La Stella a Otto Punte

di LyaStark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XII ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** AVVISO! ***



Capitolo 1
*** I ***


CAPITOLO I

 

MARCUS

 

    “Meno male che gli Assassini del Re sono un gruppo d'élite!” pensai, mentre correvo, inseguito da un gruppo di persone molto grosse, molto armate e soprattutto molto, molto arrabbiate.
    Mi ero fatto sorprendere come un pivello nel bel mezzo della mia missione, che ovviamente non sono nemmeno riuscito a completare, e adesso rischiavo pure il capestro. Non un pensiero che mi riempisse di gioia, devo ammetterlo, ma chi cavolo avrebbe mai potuto pensare che un banale signorotto di un banale paese sul limitare della foresta avesse delle guardie del corpo così attente e ligie al dovere? Ero andato lì a Hale tranquillo, senza preoccuparmi troppo di come avrei ucciso Sir William, rilassato come per una scampagnata. Ero entrato di soppiatto nel piccolo castello, avevo trovato le stanze del padrone della baracca e avevo sguainato la spada. E lui a quel punto che ha fatto? Ha tirato un cordone appeso al muro. Sul momento devo aver persino riso. Insomma, chi cavolo tira un cordone quando sta per morire? E invece quel cordone era un sistema semplice ed efficace per richiamare le guardie, che si sono precipitate nella stanza per fare il loro dovere, ovvero uccidere me.
    Quel Sir William dei miei stivali doveva aver avuto il sentore che il suo trattenere parte delle tasse destinate al Re non fosse passato inosservato e quindi doveva aver assunto una cinquantina di mercenari per fare la festa a chiunque avesse cercato di farla a lui, la festa. Accidenti a me e alla mia arroganza! Già mi immaginavo le prese in giro dei miei amici, quando gli avrei raccontato tutto, sempre SE fossi sopravvissuto abbastanza per raccontargli tutto.
    Ero scappato dal primo piano di quel castello dalla finestra, saltando per terra in mezzo a pezzi di vetro e legno, senza pensare nemmeno a quante probabilità avrei avuto di rompermi qualcosa. Una volta toccata terra avevo zigzagato per le vie del mastio prima e della cittadina poi, saltando carri, spingendo persone e scavalcando muretti, il tutto ovviamente inseguito da un mucchio di tipi che volevano la mia testa. Ero uscito da Hale come un uragano, correndo come un forsennato verso il bosco. Ogni tanto il sibilo di qualche freccia mi arrivava all'orecchio e devo ringraziare la mia fortuna (o forse la loro scarsezza, non so) se non sono finito come un simpatico puntaspilli. Se fossi stato catturato niente mi avrebbe tirato fuori dai guai, e non avevo nessuna voglia di morire in una sudicia prigione in una città ancora più sudicia. Proprio non esisteva. E poi non sembra, ma sono affezionato al mio collo, visto che è l'unico che ho.
    Smisi di pensare alle mie disgrazie quando finalmente iniziai a intravedere i tronchi degli alberi, mentre i miei inseguitori erano a poco più di quaranta metri da me. Di ingaggiare battaglia non se ne parlava, visto che io ero uno e loro venti, e per quanto io sia bravo -e sono bravo- non avrei mai potuto resistere per più di quattro minuti. Quindi mi fiondai senza esitazione nel bosco, nella speranza di seminare i miei inseguitori, incurante di tutte le brutte storie che lo riguardavano e che comprendevano briganti, ribelli, fantasmi e chi più ne ha più ne metta. L'autunno è una stagione bellissima, e notai distrattamente i colori della foresta nella mia corsa. Le foglie erano scivolose sotto le suole dei miei stivali, e sperai con tutto me stesso di non fare una caduta che mi sarebbe stata fatale.
       “Mai più missioni organizzate così a caso” mi ripetevo mentre continuavo a fare lo slalom tra i tronchi. “Mai più nella vita. D’ora in avanti almeno due giorni buoni di programmazione, lo giuro!”. Inutile dire che sapevo già che il mio proposito non sarebbe mai stato mantenuto. Quando le missioni sono, o almeno sembrano, facili, trovo completamente inutile stare a perdere tempo quando farsi guidare dall'istinto è una soluzione molto più comoda. È un mio difetto, lo so, ma non trovo niente di stimolante nello studiare e pensare e riflettere su cose che anche uno scemo potrebbe progettare al volo. Però a volte va a finire così, o come quella volta a Imarilla che... va beh, lasciamo perdere. Basti sapere che non è stata una vicenda di cui vado particolarmente orgoglioso.
    Finalmente i rumori dei miei inseguitori si fecero distanti ed attenuati, e dopo pochi minuti ancora erano stati completamente coperti dai rumori della foresta. Rallentai il passo, sollevato, mantenendo comunque la corsa, più per sicurezza che per altro. Quando alla fine mi fermai avevo il fiatone ed ero arrivato alla riva di un fiumiciattolo. Riuscii a guardarmi intorno con attenzione: la foresta, mi ricordavo dallo studio delle mappe -ebbene sì, quelle almeno le avevo studiate- era la Foresta della Luce. Era grande parecchie migliaia di ettari, praticamente inesplorata, cosa che aveva dato origine alle leggende che venivano narrate su di essa. La luce del pomeriggio filtrava leggermente dalle chiome degli alberi, decine di metri sopra di me. Era una foresta molto antica e tra i vari racconti al riguardo uno narra di alberi che negli anni avrebbero preso vita. Sono sempre stato molto scettico su queste storie di magia però, una volta dentro al bosco, non sembravano poi così insensate. Sarà stata l'aura di maestosità, la luce, non lo so... fatto sta che per coronare la giornata mi mancava solo finire spiaccicato da una gigantesca quercia dotata di vita propria.
    Scacciai il pensiero con un gesto della mano e preferii concentrarmi su altro. I colori dell'autunno, che non avevo potuto fare a meno di notare anche durante la mia rocambolesca fuga, erano splendidi. Giallo, arancione, rosso e marrone erano dappertutto, circondandomi e dando all'aria un colore dorato. Era senza dubbio un bellissimo posto. Il rumore cristallino dell'acqua non era disturbato da niente e non c'era la solita puzza delle città attorno a me, ma l'odore di terra smossa e di erba bagnata. Un paradiso insomma, se non fosse che non sapevo dove accidenti mi trovavo.
    Avevo corso a caso, cercando di inoltrarmi il più possibile nel folto del bosco, e devo dire che ci ero riuscito pienamente. Non sapevo dove fosse il nord e fidatevi, quella storia di guardare il muschio sui tronchi è una cavolata. Il muschio cresce dove gli pare, senza preferenze per uno dei punti cardinali, e conosco decine di persone che si sono perse a causa di questo trucchetto. L'unica cosa che potevo fare era sedermi, riposarmi un attimo, e poi pensare a come tirarmi fuori dalla foresta. Avrei anche dovuto cercare di capire come portare a termine la mia missione, perché altrimenti sarei stato severamente punito una volta tornato alla sede della Confraternita, e non è mai una cosa piacevole. Ma ogni cosa a suo tempo. In fondo ero stanco, avevo passato buona parte della notte precedente a cavallo per arrivare a Hale, e la giornata era stata quasi tutta occupata a scalare muri, ad abbattere porte e a scappare. Non propriamente riposante. Quindi mi sedetti contro un albero, sguainai la spada e me la misi di traverso sulle ginocchia, poi chiusi finalmente gli occhi. In meno di tre secondi già dormivo.
    Dopo quelli che a me parvero pochi minuti, un rumore mi svegliò. Per fortuna ho un orecchio fino e mi risveglio di solito molto in fretta, capacità che mi ha salvato la vita in più di un'occasione. Girai la testa verso la fonte del rumore e vidi un gruppo di quattro guardie attorno a me. Quella alla mia destra aveva, fortunatamente, pestato un rametto, che spezzandosi mi aveva svegliato. Mi tirai in piedi tranquillamente, con la spada nella mano.
    – Volete davvero farlo? – chiesi, cercando di sembrare il più rilassato possibile. Cosa che non mi venne neanche troppo difficile visto che io sono un Assassino e mi addestro da anni in vista di queste occasioni.
    – Niente di personale amico, ma Sir William vuole la tua testa. –
    Feci un sospiro. Non che non mi piaccia menare le mani, ma quel giorno sinceramente avrei voluto evitare. I quattro intanto continuavano a muoversi lentamente attorno a me e quello che aveva parlato mi stava davanti, la spada risplendeva debolmente nelle sue mani. Notai distrattamente che dovevo aver dormito un paio d'ore, visto come era calata la luce e come attorno a noi iniziasse a farsi scuro.
    Mi misi in guardia, con la spada davanti a me, perfettamente a mio agio. Gli altri tre inseguitori mi si avvicinarono ai lati, accerchiandomi. L'uomo di fronte a me si fece avanti e aveva appena iniziato a tirare su l'arma che sentii il rumore di una corda d'arco che veniva rilasciata.
    Le frecce volarono nell'aria e due si andarono a infilare nel petto della guardia più vicino a me, che cadde con un lamento e un'espressione esterrefatta sul viso. Gli arcieri dovevano essere tutto attorno a noi, perché gli altri uomini morirono colpiti da frecce che arrivavano da ogni direzione. Non abbassai la mia spada, nemmeno per un momento, e mi feci ancora più guardingo quando una quindicina di persone saltarono giù dagli alberi. Ognuno di loro portava un arco ed erano vestiti tutti di marrone e arancione, per mimetizzarsi tra il fogliame. Avevano un cappuccio in testa che non mi permetteva di vedere chi fossero. Ero sicuro che non fossero lì quando ero arrivato, nel pomeriggio, perché nonostante tutto mi ero guardato intorno con attenzione. Dovevano avermi raggiunto mentre dormivo.
    – Grazie, ma avevo tutto sotto controllo – dissi, rivolto a nessuno in particolare. Gli arcieri si avvicinarono a me, circondandomi.
    – Così come avevi tutto sotto controllo a Hale? – mi schernì una voce.
    Mi girai dalla parte di chi aveva parlato, con aria offesa. Va bene che non era stata una missione molto discreta ma cavoli, di solito sono uno bravo.
    – Direi che questi non sono affari tuoi, – replicai stizzito. – Ora, se per voi non è un problema, io avrei delle cose da fare. Quindi, grazie del favore e buona giornata. –
    Abbassai la spada e feci per allontanarmi, ma all'improvviso mi ritrovai a fissare quindici frecce che puntavano esattamente verso di me.
    – Si può sapere cosa volete? – chiesi, improvvisamente guardingo. Il tipo che mi aveva parlato si tirò giù il cappuccio. Aveva una faccia normale: occhi castani, capelli lunghi raccolti in un codino, bocca sottile, quarant'anni circa. Niente di memorabile insomma, ma ero sicurissimo di non averlo mai visto prima in vita mia e di solito ho una buona memoria per le facce.
    – Devi venire con noi – ordinò freddamente.
    So riconoscere una causa persa quando la vedo e vi assicuro, quella lo era. Rinfoderai la spada e alzai le mani.
    – Ricevuto amico. Dove andiamo? – commentai, conciliante. L’uomo mi si avvicinò con una corda e mi legò le mani. Non opposi resistenza, non con della gente attorno a me armata.
    – Dove andiamo non deve interessarti. Non mi fido di te, Assassino. Fai un solo movimento che non mi convince e finirai i tuoi giorni in questa foresta. E non sono tuo amico. –
    Insomma, un omino simpatico e accattivante, ma decisi che lo odiavo veramente quando mi calò sulla testa un sacco di iuta. Mi presero la spada, poi mi perquisirono e trovarono tutti i miei pugnali, portandomeli via. Fantastico. Quella schizzava immediatamente tra le prime cinque giornate più schifose di sempre, anche senza essere stato calpestato da una quercia. Ma visto come stava andando, per quello c'era ancora tempo. Mai dire mai.
Come da programma dopo poco iniziammo a muoverci. Il sacco che avevo in testa puzzava in modo terrificante e ipotizzai che in tempi migliori lo avessero usato per tenere il pesce, visto l'odore. Qualcuno poi doveva tenere in mano un capo della corda che mi legava le mani, perché ogni volta che mi fermavo ero obbligato a riprendere il cammino con uno strattone. Inciampavo continuamente. Quella foresta, come tutte le foreste d'altronde, era piena di radici per terra e sembrava che i miei rapitori facessero apposta a passare dove ce n'erano di più. Un paio di volte presi anche dei rami in faccia. Non era decisamente uno di quei viaggi che in genere si definisce piacevole.
Attorno a me sentivo il bisbiglio degli uomini che mi avevano rapito, ma non riuscii a captare nulla di interessante. Decisi di sfruttare il tempo che mi era stato dato per ragionare. Non avevo mai visto quegli uomini prima d'ora, e non capivo cosa potessero volere da me. Se speravano in un riscatto, cascavano decisamente male. La Confraternita non ha soldi da sprecare per riavere uomini talmente incapaci da farsi catturare, cosa che per fortuna capita abbastanza raramente. Se volevano che compissi una missione per loro diciamo che non mi stavano mettendo nella migliore predisposizione d'animo possibile, e comunque mi sembravano tutti più che capaci di risolvere i propri problemi da soli.
    Decisamente non capivo. È inusuale rapire un Assassino e il mio probabilmente era un caso più unico che raro. Cercai anche di orientarmi per un primo periodo, ma poi rinunciai. Potevo sentire da com'era il terreno sotto i miei stivali che non stavamo percorrendo un sentiero e di sicuro i miei rapitori stavano facendo attenzione a non fare una strada troppo lineare per rendermi ancora più difficile capire dov'ero. Non so quanto tempo camminammo, probabilmente un paio d'ore abbondanti, quando finalmente ci fermammo e un urlo ruppe il silenzio di quella che ormai presumevo essere notte.
    – Chi va là? – urlò qualcuno.
    – Sono Thomas. Aprite – rispose il capo della nostra combriccola. Dopo pochi secondi, sentii il rumore di una porta che girava sui cardini. I miei rapitori probabilmente decisero che ormai non ero più un pericolo per loro, perché mi tolsero il sacco dalla testa. Strizzai gli occhi un paio di volte e rimasi stupefatto. Eravamo in una radura, larghissima, che conteneva un villaggio. Case di legno, separate da sentieri puliti e ordinati, erano disposte a formare una griglia precisa. Dietro di noi un'alta palizzata sorvegliata teneva lontani i pericoli della foresta, fiaccole erano accese ad ogni incrocio per permettere di vedere bene anche nel buio più totale. Nonostante fosse già calata la notte persone camminavano ancora nel villaggio. Dei bambini giocavano a rincorrersi e dei ragazzi parlottavano e ridacchiavano vicino a una casa in un angolo. Degli uomini, e anche delle donne, armati facevano la ronda camminando vicino alla palizzata, osservando tutto quello che capitava con attenzione. Il mio gruppo avanzò all'interno del villaggio e Thomas ogni tanto faceva un segno della mano o del capo per salutare qualcuno. Sembrava decisamente benvoluto. Arrivammo dall'altra parte del villaggio, vicino a quelle che identificai come stalle, dove si trovava una casa solitaria con le sbarre alle finestre. Ahia. Non mi piacciono le prigioni, proprio per nulla. Per un folle istante sperai che non fosse quella la nostra meta finale, ma a quanto pare mi sbagliavo. Thomas entrò per primo, mentre altri due mi presero per le braccia e mi portarono nella casupola, che all'interno era divisa in due da una parete fatta di sbarre. Da un lato c'era una scrivania con un uomo seduto dietro, dall'altro un materasso mezzo rotto buttato per terra. Thomas iniziò a parlottare con il mio carceriere, che dopo poco alzò lo sguardo verso di me e mi venne incontro.
    – Benvenuto, Assassino. Spero che ti godrai il soggiorno. –
    Sogghignava, il bastardo. Avrei tanto voluto rompergli tutti i denti e fargli sparire quel ghigno dalla faccia, ma purtroppo non mi avevano ancora slegato le mani. Poi mi prese, aprì con una chiave la porta della cella e mi ci spinse dentro. Mi girai a guardarli.
    – Quando uscirò di qui, verrò a cercarvi. Tutti quanti, dal primo all'ultimo. È una promessa. –
    – Non fare promesse che non puoi mantenere, ragazzo – mi disse Thomas, voltandosi. Dopodiché salutò il carceriere, che a quanto pareva si chiamava Barry, prese i suoi due compari con sé e uscì.
    Dire che ero arrabbiato probabilmente è riduttivo. Me ne rimasi in piedi, muto, a guardare fuori dalla finestra della mia cella per circa mezz'ora, cercando di sbollire. Non mi sarebbe servito a nulla urlare e fare confusione, già lo sapevo. Quando mi fui un po' calmato decisi di provare ad attaccare bottone.
    – Mi potresti slegare le mani? – chiesi, porgendo a Barry i polsi dalle sbarre. Non avevo molte speranze in proposito ma, come si dice, tentar non nuoce. Invece l'uomo si avvicinò con un coltello in mano e tagliò la corda. Si guadagnò un bel po' di punti con il suo gesto. Forse non era poi così male. Mi strofinai le mani, che erano notevolmente indolenzite e formicolavano, e notai distrattamente che mi sarebbero rimasti i lividi sui polsi per un po'. Decisi di continuare a sfruttare la momentanea disponibilità del mio carceriere, cercando di capirci qualcosa. Tornai alla finestra e mi rimisi a guardare fuori.
    – Sembra un bel posto qui. Dov'è che siamo precisamente? –
    – Non allargarti troppo, Assassino. Quelli come te mi fanno schifo. Mettiti lì in un angolo e fai quello che ti pare. Dormi, guarda il muro, impiccati se vuoi, a me non interessa. Basta che stai zitto, non voglio sentire una parola. –
    Mi rimangiai tutto quello che avevo pensato prima: quell'uomo era terribile. Però aveva detto, incredibilmente, una cosa giusta: potevo dormire. Ero stanco morto, e forse un po' di sonno mi avrebbe permesso di capirci qualcosa in più, la mattina seguente. Quindi mi sdraiai sul materasso, cercai di non pensare troppo alle pulci e ai pidocchi che con ogni probabilità stavano lì sopra, e chiusi gli occhi.
    Quando li riaprii era giorno, ed ero finalmente riposato. Mi tirai a sedere e mi guardai attorno, notando che la cella era ancora più sudicia di quello che sembrava la sera prima. Macchie di muffa chiazzavano i muri e il terreno che fungeva da pavimento puzzava. Una parte del tetto avrebbe dovuto essere riparata, perché l'acqua gocciolava da lì sulla parete, lasciando strisce umide. Un paio di scarafaggi correvano per terra e in un angolo c'era una struttura che a quando pareva era il gabinetto. Sono un Assassino, va bene, e non è che di solito noi dormiamo in ville di marmo, però quella cella era davvero schifosa. Unica nota positiva la finestra, che faceva passare la luce del giorno e da cui potevo vedere un pezzo di strada e la palizzata.
    Barry non c'era più, se ne doveva essere andato durante la notte, e la stanza adiacente alla mia era vuota. Sul pavimento davanti alle sbarre c'era un piatto con dentro del cibo grigiastro non meglio identificato e, visto che avevo fame, mangiai. Presi il cucchiaio che mi avevano dato con il pasto e decisi che potevo provare ad usarlo per forzare la serratura. Mentre trafficavo, pensai al da farsi. Dovevo uscire da lì, assolutamente. Non potevo passare la mia vita in una schifosa prigione di un villaggio sperduto nella foresta e in più dovevo capire cosa volevano da me. Se magari fossi riuscito ad aiutarli mi avrebbero lasciato andare. Non potevo nemmeno sperare nel soccorso da parte dei miei amici, perché non mi avrebbero mai trovato. Non avevo mai sentito parlare di paesini in mezzo al bosco, ed ero sicuro che quello non fosse un villaggio segnato sulle mappe che avevo studiato prima della missione.
    Dall'occhiata rapida che avevo potuto dare la sera prima mi sembrava troppo ben organizzato per essere un paese comune. Le palizzate, la ronda, le guardie al cancello... decisamente non un villaggio normale, dove di solito è già tanto se ti notano quando entri. Anche le precauzioni che avevano preso con me Thomas e la sua banda. Sembrava avessero paura che potessi in qualche modo rivelare la posizione di questa radura. Va bene che sono un Assassino, ma in linea di massima non uccido persone a caso e tanto meno denuncio villaggi che non dovrebbero esistere alle autorità, sebbene questo più per una mia predisposizione personale che per altro.
Intanto, quella dannata serratura non voleva saperne di cedere. Dovevano decisamente avere dei bravi fabbri lì. Se mai fossi riuscito ad uscire, avrei rubato qualche spada: se erano di altrettanta buona fattura, sarebbero state delle ottime armi. “Quando torno alla Confraternita mi faccio insegnare da Jared a fare lo scassinatore” pensai. Ecco un altro buon proposito da aggiungere alla mia lista. Lui era un mago con le serrature, forse per il suo passato da ladro. Ci fosse stato lui con me saremmo usciti da lì in quattro secondi netti. E dire che da quando ci conosciamo si è offerto di insegnarmi più di una volta, ma io gli ho sempre detto “non ne ho bisogno”. Certo. Fosse qui si starebbe tenendo la pancia dalle risate.
    Mentre imprecavo, sentii che la porta di ingresso veniva aperta. Tolsi in fretta l'inutile cucchiaino dalla serratura e me lo misi in tasca mentre mi alzavo in piedi. Quando la porta si aprì, mi bloccai riconoscendo la persona che era entrata.
    Era cresciuta dall'ultima volta che l'avevo vista e devo dire che all'epoca non avrei mai pensato che sarebbe potuta sopravvivere per così tanto tempo da sola. I capelli rossi che ricordavo erano stati tinti di un più discreto castano, ma gli occhi verdi erano rimasti gli stessi, grandi e luminosi. I lineamenti si erano fatti più precisi e decisi, il fisico si era modellato e rafforzato. Da ragazza che era, era diventata una donna. Una donna molto bella, aggiungerei. Era vestita da uomo, con pantaloni, stivali, camicia e un corpetto di cuoio a proteggerle il torace. Mi stupii di vedere che portava una spada al fianco.
    Sorrisi mio malgrado e mi scoprii felice di rivederla viva.
    – Ciao, Camille. –
    Lei mi sorrise di rimando.
    – Ciao, Marcus. –

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Capitolo 2
*** II ***


CAPITOLO II

MARCUS

    Mi chiamo Marcus, ho 20 anni e sono un Assassino al servizio del re. Non ho casa, né moglie, né famiglia. Ho rinnegato il mio vecchio nome da quando, a sette anni, sono entrato nella Corporazione e me ne hanno assegnato uno nuovo. Vorrei poter dire che tutto questo sia stata una mia scelta, ma purtroppo non è così. Sono nato in una famiglia povera, nella campagna del mio paese, Viride.
    Ero il più piccolo di una famiglia numerosa, e i miei hanno deciso che ero solamente una bocca in più da sfamare. Ho pochi ricordi dei miei genitori e non tutti sono piacevoli. Mio padre era un uomo grosso, piegato dalla fatica di lavorare nei campi tutto il giorno, tutti i giorni. Raramente aveva per noi parole gentili e non credo di averlo mai visto sorridere, nemmeno una volta. Mia madre aveva in sé una vena dolce, probabilmente mascherata dalla disagevolezza della sua vita. Ogni tanto ci prendeva in braccio e ci abbracciava, oppure ci lasciava un boccone in più di cibo, togliendoselo dal piatto. Niente di eccezionale, ma quando capitava era davvero un evento eccezionale.
    Quella però che mi ricordo di più è mia sorella, Laure. Tecnicamente non è nemmeno più mia sorella, ma non importa. Era gentile e dolce, e quando i nostri genitori uscivano di casa all'alba era lei a prendersi cura di me per il resto della giornata. Era lei che mi consolava quando piangevo.
    Ero il più piccolo della famiglia e lei era di poco più grande di me, ma è stata come una madre per quei pochi anni che abbiamo passato insieme. Ancora adesso, quando sto per fare qualcosa di molto stupido, è sua la voce che sento dentro la mia testa, che mi dice di pensarci bene. Ogni tanto risulta essere terribilmente fastidiosa. Immagino che di tutta la nostra famiglia sia stata lei a esserci rimasta peggio quando i miei genitori mi vendettero.
    Ebbene sì, gli Assassini hanno così bisogno di nuovi accoliti che, oltre a rastrellare il paese alla ricerca di orfani, e ce ne sono davvero tanti, sono disposti a pagare un buon prezzo per dei bambini che altrimenti sarebbero solo un peso per le famiglie. Devo ammettere che a me è andata male. Fossi nato femmina tutto questo non sarebbe successo. Oppure mio padre mi avrebbe abbandonato ugualmente, senza ricevere soldi in cambio e senza che mi fosse garantita una vita sicura, ed è inutile dire che in quest'ultimo caso sarei morto di fame e di stenti a un angolo della strada. Non c'è pietà per nessuno da queste parti e ognuno pensa solo a se stesso.
    Della notte in cui avvenne il mio cambio, per così dire, di domicilio, ricordo poco. Erano giorni che sentivo la mamma litigare con mio padre, ma non mi ero preoccupato di capire, visto che comunque era una cosa che capitava spesso e anche se avessi voluto dubito che sarei riuscito a comprendere tutto. So solo che quando mi svegliavo per i rumori scivolavo piano nel lettino di Laure e accoccolandomi vicino a lei tornavo a dormire. Un giorno infine mi svegliarono nel cuore della notte e prima di uscire mia madre, cosa insolita, mi salutò piangendo e abbracciandomi. Fossi stato un po' più grande forse mi sarei insospettito, ma a sette anni si ha una grande fiducia negli adulti e ancora di più nei propri genitori.
    Camminammo per quella che mi sembrò un'eternità, senza che mio padre proferisse parola, cosa invece tutt'altro che insolita. Non so se dentro di lui ci fosse una lotta di coscienza, mi piacerebbe pensare di sì, ma più probabilmente stava pensando a quanti soldi avrebbe guadagnato dalla mia vendita, come se fossi stato un sacco di grano.
Arrivammo poco prima dell'alba nella piazza di un villaggio vicino a casa, dove ci aspettava un uomo vestito di scuro. Pochi minuti dopo, mio padre si stava allontanando senza figlio e con un bel gruzzolo di monete mentre io ero tenuto dall'uomo in una presa ferrea, per evitare che scappassi. Niente saluti per me, niente spiegazioni, niente di niente. Mio padre mi diede a quell'uomo, prese i soldi e si allontanò, come se non avesse appena lasciato il suo ultimo figlio. Piansi molto quel giorno, e non rividi mai più la mia famiglia. Ogni tanto mi chiedo come stiano e come sarebbe stata la mia vita se non fossi mai stato cacciato. Diversa? Sicuramente. Più felice? Non lo so, ma ne dubito fortemente. In ogni caso adesso ho una mia famiglia, un po' diversa da quelle solite forse, ma anche se rischio la pelle un giorno sì e l'altro pure sono contento così.
    La Corporazione degli Assassini si trova ad Elea, capitale di Viride, da sempre. La sede è nascosta agli occhi della popolazione comune, infatti da fuori ha le sembianze di un tempio dedicato a Polemos, l'Unico, Dio della Guerra. Il fatto che i suoi monaci siano vestiti completamente di nero, come noi, contribuisce solo a rendere più credibile il tutto. Diciamo che volendo si potrebbero notare delle discrepanze, come il fatto che noi Assassini siamo sempre armati fino ai denti, ma si sa, la gente vede solo quello che vuole vedere.
    All'interno del tempio si apre un palazzo vero e proprio, con le camere, i cortili, le stalle e le uscite verso l'entroterra e verso il castello dei Coverano, la famiglia reale. La Corporazione degli Assassini, da quando è stata costituita anni fa, è agli ordini del Re di Viride, l'unico oltre all'Alto Comando che può decidere le nostre missioni, ed è questo il motivo della vicinanza con il Palazzo Reale. Il nostro compito è garantire la sicurezza del Regno e quando ci viene assegnato un incarico questo comprende di solito una parte prettamente investigativa, per capire se il nostro bersaglio ha effettivamente commesso quello di cui è accusato. Dopodiché, se e quando siamo sicuri della colpevolezza, uccidiamo. Siamo implicati fondamentalmente in quei casi in cui trovare delle prove concrete per allestire un processo sarebbe molto difficile e soprattutto quando è realmente in pericolo la sicurezza del Regno. Siamo guerrieri d'élite, non ci usano a caso. Per tutto il resto ci sono quegli imbecilli della Guarnigione di Stato, che sarebbero in grado di perdersi anche nelle loro case.
    Sfortunatamente da un po' di tempo a questa parte le cose sono cambiate a causa del decesso di re Jerome Coverano, pace all'anima sua. I suoi figli sono troppo piccoli per regnare e quindi il compito spetta alla Regina Reggente, Celia Moreau, che a parer mio è leggermente paranoica. Le nostre mansioni sono state modificate e ormai abbiamo più che altro il compito di reprimere il dissenso nei confronti della Regina, uccidendo a destra e a sinistra, senza motivazione nella maggioranza dei casi, solo perché Sua Altezza Reale ha sentito delle brutte voci sulla vittima.
    La parte delle missioni che riguardava le indagini e la decisione della colpevolezza è stata eliminata, riducendo noi Assassini a sicari. Duecento anni di regolamenti mandati al rogo, ma chi sono io per giudicare? Nessuno. Quindi mi adeguo, anche perché l'alternativa sarebbe con ogni probabilità la morte per tradimento e ritengo di essere troppo giovane e troppo intelligente per morire così. Nonostante ciò attuo la mia piccola e personale ribellione dando a ogni mia vittima la possibilità di difendersi, forse per mettere a tacere la mia coscienza turbolenta. Non che la cosa sia di così grande rilevanza dal punto di vista del risultato, visto che io mi alleno ad uccidere da tutta la vita mentre le mie vittime di solito sono nobili o signorotti imbolsiti dai troppi pranzi e dal troppo vino. E quando dico da tutta la vita intendo dire che, da quando a sette anni sono stato portato come un fagotto urlante nella Corporazione, mi sono stati dati un mantello e una coperta, insieme al consiglio di cercare di sopravvivere anche a costo di uccidere. In questo consiste la tecnica di “scrematura” degli Assassini: dopo aver raccattato almeno duecento orfani in giro per il paese li mettono tutti nello stesso posto e ogni giorno consegnano cibo sufficiente per la metà di essi. Il tutto almeno per sei mesi. Originano così una grande rissa mortale, in cui vince il più forte e il più adatto a sopravvivere.    Nemmeno il sonno era sicuro e ho imparato molto in fretta a dormire con un occhio aperto, per controllare le mie poche e preziose cose. Tutte le giornate venivano consumate all'aperto e nemmeno durante le rigide notti invernali ci era concesso avere un tetto sopra la testa. Io sarei con ogni probabilità morto al secondo giorno se non avessi incontrato chi mi ha aiutato.
    Ero magrolino, emaciato e denutrito, incapace anche solo di guardare in maniera aggressiva gli altri bambini, che in linea di massima erano grossi e ben abituati a lottare per sopravvivere. Quando avevo la fortuna di riuscire a prendere un pezzo di pane per mangiare venivo subito picchiato a sangue da quelli più grandi di me, che poi inevitabilmente mi rubavano il cibo. Dopo un po' di giorni che questa storia andava avanti un altro ragazzo mi si avvicinò. Si chiamava Jared, ed è diventato il mio migliore amico, anche se nel primo periodo ho avuto paura che potesse strangolarmi nel sonno. Anche all'epoca sembrava troppo delicato per il mestiere di Assassino, con i suoi capelli argentati, i lineamenti cesellati e gli occhi color del mare, ma a quanto pare mi sbagliavo. È sempre stato un tipo molto agitato, scherzoso e rumoroso, e soprattutto con un talento per i furti del tutto fuori dal comune, che gli aveva permesso di rubacchiare cibo qua e là all'interno del cortile. L'avevo già notato, avevo visto di come una volta fosse stato beccato a fregare del pane a un tipo, e beh, il trattamento che aveva ricevuto in cambio non doveva essere stato per niente piacevole.
In sintesi, mi si avvicinò, parlammo un po' e poi decidemmo di cooperare, per avere speranze di vita migliori (io), e per avere qualcuno che potesse evitargli altre botte nel caso in cui fosse stato pizzicato di nuovo a rubare (lui). Mettemmo su insieme un piano rapido e semplice, che si rivelò essere anche molto efficace. Quando veniva dato il cibo non ci gettavamo nella mischia, ma aspettavamo qualche minuto. Poi, io andavo a distrarre un tipo a caso, che però fosse riuscito a prendersi da mangiare -e con distrazione intendo che molte volte ho rischiato di farmi ammazzare- mentre Jared gli rubava tutto quello che aveva. Poi fuga e arrampicata sugli alberi, dove ci concedevamo finalmente il lusso di mettere qualcosa sotto i denti. Parecchio pericoloso e non sempre ci andava bene, ma iniziammo comunque a migliorare le nostre condizioni di vita là dentro.
    Avere un amico poi permetteva di riposarsi, visto che durante la notte facevamo dei turni per controllare che non ci capitasse nulla di male. Ci occorse un po’ per imparare a fidarsi l'uno dell'altro, ma quella fiducia guadagnata in un posto così terribile non è mai sparita. Stando con Jared tutto il giorno scoprii molte cose della sua vita. Imparai che veniva da Ange, una grande città poco lontana da Elea, sul fiume.
    I suoi genitori lo avevano sbattuto fuori di casa a cinque anni perchè, un giorno d'inverno in cui doveva badare al fratello più piccolo, questo morì in un incidente. Non mi spiegò mai di precisò che cosa capitò e io non ho mai chiesto. Comunque, dopo aver rischiato l'assideramento implorando fuori dalla porta i suoi genitori di riaccoglierlo a casa, divenne un ladruncolo di strada, con strabilianti risultati. Un giorno poi cercò di rubare un pugnale ad un Assassino, senza riuscirci ovviamente, e questo lo prese con sé e lo portò alla Corporazione. Jared non ne parla mai volentieri e credo di aver sentito la storia da lui solo una volta, ma ogni anno, nella notte del 13 dicembre, si inginocchia ovunque si trovi e rimane così, dal tramonto all'alba. Negli anni in molti hanno provato a farlo smettere, con parole gentili o persino con le percosse, ma senza risultati. Passata la notte Jared ritorna poi il solito ragazzo di sempre, allegro e pieno di vita, e, da un po' di tempo a questa parte, anche pieno di donne.
    Un giorno, quando ormai noi riuscivamo a mangiare quasi con costanza e quindi eravamo anche di buon umore, vedemmo un bambino come noi, solo molto più pallido e magro, seduto con aria sconsolata su un muretto. Ci avvicinammo e, non so perché, gli allungai un pezzo del mio pane. Non l'avevo mai fatto con nessuno prima, e dire che di bambini mezzi morti di fame ce n'erano parecchi, ma forse mi lasciai convincere dai suoi occhi, di un colore molto simile a quello dell'ambra, uguali a quelli di mia sorella Laure.   
    Fu così che Andreas entrò nelle nostre vite e da allora non ci siamo separati praticamente mai. Lui è il più tranquillo e pacato del gruppo, sempre disposto a parlare e a negoziare, a portarci via trascinandoci dalle risse, a evitare i pericoli. Inutile dire che è anche il più intelligente tra tutti noi. Se hai un problema meglio che prima ne parli con lui, molto spesso tira fuori una soluzione che tu non ti eri nemmeno immaginato, e a volte la cosa è decisamente frustrante.
    Scoprimmo abbastanza in fretta che era un orfano di Armilla, una città sul mare. Non si ricorda nulla dei suoi genitore, che devono averlo abbandonato alla nascita. È sopravvissuto per la carità che gli è stata fatta dai monaci, che l'hanno trovano davanti al portone del loro tempio quando era ancora un neonato e lo fecero entrare nel loro orfanotrofio. Avrebbe potuto diventare un prete a sua volta, ma quando gli Assassini andarono al tempio a reclutare decise di seguirli. Forse il suo temperamento dolce deriva dalla vita vissuta tra uomini di fede, e anche se non gliel'ho mai detto lo vedrei bene a pregare tutto il giorno. Credo che sia il più umano di tutti noi, sempre pronto a giustificare e a perdonare. Quando è tra la gente quasi non lo si nota talmente è silenzioso e timido, ma quando è con noi si lascia andare e si unisce alla nostra cafonaggine, facendo rumore e scherzando tanto quanto noi. Una trasformazione insomma.
    L'ultimo arrivato nella nostra piccola combriccola è stato Mel. Arrivò alla Confraternita tardi, aveva già otto anni ci disse, ma non sapeva fare assolutamente nulla. Mi stupii in effetti che riuscisse anche solo a mettersi gli stivali, visto che era completamente inetto. Però a suo discapito c'è da dire che è sempre stato uno che impara molto in fretta e già dopo poco era in grado di fare tutto quello che facevamo noi. Non so come mai si unì a noi, ma ci aveva praticamente adottati. Dove eravamo noi c'era anche lui e un giorno salvò Andreas da un pestaggio. Il nostro amico non era stato abbastanza rapido a scappare e stava per pagare tutti i nostri piccoli furtarelli. Io e Jared avremmo voluto andare a dargli una mano, ma eravamo rimasti bloccati su un albero da alcuni bimbi allegri che ci avrebbero volentieri fatto la festa. Allora Mel, piccolo, magro, serio, si buttò nella mischia a fianco di Andreas e cacciò chiunque volesse fargli del male. Mi ricordo che quel giorno mi fece paura. Sembrava posseduto, con una furia inusuale negli occhi verdi. Da allora però, divenne parte del nostro gruppo e, strano a dirsi, non venimmo più importunati. Mel incute un certo timore riverenziale negli altri, ma con noi è sempre stato normale, il migliore amico che avremmo mai potuto trovare. È il più colto di tutti noi e ogni tanto sa delle cose di cui io non ho mai sentito parlare, ma di questo non c'è da stupirsi vista la mia proverbiale ignoranza.
    Sopravvivemmo quindi in quattro ai primi sei mesi di selezione e poi finalmente cominciammo l'addestramento vero e proprio. Orari massacranti, con sveglie nel pieno della notte e turni di guardia al freddo, anche in pieno inverno. A quanto pare è servito per temprarci, ma io ho i miei seri dubbi visto che l'unica cosa che ho imparato è stato di avere sempre con me un mantello in più, per qualunque evenienza. Imparammo ad usare ogni tipo di armi, dallo spadone a due mani ai pugnali, dalle sciabole all'arco, nel cui uso Mel è bravissimo ma in cui io faccio decisamente schifo. Imparammo a preparare veleni e, modestamente parlando, risultai essere particolarmente portato. Studiammo le lingue straniere, per prepararci all'evenienza di missioni all'estero. Studiammo la storia, per conoscere i legami dei diversi paesi, le loro tradizioni e modi di vivere. Mi stupii notevolmente quando, ad esempio, scoprii che nello stato di Semele, separato da noi da una catena montuosa, il trono passa di madre in figlia, in una struttura matriarcale. Da noi le donne non godono di così tanti favori e nei miei numerosi anni alla Corporazione non ho mai visto nemmeno una ragazza nella sede, visto che si ritiene che la vita di Assassino non faccia per loro.
    I nostri maestri ci addestrarono ad usare l'astuzia per evitare i combattimenti, e a vincerli quando questi erano necessari. Ci dissero che un Assassino porta la morte, ma proprio per questo stima la vita molto di più di un uomo comune, onorandola e godendola in ogni suo istante, come se questo fosse l'ultimo. Diventammo degli Assassini perfetti e sopravvivemmo uniti come fratelli a dieci anni di addestramento, in cui seppellimmo numerosi nostri compagni.
Io e gli altri tre ci facemmo riconoscere in fretta come il gruppo peggiore, più indisciplinato e anche unito di tutto il gruppo reclutato nel 1620, soprattutto dopo che sparimmo per una notte intera saltando il contrappello al mattino. Alla Corporazione è infatti severamente vietato alle reclute uscire in generale e comunque mai dopo la chiusura dei cancelli, pena punizioni pesanti. Noi una sera decidemmo che, visto che nessuno tranne Andreas aveva mai visto il mare, era assolutamente fondamentale andarci il prima possibile.
    Usciti dalla Corporazione passando dai tetti, rubammo quattro cavalli nella città e ci dirigemmo a Imarilla, città portuale poco distante da Elea. Arrivammo in riva al mare in piena notte e siamo stati lì a parlare e guardare e sguazzare nell'acqua per tanto tempo, fino a che infreddoliti e affamati ci spostammo in una locanda. Qua ci addormentammo sfiniti sul tavolo dopo aver mangiato e bevuto e poi, al risveglio, ci accorgemmo che Jared era sparito.
    Ricomparve sulle scale della locanda un'ora dopo, con i vestiti in mano e inseguito dall'oste, che lo aveva scoperto a letto con l'unica figlia. Scappammo con i nostri cavalli ridendo come matti, ascoltando i racconti di Jared sulla prima delle sue numerose avventure sentimentali, prendendolo in giro e non preoccupandoci più di tanto di aver saltato il contrappello.
    Tornati alla Corporazione pulimmo le stalle per un mese. Sembra una cavolata, ma abbiamo più di duecento cavalli, che sporcano tantissimo e che decisamente non hanno un buon odore. Non mi ricordo di aver mai faticato così tanto, ma insieme riuscimmo a rendere divertente persino una cosa così terribile. Ah, ci diedero anche dieci frustate a testa, davanti a tutti, ma per me quello è stato il minimo. Odio le stalle, odio la puzza e odio lo sporco.
    La nostra prova di iniziazione si concluse nel 1631, quando da soli riuscimmo a portare a termine la missione che ci era stata assegnata. Per festeggiare, oltre ad ubriacarci, andammo a farci tatuare il nome di un vento, scelto tra i quattro principali. Io ho scelto Noto, il vento del Sud che porta pioggia benefica o aria rovente. Jared ha Zefiro, il vento dell'Ovest, per il suo essere il più vanitoso dei quattro. Ad Andreas corrisponde Apeliote, il dolce vento dell'Est, adorato dai contadini perchè porta la pioggia che permette ai campi di crescere. Mel infine ha tatuato Borea, il vento del Nord, pericoloso e gelido quando soffia. Sono loro la famiglia che non ho mai avuto, e per loro credo che potrei fare qualunque cosa. Sono i miei fratelli e non solo perché siamo tutti Assassini, ma per il rapporto che si è stabilito tra noi e che è più forte di qualunque legame di sangue. Crescere e sopravvivere e uccidere insieme genera qualcosa che non è così facile da spezzare, non importa quale litigio o situazione si affronti. Non abbiamo mai dimenticato le sofferenze patite insieme all'inizio e tanto meno quei bambini, ormai cresciuti, che per tempo ci avevano picchiato e fatto patire la fame. Con molti ci siamo vendicati nel tempo, molti sono anche morti durante l'addestramento e sarei un bugiardo se dicessi che ne sono stato dispiaciuto. È così che la Confraternita riesce a rendere difficile la formazione di legami all'interno di un gruppo, mettendoci gli uni contro gli altri, facendoci scegliere tra la nostra vita e quella altrui.
    Un esempio è la missione per l'iniziazione che viene assegnata uguale a due membri, ma solo uno dei due può portarla a termine e concludere la prova. Non ho mai dimenticato l'uccisione del mio compagno e avversario, il mio primo omicidio, e devo dire che a volte lo sogno ancora.
    Quando miracolosamente arrivammo tutti vivi dopo l'iniziazione ci fecero scegliere l'Ouroboros, il simbolo della Corporazione, che ha delle caratteristiche uniche per ogni membro, con solo pochi dettagli fissati. La cerimonia di ingresso come membri effettivi fu rapida ma comunque maestosa, al cospetto del Re e della sua famiglia, e di tutte le più alte cariche. Da duecento e più che avevamo iniziato dieci anni prima, eravamo ormai una quindicina. Giurammo lealtà e obbedienza al Re e alla sua famiglia sotto lo stemma dei Coverano, rosso e nero con una stella a otto punte incoronata. Una volta usciti dal Palazzo Reale, dopo pochi minuti di cerimonia, eravamo finalmente degli Assassini.
    Non so dire come mi sentissi al momento. Orgoglioso, di sicuro. Spaventato, probabilmente. Ma ero anche assurdamente felice visto che avevo finalmente realizzato qualcosa nella mia vita. I miei amici erano con me e ci sentivamo invincibili, intoccabili.
    Negli anni a seguire abbiamo completato tutti numerose missioni, alcune in solitaria, alcune insieme. Abbiamo ucciso tante persone, dentro al nostro stato e fuori. Molti incarichi erano nelle nazioni adiacenti, per uccidere uomini che mettevano in pericolo la sicurezza del nostro Regno. Tutto questo in modo assolutamente segreto, perchè tra il nostro paese e Dimina, al nord, e Semele, Cesia ed Albis, al sud, esiste un unico patto di non belligeranza, fragile ma pur sempre presente. Non bisogna interferire per nessun motivo nella politica degli altri stati, e di sicuro l'uccisione di un cittadino potrebbe essere visto come un affronto rimediabile anche con una dichiarazione di guerra.
    Viviamo in un'enorme polveriera e tutti speriamo che il patto duri e ci protegga, e sappiamo quanto questa tregua possa essere fragile. Fortunatamente i sovrani di questo periodo sono abbastanza illuminati da capire che una guerra sarebbe la distruzione, mentre è di gran lunga migliore una pace dove ci siano commerci e scambi tra gli stati.
    Re Jerome Coverano, sotto il quale ho iniziato la mia carriera di Assassino, è stato un bravo sovrano. Sfortunatamente con la sua morte ha lasciato il principe Daniel di soli quattordici anni e non pronto per regnare. La regina reggente Celia invece è una completa incapace. L'unica cosa positiva che ha fatto è stata stipulare una serie di patti matrimoniali con la famiglia reale di Dimina, gli Auremore, con il progetto di rendere la pace più forte e duratura.
    Il mondo in cui viviamo noi Assassini è quindi questo, pieno di morte e di sangue versato, dove siamo disprezzati da tutti ma necessari comunque affinché la pace venga mantenuta nei regni.

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Capitolo 3
*** III ***


CAPITOLO III

MARCUS

    Tutto andò liscio per circa un anno, tra allenamenti, incontri e ovviamente omicidi. Poi, come ho già detto e ripetuto, il 14 luglio del 1632 re Jerome Coverano passò a miglior vita. Era una delle giornate più afose che avessi mai visto e non mi stupirei se il nostro beneamato sovrano fosse effettivamente crepato per il caldo. La città e la nazione si stavano preparando ad affrontare i sette giorni di lutto imposti quando un'altra notizia, forse peggiore, si sparse tra la gente: la principessa e primogenita, Camille Coverano, era scomparsa.
    Le voci che giravano, come tutte le voci, raccontavano storie diverse a seconda del momento e della persona a cui le chiedevi. Secondo alcuni la Principessa era stata rapita dal suo letto, secondo altri era scappata per sposare il suo vero amore. Poteva essere fuggita per il troppo dolore della morte del padre, oppure per trovare un esercito che le permettesse di diventare Regina nonostante l'erede al trono fosse il fratello. Ognuno assicurava che la sua versione fosse quella ufficiale visto che gliela aveva raccontata il fratello del padre di un amico di un cugino di uno dei domestici di servizio a corte. Insomma si sentiva più o meno la qualunque e tutto senza che una notizia ufficiale fosse uscita dal palazzo, che rimase agli occhi dei più stranamente silenzioso.
    Ci si sarebbe aspettati fuoco e fiamme dalla Regina reggente, che non è mai stato un tipetto tranquillo, figurarsi dopo essere appena diventata vedova e con una figlia in fuga. E dei movimenti, anche se non ufficiali, in effetti ci furono.
    Noi Assassini venimmo richiamati dalle missioni in corso, in gran segreto, che ci trovassimo in patria o fuori. I corpi di guarnigione e gruppi di soldati scelti dell'esercito iniziarono a pattugliare le città più grandi, ponendo domande in giro, e a vagolare per le campagne, guardandosi intorno con aria inquisitoria. “Per la sicurezza comune” dicevano a chi aveva il coraggio di chiedere, ma la voce che si sussurrava per le vie era ben diversa.
    Dopo un paio di giorni anche a noi Assassini arrivò il nuovo incarico ufficiale: trovare ad ogni costo la fuggitiva principessa Camille e riportarla a corte, illesa. Facilissimo insomma. Come trovare un ago in un pagliaio, e precisamente un piccolo ago molto riottoso in un pagliaio enorme. Ognuno dei membri della Corporazione e, mirabile visu, persino l'Alto Comando ebbero in sorte un pezzetto di Viride da rivoltare come un calzino, il tutto ovviamente senza destare sospetti.
    La preoccupazione comunque serpeggiava tra l'Ordine, visto che un tipo come la Principessa, viziata e abituata a vivere nella sua meravigliosa casa delle bambole, difficilmente sarebbe riuscita a sopravvivere a lungo nel mondo reale. Mondo reale costituito, purtroppo, da ladri, truffatori, stupratori e poveracci, pronti a tutto anche solo per lo spettro di una paga. Non che la brava gente non esista, per carità, ma diciamo che in questi casi essere troppo ottimisti non è mai consigliato. Il fatto poi di non avere la minima idea del perchè la ragazzina fosse scappata, visto che di fuga si trattava e non di rapimento, non ci permetteva nemmeno di avere una sorta di traccia da seguire.    Eppure gli ordini sono ordini, quindi partimmo tutti, nessuno escluso, come cani contro la preda, lasciando Elea per la prima volta completamente sguarnita e alla mercè dei soldati della guarnigione. Tanto di peggio non sarebbe mai potuto capitare.
    A me toccò in sorte una pidocchiosa cittadina al confine con Albis, Anadea. Era stata una grande ed imponente città fortificata all'epoca dell'Ultima Guerra, ma con la firma del trattato di pace aveva lentamente perso la sua importanza ed era diventata il fantasma di quella che era un tempo. Risultato? Decine e decine di edifici vuoti e mezzo crollati da controllare, un castello diroccato memoria degli antichi splendori da perlustrare e il confine a pochi chilometri da tenere sott'occhio. Bellissimo. Grazie alla mia solita sfortuna avevo guadagnato un lavoraccio, mentre quei dementi dei miei tre amici avevano delle zone inutili da pattugliare, tipo i campi attorno alle città. Come se la principessa Camille Coverano potesse travestirsi da contadino e mettersi a zappare così, tanto per confondere le acque.
    Una mattina quindi mi misi a cavallo, diretto verso Anadea, con l'illusione di andare, controllare e tornare, possibilmente in un paio di giorni, con la speranza che la Principessa sarebbe spuntata fuori da qualche altra parte. Arrivato in città mi accorsi di quanto brutta fosse la situazione: mendicanti praticamente a ogni angolo, strade deserte e brutte facce sospettose ovunque guardassi. Mi diressi subito verso la locanda, sia nella speranza di trovare qualche informazione interessante, sia per togliermi dalla gola tutta la polvere ingurgitata nella cavalcata fino a lì.
    Dire che il locale era squallido è probabilmente un eufemismo. C'erano quattro sedie che ospitavano altrettante anime perse con in mano boccali di birra, mentre l'oste, magro e scavato, puliva con uno straccio sudicio un ancora più sudicio bicchiere. Visto che i quattro avventori non sembravano nelle condizioni di parlare mi diressi verso il bancone, iniziando già a fare mentalmente il conto di quanto mi sarebbe costato tirare fuori qualche parola da quell'uomo. Ordinai rapidamente una birra e poi mi misi a giochicchiare con una moneta d'argento, nella speranza di attirare l'attenzione dell'oste. Manovra eseguita con successo dal momento che i suoi occhi si accesero di una luce avida.
    – Sei nuovo qui. Da dove arrivi? – l'uomo aveva una voce raschiante, sgradevole. Continuò a pulire il suo bicchiere, ma notai che da sotto le ciglia continuava a fissare la mia moneta, che facevo molto elegantemente scorrere tra le dita e saltare per aria.
    – Da Elea. È stata una lunga cavalcata fin qui. –
    – Ah, dalla capitale! E com'è la vita lì? –
    – Ultimamente, molto agitata. Avrete sentito della morte del Re, pace all'anima sua – dissi, mentre prendevo un sorso di birra. Dio, era veramente terribile. Mi dovetti sforzare per prenderne un altro e non avere un'aria troppo schifata.
    – Sì, la notizia si è diffusa rapidamente, persino fin quaggiù. –
    – Immaginavo. Però la cosa davvero sconvolgente è un'altra – mi avvicinai all'oste con aria cospiratoria, guardandomi a destra e sinistra come se avessi paura di essere ascoltato. Tre clienti continuavano a fissare il fondo del loro boccale con aria sconsolata, il quarto si era addormentato e russava con la testa sul tavolo.
    – Si dice che la principessa Camille sia scappata – sussurrai. Gli occhi dell'uomo si dilatarono per lo stupore. A quanto pare la notizia era di dominio pubblico solo a Elea.
    – E si dice che sia diretta ad Albis – aggiunsi, con noncuranza.
    – È un bel problema, – ammise l'uomo. – Ma non è un mio problema. Qui in città non ce la passiamo troppo bene, come avrai potuto notare. Però una cosa te la posso dire: questa è una tappa obbligata per chi vuole andare ad Albis e se la Principessa fosse passata di qui, l'avremmo vista. Mi sa che le voci che girano sono sbagliate. –
    – Probabile – presi il boccale in mano e lo rigirai, nella speranza di trovare il coraggio di bere un altro sorso di quella cosa. Rimasi in silenzio per un po', guardandomi intorno e riflettendo.
    – Una volta questa città doveva essere una grande città. –
    – È vero, – l'oste tirò su la testa e si aprì in un sorriso orgoglioso, nemmeno avesse costruito lui in persona Anadea. – Una volta potevamo competere in splendore con Elea. Ma ormai da decenni le cose sono cambiate: le persone se ne sono andate, le case sono in rovina. Perfino il castello si sta sgretolando. –
    – In effetti assomiglia molto a quello dei Coverano, nella capitale – commentai.
    L'avevo notato passandoci vicino, prima di entrare nella città, anche se questo era mezzo crollato mentre quello ad Elea era ancora ben messo. La somiglianza però era innegabile.
    – Sì, l'architetto è lo stesso. Si dice che sia morto cadendo da una torre durante la costruzione, portando una maledizione sul castello. Noi non ci andiamo mai. –
    – Mai? – domandai incuriosito, appoggiando i gomiti sul bancone.
    – Mai. C'è persino una diceria secondo la quale la sventura è caduta sulla città a causa di quella costruzione – rivelò l’oste, con aria mesta.
    – Sono solo dicerie, come hai detto tu – mi alzai dal mio sgabello, finendo la birra con un solo sorso cercando di non badare troppo al sapore. Lanciai la moneta d'argento all'oste che la prese al volo, rigirandosela tra le mani.
    – Grazie per la birra, forse tornerò per una stanza – probabilmente non mi sentì nemmeno, impegnato com'era a rimirare il suo tesoro. Credo che equivalesse a quanto guadagnava in un intero anno.
    Uscito dalla locanda pensai al da farsi. La giornata era ancora lunga e avevo molto tempo. L'oste mi era sembrato sincero quando aveva detto di non aver sentito notizie della Principessa e sono abbastanza bravo a capire quando una persona mente. Questo però non implicava il fatto che la ragazza non fosse stata presa da qualcuno con cattive intenzioni. Decisi di iniziare controllando le case vuote attorno al piccolo nucleo abitato, poi mi sarei dedicato al castello e per ultimo, se non avessi trovato niente, avrei ancora chiesto in giro informazioni, anche se probabilmente la Principessa non era mai stata lì.
 
***
 
    Numerose ore dopo era già notte e io non avevo cavato un ragno dal buco. Avevo visto decine di case, tutte uguali e tutte vuote, senza nemmeno una traccia di vita che non fosse un gatto o cacca di topo. Ero abbastanza inferocito, sia con la mia sfortuna che con quella deficiente della Principessa. Doveva proprio scappare di casa? Cosa di così terribile poteva mai esserle successo per convincerla a fuggire? Per me era solo un'alzata di ingegno di una bambina viziata, che così facendo faceva perdere tempo a persone decisamente più impegnate di lei. Se fosse mai tornata a casa e soprattutto se fossi stato al posto della Regina l'avrei messa in punizione a vita.
    Mi diressi verso la locanda per prendere una stanza e dormirci su, continuando la mia inutile e infruttuosa ricerca il giorno dopo. Da dove mi trovavo dovevo per forza passare vicino al castello per arrivare nel centro della città, ignorando le dicerie che mi aveva riferito il mio amico oste. Effettivamente era abbastanza inquietante, soprattutto di notte, con parti di travi annerite che spuntavano come monconi di ossa dalle pietre. Una sola torre era integra, anche se palesemente abbandonata, con edera ed erbacce che salivano sulle pareti e si perdevano in alto.
    Passai quindi lì vicino e lanciai un'occhiata distratta a tutto, quando un odore inconfondibile mi colpì le narici. Legna bruciata. Qualcuno stava facendo un falò, ma visto che l'oste mi aveva detto che nessuno di Anadea andava mai lì, era decisamente molto strano. Nessuna luce si notava nella sera, di sicuro chi aveva messo su il bivacco non voleva essere notato e l'unico posto in cui poteva trovarsi era all'interno della torre, che non aveva praticamente finestre.
    Mi ci diressi quindi furtivamente, infilandomi sotto l'arco in pietra della porta d'ingresso, sguainando un pugnale e tenendolo alzato davanti a me. Salii le scale a chiocciola che mi trovai davanti, unica via possibile, e che portavano ai piani superiori. Ogni tanto dei pianerottoli di pietra si aprivano nella torre, larghi e abbastanza confortevoli, completamente vuoti eccetto per delle sedie rovesciate e marcite. Tracce di arazzi si trovavano sulle pareti. Maledizione o no delle persone dovevano essere andate a razziare il castello nel corso del tempo, sperando di trovare qualcosa di valore e portando via praticamente ogni cosa.
    Poco prima del terzo piano l'odore di legna bruciata si fece più forte e un tenue bagliore aranciato si dipinse sulle pareti. Arrivai vicino al pianerottolo, mi sporsi leggermente oltre il muro di pietra e la vidi. La Principessa se ne stava accovacciata vicino al fuoco, con i capelli ramati che risplendevano alle fiamme, guardando nel fuoco. Sospirai e misi via il pugnale. Finalmente la ricerca era conclusa, e forse avrei anche ricevuto qualche onorificenza visto che avrei riportato la Principessa a corte. Feci un sorriso e con due passi entrai nella stanza.
    – Principessa Camille Coverano. Sono venuto per riportarti a casa. –
    La ragazza sussultò, alzandosi in piedi di scatto e mettendosi con le spalle al muro, il falò tra me e lei. Era pallida e sporca e aveva il viso smagrito nonostante fosse scappata da soli quattro giorni, facendo sembrare i suoi occhi verdi enormi. Notai distrattamente che aveva dei solchi sulle guance. Probabilmente aveva pianto. I vestiti, palesemente da nobile, erano tutti strappati e laceri. Dopo qualche secondo di immobilità prese un pezzo di ferro dalla cintura, puntandomelo contro.
    – Vattene. Ti ordino di andare via. –
    Anche se la voce era salda, la mano che teneva quell’arma improvvisata tremava. Strano, di solito non sono poi così spaventoso. Mi avvicinai ancora di più, con le mani sollevate.
    – Purtroppo non posso. Tua madre, che si dà il caso sia anche la Regina, ci ha ordinato di riportarti a corte. –
    Ormai ero a pochi metri da lei. Feci un balzo e le presi la mano, strappandole la sbarra metallica dalle mani. Lei si dimenò e urlò, mi schiaffeggiò, mi diede anche una ginocchiata, facendomi abbastanza male. I segni delle sue unghie sulla guancia me li sarei portati dietro per qualche giorno. Decisamente non era il comportamento di chi vuole essere riportato a casa propria. La tenni stretta per qualche minuto, fino a quando non smise di muoversi. Incredibile quanto fosse minuta. Mi ricordavo che più o meno avevamo la stessa età, ma io in confronto ero un gigante. Quando si rilassò la lasciai andare, continuando però a tenerla per i polsi.
    – Qual è il problema? Hai capito che non voglio farti del male ma riportarti a casa? –
    Lei mi guardò altera, una smorfia sofferente sul viso.
    – Non posso. Non posso tornare a casa. –
    – Sì che puoi. Ci sono qui io apposta. –
    – Mi vuoi ascoltare quando parlo? Ti ho detto che non posso! – urlò, con gli occhi verdi che sembravano spiritati.
    – Stai scherzando? Sei la Principessa! Cosa ci sarà di così terribile a casa tua?! – urlai anche io, abbastanza scocciato dal suo tono. Alla faccia del protocollo nei confronti dei membri della famiglia reale, ma quella ragazza mi stava facendo davvero arrabbiare. Alla mia frase Camille si fermò, smettendo di urlare, squadrandomi. Fantastico. Mi sedetti vicino al fuoco, irritato.
    – Quando ti calmi partiamo. Arriveremo ad Elea in mattinata. –
    Tirai fuori dalla mia bisaccia della carne salata e mi misi lentamente a masticare. Non avevo messo niente sotto i denti dall’ora di pranzo e avevo fame. In più era un buon modo per passare il tempo. Dopo poco mi accorsi che la Principessa osservava il mio cibo con bramosia, troppo orgogliosa per chiedermene un po’. Gliene porsi una, forse con la speranza di calmarla un po', e lei ci si avventò praticamente sopra. Era abbastanza palese che non mangiava da più tempo di me.
    – Mi vuoi spiegare cosa succede? – le chiesi, dopo che si era praticamente divorata tutte le mie scorte. Non era tanto grossa ma mangiava come un lupo.
    Mi fissò per capire se potesse fidarsi di me. Non so cosa vide, ma chiuse gli occhi e iniziò a parlare. C’era una smorfia di sofferenza sul suo viso.
    – Se torno a corte mi uccideranno. –
    Risi. A crepapelle, e la cosa non mi fa onore. Ma quando smisi lei mi stava ancora fissando, con quegli occhi seri e un sopracciglio alzato, palesemente irritata.
    – Hai finito? – mi domandò, ironica.
    – Stai scherzando? –
    – No. Mia madre mi odia. –
    – Possibile, ora come ora ti odio anche io. Ma non mi sembra un buon motivo per ucciderti. –
    – Lei... – sospirò, prendendo fiato. – Lei ha ucciso mio papà. Che si dà il caso sia anche il tuo Re – mi canzonò.
    Impossibile. Decisamente impossibile. Quella ragazza doveva essere matta.
    – Tua madre, la regina Celia, avrebbe ucciso re Jerome. Certo. E io posso volare. –
    –Devi credermi! –  Mi urlò contro, gli occhi dilatati. – Quando ho cercato di dirlo a corte ha quasi ucciso anche me. Sono scappata appena in tempo. –
    Mi presi la testa tra le mani.
    – Senti, a me tutta questa storia non interessa. Non ti credo. Ho l'ordine di riportarti a corte, ed è esattamente quello che farò. –
    – Se mi riporti a corte morirò. Non hai una coscienza? –
    – Senti principessina, sono un Assassino. Se ho mai avuto una coscienza l'ho persa tempo fa. –
    Silenzio. Camille non disse più niente ma si guardò intorno, come per trovare una via di fuga. All’improvviso si girò verso di me, come un cane che ha puntato la preda.
    – Un Assassino... voi giurate fedeltà al re. –
    – Vedo che sei informata – un ghigno sarcastico mi si dipinse sul viso.
    – So molte cose, – sorrise, e fu il primo vero sorriso che vidi farle da quando ero entrato nella torre. – E visto che io sono la figlia del Re, mi devi proteggere. Mi devi proteggere anche se chi mi vuole fare del male è la stessa Regina. Tu mi devi lealtà. –
    Sospirai.
    – Si, è tutto vero. Però c'è un piccolo particolare: io non ti credo. Secondo me hai deciso improvvisamente che avevi bisogno di libertà, che volevi vedere il mondo e che il palazzo era troppo piccolo per te, e quindi sei scappata. Forse anche il dolore per la morte di tuo padre ha contribuito, non lo so e in fondo non mi interessa. Ma ora ti devo portare a casa, hai finito di vagabondare. –
    – Posso provare a convincerti che ho ragione? –
    Sbuffai, a braccia incrociate, guardando il suo viso determinato dall'altra parte del fuoco.
    – Si, puoi provarci. –
 
***

    Due ore dopo mi aveva convinto. Accidenti a lei. Però, se tutto era vero, allora la questione era abbastanza spinosa. La Regina era una spietata assassina, pronta a tutto per il potere, persino ad uccidere il marito e la figlia. Non sapevo più cosa pensare. Da un lato i ragionamenti di Camille erano perfettamente logici, dall'altra chi mai può pensare che una madre sia capace di uccidere un figlio? A questo punto una vocina scomoda nella mia testa mi ricordò che io ero stato venduto come una capra dal mio stesso padre, e ciò bastò a convincermi. La Principessa ormai si era addormentata vicino al fuoco morente e, dopo aver rimuginato ancora un po' decisi di imitarla, sdraiandomi vicino a lei. Il sonno fortunatamente arrivò in fretta.
    La mattina dopo fui il primo a svegliarmi. Camille continuava a ronfare vicino a me, russando leggermente. Nel sonno aveva perso l'aria afflitta della sera prima e sembrava serena, dimostrando tutti i suoi 16 anni. I capelli ramati circondavano l’ovale del volto, sul quale le ciglia lunghe disegnavano ombre delicate. La bocca era socchiusa, e il fiato che ne usciva faceva muovere le ciocche rossicce. L’ossatura delicata si intravedeva dalla scollatura del vestito, da dove facevano capolino le due clavicole. Mi stiracchiai, dopo di che la svegliai. In breve ero diretto verso la città, per comprare dei viveri e dei vestiti da dare alla fuggiasca, nella speranza di renderla meno appariscente, e le avevo anche consigliato di tingere i capelli, troppo riconoscibili. Dopo aver preso tutto il necessario tornai alla torre, dove Camille mi aspettava.               
    Avevo temuto che fuggisse nel frattempo, ma a quanto pare non mi temeva più. Cavalcammo in due fino al confine con Albis e lo superammo, dirigendoci verso Engana, città portuale dello stato vicino. La ragazza mi aveva spiegato che intendeva dirigersi a Dimina, al Nord, per raggiungere il fratello Daniel che si trovava là in qualità di protetto dagli Auremore.
    La accompagnai fino al porto e le diedi abbastanza soldi per comprare un passaggio su una nave mercantile e sopravvivere per almeno una settimana. Era riuscita a scappare dal Palazzo Reale senza niente, incredibile.
    – Starai bene? – le chiesi, quando ormai dovevo lasciarla andare via. Incredibile a dirsi, ma ero preoccupato.
    – Sì, – mi sorrise e le si illuminò tutto il volto. – Da mio fratello starò bene. Grazie Marcus, non ti dimenticherò. –
    Sorrisi anche io. Lei si girò e fece per andarsene, ma la bloccai. Mi tolsi un pugnale dalla cintura e glielo porsi.
    – Prendi questo, per tenerti al sicuro. –
    Lei non disse niente e lo prese, ma il suo sorriso si allargò. Si voltò e dopo poco si perse nella folla del porto. Sorrisi tra me e me, pensando che non l'avrei più rivista. Gli dei solo sapevano quanto mi sbagliavo.

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Capitolo 4
*** IV ***


CAPITOLO IV

MARCUS

Camille finalmente -e comunque sempre troppo tardi- mi liberò da quella schifosa cella in cui i suoi compari abitanti del bosco mi avevano rinchiuso. Ero contento di vedere come la ragazzina terrorizzata che avevo trovato nella torre di Anadea, due anni prima, fosse diventata una donna sicura di sé, e quando glielo dissi un tenue sorriso le si accese sul volto.
    Mi portò poi fuori dalla prigione e ci dirigemmo verso il centro del villaggio. Notai che mentre camminavamo più di una persona la salutò educatamente e in maniera rispettosa, saluti a cui lei rispondeva con un delicato cenno del capo. Inutile dire che io invece collezionai un gran numero di occhiatacce camminandole al fianco, ma non importa. Ci ero abituato.
    Ci fermammo finalmente in una piccola locanda e ci accomodammo ad un tavolone di legno, mezzo vuoto. La luce del mattino entrava dalle finestre e l'aria autunnale era frizzante attorno a noi. Ordinai da mangiare e da bere, e solo quando mi fui rilassato, dissetato e sfamato decidi di iniziare a parlare di cose serie.
    – Mi fa davvero piacere vederti – le dissi, ed era vero. Quando, poco tempo prima, avevo ricevuto un messaggio che mi chiedeva un incontro, firmato Camille, non ero molto sicuro che provenisse davvero da lei. Ci eravamo dati appuntamento ad Hale per quando io avessi finito la missione, ma anziché la principessa mi aspettavo più di incontrare qualcuno che avesse scoperto che avevo fatto scappare la primogenita del Re, due anni prima. Poi la fuga, l'inseguimento, il bosco e tutto il resto mi avevano momentaneamente distratto e non mi ero nemmeno più preoccupato di presentarmi a quell’incontro.
    – Anche io sono felice di vederti Marcus – mi rispose, e sembrava davvero sincera. Incredibile che io possa piacere a qualcuno.
    – Ti trovo bene. –
    – Sì, sto bene. Qua mi hanno accolta come una di famiglia. –
    – Vedo. Diciamo però che i tuoi ospiti non sono trattati ugualmente bene. –
    Un sorrisetto imbarazzato le si dipinse in viso.
    – Ehm, sì. Forse la colpa è mia. Mi aspettavo di incontrarti ad Hale ed ero lì l'altra mattina quando ti ho visto scappare come un disperato da... –
    – Non ero disperato, – la interruppi, un po' offeso, anche se effettivamente sì, era stata una fuga da disperato. – Quella fuga faceva parte del mio piano. –
    – Sì, immagino proprio. Comunque quando ho capito che forse avevi cose più, diciamo, urgenti, a cui pensare ho contattato Thomas e gli ho chiesto di scortarti fino a qui. –
    – Potevi venire a prendermi tu, comunque. –
    – Sicuramente. Mi cercano ancora praticamente in tutto il paese e io mi faccio vedere con un Assassino ricercato. Sarebbe una mossa davvero intelligente, non trovi? –
    Era decisamente cambiata. Due anni fa non mi avrebbe risposto con tutta questa sicurezza, sembrava più una con paura persino della sua ombra, e ora ero io a trovarla sicura di sé in un modo perfino leggermente inquietante. Sarà che a me piace il tipo “donzella in pericolo” e Camille decisamente non lo era. Almeno non più. 
    – Sì, sì, va bene, ricevuto il messaggio. Ciò però non spiega perché sono stato legato, imbavagliato e sbattuto in cella. E poi, che posto è questo? –
    – Siamo in un villaggio costruito da un gruppo di oppositori della Regina. Si sono ritirati qui per cercare di sopravvivere. Non so se ne sei a conoscenza, ma il nostro paese non se la passa molto bene. Le tasse sono aumentate in modo vertiginoso e sempre più giovani vengono reclutati per l'esercito. Nelle campagne la gente si ammazza di lavoro e si vede portare via più di due terzi del raccolto che vanno a finire nelle scorte della casata reale. Puoi immaginare che ci sia un po' di malcontento e in molti hanno deciso di scappare e rifugiarsi qui, per poter vivere in maniera più tranquilla oppure per opporsi al dominio della Regina. –
    Le notizie non mi stupirono. Anche a Elea le cose non andavano così bene come si potrebbe pensare. Gli accattoni e i disperati nella città erano aumentati vertiginosamente, così come anche i crimini e le opposizioni alla monarchia, tutte represse con ferocia. Il clima era abbastanza teso e sembrava che la situazione potesse esplodere da un momento all'altro.
    – Sì, lo so, – commentai. – Immagino anche che l’ultima cosa che vogliono qui sia un Assassino che possa denunciarli alla Regina. –
    – Esatto. Ed è per questo che, nonostante le mie raccomandazioni, Thomas ha preferito andare sul sicuro e metterti in condizioni di non nuocere. –
    – Io sono sempre in condizioni di nuocere, ricordatelo – dissi, ridacchiando. Scoprii che mi piaceva parlare con lei, c'erano una libertà e una tranquillità che ho davvero con poche persone, forse solo con i miei tre amici. Fu poi il suo turno di ridere, scuotendo la testa alla mia arroganza. Rimanemmo in silenzio per un po', lei osservando il suo boccale immersa nei suoi pensieri, io guardandomi intorno incuriosito. Quello in cui eravamo era un villaggio del tutto normale. Tranne, ovviamente, per il fatto che fosse pieno di dissidenti armati fino ai denti e si trovasse nel bel mezzo di una foresta. Bambini correvano per le strade, da un angolo veniva l'odore di pane appena sfornato, la locanda dove ci trovavamo stava lentamente riempiendosi di gente. Tutti avevano un'aria rilassata, felice, e si salutavano con cordialità fino a che non guardavano me, e allora tutti i sorrisi sparivano. Se le occhiate potessero uccidere sarei già stato ammazzato almeno un paio di volte. Non potei fare a meno di chiedermi quanti loro amici, parenti o conoscenti fossero stati uccisi dai miei confratelli. Immagino molti e non ne andavo fiero. Riportai il mio sguardo su Camille e fui io, dopo un po', a riprendere il discorso che avevamo lasciato interrotto.
    – Immagino però che tu non mi abbia fatto venire qui per parlare di attualità. Spiegami che succede. –
    Lei esitò, guardandomi negli occhi. Non so cosa ci vide, ma iniziò a parlare.
    – Due anni fa quando mi hai lasciata andare mi sono diretta a Dimina, come da programma. Pensavo di poter essere al sicuro lì, protetta dagli Auremore e soprattutto da mio fratello. Credevo che finché fossi stata con loro mia madre non avrebbe potuto farmi del male, non di fronte alla famiglia reale di un altro paese. Evidentemente mi sbagliavo – iniziò, con un sospiro pesante.
    – Quando sono sbarcata a Dimina -dopo un viaggio eterno e terribile, per inciso- notai che anche lì molti soldati passeggiavano nel porto facendo domande e controllando chiunque gli passasse vicino. Non essendo mai stata in quel regno prima non mi stupii molto, pensando che fosse una procedura standard, soprattutto se in prossimità di un porto – mi raccontò con lo sguardo perso nel vuoto, come se potesse dissociarsi da quello che mi stava raccontando.
    – Mi avvicinai a un gruppo di guardie con tranquillità e sicurezza, senza paura, – continuò. – Pensavo di dire loro chi ero, che desideravo vedere mio fratello e che allora mi avrebbero scortato al Palazzo d'Estate residenza degli Auremore, a Melusine, poco lontano dal porto. Quando dissi che ero Camille Coverano mi guardarono sorprese e furono molto gentili con me. Il capo del gruppetto era un uomo inquietante e mi ricordo di aver pensato distintamente che più che ispirare fiducia mi terrorizzava. Aveva una lunga cicatrice su un lato del viso e gli occhi avevano una luce maligna, ma forse lo dico solo perchè so quello che è successo dopo, visto che sul momento mi fidai ciecamente di lui e dei suoi compari – disse con tono amaro.
    – Partimmo subito, a cavallo, e visto che era sera dopo poco ci fermammo per dormire ai lati della strada per Melusine. Smontai da cavallo, mi sdraiai e devo ringraziare l'agitazione che avevo al pensiero di aver quasi raggiunto mio fratello se non mi sono addormentata subito. Rimasi quindi sdraiata per terra, ad occhi chiusi, cercando di prendere sonno mentre le quattro guardie stavano accanto al fuoco che avevano acceso, a chiacchierare – fece una pausa ma aspettai che continuasse da sola. Non volevo forzarla a raccontare se non era quello che voleva.
    – Dopo un po' iniziai a sentire dei discorsi strani, riguardo a quanto io fossi un'illusa a fidarmi così di loro. Dissero che mi avrebbero portato sì al Palazzo Reale, ma che avrei fatto una fine molto diversa da quella che mi immaginavo. Ridacchiavano, i bastardi. Parlarono della fortuna che avevano avuto visto che mi ero presentata da loro così, senza fargli fare nemmeno la fatica di cercarmi, e del fatto che di sicuro avrebbero avuto una promozione, soprattutto perché, anche se gli ordini erano di portarmi a palazzo viva o morta, loro sarebbero riusciti a portarmi fino li sana e salva, pronta per il boia di corte – scosse la testa, come per scacciare il pensiero.
    – Io che ascoltavo gelai, ero terrorizzata, – continuò. – Non avrei trovato salvezza a Dimina e a questo punto non sapevo fin dove si sarebbe spinta la lunga mano di mia madre. Era ovvio che se mi cercavano anche lì era perché la Regina li aveva avvisati e gli aveva detto che potevano uccidermi, che ero sacrificabile – la sua bocca si piegò in un sorriso ironico.
    – Uno solo degli uomini si fece qualche scrupolo, dicendo che era una colpa molto grave uccidere un membro della famiglia reale, sia agli occhi degli dei che degli uomini. Il suo capitano gli rispose ridendo. Gli disse che loro mi stavano scortando a corte e che poi quello che mi sarebbe capitato lì non era affar loro. In più aggiunse che non ero la prima dei Coverano che moriva per mano sua e che nonostante ciò era ancora vivo e soprattutto molto benvoluto alla corte degli Auremore, da cui provenivano tutti i suoi ordini. –
    La interruppi, non riuscendo a credere a quello che avevo appena ascoltato. Era tutto troppo, sia da pensare che da ascoltare e da concepire.    
    – Aspetta, Camille. Altri membri della famiglia reale uccisi? Come... come è possibile che non si sappia niente? Chi sono? –
    Lei aveva una faccia stanca, tirata. Immaginai che anche solo ripetermi quelle cose le fosse costata un'enorme fatica.
    – Ci ho pensato a lungo quella notte, mentre aspettavo il momento adeguato per scappare. Alla fine è la mia famiglia e di cose su di essa ne conosco. L'unico che mi è venuto in mente è stato, oltre a mio nonno re Daniel, morto di vecchiaia nel suo letto, mio zio Adrien, il fratello maggiore di mio padre ed erede al trono. Ero piccola, ma ricordo che era stata una vicenda molto dolorosa. C'era stato un incidente in nave mentre si dirigeva con i due figli, Ian e Nathaniel, a Dimina. Doveva essere una sorta di missione diplomatica o qualcosa del genere, non mi ricordo. So solo che nessuno di loro è sopravvissuto. La moglie di Adrien, Helen, si è tolta la vita poco dopo. È stato un episodio molto doloroso e mio nonno, che era già malato, non sopravvisse ancora a lungo. –
    Lo ricordavo anche io. Il lutto aveva colpito per tre volte in poco tempo il paese, prima con la morte del principe ereditario Adrien e dei suoi due figli, poi per il suicidio della principessa Helen e infine per la morte dell'anziano Re. All'epoca i Coverano erano molto ben voluti, soprattutto il principe Adrien, che era benevolo, saggio e giusto. Sarebbe stato un ottimo sovrano. Si diceva che persino il fratello, il futuro re Jerome, fosse stato preso dalla disperazione alla notizia perchè riteneva che il trono sarebbe dovuto spettare ad Adrien, mai a lui, nemmeno in quel caso. Non si sentiva pronto a essere Re, tanto meno dovendo camminare sopra i cadaveri del fratello e dei nipoti per arrivare al trono. Ero piccolo anche io, solo di poco più grande di Camille, ma mi ricordo che alla Corporazione la notizia era stata traumatizzante. Erano tutti molto fedeli e incredibilmente legati al sovrano e alla sua famiglia, soprattutto nelle alte sfere.
    Un solo dubbio mi rimaneva e lo esposi.
    – Però è stata una morte per mare, non c'è la sicurezza che sia stato davvero un omicidio. Forse quell'uomo mentiva ed è stato davvero un incidente. –
    Camille sospirò.
    – Vorrei che fosse così Marcus, non sai quanto. Ma quell'uomo ha detto la verità, ne sono sicura. Non ne dubiteresti nemmeno tu se lo avessi visto. –
    – Va bene, ho capito. Anche se spero che non sia vero. E poi cos'è successo? –
    – Ho aspettato che si addormentassero, facendo finta di dormire. Quando ormai russavano e l'uomo di guardia sembrava essersi momentaneamente appisolato mi sono alzata in silenzio e gli sono andata alle spalle. Dopodiché ho estratto il pugnale che mi avevi dato e l'ho sgozzato. –
    Lo disse con una tranquillità spaventosa, ma dentro di me sapevo che all'epoca doveva essere rimasta molto scossa. Non è una cosa che si dimentica il primo omicidio, e io lo so molto bene. Quella ragazzina di sedici anni spaventata e fragile aveva scoperto nel peggiore dei modi che dentro di sé c'era l'acciaio. Mi rattristai al pensiero che Camille, dolce com'era due anni fa, fosse stata costretta a uccidere, sporcandosi di questo crimine anche se per salvarsi la vita.
    – Poi? –
    – Poi sono scappata, portandomi dietro tutti i loro cavalli. Ci hanno messo un po', credo, prima di accorgersi che ero fuggita, non si aspettavano una cosa del genere da una ragazzina come me. –
    Lo disse con una sorta di ironia amara. Probabilmente nemmeno lei stessa si aspettava di essere in grado di uccidere un uomo.
    – Ma il punto non è questo – continuò.
    – E qual è? –
    – Quello che ho visto nei miei anni di fuga. Per un po' sono rimasta a Dimina, avevo troppa paura ad avvicinarmi al porto e alle città, così mi sono nascosta dove capitava senza poter tornare a Viride. Gli Auremore sono ricchi e a sentirli parlare il loro regno è il paradiso in terra, ma non è così. Stanno allestendo un grande esercito, ovunque vengono reclutati giovani. Per la sicurezza del regno dicono, ma io non ci credo. I fabbri, i falegnami e i genieri sono ormai tutti nelle quattro città principali, a fare non si sa cosa. Solo osservando con attenzione e parlando con la gente sono stata in grado di capire che qualcosa non andava, ma agli occhi di chiunque vada lì per una semplice visita è tutto normale. Un giorno poi sono riuscita ad intrufolarmi in una base dell'esercito e ho visto cosa stanno costruendo: armi da guerra. –
    Sempre peggio, davvero. Ogni volta che vedevo quella ragazza venivo a conoscenza di cose deliranti. Una volta sarei stato tentato di non crederle, ma ormai mi fidavo di lei, stranamente.
    – C'è il Patto, Camille, te ne dimentichi. Gli Auremore lo faranno per tenere occupata la popolazione – dissi, ma non lo pensavo nemmeno io.
    – Conosco il Patto, Marcus, meglio di te credo. Ma cosa capiterebbe se una nazione lo infrangesse così di colpo? –
    – La guerra, lo sai. Molto rapida anche. I nemici verrebbero sbaragliati senza la possibilità di difendersi. Non si allestisce un esercito in qualche giorno. –
    Improvvisamente mi sembrò che l'aria fosse più fredda. La guerra che sarebbe scoppiata sarebbe stata devastante e incredibilmente facile da vincere per i diminiani se avessero preso di sorpresa gli altri regni.
    – Esatto. Quindi ho pensato di tornare qui, di cercare di avvisare qualcuno, di difendere il mio paese anche se da fuggitiva. Sono pur sempre la Principessa, è un mio dovere. Però quando sono tornata ho notato che molte cose sono cambiate. Come a Dimina, sempre più persone vengono reclutate nell'esercito, per “forgiare uomini forti e al servizio del regno” recitano i bandi. Le esercitazioni militari sono innumerevoli, indette per non mantenere i soldati oziosi, o almeno così si dice. Le tasse sono esagerate e posso assicurarti che il tesoro reale dei Coverano è abbastanza cospicuo da non dover venire rimpinguato in continuazione dai soldi della popolazione. In breve, si stanno preparando a una guerra anche qui e mia madre, la regina Celia, lo sa benissimo. Sono sicura che c'è lei dietro a tutto questo progetto, è abbastanza ambiziosa da poter architettare un piano del genere. Ci saranno dei piani di alleanza tra Dimina e Viride, e scommetto che verranno sigillati il giorno dei matrimoni tra i miei fratelli e i figli degli Auremore. Le due nazioni saranno alleate in questa guerra devastante. –
    – Quello che mi dici ha senso, Camille, ma nemmeno io posso fermare una guerra. –
    Lei sorrise in una maniera feroce, come se fosse una belva davanti alla preda.
    – Ma io non voglio interrompere la guerra, o almeno, non è quello il mio interesse principale. –            
    – Ah no? – mi stupì, devo essere sincero. La guerra non è una cosa particolarmente desiderabile e positiva, e lo dico io che ho fatto della morte il mio mestiere.
    – No. Io voglio quello che è mio di diritto. Sono una Coverano e sono la primogenita. Mia madre mi ha fatto diventare una ricercata e ha cercato di uccidermi, ma ora è tempo di smettere di scappare. Tutta questa storia della guerra mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto rendere conto di quanto sia inadeguato il governo di mia madre, che ci trascinerà tutti nel baratro. Mio padre non avrebbe mai permesso una cosa simile e ora capisco perchè lei l'abbia ucciso: non voleva che interferisse con i suoi piani. Voglio impedire questa follia. Ma soprattutto voglio la mia vendetta verso Celia e verso tutti coloro che mi hanno tradita. –
    – Tutto molto corretto Camille. Ma perchè non aspettare che tuo fratello Daniel cresca e prenda il potere? Risolverai tutto così. Lui riaccoglierebbe di sicuro a braccia aperte sua sorella. –
    – Mio fratello è piccolo, troppo, e si ritroverà con un regno in guerra prima di raggiungere la maggiore età, ne sono sicura. Bisogna togliere il trono alla Regina, e anche in fretta. Per farlo posso sfruttare questa guerra che sta per scoppiare, per avere l'appoggio che normalmente non avrei. Inoltre conosco i suoi crimini, tutti, e non sono perdonabili, da nessun uomo. Diventerò io reggente e poi, quando sarà il tempo, lascerò tutto a mio fratello, come sarebbe dovuto essere. –
    C'era sicurezza nelle sue parole e il discorso non faceva una piega. Ero anche sicuro che avrebbe lasciato il trono a Daniel Coverano, perchè, dopo tutto quello che lei stessa aveva patito, non avrebbe mai privato suo fratello di ciò che gli spettava. C'era una sorta di giustizia in tutto questo, e mi piaceva.
    – Perché hai chiamato me? – le chiesi e mi interessava davvero saperlo.
    – Perché mi fido di te. Due anni fa mi hai salvato la vita, lasciandomi libera. Non eri tenuto a farlo né tanto meno a credermi quando ti ho raccontato cosa mi era successo.     Avresti potuto riportarmi a Elea e lavartene le mani, mettendo rapidamente a tacere la tua coscienza. C'è in te più di quello che si veda in un primo momento, Marcus e so che se trovi giuste le mie idee mi aiuterai. Ho davvero molto bisogno di aiuto. –
    Cavolo, quanti complimenti. Sarei potuto arrossire persino. E di nuovo quella ragazza aveva ragione. Mi piaceva quello che mi stava proponendo. Inoltre Camille era la Principessa, membro della famiglia reale, e come mi aveva ricordato due anni prima la mia lealtà andava anche a lei. Se poi c'era da scegliere tra lei e la regina Celia, beh, non avevo dubbi. La Regina reggente aveva infangato l'onore della nostra Corporazione e governava come se fosse un tiranno, cose che non mi tiravano precisamente dalla sua parte. In più Camille mi piaceva, inutile negarlo. Le sorrisi, nel modo più smagliante che riuscii.
    – Va bene, mi dico convinto. Diciamo che la sviolinata potevi risparmiartela. –
    Lei ridacchiò piano, tirandosi indietro i capelli. L'atmosfera si rilassò.
    – Qual è il piano? – le chiesi.
    – Non lo so. Devo trovare delle prove di tutto questo da presentare agli altri regni e al Consiglio di Viride. C'è bisogno che almeno uno dei trenta nobili che lo costituiscono appoggi la mia richiesta, altrimenti sarà tutto inutile. –
    – A questo penseremo dopo. Però Camille non possiamo fare tutto da soli, abbiamo bisogno di aiuto. –
    Lei scosse la testa e aprì le braccia, indicando il villaggio attorno a sé.
    – Loro mi aiuterebbero, ma non sono sicura che sarebbe una cosa furba. Sono leali e coraggiosi, e mi hanno salvato la vita, ma non sono ciò di cui abbiamo bisogno. Molti poi hanno famiglie e non posso permettere che muoiano per me, anche se lo farebbero se glielo chiedessi. Hanno già patito tanto. –
    – Sì, lo so. Infatti non pensavo a loro, – un ghigno mi si dipinse in viso. Era venuto il momento di rincontrare i miei amici. – Hai mai conosciuto Jared, Andreas e Mel? –

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Capitolo 5
*** V ***


CAPITOLO V

CAMILLE

    Rimasi ferma a guardare Marcus che scriveva un biglietto da inviare ai suoi amici, mentre restavamo seduti al tavolo della locanda. Ferma e pensierosa. Aveva ascoltato tutta la mia storia senza stupirsi, con una tranquillità che non avrei mai pensato di vedere in uno come lui. Già due anni prima mi era sembrato un tipo abbastanza esagitato e rumoroso, pronto a esplodere alla prima occasione, e prima della nostra “chiacchierata” avevo avuto la stessa impressione, tant'è che avevo pensato di tenermi tutto per me e di chiedere aiuto a qualcun altro. A chi, ci avrei pensato poi in seguito. E invece appena il discorso era divenuto più serio aveva cambiato espressione e atteggiamento, ascoltando attentamente e senza sproloquiare a caso, senza che la cosa sembrasse costargli troppa fatica. Una trasformazione stupefacente. Forse è questo che intende la gente quando dice che gli Assassini sono professionali: appena avevamo iniziato a parlare di “lavoro” era diventato praticamente un'altra persona.
    Mi presi il mio tempo per guardarlo bene, come non avevo ancora potuto fare, e mi accorsi che non ero l'unica dei due a essere cresciuta in quei due anni. Si era, come dire, inspessito. Si vedevano i muscoli guizzare da sotto gli abiti, e anche da seduto e rilassato dava un'idea di quieta forza, come se potesse bastare un niente per farlo scattare. I capelli scuri cadevano su un volto che non aveva più il minimo segno di innocenza ma che era quasi severo nella sua calma. Si era fatto crescere la barba e ora un pizzetto curato gli stava sul mento e attorno alle labbra, donandogli un'aria più matura. Due anni prima quando ci eravamo conosciuti eravamo ancora dei bambini, ma non era più così, e si vedeva. I suoi occhi neri erano sempre canzonatori come al solito, ma quando mi guardavano mentre gli spiegavo tutte le mie scoperte e i miei piani erano anche seri e attenti, intenti ad analizzare ogni mia parola, per capire verità e bugie. E io gli avevo detto tutta la verità, incredibilmente.
    Mi ero detta che non avrei dovuto, che avrei dovuto dirgli solo le cose sufficienti per tirarlo dalla mia parte ed obbligarlo ad aiutarmi, ma sotto quello sguardo non c'ero riuscita. Continuavo a vedere in lui il ragazzo che mi aveva salvata, e a lui non avrei mai potuto mentire. Dovevo solo sperare che la cosa fosse reciproca e che lui non osasse mentire a me. In tutto questo non mi accorsi di aver inclinato la testa, un gesto che faccio sempre quando sono molto attenta a qualcosa o quando sto pensando.
    – A che pensi? – mi chiese Marcus, senza alzare gli occhi dal foglio. Mi riscossi e mi guardai attorno, spostando la mia attenzione sulla foresta colpita dai raggi del sole di quella mattina.
    – A niente di particolare in verità – mi alzai e mi diressi verso la finestra, appoggiandomi poi con i gomiti al davanzale di legno, senza smettere di guardare Marcus. Fu inevitabile iniziare a chiedermi quale fosse stata la sua vita fino a quel giorno. Io, in fondo, di lui non sapevo niente mentre lui sapeva tutto di me. Le mie conoscenze si limitavano al fatto che fosse un Assassino e che avesse, nonostante tutto, un animo onesto e gentile. Non pensavo che tutto ciò fosse esattamente il presupposto per iniziare un'avventura come quella in cui ci stavamo lanciando, e non sapevo nemmeno se “avventura” fosse il termine giusto per definirlo, visto che questa parola mi aveva sempre ispirato idee di nobiltà e onore, di correttezza e giustizia. Non precisamente quello che ci apprestavamo a fare, visto che la vendetta non è nobile, né tanto meno giusta o onorevole, ma è terribile e crudele e non lascia altro che vuoto dietro di sé. Ma la volevo comunque, e la desideravo come un assetato può desiderare l'acqua. Avrei ottenuto vendetta, l'avevo giurato sul sole e sulla luna, e su tutto ciò che avevo caro.
    Chissà cosa avrebbe pensato di me la me stessa bambina. Mi scappò una risatina al pensiero e mi guadagnai un'occhiata strana da Marcus, che ignorai deliberatamente. Da bimba avevo grandi progetti, pensavo che da grande avrei sposato un uomo bellissimo, sicuramente Principe di qualche regno lontano, che mi avrebbe portato via sul suo cavallo per farmi diventare Regina. Sarei stata gentile, educata, modesta, giusta, saggia e amorevole. La mia corte mi avrebbe adorato e avrei vestito abiti stupendi, con gioielli da fare invidia a qualunque donna, persino a mia madre. Avrei avuto tanti figli e avrei passato una vita felice al fianco dell'uomo che amavo.
    Non avevo mai pensato che tutto sarebbe andato storto, che avrei dovuto imparare a combattere e che mi sarei vestita da uomo; che avrei dovuto tingere e tagliare i miei capelli, i miei bellissimi capelli che erano il mio orgoglio e il mio vanto e che avevo ereditato da mia madre; che non avrei mai conosciuto il mio cavaliere dalla scintillante armatura e che sarei dovuta scappare da casa mia per salvarmi la vita; che avrei dovuto uccidere per riuscire a rimanere viva. Tutto a causa della mia incapacità di farmi gli affari miei, come mi ripetevo nei momenti più tristi. Forse se fossi stata un po' meno curiosa e un po' più docile tutto sarebbe andato bene e sarei rimasta a palazzo, immersa negli agi, al caldo e al sicuro. Peccato che né il fregarmene degli avvenimenti né l'essere docile rientrino nel mio carattere. Sono stata, se così si può dire, una vittima degli eventi, e la mia situazione era nient'altro che una diretta conseguenza di tutto quello che era accaduto due anni prima. All'improvviso, e nonostante tutti i miei sforzi per evitarlo, i miei ricordi tornarono con violenza, e di colpo non ero più in una locanda in mezzo alla foresta con Marcus ma ero a palazzo, sedicenne e felice della mia vita.
 
***
 
Due anni e mezzo prima, estate del 1632
 
    Quella era l'estate in assoluto più afosa che avessi mai vissuto. A sedici anni non potevo più comportarmi come i miei fratelli più piccoli che correvano in cortile e schiamazzavano lanciandosi nelle fontane, anche se avrei molto molto volentieri fatto a cambio. In quel momento seguivo una noiosissima lezione di cucito e sentivo l'ago scivolare tra le mie dita sudate. Anche la mia istruttrice stava morendo di caldo, si vedeva, e quando finalmente mi disse che probabilmente era il caso di fermarsi un attimo per prendere un po' d'aria non trattenni un sospiro di sollievo.
    Posai il cerchio di legno con dentro il mio ignobile lavoro e mi alzai contenta, correndo verso il giardino dai miei fratelli. Sapevo che ci sarebbe stato anche Alec, figlio di uno dei nobili che componeva il consiglio, che era venuto lì per controllare la sorellina Sophie, migliore amica di mia sorella Ottavia. Mi piaceva pensare che avrebbe potuto mandare un uomo qualunque della servitù ma che avesse scelto di venire per vedere me, e si dà il caso che Alec fosse un ragazzo veramente molto carino.
    Mi precipitai verso il giardino e poco prima di uscire dalle grandi porte a vetri mi rimisi a posto il vestito, per non dare l'idea di aver corso fino li. Non c'era niente che Alec odiasse di più delle persone di fretta visto che lui era pigro e indolente, e io non volevo assolutamente fare una brutta figura.
    Uscita all'aperto la luce del sole mi ferì gli occhi abituati alla penombra leggermente più fresca del palazzo. Il caldo era terrificante, sembrava quasi di dover nuotare per l'umidità e la mia prima preoccupazione furono i miei capelli. Si sarebbero sicuramente increspati tantissimo! In pochi secondi, mentre mi passavo le dita tra le ciocche per darmi una parvenza di ordine, vidi Alec seduto sotto un albero. Ignorai completamente i tre bimbi che si schizzavano poco distanti da me e gli andai incontro, tutta felice. Una volta che lo raggiunsi scambiammo due chiacchiere innocenti, ma dopo poco cadde un silenzio imbarazzante, rotto solo dagli urli dei nostri fratelli. Un urlo più forte del solito richiamò la nostra attenzione e, inevitabilmente, anche quella dei domestici di palazzo. Una donna che avevo visto qualche volta lavare i pavimenti degli appartamenti di mia madre uscì di corsa, trafelata.
    – Principessa Ottavia, principe William, milady Sophie, vi prego, non urlate! La Regina mi ha detto di dirvi di fare silenzio, o sveglierete il Re vostro padre. Sta finalmente riposando ed è molto provato dalla notte trascorsa.”
    Le bambine si tranquillizzarono immediatamente, chiedendo gentilmente scusa. Alec invece si girò verso di me, con la solita calma in viso. Pensai per un istante che più che rilassato sembrasse fortemente disinteressato e che mi parlasse solo per cortesia, ma scacciai il pensiero.
    – Re Jerome sta male? –
    – Sì, non hai sentito? Ieri non ha presenziato a corte, era a letto. Non è nulla di grave, almeno così dicono i medici, e dovrebbe rimettersi in pochi giorni. –
    Alec annuì e la conversazione, di nuovo, terminò lì. Io continuai a guardarmi le scarpe, mentre lui faceva vagare lo sguardo sul giardino con aria annoiata e passammo la giornata così, a ignorarci nell'afa.
 
***
 
I giorni seguenti si succedettero sempre uguali uno all'altro nel grande caldo che assediava la città e purtroppo in quel periodo mio padre non migliorò. Io andavo a trovarlo tutti i giorni, accompagnata da mia madre e dai miei fratelli. All'inizio era lucido, capiva cosa dicevamo e rispondeva. Poi, piano piano, la situazione peggiorò. Iniziò a diventare sempre più sensibile alla luce, tant'è che nelle sue stanze tutte le tende erano tirate e non era permesso portare nemmeno una candela per vedere nel buio. Gli venne la febbre, alta, che non scendeva con nessun rimedio. Medici da ogni parte del paese si succedettero per cercare di risolvere la malattia e dargli la guarigione, ma nessuno ebbe ragione del suo male sconosciuto.
    Mia madre in persona, che mai si sarebbe abbassata a fare un qualunque lavoro che non fosse fare la Regina, gli dava da mangiare ogni giorno, preoccupata per lui. Poi vennero la confusione, le convulsioni e le allucinazioni, il delirio. Ci scambiava per persone morte anni prima, ci diceva che eravamo noi ad ucciderlo, che insetti si nascondevano nelle sue coperte e lo pungevano di notte. Urlava, sbraitava parole senza senso, e un giorno, nonostante la debolezza, prese per il collo un domestico dicendo che il suo male era colpa sua, che lo aveva maledetto. Aveva gli occhi rossi, iniettati di sangue, le pupille dilatate. I miei due fratelli più piccoli smisero di andarlo a trovare, su ordine di nostra madre, dopo che Ottavia si mise a piangere durante una esplosione di collera di mio padre. Quel giorno dovettero legarlo per impedirgli di fare del male a sé stesso o a noi.
    Poi, dopo un paio di giorni di questa terribile agonia, mio padre si addormentò e non si svegliò più. Le campane suonarono per tutto il giorno, dando inizio al periodo di lutto e applaudendo il nuovo Sovrano. Mio fratello, il principe Daniel, era diventato improvvisamente re Daniel e padrone di tutta Viride. Il funerale fu lungo e triste. Il caldo continuava a essere atroce e i vestiti neri di certo non aiutavano. Seppellimmo nostro padre nella Cripta dei Re, sotto il castello, e improvvisamente realizzai che era davvero scomparso per sempre. Non mi avrebbe più spettinato i capelli né chiamato la “sua Principessa”. Non mi sarei più sentita dire che avevo ereditato la sua intelligenza e la bellezza di mia madre, e che sarei stata una Regina perfetta. Non mi avrebbe più detto che mi voleva bene.     Quel giorno e quella notte piansi molto.
    Poi, pochi giorni dopo la cerimonia di incoronazione di mio fratello, i medici che non avevano curato mio padre furono condannati a morte. I decreti presentavano la firma di re Daniel, ma era chiaro agli occhi di tutti che era la Regina colei che aveva preso la decisione. Tutti imputarono il fatto all'estremo dolore di aver perso il compagno di una vita e di essere diventata vedova, senza contare che l'incompetenza di quei dottori andava punita, quindi nessuno mosse ciglio. Questo episodio non mi stupì più di tanto: conoscevo mia madre e sapevo che poteva essere molto crudele. L'avevo sperimentato su me stessa più di una volta, durante i nostri litigi. Quando capitava correvo da mio padre e lui mi consolava, difendendomi davanti alla moglie e dandomi segretamente ragione. Ormai però lui non c'era più e nessuno avrebbe più difeso né me né il paese dalle stravaganze della Regina.
 
***
 
    Era ormai il luglio del 1632, un mese era passato dalla morte di mio padre. Mio fratello era partito alla volta di Dimina per conoscere Nerissa Auremore, sua futura sposa e figlia dei sovrani di quella regione. Io invece aspettavo che Edward Auremore, primogenito ed erede al trono di Dimina, si degnasse di venire a Viride per conoscermi, visto che sarei dovuta diventare sua moglie. Conoscevo di vista il principe Edward e diciamo che non mi aveva mai entusiasmato, avendo sempre di gran lunga preferito Alec a lui. Tutto questo, unito alla perdita di mio padre, mi aveva reso sempre più irrequieta e continuavo a fare pasticci a palazzo.     Quel giorno avevo lanciato il mio telo da cucito in faccia alla mia istruttrice e poi ero scappata: non mi fregava assolutamente nulla di imparare a ricamare e volevo che mia madre lo sapesse. Ebbene, lei lo seppe e il risultato non fu che smisi le lezioni di cucito, ma che fui messa in punizione e per quella sera non ebbi la cena. Mi aggiravo quindi come un'anima in pena per le stanze, mezza morta di fame, quando finii negli appartamenti di mia madre. Lei non c'era, era andata a messa nella cappella di famiglia portandosi dietro servi e gli altri figli, quindi nelle stanze non c'era nessuno e mi stupii non poco di trovare la porta aperta, visto che di solito in questi casi veniva chiusa a chiave.
    Era inusuale per me trovarmi in quegli appartamenti, c'ero stata davvero poche volte e sempre accompagnata. Mi guardai intorno incuriosita osservando il letto, i vestiti preziosi e ordinati, i gioielli posati sulle cassapanche, i pettini d'avorio e i fermacapelli d'argento. Mi spostai poi in un'altra stanza, che capii essere il luogo dove mia madre si faceva truccare e acconciare. Mi sedetti alla toeletta, guardando il mio riflesso nel grosso specchio davanti a me e frugando nei trucchi di mia madre. C'erano rossetti, polveri pregiate da mettere sugli occhi e altre cose che non avevo mai visto prima dato che non mi era stato ancora permesso truccarmi: tutti pensavano che fossi ancora troppo piccola.
    Notai, mentre frugavo in un cassettino, un paio di bacche sul ripiano, vicino a una boccetta piena di un liquido rossastro. Le presi in mano e le osservai. Sembravano mirtilli, e pensai che fossero caduti lì magari durante la colazione di mia madre, mentre si stava facendo truccare e pettinare. Li misi in bocca senza pensare visto che stavo morendo di fame. Curiosai ancora un po', poi misi tutto a posto e me ne andai, tornando nei miei appartamenti.
    Durante il tragitto iniziai a sentirmi strana, la bocca mi si fece più secca, la luce tenue delle torce iniziò a darmi fastidio. Pensai che fossero dolori e sensazioni passeggere, quindi non mi preoccupai più di tanto. Mentre camminavo mi cadde lo sguardo su uno specchio e vidi due pupille enormi e lucentissime, quasi stralunate, che mi fissavano dal vetro.
    Corsi a letto iniziando a essere leggermente spaventata, sperando che con una buona dormita il problema si sarebbe risolto, quando invece peggiorò solo. Sentivo i battiti del cuore aumentare e pensai che non avrebbe potuto continuare a battere così tanto ancora per molto, che mi sarebbe uscito dal petto o che sarebbe esploso. La pelle era bollente, mi sembrava di stare andando a fuoco. Provai a chiamare aiuto ma non c'era nessuno che potesse ascoltarmi e la voce faceva fatica a uscire, quindi rimasi a letto, terrorizzata, senza capire cosa mi stesse succedendo.
    Più tardi nella notte iniziai a vedere cose irreali, inquietanti: ombre passavano vicino al mio letto e fuori dalla finestra, serpenti strisciavano sul pavimento, insetti mi camminavano sulle braccia. Non chiusi occhio e il delirio mi accompagnò per tutte le ore di buio fino a che finalmente, quando ormai una timida alba colorava il cielo, mi addormentai.
    Mi svegliarono al mattino e mi accorsi in fretta che il letto era bagnato del mio sudore, però non sentivo più il battere furioso del cuore, né la sensazione di bruciore alla pelle, né vedevo cose strane per la stanza. Mi alzai in fretta e andai allo specchio guardandomi gli occhi in modo frenetico: le pupille erano tornate normali, alla dimensione e al colore abituali. Poi fu come se un lampo di luce mi accendesse la mente, illuminando ogni cosa con una luminosità feroce. I miei occhi erano sempre stati gli occhi di mia madre, di un verde smeraldo scintillante. La somiglianza si notava poco e il motivo risiedeva nel fatto che le pupille della Regina erano sempre molto grandi, nere e profonde, e limitavano il verde dell'iride in un piccolo circolo attorno ad esse. In un momento di confidenza, anni prima, mi aveva detto che nell'est, da dove veniva lei, le dame ricorrevano a numerosi espedienti per guadagnare quello sguardo, che le era valso il titolo di “regina dallo sguardo luminoso”.
    Riflettei poi su quello che avevo passato quella notte, a come ero stata e a cosa avevo visto. Era tutto molto simile a quello che aveva avuto mio padre nei giorni precedenti la sua morte: il bruciore alla pelle, la secchezza della bocca, la dilatazione delle pupille, il delirio, le allucinazioni. Realizzai che qualcuno aveva avvelenato mio padre probabilmente con le bacche -che sicuramente non erano mirtilli- che avevo mangiato la sera prima e, mentre pensavo queste parole, mi ricordai che mia madre aveva insistito per dare da mangiare personalmente al Re durante la malattia. Era sembrato solo un gesto premuroso ma in realtà non era così, lo stava avvelenando. Anche l'impiccagione dei medici non era casuale: bisognava impedire che qualcuno di loro riuscisse a sommare gli indizi e a capire di chi fosse la colpa. Nessuno lo aveva capito perché mia madre aveva mascherato il tutto con il suo dolore da vedova.
    “Mia madre ha ucciso mio padre” pensai sedendomi sul letto di schianto, paralizzata. Le mani mi tremavano e il viso che vedevo nello specchio in fondo alla stanza era mortalmente pallido. Cosa potevo fare? Scappare? Era fuori questione. Se la regina Celia era stata capace di organizzare l'assassinio del marito senza nessuna difficoltà allora anche i miei fratelli erano in pericolo. C'ero solo io a proteggerli, non avrei mai potuto abbandonarli in balia di quella fredda calcolatrice che mia madre si era rivelata essere e che, in fondo, sapevo fosse sempre stata. Il filo terribile dei miei pensieri venne interrotto dai domestici, che mi chiamarono nuovamente per la colazione. Mi vestirono e mi pettinarono, ma quando la servetta stava per andarsene per lasciarmi sola la fermai.
    – Lina, avrei piacere di truccarmi – le dissi, sperando di sembrare sicura di me e disinvolta, quando invece ero solo sconvolta.
    – Ma principessa, è presto per lei! Sua madre la regina non sarebbe d'accordo, ne sono sicura. –
    Scossi la testa, sperando di sembrare sconsolata.
    – Lo so, ogni volta che glielo chiedo la risposta è sempre la stessa. Però lei è così bella! Vorrei avere degli occhi come i suoi. –
    Lina mi venne vicina appoggiandomi la mano sulla spalla, nella speranza di consolarmi e sorridendo. Come se potesse importarmi della sua accondiscendenza o dei trucchi di mia madre. Il mio scopo era un altro visto che lei era la domestica che si dedicava spesso al trucco e all'acconciatura della Regina.
    – Principessa Camille, se posso dirlo lei ha già gli occhi di sua madre, sono esattamente dello stesso splendido verde. Vedrà che anche per lei arriverà il momento di potersi truccare. –
    Con aria disinvolta continuai il discorso.
    – Non dire bugie Lina. Conosco gli occhi di mia madre. Sono diversi dai miei. Sono più, come dire, luminosi e grandi. Tu sicuramente sai di che cosa parlo – dissi, nella speranza che Lina non mi dicesse quello che immaginavo.
    – Avete ragione, sono occhi particolari. Quello però è un segreto che solo la Regina possiede. Ogni giorno prima di presentarsi a corte si mette un collirio particolare: è talmente prezioso per lei che nemmeno a me è permesso toccarlo e quando vostra madre decide di usarlo è lei stessa a metterselo negli occhi. Si dice che sia fatto con un'erba tipica del suo regno d'origine, che permette di dilatare le pupille e rendere gli occhi più profondi e luminosi, ed è vostra madre in persona a produrlo, con delle bacche che si fa mandare appositamente dal padre. –
    Annuii in silenzio e poi la congedai. Avevo sentito quello che temevo ed ero ormai sicura che mia madre avesse sfruttato le proprietà di quelle bacche per uccidere mio padre il re, approfittando del fatto che qui fossero praticamente sconosciute. Ero angosciata. Cosa avrei potuto fare? A chi potevo chiedere aiuto? La Regina era una pericolosa assassina e non si poteva sapere chi sarebbe stata la sua prossima vittima. Mi alzai dal mio tavolo della toeletta con questi pensieri in testa, e fu con la morte nel cuore che scesi nella sala della colazione dove avrei incontrato la regina Celia, mia madre e assassina.
 
***
 
    Passarono due settimane terribili di incubi e angosce. Non mangiavo praticamente più nel terrore che il mio cibo potesse essere avvelenato e che avrei potuto fare la stessa fine di mio padre. Perché mia madre avrebbe dovuto fare una cosa del genere non lo sapevo, ma non mi fidavo comunque a mettere cibo in bocca.     Decisi che avrei dovuto prendere una decisione e denunciare mia madre. Aveva ucciso mio padre e, oltre al terrore per la mia vita e quella dei miei fratelli un altro sentimento si fece rapidamente strada dentro di me: l'odio.
    Odiavo i suoi falsi sorrisi, le sue movenze, il suo profumo, ma soprattutto odiavo i suoi occhi. Erano sempre lì a fissarmi, così simili ai miei ma allo stesso tempo così diversi, dilatati e innaturalmente profondi, come a volermi ricordare che erano gli occhi di un'assassina. Non riuscivo più a vivere. Ogni ombra era una minaccia, ogni suo gesto o parola nascondeva per me un pericolo. Non ero mai andata d'accordo con lei, litigavamo molto spesso soprattutto da quando non ero più una bambina, ed era molto difficile che ci rivolgessimo la parola o ci considerassimo. Mai però avrei potuto pensare che fosse capace di un gesto simile.
    Il mio problema più grande era capire a chi denunciarla. Nonostante tutto, era pur sempre mia madre. Per il regicidio la pena era la morte per decapitazione davanti alla gente di Elea e per nulla al mondo avrei voluto che le capitasse una cosa del genere. La soluzione migliore per lei era l'esilio: dal suo paese natio non sarebbe più stata in grado di nuocere. Pensai molto a come fare e una notte ebbi un'illuminazione. L'avrei denunciata al padre di Alec, Lord Arand, membro del Consiglio e fedele al Re. Un giorno quindi che era stato ricevuto a corte lo fermai e, in una stanza privata, lo misi al corrente delle mie scoperte, delle mie paure e soprattutto della soluzione che avevo escogitato: lui avrebbe dovuto prendere la Regina mia madre di sorpresa con dei soldati scelti e portarla fuori dalla città il prima possibile, per evitare che altro male venisse fatto.
    Lord Arand fu cortese, comprensivo e notevolmente stupito. Mi disse che avrebbe cercato di capire se i miei sospetti erano fondati e che solo allora avrebbe agito. Fino a quel momento avrei dovuto starmene tranquilla, comportandomi come al solito. Me ne tornai nei miei appartamenti convinta di aver fatto la cosa giusta. Quella notte però, successe l'irreparabile.
    Ho sempre avuto la mania di vedere le stelle prima di addormentarmi, soprattutto d'estate. Dalla mia camera ero solita uscire dalla finestra e arrampicarmi sul tetto, cosa che aveva sempre terrorizzato le mie domestiche. Ero lassù quando sentii il rumore inconfondibile di una spada sguainata che proveniva dalla mia camera. Mi immobilizzai, rendendomi conto del pericolo. Ci furono rumori concitati e riconobbi la voce di Lord Arand quando ordinò, probabilmente ai suoi uomini, che avrebbero dovuto trovarmi e portarmi dalla Regina madre. Aggiunse che se avessi cercato di lottare potevano costringermi con le cattive e che se mi fosse successo qualcosa non sarebbe stato un problema, visto che gli ordini provenivano direttamente dalla regina Celia.
    Dopo aver sentito queste ultime parole scappai. Corsi per i tetti, scalza, un po' piangendo e un po' singhiozzando, ed è un miracolo che non mi sia sfracellata cadendo per terra. Ero sconvolta oltre che dal tradimento di Lord Arand, dal tradimento di mia madre. Era così spregevole da voler sacrificare alla sua sete di potere oltre che il marito anche la figlia.
    Avevo paura, tanta, e l'unica soluzione che avevo per sfuggire al controllo della Regina era la fuga. Non sarei dovuta tornare mai più e mi sarei dovuta nascondere per tutta la vita, perchè ero sicura che non avrebbero mai smesso di cercarmi. Corsi più veloce che potei fino alle stalle, dove presi un cavallo a caso e dei vestiti che non fossero la vestaglia che indossavo. Scappai fuori dal palazzo, approfittando del fatto che non erano ancora stati dati allarmi e che, in periodi di pace come quelli in cui vivevamo, i cancelli rimanessero sempre aperti e le guardie non fossero troppo attente a chi passava per la via.
    Cavalcai per tutta la notte, sentendomi come un animale braccato. Il mio programma era di raggiungere Dimina, dove mio fratello era stato mandato da poco. Fuggii per giorni fino a che finalmente raggiunsi la città di Anadea, prima del confine, ed è lì che avrei incontrato il ragazzo che mi avrebbe salvato la vita.
 
***
 
    – Camille, tutto bene? –
    Una voce mi riscosse dai miei pensieri e quando scossi la testa per snebbiarmi la mente Marcus era davanti a me, guardandomi come se fossi improvvisamente uscita di testa. Non so dove, trovai la forza di sorridergli. Non mi piaceva ricordare tutto quello che mi era capitato.
    – Sì, tutto bene. Hai finito con la tua lettera? –
    – Finito, adesso devo solo spedirla. Che tu sappia c'è un posto qui da dove posso farlo? –
    Gli dissi di seguirmi, e uscimmo nel sole fuori dalla locanda. Feci un bel respiro, riempiendomi i polmoni di aria pulita e calmandomi. Ci incamminammo e, mentre mi seguiva, iniziò a parlarmi del più e del meno, come se non fossi una Principessa ma semplicemente una sua vecchia amica. Mentre lo ascoltavo sorrisi di nuovo, questa volta spontaneamente, felice che nel mondo ci fosse almeno una persona di cui potessi fidarmi.

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Capitolo 6
*** VI ***


CAPITOLO VI

 

CAMILLE

 

Dopo aver spedito la lettera io e Marcus aspettammo. All'alba del terzo giorno decidemmo di allontanarci dal villaggio sepolto nella foresta per dirigerci verso il punto di incontro con gli altri Assassini. In tutto questo tempo mi stupii di quanto bene mi trovassi con Marcus. Parlammo di molte cose: del passato, del futuro, dei nostri sogni e dei nostri desideri, e mai con nessun altro avevo avuto un'intesa del genere. La cosa oltre a meravigliarmi mi fece preoccupare non poco, perché di tutto avevo bisogno tranne che di prendermi una cottarella per un Assassino del Re, non importava quando bello, intelligente e simpatico fosse.
    Decisi quindi in pochi momenti di tenere a bada i miei pensieri e di uccidere, se così si poteva dire, le farfalle che da un paio di giorni a quella parte sentivo ronzarmi fastidiosamente nello stomaco. Arrivai ad un punto in cui mi arrabbiai persino con me stessa: come cavolo era possibile iniziare a provare qualcosa per qualcuno in così poco tempo? Non sono mai stata una ragazza “leggera” e gli ultimi sentimenti che non fossero di indifferenza o di mera curiosità che mi ricordavo di aver provato per un individuo del sesso opposto erano stati rivolti ad Alec. Quello stesso Alec il cui padre mi aveva tradita in maniera così brutale e inaspettata.
    Nei due anni passati avevo avuto problemi di tutt'altro tipo. Decisi quindi di ignorare le mie emozioni e di farmi passare al più presto quella inutile sensazione, che non serviva a nulla se non a complicarmi ulteriormente la vita. Come se ne avessi bisogno. E poi avevo cose più importanti a cui pensare che non alla mia vita amorosa.
    Cavalcammo per una giornata fino ai confini della Foresta della Luce e ci fermammo per dormire all'addiaccio fuori da una piccola cittadina al limitare del bosco. Proposi di fare dei turni di guardia visto che c'erano ancora persone, sebbene poche, che mi cercavano, e come si dice la prudenza non è mai troppa. Marcus si dichiarò d'accordo e, anche se non lo disse, sapevo benissimo che aveva la sensazione che i cavalieri di Sir William di Hale lo stessero ancora cercando per fargli la pelle.
    La notte passò tranquilla e il mattino seguente ci dirigemmo verso il paesino, più precisamente verso la piazza principale, sempre che piazza la si potesse chiamare. Era più un piccolo spiazzo di terra battuta al cui centro stavano delle recinzioni che ospitavano mucche e pecore, e sia il rumore che l'odore erano terribili. Aspettammo lì per buona parte del pomeriggio, senza che nessuno si facesse vivo.
    Tornammo il mattino dopo e di nuovo aspettammo fino a che, dopo un paio d'ore, tre persone si avvicinarono a noi dalla via principale, rilassate e portando i cavalli per la briglia. Mi voltai a guardare Marcus e vidi che aveva un ghigno stampato sul viso, da che capii che si trattava finalmente dei suoi amici. Se l'erano presa abbastanza comoda.
    – Ehilà Marcus, qual buon vento! Anche tu qui? – disse uno dei tre, quando furono abbastanza vicini da sovrastare i muggiti e i rumori dei campanacci che provenivano dal recinto dietro di noi.
    – Anche io sono felice di vedervi ragazzi – disse Marcus e nel contempo portò una mano sulla spalla di uno di loro, in un gesto amichevole. Passò qualche minuto di conversazione banale, in cui si presero in giro, si scambiarono battute e parlarono di amenità. In tutto ciò io stavo lì, in silenzio, a braccia incrociate, aspettando che Marcus decidesse di presentarmi o almeno desse segno di ricordarsi della mia presenza. Ebbi però il tempo di osservarli bene e decisi che così, a prima vista, quei ragazzi mi piacevano. Non avevano alcun rispetto per gli orari, ma erano tutti alti e ben piazzati, con un fisico che ricordava molto quello di Marcus, e sembravano sicuri del fatto loro. Li guardai uno per uno.
    Il primo, quello che ci aveva salutati appena arrivato, aveva lucenti capelli argentati e intensi occhi blu. Sembrava sicuro di sé e aveva un viso con dei lineamenti molto delicati, come se fossero cesellati. Rideva ad alta voce ed era decisamente rumoroso, noncurante del fatto che qualcuno avrebbe potuto notarlo facilmente visto che comunque sia io che, momentaneamente, Marcus, eravamo ricercati. Non propriamente il ritratto dell'Assassino che uno potrebbe immaginarsi, mentre era più il tipo di ragazzo per cui una ragazza avrebbe fatto follie e devo ammettere che era davvero un piacere per gli occhi guardarlo.
    Di fianco a lui c’era un ragazzo di poco più basso ma comunque ben proporzionato, con espressione contenta e un sorriso solare sul viso. Mi dava l'impressione di essere molto dolce, tranquillo e serio, e gli Dei solo sapevano quanto bisogno avevamo di serietà in quello che ci accingevamo a fare. In qualche misura mi ricordava il mio fratellino più piccolo, William, e un sorriso mi si aprì sul volto. I capelli castani erano raccolti in un codino, e gli occhi ambrati brillavano di intelligenza.
    L'ultimo ragazzo era un po' più indietro ed era l'unico che da quando eravamo arrivati mi aveva osservato con insistenza, analizzandomi. Sostenni il suo sguardo senza preoccuparmi, con baldanza, anche se devo ammettere che nel profondo ero un po' intimorita da tutta quella attenzione. Era molto serio e solo quando si riunì alla conversazione dei suoi amici si lasciò andare, aprendosi in un sorriso che ne ammorbidì i lineamenti. Solo allora mi resi conto di aver trattenuto il fiato e lasciai andare un sospiro mentre continuavo a osservarlo. I capelli biondi ricadevano sugli occhi verde scuro, quasi neri, e ogni tanto se li scostava con un colpo deciso delle mani. Aveva dei lineamenti molto duri, ma stranamente armoniosi e belli, anche se un poco inquietanti. Dei quattro, mi sembrava quello più spaventoso, uno che avrei avuto paura a incontrare di notte in un vicolo buio.
    – Allora, spiegaci. Perché ci hai fatto correre fino a qui con così tanta urgenza? – chiese a Marcus il ragazzo con gli occhi color ambra.
    – E soprattutto dicci chi è questa bella donna che ti porti dietro – aggiunse quello con i capelli argentati, guardandomi. Io alzai le sopracciglia e incrociai le braccia, pensando che, Assassini o no, i maschi sono sempre uguali. Marcus rise di una risata leggera, indicandomi.
    – Lei, signori, è Camille Coverano, Principessa di Viride. –
    La prima cosa che vidi nei loro occhi fu incredulità, seguita da sgomento. Poi il ragazzo dagli occhi blu si mise a ridere, guardandomi.
    – Sicuramente! – esplose. Smise di sghignazzare solo quando si accorse che né Marcus, né io e nemmeno gli altri due ci eravamo uniti alle sue risate.
    Il ragazzo con i capelli castani invece chinò graziosamente la testa.
    – Principessa Camille, sono onorato di fare la vostra conoscenza. Il mio nome è Andreas; l'indelicato, qui, – e indicò il ragazzo che aveva appena smesso di ridere e mi guardava come se avesse visto un fantasma. – È Jared, mentre lui, – disse, mettendo una mano sulla spalla del ragazzo biondo e inquietante. – È Mel. –
    – Il piacere è tutto mio, Andreas. Sono lieta di conoscervi, Marcus mi ha parlato tanto di voi. –  
    Ero stupita da tanta cortesia. Da un gruppo di Assassini mi sarei più che altro aspettata battute volgari e pacche virili sulle spalle. Marcus in tutto questo ridacchiava tra sé e sé, scuotendo la testa e guardando Jared con l'espressione di chi ha perso le speranze.
    – Vi prego però di chiamarmi solo Camille. E datemi pure del tu, direi che in questo caso non c'è bisogno di rispettare l'etichetta – continuai.
    – No, direi di no. Però, Marcus, tralasciando lo stupore provocato dall'apparizione di sua Altezza Reale qui, spiegaci cosa sta succedendo per averci fatto chiamare con così tanta urgenza – precisò il ragazzo biondo. Mel, mi ricordai, si chiamava Mel. Era la prima volta che parlava e aveva un tono calmo, controllato, serio, molto diverso da quello che mi sarei aspettata da uno come lui. Mi tranquillizzò enormemente e non saprei dire perché. Notai distrattamente che aveva una lunga cicatrice biancastra sul lato destro del collo, che immaginai essere stata provocata dal lavoro poco ortodosso che quei quattro facevano da quando erano ancora dei bambini.
    – Sicuramente. Ma questo forse non è il posto adatto. Spostiamoci fuori dalla città, lontani da occhi e orecchie indiscrete, che ne dite? – propose Marcus e tutti annuirono, me compresa. Avevamo rischiato molto entrando nella cittadina visto che di solito le persone non tendono a farsi gli affari propri, soprattutto quando cose strane accadono sotto i loro occhi. La curiosità è una brutta bestia. Dopo mesi passati al sicuro nella Foresta della Luce tutto quello spazio abitato da gente sconosciuta mi metteva poco a mio agio, una sensazione di pericolo imminente mi pesava sulle spalle.
    Ci dirigemmo quindi con mio enorme sollievo di nuovo verso il limitare del bosco, posto che di solito si tendeva a evitare per paura di briganti e fantasmi. In tutto questo il mattino si faceva sempre più inoltrato e la calda luce dell'autunno colorava gli alberi e i prati. Mentre pensavo ai miei problemi e agli affari miei, venni avvicinata dal ragazzo di nome Andreas, che rallentò il passo per distanziarsi dai suoi amici poco davanti a me. Solo dopo che qualche minuto fu passato si decise ad aprire la bocca, forse per interrompere il silenzio imbarazzato che si era venuto a creare. Non che a me i silenzi diano fastidio, anzi. Appartengo a quella categoria di persone che di solito li cercano nelle conversazioni per riposare la mente e organizzare le idee. 
    – E quindi voi siete la principessa Camille, – si fermò, guardandomi come alla ricerca di qualcosa da dire. – Nei bandi per la vostra ricerca avevate i capelli rossi. –
    – Questo non è il mio colore naturale, li ho tinti molto tempo fa, su consiglio di Marcus. E dammi del tu, davvero. –
    – Sì, scusami, la forza dell'abitudine. Hai fatto bene, sei meno riconoscibile così. –
    – Lo so. Ma dubito che tu sia qui per parlarmi del colore dei miei capelli, o sbaglio? –
    Ridacchiò e la cosa gli fece onore. Poco distante da noi Marcus, Jared e Mel chiacchieravano amabilmente, ridendo ogni tanto e portando a mano i loro cavalli.
    – Hai ragione. Voglio solo assicurarmi che tu non ci stia ingannando tutti. Marcus è intelligente, ma ha un debole per le belle ragazze, soprattutto se queste sono in difficoltà.     Ha una sorta di tendenza a fare l'eroe delle storielle romantiche. Sai, tipo principe azzurro che salva la donzella dal mago cattivo. Non vorrei mai che tu ti stia approfittando del suo buon cuore. –
    Risi io questa volta, soprattutto perché mi immaginai Marcus in calzamaglia azzurra che cercava di scalare una torre per salvare una damigella urlante. Però mi stupì molto la sincerità di Andreas, in un modo del tutto positivo. Non sono molti quelli che hanno il coraggio di venirmi a chiedere conferme quando affermo di essere la primogenita dei Coverano. Ma forse c'entra il fatto che le persone a cui lo abbia detto si contano sulle dita di una mano.
    – Non mi ci vedo nel ruolo di pulzella in pericolo. E mi dispiace, ma sono davvero chi dico di essere. Non fosse così vivrei con molta più tranquillità la mia vita e di sicuro non avrei il desiderio di mettermi in situazioni suicide, fidati. –
    Lui annuì, accarezzando il muso del suo cavallo.
    – Mi fido, ma era una possibilità che dovevo verificare. Immaginavo già da un po' che due anni fa a Marcus fosse capitato qualcosa di strano, ma mai avrei pensato una cosa del genere. Incontrare, tra tutte le persone del mondo, proprio te. E decidere di lasciarti andare. Non mi stupisce il fatto che al suo ritorno fosse particolarmente silenzioso. Deve essere rimasto molto colpito dalla tua storia, visto che non ne ha fatto parola nemmeno con noi. E noi parliamo di tutto. –
    – Quindi non sei particolarmente stupito? –
    Lui rise. Aveva davvero una bella risata, piena e solare, che ti faceva venire voglia di unirti a lui.
    – Sì, sul momento mi sono estremamente stupito. Ma pensandoci bene in fondo in fondo mi aspettavo qualcosa del genere. Mi sarebbe solo piaciuto sbagliarmi, per una volta. –    
    Lasciai correre la palese arroganza dell'ultima frase e abbandonammo l'argomento, iniziando a parlare del più e del meno. Ero stranamente a mio agio e Andreas sembrava interessarsi alle mie idee e ai miei pensieri in un modo che mi invogliava a parlare con lui e a confidarmi. Gli dissi delle cose che difficilmente avrei raccontato ad un ragazzo conosciuto da nemmeno venti minuti e che nessuno oltre me sapeva, ma mi ispirava fiducia. Lui, invece, mi raccontò della sua vita prima di diventare Assassino, e apprezzai davvero molto che avesse deciso di parlarne con me. Avrebbe benissimo potuto evitare. Continuammo quindi a chiacchierare amabilmente fino a che raggiungemmo il limitare del bosco.
    Entrammo nella foresta e, dopo aver cercato un posto adeguato, ci sedemmo su alcuni massi che stavano lì e che sembravano quasi messi apposta. Lasciammo liberi i cavalli di pascolare tranquilli poco distante da noi, brucando l'erba e nitrendo piano.
    – Allora, adesso che siamo seduti e non c'è il rischio che nessuno ci ascolti, ci volete spiegare? – chiese Jared, guardando alternativamente me e Marcus. L'Assassino mi guardò e io annuii con il capo per dargli il permesso di raccontare, anche perché tutto volevo tranne che ripetere di nuovo la mia storia. Preferivo ascoltare.
Marcus disse tutto quello che sapeva, non omettendo nulla, partendo dal nostro primo incontro due anni prima fino ad arrivare a quello che gli avevo detto quando lo avevo liberato dalla prigione del villaggio nascosto. Ogni tanto intervenivo giusto per precisare qualcosa o per aggiungere qualche dettaglio, ma in linea di massima se la cavò bene.
    Nel frattempo osservai le facce dei nostri interlocutori, le cui espressioni variavano da una curiosità moderata, all'incredulità, all'orrore, allo sconvolto. Potevo capire e comprendere ognuna di queste emozioni. Sentirsi franare addosso tutte le informazioni che Marcus gli stava dando non doveva essere una cosa troppo facile da gestire. Solo in quel momento mi resi conto di quanto Marcus stesso avesse dato prova di un autocontrollo non indifferente quando gli avevo raccontato ciò che sapevo, visto che aveva ascoltato tutto senza alzarsi e strepitare o dandomi della bugiarda.
    Finito il monologo ci fu silenzio. Un silenzio protratto, in cui si sentivano solo il rumore del vento tra gli alberi e dei cavalli poco distanti da noi. Capii che serviva loro un po' di tempo per pensare bene a tutto quello che avevano appena ascoltato, per metabolizzare, cercare di capire e, soprattutto, decidere se fidarsi. Non un affare da poco. Marcus mi aveva già conosciuta e sapeva chi ero, per loro invece ero semplicemente una ragazza che diceva di essere Camille Coverano e meditava un colpo di stato. Avrei potuto essere una pazza con manie di protagonismo che aveva deciso di approfittarsi di loro. Dopo minuti spesi a guardare i fili d'erba, mentre una sgradevole sensazione di ansia si faceva strada dentro di me, interruppi il silenzio.
    – Allora, mi aiuterete? –
    Tre paia di occhi si sollevarono, non per guardare me ma verso Marcus, in una muta richiesta.
    – Io mi fido di lei e ho deciso che, per quanto sarà in mio potere, la aiuterò. Voi potete fare quello che volete, non c'è nessun obbligo. Se decideste di non aiutarci, amici come prima. Vi chiedo solo, in questo caso, di non raccontare a nessuno ciò che è stato detto qui. –
Jared sbuffò.
    – Se tu ti fidi, noi ci fidiamo. Ci saremo dentro insieme, come sempre. –
    Andreas annuì, sogghignando e guardandomi. Persino Mel, che avevo capito essere il più laconico, si fece scappare un “come sempre” convinto. Tirai un sospiro di sollievo, rilassando i muscoli delle spalle. Non mi ero nemmeno resa conto di quanto fossi tesa. Avevo davvero bisogno del loro aiuto, più di quanto mi piacesse ammettere.     Ma c'era ancora una precisazione che andava fatta.
    – Devo dirvelo: quello che stiamo facendo è tradimento e la pena per il tradimento è la morte. Siete pronti a correre il rischio? –
    Le mie parole caddero come un sasso nell'acqua e solo quando i cerchi immaginari scomparvero fu, stranamente, Mel a rispondermi.
    – È tradimento solo se non otteniamo ciò che vogliamo. –
    Stupida io che avevo pensato che lo spauracchio della pena capitale potesse far cambiare idea a uomini come loro. La morte era il loro mestiere, erano abituati ad affrontarla senza eccessiva preoccupazione da sempre.
    – Allora, qual è il piano? –
    – Ecco, bella domanda – dissi. Non sapevo nemmeno da che parte iniziare. Mi ero sforzata di dare l'immagine di una donna sicura di sé quando invece non sapevo niente ed ero anche piuttosto agitata. Sperai che questo non influisse troppo sull'idea che si erano fatti di me.
    – Ragioniamo, – iniziò Marcus. – Sappiamo che qualcosa si sta muovendo tra qui e Dimina. Mobilitazioni di eserciti, esercitazioni, genieri che vengono richiamati e così via.     Sappiamo che molto probabilmente la Regina ha le mani in pasta tutti questi affari. Dobbiamo trovare delle prove, convincere qualcuno del Consiglio che siamo in buona fede e che è tutto vero, e tirarla giù dal trono. A cui peraltro sembra attaccata come una cozza allo scoglio. –
    – Più facile a dirsi che a farsi, – si intromise Jared. – Se sono un minimo intelligenti non ci saranno prove tangibili. Dovremo ottenere delle confessioni, per forza, ma non saprei da chi poter incominciare. Insomma, non possiamo entrare a palazzo e prendere prigioniera la Regina, no? –
    – Direi di no. Potrebbe essere un pochino difficoltoso – dissi ironicamente, anche se il pensiero di mia madre imprigionata e resa impotente mi rendeva più felice del dovuto.
    – E poi trovalo un nobile che non sia schierato dalla parte della regina. Sono solo trenta, se li sarà scelti bene. Probabilmente li paga perché non siano di troppo intralcio – aggiunsi.
    – A quello penseremo quando avremo trovato qualcosa che possa dimostrare ciò che sta succedendo. Una cosa per volta – si intromise Andreas.
    Iniziammo in fretta a discutere sul come avremmo fatto a trovare le prove che ci servivano e per questo avevamo cinque opinioni diverse. I toni di voce salirono e iniziammo a parlare uno sopra l'altro per imporre la nostra idea e per farci ascoltare. Eravamo solo cinque e stavamo facendo un macello. Un inizio così non prometteva per niente bene.
    – Aspettate. Stiamo considerando la questione dal punto di vista sbagliato. –
    Andreas aveva parlato e tutti si zittirono di colpo, così che quella che stava urlando come una disperata ero solo più io. Tacqui in fretta e Marcus mi si avvicinò, bisbigliandomi in un orecchio che quando Andreas aveva un'idea la cosa migliore da fare per tutti era ascoltare, perché di solito aveva le soluzioni di tutti i problemi.
    – Non possiamo prendere in considerazione di dimostrare a tutti che una guerra sta per scoppiare, sarebbe troppo complicato e troppo lungo. E poi, visto che Viride sarebbe dalla parte vincente, nessuno ci troverebbe nulla da ridere. Abbiamo bisogno di una soluzione tempestiva, – tacque per qualche istante. – Secondo me dobbiamo concentrarci sull'omicidio all'interno della famiglia reale. È l'unica cosa che possa scandalizzare a sufficienza da generare una reazione. –
    – Ma non sappiamo se sia stato davvero organizzato dalla Regina – obiettò Mel.
    – Non ne abbiamo la certezza ma io sono abbastanza sicuro che sia tutto opera sua. Pensateci! É l'unico membro della famiglia reale che era in vita sia al momento della morte improvvisa e sospettosa del Principe ereditario e dei due figli, sia quando re Jerome è stato, come provvidenzialmente provato da Camille, ucciso. E sempre Camille ha dimostrato che il Re è stato senza dubbio avvelenato da lei. Credete davvero che una donna in grado di uccidere marito e figlia non possa ordire l'omicidio del cognato? –
    – Ah, io non avevo dubbi su questo – commentai. Ero sicurissima che la colpa di tutti quegli assassini ricadesse su mia madre. Se fosse stato per me le avrei anche accollato il suicidio di Helen, di cui non era responsabile a livello effettivo mentre lo era sicuramente a livello morale.
    – E poi, – continuò Andreas. – Mi pare di aver capito che la regina Celia sia molto molto ambiziosa. Con la morte provvidenziale di Adrian Coverano e figli, il cui nome ora mi sfugge... –
    – Ian e Nathaniel – gli suggerì Mel, stupendomi molto visto che mai avrei pensato che conoscesse i nomi dei morti della mia famiglia. Non si parlava di loro da anni, né a corte né tanto meno nelle città, e nessuno si cura particolarmente di persone venute a mancare anni prima. I veri problemi erano altri, come avevo avuto modo di capire.
Andreas zittì Mel con un cenno delle mani, continuando a parlare. Aveva un sorriso stampato sul volto e negli occhi una luce eccitata.
    – Sì, va bene, chi se ne frega. Il fatto è che con le loro morti è salita al trono come Regina. Mi sembra un fattore rilevante. E da allora ha cercato di mantenerlo e di estendere il proprio dominio. –
    Ci fu un momento di silenzio attonito, pensoso. Erano tutte cose a cui avevamo già pensato, sia io che Marcus.
    – A questo ci eravamo già arrivati, – sopraggiunse Marcus, accigliato. – Non vedo dove sia la grande soluzione. –
    – Ma non capite? Dimostrando che la Regina è la mandante di tutti quegli omicidi la rendiamo colpevole di uno dei crimini più odiosi che si possano commettere. Non credo potremo mai ottenere le prove dell'uccisione di re Jerome visto che i medici non hanno riscontrato nemmeno una traccia di avvelenamento e sono tutti diventati cibo per i corvi. È probabile che la regina abbia fatto tutto da sola, senza aiuti, e allora sarebbe la nostra parola contro la sua; ma forse possiamo risalire a chi sa qualcosa della morte di Adrian Coverano e famiglia. –
    – Intendi l'uomo di Dimina? La guardia che ha catturato Camille? –
    – Proprio lui. E c'è di più – continuò.
    – Che c'è di più? Sappiamo da dove iniziare, a me basta questo – disse Jared ridendo e dando ad Andreas una pacca sulla spalla.
    – C'è di più perché possiamo sfruttare il fatto che una guerra stia per scoppiare. Andando ad avvisare i regnanti di Cesia, Albis e Semele potremo garantirci un appoggio in caso di colpo di stato, che è, in effetti, quello che stiamo andando a fare. –
    Il tutto aveva molto senso, ed espressi ad alta voce la mia opinione. Ero favorevolmente stupita da quei quattro. Iniziai finalmente a sperare che forse sarei riuscita ad ottenere ciò che volevo ed era mio di diritto. Una speranza, una sola, tenue e fioca, ma pur sempre una speranza. Era più di quanto avevo da molto tempo a quella parte.
    – Quindi... Dimina? – chiesi, con un sorriso sul volto. Da preda, mi stavo trasformando a cacciatore.
    – Dimina – mi rispose Marcus, sorridendo.

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Capitolo 7
*** VII ***


Ciao a tutti! Chiedo perdono per il ritardo, ma purtroppo la sessione esami incombe e quindi il tempo da dedicare alla scrittura è diminuito. Spero però che questo non abbia rovinato il capitolo, che è venuto (stranamente) più lungo del solito, anche se non capisco tanto bene perché. Comunque, oltre tutte le mie paranoie, non mi resta che augurarvi buona lettura!


CAPITOLO VII

MARCUS

 
Dire che il viaggio per Dimina è stato terribile è riduttivo. Dalla Foresta della Luce ci spostammo a gruppi di due verso Eleusi, città portuale, e fino a lì le cose andarono bene. Nessuno ci diede fastidio e non incontrammo troppi problemi, a parte un ferro di cavallo perduto da qualche parte; tutto sommato fummo anche abbastanza rapidi.
    Il tragico iniziò quando prendemmo la nave. Il nostro capitano, un uomo burbero, grasso e anche abbastanza puzzolente, ci fece pagare il nostro peso in oro per trasportarci. Ci dovemmo piegare a quel furto solo perché sembrava un uomo abbastanza privo di scrupoli da poterci dare un passaggio senza visto e senza crearci problemi, cose che, al giorno d’oggi, non devono essere sottovalutate.
    Il vero inferno è stato per mare. Fortunatamente tra Viride e Dimina ci sono solo un paio di giorni di viaggio, ed era un tragitto che bene o male io e i miei amici avevamo già percorso. In autunno però il mare non è calmo come d’estate, ma anzi, sembra desideroso di sbatterti negli abissi e di lasciarti lì. Ci siamo fatti sballottare per due giorni da una parte all’altra dell’indecente bagnarola su cui ci trovavamo e stare in sottocoperta equivaleva a voler morire di nausea o, in alcuni casi, annegati nel proprio vomito.
    Persino alcuni membri dell’equipaggio ci dissero che, per il periodo in cui eravamo, trovare un mare così agitato era un evento eccezionale, ma loro in una situazione del genere ci sguazzavano. Noi cinque, invece, eravamo messi un po’ peggio. Camille era di un colore verde decisamente malato e fissava con occhi stralunati il ponte, forse nella speranza di indurlo a rallentare il suo ondeggiamento. Ogni tanto faceva un respiro molto profondo, probabilmente per tenere a bada la nausea. Inutile dire che la sua regalità andò tutta a farsi benedire ­ –è difficile farsi vedere come un dio sceso in terra quando il tuo vomito ha lo stesso colore del mio– ma questo contribuì solo a farla vedere più umana. Il suo colorito verdastro però non intaccava la sua bellezza, almeno per me. Anche se forse un incarnato più roseo le sarebbe stato meglio.
    Jared, che soffre i viaggi in mare persino quando questo è una tavola, vomitava a getto continuo. Giuro, non ho mai visto una cosa del genere e gradirei non vederla di nuovo. Sembrava inarrestabile. Dopo i primi momenti di sfottò abbiamo persino iniziato a preoccuparci e a provare pena per lui: ha passato due giorni praticamente appeso alla paratia, senza riuscire né a mangiare né a bere. E a differenza di Camille la sua bellezza ne risentiva eccome: dubito che qualche ragazza avrebbe potuto trovarlo affascinante in quelle condizioni.
    Andreas aveva perennemente in mano una cima per evitare di cadere fuori bordo, e questo la diceva lunga. Aveva persino assicurato Jared all’albero maestro, per impedire che in una delle sue acrobazie per evitare di vomitarsi addosso non finisse in mare con tutte le scarpe. Anche perché poi trovarlo con un tempaccio del genere sarebbe stata un’impresa non da poco. Però in generale Andreas sembrava sopportare bene, anche se non mangiò nulla per tutto il tempo della traversata.
    Io, dal canto mio, ero stato in situazioni migliori. Non ho mai patito particolarmente il mal di mare, ma in quelle condizioni sentivo lo stomaco in gola e un gusto amaro mi saliva in bocca. Vomitai un paio di volte, in silenzio e orgogliosamente da parte, per evitare che qualcuno, o forse solo Camille, mi vedesse. Il tutto era reso ancora più fastidioso dal fatto che i dannatissimi marinai zompettavano sul ponte e saltavano da una cima all’altra come se fossero delle maledette scimmie. Nessuno di loro, a differenza nostra, era verdino, e sono sicuro di non averne visto nemmeno uno vomitare, anzi. Bevevano per tutto il tempo come delle spugne, asciugandosi poi la bocca sulle maniche e tornando a fare quello che stavano facendo con scioltezza. Il comandante ogni tanto usciva dalla sua cabina con in mano una bottiglia, osservava la situazione, urlava qualche ordine e se ne tornava da dove era arrivato.
    Di noi, quello messo meglio invece era Mel. Se ne stava appoggiato davanti alle cabine, ondeggiando insieme alla barca, senza dare segni di disagio. Parlò poco, quello sì, ma non che Mel sia mai stato un grandissimo chiacchierone. Guardava il mare quasi con sprezzo, e si puliva le unghie con un coltello. Un paio di volte Jared gli disse di fare attenzione, che rischiava di perdere un dito, ma fu sempre interrotto da improvvisi conati di vomito. Non una cosa bellissima da vedere. Mel invece non perse nessun dito e riuscì persino a mangiare; in più, quando la bottiglia di rum dei marinai gli passava davanti, non disdegnava di darci un sorso. A me al solo pensiero si attorcigliava lo stomaco, ma Mel ha sempre avuto più stomaco di tutti noi messi assieme per l’alcol.
    Quando finalmente iniziammo a intravedere in lontananza una parvenza di città, tirammo tutti un sospiro di sollievo. Jared riuscì a resistere un paio di minuti senza rimettere e andò quasi immediatamente a sdraiarsi un attimo, per recuperare un po’ di sonno. Andreas sciolse le cime che lo legavano e andò a fare due chiacchiere con i membri dell’equipaggio, e Camille si accasciò su una panca davanti alla cabina del capitano. Mentre io guardavo il panorama –Dimina è sempre stata una terra bellissima­­– Mel mi si avvicinò.
    – ­Lo sai vero, quello che dobbiamo fare? –
    – Illuminami – gli dissi guardandolo, anche se sapevo già cosa volevo dirmi.
    – Bisogna uccidere il capitano. –
    Sospirai. L’avevo già pensato nel momento in cui l’avevamo pagato. Un uomo come quello, che ci aveva trasportato in maniera illegale senza battere ciglio solo grazie al denaro, difficilmente si sarebbe fatto problemi a venderci per una somma maggiore. E oramai io e i miei amici eravamo sicuramente ricercati dalla Corporazione, visto che mancavamo all’appello da più di una settimana e non c’erano state assegnate missioni troppo difficili. Avrebbero iniziato a cercarci e quando si tratta di disertori l’Alto Comando non bada a spese.
    – Dici che ha capito che nascondiamo qualcosa? – domandai a Mel. Per precauzione avevamo dismesso i vestiti neri della Corporazione per qualcosa di più sobrio e meno riconoscibile, ma forse non era bastato.
    – È brutto, Marcus, ma non credo sia anche stupido. Appena gli arriverà la notizia che siamo ricercati, perché sai meglio di me che gli arriverà, farà due più due. E così noi saremo tutti morti mentre lui si godrà bellamente i soldi nostri e quelli del Comando. ­–
    Chiusi gli occhi. Non mi è mai piaciuto uccidere così a caso, soprattutto innocenti. Per quanto losco e imprevedibile potesse essere, il capitano si era comportato correttamente con noi e ci aveva portato a Dimina sani e salvi anche se, almeno nel caso di Jared, con un buon numero di liquidi in meno nel corpo. Però sapevo che Mel aveva ragione, non potevamo rischiare.
    – E immagino che debba farlo io il lavoro sporco, vero? – mi uscì una voce più lagnosa di quanto avrei voluto.
    – Beh, ci hai tirato tu in questa storia, – mi disse Mel, ridacchiando e dandomi una pacca sulla spalla. – Se hai bisogno di aiuto fai un fischio. –
    Sbuffai di nuovo, incrociando le braccia e appoggiandomi alla paratia, guardando il mare e pensando. Avrei aspettato l’attracco e la discesa a terra prima di agire. Non mi piaceva l’idea di ucciderlo ancora sulla nave, i marinai di sicuro si sarebbero fatti domande. I marinai… chi ci garantiva nulla sul loro conto? Avrebbero potuto benissimo tradirci loro, senza passare tramite il capitano. Nessuno avrebbe potuto impedirglielo e io non potevo di sicuro fare una carneficina. Non che non ne avremmo avuto le capacità se ci fossimo messi tutti e quattro, ma mi sembrava un tantino eccessivo. Potevamo solo contare sul loro silenzio, sperare che sarebbero stati grati che qualcuno gli togliesse un rognoso capitano dai piedi, e soprattutto pregare che non collegassero mai i nomi dei ricercati ai nostri. In effetti, loro non sapevano chi eravamo. Non eravamo quattro, come i ricercati dal Comando, ma cinque, con una donna. Ignoravano che non avessimo presentato documenti, quindi probabilmente nelle loro teste era tutto a posto. Non si sarebbero fatti troppe domande, ne ero abbastanza sicuro.
    Questi pensieri mi impegnarono tutto il tempo impiegato per avvicinarci al porto. La città di Melusine è la capitale d’estate di Dimina e gli Auremore si stabiliscono qui solo in quel periodo.
    Il porto, come tutti i porti, era pieno di persone di tutte le razze che correvano da una parte all’altra. C’erano uomini del nord, grandi e barbuti; c’erano uomini e donne dei paesi del sud, vestiti di sete sgargianti e con eleganti portantine dove sedersi; c’erano bambini vestiti di cenci che scorrazzavano tra gli adulti e di sicuro quella sera qualcuno si sarebbe trovato con il borsellino alleggerito.
    Tra i pontili di legno alcuni venditori urlavano per pubblicizzare le proprie mercanzie, fondamentalmente ostriche e frutti di mare. Appena prima dell’inizio delle case, guardie a cavallo controllavano i passanti. Donne portavano vasi sulle teste e il profumo del mare si mischiava all’odore della città. Dietro al bailamme del porto si intravedevano il rosso dei tetti e il bianco delle case.
    Alla nostra sinistra, in lontananza, un ponte di pietra ad arcate portava ad un isolotto su cui sorgeva un palazzo enorme, che luccicava nel sole del pomeriggio e mandava il riflesso del marmo sull’acqua intorno. Guglie si stagliavano verso il cielo e un bagliore dorato mi ferì per un attimo la vista: era l’enorme angelo vendicatore che stava davanti al castello, simbolo della famiglia reale. Si diceva che facesse la guardia agli Auremore e che, quando cadrà, allora lo seguirà nelle tenebre anche la famiglia. Ce n’è uno davanti a ogni loro palazzo e tutti dicono che sia molto bello, anche se secondo me è un po’ pacchiano. Chi mai vorrebbe un angelo placcato in oro alto tre metri davanti alla porta di casa propria? C’è da dire però che non l’ho mai visto da vicino: per superare il ponte e accedere al castello c’è bisogno di un permesso speciale e si è accuratamente controllati da un branco di guardie molto incattivite. Noi Assassini non ci avviciniamo al palazzo: molto meglio che le beghe tra reali vengano risolte da loro, senza metterci in mezzo. Noi interveniamo in affari di minore importanza.
    In tutto ciò Camille si avvicinò a me e fece una strana smorfia guardando la città.
    – Brutti ricordi? – le chiesi.
    – Un po’. Ma soprattutto vorrei sapere come sta mio fratello. –
    – Starà bene con gli Auremore. Appena raggiungerà la maggiore età sarà davvero re di Viride, nessuno oserà fargli del male. –
    – Hai ragione, ma nemmeno in quella famiglia è tutto rose e fiori. –
    Mi girai verso di lei, interessato. Mi sono sempre piaciuti gli intrighi di palazzo.
    – Davvero? Dicono tutti che sia la famiglia perfetta. –
    – Dicono, ma non è così. Quella che si salva è la regina, Gabrielle Arnal, che nel caso tu non lo sappia è simpaticamente chiamata “La Magnifica”. Ed è davvero magnifica, e di buon cuore. Mi sembra davvero stranissimo che sia a conoscenza dei piani del marito e che li appoggi. Sai, lei si è sempre occupata più di andare in giro ad aiutare i poveri, ad organizzare balli, feste di beneficienza, cose così. Il marito, re Alexander, è molto intelligente e, con rispetto parlando, anche un po’ stronzo. A mio padre non piaceva più di tanto. I due figli gemelli sono a posto, diversi come il giorno dalla notte ma molto uniti e soprattutto gentili. Il trono andrà a loro e mia sorella Octavia dovrà sposare Edward, maggiore anche se di pochi secondi. Avrei dovuto sposarlo io ma, sai, sono scappata e ho un po’ scombinato i piani di mia madre. La peggiore però è la figlia minore, Nerissa. Il popolo dice che la sua anima è nera quanto il suo nome. Ha solo 15 anni ma è terribile, ed è lei che mio fratello dovrà sposare, – Camille si interruppe un attimo e scosse la testa. – Spero solo di riuscire ad evitare questo scempio in tempo, o di mio fratello non resteranno che gli ossicini. –
    – Se la metti così in effetti sarei preoccupato anche io. –
    Camille non mi rispose nemmeno, probabilmente troppo immersa nei suoi pensieri. Nel frattempo la nave si era avvicinata alla banchina. Il capitano, incredibilmente uscito dalla sua tana, sbraitava comandi e dimenava le mani mentre i marinai correvano da una parte all’altra del ponte, cercando di portare la nave all’attracco. Dopo pochi minuti, la passerella fu calata su terreno diminiano.
    Mi attardai di proposito sul ponte e, mentre i miei amici scendevano a terra, Mel mi scoccò un’occhiata eloquente. Io annuii e mi diressi dal capitano. Lo presi per un braccio e lo portai in un angolo un po’ appartato della nave, dove difficilmente il resto della ciurma avrebbe potuto sentirci. Che poi comunque erano troppo impegnati a svuotare la stiva e a pensare a dove andare a bere nel pomeriggio. Di sicuro non avrebbero prestato attenzione a noi.
    – Senta Capitano, avrei un favore da chiederle – gli dissi, cercando di essere il più ossequioso possibile. L’uomo mi mostrò un sorriso orrendo. Gli mancavano molti denti e quei pochi che c’erano erano gialli e marci. Se avessi avuto io una dentatura del genere avrei cercato di tenerla più nascosta possibile, ma non tutti hanno la mia sensibilità.
    – Dimmi tutto figliolo. –
    – Io e i miei amici volevamo chiederle se potrebbe, come dire, dimenticare di averci fatto attraversare lo stretto di Eleusi. –
    “E non sono tuo figlio” pensai, ma non lo dissi. Invece feci leggermente tintinnare le due monete che poco prima mi ero messo in tasca. Vidi gli occhi dell’uomo illuminarsi un attimo.
    – Vedi, ragazzo, già vi ho fatti imbarcare senza visti, non so se posso fare anche questo. Forse, se si potesse trovare un accordo… –
    – La capisco perfettamente, signore. Siamo disposti a pagare. –
    – Quanto? –
    “Preso all’amo.” Sorrisi.
    – Abbastanza. –
    Lo convinsi a scendere con me dalla nave, dicendogli che i nostri soldi erano per lui, non per tutto l’equipaggio, e che avremmo preferito che l’affare venisse concluso solo tra di noi. Lo condussi sulle banchine del porto, tra la gente. Per esperienza infatti sapevo che in mezzo alla folla si è molto spesso più sicuri che nell’angolo più buio della città: nessuno fa caso a te. In effetti, quando ci fermammo, la gente continuò a passarci attorno come se fossimo un ostacolo inanimato.
    – Allora ragazzo? Questi soldi? –
    – Certo, adesso li prendo. –
    Mi misi la mano in tasca, ma invece delle monete estrassi un pugnale. Feci tutto molto in fretta e silenziosamente, tanto che la mia vittima non fece nemmeno in tempo a chiamare aiuto. Con la mano destra lo pugnalai vicino all’inguine, mentre con la sinistra salii a tappargli la bocca. Una ferita del genere provoca la morte in pochi minuti in quanto si recide una grossa arteria dell’organismo. Quando vidi che il capitano stava ormai per perdere i sensi lo lasciai andare e mi allontanai tra la folla: nessuno mi aveva notato.
    Dopo poco raggiunsi i miei amici sulla via principale che si allontanava dal porto.
    – Allora? Fatto tutto? – mi chiese Mel.
    – Sì, e grazie davvero per l’aiuto. Non so come avrei fatto senza di te – gli dissi, mentre pulivo il pugnale sugli stivali e lo rimettevo al suo posto.
    Lui ridacchiò.
    – Mi sembrava che te la stessi cavando benissimo. –
    – L’hai ucciso? – mi chiese Camille, guardandomi negli occhi. Era ancora leggermente bianca in viso, probabilmente per la traversata.
    – Beh, sì. Cos’altro avrei dovuto fare? –
    – Non lo so. Lasciarlo andare per esempio – mi disse la ragazza, incrociando le mani e guardandomi dall’alto del suo metro e sessanta con aria sconvolta, incattivita e anche leggermente schifata.
    – Sì, così nel giro di due giorni avremmo avuto tutto l’Alto Comando alle calcagna. Mi sembra davvero un’idea geniale. –
    – Magari non ne avrebbe fatto parola con nessuno, non puoi saperlo! E ora hai ucciso un uomo innocente, che ci ha persino aiutato. –
    Mi tirai leggermente indietro, seriamente sconvolto. Davvero Camille mi stava criticando per un qualcosa che avrebbe potuto fare per noi la differenza tra la vita e la morte? Sentii una mosca cattiva saltarmi al naso e quando capita non mi piace. Sapevo che avrei detto delle cose di cui poi mi sarei potuto pentire.
    – Senti un po’, principessina. Ho dovuto scegliere se uccidere un uomo o se passare i giorni futuri nell’ansia che avrebbe potuto dire le cose sbagliate alle persone sbagliate. Ho scelto, molto facilmente, di uccidere il capitano di quella bagnarola piuttosto che rischiare l’osso del collo in futuro. Così, siamo tutti al sicuro, compresa tu. E se hai tanti sensi di colpa in proposito vai pure a costituirti, laggiù ci sono le guardie. –
    Non alzai la voce di nemmeno un tono ma anzi, forse la abbassai ulteriormente. Mi uscì un ringhio intimidatorio che fece sobbalzare leggermente Camille.
    – Se non sei pronta a sporcarti le mani forse è il caso che la smetti con i tuoi sogni di gloria e vendetta. Questa è la tua missione, non la nostra. Noi stiamo solo rischiando la pelle per qualcosa che, in fondo, non ci riguarda. Avresti dovuto ucciderlo tu quell’uomo, non io. Ti ho fatto un favore e ancora vieni a farmi la morale? Svegliati. Non sei più nel mezzo del bosco al sicuro. Ora, se ti beccano, sei morta. E noi con te. Solo che, a differenza tua, io non ho nessuna intenzione di morire in modo stupido. –
    Non aspettai la risposta che mi incamminai verso una zona non precisata della città, che tra l’altro non conoscevo assolutamente. Passammo davanti alle guardie senza che queste ci fermassero, in tranquillità. Ero molto, molto arrabbiato. Non pensavo davvero che Camille avrebbe potuto farmi un discorso del genere. Doveva capire al più presto che alcune cose, per quanto spiacevoli, erano necessarie, altrimenti sarebbe stato tutto davvero inutile. E poi come si permetteva di venire a dirmi che il mio non era un comportamento corretto? Forse avevo salvato la vita a tutti, anche a lei. Ma la cosa che mi feriva di più in assoluto era che lei aveva potuto pensare che io avessi ucciso quell’uomo così, senza pensare. Sono un Assassino, d’accordo, ma non sono un macellaio. Quando devo togliere una vita rifletto sempre e se non è necessario allora evito. 
Ero talmente tanto arrabbiato che sobbalzai quando una mano mi si mise sulla spalla. Mi girai e trovai Jared a qualche centimetro da me.
    – Ehi, calmati, – mi disse mentre continuavamo a camminare. – Lo sappiamo tutti che hai ragione, anche lei. Deve solo un attimo mettere in ordine le sue idee. –
    – Non ne sono troppo sicuro. –
    – Fidati di me, le conosco le donne. Comunque, hai un’idea di dove stiamo andando? –
    Mi guardai attorno, spaesato. Non avevo la minima idea di dove fossimo.
    – No, direi proprio di no. Non sono mai stato a Melusine. –
    Jared ridacchiò e si girò verso il resto del gruppo, che era poco distante da noi.
    – Gruppo, adesso guido io. Preparatevi, perché vi porterò nella locanda migliore di tutta la città. –
 
***
 
    Un’ora dopo stavamo entrando in una locanda ai limiti della città. Jared ci guidò a colpo sicuro tra i vicoletti e le stradine della città, come se avesse avuto una mappa infilata nel cervello. Soffrirà anche di mal di mare, ma quando si tratta di muoversi e di orientarsi è il migliore.
    Il nostro alloggio si presentava abbastanza bene da fuori: dalla porta in legno passava della calda luce arancione, fumo saliva dal comignolo perdendosi nella notte, rumori di voci e scoppi di risa rallegravano l’atmosfera e nella strada c’era un buon odore di stufato che mi fece brontolare lo stomaco. Un’insegna con una dragone abbarbicato a una botte stava sopra alla scritta “Il Drago Verde”, illuminata da due lanterne. Ci fermammo un attimo davanti all’ingresso, poi Jared entrò platealmente, come se il locale fosse suo. Immediatamente un paio di ragazze mollarono i boccali e scapparono da dietro il bancone, correndogli incontro per poi continuare a toccarlo, abbracciarlo e sbaciucchiarlo, sotto gli occhi un po’ sconcertati degli avventori.
    – Jared, sei tornato! Dillo che morivi dalla voglia di vedermi! –
    – Che bello averti qui! –
    – Ti aspettavamo Jared! –
    Ogni volta che Jared entrava in qualche locale popolato dal gentil sesso le cose andavano più o meno così, soprattutto se si era già fatto conoscere. Beato lui. Io, Andreas e Mel, invece, sospirammo e girammo gli occhi, già abituati a quel tipo di scena, mentre Camille, sbalordita, ridacchiava tra sé e sé.
    Mi guardai un po’ intorno e mi resi conto, con stupore, che l’impressione che la locanda mi aveva dato da fuori era stata mantenuta. Era un bel posto, caldo e accogliente, pieno di gente di tutti i tipi che mangiava e beveva. I piatti che mi passavano davanti erano decisamente invitanti e con un’occhiata alle cameriere mi accorsi che anche queste erano davvero carine, soprattutto quelle abbarbicate a Jared. Una sistemazione adeguata, finalmente.
    Rimanemmo così, ad osservare un po’ il locale e un po’ il mio amico che sfoderava tutto il suo fascino malandrino, fino a che questi non si ricordò che non era da solo ma in compagnia. Chiamò finalmente l’oste e ci fece preparare tre stanze, in più ci fece servire la cena.
    Dopo un’oretta ci eravamo finalmente sfamati e dissetati, mangiando e bevendo come se non vedessimo cibo da giorni. A me i viaggi hanno sempre fatto questo effetto, e dopo la dieta a gallette ed acqua sulla nave avevo proprio voglia di un pasto come si deve.
    – Quindi, ora che si fa? – chiese Camille, quando ormai avevamo finito ed eravamo anche un po’ sonnolenti dopo la carne e la birra.
    Devo dire che al nostro gruppo manca un po’ di sana programmazione rigorosa, ma non importa. Io rimasi accuratamente zitto, in una manovra che normalmente viene definita “tenere il broncio”. Non avevo ancora dimenticato le parole che la ragazza mi aveva detto nel pomeriggio.
    – Dobbiamo trovare la guardia che ti aveva catturato, molto semplice – le rispose Mel.
    – Sì, direi di sì. Più o meno tu in che zona l’avevi incontrato? – chiese Andreas.
    – Nella zona del porto. Oggi mi sono guardata intorno, ma non l’ho visto. –
    – Sicura di aver guardato con attenzione? C’era tanta gente oggi. Magari ti è sfuggito. –
    – Fidati, Andreas. Uno così spicca tra la folla. –
    Ci fu qualche secondo di silenzio.
    – Dobbiamo chiedere a qualcuno. È l’unica – esordì Jared.
    – Sì, ma non possiamo appendere i manifesti. Bisognerebbe fare qualcosa di discreto – lo bloccò subito Mel.
    – Appunto, – disse Jared, per poi girarsi ed emettere un urlo spacca timpani diretto a una delle cameriere che prima gli avevano dato un così caloroso benvenuto. – KATE, TI SPIACEREBBE VENIRE QUI UN ATTIMO? –
    – Sei proprio sicuro di sapere cosa vuol dire essere discreto? – gli chiesi. – Non credo che urlare come uno scaricatore rientri nella definizione. –
    Jared mi ignorò, come al suo solito. Prese la ragazza per la vita e la invitò a sedersi al nostro tavolo.
    – Kate, abbiamo una cosa da chiederti, – le disse. – Dobbiamo sapere se conosci un uomo, una guardia cittadina. Camille, glielo descriveresti? –
    – Certo. È un uomo alto, circa un metro e ottantacinque, massiccio. Ha corti capelli biondicci, ma magari in questi anni sono cresciuti. Ha una larga cicatrice sul lato destro del viso, che gli attraversa anche un occhio rendendolo parzialmente cieco. Ha gli occhi castani. L’ultima volta che l’ho visto era a capo di un gruppo di tre guardie nella zona del porto, – Camille si interruppe un attimo. – Lo conosci? –
    La ragazza scosse la testa, guardando dispiaciuta verso Jared.
    – No, mi dispiace molto – ci disse, poi si alzò, riprese la brocca che aveva lasciato al nostro tavolo e si allontanò. Io già mi vedevo a battere tutte le locande del porto per trovare informazioni su quell’uomo, quando Kate tornò indietro.
    – Sentite, ho pensato che potreste chiedere a Lea. Ha lavorato per tanti anni nella zona della guarnigione, magari sa di chi state parlando. Ora sta lavorando in cucina, ma immagino che quando finirà non avrà problemi a venire ad ascoltare quello che avete da dire. –
    Jared si alzò in piedi e le diede un bacio, ringraziandola. Kate arrossì e corse di nuovo via, a servire i tavoli.
    Aspettammo che il locale lentamente si svuotasse e solo quando oltre a noi erano rimasti gli ultimi due o tre ubriaconi un donnone uscì da una porta sul retro del locale. Aveva un grembiule enorme sul petto, più o meno delle dimensioni di una bandiera.
    – Kate mi ha detto che dovete parlarmi. Cosa volete? –
    Senza peli sulla lingua, la signora.
    – Avremmo bisogno di informazioni su uomo, giù al porto, – le risposi. – Può aiutarci? –
    – Dipende. –
    – Dipende da cosa? –
    – Dipende da che intenzioni avete e da chi è questa persona che cercate. –
    Mi guardai attorno un po’ sconcertato, ma per fortuna Camille si mise in mezzo.
    – È giusto così. Ascolti quello che abbiamo da dire, poi deciderà se aiutarci o no – le disse, per poi ripeterle la descrizione che aveva fatto poco prima a Kate. Nel frattempo Lea aveva messo delle mani della dimensione di due badili sul tavolo. Notai con stupore che dei peli spessi e grigi le spuntavano dal labbro superiore. Non riuscivo a smettere di fissarli, tant’è che Andreas mi diede una gomitata.
    – Se cercate lui non c’è nessun problema, – disse la donna quando Camille finì. – È un uomo abbastanza disgustoso da non farmi preoccupare di quello che volete fargli. In ogni caso, se lo sarebbe meritato. Pensate che una volta, per ottenere una birra gratis, ha provato a infilarmi le mani sotto la gonna. Ci credereste mai? – Si fece una risata. – Gli ho dovuto tirare un ceffone per farlo smettere. –
    E qui ebbi due pensieri: primo, che ci voleva un bel coraggio a mettere le mani su qualsiasi parte del corpo di quella donna, figuriamoci sotto la gonna; secondo, che un ceffone dato da quella tizia doveva equivalere più o meno a venire investiti da un cavallo da tiro. Al galoppo. In discesa. Con un carro attaccato dietro.
    – Si chiama Hyatt, per gli amici Hyatt il Viscido o Scar, e potrete capirne il motivo. Lo vedevo spesso nel locale in cui lavoravo vicino alla guarnigione. Ero già lì quando è arrivato per la prima volta: aveva il grado di capitano, ma nessuno aveva la minima idea di chi fosse e da dove arrivasse. Ormai però sono un paio d’anni che non lavoro più in quella zona, quindi non saprei dirvi se sia rimasto lì. Dovrete andare a vedere di persona. –
    – Madame, lei ci è stata di grande aiuto, – le disse Jared, che con le donne (per quanto brutte e grasse possano essere) aveva un tocco magico. – Ci ricorderemo di lei. –
    Lea si aprì in un sorriso malizioso e fece una risata civetta.
    – Basta che ti ricordi tu di me, tesoro – gli rispose, dopo di che si allontanò ancheggiando, badando bene però di fargli un occhiolino da sopra alla spalla. Jared rabbrividì.
    Salimmo in una delle stanze che avevamo preso per la notte per decidere un piano d’azione. Io mi attardai un poco di più giù nella sala dove avevamo mangiato, per assicurarmi che non ci fosse niente di strano o pericoloso. Visto che tutto sembrava a posto, mi diressi verso le scale, ma mi bloccai quando vidi Camille appoggiata al mancorrente di legno.
    – Camille, tutto bene? – le chiesi.
    – Sì, tutto bene. Io… – si fermò un attimo. – Io volevo chiederti scusa per oggi. Avevi ragione tu, era necessario uccidere quell’uomo. –
    Annuii, mettendo il piede sul primo gradino, ma lei mi fermò prendendomi per un braccio.
    – E poi ci tenevo a dirti che non credo che tu sia uno che ammazza il primo venuto per svago. Sono sicura che ci hai pensato bene, prima. Solo, non credo che riuscirò ad abituarmi tanto presto all’idea di dover uccidere qualcuno per sopravvivere. –
    La guardai bene. Era così bella nella luce soffusa delle candele, con il viso e gli occhi verdi abbassati. Non doveva essere abituata a chiedere scusa ed ero onorato che per me avesse fatto uno sforzo. Le tirai su il viso con due dita, per poi prenderle gentilmente una ciocca che le era sfuggita dalla treccia e mettergliela dietro all’orecchio, accarezzandole una guancia con il dorso della mano.
    – Non devi farci l’abitudine. Va bene così. Ti chiedo scusa anche io, non ti ho detto delle belle cose oggi. Non avrei dovuto. –
    I suoi occhi verdi si puntarono nei miei, osservandomi da sotto le lunghe ciglia scure. Sentii il profumo del suo respiro e rientrai in me. Che stavo facendo? Quella era Camille Coverano, principessa del mio paese, non una ragazza qualunque. Ritirai di colpo la mano.
    – Credo che sopra ci stiano aspettando. –
    Lei annuì e arrossì, per poi seguirmi al piano di sopra.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE!
Grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fino qui e che sono sopravvissuti a ben 7 capitoli. Sono molto affezionata a questa storia, me la porto dietro da tanti anni, e sono contenta di essere finalmente riuscita a metterla nero su bianco! Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, quindi, se secondo voi ci sono cose da cambiare, critiche o cose simili, per favore, scrivete. È davvero molto utile avere un riscontro, almeno per me, e se poi questo è positivo, beh, ancora meglio!
Faccio un po’ fatica a scrivere questi commenti finali – non credo di esserne troppo capace – ma giuro, ci sto provando! Non vorrei sembrare la spocchiosa di turno che lancia le cose dall’alto, solo che temo di essere troppo timida, e quindi molte volte mi areno su queste parti un po’ più personali. Spero di migliorare col tempo :D
Non c’è molto altro da dire se non grazie, di cuore, a tutti quelli che leggono!
LyaStark

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Capitolo 8
*** VIII ***


Ciao a tutti, e bentrovati! Se siete arrivati fino a qui, beh, grazie, davvero! È un bellissimo regalo di natale per me. Spero che vi piaccia, e vi faccio gli auguri di Natale (clamorosamente in ritardo ma si sa, il periodo delle feste è concitato un po’ per tutti) e di un buon anno nuovo.
 

CAPITOLO VIII

MARCUS
 
Quando entrammo nella stanza al piano di sopra, la prima cosa che mi colpì fu l’aria di cospirazione. Tende tirate, fuoco nel camino ridotto al minimo, i miei amici che bisbigliavano. La camera era abbastanza bella anche se forse un po’ troppo spoglia: c’erano solo una cassapanca che divideva i due letti su cui erano seduti i miei amici, ognuno dei quali addossato a una parete. Il pavimento era di legno, l’intonaco delle pareti bianco e probabilmente dato da poco visto che non c’erano ancora segni di sporco sui muri. Un paio di brocche brillavano dalla mensola sopra il camino ricordandomi in maniera quasi dolorosa casa mia, quando ero con la mia famiglia in campagna e non ero ancora un Assassino. Erano anni che non ci pensavo più.
    – Alla buon’ora, – ci accolse Jared con un sorriso furbetto, distogliendomi dai miei pensieri. – Vi eravate persi? –
Sia io che Camille lo ignorammo, anche se potevo vedere che lei era rossa sulle guance. Per fortuna il rossore poteva essere scambiato per il semplice riflesso delle fiamme nella stanza, visto che sapevo benissimo che se si fossero accorti di qualcosa non mi avrebbero più dato tregua. Avrei passato i giorni successivi a non poter vivere per le prese per i fondelli e per le battute poco dignitose.
    Camille si schiarì la voce.
    – Allora, – disse. – Siete già giunti a qualcosa? –
    – A dire la verità sì, – le rispose Andreas. – Mentre voi due piccioncini eravate in altre faccende affaccendati abbiamo pensato a ben due piani d’azione. –
    Ignorai a piè pari il commento, anche se sentii Camille sbuffare dietro di me.
    – Illuminaci, maestro. –
    Andreas si alzò e iniziò a percorrere a passi lunghi la stanza, come faceva di solito quando pensava o quando doveva spiegare, cioè i tre quarti del suo tempo.
    – Per prima cosa, dobbiamo assicurarci che l’uomo sia ancora alla guarnigione, come ci ha detto Lea. Nel caso sia stato trasferito saremmo di nuovo punto a capo e dovremo ricominciare a chiedere in giro. Se invece è ancora lì proporrei di seguirlo per un paio di giorni, giusto per capire le sue abitudini e per riuscire a farlo sparire senza destare troppi allarmi. Poi, una volta che saremo riusciti a prenderlo, potremo fare due cose: uno, cercare di fargli vuotare il sacco con le buone, cioè pagandolo; due, dargli una manica di botte. –
    – Io opto da subito per la manica di botte – lo interruppi.
    Camille, che in tutto questo era rimasta appoggiata a braccia incrociate allo stipite della porta, si avvicinò ulteriormente a noi.
    – Ah sì, anche io – disse.
    – Ma tu non eri la pacifista del gruppo? – le chiese Jared da sbracato sul letto, ridacchiando tra sé e sé.
    Lo sguardo che Camille gli rivolse era di indignazione allo stato puro: – Zitto un po’, Jared. –
    Ridemmo tutti di gusto a quello scambio di battute, che servì anche un po’ ad alleggerire l’aria della stanza.
    – Quindi, – fece Mel. – Ricapitolando: trovare il tipo, rapirlo, dargli un aiutino per farci dire quello che sa. Manca solo una cosa. –
    – Cosa? – gli chiese Andreas, guardandolo interessato. Incredibile che gli fosse sfuggito qualcosa.
    – Dobbiamo trovare un posto appartato dove poter interrogare questo tipo. Non possiamo mica maltrattarlo in mezzo alla strada. –
    – Mi sembra un’ottima obiezione – aggiunsi io.
    – Potremmo fare così, – si introdusse Jared. – Due di noi seguiranno questo Hyatt mentre gli altri tre andranno a cercare un luogo adatto dove metterlo. Ci ritroveremo qua ogni sera per vedere a che punto siamo messi e poi, quando sarà il momento e tutti i dettagli saranno stabiliti, agiremo. Che ne dite? –
    Cenni di assenso vennero fatti da tutti noi. Al calore del fuoco si decise che io e Mel (che, modestia a parte, siamo i migliori nei pedinamenti) avremmo seguito Hyatt mentre gli altri, compresa Camille, si sarebbero sparsi per la città. Sperai che non gli capitasse niente di male, anche se quelli che rischiavano di più eravamo proprio noi che avremmo dovuto seguire l’uomo per la città.
    L’altra mia preoccupazione, molto più meschina, era data da Jared: avrebbe potuto benissimo decidere di provarci con Camille e non so lei come avrebbe potuto reagire.     Forse ci sarebbe anche stata, vista la bravura del mio amico in queste questioni. Scacciai la preoccupazione con un rapido cenno del capo. Jared era mio amico e si era sempre comportato correttamente nei miei confronti, e poi tra me e Camille non era successo niente. Nulla di nulla. Ero solo quello che lo conosceva da più tempo di tutti e in questa luce il suo attaccamento nei miei confronti era più che giustificato. Ero io che probabilmente stavo fraintendendo tutto e dovevo darmi una regolata abbastanza in fretta. Decisi lì su due piedi che quindi, qualunque cosa sarebbe successa tra lei e Jared non mi avrebbe dato fastidio ma anzi l’avrei accolta di buon grado. Però, nonostante il mio cervello avesse fatto un ragionamento ineccepibile, c’era una vocina dentro di me che continuava a sussurrarmi che il tutto mi avrebbe urtato eccome. Mi mancavano solo questi pensieri da ragazzina innamorata. Con tutti i problemi che c’erano potevo mai preoccuparmi di qualcosa che non era ancora nemmeno successo? Mi alzai quindi di scatto dal letto su cui ero seduto, per togliermi dalla testa tutti quei pensieri inutili.
    – Forse è il caso di andare a dormire, allora, – dissi. – Domani ci aspetta una giornata campale. –
    Tutti gli altri seguirono il mio consiglio e così, con calma, uscimmo tutti dalla stanza di Mel e Andreas. Camille si diresse verso la sua stanza in fondo al corridoio, mentre io e Jared andammo verso la nostra, poco distante. Appena entrati ci buttammo sui letti, abbastanza distrutti dagli eventi della giornata.    Stavamo fissando il soffitto scivolando lentamente nel sonno quando Jared parlò.
    – Puoi stare tranquillo, sai? – mi disse.
    Io corrugai le sopracciglia, non capendo a cosa si riferisse.
    – Non toccherei la tua ragazza per tutto l’oro del mondo – fu la sua risposta.
    Incredibile come riuscisse a capirmi così, senza che io dicessi nulla. Sorrisi di un bel sorriso a trentadue denti che rimase nascosto nella penombra della camera.
    – Camille non è la mia ragazza – gli dissi e anche solo mettere nella stessa frase le parole “Camille” e “mia” mi fece uno strano effetto. Dei quanto stavo diventando imbecille.
    – Lo so benissimo – mi rispose, e potevo sentire il sorriso nella sua voce.
    Rimasi sdraiato in silenzio, sotto le coperte. Attorno a me c’era solo il rumore leggero del respiro di Jared e le braci del camino illuminavano debolmente la stanza. Dalla finestra passava la leggera luce argentata della luna piena, tingendo i mobili di bianco. Pensai a tutte le cose che mi stavano capitando, a come la vita mia e dei miei amici avesse preso una piega inaspettata in qualche settimana. Non li avrei mai ringraziati abbastanza per l’aiuto che mi stavano dando, ma sapevo anche che non ce ne sarebbe stato bisogno: sapevano tutto quello che provavo, ero come un libro aperto per loro. Forse è questo che significa essere fratelli, al di là dei legami di sangue: non avere mai bisogno delle parole. Stavo pensando a tutto questo, quando una parola mi salì spontanea alle labbra.
    – Jared? – dissi, convinto che tanto stesse dormendo. E invece, inaspettatamente, la sua voce un po’ assonnata mi rispose.
    – Dimmi. –
    – Grazie. –
    Lo sentii girarsi nel suo letto, verso di me.
    – Di nulla, fratello. –
    Sorrisi e chiusi gli occhi. Il sonno mi prese subito.
 
***
 
Il mattino dopo, più o meno a un’ora che dedussi essere l’alba, un rumore di botti mi svegliò. Nella mia innocenza pensai che qualcuno stesse cercando di sfondare la porta e invece, appena mi ripresi abbastanza da sapere chi ero e dove mi trovavo, mi resi conto che qualcuno stava bussando molto, molto veementemente.
    Mi alzai barcollando nel buio e stropicciandomi l’occhio destro mi diressi lentamente verso la porta. Quando l’aprii, dall’altra parte trovai Andreas sorridente, lavato e vestito di tutto punto, con in mano una lanterna che mi accecò. Mi appoggiai sconvolto allo stipite della porta, riparandomi con un braccio da quella luce infernale.
    – Sorgi e splendi, amico mio! – mi disse sorridendo, con un tono troppo allegro per essere usato da uno sveglio a quell’ora indecente di mattina. O forse si poteva ancora considerare notte? Decisi che comunque era troppo presto per porsi problemi del genere.
    – Fottiti, Andreas. Cosa vuoi? –
    – Ti volevo ricordare che tu e quell’altro nascosto sotto le coperte nella stanza…  Sì, Jared, parlo proprio di te! – Urlò sporgendosi dentro alla stanza e sentii in risposta solo insulti mugugnati che non mi sento proprio di riferire. – … avete delle cose da fare. Tu, in particolare, devi andare con Mel e capire se Hyatt è ancora alla guarnigione. –
    Lo interruppi, e bloccando a metà uno sbadiglio gli chiesi: – Hyatt chi? –
    Non sono molto sveglio al mattino presto e non intendo in senso letterale. Andreas mi guardò con aria sconvolta.
    – Marcus, tutto bene? Hai preso una botta in testa? – mi domandò, venendo avanti cercando di guardare se avessi qualche segno sul cranio. – Hai un vago ricordo di tutto quello che abbiamo deciso ieri sera? – In tutto questo ebbi un lampo e mi ricordai degli avvenimenti del giorno prima.
    – Sì, scusa. Lo sai come va al mattino, – gli dissi. – Ho capito. Ma era proprio il caso di svegliarci a quest’ora indecente? –
    – A parte che qui, tra te e Jared, l’unico sveglio sei tu. E poi io e Mel siamo in piedi già da almeno un’ora. In più, la guarnigione non è troppo vicina e dovrete percorrere un bel pezzo di città. E, dulcis in fundo, non sappiamo che orari segua quell’uomo. –
    – Molto probabilmente a quest’ora sta andando a dormire dopo una nottata passata a sbronzarsi in giro, te lo dico io – gli risposi. Iniziavo molto lentamente a svegliarmi.
    – Sì, va bene, ho capito l’antifona. Ti ho svegliato troppo presto, ma abbiamo poco tempo e dobbiamo cominciare, e se aspettassimo te e l’altro a mezzogiorno saremmo ancora qui. Quindi fai rinvenire la bella addormentata lì dentro e tra dieci minuti ci vediamo di sotto – mi disse, allontanandosi.
    Io rientrai in camera chiudendomi la porta alle spalle e mi rilanciai a faccia in giù sul letto, più morto che vivo.
    – Cosa voleva? – mi chiese una voce dall’oltretomba. Mi girai e guardai il mio amico con il cuscino sopra alla testa, nel tentativo, fallito, di non farsi svegliare dalla voce squillante di Andreas.
    – Dirci che dobbiamo fare cose – gli risposi, mugugnando nel cuscino. Non mi curai che avrebbe potuto non capire.
    – Ma che problemi ha? –
    – Lo sai com’è fatto. –
 
***
 
Dopo un quarto d’ora stavamo scendendo le scale per andare al piano di sotto. Avevo dovuto praticamente lanciare Jared giù dal letto, come avevo sempre fatto anche negli anni in cui la Corporazione ci aveva fissato l’inizio del turno di guardia alle 4 e mezza di notte, e obbligarlo a vestirsi. Avrei fatto molta meno fatica a svegliare un bambino di 8 anni. Di sicuro pesava di meno.
    Al ritrovo nella sala comune della locanda l’unica faccia allegra era quella di Andreas: Mel sembrava molto incline all’omicidio, Jared appena appoggiava la testa su un piano solido chiudeva gli occhi, e io mi guardavo in giro con aria desolata, in una mia personale interpretazione della frase “che cavolo ci faccio io qui?”.
    Camille arrivò dieci minuti dopo, correndo per le scale con i capelli spettinati, la casacca chiusa male e strofinandosi gli occhi. Sembrava anche lei abbastanza distrutta, ma non si lamentò. Un ragazzino dietro il bancone del locale stava passando distrattamente uno straccio sul piano, nel tentativo di non addormentarsi. Dalle finestre non si vedeva nemmeno un filo di luce: la città era ancora addormentata e solo qualche urla proveniente dal porto lontano animava la notte.
Stabilimmo che ci saremmo rincontrati per le 9 di quella sera, per fare il punto della situazione. Se né io né Mel fossimo riusciti a raggiungere il ritrovo per tre sere di fila, gli altri ci sarebbero venuti a cercare per tirarci fuori dai guai. Sperai fortemente di non finire in una situazione del genere e di riuscire a fare un bel lavoretto pulito: andare, prendere e tornare. Niente pericoli e niente preoccupazioni. Nessuno si sarebbe fatto male.
    Dopo una rapida colazione ci salutammo tutti e mentre Andreas, Jared e Camille si diressero verso l’interno della città, io e Mel andammo verso il punto dove ci era stato suggerito esserci la guarnigione.              
   
Camminammo per quaranta minuti buoni, ad un buon passo, chiacchierando del più e del meno. Tra questi argomenti stranamente non rientrò Camille, ma credo che di questo dovessi ringraziare la discrezione del mio amico. Mel non era mai stato tipo da mettere in imbarazzo le persone, né tantomeno cercava di tirarti fuori le cose di bocca a viva forza. Se volevi parlargli di qualcosa, lo facevi, altrimenti potevi decidere benissimo di tacere. Lui non ti avrebbe mai stressato perché tu gli dicessi i fatti tuoi, e in questo è molto, molto meno comare degli altri due. Sembrava irrequieto e di sicuro lo era a causa di quello che stavamo per fare, anche se qualcosa mi suonava strano: Mel non si era mai fatto prendere troppo dall’ansia, è sempre stato uno molto sicuro di sé e di quello che doveva fare. Ignorai la strana sensazione non facendogliene parola, adducendola al fatto che molto probabilmente eravamo tutti molto più stanchi del normale e molto più pronti a scattare per la minima cosa.
    Percorrendo la città mi resi conto, di nuovo, di quanto fosse bella Melusine, anche se è totalmente diversa dalle città di Viride. Strade piccole e tortuose si intrecciavano una nell’altra, così differenti dagli stradoni grandi e dritti di Elea. L’acciottolato sotto i piedi era fatto di una pietra particolare, che nel bagliore delle lanterne appese lanciava un bagliore rosato, quasi come se avesse della luce all’interno. Le case ai lati della via erano piccole e graziose e dietro ai tetti colorati si intravedevano le cime dei Sahar, i tipici alberi dalle chiome gialle di Dimina.
    Alla nostra sinistra si stagliavano le guglie del castello reale, ancora buie nell’oscurità della notte. Superammo le botteghe di fabbri, di panettieri, di cuoiai, di mercanti di tessuti, tutte rigorosamente chiuse, e solo qualche lontano rumore di metallo contro metallo ci fece supporre che non tutti dormivano come poteva sembrare. Oltrepassammo stalle, stazioni di posta, armerie.
    Il profumo del mare aleggiava ancora leggermente per la strada ma coperto da una moltitudine di altri odori, creando un miscuglio particolare e anche molto gradevole. In lontananza ogni tanto spuntava qualche soldato più assonnato di noi e per evitare brutte situazioni cambiammo più volte strada infilandoci nei vicoletti che si aprivano dappertutto.
    Finalmente, quando ormai il sole iniziava a sorgere e un lieve colore rosato si spargeva nel cielo, arrivammo in vista della guarnigione. Era un palazzone grigio e triste, che stonava con i colori allegri dei palazzi lì vicino, immersi nella luce dell’alba. Niente a che vedere con la nostra sede di Corporazione a Elea: quello sì che era un bell’edificio.
    Davanti a un alto portone di legno inciso, due soldati erano seduti a un tavolo giocando a carte, senza prestare troppa attenzione a quello che sarebbe potuto capitare lì intorno. Se fossi stato io a capo della guarnigione avrei avuto la loro pelle appesa davanti alla mia porta. Se sei messo di guardia, fai la guardia, non è che perdi il tuo tempo a fare altro, nella fattispecie giocare a carte. Un comportamento un po’ ipocrita da parte mia, contando che sono sempre stato uno dei primi a cazzeggiare nei miei turni di sorveglianza.
    Io e Mel passeggiammo tranquillamente a livello del perimetro della guarnigione, per farci un’idea di quello che ci saremmo potuti aspettare. Su ogni lato delle mura quadrate del palazzo si trovava un portone simile in tutto e per tutto al primo che avevamo visto, con altre due guardie, alcune delle quali un po’ più impegnate nel loro compito rispetto ai due giocatori di carte poco più in là.
    Unica eccezione era il lato rivolto verso ovest, quello che in linea d’aria guardava il castello reale: lì il portone era il doppio in ampiezza di quelli precedenti ed era spalancato, e le guardie davanti ad esso erano una decina. Probabilmente quello era l’ingresso principale.
    Sbirciando all’interno, si intravedevano delle stalle su un lato e un paio di carrozze ferme nel cortile principale. In più, visto che ai militari a quanto pare faceva schifo dormire al mattino, si sentivano ordini gridati e ogni tanto una pattugli passava nel nostro campo visivo.
    Facendo una stima, all’interno ci potevano essere dalle 150 alle 200 persone. Dopo aver visto quello che c’era da vedere, io e Mel ci allontanammo in silenzio.
    – Direi che la strategia “entriamo, facciamo casino e prendiamo il nostro uomo” è da scartare – dissi.
    – Se sei affezionato al tuo collo mi sa di sì – mi rispose Mel.
    Svoltato l’angolo e appena fuori dal campo visivo degli uomini a guardia del portone, ci fermammo. Avevamo quattro porte da sorvegliare, eravamo solo due e non sapevamo se l’uomo che cercavamo era ancora lì dentro. Avremmo dovuto scoprirlo in fretta. Approntammo rapidamente un piano d’azione e pochi minuti dopo Mel era di nuovo diretto verso il portone principale con passo incerto, mentre io ero ben nascosto dietro a un muro.
Mel è eccezionale quando deve fare l’ubriaco, forse per la quantità di tempo che passa a esserlo davvero: l’andatura ondeggiante era perfetta, non eccessiva né troppo scarsa; strascicava perfettamente i piedi, ogni tanto borbottava parole senza senso e la bottiglia vuota raccattata in tutta fretta completava il quadro.
    – Ehi, amici! – urlò, dritto alle guardie, biascicando le parole e inciampando. Gli uomini restarono immobili, senza muovere di un millimetro le lance che tenevano in mano, con la punta metallica luccicante ben diretta verso l’alto.
    Mel si avvicinò ulteriormente, ridacchiando agli uomini davanti a lui, minacciando di cadere da un momento all’altro.
    – Devo passare! – disse. Poi allungò una mano.
    – Ma che bella lancia! – disse ridacchiando. – Me la presti? Eh? –
    Al che le guardie finalmente si mossero. Quella a cui Mel aveva cercato di prendere la lancia gliela puntò al collo e il mio amico cadde molto opportunamente indietro.
    – Vattene da qui, ubriacone. Non puoi entrare – gli disse e Mel ridendo alzò le mani, iniziando a tirarsi su. La bottiglia era rimasta abbandonata per terra.
    – Va bene, ma c’è il mio amico Hyatt dentro. Prendo i soldi e me ne vado. –
    – Sei amico del capitano? – gli chiese l’uomo più giovane dei cinque che si erano mossi e che si trovava davanti a Mel. Praticamente uno sbarbatello.
    – Puoi dirlo forte ragazzo! Il capitano mi deve una mota… montna… un mucchio di soldi! – urlò Mel, aprendo le braccia e improvvisando un balletto. Dovetti ammettere però che quando era ubriaco sul serio non era poi così molesto. Più che altro gli prendeva quella che in gergo è chiamata ciucca triste.
    I soldati si guardarono e alcuni annuirono, come se avessero preso una decisione. Uno di loro si fece più avanti, girando la lancia dall’estremità di legno.
    – Non puoi entrare, il capitano ha dato ordini precisi. Vattene e forse non ti sbatteremo in cella – disse, colpendo Mel e spintonandolo indietro, lontano dal portone. Il mio amico cercò ancora di opporre qualche resistenza, ma ben presto ritornò verso di me sempre con la stessa andatura barcollante. Avevamo scoperto quello che ci interessava: l’uomo che cercavamo era ancora nella guarnigione.
    Quando Mel girò l’angolo recuperò il suo contegno normale. Il sorriso ebete sparì dal suo viso, la postura si fece dritta, il passo più sicuro.
    – Dovresti fare l’attore, lo sai? –
    – Se le cose con la Corporazione andassero male ci farò un pensiero – mi rispose, spazzolandosi i vestiti dalla polvere. – E adesso aspettiamo. –
    E aspettammo. A lungo. Fermi fuori dallo sguardo dagli uomini di guardia al portone, fino a quando questi non rientrarono per il cambio del turno, e poi poco distanti dall’ingresso.
    Decidemmo di tenere d’occhio il portone principale: era molto più probabile che un Capitano uscisse da lì piuttosto che da un ingressino secondario. E se non avessimo avuto fortuna, appena gli altri tre fossero riusciti a trovare il posto che ci serviva ci sarebbero venuti ad aiutare. Avremmo tirato le cose per le lunghe ma almeno così saremmo riusciti a osservare tutte le porte. Passò l’ora del pranzo, che ci vide a sbocconcellare la carne secca che ci eravamo portati via dal Drago Verde. Ogni tanto per sgranchirsi le gambe uno dei due andava a farsi due passi, mentre l’altro rimaneva in osservazione.
    Le ore del giorno passarono in modo monotono e lento. Le persone attorno a noi erano solo macchie sfuocate che si muovevano ai limiti del nostro campo visivo, i nostri occhi erano concentrati a guardare solo i movimenti dell’imponente portone poco davanti a noi. Solo il sole ci dava indicazioni sul tempo che procedeva. Prima indicava le due, poi le quattro, poi le sei, e infine tramontò.
    Maledicemmo più e più volte Andreas e la sua malsana idea che, come diceva lui, “il mattino ha l’oro in bocca”: avessimo fatto come dicevamo noi saremmo arrivati lì a mezzogiorno passato e avremmo passato la giornata sereni e riposati. Avevamo quasi perso le speranze quando dal portone uscì un gruppetto di quattro soldati molto mal in arnese: le divise erano stazzonate e sporche di polvere, i capelli erano lunghi, gli stivali chiazzati, le barbe non rasate. Tra loro, anche da lontano, si poteva distinguere un uomo che superava in altezza di almeno una testa tutti gli altri, torreggiando sulla strada davanti a sé.
    I soldati di guardia al portone gli fecero un saluto militare mentre passava, unendo i tacchi degli stivali e portando le mani sopra al viso. Mentre avanzava ed era ormai poco distante da noi l’uomo si girò distrattamente dal nostro lato: la cicatrice biancastra spiccava sul lato destro del viso, attraversando completamente un occhio che, nella luce delle lanterne della strada, appariva latteo e opaco.
    Camille aveva ragione, quello era un uomo che non passava inosservato. Guardai Mel, che per un momento parse quasi congelato, e lui poi guardò me. Come se ci fossimo messi d’accordo, complice la notte che aveva ormai iniziato a calare, iniziammo ad arrampicarci sul muro della casa che si trovava di fronte a noi. Guarda caso aveva delle bellissime inferriate in ferro battuto che sembrano fatte apposta, talmente erano comode per salire. Era una cosa che ci avevano insegnato in Corporazione, durante l’addestramento: quando si deve pedinare qualcuno, niente è più comodo dei tetti. Nessuno guarda mai in alto, e quando lo fa tende a non notare delle ombre sul cielo buio.
    Lo seguimmo nelle sue peregrinazioni per osterie, bordelli e case di scommesse. A un certo punto della nottata Mel mi abbandonò per andare a comunicare agli altri la lieta notizia e per riposarsi, lasciandomi da solo a seguire quell’animale di Hyatt. Capivo in effetti perché fosse soprannominato il Viscido e capivo ancora di più perché Lea della locanda non si fosse fatto troppi problemi a consegnarcelo. Era una persona disgustosa, dai gusti abbastanza disgustosi.
    Saltai sui tetti al freddo e al gelo fino a che, di nuovo, cominciò ad albeggiare e Hyatt e i suoi degni compari iniziarono a dirigersi verso la guarnigione. Meglio tardi che mai! Ero sveglio da qualcosa come 24 ore e non vedevo l’ora che Mel venisse a darmi il cambio per potermi buttare sul letto e farmi una sana dormita. Arrivarono davanti al portone della guarnigione, mezzi svestiti, ubriachi fradici, facendo un casino che avrebbe risvegliato anche i morti, io crollai giù dai tetti e mi accasciai più o meno dove io e Mel avevamo aspettato il giorno prima.
    Quando finalmente arrivò lo mollai lì senza tante cerimonie e presi quella che speravo essere la strada giusta per tornare al Drago Verde. Mi trascinai per le strade, morto di sonno, e quando finalmente entrai nella locanda feci le scale che portavano al piano di sopra strusciando i piedi sui gradini. Feci un cenno distratto ad Andreas che era già sveglio e seduto al tavolo, solo. Quasi non mi accorsi di aprire la porta della mia camera e quando arrivai al letto mi ci lanciai letteralmente sopra, rimbalzando anche un po’.     Non feci in tempo nemmeno a togliermi gli stivali, mi addormentai in un lampo.
 
***
 
Mi risvegliai dopo ore, abbastanza intontito, a causa di una mano che mi scuoteva gentilmente una spalla. Mi tirai lentamente a sedere e mi appoggiai allo schienale guardando fuori dalla finestra, giusto in tempo per vedere gli ultimi bagliori del tramonto. Davanti a me, seduta sul letto, c’era Camille.
    – Ben svegliato – mi disse, sorridendo. In tutta risposta, da gran signore quale sono, sbadigliai.
    – Grazie. Che ore sono? –
    – Quasi le otto. Con gli altri abbiamo pensato che probabilmente avresti voluto dare il cambio a Mel – disse lei, non accennando ad alzarsi dal letto. Un po’ mi imbarazzava farmi vedere appena sveglio: probabilmente durante la notte avevo anche sbavato. Mi passai la manica della maglia sulla bocca, giusto per sicurezza.
    – Avete fatto bene, – dissi. Nel frattempo mi era venuta una fame da lupi e mi guardai attorno come un cane da punta. – Non è che giù c’è qualcosa da mangiare? –
    Camille si alzò, dirigendosi verso la porta e appoggiandosi allo stipite.
    – Sì, ti stavamo aspettando per iniziare. Così magari ci dici anche che cosa è successo durante la notte. –
    Annuii distrattamente, guardandomi i piedi appoggiati sul letto. Ero abbastanza sicuro di dovermi dare una lavata per rendermi presentabile.
    – Mi cambio e arrivo – dissi a Camille, iniziando ad alzarmi. Lei annuì e uscì dalla mia camera, chiudendosi la porta alle spalle.
    Dieci minuti dopo ero lavato (sommariamente), cambiato e riposato, e stavo scendendo nella sala al piano terra pronto ad abbattermi come una calamità naturale su qualunque cibo mi si fosse presentato davanti. Mi diressi rapidamente al tavolo dove stavano i miei amici, gioendo internamente alla vista di un piatto fumante lasciato davanti al posto vuoto. Mi sedetti, salutai e iniziai a mangiare.
    – Scusate, – dissi, biascicando a bocca piena. – Ma muoio di fame. –
    – Allora mentre tu ti nutri ti diciamo a cosa siamo arrivati nella giornata di ieri e in quella di oggi, – iniziò a spiegarmi Jared. – Abbiamo trovato tre o quattro interessanti locali nella zona del porto. Probabilmente servivano per stipare il pesce, ma non sappiamo per quale motivo siano caduti in disuso. Sono abbastanza isolati, l’unico problema è che negli orari di arrivo dei pescherecci il porto si popola di persone e potremmo essere sentiti. In più sono lontani dalla guarnigione e immagino che cinque persone che ne trascinano una sesta per mezza città non passino propriamente inosservate. Altrimenti abbiamo trovato un posto, che a me personalmente non fa impazzire, più o meno nella zona del centro della città. È praticamente uno scantinato ed è anche forse un po’ piccolino, nel senso che non so se in sei riusciremmo a starci. In più il palazzo che si sviluppa lì sopra è abitato, quindi diciamo che la probabilità di farsi sentire o almeno vedere è parecchio alta. –
    Io tacqui e mi presi un pezzo di pane mentre Jared, Andreas e Camille iniziavano un’accurata dissertazione su quale posto secondo loro fosse il migliore. Quando finalmente mi sentii completamente rifocillato, mi introdussi nel discorso.
    – Quindi, – dissi. – Se ho capito bene il problema principale di un posto è la lontananza, dell’altro l’impossibilità di mantenere la discrezione. Secondo me bisogna cercare ancora. Quel tipo e i suoi compari l’altra sera bazzicavano nella zone ad est della città, quella un po’ malfamata. Se stanotte ci torneranno allora forse bisogna iniziare a pensare di trovare un posto adeguato lì, in modo da fare tutte le cose con comodo. Quando arriverò qui domani mattina vi saprò di sicuro dire qualcosa. –
    – Mi sembra una buona idea – mi rispose Andreas.
    Chiacchierammo ancora del più e del meno per qualche minuto e poi, dopo averli salutati, uscii per andare da Mel e iniziare il mio turno. Mi disse che non era capitato nulla di rilevante durante il giorno e ben presto se ne andò lasciandomi solo a osservare. La notte passò come quella precedente: più o meno alla stessa ora il Viscido Hyatt uscì dalla sua tana attorniato dai suoi amici e poi il gruppo si diresse verso gli stessi posti della sera prima, dei quali erano con ogni probabilità dei clienti abituali. Stesse locande, stesse case di piacere.
    L’unica cosa nuova che si aggiunse al tour fu un combattimento palesemente illegale di cani, dove l’allegro gruppetto scommise quella che, dal mio punto di osservazione, sembrava una mazzetta esagerata di quattrini. Dove riuscissero a trovare tutti quei soldi mi sfuggiva, visto che non avevo mai avuto notizie di stipendi così alti per i militari.
    Dopo ore arrivò finalmente l’alba, comunque sempre troppo tardi. Il nostro obiettivo si ritirò per farsi una sana dormita mentre io aspettai Mel mezzo congelato. Tornai poi al Drago Verde, riferii quello che avevo visto al MaiDormienteAndreas e me ne andai a dormire.
    La routine proseguì uguale per altri due giorni, quando finalmente al quinto giorno dall’inizio del pedinamento, ci furono novità. Jared, Andreas e Camille avevano trovato un posto adatto al nostro scopo: una catapecchia fatiscente che aveva, al di sotto di essa, una grande cantina. Attorno c’erano poche case, la maggior parte delle quali erano disabitate e mezzo crollate. La zona era al limitare della città, a circa un quarto d’ora dai posti solitamente frequentati da Hyatt e dai suoi allegri compari, abitato da gente abbastanza malfamata che non si sarebbe mai fatta troppe domande.
    Decidemmo di prenderci quel giorno di riposo e di agire la notte seguente, per essere adeguatamente riposati. Saremmo andati tutti e cinque e avremmo lasciato poi il Drago Verde per non tornarci più, con sommo dispiacere di Jared e dell’esercito di cameriere. Trasferimmo tutto quello che ci sarebbe potuto servire nella casa che avevamo trovato e al calare della notte uscimmo, diretti verso la guarnigione.
    Avevamo deciso di dare la classica botta in testa ad Hyatt e di uccidere gli uomini con lui, per evitare di lasciare testimoni. Avrei voluto che Camille ci aspettasse alla casupola e non venisse con noi, giusto per evitare scenate tipo quella al porto, ma la ragazza fu irremovibile, giurando che non ci sarebbe stata d’impaccio. Arrivammo al solito posto davanti alla guarnigione e ci appostammo sui tetti, aspettando l’uscita del nostro uomo.
    Come da programma, dopo il tramonto Hyatt uscì accompagnato questa volta da cinque compari, tra i quali anche un ragazzino di poco più di sedici anni, almeno da quello che potevo scorgere dall’alto dei tetti. Eravamo di nuovo tutti vestiti di nero nell’uniforme degli Assassini, completamente invisibili al buio e con i visi coperti, rendendo impossibile il nostro riconoscimento. Avevamo deciso di agire quando il gruppo fosse uscito dal “Barile d’Oro”, una locanda pulciosa che era sempre inevitabilmente sul loro percorso: di solito ne uscivano talmente ubriachi che facevano fatica anche a camminare e la cosa avrebbe solo potuto esserci d’aiuto. Ci sarebbero state meno difficoltà per noi. Verso le tre di notte, almeno a giudicare dalla posizione della luna, Hyatt e compagni entrarono nel locale e come da programma ne uscirono completamente bevuti. Noi eravamo già scesi dai tetti e li stavamo aspettando appostati dietro gli angoli delle case, invisibili e pronti all’azione. Mel, il più grosso di tutti noi, aveva il compito di stordire Hyatt e proprio per quello scopo aveva in mano uno spesso ramo di legno pesante, trovato un paio di giorni prima per la strada. Io avrei dovuto uccidere due uomini; Jared, Andreas e Camille ne avevano uno a testa. Sperai fortemente che tutto andasse secondo i nostri piani e soprattutto che Camille non incontrasse difficoltà. Presi in mano un pugnale da lancio e nell’altra impugnai una delle mie due spade, saldamente. Feci un grosso respiro per svuotare la mente e poi aspettai.
    Come se ci fossimo dati un comando, nello stesso momento uscimmo dall’ombra. Lanciai il pugnale verso uno degli uomini, colpendolo al collo. Cadde a terra senza nemmeno emettere un lamento. Mi lanciai sul secondo uomo con un balzo, ringhiando, la spada stretta in mano. Lui non fece nemmeno in tempo ad estrarre la sua che un palmo di acciaio gli spuntava dalla schiena, brillando alla leggera luce arancione delle lanterne. Estrassi la lama e lo vidi cadere per terra, tenendosi il petto. Il suo sangue sembrava nero nella luce della strada. Lo guardai in viso distrattamente e mi accorsi che era il ragazzo che avevo visto dai tetti, quello poco più giovane di me. Probabilmente era la prima volta che usciva per andare a donne e per bere e si era trovato lì solo per una sfortunata coincidenza. Mi guardai intorno e vidi i corpi di sei uomini per terra, i miei amici erano tutti illesi e con ancora le armi in mano. Nessuno di noi era ferito e anche Camille sembrava stare bene. Distolsi lo sguardo e mi avvicinai al primo uomo che avevo ucciso, per recuperare il coltello. Strusciai la lama della spada sui suoi vestiti per ripulirla del sangue, mentre attorno a me i miei amici facevano lo stesso. Una volta finito, ci guardammo negli occhi. Senza una parola, Mel si caricò sulle spalle il corpo inerte di Hyatt e poi corremmo via nella notte, silenziosi e letali.
 
***
 
Un’ora dopo avevamo legato Hyatt a una sedia nella cantina della casa base. Non l’avevo ancora vista e mi congratulai mentalmente per la scelta di Jared, Andreas e Camille: era decisamente il posto che ci serviva. Era una stanza quadrata vuota eccetto solo per la sedia su cui era seduto il Viscido e un tavolaccio di legno sul muro alla mia destra.
Sulle pareti correvano strisce di muffa verdastra e un odore di umido impregnava l’aria. Da una botola sul soffitto scendeva una scala a pioli, tramite la quale si raggiungeva il piano di sopra dove ci sarebbe stata Camille, dal momento che nessuno di noi voleva che vedesse quello che avremmo dovuto fare. Sul tavolo al nostro fianco c’erano dei coltelli affilati e leggermente ricurvi, e delle tenaglie di varia misura, inquietanti. Eravamo pronti a far dire a quell’uomo tutto ciò che sapeva, che fosse con le buone o con le cattive, e tra di noi Mel si era stranamente offerto di fare il lavoro sporco.
    Hyatt non si era ancora svegliato e già una chiazza di sangue rossastro si stagliava sul retro della sua testa: Mel c’era andato giù pesante. Guardammo l’uomo per un po’ con le braccia incrociate, disposti a semicerchio davanti a lui e aspettando non so quale intervento divino prima di iniziare. Finalmente Jared prese l’iniziativa lanciandogli una secchiata d’acqua dritta in viso e Hyatt aprì gli occhi, dirigendo lo sguardo ancora offuscato verso di noi.
    – Dove… Dove sono? Chi siete? – disse, con voce ancora instabile, iniziando a tirare leggermente le corde che gli legavano i polsi.
    Nessuno gli rispose.
    – Voi non sapete chi sono! Tra neanche due ore avrete tutta la guarnigione alle calcagna! –
    Ancora silenzio.
    – Sono un capitano dell’esercito! E vi ordino di lasciarmi andare! – Sembrava più stupito che spaventato, sconvolto che qualcuno avesse osato rapirlo.
    Mel gli si avvicinò e gli tirò un pugno in viso, sotto la forza del quale Hyatt si piegò di lato senza però perdere di nuovo i sensi. Il mio amico gli si avvicinò all’orecchio, sussurrandogli minaccioso: – Qua gli ordini li diamo noi. –
    Quando si tirò su ci allontanammo tutti e salimmo al piano di sopra, lasciando l’uomo da solo nello scantinato. Scendemmo di nuovo un paio d’ore dopo trovando Hyatt ancora accasciato sulla sedia, con gli occhi che correvano nervosi da una parte all’altra della stanza. Probabilmente si stava chiedendo come mai non si era ancora fatto vivo nessuno per il suo salvataggio, anche se la cosa non avrebbe dovuto stupirlo troppo. Non mi dava l’impressione di essere troppo benvoluto, nella guarnigione: doveva essere uno di quei tipi crudeli con i sottoposti e servili con i superiori. Non il genere di persona che possa piacere, insomma.
    – Cosa volete da me? – il suo occhio buono guizzava tra di noi talmente veloce che era difficile seguirlo. – Lasciatemi andare! –
    Bisognava assolutamente fargli capire chi comandava, altrimenti non ci avrebbe mai detto nulla. Dovevamo spaventarlo, fargli temere per la sua vita. Questa volta gli si avvicinò Jared, lo guardò dritto negli occhi e gli diede un pugno, e poi un altro, e un altro. Senza dire una parola, in un silenzio tombale. Poi, di nuovo, quando Hyatt era ormai quasi sull’orlo dell’incoscienza, lasciammo la sala. Facemmo questo giochetto ancora un paio di volte fino a che potemmo vedere la paura nei suoi occhi quando scendevamo dalle scale a pioli, tornando nella stanza sotterranea. Finalmente avremmo potuto iniziare a fare domande.
    – Vedi, capitano, – dissi con tono sprezzante. – Ci sono delle cose che vogliamo sapere da te. –
    – Vi dirò tutto quello che so. – La voce dell’uomo era tremante.
    Un cenno di assenso: – Molto bene. Per iniziare, hai mai visto di persona la principessa Camille Coverano? –
    – No, mai, lo giuro! –
    Gli sorrisi, in un modo che voleva essere terrificante: – Risposta sbagliata. –    
    Mel gli si avvicinò con una lama molto sottile in mano, aprendogli un taglio lungo e poco profondo sul torace, da spalla a spalla. Hyatt urlò. Non doveva essere abituato al dolore. Mi accucciai davanti a lui, parlando a voce bassa, sommessa.
    – Riproviamo. Hai mai visto di persona Camille Coverano? –
    Un tremito. – Sì. –
    – Molto bene. Quando e dove? –
    – Qui a Melusine, a… al porto. È venuta lei da me! Da me e dalle mie guardie! – i suoi occhi rimanevano fissi sulla lama in mano a Mel, non riusciva a distogliere lo sguardo.
    – E poi? – Mel iniziò ad avvicinarglisi con andatura lenta, facendo baluginare la lama nella luce soffusa della cantina.
    – E poi la stavamo scortando a palazzo per salvarla ma è scappata! – gli uscì praticamente uno strillo.    
    Mel si avvicinò ulteriormente e gli fece un altro taglio, lungo e profondo, parallelo al primo. Aveva tutta la calma del mondo. Hyatt si scosse sulla sedia, cercando di districare i legacci che lo trattenevano, urlando.
    – Non è la verità. Meglio che tu sia completamente sincero quando parli con noi. –
    – S… sì. A… avevamo l’ordine d… di portarla a palazzo, poi lì sa… sarebbe stata uccisa. Ma è scappata, lo giuro! –
Annuii e mi ritirai; al mio posto si fece avanti Andreas.
    – Chi aveva dato l’ordine? – gli chiese, distrattamente, giochicchiando con gli strumenti che c’erano sul tavolo di legno. Hyatt deglutì rumorosamente ma non rispose. Di nuovo, Mel lo ferì con il coltello.
    – Allora? Non amo ripetermi. –
    – Il Comandante della Guardia degli Auremore, Lord San! – ci urlò contro.
    – Molto bene, – gli rispose Andreas. – Adesso iniziamo con la parte divertente. Cerca di fare mente locale, ti servirà. Nel 1620 più o meno in questo periodo dell’anno, cosa facevi? –
    – I… io ero marinaio, signore. –
    Un ghigno. – E da dove vieni? –
    – Da Dimina! –
    Andreas fece un segno a Mel, che questa volta posò il coltello e optò per delle pinze. Gli prese una mano e, senza nessuna fretta, gli strappò un’unghia. L’urlo fu atroce.
    – Sai, noi conosciamo gli accenti delle varie nazioni e il tuo assomiglia in modo sbalorditivo al nostro. Purtroppo però, noi non veniamo da Dimina. Quindi, di nuovo, da dove vieni? –  
    – Da Viride! Vengo da Viride! – piagnucolò. Chiusi per un momento gli occhi, cercando di rintanarmi in qualche parte lontana di me. Quello che stavamo facendo era necessario, non c’era altro modo, ma nonostante ciò detestavo la tortura. È in grado di rendere un uomo coraggioso il più vile di tutti. Mi pentii, come faccio sempre in questi casi, della mia scelta di qualche giorno prima: all’improvviso l’opzione del pagamento non mi sembrava così improponibile, anche se sapevo benissimo che non avrebbe portato a nulla. Quello che stavamo facendo era l’unica scelta possibile.
    Questa volta parlò Jared.
    – E cosa ci fai come capitano di guarnigione a Dimina, Viridiano? –  
    – I… io… –
    Un’altra unghia, un altro grido.
    – Io sono stato premiato. –
    – Per cosa? E da chi? –
    Non parlò. Mel gli si avvicinò di nuovo ma questa volta Hyatt decise di dirci quello che volevamo sapere prima di perdere un’altra unghia.
    – Abbiamo… abbiamo ucciso il principe Adrian Coverano e i suoi due figli. –
    Silenzio. Eccolo lì, quello che ci serviva. Non era niente di che, solo poche parole, ma almeno finalmente avevamo la sicurezza che le nostre congetture erano giuste. Qualcuno aveva ordinato l’omicidio del Principe ereditario e dei suoi due figli, ed era sopravvissuto impunito per più di dieci anni.
    – Raccontaci. –
    – Eravamo l’equipaggio della nave che li avrebbe dovuti portare a Dimina. Ci siamo ammutinati e li abbiamo uccisi, poi abbiamo colato a picco la nave. Appena arrivati su suolo diminiano siamo stati separati, a ognuno di noi è stata data una casa, un mucchio di soldi, e un grado nell’esercito della nazione. –
    – Molto bene. Ci serve un’ultima cosa: il nome del tuo comandante, qual era? –
    Ormai Hyatt non faceva nemmeno più resistenza. Il suo torace era ridotto a un grumo sanguinolento, dalla mano destra gocce rosse cadevano sul pavimento.
    – Si chiamava Lod. Lod Carean. –
    – Sai dove si trova adesso? – gli chiese Mel. Hyatt sobbalzò al suono della sua voce.
    – Parlava… parlava di Basilea. Ma non ne sono sicuro! –
    Ci guardammo tutti, in silenzio. Avevamo quello che ci serviva, non avevamo bisogno di stare ulteriormente in quello scantinato. Ci dirigemmo tutti alla scala che pendeva dal soffitto, per raggiungere la botola che portava al piano di sopra. Solo Mel, dopo averci fatto un cenno col capo, rimase giù.
    Nella stanza di sopra c’era Camille che guardava con aria assorta dalla finestra, continuando a girarsi e rigirarsi tra le mani un ciondolo. Ci fece un sorriso tirato quando ci vide, aveva certamente capito tutto quello che era successo. Di sicuro aveva sentito le urla. Io mi sentivo sporco, indegno di parlare con lei: per quanto spregevole fosse quell’uomo non mi era piaciuto quello che avevamo dovuto fare. Non mi ci sarei mai abituato e forse ero contento così. La tortura è qualcosa di spregevole, umiliante. Mille volte meglio una morte pulita, con una lama in mano durante un combattimento alla luce del sole.
    I raggi del sole del mattino passavano dalle finestre luride, dando un’aria ancora più squallida alla casa in cui ci trovavamo. Dopo pochi minuti anche Mel fece capolino dalla botola e mentre si sollevava potei intravedere il cadavere di Hyatt ancora legato sulla sedia. L’avremmo lasciato lì, nessuno sarebbe andato a cercarlo e nessuno ne avrebbe nemmeno mai sentito la mancanza. Ci guardammo, e mentre noi quattro avevamo sì facce serie e tirate, solo Camille sembrava stravolta dagli eventi che aveva dovuto sopportare. Noi non ne eravamo felici ma ci eravamo abituati: non era la prima volta che ci toccava il lavoro sporco; lei invece non aveva mai dovuto neanche vedere niente di simile, figurarsi farlo. Gli occhi verdi rimanevano vuoti e sbarrati sul mondo, la luce che fino a poche ore prima si poteva vedere era del tutto sparita e non avrei saputo dire quando sarebbe ricomparsa.
    Presi la parola: – Andiamocene da qui. –
    Nessuno commentò e persino Jared era innaturalmente silenzioso. Tutti però mi seguirono oltre la porta di quella casa maledetta.
 
***

Tre ore dopo eravamo al porto, su una nave diretta a Basilea che sarebbe partita nel giro di qualche minuto. Melusine si trovava su una grossa isola facente parte del territorio Diminiano e per raggiungere l’altra città avremmo di nuovo dovuto attraversare il mare, sperando questa volta nella clemenza degli elementi.
    Fortunatamente la nave che ci aveva accolto come passeggeri batteva bandiera di Viride e il comandante si sarebbe accontentato della nostra parola per aiutarci, in onore della nostra nazionalità. Non si trovano più molte persone così, oggigiorno. In più sarebbero ripartiti immediatamente da Basilea diretti verso il nord, quindi con un po’ di fortuna sarebbero stati abbastanza lontani dalla lunga mano della Corporazione. Niente omicidi gratuiti, per questa volta.       
    Il mare quando partimmo sembrava una tavola, illuminato dal rosso, giallo, arancione e verde del tramonto. Rimasi sul ponte fino a che la città di Melusine scomparve alla vista, annusando l’odore salmastro del mare con Camille accanto a me e la sua testa sulla mia spalla, a occhi chiusi. Lentamente i ricordi del pomeriggio si ritirarono, cessando di perseguitarci e lasciandoci respirare. Non parlammo di nulla ma rimanemmo così, vicini, e allora capii che nonostante tutto la vita non era poi così male.
 
 
Ore dopo, porto di Melusine

Un uomo vestito di nero percorreva con passi sicuri e veloci il pontile, diretto verso l’ennesimo locale di quella sera, in una ricerca incessante. Sperava di trovare qualche traccia, qualche pista che avrebbe potuto metterlo sulla giusta via e permettergli di catturare le sue prede. Entrò sicuro nella casa di piacere sbattendo le porte, senza che questo facesse cessare i rumori di gridolini femminili, di boccali sbattuti sul legno, di voci basse e roche. Bloccò ogni persona che gli si parava davanti mostrando un foglio di carta da cui quattro volti disegnati a inchiostro ricambiavano lo sguardo. Nessuno li aveva visti, sembrava che da lì non fossero passati. Finalmente, quando aveva quasi perso le speranze ed era pronto ad affrontare la notte, un uomo gli diede la risposta che cercava. Li aveva visti poche ore prima lì, al porto, vicino a un bastimento che era ormai salpato per Basilea. L’uomo in nero si concesse di sedersi, prendendo da bere e occhieggiando le donne discinte che gli passavano vicino. Aveva una pista e quei quattro disertori non avrebbero più avuto una vita facile: non si scappa così facilmente dalla Corporazione degli Assassini. Sarebbe andato a prenderli.    

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Capitolo 9
*** IX ***


CAPITOLO IX
 
CAMILLE

 
Il viaggio fino a Basilea, incredibilmente, andò bene. Nessun fortunale, niente onde maligne che cercavano di ribaltarti, niente vento che spazzava la chiglia e, ultimo ma non per importanza, nessuno che vomitava in giro. A parte Jared, in effetti, ma gli altri mi spiegarono che lui non faceva testo perché appena metteva anche solo un piede sul ponte di una nave quello era il risultato.
    Il comandante della nave si dimostrò un galantuomo e mi cedette persino la sua cabina durante la traversata perché, parole sue, “una signora non può dormire in una stanza qualunque”. Mi ripromisi che mi sarei ricordata di quella cortesia.
    Basilea era la capitale d’Autunno degli Auremore e, come mi spiegarono Marcus e Andreas mentre sbarcavamo dalla nave, questo era particolarmente pericoloso per noi: eravamo in pieno ottobre e quindi era proprio lì che si trovava in quel momento la famiglia reale con tutta la sua corte e, soprattutto, con tutti i suoi soldati. Pattuglie armate giravano per le strade per tenere la situazione sotto controllo e proteggere i regnanti, rendendo molto difficile fare qualsiasi cosa senza venire notati.
    A parer mio la città era la meno bella tra le capitali di Dimina, anche se rimaneva comunque molto affascinante. Sorgeva sulle sponde del mare, di cui i diminiani erano padroni. Si diceva che nessuna flotta potesse competere con quelle di questo paese e, anche se era da anni che non c’era una guerra, i libri di storia parlavano di battaglie per il controllo delle acque in cui le navi di Dimina distrussero completamente quelle avversarie, rendendole legno marcio sul fondo del mare e cibo per i pesci.
    Il palazzo d’Autunno era stato costruito su un istmo roccioso circondato dalle acque, lontano dalla città. Si diceva galleggiasse sul mare per un miracolo divino, ma la verità era che i costruttori al servizio degli Auremore erano solo molto bravi a fare il loro lavoro.
    Dalle balconate e dai giardini cascate d’acqua portata dai fiumi si riversavano nel mare sottostante, rendendo splendida la vista al tramonto e all’alba, quando la luce del sole si rifletteva sugli schizzi e sulla spuma delle onde. Lo so perché tanti anni fa, quando mio padre era ancora in vita, la mia famiglia era stata invitata ad un evento ufficiale e, essendo pieno autunno, si era svolto lì. Quello che mi passò sotto gli occhi mentre percorrevamo la città dopo essere sbarcati, però, era completamente diverso da quello che avevo visto da bambina dalle mura del Palazzo Reale.
    Basilea era sempre stata famosa per la pelle e per il cuoio, ma mai avevo collegato una di queste cose con la puzza che c’era nell’aria. Era un odore pungente e, almeno per me, sgradevole, che penetrava nel naso non togliendosi più, coprendo ogni altra cosa. Case rosse, costruite con la pietra che veniva estratta ancora adesso dalle cave disseminate per il regno, sorgevano a ogni angolo. Era una delle città più popolose dell’intera nazione e quindi decine e decine di persone si ammassavano l’una sull’altra, percorrendo le vie dritte e insensatamente strette della capitale.
    Per me, nata e cresciuta a corte e vissuta per due anni in un villaggio sperduto dentro a un bosco, una visione del genere era inconcepibile e anche spaventosa. Continuavo a venire urtata, spintonata, toccata da sconosciuti che camminavano senza curarsi della gente attorno, procedendo per la loro strada senza deviare di nemmeno un passo.         C’erano rumori da ogni parte: urla, risate, pianti di bambini, voci, nitriti di cavalli, rumori di carri che avanzavano cigolando. Sentii improvvisamente una strana sensazione di panico avanzare dentro di me, mozzandomi il respiro che iniziò a uscire dalle mie labbra sempre più rapido e meno profondo. Ovunque girassi la testa c’erano persone. Mi mancava l’aria. Non so come se ne accorse, ma a un certo punto Marcus mi prese la mano, tirandomi verso di sé.
    – Guarda verso l’alto, Camille, e respira. –
    Mi addossai a lui e feci come mi aveva detto. Guardai il cielo bianco percorso da basse nuvole lattiginose, togliendo dal mio campo visivo le teste di tutta quella gente che mi pressava da ogni lato. Chiusi gli occhi e sentii l’aria entrare e uscire dai miei polmoni, tranquillizzandomi. La puzza sfortunatamente era ancora lì, ma adesso era parzialmente coperta da un odore diverso, piacevole, pungente e fresco. Feci un respiro profondo e aprii gli occhi, trovando Marcus che mi fissava accigliato dall’alto, accorgendomi che l’odore che sentivo era il suo. Eravamo come un’isola ferma in mezzo alla fiumana di gente e solo in quel momento mi resi conto di quanto eravamo vicini, praticamente abbracciati. Avvampai e mi staccai in fretta.
    – Va meglio? – mi chiese.
    – Sì, non so cosa mi sia preso, – feci una risata stentata, tirando indietro una ciocca di capelli che era sfuggita dalla treccia. – Grazie. –
    Lui annuì sorridendo e stava per dire qualcosa quando fu interrotto da un urlo belluino di Jared.
    – Vi muovete? Se ci perdiamo qui non ci ritroveremo mai più! –
    – Arriviamo! – gli urlò Marcus, per poi rivolgersi a me. – Stammi vicino, va bene? Anche se spero che tra poco usciremo da questa bolgia. –
    Feci come mi aveva detto e in effetti, dopo poco, girammo in un vicolo più tranquillo, per riprendere fiato e cercare di capire cosa fare, visto che avevamo evitato di parlare troppo sulla nave per non rischiare che le nostre parole finissero nelle orecchie sbagliate. Come si dice, fidarsi è bene ma forse non fidarsi è meglio.
    La strada che avevamo preso era un vicolo cieco chiuso dal cancello in ferro battuto di una grande casa, che faceva ombra e toglieva quella poca luce che veniva dal cielo coperto. Faceva freddo lontano dalla folla, che si muoveva e rumoreggiava poco lontano nella via principale.
    – Quindi? Che si fa? – chiesi.
    – Come che si fa? Dobbiamo trovare questo tale Carean – mi rispose Andreas.
    – Grazie, Andreas, fino a qui ci arrivavo da sola, – ribattei con uno sbuffo impaziente. – Che cosa vi ha detto Hyatt su di lui? –
    Non avevamo ancora parlato bene di quello che era successo nella cantina, a Melusine. Loro mi avevano detto a grandi linee cosa avevano scoperto e io avevo capito che l’uomo era stato torturato e poi ucciso. Più ci pensavo più mi incupivo. Avrei davvero dovuto camminare sui cadaveri per ottenere il mio trono? Ero pronta a farlo? Scossi la testa scacciando quei pensieri, ripetendomi che avrei fatto qualunque cosa sarebbe stata necessaria per ottenere ciò che mi spettava di diritto. E poi quell’uomo era disgustoso, viscido e malvagio, ed era un assassino. Così come lo erano gli uomini vicino a me, mi ricordò una vocina nel mio cervello che decisi di ignorare. In quel momento presi una decisione: non avrei lasciato che Marcus e gli altri facessero tutto il lavoro sporco, ma da quel momento in avanti avrei fatto ogni cosa insieme a loro. Solo così avrei avuto davvero la consapevolezza di quello che stavo facendo, di quanto sarebbe costata la mia vendetta.
    – Non molto in realtà, – mi rispose Mel. – Se non che è arrivato fino a qui, con un posto nell’esercito pronto da prendere. Se poi abbia colto l’occasione non lo sappiamo e non sappiamo se si sia spostato. Le informazioni sono vecchie di almeno dieci anni e non ne abbiamo altre. –
    Le mie sopracciglia schizzarono verso l’alto: – Quindi non sappiamo praticamente niente? –
    – Esatto. –
    Fantastico. Davvero fantastico. Che poi, che mi aspettavo? Seguivamo una pista vecchia di dodici anni e non c’era garanzia che saremmo riusciti a percorrerla fino alla fine, visto il tipo di soggetti che cercavamo. Magari erano già tutti morti e sepolti e la nostra ricerca era destinata a fallire. Non avevo mai pensato alle cose da quel punto di vista e uno strano panico si fece strada dentro di me. Si diceva che si capiva quanto si voleva una cosa nel momento in cui ti veniva tolta, e io d’improvviso capii che il desiderio della vendetta era quanto di più forte c’era nel mio corpo: la possibilità di non ottenerla mi mozzava il fiato. Sarei andata fino in fondo a quella storia, a qualunque costo.
    – Sono solo le due di pomeriggio, – disse Marcus. – Direi che possiamo fare un giro per la città cercando di capire come orientarci, visto che non sono l’unico a non essere mai stato qui. Che ne dite? –
Annuimmo tutti, sperando che la giornata ci portasse consiglio. Dopo pochi minuti c’eravamo già di nuovo tuffati nel caos della via principale.
               
***
 
Ore dopo non avevamo cavato un ragno dal buco: avevamo più o meno imparato come orientarci nella città ma per quanto riguardava il nostro uomo non avevamo trovato niente che avrebbe potuto aiutarci nella ricerca.
    In quel preciso momento stavamo comprando da mangiare da un banco in mezzo alla strada, che vendeva forme di pane scavata all’interno contenenti una zuppa di pesce. Avevo talmente fame che sarei potuta svenire e l’odore del cibo mi sembrava provenire direttamente dal paradiso, mentre il sapore era ancora migliore.         
    Decidemmo durante la cena improvvisata di cercare due posti separati dove dormire, per evitare di rendere troppo facile la vita agli Assassini della Corporazione che ormai, secondo Andreas, si erano messi inevitabilmente sulle nostre tracce. Purtroppo, a differenza di Melusine, Jared non aveva nessun contatto con affascinanti cameriere di locanda, quindi ci accontentammo di quello che ci capitò sotto tiro.
    Io, Marcus e Andreas ci dirigemmo verso quella consigliataci dal venditore di zuppe, poco lontano dal centro città, mentre Mel e Jared andarono alla ricerca di un altro posto dove poter riposare. L’appuntamento era per il giorno dopo alle 8 di mattina (e avevamo dovuto lottare per convincere Andreas che non era troppo tardi), in una piazzetta in cui eravamo capitati ripetutamente durante il giorno.
    La locanda consigliataci, che rispondeva al nome molto sobrio di “La moglie ubriaca”, era pulita e semplice, che per quanto mi riguardava era il massimo che potevo desiderare. La notte passò tranquilla e il mattino dopo ci dirigemmo puliti, riposati e sazi verso il luogo dell’incontro dove i nostri amici ci aspettavano. Avvicinandoci ci accorgemmo però che, mentre Mel era seduto sul bordo di pietra della fontana in mezzo alla piazza, Jared era stravaccato su una panchina poco distante, praticamente incosciente.
    – Tutto bene? – chiese Marcus, avvicinandosi a Mel, guardando preoccupato Jared che non dava segno di vita.
    – Sì, grazie, e voi? – rispose lui, con un sorriso riposato stampato sul volto.
    Marcus lo guardò come se avesse dei problemi mentali, e io feci una risatina, seguita subito da Andreas.
    – Noi tutto a posto, – dissi ancora ridacchiando, riempiendo il silenzio creato da Marcus. – Ma Jared? Che ha? –
    Un mugolio provenne dalla panchina dove stava sdraiato Jared, che veniva guardato malamente dalle persone che gli passavano vicino.
    – Ah, sì. Siamo andati a bere ieri sera e ha iniziato a dire che era in grado di reggere più di me. – fece Mel alzandosi, mentre Marcus e Andreas fissavano Jared da lontano con aria sconvolta e sopracciglia alzate.
    – Non lo facevo così stupido – disse Marcus, con le mani sui fianchi, in una replica perfetta di una mamma che sgrida il figlio dopo che questo ha combinato qualche pasticcio. Jared fece un verso più forte degli altri.
    Lo guardai stupita: – Io non ci vedo nulla di così strano, anche se il tempismo non è stato dei migliori. Voi uomini non lo fate ogni tanto? – 
    – Si vede che non hai mai visto bere Mel, è uno spettacolo quasi spaventoso, – mi rispose Andreas che, con Marcus, si stava dirigendo verso Jared. – E comunque non siamo solo “noi uomini” a farlo, ci sono delle ragazze che finiscono tramortite sotto il tavolo molto dopo di me. –
    Sorrisi all’immagine mentre Andreas e Marcus prendevano da sotto le ascelle Jared, per tirarlo in piedi. Lui biascicò qualcosa in un tentativo di rivolta, ma palesemente aveva qualche difficoltà sia nel pronunciare parole di senso compiuto sia nel camminare autonomamente. Lo portarono di forza fino alla fontana e poi, sotto lo sguardo divertito di Mel e mio, gli misero la testa nell’acqua gelida. Jared iniziò a muoversi e dimenarsi e quando gli tirarono fuori la testa i capelli argentei erano gocciolanti, ma almeno gli occhi blu iniziavano ad aprirsi. Ripeterono il procedimento per un paio di volte, fino a quando nello sguardo di Jared rimase solo una minima traccia di annebbiamento e i vapori dell’alcol non furono scacciati dal freddo. La casacca era fradicia, come anche le maniche e i capelli.
    – Basta, basta! Sono sveglio! – urlò, subito prima di essere lasciato dagli amici.
    – Molto bene, – gli rispose Marcus, dandogli una pacca sulla spalla bagnata. – Perché ci servi sobrio e attento. –
               
***
 
Dopo poco stavamo dirigendoci verso zone diverse della città, per continuare la nostra azione di ricerca. Avevamo deciso di iniziare a chiedere in giro, con circospezione, se qualcuno conoscesse Lod Carean. Avremmo evitato la guarnigione dell’esercito per non attirare troppo l’attenzione, ma non avevamo un posto specifico in cui andare a chiedere. Avremmo dovuto battere tutta città e forse qualcosa sarebbe venuto fuori. Ci dividemmo e scegliemmo una zona da perlustrare: a me e a Marcus toccò la zona nord (a quanto pare non si fidavano a farmi girare da sola), a Mel la zona sud, a Jared l’ovest e ad Andreas, ovviamente, l’est. Ci saremmo trovati per le nove di sera alla piazza della fontana, sperando di avere buone notizie. Altrimenti avremmo dovuto inventarci qualcos’altro e non sapevo assolutamente che cosa avremmo potuto fare.
    Il nord della città di Basilea era occupato per la maggior parte da una classe di gente comune arricchita: non c’erano poveri ma nemmeno nobili e molti di quelli che abitavano in questa zona erano mercanti che avevano potuto migliorare la loro vita con il commercio. Era come entrare in un mondo a parte, diverso dalla zona del porto con le sue case piccole e anche un po’ pericolanti, ma anche totalmente differente dalla città vicino al castello reale, con abitazioni enormi e marmi pregiati.
    Lì dove eravamo noi le case erano sì grandi, ma costruite con i mattoni rossi tipici della zona, i giardini erano comuni e molto curati, c’erano fontane di pietra bianca, calcarea, in ogni piazza, e le vie erano costeggiate da file di alberi di Sahar che, a quanto potevo vedere, erano stati potati da poco. Persone ben vestite percorrevano le strade, alcune viaggiavano a cavallo e altre in carrozza, ma comunque non c’erano il caos e la confusione che vigevano nel resto della città. Tutti sembravano tranquilli e senza fretta, e anche stranamente cortesi. Nessuno ci guardò con sospetto e anzi, qualche uomo mi fece persino un elegante cenno del capo passandomi vicino, nonostante non avessi proprio l’aspetto di una nobildonna. Ogni cosa era rilassata, come se fossimo in un mondo a parte. Non mi sarei stupita di scoprire che la zona in cui ci trovavamo era recintata e che i cittadini comuni non potessero raggiungerla se non sotto invito. Le guardie reali, onnipresenti in città, passavano davanti a noi ignorandoci e tenendo alti gli stemmi degli Auremore. Marcus camminava vicino a me in costante ammirazione, girando la testa da una parte all’altra della strada, fissando ogni cosa, facendomi temere che gli cascasse dal collo e rotolasse per la strada.
    – Eri mai venuto qua prima? – gli domandai, vedendo la sua curiosità.
    – No, mai. Avevo visitato Melusine e la Capitale d’Inverno, Vilena, ma Basilea mi mancava ancora. E poi ho visto decine di cittadine disperse per le campagne, ma quelle non fanno testo. –
    – E ti sta piacendo? –
    – Moltissimo, anche se credo che la mia preferita tra le città di Dimina rimanga Vilena, almeno per ora. Ci sei mai stata? –
    – Una volta, tanto tempo fa. Mi ricordo solo neve e ghiaccio, niente che mi avesse entusiasmato particolarmente. Preferisco Elea, che per me è la più bella di tutte – dissi e mi accorsi che era davvero da tanto tempo che non vedevo la mia città. Mi mancava casa mia.
    – Io non ci trovo niente di che, in Elea. È banale. Qui invece c’è così tanto e molte cose sono diverse rispetto a come sono da noi. Ma ciò che mi piacerebbe di più in assoluto sarebbe vedere le grandi città del Sud, come Egalia, la Regina del Deserto – mi disse, e mentre mi parlava mi accorsi che gli luccicavano gli occhi.
    – Ti piace viaggiare? – gli chiesi, sorridendo, e mi resi conto che da quando eravamo arrivati nella nostra zona della città non avevamo fatto altro che chiacchierare, lasciando perdere la nostra ricerca. Tanto la giornata era lunga, mi dissi; di tempo ne avevamo. Però tra me e me sapevo benissimo che non avremmo iniziato tanto presto con la ricerca di Carean, visto che quello che stavamo facendo era di gran lunga un’attività migliore.
    – Sì, tanto. Soprattutto per mare, nonostante la scena impietosa del viaggio verso Melusine. Credo che se non facessi quello che faccio sarei un marinaio, di quelli che coprono la rotta per il commercio di sete e spezie, lungo tutti i paesi del sud e del nord. E di te invece, che mi dici? Ti piace viaggiare? –
    Ci pensai un po’ su: – Sai, – risposi. – Sono scappata per così tanto tempo che adesso l’unica cosa che vorrei è un po’ di riposo a casa mia. Mi piacerebbe poter stare ad Elea fino ad annoiarmi. Però quando ero piccola mi ricordo che quando mio padre veniva a dirmi che mi avrebbe portata con sé in uno dei suoi viaggi era sempre una festa. –
Sorrisi al ricordo.
    – E che posti hai visto? – mi chiese la voce interessata di Marcus, mentre continuavamo a camminare con calma per le vie di quel quartiere ricco.
    – Ho visto Basilea, Vilena, Melusine e Raissa, la Capitale di Primavera di Dimina. Ho visto Alessandria, a Cesia, e anche alcune oasi nel deserto che la divide da Albis. Sono andata al Lago delle Stelle Cadute, sulla linea di confine delle nazioni del sud. Ma il posto più bello per me rimarrà sempre il Monastero di Hiems. L’unica strada che porta fino a lì passa per le montagne e ci si mettono tre giorni per completarla. Tutti coloro che vogliono arrivare al Monastero devono passare da lì, obbligatoriamente, in una sorta di pellegrinaggio. Sono tutti d’accordo nel dire che è un percorso faticosissimo, anche se per me non è stato così. Sai, i soliti privilegi dei ricchi, io la strada l’ho fatta a dorso di mulo. Una delle cose che voglio fare quando riavrò la mia vita sarà andare là, e questa volta a piedi, come tutti. –
    – È così bello lassù? –
    – Più di quanto tu possa immaginare. Il Monastero è su una delle vette più alte della catena montuosa ed è completamente costruito con pietra bianca. Sembra luccicare quando lo si vede dalla strada. – dissi sorridendo. – Le regole dicono che chiunque vada lassù debba rimanere in silenzio, a pensare, e non ci sono privilegi per Re, Principesse o Regine. I Monaci passano le loro giornate pregando e venerando Lais, la Dea del Cielo che si trova sopra tutti noi. Tutti coloro che arrivano fino a lì possono scegliere cosa fare: si può meditare, o lavorare, o guardare il panorama e, ti giuro, ne vale davvero la pena. È sotto un cielo così blu che fa male guardarlo e dall’alto si vede il lago al fondo della valle, che brilla nella luce del sole. Hanno allevamenti di aquile, lassù, e quindi si vedono e si sentono i rapaci volare nel cielo a qualunque ora del giorno. Ma il vero spettacolo è di notte, quando ti senti così vicino alle stelle da poterle quasi toccare. –
    Marcus mi guardò, serio: – Mi piacerebbe poterci andare, un giorno. –
    – Sarei felice di accompagnartici – gli risposi, inchinando leggermente il capo. Non mi stupii quando mi accorsi che era vero, niente avrebbe potuto rendermi più contenta che visitare quel posto magico con lui.
    Io e Marcus continuammo a chiacchierare del più e del meno mentre camminavamo per le vie di quel quartiere, a Basilea, ed era davvero incredibilmente facile parlare con lui. Gli parlai un po’ della mia infanzia, di come fosse la vita a corte, e lui mi raccontò di come era entrato a far parte della Corporazione degli Assassini e della sua vita lì. Quello che Marcus mi stava dicendo era qualcosa di completamente inumano. Non che lui si lamentasse, o incolpasse qualcuno di ciò che gli era successo, anzi: era tranquillo e sereno mentre me ne parlava, ma per me tutto ciò era semplicemente inconcepibile. Il pensiero che un genitore potesse vendere il proprio figlio e che tutto questo venisse fatto col consenso del Re era terribile.  Sarebbe stata un’altra cosa da cambiare. Non capivo però da dove mi provenissero tutto quello stupore e orrore che sentivo crescere nell’anima: mia madre, in fondo, aveva cercato di uccidermi. Vendere il proprio figlio non era forse qualcosa di meno terribile? Non avevo una risposta, ma sapevo che tutto ciò non era giusto e che sarebbe dovuto cambiare. Come? Non lo sapevo, ma ci avrei pensato una volta avuto il trono.
    In tutto questo il fatto che avremmo dovuto iniziare a chiedere in giro per avere informazioni su Carean ci passò dalla testa. Camminammo come due viaggiatori, incuriositi da ogni cosa, guardando tutto con stupore. Poi a un certo punto sbucammo in una piccola piazza dove sorgeva un tempio stupendo. Si ergeva alto verso il cielo, torreggiando sulle case rosse lì vicine. La pietra color ocra di cui era fatta sembrava aver assorbito il calore del sole, emanando una luce giallastra verso noi che la stavamo guardando. Io e Marcus ci guardammo negli occhi e, senza dire una parola, ci dirigemmo verso l’ingresso costituito da un enorme portone di legno inciso con paesaggi. All’interno si apriva una struttura esagonale, con sei piccole nicchie scavate una in ciascuna parete, e nel centro della sala si stagliava un enorme albero verde, con i rami e le foglie che salivano verso l’alto e il tronco argentato. Da un buco rotondo nel soffitto passava la luce del sole, colpendo in pieno l’albero e illuminandolo di ogni sfumatura del giallo. Attorno ad esso stavano persone inginocchiate, a pregare con un mormorio lento.
    – A Dimina, – mi bisbigliò Marcus, mentre io guardavo con occhi spalancati l’enorme albero davanti a noi. – Venerano, tra gli altri dei, la Natura. È per questo che si trovano templi così, dove si venerano gli enormi alberi di Arain, simbolo del dio. –
    Io annuii in silenzio, non riuscendo a staccare gli occhi dallo spettacolo davanti a me. Non avevo mai visto niente del genere, in nessuno dei miei numerosi viaggi. Quell’albero che cresceva nel tempio era la cosa più straordinaria che avessi mai visto. Sembrava antico e giovane al tempo stesso, e potevo capire come mai i diminiani pensassero che fosse infuso dell’anima di un dio.
    Scossi la testa: – Vedi la differenza? Noi di Viride veneriamo Polemos, la Guerra, e qui pregano la Natura. Sono sempre più convinta che ci sia qualcosa che non va nella nostra nazione. –
    Marcus ridacchiò: – Direi che non servisse venire fino a qui per rendersene conto. –
    Uno degli uomini inginocchiati ci zittì con un sibilo scocciato, guardandoci male. Trattenni una risata e iniziai a girare per il tempio. Sulle pareti mosaici rappresentavano scene di natura, con animali e piante rappresentati benissimo. Nelle nicchie stavano annidati cespugli di fiori, di ogni tipo e colore, e piccoli alberi in miniatura, perfettamente curati. Sulla parete rivolta a est era rappresentato il volto benigno del Dio della Natura, o almeno immaginai fosse lui. Era verde e mi fissava benevolo, come sapendo tutto ciò che stava nel mio cuore e accogliendolo. Non mi ero mai molto interessata delle culture straniere e solo in quel momento mi resi conto del mio errore.
    Rimanemmo per un po’ ad ammirare l’interno dell’edificio, in completo silenzio per non disturbare. Quando decidemmo di uscire un uomo che doveva essere un monaco, almeno a giudicare dagli abiti di tutte le sfumature del marrone e del verde, mi diede sorridendo un rametto di ciliegio, ricco di fiori delicati. Gli sorrisi e inchinai la testa al suo gesto gentile.
    Uscendo decidemmo di fare un giro della piazza ma prima che potessimo allontanarci troppo dalle mura del tempio, l’occhio mi cadde su una sorta di bacheca appesa a lato dell’ingresso. Non so perché prima non l’avessimo notata, ma ora ero troppo incuriosita per non andare a vedere cosa ci fosse scritto. Quel culto mi affascinava. Avrei voluto saperne di più e speravo che quei fogli appesi potessero soddisfare la mia curiosità. Feci cenno a Marcus di aspettarmi e lo vidi aggrottare le sopracciglia, in un’espressione incuriosita.
    – Vado solo a vedere una cosa, ci metto cinque secondi. Aspettami qui. –
    Mi diressi verso la bacheca con pochi passi rapidi e quello che vidi mi lasciò senza fiato. Sotto una serie di cerimonie di ogni tipo che venivano tenute all’interno del tempio c’era l’elenco dei funerali che si sarebbero svolti di lì a una settimana. Feci un urlo e richiamai Marcus, dicendogli di muoversi: davanti a me, tra i nomi dei deceduti, spiccava quello di Lod Carean.
 
***
 
Alla sera, quando finalmente stavamo per rincontrare gli altri, non stavo più nella pelle per l’emozione e la preoccupazione. Da un lato ero estremamente felice di essere stata io a trovare notizie del nostro uomo, dall’altra ero inquietata dal fatto che fosse morto. Come avremmo fatto a scoprire quello che ci interessava? Decisi di smettere di pensare alla questione e di godermi di essere stata, per una volta, quella che aveva dato una svolta alla ricerca. Quando arrivammo alla piazza della fontana Mel e Andreas erano lì ad aspettarci parlottando a braccia incrociate, seri e posati.
    – Allora, – esordii. – Com’è andato il vostro giro? –
    – Abbastanza bene, direi. Il vostro? – mi rispose Andreas, con un sorriso furbetto negli occhi.
    Ahia. Temetti che la mia notizia non fosse poi così esclusiva come avevo creduto fino a quel momento.
    – Fantasticamente. Vero Marcus? –
    Lui, traditore, annuì senza dimostrare troppo entusiasmo. Aspettammo Jared chiacchierando del più e del meno, decidendo di aspettare per dire le novità scoperte fino a che non fossimo stati tutti. Quando finalmente anche lui si unì al gruppo ci spostammo su una delle panchine ai lati della piazza, per non dare troppo nell’occhio. Sopra di noi il cielo stava diventando sempre più scuro, e le stelle e la luna illuminavano la strada.
    – Ragazzi, – esordì Jared. – Ho grandi notizie. –
    – Anche noi! Abbiamo scoperto che fine ha fatto Carean. Non lo indovinereste mai – dissi, velocemente, guardando Marcus che ridacchiava vicino a me, stupito probabilmente dalla mia regressione a dodicenne bambina competitiva. Poco da fare, mi è sempre piaciuto essere quella con le risposte.
    – Sì, – disse lui, bloccandomi e facendomi stare ferma. – E non sono sicuro che sia in effetti una buona notizia. –
    – Dato che è morto – aggiunse Andreas, togliendo tutta la suspense del momento.
    Feci un sorriso sghembo, un po’ delusa – Lo sapevate già? –
    – Sì, – mi rispose Jared, – A quanto pare quel tipo aveva debiti con tutta la città, quindi c’è voluto poco per scoprire che fine avesse fatto. Si è suicidato a causa dei creditori e dopodomani ci saranno i funerali. Mezza Basilea è in lutto perché non rivedrà più i suoi soldi. –
    – Io e Camille abbiamo visto il tempio dove si terranno, è nella parte nobile della città. Ma com’è possibile che abitasse lì se era pieno di debiti? – chiese Marcus, incuriosito. In effetti, dopo la nostra scoperta non avevamo più chiesto niente in giro, sicuri che tanto il più era stato fatto.
    Mel si sedette sulla panchina, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia: – A quanto pare Carean doveva essere un bell’uomo: era arrivato qui da poco che si organizzò il suo matrimonio in fretta e furia. Dicono in giro che fosse stato beccato con la figlia di un famoso mercante in una circostanza, diciamo, non propriamente onorevole. In pratica fu obbligato a sposarsi con la ragazza che aveva disonorato per evitare di essere consegnato alle guardie della città. –
    – Ah già, – Jared alzò gli occhi al cielo. – In queste ridenti cittadine se vieni beccato con una donna non ancora sposata puoi venire accusato di stupro e se poi vieni giudicato colpevole, cosa che avviene nella stragrande maggioranza dei casi, la pena è il capestro. Bella eh Dimina? –
    – Non ti piace solo perché tu saresti finito appeso un centinaio di volte. –
    – Mi dispiace solo per i miei fratelli libertini di queste città, io non mi farei mai beccare, – ridacchiò Jared, pensando a chissà quale delle sue avventure galanti. – Da noi è tutta un’altra vita, pensate che una volta… –
    – Grazie, Jared, – lo interruppe Andreas, alzandosi e allontanandosi di qualche passo. –Ma possiamo vivere anche senza saperlo, ne sono sicuro. Adesso, se abbiamo finito con i discorsi stupidi, direi di andare a procurarci qualcosa da mangiare. Muoio di fame. Al porto vendevano solo pesce e a me il pesce fa veramente schifo. –
    – Ma non abbiamo nemmeno deciso cosa fare! – sbottai, iniziando a seguirlo imitata dagli altri. Incredibile che pensassero davvero a mangiare.
    Marcus mi guardò con aria interrogativa. – In verità mi sembra che sia tutto molto chiaro. –
    – Non per me, questo è sicuro. –
    – Beh, abbiamo nel gruppo uno dei migliori seduttori di tutta Viride e il nostro caro Carean ha lasciato una vedova dal cuore infranto. Io direi di sfruttare questa opportunità. –
    – Quindi liberiamo la belva? –
    – Ah, ah, quanto sei spiritosa, – mi rispose Jared, ironico, prendendomi a braccetto. – Preparati piuttosto, Cami, perché a breve vedrai un maestro all’opera. –
    Mi fermai, guardandolo storto: – Come mi ha chiamata? –
    – Cami. È l’abbreviazione di Camille. Nessuno ti chiama mai così? –
    – Non due volte di fila. –
 
***
 
Due giorni dopo eravamo tornati nel quartiere nord della città, nella piazza del tempio che io e Marcus avevamo scoperto in maniera casuale. La gente che si era radunata lì davanti era poca e i più, immaginai, erano creditori del morto che non vedevano l’ora di rifarsi sulla vedova. I funerali si tenevano al mattino presto di solito e in quel giorno di autunno inoltrato un cielo lattiginoso stava sopra di noi, senza che nemmeno un raggio di sole attraversasse la coltre di nubi. Un vento freddo, già invernale, spazzava le vie e il piazzale davanti all’androne.
    – Spero solo che la vedova sia una bella donna, perché altrimenti mi dovete un grosso, grosso favore – disse Jared, a braccia conserte, guardando male le porte aperte del tempio. Lo ignorammo ed entrammo nell’edificio, dove il funerale era appena iniziato.
    Il tempio era identico a come era stato il giorno prima, ma questa volta un leggero odore di decomposizione aleggiava nell’aria. Sotto l’enorme albero di Arain c’era il corpo di un uomo, sdraiato a pancia in su, con le braccia unite sopra al petto. La carnagione aveva un colore malsano, verdastro, e la pelle sembrava essere fatta di cera. Gli occhi erano sprofondati nelle orbite e le mani che uscivano dalle maniche della giacca avevano le unghie nere. Nonostante tutto, però, dedussi che in vita Carean non doveva essere stato un brutto uomo: i capelli castani, ondulati, erano leggermente spruzzati di grigio, il cadavere sembrava essere stato alto e muscoloso, e i lineamenti non erano così terribili, nonostante i giorni passati dalla morte. Pensai che, per quanto potesse essere bello il culto della Natura, quella fosse un’usanza barbara: molto meglio il fuoco che usiamo noi a Viride, puzza molto meno.
    Attorno all’albero, inginocchiati in cerchio sul pavimento di pietra, c’erano tutti coloro che avevano deciso di dare l’ultimo saluto al morto. Ci saranno state una trentina di persone di ogni tipo e genere e, davanti al corpo, stava una donna impietrita che nemmeno piangeva. Doveva essere la vedova. Sembrava cristallizzata nel suo dolore, immobile, con lo sguardo fisso. Doveva avere sui trentacinque anni, più o meno. I lineamenti erano dolci, il viso rotondo ma non grasso. Il collo lungo ed elegante spariva nel colletto di un vestito nero, lasciando intravedere le clavicole leggermente sporgenti. La bocca sottile era di un delicato colore rosato e quando si girò per mormorare qualcosa al suo vicino scoprì una fila di denti bianchi e regolari. Alcune ciocche dei lunghi capelli neri, tirati su in un’acconciatura complessa, incorniciavano il volto facendo risplendere la carnagione bianca e delicata di chi non ha mai lavorato in vita sua. Il vestito nero, da lutto, era semplice e poco lavorato, accentuando però il punto vita e il seno della donna. Gli occhi, di un colore che non riuscii a cogliere, venivano ombreggiati da lunghe ciglia ogni volta che sbatteva le palpebre. Vicino a lei una signora più anziana, che dalla somiglianza poteva essere la madre, le stringeva una spalla cercando di darle sostegno. Sentii Jared, vicino a me, fare un sospiro di sollievo.
    – Sembra che sarai tu a doverci un favore – gli sussurrai all’orecchio, guardando il sorriso compiaciuto che gli si era dipinto in viso. Non mi rispose, impegnato com’era a fissare la vedova.
    Dopo poco si avvicinò all’albero uno dei sacerdoti del culto, vestito di verde e di marrone, con in mano dei bastoncini di incenso. Iniziò a salmodiare, seguito dalle persone inginocchiate, in una lingua che non avevo mai sentito prima. Cantammo e pregammo per le seguenti due ore, e mi sentivo le ginocchia in fiamme e distrutte. Era una delle posizioni più scomode che avessi mai tenuto, ma sopportai in silenzio. Alzarsi non sarebbe proprio stato un bel gesto, non nel bel mezzo di un funerale almeno.
    Alla fine dei canti, un altro uomo affiancò il sacerdote e, insieme, aprirono una botola ai piedi dell’albero, di cui io non mi ero nemmeno accorta. Come rispondendo a un segnale tutti si alzarono e, iniziando una canzone che sembrava essere felice e piena di gioia, voltarono la schiena al morto e ai sacerdoti, chiudendo gli occhi.
    Io e gli altri ci alzammo in piedi imitandoli anche se l’unica che sembrava un po’ stranita ero io, mentre i miei amici erano riusciti persino a riconoscere qualcuno dei salmi in quella lingua bizzarra e sconosciuta. Non resistetti a sbirciare con la coda dell’occhio e vidi i due sacerdoti prendere il corpo di Carean e buttarlo nella botola, sotto all’albero, come avrebbe potuto fare un assassino comune per nascondere un corpo. Non c’era sacralità in quello che facevano, in come trattavano il corpo, in come lo lanciarono attraverso la botola, ed era tutto completamente diverso da come succedeva nel nostro paese. Mi ripromisi di chiedere a Marcus delucidazioni su quella strana cultura.
    Poi, dopo alcune parole pronunciate dai sacerdoti, tutti si girarono, si inchinarono e poi si diressero verso la porta. L’unica che invece rimase dov’era era la vedova, che si avvicinò all’albero per poi posare la mano sulla corteccia, in una carezza delicata. I sacerdoti le si inchinarono e si allontanarono, lasciandola sola. Feci appena in tempo a vedere Jared che si incamminava verso la donna che Mel mi prese per un braccio e mi condusse verso l’esterno, ignorando le mie proteste. Volevo davvero vedere “il maestro” all’opera, soprattutto dopo che era stato così tanto decantato, ma a quanto pare gli altri non erano della mia opinione.
    – Ma perché non posso guardare? – domandai, accigliata, appena fuori dal tempio.
    – Perché avresti dato troppo nell’occhio. Ci sareste stati solo più voi tre, lì dentro, gli altri sono già tutti usciti – mi rispose Mel, lasciandomi il braccio e allontanandosi dall’edificio, preceduto da Marcus e Andreas e seguito, a malincuore, da me.
    – E stai tranquilla, – aggiunse Marcus. – Se conosco Jared, e lo conosco, ti racconterà tutto lui appena potrà. La tua curiosità sarà soddisfatta. –
 
***
 
Aveva ragione. Dopo tre giorni in cui Jared comparì solo per brevi momenti e soprattutto per lavarsi e mangiare, un pomeriggio spalancò con violenza la porta della locanda dove noi stavamo facendo colazione con un sorriso sornione in faccia, facendo trasalire tutto il locale. Poi si avvicinò con aria tutta goduta al nostro tavolo, facendo cenno a Marcus di fargli un posto. Aveva i vestiti stazzonati, i capelli scompigliati e un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
    – Torni vincitore, a quanto pare – fece Mel, senza alzare gli occhi dal suo piatto di uova. Marcus prese la sua tazza di caffè e la allungò a Jared, che si mise a bere come se fino a quel momento fosse stato nel deserto.
    – Ne dubitavi? –
    Marcus aveva un luce maliziosa negli occhi: – Allora, com’è andata? Camille moriva di curiosità l’altro giorno. –
    – Ehi! – dissi io, sentendomi tirata in causa. Così mi faceva sembrare una maniaca sessuale! – Volevo solo vedere se eri bravo come dici, niente di più! –
    – Eheh, – ghignò l’altro idiota, guadagnandosi un’occhiataccia. – Ti direi di provare ma non faccio queste cose con le ragazze degli amici. –
    Marcus quasi si strozzò con il caffè che aveva recuperato.
    – Ma io non sono la ragazza di nessuno. –
    – Per ora, Camille, – fece Jared, battendomi con aria materna su una mano. – Per ora. –
    Marcus decise per fortuna di interrompere quello scempio. Probabilmente aveva notato il cipiglio poco raccomandabile che mi si stava dipingendo in viso.
    – Jared, hai finito di fare il cretino? Non devi dirci qualcosa? –
    – Ah, sì. Beh, sappiate che Lean, la vedova di Carean, è una belva a letto. Mi ha fatto delle cose che a Viride si sognano, si vede che è una spigliata. Pensate che ieri mentre stavamo cenando, a un certo punto è sparita sotto il tavolo e mi ha preso il… –
    Marcus si ristrozzò con il caffè mentre io ridevo, Mel sorrideva e Andreas si sbellicava.
    – Va bene così Jared! Davvero! Taci una buona volta! –
    – No, aspetta, non tacere del tutto. Hai scoperto qualcosa sul nostro uomo? – gli chiesi io, con ancora la risata che mi vibrava nel petto.
    – Ebbene sì. Lean, tra una pausa e l’altra, – e qui Jared tornò incredibilmente serio. – Mi ha spiegato come andavano le cose con il marito. A quanto pare avevano una relazione aperta e, sebbene rimanessero marito e moglie, frequentavano altre persone. Non che questo avesse causato la rovina del matrimonio, anzi. Non amandosi più e non potendo separarsi, perché qui come sapete questa grazia degli dei non esiste, avevano optato per una soluzione di questo tipo. Andavano comunque d’accordo, ed erano ottimi amici, e quindi la morte dell’uomo ha addolorato molto Lean. Anche se lei non sapeva di essere piena di debiti e forse la scoperta della cosa nei giorni precedenti il funerale le ha un po’ danneggiato il ricordo del marito defunto. Comunque, Lean mi ha raccontato che Carean poco prima della morte le aveva dato una lettera, da portare a un uomo a palazzo. Cosa ci fosse scritto lei non lo sa, ma il marito le aveva raccomandato di consegnarla in fretta e in maniera discreta, senza spiegare perché non potesse farlo di persona. Il giorno però in cui Lean sarebbe dovuta andare a palazzo Carean è morto e diciamo che lei ha avuto altro a cui pensare che non fosse la lettera. –
    – E lei ti ha detto tutto questo? – commentai incredula, finendo la mia colazione. Mi accorsi che avevo avuto delle riserve sul comportamento di Jared, e che fino a quel momento non avevo realmente creduto che ci avrebbe portato delle informazioni. Mi dovevo ricredere, era stato in effetti davvero molto bravo. Aveva scoperto in tre giorni ciò che noi, usando le vie “normali” degli Assassini, avremmo scoperto in molto più tempo.
    – Sì, lo so, sono bravissimo, – Jared fece un sorriso sornione. – Me ne ha parlato ieri a cena, che guarda caso si è conclusa con una mia esibizione talmente spettacolare da farla addormentare di botto. Forse in effetti ha contribuito anche il blando sonnifero che ho messo nell’acqua che beve prima di andare a dormire, ma questo non importa. –
    Spalancai gli occhi in uno slancio di sdegno: – Cioè l’hai drogata? –
    – Tieni la tua morale lontano da me, – mi rispose Jared, con uno svolazzo della mano. – Ho pensato che fosse una coincidenza a dir poco particolare che un uomo avesse tanta urgenza di spedire una lettera giusto un giorno prima della sua morte, quindi dovevo poterla cercare in tranquillità. E, grazie alla mia incredibile abilità, ho trovato quello che mi serviva. –
    Al che, con un sorriso a trentadue denti e un’aria sbarazzina in volto, quell’approfittatore di povere vedove indifese tirò fuori da una tasca una lettera spiegazzata.
Mi alzai dal mio posto allungandomi sul tavolo, cercando di afferrarla di colpo. Ero troppo curiosa: – Dammi quel foglio! –
    Jared lo allontanò dalla mia presa portandoselo in alto dietro alla testa, sorridendo: – Non ti sembra che mi meriti almeno un grazie? –
    Lo guardai malissimo, tenendo la mano tesa e osservandolo con aria inferocita. Marcus mi prese delicatamente per le spalle e mi fece sedere, facendomi ritrarre la mano.
    – Hai fatto un lavoro fantastico, Jared. Ci leggi quella lettera ora? – gli chiese Andreas, con negli occhi la stessa curiosità che c’era nei miei.
    Jared fece un sorriso: – Non vedo l’ora. –
    Poi si schiarì la voce, si sistemò sulla sedia e si mise i fogli ben davanti agli occhi, iniziando a leggere: – Tu sai che cosa voglio, bastardo. Tu e chi sta sopra di te avete promesso di pagare i miei debiti di gioco, e ora vi tirate indietro? Non posso permetterlo. Non morirò per colpa vostra, visto che se non pagherò sarà quella la mia fine. Saldate i miei debiti, tutti, oppure racconterò cosa è successo dodici anni fa. Racconterò dei Coverano, del Principe Ereditario, di una nave affondata in mezzo al mare e dei tre morti che c’erano sopra. Ma soprattutto parlerò di chi mi ha incaricato di fare tutto questo. Uccidetemi, se credete, ma c’è già chi sa tutto ed è disposto a parlare nel caso mi capitasse qualcosa. Avete due giorni.
    Jared si interruppe, abbassando il foglio: – Tipetto niente male, eh, questo Carean? –
    – Scusa che ti aspettavi da uno che uccide membri della famiglia reale così, con scioltezza? –
    – In effetti niente di diverso – rispose il ragazzo con gli occhi blu, posando la lettera sul tavolo. Marcus la prese e iniziò a scorrerla, mentre io vicino a lui mi sporsi per dare un’occhiata. Era incredibile. Quella donna, Lean, ci aveva dato, anche se a sua insaputa, una lettera che per noi era di fondamentale importanza. In primo luogo iniziava a essere un qualcosa di tangibile, che avremmo potuto utilizzare. In più ci indicava la tappa successiva che ci avrebbe portati sempre più vicino a mia madre, Celia. Nessuno di noi fiatava, stupiti dalle informazioni che avevamo ricevuto. Era incredibile trovarle scritte nere su bianco, anche se da un uomo dalla dubbia reputazione. L’unico rilassato tra noi sembrava Mel, che continuava a bere il suo caffè con aria tranquilla. Mi sembrò però di scorgere nei suoi occhi una furia animalesca, devastante. Fu un istante e poi l’impressione svanì, lasciando gli occhi verdi puliti e limpidi.
    Andreas poggiò la testa sullo schienale della sedia su cui si trovava: – Qual è il destinatario? –
    Marcus girò la lettera, osservando con attenzione le parole scritte in inchiostro nero: – Qua dice William Lacey, qualcuno ha idea di chi sia? –
    Chiusi gli occhi, cercando di ignorare la brutta sensazione che mi dava quella notizia.
    – Io lo so – dissi, respirando profondamente.
    – Lo sappiamo anche noi, ragazzi, – fece Mel, dopo di me. – Ma noi lo conosciamo con un altro nome. –
    Jared aggrottò le sopracciglia: – Cioè? –
    – La Lunga Mano. –
    – Oh dei, – disse Marcus, strofinandosi la faccia. – Vi prego ditemi che non stiamo parlando del consigliere degli Auremore. –
    Non ebbi il coraggio di rispondergli, perché sì, l’uomo di cui stavamo parlando era proprio il consigliere degli Auremore. Ricopriva quella carica da almeno una ventina d’anni e si diceva che fosse a conoscenza di cose che persino il Re ignorava. Conosceva Alexandre Auremore da quando erano giovani e il sovrano teneva in grande considerazione i suoi consigli. Partecipava alle sedute del Re, agli incontri con i funzionari stranieri, ai banchetti, sedendo sempre alla destra del trono. Si occupava del controllo del denaro, di decidere quali questioni presentare al Re, di controllare che l’esercito funzionasse adeguatamente. Aveva represso nel sangue le rivolte che, quando io ero bambina, avevano agitato il regno di Dimina, senza preoccuparsi di sembrare spietato e impietoso. Sapeva tutto del regno e si occupava di ciò che il suo amico Alexandre riteneva così importante da poter essere controllato solo da lui stesso. Il Re si fidava di lui come ci si fida di un fratello e forse anche di più. Negli angoli bui del palazzo si sussurrava persino che il Re fosse in suo potere e che fosse lui ad avere in mano le chiavi del regno, terrorizzando persino la regina Gabriella, la Magnifica. Era questo l’uomo che ci avrebbe dovuto portare più vicini a mia madre.
    – Quindi… – iniziò Andreas, senza avere il coraggio di continuare.
    – Quindi il nostro prossimo obiettivo è il palazzo reale degli Auremore, – conclusi io, senza avere il coraggio di guardarli negli occhi. – Sentite, se non ve la sentite posso capirlo. Stiamo parlando del consigliere del Re, non sarà una cosa facile. Non penserò male di voi se vi tirerete indietro. –
    Marcus mi guardò con un leggero sorriso, poi si rivolse agli altri: – Consigliere o no, ormai ci siamo dentro fino ai capelli. Tanto vale continuare, che ne dite? –
    Il primo a rispondere, stranamente, fu Mel.
    – Io ci sto – disse, laconico come sempre.
    Jared scosse la testa ridacchiando prima di parlare: – Dopo tutto quello che ho vomitato per arrivare fin qui non avrei mai il coraggio di tirarmi indietro. –
    Mancava solamente Andreas. I suoi occhi color ambra erano puntati su di me, scrutandomi. Sostenni il suo sguardo fino a che anche lui non si decise a parlare.
    – Non ci credo che lo sto dicendo, ma ci sto anche io – mi disse, con un sospiro profondo. – Sarai la nostra rovina, lo sai Principessa? –
    Risi, sollevata che tutti loro fossero dalla mia parte. Forse, in fondo, avevamo una speranza.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE!
 
Ciao a tutti! Perdonate il ritardo, ma ho davvero fatto una fatica mostruosa a scrivere questo capitolo! Ho dovuto cancellare e riscrivere un sacco di volte. Comunque, finalmente adesso è finito e quindi, alleluia, posso pensare ad altro. Spero (come al solito e come immagino facciano tutte le persone su questo sito con i propri lavori) che sia piaciuto. Se vi va di farmi sapere che ne pensate, lasciate un commento, e grazie a tutti coloro che l’hanno già fatto recensendo o mettendo la storia nelle preferite :)
Ciao di nuovo
LyaStark

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Capitolo 10
*** X ***


CAPITOLO XII
 
MARCUS

 
La città non mi era mai sembrata tanto pericolosa come in quei giorni. Improvvisamente ero diventato consapevole delle guardie che pattugliavano le strade in una ronda continua e senza sosta, perennemente alla ricerca di qualcosa che non funzionasse. Sarà che sapendo quello che avremmo dovuto fare ero più attento del solito e quindi prestavo attenzione ad ogni minimo dettaglio, ma ogni nota stonata era per me motivo di apprensione.
    Avevamo iniziato a cercare informazioni su Lord William Lacey, la Lunga Mano di re Alexandre Auremore, e tutto quello che avevamo appreso fino a quel momento non era per niente rassicurante: aveva una sua guardia personale, viveva a palazzo in un’ala riservata, difficilmente si spostava da solo. Aveva la fama di uomo tutto d’un pezzo, spietato, freddo e crudele. Abile con le armi aveva vinto numerosi tornei in gioventù al fianco del Re e non si muoveva mai senza la spada al fianco. Continuava ad allenarsi ogni giorno, per almeno un’ora, quindi non c’era nemmeno da sperare che la vita a corte l’avesse impigrito e imbolsito.
    Averlo in nostro potere sarebbe stato difficile, e molto. Senza contare che avremmo dovuto fare molta, molta fatica per farlo confessare. Mi sarei ritenuto fortunato se, dopo quella faccenda, saremmo rimasti tutti vivi e abbastanza in salute da poter scappare da quella maledetta città.
    – Ritiro tutto quello che ho detto, io odio Basilea – dissi con voce convinta a Camille, che era seduta di fianco a me. Avevamo lasciato la città per andare nelle campagne, meno popolate e dove la probabilità di dare nell’occhio era minore.
    Ci eravamo insediati in un granaio abbandonato e mezzo bruciato, ma che aveva sufficiente spazio per tutti noi. Il paesaggio intorno era ormai diventato invernale: terreni marroni, scuri e freddi bagnati dalla brina erano solcati da fiumiciattoli di acqua gelida e cristallina. Alberi spogli dai tronchi e rami neri, completamente diversi dai Saar della città, erano radunati in boschetti sotto il pallido sole che brillava nel cielo azzurro. Un vento freddo si alzava da nord, entrando nei vestiti e congelando anche le ossa, sottile e pungente come la lama di un pugnale. Nella notte la temperatura scendeva di molto lasciandoci mezzo congelati nonostante le coperte e le braci del fuoco che tenevamo acceso durante il giorno. Si prospettava un inverno gelido e lungo.
    – Tu odi stare al freddo, non Basilea. È diverso – mi rispose lei, mentre guardava con occhio critico le mappe che avevamo davanti a noi. Erano piante di parte del palazzo reale, fatte da Andreas dopo che si era mischiato alla folla di postulanti che assediavano il Re quando teneva corte. Si era guardato attorno e aveva fatto attenzione ai dettagli, ma era comunque passato solo nelle zone accessibili ai popolani, mentre a noi serviva sapere tutto quello che potevamo sugli appartamenti di Lacey, sulle sue abitudini, sui suoi orari.
    Jared, insensibile uomo, aveva già abbandonato la sua vedova piangente e assatanata per ripiegare su una delle domestiche di palazzo, nel tentativo di carpirle informazioni. Credeva talmente tanto nelle sue capacità, che il fatto che la poveretta avesse giurato di non parlare di ciò che avveniva nell’edificio non lo preoccupava nemmeno un po’.
    Mel aveva il compito di spiare gli spostamenti di Lacey fuori dal palazzo e di valutare dove si dirigesse e quando, ma in una settimana e mezzo di pedinamenti erano ancora poche le informazioni che potevamo confrontare.
    Io, per non rimanere con le mani in mano, mi ero fatto assumere come aiuto giardiniere in vista dell’enorme festa che si stava preparando a palazzo per celebrare gli Auremore, che di lì a poco si sarebbero spostati a Vilena, capitale invernale. Tutto questo rendeva il nostro compito ancora più difficile. Comunque, senza pensare alle difficoltà che ci aspettavano, avevo iniziato con dei turni massacranti: il Palazzo Reale aveva ettari di giardini con la più strana vegetazione che avessi mai visto. Serre enormi costruite con vetri trasparenti contenevano piante esotiche che conoscevo solo perché erano descritte nei trattati di biologia alla Corporazione. Alcune di esse potevano anche servire per creare veleni particolari, ma immagino che non fosse quello il loro principale scopo.
    L’unica che non poteva aiutarci era Camille: suo fratello Daniel era a palazzo e difficilmente si sarebbe fatto ingannare da una tinta castana per capelli. Dire che ne era contrariata era probabilmente un eufemismo. 
    – A che ora devi andare a lucidare le foglie domani? – mi chiese senza alzare gli occhi dal foglio, in uno slancio di gentilezza inusuale rispetto alla media dei giorni precedenti.
    – Un’ora dopo l’alba, come al solito. Sono quattro giorni che l’orario è quello, Camille. Stai perdendo colpi? –
    – No, è che lo trovo inutile e quindi me ne dimentico. –
    Sospirai. Un sospiro molto lungo e profondo per cercare, inutilmente, di scacciare il desiderio di strozzarla: – Ti ricordo che non lo faccio perché ho una passione smodata per le piante, ma perché così appena ne avrò l’opportunità potrò cercare di intrufolarmi a palazzo e completare questa stramaledetta piantina. –
    Fu il suo turno di sospirare: – Scusami. È che odio il pensiero di starmene qui a far nulla mentre voi vi preoccupate di tutto, – tacque, lasciando gli occhi vagare sui campi davanti a noi e sul profilo della città, che si intravedeva in lontananza, semicoperta dalla nebbia. – In più sapere che mio fratello è laggiù, proprio dove cerchiamo di andare, e non poterlo vedere mi fa uscire di testa. –
    Scosse la testa, distogliendo lo sguardo e riportandolo sulla piantina ma con una palese scarsa attenzione.
    Sentii scemare piano piano il nervoso: – Ti manca molto? –
    I suoi occhi verdi sembravano quasi blu nell’aria della sera: – Certo. Mi mancano tutti loro, – si alzò, guardandomi dall’alto. – Non li vedo da anni. Ottavia ha otto anni adesso e sarà diventata bellissima, ma già da piccola lo era. E William è quasi un uomo ormai. Mi mancano davvero tantissimo. –
    Non c’era nulla da rispondere a una frase così e infatti tacqui, osservandola e appoggiando la testa sul tronco dietro di me. Sarebbero stati dei lunghi giorni quelli che ci aspettavano.
 
***
 
La mattina dopo, se di mattina si può parlare quando ci si alza poco prima dell’alba, ero nei giardini del castello reale. Non ero propriamente un giardiniere ma più che altro ero il galoppino del galoppino del giardiniere. Più al fondo di me nella scala gerarchica non c’era nessuno. Dovevo portare sacchi di terra, gli strumenti, le pale, le forbici e, dulcis in fundo, pulire le vetrate della serra. Era precisamente a quest’ultimo compito che mi stavo dedicando con dedizione e olio di gomito, quando vidi Lord William Lacey attraversare il cortile davanti a me, diretto chissà dove. Fermai il mio lavoro di pulizia per osservarlo meglio: dimostrava una quarantina d’anni ed era dannatamente in forma per la sua età. Era alto e dritto, con un torace ampio e, immaginai, muscoloso. Camminava con eleganza e con la sicurezza di chi ha il mondo ai suoi piedi. I capelli corti, brizzolati, circondavano un volto squadrato ma gradevole. Una barba curata gli cresceva sul mento. Portava una spada alla cintura, in un fodero di cuoio vecchio e logoro, segno di quanto quell’arma fosse stata usata. A pochi passi di distanza, camminava un uomo con l’uniforme delle guardie personali del Consigliere del Re, con le braccia morbide lungo il corpo e gli occhi che saettavano attorno a lui. Lord William si diresse proprio verso la serra, facendo cenno all’uomo dietro di lui di fermarsi ed aspettarlo.         Continuai a pulire, estremamente consapevole che Lacey, il nostro obiettivo, stava passeggiando immerso nei suoi pensieri a pochi passi da me.
    – È molto bello questo posto, non è vero? –
    Sobbalzai leggermente nel sentire la sua voce: mai mi sarei aspettato che si degnasse di rivolgere la parola alla servitù, ma a quanto pareva mi sbagliavo. Mi girai verso di lui dando le spalle al vetro, tenendo ancora lo straccio in mano. Mi inchinai prima di rispondere.
    – Sì, milord, lo è. –
    Mi si avvicinò con passo tranquillo, con le mani allacciate dietro alla schiena e guardandosi intorno, prima di puntare il suo sguardo su di me. Rughe d’espressione partivano dai due occhi chiari, azzurri e grigi. La bocca era una linea dritta che attraversava il volto, dandogli un’espressione seria e sicura di sé. Era vagamente inquietante e le sue labbra si distesero per un momento in un sorriso che non raggiunse gli occhi. Quando parlava un leggero difetto di pronuncia gli faceva arrotare le r, rendendole quasi scivolose. La cosa peggiore però era lo sguardo: mi sentii osservato, indagato, messo a nudo da quelle iridi gelide. Erano quiete in quel momento, ma intuii che se avessi osato contrariarlo avrei svegliato la loro furia. Era la sensazione che doveva provare la preda di fronte al cacciatore, e non mi piaceva. Per niente.
    – Non ti ho mai visto qui. Chi sei? –
    – Mi chiamo Mycah, milord, – dissi il primo nome che mi venne in mente, senza abbassare lo sguardo. – Sono stato preso come aiuto giardiniere in vista della festa. –
    Lui annuì, distogliendo lo sguardo da me e avvicinandosi a un cespuglio di rose rosse, enormi, poco distante. Ne prese una tra le mani avvicinandola al viso, annusandone il profumo a occhi chiusi.
    – Sembri un po’ grande per essere solo aiuto giardiniere. E di solito chi lavora all’aria aperta è abbronzato, molto più di te. –
    Sembrava rilassato ma sentivo la tensione nell’aria. Portai una mano dietro alla schiena, dove nascondevo un pugnale.
    – Ho lavorato in una fucina per un po’, ma non faceva per me. Preferisco le piante al metallo. –
    Si allontanò dal cespuglio, guardandomi. Non so cosa cercasse, ma fu soddisfatto da quello che vide: – Questo dimostra che sei un ragazzo intelligente, – disse, dirigendosi     verso la porta. – Continua a pulire quei vetri, Mycah. Dovranno essere splendenti per la festa. –
    Mi inchinai, lasciando scivolare la mano lontana dal pugnale: – Sì milord. –
    Quando uscì sospirai di sollievo, chiudendo gli occhi e lasciando che la tensione si allontanasse da me.
 
***
 
Dopo che Lacey se ne fu andato, mi dedicai di nuovo al mio stupido lavoro, cercando di pensare a come avrei potuto intrufolarmi nell’area del castello dove abitava la Lunga Mano. Da Mel avevo appreso che i suoi appartamenti si trovavano nell’ala ovest, ma come avesse fatto a capirlo lo ignoravo. I giardini circondavano quasi tutto il perimetro del castello terminando a ridosso del mare, su un’enorme scogliera bianca che scendeva a picco nell’acqua. Erano percorsi da innumerevoli fiumiciattoli e fontane, in uno scroscio di acqua perenne.
    Decisi di aspettare la notte per potermi infilare di nascosto nel palazzo e capire un po’ di più della sua maledetta struttura. La fortuna mi aiutava visto che gli appartamenti di Lord Lacey, o Will come avevo iniziato a chiamarlo amichevolmente tra me e me, davano sulla parte di giardino a cui ero stato assegnato e dove si trovavano le serre.
    Aspettai, lavorando e lasciando che la notte arrivasse. Quando giunse l’ora di uscire mi incamminai verso l’enorme portone di ingresso del castello, per poi fingere di aver dimenticato qualcosa e ritornare di corsa verso le serre, guardato male unicamente dal sommo capo giardiniere, che però scosse la testa e si dimenticò in fretta di me.
    Nessun’altro, e soprattutto non le guardie, si insospettì: immaginai che fosse perché si doveva essere davvero estremamente stupidi per andare a intrappolarsi da soli nel castello del Re. In previsione di tutto ciò erano già un paio di giorni che mi portavo dietro la divisa di Assassino: nera come il giaietto e difficile da vedere in una notte come quella, senza luna e velata.
    Le guardie facevano la ronda con torce che le rendevano facili da notare, in più la divisa dipinta di azzurro era tutto tranne che discreta. Fossi mai diventato re avrei fatto tutte le uniformi nere come il giaietto, o al massimo grigio fumo: l’ideale per osservare senza essere visti.
    Mi diressi con attenzione verso i quartieri ovest del castello, attraversando silenziosamente i prati tagliati, modestamente, alla perfezione. In testa mi risuonavano le parole del mio maestro, che mi erano state ripetute giorno e notte per anni come una preghiera: profilo basso e agire in fretta. Ora come ora nulla mi avrebbe aiutato se non mantenere un profilo basso e non farmi beccare: di sicuro non potevo permettermi di farmi rincorrere da tutte le guardie del castello.
    Arrivai sotto alle finestre che mi interessavano, guardando da lontano i due soldati con le divise della Lunga Mano che erano di guardia davanti al cancello, illuminati dalla debole luce delle lanterne dietro di loro. L’unico rumore della notte era quello dell’acqua, che continuava a scrosciare e a cadere dalle cascate: avrebbe coperto in parte il baccano che avrei potuto fare. Percorsi rapidamente il perimetro, senza farmi vedere e con il naso all’aria, cercando una finestra aperta.
    Finalmente, la trovai. Quattro metri sopra la mia testa, illuminata dalla luce che brillava dietro di essa, una grossa finestra di vetro era leggermente socchiusa. Non c’erano ombre dietro di essa e l’unica cosa che dovevo sperare era di non piombare direttamente di fronte a Will in persona. Tutto il resto sarebbe andato circa bene.
    Passai la mano sul muro davanti a me, constatando che era in tutto e per tutto uguale a quelli del resto del castello e che avevo osservato molto bene dai giardini. A distanza di una spanna l’una dall’altra c’erano delle lunghe scanalature, profonde circa cinque centimetri e quindi ideali per permettermi di fare presa. Ringraziai mentalmente chi avesse progettato e costruito quel posto e iniziai ad arrampicarmi, facendo attenzione a non cadere.
    Dopo circa due minuti stavo sbirciando dalla finestra, che dava su un lungo corridoio illuminato da candelabri. Alle pareti c’erano arazzi enormi rappresentanti scene di caccia e di combattimenti, e il pavimento di marmo brillava lucido al riflesso delle candele. Non c’era nessuno. Scavalcai il davanzale e atterai in maniera molto, molto silenziosa per terra, accucciato. Tesi l’orecchio per riuscire a percepire il minimo rumore, socchiudendo gli occhi: lì i miei abiti neri non mi avrebbero aiutato se avessi dovuto incontrare qualcuno.
    Tirai lentamente fuori il pugnale, stringendolo nella mano sinistra: la lama mandava bagliori inquietanti alla luce rossastra delle fiammelle. Procedetti lentamente. Ai miei lati c’erano porte chiuse, ma non mi sarei mai arrischiato ad aprirle. Non sapevo cosa ci fosse e soprattutto chi avrei potuto trovarci, ma mi azzardai a sbirciare dalla serratura come un comune guardone: delle tre grandi e doppie porte che si aprivano sul corridoio una portava a una biblioteca, e dal mio limitato campo visivo dedussi che doveva essere immensa; una portava ad una stanza da letto, grande e vuota; nella terza c’era un grosso tavolo da pranzo, con sedie di legno accostate ai lati. Non erano le stanze di Lacey e probabilmente erano riservate agli ospiti che poteva ricevere.
    Arrivai in fretta alla fine del corridoio e davanti a me si aprì una scala di marmo bianco, che saliva e scendeva avvitandosi attorno alle pareti dello stanzone quadrato. Anche qui la luce era fornita da candelabri che mandavano riflessi rossastri sulle scene navali degli arazzi, mostrando mari in tempesta e flotte in battaglia.
    Le rampe erano limitate da una balaustra nera di ferro battuto e il mancorrente era di legno dorato. Sporgendomi vidi che poco sotto di me le scale terminavano, conducendo ad un altro corridoio. Sentii il rumore di passi e di voci e mi sdraiai sul pavimento gelido, guardando in basso: due guardie camminavano guardandosi attorno, e chiacchierando. Aspettai che si allontanassero prima di scendere la scalinata e poi, silenziosamente e guardandomi attorno, imboccai il corridoio.
    Questo aveva ad ogni estremità una porta ed entrambe, per mia fortuna, erano spalancate. Una dava in una sorta di ingresso, o anticamera. L’altra, che imboccai, portava in una grossa stanza quadrata, con una sedia di legno al di sopra di una pedana rialzata e circondata di velluti, in un’imitazione dello scranno reale e della sala delle udienze degli Auremore. Ampie finestre sui lati della stanza davano sui giardini e sul mare, immersi nel nero della notte. Addossate alle pareti c’erano panche e sgabelli per coloro che avevano bisogno di un consiglio e della decisione della Lunga Mano.
    Non mi soffermai troppo e puntai subito la porta che si trovava dietro alla parodia del trono, e non potei fare a meno di pensare che se io fossi stato Alexandre Auremore sarei stato un tantino incazzato: come osava il Consigliere del Re atteggiarsi come lo stesso Re? Il problema però, fortunatamente o sfortunatamente, non era mio, quindi mi diressi in fretta alla porta, chiusa. Presi coraggio e appoggiai la mano sulla maniglia, facendo forza delicatamente e pregando che i cardini fossero ben oliati per non svegliare con orridi cigolii tutto il castello.
    Le mie preghiere furono in parte esaudite e lo stridere della porta fu tutto sommato tollerabile, anche se nel silenzio della notte risuonò più forte del normale. Davanti a me si apriva, incredibilmente, un ennesimo corridoio che verso il fondo curvava a gomito, senza darmi l’opportunità di vedere cosa ci fosse oltre. Il pavimento era coperto da tappeti di ogni colore e, a giudicare dallo stile e dai disegni, provenienti dal sud: uno solo di quelli doveva costare molto più di una casa comune. Se ne avessi rubato anche solo uno mi sarei messo a posto per la vita, altro che continuare ad ammazzare le persone per lavoro.
    Lasciai perdere il pensiero e avanzai lentamente, guardando fuori dalle finestre. Basandosi sulla posizione e sul pezzo di giardino che intravedevo nel buio della notte mi stavo spostando sempre più a ovest, al limitare del castello. Dovevo essere vicino agli appartamenti di Lacey e il mio sospetto fu confermato quando, sporgendomi piano dalla curva del corridoio, vidi due guardie in uniforme in una stanza ampia, che dava su altre quattro porte e su una scalinata.
    Non sarei riuscito a passare di lì e non potevo uccidere le guardie, i corpi avrebbero destato troppi sospetti e avrei fatto troppo rumore. Ritirai la testa dal corridoio, quando mi venne un’idea. Tornai indietro, nella sala del trono, e dopo aver aperto una finestra la feci sbattere con tutta la forza che avevo in corpo, rischiando di rompere i vetri. Poi corsi nel buio della sala, acquattandomi sulla pedana all’ombra della sedia e dei velluti che pendevano dal soffitto. Pochi istanti dopo la porta che dava sul corridoio si spalancò lasciando passare le due guardie di corsa, con la mano sull’elsa della spada e lo sguardo che vagava sulla stanza.
    – È quella stupida finestra, – fece uno, avvicinandosi alla finestra in questione per chiuderla. – Già che ci siamo diamo un’occhiata in giro, per essere sicuri che non sia entrato nessuno. –
    Mentre i due si guardavano intorno io mi alzai dal mio nascondiglio e, veloce e silenzioso, attraversai la porta per correre nel corridoio. Mi fermai solo quando raggiunsi la stanza dove le guardie si trovavano prima. Sbirciai dallo spioncino delle quattro porte, trovando sale di rappresentanza e biblioteche. Corsi su per le scale appena in tempo: i due uomini stavano ritornando ai loro posti di sorveglianza.
    Salii con calma e guardingo, non sapendo cosa aspettarmi. Ogni tre rampe si apriva un pianerottolo, su cui si affacciavano varie porte: al primo piano c’era uno studio, al secondo una camera da letto con i suoi appartamenti, al terzo una porta più sontuosa delle altre era socchiusa, lasciando brillare la luce calda del camino sul pavimento.
    Una stanza che sembrava circolare si apriva lì dietro, ma quello che mi fece capire che era la stanza di Lacey fu il grande ritratto che era sopra il camino: dal quadro la Lunga Mano in persona mi guardava, con in mano le insegne del Consigliere del Re. Per quanto fosse discutibile e narcisistico avere un proprio ritratto in camera, questo non mi lasciò più dubbi.
    La stanza era quella di Lord William in persona. Doveva essere o molto stupido o molto sicuro di sé (chissà perché propendevo per la seconda) per lasciare la porta quasi aperta e così poche guardie di sorveglianza. Rimasi ad osservare dallo spiraglio che mi era stato lasciato fino a che non vidi un’ombra avvicinarsi. Mi ritrassi in fretta, iniziando a salire le scale che ancora mi restavano da fare, acquattandomi nell’ombra.
    Lord Lacey spalancò la porta della sua stanza, illuminato dalla luce del fuoco. Si guardò intorno, senza proferire parola. Sentii i suoi occhi scrutare il buio dove mi trovavo, soffermandosi nell’ombra. Per la seconda volta in quella giornata eterna strinsi il pugnale che avevo dietro alla schiena, dove lo avevo messo per impedire che il bagliore della lama mi tradisse. Dopo istanti che mi sembrarono infiniti la Lunga Mano rientrò nelle sue stanze e sentii il suono della chiave che girava nella toppa.
    Finii le rampe per scrupolo e curiosità, visto che avevo trovato ciò che mi serviva. Al termine della torre in cui mi trovavo c’era solo un altro studio, più piccolo e più intimo, probabilmente per gli incontri privati. Discesi in fretta le scale, scegliendo poi una finestra che non fosse troppo in alto per riuscire a calarmi giù senza rompermi l’osso del collo.
    Era passata circa un’ora da quando ero entrato nel castello e finalmente ero di nuovo nel giardino, parzialmente al sicuro da soldati e occhi malvagi. Per quanto mi fossi sforzato, non ero riuscito in quei giorni a trovare un’uscita dall’edificio che non fosse l’ingresso principale e che era, inutile dirlo, costantemente sorvegliato. Decisi quindi di togliermi i vestiti da Assassino e di rivestirmi da comune galoppino del giardiniere. Mi nascosi vicino al sentiero che noi bassa manovalanza facevamo ogni mattina per andare sul luogo di lavoro, nascosto dall’ombra della notte e dalle foglie delle siepi. L’alba era ancora lontana, pensai quindi di approfittarne e dormire un po’: sarebbero stati i rumori dei miei “colleghi” il giorno dopo a svegliarmi.
 
***
 
Il mattino arrivò incredibilmente in fretta e non mi permise né di comunicare con gli altri né di riferire quello che avevo potuto vedere. Quando mi svegliai, con la schiena distrutta per le radici, mi infilai con tranquillità tra l’enorme quantità di lavoratori di cui aveva bisogno il castello ogni giorno, senza destare sospetti. La giornata lavorativa proseguì lenta, facendomi rischiare più volte di addormentarmi, ma per fortuna ad un certo punto finì. Ritornai in fretta al granaio abbandonato dove Camille continuava a guardare con occhio critico quella stupida mappa, facendomi pensare che non si fosse mai mossa da quando l’avevo lasciata due giorni prima.
    – Dov’eri ieri sera? – mi chiese quando mi vide arrivare, piegando la cartina e posandosela di fianco.
    Mi sedetti per terra, sospirando stanco: – A vagare per il castello, così potrai spendere ancora più tempo a osservare quel pezzo di carta. Che poi, perché lo fai? –
    – Non lo so, – scosse la testa. – Forse spero che spunti una soluzione ai nostri problemi. Hai scoperto qualcosa? –
    – Che William Lacey è un uomo estremamente inquietante. Dove sono tutti gli altri? –
    Mi guardò, appoggiando il mento sulle ginocchia: – Quello lo sapevo già. Non si diventa Consiglieri del Re per la propria piacevolezza. Comunque, Mel è sempre nei pressi del castello, Jared è con la sua nuova fiamma e Andreas è andato a procurarsi la cena, dovrebbe tornare a breve. –
    E così fu. Dopo dieci minuti una nera figura stava superando l’ingresso del granaio.
    – Oh, Marcus. Bentornato. Stavamo già iniziando a darti per morto. –
    Alzai gli occhi al cielo: – Grazie, Andreas, così mi commuovi. Ci sono state novità in questi due giorni? –
    Andreas iniziò a ravvivare il fuoco, mettendo nel cerchio di pietre della nuova legna. Si inginocchiò lì davanti, tendendo le mani per scaldarle e togliendosi la sciarpa che si era annodato al collo. Iniziava a fare davvero freddo. Dalla bisaccia che portava a tracolla tirò fuori un involto che posò senza grazia sul pavimento.
    – In verità sì, un paio. Jared, conversando con la sua amabile fanciulla, ha scoperto che Lord Lacey non è così immacolato come vorrebbe far sembrare. –
    – Che io sappia non ci prova nemmeno, a sembrare immacolato – lo interruppe Camille, guadagnandosi un’occhiataccia.
    – A quanto pare ogni mese va a visitare una donna, in un bordello nella città bassa, vicino al porto. E sembrerebbe che da questa donna sia nata una bambina, sua figlia illegittima. Si chiama Ivonne, ha cinque anni, e dicono che la Lunga Mano ci sia molto, molto affezionato. –
    – Non avrei mai detto che il Consigliere del Re fosse tipo da bordelli – commentai.
    – Beh, nemmeno io, ma evidentemente ci sbagliavamo, e comunque non è questo il succo del discorso. È una notizia niente male, no? –
    – Direi proprio di sì, – dissi, alzandomi in piedi e andando ad aprire il fagotto che aveva portato Andreas. Dentro c’erano dei pezzi di carne, crudi, avvolti nella stoffa. Li presi e mi avvicinai al fuoco, infilzandoli con dei rametti ed esponendoli alle fiamme.
    Camille mugolò: – Carne! Cavolo, ho l’acquolina. –
    – Sì, anche io. Ed è costata un occhio della testa, – la pungolò Andreas. – Mi aspetto che quando diventerai Regina ci ridarai un po’ dei soldi che abbiamo speso per te. –
    Camille ridacchiò, mordicchiandosi le labbra con aria famelica, mentre l’odore di carne cotta si propagava nel granaio sfondato: – Non ti facevo così gretto. Non state facendo tutto questo per l’onore e per lealtà? –
    – Sì, come no – le rispose Andreas, avvicinandosi al fuoco.
    Avevo appena finito di completare la cartina con quello quando avevo visto che tornò Mel, infreddolito e stanco. Si accucciò vicino alle braci del fuoco, con un’aria tutto tranne che serena in viso. Prese la carne avanzata e, senza dire una parola, iniziò a masticarla arrabbiato e scocciato.
    – Mel, tutto bene? – gli chiese Camille, avvicinandoglisi circospetta, come si fa con le belve feroci.
    – No, per niente, – fece lui. – Fa un cazzo di freddo là fuori e oggi Lacey non ha messo il naso fuori dal castello. Mi sono congelato. –
    – Dai, – fece Camille. – Comunque vada abbiamo quasi finito qui. La festa non è tra cinque giorni? –
    – Cinque fottutissimi giorni che passerò al freddo, – disse Mel. – Odio questo posto. –
    – Vedo che è un sentimento comune, – commentai. – Direi che è il caso di iniziare a pensare che cosa fare. Di informazioni mi sembra che ne abbiamo. Mi spiace solo che manchi Jared, ma non possiamo aspettarlo in eterno. Quindi, come pensiamo di procedere? –
    Andreas iniziò a dire qualcosa quando un rumore mi fece sussultare. Sguainai lentamente la spada, in silenzio, seguito dagli altri. Mi alzai e mi diressi vicino all’ingresso, da dove spuntò Jared, particolarmente rumoroso e felice di vivere.
    – Ehilà! – disse, prendendomi per una spalla. – Bentornato! Si sentiva la tua mancanza. –
    Chiusi gli occhi e misi la spada nel fodero: – Sono stato via due giorni. –
    Jared scosse le spalle ed entrò nel granaio, sedendosi vicino al fuoco e scaldandosi le mani.
    – Ti hanno già raccontato della figlia illegittima di Lacey? –
    Mi sedetti di fianco a lui, mentre gli altri tornavano alle loro postazioni: – Sì, so già tutto. E grazie per avermi chiesto come mai sono stato fuori tutta la notte. –
    – Scusami Marcus, non volevo offendere i tuoi sentimenti. Come mai sei stato fuori tutta la notte? –
    – Te ne accorgeresti se guardassi il disegno degli alloggi di Lacey. –
    Jared si girò verso di me, inclinando la testa: – Ma non ci serve quella cartina. L’altra sera, quella in cui mancavi tu per l’appunto, abbiamo deciso che… –
    Lo interruppi, facendo un respiro profondo: – Come non ci serve? Ho rischiato di farmi impiccare per niente? –
    Avrei continuato ma Andreas mi interruppe. Camille e Mel si stavano guardando accuratamente le unghie, apparentemente disinteressati.
    – In effetti Jared ha ragione, stavo per dirtelo prima che arrivasse… abbiamo pensato che forse è più sicuro rapire Lacey durante la festa, quindi non ci serve sapere come sono fatti i suoi appartamenti, – l’occhiata che gli lanciai era assassina. – Anche se in effetti ci può sempre tornare utile, sai com’è. –
    Jared mi lanciò un’occhiata di scuse, adocchiando quello che gli avevamo lasciato per cena, mentre io guardavo lui e gli altri tre a braccia incrociate: – Si può almeno sapere a cosa siete giunti o è segreto di stato? –
    Camille guardò Andreas, poi iniziò a parlare: – Abbiamo pensato, come diceva Andreas prima, che il momento della festa sarebbe il più adatto. Sai, c’è tanta gente, confusione, musica e le maschere ci saranno sicuramente di aiuto. –
    – Maschere? – domandai, mio malgrado incuriosito.
    – Sì, a Basilea si tiene sempre una festa in maschera per festeggiare gli Auremore, al cambio di stagione, – commentò Mel, riscaldato e meno incupito. – È una sorta di tradizione. –
    Camille annuì, per poi continuare: – Sì, è come dice Mel. Comunque, abbiamo pensato di andare a questa benedetta festa, di drogare Lacey e rapirlo, per portarlo in un posto sicuro e ascoltare quello che ha da dirci. –
    – Davvero avete liquidato tutta la faccenda in così poco? – dissi, guardando gli altri come se fossero folli. – Anche se fosse semplice drogare Lacey e rapirlo, cosa che, per inciso, vi assicuro che sarà tutt’altro che facile, cosa vi fa pensare che sarà disposto a raccontarci tutti i suoi affari? –
    E qui Jared fece un sorriso soddisfatto. In effetti mi sarei dovuto preoccupare solo per quello.
    – Ed è qui che entra in gioco la figlia della Lunga Mano. –
    Tacqui, guardando i volti dei miei amici su cui si riflettevano i bagliori del fuoco.
    – Volete rapire una bambina? Davvero? –    
    Mel mi guardò stupito: – Tieni la tua coscienza lontana da me. E comunque non le faremo niente, dovrà solo spingere il padre a dirci ciò che sa. –
    Tralascia il commento, guardando gli altri. Possibile che anche Camille fosse disposta a rapire una bambina di cinque anni? A giudicare dalla sua espressione soddisfatta, sì.     Davvero un bel passaggio da: “oh, ti prego, non uccidere il capitano della nave, potrebbe farci ammazzare tutti ma non ha fatto nulla di male!” a “andiamo a traumatizzare un’innocente”. Ovviamente tenni la cosa per me. Sospirai.
    – Sperando che Lacey le sia davvero affezionato, altrimenti finirà in un lago di sangue e sarà tutto inutile. –
    Andreas sorrise: – Felice che ti sia persuaso, amico mio. Adesso perfezioniamo questo piano. –
 
***
 
Due ore dopo eravamo stremati e arrabbiati l’uno con l’altro, ma almeno eravamo giunti a una soluzione. In sintesi, si trattava di questo: in tre ci saremmo intrufolati alla festa, in due sarebbero andati a prendere la bambina.
    Come saremmo riusciti ad imbucarci? Le opzioni erano due, una più assurda dell’altra, ma era il meglio che avevamo: o Jared avrebbe chiesto un favore alla sua nuova fiamma per farci entrare, o io avrei dovuto indicare agli altri due, che probabilmente sarebbero stati Jared e Mel, il modo per poter entrare nel castello senza farsi vedere. Quale modo? Avrei dovuto scoprirlo, ma speravo che il fascino di Jared facesse il miracolo.      
    Poi saremmo andati fino alla zona del ricevimento e il fatto che tutti saremmo stati mascherati ci sarebbe stato d’aiuto. Prima della festa avrei dovuto preparare, sfruttando la mia conoscenza di erbe e intrugli, un qualcosa che fosse in grado di rendere incosciente Lacey, possibilmente con un buon lasso di tempo dal momento dell’ingestione. Avevo già in mente una o due soluzioni che avrebbero fatto al caso nostro e avevo anche già stilato una lista degli ingredienti che mi sarebbero serviti. Mancavano solo un paio di erbe, ma le avevo viste nella serra del palazzo e le avrei prese il giorno seguente.
    Come avremmo convinto la Lunga Mano a lasciare momentaneamente il ricevimento e convincerlo a venire con noi? Nessuno aveva uno straccio di idea, ma suppongo che ci avremmo pensato sul momento. Si sa, la necessità aguzza l’ingegno. Il divertente sarebbe però venuto dopo.
    Come cavolo saremmo potuti scappare da un palazzo sorvegliatissimo, in pieno fervore di festa, con un uomo svenuto o quanto meno incapace di camminare? Il problema era serio. Il palazzo è infatti circondato dalle acque su tutti i lati, collegato alla terra da un ponte lungo, non eccessivamente largo ma soprattutto fin troppo pattugliato da guardie.
    Tutti quelli che si recano a palazzo devono passare da lì, inevitabilmente, attraversando poi una enorme scalinata sormontata da un altrettanto enorme arco, dominato dall’angelo degli Auremore. Da lì si apre un largo spiazzo, occupato da una grande fontana circolare con dentro statue di cavalli al galoppo e le direzioni da poter prendere sono molteplici: gli ospiti, i ricchi e i nobili attraversano lo spiazzo e prendono una seconda scalinata, che porta all’ingresso principale del palazzo, mentre la servitù si dirige dove serve, ma per loro c’è il divieto tassativo di percorrere la seconda rampa. Anche i poveri postulanti che vanno a palazzo per chiedere udienza al Re passano da un’altra strada.
    Decidemmo i ruoli che ognuno di noi avrebbe dovuto avere nei giorni successivi: io avrei dovuto, oltre che preparare il sonnifero per Lord Lacey, anche cercare una via di fuga papabile dal castello; Mel avrebbe dovuto capire precisamente quale fosse il bordello dove si trovava la figlia della Lunga Mano, insieme a Jared; Camille si sarebbe dovuta occupare dei costumi dei tre che sarebbero andati alla festa; Andreas avrebbe dovuto organizzare tutto ciò che serviva per permetterci la fuga dalla città. Insomma, sarebbero stati cinque giorni davvero, davvero impegnativi.
 
***
 
La mattina dopo ero a palazzo a guardarmi intorno con aria circospetta. Mentre andavo in giro, lavorando davvero poco, mi resi conto che praticamente tutta la parte dei giardini mancava di sorveglianza, probabilmente non si pensava che i problemi potessero emergere dal mare, su cui i prati si affacciavano con uno strapiombo di più di dieci metri. Lanciarsi da lì sarebbe equivalso al suicidio ed ero ben sicuro di non voler morire spiattellato sulle onde. L’unica cosa positiva della giornata fu che mi misero a lavorare di nuovo nella serra, permettendomi di prendere tranquillamente tutte le erbe che mi servivano. Alla sera tornai nel granaio, che ormai era diventato una sorta di casa, abbastanza demoralizzato. Non capivo come saremmo potuti uscire da quel castello maledetto senza dare nell’occhio e soprattutto senza farci ammazzare.
 
***
 
I giorni passarono lenti e il problema sembrava destinato a non risolversi. Poi un pomeriggio al castello, in un momento di riposo che stavo passando a pensare guardando il mare davanti a me, vidi d’improvviso una testolina scura fare capolino dalla scarpata, seguita dal resto del corpo di un bambino di una decina d’anni che rideva felice e spensierato. Quando arrivò finalmente sul prato si girò verso la scogliera, aiutando un altro bimbo più o meno della sua età ad emergere dal nulla. Socchiusi gli occhi e, prima che i due potessero scappare, corsi loro incontro per fermarli.
    – Da dove arrivate voi due? – domandai, mostrandomi con un’aria arrabbiata e contrariata.
    Uno dei due bambini iniziò a dondolarsi sui piedi abbassando la testa, palesemente beccato in flagrante, mentre l’altro provò a cavarsi dai guai: – Stiamo correndo per il prato, signore. Giochiamo. –
    – Guarda che vi ho visti mentre venivate su da lì – dissi, indicando il mare davanti a me.
    Silenzio, ed entrambi si guardarono i piedi.
    – Potevate sfracellarvi giù, è una caduta di almeno dieci metri! Come vi viene in mente? –
    Il più coraggioso dei due mi guardò, ribattendo: – Non è una caduta! Tre metri più sotto la parete rientra e c’è una piccola grotta naturale! E poi siamo bravi ad arrampicarci. –
    Tacqui, metabolizzando e resistendo all’impulso di dirgli che sì, tecnicamente sarebbe stata comunque una caduta. Mi soffermai però sulla rientranza nella parete.
    – E cosa andate a fare in una grotta umida sul mare? – domandai, con ancora un cipiglio alterato in viso.
    Questa volta fu il più timido dei due a rispondermi, con una vocina da spezzare il cuore: – Da lì è facile scendere al mare e ci divertiamo a pescare i granchi… Signore, per favore, non lo dica alle nostre mamme! Ci sgrideranno… –
    Sorrisi, inginocchiandomi davanti a loro e addolcendo il tono: – Va bene, non dirò niente. Ma sappiate che è pericoloso e rischiate di farvi molto male. –
    I due bimbi si dondolarono ancora un po’, ma alla notizia di avere scongiurato la sgridata erano molto più rilassati: – Sì, non lo faremo più. –
    Mi alzai in piedi e spettinai loro i capelli, spingendoli verso il giardino convinto che tanto non mi avrebbero dato retta: – Andate a giocare ora. –
    Li guardai allontanarsi correndo mentre pensavo, improvvisamente agitato. Altro che sgridarli, avrei dovuto fare una statua a quei due bimbi. Mi avvicinai alla scarpata, inginocchiandomi a pochi centimetri dal dirupo e guardando in giù. Niente faceva presupporre quello che avevano detto i bambini, se non che guardando bene si poteva notare, circa tre o quattro metri più in basso, una discesa di scogli meno ripida che nelle altre parti del palazzo. Come avessero fatto a scoprire quella grotta era un mistero, ma quei due bambini avevano risolto il nostro problema.
 
***
 
Quella sera tornai dagli altri particolarmente eccitato. Mancavano due giorni alla festa a palazzo, e finalmente sembrava che tutti i tasselli stessero andando al loro posto. Comunicai la scoperta ai miei amici che la accolsero con meno entusiasmo di quanto mi aspettassi, ma ero talmente contento che non ci feci nemmeno caso. L’intruglio che avrebbe dovuto far addormentare Lacey era in un angolo del granaio, sotto quel pezzo di tetto che ancora non era crollato. Sobbolliva da un giorno a fuoco lento, ma per il grande evento sarebbe stata pronta.
    Avevo imparato a preparare questa pozione, il Laccio Bianco, alla Corporazione, ma non l’avevo mai dovuta usare fino ad ora. Conteneva una serie di erbe semplici da trovare in qualunque erboristeria, utilizzate per i loro effetti contro insonnia e dolori vari, ma le sue caratteristiche erano date da piante rare, come l’efedra e l’anterisco, che ero riuscito a trovare nella serra. Totalmente insapore e incolore, può essere mischiata con qualsiasi bevanda senza che ne cambi il gusto o la sfumatura e i suoi effetti si fanno sentire dopo mezz’ora e senza alcun preavviso: un momento sei in piedi e vigile, e il momento dopo sei per terra svenuto. L’azione dipendeva dalla dose, ma non lasciava nessun postumo quando si riprendevano i sensi. In antichità veniva usata per rapire le fanciulle e da lì si era presa l’abitudine di servire da bere in bicchieri di rame: se la pozione era presente nel liquido, per una reazione con il metallo la bevanda si tingeva di verde, assumendo un colore innaturale e dando un segnale d’allarme. Fortunatamente per noi ormai nessuno più beveva in quei bicchieri particolari dato che il rame dopo un po’ tende a dare un saporaccio a qualunque cosa venga in suo contatto. Molto meglio il vetro e sorvegliare accuratamente le proprie figlie.
    Per i nostri scopi ne sarebbe bastata una fialetta, non di più se non volevamo passare il nostro tempo guardando Lacey dormire: non c’era modo di svegliare chi era sotto il suo effetto. Per terminare la sua preparazione bisognava aggiungere solo l’elicriso, ed era proprio per fare questo che mi avvicinai alla pentola dove sobbolliva l’intruglio, mentre mettevamo a punto gli ultimi elementi del nostro piano.
    – Purtroppo, – stava giusto dicendo Jared. – Quella ritardata di Eleine non ha nessuna intenzione di farci entrare a palazzo il giorno della festa, dice che se venisse beccata perderebbe il lavoro, o peggio. –
    Camille si sedette con la schiena appoggiata al muro, più accasciandosi che altro: – Non importa, tanto se la via di fuga di Marcus passa per il mare non sareste riusciti a sfruttare il suo aiuto. –
    Io annuii, continuando a rimestare il liquido sul fuoco, che stava finalmente iniziando a perdere il suo colore biancastro originario. Andreas mi si avvicinò e sbirciò nella pentola: – Sei sicuro che funzionerà? –
    Lo guardai smettendo di mescolare, intimamente offeso: – Perché non la provi, così lo scopriamo? –
    – Ritiro tutto, andrà benissimo. ­–
    Nel frattempo Camille stava parlando delle maschere e dei vestiti che aveva trovato per me, Jared e Mel, che saremmo andati alla festa, e del fatto che era quasi impazzita per riuscire ad averli. Li aveva tutti in una grande sacca appoggiata vicino a lei e ci minacciò di morte nel caso in cui li avessimo rovinati.
    – Quindi, – fece Andreas interrompendola e allontanandosi da me. – Che ne dite di ricapitolare un po’ il tutto? –
    Mel alzò gli occhi al cielo: – Sono giorni che continuiamo a ripetere, Andreas. –
    – Sì, – disse quello, sorridendo. – Ma sapete che sono paranoico e non starei tranquillo altrimenti, quindi, per favore, accontentatemi. Oppure vi sorbirete le mie lamentele per i prossimi giorni. –
    Aveva ragione. Era già capitato di organizzare una missione con Andreas e sapevamo tutti che sapeva essere veramente martellante quando voleva, e soprattutto quando non si faceva come voleva lui. Era una sorta di maniaco del controllo, doveva sapere che tutto era stato programmato nel minimo dettaglio per essere tranquillo e ovviamente con noi la cosa riusciva davvero difficile. Un paio di anni prima, quando ci eravamo ribellati al suo dispotismo e ci eravamo rifiutati di ripetere ogni minimo dettaglio del nostro piano per la seicentesima volta, aveva passato i giorni successivi a lanciare frecciatine, lamentarsi e farsi prendere dal panico. Erano stati i tre giorni peggiori della mia vita.
    – Accontentiamolo, vi prego – intervenni quindi, lanciando un’occhiata supplice a Mel.
    Lui non replicò, sapendo benissimo che avevo ragione io. Ero sicuro che quei tre giorni di cui prima erano stati i peggiori anche della sua, di vita.
    – Quindi, – fece Andreas, nella sua più riuscita interpretazione di maestrina. – Tra due giorni ci sarà la festa, dove voi andrete. Io e Camille, invece, andremo al bordello Chiaro di Luna –per inciso, un nome orrendo, anche se per un bordello– e prenderemo la figlia della Lunga Mano, per portarla qui. Dopo di che io vi aspetterò con dei cavalli per riuscire ad arrivare qui in fretta. A proposito, dove vi aspetto? –
    – Ecco, – dissi io, lasciando momentaneamente perdere la pozione. – Sono riuscito a capire come entrare a palazzo, ma comunque si tratta di un’isola in mezzo al mare. Avremo bisogno di una barca. –
    Jared mi rispose, stiracchiandosi: – E che ci vuole? Ne rubiamo una. Vomiterò anche l’anima ma non sarà un problema. –
    Andreas lo guardò come si può guardare un malato mentale: – Certo, Jared. Facile così. Se ci fosse un premio per il pressapochismo lo vinceresti tu, ne sono sicuro. –
    Il mio amico ridacchiò: – Guarda che anche Marcus non scherza. Scommetto che la sua risposta sarebbe stata uguale. –
    – In effetti, – feci io con aria colpevole, sentendo gli occhi di tutti addosso. – Avevo pensato a una cosa simile. Il porto non è troppo distante da lì, no? Jared e Mel prendono un qualcosa abbastanza grande per starci in quattro, remano fino al castello dove li aspetto io, mettiamo in secca la barca o quanto meno la leghiamo, e poi ci arrampichiamo fino ai giardini. –
    – Non azzardatevi a farlo con già i costumi addosso! – mi interruppe Camille. – Con tutta la fatica che ho fatto se li rovinate così vi uccido! –
    Ridacchiai al suo panico: – Certo, non ti preoccupare. Allora facciamo che i vestiti li portate con voi sulla barca, li metteremo lì. Poi andremo alla festa e cercheremo di mettere il Laccio Bianco nel bicchiere di Lacey. Da quel momento avremo un lasso di tempo di circa mezz’ora, poi Lord William perderà i sensi. –
    – Infine, – continuò Mel. – Prenderemo la Lunga Mano, la porteremo fuori in maniera discreta, scenderemo dalla scarpata di roccia, saliremo in barca e remeremo fino… fino a dove? –
    – Era esattamente quello che mi stavo chiedendo prima, Mel – gli rispose Andreas, con il suo tono irritante da so-tutto-io.
    – Potete incontrarvi vicino ai moli che ci sono a sud del castello: sono poco frequentati e in più non rischiate di farvi beccare dal proprietario della barca rubata, – commentò Camille. – Dovremmo uscire dalla città in fretta e senza attraversarla tutta. –
    Andreas la guardò ammirato: – Hai ragione, non ci avevo proprio pensato. –
    – Bene, – dissi io, dopo aver dato un’ultima occhiata alla pozione che sobbolliva tranquillamente sul fuoco. – Abbiamo risolto allora. Andreas sei più rilassato? –
    Mi sorrise sornione, accomodandosi per terra: – Infinitamente. –
    – Fantastico, – fece Jared. – Ora possiamo mangiare? –
 
***
 
Il giorno della festa arrivò in fretta, senza lasciarci tempo per ulteriori preparativi. A palazzo sembravano tutti impazziti e in preda ad una frenesia incontrollabile, e i giardinieri non erano da meno. Tutto doveva essere perfetto. Al solo pensiero che uno scenario del genere si ripetesse due volte all’anno, una all’arrivo del Re e una alla sua partenza, mi saliva l’angoscia. Non mi sono mai piaciuti i preparativi compulsivi.
    Il tramonto, vista anche la brevità delle giornate, fu su di noi in un attimo. I giardini e le fontane erano illuminati da centinaia di lanterne di carta, appese ai rami, alle panchine di ferro battuto e poggiate ai lati dei sentieri di ciottoli, illuminando il verde, l’arancione, il dorato e l’argento degli alberi. Come avevo già fatto, nel momento di andare via mi nascosi al buio, nella parte di giardini che non erano destinati ad ospitare la festa.
    Aspettai fino all’ora stabilita, poi presi la corda che avevo portato con me, la legai al tronco di un albero vicino alla scarpata, nel punto in cui giorni prima i due bambini erano comparsi dal nulla. Lanciai la fune verso il mare e iniziai a calarmi lentamente, guardando ogni appiglio e ogni rientranza della roccia che mi stavano davanti al naso. Si vedeva poco perché la luce stava svanendo e la luna non era ancora sorta. L’odore della pietra, di salmastro e di erba bagnata mi entrò nelle narici, rinfrescandole e ammaliandomi.  Le dita scivolavano leggermente contro la canapa della corda, mentre i piedi sbattevano contro la parete di roccia davanti a me. Non mi è mai piaciuto particolarmente arrampicarmi e l’altezza non mi fa impazzire. In più, il pensiero di avere sotto di me, a circa dieci metri, niente altro che rocce e acqua era qualcosa che mi turbava oltre ogni dire.
    Fortunatamente, come mi avevano detto i bimbi, tre metri sotto i giardini si apriva una grotta naturale, dove mi fermai un attimo. Da lì in avanti la fune non mi sarebbe più servita e la distanza che mi separava dalla superficie del mare poteva essere coperta lasciandosi scivolare sulle rocce, macchiate da escrementi di gabbiano e percorse da piccoli insetti. Le mani mi si fecero appiccicose, bagnate di acqua e sale e sabbia, mentre il cielo sopra di me era sempre più nero. Ci misi almeno venti minuti a discendere da quel calvario, borbottando a mezza voce, in parte scivolando e in parte calandomi su un sentiero molto poco disposto a farsi percorrere. Come facessero quei dannati bambini a scendere da lì senza rompersi l’osso del collo era, di nuovo, un mistero.
    Finalmente arrivai in prossimità dell’acqua, guardato male dai granchi e da un paio di gabbiani che decisero saggiamente di alzarsi in volo. Il mare davanti a me era poco agitato, di un blu impenetrabile che rifletteva la tenue luce della luna e delle stelle. Piccole onde si infrangevano ai miei piedi, schizzandomi di acqua salata e rinfrescandomi dopo la fatica che avevo fatto per calarmi fin laggiù. Il vento freddo mi spettinava i capelli, facendomi sbattere gli abiti Mi sedetti su una protuberanza che sembrava essere messa lì apposta e aspettai, avvolto nella giacca.
    Dopo una mezz’ora, in cui la temperatura era ulteriormente calata e iniziavo ad avere un freddo cane, scorsi tra i flutti una barca che si avvicinava. Era delle dimensioni di una scialuppa, piccola e slanciata, di legno, e sopra due persone stavano remando senza sosta. O meglio, una remava senza sosta, l’altra ogni tanto si fermava per respirare o sporgersi fuori bordo. Erano sicuramente Mel e Jared, e qualche minuto dopo erano vicino agli scogli, cercando di tenere la barca ferma senza spiattellarsi sulle rocce.
    – Devo scendere da questo aggeggio infernale. Marcus aiutami – mi disse Jared, mollando i remi e alzandosi in piedi, appoggiando una mano sulla terra ferma. Io mi abbassai e tenni ferma la barca mentre lui, di un indelicato colore verdino, si sporgeva sugli scogli salendoci sopra. Ci mancava poco che baciasse la terra.
    – Scusatemi, ma sulle barche piccole è ancora peggio che su quelle grandi – fece, guadagnandosi un’occhiataccia da Mel, che continuava a cercare di tenere la scialuppa ferma e che doveva aver passato un tragitto d’inferno.
    Guardai il mio amico, con i capelli argentati che brillavano debolmente alla luce della luna: – Dobbiamo tirarla su, l’ideale sarebbe riuscire a portarla nella grotta. Non sarà facile. –
    – Ci proveremo – disse Mel, ritirando i remi e alzandosi, mentre io e Jared tenevamo la scialuppa il più ferma possibile.
    Riuscimmo, non si sa come, a portare la barca alla grotta più in alto. Ci mettemmo circa un’eternità, e quando arrivammo su eravamo stanchi, sudati e con il fiatone. In più Mel e Jared, e in parte anche io, avevano i vestiti fradici per l’acqua che avevano preso durante la traversata. Fui sollevato dal vedere ancora la fune al suo posto, intatta. Jared prese il sacco con i costumi che si erano portati dietro e iniziammo a cambiarci.
    – Questo non lo diciamo a Camille, d’accordo? – chiesi mentre mi sbottonavo la giacca, anche se più che una richiesta era un ordine. Mel e Jared annuirono ridacchiando, svestendosi. Presi in mano il costume che Camille aveva preparato per me, sentendomi un perfetto idiota solo al pensiero di indossarlo. Era costituto da un paio di pantaloni fin troppo stretti di un color rosso scuro, quasi nero che avrei dovuto infilare negli stivali di cuoio rovinato che portavo da anni. La giacca era dello stesso colore dei pantaloni, con rifiniture color argento, e aveva le spalle imbottite in una parodia degli spallacci di un’armatura. Sotto dovevo mettere una camicia bianca, larga e a tratti trasparente, con le maniche a sbuffo che spuntavano dalla giacca. Dei guanti neri mi coprivano le mani e c’era anche un mantello dello stesso colore, con un largo cappuccio, che avrebbe dovuto coprire il tutto. Il tocco finale era dato dalla maschera, bianca e squadrata, con dei buchi solo per gli occhi e con cesellature argentate tutto attorno. L’impronta della bocca era colorata di nero. Non la misi, o avrei rischiato di accopparmi ancora prima di arrivare alla festa. Quando finii il processo di vestizione guardai i miei amici e mi accorsi che più o meno eravamo vestiti uguali. Cambiavano i colori: blu e argento per Jared e verde e oro per Mel.
    – Allora, andiamo? – dissi loro, mentre finivano di sistemarsi.
    Mel mi fece un cenno con il capo, mentre Jared era diventato incredibilmente serio: – Ti seguiamo. –
    Controllai che nella tasca del costume ci fosse la fiala con il sedativo e mi arrampicai per primo sulla fune, guadagnando il giardino. Poco lontano si sentivano i rumori della festa già iniziata.
 
 

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Capitolo 11
*** XII ***


CAPITOLO XII
 
CAMILLE
 
Lasciammo Basilea in fretta e furia, cavalcando lontano dalla città come se avessimo l’esercito del Re alle calcagna. In effetti, tra l’altro, nessuno ci assicurava che non fosse vero. Il cadavere di Lord Lacey giaceva ancora abbandonato nel granaio distrutto. Eravamo sicuri che non sarebbe passato molto tempo prima che a corte si accorgessero della sua mancanza e non era da escludersi che lo avessero già notato. Avevo riportato Ivonne dalla madre, mantenendo la mia promessa alla Lunga Mano. Non che se lo meritasse, ma quella bambina non era responsabile dei crimini del padre.  
    Cavalcammo nell’entroterra del regno di Dimina diretti verso Sanad, città sullo stretto Elusino. Da lì avremmo dovuto cercare un passaggio via mare per Eleusi e per Viride, con tutti i problemi connessi. Ormai eravamo di sicuro ricercati: io lo ero sempre stata, ma Marcus e i suoi amici avevano disertato dalla Corporazione degli Assassini e non potevano essere lasciati impuniti, la comparsa di Lanes gliene aveva dato solo la conferma.
    Avremmo dovuto fare molta più attenzione, restando lontani dalle città e guardandoci sempre le spalle. Non sarebbe stato facile, senza contare che l’uomo che stavamo cercando era a capo della guardia personale della regina Celia. Andreas lo conosceva, e ciò avrebbe dovuto aiutarci, però… non so come mai ma avevo avuto anche io l’impressione che il nostro amico non ci stesse raccontando tutta la verità. Nella lunga giornata della nostra fuga dal granaio Andreas divenne sempre più cupo, accigliato. Le mani che tenevano le redini avevano le nocche bianche per la forza che metteva nella presa e la sua bocca era piegata in una smorfia per niente rassicurante. Si capiva che era angosciato e non riuscivo a comprendere il perché.
    Quello però che mi rendeva più preoccupata era Marcus: durante la cavalcata iniziò a sudare, in maniera inconciliabile con il clima freddo che c’era in quel dicembre. Sbatteva frequentemente le palpebre per snebbiarsi la vista e spesso lasciava cadere le redini.
    – Marcus, tutto bene? – gli domandai più volte lungo il tragitto.
    – Tutto a posto – mi rispose ripetutamente, non tranquillizzandomi affatto.
    Quando finalmente passammo al passo, per riposare noi e i cavalli, lo guardai bene. Era pallido, i capelli gli si appiccicavano in ciocche sudate alla fronte. Tremava, gli occhi erano arrossati e si vedeva che faceva fatica a respirare.
    – Marcus, sei sicuro di stare bene? – gli chiesi, sempre più preoccupata.
    Mi rivolse un sorriso stentato, poco convinto: – Sì, non ti preoccupare. Passerà. –
Anche Jared lo guardava con aria impensierita, aggrottando le sopracciglia. Persino Mel sospettava che qualcosa non andasse bene. Solo Andreas era troppo angosciato per accorgersi di quello che stava capitando.
    – Decisamente non va bene, – disse Jared smontando da cavallo e dirigendosi verso quello di Marcus. – Adesso scendi e guardiamo quella ferita. –
    Sia io che Mel scendemmo dai nostri cavalli, giusto in tempo per vedere Marcus cercare di smontare di sella e accasciarsi per terra, contro Jared. La casacca che indossava era bagnata di sangue rosso, brillante.
    – Mi sa che in effetti non sto troppo bene – sussurrò, con voce rotta e gli occhi chiusi, mentre il suo torace si alzava e abbassava come un mantice.
    Jared lo adagiò al suolo, scoprendogli con uno strappo il torace. Marcus si lamentò debolmente mentre l’amico gli faceva passare il braccio fuori dalla manica. Non so molte cose di ferite, ma di una sono sicura: se sono nere, qualcosa non va. Il colore della spalla di Marcus era proprio quello: dalla ferita nerastra partivano le vene blu, pulsanti contro la pelle pallida, e la pelle arrossata circondava tutto.
    Mi portai una mano alla bocca, spalancando gli occhi spaventata. Non era bene, per niente. Sentii le lacrime pizzicare ai lati degli occhi, minacciando di scorrermi sulle guance. Ero spaventata, l’ansia si fece strada verso di me. Stava morendo? Era grave? Vidi Jared chiudere per un momento gli occhi, poi si abbassò per annusare la ferita.     Fece una smorfia, e si mise in ginocchio, strofinandosi il volto con la mano. Persino Andreas dietro di me si era riscosso dalla sua apatia, chinandosi vicino all’amico con gli occhi spalancati.
    Marcus aprì per un momento gli occhi: – È così brutta? – sussurrò con un sorriso debole, guardando Jared.
    – Ho visto di meglio, – disse lui, cercando di stirare le labbra in un sorriso. – Ma vedi che la risolviamo. Per adesso però direi che ci fermiamo qua. Non puoi proseguire. –
    Nessuno disse niente, guardavamo tutti Marcus come se fosse un fantasma. Mi avvicinai a lui e gli misi una mano sulla fronte. Scottava. Mi tolsi la giacca e gliela misi addosso, sperando che potesse tenerlo al caldo.
    – Ha la febbre, – dissi a nessuno in particolare. – Cosa possiamo fare? –
    Mel era seduto per terra, guardando Marcus scuotendo la testa: – Non è normale. Le ferite non infettano in così poco tempo, in più l’abbiamo pulita e bendata. Non è normale. –
    – No, decisamente, – commentò Jared, con gli occhi blu che facevano scintille. – C’era del veleno sulla lama di Lanes, per forza. Quel bastardo… –
    – Un veleno? – domandai, sconvolta. – Ma… ma ci serve un antidoto, o morirà! –
    Andreas mi guardò con gli occhi dilatati, persi nel vuoto: – Sì, ci serve un antidoto. Ma a cosa? Che veleno può aver usato? –
    Jared si alzò in piedi, muovendosi come un animale in gabbia: – Non abbiamo molto tempo. Se in una giornata scarsa quella ferita è ridotta così, non so per quanto… –
    Non finì la frase. Io trattenni un singhiozzo, sentendo le lacrime scorrermi sulle guance. Le asciugai con il dorso della mano portandomi più vicino a Marcus, che era caduto in uno stato di incoscienza. Si agitava mormorando parole senza senso, non aprendo più gli occhi. Il sudore sulla sua fronte brillava alla debole luce del sole.
    – Pensiamo, – disse Andreas dopo un profondo respiro. – Non sono molti i veleni che hanno un effetto del genere. Bisogna andare in città e chiedere di un guaritore. Nel frattempo, Marcus non può stare qui. Fa troppo freddo, peggiorerà solo la sua condizione. Dobbiamo cercare aiuto. –
    Jared annuì, spostandosi rapido verso il suo cavallo: – Hai ragione. Io e Mel andremo in città, tu e Camille cercate aiuto. C’erano delle case a circa quindici chilometri da qui, chiedete aiuto lì. Vi raggiungeremo con un guaritore, a costo di obbligarlo con la spada. –
    Tutti scattammo in piedi e, prima ancora che io e Andreas potessimo iniziare a spostare Marcus, Jared e Mel erano già partiti al galoppo. Il tragitto dal punto in cui c’eravamo fermati fu un inferno: Marcus cavalcava con Andreas, che lo teneva stretto cercando di non farlo cadere da cavallo. Continuava a mormorare parole insensate, muovendo agitato la testa. Io non riuscivo a smettere di guardarlo, impaurita come mai ero stata in vita mia. Poteva morire, e per cosa? Per aiutare me. Se fosse successo non me lo sarei mai perdonata. Mi resi conto all’improvviso che quei quattro ragazzi stavano rischiando le loro vite per un mio capriccio. In fondo ero viva, mia madre non si aspettava più di trovarmi: perché dovevo complicare le cose con la vendetta? Forse non ne valeva la pena.
    I miei neri pensieri si interruppero nel momento in cui raggiungemmo gli edifici. Una volta arrivati scesi da cavallo precipitandomi verso una casa, bussando insistentemente alla porta. Dopo poco una signora anziana mi aprì, lasciando la porta socchiusa e guardandomi dallo spiraglio.
    – Cosa volete? – mi chiese.
    – La prego, abbiamo bisogno di aiuto, – risposi, praticamente piangendo. – Il mio amico sta male, ha bisogno di cure. Morirà se rimane fuori al freddo. Non vogliamo farle nulla di male, la prego, ci faccia entrare! –
    Nel frattempo Andreas era smontato da cavallo, portando in braccio Marcus. La donna lo vide e spalancò la porta, convinta della verità delle mie parole.
    – Vi lascerò la stalla. È vuota e potrete accendere il fuoco. Più di così non posso fare, non ho spazio per voi in casa. –
    – Grazie, grazie, grazie – mormorai stringendole la mano, grata del suo aiuto.
    Ci guidò poco distante, verso un edificio solido e basso con un’ampia porta. Dentro c’era un’enorme quantità di paglia, dove avremmo potuto adagiare Marcus.
    La donna indicò un angolo della stanza, leggermente annerito: – Lì potete accendere il fuoco. Non siete i primi viaggiatori che ospito. In più non c’è niente da rubare, qui. –
Andreas posò Marcus sulla paglia, rivolgendo poi un leggero inchino alla donna: – Grazie, vi siamo debitori. Vi pagheremo per il vostro disturbo. –
    – Non lascerò che un ragazzo muoia davanti ai miei occhi, – disse questa, agitando la mano. – Vi porterò delle coperte, così che stia coperto. –
    Io mi inginocchiai vicino a Marcus, osservando la nostra benefattrice uscire dalla stalla, dirigendosi verso casa. Presi la mano dell’Assassino, accarezzandola e studiandola.     Era ruvida, grande, con calli che indicavano quale fosse il suo mestiere. Era anche incredibilmente calda, in maniera impossibile. Intrecciai le mie dita tra le sue, tenendola stretta. Con l’altra mano gli scostai le ciocche sudate dalla fronte, dandogli una leggera carezza. Non potevo credere che sarebbe potuto morire. Marcus mi aveva salvato la vita due anni fa e ora rischiava di perdere la sua a causa mia. Chiusi gli occhi, sentendo un nodo d’angoscia stringermisi nel petto.
    “Non puoi lasciarmi anche tu”, pensai, atterrita. Avevo perso tutti quelli che amavo, non potevo permettere che anche lui se ne andasse. Sentii le lacrime scendermi di nuovo ai lati del viso e le scacciai con un gesto brusco della mano. No, non poteva morire, non glielo avrei permesso. In più ero sicura che nemmeno Jared, e tantomeno né Mel né Andreas lo avrebbero fatto. Marcus non mi avrebbe lasciata, sarebbe tornato a ridere, camminare e parlare a breve.
    Dopo poco ritornò la nostra ospite, con in mano una paio di spesse coperte di lana. Andreas le prese e le stese sul suo amico, coprendolo bene e tenendolo caldo. Lui continuava a muoversi, le labbra erano sempre più livide. Sbatteva i denti, girando la testa da una parte e dall’altra, scuotendo le lunghe gambe. Scoprimmo la ferita sulla spalla, che era sempre più scura, malsana. Chiusi gli occhi, cercando di far sparire quell’immagine terribile dalla mia mente.
    Vegliammo su Marcus, vedendolo stare sempre peggio, per un paio d’ore. Io ero sempre più angosciata e Andreas camminava avanti e indietro per il granaio, misurandolo a lunghi passi. Mi sembrò che il tempo si dilatasse, facendo durare ogni minuto ore. Non riuscivo a distogliere gli occhi dal viso dell’Assassino adagiato vicino a me, temendo in ogni momento di non vedere più il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo respiro.
    Dopo quelli che mi sembrarono giorni, finalmente la porta della stalla si spalancò lasciando entrare Jared e Mel preceduti da un uomo incappucciato, vestito di bianco. Potei intravedere la luce debole che veniva da fuori, indicandomi che la giornata stava terminando e che stesse avanzando la notte. Scrutai lo sconosciuto mentre si avvicinava a Marcus, inginocchiandosi vicino al suo corpo e toccandogli la fronte. Dopo poco si abbassò il cappuccio, rivelando un volto semplice ma severo.
    Occhi scuri scrutavano il viso del mio amico e la bocca era ferma in una linea severa. Sembrava giovane, troppo per uno che con la sua esperienza avrebbe potuto determinare la morte o la vita del nostro amico. Noi tutti lo osservavamo con il fiato sospeso, bloccati in un’immobilità innaturale. Poi scoprì la ferita di Marcus, guardandola con aria sospetta e toccandola leggermente con un bastoncino di metallo che si tolse dal mantello.
    Fece una smorfia e poi si alzò, parlando con una voce bassa e profonda: – È grave, c’è molto da fare. Vi pregherei di uscire da qui, per permettermi di lavorare in tranquillità. –
    – Sopravvivrà? – domandò Jared, con voce tremante.
    Il guaritore abbassò il capo, piegando la bocca in un’espressione triste e dolce allo stesso tempo: – Non lo so, non voglio dirvi cose che potrebbero non essere vere. Posso provare a salvarlo, questo sì. Per farlo, però, ho bisogno che mi lasciate fare il mio mestiere. –
    Annuii e mi alzai, lasciando la mano di Marcus. Poi seguii gli altri fuori dalla porta del granaio.
               
***
 
L’attesa fu snervante. Ci sedemmo per terra muti, senza fiatare. Pronunciammo solo qualche parola mormorata, per sapere chi fosse il guaritore e dove Jared e Mel l’avessero scovato. Dopo ci fu solo silenzio.
    Pregai, forse per la prima volta nella mia vita. Non rivolsi però i miei pensieri a Polemos, crudele dio della guerra e massima divinità nel mio paese, ma mi venne in mente Casel, il dio dell’equilibrio e della giustizia di Viride. Se esisteva, se c’era davvero, allora non avrebbe potuto portarmi via Marcus, non così. Mormorai mozziconi di preghiere imparate da bambina, riempiendo i vuoti della mia memoria con parole inventate da me.
    Jared era seduto di fianco a me, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata al muro della stalla. Sembrava dormisse ma sapevo benissimo che l’angoscia stava divorando anche lui, come tutti gli altri. La faccia di Mel sembrava scavata, gli occhi erano infossati nel viso. Andreas si teneva le mani tra loro, per impedire di far vedere il loro leggero tremore, osservando con sguardo vacuo la campagna attorno a sé.
    Passarono ore e la temperatura cadde di molto. Sebbene tutti stessimo patendo il freddo nessuno di noi osò entrare nella stalla, per paura di interrompere il guaritore e vedere cose che non avrebbe desiderato vedere. Ogni tanto un urlo leggero attraversava l’aria, gelandoci sul posto. Altre volte invece sentimmo dei ringhi e dei mugoli, a cui seguivano i nostri sguardi sempre più spaesati.
    Finalmente la porta dell’edificio si aprì. Il guaritore aveva una faccia stanca ma soddisfatta, le mani erano sporche di sangue e stringevano un panno candido.
    – Il vostro amico è vivo, – disse anticipandoci, vedendo già le nostre bocche che si spalancavano per chiedere informazioni. – Ma molto stanco. Sta riposando ora, ne ha molto bisogno. La lama che gli ha causato quella ferita era stata cosparsa con un veleno raro e letale. È fortunato a essere sopravvissuto. –
    Feci per ringraziarlo ma Jared mi anticipò: – Grazie per tutto quello che avete fatto. Vi siamo debitori, noi tutti. –
    – Non ce n’è bisogno, – rispose il guaritore sorridendo. – Ho fatto ciò che sono stato addestrato a fare, niente di più. Mi basta sapere di aver salvato una vita. –
    Ci inchinammo all’uomo, non sapendo esprimere veramente la nostra gratitudine, poi entrammo nella stalla e il mio sguardo corse subito alla figura adagiata sulla paglia. Mi avvicinai rapidamente a Marcus e mi inginocchiai al suo fianco, osservandolo: non tremava più, la pelle aveva acquistato un colore un po’ più naturale. Il suo torace era scoperto e la spalla era fasciata in bende candide, pulite. Continuava a dormire, ma non mormorava parole e sembrava scivolato in un sonno profondo. Il suo petto si alzava e abbassava regolarmente, non più rapido come poco prima.
    Un sospiro di sollievo mi uscì dalle labbra, mentre il tempo iniziava di nuovo a scorrere normalmente. Vicino a me c’erano Andreas, Mel e Jared, tutti con un’espressione sollevata e un sorriso sul viso.
    Il guaritore era poco distante da noi, guardandoci con aria serena: – Dovrete cambiargli le bende domani mattina, ve ne ho lasciate un po’, – disse, indicando un punto della stanza. – Ora, se non vi dispiace, gradirei ritornare al tempio. –
    Mel si rialzò, scuotendo Jared per la spalla e avvicinandosi all’uomo: – Certo, partiremo subito. Ci segua, la accompagneremo. –
    I due Assassini uscirono dalla stalla, assicurando a me e ad Andreas che sarebbero tornati il prima possibile mentre noi avremmo dovuto vegliare il malato, assicurandoci che non peggiorasse improvvisamente.
 
***
 
Non distolsi lo sguardo da Marcus nemmeno per un secondo, e mi riappropriai della sua mano mentre ero seduta vicino a lui, osservandogli in continuazione il viso, più tranquilla ma ancora un po’ preoccupata. Non mi sarei rilassata fino a quando non si fosse svegliato, lo sapevo benissimo. Cosa avremmo fatto se il guaritore non fosse riuscito a guarirlo? Repressi un brivido, non volendo nemmeno pensarci. Sentii la fatica della giornata crollarmi addosso, ma non mi sarei addormentata fino a che non fossero tornati gli altri.
    Osservai i lineamenti di Marcus, stupendomi di come fossero più morbidi e dolci nel sonno. La linea della guancia era stranamente tenera, ombreggiata dalle ciglia lunghe. Le labbra erano leggermente aperte e potevo vedere la paglia davanti a lui muoversi lievemente al ritmo del suo respiro.
    Mi riscossi dalla mia contemplazione quando una mano mi toccò la spalla, facendomi sussultare e distogliendomi dai miei pensieri: – Camille, sta bene adesso. Puoi riposare. –
    Guardai l’Assassino seduto di fianco a me, sorridendogli debolmente, quasi vergognandomi: – Grazie, Andreas, ma credo che resterò sveglia ancora un po’. –
    – Hai paura che possa capitargli qualcosa? – mi domandò.
    – Stupido eh? – sospirai.
    – No, non penso – mi rispose Andreas.
    Rimanemmo in silenzio per un po’, osservando Marcus che mormorava qualche parola, per poi girarsi e continuare a riposare.
     – Sei innamorata di lui, non è vero? –
    Provai prima incredulità, poi stupore, poi consapevolezza. Mi girai verso Andreas, mentre qualcosa mi esplodeva in petto. Forse era per quello che sentivo tutte quelle strane sensazioni quando ero con Marcus, forse Andreas aveva capito tutto prima di me. Sapevo che ero felice quando stavo con l’Assassino, che mi preoccupavo quando lui non c’era, che il pensiero di perderlo mi aveva fatto pensare di morire io stessa. Mi bloccai, mentre tutto intorno a me svaniva davanti all’enormità di quello che provavo: sì, ero innamorata di Marcus. Come avevo fatto a non accorgermene?
    Abbassai il volto, rivolgendolo verso le mie mani intrecciate con quelle di lui: – Credo di sì. –
    Poi Andreas fece qualcosa che mi stupì enormemente: mi abbracciò. Per un momento mi irrigidii, prima di abbandonarmi alla stretta e poggiare la testa sulla sua spalla.
    – Non lo sapevo nemmeno io, – gli dissi, un po’ colpevole. – Come hai fatto ad accorgertene? –
    Andreas sorrise dolcemente: – Vedo come vi guardate. –
    Annuii, sciogliendomi dall’abbraccio e portando il mio sguardo verso Marcus, che dormiva come un bambino. Ero così felice di vederlo vivo che non riuscii a trattenere un sorriso.
    – E tu, Andreas? Sei innamorato? – gli domandai.
    Non sentendo risposta mi girai verso di lui, che aveva lo sguardo perso nel vuoto. Perso e infinitamente triste.
    Gli appoggiai la mano sulla spalla: – Andreas, tutto bene? Non volevo metterti in difficoltà. –
    Lui scosse la testa, per poi chinarla verso il basso: – No, non è quello. Solo io… io devo dirlo a qualcuno. –
    – Dire cosa? – gli domandai, mio malgrado incuriosita.
    Vidi Andreas deglutire, per poi fermarsi e tacere. Non volevo forzarlo a raccontarmi i suoi problemi, quindi rimasi in silenzio anche io. L’Assassino chiuse gli occhi aprendo un paio di volte la bocca senza proferire parola.
    Poi alzò d’improvviso la testa, con determinazione negli occhi d’ambra: – Sì, sono innamorato anche io: di Lord San, il capo della guardia della Regina. L’uomo che stiamo cercando. –
    Spalancai la bocca e dilatai gli occhi, stupefatta, non credendo a quello che avevo appena sentito. Non dissi niente per qualche secondo, estremamente consapevole dello sguardo di Andreas su di me, nell’attesa di una risposta.
    – Io… Sono contenta per te, ma non so nemmeno da che parte iniziare con le domande – dissi, sperando di non essere troppo brusca. Ero veramente contenta per Andreas ma avevo paura di cosa avrebbe potuto implicare questo suo legame con questo Lord San.
    L’Assassino sorrise e si raddrizzò persino, come se si fosse tolto un peso da sopra le spalle: – Inizia da dove vuoi. –
    – Va bene. Allora, da quanto va avanti? Sei felice? Com’è iniziata? Gli altri lo sanno? Cosa pensi di fare? –
    Andreas rise: – Rilassati, Camille, e ripetimi le domande una ad una. Non ti sto dietro altrimenti. –
    Risi anche io, per la prima volta da quando era incominciata quella giornata eterna: – Partiamo con le cose importanti allora: sei felice? –
    – Molto, – mi rispose l’Assassino con un sorriso felice, per poi rabbuiarsi di colpo. – O almeno, lo ero fino a ieri sera. Non mi aspettavo niente di tutto questo. –
    – Di questo potremo poi ragionare con calma, ora lascia che la mia anima pettegola venga alla luce. Da quanto state insieme? Com’è iniziata? –
    – Insieme è una parolona. Non ne abbiamo mai parlato, quindi non saprei dirti. So solo che sto bene con lui e spero che lui stia altrettanto bene con me. Abbiamo iniziato a vederci seriamente e non più come semplici amici circa una decina di mesi fa. Com’è iniziata, mi chiedi… Non lo so precisamente. Un giorno mi è stato chiesto di contattarlo su ordine dell’Alto Comando e ho incredibilmente scoperto che è una persona normale. Anzi, anche piuttosto alla mano. Ci siamo trovati bene insieme, quindi abbiamo deciso di andare a bere qualcosa dopo i rispettivi turni, vedendoci spesso nei mesi seguenti. Da cosa nasce cosa e… –
    – E? – gli chiesi, impaziente.
    – Sai, non credo di voler parlare con te di questa cosa – ridacchiò lui, strofinandosi la nuca e arrossendo leggermente, in imbarazzo.
    Lo guardai sorridendo, contenta per lui: – Va bene, saltiamo questo passaggio allora. Come mai non lo hai mai detto agli altri? –
    Il suo sguardo si rabbuiò di colpo. Abbassò lo sguardo su Marcus, che dormiva beatamente sulla paglia, vicino a noi.
    – Ho paura. Paura che possano non accettarlo, non capire. E se si allontanassero da me? Se mi lasciassero solo? –
    Lasciai per la prima volta la mano di Marcus, avvicinandomi ad Andreas e abbracciandolo come aveva fatto lui con me poco prima. Lo sentii sospirare.
    – Come potrebbero? Sono i tuoi fratelli. Tutto questo è parte di te tanto quanto il tuo modo di parlare, di camminare. Lo capiranno, non potrebbe essere altrimenti. Non c’è niente di cui avere paura o vergognarsi. Non c’è niente di male in quello che mi hai raccontato, anzi. Innamorarsi non può essere qualcosa di negativo. –
    – Lo so. Almeno, il mio cervello lo sa. Ma ogni volta che penso di parlargliene sento un nodo allo stomaco e non è una bella sensazione. –
    Annuii con aria saccente: – Quella si chiama ansia, e non è mai una bella sensazione. –
    Ridacchiò alla mia terribile battuta, sembrando che un po’ di preoccupazioni gli cadessero di dosso.
    Poi si rabbuiò: – Tanto adesso lo scopriranno comunque, dovrò dirglielo – commentò, chiudendo gli occhi, una smorfia in viso.
    Sentii una stretta al cuore. Per la seconda volta una persona veniva ferita a causa mia, del mio desiderio di vendetta. Prima Marcus, ora Andreas. Era giusto? Ero sicura di volere tutto questo per le poche persone che avevano deciso di aiutarmi, di appoggiarmi?
    – Mi dispiace… non fosse stato per me tutto questo non sarebbe capitato. È colpa mia. Dovresti odiarmi, è quello che farei io se fossi al tuo posto. –
    Andreas aprì gli occhi e mi sorrise, intenerito: – Non è colpa tua, Camille. Non pensarlo nemmeno per un secondo. Sia io che Marcus, ma anche Mel e Jared, abbiamo deciso di seguirti. Non ci hai obbligati, mai. È per nostra volontà che siamo qui. È la prima volta nella nostra vita che ci viene lasciata la scelta e, anche se le sue conseguenze sono dolorose, non mi pento della mia decisione. Finalmente non sono più un burattino in mano a persone più potenti di me, sto facendo quello che io, e non altri, ritengo giusto. Non è colpa tua. –
    Annuii, sentendo un calore inusuale scaldarmi il petto.
    Guardai l’Assassino con riconoscenza: – Grazie. –
    Ripresi la mano di Marcus tra le mie, guardando il suo viso rilassato. Non si era svegliato da quando il guaritore se ne era andato ed era un bene. Aveva bisogno di riposare e di riprendersi.
    Riportai la mia attenzione su Andreas, che scosse la testa: – Non so cosa pensare, Camille. –
    – Di San? – gli domandai, sicura di aver colto nel segno.
    – Sì, di lui. Lo conosco da dieci mesi e non mi sono mai accorto di che persona fosse in realtà. Ha contribuito all’omicidio del Principe e dei suoi due figli, per permettere alla Regina di ottenere ciò che voleva. Pensavo di conoscerlo, ma ora mi rendo conto che non è affatto così, – chiuse gli occhi, addolorato, una smorfia sul viso. – Come ho fatto a innamorarmi di una persona così? –
    – Non è così semplice, – gli risposi. – Magari è stato costretto, non puoi saperlo. Mia madre è subdola, infida: capisce ciò che vuoi e lo sfrutta per farti fare quello che desidera. Non è facile riuscire a scappare dalla sua rete. –
    – Non conosci San. Nessuno riuscirebbe a convincerlo a fare qualcosa che non vuole. Il motivo è un altro e ho paura di scoprire quale. –
    – Vorrei poterti evitare tutto questo, – gli dissi, dispiaciuta per lui. – Lo vorrei davvero. Sono sicura di una cosa però: qualunque cosa questo San possa aver fatto non impedisce che possa amarti sinceramente. È passato molto tempo dalla morte di Adrien e dei suoi figli, può anche essere che nel frattempo si sia pentito delle sue azioni. –
    – Può essere, e comunque stiano le cose tra pochi giorni lo scopriremo, – fece una risata amara. – Penserai che sia ipocrita da parte mia, che uccido per vivere, essere tanto sconvolto. Forse è vero, ma pensavo che fosse diverso da me. –
    – Sei un Assassino, sì, ma non uccidi innocenti, non uccidi bambini. Valuti la colpevolezza degli uomini che ti sono davanti, attentamente, prima di colpire. È merito della vostra Corporazione se il nostro regno è ancora in piedi. Voi ci proteggete tutti, dal primo all’ultimo, e non chiedete nulla in cambio. –
    – È tutto vero, ma non cambia quello che penso di me. Sai, credo che quando questa storia finirà lascerò gli Assassini. Voglio provare ad avere una vita normale. –
    – Quando questa storia finirà farò di tutto perché tu la possa avere, – risposi. Ero onorata che avesse deciso di parlarmi dei suoi problemi. Avevo sempre considerato Andreas -e anche Marcus, Jared e Mel- una persona serena, convinta delle proprie azioni, che affrontava la vita con tranquillità. Non avrei mai potuto immaginare che qualcosa potesse abbatterlo, preoccuparlo, non fargli più credere in sé. Era sempre stato così perfetto da farmi domandare se anche io sarei mai riuscita a essere come lui. Adesso scoprivo che anche lui aveva dei problemi e tutto questo contribuiva a renderlo più umano, meno perfetto ma più simile a me. E forse me lo rendeva anche più caro.
    – Sempre che non moriamo tutti prima, ma in tal caso il problema non si porrebbe – commentai ironica, cercando di alleggerire la tensione che si era creata.
    – È vero, – disse Andreas ridendo. Tornò serio, per poi sorridere dolcemente guardandomi negli occhi: – Sono felice di aver trovato un’amica come te, Camille. –
    Sorrisi anche io: – Anche io sono felice di aver te come amico, Andreas. –
 
***
 
Tempo dopo tornarono Mel e Jared, stanchi dalla lunga cavalcata e dalle preoccupazioni del giorno. Marcus non si era svegliato nemmeno una volta, continuando a dormire silenzioso. Andreas era sdraiato lì vicino, con gli occhi chiusi, ma dubitavo dormisse: probabilmente stava ancora cercando di metabolizzare gli avvenimenti della giornata.
     – Come sta? – chiese Jared, guardando con apprensione l’amico.
    – Ha dormito fino ad ora, sembra che vada tutto bene – risposi, mentre i due Assassini entravano nella stalla e si buttavano sulla paglia, facendo attenzione a non svegliare Marcus.
     – Quel guaritore gli ha salvato la vita, siamo stati fortunati – commentò Mel, sospirando.
     Li guardai, sentendo il sonno arretrato cadermi d’improvviso tutto addosso: avevo bisogno di dormire.
     – Decisamente fortunati – gli risposi, lanciandomi al fianco di Marcus. Andreas non aveva mosso un muscolo, senza nemmeno salutare gli amici.
     – Se tutto va bene, – continuai. – Direi che possiamo dormire. È tardi ormai per andare da qualunque parte, possiamo riposarci e rimandare tutto a domani. –
    Mi rispose solo un grugnito di Jared, poi chiusi gli occhi e mi abbandonai al sonno. L’ultima cosa che vidi prima di addormentarmi fu la mano di Marcus che si posava sopra la mia.
 
***
 
Il mattino arrivò fin troppo in fretta. Mi svegliai perché qualcuno mi stava scuotendo gentilmente: aprii gli occhi e davanti al mio viso c’era la faccia di Andreas. Mi guardai stancamente intorno, scrutando l’interno della stalla: la luce tenue dell’alba dipingeva di grigio la stanza e i volti di Marcus, Mel e Jared, ancora addormentati.
    – Se vogliamo andarcene da questa dannata isola dobbiamo muoverci – mi disse l’Assassino sottovoce, mentre si muoveva per andare a svegliare Jared. Mi strofinai stancamente gli occhi con il dorso della mano, per poi provare a districare quel nodo improponibile che erano diventati i miei capelli. Mi alzai in piedi sbattendo le palpebre, guardandomi in torno con aria stranita.
    – A te l’onore – mi disse Andreas, indicandomi con un movimento della testa Marcus, che giaceva addormentato vicino a me. Arrossi lievemente, sperando che Jared, ancora in uno stato di incoscienza, non avesse sentito.
    Mi inginocchiai vicino all’Assassino, scuotendolo gentilmente dal lato del braccio sano e sussurrando dolcemente: – Marcus, svegliati. Dobbiamo andare. –
    Mi rispose un mugolio non troppo convinto. Evidentemente stava di nuovo bene.
    Lo scossi di nuovo: – Dai, devi svegliarti. –
    Due occhi scuri si aprirono, assonnati, fissandomi dal basso. Un sorriso distese il viso dell’Assassino e non potei fare a meno di sorridere a mia volta. Era sano e salvo, sveglio. Si tirò a sedere lentamente, mugugnando quando appoggiò il peso sul braccio ferito. Lo osservai mentre si guardava intorno con aria spaesata. Non aveva ancora recuperato un colorito del tutto normale: era pallido, e gli occhi neri spiccavano sul viso.
    – Come stai? – gli domandai.
    – Bene ora, ma… dove siamo? Cos’è successo? L’ultima cosa che ricordo è che stavamo cavalcando, poi più nulla. –
    Sospirai ricordando la scena del giorno prima: – La spada con cui Lanes ti ha ferito era avvelenata. Il veleno è entrato in circolo e hai perso i sensi. Ti abbiamo portato qui e abbiamo fatto venire un guaritore. Sei quasi morto. –
    Mi guardò stupito: – Quasi morto… mi ricordo che stavo male, ma non pensavo che potesse essere una cosa così grave. –
    Scossi la testa, guardandolo mentre si osservava la spalla bendata: – Invece era molto grave. Ci siamo preoccupati tutti, molto. –
    – Io… mi dispiace. –
    – E di cosa? Di essere stato ferito? – commentai, mettendomi più comoda al suo fianco, sena smettere di guardarlo.  
    – No, di averti fatto preoccupare – mi rispose, sorridendo. Qualcosa nello stomaco mi si contrasse, come se milioni di farfalle avessero preso il volo.
    Ero sul punto di aprire bocca quando Andreas ci raggiunse: – Ciao Marcus, lieto di vederti in forma. Ce l’hai fatta vedere brutta. –
    – Era solo per mettervi alla prova, – commentò Marcus ridacchiando, per poi diventare serio. – Grazie di cuore. A quanto ho capito non sarei qui se non fosse stato per voi. –
    – In verità il lavoro sporco lo abbiamo fatto io e Mel, – commentò Jared ancora più morto che vivo, tirandosi in piedi e avvicinandosi all’amico. – Ma non importa. Ci hai fatto davvero preoccupare. –
    – Lo so, lo so, – commentò Marcus, alzandosi e abbracciando Jared e Andreas. – Non vi ringrazierò mai abbastanza. –
    – Direi di no, – rispose Mel, emergendo dall’ombra, con paglia fin sopra i capelli. – Cerca di rimanere vivo da ora in avanti. –
    Dopo che anche lui ricevette il suo abbraccio di ringraziamento eravamo tutti pronti ad andare. Li guardai mentre parlavano brevemente tra loro, spiegando a Marcus cosa era capitato da quando aveva perso i sensi. Ero incredibilmente felice di vederlo vivo, tanto da non riuscire a trattenere il sorriso idiota che sentivo allargarsi sul mio viso.
Ma non tutto era rose e fiori. Non potevo parlare a Marcus di quello che provavo per lui, non avrebbe avuto senso. Stavo facendo tutto per riottenere il trono: come avrei potuto conciliarlo con i miei sentimenti per l’Assassino? Se fossi riuscita a riavere ciò che era mio avrei dovuto lasciarlo, sempre che ricambiasse ciò che provavo. Era solo egoismo voler stare con lui, soprattutto se per poco tempo. Avrei poi dovuto lasciarlo andare per la sua strada e non ero sicura di essere in grado di farlo. Era meglio lasciare tutto come stava, non complicare la situazione. Ero sicura che Andreas non avrebbe rivelato niente della nostra conversazione dell’altro giorno, ma forse era meglio accertarmene.
     – Com’è la situazione là fuori, vicino alla città? – domandò Marcus a Mel, mentre stavano recuperando ciò che la sera prima avevamo sparpagliato per il granaio.
    – Non troppo buona, – commentò Mel, scuotendo con aria assorta una coperta. – Ci sono guardie dappertutto, soldati a cavallo percorrono le vie. Stanno tutti cercando Lord Lacey, la notizia della sua scomparsa ormai è di dominio pubblico. Il Re è inferocito. –
    – Fantastico, – mi intromisi. – Come facciamo a salpare per Eleusi con tutto questo disastro? –
    – È un’ottima domanda, – disse Jared, scrutando il cielo scuro e nuvoloso, foriero di pioggia. – Stanno controllando tutte le navi alla ricerca di tre forestieri. Non so come ma hanno la descrizione mia, di Marcus e di Mel. Dobbiamo fare attenzione. –
    Inarcai le sopracciglia: era un bel problema. Come avremmo fatto a imbarcarci per toglierci da quella maledetta isola?
    – Usciamo da qui e mentre andremo in città ci penseremo. Che ne dite? – disse Andreas, avvicinandosi alla porta d’ingresso del granaio.
 
***
 
Sanad era una città triste: case grigie, strade grigie, polvere grigia nell’aria. Non che il tempo aiutasse visto che pioveva, ma ebbi comunque l’impressione che quel posto fosse quanto di più infelice ci fosse su terreno diminiano. Persino gli alberi sembravano tinti di bianco e di nero. L’unico tocco di colore era dato dalle navi ancora al porto, con vele di ogni sfumatura. Le imbarcazioni erano piccole e snelle, adatte alla breve traversata che avrebbero fatto fino a Viride, della durata di un paio d’ore al massimo. In effetti era questa la maggiore funzione della città: garantire gli scambi con Eleusi, prevalentemente di cibo e vini pregiati, cose di cui noi viridiani scarseggiamo ma che abbondano a Dimina.
    La pioggia ruscellava sul mio mantello, inzuppandomi e congelandomi, colando dalla punta del cappuccio fino a terra. Gli Assassini vicino a me non erano messi meglio, se non per il fatto che loro, con le cappe scure a coprirgli il viso, erano oltremodo inquietanti. Erano quei tipi di persone che avrei avuto paura a incontrare in un vicolo buio, mentre io sembravo una bambina abbandonata dai genitori.
    Il porto davanti a noi era tristemente vuoto, senza il solito viavai che normalmente si trova in posti del genere. Prima di passare sulle banchine gruppi di guardie controllavano i passanti, scoprendogli il viso e confrontandoli con un manifesto che avevano in mano.
    Jared, appoggiato a un muro con le braccia incrociate, indicò con la testa i soldati poco lontani da noi proferendo con tono piccato: – Scommetto che su quei fogli ci sono le nostre facce. –
    – Vinceresti la scommessa. E sono altrettanto sicuro che quel bastardo di Lanes ha fatto avere la nostra descrizione a qualcuno a palazzo, prima di venire da noi – gli rispose Andreas, accovacciato per terra.
    – Incredibile quanto una persona sola possa creare così tanti fastidi, – proferì Mel, astioso. – Per fortuna che è morto. –
    – Morto o non morto, – mi introdussi io. – Abbiamo un problema. Come facciamo a salire su una nave? Di sicuro non possiamo arrivare ad Eleusi a nuoto. –
    – Non è facile, per niente – disse Marcus, passandosi la mano sul viso.
    Nonostante avesse più e più volte ripetuto che stava bene continuava a essere molto pallido. Appena possibile si appoggiava da qualche parte per evitare di stancarsi troppo, chiudendo gli occhi e riposando. Anche in quel momento era appoggiato mollemente a una pila di casse, guardandosi attorno con aria non troppo convinta. Il tempo a nostra disposizione era quello che era, ma era palese a tutti che avesse bisogno di un po’ di giorni di buon riposo, standosene a letto e al caldo e non sotto la pioggia al gelo.     Era quasi morto, in fondo. Mi strinsi di più nel mio mantello al pensiero, con un brivido che mi percorreva la spina dorsale.
    – Hai freddo? – mi chiese Marcus, guardandomi impensierito. Incredibile, lui si reggeva in piedi con fatica e si preoccupava che io potessi avere freddo. Decisi di non considerare il calore che mi si era diffuso d’improvviso in corpo a quel pensiero gentile.
    – Un po’, ma sopportabile direi, – risposi, scrutando il mare davanti a me e ignorando volontariamente Marcus. – Vorrei solo sapere come andarmene da questa isola maledetta. –
    – Non sei l’unica temo, – mi disse Jared, continuando a guardare torvo le navi. – Dai, Andreas, tira fuori qualche idea geniale per cavarci d’impaccio. –
    Andreas stranamente non rispose, immerso nei suoi pensieri. Ottimo segno, finalmente. Forse era riuscito per un attimo a mettere da parte i suoi problemi e a concentrarsi su altro.
    – Ti prego, dimmi che hai un’idea – continuò l’Assassino dai capelli argento, girandosi verso l’amico e guardandolo dall’alto.
    – Se tu la smettessi di assillarmi e mi lasciassi pensare in pace forse riuscirei a giungere a qualcosa di utile – commentò Andreas, a voce bassa. Nonostante le parole non fossero proprio gentili erano state dette con poca convinzione, segno che qualcosa stava ronzandogli in testa. In ogni caso Jared, molto saggiamente, tacque.
    Nell’attesa che Andreas partorisse un qualche piano geniale ritornammo a osservare le guardie, che continuavano imperterrite nel loro mestiere. Chiunque passasse davanti a loro, uomo, donna o bambino, veniva accuratamente controllato. Le sacche e le borse venivano aperte, i vestiti toccati, le armi osservate. Non era nulla di buono, considerato che non avremmo mai potuto farci strada fino alle navi con le armi.
    – Va bene, forse ho qualcosa – proferì Andreas serio, tirandosi in piedi.
    – Illuminaci – fece Mel, con un tono sollevato nella voce.
    – Vedete quella nave laggiù? – iniziò l’Assassino, indicando un’imbarcazione attorno alla quale si accalcava parecchia gente. – Secondo me tra non molto partirà. Degli altri lo so, ma tu, Camille, sai nuotare? –
    Mi immobilizzai momentaneamente, sbarrando gli occhi. Nuotare? Con quel tempaccio?
    – Sì… so nuotare. Cos’hai in mente? –
    – Niente di buono immagino… – commentò Mel, con aria disperata. – Odio l’acqua. –
    Aggrottai le sopracciglia a quella affermazione. Non sapevo che l’Assassino avesse di questi problemi, sembrava sempre a suo agio, in ogni situazione. Era uno che non aveva paura di niente.
    – Mi spiace Mel, è l’unica soluzione. E mi spiace anche per te, Marcus, lo so che un bagno gelido non è proprio quello di cui hai bisogno. Però dobbiamo avvicinarci a nuoto, è l’unico modo che abbiamo per evitare i controlli serrati laggiù. –
    Guardammo tutti la barca che Andreas stava indicando, cercando di quantificare quanto avremmo dovuto nuotare fino ad arrivare fin lì. Era lontanissima.
    – Sarà una giornata veramente di merda – commentò Mel, guardando la nave come per incendiarla.
    Andreas lo guardò dandogli una pacca sulla schiena: – Lo so, dovremo restare appesi alle paratie o comunque nascosti fino a che la barca non uscirà dal porto, poi dovremo improvvisare. –
    – Tanto non lo facciamo mai… – esalò Marcus, di fianco a me.
 
***
 
Quaranta minuti dopo eravamo tutti schierati in un vicolo, guardando in cagnesco la scaletta che portava al mare e al pontile. Avevamo trovato una stradina privata, chiusa da un cancello di ferro che era stato prontamente scavalcato. Le guardie erano abbastanza lontane e avremmo dovuto fare un largo giro, nuotando nell’acqua gelata, prima di poter arrivare in vicinanza della nave.
     – Quindi lo stiamo facendo? – disse Mel, con gli occhi chiusi.
    Marcus osservava la superficie del mare con attenzione: – Direi di sì. Guardare l’acqua non migliorerà la situazione. –
    – Vado io per primo, – disse Andreas, avvicinandosi alla scaletta. – Voi seguitemi, ma qualunque cosa succeda dobbiamo stare distanti dalla riva. Se ci vedono è la fine. –
    Detto ciò scese sul pontile e si buttò in acqua, iniziando a nuotare dritto davanti a sé senza guardarsi indietro.
    Jared si preparò a seguirlo: – Mi sa che tocca anche a noi. –
    Quando anche lui si fu allontanato in acqua, seguito prontamente da Marcus, rimanemmo solo più io e Mel nel vicolo, continuando a guardare il mare con inquietudine. Poi, con un lungo sospiro, mi tuffai anche io.
    L’acqua era gelida, mi trafisse la pelle come tanti aghi e mi tolse il fiato. Iniziai a muovermi più per disperazione che per cercare di scaldarmi, seguendo la debole scia di schiuma che avevano lasciato gli Assassini prima di me. Mossi braccia e gambe, battendo i denti, sentendo i muscoli tremare, allontanandomi sempre più dalla sicurezza della terra ferma.
    Mi sembrò di nuotare per chilometri e chilometri, al freddo nell’acqua scura, senza niente e nessuno vicino a me, fino a che, finalmente, inizia a intravedere l’ombra dell’imbarcazione. Lì vicino, in un piccolo circolo, c’erano gli altri Assassini. Li raggiunsi e mi girai, scorgendo in lontananza la testa bionda di Mel fare capolino dall’acqua.
    – Io ti odio, Andreas, sappilo – borbottò l’Assassino mentre nuotava verso di noi.
    Quando finalmente ci raggiunse ci fermammo in silenzio a guardare verso la nave. Poco distante da noi una enorme gomena spariva nel mare, salendo fino alla barca.
    – Direi che possiamo salire da lì – commentò Andreas, ignorando l’amico e avvicinandosi alla fune. Poi lo osservammo arrampicarsi, con un’agilità innegabile, fino sulla paratia della nave. La gomena arrivava alla poppa e a una parte poca frequentata della nave, rendendoci più facile tutto il compito. Eravamo piombati in una sorta di balconcino privato e davanti a noi si stagliava una vetrata che dava sulla cabina del capitano.
    Poco lontano si sentivano i rumori del porto, l’imbarcazione era in procinto di partire. Dopo che Andreas si fu sporto per vedere com’era la situazione ci fece dei gesti concitati, indicandoci di salire. Ci inerpicammo come ragni sulla fune con, almeno da parte mia, immane fatica. Quando arrivai finalmente alla nave mi gettai sul legno lucido del ponte, con le braccia in fiamme e respirando con affanno.
    – Ti odio pure io Andreas, ricordatelo – mormorai, con voce spezzata, mentre gli Assassini si attivavano e si guardavano intorno per cercare un nascondiglio prima che ci scoprissero.
    – Dove ci possiamo mettere? – domandò Andreas, guardandosi attorno con un’aria inquisitoria.
    – Dobbiamo entrare nella cabina del capitano, è l’unica – commentò Marcus, ancora pallido ma con una luce brillante negli occhi neri.
    – E quando entrerà? – domandai da terra.
    – Quando entrerà farà meglio a capire che gli conviene tacere sulla nostra presenza piuttosto che morire – mi rispose Jared, tetro.
Andreas si avvicinò alla vetrata tirando fuori dai vestiti un coltello dalla lama strana, particolarmente luminosa. La poggiò sul vetro, iniziando a incidere con un rumore che mi fece venire i brividi.
    – Cos’è quell’affare? – domandai incuriosita.
    – È una lama particolare, – mi rispose Marcus, guardando con attenzione i movimenti di Andreas. – Ci viene data nel nostro equipaggiamento, è particolarmente utile per tagliare vetri o alcuni tipi di metallo. L’ho usata raramente nel corso della mia vita. –
    Nel frattempo l’Assassino finì di ritagliare un grosso quadrato dal vetro, per poi prenderlo delicatamente in mano e sfilarlo, posandolo per terra.
    – Bene, abbiamo risolto. Adesso aspettiamo – commentò, mentre si introduceva nella cabina del capitano. Lo seguimmo in silenzio, sedendoci sul pavimento della piccola stanza e attendendo che la nave se ne andasse dal porto.
    Poi, finalmente, la barca si mise in movimento. Non ci restava altro da fare che aspettare e saremmo arrivati a Viride.
    – Casa, finalmente – mormorai felice.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE!

Chiedo innanzitutto perdono per il ritardo: è stato un mese pieno di impegni, il tempo da dedicare alla scrittura è stato davvero poco e difficile da trovare. Speravo di poter accorciare i tempi di pubblicazione ma, a quanto pare, non ce l’ho fatta! Continuerò quindi a pubblicare i capitoli a distanza di un mese (circa) uno dall’altro.
Volevo ringraziare, come al solito, tutti quelli che passano da qui per dare una lettura e che lasciano recensioni. A tal proposito, ci tengo molto a ringraziare FiammaBlu, che mi ha aiutato tantissimo con i suoi consigli e le sue revisioni (sì, è merito suo se i capitoli iniziali sono stati rimessi a posto) e che mi ha lasciato delle recensioni bellissime. Grazie di cuore (:
Ci risentiamo tra un mese, grazie a tutti!
LyaStark
 
P.S. Se volete farmi sapere che il capitolo vi è piaciuto, che avete visto errori o cose così… Lasciatemi una recensione! Mi fa estremamente piacere leggere i vostri pareri (:

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Capitolo 12
*** XI ***


Ciao a tutti! Eccoci qui con il cap. XI, che spero vi piaccia! Ci vediamo al fondo, buona lettura (:
 
CAPITOLO XI
 
MARCUS

 
Attraversammo il giardino curato nel buio della notte illuminata solo dalla luna. Si sentivano in sottofondo i rumori della festa: chiacchiericcio, risate, musica, tintinnii di bicchieri. Mano a mano che ci avvicinavamo all’ingresso principale, camminando sull’erba tagliata di fresco, scorgevamo sempre più persone, eleganti e mascherate, che parlavano educatamente tra loro alla luce delle lanterne, ridendo e bevendo. Nessuno notò me e i miei amici, i vestiti di Camille erano perfetti e ci permettevano di mescolarci con la folla. Ci tirammo le maschere sul viso e ci guardammo silenziosamente intorno.
    Nello spiazzo della fontana, al di sotto dell’enorme angelo dei Coverano, le persone passeggiavano rilassate, affacciandosi dalle balaustre e guardando il mare sotto di loro.     Dei violinisti erano in un angolo, suonando una musica dolce e delicata, di sottofondo. L’acqua zampillava allegra e cristallina, riempiendo l’aria con il suo rumore. La scalinata che portava all’ingresso principale del castello era percorsa da tantissime figure in vestiti sgargianti, cappelli piumati, scarpe eleganti. Io, Mel e Jared ci fermammo alla base delle scale, facendo un profondo respiro.
    – E così ha inizio – disse Mel, sospirando.
    Annuii, chiudendo gli occhi: – Andiamo. –
    Salimmo i gradini lentamente, osservando le persone che ci camminavano di fianco. Le donne avevano maschere piumate, enormi, ingombranti. Mi domandai come facessero a vedere dove mettessero i piedi con quegli aggeggi in faccia. Anche le nostre maschere, in effetti, erano piuttosto fastidiose: limitavano in maniera imbarazzante il campo visivo, facendoci girare la testa in continuazione come tante galline. In sintesi, eravamo tutti conciati come degli emeriti idioti. Eravamo bellissimi, per carità, ma pur sempre degli idioti.
    Arrivati in cima alle scale dovetti trattenere il fiato davanti alla vista che ci si parava davanti. Il salone di rappresentanza del castello era stato completamente tirato a lucido ed era gremito di persone. L’enorme sala era illuminata da centinaia e centinaia di candele, che pendevano dal soffitto agganciate a candelabri di cristallo, lanciando bagliori. Ai lati della stanza sedie e tavoli apparecchiati di bianco ospitavano persone che parlavano, bevevano, mangiavano. Come centrotavola c’erano fiori giganteschi e profumatissimi, con code di pavone a completare il tutto.
    In due angoli della sala c’erano i musicisti armati di ogni tipo di strumento, suonando qualcosa che non riconobbi, ma che era senza dubbio allegro e veloce. Sulla pista da ballo volteggiavano decine e decine di coppie, facendo ruotare gli strascichi dei vestiti e muovendosi a ritmo di musica. Ai lati della stanza le guardie del Re, rigide e dritte, sorvegliavano gli ospiti con in mano lance appuntite. Scrutavano attente, facendo guizzare gli occhi sotto agli elmi argentati.
    Sul fondo della salone, sull’enorme trono dorato e scolpito dei Coverano, sedeva il Re. La pedana rossa era rialzata, permettendogli di dominare sulla folla con il suo sguardo, che era attento ma decisamente non divertito. I suoi vestiti si indovinavano magnifici perfino da dove mi trovavo io: erano dorati e bianchi, quasi accecanti nella luce delle candele. La sua maschera era un enorme sole, che copriva solo gli occhi lasciando libero il resto del viso.
    Al suo fianco, su un trono d’argento più piccolo e meno eccessivo sedeva la regina Gabriella, la Magnifica. Guardava con aria gentile e tranquilla la sala sotto di lei e ogni tanto si sporgeva verso il marito rivolgendogli qualche parola, facendolo sorridere. Era vestita di blu, che faceva risaltare i lunghi capelli biondi raccolti sul capo e la sua maschera era quella di una sirena, splendida e ricoperta di pietre brillanti che lanciavano bagliori tutto attorno a lei.
    Sopra le loro teste, sotto al baldacchino reale, c’era l’enorme stemma dei Coverano: uno scudo con il mare ondoso nella parte inferiore e il crancelino in alto a sovrastarlo. Vicino ai troni della coppia reale c’erano quattro seggi, due da una parte e due dall’altra, con sopra seduti i figli dei sovrani: intravidi i due principi Edward e Peter, uguali come due gocce d’acqua e vestiti uno di bianco e uno di nero, in un’imitazione dei gemelli dei miti; c’era la principessa Nerissa Auremore, di quindici anni, bella e stranamente inquietante nel suo vestito verde chiaro; infine c’era il nostro re bambino, Daniel Coverano, mandato dagli Auremore come ostaggio e per permettere alla madre di svolgere in santa pace il proprio compito di reggente ad Elea. Era seduto impettito e incoronato a fianco del principe Edward, vestito dei colori della nostra bandiera, guardando con serietà la folla davanti a sé. Era indubbiante identico a Camille: i lineamenti del viso si assomigliavano, come anche il portamento e l’aria severa. Sembrava stesse bene, ed ebbi un moto di sollievo: sarebbe stata felice di saperlo.
    – Non vedo Lacey, – mi sussurrò Jared in un orecchio. – Dividiamoci, sarà più facile trovarlo. Io guardo nella sala, voi due dividetevi i giardini e la scalinata. –
    Annuii e dopo che ebbe ripetuto tutto anche a Mel ci dividemmo, facendo quello che Jared aveva suggerito. A me toccò il giardino, ma della Lunga Mano lì non c’era traccia. Ritornai nella sala, dove gli altri due mi stavano già aspettando.
    – È entrato una decina di minuti fa dalla porta al lato del trono – ci disse Jared, a braccia incrociate, indicando l’uomo con il mento. Era proprio Lord Lacey, che si aggirava per la sala rilassato, senza maschera, sorridendo e scambiando educate parole con tutti quelli che gli passavano vicino. In mano aveva un bicchiere d’argento.
    – Come gli mettiamo il Laccio nella coppa? –
    – Ottima domanda. Pensiamoci, ma in fretta – commentai. Ci aggirammo silenziosamente per la sala, schivando la gente che iniziava ad essere un tantino ubriaca. Le risate e i toni si erano alzati di molto. Come noi, tra la calca zigzagavano dei ragazzi vestiti di nero con in mano delle pesanti brocche di vino, pronti a riempire il bicchiere a chiunque gli si avvicinasse. Li guardai un po’ mentre correvano tra la folla e mi venne un’idea. Mi riunii a Mel e Jared e gli spiegai il mio piano, dicendo loro precisamente cosa avrebbero dovuto fare. Poi seguii uno dei servi con lo sguardo mentre si affaccendava, guardandolo versare da bere. Ad un certo punto lo avvicinai, sembrando agitato e preoccupato, di fretta.
    – Ragazzo, devi aiutarmi. Un mio amico è stato male, giù nel giardino. Non riesco a spostarlo da solo, ho bisogno di aiuto. –
    Feci per incamminarmi a passo rapido verso l’uscita, quando mi voltai e vidi che non mi stava seguendo. Più che altro era rimasto fermo al suo posto, con in mano la brocca e un’espressione stranita in viso.
    – Allora? Ti vuoi muovere? Ti ho detto che ho bisogno di aiuto! –
    Mi girai di nuovo e presi la porta, avvertendo dopo poco dietro di me la presenza del ragazzo, che camminava in fretta.
    – Dove si trova il suo amico, Sir? Cos’ha avuto? – mi chiese.
    – Ha bevuto troppo ed è svenuto. Non è un bello spettacolo, ma ho bisogno di aiuto per riportarlo alla carrozza. –
    Il ragazzo annuì e continuò a seguirmi mentre scendevo in fretta la scalinata e mi dirigevo verso i giardini bui da cui ero arrivato con i miei amici. Arrivati abbastanza lontano dalla festa mi fermai, guardando il ragazzo.
    – Dov’è il vostro amico? Qui non vedo nessuno – disse lui, guardandosi intorno con aria interrogativa.
    Lo guardai negli occhi, prima di alzare la mano dove tenevo il coltello: – Non c’è nessun amico. –
Lo colpii in testa, violentemente, con l’elsa della lama, facendogli perdere i sensi. La brocca rotolò per terra. Lo spogliai in fretta, togliendogli tutto quello che aveva indosso, lasciandolo in mutande al freddo. Un rivolo di sangue gli colava dalla fronte, ma respirava ancora. Presi i suoi vestiti e li avvolsi formando un piccolo fagotto, poi tirai su il corpo e lo trasportai fino alle serre poco lontane, chiudendolo dentro. Ritornai indietro, dove Jared e Mel già mi aspettavano.
    – Fantastica idea fratello – mi disse Jared, sorridendo. Incredibile come sembrasse tranquillo e rilassato anche in una situazione come quella, quando io mi sentivo come se qualcuno mi stesse stritolando l’intestino.
    – Sì, lo so. Ora, chi di voi si concia da servo? –
    – Non puoi farlo tu? – mi domandò Mel, guardando i vestiti che portavo in mano.
    – No. Lacey mi ha visto l’altro giorno, nella serra. Si stupirebbe se mi vedesse servirgli da bere. Meglio che lo faccia uno di voi due. –
    Jared guardò Mel, poi allungò una mano a prendere gli abiti: – Lo faccio io, nessun problema. –
    Si cambiò alla debole luce della luna, mollando lì il costume che Camille aveva tanto faticosamente trovato.
    – Bene, – disse quando aveva finito, togliendosi della polvere invisibile dai pantaloni neri. – La giacca è un po’ stretta di spalle ma tutto sommato mi sta. Marcus, dammi la fiala. –
    Gli consegnai il Laccio Bianco mentre raccattava la caraffa da terra: – Non ti perderemo di vista. Appena avrai dato da bere a Lacey avremo mezz’ora per farci seguire e farlo venire vicino alla scogliera, dopo di che sverrà. Dobbiamo fare in fretta. –
    Jared annuì e poi ci dirigemmo di nuovo verso la festa, separati.
 
***
 
Aspettammo molto più di mezz’ora in quella sala, sbattendo nervosamente i piedi e rifiutando con sommo dispiacere un paio di donzelle evidentemente alticce e desiderose di accaparrarsi due uomini come me e Mel. Ma il dovere chiamava, o almeno questo era ciò che mi raccontai mentre con aria simile a quella di un cane bastonato allontanavo la seconda ragazza ridanciana e sbronza.
    – Giuro che se Jared non arriva tra un paio minuti non rispondo più di me – mi sussurrò Mel, con un’aria sempre più scocciata sul viso, seguendo con lo sguardo la ragazza di cui sopra. Sospirai vistosamente e gli diedi una pacca di sostegno sulla spalla, sapendo perfettamente come si stava sentendo. Fortunatamente, prima che Mel iniziasse a girare per la sala come una tigre in gabbia, Jared si decise a fare il suo ingresso, munito di caraffa piena e aria servile. Ci fece un cenno con il capo, per poi dirigersi con passo rapido verso la Lunga Mano, impegnato in una fitta conversazione con un uomo vestito completamente di nero, che ci dava la schiena.
    Forse fu la sua postura, o comunque l’altezza e la struttura fisica familiare, ma sentii un malsano brivido percorrermi la schiena. Di fianco a me Mel trattenne il respiro e vidi Jared che di colpo si bloccava, si girava bruscamente e spariva nella folla. Indietreggiai istintivamente mentre l’uomo in nero si voltava, guardando verso il centro della sala e offrendoci il viso: era uno dei capitani della Corporazione degli Assassini, Lanes.
    Mel lo guardò con occhi feroci: – Come diavolo è possibile? Come fa a essere qui? –
    – Non lo so, ma è un problema. Un grosso problema. –
    Mel annuì, mentre entrambi ci allontanavamo con calma dalla sala, cercando di non destare particolari attenzioni, sapendo benissimo che sulle nostre tracce c’era uno degli uomini peggiori della Corporazione.
    Lanes era stato un istruttore delle reclute per anni, passando alla storia per la sua cattiveria e per le sue tecniche di selezione, e io e i miei amici eravamo passati sotto alla sua supervisione, all’epoca. Era estremamente bravo nel suo lavoro ed aveva scalato le gerarchie dell’organizzazione in pochissimo tempo. Veniva chiamato per i peggiori compiti e per le missioni più difficili, ed era risaputo che un suo coinvolgimento era una garanzia di riuscita e di morte dell’obiettivo. Era un uomo del genere che era sulle nostre tracce e sicuramente non si sarebbe fermato fino a che non ci avrebbe avuti in suo potere.
    Ci allontanammo seguiti da Jared, che continuava a scacciare con la mano tutti quelli che gli avvicinavano il bicchiere, desiderosi di vino. Ci ritrovammo, di nuovo, in un angolo delle scalinate che portavano al giardino. Davanti a noi una coppia si baciava e si strusciava seduta sui gradini, palesemente ubriaca. Ogni tanto qualche risolino scappava dalla bocca della ragazza.
    – Che cazzo facciamo adesso? – sbottò Mel, mettendosi le mani nei capelli. – Che cazzo facciamo?! –
    Jared continuava a guardarsi attorno, facendo due passi in una direzione e girandosi subito dall’altra, come una tigre in gabbia.
    Feci un respiro profondo: – Va bene, pensiamo. Non è un problema, non è per niente un problema. Non potrà stare nella sala aggirandosi come un avvoltoio per sempre, prima o poi si dovrà allontanare. E poi siamo mascherati, non dovrebbe essere facile riconoscerci, – guardai Jared, con i suoi capelli argentati fin troppo riconoscibili. – Basta che tu ti copra quei capelli. Sarete in due ad averli così su tutto il continente, porca puttana. –
    Presi il pugnale e tagliai una fusciacca porpora dal fondo della mia giacca, porgendola a Jared. Sentivo il sangue rimbombarmi nelle orecchie, l’adrenalina scorrermi nelle vene: – Dobbiamo stare calmi ma saldi. Dobbiamo essere sicuri di ogni cosa che faremo, non c’è più spazio nemmeno per il minimo errore. –
    Mel di fianco a me prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi e mormorando qualcosa a fior di labbra: – Hai ragione, non è ancora successo niente. Lanes non sa che siamo qui, anche se magari lo sospetta. Dobbiamo solo essere ancora più cauti del previsto, ma non è detto che si accorga di qualcosa. –
    – Esatto. Ora entro a vedere se Lanes è ancora lì o se è andato a rompere le scatole da un’altra parte, – dissi, mettendo una mano sulla spalla di Jared e parlandogli vicino al volto. – Se se n’è andato vengo di qua a chiamarti e facciamo come avevamo deciso. Va bene? –
    Due cenni di assenso risposero alla mia domanda, sicuri. Non c’era più timore negli occhi dei miei amici, ma solo sicurezza e decisione. Feci un respiro profondo mormorando preghiere che speravo fortemente non fossero le ultime, poi feci un passo ed entrai nella sala.
    Mi guardai velocemente attorno, sapendo di stare cercando una chiazza di nero nel mare di colore dei costumi da ballo. Lo vidi non troppo distante da me, impegnato a osservare con sguardo indagatore la sala. Mi costrinsi a rimanere tranquillo, a prendere da bere e mi spinsi persino a fare un ballo, cercando di non attirare la sua attenzione su di me e di comportarmi normalmente. I miei occhi saettavano per l’enorme stanza cercando Lacey, stranamente consapevoli della figura nera che era come un punto fisso nella sala che ruotava mentre danzavo. Ero talmente impegnato a cercare la Lunga Mano che non mi accorsi nemmeno di come fosse la ragazza con cui ballavo, che è tutto dire.
    A metà danza scorsi Lacey e lo tenni d’occhio fino a quando il minuetto finì. Lanes nel frattempo si era dileguato dalla sala, andando probabilmente in esplorazione dei giardini e lasciandoci qualche istante di pace. Mi allontanai dal ballo dopo avere elegantemente e galantemente baciato la mano alla mia compagna, poi mi diressi verso l’angolo dove sapevo che Mel e Jared mi aspettavano. Sporsi solo la testa, facendo un cenno, che i miei amici capirono e mi seguirono.
    Jared si dileguò nella folla con la sua brocca in mano, mentre io e Mel lo seguimmo con lo sguardo in una preghiera silenziosa. Guardammo con il cuore in gola Jared avvicinarsi a Lord Lacey, allungando leggermente la brocca incriminata in un’offerta esplicita. La Lunga Mano lo guardò e per un lungo istante pensai che ci avesse scoperto, che il nostro piano era appena andato a farsi benedire. Sentii i muscoli irrigidirsi, estremamente consapevole di tutti i rumori che stavano di fianco a me: il tintinnio dei bicchieri di vetro, lo stridore delle risate, le note acute dei violini, il tacchettio delle scarpe sul pavimento, il respiro pesante di Mel vicino a me.
    Poi Lacey allungò il bicchiere e il fiato mi uscì dai polmoni, mentre il ghigno che mi si era formato in viso si allentava. Jared versò da bere e poi tornò verso di noi, dirigendosi verso il giardino e verso il luogo della nostra fuga.
    – Abbiamo mezz’ora, solo mezz’ora e poi… –
    Non riuscii a finire che Mel mi bloccò, sbuffando: – Lo so benissimo che c’è solo mezz’ora, è inutile che continui a ripeterlo. –
    – Bene, allora è il caso che iniziamo a pensare a cosa fare, che ne dici? –
    Ma Mel non mi rispose, impegnato a fissare un punto lontano, assorto nei propri pensieri.
    – Ehm, Mel? – dissi, avvicinandomi a lui. – Non credo che sia il momento giusto per imbambolarsi. –
    Mel continuò a ignorarmi, ma con un ghigno feroce andò avanti, perdendosi nella folla. Non feci in tempo a trattenerlo e non mi rimase altro che guardarlo svanire sulla pista da ballo, palesemente diretto verso Lacey. Lo guardai con orrore crescente mentre camminava sicuro, fendendo la folla, con lo sguardo fisso davanti a sé. Poi arrivò davanti alla Lunga Mano, lo guardò negli occhi e gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
    Non ho mai saputo cosa gli disse, anche se in là con gli anni mi sono fatto una mia idea, mai confermata. Ogni volta che si parla della cosa Mel fa un sorriso compiaciuto, bevendo un sorso dall’immancabile bicchiere che tiene in mano, affermando che si porterà il segreto nella tomba. Comunque, qualunque cosa fosse, incredibilmente funzionò: dopo pochi istanti Mel guidava Lord Lacey per un gomito, dirigendolo verso la porta vicino alla quale mi trovavo io. Mel mi fece un cenno con il capo e li seguii mentre scendevano i gradini delle scalinate, diretti al giardino.
    – Dimmi quello che sai sui Coverano, ragazzo, e finiamo questa farsa – disse la Lunga Mano, glaciale, fermandosi nel bel mezzo del sentiero per fronteggiare Mel. Nonostante fosse più basso di lui di un’intera testa non sembrava intimorito, ma il furore traspariva dai suoi occhi chiari.
    – Mi dispiace, milord, – commentai io, togliendomi la maschera e sfilando la mia spada dal fodero puntandola alla schiena di Lacey. – Ma non è lei a dare gli ordini qui, stasera. –
    – Ah, il ragazzo della serra, – commentò quello, mellifluo. – Lo sapevo che c’era qualcosa di strano in te, qualcosa che non mi convinceva. Beh, aiuto giardiniere, dimmi cosa dovrebbe trattenermi dall’urlare per chiedere aiuto. Ci sono guardie per tutto il castello, accorreranno in meno di un minuto. –
    – Che è più che sufficiente per aprirle un buco bello grosso nello stomaco, – lo gelò Mel, aggiungendo la sua lama alla mia, mentre io mi spostavo per fiancheggiarlo. – Ma se non è un motivo abbastanza valido per lei, sappia che forse ne abbiamo uno migliore: le dice niente il nome Ivonne? –
    Lord Lacey si bloccò, furore usciva dai suoi occhi chiari. Strinse i pugni talmente forte che vidi le sue nocche diventare bianche. Se uno sguardo potesse uccidere, allora di noi non sarebbero rimasti altro che i cadaveri. La voce gli uscì spezzata per il furore, in un ringhio basso: – Siete così spregevoli da fare del male a una bambina? –
    – Non mi sembra che lei si sia preoccupato troppo di Ian e Nathaniel Coverano, anni fa – gli rispose Mel, sibilando con una rabbia che avevo già visto, paurosa, inquietante, mostruosa. Se l’avesse lasciata andare, se l’avesse scatenata, Lord Lacey non sarebbe venuto con noi da nessuna parte, ma sarebbe morto lì. Vidi la spada del mio amico scavare sulla spalla della Lunga Mano, facendo uscire il sangue che colò caldo lungo la clavicola e sparì nel colletto della maglia. La presa sull’elsa tremava, rendendo difficile il controllo dell’arma. Gli misi una mano sulla spalla, premendo, cercando di farlo tornare in sé.
    Mel emise un respiro tremante, attenuando la stretta sulla spada ma senza smettere di puntare il suo obiettivo: – Erano solo due ragazzini, ma la cosa non l’ha fermata. Occhio per occhio, milord. Non avremo pietà né per lei, né tantomeno per sua figlia. –
    Lord Lacey deglutì, socchiudendo gli occhi, studiandoci. Rughe di espressione si diradavano su entrambe le tempie, in una sorta di ragnatela. Stava cercando di capire quanto eravamo sinceri, quanto delle nostre parole fosse vero. Sia io che Mel sostenemmo il suo sguardo, senza cedimenti.
    Vidi i muscoli sulla sua mascella scattare, temendo che si sarebbe rotto i denti per la pressione: – Fate strada. –
 
***
 
Proseguimmo per il sentiero, con me dietro e Mel di fianco a Lacey, le spade sguainate, i sensi all’erta. Mancava poco e saremmo giunti in prossimità del dirupo dove Jared ci aspettava, pronti a calarci giù fino al mare.
    Quanto tempo ci rimaneva prima che la Lunga Mano perdesse i sensi? Non tanto probabilmente, a occhio e croce giusto una manciata di minuti. Lo pungolai con la spada, incitandolo ad aumentare il passo, poi finalmente davanti a noi spuntò la capigliatura argentata di Jared. Si accodò a noi senza una parola, sguainando anche lui la lama più per sicurezza che per altro. Camminammo rapidi per il prato e arrivammo a ridosso della scogliera.
    Ci fermammo ad aspettammo, senza diminuire la concentrazione e l’attenzione, fino a che Lacey, finalmente, svenne. Cadde a peso morto, senza un lamento. Un momento prima era vigile e attento, il momento dopo era crollato scompostamente a terra. Tirai un sospiro di sollievo, contento che la pozione avesse funzionato: nonostante tutta la sicurezza che avevo ostentato non ero del tutto sicuro che avremmo avuto il risultato sperato.
    – Complimenti Marcus, un lavoro da maestro – commentò Mel, pungolando con la punta della spada il torace di Lacey, senza ottenere reazione.
    – Sì, sono stato bravo, lo so, – dissi, con falsa modestia. – Però ora dobbiamo muoverci. –
    Jared annuì, dirigendosi al dirupo e alla corda. Si calò e in fretta la sua voce ci chiamò dal fondo della scarpata. Io e Mel, come se ci fossimo parlati, tirammo su la corda e con essa legammo molto, molto strettamente Lacey, agganciandolo sotto le braccia. Iniziammo a farlo scendere lentamente, senza scossoni.
    – Quanto diavolo pesa questo tipo? – ringhiò Mel, a denti stretti, facendosi passare la corda fra le mani. Sbuffai in risposta, dicendogli di fare più in fretta. Quando Lacey arrivò alla base del dirupo Jared lo slegò e Mel discese in fretta. Stavo per calarmi anche io quando un rumore mi fece fermare. Estrassi la spada, spalle al mare, guardando i giardini silenziosi e bui, con un filo di vento ad agitare le chiome.
    Una voce mi arrivò dal basso: – Marcus, tutto bene? –
    Tacqui, osservando con attenzione. Mi ero quasi convinto che tutto fosse a posto e che il rumore fosse stato semplicemente il vento tra le foglie, quindi iniziai lentamente a rinfoderare la lama. Poi accadde e fu come se il tempo si fermasse.
    Una figura nera come la notte uscì correndo dalle foglie, venendomi incontro. La spada che teneva in pugno lampeggiava inquietante alla luce debole della luna, l’elsa argentata spiccava sul nero degli alberi. Mi fu addosso prima che riuscissi a fare qualunque cosa, travolgendomi e facendomi rotolare al suolo. Il tempo riprese a scorrere mentre lottavo steso sul terreno, cercando di tenere il filo della spada lontano dal mio collo, ferendomi le mani.
    – Vi ho trovati finalmente, bastardi – mi ringhiò in faccia, sputacchiando. Un sorriso feroce gli si allungava sul volto. Non risposi, ma alzai violentemente un ginocchio verso l’alto, colpendolo in pancia e costringendolo a lasciare la presa. Approfittai del momento di debolezza per rotolare lontano, alzarmi e sguainare la spada. Il respiro mi usciva gelido dalla bocca mentre mi mettevo in guardia. Lanes nel frattempo si era alzato, la lama sempre in pugno.
    – Marcus, tutto bene? – urlò Jared dal fondo, preoccupato probabilmente dai rumori.
    – Non proprio. Abbiamo visite. –
    Non feci tempo a continuare che Lanes si avventò su di me e tutto si ridusse a colpi, parate e attacchi. Il clangore era assordante nel silenzio della notte. Attacco, attacco e parata. Indietreggiare, avanzare, attaccare ancora. Tutto quello che avevo imparato si risvegliò in me, permettendomi di contrastare la ferocia e violenza del capitano degli Assassini.
    Attaccai ancora, e ancora, sentendo il mio sangue cantare nel combattimento. Conoscevo la sua tecnica di combattimento e negli anni non era affatto cambiata: mi permise di partire un po’ più avvantaggiato nello scontro.
    Non so bene come, costrinsi Lanes a indietreggiare verso i primi alberi, allontanandosi dal dirupo. La sua faccia era concentrata, impegnata, e mi sembrò non fosse più tanto serena. Un paio di volte arrivai molto vicino a ferirlo, con suo e mio stupore. Lo costrinsi ancora più indietro e ormai ero convinto di averlo in pugno quando la sua lama passò sotto alla mia guardia, arrivando precisa sulla mia spalla destra.
    Sentii il dolore, il freddo della lama e subito dopo il caldo del sangue che scorreva sulla mia pelle. Mi uscì un grugnito. Rialzai subito la spada, ma inevitabilmente questa rimase più bassa di prima. Poi il combattimento fu in mano di Lanes e i ruoli si ribaltarono.
    Un sorriso si fece strada sul suo volto e capii che la sua era stata una tecnica per indurmi a sbagliare, ad abbassare la guardia. Mi spinse indietro, risospingendomi verso il dirupo, aumentando la velocità degli assalti, degli affondi. Le cose si mettevano male, molto male. Poi, un angelo biondo mi venne in soccorso: Mel era emerso dalla scarpata, spada in pugno, venendomi in soccorso. Affrontammo Lanes fianco a fianco.
    – Sono arrivati i soccorsi, a quanto vedo. –
    Nessuno di noi gli rispose, impegnati com’eravamo ad analizzare la situazione. Due contro uno forse avevamo qualche speranza di riuscita, ma non ne ero così tanto sicuro. Mel non gli rispose ma in compenso attaccò, caricando la spada dall’alto, calandola come una mannaia verso la testa del nostro avversario. Lanes parò con scioltezza, per niente messo in difficoltà, e attaccò a sua volta per uccidere, letale come un serpente.
    Andai in soccorso del mio amico e combattemmo ferocemente. Ci spingemmo di nuovo vicino al dirupo, potevo sentire il mare ruggire alle mie spalle, impetuoso e feroce. Iniziavo a sentire la stanchezza e in più mi sembrava di avere il braccio in fiamme. Bruciava, doleva, il sangue continuava a scorrere inzuppandomi la giacca e la camicia, gocciolando a terra. Iniziava a essere difficile per me difendermi, per non parlare dell’attaccare.
    Ci fermammo, guardandoci in cagnesco negli occhi. Vedevo il sudore luccicare sulla fronte del mio avversario, una calma gelida nei miei occhi. Durante la lotta ci eravamo girati, e ora la sua figura nera era in contrasto con il mare illuminato dalla luna.
    Scosse la testa con fare paterno: – Non potete vincere contro di me ragazzo, lo sapete anche voi. A meno che non vi arrivi un aiuto dal cielo. –
    Poi accadde tutto molto in fretta. Una figura nera si stagliò dietro Lanes e un palmo d’acciaio gli attraversò il torace, coperto di sangue. Jared lo prese per le spalle, avvicinando la bocca all’orecchio dell’altro mentre ruotava la lama nel suo petto: – Oppure dal mare, bastardo. –
    Gorgoglii uscirono dalla bocca del nostro avversario, mentre rivoli di sangue iniziarono a colargli sul mento, gocciolando per terra. Jared sfilò la lama e lasciò il corpo di Lanes cadere per terra, morto.
    – Questo è per tutto quello che mi hai fatto patire durante la selezione, figlio di puttana, – esalò il mio amico, sputando sul cadavere. – Andiamo, dobbiamo fare in fretta. –
    Di comune accordo prendemmo il corpo di Lanes e lo buttammo nel mare, sugli scogli. Poi scendemmo con la corda e dopo mezz’ora eravamo finalmente sulla barca in mare, diretti verso il porto dove ci aspettava Andreas.
    Il corpo privo di sensi della Lunga Mano era con noi. Dopo non molto arrivammo finalmente in vista dei pontili a sud del castello, dove una figura teneva per la briglia tre cavalli che dondolavano docilmente la testa. Andreas venne a darci una mano e, dopo aver lasciato la barca al suo destino in mezzo al mare, montammo in sella e galoppammo senza parlare verso la campagna.
 
***
 
Quando arrivammo al nostro granaio, Camille era lì che aspettava. Teneva per mano una bambina piccola, bionda, fragile. Non sembrava troppo spaventata e quello era solo un bene per noi. Il braccio ferito, che avevo legato alla buona con un brandello di stoffa, pulsava nell’aria delle sera.
    Camille mi si avvicinò, probabilmente preoccupata dal sangue che inzuppava la mia giacca: – Cos’è successo? – 
    I suoi occhi verdi erano dilatati nel buio della notte, e la sua mano gentile si posò sulla mia spalla. Le feci un sorriso stanco, accarezzandole una guancia. Ero stanco, ferito e preoccupato, e l’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento era baciarla. Quanto possono essere stupidi gli uomini?
    – Non è niente, abbiamo avuto un piccolo problema. L’Alto Comando ci ha trovati, ma per ora il problema sembra essere risolto, – bloccai il suo commento, in una maniera che potrebbe essere definita scortese. – Adesso finiamo di fare ciò che dobbiamo, poi ci preoccuperemo di tutto. Non abbiamo tempo da perdere. –
    Camille annuì e mentre lei aspettava con la bambina io e gli altri entrammo nel granaio, trascinandoci dietro il corpo di Lacey.
    Quando la Lunga Mano si svegliò, era seduto su una sedia, legato stretto e impossibilitato a muoversi. Davanti a lui c’eravamo tutti noi, con Ivonne, sua figlia, mano nella mano di Camille. La bambina si guardava intorno con gli occhi spalancati. Probabilmente era troppo piccola per poter capire cosa stesse capitando, ma guardava il padre stranita. Segni di lacrime scorrevano sulle sue guance. Per la prima volta, vidi del timore negli occhi di Lord Lacey, che non aveva ancora proferito parola.
    – Voglio la mamma – disse, stropicciandosi un occhio con la manina. – Voglio andare a casa. –
    Camille le si inginocchiò vicino, accarezzandole la testa e pettinandole i lunghi capelli biondi: – La mamma è impegnata, ti porteremo dopo da lei, va bene? –
    Camille lanciò una lunga occhiata calcolatrice alla Lunga Mano, mentre si alzava e portava Ivonne fuori, lontano dallo sguardo del padre.
    – Qualunque cosa vogliate, sappiate che non lo avrete per molto. L’intero esercito di Dimina sarà sulle vostre tracce, dopo oggi. –
    Andreas iniziò a camminare, girandogli lentamente intorno, studiandolo: – Vogliamo informazioni. –
    Lord William Lacey sorrise e per un momento sembrò che, nonostante fosse lui quello legato e rapito, fosse lui ad avere il potere in quella stanza.
    – Non le avrete. Non credo siate capaci di fare del male a una bambina e io sono disposto a morire pur di non tradire la fiducia del mio Re, – Lacey si allungò sulla sedia, un ghigno malvagio dipinto sul viso. – Voi giovani siete deboli. –
    Andreas gli si mise davanti e gli diede un manrovescio talmente forte che il sangue gli uscì dal naso. Un incisivo tracciò la sua orbita nella stanza, atterrando con un sinistro tintinnio per terra.
    Jared dall’ombra urlò: – Camille! –
    Pochi istanti dopo, i pianti e le urla di una bambina si diffusero nell’aria. Andreas si accucciò davanti a Lacey, tenendogli fermo il viso con la mano: – Siamo giovani, milord, ma non deboli. Ci dirà quello che vogliamo sapere, glielo assicuro. –
    La Lunga Mano strinse i denti, il furore traspariva da tutto il suo essere. Le mani tremavano contro la stretta della corda.
    – Sappiamo che lei ha organizzato l’omicidio del principe Adrien Coverano e dei suoi due figli. Sappiamo che il suo governo non ha agito da solo ma che informazioni vi sono arrivate da Viride e vogliamo sapere da chi. –
    Lord Lacey non rispose, ma quando Jared chiamò Camille lo fermò: – No, aspetta… Come sapete tutte queste cose? –
    Ridacchiai: – Davvero crede che gli diremo le nostre fonti? Non è un illuso e tantomeno uno stupido. –
    – No, non sono uno stupido, – rispose. – E ho riconosciuto benissimo la principessa Camille Coverano in quella ragazza. È estremamente simile a suo fratello. –
    Nessuno gli rispose e aspettammo, in attesa. Di nuovo, quando ormai era diventato palese che la Lunga Mano non avrebbe più proferito parola, Jared chiamò Camille. Di nuovo, i pianti della bambina furono nell’aria.
    Gli occhi di Lacey si assottigliarono dal dolore a quel suono: – Volete la verità? Benissimo, ma slegatemi: non sono un animale. Vi do la mia parola che non proverò a fare nulla per scappare. Sono un uomo d’onore e avete mia figlia con voi. Però voglio qualcosa in cambio: ditemi da dove arrivano le vostre informazioni. –
    Ci guardammo tra noi, poi Andreas, con un sospiro, si avvicinò alla Lunga Mano con un coltello, tagliando le funi che lo legavano.
    Lord Lacey si massaggiò lentamente i polsi, guardandoci di sottecchi: – Quindici anni fa, una notte, venne da me un uomo, un Viridiano. Ero stato avvisato dal mio Re che presto qualcuno avrebbe richiesto un colloquio con me per portare a termine un progetto importante, che avrebbe dato ai Coverano e agli Auremore molto più potere e importanza di quanto sarebbe stato possibile pensare. L’incontro si svolse nelle mie stanze, in presenza di quest’uomo e di re Alexander in persona. Parlammo di molte cose: dell’unione delle casate reali; di quanto sarebbe stato migliore il mondo se invece di cinque nazioni divise ce ne fosse solo una, potente ed enorme, a regnare; di come le visioni pacifiste di re Daniel e di suo figlio, il principe Adrien, non fossero per niente di aiuto ai nostri progetti. Poi le cose andarono molto più nel concreto e mi accorsi che il mio sovrano aveva già parlato di tutto questo con i sovrani di Viride e che il piano fosse in qualche modo già pronto, ma che necessitasse di un’ultima conferma. Prendemmo diversi accordi quella notte: avremmo dovuto uccidere il principe Adrien e i suoi due figli, usando come scusante un viaggio diplomatico verso Dimina; avremmo dovuto nascondere nella nostra nazione tutti coloro che ci avrebbero aiutato in questo crimine, celando le loro tracce e permettendo ai Coverano di mantenere il potere. In cambio, quando i tempi sarebbero stati maturi e la guerra fosse inevitabilmente scoppiata, avremmo avuto i territori costieri di Albis, ricchi di giacimenti di ferro, oro e carbone, – Lord     Lacey ridacchiò. – Uno dei migliori accordi che abbiamo mai fatto. –
    Di fianco a me c’era il gelo. Mel era impietrito, gli occhi verdi assottigliati come una lama affilata, la mano sull’elsa della spada che tremava. Andreas era ad occhi chiusi, appoggiato al muro. Se non l’avessi conosciuto bene, avrei potuto dire che era in meditazione. Jared aveva una smorfia schifata in viso, io ero semplicemente pietrificato.
    – Non guardatemi così, Assassini, – disse Lacey, guadagnandosi quattro occhiate stupite. – Sì, ho capito chi eravate nel momento in cui quell’uomo della vostra Corporazione è venuto a parlarmi, ma non è questo il punto. Ho fatto esattamente ciò per cui voi siete stati creati: uccidere per salvaguardare la mia nazione. Quindi non siate così sconvolti, non siate ipocriti. Sono esattamente come voi. –
    Aveva ragione. Ogni singola parola che gli usciva dalla bocca era corretta, ma era come veleno nelle mie orecchie, che mi intossicava. Eravamo così sconvolti da qualcosa che per noi sarebbe dovuta essere la normalità, che non avrebbe dovuto turbarci più di tanto. Come mai la nostra reazione era stata così schifata? Forse perché finché siamo noi a uccidere la cosa può andare bene, ma se è qualcun altro a farlo allora percepiamo unicamente la mostruosità del crimine? Lord Lacey aveva ragione, eravamo solo degli ipocriti.
    – Ci dica chi era quell’uomo, il Viridiano, e da parte di chi veniva – gli domandò Andreas, sempre a occhi chiusi.
    – Tu vuoi prendermi in giro, Assassino, – fece la Lunga Mano, scuotendo la testa. – Sapete benissimo da parte di chi arrivasse quel messaggero. Non è un caso se ora che la guerra sta arrivando ci sia la regina Celia sul trono di Viride. E non è un caso nemmeno che re Jerome sia morto: non avrebbe mai capito un piano del genere, troppo perso dietro ai suoi ideali di pace e giustizia per tutti. Chi era quell’uomo, mi chiedete? Si presentò come Comandante della guardia di Elea, ma non ci disse il suo nome. Una mossa astuta, direi. Ma adesso, la vostra parte dell’accordo: ditemi come fate a sapere queste cose. –
    Da come parlava, da come teneva banco, sembrava che fosse lì di sua spontanea volontà per fare una chiacchierata con vecchi amici. Era estremamente irritante. Andreas, di fianco a me, aveva spalancato gli occhi ed era diventato bianco di colpo. Aggrottai le sopracciglia mentre Jared sospirò, prendendo fiato: – Abbiamo avuto fortuna. Non saremmo stati in grado di ricostruire tutta questa storia se non fosse stato per l’errore di un uomo, tale Hyatt. Ci ha portato al suo comandante, Lod Carean, che è da poco morto a Basilea. A proposito, ne sa qualcosa? Abbiamo scoperto che lei gli pagava i debiti. –
    Lord Lacey guardò Jared negli occhi: – Secondo te? Quell’uomo era come un barile pronto a esplodere, incostante e approfittatore. Gli avevamo dato più soldi di quanto si sarebbe mai potuto sognare, ma non erano mai abbastanza. Era giunto il momento di farlo tacere una volta per tutte. Non avrei lasciato che un ubriacone giocatore d’azzardo mandasse all’aria un progetto di quindici anni. –
    – E così avete simulato un suicidio – commentò Andreas.
    La Lunga Mano sbuffò, ironico: – Perché me l’avete chiesto se sapevate già com’era andata? –
    Nessuno gli rispose, ma tutti lo fissavano, mentre la Lunga Mano completava il suo monologo, ridacchiando: – Ma non importa. Sapete invece qual è la cosa divertente? Che voi non potrete usare queste informazioni. Sono stato abbastanza furbo da far sparire ogni traccia delle mie conversazioni con quell’uomo e tutto ciò che avete sono le mie parole. Estratte con la violenza, aggiungerei. Non vi saranno di aiuto, né ora né mai. –
    – Lei ha ragione, – disse Mel, avvicinandosi a lui. – Ma non importa: sa, noi Assassini siamo pieni di sorprese. Però… –
    – Però io non vivrò abbastanza a lungo per vederle, giusto? – lo interruppe Lord Lacey, alzando la mano. – Lo so benissimo che dovrete uccidermi, o avrete alle calcagna l’intero esercito diminiano prima di poter dire “ah”. E non mi sembra che sarete disposti a correre il rischio. –
    Il silenzio cadde nella stanza mentre la Lunga Mano, si guardava attorno, stranamente sereno. Mi ripromisi che davanti alla prospettiva della morte avrei avuto la stessa compostezza e serietà.
    – Lei ha ragione, di nuovo, – gli rispose Andreas, che continuava a essere stralunato sebbene avesse ripreso colore. – Però è stato un uomo d’onore, in vita. Non abbiamo intenzione di ammazzarla come un cane. Le daremo l’opportunità di salutare sua figlia e le prometto che non soffrirà. Sappiamo come fare. –
    Lord Lacey lo guardò con sguardo serio, concentrato. Poi annuì lentamente, pulendosi la bocca e il mento dagli schizzi di sangue: – Fate entrare mia figlia. Spero per voi che stia bene. –
    Jared lasciò andare un misto tra un sospiro e una risata: – L’abbiamo solo convinta a urlare. Non siamo animali, milord. Non facciamo del male alle bambine, se non costretti. Per fortuna, ci ha reso le cose più facili. –
    Poi uscì e ritornò poco dopo, con Camille e la figlia della Lunga Mano, illesa e incredibilmente tranquilla. Si vedeva che si era svegliata da poco: si iniziavano a intravedere le prime luci dell’alba dal tetto sfondato del granaio. Guardammo Lord Lacey abbracciare la figlia, farla ridere, baciarla e carezzarle la testa. Poi vide Andreas che si avvicinava, fece un cenno con la testa e consegnò sua figlia a Camille: – Riportatela da sua madre, Principessa. –
    Camille annuì, prendendo Ivonne per mano mentre usciva: – Lo farò. Anche se è più di quanto voi avete concesso a Ian e Nathaniel Coverano. –
    Poi Jared prese un bicchiere, lo riempì d’acqua e ci versò dentro il contenuto di una fiala. La conoscevo, faceva parte della dotazione degli Assassini: era arsenico, pronto per essere ingerito in caso di cattura. La portavamo sempre con noi, nella speranza di non doverlo mai usare. Jared consegnò il bicchiere a Lord Lacey che lo prese con un cenno grazioso del capo, alzandolo verso di noi in un brindisi inquietante. Bevve e noi aspettammo, immobili come statue. Poi, all’improvviso, Lord Lacey si accasciò sulla sedia, morto. Mi avvicinai a lui e gli chiusi gli occhi, che erano rimasti aperti e fissi, immobili. Uscimmo dalla stanza in silenzio, come in processione. Ogni volta che si prende una vita ci si sente come dopo aver attraversato una tempesta: stanchi, più vecchi, provati. Sapevo che la responsabilità di quella ennesima morte me l’avrei portata con me per sempre.
 
***
 
Fuori dal granaio l’aria era fredda, frizzante, e mi fece sentire meglio. Il calore del fuoco nella stanza dove ormai riposava il cadavere di Lacey mi aveva stordito, facendomi salire un mal di testa fastidioso, che pulsava precisamente sopra il mio occhio sinistro. La spalla ferita bruciava, rendendo dolorosi i movimenti. Avrei dovuto curarla, forse mettere anche dei punti. Seduta per terra Camille teneva in braccio Ivonne, che si era di nuovo addormentata e riposava avvolta in una grossa coperta. Andai a sedermi vicino a lei, appoggiando la testa contro il muro dietro di me, le braccia sulle ginocchia.
    – Adesso? – domandò Camille.
    Mi girai a guardarla: – Adesso dobbiamo scappare. Avremo forse un paio d’ore prima che tutta la nazione si sguinzagli alla ricerca del Consigliere del Re. Prima porteremo Ivonne dalla madre e poi cercheremo un passaggio per Viride. Tra l’altro, dovremo rintracciare il Comandante delle guardie di Elea di quindici anni fa. –
    – Non c’è bisogno di rintracciarlo, – fece Andreas, chiudendo gli occhi con aria seria. – Lo conosco da circa un anno. È salito di grado ed ora è a capo della guardia personale della regina Celia. –
    Jared lo guardò aggrottando le sopracciglia: – Lo conosci? Come mai? Non ce ne hai mai parlato. –
    – Un po’ di volte mi è capitato di doverlo contattare su ordine del Comando ed è una persona con cui mi trovo bene. Non c’è molto da dire, è un mio amico. E non devo parlarvi di ogni dettaglio della mia vita, Jared. –
    – Tu ci stai nascondendo qualcosa – fece Jared, inclinando la testa e assottigliando ancora lo sguardo. Gli occhi blu sembravano lame talmente erano affilati. Gli misi una mano sulla spalla, per calmarlo.
    – Gli affari di Andreas sono solo suoi, non nostri, e ce ne parlerà quando e se vorrà – fece Mel, ponendo fine alla discussione, parlando per la prima volta da quando eravamo usciti dal granaio. – Se il capitano delle guardie è suo amico forse ci potrà essere d’aiuto, ma ci penseremo quando saremo di nuovo a Viride. Voi che ne dite? –
    Io annuii, serio. Ero incuriosito dalla reazione di Jared, che secondo me aveva ragione: Andreas ci nascondeva qualcosa. Non avrei saputo dire bene cosa, ma era una sensazione che mi si era annidata sotto pelle. Sicuramente non era niente di che, ma l’impressione rimaneva.
    – Però, – dissi. – Dobbiamo fare attenzione. A Viride siamo tutti ricercati e tornare nella capitale potrebbe essere pericoloso. –
    Andreas mi guardò, sospirando rassegnato: – Sì, dovremo fare attenzione. –
    Lo disse con un tono piatto, monocorde, senza la luce curiosa negli occhi che aveva di solito. Tutti gli altri lo fissavano, cercando di capire cosa gli girasse nel cervello. Probabilmente derivava dall’idea che un amico fosse stato in grado di compiere un’azione del genere era terribile, ma comunque tutti noi eravamo Assassini di professione, in qualche modo abituati a convivere con uomini di questo tipo. E in più, se Andreas diceva che quest’uomo era suo amico, sapevo che nessuno di noi si sarebbe mai permesso di fargli del male.
    Il silenzio era caduto tra di noi, ma sorrisi al pensiero che d’improvviso si era fatto strada nella mia mente: – Torniamo a Elea, allora. Torniamo a casa. –
 
 
 
ANGOLO DELLA SCRITTRICE!
Ciao a tutti (: felice che siate giunti, incredibilmente, fin qui!
Mi spiace che gli aggiornamenti arrivino un po’ a rilento, ma sto (giuro) facendo una fatica maledetta a finire questi capitoli! Nonostante ciò spero che comunque il capitolo sia venuto bene (: ci tengo molto a ringraziare tutti quelli che leggono, che commentano, che mettono la storia tra le preferite ^^ grazie davvero di cuore!
E, per tutti quelli che non l’hanno ancora fatto, commentate! Fa sempre piacere avere un riscontro, e le critiche sono estremamente utili, davvero (:
Grazie ancora a chi è arrivato fin qui, mi rendete davvero felice!
Baci,
LyaStark

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Capitolo 13
*** XIII ***


CAPITOLO XIII

 

MARCUS

 

Quasi non mi accorsi della partenza della nave. Nonostante la nottata di sonno mi sentivo distrutto, come se un esercito mi fosse passato sopra. Bisogna anche dire che la nuotata nell’acqua gelida non aveva aiutato, ma aveva solo contribuito a rendermi più affaticato e infreddolito che mai. Sentivo la ferita pulsare sotto le bende, rendendomi dolorosamente consapevole della sua presenza. Avevo continuato a dire agli altri che stavo bene e che avevo recuperato, ma non era del tutto vero. Maledissi per la milionesima volta Lanes, sperando che stesse bruciando nelle fiamme del regno dei morti.

               Mi sedetti scompostamente sul pavimento della cabina, appoggiando la schiena a una delle pareti e chiusi gli occhi, respirando tranquillamente. Repressi un brivido mentre sentivo il sonno prendermi di nuovo. Sapevo che avrei dovuto essere vigile e pronto, nel caso in cui il comandante di quella bagnarola avesse deciso di ritornare nei suoi appartamenti, ma semplicemente non ce la facevo. Il mio massimo contributo sarebbe stato ascoltare la conversazione, che tra l’altro languiva.

               Andreas non si era ancora del tutto liberato dall’aria allucinata che aveva avuto tutto il giorno, senza motivo. Ero sicuro che se ce ne avesse parlato le cose sarebbero andate meglio, che avremmo potuto alleviare le sue pene. Non potevamo aiutarlo però, se non ci diceva che cosa stava capitando.

               Poi c’era Camille, con la testa appoggiata sulla spalla del mio amico e incredibilmente rilassata. Sentii una fitta violenta di gelosia, che mi risvegliò di colpo e mi fece bruciare le guance. Mi ero sempre preoccupato di Jared, ritenendolo quello più “pericoloso” di tutti, in quell’ambito. Possibile che mi fossi sbagliato? Ero stato davvero così stupido da non accorgermi che Andreas era interessato a Camille?

               Dannate donne: quando non ce n’era nemmeno una nel gruppo era tutto molto più facile. Adesso mi spiegavo come mai la Corporazione fosse un’istituzione per soli uomini.

               Jared osservava con occhio clinico l’interno della cabina, adocchiando i quadri e le carte sulla scrivania di legno, leggendole attentamente. Probabilmente la sua vecchia natura di ladro era tornata a farsi sentire, sempre nei momenti meno opportuni. Era leggermente verdognolo, ma sembrava che tenere occupata la mente lo aiutasse: normalmente sarebbe già stato appeso al balconcino, vomitando l’anima in mare. È sempre un piacere viaggiare con lui.

               Mel era seduto vicino alla porta, pronto a balzare in piedi nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno. Aveva gli occhi chiusi e respirava profondamente, come addormentato, ma sapevo benissimo che era vigile e attento. Probabilmente stava ripensando alla nuotata, ringraziando tutti gli dei di essere vivo. Non ho mai saputo se ci fosse un motivo a questo suo terrore, ma il solo pensiero di avvicinarsi all’acqua lo spaventava, rendendolo inquieto. È strano pensare che un uomo come Mel possa aver paura di qualcosa, di solito è lui ciò di cui la gente ha timore. Era stato bravo, però, a buttarsi in acqua per seguirci: non posso dire che al posto suo sarei stato in grado di fare lo stesso.

               Smisi di pensare a Mel quando un brivido di freddo mi fece battere i denti violentemente. Mi strofinai le braccia cercando di scaldarmi un minimo, senza troppo successo. Eravamo tutti fradici dalla testa ai piedi.

    Ci riprendemmo dal nostro stato di apatia quando la porta della cabina si aprì, facendo entrare il comandante delle nave. Saltarono tutti in piedi mentre io mi tiravo su lentamente, appoggiandomi alla parete.

Mel sguainò velocemente la spada saltando alle spalle dell’uomo, intrappolandogli le braccia e poggiandogli la lama sul collo: – Io non urlerei se fossi in te. –

Il comandante annuì, con gli occhi sgranati per lo spavento. Mi presi del tempo per osservarlo: era poco più vecchio di me, con una zazzera di capelli scuri sulla testa. Gli occhi castani scrutavano i nostri volti e, una volta ripresosi dalla sorpresa, si rivelarono più intelligenti e acuti di quanto avrei voluto. Era molto più difficile convincere un uomo furbo a reggerci il gioco piuttosto che un idiota. Non aveva né barba né baffi e portava un fazzoletto bianco legato al collo. La casacca era blu e aveva ricamato uno stemma nobiliare all’altezza del petto.

– Abbiamo la sua parola che non farà mosse stupide? – gli domandò Andreas nella lingua di Viride, guardandolo negli occhi.

Il comandante annuì rigido, mentre Mel lo liberava lentamente.

– Voi siete i ricercati, – commentò con forte accento diminiano, soffermandosi sul volto mio e di Jared. – Le guardie giù al porto stavano cercando voi. –

– Ottimo spirito d’osservazione, – risposi. – Sfortuna ha voluto che ci servisse un passaggio per Viride e la sua nave fosse l’unica disponibile. –

– Potrei chiamare i miei uomini. Sono qua fuori, pronti ad ogni mio comando – commentò il comandante, guardandoci severo. Sembrava un uomo tutto d’un pezzo, che non si faceva spaventare da una banda di ricercati sulla sua barca.

– Potrebbe, – gli rispose Andreas. – Ma morirebbe subito dopo. –

– E voi con me. Per quanto siate bravi con le armi non potrete competere con un equipaggio intero – disse al mio amico sorridendo, chinando leggermente il capo.

– Ha ragione. Moriremmo noi, morirebbe lei e morirebbe sicuramente qualche membro della sua ciurma. Ne vale la pena? Ci pensi, comandante – gli rispose Mel, che non aveva ancora rimesso via la spada.

– Non ho molta scelta. Tengo alla mia vita e a quella di ogni singolo membro del mio equipaggio. Vi porterò a Viride. –

Sentii Camille sospirare di sollievo mentre Jared si avvicinava al comandante, sfilandogli la spada dal fodero e soppesandola.

– Molto bene, – considerò Andreas, sedendosi per terra. – Non ci giochi scherzi strani e nessuno si farà male. Si sieda alla scrivania, meglio che si metta comodo. Capirà bene che non potremo farla uscire sul ponte fino a che non avremo attraccato a Viride. Spero che il suo equipaggio sappia come gestire la nave in sua assenza. –

– Il mio secondo è là fuori, lui sa come fare. Vi porterò a Eleusi – commentò il comandante sedendosi dietro alla scrivania, con Mel in piedi di fianco a lui.

– Sarà meglio – risposi, mentre mi accasciavo sul pavimento della cabina, chiudendo gli occhi e addormentandomi poco dopo, sebbene fossi ancora congelato.

 

***

 

Una mano gentile mi svegliò circa due ore dopo, scuotendomi dolcemente.

               Per un momento mi illusi che fosse Camille, salvo poi aprire gli occhi e accorgermi che davanti al mio naso c’era Jared: – Marcus, siamo quasi ad Eleusi. Svegliati. –

               Biascicai qualcosa guardandomi attorno. Il comandante era sempre seduto alla scrivania e guardava fuori dalle vetrate con aria assorta. Probabilmente stava pensando a cosa fare con noi che gli stavamo infestando la cabina.

Andreas si sedette di fianco a me, avvicinandosi al mio orecchio: – Non possiamo sbarcare da questa nave e piombare nel porto di Eleusi. Dovremo rifare come a Sanad, buttandoci in mare e evitando il porto. –

Lo guardai stancamente, senza nemmeno il coraggio di ribattere: – Gli altri già lo sanno? –

– Sì, è l’unico modo. –

Annuii stancamente, voltandomi. In piedi dietro la vetrata c’era Camille, che guardava il mare con un lieve sorriso in volto. Mi girai quando i suoi occhi incrociarono i miei. Non avevo ancora deciso cosa fare con lei e quello che avevo visto tra lei e Andreas non mi faceva sentire più tanto sicuro di me. In più c’era sempre il problema che lei era una Principessa, io un Assassino. Cosa c’entravo io con lei?

Mi ripresi dai miei pensieri quando il mio sguardo cadde sul comandante.

– Di lui che ne facciamo? – mormorai ad Andreas, sperando che nessun altro mi sentisse.

Il mio amico fece una smorfia, abbassando gli occhi: – Lo sai. Non possiamo lasciarlo andare. –

– No, hai ragione, – commentai sospirando. – Ma mi dispiace. Sembra un brav’uomo. –

– Spiace anche a me – mi rispose Andreas, alzandosi e portandosi vicino a Camille dietro alla vetrata, guardando il mare.

Non si girò nemmeno quando interpellò il comandante: – Tra quanto saremo in porto? –

L’uomo guardò la sagoma di Andreas con occhi seri. Era seduto dritto sulla sedia, con le mani elegantemente poggiate sui due braccioli.

– Tra meno di venti minuti immagino. Lo saprei meglio se potessi essere sul ponte. –

– Non ci provi, comandante, – commentò Mel, in piedi vicino a lui. – Non insulti la nostra intelligenza. –

L’uomo fece una smorfia, ignorando Mel e tornando a fissare il ripiano della scrivania. Probabilmente stava pensando a come potersi liberare di noi. Mi alzai in piedi, avvicinandomi a Jared che era appoggiato mollemente contro la porta della cabina.

– Pronto per un secondo bagno? – mi sussurrò.

– Non mi restano molte altre alternative, temo – commentai, incrociando le braccia. Davanti a me Camille stava confabulando fitto fitto con Andreas. Sentii le sopracciglia aggrottarsi, come se non ne avessi il controllo.

               Restammo in quella posizione per ancora una decina di minuti, scambiando ogni tanto qualche parola ma comunque tesi, in attesa di un segnale che ci indicasse che era tempo di abbandonare la nave. Finalmente le urla dei marinai attraversarono le pareti di legno, facendoci capire che il porto era vicino.

               – Bene, – commentò Jared staccandosi dalla porta. – Mi sa che è giunto il tempo di tagliare la corda. Comandante, ci spiace per il fastidio che le abbiamo recato e per quello che dovremo fare. –

               Vidi l’uomo alzarsi di colpo, senza una parola, e rovesciare la sua sedia all’indietro. Con una mano lanciò un pesante candeliere di vetro verso Mel, obbligandolo ad allontanarsi e a schivarlo. Arretrò di due passi, mettendosi nell’angolo della stanza. Con la mano destra aprì il cassetto del tavolo che gli stava vicino e estrasse un pugnale, puntandocelo contro. Poi gridò.

               Estraemmo di fretta le spade mentre la porta della cabina veniva sfondata da un calcio: al di là potevamo vedere l’intero equipaggio della nave con armi in mano, corde e catene. Mel infilzò il primo uomo che gli piombò davanti, facendolo accasciare al suolo. Il rumore attorno a noi era incredibile.

               Camille ingaggiò battaglia con un uomo armato di due spade, lottando e combattendo con un’eleganza squisita. Non che non mi fidassi delle sue capacità, ma mi fiondai ad aiutarla uccidendo l’uomo alle spalle. Non troppo onorevole, ma funzionale. Due altri mi furono addosso, costringendomi ad arretrare. La ferita alla spalla iniziava di nuovo a farsi sentire, rendendomi impacciato nei movimenti. Tutto attorno a me infuriava la battaglia.

               – Via da qui! – urlò improvvisamente Jared, sfondando con una spallata il vetro alle sue spalle.

               Lo imitammo tutti, ritrovandoci nel piccolo balconcino privato del comandante, incalzati dall’equipaggio. Arrivammo alla paratia e ci buttammo scompostamente in mare.

 

                ***

 

Ritornammo sulla terra ferma al limitare di Eleusi, sulle spiagge della città. Eravamo infreddoliti e bagnati, per la seconda volta in poche ore. Poco lontano da noi si intravedeva il porto.

               – Dobbiamo andarcene, di corsa anche – disse Jared, mentre riprendevamo fiato sdraiati sulla sabbia fine. Almeno lì non pioveva.

               Mi rialzai a fatica, imitato lentamente da tutti gli altri. Iniziammo a correre verso il limitare della città passando dalla spiaggia, guadagnandoci occhiatacce dai pochi passanti che passeggiavano sul lungo mare poco distante da noi. Finimmo fuori dal centro abitato abbastanza in fretta, lasciandoci alle spalle le ultime case.

               Attorno a noi la spiaggia si restrinse, lasciando spazio a una terra con bassi arbusti e battuta dal vento. Poco distante si intravedevano le alte scogliere di Reins, di pietra bianca.

               – Dobbiamo trovare un posto dove poter passare la notte – esalò Camille, poggiandosi le mani sulle ginocchia e riprendendo fiato.

               Andreas annuì con la testa, respirando profondamente: – Dovremmo riuscire a trovare qualcosa spostandoci nell’entroterra. –

               – Dobbiamo fare attenzione, – commentò Jared. – Siamo ricercati. Non possiamo semplicemente bussare alle porte delle case e sperare di trovare ospitalità. –

               – No, direi di no, – rispose Camille. – Quindi notte all’addiaccio? –

               Trattenni una smorfia: – Ah, fantastico. Non vedevo l’ora. –

               Ci incamminammo con un buon passo verso l’entroterra, con in mente solo una vaga idea di dove ci trovavamo. Sapevamo di essere da qualche parte a est di Eleusi, ma non c’erano grossi insediamenti tra lì e Ange, da qualche parte davanti a noi. Dalla città avremmo poi potuto seguire la Gran Via, la grande strada che portava a Elea. Oppure, semplicemente, avremmo potuto rubare dei cavalli e dirigerci a spron battuto verso la capitale.

               La spiaggia scomparve e attorno a noi si aprì una terra con erbe basse e macchie di alberi piegati dal vento. Anche in quell’istante un’aria gelida arrivava dal mare, facendoci battere i denti e frustare i vestiti. Una gioia infinita.

               Ogni tanto si intravedevano dei gruppetti di casupole di legno, dove abitava chi non era abbastanza ricco da potersi permettere una casa in città. Incontrammo anche un paio di persone che portavano in spalla attrezzi da lavoro, troppo stanche per prestarci attenzione. Non parlammo molto, ognuno troppo immerso nei propri pensieri.

               Quando cadde la sera non avevamo ancora trovato un posto dove fermarci. Eravamo stanchi e infreddoliti, ma il bisogno di allontanarsi dalla città ci aveva spinti a non fare soste.

               – Secondo me possiamo fermarci qui – commentò Mel, fermandosi. Attorno a noi non c’era niente, se non erba, sassi e cielo. Non c’erano rumori a parte quello del vento sugli arbusti, e non c’era traccia di anima viva. Sopra di noi brillavano le stelle e una luna calante.

               Camille si lasciò crollare a terra: – Grazie agli dei. –

               Tutti noi ci accasciammo al suolo con un sospiro di sollievo. Avevo male in ogni punto del mio corpo e il freddo della notte non aiutava.

               – Ci fidiamo ad accendere il fuoco? – domandò Andreas.

               – Temo di no, – risposi a malincuore. – Ormai quel maledetto comandante di quella maledetta nave avrà avvisato le guardie. Ci staranno cercando, possiamo solo contare sul fatto che siamo cinque persone sperdute in una zona abbastanza vasta. –

               Mel annuì, lentamente: – Dovremo decidere dei turni di guardia. –

               – Va bene, – commentò Andreas, sistemandosi. – Facciamo riposare Marcus, farà il secondo turno. Io posso fare il primo, tanto non credo che riuscirei ad addormentarmi. –

               Emisi un gemito grato. Mi sdraiai più comodamente al suolo, coprendomi il meglio possibile con il mantello.

               – Ti tengo compagnia, – si fece avanti Mel. – Jared, dormi pure. Vi svegliamo noi quando è ora. –

               – Grazie, mi salvi la vita, – disse il mio amico, grato, mentre si sistemava per riposare.

               – Starò sveglia anche io, dormo al secondo turno – dichiarò Camille.

               Dalle mie palpebre semichiuse potei vederla mentre si alzava e si avvicinava ad Andreas, accucciandosi vicino a lui. Sentii una fitta spiacevole allo stomaco, la ignorai con una smorfia e mi girai. Dopo pochi secondi già dormivo.

 

***

 

Mi risvegliai, per la seconda volta quel giorno, a causa di una mano gentile che mi scuoteva la spalla. Era stato un sonno breve ma abbastanza riposante, non c’erano stati rumori né avvenimenti particolari. Aprii gli occhi con fatica, strofinandoli con il braccio.

               – Sono sveglio, sono sveglio, – biascicai. – È già il nostro turno? –

               – Andreas dice di sì – mi rispose la voce di Camille poco sopra di me. Ciocche dei suoi capelli mi solleticavano il viso.

               Mi tirai faticosamente a sedere: – Se lo dice Andreas… va bene, Jared lo sveglio io. Tu riposati. –

               Non potei fare a meno di trattenere il tono irritato, vedendo uno sguardo confuso farsi strada sul viso di Camille. Non sono mai stato particolarmente trattabile appena sveglio.

Mi alzai stiracchiandomi e guardandomi attorno, ignorando gli sbuffi scocciati della ragazza alle mie spalle. Mel e Andreas erano sdraiati e avevano gli occhi chiusi, probabilmente dormivano già. Mi avvicinai a Jared e lo scossi, molto meno delicatamente di come Camille aveva fatto con me poco prima. Mi sentivo decisamente irritato e poco incline alla gentilezza.

Il mio amico mugolò qualche parola senza dar segno di volere svegliarsi. Lo chiamai ripetutamente strattonandolo per le spalle quando finalmente Jared aprì gli occhi.

– Grazie agli dei non stavamo aspettando il tuo aiuto o saremmo già tutti morti, – dissi, acido. – Svegliati, è il nostro turno di guardia. –

Jared mormorò qualcosa e si tirò a sedere, stiracchiandosi come me poco prima. Mi sedetti di fianco a lui, imbronciato. Sarà stata la sveglia, o forse il pensiero di Camille e Andreas, ma decisamente non ero di buon umore.

– Tutto bene? – mi chiese il mio amico, quando si fu ripreso abbastanza da poter parlare con senso compiuto.

– Sì, direi di sì. –

Jared annuì, guardando di fronte a sé: – Camille? –

Lo osservai, aggrottando le sopracciglia. Come faceva a capirmi sempre?

– Può essere – risposi.

– Non so se ti può aiutare ma sappi che l’altro giorno, quando eri ferito, era disperata. Non credo di aver mai visto nessuno piangere così tanto. –

Ridacchiai scaldato al pensiero: – Dillo che se fossi morto avresti pianto anche tu. –

– Ovvio, ma non dirlo in giro – rispose Jared, togliendosi una ciocca di capelli argentati dal viso.

Risi di nuovo, stringendomi meglio nel mantello. Forse il turno di guardia non sarebbe stato poi così male.

***

 

Al mattino ripartimmo per Elea, un po’ meno stanchi di quando ci eravamo fermati. Sopra di noi il sole brillava tenue, riscaldandoci leggermente nell’aria fredda del mattino. Procedemmo a piedi fino a che riuscimmo a rubare dei cavalli, dopo di che ci muovemmo con più rapidità. Non molto nobile da parte nostra in effetti, ma era l’unica cosa che avremmo potuto fare.

               Arrivammo vicino alla capitale dopo un giorno di cavalcata abbastanza serrato, quasi senza riposo. Liberammo i cavalli poco lontano dalla città, sapendo che tanto sarebbero stati recuperati da qualcuno. Ci azzardammo ad entrare ad Elea e dirigerci nei bassifondi, sapendo che il tempo che avevamo a nostra disposizione prima che qualcuno si accorgesse che i ricercati erano tornati in città era abbastanza poco.

               La capitale non aveva segreti per noi: avevamo compiuto innumerevoli missioni lì ed era la nostra casa. La conoscevamo come le nostre tasche, ogni angolo, ogni vicolo. Come noi, però, anche tutti gli altri Assassini. Dovevamo fare in fretta e non esitare, per poter scappare in fretta dalla città.

               Nei bassifondi della città non giravano guardie e i volti coperti dai cappucci erano all’ordine del giorno. Nessuno ci fece domande, lasciandoci in pace fino a che non arrivammo in una delle topaie più squallide di Elea intera. Fortunatamente, a differenza di Dimina, non c’erano i manifesti con le nostre facce per tutta la città. Con ogni probabilità la Corporazione non voleva che la notizia di disertori si diffondesse.

               Camille si guardava intorno meravigliata. Non tornava nella sua città da anni, essendo rimasta confinata nel villaggio della foresta. Era stupita persino dai bassifondi, che è tutto dire. Era felice di essere tornata a casa e si notava da ogni sua azione.

               Passammo la notte in una sala dormitorio piena di gente dubbia. C’erano diversi uomini molto armati, con cicatrici e aria truce, ma nessuno ci diede fastidio. Al mattino ci allontanammo dalla locanda per poter parlare in pace di ciò che avremmo dovuto fare, ritrovandoci sotto la pioggia in un vicolo.

               – Dobbiamo riuscire a contattare Lord San, dobbiamo trovarlo – dissi a nessuno in particolare.

               – La fai facile, – mi rispose Jared. – Stiamo parlando del capo della guardia della Regina. –

               Andreas sospirò: – Lo cercherò io. Di me si fida. –

               Erano le prime parole che diceva al proposito da quando avevamo lasciato Dimina. Era sempre teso e agitato, come se un pensiero fisso gli ronzasse continuamente in testa.

               – Andreas, – iniziai. – Se non vuoi farlo non sei obbligato. –

               – Non è questo, – disse, chiudendo gli occhi e portandosi la mano al volto.

               – E cos’è allora? –

               – È complicato. –

               Vidi Jared aprire la bocca con una smorfia non propriamente tranquilla in viso. Per fortuna intervenne Mel a calmarlo, poggiandogli una mano sulla spalla e convincendolo tacitamente a non parlare. Di tutto aveva bisogno Andreas tranne di essere attaccato malamente a parole per qualcosa che lo stava facendo palesemente soffrire.

– Sei sicuro di volerlo contattare tu? Non so cosa sia successo tra te e questo Lord San, ma sembri tenere a questa persona. Puoi rimanerne fuori, lasciando fare a noi. Non sei obbligato a fare nulla – commentai. Gli altri erano stranamente silenziosi.

               – Lo so, lo so, – mi rispose Andreas con più sicurezza. – Ma devo farlo. È qualcosa che devo risolvere io. Lo contatterò, vi farò sapere quando e dove lo vedremo. –

               Annuii in silenzio. Camille di fianco a me guardava Andreas con un’aria intenerita che ebbe il potere di farmi stringere lo stomaco. Distolsi in fretta lo sguardo, sentendo il fastidio del giorno prima farsi strada di nuovo dentro di me. Stava diventando un evento quotidiano ormai.

               Ci allontanammo dall’angolo della strada in cui ci trovavamo, ognuno in una direzione diversa. Avevamo deciso di separarci fino a sera, visto che gli Assassini ci cercavano come un gruppo di cinque persone.

               Prima che Andreas potesse allontanarsi lo presi per un braccio: – Qualunque cosa stia succedendo, sappi che se hai bisogno noi ci siamo. Non devi per forza raccontarci ogni cosa, ma sappi che sei comunque nostro fratello. –

               Andreas annuì con un sorriso stentato prima di allontanarsi nella pioggia.

 

***

 

Ci ritrovammo alla sera nelle vicinanze di una locanda, diversa da quella del giorno prima. La giornata era passata tranquillamente, senza inconvenienti. Avevo vagato fuori dalla città, ritenendolo più sicuro. Mi ero decisamente annoiato, ma almeno ero ancora vivo e mi ero potuto riposare. La ferita non mi dava più problemi e mi sentivo decisamente in forze.

               Gli altri avevano passato la giornata più o meno come me, vagando per le zone più malfamate di Elea. Anche Camille aveva optato per le campagne nei dintorni della città, ma non ci eravamo incontrati. Aveva passato la giornata camminando sulle rive dell’Ornale, il grande fiume che passa per la capitale e attraversa tutta Viride.

               Chiacchierammo del più e del meno in attesa di Andreas, che ancora mancava all’appello. Stavamo iniziando a preoccuparci quando finalmente spuntò dall’angolo di un vicolo, camminando con la sua solita andatura tranquilla e aggraziata.

               – Allora, ho contattato Lord San, – esordì quando ci raggiunse. – L’incontro è stabilito per domani, vicino alla statua di Re Maximilien. Sarà lì nel primo pomeriggio, da solo. –

               – Sa che saremo tutti noi? – domandò Jared.

               – Sì, gli ho spiegato a grandi linee la situazione. Non sa bene cosa aspettarsi ma gli è ben chiaro che non ci sarò solo io. –

               Annuimmo tutti e mi presi un paio di secondi per osservare meglio il mio amico. Era molto pallido, con delle occhiaie scure che circondavano i suoi occhi. Sembrava infinitamente stanco e diverso dalla persone che era stata vicina in quasi diciotto anni di vita. Non l’avevo mai visto tanto angosciato e la cosa stava iniziando a spaventarmi.

               – Va bene allora, – commentai, desideroso di esaurire il prima possibile quell’argomento. – Dobbiamo decidere il da farsi. Andreas, dici che questo Lord San ci dirà ciò che vogliamo sapere? –

               – Non lo so. Spero di sì… però voglio solo chiedervi una cosa – mi rispose, guardandomi con aria seria. – Non fategli del male, qualunque cosa capiti. –

               Ci guardammo negli occhi, stupiti da una richiesta del genere. Mi sembrava ovvio che non avremmo fatto del male a una persona a cui Andreas teneva così tanto. Si fidava così poco di noi da aver bisogno di una conferma ufficiale?

               – Certo che non gli faremo del male, come fai anche solo a pensarlo? – sbottò Jared, con tono offeso.

               Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato. Mel, il più silenzioso e introverso di tutti noi, prese la parola: – Andreas, senti… se non vuoi parlarci di quello che ti sta capitando sei libero di farlo, ma noi abbiamo bisogno di capire. È così importante per te questo Lord San? Non te lo chiederei se non fosse necessario, ma sono sicuro che capisci. Non possiamo riuscire a stabilire una sorta di piano d’azione se non capiamo quello che sta succedendo. Dobbiamo sapere fino a dove possiamo spingerci e cosa possiamo fare, altrimenti è tutto inutile. –

               Andreas fece un profondo sospiro, poi guardò Camille come per cercare un incoraggiamento. Infine parlò: – Capisco tutto, e sapevo che era solo questione di tempo prima che tutta questa storia venisse fuori. San è molto importante per me, probabilmente più di quanto dovrebbe, – chiuse gli occhi, probabilmente per non vedere le nostre espressioni. – Non posso tollerare il pensiero che potremmo essere noi, che potrei essere io, a ucciderlo o a fargli del male. Allo stesso tempo ho paura che lui ci consegnerà alla Regina, perché lo conosco. Non so cosa fare. –

               Tacqui, osservando il mio amico. Se prima avevo solo il sospetto che quella tra lui e Lord San non fosse solo una semplice amicizia, ora ne avevo la certezza. Non ce l’aveva detto esplicitamente, ma si capiva da ogni sua parola, da ogni suo gesto, da ogni espressione. Sotto questo punto di vista comprendevo tutta la sua angoscia, che era più che giustificata. Al posto suo non avrei saputo come comportarmi, sarei stato paralizzato. Mi stupiva persino che fosse riuscito a tenersi dentro quel peso per due giorni.

               Stavo per parlare, ma Jared mi precedette: – Va bene, non ti preoccupare. Ci pensiamo noi. Non succederà niente di male a San, nemmeno se decidesse di consegnarci alla Regina. In fondo siamo già ricercati, che una persona in più sappia che ci troviamo a Elea non sarà un problema, – il mio amico tossicchiò, improvvisamente imbarazzato. – Volevo anche scusarmi per essere stato assillante in questi giorni, riguardo alla questione. Ho decisamente esagerato, scusami. Ognuno ha il diritto di raccontare gli affari propri a chi preferisce, senza sentirsi obbligato. –

               – Anche se non avrei mai pensato di dirlo, – intervenne Mel. – Jared ha ragione. Per una volta ci penseremo noi. Se vuoi tirarti indietro non ci sono problemi, ce ne occuperemo noi. E Lord San finirà la conversazione con noi, illeso. –

               Andreas fece il primo vero sorriso della giornata: – Grazie. Scuse accettate, Jared. Per quanto riguarda tirarsi indietro, credo che non lo farò. Voglio sapere che cosa successe anni fa, perché San è stato complice di una cosa del genere. Sono forse l’unico con cui parlerà. –

               – Va bene, allora prepariamoci per domani. Sarà una lunga giornata – concluse Camille.

 

ANDREAS

 

L’ora dell’incontro sembrò non arrivare mai. Passai la notte a girarmi e rigirarmi sulla brandina, senza che mi sembrasse di addormentarmi mai, nemmeno per un secondo. Già dal mattino presto erano tutti attivi e svegli, agitatissimi. Tutti tranne me, che dopo la notte insonne avrei solo voluto infilare la testa sotto le coperte e dormire fino al giorno dopo, lasciando quel problema agli altri.

               Avevo riflettuto più volte sulla proposta di Mel di farmi da parte, ma non ero così vigliacco. Era tempo di risolvere la situazione una volta per tutte, qualunque cosa ne sarebbe venuta fuori. Era stato solo quel pensiero a permettermi di trovare la forza di alzarmi.

               Passai la mattinata in uno stato di apatia insolito per me. Vedevo gli altri muoversi, organizzare, prepararsi. Io me ne rimasi seduto, pulendo le mie armi e riflettendo su quello che avrei dovuto fare. L’unica che ebbe il coraggio di avvicinarmi qualche volta fu Camille. “Non ti preoccupare, andrà tutto bene”, mi disse, ma avevo paura che non sarebbe andata così. Oltre tutti i miei problemi derivati dall’aver scoperto cosa aveva fatto San, c’era un’altra faccenda che mi preoccupava: sapevo, lo sapevo nel profondo, che avrebbe avvisato le guardie della nostra presenza in città. Forse avrebbe ascoltato le mie parole, ma avrebbe finito per fare il suo dovere.

               Finalmente arrivò l’ora dell’incontro e mi incamminai, da solo, verso la statua di re Maximilien, in mezzo alla piazza del mercato. Quel sovrano mi era sempre piaciuto, visto che aveva fondato la Grande Biblioteca della città, vicino al Palazzo Reale. Il resto della popolazione se lo ricordava per la grande guerra che aveva intrapreso per difendersi da Semele, al Sud, ma non erano in molti a sapere che era anche un letterato. Lo sentivo un po’ simile a me, in fondo: un uomo di cultura, che era stato obbligato a prendere le armi dalla ragion di stato. Non che il paragone fosse così azzeccato, ma tant’è.

               Arrivai vicino alla piazza in orario perfetto, notando con piacere che il mercato era così pieno di gente che difficilmente mi sarei potuto far notare. Iniziai a scrutare la folla, fino a quando vidi San poco distante dalla statua del Re, appoggiato distrattamente a una fontanella. Mi presi qualche istante per guardarlo bene, da lontano, mentre ancora non sapeva di essere osservato.

               Riconobbi le spalle ampie, la schiena dritta e il profilo severo, e guardai bene i corti capelli neri e la barba curata, che copriva in parte la cicatrice sul lato destro del viso, imprimendomi quei dettagli nella mente. Al fianco sinistro portava la spada lunga, su cui era poggiata distrattamente una mano. Era vestito normalmente, senza l’ingombrante mantello rosso delle Guardie della Regina e non potei che ringraziarlo mentalmente per quello.

               Decisi che era giunto il momento di avvicinarmi, altrimenti non l’avrei mai fatto. Lo vidi guardarmi, raddrizzarsi e sorridermi in un modo che ancora mi faceva stringere lo stomaco. Nonostante fosse più vecchio di me mi aveva sempre trattato da pari, mai come il ragazzino che in realtà sapevo ancora di essere.

               Mi avvicinai ancora di più e gli misi una mano sulla spalla, non osando fare altri gesti che sarebbero stati colti dalle guardie e avrebbero rischiato di farmi scoprire: l’omosessualità era un reato a Viride.

               – Sono felice di vederti – gli dissi, e nonostante tutto lo ero davvero. Ero lontano da casa da mesi ormai.

               Mi strinse la mano e la carezzò distrattamente con il pollice, in un movimento che sembrava casuale ma che sapevo benissimo non esserlo: – Anche io sono felice di vederti. –

               Rimanemmo uno davanti all’altro per qualche secondo, senza dir niente. Solo guardandoci, mentre io scrutavo gli occhi scuri di San, neri come l’onice e sempre capaci di catturarmi. Per un momento pensai di non dirgli niente e di lasciarlo andare via, nascondendo tutto. Fino a quel momento era tutto ancora da decidersi, un mare di possibilità diverse si apriva davanti a me.

               Poi San mi chiese spiegazioni e l’indefinito finì: – Perché mi hai chiesto di vederci qui? Cosa succede? –

               – Non è il caso di parlarne qui. Ti porto in un posto più tranquillo, seguimi. –

Mi incamminai verso il limitare della piazza, affiancato da San. Era alla mia sinistra, abbastanza vicino perché le nostre mani ogni tanto si sfiorassero, ma sufficientemente lontano da non destare sospetti. Parlammo del più e del meno, tralasciando l’argomento per un momento. Ne approfittai per chiedere a San cosa avesse fatto nel periodo in cui non avevamo potuto vederci, facendomi trasportare dalla sua voce.

Mentre lui parlava non pensai a quello che avrei dovuto fare da lì a poco ma mi godetti semplicemente quegli attimi di tranquillità, i primi da parecchio tempo a quella parte. Non avrei mai potuto pensare che mi sarebbe mancato così tanto passare del tempo con lui. Era stata la prima persona, dopo Mel e gli altri, ad aver significato qualcosa di importante per me. Era stato difficile per me riuscire a capire e ad accettare i miei sentimenti per San e adesso avrei potuto perdere tutto.

               I miei pensieri si interruppero quando finalmente arrivammo alla nostra meta, una delle case sicure della Corporazione. Mel ci era passato distrattamente davanti il giorno prima, scoprendo che era vuota e che quindi avremmo potuto usarla noi, decidendo che mi avrebbero aspettato lì. La porta era sprangata dall’interno e bussai con un codice che avevo stabilito con gli altri il giorno prima. Avevo già usato le case della Corporazione in caso di bisogno e sapevo benissimo come erano strutturate.

Entrammo in una grossa stanza quadrata con un letto, un tavolo e qualche sedia. C’erano armi, medicine, soldi e cibo, tutto ciò di cui un Assassino avrebbe potuto avere bisogno. Avevano tutte la stessa serratura e ogni membro della Corporazione aveva una chiave, per poter trovare un riparo in caso di necessità.

Dentro c’erano tutti gli altri. Camille era appoggiata a una parete, guardando annoiata il muro davanti a sé. Guardò San con aria inquisitoria, scrutandolo dall’alto al basso come per sezionarlo. Lui sostenne lo sguardo senza esitare, con un’espressione serena in viso. Ero sicuro che, nonostante l’aria disinteressata, stesse osservando Camille a sua volta.

Marcus era seduto al tavolo con le braccia incrociate e immaginai che fino a un attimo prima fosse impegnato in una conversazione con Jared. Quest’ultimo era in piedi di fianco all’amico e ora guardava me e San seriamente. Mel invece era seduto sulla branda, tra le mani una catenella con cui stava ancora giochicchiando.

San ruppe il silenzio rivolgendosi a Camille: – Principessa, sono lieto di vederla sana e salva. –

               Non ero troppo stupito. Sarebbe stato stupido da parte mia pensare che il Comandante della Guardia della Regina non riuscisse a riconoscere la Principessa.

               – Comandante, il piacere è tutto mio – rispose Camille. Rimasi sconcertato dal tono e dalla postura della ragazza: improvvisamente era tornata a essere la Principessa di Viride, non disposta a farsi mettere in difficoltà da nessuno. Sembrava perfettamente in grado di dominare la situazione.

               San ignorò tutti gli altri, anche se sapevo che se aveva riconosciuto Camille avrebbe sicuramente capito chi erano gli altri, soprattutto perché gliene avevo parlato parecchio.

               – Adesso mi dici perché siamo qui? – mi chiese.

– Sì, adesso sì, – iniziai con un respiro profondo.

“Così ha inizio”.

Decisi di non fare tanti giri di parole, andando direttamente al sodo. – Abbiamo scoperto che la morte del principe Adrien e dei suoi due figli non è avvenuta a causa di un incidente in mare, ma che è stato un omicidio. Nelle indagini per riuscire a capire chi sia stato è spuntato il tuo nome e quello della Regina come mandante. –

San mi guardò come se gli avessi dato una coltellata, ma l’espressione indifferente tornò in fretta sul suo viso.

Si girò verso gli altri, parlandogli come può parlare un uomo abituato a dare ordini: – Andatevene da qui. Tutto questo non è qualcosa che vi riguardi. –

Camille si fece avanti: – Questo mi riguarda, eccome. State parlando di mia madre e della mia famiglia. –

– Ripeto: non è affar vostro. Andatevene – disse San con un ringhio, gelandola con lo sguardo e incrociando le braccia. Potevo quasi sentire la rabbia emanare dalla sua figura, rendendolo spaventoso. Non gli è mai piaciuto venire contraddetto, non da persone appena viste comunque.

Camille si fece avanti per ribattere ma Marcus la precedette, prendendola per le spalle e mormorandole qualcosa in un orecchio. La Principessa uscì dalla stanza scrutando torva San, lasciando intendere palesemente che se non fosse stata fermata avrebbe ribattuto a tono.

Vidi i miei amici uscire in strada, e poco prima di chiudere la porta sentii Jared mormorare: – Andreas, se hai bisogno siamo qua fuori. –

– Non ne avrà – mi precedette San, immobile.

Quando tutti furono usciti lo vidi rilassarsi, meno sul chi vive. Le spalle si abbassarono mentre si dirigeva alla sedia poco prima occupata da Marcus. Era comunque arrabbiato, lo capivo da ogni suo gesto.

– Adesso mi spieghi – mi ordinò secco e non potei tirarmi indietro.

Gli raccontai tutto. Di come avevamo conosciuto Camille, di Hyatt, di Lod Carean, della Lunga Mano. Di come eravamo arrivati fino a lui, di cosa stavamo cercando di ottenere, della ferita di Marcus. Parlai a ruota libera, senza essere interrotto, e mi accorsi solo in quel momento di quanto avevo bisogno di spiegare ciò che era accaduto per poter rimettere a posto le idee, per prendere le distanze da tutto quello che avevamo visto per poterlo analizzare meglio. Gli dissi finalmente cosa volevamo da lui: delle prove di colpevolezza.

Quando finii San tacque per un paio di minuti, guardandomi profondamente.

– Avete davvero fatto tutto questo per una ragazzina che non conoscete? – mi chiese.

Ebbe il potere di farmi innervosire: – Sì, è giusto così. È stata defraudata di tutto, è nostro dovere aiutarla ad avere ciò che è suo di diritto. Per tralasciare il fatto che la ragazzina ha quasi la mia età. –

– Sì, scusami, – mi rispose, scuotendo la testa. – Ma non è questa la questione. –

– No, non lo è, – commentai. – La questione è quello che hai fatto per la Regina. –

– Stai parlando di qualcosa che è capitato quindici anni fa, Andreas. –

–Sì, ma è capitato. –

San annuì e vidi tristezza farsi avanti sul suo viso.

– Non posso darti ciò di cui hai bisogno, mi dispiace – mi disse, avvicinandosi a me e prendendomi il viso tra le mani, fissandomi con i suoi occhi scuri.

– Perché no? –

Sospirò, lasciandomi e dandomi le spalle: – Io credo che ciò che la Regina ha fatto fosse necessario. Ho acconsentito a fare da emissario per lei perché pensavo davvero che Jerome e Celia potessero essere dei sovrani migliori del principe Adrien. L’ho fatto perché credevo che il piano della Regina fosse giusto per Viride, per il mio paese. –

Sentii quelle parole come da dentro una bolla. Avevo sempre saputo che nessuno, nemmeno la regina Celia, avrebbe mai potuto obbligare San a fare qualcosa che non voleva. Aveva un carattere forte, pronto a dare tutto per un’idea in cui credeva ma incapace di piegarsi, nemmeno davanti a un potere più grande. Però qualcosa non mi tornava, riflettei mentre mi rigiravo il pensiero nella mente.

Poi, l’illuminazione. Scossi la testa: – No, – iniziai. – Non è così. Io ti conosco, so che quello che dici non è vero. Forse era così un tempo, ma non oggi. Sei intelligente, sai meglio di me che il dominio della Regina sta rovinando questo paese. Non puoi continuare a pensare che sia la cosa giusta supportarla. –

San mi guardò stupito: ­– Hai ragione anche su questo, ma non è sufficiente. Ho fatto dei giuramenti e ho intenzione di rispettarli. È merito della Regina se sono dove sono, è a lei che devo tutto. Non la tradirò così. –

Fu il mio turno di avvicinarmi a lui: – Nemmeno per me? –

– Non chiedermelo, Andreas – mi disse, distogliendo lo sguardo.

Gli presi il mento tra le dita, obbligandolo a guardarmi: – Te lo sto chiedendo. Aiutami, ho bisogno del tuo aiuto – sussurrai.

Se mi avesse detto di no avremmo dovuto fermarci. Non avrei mai potuto fargli del male, non avrei potuto obbligarlo più di quanto stavo già facendo. Sapevo che quello che gli stavo chiedendo non era giusto, ma era l’unico modo.

– Mi distruggerai – mormorò di rimando.

– Non potrei mai. Se non vorrai parlare, lascerò perdere. –

San si alzò, lasciandomi accovacciato davanti a una sedia vuota. Si portò davanti alla piccola finestra della casa sicura, guardando il vetro sporco e l’inferriata di metallo nero davanti a sé.

Per alcuni minuti non disse niente, poi finalmente sentii la sua voce risuonare tra le pareti: – So benissimo che non c’è da fidarsi della Regina, non sono un illuso. Ho conservato le lettere con cui mi ordinava cosa fare e cosa dire a Lord Lacey. –

Si girò, guardandomi negli occhi e proseguendo con tono amaro: – Ero giovane, ma non stupido. Ho dato tutto a mia sorella Gaia, abita nella via dei mercanti. Le ho detto che, se mi fosse capitato qualcosa, avrebbe dovuto inviarle ai regni del sud. –

Si interruppe per un attimo, prendendo fiato: – Portale questo, per provarle che ti mando io – continuò, lanciandomi l’anello che portava all’anulare.

Presi al volo l’oggetto, rigirandomelo per qualche secondo tra le mani. Era un anello con una grossa pietra nera, incastonata in argento. Inciso nell’onice c’era un falco, simbolo della famiglia di San. Lo portava sempre al dito, non lo avevo mai visto separarsene.

Feci scivolare l’anello in tasca e mi avvicinai a San, con il cuore in tumulto. Prima che potessi allungare una mano e toccarlo mi parlò, gelandomi sul posto.

– Tra due ore andrò a parlare con il capo della guarnigione. Gli dirò che siete in città. – mi disse, senza nemmeno guardarmi negli occhi. Suonava tanto come un addio.

Sentii qualcosa dentro me lacerarsi. Avevo fatto ciò che dovevo e avevo perso l’unica persona che amavo. Capii all’improvviso che era quello ciò che avevo sempre temuto, sin da quando Lord Lacey lo aveva nominato. Comprendevo che quello che avevo fatto non avrebbe permesso che le cose tra noi due continuassero come prima. Avevo sfruttato l’affetto che provava per me per ottenere ciò che mi serviva. O almeno, doveva essere così che la vedeva lui. Io sapevo solo che lo amavo, qualunque cosa avesse fatto quindici anni prima e qualunque potesse pensare. Lo amavo nonostante tutto, ma non bastava. Mi pentii profondamente di quello che avevo appena fatto.

– Io… – iniziai, senza poter continuare.

San mi guardò con occhi tristi e disse con amarezza: – Vai, fai quello che devi fare. Avete poco tempo. –

Non ebbi il coraggio di dire niente, di fare niente. Annuii e mi diressi verso la porta con l’impressione di essere dentro a una bolla. I suoni erano ovattati, il tempo sembrava dilatato. Poco prima di uscire mi girai verso di lui. Feci per aprire la bocca, per parlare, scusarmi, chiarire ogni cosa, ma non me ne diede tempo. Si girò, dandomi le spalle e tornando a guardare fuori dalla finestra, perso nei suoi pensieri. Io uscii e mi chiusi la porta alle spalle.

Non gli parlai, non gli spiegai, non gli rivelai quello che pensavo, non cercai in alcun modo di risolvere quella situazione. Mi comportai da vigliacco perché avevo paura dei miei sentimenti e lo lasciai andare via da me.

Me ne pento ancora oggi.

 

***

 

Uscito da quella stanza maledetta mi stupii di trovare un sole pallido dicembrino brillare sulle nostre teste. Avevo perso la cognizione del tempo in quella casa ma non doveva essere passata nemmeno un’ora da quando ero entrato. Respirai per tirare giù il groppo che mi sentivo in gola. Nessuno mi chiese niente e apprezzai la loro delicatezza. Solo Camille mi si avvicinò lieve, abbracciandomi dolcemente. Feci un sospiro profondo, chiudendo gli occhi e stringendomi a lei.

               Quando Camille si allontanò parlai: – Ha delle lettere della Regina, le tiene sua sorella. Abbiamo due ore di tempo per prenderle e scappare dalla città, poi chiamerà le guardie. –

               – Le guardie? – mi domandò Mel, stupito. Sembrava dispiaciuto per me.

               Non avevo voglia di spiegare: – Sì. Dobbiamo fare presto, la sorella vive nella via dei mercanti, in pieno centro città. Non possiamo andare tutti, daremmo troppo nell’occhio. –

               – Vado io – si offrì Marcus prontamente.

               – No, vado io, – risposi con un sorriso tenue. – Così questa storia finirà. Ci troviamo fuori città tra un’ora e mezza, al Primo Ponte sull’Ornale. Se volete un consiglio dividetevi, che ognuno di voi esca da una porta diversa. Così dovremmo farcela. –

               – Sei sicuro? – mi domandò Jared, poggiandomi una mano sulla spalla.

               – Sì, sono sicuro, – dissi con un po’ più di sicurezza. – Andate, ci vediamo lì. –

               Non aspettai la risposta e iniziai a camminare. Sapevo benissimo dov’era la via dei mercanti e sapevo che non ci avrei poi messo molto ad arrivarci. Decisi di prendere le vie più affollate che conoscessi, per non sembrare troppo sospetto.

Più mi allontanavo dalla zona malfamata di Elea più lo scenario cambiava: le vie diventarono più grandi, lastricate di eleganti pietre grigie. Le case erano alte e imponenti, con fumo che usciva dai comignoli. La gente per le strade sembrava meno disperata e più tranquilla, era più elegante e in carne.

Pensai in ogni istante del tragitto a San. Sentivo un dolore sordo alla bocca dello stomaco, come se qualcuno mi avesse tirato un pugno. Mi costrinsi a ignorarlo e a respirare mentre rivedevo nella mente ogni istante passato con lui. Mi aveva fatto capire abbastanza chiaramente che non ci sarebbe più stato un futuro per noi.

Ringraziai gli dei quando arrivai nella via dei mercanti, finalmente avrei avuto qualcosa a cui pensare. Dovetti chiedere a un passante quale fosse la casa della famiglia Leroux, nome da sposata della sorella di San. Mi fu indicata una grande casa color ocra, con porte e finestre di legno pregiato. Dall’angolo della strada si poteva intravedere il giardino su cui si affacciava e da dove sentivo arrivare delle voci di bambini.

Andai a bussare alla porta, che mi fu aperta da un domestico vestito molto meglio di me. Dovetti insistere per entrare e nominare San, ma alla fine riuscii ad avere la meglio. Fui condotto in un lungo corridoio e a un’ampia sala ben arredata, con mobili in mogano e tendaggi e stoffe pregiate. Mi fu fatto gesto di accomodarmi su una delle sedie e di aspettare lì.

Aspettai silenziosamente guardandomi intorno, giocherellando con l’anello che tenevo in tasca. Nel camino scoppiettava un fuocherello allegro, che scaldava l’atmosfera. San mi aveva raccontato che la sorella, Gaia, aveva sposato un mercante di sete che viaggiava molto, passando gran parte del suo tempo nei regni del sud. Distolsi il pensiero dal Comandante e continuai a guardarmi intorno, interrompendo la mia analisi silenziosa solo quando sentii dei passi avvicinarsi.

Gaia fece il suo ingresso nella sala in cui mi trovavo guardandomi seria. I suoi occhi neri erano uguali a quelli di San, ma la bocca aveva una linea più dolce, meno severa. I capelli castani intrecciati le cadevano su una spalle, circondando il viso allungato. Aveva un’aria felice.

– Non ho l’onore di conoscervi – mi disse, senza traccia di gentilezza nella voce.

– No, mia signora. Sono un amico di vostro fratello, Lord San – le risposi con un sorriso, inchinando leggermente la testa.

Lei non si fece turbare: – Sono in molti a conoscere il Comandante della Guardia della Regina ma non tutti sono suoi amici. Come faccio a sapere che voi lo siete davvero? –

– Perdonatemi, avete ragione, – dissi, prendendo l’anello dalla tasca e porgendoglielo. – Questo dovrebbe dissipare i vostri dubbi. –

La donna si rigirò l’oggetto tra le dita, annuendo: – Decisamente. Bene, ditemi pure. –

– Ho bisogno di alcune lettere che San vi ha dato anni fa. Dovrebbero essere sigillate, pronte per essere spedite. –

– Sì, me le ricordo. Strano che vi mandi a dirmi di darle via. –

– Eppure è così, mia signora. È una questione di vita o di morte. –

Si vedeva che Gaia era restia, ma nonostante tutto si alzò. Probabilmente aveva intuito quanto fossero pericolose quelle lettere e quanto fossero utili a San.

– Chi avete detto di essere? – mi domandò distrattamente mentre imboccava il corridoio.

Capii che la domanda era stata posta con noncuranza apposta. Gaia doveva conoscere gli amici di suo fratello, almeno quelli abbastanza intimi da poterle fare una richiesta del genere. Sperai che San non avesse fatto come me, che avevo taciuto della sua esistenza persino ai miei amici più cari.

– Non l’ho detto. Sono Andreas. –

Gaia si girò completamente, guardandomi con attenzione. La linea severa della bocca era stata sostituita con un sorriso: – Sì, mi ha parlato di voi. So chi siete. Aspettate, vado a prendere quelle lettere. –

Sorrisi a mia volta, provando una sorta di orgoglio a essere stato riconosciuto. Orgoglio che sfumò ben presto al pensiero di che cosa era successo tra me e San.

Gaia tornò dopo pochi minuti con in mano due lettere, porgendomele.

– Grazie, mia signora. –

Presi in mano le due buste e le osservai: erano scarne, bianche e senza sigillo. Sembravano lettere normali. Sarebbe stato difficile anche solo intuire che contenessero parole tanto pericolose.

Mi inchinai e salutai, ringraziando ancora la padrona di casa. Mi diressi verso la porta di casa ma poco prima che potessi uscire Gaia mi fermò.

– Aspettate, – disse, quasi rincorrendomi. – Vi siete dimenticato questo. –

Mi prese la mano per depositarci dentro l’anello di San.

– Sono sicura che non lo rivuole indietro. Se è riuscito a separarsene vuol dire che siete davvero molto importante per lui. –

Rimasi senza parole a guardare l’onice che spiccava sul mio palmo bianco, mentre Gaia ritornava verso casa.

 

***

 

Uscii dalla città in fretta: sapevo che del tempo accordatomi da San non ne rimaneva più granché. Non passai dalle porte per evitare di essere fermato, visto che le guardie avevano iniziato a controllare e perquisire i passanti. Immaginai che la Corporazione avesse alla fine deciso di avvisare che alcuni Assassini erano accusati di diserzione, diramando le nostre descrizioni.

               Passai dai tetti come mi era stato insegnato, uscendo dalla città come avevo sempre fatto con Marcus, Mel e Jared, sbucando in una delle stalle appena fuori da Elea. Mi diressi poi tranquillamente verso il Primo Ponte, non troppo distante da me.

               Mezz’ora dopo ero arrivato e già da lontano potevo scorgere la sagoma di Marcus in attesa, affacciato sul fiume. Quando mi vide arrivare mi venne incontro.

               – Sono contento di vederti sano e salvo. Ci siamo preoccupati quando abbiamo visto le guardie controllare le porte, – disse sorridendo. – Vieni, allontaniamoci da qui. Gli altri sono poco distante. –

               – Sì, non ho avuto problemi – risposi seguendolo. Si diresse oltre il ponte per poi curvare a sinistra e proseguire lontano dalla strada. Alle nostre spalle Elea si stagliava sul mare, circondata dai campi gialli e marroni. La luce stava già svanendo.

               – Hai le lettere? – mi domandò.

               Annuii pensando a quanto mi fosse costato. Chissà dov’era San in quel momento, a cosa stava pensando. Mi rigirai l’anello d’onice che avevo messo all’anulare, contento che Gaia me l’avesse lasciato. Almeno mi era rimasto qualcosa.

               Raggiungemmo in fretta gli altri che appena mi videro saltarono in piedi. Alle loro spalle c’era un grande albero scuro, con i rami puntati al cielo come tante dita.

               – Allora? – mi venne incontro Jared che non stava più nella pelle.

               – Ho tutto – dissi, prendendo le lettere dalla tasca del mantello. Le porsi a Jared che si stava evidentemente trattenendo dallo strapparmele di mano.

               Le aprì distruggendo le buste, estraendo veloce la carta.

               Poi si schiarì la voce mentre dispiegava la prima: – Quello che devi fare è molto semplice, Lamier, – si interruppe, guardandomi. – Chi è Lamier? –

               – È il cognome di San, – gli spiegai, frettoloso. La curiosità stava prendendo il sopravvento. – Va’ avanti! –

               Jared annuì mentre riprendeva a leggere: – Quello che devi fare è molto semplice, Lamier. Andrai a Dimina in incognito, per nave. Non dovrai far sapere a nessuno che ti mando io, mantieni il segreto. Al porto di Melusine ci sarà un delegato ad aspettarti, sarà in una carrozza chiusa davanti alla banchina. Ti porterà da Lord Lacey. A palazzo mostrerai alla Lunga Mano la seconda lettera che ti darò. Organizza ogni cosa come ti ho detto: l’incidente in mare, l’ammutinamento, le ricompense con posizioni nell’esercito diminiano e la cessione a Dimina dei terreni costieri di Albis. Fai attenzione, non bisognerà in alcun modo risalire a me e a mio marito. Sono una donna di parola, Lamier: se io affondo, tu affonderai con me; se mi sarai leale avrai tutto ciò che hai sempre desiderato. Celia Moreau. –

               – Riconosco il tono amorevole di mia madre – commentò Camille, con ironia.

               Non era molto. Avevo davvero distrutto la mia unica relazione per quello? Sentii la delusione farsi strada dentro di me, insieme alla rabbia. Poi pensai che San non era uomo da lasciare nulla al caso: se aveva deciso di conservare quella lettera c’era un motivo.

               Jared intanto guardava la seconda lettera preoccupato: – Spero che qui ci sia qualcosa di meglio. –

               – Lo sapremo quando la leggeremo, – lo spronò Marcus, prendendogliela di mano. Fu il suo turno di schiarirsi la voce: – Lord William Lacey, le mando la presente con un uomo fidato. È tempo di prendere delle decisioni per rendere realtà ciò che io e sua grazia, re Alexander Auremore, abbiamo lungamente sognato: la gloria delle nostre casate sopra ogni altra. Sono però preoccupata dal fratello di mio marito, il Principe Adrien: non credo sia dell’opinione mia e del vostro sovrano. Quando sarà Re renderà vano ogni nostro sforzo. So che tra poco verrà a Dimina per un incontro con sua grazia, insieme ai suoi due figli. Non oso pensare cosa sarebbe di Viride se qualcosa capitasse loro durante la traversata. Si sa che il mare è pieno di insidie e pericoloso. Parlando d’altro credo che, in cambio dei vostri accurati e servigi, sarò più che mai lieta di concedere a Dimina ciò di cui ho più volte parlato con il vostro sovrano e con voi. Spero che, nonostante la confusione, siate riuscito a cogliere il senso delle mie parole. Mi affido alle vostre abili mani. Celia Moreau. –

               Respirai. C’era tutto in quelle lettere, si spiegava ogni cosa. Da sole non erano sufficienti per poter incriminare nessuno, ma insieme… insieme erano come una lama nel buio: letali e imprevedibili. San ci aveva consegnato la Regina su un piatto d’argento. Poi pensai che, consegnandomi quelle carte, mi aveva consegnato anche se stesso: c’era il suo nome su quei fogli, chiaro e preciso. Era implicato tanto quanto la Regina. Sarebbe davvero affondato con Celia Moreau. Se avessimo continuato nel nostro piano, sarebbe morto.

               Mi dovetti sedere, sentivo il cuore rimbombarmi nelle orecchie. Come avevo fatto a non capirlo prima? Come avevo fatto a credere che San non avesse mai smascherato la Regina solo per il proprio tornaconto personale? La verità era che era ingabbiato, irrimediabilmente. Aveva messo la sua vita nelle mani di quella donna per un errore di gioventù e la speranza in una vita migliore. Era intrappolato.

               Aveva firmato la sua condanna a morte.

E io sarei stato il boia.

 

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Capitolo 14
*** XIV ***


CAPITOLO XIV
 
CAMILLE
 
Avevamo scoperto quello che ci serviva su mia madre, ma la nostra situazione era tutto tranne che facile. Eravamo ancora fermi poco lontano dal Primo Ponte e, mentre Marcus, Mel e Jared guardavano le lettere che avevano tra le mani come se avessero trovato un tesoro, io guardavo Andreas e riflettevo. Il mio amico era annientato, seduto con lo sguardo fisso nel vuoto. Si doveva essere reso conto di quanto quei fogli compromettessero San.
              Strappai le lettere dalle mani di Marcus, rileggendole rapidamente mentre mi lasciavo cadere sul suolo gelato. Avevamo in pugno Celia e avevamo le prove della sua colpevolezza. Ero quasi incredula, mi aspettavo che quei fogli potessero sparire per magia dalle mie mani. Non potevamo però presentarci a Palazzo come se nulla fosse, sventolando le lettere e urlando ai quattro venti le nostre scoperte: nessuno ci avrebbe creduto. Avevamo bisogno di stabilire il prossimo passo, in fretta.
              – Ragazzi… – mormorai a voce bassa. Nessuno mi sentì visto che i tre Assassini continuavano a parlare tra loro, entusiasti della loro scoperta.
              Mi schiarii la voce e riprovai: – Ragazzi, calmatevi un attimo. –
              Marcus mi guardò infervorato: – Perché? Non abbiamo tutto quello che ci serviva? –
              – Non so, – rispose Andreas acido, dando voce ai miei pensieri. – Pretendi di entrare a Palazzo Reale e sederti sul trono così, solo con quelle lettere? –
              – Ovviamente no, per chi mi hai preso? Però devi riconoscere anche tu che rispetto a quello che avevamo prima è un bel passo avanti – rispose Marcus.
Nonostante le parole dure il risultato fu un rimbrotto bonario, fatto senza cattiveria.
– Cosa proponi? – domandò Jared guardando l’amico seduto per terra.
Andreas per tutta risposta si girò verso di me: – Hai idee? Io non ho voglia di pensarci. –
Annuii in silenzio. Potevo più o meno immaginare cosa stesse girando nella testa dell’Assassino in quel momento, di sicuro i suoi pensieri non ruotavano tutti attorno a me.
– Non è così facile, – mormorai, cercando di fare chiarezza nella mia testa. – La politica di Viride è più complessa di come potrebbe apparire. Per non parlare del fatto che la Regina ha un esercito pronto alla guerra, mentre noi siamo cinque. In questo momento, anche se avessimo tutte le prove del mondo, non abbiamo speranze. –
– Va bene, – mi rispose Mel sedendosi di fronte a me. – Parlaci di come funziona Viride. Qualcosa sappiamo, ma di sicuro sei più informata di noi. –
– Sapete quanto me che c’è il Re a governare, aiutato dal Consiglio dei Trenta. Questo gruppo di nobili può proporre leggi o linee d’azione al sovrano, a cui comunque rimane il potere di rifiutare o accettare le proposte. Chiunque voglia domandare o proporre qualcosa al Re deve farlo tramite un membro del Consiglio che appoggi la sua richiesta, altrimenti la proposta non viene presa neanche in considerazione. Se tutti i trenta nobili si mettono d’accordo -cosa che, vi assicuro, è un fenomeno più unico che raro- allora hanno il potere di costringere il sovrano ad accettare la loro decisione, possono obbligarlo persino ad abdicare in favore di un altro membro della famiglia reale. –
– Sì, mi ricordavo qualcosa del genere dalle lezioni alla Confraternita, – borbottò Marcus. – Ma tanto tutti i consiglieri saranno sul libro paga della Regina. –
Feci una risatina amara: – Non è una novità del momento, fidati. Per assicurarsi di poter governare, ogni sovrano di Viride ha sempre pagato il Consiglio. –
– Bella roba, – sbottò Mel. – Siamo governati da un branco di corrotti. –
Annuii: – È il prezzo da pagare per poter amministrare il regno, altrimenti ci sarebbe un succedersi continuo di sovrani incapaci di fare alcunché. Questo però ci porta al nostro principale problema: come fare a schierare il Consiglio dei Trenta, per intero, dalla nostra parte? –
– Conosci qualche consigliere? – mi domandò Marcus.
– Uno o due sì, e sufficientemente bene da potermi azzardare a contattarli per un colloquio privato. Ma non mi fiderei mai di loro, per nessuno motivo. Si tratta comunque di una goccia nel mare: potrebbero sì sostenere e presentare la mia richiesta al Consiglio, ma da soli non basterebbero per farmi salire al trono. –
– Abbiamo le lettere però, – mi bloccò Jared. – Serviranno pur a qualcosa. –
Marcus sembrò illuminarsi: – Le lettere! – esclamò girandosi verso di me. – Dammele un attimo. –
Gli porsi i fogli che ancora erano stretti nelle mie mani, guardandolo per un secondo mentre muoveva rapido gli occhi sulle righe scritte da San.
Riportai la mia attenzione su Jared: – Sì, immagino di sì. Sono sicura che molti nobili del Consiglio sarebbero sinceramente sconvolti dall’apprendere la verità sulla morte del principe Adrien. Sono anche sicura, però, che alcuni sono a conoscenza del piano della Regina: Lord Arand ha cercato di uccidermi, anni fa. Non mi sembra il tipo da farsi turbare dall’omicidio di un membro della famiglia reale. –
– In effetti… –
– Abbiamo bisogno di aiuto in tutto questo, – concluse Andreas per me. – Noi cinque non possiamo bastare. –
              Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, meditando su quello che avevamo detto in quei pochi minuti. Dovevamo capire quale potesse essere la prossima mossa. Mi sarebbe immensamente piaciuto poter entrare a Elea e, forte del potere delle lettere, tirare giù a viva forza mia madre dal trono, salvare la mia famiglia e donare al regno un po’ di pace. Purtroppo la questione non era così semplice.
              Fu Marcus a rompere il silenzio: – Che ne dite di un esercito? –
              – Ne avevi uno con te e ce l’hai tenuto nascosto? – lo prese in giro Jared. – Complimenti, bell’amico. –
              Marcus semplicemente lo ignorò: – Non abbiamo pensato al fatto che la guerra che si sta preparando si scatenerà contro i Regni del Sud. Immagino che non sarebbero contenti di sapere che Dimina e Viride si sono alleate tra loro alle loro spalle. –
              – Immagino di no, – commentai lieve, con un ghigno che affiorava leggero sul mio viso. – Cosa proponi? –
              – Propongo di andare a Sud e farci ricevere dai sovrani di quelle terre. Se riusciamo a convincerli che abbiamo ragione, che ciò che diciamo è vero, allora sarà nel loro interesse aiutarci. –
              – Il nemico del mio nemico è mio amico – mormorò Jared.
              – Qualcosa del genere – sogghignò Marcus.
              Poteva funzionare. Con l’esercito del sud avrei potuto davvero costringere mia madre ad abdicare e a lasciare il trono. Forse non eravamo poi così senza speranza come avevo pensato, forse in fondo una possibilità c’era.
              – Io inizierei da Albis, – stava continuando Marcus. – È l’unico tra i Paesi del Sud che viene espressamente citato nelle lettere di San. Una volta convinta la Regina, allora potrà intercedere lei presso Cesia e Semele. –
              – Non si dice poi granché sulla guerra in quelle carte, però – commentò Andreas, un po’ più interessato.
              – No, è vero. Ma questo, – rispose Marcus indicando la ceralacca blu con il simbolo del cigno. – È il sigillo della Regina. Si parla di re Alexander Auremore, di una ricompensa, di territori di Albis. Ce n’è abbastanza da far preoccupare, direi. –
              – Dobbiamo riuscire a farci ricevere a corte ad Albis. Da lì poi sarà tutto in discesa, – commentò Mel. – Non sarà così facile. –
              – Beh, – mi intromisi, lieta di poter essere d’aiuto. – Sono la Principessa di Viride. Varrà pur qualcosa. –
              Marcus mi sorrise: – In effetti credo di sì. –
              – Bene, – dissi, rivolta verso l’Assassino. – Sembra che riuscirai a esaudire il tuo desiderio: visiterai Egalia, la Regina del Deserto. –

***
 
Cavalcammo di notte, in mezzo alle campagne gelate e tra foreste nere, cercando di evitare le strade. Aspettammo distanti dal Primo Ponte, tenendolo d’occhio da lontano: un’ora dopo che Andreas ci aveva raggiunto, un gruppo di soldati a cavallo passò di gran carriera sulla strada. A quanto pareva, Lord San ci aveva davvero denunciato alla guarnigione.
              Partimmo di notte, avvolti nei mantelli, allontanandoci dalla strada portando i cavalli a mano. Faceva un freddo incredibile, il nostro fiato si congelava davanti ai nostri visi. Ero tutta avvolta nel mantello, cercando di trattenere più calore possibile. Quando arrivammo in aperta campagna montammo in sella e galoppammo per ore, con poche pause per far riposare le nostre cavalcature e stendere i muscoli. Ci fermammo solo all’alba, nascosti, facendo dei turni di guardia.
              Viaggiammo a lungo. Non pensavo che il confine potesse essere così lontano, anche se sapevo benissimo che Elea si trovava a nord del regno di Viride. Per tre notti cavalcammo verso sud-ovest, veloci e silenziosi, evitando strade e sentieri. Immaginai che se ci fossimo mossi sulla Strada Reale avremmo impiegato molto meno tempo per raggiungere Albis, ma malauguratamente ogni soldato di Viride era stato messo in allarme e ci cercava.
              Il quarto giorno di viaggio, mentre stavamo riposando nascosti in una macchia d’alberi, alcuni uomini con le divise della guarnigione di Elea si fermarono poco distanti da noi. Jared, che in quel momento era di guardia, ci svegliò silenziosamente. Dopo qualche istante i nostri avversari erano morti per terra mentre noi stavamo cavalcando verso a sud, vestiti di tutto punto con le loro armature.
              Il confine si presentò davanti a noi al sesto giorno, poche ore prima del sorgere del sole. Il panorama attorno a noi era cambiato rispetto a quello che si poteva osservare a Elea: gli alti alberi scuri e imponenti tipici del nord di Viride avevano lasciato il posto a una vegetazione più bassa e contorta, segnata dal vento che batteva quelle zone. Il terreno da nero e marrone era diventato ocra e grigio, e l’argilla del suolo formava pantani dove quella poca neve che era caduta aveva iniziato a sciogliersi.
              Da ormai un secolo esisteva il Patto, un grande trattato di non belligeranza che coinvolgeva i Cinque Regni, quindi non mi stupii di non trovare guardie sul confine. Poco distanti da noi si ergeva ancora una delle grandi torri di guardia che un tempo venivano utilizzate per la sorveglianza, ma che ormai erano completamente in disuso e abbandonate.
              Continuammo a viaggiare nei territori di Albis diretti verso Arcis, cittadina di passaggio al limitare del deserto, nel mezzo del quale si trovava Egalia. Ancora il panorama cambiò e ci sembrò di esserci lasciati definitivamente alle spalle l’inverno che imperversava su Dimina e Viride. I colori predominanti erano diventati il rosso, l’ocra, l’arancione e il giallo, intervallati solo raramente da qualche chiazza di verde.
              Arcis era una città piccola, che aveva acquistato importanza perché era l’ultima tappa prima di penetrare nel grande deserto. Lì cedemmo i nostri cavalli con alcuni più abituatu al clima del deserto e comprammo acqua, viveri e vestiti più leggeri per sostituire i nostri di lana.
              All’alba del dodicesimo giorno dalla nostra partenza da Elea stavamo entrando nel Grande Deserto, seguendo la carovana di gente diretta verso la capitale. Egalia distava altri tre giorni da Arcis e le nostre soste erano programmate. Tra le due città c’erano alcune oasi, tappa obbligata per dissetare i nostri cavalli e rifornirci d’acqua.
              Marcus si guardava attorno con gli occhi spalancati come quelli dei bambini. Osservava la sabbia, le dune gialle, il cielo azzurro come se potesse non stufarsi mai di quel panorama. In più si vedeva che si stava godendo il caldo, a differenza mia che boccheggiavo come un pesce fuor d’acqua. Durante il tragitto fino ad Arcis il sole mi aveva già ustionato la pelle, rendendola rossa e facendomi spuntare un esercito di lentiggini.
              – Potrei vivere qui per sempre – stava giusto dicendo l’Assassino a Jared, coperto dalla testa ai piedi di tessuto leggero. Anche lui, come me, pativa il sole.
              – Io no, – commentò questo, scocciato. – Non pensavo di poterlo dire, ma mi manca l’inverno di Elea. Come faranno qui d’estate? –
              Un uomo di Albis, che procedeva su un dromedario bianco e altissimo, rise alle parole di Jared: – Oggi non è particolarmente caldo, – disse nella nostra lingua, con forte accento. – L’estate è molto peggio, ci sono stati anni in cui anche solo pensare di arrivare da Arcis a Egalia passando dal deserto era impossibile, rendendo la capitale tagliata fuori dal resto del regno. Ma appena cadrà la notte vedrete che la temperatura si abbasserà, e anche di molto. –
              Marcus ammiccò a Jared: – Ritieniti fortunato allora. –
              L’Assassino sbuffò, tornando a guardare davanti a sé.
              Mi presi qualche istante per osservare meglio l’uomo che marciava di fianco a noi. Sedeva a gambe incrociate sulla gobba della sua cavalcatura, tenendo mollemente in mano le redini. Era coperto di vestiti azzurri che esaltavano lo scuro della sua carnagione, mentre in testa aveva un turbante rossastro. Si guardava intorno rilassato e ogni tanto una mano saliva ad attorcigliarsi la barba nera, che gli circondava il volto.
              – Avete fatto questa strada molte volte? – gli domandai, incuriosita. Erano in molti a fare il percorso con noi fino a Egalia, ma nessuno sembrava tranquillo quanto l’uomo vicino a noi.
              – Molte volte, sì, – mi rispose quello, sorridendo. Aveva una bella voce profonda. – Ho molti amici e affari da mantenere, a Egalia. In più è una bellissima città. Voi l’avete mai visitata? –
              – Mai, è la prima volta. –
              – Rimarrete stupiti. Non ho mai visto, in nessun regno, qualcosa che possa reggere il confronto. E dire che ho viaggiato tanto! –
              – Non vedo l’ora – mormorò Marcus di fianco a me, guardando verso il deserto con un sorriso sulle labbra.
             
***
 
Entrammo a Egalia dopo tre giorni nel deserto e devo ammettere che quell’uomo aveva ragione: non avevo mai visto niente di simile. La capitale di Albis era costruita in pietra bianca, splendente e feroce sotto la luce del sole. Le case erano basse, le strade piccole e tortuose e la città si avviluppava su alcuni rilievi montuosi. La sabbia per terra cedette il posto a pietre rosate e candide, tagliate rozzamente.
Egalia sorgeva su una falda acquifera imponente, che permetteva la sopravvivenza della città. In ogni angolo c’erano fontane di vetro, con l’acqua che zampillava allegra da statue e monumenti. Piante verdi e rigogliose si avviluppavano sulle pareti delle case, puntando verso il cielo e contornandone gli infissi colorati.
Le strade erano in salita, si attorcigliavano sui fianchi delle montagne. Ovunque si vedevano uomini e donne che camminavano indaffarati, vestiti con abiti colorati e turbanti. Alcuni erano a cavallo, altri portavano a mano cammelli e dromedari.
– Andiamo direttamente verso il Palazzo? – domandai ad Andreas, accanto a me. Mi sembrava più tranquillo rispetto a quando avevamo iniziato il nostro viaggio, anche se continuava a essere piuttosto taciturno. Avrei tanto voluto poterlo aiutare.
Andreas non mi sentì immerso com’era nei suoi pensieri, continuando a guardare tra le orecchie del suo cavallo.
Abbassai la voce: – Andreas, è facilmente intuibile quello che ti turba. Posso fare qualcosa? –
Per la prima volta Andreas mi guardò negli occhi e il riflesso del sole rendeva ancora più chiare le sue iridi color dell’ambra: – Forse sì. Camille, mi prometteresti una cosa? –
– Quello che vuoi. –
– Se riuscirai a prenderti il trono, non vendicarti di San. Esilialo se devi, ma non ucciderlo. –
– Non morirà per ordine mio, te lo prometto – risposi, sorridendo. Se quella era l’unica richiesta di Andreas l’avrei soddisfatta con piacere: in cambio di tutto quello che lui aveva fatto e continuava a fare per me, era ben poca cosa.
– Grazie, Camille. –
– Figurati, – ero felice di poterlo aiutare in qualche modo. – E Andreas… – lo richiamai, mentre si stava già allontanando da me.
– Dimmi. –
– San ti ama. Non è qualcosa che possa scomparire in un istante. –
Andreas fece una smorfia triste, poi andò ad affiancarsi a Mel, che cavalcava in testa al nostro piccolo gruppo.
Rallentai il mio cavallo fino a raggiungere Marcus, che continuava a muovere la testa a destra e sinistra talmente velocemente che pensai che gli si potesse staccare dal collo. Jared, di fianco a lui, non era da meno.
– Ma allora anche a te piace questa città, Jared! – esultai, facendolo sobbalzare.
Jared si produsse in un borbottio sommesso: – Sì, certo, certo. Cosa pensavi? –
Notai che era arrossito leggermente. Guardai Marcus con aria interrogativa e l’Assassino, ridacchiando, mi indicò la gente che camminava sulla strada: – Jared stava, come dire, apprezzando le bellezze locali. –
– Ah – ridacchiai, guardandomi in giro. In effetti, le donne di Albis erano bellissime. La pelle scura era coperta da tessuti leggerissimi e sottili, colorati e sgargianti. I capi erano coperti da scialli chiari, ingioiellati e ricamati. Erano quasi tutte alte, slanciate, e camminavano tranquille da sole o con i loro compagni.
– Comunque, andiamo diretti a Palazzo Reale o ci fermiamo da qualche parte prima? – domandai di nuovo a Marcus, visto che prima ero stata ignorata da Andreas.
– Direi di fermarci da qualche parte e aspettare domani. Oggi è tardi, abbiamo viaggiato per giorni. Mi sembra che ci meritiamo un po’ di riposo. –
Annuii, poi Marcus si portò due dita alla bocca e fischiò.
– Ma sei deficiente? – esplose Jared di fianco a lui, portandosi una mano all’orecchio. Marcus ci aveva assordati, ma la sua manovra aveva funzionato: Andreas e Mel, davanti a noi di una decina di metri, si erano fermati.
– Bene, – esordii, fermando il cavallo. – C’è bisogno che troviamo un posto dove dormire e riposarci, in vista di domani. –
– Mi sembra un’ottima idea, – rispose Mel, stirandosi la schiena. – Non vedo l’ora di sgranchirmi un po’ le gambe e mangiare qualcosa che non sia cosparso di sabbia. –
– Allora bando alle ciance e mettiamoci in marcia – continuò Jared, dirigendo il suo cavallo in una viuzza laterale, tagliando la folla.
 
***
 
La mattina dopo mi svegliai attorcigliata dentro alle lenzuola, ma tutto sommato riposata. Ad Albis le donne godevano di molta più considerazione che negli altri paesi, quindi non avevamo avuto difficoltà a trovare una locanda che avesse una camerata femminile, dove avevo potuto prendere un letto. C’era stato andirivieni per tutta la notte ma, vista la mia stanchezza, questo non mi aveva impedito di dormire.
              Uscii dalla stanza e mi ritrovai davanti i quattro gli Assassini vestiti di tutto punto e, almeno a prima vista, freschi e riposati come delle rose.
              – ‘Giorno Camille. Dormito bene? – mi accolse Jared, i cui capelli argentei sembravano ancora più chiari contro la tunica blu.
              – Perfettamente. E voi? Vi vedo riposati. –
              – Abbastanza, sì, – mi rispose Mel, laconico come sempre. – Andiamo? –
              Annuii e uscimmo dalla locanda. Questa era più che altro un dormitorio di passaggio, utilizzato dai viaggiatori che non volevano o non potevano permettersi un domicilio più comodo. Noi, dal canto nostro, sapevamo benissimo che, se non avessimo convinto la Regina di Albis a schierarsi dalla nostra parte, avremmo dovuto muoverci negli altri Paesi del Sud per cercare aiuto. La nostra non era una situazione facile: Albis era il regno che più facilmente avrebbe accettato le nostre richieste. Se ci avesse rifiutato molto probabilmente lo avrebbero fatto anche Cesia e Semele e noi avremmo dovuto inventarci qualcos’altro.
              – Cosa dobbiamo aspettarci oggi? – domandò Jared, guardando Mel. L’Assassino biondo era flemmatico come al solito, camminando rilassato per le strade di Albis mentre ci dirigevamo verso il Palazzo Reale.
              – Albis è governata dalla dinastia degli Elvere, che sono al trono da più di duecento anni. A differenza degli altri regni, il trono passa di madre in figlia. La Regina oggi terrà corte e, se siamo fortunati, ci verrà data l’opportunità di presentare la nostra richiesta. Altrimenti dovremo tornare. –
              – Chi parlerà tra noi? –
              – Io direi Camille, – si introdusse Andreas. – È lei quella che sta chiedendo aiuto, ed è sempre lei la Principessa di Viride. Dovrebbe venire trattata da pari. –
              – Sempre se mi riconosce – borbottai. Quella era la mia più grande paura: che la Regina decidesse che ero solo un’impostora, desiderosa di seminare zizzania tra i regni per impadronirmi del trono. Mi ricordavo di averla vista una volta a corte, a Viride, molto tempo fa, ma non era detto che si ricordasse di una bimbetta che sgambettava serena vicino al Re. In più poteva decidere di non credermi, di imprigionarmi, di rimandarmi da mia madre… gli scenari possibili erano molteplici. Sentii l’ansia, che fino a quel momento ero riuscita a tenere sotto controllo, invadermi lo stomaco.
              – Cosa sai della Regina, Camille? – mi domandò Marcus, sommesso.
              – Non molto a dir la verità. So che Vanessa Elvere è una sovrana giusta e molto amata. Governa ormai da quindici anni, è salita al trono quando ne aveva venti e, nonostante i pronostici, è riuscita sia a farsi apprezzare dai sostenitori che a farsi temere dai suoi nemici. La chiamano il Cigno Nero per la sua bellezza, che è famosa in tutto il mondo. –
              – È sposata? – mi chiese Andreas, incuriosito. Un sistema di governo come quello di Albis era in effetti inusuale per noi viridiani.
              Prima che potessi rispondere, Mel mi precedette: – Sì, e ha tre figli. Ma non è il marito che dobbiamo cercare di convincere. –
              – No, direi di no, – commentai. – È solo lei che decide. –
              Continuando a parlare della regina Vanessa arrivammo fino all’ingresso del Palazzo Reale di Albis: più o meno a metà di una lunga e tortuosa scalinata che si attorcigliava su per la montagna, si stagliava un ampio arco di pietra bianca. Due enormi leoni scavati nella pietra sorvegliavano il passaggio, con le fauci spalancate e i denti in mostra.
              – Discreti… – borbottò a mezza voce Jared passando tra le statue.
              – Si dice che i leoni siano capaci di percepire le emozioni e le idee. Secondo la leggenda se qualcuno che vuole far del male alla Regina e alla sua famiglia passa la porta verrà sbranato dalle belve di pietra – Mel aveva lo sguardo fisso davanti a sé mentre parlava, concentrato sui gradini.
              – Qualcosa mi dice che non è mai successo – commentò Marcus.
              – No, mai, – mi introdussi, approfittandone per fermarmi e prendere fiato. Quei gradini mi stavano distruggendo. – Però è il motivo per cui le guardie del Palazzo sono chiamate Fiere. –
              Marcus si girò porgendomi la mano: – Dai Camille, arriviamo fino in cima. –
              Sospirai e mi affiancai a Marcus, ignorando il suo braccio teso verso di me. Finsi di non sentire il suo sguardo puntato sulla mia schiena mentre lo superavo. Cercare di mantenere la decisione che avevo preso giorni prima a Viride diventava di momento in momento più difficile. Erano sempre più le volte in cui mi sorprendevo a fissare Marcus, lasciando correre i pensieri. Anche in quel momento avrei dato qualsiasi cosa per potergli dire quello che provavo. Scossi la testa scacciando quell’idea, affrontando a testa bassa i gradini.
              La scalinata sembrava non finire mai. Mi tirai su i capelli in una crocchia disordinata, sciogliendo la treccia e dando un po’ di respiro alla mia nuca. Sotto di noi la città si avvolgeva come un grosso serpente bianco e addormentato, era quasi impossibile guardarla senza rimanere accecati.
              Dopo altre innumerevoli rampe di scale davanti a noi comparì un alto portone, in legno nero, spalancato. Ai due lati due guardie, alte, impettite e immobili, puntavano le loro lance verso il cielo. I loro elmi ricordavano la criniera di un leone e i loro vestiti erano color dell’oro.
              L’enorme sala in cui ci trovavamo era fresca, in leggera penombra. Le ampie finestre erano coperte con drappeggi di tessuti chiari, che lasciavano entrare poca luce. Il pavimento era di legno pregiato, con tasselli di madreperla e di avorio. Le pareti erano ricoperte di mattonelle piccole e chiare, che componevano disegni e raccontavano la storia del paese.
              Ero a bocca aperta: il Palazzo di Elea è sempre stato bellissimo per me, ma quello… era quanto di più bello avessi mai visto.
              – Non ho mai visto niente di simile – Andreas stava rimirando l’ingresso del palazzo con occhi spalancati. Si avvicinò a una delle pareti, percorrendo con un dito le mattonelle e seguendone i contorni.
              Alla fine della sala c’era un’altra porta, chiusa. Era di legno scuro, a riquadri incisi. Due guardie urlarono qualcosa nella lingua di Albis, poi la spalancarono, facendo passare tutti coloro che chiedevano udienza alla Regina.
              Nella sala del trono ogni cosa era splendente. Era una stanza quadrata, vastissima, illuminata dalla luce che passava dalle finestre che qui non erano coperte e non avevano i vetri. Su un lato si stagliavano delle colonne che reggevano il soffitto alto, permettendo ai visitatori il passaggio attraverso un giardino verde e rigoglioso. I pavimenti erano di mattonelle chiarissime, con dei complicati disegni geometrici ocra e celesti. Le pareti, il soffitto, erano bianchi accecanti e ricoperti di incisioni, come se qualcuno le avesse ricamate piuttosto che scolpite. Contro la parete rivolta a est c’era una pedana con sopra due troni alti e scolpiti in blocchi di granito.
              La regina Vanessa Elvere sedeva sullo scranno di destra, regale e magnifica nel suo abito arancione. La sua pelle scura, quasi nera e senza imperfezioni, era messa in risalto dal candore della sala. Aveva le braccia poggiate elegantemente sui braccioli e sulla testa brillava una corona d’oro giallo. Gli occhi neri zigzagavano sulla folla che c’era nella sala, osservando ogni dettaglio. Il marito, re Julian Odisse, le era seduto di fianco. Era altrettanto regale, anche se il suo viso era meno tirato di quello della Regina, meno preoccupato. Aveva un’aria gentile, così strana da vedere sul volto di un sovrano. Dietro di loro c’erano le Fiere, che sorvegliavano ogni cosa scrutando la folla dalle fessure degli elmi.
              Una donna era in piedi di fianco alla sovrana, leggermente scostata e con le mani intrecciate dietro la schiena.
              Marcus mi si avvicinò, mormorandomi all’orecchio: – Lei è la Prima, l’aiutante della Regina. La supporta nel governo del regno, è praticamente un Lord Lacey in gonnella. –
              Repressi una smorfia al pensiero della Lunga Mano di Dimina. Chissà se avevano trovato il suo corpo.
              Poi la donna si mise a parlare nella lingua musicale di Albis, iniziando i colloqui e distraendomi dai miei pensieri. L’ansia che sembrava essersi ritirata per qualche attimo mi riprese prepotente lo stomaco: da un lato non vedevo l’ora di finire quell’agonia e parlare con la Regina, capendo finalmente che cosa avrei dovuto fare; dall’altra, speravo di venire rimandata indietro con la richiesta di tornare un altro giorno.
              – Tu capisci quello che dicono? – domandai all’Assassino di fianco a me, quasi sussurrandogli all’orecchio per paura di disturbare. Il suo profumo mi colpì le narici: nonostante il caldo aveva un buon odore.
              – Sì, abbastanza da capire che staremo qui per molto – Marcus guardava accigliato la pedana su cui si ergevano i troni.
              Aveva ragione. Aspettammo per ore, osservando la Regina giudicare, prendere alcune decisioni e rimandarne altre. Se era estenuante per noi, non osavo immaginare cosa potesse essere per la sovrana, seduta al caldo senza potersi alzare per tutto quel tempo. Alcuni servi le portarono acqua e frutta, per permetterle di sfamarsi e dissetarsi mentre la folla nella sala del trono diminuiva lentamente.
              Stavo iniziando a rilassarmi al pensiero che saremmo dovuti tornare un altro giorno quando la Prima mi chiamò.
              Non capii quello che mi disse, ma ebbi abbastanza prontezza per farmi avanti nello spiazzo che si era creato tra la gente, incedendo con passo tranquillo. Davanti a me la Regina mi guardava annoiata. Mi fu mormorato qualcosa che non compresi, mentre attorno a me alcuni mormorii scuotevano la folla. A differenza di tutti quelli che mi avevano preceduta non mi ero inginocchiata.
              La Prima allora mi parlò nella mia lingua: – Porta rispetto e inginocchiati davanti alla regina Vanessa e a re Julian! –
              – Rispetto la vostra sovrana e ciò che rappresenta, ma non mi inginocchierò. –
              Vidi la bocca della Prima fremere per la rabbia, mentre latrava alcuni secchi ordini alle guardie dietro di lei. Una delle Fiere si mosse in avanti, con la lancia in pugno. La guardai con quello che speravo essere uno sguardo sprezzante mentre si avvicinava, ma in verità ero terrorizzata. Avrebbe potuto uccidermi per quella insolenza? Sentii una distinta goccia di sudore farsi strada sulla mia schiena.
              La guardia arrivò di fianco a me e alzò la lancia. Rimasi immobile senza guardarla, gli occhi fissi sul volto della Regina che aveva iniziato ad osservarmi con curiosità. Poco prima che la Fiera calasse la sua arma su di me, Vanessa Elvere mormorò qualche parola. Non riuscii a trattenere un sospiro di sollievo mentre la guardia si inchinava rigida e tornava al suo posto. Rimasi in silenzio mentre la Regina mi scrutava, attenta.
              – Potrei farti frustare per la tua insolenza – mi disse infine, severa, nella mia lingua. Aveva un forte accento e zoppicava su alcune parole, ma capivo bene quello che dicevo.
              Inchinai il capo, conscia di stare rischiando molto: – Sarebbe un vostro diritto, Vostra Altezza, ma così non saprete mai cosa ho da darvi. –
              – E cos’hai da darmi, bambina? – la Regina sembrava scettica, come se non credesse che una come me potesse avere qualcosa che le servisse.
              – Notizie da Viride. –
              Il Re sbuffò. Era la seconda volta in tutta la mattina che lo sentivo parlare: – Abbiamo già un ambasciatore dei Coverano – poi si rivolse alla moglie, parlandole rapido nella loro lingua. La Regina annuì alle parole del marito, poi tornò a fissarmi. Capii che avevo solo più poco tempo per convincerli ad ascoltarmi.
              – Quello che so non è qualcosa che può essere detto da un ambasciatore. Porto notizie di guerra. –
              Re Julian sbuffò, spalancando le braccia: – C’è il Patto, non ci sarà nessuna guerra, – poi tornò a guardare la regina Vanessa. – Moglie mia, manda via dalla nostra corte questa pazza. Incorreremo nell’ira dei Coverano solo per averla ascoltata, senza contare che… –
              La sovrana bloccò il marito con un gesto secco della mano, facendolo tacere all’istante: – L’ira dei Coverano non è affar mio, – poi tornò a rivolgersi a me, sporgendosi dal trono e assottigliando gli occhi. – Chi sei tu? –
              Presi un profondo sospiro, deglutendo. Sentivo l’aria attorno a me rimbombare: – Sono la principessa Camille Coverano. –
              Sentii la Prima sgranare gli occhi e scoppiare in una risata acuta, alta. Re Julian alzò gli occhi al cielo, sbattendo la mano sul bracciolo del trono e scuotendo la testa. I miei occhi però erano solo per la regina Vanessa. Mi stava scrutando dall’alto, il suo viso era una maschera imperscrutabile. Si alzò dal trono, scendendo lenta i pochi gradini della piattaforma reale mentre tutta la gente nella sala si inginocchiava.
              Rimasi in piedi, immobile, guardando la sovrana con quella che speravo essere un’aria serena, nascondendo l’ansia che era dentro di me. La Regina si fermò davanti a me, guardando attentamente il mio viso. Era più alta di me e mi guardava dall’alto al basso, seria. Nei suoi occhi neri contornati da lunghe ciglia potevo vedere il mio riflesso. Mi resi improvvisamente conto di come dovevo sembrare: spettinata, smagrita, pallida e vestita male, non avevo quello che viene definito aspetto regale. Nonostante ciò non abbassai lo sguardo, nemmeno per un secondo.
              La Regina aggrottò le sopracciglia e prese con la mano la catenella che portavo al collo, facendosi scorrere il ciondolo in mano, osservandolo con attenzione. Ho sempre portato quella collana, sin da quando ne ho memoria: è una semplice stella a otto punte, verde e argento, grossa quanto una moneta. Veniva regalata dal sovrano alla nascita di ogni nuovo principe di Viride, era l’ultima cosa che mi rimaneva di mio padre.
              Vanessa Elvere lasciò cadere la collana per poi annuire leggermente e mormorare, a stento udibile: – Qualsiasi cosa io dica, aspetta qui la fine dei colloqui. –
              Prima che potessi rispondere o ribattere la Regina mi diede le spalle, ritornando al trono e sedendosi elegante.
              – Ragazzina, non prenderò in considerazione la tua richiesta, – disse, severa. – Non c’è niente che mi dimostri che tu sia chi dici di essere. Non metterò a rischio un secolo di pace per ascoltare una sconosciuta. –
              Cercai di ribattere, capendo che la Regina si aspettava quello da me: – Ma… –
              – No, non ascolterò oltre, – mi bloccò, sbattendo forte la mano sulla pietra. – Se non vuoi essere imprigionata, cessa questa follia. –
              Mi inchinai rigida, per poi tornare tra la folla nella sala, lasciando spazio a chi stava dopo di me. Solo quando fui al fianco di Marcus lasciai andare un respiro di sollievo.
              – Cosa ti ha detto? –
              Mi guardai attorno prima di rispondere, mormorando a mezza voce: – Mi ha detto di aspettare qui. –
              – Sei stata brava – mi sorrise, mettendomi una mano sulla spalla.
              L’ansia che mi stringeva lo stomaco si era liberata di colpo, permettendomi di respirare. Quasi mi girava la testa per il sollievo. Mi voltai a guardare Marcus, perdendomi per un secondo nei suoi occhi neri, sfiorando con le labbra la sua mano: – Grazie. –
              Le dita di Marcus corsero sulla mia guancia: – Camille, io… –
              – Quindi? Che si fa? – ci interruppe Jared, sbucando di soppiatto alle nostre spalle. Marcus ritrasse la mano di colpo, come se si fosse ustionato. Sentii le mie guance infiammarsi.
              – Aspettiamo – risposi, guardando la Regina che congedava l’ennesimo postulante.
              Dopo ore, nonostante la folla nella sala del trono non avesse accennato a diminuire rimpinguata com’era di continui nuovi arrivi, la Regina si alzò e si congedò, lasciando la Prima a liberare il Palazzo da tutti quegli ospiti. La donna scese dalla piattaforma, passandomi vicino e facendomi rapida cenno di aspettare. Tenni vicino a me i miei amici mentre le Fiere si facevano avanti silenziose, respingendo la gente e passando attorno a noi come acqua che circonda gli scogli.
              Quando le porte della sala furono finalmente chiuse, la Prima mi si avvicinò. Aveva una smorfia sul viso, si vedeva che non era per niente contenta della decisione della sua sovrana. Mi abbaiò contro qualche parola nella sua lingua per poi allontanarsi rapida, con i sandali che mandavano ticchettii acuti battendo sul pavimento di legno.
              Mi girai verso gli Assassini: – Che ha detto? –
              – Che tornerà a prenderti tra poco – mi rispose Andreas, mentre osservava accigliato la porta da cui la Prima era sparita.
              – Aspetteremo ancora per molto, temo, – esalò Jared, incamminandosi verso il giardino. La luce del sole delle tre faceva risplendere il verde dell’erba. – Tanto vale che ci mettiamo comodi. –
              – Non hai tutti i torti – commentai, seguendolo. Puntai subito delle comode sedie sotto un pergolato di quelli che sembravano glicini, sedendomi rapida imitata da tutti gli altri.
              Eravamo ancora lì a chiacchierare quando la Prima spuntò di fianco a me, come se fosse comparsa dal nulla. Sembrava essere ancora più irritata di prima.
              – La Regina vuole vedervi. Seguitemi. –
              Non commentai l’improvviso cambio di lingua della donna ma mi alzai, sistemandomi gli abiti. La Prima era già praticamente nella sala del trono e fu costretta a fermarsi per aspettarmi, sbattendo un piede per terra. Mi feci consegnare le lettere da Jared e seguii la consigliera della Regina, sperando che non mi conducesse nelle prigioni.
              Rimasi in silenzio per tutto il percorso all’interno del Palazzo, non riuscendo però a trattenere lo stupore mentre ammiravo la sua bellezza. Sale di ogni tipo e arredate in centinaia di modi diversi si susseguivano una dietro l’altra, in una serie infinita. Quando arrivammo alle stanze della Regina ero persino triste che quella breve visita fosse già terminata.
              La Prima mi aprì la porta e mi fece segno di entrare, richiudendomela subito alle spalle. Davanti a me si apriva uno studio ottagonale, illuminato dalla luce del giorno. Lo stile era simile a quello della sala del trono, ma qui prevalevano il rosa, il viola e il blu. Su ogni lato era scavata una rientranza chiusa da pannelli di legno dorato, incisi e sagomati con esagoni e stelle. Nel centro si ergeva un grosso tavolo rotondo di legno, semplice e saldo, che quasi stonava con la ricchezza della stanza. Mi accorsi che un pezzo del tavolo era tagliato, interrompendo il continuum della circonferenza: era lì che la Regina era seduta.
              – Sedetevi – disse indicandomi la sedia alla sua sinistra.
              Sentii di nuovo il cuore battere forte all’altezza del mio sterno e mi resi dolorosamente conto del caldo che faceva in quella stanza.
              – Sono sicura, – attaccò la Regina, – Che avete capito lo scopo della mia sceneggiata, giù nella sala del trono. –
              – Sì, vostra altezza – risposi. Già da subito mi ero resa conto che, per lei, dare asilo o anche solo ascoltare la Principessa fuggiasca di Viride poteva essere molto pericoloso. Era molto più comodo fingere di non riconoscermi e organizzare un incontro in privato.
              – Molto bene. E ora spiegatemi perché non dovrei rispedirvi da vostra madre con i miei più cari auguri. –
              Non risposi e le porsi semplicemente le lettere di San: – Spero che sappiate leggere il viridiano. –
              Osservai Vanessa Elvere concentrarsi sui fogli, la bocca piegata in una linea severa. Quando finì posò le due lettere sul tavolo e si voltò a guardarmi: – Ditemi cosa sapete di questa faccenda. –
              – So che voi e il vostro regno siete in pericolo. Mia madre e re Alexander Auremore si sono accordati per iniziare una guerra che non lascerà scampo ai Regni del Sud: sarà fulminea, inaspettata, massacrante. Sono anni che tramano nell’ombra per riuscire ad attuare questo progetto, desiderosi di vedere le loro casate governare sul continente. A Viride e a Dimina i preparativi sono già iniziati: gli eserciti si stanno formando e sono pronti a muoversi. Non potete aspettare. –
              – Perché dovrei credervi? –
              – Non dovete credere a me, vostra altezza, – sentivo gli occhi bruciare mentre guardavo le lettere sul tavolo. – Dovete credere ai vostri occhi. È tutto qui, in queste carte. Si parla di Albis, di un’alleanza tra Dimina e Viride, di ricompense. Quello è il marchio di mio madre, lo conoscete – dissi, indicando il cigno sulla ceralacca blu.
              La Regina si alzò, andando a un tavolino poco scostato e versandosi da bere. Non riuscivo a capire di cosa avesse bisogno per potersi convincere.
              – Voi cosa volete? – esordì poi, rimanendo in piedi e guardandomi da lontano. – Sono sicura che non siete scappata da casa vostra solo per venirmi ad avvisare di questa disgrazia. Con questa guerra il vostro regno si amplierebbe. –
              – Avete ragione, non è per cortesia che sono qui. Mia madre ha cercato di uccidermi due anni fa, dopo che ho scoperto che la morte di mio padre era stata opera sua. Così come quella del principe Adrien Coverano e dei suoi due figli, tutti destinati al trono. Rivoglio ciò che è mio, prima che decida di uccidere anche i miei fratelli per garantirsi di governare in eterno. So che sarebbe capace di farlo. –
              – Non posso fare una guerra per voi, Principessa, – commentò la Regina scuotendo la testa. – Non farò morire il mio popolo per voi. –
              – Non è la guerra che voglio, – risposi rapida. Non potevo permettermi che non capisse quello che volevo. – Richiamate il vostro esercito e lasciatelo marciare fino ai confini con Viride: basterà a far capire che non siete così sprovveduti come credevano tutti. Contattate Cesia e Semele, avvisatele di quello che sta capitando e consigliatele di seguire il vostro esempio. Supportate la mia salita al trono come Reggente e io farò in modo che anche solo l’idea della guerra svanisca. –
              La Regina mi guardò, soppesando le mie parole. Poi sospirò: – Vi credo. Erano anni che le mie spie mi mandavano informazioni su movimenti strani nel vostro paese, ma speravo che la situazione fosse migliore di questa. Avrete il mio appoggio, ma in cambio dovrete darmi qualcosa. –
              Sapevo che non sarebbe stato tutto così semplice: – Vi ascolto. –
              – Il vostro regno è diverso dal nostro, voi non potrete mai governare finché un vostro parente maschio sarà in vita. Quando vostro fratello avrà l’età giusta sarà Re di Viride non solo più di nome, ma anche di fatto. Mancano ancora tre anni prima che questo accada e, in questo lasso di tempo, sposerà la mia secondogenita, Helena. –
              Chiusi gli occhi, pensando. Non potevo dire che la richiesta mi avesse spiazzata, mi immaginavo qualcosa del genere. Non potevo sapere cosa ne avrebbe pensato mio fratello, ma ero sicura che qualsiasi donna sarebbe stata meglio di Nerissa Auremore. Con quella promessa assicuravo un futuro al mio regno e guadagnavo la possibilità di tornare a casa.
              Feci un respiro profondo, aprendo gli occhi: – Accetto. –
              Per la prima volta da quella mattina vidi la Regina Vanessa sorridere. Le sue labbra si stirarono rivelando i denti bianchi, facendo intendere che era molto più giovane di quello che voleva dare a vedere.
              – Abbiamo un accordo, allora? – mi domandò, tenendomi il braccio.
              Presi il suo polso, sorridendo a mia volta: – Abbiamo un accordo. –
 
 
ANGOLO DELLA SCRITTRICE!
Ciao a tutti! Perdonatemi per la lunga assenza, ma questa sessione estiva è stata delirante. Comunque, ci tenevo a ringraziare, come al solito, tutti quelli che sono arrivati fino a qui. In più, un grande grazie va a FiammaBlu che mi sta aiutando veramente tantissimo!
Passando ad altro, temo che per il mese di agosto non riuscirò a pubblicare molto: sarò via e senza computer, quindi mi sa che potrebbe essere un po’ complicato.
Comunque, grazie ancora a tutti! Se volete farmi sapere cosa ne pensate lasciate una recensione, sono sempre gradite!
E buone vacanze a tutti J

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Capitolo 15
*** XV ***


CAPITOLO XV

MARCUS

 
I preparativi fervevano in tutto il regno di Albis. Dai nostri nuovi appartamenti a Palazzo ci accorgemmo in fretta che la città era scossa da un grande fermento: c’era un grande andirivieni per i corridoi e i cortili, uomini in divisa correvano da una parte all’altra consegnando ordini e dispacci. Solo la Regina sembrava al di sopra di tutta quell’agitazione: maestosa e rilassata, in sua presenza regnava la calma.
    Più osservavo Vanessa Elvere, più mi rendevo conto del perché la sua grandezza fosse raccontata in tutto il mondo. La sovrana era incredibilmente bella e serena, emanava una sensazione di potere e intelligenza che, quelle rare volte che mi trovai al suo cospetto, mi faceva sentire quasi spaventato. Nessuna delle altre regnanti che avevo visto mi era mai sembrata così degna del trono.
    Durante il periodo che passammo ad Albis vedemmo poco Camille. Era spesso in compagnia della regina Vanesse e, sebbene non si facessero vedere l’una al fianco dell’altra in pubblico, sapevo che passavano molto tempo insieme. In un primo momento pensai che fosse per tenerla d’occhio, ma lentamente mi resi conto che la sovrana Elvere aveva in qualche modo preso sotto la sua ala Camille, insegnandole e facendole vedere come dovesse comportarsi una Regina.
    Mentre Camille era così impegnata, io, Andreas, Mel e Jared girammo per la città e i suoi dintorni. Non credo che potrò mai vedere qualcosa di così splendido come Egalia, la Regina del Deserto. Era un prodigio di architettura, arte e bellezza. Le case, basse e bianche, si inerpicavano sulle alture su cui sorgeva la città. Non c’erano bassifondi ma ogni angolo della città era ugualmente splendente, così diversa da Elea e dai suoi quartieri malfamati, spogli e cadenti a pezzi. Fontane d’argento sorgevano nelle piazze, dove bambini giocavano a palla e anziani parlavano seduti su panche di legno chiaro. Avrei passato le ore con il naso per aria, osservando i palazzi chiari, i fregi dorati, lo zampillare dell’acqua.
    Per la gioia di Andreas passammo anche qualche giorno accampati in un’oasi nel deserto, poco distante dalla città. Ci godemmo la sensazione del sole, della sabbia e, incredibilmente, della tranquillità. Era la prima volta da molto tempo che ci trovavamo tutti insieme senza la preoccupazione di dover scappare, di doverci nascondere, di fare la guardia. Mi sembrava di essere tornato alla Corporazione, durante gli anni dell’addestramento.
    Tutto questo finì fin troppo presto: la data del matrimonio reale tra Auremore e Coverano si avvicinava. Un giorno, mentre stavo aspettando nel corridoio insieme a Jared che Mel e Andreas uscissero dalla loro stanza, Camille ci si avvicinò. Vidi Jared spalancare gli occhi mentre lei procedeva nel corridoio e quasi feci fatica a riconoscerla.
    Camille era sempre stata bella, almeno per me, ma ora… ora era stupenda. Aveva lavato via la tintura scura per i capelli, lasciando che risplendessero del rosso che ricordavo così bene da quando l’avevo salvata la prima volta anni prima. Gli occhi verdi sembravano due smeraldi sul viso chiaro, luminosi e grandissimi. La bocca era piegata in un sorriso che mi sembrò il più sensuale che avessi mai visto. Il vestito verde che portava aveva una profonda scollatura, lasciando intravedere la dolce curva del seno. Deglutii, improvvisamente avevo la bocca secca.
    – Camille, stai benissimo – esordì il mio amico, prendendo la mano di Camille e baciandola elegante. Avrei voluto avere la metà della sua prontezza.
    Lei rise, una sfumatura rosata le imporporò le guance: – Grazie. La Regina pensava che non avessi l’aspetto di una pretendente al trono e il risultato è stato questo, – disse, indicando con un ampio gesto il vestito. – Ha funzionato? –
    – Direi di sì – rispose Jared sorridendo, mentre io mi costringevo ad annuire.
    – Comunque, – continuò Camille tornando seria. – L’esercito è pronto a muoversi verso il confine e la Regina ci ha proposto, cioè ordinato in maniera gentile, di muoverci insieme. La partenza è fissata per domani, non so ancora l’orario. –
    Annuii a caso, troppo impegnato a guardarla per poter recepire che cosa mi stesse dicendo. La osservai scambiare ancora qualche parola con Jared senza far parte della conversazione, prima che ci salutasse e si allontanasse lungo il corridoio.
    – Marcus, tutto bene? – mi domandò il mio amico, con un ghigno divertito stampato in viso. Io stavo ancora guardando il punto dove Camille era scomparsa.
    Mugugnai qualcosa in risposta, mentre Jared scuoteva la testa: – Sai, – mi disse, improvvisamente serio. – Non rimarrà libera per sempre. –
    Mi riscossi dalla mia estasi ritornando in me: – Ne abbiamo già parlato, Jared. Credi che ci sia una possibilità per me? Io sono un Assassino, lei una Principessa. –
    – Sì, lei è una Principessa, – disse Jared, facendo spallucce. – E in un futuro prossimo potrebbe essere Regina oppure morta. Con quale delle tre pensi di avere più speranze? –
    Aprii la bocca per ribattere ma non riuscii a proferire parola. Era strano, ma Jared aveva ragione. Non ci sarebbe stato un momento migliore per me e Camille perché, per quanto inopportuno fosse il presente, il futuro ci avrebbe solamente allontanati. Avrei potuto continuare a fare finta di niente e vivere il resto della mia vita con il rimpianto, oppure cercare di togliermi da quella impasse in quell’esatto istante.
    – Marcus, – continuò Jared mettendomi le mani sulle spalle, nella sua migliore imitazione di un fratello maggiore. – Vai. Di cosa hai paura? Che può succedere di male? Approfitta del tempo che hai. –
    Chiusi gli occhi per un istante mentre pensavo. Jared mi aveva convinto, aveva ragione. Annuii, mentre il mio amico mi dava una pacca sulla spalla. Mi misi a correre, sfrecciando davanti a un allibito Andreas che in quel momento apriva la porta della sua camera. Mi diressi verso il punto dove poco prima era sparita Camille, i miei passi affrettati risuonavano per il corridoio. Dopo pochi minuti intravidi finalmente la macchia verde del suo vestito mentre lei si girava, richiamata dal rumore che stavo facendo. Mi fermai a pochi passi da lei, guardandola in piedi nel corridoio bianco.
    – Marcus? – mi chiese sorridendo, piegando leggermente la testa. – Ti serve qualcosa? –
    Presi un respiro profondo e poi smisi di pensare. Feci tre passi veloci divorando lo spazio che ci separava, guardandola aggrottare incuriosita le sopracciglia. Le presi il viso tra le mani e la baciai, assaporando il sapore dolce delle sue labbra. Mi allontanai leggermente riaprendo gli occhi, sentendo il cuore battere come se volesse scapparmi dal petto. Camille deglutì, guardandomi con gli occhi verdi spalancati. Ero già pronto a scusarmi e a scomparire quando lei fece una risata cristallina e mi baciò a sua volta, a lungo. Quando smise lei ricominciai io e non so dire per quanto continuammo lì, in quel corridoio.
    Per me tutto nasceva e moriva sulle labbra di Camille. All’inizio fu dolce e lento, ma presto sentii nascere dentro di me un’urgenza nuova, che mi spingeva a baciare quella bocca come se la volessi divorare. Le mie mani abbandonarono il suo viso per scendere tra i capelli e sulla sua vita, stringendola di più a me. Brividi mi percorsero la schiena quando Camille mi morse il labbro inferiore in un modo che mi fece inceppare il respiro. Sentii la pelle d’oca sulla sua pelle mentre le accarezzavo le spalle e le braccia. Il suo sapore era qualcosa che non avevo mai provato prima: era fresco ma con una nota dolce e già sapevo che non avrei più potuto farne a meno.
    Mi staccai dalla sua bocca solo per scendere a baciarle il profilo della mascella, a morderle la pelle tenera del collo. Mi morse il lobo dell’orecchio e trattenni bruscamente il fiato mentre sentivo il suo respiro farsi sempre più affrettato. Sapevo che avrei dovuto controllarmi, che tutto quello era eccessivo, che era sconveniente… ma non riuscivo a fermarmi. Ero come in preda alla frenesia e per me non esisteva altro che Camille, il suo corpo, il suo profumo, le sue mani, la sua pelle. Mi sentivo come chi beve dopo che l’acqua gli è stata negata a lungo: attaccato alla fonte che mi dissetava senza né il potere né il desiderio di allontanarmi.
    Solo dei passi che risuonarono al fondo del corridoio ebbero la capacità di farci separare. Non vidi nemmeno chi ci passava vicino, troppo impegnato com’ero a guardare Camille e il rossore che le illuminava il viso, gli occhi grandi e dolci, le labbra gonfie per i baci che ci eravamo dati. Aveva il respiro affannato, il petto che si sollevava e abbassava velocemente.
    – Io… – iniziò Camille, ma fu costretta a schiarirsi la voce prima di poter continuare. – Se ti serviva questo potevi dirmelo anche prima. –
    Ridemmo per qualche istante e tracciai delicatamente con il pollice la linea delle sue labbra, improvvisamente serio: – Avrei dovuto. Volevo farlo da tanto. –
    Lei annuì: – Anche io. –
    Mi abbassai per baciarla di nuovo ma lei si scostò delicatamente, prendendomi le mani. Aggrottai le sopracciglia e stavo per chiederle perchè quando mi indicò con un cenno del capo un punto dietro di me. Mi girai e vidi le persone che ci avevano interrotto poco prima parlare nel corridoio, poco distanti da noi.
    Annuii ed ero pronto ad allontanarmi quando si avvicinò al mio viso, mormorandomi qualcosa all’orecchio.
    – Seguimi – mi disse, poi si voltò.
    Mi sembrava che ci fosse solo lei mentre attraversavamo il palazzo di Egalia quasi di corsa. Camminavo due passi dietro a lei, che ogni tanto si girava e mi sorrideva in un modo che sapevo essere dedicato solo a me. Non avevo idea di dove mi stesse portando, ma tanto l’avrei seguita ovunque. I capelli rossi dondolavano al ritmo dei suoi passi, lasciando intravedere la linea delicata delle spalle. Attraversammo sale piene di gente, corridoi affollati, disimpegni occupati da guardie, ma ognuna di queste persone attraversava il mio campo visivo solo per un attimo prima di sparire nel nulla.
    Camille mi condusse su per scale e lungo passaggi di marmo fino a fermarsi davanti a una porta di legno scuro. La vidi aprirla ed entrare in quelle che capii essere le sue stanze, per poi girarsi a guardarmi. Io, invece, mi fermai sulla porta. Avrei solo voluto entrare lì dentro con lei, ma l’ultimo pensiero razionale della giornata mi colse prima di poter fare anche un passo: se poi Camille se ne fosse pentita? Avevo già avuto altre donne nel corso della mia vita, ma non volevo rovinare tutto con lei. Volevo che fosse sicura di quello che stava facendo, che non si sentisse in nessun modo forzata. Se solo Jared avesse potuto vedermi si sarebbe schiantato dalle risate: sembravo l’eroe romantico di qualche storiella rosa.
    Camille sembrò leggermi nel pensiero. Mi si avvicinò camminando leggera e mi prese la mano, tirandomi piano: – Sono sicura – mormorò, senza abbassare gli occhi. Sembrava che le sue guance stessero andando in fiamme. Sorrisi e la seguii, e ricominciammo a baciarci ancora prima di sentire il rumore della porta che si chiudeva. Rimasi senza fiato e mi stupii di quanto fosse facile scambiarsi quelle effusioni, come se non avessimo mai fatto altro.
    Non so bene chi condusse chi verso il letto, chi iniziò a spogliare chi. So solo che in un istante tutto il mondo sparì e restammo solo io e lei, Marcus e Camille. E non mi sarebbe servito nient’altro per essere felice.
 
***
 
Ore più tardi, eravamo ancora sdraiati a letto. Un’aria leggera entrava dalle finestre aperte, facendo muovere lievemente le tende azzurrine. Giocherellavo distrattamente con una ciocca di capelli di Camille, che riposava con la testa appoggiata sul mio petto.
    – Posso chiederti una cosa? – mi domandò piano, mentre giochicchiava con il mio ombelico.
    – Dimmi. –
    Camille si girò di colpo, appoggiando il mento sul mio sterno. Aveva una luce maliziosa negli occhi, un sorriso divertito che le faceva spuntare una piccola fossetta. Non potei trattenermi dall’accarezzarle la guancia.
    – Come sono andata? – mi chiese, arrossendo un po’ ma senza distogliere lo sguardo.
    – Davvero me lo stai chiedendo? – chiesi, incredulo. Per me era stato fantastico, davvero fantastico, e che lei me lo chiedesse mi faceva sentire stranamente in colpa.
    – Beh, sì – ridacchiò lei. – Cioè, un’idea me la sono fatta, però… – tornò quasi seria mentre lo diceva.
    – Però? –
    – Però, ecco, diciamo che non è qualcosa che si insegna a palazzo e, non so, volevo avere il parere di un esperto. –
    Risi di cuore alle sue parole: – Mi reputi un esperto? Sono lusingato. –
    – Beh, sì… – tentennò, diventando sempre più rossa. – Mi sei sembrato parecchio bravo. –
    Il mio orgoglio maschile ebbe una vampata a quella conferma. Non riuscii a trattenere un sorrisetto compiaciuto e un’espressione soddisfatta.
    – Non gongolare! – mi riprese subito lei ridendo, ogni traccia di imbarazzo sparita, dandomi uno schiaffetto sulla pancia. Si era alzata in ginocchio sul materasso ed era quanto di più bello avessi mai visto in vita mia.
    Mi tirai a sedere anche io, mettendole una mano dietro la nuca e baciandola dolcemente.
    – Sei andata benissimo – le mormorai contro le labbra, la mano che percorreva la sua pelle nuda.
    Dopo poco tornammo a sdraiarci con lei a pancia in giù su di me, a guardarmi dall’alto. Ogni tanto mi dava un piccolo bacio sul collo mentre io riposavo a occhi socchiusi. Mi sentivo in un mio personale piccolo paradiso, non avrei mai voluto dovermene andare via. Era incredibile essere lì nello stesso letto con Camille, ed era incredibile come chi fossimo fosse semplicemente passato in secondo piano. Io non ero più un Assassino e lei non era più una Principessa. Eravamo solo Marcus e Camille e nulla di più.
    La voce di lei mi distolse dai miei pensieri: – Stavo pensando… –
    – Ancora? – mugugnai, senza riaprire gli occhi.
    Lei ignorò la mia ironia e continuò: – So così poco di te e della tua vita sentimentale. –
    – Devo preoccuparmi? – domandai aprendo un occhio, guardandola storto.
    – No, direi di no, – mi rispose sorridendo, spostandosi una ciocca di capelli da davanti il viso. – Sono solo curiosa. –
    – Chiedimi quello che vuoi. –
    La domanda arrivò a bruciapelo: – Con quante donne sei stato? –
    – Ah, iniziamo proprio così? – risposi tirandomi un po’ su. – Saranno state dodici, tredici. Non credo quindici. –
    – Ah. –
    Risi della sua faccia corrucciata: – Se pensi che siano tante non chiedere mai una cosa del genere a Jared. –
    – Ne prenderò nota. E la prima quando l’hai avuta? –
    – Avrò avuto sedici, diciassette anni. Più o meno. –
    – Più o meno? – mi domandò incuriosita. Represse un brivido quando un refolo di vento colpì la nostra pelle sudata. Tirò su di noi il lenzuolo che si era attorcigliato al fondo del letto, accoccolandosi meglio contro di me.
    – Non è facile capire quanti anni hai quando non sai quando sei nato – risposi tranquillo. A differenza di lei stavo morendo di caldo, ma non mi sarei allontanato nemmeno per tutto l’oro del mondo.
    – Non sai quando sei nato? – mi domandò con un sorriso triste, accarezzandomi leggera il petto.
    – No. Immagino di avere più o meno ventitré anni, anno più, anno meno, – non volevo parlare della Confraternita, non lì con lei. – E tu? Quando sei nata? –
    – Il 6 luglio 1610. –
    – Sei una giovincella – ridacchiai, tornando a chiudere gli occhi. La mia mano salì da sola verso i suoi capelli e iniziai ad attorcigliarli attorno a un dito. Era da mesi che avevo voglia di farlo e non avrei più voluto smettere.
    Camille rise con me, appoggiando la testa al mio petto e guardando fuori dalla finestra, rilassata.
    Pensavo avesse finito con le domande quando parlò di nuovo: – C’è stata una donna importante nella tua vita? –
    Mi aspettavo una domanda del genere ma, stranamente, la reticenza che di solito mi prendeva quando si toccava l’argomento non comparì.
    – Sì, una sola. –
    Camille si girò di nuovo verso di me, facendomi perdere nei suoi bellissimi occhi verdi. Mi accorsi che sopra la pupilla sinistra aveva una piccola macchietta dorata, quasi ipnotica.
    – Chi era? – mi domandò serena, nessuna traccia di gelosia sul suo viso. Solo curiosità.
    – Si chiamava Amelie, – iniziai, godendomi la sensazione della mano di Camille che passava leggera sul mio fianco. – L’ho conosciuta nella pausa tra una missione e l’altra, quattro anni fa. Era sera e avevo alzato un po’ il gomito, quindi camminavo per le strade di Elea senza guardarmi troppo attorno. La urtai e feci cadere tutte le stoffe che aveva in mano, sparpagliandole per la strada. Mi ha urlato contro talmente forte che pensai che mi avrebbe rotto i timpani. Mi sentivo così in colpa che quando se n’è andata l’ho seguita per vedere dove abitava. Non avevo molto denaro con me in quel momento, quindi decisi di tornare lì il giorno dopo per risarcirla. Quando mi aprì la porta la mattina dopo mi accorsi che era molto, molto bella. E con un cipiglio davvero niente male. Per farla breve, oltre a pagare il danno, la invitai ad uscire con me. –
    Camille mi guardava con la testa inclinata, come sempre quando era attenta: – E lei accettò? –
    Risi al ricordo: – Per niente, mi chiuse la porta in faccia. C’è voluto un mese prima di riuscire a convincerla. Stavo quasi per rinunciare quando accettò. Alla fine ero innamorato perso. –
    – E poi? Cos’è successo? –
    Feci spallucce mentre ricordavo: – È successo che ha sposato un altro, un ricco mercante di Elea. Non lo amava nemmeno, voleva solo accaparrarsi un buon partito. La sua famiglia era molto povera e aveva vissuto in ristrettezze da quando era piccola. –
    Anche solo a riparlarne mi ricordavo il dolore che avevo provato. Ero veramente innamorato di Amelie, avevo anche pensato di chiederle di aspettarmi per poi sposarmi quando avessi finito con la Confraternita. Poi, semplicemente, a un certo punto era scomparsa. Ero stato veramente male quando avevo scoperto che si era accasata con un mercante grasso e vecchio, mi ci erano voluto mesi per riprendermi. L’avevo odiata per tanto tempo, ora però mi accorgevo di ripensare a lei solo con indifferenza.
    Camille mi riscosse dai miei pensieri: – Non essere triste – mi disse accarezzandomi la guancia.
    – Non sono triste – risposi prendendo la sua mano e intrecciando le nostre dita.
    – Devo essere gelosa? –
    – Direi di no, – dissi baciando le nostre mani unite. – Anche perché c’è qualcun altro che occupa i miei pensieri da un po’ di tempo a questa parte. –
    Camille si tirò su, gattonando piano verso di me. Aveva un sorriso malizioso e gli occhi verdi brillavano nella luce del pomeriggio.
    – Ah sì? – mormorò avvicinando il suo viso al mio. Potevo sentire il suo fiato mescolarsi con il mio.
    – Sì – risposi piano, prima di tirarla verso di me e ricominciare a baciarla.
    Per quel giorno le altre domande furono dimenticate.
 
***
 
Uscii dalle stanze di Camille nel primo pomeriggio. Non avrei voluto doverlo fare, ma stavo letteralmente morendo di fame e lei aveva un colloquio con la Prima. In più sapevo benissimo che se avessimo ritardato ancora non saremmo mai usciti. Purtroppo per noi il mondo era ancora lì e, avendolo dimenticato per un po’, ritornare alla realtà era stato più difficile del normale.
    Camminai lentamente per i corridoi, perso nei ricordi di quelle ultime ore. Dovevo avere un sorriso idiota quando aprii finalmente la porta della mia stanza, impegnato a masticare una mela.
    – Ben tornato, – mi sorprese la voce di Jared, stravaccato sul suo letto. Non mi aspettavo di trovarlo lì.
    – Grazie, – risposi chiudendo la porta e avvicinandomi a una brocca che stava sul tavolo. Mi versai un bicchiere d’acqua e mi sedetti, crollando quasi sulla sedia.
    – Stanco? – mi domandò il mio amico con un ghigno per niente rassicurante in viso.
    Tracannai l’acqua e sospirai: – Non credo che ti risponderò. Mel e Andreas? –
    – Sono andati a fare un ultimo giro in città e a prendere cose che ci potranno servire per il viaggio – Jared si tirò a sedere, stiracchiandosi.
    – E andare con loro no, eh? –
    – Nah, non avevo voglia. E poi sono curioso. –
    La curiosità di Jared mi fece venire in mente quella di Camille, che aveva avuto un esito così piacevole. Mi persi di nuovo in qualche ricordo quando il mio amico mi schioccò le dita davanti alla faccia.
    Lo guardai scocciato.
    – Avevi un’aria ebete. Allora? – mi chiese, con gli occhi grandi come piattini.
    – Allora cosa? – tergiversai, poggiando i piedi sul tavolo.
    – Come cosa? Com’è andata? –
    Sospirai. Jared quando ci si metteva era peggio di una mosca: fastidioso e molesto. Si vedeva che era divorato dalla curiosità.
    – Bene. È andata bene – risposi sorridendo.
    – Quello l’avevo già capito dalla tua faccia. –
    Alzai gli occhi al cielo, arrendendomi alla sua insistenza: – Jared, sei una piaga. Cosa vuoi sapere? –
    – Beh, l’ultima volta che ti ho visto stavi correndo per un corridoio. –
    – Ho seguito Camille e l’ho trovata poco dopo – risposi, guardandolo negli occhi azzurri divertiti.
    – Ma dopo siamo passati nel corridoio e non vi abbiamo visti – mi chiese Jared con un tono finto stupito.
    – Perché ce ne siamo andati. –
    – E per andare dove? – Jared mi guardò da sopra la punta delle lunghe dita unite.
    Scossi la testa, in parte sconvolto e in parte divertito della stupidità del mio amico: – Nelle sue stanze. –
    – Ah! – sbottò Jared battendo una gran manata sul materasso. – Lo sapevo! Non ti chiedo altro solo perché sono un signore. –
    – Sì, come no, – borbottai cercando di trattenere le risate.
    Chiacchierammo del più e del meno per qualche momento prima di venire interrotti dal rumore della porta che si apriva. Dall’uscio fecero capolino Mel e Andreas.
    – Oh, Marcus, che sorpresa – mi salutò Andreas.
    Per fortuna, gli altri miei amici erano più discreti di Jared. Non mi fecero domande e non mi assillarono con la loro curiosità, parlando invece di quello che avevano visto in città. Avevano comprato armi in quantità per tutti noi, avevano ritirato le spade che avevamo lasciato dall’armaiolo, si erano procurati dei vestiti pesanti da indossare quando saremmo tornati a Viride. Avevano anche conosciuto il comandante dell’esercito che si sarebbe schierato al confine di Albis, un uomo severo e brusco, che però aveva la fama di essere un ottimo stratega.
    L’esercito sarebbe partito all’alba da Egalia, marciando attraverso il deserto. Per noi, abituati alle manovre militari di Viride, l’idea di far muovere la colonna di uomini tra le sabbie roventi era qualcosa di inconcepibile. Non sapevo nemmeno come avremmo fatto a spostarci e devo dire che mi ero anche poco interessato al riguardo.
L’idea, mi spiegò Mel, era quella di seguire l’esercito fino al confine e, da lì, addentrarci poi nello stato di Viride. Con noi sarebbe venuto un drappello di uomini con l’incarico di scortare la principessa Helena Elvere al matrimonio tra Auremore e Coverano. Prima di entrare a Elea ci saremmo divisi e saremmo andati a cercare una qualche forma di supporto. Camille aveva citato qualche nobile che sperava di poter convincere a supportare la sua richiesta. Avremmo dovuto poi in qualche modo impedire il matrimonio e riuscire a detronizzare la Regina, ma una cosa per volta.
    – Abbiamo solo più oggi per preparare le nostre cose, da domani è finita la vacanza – disse Andreas, versandosi da bere. A causa del caldo bevevamo tutti come cammelli.
    – Peccato, mi piaceva qui – mormorò Mel guardando malinconico fuori dalla finestra. – È tutto così tranquillo, sereno. Così diverso da Viride. –
    – Ci torneremo, prima o poi, – Jared gli si avvicinò, affiancandosi a lui. – Ci avete mai pensato? Una volta finito tutto questo potremmo non dover più stare nella Confraternita. –
    Le parole di Jared caddero pesanti come sassi nella stanza. Non avevo mai pensato a quello che aveva detto, per me o saremmo morti cercando di portare Camille sul trono, oppure tutto sarebbe tornato come prima, con noi di nuovo Assassini per la Confraternita. Però era anche vero che eravamo disertori, forse non saremmo più stati accettati nonostante l’intercessione di Camille Coverano, Regina Reggente di Viride. Ma avrei davvero voluto tornare tra gli Assassini?
    – Potremmo andare lontano da Elea, senza più uccidere per vivere, – stava continuando Jared. – Anche se non so se sarei capace di fare qualcos’altro. Però sarebbe bello. Anni fa non avrei nemmeno immaginato che sarebbe potuto succedere. –
    – Io… – Andreas si schiarì la voce prima di continuare. – Non credo che tornerò alla Confraternita quando tutto questo sarà finito. –
    Tre paia di occhi si girarono a guardarlo.
    – Tu hai già deciso? – mormorai, incredulo. Andreas era quello che aveva sopportato con più fatica la vita da Assassino, all’inizio, ma ormai sembrava essersi abituato.
    – Sì, anche se ci sono giorni in cui mi dico che non potrei fare nient’altro. Non voglio tornare nella Confraternita, non subito almeno. Voglio poter vivere la mia vita come desidero, per una volta. –
    Andreas parlava con lo sguardo fermo davanti a sé, sorridendo lieve. Non c’erano segni di tensione in lui, era sereno mentre ci parlava del suo futuro. Sembrava che il pensiero di andarsene dalla Confraternita non lo turbasse ma, al contrario, lo tranquillizzasse.
    – Ci pensi da tanto? – chiese Mel, sedendosi sul davanzale. Dietro di lui la luce del sole sembrava quasi disegnargli un’aureola intorno, i capelli biondi luccicavano.
    – È tutta la vita che mi dico che non voglio essere per sempre un Assassino. Ora, semplicemente, mi si presenta un’occasione. Sarei stupido a non coglierla, non pensate? –
    – Sì, è vero, – mormorò Jared, appoggiandosi al muro. – E tu non sei mai stato stupido, Andreas. –
    Andreas sorrise: – Qualsiasi cosa farò, e qualsiasi cosa farete voi, mi mancherete. –
    – Ci mancherai anche tu, – mi introdussi, cercando di spezzare l’aria pesante che era caduta nella stanza. – Però non ci pensiamo ancora, c’è tempo. Adesso dobbiamo preoccuparci di altro. –
    – Direi di sì – esclamò una voce nuova. Ci girammo all’unisono per vedere la testa di Camille fare capolino dalla porta.
    – Sapete le novità? – disse, entrando nella stanza. Si era cambiata dalla mattina e il gran sorriso che mi rivolse mi fece quasi galleggiare.
    – Di che novità parli? – rispose Jared con un’espressione furbetta. Gli rifilai una gomitata mentre Mel puntava gli occhi al cielo.
    Camille lo guardò allibita per un attimo e poi lo ignorò: – Parlo della partenza. –
    – Sì, – rispose Andreas impedendo a Jared di dire altre cose sconvenienti. – Io e Mel abbiamo anche parlato con il comandante De Vaaz. Ci ha detto che la partenza sarà domani all’alba. –
    Camille annuì, sedendosi di fianco a me con tranquillità: – Sì, esatto. Pensavo non lo sapeste, a me l’ha appena comunicato la Prima. –
    – Prepariamoci, – aggiunsi. – Non sarà un viaggio rapido. I ritmi degli eserciti, a meno che non si proceda a tappe forzate, sono abbastanza lunghi. Ci metteremo almeno dieci giorni a raggiungere il confine. Poi da lì dovremo continuare fino a Elea. –
    Il viaggio in mezzo al deserto sarebbe stato massacrante, già lo sapevo. Poco prima Andreas ci aveva detto che avremmo marciato nell’avanguardia dopo esplicita richiesta di De Vaaz. Tutti noi avevamo avuto lo stesso pensiero: ci voleva tenere d’occhio per evitare che scappassimo sulla strada. Lo schieramento di forze di Albis in fondo era colpa nostra e Andreas aveva capito subito che, se potevamo aver convinto la Regina, il comandante non era ancora del tutto persuaso.
    – A proposito di Elea, – ricominciò Mel dopo qualche secondo di silenzio. – Siamo ancora ricercati, dobbiamo aver ben presente cosa fare quando e se riusciremo ad entrare in città. –
    – A questo ho già pensato, – disse Camille, soddisfatta. – Ho parlato sia con la regina Vanessa che con la primogenita, Helena. Invece che separarci poco prima di entrare nella capitale ci travestiremo e ci uniremo alla sua scorta. Con indosso le armature della guardia non dovreste attirare l’attenzione e io potrei fingermi una delle sue dame di compagnia. –
    Annuimmo tutti. I soldati alle porte della città avevano sì il compito di controllare chi entrava e usciva, ma non avrebbero rischiato di causare un incidente diplomatico per cercare cinque fuggitivi. In più, chi sarebbe mai stato così stupido da rientrare nella città dov’era ricercato?
    – Dopo, una volta entrati in città, dovremo cercare Lord Enais. Vive nella parte est di Elea, a Villa Enais – continuò Camille.
    – Sei sicura di quest’uomo? – domandai, corrucciato. Se avessimo riposto le nostre speranze in Lord Enais e lui ci avesse traditi non saremmo sopravvissuti.
    – Non posso esserne sicura, sono troppi gli anni in cui manco da Palazzo, – iniziò Camille e, prima che qualcun altro potesse parlare, continuò. – Però me lo ricordo, me lo ricordo bene. Era un amico d’infanzia di mio padre. Erano come fratelli, cresciuti insieme a corte. Non farà finta di niente se gli dirò che la Regina ha ucciso mio padre. In più la Prima verrà con noi, parlandogli della guerra che Albis condurrà insieme agli altri stati del sud se la Regina non verrà destituita. Tutto questo dovrebbe aiutarci ad ottenere ciò che vogliamo. –
    – Per quando è fissato il matrimonio? – domandò Mel, serio. Il ciondolo che gli pendeva dal collo catturava la luce del sole.
    – È tra venti giorni. Non abbiamo tanto tempo – rispose Camille, torcendosi le mani.
    – No, – risposi, accarezzandole distrattamente il braccio. – Ma ce lo faremo bastare. –
 
***
 
Partimmo la mattina successiva all’alba. Il sole non era ancora sorto sul deserto e, per l’escursione termica, faceva più freddo di quanto mi aspettassi. L’esercito era già preparato fuori dalle porte della città. I fuochi dei bivacchi erano ormai praticamente spenti, i cavalli nitrivano irrequieti e le tende stavano venendo smontate.
    Insieme a noi, pronte per il viaggio, c’erano la Prima, seria e severa sul suo cavallo nero, e la principessa Helena, bella come la madre ma più solare, meno altera. Accanto cavalcavano almeno una decina di guardie reali, vestite leggere per la traversata del deserto. Gli elmi erano stati soppiantati da turbanti color sabbia, per proteggere la testa dal calore del sole.
    Il comandante De Vaaz ci aspettava di fianco alla sua tenda, la più grande di tutto l’esercito. Il cremisi del tessuto sbatteva schioccando nel vento della notte. Era un uomo alto, imponente, con la carnagione scura cotta dal sole. Gli occhi erano chiari, color caramello, e circondati da una fitta rete di rughe. La barba scura e curata gli copriva il mento squadrato, indurendone i lineamenti. Sembrava un uomo severo ma capace, sicuro di sé.
    – Vostra Altezza, Prima, – disse, inchinando leggermente il capo davanti alla Principessa. – Partiremo il prima possibile. C’è una portantina preparata per voi, se volete seguirmi… –
    – Non ce n’è bisogno, – rispose la principessa Helena, guardandosi attorno. – Cavalcheremo con voi fino a Elea. –
    De Vaaz fece un rigido cenno con il capo prima di rivolgersi a noi: – Voi starete con me. Voglio avere sempre almeno uno di voi a portata d’occhio, per essere sicuro che non vi perdiate. È facile perdere l’orientamento tra le sabbie. Al confine ci separeremo. –
    Dal tono del comandante era più che chiaro che se non fossimo rimasti in vista ci avrebbe lasciati a morire nel deserto. Annuimmo senza protestare, consci che sarebbe stato solo inutile.
    Alla partenza rimasi stupito dall’efficienza dell’esercito di Albis. Lì non esisteva la fanteria, ogni soldato si muoveva a cavallo. I destrieri erano le bestie più belle che avessi mai visto, così diversi dai grandi corsieri da guerra che si usavano al nord. Erano più adatti a muoversi sulla sabbia, abituati a non patire il caldo e il sole. Erano meravigliosi da vedere, aggraziati e delicati, con le criniere mosse dal vento.
    I soldati di Albis portavano con sé pochi effetti, giusto il minimo indispensabile per poter bere e mangiare tra un’oasi e l’altra. Le armature erano avvolte in stoffe e trasportate, mentre gli uomini indossavano gli stessi vestiti larghi e freschi che portavamo noi. Quello che mi stupì di più fu però vedere arruolate anche donne, che marciavano esattamente come gli uomini, pronte ad andare in guerra e morire per difendere il proprio paese.
    Durante il viaggio la Principessa ci spiegò che nel suo regno non esisteva l’arruolamento obbligatorio, ma che ogni uomo era libero di scegliere. Chi avesse deciso di entrare nell’esercito avrebbe ricevuto in dono un cavallo e l’armatura. Ogni soldato, dopo un periodo minimo di cinque anni, poteva decidere di lasciare l’esercito o di continuare la carriera militare, restando arruolato. Era un sistema così diverso dal nostro che ci lasciò per un attimo perplessi.
    Mel si dimostrò il più interessato nell’apprendere gli usi e i costumi di Albis, passando ore e ore a cavalcare accanto alla Principessa, facendosi raccontare ogni minima cosa del suo regno. La Prima non li distanziava mai di molto e, anche se sembrava essere completamente indifferente, si capiva che non si perdeva una sola sillaba. Probabilmente aveva paura che la Principessa si facesse scappare qualche informazione riservata, anche se Helena sembrava essere incredibilmente sicura di sé e conscia della sua posizione.
    La Principessa di Albis era regale ma amichevole e si vedeva che passava volentieri il suo tempo con Mel. Quando non parlavano cavalcavano solo vicini, guardando il deserto attorno a loro e godendosi lo spettacolo. Helena, come anche la Prima e tutte le altre donne nell’esercito, sopportava tranquillamente e senza fatica il ritmo di marcia dell’esercito, dettato da De Vaaz.
    Il comandante era in testa alla colonna, molto spesso affiancato dal suo secondo. Parlava poco, rispondeva a mugugni, ogni tanto borbottava a bassa voce tra sé e sé. Era ammantato di blu e un corno d’oro giallo gli fissava il velo che gli copriva la testa. Andreas era quello che più spesso gli stava vicino visto che De Vaaz mal sopportava l’esuberanza di Jared.
    Non incontrammo nessuna delle carovane che ci avevano fatto compagnia nel nostro viaggio d’andata fino ad Egalia. La regina Vanessa aveva momentaneamente bloccato il commercio, richiamando tutti i mercanti in patria. Solo alle oasi riuscivamo a incontrare qualche uomo impegnato a rifornirsi d’acqua, ma erano tutti taciturni, immusoniti. La manovra della Regina era azzardata e causava malcontento, ma almeno noi sapevamo che era per il bene del regno. Chi, in viaggio per il deserto, vedeva il grande serpentone dell’esercito snodarsi tra le sabbie rimaneva perplesso: tutti conoscevano il grande Patto di non belligeranza, il dispiego di una tale forza non era comprensibile. La Regina non aveva emanato proclami di guerra, non voleva spaventare la popolazione: la sua era una manovra prettamente preventiva.
    Per conto mio facevo poca attenzione a tutto ciò e passavo più tempo possibile con Camille. Cavalcavamo vicini chiacchierando e raccontandoci ogni cosa ci venisse in mente, guardando il panorama e rimanendo sconvolti dalla bellezza di quel posto. Io le raccontai della mia infanzia alla Corporazione, della mia prima missione, dei posti che avevo visitato. Lei mi parlava della sua infanzia a palazzo, della Foresta della Luce e dell’aiuto che aveva avuto. Mi descrisse la sua famiglia, i suoi fratelli e sorelle, la sua domestica preferita, le persone che l’avevano aiutata nella sua vita. Io le raccontai dei miei maestri alla Corporazione, dei miei compagni e di quello che mi ricordavo dei miei genitori.
    Le notti le passavamo insieme, a fare l’amore. La raggiungevo nella sua tenda al calar del sole e me ne andavo poco prima dell’alba, senza fare nemmeno troppa attenzione a chi ci avrebbe potuto vedere. Era un piccolo miracolo, per me, anche solo poter dormire con lei tra le mie braccia.
    Non parlammo mai del futuro e di quello che ci sarebbe potuto succedere a Elea, forse perché non dirlo ad alta voce lo rendeva più lontano nel tempo, meno delineato. Sapevamo entrambi che quei giorni nel deserto erano una parentesi di paradiso in una vita che sarebbe anche potuta finire a breve. Avrei voluto che quel viaggio, per quanto stancante e faticoso, non finisse mai. Non ci dichiarammo amore eterno né ci facemmo promesse: sapevamo che tutto quello era destinato a finire. Non per questo quel periodo fu triste o rovinato dalla consapevolezza di quello che sarebbe successo, ma anzi, fu uno dei più felici che io abbia mai vissuto. Eravamo solo io e Camille, tutto il resto non contava.
 
***
 
Arrivammo al confine undici giorni dopo la nostra partenza, uno in più rispetto a quello che avevo predetto. Il clima era mano a mano diventato più fresco, sembrava quasi che il deserto fosse una bolla di calore perenne. Non si sentivano più i rigori dell’inverno che ormai stava per arrivare alla sua fine. Il matrimonio era fissato per il venti di marzo, giorno della salita al trono di re Jerome e uno dei primi giorni di primavera. Sul fatto che non fosse una data scelta a caso non c’erano dubbi: la regina Celia sapeva benissimo cosa faceva.
    Le grandi torri che segnavano il confine tra Viride e Albis comparirono come visioni, addossate ai fianchi di uno stretto vallo scavato tra le montagne. Stranamente però, questa volta non erano disabitate. Fumo si alzava dalle loro sommità e della luce brillava alle finestre. Marciavamo tutti alla testa dell’esercito quando De Vaaz ordinò l’alt, borbottando qualche parola irata nella lingua di Albis. La principessa Helena si fece sfuggire una risatina, guadagnandosi un’occhiata incuriosita da parte di Camille.
    – È semplicemente stupito che quello che avevate predetto si sia avverato, – spiegò Helena con un sorriso che si spense in fretta. – Devo dire che anche io avevo i miei dubbi, ma a quanto pare mia madre vede più lontano di me. Vi sono grata per essere venuti ad avvisarci. Saremmo stati completamente indifesi, altrimenti. –
    Camille, che iniziava a sembrare sempre di più sia nei modi che nel portamento la Principessa che era, rispose con tono amaro: – Non farmi passare per eroina, non lo sono. Sono venuta soprattutto perché avevo bisogno di aiuto, – guardò dietro di sé, verso la terra che sapeva espandersi alle sue spalle. – Che poi abbia imparato ad amare il vostro paese e desiderato di non vederlo schiavo del mio, è un’altra questione. –
    Helena annuì, guardando davanti a sé verso le torri illuminate: – Allora è stata una combinazione fortunata. Sono felice di aver salvato il mio paese e di aver trovato un’amica, principessa Camille. –
    Camille si girò quasi di scatto, guadagnandosi un nitrito di protesta dal suo destriero. Era la prima volta che Helena Elvere la chiamava con il suo titolo, nonostante avessero passato il tempo ad Albis insieme e avessero fatto amicizia. Lo sapevo perché me lo aveva detto lei: nonostante apprezzasse immensamente la Principessa di Albis le pesava non essere riconosciuta come sua pari, mentre era vista quasi come una dama di compagnia.
    Jared, di fianco a me, guardava corrucciato le torri: – Non hanno perso tempo. –
    – Quando mai i viridiani lo hanno fatto? – risposi, ironico.
    – Mai, – borbottò il mio amico. – E pensare che una volta ne ero anche orgoglioso. –
    La Prima interruppe la nostra conversazione, facendosi avanti con la bocca spalancata: – Ma allora avevate ragione! – mormorò, guardando allibita le grandi torri ocra. Poi si rivolse a noi e soprattutto a Camille, inchinando il capo e parlando con voce addolorata: – Vi devo le mie scuse per avervi trattati con sufficienza. Mi dispiace, vedo che avevate ragione, Principessa. –
    Per la seconda volta in pochi minuti vidi negli occhi di Camille un lampo di qualcosa che era un misto di orgoglio e rivalsa: – Scuse accettate, Prima. Nessuno vuole credere alle cattive notizie, soprattutto quando giungono in maniera così inaspettata. Per fortuna, vi siete mossi ancora in tempo. –
    La Prima accettò quel rimbrotto pacato senza osare ribattere. Camille si era davvero tolta un bel peso: era da quando aveva avuto il suo primo colloquio con la regina Vanessa che voleva dirne quattro alla consigliera.
    Mel e Andreas si erano avvicinati a De Vaaz, sentendolo parlare concitato con Helena. Il comandante abbaiò poi tre o quattro ordini al suo secondo, che scattò verso il grosso dell’esercito, appostato dietro un rialzo del terreno.
    Camille mi si affiancò, facendo un bel sospiro soddisfatto mentre nessuno le badava: – Ah, – mi disse a bassa voce, per non farsi sentire. – Tu non hai idea della soddisfazione. –
    Scossi la testa, sorridendo. Camille sapeva essere vendicativa come pochi, come si poteva capire da tutta quella avventura in cui ci aveva trascinati.
    – Ci sei ancora andata leggera. –
    – Lo so, lo so, – tornò seria per un secondo. – Sono troppo buona, che ci vuoi fare? – mi disse, ammiccando.
    Mi venne un’irresistibile voglia di baciarla e stavo anche per farlo, fregandomene di essere davanti agli occhi di tutto l’esercito, quando Mel e Andreas vennero verso di noi al piccolo trotto. Sospirai, mollando le redini del cavallo di Camille che avevo già afferrato per avvicinarmi a lei. Camille mi guardò con un’aria di scusa mista a felicità che mi fece venire voglia di fregarmene anche di Mel e Andreas. Per fortuna il mio cavallo decise per me e si allontanò un poco, per brucare un ciuffo di arbusti secchi.
    – Marcus, vieni, – mi chiamò Mel, avvicinandosi. – Dobbiamo andare a prepararci e indossare le armature. Tra poco passeremo il confine. –
    Le armature delle guardie della Principessa Elvere erano più leggere di quelle di Viride, con piastre color oro chiaro e dipinte di rosso. Vicino a me Mel, Andreas e Jared si vestivano rapidi. Gli elmi per nostra fortuna coprivano il viso, con un cimiero simile alla criniera di un leone. Con noi c’era un’altra cinquantina di guardie, tutte impegnate a cambiare i vestiti del deserto con l’armatura.
    Poco distanti da noi le dame di compagnia e Camille si stavano coprendo il viso con dei lunghi veli colorati, portati apposta da Egalia. Non era una tradizione di Albis ma Helena Elvere contava sul fatto che i soldati di Viride fossero sufficientemente ignoranti da non saperlo.
    Galoppammo rapidi lungo la china, lasciandoci alle spalle il fermento dell’esercito che si stava preparando. La torre si stagliava alta davanti a noi, meno rovinata di quanto mi fossi immaginato. Impalcature nuove, di legno, circondavano alcuni lati della struttura. Si sentiva il martellare degli strumenti sulla pietra: era evidente che c’erano delle riparazioni in atto. Sulla cima, tra i merli, si potevano osservare soldati camminare, osservando la terra attorno a loro. Alla base della torre alcune guardie riposavano dando le spalle alla porta, stringendosi nei vestiti per cercare di coprirsi dal vento che soffiava dal deserto, dietro di noi.
    La principessa Helena si muoveva in mezzo alla colonna, circondata dalle sue dame e da Camille. Io e gli altri eravamo mischiati alla scorta, muti come pesci e cercando di essere il più invisibile possibile.
    I soldati di guardia della torre si alzarono e si disposero davanti a noi, obbligando il nostro drappello a fermarsi. La Principessa si fermò, mentre la sua scorta lentamente si apriva.
    – Fermi, ordine del regno di Viride. Chi siete voi? – ordinò la guardia.
    La Prima avanzò, altera sul suo cavallo scuro, spingendosi avanti fin quasi a pestare i piedi al soldato viridiano. Per una volta che l’alterigia della consigliera non era rivolta verso di noi, mi sentii divertito e quasi orgoglioso di quel comportamento.
    – Stai parlando con la principessa Helena Elvere, viridiano. Porta rispetto. Siamo stati invitati dalla regina Celia in persona per assistere al matrimonio del suo primogenito, ma se questo è il benvenuto torneremo ad Albis. –
    Il soldato fece subito marcia indietro: – Perdonatemi, vostra altezza, – mormorò chinando il capo, rivolgendosi alla Principessa. – Non lo sapevo. Potete passare, però… –
    La Prima aveva un cipiglio minaccioso, il suo accento più forte per la rabbia e l’indignazione: – Però? – 
    La guardia impallidì ma non cedette. In effetti era da ammirare per il suo coraggio.
    – Dovreste farmi vedere il viso. Ci sono dei ricercati, che cercano di entrare nel nostro regno. Dobbiamo assicurarci che non siano con voi. –
    Sudai freddo a quelle parole. Individuai con gli occhi la figura di Camille poco davanti a me, rigida nei suoi vestiti gialli. Da come le mani stringevano le redini capii che anche lei era spaventata. Ogni nostra speranza era appesa ad un filo.
    Mentre il soldato parlava la Prima spalancò gli occhi, faceva quasi paura. Stava per aprir bocca che la Principessa la fermò: alzò solo la mano e la consigliera chinò il capo e tacque, spostandosi per lasciare posto a Helena Elvere.
    – Non scopriremo il viso, nessuna di noi lo farà. Non romperemo le nostre tradizioni per voi, – la Principessa parlava piano nella lingua straniera, gelida. – Sono stata invitata dal vostro sovrano e sono qui in rappresentanza di mia madre, la regina Vanessa Elvere. Un affronto a me è un affronto a lei. Ora, o ci fai passare e allora farò finta che questa tremenda scortesia non sia mai avventura, oppure tornerò indietro per riferire ogni cosa. Pensa, e ricorda bene con chi stai parlando. –
    Il soldato guardò Helena mentre parlava, probabilmente pensando a cosa sarebbe stato meglio per lui: in fondo, che possibilità c’erano che i suoi ricercati fossero al seguito dell’erede al trono di Albis? Non osò dire nient’altro, si fece solo da parte. Il drappello iniziò a sfilare lentamente dietro alla Principessa, mentre lei rimase ferma a fissare il soldato che aveva osato contrariarla. In quel momento capii che Helena Elvere sarebbe stata una grande sovrana, anche migliore di sua madre. Sembrava priva di paura, sicura di sé, orgogliosa e regale: era ovvio il motivo per cui Camille l’apprezzava. Era così che doveva essere una Regina.
    Prima di andarsene, con ancora la Prima al suo fianco, Helena tornò a rivolgersi alla guardia: – Il confine è sguarnito da secoli, da quando c’è il patto. Come mai vedo i segni di un esercito in movimento, qui intorno? –
    Il soldato alzò il viso, guardando il velo che oscurava il volto della Principessa. I compagni alle sue spalle si lanciarono occhiate preoccupate: – È un’esercitazione, vostra altezza. Niente di che. –
    Helena Elvere fece una risata cristallina, che quasi rimbombò nella piana: – Deve essere il periodo, allora – disse, girando la testa verso il confine e verso la sua terra. Sull’orizzonte si vedevano i bagliori del sole sul metallo di centinaia di armature, lance, armi. Le tende rosse dell’esercito di Albis si alzavano verso il cielo.
    Helena spronò il cavallo e superò il gruppo di guardie, lasciandole attonite a osservare il confine. Potrei giurare che sorrideva divertita mentre galoppava verso l’inizio del nostro piccolo drappello.
    Camille mi si avvicinò mentre si tirava su il velo, scoprendosi il viso: – Ce l’abbiamo fatta. –
    – Così sembra, – mormorai mentre cavalcavamo verso nord. Un brutto presentimento si fece strada dentro di me mentre guardavo verso nord, dove bassi nuvoloni neri si stavano raggruppando in cielo: – Almeno per ora. –
 
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE!

Ciao a tutti! Prima di tutto ci tengo a scusarmi per la lunga attesa, ma ricominciare a scrivere questa storia dopo l’estate è stato veramente, veramente difficile. Avevo persino pensato di lasciarla lì e riprenderla più in là nel tempo, ma per fortuna mi sono costretta a continuarla. Dico per fortuna perché sono contenta di come sia venuto questo impossibile quindicesimo capitolo.
Comunque, incredibile a dirsi e ancora di più a vedersi, ecco qui il nuovo capitolo. Spero che sia venuto bene e soprattutto che sia piaciuto. La vicenda è quasi finita, ho previsto ancora circa cinque capitoli… diciamo che siamo ai colpi finali.
Grazie, come sempre, a tutti quelli che leggono, recensiscono, hanno messo la storia tra le seguite o le preferite (: Fatemi sapere che ne pensate!
Baci,

LyaStark

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Capitolo 16
*** AVVISO! ***


AVVISO!

Ciao a tutti!
Se avete aperto questa pagina sperando in nuovo capitolo, mi dispiace che siate rimasti delusi.
È passato tanto tempo da quando ho aggiornato questa storia e ci sono diverse ragioni per il mio ritardo.
In primo luogo, mi sono accorta che in questa storia c'erano tante cose che non funzionavano, a partire dai personaggi e finendo con la trama in sè. In più mi sono resa conto che non stavo scrivendo questa storia come avrei voluto che fosse scritta. Me la tiro dietro da tanto, tanto tempo, e vorrei renderle giustizia come merita.
In secondo luogo, come dire... ha iniziato ad annoiarmi. E se annoiava me, che la stavo scrivendo, avrebbe di sicuro annoiato anche voi che la state leggendo. Questo ci riporta direttamente al punto uno, cioè: questa storia ha bisogno di una rimessa a posto. Radicale, aggiungerei.
Ultimo, ma non per importanza, era da molto tempo che non riuscivo più a scrivere. Scrivevo e cancellavo, scrivevo e cancellavo, e quando va così forse è il caso di fermarsi un attimo e fare ordine nei propri pensieri.
Mi dispiace per tutti quelli che mi hanno seguita fino a qui e che non hanno ancora visto la fine di questa storia, ma non disperate.
Piano piano, con molta calma e tranquillità, ho riniziato a vedere questa storia dal Capitolo 1 cercando di risistemarla. Sarà un lavoro lungo e faticoso ma spero di farcela. Spero di riuscire a rimettermi in carreggiata e tornare a pubblicare questa storia a cui tengo tanto. Quando succederà la pubblicherò come nuova e cancellerò quella vecchia. Già da ora però posso dirvi che ci sono molte novità all'orizzonte.
Grazie dell'attenzione e scusate per il papiro, che come lunghezza eguaglia all'incirca quella dei capitoli!

Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya

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