Clothes Off, Masks On

di xkissmeyafool
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***



“Come ti chiami?”
Una risata roca mi sfuggì dalle labbra. Tra tutte le domande che mi sarei aspettato di sentirmi porre, questa mi parve la meno opportuna in quel momento. Ansimai, tentando per quanto mi fosse possibile di formulare una risposta logica. 
“Non credo che il mio nome ti interessi più del fatto che mi stai scopando in un bagno pubblico.”
Sentii il corpo possente di quello sconosciuto sovrastarmi, mentre le sue parole venivano fuori a fatica e raggiungevano le mie orecchie ormai del tutto assuefatte ai suoni strozzati e carichi di piacere che nessuno dei due aveva il pudore di reprimere. 
“Mi piace stabilire un rapporto con le mie conquiste” replicò, ed il suo tono, così serio e concentrato nel semplice atto di formulare una frase, mi fece venire la pelle d’oca. Gemette, continuando a muoversi sul mio corpo, che mi sembrava ora tutt’altro che all’altezza di quello con cui avevo stabilito un contatto. Non mi curai di dare risposta alla sua affermazione, trattenendomi dal fargli notare che, almeno in teoria, sarebbe dovuto essere lui la mia ‘conquista’, e che stavamo esattamente stabilendo un rapporto, che fosse o meno la realizzazione del concetto che lui ne aveva. D’altra parte non mi sembrò che lui tenesse ad avere qualche tipo di riscontro; quando riprese a parlare, però, mi resi conto che mi sbagliavo. 
“Non hai risposto alla domanda” mi ricordò infatti, appoggiando senza troppa delicatezza le sue labbra contro il mio orecchio. Chiusi gli occhi, abbandonandomi ad un senso di libertà e disimpegno di gran lunga più ampio dello spazio che le pareti di quel piccolissimo bagno circoscrivevano. Non avevo alcuna intenzione di continuare a chiacchierare con un ragazzo che con tutta probabilità non avrei mai più rivisto, tuttavia una minuscola parte del mio inconscio fremeva dalla voglia di scavare più a fondo, essere qualcosa di più di un ragazzo rimorchiato in un bar. Questo mio desiderio, che mi sembrava emergesse sempre più chiaramente ogni secondo che passava, mi straniò, ma ripercorrendo le tappe di quella serata, mi resi conto che svariate cose erano andate per il verso contrario, come in una sorta di universo parallelo. 
Non mi era mai piaciuto parlare o addirittura vantarmi delle conquiste casuali che facevo, e le persone che mi circondavano non avevano interesse ad uscire dalla loro lecita ignoranza. Il mio non era un rito, non era un passatempo, nemmeno uno sfizio. Si trattava della mera e inevitabile necessità di portare la mente altrove almeno per qualche minuto, abbandonarmi all’incoscienza e all’inconsapevolezza. Era questo a spingermi, almeno un paio di volte la settimana, a sedermi al bancone dell’Alibi, l’unico bar a gestione legale nel mio quartiere, e ordinare un paio di drink, per me e per il ragazzo che avrei senza dubbio adocchiato nel giro di qualche minuto. Non capitava di rado che i diretti interessati rifiutassero o recitassero il ruolo di giovani dai sani principi morali apparentemente incapaci di abusare della compagnia di qualcuno (e il discorso si faceva persino più complicato, considerando il fatto che fossi un maschio), ma ero diventato piuttosto bravo a far cambiare loro prospettiva e nei casi più fortunati a portare alla luce la loro vera natura, e solitamente finivamo per fare sesso sporco e piuttosto violento nel giro di mezz’ora. 
Avrei dovuto capire che qualcosa non andava quella sera prima ancora di prendere posto e ordinare da bere. Il bar era semivuoto, e rimasi piuttosto sorpreso nel constatare che, tra le poche persone che erano presenti, a prevalere erano anziani e individui di mezza età dichiaratamente dipendenti da alcol e fumo illegale. Mi voltai verso il barista per chiedere spiegazioni, ma lui sembrò aver inteso le mie intenzioni ancora prima che aprissi bocca, così mi informò: “C’è il Super Ball stasera.” Sbuffai, riempiendo da me un bicchiere con della birra senza dubbio scadente, e mi rivolsi di nuovo all’uomo vicino a me. 
“Sai, Kev, se mettessi un televisore in questo buco di locale faresti un mucchio di soldi” dissi sorseggiando il mio drink. “Sai come funziona da queste parti, dai alle persone una birra e qualcosa da guardare in televisione e ti lanceranno addosso i portafogli.” 
Kevin rise. “Ho a malapena i soldi per pagare le bollette, mi servirebbe un mutuo per questo” disse. Annuii distrattamente, appurando ancora una volta la fiacchezza di quella serata in cui, per ironia della sorte, una sana e disinteressata scopata mi avrebbe tirato su il morale più che in qualsiasi altro momento. 
Mi crogiolavo nei miei pensieri e nella grande incognita che era la mia vita, nel perché tra così tanti posti avessi avuto la sfortuna di capitare proprio nel South Side di Chicago, la terra della delinquenza e delle attività illegali a cui mi ero mio malgrado omologato, assuefacendomi agli stessi vizi di quanti mi circondavano. Non avevo mai davvero sognato una vita diversa, e il panorama che mi si stagliava attorno non mi aiutava a figurarmi una prospettiva migliore, ma, come accade ad ogni essere umano, alla mia mente piaceva vagare, creare congetture irrealizzabili e farmi credere, anche solo per un momento, di poter ottenere di meglio. 
Pensavo e bevevo, due cose che avrebbero dovuto essere agli antipodi ma che in quel momento non potei evitare di accostare, e sentii la porta del locale spalancarsi dietro le mie spalle. Non mi voltai, e questo fu il primo probabile errore che compii quella sera. Perché forse, se solo avessi avuto l’interesse necessario a spingermi a dare un’occhiata allo sconosciuto che aveva appena varcato la soglia, i miei occhi avrebbero visto una figura da cui tenermi alla larga e non lasciarmi condizionare. Il mio sguardo si posò comunque su di lui in maniera involontaria quando mi passò davanti, e non potei evitare di provare una consueta curiosità nei suoi confronti. Magari potevo ancora divertirmi, pensai, e la decisione fu presa nel giro di qualche secondo. Versai un bicchiere di birra e m’incamminai verso il tavolo in cui lui, solo come un deliberato eremita, aveva preso posto. Mentre coprivo la breve distanza che ci separava ebbi modo di guardarlo con più attenzione, e l’armonia dei suoi tratti e delle sue caratteristiche mi colpì più di quanto fosse lecito. I capelli rossi tirati indietro si intonavano alle lentiggini tenui che gli costellavano gli zigomi come nel più fedele dei cliché, gli occhi di un castano chiaro vagamente tendente al verde apparivano limpidi e luccicanti, e mi parve che le luci offuscate del bar li rendessero persino più particolari. L’arte dell’osservazione era sempre stata il mio forte e ne ero consapevole, così com’ero consapevole di come essa mi portasse fuori strada e mi distogliesse dagli obiettivi che mi ero prefisso. Quella situazione non si sviluppò in modo diverso, e mi resi conto dopo qualche attimo di troppo di essere ormai davanti allo sconosciuto, con un bicchiere e un’espressione possibilmente equivoca. Quando mi ridestai, lui mi stava fissando, e dal suo sguardo compresi che doveva essere confuso e incuriosito almeno quanto me. Feci scivolare piano la birra verso di lui, aspettando una sua reazione che non tardò ad arrivare. Lui afferrò il bicchiere e iniziò a sorseggiarne il contenuto con disinvoltura, come se la mia presenza, che mi resi conto in seguito dovesse essere piuttosto disturbante, non lo turbasse affatto. 
“Grazie” mi disse, e il suo tono non tradiva nessuno tipo di emozione particolare. Annuii, leggermente deluso, e mi sedetti di fronte a lui con la solita naturalezza. Per un momento pensai addirittura di non sapere cosa dire, ma le parole mi affiorarono con prontezza sulle labbra. 
“Il bagno è libero, se vuoi…” Lasciai la richiesta in sospeso, aspettando di comprendere le sue intenzioni che, in ogni caso, si sarebbero adattate alle mie. Lo sconosciuto ridacchiò, come se nella zona più remota del suo inconscio se lo fosse aspettato. 
“Non sono una checca” replicò senza stizza. Mi venne quasi da ridere alla tranquillità con cui me lo stava comunicando. 
“Neanche io. Le checche non scopano, si coccolano e si dicono ‘ti amo’ in continuazione, e ti prometto che non succederà niente di tutto questo” dissi. Mi aspettai una risposta all’altezza del gioco involontario che stavamo facendo, ma con sorpresa notai che il suo sguardo si era rabbuiato appena, i suoi occhi si erano velati di una malinconia che mi parve del tutto fuori luogo. Gli lasciai il tempo di rispondere con calma, mentre recuperavo la birra che gli avevo offerto e prendevo a bere con disinvoltura. Quando finalmente parlò, mi sembrò che fossero trascorse delle ore. 
“Ascolta” mi disse. “Ho avuto una giornata terribile e l’ultima cosa di cui ho bisogno sono delle advance da un ragazzino voglioso in un pub di merda.” 
“Sai come si dice, il sesso libera la mente” scherzai con una modesta dose di serietà, ignorando l’appellativo che mi aveva affibbiato. 
Lui mi guardò stralunato, inarcando un sopracciglio. “Chi lo dice?”
“Un filosofo?” azzardai, facendolo ridere di gusto. 
“Questa devo dirla al mio professore” replicò, e la sfida si fece persino più interessante nel momento in cui capii che quello che avevo davanti non era il solito delinquente di strada, ma a quanto pareva uno ricco abbastanza da potersi permettere l’Università. 
“Spero non gli racconterai il prima e il dopo, perché non credo che sarebbe felice di sapere che un ragazzo perbene come te se la fa con degli scapestrati del South Side” gli consigliai con scherno, e vidi per la prima volta, nel suo sguardo divertito, la concreta possibilità di averne. 
“Cosa ti fa pensare che sia un ragazzo perbene?” mi domandò dopo qualche secondo di silenzio. 
“Hai appena nominato il tuo professore, il che significa che vai all’Università. E da queste parti uno che continua gli studi dopo il diploma, o meglio, che riesce a prendere il diploma, é un ragazzo perbene” spiegai con ovvietà. Mi aspettavo di ricevere una reazione sconcertata a quella dichiarazione, ma quello sconosciuto sembrava sempre più divertito dal modo in cui la mia mente partoriva quelle sentenze. 
“Ne sei sicuro? Perché, sai, io abito in fondo alla strada, superata la lavanderia.” 
Rimasi molto colpito da quella rivelazione, e le ragioni del mio stupore erano due. La prima era che io vivevo un paio di isolati più in là, e per quanto mi sforzassi di frugare negli archivi della mia memoria, non ricordai di aver mai visto, neanche di sfuggita, la sua chioma rossastra o il suo busto slanciato. La seconda era che, in ventitré anni di vita, quella era la prima volta che vedevo associati il mio quartiere e il termine ‘università’, e la cosa, anziché farmi piacere, provocò in me un sentimento di frustrazione e di fastidio, come se andasse a diretto discapito della mia persona. Improvvisamente, il pensiero di unirmi a quello sconosciuto mi sembrò inadeguato, ed io stesso mi sentii fuori luogo, sbagliato, quasi come se stessi pretendendo di intrecciarmi ad un individuo di gran lunga superiore a me. La consapevolezza di non esserne all’altezza mi colpì come una ventata d’aria gelida, e mi alzai piano, con l’intenzione di fare a meno, per quella sera, dei miei venticinque minuti di libertà. 
Il mio interlocutore mi guardò per un po’, ma non si azzardò a fare domande. Mentre riprendevo il mio solito posto accanto al bancone, mi resi conto del profondo errore che Dio, o chi per lui, aveva commesso nel creare il genere umano: era l’artefice della naturale inclinazione al pessimismo e all’auto-rassegnazione che in quel momento mi caratterizzava. 
La serata passò con lentezza. Avevo pensato di tornare a casa, ma la consapevolezza di trovarla vuota, o peggio, semidistrutta da una delle sfuriate senza senso di mio padre mi trattenne lì più del previsto. Dall’età di nove anni, rientrare in casa era diventato un incessante susseguirsi di scenari brutali. La mia ingenuità di bambino non mi aveva mai impedito di notare le contusioni sul viso di mia madre e di trarre le mie conclusioni, nonostante le continue scuse che lei accampava. Gli atti di violenza che avevo avuto occasione di vedere tra le mie stesse mura domestiche avevano cessato di sconvolgermi da tempo e al tempo stesso mi frustravano, e mi sembrava di affrontare la quotidianità delle mie giornate con la stessa rassegnata consapevolezza di un malato terminale. Non mi era capitato di rado, durante la mia adolescenza, di ritrovare auto della polizia posteggiate davanti casa mia, mio padre in manette e il viso semi-nascosto dei miei fratelli e di mia madre che, dalla finestra, osservavano la scena inespressivi. Per qualche ragione che non compresi mai fino in fondo, le accuse a carico di mio padre non erano mai pesanti quanto avrebbero dovuto, e la sua permanenza nel carcere federale variava da una settimana a dieci giorni, dodici nei casi più fortunati. Appena fuori, infrangeva qualsiasi norma che la libertà vigilata gli imponeva, a partire dal trovarsi un’occupazione che non comportasse lo spaccio, la vendita di armi illegali e qualsiasi altro tipo di attività di contrabbando. Fortunatamente per lui e per nostra sfortuna, trent’anni di servizio in una delle bande di strada più produttive della zona - e, come scoprii in seguito, di Chicago - lo avevano temprato e avevano sviluppato in lui l’abilità di nascondere le prove e aggirare le domande e le accuse della polizia; la prigione era diventata per lui un luogo di passaggio, una sorta di villaggio turistico in cui, nell’arco di una settimana, tornava ad avere rapporti con suoi vecchi clienti o soci che avevano cercato di tagliarlo fuori. Avevo desiderato per così tanto tempo che uscisse dalle nostre vite, ma in cuor mio sapevo che i problemi che avevamo sempre avuto non erano dovuti solo allo stile di vita che aveva adottato. Eravamo tutti responsabili, in misura diversa, del destino che ci eravamo creati. La debolezza di mia madre, il suo non sentirsi degna di essere trattata diversamente, l’indifferenza dei miei fratelli e il loro estraniarsi da questione che credevano non li riguardasse, la mia rassegnazione e il mio silenzio, che erano diventati quelli della donna che mi aveva dato alla luce e che sentivo di star tradendo; una serie di fattori forse evitabili, ma che ci avevano condizionati, nonostante l’ostentato menefreghismo con cui guardavamo in faccia la realtà. 
Mi ero addentrato fin troppo in profondità nei miei pensieri avvilenti per accorgermi della figura in piedi davanti a me. Il ragazzo dai capelli rossi di cui, mi resi conto, non conoscevo neanche il nome mi stava parlando a voce bassa, non troppo convinto del fatto che lo stessi ascoltando. Posai lo sguardo su di lui e mi accorsi con imbarazzo di starlo guardando con la testa inclinata verso l’alto, impossibilitato a stargli faccia a faccia nonostante lo sgabello su cui ero seduto. Non afferrai molto di ciò che mi stava dicendo, ma l’ultimo inciso mi arrivò alle orecchie con molta chiarezza. 
“… se vuoi, io sono in bagno.”
Lo guardai allontanarsi e varcare la soglia del bagno con disinvoltura. La sua rinnovata voglia non mi tirò su il morale, se non altro contribuì a farlo sprofondare. Avevo la fondata sensazione che fosse lui a condurre i giochi, e il tono di scherno con cui mi aveva parlato non mi piaceva neanche un po’. La fasulla cortesia con cui mi aveva informato mi aveva trasmesso la sicurezza che aveva nel pensare che gli sarei praticamente corso dietro, e l’idea che qualcuno potesse credermi così vulnerabile mi fece montare su tutte le furie. 
La rabbia fu l’unica cosa che mi spinse ad alzarmi e camminare a passo spedito verso il bagno. Spalancai la porta, trovandomi di fronte al solito putrido spettacolo che quel posto offriva; mi guardai intorno alla ricerca di una chioma rossiccia, ma tutto ciò che vidi furono bottiglie di birra vuote sul pavimento, rotoli di carta igienica srotolata ed il fumo di uno spinello che fuoriusciva dal cestino di metallo. Una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.
“Sapevo che saresti venuto.” 
Le sue labbra e il fumo che le attraversava mi distolsero dalle mie reali intenzioni, e in un momento il mio proposito di restare impassibile si dissolse come la nicotina della sigaretta che lui aveva appena fumato. Sentii il suo respiro caldo sul mio collo e la scena mi sembrò quasi ridicola, tuttavia non ebbi il tempo di processare quanto stava accadendo, perché venni spinto contro la parete con una delicatezza che avrei preferito non avesse usato. Vidi le sue mani veloci e frenetiche slacciarsi la cintura dei pantaloni ed io mi sfilai goffamente la maglietta, fissandogli le gambe toniche con la stessa espressione di un automa. La visuale mi provocò un’erezione che non mi curai di nascondere, mentre la mia dignità scivolava via. 
Fu la scopata più imbarazzante della mia vita. Il fatto che per la prima volta i ruoli si fossero invertiti mi nauseava e allo stesso tempo mi intrigava; per l’ennesima volta quella sera, sentii che a predominare non ero io, bensì lo sconosciuto che ora mi sovrastava, muovendosi agile e sicuro, e pensai che non dovesse essere la sua prima volta, con un ragazzo quanto con una ragazza. Di nuovo, l’idea che potesse avere delle risorse maggiori delle mie mi infastidì; la consapevolezza di non potermi considerare migliore, di star sottomettendomi a qualcuno e l’ostilità con cui mi rifiutavo di accettarlo mi colpirono in pieno petto, procurandomi un malessere tanto fisico quanto emotivo. Per la seconda volta, fui riportato alla realtà dalla voce del mio compagno, di cui intravedevo il bacino ed il ciuffo di capelli ora spettinato dalla foga. 
“Come ti chiami?”
“Mickey”. Il tono fermo con cui intendevo pronunciare il mio nome fu tradito dalla scarica di adrenalina che mi attraversò le vene, e ciò che ne venne fuori fu un suono strozzato e rabbioso. Lo sconosciuto ripeté il mio nome, scandito e con la fermezza che io avrei voluto utilizzare. 
“Bel nome… ti si addice.”
Ero sul punto di replicare, ma le parole mi morirono sulle labbra a causa della veemenza con cui il suo corpo si staccò dal mio; mi voltai, il fiato corto ed i muscoli contratti, e per la prima volta mi trovai faccia a faccia con il mio interlocutore. Il sudore gli scendeva dalla fronte, la compostezza dei suoi capelli appariva provata dal dinamismo con cui ci eravamo conosciuti; le sue pupille erano dilatate, il viso tinto di un colore rosaceo, il petto meno tonico di quello che mi sarei aspettato ma ugualmente invitante. Non era proprio una vista mozzafiato, eppure trovai nel complesso della sua figura un fascino inspiegabile e terribile. Lui sembrava interessato la metà di quanto lo ero io, come se quell’esperienza avesse avuto per lui lo stesso significato che mi ero ripromesso avrebbe sempre dovuto avere per me: solo sesso. Era lui a recitare la parte dell’indifferente ed io semplicemente un idealista impegnato nel vano tentativo di imitarlo. Mi staccai dalla parete dopo quelli che mi parvero anni, e mi avvicinai al lavandino per sciacquarmi il viso, dandogli le spalle. Ero deciso a sapere qualcosa su di lui, perché mi rifiutavo di accettare il fatto che un ragazzo, forse più giovane di me, fosse riuscito a rendermi vulnerabile al punto da precludermi la parte migliore delle mie serate: il senso di appagamento. 
Quando mi voltai, però, era sparito.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Fui svegliato dal braccio di mia sorella che mi scuoteva impaziente per una spalla. Sbuffai sonoramente, passandomi una mano sul viso per scacciare il sonno. 
“Che vuoi?” le chiesi in malo modo, guardandola con gli occhi socchiusi. 
“Devi accompagnarmi a scuola, ti sei dimenticato?” mi comunicò annoiata, incrociando le braccia al petto. Mi sforzai di trattenere un secondo sospiro e mi alzai con lentezza estenuante, sotto lo sguardo vigile di Mandy. 
“Ti dispiace uscire? Devo vestirmi” dissi spazientito, afferrando una maglietta dalla catasta di indumenti che avevo accumulato su una sedia. Mandy roteò gli occhi, sorridendo sarcastica. “Come se ci fosse molto da vedere.” 
Si chiuse la porta alle spalle e io le lanciai un cuscino. Diedi un’occhiata all’orologio e nel momento in cui mi resi conto dell’orario, dovetti reprimere l’istinto di uccidere mia sorella a mani nude. Il liceo era a meno di un quarto d’ora da casa, ed io ero in piedi un’ora prima del solito. Terminai di vestirmi alla meno peggio e lasciai la mia stanza, dirigendomi in cucina. 
“Perché diamine mi hai svegliato così presto?” chiesi a mia sorella, intenta a sgranocchiare gli avanzi della sera prima. Lei mi rivolse uno sguardo ovvio, prendendosi del tempo per finire di mangiare, prima di rispondere: “Dobbiamo passare a prendere un’amica, e poi oggi è il tuo primo giorno di lavoro”. 
Mi battei una mano sulla fronte. Dimenticare il primo turno di un nuovo lavoro non era esattamente un bel modo di iniziarlo. Così come non avere la minima voglia di presentarvisi. Questa volta, però, non c’erano scuse: dopo aver gettato all’aria un paio di buone opportunità (se per ‘buone opportunità’ s’intende un posto part-time in un discount o in un caffè), mia madre mi aveva messo con le spalle al muro. Dovevo trovarmi un lavoro, e dovevo essere in grado di mantenerlo. Ero il più grande dei miei fratelli ed il nostro conto in banca era perennemente in rosso; i soldi scarseggiavano ed ero tenuto a  contribuire al sostentamento economico della mia famiglia, che mi piacesse o meno. 
Afferrai del pollo rinsecchito dal secchio del KFC che mio fratello aveva riportato la sera prima, ma rinunciai subito al proposito di mangiarlo: una roccia sarebbe stata meno solida. 
“Inizi alle 8:30, ti conviene darti una mossa e renderti presentabile” riprese Mandy con tono di rimprovero. Alzai gli occhi al cielo, sentendo l’improvvisa voglia di rimettermi sotto le lenzuola e dormire fino al giorno successivo. Non avevo la minima idea di cosa bisognasse indossare, così optai per l’unico paio di jeans integro che possedevo e una camicia blu. Mi piazzai davanti allo specchio del bagno e guardai la mia figura riflessa nel vetro; per una volta sarei facilmente riuscito a  confondermi nel gruppo d’élite degli impiegati statali. Guardai l’orologio, stupendomi del tempo che mi ci era voluto per prepararmi: era passata più di mezz’ora. 
“Mandy, sbrigati!” urlai dal soggiorno, frugando in un cassetto di cianfrusaglie alla ricerca di un orologio da polso. Ne passai in rassegna alcuni, decisamente troppo costosi perché potessero davvero appartenere a qualcuno della mia famiglia. Chiusi il cassetto, abbandonando l’idea: non avevo intenzione di presentarmi a lavoro con addosso merce di contrabbando. Mandy uscì dal bagno, legando i lunghi capelli neri in una coda. 

Mi ero sempre ritenuto fortunato ad avere una sorella. All’età di quindici anni Mandy era molto più sveglia e intraprendente del resto dei miei fratelli, e con rammarico di mio padre era l’unica di noi a non essere mai stata coinvolta in affari illegali. Io e i miei fratelli, Thomas e Archie, eravamo stati introdotti nel mondo dello spaccio alla sua età, ma contrariamente a Mandy nessuno di noi aveva avuto il coraggio di ribellarsi. Il rifiuto non fu mai un’opzione contemplata, sapevamo ciò che ci aspettava e lo accettavamo con indifferenza. Mia sorella non era mai stata così. Aveva messo le cose in chiaro con nostro padre fin dall’inizio, e lui, inaspettatamente, non aveva fatto pressioni. Mi ero chiesto svariate volte se la sua condiscendenza fosse dovuta al fatto che fosse una ragazza, ma dal modo in cui approfittava delle donne mi resi conto che forse, in quanto tale, non la riteneva all’altezza di certe operazioni di marketing, come amava definirle. Il rapporto con mia sorella non era idilliaco, anzi ci trovavamo spesso in disaccordo, perché lei aveva aspettative di vita di gran lunga superiori alle mie, ed il fatto che io non riuscissi a vedere il bicchiere mezzo pieno la irritava. D’altra parte, era l’unica persona della mia famiglia con cui avevo modo di interagire in maniera sana, con cui potevo avere un contatto che andasse oltre le minacce e gli ordini freddi. Mandy era l’unica a sapere della mia omosessualità, non perché glielo avessi esternato direttamente, ma perché non mi ero mai sentito in dovere di nascondere le mie storie, che fossero di una notte o di qualche tempo. Avevamo tutti bisogno di un sostegno nel caos in cui il destino ci aveva catapultato, e Mandy era il mio. 

Mi sventolò davanti al viso il mazzo di chiavi, risvegliandomi dai miei pensieri. 
“Datti una mossa, fratellino.” 
Afferrai il mazzo dalle sue mani e mi diressi fuori casa, seguito a ruota da mia sorella.    
“Chi è questa amica che dobbiamo passare a prendere?” domandai, salendo nell’auto sgangherata. 
“Debbie Gallagher.” “Gallagher? Non abitano a un isolato da qui?” chiesi.
“Già, ma si è slogata una caviglia, e non può camminare fino a scuola. Di solito la accompagna suo fratello, ma oggi pare sia uscito prima del solito e lei è rimasta a piedi” mi spiegò, non troppo convinta. “Secondo me è solo una scusa per vederti, quando le ho detto che ci accompagnavi si è illuminata come un albero di Natale” sussurrò come se temesse che qualcuno potesse sentirci. Ridacchiai, pensando a quanto quella frase suonasse come la battuta di un tipico film per ragazzini, in cui la migliore amica della protagonista si innamora di suo fratello più grande. Quanto avrei voluto che il resto della mia vita fosse un monotono cliché da cinema. 
Misi in moto e partii, accostando appena cinque minuti più tardi. Una ragazzina paffuta dai capelli rossi era in piedi sul marciapiede, e sembrava in difficoltà nel tenersi in equilibrio su una stampella malconcia. Mandy le fece cenno, invitandola a salire. Con un po’ di sforzo, riuscì ad infilarsi sui sedili posteriori, salutandoci allegra. Mi resi conto che probabilmente mia sorella non si sbagliava nel credere che la ragazzina potesse nutrire qualche forma di interesse verso di me; non mi sfuggirono le occhiate furbe che si scambiarono durante tutto il tragitto. 

Lasciai le due ragazze all’entrata di scuola, bloccandomi in mezzo alla strada per farle scendere e provocando le urla degli automobilisti che mi precedevano. Non mi preoccupai di scusarmi, mentre ripartivo; il traffico che si era creato nei due chilometri che mi separavano dall’edificio aveva bruciato il tempo extra che mi ero guadagnato alzandomi prima, e all’improvviso mi ritrovai ad affondare il piede nell’acceleratore, nella speranza di arrivare in orario. 
Accostai fuori dal Patsy’s Pie alle 8:29, congratulandomi con me stesso per l’inusuale puntualità. Appena entrai nel locale, un intenso aroma di caffè e crema pasticciera mi riempì le narici. L’ambiente si presentava con il più classico stile americano: poltroncine di pelle rossa e bianca, tavoli di legno da quattro posti e vetrate luminose, con tanto di poster e manifesti presi da giornali e riviste. Notai persino un televisore in un angolo della stanza, ed uno schermo per la sorveglianza. La pulizia meticolosa che c’era in quel luogo lasciava intendere chiaramente che si trattasse di un locale appena aperto. Mi avvicinai al bancone, dove una donna stava tentando di chiudere un registratore di cassa. Non appena la mia figura gettò un’ombra su di lei, alzò lo sguardo, rivolgendomi un’espressione dapprima confusa; il suo viso si distese dopo qualche istante, e facendo il giro del bancone venne a stringermi una mano. 
“Mickey, giusto?” mi chiese, aspettando che annuissi. “Sono Jessica, piacere di conoscerti. Dunque, le regole sono abbastanza semplici. Stai alla cassa, stampi scontrini, compili ricevute. Per ora, questo è il tuo ruolo. Vedrò come si metteranno le cose, e se ce ne sarà bisogno ti sposterai in cucina” mi spiegò brevemente. Prese a camminare verso il retro, e nel mentre continuò a parlare. “Dietro al registratore c’è tutto quello di cui avrai bisogno, compresi dei dolcetti sullo stecco da dare ai clienti, come omaggio per l’inaugurazione. Tutto chiaro?”
“Tutto chiaro” replicai, osservandola frugare in uno scatolone pieno di magliette gialle stirate e ordinate, con il logo del locale cucito sul petto. Quel posto sembrava avere tutta l’intenzione di decollare e di farlo in grande stile: non vedevo una divisa da lavoro vera e propria da quando mia madre si era licenziata dal negozio di massaggi in cui lavorava. Jessica mi porse una maglia, indicandomi uno sgabuzzino. “Puoi cambiarti lì” mi informò. “Apriamo tra dieci minuti, nel mentre se ti va puoi prendere una ciambella calda dalla cucina. Non abituartici, è solo perché è il primo giorno.” La ringraziai, aspettando che si allontanasse prima di togliermi la camicia e infilarmi la maglietta. Non pensavo che quella dello sgabuzzino fosse una regola, tuttavia non mi andava di ignorare i suoi suggerimenti: per quello avrei avuto tempo. 
Quella mattina mi sentivo stranamente cordiale, così andai in cucina per fare la conoscenza dei miei colleghi. Mi accorsi subito di come il loro entusiasmo fosse pari a zero, e in fondo sapevo che nel giro di due settimane avrei avuto le loro stesse espressioni seccate. Strinsi la mano ad un certo Jed, poi ad un mio probabile coetaneo di nome Cameron e infine alla cameriera, Fiona. Per una volta pensai che fosse giusto stare alle formalità, ma ciò non implicava il fatto che me ne importasse qualcosa di qualcuno di loro. Jessica ci informò dell’imminente apertura, e io mi diressi al mio posto, intenzionato a fare una buona impressione e vivere di rendita per le successive settimane. 
Il locale iniziò a riempirsi con velocità estenuante, e davanti alla cassa si creò una coda che i tre metri tra essa e la porta facevano fatica a contenere. Strisciai un numero indefinito di carte di credito, maneggiai banconote e monetine e offrii i dolcetti sullo stecco di cui mi aveva parlato Jessica. Riuscii a prendere fiato tra un cliente e l’altro solo un’ora dopo, quando la calca si attenuò e tutti i presenti presero posto sulle poltroncine. La mattinata trascorse con una monotonia quasi confortante, e nel continuo daffare che i nuovi arrivati mi procuravano, quasi non mi accorsi della fine del turno. All’una, Jessica mi venne incontro, sorridendo entusiasta. 
“Il tuo turno è finito” mi informò. “Sei stato bravo, dalla prossima volta possiamo iniziare a discutere sul pagamento.” Annuii, ricambiando il sorriso. 
“Puoi tenere la maglietta. Ricordati di indossarla sempre, quando lavori” disse. Ringraziai, raccogliendo la camicia dal retro e le chiavi dal bancone. “Domani alle 8.30!” mi ricordò Jessica, sparendo in cucina. Ero in procinto di uscire, quando due volti familiari mi comparvero davanti. 
“Come sei arrivata qui?” chiesi a Mandy, presa a ridacchiare con complicità con la sua amica. 
“Ci ha portati il fratello di Debbie. Sua sorella lavora qui, così sono venuti a prenderla” spiegò, afferrando la ragazzina per un polso e trascinandola all’interno. La vidi tirare fuori dei soldi e parlare al cassiere che mi aveva appena sostituito. Mi convinsi ad aspettarla, mentre ordinava un paio di frullati alla nocciola; non pretendevo che chi l’aveva portata lì la riportasse poi a casa. 
Tentai di nuovo di varcare la soglia, ma questa volta a impedirmi il passaggio era un corpo ben più possente di quello delle due ragazze. Non appena alzai lo sguardo per capire chi fosse, un flashback improvviso mi attraversò la mente, e per un attimo restai immobile, senza parlare. Riconobbi gli stessi capelli rossi, le stesse lentiggini irregolari sulle gote, gli stessi occhi castani, e sentii distintamente il cuore pulsami nelle orecchie, attutendo i suoni che mi circondavano. La persona con cui mi ero quasi scontrato ora mi fissava, a metà tra lo stupito e il divertito. 
“Ciao, Mickey” mi salutò, sorridendo beffardo. “É bello rivederti.” 
Nel suo tono c’era un non so che di sarcastico, e non potei evitare di sentirmi offeso dalla consapevolezza di essere in grado di suscitare in lui solo sentimenti di scherno. 
Mi sforzai di replicare, ma quella che doveva essere una risposta chiara si tramutò in un sussurro forzato. 
“Ciao…”
“Ian” si presentò finalmente, tendendomi la mano come se si trattasse del nostro primo incontro effettivo. “Posso offrirti qualcosa? Magari una birra” mi propose, ed io dovetti trattenermi dal ridere, sentendo la pressione allentarsi. 
“No, grazie” risposi, recuperando parte del mio atteggiamento di superiorità. “Sarà per la prossima. Mi fai passare?”
Ian mi fece spazio, e il senso di soggezione tornò a farmi compagnia, mentre i suoi occhi mi seguivano fuori dal locale. “Ci sarà una prossima volta?” lo sentii dire a gran voce, mentre mi accendevo una sigaretta. 
Alzai le spalle, inspirando tabacco e nicotina a pieni polmoni. “Forse.” 
Ian annuì, e il suo sorriso divertito non voleva saperne di abbandonare il suo viso. Diede un’occhiata all’interno, e un istante dopo le due ragazze varcarono la soglia;  intravidi Mandy salutare affettuosamente la sua amica e Ian, poi salì in macchina senza neanche accertarsi della mia presenza. Gettai il mozzicone di sigaretta a terra e lo pestai prima di infilarmi a mia volta nell’auto e mettere in moto. Mentre facevo retromarcia, vidi con la coda dell’occhio Ian farmi cenno con la mano, ma mi rifiutai di credere che quel gesto fosse indirizzato a me. Per il momento, era più comodo vivere nella consapevolezza di essere, per lui, soltanto una pedina interscambiabile sulla mappa delle sue conoscenze. 

“Lo conoscevi?” mi domandò mia sorella più tardi quella sera. “Il fratello di Debbie, intendo.” 
Scossi la testa, affatto sorpreso da quella domanda. “Non proprio. Ci conosciamo di vista” risposi vago. Lei annuì, tornando a rivolgere l’attenzione al film in bianco e nero in televisione. Provai a fare lo stesso, ma per qualche ragione la mia mente non riusciva a concentrarsi sulle immagini che si susseguivano sullo schermo. Avevo pensato di aver superato quella che doveva essere del mero sesso senza interessi, ma l’incontro di quel pomeriggio aveva fatto riemergere in me le fantasie più sconfinate, e per la prima volta quasi mi vergognai del mio essere così spudorato. Non mi interessava lui in quanto tale, mi intrigava il pensiero di aver sviluppato un attaccamento mentale nei confronti di uno dei tanti ragazzi che avevo conosciuto al bar. Tutto ciò mi frustrava allo stesso tempo, perché non riuscivo a capire come fosse potuto accadere. Avevo perso il conto delle persone con cui ero stato, ricordavo a malapena i loro volti che, nonostante questo, non suscitavano nulla in me, ed ora mi ritrovavo bloccato sullo stesso, ricorrente soggetto, e non capivo. Non avevo mai davvero capito quello che mi succedeva quando decidevo di svendere il mio corpo in quel modo, ma questa volta era diverso; questa volta era peggio, perché ad essere coinvolta non era solo la parte corporale. 

Ero terrorizzato.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Giorno dopo giorno, mi rendevo conto che lavorare al Patsy’s non era poi tanto male. 

Non mi dispiaceva stare a contatto con le persone, e finalmente dopo tanti anni, avevo la possibilità di essere una persona comune, con un’occupazione comune e una vita comune, almeno all’apparenza. La paga era buona, non delle migliori ma comunque vantaggiosa, e avevo la possibilità di pranzare gratis, ora che i clienti erano aumentati ed era stato necessario introdurre l’orario continuato. Spesso i miei fratelli passavano a trovarmi, anche se il più delle volte a muoverli era la speranza che potessi offrirgli un servizio gratuito. Ridacchiavano e mi prendevano in giro mentre mi rivolgevo ai clienti, probabilmente per il tono cordiale e amichevole che nessuno di loro aveva mai avuto occasione di sentirmi utilizzare, e mi avevano confessato più volte che sarebbero stati contenti di essere al mio posto. Sapevo che mentivano, perché nessuno di loro, nemmeno Samuel (che era il più piccolo e senza l’ombra di senso etico) era tagliato per le relazioni interpersonali, a meno che non si trattasse di consegne speciali e pagamenti in nero. Talvolta mi domandavo se avessero anche loro la consapevolezza di vivere una vita sbagliata. 

Non vedevo spesso Mandy, il nostro unico momento di confronto era al mattino prima di lasciare casa e la sera, se lei non era già andata a letto. Il mio turno pomeridiano di solito finiva alle nove, ma il mio nuovo lavoro aveva rappresentato l’unico cambiamento nella mia routine; non avevo perso la voglia né tantomeno l’abitudine di trattenermi all’Alibi fino a tardi, con gli stessi drink e ragazzi diversi. Sapevo per certo che mia sorella avesse dei presentimenti sul mio stile di vita notturno e che, se fosse venuto alla luce, sarebbe stata tutt’altro che d'accordo con la mia scelta, ma per il momento le avventure sessuali rappresentavano la mia unica occasione di svago, e non avevo intenzione di rinunciarvi. 

Quando passava al locale, di solito nel primo pomeriggio o prima di andare a scuola, notavo sempre la presenza di Debbie, e arrivai a chiedermi, non senza malizia, se mia sorella non stesse approfittando della sua compagnia per la semplice comodità di un viaggio in auto la mattina. Non che uno come me potesse biasimarla, a dire il vero. 

 

Mi rigiravo tra le mani un biglietto, facendo vagare la mente per distrarmi dal numero impresso su di esso. Avevo tentato di gettarlo via, ma una parte di me era consapevole del fatto che, ogni volta, sarei tornato a ripescarlo dal cestino della mia stanza. Non lo trovavo in alcun modo rassicurante, se non altro era frustrante a livelli estremi. 

 

“Allora…”

La voce alle mie spalle mi fece voltare di scatto, con il rischio di rovesciare un intero vassoio di Red Velvet. Una chioma rossa mi scrutava, il cipiglio divertito perennemente impresso sul suo volto. Ignorai la sua presenza, cercando riparo tra i tavoli ancora da servire. Detestavo vederlo al locale, la sua presenza mi metteva in soggezione, e mi sentivo continuamente sotto esame. Il mio inconscio aveva provato più volte a spiegarmi che queste sensazioni erano solo frutto della mia mente e che Ian Gallagher non passava la vita a crogiolarsi nell’attesa di farmi sentire a disagio, ma Mickey, la sua parte irrazionale, aveva eliminato il messaggio come si fa con la segreteria telefonica del telefono: senza ascoltarlo. Ed era terrificante per me dover pensare che un perfetto sconosciuto potesse avere tanto potere sulla mia persona. Recuperando dei piatti vuoti da un tavolo, osservai con la coda dell’occhio la sua figura, in piedi davanti al registratore di cassa e apparentemente molto interessata all’incontro di boxe che trasmettevano sul televisore. Gli sfrecciai davanti, dirigendomi in cucina senza degnarlo di un’occhiata. Stavo provando a mostrarmi il più impegnato possibile, in modo da dargli l’impressione di essere troppo indaffarato per prestargli attenzione. Lui però non accennava a voler andare via, e quando si sedette ad uno dei tavoli liberi, dovetti reprimere l’istinto alzare gli occhi al cielo. In quella posizione, pensai di doverlo trattare esattamente come tutti gli altri clienti, così afferrai il libretto degli ordini e mi diressi deciso (o almeno così mi sembrò il mio atteggiamento) verso di lui.
“Vuole ordinare?” domandai distaccato, e quasi mi venne da ridere per l’infantilismo di quella scena. Notai che l’espressione di Ian assomigliava molto alla mia, e non potei trattenere un sorriso alla vista del suo, sbilenco. 

“Sì, certo” replicò, cogliendomi di sorpresa. Mi stava reggendo il gioco, e quella recita poteva andare avanti anche per ore. “Prendo una fetta di torta a limone, un frullato al cioccolato e il numero di telefono del cameriere.” 

Mi rivolse un’occhiata candida, restituendomi il menu che gli avevo precedentemente fornito. Mi ci volle un po’ per metabolizzare la sua richiesta, e quando alla fine ci riuscii, quasi lasciai che il taccuino mi cadesse dalle mani. Lo fissai a lungo, indeciso sul da farsi, e la mia esperienza negli approcci che andassero oltre la richiesta di sesso mi convinse ad ignorare l’ultima parte del suo ordine, appuntando il resto. Scomparvi in cucina, mentre il mio lato paranoico sentiva lo sguardo del ragazzo seguirmi. Preparai il suo frullato e tornai al suo tavolo portandolo su un vassoio insieme ad una fetta di torta profumata. Ian mi ringraziò, così feci per allontanarmi. La sua voce mi fece voltare di nuovo.
“Credo che manchi qualcosa” commentò, ispezionando con finto interesse il vassoio davanti a lui. Sospirai, infastidito e rassegnato per molteplici motivi. 

“Lascia stare” mi limitai a rispondere, osservando il suo sorriso provocatorio scomparire dal suo viso. Sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi e lo stesso, solito sconforto trascinarmi di nuovo nel baratro dei miei pensieri. 

Io non lo conoscevo. Non sapevo nulla di lui, e allo stesso modo lui non sapeva nulla di me; era questo il motivo per cui sarebbe dovuta finire lì, prima ancora di cominciare. La sua vita era tranquilla, lo percepivo dall’aria spensierata che lo accompagnava sempre, dal modo in cui si guardava intorno e il sorriso gli illuminava gli occhi. La sua vita era semplice, e la mia era fin troppo complicata, e il pensiero mi frustrava, ma la mia negatività non doveva inquinare la sua calma, perché non era corretto. Lui non mi conosceva, e non poteva sapere a cosa sarebbe andato incontro se avessimo instaurato un rapporto che andasse oltre la semplice conoscenza. Quella era la normalità, per me che ormai non riuscivo più a figurarmi una realtà diversa, ma per uno come lui sarebbe stato diverso, era inevitabile, e non volevo coinvolgerlo in qualcosa di così caotico. 

Evitai il suo sguardo per il resto della sua permanenza al locale. Era chiaro che la mia vaghezza lo avesse confuso, e non potevo biasimarlo. 

Lo vidi lasciare i soldi sul tavolo e, dopo qualche minuto, andare via in silenzio. Portai via il suo piatto vuoto e il bicchiere, infilandomi in tasca le banconote, trasferendole nella cassa subito dopo. Mi accorsi che aveva lasciato una decina di dollari in più, e pur sapendo che si trattava della mia mancia, non riuscii a sentirmi soddisfatto. Mentre riordinavo le banconote negli appositi scomparti, notai un cartoncino marrone spuntare tra di esse, e mi ci volle meno di un secondo per realizzare che Ian aveva deciso di ribaltare la situazione, e lasciarmi il suo numero di cellulare. Me lo rigirai tra le mani a lungo, nella speranza di trovare scritta una spiegazione che, mio malgrado, conoscevo già, ma quel minuscolo pezzo di carta era vuoto, fatta eccezione per le dieci cifre scritte in rosso. 

 

 

Alzai lo sguardo e mi trovai faccia a faccia con Fiona, impegnata ad asciugare delle stoviglie. Ero tentato di iniziare una conversazione, perché per qualche ragione morivo dalla voglia di sapere di più di Ian, e sua sorella avrebbe di certo potuto soddisfare la mia curiosità. Aprii la bocca, ma le parole mi morirono sulle labbra. Lei sembrò notarlo, e le sue sopracciglia si incresparono in un’espressione stranita. 

“Stai bene?” mi chiese, ma non notai particolare interesse nella sua domanda, perciò lamentarmi del mio infinito e irreversibile pessimismo non mi sembrò opportuno. D’altra parte, eravamo semplici colleghi di lavoro, il nostro rapporto non poteva e non doveva sorpassare quel confine, o almeno era questo ciò che mio padre mi aveva insegnato. 

“Sto bene” risposi con convinzione. Lei annuì, tornando a prestare attenzione ai piatti nel lavello. Guardai l’orologio, scoprendo che mancavano meno di trenta minuti alla fine del mio turno, e per la prima volta fui lieto di tornare a casa. Quella sera, neanche la solita visita all’Alibi era contemplata; pensai che mi ci volesse qualche giorno per riprendermi dal trauma di aver sfiorato il coma etilico ingurgitando gin senza ritegno. Avrei trascorso la serata a guardare film pessimi con i miei fratelli o a sopportare l’ennesima lite tra i miei genitori che si sarebbe risolta in malo modo, con qualche livido da aggiungere alla mia vasta collezione e la solita promessa di mia madre di rivolgersi alle forze dell’ordine se fosse capitato di nuovo. Tutto ciò che desideravo era che trovasse il coraggio di farlo davvero, che io stesso avessi la forza di difenderla senza che questo implicasse l’uso della violenza, ma c’era sempre la solita, cieca paura delle conseguenze a bloccarmi. 

 

Pensavo davvero che non sarebbe stato diverso, quella sera. 

Niente, nel modo in cui mio padre rientrò in casa con il suo passo pesante, la camicia sbottonata a metà e un’aria stravolta, mi sembrò inusuale, persino la sua aria annoiata era la stessa. Mia madre mise in tavola un’insalata e quello che sembrava agnello, anche se non ci avrei messo la mano sul fuoco. Non avevamo neanche iniziato a mangiare, quando mio padre alzò lo sguardo dal suo piatto per rivolgerlo alla donna di fronte a lui.

“Che cos’è?” domandò, tentando di mantenere un tono neutro, ma ci accorgemmo tutti dell’astio nella sua voce.

“Agnello, Terry” rispose mia madre senza staccare gli occhi dalla sua porzione. Aveva un’aria tranquilla, quasi amichevole, e sapevo che si trattava di uno dei suoi tanti travestimenti estremi, di cui si vestiva quando si sentiva più minacciata del solito. 

“Agnello? Ti sembra agnello, questo?” sbottò mio padre, come in preda ad un attacco di follia. Batté una mano sul tavolo, alzandosi di scatto mentre mia sorella sobbalzava al mio fianco. Io non battei ciglio. Appoggiai le posate sul bordo del piatto e alzai lo sguardo, senza dire una parola. Mia madre non si azzardò a guardarlo, mentre lui girovagava per la cucina sbattendo ante, piatti nel lavandino e qualunque cosa gli capitasse a tiro. Non ero sorpreso, non era la prima volta che capitava e l’intera situazione mi lasciava sinceramente impassibile. Dopo anni passati a fare di quella routine quasi quotidiana un’abitudine, l’atteggiamento di quell’uomo, a patto che tenesse le mani lontano da tutti noi, non mi toccava affatto. 

Ciò che accadde in seguito si impresse nella mia memoria come un ricordo sfuocato, e mi sembrò che il mio cervello non fosse riuscito a elaborare appieno la velocità con cui si svolse il tutto. Bastarono un paio di parole da parte di mia madre a far montare mio padre su tutte le furie. La sua voce, ormai divenuta un grido, echeggiava per tutta la casa, mentre afferrava mia madre per un braccio e la scaraventava contro il lavello. Mi alzai di scatto, seguito a fatica dai miei fratelli, e attesi solo di intuire la sua prossima mossa per comportarmi di conseguenza. Le sferrò un pugno sullo zigomo, dove un livido precedente si stava già rimarginando a fatica, ma la forza con cui aveva intenzione di colpirla fu attutita da quella con cui io trattenni il suo braccio, mentre i miei fratelli tentavano di allontanarlo. Non avevamo speranza di evitare qualche taglio o escoriazione, ma era un piccolo prezzo da pagare per garantirci qualche giorno - o qualche ora - di tranquillità. Mio padre non fu colto alla provvista, e con molta sveltezza mi scaraventò a terra con un calcio nello stomaco. Sentii mia madre urlare, poi il suono di uno schiaffo. Rimasi a terra solo per qualche secondo, ma fu abbastanza perché Mandy, fino a qualche secondo prima in disparte con gli occhi sgranati, decidesse di unirsi alla faida. Mi alzai immediatamente, ignorando il dolore alla bocca dello stomaco, per tentare di allontanarla, perché se c’era una cosa che mio padre detestava più delle persone che reagivano alle sue provocazioni, erano le ragazze che reagivano alle sue provocazioni. Non avevo mai visto mia sorella farsi avanti, glielo avevo impedito perché non avrei sopportato che ferisse anche lei, che diventasse un’altra delle sue vittime, e lei da parte sua si era sempre mostrata molto suscettibile riguardo ciò che accadeva in casa nostra. 

Mio padre si voltò quando Mandy cercò di afferralo per un braccio. In un momento, sembrò che io e i miei fratelli fossimo scomparsi, e la sua attenzione cadde esclusivamente su di lei. La strattonò, la spinse, mentre noi facevamo altrettanto dall’altro lato, e nel caos che si era creato, l’unica cosa che vidi fu la sua mano che si chiudeva sull’impugnatura di un coltello appoggiato sul tavolo e nel giro di qualche istante, la sua lama che sfiorava il collo di mia sorella. Vidi il suo colorito farsi sempre più pallido, mentre mia madre era rimasta ormai senza voce nel tentativo di dissuaderlo. Nessuno si mosse. La stanza si era ghiacciata, e un solo passo falso poteva portare a conseguenze a cui mi rifiutavo persino di pensare. Mandy aveva gli occhi spalancati, e il suo petto si alzava e abbassava in modo così irregolare che temevo quasi smettesse di respirare. Mia madre singhiozzava come fosse sull’orlo di un’esaurimento nervoso, mentre io osservavo gli occhi di mio padre tingersi di rabbia nel timore che essa si sarebbe presto riversata sull’unico bersaglio di sua portata. 

Un secondo. Un solo secondo, e la sua espressione cambiò. Il suo sguardo si fece confuso, come se si fosse appena risvegliato da una lunga dormita o si sentisse disorientato dopo qualche bicchiere di troppo. La sua mano indietreggiò, fino a che il tonfo del coltello che veniva appoggiato sul tavolo non permise a mia sorella di tornare a respirare normalmente. 

Mio padre si guardò intorno, sorrise e uscì di casa.

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