It's too cliché di Sapphire_ (/viewuser.php?uid=57477)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Buon
pomeriggio a tutti!
Mi
presento, sono Sapphire_ è questa è la mia prima
storia nel fandom
delle originali romantiche qui su EFP. Anche se a dire il vero ne ho
una miriade tra le mie cartelle del pc, ho deciso di pubblicare
questa (che per ora è ferma al terzo capitolo)
perché, non so per
quale motivo, ci sono particolarmente legata.
L'idea
mi è venuta in mente da tanto, tipo due estati fa, e avevo
buttato
giù giusto la prima parte, ma in quest'ultimo periodo l'ho
rispolverata e ho pensato “perché non pubblicarla
e vedere se
potrebbe piacere a qualcuno?”; e così ho fatto.
Questo
primo capitolo, tutto sommato, mi piace, anche se ci sono alcune
cosucce che aggiusterei, ma ho preferito lasciarlo così
com'è per
non so quale precisa ragione – anche se forse un po' di
pigrizia
c'è.
Come
ho accennato prima il secondo capitolo è pronto e il terzo
quasi
finito, per gli altri invece non so quanto tempo avrò, dato
che
quest'anno sono di maturità e non potrò dedicare
troppo tempo alla
scrittura dato che ho anche un'altra storia in corso che non voglio
abbandonare. Però prometto di trovare un equilibrio!
Detto
ciò, vi auguro una buona lettura! Se qualcuno volesse
lasciarmi un
commento, qualunque esso sia per poter anche migliorare, mi farebbe
tantissimo piacere!
Di
nuovo buona lettura!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo
uno
Lo
vide. Lo riconobbe in mezzo alla folla. Sapeva che era lui quello
perfetto, che lo doveva assolutamente avere, e iniziò a
farsi strada
tra la folla di ragazze che la circondavano. Sui suoi fedeli tacchi
dodici traballò ma non mollò, era vicina, ce
l'aveva quasi fatta,
eccolo
lì...
«MIO!»
Lo
strillo acuto e colmo di gioia attirò l'attenzione di alcune
persone
all'interno del negozio, che finirono per guardare April chi con
divertimento, chi con sorpresa al vedere cosa stringeva con quella
morsa ferrea.
«Ah,
è bellissimo!»
Osservò
con sguardo soddisfatto il completino in pizzo rosso fuoco su cui era
riuscita a mettere le mani, sfiorando compiaciuta il tessuto con le
mani dalle unghie ovviamente laccate di rosso scarlatto. L'aveva
visto quando era ancora dall'altra parte del negozio di intimo,
mentre era alla ricerca di qualcosa che l'attirasse, e subito aveva
sentito il legame che li legava ormai indissolubilmente.
«Prendo
questo» tubò felice, spostandosi una ciocca bionda
da sopra gli
occhiali rossi.
La
commessa, una ragazza tutta boccoli e profumo, sorrise e prese il
completo, per metterlo poi in un sacchetto di carta col logo del
negozio e accettando i soldi che April le porgeva.
«Grazie
mille e arrivederci»
Ma
le parole giungevano lontane e vaghe alle orecchie di April,
rinchiusa nella bolla dorata chiamatasi
ho-fatto-un-nuovo-bellissimo-e-(forse)-inutile-acquisto.
Ed
eccola lì la porta, stava per uscire, era solo un passo, ma
il
richiamo dello shopping compulsivo la fece voltare verso altri
completi – erano
in sconto accidenti!
- ma no, non poteva passare, c'era qualcuno a bloccarle il passaggio
ma se ne accorse troppo tardi e, voilà,
sedere all'aria.
E
April proprio non riuscì a frenare la lingua.
«Ma
sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota
che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli
occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide
niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto,
bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro
e un importantissimo dettaglio.
«Che
bellissimi capelli rossi!»
Quasi
si lanciò sul ragazzo che la guardò sbalordito
per la strana – e
imbarazzante
verrebbe da aggiungere – reazione di April.
Gli
sorrise luminosa, dimentica del fatto che era colpa sua se aveva
fatto una scivolata in grande stile di fronte a tutto il negozio,
concentrata unicamente sui capelli del giovane.
«Sono
rossi naturali?» chiese, mettendo le mani morbide e curate
tra i
capelli del ragazzo. Questo, dopo un primo secondo di smarrimento, si
allontanò scocciato e colpendola alla mano per fargliela
spostare.
«Non
credo ti possa interessare. La prossima volta guarda dove metti i
piedi» rispose secco il giovane.
Senza
guardarla più di un secondo – anzi, sfuggendo in
tutti modo allo
sguardo verde assoluto di April – si affrettò a
cogliere il
pacchetto che gli era scivolato da terra ed uscì di gran
lena dal
negozio, lasciando la povera ragazza con uno sguardo deluso e
affascinato da quei fantastici – e anche morbidi, aveva
potuto
appurare – capelli rossi.
«Che
peccato che sia scappato così in fretta. Potevamo fare
amicizia»
borbottò April, chinandosi per prendere il pacchetto che era
caduto
anche a lei.
Quando
però lanciò una veloce occhiata al suo interno,
diventò pallida
come un morto.
«La
mia lingerie!»
Calmati
idiota. Calma. Era solo una semplice ragazza. Non spaventarti,
è
tutto a posto. Ora è lontana.
A
ripetersi quelle parole in testa, Aaron Marlowe, ventisei anni e un
promettente futuro da game designer, si sentiva veramente
stupido.
Solo
che non poteva, era più forte di lui, non riusciva a far
calmare
quel maledetto cuore che batteva all'impazzata, spaventato
all'inverosimile da...
«Una
ragazza. È solo una ragazza. Non devo aver paura di lei, non
mi farà
niente, è anche lontana. Avanti Aaron, comportati da uomo
cazzo!»
Tra
le vie di New York, anche se stava chiaramente parlando da solo,
nessuno gli lanciò più di un'occhiata, rendendolo
libero di
continuare a tentare di convincersi che cazzo
doveva stare tranquillo, perché aveva parlato con una
ragazza, non
incontrato un serial killer.
Eh
già, era parecchio imbarazzante. Ventisei anni suonati e
Aaron aveva
una fottuta
paura
delle ragazze. Non riusciva a parlar loro, a guardarle per
più di un
minuto e otto secondi – già, era stato addirittura
cronometrato.
Le guardava e non vedeva delle carine e adorabili donne con un paio
di tette e qualcosa a cui tutti gli uomini aspiravano, no, lui vedeva
dei mostri assetati di sangue che se avesse fatto qualche scatto
improvviso gli sarebbero saltate al collo – sì
esatto, come con
gli animali feroci: bisognava muoversi lentamente e con cautela, in
questo modo non gli avrebbero fatto del male.
E
lui non sarebbe morto di crepacuore a neanche trent'anni.
Entrò
in automatico allo Starbucks che gli si pose di fronte agli occhi,
sapendo già di essere in ritardo quando incontrò
lo sguardo di Tom,
suo migliore amico da vent'anni, che lo fissava seccato.
«Quindici
minuti di ritardo. E tu sai quanto odio le persone
ritardatarie, vero?» sibilò infastidito Tom.
Con
neri capelli mossi, sguardo freddo e da cattivo ragazzo, vestito con
abiti più grandi di almeno una taglia, Tom Evans sembrava
più il
tipo che faceva aspettare le persone per ore, piuttosto il precisino
che era effettivamente. In ogni caso Aaron a malapena lo
sentì,
preso com'era ancora a riprendersi. E l'amico se ne accorse subito.
«Qualcuno
qui sembra piuttosto scosso. Cos'è, una ragazza ti ha
guardato per
un secondo di troppo?» ironizzò, inarcando un
sopracciglio su cui
faceva mostra un piercing orizzontale. Aaron rimase per un attimo in
silenzio, a disagio, poi rispose.
«Ci
siamo scontrati e mi è quasi caduta addosso»
borbottò, mentre
poggiava distrattamente la busta del negozio sul tavolo, affianco al
bicchiere di caffè dell'amico, nella quale un
“Tom” accompagnato
da uno smile spiccava di un lucido nero.
Tom
scoppiò a ridere.
«Oh
avanti Aaron! Vi siete solo scontrati, non ha cercato di mangiarti!
Stai tranquillo» cercò di rassicurarlo tra le
risa. Aaron sollevò
di scatto gli occhi nocciola, che in quel momento apparivano
terrorizzati.
«Tu
non capisci! Lei... Io... Entrambi guardavamo da un'altra parte e lei
mi è praticamente andata addosso. Ho sentito tutto,
capisci?»
quasi strillò isterico.
«Oh,
immagino cosa tu possa aver sentito» ironizzò
l'altro.
A
quelle parole, Aaron prima arrossì come un tredicenne e poi
sbiancò.
«Oddio...»
«Suvvia
Aaron, è stato solo un piccolo incidente. Ora o stai
tranquillo o
fatti una seduta dallo psicologo perché, amico, la
situazione ti sta
proprio sfuggendo di mano»
Il
rosso fece una smorfia al solo pensiero di ritrovarsi ad andare da
uno di quei tizi.
«No
grazie. Sto bene così» borbottò.
«Oh,
si vede» rispose ironico Tom. Poi allungò una mano
verso la busta,
più incuriosito che veramente interessato.
«Piuttosto,
fai vedere che hai comprato»
Aprì
il sacchetto tranquillo, per poi bloccarsi osservando ciò
che c'era
al suo interno.
«Ehi,
per caso quando ti sei scontrato con quella tizia ti è
caduta la
busta?» chiese senza alcun tono particolare. Aaron
aggrottò le
sopracciglia.
«Mi
pare di sì. Perché?»
Tom
sorrise, improvvisamente divertito; infilò poi la mano
dentro la
busta.
«Perché
o ti piace indossare intimo femminile – cosa che avrei
già saputo,
credimi – o dubito fortemente che questa lingerie sia
tua»
E
così dicendo, tirò fuori dal sacchetto delle
mutandine di pizzo
rosso fuoco.
Aaron
sbiancò.
«Oh
merda»
«Oh
merda!» strillò per l'ennesima volta
April, battendo i pugni
sul bancone di legno laccato e piagnucolando come ormai faceva da
più
di mezzora. Di fronte a lei May, sua amica da una vita, alzò
gli
occhi azzurri al cielo mentre sistemava dei documenti dietro il
banco.
«È
la millesima volta che lo ripeti, tesoro, e credo che continuare non
faccia ricomparire per magia il tuo adorato completo» disse.
April
sollevò la testa che stava continuando a sbattere sul legno,
mostrando gli occhi verdi arrossati e il trucco leggermente sbavato
dietro agli occhiali.
«Tu
non capisci! Noi due eravamo legati da un filo indissolubile,
i
nostri destini erano incrociati dalle stelle!»
strillò. May,
nonostante conoscesse April da quando erano ancora sul passeggino, la
fissò un poco sbalordita.
«Era
solo un completo April, non farla tragica. Perché non l'hai
ricomprato se proprio lo volevi?» chiese, iniziando a pinzare
dei
fogli tra loro.
«Credi
che non ci abbia provato?» borbottò la bionda,
sollevandosi del
tutto e tirando fuori dalla borsetta rosso ciliegia uno specchietto
rosso fragola «Sono andata dalla commessa ma a quanto pare
hanno
terminato la mia taglia. L'unica rimasta disponibile era quella che
avevo appena comprato, e quell'idiota se l'è
presa!» continuò
irata.
«Avanti,
non l'ha fatto apposta. In fondo lui potrebbe dire la stessa cosa di
te che gli hai preso i boxer. A proposito, ho notato la taglia:
sembra ben piazzato il tipino» scherzò May.
L'amica le lanciò uno
sguardo truce.
«Non
mi interessa la taglia dei suoi boxer, voglio solo riavere la mia
lingerie» continuò a lamentarsi, facendo
nuovamente sollevare al
cielo gli occhi dell'altra ragazza, che si sistemò un ciuffo
di
capelli castani che le era sfuggito dalla coda di cavallo.
«Beh,
a patto che tu lo rintracci – e dubito che tu ci riesca,
perché
siamo a New York – non credo lo rivedrai, mettiti il cuore in
pace»
«Mai!»
sibilò April, finendo di sistemarsi il trucco.
«Allora
buona fortuna tesoro» tagliò corto May, anche lei
terminando di
pinzare i vari documenti e ponendoli ordinatamente in fila.
«May!
Vieni qui!»
La
voce stridula del suo capo attirò la castana, che con un
sorriso di
scuse abbandonò l'amica.
April
si guardò intorno alla hall, ancora sconsolata, lasciando
scivolare
gli occhi su quel luogo che ormai conosceva a memoria – beh,
ogni
qualvolta avesse un problema, o un gossip da raccontare, o una
semplice voglia di parlare, si fiondava lì.
Le
piaceva quel posto – le agenzie matrimoniali in genere le
piacevano; trovava adorabile come delle persone si adoperassero in
tutti i modi per trovare l'anima gemella di qualcuno. Ciò
che più
amava del lavoro dell'amica non era quello però, ma la parte
relativa all'organizzazione dei matrimoni veri e propri. April amava
i matrimoni. Con tutto quel bianco, i fiori, la
felicità che si
poteva quasi toccare – ah! Fantastico!
Ma
lei era ancora ben lontana da un grande passo del genere.
Il
campanello alla sommità della porta di vetro
tintinnò, avvisando
che qualcuno stava entrando. April voltò appena lo sguardo,
e subito
venne attirata da una folta capigliatura rossa che le
ricordò
qualcuno.
«Buongiorno»
la donna salutò educata e con un sorriso pacato, spostando
con un
gesto elegante i lunghi capelli rossi dietro la schiena.
April
la fissò attentamente, attirata dalla chioma infuocata,
senza porsi
tanti problemi: era alta e sottile come un giunco, vestita con un
grazioso vestito color crema che le arrivava circa al ginocchio, con
una morbida scollatura e maniche a tre quarti; scarpe con un poco di
tacco, foulard bianco al collo e degli occhiali da sole sollevati sul
capo che le mantenevano i capelli.
Guardandola,
April morì un po' dentro alla vista di tutta quella eleganza
e
bellezza.
«Buongiorno»
borbottò, sentendosi all'improvviso a disagio nei suoi
altissimi
tacchi neri abbinati ai jeans a vita bassa e un top scuro; si strinse
più addosso la giacca, cercando di coprirsi e sentendosi
nuda.
«È
lei la signorina May Sharper?» si informò cortese
la donna. Ancora
più a disagio, April si sistemò gli occhiali con
un gesto nervoso.
«Emh,
no, io non lavoro qui. Aspetti un attimo, May si è dovuta
allontanare» rispose con tono basso.
La
donna le sorrise e la ringraziò con un cenno, rimanendo a
pochi
passi da lei.
April
continuava a sentirsi a disagio.
Oh
avanti idiota. Datti una calmata.
La
voce dentro di sé continuava a ripeterglielo, ma la
sensazione
spiacevole non voleva sparire. E lei sapeva perfettamente
perché,
mentre osservava la donna con la coda dell'occhio.
Ecco
quello che io non potrò mai essere: eleganza, finezza, e in
procinto
di sposarmi.
Già,
perché dubitava che la donna fosse lì per cercare
marito piuttosto
che organizzare il proprio matrimonio.
«Tutto
bene? Sembra una che è stata appena lasciata dal proprio
fidanzato»
La
voce della donna la colse impreparata, facendola sobbalzare.
Guardò
la nuova arrivata che la fissava con un pizzico di preoccupazione nel
volto sottile, anche un poco incuriosita.
April
scrollò le spalle.
«No
no, nulla di tutto questo. Ho solo perso una cosa» si
ritrovò a
rispondere. La donna le sorrise di nuovo.
«Meglio
così»
«Non
ho neanche un ragazzo» continuò April, ridendo in
maniera forzata.
Ma
perché gliel'hai detto? Mica le interessa, stupida!
«Davvero?»
e invece no, pareva proprio che le interessasse. La donna si
avvicinò
e le porse la mano.
«Comunque
molto piacere, io sono Rosalie Marlowe»
La
bionda si ritrovò a stringerle la mano quasi senza
accorgersene,
sorridendole di rimando e sentendo la sensazione di disagio
abbandonarla, forse tranquillizzata dalla gentilezza dell'altra.
«April
Montgomery, piacere mio» rispose.
Rosalie
continuò a sorriderle.
«Se
non hai un ragazzo, allora immagino tu sia qui per l'agenzia
matrimoniale»
April,
dentro di sé, si sorprese della curiosità della
donna; non le dava
l'impressione di una tipa indiscreta, ma quel modo di fare tranquillo
le fece piacere e la spinse a rispondere laddove in un altro caso
avrebbe sorvolato la domanda con fastidio.
«Oh
no, neanche per quello. May, la ragazza che si è appena
spostata, è
la mia amica e passo spesso a trovarla» spiegò.
Rosalie fece un
sorriso malizioso.
«Se
lavora qui e tu non hai un ragazzo, perché non ti ha mai
presentato
qualcuno?»
April
rise scuotendo il caschetto biondo.
«Ha
tentato più volte ma io non voglio –
cioè, mi piace un sacco
l'idea dell'agenzia matrimoniale, ma nonostante tutto ho un'idea
dell'amore fin troppo romantica e fiabesca e sono convinta che
troverò la mia anima gemella anche senza ricorrere a
un'agenzia,
semplicemente guidata dal mio destino» disse convinta.
A
quelle parole, Rosalie scoppiò a ridere, causando
l'imbarazzo
improvviso di April.
«Oh,
non arrossire, non rido di te! Trovo adorabile l'idea che tu ti sei
fatta dell'anima gemella, ma da quasi trentenne mi viene da avvisarti
che è molto difficile trovarla senza qualche aiutino esterno
o senza
particolare fortuna»
April
la guardò incuriosita.
«E
tu? Come hai fatto a trovare la tua?» domandò.
Rosalie la guardò
ironica.
«Chi
ti dice che non sia qui per l'agenzia matrimoniale?»
Dentro
di sé, April si rispose.
Perché
sei bellissima, elegante, e si vede lontano un miglio che stai per
sposarti.
Continuò
però a tacere, sistemandosi gli occhiali nervosa.
«Ok,
lo ammetto, effettivamente mi sto per sposare» si interruppe,
sorridendo ad April «Beh, se devo essere sincera non so
esattamente
come ho fatto a trovarla. A dir la verità poi, quando uscivo
con
Mathias, succedeva sempre qualche imprevisto che puntualmente
rovinava l'appuntamento – ne stavamo uscendo pazzi! Ci siamo
pure
lasciati un paio di volte. Ma nonostante questo, quando è
capitato e
io provavo a interessarmi a un altro uomo, mi veniva sempre da
confrontarlo a lui, a pensare a quanto mi sentissi a mio agio sotto
il sguardo e tra le sue braccia, e quando altri provavano a baciarmi
ogni volta scappavo terrorizzata!» raccontò,
fermandosi un attimo
per ridacchiare. Ascoltando quelle parole interessata, April rise
insieme alla donna.
«Finché
un giorno Mathias, in seguito alla seconda volta che ci eravamo
lasciati, mi ha invitata a cena e mi ha parlato chiaro: mi disse che
aveva provato a uscire con altre donne ma che non era la stessa cosa,
che tutte gli sembravano scialbe e noiose e orribili, che non
riusciva a levarsi la mia immagine dalla testa»
«E
poi che è successo?» la incitò April,
notando come si fosse
fermata. Rosalie la guardò maliziosa.
«Beh,
dopo quelle parole ci siamo baciati, e credo tu possa intuire cosa
sia successo dopo»
April
rise.
«Oh,
quello mi sembra ovvio! Ma dico, dopo tutto questo?»
«Dopo
tutto questo siamo usciti ancora qualche altra volta, finché
ben
presto lui non mi ha chiesto di sposarci. E ovviamente io ho
accettato, sarei stata una pazza a rifiutare e il mio cuore non se lo
sarebbe mai perdonato. Per la precisione, mi ha fatto la proposta
proprio undici giorni fa» concluse.
«Ecco
perché sei qui, allora»
«Già.
Pensiamo di sposarci fra circa cinque mesi, a settembre. Voglio poter
preparare le cose con calma e che sia tutto perfetto»
«Mi
sembra il minimo!» intervenne la bionda.
Rosalie
aprì la bocca per dire qualcos'altro, ma venne interrotta da
un'altra voce.
«Scusi
il ritardo signorina Marlowe, il mio superiore aveva bisogno di
me»
May
arrivò con aria trafelata, mostrando un sorriso di scuse
verso la
donna; quest'ultima sorrise e fece un vago gesto con la mano, come a
scacciar via una mosca.
«Oh,
non si preoccupi. Ho trovato una piacevole compagnia a dire il vero.
Inizialmente l'avevo scambiata per lei se devo essere sincera, come
abbiamo parlato al telefono non sono riuscita a distinguere bene la
voce» disse Rosalie.
«Non
ho comunque intenzione di farle perdere altro tempo però,
quindi se
vuole seguirmi possiamo iniziare subito» May sorrise cortese
pronunciando queste parole.
«Certo»
«Beh
May, allora io vado» intervenne la bionda, spostandosi dal
bancone e
avvicinandosi alla porta. L'amica le sorrise.
«Ok
tesoro, ci sentiamo. E non continuare a disperarti per quel
completo!» l'avviso con tono scherzoso May. April fece una
smorfia.
«Non
farmici pensare ancora, sto cercando di superare il trauma. Beh, buon
lavoro a tutte due, è stato un piacere conoscerti
Rosalie» fece
April, iniziando ad aprire la porta. Rosalie le sorrise luminosa.
«Oh,
è stato un piacere anche per me! Spero di rivederti qualche
volta,
magari continuiamo la nostra chiacchierata!»
April
rispose al sorriso e le fece un cenno, poi senza aggiungere altro
uscì dall'agenzia, salutando con la mano un'ultima volta le
due
donne che le lanciarono un'ultima occhiata dall'interno per poi
sparire in un corridoio.
La
bionda sorrise, ritrovandosi immersa nell'aria newyorkese.
Aveva
proprio dei fantastici capelli rossi.
Immerso
in un vago alone di disperazione, Aaron cercava con tutte le sue
forze di non volgere lo sguardo verso quel – ormai odiato
–
pacchetto.
Ogni
tanto la sua forza di volontà crollava miseramente e gli
lanciava
delle velocissime occhiate, come a confermare se fosse sempre
lì –
ma era abbastanza normale che non si fosse mosso di una virgola, non
potevano di certo spuntargli i piedi.
«Basta.
Ora smetto di pensarci» disse ad alta voce.
Perché, ovviamente,
ignorare il problema equivaleva a farlo sparire no?
«Smetti
di pensare a cosa?»
La
voce di Suzanne lo fece per un attimo sobbalzare, e la
osservò di
sottecchi mentre la donna sistemava i bicchieri sul tavolo,
preparandolo in vista della cena.
«Ehi,
oggi il nostro fratellino è proprio strano, non
trovi?» continuò
Suzanne, questa volta non rivolta a lui ma alla ragazzina che,
indisturbata fino a quel momento, leggeva un libro appollaiata su una
poltrona. Isabel, la sorella più piccola, alzò lo
sguardo annoiata,
sistemandosi una ciocca di capelli rosso fuoco dietro l'orecchio.
«Perché,
solitamente non lo è?» chiese a sua volta.
Suzanne
ridacchiò, finendo di posizionare l'ultimo bicchiere,
terminando
così di preparare la tavolata per otto persone.
«Beh,
questo è vero»
«Vorrei
farvi presente che ci sono anche io in questa stanza»
esclamò
sarcastico Aaron, lanciando una veloce occhiata a tutte e due.
Suzanne
rise ancora, facendo ondeggiare la coda di cavallo che, illuminata
dal lampadario, mostrò varie tonalità di rosso.
«Perché
non ci dici che hai e la fai finita? È da quando sei
arrivato che
non fai altro che borbottare e impallidire all'improvviso. Si
può
sapere che è successo?» intervenne un'altra delle
sorelle, questa
volta Sophie.
«Secondo
me è successo qualcosa con una ragazza»
Victoria
intervenne a sua volta, aggiustandosi una qualche inesistente
imperfezione all'unghia dell'anulare sinistro e scrollando vaga le
spalle.
Aaron
sbuffò, osservando le sue quattro sorelle che – come
al solito,
precisò nella sua testa – si impicciavano nella
sua vita.
Si
passò una mano tra i capelli rossi, tratto comune a tutta la
famiglia escluso il padre. In un certo senso odiava quel colore,
nonostante lo facesse sentire parte di quel fin troppo allargato
nucleo familiare in cui tutti sembravano interessarsi alla sua vita.
Ma fece un vago sorriso pensando alle sue sorelle –
sì, saranno
state anche delle impiccione, ma ormai ci era abituato. In fondo,
bisogna abituarsi a non avere una propria privacy avendo ben cinque
sorelle di svariate età: c'era Suzanne, la più
grande, di trentun
anni, la più matura che nascondeva un lato da maestrina; poi
Rosalie, che non era ancora a casa, di ventinove, l'angelo di casa di
una curiosità infinita; Sophie, di ventidue, la sportiva
delle varie
sorelle sempre andando da una parte all'altra, che faceva spesso
comunella con Victoria, la diciannovenne sempre presa da ragazzi e
feste. Infine Isabel, la più piccolina, di soli sedici anni,
quella
calma e indifferente al resto del mondo. L'unica che in qualche modo
non si impicciasse troppo nella sua vita.
«Dobbiamo
romperti le palle per il resto della serata o ti sbrighi a dirci che
è successo?» insistette Sophie, sedendosi sulla
poltrona opposta
rispetto alla sua.
«Niente
di che» rispose.
È
inutile che insistiate, non ve lo dirò,
pensò fra sé il ragazzo. Si sarebbe umiliato se
lo avesse fatto.
«Qualcosa
mi dice che centra questo!» esclamò divertita
Victoria, alzandosi
di scatto dal divano e afferrando veloce il sacchetto del negozio di
intimo prima che Aaron potesse pensare di reagire. Ma appena si
accorse della situazione, sbiancò.
«Vicky,
stupida ragazzina, restituiscimelo immediatamente!»
urlò, alzandosi
di corsa anche lui e rincorrendo la sorella che girò attorno
al
tavolo, sfuggendogli; ma il fratello la raggiunse in fretta e lei,
rapida, lanciò la busta.
«Sophie!»
L'altra
sorella afferrò pronta il pacchetto al volo, mentre Aaron
cambiava
obiettivo e si lanciava verso di lei.
«Suzanne!»
anche la maggiore prese il sacchetto, agitandolo vittoriosa verso il
fratellino che si affannò verso di lei. Prima che potesse
raggiungerla però, l'oggetto che stava saltando fino a quel
momento
da una parte all'altra venne strappato via dalle mani della maggiore.
«Quando
la smetterete di fare i dispetti a vostro fratello? Suvvia, siete
grandi ormai!»
Ed
eccola, con tutta la classe e l'eleganza possibile, la signora
Marlowe entrare nel soggiorno, accompagnata dal signor Marlowe che
lanciò un'occhiata di pietà verso il suo unico
figlio maschio,
costretto a sopportare, come lui, il matriarcato che vigeva in quella
casa da anni.
Ma
Elizabeth Marlowe, nonostante avesse una certa età, aveva
ancora gli
stessi capelli rossi e la stessa curiosità di quand'era
ragazzina,
ed entrambi li aveva trasmessi a ciascuna delle sue adorabili figlie,
anche se, in quanto a curiosità, in minor misura con la
più
piccola. Aprì perciò senza tanti preamboli il
sacchetto, guardando
all'interno.
«Oddio!»
esclamò la donna, e Aaron in quel momento iniziò
a pregare che una
voragine si aprisse nel terreno facendolo sprofondare, permettendogli
così di abbandonare non solo la situazione, ma anche la sua
vita
colma di imbarazzi.
«Tesoro,
perché non mi hai detto di avere una fidanzatina?»
chiese con
emozione la donna.
Aaron
deglutì rumorosamente, a disagio.
«Fidanzata
Lizzie, ormai nostro figlio ha ventisette anni» intervenne
Jason
Marlowe, l'unico uomo della famiglia oltre ad Aaron, costretto come
il figlio a sopportare le angherie che comportava avere sei donne
nella propria vita e casa. Per fortuna, in quest'ultima, si erano
ridotte a tre.
«Ventisei»
corresse sconsolato Aaron, desolato dal fatto che neanche suo padre
si ricordasse la sua età.
«Cosa
c'è?» chiesero quasi in coro le varie sorelle,
tranne forse Isabel
che però alzò lo sguardo incuriosita.
Elizabeth
sorrise, tirando fuori dal pacchetto una lingerie piuttosto sexy
rosso fuoco.
«Uh,
guardate che bei regali fa il nostro Aaron alla sua
fidanzata!»
esclamò Suzanne ridendo.
«Perché
il mio ragazzo non mi fa dei regali del genere?»
piagnucolò
Victoria, mettendo il broncio. Sophie le lanciò un'occhiata
inarcando un sopracciglio.
«Forse
perché tu non ce l'hai un ragazzo?»
interloquì.
«Non
avete capito niente!» esclamò Aaron, i capelli
dritti dopo averci
passato varie volte la mano.
«Non
è mio – cioè, non l'ho comprato io!
È stato un incidente, stavo
uscendo dal negozio, lei mi è venuta addosso e ci siamo
scontrati,
le buste sono cadute e ce le siamo scambiate! È stato solo
un
errore»
spiegò veloce il ragazzo, mangiandosi quasi le parole.
Sophie
ghignò.
«Ah,
quindi ora si dice così? “Scambiarsi le
buste”...»
«Vuoi
smetterla di pensare sempre male?» le urlò il
ragazzo.
«Chi
pensa sempre male?»
Una
nuova voce fece notare a tutti i presenti che qualcun altro era
arrivato, e tutti si voltarono verso la donna che era appena entrata
nel soggiorno.
Rosalie
Marlowe, vestita con il vestito crema della mattina, guardò
la sua
famiglia con i grandi occhi grigi che sbattevano perplessi di fronte
alla situazione.
«Tesoro!
Finalmente sei arrivata, com'è andata all'agenzia?»
Elizabeth
cambiò rapida argomento, avvicinandosi alla seconda figlia,
Rosalie,
che sorrise dolce in direzione della madre, per poi abbracciarla.
«Tutto
bene, io e May – la dipendente, è una tipa
così gentile –
abbiamo già iniziato a dare un occhiata al numero di
invitati, al
luogo della cerimonia e della festa, e mi ha detto che la prossima
volta mi avrebbe dato il preventivo» spiegò la
donna, appoggiando
la borsa su divano e seguendo gli altri che si stavano sedendo a
tavola; tutti tranne Suzanne, che andò in cucina e
portò la cena.
La
cena continuò tranquilla, tra chiacchiere sui parenti vari o
informazioni sugli studi o sui lavori dei vari figli.
Aaron
si lanciò un veloce sguardo attorno, mentre mangiava
lentamente come
suo solito; le sue sorelle, con le loro folte capigliature rosso
vivo, era ormai cresciute e si erano fatte tutte assurdamente belle.
Osservò anche i suoi genitori – Elizabeth spostava
veloce lo
sguardo e le orecchie da una parte all'altra, come se volesse vedere
e sentire il più possibile, quasi spaventata dal fatto che a
fine
serata quattro dei suoi figli se ne sarebbero andati, per tornare
ciascuno a casa propria.
Mentre
per un attimo si deprimeva pensando che le altre sorelle una volta
tornate avrebbero avuto qualcuno con cui poi stare, a differenza sua
che invece sarebbe stato solo in quella casa vuota, la voce
squillante di Rosalie lo risvegliò, facendogli prestare
attenzione a
quello che la sorella diceva.
«...ed
era così
carina!
Avreste dovuto vederla, aveva dei capelli biondi adorabili, con un
caschetto sfilato, e gli occhi grandi, verdi!» stava dicendo
la
sorella.
«Di
chi parli?» si ritrovò a dire Aaron, incuriosito.
Si ritrovò gli
occhi di tutti addosso mentre Rosalie sorrideva.
«Ho
conosciuto una ragazza quando sono andata all'agenzia, è
un'amica di
May, la dipendente. Ci ho parlato un po', è veramente
carina!»
spiegò.
Aaron
scrollò le spalle, improvvisamente disinteressato.
«Magari
se un giorno vieni all'agenzia con me la incontriamo e te la
presento» continuò la sorella.
Victoria
ridacchiò.
«Da
come la descrivevi prima, non mi sembra esattamente il tipo di Aaron,
lui fuggirebbe a gambe levate» continuò ridendo.
Aaron le lanciò
uno sguardo infastidito.
«Vicky,
smettila» Elizabeth intervenne a difesa del figlio maschio,
mentre
quest'ultimo si alzava scocciato e informava al resto della famiglia
di andare in bagno.
In
poche parole fuggì a quella conversazione che – lo
sapeva – si
sarebbe fatto scomoda per lui.
Mentre
si lavava le mani in un blando tentativo di togliersi il fastidio di
dosso, guardò fisso la propria figura allo specchio.
Oggettivamente,
riconosceva di essere un bel ragazzo. Capelli rossi, lisci e
scompigliati dal frequente gesto di passare in mezzo le dita, occhi
castani incorniciati da lunghe ciglia scure, labbra carnose con un
piercing sul labbro inferiore, all'angolo sinistro, e fisico asciutto
e tenuto in forma dalle corse mattutine.
Beh,
di certo era cambiato da quando aveva quindici anni, brutto periodo
in cui l'acne, l'apparecchio e il fisico gracile lo rendevano in
tutto e per tutto un appartenente al gruppo degli sfigati.
Ma
il diventare grande e più appetibile non aveva migliorato la
situazione con l'altro sesso, segnata indelebilmente nella sua mente
da fragile quindicenne che si era ritrovato umiliato dalla propria
cotta. Inoltre le cinque sorelle in giro per casa, con la loro
curiosità e il loro modo di fare invadente e spesso fin
troppo
imbarazzante per lui, non gli avevano mai reso facile il rapporto con
le ragazze ed aveva finito per vederle come dei mostri che avrebbero
finito per deluderlo, o imbarazzarlo, o ferirlo. E a quel punto era
finito per averne una paura immensa.
La
porta del bagno si aprì all'improvviso, causando lo spavento
di
Aaron che si calmò come vide la figura tranquilla e pacata
di
Isabel.
«Mi
hanno mandata a vedere se era tutto a posto» disse solo lei,
spostandosi una ciocca di capelli e rivelando un paio di occhi grigi.
Aaron
sorrise forzato.
«Sì,
non preoccuparti» disse e fece per uscire, ma Isabel non lo
fece
passare.
«Non
prendertela con Vicky» parlò la sorellina
«Sappiamo tutti com'è
fatta, la diverte girare il coltello nella piaga»
continuò.
Aaron
sospirò, cancellando il finto sorriso.
«Lo
so Isy, ma mi dà comunque fastidio. Vorrei soltanto che la
smetteste
di tirare fuori la questione» borbottò.
Isabel
sorrise, avvicinandosi al fratello e abbracciandolo morbida, in uno
dei rari slanci di affetto non esattamente tipici del suo carattere.
«Non
preoccuparti, ti passerà prima o poi. Basta incontrare la
ragazza
giusta» sussurrò, il viso affondato nel petto del
fratello. Lui le
accarezzò la schiena.
«Mh»
rispose solo.
Qualcosa
gli diceva che non sarebbe stato così facile.
April
aprì la porta di casa, entrando nell'atrio buio del suo
piccolo
bilocale e accendendo la luce mentre poggiava le chiavi sopra il
piccolo mobile all'ingresso.
Il
lampadario centrale si accese, rivelando un contenuto soggiorno con
un angolo cottura, più una porta dietro la quale si
nascondevano la
camera da letto e il bagno. Tutto era arredato con un indiscutibile
gusto femminile; il colore che predominava era ovviamente il rosso.
Guardando
il disordine che regnava nella stanza, April fece una smorfia.
«Beh,
metterò a posto domani» borbottò
stanca, mentre in una parte
remota il suo cervello le diceva che no,
non rimetterai a posto l'indomani, ma lascerai che i vestiti, le
scarpe e il resto invadano il posto finché la situazione non
diventerà invivibile.
Ignorò
comunque la voce della sua coscienza e si diresse verso camera sua,
poggiando prima il take-away di cibo cinese ancora caldo.
Entrò
nella sua stanza, dove il letto a una piazza e mezzo occupava una
buona parte di spazio con il suo copriletto rosso spiegazzato e
ricoperto di vestiti. Nell'angolo destro opposto all'entrata c'era un
armadio alto e imponente, bianco, con le ante aperte che mostravano
l'infinità di abiti e altrettante scarpe, queste sistemate
con più
cura dei primi.
Con
stanchezza si tolse le scarpe dai tacchi vertiginosi, sentendosi
improvvisamente molto bassa; si levò anche i vestiti per
sostituirli
con una maglia larga e dei pantaloncini, sentendosi immediatamente
molto più comoda.
Ritornando
nel soggiorno afferrò distratta la cena e si
accoccolò sul divano,
accendendo la tv e facendo zapping alla ricerca di una commedia
romantica che le avrebbe fatto compagnia mentre mangiava.
Mentre
scorreva i canali però le squillò all'improvviso
il cellulare,
ancora dentro la borsa che era stata mollata per terra. Facendo varie
acrobazie, riuscì a raggiungere il telefono senza alzarsi.
«Pronto?»
rispose subito, senza guardare il nome sul display.
«Tesoro,
sono May»
la voce squillante dell'amica la raggiunse, facendola sorridere.
«Ehi,
tutto a posto?»
«Sì
sì, sono solo un po' stanca»
April
rise.
«Perché,
che hai fatto questo pomeriggio?»
Sentì
l'amica sbuffare.
«Non
parliamone, sono andata da una parte all'altra di New York alla
ricerca di quelle cavolo di bomboniere strane che vuole una cliente.
Chiedere qualcosa di più introvabile non poteva, sono
distrutta»
April
annuì sovrappensiero, osservando lo spot di un profumo.
Potrei
comprarlo, sembra bello,
pensò distratta.
«E
tu che hai fatto?»
«Niente
di che, sono andata un po' in giro e stavo guardando alcuni prodotti
su cui dovrei concludere un articolo per mercoledì»
«Un
articolo?! Quindi sta andando tutto bene con lo stage alla rivista?»
April
scrollò le spalle, dimenticandosi che l'amica non l'avrebbe
potuta
vedere dall'altra parte del telefono.
«Tutto
bene, mi stanno facendo sgobbare e devo correggere una miriade di
bozze, ma finalmente mi hanno assegnato un articolo come hai capito.
Niente di che, solo un trafiletto riguardo i fondotinta liquidi o in
polvere, ma è pur sempre qualcosa»
spiegò con una punta di
soddisfazione.
«Assolutamente!
E com'è che me lo dici soltanto ora?»
fece May con finto tono offeso.
«Volevo
dirtelo stamattina quando passavo, ma poi quel ladro ha rubato la mia
lingerie...» borbottò, improvvisamente infastidita.
«Ladro?
Avanti tesoro, è stato solo un incidente. Questa settimana
vai e te
ne prendi una ancora più bella eh?»
«Ma
io volevo quella!»
«Non
fare la bambina»
la rimproverò scherzosa l'amica.
«Beh,
io ora sono arrivata da Adam, ci sentiamo domani ok? Oppure se puoi
fai un salto all'agenzia, la giornata credo si prospetti piuttosto
morta» continuò.
April
annuì più a se stessa che all'amica, guardando
famelica il cibo che
ancora non aveva toccato.
«Se
ho tempo passo, promesso! E divertiti con Adam!» concluse
maliziosa.
Sentì
May ridere alla sua frase, e senza attendere altro chiuse la
chiamata.
Si
ritrovò di nuovo immersa nel silenzio tipico di casa sua, le
voci
della tv solo un sottofondo monotono e impersonale.
In
quei momenti si ritrovava a invidiare l'amica: almeno aveva un
fidanzato da cui andare, che le teneva compagnia. Quella casa invece,
per quanto piccola, era sempre tristemente vuota, e April iniziava a
sentire la mancanza di qualcuno con cui stare.
Cambiò
un altro canale e ritrovò uno dei suoi film preferiti, Serendipity;
sorrise.
Beh,
è solo una questione di attesa. Arriverà qualcuno
anche per me, ne
sono sicura.
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Buona
sera a tutti!
Rieccomi
qui con il secondo capitolo di questa mia nuova long!
Ok,
avevo detto che il capitolo fosse già pronto e nonostante
questo
pubblico dopo venti giorni... Ma capitemi, tra ultime verifiche,
studio pre-esame ed esame stesso sono stata parecchio
occupata, e i pochi momenti liberi li ho passati a poltrire.
Nonostante
ciò spero che il capitolo vi piaccia, anche se non si
è ancora
entrati nel vivo della storia perché ho intenzione di creare
qualche
situazione prima di farli effettivamente incontrare. Diciamo che sto
ancora creando il “sottofondo” della storia, anche
perché come
forse ho già detto – o forse no, non ricordo a
dire il vero –
vorrei intrecciare altri personaggi nella storia e non concentrarmi
solo su loro due, anche se ovviamente saranno i personaggi
principali.
Non
so che altro aggiungere se non che il terzo capitolo è
pronto e il
quarto sto per iniziarlo, anche se non so ancora quando
pubblicherò
il prossimo perché sono ancora piuttosto impegnata!
Finisco
dicendo un enorme grazie a coloro che hanno messo la storia tra
preferiti/seguiti (mi avete reso enormemente
felice) e anche a chi ha recensito! Spero di ricevere qualche
commento anche questa volta, ma in caso contrario andrà bene
comunque.
Adesso
vi lascio al capitolo, buona lettura!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo due
Tom
in quel momento era veramente spazientito.
Sentiva la rabbia partirgli dal cervello per irradiarsi in tutto il
corpo, facendolo fremere e spingendolo a tamburellare nervosamente le
dita sul piano liscio del tavolo dell'adorato Starbucks, dove la sua
tazza di caffè era ormai fredda.
Nulla
poteva calmarlo in quel momento, né gli aromi della
caffetteria che
solitamente lo mettevano di buonumore, tanto meno la musica alle
orecchie – abbastanza bassa però per sentire il
vociare in
sottofondo.
L'unica
cosa che – sapeva – l'avrebbe fatto calmare sarebbe
stata
l'improvvisa comparsa di Aaron Marlowe. Magari con una statua in suo
onore in segno di scuse. O magari gli sarebbe andata bene anche solo
la testa dell'amico, senza tutto il resto. Così avrebbe
potuto
gongolare di fronte al fatto che no, questa
volta non ti
perdono il ritardo.
Il
cellulare si illuminò sul tavolo, iniziando a vibrare. Tom
lesse sul
display il nome dell'amico, lo prese con aria infastidita e
trascinò
la cornetta verde. Non parlò, sapeva che non ce n'era
bisogno.
«Scusa
scusa scusa!
Davvero Tom, questa
volta non è colpa mia!»
A
Tom venne quasi da ridere sentendo la voce disperata dell'amico.
Oh,
fai bene a disperarti, non hai la minima idea di cosa ti
farò una
volta che arrivi,
pensò con
aria sadica.
«Sì,
beh, come al solito immagino» rispose sibilando sarcastico.
Sentì
un vago piagnucolio in sottofondo e capì che Aaron in
qualche modo
era veramente spaventato dal suo tono.
«Non
odiarmi – davvero Tom, non farlo
– però non posso venire!»
Al
sentire quelle parole, la bocca di Tom si aprì in una
perfetta
circonferenza.
«Prego?»
chiese sbalordito.
«Non
è colpa mia – lo giuro! Solo che Isabel
è stata male a scuola, i
miei non potevano andare a prenderla e tutte le mie sorelle sono
occupate – ma ci pensi? Cinque cazzo di sorelle che mi stanno
sempre attorno a impicciarsi dove non devono e ora
spariscono!»
parlò frettoloso Aaron, facendo incazzare ancora di
più Tom.
«Noi
dovevamo vederci per il nostro progetto! Hai presente, brutto idiota?
Quello che stiamo facendo assieme, che il nostro stronzissimo capo ci
ha assegnato l'altro giorno ed è da consegnare per la
prossima
settimana. Quello per cui non abbiamo tempo»
rispose furioso.
«Scusa!»
pigolò ancora Aaron, con una vocina che mai una persona
avrebbe
potuto attribuire a lui.
Ma
Tom non continuò ad ascoltare quelle scuse – in
quel momento
veramente fastidiose. Gli attaccò direttamente il telefono
in faccia
e lo mandò al diavolo attirandosi gli sguardi di qualche
cliente lì
attorno, tornato subito a farsi i fatti propri dopo l'occhiata
inviperita del moro che si passava una mano tra i capelli con aria
disperata.
Ciò
che lo faceva incazzare non era tanto il bidone che gli aveva tirato
Aaron – non era la prima volta purtroppo considerando
l'amico, il
suo ritardo cronico e le sue cinque sorelle sempre tra i piedi
– ma
che non dovevano incontrarsi per una chiacchierata tra amici,
bensì
per un lavoro importante!
Pensando
alle urla del loro capo se non gli avessero consegnato il lavoro in
tempo, Tom rabbrividì leggermente.
No
Tom, non pensarci. Riuscirete a finire il progetto in tempo. Quando
vi mettete assieme, tu e Aaron, siete veloci a lavorare.
Eh
sì, ok, ma avevano comunque un sacco di roba da fare ancora.
«Ehi,
sembri aver avuto una brutta giornata!»
Una
mano gli si posò sulla spalla mentre una voce squillante lo
distraeva dai suoi pensieri disperati. Alzò lo sguardo,
ritrovandosi
davanti una ragazza dai lunghi capelli castani e gli occhi azzurri.
«Gwen»
disse solo dopo un attimo di incertezza, salvandosi in corner dato
che gli stava per uscire Glenda.
No,
era Gwen il nome di quella fastidiosa ragazza che da una settimana e
mezzo a quella parte lo importunava ogni giorno da Starbucks.
Sorrise
falso.
«Gwen,
ma che sorpresa» continuò con un vago tono tetro.
La ragazza gli
sorrise luminosa.
«Sono
venuta qui per la pausa pranzo, con le mie amiche. A proposito, loro
sono Melanie e April» dicendo questo indicò le
ragazze proprio
dietro di lei, che lo guardavano la prima piuttosto indifferente e la
seconda incuriosita – cavolo, non le aveva proprio notate.
Lanciò
loro una veloce occhiata: la prima sembra abbastanza scocciata del
trovarsi lì – ma come faceva? Starbucks
è un posto bellissimo! -
aveva dei corti capelli neri e gli occhi scuri, poco truccata e con
una vaga aria da maestrina. La seconda invece era tranquilla, forse
un po' euforica, ma non tanto per lui quanto di suo –
sì, sembrava
una tipa che si esaltava facilmente. Aveva un corto caschetto biondo,
liscio, con una frangia spostata sulla fronte, e un paio di occhiali
rossi, la prima cosa che si notava in lei.
«Ciao,
io sono Tom» borbottò solo. Le due ragazze
risposero al saluto e si
sedettero insieme a Gwen, poggiando ciascuna il proprio pranzo.
«Allora,
come mai oggi tutto solo? Di solito non c'è quel ragazzo
insieme a
te?» iniziò Gwen, cercando di fare conversazione
con Tom che, del
canto suo, non aveva proprio voglia di parlare ma piuttosto di
picchiare qualcuno – anzi, picchiare Aaron.
«Non
poteva venire» disse solo, sperando che la conversazione si
chiudesse lì. Ma sapeva di essere un illuso a pensarlo
soltanto.
«E
quindi ora che fai?» insistette la ragazza.
Tom
lanciò uno sguardo alle altre due: se Melanie rimaneva
indifferente
alla situazione e mangiava isolandosi da tutti – e lui la
stava
proprio invidiando per questo – April ascoltava i tentativi
dell'amica con un sorriso divertito, molto probabilmente comprendendo
che lui non avesse voglia di parlare.
Se
lo capisci, idiota, aiutami.
April
si divertiva un sacco osservando la scena.
Poco
prima avevano iniziato la pausa pranzo dal lavoro – e ne
aveva
veramente bisogno. Per ora il suo compito consisteva solo nel
correggere le bozze di coloro che scrivevano seri articoli, ma stava
imparando tanto anche così, nonostante il suo fosse un
lavoraccio.
Certo, aveva il suo piccolo articoletto da scrivere ed era
già
tanto, ma per quella mattina aveva preferito impegnarsi sulle bozze
da consegnare entro la sera.
Gwen,
la sua collega di stage, aveva insistito ad andare da Starbucks e
trascinarci anche lei e Melanie, l'altra collega. All'inizio non era
stata molto contenta, avrebbe preferito andare al locale dove
pranzava di solito e dove andava con Melanie – anche se le
sembrava
di andarci da sola, contando come la collega stava sempre zitta; ma
appena Gwen aveva accennato a un ragazzo che voleva vedere e che era
tanto carino – e aveva un amico veramente bello a quanto
pare! - si
era lasciata trascinare facilmente.
Si
trovava bene con loro, più o meno, anche se sapeva che non
sarebbero
state colleghe per sempre: lo stage era per tre, quello era vero, ma
alla fine ne avrebbero preso solo una di loro.
Ma
fino a quel momento preferiva godersi quei momenti tranquilli, dove
ancora non c'era quella forte competitività tipica dei posti
del
lavoro.
E
per questo era lì, da Starbucks, trascinata da Gwen e
osservando i
suoi tentativi di fare conversazione con quel Tom che invece pareva
non aver proprio voglia di parlare.
Peccato
che non ci sia anche l'amico, avrei voluto vederlo,
pensò vaga. Beh, almeno poteva gustarsi un siparietto
divertente
mentre mangiava.
«Ora
niente, poco fa cercavo di rilassarmi da solo»
rispose il
ragazzo mentre la fissava.
Dentro
di sé, April rise.
Sì,
si rendeva conto che il ragazzo aveva capito come lei si stesse
divertendo alle sue spalle e come anche, in qualche modo, avrebbe
potuto tirarlo fuori dai pasticci, ma perché farlo?
«Beh
dai, posso aiutarti io a rilassarti!» continuò
Gwen, la frase
vagamente equivoca che fece ridacchiare April.
Quel
Tom inarcò un sopracciglio e fissò la castana
senza particolare
espressione, ma poi non disse niente.
«A
che punto sei con le tue bozze Gwen?» intervenne April,
precedendo
di un secondo l'amica che stava per porre l'ennesima domanda al
povero ragazzo; il tizio in questione le lanciò una vaga
occhiata
riconoscente.
«Sono
ancora un po' indietro, stare molto al computer mi stanca gli occhi e
non riesco a lavorare per troppo tempo di seguito» rispose la
ragazza. April annuì.
«A
proposito, hai più ritrovato il completo che avevi
perso?»
April
guardò l'amica, improvvisamente triste.
Già,
aveva raccontato anche alle sue colleghe il triste episodio della sua
lingerie e, mentre Melanie non aveva fatto altro che fare spallucce,
Gwen aveva riso di gusto.
«No
purtroppo. Cavolo, me la sogno ancora di notte quella fantastica
lingerie! Dovevi vederla, era bellissima, con tutto quel pizzo e quel
rosso così acceso» iniziò a lamentarsi.
A
quelle parole però notò come Tom, che fino a quel
momento pareva
poco interessato al discorso delle due donne, si fosse girato
all'improvviso per guardarla in maniera strana.
«Tutto
a posto?» gli chiese, stranita.
«Hai
perso una lingerie?» indagò il ragazzo.
April
lo fissò, stupita che una cosa del genere potesse
interessagli.
Magari
è uno a cui piace travestirsi.
«Oh,
è stato uno stupido incidente. Appena dopo averla comprata
mi sono
scontrata con un idiota e per sbaglio ci siamo scambiati le buste.
Ora mi ritrovo con un paio di boxer che non mi servono a niente e
senza il mio completino per cui ho dovuto attingere ai miei
risparmi»
spiegò, mantenendo il tono triste e subito dimentica della
strana
reazione dell'uomo.
Lui
non disse nulla, la guardò e basta, mentre uno strana luce
si faceva
strada nei suoi occhi. Poi sorrise.
«Oh
beh, doveva proprio essere un idiota» disse solo, sempre con
uno
strano sorriso sulle labbra.
Questo
tizio è davvero strano.
Tom
non ci poteva credere.
Era
quella ragazza. Era quella April!
Mentre
glielo raccontava quasi stentava a crederci. Certo, New York era
proprio piccola se potevano accadere cose del genere.
Finalmente
si trovava da solo nel suo appartamento; era appena tornato
dall'azienda nella quale aveva lavorato fino alle dieci e ora si
gustava un po' di meritato riposo mentre prendeva dal frigo una birra
e la sorseggiava di fronte alla tv.
Se
pensava che, se solo Aaron non avesse casualmente saltato
l'appuntamento, si sarebbero visti...
Già
rideva alla reazione dei due, ma soprattutto dell'amico. Quella April
gli era sembrata una ragazza molto vivace e forse un po' invadente,
ma in un modo non fastidioso, più che altro divertente.
Gli
piaceva come ragazza, solo che c'era un problema: una tipa come lei
era quel genere che più spaventava Aaron con il tipico modo
di fare
acceso, civettuolo e in certi sensi esplicito. Più li
immaginava
assieme e più gli veniva da ridere.
Sarebbero
assurdi!
Da
un lato lo solleticava l'idea di dirlo subito ad Aaron, dall'altro
invece preferiva aspettare per vendicarsi un po'. Gli serviva
l'occasione giusta per farli incontrare quando meno Aaron se lo
aspettava e fargli prendere un colpo.
Sì,
sarebbe stato veramente divertente vedere la sua
faccia che
incontrava quella di lei, riconoscerla come colei che aveva preso i
suoi boxer e “regalato” la, a quanto pare preziosa,
lingerie.
Mentre
finiva la birra e metteva un canale di musica per poter andare a
preparare qualcosa da mangiare – c'era cibo in frigo?
Quand'era
l'ultima volta che aveva fatto la spesa? Cavolo! - pensava a come
avrebbe fatto per la sua piccola vendetta. Perché infatti
per lui si
trattava di una vendetta riguardo all'ennesimo bidone che gli aveva
fatto l'amico. E davvero, gliela avrebbe fatta passare se non gli si
fosse presentata così l'occasione per vendicarsi.
«Allora,
come potrei fare?» mormorò tra sé
aprendo il frigo e notando che
c'era solo un uovo. Fece una smorfia di fronte al triste scenario e
decise, senza neanche aprire la dispensa, di ordinare una pizza.
Mentre
afferrava il telefono per la cena continuava a pensare.
Potrei
farla venire a lavoro. Posso chiederle il numero e invitarla
all'azienda, giusto un salto, e gliela mostrerò ad Aaron
all'improvviso. Sì, si potrebbe fare.
Interruppe
l'organizzazione dei suoi piani solo un minuto, giusto per dare
l'ordinazione e il suo indirizzo. Ci avrebbero messo una mezz'ora
buona. Sbuffò mentre si ripeteva di essere paziente
– ma aveva
fame, accidenti!
Quella
potrebbe essere un'opzione, oppure cos'altro potrei fare? Potrei
farli incontrare da Starbucks, domani dovrebbe venire e Gwen mi stava
accennando di tornare insieme alle sue amiche. Mh sì, potrei
fare
anche così.
Pensando
questo afferrò il cellulare e scrisse rapido un messaggio ad
Aaron,
intimandogli di venire il giorno dopo da Starbucks all'ora di pranzo
per lavorare. Un minuto dopo gli arrivò la risposta
dell'amico che
diceva assolutamente sì; era la risposta che si aspettava in
fondo,
dopo l'appuntamento mancato di quel giorno sapeva che Aaron sarebbe
venuto anche morente da lui.
Sorrise
divertito.
Oh,
non vedo l'ora che sia domani.
Quando
Aaron entrò all'interno dello Starbucks, proprio dove lo
stava
aspettando Tom, vide l'ultima cosa che mai si sarebbe potuto
aspettare.
Credeva
di trovare Tom lanciando lampi e fulmini dagli occhi, due corna sulla
sua testa e una lingua biforcuta pronta a morderlo al momento giusto.
Sì, un po' disgustosa come scena, ma era quello che d'altro
canto
meritava, considerando l'enorme pacco del giorno prima. E invece
trovò qualcosa che lo fece rabbrividire ancora di
più.
Tom,
seduto al solito tavolo, il computer di fronte a lui spento e niente
cuffie alle orecchie, sorseggiava il suo solito caffè con un
sorriso
angelico dipinto in faccia. Era da solo, ma sembrava che qualcuno gli
avesse appena detto la cosa più bella del mondo, una notizia
fantastica che l'aveva reso l'uomo più felice della terra.
Si
avvicinò cauto.
«Ehi»
disse piano, aspettandosi delle urla da un momento all'altro. Urla
che non arrivarono.
«Aaron,
amico mio! Ti aspettavo!» tubò invece felice il
moro, facendogli
cenno di sedersi affianco a lui. Aaron obbedì docile.
«Sei
stato puntuale oggi, eh?» lo stuzzicò il moro,
continuando però a
sorridere. Aaron si mosse sulla sedia, a disagio, e si passò
una
mano tra i capelli.
«A
quel proposito... Scusa ancora. Davvero, è stata una cosa
all'ultimo
momento, stavo già venendo quando mi ha chiamato mia madre e
mi ha
chiesto di andare a prendere Isy, non potevo dire di no»
disse
ancora a disagio. Tom fece un vago cenno con la mano.
«Ah,
non preoccuparti! Non fa niente, possono capitare cose del
genere»
rispose tranquillo.
Aaron
annuì un poco stranito, per poi guardarsi attorno.
«Ma
stiamo aspettando qualcuno?» domandò poi
all'improvviso. Tom gli
lanciò un'occhiata di sottecchi.
«Perché
me lo chiedi?»
«Beh,
hai l'aria di uno che non vede l'ora che succeda qualcosa»
borbottò
facendo spallucce. Tom rise.
«A
dire la verità sì, stiamo aspettando
qualcuno»
«E
chi?»
«Delle
amiche» rispose il ragazzo, sogghignando. Aaron
sbarrò gli occhi.
«Chi?»
ripeté piano. Tom gli poggiò una mano sulla
spalla con fare
amichevole.
«Oh,
non preoccuparti. Ti piaceranno, te lo assicuro. Specialmente una.
Credo proprio che faccia per te»
Aaron
impallidì.
«Tom,
ne avevamo già parlato o sbaglio? Non voglio che tu mi
presenti
delle ragazze, potrai farlo quando te lo chiederò, ma fino a
quel
momento smettila. Ti ricordi cos'è successo l'ultima
volta?»
dicendo l'ultima frase Aaron rabbrividì.
«L'ultima
volta era cinque anni fa, avevi ventun anni e un disperato bisogno di
perdere la verginità. L'ho fatto per il tuo bene,
fidati» rispose
il moro, prendendo un sorso di caffè.
«Quindi
farmi bere a tradimento fino a rendermi ubriaco, chiudermi in una
stanza con una ragazza quando non ero capace né di intendere
né
tanto meno volere e in un momento in cui avevo gli
ormoni
impazziti lo chiami “farlo per il tuo
bene”?» chiese,
concludendo la domanda con una vaga nota isterica.
«Che
sarà mai. Ti è piaciuto no? E poi quella ragazza
la conoscevo, era
una tipa brava, sapeva mettere a proprio agio» rispose Tom,
con un
tono leggermente annoiato.
«Non
mi interessa se la conoscevi! Dio, Tom, ho passato una settimana
facendomi tre docce al giorno per togliermi la sensazione di lei
sotto di me-»
«Tu
dentro di lei magari»
«-non
è quello il punto cazzo!» strillò
Aaron, attirandosi qualche
occhiata.
«Spero
davvero che tu non stia per fare di nuovo qualcosa
del genere»
E
il sorriso che fece Tom a quella frase pareva proprio voler dire
“oh,
sarà anche meglio”.
Il
rosso stava per alzarsi e andarsene – perché aveva
la netta
sensazione che di lì a poco sarebbe successo qualcosa di
veramente
brutto – ma proprio in quel momento Tom lo afferrò
per la camicia
e lo riportò giù, guardando oltre di lui.
«Eccole
eccole! Stanno entrando!» mormorò eccitato il moro.
Aaron
si girò lentamente verso la porta, temendo quello che
avrebbe visto
– perché cavolo, Tom sembrava così
dannatamente euforico per
quella situazione e non riusciva neanche a capire perché.
Che aveva
quella tizia di così speciale da voler fargliela conoscere?
Guardando
in direzione della porta però, Aaron vide entrare due
ragazze. Una
aveva dei capelli castani, lunghi, tenuti in una coda alta; da
lontano gli sembrava avesse gli occhi chiari. Poi spostò
l'attenzione verso la seconda ragazza.
«Cosa
hanno di speciale quelle due?» bofonchiò Aaron
girandosi verso
l'amico che era diventato immobile. Il suo sguardo pareva essersi
spento all'improvviso.
«Dov'è
April?»
Tom
non diede il tempo alle ragazze neanche di sedersi, subito fece loro
una domanda, alternando rapido lo sguardo tra la castana e la seconda
ragazza, una mora dall'aria piuttosto indifferente.
Gwen
lo guardò stupita.
«Ciao
anche a te Tom. Grazie dell'interessamento, sto bene, e tu?»
rispose
ironica la ragazza. Tom a malapena fece caso a quelle parole.
«Perché
non è venuta anche lei oggi?» insistette. Aaron lo
guardo confuso.
April
è quella che voleva presentarmi? Ma che avrà di
speciale?,
pensò confuso.
Gwen
fece una smorfia infastidita.
«Le
hanno dato delle bozze all'ultimo momento da correggere e ha
preferito saltare la pausa pranzo per continuare a lavorare»
rispose
seccata.
«Perché
questo improvviso interessamento per lei?» indagò
infastidita,
mentre si sedeva senza aspettare l'amica che si era velocemente
allontanata per prendersi da mangiare.
Aaron,
in tutta quella situazione, continuava a stare zitto e osservare
alternativamente i due ragazzi. Ma Tom continuava a non fare
particolare caso alle domande della castana e Aaron pensò
che
dovesse essere davvero infastidito per l'assenza di quella April.
Beh,
meglio che non ci sia, una ragazza in meno,
si consolò mentre iniziava a provare il tipico disagio di
quando
delle ragazze si sedevano vicino a lui.
«E
non può proprio venire?» proseguì il
moro.
La
ragazza lo fissò gelida.
«Evidentemente
no» rispose secca. Spostò poi lo sguardo verso di
Aaron.
«Se
non ricordo male tu sei Aaron giusto? Non so se ti ricordi, ci siamo
visti qualche volta qui da Starbucks» si rivolse verso il
rosso che
fece un vago cenno con la testa, senza negare né assentire.
«Mh»
bofonchiò.
A
dire la verità non si ricordava di quella tizia. Solitamente
cercava
di rimuovere dalla sua testa tutti i volti e i nomi femminili della
gente che incontrava – a patto che non fossero importanti,
quello
era ovvio.
Notando
come Gwen si fosse infastidita ancora di più alla sua
risposta
piuttosto fredda, sospirò desolato.
Ecco
perché mi fanno paura: non riesco a capirle, sono
così strane!
E
mentre elaborava quel triste pensiero si rendeva conto che quello
sarebbe stato uno dei pranzi più lunghi della sua vita.
April,
presa dal computer e dalle bozze, a malapena notò le sue due
colleghe che rientravano dalla pausa pranzo. Terminò rapida
di
leggere l'ultima frase, poi alzò lo sguardo e sorrise
allegra.
«Ehi!
Com'è andata la pausa pranzo?» domandò
vivace.
Alla
sua domanda però vide Gwen stringere i pugni, molto
irritata, e
ignorarla. Guardò confusa Melanie.
«È
stato un pranzo piuttosto strano» disse solo la mora,
scrollando le
spalle e andando alla propria scrivania, riaccendendo il pc per
rimettersi al lavoro.
April,
ancora più confusa, guardò l'altra.
«Tutto
bene? Come mai sembri arrabbiata?» domandò.
Gwen
la guardò, gli occhi che lanciavano lampi.
«Oh,
non sono arrabbiata. Solo che è stato un pranzo piuttosto
noioso»
iniziò, con un improvviso e falso sorriso «Si
sentiva la tua
mancanza» terminò sibilando.
April
inarcò le sopracciglia, confusa.
«Che
intendi?»
«Intendo»
Gwen sollevò gli occhi in precedenza abbassati dal computer
«che a
quanto pare hai fatto colpo. Tom non finiva di chiedere come mai non
c'eri, dov'eri, che stavi facendo e un sacco di altre noiose
domande»
April
spalancò gli occhi stupita.
«Tom?»
disse lentamente.
«Tom»
ripeté Gwen.
«Tom.
Tom stava chiedendo di me. Ma sei sicura? Ieri non sembrava molto
interessato alla mia presenza» fece con tono dubbioso.
L'altra
scrollò le spalle.
«Non
lo so e non mi interessa» borbottò solo, poi
iniziò a lavorare
senza degnare più nessuno di uno sguardo.
April
la fissò per qualche istante, tamburellando le dita sulla
scrivania.
Non
capiva. Il giorno prima quel ragazzo non sembrava minimamente
interessato a lei, e ora non faceva altro che fare domande a suo
proposito?
Sospirò,
alzandosi per andare nella saletta adibita a piccola caffetteria, con
macchinette per gli snack e le bevande e alcuni divanetti. Si prese
un tè caldo, aggiungendo accuratamente quattro cucchiaini di
zucchero – sì, forse erano troppi, ma a lei
piacevano le cose
molto dolci – per poi gustarselo di fronte alla vetrata
enorme che
si affacciava sulle strade di New York.
«Non
credo che fosse particolarmente interessato a te»
La
voce di Melanie la prese alla sprovvista, facendole rovesciare
qualche goccia di tè sul pavimento. Si girò a
guardarla, notando
che si stava prendendo un caffè.
«Scusa?»
fece.
Melanie
le lanciò un veloce sguardo.
«Non
credo che fosse particolarmente interessato a te»
ripeté la
giovane.
«Avevo
capito. Ma perché dici così?»
«Non
so. È una mia impressione. Credo però che volesse
presentarti il
suo amico. Non mi ricordo però come si chiama»
continuò
indifferente.
April
si morse un labbro pensierosa.
«Era
carino?» chiese poi, con un sorrisetto.
«Mh,
non saprei. A me non piacciono i ragazzi» rispose solo quella.
April
spalancò la bocca.
«Cosa?»
Melanie
la osservò per un attimo, soffiando leggera sul
caffè caldo.
«Sono
lesbica. Non lo sapevi?» chiese.
«Oh.
Beh, no. Cioè, non credevo lo fossi» rispose,
sorpresa. L'altra
sorrise, per poi bersi il caffè tutto d'un sorso.
«Beh,
ora lo sai» disse, per poi uscire dalla sala. Si
bloccò un attimo
sulla porta, girandosi appena verso la collega.
«Ah,
mi pare che quel tipo avesse un piercing al labbro, ma non ne sono
sicura» fece solo, per poi uscire definitivamente dalla
stanza,
lasciando April a guardare nel posto in cui fino a quel momento era
lei.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Buon
pomeriggio a tutti, lettori e lettrici di EFP!
Eccomi
qui, dopo una assenza di più di due settimane! Spero che
l'attesa
valga questo capitolo, anche se ce l'avevo pronto da un po' purtroppo
non avevo proprio il tempo materiale per postare il nuovo capitolo,
quindi ho dovuto per forza rimandare.
Comunque
sia, sono molto felice di notare come stia piacendo questa storia
nata come un semplice passatempo che prevedeva poco impegno, anche se
mi sto già affezionando ai vari personaggi!
Ringrazio
quindi le varie persone che hanno deciso di mettere la storia tra
preferiti/seguiti (è davvero importante per me!) e anche
coloro che
commentano i capitoli! Vi ringrazio davvero per il tempo speso, e
auspico dei commenti anche per questa volta, ma comunque vada grazie
anche solo per la lettura!
Detto
ciò, vi lascio alla lettura e vi avviso che sono
già alla stesura
del prossimo!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo
tre
Tom
stava, come al solito, aspettando Aaron.
La
situazione iniziava veramente a pesargli in quell'ultimo periodo
–
non tanto perché non fosse abituato al ritardo cronico del
suo
migliore amico, ma perché in quegli ultimi giorni sembrava
star
peggiorando in maniera preoccupante.
Era
seduto al solito tavolo di quel piccolo locale etnico, quello posto
poco più in là dell'entrata, a destra; osservava
da circa un quarto
d'ora il piccolo vaso di fiori posto al centro del tavolo –
fiori
per cosa poi? Mica lui e Aaron erano una coppia – e conosceva
a
memoria quella cavolo di rosa rossa; quello stelo lungo e sottile,
segnato da appena due spine appuntite, i petali leggermente ricurvi e
tinti di un rosso sangue, alcune gocce d'acqua che li imperlavano.
Ora
mi alzo e me ne vado,
pensò un
attimo. Ma non l'avrebbe fatto. Avrebbe aspettato come suo solito,
per poi, all'arrivo di Aaron, insultarlo per sfogare la rabbia;
avrebbe ascoltato le sue scuse pigolate e, dopo essersi passato una
mano sul viso, strofinandosela esausto, avrebbe lasciato perdere come
suo solito.
In
fondo era quello che succedeva ogni santissima volta.
Mentre
attendeva che l'amico arrivasse ripensò vago a quello che
era
successo tre giorni prima: l'arrivo stranamente puntuale di Aaron e
la mancata assenza di quella April.
Non
aveva detto all'amico come mai non vedesse l'ora che quelle tizie
arrivassero, e d'altronde Aaron non gliela aveva più
chiesto, in
quanto i vari momenti dopo era stato troppo occupato a calmarsi
–
cavolo, due ragazze erano sedute al loro stesso tavolo e Gwen stava
cercando di fare conversazione con lui! - quindi aveva lasciato
cadere il discorso.
Era
andato anche il giorno dopo e quello dopo ancora da Starbucks,
insieme ad Aaron ovviamente, nella speranza che quelle tre venissero
e quindi April provocasse un attacco di cuore all'amico. Ma niente.
Le tre non si erano fatte più vedere in quel posto e Tom in
qualche
modo credeva di esserne il colpevole.
Si
era reso conto di piacere a Gwen e anche di aver fatto domande su
domande a proposito di April, facendo quindi supporre un interesse
nei suoi confronti. Forse aveva fatto ingelosire Gwen che aveva
preferito non far mettere più piede alle amiche in quel
Starbucks e
probabilmente aveva considerato che, per evitare figure imbarazzanti,
sarebbe stato meglio evitare lei stessa quel luogo. Ovviamente erano
tutte supposizioni, ma ne era abbastanza sicuro, aveva sempre avuto
un certo intuito.
Tom
era deluso, contando che non sapeva neanche come ritrovarle.
Sospirò,
stiracchiando i muscoli irrigiditi dalla posizione.
Mentre
si guardava attorno, cercando con lo sguardo Aaron – che
ovviamente
non era ancora arrivato – i suoi occhi furono però
attirati da
un'altra figura: una ragazza che camminava rapida tra i tavoli con
difficoltà sui suoi tacchi dodici, con corti capelli biondi
e un
paio di occhiali rossi.
«April!»
Tom
urlò involontario, attirando lo sguardo di altre persone ma
soprattutto della ragazza, che volse lo sguardo nella sua direzione.
Notando
come fosse in dubbio se avvicinarsi o meno, Tom le fece cenno di
venire.
«Ehi»
borbottò incerta April, camminando in modo talmente lento
che
sembrava volesse scappare da lì.
Il
sorriso di Tom si incrinò un poco notandolo, ma fece finta
di
niente.
«Ehi!
Come mai qui?» domandò vivace.
Quasi
non ci credeva: nel momento in cui aveva perso la speranza, ecco che
una scintilla compariva tra la cenere.
«Cibo
d'asporto» disse solo la ragazza, facendo dondolare una busta
di
fronte a lui con un cenno. Tom annuì.
«Sei
da sola? Perché se è così puoi sederti
con me» iniziò; notando
come la ragazza fosse sbiancata alla proposta, precisò
«Cioè, deve
venire un mio amico. Possiamo cenare tutti e tre insieme se
vuoi»
A
quelle parole April sembrò riprendere un po' di colore,
facendo
sperare Tom.
Accetta
dai, così potrò fare uno scherzetto ad Aaron,
pensò.
Ma
April fece un cenno di diniego con la testa.
«Mi
spiace, ma non posso, una mia amica mi sta aspettando» fece
con tono
di scuse.
Tom
fece una smorfia.
«Beh
dai, allora perché non mi tieni compagnia fino all'arrivo
del mio
amico?» insistette. April fece un passo indietro, con una
faccia
indecisa.
«Non
credo sia il caso. Devo tornare urgentemente a casa, mi sta
aspettando» replicò.
In
uno scatto, Tom l'agguantò per il braccio, facendo
immobilizzare
April.
«Per
favore» sussurrò, con il tono più
suadente che riuscì a fare.
Vide
chiaramente April sciogliersi a quelle parole, un vago sorriso che
spuntava sulle sua labbra tinte di rossetto. Poi però
ridiventò
seria di botto e si scostò con forza.
«Mi
dispiace, ma devo proprio andare» disse con fermezza. Sul
volto di
Tom si dipinse un'espressione delusa.
«Proprio
non puoi?» continuò, cercando di esercitare il
proprio lato tenero.
April tentennò un poco.
«No
davvero. Non insistere. Scusa ma devo scappare, ciao!» e
senza
dargli tempo di replicare sfuggì dal tavolo, da lui, e dal
locale
stesso, praticamente precipitandosi fuori per scomparire
definitivamente.
Un
minuto dopo, Aaron entrava.
«Ehi!
Scusa il ritardo, ma sono solo venti minuti questa volta eh?»
fece
con tono scherzoso Aaron, sorridendo forzato.
Tom
alzò lo sguardo con l'odio che bruciava al suo interno.
Un'altra
occasione sprecata.
«Ti
uccido»
«Finalmente,
iniziavo a pensare ti avessero rapita»
May
si rivolse così all'amica, girando la testa dal divano su
cui era
appollaiata e osservando April che, tra le nuvole, si levava le
scarpe cercando di non cadere.
«Tutto
bene?» domandò, giocherellando con una ciocca di
capelli castani.
April parve notarla solo in quel momento.
«Eh?
Sì, sì. Tutto a meraviglia» rispose un
po' stralunata.
May
la guardò assottigliando gli occhi: i capelli scompigliati
come se
ci avesse passato più volte la mano, lo smalto nelle unghie
leggermente mangiucchiato e il rossetto quasi scomparso, segno che si
era morsa più volte le labbra.
«Non
sembra» replicò. Poi si girò di nuovo
verso la tv, facendo finta
di nulla «Ma se non vuoi parlarmene fai come vuoi»
continuò
facendo l'offesa.
Subito
sentì April che si lanciava sul divano, la busta sempre
stretta tra
le mani.
«No,
dai, non fare così! Stavo solo pensando a una
cosa» si scusò
mugolante la bionda.
Cede
sempre.
«E
cosa?» indagò. April si morse il labbro, mentre
cercava di prendere
tempo aprendo la busta con il cibo e iniziando a sistemarlo sul
tavolino davanti al divano. May, osservandola, non poteva fare altro
che attendere paziente.
Vide
April lanciarle un veloce sguardo con la coda dell'occhio, come per
vedere se stesse sempre aspettando, ma ovviamente May continuava a
mantenere lo sguardo puntato su di lei.
Alla
fine la bionda sbuffò e, dopo aver finito di sistemare la
cena, si
sedette con poca grazia sul divano, incrociando le gambe e tirandosi
su gli occhiali che le erano scivolati sul naso.
«Hai
presente Tom, quello di cui ti ho raccontato l'ultima volta?»
mugugnò. May annuì.
«L'ho
rivisto prima, al ristorante, era seduto a un tavolo e stava
aspettando un amico»
«E...?»
la spronò May.
April
scrollò lo spalle.
«Io
non lo stavo neanche vedendo, è stato lui a chiamarmi! Mi ha
fatto
cenno di avvicinarmi e sembrava così esaltato nel trovarmi
lì, mi
stavo addirittura spaventando. Mi ha pure proposto di rimanere
lì a
cena, ma io gli ho spiegato che non potevo, che tu mi aspettavi e
sono fuggita via» spiegò la ragazza.
May,
alzandosi dal divano per andare a prendere le posate, le
lanciò una
veloce occhiata.
«Potrebbe
essere interessato a te, che c'è di male? Piuttosto,
perché non
arrivi al punto e mi dici cosa ti preoccupa realmente di tutto
questo?» chiese con un mezzo sorriso, già intuendo
la risposta.
April
gonfiò le guance come una bambina.
«Lo
sai perfettamente. Magari ci sta provando, magari io gli do corda,
magari Gwen mi ammazza perché gli ho soffiato il
ragazzo» borbottò
seguendo con lo sguardo l'amica che tornava rapida con le posate.
May
rise ascoltando l'amica che si mostrava così preoccupata,
quando
invece con i ragazzi finiva sempre per essere spregiudicata e
accattivante.
«Non
ridere, scema! Non voglio che a lavoro il clima si faccia difficile,
poi mi deconcentrerei e non riuscirei a lavorare bene»
continuò a
mugugnare la bionda.
«Ma
che ti importa? È un posto di lavoro, non una festa in cui
si deve
andare d'accordo per forza con tutti. Inoltre sapevi già che
il
clima si sarebbe fatto teso alla fine dello stage, se è per
quello o
per un ragazzo che ti importa? Se ti piace, lascia perdere
Gwen»
tagliò corto May, iniziando a mangiare.
«Ma
non lo conosco nemmeno! E poi non so, ho paura che mi molli dopo una
notte come fanno tutti...» piagnucolò.
«Questo
è perché sono gli uomini sono tutti degli idioti
superficiali che
non riescono a vedere oltre un paio di tette e un bel culo»
rispose
ironica «Tranne Adam, ovviamente. Ma lui è
speciale» puntualizzò
con un rapido sorriso innamorato.
«Comunque,
se non te la senti e preferisci mantenere un buon rapporto con questa
Gwen, lascia perdere il tizio»
«Credo
che farò così» le diede ragione April,
iniziando a mangiare anche
lei.
May
sorrise tra sé, vedendola più tranquilla.
Afferrò il telecomando.
«Beh,
allora, che si guarda oggi?»
Il
tipico e familiare trillo dell'ascensore colse Aaron mentre era
leggermente sovrappensiero e si riscosse vedendo le porte che si
aprivano per farlo passare. Attraversò il corridoio dalla
moquette
blu scuro sapendo alla perfezione dove andare e fermandosi di fronte
a una porta precisa, uguale a tutte le altre, bianca e con una
targhetta dorata che segnava il numero 309.
Suonò
il campanello con insistenza mentre faceva dondolare distratto un
pacco dove spiccava chiara la scritta Starbucks.
Dopo
un paio di minuti, numerosi scampanellii e vaghe imprecazioni che
giungevano da dietro la porta, quest'ultima si aprì di
scatto dando
così la possibilità al giovane rosso di osservare
Tom che, come al
solito, gli lanciava occhiate di fuoco.
«Mi
spieghi che problemi hai tu?» lo apostrofò
irritato il moro.
Aaron
gli sorrise candido, avanzando e costringendo l'altro a spostarsi di
lato, poi appoggiò con nonchalance la busta sopra il tavolo
dell'open-space.
«Buongiorno
anche a te stellina. Su, perché non mi fai un bel sorriso?
È un
nuovo e bellissimo giorno» tubò felice Aaron,
mentre l'amico lo
guardava preoccupato.
Ma
nella testa del ragazzo nulla poteva anche solo pensare di turbare la
bolla di felicità che si era creata da quella mattina
presto,
rendendolo su di giri ed euforico. Anzi, qualcosa c'era, ma per
fortuna non vedeva ragazze entro il suo raggio di sopportazione.
«Ma
ti sei fatto qualcosa prima di venire?» ironizzò
Tom, lasciandolo
però ben presto perdere e avvicinandosi interessato al
sacchetto di
Starbucks; ci frugò dentro, tirando fuori un pacco di
quattro donuts
e due frappuccini sui quali spiccavano degli smile.
«Ti
porto la colazione e tu mi tratti così?» rispose a
tono Aaron.
«Mi
hai svegliato nella maniera che odio di più e pretendi che
io non ti
tratti così?» continuò Tom, sedendosi
sull'isola che fungeva da
tavolo e addentando un dolce.
«Che
sarà mai, insistevo solo perché tu non ti
svegliavi» puntualizzò
il rosso, prendendo una delle due bevande e assaggiandola.
«Ti
ricordo che è domenica»
«E
che sarà mai»
«Piuttosto
perché mi hai portato la colazione? Mi fai sentire
più gay del
solito oggi» glissò direttamente Tom, consapevole
che altrimenti
sarebbero rimasti così per tutto il giorno.
Aaron
si illuminò come un albero di Natale.
«Mi
volevo solo scusare per il ritardo di ieri sera»
agitò la mano per
far cenno all'altro di non replicare – cosa che stava
già facendo
«Ma già che ci sono andiamo fuori a pranzo per
festeggiare»
terminò con un inquietante tono esaltato.
«Festeggiare?»
fece interrogativo Tom, mentre, tra un morso e l'altro, sorseggiava
il suo frappuccino.
Il
sorriso di Aaron, se possibile, si allargò ancora di
più.
«Mi
hanno telefonato un'oretta fa da lavoro. Ti ricordi la versione demo
che ho preparato da mettere online sul sito dell'azienda?»
non
attese una risposta, ovviamente Tom se la ricordava
«In
pratica ha riscosso un sacco di successo e una rivista ha chiesto di
poter intervistare il creatore» terminò con
soddisfazione.
Tom
lo guardò un poco stupito.
«Ma
dai! Complimenti amico, finalmente ti stai facendo notare
eh?»
replicò, sorridendogli e sporgendosi per dargli una pacca
sulla
spalla.
Aaron
sorrise di risposta.
«Grazie!»
«E
quando sarà questa intervista?»
«Mi
hanno detto martedì alle undici in punto, mi hanno anche
accennato
di voler scattare un paio di foto»
Tom
rise.
«Oddio,
conoscendoti vorrei proprio assistere» disse fra le risa.
Aaron
sbuffò con un'espressione infastidita, assomigliando in
tutto a un
bambino.
«Molto
divertente» bofonchiò.
Aaron,
oltre ad avere un brutto rapporto con le donne e la
puntualità,
aveva problemi anche con le macchine fotografiche: era un ciocco di
legno privo di scioltezza e finiva sempre per risultare parecchio
rigido nelle foto, con una paresi facciale al posto di un sorriso.
«Hai
intenzione di ridere ancora per molto?» borbottò
poi, notando come
l'amico non frenasse le risa.
«Ok,
ora la smetto» disse Tom alla fine, il viso arrossato e un
sorriso
ancora sul volto.
«Sai
già chi ti intervisterà?»
domandò ancora l'amico.
«Non
ricordo bene il nome, credo un certo Joel Collins o qualcosa del
genere» rispose vago, afferrando anche lui un donut e
mordendolo.
«Uh,
non una donna, peccato»
«Ci
tieni tanto a vedermi terrorizzato?»
«Beh,
è uno dei miei più grandi divertimenti»
rispose con un sorriso
mellifluo.
Aaron
si limitò a lanciargli un'occhiata truce, senza dire nulla;
subito
dopo però, gli strappò dalle mani la colazione e
lo spinse giù
dalla sedia.
«Ehi!»
«Fila
a lavarti e non farmi incazzare, altrimenti faccio pagare a te il
pranzo»
«Ah
ah, come no» cantilenò Tom, ma senza insistere
rubò l'ultimo morso
al suo dolce e corse in bagno iniziando a spogliarsi e lanciando i
vestiti dove capitava.
Aaron
sorrise divertito guardandolo.
«Ah,
guarda che ho dato il tuo numero a una tipa!» urlò
Tom già
nell'altra stanza.
Aaron
sbiancò.
«Cosa?»
|
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Buongiorno
a tutti!
Eccomi
qui con il quarto capitolo di “It's too
cliché”, che spero
piaccia come gli altri!
Prima
di tutto ringrazio tutti coloro che hanno deciso di aggiungere la
storia tra preferiti e seguiti, poi avviso che non so per quando
sarà
il prossimo aggiornamento, dato che le prime due settimane di agosto
dovrei essere al mare e lì non c'è connessione,
quindi non
riuscirei ad aggiornare.
Mi
spiace che questo capitolo non sia tanto lungo, ma serve per quello
successivo e spezzare l'altro per aggiungere qualcosa qui non sarebbe
andato bene.
Non
posso trattenermi a lungo oggi, quindi concludo subito augurandovi
una buona lettura e che questo capitolo sia di vostro gradimento!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo
quattro
«...e
quindi mi spiace, ma non credo possa funzionare tra noi»
April
non disse nulla, il telefono all'improvviso muto mentre era ancora
incollato al suo orecchio.
«...ehi?»
La
voce maschile dall'altro capo del filo la richiamò dai suoi
pensieri
e la bionda distolse lo sguardo dal panorama di New York offerto
dalla finestra della sala ricreativa.
«Ci
sono» rispose, con voce bassa.
«Tutto
bene?»
Chiese
ancora l'uomo.
Oh,
a meraviglia. Adoro quando gli uomini mi scaricano via telefono il
giorno dopo aver fatto sesso.
«Sì,
sì. A dire la verità mi hai tolto un peso: la
pensavo anche io allo
stesso modo, solo che non sapevo come dirtelo»
mentì con tono
allegro, spostandosi dalla finestra e buttando il bicchiere di
tè
ormai vuoto nel cestino.
«Oh»
fece inizialmente la voce, un poco stupita «Beh,
allora perfetto.
Ci sentiamo allora» concluse il ragazzo, ritrovata
nuovamente
l'allegria.
«Mh.
Ciao»
April
non ricambiò il “ci sentiamo”,
perfettamente consapevole che
nessuno dei due avrebbe mai richiamato l'altro dopo quella triste
conversazione; si limitò a chiudere la chiamata e a
stamparsi un
sorriso allegro in volto, per poi ritornare nell'ufficio che
condivideva con Melanie e Gwen, le quali, del canto loro, non si
girarono nemmeno a guardarla. La prima perché
disinteressata, la
seconda ancora arrabbiata per la storia di Tom.
Che,
oltretutto, April aveva deciso di lasciar perdere come ipotetico
ragazzo.
Si
sedette rigida alla propria postazione, afferrando per un attimo il
cellulare e mandando un messaggio a May.
Daniel
mi ha scaricata.
Inviò
senza pensarci due volte, per poi lasciar stare il cellulare e
controllare le nuove bozze da correggere che le erano state mandate.
Sospirò sollevata notando come fossero di meno rispetto al
solito, e
subito si mise al lavoro.
Prima
che potesse iniziare a leggere, il telefono le vibrò
accanto. Lo
afferrò veloce, sapendo già chi fosse.
Che
coglione.
Sorrise
al messaggio dell'amica, subito seguito da un secondo, sempre di May.
Stasera
ceniamo assieme? Messicano?
Nella
sua mente comprese che May volesse distrarla.
Perfetto,
passo da te alle nove!
A
quel punto lasciò davvero perdere il cellulare, ponendolo a
debita
distanza e prendendo il primo articolo della lista: era un articolo
su quelli che si prospettavano i trend dell'estate, tra colori, tipi
di tacchi e accessori “da non perdere
assolutamente”.
Interessata, si mise all'opera.
Erano
le dieci quasi e un quarto e sia Melanie che Gwen erano andate a fare
una pausa – pare che la castana, dopo aver deciso di
ignorarla,
volesse in qualche strano modo portare dalla propria parte l'altra
collega che, invece, era totalmente indifferente alla situazione
–
e April era particolarmente concentrata sul terzo articolo su cui
aveva messo le mani e aveva appena iniziato.
Così,
quando la porta si aprì all'improvviso e bruscamente, la
ragazza
sobbalzò spaventata di fronte all'improvviso rumore.
Si
alzò di scatto.
«Buongiorno,
signorina Adams» fece subito, sorridendo cortese.
La
donna, sulla trentina e vestita di un acceso blu elettrico, si
guardò
intorno.
«Ci
sei solo tu?» domandò fredda, senza rispondere al
saluto.
Beh,
a te che sembra?,
pensò
sarcastica mentre mentalmente mandava a quel paese la sua
responsabile che odiava con tutto il cuore.
«Melanie
e Gwen sono appena andate nella sala ricreativa, vuole che le vada a
chiamare?»
La
donna, Miranda Adams, la squadrò con sufficienza, poi
scrollò le
spalle.
«No,
tu vai bene. Prendi la giacca e vieni con me»
ordinò, e uscì di
fretta dall'ufficio.
April,
presa alla sprovvista, afferrò telefono, giacca e borsa,
correndo
dietro alla donna che camminava a passo svelto su dei lucidi
– e
spaventosamente alti – tacchi neri.
La
bionda non chiese nulla e si limitò a fissare la coda di
lunghi
capelli biondo chiaro dell'altra che ondeggiavano al suo cammino.
Tra
i vari corridoi April intravide qualche conoscente che le sorrise
–
uh, Danielle aveva un nuovo taglio di capelli! E Jack aveva come al
solito la cravatta allacciata male – ma non poté
fermarsi con
nessuno dato che venne trascinata nell'ascensore e, riuscì a
sbirciare, condotta due piani più su.
In
tutto questo, Miranda taceva seriosa tanto che la ragazza
iniziò a
preoccuparsi – ma no, in fondo non aveva fatto nulla di male,
da
quel che si ricordava. O magari avevano scoperto che aveva rubato due
filtri di tè al lampone e volevano licenziarla.
Merda.
Stava
per andare in iperventilazione quando alla fine entrarono in un nuovo
ufficio, piuttosto grande e spazioso, dove un uomo sulla trentina
sedeva al computer.
«Garret,
spero che lei vada bene» esordì Miranda con un
tono più morbido di
quello usato per rivolgersi alla ragazza.
L'uomo
sollevò lo sguardo dal pc, puntando gli occhi scuri prima
sulla
donna, poi su April.
«Oh,
andrà più che bene, Miranda, grazie mille
dell'aiuto!» l'uomo si
alzò e si avvicinò alle due, poi porse una mano
alla bionda.
«Sono
Garret Morris, vice direttore del reparto Tecnologia, tu
sei...?»
fece affabile.
Reparto
Tecnologia?
April
sorrise di risposta, l'ansia che le scivolava via.
«April
Montgomery, piacere» rispose, stringendo la mano.
«Miranda
ti ha detto perché sei qui?»
April
lanciò un veloce sguardo alla donna, la quale osservava
l'uomo
tentando di mascherare l'adorazione nei suoi occhi.
Scosse
la testa.
«Oh.
Beh, niente di che, non temere» iniziò, facendole
cenno di
avvicinarsi alla scrivania e tornando a sedersi.
«Uh,
Miranda, grazie ancora dell'aiuto» fece in direzione della
donna,
sottintendendo che ora avrebbe potuto lasciare la stanza. Miranda
sorrise di nuovo.
«Per
così poco! Buon lavoro» fece ossequiosa e, dopo
aver lanciato una
sorta di occhiata d'avvertimento alla povera April, uscì.
«Allora»
iniziò, facendo cenno di sedersi «Dimmi, te ne
intendi di giochi?»
April
lo guardò, sentendosi stupida all'improvviso.
«Che
tipo di giochi?»
Garret
rise.
«Elettronici
ovviamente! Per cellulari, pc, console...?»
«Temo
di non essere particolarmente ferrata sull'argomento» ammise
sconsolata.
Garret
la guardò per un attimo, poi sospirò.
«Me
l'aspettavo, ma ci speravo. Comunque, non fa nulla, dovrai solo
seguire la lista di domande che ti darò e registrare tutto,
di
scrivere l'articolo se ne occuperà un altro
giornalista» asserì,
allungandosi sulla scrivania di vetro e afferrando un paio di fogli.
«In
ogni caso: oggi uno dei miei giornalisti avrebbe dovuto intervistare
una persona, abbiamo preso l'appuntamento – che è
alle undici,
quindi dobbiamo sbrigarci – ma ha avuto un problema e non
può
venire. Purtroppo, non c'è nessuno disponibile nel mio
reparto,
quindi mi sono dovuto arrangiare e chiedere altrove: per questo tu
sei qui. Devi andare e sostituire Joel, con te verrà anche
Damian,
il nostro fotografo» snocciolò in fretta, porgendo
i fogli ad April
che li prese in silenzio.
«In
ogni caso, non preoccuparti. Devi solo porre alcune domande e
registrare le risposte, d'accordo?» terminò l'uomo.
April
annuì.
«Tutto
chiaro? Hai qualche domanda?»
«No
no, tutto apposto. Devo seguire le domande e registrare
tutto»
riepilogò la ragazza.
Garret
sorrise luminoso.
«Esatto!
Nulla di troppo difficile, no?» domandò retorico,
alzandosi. April
lo seguì a ruota.
«Certo»
«Perfetto.
Puoi andare subito nella hall, Damian ti sta aspettando, digli che ti
ho mandato io» fece frettoloso. April continuò ad
annuire,
seguendolo svelta mentre l'uomo la accompagnava all'ascensore.
«Grazie
mille dell'aiuto!» disse infine Garret, mentre le porte si
chiudevano; April fece appena in tempo a rispondere un
“grazie a
lei” veloce prima che l'ascensore si chiudesse
definitivamente e
iniziasse a muoversi.
Un
minuto e si ritrovò nella grande hall dell'edificio della
rivista in
cui lavorava, che per l'appunto riguardava diversi ambiti di
informazione. April avrebbe voluto fortemente lavorare in una rivista
specializzata in moda, ma nessuna di quelle a cui aveva fatto domanda
l'aveva accettata per uno stage, per cui aveva dovuto ripiegare su
quella rivista – in parte meno esigente – che,
sperava, le
avrebbe dato comunque un buon trampolino di lancio per il suo sogno
di redattrice.
Si
guardò intorno, non sapendo esattamente chi cercare.
«”Damian
ti sta aspettando”... Certo, e chi lo conosce
questo Damian?»
borbottò tra sé, infastidita.
Nonostante
ciò, continuò a guardarsi attorno con sguardo
perso fino a quando
non fu attirata da un uomo che, seduto in uno dei divanetti vicino
all'entrata, trafficava col telefono: affianco a lui c'era quella che
sembrava proprio la strumentazione di un fotografo.
Un
poco dubbiosa si avvicinò.
«Emh...
Mi scusi? È lei Damian?» domandò.
L'uomo
sollevò di scatto la testa china sul cellulare, per poi
fissarla con
una leggera aria di sufficienza.
Sembrava
avere circa una trentina di anni o poco più, ed era
più o meno un
bell'uomo: aveva una folta barba curata a incorniciargli la mascella
squadrata e un paio di occhi chiari in parte coperti da degli
occhiali dalla montatura scura.
«Tu
sei?» chiese.
«April
Montgomery, sono stata mandata qui dal signor Garret per sostituire
Joel» spiegò, un poco intimidita da quell'uomo.
L'altro
la fissò.
«Sostituire
Joel?» domandò confuso.
Non
era stato avvisato, appurò April.
«Pare
che Joel abbia avuto un problema e non ci fosse nessuno del suo
reparto disponibile a sostituirlo, quindi hanno chiamato me»
spiegò,
iniziando ad acquisire sicurezza. Sfoderò poi un sorriso
affascinante.
«Spero
che non ci sia alcun problema per lei»
L'altro
la guardò dapprima dubbioso, poi sorrise di rimando, un poco
ammiccante.
«Assolutamente.
Spero solo che tu sappia fare il tuo lavoro» fece con un vago
tono
sarcastico.
«Lei
non si preoccupi, pensi a fare bene il suo» rispose
all'implicita
domanda con aria di sfida e così facendo lo fece ridere.
«Lo
farò. Comunque non darmi del lei, ti prego, non credo di
essere
tanto più vecchio di te» disse con un tono
più tranquillo.
April
si distese, continuando a mantenere l'aria maliziosa che le veniva da
fare ogni qualvolta ci fosse un uomo che poteva interessarla.
«Come
preferisci» fece scrollando le spalle «Andiamo? Non
vorrei arrivare
in ritardo»
«Dopo
di te» fece ironico l'uomo.
Lei
rise e lo precedette fuori. Subito venne investita dal forte rumore
del traffico di New York, accentuato dal fatto che fossero in una
zona piuttosto trafficata.
Non
aspettò l'altro, cosciente che la stesse seguendo, per poi
fermare
un taxi mentre l'allegria la pervadeva. Anche se per caso, ecco la
sua prima intervista!
Nonostante
Daniel, questa giornata pare andare alla grande.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
Buongiorno
a tutti!
Ecco
a voi il quinto e nuovo capitolo di It's too cliché. So che
non ho
aggiornato molto tempo fa, e da un lato avrei voluto attendere ancora
qualche giorno prima del nuovo capitolo, ma a breve parto al mare e
dato che lì la connessione è praticamente
inesistente ho preferito
anticipare, anche perché lo scorso capitolo era veramente
breve, e
mi dispiaceva avervi lasciato solo un capitolo di passaggio.
Come
potete vedere, questo capitolo è abbastanza lunghetto anche
se, devo
anticiparvi, il fatidico incontro tra April e Aaron non
avverrà
nemmeno qui. Dovrete attendere al prossimo capitolo per questo, ed
è
ancora in fase di revisione. Spero comunque che possiate trovare
questo divertente e carino come gli altri, perché mi sono
anche
divertita a scriverlo!
Forse,
tra un paio di capitoli, dovrebbe anche apparire un banner creato
appositamente per la mia storia – non da me, questo
è ovvio, non
ho le capacità necessarie per fare un buon lavoro purtroppo.
Comunque sia, vedrete anche i presta-volto dei due protagonisti, che
però chiedo di non tenere particolarmente in considerazione
e di
immaginarvi i vari personaggi come più vi piace, anche
perché il
bello delle storie è proprio questo!
Mi
sono dilungata anche fin troppo, quindi concludo ringraziando tanto
coloro che hanno inserito la storia tra i preferiti e le seguite, e
anche chi deciderà (forse) di lasciarmi un piccolo commento
che
potrebbe aiutarmi a migliorare o anche solo farmi un enorme piacere.
Buona
lettura e a presto!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo
cinque
«Dimmi
che stai scherzando»
Aaron
stava per avere una crisi isterica.
Inchiodò
di scatto al semaforo che si illuminò all'improvviso di
rosso, per
poi continuare a concentrarsi sulla telefonata.
«Ti
pare che io scherzi, tesoro?»
la
voce della madre, dall'altro capo del filo, suonava scandalizzata.
«Mamma,
mi pare ti abbia avvisato che oggi avrei avuto l'intervista!»
rispose Aaron sempre con il medesimo tono isterico, mollando per un
attimo il volante e passandosi una mano tra i capelli rossi, un gesto
misto di esasperazione e incredulità.
«Aaron»
iniziò Elizabeth «Ti pare che
possa scherzare su certe cose? Inoltre, credi che potessi in qualche
modo prevedere che Vicky si rompesse un braccio proprio oggi?
Andiamo, tesoro!»
continuò
la donna.
Aaron
mugugnò disperato.
E
ora come avrebbe fatto? Non poteva saltare in quel modo l'intervista,
era importante e sarebbe stato favorevole per la sua carriera.
«Non
puoi chiamare nessun altro?» insistette.
A
quanto pare aveva una famiglia allargata solo quando faceva comodo.
«Io
e Rosalie stiamo vedendo delle location per il matrimonio e oggi era
l'unico giorno disponibile, ci hanno anche fatto un favore a fissarci
l'appuntamento dato che è quasi sempre occupato. Tuo padre
sta
lavorando, Suzanne pure e Sophie non risponde al telefono; di certo
non posso chiederlo a Isobel»
«Anche
io sto lavorando, mamma!» protestò.
«È
solo un'intervista, puoi rimandarla a un altro giorno. Tua sorella ha
bisogno di te, ti sta aspettando all'università, vai subito
da lei»
e con questo tono imperioso, Elizabeth chiuse la telefonata.
Aaron
si imbambolò a guardare il telefono, incredulo del fatto che
gli
avesse chiuso il telefono in faccia; a riscuoterlo fu il clacson
della macchina dietro di lui, richiamandolo e facendogli notare il
verde del semaforo.
Stringendo
il volante, pensò che questa gliel'avrebbero pagata.
«Buongiorno,
stiamo cercando Aaron Marlowe, siamo qui per intervistarlo»
April
sorrise cortese all'uomo dietro il banco informazioni all'entrata, un
signore sulla quarantina che ricambiò il suo sorriso. Dietro
di lei,
Damian trafficava con il telefono.
«Un
attimo solo, signorina» rispose altrettanto cortese il
signore.
Sollevò
poi la cornetta del telefono posto affianco a lui e digitò
alcuni
numeri; nel frattempo, April si girò verso il suo
accompagnatore.
«Non
dovresti spegnerlo? Siamo qui per lavorare»
puntualizzò.
Damian
sollevò lo sguardo e le lanciò un sorriso
strafottente.
«Quando
sarà il mio momento, lo metterò via,
tesoro» rispose.
April
sollevò gli occhi al cielo ma fece un mezzo sorriso,
voltandosi per
impedirgli di vederlo; nonostante ciò, notò con
la coda dell'occhio
il sorriso soddisfatto dell'uomo.
«Mi
dispiace, ma il signor Marlowe non è ancora
arrivato»
April
guardò sorpresa l'uomo.
«Avremmo
un appuntamento» precisò, con un lieve tono di
fastidio.
«Lo
so, ma a quanto pare è in ritardo, stanno provando a
contattarlo ma
non risponde, appena sappiamo qualcosa vi informeremo. Nel frattempo,
potete aspettarlo al piano in cui lavora, è il
ventunesimo» spiegò,
indicando l'ascensore lì vicino.
April
si voltò a guardarlo, poi si girò verso Damian.
«Che
facciamo?» domandò, insicura su come comportarsi
in un frangente
del genere.
«Aspettiamo,
magari è bloccato nel traffico» rispose lui,
scrollando le spalle.
April
annuì poco convinta, poi si girò verso l'uomo per
ringraziarlo e
infine si diresse verso l'ascensore, sempre seguita dal fotografo
che, abbandonato il cellulare, trasportava la propria strumentazione.
In
poco tempo arrivarono al ventunesimo piano, come era stato loro
detto, e si sedettero nella sala d'attesa dove vi erano varie
poltroncine e dei tavolini.
E
ora aspettiamo.
Mentre
si dirigeva a passo spedito verso l'entrata dell'università,
Aaron a
malapena guardava dove mettesse i piedi preso com'era dal tentativo
di rianimare il proprio cellulare: la batteria totalmente scarica
aveva deciso di lasciarlo isolato dal mondo e incapace di avvisare
che non avrebbe potuto essere presente per l'intervista.
Masticò
una pesante imprecazione e fece a due a due gli scalini che lo
condussero all'interno dell'università, per poi guardarsi
intorno e
cercare la sorella. La vide subito in una sedia vicino a delle
macchinette per gli snack, vicino a lei una signora che le
controllava il braccio e le parlava.
«Vicky!»
esclamò, correndole incontro.
La
ragazza sollevò di scatto la testa, facendo ondeggiare la
coda
rossa.
«Aaron»
mugolò la giovane, mentre si teneva il braccio. Affianco a
lei, la
donna si alzò.
«Buongiorno,
io sono Rebecca Wilson, tu dovresti essere il fratello di Victoria,
giusto?» fece la signora in questione, allungando una mano.
Aaron
gliela strinse frettoloso.
«Sì,
sì, sono Aaron Marlowe» borbottò. Si
voltò poi verso la sorella
«Si può sapere che cazzo è
successo?» sbottò, irritato dalla
situazione.
Del
canto suo, la sorella alzò gli occhi al cielo infastidita.
«A
te cosa sembra sia successo? Mi sono rotta il braccio,
idiota»
rispose secca; mosse per sbaglio il braccio e gemette per il dolore.
«Ma
davvero? Non me n'ero accorto» rispose sarcastico il rosso.
«È
scivolata sul pavimento bagnato nella toilette ed è caduta
sul
proprio braccio» spiegò rapida Rebecca, un poco
stupita dalla
reazione aggressiva di Aaron. Aaron che, a dirla tutta,
sembrò arrabbiarsi ancora di più.
«Sei
caduta sul pavimento bagnato? Ma cosa sei, stupida?»
continuò
aggressivo.
Non
era sua intenzione comportarsi in quella maniera verso la sorella;
sapeva perfettamente che non era colpa sua l'incidente, ma nonostante
quello non riusciva a non arrabbiarsi: un'occasione perfetta per il
suo lavoro sfumata così velocemente per una cosa del genere.
Era
così arrabbiato che non veniva scalfito nemmeno dalla
presenza della
donna, anche se le aveva addirittura stretto la mano.
«Ti
sembra che io mi diverta?» sputò velenosa la
sorella.
A
quel punto, Aaron si sgonfiò come un palloncino appena
bucato,
rendendosi conto del suo comportamento e acquisendo di nuovo la sua
aria da cucciolo bastonato.
«Lo
so, scusa... Comunque sia, ti porto subito in ospedale,
andiamo»
disse con tono mesto.
Victoria
annuì in silenzio, alzandosi e tentando di prendere la borsa
prontamente afferrata dal fratello.
«Non
è nulla di grave di sicuro, non preoccuparti» fece
poi Rebecca, in
direzione del ragazzo, sporgendosi per toccargli la spalla.
Solo
in quel momento Aaron si rese conto della situazione e, terrorizzato,
si allontanò impedendo alla donna di toccarlo; vicino a lui,
Vicky
rise tra sé.
«Lo
so» rispose secco Aaron, mascherando la paura con la solita
patina
di indifferenza e gelo.
Senza
aggiungere altro trascinò poi la sorella verso l'uscita,
cercando di
fare più in fretta possibile e mettere il maggior numero di
metri
tra lui e una donna.
«Avrà
avuto cinquant'anni, di cosa hai paura?» rise la sorella, una
volta
che entrambi si trovarono in macchina e Aaron partì.
Quest'ultimo
rabbrividì.
«Non
importa l'età, le donne sono sempre spaventose»
fece funereo. La
sorella rise ancora di più, tenendosi il braccio che al
muoversi
dell'auto le doleva.
«Sei
fantastico, davvero!» riuscì a dire tra le risa
«Eppure non hai
paura di noi» continuò, sottintendendo lei e le
sorelle. Aaron fece
spallucce.
«Non
che voi non mi spaventiate, ma vi conosco, siete le mie
sorelle»
spiegò; poi le lanciò un veloce sguardo divertito
«Le mie adorate
sorelle, anche se ogni tanto vorrei strozzarvi»
precisò.
Victoria
gli sorrise dolce, in una di quelle espressioni prive di malizia o
superficialità che era solita assumere.
«Anche
noi vorremmo strozzarti a volte, che credi?» disse poi,
ironica.
Aaron rise.
«In
ogni caso... Mi dispiace averti fatto perdere l'intervista, so che
è
importante per te. Non c'è un modo per farla un altro
giorno?» fece
poi, dispiaciuta.
«Non
lo so» mormorò lui depresso «Prima di
tutto, dovrei avvisare che
non potrò andarci, ma il mio telefono ha deciso di
abbandonarmi per
cui non ho potuto farlo. Mi puoi prestare il tuo?»
«L'ho
dimenticato a casa» rispose la ragazza.
«Come
hai fatto a chiamare allora?»
«Telefono
dell'università» rispose Vicky telegrafica. Aaron
gemette.
Possibile
che tutta la sfortuna ce l'avesse lui? C'era qualcosa che poteva
andargli per il verso giusto, ogni tanto?
Ci
teneva tantissimo a quell'intervista, gli avrebbe garantito una buona
pubblicità anche con le altre aziende e ciò
avrebbe incrementato la
richiesta di suoi lavori. Eppure, ecco qui che tutto andava in fumo;
inoltre non sapeva se con un pacco del genere la rivista avrebbe
accettato a fare una nuova intervista. Non aveva neanche avvisato in
tempo e ora come ora non sapeva come informarli, dato che in due non
avevano nemmeno mezzo telefono.
Sospirò
desolato mentre finalmente vedeva l'ospedale ed entrava nel
parcheggio predisposto.
Pochi
minuti dopo, entrambi si trovavano nel banco dell'accettazione del
pronto soccorso e degli infermieri – Aaron sospirò
sollevato
vedendo degli uomini – si presero subito cura della sorella,
portandola in una stanza per controllare il braccio.
Non
gli restò quindi che sedersi nella sala d'attesa e aspettare.
«Sono
passate quasi due ore!» sbottò April, esausta.
Affianco a lei,
Damian giocherellava con la carta del cioccolato preso dalle
macchinette.
«Lo
so, l'hai detto anche dieci minuti fa» puntualizzò
l'uomo.
«Tu
non sei arrabbiato?» continuò lei, girandosi nella
sua direzione.
«Tanto
non posso farci molto, non ha senso prendermi male» fece
placido
lui.
April
scattò in piedi nervosa, iniziando a ignorarlo: non la
vedevano
nello stesso modo, quello era ovvio. Ciò che la preoccupava,
inoltre, era che alla rivista potessero in qualche modo prendersela
con lei.
Cioè,
sapeva perfettamente che non era colpa sua – insomma, non
poteva
prevedere che quel coglione, chiunque
esso fosse,
avrebbe saltato
così platealmente l'appuntamento senza prendersi nemmeno la
briga di
avvisare.
Era
veramente arrabbiata e inoltre il suo stomaco iniziava a lamentare la
fame – era comunque quasi l'una!
Si
avvicinò per l'ennesima volta alla segretaria che, dietro la
propria
scrivania, digitava qualcosa al computer.
«Mi
scusi, ma non si sa ancora nulla?» chiese per l'ennesima
volta.
La
donna – una giovane ragazza di circa venticinque anni, dai
ricci
capelli neri trattenuti da una vistosa forcina a farfalla –
sollevò
lo sguardo annoiata: era la ventesima volta che si avvicinava e April
lo sapeva, ma era più forte di lei insistere in quel modo.
«Mi
dispiace, ma ancora non si sa nulla. Appena avremo notizie vi faremo
sapere»
La
bionda conosceva ormai a memoria quella frase, perciò
sentirsela
ripetere per l'ennesima volta la fece incazzare ancora di
più. Girò
i tacchi e tornò a sedersi, iniziando a battere ritmicamente
il piede per scaricare il nervosismo.
Dopo
altri dieci minuti di snervante attesa, in cui April aveva fatto
l'ennesimo giro per la stanza, quest'ultima si piazzò di
fronte a
Damian.
«Basta.
Andiamocene»
fece secca.
L'uomo
alzò lo sguardo verso di lei.
«Sei
sicura?»
chiese.
«Sì.
Insomma, siamo qui da quasi due ore e questo tizio non solo non si
è
presentato, ma non ha avuto nemmeno la decenza di avvisarci in
qualsiasi modo. Non mi interessa, non intendo essere trattata in
questa maniera»
rispose fredda.
Il
fotografo rise divertito, ma si alzò comunque e prese tutte
le sue
cose.
«Come
vuoi, tesoro»
disse solo.
Lanciarono
un rapido saluto alla donna dietro la scrivania e ripresero
l'ascensore; al suo interno, April stava con le braccia incrociate,
sempre nervosa.
«Chiamerò
il signor Garret e lo informerò della situazione. Di certo
non mi
può dire nulla, no? In fondo ciò che mi ha
chiesto l'ho fatto: mi
sono presentata al posto di Joel. Se quell'Aaron
qualcosa
ha deciso di darci
buca non è affar mio» spiegò risoluta,
quasi giustificando le sue
azioni.
Aveva
paura che l'uomo si sarebbe arrabbiato vedendola tornare senza
l'intervista, anche se effettivamente lei non aveva fatto nulla di
male; esprimendo i suoi pensieri ad alta voce in quel modo, cercava
solo di trovare manforte nel fotografo che le lanciò
un'occhiata.
«Garret
capirà di sicuro, non preoccuparti. Non è uno che
se la prende per
casi del genere, non siamo noi ad aver mancato
all'appuntamento»
rifletté l'uomo.
Sentendo
quelle parole April si sciolse un poco e infine sorrise all'altro,
che la guardò fissa negli occhi.
A
rompere il bel momento ci pensò però lo stomaco
della ragazza che
brontolò rumoroso proprio mentre le porte dell'ascensore si
aprivano, facendo scoppiare a ridere l'altro; arrossì
imbarazzata.
«Beh,
direi che allora possiamo andare a mangiare qualcosa, che ne
dici?»
chiese allora l'uomo, continuando a ridere tra sé. April
arrossì
ancora, diventando un tutt'uno con i suoi adorati occhiali.
«Mi
sembra una buona idea» rispose, cercando di riacquistare un
po' di
contegno.
E
con questa decisione, alle tredici e un minuto, uscirono
dall'edificio.
Erano
esattamente le tredici e due minuti quando Aaron varcò la
soglia
dell'edificio in cui lavorava, catapultandosi all'interno con il
cuore che minacciava di scoppiare dentro il proprio petto.
Si
fermò un attimo, cercando di prendere fiato, ma attese
giusto un
paio di secondi e poi si precipitò verso l'ascensore,
iniziando a
pigiare con insistenza il tasto di chiamata e a battere
freneticamente il piede.
«Sbrigati,
cazzo!» masticò tra sé, rischiando
quasi di rompere il pulsante.
Finalmente
le porte dell'ascensore si aprirono e il rosso si buttò al
suo
interno, premendo il tasto 21.
Ma
è sempre stato così lento questo coso?,
pensò infastidito.
Un
paio di minuti ed arrivò al proprio piano, uscendo di corsa.
Alla
vista di Daphne, dietro la scrivania, impallidì e
rallentò
drasticamente. Si avvicinò un poco, rimanendo a due metri di
distanza.
«Ehi»
disse solo, richiamando l'attenzione della ragazza. Quest'ultima
sollevò lo sguardo su di lui e, riconoscendolo, gli sorrise.
Aaron
ebbe un brivido.
«Aaron,
finalmente!» disse la ragazza alzandosi. Il ragazzo fece un
passo
indietro.
«Senti,
sono ancora qui i tizi della rivista?» chiese distaccato.
Dentro
di sé tremava come una foglia, ma fuori il suo atteggiamento
parve
solo freddo e disinteressato per tutto ciò che lo
circondava, Daphne
compresa. Proprio quest'ultima, in parte abituata agli strani
atteggiamenti dell'uomo, lo guardò un poco offesa notando il
passo
indietro.
«Se
ne sono andati proprio adesso. Non li hai incrociati venendo
qui?»
domandò a sua volta, ritornando a sedere dopo aver visto
l'allontanamento dell'altro.
Dentro
di sé, Aaron si sentì morire.
Merda.
Non ci posso credere.
Vide
chiaramente la propria splendida occasione andare in cenere come se
qualcuno l'avesse cosparsa di benzina e datole fuoco.
«Mh»
mugugnò solo.
Poi,
senza lanciare nemmeno un altro sguardo a Daphne – l'aveva
guardata
perfino per troppo tempo, considerando i suoi standard! -
tirò
dritto verso il proprio ufficio con l'umore in caduta libera.
Quando
entrò dentro il proprio ufficio – una stanza di
discrete
dimensioni, con una grande scrivania tappezzata di computer, fogli e
altri strumenti professionali – alzò gli occhi al
cielo
riconoscendo Tom che, con un cubo di rubik in mano, si dondolava
sulla sedia girevole.
«Ti
prego, non infierire» piagnucolò avvicinandosi
alla propria
scrivania e sedendosi su un'altra sedia.
Tom
alzò lo sguardo e sogghignò.
«Bastardo»
disse solo il rosso, vedendolo.
«Oh,
ti prego, finalmente è giunta una giusta punizione per i
tuoi
infiniti ritardi. Dovevi aspettartela un giorno o l'altro»
disse
Tom, poggiando il cubo sul tavolo e abbandonandosi sullo schienale.
«Non.
Dirlo» scandì l'amico.
«Che
ti aspettavi? Almeno una telefonata potevi farla. E poi, che
è
successo questa volta?»
«Vicky
si è rotta il braccio cadendo e a quanto pare io ero l'unico
disponibile per andare a recuperarla. Il mio telefono si è
scaricato
e mia sorella se l'era dimenticato a casa» spiegò
depresso.
«Ok,
questa volta è stata sfiga, lo ammetto» fece il
moro, alzandosi
finalmente dalla sedia.
Passandogli
affianco, gli diede una pacca sulla schiena.
«Non
preoccuparti, vedrai che se chiami e spieghi ciò che
è successo non
se la prenderanno. Può capitare a tutti una cosa del
genere» disse
con un vago tono consolatorio, avvicinandosi alla porta.
«Davvero?»
chiese con tono lamentoso l'altro.
Tom
ci pensò un po' su.
«No,
effettivamente poteva capitare solo a te. Ci si vede!»
E
con questa ultima uscita, che fece venire ad Aaron una gran voglia di
buttarsi dalla finestra, uscì dalla stanza, lasciando
l'amico a
deprimersi.
L'ho
sempre detto, le donne sono una rovina.
Poco
lontano dall'azienda, la iElettronic Company, in
cui April
aveva sprecato due ore della propria vita, la bionda e Damian avevano
trovato un adorabile ristorante retrò in cui avevano deciso
di
fermarsi.
Proprio
lì i due stavano pranzando e chiacchierando.
Anzi,
non è del tutto esatto. Riproviamo.
Proprio
lì i due stavano pranzando e flirtando in maniera abbastanza
spudorata, tra sorrisini e battutine lanciate qua e là.
«...quindi
alla fine dello stage prenderanno solo una di voi tre?»
April
venne richiamata all'attenzione – era troppo presa a
fantasticare
su quella barba ben curata per prestare la dovuta concentrazione alla
conversazione.
«Esatto»
rispose, riuscendo a ricollegarsi al discorso «Lo stage dura
sei
mesi, è iniziato ad aprile e finirà a settembre,
e fino ad allora
dubito che si saprà qualcosa su chi prenderanno»
spiegò con un
sorriso affascinante.
«Quindi
c'è il rischio che non ti prendano»
insinuò Damian, con un
sorrisetto.
April
arricciò il naso infastidita.
«Sì,
ma dubito succeda. Sono la migliore» disse con fervore,
passandosi
poi una mano tra i capelli in un chiaro gesto di vanità. Il
fotografo rise, subito seguito a ruota da lei.
«Non
ne dubito» rispose poi, con un vago tono malizioso.
April
aprì la bocca per parlare, ma venne interrotta dal cameriere
che
portò ai due i rispettivi dessert: una cheese cake ai frutti
di
bosco per lei, una torta al cioccolato per lui.
«E
se non dovessi essere presa?»
«Beh,
in quel caso...» April si interruppe, indecisa. Non che
avesse
granché pensato a quella eventualità, a dire il
vero; le altre
riviste in cui avrebbe voluto lavorare l'avevano rifiutata, quella
era in parte la sua ultima spiaggia.
Ma
non voleva di certo dirlo all'uomo, rischiando di fare la figura
dell'incompetente, perciò fece un luminoso sorriso e rispose.
«Ho
altre riviste in cui potrei lavorare, devo solo scegliere»
Appena
lo disse, April si pentì di quella bugia sentendo il senso
di colpa
che iniziava a pungolarla; decise di ignorarlo platealmente.
«E
tu? Come sei approdato qui?» continuò la ragazza,
iniziando ad
assaggiare il proprio dolce.
«Mio
padre era un fotografo, mi ha sempre affascinato il mestiere»
disse,
scrollando le spalle «Ho fatto un accademia d'arte,
specializzandomi
in fotografia, e ho subito trovato lavoro alla The Wor(l)d.
Non è esattamente il lavoro dei miei sogni, ma mi permette
di vivere
secondo i miei ritmi, quindi va più che bene»
spiegò rapido.
April
annuì.
«E
vivi da solo? O con la tua ragazza?» buttò
lì April, con un
candido sorriso.
Damian
sogghignò.
«Mi
stai chiedendo se ho una fidanzata?»
«No»
rispose angelica «Ti sto chiedendo se vivi da solo o con la
tua
ragazza» ripeté con candore.
Damian
scosse un poco la testa, sorridendo tra sé.
«Comunque
no, vivo da solo. Non ho una ragazza» spiegò
«E tu? Vivi da sola o
con il tuo ragazzo?» chiese a sua volta, scimmiottandola.
April
rise.
«Sola
soletta. Preferisco l'indipendenza»
Altra
bugia, altro lieve senso di colpa. April ricordò la chiamata
della
mattina, per poi relegare il ricordo a un angolo della sua mente, un
angolo in cui non avrebbe più messo piede.
«Giovane,
bella, indipendente... Quante qualità» disse
Damian, finendo il
proprio dolce.
«E
non le conosci ancora tutte» insinuò maliziosa
April, terminando in
concomitanza con lui il dessert.
Si
guardarono un attimo negli occhi, poi il fotografo si alzò
veloce
dalla sedia.
«Bene,
direi che è l'ora di tornare a lavoro. Non credo neanche
avessimo il
permesso di prenderci una pausa pranzo così lunga»
April
si alzò un secondo dopo, prendendo la borsa.
«Hai
ragione, ma dopo che abbiamo aspettato inutilmente per due ore credo
che questo sia il minimo» disse.
Damian
la precedette alla cassa, pagando anche per lei.
«Non
dovevi» disse April, appena uscirono.
E
invece sì che dovevi, se non l'avessi fatto sarebbe stato
alquanto
imbarazzante,
pensò, ma se lo
tenne per sé stampandosi in volto un'espressione innocente.
«È
stato un piacere» rispose l'altro galante.
Ovvio
che è stato un piacere, ci mancherebbe.
«Bene,
tesoro, vogliamo andare?»
«Lo
ucciderei!» sbottò April, sbattendo con violenza
il bicchiere sul
tavolo.
Alzò
poi lo sguardo verde su May.
«Scusa»
bofonchiò, dando uno sguardo al tavolo e assicurandosi che
non ci
fossero danni su di esso. L'amica fece un vago gesto con la mano,
ridacchiando.
«Non
preoccuparti» disse, alzandosi per mettere a posto la tavola
piena
dei resti del cibo d'asporto.
«Ma,
aspetta, uccideresti Daniel o il tizio dell'intervista?»
chiese poi,
ridendo.
April
iniziò a piagnucolare.
«Smettila
di ridere delle mie disgrazie!»
«Scusa»
riuscì a dire May tra le risate «Però,
davvero, la tua sfortuna è
esilarante»
April
mise il broncio.
«Ah,
felice che le mie disavventure ti provochino una reazione del
genere»
borbottò.
«Dai,
mi dispiace» soffiò May, avvicinandosi e posandole
un bacio tra i
capelli.
«Comunque,
davvero, per Daniel fregatene. È stato solo un coglione, non
ha
capito proprio nulla di te se ti ha mollata in questa
maniera»
disse, prendendo i piatti sporchi e mettendoli nella lavastoviglie;
April si alzò per darle una mano e sospirò.
«Lo
so, ma possibile che non me ne capiti uno decente? Succede sempre la
stessa cosa: mi cercano, mi invitano ad uscire, facciamo sesso e poi
mi scaricano. Manco fossi uno straccio! Ho dei sentimenti,
cavolo!»
si sfogò.
«Sei
solo stata sfortunata, vedrai che arriverà il momento anche
per te»
la tranquillizzò May «Questo Damian come ti
sembra, a proposito?»
chiese, curiosa.
April
si appoggiò al mobile della cucina, asciugandosi le mani su
uno
straccio.
«Sembra
carino. Cioè, non è una bellezza, ma è
molto affascinante. E poi
credo di interessargli» spiegò.
«Com'è
stato il pranzo con lui?»
«Tranquillo.
Non è noioso come altri che mi sono capitati, e poi
è divertente
flirtare con lui» disse con un sorriso.
May
annuì e ricambiò il sorriso.
«Allora
magari potrebbe essere lui quello per te. Vi siete scambiati il
numero?»
«Sì»
«Bene,
allora vedremo quando ti chiamerà!»
«Se
mi chiamerà» borbottò April, nuovamente
imbronciata. May le diede
un colpetto affettuoso alla spalla.
«Vedrai
che lo farà, sarebbe un'idiota a non farlo»
rispose.
April
le sorrise riconoscente.
«Almeno
questa “disavventura” con quel tizio, Aaron
Marlowe, è servita a
qualcosa» considerò.
«A
proposito, sai qualcosa sul perché non si sia presentato?
Almeno
l'hai visto?» domandò May curiosa.
April
negò con la testa.
«Non
l'ho né visto né ho saputo qualcosa. Appena sono
arrivata alla
rivista sono andata da quel Garret e gli ho spiegato la situazione,
per fortuna non sembrava arrabbiato. Mi ha fatto capire che avrebbe
chiamato lui, però non so altro; di certo non mi
richiameranno per
la nuova intervista, la prossima volta ci andrà qualche
giornalista
di quella sezione» ritenne April.
May
annuì.
«Comunque
sia, è stato uno stronzo! Poteva essere
un'opportunità per me –
non so bene in che modo, ma a qualcosa sarebbe servito, immagino
–
e invece quell'idiota non si è presentato!»
iniziò di nuovo a
lamentarsi.
«Se
si è assentato in quel modo sarà stato per un
motivo importante,
non arrabbiarti» cercò di tranquillizzarla May.
«Immagino
che motivo importante sarà stato! Di sicuro avrà
dormito troppo e
basta» borbottò la bionda.
«Non
lo conosci nemmeno!» considerò l'amica.
«Non
mi serve conoscerlo, già da una cosa del genere si capisce
che è
una testa di cazzo» fece indifferente April.
May
alzò gli occhi al cielo.
«Insomma,
tra il tizio che ti ha preso per sbaglio la tua lingerie-»
«-rubato,
specifica»
«...ti
ha preso per sbaglio la tua lingerie,
e questo tizio che non si è presentato... Sembra proprio che
il
destino si prenda gioco di te»
April
la guardò, gli occhi che si spalancavano di orrore.
«Oddio,
e se qualcuno mi avesse lanciato una maledizione?» chiese
tremante.
May
la guardò scandalizzata, poi le lanciò uno
straccio preso dal piano
della cucina, sul quale erano ancora ferme a parlare.
«Non
sparare certe idiozie!» esclamò.
La
afferrò poi per il gomito, trascinandola sul divano sul
quale April
si raggomitolò stringendo un cuscino.
«In
questi momenti di depressione – o pseudo tale, ma non importa
–
c'è solo una soluzione» fece con tono solenne May.
April
la guardò mentre si allontanava di nuovo in cucina.
«Cosa?»
pigolò.
May
tornò subito nel salotto, un sorriso a trentadue denti
stampato in
faccia, due bicchieri e una bottiglia.
«Alcol!»
Ed
April rise.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Buongiorno
a tutti!
Ecco
il sesto capitolo di “It's too cliché”.
L'ultima volta che ho
aggiornato era poco meno di due settimane fa, ma spero che l'attesa
non sia stata troppo lunga – ero al mare e la connessione
lì era
come un fuoco morente: a momenti c'era e a momenti spariva del tutto.
Comunque
sia, questo è finalmente il capitolo in cui i miei due
protagonisti
si incontreranno faccia a faccia! Non aggiungo altro e vi lascio alla
lettura, spero che vi piaccia anche questo capitolo e che mi lasciate
qualche commento!
Grazie
mille a tutti coloro che hanno messo la storia tra
preferiti/seguiti/ricordate!
Al
prossimo capitolo!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo
sei
«Andiamo,
non puoi dirmi di no!»
«Sì
invece!»
E
invece no,
si corresse da solo dentro la propria testa.
Aaron
sbuffò alla vista degli occhi supplicanti di Rosalie,
praticamente
prostrata sul tavolo dove lui tentava – invano – di
fare
colazione.
«Ma
che ti costa?» continuò la sorella, sempre con lo
stesso tono
lamentoso.
«Prima
di tutto, oggi è il mio giorno libero-»
«Appunto,
è perfetto!» lo interruppe allegra la rossa.
«-dicevo,
è il mio unico
giorno libero e vorrei passarlo a riposarmi. Poi spiegami esattamente
come potrei aiutarti a scegliere delle cavolo di bomboniere!»
praticamente strillò l'ultima parola, alzando lo sguardo dal
proprio
caffè e puntandolo sconvolto sugli occhi grigi della sorella.
Quella
lo guardò stupita.
«Certo
che puoi aiutarmi! Le bomboniere devono piacere anche a Mathias ma
purtroppo lui deve lavorare oggi e quindi non può
accompagnarmi,
perciò tu sei l'unico uomo disponibile a venire con me e
darmi un
parere maschile» terminò convinta.
Aaron
continuò a guardare il suo sorriso luminoso mentre il
proprio umore
si tingeva ogni secondo di più di nero.
«Senti,
Rose, non credo di essere in grado di aiutarti. Insomma, non ci
capisco nulla di queste cose!» tentò invano di
convincerla. La
sorella sollevò gli occhi al cielo.
«Devi
solo dirmi se ti piacciono o no, non è così
difficile! Al resto
penseremo io e May»
«May?»
Aaron la bloccò sconcertato, iniziando a impallidire.
Rosalie
lo fissò.
«Sì,
May. È la ragazza dell'agenzia, ma
è tranquilla, non
preoccuparti» fece annoiata, facendo un vago gesto con la
mano.
«Quindi
non solo mi vuoi trascinare a vedere delle dannate bomboniere, ma
devo pure stare nella stessa stanza con una donna!»
«Non
fare il melodrammatico» tagliò corto la sorella,
iniziando già ad
alzarsi «Tu verrai con me, punto. Non accetterò un
no come
risposta, quindi sbrigati a prepararti, io ti aspetto qui»
fece
decisa, spostandosi dal tavolo e andando verso il divano, compreso
nella cucina-soggiorno-salotto che costituivano l'open-space della
casa del ragazzo.
Aaron
tacque, per poi lasciarsi scivolare sul tavolo e sbattere la testa
sul piano.
«Muoviti,
ho l'appuntamento tra poco più di mezz'ora»
La
voce di Rosalie lo raggiunse, costringendolo ad alzarsi e ad andare
verso il bagno – anzi, più che altro a trascinarsi
come
un'anima in pena, ma sono dettagli.
Gli
ci vollero venti minuti scarsi a prepararsi – di cui dieci
solo a
vestirsi, considerando come la sorella lo fece cambiare venti volte
perché “questo no, nemmeno questo,
quell'altro ti invecchia,
oddio questo cos'è”.
Quando
finalmente uscirono dall'appartamento Aaron aveva già voglia
di
rinchiudersi in stanza e lasciarsi marcire da lì fino
all'eternità,
nemmeno l'allegria di Rosalie riusciva a farlo riprendere –
anzi,
gli metteva più depressione di quanta già non ne
avesse di suo.
Sempre
dello stesso umore nero – anzi, ormai defunto e
già in fase di
decomposizione – entrò in macchina insieme alla
rossa, per poi
mettere in moto e seguire le indicazioni dell'altra per raggiungere
quella maledetta agenzia.
Quando
la vide, con tutto quel bianco nelle vetrine, e foto di matrimoni, e
di chiese addobbate, e slogan che lo fecero rabbrividire, si
bloccò
sul marciapiede.
«Che
stai facendo?» lo richiamò Rosalie, voltandosi
verso di lui e
guardandolo contrariata.
«Non
ce la posso fare» pigolò. La sorella
sbuffò, per poi afferrarlo
per la manica della camicia – la giacca abbandonata in auto
quando
si era accorto che faceva già caldo, considerando che si
trovavano a
maggio.
«Smettila
di fare il bambino e vieni. Non ti succederà nulla, nessuno
ti mangerà, te lo prometto» gli disse, con un tono
che ad Aaron
ricordò molto quello che usava con i bambini di otto anni a
cui
insegnava.
Di
fronte all'ennesima occhiataccia che ricevette si decise a smuoversi
dal punto in cui stava iniziando a mettere radici e, come un
condannato a morte, entrò dentro l'inferno.
Vennero
accolti da uno scampanellio della porta e iniziò cautamente
a
guardarsi intorno, individuando un banco con dietro una porta chiusa,
delle sedie e dei tavolini per l'attesa in un angolo e poi un'altra
porta, questa volta aperta, nella quale si notava un corridoio.
Si
muoveva cauto, come se da un momento all'altro potesse spuntare una
bestia feroce e attaccarlo – cosa vera, secondo la sua
ottica: le
donne erano effettivamente delle bestie feroci e quello era il loro
habitat naturale.
«Cerca
di sorridere un po'» lo rimproverò con dolcezza
Rosalie, facendogli
poi un sorriso incoraggiante.
Sorridere?
Dovrei sorridere? Mi trovo in uno dei miei incubi e secondo lei
dovrei sorridere. È pazza.
Nella
testa del ragazzo pensieri del genere continuavano a vagare
incontrollati, ma, se dentro di lui la paura iniziava a prendere il
controllo di tutto, all'esterno iniziò a dipingersi una
facciata di
pura indifferenza come succedeva ogni volta.
Non
sapeva effettivamente perché reagisse così
– nel senso, perché
diventasse freddo quando si trovava in quelle situazioni; non
manifestava chiaramente la paura, sembrava solo immensamente
menefreghista. Che dentro di lui si stesse svolgendo uno tsunami in
piena regola è un altro discorso.
Da
piccolo mostrava molto più chiaramente la paura, ricordava
ancora
con immenso imbarazzo le volte che si metteva a piangere –
come la
volta, a diciotto anni, in un festino al quale era stato trascinato
da Tom: una ragazza molto
ubriaca l'aveva baciato e lui dopo essere stato prontamente
recuperato dall'amico aveva iniziato a piangere in maniera
vergognosa.
Ricordandosi
quell'orribile episodio tremò, cercando di scacciarlo via
scuotendo
la testa e venendo guardato con confusione dalla sorella.
«Rosalie,
eccoti qui!»
Ed
eccola. La prima bestia.
Aaron
sollevò cauto lo sguardo verso il corridoio: una giovane
ragazza dai
capelli castani e gli occhi azzurri incedeva sicura, vestita da un
paio di semplici jeans e una camicetta turchese che le risaltava gli
occhi.
Andava
verso di loro e Aaron percepì chiaramente il suo istinto che
gli
diceva di correre via prima che fosse troppo tardi; purtroppo, prima
che potesse anche solo fare un passo in direzione della porta,
Rosalie lo agguantò per il braccio e lo trascinò
con sé verso la
tizia – May, giusto?
«Buongiorno
May, scusa il ritardo!»
«Ma
quale ritardo, sei in perfetto orario» fece cortese la
ragazza,
stringendo la mano alla sorella.
Volse
poi lo sguardo verso Aaron, che ormai aveva assunto l'espressione
più
glaciale che aveva – ovvero, stava morendo di paura.
Portatemi
via.
«Tu
sei...?» chiese May con un gentile sorriso, porgendogli la
mano.
No,
scordati che te la stringa.
E
invece no, dovette farlo dopo che Rosalie, mantenendo il solito
splendente sorriso, gli pizzicò con violenza il braccio.
«Aaron»
disse solo, in un bisbiglio.
«Lui
è mio fratello» intervenne la rossa allegra
«Scusalo, non è molto
esaltato all'idea di essere qui»
May
rise e Aaron rabbrividì.
«Oh,
capisco perfettamente, credimi! Sapessi quanti ne vengono qui contro
la propria volontà»
Voglio
incontrare l'uomo che venga qui in modo consenziente,
pensò lugubre.
Rosalie
rise con lei, per poi lanciargli una veloce occhiata. Ergo: cerca
di mostrarti un po' più socievole.
«Bene,
allora possiamo andare a vedere queste bomboniere! Ho già
raccolto
alcuni cataloghi seguendo le tue indicazioni, ma ci sono un sacco di
possibilità» disse May, facendo cenno di seguirla
per il corridoio.
No,
oddio no. Non sono ancora pronto. Dio, ti prego, se ci sei mostrati e
aiutami,
pensò tragico.
E
chissà se fu veramente Dio, in quel caso un vero
simpaticone, oppure
il fato, o il destino, o la (s)fortuna, altrettanto bastardi.
Fatto
sta che, appena Aaron terminò il pensiero, la porta si
aprì con un
secondo scampanellio, facendo voltare i tre in contemporanea.
«Ehi
May!»
Aaron
sgranò gli occhi.
Merda.
Il
tonfo sordo prodotto dal pacchetto di cupcakes non raggiunse
minimamente le orecchie di April, troppo impegnata a spalancare la
bocca incredula.
Sto
sognando?
Il
pensiero fu labile nella testolina bionda, che si riprese
immediatamente per farla muovere in direzione del giovane che, con i
suoi capelli rossi e il piercing al labbro, la fissava con
incredulità malcelata.
«Tu»
esclamò battagliera, puntando il dito verso il giovane e
continuando
ad avvicinarsi.
Il
ragazzo fece un passo indietro, zitto.
«Tu»
ripeté, mentre il ragazzo indietreggiava ancora e rimaneva
ostinatamente in silenzio.
«Sei
un infimo ladro di biancheria intima!» berciò con
poca grazia.
Il
ragazzo sbiancò.
«April!»
esclamò May, cercando di richiamarla all'ordine.
«Sai
che quella era l'ultima lingerie disponibile della mia taglia? E ora
non ce l'ho più, tu sei la causa dei miei incubi
ricorrenti»
continuò, ormai partita per la tangente.
Ma,
ehi!, quel tizio le aveva rubato la biancheria intima, non poteva
passarla liscia. Del canto suo, April non aveva la minima intenzione
di farglielo fare.
«Dove
l'hai messa?» tuonò, ormai a un metro dal ragazzo
che era stato
costretto a bloccarsi dal bancone retrostante.
Nulla,
continuava a rimanere zitto.
April
stava per iniziare a lanciargli improperi, ma May la interruppe.
«Ok,
ok, ok. April, tesoro, recupera la calma e un briciolo di
sanità
mentale, per favore» fece dura l'amica, mentre la bionda si
girava
verso di lei incredula.
«Lui
è quello che mi ha rubato la biancheria!»
«Aaron
ti ha rubato la biancheria?» la voce di un'altra donna le
raggiunse,
facendo voltare April che riconobbe la figura di Rosalie, fino a quel
momento per niente notata.
«Rosalie»
fece sorpresa.
La
donna scoppiò a ridere incontrollata.
«Oh,
April, fidati, Aaron è l'ultima persona al mondo che avrebbe
potuto
rubarti l'intimo» riuscì a dire tra le risate.
April
la guardò e gonfiò le guance come una bambina.
«Ma
è quello che ha fatto» puntualizzò
infastidita.
«È
stato un errore»
Finalmente
la voce del ragazzo – Aaron, giusto? - risuonò in
quella stanza,
facendo voltare le tre donne in contemporanea. April lo
guardò
accusatrice.
«Cosa?»
fece sospettosa.
«Non
era mia intenzione» mormorò il giovane, a bassa
voce «Ho preso per
sbaglio il tuo sacchetto prima di andare via»
Beh,
era ovvio che fosse successa una cosa del genere, April lo sapeva, ma
per tutto quel tempo quell'incidente si era trasformato (almeno nella
sua testa) in un “ladro di biancheria che ha
consapevolmente
rubato il suo acquisto per farci chissà cosa”.
April
fece un passo indietro e incrociò le braccia.
«Posso
fidarmi?» fece sospettosa, in direzione di Rosalie. La donna
sorrise.
«Direi
di sì» rispose, per poi continuare a ridacchiare.
April
spostò lo sguardo nuovamente verso Aaron, fissandolo con
dubbio.
Alla vista di quegli adorabili capelli rossi, però, la sua
incertezza venne spazzata via – sì, non era una
persona molto stabile d'umore – e sorrise radiosa al ragazzo.
«Ops,
scusa allora! Non volevo essere aggressiva»
chiocciò tutta
sorridente.
Gli
porse poi la mano.
«April
Montgomery, molto piacere» tubò.
Vide
chiaramente il ragazzo allargare gli occhi, come spaventato –
spaventato da che, esattamente?
Non
le sembrava di aver fatto nulla di male, in fondo – e con una
preoccupante lentezza gliela strinse.
«Aaron
Marlowe» fece, con tono freddo.
Ma
ecco. Un nuovo campanello d'allarme suonò nella testa di
April, per
poi diventare una vera e propria sirena.
«Aaron
Marlowe?» domandò lugubre.
«April,
perché non ti allontani un po'...»
Sentì
indistinta la voce preoccupata di May che la richiamava, poi una mano
che le afferrava il braccio per tirarla indietro.
«Tu
sei quell'Aaron Marlowe che lavora alla iElettronic
Company?»
insistette però.
Aaron
sfuggì al suo sguardo.
«...sì?»
rispose incerto.
Eh
no. Questo ha del ridicolo.
«Quindi
tu sei quello che non
solo
mi ha preso “per
sbaglio” la mia lingerie, ma
ha pure
saltato
l'appuntamento per l'intervista che mi avrebbe potuto garantire una
qualche possibilità migliore di lavoro?» chiese
funerea. La
possibilità migliore era ancora da decidere, ma April era
assolutamente sicura che ci fosse.
Il
ragazzo tacque per l'ennesima volta.
«Pare
proprio di sì» trillò allegra Rosalie
dalle retrovie.
«Tu,
schifosa testa di-»
«April!»
la interruppe May, praticamente tappandole la bocca con la mano.
Alla
vista degli occhi irati della castana, April spense tutto il suo
fuoco come se le avessero fatto una doccia gelata, per farsi piccola
piccola.
«Lui-»
«Niente
“lui”» disse ferma May, fissandola
glaciale.
«...ok»
pigolò April.
Credo
sia arrabbiata,
pensò colpevole la bionda. Ma che poteva farci? La questione
era
diventata incredibilmente assurda nel momento esatto in cui aveva
capito che quel tizio era l'autore di due dei suoi ultimi problemi.
May non poteva di certo aspettarsi che avrebbe lasciato correre.
Dopo
la nuova occhiata di fuoco che la castana le lanciò, April
incrociò
le braccia.
«Ok,
la smetto»
May
la fissò ancora e la bionda alzò gli occhi al
cielo.
«Scusa,
Aaron» bofonchiò in direzione del rosso.
Questo
annuì, continuando a non guardarla.
«Bene,
a quanto pare abbiamo potuto appurare che New York è
veramente molto
piccola» esclamò Rosalie, che in tutta quella
faccenda sembrava
l'unica che si divertisse un mondo.
E
molto probabilmente era proprio così.
«April,
era da tanto che non ci vedevamo, come stai?» chiese poi la
rossa,
deviando la conversazione in un terreno più stabile.
«Bene,
circa» rispose, allontanandosi finalmente da Aaron e
dirigendosi
verso la rossa «Tu? E l'organizzazione per il tuo
matrimonio?»
«Benissimo!
Proprio oggi io e Aaron – che è mio fratello,
comunque – siamo
venuti per vedere alcune bomboniere» spiegò
giuliva.
April
lanciò un'occhiata al ragazzo nuovamente tirato in ballo,
che però
non accennava a spostarsi dal punto in cui si trovava.
«Ops,
quindi ho disturbato» considerò.
«Ma
no! Anzi, grazie per avermi fatto divertire» rispose euforica
la
donna.
April
sorrise.
«Comunque
sia, perché sei qui?» domandò May.
«Ero
venuta a portarti dei dolcetti» spiegò. Dicendolo,
si voltò verso
la porta: il pacchetto era sempre lì, a terra, i cupcakes
molto
probabilmente rovinati.
«Non
so quanto siano ancora commestibili» ritenne.
May
sospirò.
«Adesso
devo lavorare, quindi che ne dici di ripassare tra un po',
eh?» le
disse.
April
annuì.
«Va
bene» rispose. Poi si voltò verso Rosalie
«Mi ha fatto piacere
incontrarti di nuovo, e scusa per la figura» aggiunse. Solo
in quel
momento la sua mente stava riflettendo sul fatto che non aveva
proprio fatto una bella impressione con quella scenata.
«Non
preoccuparti!» disse la donna, con un sorriso
«Anche a me ha fatto
piacere rivederti, spero che riusciremo a incontrarci qualche altra
volta» disse allegra.
April
sorrise.
«Lo
spero anche io» rispose.
Si
voltò verso Aaron, sempre fermo nel punto in cui April
l'aveva
costretto all'inizio.
«Emh...
Scusa ancora per prima» disse incerta. L'altro tacque.
Ma
che problemi ha questo qui?
«Beh,
ciao!» concluse, stanca di aspettare la risposta dal ragazzo.
Mentre
le altre ricambiavano il saluto, April recuperò il pacchetto
di
dolci e uscì dall'agenzia, lanciando un ultimo sguardo al
ragazzo.
La
fissava, e le sembrò di scorgere la paura nei suoi occhi.
Certo
che è strano.
All'ora
di pranzo Aaron stava ancora cercando di recuperare il suo orgoglio
maschile, andato perso in seguito all'attacco di panico avuto in
macchina dopo le due
ore
spese a vedere bomboniere su bomboniere.
Ma,
più che quelle due ore infernali, ciò che l'aveva
terrorizzato di
più era quella ragazza.
Ho
perso vent'anni della mia povera vita. Morirò tra breve, lo
sento,
pensava depresso, mentre sgranocchiava del pane in attesa del pranzo.
Rosalie
invece sembrava continuamente sospesa in una nuvoletta rosa di
felicità e trotterellava nella casa dei suoi preparando il
pranzo.
«...dovevi
vederle, mamma, erano adorabili.
In pratica avevano la forma di un cigno con un piccolo brillante
incastonato – nulla di costoso, non preoccuparti –
e si può
scegliere il colore sia del fiocco che della pietra!»
trillava in un
brodo di giuggiole.
Aaron
fece una smorfia: ricordava quella bomboniera, era orribile.
«E
tu che ne pensi di questa, tesoro?»
La
voce di Elizabeth lo richiamò dai pensieri depressi in cui
si
crogiolava, facendogli alzare la testa dal divano su cui era disteso
e trovandosi a fissare colei dalla quale aveva ereditato non solo i
capelli fiammanti, ma anche gli stessi occhi scuri.
«Carini»
disse solo.
Il
fatto che Rosalie lo avesse portato con sé per un parere non
significava che questo fosse effettivamente richiesto,
perciò si
limitava a dire “carino”, “niente
male”, “potrebbe essere”
ogni qualvolta lo interpellassero a proposito di quelle bomboniere.
La
madre lo fissò.
«Sembri
un po' tra le nuvole» considerò, dopo un'attenta
osservazione «Non
credi anche tu, Jason?» chiese poi al marito. Quest'ultimo fu
tirato
in ballo e guardò prima la moglie, poi il figlio: il suo
sguardo
sembrava proprio dire “mi
dispiace, non so cosa mi sia preso quando l'ho sposata”.
«Sembra
di sì» rispose accomodante.
Che
gli sembrasse effettivamente fra le nuvole o no poco importava
però
a Elizabeth, che avrebbe continuato sulla propria strada anche in
caso di una risposta contraria.
«Tesoro,
hai qualche problema? Puoi sempre parlarmene, lo sai» disse,
avvicinandosi al figlio con un sorriso incoraggiante.
Ma
Aaron sapeva che quella preoccupazione era in gran parte dettata
dalla morbosa curiosità su tutta la sua vita –
ovviamente anche su
quella delle sue sorelle, ma loro di solito erano molto più
propense
a parlare rispetto a lui, perciò Aaron finiva sempre per
essere
quello su cui la loro madre si concentrava, infastidita dal fatto che
una parte della sua vita non fosse presentata all'attenzione di tutti
come il resto – che, ovviamente, veniva spifferato comunque
da
altri.
«Niente
di che, mamma, non preoccuparti» rispose, pregando che la
questione
finisse lì.
Povero
illuso.
«Certo
che mi preoccupo, sono tua madre!» iniziò la
donna, avvicinandosi
al divano e costringendolo a spostarsi per farle spazio.
Aaron
sospirò, già esausto.
«Starà
ancora pensando a quella April...» insinuò vaga
Rosalie.
Aaron
lanciò uno sguardo omicida alla sorella, alle spalle della
madre,
che gli fece un sorriso angelico per poi tornare ai fornelli.
«April?
Chi è questa April? La tua fidanzata? È quella a
cui hai regalato
quel completo intimo?» Elizabeth sparò una raffica
di domande che
fece impallidire Aaron.
«No,
assolutamente!»
«A
dir la verità quel completo è proprio
suo» tubò Rosalie.
«Porca
puttana, vuoi starti zitta?» berciò Aaron,
alzandosi di scatto,
livido dalla rabbia e l'imbarazzo.
La
madre si illuminò in un roseo sorriso.
«Davvero?»
chiese conferma alla figlia.
«No,
per niente» la precedette Aaron, lanciando uno sguardo alla
sorella
che, vedendolo, decise che sarebbe stato più saggio tacere.
«E
allora chi è?»
«Di
chi parlate?»
La
voce di Isobel raggiunse tutti, che si voltarono sull'uscio della
porta. La ragazzina entrò flemmatica, lanciando appena uno
sguardo
incuriosito al fratello.
«Non
mettertici anche tu» la pregò il fratello.
Osservò poi la sorella,
considerando che era stato fortunato a beccare il giorno in cui era
lei l'unica – escludendo Rosalie, ovviamente – a
essere a casa:
il resto delle sorelle erano chi da un'amica, chi dal marito, chi
all'università.
«Non
so neanche di cosa state parlando» obiettò,
guardandolo.
«Aaron
è innamorato» esclamò entusiasta
Elizabeth.
«Eh?»
«NO»
«Ha
incontrato la sua adorata, oggi» interloquì
Rosalie, avvicinandosi
alla sorellina e dandole un bacio sulla guancia.
«...davvero?»
chiese dubbiosa la sedicenne.
Aaron,
vedendo la luce di curiosità che brillava anche negli occhi
della
più piccola – l'ultimo baluardo di salvezza andato
in cenere –
sperò ardentemente che una voragine gli si aprisse sotto i
piedi e
lo inghiottisse, facendolo scomparire per il resto dei suoi giorni.
Purtroppo non avvenne.
«Volete
lasciarmi spiegare?!»
tuonò, irato.
Il
silenzio cadde nella sala da pranzo e Aaron riuscì ad
attirare anche
l'attenzione del padre, fino a quel momento ostinato a rimanere fuori
dalla conversazione concentrandosi solo sul giornale.
«Primo:
April non è la mia ragazza. Non la conosco nemmeno! Secondo:
sì, la
lingerie è sua, ma solo perché un giorno per
sbaglio
abbiamo scambiato le buste. Terzo: sì, oggi l'ho incontrata,
e mi
stava quasi per divorare a causa dello scambio di giorni fa. E mi ha
fatto una fottuta paura che so per certo che mai,
e ripeto: mai
potrà accadere che io mi riavvicini a lei»
disse duro «E ora, se volete, continuate pure a prendermi in
giro
come fate sempre, io ne ho abbastanza» terminò,
precipitandosi
fuori dalla stanza.
Non
seppe se, una volta fuori, le tre donne si fossero messe a parlare
della sua scenata: d'altronde poco gliene importava, perciò
si
rinchiuse nella sua stanza – o meglio, vecchia stanza, dato
che era
da ormai qualche anno che si era trasferito in un proprio
appartamento guadagnandosi una privacy che ancora faceva fatica a
essere del tutto tale.
Si
sedette sul suo vecchio letto singolo, passandosi una mano tra i
capelli e iniziando a giocherellare col piercing al labbro.
Era
stato molto duro, lo riconosceva, alla fine sapeva che stavano
scherzando – più o meno – ma andava
avanti da secoli questo loro
comportamento e in quella situazione non era riuscito più a
sopportarlo.
Sentì
il senso di colpa farsi strada dentro di sé e se non
tornò indietro
a chiedere scusa della scenata fu solo perché la porta si
aprì,
anticipando le sue mosse.
«Papà»
fece sorpreso.
Jason
Marlowe entrò nella stanza in silenzio, chiudendo la porta
dietro di
sé e iniziando a fissarlo.
La
luce del giorno filtrava dalle tende sottili illuminandogli i capelli
leggermente brizzolati e gli occhi grigi che aveva tramandato a una
parte delle sue figlie.
«Tutto
bene?» disse infine.
Aaron
fece una smorfia.
«Per
quanto possa esserlo dopo aver appena urlato addosso a mamma, Rose e
Isy» rispose.
Il
padre annuì, iniziando a passeggiare nella stanza.
Aaron
lo guardava dubbioso: il padre, a differenza della mamma, non era mai
stato uno di molte parole; lasciava sempre che fosse Elizabeth a
occuparsi dei figli, anche perché avendo cinque figlie
femmine si
sentiva poco adatto a far loro da consigliere, e nonostante Aaron
fosse l'unico figlio maschio aveva lasciato che anche lui fosse
guidato dalla madre – e non solo, anche dalle sorelle
maggiori.
Non
che non avesse un rapporto con il figlio, ma non aveva mai saputo
come aiutarlo nei suoi rapporti con le donne, anche perché
anche lui
era finito per diventare “succube” del matriarcato
di quella
famiglia. Lasciava più o meno che facessero tutte quello che
credevano fosse meglio, guidate da Elizabeth che, nonostante tutto,
non era una sciocca, e interveniva prevalentemente nelle questioni
importanti.
«So
che dirti di lasciarle perdere è inutile, perché
sai come me che
sono fatte così, ma dovresti prendere più alla
leggera i loro
discorsi» disse l'uomo, continuando a girovagare per la
stanza.
Aaron
alzò gli occhi al cielo infastidito.
«Prenderli
alla leggera dici? Stanno continuamente a fare battutine su di me e
il rapporto che ho con il mondo femminile, mettendomi di continuo in
imbarazzo e trascinandomi in situazioni che non sopporto, e dovrei
continuare a prendere alla leggera i loro discorsi?» fece
pungente.
Jason
si fermò di fronte a una mensola dove dei fumetti stavano
posti in
ordine e privi di un granello di polvere – Elizabeth
continuava
ostinatamente a pulire quasi ogni giorno le stanze dei figli, anche
quelli che ormai avevano una casa loro.
«Lo
so questo, cercano di fare la stessa cosa anche con me. È la
tua
reazione che a loro diverte, te la prendi un sacco e a loro piace
vederti in difficoltà – ma lo fanno senza
cattiveria, lo sai»
disse.
«E
cosa dovrei fare allora?»
«Ignorale»
si girò a guardarlo «Nel senso, non è
che non devi parlare loro,
solo che quando fanno questi discorsi lasciale perdere, non dare la
soddisfazione di metterti in imbarazzo, presto perderanno il gusto di
farlo» spiegò.
Aaron
abbassò lo sguardo.
«Non
ce la faccio. Ogni volta che parlano di me e una ragazza entro in
crisi» bisbigliò, vergognandosi a morte per quelle
parole.
Era
difficile parlare del proprio problema con il padre, anche
perché le
volte che avevano toccato quell'argomento erano veramente rare.
«Allora
perché, prima di tutto, non inizi a lavorare su
questo?» chiese.
Aaron
lo fissò, un poco confuso.
«Che
intendi?»
«Se
ti dà fastidio che loro scherzino su questo tuo problema,
risolvilo
in modo che non sia più tale, e loro non avranno la
possibilità di
prenderti in giro»
Aaron
rise amaro.
«Credi
che non ci abbia mai provato? Tom tenta da anni di farmi passare
questa fobia, eppure non ci è minimamente riuscito. Anzi,
più passa
il tempo, più peggiora»
«Peggiora
proprio perché non ti impegni abbastanza per migliorare. Non
posso
dire che capisca la tua paura – anche se ammetto che certe
volte le
donne sono spaventose e che vedendo le tue sorelle tu possa essere
rimasto un poco traumatizzato – però credo che a
piccoli passi tu
possa eliminare questa cosa» disse Jason.
Aaron
tacque e abbassò lo sguardo.
L'imbarazzo
non accennava a sparire e inoltre aveva voglia di urlargli che sapeva
già tutte queste cose – Tom stesso gliele diceva
di continuo –
ma riuscì a non rispondere male, apprezzando lo sforzo che
il padre
aveva fatto per dirgli tutto quello; aveva preso dal padre quella
riservatezza che tutti di continuo cercavano di portargli via,
perciò
notava l'impegno che Jason aveva messo per dirgli quelle cose.
Alzò
finalmente lo sguardo e gli sorrise.
«Prometto
che ci proverò, papà»
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Salve
a tutti!
Sì,
lo so, è da agosto che non aggiorno e per questo chiedo
scusa! Solo
che tra preparativi per l'università, il trascolo e la
novità di
questa – il primo periodo mi stavo ambientando –
non ho avuto
tempo né ispirazione; oltretutto, ho avuto anche il pc fuori
uso per
un mese a causa di un guasto.
Comunque
sia, spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, ho cercato
di farlo più lungo per in qualche modo scusarmi della mia
lunga
assenza. In questo capitolo continuo a sviluppare la storia per gli
eventi successivi, spero vi piaccia!
Cercherò
di scrivere il nuovo capitolo il prima possibile – finalmente
ho
finito la sessione di esami, ma avrò di nuovo le lezioni
quindi...
Comunque
sia, ora vi auguro buona lettura!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's
too cliché
Capitolo
sette
Il
risveglio di April fu piuttosto traumatico: la sveglia suonò
particolarmente rumorosa quella mattina e, persa com'era nel sonno
più profondo, fece in pratica un salto dal letto.
Allungò rapida
una mano per spegnere quel suono infernale, andando a tentoni con la
mano non avendo gli occhiali: così facendo, purtroppo,
finì per
urtare il bicchiere d'acqua che ogni sera metteva sul comodino;
cadde, rompendosi in mille pezzi e bagnando non solo il pavimento, ma
anche le pantofole e il tappeto ai piedi del letto.
«Merda!»
berciò April, riuscendo finalmente a spegnere la maledetta
sveglia e
trovando, dopo vari secondi di disperata ricerca, i suoi adorati e
più che necessari occhiali rossi.
Li
inforcò tra i capelli biondi sconvolti, rendendosi conto del
danno
appena fatto.
«No...»
mugolò vedendo l'acqua che inzuppava il tappeto e le
pantofole, più
i pezzettini di vetro sparsi più o meno ovunque.
Si
alzò con cautela, cercando di fare attenzione ai pezzi di
vetro:
sorrise soddisfatta quando era a un passo dalla porta –
felice di
non averne beccato nemmeno uno – peccato che proprio in quel
momento sentì una piccola fitta di dolore al piede destro e
urlò.
Iniziò
a saltellare in precario equilibrio, ma ovviamente non era la sua
giornata poiché inciampò sul suo stesso piede e
cadde per terra,
sbattendo con violenza il ginocchio sinistro.
«Cazzo!»
urlò di nuovo.
Rimase
poi lì per terra per poi esaminare il piede infortunato: una
piccola
scheggia di vetro era conficcata sulla pianta del piede e qualche
goccia di sangue usciva dalla ferita.
Ecco,
anche se non sembrava, c'era una cosa rossa che April odiava con
tutto il suo cuore: il sangue.
Impallidì
vedendolo e con timore si tolse la scheggia dal piede, per poi
correre in bagno a sciacquarselo; le bruciò un po', ma
almeno
quell'orribile liquido rosso scomparve.
Frugò
nei cassetti alla ricerca di un cerotto e quando lo trovò
evitò il
più possibile di guardare le nuove goccioline di sangue che
si
stavano formando sulla ferita: non era così grande, quello
no, e non
le faceva neanche tanto male. Forse però avrebbe dovuto
mettere
delle scarpe basse il giorno, più comode rispetto ai suoi
soliti
tacchi.
Appena
il sangue sparì dalla sua vista e tirò un sospiro
di sollievo a
quella tragedia mancata – la ferita ci avrebbe messo giusto
un
giorno a guarire – sentì però il dolore
sordo del ginocchio.
Lo
guardò sconsolata: la botta era stata brutta e qualcosa le
diceva
che le si sarebbe gonfiato di lì a poco.
Filò
in cucina scalza, per poi iniziare a frugare nel freezer e recuperare
del ghiaccio.
Se
lo mise sul ginocchio infortunato per poi iniziare a zampettare per
la cucina e prepararsi la colazione: giusto un cupcake avanzato dal
giorno prima – uno di quelli che aveva portato a May che
aveva a
sua volta insistito che se ne prendesse almeno uno da portare a casa
– e una tazza di latte bevuta al volo – il
caffé l'avrebbe preso
al lavoro o da qualche altra parte.
Quando
si riaffacciò nella propria camera e vide il disastro che
ancora vi
era – beh, in fondo era difficile che sparisse da un minuto
all'altro – mugolò nervosa e si adoperò
per pulire il meglio che
poteva: ovvero, raccolse i pezzi di vetro che riuscì a
vedere,
asciugò veloce con uno straccio e mise il tappeto e le
pantofole
all'aria ad asciugare; non poteva permettersi di più, era
già fin
troppo in ritardo.
Per
cui corse a farsi una doccia rapida – il piede col cerotto
lavato
con particolare attenzione per non bagnare la ferita – e si
vestì
più semplicemente del solito, con solo un paio di jeans a
sigaretta,
una camicetta primaverile bianca e delle vans rosse. A dire il vero,
tentò un paio di tacchi ma a sentire la fitta al piede
rinunciò
subito.
Con
sguardo sconsolato uscì per andare a lavoro.
Qualcosa
mi dice che questa non sarà una bella giornata.
Da
qualche altra parte, sempre a New York, nemmeno Aaron ebbe un
risveglio piacevole: a svegliarlo dieci minuti prima della sua
sveglia – e quando si hanno solo tre ore e mezza di sonno
perché
la sera prima si è dovuto finire un lavoro, quei dieci
minuti sono
necessari – fu il
telefono che iniziò a squillare.
Non
lo sentì subito, tanto che chiunque l'avesse chiamato chiuse
dopo
numerosi squilli; ma la persona non demordette e il telefono riprese
a suonare furiosamente, assordando il povero Aaron che si
svegliò
sentendo l'odio bruciare nella sua testa.
Diede
un'occhiata all'ora e, vedendo come mancassero solo dieci minuti alla
sua sveglia, gli venne da piangere.
Chiunque
sia, lo ucciderò.
Prese
il cellulare e con voce assonnata rispose.
«Chi
è?»
«Buongiorno
zuccherino»
«Tom»
Ok,
avrebbe ucciso il suo migliore amico. Non sapeva ancora la dinamica e
come farla franca, ma l'avrebbe fatto.
«In
tutto il suo splendore» ironizzò Tom,
dall'altro capo del filo.
Aaron
si schiacciò il cuscino in faccia con aria disperata,
l'istinto
omicida sempre vivo in lui.
Dopo
infiniti anni di amicizia, ancora non sapeva se amasse o odiasse il
suo migliore amico. Nel dubbio, faceva entrambi.
«Cosa
cazzo vuoi?» borbottò nervoso, la voce impastata
dal sonno.
«Bonjour
finesse!» continuò sarcastico l'altro e
Aaron pensò che, se ce
lo avesse avuto davanti, gli avrebbe di sicuro lanciato qualcosa.
«Se
mi hai chiamato solo per rompermi le scatole sappi che non la
passerai liscia»
Sentì
l'amico ridere dall'altro capo del telefono e sbuffò,
rinunciando
all'idea di dormire ancora per dieci minuti come in teoria avrebbe
dovuto fare: qualcosa gli diceva che non ce l'avrebbe fatta.
«A
dire il vero credevo fossi già sveglio. Sai, per la tua
corsa
mattutina»
Aaron
si alzò dal letto ciondolando, infilandosi le pantofole e
dirigendosi in bagno per farsi una doccia.
«Abbiamo
dormito meno di quattro ore e pretendi che io mi alzi per andare a
correre? Sei fuori di testa» abbaiò sempre
nervoso, iniziando a
spogliarsi e mettendo il viva-voce «A proposito, come diavolo
fai a
essere così energico?» borbottò mentre
si dava un'occhiata allo
specchio e notava le sue profonde occhiaie.
«Tre
caffè e una pasticca» celiò
Tom con voce soffice.
Aaron
ignorò le ultime due parole mentre terminava di spogliarsi e
metteva
tutto dentro il cesto della biancheria.
I
peli sulle braccia gli si drizzarono in una sensazione spiacevole una
volta nudo e corse ad aprire l'acqua.
«Ti
stai facendo la doccia?»
«A
te che sembra?» chiese a sua volta Aaron, entrando nel box e
mettendo il cellulare più vicino possibile per continuare a
parlare.
«Uh,
quindi sei nudo in questo momento. Mi stai avanzando proposte? Hai
deciso di lasciar perdere il genere femminile?»
chiese veloce
Tom, e ad Aaron stava già iniziando a svuotare la testa.
«No,
non ti sto avanzando proposte e sì, credo che
inizierò a lasciar
perdere il genere femminile» rispose, l'acqua calda che gli
scioglieva i muscoli dopo il sonno.
«Beh,
lo capisco dopo quello che è successo ieri...»
Aaron
per un attimo credette di essersi immaginato quelle parole a causa
dell'acqua che nascondeva in parte la voce, ma dopo qualche secondo
di silenzio capì che invece aveva capito proprio bene e
aprì di
scatto gli occhi precedentemente chiusi sotto il getto dell'acqua.
«Come
fai a saperlo?!» strillò con voce strozzata e
arrossendo.
«Me
l'ha detto un uccellino» ironizzò
l'amico.
«Dimmelo
subito»
Sentì
un sospiro provenire dal viva-voce mentre prendeva il bagnoschiuma.
«Vicky.
Credo glielo abbia detto Rosalie, o forse tua mamma, ma non so»
«Io
quelle le uccido!» urlò
incazzato Aaron, iniziando a
insaponarsi furiosamente mentre a causa dell'acqua i capelli erano
sparati in aria, facendolo sembrare ancora più sconvolto.
«Ma
dai, non è venuta a dirmelo apposta, stavamo parlando del
più e del
meno» cercò di tranquillizzarlo Tom.
Ma
Aaron sbarrò gli occhi ancora di più.
«Ti
stavi sentendo con mia sorella?! Ci stai provando con mia
sorella?!» tuonò irato.
«...Ma
no. Stavamo solo chiacchierando, non pensare male»
Aaron
impallidì di colpo.
«Ci
sta provando con mia sorella» esalò allucinato.
«Come
dici? Non ti ho sentito»
Aaron
allungò una mano fuori dal box, asciugandosela
sull'accappatoio
appeso lì affianco.
«Dico
che sei una merda!» urlò isterico e senza dare il
tempo all'altro
di replicare gli chiuse la chiamata in diretta, ritirando nuovamente
la mano nel box.
No,
quella giornata non presagiva niente di buono.
Quando
entrò nel suo ufficio – condiviso, ma comunque suo
– April pensò
che ci fosse qualcosa che non andava.
Non
capiva bene cosa, aveva semplicemente una brutta sensazione che non
si decideva ad abbandonarla e la sfortuna della mattina non
l'aiutava.
«Ciao»
disse solo in direzione di Melanie, l'unica presente in quel momento;
Gwen aveva il brutto vizio di fare tardi e spesso era stata ripresa
per questo.
La
collega rispose solo con un cenno, già presa dal proprio al
lavoro
al computer, perciò April mollò in silenzio la
borsa sul tavolo e,
dopo essersi tolta la giacca primaverile, andò nell'altra
stanza per
farsi un caffè.
Mentre
si gustava la sua bibita in tranquillità, assaporando il
gusto dolce
dopo le tre bustine di zucchero messe al suo interno, cercava di
rilassarsi prima di mettersi al lavoro e, soprattutto, di eliminare
quella fastidiosa sensazione che proprio non si decideva ad
abbandonarla.
Basta
April, smetti di farti condizionare da scemenze del genere. Non
esistono le “brutte sensazioni”,
pensò convinta.
Peccato
che, appena bevve l'ultimo sorso di caffè per poi buttare il
bicchierino di plastica, una persona entrò come una furia
nella
stanza facendola sussultare.
Si
voltò verso Gwen che la guardava con gli occhi azzurri che
lanciavano fiamme.
«Tu»
tuonò all'improvviso.
April
la fissò interdetta, notando come avesse ancora borsa e
giacca –
si era precipitata da lei senza darsi tempo.
«...io?»
replicò indecisa, l'ansia che le saliva un po' addosso.
Ok,
le brutte sensazioni esistono.
«Hai
intenzione di rubarmi tutti i ragazzi su cui poso gli occhi?»
sibilò
inviperita.
April
la fissò sorpresa e subito dopo le venne in mente quel Tom.
Beh, non
gliel'aveva mica rubato: non era colpa sua se il ragazzo aveva
mostrato interesse nei suoi confronti, e d'altro canto April non
aveva ricambiato proprio niente.
«Parli
di Tom?» fece, indecisa.
Non
le piaceva entrare in conflitti del genere, non sapeva mai come
comportarsi: a volte finiva per farsi mettere i piedi in testa, altre
volte per sbottare e fare la figura dell'irascibile, ma è
solo che
non riusciva a trovare la giusta via di mezzo.
«Non
solo lui» sibilò la ragazza, gli occhi azzurri
sempre
fiammeggianti.
April
la guardò spiazzata.
Allora
di chi cavolo sta parlando?, si
chiese tra sé.
Incrociò
le braccia, sulla difensiva.
«Allora
spiegati meglio» rispose, innervosendosi.
Gwen,
a sua volta, incrociò le braccia sul petto.
«Parlo
di Damian. Ce l'hai presente? Barba, occhiali scuri, fotografo,
tremendamente sexy» spiegò telegrafica.
Ecco
di chi parlava, Damian!
April
la guardò interdetta.
«Non
hai nulla da dirmi?» continuò Gwen, osservando
l'aria silenziosa di
April.
April,
a quelle parole, e già nervosa di suo per il grandioso
inizio di
giornata, sbottò.
«Cosa
vuoi che ti dica? Non è colpa mia se gli uomini preferiscono
me a
te. Evidentemente ho più attrattive. Non incolpare me per la
tua
inadeguatezza» fece sprezzante.
Sentendo
quelle frasi neanche troppo velatamente cattive, Gwen
arrossì di
frustrazione.
«Preferiranno
te a me, ma di certo non sono quella che viene scaricata il giorno
dopo» rispose acida la castana.
April
si immobilizzò, ma l'altra non le diede il tempo di
rispondere ed
uscì dalla stanza per dirigersi in ufficio.
Stringendo
le mani a pugno e percependo gli occhi pungenti, diede un calcio al
cestino dell'immondizia, rovesciandolo.
No,
quella continuava a preannunciarsi una pessima
giornata.
«Ma
stiamo scherzando?!»
La
voce di Aaron risuonò all'interno dell'auto ferma da
più di
mezz'ora nel traffico mattutino newyorkese, quella mattina fin troppo
intenso.
Suonò
il clacson per l'ennesima volta e imprecò notando che la
macchina di
fronte a lui avanzò di un solo centimetro.
Cazzo.
Questa volta mi uccidono se arrivo in ritardo.
Mentre
l'ansia gli strisciava addosso come la nebbia in una triste giornata
autunnale, la radio accesa ferma su un canale di news lo avvisava che
nella sua
zona, a causa di
un incidente, il traffico aumentava e non sembravano esserci margini
di miglioramento.
«Porca
puttana» sibilò irato.
Bene,
avrebbe fatto di sicuro ritardo anche quel giorno. L'avrebbero
squartato vivo, ne era sicuro.
Abbandonò
la testa sul volante, premendo per un attimo il clacson che
suonò
nella strada insieme a quelli di altre centinaia di macchine, e
chiuse gli occhi inspirando a fondo.
Rimase
cinque minuti così, cercando di calmarsi ed eliminare il
nervoso che
lo attanagliava.
Infine
sollevò la testa e afferrò il cellulare,
componendo il numero di
Tom. Sperava che, avvisando, non gli avrebbero fatto troppo male.
Il
telefono fece tre squilli prima che il suo amico rispose.
«Ti
prego, non dirmi che farai tardi» lo accolse la
voce familiare.
Aaron
si morse un labbro, a disagio.
«Vuoi
veramente una bugia?» replicò.
Sentì
una vaga imprecazione dall'altro capo del filo, poi qualcosa che
cadeva a terra e un breve silenzio.
«Cazzo,
Aaron, ma mi vuoi spiegare come diavolo fai? Davvero, è
qualcosa di
assurdo, anzi, è impossibile»
«Ti
giuro, non è colpa mia! C'è stato un incidente e
il traffico è
bloccato!» tentò di spiegare.
«Certo,
ovvio, succede sempre qualcosa. Il giorno in cui arriverai in orario
sarà il giorno in cui scoperai con qualcuna»
fece sarcastico
Tom. Aaron arrossì.
«Fanculo,
Tom» borbottò «Avvisa che
farò tardi» concluse poi e, senza
lasciare il tempo all'altro di rispondere, chiuse la telefonata,
giusto in tempo per notare che il traffico iniziava finalmente a
muoversi: pareva che lo stessero finalmente deviando.
Che
giornata grandiosa.
April
sospirò per l'ennesima volta in quella interminabile
giornata.
Lanciò
una veloce occhiata carica di astio a Gwen, che da quando era
arrivata a lavoro quel giorno – dopo averle praticamente
gridato
contro, ovvio – era seduta alla sua postazione lavorando
senza
sosta.
Da
quando le aveva detto quelle parole non faceva che ripensarci.
È
vero, gli uomini la scaricavano sempre dopo la prima notte. Non
capiva perché, non capiva cosa diceva o faceva che potesse
indurli a
un comportamento del genere. Le sembrava di fare ciò che
tutte le
altre donne facevano, e non le sembrava neanche di vestirsi in
chissà
quale modo da far fraintendere qualcuno.
Eppure
anche l'ultimo tizio, di cui si era già dimenticata il nome,
l'aveva
scaricata senza troppi preamboli.
Era
stanca di quella situazione, ma non poteva farci molto, d'altronde.
Si
stiracchiò, decidendo di fare una pausa: aveva la testa
altrove e
continuando così non avrebbe portato a termine nulla quel
giorno;
riposarsi e staccare la testa un attimo le avrebbe fatto bene, per
poi rimettersi al lavoro ancora più carica di prima.
Si
alzò e si mise la giacca, per prenderdere poi la borsa e
uscire
dalla stanza senza salutare nessuno: Melanie era troppo concentrata
su ciò che stava facendo, Gwen non le avrebbe risposto.
Si
diresse quindi verso l'uscita dell'edificio, e una volta fuori il
tipico rumore del traffico newyorkese la tranquillizzò.
Da
sempre il clacson delle macchine, il continuo vociare e pulsare di
quella città sempre sveglia, quel caos
la
facevano calmare. Era
strano, considerando che di solito metteva più ansia che
altro.
Le
venne in mente con un sorriso ciò che le raccontava la
madre, ovvero
che per farla addormentare doveva accendere la tv o la radio, o in
casi estremi portarla in macchina fino alla città
più vicina e
girovagare a vuoto.
Il
ricordo della madre le provocò una punta di fastidio che
cercò di
scacciare subito, insieme a quei ricordi di un'infanzia già
passata.
Si
guardò intorno, indecisa su dove andare, per poi ricordarsi
dello
Starbucks in cui le aveva portate Gwen quella famosa volta.
Scrollò
le spalle per poi decidere di incamminarsi in quella direzione.
Non
ci mise molto ad arrivare, anche se se lo ricordava più
lontano –
forse era la fame che le aveva dilatato il tempo, l'ultima volta
–
e appena entrò il profumo dolce delle caffetteria l'avvolse
in una
nuvola di piacevole serenità.
Ordinò
distrattamente al bancone mentre con gli occhi ripassava tutto il
locale, cercando neanche lei sapeva cosa – o forse,
inconsciamente,
cercando quello strano tipo che finiva sempre per incrociare in quel
luogo, Tom.
Non
vedendolo, si disinteressò subito alla questione,
perciò prese
veloce la sua ordinazione e si mise in uno dei tavolini vicino alla
vetrata che costituiva la parete confinante con la strada;
lasciò la
sua mente divagare negli ultimi pensieri molesti fino a quando, presa
da un lapsus improvviso, afferrò il cellulare e compose un
numero
che conosceva a memoria.
Non
dovette attendere molto.
«Ehi,
tesoro»
La
voce familiare di May la accolse allegra, mentre dentro di
sé già
si sentiva più rilassata.
«Ehi»
rispose «Che fai?» domandò poco dopo.
«Oggi
ho il turno di pomeriggio, quindi sono un po' in centro a fare
shopping. Tu invece? Non dovresti essere a lavoro?»
April
fece una smorfia, invidiandola.
«Pausa.
Se fossi rimasta lì un minuto in più credo che mi
sarei buttata
dalla prima finestra» borbottò
«Shopping? Voglio venire con te!»
continuò con tono piagnucolante.
May,
dall'altra parte del telefono, rise.
«Non
fare la bambina. Questo fine settimana andiamo a farci un giro
assieme, ok?» tacque un attimo, poi riprese
«Perché dici
così, comunque? È successo qualcosa?»
la interrogò.
April
sbuffò, indecisa se parlarne per telefono o lasciare la
conversazione a una sera, con un bel drink davanti. O meglio due.
Scrollò
le spalle tra sé: aveva bisogno di parlarne, se no non ne
sarebbe
uscita.
«Hai
presente Gwen?» non attese la risposta a quella domanda
retorica
«Ecco, stamattina è arrivata con un diavolo per
capello, urlandomi
praticamente addosso di essere la causa di tutti i suoi flirt andati
male» snocciolò.
Sentì
May ridere con un tono scandalizzato.
«Ma
è fuori di testa quella ragazza? Non ha pensato che magari
il
problema è lei?» chiese, aggiungendo
subito dopo «E poi,
“tutti i suoi flirt”... Mi sembra che tu le abbia
“rubato”
solo quel tipo dello Starbucks, no?» sulla parola
“rubato”,
accentuò il tono in modo sarcastico.
April
fece l'ennesima smorfia di quella mattina.
«Hai
presente Damian, il fotografo?»
«Sì»
«Ecco,
pare che l'avesse puntato lei da un po' di tempo. O, almeno, questo
è
quello che ho capito, dato che mi ha accusato di starglielo
rubando»
spiegò.
Sentì
May ridere ancora.
«Beh,
ammetto che c'è del divertente nel modo in cui entrambi gli
uomini
di cui si era infatuata abbiano preferito te»
puntualizzò.
«Mh,
non credo che quel Tom fosse particolarmente interessato a me, te
l'ho già detto. Era strano, piuttosto»
«Comunque
fosse, aveva di certo mostrato più interesse a te che a lei,
no?»
«Questo
è vero» le diede ragione April, dando un morso
alla sua ciambella.
Il sapore dolce del cioccolato la confortò, ma nell'esatto
momento
la fece sentire in colpa: i suoi fianchi non sarebbero stati contenti
di quel cibo.
«Dovresti
fregartene. Insomma, tu non ci puoi fare molto, no? E poi, di quel
Tom non te ne frega nulla, mentre di questo Damian...?»
si
interruppe, non sapendo bene neanche lei come continuare.
April
sospirò.
«Non
lo so, mi interessa, ma sai com'è» rispose vaga.
«Beh,
se ti piace continua ad uscirci. Non sei sua amica, non hai nessun
“codice di amicizia” da rispettare. Se piace a
entrambe e lui ha
mostrato interesse per te, lasciarlo perdere sarebbe un'occasione
sprecata» ragionò May.
April
tacque per un paio di secondi.
«Ma
la situazione a lavoro diventerebbe pesante» disse infine.
«Sarà
pesante a prescindere quando inizierà a scadere il periodo
dello
stage, lo sapevi già o sbaglio? E poi, certo, andare
d'accordo con i
propri colleghi è sempre consigliato, ma una cosa del genere
non ha
senso. Che impari ad accettare quando viene rifiutata»
continuò
con tono sempre più convinto l'amica, tanto che per un
attimo April
se la immaginò mentre annuiva tra sé soddisfatta
di ciò che
diceva.
Sorrise.
«Hai
ragione. Dovrei semplicemente ignorare tutto questo. Anche
se...» si
interruppe, indecisa se dirlo o meno.
«Anche
se...?» continuò May, incuriosita.
Beh,
ormai ho iniziato,
pensò April.
«Non
so quanto possa andare bene con Damian. Gwen mi ha fatta riflettere
su una cosa: anche se gli uomini possono scegliere me e non lei,
almeno da lei non fuggono dopo una sola notte» fece asciutta,
il
malumore che tornava più forte di prima.
Dirlo
ad alta voce lo faceva sembrare ancora più brutto di quanto
non
fosse nei suoi ricordi.
«E
chi ti dice che da lei non fuggano? Insomma, non mi sembra che abbia
un ragazzo fisso, da quello che tu mi hai raccontato. Ha solo avuto
un paio di ragazzi da quando la conosci, no? E dopo la prima cena di
cui non faceva che raccontare, poi smetteva di parlarne
improvvisamente. Questo non ti sembra strano?»
April
si rifletté per qualche secondo.
«Hai
ragione. Però non mi interessa della sua vita. Non voglio
consolarmi
pensando al fatto che lei sia nella mia stessa situazione:
ciò non
cambia che, dopo il sesso, nessun uomo è più
interessato a me»
«Perché
sono tutti degli emeriti coglioni che credono che una bionda sia
stupida. Mai pensato di tingerti i capelli?»
ironizzò l'altra.
April
rise per un attimo alla battuta, per poi ripiombare nella sua
tristezza.
«Ma
è impossibile che nemmeno uno
abbia provato ad andare oltre. Evidentemente, l'immagine che do di me
è solo di una donna stupida e che vuole solo divertirsi,
maniaca
dell'aspetto e prototipo della donna stupida e superficiale»
continuò, piagnucolando.
Dall'altra
parte del telefono, sentì May sbuffare arrabbiata.
«Senti:
ripeti un'altra volta queste parole e non ci sarà
più nessuna
donna, ti farò sparire io. Se sei convinta di dare
quell'impressione
tu darai
quell'impressione. Renditi conto della realtà: sei una bella
donna a
cui piace curarsi, sì, ma sei anche intelligente, spiritosa,
inserita nel mondo del lavoro e con mille opportunità di
fronte a
sé. Un uomo dovrebbe sentirsi fortunato ad averti»
Sentire
quelle parole le scaldò il cuore; per un attimo le vennero
gli occhi
lucidi, ma poi ruppe il momento romantico scoppiando a ridere.
«Hai
ragione. Devo smetterla di buttarmi giù da sola, non
migliorerò la
situazione in questo modo»
«Ecco,
questa è la April che conosco, finalmente!»
trillò May.
«Grazie»
«E
di cosa? Ti ho solo detto quello che penso, e che dovresti infilarti
in testa pure tu»
«Ci
proverò!» rispose April, di nuovo con un sorriso
sulle labbra tinte
di rosso.
«Grazie
per la chiacchierata, ora è meglio che torni a lavoro che se
si
accorgono della mia assenza, altro che “inserita nel mondo
del
lavoro”... Sarò una disoccupata!»
«Certo
tesoro, vai pure. Ci sentiamo stasera, va bene?»
«Assolutamente!
A stasera» concluse.
«A
stasera!»
April
allontanò il telefono dall'orecchio premendo la cornetta
rossa che
lampeggiava sullo schermo.
Sorrise.
Sì,
le sensazioni erano tutte nella mia testa.
Quando
Aaron varcò la soglia dell'ascensore – che in
quell'ultimo periodo
lo accompagnava nei suoi ritardi con la sua sempre più
estrema
lentezza – non tentò nemmeno di fingere di
salutare Daphne, la
segretaria: si lanciò verso l'ufficio di Tom, esattamente di
fronte
al suo, spalancando la porta di scatto e facendola sbattere.
«Eccomi
eccomi eccomi. Sono
arrivato!»
quasi urlò quelle parole, un leggero fiatone che lo
accompagnava.
Tom,
seduto di fronte alla sua scrivania, non alzò gli occhi dal
suo
computer.
«Ed
era anche l'ora» rispose seccato.
Aaron
alzò gli occhi al cielo.
«Avanti,
non fare così! Ti ho già detto che c'è
stato un incidente e-»
«...e
il traffico era bloccato. Sì, lo so» lo
anticipò, alzando
finalmente lo sguardo verso di lui.
«Nevil
ha detto qualcosa?» bofonchiò il rosso, dopo
qualche secondo. Tom
fece spallucce.
«No.
Credo che in qualche modo se lo aspettasse, ormai ti conosce»
rispose.
«Perfetto.
Allora...» si interruppe, guardandolo dubbioso. Mettergli
fretta o
no? Minimo ci avrebbe guadagnato un fermacarte in testa.
Infatti
Tom gli lanciò un'occhiataccia.
«Allora
cosa? Sono io che sto aspettando te eh. Muoviti a mollare le tue cose
in ufficio, io ti aspetto da Nevil» fece Tom, alzandosi e
afferrando
una chiavetta sul tavolo.
Aaron
non protestò – anche perché non avrebbe
potuto permetterselo –
e corse nel proprio ufficio, levandosi giacca, poggiando la borsa e
tirando fuori cartelle varie e album da disegno.
Prima
di uscire, si diede un leggero sguardo allo specchio posto vicino
all'entrata – che poi, perché c'era uno specchio
in un ufficio?
Certo, era utile, ma... - e notò i suoi capelli sconvolti:
con uno
sguardo sconsolato cercò disperatamente di sistemarli in
qualche
modo, ma quelli non avevano la minima intenzione di rimanere
giù,
perciò si arrese al ciuffo in mezzo alla testa che sembrava
intenzionato a rimanere lì impalato, come uno
spaventapasseri in un
campo di grano.
La
giornata continua sempre meglio,
pensò funereo.
Andò
nell'ufficio di Nevil e, trovando la porta chiusa, bussò
educato.
Una
voce bassa gli rispose dall'interno, invitandolo ad entrare,
perciò
abbassò la maniglia ed entrò in quell'ufficio
grande almeno tre
volte il suo; beh, Nevil era il capo, sarebbe stato strano il
contrario.
Vide
l'uomo bellamente spalmato sulla sua poltrona in pelle nera, di
fronte a lui un bicchiere di acqua e limone, che lo guardava senza
espressione.
Era
vestito con il solito abito scuro, che in qualche modo stonava con
l'ambiente attorno, ricco di gadget per videogiochi, console, foto
appese che lo ritraevano con guru del mondo del gaming; vederlo
così
serio in un ambiente più casual faceva sempre un po'
sorridere
Aaron.
«Buongiorno
Nevil» fece educato, con un cenno di sorriso. L'uomo aveva
sempre
insistito per venire chiamato con il solo nome, per
“aumentare il
cameratismo in questo posto”, diceva lui. Non che per loro
fosse un
problema, anzi, toglieva quella rigidita formalità propria
di tutti
i rapporti capo-sottoposti.
«Aaron.
Anche oggi in ritardo, eh?»
Aaron
arrossì imbarazzato, avvicinandosi alla scrivania.
Lanciò uno
sguardo a Tom, seduto su una delle due poltrone di fronte al tavolo,
che lo guardava con un ghigno divertito.
Bastardo.
«Mi
spiace, c'è stato un incidente e sono rimasto bloccato nel
traffico»
tentò di scusarsi.
«Sì,
sì, Tom mi ha già spiegato. Rimane il fatto che
sei sempre il
solito che si becca tutte le sfortune» fece con un sorriso a
metà
tra l'ironico e il divertito.
«Che
ci posso fare, la sfortuna mi ama» replicò Aaron,
sforzandosi di
non mandarlo a quel paese: era pur sempre il suo capo, suvvia.
«Tom
mi stava dicendo che avete finito le bozze per il nuovo progetto.
Come sembra?» fece poi, cambiando di netto argomento.
Mentre
Tom si alzava per inserire la chiavetta nella televisione nella
parete opposta, Aaron aprì l'album da disegno.
«Allora,
ci hanno consegnato i temi e la bozza della storia base: il materiale
è buono, sembra interessante, questi sono i primi schizzi
che ho
fatto come prova. Io e Tom abbiamo scelto i migliori e io li ho
sviluppati con il programma, mentre Tom si occupava di fare le
ambientazioni. Ci è parso di capire che la struttura doveva
essere
medievaleggiante ma combinare l'antico con strutture tecnologiche.
È
abbastanza complesso combinare i due elementi senza farli stonare
troppo, io e Tom ci stiamo lavorando» spiegò;
porse vari fogli a
Nevil, alcuni con schizzi in bianco e nero e altri a colori. Nel
frattempo Tom apriva la cartella sulla televisione e iniziava a far
scorrere le varie immagini, mentre Nevil alternava lo sguardo tra i
fogli nelle sue mani e la tv.
Non
diceva nulla, tanto che Aaron e Tom si lanciarono uno sguardo
dubbioso: possibile che gli facesse schifo?
«Non
ti piace?» azzardò dopo vari secondi Tom.
I
due ragazzi guardarono Nevil con sguardo dubbioso, lanciandosi poi
un'occhiata.
Ok,
gli fa schifo,
pensò depresso Aaron. Eppure non gli sembrava
così male; cioè, ci
avevano pure lavorato tutta la notte, il risultato non era da
buttare. Certo, c'era bisogno di alcuni aggiustamenti, ma come prima
presentazione non era per niente male.
«Eh?»
rispose Nevil, quasi cadendo dalle nuvole.
I
due ragazzi lo guardarono confusi.
«Non
ti piace?» ripeté Tom.
Nevil
lo guardò e poi scoppiò a ridere.
«No,
no, certo che mi piace! È un buon lavoro come sempre,
ragazzi. Stavo
pensando a una cosa» rispose.
Aaron,
dentro di sé, tirò un sospiro di sollievo.
«E
cosa?» si azzardò poi a chiedere.
Nevil
lo guardò di sottocchio, un poco dubbioso. Poi
sospirò, poggiò i
fogli sulla scrivania e si lasciò andare sulla poltrona,
incrociando
le braccia.
Ok,
questa cosa non mi sta piacendo,
pensò con un brivido Aaron.
Sembrava
tanto serio, e la cosa non gli piaceva.
«C'è
stata fatta una proposta per creare un gioco sulla base di una
graphic novel»
iniziò.
Aaron
lanciò uno sguardo a Tom, che ricambiò l'occhiata.
Beh,
proprio non capiva il motivo del suo tono serio. Certo, entrambi
preferivano lavorare su prodotti originali, piuttosto che basare i
giochi su fumetti, graphic novel o simili – avevano maggiore
libertà, e lavorare con gli autori spesso era fastidioso
– ma alla
fine l'avevano già fatto e non era andato male.
«E
quindi?» chiese Tom.
«Quindi...»
iniziò Nevil, tacendo un attimo, poi guardò Aaron
«Il problema non
è tanto Tom, ma tu, Aaron»
Aaron
si immobilizzò.
Oddio,
pensò solo. E ora che aveva fatto?
Ora
mi licenzia,
fu l'unica cosa che gli venne in mente. Bene, poteva dire addio al
suo appartamento e tornare a casa dai suoi. Che tristezza.
Ma
non fece in tempo a dire qualsiasi cosa, dato che Nevil riprese
subito a parlare dopo aver preso un sorso dal suo bicchiere di acqua
e limone.
«Il
progetto su cui dovreste lavorare è bello, molto
interessante,
basato su un target over 18, ha già un numero sostanzioso di
fan
quindi ci sarebbero buone vendite – ovviamente, se riuscirete
a essere abbastanza fedeli alla storia, sapete come sono i fan in
queste cose: si attaccano a qualsiasi insulso dettaglio
sbagliato»
continuò.
«E
dove starebbe il mio problema?» chiese a quel punto Aaron,
confuso
da tutto ciò. Non riusciva proprio a capire dove fosse.
«L'autore
ha chiesto di essere partecipe del progetto, altrimenti non se ne fa
niente» continuò Nevil, continuando a evitare il
nocciolo del
problema.
«L'abbiamo
già fatto altre volte, Nevil. Puoi essere più
chiaro riguardo il
problema relativo ad Aaron?» insistette Tom.
«L'autore
è una ragazza» rispose secco l'uomo.
«Oh»
disse Tom.
Oh,
pensò solo Aaron, sbiancando.
«Dimmi
che scherzi» fece solo funereo. Nevil sospirò
esausto.
«Perché
dovrei scherzare su questo?» chiese retorico
«Aaron, ascoltami
bene: è un buon progetto, potrebbe portarvi molta fama
– la
graphic novel ha ottenuto molto successo – voi siete tra i
migliori
qui, mi fido del vostro modo di lavorare e credo che possiate fare un
buon lavoro... Ma tu devi mettere da parte la tua stupida
fobia»
fece secco.
Aaron
strinse i pugni, cercando di ignorare quel
“stupida” che lo fece
irritare e basta.
«Pare
che tutti pensino che io mi causo questa fobia da solo, giusto per
dar fastidio alle persone» disse solo sarcastico.
«Aaron...»
lo richiamò Tom.
Aaron
lo guardò infastidito, ma consapevole che avesse ragione.
Non poteva
di certo mettersi a litigare con il suo capo.
«Posso
provarci. Ma non ti prometto nulla» disse alla fine.
“Provarci”
era una parola grossa: non avrebbe soltanto dovuto scambiarci due
parole, ma lavorarci assieme per vario tempo – e ok, c'era
Tom, ma
questo non migliorava la situazione.
«Ti
lascio i disegni qui, se c'è qualcosa che non ti convince
chiamami»
disse infine, ed uscì dall'ufficio con un “buona
giornata” che
di buono non aveva proprio niente.
Andò
nel suo ufficio e si chiuse dentro, prendendo una bottiglietta
d'acqua e bevendola tutta nella speranza che lo facesse in qualche
modo calmare. Non cambiò la situazione.
Si
sedette sulla sedia girevole dietro la scrivania, sospirando.
Evviva.
Fino
a quel momento il suo lavoro non gli aveva mai dato grossi problemi
relativi a quella sua fobia – escludendo la segretaria e
altre
poche donne che ogni tanto facevano capolino lì dentro, ma
in fondo
non gli era mai capitato di dover lavorare con altre donne.
Generalmente quello non era un campo amato dal sesso femminile, era
stato tranquillo crogiolandosi in quell'idea che, sapeva, fosse
comunque molto labile. Non era comunque strano che una ragazzza si
appassionasse a cose del genere, però c'era sempre stata
quella –
stupida – speranza.
«Posso
entrare?»
La
voce di Tom lo distolse dai suoi pensieri, facendogli alzare lo
sguardo; la porta era socchiusa e la testa di Tom sporgeva dentro.
«Sì»
rispose solo.
L'amico
entrò chiudendo la porta dietro di sé e poi
mettendosi le mani in
tasca; Aaron sentiva il suo sguardo addosso in maniera fastidiosa.
«Puoi
parlare eh» disse alla fine.
«Sei
stato un po' brusco» disse l'amico.
Aaron
scrollò le spalle. Lo sapeva, ma non gli importava.
«Dovresti
fare qualcosa per farti passare questa fobia. Non puoi andare avanti
così, ti causa anche problemi al lavoro. Hai detto che ci
proverai,
ma sai anche tu che poi dovrò sopportare tutti i tuoi
attacchi
isterici» continuò Tom.
Aaron
si alzò di scatto.
«Cosa
credi, che la situazione mi diverta? Lo ripeto, dato che magari sono
stato poco chiaro: non
mi causo la fobia da solo.
Mettetevelo in testa» disse secco.
Tom
sbuffò.
«Lo
so, che credi? Proprio perché non te la crei da solo, non
pensi di
dover andare da qualcuno che possa aiutarti?» chiese, stanco.
Aaron
rise sarcastico.
«No.
Ci penserò da solo» disse infine. Poi
andò verso la porta e la
spalancò «Ora vorrei lavorare. Grazie»
Tom
lo guardò in silenzio. Non disse nulla e uscì
dalla stanza,
lasciando che Aaron la chiudesse dietro di lui.
Finalmente
da solo, il rosso si passò una mano sui capelli e
sospirò.
Ok,
è ufficialmente una giornata di merda.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Ed eccomi di nuovo qua dopo appena due settimane!
Certo, questo capitolo è più breve dell'altro, ma quando scrivo più non penso alla lunghezza del capitolo, quando a ciò che voglio inserire in esso. Dato che aggiungere altro mi sarebbe sembrato superfluo ho preferito terminarlo qui.
Come (spero) noterete, c'è una sorpresa: il banner! Ovviamente, non sono io l'autrice di questo - non ho un minimo di capacità in queste cose - ma una mia amica, che ha molta più manualità di me, è stata così gentile da crearlo apposta per me. I due attori, non so se li riconoscete, sono Emma Stone e Gaspard Ulliel. Ovviamente, io dico sempre di prendere i due prestavolto con le pinze: ognuno di voi può immaginarseli come meglio vuole, io ho scelto loro due perché riscontravano i miei gusti e poi mi servivano per creare il banner della storia.
Che altro dire, spero vi piaccia questo capitolo e spero anche di ricere qualche commento - bello o brutto che sia, mi sembra ovvio, accetterò anche le critiche.
Dopo questo non farò che augurarvi buona lettura, ci vediamo alla prossima!
Un abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo otto
Quando alle sette del pomeriggio April uscì dall'ufficio, un bel sorriso illuminava il suo volto.
La giornata non era andata così malaccio alla fine, considerava mentre si dirigeva verso un taxi che cercava di richiamare con una mano – non le piaceva prendere la metro, era troppo affollata; certo, sopportare Gwen per tutto il giorno non era stato un divertimento, e pensare che avrebbe dovuto subirla per il resto dello stage in quelle condizioni non la esaltava. Sperava che, tempo qualche settimana, le passasse; ma cercava di non pensarci troppo e di prepararsi al peggio.
Il resto della giornata era volato grazie al lavoro da fare; quando si concentrava, il tempo scorreva che era una meraviglia, perciò non le era pesato tanto.
Insomma, alla fine la brutta sensazione si era rivelata tutta nella sua testa.
Sorrise pensando al prezioso aiuto che le aveva dato May a ricompattare la sua bolla di felicità: se non ci fosse stata lei, sarebbe rimasta depressa per tutto il giorno crogiolandosi nella frase che le aveva rivolto Gwen, e ciò non avrebbe giovato per niente al suo umore.
Lasciò scorrere il suo sguardo lungo le strade di New York che già si illuminavano delle prime luci artificiali, dando nuova vita alla città che non dorme mai.
Adorava New York. Aveva passato tutta la sua adolescenza a sognarla, a immaginare la sua vita in quella enorme e movimentata città come donna in carriera dalla vita perfetta, al buon lavoro che avrebbe trovato, alla sua indipendenza, alle serate passate a divertirsi con May, all'amore.
Con quei pensieri, il suo sorriso si fece più malinconico.
Aveva vissuto in una bolla dorata fino ai primi mesi del suo arrivo, poi si era resa conto che non era così tutto rose e fiori come immaginava. Il lavoro era più difficile da trovare di quello che pensava, l'indipendenza era dura da raggiungere con uno scarso stipendio, May aveva comunque il suo ragazzo con cui passare del tempo e lei era spesso sola nel suo bilocale che, più tempo passava, più si faceva soffocante. E parlare di amore era più tragico che altro.
Smettila April!, si rimproverò nella sua testa, cancellando tutti quei pensieri dalla mente e concentrandosi solo sulle luci della città.
Rimase così ad osservare fuori, come una turista che vede la Grande Mela per la prima volta, fino a quando il tassista non si fermò nella strada piuttosto buia dove era situata casa sua.
Lo ringraziò, pagò e scese, quasi dimenticandosi la borsa al suo interno – era sempre così una svampita – e in un primo momento non notò i vigili del fuoco di fronte a casa sua, presa com'era a inseguire fantomatiche farfalle come suo solito.
Come notò l'imponente veicolo che sostava lì di fronte, si immobilizzò.
Che sta succedendo?, pensò confusa.
Si avvicinò lentamente, quasi timorosa di ciò che avrebbe potuto scoprire. Fuori dal condominio di casa sua c'erano anche altre persone che parlottavano tra loro; riconobbe la signora Davis, sua vicina, che parlava con un'altra signora che però non riconobbe.
«Signora Davis, che sta succedendo?»
La donna sobbalzò – non si era resa conto della sua presenza – e April poté notare come indossasse solo la vestaglia di casa e delle ciabatte. La donna la fissava con i penetranti occhi azzurri, parzialmente nascosti dietro le spesse lenti degli occhiali.
«April! Finalmente sei arrivata!» esclamò la donna.
Finalmente?
«Che sta succedendo?» ripeté la bionda, confusa.
Spostò poi lo sguardo verso il portone aperto che mostrava le scale illuminate del condominio, e spalancò gli occhi con orrore quando notò due vigili trasportare fuori un divano che riconobbe come il suo.
«Che sta succedendo?» quasi strillò.
Ma non aspettò la risposta della signora: si lanciò in direzione degli uomini, parandosi davanti e impedendo loro di passare.
«Che cosa è successo? Perché state portando via la mia roba?»
Gli uomini la guardarono sorpresi: due bei tipi, che in un'altra occasione April avrebbe senza alcun dubbio cercato di sedurre sbattendo gli occhioni.
«Lei è la proprietaria dell'appartamento 501?» domandò uno dei due, quello con la mascella più squadrata coperta da un'ombra di barba scura.
April annuì mentre il suo volto si faceva terreo – beh, non era proprio la proprietaria a essere precisi, ma ci abitava.
L'uomo lanciò una veloce occhiata al suo collega e lasciò poi la presa del divano che si appoggiò con un tonfo a terra.
«C'è stata una perdita dal bagno non bene identificata, l'appartamento è interamente allagato. Ci hanno chiamato gli inquilini dell'appartamento sottostante quando l'acqua ha iniziato a infiltrarsi anche da loro, e siamo stati costretti a spostare tutti i mobili» spiegò l'uomo.
April divenne ancora più cerea.
No... No, no no!
«Ditemi che è uno scherzo» alitò appena.
«Mi dispiace, signorina»
April, sentendo quelle parole, udì anche il rintocco delle campane a morte mentre per un attimo le gambe le cedettero, e fu costretta a tenersi all'uomo che le afferrò in tempo il braccio.
«Si sente bene? Vuole che chiami un'ambulanza?» chiese sempre l'uomo.
April, aggrappata a lui, riuscì poi a recuperare l'equilibrio e lasciò la presa.
«Chiami un'agenzia di pompe funebri» fece lugubre.
Così è già pronto tutto per il mio funerale, pensò tragica.
I due pompieri la guardarono dubbiosi, mentre April fissava il vuoto in maniera assente; all'improvviso però il suo sguardo si illuminò di nuova vita.
«I miei vestiti. Dove sono? Posso prenderli?» fece poi, quasi saltando addosso a colui che le aveva spiegato la situazione.
«Più o meno. Abbiamo portato tutto giù, ma molte cose sono zuppe»
L'acqua si può asciugare, spero solo che non si sia rovinato nulla, pensò.
«E in quanto potrò tornare ad abitare qui?» fece speranzosa.
Vedendo quei grandi occhi ricchi di speranza l'uomo spostò lo sguardo imbarazzato.
«Mi dispiace, signorina, ma di questo non ho idea. Dipende dal tipo e dalla gravità del guasto, ma dovrà occuparsene lei di chiamare un tecnico» rispose.
April sbiancò di nuovo.
Dovrò chiamare la proprietaria..., pensò funerea. Già se la temeva quella arpia.
«Capito. Grazie» mugulò.
«Abbiamo quasi finito di portare le cose giù, comunque. Poi si avvicini per prendere quello che le serve» aggiunse l'uomo, fermando April che già se ne stava andando.
La ragazza non rispose, fece solo un cenno con la testa mentre andava a sedersi sul bordo del marciapiede, fregandosene alla grande della sporcizia per terra e prendendo a fissare la strada con aria assente.
E ora? Che faccio? Non posso tornare a casa e mollare lo stage e tutto il resto... Ma dove potrei andare? Da May? La disturberei, pensava.
Ma, in fondo, May era la sua unica speranza. Per questo motivo prese il cellulare e, dopo aver composto il numero, attese la risposta dell'amica.
Ok, ritiro tutto. Oggi è proprio una giornata di merda.
Quando Aaron mise piede in casa sua, quella sera, si sentiva veramente esausto.
Si tolse subito le scarpe, lasciandole all'ingresso, poi si trascinò in cucina senza ancora accendere le luci; poggiò le chiavi e la borsa sul tavolo poi si diresse verso il frigo. Tirò fuori una birra, uscì fuori nel piccolo terrazzo e si accese una sigaretta.
Non era sua abitudine fumare, gli capitava giusto qualche volta, per alleviare lo stress. Aveva avuto la fortuna di non essere una di quelle persone che prendono subito il vizio, quindi se ne lasciava giusto qualcuna per i momenti di particolare tensione.
Ovviamente, sua madre non lo sapeva, altrimenti gli avrebbe fatto una testa enorme e non ne aveva la minima voglia. Era solo una debolezza innocente che si permetteva qualche volta.
Rimase appoggiato al davanzale, nella mano destra la sigaretta e in quella sinistra la bottiglia di birra, lo sguardo che scivolava lungo il panorama newyorkese, con tutte le sue luci che si inoltravano per chilometri e chilometri.
Aveva avuto la fortuna di trovare una buona casa a buon prezzo, e inoltre adorava la vista che gli offriva quel balcone. Il suo stipendio era buono, gli permetteva di vivere dignitosamente e concedersi anche qualche sfizio – certo, un aumento non gli avrebbe fatto schifo, questo è ovvio. Ma per il momento gli andava bene il suo lavoro, era quello che gli era sempre piaciuto fare, d'altronde.
Non aveva mai avuto problemi con esso, fino a quel giorno.
Aaron sbuffò e fece un altro tiro dalla sigaretta.
Alla fine, durante il resto della giornata, aveva pensato a centinaia di motivi e di scuse per cui avrebbe potuto tirarsi indietro senza che sembrasse chiaramente che aveva semplicemente paura di quella ragazza; ovviamente, non era arrivato a nulla. O, perlomeno, a nulla di sufficiente. Erano tutte cose troppo chiare che gli avrebbero causato non solo rimproveri da parte di Tom – di cui gli importava relativamente – ma anche problemi con Nevil; e non era il caso, per niente.
Si doveva semplicemente mettere in testa che così sarebbe andata: doveva stringere i denti e sopportare quella tizia, chiunque essa fosse. E, soprattutto, cercare di non avere paura di lei e di non farsi venire attacchi isterici durante il lavoro – quello sì che sarebbe stato poco piacevole.
Terminò la sigaretta e spense la cicca, lasciandola cadere nel vuoto in un comportamento molto poco da buon cittadino; rientrò dentro, accendendo la tv e continuando a bersi la birra.
Il brontolare del suo stomaco gli ricordò che non aveva cenato e, senza nemmeno controllare se ci fosse qualcosa di commestibile nel frigo – cosa che comunque dubitava considerando che si era dimenticato anche quella volta di fare la spesa – si risolse a chiamare per una pizza a domicilio.
Mentre telefonava distrattamente, dando le varie indicazioni, la sua mente correva in altri lidi.
Improvvisamente e senza alcun apparente motivo, gli era tornata in mente quella April.
Dopo l'evento di due giorni prima non ci aveva ancora pensato – cosa strana, dato che solitamente era uno di quei tipi che si crogiolava nelle proprie disgrazie.
Si ritrovò a riflettere come il destino fosse stato beffardo con lui: la stessa ragazza era quella a cui aveva “rubato” (per mantenere i suoi termini) la biancheria e anche colei che lo avrebbe dovuto intervistare per quella rivista dove, alla fine, non era riuscito a presentarsi.
Sembrava ridicolo.
A distrarlo da quei pensieri fu il telefono che prese a squillare.
Non controllò il nome e rispose direttamente.
«Pronto?»
«Oh, sei ancora vivo, perfetto»
La voce di Tom lo accolse con un tono di finto sollievo. Alzò gli occhi al cielo.
«Perché dovrei essere morto?» chiese, allungando una mano verso la tv per abbassare il volume.
«Ho pensato che ti fossi suicidato dalla disperazione» ironizzò Tom.
Aaron sbuffò.
«Non sono ancora arrivato a questo punto, ma continuando così non credo mi ci vorrà molto tempo» fece funereo.
Sentì Tom dapprima ridere divertito, poi la risata sfumò.
«Avanti, Aaron, non puoi far sì che questo problema condizioni anche il tuo lavoro! Vuoi mandare all'aria tanti sforzi per una cosa del genere?»
Tom aveva perfettamente ragione, e Aaron era conscio di questo. Infatti non lo nascose.
«Credi che non lo sappia? Come ho già ripetuto milioni di volte, non diverte nemmeno me questa situazione. Solo che non ce la faccio. Non riesco a non aver paura di loro, è una cosa incondizionata. Sai che significa “incondizionata”, Tom?» terminò con sarcasmo.
«Lo so che non te la crei tu. Ma io, ti giuro, non capisco perché non fai nulla per trovare una soluzione. Potresti andare da uno psicologo, ci hai mai pensato? Il fatto che tu vada lì non significherebbe che tu sia pazzo, ci vanno un sacco di persone»
Aaron si passò una mano tra i capelli, esausto. Ecco, aveva bisogno di una sigaretta.
«Non voglio andarci, semplice. Non voglio mettermi a parlare dei miei problemi con degli sconosciuti che mi tratterebbero con uno dei loro mille pazienti, archiviando informazioni su di me e sulla mia vita privata. È tanto difficile da capire?» spiegò.
Sentì il silenzio dall'altra parte del telefono.
«Capisco. Beh, allora non so proprio come aiutarti. L'unica cosa che potrei fare è costringerti ad una terapia d'urto, ma credo mi odieresti»
Aaron pensò per un attimo all'idea di “terapia d'urto” dell'amico; rabbrividì al solo pensiero.
«Sì, ti odierei» rispose categorico.
Tom rise divertito.
«Non preoccuparti, non sarò così bastardo»
«Grazie» rispose sarcastico Aaron.
«Comunque sia, ripensa a quello che ti ho detto; dovresti trovare qualcuno in grado di aiutarti. Provaci, ok?» concluse Tom.
«Va bene» disse solo Aaron.
«Ci vediamo domani, allora!»
«A domani»
Chiuse la telefonata con lo sguardo perso nel vuoto, la bottiglia di birra sempre in mano che si era un poco riscaldata.
Sospirò.
Sapeva che Tom l'avrebbe chiamato, tentando – inutilmente – di aiutarlo in quel suo problema. Aveva ragione però: doveva trovare qualcuno in grado di aiutarlo. Ma non voleva assolutamente andare da uno psicologo, non voleva raccontare i suoi problemi a uno sconosciuto; sarebbe stato più semplice se ad aiutarlo fosse stato qualcuno di cui lui si fidava, no? Qualcuno che magari non l'avrebbe giudicato, abbastanza forte da riuscire a coinvolgerlo ma non troppo da forzarlo.
Sospirò ancora.
Tutto ciò sarà molto difficile.
Il campanello suonò: era arrivata la pizza.
«Attenta quando entri, c'è uno-»
«Cazzo!»
Un tonfo.
«...dicevo, uno scatolone in mezzo»
April rise in maniera isterica mentre May accendeva la luce del soggiorno; era caduta a terra e con sé anche le due valige che tentava di trascinare.
Vide l'amica che la guardava dubbiosa – dubbiosa della sua sanità mentale evidentemente. E senza tutti i torti: April sembrava nel pieno di un principio di crisi isterica.
Ma proprio non riusciva a smettere di ridere: la situazione le sembrava così assurda e tragicomica che non sapeva se ridere o piangere. Nel dubbio, rideva.
«April, tesoro, andiamo. Alzati, e aiutami a portare questa valigie in camera» disse May paziente.
Ma April non smetteva di ridere.
«April?» insistette May, fino a quando la bionda non smise spontaneamente di ridere.
Mentre il petto le si alzava e abbassava velocemente in cerca di respiro, April si alzò faticosamente.
Era stanca e depressa, e anche molto stressata; ecco come sfogava tutto ciò: ridendo per una stupidaggine.
«Scusa, va tutto bene» disse alla fine; si chinò a prendere le valige che le erano scivolate e le tirò su con un po' di fatica.
Notò May che le lanciava un'occhiata dubbiosa – non ci credeva nessuna delle due al suo “va tutto bene” - e la guidò verso la piccola stanza per gli ospiti che l'appartamento di May possedeva.
Ecco, April inividiava l'amica anche per questo – con affetto, ovvio – lei aveva un buon lavoro fisso che le consentiva di affitare un appartamento degno di questo nome, anche con una stanza per gli ospiti. Inoltre, per come stavano andando le cose tra lei e Matthew, c'era anche qualche speranza che in un futuro non troppo lontano si potessero trovare anche una casa più grande insieme.
Alla vita dell'amica non mancava proprio niente – e, di certo, April non la odiava per questo. Semplicemente, si limitava a invidiarla in silenzio ma a essere felice per lei di quello che aveva.
La stanza per gli ospiti non era tanto grande, ma andava più che bene per le necessità che si ritrovava ad avere in quel momento April: era sempre meglio di doversi cercare un hotel a basso prezzo per dormire con un tetto sopra la notte.
Nell'angolo in fondo a sinistra c'era un letto a una piazza e mezzo con un copriletto verde scuro, affianco, nella parete opposta all'entrata, una finestra piuttosto grande che faceva entrare una buona luce, appena coperta da una semplice tenda bianca. Nell'angolo a destra, invece, un armadio a tre ante bianco era praticamente vuoto, se non per alcune coperte in uno scompartimento in alto.
L'unico altro elemento presente era un comodino affianco al letto, anch'esso bianco e abbinato all'armadio.
April si trascinò dentro con le valige.
«Beh, conosci perfettamente questa stanza e anche la casa, quindi ovviamente fai come se fossi a casa tua. Sposterò alcune delle mie cose nel mobiletto in bagno per lasciarti dello spazio, va bene?» May la guardò sorridente mentre diceva quelle parole.
April, senza dire una parola, si sedette sul letto.
Ecco, lo sentiva, il fastidioso nodo alla gola che le impediva di parlare, gli occhi umidi che cercò di nascondere chianando la testa e coprendoseli con la frangia.
Una goccia d'acqua cadde sui suoi occhiali, e da lì in poi non riuscì più a fermare tutte le altre. Iniziò a piangere mentre i singhiozzi le scuotevano il petto.
«Tesoro...»
La voce di May le giunse quasi lontana presa com'era dalla sua disperazione personale.
Sentì l'amica che le si sedeva affianco nel letto, poi le sue mani che le cingevano la schiena e il familiare profumo dell'amica che le invadeva le narici. Sentendosi protetta da quelle braccia familiari, i singhiozzi diminuirono.
«Dai, non c'è bisogno di piangere. Non è successo niente, è solo un po' di sfortuna. Vedrai che in poco tempo metteranno a posto la casa e potrai tornarci subito» la consolava May.
No, no, non è solo questo, pensava in preda alle lacrime April.
La verità era che stava sfogando tutta la tensione e il malumore di quegli ultimi giorni nell'unico modo che lei conosceva: il pianto. Poi, ovviamente, il problema della casa non aveva giovato proprio per niente: era stata la cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso.
«Non è solo questo...» iniziò, tirando su con il naso in maniera molto poco da lei. Sollevò gli occhi verso l'amica mentre, per un attimo, il pensiero di come si dovesse essere sciolto il trucco la sfiorava.
«E cosa, allora?»
«Tutto questo periodo mi sembra che vada malissimo. Il lavoro che non migliora mai – non so neanche se riuscirò a vincere lo stage, con la fortuna che mi ritrovo prenderanno loro due ed escluderanno solo me. Questo, inoltre, insieme alla paura di non trovare mai più un lavoro; e tu sai che io non posso tornara a casa... Non posso andare da mia mamma e chiederle aiuto» balbettò quest'ultima frase, lanciando uno sguardo all'amica con una strana sfumatura disperata.
May sospirò.
«Lo so, lo so. Ma vedrai che andrà tutto bene. Ti stai impegnando e stai ottenendo risultati. Vedrai che il posto sarà tuo» le disse.
«E se non è così?»
Lanciò un'occhiata preoccupata alla mora.
«E se non è così – cosa che dubito, comunque – troverai lavoro in una rivista anche migliore» le rispose convinta l'amica.
April fece un debole sorriso che si adombrò subito.
«Ma non va male solo il lavoro... Anche la mia vita sociale va a rotoli. Non sono in grado di tenermi un uomo!» piagnucolò.
«Oh, avanti April! Per stare bene non hai bisogno di avere un uomo al tuo fianco! Se loro fuggono da te non è colpa tua, sono semplicemente loro delle teste di cazzo. E tu sei fantastica così come sei, di certo non devi cambiare solo perché vuoi stare con qualcuno. La persona giusta è quella proprio che sta con te per come sei, non per come vorrebbe che fossi. E, ripeto, capisco che per te possa essere importante stare insieme a qualcuno e avere una relazione stabile ma hai solo ventitre anni, non puoi pretendere di trovare l'amore della tua vita ora! Pensa a divertirti!» si infervorò May.
April sapeva che aveva ragione. Insomma, aveva appunto solo ventitre anni, non avrebbe dovuto pensare ad avere una relazione stabile che avrebbe potuto portare anche a qualcosa di più serio, le sarebbero dovute andare bene le occasioni così come le capitavano – eppure attorno a lei vedeva solo coppie stabili, e per lei che non aveva mai vissuto una cosa del genere tutto ciò bruciava fin troppo.
Insomma, era normale desiderare un ragazzo – un uomo con cui telefonarsi la sera, con cui uscire a cena, con cui dormire insieme e non solo finire a letto come le capitava sempre. Non chiedeva la relazione della sua intera vita, solo qualcosa di più serio di tutto quello che aveva avuto fino a quello momento, che di serio aveva in comune solo la “s” di “sesso”.
Ma non disse tutto quello a May, anche perché ne avevano già parlato ed era futile ripetere tutti i suoi pensieri. Sapeva che l'amica era a conoscenza di ciò che le frullava nella testa, ma in qualità di amica doveva farle vedere i lati positivi della sua situazione, che iniziavano e terminavano solo nell'indipendenza e nel divertimento che tutto ciò procurava.
«Lo so» disse solo.
Rimasero per un po' in silenzio, semplicemente una vicina all'altra, perché tra amiche in certe situazioni non servono parole. La presenza una dell'altra era sufficiente per stare meglio.
«Ora riprenditi. Vai in bagno, sciacquati la faccia, mettiti il pigiama e, se hai voglia, dai una sistemata alle valige. Io inizio a preparare la cena» disse May, alzandosi in piedi e accarezzandole un'ultima volta la testa «E non preoccuparti. Ho il vino» le disse infine con un sorriso ammiccante.
April le sorrise divertita.
«Spero che tu abbia più di una bottiglia, perché una non sarà minimamente sufficiente per togliermi questa depressione» replicò.
May rise.
«Ho quanto basta!» le rispose, poi uscì dalla stanza lasciandola sola.
Mentra la sentiva entrare in cucina e iniziare a tirare fuori piatti e pentole – e, soprattutto, bicchieri – si lasciò cadere nel letto.
Aveva ragione May, come sempre. Non doveva deprimersi in questo modo, e tanto meno aveva bisogno di un uomo per sentirsi completa.
Ma, ovviamente, non era così semplice.
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Mi sto stupendo di me stessa: sto finalmente riuscendo ad aggiornare con una certa periodicità!
Che dire, l'ispirazione per questa storia avanza e io la sfrutto appena posso – lasciando stare fin troppo spesso i manuali di russo a cui dovrei dare un'occhiata, se voglio passare l'esame di giugno...
Beh, spero questo capitolo sia di vostro gradimento, perdonatemi se la storia ci sta mettendo così tanto a svilupparsi ma la scrivo come mi viene. Comunque sia non preoccupatevi: arriveranno anche i momenti tra i due protagonisti – che, ora che ci penso, in nove capitoli si sono visti faccia a faccia due volte. Sono pessima.
Nonostante ciò vi chiedo di non demordere e di seguirmi in questa storia a cui mi sto sempre di più appassionando (Aaron è il mio personale peluche da strapazzare!) e di dirmi se la storia vi piace e in cosa potrei migliorare!
Grazie dell'attenzione e buona lettura!
Un abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo nove
Il cellulare di April suonò all'improvviso, facendola in poche parole balzare dal letto con un salto.
La sua testa fu nella più totale confusione per un attimo: si guardava intorno e non riconobbe in un primo momento la stanza in cui si trovava, ma un momento ricordò di essere da May e ben presto anche il motivo.
Fece una smorfia mentre si lasciava ricadere tra le lenzuola, stropicciandosi gli occhi.
Speravo fosse tutto solo un incubo, pensò depressa.
E invece no: la realtà le si presentava davanti fulgida e brillante, accompagnata da tutto ciò che comporta – le brutte cose del mondo degli adulti: lavoro, soldi, relazioni, la disperazione.
No, perché devo uscire da qui e affrontare il mondo?
Con questo pensiero molto poco immaturo in testa si rigirò da una parte e dall'altra, finendo per attorcigliare le lenzuola lungo il suo corpo. Chiuse gli occhi; la tentazione di chiamare la redazione e avvisare che non sarebbe andata per motivazioni di salute era sempre più forte.
«Non osare pensarci per un secondo di più»
April mugolò.
«Avanti, alzati!»
May entrò energica nella stanza mentre la bionda cercava di affondare sempre di più nel letto – forse nella speranza che si aprisse un varco spaziotemporale che la risucchiasse via.
Le sue vaghe speranze morirono definitivamente quando la bella castana scostò – senza la minima pietà, notò April – le tende e aprì la finestra, lasciando che la frizzante aria del mattino invadesse la stanza dove, dopo tutta la notte, l'ossigeno ormai scarseggiava.
«Non costringermi a buttarti già dal letto, tesoro»
La voce di May risultò minacciosa in maniera preoccupante, tanto che April si costrinse a fare capolino da sotto il cuscino. Il sole era più accecante di quello che si aspettava.
«Non voglio andare a lavoro oggi» mugugnò, la voce ancora impastata.
Mentre cercava di mettere a fuoco la figura dell'amica (cosa difficile, dato che era senza occhiali), ancora vicino alla finestra – ovvero, ancora vicina a quella luce che rischiava di metterle in serio pericolo gli occhi – le sembrò di vederla alzare gli occhi al cielo.
«Stiamo ritornando indietro di quindici anni? Vedi di alzarti o potrei non rispondere delle mie azioni» continuando a mantenere il tono minaccioso.
April tentò la sua ultima carta: lo sguardo da cucciolo bastonato.
«Ti prego...» iniziò, il tono piagnucolante abbastanza da fare compassione ma non troppo da essere fastidioso.
Purtroppo per lei, May rimase impassibile.
«Con me non funzionano questi trucchi da quattro soldi. Dovrai inventarti qualcosa di meglio per farmi cedere» fece con aria soddisfatta.
«La mia vita relazionale è uno schifo, probabilmente non mi prendono allo stage, si è appena allagata la casa e non posso – non voglio – tornare a casa. Questo è sufficiente?» fece con tono tragico.
Vide May pensarci su.
«No, mi dispiace. Alzati» disse infine, categorica.
April fece un verso tra il disperato e il lamentoso, tirandosi su la coperta per coprirsi il volto – e impedire alla luce del sole di raggiungerla.
«Non vuoi alzarti nemmeno se vado a prendere delle ciambelle da Granny's?»
Dopo aver sentito quelle parole, alla pari di una formula magica, si tirò su di colpo.
«Con cioccolato e ciliegia?» chiese, guardandola poco convinta. May le sorrise furba.
«E un milkshake al caffè» aggiunse.
April spostò lo sguardo, osservando le proprie gambe intrecciate con le lenzuola e la coperta. Sì, di sicuro May era più brava di lei a convincere le persone.
«Andata» borbottò sconfitta.
Come avrebbe fatto a dire di no a quella proposta così allettante?
«Perfetto» tubò May, applaudendo come una bambina «Volo a prenderle. Tu fila a farti la doccia, ora» aggiunse, lanciandole un'occhiataccia, per poi correre via dalla stanza.
April la sentì trafficare nell'altra stanza, il tintinnio di un paio di chiavi e poi la porta che si apriva e chiudeva.
Beh, non poteva rimanere a letto ancora a lungo; primo, perché se May l'avesse trovata ancora lì sarebbe stata capace di mangiarsi le ciambelle da sola di fronte a lei – e questo non avrebbe mai potuto sopportarlo – secondo perché doveva andare a lavoro, e se avesse perso ulteriore tempo sarebbe arrivata inevitabilmente in ritardo.
Allungò una mano verso il comodino, trovando subito i suoi fidati occhiali e infilandoseli; scese dal letto quasi strisciando e ciabattò verso il bagno con le stesse movenze di uno zombie, infilandosi dentro la stanza. Non chiuse la porta a chiave: era da sola, e in ogni caso non aveva alcun imbarazzo con May.
Iniziò a spogliarsi con gesti lenti – aveva un sonno tremendo, confidava in una doccia rigenerante; fu contenta di aver già sistemato alcune sue cose nel bagno, in modo tale da non dover fare avanti e indietro per la sua stanza. Per essere più precisi, era stata May a costringerla e ad aiutarla la sera prima, proprio come avrebbe fatto una mamma.
Si incupì notando il volto sciupato, un misto tra stanchezza, tristezza e chissà cos'altro; rimase un paio di minuti a osservarsi la faccia, alla ricerca di qualche misteriosa ruga che avrebbe potuto comparire da un giorno all'altro – la vecchiaia era sempre dietro l'angolo, pensava – e terminata la sua minuziosa ricerca si infilò nel box doccia, abbandonando i suoi vestiti sopra un mobiletto, insieme agli occhiali.
L'acqua le scivolò addosso gelida, facendola strillare per un momento; appena prese la giusta temperatura – ovvero, più o meno la stessa della lava – si crogiolò sotto il getto piacevole, desiderando di non uscire mai più da lì – era dura la battaglia tra letto e doccia, cosa avrebbe scelto?
Era alle prese con lo shampoo quando le parve di sentire la porta del bagno aprirsi. Stette un attimo in silenzio, in ascolto. No, doveva esserselo immaginato.
Scosse la testa tra sé. Era arrivata proprio al limite se iniziava a immaginarsi anche i rumori.
Ma ecco di nuovo qualcosa di strano: il rumore del box doccia che si apriva. Si girò di scatto, spaventata.
Di fronte a lei, una figura maschile irriconoscibile – non aveva gli occhiali, dopo tutto, si stagliava di fronte a lei; certo, non vedeva bene, ma nel complesso tutto fu sufficienete per notare che l'uomo era completamente e totalmente...
È nudo!
April strillò spaventata, appiattendosi contro la parerte opposta del box doccia, cercando di coprirsi in qualche modo con le mani; lo spavento la fece sbattere in modo violento verso il ripiano interno in cui vi erano poggiati bagnoschiuma e saponi vari e ne fece così cadere alcuni. Uno di essi doveva aver c'entrato il piede del tizio, dato che anch'egli urlò all'improvviso – un urlo di dolore oltre che di sorpresa.
«Esci fuori di qui! Schifoso pervertito!»
April iniziò a urlare improperi vari mentre l'acqua continuava a scorrere; si era lasciata scivolare per terra nel tentativo di coprirsi.
Vide l'uomo uscire dalla doccia di corsa, poi dei passi, delle parole borbottate a mezze labbra e la porta del bagno che si chiudeva con uno schiocco secco.
Cosa diamine è appena successo?, pensò April, scioccata.
Chi diavolo era quel tipo? Non l'aveva visto bene, anche se per un attimo le era sembrato di riconoscerlo.
Un momento. Sono a casa di May, quindi...
April si diede giusto il tempo si sciacquarsi le ultime tracce di shampoo, per poi uscire veloce dalla doccia e avvolgersi nell'accappatoio giallo limone, e inforcò gli occhiali.
Il calore che ancora emanava il suo corpo glieli fece appannare un po', ma bastò la differenza di temperatura con il corridoio a far sparire ogni traccia di vapore dalle lenti graduate.
April si affacciò nel corridoio, girandosi da una parte all'altra: non vedeva nessuno, e nell'appartamento regnava il silenzio. O meglio, regnò il silenzio per un minuto dato che poi si sentì un tonfo sordo e un'imprecazione provenire dal soggiorno.
La bionda si diresse con passo incerto in quella direzione – insomma, era quasi sicura fosse lui, ma poteva sempre sbagliarsi – per poi fare capolino all'interno della stanza.
Una figura alta, muscolosa, dalla pelle olivastra si stagliava nel centro della stanza; i riccioli scuri gli coprivano il viso, ma erano assolutamente inconfondibili.
April arrossì mentro lo osservava armeggiare con i pantaloni con una mano e con l'altra cercare di rimettere in equilibrio un soprammobile che era caduto; era pur sempre mezzo nudo, e comprese bene la gelosia che May provava nei suoi confronti.
«Adam»
L'uomo sobbalzò all'improvviso e alzò la testa.
La guardò confuso, poi si rese rapidamente conto della situazione in cui si trovavano – April in accapatoio, lui solo con i pantaloni – e si affrettò a chiudere la cinghia della cintura e a indossare la maglietta che giaceva appallottolata sul divano.
«April» disse infine, il tono lievemente in imbarazzo «Non sapevo che fossi qui» disse il giovane.
Si passò una mano tra i riccioli, spostandoli, rivelando un paio di brillanti occhi verdi e l'ombra di una barba che riprendeva a crescere.
April si morse un labbro, anche lei in imbarazzo; per quanto conoscesse bene Adam rimaneva pur sempre il fidanzato della sua migliore amica: non c'era mai stata un'intimità tale e nemmeno altre circostanze che facessero sì di mostrarsi mezzo nudi a vicenda. O nudi, considerando i momenti di poco prima.
April si costrinse ad assumere un tono tranquillo.
«Sì, beh, sono rimasta a dormire qui. Ho avuto problemi a casa» spiegò, cercando di portare la conversazione su un terreno privo di imbarazzo. Nel frattempo, si strinse di più nell'accappatoio, ringraziando il cielo che fosse adeguatamente voluminoso e coprente.
Adam accolse quel suo tentativo di eliminare l'imbarazzo e annuì.
«Spero nulla di troppo grave» fece, corrugando la fronte dubbioso.
La bionda scrollò le spalle.
«Ci sono state delle perdite e si è allagato l'intero appartamento. May è così gentile da ospitarmi per un po'» spiegò.
Come se fosse stata appena invocata, si sentì la porta aprirsi e poi chiudersi con un tonfo.
«April! Spero per te che ti sia data una mossa e sia già vestita»
La voce raggiunse i due prima della stessa May, ma pochi istanti dopo la ragazza entrò nel soggiorno, strabuzzando poi gli occhi nell'accorgersi della situazione.
«Adam. Che ci fai qui?» disse dopo poco, confusa.
Se Adam fece un sorriso imbarazzato, April venne invece attratta dal sacchetto nelle mani di May da cui proveniva un dolce e buonissimo profumo.
«Volevo farti una sorpresa» rispose imbarazzato l'uomo.
A quelle parole, April spostò di nuovo l'attenzione verso i due.
«Posso confermare che la sorpresa è riuscita, peccato che fosse con la persona sbagliata» puntualizzò, l'imbarazzo riguardo a quella storia ormai scomparso; il fatto che fosse arrivata May la rendeva più tranquilla.
La castana sembrò intuire qualcosa perché scoppiò a ridere.
«Se da un lato non voglio sapere cosa sia successo, dall'altro già mi immagino la scena» disse tra le risate.
Adam arrossì in maniera adorabile mentre April faceva un mezzo sorriso.
«Beh, Adam, lascio a te l'onore e l'onere di raccontare ciò che è successo – è colpa tua, in fondo – mentre io vado a vestirmi. Che nessuno osi toccare la mia colazione» disse le ultime parole con un tono minaccioso tale che nessuno avrebbe mai tentato di andare contro il suo volere, e d'altronde May sapeva bene com'era April con i dolci: se qualcuno le toccava qualcosa che spettava a lei, poteva anche dire addio a questo mondo.
Con in testa la colazione che la aspettava, April corse prima in bagno a recuperare i vestiti abbandonati, poi in camera a vestirsi.
Mentre faceva scorrere lo sguardo lungo i suoi molteplici vestiti, non ancora pronta ad affrontare la dura decisione che spetta a tutte le donne di prima mattina – il famoso e oggi che mi metto – udì la squillante voce di May scoppiare in una risata.
Adam doveva averle raccontato la scena e May di sicuro si era immaginata tutta la situazione, comprese le espressioni dei due – che, April dovette ammettere, di sicuro erano esilaranti.
Mentre ripensava allo spavento che si era presa in bagno afferrò uno dei suoi vestiti preferiti: con il colletto da scolara, privo di maniche e con un cinturino alla vita bianco, era completamente rosso ciliegia, una tonalità che adorava.
Se la giornata sarebbe stata una schifezza come quella di ieri, avrebbe avuto bisogno di tutta la felicità possibile, e quel vestito era una delle fonti.
Optò per dei sandali alti bianchi – la ferita del giorno prima ormai dimenticata – e una giacchina del medesimo colore. Lasciò che i capelli si asciugassero all'aria mentre si dirigeva in soggiorno, dove ritrovò Adam e May che in quel momento si stavano abbracciando.
Si bloccò, indecisa se entrare o meno – non voleva interrompere! – ma venne subito notata dall'amica, che si staccò dal fidanzato.
«Il vestito portafortuna? Sei proprio superstiziosa, April!» la accolse May, con un sorriso arrendevole. April alzò gli occhi al cielo, decisa però ad ignorarla.
«Dov'è la mia colazione?» chiese invece, iniziando poi a seguire la scia del profumo alla pari di un cane da tartufo.
«L'ho appoggiata sul bancone della cucina» le rispose May.
April andrò dritta in quella direzione; aprì il sacchetto con la stessa felicità di un bambino con il proprio regalo di compleanno, e solo nel vedere quelle bellissime ciambelle ricoperte di glassa al cioccolato – la farcitura di ciliegia al proprio interno – e il milkshake affianco, spumoso e di un nocciola chiaro, le venne da sorridere raggiante.
Si appoggiò al bancone della cucina e diede un morso; non voleva tornare in soggiorno, voleva lasciare ai due un po' di intimità. Furono però i due a richiamarla dall'altra stanza, costringendola a tornare.
«April, stai cercando di lasciarci da soli? Ti pare che ti abbiamo mai fatta sentire il terzo incomodo?» l'apostrofò May, con finta aria offesa.
April fece spallucce.
«No, ma volevo lasciarvi un po' per i fatti vostri» mugugnò in imbarazzo, mentre dava un secondo morso.
Aveva ragione May: non era mai stata la tipa – e nemmeno Adam lo era – che faceva sentire le persone di troppo. Lei, oltretutto, era la sua migliore amica e conosceva Adam da molto tempo, di certo non doveva preoccuparsi di certe cose; solo che l'avvenimento della mattina l'aveva fatta rendere conto di quanto stare lì per vari giorni sarebbe stato, come dire... invadente.
Sapeva però anche che May non l'avrebbe lasciata andare da nessun'altra parte, quindi aveva intenzione di eclissarsi ogni volta che ne avesse avuto l'occasione.
«May mi ha spiegato che è successo. Mi dispiace tanto, April, se c'è qualcosa che posso fare dimmelo pure» le disse Adam.
Dopo aver preso un generoso sorso dal suo milkshake, April fece un sorriso mesto.
«Grazie Adam, ma non credo ci sia qualcosa che tu possa fare. Devo solo aspettare che venga messo tutto a posto, poi potrò ritornare a casa mia» rispose.
L'uomo annuì.
Dopo qualche istante di silenzio, May intervenne.
«Tesoro, ti conviene sbrigarti se non vuoi rischiare di arrivare in ritardo»
April lanciò un'occhiata all'orologio appeso alla parete e sbiancò.
«Merda» sibilò.
Ecco, non poteva neanche finire di fare colazione tranquilla: ingurgitò in fretta e furia il milkshake, si infilò in bocca il resto della ciambella e volò in camera sua.
«Potevi dirmelo prima!» urlò in direzione dell'amica, ma non stette ad ascoltare la risposta: si fiondò sulla pochette dei trucchi, mettendosi giusto un po' di mascara, poi andò in bagno e si lavò rapida i denti, per poi mettersi il rossetto in tinta con il vestito.
«Io vado, ciao!» disse solo, prima di afferrare la borsa e precipitarsi verso la porta.
«April, aspetta!»
Troppo tardi, April non la sentì – o forse era talmente preoccupata dal fare ritardo che non rimase ad ascoltare ciò che May aveva da dirle – e chiuse la porta dietro di sé con un tonfo. Corredo poi giù per le scale – attendere l'ascensore avrebbe richiesto troppo tempo, e poi erano solo quattro piani!
Una volta per strada, quasi si lanciò lungo le corsie delle auto.
«Taxi!»
Sperava solo di non arrivare troppo in ritardo.
Colui che invece quel giorno era perfettamente in orario – cosa molto strana per i suoi standard – era Aaron, che in anticipo di addirittura dieci minuti era dentro l'ascensore in movimento.
Sbuffò mentre si passava una mano tra i capelli rossi.
La notte precedente aveva a malapena chiuso occhio: aveva passato l'intera notte a girarsi e rigirarsi nel letto, alla ricerca di un sonno che però non arrivava, vinto dalle preoccupazioni che frullavano nella testa dell'uomo.
Aveva passato la notte a cercare scappatoie che non c'erano, per poi arrivare alle cinque del mattino con la bruciante consapevolezza che non poteva fare nulla che accettare il proprio destino e stringere i denti mentre lavorava con una delle bestie di Satana.
Era andato a correre nella New York albeggiante, che si divideva tra coloro che uscivano assonati per andare a lavoro e quelli che invece erano reduci dalla baldoria della sera prima e si apprestavano a tornare a casa. L'aria fresca del mattino di quell'inizio di primavera gli aveva dato una svegliata, aiutata dalla doccia che lo aspettava al ritorno.
Lui, a differenza di qualcun altro, non aveva avuto brutte sorprese nel box.
Il tipico e familiare suono dell'ascensore lo avvisò che era arrivato al suo piano, e le porte si aprirono silenziose permettendogli di uscire.
Come ogni mattina, Daphne era dietro la propria scrivania a fare qualcosa che Aaron non aveva mai capito – ma quella ragazza lavorava o era lì solo per riscaldare la sedia?
«Buongiorno Aaron»
Ogni mattina la giovane lo salutava, e ogni mattina come risposta sapeva di ricevere a malapena un “'giorno” abbozzato. Quel mattino però comprese che Aaron fosse di pessimo umore, perché non la guardò di striscio e tirò avanti verso il proprio ufficio.
Sospirò, prima di aprire la porta.
Cosa ho fatto di male?, pensava mugugnante.
E c'è proprio da chiedersi che cosa avesse fatto di male, dato che ad attenderlo oltre la porta, seduta sulla sua poltrona e dando un'occhiata ai suoi sketch, stava una ragazza molto giovane.
Aaron si immobilizzò, diventando una statua di ghiaccio.
La ragazza, disturbata dal rumore della porta che si apriva, alzò lo sguardo finendo per incrociare quello del rosso, gelido come ogni volta la paura lo rendeva.
In quei secondi di totale e assurdo silenzio, Aaron poté osservare la ragazza: non doveva avere più di vent'anni, i capelli fino alle spalle biondo ghiaccio fissati da una forcina nera; occhi scuri, truccati e con folte ciglia nere, rossetto scuro e, da quello che riuscì a vedere, una camicia fissata in vita con una cintura.
«Ciao»
Ciao?, pensò scandalizzato Aaron.
Quella ragazza era nel suo ufficio e gli diceva “ciao” come se nulla fosse. Sentì la paura crescere dentro di lui e i suoi occhi diventarono una maschera di freddezza assoluta.
Si costrinse a parlare, ma non fece in tempo.
«Tu devi essere Aaron Marlowe»
Il giovane la guardò.
«...e tu sei?» domandò duro.
La ragazza gli sorrise, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi a lui.
«Zoe Patterson, piacere di conoscerti» fece, allungando una mano.
Aaron però fece un passo indietro, non stringendogliela. A quel gesto, la ragazza scoppiò a ridere.
«Allora Nevil non stava scherzando: tu hai davvero paura delle donne»
E vaffanculo al suo capo. Non gliene fregava nulla, l'avrebbe ucciso.
Tacque, incapace di replicare.
«Dimmi, cos'è che ti fa paura di noi? Quanto siamo belle? Oppure non riesci a tenertelo nei pantaloni e hai paura di perdere il controllo?» iniziò a domandare la ragazza – Zoe, facendolo cadere ancora di più nel panico.
Non sapeva cosa rispondere – ecco perché gli facevano così paura – ma a salvarlo fu Tom, che comparve come una fata madrina alle spalle del rosso.
«Quante domande, ragazzina. Che ne dici di prendere un bel respiro? Se continui così lo farai collassare» intervenne l'amico, afferrandolo per la giacca e tirandolo indietro, creando di nuovo una distanza di sicurezza tra Aaron e la bestia di Satana, ricevendo così l'amore imperituro del rosso che riuscì a riprendere a respirare.
Zoe sbuffò.
«Volevo solo sapere se quello che mi ha detto Nevil fosse vero o no. A quanto pare lo è» disse, terminando con un risolino.
Aaron vide Tom fare un sorriso angelico, il tipico sorriso falso che gli spuntava sul volto ogni volta che qualcuno gli faceva saltare i nervi.
«Beh, ora che hai appurato la veridicità di tale fantastico avvenimento, che ne dici di uscire dal suo ufficio?» domandò, senza realmente chiedere.
Zoe gli fece un sorriso mellifluo.
«Ci si vede più tardi» disse solo la ragazza, per poi uscire dalla stanza e inoltrarsi nel corridoio.
Tom sospirò.
«Sì, beh, è peggio di quel che mi aspettavo. Speravo fosse una persona più tranquilla, invece dovrai sopportare quel piccolo demone che pare divertirsi a farti spaventare. Mi dispiace, Aaron»
Ma Aaron era ancora troppo occupato a cercare di recuperare le proprie facoltà mentali e locutorie per rispondere all'amico; inoltre, doveva cercare di uccidere il suo capo e farla franca, considerando come l'uomo avesse appena spiattellato il suo problema a un demone biondo e con tanta voglia di divertirsi alle spalle degli altri.
«Comunque non preoccuparti, non credo che possa attentare in qualche modo alla tua virtù – che in teoria non c'è già da un po' di tempo, ma immagino che dopo questi anni si sia rigenerata – è lesbica da quello che ho capito» fece Tom tranquillo, spingendo l'amico dentro l'ufficio.
A quelle parole, Aaron sembrò risvegliarsi. Lo guardò con occhi disperati.
«Non mi importa se è lesbica o meno. È una donna» sibilò con un vago tono isterico.
«Ma davvero? Non me n'ero accorto» rispose sarcastico l'altro.
L'amore che aveva provato un minuto prima per Tom scomparve.
«Chi diavolo è quel demone?» chiese, guardandolo fisso, gli occhi colmi di consapevolezza.
Tom lo guardò con pietà.
«Credo che tu già sappia chi è» rispose, implacabile a differenza del suo sguardo.
Aaron iniziò a scuotere la testa come in trance, appoggiandosi alla propria scrivania in cerca di sostegno.
No, questo è un incubo.
«Non è vero» piagnucolò.
«Oh sì. È la ragazza con cui dovrai collaborare»
E mentre le campane suonavano a morto, sancendo inevitabilmente la sua dipartita, Aaron si ritrovò per un attimo a rimpiangere quella biondina esagerata che si era accanita contro di lui nell'agenzia matrimoniale.
Almeno lei non mi spaventava consapevolmente.
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Ed eccomi qui dopo più di venti giorni...
Devo ammettere una cosa: questo capitolo è pronto da più di dieci giorni, ma per un motivo o per l'altro non riuscivo mai ad avere il tempo di aggiornare! Ho anche passato una settimana con la febbre, e non è stata una bella esperienza...
Comunque sia, in questo capitolo finalmente la situazione inizia a muoversi: April ed Aaron si incontrano di nuovo!
Spero che vi piaccia il loro nuovo incontro e che vi divertiate a leggere il capitolo almeno la metà di quanto mi sono divertita io nello scriverlo.
Detto questo non starò ancora a tediarvi, vi auguro semplicemente buona lettura e spero che possiate lasciarmi qualche commento per sapere cosa ne pensate!
Un abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo dieci
«Mi aiuteresti a occultare un cadavere?»
Aaron alzò lo sguardo dal cubo di Rubik che, fino a quel momento, aveva catturato la sua attenzione. Tom non spostò il suo dallo schermo del computer.
«Ovvio»
Risposta secca, senza ombra di un dubbio.
«Il cadavere in questione è già tale o deve ancora diventarlo?» domandò Tom con lo stesso tono che avrebbe adoperato per dire la sua tonalità di azzurro preferita.
Aaron riabbassò lo sguardo, cercando di capire in che modo gli convenisse muovere il cubo.
«Non ancora, ma lo sarà presto» rispose, il medesimo tono dell'amico.
«Posso sapere chi è?»
«Il nostro capo»
A quella risposta, Aaron sentì l'amico sbuffare.
«E io che credevo fosse per qualcosa di serio. Ce l'hai ancora con lui?» borbottò Tom, scontento – probabilmente perché i piani omicidi erano appena crollati come un
castello di carte. Insomma, non poteva di certo uccidere il proprio capo, no?
Aaron lo guardò truce, distraendosi per l'ennesima volta dal gioco che stava tra le sue mani.
«Ha rivelato a quella ragazzina il mio peggior segreto e tu mi chiedi se ce l'ho ancora con lui?» fece retorico.
Il moro alzò gli occhi al cielo.
«“Il mio peggior segreto”... Neanche facessi riti sacrificali in onore di Satana. Hai solo paura delle donne, che sarà mai» disse annoiato Tom.
Aaron si costrinse a stare zitto e a sopprimere la crisi di nervi che stava per averla vinta su di lui.
«Stai rischiando» fece funereo.
Tom lo guardò con un sorriso diabetico
«Cosa?» domandò con voce soffice, una luce divertita negli occhi.
Aaron stava per non rispondere o lanciargli addosso direttamente il cubo di Rubik – se fosse diventato completamente rosso si poteva definire risolto, in fondo – ma la porta si aprì di scatto e Daphne interruppe lo scambio amorevole tra i due giovani.
Aaron, vedendola, si immobilizzò come suo solito mentre Tom lo osservava e rideva sotto i baffi.
«Tom, tesoro, Nevil ti vuole nel suo ufficio» fece la ragazza, per poi accorgersi della presenza del rosso nella stanza.
Notandolo, arrossì.
«Oh, Aaron, sei anche tu qui. Nevil vorrebbe vedere anche te» disse mettendosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Va bene, grazie Daphne» rispose allegro Tom. Il rosso tacque e, dopo una vaga occhiata da parte di Daphne, quest'ultima se ne andò con un semplice cenno al moro.
«Guarda che se la ringraziavi non le spuntavano corna e coda, sai?»
«“Tesoro”? Da quando ti chiama così?» fece schifato Aaron, ignorando la frase dell'amico. Quest'ultimo scoppiò a ridere.
«Lo fa amichevolmente, non è successo niente tra noi due se è quello che pensi. Lo farebbe anche con te se le dessi più confidenza, invece sei tutto rigido e serio» spiegò Tom, alzandosi dalla propria poltrona.
«No, grazie. Ho un nome e preferisco che venga usato quello» rispose seccato Aaron.
E poi sentirsi chiamare “tesoro” da una donna che non rientrava nella categoria “familiari” l'avrebbe terrorizzato a morte. Rabbrividì; quelle bestie cercavano di addolcire le proprie prede con nomignoli vari prima di saltar loro alla gola e sgozzarli.
«Principino, vuoi alzare il tuo regale fondo schiena o ti serve un bianco destriero?»
Aaron lanciò il cubo prima che Tom potesse rendersene conto ed evitarlo; lo beccò in pieno e, dopo un suono secco, il giocattolo cadde a terra con un tonfo.
«Tu sei fuori di testa» gli urlò contro Tom, mentre si massaggiava la testa in corrispondenza del punto colpito. Aaron sorrise zuccheroso.
«Io l'ho detto che rischiavi» gli rispose angelico, alzandosi dalla sedia su cui era stravaccato e aprendo la porta.
«Stai attento, potresti ritrovarti misteriosamente chiuso nella stessa stanza con una donna. O meglio, chiuso a chiave e con più donne» gli sibilò nell'orecchio Tom, superandolo e ghignando in sua direzione.
Aaron sentì distintamente un brivido corrergli per tutta la schiena alla sola idea che quella minaccia prendesse concretamente forma – e, per quanto Tom gli volesse bene, qualcosa gli diceva che sarebbe stato in grado di farlo – ma non poté fare altro che tacere e seguire l'amico che lo anticipava verso l'ufficio del capo. Dopo aver bussato e aver sentito la voce di Nevil che permetteva loro di entrare, Tom aprì la porta.
Dentro l'ufficio, Nevil era come sempre adagiato comodamente sulla propria poltrona di pelle, con in mano un bicchiere pieno a metà della sua acqua e limone; il giorno aveva rinunciato alle sue solite giacche e cravatte per indossare una semplice camicia azzurrina che si intonava ai suoi occhi color cielo. Decisamente più casual rispetto al solito e decisamente più adeguato al proprio ufficio.
Purtroppo per Aaron, l'uomo non era l'unica persona che li attendeva nella stanza: la ragazza che quella mattina gli aveva fatto un'adorabile e spaventosa sorpresa era lì, seduta su un puff giallo canarino spuntato da non sapeva dove, che li osservava entrare con un preoccupante sorriso stampato sul bel viso.
Aaron deglutì e cercò lo sguardo di Tom, che però si trovava di fronte a lui e gli dava le spalle.
Qualcuno mi dia la forza, pensò tragico.
«Tom, Aaron, eccovi qui. Zoe mi ha accennato che vi siete già presentati stamattina» fece Nevil allegro.
Questa sopracitata allegria faceva a pugni con il volto gelido di Aaron, la cui espressione pareva quella di un condannato a morte. Solo a quel punto Tom si volse verso l'amico, ancora rimasto in prossimità della porta, e gli fece un sorriso incoraggiante per poi voltarsi di nuovo verso il superiore.
«Non so se “presentati” possa essere il termine corretto, diciamo che ci siamo visti» puntualizzò Tom, con un sorriso pacato.
Aaron sentì la giovane ridacchiare – sentì perché cercava in tutti i modi di evitarla con lo sguardo – mentre notò chiaramente Nevil scoppiare a ridere.
«Scusami Aaron, non ho potuto fare a meno di accennarle il tuo problema. Non capiva perché fossi così riluttante a lavorare con lei» disse con un vago tono di scuse l'uomo, sempre con il medesimo sorriso giocoso che mostrava come in realtà non fosse realmente dispiaciuto dalla situazione.
Nel frattempo, l'istinto omicida di Aaron tornava a fare capolino e Tom dovette essersene accorto perché, dopo essersi seduto e aver lanciato uno sguardo all'amico sempre fermo vicino alla porta, gli lanciò un'occhiata pregante.
No, Tom, un'altra battuta del genere e commetto un omicidio, pensò Aaron, ma nonostante ciò si costrinse a fare un sorriso che risultò palesemente forzato.
«Me ne sono accorto» non riuscì a trattenersi dal dire, avvicinandosi e sedendosi come già aveva fatto Tom.
Nonostante questo, la sua posizione continuava a rimanere rigida.
«Come avrete intuito, Zoe è l'autrice della graphic novel di cui dovrete sviluppare il gioco» iniziò l'uomo. I due ragazzi annuirono.
«Vi ho chiamati qui per fare delle presentazioni ufficiali, sapete com'è...» continuò l'uomo, lasciando però la frase in sospeso.
No, non so com'è, brutto idiota, pensò infastidito Aaron, ma per amore del suo lavoro si costrinse a fare un sorriso che risultò come quello precedente.
«Prima le signore» disse Nevil, facendo un cenno alla giovane. Quest'ultima si alzò e Aaron non poté fare a meno di girarsi e guardarla.
Lì in piedi, con un sorriso stampato in volto, gli sembrò una pantera di fronte a un povero e spaventato coniglietto. Non è necessario specificare chi fosse cosa.
«Anche se l'ho già detto, Nevil pare voglia fare le cose per bene, quindi... Io sono Zoe Patterson, ho vent'anni e sono l'autrice della graphic novel con cui dovrete collaborare. Vi dico sin da subito che tengo particolarmente al mio lavoro, quindi non permetterò a nessuno di voi di rovinarmelo, anche se avete dei bei faccini. Qualsiasi vostra iniziativa o idea che vi balzi in mente, dovrete prima comunicarmela e solo dopo il mio esplicito consenso potrete usarla nel vostro gioco» disse la ragazza, parlando con un tono sicuro e rapido che non ammetteva discussioni.
Se a Tom un atteggiamento del genere fece sorridere – forse perché lo diceva una ragazza, forse perché la ragazza in questione era alta un metro e sessanta con dei tacchi di dieci centimetri – ad Aaron sembrò una dichiarazione di guerra da parte di una potenza mondiale verso un piccolo villaggio sperduto che ancora non aveva inventato la ruota.
Deglutì, il volto che diventava cereo. Tom, conscio della situazione in cui si trovava l'amico, prese l'iniziativa.
«Io sono Tom Wayne, molto piacere. Sono sicuro che riusciremo ad andarci incontro senza alcun problema. In fondo, nell'ambiente lavorativo bisogna essere collaborativi, e anche se sei giovane confido che tu sia abbastanza matura da comprenderlo» rispose a tono Tom, senza essere minimamente scalfito dall'atteggiamento combattivo della giovane. Quest'ultima, sentendo la risposta, assottigliò leggermente gli occhi e lo fissò baldanzosa, per poi spostare con un sorriso vittorioso lo sguardo verso Aaron.
Vittorioso perché aveva già compreso che il rosso non sarebbe stato in grado di replicare – non perché non ne aveva le capacità, ma perché si trovava di fronte una donna – motivo per cui aveva fatto un discorso così “aggressivo”.
Aaron, del canto suo, non sapeva come reagire, immobilizzato dalla sua paura.
«Aaron Marlowe, piacere. Spero che riusciremo a collaborare» finì per dire, con tono gelido.
Dentro di sé fu contento: almeno era riuscito a non far tremare la propria voce, e considerò la cosa già una grande vittoria.
Zoe sembrò scontenta di quella reazione – sperava in degli urletti isterici, forse? Di certo Aaron aveva abbastanza orgoglio da non lasciarsi andare in atteggiamenti del genere. O almeno, non in pubblico.
Nevil riprese in mano la situazione.
«Beh, ora che le presentazioni sono state fatte direi che potete andare: io non posso mettere mano ai vostri lavori, come sapete, ma aspetterò dei risultati al più presto» concluse rapido l'uomo.
Di sicuro anche lui si rendeva conto del gelido silenzio di Aaron, in fondo sapeva perfettamente come si comportava il ragazzo normalmente e quel suo essere taciturno non era normale. Forse aveva qualche rimorso anche lui.
Aaron si dovette costringere a non scattare in piedi come morso da una tarantola, e si alzò solo quando notò Tom fare lo stesso, per non destare troppe occhiate.
«Bene, allora direi che possiamo iniziare questo pomeriggio. Sia io che Aaron dobbiamo terminare delle modifiche a una versione demo che stiamo per lanciare. Speriamo tu possa essere paziente» fece con un sorriso di sufficienza il moro, in direzione della ragazza.
Zoe gli fece un sorriso, mascherando senza troppo successo quella che sembrava irritazione.
«Ovviamente. A questo pomeriggio allora»
Aaron si limitò a tacere, uscendo per primo dalla stanza e non salutando nessuno.
Vaffanculo Nevil, pensò però rabbioso, e ci mancò poco che non sbattesse la porta dietro di sé.
Un minuto dopo sentì la mano di Tom poggiarsi sulla sua spalla in segno di conforto.
«Aaron...»
«Vado a lavorare» lo interruppe il rosso.
E magari a prepararmi psicologicamente per questo pomeriggio.
Solo quando l'ascensore si fermò April si accorse di quanto fosse stanca.
Si trascinò fuori dal cubicolo, sbadigliando. Erano solo le otto ma le sembrava fossero le due di notte; eppure non era stata una giornata tanto impegnativa: a lavoro, per quanto il clima con Gwen fosse ancora piuttosto freddo, era stata una giornata tranquilla e neanche il carico di lavoro era stato esagerato.
Durante il giorno le era venuto in mente Damian e aveva pensato che magari avrebbe potuto chiedergli di trascorrere la pausa pranzo insieme, ma poi si era bloccata e aveva deciso di aspettare a quando l'uomo si sarebbe fatto vivo; oltretutto, in caso l'avesse fatto e le cose fossero andate bene, non era minimamente intenzionata a cedere subito. E poi, alla fine, neanche aveva fatto la pausa pranzo preferendo continuare a lavorare.
Mentre iniziava a fantasticare su quanto sarebbe stato comodo il letto, si fermò di fronte alla porta e si accorse di non avere le chiavi – cosa che notò solo in quel momento dato che al portone principale la porta era stata lasciata casualmente aperta.
Poco male, mi aprirà May, pensò scrollando le spalle. Se non ricordava male, il giorno staccava sul primo pomeriggio.
Perciò suonò il campanello confidando nell'arrivo della sua amica.
Passò un minuto, e nessuno venne ad aprirle.
Suonò un'altra volta, pensando che l'amica non avesse sentito – magari aveva la televisione ad alto volume – ma nessuno arrivò e ciò rimase uguale anche quando incollò il proprio dito al campanello, facendolo suonare senza interruzione.
Niente, non c'era nessuno.
Merda, pensò con una smorfia.
Si accorse solo in quel momento del bigliettino poggiato al limite dello zerbino su cui stava; un pezzo di carta piegato in due, dove riuscì a leggere “per April” scritto nella familiare calligrafia di May.
Si chinò e lo raccolse.
“Cara April, se stai leggendo questo biglietto non sono ancora tornata dal mio appuntamento dall'estetista e tu sei rimasta chiusa fuori. Non posso farci nulla: stamattina sei fuggita via senza farmi parlare e durante il giorno il tuo cellulare doveva essere dimenticato negli abissi della tua borsa, perché non hai risposto alle mie chiamate nemmeno una volta. L'altra opzione era un piccione viaggiatore, ma non sapevo dove prenderlo. Quindi ti conviene metterti comoda e aspettare il mio arrivo, perché non so quanto ci metterò! Un bacio, ti voglio bene!”
«Non ci credo» mugugnò April.
Evidentemente il suo vestito fortunato non faceva più effetto, se continuavano a capitarle cose del genere.
Solo leggendo il biglietto si ricordò del cellulare spento e abbandonato in borsa: aveva deciso di spegnerlo appena arrivata a lavoro, preferendo concentrarsi meglio su ciò che aveva da fare, e dato che aveva saltato la pausa pranzo non l'aveva nemmeno acceso per dargli un'occhiata.
In fondo era colpa sua, ne era cosciente, e non poteva fare nulla.
Sospirò.
Cosa poteva fare? Stare lì di fronte alla porta e aspettare l'arrivo di May?
Lo stomaco le brontolò.
No, non era un'opzione. Decise di andare in un bar lì vicino e mangiare qualcosa, almeno non avrebbe buttato il tempo. E poi, ora che ci pensava, aveva veramente fame.
Iniziò quindi a frugare nella borsa fino a quando non trovò una vecchia penna senza tappo che dovette strisciare sul palmo per qualche secondo prima di farle riprendere vita – da quanto stava lì? Ere geologiche di sicuro – e a quel punto riprese il foglietto di May e aggiunse qualcosa sotto.
“Sono una stupida, lo so. Vado a mangiare qualcosa qui vicino, chiamami quando hai fatto!”
Lo ripoggiò per terra, cercando di lasciarlo bene in vista.
Poteva anche mandarle un messaggio, ma tanto sapeva che May non l'avrebbe letto: quando era dall'estetista non c'era per nessuno.
Si avvicinò poi all'ascensore, chiamandolo, e ben presto si ritrovò di nuovo in strada; si guardò intorno, i taxi che sfrecciavano di fronte a lei, le persone che la urtavano sul marciapiede.
«E ora dove vado?» bofonchiò tra sé.
Prese una direzione a caso: destra. Si inoltrò perciò tra le strade newyorkesi, guardando i bar e i piccoli ristoranti alla ricerca di qualcosa che catturasse la sua attenzione.
Fu strano, perché alla fine, ad attirarla, non fu un ristorante o un bar, bensì una chioma rossa che riconobbe dopo un attimo di incertezza.
Si avvicinò, un poco incerta.
«...Aaron Marlowe?» domandò, allungando una mano per toccare la spalla di quello che sì, era proprio Aaron Marlowe.
L'uomo in questione sobbalzò e si allontanò di scatto, irrigidendosi ancora di più nel riconoscerla.
Non deve avermi ancora perdonata per l'ultima volta, pensò dispiaciuta. I suoi occhi però furono catturati dai capelli rossi, facendole considerare che avrebbe pagato oro per averli della stessa tonalità.
«Ti ricordi di me? Sono April, la ragazza dell'agenzia matrimoniale» disse, sorridendogli speranzosa. Era praticamente certa di essere stata riconosciuta, ma meglio esserne sicuri.
Il giovane stette in silenzio tanto che per un attimo April considerò l'idea di non essere stata sentita – eppure non aveva sussurrato!
«Sì, mi ricordo di te» rispose alla fine il ragazzo.
April sorrise gentile. Più ci pensava, più considerava assurdo il proprio comportamento dell'ultima volta. Doveva essergli sembrata una pazza scatenata – non che non lo fosse, ma doveva cercare di mantenere una certa apparenza con gli estranei.
«Meno male, per un attimo credevo che non ti ricordassi di me. Che ci fai qui?» continuò poi.
Vide il ragazzo fare un passo indietro e cercare di tergiversare, ma alla fine capitolò.
«Sto tornando a casa» rispose secco.
April notò come fosse gelido nelle risposte e nell'atteggiamento ma si costrinse a non levarsi il sorriso dalla faccia, anche se la cosa la feriva in una certa misura.
Poi però le venne un'idea in testa.
«Senti, so che l'ultima volta non sono sembrata una persona proprio a posto – scusa per il mio comportamento, a proposito, non so cosa mi sia preso – ma che ne dici se per scusarmi ti offro qualcosa da mangiare? Tanto io non posso ancora tornare a casa e tu non hai impegni, no?» chiese speranzosa.
Veramente per quanto ne sapeva il ragazzo poteva avere anche una cena di Stato, ma considerò che invece lei non aveva nulla di meglio da fare ed era da sola: stare un po' in compagnia di qualcuno di certo non le avrebbe fatto male, e poi il tempo sarebbe passato più in fretta.
Alla sua proposta però vide l'altro sbiancare in tal modo che le venne da chiedersi cosa avesse detto di così strano o assurdo.
Magari sembra che ci stia provando?, pensò, indecisa. Si affrettò a specificare.
«Non ho intenzioni strane, lo prometto! Voglio solo mangiare qualcosa in compagnia, che ne dici?» insistette, sorridendo e avvicinandosi a lui. Aaron però arretrò ancora.
«A dire il vero-»
«Per favore!» lo interruppe April, e con queste parole gli afferrò una mano con gentilezza, guardandolo nel modo più dolce e innocente che poteva.
Qualcosa le diceva che fare l'ammiccante e la seducente con lui avrebbe ottenuto l'effetto opposto.
Prendendogli la mano, però, si accorse di come avesse delle mani lisce e più curate di quelle che si aspettava; erano calde.
Il ragazzo la osservò incerto e cercò per un momento di evitare lo sguardo, ma April glielo impedì non perdendo il contatto visivo e sorridendogli. Per un attimo, le sembrò di notare paura in quegli occhi castani e si sentì quasi in colpa.
«...va bene» sussurrò infine il ragazzo. Ad April sembrò che quelle parole gli fossero costate un'intera vita, ma decise di ignorare questa sensazione e, lasciandogli andare la mano, sorrise raggiante.
«Perfetto! Hai qualche preferenza riguardo il cibo?» gli fece, prendendolo per un braccio e trascinandolo avanti verso la strada.
Aaron, del canto suo, si lasciava docilmente accompagnare.
«Non amo il pesce» disse secco. April si girò a guardarlo e rise.
«Che coincidenza: nemmeno io! Allora che ne dici di andare in una hamburgeria? Ora che ci penso, qui vicino ce n'è una davvero fantastica!» continuò allegra. L'altro si limitò ad annuire.
April sorrise.
«Allora andiamo!» disse, continuarlo a trascinarlo con gentilezza.
Era contenta di aver incontrato Aaron; una cosa che odiava era mangiare da sola, anche se purtroppo ci aveva fatto l'abitudine contando la vita da bilocale. Certo, erano numerose le volte che mangiava con May, ma cenare con un ragazzo le avrebbe permesso di fantasticare, anche se solo per un'oretta, su come sarebbe stato avere un ragazzo e cenare in sua compagnia.
Le venne da ridere a quel pensiero, ma fu una risata con una punta di amarezza; doveva essere proprio disperata se si accontentava di mangiare con uno sconosciuto e far finta che fosse il suo ragazzo. Si sentiva parecchio fuori di testa.
«L'ultima volta non abbiamo avuto occasione di parlare meglio» iniziò poi la bionda, evitando di accennare che la colpa fosse stata sua. Si girò verso il ragazzo, in attesa di una sua replica, ma notò che il rosso manteneva lo sguardo fisso davanti a sé, senza guardarla un minimo.
Sono così un mostro?, le venne da pensare.
«Sì, beh, so che è stata colpa mia. Non volevo sembrare così aggressiva, non so proprio cosa mi sia saltato in testa» continuò, ridendo forzatamente.
E invece lo sapeva bene: era una che saltava subito alle conclusioni e che preferiva agire e poi pensare alle proprie azioni che il contrario.
In seguito all'ennesimo silenzio di Aaron, si sentì come se stesse parlando da sola. Poté però evitare di continuare quella conversazione sempre più imbarazzante perché arrivarono di fronte al locale.
«Che ne dici? Come ti sembra? Preferisci qualcos'altro?» domandò ancora, cercando di costringerlo ad aprire bocca.
Il locale era piuttosto semplice, almeno dal di fuori; non era molto pretenzioso e aveva un aspetto informale, cosa che forse avrebbe aiutato il ragazzo a sentirsi meno a disagio. Dalla vetrata che permetteva di vedere all'interno notò sia famiglie, che gruppi di amici, che qualche coppia qui e là.
Perfetto, sembra un posto tranquillo, sospirò mentalmente April.
A dire il vero non c'era mai andata, ci era solo passata davanti qualche volta e le era parso di sentire May parlarne – di sicuro ci era andata una volta con Adam, considerò
– ma le era sembrato subito il posto perfetto per un pasto tranquillo e senza doppi fini.
«Va bene» Aaron rispose con il solito tono freddo, lanciandole appena un'occhiata.
April lo guardò per un attimo, cercando di capire se gli andasse veramente bene o lo stesse dicendo solo per cortesia. Non riuscì a capirlo, perciò decise di fidarsi delle parole dell'altro e lo condusse con gentilezza verso l'entrata.
Ad accoglierli si avvicinò una cameriera molto giovane – non doveva avere più di diciannove anni – che sorrise loro.
«Buonasera, un tavolo per due?» domandò subito.
«Buonasera. Sì, grazie» rispose April, già consapevole che il ragazzo non avrebbe aperto bocca.
Notò però che Aaron si fece ancora più rigido e gli lanciò un'occhiata di sottecchi – cosa poteva essere successo da renderlo così a disagio? Iniziò a pentirsi di averlo trascinato fin lì, ma ormai non poteva farci niente: di certo non lo avrebbe mandato via a quel punto.
«Prego, sedetevi pure qui» li condusse la cameriera, facendo cenno a un tavolo leggermente più appartato rispetto agli altri, che manteneva la stessa atmosfera informale rendendola forse un poco più intima.
April annuì ringraziandola e si sedette, levandosi poi la giacca.
Guardò Aaron, il quale sembrava indeciso sul da farsi.
«Non ti siedi?» domandò, confusa.
Dopo un altro attimo di incertezza, il ragazzo si sedette nella sedia opposta alla sua; April notò dalle nocche che si facevano più bianche come stesse stringendo i pugni.
A quel punto non riuscì più a trattenersi.
«Senti...» iniziò, guardandolo dritto negli occhi; l'altro per un attimo sfuggì allo sguardo, per poi riportarlo su di lei «Non volevo costringerti a venire qui con me. Non sembri a tuo agio, non volevo crearti qualche problema, quindi se preferisci andare via sappi che per me non c'è alcun problema. Preferisco che me lo dici chiaramente se non vuoi stare qui con me, piuttosto che passare tutto il tempo in silenzio ed evitando il mio sguardo» spiegò, cercando di mantenere il tono più gentile possibile. Alla fine sorrise pure.
Il fatto che non ci fosse nessun problema non era vero: ci sarebbe rimasta molto male se il rosso, a quel punto, si fosse alzato e se ne fosse andato; si sarebbe sentita veramente irritante e fastidiosa.
Ovviamente, però, non poteva dirglielo, per questo continuò a sorridere in attesa di una sua risposta.
Notò Aaron che apriva i pugni, rilassando le mani; lo vide prendere profondi respiri nonostante cercasse di non darlo a vedere e infine si passò una mano tra i capelli rossi.
«Io...» iniziò incerto «Scusa. Non volevo sembrare maleducato. È stata una lunga giornata a lavoro» disse infine.
Dentro di sé, April tirò un sospiro di sollievo.
Allora non sono io il problema!, pensò esultante. La seconda cosa che le venne in mente fu che quella frase fosse la più lunga che gli avesse sentito pronunciare.
«Sta tranquillo, posso capire. Anche io in quest'ultimo periodo ho avuto qualche problema al lavoro» spiegò, finalmente sciogliendosi anche lei. Anche se era sembrata tutto il tempo allegra, quel silenzio da parte del ragazzo l'aveva messa a dura prova.
«Come mai?» domandò il ragazzo.
April lo guardò stupita: non si aspettava che le ponesse una domanda del genere, notando come si stesse comportando per tutto il tempo.
Aaron però dovette fraintendere la sua espressione perché spostò rapido lo sguardo e riprese la sua posa rigida. In quella freddezza, ad April parve di notare un lieve imbarazzo.
«Scusa. Non volevo essere invadente»
Alla bionda venne quasi da ridere, ma si trattenne.
«Non preoccuparti, non lo sei stato assolutamente! Mi ha stupito solo un po' la domanda, non pensavo me la facessi» spiegò con una mezza risata «Comunque niente di particolarmente grave: una mia collega pensa che le stia soffiando tutti i ragazzi» disse.
Aaron, notando la sua tranquillità, riprese la posa rilassata. April trattenne un'espressione meravigliata notando un accenno di sorriso da parte del ragazzo.
«Ed è la verità?» domandò il rosso.
April si costrinse a non fare una battuta per dirgli di farsi gli affari suoi – che, appunto, sarebbe stata solo una battuta – per timore che il ragazzo fraintendesse. In qualche modo le stava salendo il sospetto che avesse una sorta di paura nei suoi confronti, anche se la cosa le sembrava abbastanza strana.
«Non proprio. Per casualità, pare che gli uomini a cui è interessata finiscano per infatuarsi di me» rispose semplicemente, scrollando le spalle e accennando un sorriso.
Non aveva granché voglia di prendere quel discorso, ora che ci pensava, ma ormai l'aveva intavolato; per questo motivo cercò di sviare la conversazione.
«E tu, invece?» domandò poi.
Vide il giovane lanciarle un'occhiata confusa mentre prendeva il menù lasciato sul tavolo dalla cameriera che, silenziosa, si era avvicinata giusto per portarli.
«Io cosa?»
April cercò di non ridere per l'ennesima volta, ma le fu difficile; più lo guardava e passava il tempo, più Aaron le sembrava un cucciolo spaesato. Le faceva tenerezza.
«Quali sono i tuoi problemi a lavoro?» specificò.
L'uomo, a quella frase, sbiancò. April si diede mentalmente della stupida.
«Scusa, non sono affari miei in fondo. Non preoccuparti, non devi rispondere, era solo per fare conversazione!» si affrettò a dire.
Cavolo, non riesco proprio a capire questo ragazzo, pensò.
In effetti, era difficile capire cosa gli passasse nella testa. Anzi, per essere più precisi quale problema avesse nei suoi confronti.
April capiva che, magari, l'atteggiamento che aveva assunto nel loro ultimo incontro – e va bene, anche nel primo, nel negozio – non fosse del tutto normale; ma da lì a trattarla in quella maniera ce ne voleva. E poi, anche se le faceva strano il solo pensiero, sembrava spaventato da lei, e April proprio non capiva come una come lei potesse spaventare uno come lui: insomma, era una mosca in confronto al giovane.
Cercò di non mettergli pressione prendendo l'altro menù sul tavolo e iniziando a sfogliarlo con enorme interesse.
«Preferisco non parlarne, mi spiace»
April alzò lo sguardo: Aaron la fissava con espressione di scuse, mordicchiandosi il piercing sul labbro come antistress. Improvvisamente, a disagio e con quell'espressione imbarazzata, lo trovava fin troppo sexy.
Arrossì.
«Certo, sono pur sempre cose private!» rispose rapida, riabbassando lo sguardo verso il menù.
Di sicuro doveva essere arrossita all'improvviso, cosa che la faceva imbarazzare ancora di più.
Cercò di non pensarci e si concentrò su cosa avrebbe potuto scegliere; dal silenzio – e anche grazie a uno sguardo di sottecchi – capì che anche il rosso stava facendo lo stesso.
Dopo pochi minuti di difficile scelta – dove April cercava più che altro di riacquisire un colorito normale – la cameriera arrivò, chiedendo loro le ordinazioni.
Così com'era arrivata, rapidamente sparì dopo averle prese.
«Come sta Rosalie?» domandò April all'improvviso; il ragazzo sobbalzò.
«Emh, bene direi. È da qualche giorno che non la sento a dire il vero, ma immagino sia alle prese con i preparativi» spiegò il giovane, iniziando a giocherellare con il bordo della tovaglia.
«Dev'essere frenetico starle affianco» considerò la bionda con un sorriso.
Aaron fece un blando sorriso tra sé.
«Sì, non è facile. Ma per fortuna c'è mia madre e le mie sorelle che se ne occupano, io non devo starle troppo appresso»
Il tono, man mano che il tempo passava, diventava più tranquillo e ciò fece sorridere April.
«Sorelle? Allora non siete solo tu e Rosalie» commentò la bionda.
Un altro mezzo sorriso da parte di Aaron.
«No, direi proprio di no» fece scrollando le spalle.
«Altri fratelli? Sorelle?»
«Sorelle, altre quattro escludendo Rose»
«Quattro? Mi stai dicendo che siete cinque sorelle e un solo ragazzo?» disse April stupida.
Aaron fece una smorfia.
«Sì»
April scoppiò a ridere.
«Non dev'essere per niente facile» considerò.
Aaron stava per rispondere, se non ché la cameriera arrivò con le loro ordinazioni.
April, dopo un attimo, si accorse di come il giovane si irrigidì quando la cameriera si piegò verso di lui per poggiare il piatto; le sembrò che trattenesse quasi il respiro.
Aprì la bocca in automatico per chiedergli il perché, ma la richiuse praticamente subito. Stava andando tutto bene, sembrava essersi sciolto; aveva paura di rovinare tutto, perciò decise di tenere la bocca chiusa.
Appena la cameriera se ne andò, Aaron si rilassò di nuovo.
«Non è per niente facile. Sono pettegole, impiccione, isteriche e spaventose» snocciolò il ragazzo.
April inarcò un sopracciglio.
«Addirittura? Dai, avranno dei lati positivi. Rosalie mi sembra un angelo!» replicò.
«Fidati, è tutta apparenza» le disse con un sorriso ed April sorrise di rimando.
Si sentiva stranamente leggera come un palloncino.
Non sapeva perché, forse il motivo era che non stava cercando di conquistarlo, ma solo di metterlo a proprio agio – e le stava riuscendo! Si sentiva fiera di sé.
Iniziarono a mangiare, continuando a scambiarsi frasi tra un boccone e l'altro.
«Rosalie è una delle peggiori: sembra tanto un angioletto e invece, quando vuole, diventa il demonio in persona. Non ti consiglio di parlarci in una delle sue giornate no» la avvisò Aaron, prendendo poi un boccone.
«E immagino se la prendano con il loro fratello preferito»
Il rosso sembrò pensarci un attimo.
«Sì, direi che sono il loro bersaglio preferito» considerò.
«E riescono a beccarti?»
«Quando premono il tasto giusto»
E quale sarebbe questo tasto?
April pensò quella domanda, ma non la fece. Qualcosa le diceva che avrebbe ottenuto solo un gelido silenzio e la medesima rigidità di sempre.
Aaron dovette accorgersi del suo silenzio perché, forse non volendo che la conversazione morisse, fece a sua volta una domanda.
«E tu? Hai fratelli o sorelle?»
April fece cenno di no.
«Nessuno dei due, sono figlia unica» spiegò scrollando le spalle.
Sono una scema, pensò. Aveva fatto un'enorme stronzata a intavolare il discorso “famiglia”: era uno degli argomenti che odiava di più.
Beh, lui non lo sa, rifletté.
«Beh, ma immagino che in tutte le famiglie ci siano più o meno le stesse dinamiche, no?»
April perse il sorriso all'improvviso.
“Dinamiche”... Come se si potessero considerare quelle di casa sua delle “normali dinamiche”.
Il ragazzo si accorse subito del cambiamento di umore di April – cosa chiara come il sole, d'altronde – e quest'ultima, di sottecchi, notò come ridivenne rigido e a disagio.
«Perdonami. Non volevo tirare fuori argomenti problematici» lo sentì dire.
April si diede della stupida.
Complimenti April: tu sì che sai come mettere a proprio agio le persone. Medaglia d'oro, davvero! Ora dovrò rifare tutto da capo per far sì che ritorni normale, pensò.
Si costrinse a sorridere radiosa, anche con un certo risultato.
«Non hai nulla di cui scusarti! È solo un argomento che non amo, ma tu non potevi saperlo, quindi non c'è alcun problema» fece sorridente.
Una cosa che faceva parte del suo carattere, e che spesso May le aveva rimproverato, era il suo desiderio di non mettere a disagio gli altri: escludendo i casi in cui le persone la facevano arrabbiare – per esempio quell'idiota di Gwen – cercava di rendere il clima piacevole. Non amava quando, a causa sua, la gente si trovasse a disagio, perciò quando capitavano episodi come quello appena accaduto con Aaron cercava di rimediare al più presto, facendo finta che nulla fosse successo.
Il ragazzo però non sembrò sicuro del suo sorriso; la guardò per la prima volta dritta in volto in una maniera che April arrossì e cercò di deviare lo sguardo.
Si sentì come se il rosso la stesse mettendo sotto torchio.
«Va bene» disse alla fine il giovane, con tono arrendevole.
Avevano già finito di mangiare e April quasi non se n'era accorta.
Stava per aprire la bocca e dire qualcosa – odiava il silenzio che si era venuto a creare – ma il suo cellulare iniziò a suonare furiosamente, facendola quasi saltare sulla sedia.
Diede un'occhiata al display: May.
«Scusami un attimo» disse con un sorriso in direzione del ragazzo, e appena vide lui fare un cenno si alzò dal tavolo.
Accettò la chiamata.
«Pronto?»
«Ehi, sono appena arrivata a casa e ho letto il biglietto. Dove sei?» chiese May. In sottofondo sentì la porta che si chiudeva e poi un tintinnio di chiavi che venivano poggiate.
«Mi sono fermata a mangiare qualcosa, te l'ho scritto»
«Questo lo so, grazie. Intendevo dire dove sei andata a mangiare. Vuoi che ti raggiunga?» fece inizialmente sarcastica l'amica. April lanciò un'occhiata ad Aaron, che in quel momento era alle prese con il cellulare e si mordicchiava il piercing.
«Sarebbe inutile dato che ho appena finito di mangiare, adesso torno» rispose.
Dall'altra parte del telefono, sentì May tacere per un attimo.
«Con chi sei?» fece infine l'amica con tono inquisitore. April alzò gli occhi al cielo.
Ma come fa a capirlo sempre?, pensò.
«Ti spiego dopo, ora non mi sembra il caso di stare venti minuti al telefono se sono con qualcuno» puntualizzò. Sentì May sospirare scocciata.
«Come preferisci, ma almeno mi dai un indizio?»
April sorrise istintivamente pensando alla faccia della sua amica: conoscendola, aveva gonfiato le guance come farebbe una bambina di sei anni scontenta perché non le è stato dato il gelato.
«Ha dei bellissimi capelli rossi» rispose, ma non lasciò che l'altra rispondesse «Ci vediamo fra poco a casa, ciao!» e le chiuse il telefono in faccia.
Solo dopo considerò che non era stata una bella mossa: May poteva sempre decidere di farla dormire fuori.
Scosse la testa, decisa a pensarci dopo, e si voltò per ritornare al tavolo da Aaron; peccato che il ragazzo non fosse più lì.
Si avvicinò al tavolino per prendere la giacca e la borsa, poi si guardò intorno alla ricerca del ragazzo. Lo trovò subito: era alla cassa e stava pagando.
«Ehi!» esclamò la bionda fiondandosi sul ragazzo. Lo afferrò per una manica e questo sobbalzò, tirandosi subito indietro.
«Cosa stai facendo?» gli fece arrabbiata.
«...sto pagando?» rispose l'altro, confuso. Come al solito, spostò lo sguardo cercando di non fissarla dritta in volto, e grazie a quel gesto April si rese conto del tono usato.
«Ti avevo detto che avrei pagato io! Volevo scusarmi per l'ultima volta» protestò, mantenendo però un espressione più tranquilla. Aaron fece un mezzo sorriso.
«Scusa, deve essermi sfuggito» rispose, scrollando le spalle.
April sospirò notando lo scontrino che gli veniva consegnato dall'uomo dietro il bancone.
«Ti odio per questo, sappilo» fece categorica, per poi iniziare ad uscire dal locale dopo aver ringraziato.
Sentì i passi dietro di sé, segno che il ragazzo la stesse seguendo.
Le venne in mente un'idea.
«Vorrà dire che la prossima volta pagherò io, e non intendo ascoltare alcun tipo di scusa, sono stata chiara?» disse fermandosi di botto e girandosi verso il rosso, il quale si bloccò a sua volta.
La guardava spaesato e ad April venne voglia di accarezzargli i capelli.
«Prossima volta?» ripeté Aaron, inclinando un poco la testa confuso.
April lo guardò con un sorrisetto, per poi iniziare a frugare nella borsa e tirare fuori la penna usata in precedenza per il bigliettino. Afferrò la mano sinistra del ragazzo, scrivendo poi sul palmo il proprio numero di telefono.
«Esatto, la prossima volta» fece soddisfatta.
Il ragazzo sembrò farsi più pallido e la bionda si affrettò a spiegare.
«Non preoccuparti: non voglio provarci con te. Solo che mi piacerebbe offrirti qualcosa come ringraziamento, e in ogni caso ci si potrebbe trovare un altro giorno per un'altra chiacchierata, che ne dici?» propose adottando il sorriso più innocente del suo repertorio.
Aaron era ritornato per un attimo gelido come sempre, ma alla fine capitolò e si rilassò.
Le fece un mezzo sorriso, uno di quelli che April comprese fossero il massimo che il giovane potesse fare – e le andava bene così.
«La prossima volta» acconsentì.
April rise.
«Perfetto, allora grazie per oggi e buona serata!» gli disse, per poi fuggire via con una seconda risata mentre gli faceva “ciao” con la mano. Lo vide scuotere un poco la testa e ricambiare il saluto.
Per un attimo, le parve anche di vederlo sorridere.
Quando entrò nel proprio appartamento e il silenzio lo accolse, Aaron non accese subito la luce.
Chiuse la porta in silenzio e godendosi il buio che avvolgeva le stanze, appena affievolito dalla luce che entrava dalle finestre scostate, prese una sigaretta dal pacchetto abbandonato sul tavolino basso di fronte alla tv e uscì nel balcone.
Lassù tirava più vento rispetto alla strada, ma non gli dispiacque: lo trascinava via da quella strana sensazione di essere ubriaco.
Solo dopo aver preso uno, due, tre tiri della sigaretta scoppiò a ridere,
Fu una risata strana, liberatoria, e si sentì un idiota a ridere da solo, al buio, mentre fumava una sigaretta.
Sono riuscito a passare del tempo con una ragazza senza avere un attacco di panico, pensò raggiante.
Era qualcosa che mai e poi mai avrebbe pensato di riuscire a fare; era come un sogno irrealizzabile e qualcosa che neanche avrebbe mai voluto sperimentare – erano troppo spaventose le donne.
Eppure quel giorno, grazie a quella April...
Era felice. Sentiva di aver fatto un enorme passo in avanti – sapeva che in realtà non era niente di ché, ma per i suoi standard era qualcosa di straordinario e aveva voglia di chiamare Tom e raccontargli di cosa fosse successo.
Lo stava anche per fare – prendere il cellulare e chiamare l'amico – ma poi si bloccò.
Glielo racconterò domani, pensò, mentre il sorriso raggiante sfumava in uno più rilassato.
Non sapeva neanche com'era finito in quel ristorante a mangiare con quella biondina: si ricordava solo che voleva a tutti i costi fuggire da lei e dai suoi occhioni verdi terribilmente spaventosi, ma aveva così paura che non era nemmeno stato in grado di dire di no, e aveva finito per acconsentire.
Incredibilmente, la ragazza non gli era più sembrata spaventosa – non capiva cosa in effetti avesse smesso di fargli paura, ma vederla lì, sorridente, con quei capelli biondi e quel vestitino rosso gli era sembrata una bambolina docile e tranquilla; non più una tigre pronta a sbranarlo, ma un gattino che faceva le fusa.
Certo, con la cameriera non era stata la stessa cosa – faceva praticamente un salto ogni volta che si avvicinava – ma April, in uno strano modo, sembrava avere lo straordinario potere di metterlo a suo agio. Per certi versi, a dire il vero: ogni tanto lo spaventava anche lei.
Ma era un inizio, no?
Si guardò la mano, dove il numero di cellulare della ragazza spiccava con l'inchiostro nero.
Prese il cellulare in mano e lo trascrisse.
Sì, può essere un inizio.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
Salve a tutti!
Ok, lo so lo so lo so: il mio ritardo è imperdonabile, me ne rendo perfettamente conto. A dire il vero, non ho neanche grandi scuse per questo, se non ché l’ispirazione è andata a farsi una lunga vacanza durata qualche mese. Poi ci sono stati gli esami, poi il ritorno a casa (da brava fuorisede quale sono) e ho solo pensato a godermi il mare. Adesso che già devo riprendere a studiare però cerco rifugio in tutti altri hobby, ed eccomi qui con il nuovo capitolo di “It’s too cliché”!
Pare che l’altro sia piaciuto particolarmente, spero che anche questo sia abbastanza interessante, anche se sarà il prossimo quello più divertente – o almeno lo spero…
Non so che altro aggiungere tranne che spero di ricevere qualche vostro commento – positivo o negativo che sia, ovviamente – per sapere cosa ne pensiate.
Detto questo, vi auguro buona lettura!
Un abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo undici
«Che sorriso! Devi dirmi qualcosa?»
La voce divertita di Tom tirò fuori Aaron dalla propria e personale bolla dorata in cui era rinchiuso dalla sera prima.
Tornare sulla terra fu brutto, considerando che si rese conto solo in quel momento del suo effettivo comportamento: aveva passato tutta la mattina, da quando si era svegliato fino a quasi l’ora di pranzo, a vagare con la mente su territori ignoti, mentre un vago sorriso non riusciva ad abbandonarlo.
«Non capisco di cosa tu stia parlando.» rispose subito, assumendo il più in fretta possibile un’espressione indifferente.
Tom, di fronte a lui, inarcò un sopracciglio con aria scettica, mentre giocherellava come al solito con il suo cubo di Rubik.
Per quanto ancora avrà quel coso?, pensò vago Aaron, distraendosi un momento, per poi venire richiamato all’attenzione sempre dall’amico.
«“Non capisco di cosa tu stia parlando”…» lo scimmiottò il moro «Tipica frase di chi ha qualcosa da nascondere. Andiamo, mi racconterai durante la pausa pranzo.»
Dicendo questo il giovane chiuse con una mano il pc del rosso, guadagnandosi un’occhiata pesantemente infastidita; nonostante questo, Aaron non replicò, rassegnandosi all’interrogatorio.
In fondo, era il primo che voleva raccontargli della sera prima, ma allo stesso tempo si sentiva un idiota e in dovere di nasconderlo. Non capiva nemmeno lui cosa ci fosse nella sua testa.
Si alzò quindi con aria arrendevole, seguendo l’amico come un cagnolino.
«A dopo, Daphne.»
Sentì la voce di Tom salutare la loro collega, che rispose prontamente.
«Buon pranzo!»
Fu in maniera distratta e totalmente naturale che la guardò, le fece un vago accenno di sorriso e le rivolse la parola.
«Grazie.»
In quell’esatto momento, sembrò che Tom fosse stato pietrificato.
Si sentì i suoi occhi addosso: aveva uno sguardo stralunato e scioccato, come se avesse visto un fantasma.
«Tom…?» iniziò, incerto.
Ma Tom non lo lasciò parlare: lo afferrò per una manica e lo trascinò fino all’ascensore, pigiando il tasto di chiamata fino a quasi distruggerlo. Come le porte si aprirono, lo buttò dentro senza tanti complimenti.
«Ora tu mi dici che è successo e perché hai ringraziato Daphne senza che io ti costringessi a farlo, anzi di tua spontanea volontà.» disse categorico.
Merda.
Aaron non se n’era proprio accorto: in quel momento, il “grazie” per il “buon pranzo” gli era uscito quanto mai normale; si rese conto solo in quel momento di averlo detto a una ragazza, quando fino al giorno prima non rivolgeva una singola parola a un esponente del sesso femminile senza esserne costretto – da Tom, dalle sorelle o altri particolarmente suscettibili alla questione.
«Non potrei aver pensato di voler essere semplicemente educato?» suggerì, girandosi e premendo il pulsante zero. L’ascensore iniziò a muoversi.
Tom rise.
«Stai seriamente cercando di fregare me, che ti conosco da una vita?» chiese quasi con le lacrime agli occhi.
Aaron arrossì, sentendosi uno stupido.
«Può darsi.» bofonchiò.
«Bene, ora che hai potuto appurare di non esserne in grado, avanti: sono tutto orecchie.» concluse con un sorriso splendente. Luccicava in maniera così assurda che Aaron dovette spostare gli occhi, accecato.
«Beh, a dire il vero ieri…»
L’ascensore si aprì e il rosso si interruppe. Uscì, dirigendosi verso le porte dell’edificio.
«Ieri sera…? Avanti, continua.» insistette il moro.
Aaron sospirò, ritrovando fuori in strada; iniziò a dirigersi verso Starbucks – sapeva perfettamente dove Tom volesse andare – cercando anche di prendere tempo da quella conversazione. Non sapeva perché ma era in crisi.
«Mi stai facendo preoccupare in questo modo.» disse infine Tom.
Aaron gli lanciò un’occhiata di sfuggita.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi.» borbottò il rosso. L’amico, per risposta, lo fissò con un sopracciglio inarcato.
«Allora perché ti fai così tanti problemi a dirmelo?»
«Non lo so neanche io.»
Si fermò di fronte al semaforo, in quel momento rosso per i pedoni, e osservò le macchine che sfrecciavano veloci di fronte ai suoi occhi.
«Ieri sera sono andato a cena con una ragazza.» disse all’improvviso, tutto d’un fiato.
Non si girò a osservare la reazione del moro: in quel momento scattò il verde e si precipitò dall’altro lato della strada. Solo una volta arrivato sul marciapiede si girò per guardare Tom, ma l’amico non si era mosso dal punto in cui era.
«…Tom?» urlò il rosso.
L’amico parve risvegliarsi dalla trance in cui era caduto, notò il semaforo che cambiava in arancione e corse sulle strisce pedonali.
Gli si buttò addosso come un sacco di patate e Aaron vacillò sotto il suo peso.
«Cosa hai detto?»
Tom non gli diede nemmeno il tempo di lamentarsi: immediatamente lo apostrofò con quella frase detta con un tono così sconvolto e preoccupato che si spaventò il rosso stesso. Quest’ultimo alzò gli occhi al cielo, arrossendo e scrollandoselo di dosso.
«Che reazione esagerata. Ora è diventato così strano uscire a cena con una donna?» bofonchiò, affrettandosi verso lo Starbucks con l’amico alle calcagna.
«Mi stai seriamente ponendo questo domanda?»
Aaron non si girò per osservare lo sguardo di Tom, che già sapeva essere particolarmente eloquente, e tacque rendendosi conto dell’idiozia appena detta.
«Ecco, bravo, stai zitto che fai una figura migliore.» lo pungolò il moro «Avanti, parla!» gli ordinò subito dopo, in una sequenza di frasi che parve piuttosto ossimorica.
«Cosa vuoi che ti dica?» disse Aaron seccato – più per l’imbarazzo che per le domande in sé.
«Ah, non saprei. Magari che mi dica chi sia questa ragazza, come ha fatto a trascinare te a cena fuori da soli – eravate da soli, vero? –, dove siete stati, il tuo comportamento durante la cena, il suo comportamento durante la cena…» elencò Tom, finalmente affiancando l’amico.
In quel momento arrivarono di fronte al solito Starbucks ed entrarono. Ma Tom quella volta non si perse negli aromi della caffetteria e non staccò gli occhi dall’amico. Aaron però non disse una parola e Tom decise, anche se impaziente, di aspettare fino a quando non si sarebbero seduti a mangiare.
Cosa che, in effetti, non accadde dopo tanto tempo.
«Bene, direi che ho aspettato per abbastanza. Avanti.»
Aaron sospirò arrendevole.
Non sapeva da cosa derivasse tutto quell’imbarazzo: Tom in fondo sapeva ogni singolo dettaglio della sua vita – che glielo dicesse lui stesso o una delle sue sorelle, a quanto pare, era irrilevante – e una cena con una donna non era di certo la cosa più imbarazzante che Tom sapesse di lui.
«A dire il vero, lei è…» si bloccò per un attimo, poi riprese «Immagino tu ti ricordi la ragazza che mi ha fatto la scenata nell’agenzia matrimoniale.»
Non che Tom avesse assistito alla scena, ma aveva saputo tutto grazie a Victoria. Il moro, ricordando le parole della sorella, ghignò.
«Sì.»
«Ecco, ieri l’ho incontrata mentre tornavo a casa. Avevo deciso di tornare a piedi – avevo bisogno di pensare… Beh, questo non è importante – e lei mi ha fermato per strada afferrandomi per una spalla.»
Non era proprio vero: l’aveva solo sfiorato, ma ad Aaron piaceva infarcire un po’ i racconti.
«Oddio, immagino la tua faccia!» il moro iniziò a ridere e l’altro arrossì, per poi prendere un boccone del suo pranzo.
«Sono stato molto composto.» precisò infastidito «Comunque sia, mi ha detto che voleva scusarsi per la sceneggiata dell’ultima volta e mi ha convinto ad andare a mangiare con lei.»
«Quindi non sei stato tu a invitarla fuori.» considerò il moro. Aaron fece una smorfia.
«Beh, direi di no…»
«Peccato. Ma come mai non sei fuggito come al tuo solito?»
Aaron tacque. Bella domanda, come mai?
«Non so…» fece indeciso «All’inizio ero intenzionato a scappare, ma ha insistito e, non so quando esattamente, ma non mi è sembrata così tanto spaventosa.» bofonchiò.
Tom si era tolto dalla faccia il sorrisino divertito e lo osservava pensieroso, tanto che Aaron si arrese e sbottò.
«Smettila di fissarmi in questo modo. Mi metti a disagio.»
«Oh, scusa. È che… Non ti ha spaventato. Come mai non ti ha spaventato?»
«Ho detto che non lo so. Cioè, non è che fossi completamente tranquillo, però sono riuscito anche a chiacchierare.» spiegò.
Parlarne così ad alta voce lo faceva sentire strano; non era abituato a fare discorsi del genere e improvvisamente sentì la propria stranezza tutta insieme. Si chiese, per un attimo, come fosse ridicolo agli occhi degli altri.
«Ed è finita così? Cioè, una cena e basta? Dovete rivedervi?» chiese Tom con la bocca piena, guadagnandosi un’occhiata disgustata dal rosso; subito dopo però si concentrò sulla risposta da dargli.
«Beh, non saprei… A dire il vero mi ha lasciato il suo numero.» bofonchiò.
Silenzio.
«Ti ha lasciato il suo numero?» Tom quasi strillò, attirandosi vari sguardi.
Aaron fece una smorfia.
«Ho pagato io la cena e lei si è arrabbiata, perché me la voleva offrire come scusa per l’altro giorno. Quindi mi ha lasciato il numero per uscire un’altra sera in modo da poter ricambiare.» spiegò conciso.
Tom lo guardò con un sorriso smagliante in volto.
«Ma che bella notizia! Quando la chiamerai?»
Aaron stette zitto e si concentrò sul suo pranzo, improvvisamente diventato la cosa più interessante del mondo.
«…la chiamerai, vero?»
Il rosso non disse ancora una parola.
«Aaron.»
«Sì?»
«Non fare stronzate, per favore.»
L’ultima frase venne detta con un tono implorante, tanto che Aaron alzò lo sguardo e si ritrovò a fissare gli occhi neri dell’amico.
«Se non me la sento perché la dovrei chiamare?» disse infine.
«Perché pare essere l’unica donna al mondo – escluse le tue sorelle e tua madre – che non ti fa morire di paura.»
Logica ineccepibile, considerò Aaron. Ma ciò non cambiava il fatto che avesse comunque paura a chiamarla.
Eppure ieri ero così convinto…
«Non saprei…» continuò vago il rosso.
Tom sospirò.
«E se venissi anche io?»
Aaron sollevò di scatto gli occhi, osservando l’amico che lo guardava esasperato.
«Lo faresti davvero?»
Provò a nascondere il tono piagnucoloso, davvero, ma non ci riuscì.
«Se è necessario per darti una mossa…»
«Tom, quanto ti amo!»
«Aaron, quando fai certe uscite mi convinco sempre di più che tu sia gay.»
Il moro lo fissava implacabile, terminando di mangiare il proprio pranzo, negli occhi un’espressione di pena per l’amico.
«Non guardarmi così.» borbottò Aaron.
«Allora, quando la chiamerai?»
«Appena avrò un momento libero…»
«Aaron.»
«Il prossimo mese penso di non avere impegni.»
«Aaron.»
«Mh, forse sono libero anche la prossima settimana.»
«Forse dovrei chiamare una delle tue sorelle per chiedere di aiutarti per scegliere un vestito adatto…»
«…le chiederò per questo sabato.»
Tom fece un sorrisetto soddisfatto, totalmente opposto allo sguardo avvilito di Aaron, sbiancato non appena le sorelle finirono nel discorso.
«Direi che è un’ottima idea!»
«Sei un bastardo.»
«Lo so.»
Entrambi avevano finito di mangiare e, di conseguenza, Tom si alzò.
«Fidati, mi ringrazierai.»
«Lo stai facendo solo perché vuoi conoscerla anche tu.» puntualizzò Aaron, seguendolo.
«Beh, prova a capirmi: è la prima ragazza della tua vita che non ti spaventa! Permettimi di essere curioso!»
«Hai finito con quegli articoli?»
Una mano sbatté con forza sulla scrivania, facendo sussultare April che non si era minimamente accorta dell’arrivo della signorina Adams, la responsabile delle stagiste – tra cui figurava anche lei, ovviamente.
Alzò lo sguardo di scatto.
«Emh, sì, cioè quasi.» finì per balbettare spaventata.
La donna la guardava dall’alto dei suoi tacchi dodici, i capelli biondi legati in una coda alta come al solito e gli occhi azzurri abilmente truccati. Bella era bella, April lo riconosceva, ma una bellezza fredda e un po’ spaventosa.
«Sì o no?»
«No. Mi manca poco però.» precisò.
Vide Miranda annuire, poi rivolgere gli occhi alle altre due ragazze – Melanie e Gwen – che la osservavano di sottocchio.
«Neanche April ha finito, quindi. Quando avete terminato, venite tutte nel mio ufficio.» sentenziò infine.
Non attese la risposta delle tre, uscì dalla sala e scomparve nel corridoio.
«E ora che vorrà mai?» mugolò April tra sé, già spaventata.
«Bella domanda.» rispose però Melanie, spostandosi i capelli scuri che le erano scivolati sul viso.
«Sbrighiamoci, voglio evitare di farla aspettare più del dovuto.» intervenne Gwen con tono gelido.
April le lanciò un’occhiata: dalla sua faccia, sembrava ancora arrabbiata con il mondo intero.
Scrollò le spalle; non che gliene importasse qualcosa, in effetti.
Senza dire altro riprese rapida a lavorare, cercando di leggere più velocemente possibile senza però perdersi una singola lettera.
Riuscì a terminare il tutto in poco più di mezzora; notò che anche le altre avevano appena finito, perciò si alzò, prese il cellulare infilandoselo in tasca – quel giorno aveva optato per dei comodi jeans – e uscì con le altre dalla sala, per dirigersi nell’ufficio della signorina Adams.
Fu Melanie a bussare, mentre April e Gwen rimasero alle sue spalle in attesa.
«Avanti.»
Entrarono quindi nell’ufficio della donna; era di medie dimensioni – Miranda era sì una responsabile, ma comunque un “pesce piccolo” – sui toni del crema; al centro della stanza una scrivania in vetro era per metà coperta da fogli, computer, portapenne e una piantina grassa, tutto in completo ordine. Una grande finestra occupava le spalle della scrivania – non c’era una grandissima vista come April aveva invece visto nell’ufficio del vicedirettore del reparto di Tecnologia, ma era comunque meglio di niente.
A completare il quadretto, una libreria di legno, pochi quadri con paesaggi bucolici e due poltrone.
«Prego.» fece Miranda, accennando alle poltrone.
Gwen si sedette senza attendere le altre due, mentre April e Melanie si guardarono tra di loro, nessuna intenzionata a sedersi e rubare il posto all’altra.
«Siediti pure.» fece infine April con un sorriso accennato; la mora annuì, mormorando un grazie a mezze labbra, e si sedette nell’unica poltrona rimasta.
La signorina Adams non parve minimamente scalfita dal fatto che April fosse in piedi, e cominciò a parlare come se nulla fosse.
«Immagino vi stiate chiedendo perché vi abbia convocate qui. Sarò breve: i vostri livelli e le vostre preparazioni sembrano essere tutte più o meno sullo stesso livello, motivo per cui è stato deciso di mettervi alla prova con un progetto.» spiegò.
Le tre ragazze finirono per scambiarsi delle occhiate preoccupate.
«Dovrete scrivere un articolo. Non mi interessa come deciderete di strutturarlo, se vorrete fare un’intervista, chiedere consiglio a un esperto, lasciarvi prendere dalla fantasia o affidarvi a internet, tutto questo sta a voi. Io vi darò soltanto l’argomento.»
Altra pausa, forse un po’ ad effetto.
April sentì il cuore tremare presa dall’ansia.
«L’argomento è il matrimonio.»
Silenzio.
Beh, non è un argomento così difficile, è qualcosa di già trattato in fondo…, pensò vaga April, un po’ più tranquilla.
«Immagino che qualcuna di voi stia pensando che sia un argomento facile. Toglietevelo dalla testa.»
April chinò d’istinto la testa, sentendosi toccata.
«È vero, è un argomento molto diffuso nei giornali da donna, ci sono anche delle riviste esclusivamente dedicate a questo. Ma proprio per tale motivo scrivere un articolo originale sarà ancora più difficile: dovete essere interessanti, divertenti, piacevoli, senza però cadere nei luoghi comuni o nello stucchevole.» spiegò la donna.
«Qual è la scadenza?» intervenne Melanie.
La donna sorrise.
«La fine del vostro stage, ovvero fine settembre. Siamo a maggio, avete parecchi mesi per poterlo scrivere, consideratelo come un test finale.» spiegò.
Quattro mesi e mezzo quindi… Beh, ho tempo a sufficienza per tirare fuori qualcosa di interessante, considerò April tra sé.
«Quindi abbiamo completo campo libero?» chiese conferma Gwen.
«Esatto. Non mi interessa su cosa voi vi vogliate concentrare, come lo vogliate strutturare. Deve essere però un articolo sui matrimoni.» le guardò «Avete altre domande?»
Le tre si lanciarono una veloce occhiata, ma tacquero.
«Pare di no. Beh, in questo caso tornate pure a lavoro.» concluse la donna.
Le due giovani si alzarono mentre April si avvicinava già alla porta. Un rapido saluto e poi uscirono, dirette di nuovo al loro mini ufficio.
La bionda sentì le altre due chiacchierare, ma non si unì alla conversazione e tirò fuori il telefono: era già l’ora della pausa pranzo.
Poi, proprio mentre scorreva il pollice sulle notifiche non lette – prevalentemente avvisi di nuove mail, ultime news del giornale e un avviso sul meteo del giorno – il telefono vibrò, mostrando l’avviso di un nuovo messaggio.
Lo aprì rapida, senza darsi il tempo di leggere il mittente.
“Ehi, April. Dovrebbe essere l’ora della tua pausa pranzo, giusto? Che ne dici di mangiare assieme?”.
In alto, in cima alla chat, c’era scritto “Damian Ph.”, così come lei lo aveva salvato.
Il viso le si illuminò e, mentre si sedeva di fronte alla scrivania, si affrettò a rispondere.
“Sì, sto proprio per andare a pranzare a dire il vero. Non saprei, hai qualche idea su dove andare?” scrisse in risposta.
Mentre attendeva fremente il nuovo messaggio, si affrettò a prendere la giacca e a ficcare tutto il necessario dentro la propria borsa.
Il telefono vibrò di nuovo.
“Ovviamente. Ti aspetto tra dieci minuti nella hall.”.
April ridacchiò mentre notava che l’uomo non l’avesse interpellata su altro.
Non rispose e andò in bagno, senza accorgersi dell’occhiata infastidita della collega; si aggiustò rapida il trucco, ripassandosi un po’ di mascara e il rossetto. Si pettinò i capelli lisci e biondi, si aggiustò la frangia sugli occhiali rossi e corse verso l’ascensore.
Quando arrivò alla hall Damian era lì che l’aspettava, seduto su una poltroncina; aveva un paio di jeans scuri, una camicia verde sollevata fino ai gomiti e i suoi soliti occhiali neri.
«Dovrei dire che il tuo messaggio mi ha stupito?» lo apostrofò la bionda, avvicinandosi con un sorrisino.
L’uomo, fino a quel momento chinato sul telefono, alzò lo sguardo e fece un sorriso divertito.
«Solo se è la verità.»
La verità era che April si era piuttosto sorpresa al messaggio, ma decise di mostrarsi sicura di sé e di conseguenza scrollò le spalle.
«Allora non lo dirò.»
Damian rise.
«Vogliamo andare?» disse solo, facendo gesto con la mano verso la porta.
April annuì con un sorrisetto, precedendolo verso l’uscita.
Una volta fuori dall’edificio, Damian le poggiò una mano sulla schiena, guidandola verso la sinistra.
«Da questa parte.»
April lo seguì.
«Dove mi stai portando?»
«Niente di che, sta tranquilla. È un ristorante che ho conosciuto da poco, è italiano, fa dei risotti che sono la fine del mondo.» spiegò l’uomo.
«Cucina italiana! La adoro!»
Italiano? Risotti? Oddio…, pensò poi preoccupata.
La verità era che, anche se aveva appena fatto finta di essere un’amante della cucina italiana, non la conosceva per niente. Troppo costosa per i suoi budget limitati, motivo per cui aveva raramente mangiato cibo italiano – e quasi sempre pizza e pasta di altro tipo. La sua conoscenza terminava lì, ma sarebbe morta piuttosto che ammetterlo.
Arrivarono infine di fronte a un locale dall’aspetto piuttosto piccolo ma accogliente. Entrarono all’interno, dove un cameriere con un papillon nero, panciotto e mani incrociate di fronte a sé andò loro incontro.
«Salve signori. Un tavolo per due?» domandò educato.
April però era troppo presa dal guardarsi attorno: l’interno era molto bello e le dava un’idea di grande raffinatezza. Non era mai stata in un posto del genere – nessuno l’aveva mai portata in posti del genere.
Spero solo che paghi lui. Non credo di avere abbastanza soldi appresso, pensò agitata.
La cosa peggiore sarebbe stata fare la figura della poveraccia. Lo stage non le offriva un grande stipendio, e i suoi genitori… Meglio lasciare stare.
Si ritrovò trascinata in un tavolo nell’angolo del locale; era già apparecchiato e un vaso di vetro, al centro, mostrava una rosa rossa dai petali perfetti.
Banale, pensò, ma le piacque comunque.
All’interno non c’erano molte persone, giusto tre o quattro tavoli erano occupati, ma considerando lo scarso spazio era considerevolmente pieno.
«Vi porto subito i menù.» disse ancora il cameriere.
April annuì, più concentrata a guardarsi attorno.
«Ti piace?»
La voce del suo accompagnatore la riportò sulla terra.
«Molto! Non sapevo ci fosse un posto del genere qui vicino.» disse sinceramente stupita. Damian rise.
«Nemmeno io, se non ché ci sono per caso passato l’altro giorno mentre cercavo un posto diverso dal solito in cui pranzare. Ho subito pensato che potesse piacerti.»
April arrossì, ma si sforzò di nasconderlo con una risata e rispose.
«Oh, immagino ora debba imbarazzarmi e stupirmi del fatto che tu abbia pensato a me.» lo provocò.
Il fatto che fosse effettivamente così ma stesse mentendo non la fece sentire per niente in colpa.
«Magari.» rispose a tono Damian, con un sorriso affascinante.
April stava per rispondere, ma l’arrivo del cameriere con i menù la interruppe.
«Ecco a voi, signori. Nel frattempo, gradite qualcosa da bere?» chiese il giovane.
April guardò Damian.
«Del vino rosso andrà bene, quello della casa magari?» fece l’uomo retorico, osservando April.
Merda, non so nulla sui vini.
«Per me è uguale.» si ritrovò a dire, per poi darsi dell’idiota.
Ora gli sarò sembrata una poco sofisticata!, pensò preoccupata.
Ovviamente, tutto ciò rimaneva nella sua testa, dato che da fuori continuava a mantenere un sorriso impeccabile. Avrebbe dovuto tentare una carriera da attrice.
«Allora va bene quello.» terminò Damian, facendo un vago gesto con la mano. Il cameriere annuì, poggiando i menù sul tavolo e sparendo dietro la cucina.
April prese il menù, iniziando a sfogliarlo.
Risotto alla milanese, risotto agli asparagi, ai porcini, pasta ai frutti di mare, alla carbonara, all’amatriciana…, scorreva i piatti senza sapere cosa fossero – tranne ovviamente quelli di facile interpretazione – e il viso con il consueto sorriso.
«Se mi permetti, ti consiglio il risotto ai porcini. È qualcosa di divino.»
Alzò di scatto lo testa verso Damian, sentendole il collo dolerle all’improvviso.
«A dire il vero è da molto che non mangio quello alla milanese.» si ritrovò a dire, senza sapere neanche lei cosa fosse.
Damian però non parve sospettare di nulla.
«Come preferisci.» disse solo.
«Credo mi fiderò di te però.» aggiunse subito dopo.
Meglio qualcosa di collaudato da altri, pensò.
L’uomo le sorrise e subito dopo arrivò il cameriere con il vino. Lo versò a entrambi, per poi raccogliere le ordinazioni e sparire così com’era arrivato.
«Spero ti piaccia questo posto.»
«Eccome!» rispose rapita April, che aveva ripreso a guardarsi attorno.
Appena si accorse del tono usato, però, si schiarì la gola e sorrise affascinante.
«Mi piace parecchio, mi ricorda un posto in cui sono andata un po’ di tempo fa.» mentì.
Damian annuì.
«Quindi sei un’appassionata di cucina italiana?» domandò.
Merda merda merda.
«Diciamo di sì, ma non mi ritengo un’esperta.» disse con modestia. Prima che l’altro potesse replicare qualcosa, continuò a parlare «Come va il tuo lavoro?» chiese.
Meglio parlare di argomenti più stabili, pensò con un brivido April.
Damian non sembrò scalfito dal repentino cambio di argomento e scrollò le spalle.
«Come al solito. Corro da una parte all’altra, faccio una foto a questo tizio e poi all’altro, ritocco con i filtri giusti…» snocciolò con tono annoiato.
«Ritocchi?» fece April stupita.
Damian rise.
«Cosa credi, che le foto dei giornali non siano ritoccate?»
April arrossì, ma anche questa volta cercò di nasconderlo.
«Certo che no. Solo che non sapevo ti occupassi anche di questo.» cercò di salvarsi in extremis.
«Quando serve.» disse solo l’altro.
April annuì.
«E tu? Ho sentito che vi stanno sommergendo di lavoro in questo periodo.»
«Quanto basta per non avere mai un attimo libero, ma mi piace ciò che faccio.» rispose April sincera forse per la prima volta da quando erano usciti.
Questa verità, considerò, non poteva nuocere all’immagine che voleva dare di sé.
«Meglio così. Non c’è cosa peggiore che fare qualcosa che non piace.» rispose Damian.
April annuì, senza saper cosa rispondere.
«Spero che al tuo ragazzo non dispiaccia che tu sia venuta a pranzo con me.»
La frase la fece ridere dentro di sé.
Ecco dove voleva arrivare, pensò a metà tra il divertito e il soddisfatto.
«Non ho un ragazzo.» rispose con aria noncurante, mostrando le sue carte.
Damian sorrise affascinante.
«Oh, beh, meglio così.» disse.
La semi conversazione venne interrotta dall’arrivo del cameriere, che aveva con sé due piatti fumanti.
«Ecco a voi, signori.» disse educato, poggiando i due piatti.
«Grazie.» rispose April, venendo seguita dall’altro.
Il resto del pranzo proseguì in maniera tranquilla, mangiando e parlando del più e del meno.
Il risotto la riempì così tanto che non fu in grado nemmeno di ordinare un dolce, mentre il vino rosso le diede più alla testa di quanto pensasse.
«Sei sicura di non volere un dolce?» le chiese Damian.
April annuì.
«Assolutamente. Non credevo mi saziasse così tanto.» disse sincera.
L’uomo annuì.
April diede un’occhiata al cellulare.
«Oddio! Non credevo fosse così tardi!» fece all’improvviso.
Damian la guardò.
«Adesso andiamo. Non preoccuparti, ci metteremo cinque minuti a ritornare.» la tranquillizzò.
Poi si alzò in piedi, la mano sul portafoglio.
April si alzò di conseguenza, prendendo la propria borsa e iniziando a frugare all’interno.
«Non osare tirare fuori il borsellino. Io ti ho invitata, io pago.» la frenò l’uomo.
April, da brava attrice, iniziò a protestare.
«Non voglio sentire lamentele.» disse però il fotografo.
Alla fine la giovane si arrese, lasciando che l’uomo andasse alla cassa da solo.
Per fortuna. Non sono ancora sicura di avere abbastanza soldi, pensò tra sé.
Lo aspettò perciò al tavolo, giocherellando con il cellulare. Poco dopo, Damian si avvicinò.
«Vogliamo andare?» chiese.
April annuì con un sorriso, lasciandosi condurre fuori dal locale e uscendo tra le calde strade di New York dove l’estate preannunciava il suo arrivo.
Continuarono a chiacchierare del più e del meno durante il tragitto e finirono ben presto per ritrovarsi di fronte all’ascensore del proprio edificio.
«Grazie mille per il pranzo.»
«Grazie a te, spero tu mi possa concedere un’altra uscita, una di queste sere.» rispose l’uomo.
April sorrise ammiccante.
«Vedremo.» disse vaga.
Eh no tesoro. Questa volta non mi farò fregare: aspetterò un po’ prima di venire a letto con te, pensò decisa.
Non voleva finire come con Daniel, che una volta ottenuto quello che voleva (senza aspettare troppo) l’aveva mollata via telefono. Come anche Andew, o Gabriel, o John…
Damian le sorrise un’ultima volta mentre le porte dell’ascensore si chiudevano, all’interno April che tornava a lavoro.
Lo so già. Questa volta sarà completamente diverso.
Aaron fissava il proprio telefono con aria disperata.
Sullo schermo brillava il profilo di April, aperto nella rubrica. Il suo numero era sempre là, non era fuggito nonostante le preghiere di Aaron.
Merda, dov’è finito tutto il coraggio di ieri sera?, pensava depresso.
In effetti il giorno prima era carico: aveva già deciso di richiamarla – di sicuro nella cena gli avevano messo qualche droga, altrimenti non si spiegava.
Sospirò, lasciando andare la testa sul divano di casa propria.
Era tornato da mezzora e i messaggi di Tom avevano già iniziato ad assillarlo.
“Se non la chiami farò in modo di avere il suo numero e ti distruggerò.” c’era scritto nell’ultimo.
Aaron, a quel punto, si era arreso e aveva deciso di chiamarla. Ma questo non significava che fosse tranquillo, tutt’altro.
Avanti Aaron. Comportati da uomo. È solo un’uscita per accettare le sue scuse, no? Non c’è nulla di male, lei l’ultima volta non ti ha fatto niente quindi non c’è alcun motivo per avere paura.
Con questo pensiero in testa si costrinse a pigiare lo schermo in corrispondenza della cornetta. Prima che potesse anche solo ripensarci, la chiamata partì.
La cornetta rossa non gli parve mai così invitante come in quel momento.
Non rispondere, non rispondere, non rispondere…
«Pronto?»
Merda.
«A-april? Sono Aaron.» balbettò dopo un paio di secondi di agitazione.
«Oh, Aaron, ciao! Come stai?»
Malissimo. Vorrei morire in questo momento.
«Benissimo.» mentì «Senti, ti ho chiamato a proposito di ieri sera…» iniziò.
Un attimo di silenzio e Aaron se la immaginò lì, con i suoi occhioni verdi immersi nel nulla per pensare.
«Oh, certo! Dimmi tutto.»
Aaron sospirò e si costrinse ad avere un tono normale.
«Ecco, se ti andava bene si poteva fare per questo sabato, che ne dici?»
La sua voce tremò solo alla fine, ma si convinse che fosse solo una sua impressione.
«Questo sabato? Non dovrei avere impegni…»
Le parole di Tom gli risuonarono nella testa: “Dille di chiamare anche una sua amica. Non voglio essere il terzo incomodo.”.
Aaron non voleva per niente avere un’altra bestia a cena con sé, ma considerò che fosse un prezzò da pagare per non passare la cena da solo con quella ragazza.
«Perfetto allora. A dire il vero c’è anche un mio amico che viene con noi, quindi se vuoi portarti un’amica appresso…» fece, lasciando la frase sospesa.
«Oh. Beh, ok allora. Dove ci incontriamo?»
A questo non aveva pensato.
«Emh, a dire il vero non avevo ancora un’idea precisa. Facciamo che ti mando un messaggio?» rispose.
«Va benissimo. Ci sentiamo, allora.»
«Ci sentiamo.» disse solo Aaron.
La chiamata si chiuse un secondo dopo per merito della giovane, mentre Aaron aveva ancora il telefono sull’orecchio.
Sospirò, ponendolo di fronte agli occhi.
“L’ho chiamata. Ci vedremo sabato. Non osare mancare.” scrisse telegrafico.
“Ricevuto. Ora puoi riprende a respirare.”.
“Fottiti.”.
Non ricevette risposta, ma Aaron già lo immaginava ridendo.
Ma chi me lo ha fatto fare?
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
E rieccomi di nuovo qui dopo poco più di un mese!
È stato un mese piuttosto lungo, ad essere sincera: sono finite le vacanze, mi sono ammazzata con lo studio, ho dato i due esami che mi mancavano dell’anno scorso e mi sono occupata del trasloco. In pratica non avevo un attimo di tempo libero! Quando sono riuscita finalmente a terminare il capitolo ho avuto problemi con il wifi, e nel nuovo appartamento in cui sono è arrivato soltanto ieri (potete immaginare venti giorni senza internet, il delirio).
Non so bene cosa dirvi su questo capitolo, spero vi piaccia perché io a momenti sono indecisa; pensate che l’avevo scritto fino a metà e poi l’ho cancellato per riscriverlo da capo, dato che non mi stava piacendo). Aaron e April sono sempre i miei tesori e in questo capitolo interagiranno parecchio.
Ditemi cosa ne pensate nei commenti!
Cercherò di aggiornare il prima possibile, ma non vi assicuro nulla: non sono brava a mantenere questo genere di promesse!
Detto ciò, vi auguro buona lettura.
Un abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo dodici
«Scusami, ma non riesco proprio a venire stasera!»
«Ma lo avevi promesso!»
April quasi strillò in mezzo alla strada. Il tono lamentoso con cui aveva appena pronunciato quelle parole ben si abbinava all’espressione corrucciata stampata sul viso.
«Lo so, lo so! Ti giuro, è stato un imprevisto… Adam sta male e lo devo accompagnare in ospedale!»
A quelle parole, la rabbia passò e venne sostituita dalla preoccupazione.
«Cosa è successo?»
«Non so bene, non mi ha spiegato granché.»
April sospirò.
«Non preoccuparti, va da lui. Appena ci sono novità chiamami, d’accordo? Non voglio stare in pensiero.» le disse.
«Va bene. Grazie, e scusa ancora.»
April non ebbe il tempo di rispondere perché la chiamata fu chiusa immediatamente.
Sospirò di nuovo.
Beh, alla fine non è mica un appuntamento. Cerchiamo di passare una serata piacevole, si disse convinta.
Era sabato ed erano le sette e venti; mancavano ancora dieci minuti all’incontro, ma la bionda, presa dalla fretta, aveva finito per arrivare addirittura in anticipo. Non che fosse un grosso problema, non le disturbava dover aspettare dieci minuti.
Nell’attesa però aveva finito per chiamare May, per chiederle quando sarebbe arrivata, e aveva avuto la spiacevole notizia. Non poteva farci nulla però, quindi si convinse di non lasciarsi rovinare l’umore della serata da una cosa del genere.
Erano le sette e venticinque quando vide Aaron arrivare.
Camminava tra la folla con la testa un po’ china, i capelli rossi scompigliati come l’ultima volta, un paio di jeans neri e una camicia nera arrotolata sui gomiti, più una giacca casual, sempre nera, portata in mano.
Non sembrò notarla subito e April lo osservò mentre si guardava attorno con un’aria adorabilmente spaesata, il piercing che veniva torturato come aveva già notato l’ultima volta.
Le venne da sorridere a vederlo lì, inconsapevole di essere osservato, e si ritrovò a considerarlo davvero bello.
«Aaron, anche tu in anticipo a quanto pare.» gli arrivò alle spalle, decisa a spaventarlo un pochino.
Non si aspettava però il salto che fece invece il giovane, facendo due metri in mezzo secondo. Lo guardò stupita.
«April…» soffiò lui, gli occhi un po’ più spalancati del normale.
Sorrise con aria di scuse.
«Non volevo spaventarti.» gli disse.
Aaron abbassò lo sguardo – sembrava a disagio, ma disagio di cosa? Se davvero non voleva rivederla, non era di certo obbligato a chiamarla!
«Non mi aspettavo fossi già qui.» mormorò tanto che April fu costretta ad avvicinarsi e a lavorare un po’ con l’immaginazione per cogliere alcuni suoni.
«Nemmeno io, di solito non sono così puntuale!» esclamò con una risata.
Ecco che il meccanismo ripartiva: non voleva farlo sentire a disagio, quindi doveva cercare di essere misurata con le azioni; lo scherzetto che gli aveva fatto non era stata una grande idea.
«Credo che questa volta sia la prima nella mia vita in cui sono in anticipo.» si sentì rispondere.
Lo guardò sorpresa.
Devo intendere altro?, pensò confusa.
Per non rischiare spiacevoli fraintendimenti, decise di risparmiarsi la battuta che avrebbe invece fatto con altri – Damian, ad esempio.
«Quando arriva il tuo amico?» domandò, non sapendo bene come rispondere alla frase detta dal rosso.
«Non credo tardi. E la tua amica?» rispose il rosso.
April notò che, a differenza della volta prima, aveva fatto più in fretta a sciogliersi e di questo ne fu felice.
Lo metto a suo agio!, pensò vittoriosa.
Si trattenne dal fare un sorriso soddisfatto e pensò alla notizia che invece doveva dare.
«A dire il vero c’è stato un problema… Proprio poco fa mi ha chiamato per avvisarmi che non può venire: il suo fidanzato sta male e lo sta accompagnando all’ospedale.» disse con un tono scontento.
Aaron parve impallidire.
«Oh. Mi dispiace.» disse però.
«Spero che non sia un problema per te e il tuo amico.»
«Non dovrebbe.» lo sentì rispondere a voce bassa.
Attimi di silenzio riempiti dal rumore del traffico e della gente che passava loro affianco.
«Che ne dici di chiamarlo per sapere tra quanto arriva?» chiese infine April.
Iniziava a sentirsi un po’ a disagio.
Dentro di sé sospirò, decisa a non lasciare che quella fastidiosa sensazione prendesse il sopravvento: se anche lei si faceva prendere dall’ansia, notando come il giovane non sembrasse granché a suo agio, non sapeva come avrebbero finito la serata.
«Ok.» disse solo il rosso.
Lo vide fare qualche passo indietro mentre prendeva il cellulare e iniziava a digitare numeri in tutta fretta; subito dopo, se lo poggiò all’orecchio.
April, da quei pochi metri di distanza, non riusciva a sentire bene, ma abbastanza per comprendere in linee generali la conversazione.
«Sì, fra quanto arrivi?»
Momento di silenzio da parte di Aaron in ascoltò la risposta.
«Sì, sono già qui.»
Lo vide arrossire all’improvviso, poi borbottare una parola che non comprese.
«A dire il vero…»
Silenzio preoccupato, poi Aaron le lanciò un’occhiata indecifrabile mentre si mordeva il labbro. April si ritrovò ad arrossire, spostando velocemente lo sguardo. Così facendo si distrasse e non colse le ultime battute.
Tenne la testa china mentre il giovane chiuse la chiamata e si avvicinò a lei.
«Emh…»
April alzò di scatto la testa, attirata dalla voce del rosso; lui la fissava con una espressione piuttosto gelida tanto che rimase quasi ferita. Proprio non lo capiva quel tipo: il primo momento sembrava sciogliersi, poi in imbarazzo, poi gelido. Ma che problemi aveva?
Si morse di nuovo il labbro, giocando con il piercing.
Però è così bello, si ritrovò a pensare sognante April, notando come i capelli rossi gli stessero divinamente.
Che invidia, pensò ancora.
«Anche il mio amico ha avuto un imprevisto. Non verrà.» disse secco.
Aveva un tono così gelido che la fece rabbrividire.
«Oh. Mi dispiace, spero non sia nulla di grave…» disse preoccupata.
Aaron fece una smorfia.
«A suo dire è qualcosa di tremendamente impossibile da risolvere.» fece con tono lugubre.
April annuì con la testa e si rese conto che il giovane non sembrava per niente contento di essere da solo con lei – ma perché? Se proprio non la voleva vedere non la doveva chiamare, dannazione!
Si sentì tremendamente a disagio; sarebbe stato orribile se ora il ragazzo le avesse detto di tornarsene a casa. Non che fosse un appuntamento, lo sapevano entrambi, ma l’avrebbe visto senza alcun dubbio come un rifiuto – come la volta precedente, d’altronde, in cui non voleva che si alzasse dal tavolo e l’abbandonasse lì.
Chinò di nuovo la testa mentre sentiva il disagio farsi sempre più strada in lei.
Siamo noi due da soli… E ora?
Siamo noi due da soli… E ora?
Aaron dentro di sé stava morendo di paura.
Tom lo aveva abbandonato. Quel bastardo lo aveva lasciato solo nel momento del bisogno!
Nella sua testa risuonavano ancora le parole che gli aveva detto al telefono poco prima.
“Beh, se siete solo voi due allora io non ci faccio niente. Per quanto possa essere curioso, devo lasciarti libero di librarti in volo.”
Solito tono da persona sarcastica e che si diverte un mondo. A nulla erano valsi le sue pigolanti richieste di aiuto.
“Per quanto il mio cuore ne soffra, non posso. Il tuo problema pare già essere tremendamente impossibile da risolvere.”
E tanti saluti e buona fortuna, dato che il telefono gli era stato chiuso in faccia mentre iniziava con le maledizioni e le bestemmie.
La osservò con calma appena le diede la notizia – teneva la testa china e i suoi occhi erano quasi del tutto nascosti dagli occhiali e dalla frangia bionda.
Si spaventò quando si ritrovò a pensare che fosse carina: aveva un vestito semplice, color fragola, con dei bottoncini che le arrivavano fino al collo; un cinturino bianco stretto in vita era abbinato alla giacca e alla borsa, più delle zeppe non troppo alte.
Sembra una fragola ricoperta di panna, considerò, per poi sbiancare rendendosi conto di quello che aveva appena pensato.
Aaron. Aaron, ricordati chi è. È una donna, ovvero un essere pronto a mangiarti appena ne ha l’occasione. Ti sei scordato di come ti è saltata addosso il giorno all’agenzia matrimoniale?
Era inutile però. Nonostante questi pensieri e i ricordi vividi che si affacciavano nella sua mente, vederla lì, a testa china, visibilmente a disagio – anche se non capiva perché – lo fece sentire quasi del tutto tranquillo, e si sentì una merda rendendosi conto di star meglio a scapito degli altri.
Merda… Se Tom fosse qui risolverebbe lui la situazione!, pensò con aria tragica.
Però Tom non c’era e si rese conto che le cose erano due: scappare da quella situazione inventandosi una scusa (cosa per cui si sarebbe sentito un cane per il mese a venire) o cercare di fare qualcosa.
Per quanto la prima opzione gli sembrasse accattivante, sembrò quasi sentire la voce di Tom dentro la sua testa che gli inveiva contro, costringendolo a rimanere lì e a fare qualcosa.
Sì, ma come ci si comporta in queste situazioni?, continuò a meditare.
Sospirò e si ritrovò a sentire un peso all’altezza dello stomaco.
«Siamo solo noi due… Se per te va bene, possiamo andare comunque.»
Parlò in automatico e si accorse con un secondo di ritardo che quella era proprio la sua voce.
April alzò la testa di scatto, sembrando molto sollevata a sentire quelle parole e il peso sullo stomaco sembrò quasi alleggerirsi.
«Per me non è un problema. Pensavo non volessi andare senza il tuo amico.» disse con un sorriso imbarazzato.
Aaron si rese conto in quel momento di come si era comportato: era stato freddo come suo solito – ma aveva solo paura, cavolo! – e aveva annunciato con un tono depresso che il suo amico non sarebbe venuto. Beh, di certo c’erano tutti i presupposti per pensare che non fosse affatto felice di essere lì da solo con lei.
C’era anche da dire che non fosse entusiasta della situazione, ma questo non cambiava il fatto che si sentisse improvvisamente uno stronzo nei suoi confronti.
«No, no! Non c’è problema!» si ritrovò a dire di fretta, cercando di riparare.
E invece c’è il problema, ma facciamo finta che non sia così, pensò.
April lo fissò con un sorriso dolce e si ritrovò ad arrossire sotto il suo sguardo verde.
«Allora è meglio così. Andiamo?» domandò.
Aaron annuì e basta, senza avere le forze per replicare. Era combattuto tra la paura per le donne e il senso di fiducia che lei gli ispirava; non sapeva cosa fare e come comportarsi.
Iniziarono a camminare fianco a fianco per le strade affollate di New York, in un silenzio che ben presto si fece imbarazzante.
Aaron le lanciò una veloce occhiata, il volto imperturbabile nel tentativo di nascondere il tumulto interiore. La bionda si guardava intorno, osservando la città e facendo scivolare di tanto in tanto lo sguardo su qualche vetrina.
Quando per sbaglio la mano di lei sfiorò il suo braccio si ritrasse, decidendo all’improvviso di intavolare una conversazione per sfuggire a quel momento di imbarazzo – che non sapeva se fosse solo proprio o no.
«Come va a lavoro?»
La bionda lo guardò e gli sorrise.
«Come al solito direi; impegnata con le centinaia di bozze che mi arrivano e di cui mi devo occupare.» rispose.
«Ti occupi solo di correggere bozze?» domandò corrugando le sopracciglia.
L’altra sospirò e scrollò le spalle.
«Attualmente sì. Mi è capitato un paio di volte che mi dessero qualche piccolo articolo da scrivere, ma nulla di che, giusto un trafiletto nell’angolo di una pagina, qualcosa che se non lo cerchi non te ne accorgeresti neanche.» disse imbarazzata.
«Beh, immagino che comunque sia qualcosa. E quando ti daranno un vero articolo da scrivere?» domandò, una strana curiosità che si faceva strada in lui.
Io interessato alla vita di una donna?, pensò vago e preoccupato insieme, ma la risposta della giovane lo distrasse da questo quesito che aveva assunto toni spaventosi.
«A dire il vero non è sicuro che avrò un vero articolo da scrivere.» la sentì ammettere con tono depresso. April alzò lo sguardo verso di lui con una smorfia «Quello che sto facendo è uno stage e non sono l’unica a partecipare, ci sono altre due colleghe. Sceglieranno solo una di noi tre alla fine, e quella che sarà assunta potrà scrivere dei veri articoli, non fare la schiava come invece stiamo facendo in questo momento.» spiegò.
«Da come lo dici sembri quasi sicura di non essere scelta.» considerò il rosso, parlando prima che potesse impedirselo. La bionda si girò di scatto verso di lui, gli occhi spalancati in una conferma.
«…Perché pensi di non avere possibilità?» chiese.
Era stupito che una ragazza così energica – per come aveva potuto appurare – non fosse sicura delle proprie capacità. Eppure aveva appena avuto il silenzioso assenso a quello che sembrava: April era convinta che non sarebbe stata presa.
«Non c’è un vero e proprio motivo. Solo che non sono mai stata assunta in nessuna rivista, mi sembra ovvio che anche in questa sarà così.» pigolò la ragazza, il tono che si faceva man mano depresso.
Aaron si sentì profondamente a disagio.
Aveva appena intavolato una conversazione che aveva portato la ragazza a deprimersi: e ora come risolveva la situazione?
Beh, potrei provare a confortarla…
Sì, beh, però come si confortava una donna? Era abituato a Tom, con cui era sufficiente una pacca sulla spalla e una serata relax per far tornare ogni cosa al proprio posto; per quanto riguardava le sorelle, a quelle cose ci aveva sempre pensato la madre.
Si schiarì la gola, indeciso su come iniziare.
«Non credo tu ti debba abbattere in questo modo. Insomma, il fatto che finora sia stato così non significa che continuerà ad esserlo. Dovresti guardare lo stage da un altro punto di vista: non come l’ennesimo futuro fallimento, ma come il nuovo futuro successo. Se ti concentri solo sugli aspetti negativi, finirai nel vedere solo quelli e ti influenzeranno nel lavoro portandoti a fare peggio.» disse.
Aveva cercato di fare un discorso logico come avrebbe potuto farlo a Tom; non sapeva se avrebbe funzionato, ma si sarebbe fatto uccidere piuttosto che abbracciarla e confortarla in quel modo.
O magari morirei così, sul colpo, considerò.
Nel frattempo April aveva ascoltato le sue parole ed era rimasta in silenzio, continuando a camminare a fianco del ragazzo.
«Hai ragione. Non è che non ho mai pensato a questo che hai appena detto, solo che ci sono alcuni momenti in cui mi viene da buttarmi giù e a convincermi che nulla andrà per il verso giusto. Devo solo cercare di superarli.» rispose con un sorriso accennato.
Aaron pensò a quei momenti in cui il suo problema assumeva delle dimensioni gigantesche e fin troppo problematiche: in quelle occasioni era certo come la morte che nulla sarebbe mai cambiato. Eppure eccolo lì, da solo e con una ragazza, addirittura chiacchierandoci come una persona normale!
«Grazie per aver cercato di tirarmi su.»
Le parole di April lo colsero alla sprovvista, proprio mentre pensava di aver detto qualcosa di inutile e ovvio.
Si sentì arrossire ma quella volta, invece che assumere un tono freddo e un’espressione altrettanto glaciale, sorrise.
«Figurati.»
Un sorriso. Un vero sorriso!
April quasi non riusciva a crederci.
Aaron le aveva appena sorriso: non uno di quei vaghi accenni che aveva già avuto modo di notare, ma una vera espressione facciale, mostrando addirittura la fila di denti bianchi. Il piercing brillava nell’angolo del labbro e fece in tempo a notare anche una fossetta lungo la guancia destra prima che il sorriso sfumasse naturalmente.
Si sentì arrossire sotto lo sguardo dell’altro e si affrettò a chinare gli occhi, cercando di non mostrare le guance rosse.
Si schiarì la gola.
«Non abbiamo ancora deciso dove andare a cenare.» disse, cercando di cambiare argomento.
Le sembrava che il disagio che fino a quel momento aveva scorto nel rosso si fosse scaricato su di lei e non era per niente una bella sensazione. Si chiese il perché di quel disagio, una vaga idea le aleggiò in testa e si affrettò a stamparsi in mente il viso di Damian.
Aaron, a quelle parole, parve riscuotersi; scrollò le spalle.
«Non saprei a dire il vero. Non conosco posti in questa zona.» rispose e si fermò in mezzo al marciapiede; si morse poi un labbro, in difficoltà.
April. Smetti di fare certi pensieri, si ordinò mentalmente la bionda, fermatasi anche lei e iniziando a osservare ossessivamente il traffico che le passava davanti senza vederlo davvero.
Ma che diavolo mi prende?, piagnucolò tra sé.
A dire il vero lo sapeva: aveva un tremendo debole per i tipi come lui, con quell’aria dolce e ingenua, quasi spaventati, e quei capelli rossi erano la sua croce.
«Tu hai suggerimenti?»
La voce di Aaron la riportò sulla terra.
Si distrasse e cercò di portare a mente locale luoghi dove sarebbero potuti andare.
«Ah! C’è un posto che-» si bloccò e sbarrò gli occhi, guadagnandosi un’occhiata confusa dell’altro.
Merda, pensò.
Le era sì venuto un posto in mente, ma di certo non poteva andarci con un tipo come lui: era fondamentalmente una friggitoria in cui andava con May quando voleva distruggersi di cibo spazzatura – il fegato ogni volta ringraziava sentitamente –, ma un conto era andare con la sua migliore amica, un altro andarci con un ragazzo. Certo, non era un appuntamento e ad April non le interessava – per quanto potesse essere figo era realmente presa da Damian – ma, insomma, un po’ di contegno lo aveva comunque.
«Un posto che…?» la invitò a proseguire il rosso.
April iniziò a sventolare davanti a sé una mano, in maniera frenetica, tanto che si sentì parecchio ridicola.
«Nulla di che. Niente che potrebbe piacerti.» disse rapida e riprese a camminare. Sentì Aaron dietro di sé che la seguiva.
«Chi l’ha detto? Non conosci i miei gusti.»
Ma dai, idiota, si vede lontano un miglio, pensò infastidita; era troppo vestito bene per essere un tipo dal posto in cui voleva andare.
«Non fa per te, davvero.» insistette.
«Mettimi alla prova.»
April si fermò a guardarlo: Aaron aveva giusto un accenno di sorriso, ma più divertito dalla situazione che altro. Si rese conto che solo quella sera stesse mostrando delle vere espressioni, non come le volte precedenti.
Sospirò.
«Ti piace il fritto?» chiese con aria seria. Si sentì una sciocca.
«Lo adoro.» rispose con il medesimo tono lui e ad April venne da ridere.
«A tuo rischio e pericolo.» capitolò.
Aaron sorrise e le sembrò un ragazzino felice.
Si girò prima di permettere al proprio viso di distendersi in un sorriso, per poi abbassare lo sguardo divertita.
Beh, alla fine che importa: mica gli devo piacere, posso comportarmi come mi pare, pensò convinta e riprese a camminare.
Il tragitto per arrivare al locale non era lungo e April scoprì come il rosso mangiasse spesso sano, più che altro controllato dalla madre e dalle sorelle maggiori e a causa di una sorta di dieta.
«Dieta?» fece stranita.
«Sì. So che può sembrare strano, ma anni fa non ero per niente in forma, mi ci hanno praticamente costretto.» spiegò e scoppiò a ridere.
April venne deconcentrata un attimo dal suono della risata, ma poi lo osservò per bene.
«Infatti è strano. Non mi sembri per niente il classico tipo in passato brutto e grasso.» disse senza filtri, per poi rendersi conto del suo essere brusca e fare una smorfia.
«Beh, purtroppo lo ero, e credo lo sarei ancora se Rosalie non si fosse impuntata sul “trasformarmi”.» e fece le virgolette con le dita in un gesto che April considerò piuttosto tenero.
«Spero di non buttare all’aria tutto il lavoro di tua sorella allora. Eccoci qui.» disse e si fermò di fronte a un locale dall’aria piuttosto grande. Dalla porta a vetri si poteva vedere un ambiente piuttosto rustico e varie persone all’interno; si sentiva anche un vago schiamazzare che si confondeva con il traffico.
«Da come dicevi “non fa per me” mi aspettavo chissà cosa.» commentò il ragazzo. April si sentì una scema.
In quel momento la porta del locale si aprì e un delizioso profumo di fritto li investì.
«Ok, adoro questo posto.» decretò il rosso; si avvicinò alla porta e la aprì, aspettando che April entrasse per prima.
L’interno era come sembrava dalla strada: piuttosto rustico. Nonostante questo, era carino, con un pavimento in travi di legno, tavoli sempre in legno con lunghe panche su cui sedersi, un bancone sulla destra da cui uscivano i camerieri per servire che fungeva anche da angolo bar in cui, si poteva notare, la birra scorreva a fiumi.
C’era un allegro vociare che metteva quasi buonumore e la clientela era costituita prevalentemente da famiglie o comitive di amici; si poteva notare qualche coppia, ma in effetti il posto non era il solito ambiente romantico.
Si sedettero su un tavolo lungo la parete a sinistra e April osservò Aaron guardarsi attorno.
«Sei sicuro che ti piaccia?» si ritrovò a chiedere.
Il rosso sorrise gentile.
«Te l’ho detto, lo adoro.» ripeté.
April sospirò, sentendosi più tranquilla.
Non fecero in tempo a scambiarsi altre parole che arrivò una cameriera con dei menù.
«Buonasera ragazzi! Questi sono i menù, ecco a voi.» mentre lo diceva quasi si lanciò verso di loro per porgerli; April notò il repentino cambiamento del rosso: sul suo volto sparì qualsiasi traccia di emozione e si fece del tutto indifferente, spostando rapido lo sguardo.
«Sapete già cosa prendere da bere?» continuò allegra la giovane cameriera con un sorriso che le si allargava da una parte all’altra.
April per un attimo non seppe cosa dire; era troppo concentrata sulla strana reazione di Aaron.
«Emh… Io prendo una birra, media.» disse poi, e guardò il rosso in attesa.
Il ragazzo, d’altro canto, borbottò a malapena un “lo stesso”, e continuò a evitare ostinato lo sguardo della cameriera che, per niente scalfita dal suo comportamento, segnò tutto su un taccuino e prese il volo aggiungendo giusto che sarebbe ripassata per le ordinazioni.
«Tutto a posto?» si ritrovò a chiedere April. Era confusa: che diavolo gli era preso?
«Splendidamente.» rispose Aaron e riprese a guardarla negli occhi, il viso di nuovo rilassato – non come prima, certo, ma di nuovo tranquillo.
Ok, sono piuttosto confusa, pensò la bionda, ma si costrinse a lasciar perdere e a ignorare la propria curiosità che le diceva di fare domande.
«Mi dicevi che quindi facevi anche sport, giusto?» chiese, cambiando volutamente il discorso. Aaron sembrò apprezzare quel gesto.
«Sì, a dire il vero anche adesso cerco di mantenermi in forma.» borbottò, privo della scintilla allegra di poco prima; April lo osservò mentre prendeva il menù e lo sfogliava. In silenzio fece lo stesso.
Quell’essere taciturno del rosso iniziò subito a pesarle e si ritrovò a disagio, incapace di dire qualcosa; fissò il menù senza quasi vederlo, impegnata com’era a farsi prendere dall’ansia.
E se avessi fatto qualcosa io?, pensava dubbiosa. Le sembrava strano che il suo comportamento fosse cambiato a causa della cameriera, per questo ipotizzava fosse colpa sua; nonostante quei pensieri, qualcosa continuava però a dirle che lei non c’entrasse niente.
«Tu invece? Fai qualche sport?»
La voce di Aaron la portò via dai pensieri; sollevò lo sguardo e vide il ragazzo fare un pallido sorriso. Sembrava che si stesse sforzando.
«No, non sono una tipa sportiva.» ammise, accogliendo quel tentativo «Ci ho provato varie volte a provare ad andare a correre, ma credo proprio non faccia per me.»
Aaron annuì e basta e in breve tempo il silenzio si ripresentò; durò poco, perché la cameriera ritornò con il solito luminoso sorriso.
«Ecco a voi le birre!» esclamò allegra, poggiando due boccali di medie dimensioni di fronte a ciascuno.
Ed eccolo lì: April ci stette attenta questa volta e notò come, all’avvicinarsi della ragazza, il rosso riprendesse di nuovo quell’atteggiamento gelido – lo stesso atteggiamento che, si ricordò, aveva nei suoi confronti tutte le altre volte che si erano visti.
«Torno fra poco per le ordinazioni!» continuò la ragazza, e scomparve di nuovo.
A quel punto, April non ce la fece più.
«Scusa per la domanda da ficcanaso, ma hai per caso qualche problema con la cameriera?»
Mai l’avesse detto.
Aaron diventò pallido tutto d’un colpo, la guardò in faccia e subito distolse gli occhi preso da quello che – ad April sembrò molto strano – pareva proprio terrore.
Non fece in tempo ad aggiungere altro – tipo un “ignora la domanda”, “scusa l’insolenza”, oppure un più sincero “ma hai problemi?” – che Aaron si alzò di scatto facendola spaventare.
«Devo andare in bagno.» disse solo il ragazzo e la bionda si preoccupò seriamente, pensando che stesse davvero male. Ma non poté dire nulla, perché il rosso si fiondò giù dalla sedia e la lasciò sola.
Merda.
Ok, aveva appena fatto un casino e il fatto era che non sapeva neanche cosa avesse detto di così grave.
Io e il mio solito tatto di merda, continuò tragica.
Prima di continuare a deprimersi in solitudine, afferrò il telefono e digitò il numero di May, almeno per deprimersi in compagnia.
Il telefono squillò un paio di volte.
«Pronto?»
«Ehi May, sono io. Tutto bene? Come sta Adam?» domandò educata. Dalla cornetta percepì un sospiro.
«Tutto a posto, grazie al cielo. Non era nulla di grave, pare avesse solo mangiato qualcosa di andato a male e gli hanno dovuto fare una lavanda gastrica. Ora sto aspettando che finisca e poi lo porto a casa.» disse l’amica. April sorrise.
«Per fortuna! Dormi da lui stasera?»
«Sì, meglio che lo tenga d’occhio… Devo ispezionare il suo frigo e buttare tutto quello che ha ancora di nocivo.» fece con un lieve tono sarcastico «Tu piuttosto, perché mi stai chiamando? Non dovresti essere con Aaron e il suo amico?» continuò.
«Ti ho chiamato proprio per questo. Il suo amico, comunque, non è venuto, pare avesse anche lui dei problemi.»
«Oh.»
«Sì, beh, stava comunque andando tutto alla grande fino a quando ha iniziato a comportarsi in maniera strana ogni volta che arrivava la cameriera.» spiegò.
«La cameriera? In che senso strano?»
«Ma che ne so! Diventava taciturno, a malapena mi guardava negli occhi e, so che è strano, ma sembrava quasi avesse paura! Cioè, non è che strillasse, anzi diventava gelido all’improvviso, ma l’impressione che mi ha dato è questa.» si lamentò.
«Oddio, e poi?»
«E poi, con il mio solito tatto, ho finito per chiedergli se ci fosse qualche problema…» borbottò.
«April…» sospirò May, ma senza un vero rimprovero «Lui comunque che ha detto?»
April fece una smorfia, anche se non poteva essere vista.
«Niente, è fuggito via dicendo di dover andare in bagno.»
«Uh. La cosa deve averlo toccato parecchio se è fuggito così.» commentò May.
«Cosa mi consigli di fare?» mugolò la bionda.
«Non saprei. Cioè, alla fine non lo conosci, non sai appunto quale sia un problema e quindi sei stata un po’ indelicata. La cosa migliore da fare, forse, sarebbe chiedergli scusa appena torna e poi evitare l’argomento per tutta la serata. Cerca di parlare di qualcosa che sai potrebbe piacergli.» rispose May.
April sospirò. Per fortuna c’era la castana come mente della situazione; senza di lei, April sapeva di essere persa.
«Hai ragione, farò come dici e vedo se riesco a migliorare qualcosa.» disse.
«Dai, adesso meglio chiudere, non farti trovare al telefono. Buona fortuna!»
«Grazie, salutami Adam e digli di riprendersi.»
«Lo farò.»
April chiuse la chiamata e poggiò il telefono sul tavolo. Ora non le rimaneva che aspettare che tornasse da quella fuga.
«Tom, aiutami.»
In tutto quello, Aaron era ormai completamente nel panico.
Oddio. Oddio, oddio, oddio. Sapevo che era una pessima idea, pensava ininterrotto.
«E ora che è successo?» la domanda di Tom arrivò con un tono tra lo stanco e il divertito.
Aaron gli snocciolò ciò che era appena successo in poche parole.
«…capisci?! Non vedi? Le donne sono spaventose, cazzo!» terminò con un tono isterico.
Chiuso nel cubicolo, sedeva sul water in maniera piuttosto ridicola e si passava una mano sui capelli in maniera nervosa.
«Ma sei un idiota? Cazzo, Aaron, è normale una domanda del genere! Chiunque noterebbe il tuo comportamento, lei ha solo osato un po’ di più chiedendoti a cosa fosse dovuto. Datti una calmata.» replicò duro il moro.
In seguito a quelle parole, Aaron perse tutto l’ardore.
«Sì, ma…»
«Ma cosa? Avanti Aaron, dammi dei cazzo di motivi per cui questa situazione dovrebbe essere spaventosa.» fece secco Tom.
Sì, era seriamente arrabbiato.
«…non lo so.» finì per sussurrare Aaron.
Era la verità: non sapeva nemmeno lui cosa esattamente gli facesse paura, ma la provava.
«Ecco, allora, come prima cosa: dove ti trovi ora?»
«In bagno.»
«Dio santo, Aaron. Nemmeno una ragazzina.» fece disgustato Tom. Aaron non commentò.
«Comunque sia, ora torni lì dentro, le dici “scusa, non mi sento bene stasera” e liquidi l’argomento in due parole, va bene? A patto che tu non voglia parlargliene, ovvio.» disse l’ultima frase con un tono chiaramente sarcastico.
«E se lei insiste?» chiese ancora Aaron. In quel momento sembrava un bambino di cinque anni.
«Dille di farsi i cazzi suoi.» celiò con tono soave il moro. Aaron poté facilmente immaginare il sorriso splendente del moro che accompagnava quelle parole.
«Va bene.»
«Perfetto. E ora torna fuori e comportati da adulto, cazzo.» terminò secco Tom, senza lasciargli il tempo di replicare: gli chiuse direttamente il telefono in faccia.
Aaron sospirò.
«Coraggio.» disse fra sé, per poi alzarsi dal water e uscire dal cubicolo.
Si fermò di fronte allo specchio: aveva uno sguardo parecchio stralunato e i capelli in disordine, o almeno più del solito; si passò una mano tra le ciocche rosse, cercando di sistemarle, e si passò un po’ d’acqua sul viso per rinfrescarsi.
Aaron, ce la puoi fare.
Con questo ultimo pensiero in testa uscì dal bagno, dirigendosi verso il tavolo.
Avvicinandosi, si permise di osservare bene April; in quel momento teneva la testa china e giocherellava con le sue stesse mani. I capelli biondi le scendevano sul viso coprendolo parzialmente, ma sbucavano i suoi occhiali di un rosso brillante. Non riusciva a vedere benissimo la sua espressione, ma sembrava corrucciata.
Sentì il timore di avvicinarsi crescere in lui e prima che potesse bloccarlo definitivamente si costrinse a raggiungere la ragazza.
«Scusa se ti ho fatto aspettare.»
April sobbalzò e alzò la testa di scatto; i suoi occhi verdi erano lo guardavano con timore.
E ora perché mi guarda così?, pensò spaventato.
«Oh, non preoccuparti. Tu stai bene? Scusa per la domanda di prima, non volevo essere invadente, dimenticala pure.»
Parlò così velocemente che Aaron ci mise un paio di secondi a recepire tutta la frase. Una volta fatto, si sentì una merda come si rese conto di averla fatta preoccupare a causa del proprio problema.
«Io…» iniziò indeciso, poi si sedette e fece un profondo sospiro «Scusa, sono stato io il maleducato. Non mi sentivo molto bene, perdona la mia reazione.» parlò in maniera un po’ affettata e forse distaccata, ma riuscì a guardarla negli occhi.
La giovane ricambiò lo sguardo.
«Mi spiace, ora stai meglio? Se preferisci tornare a casa non ci sono problemi.»
Eccola. Gli stava offrendo la possibilità di andarsene su un piatto d’argento, l’avrebbe dovuta cogliere?
«…Sto bene, ora. È stato solo un momento, lascia stare.» disse e le sorrise.
Sì, Aaron, ce la puoi fare. Non è così difficile, escono tutti con una ragazza e nessuno è mai morto per questo, no?
Nonostante questo fu comunque messo a dura prova dal nuovo arrivo della solita cameriera.
Ecco, lei è una di quelle spaventose.
«Avete scelto cosa ordinare?»
Aaron sentì il proprio cuore sobbalzare sul petto e pensò che gli stesse per venire un attacco di panico; si costrinse a tirare un profondo respiro.
Non ci pensare, non ci pensare, non ci pensare…
A dire il vero aveva a malapena dato un’occhiata al menù, perciò lo riprese in fretta controllando rapido cosa ci fosse scritto.
«Per me un fritto misto di carne, e delle patatine fritte.» disse a bassa voce.
Non guardò la cameriera scrivere l’ordinazione, ma alzò gli occhi verso April che lo guardava mentre tentava di nascondere la confusione del suo comportamento.
«Io un fritto misto normale e delle patatine fritte.» disse la giovane.
La cameriera prese nuovamente il volo e rimasero da soli; solo a quel punto Aaron si permise di riprendere a respirare normalmente e si accorse con stupore come quella ragazza non gli causasse la forte paura che invece aveva provato fino a quel momento.
Mi chiedo come faccia a non spaventarmi, pensò turbato, ma decise di non pensarci e di godere di quella tranquillità.
«Più ci penso meno riesco a immaginarti grasso, sai?»
La voce di April lo distrasse e sollevò lo sguardo verso di lei: la giovane lo fissava con un mezzo sorriso e comprese che stesse cercando di far ritornare la conversazione come prima.
Si permise un sorriso rilassato e non si accorse di come fosse normale rivolgerlo a lei.
«Beh, devi crederci. Da ragazzino ero grasso, brufoloso e portavo anche l’apparecchio ai denti.» ammise. La giovane scoppiò a ridere.
«Eri un piccolo mostriciattolo allora!» disse scherzosa, ma quelle parole fecero per un attimo venire in mente ad Aaron dei brutti ricordi. La fissò e osservare quei luminosi occhi verdi distolse l’attenzione dai ricordi spiacevoli.
«Purtroppo sì. Se non ci fossero state le mie sorelle credo che lo sarei ancora, ma volevano avere un fratello di cui vantarsi, immagino.»
Si rese conto troppo tardi di come le sue parole potessero sembrare vanitose, ma April lo precedette.
«Puoi confermare loro che ci sono riuscite.» disse con un sorriso privo di alcun ammiccamento.
«E tu invece? Com’eri da piccola?»
April fece una piccola smorfia e per un attimo il rosso temette di aver detto qualcosa di sbagliato.
«Anche io ero uno sgorbietto, lo ammetto. Ero tutta ossa, sempre sporca perché adoravo giocare con la terra, e mi avevano fatto un orrendo taglio da ragazzo che ricorderò per tutta la vita.» e dicendo questo mimò un brivido disgustato. Aaron rise.
«Credo che un po’ tutti abbiano avuto un’infanzia spaventosa da questo punto di vista.» considerò.
In quel momento la cameriera arrivò e poggiò i piatti di fronte ad entrambi, ma Aaron era talmente concentrato a osservare April che ebbe poco tempo per spaventarsi.
«Buon appetito ragazzi!»
Il rosso riuscì pure a dire grazie senza quasi accorgersene.
Il resto della serata passò con varie chiacchiere e molte risate, e Aaron si stupì di quanto riuscisse a sentirsi leggero parlando con lei.
Quindi è così che dovrebbe essere parlare in tranquillità con una ragazza?
Non c’era nulla di spaventoso, e April aveva degli occhi così luminosi che Aaron si chiedeva come potesse avergli fatto paura in precedenza. Sembrava una bambolina e per un attimo volle…
Oddio. Cosa voglio? Aaron, non farti venire strane idee, si bloccò immediatamente e impallidì.
La giovane se ne accorse.
«Tutto bene? Stai di nuovo male?»
«Sto alla grande.» rispose immediatamente il rosso.
Non voleva rompere il momento di pace che si era venuto a creare, meglio eliminare gli strani pensieri che gli erano saltati in testa. E anche in fretta.
La bionda lo guardò ancora per un attimo con incertezza, poi annuì e gli sorrise.
Avevano entrambi finito di mangiare da un pezzo e Aaron si accorse che avevano passato tutto il resto del tempo a chiacchierare e basta; la cosa gli piaceva più di quanto si aspettasse.
«Possiamo andare a fare una passeggiata ora, che ne dici?»
Le parole di April lo facere sobbalzare; perché dovevano andarsene da lì? Aveva paura che, una volta uscito, la bolla dorata in cui era sarebbe scoppiata per sempre e non voleva.
Si sentì un bambino a pensare a quelle cose, ma alla fine lo era: in quell’ambito, era un totale incapace.
«Se preferisci…» disse solo, e le sorrise di nuovo.
April annuì e si alzò, prendendo la borsa.
«Aspetta!»
La bionda si girò.
«Pago io.» disse Aaron, alzandosi e mettendo la mano in tasca per prendere il portafoglio. In tutta risposta, la ragazza inarcò un sopracciglio con fare scettico.
«Scusa? Non hai capito, tesoro, ora tu ti siedi lì da bravo e aspetti che io paghi. Sono le mie scuse, ti ricordi?» disse con un tono che non ammetteva repliche.
Aaron non seppe cosa rispondere; lei aveva ragione – e quel cipiglio minaccioso gli faceva davvero paura – ma se avesse pagato lui anche quella volta ci sarebbe stata la scusa per rivederla ancora, no?
«Sei ancora in piedi? Siediti.» ordinò perentoria la giovane.
Avanti Aaron, controbatti qualcosa!, pensò.
E invece no, tanti saluti al suo coraggio precedente: come un bravo cagnolino spaventato, abbassò le orecchie e la coda, finendo per sedersi di nuovo.
Doveva avere un’aria terribilmente sconsolata perché notò April esitare per un attimo mentre lo guardava; e invece niente, la giovane si girò e corse verso la cassa – forse aveva paura di pentirsene.
Prese in mano il cellulare, ignorato per tutta la sera, e solo in quel momento si accorse di avere dei messaggi non letti.
Era Tom.
“Ti sei calmato?”
Una decina di minuti dopo, un altro.
“Il fatto che non mi rispondi devo prenderlo come un brutto segnale?”
Pochi minuti dopo un altro ancora.
“Riposa in pace, amico.”
Che idiota, pensò Aaron alzando gli occhi al cielo. Si affrettò a rispondere prima che Tom corresse a inventarsi un suo presunto testamento segreto dove lasciava tutto al moro.
“Sto bene, idiota. Non mi ero accorto dei messaggi, tutto qui.” scrisse.
La risposta arrivò molto più rapida di quanto si aspettasse.
“Oh, peccato, e io che pensavo di potermi già appropriare delle tue cose. Comunque, procede bene la serata?”
Aaron lanciò un’occhiata ad April: era ancora in fila e anche lei guardava il cellulare.
“Procede bene. Non so perché, ma lei non mi spaventa.” mentre lo scriveva arrossì, sentendosi in imbarazzo a dire quel genere di parole.
“Ma che tenero che sei, alle prime esperienze amorose…” fu la risposta.
“Fottiti.”
“Io spero che riesca a fottere tu, amico, vorrei evitare di costringerti a ubriacarti di nuovo.”
Aaron lesse il messaggio e sbiancò all’improvviso.
«Che faccia. È successo qualcosa?»
La voce di April lo fece scattare in piedi spaventato. Per un attimo, mentre la guardava, non riuscì a fare a meno di pensare a qualcosa per cui Tom avrebbe di sicuro applaudito, orgoglioso del proprio “figliolo”.
«No, niente di importante.» finì per balbettare in imbarazzo.
April lo guardò incuriosita.
«Se lo dici tu…» borbottò confusa, poi cambiò rapida espressione e gli rivolse un luminoso sorriso.
«Vogliamo andare, allora?»
E ad Aaron non rimase solo che annuire.
La porta si aprì con un lieve rumore e April la richiuse provocando un basso tonfo sordo.
Sospirò e si stiracchiò di fronte all’entrata, poi si tolse le scarpe e si massaggiò le caviglie con aria stanca.
Avevano camminato un sacco quella sera, lei e Aaron. Era stato piacevole, la serata, dopo la partenza un po’ incerta, aveva proseguito più che bene ed era stupita che fosse riuscita a sentirsi così a suo agio.
Non che non fosse la tipa che si sente spesso a disagio – soprattutto con i ragazzi mostrava una tranquillità assoluta certe volte – ma era abituata a mentire per mostrarsi più sofisticata, più elegante, migliore di quanto non fosse davvero. Non lo faceva apposta, semplicemente le usciva naturale e sapeva che non fosse giusto, ma aveva un inspiegabile timore che se si fosse mostrata per quello che era – ovvero fuori di testa, pazza per i vestiti, non troppo chic e più semplice di quanto non sembrasse – i ragazzi non l’avrebbero guardata.
Con Aaron non era stato così complicato invece, forse perché non stava cercando di fare colpo e non le interessava nemmeno. Forse a causa del brusco inizio tra loro due, lo vedeva solo come un amico e basta. Forse perché sperava nascesse qualcosa di serio con Damian.
April fece una smorfia rendendosi conto di quanti “forse” ci fossero. Non doveva pensarci, comunque sia Damian le piaceva e si stava trovando bene con lui; Aaron era stata una piacevole uscita che, perché no, poteva anche ripetersi un’altra volta.
Si diresse nella camera degli ospiti, togliendosi i vestiti e buttandoli a casaccio sul letto per poi mettersi il suo adorato pigiama bianco con le ciliegie.
Non aveva voglia di struccarsi e per quella sera lasciò perdere, anche se sapeva che il giorno dopo se ne sarebbe pentita; aveva sonno e voleva mettersi a dormire.
Puntò giusto la sveglia per il giorno dopo – non doveva lavorare, ma meglio non alzarsi troppo tardi – e si tolse gli occhiali, per poi abbandonarsi sul cuscino.
Mentre crollava addormentata, l’ultima immagine nella sua testa fu una chioma rosso fuoco.
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