piaceri della vita quest'estate», Lucas fissa con intensità Stephanie.

«Che vuoi?», chiede Jo asciutto.

«Non abbiamo avuto modo di salutarci da quando siamo tornati a New Heaven, purtroppo ho trovato diversi ostacoli», è ovvio che si riferisca al rifiuto di Stephanie di parlargli per telefono, «Del resto siamo amici, sapete quanto io detesti la maleducazione, ho pensato fosse mio dovere venirvi a salutare per primo», Lucas si inchina e appoggia le labbra sul dorso della mano di Stephanie che, senza parole, lo osserva a bocca aperta.

«Perfetto, abbiamo capito. Ciao anche a te», Jo prende il braccio di Stephanie allontanandolo dal ragazzo, poi si piazza davanti a tutte noi.

Lucas, inferocito, non si muove di un millimetro: «Hai trovato un po' di personalità feccia? I quartieri bassi riservano sorprese, a volte».

 

La tensione è alle stelle, quei due non si sono mai sopportati molto, eppure erano riusciti a trovare delle cose in comune. Possibile che si sia arrivati a questo punto?

Kate mi da una gomitata, mi guarda come se dovessi dire qualcosa per calmarli. 

Non ho intenzione di fare nulla, non voglio intromettermi.

 

«Sparisci», Jo fa un passo in avanti.

«Aspetta... Aspetta... Chi è che deve sparire?», Adrian si avvicina a Lucas per poi appoggiare un braccio sulla sua spalla. Sta masticando una gomma e si diverte a fare dei palloni e farli scoppiare.

Quel ruminare è una cosa insopportabile. Prendo un bel respiro cercando di trovare la calma. Abbasso lo sguardo per cercare di trattenere il fastidio, non voglio guai.

«Il nostro amico non ha apprezzato il mio gesto gentile, ero solo venuto per salutarli», dice Lucas con finta ingenuità.

«Tipico di quelli come lui», in questo momento Adrian ricorda terribilmente il lato peggiore di James e Andrew messi insieme.

«Adesso che ci avete salutato potete andare», dice Jo incrociando le braccia al petto.

«Sentilo, che tenero, crede che la scuola sia sua?», Adrian sputa la gomma per terra vicino ai piedi di Kate.

 

Un formicolio fastidioso parte dalla punta delle dita e mi risale per le braccia. Riconosco quella sensazione, l'ho provata ogni volta che assisto ad un'ingiustizia.

 

Elena calmati.

Elena prendi fiato.

Elena stanne fuori.

 

Cerco di concentrarmi e mantenere il controllo, non posso farmi trascinare nelle discussione altrui, finirei per perdermi e soffrire. Non voglio problemi.

 

Kate mi da un'altra gomitata. 

La ignoro.

 

«Che succede? Questi pezzenti vi danno fastidio?», Rebecca, a braccetto con James, si affianca a Lucas e Adrian.

«Sciacquati la bocca prima di rivolgerti a me», Jo sta per esplodere.

«Melodramma Jo, credo ti chiamerò così d'ora in poi. Del resto, cosa ho detto di male? Sei povero, no? Quindi sei un pezzente», Rebecca ride sguaiatamente. Adrian e Lucas hanno un sorriso beffardo stampato sul volto, mentre James sbuffa del fumo di sigaretta tra le risate.

 

Il sangue mi pompa nelle vene, vorrei rispondere a tono, ma non ho le parole. Non riesco ad andare oltre l'intenzione. Mi sento come se avessi una macchina con il pedale dell'acceleratore schiacciato al massimo e il freno a mano inserito. Fumo, stridio e null'altro. Mi manca il coraggio per togliere il freno, mi manca lo scopo per zittire quei quattro.

 

«Adesso andiamo, devo vedere delle ragazze», dice Adrian passandosi la mano tra i capelli.

«Quelle con cui parlavi poco fa?», chiede Lucas.

«Quelle sfigate ciccione? Ti prego, ho gusti migliori», Adrian prende per mano Rebecca che ci saluta con la punta delle dita prima di allontanarsi con i suoi due amici.

Davanti a noi resta James che ci fissa, passa lo sguardo da un volto all'altro.

Jo.

Kate.

Stephanie.

Infine me.

 

James è a pochi centimetri dal mio volto. Posso studiare la linea del suo naso con precisione, assaporare il suo profumo e perdermi nelle curve delle due labbra.

Qualcosa però è diverso.

Quegli occhi verdi che ho imparato ad amare non fanno trasparire nessuna emozione. Non lo riconosco più, non c'è ombra di dolcezza. Non ritrovo quel ragazzo che conoscevo fino a qualche mese fa.

 

«Quando ci incrociamo per i corridoi, sei pregata di smetterla di guardarmi con quella faccia afflitta. Sei piuttosto irritante. Odio quella faccetta da vittima, tienila per i tuoi amici creduloni, pivella. La piccola Elena è stata trattata male... La dolce Elena sta soffrendo... Povera Elena, guarda come piange... Ricorda che è solo colpa tua, tutto è colpa tua», mi dice disgustato prima di andarsene.

Kate mi da una gomitata.

Non reagisco, fisso James allontanarsi da me, le lacrime offuscano la mia visuale.

 

Mi sento come anestetizzata, come se il tempo e lo spazio prendessero curve e forme diverse da quelle conosciute. Niente ha senso in questo momento, nulla mi da conforto.

Sento distacco e assenza. 

L'aria che inspiro e i colori che vedo sembrano il riflesso sfuocato di ciò che potenzialmente potrebbero essere, meraviglie e sorprese sprecate. Il mio animo le vive senza assaporarle, le sputa e le getta. Vivo circondata dai rifiuti delle mie emozioni, residui del passato incapaci di farmi battere il cuore.

Aspetto. Non posso far altro che sperare di trovare un nuovo perché.

Perché ciò che era il mio sole è diventato un buco nero che mi respinge, mi assorbe e mi porterà ad annullare me stessa.

 

James mi odia più di quanto io odi me stessa.

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Capitolo 8
*** IERI: Bigliettini e spaghetti al pomodoro ***


IERI:
Bigliettini e spaghetti al pomodoro


 

Io: Mi dici che ti prende? È giorni che sei strana.

Kate: Nulla! Quante volte devo dirtelo.

Io: Non sono scema. Tu e Jo mi trattate in modo diverso.

Kate: Forse perché tu sei diversa? Adesso basta con questo bigliettino, altrimenti la prof ci becca.

Io: In che senso sono diversa?

Kate: Smettila, sei asfissiante. Parliamo durante la pausa.

Io: Così mi preoccupo. Dimmi che c'è?!?!?!?

 

Kate appallottola il bigliettino che le sto passando dall'inizio della lezione di letteratura inglese. 

 

Da qualche giorno è strana, lei è Jo sono come infastiditi dalla mia presenza e non capisco il perché. L'incontro avuto con Lucas e gli altri ha innervosito tutti noi, per un motivo o l'altro. In modo particolare ha fatto soffrire me, le parole di James mi hanno fatto molto male, non avrei mai creduto potesse arrivare a trattarmi così.

Voglio chiarire con lei il prima possibile.

Passo il resto della lezione a masticare il tappino di plastica della penna, pensando a cosa vorrà dirmi Kate, e a lanciarle piccoli calci, visto che è seduta di fronte a me. 

Non si gira e non reagisce.

Detesto quando mi nasconde le cose.

 

Finalmente la campanella suona.

Come un fulmine butto tutto nelle mia cartella e mi piazzo fuori dalla porta. Intercetto Kate e Stephanie piazzandomi in mezzo a loro.

«Cosa significa che sono diversa?», le chiedo a bruciapelo.

«Adesso ti strozzo. Vedi come fai? Sei ossessionata da James, non riesci a liberarti di lui. In ogni tua azione, in un modo o nell'altro, lui è il fulcro di tutto», Kate mi ringhia addosso mentre si avvia verso l'armadietto.

«No-non è vero. Io non dico mai nulla su James. Sto zitta e basta, adesso non l'ho neanche nominato», replico senza pensarci troppo.

«È quel tuo stare zitta che è strano. Non hai difeso Jo l'altro giorno fuori da scuola, non frequenterai nessun Club al Trinity, non vuoi scegliere un college e pensare al tuo futuro. Insomma, ho capito che stai male per lui, ma non sei l'unica che soffre per amore. Ok!», Kate sbatte lo sportello dell'armadietto con forza poi guarda Stephanie che con le lacrime agli occhi si morde il labbro.

«Che diavolo succede?», chiedo confusa, non sto capendo.

«Eccolo, questo è il punto. Non capisci. È come tu fossi cieca, non ti accorgi di chi sta male. Magari si tratta di una persona vicina a te, ma tu non fai altro che pensare a te stessa», Kate con le mani nei capelli si accascia per terra, «Non ho la tua forza, non so come fare. È tutto così difficile. Avrei bisogno di te, ma sembra che ti crogioli nelle tue malinconie senza vivere la realtà di tutti i giorni».

«Kate adesso mi preoccupo. Sai che siamo le amiche perfette, a me puoi raccontare tutto», le dico accoccolandomi vicino a lei.

«Il problema sono io. Incasino sempre tutto, mi dispiace K, non volevo darti questa responsabilità... Io sono, non so neanche come spiegarlo...», Stephanie stringe forte i libri di testo che ha tra le braccia, «... Lucas è venuto a casa mia con la scusa di trovare mia madre e... e a cercato di baciarmi. Io... Io non so come sia potuto succedere. Gli ho mollato una sberla, ma lui sembrava divertito da quella situazione, mi ha preso i polsi dicendo che sono sua. Sono una persona orrenda, una perdente, non riesco ad oppormi a lui».

«Capito? Quello stronzo si approfitta di lei. Io non so come difenderla, cosa posso fare? Mi sento così inutile da sola», Kate è scattata in piedi stringendosi a Stephanie in un abbraccio, «E se Lucas volesse farle del male? Se la forzasse a fare cose che non vuole? Al solo pensiero impazzisco».

Con la bocca spalancata guardo Stephanie tremare: «Jo lo sa?».

«Figurati lo prenderebbe a cazzotti e finirebbe con l'essere espulso da scuola», mi dice Kate.

«Hai ragione, meglio lasciarlo fuori. Credo sia il caso di non far entrare Lucas a casa tua», ragiono ad alta voce.

«Come fosse facile. La famiglia di S e quella di Lucas sono tra le più importanti di New Heaven, ci saranno decine di occasioni in cui lui potrebbe infastidirla: ricevimenti, compleanni, inaugurazioni», Kate raccoglie il suo zaino tenendo stretta la mano di Stephanie.

«Merda», dico seriamente preoccupata.

«I-Imparerò ad oppormi a non avere nulla a che fare con lui e...», sussurra Stephanie.

«Ma se lui lo fa con la forza, puoi fare ben poco. Conosce i tuoi punti deboli e sa come manipolarti. Lo sai Elena che Lucas chiama S continuamente al cellulare, anche durante la notte?», mi dice Kate.

«Cosa? Ma da quanto va avanti questa storia?», chiedo incredula.

«Da quando è tornato a New Heaven», mi risponde Stephanie, «Non ti ho voluto dire nulla perché sei già presa dai tuoi problemi, non volevo dartene altri».

«Ma... Ma...», non ho parole.

«Come facevamo a dirti qualcosa, sembri un'altra persona, vivi su un altro pianeta. Per questo Jo ci ha difese l'altro giorno, sa che Lucas tartassa Stephanie con le telefonate», Kate è arrabbiata, furiosa, lo capisco da come mi guarda. 

 

Non posso darle torto, da quando è ripresa la scuola ho cercato di farmi gli affari miei, cercando di vivere una vita il più tranquilla possibile. Quello che ha fatto Lucas è imperdonabile, disgustoso, ma non so come potrei aiutare Stephanie. È come se il mio cervello fosse fuori servizio.

 

«Potresti denunciarlo, oppure andare dalla Marquez. Potrebbe... Potrebbe...», provo a dire.

«Potrebbe far cosa? Nulla. Cosa cambierebbe? Ci serve la vecchia Elena, quella che sapeva sempre cosa dire e che avrebbe fatto di tutto per aiutare un amico», mi dice Kate.

«Io sono la stessa, solo che non voglio intromettermi in nulla. In questo caso non saprei da che parte iniziare», alzo le spalle. Sono sincera non ho idea di come aiutare Stephanie.

 

Tutte e tre ci dirigiamo verso la mensa con il volto cupo. Capisco che le mie amiche abbiano bisogno del mio aiuto, ma non so davvero da che parte girarmi. Kate stringe la mano di Stephanie che a testa bassa cammina per il corridoio, è molto spaventata.

Vorrei che mia madre fosse qui, vorrei riuscisse ad allontanare le mie paure, vorrei riuscisse a tranquillizzare Kate, come faceva quando eravamo bambine. Mamma sapeva sempre come farmi forza, in questo momento sento di averne bisogno di lei più che mai.

 

A pochi metri dalla porta della mensa c'è Lucas che fischietta. Se ne sta appoggiato sulla parete con le mani in tasca, fissa Stephanie con intensità, come un leone in procinto di attaccare la sua preda. D'istinto prendo la mano tremante di Stephanie.

«Fai finta di nulla, se ti parla non devi rispondergli», le bisbiglio.

L'attimo in cui passiamo vicino a Lucas sento il mio cuore battere all'impazzata, non ho idea di cosa voglia fare, potrebbe dire cattiverie o infastidendo Stephanie. Qualsiasi cosa abbia in mente, so già che non mi piacerà per niente.

 

Sguardi.

Risatine.

Poi Lucas dice a bassa voce, quasi sussurrato: «Ciao Stephanie».

 

Tutte e tre aumentiamo il passo e senza reagire entriamo nella mensa.

Il rumore dei vassoi, lo sbattere delle posate sui piatti e le chiacchiere animate degli studenti sono una cacofonia graditissima. Il pericolo Lucas è passato, almeno per ora.

 

«Che vi prende? Avete visto un fantasma?», Jo ci aspetta con quattro vassoi in mano davanti alla fila per prendere il pranzo.

«Oggi è una giornataccia», gli rispondo mettendomi vicino a lui. Stephanie prende un vassoio. Le cade di mano, sta tremando così tanto che non riesce a stare ferma.

«Una semplice giornataccia? Che cosa sta succedendo?», Gli occhi neri di Jonathan scattano sui nostri volti in cerca di qualche indizio, «Kate parla. Ora».

«Lucas è diventato un po' troppo insistente», dico io.

«Quel grandissimo bastardo. Deve smetterla di telefonarti», dice Jo a Stephanie, poi rivolto a me: «... Da quando sai delle telefonate? Avevamo deciso di non dirti nulla» 

«L'ho scoperto da poco. Ho capito che qualcosa non andava e... e mi sono fatta raccontare tutto da Kate e Stephanie», mento, non voglio che sappia che Lucas ha cercato di baciare Stephanie contro la sua volontà.

Jo mi interrompe: «Era ora Elena! Non ne potevo più di vederti inerme, sembravi una brutta copia di te stessa», ridacchiando inizia a riempire il vassoio per poi seguire la fila fino alla cassa.

 

Kate mi guarda e accenna un sorriso. È felice che abbia mantenuto il segreto, non voleva che scoppiasse una rissa, o peggio, tra Jo e Lucas.

 

«Prendo io le cose per il tuo pranzo, ok?», dico a Stephanie mettendo nel vassoio due piatti fumanti di spaghetti al pomodoro, due bottiglie d'acqua e due porzioni di macedonia alla frutta.

«Grazie, oggi le mie mani non collaborano», mi risponde con dolcezza.

«Sai cosa diceva mia mamma sugli spaghetti? Per essere perfetti devono essere al dente, saporiti e pieni di sugo, come dovrebbe essere la vita».

Stephanie mi guarda perplessa, poi sorride: «Sai che non riesco a capire a cosa si riferisca. Tu lo sai?», chiede a Kate che ci segue con il suo vassoio verso la cassa.

«Certo che lo so. Margherita me lo diceva ogni estate, quando andavo in Italia per le vacanze estive. Ogni volta che mi vedeva insicura per qualcosa, lei... lei...».

Continuo la frase di Kate: «... Mia mamma riusciva a rendere tutto semplice. Anche la cosa più complicata era in grado di spiegarla senza problemi».

«Quindi che c'entrano gli spaghetti?», Stephanie si è messa in mezzo a me e Kate. Jo è già seduto ad un tavolo vuoto, sta agitando il braccio nella nostra direzione.

«Allora... Gli spaghetti per essere perfetti devono essere al dente. Quando li mastichi devi sentirli, distinguerli ma poi sciogliersi in bocca. Lo stesso devono essere le persone, devono essere determinate, toste, senza essere dure. Imparare a sciogliersi al momento giusto».

«Gli spaghetti devono essere saporiti», continua Kate, «Perché la personalità di un individuo è tutto, il suo sapore è il biglietto da visita per il mondo. Una persona senza sale è una persona triste».

«Gli spaghetti devono essere pieni di sugo, perché quando li mangi è inevitabile sporcarsi. Basta un tovagliolo per pulirsi dalle macchie e tornare quelli di prima. Così è la vita. Si può soffrire, essere felici o arrabbiati, La tristezza prima o poi passa, come una macchia di sugo sulle guance», gli occhi mi si riempiono di lacrime.

 

Mi chiedo come abbia potuto dimenticare le parole di mia madre. Mi ha ripetuto almeno un miliardo di volte, che dovevo sempre rimanere me stessa e che nulla avrebbe mai dovuto abbattermi. Mi diceva che se avessi mai trovato un ostacolo nella vita, avrei dovuto imparare a superarlo e andare avanti. Una bella pulita alle macchie di sugo per essere subito pronta a mangiare una nuova forchettata di spaghetti.

 

Con il vassoio in mano, mentre attraverso la mensa, una strana consapevolezza mi pervade. È come se la mia anima in frantumi si ricomponesse, come se i pezzi cercassero di unirsi e saldarsi tra loro, come se il ricordo di quella che ero stesse risalendo in superficie.

Con il sorriso sulle labbra guardo le mie due amiche che camminano di fianco a me: «Grazie credo di aver capit...», ma vengo interrotta.

 

Un terremoto.

Un urto.

Manca l'equilibrio.

 

Gli spaghetti al pomodoro e la macedonia sono sparsi sulla mia divisa, la gonna e le scarpe. Sono completamente sporca.

Tutta la mensa scoppia in una fragorosa risata. Il rumore è assordante.

Rebecca è di fronte a me, è stata lei a rovesciarmi il vassoio addosso: «Ops, scusa», mi dice con falsità. Alle sue spalle ci sono Adrian e Lucas che sghignazzano.

«Gia che ci sei, svuota pure il mio vassoio pivella», mi dice James allungandomi il resto del suo pranzo. Senza aggiungere altro se ne va con i suoi amici.

 

Con le lacrime agli occhi, imbarazzata e umiliata non oso muovermi.

Non capisco più nulla.

Non sento più nulla.

La mia anima è di nuovo un mucchio di frammenti inermi, come un piatto di spaghetti scotti, insipidi e asciutti.

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Capitolo 9
*** IERI: Una faccina sorridente ***


IERI:
Una faccina sorridente




Con la faccia schiacciata sul cuscino cerco una motivazione per alzarmi e andare a passare un'altra giornata al Trinity.

Nulla. Niente di niente, la mia mente non riesce a trovare un valido motivo. 

I miei amici sono delusi dal mio atteggiamento.

Il ragazzo che amo, mi odia.

Tutta la scuola mi considera una perdente.

Non so cosa mi potrebbe capitare di peggio oggi.

 

«Elena, tesoro. È ora di alzarsi», papà piomba in camera rumorosamente, spalanca la finestra. Una luce accecante invade la stanza.

«Hmmmm», mugugno. Ecco cosa potrebbe capitarmi di peggio, avere un padre con sbalzi d'amore e troppa energia in corpo.

«La colazione è pronta! Oggi è una bellissima giornata, il cielo è azzurro e c'è un bel venticello frizzante», mi dice mentre solleva la coperta sotto cui sono rintanata.

«Hmmmm. Credo di non stare troppo bene, non me la sento di andare a scuola».

«Bazzecole. Stai benissimo e sei bellissi...», papà si interrompe, mi guarda perplesso.

I miei capelli spettinati, le occhiaie e il muso lungo non sono certo il massimo.

«Oggi non mi muovo da qui», mi tuffo con il volto sul cuscino.

Papà mi prende di peso dal letto e mi mette in piedi: «Signorina, tu oggi andrai a scuola. Se non ti lavi e ti vesti, ti assicuro che ti ci porto in questo stato».

«Uffa!», urlo. Sono consapevole mi stia comportando da bimba viziata, ma non riesco a farne a meno.

«Modera i termini. Chi ti credi di essere?», papà ha alzato il volume della voce. I suoi occhi grigi lanciano saette.

«Ti ho detto che oggi non esco da questa stanza», con le braccia conserte lo guardo torva. Non ho intenzione di andare a scuola e rischiare di essere presa in giro da tutti per quello che mi è successo in mensa.

Tess entra nella mia camera con un cartellone arrotolato sotto il braccio e una risma di fogli dall'altra: «Che succede? Perché urli Bruno? I bozzetti non vanno bene?».

«Oggi la mia simpaticissima figlia adolescente non vuole andare a scuola. Una costosissima scuola privata. Una scuola di primo livello. Una scuola che molti ragazzi vorrebbero frequentare...», papà urla, «... Ma non possono frequentare perché non hanno i soldi!».

«Perfetto! Mandami alla scuola pubblica non chiedo altro», il tono della mia voce si avvicina allo stridio. Tipico di quando sono nervosa.

«Elena guarda che...», papà sta per esplodere. La vena sul suo collo pulsa con intensità.

«Bruno tieni», Tess passa il cartellone e i fogli a mio padre, poi lo spinge fuori dalla stanza. 

 

Tess chiude la porta.

Restiamo solo io e lei in cameretta.

 

«Vedi Elena, in questi mesi hai imparato a conoscermi ed io ho imparato a conoscere te...», con molta naturalezza Tess chiude le tende smorzando la luce accecante, «... Ho capito che hai qualcosa che ti frulla in testa. Non so cosa, mai hai la fronte sempre aggrottata, come fossi arrabbiata o triste...», con calma raccoglie la mia coperta del letto caduta dalle mani di mio padre, «... Qualunque cosa tu abbia, sappi che passerà. Nulla può dar fastidio o far male per sempre. Arriva per tutti il momento di stare meglio, ed essere in pace con se stessi».

Tess si avvicina all'armadio lo apre, con le dita scorre tra le grucce.

«No!», urlo. Mi alzo di scatto dal letto e mi lancio su di lei allontanandola con forza dai miei vestiti.

Per colpa della mia spinta Tess perde l'equilibrio e finisce con il sedere per terra.

 

Merda.

 

Con le mani sulla bocca la guardo.

Non so che dire.

 

«Ahia che botta», dice massaggiandosi il fondoschiena, «Che ti prende Elen... Ma... Ma... Questa è puzza di cibo! Che cavolo è questa cosa?», Tess estrae una borsa di plastica proprio vicino a lei. Lì dentro ho nascosto la mia divisa che Rebecca mi ha sporcato in mensa.

Crollo vicino a lei coprendomi gli occhi, piango per la vergogna.

Tess non dice una parola, mi accarezza i capelli e basta.

«Una ragazza a scu-uola mi ha rovesciato addosso il vassoio del pranzo. Vo-volevo pulirla stasera quando non c'era nessuno a casa», le dico singhiozzando.

Tess sbircia nel sacchetto: «Che spreco di cibo. Tutti questi buonissimi spaghetti rovinati». 

 

Il tono ironico della donna mi fa sorridere.

 

«Elena lo sai perché ho iniziato a studiare italiano?».

Faccio cenno di no con la testa.

«Al liceo non ero molto amata. Guarda i miei capelli, sono un casino perenne. Da adolescente erano peggio, te lo posso assicurare», Tess ridacchia, si toglie le matite che trattengono la sua criniera lasciando all'aria una chioma vaporosa color nocciola, «Mio padre è nero e mia mamma bianca. Mi hanno detto di tutto durante i quattro anni a scuola. Mi hanno definita: sporca, inferiore, lurida... Tutto ciò che di brutto si può dire ad una ragazza, quei vigliacchi l'hanno detto a me. Mi hanno rovinato libri, appeso cartelli offensivi e rovesciato vassoi pieni di cibo addosso. Era un incubo, odiavo la scuola. Poi un giorno la professoressa di letteratura legge in classe un pezzo di Pinocchio di Collodi. Non conoscevo di preciso la storia, ma mi sono così appassionata che ho voluto saperne sempre di più. Era così bello leggere del burattino che cresce, sbaglia e impara. Da allora ho avuto uno scopo per cui lottare e fregarmene degli altri: volevo imparare l'italiano e leggere in lingua originale il libro. Così ho conosciuto l'Italia, per questo faccio questo lavoro», Tess è in piedi prende una divisa pulita dall'armadio e me la passa, «Mi chiedo ancora oggi: se non avessi sofferto tanto avrei amato così tanto Pinocchio? Magari quella lezione non l'avrei neanche ascoltata, probabilmente non mi avrebbe colpita, chi lo sa».

Prendo la divisa che Tess mi sta passando: «A volte vorrei scappare da tutto questo», con le dita sfiorò il simbolo del Trinity cucito sulla giacca.

«Non serve a nulla, fidati. Devi affrontare le tue paure e denunciare quei bulli alla preside. Non c'è alternativa. Non devi dare retta al gatto e alla volpe di turno, portano solo guai. Se Pinocchio avesse detto tutto a Geppetto, non avrebbe avuto problemi», Tess raccoglie la busta con la divisa sporca, «Questa la porto in lavanderia, tornerà come nuova».

«Grazie Tess. Non dire nulla a papà, ok? Geppetto tende a preoccuparsi un po' troppo, non voglio agitarlo inutilmente».

«Dovresti dirglielo, non ti fa bene tenere tutto dentro. Mi prometti che ne parlerai con la tua preside? Certi atteggiamenti non devono essere taciuti», Tess cerca di incrociare il mio sguardo.

«Certo. Certo che lo farò», sto mentendo, se denunciassi Rebecca avrei il doppio dei guai. Meglio tenere un profilo basso.

«Allora adesso fatti una doccia e riempiti lo stomaco. La scuola ti aspetta», Tess mi abbraccia poi esce dalla stanza con la mia divisa sporca.

 

Come un fulmine corro in bagno, ormai ho collaudato un sistema infallibile, in venti minuti circa riesco a fare tutto: doccia ultrarapida, colazione in piedi, trucco semplice.

Appena ho finito di allacciarmi la scarpa, il consueto messaggio di Kate mi avvisa che è sotto casa.

 

Il tragitto fino a scuola è tranquillo, Kate non dice una parola sull'incidente di ieri in mensa, io faccio lo stesso. Entrambe fingiamo che non sia successo nulla.

Non potevo desiderare di meglio.

 

Nel parcheggio della scuola troviamo Stephanie che ci aspetta, ha il volto pallido.

Non abbiamo neanche bisogno di chiederglielo, Lucas deve averla tormentata per tutta notte con squilli, chiamate e messaggi. Non so come faccia a venire a scuola sapendo che può incontrarlo in qualsiasi momento.

Kate ed io ci avviciniamo a lei e l'abbracciamo, per qualche secondo cerchiamo di darle conforto prima di dirigerci verso la scuola.

Jo è seduto sui gradini della scalinata principale, sta leggendo un libro. Appena ci vede si alza per venirci incontro, ma un paio di ragazze lo bloccano tutte sorridenti.

Ridacchiano come oche.

Alla fine si piazzano vicino a lui e si scattano una foto.

Le guance di Jo sono rosso fuoco, non l'ho mai visto così imbarazzato.

 

«Hai fatto colpo, eh?», gli dico ironica cercando di stemperare un po' della tensione che c'è nell'aria.

«No. No. No. Hanno saputo della mia media scolastica dell'anno scorso e volevano complimentarsi con me», mi risponde con la faccia sempre più rossa, «Parliamo di cose serie, come stai?».

Alzo le spalle: «Credo che far finta di nulla sia la cosa migliore, no? Se noi non ne parliamo anche gli altri se lo dimenticheranno. Non è così che funziona al Trinity? E poi c'è il problema Lucas, continua a tartassare Stephanie», cerco di sviare il discorso, in questo modo non devo pensare troppo alla figuraccia fatta in mensa.

 

Tutti e quattro ci sediamo sul muretto sotto la grossa quercia del parco del Trinity. Mancano una manciata di minuti prima che inizi la scuola, li passiamo a consolare Stephanie e, fingendo che tutto vada bene, provo a dimenticare in che schifo di situazione mi trovo.

 

Un gruppo di ragazzi del secondo anno, che passa vicino a noi, urla: «Sai che è vietato portare a casa il cibo della scuola? Sei così povera che ti fai lanciare addosso gli spaghetti per poter mangiare?». Senza aspettare risposta se ne vanno ridendo sguaiatamente.

«Ciao Italian spaghetti», gridano delle altre ragazzine.

«Sei una spazzatura ambulante, senti che puzza!», dicono altri.

Man mano che si avvicina l'ora di entrare a scuola, buona parte degli studenti ha una battuta offensiva nei miei riguardi. 

 

Rifiuto.

Schifo.

Vomito.

Sfigata.

 

Tutte coltellate che feriscono la mia anima.

Tutte parole che sembrano sassi lanciati in pieno volto.

 

Kate, Jo e Stephanie mi guardano. 

Fremono, hanno gli occhi lucidi per me. 

Vorrebbero che reagissi, vorrebbero che li zittissi tutti, che mi dimostrassi orgogliosa di chi sono. Vorrebbero che tornassi la ragazza che ero, quella che non si faceva mettere piedi in testa da nessuno.

 

Invece non dico nulla, abbasso la testa e basta.

 

«Elena ti prego, fai qualcosa, non puoi permettere che ti facciano questo», la voce supplichevole di Jo è di una dolcezza disarmante.

Stephanie mi prende per mano mentre Kate si asciuga le lacrime. 

Stanno tutti soffrendo per colpa mia.

«Solo un anno, poi la scuola finirà. Devo solo portare pazienza», la mia voce è piatta, il mio sguardo è vuoto. Credo di aver perso ogni emozione, mi sento un guscio svuotato.

«Devi trovare una ragione per lottare. Elena. Elena», Kate cerca di scuotermi, ma non reagisco.

 

La campanella suona.

 

«Andiamo, non voglio fare tardi», come fossi un automa percorro la strada che mi porta a scuola. Intorno a me riecheggiano parole di scherno e offese. Non sento niente, non provo più niente. Mi sento come un buco nero, voglio essere invisibile.

Kate, Stephanie e Jonathan camminano di fianco a me.

Appena metto piede nell'edificio un coro di risate mi accoglie. Decine di studenti se ne stanno appoggiati alle pareti e mi guardano. Appena li supero si mettono dietro a noi, creando un piccolo corteo. È come se ci accompagnassero.

 

Elena fai un passo. Un secondo in meno da passare al Trinity.

Elena fai un passo. Un secondo in meno da passare al Trinity.

Elena fai un passo. Un secondo in meno da passare al Trinity.

 

Svolto l'angolo, mi trovo nel corridoio dove c'è il mio armadietto.

Rebecca, Lucas, Adrian e James sono a pochi metri di distanza da me. Ai loro piedi c'è una montagna di spazzatura, residui di cibo, cartacce e bottiglie di plastica.

Tutto quello schifo è stato buttato dentro il mio armadietto e ricade sul pavimento. Appena mi rendo conto di quello che è successo, gli studenti che mi hanno seguita scoppiano a ridere. Il fragore è così intenso che sembra sia esplosa una bomba.

 

Rifiuto.

Schifo.

Vomito.

Sfigata.

 

«Aggiungerei anche cicciona», dice perfidamente Rebecca scatenando una nuova ondata di ilarità tra gli studenti. Poi se ne va con Lucas e Adrian che la seguono come fossero dei cagnolini ammaestrati. 

James mi fissa, il suo sguardo è senza espressione, si sta mangiando le unghie della mano. 

Fa sempre così quando è nervoso.

Lo guardo in attesa di una sua parola, una soltanto.

Silenzio.

Se ne va.

 

«Grandissimi bastardi. Come possono essere così crudeli?», Jo, con le mani nei capelli, guarda la sporcizia ai suoi piedi.

Stephanie si tappa il naso per la puzza nauseabonda, mentre Kate guarda dentro l'armadietto: «Dovrai prendere nuovi libri di testo. Questi sono tutti rovinati».

 

Non dico nulla, un vuoto profondo sta mettendo le fondamenta nel mio animo.

Non mi importa di nulla, né dei libri, né della scuola, né di James.

Sono sfinita, scarica, esaurita.

Mi avvicino al mio armadietto, residui di cibo sono appiccicati sulle pareti, il viscidume sgocciola dalle mensole interne. Con la mano provo a spinge lo sportello, come se chiudendolo potessi far sparire quello schifo.

Nulla cambia, la montagna di spazzatura è immobile ai miei piedi.

Sconfitta mi giro, pronta ad affrontare un'altra orrenda giornata al Trinity, quando noto qualcosa.

 

Un foglio.

Lo stacco.

Leggo.

Rido. 

Rido così forte che ho le lacrime agli occhi.

Gli studenti rimasti a vedere sono sconcertati, come lo sono anche Jo, Rebecca e Stephanie.

«Elena che succede?», mi chiede Kate preoccupata.

Tra una risata e l'altra, tra un singulto e una nuova scarica di ilarità incontrollata, passo il foglio che tengo in mano alla mia amica.

 

È la lista dei Club che inizieranno tra poco al Trinity.

Il Club di Dibattito è cerchiato più volte con una penna rossa. 

Di fianco è scarabocchiata una faccina sorridente.

 

Nik.

 

«Ma cosa significa?», chiede Kate.

«Ho trovato la mia ragione per lottare... da domani chi ci ha fatto del male verrà ripagato con la stessa moneta», dico risoluta.

 

Da oggi sarò io il gatto e la volpe.

La guerra è appena iniziata.

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Capitolo 10
*** IERI: Tutti in fila ***


IERI:
Tutti in fila



«Bottigliette d'acqua. Snack. Termos del caffè e del tè. Bicchieri di plastica. Abbiamo tutto?», chiedo a Kate.

«S sta riempiendo i termos con il caffè, dopo saremo pronti per andare», mi risponde mentre controlla su una lista se abbiamo preso tutto.

«Che ore sono?», chiedo a Jo.

«Sono le 4.56», mi risponde.

Stephanie arriva in camera con il termos in mano, li infiliamo negli zaini.

«Bene. Sapete quello che dovete fare. L'importante è mantenere la calma. Se quei quattro osano rivolgerci la parola ci penso io», dico mentre mi controllo allo specchio se la divisa del Trinity è in ordine.

 

Kate, Stephanie e Jonathan si guardano l'uno con l'altro.

 

«Siamo felici che tu sia tornata la solita Elena, ma il tuo cambiamento è... Come dire... piuttosto repentino. Non credi dovremmo muoverci con calma?», Kate mi si è avvicinata.

«Potrebbe sembrare che abbia avuto un cambio burrascoso, è vero, ma fidatevi di me. Adesso sono più me stessa di quanto io lo sia mai stata. Ho toccato il fondo, ho combattuto contro i miei demoni e le mie paure, ho pianto, ho sofferto... Non ne potevo più, quello che sono adesso è rabbia allo stato puro. Non so come abbiate fatto a sopportarmi per così tanto tempo. Vi chiedo scusa», abbraccio Kate e la stringo.

«Ma James, lo ami ancora? Riuscirai a opporti a lui?», mi chiede Stephanie.

«Amo James, ma quel ragazzo non c'è più. È sparito. Non posso amare un fantasma per sempre. Credo che nel mio cuore viva il James che ho conosciuto mesi fa, quello di adesso è un estraneo per me. Tutti loro sono persone diverse. Volevo bene ad Adrian e rispettavo Lucas, ma sono cambiati in negativo. Rebecca era una mia amica, in un certo senso. Tutti loro si sono coalizzati contro me, quindi colpiranno anche voi. Non posso permettere che questo accada», allungo la mano stringendo quella di Stephanie. La tiro verso di me.

«Io sono con te, sempre. Qualsiasi cosa vorrai fare puoi contare sul mio appoggio. Sono stanco di essere considerato inferiore da quei figli di papà, o vedere che quei bastardi vi fanno soffrire. Non riesco più a sopportarlo», Jo mi abbraccia da dietro, mi sposta i capelli e mi bacia la guancia.

 

L'immagine che rimanda lo specchio davanti a me è quella di quattro persone stanche di essere offese, insultate e ridicolizzate. Nessuno deve permettersi di farci ancora del male. Le divise del Trinity che indossiamo sono le nostre armature.

 

Il buio della notte avvolge tutto. I lampioni illuminano le auto parcheggiate e i lupi solitari che si aggirano per la città, pronti ad andare al lavoro ed iniziare una nuova giornata. Il rombo del motore dell'auto di Kate anima il silenzio, riempie per qualche secondo quel vuoto. Suoni che si perdono nelle vie, nei giardini e nelle piazze ancora addormentate. Nessuno di noi dice nulla. Guardiamo la città deserta, i semafori lampeggianti e i marciapiedi inanimati.

 

Il Trinity sembra un grosso mostro addormentato. Le finestre buie sembrano occhi chiusi, le scale senza studenti sembrano zampe inermi. C'è molta calma, forse troppa.

Non ci sono altri ragazzi nei paraggi, per ora.

Ci accomodiamo su un muretto vicino all'ingresso. Beviamo caffè, tè e mangiamo qualche snack. Ci sgranchiamo le gambe e ci stiracchiamo. Dobbiamo aspettare, portare pazienza e non mollare.

 

Oggi ci sono le iscrizioni ai Club.

Noi dobbiamo essere i primi a dare i nostri nomi.

 

Sono le 5.30 del mattino e timidamente, dalla strada fanno capolino altre divise verdi e blu. Sono perlopiù ragazzi degli ultimi due anni, quelli che hanno più da dimostrare ai professori. Gli sguardi non sono amichevoli, ognuno studia le mosse dell'altro mettendosi ordinatamente in fila, sperando di riuscire ad entrare nel Club che desidera.

 

Un paio di ragazzi dell'ultimo anno mi prendono in giro ad alta voce: «Italian Spaghetti, che fai? Vuoi entrare a Dibattito?».

«Prima di tutto rinnovate le battute. Italian Spaghetti? E dai, l'ho già sentito. Su, un po' di originalita! Inoltre, vi ricordo, che l'anno scorso ero nel Gruppo A mentre voi... Hmmm... Fatemi pensare... Ah già, non avete superato il colloquio», con il sopracciglio alzato li squadro da capo e piedi e gli sillabo, senza voce, la parola per-den-ti.

Alcuni studenti applaudono, altri ridacchiano.

Kate, Jo e Stephanie sono vicini a me, più determinati che mai.

 

Basta. Non permetterò più a nessuno di insultarmi.

 

Il tacchettio convulso dei tacchi delle tirapiedi di Rebecca rimbomba per il cortile semivuoto del Trinity. Stanno venendo nella nostra direzione con aria poco amichevole: «Dovete sloggiare», ci dice quella con l'aria snob cercando di intimorirci.

Faccio finta di nulla. Con calma apro lo zaino ed estraggo il termos del tè. Mi riempio un bicchiere, soffio sul suo volto il vapore caldo della bevanda. Non la degno di uno sguardo, fanno così anche i miei amici.

«Scusa carina. Ti ho detto che devi sloggiare. Reb...», non finisce la frase, un mio paio di colpi di tosse la bloccano.

Disorientata dal mio atteggiamento prova a riparlare: «Dicevo che dov...», Kate tossisce nella sua direzione con un certo vigore.

Le scimmiette ammaestrate di Rebecca non sanno che fare, vedere Kate che si ribella è una cosa inaspettata. A turno provano a parlare, ma Jo, Stephanie, Kate ed io, non gli diamo tregua. Abbiamo tutti improvvisi e inaspettati attacchi di tosse.

 

Un brusio si leva tra gli studenti che assistono alla scena, molti bisbigliano mentre altri ridacchiano.

 

«Cosa volete dimostrare? Appena Rebecca lo saprà si infurierà», con aria concitata inizia a digitare un messaggio sul cellulare, probabilmente per spedirlo al suo capo.

«Davvero? Credi che Rebecca si arrabbierà perché abbiamo la tosse?», chiedo con finta ingenuità.

«Sì», risponde quella, poi si ferma, riflette un attimo, «No. Certo che no. Cosa stai dicendo?».

«Tu hai detto che Rebecca sarà furiosa. La nostra tosse vi ha impedito di parlare, quindi pensavo fosse quello il motivo. Del resto tra amiche si fa così, ci si protegge l'uno con l'altra, come io faccio con i miei amici», l'espressione dei miei occhi modello cucciolo di cerbiatto, la guardano con dolcezza.

«A-amiche», balbetta la tirapiedi snob.

«Oh, che stupida dimenticavo», mi tiro una sberla sulla fronte, «Rebecca non potrà mai proteggervi perché voi non siete sue amiche, siete... Siete... Le sue serve, le fattorine, le sguattere. Non valete come James, Adrian o Lucas. Del resto presta più attenzione a me: il vassoio in mensa, la spazzatura. Sono segni che mi teme e che ha paura di me. Invece a voi non fa altro che mandarvi a fare cose, probabilmente perché valete poco per lei. Non vi proteggerà mai, non siete sue amiche».

La tirapiedi mi guarda con la bocca aperta, non sa che dire. Non ci vuole certo un genio per capire che le mia parole sono vere. Con la mano accarezzo il braccio della ragazza che non smette di fissarmi, è come se cercasse di capire se fidarsi di me o meno. Raggiungo la sua mano e con facilità le sfilo il cellulare dalla mano e digito sulla tastiera un nuovo messaggio, diverso da quello che stava scrivendo: "Siamo le prime in fila". Lo invio a Rebecca.

«Credo che sia il momento di riacquistare la vostra libertà. Del resto sapete molte cose su Rebecca, potreste usarle a vostro favore. Lei non lo fa sempre con tutti? Qual'è il Club che vorreste frequentare?», chiedo loro.

«Teatro», rispondono in coro. 

«Perfetto. Ci sono poche persone in fila, potreste essere voi le prime. Del resto tutti a scuola vi conoscono, potreste usare la vostra popolarità per diventare le nuove regine del Trinity. Le nuove star dello spettacolo», è facile manipolarle, sono così prevedibili.

«Popolarità? Regine?», ripete la ragazza snob estasiata.

Con un sorriso smagliante le saluto, mentre corrono a mettersi davanti ai ragazzi in coda per il Club di Teatro. Stupide, prepotenti oche.

 

Adesso ci tocca solo aspettare.

Il nostro primo posto, per il Club di Dibattito, è al sicuro.

 

Manca meno di un'ora all'inizio della scuola. 

«Adesso potete andare», dico a Kate e Stephanie che tolgono i termos e offrono agli studenti in fila caffè e tè caldo, snack e bicchieri d'acqua. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per loro. Un gesto di gentilezza al Trinity è una cosa rara. 

I musi lunghi e gli sguardi torvi si trasformano in timidi sorrisi e facce serene.

L'atmosfera cambia, in poco tempo si iniziano a sentire chiacchiere e risate.

 

Questa dovrebbe essere la normalità a scuola.

Collaborazione e tranquillità.

 

Jo mi abbraccia forte, mi stritola: «Quanto mi sei mancata Elena. Non hai idea quanto».

Appoggio la testa al suo petto, sento il calore del suo corpo e il battito del suo cuore. Mi sento in pace come non mi sentivo da mesi. L'idea di cambiare le regole che ci sono al Trinity mi da una carica pazzesca, il fatto che ci siano i miei amici al mio fianco mi rende immensamente felice: «È merito tuo, di Kate e Stephanie se sono tornata quella di prima». 

Jo mi prende per mano e la stringe forte: «Un anno fa eravamo nella stessa situazione, uno vicino all'altra», poi mi bacia la guancia. Non mi stacca gli occhi da me, neanche quando vengono montati i tavoli per le iscrizioni.

«Sei pronto?», gli chiedo.

Jo non fa in tempo a rispondermi che sento una mano che mi prende la spalla e la strattona con forza.

 

Rebecca è di fianco a me furiosa.

 

«Siamo passate alle maniere brute?», le dico acida.

«Spostati feccia. Quello è il mio posto», mi risponde con rabbia.

«No. Non credo. Siamo arrivati primi, quindi il posto è nostro di diritto. Funziona così, non lo sapevi?».

Adrian e Lucas trattengono Rebecca che vorrebbe farmi chissà cosa.

«Vuoi che continuiamo il trattamento che ti abbiamo riservato i giorni scorsi? Posso distruggerti, lo sai», digrigna tra i denti.

«Dici?», mi guardo intorno poi le indico la fila al Club di Teatro, «Le tue tirapiedi non ti ascoltano più, inoltre credo che molti studenti siano stanchi del tuo modo di fare».

«Cosa diavolo significa?», mi chiede confusa.

Jo urla ad alta voce: «Chi è stanco che Rebecca e la sua combriccola cerchi di passare davanti a tutti alzi la mano!».

 

Tutti gli studenti presenti alzano il braccio.

Rebecca sbianca.

Io sorrido soddisfatta, la gentilezza viene sempre ripagata.

Un semplice gesto, come offrire una bevanda calda, è più forte di mille minacce.

Non per tutti però, con Rebecca servono le maniere forti.

 

«Credo che dovreste trattare meglio me e i miei amici, perché potremmo non farvi ammettere al Club di Dibattito», le dico con falsa gentilezza.

«Che cosa significa.», chiede Lucas preoccupato.

«Quest'estate Jonathan, Stephanie ed io abbiamo fatto gli assistenti a Nik... O forse dovrei chiamarlo il Professor Martin, del resto voi lo conoscete così, non avete la confidenza che abbiamo con lui. Lo abbiamo aiutato e siamo diventati amici. C'è un rapporto di rispetto reciproco molto profondo».

 

Lucas, Adrian e Rebecca mi guardano con la bocca spalancata.

James mi fissa mentre gioca con la sigaretta che ha tra i denti.

 

Jo continua: «È stato molto bello lavorare allo studio McArthur mentre voi eravate in California a divertirvi. Abbiamo imparato un sacco di cose. Strano che tuo padre non ti abbia detto nulla?», Jo sorride diabolico verso James che non dice una parola.

«Quindi, quello che dovete fare è muovere i vostri piedini in fondo alla fila e aspettare il vostro turno. Smetterla con gli scherzi, offese, battute nei miei confronti e tu...», dico rivolta a Lucas, «... Se non smetti di importunare Stephanie, oltre a non farti entrare a Dibattito, ti denuncio alla polizia. Chiaro?».

 

Lucas stringe i pugni lungo i fianchi.

È furioso.

 

La professoressa addetta a prendere i nomi per le iscrizioni ai Club aspetta il primo nome da scrivere.

Senza il minimo indugio dico il mio nome, quello di Jo e quello di Stephanie.

«Adesso andate, bisogna sempre rispettare la fila», dico a Rebecca che digrignando i denti si allontana mettendosi dietro agli ultimi studenti.

 

Jo mi stringe la mano.

Stephanie sospira sollevata.

Kate è felice.

Mi sento una roccia.

Anche se un lieve sorriso comparso sulle labbra di James, prima di andare in fondo alla fila, mi fa vacillare un attimo.

 

Elena i fantasmi non esistono.

James non ti ama più.

Mi ripeto prima di prendere per mano i miei amici ed iniziare una splendida giornata al Trinity.

 

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Capitolo 11
*** IERI: Regali inaspettati ***


IERI:
Regali inaspettati



Seduta su una panchina del parco della scuola osservo il Trinity. Il grosso edificio di mattoni è solido e immutabile, l'edera ricopre parte della facciata, le finestre spalancate sono occupate dagli studenti in cerca di un po' di sole.

Sto aspettando Jo, Stephanie e Kate per pranzare. Vogliamo goderci gli ultimi giorni di bel tempo prima che l'autunno porti pioggia e nuvole. 

 

Da quando ci sono state le iscrizioni ai vari Club le cose a scuola sembrano più tranquille. Niente più scherzi, niente più battute. Tutti hanno dimenticato o meglio, tutti fingono che non sia successo nulla. Le cose al Trinity non cambiano mai, per questo è ora che le fondamenta di questo, grosso e vecchio, edificio vengano demolite per far spazio a una nuova era di studenti. Basta malignità. Basta cattiverie. Basta Rebecca. È l'unica cosa a cui penso.

 

«Perché sorridi?», Jo si è seduto di fianco a me.

«Pensieri. Niente di importante», gli rispondo scartando il panino che mi sono portata da casa.

Jonathan addenta il suo tramezzino: «Pensieri belli o brutti?».

«Non so, vedremo tra un po'», gli rispondo sorridendo.

«Così mi metti una curiosità pazzesca, vorrei saperlo adesso», Jo mi mette un braccio intorno alle spalle, mi avvicina a se mentre gioca con una ciocca dei miei capelli.

«Non tutto deve essere programmato o spiegato. Servono un po' di imprevisti nella vita», nel dirlo mi mangio le ultime parole perdendo il respiro. 

 

Imprevisti.

Io ero stata l'imprevisto di James, la sua neve in un giorno d'estate.

I ricordi stipati in un angolo del mio cervello, scalpitano. Sono pronti a invadere la mia anima e lacerare quel poco che sono riuscita a ricostruire in questo periodo.

 

Jo mi guarda. Ha capito che qualcosa mi ha turbato: «Tieni», mi dice allungando un piccolo oggetto argentato, «Non è niente di eccezionale, ma puoi aggiungerlo agli altri».

Jo mi da un ciondolo dalla forma strana da appendere al braccialetto che mi ha regalato a Natale.

«Grazie», sono commossa.

«Ho preso una lattina in argento, in ricordo degli scherzi di Rebecca di questo periodo. Non c'era a forma di piatto di spaghetti, altrimenti avrei preso quello», mi dice sghignazzando.

«Sei davvero simpatico», gli faccio una linguaccia.

«Ricordi belli. Ricordi brutti. Pensieri belli. Pensieri brutti. Alla fine tutti servono, in un modo o nell'altro. No?», Jo morde il suo tramezzino stringendo di più il braccio intorno alle mie spalle.

«Già, hai ragione», con le dita sfioro i particolari scolpiti sul piccolo ciondolo, poi appoggio la testa sulla sua spalla. Con Jo sono serena, questo mi basta. Voglio vivere il mio presente, senza farmi troppi problemi per il futuro e senza i fantasmi del passato. Voglio vivere l'attimo e godermelo fino in fondo.

 

Il sole colpisce gli alberi che ci fanno ombra, proiettando sottili raggi, filtrati dai rami, che scaldano l'aria. Il fruscio delle foglie è come una musica rilassante, il cinguettio degli uccelli mette allegria. Non potrei chiedere niente di meglio.

 

Due figure in lontananza ci stanno raggiungendo.

Sono Kate e Stephanie e sembra stiano discutendo.

 

«Che succede?», faccio cenno con la testa a Jo nella direzione delle nostre amiche.

«Non ne ho idea», mi risponde alzandole spalle.

«Meglio intervenire», scatto in piedi quando vedo che Kate strappa dalle mani di Stephanie qualcosa per buttarlo in terra. Jo mi segue.

In pochi secondi siamo da loro.

 

Stephanie sta piangendo, mentre Kate pare su tutte le furie.

 

«... Non puoi farmi una cosa del genere. Non puoi proprio», sta dicendo Kate a Stephanie.

«Che cosa sta succ...», provo a chiedere, ma Kate mi blocca.

«Per favore Elena, non intrometterti», mi dice in tono brusco.

Per terra c'è una rosa rossa con parecchi petali staccati.

«Dopo tutto quello che ti ha fatto hai il coraggio di accettare un suo regalo? Ma sei impazzita?». Kate sta sbraitando contro Stephanie sempre più affranta.

Jo si mette in mezzo alle due ragazze allontanandole, non le ho mai viste litigare in questo modo.

«M-mi dispiace. Lucas è stato gentile con me, non credevo ti saresti arrabbiata», balbetta tra le lacrime Stephanie.

«Lucas ti ha parlato? Quando?», le chiede Jo sorpreso.

«L'ho incontrato dopo la lezione di fisica. Mi ha regalato quella rosa, chiedendomi scusa per il suo comportamento... Era molto triste», ci spiega indicando il fiore per terra.

 

Jo ed io ci scambiamo un'occhiata preoccupata. Il cambiamento repentino di Lucas non promette nulla di buono, adesso capisco la reazione di Kate.

 

«Devi stare attenta, non puoi fidarti di lui. Hai visto cosa ti ha fatto, sai di cosa è capace. Devi evitare che ti manipoli», le dico abbracciandola. Stephanie sta singhiozzando mentre Kate cammina avanti e indietro come un animale in gabbia. Jo sta cercando di calmarla, ma lei sembra una furia.

«Che ne dite se adesso andiamo a mettere qualcosa nello stomaco? Vedrete che tra un attimo ci saremo chiariti e riusciremo a vedere le cose con più lucidità», dico cercando di calmare gli animi.

«Io ho perso l'appetito». Kate si volta di scatto e si allontana da noi senza aggiungere altro.

Stephanie piange ancora più forte.

Jo ed io la prendiamo per mano e con calma la portiamo alla panchina dove eravamo seduti prima. Cerchiamo di consolarla, ma sembra in preda ad una vera e propria crisi.

 

Non so che fare.

Vedere le mie due più care amiche arrabbiate mi fa davvero male, è come se due membri della mia famiglia non si volessero più bene.

 

I raggi del sole che trapassano i rami degli alberi non ci regalano più calore, un'ombra sta bloccando la loro strada.

«Buongiorno», la preside Marquez è di fronte alla nostra panchina, vicino a lei c'è Nik. Ero troppo presa dal litigio delle mie amiche, per rendermi conto che ci fossero altre persone a passeggiare nel parco della scuola.

Guai in vista.

«Buongiorno Preside», Jo si alza in piedi e con il corpo cerca di coprire il volto in lacrime di Stephanie. 

«Stavamo passeggiando per goderci questa bella giornata quando, io e il professor Martin, abbiamo sentito delle urla. Mai mi sarei aspettata di vedere la Signorina Kate Husher comportarsi in quel modo. Sapete quanto sia importante il decoro per il Trinity». La preside fissa dritta negli occhi Jo.

«Sissignora. La nostra amica ha problemi personali che non hanno niente a che fare con la scuola. Una giornata storta, niente di che», Jo sorride, ma allo stesso tempo è deciso a nascondere Stephanie. Invidio la sua capacità di controllo, in questo genere di situazioni riesce a dare il massimo di se.

«Mi auguro che i problemi personali della Signorina Husher non interferiscano con lo studio. Tra pochi giorni ci saranno i colloqui per i vari Club, è importante mantenere alta la concentrazione. Chiaro?», la Marquez parla con voce ferma. È categorica.

«Sissignora», rispondiamo in coro Jo ed io.

«La pausa pranzo è quasi finita. Andate a prendere i vostri libri per le lezioni pomeridiane». La donna, immobile come una statua, osserva ogni nostro movimento. Vuole che sloggiamo da lì il prima possibile.

 

Nik non dice nulla, si limita a fissarmi. 

Prima che ci allontaniamo mi schiaccia l'occhio complice.

Trattengo un sorriso, non voglio che la preside pensi che la stia prendendo in giro.

 

A tutta velocità andiamo verso l'ingresso, Stephanie pare essersi calmata. Ha il volto più pallido del solito, forse per il pranzo saltato o forse per le lacrime versate.

Jo la tiene per la vita, io le stringo la mano. 

Non so bene che dire, anche perché la situazione è già parecchio complicata e non vorrei incasinare ancora di più le cose: «Vedrai che presto si sistemerà tutto», dico a Stephanie che annuisce mesta.

«Credo che capiterà prima di quanto pensiate», Jo ci indica Kate che sta divorando le unghie della mano per il nervoso. Ci sta aspettando sulle scale d'ingresso della scuola.

 

Appena Stephanie la vede, si stacca da noi per correrle incontro.

Per diversi secondi stanno strette, unite.

«Scusa. Scusa», le dice Stephanie.

«Ho paura che ti succeda qualcosa di brutto. Lo capisci? Devi lasciarlo perdere quello la». Kate è avvinghiata all'amica.

 

Jo ed io tiriamo un sospiro di sollievo. 

Pericolo scampato, almeno per ora.

 

«Adesso avete cinque minuti per ingoiare qualcosa prima che riprendano le lezioni. Non vorrete svenire in classe?», Jo allunga ad entrambe delle mele che le due addentano senza indugi. 

«Andiamo agli armadietti a prendere i libri per le lezioni del pomeriggio, così guadagneremo un po' di tempo», dico trascinando Kate per mano.

«Se Lucas ti infastidisce ancora vieni a dircelo, ok?», dice Jo a Stephanie.

«Sembrava così tranquillo, insomma, aveva quella rosa in mano e... e... Mi sembrava diverso dai giorni scorsi. Voleva chiedermi scusa, tutto qui», ribatte  Stephanie arrossendo.

Kate grugnisce un paio di offese poco piacevoli ed estremamente volgari. Sentirla parlare così è strano, piuttosto buffo.

Tutti scoppiamo a ridere.

 

La campanella suona.

Cavolo, siamo in ritardo.

 

Tutti e quattro corriamo per il corridoio verso i nostri armadietti per prendere i libri. Kate e Stephanie salutano al volo Jonathan e me, mentre cercano di finire di mangiare la mela, poi scattano verso l'aula di informatica al secondo piano.

Jo ed io raggiungiamo l'aula di chimica con il fiatone, buona parte dei nostri compagni sono seduti ai loro posti.

 

Il Professor Tompson entra pochi secondi dopo.

Siamo salvi per un pelo.

 

«La chimica è una scienza che non transige approssimazione. Se di sbaglia un calcolo, un elemento o un composto, si corre il rischio di compromettere l'esperimento. Quello che faremo oggi è iniziare una ricerca sulle cellule, quindi raggiungete il vostro compagno o compagna e iniziate ad impostare il lavoro», il Professore si avvicina alla finestra spalancandola, poi si mette un fazzoletto davanti alla bocca e al naso. Ci guarda schifati, tipico di lui.

Jo prende il quaderno degli appunti e il libro di testo: «Credo potremmo partire dall'analisi del...».

Il Professor Tompson tossisce: «Mi chiedo cosa non sia chiaro delle mie parole. Ognuno di voi deve raggiungere il proprio compagno o compagna e iniziare ad impostare il lavoro. Mi pare di aver già formato le coppie, quindi Signorina Voli raggiunga il suo compagno James McArthur e si dia da fare».

«Ma...», provo a ribattere zittendomi subito.

«Si muova. Adesso», il Professor Tompson ha la faccia viola per la rabbia.

 

«D-devo andare», bisbiglio a Jo che con la mascella tesa e i pugni stretti sta cercando di mantenere il controllo. Non mi guarda, credo potrebbe esplodere da un momento all'altro.

Raccolgo la mia borsa, i libri e le penne. Ho un'ansia pazzesca.

A piccoli passi faccio lo slalom tra i banchi fino a raggiungere quello di James. Mi siedo con cautela, cercando di fare meno rumore possibile. Sono nel panico.

«Bene iniziate ad impostare il progetto. Mi raccomando dovete lavorare insieme e suddividervi i lavori. Nelle prossime due ore voglio vedere teste chine a lavorare e basta», il Professor Tompson trascina una sedia vicino alla finestra aperta respirando a pieni polmoni l'aria fresca.

 

Le mie mani hanno perso sensibilità, sento la faccia bruciare. Non ho il coraggio di alzare lo sguardo, sbircio i movimenti di James mentre apre il libro e inizia a leggere il testo. 

Dopo mesi mi ritrovo ad osservare i piccoli particolari che ho amato di lui: i ricordi delle sue carezze, il calore della sua stretta, il profumo della sua pelle. Tutte cose che mi rendono fragile e vulnerabile. Vacillo.

 

«Potresti star ferma, mi dai fastidio», James è gelido, la sua voce è dura.

«C-cosa?». Detesto quando fa così, riesce a diventare irritante all'istante. 

«Smettila. Dobbiamo studiare», mi dice indicando la mia gamba. Senza accorgermene la sto muovendo istericamente su e giù per il nervoso. 

«Non faccio apposta», gli rispondo acida.

«Non ho mai detto che fai apposta, ti sto dicendo di stare ferma. Ne sei capace? Non hai cinque anni», James apre il quaderno sbattendo la copertina sul banco.

«Vedrò. Se ho voglia di star ferma starò ferma, altrimenti fattene una ragione. Chiaro?», appoggio con forza la penna sulla copertina del libro di testo. Il suono rimbomba per l'aula.

«Fai troppo rumore», James prende l'astuccio mettendolo tra di noi. Lo sbatte così forte che metà classe si gira a guardarci.

«No, tu fai troppo rumore». Non ho voglia di farmi sottomettere, anche se stare vicino a James mi fa sentire fragile, non posso permettergli di affossarmi. Non posso ritornare ad essere lo spettro che ero quest'estate.

 

James mi guarda negli occhi con sfida.

Siamo a venti centimetri l'uno dall'altra.

Non ho intenzione di abbassare lo sguardo.

 

Il calore del suo respiro colpisce il mio volto.

Elena, non ci cascare.

 

Il verde dei suoi occhi è pura luce.

Elena, smettila di guardarlo.

 

Il profumo della sua pelle mi avvolge.

Elena, non è più il ragazzo che amavi.

 

«Guarda pivella che ti faccio un regalo ad aiutarti. Sei un disastro in chimica, non sei in grado di fare nulla. Rischio solo di abbassare la mia media lavorando con te», mi dice con cattiveria.

«Cosa vuoi? Ti devo dire grazie? Se vuoi posso anche inchinarmi e lanciare petali di rosa al tuo passaggio», rispondo con il suo stesso tono.

James stringe le mascelle, socchiude gli occhi e prende un grande respiro.

Poi mi avvicina il libro di testo:«Leggi questa parte, poi ricopia le formule su un foglio. Sei capace di farlo stando zitta?».

Senza rispondere faccio quello che mi dice, abbasso la testa e scrivo.

 

Non ho intenzione di perdere me stessa.

Non voglio che mi distrugga un'altra volta.

Non permetterò che mi faccia del male.

 

Questo è solo un progetto di chimica, niente di più.

Che potrebbe succedermi di male?

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Capitolo 12
*** IERI: Cellule ***


IERI:
Cellule




«Signorina Voli, quante volte devo ripeterglielo? Deve lavorare con il suo compagno di banco per l'esperimento». Il Professor Tompson, con il fazzoletto davanti alla bocca, si è avvicinato minacciosamente alla mia postazione. I suoi occhi, piccoli e scuri, sembrano quelli di un furetto. 

«Sissignore», rispondo tra i denti mentre mi avvicino a James.

Prendo il vetrino da guardare al microscopio cercando di non fare altri danni.

James sta prendendo appunti e controllando che segua la sequenza corretta, non dice una parola più del necessario: «Adesso dovresti vedere chiaramente le cellule».

Io e i microscopi non siamo mai andati molto d'accordo: «Non riesco a distinguere nulla, a dire il vero è tutto appannato».

«Dammi qua», scocciato James prende il microscopio.

 

Le sue dita di intrecciano con le mie per decimi di secondo. Il tempo di un battito di ali.

Come se stesse toccando un tizzone ardente, si allontana da me con uno scatto.

Arrossisco.

 

«Non farti strane idee. Conosco come ragiona il tuo cervello. Volevo solo il microscopio». James sistema meglio il vetrino e mette a fuoco: «Ora si vede bene. Ci credo che l'anno scorso hai dovuto studiare chimica e biologia per recuperare, sei un disastro».

«L'anno scorso ho avuto un pessimo compagno di studi. Fammi pensare... Hmm... Eri tu!», rispondo acida. Con decisione riprendo il microscopio.

«Vista la tua scarsa capacità di concentrazione e la tua incapacità di tenere la bocca chiusa, quest'anno rischio anch'io di prendere un brutto voto. Quindi limitati a parlarmi solo per gli esperimenti, per il resto puoi rivolgerti ai tuoi amichetti», James riprende il microscopio e lo piazza davanti a se, sta controllando sul libro il prossimo passaggio da fare.

«Si dia il caso che quelli che tu chiami ironicamente amichetti mi sono stati molto vicini quest'estate, visto che non è stato un bel periodo per me». Lo allontano dal banco e cambio il vetrino.

«Io mi sono divertito un sacco. Feste. Spiaggia. Sbronze. Uno spasso, fidati. Un mucchio di ragazze... O meglio, donne, tutte per me», James ridacchia. Ha un'aria così arrogante che lo prenderei a calci nel sedere.

 

Come cavolo faceva a piacermi un tipo così?

 

«Contento tu, contenti tutti. Io ho lavorato e costruito delle basi solide per il mio futuro. Ho dedicato il mio tempo a capire ciò che vorrò diventare da adulta». Una frase così posata la potrebbe dire Kate, non certo io.

James mi guarda come se mi fossero spuntate due antenne verdi in testa.

«Che c'è? Perché mi guardi così?», gli chiedo scocciata.

«Hai lavorato e costruito cosa? Il tuo futuro? Ma se non sai neanche che cosa vorrai fare domani. Fammi il piacere, tu che fai progetti? Questa sì che è bella».

«Io so quello che voglio fare della mia vita, capito?», gli ringhio in faccia. Anche se sto mentendo non voglio farglielo capire.

«Come no? Se lo dici tu allora ci credo anch'io». James mi passa il libro sbadigliando: «Mi annoiano le tue parole. N O I A».

 

Elena non reagire.

Elena lascialo perdere.

 

«Se io sono noiosa tu... tu sei un borioso prepotente», cerco di trattenermi il più possibile, ma la mia voce risuona per la classe.

Tutti si girano a guardarmi. Vorrei sprofondare.

Il professor Tompson si blocca, mi guarda. Ha la faccia tra il viola e il blu.

«Signorina Voli. La prego di prestare attenzione a quello che fa», sbraita nella mia direzione. In pochi secondi è al mio fianco a controllare i miei appunti.

 

Elena sei nei guai.

 

Il professore scuote la testa mentre scrive delle note su una cartelletta che tiene in mano: «Possibile che lei non riesca ad eseguire un esperimento semplice come questo? Il suo compagno non l'ha aiutata?».

«A dire il vero l'ho consigliata più volte su come procedere, ma non mi ha mai ascoltato. Ha detto che la biologia non gli interessa». James alza le spalle, ha stampato in faccia il suo solito sorrisetto furbo.

 

Odio profondo.

Giuro che lo strozzo.  

 

Il professor Tompson inizia a respirare velocemente, corre alla finestra per prendere una profonda boccata d'aria: «Il suo atteggiamento non mi piace Signorina Voli, ha avuto tutto il sostegno che serve, sia da me che dai suoi compagni. Credo sia il caso che porti un po' di rispetto a tutti noi, la sua incompetenza è un ostacolo per tutta la classe. Non voglio rischiare di ritardare il programma per colpa sua».

James, con le mani davanti alla bocca, sta nascondendo un sorriso compiaciuto.

«Se mi posso permettere professore, vorrei offrirmi come nuovo compagno per l'esperimento con la signorina Voli. Credo di essere in grado di aiutarla nel modo corretto, il mio collega McArthur evidentemente non sa come approcciarsi. Del resto non è cosa da tutti», Jo è in piedi e fissa James.

 

Il professor Tompson rimbalza lo sguardo sui due ragazzi.

 

«Questa nuova opzione scombussola l'organizzazione che avevo per la classe. In questo modo credevo fosse equilibrata, potrei sbagliarmi... Hmm», l'uomo guarda tutti gli studenti, uno ad uno. Sembra un bimbo che gioca con le figurine e cerca di accoppiarle il meglio possibile, senza però raggiungere mai una soluzione soddisfacente.

Ad un certo punto James alza la mano: «Professor Tompson, non voglio vanificare il lavoro finora svolto dai miei compagni per l'incompetenza della mia collega. Mi prendo la responsabilità di insegnarle l'amore per la biologia».

L'uomo pare commosso: «Ottimo McArthur. Ottimo. La esorto, Signorina Voli, ad ascoltare il suo compagno. Niente colpi di testa. Ringrazio anche lei Kurtz per il sacrificio disposto a correre per il bene della biologia», dice mieloso a Jo.

«Sissignore, farò il possibile per essere meno... Incompetente», rispondo cercando di trattenere la rabbia che mi scuote da capo a piedi.

 

Appena il professore riprende il suo giro tra i banchi, mi avvicino all'orecchio di James, sono furiosa. James deve finirla di infastidirmi. Non mi importa quello che c'è stato tra noi, non mi importa se lo amavo, non deve azzardarsi a pestarmi i piedi: «Non credere che non sappia cosa stai organizzando. Non mi piegherò mai a te. Mai. Voglio Yale e per farlo devo essere promossa a pieni voti in biologia. È la stessa cosa che vuoi tu, no? Quindi stai zitto e finisci la tua parte nel progetto. Chiaro?».

 

Sono così vicina a James che i suoi capelli mi solleticano il naso, con una mano li sposto per metterglieli dietro l'orecchio. Un gesto che ho ripetuto un milione di volte mesi fa, ma che adesso risulta stonato e fuori luogo.

James si gira di scatto e mi prende il polso.

Mi blocco, non mi sono neanche resa conto di quello che ho appena fatto.

 

«Non osare mai più sfiorarmi». James è infastidito, lo capisco dalla mascella tesa.

«Se ti interessa saperlo, non ho fatto apposta. I tuoi capelli sono così lunghi che mi arrivano in bocca. L'ho fatto ed evitare di soffocare», rispondo in tono acido squadrandolo in malo modo.

«Sono cose che forse il tuo fidanzato apprezza. Io no, soprattutto fatte da te. Ho il voltastomaco», James lancia un occhiataccia verso Jo.

 

James crede che sia fidanzata con Jo.

Bene. 

Vuole infastidirmi dandomi dell'incompetente e mettendomi in ridicolo? Allora io lo colpirò dove più gli fa male, dove ogni uomo detesta sentirsi sminuito.

Semplice e sana competizione.

Non può passarla liscia.

 

«Jo apprezza molto altro di me, come io apprezzo molto altro di lui. Quello che mi da lui, non me lo ha mai dato nessun altro. Ha una forza ed energia incredibili». Mi sto mordicchiando il labbro, giuliva guardo il soffitto come fossi in estasi. Meriterei un Oscar, sembro veramente innamorata di Jo.

«Vuoi farmi credere che tu hai... hai... Insomma che lui ti porta a letto? Stai con quello sfigato?», James mi guarda con la bocca spalancata.

«Non sei l'unico che si è dato da fare quest'estate. Del resto che potevo fare, starmene con le mani in mano? Sai, l'anno scorso stavo con un ragazzo, profondamente idiota, che mi ha accusato di aver taciuto la malattia di sua madre. Pensa che quel demente pensa che sia colpa mia. Dato che mi ha lasciata in malo modo, credo di avere tutto il diritto di divertirmi e cercare di riprendermi da accuse tanto ridicole... Oppure no?». Sono in piedi di fronte a James e gli sto urlando in faccia.

«Tu mi hai mentito su cose gravi, avrei potuto aiutarla, invece no. Non ho potuto per colpa tua», James è a un palmo dal mio naso e sta urlando a pieni polmoni.

 

Sbam.

Il professor Tompson sbatte la mano sul banco così forte da rovesciare il microscopio: «Siete fortunati che la Preside sia a New York per un convegno, perché altrimenti vi sbatterei nel suo ufficio in questo istante. Domani mattina la prima cosa che farete, quando metterete piede al Trinity, è presentarvi con i vostri genitori dalla Marquez. Capito?».

«Sissignore», rispondiamo in coro James ed io.

 

La campanella suona.

La lezione è finita.

 

«Adesso potete andare. Vi tengo d'occhio, voi due non mi piacete per niente». Il professore tuffa il volto nel fazzoletto per poi affacciarsi alla finestra a prendere una boccata d'aria. 

L'intera classe ci sta fissando, alcuni ridacchiano, altri spettegolano tra loro.

Jo si avvicina e mi prende per mano, poi si rivolge a James: «Se osi parlarle, guardarla, anche solo pensarla, io ti spacco la faccia».

James sorride con quel suo solito sorriso sghembo.

«Andiamocene il più lontano possibile da questo idiota», dico trascinando Jo fuori dalla classe.

 

Sono furiosa con me stessa. Possibile che non sappia contenere le mie emozioni? Mi sento come una bimba piccola che litiga per delle stupidaggini. 

Detesto James, lo so che mi ha provocata apposta. Ha voluto ridicolizzarmi davanti al professor Tompson perché è ancora convinto che sia colpa mia la morte di sua madre. Mi fa venire un nervoso, se ci ripenso spaccherei tutto.

 

«Sono felice che ti piaccia stare mano nella mano con me, però potresti allentare la presa?». Jo ha una smorfia di dolore mista a sorriso sul volto.

Stringo la sua mano così forte che non mi sono resa neanche conto che la sto stritolando: «Scusa è che James mi ha fatta infuriare».

«Tranquilla, lo capisco. Non so come hai fatto a resistere così tanto. Era inevitabile che succedesse». Jo scuote la mano e stiracchia le dita: «Sei molto forte, lo sai? E chi lo avrebbe mai detto?».

 

Jo ed io ridiamo nello stesso momento.

La tristezza però prende sopravvento nel mio cuore. Ripensare a come stavo bene con James fino a qualche mese fa, mi fa star male. Dei semplici gesti, come sfiorare le sue dita o sistemargli i capelli, sono diventati fuori luogo, come se li facessi ad un estraneo. Il pensiero di quando stavo bene con lui scalpita, palpita è vivo, ma lo metto a tacere. Lo nascondo, ma non posso dimenticarlo. Ogni volta che sono vicina a lui devo combattere con i fantasmi delle emozioni che ho vissuto. Miraggi.

 

Jo mette un braccio sulle mie spalle: «Lo so a cosa stai pensando?», mi dice.

«Davvero?», non credevo potesse capire il groviglio di sentimenti che provo per ciò che ho vissuto con James.

«Tu hai paura», mi dice sghignazzando.

«S-sì». Ha ragione, ma non capisco perché lo trovi tanto divertente.

«Tranquilla, lui capirà». Jo mi da una pacca sulla schiena.

«Lui?», chiedo sempre più confusa.

«Bruno, tuo padre. Domani devi presentarti con lui dalla Marquez, te ne eri scordata?».

 

Merda, mi ero dimenticata.

Sono fritta.

Mio padre questa volta mi ammazza.

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Capitolo 13
*** IERI: Doppia punizione ***


IERI:
Doppia punizione




Mani sudate. 

Salivazione azzerata.

La divisa del Trinity mi pare troppo stretta.

Non respiro.

 

Il tavolo della cucina è l'anticamera del patibolo ed io ci sono seduta proprio davanti.

Papà mi guarda con insistenza, il suo silenzio è fastidioso. Preferirei vederlo urlare, invece se ne sta zitto. Ho l'ansia.

Victoria e Tess, gli assistenti di papà, sono appoggiati alla credenza della cucina e mi guardano atterriti. Il fatto che sia stata sgridata in classe e invitata a presentarmi dalla Preside Marquez, non è una bella cosa. Lo sanno loro, lo so io e lo sa papà.

 

«Se ho capito bene la spiegazione che mi hai appena dato, stamattina devo accompagnarti a scuola perché hai urlato in classe». Papà mi guarda come se cercasse di leggermi i pensieri.

Victor e Tess, alle sue spalle, annuiscono.

«Hmm, sì. Più o meno è andata così... Non proprio, però... Ecco...», rispondo io seguendo i gesti dei due.

Victor e Tess si danno una pacca sulla fronte. Forse dovevo stare zitta.

«In che senso più o meno è andata così?», mi chiede papà

«Nel senso che... Insomma... James mi ha provocata e quindi ho risposto a tono». Cerco di sembrare una vittima sbattendo le ciglia, ma non sembra funzionare un granché.

«James? Il coso con cui uscivi? Quello che amavi e che...».

Lo interrompo bruscamente: «Papà! Basta, capitolo chiuso. Archiviato. Ok? Non mi piace più, è finita con lui».

«Lo spero bene, per colpa di quel coso quest'estate sembravi uno zombie. Non credere che non l'abbia notato. Ho fatto finta di nulla perché ho pensato di doverti lasciare il tuo spazio», dice papà a pappagallo, come se ripetesse una lezioncina. Poi si gira e lancia un'occhiata a Tess che gli fa il segno di ok con le dita.

 

Ecco perché papà non mi ha assillata quest'estate. Tess l'ha tenuto a bada.

Devo ricordarmi di ringraziarla.

 

«Non ero uno zombie, ero, un po' triste. Ma non voglio parlarne adesso, non c'entra nulla. James mi ha provocata e gli ho risposto a tono». Incrocio le braccia al petto risoluta, del resto ho ragione al 100%.

«Cosa ti ha detto per provocarti? Se ti ha offesa devi dirlo alla preside, così prenderà provvedimenti», dice papà mentre prepara la borsa per uscire: «Non permetterei mai che qualcuno ti umiliasse o facesse del male. Certe cose vanno dette. Mai tacere su cose del genere».

 

Tess mi guarda, inclinando leggermente la testa, come per dire: cosa ti avevo detto?

So che si riferisce agli atti di bullismo di Rebecca nei miei confronti. Non ho raccontato nulla a mio padre e nemmeno alla preside. Non ho avuto il coraggio e non volevo creare troppo trambusto.

 

«James ha detto cose senza senso, solo per darmi fastidio. Piccolezze, nulla di che. Non è importante». Cerco di minimizzare, mica posso dire a papà che parlavamo dell'inesistente sesso che faccio con Jo o delle accuse di James, nei mie confronti, sulla morte di Demetra. Credo non capirebbe.

«Aspetta. Prima mi dici che la litigata è colpa di James, poi quando ti chiedo cosa ha detto cerchi di cambiare discorso?», mi dice papà alzando un sopracciglio. È chiaro come il sole che non mi crede affatto.

«Sono nei guai?». Incrocio le dita sperando che mi dica no.

«Grossissimi guai». Papà si alza, mette la borsa a tracolla ed esce dalla cucina. È furioso.

 

Mi sento così stupida, come ho fatto a cedere alle provocazioni di James? Adesso mi ritrovo in questa situazione assurda. L'idea che mi possano espellere non è certo una bella cosa, ma la cosa che mi fa arrabbiare di più è che non sarebbe giusto nei miei confronti. Non è colpa mia. Almeno non tutta.

 

«Sbrigati Elena, non ho tempo da perdere», mi urla papà dalla porta d'ingresso. Victor mi bacia sulla fronte consigliandomi di tenere la bocca chiusa dalla preside, mentre Tess mi abbraccia stretta.

Ho una paura tremenda.

Con la testa bassa esco di casa.

Vorrei sparire.

 

In macchina nessuno di noi due parla, il rombo del motore è l'unico rumore.

Il mio cuore batte sempre più forte, secondo dopo secondo. Gioco con il braccialetto che mi ha regalato Jo, passo i ciondoli argentati tra le dita. Il tintinnio mi distrae, mi porta a pensare come sarebbe la mia vita se Demetra fosse viva o se James non mi credesse colpevole della sua morte. Forse staremmo insieme, forse no. Forse mi amerebbe ancora, forse ci saremmo lasciati comunque. Ci sono così tante possibilità che per qualche minuto mi perdo ad immaginare una vita perfetta, senza guai, problemi, litigi e paure. Una vita con mia madre e con Demetra, amiche e confidenti; con Rebecca simpatica e dolce; con papà rilassato e sereno. 

E James? Che ruolo avrebbe? In una vita perfetta lui ci sarebbe?

 

Non faccio in tempo a rispondermi, la voce cupa di mio padre mi risveglia dai sogni: «Siamo arrivati, scendi».

Il grande edificio a mattoni è lì di fronte a me. Ho sperato che questa notte sparisse, esplodesse o evaporasse, ma non è successo proprio nulla. Il Trinity è immobile e solido come i giorni scorsi.

Il tragitto fino all'ingresso è una tortura. Gli sguardi degli studenti, il loro chiacchiericcio e le risatine, ci fanno compagnia per tutto il tempo. La notizia della litigata con James, durante biologia, deve aver fatto il giro del scuola in un nano secondo.

Papà mi appoggia un braccio sulle spalle, mi pare di intravedere un sorriso dietro la barba folta, ma magari sbaglio. Appoggio la testa al suo braccio cercando un po' di calore. 

Entriamo nell'edificio semi deserto, manca ancora mezz'ora prima dell'inizio delle lezioni. Nel corridoio riecheggiano i nostri passi, quei pochi studenti ai loro armadietti ci guardano con curiosità.

 

Raggiungiamo l'ufficio della preside, James è appoggiato mollemente alla parete, appena ci vede scatta e allunga la mano: «Buongiorno Signor Voli. Mi dispiace rivederla in una situazione del genere».

Papà stringe la mano a James spiando ogni sua mossa. Lo squadra da capo a piedi, si avvicina e poi si allontana, come se volesse metterlo a fuoco. È un comportamento ridicolo.

 

Imbarazzo.

La mia faccia è rossa.

 

«Papà, smettila!», bisbiglio dandogli una gomitata.

«Non sto facendo nulla di male», mi risponde accigliato.

«Ma...». 

Non finisco la frase, una voce familiare mi zittisce.

«Cara ragazza, ti sembra il modo di parlare a tuo padre? I giovani d'oggi non hanno più rispetto. Spostati James, non vedo nulla», Geltrude McArthur allontana malamente il nipote facendolo barcollare.

Con la bocca spalancata osservo la vecchia donna stringere la mano a mio padre e salutarlo cordialmente.

 

Di male in peggio.

 

Guardo James con aria interrogativa.

«Mio padre è a Boston per lavoro», mi grugnisce prima di aprire la porta dell'ufficio della Preside.

La Marquez è seduta alla scrivania, sta leggendo dei documenti mentre prende degli appunti su un taccuino. Appena entriamo allunga il braccio e ci indica le quattro sedie posizionate proprio di fronte a lei. Il ticchettio dell'orologio appeso alla parete è l'unico suono che sento, a parte il battere accelerato del mio cuore.

 

«Benvenuta Signora McArthur e benvenuto Signor Voli. Il professor Tompson ha ritenuto opportuno che Elena e James venissero convocati qui, con voi, perché il loro atteggiamento in classe è stato a dir poco disdicevole». La Marquez si è alzata, ci guarda dall'alto al basso, con le mani dietro alla schiena: «Immaginate la scena. Sono sul palco a parlare perché mi hanno invitata a New York a presentare l'eccellenza del Trinity ad una platea stimata e importante. Sono lì che parlo di quanto la disciplina, l'ordine e il rispetto siano pilastri fondamentali nel nostro istituto, quando la mia segretaria mi avvisa che due miei studenti si sono messi ad urlare in classe come fossero al mercato».

 

Passo dal rosso fuoco al pallido cadaverico in meno di due secondi.

È un record.

 

«Al Trinity le cose funzionano perché il corpo docente vigilia costantemente. Una piccola infrazione come la vostra potrebbe portare caos e disordine. Io non tollero caos e disordine. Chiaro?». La donna ci guarda fissa, sembra una furia.

«Sissignora», rispondiamo in coro io e James.

«Non mi importa chi ha iniziato e perché. Non mi interessa affatto. La colpa non è mai di una persona sola, quindi entrambi sarete puniti. Credo che i vostri familiari converranno con me che un po' di volontariato sia la cosa migliore. A meno che non vogliate essere allontanati da qualsiasi Club a cui vi siete iscritti?». La Marquez ci guarda con un sorrisetto maligno stampato in faccia.

«No. Il volontariato andrà benissimo», rispondo mentre James annuisce.

 

L'idea di non poter frequentare le lezioni di Nik mi fa più paura di qualsiasi altra minaccia che la preside mi possa fare. 

 

«Bene vi farò sapere al più presto dove svolgerete il vostro volontariato. Adesso andate in classe, non voglio perdiate ore preziose di studio». Senza aggiungere altro, la preside ci liquida, poi stringe la mano a papà e a Geltrude.

 

Nel corridoio della scuola non c'è un'anima. La campanella non è suonata da molto, tutti gli studenti sono in classe.

«Che ne dice Signor Voli? Crede sia giusta la punizione che hanno dato a questi due ragazzi?». La vecchia si sistema la giacca.

«Dipende da cosa devono fare. Se si tratta di lavori forzati o scavi in miniera, credo potrei ritenermi soddisfatto».

«Papà!», lo riprendo subito, «Non fare così».

A James scappa una risata.

«Caro nipote, conosco la Marquez come le mie tasche. Ho insistito io, parecchi anni fa, perché diventasse lei la preside di questa scuola. Ha le carte in regola per il Trinity, sa far rispettare le regole, ma sa anche dare giusto peso alle cose».

«Vuol dire che farai annullare la mia punizione?». James mi guarda raggiante, con una certa aria di superiorità. 

«Assolutamente no, caro ragazzo. Anzi, credo che sia il caso che tu ed Elena faceste altro per cercare di rimediare. Non si tratta della litigata in se, a tutti può capitare, ma il fatto che sia capitata a voi. Nella vita dovrete convivere con persone che amate, ma anche con gente che detestate. Se adesso, che siete due ragazzini, reagite così, cosa vi succederà da adulti? E se doveste avere responsabilità importanti come una famiglia? Collaborazione e cooperazione. Ho in mente un lavoro extra che vi permetterà di trovare equilibrio nel fastidio di stare insieme». Geltrude è irremovibile, anche volendo non potrei contraddirla.

«La cosa mi interessa. Cosa aveva in mente?». Con le braccia incrociate, un sorriso soddisfatto, papà ascolta la vecchia.

«Ho una stanza da sistemare. È piena di scatoloni e cose vecchie. Dovrete svuotarla, pulirla e catalogare tutti i pezzi», dice la Signora McArthur prendendo a braccetto mio padre e incamminandosi verso l'uscita.

«Io non ho intenzione di lavorare con James», dico d'istinto.

«Neanche io», risponde James.

«Chi ha detto che dobbiate lavorare insieme? Farete i turni. Un giorno James e un giorno Elena. Lavorerete separati», dice Geltrude.

«Ma... Ma perché?», chiedo.

«Lo capirai presto, cara ragazza», dice papà sghignazzando.

 

Non mi è ben chiaro cosa abbiano in mente quei due, sta di fatto che per aver discusso con James mi sono beccata due punizioni, una peggio dell'altra.

Speriamo solo che non capiti qualcos'altro, non ne posso più di colpi di scena e imprevisti.

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Capitolo 14
*** IERI: Amici, conoscenti e amare sorprese ***


IERI:
Amici, conoscenti e amare sorprese




«Sai già che tipo di volontariato devi fare?». Jo cerca di fare canestro sbagliando mira: «Sono negato in questo sport».

Kate raccoglie la palla e la passa a me.

«La Marquez non mi ha detto ancora nulla, l'unica cosa che so è che dovrò farla con James. Uno strazio». Lancio la palla a Stephanie che sta scrivendo un messaggio sul telefonino. Senza farlo apposta la colpisco sulla spalla facendola oscillare pericolosamente.

«Ahia!», mi dice guardandomi male.

«Scusa ero soprappensiero. Questa cosa della doppia punizione mi sconvolge i programmi. Quest'anno volevo dedicarmi di più allo studio, invece mi trovo con un pomeriggio occupato dalla McArthur».

Stephanie si ricompone, infila il cellulare nella borsetta, poi prende la palla e la passa a Jo che si prova a rifare canestro: «Vedrai che te la caverai con poco. Non credo che Geltrude farebbe sgobbare suo nipote, lo adora da sempre».

 

Mi sorge il dubbio che la vecchia potrebbe far fare a me tutto lo sforzo, mentre a James nulla. 

Mi sale un nervoso che non riesco a trattenere un'espressione corrucciata e imbronciata da bambina.

Kate, Jo e Stephanie scoppiano a ridere.

 

«Adesso andiamo. Dobbiamo fare il colloquio per il Club di Dibattito. La fila dovrebbe essere molto meno adesso». Jo mi prende per mano per poi strofinare il suo pugno sulla mia testa. Grugnisco, a volte mi sento il suo cucciolo domestico.

«Noi andiamo al colloquio del Club di canto», dice Kate.

«Poi vi raggiungo a Dibattito, dovrei fare in tempo a far entrambi», ci dice Stephanie mente segue l'amica.

Jo ed io le salutiamo, poi ci incamminiamo verso l'edificio scolastico per metterci in fila davanti all'aula dove ci sarà il colloquio.

 

Questo è il momento che aspetto da giorni. Non vedo l'ora di poter parlare con Nik e capire come sia riuscito a conciliare il lavoro allo studio legale con l'insegnamento al Trinity. A volte l'ho visto gironzolare per i corridoi della scuola o parlare con qualche insegnante, ma non ho mai avuto il piacere di poter chiacchierare faccia a faccia con lui. Non ci sarebbe niente di male, lo so, però non è mai capitata l'occasione.

 

«Quest'anno tutti vogliono entrare a Dibattito. Metterlo sulla lettera di presentazione per il College sarebbe un aiuto in più». Jo si mette in coda dietro a quattro ragazzi che aspettano il loro turno.

«Già. La selezione sarà dura», gli rispondo mettendomi di fianco a lui.

Il ragazzo di fronte a noi ci guarda un paio di volte, come se volesse dirci qualcosa: «Voi siete dell'ultimo anno, vero?».

«Sì», gli risponde Jo.

«Il colloquio di Dibattito per voi è in un'aula del secondo piano, leggete quel cartello». Il ragazzo ci indica un cartello fuori dalla porta.

 

Tutti gli studenti dell'ultimo anno che vorranno sostenere il colloquio sono pregati di andare al secondo piano nell'aula 7-B.

 

«Grazie», dico al volo al ragazzo mentre seguo Jo che si sta incamminando verso la scala. Ha il passo veloce, per stargli dietro devo correre.

Raggiungiamo l'aula in meno di due minuti. James, Lucas e Adrian sono nel corridoio.

La tensione è palpabile.

Prendo Jo per mano, non voglio che faccia sceneggiate e rischi di compromettere la sua borsa di studio. A quanto pare nessuno di quei tre ha voglia di litigare, se ne stanno a parlottare tra loro lanciandoci, di tanto in tanto, occhiate torve.

 

«Chi è il prossimo che deve entrare?», chiede Jo.

«Noi abbiamo già fatto. Adesso c'è dentro Rebecca», risponde Lucas secco.

Jo ed io ci appoggiamo al muro di fronte alla porta in attesa del nostro turno.

Pochi secondi dopo Rebecca esce dall'aula, sembra più provata e stanca del solito. Appena ci adocchia cambia espressione, il disgusto che prova per noi è talmente palese che non servono parole. Del resto il mio sguardo non è meno feroce del suo.

«Vai tu per prima. Non voglio lasciarti da sola con quei quattro nei paraggi», mi bisbiglia Jonathan nell'orecchio.

«Mi raccomando, fai il bravo», gli dico scherzando. Lascio Jo nel corridoio, sperando che non combini guai, per affacciarmi all'aula del colloquio.

«Signorina Voli, si accomodi. La stavo aspettando». La voce ferma di Nik risuona per la stanza.

 

Con il sorriso stampato in volto chiudo la porta.

Siamo io e lui.

Sono al settimo cielo.

 

«Bene Signorina, che argomento ha portato?», mi chiede mentre sfoglia una cartellina piena di fogli.

Argomento? Io non credevo avrebbe voluto farmi un colloquio vero: «Ecco, a dire il vero... Hmm...».

«Non mi dica che non ha portato nulla. Siamo all'ultimo anno di scuola, il più importante, e lei non ha una tesi da propormi? È inaudito». Nik sbatte le mani sul tavolo facendomi sobbalzare.

Lo guardo confusa e con la bocca spalancata. Non so che dire.

Nik non regge, passano una manciata di secondi e scoppia a ridere.

 

Se non sapessi che è un uomo adulto lo scambierei per una matricola del Trinity.

 

«Avrei voluto una telecamera per riprendere la tua faccia». Nik scimmiotta la mia espressione ridendo.

«Sei proprio simpatico. Se vuoi ti parlo di come un avvocato di mia conoscenza abbia l'ironia di un quattordicenne scemo».

«Scusa. È che ci penso da settimane, volevo farti spaventare un po'». Nik si sistema gli occhiali sul naso senza smettere di ridere.

«Quindi frequenterò Dibattito?», chiedo.

«Tu, Stephanie e Jo avete avuto la pazienza di sopportare me e l'avvocato Charlie Spencer quest'estate. Il minimo che vi devo è l'ammissione al Club», mi dice Nik schiacciando l'occhio.

 

Sorrido così intensamente che mi fanno male le guance.

 

«Ma hai lasciato lo studio McArthur? Come mai insegni? Non sei più avvocato?», snocciolo le domande una dopo l'altra senza prendere fiato.

«Calma. Calma». Nik si alza, prende una sedia e la mette vicina alla mia. «L'ultima volta che ci siamo visti ti avevo detto che probabilmente l'ufficio legale sarebbe ritornato a Boston a breve, infatti a fine settembre George ha riportato tutto il lavoro nel vecchio uffico. Sapevo che era questione di settimane... Noi due eravamo destinati a non vederci più».

Annuisco, mi ricordo perfettamente quella giornata.

«Prima di salutarci mi hai detto che forse James non sarebbe tornato a New Heaven, era in California. Ho voluto approfondire il discorso con George che mi ha detto che era preoccupato per il figlio, c'era il rischio che non si diplomasse affatto».

Mi viene la pelle d'oca a sentire quelle parole: «Dici davvero?».

«Sì. James non aveva intenzione di tornare. Uno spreco, un ragazzo così talentoso non poteva buttare all'aria il suo futuro. Per questo ho fatto un patto con George: se fossi riuscito a riportare James a New Heaven lui mi avrebbe concesso un pomeriggio a settimana per insegnare qui», mi spiega Nik.

«Quindi insegnerai solo noi dell'ultimo anno e contemporaneamente lavorerai a Boston?». Non ho idea di come faccia a fare tutto, io impazzirei.

«Sì. L'anno scorso ho lasciato anche la collaborazione con Yale per seguire il mio sogno. Non ho intenzione di smettere di svolgere la professione, ma allo stesso tempo non potevo permettere che James perdesse tutto».

«Ho come l'impressione che non mi dirai cosa hai detto a James per farlo tornare a New Heaven, vero?», gli chiedo.

Nik mi schiaccia l'occhio: «James può essere un tipo difficile, lo so, ho solo dovuto toccare i tasti giusti. Del resto sono o non sono il migliore insegnante di Dibattito della East Coast? Quel ragazzo ha un talento naturale che non posso permettere venga sprecato... Come quello di qualcuno di mia conoscenza». Nik è a un palmo dal mio naso. 

 

È chiaro che l'ultima fase si riferisca a me, me lo ha ripetuto così tante volte che inizio quasi a crederci. Poco prima della scuola avevo detto che non avrei seguito nessun Club, eppure adesso eccomi qui, con Nik, a parlare del mio futuro al Trinity.

 

«Non ti mollo Elena. Io sono qui anche per te». Gli occhi azzurri di Nik sono così luminosi che sembrano cristalli.

D'istinto mi lancio verso di lui e lo abbraccio. Lo stringo più forte che posso: «Grazie. Sapere che ci saresti stato tu a scuola mi ha dato la carica per andare avanti».

 

Nik ricambia l'abbraccio. Restiamo uniti per un tempo indefinito.

Sento pace e tranquillità. Sono serena.

 

«... Un po' troppa carica a quanto so», mi dice in un orecchio. Sembra parecchio divertito.

Lo guardo con aria interrogativa:«In che senso?».

«Ho saputo cosa hai combinato a biologia. Il professor Tompson è scioccato, ha descritto James e te come due teppisti violenti», Nik ride di gusto.

Sgrano gli occhi: «No! Ho solo litigato con James, quel ragazzo mi fa perdere le staffe. La Marquez ci ha messo pure in punizione, pensa che rischiavamo di non essere ammessi in nessun Club».

Nik scoppia a ridere di gusto: «Credi che la preside avrebbe rischiato di compromettere il futuro di due studenti dell'ultimo anno? Ha voluto farvi paura, niente di più. Anzi, con la sua punizione vi ha dato una grande mano per il college».

«In che senso?», gli chiedo.

«Se la vostra punizione risulterà come volontariato, potrete considerarla un'attività extra scolastica che potrete aggiungere tranquillamente sulla vostra scheda di presentazione per il college. Un elemento in più per entrare a Yale», mi spiega Nik.

 

Solo adesso capisco le parole di Geltrude. Per questo ci ha voluto dare una punizione aggiuntiva, aveva capito che in verità la Marquez ci avrebbe fatto un favore con il volontariato. Quella vecchietta è diabolica.

 

«Tieni». Nik mi allunga un foglio: «Dovrai fare il tuo volontariato alla biblioteca universitaria di New Heaven. Il tuo primo turno è oggi tra... Hmm... Trenta minuti!».

«Cosa? Perché non mi hanno avvertita prima?», urlo come una pazza.

Nik ridendo alza le spalle: «Credo che la Marquez volesse farti una sorpresa. Credo sia meglio che tu vada. Se corri fai in tempo, non è molto distante da qui».

 

Merda.

Elena mantieni il controllo.

 

Come una furia esco dall'aula rischiando di travolgere Jo: «Mi serve James. Hai visto dove è andato?». Un passaggio con la sua macchina semplificherebbe il tutto.

«Sì. Cioè no. Non lo so», Jo balbetta parole senza senso.

Il mio sguardo minaccioso lo fa arretrare qualche passo: «Lo sai o non lo sai?».

«È... È andato via appena sei entrata. Non è rimasto nessuno a parte me. Che sta succedendo?», mi chiede confuso.

«Quella specie di essere umano vuole mettermi i bastoni tra le ruote. Adesso devo andare, dopo ti spiego», bacio Jo sulla guancia e inizio a correre come una forsennata.

 

Scendo le scale a due a due.

Faccio lo slalom tra gli studenti.

Taglio per il parcheggio.

Uso tutta l'energia che possiedo.

Mi ritrovo in strada.

La gente a passeggio mi guarda male.

Sento i muscoli delle gambe bruciare.

Ho il fiatone.

Manca poco, vedo in lontananza la biblioteca universitaria.

Racimolo tutte la forza che possiedo per lo scatto finale.

Salgo la grande scalinata piena di studenti universitari.

Il cuore pompa veloce.

Spalanco la porta di ingresso e mi catapulto sulla guardiola con il custode.

 

«Vorrei... Uff... Infor...aff... Infor...uff... Per... Trin... Trin... Trinity...uff aff... Elen... Aff... Voli». Grondante di sudore, con la divisa tutta storta e la salivazione azzerata cerco di spiegare cosa mi serve.

Il guardiano mi guarda malissimo: «Vuole un bicchiere d'acqua?».

Annuisco.

 

L'uomo mi riempie tre bicchieri che ingoio all'istante.

 

«Adesso può dirmi cosa le serve signorina?». 

«Mi chiamo Elena Voli, vengo dal Trinity Institute... Devo... Devo iniziare il volontariato qui da voi», la mia voce è ancora traballante, ma almeno adesso riesco a formulare una frase di senso compiuto. 

L'uomo controlla dei fogli, ogni tanto mi lancia delle occhiatacce: «Sì, l'ho trovata. Vada al primo piano. Entri nella stanza con scritto direzione, troverà il responsabile che le spiegherà il lavoro... Hmm... Qui vedo che il suo collega di volontariato è già arrivato».

 

Percorro la scala che mi porta al primo piano. I muscoli delle gambe iniziano a farmi male, ignoro il fastidio. Sono in ritardo di qualche minuto, spero non mi facciano troppe storie. Per la biblioteca c'è un via vai di studenti con in mano libri e testi scolastici, nessuno mi degna di uno sguardo, sono troppo impegnati a leggere e consultare i testi.

Trovo immediatamente la porta con scritto direzione.

Mi sistemo la divisa, raccolgo i capelli in uno chignon e con un fazzoletto mi tampono il sudore. Non voglio sembrare una pazza, non più di quanto sia, ma soprattutto non voglio che James mi veda in quello stato. Ha fatto il furbo andandosene dal Trinity senza darmi un passaggio, è solo un vigliacco senza spina dorsale.

 

Apro la porta.

Ci sono diverse sedie appoggiate alle pareti.

Di fronte a me un bancone.

Un ragazzo di spalle si gira appena entro.

Mocassini blu.

Divisa grigia e rossa.

È quella del Saint Jude.

 

«Benvenuta collega. Credo ti toccherà fare volontariato con me», mi dice.

 

Il ragazzo è Andrew.

 

Merda.

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Capitolo 15
*** IERI: Polvere negli occhi ***


IERI:
Polvere negli occhi




Quest'anno ottobre è più caldo del solito. Sto a sbirciare dalla finestra aperta, dalla camera di Kate, le case dei vicini. Osservo i loro movimenti, mi estraneo pensando a come potrebbe essere la loro vita. È divertente, almeno quel tanto che basta per distrarmi dai pensieri che mi affollano il cervello.

James su tutti. La cosa che mi da più fastidio, di tutta questa faccenda, è che ho veramente amato quel ragazzo, l'ho desiderato per davvero. Non riesco più a capirlo. Credo sia normale crescere e cambiare, forse sono cambiata anch'io, non so, sta di fatto che James sembra un altro e questo mi manda su tutte le furie.

 

«Credo che stasera ci tocchi ripassare storia. Dopo che sarai stata dalla McArthur intendo». Kate butta sul letto il libro.

«Hmm.. Ok», le rispondo senza smettere di guardare fuori dalla finestra.

«A cosa stai pensando? Sembri su Marte oggi», mi chiede Kate.

«Sai che è stato Nik a convincere James a tornare? Secondo te cosa gli ha detto?».

Kate alza le spalle: «Non conosco bene il Professor Martin. Da quello che mi dite, tu e gli altri, credo abbia la lingua lunga e sappia sempre come cavarsela. Avrà inventato qualcosa». Kate parla mentre cerca il temperino nell'astuccio: «Domani pomeriggio andiamo da S a vederci un film. È domenica, credo che un po' di svago ci voglia. Senti Jo se ha voglia di venire».

«Dici che l'ha minacciato?», le chiedo.

«Chi? Cosa stai dicendo?». Kate si affaccia alla finestra sedendosi di fianco a me.

«Nik. Nik ha minacciato James?», le chiedo.

«Smettila. Basta. Sembri paranoica. Che ti importa cosa gli ha detto Nik a James? La realtà non sono quei due, ma io, Stephanie e Jo. Ci sono anche i compiti e le interrogazioni, ma di quelle farei volentieri a meno anch'io», Kate sghignazza.

«Non sono paranoica!», le rispondo stridula.

«Certo... Te ne stai a spiare i vicini da tutta mattina, sembri quelle svitate pettegole che vogliono scoprire tutto di tutti. Come di Nik e James. Saranno affari loro, no? Sei così presa da questa storia che non hai più idea di cosa sia importante o meno». Con forza mi allontana dalla finestra facendomi cadere, involontariamente, con il sedere per terra.

«Ahia», dico mentre mi strofino.

«Se ti dicessi la parola Rebecca. Cosa ti verrebbe in mente?», mi chiede Kate con voce ferma.

«Complotti. Bugie. Arpia. Strega. Sta organizzando qualcosa per colpirmi», le rispondo a bruciapelo.

«Invece con Club?».

«Sfida. Competizione. Migliore. Tutti vorrebbero vedermi andare male a Dibattito», le dico mentre mi riaffaccio alla finestra.

«Andrew?», mi chiede Kate.

«Pervertito. Furbo. Inganno». Rispondo senza dubbi.

Kate mi guarda con supponenza: «Quindi tu non saresti paranoica? A sentire le tue parole tutti sono alle prese con piani segreti nei tuoi confronti. La tua mi sembra megalomania. Va bene l'egocentrismo, ma adesso esageri. Rebecca non ti rompe le scatole da settimane. Sei stata ammessa al Club di Dibattito senza problemi e Andrew... Beh... Andrew può essere viscido e fastidioso, ma non ti ha fatto nulla fino ad ora».

«Durante il primo giorno alla biblioteca universitaria Andrew non mi ha rivolto la parola. Parlavamo solo per il lavoro di volontariato. Capisci? Quello sta tramando qualcosa». Mi sembra talmente ovvio che anche un bambino lo capirebbe.

«A quanto mi hai detto Andrew è stato tranquillo, gentile ed ha lavorato. Non ha fatto battute, scherzi o altro... Allora perché dici che sta tramando qualcosa? Non ha senso». Kate è a un palmo dal mi naso.

«Perché vuole... Vuole... Ecco. Non so cosa voglia, ma qualunque cosa sia, c'entro io», le rispondo acida.

Kate scuote la testa rassegnata: «Elena, ma ti senti?».

«Che ne sai tu? Quelli sono dei mostri, si divertono a rovinare la vita degli altri. In modo particolare la mia, visto che io ho una vita. Tu te ne stai tutto il giorno a scattare foto o studiare, non sai nulla di quello che io provo ogni ogni giorno», le urlo in faccia.

Kate è seria, troppo seria: «Neanche tu sai cosa provo io ogni giorno. Adesso se non ti dispiace devo studiare, una delle uniche due cose che, a quanto pare, io so fare».

«Kate, smettila di fare così. Scusa, ho esagerato e... a volte sembra che tu non mi capisca». Alzo gli occhi al cielo, non sopporto quando finge di non vedere le cose.

«Ti sbagli Elena, io ti capisco troppo... È quello il problema». Kate apre la porta della sua camera: «Tra quaranta minuti devi essere dalla McArthur. Non voglio che tu faccia tardi».

«Cosa? Mi sbatti fuori?». 

Kate non risponde, se ne sta impassibile vicino alla porta.

Senza dire nulla infilo i libri nella mia cartella ed esco dalla sua camera.

 

Provo una rabbia mai provata prima.

Perché Kate si comporta in quel modo? Che cavolo le ho fatto?

Senza neanche salutare Hanna e Roger esco da casa Husher sbattendo la porta.

Che vada a quel paese lei e le sue strane idee, ho già abbastanza problemi, non ne voglio uno in più.

 

L'autobus arriva dopo neanche due minuti che sono alla fermata. Con la musica sparata a tutto volume mi accomodo in un posto vuoto sperando che nessuno si sieda vicino a me. Se mi urtasse accidentalmente potrei sbraitare. Non voglio essere disturbata, voglio starmene per fatti miei.

Appena l'autobus arriva alla fermata scendo di corsa. L'idea di dover passare il resto del pomeriggio dalla McArthur è una cosa che mi fa imbestialire. Vorrei passare la giornata sdraiata sul letto e con la musica a tutto volume nelle orecchie. Niente chiacchiere. Niente pensieri. 

Il grande cancello di metallo della villa è aperto, nel vialetto c'è parcheggiata la macchina di James. Mi alzo il cappuccio della felpa e mi infilo gli occhiali da sole.

Suono alla porta.

La solita cameriera, con la solita espressione mi accoglie. Con i soliti gesti mi indirizza al piano superiore poi, con la solita flemma, sparisce dalla mia vista.

Salgo la scalinata di casa McArthur, la porta dello studio è l'unica aperta.

Entro, trovo Geltrude intenta a mangiare il suo gelato, James è seduto di fianco a lei.

 

«Benvenuta», mi dice la vecchia.

Fingo di non sentire. Picchietto l'indice sulle cuffie come per far capire che ho la musica.

«Toglile cara ragazza», mi dice. L'anziana è un po' indispettita, mi mima il gesto di levare le cuffie.

Faccio cenno di no.

«Mi dica cosa devo fare e basta. Oggi non ho voglia di sentire né lei, né suo nipote», le rispondo sgarbata. So che la vecchia non c'entra nulla, ma la discussione con Kate mi ha fatto talmente arrabbiare che ho un accumulo di nervoso e rabbia che non sono riuscita a sfogare.

Geltrude non batte ciglio, mi fissa con alterigia. Esce dalla stanza e si avvicina ad una porta che apre con una chiave. La stanza che mi ritrovo davanti è colma di scatoloni, sacchi e mobili, è talmente piena che non riesco a vedere le finestre sulla parete opposta.

«Dividere. Sistemare. Buttare o Regalare. La vostra vera punizione, per come vi siete comportati a scuola, è questa. La Marquez vi ha fatto un favore con il volontariato», ci spiega la vecchia. Poi se ne va.

Alzo il volume della musica ancora più forte e senza farmelo dire due volte prendo un sacco e inizio a rovistarci dentro, ci sono scampoli di stoffa, pizzi e nastri. Lo appoggio in un angolo e vado a prendere uno scatolone.

James mi blocca il polso.

«Che c'è?», gli chiedo acida.

Senza chiedermelo mi toglie le cuffie dalle orecchie, provo a replicare, ma James non mi da tempo: «Dobbiamo lavorare insieme, ok? La cosa da fastidio a me come a te. Devi lasciare fuori i tuoi problemi personali e cercare di comportarti da adulta, per una volta».

«Senti chi parla!», prendo uno scatolone pieno di cartoncini piegati e lo appoggio vicino al sacco con i pezzi di stoffa.

«Che diavolo stai facendo?», mi chiede rovistando nello scatolone e nel sacco.

«Quelle sono cose inutili, possiamo buttarle».

«Quelle cose che tu chiami inutili sono stoffe decorate a mano che mia madre usava per abbellire i suoi abiti e quelli sono i cartoncini di tutte le opere in cui ha cantato», James mi guarda malissimo.

«Do-Dobbiamo sistemare le cose di tua madre?», chiedo con un groppo in gola.

James non risponde, accarezza una stoffa dorata con piccoli cristalli applicati.

 

Osservo con più attenzione la stanza che dobbiamo svuotare. Non c'è polvere o sporcizia, tutto sommato quell'ammasso di cose ha un certo ordine. Sugli scatoloni ci sono grosse D fatte con il pennarello, in altre c'è scritto Demetra per esteso.

Io e James dobbiamo decidere sugli oggetti appartenuti a Demetra, dobbiamo smontare, riciclare, regalare o buttare i pezzi della sua vita.

Mi sta prendendo malissimo.

Ho già dovuto farlo per mia madre, adesso mi tocca decidere anche per lei.

 

«Come mai queste cose sono qui da tua nonna?», chiedo con un filo di voce.

«Papà ha deciso di stare in pianta stabile a Boston, ha messo in vendita il nostro attico. Adesso abito dalla nonna, quando andrò a Yale vivrò nei dormitori... Non aveva senso tenere una casa vuota, abbiamo portato qui tutto quello che pensavamo potesse servirci», James pare in trance, sfoglia i cartoncini con i nomi delle rappresentazioni in cui ha cantato Demetra.

Per un attimo vedo in lui la dolcezza che mi aveva conquistata, la fragilità che lo contraddistingueva: «Se non eri d'accordo dovevi dirlo a tuo padre. Del resto è la casa in cui sei cresciuto», gli dico senza filtri come se parlassi ai miei amici.

«Non ho chiesto il tuo parere, la tua interpretazione o la tua compassione. Ti ho solo esposto i fatti». James prende il sacco con i ritagli di stoffe e lo mette da una parte: «Questi li regaliamo alla sarta di mia madre, era lei a farle i vestiti su misura. Saprà come usarli al meglio. Mentre questi li metterò in ordine in un album come ricordo», mi dice mentre sposta i cartoncini in un altro angolo.

«Ok. Visto che sai tutto, cosa me faccio di questo?». Prendo la prima cosa che trovo nella stanza, peccato che la mia mano si appoggi su un piccolo armadietto che pesa un quintale. Lo trascino a fatica cercando di dissimulare lo sforzo che sto facendo. Il mobile è piuttosto piccolo, ma è pieno di altre cose che traballano al suo interno. Non posso svuotarlo perché l'esterno è avvolto dalla pellicola trasparente.

Grondando sudore lo porto fuori dalla stanza.

«Mia mamma ci teneva le cose a cui era più affezionata, lo chiamava il mio posto speciale. Ci ha sempre messo le cose che non voleva perdere». Con un taglierino James rimuove la pellicola. Inizia a ispezionare il contenuto.

 

Tre grossi raccoglitori pieni di disegni fatti da un bambino.

Una bottiglietta vuota di profumo.

Un barattolo di vetro pieno di monete.

Un portagioie in legno laccato di verde.

Diversi mazzi di lettere.

Tre cucchiaini di plastica colorata.

 

«I raccoglitori con i miei disegni puoi metterli vicino ai cartoncini di prima, voglio tenerli. La bottiglia di profumo non mi serve, buttala. Le monete credo potrei regalarle, non hanno molto valore, vengono da tutti i posti che mamma ha visitato». James mi passa gli oggetti, non oso contraddirlo. Ubbidisco e basta.

«Questa scatola di legno verde è chiusa». James prova a scuoterla ma non risuona nulla al suo interno. «Mettila vicino ai miei disegni, potrebbe servire alla nonna».

«Cosa vuoi fare delle lettere?», gli chiedo.

James sfoglia alcune buste: «Le darò a papà. Credo siano le loro lettere d'amore».

«Va bene», prendo le buste e le matto in un angolo.

«Questi li puoi buttare». James mi allunga i tre cucchiaini di plastica.

«Che cosa sono?», gli chiedo.

«Un ricordo di tanto tempo fa. Nulla che ora abbia importanza». Di scatto James si alza e si passa la mano sugli occhi. Sta piangendo.

«Tutto bene? Vuoi...», provo a chiedergli, ma vengo interrotta.

«Non ho niente. Mi è entrata solo un po' di polvere negli occhi. Adesso butta quei vecchi, inutili cucchiaini, non mi pare una cosa difficile, no?», mi dice duro.

«Certo», gli rispondo. 

 

Senza farmi vedere da James infilo la mano nella giacca riponendo al sicuro quegli oggetti a cui Demetra non avrebbe mai rinunciato. 

Tre semplici cucchiaini di plastica.

Un ricordo di tanto tempo fa.

Un frammento di una vita che non c'è più.

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Capitolo 16
*** IERI: Faccia da schiaffi ***


IERI:
Faccia da schiaffi




«Hai visto che quegli studenti hanno tagliato i capelli come te? Sembrano i tuoi cloni». Stephanie indica un gruppetto di ragazzi che fissa Jo con un po' troppa intensità.

«Lascia perdere. L'altro giorno hanno voluto farsi una foto con me», dice Jonathan arrossendo.

Stephanie scoppia a ridere.

«Perché quelle matricole che si son fatte i capelli rossi a caschetto come i tuoi, come le vedi?», chiede Jo.

«Sono ragazze che hanno un ottimo gusto estetico e sanno capire cosa è bello e cosa non lo è». Stephanie indica prima se stessa e poi Jo.

«Quindi sarei un mostro di bruttezza?», le chiede il ragazzo.

«No. Sei solo fuori moda», dice ridacchiando Stephanie.

«Secondo voi sono fuori moda come dice Stephanie?», chiede Jo a Kate e me.

«Hmm, non so. Forse», ribatto io.

«Boh», dice Kate.

«Da una settimana voi due sembrate, come dire, strane. Sicure di stare bene?», ci chiede.

«Sì», rispondiamo in coro, un po' troppo convinte, Kate ed io.

«Ecco, ho capito. Vi devo lasciare stare. Quando avrete voglia di parlare fate un fischio»

 

Sono passati diversi giorni dalla litigata a casa di Kate. Lei non ha voluto chiarire e neanche io ho fatto nulla per risolvere tutta questa faccenda. Se lei pensa che io sia una paranoica ossessionata da James e gli altri, si sbaglia di grosso. Non ha idea di cosa sarebbero capaci di farmi, è come se Kate di fosse dimenticata cosa mi è successo l'anno scorso. 

Cerco di concentrarmi sul testo di letteratura che ho tra le mani, ma con scarso risultato. Leggo ma non capisco le parole, sono così assorbita dai miei pensieri che non riesco a concentrarmi. 

Sbircio i miei amici. Lo sguardo si ferma su Kate.

Un'ondata di nervosismo mi scuote il corpo, mi verrebbe voglia di prendere la mia amica e urlarle in faccia tutto quello che provo. Vorrei farle capire come mi sento, vorrei raccontarle di James e di come sia stato straziante sistemare gli oggetti di Demetra, di come abbia sofferto nel rivedere il vestito che la donna aveva indossato alla festa degli ex studenti. Vorrei dirle che mi sento sola se non è al mio fianco, vorrei dirle che sto male. 

Apro la bocca, ma non escono parole.

Mi prenderei a schiaffi da sola.

Devo andarmene da lì.

 

«Io devo andare a fare volontariato», dico alzandomi di scatto. Con un movimento rotatorio faccio oscillare la borsa che, vista la velocità del gesto, mi sfugge dalle mani volando in aria.

Bam.

Dritta sul pavimento della sala studio, direttamente sui piedi di Rebecca.

 

Possibile che di tanti studenti che ci siano a scuola, debba essere finita proprio addosso a quella arpia?

 

«Bene. Adesso passiamo alle aggressioni fisiche?». Rebecca prende a calci la mia borsa.

«Non ho fatto apposta, mi è scivolata di mano. Scusa». Raccolgo il tutto cercando di fare il più velocemente possibile. Non ho voglia di litigare.

«Non pensare che mi sia dimenticata di te. Ti tengo d'occhio», mi bisbiglia feroce.

Una smorfia di disgusto fa trasparire tutte le sensazioni, poco piacevoli, che provo per quella lì.

«Ti conviene stare calma pivella. Non farci arrabbiare, altrimenti...», mi dice James mentre avvolge con un braccio il fianco di Rebecca.

«Altrimenti cosa? Mi renderete la vita un inferno? Mi farete espellere? Mi toglierete il saluto?», dico sarcastica. 

Jo è al mio fianco, deve aver capito che la situazione è tesa.

«Non ho paura di voi. Tutto quello che di peggio potreste farmi me lo avete già fatto, quindi posso aspettarmi il peggio del peggio?».

«Per quelle come te, l'indifferenza è il peggio che ci possa essere», ribatte James.

Trattenuta per le braccia da Jo riesco a controllarmi, evitando di iniziare una rissa.

 

Non dico che James mi debba trattare da amica se non vuole ma, dopo l'altro giorno a casa di Geltrude, credevo che le cose sarebbero un po' migliorate tra noi. Evidentemente mi sbagliavo.

 

«Lasciali perdere. Dicono quelle cose solo per provocarti», mi dice Jonathan riaccompagnandomi al tavolo.

Guardo intensamente Kate, come per dimostrarle che le parole dette giorni fa non erano una mia ossessione, ma un dato di fatto: Rebecca & Co mi odiano: «Visto?», le dico.

«Del resto l'hai colpita con la tua borsa. Non mi sembra così strano che ti abbia trattato male. Non avresti fatto lo stesso se fosse capitato a te?», mi dice come risposta.

«Cosa?», urlo.

Tutti gli studenti in sala studio si girano a guardarmi.

Jo e Stephanie sono confusi, credo non si aspettassero di vederci litigare così.

 

Non aspetto la risposta della mia ex amica del cuore. Non ho voglia di sentirmi dire un'altra volta che mi sono inventata tutto, che le mie sono solo paranoie e che ho manie di protagonismo. 

Esco dal Trinity scura in volto e con il broncio, sarei capace di prendere a pugni chiunque mi desse fastidio. Ho talmente tanta rabbia che mi sembra di scoppiare.

Percorro la strada che mi porta alla biblioteca universitaria a passo veloce. Sembro un proiettile, un razzo telecomandato. 

Rimugino su Kate e sul suo atteggiamento nei miei confronti. È così irritante che mi chiedo come cavolo abbia potuto sopportarla per tutto questo tempo.

 

Aiutami, Elena...

Sono brutta, Elena...

Non ho amici, Elena...

Non so fare nulla, Elena...

 

Da quando eravamo piccole è sempre la solita solfa. Si è sempre appoggiata a me per tutto, nascondendosi dietro le mie spalle incapace di affrontare il mondo. Io l'ho migliorata e resa più forte, perché adesso mi fa questo?

 

Appoggio la borsa nello spogliatoio femminile della biblioteca. Mi lego i capelli e prendo il tesserino di riconoscimento con la mia foto che devo appendere alla giacca.

Le mani mi tremano così tanto che non riesco a infilare il bavero della giacca dentro la pinza del tesserino.

«Maledizione», dico a bassa voce.

«Fossi in te prenderei un bel respiro e ci riproverei», Andrew è appoggiato allo stipite della porta dello spogliatoio.

«Che ci fai tu qui? Non mi pare tu sia una ragazza». Cerco di aprire la molletta del tesserino, ma le dita sudate scivolano sul metallo.

«Vedi, ho sempre la speranza di vedere qualche bella ragazza in reggiseno. Adoro i reggiseni». Con sicurezza Andrew toglie il tesserino dalla mia mano e lo affranca al bavero della giacca.

«Se credi di fregarmi con i tuoi modi, ti sbagli. So come sei fatto, sei uguale ai tuoi amici». Con il retro della mano allontano il suo braccio.

«Amici? A quali amici ti stai riferendo? Io ne ho molti». Senza il minimo pudore sbircia dentro un armadietto sfiorando i vestiti appesi di una sconosciuta.

«Mi prendi in giro? Rebecca, James, Adrian e Lucas», gli rispondo acida. Riflessa nello specchio appeso alla parete, mi accorgo che ho fatto la coda tutta storta. Mi tolgo l'elastico cercando di spazzolarmi i capelli con le mani. Ho una massa aggrovigliata in testa.

«Il fatto che abbia passato le vacanze con loro non li eleva a miei amici. Sono persone divertenti con cui mi piace fare baldoria. L'anno scorso James mi è mancato parecchio, frequentava una ragazza e...».

«Sei una persona disgustosa, mi fai schifo. Vattene da qui prima che ti prenda a schiaffi», gli dico puntando il dito sul suo petto e facendolo indietreggiare. Non ho voglia delle sue frecciatine nei miei confronti.

Andrew sorride. È un sorriso ironico di beffa: «Dolcezza, tu non faresti male ad una mosca».

 

Basta.

Non ne posso più.

Prima Kate.

Poi Rebecca e James.

Adesso lui.

Basta.

Sto per impazzire.

La mia mano si carica. Lanciata a tutta velocità, sbatte contro il volto di Andrew.

 

Ecco l'ho fatto. 

Gli ho dato uno schiaffo. 

 

Il suono echeggia nello spogliatoio vuoto.

 

Ma che cavolo ho fatto? 

 

Credevo sarei stata meglio dopo aver dato quello schiaffo, invece mi sento uno schifo, una perdente, una persona orrenda. Andrew mi guarda con gli occhi spalancati mentre con la mano si accarezza dove l'ho colpito. Mi studia, cerca di interpretarmi, lo capisco da come mi guarda.

Le mie dita tremano, una forte nausea mi sta assalendo, i muscoli sembrano in preda ad un fremito incontrollabile. Piango. Stringo i denti per la rabbia, un urlo roco mi esce dalla gola. Piango. Mi accascio a terra stringendo i pugni, sento le unghie affondare nella carne.

Vorrei andarmene, fuggire e lasciare la mia vita qui a New Heaven per poter sentirmi di nuovo serena, felice e in pace. Invece un peso nel petto mi rende incapace di liberarmi.

 

Una lieve carezza sulla testa mi fa sussultare. Andrew è accucciato vicino a me. Ad ogni suo tocco il mio respiro si calma, pian piano sto riprendendo il controllo.

Un'ondata di vergogna mi assale. Il solo pensiero di essermi mostrata così vulnerabile davanti a lui mi fa arrossire. Con la testa china, i capelli spettinati e la faccia rossa, aspetto che succeda qualcosa che mi tolga da quell'imbarazzo.

 

«Hai una spazzola?», mi chiede.

«Cosa?», gli rispondo con un filo di voce.

«Hai una spazzola?». Parla con voce pacata, diversa da come l'ha di solito.

Prendo la mia cartella ed estraggo la piccola spazzola che mi porto sempre dietro a scuola. Andrew la prende, seleziona una ciocca dei miei capelli, la fa passare tra le dita e poi inizia a spazzolarla. Una. Due. Tre. Quattro volte. Poi passa ad un'altra ciocca e quando ha finito inizia subito con un'altra. 

Il rumore dei denti della spazzola tra i miei capelli, quello scricchiolio, quello strofinare ripetitivo è come una ninna nanna. Chiudo gli occhi e mi lascio andare. Voglio una pausa dai miei pensieri.

«Dammi l'elastico», mi dice Andrew.

Lo tolgo dal polso e glielo passo.

«Quando mia mamma era impegnata con il lavoro aiutavo mia sorella a prepararsi per la scuola. Non ascoltava nessuno, era una testa dura che neanche ti immagini. Non voleva la domestica, voleva me. Diceva che ero il più bravo a spazzolarla». Con attenzione Andrew divide i capelli in tre sezioni ed inizia sovrapporle una sull'altra.

In pochi secondi mi ritrovo con una treccia perfetta in testa.

 

Sono stupefatta, confusa, sorpresa.

Non mi sarei mai aspettata un gesto gentile da parte sua.

Lo guardo muoversi senza sapere che fare.

 

Andrew mi prende le mani invitandomi ad alzarmi. Mi sistema la giacca, raddrizza il cartellino e con il dorso della mano mi asciuga le lacrime: «Non so cosa ti sia successo o cosa ti hanno fatto. Nessuno si può permettere di farti del male. Devi farti rispettare dolcezza e devi iniziare a costruirti una corazza. Uno scudo dentro al quale nessuno può entrare. Così avrai il potere e il controllo, così nessuno mai ti potrà schiacciare».

«Io non sono capace», gli dico con voce bassa, «È come se le emozioni mi travolgessero e io non riuscissi a contenerle».

Andrew ha uno sguardo furbo, mi sfiora le guance con le dita: «Se vuoi posso insegnarti io ad essere più distaccata, più forte. Sai, a volte può essere divertente fregarsene di quello che pensano gli altri. Che ne dici dolcezza, ci stai?».

 

Ci rifletto un attimo. Provo ad immaginarmi diversa, più determinata, capace di non farmi mettere i piedi in testa da nessuno. Sarebbe bello poter infischiarmene di quello che pensa la gente.

Lo guardo per pochi secondi e poi annuisco.

 

Andrew mi prende per mano incamminandosi verso l'uscita dello spogliatoio: «Bene dolcezza, fai quello che ti dico e tutto andrà bene».

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Capitolo 17
*** IERI: Le dieci regole di Andrew ***


IERI:
Le dieci regole di Andrew



1 - Non devi dire a nessuno del nostro patto. I tuoi amici non capirebbero.

2 - Non dire mai ciò che pensi veramente, conta fino a cinque prima di parlare. 

3 - Non esporti mai, sii amica di tutti e di nessuno. Quelli che reputi i tuoi amici sono solo pedine. Usali.

4 - Tieni sempre presente l'obbiettivo, mai farti influenzare. Le persone intorno a te sono solo strumenti.

5 - Le critiche, le accuse e le offese ti devono scivolare addosso. Nulla ti deve toccare, neanche l'insulto più grave. 

6 - Menti. Menti. Menti.

7 - Usa il tuo corpo per sedurre, confondere e intimorire. Valorizza i tuoi pregi, falli diventare il tuo punto forte.

8 - Non raccontare a nessuno le tue debolezze. Se l'hai fatto con i tuoi amici, cerca di limitare i danni. Tieni la bocca cucita.

9 - Creati personaggi diversi per diverse situazioni. I cliché funzionano sempre.

10 - L'onestà non paga. Dimentica le cazzate buoniste che ti hanno raccontato da piccola. Compra tutte le persone che puoi comprare.

 

È da tre giorni che non sento Kate. Non ne ho voglia. Ho passato tutto il mio tempo libero con Andrew, mi è stato molto utile. Mi ha dato le regole per poter diventare più forte e smetterla di piangermi addosso. Mi ha ripetuto un milione di volte che le situazioni che sto vivendo me le sono creata da sola, quindi se voglio smettere di vivere in questo modo, sono io che devo cambiare radicalmente.

Basta lagne.

Basta immischiarsi nei drammi altrui.

Basta farsi problemi e paranoie.

 

«Hai capito cosa devi fare?». Andrew parcheggia in prossimità di una banca vicino alla scuola. Non dobbiamo farci vedere insieme. Da qualche giorno mi accompagna a scuola.

«Certo. Non ho problemi, più tardi ti chiamo, ok?», gli rispondo mentre controllo il trucco nello specchietto.

«Sei splendida, dolcezza. Solo una cosa...». Andrew mi accarezza il collo, poi scende nella scollatura e mi slaccia un bottone della camicia. «Metti in mostra ciò che hai di bello, ricordi? ».

Annuisco arrossendo leggermente.

Andrew mi guarda soddisfatto: «Adesso vai, hai molte cose da fare».

 

Scendo dalla macchina stando ben attenta che non ci sia qualche studente del Trinity in giro. Percorro il breve tratto di strada che mi porta a scuola, cercando di darmi la carica e sembrando più convinta del solito. 

Il giardino Trinity stamattina è più affollato del solito, è una giornate senza pioggia quindi tutti ne approfittano per stare all'aria aperta. Tra la folla di studenti riconosco in lontananza Jo, Kate e Stephanie che parlano tra loro. Dalla parte opposta, seduti su un muretto, ci sono Rebecca, James, Adrian e Lucas.

Mostrandomi indifferente ad entrambi i gruppi mi dirigo spedita verso un gruppo di ragazze del secondo anno, le stesse con cui ho parlato in sartoria quando ho ritirato le divise nuove.

«Ciao ragazze, ho bisogno di parlarvi. In privato». Senza aspettare una loro risposta mi dirigo verso il retro della scuola. Spero con tutto il cuore che le ragazze mi seguano, altrimenti farei una figuraccia colossale. Il mio gesto non è passato inosservato. Tutti gli studenti in attesa del suono della campanella,  si sono girati a guardarmi.

Appena svolto l'angolo mi appoggio alla parete esterna della scuola, incrociando le dita e sperando che quelle tizie siano dietro di me.

Dopo pochi secondi sono lì, pronte ad ascoltarmi. Vedo che stanno morendo dalla curiosità di sapere cosa ho da dire loro.

 

Senza troppi giri di parole vado dritta al sodo: «Credo che siano stati sottovalutati i vari fun club che esistono al Trinity. Ho pensato che avere vicine persone come voi possa giovare alla mia causa».

Leggo sui loro volti lusingati il piacere nel sentirmi parlare così: «Ci sei sempre piaciuta. Molti credevano tu fossi una di passaggio, ma noi abbiamo visto lungo. Conquistare il cuore di James non è da tutte. Come potremmo esserti utile?».

 

4 - Tieni sempre presente l'obbiettivo, mai farti influenzare. 

Le persone intorno a te sono solo strumenti.

 

«So che siete in contatto con gli altri Fun Club. Mi hanno detto che non c'è mai stata una gerarchia vera e propria tra di voi. Credo sia ora di mettere in chiaro chi comanda al Trinity, le cose devono cambiare», dico convinta.

Con gli occhi spalancati mi guardano estasiate: «Dicci quello che dobbiamo fare. Noi siamo dalla tua parte».

 

6 - Menti. Menti. Menti.

 

«Desidero solo armonia e pace al Trinity, niente di più. Voglio dettagli e informazioni. Sapete qualcosa che potrebbe essermi utile? Avete capito a chi mi riferisco?», chiedo sorridente. 

«Adrian sta facendo di tutto per diventare Rappresentante di Istituto. Ha creato un comitato, a breve si presenterà. Lucas è il suo braccio destro», dice una di quelle ragazze.

«Molto bene», le dico accarezzandole il volto.

«Rebecca punta alla corona di reginetta al ballo di fine anno. Lo sanno tutti. Credo che stia cercando di convincere James ad accompagnarla. Me lo ha detto una matricola del primo anno fissata con la coppia Rebecca/James», mi spiega un'altra ragazzina.

«Rebecca si preoccupa adesso per il ballo di fine anno?», chiedo.

«Ogni ragazza al Trinity lo programma da sempre, da quando inizia la scuola il primo anno». 

La cosa mi fa parecchio ridere, ma mi trattengo.

 

2 - Non dire mai ciò che pensi veramente, 

conta fino a cinque prima di parlare.

 

«Grandioso. Vedete, mi avete già aiutata parecchio. Quando avrete altre informazioni non dovrete far altro che mandarmi un messaggio. Ecco il mio numero». Allungo loro dei biglietti da visita con il mio numero di telefono.

Dei gridolini di gioia, acuti e striduli, riempiono l'aria.

«Sapevamo che tu eri la migliore».

«Un ultima cosa, questi sono per voi». Consegno ad ognuna una E dorata abbastanza grande da essere notata e che non passa di certo inosservata:«Vedete le decorazioni colorate che ci sono sopra? Le ho fatte io pensando a voi. Credo sia un modo carino per far sapere a tutti che state dalla mia parte. No?».

 

10 - L'onestà non paga. 

Dimentica le cazzate buoniste che ti hanno raccontato da piccola. 

Compra tutte le persone che puoi comprare.

 

Le ragazze mi abbracciano commosse. A turno incastrano la E sui loro zaini e cartelle ammirandole estasiate. 

«Ora devo andare. A presto». Con un sorriso stampato in faccia le saluto lanciando loro dei baci.

 

Con passo deciso mi dirigo verso i miei amici. Se ne stanno a ridacchiare tra di loro.

«Ciao», dico mentre sventolo la mano.

«Wow Elena, oggi sembri diversa. Sei più... Più...», mi dice Jo squadrandomi da capo a piedi.

«Carina?», dico maliziosa.

Stephanie e Kate mi guardano con la bocca spalancata. Evidentemente il trucco più curato, la borsa firmata, le scarpe con il tacco e gli orecchini nuovi hanno fatto colpo.

«Dove hai preso quella roba?», mi chiede Kate schifata.

«Ho lavorato per così tanto tempo in gelateria e dalla McArthur, che mi sono decisa a spendere un po'. Non ti piacciono?», chiedo con finta ingenuità.

«Quei soldi ti servivano per il college. Dicevi che non volevi gravare troppo sulle spalle di tuo padre», mi risponde acida.

«Kate, mi meraviglio di te. Non vuoi che io sia più carina?». 

Kate arrossisce, l'ho sparata grossa.

«No. No. Credo che volesse dire che... Insomma... Nessuno si aspettava da te un cambiamento così repentino», mi spiega Stephanie.

«Del resto Stephanie pure tu indossi capi firmati, sei sempre molto curata e ami spendere in accessori. Ho solo voluto essere migliore, più simile a te. Se però preferisci che torni quella di prima...», dico mesta.

«No. Così vai benissimo», dice Jo, «Mi piacevi anche prima, ma se così ti senti meglio, per me non ci sono problemi».

«Neanche per me. Anzi se vuoi ti posso prestare delle borse, ho un sacco di cose belle a casa», Stephanie mi passa la mano nei capelli sistemandomi una ciocca.

Kate sta fumando dalla rabbia, è evidente il suo disappunto.

«Per te c'è qualche problema? Il mio nuovo look non ti piace?», le chiedo.

«Figurati. Contenta tu, contenti tutti. Come sempre, no?».

 

3 - Non esporti mai, sii amica di tutti e di nessuno. 

Quelli che reputi i tuoi amici sono solo pedine. Usali.

 

Trattengo a stento quello che vorrei dire veramente a Kate. È così rancorosa nei miei confronti che non la riconosco più. Il fatto che mi consideri megalomane ed egocentrica non smette di girarmi per la testa. È diventato un chiodo fisso. 

 

Con lo sguardo fermo osservo la mia amica prendere a braccetto Stephanie e Jo e dirigersi verso la scuola.

«Un attimo», dico, «Ho un regalo per voi». Estraggo dalla borsa i tre ciondoli con le E decorate. 

«Che carino, ma l'hai dipinto tu?», mi chiede Stephanie ammirando il suo.

«Sì, nel tuo ho fatto delle rose, visto che ti piacciono i fiori».

Stephanie lo attacca alla cinghia della borsa.

«Perché una E?», Kate guarda il ciondolo confusa.

«E è l'iniziale del mio nome. Elena».

 «Perché dovrei indossare questa enorme E? È ridicola! Sarà grande 5 cm», chiede Kate.

«Dovresti indossarla perché sei mia amica, no? È così, tanto per informazione, sono 4 cm».

Kate alza gli occhi al cielo, infila il ciondolo in fondo alla borsa poi, a passi decisi, si dirige verso l'ingresso della scuola insieme a Stephanie.

 

Non mi importa di quello che pensa Kate. Non mi importa più di niente.

Nell'ultimo anno mi sono state addossate colpe assurde, che non meritavo. Adesso basta. Se anche lei ha intenzione ad usarmi come bersaglio per le sue paranoie, si sbaglia di grosso. Se è nervosa, triste o arrabbiata non è di certo colpa mia.

Non posso farle da babysitter tutta la vita. Devo pensare a me stessa e cercare di realizzare l'unica cosa sensata che possa fare, l'unica cosa che renderebbe felici molti studenti,  l'unica cosa che mi ripagherebbe di tutte le sofferenze che ho pagato inutilmente: cambiare il Trinity.

 

Jo mi prende a braccetto: «Sei strana. Molto strana. È come se fossi improvvisamente impazzita o avessi capito come funzionano le cose qui. Il trucco, i tacchi, i regali. Mi ricordi un'arpia bionda di nostra conoscenza».

«In che senso?», faccio la finta tonta.

Jo mi scruta con attenzione: «Sento che stai nascondendo qualcosa... A me puoi dirlo, siamo amici». 

«Non ti nascondo nulla, ho solo dei progetti che vorrei realizzare entro la fine dell'anno», gli rispondo divertita. Non potrei mai dirgli di Andrew, non capirebbe.

«Progetti? Includono anche me?».

«Hmm... Hai mai pensato di proporti come rappresentate di Istituto. A quanto pare c'è un solo pretendente, credo potresti essere un ottimo candidato. La lettera di presentazione per Yale avrebbe una voce in più e di tutto rilievo».

Jo non risponde, mi sembra di sentire gli ingranaggi nel suo cervello attivarsi: «Non ho nessuno che mi appoggia, non sono molto popolare. Non credo potrei...».

«Tu non ti preoccupare. Penso a tutto io».

 

La campanella di un nuovo giorno di lezioni sta suonando.

Il Trinity sarà mio.

Nessuno mi potrà più umiliare e offendere.

Nessuno di loro mi potrà più sfruttare.

Andrew ha ragione, tutti loro si sono approfittati di me, anche la mia migliore amica.

Bene, adesso sarò io ad approfittarmi di loro.

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Capitolo 18
*** IERI: Innocue bugie ***


IERI:
Innocue bugie



 

Il Trinity non fa poi così paura se hai gente che segue e apprezza quello che fai. Il mio fan club è stato molto efficace, è riuscito a imporsi sugli altri. Le E che ho regalato sono ricercatissime, alcune ragazzine dei primi anni hanno cercato di imitarle, ma il risultato è di qualità inferiore.

L'ultima moda a scuola è possedere quel ciondolo dipinto da me.

Il fatto che la sfoggiasse Stephanie mi ha aiutata parecchio. È molto carina, la sua famiglia è molto conosciuta a New Heaven, quindi ho sfruttato a mio vantaggio la sua popolarità.

Anche Jo l'ha attaccata allo zaino. È lo studente con la media più alta del scuola, fa parte del Gruppo A di Dibattito dell'ultimo anno e inoltre si è candidato come rappresentante di Istituto contro Adrian. Credo che nessuno studente pensasse che qualcuno avrebbe avuto il fegato di opporsi alla cricca di Rebecca così sfacciatamente.

Molti ragazzi hanno preso Jo in simpatia, i ribelli hanno sempre il loro fascino. Il fatto che avesse la mia E ha giocato a mio favore.

Kate invece non ha mai indossato la E che le ho regalato. Mai. Peggio per lei, aveva un'occasione per uscire dall'anonimato in cui vive da anni, vuol dire che resterà nell'ombra, come sempre.

 

«Devo preparare molti cartelloni da appendere per le bacheche nella scuola. Non so se faccio in tempo, ho fisica e storia da studiare». Jo sta mettendo a posto i libri nell'armadietto.

«Non ti preoccupare, ci penso io». Prendo dalla borsa il cellulare e scrivo un messaggio alle ragazze del mio fan Club.

 

Dovete preparare tanti cartelloni quante sono le bacheche a scuola. Jo ha bisogno di pubblicità per le elezioni. Spargete voce tra i fan club. Avete fino a domani mattina. Ripulite le bacheche dalle cose che non servono.

 

In meno di quindici secondi ricevo un ok di risposta.

 

«Fatto. Domani avrai i tuoi cartelli», dico io.

«Ma come hai fatto?», Jo ride, «Anzi no. Non voglio saperlo».

Stephanie ridacchia mentre Kate tiene il muso.

«Oggi ho la punizione a casa della McArthur, ha anticipato di un giorno. Mi dispiace ma non posso venire con te. Facciamo domani?», dico a Stephanie.

«Certo, i negozi sono sempre aperti. È da una vita che non faccio shopping con le amiche. Anche se è un po' frivolo devo ammettere che mi manca girare a zonzo per i negozi e far impazzire le commesse».

«Vuoi venire anche tu con noi?», chiedo con finta cortesia a Kate.

«Certo che viene anche lei, ci mancherebbe», dice allegra Stephanie, «Siamo amiche, no? Senza Kate non saremmo complete».

«Certo», diciamo in coro io e Kate senza smettere di guardarci male.

 

Possibile che la mia ex migliore amica sia cambiata in così poco tempo? 

Mi guarda dall'alto in basso, come se stessi compiendo atti tremendi contro l'umanità. Lei stessa ha avuto l'idea, ad inizio anno, di cambiare le regole al Trinity, eppure sembra l'unica a non capire l'importanza delle cose che sto facendo per tutti noi. Avere Jo come rappresentante di Istituto sarebbe una conquista importante, l'influenza di Stephanie non è da sottovalutare e poi mi sono costruita una certa fama, molti studenti mi ascoltano e fanno ciò che dico. In breve tempo la scuola potrebbe essere nostra.

 

Un gruppetto di matricole si avvicina a Jo, alcuni gli stringono la mano, altri sorridono come beoti. 

«Jonathan, posso scattare una foto a te e alla tua fidanzata?», gli chiede una ragazza dai capelli ricci. Quella sta guardando in alternanza Jo e me.

Colgo la palla al balzo.

«Certamente». Prendo a braccetto il mio amico, mi stringo a lui e lo bacio sulla guancia.

Jo arrossisce.

«Sei impazzita? Ma che fai?», mi bisbiglia Kate dandomi una gomitata nel fianco.

«Una bugia così innocua non può far male a nessuno. Andr... Hmm... Insomma, sono cose importanti per l'elezione di Jo, lo sto solo aiutando». Stavo per farmi sfuggire una delle regole di Andrew.

«A me sembra solo che ti sia bevuta il cervello», mi dice Kate sempre a bassa voce.

Non faccio in tempo a risponderle quando un rumore di tacchi ci raggiunge da dietro le nostre spalle.

 

Rebecca. Solo lei può essere odiosa anche solo camminando.

 

«Bene, bene. Chi abbiamo qui? La mia brutta copia con accessori di marca. Il poveraccio che vuole vincere le elezioni. Una sporca traditrice. E poi ci sei tu, talmente inutile che se non fosse per le tue foto non si ricorderebbe nessuno di te».

Non dico nulla a Rebecca, trattengo un sorriso per via della sua frecciatina a Kate. Jo e Stephanie, invece, scattano per difenderla.

«Credo ti convenga stare zitta. Quando sarò rappresentante di Istituto la vostra popolarità calerà parecchio», dice Jo fissando Rebecca negli occhi.

«Se credi di poter vincere sei un illuso. Lavoro alla mia candidatura da tempo, la mia famiglia è nella politica da sempre. So benissimo come affondare i tipi come te», dice Adrian boriosamente.

«Non ne sarei così sicuro. Vi conosco molto bene, so tutto di voi, come ragionate e cosa volete ottenere. Il mio aiuto a Jo non mancherà di certo». Stephanie si è piazzata tra me e Jo.

«Se volete la guerra, per noi va bene. Siete solo imitazioni mal riuscite di noi. Non siete in grado di fare nulla di male. Voi quattro siete così buoni, così per bene. Sapete cosa è giusto e cosa è sbagliato», Rebecca fa la vocina sottile. Ci sta dando degli stupidi ingenui.

 

Sghignazzo.

Osservo gli atteggiamenti di Rebecca con distacco, come mi ha consigliato Andrew. Mi faccio scivolare addosso gli insulti, non mi importa di nulla. Per la prima volta vedo Rebecca per quello che è: una poveretta aggrappata, con le unghie e con i denti, all'unica cosa che la rende felice. Essere guardata, essere al centro dell'attenzione. 

 

«Che ridi?». La mia reazione ha messo in guardia la bionda che inizia ad innervosirsi. 

Alzo le spalle divertita, non voglio darle corda.

«Come cavolo ti permetti, brutta...». La faccia rossa di Rebecca ha raggiunto una sfumatura violacea. Il suo dito indice è puntato sulla mia spalla con una certa forza.

«Adesso basta!», dice James prendendo la sua amica per i fianchi e allontanandola da me.

Jo e Stephanie si mettono alla mia destra e alla mia sinistra, hanno lo sguardo serio. Sono pronti a difendermi.

 

Se le acque non si calmano potrebbe scoppiare una rissa.

 

«Adesso ho un impegno da mia nonna. Se tu arrivi tardi, io sarò obbligato a lavorare di più, quindi sei pregata di seguirmi. Ti porto in macchina», mi dice James con decisione, non ammette repliche.

«Va bene». Alzo gli occhi al cielo e sbuffo.

Mi sento prendere la mano. È Jonathan: «Sicura che vuoi andare con lui? Se vuoi ti accompagno», mi sussurra in un orecchio.

«Tranquillo, so come gestirlo. Devi studiare e riposare, domani inizia la campagna elettorale, devi essere in forma, capito?». Accarezzo Jo sulla guancia, poi lo abbraccio.

 

James sta facendo saltare le chiavi della macchina in mano.

Vuole che mi sbrighi.

 

Sfilo tra i due gruppi, da una parte c'è Rebecca, Adrian e Lucas e dall'altra Kate, Stephanie e Jo. Percepisco la tensione, mi sembra quasi di vedere i fulmini uscire dai loro occhi, proprio come nei cartoni animati.

«Muoviti!». James cammina rapido per il corridoio della scuola, con i tacchi alti faccio fatica a stargli dietro. Raggiungiamo la macchina in pochi minuti, andavamo così rapidi che ho il fiatone.

 

Era da mesi che non salivo sulla macchina di James.

Il profumo di muschio, il rumore del motore, la morbidezza della pelle dei sedili, sono gli stessi che ricordavo. Sul sedile posteriore c'è il borsone con cui James va a giocare a tennis, la solita bottiglietta d'acqua e un paio di libri. Nulla sembra cambiato.

 

«Quindi è vero che esci con Jonathan». James sta facendo manovra per uscire dal parcheggio. 

«Jonathan ed io vogliamo essere discreti, non ci piacciono i pettegolezzi», dico io cercando di mantenere un certo distacco. Per far vincere Jo devo far credere a tutti che siamo una coppia, in questo modo ha più probabilità di successo.

«Mi pare di ricordare che l'anno scorso hai rotto con lui proprio perché voleva mantenere un profilo basso. Adesso ti va bene?». James alza le sopracciglia scettico.

«Sì», rispondo secca.

«Tranquilla, non farti illusioni. Non mi interessa con chi esci, chi baci o chi ti porti a letto. Voi due siete perfetti insieme, uno sfigato e una bugiarda sono sempre una bella accoppiata». James ha il suo solito sorrisetto malizioso.

 

Elena. C A L M A.

Non urlare.

Elena. C A L M A.

Ricorda cosa ha detto Andrew.

Elena. C A L M A.

Ti sta provocando.

 

«Già, Jo ed io siamo una bella coppia», dico cercando di mantenere il controllo e non iniziare a sbraitare.

James resta in silenzio per qualche secondo, continua a girarsi a guardarmi. Se ne sta con la bocca aperta come se volesse dire qualcosa, ma non trovasse le parole.

«Che fai? Hai un tic nervoso? Credo sia meglio che ti concentri sulla strada, io sono sempre la stessa ogni volta che mi guardi», gli dico acida.

«Hai qualcosa di strano, sei più irritante del solito. Non che normalmente tu sia una persona piacevole, ma in questo momento mi stai disgustando», dice James.

«Che carino, sei sempre così delicato con i tuoi commenti nei miei riguardi. Prendo la tua opinione e la segno su questo bel taccuino». Con le dita fingo di tenere in mano una penna e di star prendendo appunti su un foglio inesistente. Poi gli sorrido sbattendo le ciglia. Lo sto prendendo in giro senza il minimo riguardo.

«Ma chi diavolo sei? Hai bisogno di un dottore, uno bravo». James è nervoso, ha un tono più alto del solito.

«Va bene. Grazie. Lo terrò presente», dico io mostrando un sorriso smagliante, anche se in verità vorrei prenderlo a sberle.

«Credo tu stia prendendo una strada pericolosa. Li perderai tutti, uno ad uno. Quando resterai sola, nessuno ti vorrà più come amica. Come adesso con Kate», mi dice.

«Che ti importa? Tra me e Kate va tutto bene. Benissimo. Siamo le amiche perfette e sempre lo saremo. Non osare farmi la lezioncina su come mi debba o non debba comportare. Hai fatto tante di quelle porcherie con i tuoi amici che adesso diventi Mister Moralità?». Giuro che sto per scoppiare, mi trattengo a fatica.

«Appunto per questo, ne ho combinate così tante che so come andrà a finire. Non hai la scorza, crollerai, non sei fatta così. Non è nel tuo DNA», mi dice mentre parcheggia nel vialetto di villa McArthur.

«Così come? Che ho di così strano?», gli chiedo sorridente, mentre cerco di soffocare le emozioni che sto provando.

James abbassa il parasole dalla mia parte e solleva il coperchio dello specchietto.

 

Nel piccolo rettangolo vedo riflesso parte del mio volto. Le ciglia finte incorniciano i miei occhi, degli orecchini d'oro adornano le mie orecchie, la piega dei miei capelli è perfetta. Il mio volto sembra di cera, un sorriso, vuoto e freddo, è stampato sul mio volto. 

 

«Cosa farai quando crollerà tutto questo? Se non avrai Kate al tuo fianco chi raccoglierà i cocci?», mi dice James.

 

2 - Non dire mai ciò che pensi veramente, 

conta fino a cinque prima di parlare.

1.

2.

3.

4.

5.

 

«La mia vita non è affar tuo. Non voglio che ti interessi a me, in nessun modo. Faccio quello che mi va di fare e non sarai certo tu ad impedirmelo», gli dico squadrandolo con disgusto.

James mi fissa per qualche secondo poi esce dalla macchina sbattendo la portiera.

 

Un peso mi si agita bel petto. È come avessi tante mani che mi comprimessero, che mi stringessero i polmoni e schiacciassero lo stomaco.

Le mani iniziano a tremare, non riesco a controllarle. Lo sguardo si posa sul piccolo specchio che ho di fronte. Non mi riconosco più. Una lacrima scivola tra le ciglia finte.

Prendo il cellulare.

Chiamo Andrew.

Ho bisogno di sapere se sto facendo la cosa giusta.

Ho bisogno di sentirmi dire che sto facendo la cosa giusta.

Ho bisogno di conferme.

Ho bisogno di sentirmi capita.

 

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Capitolo 19
*** IERI: il rumore del potere ***


IERI:
Il rumore del potere




I miei tacchi risuonano per il corridoio, nessuno osa parlare. Gli studenti stanno appiccicati alle pareti e mi osservano. Non hanno espressione, non hanno il coraggio di mostrare i loro sentimenti. Hanno paura di me, di qualsiasi mia reazione.

Sanno che se qualcosa dovesse darmi fastidio, io mi arrabbierei.

Se io mi arrabbio sono guai seri per tutti.

Centinaia di frammenti di carta svolazzano ai miei piedi, sono i frammenti dei cartelloni elettorali di Adrian. Il mio fan club ha eseguito gli ordini alla perfezione: hanno scritto i cartelli per Jo e hanno liberato le bacheche delle cose che non servivano. 

I poster elettorali di Adrian erano e sono spazzatura a tutti gli effetti.

Cammino e sorrido. Andrew mi ha detto che per avere il potere è necessario far soffrire qualcuno, in questo caso Adrian. Del resto fa parte del gioco, no?

 

Kate è pallida, stringe il libro di storia come fosse aggrappata ad esso. Stephanie e Jo mi guardano con la bocca spalancata.

«Ciao, come va? Avete visto, ha nevicato a scuola stanotte», dico indicando loro i frammenti di carta sparsi per terra.

«Elena, ma che hai fatto?», mi chiede Jo atterrito.

«In che senso? Non ho fatto nulla». Apro il mio armadietto e prendo i libri che mi serviranno in classe.

«Hai fatto distruggere i cartelloni di Adrian. Non è giusto». Stephanie ha lo stesso tono lagnoso di Jo.

«Io non ho fatto distruggere nulla. Se qualcuno lo ha fatto, è responsabilità loro non mia. Direi che non puoi lamentarti, questo avvenimento gioca a nostro favore. Sarai sicuramente tu il rappresentate d'Istituto», dico a Jo abbracciandolo.

«Ma che fai? Questo non va bene», mi dice togliendo le mie braccia dal collo.

«Quindi ieri ti andava bene che fingessi di essere la tua ragazza e che ti aiutassi con i cartelloni, mentre adesso non ti va più?».

«Io.. Io non credevo arrivassi a tanto», mi dice duro.

«Non credevi a cosa? Che avremmo giocato sporco? Dai Jo, non fare l'ingenuo, qui al Trinity tutti fanno in questo modo, tu compreso. Pensavi veramente di vincere onestamente?», rido di gusto.

«Mi stai spaventando. Non capisco più chi sei», dice Jo.

«Sono la versione aggiornata di me stessa. Del resto, come sono sempre stata, non ti è mai andato bene, no? Non mi hai detto tu che qui al Trinity tutti sono in guerra con gli altri?  Non sei tu che mi hai dissuaso da entrare a Dibattito, l'anno scorso, perché avevi paura di non passare? Adesso di cosa ti lamenti? Ho avuto il coraggio di oppormi alla dittatura di Rebecca, tutto qui», dico ridacchiando.

«Elena, così non cambierai le cose», mi dice Stephanie.

«Dici? Non ne sarei così sicura. In questi giorni ho pensato molto, mi sono state mosse molte critiche», ripenso alle parole di James e Kate, «Ma sai una cosa? Non me ne frega nulla. Dopo il Trinity ci sarà Yale. Dopo Yale ci saranno i colloqui di lavoro. Dopo i colloqui ci sarà la carriera. E alla fine cosa mi rimarrebbe se facessi la santarellina? Nulla. Perché chi è buono non ottiene mai nulla. Cosa ho avuto l'anno scorso? Niente. Eppure sono stata onesta e sincera con tutti: ho aiutato Rebecca, ho capito Adrian, ho amato James, ho supportato ognuno di voi. Eppure, non andava mai bene. Elena sei lagnosa. Elena reagisci. Elena non puoi fare così. Elena aiutami. Elena fai quello. Elena fai questo. Mi sono state fatte cose orrende, mi hanno detto parole infamanti. Qualsiasi cosa io faccia rende infelice qualcuno, nessuno può essere felice se mi sta accanto. Sai una cosa? Ho capito che se le cose stanno così, tanto vale rendere felice l'unica persona che conta in tutta questa storia. Me». Incrocio le braccia al petto e fisso negli occhi ognuno di loro.

«Noi non ti abbiamo mai chiesto nulla», dice Kate arrabbiata.

«Sicura? Ripensa bene a come sono andate le cose. Chi ti ha sempre motivata? Chi si è presa sulle spalle le sofferenze altrui? Tu? Non farmi ridere», dico sarcastica.

 

Un urlo squarcia il silenzio.

 

Rebecca sta venendo nella mia direzione, è infuriata: «Schifosa traditrice. Sei la persona più...». Non termina la frase, scivola. Fa un volo tale che finisce a piedi all'aria. È scivolata sui pezzi di carta sparsi per terra.

La mia risata riecheggia per il corridoio.

Dopo pochi secondi alcuni studenti iniziano a ridere con me, altri indicano Rebecca prendendola in giro. In meno di trenta secondi tutti fanno quello che faccio io.

Rebecca, ancora con il sedere a terra, si guarda intorno confusa. Nessuno l'aveva mai derisa, nessuno aveva mai avuto il coraggio di trattarla così.

Mi avvicino alla bionda, con calma, voglio che la sua ansia raggiunga i massimi livelli. Mi accoccolo vicino a lei. Prendo una manciata di carta e la faccio cadere sulla testa della ragazza: «La neve fuori stagione è un imprevisto. Non sempre piacevole».

James è proprio dietro Rebecca, ha sentito ogni parola che ho detto.

Sorrido divertita nel vedere la sua faccia atterrita.

Adrian e Lucas sono poco distanti e stanno accorrendo per aiutare l'amica. 

«Vi ho ripagato con la vostra stessa moneta. Questo è quello che avete fatto per anni qui dentro. Non osate pestarmi i piedi o ve la farò pagare», dico dura a quei quattro.

L'eco delle risate degli altri studenti accompagna ogni mio movimento.

Prendo dalla borsetta il cellulare e scatto una foto a Rebecca. La spedisco alle ragazze del mio fan club. Dopo pochissimo, i cellulari degli studenti squillano. La foto sta girando per la scuola, tutti vedranno come ho detronizzato la regina.

 

James è impallidito, scuote la testa.

Non mi importa di nulla, Andrew mi ha detto che avrebbero provato a far leva sui miei sensi di colpa. Ha previsto tutto. Tutti loro hanno sempre voluto usarmi, per egoismo e cattiveria. Ora è tempo di fargliela pagare.

 

La campanella suona.

 

Gli studenti corrono per il corridoio verso le aule. Molti ridacchiano, altri spettegolano su quanto appena avvenuto. 

Kate, Jo e Stephanie si sono volatizzati. Non mi hanno neanche salutata.

Rebecca si è rialzata e sta cercando di ricomporsi. Adrian e Lucas la tengono a braccetto. James mi lancia un'ultima occhiata, poi si gira e segue i suoi amici diretti verso i loro armadietti.

Io osservo la scena divertita. Sono tutti così falsi che mi viene il voltastomaco.

 

«Elena». Nik è dietro di me.

«Buongiorno professore», gli dico sorridente.

«Cosa è successo a Rebecca? Perché sono stati distrutti tutti i cartelloni di Adrian?»

Alzo le spalle e con innocenza scuoto la testa.

Nik mi fissa per qualche secondo, sfiora i miei capelli e passa un dito sulla mia guancia.

«Attento, mi togli il trucco». Prendo lo specchietto dalla borsa e con una spugnetta mi passo una dose abbondante di fondotinta.

«Che diavolo succede? Elena, cosa fai?», mi dice Nik con la voce rotta.

«Faccio quello che va fatto. Le cose qui al Trinity andavano male. D'ora in poi tutto filerà alla perfezione», gli dico mentre finisco di sistemarmi il trucco.

«Quindi credi che per eliminare il bullismo si debbano usare gli stessi metodi di quei prepotenti? Non ha senso. Stai diventando come quelli che volevi sconfiggere, non c'è differenza». Nik mi prende per le spalle e mi fissa. I suoi occhi chiari riflettono la luce dei neon, sembrano più acquosi del solito.

«Nik sto facendo quello che mi hai insegnato tu. Non mi avevi detto che la metafora della creta era corretta? Perfetto, in questo momento io sono creta, mi sono modellata ad immagine del Trinity. Cosa sto facendo di sbagliato?».

«Tu sei diversa, sei meglio. Non puoi cadere in questi giochetti infantili. Rivoglio la Elena che conoscevo prima». Le dita di Nik stringono le mie braccia, sento i polpastrelli serrarsi sulla divisa.

«No, Nik. Non sono meglio. Tu l'hai voluto credere, mi hai sempre vista come quella diversa, ma ti sbagliavi. Io sono il risultato del Trinity, niente di più. Dopo sarò il risultato di Yale. Dopo ancora il risultato di uno studio legale. Nessuno vuole me, tutti vogliono la loro versione di Elena. Tanto vale portarsi avanti, tanto sono destinata a diventare una stronza», la mia voce è fredda, distaccata.

«Elena, ma...». Nik mi guarda con il suo solito sguardo dolce.

«Smettila di fissarmi in quel modo. Hai capito?», gli urlo in faccia, «Non sopporto quando fai così». Scrollo le sue mani dalle mie braccia e inizio a correre per il corridoio. Spalanco la porta d'ingresso della scuola e corro nel parcheggio.

 

Aria. Ho bisogno di aria.

 

Prendo il telefono, cerco il numero di Andrew e lo chiamo.

Dopo pochi secondi mi risponde: «Ciao dolcezza, ci siamo salutati da poco. Tutto bene?».

«Oggi niente scuola, non posso farcela. Dove sei?», gli chiedo mentre raggiungo la strada principale iniziando a camminare, a passo veloce, tra i passanti.

«Hmm... Ora sono in classe. Tra meno di un'ora sarò fuori, troverò una scusa. Raggiungimi al parco Franklin. Baci». Andrew riattacca.

 

Elena ricorda le regole.

Devi smetterla di stare male.

Annulla le tue emozioni.

 

Cercando di dare un senso a tutto quello che è appena successo, corro come una pazza, non voglio pensare a nulla. Sbatto contro le persone che camminano sui marciapiedi, molte mi insultano, ma faccio finta di niente. Non mi importa di quello che la gente pensa di me, non mi importa di far soffrire le persone. 

La mia vita è questa, non posso scappare, posso solo adeguarmi e andare avanti. La mia unica speranza è che la corazza costruita mi ripari da ulteriori sofferenze.

 

Chi sono?

Sono ciò che vogliono gli altri?

Esiste una vera Elena o sono la somma delle aspettative altrui?

 

Una sottile pioggia autunnale mi inumidisce la divisa, le scarpe con i tacchi mi fanno male ai piedi, parte del trucco è sbavato sul volto. Raggiungo il parco Franklin in meno di un quarto d'ora, mi rifugio sotto una grande quercia in attesa che spiova e che arrivi Andrew. 

Sento freddo, l'acqua ha bagnato anche la camicia. Piccole gocce mi scivolano dentro la schiena. Mi raggomitolo ai piedi dell'albero. Non piango è come se avessi perso la capacità di provare emozioni.

Kate mi odia.

James mi odia.

Nik mi odia.

Tutti mi odiano.

Fisso l'erba.

Ho il vuoto dentro.

 

«Ciao dolcezza. Ci ho messo una vita a trovarti. Che succede?». Andrew mi accarezza la testa e si mette vicino a me.

«Ho fatto distruggere i cartelloni di Andrew. Ho umiliato Rebecca davanti a tutti», dico senza emozione.

«Sì, lo so. Non capisco il perché di quella faccia. Hai ottenuto quello che volevi, dovresti essere contenta». Andrew mi passa un fazzoletto di carta sul volto per asciugare le gocce di pioggia e il trucco sbavato.

«Come fai a saperlo? Non... Non capisco...», chiedo spaesata.

«Le notizie corrono veloci, mi hanno mandato la foto di Rebecca con il sedere per terra tra le cartacce. Deve essere stata una scena parecchio esilarante, peccato non fossi lì. Credi che Rebecca ceda il suo posto di regina tanto volentieri?». Andrew scuote la testa. «Pochi minuti dopo la foto, mi è arrivato un messaggio molto interessante, guarda». Andrew mi mostra il suo cellulare.

 

Ho bisogno del tuo aiuto per risolvere un problema al Trinity. 

Devo schiacciare una serpe.

 

«Ma perché Rebecca ha chiesto aiuto a te?». Non smetto di rileggere il messaggio.

«Per lo stesso motivo che ti ha spinta a chiamarmi. Sono bravo a complottare, più di quanto tu possa immaginare», mi dice Andrew mentre mi aiuta ad alzarmi. Mi sposta i capelli dal volto e li mette delicatamente dietro le orecchie.

«Quindi aiuterai lei o me?». Lo guardo dritto negli occhi.

«Dolcezza, credo sia chiaro. Sono qui per te. Devi smetterla di pensare e arrovellarti, inizia a godere dei privilegi che hai acquisito. Cancella tutti i dubbi ed elimina le paure. Quell'energia che senti è il potere, il potere di fare quello che vuoi al Trinity. A Rebecca ci penso io, tu non devi far altro che ascoltarmi. Vedrai che presto non avrai più rivali e potrai essere te stessa, senza più menzogne».

 

Osservo Andrew, mi ripeto che le sue parole sono giuste.

Presto avrò tutto il potere che desidero.

Presto godrò del potere che merito.

Presto riempirò quel vuoto che sento.

Presto, le voci che urlano nel mio cervello, si calmeranno.

Presto, ci sarà la calma.

 

Che rumore ha il potere?

È il suono del silenzio.

 

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Capitolo 20
*** IERI: Maschere e menzogne ***


IERI:
Maschere e menzogne 





«Signorina, dove credi di andare?». Papà mi urla dal salotto di casa.

«Mi aspetta un amico, devo fare delle cose», gli dico scocciata mentre apro la porta d'ingresso.

Papà mi si para davanti sbarrandomi il passaggio: «Ultimamente sei strana, il tuo aspetto è così...».

«Curato?», dico io.

«Artificioso. Un po' forzato», precisa lui.

 

Prendo un profondo sospiro e gli sorrido, trattengo il nervoso che mi sta montando dentro. Non ho voglia di spiegare cosa stia succedendo e poi, tanto, non capirebbe.

 

Papà, Victor e Tess mi guardano con le braccia incrociate, sembrano poliziotti: «Mi è giunta voce che a scuola, i cartelloni di un tuo amico siano stati rotti. Tu centri qualcosa?».

«Adrian non è mio amico e poi, no, non c'entro nulla», dico sempre sorridente.

«Perché hai quel sorrisetto? Dimmi la verità, ti droghi? Se scopro che usi certe cose io...». Papà mi si è fiondato addosso prendendomi il volto tra le mani. 

«No. Che dici. Mica sono scema», gli rispondo mentre schiaffeggio le sue mani per allontanarlo.

«Con tutto questo trucco non riesco a capire se hai gli occhi arrossati o meno».

 

Alzo gli occhi al cielo, detesto quando fa il padre apprensivo. Se non bastasse ci sono pure Tess e Victor che mi squadrano da capo a piedi, il loro atteggiamento non aiuta di certo ad alleggerire la situazione.

Andrew mi sta aspettando sotto casa, non mi va di fare tardi. Stamattina mi ha mandato un messaggio dicendo che aveva importanti notizie da dirmi, quindi non vedo l'ora di stare con lui.

 

«Papà, il mio amico sta aspettando da dieci minuti. Sai quanto detesti fare tardi... Posso andare?», gli chiedo sbattendo gli occhi e posizionandomi vicino alla porta d'ingresso spalancata.

«Hmm... Chi sarebbe questo ragazzo? James? Jo?», mi chiede.

«Nessuno di loro. L'ho conosciuto durante il volontariato in biblioteca, si chiama...».

«Mi chiamo Andrew. Piacere», il mio amico è sulla porta. Sembra diverso, indossa gli occhiali, ha la camicia fuori dai pantaloni, non ha cravatta e neppure la giacca. I capelli non sono acconciati come al solito, anzi sono spettinati. Sembra la versione trasandata dell'Andrew che conosco.

Papà lo guarda ben bene, lo osserva con molta attenzione: «Quindi tu saresti il fantomatico amico di mia figlia... Ci stai provando con lei?».

«No Signore. Non lo farei mai, mia madre mi ha insegnato a rispettare le donne e poi ho una sorella poco più piccola di noi, alla quale sono molto affezionato. Che esempio sarei se trattassi Elena come un oggetto?». Andrew sorride timidamente. Non l'avevo mai visto così, sembra un'altra persona, più dolce e insicuro.

A papà piace, lo capisco da come ha rilassato le spalle, sotto la barba intravedo un sorriso: «Dove dovete andare oggi? Mia figlia sembra avere una fretta particolare».

«A dire il vero era una sorpresa, non le ho ancora detto nulla. Alla biblioteca Universitaria c'è bisogno del nostro aiuto per organizzare la conferenza che terrà il Rettore di Yale per gli studenti dei licei. Hanno bisogno di aiuto extra per allestire e gestire gli ospiti, una cosa dell'ultimo momento. So che Elena avrebbe voluto partecipare, per questo sono passato», Andrew allunga un volantino a mio padre.

 

L'evento di cui parla è reale, ma il fatto che abbiano bisogno di aiuto è una bugia. Gli allestimenti sono già tutti pronti e lo staff è al completo. Decido di stare al gioco per capire dove vuole parare.

 

«Davvero? Che bello, speravo che ci lasciassero aiutare nell'organizzazione. Credi ci lasceranno partecipare alla conferenza?», dico con voce allegra.

«Sì, inoltre dopo l'evento hanno organizzato una cena tra noi: pizza per tutti», dice Andrew mentre si sistema gli occhiali sul naso.

Cercando di sembrare il più naturale possibile saltello e batto le mani euforica.

«Papà. Papà. Papà. Papà. Ti prego, posso andarci?».

«A che ora finisce?», chiede al mio amico.

«Sul volantino c'è scritto che l'evento durerà fino alle 23.00. Consideri che potrebbe dilungarsi un po' di più, se fanno molte domande gli spettatori. Non saprei, direi che con la pizza e tutto il resto per mezzanotte e mezza riesco a riportare a casa Elena. Può andare?», chiede Andrew a mio padre.

Papà ci pensa un po', poi sorride: «Va bene, ma se farà tardi me la prenderò con te, chiaro?», gli dice dandogli una pacca sulla spalla.

 

Non ci posso credere, Andrew è riuscito a convincere mio padre a farmi stare fuori di casa tutto il giorno, in più posso tornare tardi. Un miracolo.

 

«Dovresti cambiarti. Sei troppo elegante per il lavoro che dovremo fare, meglio una felpa e un paio di jeans. Magari portati il cambio. Io ti aspetto giù in macchina. È stato un piacere Signor Voli». Andrew stringe la mano a papà, poi esce di casa.

 

Mi verrebbe voglia di ridere istericamente, sono eccitatissima. Non ho idea cosa abbia in mente Andrew, ma di sicuro sarà qualcosa che mi farà dimenticare il milione di pensieri che ho in testa. I cartelloni di Adrian , le parole di James, gli sguardi di Nik e le frecciatine di Kate ormai fanno parte del passato, non ci voglio pensare più. 

 

Corro in camera, prendo dall'armadio un paio di jeans e un cardigan verde, una camicia bianca e un paio di scarpe da ginnastica. Mi lego i capelli in uno chignon alto.

Prendo uno zainetto, sto per infilare una camicia di scorta, quando mi squilla il telefonino. È Andrew.

 

«Ciao dolcezza. Ti è piaciuta la recita?», mi dice sghignazzando.

«Sei diabolico, come cavolo hai fatto ad inventare una storia simile?». Parlo a bassa voce, non vorrei mai che mio padre mi sentisse per sbaglio.

«Fai come ti ho detto, vestiti comoda, come se dovessi andare a spostare scatoloni, attaccare decorazioni e cose simili. Così tuo padre non si insospettirà».

«Già fatto», gli dico mentre mi ammiro allo specchio.

«Perfetto, adesso metti nello zaino il vestito più sexy che hai, un paio di scarpe con il tacco e lingerie provocante», mi dice Andrew.

«Ma...». Andrew non mi lascia finire la frase.

«Sbrigati, abbiamo un sacco di cose da fare». Poi butta giù.

 

Ho poco tempo, papà potrebbe entrare in camera da un momento all'altro. Rovisto tra la mia biancheria, di solito indosso capi di cotone molto semplici, non ho mai amato le cose troppo complicate. Recupero il completino che ho comprato quella volta che ho dormito da Rebecca, non è niente di particolare, ma è la cosa più carina che possiedo. Prendo un bellissimo paio di scarpe con il tacco. Le ho prese da poco, ma non ho mai avuto occasione di indossarle, sono nere lucide. L'unico vestitino sexy che possiedo è un baby doll con la parte superiore in pizzo nero, un regalo mai utilizzato, visto che copre poco e mette in mostra un po' troppa carne.

 

Sono pronta.

Adesso devo mantenere la calma e uscire di casa come se nulla fosse.

Attraverso il corridoio e mi affaccio in salotto, Tess e papà stanno leggendo una traduzione mentre Victor sta addestrando un paio di nuovi assistenti. Sembrano impegnati, non voglio disturbarli. Con passo veloce passo loro davanti puntando direttamente alla porta d'ingresso.

 

«Elena. Te ne vai senza salutare?». La voce di papà risalta sul brusio della sala.

«Scusa non volevo disturbarti», gli rispondo cercando di mantenere la calma. Se mi scoprisse credo mi manderebbe a pelare patate su una nave in mezzo al mare.

Papà mi abbraccia, mi bacia la fronte con molta dolcezza.

 

Ecco, i sensi di colpa stanno bussando forte nel mio cervello. 

Elena non seguire le tue emozioni.

Elena trattieni, diventa più forte.

 

«Adesso vado, Andrew mi sta aspettando», gli dico girandomi di scatto, voglio uscire alla svelta di casa. Se resto ancora un po' tra le sue bracca mi verrà da piangere.

«Una attimo. Hai lo zaino aperto», mi dice papà prendendomi per un braccio.

 

Sono bloccata.

Sudo freddo.

Possibile che non mi sia accorta di avere lo zaino aperto?

Se mio padre vede cosa ho dentro mi massacra.

 

Aspetto con ansia che papà prenda la cerniera e la tiri con decisione. 

Sono secondi che sembrano non passare mai.

Poi sento il rumore.

Lo zaino è chiuso.

Sono salva.

 

Accennando un sorriso lo saluto. Il cuore non ha smesso di battere, è ancora accelerato.

Scendo le scale tenendo strette le cinghie dello zaino, non riesco a smettere di mordicchiarmi il labbro. Non vedo l'ora di sapere cosa ha in mente Andrew.

 

Appena esco di casa lo vedo intento a pettinarsi i capelli, è tornato il ragazzo che conosco: Look impeccabile e sguardo magnetico.

Gli salto al collo: «Sei un fottuto genio, posso star fuori tutto il giorno e tornare a casa tardi. Grazie».

«Sei così pura che quasi quasi ti rimando a casa. I miei genitori hanno smesso da un bel pezzo di chiedermi a che ora tornerò a casa». Andrew mi prende il mento e mi osserva.

Arrossisco: «Ho un padre un po' impiccione, tutto qui. Non sono poi così pura e ingenua».

«Sali dolcezza». Andrew accenna un sorriso e mi apre la portiera.

 

Senza farmelo dire due volte mi accomodo sul sedile e con un gesto rapido mi metto la cintura. Non voglio sembrare una ragazzina, quindi decido di tenere la bocca chiusa finché non sarai lui a dirmi cosa ha in mente.

 

Una pioggia finissima bagna il vetro dell'auto, il cielo è grigio. Giocherello con la cinghia del mio zaino che ho appoggiato sulle gambe. Andrew guida sicuro, segue la strada con attenzione. 

Arriviamo in una zona della città che non conosco, ci sono parecchi locali e ristoranti. Molti sono chiusi a quest'ora, non c'è molta gente in giro, è la classica zona che pullula di persone durante i weekend. 

 

Andrew ha posteggiato in un parcheggio sul lato della strada principale, sta giocando con un mazzo di chiavi: «Stasera avrai modo di mettere nel sacco Rebecca. Il Trinity sarà definitivamente tuo». 

«Non capisco». Effettivamente non riesco proprio ad immaginarmi cosa abbia in mente.

«Mio padre e mia madre sono tra i ristoratori più importanti della East Coast. Diversi loro ristoranti hanno ricevuto premi e stelle Michelin. Non disdegnano i locali notturni, portano un sacco di soldi e sono un luogo dove, quelli come noi, possono divertirsi lontano dagli occhi indiscreti della gente... Come dire... Comune». Andrew mi ha aperto la portiera, stiamo andando verso un locale con le finestre oscurate dall'aspetto molto elegante. Una folta edera si arrampica su parte della facciata, numerosi faretti sono sparsi all'ingresso, un scritta in metallo campeggia sulla facciata principale: Masques.

«Cosa ci facciamo qui?». Sono un po' a disagio, non sono mai entrata in un locale del genere.

«Stasera ho organizzato una festa privata per Rebecca. Ci saranno i giovani rampolli di New Heaven e Boston, ex studenti del Trinity. Lei ha bisogno di supporto e sa che può trovarlo in chi avrà il vero potere tra qualche anno. Per adesso tu puoi essere la regina, ma tra qualche tempo nessuno si ricorderà di te. Se vuoi mantenere il tuo ruolo devi crearti le opportunità per costruire fondamenta solide». Andrew apre la porta principale del locale. Un tappeto di velluto rosso adorna il pavimento, una carta da parati damascata è sulle pareti. Specchi, lampade con cristalli, poltroncine dorate sono sparse per il locale. È talmente elegante che ho paura di sporcarlo.

«Buonasera Signore». Una donna dalle lunghe gambe color ebano ci accoglie, indossa uno striminzito completino in pizzo color rosso ciliegia, ha labbra carnose e muove i fianchi con malizia. Sul volto ha una maschera nera.

«Buonasera mia cara. È tutto pronto per stasera?», le chiede Andrew.

«Certo Signore, come sempre», miagola la donna.

«Tra un attimo ti mando la mia amica, si chiama Elena. Deve diventare una di voi», le dice Andrew mentre le da una pacca sul sedere.

 

Sbianco.

Ho le fauci secche.

Ho paura.

Andrew mi vuole trasformare in una escort?

 

Come se mi leggesse nel cervello, Andrew mi fissa divertito: «Non ti preoccupare, non dovrai svolgere nessun servigio. A meno che tu non voglia». Con delicatezza mi accarezza i capelli: «Avrai bisogno di una parrucca, altrimenti ti riconosceranno in un attimo. Intanto prendi questa».

 

 Andrew mi sta allungando una maschera. È nera, in pelle lucida.

La rigiro tra le mani, il pensiero ritorna all'ultima volta che ne ho indossata una. È stato durante la festa a casa di Rebecca l'anno scorso. 

Quella sera Jo mi ha baciata.

Quella sera James mi ha quasi baciata.

Sembra che da allora siano passate mille vite, piuttosto che un anno appena.

 

«A cosa pensi dolcezza?», mi chiede Andrew.

«Perché indossare delle maschere?». Non riesco a smettere di fissare quella che tengo in mano.

«Quelli come me ne hanno bisogno. Una maschera ti permette di essere chi sei veramente. Nessun giudizio. Nessun obbligo. Posso vivere quello che sento senza troppi problemi. Sono più me stesso con una maschera come questa, che senza». Andrew mi bacia la mano e intreccia le sue dita con le mie.

«Quindi stasera tutti ne indosseremo una?», gli chiedo.

«No. Solo i ragazzi e le ragazze che lavorano al Masques la metteranno, per questo dovrai passare per una di loro. La differenza con loro è che tu avrai una cosa in più degli altri». Andrew mi passa una fotocamera digitale: «C'è un programma per fare foto in posti con scarsa illuminazione come questo. Al momento giusto tu scatterai il più possibile».

«Ma chi devo fotografare?», chiedo mentre osservo il dispositivo.

«Ovviamente Rebecca».

«Ma se non dovesse fare nulla di strano o compromettente?».

«Tranquilla, al Masques nessuno resta a guardare».

 

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Capitolo 21
*** IERI: Paparazzi ***


IERI:
Paparazzi




«Con questo trucco puoi stare tranquilla. Potrebbe caderti sul volto un secchio d'acqua e non si scioglierebbe. Lo uso quando devo ballare sul palo. Immagina se il sudore mi facesse colare la matita o il mascara. Addio mance». 

Aisha mi sta truccando per la serata che sta per iniziare al Masques, mi ha detto che devo camuffare un po' il mio aspetto. Per prima cosa mi ha coperto le lentiggini, poi mi ha fatto mettere delle lenti a contatto marroni. Dice che i miei occhi e la mia pelle sono troppi riconoscibili. Sul piano della specchiera di fronte a me, c'è una parrucca nera che mi sta aspettando. La osservo un po' intimorita, non ho mai amato indossarle.

 

Una decina di ragazze si stanno preparando insieme a merce ne sono di tutti tipi: alte, basse, formose, atletiche, tutte molto sensuali ed estremamente sicure di loro stesse. Io mi sento un pulcino spennato confronto a loro. Si spogliano senza pudore e si spalmano oli e creme piene di glitter per tutto il corpo. Alcune aiutano altre a prepararsi, proprio come Aisha sta facendo con me.

 

«Prima di sistemarti i capelli devi metterti questo olio», la donna mi passa una bottiglietta piena di liquido con pagliuzze luccicanti.

«No, io... No. Insomma...», balbetto confusa.

«Tutte quelle che lavorano qui lo devono mettere, è una tradizione del locale. Se vuoi passare per una di noi ti tocca spalmartelo, volente o nolente. Non ti devi vergognare, tanto prima o poi dovrai togliere l'accappatoio che indossi. Mica puoi girare per il locale coperta in quel modo». Tutte le ragazze nel camerino scoppiano a ridere.

«È che non ho mai indossato nulla di simile», le dico indicando il suo striminzito completino intimo rosso.

«Guardati intorno. Nessuna di noi è uguale all'altra. Tutte noi abbiamo i nostri punti forte che ai ragazzi piaceranno. Non c'è un solo tipo di bellezza, ma solo femminilità che devi imparare a gestire». Aisha mi slaccia la cintura dell'accappatoio che cade si miei piedi. Il baby doll che indosso copre ben poco, il pizzo sul seno fa intravedere il completino intimo che indosso.

«Sei bellissima», mi dice una ragazza dai capelli biondi che inizia a spalmarmi l'olio sulle braccia, sulle gambe e sul collo.

Mi sento a disagio.

«Bevi uno di questi». Aisha mi allunga un bicchiere con un liquido rosa: «Ti piacerà, fidati».

 

Lo annuso, un profumo di fragola e alcool invade le mie narici.

 

«Bevilo, così ti scioglierai un po'», mi dice la ragazza bionda che mi sta spalmando ancora l'olio.

Prendo coraggio e, tutto in un fiato, ingoio lo shot rosa, cercando di non pensare al sapore. Una vampata di calore mi sale dallo stomaco e mi arriva fino al volto, per un attimo temo che mi si sciolga la gola da tanto brucia.

Le ragazze nel camerino applaudono e urlano, ormai sono una di loro.

 

Coraggio Elena, potrai incastrare Rebecca una volta per tutte.

Cerco di farmi forza.

 

Aisha e la ragazza bionda mi sistemano i capelli e la parrucca. Dopo venti minuti di spazzolate, trecce, mollette, mi ritrovo con una chioma nera a caschetto. 

Sono diversa, mi sento diversa.

Le altre ragazze mi abbracciano, si complimentano con me, dicono che sembro un'altra ragazza, una più grande, una donna. Alcune fischiano, altre mi sbaciucchiano, una ragazza dalla chioma riccia mi fa girare su me stessa. Aisha mi offre un altro bicchiere di cocktail rosa che bevo in un sorso. L'alcool inizia a far effetto, la testa mi gira e inizio a ridacchiare insieme alle mie nuove amiche.

 

«Il tuo scopo è far spendere quei ricconi. Devi farti offrire da bere, devi far comprare loro più bottiglie di champagne che riesci. Più compreranno è più saranno i soldi che prenderai», mi spiega Aisha.

Annuisco mentre mi osservo allo specchio. Indosso le scarpe nere con il tacco, guadagno dieci centimetri di altezza.

«La mia amica Elena mi farà guadagnare un sacco. È stupenda. Grazie ragazze, siete sempre le migliori», dice Andrew baciando Aisha sulla bocca. Poi mi raggiunge, avvolge le sue braccia intorno alla mia vita e mi osserva da vicino. È soddisfatto, lo capisco da come mi guarda.

«Credi non mi riconosceranno?», gli chiedo.

«È impossibile. Non c'è traccia della dolce e timida Elena. Sembri una pantera, sei molto sexy». Andrew mi bacia il collo. L'alcol che ho in corpo mi confonde, sento un brivido per tutto il corpo quando le sue labbra sfiorano la mia pelle.

«Il tuo scopo è beccare Rebecca mentre è in atteggiamenti equivoci. Puoi flirtare con gli ospiti, ma non dare confidenza a nessuno. Divertiti, ma tieni sempre d'occhio la tua preda. Ci sono due momenti specifici durante la serata in cui il locale rimane al buio, verranno sparate luci stroboscopiche. La gente lo sa, da il peggio di se in quei due momenti. Il flash si confonderà con le luci. Fai decine, centinaia di foto in sequenza, basta usare questo programma». Andrew mi mostra un pulsante sull'apparecchio. 

«Quindi quando partono le luci stroboscopiche inizio a scattare? E se non dovessi fotografare niente? Potrebbe essere un buco nell'acqua», gli chiedo.

«Sì, potrebbe non andare a buon fine. Ma di solito qualcosa di succulento lo si trova sempre», mi spiega.

«Quindi l'hai già fatto ad altre persone?». 

«Il potere è una cosa difficile da conquistare. È normale giocare sporco». Andrew mi prende per mano e mi porta nella sala dove tra poco inizierà la festa.

«All'inizio ci sarà un aperitivo tranquillo. Pian piano l'atmosfera si farà più particolare. Le mie ragazze e i miei ragazzi si mischieranno con gli ospiti e scalderanno l'ambiente. Ricorda che hai tempo fino a mezzanotte e mezza. In bocca al lupo dolcezza». Andrew mi schiaccia l'occhio poi si allontana verso l'ingresso del locale.

 

Sono sola, su un paio di trampoli, con un vestito striminzito, leggermente brilla e preoccupata che qualcosa possa andare storto. Ho paura che qualcuno possa scoprirmi, ho paura di non riuscire a fotografare Rebecca. Nell'ultimo periodo sono cambiate molte cose, io sono cambiata, il mio modo di vedere il mondo è cambiato.

Le poltrone dorate del locale saranno presto occupate da ricchi e viziati studenti del Trinity e di Yale. I baristi stanno riempiendo decine di calici di champagne e posizionando vaschette piene di cubetti di ghiaccio con bottiglie costosissime. Il DJ sta scegliendo la musica da mettere. Le ragazze ed i ragazzi di Andrew stanno finendo di prepararsi nei camerini. Io con la macchina fotografica in una mano e la maschera nell'altra, conto i secondi che mancano all'apertura del locale.

 

Tic. Tac.

È l'ora.

Il tonfo sordo della porta metallica dell'ingresso arriva fino a me.

Prendo un respiro.

Non posso più scappare.

Indosso la maschera.

Non sono più Elena, non sono più quella che ero qualche mese fa.

 

La festa è iniziata.

 

Mi nascondo dietro una colonna, voglio aspettare che siano tutti un po' alticci per iniziare a cercare Rebecca. Il rumore dei tacchi delle ospiti che entrano nella sala, viene ben presto sovrastato dalla musica sparata a tutto volume dal DJ. In meno di mezz'ora i ragazzi e le ragazze di Andrew escono dai camerini e, con una maschera sul volto, si mischiano tra gli invitati. Le luci colorate nella sala si riflettono sui loro corpi, le pagliuzze colorate che hanno sulla pelle, riflettono la luce. Sembrano fatti di cristallo.

Allungo un braccio verso la luce. Sono luminescente anch'io. Da dietro la colonna, cui sono nascosta, sbircio la sala. Decine e decine di studenti stanno ballando in pista, molti bevono direttamente dalle bottiglie di Champagne, altri si scatenano sul bancone del bar. Aisha e le altre ragazze si muovono sensualmente, ancheggiano, accarezzano e stuzzicano gli ospiti. Lo stesso fanno i ragazzi che a torso nudo ballano e flirtano con le studentesse ospiti.

 

Sesso.

L'unica parola che mi viene in mente è sesso.

 

Decido di uscire dal mio nascondiglio. Prendo un calice di champagne e lo ingoio in un sorso. Cercando di sembrare il più naturale possibile, mi muovo seguendo il ritmo frenetico della musica e raggiungo il centro della pista. Cerco Rebecca, ma ci sono talmente tante ragazze con i capelli lunghi e biondi che finiscono con lo assomigliarsi tutte. Giro per diversi minuti, diversi ragazzi si appiccicano a me mentre ballano, vorrei allontanarli, ma tengo duro e fingo di divertirmi. Non posso rischiare di farmi scoprire. Provo ad avvicinarmi al bancone del bar sperando di avere una visuale migliore, visto che è leggermente rialzato. Vedo Andrew. Ha un tavolo personale, sta ridendo. Di fianco a lui ci sono un ragazzo e una ragazza, li bacia entrambi senza problemi. Purtroppo non c'è traccia di Rebecca da lui. Mi guardo intorno e noto che ci sono parecchi ragazzi della mia scuola che sembrano scatenati, ballano sopra a dei cubi. Alcuni più spregiudicati, stanno amoreggiando davanti a tutti, senza pudori. Se non avessi dell'alcool in corpo, probabilmente sarei imbarazzata da tutto questo. 

Poi noto una chioma riccia che mi è familiare: è Adrian.

Lo seguo con lo sguardo, sta andando ad un tavolo sul lato destro della sala. Mi sposto verso il centro della pista cercando di non perderlo d'occhio. Un gruppo di ospiti mi sta bloccando il passaggio, provo a superarli ma hanno creato un muro umano impossibile da superare.

 

Merda.

 

Spingendo il più possibile riesco a trovare un varco, mi infilo a fatica. Dopo un paio di gomitate ben assestate riesco a uscire dalla massa. Inciampo sui tacchi e ondeggio per diversi passi. 

Sto per cadere, ma riesco a rimanere in piedi.

Alzo lo sguardo.

Sono di fronte al tavolo di Rebecca e gli altri.

Tutti mi guardano sorpresi per la mia uscita goffa.

 

Merda.

Elena, ricorda quello che sei venuta a fare.

 

Cercando di sembrare disinvolta sbatto le ciglia e ridacchio. Appoggio un braccio intorno alla vita di Adrian, prendo il suo calice di champagne e lo ingoio in un sorso. 

Sono terrorizzata, non ho idea di come reagiranno.

Lucas mi si avvicina, sento il suo corpo stringersi addosso al mio. Mi morde il collo: «Adoro le ragazze con i capelli a caschetto», mi sussurra in un orecchio.

Io lo lascio fare anche se lo vorrei prendere a sberle.

Adrian mi prende per mano e inizia a baciarmi la spalla.

 

Merda.

Come faccio a uscire da questo incubo?

 

Rebecca non mi calcola minimamente, sta parlando a James. Ridacchiano insieme. 

Sembrano una coppia. Una coppia affiatata.

Il cuore mi batte forte, vorrei prendere quella cretina e buttarla fuori dal locale, vorrei strapparle i capelli. Non voglio che sfiori James.

 

«Buonasera ragazzi. Ho un regalo da parte di Andrew», un paio di ragazzi a torso nudo e un paio di ragazze in lingerie, stanno appoggiando quattro bottiglie di champagne sul tavolo. Senza nessun problema iniziano a ballare in maniera provocante coinvolgendo Adrian e Lucas. Finalmente quei due si sono staccati da me. Un ragazzo particolarmente muscoloso prende Rebecca per mano e la trascina vicino a lui. Le offre uno shot rosa e inizia a farla ballare sollevandola da terra, baciandola e mordendola. Rebecca ride, si capisce che è molto eccitata dalla situazione. Nel giro di pochi minuti il ragazzo ha fatto bere a Rebecca tre cocktail alla fragola. 

 

Andrew mi ha aiutata, ha mandato i suoi ragazzi per togliermi dai guai.

 

«Tu non balli?», mi chiede James. Si è sporto verso di me, mi sta osservando con un po' troppa insistenza.

Non sapendo che fare rido: «Sono brava a fare altro, ballare non è il mio forte», gli dico provando ad essere maliziosa e provocante. 

James sorride. I suoi occhi verdi mi incantano.

 

Elena, smettila

 

Senza aggiungere altro mi allontano, non posso mandare tutto a rotoli.

Mi apposto lì vicino, stando ben attenta a quello che fa Rebecca. La ragazza pare scatenata, non smette di bere e di ballare con il ragazzo a torso nudo.

 

D'improvviso la musica si blocca.

Le luci si spengono.

È tutto buio.

Gli ospiti urlano eccitati.

È il momento in cui al Masques succederà di tutto.

 

Le luci stroboscopiche illuminano la stanza.

Luce e buio.

I movimenti sembrano fotogrammi.

Gli ospiti si muovono a scatti.

Baci.

Corpi.

Sesso.

 

Corro vicino a Rebecca e inizio a scattare più foto possibili.

Il flash della mia macchina fotografica non si nota.

Rebecca bacia sulla bocca il ragazzo muscoloso.

Rebecca è mezza svestita.

Rebecca beve direttamente dalla bottiglia di Champagne.

Rebecca si lascia fare di tutto.

 

Avrò scattato un centinaio di foto, forse più. Mi allontano prima che mi noti qualcuno.

Con il cuore che mi batte all'impazzata mi butto tra i corpi avvinghiati nel mezzo della pista. Le luci stroboscopiche non sono ancora finite, la follia che ha coinvolto tutti gli ospiti è evidente. Sembrano animali.

Ho molta ansia, mille pensieri affollano la mia mente.

 

Avrò fatto la cosa giusta?

 

Corro verso i camerini, non riesco a stare un minuto di più in mezzo a tutta quella gente. Spalanco la porta. Andrew è seduto su una piccola poltrona.

«Ciao dolcezza», mi dice venendomi incontro e abbracciandomi. 

Sto tremando. Gli allungo la macchina fotografica.

Con molta calma Andrew la accende ed inizia a guardare le foto: «Che posso dirti? Qui hai tutto il materiale che ti serve per essere una regina», mi dice mentre mi mostra una serie di foto in cui Rebecca appare decisamente in atteggiamenti equivoci.

«Ma... Ma...», balbetto.

«Niente ma. Bevi». Andrew mi passa un grosso bicchiere pieno fino all'orlo con il cocktail alla fragola. 

Senza pensarci inizio a sorseggiarlo, sentendo il bruciore dell'alcool scendere per la gola: «È adesso?», gli chiedo.

«Non credi che una regina abbia bisogno del suo re? Torna in pista e riprenditelo, lui è tuo». Andrew sfiora le sue labbra sulle mie, mi schiaccia l'occhio e poi esce dai camerini.

 

Sorrido.

Bevo tutto in un sorso il bicchiere di liquido rosa fregandomene della vampata di calore che mi provoca. 

La testa mi gira.

Ondeggiando esco dai camerini.

La gente balla freneticamente in pista.

Non mi importa di nessuno di loro.

Questa sera James sarà di nuovo mio.

 

... Continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 22
*** IERI: Cenerentola ***


IERI:
Cenerentola




Le gambe mi tremano leggermente, ho bevuto troppo. Il grande bicchiere colmo di liquido rosa, che mi ha dato Andrew, è stato troppo. Ondeggio, voglio raggiungere la sala della festa, ma sono troppo instabile. Per non cadere abbraccio una colonna. 

Decine di ospiti ballano, chiacchierano e ridono vicino a me, ma nessuno mi nota.

È come se fossi invisibile.

Voglio andare da James.

Voglio che lui sia mio, ma in questo stato riesco a fare ben poco.

Provo ad alzarmi, ma barcollo.

Sto per cadere, quando due braccia mi sorreggono prima che mi schianti per terra. È Aisha. Con forza mi prende sotto le ascelle e mi trascina verso un'uscita di emergenza, spalanca la porta e mi lascia cadere su alcuni gradini di metallo posti lì fuori.

«Dieci minuti qui al fresco e vedrai che ti riprendi. Bevi questa, diluirà l'alcool nel sangue», mi dice passandomi una bottiglietta d'acqua.

«Grazie. Ho bevuto due volte in vita mia e tutte e due le volte mi sono ridotta uno schifo», parlo strascicando le parole.

«Allora non bere. Se ogni volta stai male, vuol dire che non fa per te». Aisha si siede di fianco a me.

 

L'aria fredda di fine ottobre mi ghiaccia le gambe e le braccia. Inizio a tremare. Mi chiedo come faccia Aisha a non sentire freddo, visto che indossa un completino intimo minuscolo.

 

«Ci sono abituata, sai», mi risponde come se leggesse i miei pensieri, «Prima ero io che dovevo prendere una boccata d'aria per non vomitare. Adesso aiuto le novelline come te. Lo stesso farai tu, aiuterai le ragazze che ne avranno bisogno», mi dice mentre si accende una sigaretta.

«Guarda che io non sono una... Una...», sono piuttosto imbarazzata.

«Puttana? Guarda che puoi dirlo, mica mi scandalizzo. Uso il mio corpo per guadagnare. L'ho scelto io, nessuno mi obbliga. Come nessuno ha obbligato te a venire qui stasera». Aisha mi guarda divertita. La sua pelle nera, ricoperta di pagliuzze luccicanti, riflette la luce dei lampioni.

«Hai ragione. Per stasera siamo sorelle», le dico dandole un piccolo pugno sulla spalla.

«Le sorelle si aiutano sempre, sono più che amiche. Sono anime legate da un vincolo speciale. Tutte le ragazze che lavorano al Masques sono speciali per me, sono la mia famiglia».

 

A sentire quelle parole il mio pensiero non può che andare a Kate. L'affetto che mi legava a lei era qualcosa a cui non avrei mai potuto rinunciare, credevo che sarebbe durato per sempre. Adesso eccomi qui, mezza ubriaca, vestita come una squillo a complottare per incastrare Rebecca. Se fosse qui con me, probabilmente disapproverebbe. Forse invece mi appoggerebbe. Non so. Non ci sentiamo da così tanti giorni che non so neanche come sta.

Mi sento uno schifo.

 

«L'importante in questo lavoro è non dimenticare chi sei. Lo stesso devi fare tu. Non conosco la tua storia, non so che rapporto hai con Andrew, ma ricorda sempre cosa vuoi. Lotta per i tuoi obbiettivi e fai di tutto per raggiungerli, senza cambiarti. Modificarsi per compiacere gli altri è un errore. Dovresti essere fiera di te. Di tutto, dai pregi ai difetti, dalle insicurezze alle paure. Tutte queste cose fanno te. Una persona unica e speciale», mi dice abbracciandomi.

«Se non fossi ubriaca probabilmente ti risponderei qualcosa di sensato, ma i pensieri e le parole mi si intrecciano». Appoggio la testa sulla sua spalla. Mi sento meglio confronto a prima.

«Lo sai perché faccio tutto questo? Per il mio futuro, perché ho sbagliato in passato e non ho trovato un'altra strada se non questa. Il mio sogno è aprire un localino a Boston, vicino al quartiere dove sono cresciuta. Diventare un punto di ritrovo per tutte quelle ragazze che, come me, non hanno una famiglia alle spalle. Per questo faccio questo schifo, perché non so far altro», mi dice mentre mi aiuta ad alzarmi.

«Tu dovresti fare la psicologa. La mia psicologa», le dico abbracciandola stretta.

«Non ci vuole molto a capire le persone, basta regalare loro un po' di tempo e ascoltarle. Io adesso lo faccio con te, ed ho capito che sei qui per un ragazzo. Lo vuoi conquistare?». Mi guarda divertita come una sorella maggiore guarderebbe la sorellina imbranata.

«Riconquistare, a dire il vero», dico con l'indice alzato. 

«Allora sei un passo avanti. Sai cosa gli piace e cosa lo attrae. Gioca le tue carte migliori», mi dice Aisha mentre da l'ultimo tiro di sigaretta.

 

Abbraccio la donna, avevo bisogno di una chiacchierata del genere.

Ha ragione, anche se non sono il massimo della lucidità so benissimo cosa piace a James. Con passo deciso attraverso la sala, gli ospiti stanno ballando ancora come pazzi. Passo attraverso la massa di persone puntando nella direzione del tavolo di Rebecca. In lontananza vedo Adrian che bacia una ragazza, mentre Rebecca è appartata con il ragazzo a torso nudo con cui ballava prima. Di James non c'è traccia. Vado verso il bar, ma non lo trovo. Faccio un giro nella zona dell'ingresso, ma non è neanche lì. Sbuffando mi provo a dirigere verso l'altra saletta, ma l'unica persona che trovo è Lucas che esce da i bagni.

 

«Ciao. Stai cercando qualcuno?», mi chiede il ragazzo visibilmente ubriaco.

«No... Cioè, sì. Una persona», gli rispondo senza smettere di guardarmi in giro.

«Adesso ci sono qua io. Puoi divertirti con me, bocconcino». Lucas mi piazza le mani sul sedere e mi alza la sottoveste.

Un conato mi sale dallo stomaco, manca poco che gli vomiti addosso. Sono disgustata.

«Non fare la difficile. Del resto voi siete qui per questo. No?», mi sussurra in un orecchio mentre mi bacia il collo.

Con un gesto deciso lo allontano. Anche se non sono del tutto lucida, lo sono sicuramente più di lui. Lucas barcolla all'indietro sbattendo leggermente la schiena contro al muro. Ride: «Ti piacciono i giochini. Anche a me», mi dice mentre prova a buttarsi su di me.

Con un passo di lato mi sposto facendolo finire contro una colonna. Lucas non smette di ridere, sembra in preda ad una crisi isterica. Sono spaventata, anche se sono cosciente che non potrebbe far molto in quello stato.

«Vieni da me, ti farò divertire», mi dice cercando di raggiungermi con passo incerto.

Indietreggio schifata, non voglio che quel porco mi sfiori con un dito.

Faccio qualche passo quando qualcosa mi blocca.

 

Un corpo.

 

Sempre girata di schiena, sento le mani dello sconosciuto sfiorarmi le braccia, scendere piano piano e intrecciare le sue dita con le mie.

Nel momento in cui sento la stretta ho un tuffo al cuore.

James. Quel corpo che mi ha sbarrato la strada è James, lo riconoscerei tra un milione.

«Vattene Lucas. Lei sta con me», dice all'amico che ridendo e barcollando si dirige verso il bar.

 

Il cuore batte all'impazzata, vorrei girarmi e baciarlo come ho fatto per mesi, ma ho paura che mi riconosca. Devo fingere di essere una ragazza che lavora al locale, quindi inizio a camminare, sempre tenendolo per mano dietro di me. James si lascia portare, percepisco la sua curiosità nei miei confronti, sento il suo fiato caldo vicino al mio orecchio. Arriviamo di fronte a un divanetto abbastanza appartato, sciolgo l'intreccio di dita e con sicurezza mi giro. Sono di fronte a lui, il mio volto sfiora il suo. C'è desiderio, lo capisco da come mi guarda e da come spinge il suo corpo contro il mio. Mi lascio andare sul divanetto, allungo le braccia e lo tiro verso me.

Le labbra di James non tardano ad unirsi le mie.

Il sapore dolce e salato della sua pelle mi attiva ricordi che credevo dimenticati. Una grande eccitazione mi pervade il corpo, indifferente al fatto che possa scoprirmi lo stringo tra le mie braccia facendomi trasportare da ciò che sento. 

Le mani di James stringono le mie cosce, sfiorano ogni centimetro della mia pelle. Con delicatezza solleva il baby Doll, resto solo con il completino intimo. Senza il minimo pudore gli slaccio i bottoni della camicia lasciandolo a torso nudo. Lo accarezzo e lo mordo, cerco di non perdere un centimetro quadrato della sua pelle.

 

James mi prende il volto tra le mani, siamo uno di fronte all'altra. Con le dita prova ad alzare la maschera che indosso, ma lo blocco.

«Credevo ti desse fastidio, scusa», mi dice mentre mi bacia il collo dietro l'orecchio.

«Non posso toglierla, è la regola», gli rispondo lasciando cadere la testa all'indietro.

«Sei stupenda, perfetta», mi sussurra dolce.

Un brivido percorre tutto il mio corpo.

«Anche tu», gli rispondo cercando le sue labbra.

 

Lo guardo e mi perdo.

La sala buia non riesce ad oscurare lo splendore dei suoi occhi.

 

Ci baciamo con una passione tale che mi dimentico di essere al Masques, mi dimentico delle foto fatte a Rebecca e mi dimentico delle ultime cose che mi sono successe al Trinity. È come se fossi racchiusa dentro una bolla insieme a lui, come se il nostro piccolo universo stesse riprendendo forma.

James ed a Elena di nuovo insieme.

Poco importa se James non sa chi sono. Non fa nulla. L'illusione che sia ancora tutto perfetto vale piu di ogni altra cosa.

 

Luce e buio.

Sono partite di nuovo le luci stroboscopiche.

Posso amare James senza preoccuparmi degli altri ospiti, è il momento perfetto per completare ciò che abbiamo iniziato. Nessuno ci vedrebbe, le luci maschererebbero tutto.

Mi metto a cavalcioni sopra di lui e...

 

... E una mano mi afferra la spalla allontanandomi da James.

Un uomo grande e muscoloso mi guarda con aria torva.

«Ma che fai?», gli urlo mentre cerco di coprirmi con la sottoveste.

L'uomo picchietta l'indice sull'orologio che porta al polso.

Nel frattempo James si è messo di fianco a me e sta cercando di capire cosa stia succedendo.

«È mezzanotte. Si ricordi signorina l'altro impegno». La voce dell'uomo è così forte che sovrasta la musica.

«Quale impeg...». Merda. Papà. Tra mezz'ora devo essere a casa.

Non posso arrivare tardi, mio padre mi ammazzerebbe e poi perderebbe fiducia in me. Andrew deve aver mandato uno dei suoi dipendenti per salvarmi da fine certa.

Mi infilo velocemente il baby Doll, cerco le scarpe.

«Le sue cose sono in limousine. Ho già provveduto io», mi dice serio, «L'aspetto fuori in macchina. Sa che il suo impegno non può aspettare. Si sbrighi». Senza aggiungere altro si dirige verso l'ingresso.

 

Guardo James che, con la bocca spalancata, ha assistito a tutta la scena.

«Devo andare. Mi dispiace, non posso restare». Prendo tra le mani il suo volto e lo bacio con tutta la passione che possiedo. Quel momento magico dura pochi secondi, mi stacco da lui e inizio a correre, con le scarpe in mano, verso l'uscita.

 

Mi sento felice e triste allo stesso momento. Ho talmente tante emozioni in ballo che non so da che parte iniziare per metterle in ordine. Da una parte vorrei urlare per la gioia, aver baciato James mi ha dato una carica pazzesca, dall'altro detesto questa situazione, James sarebbe andato a letto con una ragazza del Masques.

Mi sento frastornata, come avessi la testa dentro ad un frullatore.

 

Fuori dal locale vedo la limousine che mi aspetta. Salgo. Trovo il borsone con i miei vestiti. 

L'omone è al volante: «Deve cambiarsi e struccarsi, ha meno di venti minuti». Alza la parete divisoria tra lui e me, accende la macchina e parte.

Io mi spoglio e infilo i jeans, la camicia, il cardigan e le scarpe. Prendo delle salviette struccanti che trovo sul sedile e inizio a togliere i chili di trucco. Un ulteriore regalo di Andrew. Mi tolgo la parrucca, sciolgo le trecce, tolgo le mollette che bloccano i miei capelli. Sembrano una massa informe. Mi faccio uno chignon alto per mascherare quell'obbrobrio. Sono quasi pronta, mi controllo il volto allo specchio per togliere gli ultimi residui di trucco. Ritrovo le mie labbra rosa, le mie lentiggini, ma una cosa non torna.

Ho un occhio marrone e uno grigio.

Ho perso una lente a contatto.

Guardo sui sedili, per terra ma non c'è traccia. 

C'è troppo caos perché possa vederla, potrei averla calpestata senza rendermene conto. 

Oppure potrei averla persa al locale. 

E se James avesse visto i miei occhi e mi avesse riconosciuta? 

James sapeva che ero io la ragazza che baciava?

 

«Signorina, siamo arrivati».

La limousine si ferma, la portiera si apre.

Con in spalla il mio borsone esco dalla macchina.

L'aria fresca e pungente della notte spira forte. Rabbrividisco, non per il freddo, ma per la paura. La paura di dover spiegare a James perché ero al Masques. 

 

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Capitolo 23
*** IERI: Aprire gli occhi ***


IERI:
Aprire gli occhi




«Vuoi ancora del tè?». Papà mi allunga la teiera.

«Sì, grazie», gli rispondo pimpante.

«Erano mesi che non ti vedevo così allegra, sembri serena», mi dice.

«La conferenza di sabato mi ha aperto gli occhi. Voglio andare a Yale più di ogni altra cosa». Con Yale intendo James, ma questo a mio padre non lo dico. Non capirebbe la mia ostinazione.

«Perfetto. Mi piace vederti così decisa sul tuo futuro. Di solito hai le idee confuse, ma evidentemente stai crescendo e quindi stai prendendo sul serio lo studio e tutto il resto». Papà porta la sua tazza nel lavandino e inizia a sciacquarla. 

«Vuoi che ti accompagni a scuola? Tess e Victor mi aspettano alla Golden Rose, abbiamo una riunione con il presidente, quindi ho un po' di tempo prima di andare», mi chiede mentre sistema il tavolo.

«No, grazie. Andrew mi viene a prendere. Facciamo un'altra volta, ok?».

«Ok», dice lui allungando le braccia nella mia direzione.

Lo abbraccio più forte che posso, poi corro in camera a prepararmi.

 

È lunedì. Il lunedì più bello dopo parecchio tempo. Credo che siano mesi che non mi senta così bene.

La festa al Masques è stata una delle cose più strane, ma eccitanti che mi siano mai capitate. Vorrei dimenticare il comportamento di Lucas e Adrian, e ricordare per sempre la dolcezza di Aisha, i baci di James e la gentilezza di Andrew. Se non fosse stato per lui non sarei riuscita a tornare a casa in tempo per evitare che mio padre si arrabbiasse. Io ho recitato alla perfezione, appena messo piede nell'appartamento mi sono finta esausta e sono filata dritta in camera, anche se ho impiegato un po' a rilassarmi, visto le cose successe.

Credo di essermi addormentata con il sorriso.

Un sorriso che ho anche adesso mentre mi preparo per andare a scuola. Un filo di rossetto, ciglia finte, borsetta e tacchi. Mi sbrigo, Andrew arriverà da un momento all'altro.

Esco di casa canticchiando. Sono euforica. Vorrei gridare al mondo che ho baciato James, vorrei che tutti lo sapessero. Tutti tranne lui. Ovviamente non potrei mai confessargli di essere io la ragazza che l'ha sedotto al Masques, non avrei il coraggio. Potrebbe voler sapere cosa facessi lì e come mai fossi svestita in quel modo. Insomma, non sarebbe facile spiegargli che l'ho fatto per incastrare Rebecca. Non credo capirebbe. No. 

 

Una folata di vento mi scompiglia i capelli. Il cielo grigio promette pioggia. Chiudo ben stretta l'impermeabile, e apro l'ombrello. Sono davanti al portone di casa in attesa di Andrew. Le macchine corrono veloci sulla strada di fronte a casa. C'è chi va al lavoro o chi parte per andare fuori città. La solita routine, il solito viavai.

Guardo l'orologio. Andrew è in ritardo, spero non gli sia successo nulla.

Provo a chiamarlo, ma non risponde.

Tra quaranta minuti inizieranno le lezioni, non posso fare tardi.

Ritorno dentro il palazzo diretta verso casa. Ho bisogno di un passaggio e grazie al cielo papà oggi è libero. Un vero colpo di fortuna. 

In meno di cinque minuti siamo in macchina.

«Grazie, credo che sia successo qualcosa al mio amico. Non è tipo da saltare un appuntamento», dico a mio padre mentre scrivo l'ennesimo messaggio ad Andrew.

«Magari è ammalato oppure ha avuto un imprevisto», mi dice mentre guida la macchina verso scuola.

 

Imprevisto.

Amo e detesto questa parola.

 

«Già», gli dico anche se sono totalmente persa in altri pensieri. Non vorrei mai che Andrew avesse avuto problemi al Masques con i suoi genitori o con qualche ospite, del resto domenica non ci siamo sentiti, ho passato tutto il giorno a studiare.

Non smetto di tamburellare le dita sullo schermo del cellulare.

Papà sta zitto per il resto del tragitto, lo stesso faccio io.

Appena arriviamo a scuola mi saluta con un bacio.

 

Mi sento strana, inquieta. Cammino per il parcheggio della scuola, stretta nel mio impermeabile. Devo smetterla di farmi tante paranoie, non sta succedendo niente di brutto, il mio cervello corre troppo veloce. Basta. Infilo il cellulare nella borsetta, Andrew mi chiamerà quando potrà. Non voglio intristirmi inutilmente.

A passi veloci raggiungo l'ingresso del Trinity, una massa di studenti sta occupando le scale e parte dello spiazzo. Tutto questo non è normale.

 

«Contenta? Era quello che volevi no?». La voce di Kate mi giunge da dietro. Insieme a lei ci sono Jo e Stephanie.

«Che cosa stai dicendo?», le chiedo acida.

«Certe cose ricordano i periodi bui della storia, gli orrori. Marchiare le persone non è una cosa sana», mi urla in faccia.

«Tu sei pazza. Che cosa stai blaterando?», le dico con il suo stesso tono.

«Guarda». Jo mi prende per le spalle e mi mette di fronte al portone principale. Le ragazze del mio fan club stanno distribuendo piccoli oggetti agli studenti.

Mi libero dalla presa e con spintoni poco gentili mi faccio spazio tra i ragazzi ammassati, raggiungendo in poco tempo il portone d'ingresso. 

«Ciao Elena!», mi dice una ragazza del fan Club. Tra le sue mani tiene una spilletta a forma di L.

«Cosa sono queste cose?», le chiedo prendendone una manciata da una ciotola e facendole cadere a cascata.

«È ora di mettere in chiaro a tutti come stanno le cose qui al Trinity. L'era di Rebecca è passata, alcuni sostengono che fosse troppo cattiva, ma non sanno di cosa sei capace tu. La E che ci hai regalato sono un tesoro prezioso. E di Elena, ma anche di Elected. Mentre questa è la L di...».

«... Losers...», urlano ridendo tutte le ragazze del Fan club. 

«Gli Eletti ed i Perdenti. Del resto lo sanno tutti chi comanda al Trinity adesso. Come ci hai insegnato tu, dobbiamo mettere ben in chiaro a tutti chi ha il potere».

 

Non ho parole.

La testa mi gira.

Credo di stare per vomitare.

 

Osservo per qualche secondo le facce degli studenti che aspettano il verdetto. Tra poco verrà consegnata loro la spilletta a forma di L.

Sfigato.

Perdente.

Nullità. 

I loro occhi sono pieni di tristezza, stanchezza e rassegnazione.

Volevo cambiare le cose al Trinity, invece ho peggiorato tutto, ho distrutto la speranza. Sono la personificazione del male, sono il peggio che possa esistere.

Il peso di quello che ho combinato mi opprime il petto, voglio andarmene da lì il prima possibile. Scendo le scale fregandomene del fatto che stia dando spallate agli studenti in fila. Non posso resistere un minuto di più. Non riesco a sostenere i loro sguardi.

Corro per lo spiazzo in cerca di un posto tranquillo, ma ovunque mi giri c'è gente che mi osserva, che mi giudica, che mi odia.

 

Scappa Elena.

Scappa.

 

Vado verso il parcheggio, ma faccio solo pochi passi. 

Il cuore mi si ferma, il peso al petto aumenta di intensità. 

Kate, Jo, Stephanie, Adrian, Lucas, Rebecca e James, solo lì, tutti in fila, davanti a me. Mi osservano.

«Complimenti. Ottimo lavoro. Nella storia del Trinity non c'è nessuno che abbia fatto peggio di così», mi dice Rebecca squadrandomi da capo a piedi. 

Kate scuote la testa, ha gli occhi lucidi. Stephanie e Jo la tengono per mano.

«Io non... Non ho mai detto a quelle ragazze di fare una cosa del genere», dico con la voce tremante.

«Era una cosa tra noi. Lo è sempre stata. Forse sono stata cattiva, lo ammetto, ma sapevo che con te potevo combattere. Sei stata tu a dirmi che avremmo potuto diventare nemiche, ti ricordi? Non ho mai messo in mezzo gli altri. Da quando sei arrivata sei stata sempre tu la mia nemica preferita, ma adesso sei patetica. Hai dato potere a ragazze incapaci di gestirlo». Rebecca si avvicina: «In questa storia sei tu la perdente».

 

Sono sconvolta, mi sento sopraffatta dagli eventi.

Le emozioni che ho trattenuto nelle ultime settimane stanno scalciando, urlando e dibattendosi dentro la mia anima. Stanno cercando di riappropriarsi del loro posto legittimo. Improvvisamente mi sento ridicola con quei tacchi e quel trucco, agghindata come fossi una bambolina senz'anima. Mi chiedo come abbia potuto dimenticare chi fossi e perché abbia svenduto la mia unicità per il potere. Un potere che non sono neanche in grado di saper gestire.

 

«M-mi dispiace. Ho fatto un casino». Tremo. Tremo così forte che mi devo appoggiare ad una macchina parcheggiata per reggermi in piedi. Ho i denti serrati così forte per la tensione che non riesco ad aprire la bocca. Il trucco sciolto riga le mie guance.

«Elena calmati, vedrai che...», mi dice Jo evidentemente preoccupato per la mia reazione.

«No! Sono un mostro. Distruggo tutto quello che tocco, tutto. Perdo tutto ciò che amo. Io non merito nulla», urlo tutta la frustrazione che sento.

«Elena, smettila. Non devi dire così», James mi prende per le braccia stringendo con forza. I suoi occhi verdi mi scrutano, una patina acquosa li ricopre mentre osservano ogni particolare del mio volto. 

 

Mi tuffo nel ricordo di ciò che lui era per me.

Annego nell'amore che lui aveva per me.

Provo a lasciarmi andare, cedo alle bugie costruite in una sera. Fingo che i baci che mi ha dato fossero indirizzati a me, invece che a una ragazza con una parrucca, una maschera e un baby Doll. Menzogne. Bugie. Ho creato solo questo, mi sono crogiolata e convinta che fosse la realtà invece era solo fumo negli occhi.

 

«No. Non sai cosa ho fatto. Io... Io...», mi stacco da James indietreggiando.

«Adesso devi calmarti, qualsiasi cosa tu abbia fatto la risolveremo. Capito?», mi dice James con calma, cercando di abbassare i toni concitati della discussione. Vicino a lui ci sono Kate e Stephanie che mi guardano preoccupate.

«Nessuno si avvicini a me. Mai più», dico loro prima di correre verso la strada, lontana da loro e lontana dal Trinity.

 

Scappa Elena.

Scappa.

 

In pochissimo tempo mi ritrovo a correre in mezzo ai passanti, spero con tutto il cuore che nessuno mi stia seguendo. Non riuscirei ad affrontare nessuno di loro.

Con il fiato corto, curvo in una via laterale, lontana dal flusso delle persone che entrano ed escono dai negozi. Mi ritrovo vicina a un grande cassonetto della spazzatura di un ristorante, mi nascondo lì dietro. Prendo il cellulare e compongo il numero di Andrew, ho bisogno di parlare con lui. Non risponde.

Riprovo. Non risponde.

Passo i successivi minuti a chiamarlo. Ho bisogno di un suo consiglio.

 

«Che vuoi?», la voce di Andrew risuona improvvisamente nelle mie orecchie.

«Pronto? Pronto? Andrew ho bisogno di parlarti, è successo un casino a scuola e...», gli dico con le lacrime agli occhi.

«Dolcezza, non me ne frega niente. Tra poco suona la campanella, devo andare a lezione», mi dice brusco.

«Ma... Ma perché fai così? Non capisco?».

«Dolcezza, hai fatto ciò che volevo. Adesso che ho tutto il materiale che mi serve, non mi servi più»,  mi dice ridacchiando.

«Cosa significa?». Sono paralizzata dalla paura, non riesco a capire cosa abbia in mente.

«Significa che grazie a te possiedo foto compromettenti su Rebecca e molti studenti di Yale e del Trinity. Ho il potere di distruggere il loro futuro e rendere il mio splendente e radioso. Elena, sei stata una preziosa compagna di avventure, ma adesso non mi servi più».

«Ma quelle foto servivano per... Per...», balbetto confusa.

«Credi le avrei usate per i tuoi stupidi giochi di potere? Che vuoi che me ne freghi di Rebecca, è un pesce piccolo, ma grazie a te ho tra le mani il destino di uno dei futuri pezzi grossi di New Heaven e Boston... Sei molto sexy se vuoi, le foto che ho scattato a te e James sono uscite proprio bene. Prova a immaginare la scena: James McArthur che adesca una ragazza minorenne e la seduce. I titoli dei giornali non saranno clementi», mi dice con voce annoiata.

«Quindi mi hai sempre mentito?», gli chiedo con le lacrime agli occhi.

«Non solo a te, ma anche a quegli ingenui della tua scuola. Per anni li ho ascoltati, li ho fatti divertire, li ho illusi che, nonostante venissimo da scuole diverse, fossimo amici. In questo modo hanno sempre avuto bisogno di me, in un modo o nell'altro. Avete tutti così bisogno di affetto che fate pena. Poi sei arrivata tu, una preda facile facile». Andrew ride con cattiveria.

«Sei un mostro», gli urlo.

«No cara, sei tu il mostro. Non esiterò a rivelare a tutti cosa hai fatto se non terrai la bocca chiusa. Immagina la faccia di James, Kate, Jo e tutti gli altri, quando sapranno che eri tu la escort nel mio locale. Come dimenticarci delle foto che hai scattato a Rebecca e di tutti i sotterfugi contro la campagna elettorale di Adrian. Immagina la faccia di Bruno quando vedrà sua figlia, mezza scosciata, che sta facendo sesso con James. Poveruomo, non oso immaginare la sua reazione».

«Non puoi farmi una cosa del genere, mio padre morirebbe dal dolore». Impallidisco al solo pensiero.

«Devi fare solo due cose, dolcezza. Tenere la bocca chiusa e boicottare la gara di Dibattito di fine anno. Il Saint Jude deve vincere. Quest'anno non permetterò che la mia scuola venga umiliata un'altra volta da voi stupidi, ridicoli, lagnosi del Trinity. Capito?». La voce di Andrew è dura, piena di rabbia.

«H-hai fatto tutto questo solo per una stupida gara? Mi hai usata per ricattarmi?», gli chiedo con voce tremante.

«Dolcezza, ma non hai imparato proprio nulla. Tutti sono in guerra con tutti, questa volta però vinceremo noi. Yale sarà nostra».

 

Il resto delle sue parole non le sento.

Mi sento mancare la terra sotto i piedi.

Ho rovinato la mia vita e quella di tutti gli altri.

Ho distrutto il futuro del Trinity.

Non c'è via d'uscita.

Io non ho via d'uscita.

 

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Capitolo 24
*** IERI: Un mucchio di stracci ***


IERI:
Un mucchio di stracci



 

Cammino in mezzo ad una nuvola di fumo. È tutto bianco. Mi guardo intorno ma non vedo nessuno, non ho idea di dove sia. L'eco di una voce femminile risuona nell'aria. Risate. Corro alla ricerca della fonte, ma una folata di fumo mi colpisce il volto. Chiudo gli occhi per proteggermi, quando li riapro mi ritrovo immersa in una vasca da bagno piena di schiuma. Ho sette o otto anni al massimo. Una mano mi toglie la schiuma dal volto. È mamma. Mamma mi sta lavando. Sembra serena, ride. Mi dice qualcosa, ma non riesco a capirla. Non mi importa, seguo i suoi movimenti come fossi ipnotizzata. Sta ridendo ed io sono felice di vederla così. Allunga un braccio per prendere una spugna, ma non riesce. L'arto le cade mollemente nella vasca sollevando una nuvola di schiuma. Mamma è spaventata dalla sua debolezza, lo capisco dai suoi occhi, lo capisco da come mi fissa. Nero. Tutto sparisce. Gli occhi di mia madre sono l'unica cosa che vedo, ma mutano secondo dopo secondo. Aumentano le sue occhiaie e la stanchezza. Un bip rompe il silenzio. Poi un altro. Sempre di più, non smettono di risuonare. Bip. Bip. Bip. Bip. Odore di disinfettante. Corro. Voglio raggiungere quegli occhi, ma non riesco ad andare da nessuna parte. Mamma, urlo. Mamma, urlo. Gli occhi di mia madre si trasformano in quelli di Demetra. Le sue pupille si dilatano, un'ultima scintilla di vita. I bip si interrompono. Urlo, ma dalla mia bocca non esce nessun suono. Il nero è ovunque, mi sento soffocare. Con le mani cerco a tentoni una via d'uscita. Un piccolo puntino luminoso attira la mia attenzione, è un foro. Infilo il dito e, come fosse un foglio di carta velina, tiro e strappo. Ho distrutto il nero intorno a me. Mi assale una luce accecante. Papà è di spalle e sta leggendo un blocco di appunti. James è di spalle, indossa la toga del Trinity. Kate, Jo e Stephanie sono di spalle, si stanno tenendo per mano. Provo ad avvicinarmi a ciascuno di loro, ma una catena blocca i miei piedi. Provo a tirarla, lotto per sfuggire, ma non riesco. Non ho voce, non mi sentono. Provo a sbattere le catene per terra, ma non fanno rumore. Papà, James, Kate, Jo e Stephanie non si accorgono di me. Mi accascio a terra piangendo, sono stanca, rassegnata. Una mano mi accarezza i capelli. Scatto spaventata. Alzo lo sguardo. Di fronte a me c'è un'altra me stessa con tacchi, ciglia finte e boccoli. Si avvicina al mio orecchio e parla.

Il suono della sua voce è quello di Andrew.

Dice solo quattro parole.

È tutta colpa tua.

 

Mi sveglio di colpo.

Da diversi giorni sogno sempre le stesse cose, più o meno. Guardo l'orologio, sono le sei del pomeriggio. Non so che giorno è, non mi importa. Mi appallottolo sotto la coperta, l'immagine degli occhi di mia madre e quelli di Demetra mi ossessiona.

Non riesco a pensare ad altro, non sono in grado di fare nulla.

Sento parlottare in salotto. Non sono le voci di Tess e Victor che sento di solito. Sono le voci di persone che conosco fin troppo bene. Hanna e Roger. Non ho voglia di vederli.

 

Provo a riaddormentarmi, anche se non ho sonno. Con gli occhi chiusi cerco di svuotare il cervello, ma immagini a raffica mi ruotano senza sosta.

 

Io a cavalcioni su James.

Le spillette a forma di L.

Il volto di Andrew che ride.

Luci stroboscopiche.

La gara di Dibattito.

Rebecca che balla sul tavolo.

Le ragazze del fan club.

Il Trinity Institute in macerie.

Le mani di James intorno ai miei fianchi.

I cartelloni strappati di Adrian.

 

Infilo le mani tra i capelli premendo con forza. Vorrei strappare tutti i pensieri che mi tormentano, vorrei poter tornare indietro nel tempo. Mi sento così stupida. Ho cercato di essere quella che non sono per un potere che neanche desideravo. Ho usato la scusa di voler cambiare le cose al Trinity, quando invece cercavo di riavere ciò che avevo perso. Ha ragione Rebecca, sono una perdente. Una perdente che non sa che fare.

 

Toc.

Toc.

«Elena sei sveglia? Abbiamo visite». Papà entra in camera con cautela, credo abbia paura di una mia reazione negativa, anzi, credo abbia più paura di una mia non reazione. In questi giorni, in cui mi sono rintanata in camera, ha provato in tutti i modi a smuovermi, ma non c'è stato verso. Nessuna sua minaccia, nessuna sua presa di posizione è servita a molto. Non ho reagito. Non ho risposto. Non ho pianto. Ho guardato il vuoto e basta. Sono stata in silenzio.

Non mi muovo dalla mia posizione sotto le coperte.

Sento passi di diverse persone entrare in camera.

«Bruno, dobbiamo cambiare l'aria nella stanza. Un po' d'aria fresca le farà bene», bisbiglia Hanna.

Sento qualcuno aprire la finestra e spalancare le persiane, ma da sotto le coperte tutto appare buio.

«Ciao Elena. Ti va di uscire e parlare?», mi chiede Roger con il solito tono pacato.

Non rispondo.

«Mia cara, devi mangiare, farti una doccia e prendere una boccata d'aria. Sono ormai dieci giorni che non esci dalla stanza», dice Hanna.

«Elena». La voce di Kate ha un suono triste e arrabbiato allo stesso momento. 

Non credevo fosse venuta anche lei. Non ho intenzione di uscire da lì.

Sento qualcuno sedersi sul letto di fianco a me. È papà, lo capisco da come mi accarezza.

«Ti prego, piccola mia, non posso sopportare di vederti in questo stato, non so quanto potrò reggere». Papà prova a scostare la coperta, ma la tengo stretta, non ho il coraggio di farmi vedere. Mi sento un mostro.

Non reagisco.

«Elena, non devi fare così. Capito? Tuo padre e noi ti amiamo, devi darci la possibilità di aiutarti. Esci da lì sotto», dice Hanna con tono deciso.

Non dico nulla.

«Smettila Elena. Quelle sceme del fan club hanno fatto una stupidata, la preside Marquez le ha messe in punizione. Nessuno incolpa te per le spillette, non rischi di venire espulsa o altro. Mi sembra un po' esagerata la tua reazione, si tratta solo di una cretinata di quattro ragazzine esaltate». Anche se non posso vedere Kate me la immagino con le braccia incrociate e la sua tipica espressione imbronciata. 

«Ha ragione Kate. Quello che hanno fatto quelle studentesse non è minimamente colpa tua, devi reagire e cercare di andare avanti», dice papà.

Non mi importa quello che dicono.

«Se continui così dovremo usare modi poco gentili, vuoi che ti facciamo uscire a forza dal letto? Vuoi che ti obblighiamo a mandarti a scuola? Vuoi essere trattata come una bambina piccola? Credo di no, quindi alzati e reagisci», la voce di Roger è dura, non l'avevo mai sentito così.

 

Con forza stringo i denti, non sopporto la loro arroganza. Sono tutti pronti a dirmi cosa dovrei fare e come dovrei comportarmi. Non ho voglia di ascoltare le loro parole, mi innervosiscono e basta.

Mi alzo e appoggio la schiena contro la spalliera del letto. Ho capelli arruffati davanti al volto, non devo avere una bella cera.

«Voglio essere lasciata in pace. Non voglio parlare con nessuno di voi, non voglio fare quello che mi dite. Potete minacciarmi, insultarmi, ma sappiate che non mi smuoverò da qui. Niente scuola, niente Trinity. Non ho intenzione di tornarci. Non voglio più studiare», dico sempre a testa china.

«Cosa? Ma non puoi, devi finire la scuola», urla papà.

«Calmati Bruno, e vedrai che sta scherzando, non può pensare veramente una cosa del genere. Vero Elena, è una battuta la tua?», mi chiede Hanna preoccupata.

«No. Non voglio più andare a scuola», dico con voce ferma.

Papà si alza in piedi di scatto, cammina avanti e indietro come un animale in gabbia. Passa le mani tra la barba nervoso: «Possibile che abbia la figlia più testarda e cocciuta che esista al mondo? Ti sembra normale che faccia così?». Papà chiede a Roger che lo abbraccia dandogli un paio di pacche sulle spalle.

«Elena, non puoi crederci veramente. Ti piace studiare, hai dei buoni amici che ti vogliono bene. Perché fai così?», mi chiede Kate arrabbiata. 

La guardo attraverso i capelli. Non sembra la ragazza che ho conosciuto e a cui ho voluto bene, mi sembra una estranea. Vedo nei suoi occhi freddezza e distacco.

«L'altro giorno mi hai detto che Yale è il tuo sogno, quando sei stata alla conferenza con il tuo amico, come mai hai cambiato idea?», papà ha le lacrime agli occhi, credo si senta frustrato da tutta la situazione.

 

Non voglio che papà dica il nome di Andrew, non voglio che lo nomini. Non voglio che mi ricordi quei momenti. Una rabbia viscerale e profonda parte dallo stomaco e lo contorce, nausea e malessere: «Uscite dalla mia camera. Tutti. Non voglio più vedere nessuno. Non voglio parlare con nessuno di voi».

«Ma Elena...». Prova a ribellarsi Kate, ma la interrompo.

«Ho detto nessuno di voi. Nemmeno te!», le urlo in faccia.

Hanna appoggia un braccio sulla spalla della figlia, mentre Roger sorregge papà che sembra stia per svenire. 

«Fuori!», giorni di frustrazione mi hanno resa più aggressiva del normale.

Tutti e quattro lasciano la stanza. Sono indispettiti, non ci vuole molto ad interpretare le loro facce. Kate scuote la testa, mentre Hanna e Roger tengono per mano papà.

 

Mi odio. Detesto come mi sto comportando, ma non so cosa fare. Non posso confessare quello che è successo né a mio padre e nemmeno a Kate. Sono in trappola.

Ancora carica di rabbia salto giù dal letto scaraventando il cuscino per terra, una nuvola di piume galleggia per la stanza. Prendo la coperta e la strappo dal letto. Con le braccia tese passo rapida sulla scrivania facendo cadere tutto quello che si trova sopra: penne, libri, quaderni. Mi butto sull'armadio, stacco con forza i vestiti appesi, prendo le scarpe con il tacco e le scaglio con forza sul pavimento. Come fossi un tornado pronto a distruggere tutto, mi lancio verso i trucchi. Una cascata di polveri colorate, ciglia finte e creme si mescola sopra i vestiti ammucchiati per terra. Voglio eliminare ogni traccia della mia esistenza, voglio che quella Elena non esista mai più. Mi guardo intorno, mi avvento sul comodino vicino al letto. Voglio prendere il cellulare e farlo in frantumi, ma il braccio urta una scatola di legno. La scatola di legno, quella che costudisce le lettere che scrivo ogni anno a mia madre. 

Tra le piume svolazzanti nella stanza e le polveri dei trucchi, le lettere scivolano sul pavimento. Il mio tesoro è disperso.

In preda ad una crisi isterica inizio a raccoglierle tutte, pulendo le dai residui colorati dei trucchi. Le controllo ossessivamente, una ad una, non voglio che si rovinino. Le ripongo nella scatola con cura, sto per mettere il coperchio quando noto l'angolo di una busta che sbuca da sotto il letto vicino a tre cucchiaini di plastica. 

È la busta che mi ha dato Demetra, quella che mi ha detto di aprire solo quando James ed io saremmo riusciti ad amarci. La stringo al petto, la stringo più forte che posso, mentre nella mano tengo i cucchiaini. Mi accascio sul pavimento e piango. Piango perché so che quel momento non arriverà mai, quella busta non verrà mai aperta.

 

Drin.

Drin.

Il cellulare squilla.

Non voglio rispondere.

Drin.

Drin.

Ancora con le lacrime agli occhi prendo il cellulare, ho bloccato i numeri di tutti quelli che conosco per non essere disturbata. Chi mai potrà essere?

È un numero sconosciuto.

 

«Pronto?», chiedo.

«Cara ragazza, quanto ti ci vuole a rispondere al telefono», la voce della Signora McArthur risuona per tutta la stanza.

«I-io...», balbetto confusa.

«Bando alle ciance. Non ti sei presentata per sistemare gli scatoloni a casa mia. Ti ricordo che hai una punizione da portare a termine», mi dice decisa.

«Ma... Io, non vado più al Trinity e...».

«A me non importa se vai o non vai a scuola. Hai preso un impegno con me ed esigo che lo porti a termine. Chiaro?».

«Non credo di riuscir...», ma vengo interrotta bruscamente.

«Domani. Casa mia. Io e te». Poi butta giù il telefono lasciandomi senza parole.

 

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Capitolo 25
*** IERI: Le chiavi dei ricordi ***


IERI:
Le chiavi dei ricordi



È un freddo novembre, sta piovendo da diversi giorni. Indosso una grossa sciarpa calda, l'ho avvolta intorno al collo. Mi piace tuffare il volto in tutta quella lana. Papà ha insistito per accompagnarmi dalla McArthur, non c'è stato verso di convincerlo del fatto che avrei potuto prendere il bus. So che è preoccupato, non sono stupida, ma non ho il coraggio di confessare nulla di quanto mi è successo.

 

New Heaven sembra più grigia del solito. Miliardi di gocce d'acqua e grosse pozzanghere la ricoprono. Il cielo bigio si riflette in esse rendendo il paesaggio uniforme, tutto ha lo stesso colore. Grigio. È come se anche io avessi l'anima piena di pioggia, come se anch'io fossi grigia dentro.

Con la macchina lasciamo il centro città per andare nella zona ricca, dove le famiglie più importanti vivono. Mi sono sempre sentita una esclusa qui. I giardini perfettamente curati, le case enormi, le auto lussuose sembrano usciti da una rivista. Niente è fuori posto, tutto deve essere perfetto. Io non lo sono mai stata.

 

«Chiamami quando vuoi tornare a casa», mi dice papà mentre imbocca il vialetto di villa McArthur.

«Va bene», rispondo mogia.

«Cerca di... Di... Insomma, parla, sfogati con la Signora se questo ti è utile. Vorrei che...». Papà ha usato tante di quelle parole in questi giorni che non sa più cosa dire. Mi si stringe il cuore a vederlo in quello stato.

«Devo solo lavorare per lei, ho una punizione da finire», gli dico senza espressione.

«Certo, ma...», prova a ribattere.

«Geltrude non è una donna molto affabile, va dritta al sodo. Non mi ha chiamato per chiacchierare».

«Potresti però...», mi dice papà guardandomi preoccupato.

«Sono stanca di parlare. Non c'è niente da dire», chiudo la discussione seccamente. Esco dalla macchina e corro verso il portone d'ingresso. Sento la macchina di papà smuovere i sassolini bianchi del vialetto ed andare via. Non ho il coraggio di guardarlo, mi sento uno schifo, sono una pessima figlia.

 

«Buongiorno Signorina. La voce monotona della domestica mi coglie alla sprovvista.

«B-buongiorno. Ho un appunt...».

«Miss McArthur l'aspetta al piano superiore», mi dice freddamente aprendomi la porta d'ingresso.

«Grazie». Senza attendere oltre percorro la scala e salgo in cerca della vecchia.

 

Ogni gradino che percorro è un ricordo. Il profumo di quella casa mi riporta a così tanti momenti che mi sembra aver vissuto dieci vite lì dentro. Le emozioni si sovrappongono come tante coperte che riscaldano, ma che allo stesso tempo soffocano. Non so perché abbia ascoltato l'anziana, non so neanche perché non la mandi a quel paese definitivamente. È come non potessi fare a meno di lei e di quello che rappresenta, il mio passato recente, quello reciso dal momento della morte di Demetra.

 

Pochi gradini e sarò al primo piano. La stanza che io e James dobbiamo svuotare è ancora piena. Ci sono ancora i mucchi che abbiamo fatto, nulla sembra cambiato. Mi affaccio alla porta dello studio che ormai ho imparato a conoscere così bene, quasi sicuramente troverò lì la donna.

Infatti, Geltrude è intenta a leggere dei fogli appoggiata ad uno striminzito tavolino da caffè stracolmo di oggetti. Riconosco il portagioie in legno laccato di verde di Demetra, le lettere d'amore tra i due coniugi, un paio di raccoglitori colmi di documenti e diversi ninnoli recuperati da me e James.

 

«Buonasera. Posso cominciare a lavorare?», chiedo con voce neutra, non voglio interrompere le sue letture.

La vecchia finisce di leggere una frase, poi mi guarda scostando gli occhiali dal naso. Sembra abbia appena visto un orrendo ragno peloso, la smorfia sulla sua bocca non promette nulla di buono: «Che fretta, cara ragazza. Accomodati qui vicino a me».

 

Obbedisco, non ho voglia di discutere. Mi siedo su una poltrona in pelle rossa molto dura, anche se sono scomoda non dico nulla. Cerco con gli occhi la finestra più vicina, fisso la pioggia che bagna i vetri, in quel modo non ho l'obbligo di parlare con la vecchia.

I rintocchi dell'orologio a pendolo segnano le undici del mattino. Lo scricchiolio dei fogli di carta è l'unico rumore che risuona nella stanza. Passo diversi minuti senza far nulla, sento il vuoto dentro. Geltrude sembra assorta nelle sue letture.

 

«La dedizione che mia nuora aveva per mio figlio ha dell'incredibile. Gli ha scritto molte lettere durante i suoi tour, sono molto romantiche, struggenti. Anche se volevo bene a Demetra non riesco proprio a capire come quei due potessero andare d'accordo. Hanno sempre avuto un carattere e indole diversa, eppure...». La Signora McArthur si toglie gli occhiali dal naso e gioca con la catenina appesa alle stanghette.

«Dicono che l'amore sia cieco», le rispondo senza pensarci troppo, in automatico.

«Cieco? Hmm... Sarà così, eppure io ci vedo benissimo. So come sono quei due. Mio figlio è così introverso che è scappato da New Heaven pur di non affrontare la perdita della moglie. Mio nipote ha preso da lui, sono due teste dure. Demetra no. Non avrebbe mai fatto nulla del genere», dice mentre si alza in cerca di qualcosa. Guarda per terra, in mezzo alle buste, tra i soprammobili sul tavolino da caffè.

«Ha bisogno d'aiuto?», le chiedo.

«Cercavo la chiave per aprire questo portagioie verde», mi dice mentre lo scuote con poca delicatezza. Non risuona nulla, sembra vuoto.

«Non so dove sia, ma abbiamo trovato un cestino pieno di chiavi, non sappiamo cosa aprano». Di scatto mi alzo e vado fuori dalla stanza a cercare tra i mucchi divisi da me e James le settimane passate. Recupero la piccola scatola metallica, ci saranno dentro una cinquantina di chiavi di tutte le fogge.

«È queste da dove spuntano?», mi chiede la vecchia sinceramente sorpresa.

Alzo le spalle, non ho idea di come mai Demetra le abbia conservate: «Le ha trovate suo nipote un pomeriggio. Le abbiamo tenute per capire se potessero servire o meno».

Geltrude prende una chiave, la osserva con attenzione mentre prova a leggere la scritta incisa sopra: «Hotel Praga», dice inforcando gli occhiali. Riflette un attimo, poi scoppia a ridere.

«Che c'è?», le chiedo curiosa.

La signora McArthur ride sempre più forte, ha le lacrime agli occhi.

Anche se non so il perché della sua risata non posso fare a meno di sorridere anch'io. 

«Demetra era una donna molto particolare», mi dice la vecchia mentre si asciuga gli occhi con un fazzolettino, «Ogni volta che abbiamo viaggiato insieme le capitava di perdere le chiavi dei vari Hotel in cui pernottavamo. Ogni viaggio. Ogni Hotel. Pensavo fosse terribilmente distratta, invece lei lo faceva apposta. Le intascava lei».

«Perché faceva così?», chiedo infilando la mano nella scatola piena di chiavi.

«Ribellione. Sfida. Ossessione. Chi lo sa. Di certo si divertiva un mondo a prendere le chiavi. Probabilmente era il suo modo di trasgredire alle regole. La vita con George doveva essere dura per uno spirito libero come lei. Immagina una artista sposata ad un avvocato in ascesa, ambizioso e determinato. Senza contare la sua malattia che le ha impedito di vivere il proprio talento fino in fondo. Stare in un ambiente diverso dal proprio crea scompensi. Un po' come se un pinguino vivesse nel deserto del Sahara».

 

L'immagine rende bene l'idea.

Sorrido al pensiero di Demetra che, con i suoi grandi occhi verdi, inscenava la perdita delle chiavi al concierge d'albergo. Una donna, come lei, che emanava tanta dolcezza non poteva attirare le ire di nessuno. Forse George sapeva, forse no. Non importa, lui la lasciava libera con questi piccoli gesti.

 

«Crescere in un mondo e trovarsi in un altro a volte può essere destabilizzante. Mi ricordo la prima volta che George ha portato a casa Demetra. Io ero determinata a non accettarla, del resto veniva da una famiglia di un ceto sociale inferiore. Volevo che mio figlio si fidanzasse con... Con... Con una ragazza talmente scialba che non mi ricordo neanche più il nome. E pensare che allora credevo fosse quello l'importante... Che stupida... Cosa stavo dicendo cara?», mi chiede Geltrude con aria stralunata.

«Mi stava raccontando di quando Demetra è venuta a casa sua per la prima volta».

«Giusto. Giusto... Mia nuora mi ha fatto una buona prima impressione, era una ragazza molto carina nei modi, a tratti fragile. Garbata e molto attenta alle persone. Quello che mi ha colpito di lei è stata la sua impulsività. Non teneva a freno la lingua e...». 

Interrompo la vecchia: «Demetra impulsiva? Non è possibile, l'ho vista quasi sempre calma e controllata», le dico.

«Cara ragazza, quando si è giovani si è molto diversi. Il tempo e l'esperienza limano gli spigoli del carattere. La vita di Demetra è stata molto, come dire, vivace. Lei è George ne combinavano di tutti i colori. Nel periodo in cui mio figlio studiava a Yale hanno organizz... Ma... Ma lasciamo perdere, non è niente di importante». La Signora McArthur liquida il resto della frase cercando di cambiare discorso.

«Hanno organizzato cosa? Non può interrompersi proprio sul più bello», gli dico curiosa.

«Ti dico solo che due poliziotti li hanno riaccompagnati a casa. Non puoi immaginare la mia faccia quando ho visto George con le manette ai polsi. Allora è stato un incubo, ma se ci ripenso adesso mi viene da ridere». La vecchia sghignazza mentre si risistema gli occhiali sul naso in cerca della chiave per aprire il portagioie verde.

«Non credevo fosse una ragazza così scatenata, mi sembrava più una brava ragazza», le dico pensosa.

«Ma Demetra era una brava ragazza. Il fatto che abbia commesso uno o più errori l'hanno resa quella che era. Tutti sbagliano, cadono e si rialzano. A volte si ricade, ma non si può stare a terra per sempre. Si deve trovare la forza di reagire. Demetra ha trovato il canto lirico e l'amore di mio figlio. Ognuno deve cercare la propria motivazione e continuare la propria vita, quella di tutti i giorni». Geltrude mi guarda fissa negli occhi con un po' troppa insistenza.

 

Sono disorientata, le sue parole sembrano rivolgersi a me.

 Possibile che la vecchia abbia pianificato tutto per dirmi qualcosa?

Non posso credere che possa essere così diabolica da inscenare tutta questa pantomima.

La guardo di traverso con la bocca spalancata, non so se stare al suo gioco o meno.

 

«Parlando ipoteticamente... se Demetra avesse commesso un grande errore che coinvolgesse altre persone, che cosa dovrebbe fare?», le chiedo guardinga.

«L'unica cosa che avrebbe senso. Andare dalla persona di cui più si fida e chiedere un consiglio. Anche un bambino lo saprebbe. Inoltre non dovrebbe fare sceneggiate plateali, tipo smettere di andare a scuola o smettere di uscire di casa. Attirano troppo l'attenzione. In questo caso fingere che tutto vada bene è la soluzione migliore, così da poter cercare di risolvere il grande errore», mi dice a un palmo dal mio naso con una certa durezza.

«Ma se Demetra non riuscisse? Se si sentisse troppo sopraffatta?», insisto.

«Scempiaggini! A tutto c'è una soluzione, sempre. A volte può essere doloroso, ma è inevitabile. La vita è questo e non si può scappare», mi dice rimettendosi seduta composta.

«Ma...», provo a controbattere.

«Niente ma. Se Demetra avesse voluto sconfiggere qualcuno avrebbe lottato, soprattutto se fossero coinvolte altre persone», mi dice mentre legge un foglio appoggiato sul tavolino da caffè.

«Io... Io... È solo che...», balbetto alla vecchia parole a caso. Mi chiedo se sappia qualcosa di quello che mi è successo con Andrew, oppure stia solo tirando a caso. L'unica cosa certa è che sembra capirmi meglio di come credevo.

 

All'improvviso sento un rumore di passi alle mie spalle.

 

«Ciao nonna. Sono tornato», dice James.

Mi si ghiaccia il sangue nelle vene. Com'è possibile che sia a casa, non dovrebbe essere a scuola?

Guardo la vecchia con una certa inquietudine, sempre più convinta che abbia calcolato tutto. Sta sorridendo soddisfatta, come quando affonda il cucchiaino nella sua coppa di gelato. Sbattendo le ciglia allunga le braccia: «Caro nipote, che bello rivederti. Ho una sorpresa per te. Abbiamo un ospite», mi dice indicandomi.

Rigida nella poltrona rossa mi impongo di non dire una parola.

La vecchia sghignazza.

James mi fissa senza espressione.

 

Vorrei sparire.

 

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Capitolo 26
*** IERI: A tu per tu ***


IERI:
A tu per tu



 

Detesto quei silenzi imbarazzanti, quei momenti in cui vorrei essere in un posto diverso, dove gli sguardi dicono più di molte parole. Gli occhi verdi di James sono assenti, il fatto che mi trovi a casa sua non lo turba per niente.

Come se non fossi presente butta lo zaino ai piedi della poltrona di sua nonna, poi bacia la donna sulla guancia. Geltrude lo accarezza con dolcezza mentre con l'altra mano gli toglie un invisibile pelo dalla manica.

«Come va figliolo? Pronto per la visita medica?», chiede la vecchia al nipote.

James annuisce, poi si butta su una poltrona lì vicino addentando una mela. Mi guarda.

Mi sento a disagio, mi sembra di invadere la loro intimità. Faccio per alzarmi, non ha senso che io resti un minuto di più in quella casa.

«Cara ragazza, non credere che la tua punizione sia finita. Visto che manca più di un'ora alla visita cardiologica, tu e James potete lavorare un po'», dice come se fosse la cosa più ovvia al mondo.

 

Visita cardiologica?

James è ammalato?

Sbianco.

Non potrei immaginare uno scenario peggiore.

 

«Muoviti». James si alza di malavoglia, appoggia la mela su un tavolino, mentre mi fa cenno di seguirlo.

Non ho il coraggio di dire nulla, mi limito a sbirciarlo da dietro i capelli che mi ricadono lungo il volto. Senza aspettarmi inizia a spostare uno scatolone ricolmo di argenteria. Sono impietrita, il fatto che abbia una visita al cuore mi spaventa molto.

«Che fai? Hai perso l'uso delle braccia?», mi dice in malo modo.

Corro da lui: «Lascia stare. Ci penso io, non ti affaticare».

James mi guarda in modo strano: «Sono in grado di spostare questo scatolone. Ho solo paura che possa rompersi. Se cadessero per terra potrebbero rovinarsi». James prende in mano un calice d'argento:«Stai attenta tu, piuttosto. Non vedi che in quel punto lo scatolone è strappato?».

Mi fermo di colpo afferrando lo scatolone dall'altro lato: «Tu dimmi cosa devo fare, siediti e rilassati».

«Senti Elena, non so cosa ti prenda, ma non ho novant'anni e non sono ammala...». James smette di parlare, ride di gusto. Ha gli occhi lucidi di lacrime.

«Che c'è?», chiedo indispettita.

«Tu... Tu... Credi che io stia male come mia madre? Hai sentito della visita cardiologica?», mi dice sghignazzando.

Annuisco.

«Sei proprio esagerata. Ti sembra possibile che non sia mai accorto nessuno di un mio eventuale problema? Faccio sport da quando sono bambino, se avessi qualche malattia nessuno della mia famiglia mi permetterebbe di fare attività fisica», James parla come se si trovasse di fronte ad una bimba di cinque anni. 

 

Mi sento così stupida che arrossiscono pure le orecchie.

 

«È una visita di routine. Devo portare un certificato per il mio maestro di tennis. È una stupida visita annuale», dice scuotendo la testa.

«È solo che credevo...», provo a giustificarmi.

«Credi troppe cose e sei convinta che siano l'assoluta verità. Bastava chiedere. È tutto molto più semplice di quello che credi», mi dice mentre riprende a trascinare lo scatolone.

«Scusa», gli dico mentre mi avvicino a lui per spingere l'argenteria fuori dallo sgabuzzino.

 

Per i minuti successivi nessuno di noi dice più nulla. Ci limitiamo a togliere dallo scatolone i vari pezzi per avvolgerli in panni morbidi, per poi suddividerli e metterli in scatole più piccole. Ciotole, vassoi, posate, cornici. Ci sono talmente tante cose che si potrebbe aprire un negozio.

 

«Queste cose sono i regali di Natale dei miei zii. Non hanno molta fantasia, vero?». James alza un piatto con decorazioni a sbalzo: «Perlomeno da quest'anno smetteranno di regalarci queste cianfrusaglie. Erano convinti che a mia madre piacessero parecchio», dice triste.

«Forse le piacevano davvero», dico senza pensare.

James ridacchia: «Ormai era una specie di gara. Ogni anno, a Natale, dovevamo capire cosa c'era nel pacco. Mamma... Mamma indovinava spesso». James finisce la frase cupo si mordicchia il labbro cercando di trattenere le lacrime.

 

Mi sento uno schifo. Oltre a quello che ho combinato con Andrew, le foto e tutto il resto, adesso riesco a far intristire James facendogli ricordare i momenti dolci passati con Demetra.

Complimenti Elena, sei un vero genio.

Idiota, vattene prima di combinare altri guai. 

 

«Io devo andare. Chiedi scusa a tua nonna, ma non posso restare», gli dico mentre infilo la borsa a tracolla. Non riesco a stare un minuto di più con lui, mi sento in colpa per tutto. È come se tutto quello che ho vissuto nell'ultimo anno mi travolgesse, i ricordi mi ricoprono come un fiume in piena. Ho fatto così tanti errori che non so neanche da che parte iniziare a mettere ordine. Le immagini dell'incubo che faccio ogni notte mi si ripresentano come una visione: tutti mi voltanto le spalle, tutti mi evitano, ma è solo colpa mia. Tutto quello che è successo l'ho creato con le mie azioni.

Sono una sciocca, una stupida e capricciosa ragazzina. 

Sono già con un piede sul gradino pronta a scappare, quando la voce di James mi raggiunge. Mi blocco.

«Mi vuoi spiegare perché fai così? Io... Io non lo capisco. Ogni volta che qualcosa non va tu scappi. Come a scuola, è da giorni che non vieni. Rebecca dice che vuoi attirare l'attenzione, ma io credo di no. Non che mi importi molto, ma non puoi affrontare la vita in questo modo. Le spillette che quelle sfigate distribuivano non erano una tua idea. La Marquez le ha punite, tu non centri nulla», mi dice mentre divide delle posate in argento molto antiche.

 

Non mi muovo. Come faccio a spiegare cosa ho combinato con Andrew, come faccio a dirglielo.

 

«Hai sempre fatto così, è come un copione. Tu scappi, scappi dai sentimenti, dalle paure, scappi da tutto. Io ho sbagliato con te, lo so, ma ne pago le conseguenze. Non sono perfetto, ma non si può tornare indietro e fingere che le cose successe non siano mai accadute. La vita va avanti e non saranno i miei errori a frenare la mia vita e i miei sogni. Non lo permetterò mai perché sarebbe uno sbaglio», mi dice.

 

Con la mano stringo la ringhiera della scala. Ho i denti talmente serrati che mi fanno male. In un modo contorto James mi sta chiedendo scusa e questo mi fa male. 

Io ho sbagliato con te, lo so, ma ne pago le conseguenze. 

Mi fa male perché, nonostante sappia che lui ha sbagliato, non ha provato a ricostruire il nostro rapporto. 

Non si può tornare indietro. Non saranno i miei errori a frenare la mia vita. 

Mi fa male perché considera la nostra relazione non così importante. Il Trinity, gli amici, Yale, sono i suoi sogni. Io sono uno scarto, un rifiuto da dimenticare. Una di passaggio. 

Non lo permetterò mai perché sarebbe uno sbaglio.

Ecco sono il suo sbaglio, ciò per cui non vale la pena combattere.

 

Il piccolo sole che scaldava la mia anima si è spento.

Il mio universo è stato risucchiato da un buco nero.

Vuoto e silenzio.

Assenza d'amore.

Non ho speranze con James.

 

«Credo di aver portato solo guai in questa casa, a scuola e con i miei amici. Stamattina, per un attimo ho creduto di poter risolvere qualcosa, ma fidati se ti dico che non c'è via d'uscita», gli rispondo con la testa rivolta verso il basso. 

«Elena, Stai esagerando. Sono solo spillet...», insiste James.

«No. È quello il fatto, fossero quelle inutili, ridicole e patetiche spillette me ne sarei fatta una ragione. Io... Io rovino tutto quello che tocco. La scelta più saggia è stare lontana da tutti voi», urlo. Senza aspettare risposta scendo a due a due i gradini di villa McArthur. Non posso stare un secondo di più lì dentro, sto soffocando. In pochi secondi raggiungo il piano inferiore, appena stringo la maniglia del portone d'ingresso, pronta ad uscire, una forza esterna mi strattona per il braccio sinistro. È James. Me lo ritrovo a un palmo dal mio naso. Il profumo del bagnoschiuma al muschio e l'odore della sua pelle mi avvolgono.

«Che diavolo succede? Di cosa stai parlando?», mi chiede James a denti serrati.

Scuoto la testa piangendo.

«Elena parla. Parla!». James mi scuote leggermente.

«Io... Io...», balbetto confusa.

«Cosa hai fatto? Ti hanno fatto del male? Chi... Chi... Cosa?». Con gli occhi lucidi e la fronte appoggiata alla mia James stringe i miei polsi. Mi fissa come se volesse leggermi i pensieri, come se volesse capire quello che sta succedendo.

 

Le parole scalpitano nel cervello, crollano tutte le difese che ho costruito negli ultimi mesi. Le emozioni, come frecce impazzire, vorticano nella mia anima. Vorrei riuscire a buttare fuori tutto quello che ho dentro, ma dalla mia bocca non esce nessun suono.

Ho paura.

Quando ho paura scappo.

Scappo con la mente.

Scappo con il corpo.

Scappo perché è l'unica cosa che so fare, scappo perché è l'ultima cosa che mia madre mi ha detto prima di morire. Mi ha detto che se qualcosa o qualcuno mi avesse mai fatto del male avrei dovuto andare lontano. Il male non va cercato, ma allontanato. La paura di stare male mi fa scappare, questa è l'unica cosa che so fare.

Guardo James e non parlo.

Scappo dentro me stessa e mi nascondo.

 

«Elena, ti prego. Parla...», mi supplica James. «... Non chiuderti, non farlo di nuovo. Quel giorno, in cui ti ho incolpata della morte di mia madre, ho commesso un terribile errore. Anche quella volta avevi l'espressione che hai adesso, come se nascondessi qualcosa e non me la volessi dire. Mi fa impazzire vedere il vuoto nei tuoi occhi, vedere che costruisci muri tra di noi. Se qualcuno ti ha fatto del male devi dirmelo, io... Io...».

«È tutto così difficile. Non faccio apposta, te lo giuro, ma... Ma non riesco. Non posso», sibilo.

James sbatte un pugno contro il muro. È pieno di rabbia. «Perché mi tieni lontano? Non so cosa debba fare per chiederti scusa. Da amico ti dico che sono uno stupido. Da amico ti dico che sono un bambino. Da amico ti chiedo di dirmi cosa è successo!». Il suo corpo è appoggiato al mio. Posso distinguere il battito del suo cuore attraverso il maglione, sembra un tamburo impazzito. Le mani di James lasciano i miei polsi e cercano le mie mani. L'intreccio di dita è perfetto come allora, mi sento sciogliere al ricordo di tanta perfezione.

 

Un ricordo e nulla più.

James non vuole stare con me, è stato chiaro prima.

Sono un episodio del suo passato, un errore da non ripetere.

Non mi devo illudere.

Non sarò mai più il suo presente.

 

«Non potremmo mai essere amici noi due. Lo sai vero?», gli dico con infinita tristezza. «Ogni volta che ti sto vicina, muoio. Non riuscirei a esserti amica. Tra di noi non può esserci nulla. Abbiamo dato quello che potevamo, come dici tu, mi sono aggrappata al ricordo, ma non basta. Io... Non posso dirti nulla, mi dispiace», gli dico con le lacrime agli occhi.

James urla. Urla per la frustrazione. Si allontana da me di botto lasciandomi vulnerabile e fragile appoggiata alla porta d'ingresso. Con le mani nei capelli cammina avanti e indietro stringendo la mascella: «Non capisco perché non potremmo essere amici? Le tue frasi sono sentenze inoppugnabili, sei il giudice e la giuria. Decidi tutto tu escludendo me e le mie opinioni».

«Ma...», provo a rispondere, ma vengo interrotta.

«Niente ma. È chiaro, non pensi sia degno di conoscere quello che ti turba... Non sono mai stato all'altezza per te, vero? Sono solo uno ricco e viziato figlio di papà», mi dice James con cattiveria, poi si avvicina: «Lo vuoi un consiglio? Se non vuoi parlare con me, trova qualcuno che ti conosca e che ti voglia bene, molto bene. Qualcuno di cui ti possa fidare... Qualcuno che c'è sempre stato. Perché credo che nessuno di quelli che tu chiami amici sia disposto ad ascoltarti. Quello che ti è successo credo sia una cosa più grande di te e conoscendoti, cara Elena, non sei minimamente in grado di affrontarla... Come nulla nella tua vita». James ha spalancato la porta d'ingresso. Significa che devo andarmene da casa sua immediatamente.

 

Senza aggiungere altro esco dalla villa percorrendo a passo spedito il vialetto che porta direttamente al cancello. Non mi guardo indietro, neanche una volta. Le parole di James mi girano in testa, non riesco a smettere di pensarci. Non sono arrabbiata, non sono triste, sono solo svuotata. Ogni volta che discuto con lui le mie più intime emozioni paiono mescolarsi, confondersi e intrecciarsi l'una all'altra formando un gomitolo informe impossibile da sbrogliare. 

Cammino senza fermarmi, macino passi su passi. 

Cammino e penso. Penso e cammino.

Il solo pensiero che James possa scoprire cosa ho combinato con Andrew mi fa star male. Non sono riuscita a dirgli nulla, sono una codarda, mi vergogno di me stessa.

La sola idea che possa odiarmi più di quanto faccia già, mi fa mancare il fiato. Preferisco che mi creda una persona incapace di esprimere le mie emozioni che una traditrice bella e buona, cosa che poi effettivamente sono.

 

Il suono di un clacson mi riporta alla realtà.

Sto attraversando la strada fuori dalle strisce pedonali.

 

Mi ritrovo in un quartiere che non conosco pieno di villette simili una all'altra. Devono essere passati parecchi minuti da quando ho lasciato villa McArthur perché il quartiere è cambiato.

Con il cellulare cerco di capire dove sono, in pochi secondi conosco il nome della via: Magnolia Street. Magnolia, un bellissimo fiore. Tutte le vie della zona hanno nomi simili. Mi guardo intorno indecisa sulla strada da prendere per arrivare prima a casa. Consulto il cellulare poi imbocco la prima strada a sinistra. Percorro un centinaio di metri poi svolto a destra, dovrei trovarmi di fronte ad una chiesa, almeno secondo la mappa. In pochi secondi mi ritrovo davanti una costruzione in pietra grigia. La supero velocemente senza smettere di togliere gli occhi dal telefonino. Faccio pochi passi, poi mi fermo di botto. Mi giro e osservo di sbieco la chiesa in pietra appena superata. Scavo nella memoria: ho già visto quell'edificio. Poi l'illuminazione. Lo studio dove lavora Roger ha supervisionato i lavori di restauro dell'edificio, mi ha portato a visitarla appena arrivata a New Heaven. Mi ricordo che era così fiero del lavoro, era riuscito a recuperare molti dei materiali originali, inoltre è la chiesa dove hanno battezzato Kate.

Kate.

La mia vecchia amica Kate.

L'unica che ha sempre saputo tutto di me, sempre.

Ricontrollo il telefonino.

Magnolia Street, tutte le vie del quartiere hanno nomi di fiori, come l'indirizzo degli Husher: Dahlia Street. 

Sulla mappa mi rendo conto che è a meno di dieci minuti di strada.

 

Le parole di James mi rimbombano nel cervello: Se non vuoi parlare con me, trova qualcuno che ti conosca e che ti voglia bene, molto bene. Qualcuno di cui ti possa fidare... Qualcuno che c'è sempre stato.

Kate.

Kate c'è sempre stata, l'ho allontanata con il mio atteggiamento, con le mie ansie, con l'ossessione per James. L'ho lasciata sola, cosa che lei non avrebbe mai fatto con me.

Inizio a correre sul marciapiede come una matta, devo raggiungerla il prima possibile. 

Taglio per i giardini delle villette per fare prima, salto un paio di cespugli, scavalco una staccionata per ritrovarmi con il fiatone di fronte a casa di Kate.

È mezzogiorno, Kate è a scuola e non sarà a casa prima di stasera.

Mi avvicino al portone d'ingresso sposto il grosso vaso a sinistra. Avvolto nella plastica c'è un mazzo di chiavi. Per una volta sono felice della mania di Hanna di avere tutto sotto controllo. In una manciata di secondi sono dentro casa Husher.

Respiro a pieni polmoni l'odore di pulito, è da molto tempo che non metto piede lì.

Con calma mi siedo sulla scala di fronte all'ingresso, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e con la testa tra le mani inizio a contare i secondi che mi separano dal vedere la mia più cara amica, l'unica che mi conosca da sempre e mi ami nonostante tutto.

Kate, la mia amica perfetta.

 

 

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Capitolo 27
*** IERI: Arte e cibo ***


IERI:
Arte e cibo




«Sì papà, ho avvisato sia Hanna che Roger. Sì, ho pranzato da loro. No, non ti preoccupare ho mangiato abbastanza, sai che Hanna non ha mai il frigorifero vuoto», dico a mio padre mentre addento una mela.

 

Papà non capisce perché mi trovi lì, non capisce che diavolo ci faccia in una casa vuota. Potrei rilassarmi nel nostro appartamento e tornare più tardi, potrei fare un giro in città e aspettare che Hanna e Roger ritornino. Potrei fare molte cose, eppure non ho intenzione di smuovermi.

Povero papà, me lo immagino con le mani nei capelli mentre cerca di trovare la frase giusta, le parole migliori per convincermi a ragionare, eppure, più passa il tempo e più mi intestardisco. Sarà l'età, sarà quello che ho passato, eppure mi ritrovo a diventare sempre più difficile a gestire. A volte mi infastidisco da sola, se potessi mi prenderei a schiaffi.

 

«Ciao papà», gli dico prima di chiudere la telefonata e ritrovarmi immersa nel silenzio surreale della cucina. Il rumore della mela che mastico è l'unico suono presente. Con attenzione ripongo nel lavandino il piatto dove ho mangiato, apro l'acqua ed inizio a lavare. La grande finestra di fronte mi mostra parte del giardino, gli alberi e uno spicchio di cielo grigio. Probabilmente pioverà. Asciugo tutto, poi mi metto a giocherellare con le tende della finestra. Passo il dito tra i ricami, seguo le linee delle cuciture e tiro i piccoli fili che pendono. 

Non ho voglia di guardare la televisione, a quest'ora non c'è nessun programma che mi piace. Gironzolo per il salotto poi vado verso lo studio di Roger. Prendo un volume d'arte che non ho mai sfogliato, sono le fotografie dei coniugi Becher. Le immagini di capannoni industriali, in bianco e nero, simili ma diversi l'uno all'altro, catturano la mia attenzione. Pagina dopo pagina inizio a perdermi tra la ripetizione, la catalogazione e la ricerca dei due fotografi. Non viene ritratta nessuna persona, solo tubi, cisterne, acciaio, silos e legno. Freddezza. È come mi vorrei sentire io, vorrei poter essere capace di saper cosa fare, riuscire a staccarmi da me stessa e, clinicamente, imparare a reagire. Nell'apparente distacco dei fotografi c'è molto amore, la ricerca e lo studio di un soggetto sono la maggiore dimostrazione di attenzione. Forse dovrei fare lo stesso con quello che ho combinato con Andrew. Forse se riuscissi ad avere sangue freddo potrei capire come comportarmi. 

Avere il controllo. 

Io e la razionalità corriamo su binari paralleli, non ci incontreremo mai.

 

Delle gocce di pioggia battono sulla grande vetrata dello studio, il ticchettio mi tiene compagnia.

 

Distesa sul divano continuo a sfogliare altri libri di fotografia. Andreas Gursky. Gabriele Basilico. Diane Arbus. Credo siano di Kate, deve averglieli comprati suo padre. 

Mi piacerebbe avere un grande talento come lei. Me la cavo a dipingere, ma è da quando è morta Demetra che non prendo in mano un pennello. Non che altrimenti sarei diventata una artista, sono solo una discreta esecutrice, nulla più. Copio e basta, sia che siano paesaggi, immagini o fotografie. Mi manca quella cosa in più, la scintilla che mi permetta di trasformare un interesse in ricerca artistica.

Mi sento veramente una incapace. Tutta quella bellezza, racchiusa in poche pagine, ha più senso di molte cose che faccio. Penso continuamente a me stessa, sono così assorbita dalle mie paranoie che non mi rendo neanche conto di quello che mi circonda, mi perdo il meglio che la vita mi offre.

Ripongo i libri d'arte mentre sgranchisco la schiena. La libreria di Roger e Hanna è fornitissima, ci sono molti libri da leggere. Camminando avanti e indietro sfioro le coste dei libri. Adocchio una copertina che conosco bene: Tramonti sul cuore, uno dei libri della mia saga preferita. Sono mesi che non ne leggo una pagina. Per anni ho sperato di poter vivere un amore come quello descritto nel libro e adesso, che ne ho vissuto uno, non faccio altro che boicottarlo comportarmi da ragazzina immatura. E pensare che credevo di essere migliore, ero convinta che non avrei fatto gli stessi errori di quei personaggi fatti di inchiostro e carta. Invece no, sbaglio sempre finendo per cacciarmi in un mare di guai.

 

Il pendolo in salotto rintocca.

Sono le due del pomeriggio.

 

Salgo le scale ed entro nella camera di Kate. Preferisco aspettarla lì. Sono cambiate parecchie cose dall'ultima volta che ci sono entrata, le pareti sono di un color celeste molto chiaro; non ci sono più le foto di noi due appese alla bacheca di sughero, c'è solo qualche volantino stropicciato; i libri di scuola sono impilati in due alte colonne sulla scrivania. Kate ha tolto tutti i peluches dalle mensole, ha fatto spazio per la sua attrezzatura fotografica. Sopra la testata del letto, attaccato al muro, c'è un planisfero con tanti adesivi triangolari appiccicati: Tokyo, Lisbona, Bagdad, Mosca, Bali. Tutte le principali città di ogni nazione sono evidenziate.

Chissà cosa ha in mente? È da così tanto tempo che non parliamo che mi pare di essere nella camera di un'estranea.

Mi siedo sulla vecchia sedia a dondolo in legno ed inizio a cullarmi senza smettere di guardare la mappa appesa di fronte a me. I nomi di tutte quelle città mi frullano per la testa, il ritmico ondeggiare della sedia a dondolo mi culla dolcemente. In pochi minuti mi addormento perdendomi in immagini di posti esotici e metropoli lontane, paesaggi mozzafiato e mari cristallini, vicoli fumosi e monumenti imponenti. Tutti posti meravigliosi e spettacolari. 

Finalmente dormo senza incubi.

Finalmente riposo un po'.

 

«Elena? Elena!». Kate mi sfiora un braccio facendomi sussultare.

Mi guardo intorno confusa per qualche secondo, ci metto un attimo per mettere a fuoco dove sono. L'espressione interrogativa di Kate mi riporta alla realtà. 

«Scusa, devo essermi addormentata», le dico con la voce impastata dal sonno.

«Non c'è problema, non volevo svegliarti così, ma non mi aspettavo una tua visita», mi dice mentre si toglie la giacca della divisa del Trinity.

«Sì, ecco... Ho voluto farti una sorpresa. Volevo sapere come stavi». Non so come affrontare l'argomento Andrew, non è una cosa semplice da spiegare.

Kate mi guarda di sbieco, poi si siede sulla sedia della scrivania: «Tutto normale. Solite cose».

Mi sento a disagio, c'è molta freddezza tra noi. Giocherello con i ciondoli attaccati al bracciale che ho al polso mentre mi guardo in giro:«Ho visto che hai cambiato un bel po' di cose qui dentro», le dico mentre indico le parete e il planisfero.

«Cosucce, niente di che», mi dice neutra.

Stringo le labbra in un finto sorriso e annuisco.

 

Possibile che sia finita così la nostra amicizia?

Osservo Kate svuotare lo zaino e mettere in ordine i quaderni voltandomi le spalle, non mi degna di attenzione. Non è più la dolce amica pronta ad ascoltarmi ed io non sono più la sua più confidente. L'unica persona in grado di aiutarmi non è in grado di farlo, soprattutto per colpa mia. Il mio atteggiamento l'ha allontanata da me.

Con il magone in gola faccio per uscire dalla stanza, è evidente che non siamo più in sintonia. Non faccio drammi, nessuna scenata. Mi defilo con calma dalla porta per trovarmi nel corridoio che porta alle scale.

Prendo un profondo sospiro. Ho la consapevolezza che tutto ciò che è successo è colpa mia. L'incubo che negli ultimi tempi mi perseguita è semplicemente specchio della verità. Ho rovinato pure la bella amicizia che avevo con Kate.

Il pendolo in salotto rintocca. Sono le cinque, è ora che me ne torni a casa.

 

«Dove te ne vai?», la voce di Kate rimbomba per la casa.

«La mia presenza non è gradit...». Mi interrompo appena un dolcetto confezionato, lanciato a tutta velocità, mi sfiora l'orecchio: «Ma sei scema? Potevi colpirmi!», urlo a Kate.

«Forse avrebbe iniziato a farti ragionare stupida oca», ribatte lei.

La faccia mi si infiamma: «Ma che ti prende? Me ne stavo andando, non è quello che volevi?».

Kate si arma di una nuova merendina facendola saltare nel palmo della mano: «Non era quello che volevi?», dice scimmiottandomi.

Furiosa raccolgo la merendina ai miei piedi e la tiro verso Kate che agilmente la evita.

«Ho un rifornimento pieno. Ho a portata di mano una stanza piena di cibo». Kate indica la porta socchiusa alle sue spalle dove Hanna ha la dispensa: «Sono partita con cose morbide, ma se non funziona inizio con i barattoli di sottaceti».

«Sei un genio. Una vera signora. Usi la violenza pe...». Mi abbasso di colpo, un dolcetto sta per colpirmi in fronte. Kate ha una mira strabiliante, non posso restare con le mani in mano. Salgo il più velocemente possibile le scale evitando un paio di colpi. Camminando abbassata mi dirigo verso la dispensa arraffando la prima cosa che mi trovo per le mani, un grosso tubo di ketchup che punto verso Kate.

«Non oserai, vero?». La mia amica mi guarda allarmata.

«Sei tu che hai voluto sfidarmi», le dico con un ghigno mentre uno schizzo rosso la colpisce sulla camicia.

«Vuoi la guerra? Preparati!», mi dice Kate saltandomi addosso e strappandomi di mano il tubo con la salsa. Con il sedere per terra, completamente disarmata, mi ritrovo con la testa piena di Ketchup.

Urlo.

Cerco di ripulirmi come posso, ma il risultato è pessimo, sono una macchia puzzolente e rossa.

«Credo che il troppo studio ti abbia dato di volta il cervello», dico a Kate mentre inzacchero con le mani sporche il suo volto.

«Credo che il troppo vantarti ti abbia cancellato quelle tre cose che sapevi», mi dice mentre mi spiaccica un dolcetto sulla spalla.

 

Briciole.

Poltiglia.

Salsa.

Scivolare.

Appiccicare.

Lanciare.

 

La lotta degenera in poco tempo, farina, cereali e marshmallow sono sul pavimento e appiccicati addosso a noi. Sembra che abbiamo fatto un bagno nella spazzatura. 

La rabbia iniziale è svanita, io e Kate stiamo ridendo come due pazze mentre ci lanciamo cibo e ci sporchiamo a vicenda. Era da tempo che non mi divertivo così. 

 

Kate afferra due marshmallow e li inzuppa nel ketchup, me ne allunga uno:«Mangia», mi dice mentre addenta il suo con gusto.

«Sai che sarà disgustoso, vero?», le dico mentre guardo poco convinta quello strano abbinamento.

«Il ketchup rende buono tutto. Dai, mangia».

Infilo in bocca la caramella ricoperta di salsa sperando non abbia un sapore troppo sgradevole, ma mi sbaglio. Fa schifo.

«Come fai a dire che è buono? Hai un pessimo palato... Ti ricordi quella volta al mare in Italia quando hai messo il ketchup sulla pasta e vongole? Il cameriere è sbiancato. Credo che nessuno avesse mai avuto l'ardire di fare una cosa del genere», le dico sghignazzando.

«Prima di tutto avrò avuto sette o otto anni, ero piccola. Secondo, le vongole non mi sono mai piaciute», dice Kate facendomi una linguaccia. 

Ci guardiamo per pochi secondi poi scoppiamo a ridere, come abbiamo sempre fatto da quando ci conosciamo.

 

Cavolo, quanto mi è mancato tutto questo.

Quanto mi è mancata Kate.

 

Le risate finiscono presto, le ansie degli ultimi giorni affiorano nella mente. Il sorriso mi si spegne sulle labbra, mi affloscio come un sacco di patate vuoto. Prendo una manciata di cereali e inizio a sbriciolarli cercando di pensare ad altro. Kate disegna dei ghirigori con la salsa sul pavimento evitando il mio sguardo. L'atmosfera è cambiata, sembra sia tornato il gelo tra di noi.

«Che cavolo succede Elena? Perché non vieni più a scuola?», mi chiede a bassa voce.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime, mi vergogno talmente tanto delle mie azioni che non so da che parte iniziare: «È tutto molto complicato».

«Sono brava ad ascoltare, forse posso aiutarti».

«Vorrei fosse una di quei disastri che facevamo da piccole, come rubare i biscotti di Hanna o togliere le stringhe dalle scarpe di mamma. Questa volta l'ho combinata grossa», le dico asciugandomi le lacrime con il dorso della mano.

«Suvvia, non esagerare. Nell'ultimo periodo sei diventata così... Così...».

La interrompo:«Melodrammatica? Esagerata? Forse hai ragione, non sei la prima a dirmelo, però credimi se ti dico che non c'è soluzione».

«Quelle sceme dei fan club hanno fatto volontariato in un ricovero per anziani. La Marquez non ti incolpa per le spillette», mi dice Kate prendendomi per una spalla e accennando un sorriso.

«Loro non c'entrano. C'è di peggio».

«Cosa può esserci di peggio di una punizione della Marquez e umiliazione al Trinity?». Kate ridacchia cercando di alleggerire la situazione.

I miei occhi cercano quelli di Kate.

Kate smorza il sorriso e mi guarda preoccupata. 

Con tutto il coraggio che possiedo dico quello che per giorni ho provato a trattenere, scoperchio il vaso di Pandora, pronuncio il nome della persona che ha iniziato tutto:«Di peggio c'è Andrew. Andrew Cossé-Brissac».

Kate è con la bocca spalancata:«A-Andrew? Quell'Andrew che James e gli altri ci hanno descritto come uno capace di tutto? Uno che manipola, complotta e combina guai peggio di Rebecca?.

Annuisco.

«Cosa? Quando? Perché?». Kate sembra una mitraglietta.

Sto per risponderle quando un urlo proviene dalle nostre spalle.

 

Hanna è tornata a casa, è in piedi a pochi metri da noi con le mani nei capelli.

 

Per qualche secondo mi guardo intorno rendendomi conto del disastro che abbiamo combinato, Kate ed io, con tutto quel cibo. Le urla di Hanna potrebbero udirsi a chilometri di distanza.

Kate pare non sentirle. Le mani hanno iniziato a tremarle come mai prima. Non smette un attimo di fissarmi:«E-Elena sei nei guai?», mi chiede con un filo di voce.

«Tutto il Trinity è nei guai. Kate, ho combinato un casino».

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Capitolo 28
*** IERI: Non perdere di vista l'obbiettivo ***


IERI:
Non perdere di vista l'obbiettivo




Novembre è arrivato presto. L'autunno pare più grigio e freddo quest'anno. Sarà che mi sento uno schifo, sarà che le cose non vanno mai nel verso giusto, sta di fatto che anche il solo alzarmi dal letto è diventata una fatica. Guardare fuori dalla finestra è uno strazio: cemento, automobili e pioggia. Litri e litri di acqua che non ho idea da dove provengano, a volte mi sembra di vivere in un acquario.

 

La mia vita sociale è uno schifo. Da quando ho deciso di tornare a scuola, sotto consiglio di Kate, le cose sono andate sempre peggio. La Marquez mi ha imposto di recuperare il programma scolastico durante le vacanze di Natale, se non voglio essere bocciata. Tre quarti degli studenti della scuola mi odia, sono convinti che abbia organizzato io quella cosa delle spillette. Tutte le scuse del mondo non servirebbero, al Trinity per far dimenticare una vigliaccata del genere servirebbe un miracolo. Oltre a questo c'è Rebecca che si diverte a parlare male di me, i pettegolezzi si sprecano. L'unica cosa che posso fare è cercare di mantenere un profilo basso e sperare che il tempo scorra più velocemente possibile. Mancano solo sette mesi al diploma. Purtroppo però il tempo sembra andare alla rovescia. Le ore paiono giorni, i minuti ore e i secondi sembrano infiniti, soprattutto se i miei cosiddetti amici Jo e Stephanie mi rivolgono a malapena la parola. 

 

«Se spieghi loro cosa è successo vedrai che capiranno. Tenere la bocca chiusa ti ha portato solo guai. Inoltre, tu ed io, possiamo fare ben poco contro Andrew», mi dice Kate mentre sale i gradini della scuola. Un gruppo di studentesse del secondo anno mi passa vicino e volontariamente mi sbattono a turno sulla spalla. Barcollo.

«Anche oggi sarà una giornata schifosa, vero?», dico mogia.

«Devi aspettare che le acque si calmino, sai come funziona qui», mi dice Kate prendendomi a braccetto.

Grugnisco qualcosa mentre mi dirigo verso il mio armadietto.

Kate rincara la dose: «S è rimasta turbata dal tuo comportamento. Credo che se le dicessi cosa ha fatto Andr...».

La blocco per l'ennesima volta:«No. Non voglio che né Stephanie e né Jo si impiccino. Se lo sapessero farebbero di tutto per aiutarmi. Cosa succederebbe se le cose andassero male? La carriera scolastica di Jo potrebbe essere compromessa e la famiglia di Stephanie umiliata. Senza contare Rebecca, James e il Trinity. Andrew è capace di tutto, farebbe loro del male».

«Ma Elena, non puoi tenere la bocca chiusa. Qualcosa deve essere fatto». Kate mi guarda preoccupata, dopo che ha saputo della festa al Masques, delle bugie raccontate a mio padre e dei complotti al Trinity, ha paura possa rifare cose del genere. Non lo dice, ma lo so. Teme che possa fare una delle mie solite stupidate.

«Infatti, devo fare l'unica cosa che ha senso. Devo lasciare il Club di Dibattito, in questo modo non posso boicottare la gara contro quelli del Saint Jude. Andrew non mi può obbligare a fare nulla se non sono nella squadra. No?».

Kate è dubbiosa:«Non credo serva a molto, ma...».

«...Ma sono io che ho combinato questo casino ed io devo rimediare», le dico mentre chiudo con forza il mio armadietto.

 

Driin.

La campanella suona.

È una nuova schifosa giornata al Trinity.

 

Pioggia. Fuori c'è solo pioggia.

Il professor Martin sta facendo una lezione su Cicerone, sull'oratoria e sulla storia di questa nobile disciplina. Non ho ascoltato nulla e non ho preso appunti. Continuo a muovere la gamba nervosamente su e giù. Il mio sguardo è fisso fuori dalla finestra a scrutare il parco scolastico inondato dagli scrosci d'acqua che cadono dal cielo. Mi sento a disagio a stare nella stessa stanza con James e Rebecca dopo quello che gli ho fatto al Masques e la brutta litigata fatta a casa McArthur. Devo ignorare il mio istinto, lo stesso che mi ha messo nei guai. Devo restare lucida e fare in modo di non dimenticare il mio obbiettivo: lasciare il Club.

 

«Elena è più interessante il panorama della mia lezione?», mi chiede Nik appoggiato alla cattedra con le braccia incrociate sul petto.

«Hmm...». Sono rossa per l'imbarazzo. Alzo le spalle annoiata.

«Ti informo che c'è una lunga fila di studenti pronti a prendere il tuo posto. Se continui in questo modo non esiterò a liberare quella sedia». Nik è duro. 

Da quando sono tornata a scuola non ho fatto altro che evitarlo, ha provato più volte a parlarmi, ma sono riuscita sempre a defilarmi. Nik è l'ostacolo più grande, non posso farmi distrarre dal mio piano. Devo starle lontana da lui, non potrei sopportare a lungo il suo sguardo, è capace di leggermi dentro con troppa facilità. 

 

Elena non incrociare i suoi occhi.

Abbassa la testa, ignoralo.

Non pensare a quanto lo deluderai.

Il Trinity è più importante.

La reputazione di James e Rebecca non può essere compromessa.

 

«Mi scusi professore. Stavo pensando giusto a questo... Questo corso non fa per me. Vede? Non ho preso appunti, non l'ho ascoltata. Insomma, quello che sta dicendo non mi interessa», dico con la mia solita faccia da schiaffi, quella che mi ha aiutata più volte.

Tutti i miei compagni di classe mi guardano con la bocca spalancata. In tanti anni nessuno aveva mai detto o fatto una cosa del genere. La ragazza seduta vicino a me si allontana platealmente come se avessi una malattia contagiosa e potessi infettarla. Jo mi guarda scuotendo la testa. È turbato.

«Cosa?». La faccia di Nik è un fascio di nervi, la mascella tesa e le rughe sulla fronte non promettono nulla di buono, lo sto facendo infuriare.

«Io non credo di essere portata per Dibattito. Il fatto che lei mi abbia reputata idonea non significa che io lo sia. Deve ammettere che la propensione per una materia e il piacere con cui essa viene studiata deve essere in egual misura. In questo caso non ho interesse per la sua lezione e nemmeno per Dibattito in generale. Quindi non vedo perché dovrei frequentare un Club che non mi da nulla, non mi da piacere e mi annoia». Sorrido cercando di trattenere un tremore che mi scuote tutto il corpo. È come se avessi buttato una badilata di letame in pieno volto a Nik.

«Elena!», dice James d'impeto.

Rebecca mi guarda schifata.

«Credo che abbia bisogno di una boccata d'aria Signorina Voli. Subito!», mi dice Nik sbattendo il pugno sul mio banco. Di scatto mi alzo uscendo dalla porta dell'aula come se nulla fosse. 

 

Mi viene da vomitare.

 

Mi rintano sotto il tettuccio dell'uscita posteriore dell'edificio scolastico. L'ultima volta che sono stata lì Miss Scarlett stava caricando la macchina per andarsene dal Trinity. Quel giorno avevo James al mio fianco, ora sono sola come un cane.

Mi stringo il bavero della giacca, una folata di vento umido spira nella mia direzione. Provo a rintanarmi in un angolo, appoggio la testa contro la parete a mattoni dell'edificio ripensando a tutto quello che ho combinato nelle ultime settimane. La litigata con James. La punizione della Marquez. Lo sgabuzzino della McArthur. Andrew. La lontananza di Kate. Le bugie. I sotterfugi. Le foto. L'alcool. La paura. Gli incubi. Una sequenza di scemenze che non dimenticherò facilmente.

 

«Dimmi che soffri di qualche malattia che ti fa rimbecillire oppure che gli alieni ti hanno rapita e sostituito il cervello, perché nell'ultimo periodo non sembri più la ragazza che conosco». Nik è al mio fianco, sta fissando un punto indefinito lontano.

«No, sono sempre io. Solo che ho capito che non voglio più seguire il Club», provo a dirgli senza espressione.

«Rinuncio a lavorare a tempo pieno a Boston, rinuncio ad un anno della mia carriera per seguire te e i tuoi compagni, e tu te ne esci con le fasi che hai detto prima?», mi dice con rabbia.

«Adesso cerchi di farmi venire i sensi di colpa? Non ti ha chiesto nessuno di rinunciare allo studio legale, è stata una tua scelta. Come è una mia scelta lasciare il Club, tu non centri nulla. Sei fantastico come sempre, sono io che non voglio più far parte del gruppo».

«C'entra per caso James? Ti ho detto mille volte di lasciarlo stare. È un McArthur e come suo padre non dimentica, mai. Non è certo un tipo che cambia idea. Non tornerà mai con te», mi dice senza peli sulla lingua.

«Io... Io so che James non mi ama. So anche che mi considera un'amica e nulla più. Lui non c'entra nulla. Sono io, punto e basta», gli dico scocciata. Non voglio che creda che faccia tutto questo per uno stupido capriccio amoroso.

«Mi fai imbestialire. Quando sembra che le cose stiano andando bene ecco che spunta un dramma, un problema. Non riesci a stare tranquilla? Possibile che debba essere tutto complicato per te?».

«Che ti importa di quello che faccio? Non ti chiedo mai di aiutarmi e...». Provo a dire, ma vengo interrotta.

«No, non chiedi mai nulla, ma alla fine risolvo i tuoi problemi. Sempre». Nik ha l'aria scocciata, come se stesse parlando ad una bimba piccola che fa i capricci. 

«Scusa se ho rubato il tuo tempo. Scusa se ho avuto bisogno di te. Scusa se ti ho infastidito. Scusa se ci siamo conosciuti. Scusa per tutto. D'ora in poi non sarò più un tuo problema. Meglio, no? Così avrai più tempo per te stesso e non avrai più una zanzara fastidiosa di nome Elena a ronzarti attorno. Ti ripeto: lascio Dibattito perché non mi interessa. Fine della questione».

«Sai benissimo che non intendevo quello che hai detto tu. Smettila di fare così. Torna subito in classe». Nik è a un palmo dal mio naso, posso leggere la rabbia nei suoi occhi azzurri.

«No, nemmeno sotto tortura», rispondo decisa.

Nik tentenna un attimo, poi si arrende. Deluso, amareggiato, triste e svuotato di ogni energia non aggiunge altro se non una frase secca e lapidaria:«Trovi i moduli in segreteria. Prima li compili e prima potrai lasciare il Club». Poi se ne va disgustato.

 

Un vento gelido avvolge il mio cuore.

La pioggia bagna le mie scarpe.

 

Passo diversi minuti immobile, guardo fissa il vuoto. 

Stare senza Nik sarà dura, ma non posso fare diversamente. In questo modo Andrew non potrà più obbligarmi a boicottare la gara di fine anno. In questo modo Nik potrà guidare una squadra vincente. Ho fatto la cosa giusta, anche se fa male, molto male.

Fa freddo. Tremo.

Il brusio degli studenti che escono dalle aule si sente anche attraverso la porta chiusa, la pioggia si è attenuata leggermente. Le lezioni pomeridiane sono finite. Mi faccio forza e, umida d'acqua, percorro il corridoio cercando di mescolarmi al flusso. Ci impiego pochi minuti, nessuno mi nota. La porta a vetro smerigliato cigola quando la apro, la scritta a caratteri dorati è leggermente scrostata. Segreteria.

 

«Vorrei i moduli per uscire da un Club?», chiedo a una signora grassa che sta mangiando un donut intriso di glassa.

«Certo. A che anno sei e da quale Club vuoi uscire?», mi chiede mentre si lecca dalle dita piccole briciole appiccicaticce. 

«Sono una diplomanda e vorrei uscire dal gruppo A di Dibattito». 

La signora grassa ride. Ride di gusto, posso vedere la sua gola e la bocca sporca di glassa spalancarsi davanti al mio volto: «È uno scherzo vero? Nessuno ha mai lasciato Dibattito all'ultimo anno».

«Evidentemente sarò la prima», le rispondo scocciata.

La gioia della donna si trasforma in sconcerto: «Certo. Certo. Devo solo trovare i moduli», mi dice mentre cerca il documento in un cassetto dell'archivio.

Tamburello con le dita sulla piana di legno. La gamba non smette di muoversi, sono molto nervosa.

«Ecco, devi compilare qui e qui», la donna grassa mi indica delle zone su un foglio.

Senza un minimo di esitazione riempio gli spazi vuoti e firmo: «Tutto qui?», chiedo.

«Sì. Consegneremo al professor Martin questo foglio. Con la firma della Marquez sarà tutto ufficializzato. Tra una settimana circa sarà effettiva la tua uscita dal Club», mi dice cercando di sorridere.

«Bene, grazie», le dico, poi mi dirigo verso la porta d'uscita.

«Hem... Scusa. Non vorrei insistere, ma sei sicura che...», mi chiede la donna timidamente con il foglio tra le dita.

«Sì. Sicurissima», dico lapidaria.

 

La maniglia d'ottone scatta nella mia mano, una fredda corrente mi colpisce. Un brivido percorre tutto il mio corpo.

Sento freddo, un freddo che nemmeno la coperta più calda e il sole più luminoso possono scaldare. Per salvare il Trinity devo sacrificare ciò a cui tengo. Non ho alternativa.

 

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Capitolo 29
*** IERI: Ombre ***


IERI:
Ombre





Il parco Franklin è vuoto. Non c'è nessuno a parte qualche temerario che fa jogging tra la nebbia cercando di evitare le pozzanghere. Stretta nel mio piumino mi guardo intorno circospetta, gironzolare di primissima mattina in questo parco semi deserto non è certo una buona idea, soprattutto se l'ultima volta che sono stata qui ero in compagnia di Andrew. Questo posto non mi piace per niente.

Guardo il telefonino, Kate è in ritardo di dieci minuti buoni. Non è da lei. Vuole fare più fotografie possibili da presentare all'Accademia di fotografia di New York. Desidera così tanto andarci che ogni suo momento libero lo passa con Stephanie o Jo a scattare foto. Nessuno dei due ha voluto accompagnarla, svegliarsi prima che sorga il sole non è proprio il massimo, soprattutto di domenica. Il mio compito questa mattina è tenere l'attrezzatura a Kate e aiutarla a prendere note o appunti sulle immagini scattate. Uno strazio, ma non potevo tirarmi indietro visto come l'ho trattata nell'ultimo periodo.

 

Sobbalzo. 

L'abbaiare lontano e improvviso di alcuni cani mi spaventa. C'è un tale silenzio che mi pare di stare in un film dell'orrore, ogni rumore è amplificato. Nebbia grigia e sinistri ululati non portano mai nulla di buono, come ad esempio licantropi assetati di sangue. O perlomeno, nei film succede sempre qualcosa del genere, un mostro irrompe e aggredisce la povera donzella indifesa. Nella mia vita invece sono io che creo i guai, guai belli grossi. Se almeno avessi avuto dei licantropi mostruosi pronti ad attaccarmi avrei potuto farli secchi con una pallottola d'argento. I casini che ho creato purtroppo non si risolvono tanto facilmente.

Un fruscio di rami alle mie spalle mi spaventa, un cespuglio si muove leggermente. Rumore di rametti spezzati. Il cuore inizia a battermi forte. Mi allontano dalla fontana al centro del parco cercando una zona più frequentata, ma non c'è nessuno a cui avvicinarmi. Me la sto facendo addosso. 

 

Elena, sii ragionevole.

Ululati. 

È solo qualche cane che ha voglia di fare la passeggiata.

Fruscii.

Uno scoiattolo starà cercando qualche bacca.

Cespugli che si muovono.

Qualche animale cercherà rifugio.

 

Nonostante razionalmente sappia che non c'è nulla di strano, ho una strana sensazione. Mi sento osservata e braccata. Non riesco a stare ferma. Fa freddo. I raggi del sole, appena sorto, faticano ad oltrepassare le dense nuvole e la nebbia che striscia lenta radente al terreno. Preferisco muovermi piuttosto che stare ferma. Con il telefonino stretto in mano inizio a percorrere il selciato che circonda il parco, mentre cerco di trattenere il respiro che sta diventando sempre più affannato. 

Panico e paura. 

Raramente mi sono sentita così. 

Improvvisamente scorgo un'ombra dietro ad un albero, ma subito sparisce. Non so quello che ho visto, non mi interessa approfondire, non mi importa se è frutto della mia immaginazione o meno. Corro a perdifiato sotto ad un lampione che sfarfalla, sta per spegnersi. Mi sento più sicura lì sotto, anche se so che la luce ben presto svanirà, visto che ormai è l'alba.

 

Elena calmati, va tutto bene.

Sono solo i rumori della natura.

 

Mi guardo intorno nervosa. Spero con tutto il cuore di scorgere Kate da qualche parte, ma di lei non c'è traccia. Muovendo ritmicamente il piede provo a canticchiare una canzoncina che mia mamma mi cantava sempre da piccola. Ad ogni scricchiolio aumento il tono della voce sperando di spaventare eventuali animali e cercando di darmi maggior coraggio. Purtroppo però la paura non accenna ad andarsene. 

Alle mie spalle un grosso cespuglio ondeggia in maniera evidente. Mi pare di scorgere, tra la nebbia, il profilo di una testa. Almeno credo, non sono sicura.

«Kate?», chiedo ad alta voce, «Kate, sei tu?».

Il cespuglio smette di ondeggiare.

«Kate?», provo a richiedere.

Nessuno risponde, il cespuglio non si muove più.

Sempre appiccicata al lampione provo ad affacciarmi per capire se si tratta della mia amica intenta a fare foto. Il rumore della ghiaia spostata dalle mie scarpe fa eco nel parco. Mi allungo, ma non vedo nulla. Il cuore batte all'impazzata, vorrei andare a vedere se c'è qualcuno lì dietro, oppure se mi sono immaginata tutto, ma non riesco a lasciare la presa intorno al lampione, ho troppa paura. Un scricchiolio di foglie calpestate risuona poco lontano.

 

Merda, c'è qualcuno.

Quel qualcuno non si vuole far vedere da me.

 

Indietreggio spaventata fino ad una grossa quercia. Sbatto la schiena contro il tronco senza smettere di guardarmi intorno. Sopra di me un frullio di ali, un uccello scappa dalle fronde dell'albero volando davanti al mio volto. Urlo. Mi accascio e cammino a carponi nell'erba umida ansimando come una pazza. Prova a rialzarmi, ma uno scoiattolo mi taglia la strada correndo sul prato. Spavento. Salto all'indietro finendo con il sedere per terra. Arretrò scomposta finendo con ingarbugliare un piede in un cespuglio. Sono in trappola.

Il panico è a livelli massimi.

 

Drinn.

Drinn.

Squilla il cellulare.

 

Senza un minimo di esitazione rispondo:«Kate, dove diavolo sei finita?», chiedo acida.

Un rumore di musica da discoteca risuona nell'apparecchio:«Dolcezza, non confondermi. Ho così tanto alcool in corpo che non ho voglia di perdere tempo con le tue lagne. Stai zitta e fammi parlare».

È Andrew. Non lo sento da giorni, più precisamente da quando ho saputo che mi ha usata per incastrare James, Rebecca e per boicottare la gara di Dibattito.

«Che vuoi?», gli dico secca dimenticandomi di essere con il sedere per terra tra l'erba umida di rugiada.

«Ho saputo che hai lasciato il Club di Dibattito. Mi spieghi come farai a boicottare la gara?». La voce strascicata di Andrew è disgustosa, ho un nervoso che neanche so spiegare.

«Essendo fuori dal Club non posso fare più nulla e quindi...». Vengo interrotta.

«... E quindi ti sarà più difficile rovinare i tuoi ex compagni di Club. Pessima mossa dolcezza. Credevi che bastasse una cosa così semplice per dissuadermi da fare quello che ti ho detto?», mi dice ridendo Andrew.

«Sei un essere schifoso, un mostro. Non posso far nulla di quello che mi chiedi, capito?», urlo così forte nel telefonino che un piccolo stormo di uccelli si allontana spaventato dall'albero alle mie spalle.

«Puoi far molto dolcezza, devi solo volerlo. Sappi che ti tengo d'occhio. Ho informatori che mi dicono tutto quello che fai, non credere di essere al sicuro. Hai sempre qualcuno che spia le tue mosse e ti tiene sotto controllo. Sei mia finché io lo voglio». La musica di sottofondo copre leggermente la voce di Andrew.

«Non posso farlo, lo capisci?», dico disperata.

«È semplice, devi scegliere: salvi te stessa o il Trinity?», mi dice ridacchiando.

 

Chiudo la chiamata, non ho voglia di rispondere alla sua stupida provocazione.

 

Con il piede intrecciato in un cespuglio, il sedere umido di rugiada, infreddolita e furiosa, lancio un urlo carico di rabbia. Il suono riecheggia per il parco vuoto donandogli un'aria ancora più sinistra. Non mi importa se ci sono licantropi, mostri, spie di Andrew, a pedinarmi o altro, in questo momento sarei capace di prendere a cazzotti un esercito intero, potrei sollevare un'automobile e scaraventarla a cento metri. Ho una tale rabbia che spaccherei tutto. Quel vigliacco di Andrew mi tiene in pugno e qualsiasi cosa io faccia per allontanarmi dal Club è del tutto inutile. Mi sento così inutile e patetica. 

Con uno strattone tolgo il piede incastrato, sono stanca di avere paura, di essere usata da tutti. Non ne posso più.

 

Poco lontano da me, dietro un cespuglio, sento dei rumori di passi.

È la goccia che fa traboccare il vaso.

Non voglio più avere paura di nulla.

Non voglio essere schiava di ricordi o sentimenti andati.

Non voglio farmi mettere i piedi in testa da nessuno.

 

Decisa mi lancio verso il cespuglio, voglio vedere la faccia di quell'idiota che si diverte a spiarmi e spaventarmi. Con i pugni chiusi passo tra gli alberi pronta a sferrare un pugno, se necessario. La vegetazione è abbastanza fitta, ma non troppo. Riesco a superare i cespugli con facilità. Con gli occhi ben aperti mi guardo intorno, non voglio farmelo sfuggire.

Intravedo tra le foglie una sagoma umana vestita di nero:«Chi sei? Cosa vuoi? Non sono dell'umore adatto, quindi fatti vedere in faccia», urlo.

Lo sconosciuto non risponde, corre lontano da me prendendo la strada selciata che porta al lato est del parco. Senza un minimo di esitazione lo inseguo. Voglio proprio capire di chi si tratta, anche se credo di aver capito. Andrew mi ha detto che tutte le mie mosse sono controllate, spiate. Potrebbe obbligare uno del Saint Jude a pedinarmi il fine settimana o quando esco, oppure potrebbe pagare qualcuno del Masques per seguirmi. Di chiunque si tratti, è sicuramente un codardo senza spina dorsale che non ha il fegato di affrontarmi, adesso che è stato beccato.

Provo ad accelerare, ci sono diversi metri che mi distanziano dallo sconosciuto, con un piccolo sforzo potrei raggiungerlo. Corro senza pensare. Corro tra la nebbia che striscia silenziosa, faccio lo slalom tra gli alberi e salto sulle panchine lungo il viale. Non voglio fermarmi, non adesso.

Lo sconosciuto, vestito completamente di nero con una cuffia di lana in testa, cerca di seminarmi, ma senza successo. Più volte si gira per guardare se lo sto inseguendo. Provo a cogliere qualche particolare, ma purtroppo non riesco a vedere il suo volto, c'è troppa poca luce.

 

«Fermati!», grido, anche se con il fiatone la voce arriva più fioca di quanto voglia.

Non ottengo risposta.

 

Lo sconosciuto vira improvvisamente verso sinistra verso l'anfiteatro di pietra situato all'entrata est del parco. Appena raggiunta la struttura, con lunghi salti balza da un gradino all'altro con una certa agilità. Io invece a fatica riesco a rimanere in equilibrio, con gli stivali che indosso il rischio di cadute è molto alto. 

Sulla parte destra del palco dell'anfiteatro c'è una piccola porta in metallo, lo sconosciuto la apre per poi sbatterla alle sue spalle. È sparito.

 

Il canglore metallico risuona per lunghi secondi.

Non so che fare.

Seguirlo o andarmene?

E se fosse un piano di Andrew per farmi entrare lì dentro?

Devo decidere in fretta che fare, non posso passare troppo tempo a pensare.

Decido di seguire il mio istinto, corro verso la piccola porta di metallo ed entro.

 

Buio.

Umidità.

 

Sono in un corridoio stretto, con le mani posso toccare entrambe le pareti. Oltre al suono del mio respiro accelerato, sento il rumore di passi dello sconosciuto. Non è molto lontano da me, con quell'oscurità non può essere andato troppo lontano.

Inizio a camminare cercando di mantenere l'equilibrio. Con le mani striscio sulle pareti, in questo modo il rischio di cadute è più basso. Dopo pochissimi secondi sbatto la mano contro una specie di scatola attaccata al muro: è un pulsante. Senza pensare lo schiaccio. Una luce al neon si accende sul soffitto illuminando per intero il corridoio. Adesso che vedo dove metto i piedi posso raggiungere lo sconosciuto più facilmente.

Riprendo a correre, dopo pochi metri il pavimento inizia a inclinarsi verso il basso. È una piccola pendenza. 

Lo sconosciuto è a meno di cinque metri da me.

«Fermati!», gli urlo.

Senza darmi risposta vedo quell'individuo aprire una vecchia porta cigolante e sbattermela in faccia.

Magazzino, dice la scritta applicata.

 

Entro.

 

Scatoloni.

Cianfrusaglie.

Manichini.

Polvere.

Costumi.

Umidità.

Piccole scenografie.

Rotoli di stoffa.

 

La stanza è abbastanza grande, delle piccole bocche di lupo vicino al soffitto fanno entrare un po' d'aria fresca. Mi muovo con cautela alla ricerca dello sconosciuto che pare essersi volatilizzato. Vicino ai miei piedi trovo un vecchio ombrello di scena impolverato. È abbastanza robusto, lo brandisco come se avessi in mano una mazza da baseball. Mi aggiro per la stanza, sembra un comunissimo vecchio magazzino di un teatro. L'unica cosa che stona è una grossa tenda di velluto verde che occlude parte della visuale, è attaccata al soffitto da grossi anelli e scorre su un binario. Una fioca luce proviene da lì sotto. Mi avvicino con calma cercando a tastoni di aprirmi un varco. Lo trovo. Infilo il volto per vedere cosa è nascosto dalla tenda: diverse sedie sono disposte a cerchio, lo sconosciuto è nel mezzo dello spazio con le mani sulle ginocchia, respira velocemente per riprendere fiato.

«Chi sei? Perché mi spiavi?», gli chiedo mentre mi avvicino tenendo ben saldo l'ombrello.

Lo sconosciuto trattiene per pochi secondi il fiato, poi si gira.

I miei occhi incontrano i suoi.

Sono inconfondibili.

Sussulto.

Il rumore di una chiave girata nella serratura risuona nella stanza.

Lo sconosciute sorride e alza le spalle divertito.

Sbianco.

Merda, sono in trappola.

 

... Continua nel prossimo capitolo ...

 

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Capitolo 30
*** IERI: Ostaggio ***


IERI:
Ostaggio





... Leggete il capitolo precedente OMBRE, continuo quel momento...

 

... «Chi sei? Perché mi spiavi?», gli chiedo mentre mi avvicino tenendo ben saldo l'ombrello.

Lo sconosciuto trattiene per pochi secondi il fiato, poi si gira.

I miei occhi incontrano i suoi.

Sono inconfondibili.

Sussulto.

Il rumore di una chiave girata nella serratura risuona nella stanza.

Lo sconosciuto sorride e alza le spalle divertito.

Sbianco.

Merda, sono in trappola.

 

 

 

Dicono che quando si viva un evento traumatico molto spesso si resti senza parole. Ho la bocca asciutta, un po' per la corsa, un po' perché credo di aver ingoiato tutta la saliva che possiedo. L'ombrello di scena mi è scivolato dalle mani da diversi secondi. Fisso il ragazzo davanti a me e non proferisco parola.

Mi sento, svuotata. 

Neanche nelle mie più ardite fantasie avrei mai pensato che qualcuno del Trinity potesse far comunella con Andrew per intrappolarmi lì sotto. Nonostante le cattiverie vissute, nonostante gli sgarbi che ci siamo fatti non credevo potesse farmi questo. Lucas, non può essere lui. I suoi occhi castani, i lineamenti duri e lo sguardo fiero sono inconfondibili. Sono stata tradita da un mio compagno di classe.

 

«Corri veloce. Dovresti iscriverti ad atletica. Al Trinity c'è una buona squadra», mi dice mentre si toglie la cuffia di lana dalla testa come se nulla fosse.

Sono immobile.

«Vuoi un po' d'acqua? Dovresti bere, dopo una faticata del genere è importante », mi dice Lucas aprendo una bottiglietta e bevendo avidamente il contenuto.

Non dico nulla.

«Accomodati Elena, siediti dove più ti piace. Tra poco arriveranno gli altri?».

 

Altri?

Quali altri?

Sta per caso arrivando Andrew con qualche gorilla del Masques?

No. Questo no. Non lo posso tollerare. Anche se sono bloccata lì sotto non ho la minima intenzione di farmi fare del male da nessuno, soprattutto da un vigliacco come lui.

 

«Sei un bastardo. Tu sai tutto quello che ha fatto e sei disposto a vendere l'onore del Trinity per cosa? Mi fai schifo». Prendo l'ombrello ai miei piedi e inizio a rotearlo minacciosamente. 

Lucas, seduto su una sedia, arretra spaventato:«Che fai? Sei impazzita? Le cose non dovevano andare così, mi hai colto di sorpresa. Ho dovuto improvvisare». Parte del contenuto della bottiglietta gli si rovescia addosso.

«Ti divertivi a spiarmi e riferirgli tutto? Quanto ti ha pagato? Cosa ti ha promesso?», gli dico puntando l'ombrello al suo petto.

«Non capisco cosa tu stia dicendo... Io... Noi... Dovevamo se-seguirti qui al parco e...», balbetta confuso.

«Voi? Voi chi?». Mi guardo intorno senza abbassare la guardia. La grande tenda verde mi occlude la visuale, non so quante persone ci siano in quel magazzino.

«N-noi! Cioè: Adrian, James, Rebecc...». Lucas sta stilando una lista, ma lo interrompo bruscamente.

«Cosa? Anche loro sono coinvolti, ma... ma... Credevo che a voi, più di tutti gli altri, importasse del Trinity. Le foto poi erano... Erano...». Non sto capendo nulla di quello che sta succedendo. 

 

Possibile che James, Rebecca, Adrian e Lucas abbiano spiato le mie mosse per riferirle ad Andrew? Mi guardo intorno confusa, il mio cervello corre come un treno. Non capisco perché abbiano fatto una cosa simile. Di certo non per soldi, vengono tutti da famiglie abbienti, e nemmeno per prestigio, sono tra i ragazzi più ammirati della scuola. Allora, perché? 

Cammino avanti e indietro come fossi un animale in gabbia. I miei piedi sollevano la polvere depositata sul pavimento lasciando intravedere delle piastrelle color bruno scuro. Con le mani stritolo il telo dell'ombrello facendolo scricchiolare. Mi sento vuota come se non avessi più emozioni, come se i sacrifici fatti per salvare i miei compagni di classe fossero stati vani.

Ho cercato di salvare James e lui mi sta tradendo.

Sono una sciocca, una piccola e patetica sciocca.

 

«Lo facciamo perché ci importa della scuola. Mi sembra ovvio, no? Sinceramente non credevo avresti reagito in questo modo. Certo, tutto questo è un po' bizzarro, ma era l'unico modo. Ti ho sempre reputata abbastanza sveglia, pensavo avresti capito subito, ma in questo caso penso che tu ti diverta a creare guai». Lucas è a un palmo dal mio naso e afferra con decisione l'ombrello di scena scaraventandolo lontano.

«Creare guai? Credi che io abbia fatto apposta? Le foto sono state...», ma vengo interrotta.

«Ancora con queste foto. Quali foto?», Lucas mi guarda con aria interrogativa. Troppo interrogativa.

 

Una voce familiare giunge da dietro la tenda.

 

È James:«Già, di quali foto stai parlando?».

Dalla tenda si apre un varco, dopo di lui entrano anche Rebecca e Adrian. Sono tutti e tre vestiti di nero con una cuffia di lana in testa.

 

Sono confusa, molto molto confusa. Li osservo con attenzione come se cercassi di capire se si tratti effettivamente di loro oppure no. Gli occhi verdi di James, l'aria annoiata di Rebecca e i ricci di Adrian sono inconfondibili. Non sono delle copie, non sono finti, sono proprio loro, i miei compagni di scuola.

Ammutolita li guardo, non riesco a staccare gli occhi dai loro volti.

 

«James ti ha chiesto di che F O T O stai parlando? Capisci la nostra domanda?», Rebecca scandisce le singole lettere, probabilmente con l'intento di irritarmi.

Purtroppo per lei sono totalmente assente. 

James mi prende per le spalle e mi fa sedere a forza su una sedia:«Elena, quali foto? Di cosa stai parlando?».

Con la bocca semiaperta e lo sguardo vuoto scruto i lineamenti del suo volto, gli stessi che un tempo ho amato alla follia. Gli stessi che ho imparato a conoscere e desiderare, eppure adesso mi sembrano così diversi, come se appartenessero ad un estraneo.

«Perché state facendo tutto questo, perché mi avete rinchiusa qui?», gli chiedo con un filo di voce.

«Devi dirci cosa è successo. Il tuo comportamento non è normale. Se ne sono accorti tutti. Kate ha...», ma lo interrompo bruscamente.

«Che cosa ti ha detto Kate? Cosa?», urlo in preda ad una rabbia mai provata prima. La sola idea che possa aver tradito la mia fiducia mi manda su tutte le furie. Scatto in piedi spingendo James e facendolo arretrare, con la faccia rossa e i pugni stretti tremo, non ho il coraggio di guardarlo in faccia.

«Calmati, Kate non ci ha detto nulla. Ha detto che ti ha promesso di mantenere il segreto e non ci ha voluto dire nulla», mi spiega Adrian cercando di calmare i toni. «Abbiamo voluto portatori qui per capire come mai hai lasciato il Club di Dibattito. Soprattutto se c'è qualcosa di esterno che ti obbliga a fare cose che tu non vorresti fare».

 

Scuoto la testa. Non riesco a parlare con loro, mi è proprio impossibile. 

Con gli occhi lucidi sento una vergogna immensa crescermi dentro. Ammettere con tutti loro quel che ho combinato è la cosa più difficile che abbia mai fatto. Per la prima volta sono la protagonista della mia sofferenza. Non si tratta più della morte di mia madre o di quella di Demetra, ma di qualcosa che ho creato e provocato tutta da sola. Sono la madre del mio dolore, la creatrice delle mie angosce. 

 

«Di-dibattito l'ho lasciato perché non mi piaceva più. Io-io non sono molto po-portata». La mia voce vacilla, cerco contegno, ma appaio più ridicola di quanto sia già. Piango.

«Questo l'ho sempre sostenuto, so benissimo che sei una schiappa a Dibattito. Nonostante questo, tutta questa storia puzza pure a me, la sceneggiata in classe è stata di pessimo gusto. Per me conti meno di zero, non lo faccio perché sei mia amica, ma lasciare il Club con un elemento in meno non è una bella cosa». Rebecca sta scuotendo i lunghi capelli biondi, il tono è molto acido.

«Ti abbiamo portata qui perché volevamo capire che cosa ti sta succedendo. Io e Miss Scarlett ci incontravamo di nascosto per stare un po' da soli... Parlo di mesi fa... Non molte persone sono a conoscenza di questo posto», mi dice Adrian prendendomi per mano. La dolcezza delle sue parole e la tristezza del suo tono, mi riportano alla memoria il ragazzo timido che ho conosciuto l'anno scorso. Per un attimo mi sembra l'amico calmo e gentile di un tempo.

«Mi dispiace. Mi dispiace davvero per tutti voi. Ma non posso... Lo capite? Io... Io..», gli dico con voce tremante e la testa china.

«Elena. Parla!». James sposta Adrian con forza e si mette di fronte a me. Tenendomi stretta le braccia mi guarda furente. «Lucas non voleva spaventarti, non immaginavamo tu lo seguissi. Doveva portati Kate nel magazzino, con la scusa di fare delle foto. Una volta qui ti avremmo affrontata, ma Kate non si è vista e noi... Noi ti abbiamo seguita per il parco. Non volevamo metterti paura. Elena non devi aver paura di me. Te ne prego, dimmi cosa ti è successo».

 

Elena non devi aver paura di me.

Lo guardo e treno.

Elena non devi aver paura di me.

Provo ad aprire la bocca.

Elena non devi aver paura di me.

Spingo la voce fuori, ma non esce nulla.

 

«Non ne sono capace... Scusa James, scusa per tutto», dico accasciandomi al pavimento con le mani sul volto. Le lacrime bagnano il mio viso, riempiono la mia bocca, scivolano sui polsi. Scappo con la mente visto che il mio corpo è intrappolato in quel magazzino. Mi chiudo in me stessa in cerca di un posto sicuro, vago nel vuoto e affondo nel nero più nero che sento dentro.

 

Parole.

Suoni.

Odori.

Rumori.

 

James urla o forse è Adrian. Rebecca sta dicendo qualcosa, ma non sono molto sicura. Lo spostamento d'aria causato da corpi in movimento mi fa oscillare come fossi un filo d'erba, la polvere sollevata dallo scalpiccio delle scarpe mi ricopre. Vorrei essere un sasso, una pietra senza emozioni. Diventare uguale a milioni di altre rocce e perdermi in quell'infinita uniformità. Sparire, vorrei sparire. 

 

Toc. Toc.

È il battito del mio cuore? 

Toc. Toc.

Possibile che io sia viva?

Toc. Toc.

 

La realtà non è quella in cui mi nascondo. Il mondo è intorno a me.

Fuggo dal mio lato oscuro per osservare la vita.

Una porta si apre.

Occhiali. 

Capelli neri.

Occhi verdi.

 

I miei amici.

 

«Dov'è Elena?». La voce di Kate risuona su tutte: «Cosa le avete fatto? Siete impazziti?».

Un turbine di mani e braccia. Profumo di pelle. Jo mi solleva e mi accomoda su una sedia, mentre Stephanie mi asciuga il volto con un fazzoletto. Stringo la sua mano cercando calore fisico.

«Non abbiamo fatto apposta è successo tutto così velocemente», prova a spiegare Adrian.

«È spaventata a morte. Eppure vi avevamo detto che saremmo arrivati, no?», dice Stephanie stizzita.

«Non vi costava nulla aspettare», dice Jo piazzandosi di fianco a me. Mi avvinghio al suo braccio, non ho la minima intenzione di lasciarlo.

«Il piano era chiaro. Dovevamo trovarci al parco Franklin ad un'ora precisa. Noi c'eravamo, voi no. Dove diavolo siete finiti? A far colazione al bar?». Rebecca urla in faccia a Kate.

«Siamo andati a prendere l'unica persona che può aiutarci», le risponde Kate stizzita.

«Invece di tutte queste sceneggiate non basterebbe che tu, cara doppi occhi, ci dicessi cosa ha combinato questa mangia spaghetti? Del resto non ne hai parlato neanche con i tuoi amichetti, credo che Jo è Stephanie siano offesi del tuo silenzio». Rebecca e Kate sono a pochi centimetri l'una dall'altra.

«Io non tradisco i miei amici. Mai. Non sono come una principessina viziata di mia conoscenza. Inoltre i miei amichetti capiscono benissimo perché tenga la bocca chiusa. Loro mi rispettano. Ogni segreto che mi confidano non esce dalla mia bocca». Kate ha un tono duro, non l'avevo mai sentita parlare così prima.

«Brutta, schif...», dice maligna Rebecca, ma un urlo la interrompe. 

Le pareti del magazzino paiono tremare, i vetri vibrare. È come se gli attrezzi, le scenografie e tutte le cose nella stanza fossero diventati vivi per un secondo e in quell'attimo avessero trattenuto il fiato per poter ascoltare ancora quella voce.

 

Un eco si propaga nel mio cervello.

È una voce che mi ha aiutata più volte a emergere dal buio.

Suoni famigliari come fossi a casa.

 

Nik.

Nik con i capelli umidi di pioggia.

Nik con il volto serio.

Due occhi azzurri capaci di leggermi dentro.

 

«Adesso andatevene tutti da qui. Immediatamente. Dobbiamo restare soli». Le sue parole non ammettono replica.

James, Adrian, Rebecca, Lucas, Jo, Stephanie e Kate escono dalla tenda verde lasciandoci soli.

«Sono qui, Elena. Sono qui per te. Non ti lascio andare. Raccontami tutto», mi sussurra dolcemente in un orecchio. Le sue mani scivolano sulle mie guance, le sue labbra baciano i miei capelli.

 

Le mie difese crollano.

Un calore scioglie le mie paure.

Mi stringo per l'ennesima volta al mio salvagente, lo guardo negli occhi perdendomi in un azzurro più azzurro del cielo e trovo finalmente la mia voce.

Non sono più sola.

Non posso combattere senza un esercito.

Non posso combattere senza Nik.

 

... Continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 31
*** IERI: Fare i conti con la realtà dei fatti ***


IERI:
Fare i conti con la realtà dei fatti





... Continua la scena dal capitolo precedente...

 

Le lacrime sul mio volto hanno una sfumatura scura, un po' per il trucco sciolto un po' per la polvere nel magazzino che riempie l'aria. Nik è seduto di fronte a me, non gli importa di sporcarsi, non gli importa di essere in una stanza semi interrata a perdere tempo con una ragazzina piagnucolosa come me. Mi guarda sereno, è tranquillo come quando l'ho conosciuto. Il solito buono e caro Nik.

Al di fuori della tenda verde sento le voci di Kate e degli altri borbottare, stanno uscendo dal magazzino per lasciarci soli. Probabilmente avrebbero voluto rimanere, conoscere il perché del mio atteggiamento, ma per ora non mi sento pronta a parlare con loro.

Allo sbattere della porta, quando abbiamo la certezza di non avere occhi indiscreti a fissarci, Nik mi abbraccia stretta, mi stritola. 

Mi sento uno schifo per come l'ho trattato a scuola, sono stata pessima con lui.

 

«Raccontami tutto. Dimmi cosa ti è successo, adesso non importano i particolari, ma voglio sapere in che guai ti sei cacciata. Voglio capire cosa ti spaventa tanto», mi chiede con gentilezza. Gli occhi azzurri di Nik, così puri e sinceri, mi scrutano con attenzione in attesa di sentirmi parlare. 

Tentenno un attimo, la mia mente è pronta a scappare come il mio corpo. Ma questa volta no, non me ne vado. Non posso resistere al suo modo di fare, mi sciolgo solo a guardarlo: «Non mi giudicherai una stupida?», gli chiedo.

Nik accenna ad un sorriso mentre mi sposta una ciocca di capelli dal volto:«Mai potrei farlo».

Con gli occhi chiusi, cercando tutto il coraggio che possiedo, pronuncio il nome. Quel dannatissimo nome:«A-Andrew Cossé-Brissac».

Nik curva la testa verso destra e aggrottando la fronte scava nei sui ricordi:«Parli dei Cossé-Brissac i famosi ristoratori?».

Annuisco.

«Ma che c'entrano loro con te?».

«Non loro direttamente, ma loro figlio Andrew. Mi tiene in pugno ha delle foto che ritraggono Rebecca e James in atteggiamenti poco... Hmm... Eleganti... È capace di diffonderle se non boicotto la gara di Dibattito contro il Saint Jude. Vuole rovinare il Trinity».

Nik è attento, non perde una parola di quello che dico.

«Sono sua complice, seppur inconsapevolmente. Ho incasinato tutto e adesso non so come uscirne». Ho le lacrime agli occhi, mi sento proprio sciocca.

«Tu che c'entri? Cosa hai fatto?», mi chiede serio.

«Oltre a credere alle sue parole ed essermi fidata di lui? Direi tutto! Sono io che ho scattato le foto, io che ho acconsentito a incastrare Rebecca. Non sapevo di James, lo giuro, Andrew mi ha usata per scattargli delle foto mentre mi... Mi... Mi baciava. Ero travestita come le escort che lavorano al Masques», dico tutto ad un fiato diventando viola per la vergogna.

«Hai baciato James? Ma lui lo sa? Ti ha riconosciuta?».

Scuoto la testa:«Ero ubriaca. Andrew mi ha fatto bere un cocktail che mi ha fatto perdere le inibizioni... È stato durante quella serata che sono state scattate le foto che potrebbe mostrare anche a mio padre. Lo so, non ho scuse. Sono stata così stupida». Stringo forte la mascella, mi sembra tutto così ridicolo.

«Quindi Andrew ti ricatta. Se non boicotti la gara di Dibattito renderà pubbliche le foto di Rebecca, James e te... Hmm... Ok. Ho capito», dice con un sorrisetto malizioso.

«Tutto qui? Non mi sgridi, non mi insulti, non fai nulla?», gli chiedo confusa.

«No». Nik sorride.

«Ma sono stata così stupida, avventata, ingenua! Possibile che tu non abbia nulla da dirmi?».

«Credo tu ti sia attribuita per troppo tempo troppo aggettivi negativi. Adesso non hai bisogno di insulti, ma di un abbraccio di un amico». Nik mi stringe forte.

«Perché lo fai... Perché mi aiuti sempre? Io non sono niente di speciale, combino solo un sacco di guai», gli dico con la fronte appoggiata al suo collo.

«Non so, credo sia perché ti capisco, anche se siamo molto diversi. A volte vorrei essere come te, puro istinto, invece mi trovo a combattere con le mie paure che mi frenano e con la mia razionalità che mi blocca. Aiutando te mi sembra di aiutare me stesso. Forse lo faccio per puro egoismo, oppure perché mi sono fissato con il salvarti dallo schifo che ti circonda. Non so come mai faccia così, sento solo l'irrefrenabile desiderio di darti serenità, per quanto possibile». 

Nik mi accarezza la schiena con movimenti circolari, un tepore si dirama per il resto del mio corpo. Appoggio le mani sulle sue spalle mentre Nik stringe il suo corpo al mio, sento il suo respiro aumentare d'intensità, sta tremando leggermente. Capisco benissimo l'effetto che ho su di lui, gli piaccio. Anche lui piace a me, moltissimo, ma non credo che potrei amarlo come lui vorrebbe. È come se sapessi che non è la cosa giusta da fare, come se quello non fosse il momento giusto tra di noi. 

«Nik... Io...», gli sussurro in un orecchio facendo cenno di no con la testa.

«Elena... Elena...», mi risponde Nik mentre si morde le labbra nervosamente.

La sua barba incolta punge leggermente il mio volto, le sue mani afferrano i miei fianchi, le sue labbra baciano il mio collo. Un'ondata di calore mi avvolge, era da mesi che non mi sentivo così viva.

 

So benissimo di non meritarmi tanta attenzione da lui eppure non posso fare a meno di staccarmi dalle sue braccia. È come se avessi un irrefrenabile bisogno di Nik, come se colmasse parte del vuoto che sento dentro.

 

«Ti aiuto, non ti preoccupare. Tu devi stare tranquilla, devi ritornare la ragazza di sempre, quella che adoro e mi fa ridere, quella piena di energia e con una sensibilità fuori dal comune... Quella di cui mi sono innam...». Con una mano tappo la bocca di Nik. Non voglio che lo dica, non voglio che dica quelle parole.

«No. No. No. Tra di noi è tutto sbagliato, non possiamo, lo capisci?», dico con la voce rotta dal pianto.

Nik mi fissa. I suoi occhi sono come fulmini color del cielo:«Lo so che è tutto sbagliato tra di noi, ma per una volta voglio seguire il mio istinto e mettere nel cassetto la razionalità».

Le sue labbra si avvicinano alle mie mentre infila con decisione le mani nei capelli afferrandomi la nuca. Mi sento sciogliere al contatto.

Nik mi sta per baciare ed io non voglio che si fermi.

Nik mi sta per baciare ed io non aspetto altro.

Il suo corpo è intrecciato al mio, i nostri fiati caldi sono uno solo, le sue labbra si appoggiano alle mie con delicatezza e...

 

Toc.

Toc.

Qualcuno bussa furiosamente alla porta del magazzino.

Toc.

Toc.

 

Nik si stacca di colpo da me, come se si rendesse improvvisamente conto di quello che sta per succedere tra noi. Un bacio mancato, sfiorato e desiderato, ma non assaporato. 

«Nik. Elena. Adesso basta chiacchiere, vogliamo sapere anche noi». Da dietro la tenda giunge il rumore di passi e la voce decisa di Lucas.

Mi allontano velocemente da Nik portando le ginocchia al petto. Nik si alza cercando di ricomporsi.

In meno di cinque secondi ci ritroviamo tutti dentro la tenda verde. Kate si piazza vicino a me, mi prende la mano.

«Adesso parla, questa storia mi sta annoiando», dice Rebecca mentre si siede su una sedia. James è in piedi con le braccia incrociate, Adrian è al suo fianco. Jo e Stephanie mi guardano con curiosità.

«Vorrei che ascoltaste le parole di Elena. Non voglio conoscere il vostro giudizio personale, voglio che immaginiate di essere a lezione e cerchiate una soluzione legale al suo problema. Cercate di rimanere distaccati e ascoltate i fatti. Prego, comincia pure», mi dice Nik invitandomi a parlare.

 

La platea è attenta, pendono tutti dalle mie labbra. So benissimo che ormai non posso più scappare e devo affrontare le conseguenze di ciò che ho combinato, ma ho molta paura. La vergogna di essermi comportata così male, l'imbarazzo di mostrare la mia fragilità è molto forte. La mano di Kate è una certezza, non mollo la presa. La presenza di Nik mi da forza. 

Parlo.

Parlo senza smettere di guardare il pavimento sporco ai miei piedi.

Parlo senza essere interrotta.

Racconto di come volessi che le cose al Trinity cambiassero.

Commento di come odiassi sentirmi umiliata e di come soffrissi.

Spiego di come Andrew mi abbia avvicinata durante la punizione della Marquez.

Dico tutto: dai piani per l'elezione del rappresentante di Istituto ai fan Club fino ai sotterfugi per prendere il potere.

Poi arriva quel momento, quello che più temo.

Masques.

Ingoio tutta la saliva che possiedo.

Travestimento.

Luci stroboscopiche.

Il cuore batte forte.

Foto a Rebecca.

Alcool.

Tremano le gambe.

Baci a James.

Fuga.

Il giorno dopo la scoperta che Andrew mi ha tradita e usata.

Il ricatto.

La mia fuga da tutti loro e dalla scuola.

L'abbandono del Club di Dibattito.

 

Mi sento un palloncino sgonfio, senza forma. Debole sulle gambe, assetata e fragile.

Vorrei che qualcuno dica qualcosa, ma nessuno proferisce parola. Nik cammina avanti e indietro pensoso, Stephanie con le mani sulla bocca mi guarda con gli occhi spalancati. Tutti gli altri paiono statue di cera, sono immobili.

«Scusate, non sapevo come... come dirvi tutto questo, mi vergogno tanto», dico con le lacrime agli occhi.

«Ci credo bene!», esordisce Rebecca, «Come cavolo ti è venuto in mente di fidarti di Andrew? Quello è una serpe velenosa, utile solo per certe cose. Non ha sentimenti e non prova emozioni per nessuno, eppure te l'avevano detto di stare lontana da lui».

«Noi sappiamo gestirlo: lui usa noi e noi usiamo lui. Un tacito accordo. Sappiamo cosa è capace di fare, per questo lo teniamo come amico piuttosto che come nemico», mi dice Lucas duro.

«Quello che hai fatto è... è... Non ho parole. Se ci avessi detto tutto prima avremmo potuto affrontarlo insieme, invece sei la solita cocciuta che pensa di poter fare tutto da sola». James è furioso, lo capisco da come mi parla. 

«Mi dispiace, credevo che...». Vengo bruscamente interrotta.

«Credevi cosa? Sai che Andrew non ha sorelle? Le storie che ti ha raccontato su di lei sono solo bugie. Bugie costruite per ingannarti e manipolarti. Tutto questo non sarebbe successo se ci avessi parlato». James è a pochi passi da me, sembra sull'orlo di scoppiare.

«Già. Inoltre non sei l'unica ad essere coinvolta. Le mie foto e quelle di James potrebbero rovinare la reputazione delle nostre famiglie e il nostro futuro. Complimenti Elena, non potevi fare di peggio». Rebecca si avvicina a James per allontanarlo da me.

 

Piango come una fontana.

Jo mi appoggia un braccio sulle spalle, Stephanie mi accarezza i capelli. 

 

«So che è difficile, ma possiamo lavorare su un caso vero. Non più esercitazioni in classe, ma un problema concreto che coinvolge più persone. Era inevitabile che ad un certo punto della vita sbatteste la faccia conto con la realtà dei fatti: tutti possono finire nei guai per le proprie azioni sconsiderate. Elena fidandosi della persona sbagliata. Rebecca e James partecipando a feste non adatte alla loro età. Siete personaggi che hanno un potere e una reputazione da difendere, non dimenticatelo mai». Nik parla in mezzo a tutti noi.

«Quindi che possiamo fare? Non voglio che succeda loro nulla di male», chiede Adrian preoccupato.

«L'unica cosa che abbia senso. Restare uniti, tenere la bocca chiusa e affondare quel vigliacco di Andrew. Che ne dite... Chi è con me?», chiede Nik allungando la mano.

Senza esitazione appoggio la mia mano sopra la sua. Stephanie, Jo e Kate fanno lo stesso. Lucas e Adrian subito dopo. Rebecca tentenna un attimo, poi aggiunge anche la sua mano. 

James mi fissa per qualche secondo, è turbato, lo capisco dalla strana luce nei suoi occhi: «Partecipo a questa cosa solo se ridurremo in briciole quel bastardo, dobbiamo distruggerlo».

Nik sghignazza: «È briciole siano. Non ti preoccupare ho un piano in mente, del resto sono o non sono uno dei migliori avvocati di Boston?»

James ci pensa un attimo, poi allunga la mano sopra tutte le altre senza smettere di fissarmi come se volesse dirmi un milione di cose. 

 

Trattengo il fiato.

Affogo nei suoi occhi verdi sentendomi terribilmente in colpa per tutto, ma soprattutto per il bacio che stavo per dare a Nik.

Un errore che non voglio rischiare di ripetere.

Un errore che per fortuna non ho commesso.

 

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Capitolo 32
*** IERI: Pronti a combattere ***


IERI:
Pronti a combattere




Papà crede che stasera stia a casa di Kate, gli ho fatto credere che dormirò da lei. Una bugia bella e buona. Hanna e Roger non sanno nulla ovviamente, non credo riescano nemmeno ad immaginare che la figlia possa mentirgli in quel modo. 

 

Sono le undici di notte, mi devo sbrigare.

 

Kate controlla per la centesima volta che tutto sia in ordine: zainetto, giacca, cappello. Mi abbraccia. 

«Ciao, a dopo», le dico con la voce strozzata in gola.

Kate sorride. È nervosa quanto me, non è difficile capire come si sente, le si legge in faccia.

Scavalco la finestra della cameretta, percorro lentamente un piccolo tettuccio che mi porta verso un grosso albero. Nonostante il cappotto e lo zainetto mi ingombrino i movimenti riesco a mantenere l'equilibrio. Lucas e Adrian mi aspettano lì sotto, hanno appoggiato una scala in alluminio alla fine del tettuccio. Con una mano mi attacco a un ramo del grosso albero per poter scendere, roteo e infilo i piedi in un piolo. Per qualche secondo cerco l'equilibrio necessario per reggermi, poi con un gesto deciso mollo il ramo cercando di agguantare la scala. Traballo un po', ma Lucas e Adrian tengono ben saldo tutto evitando di farmi sfracellare a terra. In pochi secondi tocco l'erba del giardino degli Husher.

«Andiamocene prima che ci veda qualcuno e chiami la polizia», dice Adrian piegando la scala in alluminio e sollevandola con il suo amico. 

Nessuna replica, ha perfettamente ragione.

Corriamo verso una strada laterale dove ci aspetta James. Appena ci vede scende ad aprirci le portiere e caricare la scala su un sedile posteriore.

Siamo pronti, partiamo.

Direzione anfiteatro del Parco Franklin.

 

Non è facile quello che sto per fare. Cercare di incastrare Andrew non è una cosa da tutti i giorni, tutt'altro, ma sembrano tutti così convinti che alla fine hanno rassicurato anche me. Più o meno. Dopo giorni di indecisione ho accettato di seguire il piano di Nik. Devo fidarmi di lui, ha sempre fatto di tutto per aiutarmi.

Ripasso nella mente le parole che devo dire. C'è silenzio in macchina, nessuno parla, guardiamo fuori dal finestrino in attesa di arrivare al punto prestabilito. 

Ci vuole poco, non c'è molto traffico a quest'ora. 

James frena, con il motore ancora acceso mi guarda attraverso lo specchietto retrovisore:«È ora che tu vada, il bus sarà qui tra pochi minuti. Non puoi perderlo, è l'ultima corsa della giornata. Noi ti seguiremo con la macchina».

Annuisco. Senza aggiungere altro scendo e mi metto ad aspettare il bus seduta su una panchina.

 

Mi trema la gamba, la muovo ritmicamente su e giù.

Elena non agitarti.

Gioco nervosa con le unghie della mano.

Elena non preoccuparti.

Fisso il vuoto, ho il cervello vuoto.

Elena andrà tutto bene.

 

Il bus arriva.

In meno di dieci minuti arrivo alla fermata del parco Franklin. Quando scendo mi guardo intorno, la limousine di Andrew è parcheggiata poco lontano, la riconosco subito, stona in mezzo a le monovolume ferme. Nik aveva previsto tutto, se fossi arrivata con la macchina di James avrei rovinato tutto.

Come se nulla fosse imbocco l'entrata del parco. La ghiaia del selciato scricchiola sotto ai miei piedi. È buio pesto, ma questa volta non ho paura. Disseminati per tutto il percorso ci sono Rebecca, Jo, Stephanie e Adrian a tenermi d'occhio. James e Lucas si uniranno agli altri quanto prima. 

Mi dirigo verso l'anfiteatro in pietra, quello del magazzino in cui sono stata rinchiusa pochi giorni fa, quando ho confessato agli altri cosa ho combinato.

So quello che devo fare, sedermi e aspettare Andrew, arriverà tra poco.

 

Elena respira con calma.

Eccolo, sento i suoi passi.

Elena ricorda quello che devi fare.

Sta scendendo i gradini.

Elena distruggi quel bastardo.

È seduto vicino a me.

 

«Allora dolcezza, che cosa hai da dirmi? Sembrava una cosa importante per telefono», Andrew indossa una giacca in cachemire molto elaborata e scarpe in pelle lucida nera, se ne sta in piedi per non rovinare i vestiti.

«Si sono fatti sospettosi, non so come boicottarli», dico decisa. Devo cercare di farlo parlare.

«Chi si è fatto sospettoso?», mi chiede.

«Il mio amico Jonathan. Anche Rebecca mi fa un sacco di domande, ha detto che secondo lei sto nascondendo qualcosa. Non so che fare, se mi beccano rischio l'espulsione», inizio a piangere o almeno ci provo. Le indicazioni che Miss Scarlett ha dato agli attori l'anno scorso mi sono molto utili: devo crederci e immedesimarmi nel personaggio.

«È un problema tuo dolcezza. Non me ne frega nulla di quello che dici, i patti sono chiari: o trovi il modo di far perdere il Trinity o renderò pubbliche le foto di quella mezza sciacquetta della Parson e di quel damerino di McArthur. Non puoi tirarti indietro. Ricorda che tuo padre potrebbe trovare per caso le foto di te mezza nuda a fare la puttana al Masques. Non ci sono sconti o vie d'uscita, o fai come dico o vi distruggo tutti». Andrew è a un palmo dal mio naso, mi parla con rabbia mentre scuote le mie spalle.

«Ma è un ricatto... Io mi sono fidata di te, mi hai usata. Non sono capace di fare quello che mi chiedi», mugolo disperata. 

«Mi hai fatto venire qui solo per farmi sentire le tue lagne? Potevi risparmiartelo, non cambio idea, niente potrebbe farlo», dice Andrew ridendo sguaiatamente.

 

Un rumore di foglie, un cespuglio si muove.

Andrew si guarda intorno stupito, uno ad uno tutto stanno uscendo dai cespugli: Jo, Stephanie, Rebecca, Adrian, Lucas, James.

 

«Hai chiamato l'artiglieria? Ti credi furba?». Andrew estrae il cellulare dalla giacca componendo un numero: «Mi basta una chiamata per mandare le foto alle persone giuste. Mi credi così scemo?».

«No, ma non dovresti sottovalutarci. Mai», dice James.

«Voi siete così prevedibili, ho previsto ogni vostra mossa. Sapevo che Elena non avrebbe retto lo stress andando a piagnucolare dai suoi amichetti. Quindi, se non vi dispiace, adesso ho da fare. Per prima cosa la telefon...». 

Viene interrotto bruscamente da Nik: «Fossi in te non lo farei», dice a Andrew mentre scende con un saltello il palco dell'anfiteatro.

«Che diavolo ci fa lui qui?». Andrew ha i denti digrignati, pare furioso.

«Ho chiesto aiuto... Tutto qui», gli dico con un sorrisetto malizioso stampato sul volto.

«Brutta bugiarda...». Andrew alza la mano verso il mio volto per colpirmi.

Metto le mani sulla testa per cercare di proteggere la testa, ma James fa scudo con il suo corpo, sento le sue braccia avvolgermi.

«Fossi in te cercherei di stare tranquillo. Potremmo aggiungere aggressione alla lista delle cose scorrette che hai combinato». Nik allontana in malo modo Andrew da me e James.

«Che cosa intendi?». La voce di Andrew vacilla, è molto nervoso, non riesce a stare fermo.

«Hai organizzato una festa al Masques dove c'erano escort, credo tu sappia che la prostituzione è illegale. Inoltre hai offerto alcool a minorenni, credo non sia difficile trovare qualche ospite disposto a raccontare come tu li abbia forzati a bere», spiega Nik.

«Io... Io non ho obbligato nessuno a bere, è una bugia!», urla Andrew.

«Dici? Cosa succederebbe se uscisse la storia del festino al Masques? I rampolli di New Heaven e Boston a chi credi darebbero la colpa, una volta che i giornali pubblicassero le foto di quella serata? A te, mio caro. La colpa sarebbe la tua. Vedo già i titoli: L'erede dell'Impero Cossé-Brissac fuori controllo, organizza orge a base di alcool con minorenni». Nik prende dalla mano del ragazzo il cellulare e con strafottenza cancella il numero che Andrew ha digitato poco prima.

«Nessuno di loro mi tradirebbe, mai. Hanno bisogno di me, li tengo in pugno». Andrew prova a reagire.

«È se si spargesse la voce che i locali dei tuoi genitori, famosi per la privacy, diventassero improvvisamente poco sicuri? Credo che i guadagni crollerebbero e il cognome Cossé-Brissac verrebbe associato alle parole tradimento, sfiducia e ricattatori. Ti assicuro che sono bravissimo a spargere voci, molto molto bravo». Nik sussurra l'ultima frase nell'orecchio di Andrew.

«Bastardo! Che cosa vuoi?».

«Ho qui delle carte da firmare, servono per tutelare i miei studenti. Non potrai mai, e dico mai, pubblicare le foto e raccontare in giro quello che è successo. Il rischio è che l'impero dei tuoi genitori venga... Come dire... Distrutto». Nik allunga dei fogli al ragazzo che pallido li strappa di mano all'uomo.

«Non cederò mai! Ho subito per anni le lagne di questi patetici esseri, ho sopportato di tutto per incastrarli. Quando ho saputo di Elena e James ho capito al volo che era lei l'anello debole: la ragazza italiana ingenua e sprovveduta», dice con voce isterica, «Un bocconcino talmente facile che ho fatto ben poco per arrivare dove siamo adesso».

«Se non ti fosse ben chiaro tutta la tua famiglia rischia grosso. Non vorrai distruggere quello che i tuoi hanno costruito nella loro vita?», chiede Nik mentre si sistema gli occhiali con disinvoltura.

«Stai bluffando. Non coinvolgeresti mai mia madre e mio padre. Sai benissimo cosa comporterebbe a livello mediatico per i tuoi preziosissimi studenti», ringhia Andrew.

«Dici? Credo potresti chiederglielo, così tanto per toglierti ogni dubbio». Nik estrae dalla tasca della giacca un telefonino con un microfono collegato che è attaccato al bavero.

«Che diavolo significa?». Andrew è terrorizzato.

«Tu hai ricattato Elena dicendole che avresti mostrato le foto a suo padre. Io ho fatto lo stesso con te, ho pensato fosse carino far sentire di cosa era capace di fare loro figlio. Non c'è cosa che terrorizzi di più un diciassettenne, spocchioso e arrogante, se non l'ira dei genitori preoccupati di perdere l'onore e l'impero che hanno costruito con tanti anni di sacrificio e dedizione», dice Nik.

«Non puoi... Non puoi...», dice Andrew spaventato a morte.

«Fossi in te porterei questi documenti ai tuoi genitori. Mamma e papà ti aspettano a casa, credo siano curiosi di conoscere tutta la storia, ma soprattutto di firmare questi fogli».

Andrew tentenna un attimo, guarda negli occhi ognuno di noi. C'è disgusto, rabbia e fastidio. Se potesse ci prenderebbe tutti a sberle, lo si capisce da come stringe i pugni.

Poi, senza dire nulla, si allontana verso l'uscita del parco.

 

Andrew è sconfitto.

Annullato.

Finito.

 

Crollo, le mie gambe non reggono la tensione. Stephanie mi abbraccia stritolandomi, Jo salta come se avesse preso dieci in un test, Adrian e Lucas si danno grosse pacche sulle spalle.

James stringe serio la mano a Nik:«Grazie. Non mi dimenticherò quello che hai fatto per me e la mia famiglia. Te ne sarò grato per sempre».

Rebecca ha le lacrime agli occhi:«Grazie professore, io... Io...».

«Il contratto che ho stilato per Andrew e la sua famiglia è inattaccabile. Non potrà mai usare il materiale che possiede, se lo facesse ho i miei assi nascosti, la reputazione dei Cossé-Brissac verrebbe rovinata per sempre. Ricordatevi che ognuno di voi ha un ruolo sociale molto forte, ogni vostra azione al Trinity si riflette nella vita reale. Se fate del male raccoglierete guai. Capito Rebecca?». Nik accarezza con dolcezza la ragazza che scoppia in un pianto disperato. Stephanie abbraccia l'amica come se non fosse passato un giorno da quando erano migliori amiche, si stringono con sincerità e affetto. 

Adrian commosso mi scuote i capelli sulla testa:«L'avevi combinata grossa, eh? Chi ti faceva così perfida». Ridiamo insieme mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime.

Jo e Lucas discutono animatamente sui fatti appena successi, mentre tutti insieme ci dirigiamo verso l'uscita del parco.

Nik mi prende un secondo in disparte:«Quello che è successo nel magazzino l'altro giorno è stato...». 

Lo interrompo:«È stato un grave errore. Tu sei il mio profess... Eri il mio professore preferito. Non sono più nel Club di Dibattito, ma resterai sempre nel mio cuore».

«Chi ti ha detto che non sei più una mia studentessa?», mi dice Nik ridacchiando.

«Ho compilato il modulo in segreteria, insomma ormai non posso tornare più indietro», spiego confusa.

«Il modulo l'hai compilato ed è anche arrivato alla mia scrivania, peccato però che io l'abbia accidentalmente stracciato».

«Stracciato?», gli chiedo.

«In tanti piccolissimi pezzettini», mi dice sghignazzando.

«Quindi faccio parte ancora del Club?».

Nik mi schiaccia l'occhio complice, poi mettendo le mani dietro la testa fischietta felice.

 

Improvvisamente mi rendo conto che tutto ciò che ho amato di più nell'ultimo anno è lì di fronte a me, Kate inclusa. Le lezioni di Dibattito, i miei amici, l'amore. 

La serenità e la complicità che mi lega con tutti loro è qualcosa di speciale che va coltivata. Non ho più intenzione di piangermi addosso, non ho più voglia di stare male. Voglio solo ciò che mi fa star bene e con tutti loro io sto benissimo.

 

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Capitolo 33
*** IERI: Ricominciare tutto da capo ***


IERI:
Ricominciare tutto da capo




Crema al cioccolato.

Pane tostato.

Succo di frutta.

Murfin ai mirtilli.

Biscotti.

The fumante.

Marmellata di fragole.

Cereali.

Yogurt.

 

Intorno a me ho tutte queste cose, mangio di tutto prendendo bocconi da una parte all'altra. Lo spettacolo non deve essere dei migliori perché Tess, Victor e papà mi guardano con la faccia disgustata.

«Che c'è?», chiedo mentre infilo una cucchiaiata di cereali e yogurt in bocca.

«Stai bene Elena?», mi chiede papà toccandomi la fronte.

«Stamattina ho molta fame. È come se mi si fosse liberato un peso che ho sullo stomaco», rispondo con un sorriso. Ho il volto totalmente impiastricciato.

«Non è che tutto questo cibo ti farà male?», mi chiede Victor mentre sorseggia il suo caffè.

«Oggi è un giorno di festa. Vedrete che da domani tornerà tutto normale».

«Va bene, mi raccomando però non esagerare», papà mi accarezza poi mi passa un mucchio di tovaglioli di carta.

«Oggi passa Kate, resta da noi tutto il giorno. Mi aiuta a programmare le materie che devo recuperare. Tra poco più di un mese sarà Natale e mi toccherà passarlo sui libri. Preferisco portarmi avanti», dico felice.

Papà storce la testa come se si trovasse di fronte a qualcosa di inaspettato e raccapricciante:«Sei sempre stata una buona studentessa, ma non ti ho mai sentita così felice di studiare prima di adesso. Devi dirmi qualcosa?».

Faccio cenno di no con la testa.

Papà chiude gli occhi a fessura cercando segnali, espressioni o altro che possano fargli capire che cavolo sta succedendo nella mia testa. Se solo sapesse di Andrew, del Masques e di tutto il resto gli verrebbero i capelli bianchi.

«Se oggi viene Kate, questo pomeriggio ne approfitto per uscire. Ho un impegno con... Insomma, ho da fare un mucchio di cose. Non ho voglia di annoiarti», mi dice mentre ripone le tazze nel lavandino.

«Va bene. Divertiti», gli rispondo con la bocca piena di cioccolata. Meglio così, almeno non verrà a romperci le scatole, non ho voglia di dargli troppi chiarimenti sul perché faccio schifo a scuola. Come minimo mi impedirebbe di respirare per recuperare i voti bassi.

 

Armata di entusiasmo passo parte della mattinata a sistemare la camera, ordinare i libri di scuola e gli appunti. Nell'ultimo periodo non ho praticamente studiato, prima ero troppo presa con i Fan club a scuola e dopo con Andrew e tutto il resto. 

Sono veramente nei guai.

Ho perso così tante lezioni che non ho idea di come poter recuperare il materiale che mi manca. Mi concentro, per una buona riuscita devo impegnarmi al massimo. Per prima cosa spengo il cellulare, non voglio distrazioni, poi inizio con letteratura inglese, devo analizzare dei testi. Con tutto l'ottimismo che possiedo comincio a leggere, trascrivo le note e cerco di capire il testo. Parole. Verbi. Grammatica. Rime. Dopo meno di un'ora il cervello è surriscaldato, gli occhi sembrano carta vetrata e il collo è indolenzito. 

Iniziamo bene.

Mesta osservo dall'alto al basso, la pila di libri di fianco a me, sembra non finire mai. Mi sembra di stare dentro a un incubo. Provo a rimettermi sul libro, ma l'attenzione è andata a farsi friggere. Mi ritrovo a fissare una ciocca di capelli che mi cade davanti al volto.

Devo staccare.

Mi concedo una pausa, un bicchiere di succo andrà benissimo, anche se so che quella non è la soluzione migliore.

 

Mentre sono in cucina squilla il campanello.

È sicuramente Kate.

 

Mi affaccio alla porta d'ingresso con un paio di matite per reggere lo chignon che ho in testa, dei pantaloni extralarge di una vecchia tuta e un maglioncino peloso molto morbido. Sono in uno stato pietoso, lo so, ma tanto viene solo Kate, non devo per forza farmi bella.

 

Certo.

Ovvio.

Per fortuna doveva venire solo Kate.

Già.

 

Ad accompagnare la mia amica ci sono Stephanie, Jo, Rebecca, Adrian, Lucas e James, tutti perfettamente vestiti, truccati e acconciati. La mia faccia riassume benissimo il mio stupore e disappunto che non faccio nulla per nascondere. 

Questa Kate me la paga.

 

«Ciao», Rebecca mi squadra dall'alto al basso mentre arrossisco, «Quindi questa sarebbe casa tua?».

«Sì, un po' più piccola della tua», dico cercando di riprendere un colorito normale.

Mentre Lucas e tutti gli altri entrano nell'appartamento prendo Kate a braccetto, vorrei chiederle che cosa sta succedendo, ma mi anticipa.

«Si sono presentati senza preavviso, non sono riuscita a tenerli lontani», mi bisbiglia.

«Stephanie e Jo non sono un problema, ma quelli lì potevi evitare», le dico dura a bassa voce riferendomi a Rebecca, James, Adrian e Lucas.

«Ti ho scritto un messaggio, credevo l'avessi letto», mi dice mentre con un sorriso di circostanza spinge tutti verso la mia camera.

 

Perfetto, l'unica volta che spengo il cellulare mi arriva un messaggio che poteva risparmiarmi una figuraccia colossale.

 

In meno di un minuto mi trovo prigioniera nella mia camera. Stephanie, Adrian e Lucas si sono accomodati sul mio letto, James e Jo appoggiati alla parete, Kate è seduta sulla sedia della mia scrivania. Io, come un pesce lesso, me ne sto in mezzo alla stanza vicina a Rebecca, lei vestita come fosse ad un party, io come se vivessi in un cassonetto.

«Bene, adesso che ci siamo tutti credo potremmo iniziare», Rebecca e estrae dalla borsa una cartelletta rigida piena di fogli e un plico di fotocopie.

«Iniziare cosa?», chiedo spaventata.

«Ovviamente il piano studi per farti recuperare il programma. Non so se hai notato, ma in questa minuscola e spoglia stanza hai alcuni tra i migliori studenti del Trinity. Noi possiamo aiutarti», dice come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo.

«Ma io...». Vengo interrotta.

«Niente Ma.... Tu hai bisogno d'aiuto. Se per caso i tuoi voti fossero pessimi rischieresti di essere esclusa dal Club di Dibattito, cosa che non vogliamo perché, per qualche strano motivo, te la cavi abbastanza». Rebecca inizia a consegnare a tutti delle copie dei fogli che tiene in mano.

«Sarai aiutata è supportata da ognuno di noi. Ci sono materie più complicate di altre, noi ti aiuteremo in quelle. Le altre cose credo tu sia in grado di studiarle da sola. Quello che hai in mano è un piano di studi ben strutturato che ti porterà a recuperare tutto in tempi brevi, anzi brevissimi».

«Ma io...», Rebecca mi ignora.

«Ogni pomeriggio dopo scuola studierai con qualcuno di noi, basta vedere i fogli. Non ti sarà permesso opporti, ribellarti, lamentarti. Gli incontri saranno puramente legati allo studio. Ogni antipatia deve essere accantonata, il tuo scopo deve essere recuperare le materie». Rebecca sembra un generale, non l'avevo mai vista così determinata e inflessibile. Mi spaventa un po'.

«Ma io...», non vengo nemmeno calcolata.

«Questo è il nostro ultimo anno al Trinity, credo che litigare su chi sia più popolare o meno sia una cosa da stupidi. Anche perché credo sia del tutto inutile porsi la domanda, visto che la risposta è ovvia». Rebecca parla ammirandosi allo specchio mentre appende sulla lavagna di sughero, lì di fianco, il programma intensivo di studio.

«Quello che vuole dire Becca è che dobbiamo distruggere quelli del Saint Jude a fine anno. Ci servi tu, serviamo tutti. Credo sia evidente. Insieme a Nik siamo una squadra vincente, nonostante siamo tutti diversi. Servi tu al massimo delle forze, noi possiamo aiutarti a raggiungerle», dice James.

 

Con la bocca spalancata li osservo. Possibile che sia cambiato tutto in così poco tempo? Fino all'altro giorno ci saremmo scannati, adesso eccoli qui pronti a sacrificare il loro tempo per me. Non ha il minimo senso.

 

«Perché fate tutto questo? Lo capite che sembra tutto molto strano?», sbotto senza troppi problemi.

«Credo che quello che ha detto Becca sia chiaro. La situazione che si è venuta a creare, con Andrew e tutto il resto, forse... Forse è anche un po' colpa nostra», dice Adrian, «Credo sia meglio per tutti sotterrare lascia di guerra. Mancano pochi mesi alla fine della scuola, probabilmente ci frequenteremo anche a Yale. Perché dovremmo combattere tra di noi quando uniti siamo una forza?».

Guardo Lucas annuire:«Jonathan e Adrian collaborano. Fanno parte del comitato scolastico, invece di fronteggiarsi si sono uniti. Entrambi ne traggono giovamento e il loro curriculum si arricchisce».

 

Kate mi guarda sorridente, credo vorrebbe che lo facessi anch'io. Sono perplessa. Capisco che uniti siamo più forti e che insieme possiamo far molte più cose, ma non si può dimenticare da un giorno all'altro tutto quello che è successo.

Andrew, le foto e il ricatto, mi hanno mostrato ancora una volta cosa sono capaci di fare quelli come loro. Non so se fidarmi o meno, non so se posso lasciarmi andare.

 

«Ti ricordi cosa ti ho detto l'altro giorno? Ti ho chiesto scusa. Scusa per come mi sono comportato con te. Ognuno di noi ha obbiettivi molto precisi, sogni e aspettative, ci siamo resi conto che senza di te non riusciremo a raggiungerle. Sei parte di noi e noi siamo parte di te, anche se non vuoi ammetterlo. Hai visto cosa ti è successo con Andrew? Se fossimo stati amici sinceri tutto questo non sarebbe mai accaduto. Ti avremmo protetta, non avremmo mai permesso a nessuno di farti del male». James è di fronte a me, mi tiene le spalle. I suoi occhi mi scrutano con attenzione come se volesse leggermi nel cervello, come se volesse capire cosa sto pensando.

 

Rifletto.

Posso fidarmi?

Ragiono.

Posso credere a tutti loro?

Penso.

 

«Promettete che non farete più complotti, sotterfugi, scherzi e malignità varie?», chiedo a tutti loro.

«Ok», dicono Adrian e Lucas.

«Puoi contarci», dice James.

Guardo Rebecca con insistenza, visto che evita la risposta.

«Va bene. Va bene. Cercherò di essere buona, carina e gentile. A patto però che, se servisse per proteggerci, non esiterò a sfoderare le mie armi migliori», mi dice altezzosa.

«Malignità per legittima difesa. Credo possa andare», le dico divertita.

Stephanie scoppia a ridere insieme a Jo, pochi secondi dopo ci ritroviamo tutti a sghignazzare mentre organizziamo i turni di studi.

 

Per le prossime settimane dovrò dar fondo a tutte le mie energie per poter riuscire a reggere il ritmo. Probabilmente avrò momenti di stanchezza ed a volte vorrò rinunciare, ma se avrò tutti loro al mio fianco mi sentirò imbattibile. 

Non so come sia possibile che le cose funzionino tra noi. Siamo così diversi, incompatibili, stonati e testardi, che mi chiedo quanto durerà questa tregua. Per sempre? Il tempo di un battito di ciglia?

Eppure ognuno di noi completa l'altro, lo arricchisce e lo riempie dell'amore di cui ha bisogno. 

Rebecca con la sua fedeltà cieca. 

Lucas con la sua determinazione. 

Adrian con la sua sensibilità. 

Jo con la sua forza. 

Stephanie con la sua dolcezza. 

Kate con la sua capacità di capire. 

James con la sua fermezza.

Tutti danno qualcosa all'altro e forse anch'io, nel mio piccolo, regalo loro qualcosa. Cosa sia non so, ma credo valga la pena scoprirlo insieme a loro, i miei assurdi, disfunzionali, imprevedibili amici.

 

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Capitolo 34
*** IERI: Ciao mamma ***


IERI:
Ciao mamma



Ciao mamma, 

scusa se ti scrivo più tardi del solito, ma ho passato le ultime settimane a studiare come una matta. Sì, hai capito bene, studiare. Ho avuto qualche problema a scuola, non sono stata una studentessa modello. So quanto questo ti possa dispiacere, ma ho passato un periodo brutto, molto brutto.

Tra pochi giorni sarà Natale, la preside della mia scuola vuole che sostenga dei test appena riprenderanno le lezioni. Purtroppo ho fatto scelte che hanno condizionato la mia vita in negativo.

Perché ho fatto tutto questo?

Credo che la risposta più semplice sia che l'ho fatto perché sento un vuoto, una voragine nell'anima. Quando mi sembra di riuscire a colmare questa mancanza, puntualmente succede qualcosa che distrugge le mie certezze. Nella scorsa lettera ti ho parlato di James, di come fossi presa dalla storia con lui e di come mi facesse stare bene. Io e James non stiamo più insieme da mesi, sua madre è morta e da allora le cose sono andate sempre peggio. Ho passato un'estate d'inferno, ho smesso di leggere e dipingere. Non avevo motivi per sorridere, se non fosse stato per Nik, Kate, Jo e Stephanie, probabilmente non sarei riuscita a risollevarmi. Loro mi hanno dato tanto di quell'amore che neanche puoi immaginare. Sono stati il mio salvagente, mi hanno tenuta a galla, sotto ai miei piedi c'era l'abisso. Hanno fatto di tutto per aiutarmi, ma io ho rovinato tutto. Ho creduto alle bugie di persone perfide, ho creduto che fosse più facile essere meschini e cattivi, ho creduto che fare del male fosse una cosa giusta. Una delle ultime cose che mi hai detto prima di morire era di scappare da tutto ciò che mi avesse fatto del male, dalla cattiveria. Io, invece, mi sono lasciata attrarre dalla apparente semplicità della malignità. Sono stata perfida con ragazzine, ho trattato male professori, ma soprattutto ho tradito la fiducia dei miei migliori amici. Per un periodo ho perso Kate, che per una nella mia condizione è come perdere la bussola in mezzo al mare. L'ho snobbata, umiliata. Sono stata la persona peggiore che potessi essere. Ho modificato il mio aspetto credendo che un po' di trucco in più e una borsetta di marca potessero rendermi migliore. Quanto mi sbagliavo. 

Un ragazzo di nome Andrew mi ha manipolata, ha capito meglio di chiunque altro cosa stessi passando e ha cercato di sfruttare la mia fragilità per ricattare i miei compagni di classe e Nik, il professore di Dibattito. Mi chiedo come potessi pensare di rimediare ai miei errori da sola, mi chiedo come ho fatto ad essere così cieca. Tutti hanno bisogno degli amici, della famiglia. Credevo che la soluzione migliore fosse stare da sola a crogiolarmi miei pensieri. 

La tua mancanza, la perdita di Demetra e l'abbandono di James sono stati motivo della mia sofferenza. Ho incolpato, odiato e pianto, desiderando che le due donne che ho amato di più nella mia vita tornassero a vivere o che il ragazzo più dolce del mondo si innamorasse di nuovo di me. Purtroppo non si vive di sogni, l'ho capito a mia spese.

La vita è dura, è una lotta continua. Le relazioni sono come degli equilibristi su un filo di seta, le amicizie sono delicate come vasi di cristallo. Sta a noi curarle e proteggerle, aggiustarle quando serve. Una crepa può rovinarle, ma non distruggerle. Si deve imparare ad amare anche quei segni, quelle storpiature, e rinnovarsi con esse.

Adesso, nonostante tutto, ho riscoperto il potere dell'unione e della collaborazione. I miei amici ed io abbiamo preso una tregua dai nostri drammi e cerchiamo di...

 

La porta della mia camera si apre, papà e James stanno entrando.

 

«Stavi studiando?», mi chiede papà.

«No. No, tranquillo. Stavo scrivendo una cosa. Posso continuare dopo», gli dico mentre mi alzo dalla scrivania per prendere il libro di biologia.

Papà si avvicina e mi bacia: «Un giorno mi spiegherai perché devi studiare tanto. Ok?», mi sussurra.

«È l'ultimo anno di scuola, è normale», provo a mentire.

Papà alza le sopracciglia, non crede alle mie parole. Appena saranno passati gli esami di riparazione a gennaio gli spiegherò tutto, giuro. Non voglio avere il suo fiato sul collo, ci pensa già Rebecca che pare una istitutrice acida di un collegio. Fosse per lei dovrei studiare pure di notte.

«Adesso vado, ho un mucchio di cose da fare. Stasera resterò fuori a cena. Ordinate quello che volete dal ristorante cinese o da quello che vi pare», dice allungandomi due banconote da venti dollari, poi a sottovoce aggiunge:«Restate soli stasera? Voi due intendo».

«Dopo viene Kate, non ti preoccupare». Gli do un piccolo pizzicotto sulla guancia.

James nel frattempo ha svuotato il suo zaino sul letto e sta cercando il libro degli appunti. Mi avvicino e mi siedo sul letto aprendo il mio quaderno e il libro di testo.

Iniziamo subito a leggere gli ultimi capitoli che il Professor Tompson ci ha assegnato. Se non fosse per le sue spiegazioni sui capitoli precedenti riuscirei a capire ben poco.

 

Formule.

Reazioni.

Esperimenti.

 

Senza neanche accorgermene mi ritrovo a spalla a spalla con James. Sono talmente presa dalla lettura che non mi sono resa conto che lo sto toccando. 

Il mio imbarazzo si manifesta con un improvvisa rigidità del corpo che di scatto si allontana da lui. Da parecchio tempo ho sotterrato ogni fantasia amorosa nei suoi confronti, vivere con il constante fantasma dell'amore che ho vissuto per lui mi ha fatto commettere un sacco di errori, mi ha distratta. La concretezza della nostra strana amicizia, con lui e tutti gli altri, è più rassicurante e piacevole di quanto potessi mai pensare. 

 

«Scusa», gli dico di scatto.

«Non mordo mica. Stai tranquilla. So benissimo che tra noi c'è una strana alchimia... Una chimica, per restare in tema con quello che stiamo studiando», dice come battuta.

Ridacchio.

«Questo non vuol dire che dobbiamo stare insieme per forza, baciarci o fare l'amore solo per il semplice fatto che ci piacciamo fisicamente. Siamo esseri razionali, dotati di intelletto. Per fare in modo che le cose vadano bene dobbiamo controllare i nostri istinti. Non trovi?», mi dice.

 

Arrossisco leggermente, da quando sono successi i fatti di Andrew al Masques non abbiamo mai trovato modo di chiarire. Un po' per la mancanza di tempo libero, un po' per riservatezza. Non è facile spiegare perché l'ho baciato travestita da escort mezza scosciata. 

 

«Certo, ovvio. La penso perfettamente come te, non siamo bestie che si accoppiano solo perché sentono un istinto animalesco che le porta a dimenticare ogni inibizione e lasciarsi andare. Razionalità, logica e controllo. A noi serve questo, l'importante è che entrambi vogliamo la stessa cosa», gli dico sorridendo.

«Del resto se tu avessi un interesse per un'altra persona potrebbe essere sconveniente la nostra amicizia...», James mi scruta con attenzione, un po' troppa.

«No. No. No. Niente ragazzo, per carità, ne ho passate già tante che...», il mio tono pare più esasperato di quanto non pensi in verità.

James spalanca gli occhi.

«Aspetta, non volevo dire che la storia con te è stata brutta... Ma che, insomma... Ecco... Ho vissuto momenti molto dolorosi e... In poche parole... Non ho voglia di stare male con un estraneo e rivivere quello che ho vissuto». Sento del fumo uscirmi dalle orecchie, la faccia cuocere e gli occhi ballare dalle orbite. Mi sento talmente in imbarazzo che mi sembra di sciogliermi dalla vergogna.

James è serio e mi guarda con un po' di tristezza: «Mi dispiace averti fatto del male. Scusa. Ho sbagliato molte cose con te e credo che tu abbia fatto lo stesso con me. Ci siamo feriti a vicenda, in modo diverso è vero, ma credo che rimanere concentrati sugli obiettivi che vogliamo raggiungere ci permetterà di stare meglio. Io non ho la minima intenzione di rovinare tutto».

 

Non so chi sia più bravo a mentire.

C'è talmente tanta attrazione tra noi che si potrebbe tagliare con un coltello.

 

James sorride, i suoi occhi risplendono. Ingoio un litro e mezzo di saliva, mi mordo le labbra e sbarro gli occhi cercando di mantenere il controllo. Se da una parte il mio corpo mi dice di saltargli addosso e baciarlo, dall'altro la mia razionalità mi blocca. È come se avessi due Elena che combattono la lotta libera.

La mia gamba trema, come ogni volta che sono nervosa. James passa freneticamente le mani tra i capelli cercando di lisciarli. I nostri occhi sono fissi in quello dell'altro, è come se ci fosse un canale di energia che li obbligasse a fissare quel punto. Con la bocca semiaperta, come quella di un bimbo che sbava davanti a un negozio di caramelle, osservo i lineamenti di James. Strane fantasie affollano la mia mente, scalpitano. Mi sento improvvisamente desiderosa di stare con lui. Basterebbe un suo movimento, un gesto di incoraggiamento per imprimere le mie labbra sulle sue.

James sorride.

James sbatte le ciglia.

James inclina leggermente la testa.

Il suo corpo è come una calamita, il mio è un pezzo di ferro.

Non posso resistere.

I nostri visi si avvicinano sempre di più.

Trattengo il fiato.

 

«Neanche io voglio rovinare tutto. Come vedi non stiamo facendo nulla di male», sussurro così piano che non so se mi stia ascoltando o meno.

James prende il mio mento tra le dita facendo ondeggiare con delicatezza il volto. Sono in suo potere, farei tutto quello che mi chiede senza controbattere. 

«Questo non è giusto... Dobbiamo... Dobbiamo studiare», mi dice mentre mi morde il lobo dell'orecchio.

Ansimo.

«Questo potrebbe distrarci dai nostri obbiettivi», James passa le labbra sul mio collo.

Tremo.

«Non posso farmi coinvolgere, non adesso», mi dice tra un bacio e l'altro sul mio viso.

Il cuore accelera.

«Non dobbiamo essere per forza coinvolti con i sentimenti potremmo solo... Solo...». Credo che l'estasi sia quello che sto provando io in questo momento.

James si stacca da me guardandomi con attenzione: «Intendi vederci senza essere ufficialmente una coppia? Niente sentimenti e tutto il resto? Non so se...», mi dice pensoso.

 

Senza la minima esitazione prendo il suo volto tra le mani e appiccico le mie labbra alle sue. Abbiamo parlato abbastanza, non ne posso più di paranoie, viaggi mentali e paure. Voglio baciare James, punto e basta. Funzioniamo come amici, ma non come coppia anche se tra noi c'è una forte attrazione. A questo punto tanto vale vivere senza ansie quello che sentiamo, fregandocene di quello che dovremmo o non dovremmo essere.

Mi sono fasciata la testa per mesi cercando di ricostruire un rapporto tra due persone che sono solo un pallido ricordo di ciò che eravamo. 

La Elena che ha baciato James a teatro non esiste più.

Il James che mi ha portato al campo da tennis per fare il picnic è archiviato.

Siamo diversi, più consapevoli di cosa sarà la vita: fatica, impegno e dedizione verso noi stessi e i nostri sogni. In questo viaggio duro, pieno di imprevisti, meglio avere amici speciali con cui dividere lo stress. Meglio se ho James al mio fianco a baciarmi. 

Le mie fantasie e aspettative hanno creato il disastro con Andrew.

Adesso voglio la realtà di un caldo bacio.

La concretezza di un abbraccio.

La solidità di uno sguardo amico.

James mi stringe tra le sue braccia con passione, sento le sue mani infilarsi sotto il maglione. Lo bacio con desiderio, libera da quello che vorrebbero gli altri da me e da quello che la gente pensa che dovrei fare. 

Sdraiata sul letto inizio a sbottonargli la camicia e...

 

Driiin.

Il campanello suona.

Merda, questa è Kate.

 

James si alza di scatto cercando di ricomporsi. Sbuffando vado verso la porta d'ingresso provando a raccogliere i capelli in uno chignon. Con il fiatone e il volto arrossato apro alla mia amica che mi guarda con aria interrogativa. Se sapesse cosa stava per succedere le prenderebbe un colpo.

«Tutto bene Elena? Hai l'aria strana», mi chiede Kate mentre si toglie il cappotto.

«Sì, stavo... Stavo studiando chimica ed ero assorta», mento spudoratamente.

«Da quando studiare chimica ti piace tanto?», il sopracciglio alzato di Kate significa che non crede per niente alle mie parole.

Non faccio in tempo a rispondere che James si presenta all'ingresso sorridente e con i libri in mano. Saluta con la mano.

«Studiare? Ma fammi il piacere!», mi dice Kate tra i denti a bassa voce.

Le do una gomitata.

Kate sghignazza.

«Adesso andiamo a studiare, ok?», dico con la speranza di chiudere qui il discorso con la mia amica. È piuttosto imbarazzante questa situazione.

«Un attimo. Volevo chiedere una cosa ad entrambe». James si piazza di fianco a me e Kate: «Avete impegni per l'ultimo dell'anno? Sto organizzando una festa con gli altri, vi va di venire? A me piacerebbe molto».

 

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Capitolo 35
*** IERI: 31 dicembre ***


IERI:
31 dicembre




Kate guida la machina di suo padre, stiamo andando alla festa dell'ultimo dell'anno da Lucas. Ci saranno anche tutti gli altri, una piccola tregua dallo studio intenso dell'ultimo periodo. 

Tra poco più di una settimana ho dei test di riparazione per vedere se ho recuperato il programma perso, la Marquez ha insistito affinché li superi con il massimo dei voti, o perlomeno faccia il possibile per avvicinarmi al massimo risultato. Vedo formule, testi e numeri da tutte le parti. Fortuna che stasera mi svago un po'.

La radio accesa in macchina passa musica allegra, tipica delle feste. È surreale, sembra che tutte le stazioni passino la stessa selezione. Sembra che vogliano rendere felici tutti quanti, come se un motivetto orecchiabile potesse cambiare l'umore di una persona.

Se gli speaker radiofonici fossero qui in macchina con noi vedrebbero il muso lungo di Kate e l'assoluta inefficacia di tutta questa musichetta. 

Faccio finta di nulla, non ho voglia di drammi. Preferisco guardare fuori dal finestrino.

Quest'anno niente neve, le strade sono pulite. Fa molto freddo, questo è vero, secondo il meteo dovrebbe essere una serata senza intoppi. Per questo Roger si è fidato a lasciarci la macchina, niente neve sulle strade a patto che non avessimo niente alcool in corpo. Requisito fondamentale. Considerando che Kate non beve un goccio e io ho avuto spiacevoli precedenti, non ho la minima intenzione di ingerire nulla che non sia più alcolico di una coca-cola.

 

Tra meno di due minuti saremo arrivate.

«Credi che sia troppo elegante?», chiedo alla mia amica mentre mi controllo nello specchietto del passeggero.

«Se vuoi far colpo su James credo tu abbia centrato l'obbiettivo», mi dice un po' acida.

Guardo Kate di sbieco, detesto quando risponde male.

«Scusa, sono un po' nervosa. Non mi piace andare da Lucas». Kate stringe le mani intorno al volante: «Non riesco a dimenticare come ha trattato Stephanie e Jo. Con loro si è particolarmente accanito».

«Intendi per la storia del rappresentante di istituto? Adesso Jo e Adrian collaborano, non poteva andare meglio di così. Per quanto riguarda Stephanie e Lucas le cose sono complicate. Lui è stato il suo primo ragazzo, insomma, credo sia normale che le che ci sia un po' di tensione tra i due». 

 

Dicendo questo penso a me e James. Da quando abbiamo avuto quell'incontro ravvicinato a casa mia, non abbiamo avuto modo di approfondire, anche se avrei tanto voluto. Abbiamo studiato, studiato e studiato. Non che mi lamenti, ma a volte mi sta un po' stretto essere sua amica, visto che vorrei baciarlo in continuazione. 

Il resto del tempo lo abbiamo passato insieme agli altri. Le cose sono andate per il meglio, niente litigi, niente battutine e niente colpi bassi. Persino Rebecca è stata sopportabile, a tratti l'avrei presa a schiaffi, ma mai per motivi troppo seri. 

 

«Non psicanalizzare Stephanie e Lucas. Lui può essere molto prepotente se vuole, mentre S è così...». La interrompo.

«Fragile? Influenzabile?», dico io.

«Delicata», mi corregge Kate.

Alzo le spalle. Non ho voglia di discutere con nessuno, tantomeno con Kate che pare avere la luna storta.

Provo a cambiare discorso.

«Hmm... Quindi hai già mandato la presentazione per l'ammissione all'Accademia di Fotografia di New York?».

«Sì. Ho mandato diverse foto e una lettera di presentazione. Tra qualche mese potrei ricevere una risposta. Sempre che mi prendano. E tu? Hai iniziato a lavorare per Yale? Ti iscriverai a giurisprudenza?», mi chiede.

 

Tasto dolente. Da una parte non ho ancora i voti necessari per aspirare a Yale e poi non sono sicura sia quello che voglio fare. Se penso che quando abitavo a Milano volevo fare la pittrice mentre adesso mi ritrovo a progettare il mio futuro da avvocato, mi viene la pelle d'oca. Non credo esistano due professioni così distanti. Non che non mi piaccia il brivido della discussione, del dibattito e tutto il resto, ma non credo di avere il sangue freddo per poter reggere. D'altro canto non sono neanche un artista, mi piace dipingere, ma non sono nulla di eccezionale. Ho per la testa una tale confusione sul mio futuro che non so che decidere.

 

«Vedrò. Non ho le idee chiare, ho ancora un po' di tempo per decidere», le dico in totale sincerità. 

«La cosa importante è che tu sia convinta della tua scelta, non importa altro». Kate frena. Siamo fuori dal cancello della villa di Lucas. Un parcheggiatore si avvicina a prendere la nostra macchina invitandoci a seguire le candele poste sul vialetto, la festa è in quella direzione.

Kate ed io ci incamminiamo con calma, non eravamo mai entrate lì. La casa di Lucas ha grandi vetrate, linee più squadrate e moderne. È molto diversa da quella della Signora McArthur, da quella ti Rebecca e da quella di Stephanie, che hanno uno stile più classico. Sembra di stare a Miami, in riva all'oceano.

Il pulsare della musica si sente fin dall'ingresso, attraverso le vetrate possiamo sbirciare all'interno, ci sono molti studenti del Trinity, ma anche molti altri ragazzi e ragazze che non conosciamo.

Prendo Kate per mano, so quanti detesti questa situazione, ma se vuole che regni pace a scuola e fuori deve fare buon viso a cattivo gioco.

All'ingresso troviamo una guardarobiera che ci prende il cappotto invitandoci a entrare nella grande sala decorata con cristalli e decorazioni scintillanti a tema polo nord. Sembra di stare in un castello fatto di ghiaccio, i lampadari, gli arredi e tutto il resto scintilla e riflette luce azzurra. È uno spettacolo.

Intravediamo la chioma rossa di Stephanie ballare in mezzo alla sala, un DJ sta mettendo un disco dopo l'altro. È bellissima stasera, ha arricciato leggermente i capelli e indossa un abito sulle sfumature del verde. Il mio abitino a confronto pare uscito da un catalogo di terz'ordine.

 

«Ciao, sei uno spettacolo». Abbraccio Stephanie ammirandola da vicino.

«Grazie. Anche tu non scherzi», mi dice sorridente, poi rivolta a Kate: «Sei fantastica pure tu». Kate abbraccia l'amica, pare essersi sciolta un po'.

Tutte e tre iniziamo a ballare ridendo tra di noi. Non sono brava, sono piuttosto goffa, ma in mezzo alle mie amiche non mi vergogno. Ci divertiamo e questo è l'importante, quello che pensano gli altri mi interessa poco.

Jonathan mi abbraccia all'improvviso da dietro prendendomi per mano. Ci dondoliamo un po', poi mi fa girare su me stessa. Per poco non cado, ma riesco a recuperare rimettendomi dritta. Figuraccia scongiurata. Stephanie ride mentre Jo si lancia su Kate. I due iniziano a fare gli scemi imitandosi a vicenda come fossero davanti ad uno specchio. In pochi minuti tutti e quattro sembriamo delle scimmie sgraziate che si divertono a fare le mosse più comiche che possono.

 

«Interessante modo di ballare». La voce di Rebecca ci riporta alla realtà.

«Dovresti provare. È divertente lasciarsi andare ogni tanto». La punzecchia Jo.

«Io sono bravissima a lasciarmi andare. Non lo faccio con chiunque, cerco di selezionare le persone», ribatte Rebecca con la solita espressione snob.

Jo la guarda divertito, poi la prende per mano facendola girare rapidamente, le fa fare un casque improvvisato per poi lanciarsi in una danza scomposta davanti ai suoi occhi. Rebecca, oltre ad avere la testa che le gira, guarda l'amico con aria interrogativa.

«Tesoro, questo è lasciarsi andare. Fregarsene di tutto e tutti», le dice Jo mentre balla cercando di imitare il passo di un pinguino.

Stephanie, Kate ed io scoppiamo a ridere. Le lacrime ci riempiono gli occhi e mi fa male la pancia, sono piegata in due. Anche Rebecca è divertita anche se non vuole darlo a vedere.

Adrian, Lucas e James ci raggiungono poco dopo. Tutti quanti iniziamo ad imitare Jo, anche se rischio più volte di sfracellarmi sul pavimento. Con i tacchi non è certo facile ballare come fa lui.

 

Senza rendermene conto ballo. Ballo per un sacco di tempo. Ballo senza avere ansie. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sento leggera e in pace. Certo ho sempre gli esami in testa, ma questa serata in compagnia dei miei amici ci voleva proprio.

 

«Ti va di bere qualcosa?», mi chiede James ad un orecchio.

Annuisco.

Ci allontaniamo dal gruppo verso un bancone dove un barman ci serve.

«Che vuoi?», mi chiede James.

«Una coca. Grazie».

James mi guarda incuriosito:«Sei sicura? Qui puoi bere quello che più ti piace».

«No, grazie. Niente di alcolico. Ho avuto brutte esperienze a riguardo».

«Sono tutte così brutte?», mi chiede James mentre sorseggia un bicchiere di champagne.

Sto per rispondergli quando mi accorgo che entrambe le volte che mi sono ubriacata lui c'entrava qualcosa. La prima volta alla festa di Rebecca, quando James mi ha dato la coperta e aiutata dandomi qualcosa da mangiare. La seconda volta durante la serata al Masques.

Arrossisco: «No, cioè... Scusa... È che combino troppi guai se sono ubriaca. Meglio evitare».

«Quindi baciarmi nel locale di Andrew è stato un guaio?», mi chiede James ridacchiando.

«Dai, sai cosa intendo. Tendo a perdere le inibizioni. Non è mai una bella cosa, soprattutto se consideri i casini che ho combinato».

James mi accarezza il volto, poi infila le mani nei capelli. Mi guarda con intensità, sembra arrabbiato, ma allo stesso tempo intenerito: «Se ti interessa saperlo mi è piaciuto baciarti al Masques, come mi è piaciuto baciarti a casa tua e come mi piacerà sempre».

Adesso svengo. Come è possibile che mi sciolga ogni volta che sono tra le sue braccia?.

«Puoi baciarmi tutte le volte che vuoi», gli dico dolce.

James pare pensoso, mi guarda, ma capisco che pensa ad altro:«È importante restare concentrati. Adesso hai gli esami di riparazione, poi ci toccano altri sei mesi di lezioni serratissime, la scelta del college, la gara di dibattito e il diploma. Non posso perdere tutto ciò che ho costruito in tanti anni, nonostante ti desideri con tutto me stesso. Abbiamo tutto il tempo per amarci come si deve. Abbiamo Yale, potremmo seguire le stesse lezioni, potremmo diventare forti insieme. Non avere fretta Elena, cerca di capirmi. Se seguissi solamente il mio cuore rischierei di sbagliare, come è successo a te. Sei come il calice di campagne che dà alla testa, sei come quel sorso di liquore in più che mi porterebbe a far scelte sbagliate. Tu stessa hai detto che ti penti del Masques e di tutto il resto. Adesso puoi dirlo con serenità, ma immagina se compissimo scelte sbagliate adesso, in uno dei momenti più importanti della nostra vita. La nostra vita sarebbe segnata per sempre».

«Quindi, come restiamo?». Sono parecchio confusa. Da un lato sento il mio istinto portarmi a baciarlo e coccolarlo, dall'altra parte comprendo benissimo le sue parole.

«Facciamo così... Restiamo uniti, vicini, aiutiamoci e supportiamoci, ma senza perdere di vista l'obbiettivo. Una volta diplomati potremo passare l'estate insieme, rilassarci».

 

L'idea di non poter vivere i miei sentimenti mi sembra una forzatura, non è mai bene controllarsi, ma credo che James abbia ragione. Mi mancano soli pochi mesi per diplomarmi e iniziare una nuova vita al college. Il fatto che voglia condividere con me il suo futuro è la cosa migliore che potesse dirmi. 

 

Con gli occhi lucidi, le gambe che mi tremano lo abbraccio. Lo stritolo:«Quindi vuoi costruire il nostro futuro un passo alla volta, insieme a me?».

«Certo pivella,  dobbiamo avere chiaro l'obbiettivo. Non roviniamo tutto un'altra volta», mi sussurra in un orecchio.

Affondo il viso nel suo petto, il suo corpo caldo, le sue braccia forti e i suoi baci sui miei capelli sono la cosa migliore che potesse darmi. Il regalo migliore, la cura ad ogni tristezza.

 

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Buon anno!

 

Tutti i ragazzi nella sala urlano, si danno pacche sulla schiena. C'è chi intona canzoni, chi bacia persone a caso. Jo, Stephanie e Kate si abbracciano stretti, James ed io li raggiungiamo e ci uniamo a loro. Rebecca, Adrian e Lucas sono dietro noi. In cerchio, spalla a spalla cantando Auld Lang Syne a squarciagola ci ricordiamo, solo guardandoci negli occhi, cosa siamo stati l'uno per l'altro, nel bene e nel male. 

Questo momento me lo ricorderò per sempre. 

Un nuovo anno e vecchi amici.

Un nuovo anno e nuovi sogni.

 

(Testo della canzone tradotto)

Credi davvero che i vecchi amici si debbano dimenticare 

e mai ricordare?

Credi davvero che i vecchi amici e i giorni trascorsi insieme

 si debbano dimenticare?

Perchè i giorni sono ormai trascorsi, mio caro,

 i giorni sono ormai trascorsi

Faremo un brindisi per ricordare con affetto 

i giorni ormai trascorsi

Tu puoi pagare il tuo boccale di birra 

e io pagherò il mio

Faremo un brindisi per ricordare con affetto 

i giorni ormai trascorsi

Noi due abbiamo viaggiato per le colline 

e strappato margherite selvatiche

Ma ora siamo lontani l'uno dall'altro

perchè i giorni sono ormai trascorsi

Noi due abbiamo navigato nel fiume

 da mattina a sera

 ma ora vasti oceani si frappongono tra noi

Perchè i giorni sono ormai trascorsi

Perciò prendi la mia mano, amico mio fidato

 e dammi la tua

Faremo un brindisi pieno d'affetto insieme, in ricordo di quei bei giorni andati.

 

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Capitolo 36
*** IERI: Pronti, esami, via ***


IERI:
Pronti, esami, via






«Hai gli appunti? I cartoncini per ripassare le materie tra una lezione e l'altra? Matite e penne?». Rebecca cammina rapida al mio fianco nel corridoio della scuola, sembra più nervosa di me. Io avrei bisogno di dormire, ho le occhiaie e l'aria molto stanca. Sono così distrutta che berrei addirittura una mega tazza di caffè.

Oggi è l'ultimo dei tre giorni dei test, ho passato gli ultimi due pomeriggi a passare da un professore all'altro per sostenere gli esami. Alcuni mi hanno fatto delle domande orali mentre altri mi hanno dato un questionario. Rebecca, Jo, Kate, Stephanie, Adrian e James mi sono stati vicini a turno, tra una lezione e l'altra. 

Inutile dire che senza il loro aiuto sarei nei guai.

 

La Marquez ha seguito con interesse le prove, a volte me la sono ritrovata ad assistere. Con lei presente ero tesa al massimo, le gambe tremavano il doppio e la sudorazione era a mille. Ci tiene che faccia dei buoni esami, è infastidita dal fatto di avere una studentessa con la media bassa. Un affronto per lei. Questa cosa l'ha mandata su tutte le furie, un'onta per la scuola, considerata tra le migliori del paese. 

Non sono mai stata un genio, ma ho sempre avuto buoni voti, non come quelli di Jo, ma me la sono sempre cavata più che bene. Ho sudato sette camicie per recuperare tutto, oltre ai giorni di assenza non ho praticamente aperto un libro per tutto il tempo che ho dato retta ai consigli di Andrew. Quindi le cose da studiare sono state un bel po'.

Spero di cavarmela.

 

«Oggi ti tocca letteratura inglese, biologia e dibattito», mi dice mentre mi guarda con aria schifata.

«Che c'è?», le chiedo alzando le spalle.

Rebecca mi raddrizza la giacca, mi chiude i bottoni della camicia vicino al collo mi spolvera la gonna. Poi prende la sua fedelissima trousse dei trucchi e inizia a mettermi un po' di blush sulle guance.

«Hai una strana sfumatura tra il verde e il grigio. Un po' di colore non può farti che bene», mi dice mentre mi spalma del lucida labbra perlato sulle labbra. Disperata mi guarda i capelli, sbuffando prende la sua spazzola iniziando a passarla energicamente sulla mia chioma. Trattengo a stento le urla di dolore, mi sono agitata talmente tanto stanotte che credo di avere dei grovigli abnormi.

«Non ho fatto molto caso al mio aspetto», provo a giustificarmi.

«Possibile che tu possa passare da un estremo all'altro? O sei sciatta o super curata? Una sana via di mezzo no?». Rebecca mi intreccia i capelli dietro la nuca, poi raccoglie il tutto in un chignon alto.

 

Arrossisco.

So che ha perfettamente ragione, ma sono talmente presa dai test che a malapena mi ricordo di mangiare e dormire.

 

«Adesso sei abbastanza decente. Mi chiedo come tu abbia fatto a passare i test i giorni scorsi conciata in questo modo. Gli altri non ti hanno detto nulla?», mi chiede mentre mi ammira con attenzione come se stesse guardando qualcosa di sgraziato e poco piacevole.

«Nessuno mi ha mai fatto notare che fossi messa così male», pigolo.

Rebecca mi guarda con l'aria disgustata:«L'hanno fatto per pietà, mia cara». Mi dà un buffetto sulla testa come fossi il suo animale domestico per poi spingermi verso l'aula di letteratura inglese.

Stephanie mi sta aspettando, è lei l'esperta di questa materia.

«Dopo letteratura ha biologia. Verrà James a prenderla. Devi ricordargli che Adrian la porterà a Dibattito. Ok?». Rebecca controlla su una cartella se ho fatto tutto. Lì sopra c'è pianificato ogni mio spostamento e impegno delle ultime settimane. Spunta un paio di voci soddisfatta, ci saluta e corre alla sua prima lezione pomeridiana.

Io e Stephanie restiamo sole, sappiamo benissimo che dopo oggi non avrò altre chance per recuperare.

 

O la va o la spacca.

Adesso devo restare concentrata come se stessi affrontando una gara. I muscoli sono testi, lo sguardo fermo, l'energia è tutta concentrata nel mio cervello.

 

Inizio a saltellare sul posto.

Stephanie mi chiede date, nomi di autori e principali opere.

Rispondo.

Stephanie mi massaggia la schiena.

Mi stiracchio.

Ripeto a memoria i passaggi principali delle ultime opere studiate.

Il sudore imperla la mia fronte.

Stephanie mi allunga una bottiglietta d'acqua.

Citazioni, periodi storici e arte.

Sono pronta con la matita in mano, la professoressa sta arrivando.

Stephanie mi incoraggia, poi se ne va alla sua lezione.

 

Adesso siamo solo io e il test di letteratura inglese.

Non posso avere paura. Ho studiato, devo solo restare calma.

 

Seduta.

Foglio.

Test a risposta multipla.

Gomma e temperino.

Testa china.

Tic. Tac.

Il tempo è partito.

 

Elena, respira.

Elena, concentrati.

Elena, conosci le risposte.

 

Risposta A.

Risposta C.

Risposta E.

Forse è D?

 

Elena, concentrati!

 

Rispondo una dopo l'altra alle domande. Passano 50 minuti, li uso tutti. Rileggo più volte, spesso mi vengono dei dubbi, ma spero di aver fatto giusto.

La professoressa ritira il test allo scadere del tempo, non dice nulla. Non saluta, esce e se ne va appena suona la campanella. Io faccio lo stesso.

 

Adesso mi tocca Tompson con biologia.

 

James è nel corridoio e sta venendo verso me, mi prende per mano e a passo veloce mi porta nella stanza dove devo sostenere l'esame. Non dice una parola, è teso come lo sono io. Lo sanno tutti che biologia e chimica sono le materie in cui vado peggio.

Mi abbraccia forte mentre mi bacia la fronte:«Mi raccomando cerca di ricordare i pomeriggi passati a studiare. A Tompson piace quando si ripete a pappagallo».

Passo tra le mani i cartoncini con gli appunti, li leggo freneticamente:«Va bene. Va bene», rispondo nervosa.

«Elena, rilassati e concentrati. Lascia perdere quei foglietti e guardami». 

 

Due stelle verdi, luminose e splendenti mi abbagliano.

Credo che i suoi occhi abbiano poteri ipnotici, non è possibile che ogni volta che mi fissa mi senta irrimediabilmente attratta da lui. L'istinto mi porterebbe a baciarlo, ma mi trattengo. Preferisco stare ad ammirare il suo volto, riuscire a parlare senza voce scorgendo le espressioni del suo viso, capire ciò che prova studiando i movimenti delle labbra. Per pochi minuti ci perdiamo uno nello sguardo dell'altra.

 

«Stai T R A N Q U I L L A», sillaba ad un certo punto mentre mi stringe le mani sulle spalle.

Gli sorrido: «Andrà tutto bene, non ti preoccupare. Sono tranquilla». Sto mentendo, non voglio farlo preoccupare ulteriormente.

James non pare molto convinto, ma sembra rasserenarsi un po'.

 

La campanella suona.

Tompson mi aspetta.

 

Mi ritrovo dopo meno di due minuti davanti al professore a ripetere la lezioncina che James mi ha ripetuto così tante volte che mi sembra di recitarla a memoria. Fortuna ho studiato sui suoi appunti, se avessi letto solo il libro di testo non avrei capito nulla.

Tompson sembra gradire il mio tono noioso che ricalca le parole da lui usate durante la lezione. Tecnicismi e paroloni che non capisco proprio del tutto, ma che sembrano sortire l'effetto desiderato, il professore non mi fa domande supplementari. Se ne sta lì con gli occhi chiusi a seguire il mio ragionamento.

Quando ho finito di parlare il professore mi chiede di riconoscere e classificare lo stadio di alcune cellule al microscopio. James mi ha fatto molte lezioni sull'argomento, quindi riesco a rispondere con discreta facilità.

Tompson mi guarda stupefatto, prende appunti su un blocco:«Complimenti Miss Voli. Ho sempre desiderato che lei potesse apprendere con tanta precisione le materie che insegno. Adesso può andare». Mi fa cenno con la mano di allontanarmi come fossi un fastidioso moscone che ronza nella stanza.

 

Stringo i denti.

Trattengo il sorriso.

Contegno, anche se vorrei urlare.

 

Appena chiudo la porta dell'aula di chimica e biologia alle mie spalle mi metto a salterellare come una pazza cercando di contenere le urla che vorticano nel mio petto. Improvviso pure un balletto piuttosto ridicolo, ma che serve per sfogare la tensione accumulata nell'ultimo periodo. Braccia e gambe mosse ritmicamente come se stessi camminando, testa che segue il corpo,  anche se in effetti resto ferma sul posto.

 

«Credo che tu abbia bisogno anche di ripetizioni di danza». La voce di Adrian giunge all'improvviso. Sta ridendo per il mio balletto.

Appena vedo il mio amico gli salto al collo:«È andato tutto bene, ho risposto a tutte le domande del professor Tompson».

«Grande. Ora ti resta solo dibattito», mi dice sorridendo, «Con il professor Martin non hai nessun problema».

Rispondo al suo sorriso con uno ancora più grande, prendo a braccetto Adrian e insieme saliamo al primo piano.

 

Sono così euforica che saltello per tutto il tempo, sembro una molla. Non ci posso credere che ho finito questi maledettissimi esami. Sono talmente felice che chiacchiero a ruota libera, non mi rendo neanche conto che la campanella è suonata. Adrian mi saluta velocemente per correre all'ultima lezione del pomeriggio.

Mi accomodo nell'aula di dibattito al mio solito posto inattesa che arrivi Nik. Non credo voglia farmi un esame vero e proprio, non è da lui, ma credo preferisca fare una bella chiacchierata con calma e tranquillità. Non vedo l'ora di sfogarmi con lui, tra noi c'è un'amicizia particolare. Dopo quello successo nel magazzino del parco Franklin non abbiamo avuto più modo di stare insieme. Non che ci sia nulla da dire, quel mezzo bacio  è stato un errore. Non era giusto, l'abbiamo capito dopo. È giusto preservare quello che c'è tra noi.

 

Provo a rilassarmi un po'.

Con le mani dietro la testa, i piedi sul banco guardo il soffitto. Fischietto rilassata godendomi la fine di tutto quell'incubo. La mente vola verso immagini piacevoli, rilassanti, colorate. Mi serve un po' di leggerezza dopo tanta pesantezza.

 

«Miss Voli! Che fa? Le sembra di stare a casa sua a bighellonare?». La voce della Marquez mi scuote facendomi cadere con i piedi per terra sia fisicamente che metaforicamente. In meno di tre secondi sono seduta composta, non penso più a unicorni rosa, nuvole di zucchero filato e stelline scintillanti, ma all'inferno incandescente, a sassi appuntiti e diavoli con il forcone. In mio unico pensiero è per la preside che mi guarda e non vede l'ora di assistere al test con il professor Martin.

 

Sudo.

Tremo.

 

Nik entra in classe serio. Appoggia sulla cattedra un plico di fogli.

«Buongiorno Signora preside, come sta? È un piacere vederla», dice con garbo.

«Sto molto bene Nicholas. Sono venuta ad assistere all'esame della sua protetta. L'anno scorso, durante la festa degli ex studenti, ha ballato con Miss Voli. Mi sono sempre chiesta come mai avesse privilegiato questa ragazza piuttosto che altri studenti». La donna mi guarda con curiosità.

«Elena ha dimostrato velocità di pensiero e propensione al dibattito. Caratteristiche innate che con lo studio possono migliorare ulteriormente», dice Nik con tranquillità e compostezza.

 

Me la sto facendo addosso.

Le mani sono bagnate di sudore.

Ho il fiato corto.

 

«Mi è stato riferito che hai fatto una sceneggiata in classe, poco tempo fa. Credo tu abbia detto, davanti a tutti, che non ti piace la materia del professor Martin. Mi sto sbagliando Elena?», mi chiede la preside osservandomi con molta attenzione.

«No signora, non si sbaglia. Ho passato un momento di crisi personale che purtroppo ha influenzato il mio andamento scolastico», dico con voce tremante mentre ingoio due litri di saliva.

«Capita a tutti di avere crisi personali, l'importante è riprendersi», mi dice con ironia, «Sono qui per verificare questo». La donna si appoggia ad un banco mentre mi osserva curiosa.

Nik finisce di sistemare dei fogli, poi mi guarda deciso: «Bene Elena, possiamo iniziare. Sei pronta?».

Annuisco con un mezzo sorriso anche se vorrei scappare il più lontano possibile.

 

... Continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 37
*** IERI: Il processo ***


IERI:
Il processo




Nik finisce di sistemare dei fogli, poi mi guarda deciso: «Bene Elena, possiamo iniziare. Sei pronta?».

Annuisco con un mezzo sorriso anche se vorrei scappare il più lontano possibile.

 

 

La Marquez mi guarda con attenzione, forse un po' troppa. Credo si interroghi sul perché riscuota tanta attenzione. Da un lato c'è il professor Martin che ha dichiarato a tutta la scuola che sono tra le studentesse più promettenti, quando l'anno scorso mi ha invitato a ballare alla festa degli ex studenti. Dall'altro ci sono tutti i casini che hanno causato le ragazze dei fan club, la preside sa benissimo che ero io a dirigere i giochi e che mi sono sfuggiti di mano. 

Con le braccia conserte e lo sguardo serio, la Marquez mi scruta da capo a piedi. Fortuna che Rebecca mi ha sistemato i capelli e truccata leggermente, altrimenti sarei sembrata una zombie senza un minimo di credibilità.

Nik è impassibile, mi ricorda quando quest'estate lavorava all'ufficio McArthur a New Heaven. Broncio, labbra strette e fronte corrugata. Sa benissimo che se dovessi fallire avrebbe anche lui delle conseguenze serie, significherebbe che ha dato troppa importanza ad una studentessa non degna di essere seguita. Uno smacco che la preside non dimenticherebbe facilmente.

 

«Se fosse possibile vorrei fare qualche domanda ad Elena». La donna sorride sussiegosa a Nik.

«Nessun problema, faccia pure», risponde con calma.

 

Me la sto facendo addosso, ma non voglio darglielo a vedere. Non voglio diventare una preda della preside. Se devo andare a fondo, colerò a picco con onore e dignità. 

 

«Da quello che hai imparato qui negli USA, al Trinity in particolare, quale credi sia la caratteristica più importante per uno studente? So che sei amica di McArthur e compagnia, alcuni tra i più influenti ragazzi della scuola, capaci di condizionare gli umori di molti compagni. Cosa hai imparato da loro?», mi chiede la donna con un sorrisetto furbo.

 

È talmente ovvio che vuole che faccia la spia, che le riveli qualche dettaglio succulento sui miei amici, che non ci vuole un genio per capirlo.

 

«Non credo che loro mi abbiano insegnato qualcosa, non volontariamente. Le esperienze vissute con loro mi hanno dato tanto, il gruppo, tutti insieme. Singolarmente sono persone come tutte noi, con pregi e difetti», le rispondo. 

«Difetti? Che tipo di difetti? Potresti essere più chiara?», insiste.

«Se analizza la sua persona troverà i difetti che abbiamo tutti, compresi i miei amici ed io. Certo, in forma diversa, ma tutti a modo nostro siamo egoisti, maligni e cattivi. La differenza sta a capire quando fermarsi. Gli amici servono a quello».

«Ha esempi a cui fare riferimento? Che cattiverie hanno o avete commesso?». La donna si è avvicinata pericolosamente a me. Con aria minacciosa mi fissa, vuole notizie e sa benissimo che io potrei darle un sacco di informazioni.

«Nulla di più che un gruppo di ragazzi adolescenti possa fare. Ripensi a quando frequentava una High School. Che ha combinato? È sempre stata alle regole oppure ha trasgredito?», le rispondo a tono.

 

La Marquez sta pensando a quello che le ho detto. Non ho la minima intenzione di spifferare nulla.

 

«Credi che quelli che consideri i tuoi amici siano leali come te? Sei assolutamente sicura che non mi abbiano riferito nulla? Potrei sapere cose su di te che neanche credi sappia». Lo sguardo della donna è diabolico. I suoi occhi neri sembrano scrutarmi dentro.

 

Non voglio neanche immaginare l'ipotesi lanciata dalla donna, non voglio credere che qualcuno abbia fatto la spia nei miei confronti. La preside sta bluffando e io non ho intenzione di cadere nel tranello.

 

«Se quello che dice è vero, cioè che i miei amici le abbiano riferito qualcosa di scandaloso su di me, dovrei pagarne le conseguenze. Ovviamente solo se avesse le prove per avvalorare tali pettegolezzi. Il fatto che io non abbia punizioni, espulsioni o sospensioni a riguardo significa che ciò che forse sa, o non sa, non è possibile dimostrarlo. Quindi anche se lei sapesse qualcosa sa benissimo che non può usarlo contro me. A meno che non lo confessi io stessa».

La Marquez mi guarda sorpresa, abbozza un sorriso: «Quindi mi confermi di aver combinato qualcosa. Il fatto che tu mi abbia appena detto che posso incolparti di qualcosa solo se confessassi, significa che hai commesso qualcosa».

«Se vuole ammetto ciò che vuole, se questo la fa sentire meglio. Si tratterebbe però di una confessione estorta e non spontanea. Non so quanto varrebbe. In alcuni paesi del mondo usano la tortura durante i cosiddetti processi. Crede che il Trinity possa adottare questa tecnica? Mi vedo già la fila fuori dall'aula di tortura, mi chiedo solo chi potrebbe essere il professore», dico sarcastica.

 

Intravedo Nik nascondere un sorrisetto. 

La Marquez non l'ha presa per niente bene.

 

«Non scherzare con il fuoco Elena. In questa scuola non vengono e non verranno mai usati metodi coercitivi su nessuno. Tutti gli studenti vengono dalle migliori famiglie dello stato e sanno come devono comportarsi, non ho intenzione che una ragazzina arrogante e con la lingua lunga mi dica cosa o non cosa fare».

«La mia arroganza e la mia lingua lunga sono uno degli insegnamenti dei miei amici. Del resto non è questo che vuole la scuola? Sono la dimostrazione che chiunque può diventare ciò che qui viene auspicato. Come mi ha insegnato il professor Martin dobbiamo essere come creta, malleabili, capaci di prendere la forma più congeniale in una determinata situazione. Io l'ho fatto, per questo sono qui nel Club di dibattito, ho la forma giusta, e non ho la minima intenzione di andarmene. Impegno, dedizione e perfezione. Sull'ultimo punto ci sto ancora lavorando». 

 

Colpita e affondata.

 

La Marquez si sistema la giacca. Credo si sia resa conto di aver perso le staffe, cosa assolutamente deprecabile per un dirigente scolastico, soprattutto davanti ad un insegnante. La sua carnagione scura ha una sfumatura più rossa del normale, le suda la fronte.

 

«Bene, professor Martin. Vedo che ciò che cerca è un modello di studente pronto a tutto, disposto a difendere l'onore di ragazzini volubili e...». La donna viene interrotta da Nik.

«... Ragazzini che stanno crescendo e cercando la loro strada. Ragazzini che scimmiottano gli adulti credendo sia quello il modo giusto di relazionarsi. Il Club di dibattito insegna loro a sapersi difendere con parole e ragionamenti. Mi pare che Elena sia riuscita egregiamente», dice mentre si toglie gli occhiali e li pulisce con nonchalance con un panno.

La Marquez, rigida nella sua posizione, mi squadra da capo a piedi:«Ascolterò con attenzione il giudizio di ogni docente con cui hai sostenuto gli esami per recuperare la tua pessima situazione scolastica. Se solo uno, dico uno, mi dirà che non hai raggiunto un volto più che soddisfacente sarai ufficialmente esclusa dal Club di dibattito. Chiaro?», dice dura.

«Sissignora», rispondo decisa, anche se l'idea di lasciare il Club mi prende molto male.

 

La donna esce dalla stanza senza salutare nessuno.

 

Le gambe tremano un po' per la rabbia, un po' per la tensione. Detesto dover rispondere in quel modo, soprattutto in situazioni del genere. Se non ci fosse stato Nik la preside avrebbe calcato di più la mano, ne sono sicura. Farebbe di tutto pur di avere informazioni succulente sui suoi studenti, soprattutto su James e gli altri.

 

«Elena le hai tenuto testa, complimenti». Nik si avvicina prendendomi per mano.

«Credi abbia esagerato? Del resto è sempre la preside della scuola, dovevo portarle più rispetto?», chiedo.

«Hai risposto come volevo. Sei stata evasiva e hai risposto alle sue domande con altre domande sviando il discorso. Meglio di così non potevi fare. Del resto sei a dibattito, non potevi fare altrimenti».

 

Mi lascio andare, la tensione si sta sciogliendo. I test che ho dovuto sostenere sono andati bene, lo so perché ho studiato talmente tanto che non è possibile che siano andati male. Almeno lo spero.

Slaccio il bottone della camicia vicino al collo e mi tolgo la giacca. Con un piccolo saltello mi siedo su un banco appoggiando le mani vicino ai fianchi. Nik è di fronte a me con le mani in tasca e mi guarda divertito.

«Bene, Miss Voli, adesso siamo pronti a sostenere il mio test», mi dice con un filo di voce al mio orecchio.

 

Mi irrigidisco.

Possibile che voglia interrogarmi veramente?

 

«Voglio che mi dica i motivi per cui vuole restare in questo Club. Cosa le piace e perché ci tiene a rimanere?», mi sussurra con voce divertita.

Incrocio le braccia al petto con la faccia imbronciata:«Non intendo risponde a questa domanda, la risposta non mi sembra utile al fine del processo».

«Processo?», mi chiede Nik spaesato.

«Da quando frequento questa scuola ho sempre dovuto sostenere esami, prove e dimostrare qualcosa. In ogni posto andassi ho dovuto lottare. Come prima con la Marquez ho sostenuto un vero e proprio processo. Adesso lei mi chiede perché voglio restare in questo Club? Perché ci tengo a rimanere?», dico le ultime parole con un tono più alto del normale, voglio sembrare arrabbiata.

Nik è confuso, mi guarda con la testa storta come se si trovasse di fronte ad una lavagna con scritta un'equazione incomprensibile. Credo non capisca perché sono così dura con lui e gli sto dando del lei.

«Voglio rimanere perché...», allungo la mano verso il volto di Nik, «... Perché nelle tue lezioni mi sento libera, posso essere me stessa. Perché so che mi ascolti, sempre. Perché sei una delle poche persone a cui voglio veramente bene. Perché mi sproni a dare il meglio». 

 

Non potrei mai dire nulla di male di Nik. È un professore magnifico, capace di vedere oltre le apparenze. È la mia salvezza, in ogni momento brutto lui mi è stato vicino riuscendo a confortarmi e consigliarmi nel migliore dei modi. I suoi occhi azzurri, gli occhiali tondi sul naso, la giacca sbottonata e il suo sorriso dolce sono le piccole certezze che rendono migliore la mia vita. Sapere che lui c'è sempre, che desidera il meglio e non vuole vedermi soffrire, è come avere un porto sicuro in cui rifugiarmi i giorni di tempesta.

Con la mano sulla sua guancia accarezzo la barba incolta, sfioro il collo per poi prendere la sua mano e stringerla forte. Nik è parte di me e mi auguro lo sarà per sempre.

 

«Mi dici come faccio a non... A non... Insomma... sai che per me sei importante. Mi piace essere il tuo professore e tuo amico. Nulla più, non ti preoccupare, non cercherò di baciarti». Con le dita sfiora una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon che mi ha fatto Rebecca. Mi guarda con attenzione come se volesse dirmi un milione di cose, ma non trovasse le parole.

«Neanche io cercherò di baciarti. L'altra volta ercavo conforto nel modo sbagliato, le tue parole e il tuo modo di fare sono la medicina migliore a tutti i miei mali», gli rispondo serena.

«Direi che potremo passare i prossimi mesi di scuola insieme, aiutandoci l'un l'altro, come veri amici», mi dice Nik.

«A dire il vero sei tu che mi aiuti sempre. In cosa ti potrei aiutare io?», chiedo confusa.

 

La campanella suona.

 

«Mi aiuti più di quanto tu possa credere», mi dice mentre mi stringe il volto tra le mani, «Adesso vattene a festeggiare, hai finito tutti gli esami».

Senza farmelo dire due volte scendo dal banco catapultandomi verso la porta e urlando un sonoro ciao al professor Martin. Mi lancio per il corridoio alla ricerca di Kate o James, qualcuno da abbracciare e con cui festeggiare la fine di tutta quella storia.

Non trovo nessuno, ma non mi do per vinta.

Vado verso l'ingresso, giro per il corridoio principale, ma trovo solo un fiume di studenti che escono dalle aule. Aspetto qualche minuto fuori dalla mensa, ma sembrano tutti spariti. Non c'è traccia dei miei amici.

Sconsolata vado verso il mio armadietto per riporre i libri che ho in mano. Appena giro l'angolo noto due ragazze che si guardano intorno curiose, sono davanti al mio armadietto. Sembra mi stiano aspettando.

 

«Cercate qualc...». Interrompo la frase. Sono due delle ragazze del mio fan club:«Che diavolo volete?», chiedo acida.

«Volevamo darti questo. È l'iscrizione per partecipare al concorso di homecoming queen. Sei una delle ragazze in lizza», mi dicono sbattendo le ciglia con finta ingenuità.

«Non mi interessa diventare la reginetta del ballo, potete buttare via il foglio», rispondo loro.

«Non puoi. Sei stata iscritta e oggi è l'ultimo giorno per ritirare l'iscrizione al concorso. Ufficialmente sei una candidata», mi dice una delle due.

«Che scemenza! Non potete mica obbligarmi a fare una cosa che non voglio. Se questa è una mossa per vendicarvi della storia delle spillette...». Una ragazza ridacchia interrompendomi.

«No. No. Niente vendette. Per noi resti la numero uno. Il volontariato che la Marquez ci ha fatto fare ci aiuterà per Yale, una voce in più da mettere nella presentazione per il college», dice divertita.

«Allora perché mi avete iscritta contro la mia volontà?», chiedo brusca. Questa storia non mi piace per niente.

«Ma Elena, non ti abbiamo iscritta noi!».

«È chi sarebbe quell'idiota che ha fatto una stupidata del genere?», chiedo mentre le sposto dal mio armadietto.

«Rebecca», rispondono in coro le due.

 

Le orecchie mi fumano.

I denti sono serrati.

I pugni stretti.

 

Io quella la strozzo.

 

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Capitolo 38
*** IERI: Homecoming Queen ***


IERI:
Homecoming Queen






Cammino a passi veloci tra i mobili della camera di Stephanie. Sfioro il comodino, il letto, l'armadio e la scrivania. Lo faccio così tante volte che credo il parquet inizi a segnare il percorso che fanno le mie scarpe.

Kate, appoggiata a una parete, mi guarda divertita. Vicino a lei c'è Stephanie.

L'orologio sulla parete segna le 18.00. Gli altri dovrebbero essere qui a momenti. 

 

La porta si apre, la domestica fa accomodare Jo, Adrian, Lucas, James e Rebecca.

 

«Come ti è saltato in mente di farmi una vigliaccata del genere? Non ti ho mai chiesto di iscrivermi al concorso di reginetta del ballo. Non mi interessa», urlo in faccia a Rebecca che con l'aria annoiata mi ascolta senza dire nulla.

Continuo nel mio monologo:«Hai tradito la mia fiducia, tutto quello che ci siamo detti negli ultimi mesi sono solo bugie? Vuoi umiliarmi davanti a tutti? Credevo fossimo amiche, o comunque ci fosse rispetto».

Rebecca sbadiglia platealmente.

«Sei la solita arrogante, prepotente e manipolatrice. Vuoi spiccare su tutti e saresti disposta a tutto pur di emergere». Ho la faccia rossa, ansimo.

Rebecca si guarda lo smalto sulle unghie:«Hai finito di blaterare cose senza senso?».

«Cosa? Ma la sentite?», i toni acuti raggiunti dalla mia voce si avvicinano agli ultrasuoni.

 

James ridacchia, lo stesso fanno gli altri.

Adesso giuro che li strozzo uno ad uno.

 

«Calmati, non è successo nulla di grave. Te l'ho detto un milione di volte». Kate mi abbraccia da dietro trascinandomi verso una poltrona color cipria. 

Adrian e Jo si siedono sui braccioli, uno mi alza i capelli l'altro mi massaggia le guance.

«Con una bella sistemata, un po' di trucco e un paio di ciglia finte...», dice Jonathan.

«... Una acconciatura con qualche cristallo o fiore...», continua Adrian.

 

Li guardo in cagnesco, quei due ultimamente stanno andando troppo d'accordo. 

 

«... Senza contare un fantastico vestito e tacchi dodici centimetri...», replica Lucas.

«... Accessoriato da un sorriso smagliante...», dice Stephanie.

 

Sbuffo. 

Detesto quando mi prendono in giro in questo modo.

 

«... Corredato da un saluto da vera regina...». James sventola la mano con leziosità sbattendo le ciglia velocemente.

«... Ti trasformeresti in una fantastica Homecoming queen, se vincessi. Ovviamente ciò non avverrà perché io sarò la reginetta quest'anno. Ti ho iscritta solo per dimostrarti che per quanto tu possa lottare e faticare, io sono meglio di te». Rebecca appoggia maliziosamente la testa sulla spalla di James che ride come un pazzo, lo stesso fanno gli altri.

 

Elena, calmati.

Non devi picchiarli tutti insieme.

Puoi colpirli uno alla volta.

 

Grugnisco.

 

Stephanie mi prende per la vita e inizia a farmi volteggiare: «Vedrai che ti divertirai. Devi fare qualche uscita pubblica, vendere qualche torta per beneficenza e sorridere più del normale. Non è mica così brutto», mi dice continuando a trascinarmi per la stanza come se stessimo ballando un valzer.

«Partecipa tu. Sei molto più bella di me, saresti perfetta con una corona in testa», le dico con il broncio.

«A me non interessa competere con Rebecca. Anche se abbiamo passato dei mesi divise ora siamo di nuovo amiche. Voi due siete...». Stephanie viene interrotta da Lucas che la prende dai fianchi unendosi alla nostra specie di balletto.

«...Tu e Rebecca siete le amiche-nemiche. Credo che a scuola tutti non vedano l'ora di sapere chi la spunterà tra voi due». Mentre dice le ultime parole, Lucas tira a se Stephanie staccandola dalle mie mani e continuando a ballare con lei. Quei due sono così appiccicati da sembrare due cozze.

James mi prende per mano facendomi roteare. Poi mi abbraccia: «Vedrai che sarai carinissima con quella corona in testa. Io voterò per te, sarai la mia regina».

 

La rabbia provata svanisce appena sento quelle parole. Immergo il volto nel suo maglione. Arrossisco al solo pensiero di immaginarmi in quel modo: vestito vaporoso, capelli raccolti, corona luccicante in testa e James, lì vicino, a tenermi la mano e ballare con me. 

Quanto mi sento stupida! 

Passo da un'emozione all'altra come fossi completamente pazza. James è capace di modificare il mio umore come se non avessi un cervello. 

 

«Una regina imperfetta. Guardami! Ha ragione Rebecca quando dice che non riesco ad avere vie di mezzo. Esagero sempre, cosa ti fa credere che non lo faccia in questo caso?», gli chiedo con un po' di vergogna.

«Siamo qui noi, del resto siamo o non siamo i tuoi migliori amici? Certo, siamo un po' strani, ma chi non lo è?». James allarga il braccio verso tutti gli altri.

 

Rebecca con le sue insicurezze e manie di perfezione, ma anche con tanto amore da dare.

Adrian con la sua incapacità di imporsi, ma con la voglia di rendere felici i suoi amici.

Jo con un'ambizione fuori dalla norma, ma con la capacità di aiutare tutti.

Kate con la sua riservatezza maniacale, ma con il dono di saper ascoltare.

Stephanie con la sua arrendevolezza, ma con una dolcezza fuori dal comune.

Lucas con la sua determinazione, ma con la forza per combattere.

Poi c'è James. Che posso dire di lui se non che è meravigliosamente insopportabile.

 

Con le braccia incrociate al petto e il mento alto, li squadro uno ad uno:«Se dovessi partecipare a questa idea folle giurate che mi aiuterete? Non ho idea di cosa fare e non so nemmeno se mi va di farlo».

Rebecca batte le mani come se si trovasse di fronte ad un paio nuovo di scarpe:«Evviva. Adesso sì che mi diverto. Non mi piace vincere facile».

Tutti scoppiano a ridere, io compresa.

«Facciamo le cose per bene. Ci dividiamo in due gruppi così nessuna delle due sarà avvantaggiata», dice Lucas.

«Va bene, però scelgo per prima... Voglio Stephanie», dice Rebecca agguantando l'amica.

L'avrei scelta anch'io, conosce più cose di me di sicuro: «Io voglio Kate». Un'amica fa sempre comodo.

«Lucas. È imbattibile nelle strategie», dice Rebecca.

Guardo gli altri, ma non so chi scegliere. Nessuno dei restanti mi sembra molto ferrato in moda o cose simili. Opto per la persona a cui voglio più bene: «James».

«Non mi sottovalutare, so molte cose. Non dimenticare che Becca mi sfinisce con questa storia delle reginetta da quando ha otto anni. Conosco ogni sua mossa e so benissimo cosa pensa».

«Ho assi nella manica che neanche ti aspetti. Non ti preoccupare», gli dice Rebecca facendogli la linguaccia.

«Ci dobbiamo preoccupare?», chiede James ironico.

 

Scoppiamo tutti a ridere.

 

«Io voglio nel mio gruppo Jonathan per il semplice fatto che riscuote un certo interesse tra le ragazzine a scuola. Può giocare a mio favore averlo nel mio gruppo», dice Rebecca.

«Allora Adrian sta con me». Sono felice di averlo nel mio gruppo. È il miglior amico di James, farebbe di tutto per aiutarlo, quindi lavorerà con dedizione e impegno.

 

I due schieramenti sono pronti.

Da un lato c'è Rebecca con Stephanie, Lucas e Jo.

Dall'altro ci sono io con Kate, James e Adrian.

 

«Aspettate un attimo. Ci sono regole? Cose che si possono fare o non fare?», chiede Jo alzando le mani.

«Niente colpi bassi, imbrogli e scherzi», dico io.

«Niente complotti, malignità e cattiverie... Non molte almeno», dice Rebecca schiacciandomi l'occhio.

Mi avvicino alla mia avversaria con passo deciso, allungo la mano nella sua direzione: «Le regole sono state decise. Che vinca la regina migliore». Rebecca ed io ci stringiamo con decisione la mano.

 

La guerra è iniziata.

 

Kate mi abbraccia, mentre James si piazza di fianco a me. Con loro potrei sconfiggere un mostro a quattro teste, scalare una parete piena di pietre affilate, immergermi nei mari bui e profondi. Anche se non vincerò quella stupidissima corona da Homecoming Queen, mi divertirò un sacco, questo è certo.

 

Lucas, Adrian e Jo confabulano in un angolo.

«Avrei un'altra domanda, non voglio sembrare un guastafeste. Visto che è l'ultimo anno e gli esami finali saranno tosti, credo che la priorità rimanga lo studio. Non posso rovinare la mia media scolastica per questa sfida. Cioè, capite che...». Jonathan ha la faccia rossa, non riesce a guardarmi negli occhi.

 

Sono io che mi vergogno. Dare tutta questa importanza a questa stupidaggine potrebbe togliere prezioso tempo per lo studio. Jo ha perfettamente ragione, non posso permettere che rovini la sua media, come tutti gli altri.

 

«Credo di parlare anche a nome di tutti, la scuola prima di tutto. Non devi sentirti in colpa, non volevo dare tutta questa importanza a questa cosa». Mi avvicino a Jonathan prendendolo per mano. Gli parlo con il cuore, nell'ultimo periodo siamo stati poco insieme e a volte ho l'impressione che la cosa gli manchi un po': «Non stare a testa bassa, non hai detto nulla di male. Questa cosa della reginetta è uno stupido gioco è come tale deve rimanere. Almeno da parte mia», gli dico l'ultima parte a bassa voce alludendo palesemente a Rebecca.

«Io vorrei che... Che capissi Elena. Farei di tutto per Yale, non posso rinunciare», dice mogio, sembra abbia le lacrime agli occhi.

Adrian spunta alle mie spalle: «Devi capire che il caro Jo è un po' stressato. Tra i corsi di ripetizione per te, il ruolo all'interno del comitato di rappresentanza del Trinity e gli esami tra qualche mese... Insomma. Ha molti pensieri. Senza contare che gli manca la lettera di raccomandazione per il college».

 

Impallidisco. Non l'avevo mai vista sotto questa ottica.

Aggiungere un'altra responsabilità non è certo il massimo. Jo gioca nervosamente con il polsino della camicia, non alza la testa. 

 

«Mi-mi dispiace», balbetto.

«Non è colpa tua, solo che ecco... Spero nessuno si offenda se ecco... Mi diverto con voi, ma devo pensare allo studio e a cercare qualcuno di influente che scriva una lettera per me».

«Mi dispiace amico, non lo sapevo». James da una pacca sulla schiena a Jo, poi chiede a Lucas: «Non c'è qualche amico di tuo padre che possa scrivere due righe per lui? Il mio vecchio ha chiesto ad un caro amico di famiglia per la mia lettera, non so chi altro potrebbe presentare a Jo».

«Mio padre frequenta industriali, è un uomo pratico. Non conosce nessuno nell'ambito accademico che vada bene. La mia lettera fa schifo, però non ho altro, mi terrò quella», dice Lucas alzando le spalle.

«Quale lettera porterai al colloquio? Sai quanto è importante», chiede preoccupata Stephanie a Lucas.

Il ragazzo alza le spalle: «L'importante è avere le carte in regola, ho ottimi voti, non dovrei avere grossi problemi. La lettera non è un grosso ostacolo per me».

 

L'atmosfera è molto cambiata.

Dalla euforia iniziale ci siamo ammosciati tutti.

La storia della reginetta mi sembra una cosa così stupida che non mi va più neanche di partecipare.

 

«A dire il vero anche... Anche io ho un piccolo problema. Mi... Mi hanno fissato un colloquio per l'accademia di fotografia a New York e... e... e non so con chi andare. Avrei bisogno di un supporto», dice Kate con le guance rosse.

«Cosa?», gridiamo tutti in coro circondando la nostra amica e tassandola di domande.

 

Siamo felicissimi per lei, ma conoscendo la sua timidezza non è difficile interpretare il pensiero di tutti: riuscirà a sostenere il colloquio? 

 

Abbraccio stretta Kate, è ovvio che andrò con lei, lo stesso fa Stephanie.

«Non ti preoccupare. Ci saremo noi», le dico mentre le sbaciucchio la testa.

 

Rebecca si alza in piedi alla sedia della scrivania di Stephanie ruotando le braccia una aria:« Stop!», urla. Sta cercando di attirare la nostra attenzione. 

Tutti la guardiamo disorientati.

«È chiaro che ci sono molte cose da fare. Qui urge un programma da seguire», dice saltando dalla sedia in mezzo a noi. «Nei prossimi giorni stilerò una lista di cose da fare così riusciremo a risolvere i nostri problemi, sfruttando le caratteristiche di ognuno di noi per aiutare gli altri. Visto la vostra incapacità coordinerò il tutto. Chiaro?», dice con piglio deciso, sembra una soldatessa. 

Tutti annuiamo. La sua organizzazione mi ha aiutata per gli esami di recupero, non potrei chiedere di meglio.

 

La porta bussa.

 

È la domestica di Stephanie : «Scusi Miss, vorrei sapere quanti dei suoi amici si fermano per cena, se possibile».

Anche se mi piacerebbe rimanere devo tornare a casa, mio padre non ha nulla da mangiare e ultimamente non riesco a passare molto tempo con lui: «Io devo andare, non posso fermarmi. Mi dispiace», dico ai miei amici.

«Non ti preoccupare, ci vediamo domani. Noi iniziamo ad organizzarci e inizieremo a fare una lista», mi dice Stephanie baciandomi sulle guance.

«Ti porto a casa io. Non mi va che tu prenda il bus a quest'ora», James si infila il giaccone.

 

Mi fa piacere che mi voglia accompagnare a casa, è sempre un piacere passare del tempo da sola con lui. Da quando ci siamo baciati a casa mia non abbiamo avuto modo di passare del tempo insieme. 

C'è tutto il tempo per aiutare i mei amici. Sono certa che riusciremo a risolvere i problemi di tutti. Uniti siamo invincibili.

 

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Capitolo 39
*** IERI: La lunga strada verso casa ***


IERI:
La lunga strada verso casa




Il silenzio a volte può essere pesante. Lo so bene, l'estate scorsa ho passato giorni immersa nella disperazione del silenzio, sola e persa nei ricordi di ciò che ho vissuto con James. Quel silenzio mi ha dilaniata, mi ha ferita. In quel silenzio ho sentito l'eco dei miei pensieri amplificarsi e stordirmi. Ero sola. Per molto tempo ho creduto che non avrei mai amato l'assenza di suoni, il vuoto di rumori, eppure adesso in macchina con James amo ogni singolo secondo del tempo che passo con lui.

 

Il suo respiro è armonia.

Lo scricchiolio delle sue mani sul volante è pace.

Lo strusciare delle maniche della giacca è bellezza.

Il nostro silenzio è un diamante prezioso.

 

I vetri appannati mascherano il nostro piccolo rifugio all'interno della macchina di James. Una nebbia fredda e umida avvolge la città. Le luci delle auto, occhi sfuocati che corrono sulla strada, ci superano ignorando quanto sia splendido il nostro angolo di paradiso.

Non parliamo, non diciamo nulla. Assaporiamo quella pace con calma come se fosse la cosa più normale tra di noi.

 

Vorrei che questo momento non finisse mai.

 

La mia mente pare svegliarsi quando sono con James. Mi viene voglia di tornare a dipingere, mi viene voglia di rileggere i miei romanzi d'amore. I sogni riprendono ad animare il mio cervello, colori vividi e immagini serene. Mi sento in pace quando riesco ad essere calma, mi sento bene con lui.

 

«Accompagnerai Kate a New York?», mi chiede James mentre fissa il semaforo rosso in attesa di ripartire.

«Sì, ha bisogno di me. Credo verrà anche Stephanie», gli rispondo.

«Sarà un bene per lei. Mi dispiace e per Jo, non sapevo della lettera».

«Neanche io. Sono stata una pessima amica, nell'ultimo periodo l'ho trascurato molto». Sono sincera quando dico queste cose, non potrei mentire su una cosa del genere.

«Anche io sono stato superficiale. Non sapevo di Lucas, credevo che la sua lettera fosse buona. Sai come è fatto, vuole farcela da solo, detesta le raccomandazioni. Non mi ha detto nulla perché credeva che avrei chiesto aiuto a mio padre». James si mordicchia il labbro nervoso. Capisco la sua ansia, vorrebbe poter aiutare il suo amico come io vorrei aiutare Jo.

«Questa storia del college sta diventando più stressante di quanto credessi. Insomma mi pare esagerata tutta questa pressione che ci mettono addosso», dico sbuffando.

«Le regole sono quelle. Se vuoi andare a Yale devi stare al gioco... A proposito, chi ti scrive la lettera di presentazione?», mi chiede mentre parcheggia fuori dalla palazzina in cui vivo. La sera è buia, ma non è troppo tardi. Posso restare ancora un po' fuori prima di rientrare a casa.

 

Trattengo il fiato.

Nik mi ha detto che mi avrebbe scritto una lettera per il college. Sicuramente avere una referenza del genere mi aiuterebbe parecchio a Yale, sempre che mi ammettano. Un bell'aiuto, questo è vero, che però non mi sento di dire a James. Non so come la prenderebbe, ho paura che pensi che io possa essere la preferita del professor Martin. Certo dopo la festa degli ex studenti le cose sono chiare per tutti, ma non credo sia una mossa furba far conoscere ad altri lo stretto legame che c'è tra di noi. Potrebbe essere facilmente frainteso, anche perché neanche io ho ben chiaro cosa provo per Nik. La sua affezione nei miei confronti è una cosa pura, quasi fraterna, ma non sarebbe difficile pensare che io mi approfitti di lui per Yale o viceversa, cioè che lui voglia altro da me.

 

Alzo le spalle: «Ho un paio di cose in ballo. Devo vedere cosa fare. Nulla di importante», mento. 

«Hmm... Cerca di sbrigarti, non hai molto tempo. Dobbiamo ricordarci di dirlo a Rebecca, aggiungerà anche questo alle cose da risolvere», mi dice serio.

«Non ti preoccupare, in qualche modo vedrai che lo risolvo da sola». Cerco di stemperare la tensione con un sorriso, non ho voglia di approfondire troppo questo discorso.

«Mi sembra chiaro che la lezione con Andrew non ti sia servita. Se ci aiutiamo possiamo fare tutto, anche questo». James mi da un piccolo pugno sulla testa.

 

Gli faccio una linguaccia come ogni volta che mi fa un dispetto.

 

James mi accarezza il volto e mi fissa. I suoi occhi verdi mi scrutano come se volessero dirmi più di quanto le parole possano dirmi. Sembra nervoso, arrabbiato, triste, ma allo stesso momento fragile e confuso. 

Mi lascio andare al suo tocco, cerco di trasmettergli tutta la dolcezza che provo per lui. Il contatto con la sua pelle mi scalda più di mille fuochi. 

«Che cosa succede?», gli chiedo mentre intreccio le mie dita con le sue.

«A volte vorrei che le cose fossero andate diversamente. Mia madre saprebbe aiutarmi, era la mia coscienza, il mio faro. Riusciva a non farmi perdere la strada. Mi manca molto», mi dice. Ha gli occhi chiusi e la testa appoggiata sul sedile.

 

Il ricordo di Demetra mi assale. 

Con tutto quello che ho combinato nell'ultimo periodo non ho avuto modo di pensare a lei. Gli occhi si inumidiscono, il magone e la nausea arrivano puntuali. Vorrei poter aiutare James, vorrei spiegargli che con il tempo passa quel dolore straziante, ma non posso. La ferita che ha nel cuore potrà rimarginarsi, ma non guarirà mai del tutto. Potrà fingere e andare avanti sperando di incontrare qualcuno capace di amarlo tanto da riempire la sua mancanza.

Io lo amo abbastanza, ma non è il momento giusto.

James vuole riuscire a realizzare i suoi sogni e non posso intromettermi e imporre la mia presenza. Sarebbe egoismo allo stato puro.

 

Eppure.

 

Lo guardo perdersi tra l'intreccio delle nostre dita. 

Lo guardo e non posso fare a meno di desiderare che mi baci.

 

«Se fai così però non vale», gli dico arrossendo.

«Così come?», mi chiede.

«Quando mi accarezzi, io... Io... Ecco, penso a noi. Penso a come stavamo un anno fa». Ho la faccia rossa per l'imbarazzo.

James sorride furbo: «È se ti faccio così?». Con delicatezza mi sfiora la punta del naso e picchietta con calma e attenzione sulle mie lentiggini. Poi disegna con l'indice il profilo delle mie labbra.

 

Tremo.

 

«Dai, smettila. Non è giusto». Quello che dico non corrisponde minimamente a quello che sento. Non voglio che smetta mai.

«E se per caso facessi questo?». James infila con decisione la mano dietro il collo affondando le dita nei capelli. Con un piccolo strattone mi tira verso lui.

 

Ansimo.

 

«James... James...». Sono completamente ipnotizzata dai suoi occhi, dalla serietà del suo volto, dalle sue labbra socchiuse.

«E se mi avvicinassi di più?», mi dice a sottovoce a pochi centimetri dal mio volto.

 

Deglutisco.

 

«Non... Non è giusto. Avevamo deciso di concentrarci sullo stu-studio», dico con voce traballante.

«Ti piaccio tanto. Vero?», mi chiede mentre mi accarezza le braccia.

Annuisco.

«Ti piaccio così tanto da riuscire a dominare la voglia che hai di me?». James mi bacia la fronte.

Mi sento in trance, lo osservo come se stessi guardando lo spettacolo più bello dell'intero universo.

«Ti piaccio così tanto che faresti di tutto per me?». La voce di James è velata di malinconia, come se ripensasse a qualcosa di triste.

«Voglio vederti felice. Tutto qui». Dico a voce bassa mentre appoggio il mio capo sulla sua spalla.

«Felice? Vuoi davvero vedermi felice?». James stringe la mascella e aggrotta le sopracciglia quasi non credesse alle mie parole.

«Sì, ne dubiti?», gli chiedo stupita.

«Sono molto confuso per quanto riguarda noi due. Da un lato vorrei... Vorrei..., ma dall'altro... Ecco... Provo emozioni contrastanti. Mi piaci tanto, troppo. È quello il problema. Mi distraggo dai miei obbiettivi quando sto vicino a te», mi dice mentre mi bacia le guance sfiorando con il naso, a fil di pelle, l'intero viso.

 

Le nostre labbra si fondono.

Diventano due pezzi di puzzle fatti per stare insieme. 

 

Come fossi di burro mi sciolgo al suo contatto, il desiderio che ho per lui è come l'acqua per un assetato. Non voglio smettere mai. Non voglio che lui mi lasci. Non posso perderlo un'altra volta, non voglio che soffra ancora.

Non James.

Per la mente mi passano le sue parole, quello che continua a ripetere da settimane: Yale. James vuole realizzare i suoi sogni, vuole raggiungere uno scopo.

Anche se capisco che mi desidera devo smettere di baciarlo. Devo farlo per lui, non posso pensare solo a me stessa. Se continuassimo a baciarci potremmo finire con andare oltre e ritornare ad essere una coppia. 

James ed Elena persi nel loro mondo.

James ed Elena distaccati dalla realtà.

 

No.

 

Mi stacco da lui con decisione, James mi guarda stupito.

«Io... Io... Ho sbagliato qualcosa?», mi chiede confuso.

«No. No. No. È tutto perfetto, credo che però sia il caso di frenare. Non voglio rischiare di rovinare tutto. Nei prossimi mesi abbiamo molte cose a cui pensare. C'è un'estate che ci aspetta. Dobbiamo solo pazientare», dico con la fronte appoggiata alla sua.

James sorride:«Sei saggia pivella».

«Sono così saggia che consentirò qualche bacio e niente più. Se non mi fermo io, ti fermerai tu. Ok?». Osservo le labbra di James incresparsi, vorrei baciarle all'istante, ma mi trattengo.

«Promesso», mi sussurra dandomi un bacio veloce per poi rimettersi comodo seduto sul suo sedile. «Adesso andiamo. Ti accompagno al portone di casa tua».

Prendendo un grande respiro mi allaccio il cappotto, sperando che i pensieri poco candidi su James si allontanino al più presto dalla mia testa. Mi serve solo un po' di controllo, niente di più.

 

L'aria umida ci avvolge. Fa veramente freddo. James appoggia un braccio sulle mie spalle mentre soffia sbuffi caldi nell'altra. Avvolta nella sciarpa affondo il viso nella lana cercando di proteggerlo dalle folate ghiacciate che spirano feroci.

Le luci della palazzina sono tutte accese. Con questo tempaccio sono tutti rintanati in casa a godersi il caldo dei termosifoni con una zuppa incandescente tra le mani. Per strada non c'è nessuno, oltre a noi ci sono poche altre persone: una vecchia che porta a spasso il suo cane nel giardino dell'altro lato della strada e una coppia di innamorati che si bacia con passione vicino ad una macchina. Tre temerari che sfidano il gelo.

 

«Buona serata, corro a casa dalla nonna. Si è slogata la caviglia, è più intrattabile del solito», mi dice James mentre si sfrega le mani per scaldarle.

«Grazie del passaggio. Mi sarei congelata se non mi avessi accompagnata».

«È stato un piacere», mi dice prima di correre verso la sua macchina.

 

Osservo James salire sulla macchina e partire. Mi sarebbe piaciuto passare la serata con lui, ma credo sia meglio così. Sarebbe uno sbaglio dimenticare le cose importanti, in questo momento si tratta del futuro mio e dei miei amici.

Infilo le mani nella borsa in cerca delle chiavi per aprire il portone.

Rovisto.

Tolgo tutto: portafoglio, cellulare, cuffiette, fazzolettini, burro cacao, specchietto e un pacchetto di caramelle. Delle chiavi non c'è traccia.

 

Merda.

Ora ricordo.

Le ho lasciate sulla mia scrivania.

Che idiota!

 

Maledicendomi per la mia sbadataggine schiaccio il campanello in attesa che papà mi apra.

Suono una volta.

Suono due volte.

Suono tre volte.

 

Papà non è in casa.

Senza aspettare lo chiamo sul telefonino. Voglio sapere tra quanto tornerà, non voglio gelare lì fuori.

 

Driin.

 

Un suono riecheggia nell'aria e contemporaneamente nell'altoparlante attaccato al mio orecchio.

 

Driin.

 

La suoneria di papà suona nella mia testa e poco lontano da me.

 

Drinn.

 

Un altro squillo. 

Il mio braccio con il cellulare penzola lungo il mio fianco.

 

Driin.

 

Con la bocca spalancata osservo le sagome dei due innamorati. Sono avvinghiati poco lontani da me parzialmente nascosti dal buio della sera.

Il sangue non circola più nel mio corpo.

Sono immobile.

 

Il telefono non squilla più.

Una voce che conosco fin troppo bene parla:«Pronto Elena? Che c'è? Tra poco sarò a casa... Elena? Elena?».

Quella voce esce da uno dei due innamorati vicino alla macchina.

 

Papà.

Papà è a pochi metri da me e sta baciando una persona.

Papà si nasconde nella sera per baciare una persona.

Papà bacia una persona che non è mamma.

 

Urlo.

 

... Continua nel prossimo capitolo ...

 

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Capitolo 40
*** IERI: Una vita fatta di bugie ***


IERI:
Una vita fatta di bugie




Papà.

Papà è a pochi metri da me e sta baciando una persona.

Papà si nasconde nella sera per baciare una persona.

Papà bacia una persona che non è mamma.

 

Urlo.

 

... 

 

«Elena? Elena, sei tu?». Papà mi corre incontro. Ci impiega cinque secondi al massimo per raggiungermi. È pallido, nonostante la barba scura intravedo il colore cadaverico della sua pelle. Più cerca di avvicinarsi e più mi allontano. Non voglio che mi tocchi, non voglio avere niente a che fare con lui. Mi disgusta anche solo parlargli.

«Non fare così, ti posso spiegare...», mi dice mentre mi rincorre per il giardino del nostro palazzo.

«Spiegare cosa? Che sei un traditore? Che mi hai nascosto quello che stavi facendo?», gli urlo con rabbia.

«Sì. Sì, lo so. Ma stai esagerando, non ho...». Lo interrompo.

«Sto esagerando? Io? Quindi dovrei accettare con serenità che baci una sconosciuta che non vale nulla solo per soddisfare i tuoi istinti. Ma non sai controllarti? Quanto l'hai pagata?», la mia voce mi esce dal profondo, non l'ho mai odiato come in questo momento.

«Elena, cerca di ragionare. Sono adulto e vaccinato. Non farei mai qualcosa che possa danneggiare te o la nostra famiglia. Sai benissimo che non farei mai nulla del genere, non pagherei mai una donna per sesso. Io... Io...», mi dice con le lacrime agli occhi.

«Vuoi dirmi che non è una donnaccia quella che stavi palpeggiando schifosamente? Hai il coraggio di dirmi che hai la fidanzatina?», dico l'ultima parola con ironia e crudeltà.

«Adesso smettila. Non hai nessun diritto di offendere». Papà mi agguanta per un braccio, sento le sue dita stringersi intorno al mio braccio attraverso il cappotto.

«Hai il coraggio di difendere una arrivata da poco piuttosto che me? Ti vuoi liberare di me? Dillo... Dillo che non mi sopporti, che sono un peso. Ammetti che non valgo niente per te». 

 

Una crisi di nervi mi percuote per tutto il corpo. Le unghie infilzate nei palmi della mano affondano come fossi fatta di cera. Sono sull'orlo di cadere e sbriciolarmi a terra, trasformandomi in un ammasso informe di nulla più assoluto.

 

«Elena non dire queste stupidaggini», urla papà scuotendomi.

«Non ti importa nulla di me e di mamma. Hai rimosso lei e adesso vuoi rimuovere anche me. Vuoi liberarti del tuo passato perché ti abbiamo sempre dato fastidio. La malattia di mamma è sempre stata un peso per te. Ammettilo. Ammettilo». Le parole irrompono fragili nell'aria come bolle di sapone.

 

Papà allarga il braccio.

La sua mano colpisce il mio volto.

Uno schiaffo.

Papà mi ha dato uno schiaffo.

 

Silenzio.

Non ci sono più urla.

Non ci sono più lacrime.

Solo tanta sorpresa.

Papà non mi aveva mai fatto una cosa del genere, mai.

 

«Bruno per carità, smettila», dice la sagoma rimasta nell'ombra della sera. 

 

Mi manca il fiato. Riconosco quella voce.

Arranco. Non può essere lei.

Credevo fosse mia amica.

 

«Sta facendo una sceneggiata. Sta esagerando, non sapevo come... Come...», risponde papà alla donna poco distante da lui.

Tess esce dal buio della notte per mostrarsi. La luce del lampione colpisce la nuvola di capelli ricci castani. Tess, l'assistente di papà è la donnaccia che baciava mio padre, colei che mi ha consigliata e ascoltata nei mesi scorsi, colei che ha cercato sempre di aiutarmi.

 

La sua gentilezza era una strategia per rubare mio padre.

Lo ha fatto solo per portarmelo via.

 

«Bene. Bene! Una serpe in casa. Cosa hai fatto per sedurlo? Lo hai imbambolato con le tue parole? Lo hai convinto con bugie? Dimmi perché mi hai fatto una cosa del genere. Credevo fossimo amiche e che tenessi a me». Stretta nella presa di mio padre mi agito. Se potessi le salterei addosso e la prenderei a schiaffi.

«Elena. Non ho fatto nulla di quello che dici. Non è mai stato previsto, è... È successo e basta. Né io e nemmeno tuo padre avevamo programmato nulla. Credimi. I sentimenti sono nati con calma e si sono consolidati nel tempo, noi...». La interrompo bruscamente.

«Vuoi farmi credere che vi amate?». La mia furia raggiunge livelli mai provati prima.

 

Papà e Tess si guardano.

Si guardano nello stesso modo in cui io guardo James e lui guarda me.

Intravedo nei riflessi dei loro occhi la scintilla dell'amore, un linguaggio segreto tra di loro. Un'intesa che solo due persone che si vogliono bene hanno. La stessa energia che papà e mamma avevano prima che la malattia portasse via parte del mio cuore, che strappasse le mie certezze e mi buttasse in un angolo buio.

Papà è riuscito a trovare un'altra persona da amare, una donna con cui vivere un rapporto sincero ed io non lo sopporto.

Non lo voglio sopportare perché senza mio padre le fondamenta della mia vita vacillerebbero più di quanto non facciano già.

 

Crollo per terra.

L'erba umida di nebbia, le goccioline d'acqua ghiacciate, inzuppano i miei jeans. Come piccoli aghi sento il freddo penetrarmi dentro, strisciare subdolo e fissarsi nelle mie ossa e nella carne. 

 

Infuriata, confusa, disorientata, spaventata.

Sfinita, rabbiosa, triste, terrorizzata.

 

Le mie poche certezze si sfaldano ed io non ho più un'anima. 

Sono più vuota del vuoto.

 

«Elena, amore mio, non è neanche possibile immaginare dimenticare ciò che sei per me. Può una farfalla a fare meno del fiore? Può la terra smettere di girare intorno al sole? No. Mai. Tu sei la mia vita e quello che c'è con Tess renderà la nostra vita più bella. Avere amore in più non può che far bene a tutti e due, soprattutto se è sincero come il nostro. Non ti chiedo di accettarlo subito, ognuno ha i suoi tempi, lo capisco. Prova però ad capire la mia felicità... Tentaci almeno». Papà mi abbraccia accovacciato tra i fili d'erba. Mi stringe come se volesse inglobarmi, come se volesse farmi capire quello che prova, come se ci tenesse a fare in modo che le cose con Tess vadano nella giusta direzione.

 

Mi abbraccia ed io capisco tutto quello che mi dice anche senza parole.

Però non voglio.

 

No.

 

«Mi hai detto un mucchio di bugie per tutto questo tempo. Mi hai mentito», gli sibilo acida.

Papà mi allontana, ha un'espressione ferita:«Parli di bugie proprio tu? Mi hai nascosto tante di quelle cose che fare una lista sarebbe impossibile. Ho taciuto per mesi, ho preferito farti vivere la tua vita, con i tuoi sbagli, proprio perché la vita è fatta di scelte. Ognuno paga le conseguenze delle sue azioni. Se ho sbagliato a tenerti nascosta la relazione tra me e Tess, pagherò. Non farmi la morale, non puoi. Sei una ragazzina, hai solo diciotto anni. Non puoi insegnarmi nulla che io non sappia. Sono umano, vivo dei miei sbagli».

 

L'idea che mio padre sappia quello che ho combinato con Andrew mi fa impallidire.

Ho la bocca asciutta, prosciugata.

 

«La Marquez mi ha contattato informandomi che i tuoi esami di recupero a scuola sono andati bene e che non sarai espulsa dal Club di dibattito. Quando pensavi di dirmi che stavi andando male a scuola? Perché non hai pensato che questa informazione potesse interessarmi?», mi dice duro.

«Ri-rigiri la frittata adesso?», balbetto sollevata dal fatto che non sappia nulla di Andrew, «È una cosa che ho risolto, no? Che ti importa?».

«Se seguissi il tuo ragionamento potrei lo dire lo stesso di me e Tess: che ti importa? Però sai una cosa, io non lo dico. Credo che questa storia importi a me come a te, soprattutto adesso che lo sai».

«A me non frega nulla di voi e non mi importerà mai. Sai solo mentire. Mi hai mentito quando piangevi per mamma in ospedale e mi hai mentito quando mi hai promesso che saremmo stati per sempre insieme. Te lo ricordi oppure l'hai dimenticato?».

 

L'abbraccio di mio padre nel momento in cui mia madre ha smesso di vivere è stato il primo mattone su cui ho costruito la mia nuova vita. Adesso è polvere.

 

«Stai vaneggiando. Puoi incolparmi di averti tenuto nascosto il mio rapporto con Tess, ma non puoi aggiungere altro alla tua lista di lamentele infantili. Ho amato tua madre più della ma vita e la sua sofferenza è stata anche la mia. Purtroppo però Margherita non c'è più. Capito? Margherita è morta e nulla e nessuno potrà rimpiazzarla», mi dice a un palmo dal mio naso.

«Stai zitto. Stai zitto. Non devi dire una cosa del genere, non puoi. Mamma è viva in me, sempre. Tu la stai uccidendo in questo momento. Io la sento sempre che mi parla, mi racconta storie e mi aiuta. Lei non è morta e non lo sarà mai», gli urlo con tutto il fiato che possiedo.

«Elena tua madre non c'è più. Fai bene a custodire il suo ricordo, ma non puoi fingere che non sia successo nulla. Non devi rimuovere la sofferenza, devi affrontare il lutto altrimenti fuggirai sempre da tutto ciò che ti spaventa», dice papà.

 

Un tremore avvolge il mio corpo. I sogni, i desideri e le aspettative si mischiano e confondono. Il mio passato e il mio presente paiono fondersi. L'immagine di mia mamma distesa sul letto dell'ospedale con il volto scavato e le occhiaie marcate. Il bip delle macchine e l'odore di disinfettante. Silenzi. Pianti. Incredulità. Ansia, molta ansia.

La mancanza d'aria e il fiato corto. Le ultime parole di mia madre. Scappa Elena. Scappa da tutto ciò che ti fa del male. Correre. Fuggire dal dolore della perdita. Scappare dalla morte di mia madre.

 

Mamma non è morta.

Mamma non è morta.

Demetra non è morta.

 

Non posso restare un minuto di più lì con lui. 

Non riesco a respirare.

 

«Lasciami», gli dico scansandolo.

«Dove credi di andare? Elena. Elena», mi urla papà rincorrendomi.

 

Le gambe bruciano, sono energia. Il resto del corpo non esiste. Il freddo non esiste.

Vedo luci appannate dalla nebbia e sento strombettii di clacson. Non so dove stia correndo, so solo che quella che era casa mia è solo un covo di bugie, sotterfugi e menzogne. 

 

Tutti mentono, sempre.

Tutti fanno del male, sempre.

In qualsiasi posto io vada trovo gente che racconta bugie.

 

I marciapiedi sono vuoti, posso correre senza il rischio di urtare nessuno. Mio padre non mi segue più. Non so se ha rinunciato o meno, non mi importa. 

Ansimante mi accascio su una panchina. L'aria ghiacciata entra nei miei polmoni trafiggendoli con stilettate pungenti. Le labbra sono secche, dei piccoli taglienti ricoprono il contorno. Le mani hanno perso sensibilità, sono così bianche da avere una sfumatura violacea. 

 

Sono al limite.

Non posso muovere un passo.

 

Prendo il cellulare dalla borsa e cerco nella rubrica il nome dell'unica persona che non mi giudicherebbe, che capirebbe quello che sto passando. L'unico, tra tutti, che ha vissuto quello che ho vissuto io: James.

 

Neanche il tempo di due squilli che mi risponde: «Ciao pivella, che c'è? Ti manco già?», dice ironico.

«Aiutami, ti prego. Io... Io... Io non so dove andare». Piango.

«Elena, che succede? Dove sei?», mi chiede allarmato.

 

Non so cosa gli ho risposto, non so cosa gli ho detto.

 

Le strade sembrano tutte uguali di notte, il traffico, i lampioni, i suoni e gli odori sono fotocopie. Immagini replicate e anonime, vuote e senza significato. Non c'è bellezza in quello che vedo. C'è solo grigio e freddo. I secondi, i minuti passano è l'unica cosa a cui riesco a pensare è mio padre con Tess. 

Tutto quello per cui ho lottato, tutto quello in cui ho creduto è solo finzione. È il ripetersi di un paesaggio squallido e anonimo. È come in teatro: gli scenari cambiano, ma la storia di ripete, sera dopo sera, all'infinito.

 

Mamma diceva che la vita è come un piatto di spaghetti.

Mamma diceva che la sofferenza è come una macchia di sugo che con un tovagliolo si può pulire.

Mamma si sbagliava, il male non passa così velocemente. 

Il mio dolore è tatuato nell'anima e niente potrà cancellarlo. Mai.

 

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Capitolo 41
*** IERI: Inconcepibile! ***


IERI:
Inconcepibile! 




Il fuoco scoppietta allegro nel camino. Ciocchi di legno mangiati dalle fiamme, consumati si sbriciolano trasformandosi in brace. Il calore è intenso, ma preferisco stare vicina e scaldarmi il più possibile. Ho molto freddo, le mani paiono paralizzate.

James è al mio fianco seduto sulla poltrona verde dello studio, non dice nulla. Con una tazza fumante di zuppa in mano mangia la cena in silenzio in attesa che io faccia qualcosa.

L'unica cosa che sono riuscita a dirgli è che mio padre ha un'altra donna. James ha capito subito, mi ha portata a casa sua per scaldarmi sperando che le mie lacrime smettano di scivolare dalle guance. 

Nelle fiamme danzanti intravedo sagome, immagini che mi ricordano volti famigliari e scene di vita vissuta. Il mio passato mi si ripresenta sconnesso come del resto sono i miei pensieri, frammenti fugaci e confusi.

 

Il pendolo suona le otto di sera.

 

«Sicura di non voler mangiare qualcosa? Ti scalderesti prima», dice James bevendo un sorso di zuppa.

Faccio cenno di no con la testa.

«Tieni questa coperta», mi dice mentre me la appoggia sulla schiena.

Spero mi allevi i brividi che sento per tutto il corpo.

 

La porta dello studio si spalanca.

La Signora McArthur seduta su una sedia a rotelle spinta da Michael, l'autista, entra prepotentemente nella stanza.

 

No. La vecchia non posso sopportarla.

Non ho voglia di rivolgerle neanche una parola.

 

«Che succede nipote? Perché non stai cenando in sala da pranzo come ogni sera?», chiede stizzita, poi si accorge di me accovacciata davanti al camino: «Ah. Capisco. Per quella lì», dice acida.

 

Mi si rizzano i peli sulle braccia e dietro al collo.

La strozzo se continua così.

 

«Scusa nonna è un'emergenza. Elena ha un problema e...». La donna lo interrompe.

«Un problema? Strano. Non è da lei», dice con ironia.

 

Il respiro mi si fa affannoso.

Quell'arpia non deve azzardarsi a trattarmi così.

 

«La signorina qui presente non ha onorato il suo impegno. Mi sono slogata la caviglia mentre sistemavo le cose di Demetra. Se solo volessi potrei farle causa per mancato adempimento di un impegno preso», dice in tono lagnoso, «Ma visto che sono una signora, mi asterrò. Non voglio far gravare sulle spalle della signorina ulteriori problemi».

«Nonna, smettila. Non prenderla in giro. Non è serata», dice James.

«Di grazia, cosa è successo?». La vecchia agita la mano nella mia direzione. Michael la spinge velocemente verso il camino.

 

La guardo con aria infastidita.

Non ho voglia di ascoltare le sue provocazioni. 

 

«Bruno, il padre di Elena, frequenta la propria assistente. Hanno tenuto nascosta questa relazione. Lei è...», prova a spiegare James, ma il vociare dell'anziana lo blocca.

«Inconcepibile. È uno scandalo, una cosa inaudita. Come può fare una cosa del genere?», dice dura.

 

Meravigliata dalla sua reazione mi giro ad ascoltarla, non avrei mai creduto che mi desse ragione.

 

«Come può tuo padre umiliarti in questo modo? Ci credo che tu sia arrabbiata, lo sarei anche io al tuo posto». Geltrude sta fremendo sulla sedia, credo che se potesse si alzerebbe in piedi per manifestare la sua insofferenza.

«È quello che dico io. Come può avermi fatto una vigliaccata del genere», sbotto senza il minimo ritegno con un tono di voce più alto del normale.

James ci guarda entrambe, è confuso:«Personalmente non ci vedo nulla di male, per me Bruno è libero di fare quello che vuole, ma rispetto la vostra opinione».

«Se tuo padre frequentasse un'altra donna come reagiresti? Se si fosse professato innamorato di tua madre per anni, invece lo scoprissi a frequentare quella gatta morta di Tess», dico a muso duro al mio amico.

«Tess è l'assistente di tuo padre?», chiede la vecchia curiosa.

Annuisco.

«Inconcepibile! Credo che eviterei di farmi vedere in giro per una cosa del genere», la vecchia si sventola con un fazzolettino, la sua faccia è rossa.

«Certo, come... Come mi dovrei sentire io? Tua nonna ha ragione al 100%», dico acida.

«Nonna. Elena. Penso sia un po' esagerata la vostra reazione. Del resto Bruno ha tutto il diritto di rifarsi una vita?».

«No!», sentenzio io.

«Sì!», urla la vecchia.

«Cosa!?», diciamo in coro io e la Signora McArthur guardandoci malissimo.

 

Come può aver cambiato idea in così poco tempo?

Non era dalla mia parte? 

 

«Mio padre ha già la sua vita. Con me. Non ha bisogno di rifarsene un'altra», le dico dura.

«Cara ragazza, non ha il minimo senso quello che dici. È come paragonare una gustosa coppa di gelato al pistacchio e cioccolato con una deliziosa Quiche Loreinne appena sfornata. Sono due cose diverse, perfette per una cena gustosa e piacevole. Una non può e non deve a fare a meno dell'altra. Così tuo padre non può e non deve fare a meno di te e Tess», mi dice con supponenza.

«Io cosa sarei, tanto per curiosità? Un gelato o una torta salata?», le rispondo a tono.

«Un limone acido e rinsecchito», mi risponde con la faccia schifata.

 

James mi abbraccia, credo abbia paura possa saltare addosso a sua nonna e prenderla a schiaffi.

 

«Se io sono un limone secco, lei è... è...». Non mi viene in mente nessun cibo a cui paragonarla. «Comunque sarebbe un cibo stucchevole e pretenzioso. E comunque prima sembrava darmi ragione, come mai adesso non le sembra più assurdo che mio padre frequenti Tess?». Con le mani sui fianchi la fisso.

«Cara ragazza, non ho mai sostenuto quello che dici. La cosa che mi sconvolge non è che un vedovo frequenti una persona, ma che la donna che ha sedotto tuo padre sia la propria assistente. Bruno avrebbe potuto frequentare una donna dell'alta borghesia di New Heaven. Il vostro prestigio ne avrebbe tratto giovamento», dice altezzosa.

«Giovamento?», chiedo con gli occhi sbarrati.

«Certo cara. Tu e tuo padre siete così... Come dire... Comuni. Niente ambizioni, niente desiderio di scalate sociali. Credevo che con James desiderassi avere l'approvazione delle persone che contano a New Heaven, invece mi sbagliavo».

«Quindi lei trova inconcepibile che mio padre frequenti una umile impiegata piuttosto il fatto che abbia rimosso, cancellato, eliminato mia madre dalla sua testa per far posto ad una qualsiasi?», le chiedo minacciosa.

«Cara ragazza, se lo dici con questo tono sembra che tuo padre abbia commesso un delitto. Non mi pare così difficile, siete medio borghesi, cioè valete meno di niente in questo mondo perfetto», la McArthur indica la stanza arredata con mobili antichi, quadri preziosi e tessuti pregiati.

 

Mi alzo di scatto sfuggendo dalla presa di James.

Il cuore pompa veloce. Questa volta la vecchia non la passa liscia.

Non può darci dei pezzenti solo perché non possediamo oggetti preziosi o antichità?

Per quanto belle possano essere le cose in quella stanza, non determinano la rispettabilità di una persona.

Sono solo oggetti, destinati a rompersi o essere dimenticati.

La vita è molto di più.

 

«Geltrude. Mi ascolti. So benissimo che lei reputa assurdo che qualcuno possa entusiasmarsi con poco, eppure sappia che per molti è così. Basta un abbraccio, un sorriso amico, qualcuno che ti ascolti. Un rifugio caldo dove nasconderti, parole confortanti, risate, un sacco di risate...», sto sbraitando con l'indice sollevato in aria, «...Certo fanno piacere dei regali, chi lo negherebbe, ma solo se fatti con il cuore. Non importa il prezzo, quello è un dettaglio inutile». Ho il fiatone per quanto forte e veloce ho parlato.

«Cose che Bruno non ti ha mai fatto mancare, giusto?», mi chiede a bruciapelo la donna.

«No, certo che no. Mio padre mi ha sempre am... am...».

 

Stop.

Un attimo.

Cosa sto dicendo?

Io odio mio padre. Lui mi ha tradita. Ha preferito Tess a me, non mi ha mai voluto bene per davvero.

Aspetta.

Ma lo penso davvero?

Cosa ho appena risposto alla vecchia?

Che basta poco per essere felici.

Io sono stata felice con papà? 

Mi è stato vicino dopo la morte di mamma?

 

Abbracci. Pianti. 

Io e papà stretti al funerale.

Coccole. Risate. 

Io e papà pronti a trasferirci dall'Italia a New Heaven.

Figuracce. Chiacchierate. 

Io e papà in un mondo nuovo.

Litigate. Sussurri.

Io e papà affrontiamo la vita.

 

Uniti.

 

«Cosa stavi dicendo cara ragazza? Tuo padre ti ha dato ciò che conta, cioè amore e ascolto? Hmm...  non capisco che problema possa mai essere quello che ti turba. Se Bruno è capace di donare ad altre persone affetto e comprensione, è solo un pregio e non un difetto. Non tutti ne sono capaci, molti dimenticano troppo spesso cosa significhi sapersi dedicare ad una persona... certo rimane il fatto che tuo padre si sia invaghito di una semplice assistente, ma del resto non tutti hanno ottimi gusti in fatto di stile», dice la vecchia sfiorando gli orecchini di diamanti che indossa.

 

Ascolto la vecchia senza replicare. 

Come posso darle torto? 

Papà mi ha sopportata in ogni momento senza impedirmi di vivere la mia vita, mi ha aiutata nei momenti difficili consigliandomi con pazienza. A volte abbiamo litigato, discusso, ma alla fine abbiamo fatto sempre pace. Mi sento così egoista e stupida, ma faccio fatica a non essere gelosa del fatto che non sia più tutto mio.

Il mio papà.

L'ultimo pezzo di famiglia che mi rimane.

E se andasse via anche lui.

Cosa farei io?

 

«N-non voglio pe-perderlo. Non riesco a concepire che ami un'altra donna che non sia mia madre, che la porti fuori a cena e le regali fiori. N-Non riesco a capire come può amarla». Piango a dirotto. Mi sento una bimba piagnucolosa, ma non riesco a farne a meno. 

«Mia cara Elena, le persone cambiano. La vita ti porta a fare scelte che non avresti mai creduto di dover fare. Guarda te e James. Un anno fa eravate una coppia, mai avresti pensato che la vostra storia sarebbe finita, eppure adesso siete solo amici. Il fatto che tu abbia voluto molto bene a mio nipote ti impedirà di innamorarti di nuovo? Credo proprio di no. Conoscerai altre persone che ti daranno molto, alcune ti potranno far battere il cuore più del normale. Significa solo che sai cos'è l'amore, perché l'hai già vissuto. Lo riconoscerai prima, perché lo sai dare. Lo stesso vale per tuo padre, ha amato così tanto tua madre che ha riconosciuto in Tess lo stesso sentimento. Una volta provato l'amore non si può far a meno di desiderarlo», dice la donna.

 

Scoppio a piangere sulle gambe della McArthur. La sento accarezzarmi i capelli come dopo la morte di Demetra, con dolcezza e calma.

Mi sento così stupida, ma dentro di me si battono due anime, due sentimenti contrapposti. Da un lato la paura di restare sola, dall'altro la comprensione per mio padre.

 

«C-Che cosa devo fare a-adesso?», balbetto confusa.

«Lavati la faccia con dell'acqua fresca, prendi una boccata d'aria e vieni a cena, abbiamo un'ottima zuppa stasera», mi dice la vecchia spostandomi i capelli che mi cadono sul volto.

«Io intendevo con papà», le dico.

La donna mi fissa a lungo, le sue labbra accennano un sorriso: «Lascialo libero di amare e di sbagliare, come ha fatto con te. Lascialo libero di vivere la sua vita, ma stagli sempre vicino. Lascialo libero di ridere, parlare e piangere del suo amore. Sii la sua spalla destra e sorreggilo se vacillerà. Vedrai che lui farà lo stesso con te e con tutti i tuoi prossimi infiniti amori».

 

Con l'eco delle ultime parole di Geltrude che mi risuona nella testa chiudo gli occhi.

Il volto lentigginoso di mia madre appare come in una visione.

Sorride.

Mamma è felice perché papà non sarà più solo.

Tess sarà una buona compagna.

Mamma è felice perché io sarò meno sola.

Tess sarà una buona amica.

 

So che la storia tra Tess e papà è una cosa giusta, forse l'ho sempre saputo, ma un angolo nel mio cuore non può fare a meno di desiderare che tutto quello non fosse mai capitato.

È come se quello che sento fosse un presagio, un segnale che mi mette in guardia. Come se mi dicesse che le cose belle non possano durare per sempre, come se quello fosse l'inizio della fine di un'epoca. La mia epoca, la vita dove io sono la protagonista e dove i cambiamenti volano rapidi.

 

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Capitolo 42
*** IERI: Facce da stoccafisso e pesce lesso ***


IERI:
Facce da stoccafisso e pesce lesso




Abituarsi alle novità è una cosa difficile per me, soprattutto se riguardano mio padre e Tess.

La cosa che mi da fastidio non sono tanto i baci o gli abbracci, non ne gioisco e non ne faccio mistero, ma il fatto che quando siamo tutti nella stessa stanza quei due si irrigidiscano. Sembrano stoccafissi. Statue di gesso. Sorridono, si comportano bene e fanno di tutto per cercare di non innervosirmi, neanche fossi una pazza criminale. Certo mi sono comportata male con loro, ma abbiamo chiarito. Credo. Io proverò ad accettare la loro storia con serenità e loro dovranno evitare di dirmi altre bugie. C'è sempre molta tensione tra tutti, nessuno è naturale. In poche parole uno schifo.

 

La vita continua solo che sembra più scolorita.

 

La mensa scolastica pare più confusa del solito. Gli ottimi piatti che sforna la cucina mi paiono insapore e le chiacchiere dei miei amici prive di colore. Non è che io stia sempre a pensare a mio padre, ma il pensiero finisce inevitabilmente lì. Il più delle volte mi ritrovo a fissare il vuoto, non che io abbia pensieri particolari, mi incanto e basta. 

 

«Hai portato il libro di storia?», mi chiede Adrian passandomi la mano davanti agli occhi.

Sobbalzo, credo di essere da parecchi minuti fissa nella stessa posizione.

«Oggi pomeriggio ripasseremo storia visto che ci sono i test», mi dice mentre controlla sul programma fatto da Rebecca cancellando una voce con la penna.

«Andiamo alla biblioteca della scuola oppure a casa di James?», chiede Lucas.

«Preferisco la biblioteca. La Signora McArthur mi prende sempre in giro, credo mi odi», dice Rebecca.

«Mia nonna non ti odia, fa con tutti così. È il suo modo di fare. Chiedi ad Elena, la massacra ogni volta che la vede», dice sghignazzando James.

«Cosa?», rispondo in automatico nel sentire il mio nome. Non ho ascoltato quello che hanno detto.

«Ma che ti prende? Hai la faccia da pesce lesso. Sei su questo pianeta oppure no?», mi chiede Stephanie.

«Ho una valanga di pensieri che mi frullano in testa. Scusate», dico mesta.

«Elena non è l'unica ad essere in un universo parallelo, guardate Jo», dice Lucas.

 

Mi giro a guardare il mio amico. Sembra un mio clone, con i gomiti appoggiati sul tavolo e le mani che reggono il mento fissa un cestino della spazzatura a pochi metri di distanza. Dire che ha lo sguardo vuoto è poco.

 

«Che gli prende?», chiedo a bassa voce ad Adrian.

Alzando le spalle mi guarda confuso. Non ne ha la minima idea.

«Jo. Jo. Jo. Jonathan Kurtz!». James urla il nome dell'amico con forza.

«Che c'è? Che succede?», chiede confuso.

«Che ti prende? Hai sentito cosa abbiamo detto del ripasso di oggi pomeriggio? Facciamo storia, hai il libro e gli appunti?», gli chiede James.

«Sì... Hmm... ecco. Certo». Jonathan cerca nel suo zaino, ma si vede che pensa ad altro.

«Cosa ti turba? Il mio programma per i prossimi mesi è al completo, ma credo di poter trovare spazio per contrattempi imprevisti». Rebecca picchietta le unghie a ritmo sul tavolo della mensa.

«Niente di nuovo. La solita storia della lettera di presentazione. Ho inviato l'iscrizione per tempo, ma non ho ancora quella dannatissima lettera per il colloquio. Non mi posso presentare a mani vuote», dice Jo cupo, ha gli occhi umidi sembra molto nervoso.

 

Mi sento una pessima amica. Da quando ho saputo del suo problema non ho fatto nulla per aiutarlo. Come sempre mi sono immersa nei miei drammi senza rendermi conto di quello che succede intorno a me. I capelli neri di Jo ricoprono parte del suo viso, si mordicchia il labbro nervoso come fa ogni qual volta ha un problema. 

L'estate scorsa mi è stato vicino, mi ha aiutata in tutti i modi, non posso abbandonarlo in questo momento, Jonathan non si merita nulla del genere da parte mia. Lui merita Yale più di tutti gli altri, ha passato ogni giorno della sua vita a studiare per poter accedere al college dei suoi sogni.

Devo aiutarlo per quanto mi è possibile.

 

«Ma hai sentito le persone conosciute alla festa degli ex studenti l'anno scorso? Mi ricordo che parlavi con una signora e...», ma vengo interrotta.

«Serve gente che conta a livello accademico e intellettuale. Non per sminuire nessuno, ma quelle persone non vanno bene. Sono amministratori o dirigenti, ottime persone se cerchi un lavoro, ma non hanno i requisiti per Yale. Devo stupire. Lo capisci? Non posso portare una lettera qualunque. La mia famiglia è umile, devo presentarmi al meglio che posso, devo esibire l'eccellenza», dice Jo secco.

«Nessuno di voi conosce qualcuno?», chiedo a James e a tutti gli altri.

Tutti fanno cenno di no con la testa.

«Lucas ha una lettera scritta da un magnate dell'industria pesante, amico di suo padre, non proprio il massimo come referenza. James ne ha una scritta da un amico di famiglia che conosce da una vita, un giudice, direi che è una buona lettera. Stephanie scritta da una nobildonna impegnata in diverse associazioni benefiche, ma è cugina di sua madre, non so quanto valga. Adrian ne ha una scritta da suo zio, deputato repubblicano, uno strazio. Io ho una lettera dall'ex produttore televisivo con cui lavorava mia madre anni fa, niente di esaltante. Poi manchi tu, chi ti scrive la lettera?», dice Rebecca consultando la sua lista.

Non credo sia un bene far sapere di Nik e della sua promessa quindi faccio cadere il discorso dicendo una bugia bella e buona:«Un traduttore di testi giuridici della casa editrice di mio padre. Niente di eccezionale».

Rebecca prende appunti dopo la mia risposta: «Fidati Elena, se avessimo opzioni migliori le useremmo anche per noi, purtroppo non abbiamo nomi da consigliare a Jo. Del resto non lo conosce nessuno lui è... è...».

«... povero. Dillo Rebecca, non ti preoccupare non mi offendo, è la verità. Se avessi frequentato le persone che contano fin da piccolo probabilmente adesso non avrei questo problema», dice Jo.

«Roger», dico come se avessi avuto un illuminazione improvvisa, «Lui è un architetto, frequenta i circoli e le persone giuste. Sarebbero perfette per te e per tutti voi. Come cavolo non mi è venuto in mente prima. Kate devi dire a tuo padre di... Kate? Kate? Scusate, ma dov'è Kate?», chiedo guardandomi intorno.

Nessuno risponde.

«Che succede, perché Kate non pranza con noi?», chiedo.

«Scusa, ma non hai notato che nell'ultimo periodo non studia e non passa il suo tempo libero con nessuno. Si è isolata. Credevo che te ne fossi accorta visto che sei sua amica», mi dice Rebecca un po' imbarazzata.

«Io... io...». Non riesco ad aggiungere altro, mi sento gelare dentro.

 

Possibile che non mi sia accorta della sua mancanza? 

Possibile che sia stata così cieca da non accorgermi che non era con noi?

Che schifo di amica che sono. Ero talmente presa dalla storia di mio padre con Tess da non accorgermi che qualcosa non andava.

 

«Tu ne sai qualcosa?», chiedo a Stephanie.

Mi risponde facendo cenno di no con la testa.

 

Controllo l'orologio. Mancano venti minuti prima che riprendano le lezioni, devo trovarla e cercare di capire cosa frulla per la testa della mia amica. 

Saluto tutti velocemente fiondandomi per il corridoio semi deserto, la maggior parte degli studenti sta ancora pranzando. Provo a cercare nel cortile, affacciandomi da diverse finestre, ma fa troppo freddo, non riuscirebbe a stare all'aria aperta per così tanto tempo. Passo dall'aula di informatica, in quella di chimica, ma nulla. Non c'è traccia di Kate. Corto verso l'aula magna al pianterreno, svolto l'angolo e per poco non mi schianto contro Nik che, con un panino in mano e un quotidiano nell'altra, cammina distratto.

 

«Attenta, mi vuoi investire?», mi dice ridacchiando mentre mi sorregge.

«Scusa, non ho fatto apposta. Stavo cercando Kate, l'hai vista?», gli chiedo mentre raccolgo il giornale che gli è caduto per terra.

«No. Sono appena arrivato. Oggi ho una riunione con la Marquez per organizzare la festa degli ex studenti e la gara di dibattito contro il Saint Jude. Tutto bene Elena? Ti vedo provata». Nik mi osserva di sbieco cercando di intercettare il mio sguardo.

«Problemi, sai che non posso farne a meno», dico accennando un sorriso ritornando però subito seria.

«Credo di aver capito, si tratta di Yale, vero?».

«No. Cioè, sì. Non proprio. Ho tante cose in testa che non so da che parte girarmi». Come sempre sono un disastro, lo capisco dallo sguardo tenero e divertito di Nik.

«Ti ho detto che se vuoi la lettera di presentazione basta chiedere», mi dice dolce.

 

So che sarebbe comodo e vantaggioso avere una lettera scritta da lui, ma proprio non riuscirei a guardare in faccia i miei amici se venissero a saperlo. Loro hanno fatto fatica a trovare qualcuno che li aiutasse mentre io non ho avuto nessun problema. Se ripenso alla voglia di Jo, Lucas, Rebecca, Stephanie e James, di andare a Yale, mi vergogno un po'. Non che non voglia andare al college, ma non sono certa di essere in grado.  

 

«Il fatto è che non mi sembra giusto. Molti miei compagni si meritano quella lettera più di me», dico sincera.

«Io però ho deciso di scriverla per te, non per gli altri», mi dice con voce calma.

«A dire il vero preferirei che qualcun altro la scrivesse. Credo sarebbe più obiettivo, tu sei un caro amico oltre che un professore, credo potresti sopravvalutarmi un pochino». Ho la faccia rossa per l'imbarazzo.

Nik sorride: «Facciamo così, ho un incontro con amici e colleghi tra un po' di tempo. Te li faccio conoscere e se qualcuno di loro dovesse rimanere impressionato da te ti scriverà la lettera al posto mio. Ok?».

«Perfetto», dico sollevata.

«Adesso sparisci dalla mia vista. Voglio godermi il mio panino prima di passare ore a lavorare con la Marquez». Nik mi sbatte leggermente il quotidiano sulla testa prima di imboccare il corridoio e andarsene.

 

Sospiro sollevata, un problema in meno.

Adesso devo rintracciare Kate.

Riprendo a camminare a passo veloce guardando dentro ogni aula che trovo aperta. Controllo pure lo sgabuzzino dell'inserviente. Nulla. Nada. Niente di niente.

L'ultimo posto che mi resta da controllare è l'aula magna.

Spingo il portone con forza, decine di seggiole vuote mi si parano davanti. Guardo tra le file ordinate, ma non trovo la mia amica. Mi dirigo verso il piccolo palco, ma non c'è ombra di anima viva.

Sconsolata sto per andarmene quando sento uno starnuto risuonare nel silenzio della stanza.

 

«Kate? Kate, sei tu?», chiedo prudente.

Non ottengo risposta. Salgo i pochi gradini del palco ritrovandomi in pochi secondi dietro le quinte, uno spazio angusto e buio. Una sagoma umana è rannicchiata in un angolo, non si muove. Prendo il telefonino e lo accendo, spero di riuscire a fare un po' di luce per poter vedere meglio.

La luce giallognola illumina una testa castana chiara, capelli corti. Un paio di occhiali sono appoggiati per terra vicino ad un toast mezzo mangiucchiato.

 

È Kate.

Sta piangendo.

 

«Che succede? Kate? Kate, perché fai così?», chiedo alla mia amica buttandomi su di lei.

Come risposta ottengo solo singhiozzi.

«Ti ha fatto del male qualcuno? Dimmi, ti prego. Mi spaventa vederti in questo stato», le dico mentre la scuoto per le spalle.

Il volto di Kate immerso nelle lacrime è lo stesso che ho visto un milione di volte. Il mio, ogni volta che sono stata male, che ho sofferto e non sapevo cosa fare.

«Mi dispiace. Mi- Mi dispiace, non avevo capito... s-scusa», balbetta.

«Cosa non avevi capito? Perché chiedi scusa?», le chiedo.

«Non avevo capito come stavi dopo che James ti ha lasciata. Io, ti giuro, non credevo facesse così male», i singhiozzi non smettono come le sue lacrime.

«Adesso sono io che non capisco. Cosa stai dicendo?». Sono preoccupata, non l'ho mai vista in questo stato.

«Credevo mi a-amasse. Pensavo saremmo state insieme per s-sempre».

«Di chi parli? Kate, non capisco», chiedo allarmata.

«S. La mia S. La amo così tanto Elena. Perché mi ha fatto questo?». Il tremore di Kate è evidente ad occhio nudo. La bocca deformata per la sofferenza, gli occhi gonfi per il pianto ed i capelli arruffati hanno trasformato la mia amica. Sembra uno straccio, un sacco vuoto. È come se avessi davanti uno specchio, la Elena di mesi fa è di fronte a me.

Non so cosa dirle, non so cosa fare.

Con gli occhi sbarrati la osservo, immobile cerco le parole giuste da dirle anche se so benissimo che non esistono. L'unica cosa che mi viene spontanea da fare è abbracciarla e sperare che il mio affetto per lei riesca a bloccare lo sgorgare di dolore dal suo cuore, arginare la sua sofferenza e darle un po' di serenità.

 

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Capitolo 43
*** IERI: Strade, percorsi, scelte ***


IERI:
Strade, percorsi, scelte




Non è stato difficile portare via Kate da scuola, saltare qualche ora di lezione non è un problema così grave. Certo siamo all'ultimo anno, quindi sarebbe meglio evitare, ma non me la sentivo di lasciare la mia amica in quello stato. Sta crollando pezzo dopo pezzo, non ho idea di cosa potrebbe fare. La conosco da molti anni, ma non l'ho mai vista così. È talmente abituata a tenersi tutto dentro che credo abbia fatto una specie di indigestione di emozioni, troppe tutte insieme e di una tale intensità da farla vacillare. 

 

Il parco Franklin è vicino, in meno di un quarto d'ora si raggiunge a piedi. Kate non oppone resistenza, mi segue a testa china. Credo sia quello che voleva che facessi.

Il vento spira forte da nord, i giornali non fanno altro che parlare della tempesta in arrivo. Non è prudente stare fuori, ma il massimo che rischiamo è di bagnarci da capo a piedi. Un inconveniente da niente per la mia amica. Farei di tutto per lei.

 

«Andiamo nel magazzino della piccola arena del teatrino all'aperto, quella in cui mi hanno bloccata James e gli altri», le dico mettendole un braccio sulle spalle cercando di scaldarla un po'.

«Va bene», mi dice appoggiando la testa alla mia.

 

Ovviamente nel parco non c'è nessuno, tutti sono al lavoro oppure a scuola. Neanche le vecchiette che di solito danno da mangiare ai piccioni si fanno vedere con questo tempaccio. Una sottile nebbia umida mi si appiccica al volto inumidendomi capelli.

Saltelliamo sui gradoni dell'area dirette verso la piccola porta in metallo. In pochi minuti ci ritroviamo nello scantinato pieno di attrezzature teatrali, scatoloni e molte altre cianfrusaglie. Ritrovo la grande tenda verde, lì dietro ci sono ancora le sedie usate l'ultima volta. Ci sediamo tenendoci ben strette il giaccone, una sottile corrente fredda filtra dai vetri lasciati aperti.

 

Non so come iniziare.

Non so cosa dirle.

Non ho idea di cosa sia capitato con Stephanie, è un discorso delicato, non vorrei offenderla in qualche modo.

 

«Non è successo subito, non è che pianificassi nulla. È capitato e basta. Io e S siamo così in sintonia che credo sia avvenuto naturalmente, senza forzature», dice con voce calma.

«Quando... quando... insomma quando avete iniziato a frequentarvi?», le chiedo.

«Guarda che lo so che è strano. Non ho mai pensato che mi potessero piacere le ragazze. Il fatto che nessun ragazzo mi abbia mai attratta non ha mai significato nulla per me, ho sempre pensato che... insomma... non avessi trovato il ragazzo giusto. Sono molto chiusa, pensavo che fosse da imputare al mio carattere», mi dice.

Mi avvicino e le prendo le mani:«A me non importa chi tu voglia amare. Sia esso maschio o femmina. Ti giuro è una cosa irrilevante. La cosa importante è capire come mai sei arrivata a questo punto e in questo stato».

 

Kate mi guarda con dolcezza, come se ricordasse i momenti belli passati con Stephanie. È come potessi leggere quello che pensa osservando le espressioni del suo volto: tenerezza, dolcezza, passione, imbarazzo, desiderio. Tutte emozioni che ho vissuto con James e che conosco benissimo.

 

«Mi ha baciata lei per prima. Eravamo in camera sua a cantare. Mi ricordo che mi ha accarezzato il volto per spostarmi una ciocca di capelli. La sua mano non si è staccata dalla mia guancia. I suoi occhi. Cavolo, ricordo alla perfezione la bellezza dei suoi occhi. La luce che li colpiva di striscio, lo scintillio e la più assoluta e più sincera voglia che aveva di me. S voleva baciarmi ed io non ho opposto resistenza perché anche io lo volevo. Elena... Elena, io... io muoio se ripenso ai suoi baci». Kate sta piangendo disperata. Un pizzicore punge i miei occhi, trattengo a stento le lacrime.

«Siete state insieme per molto?», chiedo con un filo di voce.

«È da quest'estate che io e lei... insomma... abbiamo capito di amarci. La storia con Lucas era finita da un pezzo. Lui era ossessionato da Yale, era l'unica cosa che gli interessasse. Usava Stephanie solo per... per... merda, hai capito, no? Quel porco schifoso la trattava da schiava. S doveva essere ai suoi comandi e fare quello che lui le diceva. Lei non ha mai reagito perché non ha mai provato un altro sentimento oltre a quello, non capiva che lui non era la persona giusta da amare».

«Scusa se sono brutale, ma se stavate tanto bene insieme come... come...».

«Come mai abbiamo rotto?». Kate finisce la frase al mio posto: «Perché ammettere di amare un'altra donna per Stephanie è impossibile. Mai rivelerebbe la nostra storia, ha paura che sua madre lo venga a sapere, sai com'è fragile, e che la reputazione della sua famiglia venga compromessa».

«Ma al giorno d'oggi non è uno scandalo. Voglio dire, molte coppie vivono tranquillamente la loro storia a prescindere dalle opinioni altrui. Se qualche scemo pensa che sia sbagliato è un suo problema, non tuo o di Stephanie», dico come fosse la cosa più ovvia del mondo.

Kate si alza di scatto. Sfrega nervosamente le mani tra di loro, borbotta. Sembra arrabbiata, nervosa, non capisco cosa le prenda:«In che mondo vivi? Nel mio mondo se sei lesbica sei una diversa, una strana, una non normale. Prova tu a dire a mia madre: Sai Hanna tua figlia Kate è gay. Sì, ama le ragazze. No, non sposerà un uomo. No niente nipotini, casa con il giardino e recinto bianco. Lo stesso vale per S e per tutti i ragazzi al Trinity. Sarebbe un affronto, una di quelle cose di cui tutti sparlerebbero. Probabilmente mi umilierebbero, deriderebbero e ghettizzerebbero. Passerei le pene dell'inferno, ma... ma io lo farei per lei. Non ho paura di nulla con lei al mio fianco. Sarei potuta essere la sua corazza, l'avrei protetta. Tutto, farei di tutto per lei... invece Stephanie no... non ha avuto il coraggio di affrontare niente, ha preferito fuggire. Ha preferito fingere che le cose successe tra noi non siano mai accadute. Si è detta che è solo una fase, una cosa di passaggio, ha pensato che amare una ragazza è sbagliato. Se lo è ripetuta tante di quelle volte che alla fine ci ha creduto. Alla fine ha creduto alle bugie che si è raccontata. L'ho visto sai. L'ho visto ogni volta che si avvicinava a me. Capivo la lotta che aveva dentro, capivo che mi voleva e allo stesso tempo aveva paura di me, di quello che provava per me».

«Mi dispiace Kate, mi dispiace davvero», dico triste.

«Dopo che ha fatto la pace con gli altri le cose sono cambiate rapidamente. Adesso non mi cerca più come prima, è troppo impegnata a essere la Stephanie di un anno fa, l'ombra di Rebecca. Quanto credi che ci abbia messo Lucas a convincerla che loro siano perfetti insieme? La coppia felice e perbene. La coppia giusta, quella che non desta scandalo». Kate è su tutte le furie.

«Lucas e Stephanie si sono rimessi insieme? Quando?», chiedo stupita, non mi sono accorta di nulla.

«Non importa quando, importa solo che lei crede sia giusto essere la ragazza di lui e non la mia. Non posso competere, lo capisci? Non potrò mai darle lo status che lui ha. Lui è quello perfetto, io sono quella sbagliata, l'errore di gioventù». Kate prende a calci una sedia facendola schiantare contro un grosso tappeto arrotolato. Urla. Accovacciata a terra infila le mani nei capelli, furiosa e arrabbiata. Trema e mugola parole tra le lacrime. 

 

La osservo soffrire senza sapere cosa fare, mi sento inerme e molto sciocca. In tutti questi mesi mi sono immersa nei miei problemi senza accorgermi del cambiamento della mia migliore amica. Non ho colto quanto sia maturata e come abbia preso le redini della sua vita. La fotografia, l'accademia a New York, i viaggi che vuole fare. La Kate bambina che conoscevo aveva paura della sua stessa ombra adesso, davanti a me, ho una donna che ha appena scoperto ciò che vuole ed è disposta a tutto pur di ottenerlo.

 

«Forse potrei parlarle. Convincerla che sta sbagliando», provo a chiedere.

«No. Non capisci che non ha senso. S è convinta che la vita che la famiglia pensa giusta per lei sia quella che debba vivere. È lei che vuole un marito, i figli, la casa con il giardino e lo steccato bianco. Vuole l'illusione di una vita felice, anche se accanto a Lucas non so quanto potrà esserlo. Ho perso in partenza, non posso toglierle dalla testa quelle convinzioni, nessuno può. Cosa faresti Elena se una persona ti dicesse che amare James è sbagliato? Cosa faresti se ti dicesse che le scelte che hai fatto sono frutto della confusione e non dei tuoi più intimi desideri? Tu daresti ascolto a questa persona oppure continueresti per la strada?», mi dice Kate dura.

«Io... io credo che continuerei a vivere la mia vita. Non so. Ecco, credo che non ignorerei mai i miei desideri per compiacere le aspettative altrui», le rispondo.

«Sei davvero sicura?». Kate mi guarda dubbiosa.

«Certo, non ho mai rinunciato a nulla per James, mai. Non sto soffocando nulla di quella che sono», rispondo nervosa. Sembra un terzo grado nei miei confronti e la cosa non mi piace.

«Se lo dici tu, per me va bene. L'importante è che le tue scelte siano tue, come io faccio le mie e Stephanie fa le proprie. Nessuno deve mai soffocare il proprio essere, l'ho capito tardi, in maniera brutale. Il male che provo quando ripenso a quanto era bello stare con S è straziante. A volte cedo al ricordo dell'amore che c'era tra noi e mi perdo. È come zucchero liquido, una droga. Credere che quello che c'è stato sia ancora vero, mentre è solo un miraggio, mi confonde. Per questo non studio con tutti voi, per questo pranzo da sola. Ho scelto di staccarmi il più possibile da ciò che mi fa soffrire cercando di realizzare ciò che desidero. È dura, molto dura, perché a volte Elena io non so più chi o cosa sono», mi dice mentre raccoglie la sedia che ha scaraventato poco prima. 

«Quindi, adesso cosa facciamo?», le chiedo anche se so benissimo dove vuole andare a parare. Le parole di Kate sono come schiaffi in pieno volto. Capisco perfettamente cosa mi sta dicendo eppure non voglio saperlo, non voglio approfondire.

«Io non voglio Yale. Non voglio essere un avvocato. Non voglio soffocare ciò che sto scoprendo ora. Non posso fingere di volere una vita che non fa per me. Non posso neanche obbligarti ad essere mia amica ed ignorare i tuoi sentimenti verso gli altri. So benissimo che ami ancora James, lo sanno tutti. Si capisce. Non posso far parte di un gruppo per renderti felice e non posso obbligarti a lasciarlo per rendere felice me stessa. Sarebbe ingiusto. Credo sia ora di affrontare quello che ci sta succedendo da un po' di tempo. Abbiamo viaggiato su binari paralleli per molti anni, ma adesso ognuna di noi sta prendendo strade diverse. Sarebbe successo prima o poi, l'importante è rendersene conto e affrontarlo», dice Kate con gli occhi lucidi.

«Quindi non siamo più amiche?». Aspetto con occhi chiusi la risposta. 

 

Incrocio le dita dietro la schiena, non voglio perdere la mia amica. 

Mi sento così fragile senza di lei, non ho nemmeno un briciolo della sua grinta. La sua vita e i suoi desideri non mi sono stati chiari per molto tempo, eppure Kate è riuscita ad affrontarli da sola, con maturità. Forse non ho voluto vedere i cambiamenti in lei, forse ho preferito credere che fosse la solita e vecchia Kate, un po' impacciata e con la paura di esporsi.

Tutto in lei mi rimanda un'immagine diversa da quella che ho sempre avuto, Kate è una piccola donna, una ragazza con le idee chiare e con la voglia di vivere i suoi sogni ed io non posso impedirle di cercare di realizzarli, sarei una persona cattiva.

 

«Che cavolo dici? Secondo te potrei vivere senza la mia amica perfetta?», mi dice tuffandosi al mio collo e stritolandolo.

«Io starò malissimo senza te», le rispondo stringendola più forte.

«Il fatto che vada a studiare a New York non significa nulla. Voglio restare tua amica, ma non possiamo fingere che sarà come prima. Avremo interessi diversi ed a volte potremmo non stare insieme, ma sai che noi siamo come sorelle. Guarda i nostri genitori hanno sempre contato l'uno per l'altro. Nemmeno un oceano è riuscito a dividerli». Kate piange a dirotto.

«Mi mancherà tutto questo, soprattutto la tua capacità di ascoltarmi e capirmi», le dico tra i singhiozzi e ridendo allo stesso tempo.

«Anche a me mancherà la tua capacità di lagnarti e chiacchierare per ore intere», mi dice sghignazzando.

 

Stretta tra le sottili braccia di Kate sento che i giorni a New Heaven con lei stanno finendo. Tra poco le nostre strade si divideranno e io non avrò più il privilegio di avere la mia amica tutta per me. 

Malinconia, tristezza e amarezza sono i sentimenti che lottano dentro di me.

Gioia, felicità e fiducia sono le sensazioni che albergano nel mio cuore.

 

La piccola Kate è più grande di una montagna.

La dolce Kate è più forte di quanto pensassi.

La piccola Kate ha conosciuto l'amore e io non posso esserne che felice.

 

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Capitolo 44
*** IERI: Rompere la routine ***


IERI:
Rompere la routine





I giorni si ripetono uguali. 

Mi sento un automa.

Sveglia.

Scuola.

Lezioni.

Ripasso in biblioteca.

Ripasso a casa di James.

Ripasso.

Compiti.

Cena.

Dormire.

Non ho nemmeno il tempo di guardare un film, dipingere o leggere un libro.

Il giorno dopo riparto con le stesse identiche cose.

In tutto questo Kate non c'è oppure compare ogni tanto come fosse un fantasma con al collo la macchina fotografica. Non mi ha detto più nulla sulla storia con Stephanie riesce a controllare le sue emozioni alla perfezione. È come se non fosse mai successo nulla, come se il dolore provato fosse improvvisamente svanito. O almeno è quello che mi vuol far credere. Sfugge, è troppo impegnata con i suoi progetti ed io con i miei per approfondire. Credo che per entrambe sia la cosa migliore concentrarci sul nostro futuro senza rimpiangere il passato.

 

A scuola tutti i ragazzi dell'ultimo anno paiono in preda a crisi isteriche. Febbraio, marzo ed Aprile sono volati, siamo tutti in attesa delle lettere dalle varie università a cui ci siamo iscritti. Tre mesi che mi sono sembrati un incubo, ma che per alcune persone sono risultati una vera e propria tortura. Jo desidera fin da bambino essere ammesso a Yale e per quanto si possa essere impegnato non è assolutamente certo di poterci andare. Lucas e Rebecca sono i più nervosi, ad ogni trasgressione sul programma di studio si trasformano in bestie feroci: non sono ammessi ritardi, scuse o distrazioni di nessun tipo. I fine settimana passati a festeggiare, anche semplicemente mangiando un gelato, sono un ricordo lontano. Adrian e Stephanie seguono il gruppo, non si pronunciano, sono troppo stanchi per opporsi. James pare essere in tensione, molto spesso lo trovo a fissare il vuoto oppure perso nei suoi pensieri. Capita che mi lanci delle occhiate, si ferma a fissarmi con intensità. Anche se crede che non lo stia guardando capisco cosa sta pensando, è come se volesse leggermi nella testa o chissà cos'altro. 

 

Dire che siamo sull'orlo di una crisi di nervi mi pare riduttivo.

Siamo totalmente immersi nelle stesse nostre nevrosi.

 

Se questo non bastasse mi ritrovo a competere per quella stupidissima corona da reginetta di fine anno. Uno strazio. Rebecca riesce sempre ad essere sorridente e cortese durante le varie manifestazioni a cui partecipiamo: la vendita dei biglietti per il ballo, la vendita di biscotti per beneficenza, la preparazione della festa degli ex studenti. Ha sempre un sorriso allo zucchero e una risposta cordiale per tutti. Io invece sono spesso imbronciata, troppo occupata a ripetere a mente date o formule matematiche piuttosto che sbattere le ciglia per ingraziarmi qualcuno.

 

Sono una pessima candidata a reginetta, non ci vuole molto per capirlo.

 

Adrian è un ottimo supporto, essendo rappresentante di istituto ha molta visibilità, questo gioca a mio favore. Ha sempre una buona parola nei miei confronti e mi fa molta pubblicità. Il fatto poi che a James sia di nuovo mio amico ha fatto scatenare per la scuola una marea di pettegolezzi sulla nostra storia. Tutto gioca a mio vantaggio, come le belle foto che mi ha scattato Kate, una serie in bianco e nero molto intima e più vicina al mio modo di essere. In questo modo gli studenti possono conoscermi un po' più per quella che sono veramente. Non che voglia vincere, ma mi diverte competere con Rebecca, anche se so benissimo di non avere la minima chance.

 

«Buongiorno a tutti», Rebecca saluta con la mano i ragazzi che stanno preparando le decorazioni per la festa degli ex studenti. Indossa un tubino color giallo paglierino e scarpe con tacco basso abbinate che la fanno sembrare un grande limone. Con i capelli raccolti sulla testa bloccati da un grande nastro giallo il look è completo.

 

«Che abito sobrio», le dico ironica.

«Oggi dobbiamo andare a portare le torte meringate al limone in diversi edifici pubblici. Il mio vestito è perfettamente in linea con la giornata di oggi. Invece tu, come dire, sei la solita Elena. Ma James non doveva aiutarti a rivedere la tua immagine?».

I miei pantaloni stretti, un cardigan corto e camicia bianca mi sembrano perfetti per una giornata come questa:«Guarda che è stato proprio lui a consigliarmi un abbigliamento più semplice. Sapeva che, come sempre, avresti esagerato», le dico sghignazzando.

«Esagerata io? Quando mai», mi dice schiacciando l'occhio.

Jo si catapulta verso di noi con in mano un rotolo gigante di cartelloni arrotolati:«Dove li devo appendere?», chiede a Rebecca.

«Questi dovevano essere appesi due ore fa nei corridoi e nella mensa. Come mai sono ancora qui?». Rebecca punta il dito minacciosa contro Jo.

«Sono passato dalla biblioteca universitaria. Mi hanno detto che c'è il rettore di Yale in libera uscita... io... io...». Jo ha la faccia rossa per l'imbarazzo.

«Cosa pensavi di fare? Presentarti con una divisa sgualcita e i capelli lunghi davanti al volto? Non puoi andare dal rettore di Yale e dire: Buonasera mi chiamo Jonathan Kurtz e studio al Trinity Institute. Ho la media più alta della scuola. Cosa vuoi che ti risponda?». Rebecca guarda l'amico dall'alto in basso. Nonostante non abbia usato toni cortesi quel che dice mi sembra più che giusto.

Jo ha una strana sfumatura violacea sul viso, è talmente imbarazzato che non sa cosa dire.

«Cerca di capirlo, Becca. Vuole quella lettera a tutti i costi. Chi meglio del rettore potrebbe scrivetegliela?». Lucas spunta da dietro le spalle.

«Dai non sgridarlo, lo aiuto io ad attaccare i cartelloni per la scuola», dice Stephanie. Ha la mano stretta in quella del fidanzato.

 

Non posso fare a meno di storcere la bocca, è più forte di me.

Va bene che ognuno debba fare delle scelte nella propria vita, ma come fa Stephanie a fingere di non aver amato Kate? Si comporta come se non fosse mai successo nulla? Non cerca più quella che era la sua migliore amica fino a pochi mesi fa, non cerca l'unica persona che la rispettasse per come era, con pregi e difetti.

Vorrei intervenire, dire qualcosa, ma ripenso alla mia amica e mi trattengo.

Se Kate non ha fatto scenate non ho nessun diritto di farle io.

 

Ingoio il rospo.

Prendo un respiro profondo.

Faccio finta di nulla, come ho fatto negli ultimi mesi.

 

«Se vuoi ti aiuto anch'io», dico a Jo. Non ho la minima voglia di stare a sistemare le decorazioni per la festa degli ex studenti.

«No, cara. Prima di tutto sei la mia avversaria e non ho intenzione di farti boicottare i miei cartelloni. Secondo, tu ed io dobbiamo andare a portare le torte al limone», mi dice Rebecca prendendomi per mano e trascinandomi con forza verso l'uscita.

La mia faccia disgustata deve essere molto buffa perché scoppiano tutti a ridere.

James si piazza davanti alla porta d'uscita:«Dove hai intenzione di portare la mia protetta?», chiede con fare sospettoso a Rebecca.

«Centro anziani. Ludoteca. Uffici del comune. Ho preso appuntamento mesi fa. Un tizio del Club di fotografia ci seguirà e scatterà foto che poi potremo usare qui a scuola», dice sorridente.

«Mi devo fidare?». James scruta con attenzione l'amica.

«Parola d'onore». La voce di Rebecca è diabolica, il suo sguardo angelico.

 

Ho un po' paura.

 

James mi prende a braccetto e mi parla veloce all'orecchio: «Stai ben attenta a qualsiasi cosa strana ti dica di fare. Occhio a non inciampare o sbattere contro qualche ostacolo che può averti messo. Soprattutto stai attenta al fotografo, potrebbe essere d'accordo con lei. Credo che la tua sfidante abbia in mente qualcosa. Rebecca + torte meringate + te = un disastro assicurato».

«Non credo abbia intenzioni cattive, non troppe almeno. Ha promesso che avrebbe giocato secondo le regole», gli bisbiglio piano.

James mi guarda con le sopracciglia alzate come per farmi intendere di non credere minimamente a quello che ho appena detto.

«Sono troppo ingenua?», gli chiedo sperando che mi dica l'esatto opposto.

«Elena, sei talmente ingenua che potrei farti credere qualsiasi cosa, per esempio che la gallina ha quattro zampe o che i panda si truccano gli occhi. Mettiti dentro quella testolina che si tratta sempre di Rebecca, questo è il suo sogno fin dalle elementari, farebbe di tutto per vincere».

«Dici che devo...», ma non finisco la frase.

 

Una valanga di cartelloni pieni di glitter e con attaccate foto di Rebecca volano per la stanza. Jo sta correndo verso un tavolo dove c'è appoggiato il suo zaino, lo prende poi a passi veloci si dirige verso l'uscita. Praticamente ci sta per investire.

 

«Stop!», urla James bloccando l'amico tra le braccia. 

Jo sembra in preda a una crisi di nervi mentre sventola il cellulare che stringe in pugno:«Rettore. Bar. Caffè. Devo andare. Andare», blatera confuso.

«Che ti prende?». Adrian, Lucas e Stephanie sono subito vicino a noi.

«Dice cose senza senso, come se già normalmente non lo faccia», grugnisce Rebecca.

Tutti gli lanciamo una occhiataccia per zittirla.

«Ok. Ok. La smetto», dice alzando gli occhi al cielo, «Cosa ti è successo?», chiede con finta gentilezza Rebecca a Jo.

«Il rettore di Yale è in un bar in centro. Devo raggiungerlo», ci spiega Jo.

«Ma prima ti ho detto che è una pessima mossa andare a disturbarlo. Poi ti ricordo che c'è un piano in ballo. Ognuno sa quello che deve fare. Ognuno ha un ruolo. Ognuno deve aiutare gli altri. Non puoi andartene e...», Rebecca non finisce la frase.

«Che vadano a farsi friggere tutti i progetti e le cose che ci siamo detti. Immagina se il rettore mi prendesse sotto la sua ala. Non avrei più ostacoli per accedere a Yale. Tu non vorresti? La tua lettera fa schifo tanto quanto quella di Lucas, Adrian, James, Elena e Stephanie. Siete davvero sicuri di non voler andare a cercarlo?», dice Jo duro.

 

Il silenzio cala su tutti noi.

Le parole del nostro amico risuonano nell'aria. Nello sguardo di tutti c'è una scintilla diversa, quella dell'ambizione. L'idea di poter ammaliare il rettore di Yale, farsi conoscere e avere la sua benevolenza è una cosa che eccita le nostre fantasie.

Sarebbe immensamente più facile per me, non dovrei chiedere aiuto a Nik e potrei accedere al college con una sicurezza in più.

 

«Fate, dite e pensate quel che volete. Io vado in centro, gioco tutte le mie carte», dice Jo uscendo dalla porta come una furia.

 

Imbarazzo.

Nessuno sa cosa fare.

 

«Bene. Io ed Elena andiamo a consegnare le torte. Tu Stephanie ti occuperai dei cartelloni con Adrian, mentre Lucas e James finiranno di sistemare le decorazioni in sala. È meglio lasciar perdere Jonathan. Ok?», dice Rebecca con voce squillante e un sorriso smagliante.

«Certo, come no», replica Stephanie con lo stesso tono.

«Ovviamente», dice James con un sorriso abbagliante.

 

C'è qualcosa di strano in tutti loro, ma non riesco a colgiere le loro vere intenzioni.

 

«Andiamo», mi ordina Rebecca. Usciamo dalla sala della festa a passo veloce, faccio fatica a starle dietro. Con piglio deciso Rebecca spalanca il portone del palazzo, scende le scale mentre con il telefonino in mano chiama qualcuno.

«Adesso passa a prenderci il mio autista. Dobbiamo intercettare Jo per capire in quale bar del centro deve andare, non possiamo perderlo», mi dice mentre si toglie dai capelli il nastro giallo limone per poi buttarlo per terra.

«Ma... ma... ma le torte?», chiedo confusa.

«Chi se ne frega delle torte. C'è il rettore di Yale in libera uscita. Vuoi o non vuoi conoscerlo?», mi dice mentre una macchina nera parcheggia davanti a noi.

«Ma se prima hai detto che...».

«Strategia. Dovevo fare in modo che James e gli altri ci raggiungano il più tardi possibile, per quello ho finto con loro. Prima o poi capiranno che non siamo andate a consegnare le torte, se non l'hanno già capito. Anzi ne sono certa». Rebecca sale sulla macchina nera iniziando a sfilarsi il tubino giallo.

Imbarazzata la seguo nella macchina sedendomi vicina a lei.

«Prendi la strada che va per il centro e se vedi un ragazzo con la divisa del Trinity che corre come un pazzo devi accostare, capito?», ordina Rebecca al suo autista.

«Sì signorina», risponde l'uomo.

 

Rebecca si sfila l'abito restando in biancheria intima, poi alza il suo sedile, c'è un vano pieno zeppo di cose. Toglie un rotolo di plastica trasparente in cui è sistemato un abitino nero molto semplice, quasi monacale e un paio di ballerine nere.

 

«Bisogna essere sempre pronti a ogni evenienza. Non si sa mai chi si può incontrare. Un abitino nero come questo risolve molti guai», mi spiega Rebecca mentre mi indica i bottoncini sulla schiena, vuole che li chiuda.

«Non credi che avremmo potuto andare tutti insieme? Del resto anche James, Adrian, Stephanie e Lucas vogliono Yale», dico mentre cerco di infilare i bottoncini nella asole minuscole.

«Tu come reagiresti se fossi il rettore di Yale e un'orda di studenti ti investisse e ognuno di loro iniziasse a parlare contemporaneamente all'altro?», mi dice Rebecca mentre si sistema il trucco.

«Non bene, credo».

«Perfetto. Quindi prima arriveremo e prima riusciremo ad entrare nelle grazie del rettore. Ricorda Elena, questa è una guerra e non ho intenzione di perderla e non guarderò in faccia a nessuno pur di vincerla», dice Rebecca decisa.

 

L'autista schiaccia sull'acceleratore, la strada scorre veloce.

Sto correndo verso il mio futuro in compagnia dell'ultima persona che mai avrei immaginato avere al mio fianco.

Incrocio le dita.

 

...CONTINUA NEL PROSSIMO CAPITOLO...

 

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Capitolo 45
*** IERI: Seguire le tracce ***


IERI:
Seguire le tracce


 

I cappelli di Rebecca ricadono morbidi sul sedile della macchina, un cerchietto nero e una collana di perle sono gli unici accessori che indossa. Niente rossetto, solo un poco di lucida labbra. La capacità di apparire perfetta in una situazione come questa ha dell'incredibile.

La osservo un po' confusa: possibile che abbia organizzato tutto?

Come faceva a sapere che avrebbe usato quei vestiti?

 

«Se per caso il rettore fosse stato in piscina?», provo a chiederle.

Rebecca sfila un sacchetto di plastica con due costumi, uno pieno di paillettes molto sensuale mentre l'altro è un semplicissimo costume intero blu.

La guardo sbigottita:«Ma quante cose hai qui dentro?», le chiedo mentre sbircio le decine di sacchetti nascosti nel vano del sedile.

«C'è chi si accontenta di uno zaino o una sacca per tenere le cose. Io ne ho molte di più. Per questo la macchina è la mia borsetta», mi dice con voce snob.

«Ma... ma...». Cosa potrei rispondere ad una affermazione del genere? Nulla. È talmente assurdo il suo discorso che non merita la minima attenzione.

 

Scuoto la testa infastidita.

 

«Perché fai così? Avrei potuto lasciarti a sistemare quelle ridicole decorazioni o fare altre cose inutili, invece sei qui con me. Credo tu possa mostrare un po' di riconoscenza. Non saresti nulla senza noi. A scuola saresti invisibile come il resto degli studenti», mi dice mentre osserva i marciapiedi alla ricerca di Jo.

«Non sarei invisibile per niente. O meglio, se fossi invisibile è perché lo vorrei io e non perché lo decidi tu», le rispondo a tono.

Rebecca ride di gusto:«Ma ti senti? Credi di essere migliore di me, la paladina della giustizia, ma non hai voluto altro che essere una di noi, fin dall'inizio. Ti affanni tanto ad essere la buona, ma sei perfida quanto me. La storia di Andrew ne è la dimostrazione».

 

Adesso esplodo.

La storia di Andrew è archiviata, seppellita, se vuole posso elencarle ogni volta che è stata meschina con me, Kate, Jo o Stephanie.

 

«Noi due siamo come il giorno e la notte. Credo che in verità sia tu che vuoi essere come me. Del resto sono arrivata dove tu non arriverai mai», le dico acida riferendomi a James.

«Certo, come no. So benissimo dove sei arrivata. Sei solo una smorfiosa, falsa e bugiarda», mi risponde grugnendo.

«Io non sono falsa, mai. Se non mi sbaglio l'unica qui che ha tradito qualcuno sei proprio tu. Ti sei dimenticata la storia di Adrian e Miss Scarlett?».

«Quella storia è passata, non...», Rebecca non finisce la frase.

 

La macchina inchioda, entrambe veniamo sbalzate in avanti fortunatamente senza conseguenze.

 

«Signorina, potrebbe essere quello il ragazzo che sta cercando?». L'autista indica Jo che corre come un pazzo sul marciapiede di fianco a noi.

«Raggiungilo», ordina Rebecca all'uomo.

 

In pochi secondi siamo di fianco al nostro amico con il finestrino abbassato. Non si accorge subito di noi, è talmente preso che continua a camminare a passo veloce.

 

«Jo. Jo», lo chiamo sporgendomi leggermente.

Jo sobbalza spaventato dell'incursione improvvisa:«Ma che cavolo. Mi fai venire un colpo. Io... io... ma che ci fate qui?», ci chiede confuso guardando me e Rebecca sedute nelle stessa macchina. La cosa deve sembrargli parecchio strana.

«Noi vorremmo, sempre che tu abbia voglia, ecco... capire se desideri... non vogliamo importi nulla, sia chiaro... solo che...», provo a spiegare con gentilezza, ma Rebecca mi blocca in malo modo.

«In poche parole vuole dirti di salire. Andiamo a cercare il rettore», dice secca.

«Ma...», prova a replicare Jo.

«Niente ma. Hai cinque secondi per salire, il centro città è ancora molto lontano. Noi possiamo darti un passaggio. Sali?». Rebecca apre lo sportello verso il nostro amico.

 

Jo tentenna un attimo poi si fionda in macchina sedendosi vicino a me.

 

«Perché siete venute a cercarmi? Non avevi detto che andare dal rettore era una cosa sbagliata?», dice Jo a Rebecca che di tutta risposta alza le spalle indispettita.

«Sottigliezze. Stupidaggini. Volevo evitare che rovinassi tutto, è tipico di te. Non ne azzecchi mai una. Adesso, di grazia, dicci dove dobbiamo andare, il mio autista ci porterà lì».

«Cafè Central. Vicino alla chiesa di Saint John», dice Jo controllando sul telefonino.

«Ma chi ti ha dato questa informazione? Non ti facevo una spia», gli chiedo cercando di sbirciare per curiosità.

«Ho le mie tirapiedi anch'io, non siete le sole ad avere fan club al Trinity. Ho acquisito un certo prestigio, ne sto approfittando, ma senza esagerare. Ogni tanto un aiuto fa comodo, soprattutto se si tratta di Yale», dice Jo sghignazzando.

«Caro Jonathan, sei un cattivone, sfruttare così delle povere fanciulle. Cosa gli hai promesso? Hai detto loro bugie?», dico ridendo.

«Io, ecco. Credo che per Yale farei tutto, anche mentire, tradire, vendere l'anima». Jo arrossisce, non è certo da lui ammettere una cosa del genere.

«Con tutta sincerità, non mi interessa sentire di ragazzine sbavanti e innamorate di te. Credo sia il caso di cambiare discorso altrimenti vomito in diretta... così per curiosità, che cosa dirai al rettore una volta che te lo troverai davanti? Perché mi auguro tu abbia un piano. Hai un piano Jo?», chiede Rebecca acida.

 

Jo apre la bocca, ma non parla. Sbatte gli occhi, ci pensa su.

Non ha un piano, è facile da capire.

Vuole andare ad istinto, ma non so se questo è il caso di buttarsi senza un'idea precisa di cosa fare.

Il rischio che faccia un disastro è molto alta.

 

«Perfetto. Ho capito. Tu vuoi andare dal rettore e conquistarlo su due piedi senza sapere cosa dire e cosa fare. Se non ci fossi io, voi due sareste più trasparenti dell'aria e più insapori dell'acqua», dice Rebecca a Jo e me. «Fortuna che io ho sempre un piano per ogni evenienza».

«Che cosa hai in mente?», le chiedo.

Rebecca sorride diabolica, il che non promette mai nulla di buono.

 

In dieci minuti raggiungiamo il Cafè Central indicatoci da Jo. Rebecca è riuscita a spiegarci cosa fare con molta chiarezza, anche se non credo sia un piano così infallibile come lei crede: fingere di capitare per caso nel bar e per caso far sentire i nostri discorsi al rettore, mi pare molto difficile. Ci sono troppe incognite e troppe variabili per essere certi che le cose vadano come lei auspica. Prima di tutto non sappiamo se il locale è pieno, se il rettore è in compagnia della moglie, se riusciremo a sederci vicini, insomma, ci sono così tanti se che il piano di Rebecca mi pare improvvisato tanto quanto quello di Jo di andare allo sbaraglio.

 

«Non credo funzionerà?», dico sincera ai due mentre nascosta dietro ad un cassonetto osservo in lontananza il locale.

«Certo che funzionerà. Hai poca fiducia in me. È questione di positività. Se pensi positivo sarai fortunata, non ti abbattere prima di provare. Mal che vada conosceremo il rettore», dice Rebecca mentre attraversa la strada di corsa.

Jo ed io la seguiamo, ci appostiamo di fronte all'ingresso del bar. Guardiamo attraverso le vetrate, ci sono molti clienti, ma notiamo che il rettore è seduto da solo al bancone a bere un caffè.

«Adesso entriamo e beviamo qualcosa. Voi seguite la mia conversazione e cercate di apparire più naturali possibili. L'ho fatto decine di volte, la gente non può fare a meno di sentire le chiacchiere degli altri, figurati poi se interessano lui direttamente», dice Rebecca sistemandosi il cerchietto e la collana di perle.

 

Ho un brutto, bruttissimo presentimento.

 

Jo spinge la porta del bar.

La campanella posta in alto tintinna leggermente.

Poi...

Un turbine ci investe.

 

James.

Lucas.

Stephanie.

Adrian.

Tutti e quattro ci piombano addosso.

 

La porta del bar si richiude con un tonfo mentre veniamo trascinati dietro l'angolo al riparo da occhi indiscreti.

 

«Brutti idioti. Stavamo per andare a conoscere il rettore. Era tutto sotto controllo», sbraita Rebecca.

«Volevi andarci senza di noi?», le chiede Lucas a muso duro fissandola con cattiveria.

«Dopo averlo conquistato gli avrei parlato di voi... forse». Rebecca urla l'ultima parola in faccia all'amico.

 

Mi sembra di vedere i fulmini uscire dagli occhi di entrambi come nei cartoni animati.

 

«Sapevo che dovevo tenere la bocca chiusa. Se mi fossi fatto gli affari miei adesso sarei con il rettore di Yale a bermi un caffè e a parlare. Stupido Jo. Stupido Jo».

«Quindi avresti pensato solo a te stesso. Sai bene che dobbiamo restare uniti per riuscire a realizzare i nostri sogni», gli dice Rebecca.

«Senti da che pulpito viene la predica. Se ci hai appena scaricati per venire qui. Non credi sia un po' in contraddizione il tuo discorso?». Con le braccia incrociate al petto Adrian osserva l'amica con disappunto.

«Dimmi una cosa sapientone, se foste stati più veloci di me non avreste fatto la stessa cosa?». Rebecca punta l'indice sulla spalla dell'amico facendolo indietreggiare.

 

Me lo sento, questo è l'inizio della fine.

 

Gli sguardi di tutti minacciano battaglia. Come in uno scontro tra cowboy del far west, si osservano e si scrutano. Le parole sono le pistole, le intenzioni i proiettili. Come una raffica di piombo gli insulti volano veloci uno contro l'altro in una spirale crescente di tensione e rabbia.

«Sei falsa», dice Lucas.

Pam.

«Io falsa? Voi siete invidiosi», dice Rebecca.

Pam. Pam.

«Possibile che vi impicciate sempre?», replica Jo.

Pam. Bum.

«Non è un comportamento corretto», dice Stephanie.

Bum.

«Parla quella che non è stata nostra amica per mesi», le risponde Rebecca.

Bum. Pam.

«Bugiarda».

«Invidioso».

«Impiccioni»

Le parole volano veloci, manca poco per arrivare agli insulti veri, quelli che fanno male davvero. Le voci di sovrappongono, tutti urlano più forte per sovrastare la voce degli altri. C'è chi scalpita, chi gesticola, chi è su tutte le furie. 

 

Vigliacco. Tu. Meschino. Traditrice. Io. Egoista. Voi. Inutili. Parassiti.

 

Detesto tutto questo, è una cosa orrenda da guardare e sentire.

Mi tappo le orecchie e chiudo gli occhi, non voglio vedere dove andranno a finire.

Ansia.

Voglio che smettano.

Stress.

Non ne posso più.

Paura.

Non ha senso litigare.

Fastidio.

 

Poi.

Una voce ferma rompe il caos.

Una parola detta con fermezza riporta l'ordine.

«Ridicoli», dice James con tale intensità che riesco a sentirlo anche se ho i palmi delle mani premuti sulle orecchie.

«Cosa?», dicono in coro Rebecca, Jo, Stephanie, Lucas e Adrian. Ognuno prova a controbattere e rispondere, ma le voci finiscono con impastarsi di nuovo. Non si capisce nulla di quello che dicono.

James interviene di nuovo, sembra adirato: «Stop! Se uno solo di voi pronuncia una sola parola giuro che smette immediatamente di essere mio amico. Sapete quanto io sia deciso, non ho problemi a rompere i rapporti con gente che non stimo e che si comporta in maniera ridicola, proprio come state facendo voi adesso».

 

Gli sguardi di tutti sono perplessi, vorrebbero rispondere, ma sanno che quando James dice queste cose non sta scherzando. Ne so qualcosa, quando mi ha scaricata l'anno scorso non avrei mai creduto che avremmo potuto ritornare ad essere amici.

 

«Prima di tutto non potete credere che andare dal rettore in un bar e ammorbarlo con i vostri sogni o desideri sia una cosa giusta e sana. Cosa fareste voi se una matricola del Trinity vi rompesse le scatole mentre siete al salone di bellezza, al country club o semplicemente a fare la spesa? Lo ascoltereste o lo etichettereste come uno scocciatore?», chiede James.

Rebecca alza la mano come se si trovasse a scuola:«Non avevamo intenzione di andare direttamente dal rettore, ma di avvicinarci piano piano. Avevamo delle idee e...», ma viene interrotta da James.

«... e avreste combinato un casino pazzesco. Credetemi questa non è la strada giusta. Vi ricordate cosa vi ho detto mesi  fa?», James prende il volto di Adrian, Lucas, Rebecca e Jo tra le mani. Poi prende le mani di Stephanie:«La nostra amicizia è rinata da poco, ma sai benissimo cosa ti ho detto. Unione. Obbiettivi. Non dobbiamo perdere di vista il fine ultimo. Yale. Questa potrebbe sembrare una scorciatoia, ma noi dobbiamo puntare al lungo termine. Il rischio di rovinare quello per cui lavoriamo da anni è altissimo».

 

Tutti annuiscono, io compresa.

Non ha senso rischiare di compromettere quello che abbiamo fatto fino ad ora. Lo studio, i sacrifici, andrebbe tutto a farsi friggere.

 

«Quindi?», chiede Lucas.

«Adesso andiamo in un locale qui vicino a berci qualcosa, ci rilassiamo e torniamo al progetto iniziale, ripartiremo da lì», dice James dando pacche sulla schiena a tutti.

«Io non so se riesco. Sta diventando sempre più difficile... non so se posso andare avanti, mi sento così... così...», Jo appare confuso è preoccupato, con la testa bassa e le mani nei capelli scalpita sul posto.

«Mantieni il controllo, lo stiamo facendo tutti. Tutti». James cerca lo sguardo dell'amico e quando lo trova lo fissa con tale intensità che Jo si calma immediatamente.

«Ok. Uniti per Yale. Yale. Yale», bisbiglia Jo.

 

Senza perderci in ulteriori chiacchiere facciamo qualche passo per andarcene da lì. Inevitabilmente gli occhi cercano il rettore seduto al bancone, un po' per istinto e un po' per curiosità. L'uomo non è più solo a bere al bancone, sta scherzando e chiacchierando con qualcuno.

Un qualcuno che noi sette conosciamo benissimo.

Nik. Il professor Martin sta conversando con il rettore di Yale.

Un brivido percorre la mia schiena, ma scommetto anche quella dei miei amici.

Se fossimo entrati in quel bar Nik ci avrebbe visti e avrebbe capito le nostre intenzioni.

Dire che il nostro accesso a Yale sarebbe stato compromesso è poco.

Umiliati. Derisi. Avremmo perso il rispetto di Nik e del rettore.

 

James ci ha salvato da rovina certa.

James ci ha impedito di commettere un grosso errore.

Mentre ci allontaniamo stringo la mano di James, il suo sguardo è deciso, fissa avanti senza cedere. 

Vuole Yale, come la vogliamo tutti.

Insieme la conquisteremo.

 





HO PUBBLICATO UNA NUOVA STORIA FANTASY E SOVRANNATURALE.
SI INTITOLA: IL LICEO DEI MOSTRI - IL DIAMANTE RUBATO.
LA TROVATE AL MIO PROFILO.

:)

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Capitolo 46
*** IERI: Una giornata storta ***


IERI:
Una giornata storta




Nonostante sia arrivato maggio mi sento uno schifo, non ne posso più di studiare, sto ripetendo le stesse cose da settimane e credo di aver immagazzinato più informazioni che nel resto della mia vita. Il SAT valuterà il nostro livello di conoscenza e grazie a quel voto sapremo se potremo avere la possibilità di accedere a Yale. Un test. Un voto. In poche parole il mio futuro è deciso da piccolissime, inutili, patetiche cifre.

Credo di odiare le lettere e le parole, per non parlare dei numeri e delle formule. Com'è possibile che segni tanto semplici possano complicarsi se mischiati tra di loro?

Il programma di Rebecca è talmente serrato che a volte vorrei mandare tutti a quel paese per poter passare un pomeriggio a fare nulla, tipo fissare il soffitto, ipnotizzarmi davanti la TV oppure stare seduta in un parco a osservare i piccioni.

 

Kate mi prende in giro anche se lei non è messa meglio di me, tra circa un paio di settimane le tocca il colloquio a New York e sembra stia camminando su un tappeto di carboni ardenti. Scatti, ansia e paranoie. Un bel mix visto il periodaccio degli esami a scuola. L'unico momento libero l'ho la sera dopo cena, ci sentiamo per raccontarci, o meglio sfogarci, su come è andata la giornata. Dopo la telefonata riprendo a studiare fino a che non mi si chiudono gli occhi.

 

Il sole è sorto.

La sveglia ha suonato.

Oggi è una giornata come le altre, non mi aspetta niente di nuovo all'orizzonte.

 

Papà entra tutto baldanzoso in cucina per preparare la colazione. Tira fuori due tazze, il che significa che Tess ha passato la notte nel nostro appartamento.

Al solo pensiero di quei due insieme ho un conato di vomito, mi è passata perfino la voglia di mangiare cioccolata. Per fortuna oggi devo andare a scuola, non potrei sopportare di passare una giornata con loro due nei paraggi.

Ingoio in un sorso la tazza bollente di te cercando di trattenere il dolore per la bocca in fiamme, prendo un paio di biscotti da mangiare più tardi e cerco di svignarmela il prima possibile. No. Ho voglia di stare ad ascoltare nessuno, vedere mio padre che si comporta da innamorato mi disgusta.

 

«Comunque buongiorno», mi dice in italiano papà, il che significa che non gli sta bene qualcosa.

 

Gli rispondo con un sorriso finto e sbattendo le ciglia velocemente.

 

«Non si saluta più? Non credo ti abbia insegnato la maleducazione», mi dice mentre aspetta che sia pronto il caffè.

 

Infilo a forza i biscotti in bocca cercando di fargli capire che non parlo perché ho la bocca piena, anche se in verità non ho la minima intenzione di rivolgergli la parola.

 

«Aspetterò che tu abbia ingoiato i biscotti, non ho fretta. Ho voglia di sentire la tua voce dirmi buongiorno papà», dice imitandomi malamente.

 

Di tutta risposta prendo il sacchetto dei biscotti affondo la mano e ne estraggo una manciata.

 

«Se continui ad infilarli in bocca rischi due cose, la prima è che ti si crei un ammasso colloso impossibile da ingoiare, la seconda è che se per caso riuscissi a mandarlo in gola non scivolerebbe mai nello stomaco. Potresti soffocare. Ti costa così tanto salutarmi?».

 

Prendo altri due biscotti e li incastro tra i denti. Anche se odio ammetterlo mi si sta formando un impasto colloso in bocca che faccio fatica a masticare, ma non demordo non voglio dargliela vinta.

 

«Quindi sei decisa a soffocare. Ok, ricevuto. Fammi sapere se hai bisogno di aiuto». Papà spegne il caffè che borbotta allegro sul fornello.

 

Alzo le spalla cercando di mostrare indifferenza e già che ci sono mi metto un altro biscotto in bocca.

 

«A proposito, ho pensato di modificare la disposizione dei mobili in salotto. Potremmo così ricavare dello spazio per una scrivania per Tess. Quando si ferma ha bisogno di un posto dove lavorare. Poi magari trasformare la tua camera nella sua cabina armadio e già che ci siamo potresti regalarle i tuoi vestiti. Ovviamente le ultime cose sono uno scherzo, lo specifico perché non mi sembra tu abbia molto senso dell'ironia in questo momento», mi dice papà mentre versa il caffè nella tazza annusandone l'aroma.

 

Stringo talmente la mano che sbriciolo il biscotto che tengo in mano. Il mio sguardo assetato di sangue racconta più di molte parole.

 

«Visto che non mi rispondi vuol dire che per te va bene. Chi tace acconsente, non si dice così? Inoltre tra due weekend andrò al lago con Tess, quindi prenderò una baby sitter per tenerti compagnia, visto che non ho una figlia di diciotto anni, ma una mocciosa che porta ancora il pannolino e si diverte a fare i capricci».

 

Questo è troppo. Butto per terra il sacco di biscotti e con l'indice puntato sul petto di mio padre inizio a spingere. Nella bocca ho ancora parecchi biscotti che mi impediscono di parlare, ma la mia faccia rossa e gli occhi iniettati di sangue non sono difficili da interpretare. Se potessi lo strozzerei.

 

«Mi stai dicendo che per te va bene? Come sei comprensiva Elena, sono felice che tu sia felice per me», mi dice papà allontanandosi da me e aprendo il frigo. Mi allunga il cartone del succo: «Bevi prima di restarci secca», mi dice annoiato.

 

Prendo la mia tazza, ormai senza te, e la riempio fino all'orlo di succo d'arancia. Bevo il contenuto cercando di farlo entrare in bocca e non sulla divisa di scuola. In pochi secondi le fauci tornano libere di muoversi autonomamente pronte a sparare a zero su mio padre:«Credi di essere molto simpatico?».

«Sì, a dire il vero credo di essere molto simpatico», mi dice mentre sorseggia il caffè.

«Bene. Bene. Bene. Puoi fare quello che vuoi in questa casa, se vuoi dare spazio a Tess, se vuoi darle la mia camera, se vuoi regalarle le mie cose, fai pure, accomodati. Sappi però che credo sia un errore dare tanto spazio a una donna che neanche saprai se starà ancora con te quando scoprirà quanto sei noioso, antipatico e barboso», gli urlo in faccia.

Papà mi guarda con il sopracciglio alzato: «Credi che sia un problema così grave spostare di un metro il mobile vicino al tavolo per mettere una piccolissima scrivania per il portatile di Tess? Non puoi farmi credere che questa piccolezza ti sconvolga tanto... Elena, avevi detto che avresti provato ad accettare la mia relazione, cosa fai, ti rimangi tutto?».

«Assolutamente no, non mi rimangio nulla. Però sappi che non era nei patti tutto questo. Le colazioni a casa, spostare i mobili e i weekend fuori città. Sono un tradimento bello e buono alle promesse che ci siamo fatti», gli dico con un broncio scolpito nel volto.

«Elena, smettila. Non ti rendi conto che stai esagerando? Basta, finiscila con questa guerra. Vieni qui e abbracciami», mi dice papà stanco di litigare.

«Mi dispiace, faccio tardi. Devo andare a scuola». Prendo al volo la mia borsa con i quaderni e i libri senza voltarmi indietro, sbatto la porta d'ingresso. 

 

Sono fuori casa, non ne potevo più di stare ad ascoltare quel traditore.

 

Per strada c'è un viavai di studenti e gente pronta ad andare al lavoro. Mi dirigo a passo deciso verso la fermata del bus, anche se ci sono molte persone in attesa non ho voglia di parlare con nessuno. Sono trincerata dietro al mio broncio e guai a chi mi parla.

 

«Giornata storta?», una voce familiare giunge da poco lontano.

Mi guardo intorno.

È James, se ne sta appoggiato alla sua macchina nera, mi guarda divertito.

«Che ci fai qui?», gli chiedo curiosa.

«C'è un motivo per venire a prendere una mia amica e portarla a scuola?». Con un gesto sicuro mi sfila la borsa dalla spalla per appoggiarla sul sedile passeggero. «Avevo voglia di vederti, tutto qui».

«Hai loschi piani in mente? Oppure controlli che io non stia organizzando complotti per  farti le scarpe a Yale?», le dico ironica.

James ridacchia:«Sali pivella. Non voglio fare tardi per colpa tua».

 

La giornata partita male sta prendendo una piega molto interessante. Negli ultimi mesi non ho avuto tempo di stare da sola con James, la previsione che mi aveva fatto sugli impegni di questo periodo si sono rivelati azzeccati. Non sarei mai stata in grado di portare avanti una storia con lui e impegnarmi nello studio come ho fatto. Del resto le energie sono limitate, meglio goderci il tempo che ci spetta quest'estate, con calma.

 

«Avevi una faccia strana alla fermata, che è successo?», mi chiede James mentre guida verso la scuola.

«Solite cose, papà, Tess, colazioni a casa, stravolgimenti di vita e weekend fuori», dico come avesse un senso quello che dico, anche se so benissimo che sono parole buttate a caso tanto per sfogarmi.

«Ricapitoliamo. Papà e Tess posso capirlo. Colazioni a casa credo di intuirlo. Ma il resto mi pare un po' troppo nebuloso anche per un arguto e intelligente ragazzo come me», dice ironico.

«Papà vuole mettere una scrivania per il portatile di Tess nel nostro salotto. Dico io, poi cosa farà quella lì, deciderà di cambiare il colore alle pareti, cambierà ubicazione alle stanze, farà rifare l'impianto elettrico?». La mia acidità arriva a livelli mai raggiunti prima.

«Non credi di esagerare? In fondo lavorano insieme, mi pare normale», mi dice James.

«A me non sembra normale. Già faccio uno sforzo tremendo ad accettare che metta piede in casa mia, figurati ad immaginarmela tutto il giorno seduta a lavorare sul suo computer. Sarebbe una tortura. Inoltre papà vuole andare al lago. In vacanza. V A C A N Z A. Capisci?». Guardo James aspettandomi da lui una reazione simile alla mia, ma l'unica cosa che noto è un sorrisetto triste sul suo volto.

 

Non capisco.

Perché cavolo fa quella faccia?

 

«Adesso non dirmi che ti sembro una pazza isterica e che ha ragione mio padre, perché io...», ma James mi interrompe.

«No. Cioè, sì. Credo tu stia esagerando, ma chi sono io per dirti come ti devi comportare. Sei grande abbastanza. Il fatto è che ogni volta che tratti male tuo padre, ci litighi o dici che non capisce nulla, mi viene in mente mia madre. Non so perché a dire il vero. Forse sarà il periodo. Del resto è quasi un anno che mamma è... è... morta». James  si guarda intorno per poi immettersi nel parcheggio del Trinity.

 

Adesso mi sento uno schifo.

Uno schifo superficiale.

Uno schifo superficiale e infantile.

 

«Mi dispiace. Scusa, non volevo farti venire in mente Demetra con i miei discorsi», dico mogia.

«A dire il vero ogni volta che ti vedo penso a mia madre. È difficile sai. Lei vedeva in te una persona speciale, quella che anche io ho conosciuto e che continui ad essere. È come se in te ci fosse una parte di mamma. Quando sei arrabbiata con tuo padre è come se ti trasformassi, come se tu sparissi e uscisse una Elena che non conosco, una estranea. Mi piaci di più sbadata e impulsiva che arrabbiata e capricciosa», mi dice James mentre parcheggia.

 

Adesso mi sento uno schifo colossale.

La mamma di tutti gli schifi esistenti al mondo.

 

«Non so che dire», dico senza filtri.

«Non covare tanto rancore, non farlo. Le cose cambiano da un momento all'altro, l'importante è avere chiari gli obbiettivi. Non distrarti da Yale, dallo studio e da quello che abbiamo programmato. Una scrivania in più, un fine settimana fuori o altri cambiamenti sono solo cavolate», mi dice mentre mi fissa con dolcezza.

«Quindi?», chiedo come fossi ipnotizzata dal suo sguardo.

«Pensa a me. Pensa a noi. Pensa a come saremo felici, lontani da tutto e da tutti».

 

James sfiora con il naso le mie labbra, con delicatezza morde il mio mento poi con piccoli baci raggiunge il mio orecchio per poi immergere il viso nei miei capelli.

Un brivido parte dalla cima della testa per arrivare in fondo ai piedi.

Mi sciolgo.

 

«Penso sempre a te. Penso sempre a noi», dico tra un sospiro e l'altro.

«Brava pivella».

 

Le labbra di James sono più morbide del velluto, più calde del sole. Immersa in un bacio profondo mi perdo tra le due braccia. Il battito del mio cuore ha il ritmo del battito d'ali di mille uccelli. Colori bellissimi, arcobaleni e profumi dolci. Mi sento in paradiso, voglio vivere questa sensazione all'infinito.

Amo James e lo amerò per sempre.

 

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Capitolo 47
*** IERI: Lustrini e tacchi a spillo ***


 IERI:
Lustrini e tacchi a spillo





Decine di bellissimi e deliziosi cioccolatini mi fissano.

Loro vorrebbero essere mangiati da me, lo so, eppure non posso cedere alle loro dolci lusinghe. Stasera c'è la festa degli ex studenti e non ho voglia di rimpinzarmi con troppe schifezze visto che mi aspettano tavolate di cibo di primissima qualità.

Provo a concentrarmi sulla marea di vestiti appesi allo stendono in camera di Rebecca, ha così tanti vestiti che sembrano nuvole luccicanti e piene di paillettes. Ho l'imbarazzo della scelta. Non so da che parte girarmi, cosa scegliere e cosa provare per primo. 

 

Kate è al mio fianco e pare dubbiosa quanto me:«Credi abbiamo fatto bene ad accettare l'invito di Rebecca? Non credi potrebbe nasconderci qualcosa?», mi dice con un filo di voce stando ben attenta a non farsi beccare da Rebecca e Stephanie.

«Tranquilla. Sai che si diverte a programmare tutto, in questo modo l'abbiamo tenuta occupata. Tu piuttosto, come ti senti a stare nella stessa stanza con Stephanie? Riesci a reggere?», le chiedo piano.

«Sono passati mesi. La vita va avanti, del resto non sono io che vado contro la mia natura, anche se il mio percorso è difficile sto cercando di conoscermi meglio di quanto abbia mai fatto. Adesso penso solo a New York e all'Accademia come tu pensi a Yale. Non voglio chiudere l'anno con drammi, voglio andarmene dal Trinity con ricordi belli», mi dice stringendomi la mano.

 

Quanto adoro Kate, riesce sempre a trovare le parole giuste.

Vederla così determinata è una spinta a dare il meglio, voglio che sia fiera di me come io lo sono di lei. È talmente brava a scattare foto, a lottare per la sua indipendenza che non può non essere il mio modello di riferimento, l'amica perfetta, l'unica che mi capisce davvero e che è pronta a lottare per me.

 

Rebecca ci si avvicina minacciosa:«Vi siete depilate? Avete fatto lo scrub su tutto il corpo? Sopracciglia?».

«Sissignora», le dico con finta serietà.

«Bando alle ciance qui si deve trovare il look giusto per la serata. Dovete dirmi se volete essere eleganti, sexy o super sexy», ci dice Rebecca squadrandoci da capo a piedi.

«Essere carine non basta?», chiede Kate.

«Vuoi scherzare? Assolutamente no. Ho scelto per voi dei vestiti che credo possano andare bene». Rebecca toglie dallo stendino un paio due vestiti attillati, ne passa uno a me e l'altro a Kate. «Provate questo e fateci vedere».

 

Riluttante prendo il vestito che so metterà in evidenza i miei punti deboli, fianchi e cosce un po' troppo formose per gli standard di Rebecca, ma non mi importa è inutile fingere di essere quella che non sono, se il vestito non mi piace non lo indosserò.

 

Appena mi infilo l'abito lo sento subito fin troppo stretto:«Questo non lo metterei neanche sotto tortura», dico alle due spettatrici.

«Bocciato», dice Kate.

Rebecca e Stephanie si consultano, parlottano all'orecchio senza smettere di fissarci e indicando le nostre parti del corpo. Normalmente inizierei a sbraitare, ma nella logica contorta di quelle due quello è il modo di dimostrarci che tengono a noi. Torturarci, agghindarci come alberi di Natale per Rebecca e Stephanie è come dire che siamo loro amiche. Se mi avessero regalato dei cioccolatini li avrei accettati più volentieri, ma non voglio fare troppo la sofisticata, tengo la bocca chiusa e accetto ogni critica a denti stretti.

 

«Dobbiamo dividerci. Non credo di riuscire a fare molto con entrambe. Tu Elena lavorerai con Stephanie, del resto ti ho vista ben curata a scuola, hai buone potenzialità. Invece Kate sarà la mia protetta, vedrò cosa riuscirò a ricavare in così poco tempo». Rebecca mette una mano sulla fronte come le vecchie dive di Hollywood dei film in bianco e nero.

 

Assolutamente ridicola.

 

«Ok. Però non ti lascerò l'ultima parola. Se mi vuoi conciare come una bambolona sexy puoi scordartelo. Voglio una cosa semplice, più simile a me», dice Kate minacciosa.

«Ok, vedrò cosa riesco a fare», le risponde Rebecca con una smorfia.

 

Non ho idea se riusciranno a collaborare quelle due.

Speriamo bene.

 

Stephanie mi prende per mano portandomi verso il letto colmo di vestiti. Mi mostra un paio di capi, ma non mi piacciono per niente, sono troppo appariscenti. Inizia una sequenza di proposte per niente vicine al mio stile.

Pizzi trasparenti.

Tessuti lucidi.

Abiti fascianti.

Niente sembra piacermi o starmi bene.

La mia autostima è sotto le scarpe.

 

Mi metto a cercare con attenzione e trovo un vestito corto molto grazioso con spalline, ha dei piccoli bottoncini sul retro e la gonna morbida, perfetta per mettere in mostra le mie forme, ma non troppo.

Stephanie annuisce con la testa, mi conosce bene e sa cosa mi piace e mi sta bene:«Dai provalo. Ho in mente un paio di idee per il trucco».

Mi infilo l'abito, mi calza a pennello. Mi ammiro allo specchio soddisfatta.

Questo vestito sembra fatto apposta per me.

Un po' troppo fatto apposta per me.

Che colpo di fortuna, possibile che Rebecca avesse la taglia perfetta dell'unico abito che mi piacesse?

 

Qui gatta ci cova.

 

«Ipoteticamente parlando, credi possibile che Rebecca abbia preso questo vestito appositamente me?», chiedo a Stephanie mentre osservo la mia immagine allo specchio. Sono proprio carina.

«Forse Rebecca potrebbe aver trovato questo abito, ma non volendo dimostrarti il suo affetto nei tuoi confronti potrebbe averlo mischiato in mezzo agli altri», mi spiega Stephanie ridacchiando.

«Quindi io casualmente lo avrei potuto trovare e poi indossare».

Stephanie alza le spalle divertita.

«Scusa, ma non poteva darmelo subito? Avrei risparmiato tempo e stress», le bisbiglio ad un orecchio.

«In questo modo si creano più drammi, sai quanto li ami», mi risponde mentre mi solleva i capelli cercando di dare loro una forma.

 

Osservo in lontananza Rebecca e Kate, stanno discutendo come fossero cane e gatto. Una mostra vestiti microscopici e pieni di lustrini, l'altra scuote la testa con disappunto.

Non so se troveranno mai un accordo.

 

«È stupendo il vestito che Rebecca ha preso per K... cioè Kate. Le starà benissimo, si intona al colore dei suoi occhi, poi con i capelli corti è uno schianto, il volto risalta molto di più», dice Stephanie. Sta fissando con intensità le due discutere, sembra ipnotizzata.

«Ti manca la sua amicizia?», le chiedo con molta calma, ho promesso a Kate che non mi sarei intromessa e non voglio impicciarmi in fatti che non mi riguardano, ma la domanda mi è sorta spontanea.

«Ma... ma noi siamo ancora amiche. Il fatto che... che io frequenti di più Rebecca non vuol dire nulla. Ti ha raccontato qualcosa?». Stephanie è nervosa e ha gli occhi lucidi. 

 

È evidente che non vuole parlare dell'argomento soprattutto con me. Se non è in grado di affrontare il discorso sulla storia che ha avuto con Kate non posso far altro che assecondarla. Non voglio ferirla, non più di quanto faccia da sola con se stessa

 

«No, figurati non mi ha detto nulla. In questo periodo è molto presa con New York e l'accademia di fotografia. Passiamo poco tempo insieme pure noi, questo non vuol dire che non le voglia bene o che non siamo amiche, solo che ognuna di noi sta lottando per costruire il proprio futuro».

«Sì. Ecco. Già. Pure io con Yale ho tanti di quei pensieri e aspettative che non ho un secondo libero, non posso deludere la mia famiglia. Farei di tutto per andarci. Tutto. Potrei mentire per Yale, credo potrei rinunciare ai miei principi se avessi una possibilità in più di andarci», mi dice con lo sguardo basso, «Non posso... io...io Vorrei accompagnare Kate a New York, ma sai con tutte le cose che ho da fare non credo di riuscire a farcela. Insomma. Ecco. Io adoro K, lei è... è... speciale. Ma... ma ho molte cose da fare. Ci vai tu con lei al colloquio?». Le parole di Stephanie sono sconnesse e confuse, percepisco il suo nervosismo e la tensione che sta cercando di controllare.

«Sì, vado io. Anche se Kate sembra indifferente, in verità è terrorizzata. Non so se reggerebbe la tensione senza un appoggio», le dico mentre gioco con un fermaglio color verde appoggiato sulla consolle del trucco cercando di non appesantire la situazione già tesa.

«Bene. Perfetto», mi dice con gli occhi lucidi e la mascella tesa, «Si merita solo il meglio. Come me lo merito io. New York è giusta per lei. Yale è la cosa migliore per me. Come dice James, dobbiamo concentrarci sull'obbiettivo e seguire la nostra strada. Niente distrazioni, solo studio e impegno».

Annuisco mentre le porgo una spazzola. 

 

Sento una tristezza immane dentro al mio cuore.

 

Stephanie piange anche se cerca di trattenere le lacrime, mi sistema i capelli da un lato iniziando a raccoglierli in una treccia. Cavolo, che situazione. Mi sento male per loro due, non mi piace vedere gli amici soffrire, se potessi fare qualcosa, qualsiasi cosa, la farei ad occhi chiusi.

 

«Che succede qui? Avete trovato un vestito adatto?». Rebecca spunta alle nostre spalle all'improvviso.

«Sì, mi piace questo», le dico facendo una specie di inchino.

«Non male. Assolutamente banale. Noioso. Grazioso. Prevedibile. Perfetto per te», dice acida.

Sghignazzo, si vede lontano un miglio che è felice della scelta.

Kate indossa un abito azzurro sfumato blu notte, si vede che le piace visto che non la smette di guardarsi allo specchio.

«Potresti mettere questa». Stephanie incastra tra i capelli di Kate una molletta con lustrini argentati e piccoli pompon in tinta con l'abito. Rebecca le infila un paio di sandali con un tacco vertiginoso e un braccialetto con la stessa fantasia della molletta.

 

Wow. Kate è bellissima.

 

«Con un po' di trucco sarai ancora meglio». Rebecca trascina Kate che barcollando sui tacchi raggiunge uno sgabello pronta a farsi impiastricciare la faccia.

La stessa sorte tocca a me, Stephanie mi inizia a spalmare, spolverare, stendere una marea di prodotti sul viso.

 

La frenesia aumenta con il passare dei minuti.

 

Rebecca e Stephanie corrono da una parte all'altra della stanza cercando di fare le tremila cose che hanno in mente. Da una parte devono preparare Kate e me e dall'altro devono preparare loro stesse. Volano vestiti, scarpe, collane e orecchini. Cadono ombretti e si rovesciano smalti. C'è molto nervosismo nell'aria, per questo tengo la bocca chiusa. Tutto quel caos porta altro disordine. Spazzole, mascara e lenti a contatto cascano, sporcano e inzuppano. Definirlo delirio sarebbe riduttivo.

La camera di Rebecca sembra un campo di battaglia e noi le uniche sopravvissute.

 

Allo scoccare delle otto di sera il campanello di casa suona.

 

«Eccoli, sono puntuali», dice Rebecca scattando in piedi come una molla mentre sta cercando di mettersi le scarpe e contemporaneamente infilarsi un orecchino.

«Andiamo!». Stephanie mi prende la mano trascinandomi fuori dalla porta della cameretta per farmi scendere le scale che portano all'ingresso.

Kate ci è subito dietro e pare confusa quanto me.

Rebecca con il fiato grosso per la corsa, ci squadra da capo a piedi come fosse un generale con i suoi soldati: sistema spalline, raddrizza orli e incastra ciocche di capelli ribelli.

 

Il campanello suona ancora.

 

«Sorridere», ci dice Rebecca iniziando a sbattere le ciglia e mostrando i suoi denti bianchissimi. Sembra abbia una paresi. Dopo aver controllato che tutte stessimo sorridendo si mette proprio di fronte al portone d'ingresso.

 

La porta si apre.

James, Lucas, Jo e Adrian sono di fronte a noi vestiti di tutto punto.

 

«Ecco i nostri cavalieri. Ognuna di noi ragazze avrà un accompagnatore per la festa, una specie di prova prima del ballo di fine anno», dice Rebecca battendo le mani come fosse una bimba. «Ovviamente Lucas e Stephanie fanno la prima coppia. Elena e James la seconda. Ho pensato che Kate starebbe benissimo con Adrian. A me tocca Jonathan che visto il suo ascendente sulle ragazzine del Trinity mi aiuterà ad essere la futura reginetta».

 

Non ascolto più nulla.

Non capisco più niente.

James è di fronte a me, indossa un completo nero elegante impreziosito da gemelli argentati. I capelli castani perfettamente pettinati, la pelle liscia e luminosa, gli occhi brillano come lampi verdi. Dire che è stupendo è poco.

Lo guardo avvicinarsi e chinarsi per baciarmi la mano.

Il suo tocco è come il rombo del motore di una macchina appena accesa e pronta a lanciarsi a tutta velocità.

 

«Sei bellissima», mi dice.

Sorrido, prendo un profondo respiro, incrocio le mie dita alle sue.

Mi sento bella con lui, mi sento viva.

La serata è appena iniziata, niente potrà guastarla, perché tanta perfezione non può essere distrutta da niente. Niente.

 

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Capitolo 48
*** IERI: Riflettori puntati ***


IERI:
Riflettori puntati




La grande stanza per la festa degli ex studenti è addobbata alla perfezione, ci sono fiori freschi da tutte le parti, candelabri dorati e musica suonata dal vivo da una piccola orchestra. Sembra la cornice perfetta per una serata da favola.

 

James sta intrecciando le sue dita alle mie, non si è mai staccato da quando siamo usciti da casa di Rebecca. Mi sento più sicura avendo lui vicino, mi sento imbattibile.

Kate è radiosa riesce a parlare con Stephanie in tutta tranquillità, Jo è in splendida forma, Lucas e Adrian paiono particolarmente rilassati e anche Rebecca è simpatica, non la smette di fare una battuta dietro l'altra.

Appena entriamo nella stanza gli occhi sono puntati su di noi, siamo vicini al diploma, ci sono molte aspettative su di noi e sul nostro futuro. In quella stanza sono presenti molti manager, uomini e donne d'affari, politici, le persone più importanti a New Heaven, Boston e dintorni. Cercano sempre giovani brillanti su cui puntare e magari accalappiare in futuro.

 

Un fotografo ci blocca, è addetto a scattare foto agli invitati, in particolare agli studenti dell'ultimo anno. Facciamo diverse foto tutti insieme, James ci tiene a scattarne un paio solo con me.

«Così avremo un bel ricordo della serata», mi sussurra in un orecchio.

Click.

«Adesso tocca a me, siamo le due candidate reginette». Rebecca allontana James mettendosi al mio fianco.

Il fotografo ci scatta diverse foto. Stranamente siamo in sintonia, ridiamo come pazze.

Click. Click.

«Pure noi», dicono in coro Lucas e Stephanie prendendomi per i fianchi.

Click.

«E noi no? Il rappresentante di istituto e il suo braccio destro devono esserci per forza». Jo e Adrian mi sollevano leggermente facendomi arrossire per l'imbarazzo.

Click.

Confusa, stordita, accecata da tutti quei flash cerco tra la gente la mia cara Kate.

Non posso non avere una foto con la mia più cara amica.

Click.

 

Il buffet è un tripudio di delizie e bocconi prelibati: frutta fresca esotica tagliata in piccoli cubi, bocconi salati perfettamente decorati, creme, salse speziate, ostriche perlescenti, una valanga di dolci al cioccolato, ma non solo.

Iniziamo ad assaggiare un sacco di cose, piccoli morsi pieni di maestria, contrasti agrodolci e golosità uniche. Siamo talmente affamati che sentiamo la necessità di riempire lo stomaco prima di affrontare gli squali che ci ronzano intorno che ci squadrano per capire che tipo di persone potremmo essere in futuro. Cercano di capire se siamo individui su cui puntare così da poter sfruttare per il loro tornaconto personale. Peccato che non abbiano minimamente idea di come siamo agguerriti e poco disposti a farci mettere i piedi in testa.

Tra la marea di gente che danza, discute e mangia, scorgo il padre di James che parla con un gruppo di uomini incravattati, ci sono anche parecchie persone che ho già visto l'anno scorso, riconosco l'atteggiamento deciso e aggressivo di parecchi, una masnada di persone pronte a farsi le scarpe l'un l'altro. In un angolo, con un calice di champagne in mano, c'è Nik con un favoloso completo nero che segue perfettamente le linee del suo corpo. Con la barba perfettamente rasata e con i capelli pettinati e sagomati è bellissimo. Vicino a lui c'è il suo amico e socio Charlie Spencer.

Parecchie donne non staccano loro gli occhi da dosso, entrambi gli uomini sono magnetici, sicuri e di successo. Caratteristiche che contano in ambienti come questo.

 

Osservo questo cercare di sovrastare, superare, fregare, convincere e abbagliare l'altro che mi viene da ridere. Nella stanza c'è tanta di quella serietà che mi sembra tutto eccessivo e pomposo, un po' forzato.

Non è certo il mio ambiente ideale, anche se devo ammettere che ha i suoi vantaggi partecipare a feste come queste: si mangia bene e ci si diverte con i propri amici.

Cosa potrei volere di più?

 

L'orchestra intona un valzer. Diverse coppie scendono in pista a ballare. Lo scintillio degli abiti, il luccicare dei gioielli e l'ondeggiare dei tessuti sono ipnotici.

Mi piace vedere gente felice che balla, mi mette di buonumore.

 

James mi stringe la mano molto forte:«Mamma era a ballare qui l'anno scorso», dice mesto.

Trattengo il fiato come se una secchiata di acqua ghiacciata mi avesse colpita.

 

Come ho fatto a dimenticarmi di Demetra?

 

Con lo sguardo cerco George che, sempre indaffarato a parlare con gli uomini incravattati, pare concentrato più sul suo bicchiere di whisky piuttosto che dalle parole dei suoi interlocutori. È distrutto dal ricordo della moglie in vita.

«Scusa. Mi sono dimenticata. Non volevo...». I sensi di colpa mi trafiggono.

«No, non devi. Non voglio rovinarti la festa. Scusa se ti ho messo di cattivo umore. È un pensiero che mi è sorto spontaneo quando ho visto quelle donne ballare il valzer», mi dice sorridendo anche se ha gli occhi lucidi.

«Mi dispiace essermene dimenticata, tutto qui».

«La vita va avanti per noi. Abbiamo uno scopo da raggiungere, questo mi da la forza ad andare avanti. Che ne dici se ci liberiamo dei pensieri tristi e ci buttiamo nella mischia?». James mi tira verso la pista cercando di coinvolgermi nella danza.

«James sono negata, lo sai», gli dico imbarazzata.

«Ti insegno io. Segui me». Con un movimento deciso mi prende per la vita e mi trattiene a sé, con un gesto scattante mi fa roteare iniziando a trascinarmi per la pista indifferente al fatto che gli stia schiacciando i piedi.

 

Sono peggio di un sacco di patate.

 

Rossa per l'imbarazzo fingo di sapere quello che sto facendo evitando di guardarmi troppo intorno e scorgere sul viso degli ospiti risate di scherno o smorfie di disappunto. Sono concentrata su James, sui suoi occhi verdi capaci di racchiudere un universo, colpevoli di avermi rubato il cuore e l'anima. 

 

Tristezza.

Solitudine.

Malinconia.

Leggo solo quello.

 

Per quanto si sforzi James non riesce a liberarsi dal ricordo della madre, come del resto capita a me ogni giorno della mia vita. Per quanto faccia il possibile sento la sofferenza del suo male radicarsi dentro di lui, sento che è sull'orlo di un baratro, in equilibrio precario. Fragile come un fiore. Delicato come una tela di ragno. Semplicemente James.

 

«Che ti prende?», mi chiede mentre con maestria mi guida, senza grossi ostacoli, tra gli altri ballerini.

«Pensieri. Nulla di che», gli dico con un sorriso.

«Sai che a me puoi dire tutto. Fidati di me», mi dice con calma.

«Ma io ti dico sempre tutto, non ho segreti», rispondo di getto e con sincerità.

James stringe la mascella, sento la presa farsi forte sul fianco.

 

Sembra arrabbiato.

 

«Adesso te lo chiedo io, che ti prende?».

James non risponde subito, sembra si stia trattenendo:«Tu cambi, lo sai? Ci sono cose di cui non vuoi parlarmi, ma lo capisco, non tutto deve essere reso pubblico. Ma i tuoi occhi cambiano quando trattieni le tue emozioni, è come se chiudessi il cervello, come se non volessi farmi entrare. Mi manda di tutte le furie. Per questo ti ho accusata quando è morta mamma, sembrava mi nascondessi qualcosa su di lei. Detesto che tu abbia segreti con me», mi dice schietto. 

La musica è finita, le coppie di ballerini battono le mani all'orchestra e riprendono fiato prima del prossimo ballo. 

Io penso solo alle ultime parole di James e alle cose che mi fanno venire in mente.

 

Bugie.

Segreti.

Demetra.

Busta.

 

Un peso enorme mi attacca al terreno, sento le gambe pesanti. Non ho ancora trovato il momento giusto per consegnare la lettera che mi ha dato Demetra. Il fatto che non ci siamo confessati il nostro amore e che non siamo a tutti gli effetti una coppia, mi ha bloccata. Forse ho sbagliato. Forse no. Non so.

L'unica cosa certa è che mi sento in colpa, soprattutto per aver privato a James di un oggetto, forse importante, come quella busta.

 

Le mani sono umide, il cuore batte forte. Appoggio la testa al petto di James:«Io... Io...». Non so bene cosa dire i pensieri vorticano come aeroplani impazziti.

«Elena. Tu puoi dirmi tut...», ma le parole di James vengono interrotte.

Nik è al nostro fianco con una mano tesa. Vuole ballare con me.

 

No.

No.

Non adesso, non in questo momento.

 

«Questo è il momento che aspettano tutti. Io voglio ballare con te e voglio che gli invitati sappiano che sei tu la mia prescelta», dice Nik deciso.

James sa benissimo che questo è un momento importante per il Trinity e la festa. Con eleganza bacia la mia mano, mi schiaccia l'occhio complice:«Continuiamo dopo, abbiamo tutto il tempo per parlare», mi dice con dolcezza e malizia allo stesso tempo.

Imbambolata e confusa stringo la mano di Nik che con energia mi avvicina a sé.

«Sei pronta?», mi chiede.

Annuisco.

Appena muoviamo i primi passi una musica parte lenta e armoniosa, la pista da ballo si svuota. Ho i riflettori puntati addosso, tutti mi guardano. L'anno scorso ho vissuto la cosa con disagio, ma anche con una certa leggerezza. Adesso mi sembra tutto troppo pesante e artificioso.

«Non dovevi scegliere me. Adesso tutti avranno delle aspettative alte», dico a bassa voce al professor Martin mentre ondeggio sulla pista.

«Scelgo te per i motivi che sai. Andare fuori gli schemi a volte fa bene, sia a te che a me», mi dice divertito.

«Nik non credo che... insomma...». Sono parecchio confusa. Prima le parole di James e adesso tutta questa attenzione, non sono certo il massimo.

«Dai, si tratta solo di un ballo. Mica ti sto torturando. Del resto i tuoi compagni hanno molte più chance di riuscire, il loro cognome gli aprirà porte che a te sarebbero precluse. Per questo ho pensato di farti un regalo», mi sussurra divertito in un orecchio.

«Regalo?».

«È tradizione che agli studenti dell'ultimo anno venga dato un dono da parte dei genitori o amici. Soldi, automobili, viaggi», mi spiega Nik.

«Vuoi regalarmi una vacanza?», gli chiedo divertita dall'assurdità della mia frase.

«Ti regalo un futuro. Il futuro che ti meriti». Nik stringe la mano appoggiata alla mia vita facendomi roteare sulla pista. «Nella stanza qui di fianco, dove c'è il piccolo museo di ceramiche ottocentesche francesi, c'è una persona che ti aspetta. Ho convinto un vecchio amico a venire qui per conoscerti, gli ho detto che sei una studentessa speciale, una studentessa senza lettera di presentazione che vorrebbe studiare tanto a Yale».

«Cosa? Di chi si tratta?».

«Finito il ballo dirigiti verso quella porta. Quella dietro al tavolo del buffet dei dolci. Non ci va nessuno, per questo ho scelto quella stanza. Il rettore di Yale ti aspetta, non vede l'ora di conoscerti», mi dice Nik sorridente.

 

Cosa?

Il rettore?

Il rettore di Yale è a pochi metri da me?

Il rettore di Yale è a pochi metri da me e mi vuole conoscere?

 

«N-Nik non so cosa dire... che faccio? È se poi mi incasino? No. No. Non posso, non sono in grado. Come cavolo ti è venuta in mente una cosa del genere? Non sono capace. Io. Ma stai scherzando?», sparo a raffica frasi senza senso. 

«Respira. Tranquillizzati. Sii te stessa. Non serve altro. Mica è una interrogazione, non ti chiede date, formule o altro. Vuole conoscerti, tutto qui», dice con semplicità.

«La fai facile tu. Non sei mica imbranato come me. Ti giuro non ne sono capace. Non puoi rimandarlo a casa? Ti prego. Ti prego. Ti prego», lo supplico con tono lagnoso.

«Non fare la bimba. Prenditi la responsabilità della tua vita. Adesso sei grande».

 

La musica finisce.

Nik mi bacia la mano prima di farmi fare una piroetta.

La gente applaude.

Imbarazzata guardo facce sconosciute sorridermi compiaciute.

Vorrei scappare.

Scappare lontano.

 

La musica riprende a suonare, la pista si riempie di nuovo. Attorniata da abiti svolazzanti e scarpe ticchettanti, mi ritrovo immobile in mezzo alla grande sala da ballo.

Non so cosa fare. Da una parte mi sento lusingata del fatto che il rettore sia in attesa di conoscermi, dall'altro non ho idea di cosa dirgli.

 

E se facessi una figuraccia?

 

A testa bassa mi dirigo verso il tavolo dei dolci. Intravedo la porta alle spalle del cameriere che serve i vari ospiti. Faccio lo slalom tra gruppi di uomini e donne che parlano di affari, lavoro e politica. Alcuni provano a presentarsi, ma non li degno di attenzione. Non ho tempo. Non ho voglia.  Circumnavigo il grande tavolo colmo di dolci delizie decisa ad aprire quella porta.

O la va o la spacca.

Non posso perdere un'occasione del genere. 

La mano tocca la maniglia in ferro.

La stringo.

Tentenno.

 

Sto facendo la cosa giusta?

 

Stop.

 

James è la mia forza.

Jo ha bisogno quanto me della lettera.

Adrian, Rebecca, Stephanie e Lucas desiderano Yale forse più di me.

Posso tradirli in questo modo?

 

No.

 

Di scatto lascio la maniglia e inizio a correre per la sala in cerca dei miei amici. Non mi importa se tutti gli ospiti mi stanno guardando, non mi importa se è disdicevole quello che sto facendo. Devo trovarli, tutti.

Li vedo vicino ad una grossa finestra, stanno chiacchierando e ridendo tra di loro.

Agguanto James per una mano: «Seguitemi. Andiamo a prenderci Yale», dico a tutti loro con decisione. Il mio tono non ammette repliche.

Le loro facce sono confuse, stupite e anche un po' preoccupare. Non è certo da me dire frasi del genere.

Senza battere ciglio inizio a trascinare James verso il tavolo dei dolci. Tutti mi seguono.

Siamo rapidi, uniti, coesi. 

Siamo una squadra imbattibile.

Niente e nessuno ci può fermare.

Radenti al muro passiamo dietro al tavolo dei dolci, sto per aprire la porta quando James mi blocca:«Ma che succede? Perché stai facendo questo?».

«Il rettore di Yale è in quella stanza. Volete o non volete avere la vostra occasione per andare a Yale?».

Rebecca, Adrian, Lucas, Jo, Stephanie, Kate è James mi guardano con la bocca spalancata. Non hanno parole, credo stiano cercando di riprendersi dallo choc.

«Date il meglio di voi», dico mentre apro la porta invitando tutti ad entrare.

Uno dopo l'altro scivolano dentro la piccola stanza.

Dai loro occhi posso leggere la gratitudine e la felicità per il dono che ho appena fatto a loro. Ho fatto la cosa giusta, l'unica che potessi fare. Non potevo tenermi quel regalo tutto per me.

 

Ora tocca a me.

Basta un passo.

Un passo e anche io avrò la possibilità di accedere a Yale.

Mi giro.

Agguanto la maniglia.

Sto per chiudere la porta.

Alzo la testa.

Di fronte a me il tavolo colmo di dolci.

Come in una scena a rallentatore vedo il cameriere servire i vari ospiti.

Uno su tutti attira la mia attenzione.

Due occhi azzurri come il cielo mi fissano.

Sembrano diversi dal solito.

Nik mi sta guardando.

Intravedo una piccola crepa in quell'azzurro più azzurro del mare.

Una crepa piena di rabbia e delusione.

Mi fermo.

Trattengo il fiato.

Questa volta non scappo.

No.

Chiudo la porta.

Mi prendo il futuro che mi spetta, anche se questo significa aver tradito una delle persone a cui tengo di più nella mia vita.

 

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Capitolo 49
*** IERI: Non credo tu capisca ***


IERI:
Non credo tu capusca




Dicono che certe occasioni capitino una volta nella vita e che una persona dovrebbe approfittatene. Ma che senso ha trarne vantaggio da soli senza avere vicino le persone a cui vuoi bene? Non sarebbe un tradimento?

 

Il rettore osserva il nostro gruppo, credo non si aspettasse tante persone, probabilmente pensava di dover chiacchierare con una ragazzina sola. Ha un sorriso enigmatico stampato sul volto, scruta gli sguardi decisi di tutti noi e cerca di interpretare il nostro pensiero, anche se penso sia chiaro che se ci troviamo lì è solo per avere una possibilità in più di essere ammessi a Yale. 

 

Kate se ne sta in disparte ad osservare la scena, se avesse la macchina fotografica potrebbe immortalare alla perfezione questo momento: strette di mano, presentazioni e chiacchiere, molte chiacchiere. Jonathan pare a suo agio, credo che questo sia la realizzazione del suo sogno più grande; Lucas e Adrian completano le frasi l'uno dell'altro proprio come farebbero due buoni amici; Rebecca sta misurando e controllando la sua esuberanza, pare più tranquilla e solare del solito; Stephanie parla con grazia e compostezza.

 

Io cerco di controllare il battito del mio cuore, nascondere le mani sudate e trattenere il tremolio che pervade tutto il mio corpo.

Credo di essere vicina allo svenimento.

 

Una mano mi si appoggia sulla spalla, è James. Con delicatezza, ma anche decisione mi avvicina al rettore presentandomi come si deve. Se ne sta appiccicato a me chiacchierando e intervenendo nelle discussioni provando a coinvolgermi. L'unica cosa che riesco a dire sono un paio di battute, raccontare qualche aneddoto sulla mia vita in Italia e di come sia rimasta sconvolta dal Trinity, delle lotte di potere e di come abbia vissuto gli alti e i bassi nel microcosmo scolastico. Leggerezza, ironia e niente drammi. Non ho fatto altro che dire la verità, niente di esaltante, lo so, la cruda e semplice realtà dei fatti.

 

Il rettore sghignazza.

 

James mi stringe forte e mi bacia il capo, poi inizia a raccontare di suo padre e del suo desiderio di diventare un avvocato come lui. Rebecca mi prende per mano, vuole far sapere al rettore che la sfida di reginetta di fine anno sarà tra due amiche. Adrian, Lucas e Jo parlano di politica, di come siano interessati sulla sorte dello stato e delle recenti elezioni.

 

Il rettore annuisce compiaciuto.

 

Chiacchiere.

Come se fossimo ad una cena. 

Come se fossimo tra amici.

Come se ci conoscessimo da sempre.

 

Eppure.

 

Non riesco ad essere tranquilla. Il calore di James, i sorrisi di Rebecca e la quiete di Kate non riescono a tranquillizzarmi. Sento un peso, un fastidio intorno allo stomaco, come se avessi una corda grezza che mi trascinasse verso il basso. Mi sembra di affondare lentamente. Ogni minuto che passa scendo di un millimetro, sprofondo in un vuoto che credevo di aver dimenticato.

 

Chiacchiero e non ascolto.

Sorrido e non provo niente.

 

Non mi interessa nemmeno stare lì, non mi importa compiacere nessuno. Non voglio fingere e non voglio l'approvazione di uno sconosciuto. Possibile che la cosa che più desideravo si sia trasformata nel nulla più assoluto? Volevo Yale, ma adesso mi pare nebbia. Volevo il college, ma adesso vorrei essere altrove.

Kate si avvicina silenziosamente, mi raggiunge da dietro: «Che succede? Sembri una mummia. Le battutine di prima erano simpatiche, come mai sei così diventata improvvisamente così moscia?», mi sussurra così piano che faccio fatica a udirla.

Alzo le spalle.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime. 

 

Nessuno lo nota.

 

James spiega al rettore come abbia seguito e appoggiato la carriera del padre. Adrian racconta una storia capitatagli con suo zio durante la campagna dei Repubblicani a Boston. 

 

Io mi sento male.

 

Jo dice al rettore come abbia improntato la sua vita a raggiungere determinati obbiettivi, mentre Stephanie racconta la vita a New Heaven mostrando i pro e i contro della provincia. 

 

Io voglio solo accasciarmi in un angolo.

 

Lucas parla del lavoro di suo padre, di come i sacrifici di quest'ultimo gli abbiano insegnato molto. Rebecca spiega l'importanza dell'apparire e dell'essere, come al giorno d'oggi il lato estetico influenzi le scelte quotidiane.

 

Io non so che dire.

Sono tutti così bravi a esprimere quello che pensano, quello che provano, che mi chiedo cosa ci faccia in mezzo a loro. I minuti passano ed io vorrei non essere lì.

 

Il rettore allunga la mano, tutti la stringono.

Ci saluta.

Va via.

Passano pochi secondi e scoppia l'euforia. Lucas, Adrian, Stephanie, James, Jonathan e Rebecca si abbracciano l'un l'altro, poi vengono da me riempiendomi di domande.

 

Come mai?

Perché era qui?

Come facevi a saperlo?

 

Dico bugie, forse. Non so. Non posso certo spiegare che il professor Martin voleva che solo io lo incontrassi. Cosa potrebbero pensare? 

Dico loro che l'ho visto per caso e l'ho seguito. Tutto qui. Credo. Non mi ricordo bene, sono molto confusa, mi manca l'aria e la testa mi gira.

 

Sei un mito.

Grazie Elena.

Ci hai salvato.

 

Non so chi dica cosa. Non sono collegata, è come se il mio corpo e il mio cervello fossero staccati. Spingo con forza i polpastrelli sulle unghie del pollice e non sento nulla, non provo dolore. Non sento niente.

Kate mi prende per mano mentre gli altri festeggiano per la fortuna avuta, incontrare il rettore di Yale e riuscire a parlargli con tranquillità non è una cosa che capita tutti i giorni. Per loro è una festa, per me no. Uso la mia amica come fosse una stampella, mi appoggio a lei per raggiungere la sala principale.

 

«Elena. Elena, che hai? Sei pallida». Kate è preoccupata, la sua voce trema un po'.

«Non mi sento bene, credo di aver bisogno di un po' d'aria fresca. Mi puoi portare sulla terrazza sul retro? Lì non c'è mai nessuno, voglio stare un po' da sola», le dico con voce flebile.

«Va bene. Terrò lontani tutti, vedrai che mi invento qualcosa». Kate riesce a mescolarsi alla folla che riempie la sala. L'orchestra suona sapientemente pezzi che la gente balla elegantemente, il profumo dei fiori e dell'ottimo cibo riempie l'aria carica di energia. 

 

Tutti sono sereni e felici.

Io mi sento un catorcio, stono in mezzo a tutti quei visi sorridenti.

 

La terrazza sul retro è sguarnita, non ci sono decorazioni, luci o fiori. Sovrapposte una sull'altra ci sono diverse casse di legno che contenevano bottiglie di champagne, un paio di sacchi dell'immondizia e alcune sedie impilate. Kate mi fa sedere su una sedia, mi abbraccia poi corre alla festa per cercare di tenere lontano gli altri, non riuscirei a parlare con nessuno di loro.

 

Affogo.

Sento il vuoto arrivare alla gola e stritolarmi.

Una crepa.

Milioni di frammenti.

Schegge di ghiaccio che si infilzano nella carne.

Schegge azzurre, più azzurre del cielo in primavera.

Nik.

Nik mi odia.

Lo so.

 

Passi.

Passi.

 

«Non sei a festeggiare? Hai conosciuto l'uomo più importante di Yale, hai avuto la possibilità di parlargli, di farti conoscere, perché non stai brindando?». La voce di Nik è secca, fredda.

Le mani accolgono la mia testa diventata improvvisamente pesante. Non riesco a guardarlo, non riesco proprio.

«Ah già... che stupido... hai giocato la tua possibilità di andare a Yale perché hai chiamato i tuoi amici a parlare con il rettore, gli stessi amici che per due anni ti hanno umiliata, delusa, raccontato bugie. Certo, come no. Ha senso la tua scelta». Nik se ne sta con le mani in tasca, cammina avanti e indietro nervoso.

«C-cosa avrei dovuto fare?», dico con voce roca e stonata.

«Pensare a te stessa. Lottare per raggiungere i tuoi sogni. Vincere contro il Trinity e le idee folli che inculca in testa ai ragazzi. Dovevi essere l'eccezione, invece ti sei trasformata, sei uguali agli altri. Sì, sei identica a tutto quello che dicevi di odiare, sei uguale a quello che non ti assomiglia per niente. O meglio, non ti assomigliava, visto che non ti riconosco più. Come hai potuto umiliarmi in questo modo? Come ti sei permessa? Credi che al rettore sia piaciuto che un gruppo di adolescenti arroganti, pomposi e montati l'abbiano trattenuto in scacco per tutto quel tempo? Lui voleva conoscere te perché io gli avevo detto che eri diversa, io avevo speso lodi nei tuoi confronti. Ai tuoi amici basta il loro cognome, basta essere loro stessi e vivere la vita per cui sono destinati». Nik è a pochi passi da me, gesticola molto. I suoi occhi sono carichi di rabbia.

«Jo non aveva una lettera di presentazione, Adrian, Lucas, Rebecca e a Stephanie non avevano ottime referenze e...», ma vengo interrotta.

«Se Jonathan avesse avuto bisogno di aiuto perché non è venuto da me? Io non ne sapevo nulla e poi dubito che con la sua media scolastica avrebbe avuto grossi problemi. Per quanto riguarda gli altri forse non avevano referenze ottime, ma molto meglio della maggioranza delle persone che vorrebbero frequentare Yale. Sono la nobiltà di New Heaven, loro possono avere tutto. Tutto. Senza dimenticare la gara di Dibattito, quella è una vetrina più potente di qualsiasi lettera di presentazione possibile».

Tremo. Non so che dire: «Penso di averlo fatto per cercare di dare loro una mano, non credo tu capisca come tutti loro mi abbiano aiutato nell'ultimo periodo con gli esami della Marquez e tutto il resto. Mi sono stati vicini e... e... mi sembrava di tradurli».

Nik è a pochi centimetri dal mio volto, ha gli occhi lucidi e la pupilla nera talmente dilatata che l'azzurro non si vede quasi più: «Non credo tu capisca? Hai il coraggio di dirmi Non credo tu capisca? Hai preferito aiutare le persone che ti hanno fatto più soffrire in tutta la tua vita piuttosto che me. Ti ho sempre appoggiata e spinta a dare il massimo, ti ho sollevata quando James ti ha mollata, quando tutti ti davano contro. Sempre. Eppure tu hai preferito loro che alla mia sincera amicizia. Non credere di incantarmi con quelle lacrime, non ci casco più. Sei tu che vuoi star male, sei tu che cerchi il dolore. È talmente ovvio che hai ragionato solo per avere l'approvazione di James, per riaverlo al tuo fianco. Oggi quando siete entrati alla festa sembravate due fidanzatini, pronti a mettervi in mostra per i fotografi. Facevi le prove per quando diventerai la Signora McArthur?».

«Non essere crudele. Non ho mai fatto nulla per lui, solo per lui. Ho pensato fosse la cosa giusta e basta», gli urlo in faccia mentre le lacrime mi sciolgono il trucco.

«Non lo riavrai mai. James è un McArthur, quelli come lui non amano gli scarti», mi dice con tutta la cattiveria che ha in corpo.

 

Scarti?

Sono uno scarto?

No.

Questo non posso sopportarlo.

 

«Non osare rivolgermi mai più la parola, non provare a cercarmi o essermi amico. Non ho bisogno di te e delle tue certezze. Se il mondo che ti circonda ti fa così schifo perché ne fai ancora parte? Se il Trinity e il mondo dell'avvocatura è pieno di squali forse è così perché tu ne sei un degno rappresentante. Sei il primo che nota i miei cambiamenti, il primo che dice che sono abbagliata e accecata. Dici che io sono diversa. E tu? Tu che menti a tutti? Sappi caro mio che il primo a cui menti sei te stesso. Dici di odiare quello che fai e il mondo che ti circonda eppure godi quando prepari una causa, ti diverti quando affronti un altro avvocato. Ti ho visto quest'estate, ti piace quello che fai, sei bravo perché sei più spietato degli altri avvocati. Se cerchi una redenzione della tua anima tramite me, sappi che io ho una testa e un cuore autonomi dal tuo. Non puoi comandarli, non puoi intrappolarli nelle tue regole. Non puoi decidere per me e sperare che la tua vita migliori». Non abbasso lo sguardo. No. Mi ha trattata troppo male, mi ha umiliata, offesa. Non aveva nessun diritto di dirmi quelle cose.

«Sai cosa ti dico, piccola arrogante saputella. Arrangiati. Vivi la tua vita come credi. Nel momento in cui affonderai non venire a piangere da me. Non ti chiamerò. Non ti cercherò. Sei solo una studentessa come le altre e come tale ti tratterò». Nik si volta allontanandosi a grandi passi da me:«Se non lo avessi capito questo è un addio. Un addio vero. Definitivo. Le auguro una buona vita Elena Voli», mi dice con un inchino, poi se ne va.

 

Con la faccia sporca di trucco, le gambe che tremano e molta stanchezza mi accascio sulla sedia vicino a me. 

Non penso a niente.

Non voglio niente.

Aspetto.

Aspetto di sapere cosa fare adesso che un pezzo del mio cuore si è disintegrato.

 

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Capitolo 50
*** IERI: Ho bisogno di te ***


IERI:
Ho bisogno di te





Sul pavimento della camera di Kate sono disposte decine di foto in bianco e nero, sui mobili le stampe a colori. Cartelline, fogli di plastica, pennarelli, foglietti, sono sparsi da tutte le parti.

«La gara di dibattito è lunedì pomeriggio, noi torniamo da New York in mattinata, dovremmo riuscire a fare tutto». Kate sta correndo da una parte all'altra come una trottola, sta selezionando le foto da portare al colloquio e sembra stia impazzendo. Toglie. Mette. Sposta. Ci ripensa. Se non la conoscessi bene direi che è nel panico, ma visto che Kate è un libro aperto per me, sono sicura sia andata completamente e totalmente fuori di testa.

 

Annuisco assente. 

 

Dalla discussione avuta con Nik una settimana fa il mio umore non è cambiato per niente. Apatica e stanca, pensosa e triste. Non è difficile capire che non sono la solita Elena, anche Rebecca l'ha notato ha provato pure a coinvolgermi nell'organizzazione del Prom, ma non le ho dato corda. Non ho voglia di sprecare energie inutilmente.

 

«Non so cosa portare, credo sia meglio alternare le tecniche senza però dimenticare la coerenza dello stile. Ti piace questa sequenza?», mi dice Kate mentre mi passa una decina di foto. Appena mi smolla il plico si tuffa su un gruppo di foto appoggiate dalla parte opposta del pavimento.

Sfoglio le dieci immagini. Le trovo tutte bellissime, non saprei neanche cosa consigliarle, ogni sua scelta mi pare ottima. Paesaggi, ritratti, reportage. Tutte sono molto intense e curate.

 

Mi vibra il cellulare in tasca.

È James che mi ha mandato un messaggio: - Che fai? Io sono un po' giù di morale -, mi scrive.

- Che succede? Brutti pensieri? -, gli rispondo.

- Il periodo non è dei migliori. Se penso a un anno fa le cose erano diverse. Mi fa tutto schifo, adesso -.

Sto per digitare un messaggio di risposta a James quando Kate mi chiama a gran voce, vuole che mi avvicini per decidere tra due foto. Sono due immagini grandangolo del teatro fatte durante le prove dello spettacolo dell'anno scorso. In un piccolo angolo è possibile vedere la sagoma di Miss Scarlett con chiarezza, riconosco alcuni del gruppo di scenografia, tra cui probabilmente ci sono anch'io, e Rebecca con gli altri attori che provano la parte. 

«Sono intense. Il rosso dei tendoni e le figure umane sotto la luce dei riflettori sono molto suggestive», le dico sincera, le immagini sono molto belle.

«Potrei concludere così la serie, che ne dici? Come a voler dire che la vita è uno spettacolo, uno show. Ognuno interpreta una parte, ha il copione, l'ambientazione. Il resto lo fa il libero arbitrio». Kate osserva con meticolosità le gira tra le mani cercandone difetti e pregi.

«Cavolo, sì. Mi piace». Appena finisco di parlare sento il cellulare in tasca vibrarmi due o tre volte. Questo deve essere James che mi ha mandato altri messaggi.

Vorrei leggerli, ma ho paura che Kate possa arrabbiarsi. Del resto le ho promesso che l'avrei aiutata con le foto, James ha un effetto particolare, riesce a distrarmi in un attimo. Senza contare che la mia allegria nell'ultima settimana è pari a zero, mi sento svuotata.

 

Il cellulare vibra di nuovo.

 

«Se invece prendiamo le foto della terza serie, ti ricordi quelle che ho fatto in città e... e... Elena, ci sei?». Kate mi passa la mano davanti agli occhi.

Sussulto. Sono talmente immersa nei miei pensieri da essermi estraniata. Penso solo ai messaggi a raffica che sto ricevendo da James e la voglia che ho di leggerli. 

 

Sono una pessima amica.

Dovrei impegnarmi ad aiutare Kate, invece l'unica cosa che vorrei fare è andarmene da lì.

 

Kate mi abbraccia:«So che cos'hai. Non devi prendertela, sono cose che succedono. Il fatto che abbiate litigato non deve cambiare la tua opinione su di lui, vi volete bene e tutti lo sanno...».

«Tu-Tutti?». Sbianco. Non ho detto a Kate della litigata con Nik, deve aver intuito tutto, anche se non so come possa aver fatto.

«Certo. Credo sia normale che per te lui sia un pilastro della tua vita», mi dice.

«Ma tu come fai a sapere che ho litigato con lui?», le chiedo confusa.

«Me lo hai detto tu. Non ti ricordi? La storia del weekend con Tess e la storia della scrivania in salotto? Tuo padre. Bruno. Sei collegata Elena? Oggi sei un po' strana». Kate lascia le foto che tiene in mano, mi appoggia la mano sulla fronte mentre mi osserva con attenzione.

 

Il cellulare in tasca vibra.

Un altro messaggio di James.

 

«S-sì scusa. Non so dove abbia la testa. Ho un sacco di pensieri in questo periodo», le dico con voce isterica. Per un attimo ho creduto che avesse assistito alla litigata con Nik alla festa degli ex studenti del Trinity.

«Sarà, però oggi sei strana. Più strana, almeno. Guarda che sei vuoi andare puoi farlo, non hai nessun obbligo a restare. Capito?», mi dice Kate con un sorriso mentre mi accarezza i capelli.

«Andare?», le chiedo confusa.

«Sì, Elena. Andare. A N D A R E. Andare da tuo padre, per fare pace. Oggi parte per il fine settimana con Tess. Se vuoi puoi correre da lui e chiarire tutto. Un po' di sincerità non vi farebbe male», mi dice Kate.

 

Osservo la mia amica, mi fa molta tenerezza. È così preoccupata per me da credere che sia turbata dalla breve vacanza che farà in questi giorni papà. Pensa che stia male per Tess. Non è che non me ne importi nulla di quei due, ma ho un migliaio di pensieri più importanti in questo periodo. Non può neanche lontanamente immaginare come mi senta, tra Nik, Yale, gli esami a scuola, mi sento sballottata tra una ansia all'altra. Probabilmente la mia faccia lunga deve farle molta pena se preferisce volermi mandare via.

 

«Ti ho promesso che ti avrei aiutata e...», le dico, ma vengo bloccata.

«Oggi è sabato. Ho tutto il tempo per preparare il materiale per New York. Vai da tuo padre, ok? Non hai la testa per stare qui ad ammuffirti sulle mie foto». Kate mi abbraccia stretta.

Ricambio l'abbraccio un po' imbarazzata. 

 

Sto approfittando della buona fede della mia amica per svignarmela da lì, manco fosse una lezione di biologia con Tompson. Papà è partito ieri, ma io non ho il coraggio di dirlo a Kate. Non ho il coraggio di dirle che non ho voglia di aiutarla a scegliere le foto. Non ho il coraggio di dirle che sono una pessima persona.

 

Kate mi alza di peso mettendomi la borsa a tracolla per poi spingermi fuori dalla sua stanza. Non oppongo resistenza. Non faccio nulla per fermarla. In verità voglio che faccia quello che ha fatto, voglio che mi lasci libera.

 

Mentre scendo le scale di casa Husher prendo il cellulare dalla tasca. Ho otto messaggi di James. Li leggo uno dopo l'altro senza smettere di camminare.

 

- Ti capita mai di sentirti come se non avessi più l'anima? 

- Scusa, sto diventando noioso. 

- Mi sento un idiota. Mi prenderei a sberle se avessi il coraggio.

- Mi manca mamma. La voglio. Merda. La voglio ora.

- Credevo che il male passasse dopo un po', invece mi sento più oppresso adesso.

- Mi odio mi odio. Sono lagnoso. Scusa. Scusa. Scusa.

- Elena, perché non rispondi? Se sono pesante basta dirlo.

- Scusa, ti lascio stare, ti tartasso perché ho bisogno di te.

 

Capisco benissimo come si sente James. Le emozioni che prova sono le stesse che ho vissuto io e che vivono tutti quelli che hanno perso una persona cara.

Lo chiamo, non posso lasciarlo così.

Squilla.

Risponde.

 

«Ciao James, ero un attimo impegnata», gli dico dolce.

«Mi sento uno sfigato completo. Scusa se ti ammorbo, ma non so con chi altro parlare. Dove sei?», mi chiede.

«Avevo delle commissioni. Sto andando verso casa», mento. Non voglio che sappia che ero con Kate, potrebbe pensare di stare rovinando qualcosa.

«Fermati. Dimmi il posto preciso, vengo a prenderti», dice deciso.

Con il sorriso sulle labbra gli dico l'indirizzo, mi fermo e aspetto che James mi passi a prendere. Non vedo l'ora di stare con lui.

 

Dieci minuti e arriva.

 

In macchina James non dice nulla. Sembra a disagio, un po' teso. Non mi aspettavo certo che mi raggiungesse con un mazzo di fiori e una scatola di cioccolatini, ma dai messaggi e dalla telefonata mi ero immaginata un po' più di entusiasmo. È nervoso, non parla, non mi guarda neanche. Non voglio certo dargli ulteriori stress, per carità, però non mi sembra giusto che mi tratti in questo modo.

Faccio finta di nulla, guardo fuori dal finestrino senza parlare, come se fossi assente.

 

Una giornata partita storta non può certo finire bene. Classico per me che attiro una sfiga dietro l'altra.

 

Arrivati sotto casa, James scende per aprirmi lo sportello. Ha la faccia cupa, i capelli coprono parte del suo viso. Intravedo i suoi occhi, sono diversi dal solito, sono rossi e gonfi. Mi prende un tuffo al cuore. Finisco sempre con il pensare a me stessa dimenticando quello che sta provando James. Che cretina.

Sul vialetto che porta a casa sfioro le mie dita con le sue per vedere quale possa essere la sua reazione. James ha bisogno di piangere, urlare e sfogarsi. Ha bisogno di sentirsi capito e di condividere il male che sente dentro.

 

La mano di James si stringe alla mia con forza, come fossero incollate.

 

«Ho p-paura di dimenticarla. Non mi ricordo il suo odore... cioè lo so, il mio cervello lo ricorda, ma non saprei descriverlo. Ho paura di dimenticarmi il suo volto. Ho paura che possa scivolarmi via». James con la testa bassa cammina verso il portone.

«Non puoi fermare nulla. Il ricordo cambierà, ma non svanirà mai. Ti ricorderai solo le cose belle, i momenti migliori, quelli che valgono davvero, quelli che vale la pena tenere nel cuore. Neanche io riesco a ricordare quando mamma preparava la colazione oppure quando era troppo nervosa per qualche scadenza sul lavoro. Mamma era così testarda eppure ho stampato il suo sorriso nella mia mente, era così caotica ma le sue carezze non le dimenticherò mai», gli dico tutto d'un fiato.

James ha gli occhi gonfi di lacrime, mi prende il volto tra le mani. Passa i palmi sulle guance, sfiorando con i pollici le lentiggini che ho sul naso. Preme il mio volto come fosse di cera, come se volesse entrare e fondersi con me: «Mi dici perché sei così... perché mi fai questo? Come posso starti lontano? Da un lato ti odio, ma dall'altro ti... ti...».

Le labbra di James crollano sulle mie. Sono la sua struttura, le sue fondamenta. In quel bacio c'è l'unico legame che gli permette di non crollare, un bacio portante, un bacio solido come una chiave di volta.

Sento il suo respiro farsi affannoso, sento il calore delle sue mani cercare il mio corpo. Tremo e lui trema con me. Abbiamo resistito mesi, settimane, giorni, ore e secondi l'uno lontano dall'altra, adesso basta. Non ne posso più io e non ne può più neanche lui. I baci sono sempre più intensi e profondi, umidi d'amore. 

«Mio padre non c'è. Vuoi salire?», gli chiedo sottovoce.

James mi guarda per qualche attimo, scruta il mio volto in cerca della cosa giusta da dire, ma non dice nulla. No. Mi bacia con passione. Mi bacia con amore. Mi bacia e basta. Non ho bisogno di risposte, mi basta lui.

Saliamo le scale velocemente, con agilità apro la porta di casa. Non facciamo in tempo ad arrivare in camera, James mi spinge contro la parete del corridoio sollevandomi per le cosce. Il desiderio è al limite. Lo trascino verso il mio letto, lo spingo con decisione poi mi metto sopra di lui a baciarlo senza sosta. James infila le mani sotto la mia felpa e me la sfila. I capelli mi ricadono sul volto nascondendo le mie guance rosse per l'ardore e anche un po' per l'imbarazzo, è da molto tempo che non siamo così intimi. Le dita provano a slacciare i bottoni del suo cardigan, ma sembrano paralizzate. James prende l'iniziativa e si toglie tutto rischiando di rimanere incastrato tra il groviglio dei vestiti. Il suo torso nudo è la cosa più bella che i miei occhi abbiano mai visto.

In pochi secondi siamo stretti in un abbraccio d'amore e passione. 

 

Vicini come mai. 

Stelle gemelle che ruotano all'unisono. 

Siamo energia compressa e poi esplosa.

Siamo tutto ciò che vale la pena di essere vissuto.

Estasi primordiale e amore infinito.

James ed Elena risuonano nell'universo. 

Per una volta, per sempre.

 

I momenti appena passati sono già una ricordo, un bel ricordo. Stretta nelle sue braccia mi sento bene come non mi sentivo da tanto tempo. Nik è un brutto pensiero, papà e Tess sono un incubo dimenticato. Non voglio altro che stare lì. Osservo James baciarmi con dolcezza la fronte. Lo osservo e capisco che sta soffrendo, capisco che stare con me non riempie il vuoto, il baratro che sente dentro.

Mi abbraccia, ma è lontano.

Mi abbraccia, ma la sua mente non è qui.

Vorrei poterlo strappare da quello che prova, vorrei che si sciogliesse nel mio abbraccio.

 

Non posso stare ferma.

Non posso vederlo così.

 

Con calma mi siedo sul letto, vicino a me c'è il comodino con la scatola di legno con dentro le lettere che scrivo a mia madre. La apro. Infilo la mano. Stringo tra le dita una busta diversa dalle altre, c'è un simbolo in ceralacca in rilievo. Una busta che ho ricevuto un anno fa da Demetra.

 

«James io credo di amarti, credo di averti sempre amato», sussurro. La voce esce come un filo di seta, sottile, fragile e prezioso.

«Non dirmi così, ti prego. Non adesso. Sai che sei importante, ma non posso... io... non posso. Ho degli obbiettivi e non posso perdere la strada. Sai come finirebbe se io... no. Non possiamo distrarci, manca poco. Pochissimo», mi dice con voce roca.

«Ma se ci amiamo perché non possiamo... amarci?», gli chiedo con calma, senza rabbia. Voglio solo capire.

«Perché non è il momento giusto. Perché voglio solo perdermi tra le tue braccia senza pensieri, perché voglio la tua leggerezza e voglio baciarti per ore, voglio non dover pensare al futuro. Ci penso già ogni istante della mia vita a quello che devo e non devo fare. Non voglio che anche il nostro rapporto diventi un obbligo, una incombenza. Voglio solo perdermi nei ricordi dei nostri baci, del tuo corpo. Vorrei avere solo ricordi belli su tutto, solo questo». James mi sta abbracciando da dietro, è come fosse avvinghiato, stretto a me. Lo sento ancorato a me.

 

La mia mano molla la lettera di Demetra nella scatola. 

Non è questo il momento di aprirla.

 

James mi vuole bene, ma non vuole avere una relazione con me finché Yale, il college e lo studio non saranno un argomento archiviato. Sento la sua stretta e capisco quanto vorrebbe lasciarsi andare, quanto desidererebbe essere libero da pensieri e ansie.

Non posso dargli che ragione, dobbiamo aspettare. Dobbiamo avere il tempo per amarci come si deve, qualche mese in più non può cambiare molto la nostra situazione.

Pazienza.

Dedizione.

Ci serve quello, ma non adesso.

 

Mentre estraggo la mano dalla scatola di legno sfioro dei piccoli oggetti di plastica.

Sono tre.

Sono tre cucchiaini.

I tre cucchiaini che ho preso di nascosto quando ho aiutato James a svuotare lo sgabuzzino di Demetra.

 

«Visto che vuoi avere solo ricordi belli, credo che questo valga la pena tenerlo», gli dico mentre allungo i cucchiaini.

James li riconosce subito. È senza parole, trattiene il fiato. 

Li sfiora, li osserva, poi li prende.

Stretti nel pugno li avvicina al petto vicino al cuore.

Piange. 

Le lacrime scorrono rapide sul suo viso, sembrano lame.

Singhiozza.

I singulti gonfiano il suo petto.

Tra le mie braccia James è più delicato di un fiore che nasce nella neve, più dolce del miele appena colto: «Sta tranquillo. Ci sono qui io, non ti preoccupare», gli dico cullandolo e riempiendolo di baci, perdendomi in lui e dimenticando lo spazio e il tempo, viaggiando in universi paralleli e desiderando che quell'attimo non finisca mai.

 

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Capitolo 51
*** IERI: Una giornata indimenticabile ***


IERI:
Una giornata indimenticabile

 



Capitolo particolare. Le didascalie sopra ogni parte indicano luogo e ora. In questo modo si capisce cosa succede prima e cosa dopo. La giornata verrà svelata pian piano, è come un puzzle.

VI AVVISO IL CAPITOLO È MOLTO MOLTO MOLTO LUNGO (sono più di 3500 parole contro le solite 2000).

 

--------------

 

Ore 21.35, sera di lunedì.

Teatro Scolastico del Trinity Institute.

 

Seduta su una panca dietro le quinte osservo il palco svuotarsi. La gara di dibattito con il Saint Jude è finita. Non posso credere che sia andata così, che tutto quello che abbiamo fatto in questi anni si riduca a una battaglia simbolica fatta di parole e ragionamenti. La gente intorno a me esulta, io sono sfinita. Non provo felicità e nemmeno tristezza, non ho emozioni, non ne ho neanche una briciola. Me ne sto ferma con il cellulare in mano mentre sta caricando. Le parole di Nik prima della gara mi hanno tolto quel briciolo di speranza che nutrivo in fondo al cuore. Lui ed io non saremo più amici.

Incrocio le braccia sul volto, vorrei riuscire a piangere, ma mi sento senza energie, quel poco di forza che avevo l'ho usata per mandare a quel paese Andrew e la sua squadra di imbroglioni. Sono dei farabutti.

Voglio solo dormire o almeno provarci.

 

«È finita, quindi», la voce di Kate risuona su tutto il vociare delle persone che corrono dietro le quinte.

Le sorrido stanca, è da tutto il giorno che mi sfugge e non riesco a stare con lei.

«Anche se le cose non sono andate come ci aspettavamo, credo tu possa ritenerti soddisfatta». Kate armeggia con la sua macchina fotografica, non mi guarda in faccia.

«Più o meno, di sicuro non mi aspettavo una serie di eventi come quelli capitati oggi. Come ha detto James questa è senza dubbio una giornata indimenticabile».

«E in tutta questa serie di eventi non credi ti sia sfuggito qualcosa?», mi chiede mentre allunga nella mia direzione la macchina fotografica.

Ci penso un attimo, non riesco a capire a cosa si stia riferendo la mia amica: «No, non mi pare di aver tralasciato nulla. Ti riferisci alla foto di gruppo che ci hai fatto dopo la gara? So che sono uscita male, ho sempre un'espressione sorpresa e poco naturale in ogni scatto che mi fai».

Kate fa cenno di no con la testa, sembra molto triste.

«Allora che cavolo ho combinato? Dalla faccia che fai sembra che sia successa una cosa grossa e irreparabile», le dico scherzando mentre cerco di interpretare i suoi silenzi.

«Credo di non voler essere più tua amica. Non ti voglio nella mia vita né ora e né mai. Non voglio più sapere se stai bene. Non voglio interessarmi a te, in nessun modo. Non voglio condividere la mia vita e le mie emozioni con te. Non voglio cercarti, sollevarti e curare le tue ferite. Non voglio sorbirmi la tua ansia. Non voglio interessarmi ai tuoi sentimenti, se stai bene o male. Non ti voglio più, mai più. Non voglio ciò che sei perché non mi piace. Non voglio ciò che eri perché non c'è più. Basta. Basta», dice secca e senza emozioni mentre si allontana da me glaciale e determinata.

«Cosa? Ma sei impazzita? Che cosa stai dicendo?», le urlo andando verso lei come una furia lanciando il cellulare e il caricatore per terra.

 

Possibile che mi dica cose del genere con una freddezza e distacco simile? Che cosa posso aver mai combinato per farle dire quelle cose? 

 

Kate mi squadra dall'alto al basso con disprezzo: «È finita la nostra epoca, la nostra storia è già passata. È stato bello, ma adesso basta. Sono stanca di rincorrerti. Voglio essere protagonista della mia vita, non vivrò più nella tua ombra». Kate stringe la macchina fotografica, non traspare nessuna emozione. Sembra furiosa, ma anche consapevole. Non la capisco e questo mi spaventa.

«Ma ti sembra il caso di dirmi una cosa del genere così? Cosa ti ho fatto? Io... io sono sconvolta. Non capisco, giuro». Un tremore mi pervade il corpo. Dopo tutto quello che mi è successo con Nik, dopo la gara di Dibattito, non credo di riuscire a reggere una batosta simile.

«Ripensa cosa è successo, o meglio, cosa non è successo», mi dice Kate digrignando i denti, ha gli occhi lucidi e la bocca trema leggermente.

Confusa, preoccupata, nervosa, ansiosa, cerco di concentrarmi, ma con tutto quel baccano faccio fatica:«Kate. Kate. Non capisco. Io... giuro. Io...», balbetto mentre mi sforzo e cerco di capire cosa possa aver mai fatto di tanto terribile.

Mi sforzo.

Mi concentro.

 

Poi.

Improvvisamente.

L'illuminazione.

Ho capito.

 

Il mondo mi cade addosso. Con lo sguardo supplicante osservo la mia migliore amica fissarmi con odio e astio. Rabbiosa si allontana da me un passo alla volta. Immobile come una statua, con la bocca aperta e le mano protese verso lei, cerco di raggiungerla. Kate si scansa, non vuole avere più niente a che fare con me. Colma di dolore mi accascio a terra. Vomito lacrime. Sussulto. 

 

Kate ha perfettamente ragione, al suo posto neanche io vorrei essere più mia amica.

 

Ore 08.27, mattina di lunedì.

Atrio del Trinity Institute.

 

Arrivare tardi a scuola non è un buon segno, soprattutto se sei all'ultimo anno e oggi c'è la gara di Dibattito contro quelli del Saint Jude. Ho gli occhi di tutti puntati addosso, c'è molta aspettativa e non vorrei mai deludere nessuno.

Con il fiatone corro per il corridoio, devo ancora prendere i libri per la lezione di letteratura e mettere a posto quelli di fisica. Faccio una curva a tutta velocità rischiando di schiantarmi a terra e sfiorando un gruppo di studentesse che viene dalla parte opposta.

Jonathan è appoggiato al suo armadietto e sta parlando con James e Lucas. Appena li vedo cerco di rallentare per darmi un contegno, ma la suola sporca di doccia schiuma mi fa scivolare più di quello che vorrei.

 

Bam.

 

Mi schianto contro la parete degli armadietti rischiando di coinvolgere i miei amici.

Una figura pessima, spero non mi abbiano vista in molti.

Con la faccia rossa per l'imbarazzo saluto tutti mentre cerco di aprire il mio armadietto.

James e Lucas si guardano confusi, poi scoppiano a ridere. 

Jo è interdetto dalla mia entrata catastrofica:«Bella entrata Elena. Ma oggi non è il giorno in cui...».

James scoppia a ridere più fragorosamente:«Sì, oggi è il giorno della gara di Dibattito. Dobbiamo essere tutti al meglio delle nostre forze perché sarà una giornata indimenticabile. In modo particolare il nostro look e presentazione saranno fondamentali». James mi toglie dai capelli un mollettone fucsia a pois bianchi che normalmente uso a casa per raccogliere i capelli quando mi trucco.

 

Sono andata in giro con quel coso in testa?

Voglio sprofondare.

Sciogliermi.

Evaporare.

Adesso capisco perché tutti mi fissavano straniti sul bus.

 

Con un gesto rapido lo sfilo dalle mani di James:«Ci sono giorni in cui sono più distratta di altri», gli dico facendogli una linguaccia.

James mi abbraccia tirandomi a sé:«Ed io so bene perché sei distratta. Un weekend niente male pivella», dice malizioso.

«Non fare lo scemo», gli dico dandogli un piccolo pugno nelle costole.

 

La campanella suona.

 

«Oggi ho una mattina piena. Dopo vi scrivo un messaggio per sapere dove trovarci a provare per la gara di dibattito», dice Jo mentre corre verso la prima lezione.

«Il mio cellulare è morto. Defunto. KO. Non trovo più il caricatore. Se riesco vado a comprarne uno prima della gara», urlo a Jo nel corridoio che mi risponde con un pollice alzato.

«Non l'hai ancora trovato?», mi chiede James.

«Papà manca da tre giorni ed io ho conciato la casa come fosse una discarica. Quando torna e vede quel caos mi ammazza», dico mogia mentre gioco con il mio mollettone fucsia a pois bianchi.

Lucas mi prende a braccetto:«Chissà perché, ma da te mi aspetto questo e altro. Dimmi il nome del modello del tuo telefono, così dico all'assistente di mio padre di comprarlo e portarcelo a scuola. In questo modo non eviterai gli allenamenti per la gara», mi dice mentre mi sistema il bavero della giacca che ho tutto storto.

«Grazie. Grazie. Grazie!», abbraccio Lucas più forte che posso.

«Adesso andiamo prima che perdi anche la testa. Le lezioni sono già iniziate», dice James prendendomi per mano e correndo verso il corridoio.

 

Ore 20.00, sera di lunedì.

Teatro Scolastico del Trinity Institute.

 

«Come sempre al centro dell'attenzione insieme ai tuoi amici? Ho visto le foto che ti hanno fatto alla festa degli ex studenti. Com'è che diceva il titolo: Il rampollo McArthur in coppia con la futura stella di Yale». Nik è vicino all'ingresso del palco del teatro, i ragazzi del Saint Jude stanno già prendendo posizione vicino a James e agli altri.

«Non mi parli per giorni e adesso, proprio adesso, mi rompi con frecciatine ridicole? Che ne sapevo che quel fotografo fosse del Boston Tribune e che sarei finita sulle pagine della cronaca locale». Fremo vorrei salire sul palco, non mi va di aspettare troppo.

«Dico solo che tutta questa pubblicità è anche merito mio. Se non fossi stato così stupido da farti ballare per due anni di seguito alla festa degli ex studenti probabilmente nessuno si sarebbe accorto di te», dice Nik con cattiveria.

«Senti, vuoi vincere o no? Io devo andare con gli altri, ok?». Guardo il professor Martin con rabbia. Non mi ha rivolto la parola per tanto di quel tempo e adesso vuole recuperare la nostra amicizia in questo modo? 

«Credi che senza te non potrebbero vincere, cara saputella? La loro vita è già scritta, con o senza di te. Guardali, sono perfetti nella loro toga. Nessuna piega, nessun capello fuori posto. Tu arrivi in ritardo, con il fiatone e sembri parecchio scossa», Nik mi sta bisbigliando in un orecchio.

«Se ti interessa saperlo ho da poco un nuovo caricatore per il cellulare. Sono andata a metterlo a caricare. Per questo ho fatto tardi. Se vuoi ricucire la nostra amicizia facendomi domande idiote, fai pure», dico acida indicando una panchina dietro le quinte che regge il mio telefonino.

«Forse non hai capito. Tu sei il nulla. Hai perso la mia fiducia, totalmente. Ci sono cicatrici visibili, come ben sai. Altre sono invisibili, ma fanno male lo stesso. Tu hai preferito seguire una strada, peccato questa non sia la mia. Corri dai tuoi padroncini, vai a scodinzolare loro la coda. Inchinati alla nobiltà del Trinity e sopprimi la tua personalità. Vedrai che bella vita avrai, cara Elena». Nik è duro, cattivo, maligno come non lo è mai stato con me.

Le lacrime mi riempiono gli occhi. Sono triste, stanca, rabbiosa:«Grazie per le belle parole di incoraggiamento professor Martin, non le dimenticherò. Se non le dispiace oggi ho una gara da fare... anche per lei». Senza degnarlo di attenzione raggiungo il palco i miei amici mi stanno aspettando. Con il palmo della mano mi asciugo gli occhi, sperando che il trucco non si sia sciolto troppo.

 

Ore 14.00, pomeriggio di lunedì.

Mensa del Trinity Institute.

 

Lucas e Adrian hanno fatto una lista dei possibili argomenti che verranno presentati stasera alla gara. Potrebbe uscire di tutto, non è possibile aver certezze, è così difficile essere certi visto che le opzioni sono praticamente infinite. Stephanie legge una rivista di medicina mentre Rebecca controlla le ultime notizie dei quotidiani, dalla politica fino all'economia. James controlla su un portatile se ci sono notizie dell'ultimo minuto che possano attirare l'attenzione del giudice Smithson. Io faccio finta di interessarmi a un libro di storia mentre mangiucchio un muffin.

La mensa è vuota, la maggior parte degli studenti è a lezione. Noi del gruppo A di Dibattito abbiamo la possibilità di fare allenamento prima della gara. Il resto dei nostri compagni del Club sta discutendo animatamente poco lontano da noi, stanno facendo delle prove su argomenti scelti a caso. Non sempre il loro discorso fila, per questo a volte discutono con un po' troppo vigore. Lucas li raggiunge per calmare gli animi, siamo tutti molto tesi.

 

Nik spunta all'improvviso alle nostre spalle, è cupo in volto e non ha l'aria molto amichevole. Insieme a lui ci sono altri studenti tra cui Kate.

«Loro sono i ragazzi del terzo anno. Hanno il compito di aiutarvi durante la gara. Vi daranno cibo, acqua e faranno tutto ciò che vi serve. Non esitate di chiedere loro aiuto. Chiaro?», Nik spinge un paio di ragazzi verso di noi.

Annuiamo tutti.

«La preside Marquez vuole documentare questa giornata, visto che è il mio ultimo anno che insegno qui. La signorina Husher immortalerà queste ore e la gara stessa. Collaborate, mi raccomando». Nik prende un gruppo di ragazzi del Club per farli provare con lui.

Raggiungo subito Kate che sta già preparando la macchina fotografica per scattare:«Ciao, come va?», le chiedo con un sorriso.

«Tutto bene», mi risponde, poi con un gesto rapido mi scatta una foto a tradimento. «Adesso ho da fare», dice mentre raggiunge Nik e gli studenti che provano con lui.

 

Ore 21.00, sera di lunedì.

Teatro Scolastico del Trinity Institute.

 

«L'argomento è difficile, guerra in medio oriente e suddivisioni etniche, politiche e religiose. Dobbiamo sostenere la guerra. Troppo difficile per studenti di High school, questi sono argomenti da college dopo la specializzazione. Guarda i ragazzi del Saint Jude, non stanno neanche discutendo. Parlano come se si trovassero in un bar a bere un caffè», bisbiglia Lucas.

Tutti guardiamo la scuola avversaria, in effetti non hanno l'aria preoccupata o impegnata come la nostra.

«Dici che stanno barando? Non mi stupirei se ci fosse lo zampino di Andrew», dico a tutti.

«L'unico modo in cui potrebbero barare è aver convinto il giudice Smithson a concordare l'argomento. Oggi sembra diverso dal solito. Seguo tutte le gare da quattro anni a questa parte e non l'ho mai visto così... così... mogio. Non so neanche io come dire». James lancia un'occhiata al vecchio giudice garante della gara che se ne sta in un angolo cupo.

«L'anno scorso indossava una camicia sgargiante, era colorato e vivace. Potrebbe essergli successo qualcosa a casa? Magari la gara non c'entra», chiedo.

«No. L'avrei saputo, la famiglia del giudice fa parte della New Heaven che conta. Se ci fosse qualche segreto si saprebbe subito», dice Rebecca.

«Sei sicura? Ricorda che ci sono segreti che non escono, guarda la storia di Miss Scarlett qui al Trinity, nessuno l'ha scoperta. Inoltre Andrew è bravo ad ottenere informazioni e ricattare, del resto tu lo sai bene», dico a Rebecca.

«Quindi?», chiede Stephanie.

«Non vi sembra strano che il giudice abbia fatto l'estrazione dell'argomento dal vaso con tutti i bigliettini da solo? L'anno scorso ha chiesto l'aiuto di una bambina, vi ricordate? Quest'anno solo lui ha letto l'argomento, solo lui sa cosa c'è scritto sul bigliettino». La mia ipotesi, seppur strampalata, non pare così lontana dalla verità.

 

Solo il giudice ha letto il foglietto.

Solo lui ha idea di cosa ci sia scritto sopra.

E se avesse mentito?

 

«Cosa facciamo? Proviamo a smascherare il giudice oppure discutiamo con il Saint Jude? Abbiamo poco tempo», chiede James nervoso.

Nessuno sa cosa rispondere. Da una parte c'è la possibilità che abbiamo ragione al cento per cento, ma è anche possibile che ci stiamo sbagliando. Rischieremmo l'eliminazione oltre che fare una figuraccia tremenda portando disonore al Trinity.

«Dove ha messo il bigliettino il giudice?», chiedo a tutti.

«È accartocciato sul tavolo davanti al vaso con tutti gli argomenti», dice Adrian.

 

Non mi importa di fare una figuraccia. 

Non mi importa di nulla.

Perderemmo comunque la gara, non riusciremmo mai a sostenere le argomentazioni, non abbiamo le competenze in politica estera e per questioni tanto delicate.

 

«Io vado», dico mentre mi stacco dal gruppo con la mano alzata, in cerca di attenzione, attraverso il palco.

Il pubblico in sala rumoreggia, il giudice Smithson si alza dalla sua sedia venendomi incontro, pare infastidito.

Ormai il danno è fatto tanto vale fare le cose per bene.

«Chiedo la verifica dell'argomento estratto dal giudice. Mi prendo la responsabilità di questa trasgressione», dico ad alta voce.

La gente in sala commenta con versi di disappunto o esclamazioni di sorpresa.

La preside Marquez e il preside del Saint Jude salgono sul palco, hanno la faccia rossa per l'imbarazzo. In tanti anni non era mai successa una cosa del genere.

«Signorina Voli, come si permette?», mi chiede la Marquez sconvolta.

«Inaccettabile, totalmente inaccettabile», replica il preside del Saint Jude.

Il giudice Smithson se ne sta muto, bloccato in mezzo al palco.

Mi avvicino al tavolo con sopra il vaso e prendo il bigliettino accartocciato poi lo porgo ai due presidi. Entrambi tentennano un attimo, ma alla fine lo prendono. Lo scartano. Lo aprono. I due presidi leggono il foglietto.

«Inquinamento ed energie rinnovabili», dicono in coro i due presidi.

 

Un boato di protesta si solleva dal pubblico.

Il giudice Smithson si copre la faccia per la vergogna.

I miei compagni esultano.

Andrew abbandona il palco.

 

Le mie gambe tremano a malapena mi reggo in piedi. Sono esausta, stanca.

Lo sguardo va in automatico dietro alle quinte alla ricerca di Nik. Lui non mi guarda, non sorride. 

Non gli importa più di me e questo mi uccide.

 

Ore 07,35 mattina di lunedì.

Appartamento della famiglia Voli.

 

Adoro stare nel letto, adoro sentire il profumo di James nelle lenzuola. I giorni passati insieme sono stati una cosa meravigliosa. Mi rigiro un paio di volte mentre mi stiracchio. 

Uno stridio di freni proveniente dalla strada mi fa sobbalzare.

 

Merda. Merda.

Che ore sono?

 

Cerco il mio cellulare, ma è spento. Ho perso il caricatore e non riesco ad accenderlo. Corro in cucina. L'orologio segna le 07.36.

Sono in ritardo, in tremendo ritardo.

Mi butto sotto la doccia evitando di lavarmi i capelli, faccio più veloce che posso. Prima di asciugarmi metto l'acqua a bollire in un pentolone enorme visto che quelli piccoli sono a lavare nel lavandino. Papà manca da tre giorni ed io ho conciato casa peggio che un campo di battaglia. Con l'asciugamano avvolto intorno al corpo mi preparo il te mentre inizio a vestirmi. Trovo una scarpa, mentre l'altra non so che fine abbia fatto. Cerco per tutta casa mentre mangiucchio una fetta di pane raffermo con la marmellata. Provo a guardare da tutte le parti, alla fine la trovo in bagno la suola è sporca di doccia schiuma.

Ma come diavolo ho fatto a fare un macello simile?

In pochi minuti mi trucco. Mollettone in testa per bloccare i capelli, correttore, matita e mascara. Niente di eccezionale. Spero che Rebecca o Stephanie mi sistemino un po' prima della gara.

Come un fulmine esco di casa. Appena chiudo la porta mi blocco, mi pare di aver dimenticato qualcosa.

Certo. 

La borsa con i libri.

Rientro alla ricerca della borsa sperando di fare in tempo a prendere l'ultimo bus della mattina. 

La trovo sotto i cuscini del divano.

Il profumo di James è ancora nell'aria, annuso il profumo prima di uscire. Sorrido.

Poi corro verso la porta di casa, sono in ritardo pazzesco.

 

Ore 21.50, sera di lunedì.

Teatro Scolastico del Trinity Institute.

 

Il via vai nel teatro è scemato. Lo scandalo del Saint Jude è esploso in poco tempo. Quei bugiardi hanno barato e la vittoria è stata data al Trinity. Non so se essere felice o triste, tutta questa faccenda mi fa schifo e basta.

Mi fa schifo, come mi faccio schifo io.

Sono ancora bloccata a terra, Kate se n'è andata da un pezzo. Ho capito cosa l'ha fatta infuriare e non posso far altro che darle ragione. Tutto quello che ha detto è vero. Sono una pessima amica.

Con il briciolo di forze che posseggo mi trascino verso la panca su cui ero seduta pochi minuti prima, nello stesso posto di quando la mia ex migliore amica mi ha detto che non mi vuole più tra i piedi.

Raccolgo il cellulare e il caricatore.

Li collego attaccando la spina alla presa di corrente lì vicina.

 

Piango.

Piango perché mi sento così stupida, non so che cosa mi sia passato per la mente.

Piango.

Piango perché ciò che credevo indistruttibile si è frantumato in mille briciole.

 

Schiaccio il bottone ON, lo schermo prende vita.

Batteria 15%.

In pochi secondi compaiono delle scritte sul display luminoso.

 

1

2

5

10

12

17

18

 

17 messaggi scritti e un messaggio vocale.

Tutti quei bip mi assordano, ho una nausea pazzesca.

 

Ho paura di ascoltare.

Ho paura di leggere.

 

Schiaccio.

Porto il cellulare all'orecchio.

- Elena. Elena. Sono Kate? Dove diavolo sei finita? Ho provato a chiamarti, ma il tuo cellulare è spento. Sono alla fermata del bus, sto andando a New York per il colloquio. Tutto bene? Io... io... io devo andare. Capito? Perché non sei qui? Mi avevi promesso che mi avresti accompagnata. Io... io... ecco... credevo che volessi venire con me questo fine settimana, invece..." - fine del messaggio vocale.

 

Invece.

Invece.

 

Nella mia testa finisco la frase della mia ex migliore amica.

 

Invece ti ho dimenticata.

Invece ho preferito pensare a me stessa.

Invece ho preferito amare James.

 

Invece.

Invece.

 

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Fatemi sapere come vi è sembrato il capitolo.

Questo modo di raccontare la storia vi è piaciuto? Avevo molte cose da dire e non sapevo come fare, ho pensato fosse una buona idea.

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Capitolo 52
*** IERI: La lettera ***


IERI:
La lettera




PURE QUESTO UN CAPITOLO LUNGO.

 

Il vestito rosa per il ballo di fine anno è sul letto. L'ha comprato Rebecca perché voleva che fossimo coordinate, il mio è rosa cipria mentre il suo è azzurro ghiaccio. La seta del tessuto è liscia come fosse fatta d'acqua, i fiori applicati sullo scollo sono morbidissimi.

Mi perdo a toccarli cercando di rilassarmi.

Lì vicino c'è la lettera di Yale. Sono stata ammessa. Tutti noi siamo stati ammessi, la gara con il Saint Jude è stata una grande cassa di risonanza. Tutti ci vogliono, tutti ci cercano. Il Boston Tribune mi ha contattata per fare un'intervista. Forse la farò domani. Rimando da così tanti giorni che il domani è diventato mai.

Sul giornale hanno pubblicato la foto che Kate ci ha scattato dopo la gara. Ci siamo tutti con indosso la nostra toga: Jo, James, Lucas, Rebecca, Stephanie, Adrian e il professor Martin. Stiamo ridendo. Sembriamo quasi felici.

 

Già.

 

Non parlo con Kate da più di una settimana e da quando abbiamo fatto gli esami a scuola non l'ho più vista in giro. Non chiedo a papà se sa qualcosa, perché tanto non mi rivolge la parola. Crede che abbia fatto apposta a ridurre casa una discarica solo per fargliela pagare del weekend fuori casa. A dire il vero non so neanche io come abbia fatto, il tempo passato con James mi ha distratta.

 

Già.

 

Ho anche dimenticato di andare a New York con Kate. Non so cosa mi abbia preso, ci vogliono solo un paio d'ore per raggiungere la città, forse un po' di più con il bus. 

Non so spiegare è come se avessi un blocco mentale, un vuoto. Non mi ricordo di essermene dimenticata, so che è strano eppure è così.

 

Sono le 20.19.

 

Dovrei essere pronta per andare al ballo eppure non ho neanche iniziato a truccarmi.

Non ne ho voglia.

Mi guardo allo specchio e rivedo tutte le altre me che si sono specchiate nel corso degli ultimi due anni, immagini sovrapposte come in un collage fotografico. Ci sono Elena felici, ansiose, tristi, disperate, serene, stanche, annoiate. Milioni di me che mi fissano. Milioni di me che mi giudicano.

Mi sento uno straccio.

 

Non ho più Kate.

Non ho più Nik.

Non ho più papà. 

 

Non riesco nemmeno a piangere. È come se i muscoli del mio volto fossero rilassati e assecondassero la forza fu gravità scivolando verso il basso. Non ho voglia di fare nulla.

 

Il cellulare squilla. Un messaggio.

È James. Dice che mi verrà a prendere verso le 21.00.

 

James.

Il mio amato James.

L'unico che mi capisca per come sono veramente.

 

Sorrido.

Sto bene quando sono con lui.

Voglio essere carina per lui, voglio godermi la festa di fine anno con l'unica persona che mi voglia bene davvero. Non posso buttarmi giù in questo modo. Forse ho sbagliato con Nik, non lo so, ma rifarei all'infinito la stessa scelta che ho fatto con il rettore. Con Kate sono stata pessima, lo ammetto, ma non ho fatto apposta. Non volontariamente almeno. Forse se le chiedessi scusa. Forse se mi dimostrassi pentita. Forse potrebbe perdonarmi.

 

Già. 

Forse potrebbe.

 

Sposto la lettera di Yale sul comodino per prendere il vestito. Lo infilo facilmente, scivola sul corpo come fosse fluido. I sandali dorati stanno benissimo come il bracciale e il ciondolo abbinato. Raccolgo i capelli in una treccia morbida che avvolgo sulla nuca fermandola con delle forcine. Mi trucco leggermente, niente matita nera, solo una dose abbondante di mascara, un po' di fard e un lucida labbra color ciliegia. 

Semplice. Pulita. Ordinata.  

I miei occhi risaltano come le mie lentiggini.

Prendo il cellulare e lo infilo in una pochette rosa con una sottile catenina dorata, ci metto anche uno specchietto e il lucida labbra. Non mi serve altro.

Sono quasi le nove di sera, James sarà qui a momenti.

Dall'armadio sfilo una giacca leggera e corta da indossare se dovessi sentire freddo.

Sono sulla porta della mia camera, mi giro per guardare se ho preso tutto.

 

Osservo ogni mobile, ogni oggetto. 

Osservo tutto, ma l'unica cosa che noto è la lettera di Yale abbandonata sul comodino.

Mi avvicino e la piego con cura, la infilo nella pochette.

Davanti a me c'è il comodino con appoggiata la scatola di legno con tutte le lettere che ho scritto a mia mamma, oltre a quella di Demetra.

Apro il coperchio.

Rigiro tra le mani la busta con il sigillo in ceralacca. Osservo ogni minima piega, ricciolo e decoro dell'immagine del timbro, lo stemma della famiglia McArthur.

Non sono mai stata curiosa di aprirla, eppure adesso vorrei sapere cosa c'è dentro.

Non ho mai pensato di aprirla da sola, ma il desiderio di trasgredire mi fa formicolare le mani.

 

È se lo facessi?

 

No.

Non posso.

James ne soffrirebbe. Ha già patito abbastanza, senza contare che i giorni scorsi è stato l'anniversario della morte della madre. Non potrei fargli una vigliaccata simile.

Prendo dal cassetto una borsa di cartone colorato che di solito userei per impacchettare un regalo a Natale, ci infilo la busta di Demetra. Credo sia ora di rompere il sigillo in ceralacca per poter finalmente capire cosa c'è dentro. Voglio liberarmi da questo segreto ingombrante.

Le bugie hanno rovinato il rapporto con James, gli inganni lo hanno indebolito.

Non voglio costruire la mia nuova vita a Yale sulle menzogne. Basta. Le macchinazioni e i dispetti hanno rovinato i rapporti più importanti della mia vita, non posso costruire il mio futuro con James sulla falsità e i segreti.

Devo dirgli cosa è successo.

Devo essere sincera con lui, anche se questo potrebbe significare perderlo.

 

Mancano pochi minuti alle nove.

È meglio che mi sbrighi.

 

Con la borsa di cartone e la giacchetta sottobraccio esco dalla mia camera, percorro il corridoio passando davanti alla cucina. Tess e papà stanno cenando con una pizza.

«Elena sei bellissima», dice Tess piena di entusiasmo.

Papà non si gira neanche, non dice nulla.

«Grazie. Adesso vado, i miei amici mi stanno aspettando», dico con calma non voglio disturbarli.

«Aspetta. Aspetta. Bruno prendi il cellulare, fai qualche foto a Elena. Sarà un bel ricordo», dice Tess dando una spallata a papà per smuoverlo.

«Va bene», grugnisce papà.

Per un secondo i nostri sguardi si incastrano.

Decimi.

Parti di un attimo.

Poi il cellulare si mette tra di noi.

 

Scatto.

Scatto.

Scatto.

 

«Adesso fatene una insieme». Tess spinge a forza papà verso di me. È chiaro che non ha minimamente voglia di farsi fare la foto.

Imbarazzata mi metto di fianco a lui accennando un sorriso forzato. 

 

Scatto.

Scatto.

Scatto.

 

«Che bella che sei. Vero Bruno? Vero che Elena è bella?», dice Tess cercando di mettere un po' di allegria vista la tensione palpabile nella stanza.

Papà alza le spalle indifferente poi si mette seduto a tavola a mangiare la sua fetta di pizza.

 

Sento il gelo dentro.

Non mi viene neanche da piangere.

 

«Grazie per le foto, adesso vado, i miei amici mi aspettano», dico trattenendo il magone.

«No. No. Dai. È tradizione che il cavaliere venga a casa a prendere la ragazza. Fai salire il tuo accompagnatore, vi faccio altre foto. Vieni qui con noi». Tess sposta una sedia del tavolo invitandomi a sedermi con loro.

«Sai che tuo padre ha avuto un grosso lavoro? La casa editrice è stata così contenta della traduzione della serie precedente che gli ha commissionato un nuovo ingaggio. Meraviglioso, no? Dai Elena siediti. Raccontaci un po' come ti vanno le cose», dice Tess con il sorriso sulle labbra cercando in tutti i modi di coinvolgermi.

«Solite cose. Scuola, studio. Niente di che», le rispondo sempre restando in piedi sulla soglia della cucina.

«Ma no, dai. Dimmi, racconta. Kate allora è a New York? E tu hai saputo niente da Yale, ti hanno ammessa?», mi chiede.

«No. Non lo so, la lettera non è ancora arrivata», mento.

«Vedrai che arriverà prest...», ma viene interrotta.

 

Il campanello suona.

È James.

 

Papà non smette di mangiare la pizza, mi mostra le spalle. 

Non voglio forzarlo, non voglio obbligarlo ad essere felice per me come lui non può farlo con me. Lui ha scelto la sua vita, io la mia. Tra pochi mesi sarò fuori dai piedi, non potrei fargli regalo migliore.

Saluto Tess con un cenno della testa senza aspettare risposta. Non mi fermo neanche sentendo la voce della donna chiamarmi. Vado dritta per la mia strada, non ho intenzione di tornare indietro. 

 

I tacchi risuonano sui gradini che mi portano fuori da casa.

Il ticchettio è l'unica cosa che sento.

Sono stanca di analizzarmi, cercare le crepe nella mia anima. Non voglio più sovraccaricare le mie emozioni, voglio solo pace e un nuovo inizio.

 

James mi aspetta davanti al portone con un fiore in mano, appena mi vede me lo porge con un sorriso.

La luce riflessa nei suoi occhi, il suo volto, ogni ciocca dei suoi capelli è l'unico rifugio che voglio, l'unica cosa che mi può far star bene.

«Sei uno schianto», mi dice mentre mi bacia la mano.

«Anche tu non sei male», gli dico accennando un sorriso.

«Che succede, sembri strana. Hai litigato con tuo padre?». James ed io stiamo camminando verso una Rolls Royce, è quella di Geltrude. Michael, l'autista, ci apre lo sportello con un inchino affettato.

«Signorina, sulla macchina troverà una selezione dei suoi cioccolatini preferiti. Un regalo della Signora per il suo diploma e ammissione a Yale», dice l'uomo con voce seria  schiacciandomi però l'occhio complice.

«La ringrazi da parte mia», gli rispondo.

«Sarà fatto». Michael chiude lo sportello alle nostre spalle, James ed io siamo seduti uno di fianco all'altro pronti per andare alla festa della scuola.

 

Già.

Sono felice, era quello che desideravo.

Però.

Mi sento così stanca e sfinita.

 

«Allora, svuota il sacco», James mi prende la mano.

«Ho un po' di pensieri, un po' di tristezza», gli dico con tutta la sincerità che ho in corpo.

«Per tuo padre. Racconta, dimmi cosa è successo».

«Niente, non mi rivolge la parola. Lo stesso Kate, non vuole avere più niente a che fare con me». Gli occhi mi si riempiono di lacrime, sembra stiano per esplodere.

«Kate? Che è successo? Perché non mi hai detto che avete litigato?». James mi porge un fazzoletto di carta.

«Ho fatto una cosa tremenda. Ho dimenticato il suo colloquio a New York, non l'ho accompagnata. Mi odia, crede l'abbia fatto apposta». Mi tremano le braccia, mi trema anche l'anima. Sento le barriere costruite per tanto tempo fondersi e sbriciolarsi. Non ne posso più di trattenere ciò che provo.

«New York? Me ne sono dimenticato anch'io. Merda. Scusa è che avevo così tante cose da fare che non ho pensato a Kate», dice a James con foga.

«Tranquillo. Non è colpa tua. Io ho sbagliato e io ne pago le conseguenze. Come per papà, l'ho allontanato da me. Gli ho impedito di vivere la sua vita come voleva. Il fatto che mi ignori è quello che mi spetta», gli dico mentre lo accarezzo sul volto. È così dolce che non posso credere che sia lì per me.

James mi bacia sulla guancia poi con il fazzoletto mi pulisce i residui di lacrime che ho sul volto. Mi sistema un paio di ciocche che mi cadono davanti agli occhi sfiorando il naso e le centinaia di lentiggini che lo ricoprono.

«Ci sono io per te. Capito? Sempre. Adesso che abbiamo Yale possiamo conquistare tutto quello che vogliamo». Le labbra di James sfiorano delicatamente le mie.

 

L'auto si ferma.

Michael apre lo sportello nero che divide lo spazio guida da quello passeggero:«Stasera niente traffico, siamo arrivati presto. Parcheggerò nella zona apposita, in qualsiasi momento vogliate potete trovarmi lì».

 

James ed io scendiamo dalla macchina iniziando ad incamminarci per il vialetto che porta alla scuola mentre la Rolls Royce si allontana.

Mi avvinghio al braccio del mio cavaliere stringendo forte, nonostante tutto quello successo nell'ultimo periodo mi sento fiduciosa che le cose possano migliorare.

 

Osservo James camminare fiero, forte e sicuro. Mi sento bene con lui accanto.

«Lucas e gli altri ci aspettano fuori dal Teatro Scolastico, così entriamo tutti insieme alla festa. Inoltre stasera potresti essere eletta reginetta... come ti senti? Emozionata?», mi chiede divertito.

«Sì. Cioè. Insomma. Non so», blatero confusa.

James si ferma di colpo, mi prende per le spalle fissandomi dritta negli occhi:«Adesso basta. Voglio che tu sia sincera. Dimmi che cavolo ti passa per la testa, sembri un'altra. Capisco Kate. Capisco tuo padre. Capisco tutto, ma credo ci sua altro che tu mi debba dire o mi sbaglio?».

 

Trattengo il fiato.

Il cuore martella nel petto.

Non credevo che avrei avuto timore ad essere sincera con lui.

Non credevo avrei avuto paura a dirgli tutti i miei segreti.

 

«Devo dirti due cose. Cioè dirti una cosa e dartene un'altra. Ho paura che tu possa fraintendere o arrabbiarti». Ho la faccia rossa e la testa bassa, non ho il coraggio di guardarlo in faccia, ma è ora di fare i conti con la realtà dei fatti.

«Ok. Bene. Prima dimmi quel che devi dirmi. Un passo alla volta, ok? Prometto di non arrabbiarmi», James cerca di incrociare il suo sguardo al mio, ma i miei occhi sfuggono.

«Diciamo che... ecco... il professor Martin ed io avevamo un rapporto particolare, andava oltre a quello professore e alunna, noi...», ma vengo interrotta.

«In-in che senso avevate? Non lo avete più. Cioè tu e il professor a Martin avete...».

«No. No. Non c'è mai stato nulla tra noi. Ecco, per esempio Nik ha portato il rettore alla festa degli ex studenti per me, per farmelo conoscere. Solo per me. Per farmi un regalo. Io però ho portato tutti voi a conoscerlo, non credevo fosse giusto andarci da sola. Nik si è arrabbiato molto, mi ha detto chiaramente che mi odia. Noi due eravamo... ecco... amici, ma adesso non lo siamo più. Per questo mi sento triste, ho perso una persona importante, un confidente. È come se avessi deluso uno della famiglia». Ho gli occhi chiusi, mi aspetto le urla di gelosia di James da un momento all'altro.

«Quindi. Quindi. Fammi capire bene. Tu eri la cocca del professor a Martin e adesso non lo sei più?», mi chiede nervoso.

«Sì, credo possa essere riassunta così, ma...», gli dico con voce tremante.

«Bene. Bene. Cos'altro devi dirmi? Che in verità sei un alieno travestito da Elena o che ti hanno fatto il trapianto del cervello. Come ti salta in mente di perdere un'amicizia così importante? Prima Tuo padre. Poi Kate. Ma il professor Martin... lui... come cavolo hai fatto? Credo sia impossibile fare quello che fai fatto tu. Lui è... lui è...». James cammina avanti e indietro come fosse un animale in gabbia.

«M-Mi dispiace. Non credevo te la prendessi tanto», dico tra le lacrime confusa e spaesata dalla sua reazione.

James non sta fermo, scalcia e sbuffa:«Sto calmo. Te l'ho promesso. Devo solo tranquillizzarmi un attimo...». James respira a pieni polmoni cercando di rallentare il ritmo. «Cos'è la cosa che devi darmi? Quella cosa ti cui parlavi prima», mi chiede secco mentre mi osserva con le mani sui fianchi.

«Io... io...», mi accorgo che non ho la giacca e la borsa di cartone con me. L'ho lasciata nella Rolls Royce.

«Allora?», mi chiede spiccio, impaziente.

«L-l'ho lasciata in macchina. D-devo andare a p-prenderla», balbetto confusa.

«Vai. Vai a prenderla. Non ho voglia di stare qui tutta la sera. Sbrigati, io vado dentro con gli altri davanti al Teatro. Schiarisciti le idee e quando sarai calma raggiungici, niente piagnistei». James si volta lasciandomi davanti all'ingresso della scuola da sola.

 

Ma che succede?

Cosa gli ho fatto?

 

Con le lacrime che scivolano sulle guance corro a perdifiato nel parcheggio, i muscoli mi fanno male, le ginocchia sopportano la corsa a fatica. Decine di auto lussuose sono parcheggiate una di fianco all'altra. Sono tutte nere, molto simili. Non riesco a distinguere quella della Signora McArthur.

Intravedo un gruppo di uomini che fumano vicino ad un lampione, chiacchierano tranquillamente tra di loro.

Li raggiungo.

Riconosco subito Michael:«Ho bisogno della macchina. Ho-ho dimenticato una cosa», urlo disperata all'uomo.

«Certo Signorina. Venga, l'accompagno io», mi dice Michael prendendomi a braccetto.

Insieme raggiungiamo una Rolls Royce poco lontano. L'autista apre la portiera posteriore porgendomi la giacca e la busta appoggiati sul sedile posteriore. «Cercava questi?».

«Sì. Mi hai salvata», gli dico con la voce tremante.

Michael mi guarda preoccupato:«Questo è il mio bigliettino da visita. Se ha bisogno della macchina o di qualsiasi cosa mi chiami. Capito?».

Prendo il bigliettino e lo butto distrattamente nella borsa di cartone di fianco alla busta di Demetra. Scappo, corro via senza neanche rispondergli. Devo raggiungere James il prima possibile. Devo dargli la lettera di sua madre prima che sia troppo tardi.

Corro come una furia inciampando nei tacchi. Le gambe sono affaticate e pesanti. Anche se ho corso per poco ho bruciato tutte le energie per andare più velocemente possibile. La bocca è asciutta e parte dei capelli sono crollati, non ho più un'acconciatura. Il respiro è così rapido che sono costretta a fermarmi, non posso fare un passo in più, potrei svenire.

Appoggiata a un gradino dell'ingresso della scuola, con la testa tra le gambe, cerco di calmare il respiro e l'ansia che pervade ogni cellula del mio corpo.

 

Respira.

Inspira.

Calma.

 

Rumori di passi.

 

Respira.

Inspira.

Calma.

 

Rumori di passi.

 

Respira.

Inspira.

Calma.

 

Qualcuno è vicino a me.

Non ho voglia di alzarmi, non ho voglia di guardare, sono uno straccio.

 

«A mia sorella piace quando le faccio la treccia». Una mano sfiora i miei capelli togliendo una ad una le forcine incastrate. «Dice che sono l'unico in grado di farla come piace a lei». I capelli mi cadono sulla schiena selvaggi e arruffati. «Credo che il segreto sia la delicatezza e il vigore. Non si possono lasciare andare, bisogna usare la forza». Una mano tira con una certa energia i miei capelli all'indietro facendomi alzare la testa per forza.

 

Conosco quella voce.

Non posso sbagliarmi.

 

«Mia sorella apprezza gli sforzi che faccio per lei, sempre. Soprattutto il fatto che sia sempre sincero». Due mani iniziano ad intrecciarmi i capelli per poi arrotolare e bloccare il tutto dietro la nuca. «Mia sorella dice che sono proprio bravo». La voce mi arriva sussurrata in un orecchio, maliziosa e divertita allo stesso tempo.

«Tu non hai una sorella. Cosa sei venuto a fare?», ringhio mentre mi alzo di scatto.

 

Non credevo l'avrei più rivisto.

Non credevo avrebbe avuto il coraggio di rivolgermi ancora la parola.

Andrew.

Andrew è di fronte a me.

 

«Sono venuto a vedere chi sarà la prossima reginetta qui al Trinity. Nella mia scuola gareggiano due ragazze insignificanti, ho pensato sarebbe stato più divertente venire qui», dice con tranquillità.

«Vattene prima che ti vedano. Rischi grosso». Spingo Andrew lontano, non voglio che insudici la scuola con la sua presenza.

«Ah. Ti riferisci ai tuoi amici? Vedi, cara Elena, credo che per questa cosa ti sbagli di grosso. Ho una cosuccia che devo riconsegnare a Rebecca». Andrew estrae un astuccio che mi lancia addosso, la prendo al volo. Lo riconosco è l'astuccio porta trucchi di Rebecca, non va mai in giro senza. Come mai c'è l'ha lui?

«C-Che cosa significa?», chiedo confusa.

«Vuoi proprio saperlo? Ti chiedo solo di aver fiducia in me. Tra pochi minuti ti saranno chiare molte cose», dice diabolico.

«Ma cosa stai dicendo?», il cuore mi batte forte nel petto.

«La vita dalle nostre parti è una guerra, nulla è mai come sembra. Se mi seguirai capirai». Andrew sale saltellando i gradini dell'ingresso, in cima alle scale si ferma.

Aspetta me.

Aspetta che lo segua.

Con l'astuccio di Rebecca stretto in mano faccio il primo passo verso una verità che forse non voglio sapere.

 

 

... continua nel prossimo capitolo...

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Capitolo 53
*** IERI: Soffocare ***


IERI:
Soffocare





Seguo Andrew camminare a passo sicuro nei corridoi del Trinity tra gli altri studenti che ridono e scherzano tra di loro. Nessuno pare degnarci di attenzione, Andrew con la mano in tasca e il passo sicuro sembra proprio uno studente della scuola, io con il mio abito rosa mi mimetizzo tra decine di altri abiti svolazzanti e colorati.

Tra le mani stringo l'astuccio porta trucchi di Rebecca, lo stritolo. Sento con chiarezza i singoli pezzi al suo interno: rossetti, pennelli e ombretti. Non ho idea come faccia ad averlo lui, ma la cosa mi preoccupa molto.

 

E se avesse costretto Rebecca a fare qualcosa di brutto?

Riguarda la storia della reginetta di fine anno?

 

Il corridoio della scuola mi sembra infinito, un po' per l'incedere lento di Andrew un po' perché il tempo e lo spazio hanno preso una strana curva. I pensieri corrono veloci, le ipotesi si sprecano. Andrew non fa mai nulla senza avere un guadagno, non riesco a capire come mai sia qui con me, proprio oggi.

Il mio incubo peggiore è che stia ricattando Rebecca in maniera orribile, obbligandola a fare cose tremende. Probabilmente spera che io, pur di vincere la corona di reginetta, sia risposta a tradirla e umiliarla davanti a tutti. Potrebbe avere foto compromettenti o video imbarazzanti. Qualsiasi cosa abbia in mente quel mostro di Andrew non ho la minima intenzione di ascoltarlo.

 

«Fermo», gli dico bloccandolo per una spalla, «Non mi muovo finché non mi dici cosa succede. Perché hai questo astuccio? Stai ricattando Rebecca?».

«Come posso dirti... hmmm... No. Se ti dicessi così non mi crederesti. Se invece provassi a spiegartelo in questo modo, forse... No. No. Non crederesti neppure a questo», dice Andrew ironico.

«Se invece smettessi di fare l'idiota e mi trattassi con rispetto?». Il mio muso è a pochi centimetri dal suo, il mio tono è duro.

«Sai dolcezza, mi eccitano le maniere forti». Andrew si lecca le labbra maliziosamente.

Senza pensarci lo spingo lontano da me con forza:«Sei un porco schifoso, un maniaco. Vattene. Non mi interessano le tue bugie».

Andrew mi si para davanti con le mani alzate, ha un ghigno dipinto sul volto:«Ok, dolcezza. Stai calma. Qualsiasi cosa ti dovessi dire non mi crederesti, credo sia il caso che tu senta dalla diretta interessata come stanno le cose. Credo che in un certo senso ti riguardino».

«Cosa stai blaterando? Parli come se dovessi comprendere ciò che dici. Sai vendere solo fumo, sei un bluff». Non ho voglia di mettermi ad ascoltare quel maniaco. Mi allontano senza degnarlo di uno sguardo, vado a passi decisi verso il Teatro della scuola.

«Se ti dicessi che la gara di dibattito di quest'anno è stata una grande messa in scena. Tu cosa diresti?», mi urla Andrew.

 

Stop.

Cosa?

Cosa ha appena detto quel pazzo?

 

Come una furia lo raggiungo roteando un pugno minacciosamente:«Sei un bugiardo. Vuoi mettere zizzania tra me e i miei amici solo perché ti abbiamo incastrato mesi fa».

«Quella storia? Hmm... me ne sono già dimenticato. Nulla di importante. Ho giocato ad un gioco più divertente in tutto questo tempo. Rebecca mi ha raccontato molte cose, è stato uno spasso stare ad ascoltarla». Andrew prende dalle mie mani l'astuccio porta trucchi facendolo sobbalzare divertito.

«Io. Ti. Strozzo». Le vene sul mio collo stanno esplodendo.

«Facciamo così. Se tu fai una cosa per me io ne faccio un'altra per te. Alla fine entrambi avremo ciò che vogliamo. Se mi sbaglio potrai linciarmi, se invece ti sbagli tu... beh... vuol dire che io sono nel giusto. Mi basta questo per essere soddisfatto», mi dice ad un orecchio.

«Va bene. Ok. Facciamola finita. Dimmi cosa vuoi ed io, se mi va, lo farò. Se però si tratta di un trucco nei miei confronti o dei miei amici, io ti picchio. Sappi che ti riempio di calci e non sarò la sola». Non ho mai alzato le mani in vita mia, ma con lui lo farei davvero.

«Perfetto. Ci sto», Andrew mi stringe la mano, «Dolcezza, prendi il tuo telefonino e scrivi un messaggio a James. Digli che vuoi prendere una boccata d'aria, che sei turbata, che vuoi raccogliere funghi. Non mi interessa. Devi fargli capire che non lo raggiungerai presto. Ho visto che avete litigato poco fa. Fai in modo che creda che tu stia lontana dalla scuola per un po'».

Lo guardo con aria interrogativa.

«Fallo e basta», mi dice secco.

Infastidita prendo il cellulare:«E questo cosa dovrebbe dimostrare?».

«Dolcezza dammi un po' di fiducia, dopo mi ringrazierai», mi dice Andrew mieloso mettendomi un braccio intorno al collo.

Con un gesto brusco lo allontano.

 

L'unico modo per liberarmi di lui è dargli retta.

Non ho nessun problema a ragionare di testa mia.

Voglio solo capire perché ha l'astuccio di Rebecca.

 

Prendo il cellulare e digito il testo per James: -Ho lasciato a casa mia la cosa che ti dovevo dare. Michael mi accompagna a prenderla. Tra venti minuti sono a scuola. Baci-

Faccio leggere il messaggio ad Andrew.

«Perfetto. Ora seguimi, tieni la bocca chiusa e le orecchie aperte. Non intrometterti, ok? Mai. Se vuoi capire perché ho questo astuccio devi ascoltare fino alla fine. Vedrai che sorpresa». Andrew si sfrega le mani divertito.

 

Alzando gli occhi al cielo lo seguo. 

Detesto Andrew, è completamente pazzo, fastidioso e irritante, eppure il fatto che possegga un oggetto così caro a Rebecca mi fa pensare. Nonostante mi abbia detto di stare buona, non credo che starò zitta se dirà menzogne nei miei riguardi o se cercherà di infangare il nome di Rebecca. Sono pronta a tutto, del resto tipi come lui bisogna affrontarli direttamente, non ci sono alternative.

 

Andrew segue il flusso di studenti che stanno andando verso la festa, per qualche minuto ci confondiamo con gli altri ragazzi. Sono nervosa, ho gli occhi ben aperti. Non ho intenzione di combinare un disastro come l'altra volta.

Ad un certo punto Andrew svolta, si dirige verso il Teatro prendendo la strada a sinistra.

«Togliti i tacchi. Stammi dietro uno o due metri. Se ti faccio cenno di aspettare tu ubbidisci, mettiti dietro l'angolo ad origliare», mi dice a bassa voce.

«Cosa? Mi sporcherò i piedi e poi non voglio origliare», gli urlo in faccia.

Andrew mi mette una mano sulla bocca poi con l'indice sulle sue labbra mi fa segno di stare zitta:«Hai detto a James che saresti arrivata più tardi, se ti sentisse cosa potrebbe pensare?».

Faccio quello che mi dice anche se mi da fastidio. Su un braccio tengo la giacca e la borsa di cartone, dall'altra i miei sandali dorati.

 

Che situazione.

Se mi sta prendendo in giro lo strozzo.

 

Andrew cammina sicuro, io sono poco lontana da lui.

Gira l'angolo, lì dietro c'è l'ingresso del Teatro Scolastico.

Allunga la mano verso di me, vuole che mi fermi.

Faccio quello che mi dice, mi apposto dietro l'angolo. Sono curiosa di vedere come accoglieranno quel farabutto, mi farò di certo quattro risate.

Aspetto.

Ascolto.

 

«Ciao ragazzi, bella la vostra festa. Da noi è uno strazio. Sono venuto per portare questo a Rebecca. Dov'è quella lagna di Elena?», chiede Andrew con arroganza.

 

3

2

1

Ecco che lo prendono a calci nel sedere.

 

«Vieni pure. La feccia è tornata a casa per prendere un regalino da dare al suo amato James. Grazie, mi servivano i trucchi», dice Rebecca.

«Hei, non chiamarla feccia», ribatte Jo.

«Scusa, non credevo tenessi a lei visto quello che le hai fatto», dice acida Rebecca.

«Elena arriverà tra quindici minuti circa. Cosa vuoi? Perché sei qui? Non è prudente farti vedere con noi», dice James.

«Volevo solo congratularmi. Il vostro piano è andato alla perfezione, così bene che neanche io avrei creduto avrebbe funzionato. C'è da dire che Elena è facile da modellare a proprio piacimento, ma non pensavo potesse filare tutto liscio. Soprattutto dopo l'ingresso di nuovi cospiratori. Vero Stephanie?».

 

Piano?

Quale piano?

Che cavolo sta dicendo Andrew?

Perché non lo mandano a quel paese?

Appiccicata alla parete, sul filo dello spigolo ascolto quello che dicono, sono ipnotizzata.

 

«Smettila di essere così viscido. Yale è importante per tutti, l'ho fatto solo per quello. Tutti noi l'abbiamo fatto per quello. Elena è una brava ragazza e...», Stephanie viene interrotta da Rebecca.

«Quella stupida non ha capito nulla. Nulla. È talmente oca che neanche se lo avesse saputo avrebbe capito cosa stava succedendo. È talmente abbagliata dai suoi ormoni che farebbe di tutto per un bacio di James». Rebecca ride, così fanno anche altri, ma non capisco chi sono perché le voci sono confuse.

 

Il cuore mi martella nel petto.

Sono impietrita, non capisco che cosa stia succedendo. Tutto ciò che ho creduto per mesi, tutto ciò che mi ha tenuta a galla è una menzogna, un piano per incastrarmi.

 

«Smettila Rebecca», dice Jo.

«Senti carino, ci hai provato per mesi con lei quest'estate, ma non ti ha filato di striscio. Ci hai suggerito tu che l'attrazione per James fosse l'unico modo per poterla manovrare», replica Rebecca.

«Quindi è stata tua l'idea di usare la piccola e ingenua Elena?», chiede Andrew.

«Sì. Cioè, no. Dopo che James e Lucas mi hanno detto che... che...», Jo tentenna.

«Guarda che puoi dirlo, lo sa anche lui. Dopo che io e James abbiamo visto Elena baciare il professor Martin nel magazzino del Teatro del parco Franklin abbiamo capito che Elena non era ciò che diceva. Quei due credevano che fossimo usciti, invece eravamo lì ad origliare. Chi l'avrebbe mai detto cheElena era facile», spiega Lucas annoiato.

«Deve essere stata dura vederla sbaciucchiarsi con un professore?», dice Andrew malizioso.

Qualcuno prende a pugni un armadietto:«Non me ne frega nulla di quella. Capito? È stato uno strazio stare con lei per tutto questo tempo. È una bugiarda, mi ha mentito su tante di quelle cose che... che... la odio, la odio dal profondo del cuore. Prima mia madre, poi il professor Martin. Sai cosa ha avuto il coraggio di dirmi poco fa? Mi ha detto che lei è Nik non sono più amici e ne soffre. Ha avuto il coraggio di lagnarsi con me. Ma che cavolo. Lei ci serviva per manovrare il professor Martin e avere privilegi a Yale e adesso rovina tutto in questo modo. Sono imbestialito», le parole di James arrivano alle mie orecchie come pugnalate.

 

Il mio corpo è immobile. Non sono sicura di aver capito, non sono certa che quelle siano l'esatte parole dette da James. Il mio James. Quello che quando mi abbraccia mi fa star bene, l'unico che mi capisca. Non può pensare quello che ha detto, non può essere veramente così.

No.

No.

 

«Come per il rettore. Non avreste mai potuto incontrarlo se non fosse stato per lei. Essendo la concubina del professor Martin aveva tanti privilegi», dice Andrew.

«Il piano era chiaro. Dopo aver capito che Elena poteva ottenere ciò che voleva dal Professore, dovevamo starle appiccicati per poter essere ammessi a Yale. Per questo abbiamo rotto le scatole con la lettera di presentazione per il colloquio, sapevamo che in qualche modo ci avrebbe aiutato. La storia del rettore è un puro caso che però a giocato a nostro favore», dice Adrian.

«Però voi siete dei bricconcelli belli e buoni, questa cosa mi ha stupito. Voi non volevate andare a Yale come tutti. Voi volevate essere le star, quelli che tutti avrebbero desiderato e ammirato. Essere i migliori amici della ragazza che viene presentata come futura promessa di Yale è un ottimo biglietto da visita», dice Andrew ridendo.

«Senza contare le foto. Il Boston Tribune ha fatto articoli su articoli sulla dolce e geniale ragazza italiana. Articoli e pubblicità che a noi fanno comodo visto che siamo sulle foto con lei. Purtroppo provenire dalle migliori famiglie di New Heaven ultimamente non basta più. C'è tanta di quella feccia in giro», dice Rebecca.

«Jo non abbassare la testa, non hai fatto nulla di male. Hai ottenuto ciò che volevi. Sei a Yale. Sei conosciuto. Tutto va come hai sempre voluto», dice Andrew.

 

La bocca è asciutta è come se il sangue non mi scorresse più nelle vene, come se i miei sensi fossero diventati muti, svuotati, rinsecchiti. Mi scorrono nella testa i mesi passati, le gentilezze che mi hanno fatto, gli aiuti che ci siamo dati l'uno con l'altro. Mi scivolano, tra un pensiero e l'altro, le parole di tutti loro. Risaltano come una macchia di inchiostro nero su una camicia bianca. Farei di tutto per Yale. Sono disposta a mentire per Yale. Dobbiamo pensare solo a Yale. Tutti loro me l'hanno detto. Tutti loro hanno macchinato questa cosa per sfruttarmi, per fare in modo che il loro ingresso al college fosse trionfale. 

 

«C'è da dire che le cose sono andate meglio di quanto sperassimo. Dopo il bacio con il Professor Martin abbiamo fatto di tutto per usarla. È un comodo paravento», dice Lucas.

«Sì, lo so. Mi sono divertita a manovrarla per incastrarvi al Masques. È uno spasso giocare con Elena. Io, del resto, ho fatto come mi avere detto. Sono stato buono con lei. Avrei potuto perseguitarla in qualsiasi modo in questi mesi, eppure non le ho fatto nulla. Il mio prezzo lo conoscete», dice Andrew.

«Stai tranquillo, non ci dimenticheremo di te. Dopo l'aiuto che ci hai dato alla gara di dibattito, ricattando il tuo professore e il giudice Smithson, sei uno dei nostri. Elena non poteva stare zitta era ovvio che sì sarebbe messa in mostra è così prevedibile. Abbiamo dato altra pubblicità a Elena e la sfrutteremo a nostro vantaggio. Tranquillo, sarai tra l'élite di Yale insieme a noi», dice James.

«È stato un piacere carissimo. Del resto le scaramucce tra Trinity e Saint Jude sono cose ridicole. Adesso dobbiamo stare uniti per conquistare vette più alte. Solo una cosa, come pensi di trattenere Elena? Mi hai appena detto che ha litigato con il Professor Martin, che farai?», chiede Andrew.

«Cercherò di far capire a Elena che deve ascoltarmi e chiedere scusa. In questo modo lo avrà in pugno e noi avremo lei. Purtroppo il professor Martin è indifferente alla provenienza delle nostre famiglie, è un idealista, crede nel merito», dice James ridendo.

«Un giorno o l'altro devi dirmi il segreto con cui riesci a manovrarla, anche se credo di capire come hai fatto. Le feste in California la scorsa estate ti hanno insegnato molto». Andrew ha una voce maliziosa.

«Niente sesso, mai. Il desiderio è l'arma più potente. L'ho illusa che ci saremmo amati, l'ho illusa che saremmo stati insieme. Qualche bacio e qualche abbraccio. Basta questo con Elena, la promessa di un affetto», dice James acido.

 

Non può essere vero. James sta dicendo che non siamo stati insieme, che non ci siamo amati. Le sue parole, i suoi gesti erano sinceri. Come poteva fingere quando mi baciava? Come poteva fingere quando mi ha amata? Non può essere vero. No. È uno stupido scherzo, una messinscena. Il suo corpo, come mi accarezzava, i suoi occhi. No. No.no.

 

«Vuoi farmi credere che non hai mai fatto sesso con lei negli ultimi mesi? Non ci credo. Del resto un tempo ti piaceva», dice Andrew.

«Figuriamoci. Quella non è capace di fare nulla. L'ho tenuta buona con qualche bacetto, non mi interessa sotto quell'aspetto, ma l'hai vista?», dice James con malignità.

«A me non sembra male, anzi...», dice Andrew.

«James ha ottimi gusti. Non starebbe con una così. Ha sbagliato una volta, non è così scemo da ricascarci. Quella feccia vuole solo affetto, amore e coccole. Non ha madre. Ha un padre assente. Un'amica che non le rivolge più la parola. La mossa di rubare il caricatore del telefono è stata una mossa geniale di James, un tocco da maestro», dice Rebecca.

«Ma no, dai?», Andrew pare stupito.

«La fortuna ha voluto che il padre di Elena non fosse a New Heaven. Sono riuscita A tenerla in casa con la scusa dei brutti pensieri per la morte di mia madre, le ho raccontato delle bugie, una marea di lagne. Cose che a lei piacciono tanto... Che ingenua, in questo modo le ho fatto perdere Kate. Non ha più nessuno, ha solo me. Posso manovrarla come voglio, è la mia marionetta. Nel momento che mi stancherò di lei, la scaricherò come un rifiuto», dice James.

 

No. No. Mi sento morire. Sono un oggetto nelle mani del ragazzo che amo, sono solo una scusa per avere successo. No. No. Non avrei mai potuto pensare che la mia storia d'amore potesse trasformarsi in una farsa. I miei ultimi due anni di vita sono stati una macchinazione, un incubo. Niente è stato reale, niente ha avuto senso. Le emozioni provate sono frutto di bugie, amici nascosti dietro a maschere hanno costruito una verità che mi faceva comodo, mi sono lasciata abbindolare come una stupida.

No. No.

 

«Non c'è che dire, un piano impeccabile. Ops... credo di dover andare, non vorrei mai che Elena mi vedesse, chissà cosa potrebbe pensare. A proposito chi sarà eletta reginetta?», chiede Andrew.

«E me lo chiedi? Elena, ovviamente. Mi vedo già i titoli del Boston Tribune e le foto di noi due abbracciate come ottime amiche. Tutto già organizzato, le mie tirapiedi hanno sostituito le schede della votazione». Rebecca ride sguaiatamente.

«A presto colleghi. Yale ci aspetta», dice Andrew.

Tutti lo salutano in coro.

 

Le punte dei miei piedi sono ghiacciate, non ho il coraggio di smuoverli, ho paura possano sbriciolarsi come il mio cuore. Mi sento un pezzo di carne inutile, mi manca l'aria. Vorrei sbraitare, urlare tutto il disprezzo che provo, ma adesso il dolore che sento mi paralizza.

Andrew è di fronte a me.

Con delicatezza mi prende per un braccio facendomi allontanare, cerca di fare meno rumore possibile perché credo non voglia far sapere a James e agli altri che sono lì. Facciamo una decina di metri, poi curviamo. Ci troviamo di fronte all'ingresso della festa, la porta spalancata mostra coppie danzanti, vestiti eleganti e facce sorridenti.

Io non ho espressione.

Fisso il vuoto.

 

Andrew mi sfiora le guance con il dorso della mano:«Sono stati cattivi i tuoi amici. Te lo avevo detto che non mi avresti creduto. Sono stato costretto a fare quel che ho fatto. Loro volevano usarti per il loro scopi». Le labbra di Andrew si appoggiano alle mie dando piccoli morsi molto lentamente. «Puoi fargliela pagare. Puoi diventare la regina di Yale. Io posso aiutarti, li conosco come le mie tasche, noi due potremo fare ciò che vogliamo». Sento il corpo di Andrew appoggiato al mio, le sue mani sfiorano la mia vita e le sue labbra baciano il mio collo.

 

Elena controllo.

Elena controllo.

 

«Vai alla festa, tra poco sarò eletta reginetta, non voglio che tu ti perda questa cosa. Ho solo bisogno di una boccata d'aria, tra un attimo ti raggiungo», gli sussurro in un orecchio.

Andrew mi guarda soddisfatto, mi schiaccia l'occhio poi se va verso la sala addobbata a festa tra studentesse con abiti svolazzanti e facce felici.

 

Io crollo.

Tutto crolla.

Il mondo sta perdendo pezzi. 

A ogni mio passo verso il portone d'ingresso la realtà di sgretola. È come se miliardi di mattoncini si staccassero dagli oggetti per fluttuare nel nulla: gli armadietti, i pavimenti, il soffitto, le scale svaniscono al mio passaggio. Ogni mio movimento è distruzione, il mondo che conoscevo non esiste più. Nulla esiste più. Tra poco tutto sparirà, tra poco io sparirò. 

Sto per soffocare.

Devo scappare.

Devo andarmene.

Non posso restare un secondo più lì dentro.

Soffoco.

Soffoco.

Il mio cuore ha smesso di amare, per sempre.

 

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Questo è l'ultimo capitolo. Il prossimo sarà l'epilogo

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Capitolo 54
*** Epilogo: (IERI) Questa sedia è fredda ***


EPILOGO
(IERI):
Questa sedia è fredda


 

Questa sedia è fredda. Il mio vestito di seta non riesce a ripararmi dalla plastica della seduta. Non so bene che ore siano, so solo che devo avere solo un po' di pazienza prima di poter tirare un sospiro di sollievo.

 

Non posso fare a meno di pensare a tutte le scelte d'amore che ho fatto. Ho seguito il mio istinto, credo, non ho mentito a me stessa, forse. Possibile che tutto ciò che ho sentito nel mio cuore fosse frutto di menzogna? Si può fingere di amare?

Io, no.

James, sì.

Le parole di James sono come incise nella carne, ogni insulto, ogni cattiveria è marchiata a fuoco sulla mia pelle. Un giorno forse saranno cicatrici, ora sono ferite aperte.

In questi due anni ho lottato e sbagliato, ho riso e pianto. Mai con cattiveria, forse a volte ho esagerato pure io, ma mai troppo a lungo. Sono stata male per quello che ho fatto e ne ho pagato le conseguenze.

 

Uno spiffero d'aria gelata arriva da dietro, qualcuno ha aperto una finestra. Tremo. Il mio vestito rosa non basta a ripararmi dal freddo. Mi stringo le braccia una con all'altra, muovendo le gambe su e giù provo a riscaldarmi. Faccio finta di nulla, non voglio che la gente intorno a me pensi che io stia male, non voglio far sapere più nulla di me. 

 

Già. Quando ho aperto il mio cuore ho avuto solo guai, anche perché mi sono fidata di persone che non hanno fatto altro che sfruttare la mia ingenuità e le mie debolezze.

Jo. Jonathan da codardo si è accodato a quei... quei... non ho neanche le parole per descriverli. Il mio amico Jo, quello che mi ha consolata e appoggiata, che mi è stato vicino nei momenti duri. Non posso credere che abbia buttato via tutto solo per essere ammesso a Yale. Lui non aveva bisogno di me per essere un grande, lo era già di suo.

Menzogne, anche lui dice solo menzogne.

 

Una voce risuona. Tutti l'ascoltano.  C'è chi guarda a destra e sinistra, chi si affretta a raggiungere il posto giusto. Tutti sono in attesa come lo sono io. Si muovono, parlano è come se danzassero una marcia segreta, un movimento che mi incanta.

La gente intorno a me ha certezze.

Tutti sanno dove andare e cosa fare.

Io ho solo tanta stanchezza.

 

Mi sento sola, forse lo sono sempre stata. Mio padre ha Tess. Kate ha le sue fotografie. Nik il suo lavoro. James e gli altri le loro ambizioni. Ed io? 

Il ricordo delle carezze, degli abbracci e delle risate fatte, il pensiero delle emozioni condivise, i primi sguardi e le paure provate, sono come istantanee che scorrono nella mia testa. A volte sorrido pensando a quello che ho passato, bei momenti che però non sono veri. 

Ho vissuto in una bolla. 

Mi hanno costruito una bolla.

Ho voluto che mi costruissero una bolla.

È adesso è scoppiata lasciandomi nuda come un verme, con le mie emozioni violentate e la mia vita distrutta.

 

Questa sedia diventa sempre più fredda, provo a coprirmi meglio le gambe scoperte con il mio vestito rosa. È tutto sgualcito. 

Credo che dovrei essere felice, la gente intorno a me sembra così contenta. Sorridono e chiacchierano. C'è chi mi guarda e chi mi ignora. Non mi importa molto possono pensare ciò che vogliono.

Una voce risuona, ancora.

L'eco si sparge.

C'è frenesia.

A me non importa molto, voglio solo finire tutta questa storia e tirare un sospiro di sollievo. Voglio poter scrivere la parola fine, tutto qui.

 

E se mi fossi meritata quello che mi è successo?

Posso ritenermi colpevole?

Ogni mia azione ha scatenato una conseguenza che a sua volta a creato una reazione. È tutto collegato. 

Forse se non avessi risposto male a Rebecca in gelateria quel giorno che l'ho conosciuta le cose sarebbero andate diversamente.

Forse se non fossi entrata al Club di Dibattito le cose sarebbero andate diversamente.

Forse se non avessi baciato James  a  teatro le cose sarebbero andate diversamente.

Già.

Avrei risparmiato dolore, ansia, tristezza e sofferenza, ma non avrei mai conosciuto il dolce sapore delle sue labbra. Il solo pensiero mi fa affondare nella melma. Il ricordo di quella dolce e infinita perfezione mi fa soffocare.

Mi sentivo così bella e unica.

Credevo di essere come la neve in un giorno d'estate invece sono solo un miraggio che il caldo crea a chi si dimentica di essere sotto la canicola. Sono finzione.

Mi sentivo speciale, invece ero e sono solo un oggetto, un pezzo di carne da usare.

 

La voce rimbomba.

C'è chi corre.

C'è chi aspetta.

 

Volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 partirà dal Gate 23.

Volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 partirà dal Gate 23.

 

Sono in aeroporto.

Già.

Chi non sta correndo a prendere l'aereo mi guarda stranito, vedere una ragazza con un vestito rosa da ballo, con il trucco e i capelli sfatti non è certo una cosa usuale, soprattutto se se ne sta immobile seduta su una sedia di plastica della sala d'aspetto con due grosse valige e uno zaino. Me ne sono andata dalla festa del Trinity, non mi importa più nulla dei loro stupidi complotti.

Michael si sta avvicinando con un bicchiere di carta, probabilmente è il tè caldo che si è offerto di andarmi a prendere al bar. Se non fosse per lui starei vagando per le strade di New Heaven, mi ha fatto compagnia per tutta la notte, un amico silenzioso che mi ha salvato la vita, che ha avuto la pazienza di portarmi qui.  

 

«Lo beva caldo, vedrà che le farà bene. Mi sono permesso di prendere dei biscotti. Credo sia il caso di mangiare qualcosa, non crede?», mi dice l'uomo porgendomi un piattino colmo di delizie.

 

Peccato non abbia minimamente fame.

Zero.

Non riesco ad ingoiare nemmeno una briciola.

 

«Le dispiace se prendo una boccata d'aria?», mi chiede con estrema gentilezza.

«No, figurati. Anzi, se vuoi andare via sei libero. Non devi sentirti obbligato a restare posso cavarmela da sola», gli dico con candore e semplicità.

Michael fa un inchino poi si dirige verso l'uscita principale.

 

Stringo il tè. Brucia.

Soffio il vapore, l'aroma erbaceo si spande invadendo le narici.

Mi sembra di essere a casa a fare colazione, ma non è così.

 

«Se fossi in te starei attenta, cara ragazza. Potresti ustionarti». Una voce conosciuta viene dalla sedia di fianco alla mia.

È Geltrude. La vecchia è avvolta in una giacca di cotone pesante con i capelli acconciati male e dei pantaloni di una tuta.

«Non mi guardare in questo modo. Non ho avuto modo di rendermi presentabile. La notizia della tua fuga mi ha colto alla sprovvista», mi dice con un certa disapprovazione.

«Non volevo... non credevo», dico per giustificarmi.

«Sciocchezze. Non devi chiedere scusa di nulla. Michael ha fatto bene a stare con te. Ho chiesto a un mio domestico di portarmi qui a Boston, anche se avrei preferito avere un certo preavviso. Non potevi partire domani?», chiede acida.

Faccio cenno di no con la testa.

«Sicura che Yale non sia la strada giusta?», mi chiede mentre mi osserva il vestito stropicciato con un certo disgusto.

«Non ho mai voluto Yale», le dico sincera.

«Tuo padre lo hai avvisato, oppure no?».

«Ha dormito da Tess, non era in casa. Gli ho lasciato una lettera prima di fare i bagagli, ho preso lo stretto necessario, qualche vestito, il passaporto e i miei documenti. Ho diciotto anni, posso andarmene dove voglio». La sedia è fredda, un brivido mi parte dai piedi arrivando fino a dietro al collo.

«E di grazia dove vuoi andare?». Geltrude si guarda intorno con tranquillità come se quello che sta succedendo fosse la cosa più normale del mondo.

«Non so. Per ora vado a Parigi, poi vedrò», le dico.

«Un piano ben congegnato, perfetto. Non credi che...». La interrompo.

«Non credo niente. Non voglio programmare più nulla. Ho deciso, questa è la cosa più saggia, l'unica cosa che in questo momento possa farmi star bene». Sono categorica, non ho intenzione di cambiare idea.

La vecchia mi guarda con severità:«Quanti soldi hai?».

«Cosa? Ma che le importa quanti...».

«Cara ragazza, la mia domanda è semplice. Quanti soldi hai? Rifarsi una vita non è facile, tutto ha un prezzo», il suo tono è duro, secco.

«Sono in grado di lavorare, non ho paura della fatica», le rispondo con orgoglio.

«Ti rifaccio la domanda. Quanti soldi hai? Voglio una risposta», mi chiede.

Ci penso un attimo:«I soldi guadagnati in gelateria. Una parte almeno, gli altri li ho spesi per il biglietto aereo e altre cose». Ho la faccia rossa per l'imbarazzo, se ripenso che li usati per comprare borse e scarpe firmate, mi prenderei a schiaffi.

«Una miseria, quindi... ti farò un prestito. Soldi che mi ridarai con calma, poco alla volta. Niente interessi, solo una promessa», mi dice come se le sue parole fossero una sacrosanta verità, incontestabili.

«Io non ho intenzione di usare i suoi soldi, posso farcela da sola», le dico a muso duro.

«Se non credessi che puoi farcela da sola credi che ti lascerei andare? È perché ho estrema fiducia in te che ti presto i soldi. So che li userai solo in caso di necessità e che farai di tutto per ridarmeli, appena potrai», mi risponde a tono.

«Come fa ad essere così sicura? Per quanto ne so io... io... io non valgo nulla», le dico con gli occhi gonfi di lacrime.

«Finiscila di dire stupidaggini. Lo so e basta e poi ti terrò d'occhio. Il mio indirizzo lo conosci. Esigo delle lettere. Lunghe lettere. Mi devi scrivere spesso, mi devi raccontare ciò che fai. Ho una certa età, sono anziana, ma non sono una vecchia stupida, so se mi mentirai», mi dice decisa anche se mi pare di intravedere una lacrima scivolarle sulla guancia.

 

Volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 partirà dal Gate 23.

Volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 partirà dal Gate 23.

 

«Da domani avrai i soldi sul tuo conto, mi raccomando fanne buon uso. Adesso vattene prima che cambi idea». Geltrude mi porge lo zaino ai miei piedi, lo alza a fatica: «È pieno di mattoni? Come mai pesa così tanto?».

«È la cosa più preziosa che io possegga, una scatola di legno che contiene il mio più grande tesoro». Tremo. Piango. Non ho più freni, le mie guance sono umide di lacrime, sfiorano il mento per poi scivolare verso il pavimento. Una goccia dopo l'altra, singulto dopo singulto.

«Cara ragazza, questo non è un addio», mi dice la vecchia stringendomi la mano.

«Questo è un addio», le dico singhiozzando.

 

Volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 partirà dal Gate 23.

Volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 partirà dal Gate 23.

 

Mi allontano con lo zaino sulle spalle, due grosse valige e un vestito di seta rosa con bellissimi fiori di stoffa applicati sullo scollo, ormai appassiti. I sandali ticchettano sul pavimento liscio dell'aeroporto, le rotelle delle valige scivolano rumorosamente.

«Elena. Elena».

Le urla della vecchia rimasta vicino alle sedie di plastica mi arrivano forti, chiare.

«Mi dispiace. Mi dispiace che James ti abbia fatto del male. Io... Io...», mi urla ancora più forte.

 

I passeggeri del volo intercontinentale Boston-Parigi, numero 0195, delle 08.15 sono pregati di affrettarsi al Gate 23.

 

Con tutta l'eleganza che possiedo sollevo i lembi del mio vestito sgualcito, piego leggermente le ginocchia e abbasso la testa rispettosa. Delle ciocche di capelli mi cadono disordinatamente sulle spalle.

«Addio vecchia scorbutica», le urlo sorridendo.

«Addio Elena», mi urla dopo aver fatto un inchino nella mia direzione.

 

Il display luminoso indica che il mio aereo è pronto ad imbarcare.

Mi affretto, non voglio perderlo.

Sono pronta a lasciare questo mondo alle spalle e non tornare mai più.

Sono pronta a scrivere quella parola che mi darà il sollievo che desidero.

Sono pronta.

Sì.

È ora.

Questa è la fine.

 

FINE

 

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Capitolo 55
*** È ONLINE BACK FOR LOVE 3 ***


È online Back for love 3, andare a leggerlo!

Ciaooooo!
❤️

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