Through the ivory keyboard - non tutte le ciambelle sono dolci

di bulmasanzo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bisognerebbe sempre leggere i termini di un contratto prima di firmarlo ***
Capitolo 2: *** Non si scherza con il commesso burbero ***
Capitolo 3: *** Tentando di spiegare che cosa sia la musica ***
Capitolo 4: *** Se ti prestano dei soldi, nascondili! ***
Capitolo 5: *** L'entità cresce, silenziosa e letale ***
Capitolo 6: *** L'ultimo giorno sulla Terra ***
Capitolo 7: *** Incontri fatali al funerale del migliore amico ***
Capitolo 8: *** Senza accorgersene, si innamorarono ***
Capitolo 9: *** Come la verità può rovinare tutto ***
Capitolo 10: *** Chi non muore, torna ***
Capitolo 11: *** Il diavolo torna a riscuotere ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Bisognerebbe sempre leggere i termini di un contratto prima di firmarlo ***


Capitolo 1


Alfred si era svegliato presto quella mattina, come tutte le mattine, perché la ciambelleria non si apriva mica da sola.

Le ciambelle non si preparano mica da sole, i soldi non li trovi mica sotto al tappeto, il pane quotidiano non te lo danno mica gratis.
Al aveva un sogno non poco ambizioso, voleva creare una ciambella che fosse nominata da tutti la migliore. Dolcissima, ma non così tanto da risultare sconcertante.

Voleva che chiunque la assaggiasse dicesse che si trattava della cosa più deliziosa che avesse mai mangiato. Che ne chiedesse ancora. Che ne parlasse con gli amici, che li portasse nel suo negozio.
Perché, al diavolo gli interminabili studi di marketing all'università, il passaparola è la forma migliore di pubblicità. Al questo lo sapeva, e Al si definiva una persona intelligente.
L'unico problema di Al era che non credeva abbastanza nei propri sogni. Forse era stato per questo che aveva smesso di suonare.
Aveva preso lezioni di fisarmonica fin dal giorno prima del suo settimo compleanno.
La mamma, vedendosi di fronte quel venditore ambulante che offriva lezioni di chitarra o fisarmonica a domicilio, doveva aver pensato, ehi, visto che a nostro figlio piace la musica, perché non lo facciamo diventare un magnete per le ragazze?
E così la scelta era stata ovvia.
Ci aveva creduto e, nonostante la bizzarria dello strumento, era diventato il dj della scuola.
E invece di incontrare le ragazze che gli aveva auspicato di trovare la mamma, aveva incontrato Steve, che era diventato in poco tempo il suo migliore amico. Steve, con il suo inseparabile basso.
Avevano condiviso passioni e immaginato una vita di successi e avevano scritto le loro prime canzoni.

I testi erano parecchio demenziali, ma la musica era di qualità e questo nessuno lo poteva negare.
Poi avevano litigato, non sapevano neppure per quale stupido motivo.

Qualcuno si era messo in mezzo e aveva distrutto la loro amicizia.

E le loro strade si erano divise.
Steve, con i suoi pantaloni tagliati a metà, le sopracciglia depilate, il cerchietto con le orecchie da coniglietta di playboy, le braccia infilate per metà nella cioccolata, come la moda imponeva a quei tempi, si era guardato nello specchio e aveva capito quanto sembrava ridicolo.
Aveva così ricominciato a studiare e aveva cercato di ottenere quella laurea che il suo vecchio amico Al aveva già preso anni prima.

Ma non ci era riuscito, era tornato sui suoi passi.
Ma a quel punto, Al aveva già scoperto una nuova passione e aveva aperto il suo negozio.
Rifiutare la sua proposta di riprendere a suonare era stata la decisione più difficile della sua vita.
Ma cercava di massimizzare la soddisfazione, mischiando le sostanze più dolci che trovava, nell'intento irrealistico di creare la ciambella più buona del mondo.
Okay, non ci sarebbe mai riuscito veramente, lo sapeva, non era così ingenuo da non riconoscerlo. Ma ci si sarebbe avvicinato.
La vita non va forse avanti per tentativi?

Se ogni giorno fai una piccola cosa migliore di ieri, tra dieci giorni avrai ottenuto un risultato nettamente migliore di ciò che avevi all'inizio.
Il suo approccio alla vita era, o per meglio dire tentava di essere, ottimista.
No, non voleva commettere lo stesso errore, questa volta non avrebbe mollato.
Ding.
Qualcuno era entrato nel suo negozio.

La prima cosa che saltava all'occhio di questo tipo era la sua incredibile bassezza.
Una volta che lo avevi finalmente scorto, laggiù sul pavimento, ti accorgevi del suo prominente naso a punta. Un naso lungo e incurvato all'ingiú, che ricordava vagamente il becco di un tucano.
E poi vedevi le sue orecchie. Grandi e molto sporgenti, con dei lobi allungati e pendenti come quelli di un bonzo.
Una cascata di capelli lunghi, lisci e biancastri gli spioveva sugli occhi che, nessuno avrebbe potuto immaginarlo, presentavano due improbabili iridi rosse con tante pagliuzze gialle intorno alla pupilla, come delle saette.

Il mento era celato da una barba piuttosto incolta, anch'essa bianca.
Per completare l'effetto da gnomo da giardino che il suo aspetto ispirava, questo bizzarro individuo indossava una casacchina viola che gli arrivava a coprire i piedi, e in testa portava un minuscolo cappellino marrone, ma non era teso a punta, per fortuna, era piegato.
Al non aveva mai visto un personaggio talmente brutto, ma visto che non è carino insultare la gente per il modo in cui si presenta, la sua mente sostituì istantaneamente la parola 'brutto' con 'singolare'.
La sua voce, quando gli chiese di dargli "la ciambella più dolce che avesse nel negozio", era talmente potente che Al stentò a credere che provenisse proprio da quel tappo di persona...

Ma fu professionale al massimo, non lasciò trapelare i propri pensieri e servì con celerità ciò che gli era stato ordinato.
Il tizio prese il prodotto con due dita e diede un morso in silenzio.
I suoi capelli vennero scostati dagli occhi, e Al venne trapassato da uno sguardo che esprimeva un enorme disappunto.
"Tutto qui ciò che hai da offrire, ragazzo?" fece il piccoletto "È questo il meglio che sai fare?"
"Mi dispiace" balbettò Al "Sto ancora cercando la giusta ricetta"
Si sentì a disagio, il suo cliente non era soddisfatto.

Era ancora parecchio lontano dal raggiungimento del suo obiettivo.
L'ometto si guardò intorno. Non c'erano altri clienti, era stata una giornata piuttosto tranquilla, fino a quel momento.
"Non mi stupisce che questo negozio sia vuoto, se il livello di qualità che offri è questo" disse.
Al si sentì offeso. Ma allo stesso tempo sapeva che quelle parole erano vere, quindi non si arrabbiò.
"Non desidereresti cambiare le cose?" continuò in un tono che voleva probabilmente suonare accattivante.
"Sicuro che lo vorrei" disse Al, era come sovrappensiero, forse doveva provare a mettere più zucchero direttamente nell'impasto, ma aveva paura che la spolverata di zucchero a velo che dava alla fine rovinasse gli equilibri.
"Mi sembri un tipo simpatico, Alfred, vorrei proporti un affare"
Al si irrigidì. Non ricordava di avergli mai detto il proprio nome. Ma doveva concentrarsi su questo dettaglio o sull'affare di cui stava cianciando?
"Io possiedo una sostanza che potrebbe rendere le tue ciambelle irresistibili" dichiarò.
Dritto al sodo.
Ma Al non era uno sprovveduto, non si sarebbe fatto imbrogliare tanto facilmente.
"So che probabilmente non ti fidi" continuò il tipo "Quindi, naturalmente, prima di vendertela te la lascerò provare"
Avanzò sotto al suo naso un sacchettino. Svolse con una certa impazienza nelle dita il cordino che lo chiudeva. Ne venne fuori una bottiglietta che dalla forma ricordava quelle della salsa Tabasco, quindi con il collo lungo. Fu a questo che Al pensò subito, ma sperava che fosse dolce e non piccante.
L'omino svitò il tappo e versò una unica goccia del contenuto in un cucchiaino. Era un liquido dal colore violaceo.
"Assaggiala e poi mi saprai dire" lo esortò.
Al non aveva certo intenzione di assaggiare una strana sostanza datagli da uno strano sconosciuto...

Perciò, non riuscì proprio a spiegarsi come si convinse a prendere il cucchiaio e a metterselo in bocca.
Non se ne pentí, perché le sue papille gustative iniziarono subito a ballare la tarantella.
Era un sapore indescrivibile, infatti neppure ve lo so descrivere, ma la cosa importante è che Al capí che si trattava dell'ingrediente mancante che aveva tanto cercato negli ultimi mesi.

Quello era ciò che gli serviva e niente sarebbe potuto supplire alla sua mancanza.
"Quanto vuole?" disse. C'era una festa nella sua bocca, i peli del naso si intrecciavano tra di loro e le sue iridi marroni vorticavano attorno alla pupilla.
L'omino sogghignò e disse una cifra così alta che Al sentí il sangue defluire dalla sua faccia, lasciandogliela completamente bianca e fredda.
"Non svenire. Questo è il prezzo che chiederei normalmente se volessi vendere la mia creazione a qualche grossa industria dolciaria che possa effettivamente permettersela... Ma siccome tu sei una persona povera e io sono di buon cuore, sono disposto a darti la sostanza in offerta."
Al fece una smorfia "Ne dubito" biascicò.
"Non scherzo. L'unica cosa che ti chiedo in cambio è di firmare un contratto"
"Che genere di contratto?" fece Al interessato.
"Un contratto standard di esclusiva. Se lo firmi, sarai l'unico ad avere la sostanza. Ma devi impegnarti a mantenere il segreto, non voglio assolutamente che tu dica a qualcuno della sua esistenza!"
Al ci pensò per meno di mezzo secondo, se quella era l'unica clausola, la cosa si poteva fare benissimo. Neppure lui aveva intenzione di diffondere quella notizia e rischiare che qualcuno gli copiasse la ricetta.
"C'è un'altra cosa" aggiunse l'omino.
Al sospirò. Gli pareva troppo facile...
"Il contratto deve essere firmato con il sangue, se no non funziona"
Automaticamente, la mano di Al si allungò verso quella dello sconosciuto.

L'intenzione era quella di stringergliela. Ma quello gliela afferrò invece.

E prima che potesse cambiare idea, fece spuntare un ago.

Il dito indice venne subito punto e poggiato sulla superficie di un foglio di carta. Il contratto.
Al tracciò il proprio nome con un po' di impaccio, non gli era mai capitato prima di dover usare il proprio sangue al posto dell'inchiostro.
"Alfred M."- qui si fermò
"Nome completo, per favore" precisò lo gnomo.
Al continuò, riprese il punto, continuando "...atthews" scrisse.
Dopo aver scritto anche il proprio cognome, si sentì un po' indebolito.
Ma l'omino era sparito senza salutare.

Di lui restò solo il sacchetto, che come Al costatò, conteneva diverse bottigliette.
Al restò imbambolato a chiedersi se ciò che aveva appena vissuto fosse stato la realtà o soltanto un sogno a occhi aperti.

Ma le bottigliette erano lì, concrete. Sembravano chiedergli soltanto di essere utilizzate.

Non si accorse di essere rimasto impalato a fissare il punto in cui il bizzarro individuo era sparito, con una espressione mezza sconvolta sulla faccia.
La persona che entrò successivamente fu Jon, un cliente abituale.
Questi gli sventolò la mano di fronte agli occhi per qualche secondo, prima che lui lo notasse.
"Ehi, Al! Sei su questa terra?" fece, divertito dalla sua faccia da completo ebete.
"Non so" si riscosse Al "Può essere di no"
"Posso ordinarti una cinquantina di ciambelle ai gusti assortiti per domani?" chiese Jon "Mia moglie fa il compleanno e sto dando una festicciola"
"Certo" acconsentí Al, con aria assente.

Era ancora frastornato, ma poi realizzò cosa gli era stato chiesto e non ci poteva credere, era la perfetta occasione per collaudare il nuovo ingrediente.
"Va bene, allora passerò alle tredici domani, fammi i soliti... Cioccolato, marmellata, con la glassa e con i confettini, 'ste cose qua, ché a mia moglie piacciono"
"Certo" ripeté Al "Nessun problema"
"Vuoi un acconto?" continuò Jon.
"No, tranquillo, saldi tutto domani quando le vieni a prendere"
"Ma guarda che cinquanta sono tante!"
"Le devo preparare comunque" Al si avvicinò al suo cliente e lo condusse gentilmente alla porta "Adesso scusa, devo chiudere la ciambelleria"

"Ma come, adesso? Non è presto?" si stupí Jon.
"È il momento migliore" si accorse che fremeva per l'eccitazione, quelle bottigliette sul bancone erano irresistibili. Doveva assolutamente provarle.
"Sei sicuro di stare bene, Al?" adesso la voce di Jon suonava allarmata.
"Sto benissimo" cercò di tagliare corto.
"Come mai la tua mano sanguina?"
Al si era dimenticato. Guardò la mano destra, dalla punta del dito indice scorreva un lungo rivolo di sangue che gli era sceso lungo tutto il polso e aveva raggiunto la manica della camicia, imbrattandola.
Ne fu disturbato, non si era davvero aspettato di aver perso tutto quel sangue.
"Non è nulla" disse.
"Sei sicuro?" si premurò Jon.
"Ci vediamo domani" lo spinse letteralmente fuori e chiuse la porta a chiave, poi girò il cartellino appeso lì per indicare che da quel momento il negozio sarebbe stato chiuso.
Prese quindi un po' di carta e ci avvolse direttamente tutta la mano, bloccando l'emorragia. Si sbottonò i polsini e arrotolò le maniche.
Le bottigliette sembravano brillare. Non poteva più resistere al loro richiamo.
Sul retro del negozio c'era ovviamente il suo laboratorio, in cui si dedicava alla preparazione dei dolci.
Al raccolse i suoi lunghi capelli dentro la cuffia da lavoro, indossò il grembiule, si lavò le mani, le asciugò con cura, si applicò uno di quei cerotti blu sul dito... e poi cominciò subito a preparare l'impasto.

Voleva vedere se una goccia sarebbe stata abbastanza o se ce ne sarebbero volute due. La sostanza era abbastanza potente, non voleva esagerare.
Jon era fortunato, sarebbe stato il primo a provare la nuova ricetta. Ma prima, naturalmente, Al doveva testarla su se stesso.
Quando le ciambelle furono pronte, Al ne prese un morso.
Nella sua bocca esplose, per la seconda volta, un piacere impossibile da descrivere. Gli sembrò che i colori intorno a lui si facessero più intensi, più belli, più vividi.
Prima che se ne accorgesse aveva mangiato quasi tutta la ciambella.

Non la finì perché si si sentí girare la testa. Si portò istintivamente una mano alla fronte.
Così vide qualcosa di inaspettato.
La sua mano era grande il doppio del normale.
Sussultò e controllò anche l'altra. Anche quella era più grande.

Stavano crescendo, di secondo in secondo.
I muscoli delle braccia si iniziarono a ingrossare sotto ai suoi occhi.

La stessa cosa accadde ai suoi piedi e alle gambe.

Le scarpe si sfondarono, i pantaloni si strapparono, il tessuto della camicia si tese, il petto venne tutto in fuori e i bottoni si staccarono e vennero sparati in giro.

Il ventre in particolare diventò enorme, sembrava che qualcuno stesse gonfiando il suo corpo come un palloncino. La cintura si ruppe.

Adesso l'unica cosa che stava su era il grembiule, rimasto attaccato sul davanti perché ce l'aveva appeso al collo, ma tutti gli altri vestiti erano ridotti a brandelli.
"Che cavolo succede?!" urlò.

Si tastò il viso, sentí un doppio, un triplo mento, delle guance enormi, deformate da strati di grasso.
Era diventato obeso.
"Mi ha imbrogliato!" esclamò incredulo "Quel tizio bizzarro mi ha dato una sostanza fasulla"
Eppure il sapore era quello, inconfondibile. Cosa era successo?
Si sentì uno stupido, come aveva potuto crederci davvero?

Nessuno avrebbe mai comprato delle ciambelle che ti fanno gonfiare, come la bambina della Fabbrica di cioccolato che si trasforma in un mirtillo gigante...
Era un po' arrabbiato, quindi diede un calcio alla prima cosa che si vide di fronte.
Era il lampadario.
Al strabuzzò gli occhi.
"Che cosa ci fa il lampadario a terra?" si chiese.
Qualcosa non tornava, l'oggetto era attaccato al soffitto, come era giusto che fosse.
Era lui a trovarsi al suo livello.
Sotto i suoi piedi non c'era nient'altro che aria.
Al si rese conto di stare levitando.
"Forse sono soltanto ripieno d'aria, dopotutto" mormorò, sgomento.
Era un ciccione volante. La cosa era talmente ridicola da risultare, in effetti, interessante.
Si mise a fare dei giri di prova, mettendosi a svolazzare in tondo dentro alla stanza.
La sensazione era bellissima, aveva un corpo così pesante, eppure si sentiva una piuma.
Si diresse verso il pavimento. Gli sembrava di conoscere il modo di fare quelle planate da una vita, gli veniva tutto così stranamente familiare.
Aprí la porta e si fiondò di nuovo nella parte frontale del negozio.
Adesso gli si presentava un dilemma. Tutti gli uomini volevano volare, ma a pochissime persone piaceva essere grasse.
Non sapeva cosa fare, ma non ebbe modo di pensarci troppo perché, per qualche motivo, aveva perso la concentrazione e si andò a schiantare contro la dispensa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio autrice:

Questa storia è vagamente ispirata alla serie di Fatman, ma la trama è originale creata da me.
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e di ricevere qualche recensione.

Tanti saluti e a presto!

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Capitolo 2
*** Non si scherza con il commesso burbero ***


Capitolo 2

 

Alfred passò tutto il resto del pomeriggio a sperimentare quel suo nuovo, bizzarro potere, trascurando il lavoro.
La sua era una mente curiosa per natura, voleva testare i propri limiti e le proprie capacità.

E poi, chi non approfitterebbe della possibilità di farsi una bella, corroborante volatina nel cielo? A quante persone al mondo è concesso?
A nessuno, a dire la verità.
Aveva, in realtà, un po' paura di andare troppo in alto.

E se l'effetto si fosse esaurito proprio mentre era in volo? E se fosse precipitato?
Di sicuro non avrebbe rimbalzato.
Ma il suo corpo enorme, tondo e ridicolo se ne saliva su che era una bellezza, con una facilità innata.
E ogni volta che si innalzava un po' di più, era come se avesse ricevuto una scarica di zuccheri.
I problemi della quotidianità si erano momentaneamente azzerati, ogni centimetro in più lo avvicinava a un ideale di felicità, che però sembrava trovarsi ogni volta al centimetro successivo, e risultava quindi improbabile da raggiungere.
Alla fine, si risolse a portarsi dietro il resto della 'ciambella miracolosa', come l'aveva chiamata, nella speranza di riuscire, in tale eventualità, a morderla in tempo prima di spiaccicarsi al suolo.
Ma non ne ebbe bisogno, infatti il volo di prova andò benissimo.

Raggiunse dunque prima il tetto del negozio, poi passò attraverso i cavi del telefono, stando attento a non toccarli, naturalmente, non voleva rischiare di beccarsi la scossa.

Dietro il negozio c'era un albero altissimo, si intrufolò dentro la sua chioma di foglie solo per il piacere di sfrecciarvi attorno. Non era mai stato particolarmente bravo ad arrampicarsi.
E così, come avrebbe dovuto immaginare, la sua mole si incastrò tra quei rami.
Ridendo, si mise a roteare finché il puro e semplice attrito non gli permise di districarsene.
Poi quando 'emerse' da lì, con i capelli tutti pieni di foglie e pezzettini di legno, si rese conto di ciò che aveva appena fatto.
Osservò il tronco e si accorse che la corteccia era letteralmente scavata, come se l'avesse trivellata.
Era forse quello un altro superpotere?
Meraviglia e stupore continuavano ad alternarsi.
Andò ancora più in alto, incontro al sole, sentendosi il nuovo Icaro.
Ma più saliva, meno calore sentiva.

Anzi, a un certo punto si sentí gelare, la cosa aveva senso.
L'ossigeno si stava evidentemente facendo più rarefatto, ricordava di avere studiato a scuola che in montagna fa più freddo poiché, proprio per questo motivo, il suolo non riesce a trattenere i raggi del sole e così essi si disperdono... O qualcosa di simile.
Ma possibile che fosse già a quel livello? Aveva volato più in alto di una montagna?
Non si era reso conto di essersi mosso a una tale velocità, il suo peso sembrava rendergliela impossibile.

Ma il suo intelletto, a tal punto, era già uscito dalla sfera della razionalità.
Si accorse così che attorno a lui era tutto bianco, gli sembrava di trovarsi su di un manto di neve.
Poi, a una distanza di forse un paio di centinaia di metri da lui, vide che arrivava un aereo.
Lo fissò affascinato. A quale quota volavano gli aerei?
Era talmente vicino da poter distinguere i singoli finestrini mezzi abbassati, addirittura le persone dentro che puntavano le loro dita contro il vetro, dovevano essere piuttosto sconvolti nel vedere un ciccione mezzo nudo che se ne volava come un palloncino, tutto da solo, al loro livello.
Allora il bianco attorno a lui non era neve... Ma non era poi così diverso. Si trovava nel mezzo di una nuvola!
Così vi si nascose dentro, e si ritrovò subito completamente bagnato. Giusto...
Iniziava a sentire una leggera difficoltà a respirare. Forse era arrivato il momento di scendere.
E iniziò a farlo, allo stesso identico modo di come era salito.
Era soddisfatto, aveva fatto una esperienza fuori dal comune.
Quando i suoi piedi toccarono nuovamente il suolo, li vide letteralmente ritirarsi e tornare alle loro dimensioni originarie.
Adesso era come se il pallone che era stato fino a quel momento si fosse bucato, si sgonfiò lentamente ma costantemente.

Nel giro di pochi secondi era di nuovo normale.
E una grande, innaturale, stanchezza gli piombò improvvisamente tutta addosso.
"Adesso mi appoggio qui, su questo morbidissimo marciapiede... e mi faccio una pennichella" biascicò.

Neppure aveva finito di dirlo che le sue ginocchia si erano piegate e lui si era accasciato, con la faccia a terra. Non capí più nulla di quello che succedeva.
Si svegliò chissà quante ore dopo, solo perché qualcuno lo stava scuotendo e urlava il suo nome in tono allarmato.
Mise a fuoco e vide la faccia di Steve, il suo migliore amico, la faccia contratta nelle mille rughe di una espressione spaventata, gli occhi azzurri sgranati per la paura.
"Al!" ripeté "Cosa accidenti ti è successo?"
"Niente" disse lui, ricordando la clausola del contratto che gli imponeva di non dire nulla.
"Non dire 'niente', vuoi farmi credere che hai semplicemente deciso di farti un pisolino in mezzo alla strada?"
"Più o meno" fece lui, cercando di alzarsi.
"Che è capitato ai tuoi vestiti?" continuò Steve aiutandolo "Oddio, ma guardali, sono completamente stracciati! Dimmi la verità, ti hanno picchiato?"
"No, no... Uhm, beh..."
"Cosa è stato allora? Ti hanno fatto una rapina? Cosa ti hanno fregato?"
"La dignità" sbottò Al, avviandosi dentro il negozio.

Solo in quel momento gli tornò in mente il grosso ordine che aveva per il giorno dopo.
"Che ore sono?" chiese, con un po' di panico nella voce.

Doveva ricominciare tutto da capo, non avrebbe certamente venduto le ciambelle magiche alla moglie di Jon.
"Al, devi andare in ospedale..." disse Steve. Quella insistenza gli diede sui nervi.

Perché tutti gli continuavano a dire quelle cose?
"La smetti di starmi addosso?" urlò "Non lo vedi che sto benissimo? Vedi mica ferite sul mio corpo? Eh?"
"Potresti avere delle ferite interne" ipotizzò Steve "Comunque, scusa se mi preoccupo per te" aggiunse un po' irritato.
"Nessuno te lo ha chiesto!" si pentí di questa ultima uscita subito dopo averla detta, ma non se la poteva più rimangiare.
"Devo lavorare ora. Lasciami solo"
Steve stava stringendo i pugni, lo faceva tutte le volte che si tratteneva dal mollargli un cazzotto, quando si comportava da idiota come in quel momento.
"Vabbè, ciao!" brontolò invece, poi girò sui tacchi e se ne uscì sbattendo la porta.
Al si sentì in colpa, non era la prima volta che litigavano in quella maniera così stupida.

Avrebbe recuperato, si ripromise.
Ma adesso aveva bisogno di mettersi all'opera, doveva cucinare cinquanta ciambelle, non avrebbe usato la sostanza, in fondo se Jon veniva sempre nel suo negozio voleva dire che erano abbastanza decenti.

Jon arrivò alle tredici precise, spaccando il secondo, come si dice.
Al non aveva dormito, era rimasto a pensare all'individuo che gli aveva donato la sostanza, all'ebrezza del volo, a Steve, al modo per farsi perdonare.
Aveva due occhiaie profonde, ma le ciambelle erano pronte e già confezionate.
Jon le prese e aggiunse una grossa mancia quando pagò il conto.
"E questo perché?" chiese Al, anche se in effetti la cosa non gli dispiaceva.
"Perché mi sembri decisamente stanco, prenditi un giorno di relax" gli consigliò.
Al sorrise "Non ti puoi proprio fare i fatti tuoi, vero?" disse.
"No" Jon sorrise a sua volta e poi uscì dal negozio.
Al stava contando i soldi quando sentí un urlo.

Sbiancò, si precipitò fuori e vide un'ombra che si allontanava e c'era Jon a terra che puntava un dito indicandola.
"Aiuto!" gridò "Quel tizio mi ha rubato le ciambelle che avevo appena comprato"
Al fu colto da una specie di ispirazione, infilò la mano nella tasca del grembiule, c'era ancora il resto della ciambella miracolosa che ci aveva messo il giorno prima. La morse.
Stavolta i suoi abiti non si strapparono, ne aveva indossati apposta di larghi ed elastici, che si tesero sotto la mole del suo corpo che si gonfiava e si deformava.
Si alzò in volo, nella direzione in cui aveva visto sparire il ladro.
Lo vide che correva cercando di tenere le scatole delle ciambelle in equilibrio l'una sull'altra.
Gli si fiondò addosso schiacciandolo con il proprio peso, lo mandò a terra a stramazzare.

Le scatole si sparpagliarono in giro, una si aprí e alcune ciambelle rotolarono fuori.
"Togliti! Brutto ciccione!" lo insultò quello agitandosi, ma Al non si alzò, lo tenne bloccato sotto di sé.
Sopraggiunse Jon, ancora un poco frastornato.

Era un uomo lievemente in sovrappeso, e già aveva il fiatone.

Non capiva come avesse fatto una persona obesa a correre più veloce di lui.
"L'ho fermato!" si vantò Al.
"Ma cos..." fece Jon, confuso "Al? Sei tu?" aveva riconosciuto la sua voce.
"No, non sono io, Al ha almeno trenta chili in meno di me!" disse Al allarmato.
Jon si mise le mani nei capelli "Le mie scatole!" esclamò, poi si chinò a raccoglierle.
"Lasciale perdere, chiama la polizia, piuttosto, così mettiamo in carcere questo furbone" lo fermò.
Il 'furbone' si dimenava piano sotto il sederone di Al, cercando invano di liberarsi. Era terrorizzato. "In carcere?" fece "Non vi pare un po' eccessivo? Erano solo delle ciambelle, in fondo!"
"Nessun crimine deve restare impunito" dichiarò Al.
La polizia si portò via il ladro, ma forse avrebbe avuto giusto una notte di prigione come ammonimento e poi sarebbe stato lasciato libero.
Jon guardò sconsolato le ciambelle che aveva perduto.
"Ora come faccio?" si lagnò.
"Non devi preoccuparti, Al ha detto che puoi andare a prenderne altre gratuitamente per sostituire quelle che sono cadute" gli disse Al.
Jon lo guardò scettico "Certo, Al lo ha detto ..." fece "Poi mi devi dire dov'è che hai trovato quella tuta gonfiabile, è fatta bene, sembra proprio una seconda pelle..."
Nonostante i chili in più, Jon lo aveva riconosciuto perfettamente, il segreto era a rischio.
"Però sai, non è che sia proprio una buona pubblicità" continuò Jon mentre entravano di nuovo nel negozio "Ci stai ricordando che se mangiamo troppe ciambelle diventiamo grassi pure noi"
"Ah ah, era solo uno scherzo" minimizzò Al confezionando una nuova scatola "Ma non lo dire a nessuno, okay?"
"Perché, che stai architettando? Ti sarai mica messo in testa di diventare un supereroe?"
"Certo che sì" scherzò Al "Invece di essere Batman, posso essere Fatman"
"Mi sembra sensato" rise Jon. Prese le sue ciambelle "Grazie, Al"
"Fatman, non Al. Fai tanti auguri a tua moglie da parte mia."
"Immagino che non potrò raccontarle della tua impresa eroica, uh?" fece.
Al scosse la testa. Jon se ne andò via scrollando le spalle.
Tecnicamente non gli aveva detto nulla, Jon aveva capito da solo che era lui e ancora non sapeva delle ciambelle magiche o della sostanza... perciò Al non aveva violato il regolamento specificato nel contratto che aveva firmato... Giusto?
Al si mise comunque a pensare al modo di non farsi riconoscere. Gli sembrava qualcosa di importante.
Recuperò da un cassetto un paio di occhiali spessi, li aveva utilizzati in passato, prima di passare alle lenti a contatto.

Pensava che gli dessero un po' un'aria da stupido, avevano una montatura a goccia che era ormai passata di moda dai tempi delle orecchie da coniglietta di playboy... Ma forse sarebbe stato prudente indossarli, solo quando era 'in borghese', giusto per evitare di farsi riconoscere.

Se funzionava per Superman, perché non avrebbe dovuto funzionare per lui?
L'effetto della ciambella miracolosa stavolta durò di meno, non era passata un'ora che era di nuovo se stesso. Certo, stavolta ne aveva preso soltanto un morso, quindi era durata di meno.

Doveva capire come funzionava, doveva fare alcuni esperimenti.
Comunque aveva già finito di vendere tutte le ciambelle e decise così di chiudere il negozio. L'indomani era sabato e sarebbe stato chiuso.
Preso da un'altra improvvisa ispirazione, chiamò Steve.
"Ciao." rispose questi in tono secco.
"Sei ancora incavolato con me?" gli chiese.
Vi fu una pausa.
"Un po'." disse Steve, poco dopo.
"Senti, mi dispiace tanto, possiamo incontrarci così posso chiederti scusa di presenza?"
"Sei un idiota, lo sai?" disse Steve.
"Oggi Jon è passato a comprare delle ciambelle e mi ha dato una gran bella mancia..."
Sentí il suo sorriso allargarsi attraverso la linea del telefono.
"Mi stai invitando a bere una birra?"
"Passerò da te tra cinque minuti" promise Al.
Lo sentí sbuffare. Dopotutto, questo rapporto che avevano gli piaceva, litigavano e poi facevano pace in un secondo.
Chiuse la comunicazione e, come aveva detto, cinque minuti dopo era di fronte alla casa di Steve.
Lo vide sulla porta che parlava con una ragazza dai capelli neri, che era girata.

Al agitò la mano per farsi notare, così Steve la salutò per andare da lui.
"Non sapevo fossi in compagnia" lo punzecchiò.
"Quella è mia cugina. Un giorno te la presenterò, ma stasera lavora" fece Steve scrollando le spalle "Niente ragazze per me, ancora. Magari questa sera ne rimorchiamo una... Ehi, come mai porti gli occhiali?"
"Le lenti mi davano noia, oggi. Senti, Steve..." incominciò.
"Non dire nulla, per favore, ti ho già perdonato. Se non vuoi dirmi quello che è successo perché te ne vergogni lo rispetterò" lo bloccò inaspettatamente Steve.
Al lasciò cadere il discorso.
"Prima di passare dal bar, mi accompagni al negozio di animali?" gli propose invece.
"Vuoi prendere un cane da guardia?"
"No. Un criceto."
"A cosa ti serve?"
"Penso che i criceti siano carini" disse, come unica spiegazione.
Ne prese uno paffuto, dal pelo giallo dorato.

Steve dichiarò che fosse il criceto più brutto che avesse mai visto e che quegli occhiali che Al portava non gli servivano a niente poiché non ci vedeva.
"Sei tu che non vedi la sua bellezza interiore" lo prese in giro Al.
Non rimorchiarono nessuna ragazza, quella sera, però si divertirono, era come se il loro litigio non fosse mai avvenuto.

Il motivo per cui Al aveva preso un criceto era che voleva utilizzarlo come cavia per i suoi esperimenti.

Immaginava che avrebbe avuto un criceto obeso che se ne volava qua e là, oppure che sarebbe diventato delle dimensioni di un cane. Era troppo curioso di scoprirlo e fu precisamente a questo che si dedicò il giorno successivo.
Quindi ci restò un po' male quando, dategli da mangiare le briciole della ciambella magica, non accadde assolutamente nulla.
"Magari non funziona, per i criceti" si sconsolò. Gli era sembrata una buona idea.
L'animaletto sembrò guardarlo con i suoi occhietti neri e profondi, era come se fosse concentrato su di lui.
"Scusa, piccino" fece Al "Non ti ho neppure dato un nome"
Lo prese in mano, stranamente non diede il minimo segno di essere spaventato.

Al lo guardò di sotto.
"Sei un maschio, vero? Ti chiamerò Harvey" gli accarezzò la testolina "Ti piace Harvey?"
"Sì, è un nome piuttosto carino"
Ad Al prese un colpo. Sgranò gli occhi e il criceto per poco non gli sfuggí dalle mani.
"Ehi, stai attento, stavi per farmi cadere!"
Al si bloccò a fissarlo.
"Hai... Hai appena parlato?" chiese dopo aver esitato per qualche secondo.
"Beh, mi hai fatto una domanda e ho risposto!" disse il criceto "Posso avere altro cibo?"
Al deglutí. "Certo, sicuro" balbettò.

Lo poggiò di nuovo sulla scrivania e gli mise accanto altre briciole.
Harvey non aveva di certo i muscoli facciali e non avrebbe, di conseguenza, potuto fare alcuna espressione, ma quando alzò il muso, ad Al parve proprio che fosse seccato.
"Magari mi vuoi dare dei semini di girasole, no?" disse.
Al si sentì un idiota "Hai ragione, scusa" ne prese una manciata dal sacchettino che aveva comprato quando lo aveva preso al negozio e glieli mise accanto.
Il criceto si mise a mangiare con voracità e ad Al sembrava veramente contento.

Rimase a guardarlo affascinato per svariati minuti. Non riusciva a crederci.
Un criceto che parlava e che capiva il linguaggio umano.
Ma che razza di ficata era quella?!
Evidentemente, la ciambella magica produceva un effetto diverso per ogni persona o animale che ne mangiava.

O aveva lo stesso effetto per tutti gli umani, ma un effetto diverso sugli animali?

E di animale in animale aveva un effetto diverso?
Non poteva sperimentarla su altre persone, ma forse avrebbe potuto prendere altri animali da usare come cavie, poteva prendere un altro criceto e poi magari un coniglio...

La parte analitica del suo cervello era particolarmente eccitata, in quel momento.
"Come ti chiami?"
Al batté le palpebre, riscuotendosi dalle sue idee.

Era stato Harvey a parlare, naturalmente.
"Mi chiamo Alfred" disse.
"Ti prenderai cura di me, non è vero, Alfred?"
"Lo farò senz'altro"
"Sono il tuo migliore amico, non è vero, Alfred?"
"Sei il mio animaletto domestico"
Harvey sembrò sorridere. "Finché mi darai da mangiare e ti prenderai cura di me io ti considererò il mio amico, non il mio padrone. Va bene per te, non è vero, Alfred?"

"Sarai la mia spalla" gli promise Al.

 

 

 

Spazio autrice:

Visto che le visualizzazioni si sono fermate e che avevo già pronto il secondo capitolo, ho deciso di pubblicarlo, e viaa senza pensarci :) Questa parte è stata molto divertente da scrivere, spero solo di non aver reso il nostro protagonista un po' antipatico, voglio approfondire meglio il suo carattere nel corso dello svolgersi degli eventi.
Un saluto e a presto!

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Capitolo 3
*** Tentando di spiegare che cosa sia la musica ***


Capitolo 3

 

Il venditore del negozio di taglie forti lo aveva guardato con sospetto già quando era entrato, ma si era chiaramente trattenuto a stento dal ridergli in faccia, quando aveva chiesto aiuto per trovare una tuta full body della misura massima che avevano...

I clienti, di solito, lì chiedevano qualcosa che coprisse le loro esagerate rotondità, Alfred invece cercava qualcosa che le esaltasse, massimizzando la differenza con il sé magro.

Nessun altro avrebbe dovuto indovinare che fossero la stessa persona.

Al ci era rimasto un po' male per la reazione del commesso, sapeva di non essere bravo a cucirsi gli abiti da solo, altrimenti non si sarebbe mai arrischiato a varcare quella porta nei panni del ciccione volante. Aveva morso la ciambella solo per essere sicuro della taglia.

Gli abiti che aveva, per quanto larghi, non erano comodi abbastanza da permettergli movimenti fluidi, se ne era accorto quando aveva mandato a terra il ladro di ciambelle.

Era piuttosto a disagio.

Ma tutto ciò che sapeva era di volere dei colori brillanti, e alla fine se ne andò soddisfatto dopo aver acquistato due tute, una verde evidenziatore e una arancione brillante.

Entrambe erano semplici e senza nessuna decorazione, il colore le rendeva già abbastanza eccentriche di per sé.

La seconda tappa fu il negozio di animali, ma appena si soffermò sulla vetrina gli mancò il coraggio e la voglia di comprarne un altro.

Non si seppe dare altra spiegazione se non che Harvey era già entrato nel suo cuore, lo aveva preso come cavia e non come animale domestico, e quello si era autonominato amico.

Amico!

Lo aveva conquistato, con una dolcezza e fedeltà che facevano concorrenza a quelle di qualsiasi cane.

Sentiva come se prendere un altro animale sarebbe stato una specie di tradimento, una negazione di quella amicizia. Almeno per il momento, non voleva rovinarla.

Forse, in futuro, gli avrebbe potuto prendere una fidanzatina, ma probabilmente Harvey se la sarebbe mangiata... è una cosa che i criceti fanno, no?

Non si era chiesto neppure se fare altri esperimenti sarebbe potuto essere pericoloso.

Così aveva cambiato destinazione ed era entrato invece in un negozio di giocattoli.

In quanto doveva restare in casa, Harvey aveva bisogno di esercizio.

Acquistò una macchinina elettrica e una pista per farcela correre su. Sarebbe stato più interessante di una semplice ruota per criceti. Meno umiliante.

Stava per uscire dal negozio, ma poi impazzí quando vide la bambola con il giacchetto dello stesso identico colore arancione della tuta che aveva comprato per sé.

Tornò indietro e la batté alla cassa senza esitare.

Arrivato a casa, la spogliò e regalò anche quel giacchetto ad Harvey.

La bambola finí su una mensola come soprammobile e sarebbe rimasta lì per sempre.

Harvey era così contento che si mise a correre ovunque con la sua macchinina, sfoggiando il suo nuovo giacchetto tutto fiero di se stesso, Al passò tutto il primo pomeriggio a cercare di rimetterlo sulla pista, ma il criceto preferiva deviare e sfrecciare di stanza in stanza, investendo tutte le cose che trovava, devastando l'intera casa.

Sembrava particolarmente felice quando andava a sbattere contro i muri, o qualsiasi altra cosa incontrasse lungo la sua strada. Rideva ogni volta così forte che sembravano le risate di un vero bambino.

Sembrava, in particolar modo, che abbattere le sedie fosse diventato il suo più grande divertimento. Ogni volta che ne urtava una, urlava "Ecco lo schianto!" e poi strizzava gli occhietti quando essa finiva sul pavimento con un botto, e rideva di cuore.

Forse, per un essere così piccolo, era esaltante distruggere delle cose più grosse di lui.

Non è che Al avesse una casa poi così grande, era piuttosto modesta, ma per Harvey doveva sembrare gigantesca.

Poi si schiantò contro il mobile nel salottino sopra il quale stava la sua fisarmonica, anch'essa spogliata della sua funzione originaria e tenuta come semplice ornamento.

Al la afferrò per un pelo prima che cadesse a terra e si rompesse.

Non l'aveva più neppure strimpellata da anni, ma se si fosse rotta si sarebbe messo a piangere, ci era affezionato, era la stessa con cui aveva preso lezioni da bambino.

"Adesso basta!" si irritò, afferrando la macchinina e mettendola sul tavolo, ribaltandola.

Harvey cadde giù, stava ancora ridendo come se non si fosse mai divertito tanto in tutta la sua vita. Probabilmente era proprio così.

"Smettila di ridere, se rompi questa mi farai davvero arrabbiare!" sbottò rimproverandolo.

Harvey comprese il suo tono e si fermò, tornando serio.

"Mi dispiace" disse "Non intendevo fare il cattivo"

"Devi solo... Stare più attento!" Al si ammorbidí nell'udire il suo tono compìto.

"Prometto che starò più attento" disse Harvey "Farò il bravo"

"D'accordo" tagliò corto Al, rimettendo lo strumento al suo posto.

Ne accarezzò il dorso con una mano, togliendo un po' di polvere che vi si era depositata sopra. Rimase assorto per qualche secondo.

"Non ce l'hai con me, vero Alfred?" ruppe il silenzio Harvey.

Al emise un piccolo sospiro, esitando "No, tranquillo, non ce l'ho con te"

"Ma posso chiederti che cos'è?"

"È una fisarmonica"

"A cosa serve?"

"Serve a fare musica"

"Che cos'è la musica?"

Al fu colpito.

Harvey sapeva parlare, distingueva sicuramente tutte le parole del dizionario, sapeva che quando le cose cadono fanno rumore, sapeva che quelle cose che mangiava si chiamavano semini di girasole, ma non aveva idea di cosa fosse la musica.

"La musica è... " iniziò Al, ma poi si bloccò. Come poteva spiegarlo?

Un insieme di note che si diffondono nell'aria e che divengono piacevoli quando raggiungono le orecchie?

Volendo essere didascalici, l'avrebbe definita come "l'arte e la tecnica della combinazione dei suoni in un insieme armonico e unitario", ma dubitava che Harvey avrebbe capito.

Senza voler essere troppo poetico, avrebbe detto che la musica era stato il modo in cui si esprimeva, il riflesso del suo stato d'animo.

"È quando i suoni sono in armonia tra di loro e... ti fanno diventare felice... e ti fanno venire voglia di cantare"

"Cos'è armonia? Cosa vuol dire cantare?"

Si passava alle domande spinose.

"Non so spiegartelo" ammise "Te lo farò ascoltare"

Harvey si mise in una posizione seduta, sollevando il musetto che tendeva a tremargli per natura, mentre Al imbracciava lo strumento e infilava braccia e collo dentro le fibbie.

Incominciò così a premere su quei tasti di avorio che non venivano premuti da troppo tempo.

Era una sensazione strana, quasi si stupì di ricordarsi ancora il modo in cui si faceva.

Le sue dita presero il ritmo e la musica riempì la stanza.

Successe una cosa strana, i movimenti erano meccanici, ma la mente di Al li seguiva uno per uno, li riconosceva, li elencava, ed era come affamata di trovarne di nuovi, di sperimentare.

Il suo cervello si espandeva, come una galassia con miliardi di stelle che si allontanavano l'una dall'altra alla velocità della luce, come se fossero in ogni istante alla ricerca di qualcosa.

Alla fine della canzone, Harvey era rimasto in un innaturale silenzio.

"Allora, cosa te ne pare?" gli chiese. Non capiva come mai, ma aveva un po' di fiato corto.

"Tu... fai davvero pena" disse l'animale. Ma lo disse in un modo in cui si capiva che non diceva sul serio, era sinceramente impressionato.

"Forse sarò più bravo come supereroe?" scherzò Al.

"No, neppure quello, non ci pensare neanche" scosse la testolina "Sai tante cose, ma non hai idea di quello che dovresti cercare di essere."

"Ah, sì? E invece tu, con tutta questa energia che hai addosso, cos'è che cerchi di essere?"

"Non saprei, io so solo che a me piace fare molto rumore. E rompere le cose."

Al diede uno sguardo alla sua povera casa mezzo devastata.

"Lo avevo immaginato, questo"

Si grattò la testa, poi guardò l'orologio da parete, che era stato sul punto di staccarsi e cadere, e si rese conto di che ora fosse, erano le quattro del pomeriggio.

Si ricordò di avere un impegno per le cinque e mezza, doveva muoversi.

Si chinò sul criceto.

"Senti, Harvey, adesso devo uscire di nuovo, mi prometti che non romperai niente, mentre starò via?"

Harvey arricciò il musetto. "Dov'è che devi andare?" chiese.

"C'è ...un congresso di pasticceri, starò via solo qualche ora" si inventò. Non voleva dirgli dove in realtà stava andando...

"Va bene" fece l'animaletto "Ti aspetterò" sembrava triste.

Alfred gli accarezzò la testolina con il dito e vide che Harvey la piegava di lato, contento di quella coccola.

Poi andò in bagno per prepararsi e la prima cosa che fece fu guardarsi allo specchio.

Un uomo di ventotto anni gli restituì lo sguardo.

Si soffermò sui dettagli del proprio viso ovale, incorniciato da una massa ingarbugliata di capelli castani, ricci, crespi e troppo lunghi perché non li tagliava da almeno cinque anni.

Né riusciva a pettinarli, l'ultima volta che ci aveva provato la spazzola si era incastrata e aveva dovuto estrarla, facendo forza, e gli si erano staccati un sacco di capelli dal cranio, in modo piuttosto doloroso.

Così aveva lasciato perdere, quando gli davano noia li legava in una coda di cavallo o li teneva fermi con un berretto, oppure se li ficcava direttamente dentro la cuffia da lavoro.

Il mento era un po' pronunciato, ma in compenso non ci cresceva sopra nessuna barba.

Aveva tentato più volte di farsela crescere, ma ogni volta l'unica cosa che gli spuntava erano dei ciuffetti sparuti, orribili a vedersi, così li radeva subito.

Il naso era la parte che gli piaceva di meno del suo aspetto, perché era assolutamente anonimo, avrebbe voluto il setto un po' più largo e poi non gli andavano a genio le narici perché erano piuttosto allungate.

Insomma, Alfred era convinto di essere brutto, o non particolarmente interessante.

E infatti non aveva avuto tutte le ragazze che aveva avuto Steve, anche se a Steve non piaceva vantarsene.

Ma Steve era un bel ragazzo, quando uscivano insieme, con quegli occhi azzurri magnetici, il sorriso dolce e la fronte spaziosa, ma armoniosa, era lui quello che le ragazze si giravano a guardare. Al se ne accorgeva, ma non diceva mai nulla.

Diciamo che lo invidiava, ma non lo voleva ammettere.

Sbuffò piano, mentre cercava di sistemarsi i capelli con le mani, a volte si fissava e iniziava a sciogliere i nodi che si formavano, uno per uno, e si trovò a farlo di nuovo. A metà di quella operazione completamente inutile, si ricordò che non aveva tutto il giorno e così accelerò i movimenti, ma fu troppo frenetico e riuscì a ficcarsi un dito dentro l'occhio.

Imprecò a bassa voce per la propria stupidità e si mise a saltellare, abbandonando il bagno.

"Che fai, Alfred?" chiese Harvey alzando il musetto verso di lui.

Lui si teneva l'occhio con la mano, aspettando di recuperare la vista e cercando di alleviare il dolore che si era autoprocurato "Gioco ai pirati" rispose sarcastico.

"Ma non dovevi prepararti per il congresso?"

"Forse ci andrò con una benda, sai, per fare il misterioso"

"Che vuol dire 'misterioso'?"

"È tipo quando... Vedi una cosa che non capisci cosa sia e ti intriga perché vuoi scoprirlo"

"Che vuol dire 'intriga'?"

"Che attira la tua attenzione, che ti fa venir voglia di..." si interruppe "Devo sbrigarmi, smettila di farmi domande stupide!"

Andò nella sua stanza e si cambiò in meno di un minuto, si mise una camicia celeste pulita e dei pantaloni neri, e sopra la sua giacca rossa di pelle. Era in procinto di uscire.

"Queste non ti servono?" lo fermò l'innocente voce di Harvey, che lo aveva seguito.

Al si spiaccicò una mano sulla fronte e si slanciò a prendere le scarpe che aveva lasciato per terra accanto al letto.

"Alfred" lo chiamò di nuovo il criceto, proprio quando stava per mettere un piede fuori casa.

"Che c'è, che c'è?" fece esasperato, sarebbe arrivato in ritardo se continuava così.

"Ti voglio bene" disse Harvey.

Alfred restò senza parole per qualche secondo, spiazzato.

"Ehm" borbottò "Okay" e si richiuse la porta alle spalle.

Anche io ti voglio bene! Pensò subito dopo, perché non era riuscito a dirlo, era così semplice! Forse era solo perché non se lo era aspettato, si prese in giro da solo.

Alfred sapeva di avere sempre avuto problemi a dire una cosa del genere, a esprimere i propri sentimenti, con tutti, perfino con i suoi genitori, con suo fratello, perfino con gli amici, e a quanto pare non ci riusciva neppure con gli animali.

Eppure, per Harvey era stato del tutto spontaneo.

Forse era vero che gli animali avevano un circuito mentale molto più semplice degli umani e riuscivano per questo a essere molto più felici.

Lui era il suo padrone, gli dava il cibo e gli aveva regalato un giubbetto e una macchinina.

Gli voleva bene. Era la conseguenza più naturale del mondo.

"Archivia questo pensiero, non è niente di grave, stai facendo progressi" si ripeteva mentre guidava, ma invece continuava a pensarci "In fondo è anche per questo che stai andando dove stai andando, no?"

Arrivò appena un minuto dopo le cinque e mezza e la segretaria aveva già chiamato il suo nome, e lo aveva ripetuto scocciata proprio mentre lui entrava trafelato nella sala d'aspetto.

"Eccomi!"

"Stavo per chiamare il prossimo" fece quella antipatica squadrandolo, sotto gli occhiali a mezzaluna.

"Sono in ritardo solo di un minuto!" protestò. Non gli era mai piaciuta quella lì, aveva la faccia di chi odia il proprio lavoro e non si era mai sforzata di essere gentile con lui.

Ma Alfred sapeva che comunque era inutile discutere, così entrò nello studio senza aggiungere altro.

"Buon pomeriggio, Alfred, come ti senti, oggi?" disse la dottoressa.

Era seduta sulla sua poltrona e indossava, come spesso accadeva, una gonna tagliata al ginocchio, che scopriva le sue belle gambe, snelle e allenate.

Alfred gliele sbirciava sempre senza farsi notare, o almeno sperava che lei non se ne fosse mai accorta.

"Ciao Vanna. Ho un sacco di pensieri per la testa" fece Al, sedendosi sul lettino, non si sdraiava mai perché non riusciva a rilassarsi comunque.

"Hai voglia di raccontarmeli?" lo esortò la psicologa.

Alfred non poteva raccontarle ciò che era successo nella pasticceria, di quella specie di gnomo, della sostanza e men che mai del fatto che diventava una persona obesa, tutto per via del contratto, così tentò di spiegare come si sentiva senza però essere troppo specifico.

"Mi stanno succedendo cose davvero strane, ultimamente, mi sento come se avessi ottenuto un talento da sfruttare, ma non so bene come..." cominciò "Ho preso un criceto" disse "Sai che è proprio una bella compagnia?" e anche "Oggi ho suonato la mia fisarmonica! È stato bello..."

Alfred aveva iniziato ad andare in terapia da poco più di un anno, e su consiglio di Steve.

Precisamente, il motivo per cui ci andava non era il suo blocco emotivo. O almeno, non era solo quello. Ce lo aveva sempre avuto e ci aveva convissuto più o meno per tutta la sua vita.

Il motivo era Emily.

Emily era stata la sua migliore amica, l'aveva incontrata in quel disgraziato periodo in cui lui e Steve si erano allontanati.

In pratica, Steve lo aveva buttato fuori dalla band che avevano costituito insieme e se ne era fatto un'altra, insieme a quelle compagnie che Alfred non approvava, quelli che si radevano le sopracciglia per moda, si impiercingavano la lingua da soli e andavano in giro a fare scherzi idioti alla gente. E che, ovviamente, si drogavano.

Era stato allora che lui aveva abbandonato la musica e aveva continuato gli studi.

Lei frequentava l'università con lui, avevano dei corsi in comune e si erano laureati insieme.

Il giorno in cui era morta, avrebbero dovuto incontrarsi.

E lui avrebbe dovuto prendere coraggio e confessarle che avrebbe voluto trasformare la loro amicizia in qualcosa di più.

Le aveva chiesto di incontrarsi, ma la ragazza non si era mai presentata all'appuntamento, perché era stata investita da un'auto mentre vi si recava.

Era stata una fatalità, eppure Alfred si era convinto di essere lui il responsabile.

Perché, se non avesse aspettato tutto quel tempo per dichiararsi, se non fosse stato colto da tutti quei dubbi, se non si fosse fatto tutti quei problemi, non avrebbe avuto bisogno di organizzare a puntino quella uscita, non l'avrebbe invitata da nessuna parte e lei non sarebbe mai stata investita.

Aveva in fondo avuto un sacco di tempo per dirle quello che provava, ma non lo aveva mai fatto semplicemente perché non lo sapeva fare.

Dopo la sua morte era caduto in depressione.

Almeno, questo era ciò che aveva diagnosticato Steve, tornato nel frattempo nella sua vita anche per stargli accanto dopo quella tragedia.

Perché Steve non era un cattivo amico, aveva soltanto fatto l'errore di non capire quanto avesse ferito Alfred, andandosene in quel modo. Si era comportato da stupido, ma poi si era pentito e Alfred lo aveva giustificato.

Lui non pensava di esser stato depresso, non poteva dire che si sentisse perfettamente bene, ma non aveva mai pensato di suicidarsi o di farsi del male.

Lui si era semplicemente oberato di lavoro.

La sua ossessione per la creazione della ciambella più dolce della Terra era nata soprattutto da questa situazione.

Nella sua concezione mentale, raggiungere quell'obbiettivo gli avrebbe addolcito la vita.

Vanna si mostrò come sempre incoraggiante e apprezzò sia il fatto che avesse preso un animale da compagnia, sia che avesse ricominciato a suonare.

"Non ho ricominciato" precisò "L'ho fatto oggi perché non trovavo le parole..."

"Perché non lasci che sia la musica a parlare per te?" gli propose Vanna "Ti posso dare un compito, se vuoi. Potresti provare a scrivere una canzone."

Alfred ci pensò su "Potrei. Ma chiederei aiuto a Steve" disse, perché con i testi non era mai stato molto bravo. Poi però scartò subito quella idea "No, lui penserebbe che voglio rimettere insieme la band..."

Continuò a rimuginare sul compito che Vanna gli aveva assegnato anche quando il tempo a sua disposizione scadde, e alla fine decise di lasciare perdere i consigli della psicologa e di non toccare mai più la fisarmonica.

Quel capitolo della sua vita era chiuso, in fondo. Perché avrebbe dovuto riaprirlo?

Quando ritornò a casa la trovò allagata.

"HARVEY!" urlò "Che cosa hai combinato?"

Harvey si trovava a pancia all'aria in una pozza di zucchero sciolto.

A quanto pareva, aveva rubato un ghiacciolo alla frutta dal freezer e aveva lasciato aperto lo sportello, così il ghiaccio si era squagliato e si era bagnato tutto il pavimento.

Harvey aveva fatto indigestione ed il suo piccolo stomaco era rimasto congestionato.

Alfred rimase di sasso.

Versò qualche piccola lacrima silenziosa mentre lo raccoglieva e lo andava a seppellire dietro casa, nel giardino. Era ancora caldo.

Si sentì come sbeffeggiato dal destino, ecco qualcun altro che moriva prima che lui potesse dirgli che gli aveva voluto bene.

Proprio come Emily.

La seduta di terapia cui aveva appena partecipato non aveva allora avuto senso di esistere...

Aveva scavato la piccola buca utilizzando una vanga per il giardinaggio, quella che usava per piantare i fiori. L'aveva fatta abbastanza profonda e tonda, voleva che Harvey stesse il più comodo possibile.

Quindi, stava per poggiare il corpicino nella buca, poi lo avrebbe ricoperto di terra e sarebbe andato a letto presto e forse avrebbe morso il cuscino tutta la notte senza riuscire a dormire...

"Va tutto bene, Alfred?"

Restò a bocca aperta e sentì come se il meccanismo che muoveva le sue rotelle si stesse inceppando.

Harvey era completamente vivo e lo guardava con curiosità, ignaro di ciò che era stato sul punto di fare.

"Harvey!" gridò "Sei ancora vivo, oddio, stavo per... Oddio..."

Sembrava che non riuscisse più a respirare, aveva la sensazione che le sue vene fossero attraversate da delle scariche elettriche.

A quale razza di pericolo era appena scampato, Harvey non ne aveva neppure la più pallida idea.

"Che gioco stiamo facendo, Alfred?" fece il criceto, in tono allegro.

"Eh... Ah..." aveva anche perso la capacità di parlare, adesso?

Prese un profondo respiro.

"Non stiamo giocando. Pensavo che fossi morto e stavo per seppellirti" sussurrò.

Harvey sembrò non capire sul serio. Era meglio così, la prospettiva di venire seppellito vivo per errore lo avrebbe di certo terrorizzato, se l'avesse afferrata appieno.

Lo riportò in casa e lo lasciò giocare con la sua macchinina, non prima di avergli fatto promettere di non fare altri danni. E di aspettare lui, se gli veniva di nuovo fame.

Per fortuna, i ghiaccioli, anche se non sono indicati per la loro alimentazione ideale, non sono letali per i criceti.

Il cioccolato, quello sì che è tossico!

Gli venne un brivido, e se avesse deciso di mettersi a cercare proprio quello?

Si ripromise di mettere sotto chiave la sua scorta, non poteva assolutamente permettersi un'altra simile imprudenza di quel genere.

Mentre si lavava le mani dal terriccio che vi era rimasto sopra, gli venne dentro una specie di rabbia, non riusciva a credere a ciò che era appena accaduto, si sentiva un vero idiota.

Ma poi si ricordò che comunque Harvey era solo un animaletto, e si sa che gli animali durano poco, ma la cosa che lo aveva fatto arrabbiare era che ci aveva pure parlato ed era stato così incauto da rischiare di perderlo in questo modo!

Non sentirti in colpa, ordinò a se stesso mentre stava asciugando il pavimento, Devi sentirti sollevato, non arrabbiato, senza contare che non hai fatto nulla per causare questa cosa... Non questa volta.

Gli sembrò di sentirsi un po' meglio.

Si preparò una cena molto leggera, un petto di pollo e una semplice insalata, e diede ad Harvey un pezzetto di carota.

Era davvero carino il modo in cui se la mordicchiava tutta, era pieno di vita.

Mentre mangiavano, prese una penna e appuntò alcune note che gli venivano in mente, direttamente sul tovagliolo.

Scrisse di getto un breve brano che iniziava malinconico e poi diventava allegro, seguiva il flusso delle sue sensazioni, e poi lo suonò sulla fisarmonica facendolo ascoltare ad Harvey, anche se poco prima si era ripromesso di non suonarla mai più, ma questa era una occasione particolare, poiché era ancora spaventato, ma contento di aver scongiurato qualcosa di irreparabile.

Quando finì, rimase per un po' immobile a fissare il vuoto, in attesa di non sapeva nemmeno lui che cosa.

Forse di un applauso.

Forse di qualcuno che gli gettasse in faccia un secchio d'acqua.

Ma naturalmente Harvey non fece nulla.

In realtà si stava chiedendo se non avrebbe dovuto comporre un requiem in onore di Emily.

Una canzone in cui esprimere quello che a suo tempo non era riuscito a dirle.

Forse questo lo avrebbe aiutato ad alleggerirsi un po' la coscienza.

A vederla da un'altra prospettiva, sembrava una idea piuttosto ridicola, e probabilmente avrebbe ribaltato il senso del suggerimento di Vanna, perché avrebbe acuito la sua melanconia, invece di placarla.

E poi, qualcosa gli diceva che ormai era troppo tardi e che non sarebbe servito a niente.

L'anima di Emily era andata in cielo da tempo.

E lui l'aveva accettato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Author's corner:

Ehi picciriddi, chi lo avrebbe mai detto, sono riuscita a pubblicare un capitolo prima di tornare in Italia per le vacanze. Che cosa ne dite, vi è piaciuto, vi sareste aspettati questi risvolti nella backstory di Alfred, le sue azioni e/o atteggiamenti vi sembrano verosimili, o è sempre tutto troppo forzato? Mi sa che questa commedia sfiorerà temi un tantino più seri, d'altra parte lo faccio sempre, è il mio stile.
Voglio ringraziare l'utente Skycendre del duo Sagas per le sue gentilissime recensioni, ma se anche qualcun altro decidesse di farmi conoscere il suo giudizio sul mio lavoro non mi dispiacerebbe affatto! E allora vi aspetto!
Un grande kiss dalla vostra british dottoressa bulmasanzo!

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Capitolo 4
*** Se ti prestano dei soldi, nascondili! ***


Capitolo 4

 

 

Le sirene della polizia risuonarono per la via, Steve si affrettò ad accostare per far passare la volante. Essa sfrecciò a tutta birra, infilandosi subito dopo nella corsia di sorpasso.

"Che fretta" pensò, con una lieve apprensione "Staranno inseguendo qualche criminale?"

Continuò, seguendo, senza saperlo, la stessa direzione che aveva preso quella macchina della polizia.

Più avanti, la ritrovò.

Era ferma di fronte alla ciambelleria di Alfred.

L'insegna semplice, che recitava in modo molto poco fantasioso 'Ciambelleria' a lettere maiuscole, rosa pallido su sfondo bianco, appariva come il presagio di un delitto.

"Mio Dio!" si allarmò "È successo qualcosa! In effetti Al era un po' strano l'altra volta, non voleva dirmi che problemi aveva avuto, probabilmente ha..."

Si interruppe, un poliziotto era appena uscito dal negozio con un pacchetto sottobraccio.

Raggiunse il suo collega in auto e ripartirono a sirene spiegate.

Steve li guardò sconcertato.

Non c'era nessuna emergenza, dunque, volevano solo arrivare in fretta per poter comprare delle dannatissime ciambelle!

Alfred era come sempre al bancone, aveva il gomito sul ripiano e la testa poggiata sul pugno, sembrava annoiato.

Steve fece tintinnare la campanella e richiamò la sua attenzione.

"Ti prego, dimmi che non hai appena venduto delle doughnuts a quei poliziotti"

Al girò appena gli occhi "Una scatola da cinque, gusti assortiti" disse.

"Mannaggia al luogo comune!" fece Steve, incredulo.

"Perché?" Al si stiracchiò "A me conviene"

"Quelli mi hanno sorpassato poco fa con le sirene accese, come se stessero inseguendo qualcuno!"

"Ma è così, infatti. Stavano inseguendo lo sconto" spiegò Al "C'è una offerta limitata, che dura solo oggi fino a..." guardò rapidamente l'orologio "...È scaduta da tre minuti, toh! Spiacente, Steve, tu dovrai pagare prezzo pieno"

Steve mise su un broncio "Al, non è divertente, quelli abusano del loro potere, lo sai?"

"Eh, ma non devi preoccuparti" sorrise Al "Fatman farà tutto il lavoro per loro".

Steve sbuffò "Certo. Fatman."

Si sedette e Al si mise i pugni sui fianchi.

"A te non piace Fatman" disse.

"No di certo" ammise Steve "È un ciccione che se ne va in giro a far finta di fare il super eroe, quando l'ordine dovrebbe essere mantenuto da chi è pagato per farlo"

Al sembrò stranamente turbato.

"Non mi sembra che faccia finta, io penso che stia aiutando bene la città"

"Per carità! È solo un pagliaccio!" esclamò Steve esasperato.

"Non hai sentito dello scippo che ha sventato? Della banda di taccheggiatori che ha sgominato? Del borseggiatore che ha beccato con le mani nelle tasche di quella signora?" elencò Al.

"Sono tutti reati minori." fece Steve noncurante.

"Beh, dà una mano!"

"Mah, ho un mezzo sospetto che si sia preso il merito senza in realtà muovere un dito"

"Già, e i testimoni li ha pagati?"

"Non mi stupirebbe. Te lo dico io, quello sta solo cercando di far parlare di sé"

"Perché lo pensi?" Al si strinse nelle spalle "Magari vuole davvero solo aiutare la gente"

"Perché dovrebbe? Nessuno fa niente per niente!"

"Perché, tu pensi che quando qualcuno fa una cosa gentile deve per forza averne un tornaconto?" disse Al "Ci sono persone migliori di quanto credi, in questa città"

"Ma dove vivi? Insomma, 'sto cicciobomba dovrà pur pagare le tasse, no? Secondo te, andandosene in giro ad aiutare le persone senza chiedere nulla in cambio, come cavolo le paga?"

"Ehm" fece Al "Ma che ne sai, magari fa questo nel tempo libero e, per il resto, è una persona normalissima con un lavoro normale, forse perfino una famiglia..."

"Quel lardone? Non ci conterei.

E poi, che tipo di lavoro potrebbe fare un tipo così grasso? Neppure al Mc Donalds hanno una divisa così grande."

Al si grattava la faccia, come in cerca di un argomento per ribattere "Hai la luna storta?" gli chiese invece.

Steve sospirò e si prese un bombolone dal frigo, senza neppure chiedere, e lo addentò.

"Ehi, quello ti costa due dollari" lo rimproverò Al.

"Due dollari per i clienti normali. Ma per me?"

"Due dollari" confermò Al, spingendo indietro la sedia.

"Sei proprio un amico di merda" disse Steve roteando gli occhi.

"Ho anche io le mie tasse da pagare, sai?"

Steve depositò due dollari sul bancone con fare sprezzante "Spero che ti ci compri le medicine con questi" sibilò.

"Avevo ragione, hai proprio la luna storta" disse Al ridendo. Ma Steve non rise.

"Stamani ho perso il mio lavoro" rivelò a bruciapelo "Ero passato di qua per dirtelo"

Il sorriso di Al disparve subito "Oh no!" fece "Di nuovo? Che cosa hai fatto, questa volta?"

"Niente, ho detto al capo che... Non ero perfettamente d'accordo con la sua politica..." rispose vago.

Era il terzo lavoro da cui Steve si faceva buttare fuori in sei mesi. Stavolta era stato qualcosa di più semplice, era bar tender in un pub, non avrebbe immaginato di perdere anche questo, quale idiota non riesce ad abbassare un rubinetto per spillare una stupida birra?

"Di' la verità, Steve" lo esortò Al.

"Il mio capo è un po' permaloso"

"Steve..."

"Non gli si può dire niente..."

"Cosa gli hai detto, di preciso?"

Steve tacque. Diede un altro morso al suo dolce e masticò con lentezza, sembrava studiare con attenzione la crema che ne usciva fuori.

"Steve?"

"Gli ho detto che è uno stronzo" disse, senza alzare lo sguardo.

Al battè le palpebre "Eri ubriaco quando glielo hai detto, vero?"

"No!" strillò Steve, troppo in fretta "Avevo bevuto solo una pinta, giuro!"

"Steve. Anche se non eri ubriaco, se stavi rubando il suo alcool, aveva tutto il diritto di licenziarti"

"Ma... ma lo fanno tutti!" protestò "Ce l'aveva con me, è questa la verità"

"Beh, magari è vero. Non hai fatto che lamentartene fin dal primo giorno in cui hai cominciato questo nuovo lavoro, hai detto che aveva messo troppe regole..."

"Ehi, stai insinuando che è stata tutta colpa mia?"

"Non sto insinuando proprio un bel niente" ribattè Al "Dico solo che magari, visto che era il terzo lavoro che provavi a fare, avresti potuto provare a seguire quelle regole..."

"Per te è facile criticare, tu hai questo bel negozio, tu sei a posto per tutto il resto della tua vita..."

"Io ho dovuto accendere un mutuo per poter aprire la mia ciambelleria, e non ho ancora finito di pagarlo!"

"Vabbè, quello che volevo dire è che non hai nessun dannato capo sopra di te, sei il capo di te stesso..." Steve esitò, gli occhi di colpo sgranati mentre una nuova idea gli balenava in testa "Al" fece "Potresti assumermi qui!"

"Che cosa?" urlò lui, confuso.

"Sono al verde, Al. Assumimi nella tua pasticceria!" ripetè Steve.

"Ehm... Non sto cercando nessuno, al momento"

"Alfred! Ti sto chiedendo un favore come amico!" gli occhi di Steve si sforzavano per sembrare il più disperati possibile "Avrai pur bisogno di qualcuno che ti dia una mano, non puoi mica fare tutto da solo"

"Me la cavo benissimo" Al sembrava in difficoltà.

Steve cercò di insistere, più che altro perché gli sembrava assurdo che il suo migliore amico gli potesse rifiutare un aiuto quando ne aveva bisogno.

Non sapeva che Alfred aveva soltanto una paura, che Steve potesse scoprire la sostanza, i suoi esperimenti, il suo segreto... La prospettiva lo spaventava a morte, perché a quel punto avrebbe dovuto spiegargli tutto e sarebbe andato contro le clausole del contratto che aveva firmato con il sangue. Era da un po' che iniziava a preoccuparsi seriamente delle conseguenze.

"Non ho le finanze per assumere qualcuno a tempo pieno, al momento" disse con calma "Però ti concedo volentieri un prestito"

Andò alla cassa, premette un certo bottone aprendo il cassettino. Tirò fuori una manciata di banconote e si mise a contarle. Aggiunse anche quei due dollari che Steve gli aveva appena dato per il bombolone.

Questi lo guardò con sdegno.

"Non ho bisogno di un prestito, Al. Ho bisogno di un lavoro"

Alfred aggrottò la fronte. "In questo caso, io non posso aiutarti" suonava dispiaciuto per davvero.

"Potresti aiutarmi! La verità è che non vuoi" lo accusò.

Alfred abbassò lo sguardo.

"Perché non mi vuoi aiutare, Al?"

Alfred aprì le braccia e sollevò il capo all'indietro in un gesto esasperato "Ma cosa ti aspetti da me? Gli affari non vanno così bene, non fosse per Jon e quei due poliziotti stereotipati, questo posto sarebbe praticamente vuoto"

"Non posso crederci, Al, dopo quello che io ho fatto per te, stai rifiutando di aiutarmi!" Steve era molto offeso.

"Ma non vedi che io voglio aiutarti?" Alfred avanzò disperatamente il malloppo di denaro, cercando di metterglielo in mano "Prendili, per favore, me li restituirai quando avrai trovato un nuovo lavoro"

"Non ti ho chiesto l'elemosina!"

"Non posso fare nient'altro"

"Non riuscirò a ridarteli in tempi brevi!"

"Non importa, non c'è alcuna fretta"

(Basta che stai lontano dal mio laboratorio) aggiunse mentalmente.

Steve emise una specie di grugnito di rabbia.

Con un gesto brusco afferrò i soldi e se li mise nella tasca interna del suo giacchetto. Non era veramente nella posizione di rifiutarli.

Poi prese un'altra ciambella alla marmellata, sempre senza chiedere il permesso. "Grazie" bofonchiò addentandola.

Al gli rivolse uno sguardo strano "Steve, ma hai pranzato oggi?"

"No, sono a digiuno da ieri sera, oggi ho fatto colazione con una pinta di birra e subito dopo sono stato licenziato"

Alfred si mise una mano sugli occhi.

"Vado in pausa tra due ore, ti offro il pranzo" si offrì.

"Uh" esitò Steve "Sul serio?"

"Sì, certo. Poi ti chiamo."

Erano entrati due clienti proprio in quel momento, Alfred si dedicò a loro e Steve uscì dalla ciambelleria.

Si diresse verso la sua auto.

Si strinse il giacchetto al petto e continuò a masticare la sua ciambella, aveva ancora i sentimenti confusi.

Salì in auto, cercando di organizzare nella sua testa il resto della giornata.

Ecco cosa avrebbe fatto.

Andare in banca, depositare i soldi che Al gli aveva prestato, fare un giro per schiarirsi le idee, tornare alla ciambelleria e farsi offrire il pranzo da Al...

Improvvisamente si sentì un approfittatore.

Dapprima era stato arrabbiato, ma ora stava considerando quanto fosse stato sfacciato a pretendere che Al lo assumesse.

Insomma, se gli aveva detto di no ci doveva essere una ragione valida, e al contempo il prestito era troppo consistente per credere che non potesse permetterselo.

"Sarà stato mica perché il mio curriculum è pieno di lavori falliti?" si chiese.

Il rombo dell'acceleratore lo avvisò che stava correndo, stava quasi per sforare il limite di velocità.

Non se ne era accorto.

Ci sarebbe mancata solo una multa, a quel punto, e avrebbe concluso quella bella giornata di merda.

Nel momento in cui rallentava, sentì un botto e le ruote dell'auto sbandarono.

Il volante gli sfuggì dalle mani roteando velocemente, allora tirò il freno a mano con tutta la sua forza.

L'auto si fermò stridendo, con un singhiozzo del motore che moriva.

Gli batteva il cuore.

Doveva calmarsi.

Si era sbagliato.

Non era ancora arrivato, il peggio.

Scese dall'auto e notò che aveva una gomma a terra.

Precisamente, la posteriore destra.

Ma la cosa davvero carina era che il motivo per cui era esplosa era un enorme chiodo acuminato, infilzato di diversi centimetri nel battistrada.

"Ma chi ce li ha messi?" si irritò, notandone molti altri, sparsi sull'asfalto.

"Li abbiamo messi noi, per farti fermare, andavi un po' veloce, sai com'è"

Steve non fece neppure in tempo a chiedere chi diavolo avesse parlato che si trovò la canna di una rivoltella puntata tra gli occhi.

Fece un salto all'indietro e urtò qualcuno che stava alle sue spalle.

"Non è possibile..." mormorò.

Quattro uomini dalla corporatura massiccia lo avevano circondato. Indossavano degli impermeabili e dei grossi cappelli che mettevano in ombra i loro volti.

"Facciamola semplice" cominciò quello che gli puntava la pistola addosso "Devi darci, senza protestare, quel bel malloppo di soldi che hai nella tasca della giacca"

Steve sgranò gli occhi "Come fate a sapere..."

"Genio, ti abbiamo visto" disse l'uomo che era alle sue spalle.

"Saresti dovuto essere più prudente" fece il terzo.

"Ma come..." balbettò.

Si iniziò a impanicare, gli occhi sfrecciavano da un lato all'altro della strada, alla ricerca di una via di fuga.

Eh no, non poteva star succedendo sul serio, prima veniva licenziato e dopo pure rapinato?

Quella giornata ce la stava mettendo tutta, per vincere il premio di giornata peggiore della sua vita.

Tentò di svicolarsi, passando attraverso lo spazio ristretto tra le spalle serrate di due di quegli uomini, e a quel punto venne afferrato per le braccia.

"No, vi prego!" urlò, adesso parecchio terrorizzato "Sono un poveraccio, questi soldi non sono neppure miei! Non..."

"Non urlare" uno degli uomini lo interruppe, afferrandogli i capelli per tirargli la testa all'indietro e tappandogli bruscamente la bocca con una mano.

Lo spinsero tutti e quattro, lo trascinarono, facendolo andare dietro un muro poco distante da dove c'era l'auto, allontanandosi così da quel punto forse troppo scoperto.

Steve si rese conto di avere appena ammesso, nel panico, di avere quei soldi.

Ma tanto, anche se avesse negato di averceli, gli avrebbero certamente frugato addosso.

Anzi, iniziavano già a farlo.

Non c'era modo di scappare.

L'uomo con l'arma gliela premette sulla fronte, Steve potè sentire quanto il metallo fosse freddo.

"Fatti un favore e prendili tu per noi" gli ordinò. Il suo tono era piatto, ma nascondeva una punta di impazienza.

E poi usò deliberatamente il pollice per caricare il cane della pistola.

Era pronto a sparargli!

Moriva anche l'ultima, irrazionale speranza che stessero scherzando.

"Va bene, basta che non mi fai male" disse Steve, con un filo di voce gracchiante che stentò a riconoscere come la propria.

Non aveva scelta, così si aprì la giacca e vi infilò la mano.

Lo tenevano sempre fermo, e appena tirò fuori i soldi gli acchiapparono il braccio e lo torsero, sfilandoglieli di mano.

"Poveraccio" ripetè l'aggressore. Fece passare il pollice sul bordo delle banconote facendole frusciare "A giudicare da questi, non mi sembri poi così povero"

"Non sono miei" disse di nuovo Steve "Prendeteli e andatevene"

"Aspetta, aspetta" fece quello "Che fretta hai?"

Steve strillò trasalendo, quando sentí la mano di uno di loro che gli si infilava nella tasca sul retro dei pantaloni.

Gli chiusero di nuovo la bocca e risero, sentendo quanto fosse enormemente spaventato.

Nella tasca c'era il suo telefono cellulare.

Nella custodia del telefono, una di quelle in pelle rigide che si aprivano e chiudevano con un magnete, c'era una fessura in cui se ne stava una carta di credito. Steve la teneva lì per comodità.

La estrassero.

"Uh, conto oro" lessero "Wow! Sembra qualcosa per gente importante"

Steve sentiva la derisione fendergli le guance come un rasoio appena affilato.

"Che ne pensi di andare in qualche sportello automatico a prelevare il resto dei tuoi soldi per noi?" ghignò quello che teneva la carta in mano "Così potrai dire di essere veramente un poveraccio"

Steve cercò disperatamente di dissuaderli.

Sapeva di non avere tanti contanti in banca, ma se gli avessero tolto anche quelli sarebbe finito a vivere sotto i ponti, non si sarebbe potuto più permettere di pagare un affitto.

Ed era già in ritardo di un paio di settimane, il padrone lo aveva definito un ex drogato inaffidabile, e questo era l'epiteto più gentile che era riuscito a trovare.

C'era uno sportello bancomat poco distante, i quattro delinquenti ce lo stavano spingendo contro.

Steve tentava di guardarsi intorno per capire se ci fosse qualcuno che potesse aiutarlo, ma loro gli bloccavano la visuale.

Poi lo piazzarono di fronte alla stazioncina, gli misero in mano la carta e gli puntarono nuovamente il revolver alla schiena.

"Sai come si fa, vero?" li sentiva ridere. Ridevano di lui.

Steve introdusse meccanicamente la carta dentro la fessura.

Comparve la scritta sullo schermo: "Digitare il codice PIN"

Il codice Pin...

Quale diavolo era il suo codice Pin?!

Steve si accorse che stava sudando. Il sangue gli pulsava, il cuore gli tamburava super velocemente.

Il codice Pin.

Non se lo ricordava per niente.

"Perché stai perdendo tempo?" sentì.

Il sangue gli andò alla testa, si sentì male.

Gli avrebbero sparato, era quella la fine della sua misera vita.

Non si era laureato, non aveva sfondato con la musica, non riusciva a mantenere un dannato lavoro, non aveva una ragazza fissa da secoli e doveva elemosinare soldi dal suo amico Al.

Era inutile, e ora la sua vita stava per fare la fine più ridicola che poteva.

Senza una ragione.

Respirava velocemente e non riusciva a parlare.

"Sei così terrorizzato che non ricordi il codice?" indovinò uno dei suoi aggressori.

"Ti conviene sforzarti a ricordare" ora la canna della rivoltella gli premeva sulla guancia.

Steve andò in iperventilazione.

Non voleva che gli sparassero.

Non voleva morire in una maniera così stupida.

Non prima di avere raddrizzato la sua vita.

Chiuse gli occhi e fece qualcosa che non faceva mai: pregò.

Accadde tutto molto in fretta, troppo in fretta.

Di colpo non sentì più la pressione dell'arma sulla faccia, la presa su di lui si sciolse e le urla dei quattro si accavallarono.

Steve si voltò, sgomento, e vide un grasso ciccione con indosso una tuta arancione brillante che sedeva sopra i corpi contorti di tre dei malviventi

I loro cappelli volavano via.

Urlavano, si agitavano, tentando di togliersi di dosso la massa di grasso che li bloccava.

"Fatman!" esclamò Steve sconvolto.

Il petto gli faceva male, aveva ancora il fiato corto.

Il bizzarro supereroe si mise ad alzare e piegare le ginocchia su e giù, a rimbalzare, come se stesse giocando con uno di quei palloni con il manico dei bambini.

I corpi dei delinquenti si appallottolarono, incastrandosi tra di loro e alla fine sembrava veramente che si fossero trasformati in una sfera.

Fatman afferrò le loro teste e le fece sbattere le une contro le altre.

Steve non aveva mai visto Fatman in viso, prima, ma gli sembrò che cercasse di tenerlo basso, come se non volesse farsi guardare.

Era senza parole e i suoi sentimenti erano contrastanti, ricordava le cose poco gentili che aveva detto poco prima su di lui, si chiedeva come avesse fatto a trovarlo, come avesse capito che era stato in pericolo, come...

Urlò.

Il quarto uomo, sfuggito alla carica, lo aveva afferrato alle spalle ed era disgraziatamente quello con la pistola.

Adesso gliela puntava apertamente sul cuore.

Steve registrò a mente tutti i punti in cui era stato minacciato.

Prima alla testa, poi alla schiena, alla guancia, ora al petto.

L'uomo era pericoloso.

"Brutto grassone" sputacchiò "Lascia stare i miei colleghi o questo poveraccio si troverà un bel buco in mezzo ai polmoni"

Ah, ecco.

Fatman strizzò gli occhi, le sue guancione ricoperte di ciccia sembrarono seppellirglieli.

Si alzò, rilasciando i tre uomini che si contorcevano, probabilmente agonizzanti nel dolore.

Erano semi paralizzati e sul punto di svenire.

Poi fece uno scatto così fulmineo che sarebbe stato del tutto impossibile da compiere, per una persona della sua stazza.

Chissà come, l'uomo che teneva Steve in ostaggio si trovò una delle sue enormi mani sulla faccia.

Gliela prendeva completamente tutta, il palmo da solo gli copriva occhi, naso e bocca.

Fatman spinse la sua testa contro il suolo, facendogliela sbattere violentemente.

Quello fu così sorpreso da quell'attacco che spalancò le braccia, lasciando così cadere Steve in avanti.

Non finì anche lui a terra, perché il braccio ciccione di Fatman bloccò la sua caduta.

La pistola saltò via e Fatman la afferrò.

Ma un colpo esplose con un boato assordante che fece sobbalzare Steve.

Lo aveva colpito? si chiese.

Il corpo adiposo di Fatman venne scosso in maniera violenta, la ciccia vibrava tutta attorno, come quando si lancia un sasso in uno stagno e le increspature agitano la calma piatta dell'acqua.

Ma poi il braccio si stese, la canna era rivolta verso il basso.

Fatman liberò il tamburo con un giro di dita e ne fece cader giù il bossolo vuoto, e poi tutti gli altri proiettili ancora all'interno.

Steve non riusciva a crederci, Fatman si era messo a galleggiare nell'aria mentre faceva questa cosa.

Lo aveva appena salvato.

Lo depositò qualche metro più in là, lo mise in piedi, ma appena lo lasciò, Steve si piegò, le sue ginocchia avevano ceduto.

Fatman teneva la faccia girata, i suoi capelli erano folti, ma gliene coprivano solo un lato.

Stava sudando, le vedeva benissimo quelle goccine che gli rotolavano giù per la faccia.

E Steve credette di scorgere del sangue mischiato a quel sudore.

Ma non vide bene, poiché egli ripartì a razzo, forse per attaccare di nuovo gli uomini a terra.

Poi tornò da lui e gli afferrò le braccia, spingendogliele in avanti.

Steve non capì, abbassò lo sguardo.

In una mano gli aveva messo i soldi, nell'altra il telefono e la sua carta di credito.

Nello schermo del cellulare vide che era stato digitato il numero della polizia, stava chiamando e dopo pochi secondi avevano già risposto.

"Pronto, pronto?" sentì "Polizia! Chi è? Qual è l'emergenza?"

Steve alzò gli occhi.

Fatman era sparito nel nulla, allo stesso modo in cui era comparso.

Steve realizzò in quel secondo che non aveva detto una parola per tutto il tempo, aveva solamente agito.

E lo aveva salvato, lo aveva salvato senza motivo, non era solo uno che voleva essere famoso, era un supereroe ed era reale, aveva messo fuori combattimento i criminali e gli aveva restituito ciò che gli avevano rubato.

Senza chiedere nulla in cambio.

Steve prese un profondo respiro, tentando di regolarizzare il battito del cuore.

Portò l'apparecchio all'orecchio, la voce del poliziotto continuava a chiedere spiegazioni.

"Smettetela di ingozzarvi di ciambelle e venite a prendere questi figli di puttana!"

 

 

 

 

 

 

 

note autrice:
Bene, sono tornata dalla vacanza! Come va?

Visto che lo scorso capitolo è stato, come dire, ignorato completamente, ho pensato di seguire i consigli che mi erano stati dati e di cambiare la sezione e aumentare il rating. Spero che in questo modo otterrò maggior pubblico... Non credo, ma tentar non nuoce, giusto?
Chiunque sia arrivato fin qui è invitato a lasciare una recensione :)
Ringrazio comunque quei quattro che hanno visualizzato lo scorso capitolo e chiunque abbia letto questo e gli altri! un kiss

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Capitolo 5
*** L'entità cresce, silenziosa e letale ***


Alfred si sentiva di cattivo umore.

Strinse forte il braccio dolente, mentre correva più in fretta che poteva, doveva raggiungere il suo negozio che aveva incautamente lasciato incustodito.

Aveva volato per raggiungere Steve, ma adesso non poteva più farlo, doveva contare sulla semplice forza delle sue gambe.

Aveva percepito che fosse in pericolo e non si era reso conto della distanza che aveva percorso per arrivare da lui.

Aveva agito di istinto, non aveva neppure immaginato di essere in grado di lottare contro dei veri criminali e di metterli fuori combattimento in quel modo.

In verità, aveva già sventato qualche piccolo crimine, ma quelli erano stati semplici, nessuno fino a quel momento gli aveva sparato addosso.

Il proiettile che era esploso durante la lotta era indiscutibilmente entrato nel suo braccio sinistro, e se fosse stato in condizioni normali, avrebbe trapassato la pelle e sarebbe uscito dall'altra parte. Invece, era rimbalzato fuori, come avesse incontrato un muro di cemento, lasciandovi però un solco.

Alfred aveva accusato sicuramente un grande impatto, ma non aveva sentito nessun bruciore, era stato 'normale', finché non era svanito l'effetto della sostanza, il che era avvenuto molto più in fretta del solito.

Era stato a quel punto che il dolore si era manifestato, e se all'inizio non sembrava così insopportabile, poco dopo pareva essersi moltiplicato per dieci.

Per pochi secondi ne era rimasto paralizzato.

Era caduto in ginocchio, aveva l'impressione che gli fosse stata portata via l'intera spalla.

Si agitò, intrappolato nella sua stessa tuta arancione da supereroe. E poi se la tirò su, riguadagnò i suoi abiti civili e si mise a correre, aveva l'impressione che qualcuno lo stesse guardando.

Arrivò con un fiatone esagerato, con i polmoni che urlavano pietà e il braccio che voleva staccarsi e cadere.

"Cavolo" riuscì a soffiare tra i denti.

Aveva sperato di non trovare nessuno, e invece c'era una coppia che riconobbe subito, erano Jon e sua moglie.

Lei era una signora che vestiva elegante, ma non eccessivamente da risultare pacchiana, con la sua pelliccia di finto visone, i capelli boccolosi biondi e il sorriso gioviale, si volse verso di lui con un grande sorriso. Il suo nome era Barbara ed era sposata con Jon da almeno quindici anni, durante i quali avevano avuto tre bambini.

Adoravano parlare di loro, ne erano orgogliosi e cominciavano sempre tutte le loro conversazioni dicendo che il più grande andava al primo anno di liceo scientifico, l'altro alle medie e la più giovane ancora all'asilo... Come se andare a scuola fosse un merito e non qualcosa di normale.

Ma non erano una scocciatura, erano una di quelle coppie gentili e disinteressate, quelli che li vedi per strada e non puoi fare a meno di augurarti di trovare un giorno anche tu una persona con cui passare il resto della tua vecchiaia.

Erano sicuramente passati per ringraziarlo per averli riforniti durante la festa, avvenuta ormai dieci giorni prima.

Alfred era sempre contento di incontrarli, ma questa volta avrebbe preferito di no, non era dell'umore per delle chiacchiere.

"Al, dove sei stato? Siamo qui da quindici minuti, non dovresti lasciare il banco abbandonato, non è buona educazione ed è... rischioso." fece Jon, con quel tono a metà tra lo scherzo e il rimprovero.

Alfred cercò di rispondere, ma aveva ancora il fiato corto. Si portò una mano sul cuore.

"Woah, tesoro" fece Barbara, una delle sue tipiche espressioni che le toglieva di dosso dieci anni "Ti senti bene?" si preoccupò.

"Stavi mica saltarellando da qualche parte facendo il supereroe?" Jon si mise a ridere, lo aveva detto per scherzare, ma Alfred sentì i peli della nuca rizzarsi all'udire quella parola.

Lo guardò. Glielo aveva detto?

Jon colse la sua espressione terrificata e tacque. "Era una battuta" specificò.

"Una battuta idiota" disse sua moglie "Mio marito dice sempre cose senza senso, pensa di essere divertente, pensa un po'!"

Alfred sospirò piano, sollevato.

No, non glielo aveva detto. Poteva fidarsi di Jon.

Si trascinò al bancone "Cosa posso fare per voi?" riuscì a dire, e riuscì perfino a tirar fuori un sorriso.

Che però si tramutò in uno spasmo.

C'era un uomo che fissava dalla vetrina, appostato dietro le spalle dei due clienti.

Aveva un impermeabile addosso e il viso scoperto.

La mascella squadrata era contratta, lo sguardo era truce e sorpreso allo stesso tempo.

Al lo riconobbe, perché lo aveva visto poco prima, era lo stesso tizio che aveva minacciato Steve con la rivoltella e che poi aveva colpito lui di striscio alla spalla.

Cosa ci faceva lì? Credeva, con il suo attacco, di averlo fatto svenire, credeva che Steve lo avesse fatto mettere in manette.

Era sfuggito alla cattura?

Lo aveva seguito?

Aveva visto che Fatman e lui erano la stessa persona?

"Ehi, Al?" richiamò la sua attenzione Jon "Ci sei?"

Alfred battè le palpebre e l'uomo non c'era più.

Ma aveva la netta sensazione che fosse ancora nei paraggi.

"Presente" disse.

"Sei diventato bianco, come se avessi visto un fantasma" si allarmò Barbara.

Alfred nascose la sua angoscia, pensava fosse finita, ma si era sbagliato.

Non aveva fatto abbastanza attenzione e ciò significava che adesso il suo segreto era a rischio.

Non solo il suo segreto, ma tutte le persone che conosceva sarebbero potute essere a rischio, per colpa di sua quella evitabilissima mancanza di attenzione.

Aveva voglia di prendersi a schiaffi da solo.

Che cosa si era messo in testa, seriamente aveva voluto giocare a fare il paladino della città?

Quello era un errore da dilettante e doveva porvi rimedio.

Ma senza farlo capire a nessuno.

Indossò una faccia da poker, rassicurò i suoi clienti, ridiventò la persona spensierata che tutti pensavano che lui fosse.

Non avrebbe mai scommesso un centesimo sulle proprie capacità attoriali, prima di quella giornata disgraziata.

Quando i due se ne andarono, finalmente, con il loro ordine sottobraccio, Alfred attese che si rimettessero in auto e partissero, poi chiuse subito il negozio e uscì fuori.

Si mise a ispezionare i dintorni, non trovando nessuno.

Eppure era sicuro che quel tipo fosse ancora lì.

Sembrava che la via fosse deserta e un po' si sentiva contento, un po' spiazzato.

Cosa si aspettava? Di trovarlo, pronto ad accusarlo di essere Fatman e minacciarlo di divulgare il suo segreto?

Quello di sicuro era andato via, si era preoccupato per nulla, non...

"Insomma, che cosa sei tu? Un dannato mutaforma? Un alieno?"

Alfred si voltò e vide proprio lui, con la schiena contro un albero, lo stesso uomo di prima, che lo affrontava a viso aperto.

"Non capisco di cosa parli" finse, anche se da ciò che aveva detto, poteva aspettarsi cosa fosse successo.

"Ti ho visto, eri un obeso e ti sei sgonfiato come un palloncino!" gli confermò lui "Tu sei quella caricatura di eroe che pattuglia la città."

Alfred lo fissò.

Il dolore alla spalla si era attenuato, e c'era qualcosa che lo spingeva in avanti.

L'unico testimone pericoloso era di fronte ai suoi occhi.

Sentì le sue gambe muoversi da sole, lui non aveva comandato loro di farlo.

Stava andando incontro a quel criminale, e la cosa assurda era che non si spaventava minimamente.

"Che succederebbe se si spargesse la voce?" fece l'uomo, in tono quasi ozioso.

"Tu non dirai nulla" disse Al con una calma innaturale "Così come non te ne andrai in giro a rubare ancora e a terrorizzare la gente. Altrimenti ti restituirò il favore che mi hai fatto."

Indicò la spalla, aprì lievemente la camicia per mostrare il grosso livido che c'era sulla pelle.

"Con la differenza che, se stavolta fossi io a sparare a te, tu moriresti dissanguato"

"Allora è vero, ti ho colpito!" fece lui impressionato "E non è stata una mia impressione, tutto quello che ti ha lasciato è un misero segno... ma come hai fatto?"

Alfred fece una smorfia, non voleva dirgli che quel segno gli aveva fatto malissimo.

"Ne vuoi uno pure tu? Quel pugno che ti ho tirato in faccia poco fa magari non è stato abbastanza convincente?"

Per nulla intimidito, l'uomo lo stette a fissare per appena tre secondi. Poi gli saltò addosso.

Non era armato, aveva perso la pistola, lo attaccò con le sole mani, convinto di trovare una resistenza nella media, poiché ora il corpo di Alfred era di dimensioni normali, qualsiasi cosa avesse fatto, adesso non ne aveva più le tracce addosso.

Alfred infatti non aveva ingerito la sostanza, ma da quando in qua era in grado di parare i pugni, da quando in qua riusciva a combattere, non aveva mai seguito neppure un corso base di autodifesa, non andava in palestra, non aveva la tartaruga sul ventre, né i pettorali pompati... allora da dove aveva tirato fuori quella forza?

Assestò un pugno in pieno volto al suo avversario, che fece un volo di un metro e si andò a schiantare contro l'albero.

Alfred guardò la propria mano ancora tesa. Non aveva idea neppure lui di come avesse fatto.

Si accorse che era terrorizzato da se stesso.

Questo non era lui, non assomigliava a nessuna delle sfaccettature della sua identità, non era il pacato pasticcere che vendeva le sue ciambelle fatte a mano con un sorriso, non era il timido e romantico musicista che catalizzava le sue emozioni scrivendo canzoni, non era il curiosone che faceva esperimenti... e non era un supereroe. Era qualcosa d'altro. Qualcosa di nuovo. Qualcosa che lo spaventava, qualcosa di potenzialmente malvagio.

Ecco, forse si era sbagliato sin dal principio, forse Fatman non era davvero un supereroe, forse era un supercattivo, forse aveva un lato oscuro che stava prendendo il sopravvento. Forse quella sostanza non era salutare.

Alfred si avvicinò all'uomo che aveva mandato al tappeto.

Questi lo guardava con odio, ma Alfred sapeva che era anche spaventato.

"Bene, allora... fai davvero schifo" lo insultò fregandosi il lato del mento con il dorso della mano, asciugando un lieve rivoletto di sangue che gli era colato giù.

Alfred gli tese una mano, solidale "Non volevo farti del male" disse "Mi sono soltanto difeso"

Lui schiaffeggiò la mano, rifiutandola, e si mise in piedi da solo. Doveva essere orgoglioso, perché tremava e cercava di nascondere il dolore che provava alla schiena.

"Vai a costituirti" gli consigliò Alfred "È la cosa migliore per te."

"Se lo faccio, dovrò raccontare quello che hai fatto, dovrò dire chi è stato a stendermi" ghignò lui.

Alfred portò una mano alle labbra, non voleva arrivare a questo, non era pronto, non sapeva come risolvere la situazione.

"Sai com'è che dicono nei film? So troppe cose, penso proprio che dovrai uccidermi" lo provocò l'uomo.

Alfred sobbalzò con virulenza.

Ma certo, aveva ragione! Quelle parole avevano senso.

Doveva ucciderlo, era l'unico modo per mantenere il segreto.

Perché non ci aveva pensato prima?

Era la soluzione più facile e veloce.

E la più efficace.

E gliela aveva suggerita proprio lui.

Quando abbassò gli occhi, si accorse di qualcosa di nuovo.

La sua mano si era gonfiata. Solo la sua mano, non il resto del corpo.

Spuntava dalla manica come una chela di granchio, sproporzionata e grottesca.

La mano grassa di un obeso, la mano di Fatman che nasceva dall'estremità del braccio di Alfred.

Non aveva mangiato la ciambella, ma forse la sostanza era ancora dentro di lui e quello era un effetto residuo, un effetto collaterale. Gli veniva in aiuto.

Ed era come se quella magnotta fosse dotata di una sua volontà, si muoveva per conto suo, come quello pseudoscientifico arto fantasma di cui si sente nelle storie incredibili in TV.

Il criminale la guardava sconcertato, come se tale vista lo ripugnasse.

"Lo stai rifacendo! Ma che cosa sei?" ripetè sussurrando, sembrava però che non volesse saperlo realmente.

Ma Al si accorse che la sua mano stava già stringendo il collo del malfattore, che annaspava.

La bocca si apriva e si chiudeva, la saliva veniva spruzzata un po' ovunque e la carotide vibrava sotto le sue dita. Emetteva grida soffocate.

Tentava di graffiarlo con le dita, ma era bloccato e non aveva scampo.

Gli occhi erano fuori dalle orbite, le guance blu, lo stava strozzando.

Era ciò che si meritava, pensò Alfred.

Se l'era voluta lui, aveva perso la ragione, si era gettato da solo nelle fauci del mostro.

Se c'era qualcuno da biasimare, quello non sarebbe stato di certo lui.

Fu quando i suoi occhi si rivoltarono nelle orbite che Alfred si irrigidì.

Sembravano gli occhi morti del pesce che si vende al mercato, erano diventati vitrei e acquosi.

Quella vista fece molta impressione ad Alfred.

Con orrore, lasciò andare la gola dell'uomo, che cadde a terra e iniziò a tossire spasmodicamente.

Era carponi e sputava sangue per davvero, stavolta.

Alfred sentì il bisogno impellente di allontanarsi da lui.

Era forse impazzito?

Davvero aveva considerato che ucciderlo fosse la soluzione?

Che cosa stava diventando?

Si voltò e ricominciò a correre.

Lo lasciò lì, non gli interessava più di fermarlo, tutto ciò che riusciva a pensare era che era stato sul punto di uccidere qualcuno. Lui. Lui!

E la cosa peggiore era che farlo mi sarebbe andato più che bene!

Non sarebbe dovuta andare in quel modo, non avrebbe mai più toccato la sostanza, avrebbe preso tutte le bottigliette e le avrebbe svuotate scaricandole nel gabinetto, ecco che cosa avrebbe fatto.

Non gli importava più niente di niente, non aveva chiesto di diventare un supereroe e neppure voleva esserlo.

Aveva paura di se stesso.

Voleva soltanto andare a casa e mettersi a urlare.

Tornò al negozio, prese la sua auto parcheggiata sul retro e andò dritto a casa.

Ma quando mise la mano sulla maniglia, si era scordato di avere la mano di Fatman, e fece tanta pressione che riuscì a scardinare la porta.

La vide volare a terra e schiantarsi con un fracasso tremendo.

Era orripilato.

Harvey comparve dall'interno, spaventato.

"Hai distrutto la porta" constatò.

Alfred tentò di rimetterla a posto, ma si sentiva come se fosse sul punto di vomitare.

Si strinse la bocca dello stomaco. Forse stava proprio per farlo.

La lasciò a terra, corse in bagno e quasi infilò la testa dentro la tazza.

Risentimento e un incredibile odio per se stesso raggiunsero lo scarico.

Sudava, respirava male, si sentiva come in un incubo.

Si fissò la mano gonfia. "Va' via" urlò "Non ti voglio!"

La mano si restrinse a vista d'occhio tornando alle dimensioni reali, come se avesse obbedito al suo ordine.

Pianse come un isterico.

Se Emily lo avesse visto in quel momento sarebbe stata disgustata da lui, pensò senza nessun motivo.

 

***

Il giorno seguente, Steve spalancò la porta del negozio e corse incontro al suo amico.

"Al" urlò "Mi spiace che non sono più venuto a pranzo con te, ma non indovinerai mai cosa mi è capitato ieri mattina!"

Al lo guardò con una faccia corrucciata, il suo cattivo umore era peggiorato dopo quella giornata assurda.

Aveva vomitato e pianto per tutta la notte, in preda a una lunghissima e devastante crisi di panico.

Harvey aveva continuato a strusciarglisi addosso, come cercando di dargli un conforto che non era riuscito a ottenere.

Era stato sul punto di liberarsi della sostanza per davvero, ma poi non lo aveva fatto. Qualcosa lo aveva fermato.

Non si prendono decisioni quando si è troppo tristi, o quando si è troppo felici, gli aveva sempre detto Emily.

Quella mattina non aveva voglia di lavorare, ma ci era andato lo stesso, si era trascinato. Anche se aveva un mal di testa terribile, e quando Steve aveva fatto irruzione, avrebbe voluto sbattegli in faccia la porta.

"Dopo aver lasciato il tuo negozio, sono stato preso di mira da un mucchio di malviventi... la paura che ho avuto non ne hai idea!"

Steve raccontava ciò che Al già sapeva come se fosse successo anni prima, con il tono sollevato di chi ha già affrontato il peggio.

Ma non lo sapeva che il peggio lo aveva affrontato lui.

"...Fatman mi ha salvato. Avevi ragione tu, è un brav'uomo, non lo fa per la gloria..."

Alfred si mise una mano sulla faccia e se la stropicciò, gli faceva male. Per poco non fece cadere gli occhiali, se li era messo anche per pigrizia, perché quella mattina non gli era andato di stare attento a infilarsi le lentine. Non aveva neppure fatto colazione, non aveva nemmeno preso un caffè.

Il tono entusiasta di Steve gli dava fastidio.

"...Solo uno è riuscito a scappare, ma lo prenderanno, ne sono sicuro"

"Steve" lo interruppe Alfred, brusco "Che cos'è che vuoi?"

Steve si congelò.

"Come?"

"Perché sei venuto qui?"

"Ma... Niente, ero venuto a raccontarti..."

"Se non hai da dirmi che hai trovato un lavoro, non mi interessa"

Steve abbassò le braccia. Finalmente lo guardò in faccia, e se anche si accorse del suo aspetto orribile, non disse comunque nulla a riguardo. "Cosa ti prende?" chiese invece. Era come se gli rimproverasse che quello non era di certo il tono di voce che si utilizza con un amico.

Al si passò la mano tra i capelli e si incomiciò a tirare i ricci dalla base, uno per uno. Era una cosa che gli capitava di fare, a volte, quando era stressato.

"Steve, ti rendi conto che entri nel mio dannato negozio tutte le volte comportandoti come se fossi a casa tua?" disse in un tono amarissimo "Io qua ci lavoro, sai? E magari la mattina non mi interessa ascoltare le tue stupide peripezie!"

Steve era completamente stupefatto.

"Alfred!" esclamò "Cosa cavolo dici? Sei diventato pazzo?"

"E se fossi diventato pazzo?" sbottò "Che cosa faresti?"

Steve era sempre più senza parole.

"Allora... Ricominciamo da capo."

Uscì dal negozio. Poi riaprì la porta ed entrò di nuovo.

Ding! "Ciao. Sono un cliente normale, sono venuto a comprare delle ciambelle per fare colazione" disse sorridendo.

Alfred lo guardò, adesso era lui a essere senza parole.

Steve aveva fatto una faccia buffissima, Alfred capì che aveva cercato di buttarla sullo scherzo.

Ma il problema era che Alfred era serissimo.

Steve era un disastro ambulante, ma aveva sempre appiccicata addosso quell'aria da ommioddio-ho-fatto-un-errore-che-mi-rincorre-ma-sono-cambiato-e-lo-dimostrerò, aveva i suoi capelli biondi lisci tutti belli sistemati.

Alfred invece in quei momenti appariva come lo spettro di se stesso.

Si accorse di quanto gli volesse bene, ma gliene voleva così tanto che avrebbe potuto odiarlo per questo.

E se avesse finito con il fargli del male?

Si alzò, gli andò incontro mestamente e, senza dir nulla, gli prese le mani.

"Al..." fece Steve.

"Non possiamo più essere amici" disse Alfred a bruciapelo.

"Cosa?" saltò su Steve.

"Vorrei tanto poterti spiegare" gemette Al "Credo di aver avuto un esaurimento nervoso"

"Di cosa stai..."

"Ho quasi trent'anni, Steve, volevo fare tante cose nella mia vita e invece ho aperto questo stupido negozio"

Stava improvvisando.

Dai motivazioni confuse, si diceva, confondilo, penserà che sei pazzo, e farà meno male della verità, sia a te che a lui.

"Al, ma tu sei..."

"Sono? Cosa sono?" la faccia di Al era stravolta, non era affatto in sé "Io non lo so quello che sono adesso! So solo quello che ero una volta, ero..." aveva assunto uno sguardo assorto, era come se fosse concentrato su qualcosa di invisibile, frapposto tra lui e Steve, qualcosa di grosso e di ipnotico "Ero creativo, ero intelligente, ero pieno di speranza e ingenuità. Lo sai cosa pensavo, prima? Pensavo che a questa età sarei stato già sposato con Emily..."

Steve aveva aperto la bocca per dir qualcosa, ma si era fermato. Quella era la prima volta che Al nominava Emily di fronte a lui, dal giorno del funerale. Ma evidentemente non aveva mai smesso di pensarci.

"Ho abbandonato i miei sogni troppo presto, e ora ho voglia di mollare tutto..."

"AL, DI COSA DIAVOLO STAI PARLANDO?" Steve si spazientì, non capiva più nulla di ciò che stava dicendo. Ed era proprio ciò che Al voleva.

"Mi è capitato qualcosa di orribile, Steve, ancora più orribile di ciò che è capitato a te. Non so più chi sono, non ho una direzione..."

Stava dicendo cose che non aveva idea di pensare, ma assurdamente sapeva che non stava mentendo, era vero che aveva avuto una specie di idea fissa, che lo aveva tormentato fino a quell'istante.

"Stop! Fermo! Qualsiasi cosa tu abbia, io posso aiutarti" si offerse Steve, accorato "Io sono il tuo migliore amico, spiegami cos'è che ti turba. Devi dirmelo, devi farmi capire! Ne hai parlato con la terapista?"

Alfred sentì la propria voce avvelenarsi quando disse "Non ci andrò più da quella succhiasoldi che non mi ha mai risolto mezzo problema!" e sapeva benissimo che questa era una bugia, Vanna lo aveva aiutato moltissimo.

"Pensavo che ti stesse aiutando" obiettò infatti Steve.

"Non penso che qualcuno possa aiutarmi."

Alfred sentiva posarsi dietro il collo la fredda lama del panico, sentiva di star diventando pericoloso.

Era arrabbiato, e temeva di impazzire e di prendersela con Steve, che non c'entrava niente ed era così caro...

"Credo che dovrò allontanarmi da te, credo che non potremo più essere amici"

"No!" gridò Steve, cocciuto "Perché te ne esci con questi discorsi? Cosa ti ho fatto?"

"Non sei tu, sono io!" Alfred si sentiva sul punto delle lacrime "Tu non te ne sei accorto, ma io sono cambiato, sono diverso, sono strano..." prese fiato, ansimava e sentiva il sangue bollire nelle vene, faceva caldo, voleva mettersi a petto nudo...

Sospirò, in realtà più che a un sospiro assomigliava a un ansito.

"Non ti voglio fare del male, se devo fare del male a qualcuno lo farò solo a me stesso" dichiarò.

"Non mi stai spiegando niente!" gridò Steve.

Al credette di vedere materialmente il suo cuore che si spezzava.

"Non voglio più essere tuo amico" ripetè, per la terza volta.

Non voleva impazzire di nuovo come era successo il giorno prima, cosa avrebbe fatto se avesse perso il controllo, se quella nube oscura fosse nuovamente calata su di lui?

Se gli occhi di Steve non fossero diventati come quelli di un pesce morto, ma si fossero semplicemente chiusi sotto le sue dita soffocatrici?

Se mantenere il segreto fosse diventata una ossessione così importante da arrivare a dover far del male pur di difenderlo?

"Alfred, chiaramente sei sconvolto e non capisci quello che dici" ritentò cocciutamente Steve, dalla sua faccia si vedeva come cercasse disperatamente di venirne a capo.

"Voglio che tu te ne vada. Non rimettere mai più un piede dentro questo negozio" disse Al lentamente.

"Ti prego, dimmi che scherzi" implorò Steve.

"Non scherzo per niente"

"Ma io ti... Ti devo dei soldi"

"Non mi interessano, te li puoi tenere"

"Fino a ieri non avevamo nessun problema..."

"Vai via, Steve"

All'improvviso, Steve lasciò stare il tono lamentoso e divenne furioso.

"Non credere che mi arrenderò così" gli puntò addosso un dito con fare minaccioso "Tu stesso mi dirai cosa cavolo ti è successo, quando questa malattia momentanea del cervello ti sarà passata" profetizzò.

E se ne andò, sbattendo la porta, come succedeva tutte le volte che litigavano.

Ma stavolta era diverso, Al sapeva di doverlo allontanare.

Perché, durante tutta la conversazione, aveva avuto davanti agli occhi la faccia stravolta dell'uomo che aveva quasi ucciso e, nella sua testa, essa si era continuamente sovrapposta a quella di Steve.

Aveva avuto voglia di farlo a pezzi. E non lo voleva davvero.

Si mise una mano sugli occhi, facendo sollevare gli occhiali, li tolse e con tanta rabbia li scagliò per terra. Le lenti non si ruppero.

Cosa cavolo era venuto a fare al lavoro?

Si maledì, si vergognò, sarebbe dovuto restare a casa a dormire.

Incrociò le braccia al petto e si artigliò le spalle.

Alfred sapeva di stare male.

Ciò che ancora non sapeva era che si sarebbe pentito di tutto ciò che aveva detto quella mattina, nel giorno in cui si sarebbe ritrovato in ginocchio a piangere, abbracciato come una piovra alla bara del suo vecchio amico Steve.

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Capitolo 6
*** L'ultimo giorno sulla Terra ***


Capitolo 6

 

"Wow! Non avevo mai visto una cosa del genere!" commentò il falegname "Questa porta è in legno massiccio, di solito quando cedono così, significa che sono tarlate. Come avranno fatto a scardinarla in questo modo? Sembra che l'abbiano tirata con un argano!"

"Non ne ho proprio idea" mentì Alfred. Passeggiava avanti e indietro, nervosamente "Sono tornato a casa e l'ho trovata così."

"E non ha chiamato la polizia?"

"So che dovrebbe essere la prima cosa da fare, ma in casa è tutto in ordine..."

L'artigiano gettò uno sguardo intorno, notando la confusione generale che regnava in quella casa.

"Volevo dire" riprese Alfred, arrossendo lievemente "Non mancava nulla, quindi chiunque abbia fatto questo non era un ladro, ma semplicemente un vandalo."

"Io, fossi in lei, una denuncia la farei comunque..."

"Ci penserò" si strinse nelle spalle Alfred "Pensa di riuscire a sistemare la mia porta in tempi brevi?"

"Certo che sì. C'è un bel danno qui, ma non credo che dovrò rimontarne una nuova" disse l'uomo, tornandosi a occupare del suo lavoro "Vado a prendere gli attrezzi adatti e il materiale e gliela riparo in giornata."

"Sarebbe grandioso" approvò Alfred "La ringrazio. Posso chiederle quanto verrà a costare?"

"Non molto, stia tranquillo" fece l'uomo e gli diede il preventivo.

"Bene" fece Alfred.

"Sto scendendo le scale, fate largooo!" si udì urlare dal piano di sopra. Seguì il rumore di qualcosa che rotolava giù, sbattendo su ogni gradino. Il viso di Alfred diventò di marmo.

Mentre il falegname fece una faccia stranita "Oh, lei ha un figlio, signor Matthews? Non lo sapevo" e la sua espressione eloquente disse 'ecco il motivo di tutto questo caos...'

"Ehm, no. È il mio... nipotino... Senta, potrebbe iniziare al più presto possibile, per favore? Ho davvero bisogno che sia riparata" fece sbrigativo Alfred.

"Stia tranquillo" ripetè l'uomo, trattenendosi dal ridacchiare. Se ne andò come se avesse capito cosa era successo in realtà, la porta l'aveva, in qualche modo, distrutta un bambino iperattivo!

Alfred andò ai piedi delle scale e trovò la famosa macchinina ribaltata...

"Harvey, sei diventato pazzo?" gridò tirandola su "Ti puoi far male, così!"

"Sono uno stuntman!" il criceto rideva, divertito da morire.

"Vuoi dire uno stunt-hampster!" lo corresse Alfred, contagiato suo malgrado dall'allegria dell'animaletto.

"E io che ho detto? Senti, poco fa c'era il tuo cellulare che hai lasciato di sopra che suonava" disse Harvey "È per questo che sono venuto giù. Per dirtelo." sembrava volesse aggiungere 'Perché io sono un bravo animaletto e ti aiuto'.

Alfred andò nella sua stanza a prenderlo e ci trovò cinque chiamate perse e quattro sms, tutto da parte di Steve.

Scorse in fretta i messaggi, che si assomigliavano un po' tutti, poi mise giù il telefono, non lo voleva nemmeno guardare, per non sentirsi in colpa. Fu Harvey che si mise a guardare lo schermo, sembrava incuriosito.

"Esse" disse, con un po' di difficoltà "Ti... E... V-vu..."

Alfred si stupì "Riesci anche a leggere, adesso?" era una sorpresa. Aveva capito che potesse parlare, e fare domande a volte pure scomode, ma non credeva fosse anche in grado di fare quello.

"E" finì Harvey "S T E V E. Che cosa significa... StEvE?" lo pronunciò con tutte le vocali aperte.

"È il nome del mio migliore amico." disse automaticamente Alfred.

Harvey trasalì visibilimente. Assomigliava sempre più, negli atteggiamenti e nelle azioni, a un pelosetto essere umano in miniatura.

"Che c'è?"

"Avevi detto che ero io il tuo migliore amico!" si scandalizzò.

Alfred pensò che in realtà non lo avesse mai detto. Ma non voleva deludere quella palletta di pelo.

"Lo sei" lo assecondò "In realtà, possiamo dire che Steve non sia più il mio migliore amico"

"Lo era prima...?"

"Abbiamo litigato."

"Ma se Steve non è più il tuo migliore amico, questo significa che ora lo sono io!" osservò.

Alfred alzò la testa, sorrise, anche se una parte di lui non voleva pensare che fosse vero "Direi di sì"

"Non va bene, sai?"

Alfred fece una smorfia "Ah no? Ma non hai appena detto che è ciò che volevi?"

"Ma lo sanno tutti che i migliori amici dei supereroi finiscono sempre nei guai, questo mette me in pericolo, non vale!"

Alfred era incerto se dovesse prenderlo sul serio.

"Ma tu sei... soltanto un criceto" disse.

Harvey finse di essersi mortalmente offeso. Chiuse gli occhietti e abbassò il muso "Come ti permetti" pigolò, in tono teatrale.

Restarono in silenzio.

Alfred si trovò a riflettere sul fatto che fosse destinato ad avere un criceto come migliore amico. Ne aveva già avuti due, entrambe le volte era andata a finire da schifo. Emily era morta e Steve doveva essere allontanato a tutti i costi.

Si chiese se alla fine non sarebbe impazzito. Anzi, si chiese se non fosse già impazzito. In fondo, stava parlando con un dannato criceto!

"Alfred, ma cosa succederà quando ti innamorerai?" se ne uscì Harvey, di punto in bianco.

Al sgranò gli occhi. Reputò tale domanda molto divertente, infatti scoppiò a ridere.

"I supereroi sono destinati a essere single" dichiarò. Era molto serio.

 

***

Suzanne cercava le chiavi di casa, che sarebbero dovute essere seppellite da qualche parte, nel fondo della sua borsetta. Imprecava a voce bassa perché non le riusciva a trovare. A volte immaginava che dentro quel maledetto accessorio vi fosse un buco nero, oppure un mostro invisibile che si divertisse a inghiottire tutta la sua roba, per risputarla poi quando ormai non la stava più cercando.

Aveva una sporta per terra appoggiata alle sue gambe, dentro c'erano dei surgelati e delle confezioni di gelato che aveva appena preso al supermercato, che si scioglievano inesorabilmente mentre lei perdeva tempo a frugare nella borsa.

Infine ci rinunciò, premette il campanello esasperata e la porta si aprì dopo una manciata di secondi.

"Hai scordato le chiavi in casa. Stavo per chiamarti, ma hai lasciato in casa pure il cellulare" disse Steve, guardandola con un sguardo divertito solo per metà.

"Non capisco dove ho la testa" sospirò la ragazza tirando su la spesa. Si diresse subito in cucina e aprì il freezer, cominciando a schiaffarci dentro la roba.

"Come va la ricerca di un lavoro?" chiese in tono distratto, mentre lasciava fuori un barattolo di gelato alla fragola e cercava un paio di coppe.

"Domanda di riserva?" fece Steve. Stava fumando appoggiato alla finestra, dalla quale si staccò per raggiungere il posacenere.

Suzanne preparò due coppe di gelato e ne avanzò una a Steve. Lui la prese, ma la appoggiò sul tavolo senza toccarla. Si accese invece un'altra sigaretta.

Suzanne guardò il posacenere pieno di cicche, disapprovando.

"Da quand'è che hai ricominciato?" chiese, infilandosi in bocca una generosa cucchiaiata di gelato.

"Da quando tutto sembra andarmi storto" fece teatrale Steve, buttando fuori una boccata di fumo di forma perfettamente circolare.

"Proprio in questo momento della tua vita in cui non hai un lavoro, dovresti moderarti, sai? Non ti fa neppure bene"

"Fa bene ai nervi"

"Ma non ai polmoni... E neppure al portafogli"

"I soldi vanno e vengono" si strinse nelle spalle lui.

"Già, ma io vedo solo denaro che se ne va in cenere e che non torna, visto che, sai, non hai un lavoro"

"Piantala di ripeterlo, lo troverò!" fece lui brusco. Era evidente che quella cosa lo infastidiva.

Suzanne lo guardò. Non le sembrava neppure un po' sincero.

Sembrava aver combinato un casino con la sua vita.

Nel giro dell'ultima settimana gli era successo di tutto, perciò non avrebbe realmente voluto assillarlo. Ma il padrone di casa minacciava di buttarlo fuori già da un po'. Steve aveva ottenuto un prestito da un suo amico e aveva saldato, ma quello non si fidava di lui, e a ragione.

Ma Steve non si smuoveva, pareva prendere la ricerca del lavoro molto alla leggera, in realtà Suzanne aveva paura che si stesse deprimendo a causa di tutti quei fallimenti. Non era piacevole vederlo in quello stato.

Era capitato sempre più spesso, negli ultimi tempi, che lei fosse venuta a casa sua. Lo faceva volentieri e lo aiutava come poteva, per esempio, come in quel caso, gli faceva lei la spesa.

In fondo, non è che avesse un vero motivo per farlo, ma erano cugini, erano cresciuti assieme, gli voleva bene e sapeva che lui si sarebbe comportato allo stesso modo per lei.

Steve seguitava a fumare come una ciminiera. A lei il fumo aveva sempre dato molto fastidio e non sopportava vederglielo fare, specialmente se era proprio di fronte a lei.

A un tratto, si inumidí le dita e strinse la parte accesa della sigaretta, spegnendogliela e nel contempo scippandogliela dalle labbra.

Quando Steve aprì la bocca per protestare lei vi ficcò dentro un cucchiaio pieno di gelato.

Poi scappò via, verso la porta. Afferrò cellulare e chiavi, li infilò in borsa e uscì di casa senza dire una parola.

Steve restò a fissare la porta. Quella stronza, pensò. Ma non la stava insultando per davvero, sapeva bene quanto avesse ragione!

Dopo aver subito la rapina, aveva avuto una scarica di adrenalina e aveva creduto di aver ottenuto la spinta giusta per darsi la proverbiale mossa. Ma poi l'assurda discussione con Alfred lo aveva scoraggiato.

Adesso si trovava in uno stato d'animo strano, era una situazione di incertezza che non aveva mai conosciuto nel corso della propria esistenza. Era come se si affacciasse sulla bocca di un lunghissimo tunnel, senza riuscire a vederne la fine, quel tunnel oscuro che era il suo futuro. Vedeva solo buio.

Ma Suzanne, per quanto gli avesse mostrato quanto desiderasse aiutarlo, gli poteva al massimo soltanto reggere una candela, non poteva certo pretendere che lo accompagnasse fino alla fine.

Non aveva ancora fatto riparare la gomma che i criminali gli avevano squarciato, era da tutto quel finesettimana che si muoveva in autobus.

Finí con calma il gelato, riflettendo su ciò che doveva fare.

Sarebbe uscito anche lui, decise, avrebbe chiamato il gommista, che di sicuro si sarebbe fatto vivo solo il lunedì seguente. Fissato quell'appuntamento, avrebbe preso l'autobus e sarebbe andato da Alfred. Lo avrebbe supplicato di parlare con lui, se necessario, era assolutamente convinto che avrebbe ancora potuto salvare quell'amicizia in pericolo.

Al era importante per lui, lo aveva già perso una volta e non gli avrebbe certo permesso di comportarsi da stupido e ripetere quell'errore che aveva già commesso per lui.

Più tardi si trovava alla fermata, accompagnato dalla musica del suo lettore mp3 portatile, con una carpetta piena di copie del suo curriculum sottobraccio.

Era domenica, dunque sapeva già che non ne avrebbe dati moltissimi in giro, ma almeno un paio voleva toglierseli, più che altro per pulirsi la coscienza di non avere completamente sprecato quella giornata.

Quando l'autobus arrivò, interruppe la voce lamentosa di Damon Albarn che cantava nelle sue orecchie, chiedendosi cosa ci fosse di sbagliato in lui per avere pensato così tante volte al suicidio... Si accorse che magari non era esattamente la canzone giusta per quel momento, così cercò qualcosa di più allegro da mettere su.

Trovato posto, chiuse gli occhi e poggiò la testa contro il finestrino, come se dormisse, in realtà si prendeva quei minuti di viaggio per riflettere e decidere cosa fare.

Fu un po' deluso, perché era evidente che la ciambelleria fosse rimasta chiusa quel giorno, l'insegna non era illuminata e la serranda era abbassata.

Di solito, di domenica, Al la teneva aperta fino alle quattro e mezza. Conosceva le sue abitudini, si alzava presto tutte le mattine, quindi apriva sempre comunque, e solo il sabato si concedeva di tenere chiuso. Invece, pareva che questa settimana si fosse preso un altro giorno.

Questa cosa lo preoccupava, non era da lui, e considerando anche quanto lo avesse visto turbato nei giorni precedenti, iniziò a chiedersi dove fosse.

Forse in realtà stava solo rimandando ancora una volta la ricerca del lavoro. Archiviò dunque questo problema, si ripromise di andarlo a trovare direttamente in casa sua. Ma per il momento doveva darsi da fare.

Verso il tramonto, aveva dato il suo CV in tre posti diversi.

Decise che era soddisfatto e si accingeva a tornare a casa, il cielo si stava appena tingendo di rosso, ma c'era una nuvola carica di pioggia che copriva il sole, dando l'impressione che fosse già più tardi.

Tornò alla fermata del bus per poter tornare indietro, mise le cuffiette e la voce di Damon Albarn tornò ad accoglierlo, stavolta non si deprimeva, quel dannato bastardo, ma stava invitando la gente a concedersi una colazione nutriente...

Gli venne una discreta fame, nell'ascoltare quella canzone.

Non aveva ingurgitato altro che quella misera porzione di gelato di prima per tutta la giornata, e sapeva che non gli faceva per niente bene.

Pensò a cosa avesse in freezer. Suzanne gli aveva preso delle cotolette che si potevano scongelare direttamente in forno. Gliele aveva prese perché sapeva benissimo che lui non era capace a cucinare. La benedisse con la mente, poteva dire che quella ragazza fosse davvero la sua migliore amica. Certo, a parte Al.

Lui ci aveva scherzato, ma magari avrebbe dovuto veramente farli incontrare, quei due. Erano parecchio diversi, Al era chiuso e lei era apertissima, ma vedeva qualcosa di comune in entrambi e pensava che si sarebbero potuti piacere.

Il suo pensiero, da ozioso e casuale, si trasformò in una vera e propria idea, si mise a contemplarla sul serio mentre viaggiava.

Suzanne era single da bel un po' di tempo, non era mai stata tanto fortunata con gli uomini, sembrava che fosse la classica brava ragazza che attirava solo certi idioti che finivano sempre per lasciarla con il cuore spezzato.

Ma Al non l'avrebbe trattata male, perché Al era un bravo ragazzo pure lui. Lo conosceva. Anche se a volte aveva dei comportamenti bizzarri, era spesso distratto e si perdeva in ragionamenti tutti suoi.

Suzanne doveva compiere trent'anni, ad Al non sarebbe nemmeno importato che lei fosse più grande di lui, di poco, poi.

Ma c'era una complicazione. Emily era questa complicazione.

Al era stato sul punto di dichiararsi a questa fantomatica ragazza e, anche se ora dichiarava di esserne uscito, Steve sapeva che, per un tipo sensibile come lui, due anni o poco più erano troppo pochi per dimenticarsene. Ma non poteva certo restare a piangersi addosso per tutta la vita! I suoi discorsi farneticanti venivano sicuramente da un profondo odio verso se stesso, nato dal senso di colpa per averla persa prima di poterla avere, o almeno questo era ciò che si stava immaginando lui, perché ricordava che l'aveva nominata.

Era quasi arrivato a casa, mancavano giusto pochi isolati.

Sull'autobus salì un gruppetto di persone tra cui: una donna in carne piena di borse della spesa, un barbone che chiedeva l'elemosina e l'ultimo era Jon Johnson, un uomo che Steve conosceva molto poco. Era un affezionato cliente di Al, lo si intuiva dalla pancetta che aveva messo su a forza di comprare da lui quelle buone ciambelle piene di zucchero. Non si poteva biasimarlo. Tornava a casa dai suoi figli e aveva un pacco con dentro dei regali per loro.

Lo salutò discretamente con una mano, ma non si parlarono. Non avevano questa confidenza.

Guardò fuori dal vetro.

E vide proprio lui, Al.

Lo vide per circa un secondo o due, ma lo riconobbe dalla sua figura alta e scarmigliata, dalla camicia slabbrata, dalle scarpe da ginnastica tutte scolorite che aveva da anni e che non si decideva mai a cambiare.

Stava correndo, anzi si poteva dire che stesse galoppando, sembrava che stesse inseguendo proprio l'autobus su cui stava lui.

E se stesse cercando di raggiungerlo, appunto per scusarsi e chiarirsi con lui?

Pensò di fargli la cortesia di richiedere la fermata, in modo da far arrestare il veicolo e permettergli di salire.

Ma, nel brevissimo tempo in cui volse la testa alla ricerca del bottone da premere, si accorse che la gente intorno a lui era in allarme, e uno scossone lo scaraventò giù dal suo sedile.

Le cuffiette saltarono via dalle sue orecchie e allora sentí le urla, il rumore del freno di emergenza tirato a forza, lo stridio di lamiere che si accartocciavano.

Tentò di rialzarsi, era rimasto a faccia in giù sul lurido pavimento. Ma una persona gli finì addosso bloccandogli la visuale, e lui si ritrovò non solo schiacciato, ma anche cieco.

La giacca dell'uomo sopra di lui gli coprí il viso e il suo gomito gli colpí accidentalmente gli occhi e il naso.

Sentí la gravità spostarsi tutta da un lato. Fu come venire risucchiati.

La sua testa sbatté contro il finestrino e lo infranse. Sentí le schegge di vetro che gli penetravano dolorosamente la testa e che gli tagliavano la pelle della faccia.

Stava sanguinando da tre punti diversi, dalla testa, dal lato della faccia, dal naso, ma la cosa peggiore e che lo spaventò maggiormente era che non riusciva a respirare.

La sua faccia era bloccata sotto il peso del tizio che lo aveva seguito nella caduta, ce lo aveva di nuovo di sopra.

Era più il dolore fisico che il panico. Iniziò a dibattersi, sentì molte altre grida, gente che si agitava, accalcata, probabilmente tutti erano rimasti feriti in quell'incidente orribile.

Impressionante come nel giro di pochi secondi fosse cambiato tutto, ridicolo come funziona la vita!

Un attimo prima stai tranquillamente facendoti i fatti tuoi, fai progetti, rifletti su di te, sui tuoi amici, pensi al futuro, prevedi di organizzare incontri... un attimo dopo, sei morto.

***

 

Le sue ginocchia si erano ingrossate. Era di nuovo la stessa cosa che era successa alla sua mano.

Una sola parte del suo corpo non apparteneva più a lui, ma a Fatman, come se Fatman fosse una persona separata e distinta da Alfred. Come se Fatman lottasse per emergere e prendere il controllo del corpo che condividevano.

Sembrò vincere, le sue ginocchia avevano deformato il tessuto dei suoi jeans, si muovevano velocissime come sulle rotaie di un treno, trascinando sotto di esse le sue gambe, non poteva fermarle.

Non seppe mai bene come successe, improvvisamente tutto il resto di lui seguì l'esempio, e lui si ritrovò di nuovo trasformato in Fatman del tutto, indossava perfino la sua tuta arancione, eppure era assolutamente sicuro di averla lasciata a casa, quella mattina.

Non aveva nemmeno pensato di mangiare la famosa ciambella. Che il suo organismo avesse ormai conservato in sé la sostanza, e la sfruttasse al bisogno?

Si era mosso perché aveva sentito un imminente pericolo.

Aveva visualizzato nella testa l'incidente, l'autobus che si schiantava frontalmente con un'auto contromano e, con le ruote slittanti che si consumavano bruciando sull'asfalto, si ribaltava, gente che si ritrovava pressata tutta insieme in una gabbia di metallo, una trappola mortale, si trasformava in un ammasso di carne inscatolata.

Fatman costeggiò il bestione e ficcò le mani nella fiancata. Le dita passarono nelle lamiere, come se avessero attraversato burro.

L'autobus si bloccò, ma le ruote continuavano a girare. Lo tirò verso di sé e lo rimise così in piedi.

Con la calma di un monaco buddista, divelse la bussola.

Si infilò dentro e iniziò ad afferrare con le sue grandi mani tutte le persone che gli capitavano a tiro, cominciando dal conducente, e le scaraventava gentilmente fuori, al sicuro.

La quinta o quarta persona che si trovò a prendere fu Jon.

Si fissarono, entrambi sorpresi, dritti negli occhi, lui era ancora molto spaventato. Lo depose fuori e continuò il suo lavoro senza parlare, l'autobus era affollato.

Solo quando credette che fossero tutti fuori, urlò loro di allontanarsi. Aveva sentito la puzza della benzina, aveva visto che il serbatoio era squarciato...

La gente, nei momenti di panico, può essere davvero stupida, molti giravano in tondo, altri non si muovevano affatto, così si trovò a doverli spingere via lui. Non capivano il pericolo?

Ma si accorse che Jon restava lì, troppo vicino.

"Levati subito" gli intimò. Non voleva essere brusco.

Jon lo guardò sperduto. Fatman pensò che fosse ancora sotto shock.

Ma Jon iniziò a balbettare.

"Al... C'è ancora Steve, sul fondo, lui non lo hai tirato fuori... "

Steve? Gli venne un colpo. Ma cosa, come, quando... Steve si trovava lì dentro? Quello Steve?

Non fece in tempo a tornare indietro per accertarsene che l'autobus prese fuoco ed esplose, proprio come una bomba.

La detonazione lo colse di sorpresa perché fu molto forte. Esagerata quasi. Chiunque fosse rimasto dentro quel veicolo, era ormai bruciato per benino.

"Sei proprio sicuro che Steve fosse lì dentro?" urlò, non poteva crederci.

Jon si mise una mano sopra la bocca, gli uscì una specie di singhiozzo, sembrava incapace di parlare.

Alfred si risvegliò, riprese il controllo di sé. Relegò Fatman in un angolo.

Stai lì, gli gridò, razza di inutile parodia di un supereroe che non è stato neppure in grado di salvare il suo migliore amico!

Non poteva crederci, era successo esattamente quello che aveva cercato di evitare!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio autrice:

Sì, Steve stava ascoltando i Gorillaz. Le due canzoni cui ho fatto riferimento in questo capitolo sono: Latin Simone e Superfast Jellyfish.
Spero che prima o poi qualcuno ritorni a commentare questa mia storia...

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Capitolo 7
*** Incontri fatali al funerale del migliore amico ***


Capitolo 7


Il giorno dopo, sul giornale si sarebbe parlato di quella disgrazia, e la gente avrebbe iniziato a mormorare contro Fatman. L'articolo cercava di essere imparziale, ma ne trapelava tutto il disappunto del giornalista che lo aveva scritto.

Che supereroe di merda sei, se non salvi tutti? Chi ti credi di essere, per decidere che questi li salvi e quello là lo lasci morire? Come ti permetti di presumere di sapere chi si merita di continuare a vivere?

E lui ne aveva salvati diciassette, ma ne aveva lasciato uno indietro, che razza di idiota!

Alfred accartocciò il quotidiano in una palla e lo lanciò nel cestino tutto intero. Fece 'canestro' al primo tentativo.

Harvey lo guardava preoccupato, non capiva ciò che era successo, era solo triste che il suo amico/padrone fosse sempre più di pessimo umore.

Alfred andava in giro per la casa, con la voglia di vivere sotto le scarpe, sospirava spesso e non diceva niente. I suoi capelli erano più scombinati del solito. Restava in ciabatte e vestito per metà, con la camicia e i pantaloni del pigiama.

Non aveva voglia di mangiare, smaniava sia a stare alzato che a rimanere a letto.

Non voleva uscire, ma guardava fuori dalla finestra e si annoiava, non aveva voglia nemmeno di restare a casa. La TV la teneva spenta. La radio l'aveva sfasciata lui stesso facendola cadere.

La ciambelleria sarebbe rimasta chiusa per lutto per una intera settimana.

Attese l'orario rimanendo in completo ozio, seduto sul pavimento, con un cuscino dietro la schiena, poggiata contro il muro. Non reagiva ad Harvey che si era rimesso a girare per casa con la sua macchinina. Forse cercava di sfuggire a quella atmosfera cupa di rassegnazione.

Poi si alzò di malavoglia, si trascinò meccanicamente in stanza e indossò il completo nero che aveva comprato per il funerale di Emily.

Era un bel completo, ma lo si può ben capire perché lo odiasse.

Perché sembrava che tutti i suoi migliori amici dovessero morire precocemente?

Perché sembrava che ogni volta fosse in qualche modo colpa sua?

Il completo gli andava largo. Di solito, sono i vestiti che si restringono, ma stavolta era come se fosse rimpicciolito lui. Strinse la cintura il più che poteva per non farsi cadere i pantaloni. Dalle maniche spuntavano solo le dita, se le dovette arrotolare. Le spalline lo facevano sembrare quasi un quadrato. La cravatta gli dava noia. Si sentiva come un bambino che si prova i vestiti troppo grandi del papà. Se ne fregò, non aveva nemmeno voglia di cambiarsi.

Di fronte alla chiesa, in mezzo alla folla radunatasi per rendere l'ultimo saluto al povero Steve, Alfred riconobbe Jon. Indossava anche lui un abito elegante, ma non da funerale, ed era accompagnato dal più grande dei suoi figli, il quale giocava con un game boy, disinteressato all'atmosfera di contrizione generale.

Non pensava di incontrarlo, pensava che non conoscesse Steve così bene, forse però essere stato così vicino a lui fisicamente prima che morisse lo aveva colpito.

"Al!" urlò Jon quando lo scorse. E Alfred capì che era andato lì per lui ed ebbe paura che facesse capire qualcosa agli altri.

Lo guardò afferrare la mano del ragazzino e strattonarlo in avanti, tentando di raggiungere lui, facendosi largo nella calca. Restò fermo ad aspettarlo.

"Al!" ripetè Jon, lievemente affannato, quando gli fu di fronte, lasciando il figlio che non aveva staccato gli occhi un secondo dal suo giochino "Oh, mio Dio, stai bene? Non sono più riuscito a vederti, dopo quello che è successo"

Alfred si strinse nelle spalle, senza dir nulla, semplicemente perché non sapeva come rispondere.

"Non ho avuto occasione di ringraziarti, quel giorno. Mi hai salvato la vita! E non solo a me." continuò Jon.

"Non sono stato io, è stato Fatman" disse Alfred meccanicamente.

"Sì, certo, era quello che volevo dire"

Jon lo guardava con una faccia molto preoccupata. "Al, mi dispiace tanto per il tuo amico. Deve essere terribile! Era tuo amico da tanti anni, non è vero?"

"Sì" sussurrò Alfred "Ma non lo eravamo più" la voce gli si ruppe "Mi sono comportato male con lui e questa tragedia è stata come una punizione dal cielo. Ma non sarebbe dovuto succedere, non a lui. Perché a lui e non a me...?"

"Ma di cosa stai parlando, Al?" chiese accorato Jon "Punizione? Non dire queste cose senza senso! È stata una disgrazia! Solo una disgrazia!"

Alfred non indossava i suoi occhiali, e le lenti a contatto forse le aveva messe male quella mattina perché gli davano fastidio, ci vedeva male, e le lacrime che incominciarono a tracimare giù non aiutarono per nulla la sua vista a schiarirsi. Si sfregò un occhio per asciugarsele.

"Ehi, ehi" disse Jon venendogli più vicino "Non fare così." allungò le braccia verso di lui e, in un gesto molto naturale, lo strinse per qualche secondo.

Alfred pensò che quella era la prima volta che si abbracciavano, si conoscevano da anni, si piacevano, avevano una conoscenza superficiale fatta per lo più di conversazioni di cortesia tra venditore e cliente, ma non avevano mai raggiunto quel livello di confidenza.

Ma in quel momento, Alfred prese vaga coscienza che Jon lo considerava un amico.

Restò impalato come uno spaventapasseri, incapace di ricambiarlo.

"Non biasimarti. Pensa a me, agli altri che hai tirato fuori da quel bus. Loro li hai salvati."

Stava per ripetere che non era stato lui, ma Fatman, ma a quel punto capí che continuare a fingere sarebbe stato ridicolo.

"Non te lo dimenticare, perché io non me lo dimentico di sicuro!" disse Jon, e lo baciò affettuosamente.

Alfred lo guardò, ancora più stupito di poco prima.

Poi però sorrise, per quel poco che riusciva a sorridere. Ma non disse niente. Le lacrime scorrevano sempre, silenziose, brucianti.

"Se hai bisogno di qualcuno con cui parlare, sai che puoi contare su di me. Anche adesso, se vuoi"

"No, adesso no" disse debolmente "Grazie, ora c'è... la messa"

"Ma certo, certo" fece Jon, mettendogli premuroso una mano sulla spalla "Ma dopo, chiamami, promettimelo. Verrò in qualsiasi momento!"

"Non ti devi disturbare"

"Tu ti sei disturbato a salvarmi!"

"Non l'ho fatto per..."

"Lo so, lo so" Jon lo abbracciò un'altra volta. Alfred restò di nuovo immobile. Sentiva il conforto che gli stava dando, ma proprio non ci riusciva a ricambiare quell'abbraccio. Non ci sarebbe voluto niente, alzare un po' le braccia, toccargli la schiena, abbassare la testa, stringerlo a sua volta. Non ci riusciva.

"Ricordati che tu sei buono" disse Jon guardandolo dritto negli occhi "Non metterti in testa idee strane" poi prese suo figlio e andò via.

"Ho capito, ma... come faccio a perdonarmelo?" sussurrò Alfred, guardandolo allontanarsi.

Sembrava che intorno a lui si fosse creata una bolla di solitudine, la gente lo schivava o era solo una sua impressione?

Si asciugò le lacrime con il polsino della giacca.

Entrò nella chiesa, buia ma rischiarata dalla fioca luce di tante candele e addobbata con corone di crisantemi bianchi. Una fotografia grande e sorridente di Steve era stata messa sull'altare, circondata anch'essa da fiori. Di fronte, stava la bara. E accanto, una lapide già pronta con l'epitaffio che recitava:

Steve Miller

26/05/1987 – 02/11/2017

Chi ti conobbe ti amò, chi ti amò ti piange.

 

E infatti tante persone erano lì, e la maggior parte piangevano. Riconobbe un paio dei parenti di Steve. C'era sua madre. C'erano un paio dei suoi cugini. Tanti altri non li conosceva, dovevano essere stati altri amici suoi.

Certo, naturalmente Steve era stato pieno di amici. Non era mica lui quello introverso che di amici veri, se è fortunato, ne colleziona due o tre in tutta la sua vita.

E morivano pure come mosche, pensò Alfred, era davvero amareggiato!

Gli venne una spiacevole sensazione di deja vu. Il funerale di Emily non era stato troppo diverso da quello. Fiori, candele, gente che piange. La sensazione di essere in qualche modo sbagliato per il fatto di essere ancora vivo.

Si sentì misero e insignificante di fronte al mistero incomprensibile di una persona che muore. Non credeva di essere mai riuscito a comprenderlo a pieno.

Si era chiesto molte volte a che cosa servisse, in fondo, una vita di molti sacrifici e sforzi e di pochissime gioie, che si concludeva così, all'improvviso, in modo violento, e senza un motivo apparente. Qual era la differenza tra questo e qualcuno che invece viveva pienamente, con tante soddisfazioni, con una famiglia che gli aveva dato tanto amore, per poi spegnersi dolcemente a novantasette anni durante il sonno, senza provare nessun dolore?

Si avvicinò alla bara. Sapeva che dentro c'era un corpo morto, carbonizzato, sfigurato. E che cosa era, in fin dei conti? Un mucchio di carne bruciata e ossa. Polvere, presto.

Fino a un giorno prima, quel cadavere che ora giaceva nel sonno eterno era stato il suo amico Steve. Se avesse cercato meglio, su quel maledetto bus, forse avrebbe trovato anche lui e, insieme a tutti gli altri, lo avrebbe tirato via, lo avrebbe sottratto alla sua condanna. Ma a quanto sembrava, Steve era rimasto nascosto sotto un sedile, lo sguardo acuto di Fatman non era riuscito a vederlo. Quasi non avesse voluto vederlo.

Ma, come diceva Jon, non sarebbe dovuto essere triste per ciò che non aveva potuto evitare. Doveva concentrarsi sulle vite che invece aveva salvato. Ma come poteva farlo, come poteva giustificarsi, di fronte all'unica di cui gli importava, quella che invece non aveva salvato?

Perché lui pensava che avrebbe potuto evitarlo. Solo che invece non era successo.

Non si era nemmeno accorto di essere caduto in ginocchio e che era scosso da forti singhiozzi. Lo guardavano tutti. Alfred odiava essere al centro dell'attenzione. Ma non aveva importanza, un altro dei suoi migliori amici era morto! Che lo guardassero pure!

Abbracciò la bara come una piovra. Voleva chiedere perdono, ma non gli usciva un filo di voce. Solo il pianto continuò. Continuo e straziante, gli sembrava che il suo dolore fosse molto più forte di quello di chiunque altro, lì dentro. Anche se sapeva benissimo di sbagliarsi.

"Ehi, ti senti bene? Hai bisogno di aiuto?" sentì una voce alle sue spalle e si scosse.

"Oh" biascicò stupidamente prendendo all'improvviso coscienza di aver bagnato tutto il legno della bara con le sue lacrime. Per quanto tempo era rimasto lì a singhiozzare? Un'ora? Tredici vite?

"Sì. Va tutto bene" mentì, senza guardare chi parlava.

"Non direi. Dai, prendi questo"

Allora Alfred alzò la testa e vide una giovane donna che gli tendeva un fazzoletto di carta.

Esitò solo per un attimo, ma poi lo prese.

"Grazie. Sto facendo un macello" borbottò asciugandosi gli occhi. C'era forse del balsamo su quel fazzoletto, poiché profumava.

"Tranquillo. Sembri davvero scosso." La ragazza tirò indietro i suoi capelli neri, che erano lisci e molto lunghi, fino a più o meno la metà dell'avambraccio. Aveva gli occhi celesti, perfettamente identici a quelli di Steve, ma molto più grandi ed espressivi, oltre che lievemente truccati. Portava un abito nero che esaltava in modo estremamente provocante le floride curve del corpo. Non sembrava un abito adatto a un funerale.

"Eri un amico di Steve?" chiese la donna, educatamente.

"No, mi piace andare ai funerali degli sconosciuti e unirmi ai parenti che piangono, così per divertirmi" Alfred fece una smorfia.

La donna fece una faccia da cui si capì che quella risposta sarcastica l'aveva presa in contropiede.

"Scusa, non so perché l'ho detto!" battè subito in ritirata Alfred "Sono un poco irritabile, perdonami, Steve era il mio migliore amico!" disse in fretta.

Lei parve interessata "Ah, il migliore?" gli fece eco.

"Già, ehm. Avevamo una band, da giovani" questo non sapeva perché lo avesse detto "Lui suonava il basso... Ci eravamo perfino promessi che l'uno avrebbe dovuto suonare al matrimonio dell'altro, ma... ma Steve non è riuscito a sposarsi in tempo..." la voce gli si stava rompendo di nuovo.

"Capisco, uhm" disse lei "Forse avresti bisogno di allontanarti per un minuto dalla bara, sai..."

Alfred alzò di scatto la testa e sbarrò gli occhi. "Non sono sotto choc, giuro!" esclamò.

"Non ho detto questo... È che tra poco dobbiamo portarla al cimitero"

"Voglio aiutare a trasportarla" si offrì.

"Non mi sembra il caso..."

"Devo! È colpa mia se Steve è morto"

Lei lo guardò confusa "Che cosa significa?"

Alfred si mise una mano sulle labbra "Voglio dire, io... io mi sento responsabile perché, beh, avevamo litigato prima e..." farfugliava.

La donna serrò la mascella duramente "L'unico responsabile qui è Fatman." dichiarò.

Alfred si sentì quasi mancare "Scusa?" chiese, magari aveva capito male.

"Ha tirato fuori tutti da quel bus tranne lui. Lo ha lasciato indietro. È colpa sua." la donna aveva contratto la fronte, era molto seria.

Alfred capì che lei non aveva idea di star parlando proprio con colui che accusava così apertamente. Ma non erano esattamente le stesse accuse che continuava a rivolgersi da solo?

"Fatman ha fatto il possibile" tentò di dire.

"Sì, beh. Non abbastanza" si strinse nelle spalle lei "Ora scusaci"

Arrivarono quattro uomini che si presero la bara in spalla. Alfred voleva aiutarli, ma loro lo respinsero. Non lo conoscevano. Agli occhi di tutti, era solo un pazzo sconosciuto.

La ragazza seguì il corteo funebre. Alfred la guardò allontanarsi, il suo abito le aderiva perfettamente al corpo, le sue gambe erano atletiche e tornite. Indossava dei tacchi alti, ma riusciva a camminare in fretta, non ne era per nulla impacciata.

Si precipitò dietro di lei e l'accostò. C'era qualcosa che non andava, nella breve conversazione che avevano avuto, ma non era sicuro di cosa, e sentiva il bisogno di un chiarimento.

"Come mai sei così dura con Fatman?" le chiese, cercando di tenere il suo passo.

"Forse perché ha lasciato morire mio cugino?" disse lei continuando a camminare, senza guardarlo.

"Tuo cugino?" ripetè Alfred "Aspetta... Io mi ricordo di te! Ma sì, eri a casa sua, due settimane fa".

"Ero spesso a casa sua" disse lei, come in un lamento "Cercavo sempre di aiutarlo, cercavo di tirargli su il morale, cercavo di dargli fiducia per il futuro! Ma quale futuro? Chi lo avrebbe detto che sarebbe morto a trent'anni?"

Alfred si ricordò anche di una frase che Steve aveva buttato lì in modo casuale. Scavò nella memoria per cavarne fuori un nome. "Tu sei... Suzanne, giusto? Mi sembra che Steve mi abbia parlato di te"

"Ma scommetto che non ti ha detto che sono cinica"

"Lui... Una volta aveva detto che avrebbe dovuto farci incontrare"

"Tu sei Alfred?" disse lei, sorprendendolo.

"Sì, sì..."

"Pensa che a me, lui diceva sempre che avrebbe dovuto farmi incontrare il suo amico Alfred."

Allora sapevano esattamente di che cosa stavano parlando. Dall'esterno, quella conversazione sarebbe potuta suonare priva di senso.

"Steve non ha avuto il tempo..."

"No"

"Beh" allungò una mano per stringergliela. Un gesto che stupì anche lui, non gli capitava spesso di prendere l'iniziativa "Quindi... Piacere. È strano incontrarti proprio al suo funerale"

"È curioso, sì" confermò lei, sembrava impacciata a stringere la sua mano, forse perché quella di Alfred era molto grande rispetto alla sua, piccola e curata.

"Cosa c'è? Qualcosa non va?"

"Hai la mano morbidissima" fece Suzanne ritraendo la propria. Poi parve in imbarazzo "Devo essere sincera, lui mi ha detto che tu sei un tipo... un po' strano..."

"Lo sono!" disse Alfred subito "E ti ricordi che cosa ha detto, di preciso?"

"Di preciso? Hmm, vediamo... Se non ricordo male ha detto... introverso, esuberante e altamente irritabile."

"Sono proprio io!" quasi esultò Alfred.

Lei sbuffò e si mise a ridacchiare.

"È come se si fosse esaudito un suo desiderio, non pensi?"

"Oh" Alfred fissò di fronte a sé, concentrandosi sulle persone che portavano la bara. Andavano piuttosto in fretta, per quel peso che tenevano.

Ci fu un lunghissimo silenzio, interrotto solo dalle donne intorno a loro che recitavano il rosario.

"Spero di non aver esagerato" disse Suzanne, dopo un po'.

"Capita sempre anche a me di parlare a sproposito" la rassicurò Alfred.

La bara venne calata nella fossa, il prete fece la sua benedizione, la mamma di Steve si inginocchiò lì davanti piangendo. Era una donna minuta, ma così sembrava ancora più piccola, e aveva uno scialletto di lana sulle spalle, su cui ricadevano i lunghi capelli bianchi. Il viso pieno di rughe era contrito nella disperazione e velato. Era vedova, perdere pure il figlio dopo il marito doveva essere una cosa straziante.

Suzanne andò da lei a posarle la mano su una spalla, confortandola, la chiamò 'zietta', la abbracciò teneramente e dopo averla coccolata un po' la lasciò, lasciando il posto ad altri.

Alfred le andò anche lui vicino. L'anziana signora si volse e lo guardò senza riconoscerlo "Chi sei tu, figliolo?" gli chiese.

"Signora, non mi riconosce? Sono Alfred, il migliore amico di Steve"

"Non lo so, ne aveva tanti di amici. Si faceva volere bene da tutti, non è vero? Ah, era buono come il pane, il mio Steve, non è vero? Era solo molto sfortunato e non si era mai messo la testa a posto."

Gli sembrava che parlasse come Harvey, solo che si disperava. Percepì una mano sulla spalla e qualcuno lo tirò indietro, mentre altra gente andava a portare le sue condoglianze alla signora.

Era stata Suzanne a farlo allontanare. Le rivolse uno sguardo interrogativo.

"Senti, hai qualcosa da fare, tipo, adesso?" gli chiese.

"Non ho fatto programmi" rispose.

"Te la vieni a bere una birra?" gli propose audacemente.

Alfred la guardò, nei suoi occhi c'era un'ombra strana, era come se lo stesse implorando di dire di sì. Poteva anche essere solo dolore malcelato. Forse voleva semplicemente compagnia per sbronzarsi senza sentirsi ridicola per esserci andata da sola.

"Sei certa di stare bene?" le chiese.

"Te lo dirò al secondo giro" lo liquidò lei.

Alfred si sentì un imbecille. Ovviamente non stava bene, nessuno lì stava bene, erano a un cazzo di funerale! La seguì, lei sembrò sorpresa, ma non in senso negativo.

Il pub in cui lo portò era una brutta bettola di second'ordine, con i tavoli rozzi in legno e le sedie scomode. Alfred non ci avrebbe mai messo piede da solo, si stupì che una donna che sembrava di classe come quella, invece, non si fosse fatta problemi a entrarci. Ma la birra era a buon mercato e pareva ci fosse poca gente. Ecco perché l'aveva scelto, così nessuno sarebbe stato ad ascoltare i loro scleri.

Le bottiglie vuote si accumularono dal lato di lei, Alfred sperava davvero che le riciclassero, ma non ci contava. La conversazione era un po' forzata inizialmente, ma la ragazza si mise a parlare a ruota libera dopo la seconda birra. Lui ne bevve solo una che gli durò per tutta la serata, sebbene ascoltasse, più che risponderle.

Parlava di Steve. Era lui l'argomento centrale. Ma poi si mise a parlare di se stessa. E chiedeva di lui.

"Guarda che incoerente che sono, l'ho criticato perché buttava via i soldi fumando e ora sono qui con tutte queste bottiglie di birra vuote attorno a me."

"Ci può stare" sorrise Alfred.

"No, no, sono una ipocrita bella e buona" se la prese Suzanne "Puoi dirmelo pure in faccia, non mi offendo mica, sai?"

"Ma io non credo che tu lo sia" Alfred si sentiva lievemente a disagio in quel posto, ma non al punto di voler andarsene, tentava proprio di non farglielo capire. Intuiva che tutte quelle chiacchiere le servissero come uno sfogo, quindi cercò di assecondarla. Non è che non gli dispiacessero, dopotutto.

"E invece cos'è che ti ha detto Steve su di me?" gli chiese, a un certo punto.

"Non ricordo"

"Non dire cazzate, dai"

"Va bene. Ehm, ha detto che sei fragile... Che non ti è facile fidarti di qualcuno, perché hai avuto fin troppe delusioni... Che... Parli a raffica."

"Steve aveva un brutto vizio: aveva sempre ragione. Secondo te, ci aveva azzeccato anche su di noi?"

"Come posso saperlo?"

"Forse dovremmo provare a fidarci della intuizione che aveva avuto..."

Alfred sentí un campanello di allarme risuonare nel fondo del suo cervello. Incominciava a sentirsi invaso nel proprio spazio personale. Voleva mantenere le distanze, ma nel contempo sapeva che lei non stava, in fondo, facendo nulla di male e non voleva respingerla.

Inesperienza, imbranataggine. Con ogni ragazza con la quale si era approcciato nel corso della sua vita, si sentiva sempre allo stesso modo, inadeguato e impreparato. Così tentò di farla rallentare.

"Scusa la franchezza, io non sono una persona troppo... aperta... e sai questi... approcci... mi mettono un po'... a disagio"

"Sai cos'altro mi ha detto su di te, invece?" continuò lei, come se non lo avesse sentito "Che secondo lui eri alla ricerca di qualcosa. Gli davi sempre l'impressione che avessi paura e che ti facessi tanti problemi inesistenti... Di che cos'è che hai paura, Alfred?"

Lui sgranò gli occhi. Era come se avesse raggiunto la classica goccia in più, quella che aveva fatto uscir fuori dal vaso tutta l'acqua, facendola spargere sul pavimento del suo animo invaso. Gli parve di essere stato colpito dritto sul cranio con una metaforica clava.

Senza poter fare nulla per frenarsi, ricominciò a piangere, ma proprio a dirotto. Si coprì la faccia con entrambe le mani. Si vergognò perché stava piangendo di fronte a una sconosciuta e il pianto, invece di fermarsi, peggiorò.

Susanne sembrò giustamente sconcertata "Santo cielo, ho detto qualcosa di sbagliato?" fece.

"No...Tu non..." balbettò. Non gli piaceva balbettare, lo faceva sentire stupido. Si zittì. Scelse di lasciarsi scuotere dai singhiozzi, fino a che non si sarebbe calmato.

Aveva coscienza dello sguardo di pietà di lei puntato addosso, ma c'erano due attenuanti: innanzitutto, lei era mezza ubriaca; in secondo luogo, il pianto di chi ha appena perso il suo migliore amico è comprensibilissimo.

Quando gli sembrò di essersi un po' rimesso in sesto, prese un profondo respiro.

"Steve era proprio un gran chiacchierone, vero?" disse a Suzanne.

"Senti, Alfred, mi spiace..."

"No, è la verità! Lui mi conosceva bene, a volte sembrava che sapesse di me più di quanto avessi mai saputo io stesso." mise una mano sopra gli occhi, cercando di sistemarsi le lentine che si muovevano "Dio santo, mi mancherà tantissimo, vorrei non averlo trattato così di merda..."

"Ormai non puoi più tornare indietro, saresti dovuto essere meno stupido prima" disse Suzanne. Il momento imbarazzante era passato ed era tornata a sorseggiare la sua settima birra.

Alfred fece una smorfia "Non scherzavi, quando hai detto che sei cinica" fece.

"Io?" si riprese lei. Mise giù la bottiglia, si sporse in avanti e fissò negli occhi di Alfred uno sguardo lucidissimo "Stavo cercando di fare uno di quei discorsi sulla vita che va avanti e l'ineluttabilità del destino e il passato che non si può cambiare" si rilassò sulla sedia "Ma tutte queste cose verranno dopo. Adesso ci sono soltanto la rabbia e l'autocommiserazione" finí la sua birra, ne guardò il fondo per pochi secondi "Credo di averne avuto abbastanza, per stasera."

"Credo anch'io" disse Alfred, finendo anche lui la sua in un unico sorso.

"Grazie per le chiacchiere, adesso penso sia meglio che vada" si stiracchiò.

"Non ti permetterò certo di andare a casa da sola dopo aver bevuto sette birre" dichiarò Alfred "Ti dò un passaggio, dimmi dov'è che stai"

"Che galante che sei" fece lei, le si stava allargando sulla faccia il tipico sorriso storto della gente ubriaca.

Si alzò e sembrò avere un lieve capogiro "Scusa, devo andare a fare pipì, prima" fece, e si allontanò barcollando in direzione del bagno delle donne.

Non parlò molto in macchina, gli dava solo le indicazioni per arrivare a casa. Quando si fermarono, Alfred non sapeva come congedarla.

"Allora... Buonanotte" provò.

"Alfred, vorrei che rispondessi alla mia domanda di prima" disse lei.

"Quale?" fece lui. Ma gli ubriachi non dovrebbero dimenticarsi le cose?

"Di che cosa è che hai paura"

Lui trattenne il fiato. Poi espirò pesantemente.

"Di fare di nuovo un errore. Di far del male, credendo di fare del bene."

"Beh, dai. La prossima volta avrai l'esperienza..." si mise a dire lei "Io per esempio non sono così brava, quando sbaglio poi tendo a ricascarci." il suo tono cambiò, si fece più appassionato "Però magari stavolta... Sì, magari stavolta si potrebbe provare..."

Alfred la spinse lievemente, si era avvicinata troppo a lui, ne sentiva l'alito di birra addosso. E lo terrorizzava. "Credo sia meglio che tu vada a casa, Suzanne. È stato un piacere conoscerti." le disse.

"Non ci vuoi nemmeno provare?" fece lei, pareva quasi offesa.

"Senti, non posso decidere adesso, okay?" disse lui, alzando leggerissimamente il tono di voce "Siamo entrambi troppo sconvolti. Tu sei molto più che brilla e io sono saturo di emozioni contrastanti. Ci rivediamo, d'accordo? Ci rivediamo e... ne riparliamo con più calma..."

Lei lo guardò malissimo "Stai scappando?" lo accusò.

"Non sto scappando!" protestò.

Lei si staccò la cintura di sicurezza, aprì la portiera e scese dall'auto, senza dire nient'altro.



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Capitolo 8
*** Senza accorgersene, si innamorarono ***


Capitolo 8

 




"Sì, sei scappato" disse Harvey.

Sgranocchiava un semino di girasole e aveva ascoltato tutto il racconto della serata che Alfred gli aveva fatto. Gli aveva detto di questa ragazza e, per il circuito mentale ristretto da criceto che si ritrovava, l'unica cosa che Harvey capiva era: una femmina era disponibile e il maschio non l'aveva ingravidata. Mossa sbagliata, visto che il fine ultimo della vita è il proseguimento della tua specie sulla terra. Metà dei tuoi cuccioli poi te li mangi e, se ce la fai, pure la femmina. Ma quelli che sopravvivono poi portano avanti la discendenza. Non accettare l'accoppiamento con una femmina è sempre una cosa stupida da fare.

Almeno, questo ragionamento era quello che il suo istinto di animale gli suggeriva. Da quando Harvey aveva assunto la sostanza magica, il suo cervello si era espanso e diventava ogni giorno sempre più complesso. Capiva che i rapporti degli esseri umani erano molto più complicati di così. E inoltre, vi era quella grossa, obesa complicazione, rappresentata dal fattore Fatman.

"Ho troppa paura di combinare un altro pasticcio. Avevo allontanato Steve per questo... Non voglio coinvolgere altri" disse Alfred. Si teneva la testa tra le mani, l'aveva piantata con le stupide lacrime, ma la serata con quella Suzanne della sera prima non aveva migliorato il suo umore. "Vorrei poter rinunciare a Fatman per sempre. Ma lui... lui torna da solo... Letteralmente. Non avevo mangiato la ciambella, quella volta e io... L'ho sentito che lui avrebbe voluto essere buono, le sue intenzioni non sono negative, almeno la maggior parte delle volte, ma credo che non sempre le cose gli vadano bene e che finirà per strafare..." qui pensava all'uomo che Fatman aveva quasi strangolato, poi pensava a tutti quelli che aveva salvato. Possibile che fossero la stessa persona? E possibile che stesse, in fondo, parlando sempre di se stesso? Gli sembrava una persona a parte, distaccata da lui. Ma nel contempo sapeva che erano un'unica cosa.

Quindi, era come se le entità fossero tre. Uno era Alfred, la mente, l'altro era Fatman, l'uomo d'azione, mentre la terza era quella innominata persona che ospitava entrambi e cercava di conciliarli, rendendo Fatman meno istintivo e Alfred più audace. Era tutto troppo confusionario, c'era troppa gente là dentro.

Harvey si alzò sulle zampine per incominciare un discorso motivazionale, uno di quelli che avrebbe potuto fare Vanna durante una delle sedute "La vita del supereroe sarà anche difficile, ma non ti devi dimenticare mai che hai anche la tua vita" disse "Fatman è soltanto una parte di te. Puoi essere entrambi. Pensa a te, pensa alla tua vita e, se ti si presenta un problema, lo affronti. Ascolta questo vecchio criceto. Sono un criceto parlante! Mi devi ascoltare!" concluse, tutto impettito.

Alfred si mise a ridacchiare. Quanto aveva ragione, quell'animaletto?

"Grazie per l'incoraggiamento, piccoletto" gli disse. Allungò un dito per accarezzarlo sulla testa. Harvey si lasciò coccolare.

Una vibrazione del cellulare li fece trasalire entrambi. Numero sconosciuto. Chi mai sarebbe potuto essere?

Alfred prese la chiamata.

"Pronto?"

"Alfred, sei tu?" era una voce femminile, ma non la riconobbe.

"Uh, sì. Tu chi sei?"

"Sono Suzanne..."

Alfred trasalì di nuovo. Non si erano mai scambiati il numero. Come aveva fatto a contattarlo?

"Ho trovato il tuo numero nella rubrica di Steve" disse lei, come se avesse intuito il suo pensiero.

"Ah... Ovviamente."

Harvey si mise a fare dei gesti con le zampine, come se volesse suggerirgli cosa dire. Sembrava voler ricordagli di non perdere la calma. È una femmina, ricordati che devi ingravidarla.

Si volse dall'altra parte per evitare di guardarlo.

"Volevo dirti che ci ho pensato e... Beh, sono stata stupida. Mi spiace di averti pressato"

"No, no, non devi scusarti... Anzi... Se hai bisogno di parlarne...?"

"Magari da sobria, stavolta?" lei rise, ma si sentiva una nota amara in quel riso "Avrai pensato che sono una..."

"Ho pensato solo che amavi tuo cugino e che la tua reazione sia stata più che naturale" la rassicurò Alfred, preso da una inspiegabile frenesia "Vuoi... vuoi che ci vediamo domani?"

Vi fu un breve silenzio.

"Perché non ci vediamo oggi, piuttosto? Tu ti ricordi dove abito o preferisci incontrarci da qualche parte?

"Mi ricordo. Vengo oggi pomeriggio alle tre. Ti posso contattare a questo numero?"

"Direi di sì"

"Va bene, a dopo allora"

"Okay, Alfred... Grazie"

Stava per dire qualcosa come "non c'è di che", ma la comunicazione si interruppe.

Alfred fissò il telefono orripilato.

"Cosa ho fatto?" chiese ad alta voce, mentre una lieve sensazione di panico si diffondeva, ricordandogli che era timido.

"Sei stato bravo" lo apprezzò Harvey, e gli saltò in spalla.

"Forse però non ho menzionato una cosa importante..." aggrottò la fronte.

"Quale?"

"Questa ragazza odia Fatman!"

***

 

Non si aspettava di trovarla in tiro. Si era truccata e messa un vestito rosso, non elegante come quello che indossava il giorno prima al funerale, ma comunque ugualmente provocante.

Lo aveva fatto per lui? Non sapeva cosa pensare. Forse era solo il suo modo naturale di vestire, forse non cercava di sedurlo.

Lui non si era messo niente di speciale, indossava una semplice camicia di colore giallo pallido e dei jeans, e come sempre non aveva nemmeno cercato di pettinarsi.

La prima cosa che lei gli disse, ancora prima di ciao, fu: "Scusa per ieri, avevo bevuto troppo e quando bevo troppo può capitarmi di dire cose inappropriate"

"Non hai detto niente di inappropriato, non preoccuparti" le disse, e cercò di sviare subito il discorso "Allora, dove vuoi andare?"

"Caffè?" fece lei "Ma siccome ieri ho approfittato della tua gentilezza e ti ho lasciato pagare tutte quelle bottiglie di birra, stavolta insisto per offrirtelo io!"

"Era il minimo..." fece lui noncurante.

"No, eri tu quello che piangeva, sarei dovuta essere io a pagare"

"Va bene, ma solo stavolta" accettò. Si ricordava anche che aveva pianto, perfetto.

Si sedettero al tavolino di un baretto, l'atmosfera era parecchio diversa da quella pesante che c'era stata la sera prima nel pub.

Lei sembrò aver perso quella spontaneità di prima. I primi minuti li passarono in quasi completo silenzio.

Ad Alfred veniva difficile cominciare una conversazione, così dal nulla. Si bagnava le labbra nel suo caffè nero bollente senza decidersi a prenderne un sorso.

Non si era preparato per niente, nessun discorso, avrebbe preferito se avesse avuto un po' di tempo in più a disposizione per pensare a qualcosa, ma oramai era lì, e lui non era il tipo che si tirava indietro.

Suzanne aveva già finito il suo cappuccino da un pezzo.

"Hai detto che suonavate insieme, tu e Steve?" disse all'improvviso, come se si fosse scocciata di aspettare che qualcuno rompesse quel silenzio.

"Oh." fece Alfred "Sì... Eravamo piccoli, sai, c'era la tipica esaltazione della gioventù... Pensavamo di essere bravi, ma in realtà non lo eravamo così tanto. Beh, inizialmente io non ci credevo neppure, di essere bravo, io facevo il dj della scuola, ma lo facevo più per hobby, è stato lui che mi ha convinto a provare sul serio"

"Che facevate, concerti?"

"Ehm, qualche volta abbiamo fatto delle serate nei ristoranti. Sai, quelli per snob, che servono cibo precotto fingendo che sia fresco, con la musica dal vivo... È strano che tu che eri sua cugina non lo sappia, c'era stato un periodo in cui non parlava d'altro!"

"Forse con te sì... invece non prendeva tanto questo discorso, con la sua famiglia. Sai, mia zia non era molto contenta di quella sua passione. Diceva che non portava da nessuna parte."

"Lo so" gli venne da ridere "Ricordo che lui si lamentava tanto che non lo sostenevano. Volevano che studiasse, ed è quello che poi abbiamo fatto."

"Mia zia voleva solo che si sistemasse. Credo che associasse la musica al fatto che aveva iniziato a drogarsi..."

"Lo aveva fatto solo per via delle cattive influenze. Ma poi aveva smesso!" esclamò Alfred "Era pulito da anni, ormai!"

"Certo, ma lei sapeva che non si è mai completamente fuori da queste cose. Lei voleva le cose che tutte le mamme vogliono per i figli. Roba tipo una laurea, una casa, un lavoro, una fidanzata..." disse Suzanne "Cose così. E lui la laurea non l'ha mai presa, la casa ce l'aveva, ma era tanto se non si faceva buttar fuori, di lavoro ne cambiava uno a settimana... E credo che avere una ragazza fissa non gli interessasse poi così tanto"

Alfred sapeva già quelle cose, ma le realizzò davvero solo in quel momento.

Ricordò la sua disperata richiesta di aiuto, quando era venuto da lui a chiedergli di assumerlo nella sua pasticceria.

Dal suo punto di vista, era Alfred quello di successo. Quello che si era laureato, che aveva avviato la sua attività e non aveva bisogno di nessuno per portarla avanti, che si riusciva a permettere di pagare sempre l'affitto e le bollette in tempo.

E lui lo aveva perfino invidiato, a un certo punto. Perché era più bello di lui.

"Wow" mormorò. Gli sembrava un fatto straordinario, stare lì con quella tizia conosciuta a malapena, a parlare del suo amico morto con tanta naturalezza, a pensare a quanto si doveva essere sentito un fallimento mentre cercava di rimettere insieme i cocci della sua vita disastrata, destinata già a concludersi prima del tempo.

"Sei a disagio?" chiese Suzanne "No, stavolta non ho bevuto, quindi non posso avertici messo..."

"Non sono a disagio, pensavo che... Steve, probabilmente, si sentiva... un fallito"

"Diciamo che lo era?" fece lei, a sopresa "Guarda, era mio cugino, lo adoravo e so che non è bello sparlare dei morti... Ma io Steve lo conoscevo benissimo e so che sapeva essere una vera testa di cazzo, a volte. Se davvero sei stato il suo migliore amico, lo dovresti sapere"

"Ehm" fece lui. Sì che lo sapeva. Lo aveva testimoniato in svariate occasioni. Ma non c'era un altro modo più gentile per dirlo? Non trovandolo, tacque.

"Santo cielo, stiamo parlando di nuovo solo di lui! Finito il caffè? Passeggiamo, dai" fece la ragazza alzandosi.

Non lo aveva finito, il caffè. Ma si alzò lo stesso e la seguì. Si sentiva come un adolescente, comandato dai suoi ormoni.

Nella sua testa si sovrapponevano mille domande e non riusciva a porne nessuna. Continuava a sentire Harvey e i suoi discorsi sulle femmine da ingravidare.

Fino a quel momento avevano parlato di Steve, ma c'erano ancora tanti punti su cui discutere. La conversazione iniziò a frammentarsi.

"Suzanne?" cominciò.

"Mi manca da morire, quel disastro ambulante di Steve."

"Anche a me. Fatman si sarebbe dovuto sforzare di più..."

"Forse tu sei uno di quelli a cui Fatman piace. Non è così? Mi è sembrato di capirlo, quando ieri ho detto quelle cose su di lui"

"Cioè, non è che mi abbiano infastidito, lo capisco perché lo odi"

"No, non lo odio. È solo che ero molto arrabbiata con lui. Però, sai cosa? Non gli si può chiedere poi troppo. Senza contare che lo aveva già salvato una volta."

"Sì? Beh, ma poteva farlo un'altra volta."

"Poteva. Ma hai letto il giornale? La critica che gli hanno fatto è stata a dir poco crudele"

"Già... Spietata"

"In fondo, chi è questo Fatman? È un benefattore anonimo che fa del suo meglio. Se sgarra una volta, cosa gli si può dire? Sei un eroe tutte le volte, ma fai un singolo errore e tutti ti voltano le spalle!"

Tutti questi discorsi li avevano fatti mentre vagavano, erano sconnessi, senza capo e coda. Quasi spensierati. Ma era quello il punto, quasi. Quanto avrebbe desiderato che lo fossero! Ogni volta che si pronunciava il nome di Fatman, Alfred si sentiva indeciso se rivelarle la verità o rispettare i termini del contratto che gli imponevano di tenere la bocca chiusa. Avrebbe voluto urlarla al mondo, dire che Fatman era lui, e tante grazie se non veniva accettato. Ma non poteva.

Suzanne si fermò. Girò sui tacchi.

I suoi occhi si offuscarono.

"Mi ero preoccupata, sai?"

"Di cosa?" si sorprese Alfred.

"Credevo che dopo ieri non saremmo nemmeno più riusciti a guardarci in faccia"

Alfred si grattò leggermente il mento. Non parlò.

"Come ti dicevo, io sono una persona che si butta e come va, va. Tu invece mi sembri molto più intelligente, uno che pensa prima di agire"

"Non sempre, capita anche a me di seguire l'ispirazione del momento"

"Come hai fatto stamattina, al telefono, invitandomi a uscire?"

Alfred tacque per pochi secondi, la guardò cercando di non farsi intimidire e di sostenere il suo sguardo intenso. "Questo secondo te è... un appuntamento?" le chiese poi, timidamente.

"Beh, non lo so." disse lei "Sono il tipo di ragazza con cui vorresti avere un appuntamento?"

Lui ci pensò un po'. Gli venne in mente Emily, perché al momento non gli venivano altri termini di paragone. Emily era stata una ragazza timida, studiosa, minuta, con gli occhiali, che lavorava sodo per ottenere buoni risultati. Molto simile a lui. Suzanne invece non la conosceva ancora così bene, ma gli dava l'impressione di essere una donna passionale, forte, senza tante remore. Un po' l'opposto di lui.

"Penso di sì" disse, dopo un po' "E io, invece?"

"Sei molto diverso da me e ti conosco appena" si strinse nelle spalle lei.

Alfred dovette fare una faccia delusa e lei se ne accorse.

Continuarono a camminare. Lei tratteneva un sorriso. E lui se ne accorse. Probabilmente stava pensando a quanto fosse patetico. Le donne sono strane.

"Non volevo metterti di nuovo in imbarazzo" disse Suzanne.

"Non lo sono. È che... Forse, un pochino, ci speravo che dicessi che questo era un appuntamento"

"Non ho detto che non lo sia" osservò lei "Senti, ma da quanto tempo è che non hai una ragazza, tu?"

La guardò stupefatto.

L'ultima era stata Emily. Ed Emily era morta quasi tre anni prima. E non era mai stata la sua ragazza.

"Da... un bel po' di tempo" rispose.

"Tu hai la stessa età che aveva Steve, no?"

"Sono più giovane, veramente."

"Sul serio? Quanti anni hai?"

"Ne ho ventotto"

Lei fischiò "Sei più giovane anche di me"

"Ah sì? Quanti..."

"Non si chiede l'età a una signora"

"...anni hai? Beh dai, lo indovino. Trenta?"

"Non ancora. Il mio compleanno è alla fine di questo mese" puntualizzò.

"Allora tanti auguri"

"Col cavolo, aspetta il giorno giusto!"

"Ma probabilmente dopo oggi non ci rivedremo mai più"

"Perché dici così?"

"Perché è quello che accadrà"

"Cosa sei, veggente?"

"Ma..." si fermò.

Lei gli venne più vicino, sollevò le ciglia "Vorrei che mi invitassi a uscire anche domani" gli disse.

Tutte le difese di Alfred si sollevarono simultaneamente.

"Domani devo riaprire la pasticceria" disse. Lo aveva deciso in quel momento.

"E a che ora chiudi?"

"Alle sette"

"Alle sette e cinque minuti vengo lì e usciamo."

"Non mi stai dando scelta."

"Non ti sto dando scelta." confermò lei.

La riaccompagnò a casa e, mentre guidava, si sentì inspiegabilmente emozionato.

Il giorno dopo, lei si presentò di fronte alla pasticceria alle sette e cinque minuti precisi. Non era ritardataria, come molte donne.

"Tecnicamente questa è la terza volta che ci vediamo" disse. Stavolta l'abito che indossava era blu. Doveva avere un armadio pieno di vestiti di tanti colori diversi.

Lui questa volta aveva avuto tutto il giorno per prepararsi a quell'incontro, era ciò che gli serviva. Si era perfino preparato dei vestiti un poco migliori e aveva cercato di sistemarsi i capelli il meglio che poteva.

"Gelato, questa volta" disse lei, sorridendo.

"Ma io sto morendo di fame, ho appena finito di lavorare!" disse lui.

"Pizza, questa volta" si corresse lei "Gelato, la prossima volta"

E la volta dopo ci fu il gelato. E il suo abito era ampio e giallo, portato con sopra una giacchetta nera. E la volta successiva andarono a mangiare un hot dog in riva al mare. E il suo abito era rosa a pois neri, con sopra la stessa giacchetta della volta precedente. Questa ragazza non indossava mai i pantaloni? Aveva un corpo armonioso e non lo nascondeva minimamente.

Tutte le volte, la conversazione era inizialmente incentrata su Steve, poi si variava. L'argomento cadeva spesso su Fatman, alla fine Alfred capì che davvero lei non lo odiava, ma continuava a chiedersi che sarebbe successo se lo avesse scoperto.

Intanto, lui non si era più ripresentato, la città sembrava essere tranquilla, non c'era bisogno di un eroe. Quindi, Alfred passava le giornate tra il lavoro e la compagnia di Suzanne.

Jon venne un paio di volte a sincerarsi che stesse bene, e con la scusa si portava a casa la sua razione di ciambelle, senza dimenticare mai la mancia. Gli ripeteva ogni volta che se avesse avuto voglia di parlare, non aveva altro da fare che chiamarlo.

Non sapeva che si stava vedendo con una donna, e quando glielo disse ne fu contentissimo.

"Penso sia esattamente quello di cui avessi bisogno, mi fa veramente piacere!" gli disse. Ed era sincero.

Alfred sorrise ed espresse un "Grazie" che gli era venuto dal cuore. Si sentiva molto confortato, i dubbi dei giorni passati sembravano svaniti nel nulla.

Decise che voleva fare una prova.

Venne via dal bancone, andò da Jon e lo abbracciò, come aveva fatto lui il giorno del funerale di Steve. Jon lo ricambiò senza problemi da parte sua.

Voleva dirgli che era suo amico. Aveva così pochi amici! Ma quello ancora non ci riusciva, a dirlo. Jon però lo capì lo stesso, lo sentì nel calore di quell'abbraccio.

Era la prima persona 'estranea' che Alfred abbracciava spontaneamente da anni, a parte Steve stesso e la sua famiglia.

Quando Jon se ne andò, Alfred si sentiva quasi come se avesse scalato una montagna.

Il suo cuore era leggero, era riuscito a fare qualcosa che gli era sempre riuscito difficilissimo, e lo aveva fatto da solo, senza neppure bisogno di prepararsi psicologicamente.

Aveva per davvero smesso con la terapia, chiunque avrebbe detto che quel momento sarebbe stato il peggiore per farlo, ma quella per lui fu la prova che ormai non ne aveva più bisogno.

Quando arrivò Suzanne, per il loro sesto appuntamento, la baciò.

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Capitolo 9
*** Come la verità può rovinare tutto ***


Capitolo 9

 

 

 

 

La sveglia si mise a suonare e una mano la bloccò prontamente, prima che il volume si facesse più alto per buttarli giù dal letto. Ma non servì.

"Mmm... che ora è ?" mugghiò la ragazza, rivoltandosi tra le coperte.

"Scusa, ho scordato di staccare l'allarme, ieri sera" fece lui.

"È ancora buio. Ti alzi sempre così presto?"

"Sono un pasticciere." le ricordò Alfred. Si chinò a darle un bacino su una spalla "Torna pure a dormire" disse amorevolmente.

Lei invece si sollevò a sedere, tirando il lenzuolo per coprire le proprie nudità. "Ormai sono sveglia" disse. Sorrideva, era ancora mezza addormentata, ed era felice.

"Non vorrai mica mollarmi qui per andare ad aprire la ciambelleria, vero?" chiese ancora, sbadigliando.

"Il bello di essere un self employer è che posso decidere io quando aprire il mio negozio" disse lui, ma si stava comunque alzando.

Lei rotolò, sporgendosi verso di lui. Allungò le braccia e gli cinse il collo da dietro. Stavolta Alfred non ebbe esitazioni, si volse e la strinse a propria volta, quegli abbracci mattutini erano un bellissimo risveglio. Lei si mise a strofinare il naso sul suo collo, lui si piegò per agevolarle quella manovra, poi le loro labbra si incontrarono, solo per qualche secondo.

"Alfred, hai idea di dove siano finiti i miei vestiti?" chiese lei.

"Penso siano un po' ovunque..." disse lui guardandosi intorno.

La giacchetta che aveva indossato la sera prima era abbandonata sul pavimento come uno straccio, il vestito stava scomposto sopra una sedia, dal bracciolo della quale pendevano il reggiseno e i collant, mentre le mutandine erano arrivate, chi lo sa come, fin sul lampadario. Le scarpe probabilmente erano rimaste fuori dalla stanza.

I vestiti di Alfred invece erano ammucchiati, in un ordine solo apparente, ai piedi del letto.

Quella notte aveva scoperto che Suzanne era quella che si definirebbe una vera bestia, a letto. E lo testimoniavano dei lievi graffi che aveva sulla schiena.

Non se lo era aspettato, a dire il vero non si sarebbe mai immaginato che sarebbero arrivati fino a quel punto così presto, si conoscevano da così poco, appena un mese. Non solo non lo aveva previsto, ma neppure programmato.

Quella era stata anche la prima volta che lei era venuta a casa sua. L'aveva invitata lui, con l'unico intento di passare insieme una serata tranquilla. Avevano festeggiato il suo compleanno. Non aveva preteso di far grandi cose, non aveva nemmeno cucinato lui, era stato qualcosa di molto disimpegnato, avevano preso delle pizze e una piccola torta, poi avevano guardato un film insieme. Il sesso era stata una di quelle cose che succedono e basta, in un modo molto naturale. Ma a ripensarci, qualche cosa era scattato fin da subito.

"Sai che parli nel sonno?" fece Suzanne, in tono leggero.

"Davvero?" fece Alfred bloccandosi.

"Hai detto qualcosa come 'grazie Harvey'... Chi è Harvey?"

"Nessuno... Uh, beh, è il mio criceto domestico" tornò a respirare.

"Tu hai un criceto?" fece lei, sembrava stranamente deliziata da tale notizia.

"Sì..." perché lo stava dicendo? Aveva passato la maggior parte della giornata precedente proprio a chiedere a Harvey di non parlare e di non farsi vedere, quando avrebbe portato Suzanne a casa sua. Non voleva che lei lo scoprisse, un criceto parlante sarebbe stato fonte di fin troppe domande. Ma ora la verità gli sfuggiva di bocca.

"Senti, già che siamo svegli, ti va di fare colazione con delle ciambelle appena sfornate?" cercò di sviare il discorso.

"Ah, le famose ciambelle di Alfred!" fece lei, in tono sognante "Sono così dolci come dicono...?"

Alfred si era rivestito e si stava infilando le pantofole. Si fermò a metà.

"Non troppo" disse.

"Bene. Preferisco che non lo siano troppo. Poi sdegnano..."

Alfred sorrise e corse in cucina. Ovviamente non aveva le stesse quantità di ingredienti che teneva nel magazzino del negozio, ma un paio di dolci poteva farli anche in casa.

Aperto uno degli stipetti, ci trovò dentro il sacchettino con dentro le bottigliette della sostanza magica.

Che ci facevano lì? Non ricordava di avercele riposte lui.

Le guardò con aria assente per qualche secondo, poi le spostò e prese il pacco di farina e quello di zucchero che stavano dietro.

"Harvey deve smetterla di spostare la mia roba, lo rimprovererò a dovere" si ripromise.

Si diede da fare.

Intanto, Suzanne, al piano superiore, stava in piedi sul letto, intenta a tirare giù le sue mutande dal lampadario. Ridacchiò, aveva fatto proprio un bel lancio. Se l'avesse vista qualcuno, chissà cosa avrebbe pensato... Raccattò i suoi vestiti e si ridiede un tono come poteva.

Il vestito che aveva scelto quella volta era bianco con dei pois violetti, dalla gonna ampia. Non era un abito propriamente elegante, lo avrebbe definito più come uno di quelli da picnic, aveva cercato di scegliere apposta, dalla sua collezione personale, qualcosa di più adatto alla serata pizza e film che avevano passato, ma veramente un po' ci aveva sperato di restare fino a tardi...

Sentiva già di avere dei sentimenti per Alfred, le piaceva, anche se spesso era così criptico.

Come diceva Steve, e come aveva capito lei stessa, era indubbiamente un introverso che pensava troppo. Per questo si era stupita poi, quando aveva visto che fosse riuscito ad aprirsi così tanto.

Si era immaginata di trovarsi di fronte a un blocco di ghiaccio e invece le era bastato molto poco per scioglierlo.

Era qualcosa di completamente diverso da ciò che aveva sperimentato in passato con gli altri uomini con cui era stata. Molti l'avevano fatta sentire inferiore, altri quasi la idolatravano. Nessuno però alla fine l'aveva rispettata. Non davvero.

Con Alfred, invece, c'era un rapporto completamente alla pari.

Non avevano corso, erano due persone adulte che sapevano ciò che volevano. E quella notte si erano voluti l'un l'altra. Tutto qui. Era stato il momento giusto e non lo avrebbe rimpianto.

Alfred era una di quelle rare persone completamente franche, che dicono le cose come stanno. O almeno, questo era ciò che vedeva lei.

La sua intelligenza traspariva dalle cose che diceva, ma non se ne era mai vantato, restava umile. Era parecchio sensibile ed era anche permaloso.

In generale, Suzanne pensava di aver trovato una persona sincera, finalmente.

Fisicamente non era il suo ideale perfetto d'uomo, okay, se si fosse sistemato quei capelli sarebbe sembrato più bello, ma nonostante ciò era alto e slanciato, non lo reputava brutto, anzi le sembrava abbastanza attraente. E comunque nella vita ci si può anche adattare.

Eppure, sentiva che ci fosse qualcosa di oscuro in lui.

Era quasi come se le nascondesse qualcosa, ma non solo a lei, a tutti.

La cosa non la infastidiva, ma al contrario la incuriosiva, voleva scoprire a ogni costo di cosa si trattasse.

Si mise ad andare in giro a curiosare. Le piaceva quella casa, era piccola e arredata in modo molto essenziale, come si addiceva a un uomo single, ma al contempo aveva notato degli elementi un po' bizzarri. Per esempio, sopra una mensola c'era una bambola, spogliata. Quello era strano, chissà che non fosse un ricordo.

E nel salotto, su un tavolino, c'era una fisarmonica acustica, quella con la tastiera di tipo pianoforte da un lato e i bottoni dall'altro. Suzanne non ne aveva mai vista una dal vivo, prima. Alfred le aveva detto che, in passato, lui e Steve avevano suonato insieme, ma non aveva specificato quale fosse il suo strumento e lei non aveva pensato minimamente che fosse proprio quello. Comunque, sembrava ormai in disuso. Pensò che fosse un peccato. Prima o poi, doveva chiedere ad Alfred di suonare per lei.

Un'altra cosa che trovò fu una pista giocattolo, con una macchinina radiocomandata. Improvvisamente, mentre la ispezionava, da un angolo apparve un criceto dal pellicciotto dorato. Aveva indosso un giacchettino arancione, anche questo era molto strano. Ma la cosa che la stupí di più era che Alfred non lo tenesse in una gabbia.

La guardava come se fosse paralizzato dalla paura. Suzanne lo trovava molto grazioso. A lei piacevano molto gli animali.

"Ciao" fece in tono giocoso "Tu devi essere Harvey, vero? Tranquillo, non voglio farti del male" allungò una mano e lo accarezzò.

Harvey le annusò le dita, poi si alzò sulle zampine posteriori e le saltò sulla mano. Suzanne ebbe la stranissima impressione che lo avesse fatto deliberatamente. Aveva dei grossi occhioni neri.

"Ma sei carinissimo!" gli disse coccolandoselo un po'. Poi lo posizionò in cima alla pista. Harvey si gettò immediatamente di sotto. Suzanne si spaventò che fosse caduto. Ma l'animale raggiunse illeso la macchinina e vi si mise dentro. Sembrava quasi che tra un secondo si sarebbe davvero messo a guidarla.

"Alfred ti deve avere insegnato a farlo, immagino! Ma è una cosa adorabile..." fece lei, divertita.

A quel punto, Suzanne venne distratta dal diffondersi di un profumo irresistibile.

Pensò alle ciambelle che Alfred stava preparando solo per lei. Un uomo che cucina? Quanto era stata fortunata!

Ma poi si accorse di una cosa strana, il profumo non veniva dalla cucina, come sarebbe stato normale, ma da una porta chiusa che prima non aveva notato.

La maniglia della porta sembrava brillare. Emanava lo sfavillìo di diecimila diamanti.

Guidata da una forza estranea, poggiò una mano su di essa e la colse una sensazione stranissima, un brivido le attraversò tutta la schiena, dal bacino al collo.

Suzanne aperse la porta.

Entrò in una stanza piccola, occupata quasi interamente da un grande tavolo, coperto da una tovaglia bianca. E sopra c'erano tante, tantissime ciambelle. Almeno una cinquantina. Avevano dei colori stranissimi, viola e blu. Non sembravano i colori tipici delle ciambelle che vendono nei negozi. Nella penombra, apparivano fosforescenti. E il loro profumo era sconvolgente, impregnava l'aria in modo praticamente oppressivo, ed era assolutamente delizioso.

Suzanne venne assalita da un crampo micidiale allo stomaco, si accorse di avere una fame assurda.

Le parve di non aver mangiato nulla per giorni.

La sua bocca iniziò a produrre saliva. Si sentì come stordita.

Doveva assolutamente prendere una di quelle ciambelle e divorarla seduta stante.

Ma perché Alfred ne stava preparando altre, se in quella stanza ce ne erano così tante, già pronte?

"Al" chiamò "Non ti dispiace, vero, se provo una di queste qui?" e mentre parlava, la sua volontà si stava annullando, stava già allungando la mano a prendere la più vicina a lei.

"Che dici, Suze?" fece Alfred, dalla cucina.

Suzanne morse la ciambella.

Un sapore indescrivibile esplose nelle sue pupille gustative.

Sgranò gli occhi. Era la cosa più buona che avesse mai assaggiato in tutta la sua vita.

"AL!" gridò di nuovo, si sentiva talmente sopraffatta da credere di trovarsi sul punto di svenire.

Alfred apparve. Con gli occhi sgranati e una espressione persa.

"Oh no. No, no, no..." si mise a dire, coprendosi la bocca con una mano.

"Ma di cosa parli? Perché dici 'no'? È una delizia..." Suzanne si bloccò. Guardò la sua mano e la aprì lasciando cadere il dolce per terra.

C'era qualcosa di strano sulla sua mano. Si era come ristretta ed era... Bianca?

Sollevò il braccio. E si rese conto, con orrore, che si stava ricoprendo di qualcosa di bianco, come tante chiazzette che correvano lungo tutta la sua pelle.

Il primo pensiero fu che si trattasse di una reazione allergica. Qualche ingrediente particolare le doveva aver causato quello strano effetto.

Alfred si era messo le mani sui capelli e se li tirava, disperato.

"Aiuto, cosa succede? Al, ho bisogno di un antistaminico, temo che... " cominciò Suzanne.

Ma ciò che accadde dopo la lasciò senza parole.

Si rese conto che quelle cose bianche non erano delle chiazze. Crescevano e venivano fuori dall'epidermide, e le crebbero anche fuori, più grandi, dalle ascelle, ricoprendo completamente anche le mani, dorso e palmi.

Suzanne era sconvolta. Erano piume.

Erano indubbiamente delle piume candide.

Le sue braccia si erano trasformate in delle ali, come quelle delle oche.

Suzanne se le fissò sgomenta, e poi si mise a urlare a squarciagola.

Alfred accorse "Va tutto bene!" disse.

"Tutto bene? Tutto bene un corno! Guarda cosa è successo! Sono diventata... un mostro!" strillava lei.

"Stai calma, posso spiegarti!" diceva lui tentando di prenderle le braccia.

"Ah, perché questa cosa assurda avrebbe anche una spiegazione?" si mise ad ansimare, non riusciva a crederci "E allora spiega!" lo allontanò "No, non toccarmi. Non toccarmi! Dimmelo, che cosa sono diventata? Che significa tutto questo?"

Alfred si passò una mano sulla faccia. Lo vide prendere dei grandi e profondi respiri.

"Innanzitutto, devi stare calma, Suzanne. Siediti. Ti prendo un po' d'acqua." disse, premuroso. Suzanne crollò sul divano.

Le sue piume sbatacchiarono giù. Le guardò sconcertata, erano veramente una parte del suo corpo!

Alfred mise un bicchiere nelle sue mani piumate, che si chiusero arrotolandovisi attorno.

Alfred si schiarí la gola, le si sedette di fronte.

"Sto per violare deliberatamente una regola molto intransigente" disse. Sembrava anche lui molto sconvolto. Afferrò una ciocca dei propri capelli, tirandola nervosamente.

"Quella che hai mangiato era una delle mie 'ciambelle meravigliose'... Sono... magiche e, a quanto pare, hanno un effetto diverso a seconda di chi le mangia."

"Eh? Tu hai dei poteri magici?" si stupí Suzanne.

"È una lunga storia." disse Alfred, raccogliendo la ciambella che Suzanne aveva morso e poi lasciato cadere "Ma è meglio che te lo mostri" portò la ciambella alle labbra "Ho una confessione da farti." la morse.

Suzanne restò in un silenzio attonito.

"Tu...tu..." iniziò a balbettare. Aveva appena scoperto quale fosse il segreto di Alfred.

"Tu sei Fatman" disse infine "No. Non è possibile..."

Alfred le raccontò una storia assurda. Di una specie di gnomo che gli aveva venduto questa fantomatica sostanza dall'effetto imprevedibile facendogli firmare questo contratto con il sangue. Suzanne ascoltò tutto, ma si teneva la testa e la scuoteva, senza riuscire a credere a una sola parola.

Non avrebbe mai pensato che fosse questo il grande mistero dietro la riservatezza di Alfred. Ma era di fronte a lei, aveva visto la sua trasformazione e ne aveva sperimentata una lei stessa.

"Questa cosa andrà via?" fece poi, divenendo fredda.

"La mia teoria è che dipenda da quanta sostanza hai assunto" disse Alfred "Anche se..."

"Perché non me lo hai detto prima?" lo interruppe.

"Non potevo. E... E poi..." la faccia enorme di Alfred diventò rossa "Non volevo coinvolgere Fatman in questo. Tu... Tu mi piaci e lui non c'entrava nulla in questa storia..."

"Fatman c'entra eccome in questa storia" lo contraddisse.

Lui la guardò senza capire.

"Ci siamo conosciuti al funerale di Steve, ricordi?" fece, sentiva la rabbia crescerle dentro "O ti sei già dimenticato del tuo amico? Un amico che tu hai..."

Si bloccò alla vista della espressione che assunse Alfred. Era profondamente ferita. Colpevole. E disperata.

"Hai... Hai..." si mise a tartagliare, incapace di completare la sua accusa.

Le sopracciglia di Alfred si erano contratte, era affranto. "Lo capisco quello che provi, cosa credi?" disse in tono debolissimo "Mi dispiace di non avertelo detto prima. Se vuoi andare via, lo capisco benissimo."

E lei se ne andò.

Aveva morso la ciambella una volta sola. La trasformazione durò all'incirca due ore, proprio il tempo che Alfred aveva calcolato. Poi le piume iniziarono a caderle.

Durante tale intervallo di tempo, Alfred riuscì incredibilmente a pensare al fatto che quella fosse un'ottima occasione, che avrebbe dovuto monitorare gli effetti che la sostanza aveva avuto su di lei. Ma non ebbe il cuore di chiederle alcunchè. Aveva il terrore che si sarebbe arrabbiata.

Lei restò seduta, in attesa di recuperare sembianze umane.

Non voleva che se ne andasse, ma si sentiva colpevole. Così la lasciò andare via.

E quando lei ebbe chiuso la porta dietro di sé, Alfred cadde seduto a terra e restò a fissare quel mucchio di piume che era rimasto sul pavimento, e gli venne in mente che sembrava come se una faina avesse fatto una strage in un pollaio. Un pensiero buffo, ma che non lo riuscì a fare ridere.

Anche la sua trasformazione si esaurì, e lui realizzò ciò che era appena successo.

In concomitanza con i chili che perdeva, crescevano dei pensieri funesti.

Quali conseguenze avrebbe avuto, averle rivelato tutto?

Tutto quello che aveva costruito negli ultimi giorni si era sgretolato come un castello di sabbia. Tutta la sua fiducia, ritrovata così lentamente, si era andata a nascondere.

Possibile che si fosse illuso così tanto, perché non aveva dato retta al suo istinto iniziale, che gli diceva che era veramente destinato a restare da solo?

"Ma che cosa è successo, Alfred?" fece Harvey. Aveva assistito alla scena da lontano ed era spaesato a dir poco, ma non si era azzardato ad andare a intervenire.

"Se ne è andata." disse Alfred semplicemente.

"Come mai?"

"Ha scoperto tutto."

"Non capisco. Io non ho parlato. Lei mi ha visto, mi ha pure accarezzato, ma io ho resistito e non ho parlato."

"Oh, ma non è stata colpa tua, tu sei stato bravissimo." disse Alfred tristemente "Tu hai fatto come ti avevo detto di fare. Ma questa cosa... prima o poi doveva uscire fuori comunque."

"E lei non l'ha accettata"

"Come mi ero aspettato."

"Beh" fece il criceto "Io non ne capisco tanto di sentimenti umani, però penso che se una femmina non accetta tutte le parti del maschio..."

"...Non se lo merita." concluse Alfred.

Sembrò che Harvey cercasse di comprendere quella frase, evidentemente stava per dire qualcos'altro. Si concentrò, poi lasciò perdere.

"...Ma per lo meno, l'hai ingravidata?" chiese alla fine.

Alfred scoppiò a ridere, nonostante tutto. "Sì, diciamo di sì" fece.

Le risate diventarono isteriche e poi si trasformarono in veri lamenti, però stavolta non ci furono né lacrime né singhiozzi.

"Sei sicuro di stare bene, Alfred?" chiese Harvey, un po' preoccupato.

"Sai cosa? Sto benissimo." rispose Alfred. Si alzò in piedi.

I supereroi erano veramente destinati a restare da soli? Ci pensò nuovamente. Se era così che sarebbe dovuto essere, gli andava benissimo. Chi era lui per opporsi al fato?

Lui ci aveva provato lo stesso. Non si sarebbe potuto rimproverare di non averci provato!

"Harvey, le hai spostate tu le bottigliette della sostanza magica?" si ricordò improvvisamente.

Harvey piegò la testolina di lato "Uh?" fece.

"Le ho trovate nello stipo in cucina" disse Alfred "Sarebbero dovute stare nella stanza in cui ho..." si bloccò. Gli venne un dubbio atroce.

"Harvey" disse.

"Che cosa c'è, Alfred?"

"La stanza. Suzanne ha trovato la stanza in cui tengo le 'ciambelle meravigliose' per puro caso. Ma quella stanza io la tengo sempre chiusa..."

Ma era stato veramente un caso?

"E le bottiglie erano fuori posto..."

Si precipitò nella stanza in questione. La porta era chiusa. Come aveva appena detto, era sempre chiusa, lui teneva la chiave nascosta. Eppure Suzanne l'aveva aperta e vi era entrata. E ora era di nuovo chiusa. A chiave. Non era stato lui ad aprirla, né a chiuderla di nuovo. E Harvey non era certo in grado di aprire le porte chiuse a chiave! Non aveva allora la minima idea di cosa fosse successo. Chi l'aveva aperta? Chi l'aveva richiusa? Chi aveva spostato le bottiglie? Chi aveva attirato Suzanne nella stanza?

Andò a prendere il vaso in cui nascondeva la chiave. La chiave non c'era.

"C'è qualcosa che non mi quadra" disse a bassa voce.

Mise una mano nella tasca sul retro dei suoi jeans. Il suo cuore perse un battito. La chiave era lì. Come era stato possibile che Suzanne l'avesse aperta, se la chiave ce l'aveva lui? E quando l'aveva chiusa? Non aveva più senso niente. Automaticamente, infilò la chiave nella serratura.

Ma nel momento in cui la girò, percepì una presenza alle spalle. Una presenza in qualche modo oppressiva, concreta e minacciosa.

Si volse, ma non vide nessuno. Qualsiasi cosa fosse, quella entità doveva essere invisibile.

O forse era tutto nella sua testa e la porta della camera l'aveva aperta veramente lui. Solo che non se lo ricordava.

"Credo di aver bisogno di schiarirmi le idee" borbottò.

Lasciò la chiave appesa nella serratura e poi prese un altro morso della ciambella maledetta che già gli aveva rovinato la giornata, e così la finì.

Si gonfiò, uscí fuori dalla finestra e andò in alto, più in alto che poteva.

Raggiunse le nuvole, ma stavolta si spinse ancora più in là.

Voleva uscire fuori dall'atmosfera. Chi lo sapeva se, a quel punto, sarebbe ancora riuscito a respirare!

Aveva delle reminiscenze di ciò che aveva studiato a scuola, ricordava che c'erano tanti strati, non ne ricordava tutti i nomi, ma ciò che era certo era che a un certo livello, l'ossigeno si fa sempre più rarefatto finché sparisce.

Non aveva mai testato la resistenza di Fatman fino a quel punto.

Continuò all'infinito, accompagnato da tanti pensieri. Avrebbe voluto sgombrare la mente, ma non ci riusciva.

Pensava a tutte le persone che aveva conosciuto nella sua vita. La sua famiglia, il suo insegnante di musica, le fidanzate (quelle poche) che aveva avuto, i vecchi compagni di scuola, di università, e poi Jon e Barbara, Vanna, i suoi amici morti Emily e Steve, Harvey... e infine Suzanne.

Se li stava tutti quanti lasciando alle spalle.

Era un suicidio? Poteva darsi. Non pensava che stava letteralmente andando incontro alla morte. Ascendeva, si godeva il vento in faccia, la sensazione sconvolgente di essere leggerissimo pur pesando una tonnellata. Faceva freddo, si gelava. Dalla bocca gli usciva la condensa, che subito si ghiacciava.

Lo stava facendo e basta, senza preoccuparsi delle conseguenze.

Aveva solamente bisogno di allontanarsi per un po' da tutti i suoi guai. Magari fosse riuscito a fare tutto giusto, per una volta!

Aveva tenuto gli occhi chiusi, stretti il più possibile. Li aprì e intorno a sé vide solo buio.

"Non è possibile" disse. Ma la sua voce era inudibile.

Si guardò intorno. Sotto di lui, grandissima, c'era la Terra. Una vista che gli fece mozzare il fiato.

La Terra! Ciò voleva dire che era davvero uscito fuori dall'atmosfera e ora si trovava a galleggiare nello spazio.

Da lassù, il nostro pianeta sembrava un luogo pacifico. Tutta l'umanità, da tale distanza, diventava qualcosa di insignificante.

E lui era ancora vivo, stava sopravvivendo! Non aveva bisogno di ossigeno, questa era un'altra grande scoperta. Era il primo uomo che poteva fare una cosa simile. Il primo e probabilmente anche l'ultimo.

Una persona con un tale potere avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Avrebbe saputo come far funzionare la sua vita. Avrebbe avuto l'ammirazione di tanti, avrebbe conquistato la ragazza, avrebbe salvato la gente in pericolo...

Esattamente tutto ciò che lui non aveva. Cose che lui non era in grado di fare. Quei poteri erano troppo grandi per lui.

"Perché è venuto da me? Perché proprio io ho dovuto ottenere questi poteri?" chiese silenziosamente "Perché non li ha concessi a qualcuno più capace di me? Io li sto solamente sprecando."

Incominciò a ridiscendere. Come aveva fatto la prima volta.

Certo, la tentazione di continuare a vagare fino ai confini dell'universo era forte.

Sarebbe stato facile, a quel punto. Volarsene via, verso il cosmo immenso, senza mai ritornare indietro. Continuare finché la trasformazione non si sarebbe esaurita e a quel punto, probabilmente, la pressione sarebbe stata talmente forte da fargli esplodere il cervello, o il freddo sarebbe stato talmente pungente da gelare le sue membra, tramutandolo in qualcosa di simile a un ghiacciolo di carne. In ogni caso, sarebbe sicuramente morto.

Ma se lui se ne fosse andato, chi avrebbe dato da mangiare ad Harvey?

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Capitolo 10
*** Chi non muore, torna ***



Capitolo 10

 

Alfred tornò a casa quando ormai si era ritrasformato in se stesso.

Trovò Harvey sul davanzale della finestra dalla quale era volato via, ad aspettarlo. Non appena lo vide arrivare, gli corse incontro.

"Alfred! Alfred! Porca paletta, dove eri andato?" chiese agitato, in un tono lamentoso e carico di angoscia che lo fece preoccupare, sembrava che stesse per scoppiare in lacrime.

"Oddio, che cos'hai? Cosa è successo?" chiese impaurito.

"Come sarebbe?" fece il criceto -e qui si udì un vero singhiozzo- "Te ne sei andato via all'improvviso, e chiedi a me cosa sia successo? Avevo paura che non saresti ritornato mai!"

Alfred realizzò "Mi spiace, ma sono stato via solo un paio di ore, non è il caso di esagerare..."

Harvey lo guardò e i suoi piccoli occhi sembrarono ingrandirsi, diventando troppo grossi per quel visetto minuscolo "Mi prendi in giro? Sei sparito per quattro giorni, Alfred!"

"Che cosa?"

Stava farneticando, non era passato tutto quel tempo! Era solo uno sciocco animale che non riusciva a distinguere il passare di un'ora da quello di una giornata intera...

Trovò il suo telefono abbandonato sul tavolo. La batteria era completamente scarica, lo attaccò al cavo d'alimentazione e attese che lo schermo si illuminasse.

Comparve la data di quel giorno. Ma era sbagliata. Doveva essere sbagliata.

Cominciarono ad arrivare una serie di messaggi e il registro chiamate si riempì di avvisi di telefonate a cui non aveva risposto.

Alcuni messaggi erano di sua madre, uno era di Jon, ma la maggior parte erano da parte di Suzanne.

Gli venne a mancare il fiato solo a riconoscere il suo numero.

Iniziò a leggerli. I primi erano concilianti, la ragazza gli chiedeva scusa, e questa era una buona cosa. Poi, gli proponeva se potevano parlare, e questo era ancora meglio.

Poi, però, diventavano un po' insistenti, gli chiedeva perché non le rispondesse. Se ce l'avesse con lei. Poi il tono diventava arrabbiato. Suzanne lo definiva infantile, aveva perfino spento il cellulare per evitare di starla ad ascoltare! Lei aveva sbagliato, ma davvero si meritava quel trattamento? Aveva creduto che lui fosse diverso, ma quel comportamento voleva dire che non ci teneva sul serio...

Leggendo tutti quei messaggi, Alfred si sentiva come se il cuore nel suo petto si fosse improvvisamente fermato. Aveva un grosso vuoto, e lo stomaco gli iniziò a dolere molto forte.

Si accorse gradatamente che era giusto quello che aveva detto Harvey. La data segnata era giusta, era veramente mancato per quattro giorni.

Stava pensando a come fosse possibile, la sostanza non aveva una durata così lunga e non ne aveva assunta una dose così massiccia, senza contare che non se ne era neppure accorto.

Proprio in quell'istante, arrivò l'ennesimo messaggio.

Era anche questo da parte di Suzanne.

"Adesso inizio a essere molto preoccupata. Sono venuta, ma non eri in casa, e mi hanno detto che non hai neppure aperto la pasticceria in questi giorni. Ti prego, chiamami!!"

C'era perfino un doppio punto esclamativo.

Si mise nei suoi panni e si sentì uno schifo.

Ma, al contempo, sentiva un anelito di speranza che riaffiorava.

Lei lo chiamava, si preoccupava, e anche il fatto che lo rimproverasse significava che ci tenesse veramente.

La chiamò. Sentiva il sangue congelarsi nelle sue vene, il dolore allo stomaco che si acuiva, ma la chiamò.

"Finalmente!" sentì la voce quasi stridula di lei "Perché non mi rispondevi?" non riuscì a comprendere se fosse ancora irritata, sollevata oppure entrambe le cose.

"Scusami. Scusami tantissimo!" quasi urlò lui nel microfono "Non... Non sono stato in casa e... il telefono l'avevo lasciato qui... Scusa. Mi rendo conto che ti sia preoccupata!"

"Dio santo, Al, non riuscivo a credere che non volessi più parlarmi... Dopo quello che c'è stato... E io ti ho trattato male... Avevo paura che... Al..." sembrava affannata, forse non riusciva neppure lei a credere che l'avesse infine chiamata.

"Ho letto solo adesso tutti i tuoi messaggi. Ci tengo ancora... Vengo a casa tua? Ti spiegherò meglio, anche se forse... Forse non ci crederai..."

"Dopo aver visto le mie mani trasformarsi in ali, credo a tutto." disse lei. Adesso il tono era decisamente sollevato, ma ancora molto apprensivo.

Ci furono pochi istanti di silenzio.

"Mi dispiace tanto." dissero all'unisono.

"Vieni. Ti aspetto." disse lei "Se non vieni entro un'ora, vengo io a cercarti" aggiunse.

"Sarò lì anche tra meno di un'ora." le assicurò.

"Promesso?"

"Promesso."

La sentì che sospirava pesantemente.

"Grazie" disse. E poi chiuse.

In quel momento, Alfred si piegò in due, una fitta lancinante lo aveva appena colto allo stomaco.

Si sentì privo di forze, svuotato.

"Devo mangiare qualcosa" balbettò, capendo che se era stato via senza accorgersene, voleva anche dire che per tutto quel tempo aveva digiunato... Forse era stata l'adrenalina a non fargli sentire i crampi della fame.

Gattonò verso la cucina, raggiunse un barattolo pieno di biscotti ai fichi e li divorò tutti, uno dopo l'altro. Era affamatissimo. L'afflusso di zuccheri lo fece ragionare meglio.

Gli venne in mente che se lui era stato via, allora come aveva fatto Harvey a non morire di fame?

Come un fantasma, l'animaletto comparve al suo fianco.

"Harvey, cos'hai mangiato durante questo tempo che sono stato via?" gli chiese.

"L'unica cosa che era disponibile" disse il criceto.

Ad Alfred andò di traverso una briciola. Si mise a tossire e prese un sorso di latte dal frigo. Lo sputò subito, perché in quei quattro giorni si era evidentemente inacidito.

Si riprese "Intendi che hai mangiato le ciambelle...?"

"Non tutte, tranquillo, sono piccolino, io" si difese Harvey.

"Ma... Ma io ho lasciato la porta chiusa!"

Harvey sembrò rallegrarsi.

"Quel simpatico signore l'ha aperta per me!"

Alfred si sentì mancare, a quella uscita "Quale simpatico signore?"

"Ma come, quello che sta qui..."

"Harvey, io abito da solo!" gridò, perplesso e di colpo preoccupato.

"Beh, c'è un uomo che sta al piano di sotto."

"Di cosa stai parlando? Chi...?"

Il biscotto che aveva ancora in mano gli sfuggì dalle dita.

Dal salotto, improvvisamente, era iniziata a provenire della musica.

Una musica tetra e spaventosa. Alfred si sentì male. Non c'erano assolutamente dubbi. Qualcuno stava suonando la sua fisarmonica.

"Merda" sussurrò.

Si avviò lentamente, dire che fosse terrorizzato non renderebbe l'idea.

Qualcuno era in casa sua, qualcuno era entrato a casa sua mentre lui non c'era e aveva aperto la porta della stanza delle ciambelle ad Harvey, qualcuno forse era sempre stato lì...

Alfred aprì la bocca, meravigliato.

In salotto non c'era nessuno. Era vuoto. E la fisarmonica era al suo posto. Era sul mobiletto, come sempre. E suonava da sola.

Alfred avvertì la pressione di due punte di metallo sul fianco. E immediatamente una scarica elettrica molto forte attraversò il suo corpo.

Sentì un dolore acutissimo esplodergli ed espandersi in fretta lungo tutte le sue membra, gli sembrò di vibrare e restò immobilizzato dove si trovava per diversi lunghissimi secondi.

Cadde a terra gridando, completamente incapace di muoversi.

Aveva il fiato mozzo. Il suo cervello era in allarme, gli urlava di alzarsi e scappare, ma lui era paralizzato.

Vide un paio di gambe lunghe sorpassarlo. Poi, chiunque fosse, si abbassò appena, per mostrare quello che aveva tra le mani.

In una, c'era un taser, l'arma che aveva appena utilizzato per stordirlo. Nell'altra, c'era quello che appariva come un registratore.

L'uomo premette con il pollice un bottoncino e la musica della fisarmonica si interruppe.

Allora era solo una registrazione...

"Non l'hai riconosciuta, vero?" disse una voce che sembrava piena di rabbia e disprezzo "L'hai scritta tu, ma poi l'hai scartata"

Alfred vedeva solo le caviglie del suo aggressore. Non gli occorreva sollevare lo sguardo, aveva riconosciuto perfettamente quella voce.

Gli uscì come un rantolo, non riusciva a parlare, la gola gli si era seccata e chiusa.

L'uomo gettò per terra il registratore e lo calciò via.

Poi si chinò di più su di lui.

Afferrò Alfred per il colletto della camicia con entrambe le mani e lo sollevò.

"Guardami in faccia, stronzo"

Alfred non voleva guardarlo, non voleva scontarsi con quegli occhi azzurri così paurosi e vivi.

"Tu sei Fatman. E hai un dannatissimo criceto parlante in casa." digrignava i denti per la rabbia e sputacchiava "Tutti questi segreti. E non hai ritenuto importante dirmelo!"

Alfred ritrovò la voce. "Tu sei morto" disse stupidamente.

Steve gli rise in faccia "Ti converrebbe che lo fossi" sputò.

E lo lasciò cadere a terra.

Alfred atterrò malamente, il suo corpo incominciò a rispondere, forse per via dello choc.

"Ti abbiamo seppellito un mese fa!" strillò "Ti abbiamo..."

"Avete seppellito un corpo carbonizzato e irriconoscibile." lo corresse Steve. Aveva una lunga cicatrice che gli correva lungo tutto il lato destro della faccia, e che gli si increspava tutta, mentre la aggrottava in una espressione furiosa.

"Ma... Aveva i tuoi documenti addosso" disse Alfred "Nessun altro mancava all'appello... "

"Era un senzatetto, un poveraccio che non aveva nessuno che lo aspettasse. E anche un ladro. Mi si era avvicinato senza che io lo notassi per rubarmi dalle tasche. Durante l'incidente, mi era caduto addosso, mi ha fatto finire contro il finestrino, l'ho sfondato, ecco come mi sono fatto questa" indicò il viso "Poco prima che il bus esplodesse, sono riuscito a calarmi giù attraverso il vetro spaccato. Mi sono distrutto la pelle, ma sono riuscito a salvarmi per un pelo. E poi ho visto te. O meglio, ho visto Fatman e poi Fatman si è trasformato in te. E allora ho capito tutto. Ho capito perché mi avevi allontanato, ho capito i tuoi discorsi inconcludenti..."

"Ma allora..."

"Credevo di essere il tuo migliore amico! Ma tu non mi hai voluto dire che eri Fatman! La nostra amicizia non valeva così tanto?"

"Non è così!" gridò Alfred in tono di supplica "Io... io non potevo dirtelo, non..."

"Mi hai escluso dalla tua vita senza motivo!"

"Avevo paura! Avevo paura per te! Stavano succedendo delle cose che non sapevo come controllare..."

"E poi mi hai lasciato morire! Mi sento come se mi avessi tradito..."

"Io ti ho salvato! E stavo cercando di salvarti di nuovo..."

Alfred tentò malamente di rialzarsi, ma si sentiva ancora indebolito.

"So che ho sbagliato, ma se mi permetti di spiegarti tutto..."

Ma Steve allungò il braccio e gli puntò addosso il taser "Non provare a venirmi accanto, Al. Quest'arma non uccide, ma se ti sparo negli occhi, può lasciarti cieco." lo minacciò.

Alfred si fermò. Ma poi riprese ad avanzare.

"Sta' lontano, ho detto!" ruggì Steve.

"Steve... Io sono felice che tu sia ancora vivo" disse Alfred.

"Alfreddd" grugnì Steve, trascinandosi l'ultima consonante, era come se la masticasse, con tanta rabbia.

"Non hai idea di quanto mi sia sentito in colpa, non sai quanto abbia pianto..."

"Ah, l'ho visto come ti sei consolato, ti sei buttato addosso a mia cugina! E, a proposito, dimmi, che cosa cazzo stai combinando, con lei?"

Alfred rimase interdetto e tacque.

"Continuava a chiamarti. Perché la stai ignorando?"

"Lei... Io..." balbettava, si sentiva preso in contropiede.

"Volevi solamente fartela, eh? Beh, mi spiace per te, lei non è una facile, perché la stai trattando come tale?"

"No!" esclamò lui "Non capisci, non la sto trattando come..."

"Mi fai schifo, ti comporti come l'ennesimo bastardo di cui non ha bisogno!"

"No! Non è così. Stavo appunto per andare da lei per..."

"No che non ci vai!" Steve raddrizzò la mira "Te lo impedisco" E sparò. Alfred alzò istintivamente un braccio per coprire gli occhi. I due dardi elettrificati vi si conficcarono sopra.

Alfred cadde a terra urlando.

Sarebbe stato proprio il momento buono perché la sostanza residua facesse il suo effetto, ma sembrava che l'avesse esaurita tutta quanta, era completamente senza energie.

"Questo è per averla fatta soffrire. Oh, come mi sono sbagliato su di te, mi sono sbagliato su di voi" disse Steve "Avevo sul serio creduto che poteste essere una coppia, tu e lei. Ma ora la sola idea mi disgusta"

Si avvicinò a lui.

"Tu la lascerai" sentenziò "Lei deve credere che tu sia solo l'ennesimo stronzo che la illude..."

"Perché vuoi farle questo?" riuscì a biascicare Alfred, sentiva l'elettricità invadere ogni centimetro cubo del suo corpo ed era dannatamente doloroso.

Steve sorrise "Oh, ma non è per lei. Lei è forte, ne ha superate tante, oh, vedrai che non crollerà certo stando dietro a te. Uno stupido ciambellaio che crede di voler fare il supereroe? È così ridicolo! Nossignore, lei merita di meglio. Tutto questo è per punire te. Perché tu non troverai mai nessuna migliore di lei. "

Alfred comprese che Steve era troppo arrabbiato per starlo a sentire, ma volle comunque tentare di farlo ragionare.

"Ascolta! Ti ricordi la canzone che stavi suonando poco fa? Non l'ho scritta io, Steve, l'abbiamo scritta insieme! Tu e io. Ti... Ti ricordi? Abbiamo perso quello che avevamo sognato, ma... ci piaceva scherzare. Forse, in un'altra realtà, in un mondo diverso da questo qui... Forse noi due siamo diventati famosi. Ricordi?"

"Certo, mi ricordo. L'unica cosa in cui eri davvero bravo era suonare quella fisarmonica. Eppure hai smesso."

"Ho smesso per colpa tua..."

"No. Hai smesso perché sei un fallimento" Steve andò verso lo strumento, lo sollevò da terra.

"Cosa stai..." tentò di dire Alfred, ma non finì, Steve glielo lanciò addosso. Nonostante il dolore che sentì e il pericolo che correva, Alfred riuscì a temere più che quel ricordo della sua gioventù si rompesse che per la sua incolumità.

"Non si campa di sogni! Non esistono universi alternativi, la realtà è una sola. Una realtà in cui tu, come me, hai fallito ogni singola cosa che hai tentato di fare" Steve era imbestialito, sputacchiava.

Alfred si reggeva a stento, ma non potè neppure provare a rialzarsi, Steve tornò alla carica con il taser, glielo premette addosso minacciando di colpirlo una terza volta.

"Stai cercando di uccidermi?" gli chiese, con il panico nella voce.

"Vuoi farmi credere che tu ti faresti uccidere da me?" disse Steve "Voglio semplicemente darti la lezione che ti meriti."

E, proprio appena ebbe finito di pronunciare quella frase, il cellulare di Alfred, sul tavolino in cucina, ancora attaccato alla carica, incominciò a suonare.

"Suzanne" mormorò Alfred. E cercò di precipitarsi a rispondere, ma Steve premette il grilletto.

Alfred però era pronto.

Riuscì miracolosamente a tuffarsi a terra e non venne colpito.

Lesto, sollevò una gamba, diede un calcio alla mano di Steve. L'arma gli saltò di mano.

Steve però non demorse, gli si gettò addosso, gli afferrò le braccia.

Inciamparono assieme sulla fisarmonica rimasta a terra e rotolarono giù.

"Lasciami rispondere" gridò Alfred.

"No! Tu la faresti soltanto uscire di testa, prima che ti mandi a quel paese."

Iniziarono a lottare, spingendosi a vicenda. Steve cercava di bloccarlo in una morsa. Alfred scopriva energie che aveva creduto di non avere più.

Riuscì a crollare sulla soglia, ma era tardi per rispondere. Si era attivata la segreteria telefonica.

"Al, ci stai mettendo un po'..." si sentì la voce in apprensione di Suzanne "Non voglio farmi la paranoia che mi darai buca. Non succederà e lo so. Magari stai arrivando, proprio mentre io ti dico queste cose. Voglio credere che tu non sia una persona cattiva. Comunque, scusami per come ho reagito, non è stata colpa tua se Steve è morto. Forse era solo il suo destino e tu... Hai cercato di andare avanti... In conclusione, penso che mi piacerebbe molto uscire con Fatman. Arriva presto, ti aspetto."

E lì si interruppe.

Steve era finalmente riuscito a bloccare Alfred, spingendolo a terra e sedendogli addosso, sulla schiena. Gli aveva passato un braccio sotto il collo e lo stringeva.

"Che demente." commentò "Come può seriamente essersi innamorata di te?"

"Lasciami andare da lei. Non capisci che non mi resta nient'altro?" supplicò Alfred, mezzo strozzato.

"Lo capisco. È esattamente questo il punto."



 

 

Harvey aveva indossato il giacchetto arancione che Alfred gli aveva regalato.

Lo amava, era l'unico indumento che possedesse. E amava Alfred che glielo aveva regalato. E amava la macchinetta radiocomandata che Alfred gli aveva comprato.

Gli piaceva da matti sfrecciare su quel mini-veicolo alla sua portata, perché lo faceva sentire libero. E si sentiva importante, quasi come Alfred, perché lo aveva visto spesso, lo aveva osservato dalla finestra quando lui, quasi ogni giorno, andava a lavorare, lo aveva visto guidare una macchina come la sua, ma molto più grande.

Harvey non aveva capito perché Alfred se ne fosse andato, ma lo amava e se lo aveva fatto doveva necessariamente avere un motivo.

Sentì voci concitate e poi vide il signore simpatico, quello che lo aveva accudito nei giorni in cui Alfred non era stato in casa, che attaccava Alfred. E allora non gli stava più tanto simpatico.

Harvey caricò una delle ciambelle che stava mangiucchiando da quella mattina sulla sua macchinetta.

La fece sfrecciare verso Alfred, chiamandolo a gran voce.

Alfred si volse. Era bloccato sotto l'uomo, ma si volse a guardare lui che lo chiamava.

"Harvey!" gridò Alfred a sua volta.

"Oh cavolo, quel dannato ratto è ancora qui!" disse l'altro uomo. E Harvey perse decisamente tutta la sua simpatia per lui.

"Sono un criceto!" specificò. Era importante che si capisse la differenza.

Harvey vide lo sguardo di Alfred e comprese che aveva bisogno di aiuto. Del suo aiuto.

Così si sollevò, prese la ciambella con le sue zampine e, senza esitare, la lanciò dritto dentro la sua bocca.

La centrò perfettamente.

Alfred ingoiò la ciambella intera senza neppure masticarla, il suo sapore delizioso gli diede un gran vigore. Steve cadde giù, mentre lui cresceva di volume.

Fatman si erse in piedi, fiero e possente. Indossava la tuta da supereroe, non si era mai cambiato ma la indossava come una seconda pelle.

"Ora la smetterai di fare il prepotente" disse a Steve.

"Non credere, anche se ti sei trasformato in Fatman, non cambia nulla" si schernì lui.

Ma Fatman lo colpì con un pugno in piena faccia.

Gliela fece girare tutta tutta da un lato e lo buttò a terra.

Harvey saltò in spalla al supereroe e vi si strusciò contro "Te lo dicevo che, prima o poi, avresti avuto bisogno di una spalla!" gli disse.

"Grazie, Harvey, ottimo tempismo" rise Alfred, il suo tono era pieno di gratitudine e Harvey fu contentissimo di averlo aiutato, di essersi veramente reso utile. Perché lo amava.

Poi Alfred raccolse Steve da terra, prendendolo per il retro della maglia. E si mise a fluttuare.

"Cosa stai facendo? Mettimi giù!" strillò Steve.

"Certo, ti metterò giù, ma prima... devi fare una cosa" dichiarò Alfred.

"Dove mi stai portando?"

"Da Suzanne"

Uscirono fuori, Fatman attraversò la città trattenendo Steve a penzolare giù.

Lo sentiva che si agitava e imprecava, ma i bollenti spiriti sembrava che gli si stessero calmando. Quello era sempre il suo amico, in fondo.

Quando furono a casa di Suzanne, la ragazza era lì fuori che aspettava.

Ma aspettava Alfred, non Fatman!

La ragazza era confusa, ma ancora più confusa fu quando vide suo cugino, che era morto un mese prima, vivo e vegeto di fronte a lei.

Fatman lo depositò lì davanti all'in piedi, aspettandosi che sarebbe svenuta da un momento all'altro. Ma Suzanne fissava semplicemente entrambi ed era come attonita. Non dava segni né di sorpresa né di paura.

"Cosa sta succedendo?" chiese infine, in modo molto calmo.

"Guardala" disse Alfred, spingendo Steve contro di lei "Questa ragazza ha pianto la tua morte"

Suzanne chiedeva spiegazioni sempre mantenendo una espressione calma. Era come se si fosse messa una maschera di apatia addosso.

Alfred le disse in breve che Steve aveva finto la sua morte e lei non modificò di una virgola quella faccia.

"Ero nei guai, sparire per un po' mi serviva..." cercava di giustificarsi Steve, che di fronte a quella reazione della cugina sembrava sentirsi sotto torchio.

"Non so se essere contenta che tu sia vivo o essere arrabbiata perché ci hai fatto credere che fossi morto." disse Suzanne.

"Renditi conto del dolore che hai causato" lo rimproverò asperrimamente Alfred "E in nome di cosa? Rancore? Vendetta?"

Steve si trovò a corto di argomenti, così si mise a sbraitare.

"Voi non capite un tubo! Voi..." iniziò.

"Oh, Steve quanto sei idiota!" lo interruppe Suzanne all'improvviso e, incapace di trattenersi oltre, si lanciò tra le sue braccia. La maschera le era praticamente caduta dal volto e ora mostrava apertamente tutta la sua giusta angoscia e la sua rabbia "Perché ci hai fatto questo?" piangeva.

A fronte di tale cambiamento, Steve iniziò a realizzare finalmente quello che aveva fatto e ne sentì un gran rimorso.

"Scusa, cugina" disse abbracciandola. Gli sembrava troppo piccola tra le sue braccia, nel modo che aveva di stringerlo sentiva davvero quanto l'avesse ferita.

Se lei, una donna forte e lottatrice, era in lacrime, chissà quale dolore aveva dato alla sua vecchia e fragile madre. Che figlio ingrato doveva essere stato! Steve si sentì terribilmente in colpa.

"Al, sei un gran birbone" se ne uscì "Guarda cosa mi stai facendo fare."

Suzanne lo mollò e lo spinse con rabbia "Al è una delle persone migliori che abbia mai incontrato" disse con sincerità.

Alfred fu colpito da ciò che disse. "Davvero? Non pensi che sia... un perdente?"

"Il vero perdente è chi non lo sa riconoscere" disse lei decisa, e gli tese una mano.

Sorrideva, anche se aveva ancora le lacrime che le brillavano sulle guance. Alfred le prese la mano e la chiuse tutta nel suo grosso palmo, ma con tanta cautela, sembrava che non la volesse toccare, come per paura che si potesse rompere.

Suzanne gli si avvicinò di più. "Devi ancora dirmi tante cose" gli ricordò.

Alfred capì però che non era arrabbiata, era probabilmente piena di sentimenti contrastanti, ma erano tutti quanti veri, ed era questa la cosa più importante in quel momento.

Le asciugò le lacrime, pensando che non gliene aveva mai viste versare sino a quel momento.

Lei abbandonò il viso sulla sua enorme mano. Poi si allungò sulle punte dei piedi.

Steve sembrava scocciato e girava gli occhi mentre quei due si baciavano di fronte a lui.

"Però, una cosa che hai detto è vera. Ho smesso di suonare, e questo è stato un errore." disse Alfred, dopo.

"Già, però anche lui ha smesso, no?" osservò Suzanne, indicando Steve.

Steve la guardò aggrottando la fronte. "Che cosa intendi dire?" fece mettendosi le mani sui fianchi.

Lei gli strinse il braccio e rise, pareva che si lasciasse trascinare da una certa idea venutale sul momento, ma a veder meglio, le si riusciva a leggere dentro il profondo degli occhi che non si trattava affatto di qualcosa di nuovo, ma di qualcosa che aveva concepito già da un po' di tempo.

"Doveste ricominciare... Non trovate?"

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Capitolo 11
*** Il diavolo torna a riscuotere ***


Capitolo 11


 

Alla fine, Alfred riuscì a scoprire che Suzanne aveva realmente un sarto privato che le realizzava abiti su misura, cosa che fino a quel momento aveva solamente sospettato. Era un amico di famiglia, glieli passava a un prezzo stracciato, pur garantendo sulla qualità dei tessuti. Non che Alfred ne capisse troppo di moda, ma aveva già immaginato che fossero qualcosa di differente da ciò che si trova normalmente nei negozi. Suzanne aveva un suo stile tutto personale e una cosa che non gli aveva detto, era che i vestiti se li disegnava da sola.

E quindi insistette perché anche lui, per una volta, si rivolgesse proprio a tale sarto. Alfred non voleva, inizialmente, qualcosa gli diceva che non fosse completamente corretto, una simile qualità doveva essere valutata maggiormente. Ma si lasciò corrompere da tante moine e coccole, e alla fine si fece confezionare qualcosa che, a detta dell'esperto, gli stava a pennello.

Si trattava di un completo molto diverso da quell'unico elegante che possedeva, era privo di quelle orrende spalline enormi che lo facevano assomigliare a una figura geometrica, aveva un taglio molto più adatto al suo fisico, che gli calzava perfettamente, aderendo alle sue forme virili, come fosse un guanto, esaltandogliele.

Suzanne era anche riuscita a convincerlo ad andare dal barbiere per farsi sistemare il taglio di capelli. Alfred non aveva letteralmente messo un piede in una di quelle botteghe da anni e ne aveva una vaga paura.

Fu una sfida anche per il professionista, che non appena vide la gran massa aggrovigliata che aveva al posto della normale chioma che chiunque altro avrebbe dovuto avere al suo posto, afferrò un grosso paio di forbici che tese, come fosse un crocifisso per scacciare un vampiro.

Non appena entrato, Alfred voleva di nuovo scappare via, aveva il terrore che glieli avrebbe tagliati troppo. Non li aveva praticamente mai portati corti, era convinto che non gli sarebbero mai piaciuti.

Il barbiere si mise a trattare con lui per venire incontro alle sue esigenze. Alfred non era convinto di nessuna delle soluzioni che l'uomo proponeva per rimediare a quel disastro che aveva in testa.

Si fece promettere che, se avesse sforato il limite stabilito di due centimetri, si sarebbe fermato lì e non avrebbe preteso di essere pagato.

Ovviamente Alfred lo avrebbe ricompensato comunque, poiché dopotutto non sarebbe stato giusto, ma con tale assicurazione era molto più tranquillo che il barbiere avrebbe fatto il suo dovere.

Non era per niente convinto quando lo vide prendere il rasoio, ma fu sollevato di scoprire che lo avrebbe utilizzato soltanto per sfoltire.

Tagliò dentro ma li lasciò lunghi fuori, scalò senza esagerare. Alla fine, Alfred si guardò nello specchio e non riusciva a credere di essere la stessa persona del riflesso. Dov'era finita la sua caratteristica foresta di rovi? Aveva un aspetto molto più curato. Si sentiva quasi bello, e non aveva mai utilizzato tale aggettivo per definire se stesso.

Suzanne invece lo definì fantastico. Stava certamente esagerando.

Era lei a essere fantastica, e ne ebbe la conferma quando la vide avanzare, lenta e decisa, lungo la navata, con indosso quel meraviglioso abito bianco a sirena con lo scollo a cuore e lo strascico lunghissimo... Anche questo lo aveva, naturalmente, disegnato lei stessa. Era impreziosito da gemmette luccicanti lungo tutto il corpetto, e al collo c'era un modestissimo filo argenteo che ne bilanciava la brillantezza.

Sembrava impaziente di raggiungerlo, il velo le svolazzava liberamente alle spalle, il bouquet di rose bianche veniva squassato da ogni parte.

A un lato dell'altare, Steve suonava la marcia nuziale con il suo basso, una cosa che funzionava nella sua particolare bizzarria.

Alfred accolse la sposa aprendo le braccia, lei vi si gettò dentro senza esitazioni, come era suo solito fare per qualsiasi cosa. Sorrideva radiosa, gli occhi le brillavano.

Alfred non diceva niente, era perso nell'irrealtà di quel momento. Era tutto precisamente come lo aveva sempre sognato, solo in parte diverso.

Per esempio, c'era un criceto che reggeva il cuscinetto con le fedi.

Erano ovviamente presenti i genitori di Alfred, suo fratello con la fidanzata e alcuni zii.

Jon, con sua moglie e i bambini, era in prima fila, seguito da persone che Alfred non si era aspettato insistessero di presenziare al suo matrimonio, molti dei suoi clienti, tra cui i due poliziotti che approfittavano sempre dell'offerta del pomeriggio.

Vanna aveva invece rifiutato l'invito, Alfred non aveva capito il motivo. Che si fosse sentita offesa ché aveva smesso di andare da lei? Non lo avrebbe mai saputo, ma in verità non se ne preoccupava più di tanto.

Gli altri facevano parte della famiglia di Steve e Suzanne. La mamma di Steve infine lo aveva perdonato, anche se quando aveva scoperto che suo figlio non era realmente morto, aveva avuto una certa voglia di ucciderlo lei... Ma poi avevano vinto il sollievo e l'amore. E i suoi amici lo avevano schiaffeggiato a turno.

Steve e Alfred si erano promessi che non ci sarebbero più stati segreti o, per quanto possibile, incomprensioni tra di loro, che avrebbero cercato di chiarirsi sempre e imparare da tutti gli sbagli che avevano commesso.

La loro amicizia sembrava risorta dalle sue ceneri, più grande e più forte.

Nel frattempo, Steve sembrava essersi rimesso in carreggiata, aveva finalmente trovato un lavoro senza lasciarlo dopo solo poche settimane, faceva il commesso in un supermercato, non era niente di particolare, ma almeno aveva modo di pagare le bollette...

E dopo il lavoro, lui e Alfred si incontravano per suonare insieme. Finalmente avevano rimesso insieme la band e al momento vi stavano cercando un nome, oltre ad altri membri.

Alfred prese l'anello che gli porgeva il buon Harvey e lo infilò nel dito anulare della donna che stava per diventare sua moglie.

Pronunciò le sue promesse senza incepparsi, le aveva memorizzate per bene, e la guardò fisso negli occhi per tutto il tempo, senza mai abbassare lo sguardo.

Suzanne fece lo stesso, ma si sentì una incrinatura nella sua voce alla fine, data probabilmente dall'emozione.

Il celebrante li benedisse. Suggellarono l'unione con un bacio e, intorno a loro, la gente si mise ad applaudire.

Poi uscirono dalla chiesa e si fecero tirare addosso riso e petali di rosa.

Alfred pensava che quello fosse il giorno migliore della sua vita, tutto quanto si era sistemato da sé e non sapeva quale forze superiori avrebbe dovuto ringraziare.

Mentre Suzanne ringraziava gli invitati e si approcciava al tradizionale lancio del bouquet, Alfred vide un'ombra comparire dietro un angolo della chiesa.

Poteva essere qualsiasi cosa, un gatto, un cane, un pinguino, perché no? Ma qualsiasi cosa fosse, Alfred si sentì trascinare verso di essa. Le sue gambe si mossero da sole verso quella direzione, come calamitate, in uno scatto talmente fulmineo che nessuno lo vide andarsene.

Lo riconobbe principalmente per la sua bassezza, prima ancora di vederlo in faccia, quella brutta faccia che non aveva mai più potuto dimenticare. Eppure aveva qualche cosa di diverso.

La sua pelle sembrava avere un colorito più salutare, la sua barba e i capelli non erano più bianchi come quell'unica volta in cui lo aveva visto, ma neri, eppure non davano l'impressione di essere stati tinti, e il viso era meno segnato, privo di macchie e rughe, sembrava ringiovanito di venti anni almeno.

Alfred avanzò incerto verso di lui. Aveva una strana sensazione, ritrovarlo lì proprio in quel giorno sembrava qualcosa di programmato, era come se un cerchio mai completato, ciò che aveva dato origine a tutta quella serie di eventi assurdi, si stesse infine chiudendo.

"Ehi, lei!" lo chiamò.

Lo gnomo gli sorrise beffardamente, distendendo tutto il viso in tale smorfia. "Buonasera, Alfred" disse. Perfino la sua voce sembrava più giovane "Come va?" lo accolse gentilmente.

"Va... Benissimo" rispose Alfred, rallentando il passo "Mi sono sposato" continuò.

"Questo lo vedo" annuì lo gnomo, squadrandolo "Mi piace molto il tuo vestito, davvero chic."

"Grazie..." Alfred esitò. Il tono in cui lo aveva complimentato non sembrava sincero, in esso era nascosta malamente una evidente punta di ironia. Sentiva di dovergli fare tante domande.

"Senta" incominciò "Lei... Lei mi ha procurato quella sostanza che mi permette di diventare un supereroe..."

"Di cosa hai bisogno, ragazzo? L'hai già finita e te ne occorre dell'altra?"

"No, non è questo... Io... Non le ho mai potuto chiedere perché lo ha fatto. Non era ciò che le avevo chiesto. Lei... lei mi ha imbrogliato, eppure il suo imbroglio mi ha in qualche modo migliorato la vita..."

"Ricordi che hai firmato un contratto con il tuo sangue?" lo interruppe lui, all'improvviso. La cordialità mostrata poco prima era svanita e la sua espressione ora si era indurita, lo guardava come se lo biasimasse "Sbaglio, o avevamo detto che non dovevi dirlo a nessuno? Era una clausola del contratto che ricordo benissimo di averti sottolineato. E tu avevi accettato di non rompere mai questa regola. E ora, ci sono ben quattro persone che conoscono il tuo segreto..."

"Aspetti... Quattro?"

Ci pensò per pochi secondi. Chi era che lo sapeva? Jon, che lo aveva riconosciuto fin dal principio. Suzanne, che poi lo aveva scoperto. Steve... e poi chi c'era... L'uomo che per poco non aveva ucciso durante quell'attacco di pazzia! Ecco la quarta persona. Non sapeva neppure che fine avesse fatto, non poteva essere sicuro che non avesse raccontato a nessun altro la verità.

"Beh... tecnicamente, io non l'ho detto di mia iniziativa, sono stati loro a scoprirlo e... non ho potuto negare l'evidenza."

"Evidentemente, non capisci quanto sia importante questa cosa..." disse lo gnomo "Poiché sei un ingenuo e non hai idea di cosa posso farti."

Alfred sgranò gli occhi. Una vaga sensazione di allarme si diffuse sul suo petto. Il tono usato dall'omino era minacciosamente serio e inquietante.

"Forse sarebbe stato meglio se lo avessi letto per bene, prima di firmare. Non credi?" ghignò lo gnomo. Tra le sue mani comparve quel foglio di carta che Alfred riconobbe istantaneamente, perché in fondo c'era la sua firma, tracciata malamente con il sangue, ormai asciugatosi e divenuto nero e secco. Alfred Matthews. Era il suo nome, troneggiava alla fine della pagina catturando l'attenzione di chi lo guardava. Alcune volte, ad Alfred era capitato di ripensare al giorno in cui lo aveva firmato, e si era chiesto se non si fosse in realtà trattato di un sogno bizzarro. Gli eventi avevano già smentito questa idea, ma ora c'era la finale riprova che ciò fosse realmente accaduto.

"Fammi vedere" fece Alfred, aveva inconsciamente abbandonato il lei.

Si fece dare il contratto tra le mani. Lo gnomo allungò un dito sulla carta e indicò un paragrafo in particolare.

Alfred lo scorse e sentì il sangue che gli si ghiacciava nelle vene:

 

"Il sottoscritto si impegna,

qualora rompesse l'accordo ivi presente,

a concedere in garanzia la propria anima"...

 

Anima.

La rilesse più volte.

Quella parola doveva essere sbagliata.

Perché mai si sarebbe dovuto parlare di un concetto così astratto in un formale contratto di compravendita?

"La propria anima" ripetè "La mia anima? Ma non è possibile..." Non aveva senso. L'anima è qualcosa di impalpabile. Alfred non poteva dire di capirne tantissimo di spiritualità, anzi ammetteva di essere davvero molto ignorante in materia, ma per quel poco che ne sapeva lui, l'anima dovrebbe essere quella cosa che ci rende coscienti, che ci fa accorgere di essere vivi. Il principio vitale dell'uomo, la sua parte immateriale e immortale, l'origine e il centro del pensiero, del sentimento, della volontà, della coscienza morale. Quella essenza che abita il nostro corpo, e che lo abbandona nel momento in cui moriamo. Qualcosa della cui esistenza alcuni perfino dubitano. Qualcosa che ci è stato concesso dalle divine forze superiori che controllano l'esistenza sulla Terra, se non sull'intero Universo. L'anima è indefinibile. Non la si può toccare, non la si può imbottigliare e, soprattutto, non la si può dare in cambio di un bene materiale.

O si può?

"Cosa vuol dire?" chiese, stupidamente.

"Vuol dire che, nel momento in cui i tuoi amici hanno scoperto la verità, la tua anima è divenuta di mia proprietà. TU mi appartieni. Il che significa che io posso fare di te tutto quello che voglio." esultò l'ometto.

Alfred lo guardò, mentre gli si allargava una certa sensazione di disagio anche allo stomaco.

"Pensavi veramente che ti avrei concesso un simile potere, completamente gratis? Ricordi quando ti sentivi trascinato da quelle forze negative? Quando hai pensato che uccidere qualcuno fosse qualcosa di accettabile, pur di proteggere quel segreto che in verità avevi già dato via sin dal primo giorno? Quando hai voluto gettare via la sostanza, ma ti sei sentito fisicamente bloccare? Quella mano inesistente che ti ha fermato, che ti sei sentito materialmente addosso, quella presenza che ti osservava costantemente nel buio? Questo accade perché non avevi già più il controllo sulla tua volontà."

"Io ho il controllo!" protestò Alfred "Quelli erano stati solo momenti di debolezza, che mi facevano immaginare cose inesistenti... Non c'è nessuno che mi manipola, sono io a decidere!"

"Ah, sei tu, eh? Ne sei davvero convinto" fece il suo opponente, ridendo di lui.

"Certo... E comunque, tu come fai a sapere queste cose... Chi sei, in realtà?"

"Dovresti averlo capito. Io sono il tuo burattinaio" i suoi occhi rossi rilucevano di una sorta di rabbia e gioia mescolate insieme.

Nel momento in cui disse questa ultima parola, sollevò le mani a metà, piegando i gomiti, e dei filamenti, scarlatti come i suoi occhi, comparvero dal nulla.

Questi filamenti erano come sottili cavi, attorno ai quali si diramavano delle piccole saette blu, come fossero elettrificati. Ed erano attaccati ad Alfred. Erano fusi alla sua pelle, gli entravano nelle membra, erano collegati alle braccia, alle gambe, al busto, alla testa. Come fosse diventato una marionetta.

Alfred urlò istintivamente, li afferrò tentando di strapparseli via. Ma non ce la faceva.

Lo gnomo tirò i fili verso di sé e Alfred cadde in avanti.

Le parti del suo corpo si muovevano contro la sua volontà.

Si tirò in piedi e avanzò, perché era lui che voleva che lo facesse.

"Sono il tuo padrone" disse lo gnomo. E rideva, e l'eco di quella risata maligna e tossica si insinuò nel cervello di Alfred. E lo iniziò a divorare, come un cane che rosichi un osso.

"No!" esclamò Alfred, cercando di opporsi. Tese le braccia per trarre i filamenti verso di sé. L'ometto li trattenne. Si creò una tensione, entrambi tiravano per averla vinta, ma alla fine l'omino aprì le mani e Alfred recuperò il controllo su se stesso, ma perse l'equilibrio rischiando di cadere stavolta all'indietro.

Il contratto che aveva ancora in mano volò dolcemente a terra, nella polvere.

"Non ti è piaciuto questo, eh?" fu schernito.

"Perché?" tornò a chiedere Alfred "Perché stai facendo questo?"

"Perché sei la persona giusta"

"Giusta per cosa?"

"Per darmi forza e nutrimento. Per darmi un corpo che mi serva."

I filamenti scomparvero così come erano apparsi. Lo gnomo si sollevò dal suolo, aprì le braccia e dal suo corpo scaturirono come delle fiamme nere.

"Lo vuoi sapere il motivo per cui ho aspettato così tanto per rifarmi vivo?" gli chiese, con i suoi occhi che diventavano completamente bianchi, luminosi "Perché dovevi sperimentare la felicità. Ma prima, la paura, la perdita, il dolore, il dubbio... Sono tutte quante emozioni. Ed è di questo che noi demoni ci nutriamo."

Alfred era sconvolto. Sollevò lo sguardo, in tempo per vedere il fuoco infernale che si protendeva su di lui e lo avvolgeva. Perse completamente il respiro e si accasciò su se stesso, come un pupazzetto di carta.

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Capitolo 12
 

Suzanne pensò che Alfred ci stesse impiegando un pochino troppo tempo, per fare il 'bisognino' che si era presunto fosse andato a espletare, quando era sparito.

Erano usciti insieme dalla chiesa, dopodiché non lo aveva visto allontanarsi. Quando non lo vide tornare, chiese a tutti se lo avessero visto.

Steve si era stretto nelle spalle, Jon aveva scosso la testa, era stata Barbara a ipotizzare che fosse andato in bagno. Controllarono e non c'era. Nessuno sapeva dove fosse andato.

Lo chiamarono al cellulare, ma non rispondeva.

Suzanne non sapeva cosa pensare. Lo aveva letteralmente appena sposato e lui spariva così? Possibile che si fosse già pentito? No, non era possibile. Quando avevano deciso di organizzare le nozze erano stati entrambi molto decisi e sicuri.

D'altra parte, si chiedeva se fosse troppo presto per incominciare a preoccuparsi.

Suzanne andò a perlustrare il perimetro della chiesa e si accorse che c'era tutta una serie di siepi in giardino, a destra e a sinistra, che formavano ciò che appariva come un sentiero.

Vi si addentrò, sollevando l'abito per non sporcarne l'orlo, e chiamando Alfred.

Non si aspettava realmente di trovarlo e quando infine lo vide saltò su, spaventata.

Era sul fondo di quel labirintico giardino, per terra, con la schiena contro un albero, con le braccia abbandonate, le palme delle mani rivolte verso l'alto, la testa china. Sembrava un giocattolo rotto.

Suzanne gli corse incontro "Al! Al, cosa è successo?" urlò.

Alfred sembrò riscuotersi al suono della sua voce, sollevò la testa e la guardò. Il suo viso si illuminò per un istante, ma si ghiacciò immediatamente dopo.

"Sta' lontana!" disse, a occhi sbarrati "È pericoloso..."

Non fece in tempo a dire altro che Suzanne si sentì sollevare, come da una brezza di vento. La gonna del suo abito si aprì e si gonfiò sotto di lei. I piedi le si staccarono dal suolo.

Il velo si staccò dai suoi capelli e svolazzò via. Gridò per la sorpresa, rendendosi conto che stava fluttuando.

Alfred sollevò debolmente un braccio verso di lei e chiamò il suo nome, ma i suoi movimenti sembravano forzati. Era come se lottasse con tutte le sue forze per poter muovere anche un solo muscolo.

Dal nulla, si materializzò una catena di vero freddo metallo, la quale si chiuse attorno al suo polso. E anche sull'altro. Tentò di sollevarsi, ma fu costretto a restare in ginocchio, mentre le sue braccia venivano tirate all'indietro dalle catene.

"No, no" si mise a dire, come singhiozzando "Non può star succedendo sul serio, non..." si interruppe. Delle fiamme erano comparse, proprio di fronte a lui, era come se si fossero aperte dal sottosuolo.

Suzanne vide emergere una figura da quel fuoco.

Una persona di bassa statura e con un aspetto decisamente bizzarro. Una specie di gnomo, dagli occhi di sangue.

"Salve, Suzanne" disse il nuovo arrivato, con un sorriso larghissimo e inquietante sulla brutta faccia "Alfred ti avrà spiegato cosa ha fatto per ottenere quei meravigliosi poteri, ma aveva omesso un dettaglio..."

"Non lo ascoltare! Ti imbroglierà come ha già fatto con me!" urlò Alfred. Si sentiva il panico nella sua voce.

Lo gnomo si volse verso di lui, guardandolo malissimo. Tese una mano, come se fosse sul punto di colpirlo, ma invece strinse indice e pollice insieme.

La mandibola di Alfred si chiuse con uno scatto.

"Chi sei? Cosa vuoi da mio marito?" gridò la sposa.

"La domanda da fare qui è: cosa puoi fare tu per salvarlo?"

Alfred si mise a lottare contro le catene che lo costringevano, sembrava disperato. Suzanne non riusciva ancora a capire. Ma lui aveva capito.

"Il tuo fresco marito, qui, ha firmato un accordo con me. Non te lo ha raccontato? Mi ha venduto la sua anima" disse il nano, ghignando "Ma io sono disposto a trattare. Posso annullare questo contratto, se tu, mia cara, ne firmerai uno nuovo con me"

Alfred voleva urlare, ma la sua bocca restava serrata contro la sua volontà, sembrava che le arcate dei denti e le labbra si fossero incollate tra di loro con un potente adesivo, e la gola era chiusa. Non riusciva neppure a emettere un suono, era costretto a respirare dal naso ma lo faceva a fatica, non ce la faceva ad alzarsi, stava diventando paonazzo, le guance erano rosse, quasi viola.

Lo gnomo prese il suo mento tra le dita. A quel contatto, Alfred provò dolore, sembravano uncini acuminati che gli entravano nella pelle, e tentò di ritrarsi.

"Tu sei innamorata di quest'uomo, non è così?" disse il demone, stringendolo per fargli più male, rivolto a Suzanne "Questa volta non si potrà salvare da solo. Dipende tutto da te, ragazza."

La sposa però, sembrava innaturalmente calma.

"Vuoi sapere una cosa?" cominciò, seccatissima "Oggi dovrebbe essere il giorno più bello e magico della mia vita. L'ho sognato da sempre, come fanno tutte le stupide bambine come me. Ho trovato una persona che non si avvicina neppure minimamente al mio ideale di 'principe azzurro', eppure ho fatto la fame pur di entrare in questo abito. E ora, ho decisamente voglia di una ciambella!"

Detto ciò, la sua mano andò al corpetto. Ne tirò fuori un involto che scartò in fretta, che conteneva una strana ciambella colorata di viola, con la glassa fosforescente.

La morse. Le sue braccia si riempirono rapidamente di piume candide, divenendo delle ali.

Unite all'imponente abito da sposa, la facevano apparire maestosa, un gigantesco cigno dalle sembianze umane.

Lo gnomo la guardò con stupore, che divenne un ghigno, che si deformò quando la donna si precipitò su di lui dall'alto e lo colpì con un cazzotto ben assestato sul volto.

Sollevò poi la gonna e gli mollò un calcio che lo spedí lontano, lasciando Alfred scoperto.

Nel processo, gli lasciò un sanguinolento graffio sul mento.

Ma le labbra di Alfred si riaprirono, la magia che gliele teneva sigillate si era interrotta, e lui iniziò a respirare pesantemente dalla bocca.

"Sei anche tu superforte!" si stupì, ansimando.

"Ho fatto anche io degli esperimenti, spero che non ti dispiaccia" disse la sposa, discendendo su di lui "Avevo l'impressione che mi sarebbe potuta servire, così l'ho messa a portata di mano. Presto, prendi un morso anche tu, così puoi liberarti da quelle catene!" aggiunse, avvicinandogli la ciambella alla bocca.

Ma qualcosa si frappose tra di loro, una nube oscura da cui riapparvero gli occhi penetranti del demone, non era ancora stato sconfitto.

Suzanne venne spinta all'indietro, roteò una volta, la gonna le volò in faccia, coprendole la visuale. Battè le ali per frenarsi.

La ciambella le sfuggì dalle mani e cadde proprio di fronte ad Alfred, ma disgraziatamente era fuori dal suo raggio d'azione.

Suzanne voleva tornare da lui. Ma si sentì attaccare da tutte le parti come da delle entità invisibili, e si trovò a dover schivare i colpi e in tal modo si allontanò ancora di più.

"Mi pare di capire che la tua risposta alla mia proposta sia no" disse la voce del demone, da qualche parte attorno a lei "Benissimo, questo significa che Alfred è ancora MIO!"

Alfred venne attraversato da un dolore immane e si mise a gridare molto forte, sentiva come se il suo corpo si stesse lacerando...

Suzanne lo sentì urlare, ma non riusciva a vederlo, anzi non riusciva a vedere più nulla, continuava a sentire dei movimenti veloci intorno a sé e continuava a muoversi per evitare di essere colpita. O almeno, provarci.

A un tratto, venne presa in piena faccia. Sentì la propria testa dare una stoccata all'indietro e si trovò di nuovo a roteare, ma si frenò, battendo le ali.

Portò una mano piumata al viso e si accorse che le piume bianche le si erano macchiate di rosso. Questo la fece arrabbiare.

Il suo avversario era impossibile da vedere, Suzanne non poteva sperare di contrattaccare se prima non lo avesse localizzato. Si diede una scrollata e tentò di acuire i sensi. Non lo vedeva, ma sapeva che era lì, da qualche parte.

Ora doveva solo concentrarsi per poterlo trovare, sconfiggerlo e poi raggiungere Alfred.

"Suzanne!" lo sentì chiamare, la sua voce era rauca e lamentosa "Tesoro mio..."

"Al! Al, sto arrivando!" rispose, strizzando gli occhi. Alfred non la chiamava mai 'tesoro', c'era una cupa disperazione in quelle parole. "Tieni duro!" urlò.

"Suzanne, non farlo, vattene via, è una trappola!"

"Cosa..." esitò.

Fu investita da qualcosa che le crollò addosso come una valanga di sabbia, se la sentì rotolare addosso e anche dentro.

Menò un pugno alla cieca e si sentì afferrare l'ala da una mano dalla presa solida, che gliela stritolò come fosse una tenaglia.

Suzanne ebbe uno spasmo per il dolore. Ma l'emozione più forte di quei momenti fu la meraviglia. Pensava che chi la stava attaccando fosse quel demone dalle sembianze di gnomo.

E invece no, il suo avversario era Alfred stesso. Quello che lei stava cercando di salvare. Era diventato Fatman ed era la sua mano grassa ed enorme ad averla bloccata.

"Al, ma cosa stai..." mormorò, senza comprendere. Ma Fatman la scaraventò a terra.

La sua schiena strusciò per un paio di metri lungo il suolo. Si rialzò, era piena di graffi sanguinolenti che le dolevano molto.

"Suzanne!" gemette di nuovo la voce di Alfred.

Lei si voltò e vide l'uomo ancora attaccato all'albero, trattenuto dalle catene. Era quello suo marito! Fatman, separato da lui, fluttuava minacciosamente sopra di lei, come un avvoltoio.

"Pensavo fossero la stessa persona" disse, confusa.

Fatman aprì la bocca, sembrava una caverna oscura, non aveva denti né lingua, ma solo un vuoto. Si calò su di lei, la sua tuta arancione brillava nel riverbero del sole.

Suzanne si fece ombra, schermandosi la vista con le piume, lo guardò meglio e si accorse che i suoi occhi non erano quelli castani di Alfred, erano quelli rossi del demone.

Quello non era Alfred, aveva soltanto ricreato l'immagine di Fatman. Era come un guscio riempito. Ne fu orripilata, ma anche segretamente sollevata.

"Mi piace molto, questa forma" disse l'essere, usando la stessa voce del demone. Non c'erano più dubbi, era lui "Vedo che non capisci, ora ti spiego. Questo corpo mi è stato dato dal caro Alfred. Con tutta la sostanza che ha assunto in questi mesi, intorno a lui si è creata una massa che, pian piano, ha preso concretezza. E io l'ho usata per ricostruire questo intero fantoccio, che ora posso abitare, senza neppure dovergli chiedere il permesso, visto che sono il proprietario della sua anima. Gliel'ho praticamente strappato di dosso!"

Suzanne aggrottò la fronte. Era veramente una situazione assurda.

"Anche i tuoi poteri vengono dalla mia sostanza" disse il demone "Sono io ad averti reso quello che sei in questo momento"

"Sì, ma io non ho firmato nessun contratto con te" osservò la donna.

"Senza di me, tu e il tuo caro marito non vi sareste neppure mai incontrati" continuò lui.

Suzanne guardò Alfred. Alfred sollevò la faccia e la guardò a propria volta con una espressione atterrita, ma anche molto, molto stanca. Aveva le guance livide per lo sforzo di tirare le catene, e la separazione da Fatman sembrava avergli prosciugato anche le ultime energie. I capelli che si era fatto curare dal barbiere erano tutti madidi di sudore. Vene pulsanti spiccavano sul suo collo. Era l'immagine stessa di un uomo ormai sconfitto, ma che non si rassegna testardamente alla sua fine.

Suzanne non riusciva a sopportare la sua vista, le spezzava il cuore.

Improvvisamente, Fatman, o il mostro che lo animava, le fu accanto.

Le accarezzò il viso con quelle mani da obeso. Le stesse mani che Alfred aveva mosso gentilmente su di lei, ora la ripugnavano.

"Io posso lasciarvi in pace" le sussurrò in un orecchio "Potreste vivere felici, senza dovervi preoccupare mai più di me. Tu devi soltanto concedermi la tua anima, in cambio della sua libertà. Della vostra libertà. Vivrete in pace per lunghi anni... io verrò a riprendermi le vostre anime solo alla fine della vostra vita, quando ormai non vi serviranno più..."

"Aspetteresti così a lungo?" chiese Suzanne, dubbiosa.

"La mia esistenza trascende la vostra, mi basta sapere di avercele assicurate"

"Perché vuoi anche la mia? Hai già la sua."

"Sono un demone, le anime sono ciò di cui mi nutro."

Suzanne ebbe una sorta di visione onirica, era una di quelle immagini fugaci, che appariva insieme nitida e sfocata, era simile a ciò che si intravede in un sogno. Ombre, di cui non si afferravano precisamente i contorni, ma il cui senso era intuibile.

Erano le shilouette di due persone, una alta e una più bassa, un uomo dagli evidenti capelli voluminosi e una donna formosa con la gonna ampia. Erano di profilo e si fissavano negli occhi. Le due figure si stagliavano contro una parete luminosissima di colore rosso-aranciato. Come un tramonto. Oppure, più probabilmente, un'alba.

L'alba della loro nuova vita insieme. Si apriva di fronte a loro ed era bellissima e sembrava senza fine. Senza punti oscuri.

Una via d'avorio, formata da tanti tasti bianchi, come quelli della fisarmonica di Al, conduceva la coppia verso l'infinita vastità dell'universo. Segnava loro il cammino. Ed era una strada tranquilla, piena di amore, piena di luce.

Forse, molto, molto in fondo, li aspettava anche il buio, in agguato.

Ma cosa importava? C'era già qualcosa che stava crescendo tra di loro.

Una terza figurina, ancora in stato embrionale, di forma incerta, acerba. Ma presente.

Andava guidata e condotta anch'essa attraverso la lunghissima via d'avorio.

Voltandosi indietro, Suzanne constatò che la strada luminosa si era in realtà formata dall'unione di altre due, su ciascuna delle quali le due persone avevano camminato da sole. L'uomo veniva dalla via più oscura, più accidentata, la donna da quella a zig zag.

Suzanne comprese che quelle che stava vedendo rappresentavano le loro vite. Alfred veniva da una serie di fallimenti continui, lei da alti e bassi.

Quella che invece si apriva di fronte a loro, era quella vita che il demone stava offrendo loro. La tranquillità di una vita piena, intensa, felice... c'era soltanto un piccolo prezzo.

 

Suzanne si riscosse, digrignò i denti e scacciò la maestosa visione, come si scaccia una mosca fastidiosa.

Riapparve nella visuale il volto deforme del demonio che ghignava, certo di averla in pugno. Suzanne lo affrontò a viso aperto.

Piantò il suo sguardo azzurro dritto nei suoi occhi di sangue.

"Io non penso che non ci saremmo mai incontrati." disse, sprezzante.

Stavolta fu lui a guardarla confuso. "Cosa?" fece.

"Io e Alfred. Poco fa hai detto che non ci saremmo mai incontrati, se non fosse stato per te. Ma io non credo che sia così. Sarebbe successo comunque. Magari in un modo differente."

Lui sembrò irritarsi "Che cosa c'entra questo!" esclamò.

"Voglio dire che tu non controlli proprio niente, sei qui solo per un purissimo caso! Non puoi promettere pace, come non puoi muoverti fuori dal tuo corpo senza dover imbrogliare le tue vittime. Non voglio una vita perfetta. Sono stati i nostri errori a condurci dove siamo adesso. Ci portiamo dietro i nostri bagagli, ne traiamo esperienza per la vita futura. La vita perfetta non esiste. Non sarà mai così bella come quella che mi hai mostrato, ma sarà vera. Io non concederò mai niente a un essere patetico come te."

Il volto del demone diventò come di marmo. Poi si imporporò assumendo il colore di un mattone grezzo "Pensavo fossi una persona ragionevole, Suzanne, ma evidentemente sei soltanto una stupida donna che non capisce cosa sia meglio, per lei e per l'uomo che ama." disse, infuriandosi "Porterò immediatamente Alfred con me nelle profondità dell'inferno, la sua anima soffrirà i tormenti eterni e sarà tutta colpa tua..."

Ma mentre parlava, il suo corpo venne improvvisamente attraversato da una specie di saetta, che arrivò dall'alto e lo trapassò. Il demone cacciò un acuto urlo di dolore.

"Cosa succede? No, tu non dovresti esistere!" rantolò, pieno di rabbia.

Dal buco che aveva al posto della bocca esalò come uno sbuffo di vapore rovente, mentre la sua schiena si arcuava all'indietro. Fissava un punto poco distante da lui.

Suzanne non capiva, ma poi si accorse che non stava parlando con lei, sembrava che si rivolgesse a una entità invisibile.

Il demone cercò di raddrizzarsi, ma la luce attraversò di nuovo quel suo corpo, che resistette solo per pochi secondi, prima di incendiarsi e poi dissolversi di fronte alla donna, in una nube di fumo nero.

Suzanne era stupefatta. Agitò le mani piumate davanti alla faccia per disperderlo.

Cosa era appena successo? Sembrava che qualcosa, o qualcuno lo avesse neutralizzato. Ma come era possibile? Era stato merito suo? Resistere alla sua proposta aveva forse fatto intervenire una qualche entità superiore, che lo aveva attaccato, facendolo sparire?

Ci pensò ancora, finche non udì un lamento e si ricordò di Alfred.

Si mise a correre. Doveva andare da suo marito, c'era ancora il pericolo che la sua anima venisse portata via.

Ma lo vide accasciarsi, proprio un secondo prima di riuscire a raggiungerlo. Le catene disparvero dai suoi polsi e lui crollò a terra, rimanendo immobile.

Gli si gettò addosso, gli sollevò il viso. "Al" lo chiamò, urlava "Sono qui" disse "Amore..." singhiozzò.

Alfred emise un lieve respiro e aprì gli occhi, sorridendole per un breve momento.

"Suzanne... Sono stato così stupido." sussurrò "Volevo soltanto riuscire a fare qualcosa di buono nella mia vita. Sono stato vittima della mia ambizione... Non avevo niente da perdere, prima di incontrare te... Ma almeno, ho vissuto uno dei momenti migliori della mia vita, quando ci siamo sposati..."

Tacque. Chiuse gli occhi. La sua testa ricadde giù.

"Porca miseria, Al, non puoi svenire, non adesso!" gridò Suzanne "E... E la tua anima è buona, non può finire all'inferno! Dobbiamo difenderla..."

"Stai tranquilla, non ci finirà" disse una voce giovane, che pareva quella di un bambino di mille anni.

Suzanne si guardò intorno "Chi ha parlato?" chiese, allarmata. Non vedeva nessuno.

"L'anima non appartiene agli uomini, loro la prendono solo in prestito, quindi non la possono realmente vendere."

Suzanne si accorse che quella voce veniva dal basso. Fissò per terra e finalmente vide qualcosa.

Un criceto, che stava masticando qualcosa.

"Harvey?" disse, di nuovo parecchio confusa "Cosa stai mangiando?"

"Ho trovato questo foglio di carta e l'ho mangiato" disse l'animaletto.

Suzanne ne prese in mano un frammento che gli usciva dal musetto. Capì che quello altro non era che il contratto di Alfred, perché c'era una lettera del suo nome scritta col sangue.

Allora comprese tutto.

"Harvey, hai distrutto il contratto che Alfred ha firmato! Questo vuol dire... Che è annullato? La sua anima non appartiene più al demone!" si voltò verso di lui e si mise a scuoterlo "È per questo che se ne è andato! Al! Sei libero! Hai sentito? Al!"

"Sei tu che non hai sentito, Alfred non poteva vendere qualcosa che non era suo." ripetè Harvey.

"Ma allora... cosa è successo?" chiese, sempre perplessa.

"Niente, lui fa credere agli uomini ciò che vuole, per poi potergliela rubare, grazie alla loro disperazione."

Suzanne capì. Era stato tutto un gioco mentale contorto, il nemico li avrebbe manipolati a proprio piacimento. Avrebbe concesso loro quella vita meravigliosa lungo il sentiero d'avorio incontro al sole, alla fine del quale loro stessi, per rispettare quell'accordo, si sarebbero consegnati a lui.

Ma, eliminando il contratto, il demone era stato rispedito indietro, perché non aveva più nulla di concreto su cui avanzare pretese. Era stato un macchinamento astruso e pericoloso, eppure ci erano cascati con tutte le scarpe. L'anima di Alfred non era mai stata sua e ora non sarebbe più stato in grado di ottenerla. Adesso sembrava tutto così ovvio. Che questo lo avesse capito un criceto e non un umano era qualcosa che avrebbe potuto dare da pensare.

"AL!" disse lei ancora. Lo schiaffeggiò e le sue piume si staccarono tutte insieme dalle sue braccia, come foglie secche da un albero. La sostanza diabolica aveva esaurito i suoi effetti, stavolta per sempre.

Alfred riaprì gli occhi. Si sollevò a sedere e la guardò.

"Cos'è successo?" chiese.

"Harvey ti ha appena salvato le chiappe!" disse Suzanne, saltandogli addosso e abbracciandolo, in un turbinio di piume svolazzanti. Gli spiegò tutto, sconvolta e sollevata.

Alfred riuscì a ricambiare l'abbraccio e si strinsero forte a vicenda.

"Ma questo significa..." cominciò poi.

"Che Fatman non esisterà più." concluse lei per lui.

"E le tue piume?"

"Sono appena cadute giù tutte quante!" rise.

"E... E Harvey?"

Lo guardarono. Il criceto aveva perduto tutta la sua super intelligenza giusto nel giro di quei pochi secondi. Li guardava con gli occhi stupidi di un animale senza cervello che non sa parlare.

"Oh no..." mormorò Alfred. Qualcosa gli faceva male nella parete più esterna del petto, appena sopra il cuore. "È tornato a essere un normale criceto" disse.

Lo raccolse, davvero in quella testolina non esisteva più nulla della personalità quasi umana che si era sviluppata in quei mesi? Davvero Harvey ci aveva rinunciato? Ne era stato consapevole? Lo aveva fatto per lui? Davvero se lo meritava?

"Lo ha fatto per amore" disse Suzanne.

'Amore' pareva una parola troppo grossa nel senso reale, un concetto troppo astratto per essere concepito da un animaletto. Eppure, da sola, spiegava tutto.

"Aveva raggiunto un livello di intelligenza per cui sapeva benissimo che cosa sarebbe successo, una volta annullato il contratto. Ha rinunciato a saper parlare per salvarti."

Alfred lo accarezzò, commosso "Mi mancheranno le nostre chiacchierate, piccolo..." poi avvicinò le labbra al musetto del roditore "Ti voglio bene..." sussurrò.

Ad Harvey si rizzò visibilmente il pelo. Alfred ebbe un sussulto.

Forse, nei meandri profondissimi di quella piccola mente che regrediva, c'era ancora un briciolino di lucidità, sufficiente a Harvey per capire il significato di quelle ultime tre parole che aveva pronunciato. Era una speranza.

"Al..." lo richiamò Suzanne.

"Sì?"

"Abbiamo perso i poteri, ma... Stiamo ancora insieme?"

Lui la guardò "A meno che tu non volessi in realtà essere sposata con Fatman"

Lei fece una smorfia "No, io volevo essere sposata con Alfred"

"E allora non mi sembra che tu abbia sbagliato nulla..."

Si misero a ridere. Si abbracciarono di nuovo, si rialzarono e andarono, mano nella mano, a continuare i festeggiamenti per il loro matrimonio.









Spazio autrice:
Ringrazio tutti quelli che hanno letto la mia storia. Ringrazio ancora di più quelli (pochi) che hanno commentato. In particolare la mia piccola Hyk. Ti voglio bene ;) 
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. I personaggi ivi presentati sono vagamente ispirati a persone realmente esistenti, ma non hanno alcuna relazione con esse. 

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