Black Widow: Forever Red

di Sandra Prensky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***
Capitolo 13: *** XIII. ***
Capitolo 14: *** XIV. ***
Capitolo 15: *** XV. ***
Capitolo 16: *** XVI. ***
Capitolo 17: *** XVII. ***
Capitolo 18: *** XVIII. ***
Capitolo 19: *** XIX. ***



Capitolo 1
*** I. ***


I.

 

My past is my own.

(Black Widow)

 

 

Somewhere in Siberia, Russia.

61°N, 99°E.

Thursday, 3rd December 2015

11.37am

 

 

Faceva freddo, persino per lei. Si concesse di muovere una mano per aggiustarsi il cappuccio bianco sulla testa. Era un buon modo per non mandare il braccio in ibernazione e in più non poteva certo permettersi di lasciare dei riccioli rossi scoperti. In mezzo alla neve sarebbero stati l’equivalente di urlare ai nemici per avvisarli della sua presenza. No, lei era stata addestrata meglio di così. Sdraiata immobile sulla neve di un piccolo rilievo di una valle lontana da ogni segno di civiltà, vestita totalmente di bianco per confondersi con il manto candido che copriva la terra, Natasha Romanoff era un predatore pronto a saltare sulla preda. O in questo caso, a spararle. Tutto sembrava tranquillo, tuttavia, i nemici del giorno tardavano a presentarsi. Odiava aspettare, perché le dava modo di pensare, e pensare non era un bel passatempo, non quando si aveva un passato come il suo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dimenticare tutto, per non essere costretta a rivedere ogni notte gli occhi vacui di chiunque avesse avuto la sfortuna di incrociare la sua strada, la Stanza Rossa e i suoi esperimenti. Da quando aveva lasciato lo SHIELD, anche quello portava solo brutti ricordi. Tutti si erano stupiti della sua improvvisa partenza: tutti meno May. Lei poteva capirla a fondo, sapeva cosa volesse dire non potersi sentire a casa da nessuna parte. Sapeva cosa volesse dire non poter essere felici. Lo stesso concetto di felicità sembrava non essere per lei... Era una maledizione, una costante della sua vita. Non era possibile per lei essere felice. Certo, per un breve periodo lo era stata, con Clint... O era ciò che mi dicevo.

Tutto d’un tratto, scorse un movimento a circa duecento metri da lei. Un uomo, vestito di nero, che correva. Era indubbiamente il suo obiettivo. Igor Vasnetsov, 45 anni, residente a Mosca. Una moglie, due figlie di dieci e sette anni, vita apparentemente tranquilla. Tutta una copertura per nascondere il suo lavoro nella Stanza Rossa. Lo S.H.I.E.L.D. pensava che non esistesse più, ma lei conosceva troppo bene il programma per crederci. La Stanza Rossa non poteva semplicemente smettere di esistere, era troppo radicata negli anni, la sua storia era impregnata di talmente tanto sangue da risultare impossibile da cancellare. Non biasimava certo lo S.H.I.E.L.D.. Non si poteva comprendere a fondo a meno che, come lei, non si fosse parte di essa. Lei, come molte, troppe, altre ragazze, era cresciuta nella Stanza Rossa. Le avevano insegnato a non avere un’altra casa se non quella, aveva dovuto giurare fedeltà a coloro che la avrebbero uccisa senza problemi. Lei come le altre sarebbero per sempre state legate alla Stanza Rossa, loro erano la Stanza Rossa.

Era cominciata dieci mesi prima, quando ancora lavorava allo S.H.I.E.L.D.. Erano arrivati all’ufficio di Fury dei fascicoli su una serie di omicidi, uno di quei casi che l’FBI rifilava sempre a loro perché non aveva voglia di occuparsene. Le circostanze degli accaduti erano simili tra loro, e qualche agente era stato mandato in Russia, luogo dei delitti, per accertarsi che fosse tutto nella norma. Nessuno di loro aveva mai fatto ritorno. Dal Triskelion erano partite le ricerche, erano stati contattati scienziati, i fascicoli avevano raggiunto i piani alti. C’era chi sosteneva che i colpevoli fossero dei dissidenti neo-staliniani, chi sosteneva che invece fossero agenti dell’HYDRA, chi sosteneva che fossero solo un gruppo di sicari che cercava di farsi una reputazione. Lei non avrebbe nemmeno dovuto vedere quei file, non aveva l’autorizzazione. Le era casualmente caduto l’occhio sopra durante una riunione con il direttore, e solo dalla quantità di “Top Secret” e caratteri cirillici scritti sopra, le era sembrato da subito sospetto. Il pensiero di quella cartella l’aveva perseguitata per tutto il giorno e la notte seguenti, e la mattina seguente si era infiltrata nell’ufficio di Fury, evitando le telecamere e raggirando i sistemi di sicurezza con i suoi soliti trucchi. Aveva fotocopiato i file, facendo ben attenzione a non lasciare tracce del suo passaggio, nemmeno impronte digitali, ed era tornata a casa a esaminarli. Quella sera aveva a mala pena degnato Clint di uno sguardo e saltato cena per leggerli tutti. Nel mezzo della notte, quando il silenzio era interrotto solo dal lieve russare di Clint dall’altra stanza, li aveva già riesaminati svariate volte e non aveva dubbi: la mancanza di impronte o di tracce, lo spargimento minimo di sangue, la scarsità di testimoni di qualsiasi avvenimento fuori dalla norma, la scomparsa totale degli agenti mandati a indagare, persino le date e i luoghi dei delitti riconducevano tutto ai metodi che utilizzava lei da giovane, ergo ai metodi della Stanza Rossa.

Dopo quel giorno, non aveva più avuto pace. Aveva condotto in solitaria delle indagini, nella certezza che se avesse comunicato le sue opinioni a qualcuno non le avrebbero creduto o, ancora peggio, avrebbero sottovalutato la Stanza Rossa e messo tutti in pericolo. Era diventata così assorta nelle sue ricerche da ignorare qualunque altra cosa, chiunque altro. Era ritornata a non parlare mai, a cercare la solitudine, a evitare in qualunque modo i contatti umani. Non riusciva a dormire più di tre ore per notte, mangiava a mala pena. E così, aveva lasciato lo S.H.I.E.L.D., poco più di tre mesi addietro. Era tornata in Russia, a lavorare da sola, divorata dalle ricerche di indizi di qualunque cosa che potesse ricondurla alla nuova Stanza Rossa. Finalmente, dopo diverse settimane di notti quasi insonni, era riuscita a ricavare un nome, quello dell’uomo che stava correndo davanti a lei nella neve. Il motivo della sua fretta le era ignoto, ma poco importava. Aveva bisogno di risposte. Aveva bisogno di porre la parola fine al suo passato, distruggendo tutto ciò che lo aveva popolato, impedendo che la storia si ripetesse. Niente più Vedove Nere. Niente più Stanza Rossa. Inspirò, posizionando meglio l’occhio sul mirino, aumentando gradualmente la pressione del dito sul grilletto. L’adrenalina che la accompagnava sempre prima di sparare non aveva mancato di presentarsi, le scorreva nelle vene come una droga. Espirò lentamente, e il mondo intorno a lei si fermò. Non sentiva più nessun rumore, non vedeva più niente muoversi. Tutto era immobile, eccetto la sua vittima, e lo rimase per una manciata di eterni secondi. Poi, tutto prese invece un ritmo frenetico. Il dito che spinge sul grilletto. Il suono ovattato del silenziatore. Il piccolo contraccolpo. Il proiettile che parte, fendendo l’aria. Natasha riusciva quasi a sentire il suo suono nell’aria. Il proiettile colpì alla gamba l’uomo, che cadde a terra con un gemito udibile anche a quella distanza. Esattamente dove doveva colpire. Non aveva mai incontrato nessuno con una mira migliore della sua, eccetto Clint. Un piccolo ghigno di soddisfazione increspò le labbra della rossa. Si alzò, e con una calma metodica scompose i pezzi del fucile e li ripose in una sacca, che si caricò a spalle. Con un’ammirevole agilità, considerata la consistenza del suolo nevoso sul quale stava muovendosi, scese dal rilievo e si avvicinò a Vasnetsov, riverso nella neve a gemere, impegnato a reggersi la gamba ferita, dalla quale il sangue usciva copiosamente a intaccare la purezza del candido manto. Con un elegante movimento del polso, estrasse dalla cintura un coltello e lo conficcò senza troppi indugi direttamente nella ferita dell’uomo. Un urlo agghiacciante riempì il silenzio della valle, facendo sì che uno stormo di corvi a un centinaio di metri di distanza si innalzasse in volo, spaventato dal rumore. Con una calma il cui unico scopo era far irritare Vasnetsov, Natasha iniziò a giocherellare con l’arma, girandola e muovendola all’interno della ferita. L’uomo smise di urlare, e cercò di ricomporsi come poteva. Lasciava pienamente intendere di non avere intenzione di dargliela vinta tanto facilmente. Digrignò i denti, e prese a fissarla in cagnesco, senza riuscire a trattenere dei rantoli. La sua fronte era imperlata di sudore, nonostante il freddo, e sul capo calveggiante si potevano delineare i contorni delle vene pulsanti. Rimasero in quella posizione per una manciata di secondi. Quando l’uomo si rese conto che Natasha non aveva la benché minima intenzione di aprire bocca e nemmeno dava l’impressione di volerlo uccidere, cercò di dare un freno ai violenti tremiti che scuotevano il suo corpo e parlò.

-Qualunque cosa tu voglia sapere, non dirò niente.- La voce impastata rendeva ancora più biascicato il suo modo di parlare, ed enfatizzava il forte accento russo.

-Forse non mi conosci, ma credimi, so essere veramente persuasiva.- Eppure dal fatto che le avesse parlato in inglese e non in russo le faceva presagire che invece lui sapesse perfettamente chi fosse la sua assalitrice. La risposta mise luce sui suoi dubbi.

-Ma certo che ti conosco. Tutti ti conoscono qui... Sei la Romanova, l’americana, la traditrice. Lui aveva detto che saresti tornata.- Un rivolo di sangue fuoriuscì dalla sua bocca.

-Lui chi?- Chiese lei, senza spostare di un millimetro i severi occhi di smeraldo da quelli dell’uomo.

-Non ha importanza chi. Non più.- Un ghigno prese forma sul volto di Vasnetsov, e ne derivò una risata aspra e sgradevole. Natasha conficcò il coltello più in profondità nella carne, provocando un gemito di dolore.

-Dimmi dove si trova la nuova Stanza Rossa, e chi c’è a capo di tutto questo.- Il suo tono era tanto neutro e pacato da non sembrare nemmeno prodotto da un essere umano. Tuttavia, tutto ciò che ottenne fu che l’uomo intensificasse la sua risata.

-Credi di essere diversa dalle altre, Natalia? Credi di essere in grado di fermare la Stanza Rossa, di pulirti la coscienza così? Non ci riuscirai mai. Per quanto tu possa fingere di essere di più, non sei altro che una pedina creata da chi mi ha preceduto, programmata per uccidere chi ti comandiamo noi. Quando dici di non essere più la Vedova Nera che la Stanza Rossa aveva forgiato, non fai altro che mentire a te stessa. Tu sei e rimarrai sempre di nostra proprietà.- Un lieve tremito scosse la mano di Natasha, che strinse la presa sul manico del coltello. Lo affondò ancora di più nella gamba di Vasnetsov, fino a sentire un lieve “crack”. Aveva raggiunto l’osso e l’aveva rotto.

-Rispondi alle mie domande, e forse la tua morte non sarà troppo lunga.- La sua voce era ancora posata, ma a un orecchio allenato non sarebbe sfuggita la lieve nota di impazienza al fondo. L’uomo riprese a ridere, ancora più forte di prima.

-Come vedi, cara, siamo sempre un passo avanti a te.- Prima che Natasha potesse elaborare il significato della frase, una schiuma bianca con venature rosse del sangue iniziava a uscire dalla bocca di Vasnetsov. Cianuro, pensò Natasha attivandosi per fermare la reazione. Purtroppo, era già troppo tardi. Con un’espressione di vittoria dipinta sul volto, l’uomo si lasciò possedere dalle convulsioni.

-потерять, Наталья. (Perderai, Natalia)- Detto questo, i suoi occhi si fecero vitrei, e la testa si riversò all’indietro. Natasha lo guardò un attimo, presa in contropiede dall'evento. Sbatté violentemente la mano sul petto inerte dell'uomo.

-черт побери! (Dannazione!)- Come aveva potuto essere così stupida da pensare che avrebbe potuto avere la meglio su di lui senza che lui avesse un piano per situazioni come quella? Abbassò il cappuccio e si passò una mano tra i capelli vermigli. Sospirò, e una nuvoletta causata dal freddo apparve di fronte alle sue labbra, per poi svanire dopo qualche secondo. Ancora in ginocchio sulla neve, di fianco al cadavere, si diede un’occhiata intorno. Nessun indizio sulla causa per cui Vasnetsov stava correndo. Si abbassò verso il corpo dell’uomo. Non poteva certo riportarlo in vita, ma avrebbe comunque tratto vantaggio di tutto ciò che avrebbe potuto. Era vestito come un soldato ai tempi del comunismo, l’unica cosa che gli mancava era un colbacco. Fatto bizarro, in quanto sotto copertura ci si sarebbe aspettati un abbigliamento che desse meno nell’occhio e soprattutto non rimandasse al periodo staliniano. Tastò la giacca, in cerca di protuberanze sospette. Ne trovò una all’altezza del petto e sbottonò la parte superiore dell’uniforme. Iniziò a frugare nelle tasche interne, estraendone, dopo qualche attimo, un quadernino. Si fermò a esaminarlo. Era pieno di disegni a dir poco curiosi e numeri apparentemente messi alla rinfusa, parole in diverse lingue che, sebbene lei le parlasse tutte, non avevano un senso. Fece scivolare il quadernetto nella propria tasca, decidendo che lo avrebbe preso in esame con più attenzione una volta tornata all’appartamento. Continuò a cercare per le altre tasche, sebbene ciò portò risultati alquanto insoddisfacenti. La maggior parte delle tasche della giacca erano vuote, fatta eccezione per una fiaschetta semi vuota. La aprì, e ne odorò il contenuto. Vodka, pensò. Così cliché. Inclinò la fiaschetta, e un liquido trasparente ne uscì, confermando la sua tesi. Ne avrebbe bevuto molto volentieri un sorso, ma era troppo prudente per provarci. Non si sapeva mai. Guardò l’uomo, e pensò che non aveva la faccia di un alcoolista. Beveva probabilmente solo occasionalmente. Gettò la fiaschetta nella neve, e riprese la sua ricerca di inidizi nelle tasche dei pantaloni, questa volta. Ne estrasse una banconota da 50 rubli e una ricevuta di pagamento, ma entrambe erano impregnate di sangue ed era impossibile distinguere cosa ci fosse scritto sopra. Traendo le somme, tutto ciò che era riuscita a recuperare era un quadernetto pieno di iscrizioni incomprensibili. Piuttosto magro, come bottino, ma se lo sarebbe fatto andare bene. Si alzò, scrollandosi la neve di dosso. Erano in un punto piuttosto nascosto e comunque lontano da città e villaggi. Si strinse nella sua giacca, e decise di lasciare agli orsi il compito di sbarazzarsi del cadavere.

 

 

Kirensk, Siberia.

57°47′N 108°05′E

Few hours later

 

 

Uscì dalla doccia più stanca di prima. Raccolse la massa di ricci rossi bagnati dentro un asciugamano e con un altro avvolse il proprio corpo. Con una fatica non banale si trascinò verso il letto della camera di albergo in cui aveva alloggiato negli ultimi giorni, rigorosamente sotto falso nome. Era piccola, ma non era abituata né le servivano spazi e lussi eccedenti. Era composta da due camere. La camera da letto, dove la maggior parte dello spazio era occupata un letto a due piazze addossato al muro. Di fianco a esso c’era un piccolo comodino di legno di cui nessuno negli anni si era preso cura, in quanto il legno era scurito e rovinato dai tarli in più punti. Adiacente al muro dall’altra parte, c’era una scrivania di semplice compensato, accompagnata da una sedia piuttosto malconcia. Una lampada era appoggiata sull’angolo a destra della scrivania, tuttavia la luce che emetteva era alquanto fioca, e anche sommata alla insignificante quantità di illuminazione che arrivava dalla piccola finestrella in alto la stanza rimaneva piuttosto buia. Le pareti erano bianche e avevano un urgente bisogno di una nuova mano di tinteggiatura. In fondo alla stanza una porticina si apriva su un minuscolo bagno, dove doccia e sanitari erano letteralmente incollati l’uno all’altro. Se solo Natasha avesse avuto qualche kilo in più, non sarebbe riuscita a passare. In effetti, dubitava che chiunque anche solo con la corporatura di qualsiasi altro Avenger ce l’avrebbe fatta. Si lasciò cadere sul letto, supina, senza preoccuparsi di bagnare le lenzuola. Non si sarebbe presa un malanno comunque, uno dei pochi vantaggi di avere il siero della Vedova Nera che le scorreva tra le vene. Chiuse un attimo le palpebre. Le sembrava che il suo corpo pesasse il doppio del solito, ogni movimento le risultava tremendamente difficile. Anche sforzandosi, non riusciva a ricordare l’ultima notte in cui aveva dormito più di due ore, tantomeno più di due ore senza incubi. Rimase sdraiata per qualche minuto, completamente inerte. Non fosse stato per il quasi impercettibile alzarsi e abbassarsi del petto, si sarebbe potuta dire morta. Finalmente, riuscì a costringersi a risollevare le palpebre e addirittura alzarsi dal letto. I suoi capelli erano praticamente asciutti e avevano assunto il loro naturale aspetto disordinato. Gettò entrambi gli asciugamani nel lavandino del bagno e prese dalla sua sacca una felpa gigante, con il simbolo dello S.H.I.E.L.D. stampato in grande sopra. Gliel’aveva prestata Clint quando lei era arrivata, un’eternità addietro, e non l’aveva più rivoluta. Pur avendola lavata centinaia di volte, si avvertiva ancora il profumo misto di dopobarba e caffè che Natasha aveva sempre associato a lui. Ormai pure quel profumo le evocava ricordi dolorosi, però in qualche maniera le dava ancora una sensazione di sicurezza. Era decisamente troppo larga per lei, le arrivava circa alle ginocchia e le maniche quasi parevano vuote, però era molto più comoda delle solite tutine aderenti in cui era costretta. Con solo quella addosso, si avvicinò alla scrivania con passo felpato e si accomodò sulla sedia traballante. Aveva già oziato troppo, doveva smettere di rimuginare sul passato e mettersi al lavoro. Si ripetè per l’ennesima volta che lasciare Clint e lo S.H.I.E.L.D. era stata la scelta giusta perché lei era diventata un peso per loro e sospirò profondamente. Incrociò le lunghe gambe scoperte su di essa e prese in mano il quadernetto che aveva recuperato, sfogliandolo. Le prime dieci pagine erano stranamente vuote. Provò a esaminarle da vicino, ma non c’era traccia nemmeno di inchiostro sbiadito. Le prime scritte sulle pagine seguenti erano tutte formule chimiche. C’era un disegno dettagliato della tavola periodica, che includeva qualsiasi dato utile, dal numero atomico all’elettronegatività, dalla configurazione elettronica al raggio atomico. Le pagine seguenti erano scritte metà in alfabeto cirillico e metà in russo traslitterato, e vi erano enumerate le reazioni mortali che si potevano ottenere mescolando diversi di quegli elementi. Se già le sembrava strano che un russo traslitterasse la propria lingua, ciò che lesse nelle pagine seguenti era ancora più particolare: parole francesi traslitterate in cirillico, frasi metà in tedesco e metà in italiano, parole inglesi scritte senza apparente nesso al resto. C’erano anche diversi disegni, di progetti e di configurazioni della struttura di una certa moltitudine di molecole. Si fece tardi e scese la notte, ma lei continuò imperterrita a leggere e sfogliare, rapita dal tentativo di trovare un filo logico in quelle scritte, capendoci però sempre meno. Non era nemmeno sicura che le frasi in una stessa pagina fossero state scritte nello stesso periodo, o dalla stessa persona, o da un individuo sano di mente. Più proseguiva, più tutto era confuso. Fino ad arrivare alle ultime venti pagine, dove c’era scritta solo una coppia di parole, ripetuta per tutto lo spazio disponibile in quei fogli: навсегда красный (per sempre rosso/forever red)

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Capitolo 2
*** II. ***


II.

 

But if you close your eyes,

Does it almost feel like

nothing changed at all?

(Bastille – Pompeii)

 

Russia, 1934

 

La ragazzina con i capelli rossi non riusciva a smettere di tremare nell’angolo buio in cui era rannicchiata. La stanza era scura, si potevano a mala pena distinguere i contorni delle pareti e dei due armadi addossati al muro. Eccetto per quelli, la stanza era spoglia. La pochissima illuminazione era fornita da uno spiraglio di luce che usciva dalla porta socchiusa, dall’altra parte rispetto a lei. Ogni tanto poteva vedere delle sagome che si muovevano. Sapeva di non essere sola: poteva sentire l’eco di altri pianti sommessi, sentiva qualcuno farfugliare parole sconnesse. L’unica cosa che poteva dire con certezza è che nessuno in quella stanza era un adulto. Avrebbe voluto alzarsi e andare dagli altri, chiedere cosa ci facesse lì, cosa fosse quel posto, qualsiasi informazione, ma era come paralizzata. Le ginocchia serrate al petto, gli occhi offuscati dalle lacrime che minacciavano di scendere, il tremore incontrollabile le impedivano di compiere qualsiasi movimento. Non riusciva a formulare un pensiero logico. La sua mente era dominata dalla confusione, nemmeno si ricordava la propria identità, se avesse una famiglia, come fosse arrivata lì. Aveva dei ricordi molto frammentari, ma non riusciva a scindere la realtà da quello che sembrava più un sogno. Vedeva una donna dai capelli rossi piangere, si vedeva trascinata da un’ombra, mentre un uomo dai capelli disordinati la portava via, sentiva i propri urli come un’eco nei suoi pensieri. Non aveva idea di chi fossero le figure che popolavano quei pensieri e con ogni secondo che passava, le immagini si annebbiavano sempre di più, come se fossero impresse su una tela i cui colori si stavano lentamente sciogliendo sotto la pioggia. La porta davanti a lei si spalancò, lasciando entrare altra luce e provocando un paio di urli spaventati provenienti da vari punti della sala. Per qualche secondo le fu impossibile respirare e dovette raccogliere tutte le sue forze e fare appello a tutto il proprio autocontrollo per riuscire a calmarsi abbastanza da prendere aria. Una figura in nero entrò dalla porta e si diresse verso il centro. Era ormai la terza volta che ciò accadeva, da quando lei si ricordava di essere lì. Per la prima volta, tuttavia, riuscì a girarsi verso l’uomo e vedere gli altri presenti in quella stanza: come aveva già intuito, erano tutti bambini. Anzi, bambine per essere precisi: non vedeva l’ombra di un maschio. A prima vista, tuttavia, sembravano tutte più grandi di lei di almeno un paio d’anni. Non che lei si ricordasse la propria età, d’altra parte. Analogamente alle volte precedenti, l’uomo prese per mano una bambina che aveva l’aria troppo terrorizzata per sembrare in grado di opporre resistenza. Dal suo angolo lei la osservò un secondo, per imprimerla nella memoria in modo da riempire quel vuoto che regnava nella sua testa. La bambina doveva avere non più di dieci anni e aveva un aspetto piuttosto emaciato. Non era particolarmente alta, ed era magra come solo qualcuno che ha patito la fame può essere. I suoi lunghi capelli biondi erano sporchi di fuliggine e tagliati irregolarmente in più posti. I grandi occhi grigi erano sbarrati e il viso pallido era incrostato di sporco e in certi punti anche una sostanza rossa che non poteva essere che sangue. Indossava quello che una volta doveva essere stato un vestito di bassa lega, ora ridotto a straccio. Non portava scarpe ai piedi e zoppicava visibilmente. L’uomo la condusse fino alla porta, che stavolta venne richiusa dietro di lui in modo da togliere tutta la luce nella stanza. Lei sospirò, mentre intorno a lei riprendevano i piagnistei isterici. Nessuna delle bambine che avevano superato quella porta erano state ricondotte nella stanza: dove le portavano? Strinse ancora di più le ginocchia al petto e soppresse un singhiozzo. Sapeva perfettamente che nessuno l’avrebbe sentita in quel marasma, eppure non voleva dare il minimo segno della sua presenza. Si appiattì contro il muro, chiusa su se stessa, e cercò di non badare all’atmosfera di tensione e paura che regnava in quella stanza.

 

 

Il rumore di una porta che si apriva la fece sobbalzare e aprire gli occhi di scatto. Vi furono un paio di secondi di dormiveglia in cui non ricordava dove fosse e cosa fosse successo. Un paio di secondi di pace prima che la dura realtà le ripiombasse addosso schiacciandola con il suo peso come un macigno. Era ancora in quella stanza. Doveva essere stata talmente stanca, impaurita e distrutta da addormentarsi. Una rapida occhiata le bastò per rendersi conto di essere l’unica rimasta in quella camera, che voleva dire un’unica cosa. Questa volta, l’uomo in nero era lì per lei. Sentì il terrore farsi nuovamente strada nella sua testa impedendole di ragionare con lucidità. L’ombra dell’uomo si avvicinava sempre di più a lei, già sentiva il suo odore acre di vodka e sudore impregnare l’aria intorno. Fece per chinarsi e prendere la sua mano. Fu a quel punto che il suo istinto prese il sopravvento: di colpo, serrò le dita della mano e sferrò un pugno in faccia all’uomo, più forte che poteva. Egli, preso alla sprovvista, vacillò per un secondo, lasciandole il tempo di compiere uno scatto e passare sotto le sue gambe. Corse verso l’unica uscita che vedeva, la porta da cui era entrato l’uomo. Si ritrovò in un corridoio lungo, pieno di porte su entrambi i lati. Corse a perdifiato verso la prima, incalzata dal rumore dei passi dell’uomo che nel frattempo si era ripreso dietro di lei. Si scaraventò verso la prima porta, chiusa. La seconda, anche. Il suo respiro si faceva sempre più affannoso, non aveva fatto quella fatica per essere presa di nuovo. La terza porta era chiusa, e così la quarta. Disperata, prese a fare spasmodicamente pressione sulla maniglia della quinta, fino a che questa non cedette con un suono metallico. Senza aspettare ulteriormente, si precipitò nella stanza, richiudendo la porta dietro di sé, mancando per un pelo l’uomo che ormai l’aveva praticamente raggiunta. Fece per riprendere a correre, quando si accorse di essere in una stanza piccola e di essere circondata da uomini in camice bianco, che si girarono immediatamente verso di lei. Li contò rapidamente: erano quattro. Il primo sulla destra era alto e dall’aria dinoccolata, magro. Non doveva avere più di trent’anni, tuttavia i suoi occhi azzurri erano talmente duri da dare l’impressione che fosse più vecchio. Quello al suo fianco era probabilmente sulla sessantina. Aveva i capelli brizzolati e il naso adunco. Portava dei ridicoli baffi alla francese. Era molto più basso del vicino, e anche più in carne. Il terzo doveva avere una quarantina d’anni. Era pelato e piuttosto alto, portava degli occhiali spessissimi rotondi, la cui montatura era mezza rotta. In mano teneva una siringa con del liquido rosso all’interno. Il quarto sembrava essere quello a capo della squadra. Pur non essendo tanto alto, dava l’impressione di essere immenso. Aveva le spalle larghe ed era in generale ben piantato, portava i lunghi capelli neri e unti legati in una coda. Due occhi piccoli e dall’aria cattiva si vedevano dietro a due lenti a mezzaluna. In mano aveva un fascicolo pieno di fogli con diverse formule matematiche e grafici disegnati. Tutti e quattro avevano un’espressione stupita sul volto, mentre la guardavano. Lei rimase ferma, interdetta, mentre la sua testa lavorava angosciosamente per trovare una via d’uscita. Di colpo si spalancò la porta dietro di lei, lasciando entrare l’uomo da cui era scappata. Per la prima volta, riusciva a vederlo bene in faccia. Era biondo e aveva gli occhi azzurri, gli zigomi alti e i lineamenti duri. Il naso era gonfio e in una strana posizione, in più stava sanguinando. Tirandogli quel pugno doveva averglielo rotto. Si fermò di scatto, trafelato, spostando gli occhi da lei agli scienziati. Vi furono diversi secondi di immobilità completa, il silenzio interrotto solo dall’ansimare dell’uomo. Il quarto scienziato finalmente parlò, interrompendo il silenzio.

-Beh, Anatoly? Cosa significa tutto questo? È forse una sorta di scherzo?- La sua voce era fastidiosa, melliflua. L’uomo, visibilmente preoccupato, annaspò cercando una risposta.

-La ragazzina... La stavo andando a prendere, ma si è ribellata.

-Stai forse cercando di dirmi che ti sei fatto maltrattare da una ragazzina di...- si interruppe un attimo per cercare un foglio sul suo quaderno- SEI anni, senza alcun tipo di addestramento e che peserà venti kili al massimo, tra l’altro ancora sotto l’effetto del siero della memoria che le abbiamo somministrato?

Bene, pensò lei tra sé e sé, almeno so la mia età. E so anche perché non riesco a ricordare più niente. Nel frattempo Anatoly era impallidito. Il medico era indubbiamente uno che incuteva paura e doveva essere, come lei aveva immaginato, a capo di tutti i presenti.

-Mi... Mi ha colto alla sprovvista, signore. Non... Non accadrà più, glielo giuro.

-Sarà meglio- tagliò corto il medico. -Ora vattene, lasciaci con la bambina. Tu e io continueremo questa conversazione più tardi.

A queste parole Anatoly impallidì, se possibile, ancora di più. Per un momento sembrò che stesse per protestare, ma poi si limitò ad assentire e lasciare la stanza in un rispettoso silenzio. Lei si girò nuovamente in direzione dei medici, che erano tornati a rivolgere tutta la loro attenzione su di lei. Il quarto medico la squadrò con aria di sufficienza per qualche secondo e poi disse, secco:

-Un altro scherzo come quello che hai fatto ad Anatoly e giuro che ti somministro così tanto siero da farti credere di essere un passerotto e farti passare il resto della tua vita in una gabbia per uccelli, ci siamo intesi?

Lei non proferì parola, cercando disperatamente di non far notare il terrore che era tornato ad attanagliarla. Non l’avrebbe data vinta a loro, chiunque essi fossero. Anche essendo piccola, non era stupida e sapeva che ci sarebbero state poche probabilità per lei di uscire viva da quel posto. Non aveva intenzione, tuttavia, di morire piangendo e implorando pietà come una bambina piccola.

-Molto bene.- proferì il dottore e fece un gesto del capo al primo medico, che annuì e si avvicino a lei. Senza il minimo accenno di grazia, la prese in braccio da sotto le ascelle e la sistemò su un lettino. Per quanto lei cercasse di divincolarsi, il medico la superava di due o tre volte in altezza, e la sua presa era ferrea. Il secondo dottore lo seguì a ruota, e la legò al lettino con delle cinghie.

-Di solito non le usiamo, ma non vorremmo mai rischiare che la nostra piccola ribelle si metta nei pasticci e si rovini quel bel faccino, vero?

Lei continuò nel suo ostinato silenzio, principalmente perché non era sicura della fermezza della sua voce nel caso avesse voluto controbattere. I medici si spostarono verso l’altro capo della stanza e si tuffarono in una conversazione sottovoce, di cui lei non riusciva a captare nemmeno una virgola. Sospirò piano e girò la testa verso l’alto. Sopra di lei c’era una lampada enorme, di acciaio talmente lucido che riusciva a vedere il suo riflesso, anche se lievemente distorto. Incuriosita, si osservò per qualche attimo, in quanto erano riusciti a cancellarle anche i ricordi del proprio aspetto. Nel complesso, togliendo il pallore eccessivo, la polvere che le sporcava la faccia e il disordine generale della sua figura, aveva un aspetto piuttosto grazioso. Rimase diversi secondi a esaminare i suoi lunghi capelli rossi e ricci. Dovette strabuzzare gli occhi per riuscire a capire che le sue iridi erano di un colore smeraldino, e riuscì a scorgere anche un neo sulla guancia destra. Era piuttosto magra, sebbene non mostrasse segni di malnutrizione come la bambina che aveva visto prima. Dopo essersi specchiata ancora per qualche istante, tornò a rivolgere la sua attenzione alla stanza, cercando qualsiasi strumento con cui potesse tagliare le cinghie e difendersi dai medici. Questi erano presi così animatamente dalla conversazione da non essersi accorti di aver alzato un po’ la voce, abbastanza da farle sentire tutto.

-È impossibile che ce la faccia, è troppo piccola! Il siero della Vedova la ucciderebbe dopo qualche ora!

-Ma quale siero della Vedova, quella lì morirà al primo allenamento, ve lo dico io. È la più giovane che abbiamo, la più bassa e presumibilmente la più leggera. La distruggeranno!

-Concordo. Verrebbe in effetti da chiedersi perché abbiano deciso di prendere anche lei. Potevano semplicemente ucciderla come tutte le altre inadatte.

-Ma per il cognome, è ovvio. Ai piani alti farà comodo avere l’ultima discendente della stirpe dei Romanov tra le loro file.

-Beh, indubbiamente. Vedremo allora cosa se ne faranno i piani alti del cadavere dell’ultima Romanov.

-Basta così.- Una voce risuonò nella stanza, causando il silenzio più totale di tutti i presenti. Da un angolo buio nascosto da un armadio emerse la figura di un uomo alto, che portava l’uniforme di un soldato russo completa di colbacco. Sembrava essere sulla quarantina. Da sotto il copricapo spuntavano dei capelli nero corvino disordinati, aveva anche dei lunghi baffi e un accenno di barba. I suoi occhi scuri sembravano più gentili di quelli di ogni persona che aveva visto fino a quel momento.

-Questa bambina sopravviverà molto più di quanto pensiate. È scaltra, a differenza delle altre: ha ascoltato tutta la conversazione senza che voi ve ne accorgeste, senza contare che non ha smesso per un secondo di cercare un’arma che le potesse garantire la libertà. È stata l’unica a cercare di ribellarsi quando siamo andati a prenderla, riuscendo persino a rompere il naso a uno dei vostri soldati più fidati. Non si è nemmeno messa a piangere alle tue minacce, Grigor, e come avete gentilmente ricordato voi è la bambina più piccola che abbiamo. Ha l’intelligenza e soprattutto non ha intenzione di morire. La forza fisica la acquisirà col tempo. Ha tutte le carte per diventare una Vedova Nera.

Nessuno dei medici osò produrre un fiato mentre l’uomo si avvicinava al lettino dove era adagiata. Lei non si mosse di un millimetro mentre osservava ogni suo movimento, e nemmeno mentre lui la liberò dalle cinghie che la tenevano ferma. C’era qualcosa in lui che portava il suo istinto a provare fiducia, ma la sua ragione premeva esattamente per il contrario: non poteva permettersi il lusso di abbassare la guardia con nessuno, lì dentro.

-Ciao, Natalia. Io mi chiamo Ivan Petrovitch Bezukhov, e sono uno degli addestratori della Stanza Rossa.- La sua voce si era addolcita rispetto a qualche secondo prima. -Puoi stare tranquilla, ora. Sei al sicuro, nessuno di noi ti farà del male. Adesso segui Dimitri, - si fermò per indicare il terzo medico, quello pelato- ti porterà nella stanza qui di fianco. Lì ti puoi fare una doccia, almeno dovresti liberarti di tutta questa polvere. Poi ti daremo degli abiti puliti e potrai raggiungere le altre nel dormitorio. D’accordo?

Lei, che finalmente sapeva anche il proprio nome, lo squadrò in silenzio per qualche secondo. Considerando che non avrebbe avuto possibilità di scappare da lì, si disse che non aveva molte scelte. Decise di assecondare Ivan e alzarsi dal lettino. Non credeva ancora a una parola di tutto il discorso sulla sicurezza, soprattutto non dopo aver origliato la conversazione dei dottori, ma decise che avrebbe esaminato la struttura ed elaborato un piano per scappare in seguito. Per ora, si sarebbe fatta una doccia e avrebbe dormito, magari anche mangiato con le altre. Aveva bisogno di forze, dopo quella giornata.

 

Uscita dalla doccia, trovò ad aspettarla degli asciugamani e dei vestiti puliti, come aveva detto Ivan. Si asciugò in fretta, e indossò gli abiti: erano una canottiera bianca con la sagoma di una clessidra rossa sopra e un paio di pantaloncini corti neri. Trovò anche degli elastici, così si legò i capelli bagnati in una treccia. Uscì dalla camera e trovò Dimitri fuori ad aspettarla. Senza una parola, le fece cenno di seguirlo. Lei obbedì. Attraversarono il corridoio dove era stata fino a quel momento e presero l’ultima porta, che si affacciava su una rampa di scale. Scoprì allora di essere nel seminterrato di una villa piuttosto grande. Salirono per quelli che dovevano essere un paio di piani. Dimitri si fermò davanti a una porta di ferro piuttosto vecchia, che stonava con il resto dell’abitazione, la quale era invece piuttosto elegante e in stile ottocentesco. La aprì e senza troppe cerimonie spinse Natalia dentro, richiudendo la porta praticamente subito dietro di lei. Si guardò intorno: tutti i presenti, ovvero probabilmente tutte le bambine che c’erano prima nella stanza, si erano girate a guardarla. La maggior parte di loro aveva un’espressione persa, altre stavano ancora piangendo. Nella stanza c’erano una cinquantina di letti, messi disposti in due file, e ognuna delle ragazzine era sistemata su uno di essi. L’unico libero era in fondo alla stanza, vicino alla stessa bambina bionda che aveva visto trascinare via da Anatoly qualche ora prima. Senza fare rumore nel muoversi, andò verso quella direzione, sempre seguita dallo sguardo delle altre. Si sedette sul letto e iniziò a osservare tutte le ragazze presenti, studiandole attentamente. Quando spostò lo sguardo sulla biondina di fianco a lei vide che stava ancora piangendo ed era talmente pallida da sembrare gravemente malata. Aveva gli occhi vuoti, persi verso un punto del muro davanti a loro. Meglio, pensò. Almeno non è una chiacchierona. Iniziò ad esaminare una stanza, per cercare eventuali vie di fuga. Non vi erano finestre, l’unica via d’uscita sembrava essere la porta d’acciaio da cui era entrata, che era chiusa a chiave e presumibilmente sorvegliata. Mentre si scervellava per una possibile soluzione, una guardia entrò, accompagnata da uno dei medici.

-Ora di dormire.- proferì la guardia, con voce severa. Percorse tutta la stanza fino al letto di Natalia, l’ultimo, e tirò fuori un paio di manette da sotto il materasso. Prese senza nessun garbo il polso di lei, e lo incatenò al letto senza ulteriore indugio. Poi proseguì con i letti di fianco, mentre il medico dall’altra parte faceva lo stesso lavoro. Li maledisse tra sé e sé. Quando spensero le luci, si coricò, cercando di mettersi quanto più comoda potesse sopra quel materasso praticamente inesistente e con la mano legata al letto. Tutta la tensione del giorno le piombò sulle spalle, e si lasciò finalmente andare in un silenzioso pianto, ora che nessuno la poteva più vedere. Mentre le lacrime le rigavano le guance e le sue palpebre si facevano mano a mano più pesanti, non poté fare a meno di pensare che fuggire da lì sarebbe stato ancora più difficile di quanto avesse immaginato.

 

 

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Capitolo 3
*** III. ***


III.

 

We are made wise

not by the recollection of our past,

but by the responsibility

for our future.

(George Bernard Shaw)

 

 

Nizhniy Novgorod, Russia

56°19’37”N 44°00’27”E

Saturday, 5th December 2015

3.40pm

 

 

Nevicava. Le strade di Nizhniy Novgorod erano deserte, lasciando così ai fiocchi di neve tutto lo spazio per esibirsi nella loro elegante danza, piroettando nell’aria e andando dolcemente a posarsi sul suolo, dando forma a un soffice mando bianco. L’unico elemento in movimento a parte la neve, una figura minuta che si aggirava per le vie a passo sostenuto. Indossava un redingote nero che faceva da contrasto con il bianco di cui tutta la città era adornata, una macchia d’inchiostro caduta per sbaglio su un foglio ancora intonso. Sul capo, come unico riparo dalla neve, portava un basco nero dal quale spuntavano dei riccioli rosso vermiglio. Un occhio particolarmente allenato, tuttavia, avrebbe potuto scorgere anche una calibro 35 spuntare da sotto il redingote. Natasha si strinse nel cappotto e accelerò. Doveva trovarsi in Piazza Minin e Pozharsky entro cinque minuti. Mentre camminava, sentiva il quasi impercettibile rumore della neve calpestata sotto i suoi stivali. Sebbene rappresentasse sempre un enorme disagio per una spia il cui lavoro era passare inosservata senza lasciare tracce, aveva sempre amato la neve. Il suo maestoso discendere, l’apparentemente inattaccabile purezza, la sua capacità di uniformare il paesaggio, il silenzioso turbinare dei fiocchi le avevano sempre dato un senso di tranquillità assoluto. Sotto sotto, sperava che avrebbe continuato a nevicare anche quando lei sarebbe tornata all’hotel, se così lo si poteva definire, in modo da godersi la vista dalla finestra, magari bevendo un tè e leggendo un libro. Ma chi voglio prendere in giro? Pensò. Non ho tempo di rilassarmi così da qualche decennio, ormai. Sospirò girò a sinistra, imboccando una strada piuttosto larga. Era arrivata: scorgeva, un centinaio di metri più in là, il tetto verde della famosa costruzione di Piazza Minin e Pozharsky. Quest’ultima era totalmente vuota, fatta eccezione per un uomo, seduto su una panchina nonostante la neve continuasse a fioccargli intorno. Doveva essere il suo contatto. A passo sostenuto, Natasha si avvicinò a lui. A prima vista sembrava un senzatetto, e per quanto ne sapeva lei avrebbe anche potuto esserlo. Portava un giubbotto nero piuttosto pesante, pieno di rattoppi, che emanava un forte odore di alcool. I pantaloni erano marroni, anch’essi pieni di toppe, e le scarpe erano logore e con la suola sul punto di staccarsi. Le mani erano protette da guanti senza le dita, la testa da un vecchio cappello nero. Aveva un accenno di barba, probabilmente non si radeva da diversi giorni, gli zigomi alti e gli occhi grigi. Non doveva avere più di cinquant’anni, ma il suo sguardo e i suoi movimenti sembravano quelli di un ottantenne.

-Hai portato ciò che ti avevo chiesto? - Disse l’uomo senza troppi convenevoli, in un inglese stiracchiato e con la voce impastata. Lei tirò fuori da sotto il cappotto una bottiglia di liquore piuttosto costosa e ormai reperibile solo sul mercato nero, in quanto fuori commercio, e gliela tese. Lui la afferrò avidamente.

-Бог благословит вас, девушка. (Dio ti benedica, ragazza.)- Mormorò, prima di stappare la bottiglia e prenderne un generoso sorso. Lei rimase pazientemente ad aspettare, mentre lui si passava un guanto sulla bocca in un tentativo poco elegante di asciugarsi le labbra.

-E perché una ragazza come te sarebbe in cerca di informazioni su una cosa terribile come la Stanza Rossa?- Biascicò lui dopo un po’, rompendo il silenzio.

-Limitati a dirmi ciò che voglio sapere. Il perché lo voglia sapere non è affar tuo.- Rispose lei, con un tono che rasentava l’impazienza.

-Sei una di loro, vero?- Disse lui, prendendo un altro sorso di liquore. -Una Vedova Nera.- Aggiunse, come se servisse specificarlo. Non sembrava nemmeno una domanda, era un’affermazione.

-Abbiamo tutti qualcosa nel passato su cui vorremmo bere per dimenticare.- Ribattè Natasha, accennando alla bottiglia.

-Mh.- Grugnì l’uomo in assenso. Fece per prendere un altro sorso, ma Natasha gli bloccò il polso con un gesto repentino e gli rivolse uno sguardo gelido. L’uomo sospirò.

-Sei sicura di volerti immegere in acque tanto pericolose, Vedova? Ne sei scappata viva una volta, non sfiderei la fortuna una seconda.- Sembrava quasi spiacente per lei, per qualche ragione pareva volesse proteggerla. Qualunque cosa avesse visto, chiunque egli fosse, era di sicuro incappato in situazioni che avrebbe volentieri dimenticato. La Stanza Rossa non perdonava. Natasha annuì.

-Devo fermarli. Qualunque sia il prezzo.- Rispose convinta. L’uomo annuì nuovamente.

-D’accordo. Siediti, prego.- Indicò un posto sulla panchina di fianco a lui. Lei scosse la testa.

-Preferisco rimanere in piedi, grazie

-Come ti pare.- Si schiarì la voce. -Qualche anno fa, mi ritrovai a girare in una città per i dintorni di Mosca, in cerca di un lavoro che mi permettesse di mettere qualcosa sotto i denti.- S’interruppe, lo sguardo perso nel nulla. Si scosse dopo qualche secondo.

-Mi ero perso per la città, avevo avuto una giornata inconcludente ed ero ubriaco fradicio. Avevo bisogno di un posto dove passare la notte, non sapevo dove andare. Trovai una villa in rovina e, pensando fosse abbandonata, vi entrai.

-Ma non era abbandonata.- Concluse lei, e l’uomo asserì con un sorriso malinconico.

-Mi trascinai su per le scale, in cerca di un letto. Trovai una bambina, accucciata nell’angolo, che piangeva, e mi ci avvicinai, per aiutarla. Tempo di abbassarmi alla sua altezza e lei aveva già tirato fuori un coltello. Anche se ero ubriaco, riuscii in qualche modo a scansarmi. Mi colpì lo stesso, ma solo di striscio.- Abbassò il colletto del cappotto, mostrando una cicatrice all’altezza della clavicola.

-Facendo pressione sulla ferita, ho tentato di scappare, ma quella bambina non era sola. Altre ragazzine, circa della sua età, sono uscite da passaggi segreti dietro ai muri. In pochi secondi ero circondato. Erano tutte armate di coltelli, e pronte a saltarmi addosso. È stato a quel punto che mi sono ricordato di avere una pistola e... - Si bloccò, abbassando la testa.

-Quante ne hai uccise?- Mormorò lei. Sapeva che lui non aveva scelta, ma le ragazzine che aveva ucciso erano come lei, una volta. Erano piccole, giovani e soprattutto non era colpa loro se si trovavano lì. Vittime innocenti.

-Non lo so, non sono rimasto a controllare chi fosse solo ferita. Almeno cinque.- Si poteva leggere il rimorso di lui in ogni singola sillaba.

-Come fai a essere sicuro che si trattasse della Stanza Rossa?- Chiese lei, anche se aveva ben pochi dubbi che si trattasse di un’altra organizzazione che rapiva bambine per farne macchine da guerra.

-Devi sapere che prima di ridurmi... Così, - Indicò i propri vestiti- ero un poliziotto, parte di una pattuglia assegnata alla periferia di Mosca. Anche se ero stato licenziato, all’epoca avevo ancora abbastanza contatti per introdurmi negli archivi o anche solo ricevere informazioni. Ho eseguito diversi controlli incrociati, letto dozzine di file e tutto ciò che ho visto coincide con le poche informazioni che abbiamo sulla Stanza Rossa. Fidati, se c’è uno spiraglio di dubbio, è molto ridotto.- Detto questo, prese finalmente un altro sorso di liquore, producendo un rumore sgradevole. Natasha si guardò intorno, pensierosa. Aveva la strana sensazione di essere osservata. Era una percezione piuttosto frequente in lei, Clint la prendeva spesso in giro chiamandola paranoica, ma il suo istinto si sbagliava ben poche volte. Ad ogni modo, scosse la testa e tornò a rivolgere la sua attenzione sull’uomo, che a quel punto aveva già raggiunto la metà della bottiglia.

-Ho bisogno di andare lì.- Sentenziò. -Mi servono le coordinate, un indirizzo.-

Lui alzò lo sguardo e sospirò profondamente. Fece per aprire la bocca, quando accadde. Fu tutto piuttosto veloce, entrambi se ne resero a mala pena conto. Uno sparo, proveniente da una postazione alta alle spalle di Natasha. I suoi riflessi agirono più veloci di lei e le ordinarono di buttarsi a terra, evitando così il proiettile. L’uomo, il suo unico informatore, non fu altrettanto fortunato. La pallottola colpì la bottiglia di liquore che lui ancora teneva in mano, e il tempo sembrò rallentare in quell’istante. La bottiglia esplose in mille frantumi di vetro, che si sparsero tutto intorno. Natasha si coprì gli occhi per evitare le schegge e quando lì riaprì l’uomo giaceva a terra, a poca distanza da lei, rantolante. Lei si fiondò con un balzo felino verso di lui, controllando con la coda dell’occhio che non arrivassero altri spari. Niente, a giudicare dall’immobilità della scena poteva anche non essere successo nulla. In men che non si dica, si tolse il redingote e, aperto il giaccone dell’uomo di cui si rese conto non conoscere nemmeno il nome, iniziò a fare pressione sulla ferita. Lui era messo piuttosto male: era controllato da spasmi e convulsioni, il sangue non accennava a smettere di sgorgare copiosamente dalla ferita, per quanto lei premesse per evitarlo. Senza lasciare la presa sulla ferita, allungò una mano insanguinata verso il collo dello sfortunato, per tenere sotto controllo i battiti. Fu difficile trovare il punto giusto, l’uomo non smetteva di dimenarsi sotto di lei. Finalmente lo trovò: giudicando dalle pulsazioni, non gli rimanevano che pochi secondi. Emise un rantolo più forte degli altri e sputò sangue. Gli spasimi cessarono, mentre i rantoli aumentavano. Ad un certo punto, produsse un grugnito simile a una parola. Natasha si tese verso di lui.

-Cosa?- Mormorò

-Железнодорожная... станция... Лобня... (Stazione... Treni... Lobnya...)- disse lui a fatica, la voce poco più di un sussurro, il fiato che portava l’odore acre del sangue. Tempo di finire l’ultima sillaba strascicata e la sua testa si riversò all’indietro. Sotto le dita insanguinate di Natasha, ancora adagiate sul collo dell’uomo, il silenzio più assoluto. Lasciò cadere la giacca zuppa di sangue a terra. Tremava, ma non era per il freddo. A quello era abituata. Era la rabbia che si impossessava di lei, cieca, indomabile. Che l’obiettivo fosse l’uomo per non farlo parlare, che l’obiettivo fosse lei e avesse avuto fortuna, non le importava. Non poteva avvicinarsi a nessuno senza fare del male. Dovunque andasse, morte e dolore la seguivano, per quanto potesse sforzarsi di isolarsi dal mondo, per quanto facesse del suo meglio per proteggere gli altri da se stessa. Non poteva fare altro che rimanere impotente, mentre il mondo intorno a lei si sgretolava per colpa sua. Strinse i pugni, estrasse la pistola dalla giacca abbandonata sulla neve. Aveva imparato a contenere la rabbia, lo aveva fatto per anni. Aveva imparato a tenere ogni sentimento dentro di sé, per proteggere gli altri, per eseguire gli ordini della Stanza Rossa, dello SHIELD, per le coperture, per tutto. Ora, però, era da sola, non rispondeva a nessuno. Si alzò in piedi, osservò le sue mani: il sangue dell’uomo si stava seccando. Certo, avrebbe potuto contenere la rabbia... Ma non ne aveva voglia. Si girò verso la direzione verso la quale era arrivato lo sparo, con lo sguardo deciso. Calcolò a grandi linee la traiettoria del proiettile e vide una figura smilza saltare da un balcone del primo piano e correre via. Bingo. Iniziò a inseguirla, veloce come una scheggia, incurante della neve che non cessava di fioccare, incurante del terreno scivoloso. Era stata addestrata in Russia, sapeva correre anche sul ghiaccio. La figura che stava inseguendo, invece, era indubbiamente abile, però non tanto quanto lei. Si accorse di Natasha solo quando erano a meno di venti metri di distanza. Non sparare, Romanoff. Hai già fatto spargere troppo sangue oggi, pensava. La figura girò per un vicolo. Lei la seguì. La vide poco più avanti di lei, arrampicarsi con destrezza inaudita su una scala anti incendio. Con un salto, vi si arrampicò anche lei. Mentre correva, udì la figura inveire sottovoce. Arrivò fino al terzo piano della scala, poi si fermò, probabilmente per sentire i passi della sua inseguitrice.

Non sparare. Anche se è un bersaglio facile, non sparare.

La figura si girò verso di lei. Cercò di identificarla, ma indossava un cappuccio e la neve non aiutava a vederci meglio. Di colpo, si lasciò cadere all’indietro. Natasha corse fino al punto dal quale si era lanciata. Sotto di lei, la figura era appesa a un tubo, e stava scendendo aggrappandosi all’intrico di condotti con l’agilità di un ragno.

Non sparare. Ormai aveva lasciato che la rabbia la comandasse, era difficile reprimere l’impulso di sparare alla figura. Si lasciò cadere anche lei, appendendosi alle stesse tubature e compiendo lo stesso percorso. Corse ancora dietro alla figura, che girò ancora una volta per una stradina. Mossa sbagliata: vicolo cieco.

Non sparare.

La neve scendeva tanto fitta da non permetterle di vedere niente, se non la figura che alzava un fucile, probabilmente lo stesso con cui aveva ucciso l’uomo. Sentì la rabbia montarle di nuovo dentro, e alzò la pistola a sua volta. Non sparare.

-Брось оружие (Abbassa l’arma.)- Disse Natasha, fredda, con tono deciso. La figura non mosse un muscolo.

-Я сказал, уронить оружие. (Ho detto, abbassa l’arma.)- Ripetè, impaziente. Non sparare.

Natasha sentì prima lo scatto del grilletto. I suoi muscoli si mossero prima che lei avesse il tempo di pensare, spinti dai riflessi e dalla rabbia. Evitò il proiettile. Non sparare. Alzò la pistola. Non sparare. E sparò. La figura cadde a terra, con un gemito. Natasha si avvicinò, piano, per poterla finalmente vedere. Si abbassò, e le tolse il cappuccio. La rabbia scemò, per essere sostituita da un’altra sensazione molto familiare: il rimorso. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo inerte, dalla macchia rossa che si andava espandendo sulla fronte, per arrivare fino ai lunghi capelli biondi. Gli occhi azzurri erano ancora aperti, e la guardavano con fare accusatore. Quella che giaceva davanti a lei con un fucile di precisione Dragunov stretto in mano era una ragazzina di non più di dieci anni.

Non avrei dovuto sparare.

 

 

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Capitolo 4
*** IV. ***


IV.

 

When you try your best,

but you don’t succeed

When you get what you want,

but not what you need

When you feel so tired but you can’t sleep

Could it be worse?

(Coldplay – Fix You)

 

Russia, 1935

 

-In piedi.

La voce non aveva nemmeno la parvenza di un invito. Natalia però non si mosse da terra. Avvertiva un dolore lancinante alla schiena e nella caduta doveva aver strisciato sul pavimento lucido, procurandosi bruciature ai gomiti e alle ginocchia. Quello che le doleva di più, tuttavia, quello che la faceva rimanere a terra e quello che era la causa delle lacrime bollenti che le stavano percorrendo piano le guance era l'orgoglio. Si era sopravvalutata. Quattro mesi di Stanza Rossa non le erano bastati a farle capire che lei era solo una bambina di nemmeno sette anni, che non aveva vie d'uscita. Lei non era niente. Non era una Vedova Nera, non era un prodigio, non era meglio di nessuna persona lì dentro. Aveva giocato a credersi superiore, aveva seriamente dato per scontato che sarebbe riuscita a scappare da quel luogo quando invece era stata a mala pena in grado di scendere le scale. Per la prima volta nella sua vita, si sentiva annientata. La Stanza Rossa non era di certo un posto per bambini, non c’era spazio per le sue infantili fantasie. Doveva comportarsi da adulta, pur essendo così piccola, e affrontare la realtà in tutta la sua spietatezza: lì era dove, in un futuro relativamente prossimo, sarebbe morta. Si sentì mancare l’aria.

-Ho detto in piedi.- Delle mani forti e ruvide la presero di forza per il braccio, sollevandola con la facilità con cui si raccoglie una piuma. Lei lasciò fare senza opporre la minima resistenza. Si sentì trasportare su per lo scalone, fino alla stanza e al suo letto. Sempre immobile, lasciò che la riammanettassero alla testiera del letto. Avrebbe dovuto sperare che nessuna delle sue compagne fosse sveglia in modo da non dare nell’occhio, ma non le importava più nemmeno di quello. Le sembrava di essere schiacciata dal macigno del suo destino. Si sentiva vuota, le pareva di essere in caduta libera in una fossa di cui non riusciva a scorgere il fondo.

 

Aprì gli occhi, con la sensazione di essersi assopita solo pochi secondi prima. In men che non si dica, le sciolsero le manette e la fecero mettere in riga con le altre, per la conta quotidiana. Le contavano ogni volta che c’era uno spostamento da una stanza a un’altra, cosa che le servì tra l’altro per imparare a fare di conto prima che glielo insegnassero. Come ogni altra mattina, le portarono tutte in fila ai bagni. Doccia, non più di tre minuti a testa. Un minuto per asciugarsi, un altro minuto per vestirsi. L’abbigliamento era sempre lo stesso, i pantaloncini neri corti e la canottiera bianca con una clessidra rossa disegnata sopra. Dopo un’altra conta, la mensa per la colazione. Tutte sedute a un’enorme tavolo, di metallo, in rigoroso silenzio, pena esercizi extra durante l’allenamento, e non esercizi facili. Da mangiare solo una pagnotta di pane. Nemmeno quella mattina rimase una briciola sul tavolo. Terminato il frugale pasto, le condussero nella "palestra". Uno stanzone enorme, ancora più grande del dormitorio, illuminato solo dalla luce artificiale prodotta da un mucchio di lampadine che pendevano dall'alto soffitto dipinto dello stesso grigio scuro e scrostato delle altre pareti. L'unico tocco di colore era il tappeto rosso, vagamente somigliante a una moquette di bassa lega, che copriva il pavimento. Il resto era occupato dagli attrezzi più disparati. In fondo alla stanza, attaccati al muro, v'erano una schiera di spalliere e un quadro svedese. In giro si trovava qualsiasi attrezzatura potesse servire per fare ginnastica: anelli, cavalline, pesi di ogni foggia e dimensione, manubri, sbarre e così via. Agli angoli, per terra, c'erano quattro tappetoni circondati da una bassa transenna, come se fossero delle specie di ring di pugilato. Fino a quel giorno era stato permesso, anzi, comandato, utilizzare ogni dotazione della palestra meno i ring, per ragioni a loro sconosciute. Pur non ricordando niente della loro vita precedente alla Stanza Rossa, sapevano tutte per certo che gli ultimi mesi erano stati i più duri della loro vita. Ogni giorno avevano intorno alle dieci ore di allenamento, cinque al mattino e cinque al pomeriggio, nelle quali l'unica pausa loro concessa era quella per passare da un attrezzo all'altro. C'erano degli istruttori equamente distribuiti per le postazioni la cui mansione era controllare che le ragazze non interagissero tra loro e che eseguissero gli esercizi correttamente. Ogni mattina, una nuova serie di esercizi venivano mostrati per ogni singola attrezzatura e la sera erano obbligate a riprodurli tutti davanti all'istruttore loro assegnato. Non erano autorizzate a uscire dalla palestra fino a quando non fossero state capaci di eseguirli alla perfezione, a costo di perdere tutta la notte. Non ci si poteva rifiutare, non ci si poteva lamentare, non si poteva interagire con nessuno tranne l'istruttore, col quale si parlava solo lo stretto necessario, non si poteva fare niente se non gli esercizi. Per ogni trasgressione la pena era un'ora in più di esercizi. A Natalia era capitato più di una volta di dover rimanere per le ore extra la sera. Il suo corpo minuto da bambina di sei anni faceva uno sforzo sovrumano a sopportare la mole di lavoro che caratterizzava le loro giornate. Eppure, era la ragazzina con meno penalità. Le altre si lamentavano, e le più grandi erano costituzionalmente meno flessibili di lei. Aveva capito da subito che lì dentro l'avrebbe salvata solo il silenzio e il duro lavoro, oltre al gioco d'astuzia. Si ricordava di un paio di ragazzine per le quali gli allenamenti extra non erano bastate a far comprendere l'importanza dell'eseguire gli ordini... Un giorno erano semplicemente sparite e nessuno aveva più avuto notizie di loro. Di sicuro nessuno aveva avuto il coraggio di chiedere. A ogni modo, dopo un po' si erano abituate ad andare a dormire con ogni singolo muscolo in fiamme. Quel giorno, tuttavia, gli istruttori sembravano aver ordine di non muoversi. Parevano attendere l'arrivo di qualcuno. Vogliono punirmi. Pensò Natalia. E vogliono fare in modo che le altre si ricordino di cosa capita se si tenta di scappare da qui. Un brivido le attraversó la schiena. E se avesse fatto la fine delle due ragazze scomparse? Sapeva che erano morte, non era una bambina. Nessuno rimaneva un bambino a lungo, nella Stanza Rossa. Lei ancora non lo sapeva, ma il peggio doveva ancora iniziare. Rimasero immobili per diversi minuti, la tensione palpabile. Tutte avevano paura di qualsiasi cosa fosse tanto importante da far aspettare l'allenamento. Dopo un quarto d'ora, la pesante porta di ferro dalla quale erano entrate si spalancò per far entrare una figura che Natalia riconobbe all'istante. Ivan. Ovvio che lo avrebbe fatto lui, sembrava essere a capo di tutte le operazioni. Nel corso di quei mesi non l'aveva mai visto in giro. Da quando l'aveva conosciuto, al suo arrivo, l'aveva solamente scorto una volta, in lontananza, a parlare con medici e altre persone che lei non aveva mai visto. In quella occasione le era sembrato che la stesse fissando, ma probabilmente era stata solo la sua immaginazione. Ad ogni modo, quando entrò non diede segno di accorgersi di lei. Il cuore di Natalia stava per collassare per la paura di ciò che l'aspettava. La sua mente divagava sulle torture più crudeli a cui potessero sottoporla. Guardò Ivan avvicinarsi e si sorprese a essere pentita di averlo in qualche modo deluso. Non l'aveva visto e non aveva nessun tipo di obbligo verso di lui,  eppure era stata la prima e ultima persona a essere stata gentile con lei, portandola a sentirsi in debito. L'uomo si piazzó davanti alla fila di ragazzine, l'aspetto autoritario. 
-Vi domanderete perchè non vi state allenando.- Esordì, senza eccessivi preamboli. -E, da più tempo, vi starete chiedendo quale sia lo scopo, il fine ultimo di questi allenamenti.-

Natalia era un fascio di nervi. Di cosa stava parlando? Perchè non l'aveva ancora punita

-Ebbene, voi siete state scelte per far parte di un programma. La Stanza Rossa non è solo un luogo dove potete dormire e allenarvi, è un luogo dove vi trasformeremo in combattenti e spie al servizio della Madre Russia. Voi, care ragazze, un giorno porterete questa nazione agli splendori di un tempo, la renderete la vincitrice di questa sempiterna guerra contro gli Stati Uniti d'America- Sputó queste ultime tre parole con disgusto. 
-Imparerete a combattere, imparerete a usare il vostro corpo come arma. Siete l'arma segreta della Russia.- Fece una pausa, lo sguardo perso da qualche parte nei suoi pensieri. Si riprese quasi subito.
-Tuttavia, non tutte siete adatte a questo compito, non tutte siete abbastanza degne di portare tale enorme responsabilità. Per questo nei prossimi mesi imparerete a combattere tra di voi, poi vi batterete come se foste in guerra. Non abbiamo intenzione di fornire spie scadenti. Un solo uomo, nel posto giusto nel momento giusto può essere meglio di un intero esercito. Da oggi, ragazze, vedrete cos'è davvero la Stanza Rossa. Sono sicuro che vi dimostrerete tutte all'altezza e che vi batterete al meglio. Spero di rivedere quante più di voi possibile ancora qui ad ascoltarmi tra qualche mese. Non deludete il vostro Paese. Non deludete me.- Pronunciò queste ultime parole, questa volta ne era sicura, guardando Natalia dritto negli occhi. Finito di parlare, distolse lo sguardo da lei per dare ancora un'ultima occhiata solenne a tutti i presenti. Se ne andò senza aggiungere altro, o senza guardarla una seconda volta. Appena la porta si richiuse dietro a Ivan, gli istruttori andarono a diporsi intorno ai ring. Uno solo di loro rimase lì con loro, a spiegare brevemente le regole. Non era difficile: quasi tutto era permesso, ogni tipo di colpo. Non si poteva tuttavia uccidere, non ancora. Presto sarebbe arrivato il momento. A differenza delle sessioni di allenamento precedenti non si era obbligati a provare ogni giorno. Tuttavia ci sarebbe stata una prova a fine del mese, uno scontro tra tutte loro. Su una cinquantina sarebbero passate alla fase successiva solo le prime dieci classificate.
-E le altre?- Qualcuna ebbe finalmente il coraggio di chiedere, dopo diversi secondi di silenzio.
L’istruttore sorrise in un modo che a Natalia non piacque per niente.

-Diciamo solo che le prime dieci non passeranno per la loro abilità nello sbattere le ciglia.

Mentre l’informazione si faceva strada tra le menti delle ragazze, atterrendole, l’istruttore si fece strada verso i ring, fischiettando l’allegro motivetto di una canzone per bambini.

 

 

 

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Capitolo 5
*** V. ***


V.

 

You can’t undo what’s been done.

That will be with you forever.

But trying to hold onto this life,

clinging to the person you thought you could be

-That’s hell

(Melinda May)

 

Lobnya, Russia

56°01’N 37°29E

Sunday, 6th December 2015

5.23 pm

 

Un rumore la fece sobbalzare, afferrando la pistola che teneva nella borsa. Si girò, e si accorse che era stato solo un topo. La verità era che aveva i nervi ancora più tesi del solito. Di sicuro tornare ad avere a che fare con la Stanza Rossa non giovava alla sua salute. Si aggirò per lo spazio con passo felpato, facendo attenzione a non fare scricchiolare troppo le assi di legno. L’edificio sembrava vuoto, ma non aveva alcuna intenzione di abbassare la guardia. Sarebbe stato da imbecilli e da principianti, e lei non era né l’uno né l’altro. Riprese la sua perlustrazione. Era in una specie di base militare abbandonata a un piano solo, arredata alla meglio per avere la parvenza un appartamento. Era, come il suo informatore le aveva detto, vicino alla stazione dei treni, tanto che si sentiva il suono delle ruote sulla ferrovia in lontananza ogni venti minuti circa. Il pavimento nella stanza da letto, dove si trovava lei, era in legno e passarci sopra senza farlo scricchiolare si stava rivelando un’impresa. Esaminò dalle pareti ai tappeti, ma non c'erano tracce di nessun abitante recente, o almeno negli ultimi trent’anni. Anche il semplice arredamento non tradiva la presenza di qualcuno: i mobili erano ricoperti di polvere ed erano lungi dal poter essere definiti moderni. Le lampade appoggiate sui mobili erano alquanto malmesse. C’era una lampadina, spoglia di un lampadario, che pendeva proprio sopra la sua testa. Cercò con lo sguardo il suo interruttore, nella speranza che producesse più luce della torcia che stava usando in quel momento. Lo scorse nell’angolo opposto a dove si trovava lei, dietro alla testiera di un letto in metallo composto solo dal materasso. Si mosse sulle assi del pavimento con circospezione, dirigendosi verso il letto. Era arrivata a metà del percorso, sopra un tappeto, quando avvertì uno scricchiolio agghiacciante, e sentì il terreno mancarle sotto i piedi, a seguito di un colpo secco. Si ritrovò ad agitare le braccia nell’aria, in cerca di un appiglio, fino a quando cadde rovinosamente sul duro cemento. L’impatto la lasciò senza fiato per qualche secondo, portandola ad annaspare in cerca d’aria mentre intorno a lei si sollevavano nuvole di polvere e calce. Dopo qualche attimo, ignorando il dolore conferitole dalla botta, si alzò in piedi. La luce triste e tremolante di un neon si accese. Si trovava in un corridoio bianco e asettico, strettissimo, con le pareti ingiallite e scrostate. Tra la scarsa illuminazione intermittente e l’inquietante somiglianza con gli ospedali psichiatrici che si vedono nei film, la vista era piuttosto sinistra. Guardò sopra di sé. Un buco, quello nel quale lei era caduta, era stato fatto sul soffitto e poi probabilmente coperto frettolosamente dalle assi di legno del pavimento della stanza soprastante. Tolse alla meglio la calce dai propri pantaloni e si diresse verso l’unica porta che quel corridoio sembrava avere, la pistola salda nella mano e puntata di fronte a lei. Aprì la porta, cautamente, e un fetore orrendo la prese alla gola. Trattenendo un conato e con le lacrime agli occhi, alzò lo sguardo. Si trovava in una stanza che era uno strano miscuglio tra una sala di esperimenti e una sala operatoria. C’erano diversi lettini, e su ognuno di questi, attaccati a delle flebo, c’erano i cadaveri di ragazzine, mutilati fino al punto di rendere difficile distinguere le parti del corpo. Non dovevano essere lì da troppo, perché, sebbene fossero in decomposizione, non erano ancora ridotti a scheletro. Il sangue era ovunque, impregnava le lenzuola dei lettini, colava sul pavimento, sporcava le pareti bianche. Spinta da una forza a lei sconosciuta, si avvicinò ai corpi. Le lacerazioni non sembravano, tuttavia, essere state prodotte da armi, sembrava quasi che la ferita fosse stata prodotta da dentro il loro corpo. Avvicinandosi, e trattenendo la sensazione di nausea che le si era aggrovigliata sul fondo dello stomaco, riuscì a notare che dai bordi delle ferite, insieme al sangue, si scorgeva anche una strana sostanza liquida blu. Si chinò sotto il letto di una bambina il cui ventre era stato totalmente lacerato e, controllando la propria respirazione, immerse due dita nella pozza di sangue ormai quasi totalmente rappresa. Portò la mano vicina agli occhi, cercando di identificare la natura della sostanza blu ormai diventata tutt’una col sangue, ma senza successo. Si alzò da terra e si diresse verso un armadietto posto in un angolo. Lo aprì, cercando di ignorare le ampolle contenenti qualcosa di inquietantemente somigliante a organi umani, in cerca di una siringa. Non riuscendo a trovarne, si accontentò di una piccola provetta. Tornò a prelevare un campione di sangue nel punto dove aveva provato prima e ripose il tutto nella sua borsa, preoccupandosi di isolarlo dentro un panno. Lo avrebbe analizzato in seguito. Sospirando, riprese la sua perlustrazione. In fondo alla stanza, c’era il corpo di una ragazzina quasi integro che attirò subito la sua attenzione. La ragazzina non doveva aver avuto più di nove anni e al contrario delle altre sul suo cadavere non vi erano ritratte le eco di una lotta, né smorfie di dolore. Era seduta. Le sue orbite erano buche e da esse era sgorgata una grande quantità di sangue, quasi sembrava che stesse piangendo lacrime rosse scese fino a profanare il bianco perfetto del suo camice. Pareva quasi fissasse il muro davanti a sé e Natasha, senza rendersene conto, si girò a fare lo stesso. Fu allora che notò le scritte. Su quella parete, a differenza delle altre, vi erano scritte con una sostanza che non poteva che essere il sangue delle ragazzine, due parole ripetute allo sfinimento: навсегда красный (forever red).

 

7.47 pm

 

Aprì il rubinetto della doccia per la terza volta in un’ora. Per quanto stesse sotto l’acqua, le sembrava di non riuscire a liberarsi dell’odore di quella stanza, del sangue di quelle bambine. Il suo corpo era scosso da tremiti e non era colpa della temperatura. Rivedeva i visi e i corpi mutilati delle ragazzine appena chiudeva gli occhi, e aveva l’impressione che da quel giorno un nuovo incubo si sarebbe unito alla solita, interminabile successione di immagini e ricordi che la visitava ogni notte. Lasciò che l’acqua le scivolasse addosso e si sedette sul pavimento della doccia, privata di ogni forza. Sapeva che la Stanza Rossa aveva sempre adottato metodi crudeli con le proprie Vedove Nere, ma non avrebbe mai detto che si sarebbe spinta a tanto. Le pareva strano, era uno spreco di forze. Se i superiori della Stanza volevano uccidere qualcuno, di solito non si sporcavano le mani, ma lasciavano il compito alle altre ragazze. Qualcosa in tutta quella storia non le tornava per niente. Eppure, per quanto si scervellasse, per quanto leggesse e rileggesse il taccuino che aveva preso a Vasnetsov, non riusciva proprio a capire cosa. Anche dopo tutti quegli anni, anche conoscendo la maggior parte degli schemi, non riusciva a comprendere la Stanza Rossa. Si alzò in piedi, chiudendo il rubinetto dell’acqua. Uscì, si asciugò alla svelta e si rivestì, abbondando con la dose di profumo. Buttò alla rinfusa tutti i suoi vestiti nella solita sacca, e uscì frettolosamente dalla camera del motel sgangherato di Lobnya. Si diresse di corsa verso la stazione, cercando di non pensare alla casa poco lontano. Doveva sbrigarsi, aveva un treno per Mosca da prendere.

 

 

Moscow, Russia

55°45’06”N 37°37’04”E

Monday, 7th December 2015

8.38 pm

 

Natasha affrettò il passo, facendo lo slalom tra le fiumane di gente che ancora occupavano le strade della capitale. Non voleva di certo perdersi lo spettacolo... Nel giro di un quarto d’ora aveva già raggiunto le grandi colonne del Teatro Bolshoi. Ignorò il groviglio che le si formava alla bocca dello stomaco ogni volta che le ripensava ai giorni in cui non entrava dall’entrata principale, ma da quella delle ballerine, ai giorni in cui non indossava un vestito elegante per vedere il balletto, ma indossava il tutù per eseguirlo, ai giorni in cui non era un viso tra la folla, ma l’unico viso che tutti guardavano. Ai giorni in cui credeva che tutto quello fosse reale. Entrò, indossando la sua solita sicurezza come un’armatura a celare la montagna di incertezze che popolava la sua mente. Una volta,a una festa organizzata da Stark, Clint aveva detto a Steve, scherzando: “Non puoi mai sapere cosa passa nella testa di questa ragazza. Nasconde tutto così bene che quando ti guarda potrebbe pensare qualsiasi cosa da ‘Ti ucciderò nel sonno’ a ‘Questa sera ho proprio voglia di mangiare una cheesecake’. Tu non saprai mai la verità, ma speri vivamente di trovarla a mangiare una torta quando torni a casa, perché credimi che svegliarti con lei che ti punta un coltello alla gola non è mai piacevole.”. Ovviamente Occhio di Falco l’aveva resa in maniera divertente, ma non sapeva quanto avesse ragione. Persa nei suoi pensieri, quasi non si accorse di un guardarobiere che stava aspettando con aria scocciata che lei si togliesse la giacca e gliela passasse. Mormorando delle scuse, lasciò che il ragazzo gliela sfilasse e se ne andasse con aria stizzita. Lo osservò andarsene. Era giovane, probabilmente studiava ancora. Lei avrebbe potuto essere sua madre. O sua nonna, pensò considerando la propria età effettiva. Si sitemò il vestito, in attesa del momento di entrare in platea. Indossava un lungo abito blu che le fasciava le curve e i suoi riccioli rossi, raccolti da un lato, ricadevano morbidamente sulla spalla sinistra. A vederla, non si sarebbe mai indovinata la presenza di una Beretta calibro 7,65 sotto la gonna o dei taser nascosti sotto quella che pareva un’innocua coppia di bracciali d’argento. Finalmente aprirono le porte, e lei andò a sedersi al suo posto, verso il fondo. Dovette aspettare un’altra mezz’ora prima che lo spettacolo iniziasse. Finalmente, le luci si spensero e le note del Lago dei Cigni si impossessarono della sala. Una ballerina stava già volteggiando sul palco, leggera come una piuma, il vestito che pareva risplendere di luce propria. Natasha conosceva a memoria la musica, i passi. Erano stati impressi talmente bene che quasi le sembrava di averlo ballato davvero un migliaio di volte. Il groviglio che avvertiva dentro di sé si strinse. Si morse un labbro nell’oscurità e si costrinse a rimanere composta. Si prospettava una lunga serata.

 

Dopo un’ora e un quarto di lotta contro i ricordi imposti dalla Stanza Rossa, arrivò finalmente l’intervallo. Sgusciò inosservata tra gli spocchiosi rappresentanti dell’aristocrazia russa e le loro mogli dai sorrisi finti. Si diresse in silenzio verso i camerini. Sapeva per certo che lei avesse solo creduto di essere stata una ballerina lì, però sapeva anche che non era raro che la Stanza Rossa spedisse le sue allieve al Bolshoi sotto copertura. Sgattaiolò per i corridoi, evitando gli sguardi dei pochi ospiti presenti in quell’ala dell’edificio. Passò dietro al sipario, con le corde e i pesi che lo sostenevano, e arrivò davanti ai camerini, sorvegliati da un addetto alla sicurezza grosso come un armadio. Facendo attenzione a non farsi vedere lo studiò per un secondo, nascosta dietro a un muro. Attese pazientemente che l’intervallo finisse e le ballerine ritornassero sul palco, sfilandole davanti con l’innata grazia a lei molto nota. Sospirò e indossò la sua migliore espressione innocente e spersa, avvicinandosi all’uomo.

-Прости, сударыня, вы не можете быть здесь (Mi dispiace signora, non può stare qui.)- Scattò subito l’uomo, muovendosi verso di lei con la mano tesa per stopparla.

-О, слава Богу, я нашел тебя! Боюсь, я потерян. Я искал туалет, и я не могу найти свой путь обратно... Вы были бы достаточно любезны, чтобы сопровождать меня обратно?(Oh, grazie a Dio ho trovato lei! Ho paura di essermi persa. Stavo cercando i servizi e ora non riesco a trovare la strada per tornare indietro... Sarebbe così gentile da riaccompagnarmi?)- Replicò lei, la voce camuffata in modo da sembrare molto preoccupata.

-Мне очень жаль, но я не могу … (Mi dispiace, ma non posso...)- La voce dell’uomo venne subito interrotta da quella di lei.

-Я прошу вас, это место является настолько большой и страшный... (La supplico, questo posto è così grande e spaventoso...)- Sbatté un po’ le ciglia, provando un misto di soddisfazione e repulsione nel vedere ancora una volta quanto recitare la ragazza vulnerabile e francamente abbastanza idiota avesse effetto sul sesso opposto. Osservò l’uomo osservarla, rifletterci, in preda all’indecisione, e poi scrollare le spalle, in segno di assenso. Lei sfoderò un sorriso grato e continuò a sorridere anche quando, appena fu abbastanza vicino, lo folgorò con i taser nascosti sotto i suoi braccialetti. Идиот (idiota). Si diede un’occhiata intorno, a controllare che nessuno la vedesse, ed entrò nei camerini. Erano proprio come se li ricordava: la luce soffusa intorno agli specchi illuminava il disordine che regnava lì intorno. Gli oggetti di scena, in legno e in cartapesta, erano sparsi ovunque, così come diversi costumi di tulle o maschere dalle forme più bizzarre e i colori vivaci. Il tutto, proiettava ombre piuttosto curiose, che nella penombra risultavano essere abbastanza inquietanti. Sui tavolini corrispondenti a ogni specchio c’erano scatole su scatole di cerone e trucchi assortiti, ferri e forcine per i capelli, gesso e i più disparati effetti personali, da telefoni cellulari a foto autografate, da chiavi di chissà quale armadietto a romanzi rosa. Senza produrre il minimo rumore si avvicinò agli specchi, in cerca di qualsiasi traccia di un’infiltrata tra le ballerine. Diversi minuti e numerose scatole di antidepressivi e integratori dopo, non aveva ancora trovato niente che potesse presagire la presenza di una Vedova Nera. Ovvio, era probabile che non vi fosse, di fondo non aveva mai trovato nessuna prova a confermarlo, ma era sicura che se la Stanza Rossa stesse cercando di risollevarsi quello sarebbe stato il primo posto dove avrebbero mandato le spie. Anche dopo tutti quegli anni, il Bolshoi era ancora luogo di ritrovo di personaggi di spicco della società, spesso e volentieri troppo incauti nel parlare di questioni di stato con i propri vicini. Con gli anni e con la fine della Guerra Fredda la gente non si aspettava più di essere circondata da spie. Natasha aprì l’ennesimo cassetto, quasi rassegnata. Altre pillole. Con un sospiro di sconforto, le lasciò cadere nel cassetto. L’impatto, però, produsse uno strano rumore vuoto che la fece insospettire. Lo svuotò dal contenuto e picchiettò un po’ sul legno. Il suono che produceva non lasciava sospetti: c’era un doppio fondo. Tentò di rimuovere l’asse che lo nascondeva, invano. Estrasse il cassetto e afferrò la pistola che teneva nascosta sotto l’abito. Maledicendosi per non aver portato un coltello, decisamente meno rumoroso, diede un colpo secco sul legno con l’impugnatura. Il suono rimbombò per qualche secondo nella stanza. Fortunatamente, fu sufficiente a rivelare il secondo contenuto del cassetto. Vi trovò un libro, Anna Karenina, in un’edizione piuttosto antica, anche se be conservata. Lo sfogliò, per capire il motivo per cui si dovrebbe nascondere un libro piuttosto comune. Le pagine erano completamente intonse, fatta eccezione per qualche cerchio sui numeri di diverse pagine, ma nient’altro. Anche leggendole, non suggerivano nessun indizio utile. Presa da quel rompicapo, non udì la porta dietro di lei aprirsi. Si accorse di non essere sola soltanto nel momento in cui si ritrovò a terra, senza fiato per l’impatto e per la sorpresa. Sentì un secondo calcio in prossimità della sua testa, ma questa volta non si fece cogliere impreparata e rotolò sul fianco per evitarlo. In men che non si dica era di nuovo in piedi, in posizione di combattimento. Osservò un secondo il suo avversario, o meglio, la sua avversaria. Ancora nel costume del ballo, una ragazza che non doveva avere più di vent’anni la stava fronteggiando. Era più alta di Natasha e altrettanto magra, aveva i capelli neri raccolti in uno chignon e gli occhi azzurri e gelidi. Natasha riuscì solo a darle una veloce occhiata prima che l’altra tornasse all’attacco, tentando di sferrarle un pugno sulla mandibola. Lei inarcò la schiena all’indietro, schivandolo, e riuscì ad afferrarle il braccio e a scaraventarla per terra. L’altra evitò l’impatto con una capriola, e come se niente fosse si tirò nuovamente in piedi. Natasha fece per avvicinarsi, quando vide che l’altra aveva preso la pistola che le doveva essere caduta pochi istanti prima. Udì lo sparo, e si gettò dietro una scultura in cartongesso raffigurante la luna, evitando il proiettile di un soffio. Gattonò, nascosta dal cartone raffigurante il resto della volta celeste, in cerca di qualsiasi cosa da usare come arma. Trovato un tubo di metallo, si rialzò in piedi, alle spalle dell’altra, e cercò di colpirla ma lei si girò di scatto e bloccò la sua mossa con una mano. Puntò nuovamente la pistola verso Natasha, che però le prese il polso e riuscì a torcerglielo prima che partisse il colpo. Vide l’altra digrignare i denti mentre lei le sfilava la pistola dalle mani. Ora le parti erano invertite, Natasha puntava la pistola contro la ballerina, armata solo del tubo di metallo. Premette il grilletto e l’altra saltò, esibendosi in un salto mortale per aria che stupì persino la rossa, scansando senza apparente fatica il proiettile. Atterrata, le tirò una gomitata in modo da farle cadere la pistola, che finì a qualche metro da loro. La ragazza fece per andare a prenderla, ma Natasha fu più veloce nel saltare e atterrarla, le gambe attorno al collo dell’altra nel tentativo di soffocarla.

-это правда, то ... Романова возвращается (è vero allora.... La Romanova è tornata...)- esalò con voce strozzata la ballerina, rossa in viso. Natasha non fece nemmeno in tempo a rispondere che l’altra si era liberata, le aveva tirato un pugno ben assestato sullo stomaco levandole il respiro per un paio di secondi e aveva ricominciato a correre verso la pistola. La rossa però era più veloce e la raggiunse, tirò un calcio alla pistola in modo da mandarla più lontano, si girò verso l’avversaria e la colpì con i taser. L’altra emise un gemito di dolore sotto le scariche elettriche, ma non cadde a terra. Passati una manciata di secondi rialzò la testa verso Natasha, ancora attaccata a lei con i bracciali, e le rivolse un ghigno. Natasha la guardò interdetta: i suoi taser lasciavano una scarica sufficiente ad atterrare un orso. Era stata presa talmente alla sprovvista da non fare niente per evitare il calcio che arrivò subito dopo, buttandola nuovamente a terra. Con una capriola all’indietro si rialzò e corse verso la pistola. La afferrò e sparò all’altra, lontana un paio di metri da lei, colpendola alla spalla. Si gettò dietro un altro cartone di scenografia. Prendendo fiato, controllò i taser. Magari erano scarichi, o si erano rovinati? Strano, li aveva progettati lei e li controllava ogni giorno... Persino Tony Stark aveva detto che non sarebbe riuscito ad applicarci alcuna miglioria. Infatti, pur riguardandoli diverse volte, non vi trovò alcuna anomalia. Iniziò a gattonare dietro al cartone, non sentendo i movimenti dell’altra, la pistola ben salda in mano. L’altra fu tradita solo dal fruscio del tutù mentre saltava, altrimenti sarebbe perfettamente riuscita a coglierla di sorpresa, atterrandole alle spalle. Natasha si girò di scatto, la pistola puntata, per vedere l’altra dietro di lei pronta a combattere. L’unica traccia della ferita inflittale dalla rossa era un buco nel costume, circondato da un po’ di sangue. Per il resto, non si vedevano segni di colpi di pistola e la ragazza era più in forma che mai. Senza avere idea di ciò che stava facendo, Natasha sparò nuovamente diversi colpi, colpendola allo stomaco e sperando almeno di rallentarla. La ballerina cadde sulle ginocchia, ansimando. La rossa non perse tempo: iniziò a correre disperatamente fino all’altra parte della stanza, afferrò il libro e fece per correre verso la porta, quando sentì l’altra, ancora dalla parte opposta della stanza, parlare probabilmente in un auricolare.

-Это Романовой. Она здесь. (è la Romanova. È qua.)

Prima che Natasha potesse raggiungere la porta, quella si era già aperta lasciando entrare l’uomo che aveva atterrato poco prima, armato di pistola e con una faccia che non presagiva niente di buono. Evitando lo sparo, fece inversione e corse verso un’altra porticina nascosta in fondo alla stanza, che lei sapeva condurre alle scale per l’uscita sul retro. Sentì l’uomo dietro di lei urlare la sua direzione e accelerò il passo, stringendo la copia di Anna Karenina al petto con una mano e la pistola salda nell’altra. Sentì lo scalpiccio di uno... due... tre uomini salire verso di lei, mentre dietro di lei l’uomo aveva iniziato a scendere per inseguirla e stava sbraitando con qualcuno, presumibilmente la ballerina. Si fermò dietro all’angolo di una rampa, aspettando che l’arrivo di quelli che stavano salendo. Appena vide il primo spuntare da davanti a lei gli tirò un calcio ben assestato, che gli fece perdere l’equilibrio cadendo sul secondo e trascinandolo giù dalle scale con sé. Natasha si sporse dal suo nascondiglio per sparare al terzo prima che avesse solo il tempo di alzare il fucile che portava a spalla, utilizzando così l’ultimo proiettile rimasto in canna. Prima che gli altri due potessero rialzarsi lei si aggrappò al corrimano, scivolando fino al fondo, arrivando in fretta all’uomo morto e sfilandogli il fucile per usarlo contro di loro. Nell’udire l’altro uomo e la ballerina avvicinarsi, si girò e riprese a correre a perdifiato, raggiungendo finalmente la porta d’uscita. Prima di aprirla, però, vi busso piano sopra. Come si aspettava, sentì una voce dall’esterno rispondere. Aprì la porta con tutta la forza che aveva, colpendo così l’uomo di guardia. Il fucile ben alto, uscì, sparando al compagno di quello che aveva appena messo fuori gioco. Consapevole del poco tempo che le rimaneva, corse a perdifiato, cercando di mischiarsi tra la folla e di girare per tutti i vicoli più nascosti. Ogni tanto si girava a controllare, non sicura di averli seminati. Quando ne ebbe la certezza, si fermò in un vicolo e si accasciò contro il muro, ansimante. Si lasciò scivolare piano per terra, poco importava che avesse nevicato da poco. Ripensò alla ballerina e al poco effetto che le sue armi avevano avuto contro di lei. Certo, allo SHIELD aveva visto file di soggetti capaci di rigenerarsi, ma Vedove Nere? Quali altre novità l’aspettavano? Quanto ancora non sapeva della Stanza Rossa?

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** VI. ***


VI.

 

She’s not the kind who needs saving,

she became her own knight

in shining armour,

she forged her own sword,

and put on her own armour,

she stepped into the flames

with no fear of burning,

she carried the weight of the world

when no one asked her to.

She became more than a saviour.

She became her own hero

-And you know heroes make the best legends

(Anonymous)

 

Russia, 1935

 

Natalia tirò fuori la forcina che aveva nascosto sotto il cuscino, rubata qualche giorno prima da una compagna con i capelli eccessivamente ribelli. Armeggiò per un po’ con la toppa delle manette che la tenevano incatenata al letto, fino a quando la sentì cedere. Sgattaiolò fino alla parte opposta della stanza, dove vi era una botola adibita a gettarvi i vestiti sporchi. Per il quindicesimo giorno di fila, la aprì e vi si infilò, ringraziando ancora una volta di essere così minuta, puntando i piedi sul metallo e lasciandosi scivolare piano. Fortunatamente di notte non lasciavano nessuno a controllo dell’uscita, e ancora più fortunatamente la palestra era di fianco alla lavanderia. Era abbastanza sicura che le guardie fossero perfettamente a conoscenza delle sue gite notturne, ma la lasciassero fare in parte per negligenza e in parte perché non vedevano niente di male nel fatto che lei si andasse ad allenare un po’ di più, purché non tentasse di scappare. Una volta arrivata, si fasciò le mani come aveva visto fare a diversi istruttori e iniziò a prendere a pugni un sacco da boxe che pendeva in un angolo. A due settimane prima dell’incontro che avrebbe deciso chi sarebbe rimasta in vita, Natalia sapeva perfettamente di non avere speranze dal punto di vista fisico. Aveva deciso di giocare sull’astuzia. Nelle precedenti settimane, aveva osservato le altre allenarsi. Aveva studiato ognuna di loro, i loro punti deboli e i loro punti di forza, i colpi vincenti e quelli fiacchi, aveva studiato come avevano la meglio sulle avversarie. Rimanendo così nascosta, non solo aveva avuto modo di conoscere lo stile di ogni ragazzina, ma era anche riuscita a fare in modo che le altre non si accorgessero e quasi si dimenticassero di lei, senza contare che nessuna sapeva come lei combattesse. Purtroppo per lei, però, non aveva grandi assi nella manica su quel lato, e allora era costretta ad allenarsi da sola ogni notte, cercando di mettere su un po’ di muscoli e accumulare un po’ di forza, ripassando le tecniche che avrebbe usato su ogni ragazzina. Le nocche già iniziavano a bruciarle quando sentì il rumore della porta che si apriva. I riflessi allenati dal tempo passato lì, si fermò immediatamente e si nascose dentro il primo armadio che trovò, stretta tra diversi attrezzi sulla quale dubbia origine non voleva indagare. Sebbene avesse il sentore che le guardie sapessero che lei si trovava lì, non ne aveva la certezza. In più, era la prima volta che qualcuno entrava in palestra durante la notte, non poteva essere niente di buono. Respirando il poco necessario per avere aria nei polmoni, sperò vivamente che fosse solo un normale controllo e che non fossero lì per lei. Aspettò di sentire altri rumori, sperando di essere l’unica a udire i battiti del cuore che minacciava di scoppiarle in petto. Seguirono diversi lunghi secondi di silenzio surreale. Natalia aveva la sensazione che ogni secondo i suoi nervi avrebbero ceduto. L’aveva fatta franca una volta, ma nessuno sfugge due volte alle punizioni della Stanza Rossa. Sentì la porta dell’armadio cigolare, sinistra, e prima che lei avesse anche solo il tempo di prepararsi a uno scatto, l’uscita era bloccata dal corpo di Ivan Petrovitch Bezukhov. La bambina alzò gli occhi su di lui, cercando di nascondere la paura nel proprio sguardo, tradita però dal tremare del suo corpo. L’uomo stava stranamente sorridendo. Le tese la mano, per aiutarla ad alzarsi e uscire, ma lei era troppo insospettita per accettarla. Si alzò da sola e aspettò che lui si facesse da parte per uscire. Non aveva più senso scappare ormai, lo sapevano entrambi. Ivan abbassò lo sguardo sulle mani fasciate della ragazzina e poi lo spostò sul sacco da boxe ancora traballante.

-Allora, vedo che a qualcuno non bastano gli allenamenti di giorno.- La sua voce era calma, come se stesse parlando del meteo. -Eppure, di giorno non tocchi attrezzo. Vi osservo, sai, anche se non potete vedermi... Vuoi spiegarmi il perché di queste gite, mentre potresti benissimo evitartele combattendo di giorno, con tutte le altre?

Natalia lo fissò in silenzio, indecisa sul da farsi.

-Guarda che non ho intenzione di ucciderti.- La incoraggiò lui dopo un po’.

-C’è troppa coda per i ring, signore.- Nel dubbio, meglio mentire. Non era saggio rivelarle dei suoi piani, non era nemmeno completamente sicura che fossero ammessi.

-Troppa coda, mh? Interessante.- Annuì, guardandosi intorno come se stesse pensando a tutt’altro.

-Sì, signore. Ci sono troppe ragazze e troppi pochi posti, le più piccole vengono lasciate per ultime e le grandi combattono per troppo tempo. E poi...- Lui la interruppe con un gesto della mano.

-D’accordo, abbiamo capito che sai mentire bene. Devi ancora lavorare su un paio di dettagli, ma quello non sarà un problema, se sopravvivi a questo mese. Ora, qual è la vera ragione della tua presenza qui di notte?

La bambina lo squadrò, diffidente. Lui sospirò.

-Natalia, fai bene a non fidarti di nessuno qua dentro. Ma puoi fidarti di me, non sono come loro. Non ti farò del male.

Qualcosa nella sua voce la convinse, le diede un po’ di speranza a cui aggrapparsi. Era una tentazione troppo forte dopo tutti quei mesi in cui quasi non aveva parlato con nessuno. Forse non era sola lì dentro, forse aveva ancora qualcuno dalla sua parte. Gli raccontò del suo piano, di come stava osservando le altre ragazze, di come conoscesse tutti i loro punti deboli. Lui la ascoltava interessato. Quando ebbe finito, sul viso di Ivan si contornò un sorriso quasi orgoglioso.

-Sapevo che avevi in mente qualcosa. Non mi sbaglio mai sulle persone. Sei sveglia, per avere solo sette anni...- si fece all’improvviso più serio. -Ma allenarti con quel sacco da boxe non ti basterà. Come ti ho detto, ho assistito agli allenamenti e credimi che molte di loro sono particolarmente forti. Anche se conosci i loro punti deboli, devi essere in grado di assestare bene i colpi, soprattutto adesso che non potete ancora usare le armi.

Detto ciò, le diede le spalle e si tolse la giacca. Si avviò verso uno dei ring, fischiettando, poi si girò accorgendosi che la bambina lo stava ancora fissando da lontano.

-Beh, intendi stare lì impalata tutta la notte? Abbiamo solo due settimane, dobbiamo darci da fare.

Riscuotendosi, la ragazzina si affrettò verso il ring. Ivan sorrise e si mise in posizione di combattimento.

-Bene, Natalia. Vediamo di fare di te una Vedova Nera.

 

Two weeks later

 

Natalia non riuscì a chiudere occhio fino a quando, al mattino, arrivarono a slegarle dai letti e a porre fine alla sua notte di ansia e di continuo girarsi sotto le coperte. Quella notte non era andata in palestra, ordini di Ivan. Se era stato per farla riposare, beh, non era servito. Uscì dal letto e seguì le altre verso i bagni, camminando rigidamente. Sentiva ogni fibra del suo corpo impregnarsi di tensione. Sperò che una volta sul ring si trasformasse in adrenalina. Più si era avvicinata quella mattina, più la verità si era fatta strada dentro di lei e le era parsa chiara: quel giorno sarebbe potuta morire, se non avesse giocato bene le sue carte. Compié tutte le azioni in maniera meccanica e senza nemmeno accorgersene si ritrovò a fare colazione. Si costrinse a ingoiare il pane, sperando che le rimanesse nello stomaco, in modo da avere quanta più energia potesse accumulare. Si alzò e seguì le altre verso la palestra. Le osservò, mentre camminavano. All’apparenza erano tutte tranquille, ma a un occhio più attento non sfuggivano i segnali del fatto che lei non era stata l’unica ad avere una notte lunga. Vedeva unghie morsicare fino a far sanguinare la pelle, occhi gonfi o cerchiati, labbra piene di morsicature. Finalmente, arrivarono alla palestra. Tutti gli attrezzi e postazioni di allenamento erano spariti, lasciando solo i ring ben visibili nella stanza, ai quali se n’era aggiunto uno più grande al centro. Le ragazze vennero disposte in fila, tutto nel silenzio più tombale. La tensione era palpabile nell’aria, i muscoli di tutte erano tesi al massimo e si udivano diversi respiri spezzati. D’altronde, erano in cinquanta. In poche ore quaranta di loro sarebbero state concime per il giardino dei medici della Stanza Rossa. Rimasero ferme senza quasi emettere un fiato per diversi minuti, sotto l’occhio degli allenatori che avevano tutta l’aria di godersi lo spettacolo, fino a quando Ivan fece il suo ingresso nella stanza e si fermò davanti a loro, con aria solenne. Le osservò, una per una, fermandosi qualche secondo in più su Natalia, e poi sorrise. Spiegò loro velocemente le regole: sarebbero state divise in cinque gruppi, uno per ring, di dieci persone l’uno, a seconda della loro statura, peso ed età. Ogni gruppo sarebbe stato a sua volta scisso in due turni da cinque persone. Per vincere si doveva uccidere l’avversaria. Chi rimaneva in vita aveva l’obbligo di rimanere ferma e aspettare l’avversaria seguente. Alla fine, ne sarebbero rimaste in vita due per gruppo, le vincitrici e coloro che sarebbero state parte del progetto Vedova Nera. Sorrise nuovamente, augurò loro buona fortuna e si mise in disparte, allegro come se al posto di aver appena spiegato come quaranta di loro sarebbero morte di lì a poco avesse spiegato le regole degli scacchi. Un allenatore arrivò per dividerle dei cinque gruppi. Natalia ovviamente era nel gruppo delle più piccole, anche se risultava esile pure tra loro. Non fece nemmeno in tempo a controllare chi fossero le sue rivali che già un altro allenatore le aveva condotte al ring e divise ancora per cinque. Presero le prime cinque e un allenatore portò Natalia e le altre in una piccola stanzetta lì vicino, in modo che non vedessero gli altri incontri e prendessero idee dalle compagne. Natalia sospirò e si lasciò scivolare contro il muro. Avrebbe dovuto concentrarsi e studiare le sue vicine, ma non riusciva a pensare normalmente e faceva fatica a respirare. Chiuse gli occhi e quando li riaprì, dopo quelli che a lei erano parsi solo pochi attimi, le stavano già portando fuori per il secondo turno. Quattro del suo gruppo erano già morte. Si maledisse per non avere studiato le sue compagne. Ora avrebbe dovuto elaborare una strategia sul momento. Per poco non si accorse dell’allenatore che la stava chiamando sul ring.

-Forza rossa, non ho tutto il giorno.

Era la prima. Aveva sperato di essere chiamata per ultima, in modo da avere più speranza di sopravvivere e non essere costretta a uccidere quattro persone. Entrò sul tappeto rosso, coperto da una sostanza viscosa che non poteva essere che sangue. Il suo odore metallico la fece tornare in sé. Doveva farcela, non poteva morire. Non voleva, non così, non il quel posto, non in quel momento. Non davanti a Ivan. Si fece forza e squadrò la sua avversaria. Era impallidita, ma sembrava determinata anche lei. Capelli biondi, occhi marroni, piccolo neo sul mento, lievemente più alta di lei. Se la ricordava. Sferrava un sacco di colpi in poco tempo, ma non era capace a gestire la difesa delle proprie gambe. Doveva colpirla lì. Sentì un fischietto suonare. La sua avversaria mosse verso di lei e fece per tirarle un pugno, che lei evitò per un pelo. L’altra non demorse e continuò a mirare la sua faccia, fino a quando riuscì a colpirla sulla mandibola. Natalia barcollò all’indietro, cercando di tenere l’equilibrio, mentre l’altra l’attaccò nuovamente e mandò a segno un altro colpo, facendola cadere. Sentì gli allenatori ridere, probabilmente si aspettavano la sua morte in breve tempo, probabilmente l’avevano mandata per prima in modo da liberarsi di lei in fretta e vedere dei “veri” combattimenti. La rossa cercò di rialzarsi, ma vide la sua avversaria mirare la sua faccia con un calcio, presumibilmente nell’intento di finirla così. I riflessi di Natalia però non la tradirono. Afferrò la scarpa dell’altra, bloccando il suo colpo, e da terra le tirò un calcio sulla gamba non in sospensione, facendola cadere prona. Le risate degli allenatori cessarono. Prima che avesse tempo di fare niente, Natalia era già seduta sulla sua schiena, usando il suo peso in modo che si dimenasse il meno possibile. Con le mani tremanti, afferrò la sua testa. È facile, ce la fanno anche i bambini come te. Devi solo dare un colpo secco. Le parole di Ivan risuonavano nella sua testa. Non puoi permetterti di avere pietà. La pietà è per i deboli e per i piccoli, e tu non sei nessuna delle due, vero? Si tratta della tua vita contro la loro. Natalia inspirò al fondo, e girò il suo collo con un movimento rapido, fino a sentire un lieve “crack”. La ragazza smise di agitarsi sotto le sue cosce e il suo corpo si afflosciò. La rossa cercò di riprendere fiato e far smettere il tremore mentre guardava con occhi sbarrati il corpo sotto di lei. A stento trattenne un conato. Non le lasciarono nemmeno il tempo di riprendersi, venne alzata a forza dal cadavere della ragazzina e un’altra venne mandata nel ring. Per quello e per i seguenti due incontri si trovò in una specie di trance. La prima, capelli castani e occhi grigi, più alta di lei di una decina buona di centimetri. Graffiava, e infatti riuscì a prenderla in più punti lasciandole dei segni rossi sulla guancia e sulle braccia, ma Natalia ricordava che non era brava a parare i colpi veloci. Assestò un paio di calci e pugni, fino a circondarle la testa con le braccia e ucciderla come aveva fatto con la precedente. La successiva, alta e di corporatura decisamente più robusta della sua, sferrava colpi molto potenti ed era brava anche nella difesa. Riuscì quasi ad avere la meglio su Natalia, provocandole diversi lividi e probabilmente anche un paio di costole rotte, lasciandola per terra con il naso sanguinante. Prima che potesse sferrare il colpo finale, tuttavia, la piccola si rialzò e iniziò a colpirla in maniera disperata da diverse angolazioni, sfruttando la propria velocità contro la goffaggine dell’avversaria. Riuscì a farla cadere e, dato che l’altra si dimenava troppo perché riuscisse a spezzarle il collo, riuscì comunque ad afferrarla alla giugulare e tenere stretto fino a quando l’altra si fece rossa in viso e il suo cuore smise di battere. Quando l’ultima salì sul ring, Natalia era esausta e dolorante. La squadrò un attimo, per farsi un’idea. Magra, rasentava quasi l’anoressia, capelli ramati e lisci. Non perse nemmeno tempo a elaborare una strategia. Si lanciò contro di lei con le poche forze che le rimanevano, colpendola alla cieca. In pochi secondi l’altra, spiazzata, non riuscì più a difendersi e cadde. Natalia si scaraventò sopra di lei, continuando a colpirla con rabbia, urlando, non fermandosi nemmeno quando avvertiva le ossa dell’altra rompersi sotto le sue mani, nemmeno quando le sue nocche iniziarono a colorarsi del sangue dell’altra. Sentiva tutta la tensione, la paura, la frustrazione della giornata liberarsi e guidare il suo intero corpo. Non si fermò nemmeno quando l’altra morì, sotto di lei. Dovettero intervenire due istruttori per prenderla e separarla dal cadavere sfigurato dell’altra. Fu allora che Natalia si lasciò finalmente andare a un pianto incontrollato. Si liberò dalla presa degli istruttori e corse verso una specie di bagno, dall’altra parte della palestra. Passò anche davanti a Ivan, ma non si fermò a guardarlo. Arrivò alla sua destinazione e si buttò sul lavandino, vomitando il poco cibo che le era rimasto sullo stomaco. Si lasciò cadere sulle piastrelle del muro dietro di lei, piangendo e singhiozzando senza ritegno, con la gola che le bruciava. Voleva addormentarsi e dimenticarsi di quella giornata, rimuovere le ultime ore, sciacquare via il sangue che aveva sulle mani e sulla maglietta, prova indelebile delle sue colpe. In quel momento, avrebbe preferito essere morta. Se quella doveva diventare la sua vita, non era più sicura di voler essere una Vedova Nera. Certo, le avevano detto che il suo scopo quel giorno era sopravvivere, ma avevano omesso il peso la vita a metà che avrebbe vissuto da quel giorno. Il prezzo le sembrava insostenibile, come potevano Ivan e gli altri dormire la notte? Come potevano delle persone essere così crudeli, condannare le ragazzine a quelle tremende fini o, ancora peggio, a quelle vite spezzate? Aveva solo sette anni, ma sapeva che non avrebbe più avuto il diritto a un’infanzia, che quel giorno era entrata definitivamente nella vita adulta. Pianse e pianse ancora, pianse fino a quando non ebbe più lacrime. Sentì i passi di qualcuno avvicinarsi, ma non le importava, non le importava più di niente. Voleva che quel dolore, fisico e mentale, finisse, voleva smettere di vedere le espressioni inerti delle compagne che aveva appena ucciso. Un allenatore aprì la porta e lei non ebbe la forza di ribattere quando la costrinse ad alzarsi e la trascinò di nuovo in palestra. Si sentiva vuota. Sperò vivamente che ora avrebbero condotto le rimanenti ai loro letti a dormire, sebbene l’idea di dormire in una camera con quaranta letti riempiti solo dai fantasmi le desse già i brividi. Invece, si sentì trascinare nuovamente verso il ring. Solo a quel punto cercò di opporre una minima resistenza,ma fallì miseramente. L’allenatore le spiegò brevemente cosa sarebbe successo: a scopo puramente di informazione, lei e le altre vincitrici si sarebbero dovute sfidare in un combattimento “amichevole” con l’altra vincitrice, quella del primo gruppo da cinque. Lei registrò a mala pena la notizia e si guardò intorno spersa, fino a quando non comparve la sua ultima sfidante. Natalia rimase a bocca aperta. Davanti a lei, l’espressione resa spavalda da un ghigno, c’era la sua vicina di branda, quella bambina magrolina ed emaciata che aveva sentito e visto piangere il primo giorno che erano arrivate lì. Doveva aver ucciso le altre. Doveva aver ucciso persino l’amica con cui l’aveva sorpresa rubare il pane e dividerselo al mattino. Natalia si era quasi dimenticata della sua esistenza e a pensarci bene non l’aveva nemmeno mai vista agli allenamenti. L’aveva sottovalutata, scartata a priori per l’aspetto innocuo e incapace di infliggere dolore. Eppure, vedendola lì davanti a sé senza nemmeno una ferita visibile e senza nessuna evidente ripercussione dei quattro omicidi da lei compiuti appena qualche minuto prima, seppe di aver compiuto un errore madornale. La bionda le fu addosso ancora prima che Natalia riuscisse ad accorgersene. Iniziò a sferrare colpi a raffica, muovendosi velocemente e individuando senza fatica le zone già ferite dai precedenti scontri della rossa. Questa cercò senza successo di colpirla, ritrovandosi solo a tirare pugni all’aria e facendosi pateticamente cogliere di sorpresa alle spalle dall’altra. In pochi attimi si ritrovò a terra, annientata e incapace di rialzarsi, e poco udì il fischio dell’allenatore sancire la fine dell’incontro. Prosciugata di ogni forza e privata ormai anche dell’ultima briciola di orgoglio, osservò la bionda sorridere compiaciuta ed andarsene, non senza averle rivolto un occhiolino arrogante. Rimase distesa sul ring con la sensazione sgradevole del sangue delle altre sotto la pelle, senza neppure l’energia di piangere. Fino a quel giorno le era sembrata dura, ma i superiori della Stanza Rossa avevano solo giocato con loro. Natalia era stata privata di ogni cosa. Tutto ciò che le rimaneva era la paura di cosa potessero ancora farle di peggio. 

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Capitolo 7
*** VII. ***


VII.

 

And all the people say,
"You can't wake up,

this is not a dream,
You're part of a machine,

you are not a human being,
With your face all made up,

living on a screen,
Low on self esteem,

so you run on gasoline."
I think there's a flaw in my code

These voices won't leave me alone
Well my heart is gold

and my hands are cold.

(Halsey – Gasoline)

 

Moscow, Russia

55°45’06”N 37°37’04”E

Tuesday, 8th December 2015

7.56am

 

Natasha scese dal treno della metropolitana, facendosi strada tra la folla di pendolari. Era perfettamente consapevole del suo aspetto stropicciato, persino più del solito. Quella mattina non sarebbe bastato tutto il trucco che aveva con sé per nascondere le occhiaie... Non che nei mesi precedenti fosse servito a molto, in effetti. Era semplicemente stravolta, avrebbe pagato oro colato solo per una notte di sonno. Tutto le costava una fatica immensa, persino camminare o pensare. Si trascinò verso il primo bar che trovò sulla strada, sentendo l’impellente bisogno di una discreta dose di caffeina. Mentre aspettava al bancone, scorse la propria immagine in uno specchio dietro allo scaffale dei liquori. Non si ricordava l’ultima volta che era stata così disordinata nell’immagine. A parte le occhiaie ben evidenti sotto gli occhi, i suoi capelli erano un disastro. Spettinati e caotici, riusciva quasi a vedere i nodi nello specchio tanto erano grossi. Era più pallida del solito e i vestiti che indossava, per quanto puliti e profumati, avevano un’urgente bisogno di una stirata. Sembrava quasi una senzatetto. Se qualcuno l’avesse vista la sera prima al Bolshoi, elegante e ordinata, non avrebbe saputo riconoscerla ora. Mentre soffiava sulla tazzina, aspettando che la bevanda si raffreddasse, si guardò intorno. Nel bar c’erano diversi studenti che si apprestavano ad andare a scuola, lavoratori che si erano fermati per prendere, come lei, un caffè ai fini di svegliarsi e una coppia che stava discutendo animatamente su chi sarebbe dovuto andare a recuperare i figli a scuola quel giorno. Natasha osservava tutti, in silenzio, e per l’ennesima volta si chiese come sarebbe stato avere una vita normale. A lei era sempre stata negata, fin dall’infanzia... Si immaginò per un attimo come sarebbe stato se lei avesse avuto dei genitori, fosse andata a scuola, si fosse laureata e avesse trovato un lavoro, messo su famiglia. Non riusciva a pensare a un mondo in cui lei aveva problemi normali e quotidiani, le bollette da pagare, il mutuo, dei figli, degli amici. Aveva sentito un sacco di volte le persone lamentarsi per quelle questioni e lei avrebbe tanto voluto far capire a tutti loro quanto fossero fortunati. Avrebbe dato via qualsiasi cosa pur di non essere se stessa almeno per un giorno. Non Natalia Alianovna Romanova, non la Vedova Nera, nemmeno un’Avenger. Semplicemente Natasha Romanoff, una perfetta sconosciuta che viveva la sua vita anonima. Certo, senza la Stanza Rossa lei sarebbe invecchiata normalmente e a quel punto sarebbe ormai anziana. Chissà se sarebbe stata contenta della sua vita, se avrebbe avuto figli e nipoti che sarebbero andati a trovarla spesso, un marito con cui invecchiare e andare a fare passeggiate la domenica mattina, o chissà se sarebbe stata sola e piena di rimpianti, in una casa piccola e mal curata a urlare ai bambini che giocavano nel suo giardino. O magari non sarebbe mai arrivata a quell’età e sarebbe morta in guerra negli anni Quaranta. Scosse la testa. Doveva smettere di fantasticare su qualcosa che non avrebbe mai potuto avere. Lei era una Vedova Nera, non sarebbe mai riuscita a scrollare gli anni della Stanza Rossa via da sé. Il suo passato era indelebile, tutti le azioni che aveva compiuto. Una vita normale non era destinata a lei, non lo sarebbe mai stata. E in effetti, a pensarci bene, non era nemmeno così sicura di meritarsela. Finì di bere il suo caffè e lasciò una banconota di fianco alla tazzina. Si trascinò stancamente fuori dal bar. L’aria fredda del mattino la aiutò a svegliarsi del tutto. Le temperature erano scese ancora rispetto a una settimana prima, Mosca si stava preparando a un altro rigido inverno. Natasha si strinse nel suo cappotto e si avviò sulle strade ghiacciate in direzione del negozio di una sua vecchia conoscenza. Sperò vivamente che fosse ancora aperto dopo tutti quegli anni, o che lui non fosse stato arrestato per contrabbando e per attività illegale. Fu sollevata nello scorgere da lontano l’insegna sudicia e piena di fori che recitava a caratteri sbiaditi “антикварный магазин (negozio di antiquariato)”. Si affrettò verso la porta. Era tutto come se lo ricordava: buio, con un odore di marcio piuttosto pungente, pieno di cianfrusaglie in legno divorate dai tarli. Con le labbra increspate a un piccolo sorriso si avvicinò al bancone, facendosi strada tra i mobili accatastati. Suonò il campanello e sentì un rumore di oggetti che cadevano proveniente dal retro, come se qualcuno si fosse svegliato di scatto e avesse fatto crollare una pila di oggetti in bilico. Sentì uno scalpicciare venirle incontro, e una voce stridula dire:

-Добро пожаловать в мой магазин, как я могу помочь … (Benvenuto nel mio negozio, come posso aiutar...- L’uomo uscì dalla tenda sul retro del bancone e si bloccò. Era decisamente basso, più di Natasha, e aveva pochissimi capelli grigi pettinati in un riporto che rimaneva appiattito solo grazie alla generosa dose di brillantina che vi era applicata. Portava degli occhiali giganteschi dalla montatura marrone che rendevano i suoi occhi acquosi ancora più evidenti. Da come era vestito si sarebbe potuto dire che fosse rimasto indietro di qualche decennio in fattore di moda.

-Вы не можете остаться здесь. (Non puoi stare qui).- Disse in fretta, sbiancato appena aveva visto la ragazza.

-Рад видеть вас тоже, Лев. (Anche per me è un piacere rivederti, Lev)- Replicò la ragazza con un sorriso di scherno, per niente turbata dalla reazione dell’altro.

-Natasha, non so cosa ti abbiano detto, ma io non faccio più il lavoro di una volta. Ho smesso, okay? Finito. Non voglio più mettermi nei guai, ho una famiglia da mantenere. Quindi, a meno che ti interessi un armadio in compensato beh, ti suggerirei di uscire da qui prima che chiami la polizia.- Farfugliò l’altro con voce stridula in un inglese stentato, impallidendo se possibile ancora di più. Natasha ridacchiò.

-Non chiamerai la polizia, lo sappiamo entrambi. Dovrebbero esaminare i tuoi documenti, e il mio sesto senso mi dice che non sono a norma... Non vorresti essere rispedito in Ucraina con la tua famiglia, soprattutto non in questo periodo.- Disse con voce melliflua. Lev sbuffò.

-Per favore, vattene. Vorrei aiutarti, davvero, sai che l’ho sempre fatto. Sto davvero cercando di rimettermi in riga, capisci? Rischio già lo sfratto, non chiedermi di fare... Niente di ciò che facevo.

-Andiamo, Lev, è solo un’analisi di un campione di sangue... Non è niente di incredibile, con le tue abilità ritroveresti la corrispondenza in un attimo. Suvvia. Fallo per me.- Sorrise nel modo più convincente possibile.

-Perché non lo chiedi a uno dei tuoi amici americani, i famosi Avengers? Quel... Stark, o qualunque sia il suo nome. Sembra molto più intelligente di me e di sicuro ha attrezzature migliori.

Natasha storse il naso.

-Diciamo che non sono nella lista delle persone preferite di Tony Stark. Lavoro da sola, adesso.- Disse, non capace di nascondere l’amarezza nella propria voce.

-Sapevo che non sarebbe durata. Sei un lupo solitario, tu.- Lev sospirò. Natasha fece un gesto noncurante con la mano.

-Lev, devo ricordarti che sei in debito con me? Sai che sei rimasto in Russia solo perché ho interferito con la polizia e fatto in modo che non ti riportassero a casa... Non sarebbe un peccato se domani tornassero qui dopo una chiamata anonima e io non fossi qui a fermarli?- Chiese la rossa, una falsa nota di dispiacere nella voce. Lui si irrigidì.

-Non oseresti.-Cercò di replicare, ma i suoi occhietti lucidi avevano già iniziato a zigzagare spaventati e la sua voce si era fatta nuovamente stridula.

-Ah no?- Chiese lei con un sorrisetto innocente. Osservò compiaciuta l’altro sbuffare e passarsi una mano nei pochi capelli.

-D’accordo.- Ringhiò Lev. -Ma solo un’analisi. Nient’altro.

-Sapevo avresti fatto tutto in nome della nostra amicizia.- Natasha sorrise maliziosa e oltrepassò il bancone per accedere al retro, seguita dall’uomo. Lo osservò mentre spostava casse di cianfrusaglie e ne tirava fuori una più grande. Da quella estrasse diverse attrezzature da laboratorio, boccette, microscopi, pipette e tutto il kit base di un chimico. Prese anche un computer dall’aria costosa, presumibilmente rubato.

-Allora, fammi vedere con cosa abbiamo a che fare.- Tese la mano verso Natasha, che gli passò la boccetta con il sangue prelevato nella base di Lobnya.

-Cos’è questa sostanza blu?-Chiese Lev.

-É esattamente ciò che speravo mi dicessi tu.- Rispose lei, sedendosi su un tavolo a poca distanza e lasciando oscillare le gambe. Lui annuì e tornò al lavoro, trafficando con specchietti e spostando campioni di sangue da una pipetta all’altra. Passarono così diversi minuti, e dovette passare più un’ora prima che uno dei due emettesse un fiato.

-Наташа, вы бы лучше взглянуть на это. (Natasha, forse è meglio che tu veda questo.)

La rossa scese con un movimento elegante dal tavolo, e si avvicinò a lui impaziente. L’uomo picchiettò sullo schermo del computer.

-Ho analizzato il sangue e la sostanza blu separatamente. La sostanza rossa è semplicemente sangue, non modificato. Non è come il tuo, non c’è nessun siero della Vedova o intrugli strani. Eppure ho trovato tracce di questo DNA qui.- Indicò un punto sullo schermo, l’immagine della struttura a doppia elica del DNA. -Dopo qualche ricerca e controllo incrociato con i registri della Stanza Rossa, ho trovato una corrispondenza al 99%.- L’immagine di una ragazza bionda, con gli occhi azzurri e le labbra sottilissime comparve sul desktop. Natasha scosse la testa.

-Non è possibile. La conoscevo, era entrata nel progetto Vedova Nera due anni dopo di me. È morta negli anni Settanta. Non può esserci il suo DNA nel corpo di una ragazzina, non in quelle quantità.

Lui annuì.

-Infatti per avere una corrispondenza così alta è improbabile anche che siano semplicemente parenti. Non può essere sua figlia perché voi Vedove non potete averne, vero?-L’occhiataccia di Natasha gli bastò come risposta.-Allora ho analizzato meglio la sostanza blu. È quella che porta tutto il DNA, è stato impiantato nella bambina. Non era già presente.

-E perché mai dovrebbero...

-Non lo so. Ma se la Stanza Rossa sta ricominciando a fare strani esperimenti sulle ragazzine, ho tutte le intenzioni di starne fuori. E ti consiglio di fare lo stesso, considerando i tuoi trascorsi con la Stanza.- Iniziò a mettere a posto freneticamente tutta l’attrezzatura, come se volesse sbarazzarsene al più presto.

-Lev, devo saperlo. Non posso permettere che ciò che è successo a tutte quelle ragazzine accada di nuovo.

-Come preferisci. Каждый волен выбирать свою собственную смерть (ognuno è libero di scegliere la propria morte).- Sospirò. -Anche volessi dirti qualcosa, non potrei. Non ho più contatti nella Stanza da secoli ormai, non so cosa abbiano in mente. Quello che so dirti è che non sarà niente di buono e finirà male per te se continui a ficcare il naso in queste faccende.- Pulì alla svelta i vetrini sporchi di sangue e nascose di nuovo tutto dietro alle casse di legno. Natasha si passò una mano tra i capelli, sospirando.

-Posso chiederti un’altra cosa?

-Oh no, avevamo detto solo un’analisi, io l’ho fatta. Non cambiare i patti...-Inziò lui, sulla difensiva

-Tranquillo, devo solo chiederti se questo ti dice qualcosa.-Natasha estrasse la copia di Anna Karenina che aveva trovato al Bolshoi dalla borsa e gliela tese. Lui la guardò in cagnesco per un secondo e poi afferrò il libro. Esaminò la copertina e poi la guardò interrogativo.

-Beh? L’ho letto. Noioso. Cosa ci dovrei fare e cosa c’entra con la Stanza Rossa?

-Ce l’aveva una Vedova Nera. O almeno credo che lo fosse...

Lev aprì il libro e iniziò a sfogliarlo. Dopo qualche minuto, glielo restituì, scuotendo la testa.

-Mi dispiace.

Natasha scrollò le spalle.

-Non importa. Grazie per il tuo aiuto.- Si girò e fece per andarsene. -Ah, una cosa. Se racconti a chiunque, anche solo al tuo postino, che io sono stata qui e cosa ti ho chiesto, ti assicuro che non ci sarà casa, bettola o capanna di paglia dove potrai nasconderti da me. Mi assicurerò personalmente che tu, tua moglie e i tuoi figli rimaniate senza nemmeno una goccia di sangue. Ci siamo intesi?

L’uomo, che era di nuovo impallidito, annuì.

-Come speravo. È stato un piacere rivederti, Lev. Porta i miei più cari saluti a Katen’ka e ai ragazzi. Arrivederci.-Con un sorriso di scherno, uscì dalla porta. Una volta fuori, avrebbe potuto giurare di aver sentito l’uomo bisbigliare “Al tuo funerale, forse.” 

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Capitolo 8
*** VIII. ***


VIII.

 

And the most terrifying question of all

may be just how much horror

the human mind can stand

and still maintain a wakeful,

staring, unrelenting sanity.

(Stephen King)

 

Russia, 1939

 

Natalia si svegliò di scatto mettendosi a sedere sul letto, lanciando un gemito dovuto allo strattone che aveva dato alle manette che ancora la obbligavano a indossare e che la tenevano legata alla testiera del letto. Cercò di regolarizzare il respiro mentre si massaggiava il polso dolorante. Aveva la fronte imperlata di sudore e i brividi le scendevano su tutta la schiena. Erano ormai diverse settimane che era tormentata dagli incubi, ma non come quelli che non l’avevano lasciata dormire nei quasi quattro anni dopo aver ucciso le sue compagne. No, questi erano diversi... Compariva sempre una donna dai capelli rossi, che ormai Natalia era quasi convinta essere sua madre. Ogni notte la vedeva sempre più nitidamente, per tanto aspettava quasi con ansia le notti, attendeva con ansia l’arrivo degli incubi. La vedeva ogni notte in una stanza piena di libri, vestita di bianco, che si girava verso di lei e le sorrideva, un sorriso bellissimo, e ogni notte Natalia provava ad avvicinarsi per vederla più da vicino, per abbracciarla, ma appena arrivava a pochi passi da lei il vestito bianco si colorava di macchie rosse, il sorriso si contorceva in una smorfia di dolore e la bambina si sentiva portare via da un’ombra, mentre l’urlo di sua madre si diffondeva tutto intorno. Solo a quel punto si svegliava, le guance rigate dalle lacrime. Consapevole che non sarebbe più riuscita a dormire, si lasciò cadere sul duro materasso. Era arrivata così vicina quella notte, era quasi riuscita a vederla bene. Si girò nel letto, solo per trovarsi faccia a faccia con la sua vicina di branda, la ragazza bionda che era riuscita a sconfiggerla e che solo qualche mese dopo l’incontro aveva scoperto chiamarsi Oksana. La stava fissando con il solito sorriso falso e all’apparenza innocente, da brava ragazza, ma in realtà canzonatorio. Assunse una finta aria dispiaciuta.

-Di nuovo gli incubi, piccola Natashen’ka?

Natalia alzò gli occhi al cielo.

-Niente di peggio che vedere la tua faccia come prima cosa al mattino. E il mio nome è Natalia.

La bionda ridacchiò, per niente turbata.

-Povera Natashen’ka, ti manca la mamma?

Natalia si irrigidì. Come faceva a saperlo? Aveva forse urlato nel sonno? Decise di batterla sul suo stesso campo.

-Più o meno quanto a te manca il tuo papochka.-Vide il sorriso dell’altra tentennare e contrarsi. -Se vuoi giocare a questo gioco con me, sii almeno sicura di non piangere tutta la notte sui tuoi incubi e soprattutto non assumere che gli altri siano troppo stupidi per accorgersene, Oksanochka.- Pronunciò il nomignolo con voce più marcata, segnando così la propria vittoria. L’altra le rivolse un sorriso mellifluo, ma non disse più niente e si coricò nuovamente nella sua branda, girandosi dall’altra parte. Approssimando un sorrisetto per la vittoria, rimase a fissare il soffitto, pensando a cosa l’aspettava quella giornata. Non sapeva che giorno fosse, non era loro compito conoscere data e ora, ma si regolava secondo gli impegni. Quel giorno c’era l’allenamento, ma purtroppo non quello singolo. Sbuffò al pensiero di dover di nuovo passare del tempo con Oksana. Detestava ammetterlo, ma era l’unica con cui non avesse vittoria facile. Negli ultimi anni, era molto migliorata nel combattimento ed era ormai capace di battere tutte le ragazze ancora in vita, anche le più grandi, sfruttando la loro forza e la loro statura contro di loro. Aveva battuto anche le nuove, arrivate negli ultimi anni. Ormai erano in ventotto, e lei riusciva a sopraffarle tutte. Tutte, tranne Oksana. Lei era diversa, in qualche modo riusciva a prevedere le sue mosse. Natalia non l’avrebbe confessato ad alta voce nemmeno sotto tortura, ma i combattimenti con la bionda erano quelli che preferiva. Le dava del filo da torcere, e spesso aveva la meglio su di lei. Doveva davvero impegnarsi per batterla ed era stimolante. Sarebbe stato quasi divertente, se Oksana avesse messo a tacere quella voce svenevole con cui la canzonava. Anche se Natalia sapeva che faceva parte della tattica dell’avversaria per far perdere la calma allo sfidante, non riusciva proprio a sopportarlo. Non invidiava i suoi futuri target. Per tenere la mente impegnata in attesa dell’ora di svegliarsi, iniziò a ripetere mentalmente le battute di quel film in inglese che le facevano vedere per farle imparare la lingua, Biancaneve. Odiava quelle lezioni, usciva sempre dalla sala con una sensazione di malessere, eppure i superiori dicevano che era importante che lo guardassero fino a quando avessero imparato per bene il significato. Solo diversi anni dopo scoprì che ciò a cui si riferivano veramente erano le parole nascoste nei fotogrammi, il cui unico scopo era intaccare il loro cervello e impedire a loro di ribellarsi contro la Stanza Rossa.

Aveva ripetuto quasi tutte le battute del film quando finalmente aprirono la porta. Aspettò pazientemente che venissero a slegarla dal letto. Quando uscì dalla stanza però, avvertì qualcosa di strano. Si udiva un vociferare insolito proveniente da diverse porte. Natalia si girò verso Oksana, per controllare che non fosse solo una sua impressione, e dall’espressione della bionda capì che stava davvero succedendo qualcosa. Con il pretesto di aver lasciato cadere una forcina per capelli, rimase qualche passo più indietro nel tentativo di afferrare i discorsi di coloro che probabilmente erano i “pezzi grossi” della Stanza. Tutto quello che riuscì a capire, tuttavia, furono un paio di parole che assomigliavano in modo inquietante a “Guerra” e “Affrettare la fase due”. Si rialzò e si affrettò per raggiungere le altre in mensa. Terminata colazione, mentre si dirigevano verso la palestra, li raggiunse Ivan e li bloccò. Parlò un secondo sottovoce con la guardia che le stava scortando. Quest’ultimo annuì e se ne andò, Ivan invece fece cenno alle ragazze di seguirlo. Natalia era confusa e cercava continuamente di incrociare lo sguardo dell’uomo per chiedergli spiegazioni. Lui, tuttavia, sembrava evitare apposta gli occhi smeraldo della ragazzina. A quei tempi Natalia era perfettamente a conoscenza del rimorso, grazie ai fantasmi di quelle quattro ragazzine che si portava appresso, ma non aveva ancora imparato a leggerlo negli altri, altrimenti l’avrebbe riconosciuto in pochissimi secondi su Ivan. Scesero le scale e arrivarono in uno stanzino a lei fin troppo familiare: era quello in cui era rimasta ad aspettare il suo primo giorno alla Stanza Rossa, quello in cui era rimasta, impotente e spaventata, a guardare i medici prendere una ad una tutte le ragazze. Erano passati cinque anni, ma il ricordo era ancora vivido nella testa della ragazzina. E, a giudicare dagli sguardi delle sue compagne, lo era anche nelle loro.

-Perché siamo qui?- Chiese Oksana, tentando con fatica di nascondere la paura.

Ivan si girò verso di lei e sospirò. Aveva la faccia di una persona che non dormiva da diversi giorni. Era più pallido di come Natalia l’avesse visto all’ultimo allenamento, due settimane prima, e aveva delle borse gigantesche sotto gli occhi. Persino i suoi capelli, di solito lucenti e ben curati, erano sciatti e disordinati. Si passò una mano sul retro del collo, come a massaggiarselo.

-Voi non potete saperlo, ma una guerra sta per scoppiare in Europa, e la Russia e tutta l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non si tireranno indietro. I miei superiori hanno deciso di accelerare il progetto Vedova Nera. Le più grandi di voi verranno messe in azione come agenti operativi molto presto, ma anche le più piccole passeranno al livello successivo dell’allenamento. Vi trovate in questa stanza ora, però, perché abbiamo riscontrato delle anomalie in voi. Non temete, siamo qui per sistemarle. -Aggiunse, appena notò che le ragazze si stavano già mettendo sulla difensiva. -Sarà veloce, nemmeno ve ne accorgerete.

-E se ci rifiutassimo?- Ribatté Oksana con aria di sfida. Nessuna di loro credeva all’ultima frase, conoscevano la Stanza Rossa troppo bene ormai. Niente era veloce e indolore.

Ivan si avvicinò a lei, un’aria minacciosa che non gli apparteneva e pertanto spaventò persino una ragazza spavalda come la bionda.

-Non è una richiesta.- Ringhiò l’uomo. La ragazzina, impallidita, non osò aggiungere altro. Ivan sembrò ricomporsi e riprese il solito aspetto autorevole ma mite.

-Beh, grazie per esserti offerta volontaria per andare prima.- Prese Oksana di forza e la trascinò fuori dalla stanza, mentre lei si dimenava, spaventata. Le altre ragazze fecero per affacciarsi, ma una guardia fece capolino e le spinse nuovamente all’interno. Natalia si raggomitolò in un angolo, improvvisamente catapultata indietro nel tempo alla prima notte passata lì. Aveva di nuovo paura, un’altra volta non sapeva cosa l’attendesse. Osservò le sue compagne trascinate una per una al di là della porta, verso l’ignoto. Proprio come cinque anni prima, si ritrovò a essere l’ultima. Sentiva ogni secondo scivolarle addosso con una lunghezza esasperante, prolungando la sua attesa e rendendola insopportabile. Quando vide la porta aprirsi, un brivido le scese lungo la schiena. Era spaventata, molto più di quanto desse a vedere. Ivan entrò, sempre evitando il suo sguardo, e la prese per il polso, senza fare troppa attenzione alla delicatezza. Natalia sapeva che divincolarsi era inutile, per cui lo seguì senza storie. D’altronde Ivan aveva promesso che non le avrebbe mai fatto del male, di lui poteva fidarsi. Di nessun altro lì dentro, ma di lui sì. La spinse senza troppi complimenti dentro una stanza dai vetri oscurati. Lei si girò a guardarlo, spaventata, in cerca di rassicurazione. Lui finalmente incrociò il suo sguardo e con l’espressione più stravolta che mai mimò con le labbra: “Mi dispiace.”. Natalia fece per chiedergli spiegazioni, ma la porta della stanza si chiuse di scatto e lei si sentì sollevare da ben tre paia di braccia. La stanza era buia e per quanto si sforzasse non riusciva a vedere i suoi assalitori. Provò a scalciare e a liberarsi, ma non colpì niente che non fosse l’aria e servì solo a far aumentare la presa di coloro che la stavano reggendo. Provò per una volta a urlare, sperando che Ivan la sentisse, ma tutto ciò che ottenne fu un pugno nello stomaco, che le mozzò il fiato in gola. Si sentì adagiare a forza su una sedia e vide tre uomini in camice affaccendarsi intorno a lei per legarle braccia e gambe con delle cinghie strette. Lei continuava a dimenarsi, ma non serviva a niente. Sentì la voce di un uomo chiedere:

-Quanto ricorda?

-A giudicare da quando dorme ricorda la madre, e sta diventando sempre più nitida.- Udì un’altra voce rispondergli

-Doppia dose.

Una figura scura si avvicinò a lei e le infilò un panno in bocca, in modo da farla tacere. Dopo qualche secondo, avvertì l’ago appuntito di una siringa infilarsi nel suo collo e non riuscì a trattenere un gemito di dolore. Sentiva gli angoli degli occhi iniziare a pizzicarle, le prime lacrime scendere roventi sulle sue guance. Aveva paura, le doleva dove le avevano tirato un pugno e dove le avevano iniettato qualche liquido. Sentiva il suono dei propri singhiozzi ovattato dal panno, lo avvertiva rimbombarle nel petto. Iniziò a sentirsi debole e d’un tratto le sembrò che il proprio corpo non le appartenesse più. Non rispondeva ai suoi comandi ed era diventato pesante, inutile. Natalia, fai bene a non fidarti di nessuno qua dentro. Ma puoi fidarti di me, non sono come loro. Non ti farò del male. Ripensò alle parole che Ivan le aveva detto quella sera di quasi quattro anni prima, e solo allora si rese conto appieno di quanto fosse falsa. Aveva creduto a quella bugia, nel suo disperato bisogno di certezze in quel posto, quando in realtà era stato Ivan a provocarle tutto quel dolore. Lui l’aveva ammessa al progetto Vedova Nera, lui le aveva fatto uccidere le sue compagne, lui le stava facendo questo. Aveva avuto anche il coraggio di dirle di fidarsi di lei mentre faceva fare agli altri il lavoro sporco al suo posto, lasciava che gli altri si macchiassero le mani mentre a capo di tutto c’era solo lui. E lei, come una scema, era cascata in pieno nella sua trappola. Sentì altre lacrime scivolare calde sul suo viso, questa volta di rabbia. Si odiò per essere stata così stupida, si odiò per aver creduto a un uomo che mentiva di professione, si odiò per aver avuto speranza in un luogo dove la speranza era la prima cosa che veniva loro sottratta. Sentì il vociare delle persone intorno a lei, ma non riusciva a capire cosa dicessero. Aveva tutti i sensi ottenebrati, le sembrava di essere in una bolla. Senza preavviso, uno schermo si accese nell’oscurità, proprio davanti a lei. Serrò le palpebre per un attimo, disturbata dalla luce, ma appena compié tale gesto arrivarono due uomini a fissarle un oggetto sulla testa. Sentì degli elettrodi venire collegati al suo capo e una parte di macchinario fissarsi sui suoi occhi in modo da tenerle le palpebre ben spalancate. Sullo schermo apparve un video. C’era una ballerina, che volteggiava leggiadra su un pavimento di legno. Un uomo, dietro allo schermo, iniziò a ripetere come una cantilena diverse frasi che lei non riusciva a cogliere, ma che sentiva comunque registrarsi in qualche modo nel proprio cervello. Il video continuò, si aggiunsero altre ballerine e un istruttore. Questo continuava a impartire ordini e dare consigli, contava i passi. Dopo qualche secondo Natalia si guardò intorno. Era libera dai macchinari e dalle cinghie. Indossava un tutù rosa, ed era nella stanza che fino a pochi attimi prima stava guardando sullo schermo. La osservò, non capendo cosa stesse succedendo. Udì l’istruttore richiamarla e ordinarle di andare alla sbarra. Lei eseguì senza fiatare, mettendosi in mezzo ad altre due ballerine. Alzò lo sguardo sullo specchio innanzi a sé e il suo cuore perse un battito. Il riflesso che stava guardando non era il suo. O meglio, lo era, ma appariva chiaramente più piccola, di almeno tre o quattro anni. Chiuse gli occhi e provò a pensare a qualcosa di recente, come il sogno che aveva fatto la notte prima. Si stupì nell’accorgersi che non riusciva più a ricordare niente, non su cosa e su chi fosse. Eppure sapeva perfettamente che solo quella mattina se lo ricordava benissimo, appena sveglia. Inorridì, capendo finalmente cosa stesse succedendo. Le stavano cambiando la memoria. Cercò di attaccarsi a tutto quello che poteva ricordare, dalla colazione di quella mattina ai vestiti che aveva indosso qualche minuto prima. Sentiva la sua testa sul punto di esplodere in un turbinare di ricordi e di frasi sconnesse. L’istruttore di danza la richiamò di nuovo e la fece andare a ballare in centro alla pista. Il suo corpo si mosse da solo e iniziò a piroettare. Il mondo intorno a lei girava, l’unica cosa che riusciva a scorgere era il proprio riflesso ogni volta che si girava verso lo specchio. Le ci volle appena un giro per accorgersi che stava crescendo di circa un anno nell’aspetto a ogni piroetta, stava ritornando pian piano alla propria età. Non capiva più niente, non riusciva a mettere a fuoco ciò che le stava accadendo. Le sembrava di essere in un incubo, le sembrava di essere sul punto di annegare senza però morire. Era bloccata in quell’apice di agonia, ma l’oblio non arrivava in suo soccorso. Decise di provare a pensare a delle cose facili, qualsiasi cosa.

 

Mi chiamo Natalia Romanova.

 

Almeno quello se lo ricordava. Provò a continuare.

 

Mi chiamo Natalia,

 

Sono una delle ventotto giovani ballerine al Bolshoi. Gli allenamenti sono duri, ma la gloria della cultura sovietica e il calore dei miei genitori compensa... compensa il... il...

 

No, questo è sbagliato.

 

Mi chiamo Natalia.

Sono una delle ventotto giovani Vedove Nere alla Stanza Rossa. Gli allenamenti sono duri, ma la gloria della supremazia sovietica e il ricordo del motivo della morte dei miei genitori compensa... compensa il... il...

 

Non so più distinguere cosa sia vero e cosa no.

 

 

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Capitolo 9
*** IX. ***


IX.


 

She wants to go home, but nobody’s home
Is where she lies, broken inside
With no place to go, no place to go
To dry her eyes, broken inside

Her feelings she hides
Her dreams she can't find
She's losing her mind
She's falling behind

She can't find her place
She's losing her faith
She's falling from grace
She's all over the place yeah

(Avril Lavigne – Nobody’s home)


 

Volgograd, Russia

48°42’N 44°31’E

Thursday, 10th December 2015

11.35am

 

Nevicava di nuovo. Un’altra volta Natasha si trovò da sola per le strade, intrappolata nella giostra dei fiocchi che cadevano veloci. Eppure, quella volta nemmeno la neve poteva sollevarla dal peso che avvertiva dentro il suo petto e che le rendeva difficile muoversi. Non era mai tornata in quella città, non dopo la Stanza Rossa. Aveva passato una vita a scappare dai fantasmi del suo passato, che l’avevano rincorsa ovunque andasse, e ora stava tornando nell’esatto posto al quale la maggior parte dei fantasmi appartenevano. Stalingrado era più moderna ora, ma sempre bella come se la ricordava. Volgograd, non Stalingrado. Era nel 2015 e ancora non aveva imparato a chiamarla col nome giusto... Certe abitudini sono dure a morire. Era davvero magnifica e lo sarebbe stato anche di più se lei non avesse visto sangue ovunque. Ricordava uno per uno i suoi primi incarichi, i primi omicidi. Ricordava chi aveva assassinato in ogni angolo, sorda delle loro preghiere di risparmiarli. Quasi poteva ancora vederli, mentre camminava per le strade, quei corpi senza vita riversi a terra, quelli che lei aveva strappato alle rispettive famiglie, proprio sotto lo sguardo della statua della Madre Russia. All’epoca era giovane, aveva degli ideali. Faceva ciò che la Stanza le ordinava di fare senza fiatare. Pensava di essere intrappolata con loro e che per lei non ci fosse via di fuga, non conosceva un’altra vita. Il ricordo di tutti gli errori commessi, ben piantato nella sua memoria, diventava ogni passo meno sostenibile. All’improvviso recarsi alla sede originale della Stanza Rossa non le pareva più un’idea così brillante. Purtroppo, non aveva grandi alternative. Ormai stava esaurendo le idee. Dopo Nizhniy Novgorod non aveva più intenzione di mettere a repentaglio la vita di nessun altro informatore. Ormai sapeva di essere seguita, o almeno tenuta d’occhio. Aveva già corso un pericolo enorme a recarsi da Lev a Mosca, ma aveva fiducia che lui se la sarebbe cavata, lo faceva sempre. Le sembrava di trovarsi davanti a un’equazione nella quale aveva più incognite che termini noti. Tutti coloro che aveva incontrato con dei collegamenti alla Stanza sembravano sapere non solo la sua identità, ma si aspettavano anche che sarebbe arrivata. Aveva ucciso Vasnetsov e la ragazzina di Nizhniy Novgorod, ma la ballerina e l’uomo che aveva incontrato a Mosca erano ancora vivi, quindi ormai la Stanza doveva essere perfettamente al corrente della sua presenza in Russia e delle sue indagini. Sapevano che aveva la copia di Anna Karenina. Lei invece cosa aveva in mano? Un quadernetto con delle iscrizioni che, sebbene le ricontrollasse ogni giorno, non avevano alcun apparente senso. Una boccetta di sangue di una ragazzina con una sostanza che conteneva il DNA di un’altra Vedova Nera, morta da anni. Un libro comunissimo in tutto il mondo con nessuna iscrizione particolare se non dei cerchi sui numeri di certe pagine, apparentemente casuali anch’esse. Sapeva che un “lui” aveva previsto che lei sarebbe tornata per loro, sapeva che c’erano delle nuove Vedove Nere in giro e che una di quelle era una ballerina il cui corpo guariva immediatamente dalle ferite, sapeva che c’era un bunker pieno di cadaveri mutilati di ragazzine. Il giorno precedente, prima di lasciare Mosca, aveva speso quasi tutto il dì a fare ricerche in biblioteca. Aveva letto esami e analisi di Anna Karenina, aveva cercato se i numeri delle pagine cerchiate corrispondessero a qualche serie matematica, aveva cercato sull’archivio qualsiasi frase che comparisse sul quadernetto di Vasnetsov. Più indagava, meno riusciva a capire. Quella faccenda stava diventando più grande di lei. Per quanto sarebbe riuscita a gestirla? Forse avrebbe fatto semplicemente meglio a mollare tutto e tornare in America. Dubitava fortemente che lo SHIELD o Clint l’avrebbero perdonata, però magari Steve o Melinda... Scosse la testa. Magari loro sarebbero anche riusciti a scusarla, ma lei stessa non sarebbe mai più stata in grado di guardarsi allo specchio. Non avrebbe più lasciato che venissero compiute altre angherie. Santo cielo, gli anni con lo SHIELD l’avevano proprio cambiata. Qualche anno prima non si sarebbe preoccupata minimamente di proteggere nessuno, tanto meno se c’era da mettersi contro la Stanza Rossa. Ma questo era prima di conoscere Occhio di Falco e diventare un’Avenger... Si passò una mano nei capelli fulvi e si fece forza. Si chiese come facesse Captain America a trovare sempre la resistenza di lottare contro tutto e tutti, ma d’altronde Steve era sempre stato uno che non si sottometteva facilmente alle idee degli altri. A volte le sarebbe piaciuto essere come lui. Questa volta però, ne era quasi sicura, aveva fatto la scelta giusta. Forse fu solo quel pensiero che la spronò ad andare avanti. Arrivò alla fermata di un autobus e aspettò pazientemente. Per quanto le piacesse camminare, specialmente sotto la neve, la sua destinazione era lievemente fuori città, tra i boschi confinanti, e non aveva alternative se non prendere un mezzo pubblico. Si aggiustò il basco che portava sulla testa e si concentrò nell’osservare un gatto nero che si rotolava nella neve poco più avanti di lei, in modo da tenere a bada i fantasmi. Quell’animaletto le ricordava molto un randagio che si faceva spesso vedere nel suo appartamento a New York. Lei lo aveva soprannominato Liho ed era solita tenere una scatoletta di cibo per gatti nel caso lui si presentasse. Clint la prendeva in giro dicendo che l’aveva vista essere molto più gentile con quel trovatello che con la maggior parte delle persone. Si ricordava di aver pensato di avere in comune molte cose con quel gatto, a partire dal fatto che entrambi non avevano un luogo di appartenenza. Poi sapeva perfettamente cosa volesse dire amare la solitudine, ma ogni tanto uscire dalla propria campana di vetro per provare a interagire con il mondo, sebbene si potesse vivere perfettamente anche senza di esso. Era più una prova per controllare di essere ancora vivi. Chissà che fine aveva fatto Liho, se ogni tanto andava ancora a cercarla per trovare solo un appartamento vuoto.

Persa nella sua mente, quasi non si accorse dell’autobus che stava arrivando alla fermata. All’ultimo scosse la testa quasi a scrollare i suoi pensieri e salì sul mezzo. Rimase a guardare la strada dal finestrino mentre partivano, osservando il gatto nero rimpicciolirsi sempre di più fino a quando girarono un angolo e sparì dalla vista. Natasha si mise comoda sul sedile. Il pullman era vuoto, eccezione fatta per lei e per una gitana al fondo, addormentata. Il silenzio era interrotto solo dal raschiare dei tergicristalli sul vetro del bus. Appoggiò la testa sul finestrino di fianco a lei, noncurante della leggera vibrazione, e lasciò che le palpebre si chiudessero in cerca di un po’ di riposo.

 

One hour later

 

L’autobus inchiodò, portandola così a un brusco risveglio. Fortunatamente aveva i riflessi pronti, o si sarebbe trovata per terra come la gitana in fondo, che al momento era impegnata a rendere tutti i presenti partecipi della sua vasta conoscenza del turpiloquio russo. Natasha si alzò e andò a chiedere spiegazioni all’autista. La sera prima c’era stata una tempesta, e un albero era caduto proprio in mezzo alla strada, bloccando loro il passaggio. Le alternative erano scendere e cercare un passaggio, tornare indietro o aspettare che venissero a rimuovere l’ostacolo. Era caldamente sconsigliato di lasciare il veicolo a piedi, un’altra tempesta si stava avvicinando e la nevicata era abbastanza fitta da impedire la vista. La rossa optò comunque per quella opzione, l’idea di dover rimanere ferma per ore ad aspettare non le piaceva particolarmente. Ormai, il sonno era andato via. Si stiracchiò e avvolse una sciarpa rossa attorno al proprio collo, a coprire metà del viso. Si risistemò il basco e il redingote e uscì sotto la nevicata sempre più fitta. Scavalcò agilmente il tronco, allontanandosi dal pullman. Nel giro di pochi secondi, non lo vedeva già più: la moltitudine di fiocchi copriva tutto ciò che distava più di un paio di metri. Anche il vento non aiutava, lo sentiva sferzare in faccia con l’intensità di uno schiaffo. Forse avventurarsi in una semi tempesta era stata un’idea ancora peggiore che dirigersi a Volgograd. Complimenti, Natasha. “Venti punti a Serpeverde”, avrebbe aggiunto Clint come faceva sempre quando voleva prenderla in giro. Sperò vivamente di ricordarsi la strada abbastanza bene da non ritrovarsi da sola persa nel bosco con la tempesta. Non voleva fare la fine di Captain America. Avanzò a fatica, una mano tesa davanti al viso per ripararsi gli occhi, aspettando di scorgere il sentiero che doveva imboccare. Quando lo trovò, sperando che fosse quello giusto, si ritrovò a dover camminare in una montagna di neve. Le arrivava fino alla coscia. Ringraziò di aver messo i pantaloni pesanti. A fatica, procedette sulla strada. Fortunatamente, il bosco a un certo punto si faceva talmente fitto da filtrare almeno in parte la caduta dei fiocchi. Almeno riusciva a vedere meglio. Si fece forza e si avventurò verso il luogo dove ricordava trovarsi la sua destinazione. Affrettò il passo, desiderava terminare quella visita il prima possibile. Il suono degli stivali sul suolo era attutito dalla neve. Passò quasi un quarto d’ora prima che vedesse la sagoma dell’edificio in lontananza. Si bloccò, d’istinto, per prendere dei respiri profondi e costringersi a rimanere calma. Non era per niente variata in tutti quegli anni, forse era un po’ più rovinata di come se la ricordasse, ma ben poco. Davanti a lei si stagliava la prima sede della Stanza Rossa, quella in cui lei era stata cresciuta. Sentiva il cuore esploderle in petto. Non capiva come, dopo tutto quel tempo, la sola vista di quella semplice costruzione di cemento potesse provocarle ancora tale reazione. Era un edificio imponente di inizio Novecento, somigliante a una fabbrica per evitare di attirare l’attenzione dei velivoli che si ritrovassero a passare nei paraggi. La pianta era a forma di U, nel centro vi era un grande cortile, anch’esso totalmente di cemento. Al centro di questo si ergeva una villa, costruita con lo stile del primo dopoguerra. Quella era il comando centrale, dove le Vedove Nere e tutti i medici, allenatori e capi della Stanza Rossa risiedevano. Tutto il complesso era circondato da due alte fasce di recinzioni di filo spinato. Certo, quando lei ancora abitava lì a chiunque malauguratamente cercasse di oltrepassarle, sia dall’esterno sia dall’interno, si prospettava molto di più che qualche semplice graffio per il filo o il fiatone per la scalata fino in cima. Seguì il percorso della recinzione, fino ad arrivare al punto che stava cercando: la porta, ormai scardinata. Bene, non avrebbe dovuto forzarla. Non fu altrettanto fortunata con la porta della fascia interna, ma un paio di minuti di lavoro con una forcina bastarono a far scattare la vecchia serratura. Si mosse a passi veloci verso la villa al centro. Se sperava di trovare qualsiasi indizio, l’avrebbe trovato lì. Il complesso intorno era solo una facciata. Il KGB l’aveva usato per un periodo durante gli anni di guerra come fabbrica per costruire armi, che in parte finivano alla Stanza, ma era stato abbandonato verso l’inizio della Guerra Fredda. Arrivò alla villa col fiatone, non causato però dalla distanza percorsa quanto dalla sensazione di paura e ansia che il luogo le dava. Molto bene, Natasha. Ci siamo. Rovistò nella borsa, in cerca di un congegno dello SHIELD in grado di aprire qualsiasi tipo di porta. Lo posizionò all’altezza della serratura e attese qualche secondo, fino a sentire lo scattare di un rumore metallico. La porta si aprì leggermente. La spinse, producendo un cigolio acuto. Sperò vivamente che non vi fosse nessuno a sentirla. Certo, il luogo era abbandonato da anni, ma adesso che sapevano che lei era in Russia avrebbero potuto tenderle un’imboscata in qualsiasi posto. Quello poi era probabilmente uno dei primi luoghi in cui sarebbero andati a cercarla. Entrò, chiudendo la porta dietro di sé. Era immersa nella penombra, le finestre erano troppo sudicie per lasciare entrare la poca luce che già c’era all’esterno. C’era uno strano odore, come di legno marcio. Sentiva lo zampettare di diversi topi dietro le pareti e c’erano ragnatele ovunque. Le ci volle tutta la propria forza di volontà per trattenere i brividi. Nonostante lo stato generale di decadenza, non era cambiata molto da come se la ricordava. La disposizione dei mobili era sempre la stessa. Salì le scale per dirigersi verso il dormitorio. Il piano di sopra era ancora più buio e i grossi lampadari di cristallo pieni di ragnatele proiettavano strane ombre sulle pareti. Arrivò alla porta che cercava, che aveva i cardini saltati per metà. La spinse in avanti con delicatezza, per evitare che si staccasse e le cadesse addosso. Uno stormo di pipistrelli la investì e solo mordendosi un labbro riuscì a impedirsi di urlare per lo spavento. Scrollò le spalle, come per togliersi la sensazione di quegli animali di dosso, ed entrò nella camera. I letti erano ancora nelle loro posizioni, fatta eccezione per un paio che erano rovesciati. Diversi materassi erano ammuffiti, qualcuno sembrava essere diventato la casa di molteplici famiglie di topi. C’era un paio di manette ancora attaccato a ogni testiera. Si guardò attorno, il cuore che le batteva all’impazzata, per verificare se ci fosse qualcosa di degno di nota. A prima vista non pareva, e decise di rimandare un’indagine più accurata a più tardi e solo nel caso ce ne fosse stato bisogno. Non moriva dalla voglia di avvicinarsi a quei letti, considerando lo stato in cui erano. Decretò che la sua seconda tappa sarebbe stata la palestra. Scese nuovamente le scale e si recò verso di essa. Entrò e fu quasi stupita nel vedere che era ancora tenuta bene, fatta eccezione per le ragnatele. Nessun attrezzo sembrava rovinato e i ring erano ancora ai loro posti. Quasi le sembrava di essere tornata indietro nel tempo. Mosse un paio di passi verso il centro, quando sentì una voce stupita chiamarla.

-Natalia?

Al suono di essa, lei si irrigidì. Era una voce roca e pesante. L’avrebbe riconosciuta tra mille, tanto il ricordo del suo proprietario era radicato nella sua mente. Non si stupì di non aver sentito nessun rumore, lui non avrebbe fatto un errore tanto stupido come far notare la propria presenza.

-Devo ammetterlo: tra tutti i posti in cui mi sarei aspettato di trovarti, questo era l’ultimo sulla lista.

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Capitolo 10
*** X. ***


X.

 

It's so cold, baby

it's dark outside
Winter comes creeping

in through the night
And it's hard when I just want

to hold you tight
Breaks my heart but nothing

can break this ice

(Birdy – Winter)

 

Russia, 1954

 

La prima volta che vide il Soldato d’Inverno fu nel tardo autunno del 1954. L’URSS era nel pieno della Guerra Fredda, e il KGB con la Stanza Rossa lavorava febbrilmente per addestrare e diffondere le proprie spie. Tuttavia, dato che le Vedove Nere spedite in guerra anni prima avevano creato diversi problemi ed erano al momento tutte morte, Natalia e le altre erano ancora tenute sotto controllo nella sede. Solo Oksana, la più anziana ancora in vita e ritenuta la migliore e più fedele spia del primo prototipo del progetto Vedova Nera, era stata mandata sotto copertura in America, sotto la falsa identità di una semplice e innocente ballerina dell’Iowa. Lei e Natalia si erano scambiate un addio veloce. Per quanto la loro relazione fosse stata basata sull’odio in tutti quegli anni, Natalia e Oksana non potevano fare a meno di provare un rispetto reciproco. Erano sempre state le migliori del corso, perennemente in competizione tra loro. “Non avrai più nessuno che ti ricordi qual è il tuo posto, Natashen’ka”, aveva detto la bionda il giorno della propria partenza, indossando dei vestiti da civile e parlando in inglese, come allenamento in previsione del suo soggiorno. “E tu non avrai più nessuno che ti faccia chiudere quella bocca, Oksanochka. O dovrei chiamarti Dottie?” aveva ribattuto la rossa. L’altra aveva sorriso al sentire il nome che sarebbe stato il suo per gli anni successivi, insieme a tutta l’identità di Dottie Underwood. “Non farti uccidere. Qualche anno fa ho giurato che lo avrei fatto io, mi arrabbierei molto se qualcuno arrivasse prima di me.” Natalia aveva dovuto abbassare lo sguardo per nascondere un ghigno alle parole dell’altra. Oksana non sarebbe mai cambiata. “Buffo, mi sono promessa la stessa cosa.”. La bionda aveva scosso la testa, divertita, afferrando la valigia che le avevano preparato, contenente tutto l’occorrente per il viaggio e dei vestiti di ricambio alla moda americana. Aveva dato le spalle a Natalia, che era rimasta seduta sul letto ad osservare quello di più vicino che avesse ad un’amica dirigersi verso la porta senza aggiungere un’altra parola. Non si erano mai più sentite notizie su di lei, né Natalia ne aveva mai chieste. Confidava sul fatto che Oksana fosse troppo furba per morire, soprattutto se si trovava circondata da americani.

Natalia aveva ormai ventisette anni, anche se ne dimostrava molti di meno per un motivo che non aveva mai capito, ed era sola al mondo. Tutto ciò su cui poteva fare affidamento per non uscire completamente di senno era la rigidissima tabella di marcia che le veniva imposta. Come quando era bambina, c’erano la sveglia, la doccia, la colazione, le lezioni del mattino, il pranzo leggero, le lezioni pomeridiane e il coprifuoco. Si stava lentamente trasformando in una spia modello. Ormai padroneggiava un discreto numero di arti marziali, sapeva parlare fluentemente cinque lingue, il russo, l’inglese, il francese, l’italiano e il latino, anche se si stava ancora impegnando a togliere gli ultimi accenni di accento russo che le rimanevano, e ormai era in grado di mentire abbastanza abilmente da battere diverse macchine della verità. Per la Stanza Rossa, però, non era abbastanza. Per Madame B, la sua addestratrice, non era abbastanza. Il corso di Madame B era riservato solo a poche elette, solo le Vedove più brave. Era estremamente duro e terminava in una pratica chiamata Cerimonia di laurea. Nessuna di loro sapeva di cosa si trattasse, ma sapevano che non poteva essere niente di buono. Madame B diceva che era necessaria per “prendere posto nel mondo”... Peccato che loro non ne avessero uno.

Dopo la guerra, tutto era cambiato. I superiori erano diventati ancora più rigidi, gli allenatori erano stati sostituiti con altri, ex spie se possibile più dure degli istruttori precedenti. Ivan e gli altri capi del progetto erano stati spediti altrove circa dieci anni prima, a reclutare altre bambine orfane. Natalia non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma lui gli mancava. Nonostante tutto, era stata l’unica persona ad aver sempre creduto in lei. Adesso era inesorabilmente sola e si sentiva sempre di più come un animale in trappola. Non aveva nessuno di cui fidarsi e non era libera di fare nulla. Ogni minima trasgressione alle regole era punita nel più terribile dei modi: quasi ogni giorno almeno una ragazzina veniva uccisa per insubordinazione, e a premere il grilletto era una delle altre ragazze. Erano costrette a farlo, a meno che non volessero fare la stessa fine. Ormai era diventata una questione di uccidere o essere uccise. Le diverse generazioni di Vedove venivano generalmente tenute separate. Quelle del primo esperimento, ovvero quelle che erano arrivate con Natalia, le poche ancora vive, non entravano quasi mai in contatto con le nuove. Eppure ogni tanto capitava di vedere qualche bambina da lontano, costretta a uccidere le proprie compagne, costretta a diventare qualcosa che non aveva mai chiesto di essere. Costretta a diventare un mostro. Circa una volta all’anno si vedevano arrivare le nuove reclute. Natalia riusciva sempre a sgusciare verso la porta di ingresso quando quell’evento accadeva, nella speranza di vedere Ivan, eppure lui non c’era mai. Al suo posto, incrociava le solite decine di bambine dall’aria spaventata, delle bambine che avevano appena perso tutto. Mentre le vedeva camminare in fila, tutte in preda alla paura più cieca, non poteva fare a meno di pensare che nel giro di nemmeno un anno tre quarti di loro sarebbero morte, e quelle erano le più fortunate. Le altre sarebbero state condannate alla sua stessa vita e non l’avrebbe consigliato nemmeno al suo peggior nemico.

Quel giorno scese in mensa per la colazione come ogni mattina. In quanto tra le maggiori, il suo turno era tra le cinque e le cinque e un quarto. L’unico privilegio di essere Vedove Nere adulte era potersi muovere da sole all’interno della struttura. Erano ormai perfettamente consce del fatto che se avessero fatto ritardo o si fossero recate nei posti sbagliati avrebbero ricevuto una punizione. Fortunatamente le più brave, come lei, non erano sacrificabili come le piccole bambine. Per loro erano riservate altre punizioni, certamente dure, ma raramente la morte. Era l’unica garanzia di cui potevano dire di godere. Si sedette con le altre del corso di Madame B. Come ogni mattina consumarono in silenzio la loro leggera colazione. Erano tutte lì da abbastanza tempo da sapere che era meglio non affezionarsi a nessuno lì dentro. Un legame sarebbe solo stata un’altra aggiunta sulla lista di ciò che potevano perdere, pertanto non parlavano mai tra di loro se non per estrema necessità. La Stanza aveva sottratto loro anche il diritto ad avere delle relazioni. Una volta terminato si recarono verso la stanza di Madame. Come sempre, aspettarono il suo arrivo, e come sempre lei arrivò puntuale come un orologio svizzero. Era una donna di un’età indecifrata tra i quaranta e i sessanta, l’aria rigida, i capelli biondi perennemente raccolti in uno chignon. Era minuta, ma incuteva comunque timore in chiunque la guardasse. Era gelida, inflessibile e sapeva essere crudele, pur senza sporcarsi mai le mani. Quella mattina indossava un abito grigio fasciante, che le dava un’aria ancora più severa. Le squadrò tutte dall’alto in basso, come era sua consuetudine fare ogni mattina, e poi comunicò a ognuna la stanza in cui recarsi. Per fare in modo che tutte si allenassero, infatti, il corso di Madame si suddivideva in più postazioni, ognuna in una camera diversa. In ciascuna vi era un allenatore, scelto tra i migliori e i più inflessibili. Madame girava tra le stanze per supervisionare e si fermava a osservare attentamente le ragazze. Alla fine della mattinata, le richiamava nella sua stanza e riferiva loro cosa dovevano migliorare. Se non era soddisfatta del lavoro di anche solo una delle ragazze, impediva loro di andare a pranzo e le teneva nelle rispettive postazioni fino a quando poteva ritenersi soddisfatta. Gli allenatori avevano chiare istruzioni di non avere pietà per le ragazze e siccome erano tutti uomini grandi il doppio di loro e forti tre volte tanto, non era raro che andassero a dormire piene di lividi e con tutti i muscoli doloranti, e guai a chi l’avesse usata come scusa per non dare il massimo nell’allenamento del giorno dopo. Una ragazza un giorno era messa talmente male che ci aveva provato, sostenendo di non riuscire quasi a muovere gli arti, e il giorno dopo oltre a non farle saltare nemmeno un minuto di lezione non l’avevano nemmeno mandata a dormire per farle passare la notte ad allenarsi. L’unica nota positiva era che la sola limitazione degli istruttori era che non avevano l’autorizzazione di rompere loro le ossa. Madame comunicò la destinazione a tutte le ragazze, tranne Natalia. Aspettò che le altre fossero uscite e poi si girò verso di lei, fissandola con i suoi imperturbabili occhi di ghiaccio. La rossa rimase in silenzio, aveva imparato a sue spese che era meglio non fare troppe domande alla donna.

-Tu, seguimi.- Ordinò freddamente Madame. Lei obbedì e la seguì fino a una stanza al lato del corridoio, una in cui lei non era mai stata. Entrò, rendendosi conto all’istante che era vuota.

-Anton è in ritardo?- Si azzardò a chiedere la rossa, stranita che non ci fosse l’allenatore che le era solitamente assegnato.

-No,- Rispose semplicemente l’altra, la voce quasi divertita. -Da oggi avrai un altro istruttore.

Prima che Natalia potesse dire niente, si ritrovò per terra, schiacciata dal peso di un corpo che le stava puntando le ginocchia nella schiena e le aveva bloccato le braccia con una presa ferrea. Per qualche secondo rimase a terra a tossire e boccheggiare in cerca d’aria, totalmente presa alla sprovvista da quell’attacco alle spalle.

-Mai abbassare la guardia, Natalia. Saresti già morta a quest’ora.- Proferì Madame B. Anche se la vista le si stava lentamente appannando, la rossa riuscì ugualmente a cogliere l’ombra di un ghigno soddisfatto sulle labbra della donna. A un gesto della mano della donna, la persona sopra di lei si alzò, rendendola finalmente libera di respirare. Tossì nuovamente, sentendo tutto il corpo dolorante per quel breve periodo di mancanza di circolazione di ossigeno.

-In piedi.- Intimò la voce impassibile di Madame. Lei si alzò con difficoltà, faticando a far rispondere le gambe ai propri comandi. Non ebbe nemmeno il tempo di alzare il capo per esaminare il suo assalitore e capire almeno davanti a chi si trovasse che sentì un calcio colpirla con tutta potenza nello stomaco, lasciandola nuovamente senza fiato. Natalia indietreggiò, annaspando. Non riusciva a pensare lucidamente, l’avversario, o avversaria per quanto ne sapeva, non era riuscita nemmeno a scorgere il corpo del suo nuovo istruttore, non le dava tempo di elaborare una strategia. Si ritrovò a parare alla meglio i colpi che arrivavano a raffica verso ogni angolo del suo viso. Fortunatamente era sempre stata veloce e aveva dei buoni riflessi, altrimenti sarebbe stata colpita subito. I colpi arrivavano così velocemente e così vicini l’uno all’altro che quasi le venne da chiedersi se l’allenatore avesse più di due braccia. Intravide un pugno in direzione del proprio naso, e lo parò, bloccando la mano dell’opponente. Le ci vollero un paio di secondi per realizzare che non stava stringendo una mano normale, ma che era fatta di qualche materiale duro. Presa dallo stupore, alzò lo sguardo sul resto dell’arto. Era argentato e lucido: il suo opponente aveva un braccio di metallo. Intravide una stella rossa disegnata poco sotto la spalla. A bocca aperta, fece appena in tempo ad alzare lo sguardo sul viso dell’altro e notare che era un uomo, probabilmente più vecchio di lei di qualche anno. Aveva i capelli castani e mossi abbastanza lunghi da arrivargli alla spalla e gli occhi azzurri. I loro sguardi si incrociarono per un breve istante, poi le arrivò un altro pugno nello sterno, che la mandò a terra, a sbattere la testa contro il muro. Si afflosciò sul pavimento, incapace di evitarlo. A fatica si mise seduta, ma non dovette aspettare molto prima che il braccio di metallo si chiudesse con presa ferrea attorno al suo bicipite e la alzasse di peso. L’uomo fece un paio di passi indietro, per aspettare che Natalia finalmente attaccasse. Lei, con uno sforzo sovrumano, corse verso di lui e riuscì a saltargli addosso e a issarsi sulle sue spalle, chiudendogli le gambe intorno al collo. Senza apparente sforzo, però, lui riuscì ad afferrarla e a farla cadere a terra, supina. Prima che lei se ne potesse rendere conto, lui era disteso sopra di lei, a pochissima distanza dal suo corpo per impedire che lei si muovesse e si liberasse. Per quanto cercasse di divincolarsi, lui sembrava prevedere tutte le sue mosse. Con un sospiro di frustrazione, si accasciò a terra, sempre sotto di lui. Si maledisse nella propria mente. Fino a quel momento aveva imparato un sacco ed era ormai brava nei combattimenti, era riuscita a battere persino gli allenatori, le altre ragazze non avevano mai dovuto saltare il pasto per colpa sua. E invece bastava il più piccolo cambiamento di programma, una nuova variabile e tutto ciò che sapeva fare diventava di colpo inutile. Sentiva la sconfitta bruciarle nel petto, ma non voleva dare l’impressione di una che si arrendesse facilmente. Non voleva apparirgli più debole di quanto lui già pensava che fosse e non voleva dare quella soddisfazione a Madame B. Osservò l’uomo negli occhi con aria di sfida. Era talmente vicino che lei poteva sentire il contatto con la sua pelle fredda come l’inverno e non poté fare a meno di notare che emanava un piacevole odore di muschio e legna bruciata. Scrutando bene nei suoi occhi all’apparenza freddi, eppure, riuscì a vedere un’ombra di tristezza e di smarrimento, la stessa che vedeva nel proprio riflesso quando si specchiava. Solo allora capì: un braccio di metallo, una forza considerevole, l’aria di smarrimento e la tecnica pressoché perfetta di combattimento. Era un esperimento tanto quanto lei, un’altra cavia del KGB, un’altra spia, un burattino nelle mani della Stanza Rossa. Battè una mano a terra per due volte, in segno di resa. L’altro esitò e guardò Madame B, come a chiedere conferma. Lei annuì e lui si alzò, liberandola. Madame lanciò a Natalia un’occhiata eloquente.

-Natalia, ti presento il tuo nuovo allenatore, il Soldato d’Inverno. Divertiti con lui... Ora ti lascio nelle sue mani, così posso andare a comunicare alle altre di non scomodarsi a scendere a pranzo. Sembra proprio che questa si prospetti una lunga giornata, per te... Buon proseguimento- Aggiunse, con tono derisorio. Si girò e uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

-In piedi.- Pronunciò freddo il Soldato d’Inverno, parlandole per la prima volta con la sua voce roca e profonda. Natalia si alzò a fatica in piedi.

-Un’altra volta.- Ordinò lui e lei riprese ad attaccarlo con tutte le forze che poteva.

Madame aveva ragione, aveva una lunga giornata davanti a sé.

 

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Capitolo 11
*** XI. ***


XI.

 

As long as I am nothing

but a ghost of the civil dead,

I can do nothing.
(Jack Henry Abbott)

 

Volgograd, Russia

48°42’N 44°31’E

Thursday, 10th December 2015

2.58pm

 

-Devo ammetterlo: tra tutti i posti in cui mi sarei aspettato di trovarti, questo era l’ultimo sulla lista.

Il cuore di Natasha perse un battito. Si girò lentamente, incredula.

-James?- Mormorò, quasi come credesse di stare immaginando tutto. D’altra parte, l’ultima volta che l’aveva visto lui non aveva dato segni di ricordarsi di lei e aveva tentato di ucciderla, sotto l’effetto dell’ennesimo lavaggio del cervello.

-In carne e ossa.- Replicò lui. -E metallo.- Aggiunse, indicando il proprio braccio sinistro.

-Che ci fai qui?- Chiese la rossa, ignorando la sua battuta.

-Potrei farti la stessa domanda, ma ho la sensazione che ci troviamo qui per lo stesso motivo.

Natasha abbassò lo sguardo e si girò verso i ring. Sapeva che aveva ragione, nessuno dei due sarebbe tornato lì di propria volontà per fare una scampagnata. Sotto sotto era anche sollevata di non essere da sola.

-Credevo fossi in America. Steve ti sta cercando ovunque, lo sai.- Disse dopo un po’, tornando a concentrare la sua attenzione su di lui.

Bucky sospirò.

-Steve ha molti meno problemi senza di me. E la persona che sta cercando lui è un fantasma, il suo Bucky è morto nel 1945 cadendo da quel treno. Per quanto lui si sforzi, non c’è modo di farlo tornare indietro.

Natasha annuì. Lei stessa aveva cercato di far capire a Captain America che doveva rassegnarsi sul ritrovare il suo amico, ma era troppo testardo. Sostenne il suo sguardo per qualche secondo, fissandosi nei suoi occhi azzurri. Anche dopo tutti quegli anni, vederlo le faceva uno strano effetto. Aveva sempre esercitato un incredibile fascino su di lei, senza nemmeno sforzarsi troppo, e lei si era sempre odiata per quella debolezza. Eppure avevano condiviso troppe vicissitudini, erano rimasti l’uno al fianco dell’altra per troppo tempo e in troppe occasioni terribili per entrambi perché lei potesse mai dimenticare ciò che una volta aveva provato per lui. Benché avesse ormai voltato pagina da anni, non avrebbe mai potuto dimenticarlo e i sentimenti che aveva nutrito per lui non se ne sarebbero mai andati del tutto. Lo vide scuotere la testa, come per scacciare i pensieri riguardanti quello che una volta, una vita addietro, era stato il suo migliore amico.

-Allora, cosa stai cercando qui?- Chiese l’uomo semplicemente dopo un po’, più per distrarre se stesso che perché volesse davvero porle quella domanda. Natasha scrollò le spalle e disse semplicemente la verità.

-Non lo so nemmeno io.

Lui annuì. Non c’era mai stata la necessità di troppe parole tra loro. La raggiunse verso il centro della palestra, passandosi la mano di metallo tra i folti capelli. Si scambiarono un’occhiata e fecero un cenno d’assenso, intuendo al volo di avere lo stesso piano, semplice ma l’unico possibile visto che entrambi erano in cerca di indizi, ma non sapevano dove trovarli né cosa potessero essere.

-Prendo la sinistra.- Decise Natasha e senza aggiungere altro si diresse verso il fondo dell’ala sinistra della palestra. Le ricerche proseguirono nel più assoluto silenzio, ma la rossa non poteva fare a meno di pensare che fosse in qualche modo rassicurante sentire il rumore di Bucky che spostava oggetti negli armadi dall’altra parte della stanza. L’idea di essere sola nella Stanza Rossa non la entusiasmava particolarmente, quindi la presenza di lui, qualcuno che potesse capire cosa significasse per lei ritornare lì dopo tutti quegli anni, la faceva sentire più sicura. Certo, non che lei avesse bisogno della protezione di nessuno. Tuttavia era stata talmente sola negli ultimi mesi, si era negata in modo così irremovibile ogni contatto umano che avere al proprio fianco qualcuno, anche se per breve tempo, risultava essere una sensazione irritantemente piacevole. Passò in quel modo quasi un’ora, al termine della quale entrambi si ritrovarono a mani vuote. Non si lasciarono scoraggiare e decisero di passare ad altre stanze. Si diressero verso la mensa, dove le ragnatele erano talmente tante e fitte e i tavoli erano ricoperti da un tale strato di sporco e ruggine da far intuire la totale assenza di visite negli ultimi decenni. Tutte le stanze del pianterreno, le camere degli istruttori, erano conciate nello stesso modo. Si salvava solamente la grande sala da ballo, dove però non sembravano esserci particolari indizi utili alla causa. Tutto era come l’avevano lasciato anni prima. Natasha si ritrovò a lottare contro i ricordi delle false lezioni di danza svolte in quell’ambiente. Era difficile scinderle dai ricordi veri, quelli in cui al posto di ballare lei imparava a uccidere. Quasi vedeva ancora le macchie di sangue delle sue vittime sul marmo del pavimento. Sentì Bucky muoversi dietro di lei e trafficare con qualcosa. D’un tratto, il silenzio venne interrotto dalle note lievemente gracchianti di un lento. Natasha si girò di scatto verso dove sapeva esserci un grammofono. Il Soldato d’Inverno era lì, l’aria persa nei ricordi, la mano ancora appoggiata sull’apparecchio.

-Potrebbe esserci qualcuno qui, ci farai scoprire.- Disse lei secca, ignorando ciò che la canzone le riportava alla mente.

-Non siamo stati esattamente discreti finora, no?- Ribatté lui. Lei tacque, sapendo che aveva ragione. Le note risuonarono tristi nella stanza, rimbombando sulle pareti. Natasha faceva fatica a respirare. Avvertì una mano fredda appoggiarsi sulla propria spalla e spingerla lentamente a girarsi.

-Ti ho insegnato io a ballare questa canzone, ricordi?- Sussurrò Bucky, lontano solo pochi centimetri da lei. La ragazza annuì.

-Non credo potrei dimenticarlo. È stata una delle poche volte in cui non mi hai mandata a dormire piena di lividi.- Replicò, cauta, cercando di capire dove volesse arrivare. Lui sorrise, il sorriso triste di un uomo che non riesce a liberarsi del passato. Lentamente, avvicinò le proprie mani a Natasha, appoggiando quella vera sul suo fianco e prendendole gentilmente la mano con quella di metallo. Lei lo guardò smarrita.

-James... Non dovremmo...- Provò a opporsi lei, tentando di riportarlo alla realtà e alle ricerche.

-Questo posto è colmo di fantasmi. Credo che non ci sia niente di male a rivangare un ricordo positivo, tanto per cambiare.- Mormorò lui, accennando un sorriso. Lei si morse un labbro. Avvertiva la propria pelle andare a fuoco dove lui la teneva e si ritrovò di nuovo catapultata nel tempo a quando era ancora giovane, ma questa volta a quella lezione con lui, uno dei pochi, forse l’unico, bei ricordi che poteva dire di avere della Stanza Rossa. Lo guardò negli occhi per qualche secondo, poi, ancora titubante, appoggiò lentamente la testa al petto dell’uomo, affondando il viso nel suo collo, e iniziò ad assecondare i suoi passi. La coreografia era facile, se la ricordava ancora senza bisogno di pensarci troppo su. Avvertiva il petto del Soldato alzarsi e abbassarsi regolarmente insieme al suo. Fece scorrere il braccio libero sulla sua spalla e pensò a quanto tempo era passato dall’ultima volta che erano stati così vicini, senza provare a uccidersi. Ormai erano quasi sessant’anni. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla melodia quasi ipnotica, inebriata da essa e dall’intenso profumo di muschio e legna bruciata dell’uomo. Per la prima volta da quando aveva lasciato lo SHIELD le sembrava di respirare davvero, ironia della sorte nel luogo dove era meno probabile che ciò accadesse. Giudicando dai suoi movimenti, anche l’uomo che la stava tenendo tra le braccia sembrava essere quasi rilassato dopo molto tempo. La musica continuava, guidava i loro passi, offriva loro una scappatoia da una realtà che nessuno dei due voleva. In quel momento c’erano solo loro, due spie fuori dal tempo che ancora non avevano trovato un posto nel mondo, a offrire un sostegno l’uno all’altra. Natasha si sorprese a pensare che avrebbe voluto dilatare quel momento nel tempo, alleviare il peso che era costretta a portare sulle spalle ogni giorno, non doversi più preoccupare di sopravvivere e lottare contro il proprio passato. Sentì la musica rallentare e Bucky affondare la testa nei suoi capelli.

-Dovremmo continuare le ricerche.- Le mormorò con le labbra a un passo dal suo orecchio. Lei annuì e si separò da lui, ripiombando nella realtà. Lo osservò andare ad alzare la puntina del grammofono, facendo sì che la casa tornasse a essere silenziosa e abitata dai fantasmi. Abbassò lo sguardo, fingendo di aggiustarsi i capelli, ora quasi imbarazzata per quel momento di debolezza. Non poteva permettersi di abbassare la guardia, nemmeno con il Soldato d’Inverno. Soprattutto con lui, che aveva rappresentato una debolezza per lei nel passato e aveva appena dimostrato di rappresentarla ancora.

-Tutto a posto?- Le chiese lui, come se le avesse letto nella mente. Lei annuì.

-Meglio sbrigarci, voglio uscire di qui il più presto possibile.- Disse, ritrovando la propria compostezza. Lui aspettò che uscisse per seguirla. Decisero di passare al piano superiore.

-Sei ancora brava come mi ricordavo a ballare.- Dichiarò Bucky mentre salivano le scale. Lei trattenne a stento un sorriso.

-Nemmeno tu sei tanto male.- Ribatté lei, un ghigno stampato sulle labbra. Lui scosse la testa e si diresse verso la prima porta verso sinistra.

-Io prendo quelle a destra.- Decise la rossa. -Ti consiglio di evitare il dormitorio, è peggio della capanna di Babà-Jagà là dentro.

Presto scoprì che anche le altre stanze, un tempo usate per l’addestramento, erano ridotte in maniera molto simile. Ogni volta che apriva una porta, si liberava uno stormo di pipistrelli, o peggio ancora topi. Tutto ciò che vi era all’interno era marcito o divorato dai tarli. Finì in fretta la sua perlustrazione e raggiunse Bucky. La sensazione di oppressione esercitata dalla Stanza Rossa stava tornando e lei voleva essere fuori di lì il prima possibile. Il Soldato d’Inverno stava finendo di cercare nella stanza in fondo al corridoio, quella dove si erano incontrati per la prima volta. Lei lo osservò appoggiata allo stipite, facendo fatica a riconoscere sia la stanza sia l’uomo da quelli di sessant’anni addietro. Lo vide scuotere la testa, rassegnato, e passare al caminetto sporgente che però sembrava nascondere solo altre ragnatele. Natasha si avvicinò a lui per aiutarlo.

-Ho ancora la cicatrice sulla schiena, lo sai?- Disse la rossa con tono beffardo, indicando lo spigolo superiore del caminetto, dove una volta lui l’aveva scaraventata durante un allenamento. Lui la guardò a metà tra il divertito e l’oltraggiato e alzò la manica destra della giacca, per farle vedere una profonda cicatrice che andava dal polso al gomito, ricordo di una ferita che lei gli aveva inflitto con un pugnale che era riuscita a sottrargli in una lotta. Lei scrollò le spalle.

-Okay, siamo pari.

Appurata la totale assenza di qualsiasi cosa, si alzarono e uscirono dalla stanza. Si resero conto nello stesso momento di cosa ciò comportasse: rimaneva loro solo un piano da esaminare, il seminterrato. Nessuno dei due aveva dei bei ricordi legati a quell’ala della casa, ancora di più che al resto. Lì era dove si svolgevano tutti gli esperimenti, i lavaggi del cervello, la cerimonia di laurea. Niente di ciò che accadeva nel seminterrato poteva essere qualcosa di buono. Si scambiarono un’occhiata, come a farsi forza, e scesero. Lì sotto era buio, vista la completa mancanza di finestre. Non fidandosi del vecchio impianto elettrico, in disuso da troppo tempo per essere sicuro, tirarono entrambi fuori delle torce che avevano con sé. La scarsa illuminazione rendeva il luogo ancora più tetro. I nervi di entrambi erano talmente tesi da saltare a ogni squittio di un topo. Natasha per sicurezza tirò fuori una pistola e la tenne puntata in avanti subito sotto la torcia. Si diresse verso il fondo del corridoio, seguita a ruota dall’altro. Con un calcio spalancò la porta, che cadde sollevando una nube di polvere. Tossendo, puntò la torcia verso l’interno della stanza. Notando che era vuota, mise a posto la pistola e si fece strada fra i calcinacci. Puntò la luce verso una costruzione verticale, che troppo tardi capì essere una capsula di ibernamento. Avvertì Bucky irrigidirsi dietro di lei. Non poteva biasimarlo, d’altronde, non doveva essere piacevole venire rinchiusi lì e congelati a piacimento dei superiori della Stanza Rossa. Una volta era stata costretta ad assistere all’ibernazione del Soldato d’Inverno e il ricordo le dava i brividi ancora adesso. D’istinto cercò la mano di Bucky con il braccio che non teneva la torcia. Sapeva che niente di ciò che avrebbe detto sarebbe servito ad alleviare il suo dolore, ma voleva almeno fargli sapere tramite quel gesto che lei era lì, che non era solo. Sentì i suoi muscoli rilassarsi lievemente al contatto, ma rimasero comunque piuttosto tesi.

-Puoi aspettarmi fuori, se ti va.- Propose lei, il tono improvvisamente addolcito. C’erano certe situazioni in cui nemmeno lei riusciva a essere caustica, sapeva cosa volesse dire per lui. Vedere quella cella era un’impresa anche per lei. Lui scosse il capo, era troppo testardo per tirarsi indietro. Natasha si fece strada tra i calcinacci e arrivò fino alla capsula, il cui vetro era ormai frantumato. Pur sapendo che Bucky avrebbe disapprovato l’idea, si issò nella cella in modo da entrarvi dentro, facendo attenzione a non tagliarsi con le schegge. Lui intuì la sua idea e stava per dichiarare la sua disapprovazione quando d’un tratto un rumore sospetto proveniente dal piano di sopra risuonò nella stanza. I due si scambiarono un’occhiata.

-Vado a controllare. Tu stai ferma qui.- Ordinò lui con quel tono militaresco che non era riuscito a togliersi nemmeno dopo gli anni e i numerosi lavaggi del cervello e senza aspettare risposta uscì dalla porta e si diresse verso il pianterreno. Natasha, che non era certo una persona che seguisse gli ordini, uscì in fretta dalla capsula dove era riuscita a infilarsi e seguì silenziosa i passi del Soldato d’Inverno. Pistola in mano, si fermò alla base delle scale e lo guardò scomparire dalla sua vista, al piano di sopra. Seguirono diversi secondi di silenzio carico di tensione. Non sentendo più nessun suono, la rossa salì un paio di gradini. Non fece nemmeno in tempo ad appoggiare il piede sul terzo che sentì il suono di uno sparo echeggiare al piano superiore. James, pensò preoccupata e iniziò a correre sulle scale. Aveva percorso metà rampa quando si sentì tirare indietro e perse l’equilibrio. Per fortuna riuscì a posizionare le mani in modo da non battere con la nuca sui gradini. Si rimise in piedi all’istante, per ritrovarsi di fronte a un uomo grosso come un armadio, vestito di pelle da capo a piedi, la testa rasata e gli occhi azzurri. Aveva una pistola puntata contro di lei. Natasha cercò con lo sguardo la propria: era caduta a circa tre metri di distanza da dove si trovava. Fissò gli occhi in quelli dell’uomo e alzò lentamente le mani sopra la testa. Nel momento esatto in cui lo vide abbassare la guardia, tirò un calcio alla pistola. L’uomo premette il grilletto, ma troppo tardi: tutto ciò che il proiettile colpì fu il marmo delle scale, lasciando un solco. Nel frattempo Natasha era già arrivata alla pistola ed era riuscita a sparare alla mano con cui l’uomo teneva la sua, facendogliela cadere. Un altro colpo, verso la testa, e l’uomo si accasciò a terra con un gemito. La rossa si girò e riprese la sua corsa verso Bucky. Lo trovò alle prese con tre uomini, altri due erano già a terra. Corse verso di lui per aiutarlo, ma le si pararono davanti altri quattro armadi. Giornata da dimenticare. Uno di loro le sparò, ma lei riuscì per un pelo a evitare il proiettile. In un secondo, era già riuscita a scivolargli sotto le gambe, sorprendendolo da dietro e sparandogli. Meno uno. I rimanenti tre decisero di dividersi e coglierla su tre fronti, ma lei riuscì a salire sulle spalle di uno di essi. Mentre mirava a soffocarlo stringendo le cosce attorno al suo collo, riuscì a sparare a un altro di loro. Meno due. Finalmente l’uomo sotto di lei si accasciò. Meno tre. Poco prima che toccassero terra lei mollò la presa e si rimise in piedi grazie a una capriola, al termine della quale sparò all’ultimo uomo. Meno quattro. Anche Bucky sembrava aver sconfitto tutti i suoi opponenti e quindi lei riuscì finalmente a raggiungerlo, ansimando.

-Già stanca, Tasha?- La derise lui.

-Ti piacerebbe.

Ebbe a mala pena il tempo di finire la frase che uno sparo arrivò dal piano superiore. Avrebbe colpito in pieno la testa della ragazza se l’uomo non avesse avuto i riflessi abbastanza pronti da deviare la pallottola con il braccio di metallo. Le rivolse un ghigno.

-Me ne devi una.

Lei sbuffò, poi guardò verso l’alto e sparò a un uomo con un fucile posizionato esattamente sopra di loro, in cima a una colonna, che stava puntando verso Bucky.

-Fatto.- Disse con un sorriso soddisfatto, mentre altri due gruppi di uomini sbucavano da due lati, nel tentativo di circondarli. I due si misero schiena contro schiena, a fronteggiare entrambi i lati.

-Scommetto che ne uccido di più io.- Sentenziò Bucky, brandendo il fucile caduto all’uomo appena ucciso da Natasha.

-Continua a sognare, Barnes.- Ribatté lei.

-Chi perde paga da bere?

-Ci sto.- Accettò Natasha, fiondandosi verso i primi uomini del gruppo. Potevano essere passati anni, anni in cui era successo qualsiasi cosa, ma i due avevano una coordinazione nella lotta che pareva studiata fino all’ultimo minuto prima. Quasi come quando ballavano, conoscevano ed erano in grado di prevedere ogni mossa dell’altro. La loro era una danza mortale, il cui tempo era scandito dalla pioggia di proiettili e la musica prodotta dal gemere degli uomini che collassavano a terra. Il ritmo era veloce, erano pochi i nemici che riuscivano a stare loro dietro. Nemmeno durante la lotta avevano bisogno di parole, ma si capivano perfettamente grazie a semplici occhiate o piccoli gesti, indecifrabili per chiunque meno loro. Erano una macchina da guerra ben oliata, forse piccola, ma letale. I loro assalitori dovevano essere stati una ventina, e dopo appena dieci minuti di lotta ne erano rimasti solo cinque in piedi. Ansimanti, Bucky e Natasha ritornarono alla posizione schiena contro schiena. Gli altri spararono all’unisono e loro due si abbassarono giusto in tempo, riuscendo però a colpire con precisione le gambe di tre di loro. Questi caddero a terra, contorcendosi pere qualche secondo prima che arrivasse il colpo di grazia. I due rimanenti si divisero, mirando alla ritirata. Le due spie si diedero al loro inseguimento. Natasha fece per sparare a quello al quale stava correndo dietro, ma non aveva più proiettili. Lasciò cadere la pistola, e cercò in fretta uno dei suoi taser all’interno delle proprie tasche. L’altro si girò, senza smettere di correre, e vedendola disarmata le sparò. Lei evitò il colpo, continuando a rovistare. Un altro colpo, si gettò a sinistra per evitarlo. Andiamo, Natasha, trova quei dannati taser. Un altro colpo, un altro e un altro ancora. Finalmente le sue dita incontrarono qualcosa di solido all’interno di una tasca nascosta. Senza esitare lo tirò fuori e lo lanciò con precisione da cecchino sulla schiena dell’uomo, che venne colpito da una scarica elettrica che fece afflosciare il suo corpo. Natasha si fermò, ansimando. Avvertiva una strana sensazione all’altezza dello stomaco. Sentì Bucky dietro di lei sparare un proiettile e si girò verso di lui.

-Con questo fanno diciassette, credo proprio di averti battuto.

Ma Natasha non ascoltava. Appoggiò il palmo della mano sul punto dove avvertiva quella sensazione. Lo ritrasse, e lo vide zuppo di sangue. Il suo sangue. Alzò gli occhi verso Bucky, che capì al volo e iniziò a correre verso di lei. Sentì la testa girarle e le gambe cederle prima che il Soldato potesse arrivare a prenderla ed evitarle la caduta. Lo udiva chiamare il suo nome, la voce carica di preoccupazione. Lei avrebbe voluto rispondergli e rassicurarlo, ma lo sentiva troppo distante, irraggiungibile. Le palpebre iniziarono a diventarle pesanti. Il suo cervello registrò a mala pena l’immagine di Bucky che si affaccendava a strapparle la maglia e a tamponare sulla ferita, ma pian piano l’immagine si fece più sfocata e il peso della propria testa le divenne troppo insostenibile. Lasciò andare, appoggiando la nuca a terra e arrendendosi ai suoi occhi, bramosi di chiudersi. La voce del Soldato d’Inverno si allontanava sempre di più, era diventata un’eco che sparì tanto velocemente quanto il nero circondò Natasha e la trascinò verso l’oblio.

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Capitolo 12
*** XII. ***


XII.

 

Wake me up inside

Wake me up inside

Call my name and save me

from the dark

Bid my blood to run

Before I come undone

Save me from the nothing

I’ve become.

(Evanescence – Bring me to life)

 

Russia, 1955

 

Faceva freddo e Natalia tremava. Non riusciva a capire come il Soldato d’Inverno, davanti a lei, potesse essere così tranquillo e disinvolto indossando solo l’uniforme base della Stanza. Era la sua prima missione, la prima volta che usciva dal complesso della Stanza Rossa dal 1934, eppure non era troppo agitata. Non con tutti gli allenamenti. Non con il Soldato d’Inverno al suo fianco. Era una strana sensazione, ma si sentiva al sicuro quando era con lui, si sentiva meno sola. Non avevano mai parlato molto, i loro allenamenti non lo richiedevano quasi mai e nessuno dei due era tipo da futili chiacchiere. La loro missione quel giorno era facile, era solo per verificare che Natalia fosse pronta e obbedisse agli ordini. Tutto ciò che dovevano fare era eliminare un soggetto che fonti attendibili avevano affermato dovesse passare proprio per il punto della città dove loro si erano nascosti. Natalia non aveva avuto idea di dove si trovasse la Stanza Rossa fino a quel momento, vedere il cartello con scritto “Stalingrado” le diede le vertigini. Poteva parere stupido, ma sapere dove avesse passato gli ultimi anni era in qualche modo confortante, provava in qualche modo la sua esistenza. Vide il Soldato d’Inverno accucciarsi dietro a un angolo e lo seguì. Non c’era nessuno in giro.

-Siamo in anticipo.-Dichiarò lui, la voce meno rigida del solito, più tranquilla. Essere fuori dalla Stanza, anche se per poche ore e anche se erano di sicuro tenuti sotto controllo doveva far bene anche a lui. Lei annuì. Rimasero fermi e in silenzio per qualche istante, ad assaporare quella mezza libertà che era stata loro concessa. Lui era già andato in missione, qualche volta, ma sempre vicino e con una schiera di uomini. Inoltre Natalia aveva visto i medici lavorare su di lui in una stanza nel seminterrato prima di ogni missione. Era impressionante: lui era legato a una sedia, uno strano casco in testa. Lo sentiva urlare, anche se aveva la bocca forzatamente chiusa. Vederlo così le dava i brividi. Non capiva perché, aveva già visto diversi uomini e ragazzine essere torturati in quelle stanze, eppure non aveva mai sentito il bisogno di correre a salvarli, liberarli da quella agonia. Con il Soldato d’Inverno era diverso. Avvertiva il petto bruciarle ogni volta che udiva i gemiti di dolore dell’altro. Non aveva mai capito cosa gli facessero là sotto, ma sapeva riconoscere quando era stato sottoposto a quella pratica. Il suo modo di combattere cambiava lievemente nei combattimenti: i colpi più dolorosi e forti li sferrava solamente quando era uscito da poco dalla stanza. In quei momenti aveva gli occhi più scuri del solito, freddi e impassibili. Quando era passato del tempo invece, gli allenamenti erano lievemente meno duri. Non tanto, ma abbastanza perché Natalia riuscisse ad avere la meglio ogni tanto. Più di una volta lei però si era ritrovata a perdere apposta: aveva notato che se lei vinceva troppe volte di fila Madame B si accorgeva dei colpi meno letali del Soldato e comunicava ai medici che era il momento di riportarlo a quello che lei chiamava “riavvio del sistema”. Natalia preferiva andare a dormire con qualche livido in più che sapere che lui era da qualche parte legato a una sedia a urlare. Non sapeva se lui se ne fosse accorto, ma non le importava. Non lo faceva di certo per ricevere un grazie, e di sicuro non migliorava la situazione. Riusciva solo a fare in modo che ci fosse una pausa più duratura tra una tortura e l’altra, faceva in modo che la sua perenne agonia fosse meno dolorosa. D’un tratto l’immagine di lui legato e sofferente tornò a occuparle la mente e il silenzio lì intorno divenne insostenibile. Si girò verso di lui e lo osservò per qualche istante. Aveva lo sguardo assente e le guance arrossate dal freddo. I suoi lunghi capelli ondeggiavano spinti dalla brezza di quella giornata. Esitò per qualche istante, poi si decise a parlare, per rompere quella quiete che non portava niente se non pensieri che avrebbe preferito evitare.

-Come sei arrivato alla Stanza Rossa?- Chiese sottovoce, senza inutili preamboli. Non sapeva quanto fosse una buona idea, loro due non avrebbero dovuto parlare molto, d’altronde lei era solo la sua allieva, non poteva permettersi di fare conversazione. Lui si rabbuiò e lei pensò che non le avrebbe mai risposto. Invece scrollò la testa e disse semplicemente:

-Non lo so. Non me lo ricordo.- Natalia sapeva che non era una bugia, sapeva cosa fossero in grado di fare i medici. Anche se i suoi ricordi erano stati alterati e non rammentava ancora di essere stata sottoposta anche lei a tali esperimenti, sapeva che erano capaci di modificare la memoria. Almeno era sollevata che lui le avesse parlato, dimostrava che non era del tutto inappropriato. O almeno che non dava troppo peso al fatto che lo fosse. In tutta risposta annuì.

-Non ricordo nemmeno il mio vero nome.- Aggiunse lui, dal nulla. Nella testa di Natalia si accese una lampadina.

-Per quello forse posso aiutare.- Mormorò. Rovistò in una tasca della propria uniforme, sotto lo sguardo interrogativo dell’uomo.

-Eccola.- Sussurrò tra sé con un sorriso dipinto in faccia. La sagoma sottile di una catenina sbucò dalla sua tasca. Era una medaglietta da soldato, di quelle che si usavano in guerra. Natalia gliela tese con mano tremante.

-Credo appartenga a te. Era nel tuo fascicolo.

Lui la prese, titubante, e lesse l’iscrizione. Recitava, in inglese, “James Buchanan ‘Bucky’ Barnes, 107°, sergente”. Se la rigirò un attimo tra le mani, incredulo. Pareva averla ricordata.

-Come hai fatto a prenderla?- Chiese con voce rauca, senza staccare gli occhi dalla medaglietta come se nel caso avesse distolto lo sguardo quella sarebbe scomparsa. Lei scrollò le spalle.

-È caduta a un medico mentre metteva a posto il fascicolo.- Rispose Natalia, ma era una bugia. L’aveva rubata di proposito. Un giorno, nella speranza di scoprire di più sul conto dell’uomo, era entrata nell’archivio dove erano tenuti tutti i fascicoli, una stanza piccola con tutte le pareti coperte da degli alti armadi di vernice verde, pieni di cassetti chiusi a chiave contenenti le cartelle con i dati di tutti. Con un’espressione preoccupata aveva informato l’addetto alla guardia che aveva visto qualcuno intrufolarsi nella sua camera da letto e lui se l’era bevuta senza nemmeno pensarci un attimo. Il bello dell’essere allieve era che la maggior parte di coloro che lavoravano lì non avevano idea di cosa venisse loro insegnato oltre al combattimento, quindi anche le più anziane erano reputate inoffensive come le nuove reclute. Oksana aveva sfruttato quel vantaggio per anni e ora stava imparando anche Natalia. Appena la guardia era uscita, sbraitando, lei si era guardata intorno per verificare che nessuno la vedesse aveva manomesso le serrature dei cassetti e si era messa a cercare il fascicolo del Soldato d’Inverno. Fortunatamente l’aveva trovato abbastanza in fretta e aveva scoperto con suo estremo disappunto che era una cartella piuttosto magra: era riempita soprattutto di formule e di resoconti di esperimenti che lei non capiva. Allegata vi era anche una foto di un uomo piuttosto giovane, con i capelli tagliati corti, l’uniforme dell’esercito americano e gli occhi chiari. Le ci vollero diversi secondi per riconoscere il Soldato d’Inverno in quel ragazzo dall’aria composta e quasi innocente. Così è americano, aveva pensato tra sé. Strano, non ha accento. Stava per rimettere a posto il fascicolo quanto un oggetto era caduto, producendo un rumore metallico. Natalia aveva ritirato la cartella e si era chinata, trovando quella medaglietta. Aveva sorriso, contenta di aver scoperto almeno il suo nome. L’aveva fatta scivolare in una tasca dei suoi pantaloni. In quel momento la guardia era tornata.

-Non ho visto proprio nessuno. Che ci fai accucciata lì a terra, ragazzina? Stai forse tramando qualcosa?- Aveva chiesto, sospettoso.

-Niente, signore. Mi dispiace, avrei proprio giurato di aver visto qualcuno entrare nella sua stanza. Chiedo scusa.- Aveva risposto Natalia, nella sua migliore interpretazione da ragazza modello. Si era alzata ed era uscita senza aggiungere parola.

Il Soldato d’Inverno staccò finalmente gli occhi dall’oggetto, per fissarli in quelli di Natalia.

-Grazie- Disse, pieno di gratitudine. Natalia avvertì qualcosa nel suo petto sciogliersi, ma decise di ignorarlo. -Bucky.- Mormorò l’altro tra sé con voce appena udibile, come per testare il suono del proprio nome.

-James è meglio.- Si azzardò a dire lei e con sua grande sorpresa lo vide annuire.

-Hai ragione. Vada per James.- Indossò la catenina, facendo ben attenzione a coprire ogni parte di essa con l’uniforme. Sapeva perfettamente che se gliel’avessero trovata addosso sarebbe stato nei guai. Sistemata per bene, alzò lo sguardo su uno degli orologi di un negozio a poca distanza.

-È quasi ora.- Comunicò, la voce tornata al solito tono. Si mise in posizione, facendo segno a Natasha di passare davanti a lui. Le consegnò il fucile che avrebbe dovuto usare. Pesava, ma non di più di quelli che avevano usato nell’allenamento. La ragazza prese un sospiro, come lui le aveva insegnato, e aveva alzato l’arma, pronta a cogliere qualsiasi traccia del proprio target. Finalmente vide qualcosa muoversi in lontananza. Posizionò il mirino davanti all’occhio destro e il dito sul grilletto. Stava per sparare, quando notò altre figure accompagnare l’obiettivo. Abbassò l’arma e si girò.

-James, potrebbe esserci un problema.- Gli riferì. Era strano usare il suo vero nome. Era tenuta a chiamarlo “signore” ed era ciò che aveva sempre fatto, ma le era venuto naturale. Lui non sembrò nemmeno farci caso. Lo sentì inveire sottovoce, guardando la scena. Si girò e prese la sua radio.

-Soldato d’Inverno alla base. L’obiettivo non è solo. Ordini?- Dovette ripetere il messaggio tre volte prima che una voce gracchiante si levasse dalla radio.

-Procedere con l’eliminazione. Nessun testimone.

-Sissignore.

-Passo e chiudo.

James abbassò la radio e guardò Natalia.

-Spara.

-Se sparo a uno, gli altri vedranno da che direzione è arrivato il proiettile e verranno qui. Sono in dieci e noi siamo due.- Replicò lei, incredula. Forse prima non era entusiasta all’idea di dover uccidere uno sconosciuto, ma almeno non era una missione suicida. Lui diede un’occhiata nervosa alla strada.

-Stanno per uscire dal nostro campo visivo. Dovremo improvvisare.- Disse e iniziò ad arrampicarsi sulla grondaia della casa di fianco, in modo da raggiungere un punto elevato per poterli prendere di sorpresa appena sarebbero arrivati. Natalia rimase a guardarlo spiazzata per qualche secondo, poi decise di seguire gli ordini. Se avesse disubbidito non sarebbe finita bene per lei. Afferrò il fucile e si nascose nuovamente in un punto in cui aveva una visuale libera. Di colpo, tutto sparì. C’erano solo lei con il fucile e il suo target. Non aveva mai sparato a una persona vera, tanto meno da quella distanza. Inspirò, piano, e il dito strinse la sua presa sul grilletto a tempo con il suo respiro. Avvertì il contraccolpo risuonarle in petto, il silenziatore impedire il frastuono dello sparo, vide la pallottola sfrecciare davanti a lei. Quelli, purtroppo, la videro arrivare abbastanza in fretta da permettere che uno di loro si gettasse davanti al target e morisse al posto suo. Natalia lo osservò contorcersi e poi afflosciarsi. Imprecò e gettò il fucile di lato, nascondendolo alla vista. Sentì lo sguardo interrogativo di James addosso e alzò gli occhi per ricambiarlo.

-Cosa diavolo stai facendo?

-Sto improvvisando.- Sibilò lei, sciogliendosi i capelli e scompigliandoseli. Sentiva già i passi veloci del gruppo avvicinarsi a quel lato. Si morse il labbro fino a farlo sanguinare e fare in modo che gli occhi le lacrimassero e si gettò a terra, fingendo di tremare. Appena gli uomini arrivarono, lei si alzò, simulando dei singhiozzi e tremando se possibile ancora più violentemente.

-Grazie a Dio! Dovete aiutarmi, stavo passando di qui quando un uomo con un fucile mi è arrivato addosso e mi ha scaraventata a terra!- Disse, nella voce più spaventata e piagnucolante. Si parò davanti a uno degli uomini, in modo da fermare tutto il gruppo. Stava solo aspettando che tutti fossero uniti esattamente dove li voleva lei. Lanciò uno sguardo a James, che capì le sue intenzioni al volo.

-Signorina, se potesse dirci dove è andato...- Provò a chiedere uno di loro, chiaramente spazientito. Lei tirò su col naso, e alzò una mano tremante, indicando un vicolo alla sua destra.

-Molto bene.- L’uomo fece per incamminarsi, ma lei gli sbarrò nuovamente la strada.

-Signorina, si può sapere chi è lei?- Sbottò quello, senza più preoccuparsi nemmeno di provare a nascondere la propria irritazione. Nel frattempo tutti gli altri si erano raggruppati dietro di lui e osservavano la scena.

-Io?- Fece lei, il tremore e i singhiozzi spariti di colpo. -Io sono solo il diversivo.- Sorrise maliziosa e prima che chiunque riuscisse a elaborare e comprendere quell’informazione, il Soldato d’Inverno aveva già sparato a tre di loro ed era saltato giù dal tetto con un agile movimento, atterrandone un altro. Approfittando della distrazione di tutti, Natalia raggiunse con una capriola il punto dove aveva nascosto il proprio fucile e l’aveva tirato fuori. Era riuscita ad avere la meglio su altri due di loro quando sentì James lanciare un gemito di dolore. Si girò di scatto verso di lui, il fucile ancora in mano, e lo vide a terra. Un congegno era attaccato al suo braccio di metallo e da come questo era piegato e inerte lo aveva messo fuori uso. Natalia vedeva chiaramente che l’oggetto rilasciava delle scariche elettriche che però non si fermavano al braccio di metallo, bensì sembravano diffondersi in tutto il corpo del Soldato, che stava disperatamente cercando di resistervi, chiaramente senza troppo successo. In piedi davanti a lui, l’unico ancora vivo, c’era quello che doveva essere il loro primo obiettivo che aveva la propria pistola rivolta contro la testa di James. Natalia puntò il fucile contro di lui.

-Non ci pensare nemmeno.- Sibilò con fare minaccioso. Lui non mosse un muscolo, la sua espressione rimase piatta. Il suo viso aveva i tratti duri, ma non sembrava di origine russa. Aveva i capelli molto corti, di un castano molto chiaro, che rasentavano il biondo, e gli occhi azzurri. Aveva un fisico non troppo diverso da quello di James, sebbene fosse più basso.

-Se tu premi quel grilletto, non rivedrai più il tuo amico.- Disse lui, senza spostare gli occhi dal Soldato, con uno strano accento che lei al momento non seppe identificare. Lei rimase immobile, la mente che lavorava febbrilmente alla ricerca di una soluzione. Da dove si trovava non riusciva a pensare a nessuna mossa che sarebbe riuscita a fare abbastanza velocemente da impedire che lui uccidesse James.

-Tuttavia...- Iniziò l’altro con la voce studiatamente tediosa. Girò la testa abbastanza da rivolgerle un sorrisetto malizioso. -Abbassa quell’arma e prometto che me ne andrò senza torcere un capello al tuo amico. E niente scherzi, se solo provi a seguirmi o spararmi mentre me ne sto andando premerò questo pulsante, - Tirò fuori un piccolo telecomando con un bottone rosso in cima. -e quel piccolo aggeggino rilascerà una scarica letale nel corpo del tuo adorato uomo di latta.

-Na...ta...lia...- Mugugnò James a fatica. -Non... Ascoltarlo...- biascicò, cercando di controllare il corpo ancora in preda alle scosse elettriche. Natalia però lo ignorò. Valutò per un secondo la domanda. Non voleva nemmeno immaginare cosa avrebbero potuto farle dalla Stanza se l’avesse lasciato scappare, eppure tutto le sembrava più sopportabile che perdere James. Non riusciva a capire cosa la spingesse a comportarsi così, accettare le torture pur di non vedere il Soldato d’Inverno morto... Non era mai stato parte del suo carattere, lei non si affezionava mai. Non poteva, doveva essere egoista. Eppure, abbassò il fucile, piano. Sentì James grugnire in dissenso e vide un sorriso disegnarsi sulle labbra dell’uomo.

-Sapevo che avremmo trovato un accordo.- Mormorò e iniziò a indietreggiare, piano, abbassando lentamente la pistola, fino ad arrivare all’angolo, poi sparì nel nulla. Natalia aspetto qualche secondo, per sicurezza, e poi si fiondò a terra verso James. Con il retro del fucile, colpì l’oggetto che era ancora attaccato al braccio di lui, fino a romperlo e fare così in modo che terminassero le scosse. Appena libero, lui si afflosciò a terra, ansimante.

-Non... Avresti... Dovuto.- Provò a sgridarla con voce flebile. Lei scrollò le spalle e lo aiutò a rialzarsi. Non riusciva a riprendere controllo del braccio di metallo, quindi lo reggeva con il braccio buono. Natalia gli fece da supporto, e insieme camminarono lentamente fino al luogo dove sapevano perfettamente che sarebbe toccata una punizione ad entrambi. Lei aveva intravisto le uniformi che indossavano gli uomini sotto i cappotti: tutte avevano una svastica sopra. Aver fatto scappare un target nazista non era di sicuro una cosa che il KGB e la Stanza potessero perdonare tanto facilmente.

 

Natalia smise quasi subito di ribellarsi tra le braccia dei due uomini che l’avevano afferrata e la stavano trascinando nel seminterrato. Non aveva senso. Nel frattempo, la sua mente iniziò a figurarsi tutte le possibili torture che la potevano aspettare. La Stanza Rossa, però, si rivelò ancora una volta un passo davanti a lei, imprevedibile. Di tutte le cose che la ragazza poteva aver pensato, nessuna di quelle comprendeva essere gettata nella stanza dove aveva visto tante volte i medici torturare il Soldato d’Inverno. I due uomini che la tenevano la scaraventarono a terra senza nessuna grazia. L’illuminazione era scarsa, ma quando alzò la testa da terra riuscì ugualmente a vedere James legato a una sedia. Aveva un’aria rassegnata e distrutta. Tuttavia, quando la vide, i suoi occhi si sbarrarono, pieni di paura. Lo sentì mormorare concitatamente qualcosa ai medici, che però non gli diedero ascolto. Natalia udì la porta aprirsi di scatto.

-Molto bene, cosa abbiamo qui oggi?- La voce di Madame B risuonò gelida nella stanza e i suoi occhi di ghiaccio si fermarono su Natalia. -La missione era eliminare l’ostaggio. Per essere spie non basta saper tirare discretamente un paio di calci, bisogna imparare a eseguire gli ordini. E siccome sembra che tu non abbia capito come si fa, il nostro Soldato d’Inverno te ne darà una dimostrazione.

-Signora, la prego. Non questo.- Implorò lui. Natalia inorridì al pensiero che stessero per farle qualcosa che spaventava persino lui, ma non mosse un muscolo. Come sempre, non voleva mostrarsi debole. Madame lo zittì con un’occhiata. Si girò verso i medici.

-Procedete.- Ordinò, inflessibile. Uno di loro attraversò la stanza, fino a un tavolo. Sollevò un libro dalle dimensioni piuttosto importanti. Era rosso, in pelle, e vi era una stella nera incisa sopra. Il medico si posizionò di fianco alla sedia dove era legato James, aprì il libro alla prima pagina e iniziò a leggere.

-Bramoso. (Longing)

-No, per favore.- Implorò il Soldato.

-Arrugginito. (Rusted)

-La prego, qualsiasi altra cosa.- Tentò di nuovo, rivolto verso Madame B, che però osservava la scena impassibile.

-Fornace. (Furnace)

-No, no, no, no.- Mormorò tra sé.

-Alba. (Daybreak)

James iniziò a dimenarsi sulla sedia, nel tentativo di liberarsi, ma inutilmente.

-Diciassette. (Seventeen)

-Per favore!- Urlò di nuovo.

-Benigno. (Benign)

-Non c’è bisogno di arrivare a questo.

-Nove. (Nine)

-Natalia.- Di colpo si rivolse a lei.

-Ritorno. (Homecoming)

-Scappa, ora.- Le sussurrò, ma lei non si mosse. Era come paralizzata, e anche se non lo fosse stata sapevano entrambi che non avrebbe fatto più di due metri.

-Uno. (One.)

“Mi dispiace”, mimò lui con le labbra. Poi, chiuse gli occhi.

-Carro merci. (Freight car)

Nella sala piombò un silenzio tombale, carico di tensione. Natalia sentiva il proprio cuore rimbombarle in gola.

-Soldato? (Soldier?)- Chiese il medico.

James aprì gli occhi, ma non vi era più niente di umano in essi. Erano ritornati a essere freddi e spietati, come la prima volta che lei l’aveva visto. Altri due medici si affrettarono a liberarlo dalle cinghie che lo tenevano legato alla sedia

-Pronto a obbedire. (Ready to comply)

Si scagliò di colpo contro Natalia, che era totalmente impreparata. Gli unici ricordi che le rimasero di quella sera furono il dolore lancinante, il suono assordante delle proprie grida e l’oblio che pian piano la inghiottiva.

 

 

*n.d.a.= Le “parole di attivazione” di Bucky, prese da Captain America: Civil War, sono tradotte in inglese di fianco perché non ricordavo bene come fossero state tradotte nella versione italiana del film. In questa fanfiction, ovviamente, sono pronunciate in russo come tutto il resto dei dialoghi di questa parte e di tutti i flashback.

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Capitolo 13
*** XIII. ***


XIII.

 

There are times when

it will go so wrong that you

will barely be alive,

and times when you realise

that being barely alive,

on your own terms,

is better than living a bloated half-life

on someone else’s terms.

(Jeanette Winterson)

 

 Volgograd, Russia

48°42’N 44°31’E

Friday, 11th December 2015

8.43pm

 

Natasha aprì lentamente gli occhi e sbatté un po’ le palpebre. Si sentiva stanca e indolenzita e non aveva idea di dove si trovasse. Lentamente i ricordi degli ultimi avvenimenti accaduti prima di svenire tornarono a galla nella sua mente, insieme a un’emicrania. La Stanza Rossa, il Soldato d’Inverno, l’imboscata. Si passò una mano tra i capelli e si guardò intorno. Si trovava nel piccolo letto di una stanza non troppo spaziosa e asettica. Le pareti erano dipinte di un verde chiaro ormai sbiadito. Girò lievemente la testa e notò una quantità enorme di foto e articoli di giornale attaccati alla parete. Questi erano collegate da fili rossi e vi erano tracciati diversi appunti e segni. Sembrava la parete degli investigatori che si vedono nei film. Fece per alzarsi e andare a vedere meglio, ma appena si mosse un dolore lancinante allo stomaco le fece scappare un gemito e la costrinse a stendersi di nuovo nella posizione precedente.

-Non azzarderei movimenti affrettati, fossi in te. O movimenti in generale.- Consigliò una voce dietro di lei. Bucky entrò nella stanza, infilandosi una maglietta. Doveva aver essere appena uscito dalla doccia, i suoi capelli erano ancora bagnati.

-Che è successo?- Chiese lei, ancora stordita. La sua voce suonava trascinata e rauca.

-Beh, durante il combattimento di ieri ti hanno sparato. Hai perso un sacco di sangue, ma il proiettile non ha colpito nessun organo e sono riuscito a fermare l’emorragia prima che fosse troppo tardi. Questo è uno dei miei rifugi, l’ho trovato vuoto qualche mese fa. Tra l’altro, per bendarti ho dovuto...- Bucky gesticolò per un secondo verso di lei. Fu allora che Natasha si accorse di stare indossando soltanto una felpa, probabilmente dell’uomo, vista la dimensione. -Insomma, i tuoi vestiti erano pieni di sangue ed erano attaccati alla pelle, ho dovuto tagliarli e...

Lei fece un gesto noncurante con la mano.

-Nessun problema. D’altra parte, non era la prima volta che mi vedevi senza vestiti.- Biascicò. Ignorando il consiglio di Bucky e muovendosi con estrema cautela, provò a mettersi a sedere. Ci riuscì dopo svariati tentativi, una smorfia di dolore dipinta in faccia. Bucky sospirò rassegnato. Sapeva che parlare con lei era come parlare con i muri, era troppo testarda. In fondo però era probabilmente anche questo che l’aveva fatto innamorare, anni prima. Andò a sedersi vicino a lei. La ragazza lo squadrò per un secondo, constatando che per quanto lei potesse avere un aspetto stropicciato, anche la cera di lui non era delle migliori. Quella storia era troppo legata a loro, rivangava troppe memorie che entrambi avevano lottato anni per tenere lontane. Li stava divorando dall’interno, e ancora non avevano trovato abbastanza prove per dire che l’indagine fosse anche semplicemente a metà. Si chiese se non stessero entrambi lottando in una guerra che non avrebbero mai potuto vincere. Erano i capitani di una nave nel mezzo di una tempesta e stavano cercando di controllare il mare quando non erano nemmeno capaci di tenere a bada l’imbarcazione.

-Cosa hai scoperto fino ad adesso?- Chiese lei per rompere il silenzio, guardando il muro dove vi erano appesi tutti quegli appunti. Lui scosse la testa.

-Non molto.- Si alzò in piedi. -Ho trovato un nome. Sono anche riuscito a scovarlo, era un medico. L’ho bloccato nel mezzo di uno spostamento in una zona non lontana da Kirensk. Ho sparato alle gomme della sua auto, si è messo a correre. Ho iniziato a inseguirlo quando di colpo è caduto in mezzo alla neve, colpito alla gamba da un proiettile. Mi sono nascosto e ho osservato una ragazza vestita di bianco torturarlo con un coltello.- Natasha contrasse la mascella. Non aveva idea che qualcuno la stesse osservando quando aveva trovato Vasnetsov... Almeno ora sapeva da cosa stesse scappando.

-E non è tutto.- Continuò Bucky. -Pensa che quando il mio target è morto, lei se n’è andata e io mi sono avvicinato al cadavere ma tutte le prove che potevano esserci erano sparite. Ad ogni modo, sono riuscito a scorgere da lontano la ragazza, quando si è tolta il cappuccio. Aveva i capelli rossi.- Ci fu un attimo di silenzio, Bucky si girò di scatto a guardarla. -Hai per caso idea di chi potesse essere?- Il suo tono era a metà tra l’accusatore e il divertito, aveva un ghigno sarcastico dipinto sul viso.

-Non c’era di certo il tuo nome scritto sopra.- Si giustificò lei con tono noncurante, pensando che non vi fosse vantaggio nel negare di essere stata lei. -E poi io e il signor Vasnetsov abbiamo avuto modo di scambiare due parole.

Lui scosse la testa divertito.

-Sei riuscita a cavargli qualcosa, almeno?

Natasha scrollò le spalle. Era consapevole di non doversi fidare di nessuno, ma sapeva anche che l’unico modo per scoprire di più era confrontare ciò che aveva trovato con qualcun altro che stesse compiendo le stesse indagini. Se quel qualcuno era il Soldato d’Inverno, poi, si sentiva più sicura nel rivelare l’esito delle ricerche degli ultimi tempi.

-Non da vivo. Ho un quadernetto, però.- Appena pronunciate quelle parole impallidì. Il quadernetto era insieme alle altre prove nel suo borsone, ben nascosto nella stanza dell’albergo dove aveva alloggiato. Lei non aveva idea di dove si trovasse e non era nelle condizioni di andare a prenderlo, sempre che fosse ancora lì. Li avevano trovati alla Stanza Rossa, magari avevano trovato anche i loro rispettivi rifugi. Bucky la osservò per qualche secondo, con un’espressione divertita, poi si alzò e aprì l’armadio. Lasciando Natasha a bocca aperta, vi estrasse il suo borsone.

-Cerchi questo?- Domandò con voce scherzosa. Lei tirò un sospiro di sollievo e gli fece segno di passarglielo. Mentre rovistava all’interno in cerca del quadernetto, continuò a fissarlo con aria interrogativa, fino a che lui si decise a parlare.

-Dopo “l’incidente” di Vasnetsov, ho cercato di tenerti d’occhio. Ero sicuro da subito che anche tu ti trovassi qui per la Stanza Rossa e allora ero curioso di sapere se avresti avuto più fortuna di me nelle tue ricerche. Sapevo dove alloggiavi qui a Stalingrado, e allora dopo averti portato qui e una volta sicuro che non saresti morta, sono andato subito a prendere le tue cose. Ritenevo non fossero al sicuro, soprattutto dopo l’imboscata alla villa.

-L’avevo nascosto...- Protestò lei.

-Beh, io l’ho trovato.

-Soltanto perché mi conosci abbastanza bene da sapere dove avrei potuto nasconderlo.- Ribattè lei, piccata. -E così mi hai seguita per tutto questo tempo, mh? Non è un po’ troppo da stalker, persino per te?- Continuò con fare accusatorio. Lui scrollò le spalle con noncuranza.

-Non tutto questo tempo. Ti ho persa diverse volte, sei ancora brava a nascondere le tue tracce. In generale mi sono limitato a capire dove alloggiassi le notti e quando prendevi i treni.

Natasha aveva dato per scontato fino a quel momento che la sua sensazione di essere perennemente osservata fosse solo una sua paranoia, ma a quanto pare si sbagliava. Si ripromise di non essere più così superficiale: con Bucky era stata fortunata perché non aveva intenzione di farle del male, ma in futuro non tutti quelli che la seguivano sarebbero stati come lui.

-Perchè non mi hai mai parlato?- Chiese sottovoce dopo qualche minuto di silenzio. -Non ce la siamo mai cavata male come coppia, avremmo potuto lavorare insieme.

Lui si irrigidì.

-Non sapevo come avresti reagito. L’ultima volta che ci siamo visti ho tentato di ucciderti... - Spiegò semplicemente.

-L’uomo che ha cercato di uccidermi non eri tu, James, lo so. Non ho idea di cosa ti abbia fatto l’HYDRA in tutti quegli anni, ma mi ricordo bene come appare un lavaggio del cervello.

-In più, non sapevo se ti ricordassi di me.

Natasha si girò a guardarlo. Anche se stava evitando il suo sguardo, lei sapeva perfettamente cosa intendeva con quella frase. Non le stava chiedendo se si ricordasse del Soldato d’Inverno, né quando era col KGB né quando era con l’HYDRA. Quello, era ovvio che se lo ricordasse. Le stava chiedendo se si ricordasse di James Barnes, di tutto ciò che erano stati. In effetti, per un periodo le avevano cancellato la memoria di lui. Per un periodo non aveva più avuto nemmeno idea della sua esistenza. Annuì.

-Certo che mi ricordo. E tu, ricordi tutto? Il tempo che abbiamo passato insieme, quando ero giovane?- Certo, in parte le aveva già detto di ricordarsi qualcosa. Eppure, con tutti i lavaggi del cervello a cui era stato sottoposto, non era sicura di quanto lui potesse ricordare. Stavolta fu lui ad annuire.

-Sì, ricordo ogni cosa.- Fece una pausa. Natasha per un momento credette che si fosse perso nei ricordi. -E tu eri l’unica cosa bella in tutto quello.- Finalmente si girò e incrociò lo sguardo della rossa. Erano passati sei decenni, le loro strade si erano divise, niente era rimasto delle persone che erano negli anni Cinquanta. Eppure erano lì in quel momento, di nuovo insieme, di nuovo in fuga dai loro fantasmi. E lei riusciva ancora a rivedere se stessa nei suoi occhi. Non rispose, sapeva che lui avrebbe capito tutto. Bucky sapeva perfettamente che per lei era stato lo stesso. Resse il suo sguardo fino a quando la tensione e il silenzio intorno a loro diventarono insostenibili. Abbassò il viso e prese il quadernetto dal doppio fondo del borsone. Basta con i momenti di debolezza. Lo tese a Bucky, che impiegò qualche secondo in più a riscuotersi.

-Guardalo pure, è pieno di frasi senza senso. Qualcuna di quelle ti dice niente?

Lo osservò in silenzio mentre leggeva, traducendogli di tanto in tanto dietro sua richiesta delle parole in lingue che non conosceva. Lo vide leggerle ad alta voce, provare a cambiare l’ordine, trovare nessi tra le parole scritte su diverse pagine o con le formule descritte all’inizio, ma alla fine lo guardò arrendersi e trarre le stesse conclusioni che aveva tratto lei al principio.

-Sembrano solo delle sequenze di parole sconnesse. Magari era pazzo.

-Magari.- Eppure, lei non credeva che fosse quella la risposta. Era sicura che quelle parole avessero un significato, anche se non riusciva a capire quale. Sospirò e si lasciò andare contro il muro dietro di lei, facendo sì che la ferita le provocasse una fitta lancinante. Trattenne a stento un gemito. Fortunatamente, Bucky sembrava troppo impegnato a riguardare il quaderno per accorgersene. Lei rovistò ancora un po’ nella sacca ed estrasse anche la copia di Anna Karenina. Gliela tese.

-Ci sono delle pagine cerchiate. Prova a guardare tu, ma né i numeri né il contenuto di quelle pagine sembrano seguire uno schema preciso.

Dopo averlo esaminato, lui scosse la testa.

-Non ne ho idea. È come se più indizi troviamo, più siamo lontani dalla soluzione e dal distruggere la Stanza Rossa.

Lei annuì. Aveva ragione. Per il momento optò per non dirgli né della stanza che aveva trovato a Lobnya e dei risultati dell’analisi del sangue che aveva preso, né della ragazzina che aveva ucciso a Nizhniy Novgorod, né della ballerina invincibile del Bolshoi. Sapeva che se poteva fidarsi di qualcuno quello era Bucky, ma preferiva comunque essere prudente. Decise che se ne sarebbe andata il prima possibile per riprendere le sue ricerche. Si alzò in piedi, senza questa volta riuscire a trattenere un gemito piuttosto forte. La ferita doleva tremendamente e le girava la testa. Si appoggiò al muro per non cadere. Bucky, che nel frattempo si era alzato di scatto per sostenerla nel caso fosse caduta, la osservò con aria di rimprovero.

-Tasha, torna sul letto. Peggiorerai solo la ferita così.

Lei scosse la testa decisa, con la fronte imperlata di sudore. Camminando a fatica e rifiutando l’aiuto di Bucky, si diresse verso il bagno. Sentiva l’urgente bisogno di farsi una doccia. Facendo attenzione a non far saltare i punti che lui le aveva messo, si tolse la felpa ed entrò nella doccia dall’aria sfasciata, sperando ancora una volta che l’acqua potesse alleviare il dolore e trasportare via i suoi pensieri. Si rese conto quasi subito di non riuscire a stare in piedi per troppo tempo, allora si sedette sul pavimento della doccia e rimase immobile per un po’ di tempo, con l’acqua che le scorreva addosso, a fissare il proprio riflesso sul vetro opaco della doccia. Non sapeva quanto sangue aveva perso, ma a giudicare dal pallore non doveva essere stato poco. Passò diverso tempo prima che riuscisse a trovare la forza di alzarsi, sempre a fatica e non senza dolore, e chiudere l’acqua. Appoggiati sul lavandino, trovò degli asciugamani, un ricambio di bende e degli abiti puliti. Non riuscì a trattenere un sorriso. Bucky sapeva essere davvero premuroso se voleva, e per quanto lei avesse sempre cercato di cavarsela da sola evitando ogni tipo di aiuto, lui era sempre riuscito a trovare il modo di assisterla come poteva. Si asciugò e tolse le bende vecchie, ormai quasi incollate al suo corpo, e le cambiò con quelle nuove. Si vestì e raggiunse Bucky nell’altra stanza, con i capelli ancora bagnati che le ricadevano sulle spalle. Era tardi e non aveva per niente fame, ma lui la costrinse ugualmente a mangiare un’insalata, sostenendo che ne avesse bisogno per recuperare un minimo le forze. La ferita le faceva male anche a inghiottire, ma terminò comunque il piatto. Finito di mangiare Natasha si alzò e andò a preparare il suo borsone. Se lo caricò in spalla e si trascinò a fatica verso la porta. Ogni passo era una fitta terribile. Stava per abbassare la maniglia, quando sentì la voce di Bucky dietro di sé.

-Dove credi di andare?

Lei si girò a guardarlo.

-Devo continuare le ricerche e ho già abusato abbastanza del tuo rifugio.

La verità era che non voleva rallentarlo, né metterlo più in pericolo di quanto non fosse già. Secoli prima si era ripromessa che l’avrebbe protetto, non avrebbe fallito una seconda volta.

-Tasha, ti stanno cercando. Non farai venti metri ridotta così.- Disse, indicando la ferita col capo.

-So badare a me stessa.- Rispose secca.

-E dove intendi andare? È tardi, hai bisogno di dormire.- Perseverò lui. Era tanto testardo quanto lei.

-Troverò qualche posto.- Fece per aggiustarsi il borsone sulla spalla, ma appena alzò il braccio avvertì la ferita tirarle e una sostanza viscosa uscire dalla benda. Le erano appena saltati i punti. La testa riprese a girarle e dovette appoggiarsi nuovamente al muro mentre la vista iniziava ad appannarsi. Bucky si affrettò ad avvicinarsi a lei e prenderle il borsone, poi fece scivolare il suo braccio sopra la sua spalla per sostenerla.

-Non ti lascerò andare da nessuna parte in queste condizioni. Puoi starne certa.- Affermò irremovibile.

-Devo... Continuare con le ricerche.- Protestò lei. -Non ho tempo di aspettare che la ferita guarisca.

-E se mi offrissi di aiutarti?- Mormorò lui.

-James...- Iniziò lei, guardandolo con un’espressione supplicante. Da ferita, oltre a metterlo in pericolo l’avrebbe anche rallentato e non poteva sopportare l’idea.

-So che non hai bisogno di me. Ma ti prego, Natasha.- La guardò con aria preoccupata. Era la prima volta che non la chiamava con il suo nome vero ma con quello con cui si faceva chiamare da tutti, e a lei fece un effetto strano.

-Oltre a qualunque altra cosa siamo... Lasciami essere tuo amico- Continuò lui imperterrito, portandola via dalla porta verso il letto. Lei sospirò, suo malgrado grata.

-Sei un brav’uomo, James.- Mormorò nel suo orecchio, lasciandosi adagiare sul letto e osservandolo prendere ago e filo.

-No, in realtà no.- Rispose lui, chiudendo il cassetto.

-Ma tu sei l’unica che lo capisce.- Aggiunse, incrociando per un attimo i suoi occhi color smeraldo mentre le sollevava gli abiti per disinfettare e ricucire nuovamente la ferita. 

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Capitolo 14
*** XIV. ***


XIV.

 

If the heavens ever did speak
She's the last true mouthpiece
Every Sunday's getting more bleak
A fresh poison each week
"We were born sick,"

you heard them say it
My church offers no absolutes
She tells me,

"Worship in the bedroom."
The only heaven I'll be sent to
Is when I'm alone with you.

(Hozier – Take Me To Church)

 

 

Russia, 1955

 

Natalia sedeva sul tetto, le gambe incrociate e gli occhi chiusi. Avvertiva la brezza giocare con suoi i capelli vermigli e scompigliarli sempre di più. Adorava salire lì: era l’unico posto dove la Stanza Rossa non la osservasse, l’unico posto dove potesse essere se stessa. E, fino a qualche tempo addietro, l’unico posto dove poteva passare del tempo con il Soldato d’Inverno. Una mattina di diversi mesi prima era uscita sul tetto, come era solita fare, e l’aveva trovato lì. Nessuno dei due aveva proferito parola. L’avvenimento aveva cominciato a ripetersi fino a diventare quasi un rituale: a una certa ora i due si ritrovavano sul tetto e passavano una manciata preziosa di minuti insieme, rigorosamente in silenzio. Non vi sarebbe stata parola più adatta di quella quiete che vigeva tra loro, le loro vite erano troppo rumorose per intaccare anche quei momenti di pace. Eppure, dal giorno della missione, il giono in cui avevano usato James contro di lei, il loro rituale si era spezzato. Lui sembrava evitarla, non incrociava mai il suo sguardo e non era mai nella sua stessa stanza se non durante gli allenamenti. Le mancava averlo con lei sul tetto, le mancava lui. Si era ripromessa di non affezionarsi più a nessuno dopo Ivan, non concedere a nessun altro di farsi strada oltre alla sua facciata di indifferenza. Aveva funzionato, ci era riuscita per diversi anni dopo la guerra. E ora eccola di nuovo qui, ci era di nuovo ricascata. Aveva bisogno di James. Non del Soldato d’Inverno, di lui ne aveva già fin troppo. Lei aveva bisogno dell’uomo che si era quasi commosso quando lei gli aveva dato la sua medaglietta, l’uomo che rimaneva in silenzio con lei sul tetto, l’uomo che aveva pregato i medici di non usarlo come arma contro di lei. Questa volta era ancora diverso da Ivan, però, lo sentiva. Ivan era stato come un padre per lei, o ciò che di più vicino avesse. James, invece... Non sapeva perché, non capiva cosa fosse quella sensazione di vuoto che provava ogni volta che lui la ignorava. Non capiva perché sentisse la sua pelle bruciare ogni volta che entrava in contatto con quella di lui, non capiva perché le importasse così tanto. Era però sicura di odiare quella sensazione. Bene o male si era costruita delle certezze nella sua vita, e lui gliele aveva mandate all’aria tutte. Lui la rendeva vulnerabile, debole, come era stata poche volte nella sua vita. Eppure, in qualche modo, le riusciva difficile stare lontana da lui. Strinse le ginocchia più vicine al petto. L’aria era gelida e lei indossava solo la leggera uniforme della Stanza Rossa, un’uniforme nera e aderente composta da un solo pezzo, ricordava vagamente una muta da sub, ma di sicuro non era altrettanto calda. Rimase a guardare il solito panorama, il cielo grigio carico di neve, la foresta in lontananza al di là delle due fasce di recinzione in filo spinato. Il silenzio faceva da padrone. Poteva quasi sentire i battiti lenti del proprio cuore. Fatta eccezione per le nuvolette formate dal suo fiato, tutto era immobile. Le sembrava quasi di essere intrappolata in una fotografia. Chiuse nuovamente gli occhi. Li riaprì dopo qualche istante, aveva la sensazione che qualcosa fosse cambiato. C’era un altro profumo nell’aria fredda, aveva quasi avvertito uno spostamento. Guardò intorno a sé. Di fianco a lei, sulle tegole, vi era una cartella simile a quella del Soldato d’Inverno dalla quale aveva rubato la medaglietta. Sotto la montagna di timbri “Top Secret”, però, vi era impresso il suo nome. Confusa, alzò gli occhi e riuscì a intravedere con la coda dell’occhio i capelli castani del Soldato prima che scomparissero nella botola che riconduceva all’interno della villa.

-James, aspetta!- Provò a chiamarlo, rompendo il silenzio, ma lui non ricomparve. Senza esitare un momento di più, si alzò, la cartella ben stretta al petto, e scese dalla scala a pioli con un balzo, ritrovandosi così nella piccola soffitta. Piegandosi lievemente onde evitare di sbattere la testa contro il soffitto basso, corse verso la porta, ma una volta uscita non c’era più traccia di James. Imprecando sottovoce, si diresse verso la sua camera. Uno dei pochi vantaggi di essere una delle Vedove Nere più anziane era di non dormire più nello stanzone con le bambine ma avere assegnata una stanza, più piccola e più spoglia di quelle degli istruttori, ma almeno garantivano una parvenza di privacy. Ovviamente, però, la Stanza Rossa era sempre attenta a non lasciare mai che si sentissero troppo a proprio agio: a scopo di evitare ciò, la squallida carta da parati delle sue piccole quattro mura era tappezzata di ritratti delle personalità più importanti a capo della Stanza. Non potevano essere rimossi e la pena che sarebbe stata inflitta nel caso faceva desistere tutte dal provarci. In questa maniera, Natalia e probabilmente anche le altre si sentivano costantemente osservate. Inoltre, alla testiera del letto era perennemente attaccato un paio di manette. Oltre una certa età non erano più obbligate a indossarle la notte, ma erano talmente abituate dopo tutti quegli anni che solo la loro presenza le induceva a cedere e mettersele. Natalia aveva un moto di disgusto ogni sera, appena le sentiva chiudersi intorno al suo polso. Viveva in un luogo dove avevano plasmato talmente tanto le menti di loro ragazzine da fare in modo che si sentissero più sicure indossando delle manette mentre dormivano. Eppure lei, come le altre, non poteva farne a meno. Si odiava per questo ed era sicura che fosse ciò che la Stanza voleva. Quel giorno però, entrando di fretta nella sua stanza fece a mala pena caso sia ai quadri sia alle manette. Si precipitò sul letto dal materasso duro e tirò fuori da sotto la maglia la cartella che aveva tenuto nascosta da occhi indiscreti nel tragitto. Con le mani tremanti, la aprì. Sulla prima pagina vi era attaccata una foto di lei da piccola, non avrà avuto più di cinque anni. Eppure, le sembrava di guardare a un’altra bambina, con un’altra infanzia diversa dalla sua: i lunghi capelli di un rosso vivo erano vaporosi e curati, le sue guance erano rosee, gli occhi smeraldini vispi e un accenno di sorriso era dipinto sulle labbra rosse e carnose. Anche i vestiti che indossava, sebbene si potesse vedere solo la parte superiore di quello che doveva essere un vestito a maniche lunghe color lavanda, sembravano belli e ben tenuti. Non vi era traccia della bambina, poi successivamente ragazza e donna, emaciata che aveva sempre visto riflessa nello specchio, non le guance scavate, non le occhiaie, non lo sguardo triste, le cicatrici, i capelli trasandati di un rosso spento, nemmeno il pallore malaticcio della sua pelle. Se il soggetto della foto non avesse avuto il suo stesso neo sulla guancia, probabilmente avrebbe creduto si trattasse di una bambina molto simile a lei. Non poté fare a meno di osservarla per diversi minuti, rapita. Aveva vissuto lì per talmente tanto tempo che si era dimenticata dell’esistenza di un’altra realtà. Posò la foto e spostò la sua attenzione sul primo file nella cartella. Il suo cuore perse un battito quando notò che vi era scritto il nome dei suoi genitori... O meglio, solo di suo padre, in quanto quello di sua madre sembrava essere sconosciuto. Tuttavia, avere almeno un indizio su uno dei suoi genitori, vedere quel nome, Al'jan Romanov, impresso in nero sulla carta la rendeva in qualche modo felice. Natalia Alianovna Romanova. Suonava bene. Lesse voracemente le poche informazioni sulla sua vita prima della Stanza, scoprendo di essere nata a Stalingrado e di essere l’unica femmina in una famiglia con quattro figli. Tutti i suoi tre fratelli, però, parevano essere morti. Si perse per un secondo a immaginare come sarebbe stata la sua vita se fosse cresciuta con loro, se fosse rimasta la bambina della foto. Provò a immaginarsi cosa volesse dire fare parte di una famiglia che le volesse bene, avere un’infanzia normale. Scosse la testa, con gli occhi lucidi, come a scacciare quelle futili fantasie. Aveva imparato che fantasticare su ciò che avrebbe potuto essere senza la Stanza Rossa non la portava da nessuna parte se non a un dolore ancora maggiore. Girò la pagina e vi trovò un plico di informazioni sulla dinastia degli ultimi zar, i Romanov. Sfoglio il fascicoletto fino all’ultima pagina. Su di questa vi era un certificato, con tanto di firma di uno dei medici più importanti della Stanza, che dimostrava con una serie di dati basati su esami del sangue che lei era in effetti l’ultima discendente in vita della famiglia. Si rigirò il fascicolo tra le mani. Con la nebbia che solo qualche anno dopo avrebbe imparato a identificare come ciò che contraddistingueva tutti i ricordi che avevano provato a cancellarle, le tornò in mente la conversazione che aveva origliato dai dottori che l’avevano visitata il giorno del suo arrivo a proposito del suo cognome. Era la prima volta che le capitava di avere il flash di un ricordo che non pensava di avere, pertanto lo scacciò via senza rimuginarci troppo sopra. In qualche modo, l’idea di avere del sangue blu che scorreva tra le sue vene non la fece reagire come quando aveva letto il nome del padre. In fondo, era solo un nome, che per altro non le aveva mai garantito nessun tipo di agevolazione alla Stanza se non quello di non essere uccisa al suo arrivo. Ora come ora, non era sicura che fosse stato un vantaggio. Sfogliò in maniera disattenta i file successivi, tutti riguardanti gli allenamenti e la sua forma fisica, dati che conosceva fin troppo bene. Non c’erano riferimenti a nessun esperimento e lei al momento ne fu sollevata. Ci vollero diversi anni prima che scoprisse che quei file erano custoditi in una cassaforte nei laboratori dei medici. Riordinò i file e li ripose nella cartella in modo che non si notasse il suo passaggio. La nascose accuratamente in un cassetto del piccolo comodino di fianco al letto. L’avrebbe rimesso a posto in un altro momento. Ora doveva trovare James.

 

Natalia arrivò giusto in tempo per la cena, frustrata. Non riusciva a capacitarsi di come il Soldato riuscisse a non farsi trovare nemmeno lì dentro. Certo, era una villa grande, ma pur sempre un’abitazione chiusa. Non aveva intenzione, però, di sopportare una punizione per essere arrivata tardi a cena. Il pasto trascorse come sempre nel silenzio più assoluto. Natalia mangiò ciò che aveva nel piatto senza nemmeno farvi caso, gli occhi che vagavano per la Stanza in cerca del Soldato d’Inverno. Come si aspettava, non si presentò. Finita la cena si alzò e si diresse verso la sua camera per dormire. Stava salendo le scale, quando udì un medico uscire da una stanza dicendo “Buonanotte, Soldato.” Natalia sorrise tra sé. C’era una sola persona che chiamavano così alla Stanza, e quella persona a quanto pare dormiva nella stanza direttamente sotto la sua.

 

Con il cuore che minacciava di scoppiarle in petto, attese pazientemente che i rumori al di fuori della camera cessassero, segno che nei corridoi erano rimaste solo le guardie notturne. Uscì da sotto le coperte, piano. Era ancora vestita con l’uniforme, la vestaglia che indossava la notte l’aveva messa addosso a un fantoccio fatto di asciugamani e cuscini. Non era il miglior trucco che avesse, ma per quella notte e per simulare la sua presenza nel letto poteva bastare. Scostò la tenda della finestra per guardare fuori e aspettò pazientemente che la guardia del cortile rientrasse per dare il cambio a quella di turno dopo di lui. Da quel momento, avrebbe avuto circa cinque minuti di tempo. Attese in silenzio. Finalmente, vide l’uomo in lontananza sbadigliare, controllare l’orologio e avviarsi verso l’interno. Con tutta l’accortezza di cui era capace, aprì la finestra. Una ventata d’aria gelida la colpì in viso e fu in quel momento che lei realizzò appieno ciò che stava rischiando. Per cosa poi, per parlare con lui? Se l’avessero scoperta a uscire di nascosto la notte per introdursi nella camera di un addestratore, l’avrebbero probabilmente uccisa. O peggio. Scosse la testa. Doveva essere impazzita. Lentamente, con la propria grazia da ballerina, uscì dalla finestra. Tenendosi salda al cornicione, chiuse la finestra. Guardò in basso. Era sospesa a una quindicina di metri da terra. Cercò di controllare la propria respirazione e si fece oscillare fino a quando arrivò a trovare appiglio sulla grondaia. Aspettò qualche secondo, sperando che non cedesse, e quando vide che non accennava a muoversi tirò un sospiro di sollievo. Lentamente, cercando tutti gli appigli che poteva, iniziò la sua discesa. Maledisse mentalmente l’architetto che aveva avuto la brillante idea di progettare i due piani a così tanta distanza. Ad un tratto sentì l’appiglio sotto i piedi cederle e il suo cuore perse un battito. Si sentì cadere e strinse la presa sulla grondaia. Riuscì a fermare la sua caduta, scivolando sul tubo di metallo. Sospirò, ma appena il suo battito rallentò dovette trattenere un gemito. Staccò una mano dalla presa e la osservò. Nonostante fosse buio, non le ci volle molto per notare che stava sanguinando. Sperò di non aver lasciato scie visibili sul metallo. Scese ancora di circa un metro. Grazie al cielo le stanze del primo piano avevano tutte un balcone, per cui l’atterraggio fu agevolato. Estrasse una forcina dai propri capelli e iniziò a lavorare sulla serratura della finestra. Un rumore dietro di lei la fece sobbalzare. La guardia di turno stava uscendo. Si girò e iniziò a lavorare febbrilmente. Appena la guardia si fosse girata, l’avrebbe vista. La serratura non accennava ad aprirsi. Imprecando, continuò a lavorare invano. Vide la luce della torcia della guardia avvicinarsi verso di lei e si guardò intorno in cerca di un possibile nascondiglio. Niente. Presa dal panico, riprese a lavorare maledicendo se stessa e la serratura. A un certo punto la forcina si ruppe nella serratura. Era finita. Si girò verso la luce della torcia. Ormai era vicinissima a lei. Chiuse gli occhi e attese l'inevitabile, trattenendo il fiato. Accadde tutto piuttosto in fretta, ma non ciò che si aspettava lei. Udì la finestra dietro di sé aprirsi e due mani forti afferrarla e trascinarla all’interno. La porta si richiuse e l’unica cosa che le impedì di lanciare un urlo di esclamazione fu una mano posta sulle sue labbra a serrargliele. Respirando a fatica, vide la luce passare davanti alla finestra e superarla. Passati un paio di secondi, avvertì il corpo dietro di lei rilassarsi e la mano scivolare via dalla sua faccia. Si girò di scatto, trovandosi davanti al Soldato d’Inverno. Indossava soltanto i pantaloni, era a torso nudo. Portava un asciugamano intorno al collo. Natalia non l’aveva mai visto così, non aveva mai visto tutte le cicatrici che aveva sul petto, né quelle che contornavano l’attaccatura del braccio di metallo. Cercò di dire qualcosa, ma si ritrovò incapace di articolare il milione di pensieri che le frullavano per la mente. Lo sguardo di lui scese su di lei, per fermarsi alle sue mani.

-Sei ferita.- Disse, atono. Lei si fissò nuovamente le mani. Se n’era quasi dimenticata. Alzò di nuovo la testa e lo vide girarsi e rovistare in un cassetto. Tirò fuori delle bende, poi si girò e la fece sedere sul letto. Senza incrociare il suo sguardo, iniziò a fasciarle le ferite. Lei si accorse dopo qualche istante di stare trattenendo il fiato. Cercò di distrarsi e si guardò intorno. La stanza era decisamente più grande della sua, vi erano un paio di cassettiere in più e persino un armadio e su un lato vi era una porta che probabilmente portava a un bagno privato. In comune con la sua stanza, però, c’erano i ritratti appesi alle pareti. Ritornò con lo sguardo su di lui, che stava tagliando gli eccessi. Non era sicura che fossero mai stati così vicini al di fuori degli allenamenti.

-Ecco fatto.- Borbottò lui dopo un po’.

-Grazie.- Mormorò in risposta. Si riferiva sia alle bende sia all’averla salvata pochi secondi prima, tirandola via dal balcone. Lui non rispose, ma si rialzò e si avviò verso la porta.

-Forse se vai abbastanza velocemente e ti nascondi nell’ombra riuscirai a raggiungere la tua stanza prima che...- Iniziò, ma venne subito interrotto da lei.

-James, ti prego.- Lo guardò, implorante. Non aveva corso tutti quei rischi per essere rimandata nella sua camera. Lui si girò a guardarla, un'espressione confusa dipinta in volto.
-Cosa ti è successo? Sei diventato... Distante negli ultimi tempi.- Gli chiese, senza troppi indugi.
-Natalia, lo sai che è così che dovrebbe essere.- Replicò lui con voce severa. -Tu e io non dovremmo avere contatti al di fuori degli allenamenti.
Lei scosse la testa.
-E il fascicolo di stamattina? Quello non conta come contatto?
Lui sospirò.
-Stavo ripagando un favore.- Rispose secco.
-Sapevi perfettamente che non l'avevo fatto aspettandomi di essere ricambiata. E hai corso un bel rischio rubando il fascicolo, tutto per un debito che ti sei convinto di avere. Non voglio che tu corra rischi per me.
-Nemmeno io voglio che tu ne corra per causa mia.- ringhiò lui di colpo. Natalia di colpo capì.
-È per il giorno della missione, vero? Quando ti hanno costretto ad attaccarmi. È per quello che non ti avvicini più a me? Temi che sia arrabbiata?- Chiese, ansiosa di sapere, di capire. Lui si allontanò finalmente dalla porta.
-Io... Sì, è per quel giorno.- Ammise, sottovoce. -Ma non è perché credo che tu sia arrabbiata. Né spaventata, se è per questo.
Si interruppe. Natalia inclinò la testa, in attesa di una spiegazione. Lui sembrava combattuto tra il dirglielo o no.
-Io... Ho paura.- Confessò dopo un po'. Non era di sicuro ciò che la ragazza si aspettava.
-Pensavo che il Soldato d'Inverno non avesse paura di niente.- Sussurrò lei in tono suo malgrado quasi malizioso. Lui le rivolse un sorriso carico di tristezza.
-Pensavo anche io. Ma è così, ho paura di ciò che ho fatto. Lo sogno ogni notte, è il mio pensiero fisso. Temo di perdere nuovamente il controllo e farti del male, come ho fatto l'altra volta... temo ciò che loro possono farmi fare, non posso fidarmi della mia stessa mente.- Si avvicinò ancora a lei. Ormai erano uno di fronte all'altra, a talmente poca distanza che lei poteva quasi sentire il calore irradiare dal corpo di lui. -Non voglio farti del male, Natalia.- Aggiunse in un sussurro, guardandola dritto negli occhi per la prima volta negli ultimi giorni.
-Non me ne farai, James, lo so che non me ne farai.- Ribatté lei con il cuore che aveva ricominciato a batterle a mille. Se fosse andata avanti di quel passo era sicura che avrebbe avuto un infarto prima della fine della serata.
-Non puoi dirlo con certezza. Sai bene di cosa siano capaci.- La
rimproverò lui. -Ti prego, ora torna nella tua stanza, prima che ti trovino qui. Conosci le conseguenze.- La stava ormai quasi implorando. Non l'aveva mai visto così... Vulnerabile, se non la volta in cui aveva pregato Madame B di non costringerlo ad attaccarla. Era una parte di lui che doveva essere ben nascosta, e a quanto pare usciva fuori solo per lei, e Natalia non sapeva come reagire. Prima che lui la spingesse nuovamente fuori, però, si fermò.
-Non farlo. Non mi tagliare fuori così.- Lo pregò. -So che è infantile, so che non è un comportamento da Vedova Nera, so anche che va contro le regole. Ma ti prego, non credo di potercela fare se torni di nuovo a comportarti come questi ultimi giorni. Sei l'unico qua dentro di cui mi posso fidare, l'unico a cui affiderei la mia vita.- Non aveva più controllo sulle proprie parole, stavano uscendo a getto dalla sua bocca. Non ricordava l'ultima volta che avesse parlato onestamente, col cuore in mano, non ricordava l'ultima volta che aveva mostrato i suoi sentimenti a qualcuno. Si stava dimostrando vulnerabile a sua volta e stranamente ebbe un effetto quasi liberatorio. In qualche modo, si sentiva perfettamente a suo agio con lui e non erano state molte le occasioni in cui avesse potuto dire di sentirsi così, lì alla Stanza. -Ho bisogno di te, James.- concluse, la voce talmente bassa che quasi dubitò che lui l'avesse sentita. Lui la guardò in silenzio per diversi minuti che a lei parvero ore. Dopo un po' si spazientì: gli aveva detto tutto ciò che pensava, si era mostrata debole e tutto ciò che otteneva era un silenzio tombale?
-Davvero ti importa così poco? Sono venuta fin qui rischiando di essere scoperta, rischiando la mia vita, sono stata un libro aperto con te e tu non hai niente da dire? Nemmeno un rimprovero, che come hai detto non dovremmo avvicinarci, è pericoloso, devo tornare nella mia stanza e così via?- Ringhiò con i pugni stretti. La tensione di quella serata le si stava riversando addosso in quell'istante e non era sicura di poterla gestire.
-Dubito che potrei essere così obiettivo.- Borbottò lui, passato un istante. Lei non riuscì a trattenere una risata di scherno.
-Ah sì? E perché mai?- Chiese beffarda. Lui rimase nuovamente in silenzio, mordendosi lievemente il labbro inferiore. Di colpo, portò il suo braccio vero in direzione del viso di Natalia, appoggiando la propria mano sulla sua guancia. Lei si irrigidì, presa alla sprovvista da quell'improvviso contatto. La guancia aveva preso a bruciarle in quella maniera a lei ormai famigliare. Registrò a mala pena il fatto che il viso di lui si stava avvicinando al suo, fino a quando non si ritrovò le calde labbra di James appoggiate alle sue. Lei rimase immobile un paio di secondi, sorpresa, poi chiuse gli occhi e ricambiò il bacio. Lui sembrò essere sollevato dalla sua reazione e si sciolse lievemente, portando anche la fredda mano di metallo sull'altra sua guancia, mentre invece le braccia di lei erano andate a intrecciarsi dietro il suo collo. Nel momento in cui le loro lingue si incontrarono, Natalia sentì finalmente quella sensazione di vuoto nello stomaco colmarsi, come se non avesse voluto altro da quando l'aveva visto per la prima volta. Sotto sotto sapeva che era così, per quanto avesse provato a nasconderlo. Si strinse di più a lui, continuando a baciarlo prima delicatamente e poi man mano con più passione. Lui ricambiava con la stessa enfasi. Quando furono entrambi senza fiato, lui si separò da lei il minimo indispensabile per respirare. Appoggiò la fronte sulla sua.
-Ecco perché.- Sussurrò contro le sue labbra. Lei sorrise e riprese a baciarlo come se fosse l'ultima volta che poteva farlo, con una foga quasi disperata. Si sentiva come se non potesse averne abbastanza di lui, come se non si potesse separare. Le sue mani si staccarono dal collo di James, le sue dita iniziarono a tracciare
sottili linee invisibili sul suo torso, seguendo il tratto dei suoi muscoli, segnando il contorno delle sue cicatrici. Lo sentì contrarsi sotto i suoi polpastrelli e trattenne a stento un brivido. Lo desiderava, più di quanto avesse mai desiderato nulla nella sua vita. Il Soldato si separò da lei quanto bastava per guardarla negli occhi. Il suo respiro era già pesante, i suoi occhi scuri.

-’Tasha, io non...- Iniziò, ma fu subito interrotto da lei.

-’Tasha?- Mormorò quasi divertita. Lui scrollò le spalle.

-Scusami, se non ti piace non lo userò più.

-No, no è... Bello.- Gli sorrise. Aveva sempre odiato essere chiamata in qualsiasi altro nome che non fosse il suo, ma questa volta le piaceva davvero, le piaceva che lui la chiamasse così. Lui sorrise di rimando e annuì.

-’Tasha, non voglio spingerti a fare niente che tu non voglia fare.- Le sussurrò lui con voce roca. Sapeva che il privilegio della scelta alla Stanza era pressoché inesistente, e lui non voleva costringerla a fare qualcosa di cui si sarebbe pentita. Lui non era come loro.

-Lo so.- Mormorò lei in risposta. Sorrise e lo baciò nuovamente, sapendo che avrebbe capito. Lui sorrise sulle sue labbra, e portò le mani sulla schiena della ragazza, a cercare la cerniera della sua uniforme. Mentre la abbassava, la sua bocca scese a seguire il contorno della mandibola di lei, scendendo fino al collo, lasciando una scia rovente ovunque passasse. Natalia tirò indietro la testa, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra. Faceva fatica a respirare regolarmente. Le sue mani erano ora aggrovigliate tra i suoi capelli castani, mentre quelle di James erano ancora intente ad aiutarla a sfilarsi la tuta, la sua bocca appoggiata tra la sua spalla destra e il collo. La rossa avvertiva il freddo del metallo contro la propria schiena, il suo respiro solleticarle la pelle. Il fiato di entrambi si era fatto affannoso, vi era tra loro, nei loro movimenti, quasi un’urgenza che nessuno dei due riusciva a controllare. Liberatasi finalmente dall’uniforme, con addosso solo la biancheria intima a fare da ostacolo a lui, Natalia si sentì sollevare dalle sue braccia forti, che la adagiarono qualche secondo dopo al letto. Venne raggiunta pochi secondi dopo dal peso e soprattutto dal calore del suo corpo sopra il proprio. Natalia non era vergine, e di sicuro sapeva come comportarsi a letto. Era stato un altro degli insegnamenti della Stanza quando aveva appena quattordici anni, usare il suo corpo come arma. Le avevano insegnato, con suo estremo disgusto, che per quante pistole potesse avere, per quanto brava potesse essere nelle arti marziali le risorse più potenti che aveva erano nelle sue labbra e nelle sue curve. Le avevano insegnato come sedurre gli uomini, come annebbiare la loro mente fino a fare in modo che le raccontassero tutte le informazioni di cui aveva bisogno, come piegarli a proprio piacimento senza che loro sospettassero niente. Il Soldato d’Inverno stesso le aveva dato dei consigli su dove avrebbe potuto nascondere delle armi in modo che non si vedessero al di sopra degli indumenti. E allora l’avevano fatta allenare, fino a quando per lei era diventata quasi una routine. Ed era questo che era sempre stato per lei il sesso, un esercizio, un modo come un altro di uccidere. Prima di quella sera, però, non le era mai capitato di desiderarlo così tanto con qualcuno. Non le era mai capitato di sentirsi così leggera dopo, addirittura felice. Aveva sempre messo i sentimenti da parte, aveva imparato a nasconderli. Aveva, certo, sentito parlare di concetti come l’amore. Aveva però sempre creduto che fossero storie che si raccontavano ai bambini per nascondere loro la dura realtà, o che comunque fosse qualcosa di riservato a chi avesse avuto un’infanzia migliore della sua. In quel momento, però, mentre si ritrovava sdraiata di fianco a lui a riprendere fiato con le sue mani che le accarezzavano dolcemente i capelli e la sua bocca appoggiata sulla sua fronte, non riusciva a trovare un’altra parola per descrivere ciò che provava. Si rannicchiò contro di lui, non riuscendo a fare a meno di sorridere. Chiuse gli occhi e si addormentò in pochi minuti abbracciata a James, per la prima volta dopo anni senza aver bisogno di legarsi al letto con delle manette per sentirsi al sicuro.

 

I mesi successivi furono una parentesi quasi spensierata all’interno del passato alla Stanza Rossa di Natalia. Certo, c’erano sempre gli allenamenti e tutto, ma le giornate passavano nell’attesa di ogni momento che lei potesse passare con James. Si ingegnavano per riuscire a scappare dagli occhi indiscreti delle guardie e delle altre ragazze, per intrufolarsi l’uno nella camera dell’altro la notte, si davano appuntamento nelle zone più nascoste della villa e talvolta anche al di fuori, nel cortile o nei dintorni. Anche negli allenamenti, sebbene continuassero a recitare alla perfezione la parte di addestratore e allieva, era cambiato qualcosa, comunicavano tra di loro con gesti e sguardi. I giorni trascorrevano così, in costante trepidazione, e scivolavano quasi via tra le loro dita. Più cercavano di rallentare il tempo, più questo accelerava. Tuttavia, se, come era probabile, entrambi sapevano che i loro giorni insieme avevano una durata molto breve, nessuno dei due ne fece mai parola.

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Capitolo 15
*** XV. ***


XV.

 

During the Cold War there was a theory.

That one agent in the right place

at the right time…

with the right skills…

could be more effective than an army.

It was the Cold War, after all,

and that’s how it was fought.

In the shadows… behind enemy lines.

I should know, I lived through all of it.

And she lived through it all.

(The Winter Soldier – Bucky Barnes [comic books])

 

 

Lobnya, Russia

56°01’N 37°29E

Monday, 14th December 2015

12.34am

 

Natasha rabbrividì, mentre si calava dal foro nel pavimento verso il corridoio asettico che aveva cercato di dimenticare nelle ultime settimane. Non avrebbe mai voluto tornare in quella specie di laboratorio da film horror, ma credeva che Bucky dovesse vedere cosa celava quella casa abbandonata dietro la stazione dei treni di Lobnya. Tra tutte le cose che gli stava nascondendo, o almeno avrebbe voluto nascondergli, aveva bisogno di condividere parte di quell’orrore con qualcuno in grado di comprendere, o non ne sarebbe uscita integra. In più, erano a un punto morto, e considerando quanto velocemente aveva lasciato il posto l’ultima volta c’era la possibilità che avesse mancato qualche indizio importante. Udì il Soldato atterrare dietro di lei con un salto. Ovviamente, non aveva usato la corda.

-Esibizionista.- Mormorò con un sorrisetto, cercando di allentare la tensione che avvertiva.

-Sei solo gelosa.- Rispose lui a tono, i suoi occhi però incapaci di celare la preoccupazione che provava. Bucky sapeva bene che se qualcosa preoccupava la Vedova Nera, non poteva essere niente di buono. La rossa sostenne il suo sguardo per qualche attimo, come a farsi forza, poi con un sospiro scosse la testa e fece strada verso la stanza piena di cadaveri. Chiudendo gli occhi, spalancò la porta malferma sui cardini. L’odore di morte la assalì nuovamente. D’un tratto, l’aria le parve ancora più irrespirabile di quanto non fosse, i suoi polmoni non funzionavano correttamente. Si sentì investire da un’irrefrenabile voglia di uscire da quel posto e correre il più lontano possibile, lasciarsi tutto alle spalle. Avvertiva lo stomaco contrarsi, attanagliato da quello che non poteva essere altro che terrore. Fortunatamente, la sensazione cessò quando la mano di Bucky le si appoggiò sulla spalla, inducendola a rilassarsi sotto il suo tocco. Era sicura di non aver lasciato trasparire molto di ciò che stava succedendo dentro di lei, ma lui la conosceva troppo bene per pensare che fosse rimasta impalata sulla soglia per nessuna ragione. Incrociò il suo sguardo, e si scambiarono un cenno d’intesa. “Non sei sola”, “Grazie”. Non avevano bisogno di parole, i loro sguardi si dicevano già tutto. Lui fu il primo a distogliersi ed entrare nella stanza a esplorarla. Lei lo seguì a ruota. Doveva riuscire a controllarsi, come aveva sempre fatto. Non poteva lasciare che la paura avesse la meglio, non adesso, non in una missione così importante. Osservò l’orrore dilatarsi sul volto di Bucky, e sì che di mostruosità ne aveva viste. Lo vide avvicinarsi ai corpi di quelle ragazzine, non molto diverse da lei nei suoi primi anni alla Stanza, e attese pazientemente che superasse lo choc iniziale e vedesse la scritta sul muro. Quando, pochi minuti dopo, si girò nuovamente verso di lei, la sua espressione era mortalmente seria.

-Credi che qui possiamo trovare qualcosa?

Lei scrollò le spalle.

-Non ho indagato a lungo l’ultima volta e sto esaurendo le idee.

Lui annuì e si avviò verso le cassettiere, facendo ben attenzione a evitare le pozze di sangue per terra.

-Mettiamoci al lavoro. Voglio uscire da questo circo degli orrori il prima possibile.

 

An hour later

 

Avevano setacciato il posto da cima a fondo. Per quanto piccolo potesse sembrare, era semplicemente pieno di cassetti e scaffali. Esaminare il contenuto di tutti si era rivelato molto più lungo del previsto. Ad ogni modo, pur dopo tutto quel tempo e tutti quegli sforzi, si ritrovavano solo con i cocci di molteplici ampolle e fogli spiegazzati ormai illeggibili. Natasha si accasciò contro il muro lontano dai lettini, cercando di non dare troppo nell’occhio. La ferita si stava rimarginando, ma era abbastanza profonda da dolerle quando compiva sforzi superiori al quotidiano, ovvero praticamente sempre. Bucky, dal canto suo, sembrava frustrato, e totalmente a disagio. Aveva la fronte imperlata di sudore, abbastanza da fare in modo che i suoi lunghi capelli vi si appiccicassero e stava svuotando freneticamente l’ultima credenza a loro rimasta da prendere in esame. Si era tolto la giacca, rimanendo con una maglia nera a maniche corte e anche dalla distanza a cui si trovava, Natasha poteva distinguere chiaramente i contorni delle vene delle sue braccia, messe ancora più in risalto dallo sforzo e la tensione. Lo vide rialzarsi, quasi tremante. Quella stanza lo stava mettendo decisamente alla prova... Era raro vederlo così sotto pressione, a meno che ci fossero ricordi in ballo. Natasha non aveva idea di cosa avesse visto lui, negli anni con l’HYDRA, ma a giudicare dalla sua reazione in quel momento non doveva essere stato più piacevole del KGB. Il Soldato serrò i pugni, e scagliò l’ampolla vuota che teneva in mano verso il muro sul quale era impressa la scritta, con un urlo quasi disumano. Il vetro parve esplodere, i frammenti volarono ovunque in una pioggia di cristalli. La rossa era abbastanza lontana, ma dovette coprirsi comunque gli occhi per paura delle schegge. Attese qualche secondo e fece per avvicinarsi a lui, cauta, non volendo infliggere più danno di quello che era già stato fatto. Nell’avvicinarsi a lui, tuttavia, urtò per errore una parte del manico dell’ampolla frantumata, tirandole un calcio. Questa rotolò rumorosamente verso un angolo della parete dove era stata scagliata prima. Natasha e Bucky la seguirono con lo sguardo, fino a che questa scomparve. I due si scambiarono un’occhiata e si avvicinarono verso il punto dove era arrivato il frammento. Natasha si avvicinò, e appoggiò la mano sul muro. Seguì il profilo di questo fino a quando trovò una fessura, che a più attento esame si scoprì essere una porta scorrevole. Era nascosta abbastanza bene all’interno della parete, tanto che nessuno dei due l’avrebbe notata. La rossa spinse per aprirla, riuscendoci parzialmente dopo qualche secondo e solo con l’aiuto di Bucky. Era piuttosto pesante e probabilmente né i vecchi cardini né l’interno di quel muro, che dall’odore pareva essere costituito principalmente da carcasse di topi e chissà quali altri animali, aiutavano particolarmente. Lo spiraglio che erano riusciti ad aprire era abbastanza grande solo per far passare lei, che scambiò uno sguardo di intesa con Bucky e si infilò all’interno. La sua prima impressione fu quella di essere una mosca caduta in trappola. Le ragnatele erano talmente fitte da impedirle di vedere più in là del suo naso.

-Ew.- Si lasciò sfuggire mentre si faceva strada tra i filamenti che si stavano pian piano attaccando ai suoi vestiti e incastrando tra i suoi capelli. Udì Bucky chiamarla, allarmato dalla sua esclamazione.

-Tutto bene lì dentro?

-Sì, sono solamente sommersa di ragnatele.

Sentì Bucky lasciarsi sfuggire una risata nervosa.

-Devi almeno ammettere che c’è dell’ironia in tutto questo, Vedova.

Natasha abbozzò un sorriso senza curarsi di rispondere e procedette a tentoni tra le ragnatele e l’oscurità. Doveva aver percorso meno di due metri quando le sue mani incontrarono qualcosa di solido, probabilmente un armadio. Tastò all’interno delle sue tasche, fino a quando trovò il suo cellulare. Era sprovvisto di torcia, ma almeno la luminosità dello schermo l’avrebbe aiutata a vedere qualcosa. L’armadio era piuttosto piccolo, c’erano solo tre ante. Le prime due erano totalmente vuote, fatta eccezione per due ampolle rotte e un considerevole numero di ragni. Nella terza, coperto di polvere, c’era un fascicolo. Lei lo afferrò in fretta, ansiosa di uscire al più presto da quella stanza, che verificò essere appena un cubo che non conteneva altro che quell’armadio. Attraversò lo spiraglio della porta in fretta, uscendone coperta di ragnatele da capo a piedi. Bucky la guardò con aria quasi divertita, ma non si arrischiò a commentare.

-Andiamocene da qui.- Mormorò Natasha. Non sarebbe riuscita a sopportare quel luogo molto più a lungo. Bucky si limitò ad assentire e a seguirla.

 

Toržok, Russia

57°02’N 34°58’E

Tuesday, 15th December 2015

5.02pm

 

Nikita Vinogradov accelerò il passo, nervoso. Non che avesse particolari possibilità di fuggire da loro, pensò Natasha. Lei e Bucky avevano cercato di rintracciarlo per un paio di giorni, violando diversi server dello SHIELD e una manciata di leggi federali, come da protocollo. Il contenuto del fascicolo che Natasha aveva trovato, infatti, non era altro che un mucchio di foto e un certificato medico. Le foto raffiguravano diversi medici, ma l’unico, che compariva in ogni scatto, al quale viso fossero riusciti a collegare un nome era lui, Nikita. La sua firma era quella che compariva anche al fondo del certificato medico, dal quale però il nome del soggetto a cui era stato rilasciato era stato bruciato. I due non avevano allora avuto altra scelta se non andare alla ricerca di quell’uomo, l’unico indizio che avessero. Erano entrambi perfettamente coscienti del fatto che non poteva essere un caso che fossero riusciti a trovare un solo nome, non vista tutta la precisione con cui altri indizi e i nomi degli altri medici erano stati occultati. Tuttavia, sebbene avessero ogni ragione di credere che fosse una trappola, decisero di far finta di abboccare. La rossa seguiva l’uomo in lontananza, con passo tranquillo, aspettando che commettesse un errore. Era sicura sarebbe successo: la fretta e l’agitazione erano i peggiori nemici di chiunque cercasse di seminare qualcuno, e lui era visibilmente sia spaventato sia agitato. Continuava a lanciare occhiate dietro di sé, girandosi di scatto. Non aveva notato Natasha dall’altra parte della strada, ma aveva comunque la sensazione di essere pedinato. Lo vide stringersi nel suo pastrano e girare in un vicoletto semi nascosto. Lei sorrise sotto la sciarpa che le copriva metà viso. Finalmente l’errore che stava aspettando, come aveva previsto.

-Ti stanchi mai di avere ragione, Romanoff?- Mormorò leggermente gracchiante la voce del Soldato d’Inverno dall’auricolare che teneva nell’orecchio. Al momento era posizionato sulla scala antincendio di un edificio che dava sulla strada, ma l’aveva seguita da un tetto all’altro per l’intero tragitto, guardandole le spalle dall’alto. Avevano scommesso se il loro obiettivo avrebbe effettivamente commesso un errore per paura come sosteneva Natasha o se fosse stato addestrato meglio di così.

-Raramente.- Replicò tranquillamente mentre attraversava la strada per seguire Vinogradov nel vicoletto. -Mi devi cinque dollari.

Come aveva immaginato, il vicoletto era stretto e quasi completamente cieco. Vi era un’unica via d’uscita, una stradina ancora più angusta al fondo, stretta tra due case sulla destra. Quando l’uomo di accorse di aver sbagliato mossa, girò per tornare sulla strada principale. Si ritrovò però davanti a Natasha, coperta dall’impermeabile e il cappello beige, la sciarpa nera tirata fino al naso, a sbarrargli la strada. Con un’espressione terrorizzata, si girò e prese a correre verso l’unica via d’uscita. Natasha non mosse un passo, e si sfilò tranquillamente la sciarpa mentre osservava Vinogradov interrompere la sua fuga davanti al Soldato d’Inverno, sbucato dal vicoletto stesso, piazzato a sbarragli la strada, il fucile saldo nella mano di metallo.

-Fossi in te mi fermerei.- Consigliò Bucky pacatamente, come se gli stesse indicando quale linea della metro prendere. Solo allora Natasha si incamminò verso di loro, ostentando una calma esagerata. Era una vecchia tecnica: potevano permettersi di comportarsi tranquillamente, posati, i gesti calmi e controllati. In qualche modo quel tipo di comportamento, unito alla fama che li precedeva, incuteva talvolta ancora più timore che puntare un coltello alla gola. Nessuno dei due smise di camminare finché Vinogradov non si ritrovò stretto, le spalle al muro.

-Vi prego- Squittì allora con voce stridula -Non mi uccidete.

A Natasha venne quasi da ridere. Si limitò invece a osservare l’uomo. Piccoletto, magrolino, un paio di baffi sottili alla francese, il viso smunto e scheletrico. Gli occhietti piccoli e acquosi continuavano a schizzare nervosamente da lei a lui. Doveva per forza averli riconosciuti, a giudicare dalle prime parole che erano uscite dalla sua bocca.

-Non ne abbiamo bisogno.- Rispose Bucky con mezzo sorriso stampato sulle labbra.

-Se ci dici ciò che vogliamo, ovviamente.- Puntualizzò Natasha. Alle sue parole, Vinogradov venne scosso da un tremito.

-Io... Io non so niente. Avete preso l’uomo sbagliato.- Esclamò con voce stridula.

-Vedi, purtroppo il problema è che fatichiamo a crederti.- Replicò la rossa con un finto tono dispiaciuto. Alzò gli occhi e rivolse un cenno a Bucky, che annuì ed estrasse da una tasca interna del proprio giaccone il fascicolo che avevano trovato. Lanciò le foto che conteneva per terra, nella neve, davanti a Vinogradov. Questi impallidì, se possibile, ancora di più.

-Dunque,- proseguì Natasha -Puoi collaborare e tornare a casa sano e salvo, oppure rifiutarti e non aver più bisogno di preparare la cena per stasera, o qualsiasi altra sera.

-Collaboro, collaboro!- Guaì l’uomo terrorizzato.

-Ottima scelta. Potresti iniziare col dirci dove si trova la nuova Stanza Rossa.

-Non... Non ne ho idea- Non fece in tempo a finire di farfugliare la risposta che Bucky lo colpì sul petto con l’impugnatura del fucile, spedendolo a terra. L’uomo non osò alzarsi e si coprì il capo con le braccia, come se aspettasse un altro colpo. Il Soldato d’Inverno sarebbe stato più che propenso ad accontentarlo, se Natasha non gli avesse bloccato il braccio. Fece cenno di no con la testa e si accucciò, vicina a Vinogradov. Con un falso sorriso lo spinse ad abbassare le braccia, con gesti gentili, rassicurandolo. Lui la guardò perso e poi si arrischiò a ricambiare il sorriso. Fu allora che lei, senza perdere il sorriso, lo afferrò per il bavero della giacca e lo schiacciò contro il muro. Lui, preso alla sprovvista, non ebbe tempo di reagire e rimase senza fiato.

-Ripeterò la domanda un’altra volta. Dove si trova la nuova Stanza Rossa?- Natasha non perse né il sorriso né il tono pacato.

-Te lo giuro, non lo so, non lo so! Non ho mai visto quelle foto, non so chi siano quelle persone, non so quando siano state scattate, non so niente!- Perseverò lui, ormai sull’orlo delle lacrime. La rossa lo guardò a lungo negli occhi. Iniziava ad avere un tremendo sospetto. Tuttavia, decise di continuare con quella farsa. Scosse la testa.

-Nikita, Nikita, così non va proprio bene...- Disse con finto tono dispiaciuto, mentre estraeva un coltello dallo stivale. Lui diventò talmente bianco che per un secondo Natasha credette sarebbe svenuto.

-No! Ferma! Io non mi chiamo Nikita! Non sono chi state cercando e non so assolutamente niente!- Natasha inarcò un sopracciglio, al che lui si agitò ancora di più. -Sentite, mi chiamo Oleg Rybakov, potete controllare!- Tastò freneticamente nelle sue tasche, fino a quando estrasse un passaporto russo e lo tese alla rossa con mani tremanti. Lei gli lasciò andare il bavero e si rialzò in piedi, facendo un cenno a Bucky perché tenesse il fucile puntato in modo che l’uomo non facesse scherzi. Esaminò il passaporto con cura, osservando anche le pagine in controluce. Era autentico.

-Dimmi, Oleg, dove ti trovavi il 24 settembre 2013? - Chiese lei, ricordandosi della data che aveva letto sul certificato.

-Non... Non saprei... Era tanto tempo fa...

-Credo che ti convenga sforzarti, allora.- Intervenne Bucky, gelido.

-Era... Il compleanno di mia figlia Aida.- Chiuse gli occhi nel tentativo di ricordare -Mi svegliai presto per andare a casa della mia ex moglie... Ma lei non mi lasciò entrare, arrivò quasi a chiamare la polizia. Urlava che ero solo un ubriacone buono a nulla. Sono rimasto tutto il giorno in un pub.- Gli occhi gli si velarono di tristezza. Natasha si girò dall’altra parte, per fare in modo che l’uomo non la sentisse parlare con Bucky.

-Non sta mentendo.

-Come fai ad esserne sicura?- Rispose lui tra i denti, senza abbassare il fucile.

-So riconoscere un bugiardo. Non otterremo niente da lui.

Si girò nuovamente e lo prese un’altra volta per il bavero, in modo da farlo alzare in piedi. Gli sorrise.

-Avverti qualcuno di questa chiacchierata o rivela la nostra posizione a un’anima e mi assicurerò che non ritrovino nemmeno le tue ossa.- Sussurrò sorridente, tirandogli una pacca amichevole sulla spalla. Lui annuì, incapace di parlare, e rischiando di scivolare corse via a perdifiato. Bucky guardò la ragazza con aria di disapprovazione. Lei incrociò le braccia.

-Non sei d’accordo con me.- Lo conosceva abbastanza da poterlo affermare con certezza.

-Non credo a una sola parola di quello che ha detto.

-Oh, se è per questo nemmeno io.- Replicò Natasha, rimettendosi la sciarpa e iniziando a incamminarsi verso la strada. -Ma sono sicura che non stesse mentendo.

Bucky la guardò accigliato.

-Credi che...

-Credo che gli abbiano modificato la memoria. Non credo sia una coincidenza che la data sul certificato sia la stessa di un evento francamente piuttosto difficile da dimenticare per lui. Credo che la Stanza Rossa ci abbia permesso di trovarlo solo per farci vedere che è sempre un passo avanti a noi.

-E se invece fosse solo una coincidenza? Se fosse tutta una farsa, e ci avessero fatto seguire una pista falsa?

-Ha detto di chiamarsi Oleg Rybakov. Nell’estate del ‘65, ero tornata in Russia e avevo lavorato per un gruppo del KGB. Andavo spesso sotto copertura, e durante più di una missione mi sono fatta chiamare Olga Rybakova. Pensi ancora che sia una coincidenza?- Bucky storse il naso.

-Continuo però a pensare che averlo lasciato andare non sia stata una buona idea. Abbiamo impiegato un po’ a trovarlo...

-Lo so. Per questo adesso ha addosso un segnalatore di posizione. Sapremo dove si trova in qualsiasi momento vogliamo.- Replicò Natasha con un sorrisetto. Bucky fece per risponderle, quando dietro di loro, per la strada, si sentì lo strillo di una donna. I due si girarono di scatto, e si mossero velocemente verso la provenienza dell’urlo. Si fecero strada tra la folla di gente che si era già formata, per ritrovarsi davanti al corpo in preda alle convulsioni di Nikita Vinogradov, o Oleg Rybakov, che giaceva a terra con un pugnale piantato nello sterno. 

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Capitolo 16
*** XVI. ***


XVI.

 

No light, no light in your bright blue eyes
I never knew daylight could be so violent
A revelation in the light of day
You can't choose what stays

and what fades away [...]

Through the crowd I was crying out and
In your place there were a thousand other faces
I was disappearing in plain sight
Heaven help me
I need to make it right

(Florence and the Machine – No Light, No Light)

 

Russia, 1956

 

-Dove credi di andare?- Mormorò Natalia con voce roca, mandando all’aria tutti i piani del Soldato di rivestirsi senza svegliarla.

-Mi aspettano in palestra per una riunione. Torna a dormire, mancano più di due ore alla tua sveglia.

Per tutta risposta la rossa si mise a sedere, coprendosi con il lenzuolo. Osservò i contorni dell’uomo muoversi sotto la luce fioca della luna, in silenzio.

-Non mi mentire, James.

Lo udì sospirare, nel buio. Pochi secondi dopo il letto si incrinò sotto il suo peso, e di colpo il viso del soldato era a pochi centimetri da quello della ragazza.

-Quanto starai via, per davvero?- Mormorò, guardando le labbra di lui.

-Non molto. Due giorni, tre massimo. Non è una missione lunga.

-Portami con te.- La voce di Natalia ormai era poco più di un soffio.

-’Tasha, ne abbiamo parlato.... Sai che non posso farlo. Se ci scoprissero, ci spedirebbero in Siberia. O peggio.

Natalia sospirò, rassegnata, chinandosi in avanti a baciarlo.

-Stai attento, ti prego.

-È forse mai successo il contrario?

La rossa accennò un sorriso, mentre le sue dita tracciavano i contorni del viso del Soldato.

-Ricordati di uscire dalla finestra e nasconderti bene nell’ombra. Hanno occhi dappertutto.-Si raccomandò lui.

-È forse mai successo il contrario?- Replicò lei maliziosa, accennando un ghigno. Lui scosse la testa, quasi divertito, le baciò la fronte e si alzò, finendo di abbottonarsi la giacca della divisa. Afferrò un borsone da terra, e tirò fuori dei fucili per controllare che fosse tutto in ordine. Era un suo rituale pre-missione, e che qualche anno dopo si sarebbe convertito quasi inconsciamente a essere anche della Vedova, esaminare le armi, testare le sicure. Il rumore che producevano era quasi diventato rilassante. Natalia seguì con lo sguardo ogni suo gesto, gli angoli delle labbra ancora incrinati in un pallido sorriso. Scese dal letto liberandosi delle coperte e rimanendo completamente svestita. Assicurandosi che lui la stesse guardando con la coda dell’occhio, attraversò la stanza per prendere la camicia da notte con un incedere forzatamente lento. Si divertiva a provocarlo appena poteva, e lui di sicuro non si lamentava. Era ormai un gioco tra loro, una delle cose che servivano a entrambi come distrazione. Si girò verso di lui mentre si rivestiva con uno sguardo malizioso, indugiando su ogni bottone dell’abito. Sapeva che anche con quella scarsa luce lui poteva vederla perfettamente.

-’Tasha, per favore.- La sua voce era diventata più roca di quanto lo fosse prima.

-Cosa?- Mormorò lei, innocentemente.

-Non rendere le cose più difficili di quanto siano.- Abbassò lo sguardo da lei e richiuse il borsone con le armi, per caricarselo in spalla con un uno scatto del braccio metallico.

-Che guastafeste.- Replicò la rossa, ma era passata anche a lei la voglia di giocare. Stava per partire per un’altra missione e per quanto potesse essere breve, sapeva bene cosa gli sarebbe successo dopo. Era ogni volta più stanco; lo tenevano in laboratorio per ore, a fargli chissà cosa, e sapeva che sarebbe accaduto anche questa volta, appena fosse ritornato. Se fosse ritornato. Natalia scacciò via quell’ipotesi, non voleva nemmeno pensarci. Poi, James era troppo bravo per farsi uccidere. Si avvicinò a lui e si alzò in punta di piedi per baciarlo. Il Soldato ricambiò con trasporto e si separò solo quando entrambi furono a corto di fiato. Sostenne lo sguardo della ragazza ancora per un attimo, e poi annuì. Entrambi odiavano i saluti precedenti a una missione, erano troppo simili agli addii, portavano con sé un’incertezza che sapeva di morte. Natalia si nascose dietro la porta mentre lui la apriva, per evitare di attirare sguardi indiscreti, e lo osservò avviarsi verso un’altra missione.

-Credo di essermi innamorata di te, James Buchanan Barnes.- Sussurrò poco prima che la porta si chiudesse, senza nemmeno accorgersi di stare pronunciando quelle parole. Dall’altra parte, lui indugiò abbastanza da farle intendere che l’aveva sentita, poi trascinò l’uscio dietro di sé con un tonfo sonoro.

 

 

A couple of days later

 

Natalia scese le scale, preoccupata. Era molto raro che una Vedova venisse chiamata nelle stanze delle riunioni degli ufficiali, e non era mai un buon segno. E se avessero scoperto la storia tra lei e James? Cercò di calmarsi ripetendosi che non avrebbero aspettato che lui fosse via in missione per punirla, perché non sarebbe stato il loro stile, ma l’angoscia l’attanagliava. Se invece fosse proprio quello il motivo della sua missione, fargli accadere qualcosa mentre era lontano? Sentiva una morsa chiuderle lo stomaco, una paura che non aveva mai provato. Ogni gradino le sembrava un passo verso il patibolo. Arrivata davanti alla porta che cercava tentò di ricomporsi come meglio poteva, bussò ed entrò. Lo spettacolo che l’aspettava dall’altra parte non era sicuramente quello che si era immaginata: c’erano una decina di uomini seduti a un tavolo in cerchio, nella penombra. Natalia non conosceva nessuno di loro, se non di vista; dovevano essere tutti appartenenti alla fascia dirigente della Stanza o i funzionari di questa nel KGB. Conosceva invece molto bene la figura in piedi al fondo. Ivan. Nonostante tutto, faticò a trattenere un sorriso quando lo vide. La sua presenza la tranquillizzava, e cercò il suo sguardo come a chiedere spiegazioni, ma lui sembrava evitarlo di proposito. Pareva quasi a disagio, intento a guardare un punto fisso sul muro.

-Natalia Alianovna Romanova.- Sentì una voce chiamarla, gelida. Madame B emerse dall’ombra che la nascondeva. -Siediti.- Ordinò, in una voce che pareva tutt’altro che cortese. Natalia non osò opporsi.

-Ti chiederai perché ti abbiamo convocata qui. Anzi, a monte ti chiederai perché sei ancora qui, a differenza di tutte le tue compagne che sono ormai partite verso altre destinazioni, in missione.

Natalia se lo chiedeva da anni, in effetti. “Non sei ancora pronta” era la risposta di tutti, compreso James, eppure molte altre ragazze erano partite con molta meno esperienza e abilità di lei.

-Ebbene. Per te abbiamo altri piani. Ivan? - Madame si girò verso di lui, ad aspettare che continuasse il discorso. Lui aveva l’espressione di uno che avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa. Rassegnato, e deciso a evitare lo sguardo della ragazza, sospirò.

-Non sei stata addestrata per essere una Vedova qualsiasi, Natalia. Sei stata addestrata più a lungo e più duramente, sei stata addestrata per essere la Vedova Nera. Hai avuto gli allenatori migliori, hai appreso tutte le tecniche più efficaci. Diventerai la nostra maggiore risorsa, la nostra migliore spia.

Natalia osservava il suo vecchio mentore cercando di dissimulare la confusione. Non capiva dove volesse arrivare con quel discorso, e non capiva perché avessero scelto proprio lei per quel compito, anche se sospettava che avesse qualcosa a che fare con il suo cognome.

-Tuttavia, - continuò l’uomo -Ci mancano delle risorse. Delle alleanze. Una sorta di garanzia per te e per noi.

Madame B prese un fascicolo e lo lanciò davanti a Natalia. La ragazza si arrischiò ad abbassare lo sguardo. Il fascicolo recitava il nome di un tale Alexei Shostakov. In quel momento, dalla penombra emerse una figura fin troppo simile a quella che vedeva ritratta in una foto sulla cartella che teneva tra le mani: era alto e muscoloso, i capelli e i baffi erano castani come i suoi occhi. Era molto affascinante, ma aveva un’aria strana che non convinceva per niente la ragazza. Temette di trovarsi davanti a un altro esaltato del KGB.

-Natalia, ti presento l’agente Shostakov, pilota collaudatore e aspirante Guardiano Rosso del KGB... E tuo futuro marito- Pronunciò Madame, nascondendo a fatica il tono canzonatorio. Con un ghigno, aggiunse: -Congratulazioni.

Il cuore di Natalia perse un battito.

 

 

A few hours later

 

Natalia attese solo il tempo necessario perché la squadra del Soldato d’Inverno rientrasse e facesse rapporto ai superiori, poi uscì dalla finestra e si recò verso la Stanza di James, praticamente fiondandocisi dentro. Lui si girò di scatto, allarmato, appena la udì; all’accorgersi che era lei, si rilassò, ma non perse l’aria preoccupata.

-’Tasha, non puoi stare qui ora. È pericoloso, torna stanotte.

Lei lo ignorò.

-Tu lo sapevi?- mormorò, la voce carica di rabbia, gettando il fascicolo di Shostakov verso di lui. Il Soldato parve esitare, irrigidendosi un’altra volta.

-Avevo sentito qualcosa, ma non sapevo se...- Iniziò. Natalia lo interruppe prima che potesse terminare la frase.

-Non. Mi. Mentire.- Sibilò. Lui tentennò ancora, studiandola, il silenzio carico di tensione.

-Sì.- Ammise alla fine. -Lo sapevo.

Ci fu un secondo di calma surreale. Poi, Natalia si lanciò di scatto verso di lui, e il Soldato dovette fare appello a tutta la sua forza fisica per trattenerla e immobilizzarla prima che qualcuno li sentisse.

-Così ci farai scoprire.- Cercò di intimarle, ma lei continuava ad agitarsi sotto la sua presa.

-Perché non mi hai detto niente?- Chiese con la voce spezzata.

-Non avrebbe migliorato la situazione.

Natalia si girò verso di lui con gli occhi lucidi e uno sguardo pieno d’odio, ancora stretta nella sua presa.

-“Non avrebbe migliorato la situazione”? Per me o per te?

Il Soldato la guardò con uno sguardo confuso. Fece per chiedere spiegazioni, ma lei lo precedette.

-Avevi solo paura che smettessi di venire qui la notte. Ti è mai venuto in mente che magari, non lo so, mi avrebbe aiutato sapere che mi vogliono sposare con un perfetto sconosciuto? Che magari avresti potuto dirmelo e avremmo potuto fare qualcosa, invece di trovarmi davanti a un’assemblea di persone per cui non sono altro che un numero che mi dicono che mi hanno tolto anche l’ultima libertà che mi era rimasta?

-Fare qualcosa? Per esempio? Scappare insieme mano nella mano verso l’orizzonte e vivere per sempre felici e contenti nella nostra casetta di marzapane?- Anche la voce del Soldato ora era spazientita. -Ricordati dove siamo ‘Tasha. Saremmo morti prima di arrivare al filo spinato.

-Preferirei.

-Io no.- Sbottò lui. Passarono pochi secondi di silenzio carico di tensione. -Natalia, non c’è una versione di questa storia in cui tu e io rimaniamo insieme. Non esiste un lieto fine, per noi. Se lo credi, sei un’illusa quanto lo sono stato io quando ho permesso che questa follia iniziasse.

-Sono questo per te? Una follia? Uno sbaglio, un errore che non avresti mai dovuto commettere?- La sua voce era più tranquilla ora, ma fredda come il ghiaccio.

-Sai anche tu che stiamo solo correndo un pericolo inutile.- Nemmeno i suoi riflessi riuscirono a prevedere lo schiaffo che arrivò appena terminò di pronunciare quella frase.

-E tu sai bene che per me è molto più di un “pericolo inutile”. Sai che tu sei molto di più per me. Sai che, potendo tornare indietro, lo rifarei.

Il Soldato non rispose, la guancia che già iniziava a bruciargli, incapace di incontrare il suo sguardo, temendo di tradirsi da solo, temendo che lei potesse leggere nei suoi occhi l’“anch’io” che avrebbe voluto risponderle poche sere prima mentre stava partendo per la sua missione, o gli sforzi per contenere le urla di rabbia quando aveva saputo del matrimonio combinato. La situazione gli stava già scivolando di mano così.

Avvertiva gli occhi di Natalia su di sé ad aspettare impazientemente una qualsiasi risposta.

Lui sapeva perfettamente cosa voleva sentirsi dire, e forse fu proprio per quello che non disse niente. Tenne gli occhi ostinatamente fissi sul pavimento fino a quando la sentì girarsi e dirigersi verso la finestra, per tornare nella sua stanza.

-Va’ all’inferno, Barnes.- Disse la ragazza prima di scomparire.

Ci sono già, Natalia. Ci sono già.

 

 

Three days later

 

La rossa sparò senza battere un ciglio, colpendo la figura incappucciata all’altezza del cuore. Prima che questa facesse in tempo ad accasciarsi sulla sedia al quale era legata, Natalia aveva già impugnato la pistola con l’altra mano e l’aveva colpita anche alla testa. Aveva smesso da anni di chiedere chi erano le persone che stava uccidendo. Probabilmente nemici della Stanza. Disertori. Americani. Prigionieri di guerra. Oppositori del regime. Meglio non sapere.

Il Soldato d’Inverno era a poca distanza, che la osservava. Non si erano parlati se non per un freddissimo stretto necessario da tre giorni prima, lei evitava anche il suo sguardo, ma erano comunque costretti a vedersi durante gli allenamenti. Quel giorno era presente anche Madame B, che pareva quasi di buon umore. A stento nascondeva il suo sorriso sadico.

-Molto bene, Natalia. Ancora l’ultimo e poi avrai finito.

Lei annuì, aspettando che portassero via il cadavere e trascinassero un’altra figura incappucciata. Non successe. Si girò verso Madame, chiedendo perché non arrivasse.

-Perché è già qui.- Fu la risposta, e finalmente si lasciò scappare il ghigno che tanto aveva faticato a trattenere. Si godette la confusione di Natalia ancora per qualche attimo, prima di indicare il Soldato. Entrambi alzarono gli occhi verso la donna, increduli, e poi incrociarono lo sguardo per la prima volta da giorni.

-Ma signora...- Iniziò la rossa, cercando di sembrare il più distaccata possibile.

-Nessun ma. Ormai sei una Vedova, non necessiti più di un addestratore, e dobbiamo essere sicuri che tu ci sia abbastanza leale da rispondere a qualsiasi comando. Quindi, non facciamola più lunga del necessario. Sparagli.

-Con tutto il rispetto, signora, non credo che...

-Non sto chiedendo la tua opinione, Natalia. È un ordine.

La rossa si rivolse di nuovo verso il Soldato, che sembrava essersi paralizzato sul posto, gli occhi che chiedevano un aiuto che lui non poteva offrirle. Tutto ciò che si erano detti tre sere prima e il distacco dei giorni successivi erano appena spariti, come se non fossero mai esistiti. I loro sguardi si incrociarono di nuovo, e capirono.

Loro, la Stanza, lo sapevano.

Dovevano saperlo.

Probabilmente lo sapevano da tempo.

Il Soldato guardò la ragazza, e mimò qualcosa con le labbra, senza emettere nessun suono. “Fallo.”

-Natalia, non ho tutto il giorno, e nemmeno tu. È solo un altro obiettivo, no? Non dovrebbe essere un problema per una Vedova come te.- Insistette Madame. Si stava godendo ogni istante di quella sceneggiata.

La rossa, come in trance, alzò la pistola verso di lui. Lo aveva già fatto mille altre volte. Questa volta non poteva essere diverso, bastava premere il grilletto. Se non l’avesse fatto, avrebbe solo dimostrato quello che loro già sapevano, e sarebbero stati puniti entrambi.

Il Soldato annuì, come per incoraggiamento, e chiuse gli occhi, aspettando lo sparo. In fondo, preferiva andarsene per mano di Natalia che di chiunque altro nella Stanza.

Il proiettile non arrivò mai. Quando James risollevò le palpebre, Natalia aveva abbassato l’arma, e lo guardava con le lacrime agli occhi e un’espressione spaventata. “Scusami.” mimò a sua volta. Madame B, che aveva la faccia di un bambino al parco divertimenti, iniziò a ridere. Delle guardie entrarono nella stanza.

-Prendete i due piccioncini. Sapete dove portarli.

Due di loro presero il Soldato che cercò di opporre resistenza, ma prima ancora che riuscisse a colpirne uno gli avevano già rilasciato una scarica elettrica sufficiente a fargli perdere conoscenza.

-NO!- Urlò Natalia, facendo per lanciarsi a sua volta contro le guardie che stavano portando via James, ma si ritrovò a terra prima che potesse muovere più di due passi, tramortita. Riversa sul pavimento, avvertì subito l’ormai familiare sapore metallico sulla lingua. Si portò due dita al labbro. Sanguinava, come si era immaginata, doveva essere rotto. Si mise a sedere, impiegando diversi attimi a registrare cosa fosse successo. Davanti a lei, Madame aveva tirato fuori un fazzoletto e stava pulendo del sangue da una nocca. Natalia era incredula. Madame non colpiva mai le alunne, Madame non colpiva mai nessuno. Era solita lasciare agli altri quel compito, guardava gente uccidersi e sporcarsi le mani per battaglie che non appartenevano a loro da dietro un vetro. Eppure ne era decisamente capace, pensò la rossa con il labbro che ancora le bruciava. Che fosse anche lei una potenziata? La testa della ragazza girava vorticosamente. Era successo tutto troppo in fretta, e temeva ciò che sarebbe arrivato a breve.

-Natalia, l’amore è per i bambini. Speravamo di non dover arrivare a questo per fartelo capire.- Disse Madame, gettando a terra il fazzoletto sporco di sangue. Fece un cenno con il capo alle guardie rimaste, che arrivarono e sollevarono a forza la rossa, portandola via.

 

Si lasciò trascinare verso i piani inferiori, sentendosi troppo annientata per ribellarsi. Madame li seguiva a pochi passi di distanza, poteva sentire il suono dei suoi tacchi scandire il tempo che la separava dal suo destino.

-Cosa farete a Barnes?- Si azzardò a chiedere. Sentiva il senso di colpa schiacciarla. Avrebbe accettato qualsiasi cosa le avessero fatto, ma sarebbe stato punito anche lui, ed era in gran parte colpa sua.

-Lo vedrai presto.

Arrivarono davanti a una delle stanze sotterranee dove si tenevano gli esperimenti, una dove Natalia non era mai stata. Venne sbattuta con poca grazia su una sedia, i polsi legati dietro questa. Si guardò attorno, terrorizzata come non lo era mai stata. Sentiva i battiti del suo cuore rimbombare nelle orecchie. Un turbinare di dottori si muoveva intorno a lei, producendo suoni ovattati, senza quasi curarsi della sua presenza. Parevano essere tutti intenti a lavorare intorno a un macchinario collegato a una capsula di metallo di cui lei ignorava la funzione. Il Soldato d’Inverno entrò nella stanza poco dopo, sveglio ma sempre trascinato dalle guardie. La rossa fece per chiamarlo, ma un pugno nello stomaco da parte di uno degli uomini che l’avevano scortata le tolse il fiato per farlo. James fece in tempo a rivolgerle uno sguardo che pareva allo stesso tempo sorpreso e spaventato dalla sua presenza prima che venisse scaraventato all’interno della capsula e immobilizzato.

-Iniziate.- Ordinò uno dei dottori.

Natalia capiva sempre meno, non aveva idea di cosa stesse, succedendo intorno a lei ed era ancora senza fiato. Udì James chiamare il suo nome da dentro la capsula, ma lei non poteva rispondere. Lo vide battere il pugno di metallo contro il piccolo oblò di vetro. Lei era in preda alla paura e assisteva la scena con occhi sgranati.

Successe velocemente.

La voce del Soldato, che non aveva ancora smesso di gridare il suo nome, si affievolì fino a sparire completamente. Parve annaspare per qualche attimo, poi una coltre ghiacciata circondò il suo viso, congelandolo in una smorfia di dolore. Batté ancora una volta il pugno contro il vetro, con poca forza, poi il ghiaccio coprì anche l’oblò e Natalia non vide più niente. Rimase paralizzata in quella posizione, quasi come se avessero congelato anche lei. Non fosse stato per il lieve tremito che scuoteva il suo corpo, si sarebbe potuta dire di pietra. A stento si accorse che veniva nuovamente portata via, verso un’altra stanza bianca e asettica, e che veniva legata a un lettino. La sua mente registrò a mala pena una conversazione tra Madame B e un uomo, probabilmente un dottore.

-Non deve rimanere nulla.

-Ma signora, sono anni che non le modifichiamo la memoria.

-Riportatela a zero, allora. Ricostruite tutto.

-Tutto tranne lui?

-Esatto. Per il resto, la voglio esattamente uguale. Bolshoi, famiglia, allenamenti e tutto. Non ho intenzione di rifare l’addestramento o di impartirle lezioni di ballo, intesi?

-Perfettamente, signora.

Un attimo di silenzio.

-Farà male.- Il medico si dirigeva a lei, ora.

Un ago penetrò la pelle del suo collo, e da lì fu tutto buio, confusione, immagini in successione e il suono delle sue stesse urla di dolore.

 

~ ~ ~ ~
 

Il Soldato di Inverno rabbrividì, cosciente che ci fosse qualcosa che non quadrava ancora prima di aprire gli occhi. Sembrava essere passato pochissimo tempo da quando era entrato nella capsula. Ricordava perfettamente tutto quello che era successo prima, ed era sicuro che fosse vero perché non assomigliava a nessuno dei ricordi che di solito gli impiantavano nella testa. Ricordava Natalia con la pistola puntata verso di lui, ricordava di essere stato trasportato nella sua capsula, ricordava il viso terrorizzato di lei che lo osservava da fuori. Si decise a scrollarsi di dosso gli ultimi rimasugli di ghiaccio e a sbirciare fuori dall’oblò. La stanza era vuota. Cercò di fare pressione sulla porta della capsula e questa cedette senza fatica. Il presagio che fosse successo qualcosa di terribile si impossessò di lui. Uscì dalla sua prigione di ghiaccio e si guardò intorno. Non poteva essere un ricordo che gli stavano impiantando in quel momento. Non avvertiva dolore e sembrava troppo reale e dettagliato. Sempre più preoccupato, decise di uscire dal laboratorio. Si trovava ancora nella villa della Stanza Rossa, che sembrava insolitamente vuota. Certo, c’erano persone che vagavano per i corridoi, ma molte meno del solito. Doveva essere successo qualcosa a Natalia. Non c’era altra spiegazione. L’avevano uccisa, e volevano che lui la trovasse; era l’unica ragione per cui avrebbero potuto congelarlo per così poco senza modificargli la memoria e lasciando che si liberasse senza problemi. Si diresse senza esitare verso la camera della rossa. In preda all’angoscia e senza che nessuno intorno si curasse di lui, aprì di scatto la porta, aspettandosi di vedere il suo cadavere sul letto. Lo spettacolo che gli si parò davanti, invece, era completamente diverso: Natalia era di fianco al letto, i capelli legati e indosso la divisa per un allenamento, e si era girata verso di lui, allarmata dall’improvvisa comparsa dell’uomo. Ma soprattutto, era viva. Era viva, era viva, era viva. Qualsiasi cosa potessero fargli dopo, l’avrebbe sopportata sapendo che lei non era morta.

-’Tasha- La chiamò sollevato, andando ad abbracciarla. Lei si scansò.

-Ci conosciamo?- Chiese lei freddamente, guardandolo con disdegno. Lui la osservò, confuso.

-’Tasha... Sono io.

-Adesso che so che sei “tu” mi è tutto molto più chiaro- Replicò sarcastica. -Ora esci dalla mia stanza, farò tardi all’allenamento. E non mi chiamare ‘Tasha, non so chi tu sia, ma quello non è il mio nome.

-’Ta... Natalia. Ti prego, non puoi essere seria. Sono il Soldato d’Inverno. Ci siamo allenati insieme... Siamo stati insieme. Non ricordi niente di tutto questo?

-Non è possibile. Sono già promessa in sposa. Mi avrai scambiato per qualcun’altra- Fece per uscire, ma lui la bloccò per un braccio.

-Natalia, pensaci un attimo. Sei stata tu a portarmi questa.- Tirò fuori la targhetta dell’esercito. -Sono James. Bucky.

Lei si liberò dalla sua stretta con un colpo secco.

-Chi diavolo è Bucky?

Il Soldato d’Inverno la osservò uscire dalla stanza, mentre il mondo parve crollargli addosso.

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Capitolo 17
*** XVII. ***


XVII.

 

We have a history,
She and I.
We fail and sigh,
And come back
For another try

(Bruce Adler)

 

 

 

Natasha correva. Il ticchettio di un orologio che non riusciva a vedere la seguiva in ogni passo. Correva e correva, sotto la neve, ma non le sembrava di procedere di un passo.

Figure nere in mezzo agli alberi, piccole come delle bambine, la guardavano impassibili mentre scappava.

Presto rimase a corto di fiato, e cadde a terra. Il mondo intorno a lei sembrava girare all’impazzata.

Il ticchettio aumentava, tutto diventò buio e di colpo sotto di lei non c’era più un manto innevato, ma un gelido pavimento di marmo.

Passi che si avvicinano.

-In piedi.- La voce di Madame B rimbombò nel buio, circondandola.

Natasha cercò di alzarsi, ma non riusciva a muoversi.

-Hai trovato il tuo posto nel mondo, Natalia?- La risata della donna riecheggiò nella sua mente.

Finalmente riuscì a rialzarsi, per ritrovarsi davanti a una donna che era vestita come Madame.

La sua vista della rossa era appannata. Quando finalmente ci vide meglio, si accorse di trovarsi davanti a sé stessa, in una versione più giovane, nei panni della sua vecchia superiore.

L’altra Natasha la guardava con aria di sfida, un’espressione crudele che non le era mai appartenuta, nemmeno nella Stanza.

Alzò la pistola contro di lei, che di nuovo non riusciva a muoversi.

-Ti prego.- Implorò. L’altra rise, di nuovo, e sparò.

Natasha abbassò lo sguardo. Le sue mani erano coperte di sangue, ma non aveva nessuna ferita. L’altra Vedova Nera era scomparsa.

Una voce, che assomigliava in maniera inquietante a quella di Loki, rimbombò nuovamente nel buio.

“Riusciresti a cancellare quella nota così rossa?”

Capì allora che il sangue sulle sue mani non era suo.

Si accesero le luci, e lei si ritrovò circondata da cadaveri.

Li conosceva tutti.

Ex-target.

Agenti dello SHIELD.

Avengers.

Maria Hill, Fury, Sharon Carter.

Stark, Banner, Coulson.

Più continuava a guardarsi intorno, più facce conosciute spuntavano. Tutte persone per cui lei avrebbe dato la vita.

Steve.

James. Il suo cuore perse un battito.

Si aggirò tra i cadaveri, consapevole che il sangue sulle sue mani, che sembrava essere sempre di più, apparteneva a loro.

Clint.

A stento trattenne un urlo.

Si gettò su di lui, senza pensarci

Respirava ancora, e lei chiamò il suo nome, ripetendolo come una cantilena.

Lui aprì gli occhi.

-Tutto questo è colpa tua, Natasha...- Agonizzò.

Lei fece per dire qualcosa, ma la voce le si fermò in gola.

Quando alzò lo sguardo, si accorse di stare stringendo nella mano il manico di un pugnale, conficcato all’altezza del cuore di Clint.

Venne svegliata dal suo stesso grido.

 

 

Volgograd, Russia

48°42’N 44°31’E

Thursday, 17th December 2015

3.44am

 

 

Urlava ancora, quando aprì gli occhi. Si zittì all’istante, ma sapeva che era troppo tardi. Bucky era già in piedi sulla stuoia dove dormiva (non aveva sentito scuse. Natasha era ferita e aveva bisogno di riposarsi: il letto spettava a lei.), i sensi all’erta.

-Riposo, Soldato.- Mugugnò lei, stropicciandosi gli occhi. Doveva essersi alzata a sedere di scatto, per la felicità dei punti della sua ferita, che le dolevano come a lamentarsi. Aveva la fronte imperlata di sudore, a scapito del freddo, e il respiro era ancora irregolare. Bucky, vicino a lei, si rilassò e la guardò preoccupato.

-Scusami, non volevo svegliarti.- Gli sussurrò. Era ormai da tempo che non si svegliava urlando. Certo, aveva sempre gli incubi nelle pochissime ore in cui riusciva a prendere sonno, ma gridare? D’altra parte, per quanto potessero essere terribili i suoi sogni, non aveva mai sognato di uccidere tutte le persone a cui teneva. Non aveva mai sognato di uccidere Clint. “Tutto questo è colpa tua, Natasha...”. Si chiese se in fondo non fosse vero. Se in fondo non fosse quello il finale in contro al quale andava. Se in fondo non stesse intraprendendo una guerra contro dei fantasmi che sarebbe solo finita male per coloro a cui lei teneva, anche essendosi allontanata da loro.

Bucky scrollò le spalle.

-Non stavo dormendo. Hai interrotto solo uno studio molto attento del soffitto.- La sua voce sembrava esausta, più di quanto avesse dato a vedere negli ultimi giorni. Natasha si lasciò ricadere sul letto, ignorando le proteste della sua ferita.

-Ne vuoi parlare?- Chiese lui, dopo qualche attimo di un silenzio occupato solo dal respiro della rossa che si regolarizzava. Lei non rispose. Il Soldato sapeva che gli incubi non erano qualcosa che lei fosse incline a condividere, come lui d’altronde. Sospirarono entrambi, quasi all’unisono, e per qualche minuto ricadde il silenzio.

-James?- Chiamò, sottovoce, pur sapendo per certo che non stava dormendo.

-Dimmi.

-Parto appena fa mattina.

Lui non rispose subito.

-’Tasha, non devi sempre fare tutto da sola.

-Lo so. Ma so anche che ti sto rallentando, e poi stare insieme è più pericoloso. Ci troveranno più facilmente, per quanto possiamo fare attenzione.

-È anche più sicuro se ci attaccano, però.

-Sai bene che so badare a me stessa. E tu... Tu sei il Soldato d’Inverno, credo tu possa stare piuttosto tranquillo.

-Sei sicura che sia solo per quello che vuoi andartene?

-Sì.- L’immagine del suo cadavere, gli occhi vitrei che la guardavano con fare accusatorio, era ancora impressa nella sua mente, un’eco dell’incubo che aveva avuto poco prima. Non poteva proteggerlo, se rimaneva con lui.

-Non posso obbligarti a rimanere.- Sentenziò lui.

-No, non puoi.

Silenzio, di nuovo. Uno spostamento d’aria. Poi, un braccio a cingerle i fianchi, un tepore familiare al suo fianco.

-Non c’è bisogno che te lo dica, ma... Promettimi che starai attenta.- Le sussurrò lui all’orecchio.

-Lo farò. Promesso.- mormorò lei con un filo di voce. Lui la strinse ancora per qualche secondo nell’abbraccio, poi fece per allontanarsi.

-No.- Lo bloccò lei. -Puoi rimanere, se vuoi.

Anche al buio, poteva quasi sentire il suo sorrisetto.

-Pensavo che non me l’avresti mai chiesto.- A sentire il suo tono malizioso, le venne quasi da ridere.

-In fondo, il letto è tuo.

Stretti l’uno all’altra, gli ultimi cinquant’anni nuovamente spariti, ed esausti, caddero entrambi in pochi attimi in un sonno finalmente senza incubi.

 

 

11.51am

 

 

Bucky si sistemò la coperta, e allungò il braccio a cercare il calore di Natasha di fianco a sé. Trovò solo le fredde lenzuola. Con un sospirò, aprì gli occhi e si mise a sedere.

-Buongiorno, bell’addormentato.- Natasha era seduta a gambe incrociate sul tavolo della stanza, e lo guardava quasi divertita da dietro la copia di Anna Karenina che aveva trovato a Mosca. Lo stava rileggendo, nella speranza di trovare qualcosa.

-Ho dormito troppo?- Chiese lui, sbadigliando. Alla rossa venne quasi da ridere. Davanti a lei aveva l’assassino più pericoloso degli ultimi cinquant’anni, ed eccolo lì, a stiracchiarsi come il gatto che ogni tanto compariva nel suo appartamento a New York. Sembrava quasi... normale. O almeno, quanto di più normale potessero permettersi loro due.

-Beh, è quasi mezzogiorno. Per te è quasi un letargo, soprattutto nell’ultimo periodo.

-Mezzogiorno? Non dovevi partire?

-Infatti. Ma, a dire la verità, mi sono alzata anche io da poco.- Scese dal tavolo con un movimento fluido. -E poi volevo salutarti, ma non volevo interrompere il tuo sonno di bellezza.- Aggiunse in tono canzonatorio. Lui le rivolse un’occhiataccia con un sopracciglio alzato, ma non disse niente.

-Sei proprio sicura, allora?- Chiese lui, quasi per prassi. Lei annuì.

-Se dovessi trovare qualcosa di importante, ti chiamerò. E confido che tu farai lo stesso.

Lui annuì a sua volta.

-Se avessi mai bisogno di me, mi troverai qui.- Aggiunse Bucky. -Tra l’altro...- Iniziò a rovistare tra i cassetti, e tirò fuori un sacchetto di carta. Lo tese alla ragazza.

-Ho trovato questo, quando ho iniziato a indagare. Non ho ancora capito a cosa servano, magari tu riuscirai a svelare l’arcano... Saranno comunque più utili a te, conoscendoti ci arriverai prima del sottoscritto.

Natasha prese il sacchetto e lo aprì. All’interno c’erano una ventina di schede nere. Le estrasse e le esaminò una a una. Erano tutte forate in diversi punti, ma nessuna era uguale alle altre. Guardò Bucky con aria interrogativa.

-Ne so quanto te.- Fece lui.- So solo che non formano nessun disegno o indizio messe in nessun ordine. Ho provato.

Lei sbuffò.

-Ci mancava un altro indizio incomprensibile.

-Mi preoccuperei di più se la Stanza non desse filo da torcere. Considerando tutti i loro algoritmi e segreti, vorrebbe dire che saremmo sulla pista sbagliata.

-Touché.

Natasha indossò il suo cappotto, ripose la busta all’interno del borsone, facendo attenzione a non piegare nessuna delle schede all’interno, e se lo caricò sulla spalla.

L’atmosfera della camera si fece improvvisamente più pesante. L’aria sapeva di addio, e nessuno dei due era pronto per quello. Non di nuovo. Natasha era quasi tentata di lasciare perdere, di arrendersi per una volta, di farsi aiutare da lui. Ma c’erano troppi rischi, e soprattutto rimanere troppo insieme avrebbe rischiato di risvegliare certi fantasmi, e proprio non se lo potevano permettere. Non poteva funzionare, nemmeno al di fuori della Stanza. Erano fin troppo simili loro due, avrebbero solo finito per ferirsi a vicenda, o peggio, dipendere l’uno dall’altra.

-Ti prego, Natalia, fai attenzione.- Disse lui, quasi apprensivo.

-Me l’hai già detto stanotte, mamma.- Rispose, cercando con scarsi risultati di risollevare la tensione.

-Lo so. Ma lasciami preoccupare per una vecchia amica... Soprattutto una vecchia amica che ha una ferita che non è ancora guarita. Senza contare che qualsiasi cosa possa venire fuori da questa storia, non può farti bene.

-Starò bene, James. Sai che sono sopravvissuta a peggio.

Lui non rispose. Si avvicinò a lei, le prese il viso tra le mani e prima che lei potesse fare niente appoggiò le labbra sulle sue. Non era un bacio passionale, non era un tentativo disperato di farla rimanere. Era solo un saluto che sembrava troppo un addio, un qualcosa che era mancato a loro anni addietro. Una conclusione, un punto fermo. Lei non si oppose, ma fu la prima a scostarsi.

-Sai sempre come far colpo su una donna, vero?- Chiese con fare malizioso, i loro visi ancora abbastanza vicini da potersi quasi toccare.

-Solo se ne vale la pena.

Lei gli sorrise.

-A presto, James.

Aprì la porta, con un peso sul cuore, e fece per richiuderla dietro di sé, quando lo sentì parlare.

-Anche io.

-Anche tu cosa?- Chiese lei, affacciandosi dallo spiraglio ancora aperto.

-Una sera, nella Stanza. Mi hai detto che pensavi di essere innamorata di me. Non ho mai avuto l’occasione di risponderti. Ti amavo davvero, allora.

Lei non poté fare a meno di sorridere.

-Lo so.- Rispose, e richiuse la porta dietro di sé.

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Capitolo 18
*** XVIII. ***


XVIII.

 

The loneliest moment

in someone’s life is

when they are watching

their whole world fall apart,

and all they can do is stare blankly.

(Francis Scott Fitzgerald – The Great Gatsby)

 

 

Russia, 1956

I giorni iniziarono a passare per Natalia come se vivesse in una nuvola. Era tutto confuso, i suoi ricordi la ingannavano, faceva fatica a concentrarsi. Quando provò a presentarsi da uno dei medici, uno dei pochi che sembrasse innocuo, le disse che probabilmente era solo colpa dello stress per il matrimonio. A lei quasi venne da ridere. Il matrimonio le sembrava più lontano quanto più si avvicinasse; spesso non se ne ricordava nemmeno. Passarono due settimane prima che iniziasse a pensare di essere sotto l’effetto di qualche sostanza. Si accorse che se non mangiava, infatti, riusciva a pensare più lucidamente e le cose intorno a lei tornavano ad avere contorni definiti. Si ricordò improvvisamente che molte delle sue compagne erano diventate strane e distanti per un periodo. Con orrore, si rese conto che ciò accadeva sempre prima della Cerimonia di Laurea di cui parlava tanto Madame, e dopo la quale quasi tutte le sue compagne sparivano. Smise di mangiare alla mensa, e iniziò a rubare il cibo dalle cucine, ma presto ritornò a essere tutto confuso. Probabilmente l’avevano scoperta, e a giudicare dallo stato di smarrimento totale in cui si trovava avevano anche peggiorato le dosi. Vagava in giro per la Stanza come un fantasma, dormiva spesso e non regolarmente, tormentata da sogni popolati di persone che non conosceva ma le parevano familiari, non riusciva a mettere in piedi frasi di senso compiuto. Stentava a riconoscersi allo specchio, più magra che mai, lo sguardo spento e assente, pallida come se fosse già morta. Le sembrava di essere intrappolata in una nebbia troppo fitta per uscirne.
Fu in queste condizioni che incontrò il suo futuro marito per la prima volta da quando era comparso alla fine della riunione in cui le avevano detto del matrimonio. I superiori ritenevano che dovessero vedersi qualche volta, prima della cerimonia, conoscersi di più del semplice sguardo che erano riusciti a scambiarsi. Così un pomeriggio Natalia venne trasportata quasi di peso in uno dei salotti degli ufficiali. L’avevano fatta vestire in maniera elegante, con un vestito verde smeraldo che si intonava al colore dei suoi occhi. Le avevano messo del fondotinta in modo da coprire il pallore, e del rossetto per evidenziare le labbra. I capelli erano raccolti in uno chignon che li faceva sembrare più ordinati, la sua frangia era perfettamente pettinata. In un breve momento di lucidità, si rese conto che era la prima volta da quando era arrivata lì che sembrava una persona, e non una pedina schiava della partita a scacchi della Stanza Rossa. La prima volta che indossava qualcosa che non fosse l’uniforme, o una vestaglia da notte. Poi la nebbia tornò a inghiottire anche quel pensiero e lei si ritrovò in qualche modo seduta su una poltrona di velluto rosso, ad aspettare. Entrò un uomo, e la ragazza impiegò qualche secondo a riconoscerlo. Era Ivan. Si sedette di fianco a lei, un’aria rassegnata dipinta in volto.
-Tutto bene?- Le chiese. In qualsiasi altro momento la risposta della rossa sarebbe probabilmente stata sarcastica, ma allora faticò anche solo ad annuire. -
Prendi questa.- Le tese una pastiglia e un bicchiere d’acqua. -Ti sentirai meglio- Natalia fece come le aveva detto, e la nebbia sembrò diradarsi almeno quanto bastava per avere un po’ di controllo su se stessa. Ivan sospirò.
-Ascoltami bene. Non sarà molto lungo. Alexei arriverà, tu ti dovrai alzare. Probabilmente ti bacerà la mano e ti farà dei complimenti per il tuo aspetto. Ringrazialo, poi siediti. Da lì, dubito che dovrai parlare molto: è difficile farlo tacere. Fingi di essere interessata alle sue avventure come pilota, o qualsiasi racconto ti toccherà sorbire. Rivolgigli dei complimenti ogni tanto. Sorridi, tieni la schiena dritta e fagli credere di avere occhi solo per lui. Capito?
-Sissignore.- Non era la prima volta che doveva fingere, e aveva già dimostrato più di una volta di essere in grado di mentire. Pur non essendo al pieno delle sue forze, era perfettamente capace di fare tutto ciò che le era stato detto. Si chiese perché allora Ivan sembrasse tanto preoccupato.
-Un’altra cosa. Verso la fine del vostro... colloquio, probabilmente tenterà di baciarti. Non ti tirare indietro, anzi, mostrati entusiasta. Dovrebbe fermarsi lì, per ora, ma se non dovesse... Lasciagli fare qualsiasi cosa voglia.- L’uomo fece una pausa, per
studiare la reazione di Natalia, ma la ragazza rimase impassibile. Nemmeno per quello era la prima volta, alla Stanza Rossa il consenso era un concetto piuttosto astratto. In più, se quell’uomo sarebbe dovuto diventare suo marito, doveva abituarsi -Ne va del futuro della Stanza, Natalia. Rendici orgogliosi.
La rossa annuì.
-Non vi deluderò.
Ivan sorrise.
-So che non lo farai.- Le accarezzò velocemente una guancia. -Mi sembra di dare in sposa mia figlia.
Natalia lo fissò,
e si sforzò di sorridere. In quel momento, la porta si aprì ed entrò Alexei. La ragazza si alzò, quasi meccanicamente, seguita da Ivan che mormorò qualcosa sul lasciarli soli e sparì. Il suo promesso sposo era, anche lui, molto più elegante della prima volta che l’aveva visto. Indossava un’uniforme blu che doveva servire per le cerimonie, tirata a lucido. I capelli gli erano cresciuti ed erano pettinati all’indietro, i baffi erano ora accompagnati da un accenno di barba. Il suo fascino era ancora più accentuato, e quasi nascondeva l’aria da esaltato che lei gli aveva notato la prima volta. Tutto andò come aveva previsto Ivan. Il baciamano, i complimenti, il monologo sulle proprie imprese. Ovviamente, arrivò anche il momento del bacio. Natalia, che iniziava a essere di nuovo trascinata verso la nebbia, segno che l’effetto della pastiglia di Ivan stava scadendo, si ritrovò a pensare che quello stesso gesto portasse un sapore metallico. Non si accorse, al momento, che durante l’intero colloquio si era morsa l’interno della guancia fino a farla sanguinare, ma da lì in poi associò sempre quel carattere ad Alexei. Quello, e delle mani viscide che si facevano strada sul suo corpo come se appartenesse a loro.


 

A month later


Natalia non sapeva come si svolgessero i matrimoni delle persone “normali”, ma era sicura che non fosse così.

Alexei aveva continuato a farle visita regolarmente nel mese che precedeva la cerimonia, e lei aveva continuato a vivere annaspando nella foschia. A volte si chiedeva se non fosse già morta e finita all’Inferno. Nei pochi momenti in cui riusciva a formulare dei pensieri pensava a quanto le mancassero gli allenamenti, il ritmo che scandiva le sue giornate. Almeno allora si teneva occupata. Almeno allora riusciva a dettare la differenza tra gli incubi e la realtà. La mattina del fatidico giorno, la vennero a prendere presto. Madame B e Ivan si presentarono nella sua camera da letto, portando il vestito che avrebbe dovuto indossare. Se Natalia fosse stata in sé, avrebbe riso alla scelta di utilizzare un colore che indicasse la purezza, al rispetto della tradizione quasi come se lei fosse una fidanzata qualsiasi che andava a sposarsi con l’amore della sua vita. Ivan la aiutò a indossare il vestito, che era semplice ma molto elegante, e Madame B, con evidente disprezzo, a truccarsi. Ivan le diede un’altra pastiglia, e a lei sembrò di potere finalmente prendere una boccata d’aria sulla superficie degli abissi nei quali era rimasta intrappolata fino a quel momento. Per un momento meditò se rubargli l’intera confezione mentre lui era distratto, ma alla fine pensò che se ne sarebbe accorto e gliele avrebbero confiscate. Madame guardava lei e Ivan, impaziente di uscire da quella camera e finire con quella storia. Natalia si guardò allo specchio per un breve istante, approfittando del momento di tregua che le era stato concesso. Sembrava una bambola, la pelle bianca come la porcellana e il lungo vestito di seta. Probabilmente era quello della moglie di qualcuno dei suoi superiori, la Stanza non avrebbe mai speso un rublo per una ragione così futile. Al vedersi venne assalita da un tremendo sconforto, ma non riusciva a capire perché. Doveva essere felice. Avrebbe onorato la Stanza e tutti i suoi superiori. Finalmente Ivan e persino Madame sarebbero stati fieri di lei. Perché allora doveva sforzarsi a trattenere le lacrime?
Per qualche ragione, le saltò in mente l’immagine dell’uomo col braccio di metallo che popolava le sue allucinazioni ultimamente. La ricacciò via.
Non sapeva nemmeno chi fosse, non poteva essere importante.
-Muoviamoci.- Ordinò una spazientita Madame.
Ivan prese Natalia sotto braccio, come un padre che accompagnava la figlia all’altare, e insieme seguirono la donna fino a una delle stanze delle riunioni. Lì li attendeva seduta la solita delegazione di superiori, e a capo tavola, ovviamente, Alexei, vestito con un’uniforme da cerimonia che lei non gli aveva mai visto. Natalia prese posto al suo fianco, forzando un sorriso e cercando di evitare il suo sguardo da lì in poi. Senza ulteriori indugi, Madame B estrasse un fascicolo ben rilegato. Spiegò brevemente che si trattava delle condizioni del matrimonio, di ciò che avrebbe comportato in futuro e dei piani che il KGB aveva per entrambi. Perché fosse effettivo, tutti i presenti in sala dovevano firmarlo. Né ad Alexei né a Natalia fu permesso di aprirlo e leggerlo. Le loro firme erano una pura formalità. La rossa cercò per quasi tutto il tempo lo sguardo di Ivan, che da parte sua invece sembrava ostinato a evitare. Il sorriso di poco prima era scomparso, e ora aveva un’espressione quasi colpevole.
I due neo sposi vennero poi portati, insieme a una parte della delegazione di superiori, in un altro ambiente adibito a cappella che la rossa non aveva mai visto. Era incredibile come pur avendo sempre vissuto in quella villa, non conoscesse nemmeno la metà delle stanze che la componevano. Questa era piuttosto spaziosa, ma quasi vuota. In fondo alla sala c’era un altare pieno di candele, e dietro di questo un enorme crocifisso in legno che occupava l’intera altezza della parete.
Fu compito di Ivan celebrare una breve cerimonia che si avvicinasse alla tradizione, probabilmente più per serbare le apparenze di un matrimonio vero e non solo di un gioco di potere del KGB. Alexei e Natalia si ritrovarono a giurare davanti a una Bibbia che si sarebbero amati fino a che morte non li avesse separati. La rossa era stata addestrata per essere una maestra della finzione, ma dovette comunque usare tutti gli insegnamenti appresi per risultare credibile. Non credeva di avere mai pronunciato parole più vuote, non per un uomo che non apprezzava e in nome di un Dio che anche fosse esistito, l’aveva abbandonata quando era ancora una bambina. D’altra parte, sapeva che nessuno nella stanza si trovava lì per devozione all’Altissimo. Il matrimonio si era concluso con la loro firma su un foglio bianco, pochi minuti prima. I due sposi si scambiarono degli anelli, che erano chiaramente stati fusi in diversi punti per nascondere i precedenti proprietari, presumibilmente passati a miglior vita. Si baciarono quando Ivan terminò di celebrare quella farsa, e percorsero la navata per recarsi verso la camera a loro riservata. Giusto in tempo, pensò Natalia mentre la nebbia tornava a salire fitta intorno a lei. Per la prima volta, però, la accolse con gratitudine. Alexei aveva giusto avuto il buon senso di chiudere la porta prima che le sue mani si gettassero un altra volta su di lei, svestendola del bell’abito con poca grazia, soffermandosi sulle sue curve. Dubitava di voler essere lucida durante ciò che sarebbe successo di lì a poco, di cui negli anni a venire si sarebbe ricordata solo l’intorpidimento e l’ormai familiare dolore.


A day later


Natalia fece a mala pena in tempo ad accorgersi di essere rimasta sola nel letto prima che le forti braccia di due guardie la sollevassero di peso e si ritrovasse davanti al viso severo di Madame. La rossa tentò di divincolarsi dalla presa delle guardie per coprire il suo corpo ancora svestito, ma queste non la mollarono finché la donna non diede loro il permesso con un cenno del capo.
-Uniforme. Ora.- Si rivolse a lei, adesso.
Natalia fece tanto in fretta quanto la sua mente e il suo corpo glielo permettessero nelle condizioni in cui si trovava. I suoi pensieri erano troppo
offuscati per chiedersi dove fosse andato Alexei, o cosa ci facesse Madame nella loro stanza con due guardie al suo seguito. Appena fu pronta, queste ultime la presero di forza dalle braccia e la costrinsero a seguire la donna giù per le scale, verso il seminterrato. Anche in quello stato di ottenebramento, si rese conto che scese le scale non girarono verso le sale mediche in cui era già stata, ma verso una porta a fondo corridoio dove era tassativamente vietato l’ingresso a tutti. Non aveva mai visto nessuno entrare o uscire. Madame spalancò la porta, e Natalia si trovò davanti a un altro corridoio, più stretto questa volta e illuminato solo dalla luce soffusa di alcune lampadine che pendevano dal soffitto. I muri erano ricoperti da mattonelle bianche e nere, abbastanza lucide da riflettere il poco di luce ma nell’insieme piuttosto rovinate. C’erano porte di legno e vetro per tutta la lunghezza del corridoio. Sembrava essere vuoto, al di fuori di loro quattro.
-
Cosa... Cosa ci facciamo qui?- Riuscì ad articolare la rossa, con una fatica immane. Madame sorrise.
-La Cerimonia di Laurea, Natalia. È necessaria perché tu prenda posto nel mondo.- Rispose, come un automa. Quante volte le aveva sentito pronunciare la stessa frase?
-Non ho un posto nel mondo-
Udì la propria voce replicare.
-
Esatto.
Una mano, non riuscì a identificare di chi, le si parò sul viso e la spinse verso il basso. Si ritrovò distesa su una superficie gelida di metallo, che si rese conto dopo un attimo essere una barella.
L’ormai familiare nebbia e un terrore che non sapeva identificare la attanagliavano. I suoi polsi vennero legati, la barella iniziò a muoversi. Il cigolio delle ruote rimbombava nel corridoio. Natalia si guardava intorno, cercando di dare un senso a ciò che stava succedendo, distinguere cosa fosse vero e cosa fosse frutto delle allucinazioni. Non riusciva a piegare la testa abbastanza da vedere chi la stesse spingendo. Mentre passavano davanti alle porte, iniziò a vedere figure di bambine ben vestite senza bocca che comparivano e scomparivano, e la fissavano con aria triste. Non riuscì a capire quanto di quello fosse reale. Le sembrò di rimanere sulla barella per ore, più di una volta si chiese quanta strada stessero facendo, se si sarebbero mai fermati. Raggiunsero il fondo, davanti a una porta che portava una targa con su inciso “ОПЕРАЦИОННАЯ” (sala operatoria). Venne portata dentro, sollevata dalla barella e spostata su un lettino, legata ai polsi e alle caviglie. Si accorse troppo tardi del medico che infilò un ago nel suo braccio. Dopodiché, la nebbia aumentò e le sembrò di non essere più padrona del suo stesso corpo. L’ultima cosa che vide prima di cadere nell’oblio furono un tavolino con una ciotola d’acqua, garze e forbici e dei dottori con una mascherina che le sollevavano la maglietta e si apprestavano a incidere il suo ventre.


Quando si svegliò, la nebbia ancora non si era diradata. Avvertiva un dolore sordo all’altezza della pancia. Provò a muoversi, ma desistette presto. Oltre a essere ancora legata, sentiva la pelle tirarle, segno che avevano ricucito la ferita, che doveva essere piuttosto larga. Si guardò intorno, ancora mezza addormentata, in cerca dei medici, di Madame o di qualunque segno di vita. Niente. In compenso, si rese conto di non trovarsi nella stessa stanza; questa era molto più piccola e buia. Anche la sedia alla quale era legata era diversa: era decisamente più scomoda, e intorno ai suoi arti c’era un macchinario a cui erano attaccate diverse siringhe piene di un liquido bluastro. Natalia faticava a respirare, il terrore tornò a serrarle la gola in una morsa. Si sentiva nauseata, avrebbe voluto piangere. Tutto intorno a lei era appannato, l’unica cosa che le impediva di impazzire completamente era la paura. Quella, e il dolore. Aveva l’impressione che le avessero appena sottratto una parte di lei, e così era, anche se lei ancora non poteva saperlo, d’altronde nessuno le aveva detto che la sterilizzazione era parte della Cerimonia. Un gemito sfuggì dalle sue labbra. Le lasciarono ancora qualche minuto di tregua, sola nella sua disperazione. Quando udì qualcuno entrare e avvicinarsi, si era già rassegnata. Avrebbe sopportato qualsiasi cosa, ora. Cos’altro avrebbero potuto farle, ancora?
Udì un vociare indistinto
e i macchinari intorno a lei accendersi. Ci fu un altro attimo di calma e poi, senza nessun preavviso, la macchina si chiuse intorno alle sue braccia, gambe e petto, le siringhe si piantarono dentro al suo corpo all’unisono. Natalia non riuscì a trattenere un urlo strozzato. Le siringhe si svuotarono velocemente, e passarono pochi attimi prima che la nebbia si diradasse, lasciandola completamente lucida.
Il siero della Vedova Nera, il nome con cui lei avrebbe in seguito identificato quel liquido, era stato inizialmente progettato per assomigliare a quello di Captain America: rendeva il loro organismo immune da qualsiasi malattia o da qualsiasi sostanza esterna, guariva le ferite molto più velocemente del normale, rallentava l’invecchiamento di quasi
dieci volte, aumentava la loro forza e resistenza. Su quest’ultimo punto, tuttavia, il KGB non era mai riuscito a eguagliare il siero americano, come non era mai arrivato a far funzionare il siero da solo. Durante tutto il periodo dell’addestramento, infatti, alle Vedove erano somministrate diverse sostanze per ritardare il passare degli anni e per renderle più forti, in vista della Cerimonia di Laurea. Lo stesso farmaco che le rendeva così ottenebrate prima di questa era necessario perché il siero non le uccidesse.
Natalia, però, era ignara di tutto quello. Ciò che invece sapeva perfettamente, era che già sentiva la mancanza della nebbia, in grado di mascherare almeno parte del dolore. Il suo corpo era scosso da violenti spasmi, cercava di ribellarsi al siero, ma sembrava sul punto di scoppiare, la pelle prossima alla lacerazione. La rossa era convinta che sarebbe morta, in quel luogo e in pochi attimi, di una morte tremenda ma in quel momento ben accetta. Lo sperò, pregò incessantemente perché accadesse a breve, urlò suppliche al vento. Eppure, non successe. Chiunque fosse lì con lei abbandonò presto la sala, mentre lei continuava a urlare, gemere e implorare a vuoto, un’agonia che sembrò durare un’eternità.
Complimenti Natalia, le sembrò di udire, ma probabilmente era solo la sua immaginazione. Sei laureata. Sei una Vedova Nera.


 

“Ti sei mai sentita annientata?”, le avrebbero chiesto anni dopo, in un’altra vita, in una situazione completamente diversa.


Prendi una bambina.
Toglile i ricordi, ciò che la rende se stessa.
Toglile il diritto ad avere un’infanzia.
Toglile il diritto ad avere degli amici.
Toglile l’innocenza.
Toglile la libertà.
Toglile la fiducia in chiunque la circondi, lasciala sola.
Toglile la possibilità di avere il controllo della propria vita.
Toglile l’amore e le persone che ama.
Toglile la propria volontà.
Toglile la facoltà di scelta.
Toglile la fiducia in tutto e tutti, soprattutto se stessa.
Toglile la vita, ma non ucciderla.
Prendi una bambina, toglile tutto.
Forgiane un’arma al tuo completo servizio.
Prendi una bambina, fanne una Vedova Nera.


“Ti sei mai sentita annientata?”
“Ogni giorno.”

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Capitolo 19
*** XIX. ***


XIX.

 

The truth is a matter of circumstances.

It's not all things

to all people

all the time.

(Natasha Romanoff – Captain America: The Winter Soldier)

 

 

Volzhsky, Russia

48°20’N 44°30’E

Friday, 18th December 2015

4.39pm

 

Natasha prese un altro sorso di birra. Si era ritrovata con un bel rompicapo tra le mani. Facendo attenzione a non pestare nessuna delle schede che le aveva dato Bucky, disposte sul pavimento della camera del piccolo motel di Volzhsky, poco fuori a Volgrograd, si avvicinò alla piccola tavola al centro della stanza. Vi salì per avere una visuale migliore del disegno che avrebbero dovuto comporre le schede nere. Ancora una volta niente, come d’altronde l’aveva già avvertita il Soldato d’Inverno. Sospirò, ed estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans. Mettendosi in punta di piedi, scattò una foto dell’insieme e scese dal tavolo con un balzo. Se non era un disegno, ipotizzò, poteva trattarsi di una mappa. Magari tutti i buchi corrispondevano a luoghi geografici. Magari sarebbe riuscita a scoprire dove si trovasse la nuova Stanza. O magari si sarebbe trovata di fronte all’ennesimo vicolo cieco. Collegò il telefono al computer, e lasciò che i programmi dello SHIELD eseguissero controlli incrociati di ogni possibile pattern delle schede con le cartine di Paesi, città, persino metropolitane ed edifici. Ringraziò mentalmente l’agente Fitz della squadra di Coulson per aver perfezionato il programma e averle risparmiato ore e ore di ricerche a vuoto.

Fortunatamente lo SHIELD non l’aveva ancora tagliata fuori dai sistemi operativi negandole l’accesso... Una dimenticanza esagerata, un errore troppo grossolano per essere casuale. Doveva ancora avere amici al Triskelion, dopotutto, anche se non avrebbe saputo dire chi. Maria? Coulson? Dubitava fortemente si trattasse di Fury e tantomeno di Clint. Probabilmente era May.

Sbadigliò. Il programma prevedeva un paio d’ore alla fine della ricerca. Si strinse nella felpa dello SHIELD e si avvicinò alla sgangherata finestra per guardare fuori. La strada, tre piani più in basso, era vuota e coperta da una coltre bianca. Tutto era immobile, a eccezione delle luci natalizie appese su ogni casa e negozio. Quasi le venne da sorridere. Presa com’era dalle sue indagini continuava a dimenticarsi che il Natale era alle porte. Non che lei l’avesse mai celebrato in grande stile, ovviamente, ma negli ultimi anni si era assuefatta al clima che pervadeva New York in quel periodo. Le decorazioni ovunque, i gruppi che intonavano carole, il gigantesco albero e la pista di pattinaggio al Rockfeller Center, i pupazzi di neve a Central Park. Persino allo SHIELD capitava spesso che si organizzassero cene di Natale tra agenti e colleghi, e anche se Clint doveva spesso pregarla per ore per dissuaderla ad andare con lui, alla fine risultavano gradevoli.

Durante gli ultimi anni, poi, Stark aveva organizzato delle feste alla base degli Avengers. Non erano niente male ed erano sempre piuttosto intime; evento raro per Stark, in genere propenso per il “più siamo, meglio è”. Natasha partecipava quasi volentieri, anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura. La musica era piacevole e non mancava mai qualcosa da bere. Si parlava sempre del più e del meno, quasi ci si dimenticava del peso e del prezzo di essere degli Avengers. Quelle sere erano solo amici che si ritrovavano per festeggiare. Tutti gli anni poi, puntualmente, a un certo punto della serata raggiungevano tutti un tasso alcolemico abbastanza elevato da decidere di tentare di sollevare il martello di Thor. “Vediamo chi è sulla lista dei buoni di Odino questo Natale”, esordiva Tony ogni volta. Natasha e Steve, forzatamente sobri, si divertivano a osservarli lottare contro Mijolnir con un’ostinazione che sfociava nel ridicolo. A un certo punto, e dopo numerose preghiere, Steve si lasciava convincere a fare un tentativo e ogni anno riusciva a spostarlo di qualche centimetro, esortato dal tifo sfegatato dello stesso Thor.

Con il passare degli anni, l’invito a quelle feste si era esteso anche a un ridotto numero di agenti dello SHIELD, tra cui Maria Hill, e un paio di altri “intimi”, che solitamente finivano per essere le compagne degli Avengers. Natasha conosceva queste ultime solo dai racconti dei suoi compagni, ma si erano rivelate una compagnia piacevole. Non che passasse ore a parlare con loro, ovviamente, ma non le dispiaceva non essere più l’unica donna a quelle feste.

La presenza di Pepper aveva ridotto i commenti impropri di Stark al minimo, cosa di cui la rossa non poteva che essere grata. Miss Potts all’inizio era ancora restia a parlare con Natasha, anche dopo tutto quel tempo, ma si era presto abituata alla sua presenza. Per qualche ragione, la temibile Vedova Nera non costituiva una minaccia tanto quanto la docile e servizievole Natalie Rushman, almeno ai suoi occhi.

Jane Foster era probabilmente l’ultima persona che chiunque si sarebbe aspettato di vedere con Thor ma probabilmente era per quello che andavano così d’accordo. Lei, mingherlina com’era, sembrava quasi scomparire al fianco del gigantesco Dio del Tuono. Eppure, dopo un bicchiere, era difficile non notarla: parlava tanto e volentieri con tutti, faceva domande, rideva e scherzava. Una delle persone più intelligenti che Natasha avesse conosciuto. Nessuno si era stupito quando aveva stretto amicizia con Betty Ross.

Betty e Banner, al contrario di Jane e Thor, erano incredibilmente simili. Quando arrivavano era sempre difficile decidere chi fosse più a disagio tra i due. Appena lei aveva conosciuto Jane, tuttavia, sembrava essersi sciolta. La prima volta erano rimaste ore a discutere con trasporto rispettivamente, almeno all’inizio, di astrofisica e biologia.

Natasha si chiese se anche quell’anno Stark avesse deciso di organizzare la solita festa. Probabilmente sì, non sarebbe di certo stata la sua improvvisa scomparsa a separare gli Avengers. Senza nemmeno accorgersene, Natasha si trovò a cercare di ricordare che decorazioni ci fossero alla festa dell’anno precedente. Tony, come c’era da aspettarsi, le cambiava ogni anno, sempre più appariscenti. Non ricordava molto bene l’ultima festa. Non era rimasta a lungo, Fury l’aveva chiamata poco dopo l’inizio. Con i recenti attacchi dell’HYDRA*, lo SHIELD non le dava tregua.

Quella di due anni prima, invece, la ricordava perfettamente. Era appena tornata da una missione sull’altra costa, e si era presentata piuttosto controvoglia. Ci aveva messo un po’ a ripulirsi dalla polvere e dal sangue, ancora di più a trovare un vestito che nascondesse le ferite sulle braccia e sulla schiena, e decisamente troppo a camuffare le occhiaie e i segni della stanchezza. Se Clint non avesse intasato la sua casella vocale di messaggi, probabilmente ne avrebbe fatto a meno. Sicuramente ne avrebbe fatto a meno, si era corretta appena era arrivata davanti allo spettacolo di tutti gli Avengers che festeggiavano, la musica abbastanza alta da rimbombare nella sua testa. Nessuna traccia di Occhio di Falco. Che infame, era stato il suo primo pensiero. L’unico ad accorgersi della sua presenza era stato Steve, che era arrivato a salutarla. Meglio per lei, non voleva che gli altri vedessero che aveva un regalo per lui, dato che la regola delle feste di Stark era che l’unica cosa da portare era la propria persona. Chiamarlo regalo, certo, era eccessivo. Era solo un quadernetto che Clint era riuscito a rubare dalle riserve dello SHIELD ma non aveva mai usato, su cui si era messa ad annotare tutti i film, tutta la musica, tutti i libri che si era perso durante gli anni nel ghiaccio. Sapeva che Cap ne teneva già una, ma era molto più ridotta. Di sicuro non aveva tutta la sezione di videogiochi e migliori pizzerie di New York che Occhio di Falco si era divertito ad aggiungerci. A Steve sembrava essere piaciuto molto, e probabilmente avrebbe passato il resto della serata a scusarsi di non avere niente per lei, se un Tony particolarmente brillo e con tanto di armatura non fosse arrivato a trascinarlo nuovamente nel vivo della festa.

-Romanoff, sei indietro di almeno cinque bicchieri!- Aveva aggiunto Iron Man, di schiena mentre si avvicinava agli altri Avengers, l’unico segnale che si fosse reso conto della sua presenza. Il fatto che non potessero ubriacarsi non gli aveva mai impedito di fare in modo che lei e Cap si tenessero al passo con gli altri. L’unico esentato dalle manie di Stark era Banner, per ovvie ragioni.

Aveva afferrato una birra e si era rintanata in cucina, dove la musica e le voci degli Avengers arrivavano ovattate. Si era seduta al tavolo, guardando un punto imprecisato davanti a sé, godendosi qualche minuto di quiete.

L’aveva sentito arrivare, ma non si era voltata. Lo conosceva abbastanza bene da saper distinguere anche i suoi passi. Aveva continuato a far finta di niente fino a quando le sue braccia le avevano circondato la vita, fino a quando aveva avvertito il suo respiro accarezzarle il collo.

-Sei venuta davvero.- La nota sorpresa della sua voce la fece sorridere.

-La mia pazienza mi permette di ignorare solo un certo numero di messaggi in segreteria. Non potevo sopportare di ascoltare la tua voce che usciva da ogni telefono ancora per molto.

-Adoro quando torni dalle missioni, sei sempre così dolce.- Clint l’aveva liberata dall’abbraccio ora, era andato a sedersi dall’altra parte del tavolo, davanti a lei, dove finalmente poteva vederlo. Sembrava stanco, probabilmente aveva dovuto sostituirla per qualche turno allo SHIELD, e doveva essersi dimenticato di radersi la barba per un paio di giorni. A parte quello, sorrideva. Stringeva anche lui una birra in mano, e si era vestito relativamente bene, per uno il cui armadio consiste in una pila di magliette sul pavimento e jeans buttati su una sedia. Erano rimasti in silenzio qualche minuto, poi lui aveva iniziato a frugare nella tasca della giacca e aveva estratto una scatolina con un fiocco rosso. Gliel’aveva tesa.

-Buon compleanno.

Natasha non aveva idea di quando fosse il suo compleanno. Sapeva l’anno in cui era nata, ma non il giorno; per lo SHIELD si era inventata una data, e aveva detto a Fury di essere nata nel 1984. Nessuno sapeva della sua vera età, tranne Clint... E James, ovviamente, ma all’epoca lei lo credeva morto. Così, Occhio di Falco si divertiva ogni anno a spuntare con un regalo in un giorno qualsiasi, augurandole buon compleanno.

-Avanti, aprilo.

L’aveva aperto, e una volta sollevati gli occhi, si era trovata davanti al ghigno divertito di lui, che aspettava la sua reazione. Sapeva proprio essere un bambino, a volte.

-Scordatelo.- Aveva detto lei con l’espressione più seria che era riuscita a fare.

-Non c’è di che, Nat. Contieni il tuo entusiasmo.- Il suo sorrisetto non era mutato di una virgola. Si aspettava quella reazione, era probabilmente la ragione per cui aveva deciso di donarle tra tutte le cose, proprio quello, come mera provocazione. La scatolina era ancora davanti a lei, la collana a forma di freccia che vi era all’interno ancora così come l’aveva trovata.

-Dovrai farla indossare al mio cadavere.- Aveva replicato lei.

-Non esserne tanto sicura, Romanoff.

E infatti aveva finito per indossarla. Certo, solo un paio di volte in cui era stata lei ad aver perso una scommessa contro di lui, ma comunque abbastanza perché gli altri la notassero.

Ora giaceva nella sua scatola in qualche cassetto del suo vecchio appartamento a New York, insieme alla maggior parte delle sue cose, ammesso che lo SHIELD non avesse fatto irruzione e buttato via tutto.

Di colpo la stanza del motel si fece ancora più solitaria, con l’eco delle risate degli Avengers, la musica di Stark, la voce di Clint che le rimbombavano nella testa.

Forse si sarebbe potuta fermare un paio di giorni in più con James. Forse la parte del lupo solitario non le calzava più come una volta. Eppure, era l’unica che si potesse permettere.

Si allontanò dalla finestra, relegando i ricordi e i pensieri nell’angolo della mente riservato a ciò di cui avrebbe preferito fare a meno.

Afferrò la copia di Anna Karenina, lasciando il taccuino di Vasnetsov nel borsone. Aveva deciso che Tolstoj sarebbe stato un enigma più facile da risolvere delle parole di un pazzo. Quanto alla boccetta di liquido blu, non sapeva né cosa fosse né a cosa le potesse servire. Tutto quello che sapeva è che conteneva del DNA di un’altra Vedova Nera, morta da anni. Non poteva essere il siero che avevano iniettato a lei, l’avrebbe scoperto subito quando l’aveva portato da Lev, a Mosca, ad analizzare, e a vista non sembrava nemmeno dello stesso colore. Sperò che almeno dalle schede di James venisse fuori qualcosa di utile. Detestava non sapere cosa fare, non riuscire a decifrare la Stanza Rossa. Chissà quali atrocità erano in corso mentre lei rimaneva con le mani in mano, ignara.

Si sedette sulla poltrona e ricominciò, per l’ennesima volta, a leggere le pagine cerchiate del libro, cercando di trovare una connessione tra le parole, i numeri, le frasi, qualsiasi cosa.

“Nel cuore di Kitty ogni cosa, il ballo, il mondo intero, si coprì di nebbia. Soltanto la severa educazione ricevuta la sosteneva e l'obbligava a fare quello che da lei si pretendeva, cioè ballare, rispondere alle domande, parlare, sorridere persino. ”

Natasha si chiese se non fosse altro che una presa in giro della Stanza, dopotutto. Potevano quelle parole essere state scelte accidentalmente? Ne dubitava, non lasciavano mai niente al caso.

Avrebbero mai finito di giocare con la sua mente?

 

Anna e Vronsky erano appena partiti per l’Europa quando finalmente dal computer arrivò la notifica che indicava che la ricerca era completa. Con un sospiro, si alzò. Come si aspettava, i risultati non mancavano, d’altra parte, le possibili combinazioni erano molte. Provò a filtrare ciò che aveva ottenuto: i risultati in Russia erano molto più limitati. Le coincidenze tra i pattern e le cartine o punti trovati, tuttavia, non erano perfetti. Le sembrava strano che la Stanza lasciasse imprecisioni, non era nel loro stile. L’unica corrispondenza tra il disegno che formavano le schede e un luogo geografico che sembrava combaciare, anche se con qualche sottile inesattezza, era quella con la mappa di un piano del Palazzo d’Inverno, o meglio del museo dell’Hermitage. Natasha si passò una mano tra i capelli, sconsolata. Dubitava che la Stanza nascondesse qualcosa in un museo a San Pietroburgo, uno dei più visitati al mondo. La intrigava, tuttavia, il fatto che fosse spuntato il nome della residenza degli zar Romanov. Forse era davvero una coincidenza, questa volta, in fondo lei non era l’unica Vedova uscita dalla Stanza, ma l’attirava comunque. Si ricordava ancora di quando, un’infinità di anni addietro, il Soldato d’Inverno aveva rubato il suo fascicolo agli archivi della Stanza. Si ricordava che il nome degli zar compariva, c’era un’intera sezione su di loro, ma non aveva mai capito quanto di quella storia appartenesse a lei. Ignorava quanto peso avesse il suo cognome. Per quanto ne sapeva lei, poteva anche esserselo inventato la Stanza per dire di avere un discendente della famiglia reale tra le stirpe. In un’epoca che aveva rinnegato gli zar, dimostrare di aver piegato un successore al KGB e al nuovo governo avrebbe di sicuro fatto comodo. Erano tra gli anni più oscuri che la Russia avesse mai passato, tra guerre mondiali e civili, rivolte, un’Europa che si sfasciava, governi che cadevano. Un’epoca tanto macchiata di sangue quanto impregnata di terrore. Ogni singola persona era una pedina in un enorme gioco di scacchi dal risultato incerto, ma con giocatori scaltri e senza scrupoli al comando. Natasha non conosceva un altro mondo precedente alla Stanza Rossa, e l’idea di recarsi al Palazzo d’Inverno l’affascinava più di quanto avrebbe voluto ammettere. Soppesò le sue opzioni. Temeva rappresentasse l’ennesimo fiasco delle sue indagini, ma d’altra parte, aveva forse piste migliori? Aveva qualcosa da perdere?

La sensazione di aver esaurito tutti gli assi che aveva nella manica non la abbandonò per un attimo mentre controllava gli orari dei treni per San Pietroburgo.

 

 

 

 

*N.d.a: per far quadrare qualche dettaglio, ho dovuto cambiare la trama di Captain America: The Winter Soldier. Gli attacchi dell’HYDRA, Soldato d’Inverno compreso, ci sono stati, ma lo SHIELD non è caduto.

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