Chalybe Ignique Annales- Cronache di acciaio e di fuoco

di Ayr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Chalybe Ingique Annales- Cronache di acciaio e di fuoco

 

Prologo

La vita è solo un'ombra che cammina,
un povero commediante che si pavoneggia

e si dimena per un'ora sulla scena,
e poi cade nell'oblio;
la favola di un'idiota, piena di rumore e foga,

che non significa nulla.

-William Shakespeare-

Il gocciolio ritmico e lento che giunge lontano e ovattato, come da un'altra dimensione, è l'unico suono che accompagna la mia angosciosa attesa, scandendone il tempo, che trascorre lentamente.
Non ho idea di quanti giorni io abbia trascorso rinchiuso qui, ed è alquanto probabile che questi stessi giorni siano diventati settimane, se non addirittura mesi.
Il tempo in questa cella scorre monotono e sempre uguale a sé stesso, sospeso tra un sonno agitato, popolato da incubi mostruosi, e un dormiveglia tormentato da ricordi, rimorsi e timori dai quali mi risveglio ugualmente affannato e sconfitto. Non so quale tra i due sia il male minore.
Le catene mi segano i polsi e mi limitano nei movimenti, ho le gambe anchilosate ma non ho possibilità di muoverle per riattivare la circolazione: sono incatenato in una posizione scomoda e statica, nella spasmodica attesa del mio verdetto.
Mi hanno accusato di tradimento, ma sono solo una vittima innocente degli eventi, incastrata da qualcuno più furbo e spietato di me, che non ha avuto rimorsi nel coinvolgermi in tutto questo e nel far ricadere la colpa sul mio capo, su cui, ora, pende la lapidaria sentenza: verrò destituito dal mio incarico e cacciato da quella che fino a quel momento era stata la mia casa, sarò costretto a vivere di stenti ed espedienti, senza più un’occupazione, una casa, una famiglia.
Ne sento già il puzzo che si insinua tra gli spifferi della porta di legno robusto, rinforzata da ferro e glifi antichi, mi si appiccica addosso come sudore, e non mi abbandona, ammorbandomi con il suo tanfo.
Sono stanco di aspettare, ormai so quale sarà il mio destino e, sebbene non lo meriti, non vedo l'ora che sia compiuto. Sono consapevole che sia troppo tardi, ormai, per qualsiasi cosa: troppo tardi per scagionarmi, troppo tardi per redimermi, troppo tardi per rimediare ai miei errori e troppo tardi per evitare che il corso degli eventi precipiti come una frana, travolgendomi in pieno.
Forse avrei dovuto prevederlo, i segnali c'erano, ma non sono stato capace di vederli e di interpretarli, o non ne ho avuto il tempo o la voglia… ed ora eccomi qui, legato come un quarto di bue, pronto per essere macellato. Verrò umiliato, un’ultima volta, la più terribile: mi verrà strappato tutto ciò che fino ad ora ho posseduto e il mio unico compagno e conforto di una vita verrà distrutto. Una parte di me morirà inevitabilmente con lui, quando il Sigillo verrà spezzato e rimarrò spezzato anch’io. Per sempre.
La vita è maledettamente ingiusta e qualsiasi essere ne è schiacciato e sopraffatto, pur senza esserne consapevole. È quello che è successo a me, perché io non ho colpe e non ho rimorsi, e vado al giudizio con la serenità della consapevolezza di una coscienza pulita.
Non sono mie le mani lorde di sangue, io mi sono limitato a eseguire il mio dovere, mettendo a rischio la mia vita più volte più di portarlo a termine, e non ho rimpianti.
Ho vissuto la mia vita appieno, facendo quello che desideravo e riuscendo a realizzare il mio più grande sogno; ho sperimentato, ho viaggiato, ho visitato luoghi incantevoli e sublimi, terribili e affascinanti, ho incontrato persone di diverse razze, culture idee e gusti diversi, ho avuto modo di conoscere lingue e tradizioni diverse dalla mia e di apprezzarle fin nei minimi particolari, ho assaggiato cibi esotici, mi sono cullato nel delicato calore della pelle di una donna e mi sono inebriato del profumo di quella di un uomo. Ho sfruttato qualsiasi occasione il fato mi abbia presentato, assaporando tanto le amarezze quanto le dolcezze di un'esistenza vissuta fino in fondo.
Non mi rammarico di nulla e posso dire di avere raggiunto la pace interiore, quello stadio di assoluta serenità che si prova pur in situazioni avverse, in cui le difficoltà e gli stenti non ti tangono, ma scivolano sulla tua pelle come pioggia, senza avere la possibilità di ferirmi.
L'unica cosa di cui mi dispiaccio è del fatto che verrò considerato come un traditore, e che la mia memoria rimarrà per sempre infangata da una nomea che nonmi merito e che non mi si addice.
Non voglio essere ricordato in questo modo, non se ho anche la più remota possibilità di raccontare come sia veramente andate le cose, e di dimostrare la mia innocenza.
Narrerò la mia storia e lascerò che siano i posteri a giudicarla, nella speranza che qualcuno riesca a vedere come io sia stato solo una vittima ingenua di un enorme inganno ben architettato.
Tutto è iniziato quella dannatissima notte, pochi giorni prima delle Prime Nevi, quando ho avuto la malsana idea di cercare di recuperare la fiducia dei miei compagni e dei miei superiori...

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Capitolo 2
*** I ***



I


«Ehi rossa, ti andrebbe di passare una notte di fuoco indimenticabile?»
Arandil si voltò, e l'uomo che gli aveva rivolto la parola per poco non si soffocò con la birra, che gli era andata di traverso.
«Ma tu non sei una femmina…» esalò in un grido strozzato, «Poco importa, una bottarella la darei pure a te.»
Arandil squadrò da capo a piedi l'uomo, le sopracciglia sottili a formare due archi di incredulità: aveva tratti del volto grossolani e insipidi, una zazzera di capelli castani e spenti occhi azzurri, resi liquidi e vagamente allucinati dall'alcol. Era ubriaco fradicio e faticava a reggersi in piedi. Arandil non si sorprese di essere stato scambiato per una ragazza -gli capitava molte più volte di quante volesse ammetterne- né, tantomeno, che l'uomo fosse disposto ad andare a letto con lui anche dopo aver scoperto che fosse un maschio; probabilmente non sarebbe stato in grado di distinguere una mucca da un cavallo e avrebbe fatto le stesse proposte indecenti a entrambi.
«Ti ringrazio, ma per stasera passo» gli rispose gentilmente e l'uomo scrollò le spalle per poi allontanarsi barcollando, «Sarà per un'altra volta, ma se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi» aggiunse da sopra la spalla, facendogli l'occhiolino. Arandil, per tutta risposta, alzò gli occhi al cielo, esasperato: perché attirava sempre e solo lui tutti i casi umani, gli psicopatici e i maniaci?
«Ne vuoi un altro?» gli chiese il barista indicando con un cenno il suo bicchiere vuoto, Arandil si concesse qualche secondo per rifletterci: avrebbe potuto berne altri tredici di quegli intrugli amari e annacquati ma non sarebbero serviti a fargli dimenticare la sua umiliazione, né ad affogare la sua disperazione e la sua frustrazione, ancora dolorosamente presenti e brucianti.
«No, grazie. Questo era l'ultimo» rispose alla fine, lasciando cadere sul bancone scheggiato un paio di dracme.
Si alzò e un capogiro lo colse, destabilizzandolo per un momento: non credeva di aver bevuto così tanto, ma doveva aver perso il conto dopo il sesto o settimo bicchiere; gli elfi, di solito, avevano una maggiore resistenza all'alcol e ci voleva ben altro per ubriacarli, ma quell'intruglio doveva essere stato più forte di quanto non sembrasse a prima vista.
Arandil aspettò che le pareti della taverna smettessero di danzargli in tondo davanti agli occhi e si staccò dal bancone, su cui si era appoggiato per non cadere.
«Ehi! Tutto bene?» gli domandò il taverniere con voce atona e senza un reale interesse, probabilmente temeva che da un momento all'altro l’elfo avrebbe riversato il contenuto del suo stomaco sul pavimento appena pulito, ma Arandil annuì lentamente e si avviò con passo strascicato verso l'uscita della "Lucerna".
Il freddo della notte lo accolse e lo aiutò a riprendersi, si strinse nel mantello scuro e affondò le mani nelle tasche della cappa, mentre rivoli di vento gelido gli solleticavano la pelle scoperta, facendolo rabbrividire.
A Rondin il freddo dominava qualsiasi stagione dell'anno, ma con l'avvicinarsi delle Prime Nevi, le temperature erano scese vertiginosamente, e l'aria gelata si era fatta più acuta e pungente. Per un Carnifinde delle rigogliose e miti pianure dell'Illorion meridionale, quel clima era ancora più insopportabile, e non si sarebbe mai avventurato di sua spontanea volontà verso quel paesino arroccato tra le pendici dei monti Talamor. Proprio per questo, Arandil aveva deciso di fuggire a Rondin: nessuno si sarebbe mai immaginato che fosse andato lì, e nessuno lo avrebbe cercato; sentiva la necessità di starsene per conto proprio, solo, con i suoi pensieri.
Questi ultimi ritornavano continuamente al giorno in cui era stato sollevato dal suo incarico, ormai quasi una settimana prima: era stato un incontro triste e imbarazzante, uno spettacolo pietoso e deplorevole, con i più alti rappresentanti del Capitolo che scuotevano la testa rassegnati e delusi perché Arandil si era rivelato non essere in grado di portare a termine un compito così elementare, banale, che rasentava il ridicolo, più volte si era lasciato sfuggire quel pirata, e mai era stato capace di stanarlo e neutralizzarlo. Era una vergogna per l'Ordine e l'elfo si era sorpreso che non l'avessero ancora radiato ma si fossero limitati a passare l'incarico a qualcun altro: erano stati fin troppo indulgenti con lui.
Un moto di rabbia percorse i nervi di Arandil che tirò un calcio a uno dei ciottoli sconnessi della stradina che si inerpicava tra le casupole di legno, vagamente illuminata da radi lampioni al neon sfarfallanti.
La parte che lo faceva più imbestialire dell'intera faccenda era proprio il fatto che avessero affidato il compito a qualcun altro, e non ad uno qualsiasi, bensì a quell'egocentrico di Adam Browning: il suo arci nemico, che non perdeva occasione per sbeffeggiarlo, umiliarlo e ostentare la sua superiorità.
Era anche per sfuggire a lui che si era rintanato tra i monti Talamor: era disposto anche a vivere per sempre con dieci gradi sotto zero piuttosto che rivedere il suo sorrisetto soddisfatto e la sua faccia fintamente contrita quando gli era stata affidata la missione. Quel giorno si era trattenuto a stento dal saltargli al collo e strappargli l'unico occhio che gli rimaneva; avrebbe smesso di fare il presuntuoso, al buio.
Ma Arandil non poteva nemmeno biasimarlo più di tanto: era stata solo colpa sua se Adam aveva avuto l'ennesima possibilità di distinguersi tra i Dragoron e pavoneggiarsi; se fosse riuscito a catturare quel maledettissimo pirata, a quest'ora sarebbe stato lui a camminare a testa alta guardando tutti dall'alto in basso con aria di sufficienza...Ma non ne era stato capace, e ora ne pagava le conseguenze.
In sua difesa, poteva dire che il pirata era veramente sfuggente e possedeva parecchie risorse inaspettate: innanzitutto la mirabolante nave volante, l'Andromeda, che pareva scomparire tra le nubi di vapore e smog, senza lasciare traccia; per non parlare delle armi sofisticate di cui era dotata -baliste con gittate assurde, cannoni che sparavano palle a velocità incredibile e lanciafiamme che sputavano fuoco che si fortificava con l'acqua, rostri e spuntoni acuminati ricavati da ossa di balena, come l'intero scheletro della nave stessa- e l'equipaggiamento della ciurma, dotata di spade e pistole che nemmeno i Dragoron più ricchi e famosi potevano permettersi.
Arandil si domandò come quell'orco rozzo e analfabeta fosse riuscito a procurarsi tutto quell'armamentario e, soprattutto, a saperlo usare con una precisione e un'efficacia disarmanti, senza aver ancora fatto saltare in aria la nave; alcuni congegni avevano richiesto intere settimane di studio da parte dei migliori ingegneri per poterne comprendere il funzionamento!
Con un sorriso cattivo ad increspargli appena le labbra carnose, l'elfo sperò che uno di quei cannoni colpisse Adam in pieno, gli tranciasse metà del corpo e lo facesse precipitare su una distesa di spuntoni rocciosi: sarebbe stato uno spettacolo davvero appagante.
Con questi pensieri vendicativi intrisi di sangue, arrivò di fronte ad una stamberga. Pareva un fungo infestante cresciuto sulla parete rocciosa, e di un fungo aveva anche la forma: un ampio tetto leggermente bombato, e rattoppato con materiali di recupero, si adagiava mollemente su un quadrato di legno, compromettendone la solidità e schiacciando quelle povere pareti sotto il suo immane peso; nonostante la pressione costante, però, la costruzione non era crollata su sé stessa e rimaneva miracolosamente in piedi. Antistante alla casa si apriva uno spiazzo di terra brulla coperta di neve, su cui si adagiava un'imponente ombra scura dalle forme indistinte e inquietanti, l'elfo le si avvicinò e le assestò un'amichevole pacca; l'ombra rispose con un'eco vagamente metallica, ma rimase immobile.
Il volto pallido della luna si affacciò in quel momento dalla coltre di nubi sfilacciate che macchiava il cielo altrimenti terso, ed illuminò la sagoma, svelandone il vero aspetto: sotto la luce lattiginosa, si delinearono i contorni di un mostro arrotolato su se stesso e come addormentato, il corpo filiforme ed elegante era color rame ed era rivestito di un materiale rosso-dorato che replicava le squame delle creature in carne e ossa; la schiena era ricoperta di placche dello stesso tipo, sotto le quali spuntavano tubi sottili che si arrotolavano attorno al collo e terminavano ai lati della bocca, che riusciva a muoversi tramite un complesso sistema di ingranaggi incastrati gli uni negli altri. Altri ingranaggi collegavano le quattro zampe al resto del corpo, mentre una lunga coda serpentiforme, protetta dalle stesse placche, era accoccolata accanto al ventre, su cui si intravedevano sprazzi di una sorta di fornace, ora buia, da cui traevano origine i tubicini. Il muso allungato era decorato da un paio di lunghe corna appuntite e due lunghi filamenti di rame si allungavano dal mento del mostro, facendolo somigliare a un enorme drago cinese di metallo. Gli occhi, al momento, erano abissi scuri e profondi, dei quali non si riusciva a distinguere il fondo; sembravano spenti, come il resto del drago. Solo un lieve lucore proveniente dalla fronte della bestia e pareva l'unica cosa animata: si trattava di un complesso intreccio di linee sinuose e curve che si annodava proprio tra le due corna, ed era simile ai glifi di epoche remote e quasi del tutto dimenticate, studiate dagli eruditi. Il segno emanava un tenue bagliore violaceo che si rispecchiava negli occhi grigio acciaio dell'elfo, Arandil lo sfiorò, e per un momento, la sua luce si intensificò per poi tornare al consueto bagliore vagamente percettibile, non appena l'elfo allontanò le dita.
Quello era Krupfer, il suo drago meccanico, l'emblema della sua appartenenza all'Ordine dei Dragoron, gli ultimi rimasti dei leggendari Cavalieri dei Draghi. Con il passare degli anni queste creature si erano pian piano estinte diventando mito; ne rimanevano solo pochi esemplari, che si erano rifugiati in luoghi lontani e inaccessibili, ed erano ben attenti a non lasciarsi scovare dagli uomini che gli avevano decimati nel corso dei secoli, riducendone abbondantemente la popolazione.
L'Ordine dei Cavalieri, però, era rimasto e necessitava di una cavalcatura resistente, potente, devastante e che incutesse lo stesso terrore e lo stesso rispetto di un drago.
Fiumi di idee e progetti, più o meno realizzabili, erano stati presi in esame da ingegneri, fabbri, architetti, chimici e addirittura alchimisti e studiosi dell'occulto, oltre che, ovviamente, dai Cavalieri stessi, ma senza giungere ad alcuna conclusione soddisfacente. Fino a quando, un modesto studente di ingegneria, tale Vladimir Dragoron, non aveva avuto la brillante illuminazione di draghi meccanici che emulassero in tutto e per tutto le caratteristiche dei loro cugini in carne e ossa: da allora i Cavalieri dell'Ordine cavalcavano quelle bestie mastodontiche di metallo e ingranaggi, che nel corso degli anni erano state sempre più perfezionate e migliorate, fino a giungere alla forma più o meno definitiva di una creatura come Krupfer.
Un'alchimista del secolo precedente aveva aggiunto un'innovazione in più, affinché quelle creazioni così pericolose e distruttive non finissero in mani sbagliate: studiando i vecchi alfabeti delle popolazioni che abitavano prima di lui quella terra, aveva scoperto l'esistenza di un vincolo che legava indissolubilmente un oggetto all'essenza di una persona; l'alchimista analizzò e migliorò i segni che formavano il vincolo e ne partorì una versione più potente e terribile: il Sigillo da lui creato non si limitava solo ad indicare l'appartenenza dell'oggetto al suo padrone e lo legava a lui, ma sigillava la volontà del suo possessore all'interno del manufatto, che dipendeva dallo stesso e si disintegrava non appena quest'ultimo fosse morto. In questo modo nessuno, all'infuori dei Cavalieri cui era destinato, avrebbe potuto cavalcare e controllare una di quelle creature tanto magnifiche e prodigiose quanto letali e pericolose.
Arandil era stato fortunato e aveva avuto la possibilità di supervisionare la creazione del suo drago e di darne le direttive perché riuscisse come lui desiderava: magnifico, bellissimo e velocissimo, perché nessuno degli altri Cavalieri aveva optato per una forma più slanciata e aerodinamica; elegante e sinuoso, che si muoveva nell'aria con grazia, senza l’ingombro di ali enormi, ma grazie ad un complesso sistema di motori a propulsione ideato da lui stesso.
Il progetto aveva tenuto impegnati gli ingegneri per quasi sette anni, ma ne era valsa la pena: la sua creatura era eccezionale.
Lo stesso tempo gli era occorso per diventare un vero e proprio Dragoron e poter lavorare al servizio dell'Impero o di chiunque altro avesse richiesto i suoi servigi. Gli ultimi erano stati i membri della Compagnia Orientale: quei mercanti dalla pelle liscia e nera, vestiti di abiti di seta e adorni di splendidi gioielli, gli avevano chiesto di occuparsi del famigerato Krugar Mano Scarlatta, uno dei peggiori Pirati dei Cieli degli ultimi tempi, che aveva seriamente compromesso i guadagni della Compagnia assaltando e depredando incessantemente le loro aeronavi.
Era stato proprio quel pirata a sfuggirli per ben due mesi, continuando a fare il bello e il cattivo tempo e innervosendo sempre di più i mercanti, a tal punto che gli stessi avevano chiesto che l'incarico venisse affidato a qualcuno di più qualificato.
Così, per colpa di quell'orco, si ritrovava a dover vivere in una stamberga, lontano da chiunque lo conoscesse anche solo di vista, costretto a una vita ritirata e quasi eremitica per evitare che l'insoddisfazione dei mercanti e dell'Ordine lo perseguitassero ogni singolo giorno, attraverso i loro sguardi di amarezza e disapprovazione.
Arandil si riscosse da quei pensieri deprimenti: avrebbe trovato il modo per redimersi e riscattarsi, si era ritirato in quel paesino proprio per riflettere su questo e per trovare la maniera di riacquistare la fiducia e il rispetto del suo Ordine; non lo avevano espulso, pertanto credevano ancora in lui, e l'elfo doveva dimostrarli che non si erano sbagliati un'altra volta.
Che andassero tutti in malora: i mercanti, Krugar e Adam, non erano più un suo problema e poteva concentrarsi solo su come dimostrare agli Cavalieri che era ancora degno di essere chiamato Dragoron e di cavalcare il suo superbo animale.
Ne era stato estratto il Cuore non appena era giunto a Rondin, per non allarmare troppo i suoi abitanti, e ora giaceva spento in quello spiazzo, in attesa che il suo padrone lo riaccendesse e tornasse a solcare con lui i cieli immensi.
Arandil chiuse gli occhi e allargò le braccia, lasciando che l'aria della notte lo accarezzasse e lo illudesse di essere in alto, tra le nubi e gli albatri. Aveva sempre amato volare, e fin da piccolo aveva desiderato diventare un aviatore…fino a quando non aveva scoperto l'esistenza dei Dragoron: da allora si era impegnato e aveva messo tutto sé stesso affinché potesse entrare nel Palazzo di Cristallo per poter apprendere quelle nozioni e assorbire quella conoscenza necessari a diventare un vero Cavaliere.
Non avrebbe gettato via tutti quegli anni di fatica, notti insonni, lacrime, sudore e speranze per uno sciocco errore, per un semplice avvenimento che non era andato secondo i piani. Lui meritava di essere un Dragoron, aveva lavorato sodo per guadagnarsi il titolo e il suo drago, non avrebbe lasciato che Krugar, Adam o chiunque altro gli sottraessero il suo sogno.
Avrebbe lottato pur di mantenerlo e si sarebbe mai più lasciato mettere i piedi in testa da nessuno.
Con questi pensieri, Arandil riaprì gli occhi e si rintanò in casa per riposarsi.



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Capitolo 3
*** II ***


II


Una fiammata divampò, e se non fosse stato per la prontezza di riflessi di Ariel e il suo provvidenziale scatto di polso, l’Andromeda sarebbe stata ridotta a un nugolo di farfalle di cenere.

Krugar imprecò tra i denti e si aggrappò al parapetto, per evitare di essere sbalzato fuori bordo dal movimento brusco e inaspettato.
«Chi è la testa di cazzo che era di vedetta?» sbraitò.
«Monkey, signore» rispose qualcuno.
«Giuro che se dovessimo uscire vivi di qui, gli strappo gli occhi e glieli faccio ingoiare, tanto non li usa, può benissimo farne a meno!»
L’orco era stato colto alla sprovvista: un attimo prima veleggiava tranquillamente tra le nuvole insanguinate dal sole morente, ed esattamente un momento dopo, era abbarbicato al parapetto come una cozza allo scoglio, mentre una fiammata passava a pochi centimetri dal suo naso. Tutto questo senza che quell’idiota avesse visto avvicinarsi qualcuno o qualcosa.
Una figura scura si stagliò contro il cielo infiammato dai caldi toni del crepuscolo: una mastodontica bestia di ferro, nerboruta e possente, dal collo tozzo provvisto di acuminati spuntoni di titanio, corna d'acciaio rinforzato e lanciafiamme supplementari ai lati della bocca che vomitavano fuoco e scintille; l’orco tornò a domandarsi come avesse fatto a non vederlo Monkey.
Il suo cavaliere si distingueva appena in mezzo alla giungla di acciaio e titanio dell'animale. Da ciò che riusciva a intravedere Krugar era longilineo e indossava un lungo cappotto dalle falde ampie -o un mantello- che le raffiche di vento, prodotte dalle ali del drago, gonfiavano come una nuvola temporalesca.
Doveva trattarsi di un altro di quei Dragoron, il secondo che gli mettevano alle calcagna a distanza di un paio di mesi, ed era fastidioso e inopportuno quanto quello che l'aveva preceduto. Ma la sua cavalcatura era decisamente più minacciosa, sebbene più pesante e difficile da manovrare, e anche il cavaliere appariva più temibile del suo predecessore e anche meglio armato: il secondo particolare che l'orco notò, infatti, fu lo scintillio di una canna di fucile.
Ma Krugar non si lasciò intimidire: a quella distanza, il cavaliere sarebbe riuscito a colpire a malapena il rostro che spuntava sulla punta del muso del drago, simile al corno di un rinoceronte; il vero problema era rappresentato dal drago meccanico stesso e dalle sue poderose fiammate.
«Ai posti di combattimento, aprite le Bocche» ordinò Krugar, fece un cenno al timoniere, che ruotò il timone e la nave con lui, in modo che il fianco e tutti i suoi scintillanti cannoni fossero in bella mostra davanti all'incosciente che aveva osato attaccarli.
«Facciamogli vedere con chi ha a che fare!» digrignò tra i denti.
«In nome dell'Impero e della Compagnia Orientale, vi dichiaro in arresto per aver commesso crimini contro la sicurezza dello stato e l'incolumità di coloro che la abitano.» la voce del cavaliere giunse distante e appena udibile, sommersa dalla cacofonia di suoni concitati che regnava sul ponte.
«Arrendetevi ora o..» le sue parole vennero troncate dal fischio di un ordigno che esplose e pochi centimetri dal suo volto, dando inizio alla battaglia, «Sarò costretto ad usare le maniere forti» concluse imperturbabile, spazzando via i rimasugli della bomba dalla manica della giacca di pelle rossiccia.
L'aria si riempì del sibilo dei proiettili, non semplici palle di cannone, ma congegni esplosivi che scoppiavano a contatto con l'aria e potevano rivelarsi estremamente letali: Mitch non era stato abbastanza attento e l'esplosivo si era portato via buona parte del suo volto e la mano sinistra; dopo questo episodio, il vecchio pirata era diventato per tutti Miccia, artificiere ufficiale dell'Andromeda e primo ad aver avuto l'onore di testare sulla propria pelle la potenza devastante della polvere pirica scovata alle Isole.
Il cavaliere non si scompose e fece avanzare il drago nel mezzo dello spettacolo pirotecnico.

«Un osso duro questo nuovo» commentò tra i denti l'orco mentre dava il segnale per una nuova scarica, che colpì il drago, ma non riuscì a intaccare la sua armatura né le ali, costituite da una membrana ignifuga e scintillante come argento.
Il drago spalancò le fauci, rivelando un inferno scarlatto, di fiamme e lingue di fuoco che, pian piano, si concentrarono in una poderosa fiammata che venne scagliata all’indirizzo della nave.
Il timoniere virò bruscamente, scaraventando Krugar contro il parapetto ma evitando che la nave venisse carbonizzata, l'orco ringraziò la provvidenziale abilità di Ariel per l’ennesima volta e iniziò a sbraitare ordini: non c'era tempo da perdere, prima che il drago potesse produrre un'altra fiammata ci sarebbero voluti un paio di minuti e in quel tempo sarebbero potuti passare al contro-attacco. Una nuova gragnola di colpi sommerse il drago, ma i lanciafiamme laterali le bruciarono prima che potessero scoppiare.
Evidentemente, quei cosi sono collegati a un altro Camino pensò Krugar osservando con più attenzione la bestia; purtroppo non si poteva intuire nulla del meccanismo interno che la regolava: ogni centimetro di quella creatura era puro acciaio o titanio indistruttibile, trattati entrambi per resistere a qualsiasi cosa.
Il Sigillo sulla fronte della creatura aveva iniziato a emanare una forte luce verde che si sprigionava anche negli occhi vuoti della bestia, e l'orco aveva imparato a sue spese che non era mai un buon segno: il drago era pronto per una nuova fiammata, prima di quanto Krugar si fosse aspettato.

Deve essere tecnologicamente più avanzato, o in quel pancione enorme si nasconde più di un Camino...
Le sue riflessioni vennero bruciate da una nuova vampata, così inattesa e subitanea che Ariel non riuscì ad impedire che le lingue di fuoco lambissero i rostri e il fianco d'osso della nave, rendendoli incandescenti.
Krugar imprecò tra i denti mentre una risata cristallina si levava dalle parti del Dragoron, sicuro della vittoria. Era ancora abbastanza lontano e solo le fiamme del drago potevano raggiungere l'Andromeda, se solo fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza, avrebbe potuto usare uno di quegli speroni di metallo per sventrare la nave, e a quel punto sarebbero calati a picco e si sarebbero sfracellati sul suolo sotto di loro. Ma, probabilmente, la Compagnia li preferiva vivi e il cavaliere non si sarebbe arrischiato più di tanto: solo loro erano a conoscenza dell’ubicazione del luogo dove avevano nascosto le merci che avevano rubato, e la Compagnia avrebbe dovuto prenderne almeno uno che fosse ancora in grado di parlare.
Potevano sfruttare questa cosa e volgerla a proprio favore: se il cavaliere si fosse limitato a lanciare attacchi a distanza per contenere i danni, non ci sarebbe stato il rischio di venire speronati, e loro sarebbero stati più liberi di muoversi.
«Dunabar, inutile di un nano, muovi quelle gambette storte che ti ritrovi e va a prendere l'artiglieria pesante!» tuonò l'orco rivolto a un essere piccolo dalla lunga barba nera e furbetti occhi grigi, il nano sussultò e corse sotto coperta.
«Quell'idiota pensa ancora di poterci battere» la risata gutturale di Krugar si propagò per il ponte della nave, presto raggiunta all'eco di quelle della sua ciurma, «Non ha la più pallida idea contro chi abbia deciso di mettersi.»

Krugar Mano Scarlatta, temibile pirata dei cieli e terrore di tutto ciò che navigava nel cielo e sul mare, non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da un damerino a dorso di drago; era già riuscito a sconfiggere più volte l’altro cavaliere, e quegli enormi bestioni meccanici non lo spaventavano per nulla.
«Sfiancatelo!» ordinò ai suoi uomini, «Fategli sprecare tutto il fuoco che ha in corpo finché non ne rimarrà più nemmeno una goccia!»

Un piano si stava lentamente formando nella sua testa, era ambizioso, ma non impossibile…sempre che i calcoli fossero corretti. L’Andromeda poteva trasportare una Waahl di medie dimensioni e quell’ammasso di ferraglia doveva essere più leggero se voleva avere una possibilità di alzarsi in volo, probabilmente il suo scheletro era costituto da tubi cavi, come le ossa degli uccelli: non sarebbe stato un problema trascinarlo fino a terra, e incatenato al suolo, parte del suo vantaggio sarebbe andata persa.
Dunabar riemerse reggendo tra le mani un arpione grande il doppio di lui e pesante il triplo: era uno degli ultimi “acquisti” di Krugar, veniva usato per la caccia alle Waahl, le enormi balene volanti rosse che solcavano i freddi cieli del Nord, ricercate per il loro prezioso grasso e le loro ossa resistenti. L’Andromeda era stata ricavata proprio dallo scheletro di una di queste, e le ossa della cassa toracica erano dei perfetti e naturali spuntoni indistruttibili. Inutile a dirsi che la caccia alle Waahl fosse illegale, così come la vendita di qualsiasi strumento per praticarla.

«Blake, dà una mano al nano!» un uomo allampanato dai lunghi capelli neri si precipitò a soccorrere Dunabar che stava soccombendo al peso del rampone: per abbattere quelle creature colossali e poterle trascinare fino a terra, un semplice arpione non sarebbe bastato, e quell’arma era capace di penetrare qualsiasi cosa; Krugar sperò che funzionasse anche per l’armatura di acciaio e titanio del drago, o almeno per la membrana che costituiva le ali, che sembrava più fragile.
Mentre i due montavano l’arpione, Ariel faceva piroettare l’Andromeda per sottrarsi agli attacchi sempre più serrati del Dragoron. L’orco dovette ammettere che quella creatura era un portento: rispetto agli altri aveva la possibilità di effettuare colpi ravvicinati; probabilmente il circuito era formato da diversi Camini che si accendevano in alternanza in modo che il drago non rischiasse mai di rimanere senza munizioni. Una trovata davvero ingegnosa, Krugar non poteva permettersi di sottovalutare quel cavaliere decisamente più scaltro e pericoloso. Ben presto, però, la scorta di zolfo sarebbe terminata e il cavaliere si sarebbe ritrovato nudo e senza protezioni: quello sarebbe stato il momento per sferrare l’ultimo attacco.

Gli uomini dell’Andromeda rispondevano al fuoco con il fuoco e investivano il drago con scariche di proiettili, e agli esplosivi vennero affiancate le più canoniche palle di cannone, impedendogli di avvicinarsi ulteriormente.
«L’arpione è montato, signore» ansimò Blake.

«Lasciatelo a me» rispose l’orco marciando verso la prua della nave, dove il muso scheletrico della Waahl fungeva da polena e da supporto per la balista che avrebbe lanciato il rampone. Se i suoi calcoli erano esatti, in pochi minuti il drago avrebbe esaurito la scorta di combustibile e non sarebbe più stato capace di emettere nemmeno una scintilla.
«Ariel, fammi guardare negli occhi quel coglione!» strepitò Krugar, «Voglio godermi la sua faccia quando gli infilerò l’arpione nel culo!»
Il timoniere fece virare la barca e l’orco si trovò esattamente davanti al ventre di metallo della bestia, il cavaliere non sarebbe riuscito a spostarsi in tempo, i movimenti erano limitati dalla mole del drago, e l’uncino avrebbe colpito esattamente dove l’orco l’avrebbe indirizzato.
«Quando scaglierò l’arpione, preparate quelli più piccoli e tenete a portata di mano anche le reti. Ariel, non appena vedrai questo aggeggio perforare il drago, inizia la discesa!»

Date le direttive, il capitano si concentrò sul suo obiettivo: le fiammate erano diventate più rade e fiacche, ormai non raggiungevano più nemmeno la punta dei rostri d’osso dell’Andromeda: il momento propizio era giunto.
«Hai finito di fare l’eroe, stronzetto» mormorò Krugar mettendosi in posizione: si bilanciò sulle gambe allargate, afferrò saldamente la balista, chiuse un occhio, prese la mira, e fece scattare il meccanismo. L’arpione fendette l’aria con un suono acuto e straziante, simile al grido di una Banshee, e colpì l’ala membranosa del drago, lacerandola. Cavaliere e cavalcatura si sbilanciarono e anche la nave subì uno strattone ma, con grande sollievo e soddisfazione di Krugar, non calò a picco e resistette al contraccolpo; il cavaliere si aggrappò con forza alle creste puntute del dorso della bestia meccanica, nel tentativo di non cadere. L’ala integra continuava a sbattere, mantenendo in volo il drago, ma altri arpioni più piccoli e leggeri seguirono la stessa traiettoria del compagno e andarono a sfondare anche la seconda ala; un nuovo strattone fece perdere l’equilibrio a Krugar: la forza di gravità stava attirando l’ammasso di acciaio e titanio verso terra e con lui anche la nave.
«Resistete!» li incitò il capitano, «È come cacciare un’enorme Waahl di metallo.»
Gli uomini misero in moto gli argani e le corde che tenevano legati gli arpioni alla nave si tesero e iniziarono a rientrare, accorciando le distanze, altre fiocine andarono ad assicurare la presa sul drago; il cavaliere ormai era in trappola: l’unico modo che aveva per fuggire, sarebbe stato buttarsi e fare un volo di trenta metri, con la sicurezza di sfracellarsi sul terreno brullo sottostante.

«Ormai l’abbiamo in pugno» ghignò Krugar mentre vedeva avvicinarsi sempre di più quella massa metallica e scomposta. La cassa toracica della Waahl si era rivelata un’ottima gabbia, ma per rassicurarsi che del drago non sarebbe andato perso nemmeno un bullone, la ciurma lo imbrigliò in una rete metallica e assicurò il suo carico con funi resistenti.
«Portatemi il Dragoron» fu l’ordine del capitano, mentre un ghigno inquietante si faceva largo sul volto verde, dai tratti duri e spigolosi.
Ciò che i suoi uomini trascinarono fino al suo cospetto, si rivelò essere uno membro di quella razza avida e disgustosa che erano gli umani: il loro aspetto così spento e scialbo aveva sempre ripugnato l’orco, ma ciò che disprezzava di più di loro era il carattere meschino ed egoista, aggiunto alla totale mancanza di lealtà o di onore; erano capaci di tradire il proprio migliore amico pur di ottenere ciò che desideravano, o, addirittura, di uccidere un loro fratello, ed erano soliti umiliarsi strisciando a terra come vermi e leccando i piedi a quanti ritenevano più potenti di loro, pur di ottenere la loro indulgenza o il proprio tornaconto. Krugar, per quanto fosse un pirata, non si era mai macchiato di delitti così turpi e atroci: aveva rispetto per sé e per gli altri e riteneva la lealtà, la fiducia e l’onore valori imprescindibili e fondamentali, che non potevano essere traditi o messi da parte; si sarebbe fatto mozzare la mano piuttosto che ingannare uno dei suoi compagni.
A questo si aggiungeva il vestiario alquanto bizzarro e appariscente dell’uomo: portava sopra una comune camicia bianca una sorta di panciotto di pelle a cui erano attaccate delle maniche, simili a spallacci di un’armatura, che sparivano in un paio di guanti armati neri, un paio di pantaloni argento decorati con volute antracite erano sostenuti da una cintura a cui erano appesi degli svolazzi di stoffa di pelle rossa e di cui Krugar non riusciva a comprendere l’utilità; un fazzoletto di seta allacciato al collo e fermato con una spilla, e un tricorno nero provvisto di una lunga piuma di fenice, completavano il tutto.
L’orco si sentì preso in giro: erano appena stati attaccati da un fenomeno da circo.


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Capitolo 4
*** III ***


III

Krugar rimase a osservare l'uomo, sconcertato: non riusciva a capacitarsi dell'assurdità e dall'appariscenza del suo abbigliamento; aveva sempre pensato ai Dragoron come guerrieri seri, vestiti di nero o inscatolati in armature scintillanti, e l'avere davanti quel cavaliere vestito da pagliaccio lo destabilizzava.
«Non fai più lo sbruffone, ora che non cavalchi più la tua ferraglia sputa fuoco» lo provocò.
La prima volta che si era imbattuto in uno di loro, credeva che i cavalieri fossero indistruttibili e invincibili, ma si era reso conto di essere stato impressionato dai draghi, e che gran parte della loro potenza e apparente invincibilità era data proprio da quelle macchine infernali: sembrava che cavalcare quegli abomini mastodontici li desse sicurezza e anche un pizzico di arroganza e si sentissero onnipotenti, e questa sensazione veniva trasmessa ai loro avversari, che tremavano al loro cospetto e belavano come agnellini.
Il prigioniero, trattenuto dai due della ciurma più nerboruti, sollevò lo sguardo e inchiodò l'orco con il suo unico occhio; l'altro era coperto da una benda nera e il pirata si domandò se, come per molti, fosse solo un decoro o l'avesse perso davvero.

Il cavaliere si limitò a squadrarlo, e nonostante fosse costretto a rimanere inginocchiato e Krugar incombesse minacciosamente su di lui, non aveva perso, come invece tanti altri, la sua sicurezza quasi strafottente, e guardava l’orco con aria di sfida. Krugar pensò che con quel Dragoron si sarebbe proprio divertito: erano in pochi quelli che osavano sfidarlo e ancor meno quelli capaci di tenergli testa, e l’orco si annoiava ad avere sempre a che fare con codardi e pisciasotto che non riuscivano a sostenere il suo sguardo per più di pochi secondi; quell’umano, invece, lo stava provocando, e nemmeno in maniera troppo velata. Sarebbe stato interessante vedere fin dove avrebbe osato spingersi.
«Quindi tu saresti il famoso Krugar Mano Scarlatta, terrore di tutti i cieli e di tutti i mari» iniziò il cavaliere; aveva una voce profonda e suadente, ma all’orco non sfuggì la punta di arroganza che la impregnava, «Me lo immaginavo più…terrificante. Non mi aspettavo un ragazzino.»
Krugar era un giovane orco mastodontico, alto e robusto, con i tratti del volto grossolani e vagamente animaleschi ma privo dei segni dell’età e del tempo inclemente; la pelle era di un verde muschio brillante e le zanne minacciose che spuntavano dalla bocca priva di labbra erano candide, appuntite e impreziosite da anelli d’argento; aveva lunghi capelli rossi raccolti in treccine fermate da anelli d’oro, e una corta barbetta rossa copriva la mandibola forte e decisa mentre una sottile cicatrice attraversava la parte sinistra del volto sfiorando l’occhio, l’unico segno che lo facesse sembrare meno giovane e inesperto.

Era a torso nudo, ed ostentava il tatuaggio di un Ardrir che stringeva le sue spire attorno al braccio sinistro, si allungava oltre la clavicola e spalancava le fauci all’altezza del cuore. Un paio di pantaloni di stoffa nera, una fusciacca scarlatta in vita e una collana di denti di drago completavano l’insieme, intimidatorio e affascinante.
L’orco era rimasto impassibile: era abituato a insulti più pesanti e provocazioni più irritanti, e sinceramente le parole del cavaliere facevano parte del repertorio più classico e banale, non valeva nemmeno la pena che venissero prese in considerazione. S’aspettava che il Dragoron fosse più creativo, ma l’aveva deluso profondamente.
«Sei così noioso e prevedibile, cavalcatore di draghi» sbuffò l’orco, «Ne ho visti così tanti negli ultimi tempi e sono esattamente come te: quando sono in groppa a quei marchingegni fanno la voce grossa, ma una volta che si toglie da sotto le loro chiappe quell’ammasso di metallo e fuoco, diventano nient’altro che sgorbi uguali a tutti gli altri, mortali e meschini. Dammi un buon motivo per cui dovrei risparmiarti la vita. Se sarà abbastanza convincente, potrei anche prendere in considerazione l’opzione», aggiunse mostrando un ghigno poco amichevole e rassicurante.

«Se ti dicessi che so chi si nasconde dietro il Duca» rispose l’altro con indifferenza.
Un silenzio di tomba calò sul ponte della nave: tutta la ciurma era rimasta ammutolita e sbalordita, la dichiarazione aveva lasciato senza parole Krugar stesso.
Il Duca era il misterioso e ignoto committente per cui lavoravano e per il quale avevano depredato le navi della Compagnia Orientale. Krugar non l’aveva mai visto in volto e comunicava con lui solo mediante lettere che venivano lasciate in punti nascosti delle Città Sospese: in un anfratto di un muro sconnesso, tra le pagine di un libro della biblioteca cittadina e o nel bagno di qualche bettola. Il pagamento per i suoi servigi era stato alquanto allettante e l’orco non aveva esitato ad accettare quell’incarico: alla fine, si trattava semplicemente di alleggerire il carico di qualche mercantile di quei pomposi ricconi pieni di sé. Cosa poteva chiedere di più che essere pagato per un lavoro che faceva da una vita e in cui si divertiva anche?

La curiosità aveva instillato la propria scintilla e stava sbocciando lentamente, facendo bruciare l’orco: se avesse saputo di chi si trattava avrebbe anche potuto patteggiare con lui, minacciarlo e magari chiedere un compenso più alto o un paio di favori; avrebbe potuto ricavare dell’utile dalla conoscenza di quel nome, avrebbe anche potuta usarla come informazione da rivendere a qualcun altro.
Krugar si grattò la barba ispida, soppesando la proposta: il Dragoron avrebbe anche potuto mentire dichiarando di conoscere il Duca, ma nessuno, a parte Krugar e il Duca stesso sapevano l’uno dell’altro.

E alla fin fine, anche se avesse dovuto saltar fuori che era stata una messinscena e aveva sentito quel nome chissà come e chissà dove, si trattava pur sempre di un Dragoron, e grazie a lui, avrebbe potuto scoprir i punti deboli dei suoi amichetti. ed eliminare una volta per tutte quelle mosche fastidiose a cavallo di ammassi di ferraglia sputa-fuoco.
«Voglio parlare da solo con il prigioniero, disarmatelo e portatelo nella mia cabina!» ordinò, alla fine.

I suoi uomini fecero come gli era stato intimato e iniziarono a perquisire il Dragoron, Adam cercò di fare resistenza ma i due energumeni che lo trattenevano erano più forti e grossi di lui, così dovette arrendersi e lasciarsi toccare da quelle mani avide e viscide che estraevano, come conigli da un cilindro, la più variegata e assurda collezione di armi che avessero mai visto: oltre al fucile, gli sequestrarono una spada, un paio di pistole con coltello d’argento, due moschetti e qualche pugnale.
«Ben rifornito il damerino» commentò Krugar accarezzando una delle pistole d’argento, «Queste le prendo in custodia io. Sono un pezzo davvero pregiato e sarebbe un peccato lasciarlo in mano a questi bifolchi ignoranti» continuò, facendo l’occhiolino in direzione dei suoi uomini «È da quando ho svaligiato il vascello di un certo Treveille che non ne vedevo una, molto carine. Il resto è vostro.» 

Krugar lasciò i suoi uomini a litigarsi le armi di Adam e fece cenno ai due omaccioni di seguirlo, trascinando l’umano sino alla cabina del capitano.
Questa era un ambiente raffinato e luminoso che Krugar aveva preferito lasciare identico a come l'aveva trovato quando aveva rubato la nave: era un enorme stanza dalle pareti rivestite di legno pregiato e il pavimento di quercia scura; enormi librerie ne ricoprivano il perimetro, spandendo nella stanza un forte odore di pergamena e inchiostro, gli spazi non occupati da queste erano riservati a sciabole dall’elsa finemente intagliata, a spade d’oro o a pistole dal manico d’osso impreziosito da decori in argento, appesi a ganci e rastrelliere. Mappe geografiche, topografiche, carte nautiche ed eoliche e mappe stellari occupavano gli ultimi spazi rimasti, racchiuse in cornici barocche; una ciclopica scrivania in ciliegio troneggiava al centro della stanza, ingombra di carte, pergamene e libri mastri, mentre un letto era incassato in una parete, sotto gli imponenti scaffali ricolmi di libri. Era la cabina più ingombra e disordinata che Adam avesse mai visto e mai avrebbe pensato che potesse appartenere ad un pirata.
Krugar fece un cenno ai due scagnozzi che avevano portato Adam e questi uscirono dalla stanza.

«I tuoi uomini ti rispettano molto» commentò l’umano massaggiandosi le braccia, nel punto in cui era stato stretto e trattenuto.
«Mi sono guadagnato la loro stima e la loro fiducia a fatica, ma darebbero la loro vita per me.»

«E ti lasciano qui, da solo, in compagnia di un Dragoron che fino a un momento prima stava sparando fuoco contro la tua nave e voleva catturarti?»
«Hai detto bene: fino a un momento prima, ma possono cambiare tante cose in un lasso di tempo molto piccolo, e ora mi pare che i ruoli sia siano invertiti.»
«Ciò non toglie che possa spararti o sgozzarti» replicò l’altro facendo scivolare lo sguardo sull’armamentario esposto alle pareti.
«Mi hanno soprannominato Mano Scarlatta per un motivo, credi davvero che un damerino vestito da pagliaccio mi faccia paura? Soprattutto dopo che l’ho sconfitto con tanta facilità?»

Adam sorrise: a quell’orco sfuggivano moltissimi dettagli, ma non se ne sorprendeva: la sua razza non era famosa per la propria intelligenza.
«Allora perché non l’hai ancora fatto?» lo provocò.
«Perché so chi sei,» rispose Krugar, lasciandosi cadere sulla poltrona in pelle dietro la scrivania, «Duca.»
Il pirata non si era disturbato ad invitare l’umano ad accomodarsi, e Adam fece da sé prendendo posto sulla poltrona dall’altra parte della scrivania.
«Sei molto perspicace, per essere un orco» constatò. Era rimasto veramente sorpreso di fronte all’intuito di Krugar: mai se lo sarebbe aspettato da un ammasso di muscoli e boria.

«Ti consiglio di non tirare troppo la corda. Essere il mio datore di lavoro non ti autorizza a prendermi per il culo» replicò l’orco con un cipiglio minaccioso, «Resti, comunque, un mio prigioniero.»
«Che non è legato e può servirsi come se fosse a casa propria» Adam si allungò verso un carrello su cui era appoggiato un vassoio che accoglieva una bottiglia di vetro contenente un liquido dorato ed un paio di calici.

Prese un calice e la bottiglia e si versò da bere, studiando con la coda dell’occhio l’orco; questi non fece una piega e prese l’altro calice, facendosi versare il liquore.
«Non ho mai detto che li tratto male» replicò Krugar, prendendo un sorso della bevanda.
Adam lo imitò e il liquore scese come una lingua di fuoco lungo la gola dell’uomo, mandandolo in estati.

«Perché il Duca avrebbe deciso di attaccare il pirata che ha assoldato?» domandò Krugar, mettendosi più comodo: si lasciò scivolare contro lo schienale della poltrona e allungò le gambe sulla scrivania, quella destra era di titanio ed era attaccata al resto della coscia attraverso una cinghia di cuoio; un sistema di tubi e molle ne permetteva un movimento che somigliasse a quello di una gamba normale, non ugualmente fluido, ma pur sempre meno rigido di una gamba di solo metallo o di legno.
«Sono pur sempre un Dragoron e devo sottostare agli ordini dei miei superiori, sarebbe parso sospetto se avessi rifiutato l’incarico.»
«Avresti sempre potuto addurre una scusa plausibile.»

Adam gli lanciò un’occhiata scettica, «Meglio così: è più semplice e le cose più semplici, di solito, sono anche le più efficaci.»
«Ti sei lasciato catturare» non era una domanda, ma una constatazione e il Dragoron non si prese la briga di rispondere.
«Sei piuttosto astuto, per essere un umano» continuò l’orco con un sorriso storto, Adam scrollò le spalle, senza raccogliere la provocazione.
«Per cosa ti serve tutta quella roba?» domandò Krugar.
«Credo che siano fatti miei, non trovi?» replicò l’altro.

«Non mi sembri nella posizione per fare il sostenuto: sei sempre mio prigioniero, vorrei ricordartelo. Inoltre sei un Dragoron che sta pagando il pirata che dovrebbe arrestare, situazione alquanto inusuale, sarebbe un peccato se questo piccolo segreto si diffondesse…»
«Non mi sembra tu sia nella posizione per potermi minacciare: sarebbe la mia parola di cavaliere contro la tua di pirata e ricercato» rispose l’altro secco.
«Sei un gran bel tipetto» scoppiò a ridere l’altro «Sapevo che mi sarei divertito con te.»
Krugar sollevò il calice nella sua direzione e buttò giù il liquore rimasto in un colpo solo, in una specie di brindisi.
«Posso almeno sapere perché hai deciso di lasciarti catturare?»

«C’è un’ultima cosa che mi manca, per completare il mio progetto, ma non potrei mai procurarmela da solo. È troppo rischioso, anche per un Dragoron e solo un pirata esperto e coraggioso potrebbe aiutarmi» ammiccò Adam.
Krugar scoppiò a ridere «Le tue tecniche con me non funzionano, umano. Non sono una di quelle fanciulle che ti porti a letto, e i tuoi occhiolini o le tue sviolinate con me non attaccano.»
«Va bene, va bene, ho capito. Cercherò di dire semplicemente quello che devo: ciò che mi serve è molto raro e prezioso, e in pochi conoscono dove poterselo procurare, ancor meno riescono ad arrivarci, o a prenderlo. Io sono a conoscenza dell’ubicazione del luogo, ma come Dragoron non posso andarci e, comunque non potrei andarci da solo: è troppo pericoloso. Per questo mi serve il tuo aiuto: sarai la mia copertura e la mia scorta.»
«Si può sapere di cosa diamine si tratta?» sbottò l’altro, esasperato. Detestava quando i suoi interlocutori tergiversavano: lui era un orco che amava la semplicità e la sostanza, i convenevoli e le moine erano per le dame e i nobili effeminati.
«Andrò dritto al sodo, allora: ciò che mi serve è un cuore di drago.»

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Capitolo 5
*** IV ***


IV

«Un cuore di drago?!» sbottò Krugar, «Ma sei impazzito? E a che cazzo ti servirebbe un cuore di drago?»
«Credevo fossi abbastanza sveglio da arrivarci da solo» replicò Adam senza scomporsi.
L’orco si prese qualche secondo per riflettere: i materiali che aveva rubato fino a quel momento erano stati piuttosto inusuali ed erano gli stessi con cui erano fatti quei bestioni spara-fuoco.

«Vuoi costruire un drago meccanico» esalò, alla fine, sorpreso egli stesso della propria intuizione, Adam annuì, «Ma come puoi riuscirci? I progetti non sono segretissimi?»
«Non ci sono scritti e tutto è tramandato a voce. Solamente un ristretto gruppo di persone è a conoscenza del segreto dei draghi meccanici, si tratta dei Dragoron più eminenti dell’Ordine: il Capitolo; ma il tempo passa per tutti e quando sono ormai troppo vecchi e decidono di ritirarsi dalla loro posizione, ciascuno di loro designa un erede a cui trasmettere la propria conoscenza.»
«E tu sei stato scelto» concluse Krugar.

«Precisamente.»
«Ancora mi sfugge perché ti serva il cuore di un drago vero
«Perché serve per Accendere il drago meccanico.»
«Quegli ammassi di ferraglia funzionano con cuori di drago veri?» Krugar era sempre più sconvolto.
«Come pensavi che si azionassero?» lo schernì l’altro, «Da dove pensi che traggano la loro energia?»

«Credevo ci fosse un sistema di tubi e ingranaggi…e…» si impappinò l’orco.
«C’è, ma è tutto tenuto in funzione dal Cuore: una minuscola centrale elettrica, costituita da un frammento di cuore di drago, la fonte più potente e portentosa di energia. Per spingere il sangue nei recessi anche più remoti dell’immenso corpo di quei bestioni deve avere una potenza ed una spinta immani, inoltre deve possedere un’enorme resistenza, dal momento che li mantiene in vita per millenni. Non hai idea di quanta energia sia capace di sprigionare il singolo cuore di una di quelle bestie!»
«E tu vuoi creare il tuo personale esercito di mostruosità meccaniche.»

«E con quello andare alla conquista dei continenti. Non hai idea di che cosa possano fare quelle macchine, non si tratta solo di emettere un po’ di fuoco, possono diventare vere e proprie macchine da guerra, indistruttibili, invincibili e inesauribili» l’occhio dell’umano brillavano e quello scintillio intimoriva e preoccupava Krugar: aveva visto molte l’avidità e la sete di potere nello sguardo di un uomo, ma mai intensa e profonda come quella che ora scorgeva nell’iride azzurra dell’altro.
«Non pensi che ci abbiano già provato?» lo frenò l’orco.

«Certamente! Fin da quando sono stati ideati i draghi qualcuno ha cercato di utilizzarli per i propri scopi, cosa credi? Ma nessuno è mai stato abbastanza furbo e intelligente e si è lasciato scoprire. L’Ordine ha cercato di prendere provvedimenti: rendendo i progetti un segreto per pochi, fondando il Capitolo, stabilendo regole ferree e istituendo un’ardua selezione, ma come vedi, non sono bastati per frenarmi. Sono stato più scaltro: ho conquistato la loro fiducia, mi sono impegnato per mostrarmi come un Dragoron inappuntabile ed eccelso, fedelissimo ai loro stupidi dogmi e alle loro vuote regole, assolutamente inapprensibile. Seguivo le loro norme alla lettera e diventai il beniamino dal Capitolo, che mi considera uno dei migliori Dragoron che l’Ordine abbia mai avuto.»
«Un piano geniale» commentò l’altro con voce atona.
«Ma non è finita: fingendo di essere stato catturato dal più famoso pirata di tutti i tempi, potrò raggiungere Astoria senza destare sospetti, sarò solamente la vittima innocente di un gruppo di pirati crudeli e sanguinari.»

«E io cosa dovrei guadagnarci da tutto questo?» domandò Krugar, gli sembrava di rischiare un po’ troppo: il piano di quell’umano era completamente folle e privo di garanzie, le possibilità di successo erano ridotte ai minimi termini e se fossero stati scoperti avrebbero perso tutto; voleva essere sicuro che ne valesse la pena.
«Oltre al pagamento per i servigi che mi hai reso fino ad ora, che mi pare una cifra considerevole, farò in modo che tu possa riavere ciò che hai perduto…»
«In base cosa sostieni che abbia perduto qualcosa? “replicò l’altro, scettico.
Adam accennò al tatuaggio che l’orco esibiva sul braccio, l’Ardir azzurro e rosso.

«L’hai mascherato molto bene, ma a un’occhiata più attenta si vede che l’occhio del drago è strano, perché in realtà è un simbolo: è la runa che gli orchi utilizzano per marchiare quelli della loro specie che sono stati condannati all’esilio…Morgh, mi pare sia nella vostra astrusa lingua.»
Krugar si portò istintivamente una mano sul petto all’altezza della testa sinuosa del drago, il damerino, purtroppo aveva ragione: morgh bruciava sulla sua pelle, il simbolo di una condanna eterna che non poteva essere revocata.

Krugar, prima di essere un pirata, era stato un guerriero del clan dei Dente Spezzato, uno dei migliori e più feroci, ammirato dai più giovani ed invidiato dai più anziani. Ma, in seguito a un fatto di sangue che non raccontò maia nessuno, venne cacciato dalla sua tribù originaria e condannato all’esilio, che per gli orchi era sinonimo di morte: non poteva sperare nell’aiuto di altri clan, era considerato un reietto ed un paria da tutti quelli della sua specie, ed era stato costretto a rifugiarsi tra coloro che non potevano conoscere il significato del suo tatuaggio: gli umani. Ma anche tra loro non era mai stato ben visto, e nessuno si era mostrato disposto a volerlo alle sue dipendenze, come mercenario o scorta; nessuno si fidava di un orco, tantomeno di un orco che decideva di lasciare le proprie terre e si spingeva fino a quelle degli uomini.
Gli orchi erano sempre stati per conto loro sugli altipiani rocciosi oltre la catena delle Sevenian, a Ovest, badando ai fatti propri e interessandosi minimamente di quello che accadeva al di là delle montagne; per loro gli umani erano solo degli esseri inferiori, crudeli e abietti, con cui sarebbe stato meglio non avere nulla a che fare, a meno che non fosse stato strettamente necessario. Era raro che si avventurassero spontaneamente fin nelle terre abitate dagli uomini e dagli elfi, e solitamente non erano giunti con intenzioni amichevoli e pacifiche.

Per questo Krugar era stato guardato con sospetto e con astio dagli umani, e nessuno era stato propenso a dargli un lavoro o un tetto sulla testa, e l’orco era stato costretto ad arrangiarsi da sé: se nessuno era disposto a dargli ciò che gli occorreva, decise che se lo sarebbe preso da sé. Solamente i banditi e i briganti non badavano alla razza e alla provenienza, ma solamente alle capacità e soprattutto al risultato, e l’orco si rivelò essere un assassino formidabile e spietato, brutale e senza paura. Si mise alle dipendenze dei peggiori scagnozzi, facendosi lentamente un nome negli ambienti più malfamati: Mano Scarlatta divenne il suo soprannome, perché aveva sempre le mani impregnate di sangue, fino all’avambraccio. Divenne un assassino temuto e richiesto, non aveva paura di nulla e portava a termine anche i compiti più spaventosi e pericolosi.
Ma come divenne famoso tra i malavitosi, così lo divenne anche con le autorità e ben presto venne messa una taglia sulla sua testa. Iniziò ad essere ricercato e stanato, ogni suo nascondiglio veniva scoperto e più volte aveva rischiato la vita. L’unico modo per riuscire a sopravvivere era diventare imprendibile.
Un giorno, uno dei suoi colleghi gli aveva detto, scherzando, che l’unico modo che rimaneva per non farsi prendere sarebbe stato farsi spuntare le ali e imparare a volare. Krugar, all’inizio, aveva riso della battuta ma in seguito aveva seriamente preso in considerazione quell’idea, soprattutto quando iniziarono a diffondersi le aeronavi -un mezzo molto più rapido per trasportare mezzi o persone- e con esse, i predoni capaci di depredare anche quelle navi volanti: i pirati dei cieli. Fu così che salì a bordo di uno di quei sgangherati vascelli e divenne un pirata.

«Va bene, hai scoperto il mio segreto, ma questo non ti assicura che sia quello che desidero davvero.»
«Suvvia, sappiamo perfettamente entrambi che gli orchi si sentono bene solo in mezzo ad altri orchi. Questa non è la vita che fa per te: tu sei un guerriero, un combattente, un soldato e non un brigante che saccheggia i mercantili per sopravvivere, è un lavoro meschino e mortificante che tu disprezzi con tutto te stesso, ma di cui non puoi permetterti di fare a meno. Io posso farti tornare ciò che eri e, anzi, posso farti diventare il più temuto di tutti gli orchi, così potente e forte che i clan faranno a gara per averti con loro, sarai conteso e desiderato da tutti.»
Krugar si grattava la barba, senza sapere cosa dire: la proposta era veramente allettante ma non aveva alcuna assicurazione in merito.
«E come pensi di poterlo fare?» indagò.

«Ti rivelerò tutto ciò che so sulla costruzione dei draghi: chi oserà mettersi contro di te quando saprà che puoi disporre di un esercito di bestioni sputa-fuoco e indistruttibili?»
«Come faccio a sapere se ciò che mi dirai sarà vero e che non userai i tuoi draghi contro di me e i miei simili?»
«Me ne frega poco del regno degli orchi: è una terra brulla e inospitale che solo creature come voi possono apprezzare.»
«Cosa staresti insinuando?» sibilò l’orco digrignando i denti, a pochi passi dal volto di Adam. Con uno scatto aveva oltrepassato la scrivania e si era fiondato su di lui, rovesciandolo a terra assieme alla poltrona e artigliandolo per la camicia.
«Solo creature temerarie e forti come voi possono sfidare terre simili e vincerle» pigolò il Dragoron, la morsa dell’orco gli impediva di respirare e gli mozzava il fiato.
«La tua dialettica ti ha salvato. Stai superando il limite, damerino: ti ho lasciato passare gli insulti di prima nei miei confronti, ma osa ancora fare insinuazioni sugli orchi e il nostro accordo salta assieme alla tua testa. Non mi piace essere preso per il culo, sono stato chiaro?»
L’umano annuì e l’orco lo lasciò andare con uno strattone, Adam tornò a respirare normalmente e si abbandonò a un sospiro di sollievo.
«Quindi abbiamo un accordo?» domandò sistemandosi la camicia stropicciata e spolverandosi i pantaloni.
«Chi mi garantisce che tu farai quanto prometti?» replicò Krugar.
«Il fatto che probabilmente mi cercheresti e mi spelleresti vivo se non dovessi mantenere la mia parola, e che nessun drago meccanico riuscirebbe a fermarti.»
«Ti ho detto di non lusingarmi, detesto i lecchini.»
«Va bene, va bene. Puoi tenerti Silvershade come garanzia.»

«E chi cazzo sarebbe?»
«Il mio drago meccanico, l’ammasso di ferraglia sputa- fuoco che hai abbattuto con un arpione per balene.»
«E cosa dovrei farci con il tuo drago?»
«Finché l’avrai tu io non potrò fuggire, e potrai restituirmelo quando avrò completato la mia parte di accordo.»
«Ovvero quando mi avrai dato i miei soldi e mi avrai fatto riammettere nel mio clan.»
«Esattamente» annuì Adam, «Se tutto andrà secondo i miei piani, saremo entrambi felici e contenti.»
«Nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto, e se tu non dovessi rispettare la tua parte di accordo, invece, posso sempre buttarti fuori bordo con gli omaggi del gruppo di pirati crudeli e sanguinari.» ghignò Krugar mostrando una chiostra di denti giallognoli e acuminati.
«Se ti soddisfa» si strinse nelle spalle l’altro, «Dunque ci stai?» aggiunse.
«Non so ancora dove vuoi spedire me, la mia nave e la mia ciurma, e quanto sia pericolosa questa missione» lo frenò l’orco, «Dove cazzo stanno quei figli di puttana dei draghi?»
Adam si avvicinò alla scrivania e iniziò a scartabellare la montagna di disordine che la riempiva, cercando una mappa che potesse essergli utile. Finalmente ne trovò una abbastanza dettagliata e la mostrò all’orco.
Era un enorme foglio di pergamena su cui erano state rappresentate le terre settentrionali, era piuttosto datata ma quelle terre erano rimaste inalterate per secoli e la mappa andava bene comunque. L’umano indicò un punto imprecisato della mappa, nel mezzo di un nugolo di diverse linee nere.
«Kal Schelas» sillabò Krugar, «Mai sentito nominare. Cosa sarebbe?»
«Una catena di monti» rispose l’altro.
«E cosa speri di trovarci?»
«Cuccioli di Ardrir. È tra quelle montagne che nidificano i draghi, e solo i cuccioli non possiedono veleno.»
«Ma avranno anche cuori più piccoli» fece notare Krugar.
«Me ne bastano pochi. Per alimentare i draghi dell’Ordine si utilizza un solo cuore di drago adulto da anni. In questo periodo, dovrebbero esserci pochi Ardrir adulti nei paraggi: è stagione di caccia e i draghi si spingono più a sud. Nel caso dovessimo imbatterci in uno, basterà lanciarli uno di quei tuoi arpioni o palle di cannone- Finché rimaniamo a distanza siamo al sicuro, solo da vicini diventano pericolosi con quelle loro estremità piene di veleno.»
«Creature magnifiche gli Ardrir» commentò Krugar accarezzando il drago che aveva sul petto «E molto poco amichevoli.»
«Un po’ ti somigliano» scherzò Adam
Il pirata lo fulminò con lo sguardo e il cavaliere alzò le mani in segno di resa: ogni tentativo di essere amichevole e di instaurare un qualche rapporto con quell’orco era inutile.
«Ci limiteremo a prelevarli, e poi ti arrangerai tu a fare quello che devi» esclamò Krugar.
«Quindi, ci stai?»
«Certezza di morte, scarse possibilità di successo. Che cosa stiamo aspettando?»

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Capitolo 6
*** V ***


V

Il Palazzo di Cristallo si innalzava maestoso, altezzoso e fiero, dominando l’orizzonte con la sua imponente struttura: una foresta di torri di vetro sostenute da uno scheletro d’acciaio, che catturava e rifrangeva la luce del sole nei colori dell'arcobaleno.
Era il palazzo di rappresentanza, dove venivano accolti e ospitati coloro che richiedevano i servigi dei Dragoron, ed era la sede del Capitolo: il suo scopo era quello di mostrare la potenza e il potere dei cavalieri, e sottolineare che sarebbe stato un errore considerarli semplici mercenari; avevano un codice d’onore, un regolamento e pretendevano il rispetto che si sarebbe riservato a qualsiasi altro Ordine. Era stato pensato per lasciare l’ospite a bocca aperta e senza fiato, infondendogli un vago senso di meraviglia e terrore reverenziale: le torri si slanciavano verso le nubi, sfidandole ad accarezzare per prime il sole morente; erano possenti, eppure non prive di flessuosità ed eleganza, ingentilite nelle forme marziali da un ricamo di guglie, pinnacoli e archi rampanti. Gli ultimi raggi dell’astro trafiggevano il vetro di cui erano rivestite, insanguinandolo, e donando all’intero complesso un’aura inquietante e suggestiva.
Krupfer atterrò elegantemente su una delle numerose piattaforme sospese che circondavano quella principale, su cui torreggiava il Palazzo; un sistema di ponti dalle ringhiere intarsiate a motivi floreali si gettavano in archi sinuosi tra una piattaforma e l’altra, collegandole con passaggi sospesi nel vuoto.  Sebbene non avesse mai sofferto di vertigini, Arandil sentì il proprio cuore risalirgli fino alla gola e mozzargli il respiro. Aveva trovato subdolamente crudele quella scelta: si aveva l’impressione di camminare sul nulla e la paura di cadere attanagliava le viscere lungo l’intero percorso; l’elfo mise cautamente un piede davanti all’altro, reggendosi alla ringhiera e aggrappandosi spasmodicamente a questa, quasi fosse un’ancora di salvezza. I lampioni di vetro soffiato che costeggiavano i ponti stavano iniziando ad accendersi, diffondendo il loro tenue bagliore, e immergendo le costruzioni e le statue di drago che le sorvegliavano in una calda e labile luce rosata. Ma per quanto fosse onirico e idilliaco il paesaggio, l’elfo era concentrato solo sulla viscida sensazione di cadere e sfracellarsi sui tetti di Evernia, la città sottostante.
Si domandò come diplomatici, nobili e mercanti riuscissero a resistere ad una simile apprensione e ad attraversare tutto il percorso senza bagnarsi i calzoni di seta; non che Arandil stesse per farsela sotto, ma se qualcuno l’avesse visto in quel momento, abbarbicato al ponte come il muschio sul tronco degli alberi, avrebbe sicuramente iniziato a nutrire dei dubbi circa l’antonomastico coraggio dei Dragoron.
Pochi gradini di vetro privi di ringhiera separavano il ponte dalla piattaforma del Palazzo e l’elfo li scese con il cuore che batteva all’impazzata, tuonandogli nelle orecchie con una spiacevole eco che si riverberava per tutto il corpo, facendolo tremare come una foglia. Giunto nelle vicinanze della torretta di guardia si impose di ridarsi un contegno e di non presentarsi, quantomeno, con l’espressione di un coniglio che sta per essere ucciso.
Il Dragoron, segregato nella torretta, gli concesse appena un’occhiata priva di interesse: il ciondolo con la viverna, che spiccava prepotentemente sul giustacuore di pelle, era abbastanza esaustivo e Arandil non perse tempo in presentazioni né convenevoli, ma superò la torretta e si avventurò sull’ultimo ponte prima del vero e proprio Palazzo. Quest’ultimo era una galleria di arcate a sesto acuto che permettevano di vedere il paesaggio circostante per brevi e regolari intervalli, quando gli archi spaziavano sul cielo circostante, dando l’impressione di stare galleggiando nel vento. L’elfo trovava quella costruzione più sicura e confortante delle precedenti, ma sapeva bene che anche quella scelta era stata ponderata a lungo e aveva un fine ben preciso: la copertura del ponte, una successione di volte a botte, impediva di vedere il Palazzo antistante, lasciando completamente basito e senza fiato il visitatore una volta che fosse emerso dal percorso e si fosse imbattuto tutto d’un tratto nella grandiosa costruzione.
Due imponenti statue di draghi rampanti, in bronzo dorato, accolsero con un minaccioso sguardo rosso rubino Arandil, non appena questi oltrepassò l’arco di pietra che segnava l’ingresso nel cortile interno del Palazzo. Una fontana di marmo dominava il piazzale lastricato, e giochi di acqua e di luce si illuminavano di cremisi e di arancione nell’atmosfera sfumata del crepuscolo.

Era la seconda volta che l’elfo varcava quella soglia nel giro di poche settimane, e la prima non era stato piacevole: si era presentato davanti al Capitolo per chiedere di essere sollevato dal suo incarico, era stato guardato con delusione e compassione dai suoi superiori, e Adam non aveva mancato di fargli notare quanto fosse inetto e inadatto al suo ruolo di Cavaliere. Arandil non mai stato così frustrato e scontento di sé stesso. Ma questa volta era diverso: l’Ordine stesso aveva chiesto di lui e l’aveva convocato, segno che aveva fiducia nelle sue capacità e non lo considerava completamente un inetto…Sempre che il sigillo di ceralacca fosse autentico e non una copia molto ben riuscita atta ad ingannarlo e a prenderlo in giro.
Quando la missiva gli era stata recapitata aveva subito pensato ad uno scherzo di cattivo gusto da parte di Adam per umiliarlo e ferirlo più di quanto non facesse da sé, ma il sigillo era parso autentico, così come la firma in calce del generale Xendar Scudo d’Argento; se si trattava di uno scherzo, era stato davvero ben congegnato.
Arandil deglutì, spaesato di fronte alla magnificenza e alla bellezza che quel luogo emanava: davanti a lui si stagliava il corpo principale del palazzo, una specie di cattedrale gotica in vetro, decorata da mosaici di cristallo colorato che tingevano il piazzale di un caleidoscopio di colori sgargianti. Divorò con gli occhi quello splendore all’apparenza fragile eppure forte, di cui non si sarebbe mai stancato di cibarsi.

L’elfo era stato poche volte a Palazzo e l’edificio serbava i ricordi più belli e strazianti: la prima volta che era stato in quello stesso piazzale aveva sei anni ed era un piccolo elfo con la testa piena di sogni e lo sguardo pieno di stelle, avido dell’azzurro del cielo che lo circondava. Suo padre non era mai stato completamente d’accordo con la sua scelta di diventare aviatore, avrebbe preferito che diventasse un guerriero come lui, o un guaritore come sua madre, o comunque qualcosa che fosse davvero utile; così era giunto ad un compromesso: i Dragoron erano soldati ma volavano, e ciò accontentava sia il desiderio dell’immensità del cielo di uno, sia la prospettiva di un lavoro che avesse una qualche utilità dell’altro. All’epoca Arandil era solo un elfo spaurito e pieno di speranze, e quell’edificio incredibile l’aveva completamente conquistato e ingannato con il suo sensuale splendore, facendogli credere che il suo addestramento, se fosse avvenuto in un luogo tanto bello, non sarebbe stato poi così male.
Purtroppo, però, l’istruzione delle reclute avveniva a Evernia, presso l’Accademia, una distesa di casermoni di pietra e legno completamente privi di bellezza e grazia che abbatterono con un solo sguardo l’iniziale entusiasmo del giovane. Ben presto Arandil si rese conto che quella scelta non faceva per lui: la scherma era una pratica barbarica e monotona e le armi erano noiose e antiquate, i turni di guardia massacranti erano inutili e servivano solamente a fargli prendere freddo e a causargli raffreddori insopportabili, gli scontri erano umilianti ed erano utili solamente per accrescere l’ego di spacconi e arroganti, come Adam. L’unico argomento che aveva risvegliato un minimo di interesse nel giovane elfo erano stati i draghi meccanici: quei prodigi di ingegneria e alchimia avevano affascinato il ragazzo e l’avevano lasciato senza fiato; da allora volle scoprirne tutti i segreti e i meccanismi, e iniziò a trascorrere la maggior parte del tempo a spulciare volumi enormi di ingegneria meccanica, guadagnandosi il nome di “secchione” e “sfigato”, e le angherie di Adam che lo considerava un perdente e un idiota. Arandil ci dette poco peso e lentamente si chiuse nel suo mondo di carta e inchiostro, perso completamente nella contemplazione di quelle meraviglie di acciaio. Pian piano l’attrazione per le creature di metallo e tubature spinse l’elfo nella direzione di quelle in carne ed ossa, molto più incredibili e affascinanti; iniziò a procurarsi e a divorare libri sui draghi, imparò tutto su di loro, conosceva a menadito ogni razza, il suo habitat, le sue dimensioni, il suo aspetto, la sua dieta e persino il periodo di accoppiamento; aveva tappezzato il cubicolo che gli avevano assegnato come stanza di disegni e riproduzioni di draghi, a volte copiate dai libri, altre partorite dalla sua fantasia…era così che aveva preso forma Krupfer, diventato un assemblaggio di tutte le informazioni e i progetti che aveva accumulato nel corso degli anni.
Ma il periodo della scuola non era stato per nulla idilliaco: era stato costantemente vittima di vessazioni e prese in giro perché era gracile ed impacciato, di aspetto femmineo e dalle movenze misurate e aggraziate, come quelle di una ragazza; più volte l’avevano accusato di essere omossessuale o l’avevano scambiato, volontariamente o per sbaglio, per una femmina. Inoltre non era mai stato abile con le armi, come gli altri ragazzini e nelle prove risultava sempre ultimo: veniva considerato un ritardato e un incapace, tanto dai suoi compagni quanto dai suoi insegnanti; veniva caricato di lavoro supplementare, sgridato, motteggiato e umiliato. I turni di guardia più scomodi e negli orari più assurdi venivano affibbiati a lui, nella convinzione che l’avrebbero aiutato a migliorare a farlo diventare un vero uomo. Non era riuscito a instaurare un rapporto di amicizia con nessuno, nessuno condivideva i suoi interessi, e spesso era rimasto da solo ed escluso, maltrattato da chiunque e senza nessuno a cui appoggiarsi o presso cui trovare un po’ di compagnia e conforto; lentamente si era abituato a quella situazione e aveva trovato sostegno nei libri, chiudendosi ancora più in sé stesso ed allontanandosi volontariamente dagli altri e dalla loro compagnia chiassosa e arrogante.
Adam era sempre stato il peggiore di tutti: lo aveva torturato in tutti i modi possibili e ancora in quei giorni non perdeva occasione per pavoneggiarsi ed evidenziare quanto fosse meglio di lui in tutto, abile con qualsiasi tipo di arma, forte, intelligente, astuto, coraggioso, affascinante, ligio al suo dovere, uomo d’onore e di parola, un Dragoron perfetto e inappuntabile, che nessuno sarebbe mai riuscito a eguagliare, tantomeno una nullità come Arandil.
L’elfo detestava profondamente quell’umano e covava il desiderio, nel profondo del cuore, di ficcargli una delle sue frecce su per gli sfinteri, di modo che la smettesse di fare tanto il gradasso con uno strale piantato nel didietro; ma il codice d’onore gli impediva di arrecare qualsiasi danno, di qualunque tipo, ai Dragoron investiti di tale carica, che avevano ricevuto la propria cavalcatura ed erano diventati cavalieri a tutti gli effetti.
Il giorno dell’Investitura era quello che ricordava con più gioia: era stato quando aveva ricevuto Krupfer, brillante e maestoso nella luce smagliante del primo pomeriggio di quella calda giornata di primavera, quando tutti gli alunni che avevano completato il percorso di addestramento erano stati intabarrati in armature di cuoio bollito e rinchiusi in elmi che si erano, ben presto, trasformati in forni bollenti, facendoli sudare e sbuffare copiosamente. Allineati in quello stesso cortile, come un corpo di fanteria dell’esercito, a uno a uno erano stati chiamati per prestare giuramento e ricevere il proprio drago assieme al Sigillo che li avrebbe legati indissolubilmente ad esso, fino a quando morte non li avesse separati.

Arandil sfiorò la nuca, dove era stato impresso il suo Sigillo, lo stesso che brillava sulla fronte di Krupfer: la runa Aran, che costituiva l’iniziale del suo nome, e nella sua lingua significava “splendente, eccelso”; quella runa era stato il frutto di un processo lungo e complicato, in quanto, avrebbe rappresentato il legame tra drago e cavaliere. Quel simbolo aveva imbrigliato parte della volontà di Arandil sigillandola nel drago, di modo che rispondesse solo a lui e che una volta che il suo padrone si fosse dissolto, il drago si sarebbe smembrato e non sarebbe stato utilizzabile da nessun altro.
Le sensazioni che aveva provato durante quel rituale erano state contrastanti e difficili da spiegare, tanto erano parse surreali e inusuali: la percezione di sentire una parte della propria coscienza separarsi, diventare estranea eppure ancora collegata a lui e percepire, in una sorta di coma, che veniva imprigionata e stretta in quel contenitore, in quel sigillo, spettatore e attore dell’intera procedura con una parte di lui che osservava ciò che l’altra parte sentiva e percepiva. Una sensazione simile gli era capitata la sera prima, quando per festeggiare la fine di quel calvario, aveva accettato di festeggiare con i suoi compagni di corso e si era sottoposto al loro malsano esperimento: volevano testare la provvidenziale resistenza degli elfi, che si diceva reggessero molto bene all’alcol e non bastassero quattro barilotti di rum a farli ubriacare. Arandil ne aveva trangugiato al massimo uno e già percepiva come la testa scollegata dal resto del corpo e quest’ultimo che si muoveva con un leggero ritardo rispetto al comando mentale, era stata una sensazione stranissima, estraniante ed estremamente spiacevole: era come muovere il proprio corpo e vederlo muovere contemporaneamente, assolutamente da non ripetere.
Da allora, bastava un pensiero indirizzato al drago perché questo eseguisse esattamente la sua richiesta: sussurrava “fuoco” nella mente e il drago sbuffava, spandendo dai tubicini il suo fumo velenifero e altamente infiammabile.

Poi c’era stato il giorno in cui aveva ricevuto il suo primo incarico: si aspettava qualcosa di più formale e solenne, ma il generale Xendar l’aveva convocato nel suo ufficio tetro e angosciante, comunicandogli brevemente quale sarebbe stato il suo compito, in maniera succinta e pratica, senza fronzoli o qualsiasi altro orpello Arandil si era immaginato. Era stato piuttosto deprimente e deludente.
Successivamente le sue missioni gli erano state affidate direttamente mediante una missiva, mentre si trovava impegnato a svolgere un altro incarico o appena tornava nel suo desolante appartamento perciò trovava alquanto sospetto e preoccupante venire convocato dal Xendar e soprattutto dal Capitolo per un colloquio faccia a faccia, la questione doveva essere estremamente delicata e pericolosa e Arandil non attendeva altro.

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Capitolo 7
*** VI ***


A Morgengabe, che attendeva(no) con ansia il capitolo

VI


Ancora una volta Arandil si era ingannato: credeva che, data la comunicazione solenne e grave, sarebbe stato ricevuto nell’Aula Magna, dove venivano accolti nobili e mercanti. Invece, si ritrovò un’altra volta nell’angusto e soffocante stanzino del generale Xendar.
Quest’ultimo era un umano di corporatura robusta e di altezza portentosa, anche per quelli della sua razza, e occupava la maggior parte dello spazio respirabile di quell’antro scuro. Gli esigui pertugi rimanenti erano stati occupati dai tre membri più eminenti del Capitolo. Questo mise in allarme l’elfo: era raro che i membri si premurassero di affidare le missioni ai Dragoron, solitamente delegavano il compito ai generali. La loro presenza era sinonimo di gran brutte notizie.
Avvolti in tuniche nere o viola dalle maniche svolazzanti, somigliavano a tre corvi, volatili portatori di cattive novelle: soprattutto il reverendo Asmodeus, con il suo lungo naso a becco e i piccoli occhietti neri da rapace, il primo che incontrò non appena mise piede nella stanza, mettendolo immediatamente a disagio.
«Arandil» lo accolse Xendar, senza aggiungere altro.
L’elfo piegò leggermente il capo in segno di saluto e rispetto, i membri del Capitolo ricambiarono, rigidi e cupi. Erano Dragoron ormai troppo vecchi per poter cavalcare o anche solo sollevare un’arma che non fosse un bastone di legno, e cercavano di sopperire alla mancanza di adrenalina nella loro vita con tutta l’acidità, l’antipatia e l’arroganza di cui erano capaci, dando fondo a tutte le loro risorse per rendersi quanto più odiosi e spocchiosi possibile. Il loro compito era coordinare l’attività dell’Ordine, scegliere gli incarichi che più gli convenivano e decidere a chi assegnarli, prelevare i compensi promessi e dividerli con chi aveva svolto l’incarico, giudicare l’operato di un Dragoron e la sua condotta, selezionare i futuri cavalieri e sollevare dal gravoso compito quelli che non ritenevano più idonei, donare cariche e titoli, occuparsi dell’addestramento delle reclute scegliendo per esse i migliori e più inflessibili insegnanti. Ma soprattutto, erano i depositari dei processi segreti riguardanti la costruzione dei draghi meccanici e del meccanismo che permetteva loro di svegliarsi, muoversi e sputare fuoco.
Finché si trattava di costruire un involucro di metallo e acciaio anche il più inetto dei fabbri sarebbe stato all’altezza del compito, ma quando si trattava di infondere vita alla macchina e accenderla, allora subentravano i membri del Capitolo, con il loro prezioso carico di conoscenze tramandato da membro a membro. Nessuno sapeva come i draghi si animassero e in cosa consistesse realmente l’Accensione -che permetteva al drago meccanico di non essere una semplice macchina, ma un complesso sistema capace di muoversi autonomamente, di avere un’energia propria che mettesse in funzione tutti gli ingranaggi e i congegni e di poter essere legato indissolubilmente a un’anima senziente- i membri del Capitolo erano gli unici depositari di quei segreti. Corban era uno dei membri più anziani, ed era uno dei pochi a conoscenza del processo che permettesse la formazione e l’instaurazione del Sigillo. Era lui uno dei tre membri, ingobbito nella veste nera, che faceva saettare lo sguardo da una parte all’altra del minuscolo spazio, irrequieto.
«Sei stato convocato per un incarico molto importante e delicato» esordì il generale, il suo superiore più prossimo. Aveva sempre detestato quell’uomo: per anni gli aveva affibbiato gli incarichi più ingrati e mortificanti o difficili da svolgere, solo perché aveva una mente chiusa e retrograda, e non aveva mai visto di buon occhio gli elfi, reputandoli una razza subdola e ingannatrice…come se gli uomini non fossero da meno.
Anche in quel momento il suo sguardo porcino trasudava disprezzo e arroganza, e le sue labbra carnose erano distorte in una smorfia di disgusto, quasi si fosse trovato davanti dello sterco di vacca.
Arandil sospirò: l’introduzione prometteva già grane e il fatto che il Capitolo fosse lì serviva solo a rendere il tutto più preoccupante.
«Il Capitolo ha una missione importantissima da darti» continuò, accrescendo la sua apprensione.
Asmodeus si schiarì la gola e cercò di farsi spazio per superare la possente mole di Xendar e riuscire a vedere l’elfo direttamente negli occhi e non attraverso i peli biondi delle braccia del generale.
«Si tratta di Krugar Mano Scarlatta»
«Ma io mi sono ritirato da quell’incarico!» lo interruppe bruscamente Arandil guadagnandosi una fulminata da Xendar e un’occhiata di rimprovero da Asmodeus.
«Ne siamo perfettamente al corrente» replicò, accentuando la nota nasale e altezzosa della voce, «E siamo anche al corrente che tu sia l’unico, oltre ad Adamantius Browning, ad aver avuto a che fare con questo soggetto.»
Arandil aveva sempre trovato che Adamantius fosse un nome da checca, ancor più del suo. Almeno “Aran-dil” aveva un significato che incuteva stima e rispetto: splendente germoglio, uno dei nomi portati dai più rispettati e nobili della sua gente; Adamantius serviva solo a sottolineare la presunzione e la boria del suo possessore.
«Per questo abbiamo pensato a voi per questo incarico» si intromise Crevan in tono gentile, era l’unico ad averlo trattato con rispetto e senza ostentare un’aria di superiorità, e l’elfo ebbe il sospetto che fosse stato scelto proprio perché facesse da paciere e lo rabbonisse. Arandil era diventato famoso per essere piuttosto suscettibile, sebbene si reputasse la persona più paziente del mondo. Tranne quando aveva a che fare con Adam.
«Possedete già parecchie informazioni su Krugar e la sua imbarcazione, e sapreste come muovermi e agire meglio di chiunque altro.»
Ad Arandil non sfuggì il palese tentativo di ingraziarselo, e nonostante detestasse i leccapiedi, apprezzò le parole dell’uomo che lo scrutava in modo tanto dolce e benevolo, mentre tutti gli altri continuavano ad incenerirlo con lo sguardo.
«Di cosa si tratta?» sospirò. Non che avesse altra scelta: i Dragoron erano invitati ad adempiere agli incarichi che gli venivano assegnati, e mettere in discussione le decisioni dei propri superiori poteva essere interpretato con una ribellione e un atto sovversivo e pericoloso, che minava l’ordine, il rigore e i principi dell’Ordine; un Dragoron doveva essere completamente dedito alla propria attività, qualunque essa fosse, sia se appagante e stimolante sia se noiosa e mortificante. Per questo l’elfo aveva accettato qualsiasi merdata gli avesse imposto Xendar senza mai emettere un fiato.
«È un po’ imbarazzante da dire» iniziò Corban tentennante.

«Suvvia Corban, sappiamo che certe cose possono succedere» lo rincuorò Crevan.
Arandil era sempre più incuriosito: cosa diamine era successo? Adam ne era forse coinvolto?
Le sue orecchie a punta, irte di anelli di bronzo e argento, si drizzarono, attente e pronte a captare le parole successive.
«Browning è stato rapito» dichiarò Xendar con i suoi soliti modi spicci.
«Rapito?» gli fece eco l’elfo incredulo. Perché mai Adam, il Dragoron perfetto, era stato rapito da un pirata che – sue testuali parole- non era nemmeno capace di distinguere le proprie natiche dal proprio viso tanto erano brutti, pelosi e puzzolenti entrambi.

«È una grande sventura!» esclamò Crevan drammatico, «è uno dei nostri migliori Dragoron e non possiamo permetterci di perderlo!»
Se era uno di Dragoron migliori perché, allora, era stato sconfitto da Krugar?
L’orco era intelligente e pieno di risorse e armi all’avanguardia, ma Adam era sempre stato il migliore in ogni corso e in ogni missione, aveva sempre ottenuto risultati grandiosi, era sempre stato inneggiato a eroe e additato come esempio di perfezione. Come era caduto nelle mani dell’orco?

«Ne siete sicuri?» sfuggì ad Arandil, prima che potesse contenersi: la sorpresa e l’incredulità erano troppo forti. Asmodeus li lanciò un’occhiata di fuoco e Xendar abbandonò il viso contro una mano, scuotendo vigorosamente la testa.
«Abbiamo la certezza che Adamantius, in questo momento, sia prigioniero di Krugar, detenuto sulla sua nave» rispose Crevan con la sua voce flautata da eunuco. Arandil non aveva mai capito se fosse stato veramente evirato o fosse solo una caratteristica della sua voce, così come Asmodeus l’aveva nasale e ovattata e Corban tonante e cupa.
«E tu dovrai salvarlo» concluse Xendar, arrivando al nocciolo della questione.

«Salvarlo?» ripeté meccanicamente Arandil, senza riuscire a capacitarsi di ciò che gli era appena stato detto: lui, il più inetto e incapace tra i cavalieri, il bersaglio per anni di ingiurie e prese in giro, la vergogna e il disonore dell’Ordine era stato incaricato di salvare Adam, l’emblema dei Dragoron, l’eccelso e inappuntabile, che per anni l’aveva denigrato e massacrato tanto a parole quanto a pugni?
L’elfo avrebbe tanto voluto scoppiare a ridere, e si aspettava che da un momento all’altro uno dei membri del Capitolo si sciogliesse in una grassa risata rivelandogli che era tutto uno scherzo; sperava che accadesse, ma i volti mortalmente pallidi e seri dei Dragoron gli fecero intendere che fosse la verità, per quanto assurda.

«Pensi di poter portare a termine questo incarico?» lo provocò Corban. Adam era il suo protetto e pochi giorni prima aveva richiesto un colloquio privato con lui, designandolo come suo erede e tramandandogli tutte le sue conoscenze. Arandil capiva perché fosse tanto in apprensione: se Krugar avesse scoperto che Adam sapeva i segreti che si celavano dietro la costruzione dei draghi, avrebbe preteso di venirne a conoscenza e avrebbe torturato e costretto Adam a svelarli. Non solo la vita di un uomo, ma la sicurezza e il potere dell’Ordine stesso erano a rischio. Adam probabilmente non avrebbe proferito una sillaba, ma non si poteva mai esserne certi finché fosse rimasto tra le grinfie del pirata.
«Capisci perché non possiamo affidare la missione a nessun altro?» riprese Crevan avvicinandosi a lui con fare paterno, «Se altri venissero a conoscenza di questo increscioso incidente, l’intera reputazione dell’Ordine verrebbe messa a repentaglio: se anche il migliore dei nostri Dragoron può essere sopraffatto da un pirata qualunque, chi assicura che siano davvero così forti, invincibili e capace come si è creduto fino ad adesso?»

«Se questa storia dovesse diffondersi, perderemmo la nostra credibilità e i nostri clienti: sarebbe la nostra rovina» esalò Corban. Sembrava il più preoccupato e agitato di tutti: temeva per il suo protetto e per le informazioni che recava con sé e che era stato lui a fornirgli.
«È stato avventato da parte tua consegnarli tutto quel carico di conoscenze e segreti» lo rimproverò aspramente Asmodeus.
«Non avevo idea di quello che sarebbe successo!» si difese l’altro.

«Suvvia, non è questo il momento adatto per sollevare simili questioni. Quel che è successo è successo, non si può tornare indietro e cambiare il passato, ma si può rimediare agli errori passati nel presente; fortunatamente una soluzione a questo inconveniente c’è e l’abbiamo qui davanti a noi. Arandil è un buon Dragoron, conosce tanto il nostro nemico quanto le sue armi, le sue capacità e le sue risorse. È un ragazzo sveglio e agile, e non dimenticate la sua Abilità.»
Alcuni Dragoron possedevano qualche briciola di magia nel sangue, retaggio di avi che possedevano capacità magiche, che nel corso di generazioni si erano trasmesse di padri in figli. Queste scintille di magia si manifestavano con abilità del tutto particolari che fornivano ai cavalieri un’arma in più, erano capacità fortemente limitate e che nulla avevano a che vedere con la potenza sprigionata dagli antenati; non tutti la sviluppavano e in pochi erano in grado di padroneggiarla senza arrecare danni a sé o agli altri. Arandil poteva controllare la mente umana per poco meno di ventiquattro ore, mentre Adam poteva rendere invisibile sé e gli oggetti che toccava per un tempo circoscritto.
«Sarai perfettamente in grado di portare a termine questa missione» ammiccò Crevan.

Arandil annuì sicuro. Era l’occasione che stava aspettando: avrebbe riscattato non solo la sua reputazione, dimostrando di non essere quell’incapace che tutti sostenevano, ma avrebbe potuto dimostrare di essere meglio di Adam e avrebbe potuto ripagarlo di tutti gli anni di inferno che aveva trascorso per causa sua. Inoltre avrebbe finalmente catturato quel pirata, portando a termine due incarichi e strappando dalle mani di Adam lo scettro di “Dragoron migliore”.
L’elfo abbassò il capo, accettando formalmente l’incarico, sebbene fosse stato già assodato che sarebbe stato lui a compierlo: era l’unico che non avrebbe sparso la voce, non conoscendo nessuno a cui spifferarlo. Il fatto che fosse l’unico ad aver avuto a che fare con Krugar era solo una banalissima scusa per celare la verità: non avendo stretto rapporti con gli altri Dragoron, l’imbarazzante accadimento sarebbe rimasto solo tra loro cinque.
«Quindi è deciso!» esclamò Asmodeus, «Manderemo questo…elfo a trarre in salvo il nostro miglior cavaliere.»

Ad Arandil non sfuggì lo scetticismo con cui pronunciò quella frase, malamente mascherato dal sarcasmo.
«È la soluzione migliore» confermò Crevan.

«E la meno vistosa» commentò Corban esternando il pensiero generale.
«Confidiamo in te» gli sorrise Crevan prima di arrancare fino alla porta e sparire in uno svolazzo di stoffa viola, seguito da Asmodeus e un’occhiataccia di Corban.
«Ti viene accordata una grande fiducia, Arandil» borbottò Xendar, non appena rimasero da soli nella stanza. Ora che erano rimasti solo loro due, pareva meno soffocante. «È un’opportunità che non va sprecata.»

Come se non lo sapessi, alzò gli occhi al cielo Arandil. Trovava inutile che Xendar ribadisse concetti ovvi, come se fosse stato una matricola tarda e non un Dragoron con una propria cavalcatura...Bisognava precisare, però, che nell’ultimo periodo si fosse comportato più come la prima.
«Vedi di non deluderli» si raccomandò Xendar come commiato «Ne va dell’incolumità dell’intero ordine.»
Grazie dell’incoraggiamento
.

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Capitolo 8
*** VII ***


VII

Il porto di Valamer era gremito di navi, aeronavi e persone, caratteristica comune a tutte le città di confine.
La parte bassa della città, la più infamata e pericolosa, che proliferava all’ombra della parte sospesa., trattenuta da pesanti catene di acciaio, ospitava il porto per le navi che viaggiavano sull’acqua e Arandil vi si aggirava con aria fintamente noncurante, quasi stesse passeggiando per ammirare le imbarcazioni che vi erano attraccate. Dubitava che Krugar avesse ormeggiato la sua nave in bella mostra, ma l’elfo aveva imparato che spesso il modo migliore per nascondere qualcosa era metterla bene in vista; inoltre l’ultimo posto dove si sarebbe cercata un’aeronave era proprio quello: chi mai avrebbe ormeggiato una nave che solcava i venti e le nubi tra vascelli che scivolavano leggiadri sull’acqua?

L’elfo era sicuro che il pirata si trovasse lì, o quantomeno ci fosse stato di recente: il segnale del drago meccanico di Adam l’aveva condotto fino a quella città dalla dubbia reputazione, con un governo autonomo e indipendente dall’impero, sebbene formalmente legato ad esso. Essendo una città che confinava con i territori inospitali del Nord, popolati per la maggior parte da belve feroci, draghi, Vandali e fuorilegge, la città necessitava di truppe stabili e fisse, ma l’impero si era rifiutato di sguarnire altri territori per proteggere quella cittadina sordida all’estremo confine settentrionale e Valamer si era munita di un proprio esercito. Non volendo sobbarcarsi anche l’onere di gestire le rogne date dalle numerose incursioni di Vandali, draghi, banditi e quant’altro, l’impero aveva concesso a Valamer uno statuto speciale, che nel corso degli anni e dell’aumento della propria importanza e potenza, aveva assunto le sembianze di un governo a sé stante, in apparenza soggetto all’impero ma in realtà completamente autonomo e indipendente. Ogni anno l’impero nominava un satrapo da spedire in quel cubicolo dimenticato da tutti, ma il funzionario non lo raggiungeva mai, fermandosi in qualche cittadella più civilizzata, meno losca e inquietante. Proprio perché non soggetta alle leggi che governavano il resto dei territori, Valamer raccoglieva la feccia della società: i più disgraziati, meschini, perseguitati e sospetti individui avevano trovato rifugio tra le mura di pietra della città, potendo continuare la loro vita dissoluta lontano da una condanna a morte, dai debiti e dalla vita precedente.
Al governatore poco importava chi abitasse le proprie case, bastava che fossero disposti a prendere le armi quando fosse stato necessario e a pagare le tasse, non chiedeva nient’altro.
Ad Arandil non sorprese che il pirata si fosse rifugiato tra quelle palazzine color carbone e che si fosse trascinato dietro Adam; ciò che lo lasciava perplesso era il fatto che il segnale emesso dal Sigillo si fosse spento improvvisamente. Ciò, solitamente, significava che il proprietario del drago era morto, e che lo stesso drago si sarebbe disintegrato entro breve. L’elfo esitava a credere che l’orco avesse commesso una mossa tanto avventata e sciocca: non avrebbe potuto uccidere Adam senza aspettarsi di trovarsi un plotone di Dragoron alle calcagna; ma ciò non toglieva che avrebbe anche potuto farlo, a suo rischio e pericolo. Arandil pregava che ad Adam non fosse successo nulla, o la sua missione sarebbe stata vana: se fosse morto non avrebbe mai potuto avere il suo riscatto e la sua rivincita, sarebbe fallito miseramente e la vergogna dell’inettitudine l’avrebbe marchiato a vita. Non aveva mai provato tanta preoccupazione per quel damerino indisponente.

Finalmente gli parve di scorgere, incuneato tra due navi da guerra, l’inconfondibile scafo dell’Andromeda. Un sorriso si fece largo tra le labbra sottili.
Sempre ostentando indifferenza si avvicinò alla nave e la studiò, cercando di non farsi notare: il ponte sembrava deserto, così come il resto del vascello; probabilmente erano scesi per fare rifornimento o per altri scopi più sanguinari e meno piacevoli. Arandil non volle soffermarsi su quella possibilità per più di un istante; sperò che Adam fosse sulla nave, tenuto prigioniero nella stiva e guardato a vista da due pirati dal cervello fino che avrebbe potuto controllare senza problemi. In quel momento vide un’ombra sul ponte, si appiattì contro i barili di pesce dietro cui si era nascosto e osservò due pirati trasportare un ammasso di metallo scintillante.
Arandil lo riconobbe come Silvershade, la cavalcatura di Adam; sembrava spento, ma dalla sua posizione non poteva constatare la condizione del Sigillo e affermare se il cavaliere fosse ancora vivo.

Aspettò che i due gli passassero accanto e carpì la loro mente. I pirati rimasero imbambolati per un momento, immobili nel bel mezzo del pontile e in uno stato catatonico, segno che Arandil stava penetrando nelle loro menti. Soggiogarle fu semplicissimo: erano molto semplici e grette. Non che si aspettasse chissà quale cima in una ciurma di pirati, ma non credeva nemmeno che sarebbe stato così facile ammaliarli.

Siete pirati di Krugar Mano Scarlatta?
Domandò loro per via mentale, voleva essere certo che quella fosse la nave giusta e l’orco non avesse provato a ingannarlo in qualche modo: avrebbe sempre potuto prendere un’altra nave e lasciare l’Andromeda al porto come falsa pista. I due pirati, però, confermarono con un breve cenno del capo.
Ditemi dove tenete il prigioniero comandò loro e i due non esitarono a spiegare, specificando che fosse controllato da diversi uomini e che fosse legato e impossibilitato a fuggire.
Krugar è sulla nave?
Domandò, voleva essere sicuro che non ci fosse traccia del capitano; gli uomini risposero che era sceso con la maggior parte della ciurma a far baldoria in qualche bettola dal nome impronunciabile.
L’arrogante aveva pensato bene di lasciare il proprio prezioso carico in custodia ad una decina di uomini, mentre lui se la spassava con il resto dei suoi uomini: una leggerezza che poteva rivelarsi fatale.
Arandil li ringraziò e abbandonò le loro menti non prima di avergli ordinato che, non appena avessero sentito la parola “rum”, avrebbero iniziato a starnazzare come delle oche e a sbattere le braccia come fossero ali.

A volte, l’elfo, adorava la propria abilità, sebbene durasse per poco tempo e non potesse sottomettere troppe persone contemporaneamente.
Con la stessa tecnica eluse la sorveglianza e giunse nella stanza dove Adam era legato ad una delle ossa che perforavano la stiva e la sostenevano.
«Cosa ci fai qui?» sussurrò, non appena vide la figura longilinea di Arandil avvicinarsi a lui.
«Salvo il tuo bel culetto» rispose l'elfo con un sorriso di scherno: trovava la situazione alquanto spassosa e ironica, e se la sarebbe goduta fino in fondo.
«Non ho bisogno del tuo aiuto, lenticchia. Ho tutto sotto controllo» sibilò l'altro.
«Quindi essere legato come un salame nella stiva della nave del pirata che avresti dovuto catturare, fa parte del tuo piano?» commentò sarcastico l’elfo mentre il suo sorriso si allargava.

«Sì» rispose piccato Adam, come un bambino capriccioso e viziato, «E mi domando perché il Capitolo abbia sentito il bisogno di mandare te a salvarmi, non sono una principessa in pericolo.»
«Ma ne hai tutta l'aria» lo punzecchiò l’altro. Adorava potersi finalmente vendicare di tutte le volte in cui Adam lo aveva preso in giro e torturato per tutti quegli anni, quando era lui ad essere lo sfigato di turno che preferiva trascorrere il suo tempo sui libri a studiare i draghi piuttosto che mettersi in mostra come faceva l'umano. In quel momento, invece, era il bellimbusto popolare ad avere bisogno del secchione, e Arandil l'avrebbe aiutato, che gli fosse piaciuto o meno.
«Ripeto che non ho bisogno di aiuto» scandì Adam, «Meno che mai del tuo!»
«Possiamo rimanere qui a battibeccare tutto il giorno come due vecchi sposini oppure, possiamo organizzare un piano per liberarti, catturare Krugar e lasciare questa nave senza lasciarci le penne» sospirò Arandil, che stava iniziando a spazientirsi, «Tu hai il potere di schermare gli oggetti per breve tempo e io posso soggiogare la mente delle persone per ventiquattro ore, se uniamo le forze e sfruttiamo queste capacità, possiamo uscirne vivi e anche vittoriosi.»
«Piuttosto che abbassarmi a collaborare con uno come te, preferisco farmi gettare fuori bordo» protestò Adam, «Ho sempre lavorato da solo e sono riuscito magnificamente in ogni impresa, portando a compimento qualsiasi incarico mi venisse affidato. Tu, invece, non sei ancora riuscito a concludere il benché minimo compito, nemmeno il più semplice, cosa ti assicura che non succederà anche per questo?»

Arandil si trattenne dal tirargli un cazzotto sul naso e farlo tacere, anche legato e rinchiuso in una stiva, era capace di farlo sentire una nullità e un incapace, sbattendogli in faccia la sua incompetenza e la sua mediocrità rispetto all'eccelso e ineguagliabile Adam Browning. Per un attimo, accarezzò l’idea di lasciarlo lì e riferire al Capitolo che il cavaliere era stato ucciso dai pirati prima che potesse raggiungerlo, ma qualcosa dentro di lui, il senso dell'onore, forse, o quel disperato bisogno di riscatto, lo fecero desistere. Prese un altro, lungo sospiro e, ignorando le frecciatine del Dragoron, espose il suo piano.
«Aspetteremo che la nave scenda per fare rifornimento e a quel punto agiremo: tu ci schermerai con il tuo potere, mentre io userò il mio per fare in modo che i pirati collaborino con noi e ci lascino andare; purtroppo, l'effetto del mio potere sarà meno duraturo, dal momento che dovrò controllare una decina di persone contemporaneamente, ma dovrebbe darci il tempo necessario per fuggire...»
«E con Krugar come la mettiamo?» lo interruppe Adam inarcando un sopracciglio.
«Al momento non è sulla nave» riferì Arandil.

«Come pensi di catturarlo, allora?» chiese il cavaliere, «Inoltre, ti ricordo che su questa nave c'è anche il mio drago, e non ho intenzione di lasciare Silvershade nelle mani di questi bifolchi!»
«Oh, Adam è innamorato del suo draghetto e non vuole lasciarlo solo» lo prese in giro Arandil.
«Sei proprio una testa di cazzo» fu il commento dell'altro, «Silvershade non è un semplice drago, e lo sai benissimo! Per quanto il Sigillo impedisca ai pirati di usarlo, possono sempre smontarlo e studiarlo, scoprendo come funzionano i draghi meccanici, a quel punto potrebbero replicarli e allora sarebbe la fine!»
L'elfo non aveva minimamente preso in considerazione questa eventualità: aveva sempre creduto che i draghi meccanici fossero un'esclusiva dei Dragoron e che il segreto per la loro realizzazione fosse impossibile da scoprire tanto era ben custodito e protetto; ma non c'era bisogno di conoscere la procedura quando vi si poteva risalire, avendo la possibilità di analizzare un drago in metallo, bulloni e giunzioni.
«Non ci avevo pensato» si lasciò sfuggire il giovane.

«Ecco perché sono io il migliore» lo rimbeccò l'altro. Tutta la sicurezza di Arandil era crollata in un istante, abbattuta da Adam: credeva che il suo fosse un piano geniale e perfetto, per quanto tratteggiato solo nelle linee generali, ma proprio perché non aveva considerato tutti i particolari e le eventualità, si era rivelato fallimentare.
«Allora, qual è il piano?» domandò l'elfo, riconoscendo, a malincuore, la superiorità dell'altro. Se volevano avere anche una minima possibilità di uscire vivi da quella nave dovevano mettere da parte le divergenze e collaborare, questo implicava giungere a dei compromessi e Arandil era disposto a farlo.
Adam, però, non ebbe il tempo per esporre la sua idea perché un paio di pirati fecero irruzione nella stanza.
«Cosa ci fai tu qui?» lo apostrofò uno dei due, il più grosso e nerboruto, con la bocca nascosta da una barbaccia biondo sporco. Aveva ancora la mente annebbiata dal controllo che l’elfo esercitava ed era convinto che questi fosse un mozzo.
«H-ho portato da mangiare al prigioniero» balbettò l'elfo non trovando una scusa migliore.
«Mangerà più tardi» replicò l'altro, senza indagare oltre, «Il capo vuole vederlo.»
«Perché?» domandò Arandil, «Krugar non era sceso dalla nave?»

«È ritornato» rispose l’energumeno, «E vuole parlare con il Dragoron.»
«Non sono cose che ti possano interessare, mozzo» rispose bruscamente l’altro, dando uno strattone al cavaliere per farlo alzare da terra, «Ora sparisci! Va a lucidare il ponte o a lavare le pentole o a pelare patate. Avrai qualcosa da fare piuttosto che ciondolare in giro e impicciarti di affari che non ti riguardano!»
Prima che l'elfo potesse anche solo formulare mezzo pensiero, i due uomini si allontanarono trascinandosi dietro un Adam ricalcitrante; non appena i due sparirono oltre la botola, Arandil riuscì a riprendersi dalla sorpresa il tempo necessario per rendersi conto che era davvero una testa di cazzo: avrebbe potuto approfittare della mente soggiogata dei due uomini e fuggire.
Ma ora che ci pensava meglio, non sarebbe stata una grande idea: se Krugar voleva vedere Adam, e Adam non si fosse presentato, avrebbe intuito che c’era qualcosa che non andava. Forse era meglio che fosse andata così.
Arandil scivolò fuori dalla botola e iniziò a seguire i due uomini cercando di ostentare sicurezza e indifferenza, come se fosse stato incaricato anche lui di raggiungere la cabina del capitano; sarebbe parso sospetto un mozzo che si aggirava furtivo e nell'ombra, come se avesse avuto qualcosa da nascondere.
Adam si accorse dell'elfo che camminava tranquillamente dietro di loro e spalancò gli occhi per poi esalare un sospiro rassegnato, domandandosi, probabilmente, che cosa avesse in mente quell'idiota incosciente, ma non proferì parola e si lasciò trasportare dai due ceffi fino alla cabina del capitano.
«Accomodati Adam» esordì l’orco, non appena il cavaliere fece il suo ingresso nel locale, «Non vorrei mai che pensassero che tratto i miei ospiti senza alcun riguardo.»
Krugar fece cenno ai due uomini di lasciare la stanza, Arandil riuscì a sgusciarvi dentro un momento prima che chiudessero la porta, e si nascose velocemente dietro un divano.

«I tuoi ospiti?» gli fece eco il Dragoron inarcando il sopracciglio, «Hai una strana concezione di questa parola se per te un ospite è un uomo abbattuto con un arpione, legato e abbandonato in una stiva umida e buia.»
«Devo mantenere una copertura con i miei uomini» gli rispose l’orco iniziando a giocherellare con una sfera di bronzo su cui erano stati incisi i continenti, «Per loro tu sei ancora un prigioniero, un nemico. Sono uomini semplici, che distinguono il bianco e il nero, non capiscono ragionamenti troppo complicati e non colgono le sfumature» La conversazione aveva preso un tono confidenziale che aveva lasciato spaesato l’elfo, così come le parole stesse dell’orco: che cosa intendeva con copertura? E se Adam era sotto copertura, che cosa era in realtà?
«Sarebbe difficile fargli capire che uno dei Cavalieri che per mesi ha provato ad eliminarci, in realtà è il nostro datore di lavoro»
L’intera situazione appariva assurda e senza senso agli occhi di Arandil: perché Adam avrebbe dovuto servirsi del pirata che era stato incaricato di sconfiggere. Che fosse tutto parte di un piano più grande di cui lui era all’oscuro? Ma in quel caso, perché mandarlo a salvare qualcuno che non aveva bisogno di essere salvato?
«Ora basta con queste divagazioni» si riscosse l’orco, appoggiando la sfera sul piano della scrivania, «Passiamo alle cose importanti: gli affari. Quando mi svelerai il segreto dei draghi meccanici?»

 

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Capitolo 9
*** VIII ***


VIII

Arandil soffocò un grido di sorpresa: Adam, l’inappuntabile, eccelso e glorificato Dragoron che veniva portato come vessillo di onore, lealtà e onestà, in realtà era un traditore! La scoperta era troppo assurda e inverosimile per essere reale e veritiera, l’elfo non riusciva a capacitarsene e temette di star sognando: Adam sarebbe stato davvero disposto a svelare quei segreti preziosissimi? In cambio di cosa?
«Non appena avrò i miei cuori di drago e ritorneremo dalle Kal Schelas, ti farò assistere alla creazione dei draghi, così tu stesso potrai avere il tuo esercito personale, marciare alla volta del Dente Spezzato e riconquistare il tuo nome e il tuo onore!»
L’elfo non riusciva a credere alle proprie orecchie: oltre che tradire il proprio Ordine voleva anche usare le proprie conoscenze per scopi personali, magari per sovvertire l’ordine e diventare il nuovo imperatore!
I Dragoron prestavano un giuramento proprio per evitare che la loro evidente potenza diventasse un mezzo per soddisfare i propri interessi e le proprie brame, per piegare altri al proprio volere e diventare dei sovrani incontrastati. Erano un Ordine al servizio della comunità, senza scopi di potenza o dominio; chiunque avesse mostrato segnali che andavano contro questo cardine veniva immediatamente destituito dal suo incarico.
Adam aveva recitato bene in quegli anni, indossando la maschera del Dragoron perfetto e sottomesso ai principi per i quali aveva giurato, tramando in segreto per sovvertirli completamente, per abbindolare ed ingannare il Capitolo e farsi donare quelle preziose informazioni che avrebbe usato contro di loro!
Questa volta Arandil non riuscì a reprimere un singulto di sorpresa e fece scoprire il suo nascondiglio, Krugar e Adam si voltarono nella sua direzione e lo trovarono accucciato dietro lo schienale del divano, come un ratto acquattato nell’ombra.
«Guarda un po’ chi c’è!» esclamò l’orco alzandosi lentamente e facendo scricchiolare e sbuffare le giunture della gamba meccanica, «Cosa ci fa qui un elfo? Appostato dietro al divano? Sta forse spiando?»
Arandil retrocedette verso la porta tenendo gli occhi puntati sui due: anche Adam si era solo alzato in piedi, ma l’orco aveva preso in mano una pistola, adagiata sulla scrivania; era una di quelle che portava Adam, con la canna d’argento e il manico in ciliegio, intarsiato a motivi floreali.
«Sai cosa succede alle spie?» domandò.
L’elfo cercò affannosamente la maniglia della porta, nella speranza di poter fuggire, ben sapendo che oltre ci sarebbe stata l’intera ciurma di Krugar ad attenderlo. Ma sarebbe stato più semplice sgusciare tra le loro gambe che affrontare il capitano: i primi sarebbero stati colti di sorpresa ed erano più stupidi dell’orco; Krugar, invece, era a pochi passi da lui, molto più intelligente, furibondo e con una pistola carica tra le mani.
«Lo scoprirai quando le raggiungerai!» esclamò, facendo partire il colpo. Il proiettile sfiorò le dita di Arandil ma non lo ferì, facendo, invece saltare la maniglia della porta. L’unico modo per aprirla sarebbe stato buttandocisi contro, ma si trattava di una pesante porta in mogano, infissa con cerniere di ferro, e l’elfo non era abbastanza forte o prestante.

Arandil si buttò di lato e cozzò contro una rastrelliera, spade e fioretti franarono su di lui producendo un suono stridente; ne approfittò per armarsi, sebbene una spada potesse poco contro una pistola.
Ma l’orco aveva gettato via l’arma da fuoco e si era procurato un lungo spadone a due mani, un’arma dall’aria pesante e letale ma che l’orco riusciva a reggere con una sola mano: Fernecar. Era un’arma portentosa, lunga quasi quanto una gamba di Arandil, la lama era curva come quella di una scimitarra e seghettata, alla maniera degli orchi; l’elsa aveva una guardia semplice, senza alcuna decorazione, così come il manico d’osso rivestito di cuoio. Era un’arma totalmente priva di fronzoli ma dall’aria letale.
L’elfo, personalmente, la trovava piuttosto rozza, ma non avrebbe mai voluto sentire il bacio freddo di quel metallo cupo e opaco con cui era stata forgiata, che sembrava assorbire la luce, rendendola ancora più minacciosa e tetra.

«Ho sempre detestato le spie» sputò, puntando la lama contro il petto dell’elfo, che si alzava e si abbassava freneticamente.
Con un grido inarticolato l’orco si gettò contro Arandil, ma l’altro riuscì a sfuggirli agilmente. Era nettamente più minuto e veloce di lui, e sebbene l’orco si muovesse con sicurezza e celerità, non era altrettanto scattante. Krugar emise un ringhio basso di frustrazione.
«Ti schiaccerò, mosca molesta» promise, tornando alla carica.

Arandil parò il fendente, ma la forza era tale che si ritrovò compresso dal peso della muscolatura dell’altro. Nel frattempo Adam era rimasto impalato nel mezzo della sala, senza sapere cosa fare: da un lato, se avesse aiutato l’orco, avrebbe confermato i sospetti di Arandil; ma se dall’altro avesse aiutato l’elfo, avrebbe fatto saltare il proprio piano e la propria copertura.
«Fa qualcosa!» sbraitò l’orco all’indirizzo dell’umano. Perché se ne stava immobile come uno stoccafisso messo a seccare e non lo aiutava? In fondo, per quanto anche quella pulce fosse un Dragoron, Adam aveva tradito il suo Ordine e non gli sarebbe cambiato nulla eliminare uno dei suoi membri.
L’uomo prese un fioretto che si trovava su una rastrelliera vicina e assunse la posizione di guardia: avrebbe potuto fingere di dare una mano all’orco, sena fare realmente nulla; avrebbe finto qualche stoccata assolutamente innocua ma spettacolare e poi lasciarsi ferire dall’elfo. In questo modo avrebbe avuto la scusa per non essere riuscito a dare una mano a nessuno dei due, sebbene avrebbe fatto la figura dell’inetto con entrambi.

Arandil sentiva i muscoli delle braccia dolergli, stavano per cedere e la sua testa, ben presto, sarebbe stata aperta a metà come un cocomero maturo. Non ci teneva particolarmente a fare la fine di un cocomero.
Contro di lui sentì, improvvisamente, lo spigolo della scrivania nella schiena: erano retrocessi fino a raggiungere di nuovo quel punto. La solidità e la durezza del mobile, avrebbero potuto essere la sua salvezza.
Si rifugiò sotto la scrivania e l’orco, a causa dello slancio provocato dalla tensione, andò a schiantarsi contro il ripiano, spargendo fogli e mappe per la stanza. La spada andò a incastrarsi profondamente nel legno, diventando inutilizzabile.
«Figlio di una cagna merdosa!» imprecò l’orco cercando freneticamente qualcosa per finirlo, «Ti concerò al punto che stenterai a riconoscere te stesso!»
L’elfo si era rialzato, con un occhio puntato su Adam, ancora indeciso su come agire, e uno su Krugar, che aveva recuperato una nuova spada, dall’aspetto meno minaccioso, ma ugualmente mortifero.

Adam attaccò e l’elfo riuscì a parare per un soffio il suo assalto, in realtà sembrava quasi che l’altro gli avesse dato appositamente la possibilità di contrastarlo. Il Dragoron si era sempre distinto nella scherma, era lo spadaccino migliore, che superava in bravura persino alcuni maestri. Era da sempre rimasto imbattuto nei tornei, sia che gareggiasse contro i suoi compagni, sia contro allievi più grandi.
Un nuovo affondo, e anche questo venne parato con facilità. Dall’altro capo della stanza arrivò la carica di Krugar, ma Arandil, con una mossa fulminea, schivò l’attacco e si portò alle spalle di Adam, minacciandolo con la lama puntata contro la sua gola.
«Fai un passo falso e lo uccido» sibilò. L’orco non parve essere spaventato dalla minaccia.
«Prego» rise, «Sai quanto possa interessarmi di quell’umano.»
Adam, per tutta risposta, tirò un calcio allo stinco dell’elfo che si piegò su sé stesso prima che la spada di Krugar tagliasse l’aria dove fino all’attimo precedente stava la sua testa.

Arandil scattò, parò un nuovo fendete di Adam e schivò un tentativo di affondò di Krugar, con un balzo si allontanò dai due, incespicò nella poltrona e si ritrovò riverso sul pavimento mentre sopra di lui fischiava l’aria lacerata da un pugnale di Adam, che andò a conficcarsi nello stipite.
Schiena a terra parò un colpo dell’orco e rotolò su un fianco per sfuggire ad un altro pugnale lanciato da Adam che atterrò a pochi passi dal polpaccio dell’elfo.
Arandil ne approfittò, afferrò il pugnale e lo scagliò indietro mentre Krugar incombeva su di lui. Un grido di dolore, e una parata che fece stridere le due lame. L’elfo si trovava ad un soffio dal volto sfigurato dalla rabbia di Krugar: gli occhi grigi erano iniettati di sangue e la bocca era distorta in un ghigno malefico che metteva in mostra i denti aguzzi.
«Muori bastardo!» sibilò.

«Non questa volta» replicò l’elfo e sferrò un calcio ai genitali dell’orco. In realtà aveva puntato all’addome, ma anche quel colpo sortì l’effetto voluto: l’orco si piegò in due e si afferrò la parte lesa, uggiolando di dolore. Arandil tirò un sospiro di sollievo, ma si era dimenticato dell’altro: Adam piombò alle sue spalle con un fendente laterale, che l’elfo riuscì a parare all’ultimo. Il braccio sinistro dell’umano era ferito: all’altezza della spalla, dove il pugnale l’aveva colpito, la camicia era lacera e sporca di sangue.
Il Dragoron era stato costretto a usare la mano destra, la sua mano meno forte dal momento che era mancino, e i suoi colpi erano meno poderosi e precisi, sebbene ugualmente letali.

«Lascialo a me!» ringhiò Krugar, ripresosi, almeno in parte, dal dolore lancinante, «Voglio strappargli le palle e fargliele ingoiare!»
Adam si fece da parte, lasciando campo libero a Krugar e alla sua furia. Arandil gli aveva facilitato notevolmente il compito: umiliare e far arrabbiare l’orco non era stata una mossa molto assennata, ma quantomeno gli aveva fornito il pretesto per interrompere la sua farsa.
Il pirata attaccò, accecato dalla sete di vendetta: infilò una serie di poderosi fendenti che l’elfo riuscì a parare per miracolo, i colpi dell’orco si erano fatti serrati e forti, segno che voleva concludere quello scontro.
Arandil si inciampò nelle spade che aveva fatto cadere a terra e la lama dell’orco squarciò la pelle del petto e ne morse la carne. L’elfo urlò di dolore, un bruciore indicibile si irradiò dalla ferita. Arandil rotolò via da un nuovo fendente dell’orco, lasciando dietro di sé una scia cremisi. Con un balzò si rimise in piedi, ma le carni lesionate gridarono di dolore.

Doveva trovare un modo per fuggire da quella stanza, e pensò che la mole di Krugar potesse essergli d’aiuto.
Continuando a parare gli attacchi dell’altro con sempre maggiore difficoltà, riuscì a condurlo fino alla porta. Krugar era accecato dalla furia e badava solo a menare quanti più colpi possibile, senza più fare caso alla direzione e alla precisione. Arandil sfuggì all’ennesimo assalto dell’altro, sgusciò da sotto le sue braccia e riuscì a parare un fendente al volo. Ora l’orco si trovava esattamente dove l’elfo desiderava.
Arandil si abbassò sulle ginocchia con una mossa fulminea, ruotò su sé stesso e spazzò il pavimento sotto i piedi di Krugar, facendogli perdere l’appoggio. Questi barcollò e perse l’equilibrio, franando contro la porta che cedette in un tripudio di schegge. Arandil arrancò tra i resti, la vista offuscata dal dolore per la ferita: non era una lacerazione profonda ma aveva perso molto sangue. Doveva fuggire da lì al più presto. Scavalcò l’orco che si dimenava come un forsennato per liberarsi dalle macerie e si fiondò sul ponte.

«Prendetelo!» sbraitò alla sua ciurma, rimasta imbambolata, «Uccidetelo!»
I pirati scattarono e si gettarono contro l’elfo che sgusciava agilmente tra loro. Gli uomini provarono ad assalirlo tutti assieme, ma finirono per scontrarsi e intralciarsi.
«Che branco di deficienti!» esclamò Krugar, rialzandosi in piedi, «Hanno la merda al posto del cervello. LA MERDA!»

L’orco appoggiò con un ringhio, la gamba meccanica sopra un barile, stesa e puntata contro l’elfo, che nel frattempo aveva raggiunto il parapetto con l’intenzione di buttarsi nel mare e sfuggire ai pirati.
Se fosse fuggito a piedi avrebbero potuto raggiungerlo, ma in acqua era più difficile che lo inseguissero. Da lì avrebbe potuto recuperare Krupfer e fuggire, operazione che sarebbe risultata alquanto complicata se nel frattempo fosse stato impegnato anche a seminare i propri inseguitori. Ciò che ignorava, però, era il segreto della gamba meccanica di Krugar, e che fosse nel mirino della stessa.

Prodigio della tecnologia più avanzata, quella gamba non era solo un arto, ma anche un’arma: premendo una levetta nascosta sul retro del ginocchio, l’orco azionò un meccanismo che aprì la bocca del fucile che costituiva la gamba stessa. Mentre Arandil si appestava a saltare, l’orco fece fuoco e un proiettile fischiò fuori dalla punta metallica della gamba e attraversò l’aria per poi colpire l’elfo nel momento stesso del salto.
L’elegante movimento del cavaliere venne brutalmente troncato dal proiettile, che lacerò la pelle della caviglia in uno spruzzo vermiglio, tramutando il tuffo in un disarticolato e sgraziato tonfo nell’acqua.

Krugar abbassò la gamba e si avvicinò al parapetto: dell’elfo non c’era più traccia se non una pozza rossa che andava diluendosi.
«Uno scocciatore in meno» borbottò Krugar. Il proiettile doveva avergli reciso qualche legamento importante, rallentandolo di parecchio, se non addirittura facendolo desistere completamente dal suo proposito: era difficile dare la caccia ad un pirata quando non si riusciva a camminare e stare saldi sulle proprie gambe.

L’orco si esibì in uno dei suoi sorrisi grotteschi e poco amichevoli: doveva aver definitivamente eliminato il problema di quel Dragoron molesto.

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Capitolo 10
*** IX ***


IX

L’Andromeda scivolava dolcemente attraverso lo strapiombo, abbracciata da due imponenti pareti di roccia scabra e scura che scendevano a picco, incombendo sulla nave. L’imbarcazione, per quanto fosse possente, sembrava minuscola in confronto ai giganti di roccia massiccia che la circondavano, squadrandoli con cipiglio scuro, irto di sporgenze aguzze e lucide.
L’intera ciurma era stata rapita dall’incredibile paesaggio che le Kal Schelas offrivano: una catena montuosa maestosa e solenne, che svettava con altera fierezza, sfidando l’azzurrità del cielo, scevra dai fumi vomitati dalle fabbriche, che ammorbavano i cieli sopra le città. Il luogo era rimasto incontaminato, e nulla ne scalfiva la bellezza selvaggia e mozzafiato: non una costruzione ne deturpava la scabrosità, né una strada ne incideva il profilo; nemmeno la vegetazione aveva osato deturparla. Quella zona era nient’altro che pietra e cielo, il trionfo della natura che sbocciava nella sua più rude e disadorna bellezza.
Il silenzio che dominava il paesaggio era assoluto e solenne, sembrava di penetrare in un sacrario, e gli uomini avevano timore persino di emettere un respiro più profondo. L’Andromeda sembrava uno spettro che si aggirava sgomento per quel luogo silenzioso e suggestivo, con le vele nere gonfiate dal vento, che si infiltrava nel crepaccio che si snodava tra i massicci.
Il peso della bellezza indescrivibile di quel luogo gravava sulla ciurma e nessuno osava proferire parola, completamente in balia della potenza e della forza che quelle montagne parevano trasmettere.
«Kal Schelas, nella Lingua Morta, significa Muraglia Impenetrabile» ruppe il silenzio Adam. Anche lui si stava godendo la vista, abbandonato indolente contro il parapetto d’osso, «Nessuno si è mai spinto ad esplorare queste terre: le montagne incutono troppa paura e soggezione. Le popolazioni che abitarono prima di noi questa terra erano convinti che questa catena dividesse il mondo dei mortali da quello degli dei e degli spiriti che adoravano. Per loro era un luogo sacro e pertanto intoccabile.»
«Siamo dei profanatori» commentò Krugar.
«Per loro lo saremmo stati» scrollò le spalle l’altro, con disinteresse. Non aveva mai creduto in alcuna divinità, ed era fermamente convinto che la religione fosse l’oppio che la casta sacerdotale propinava al popolo superstizioso per mascherare loro la realtà, intorpidendoli con sermoni e inni. Krugar pareva del medesimo parere: non sembrava troppo dispiaciuto di aver messo piede in quei luoghi e, anzi, studiava con vivo interesse le pareti di roccia alla ricerca di qualche vena di minerali preziosi.
«Gli Ardrir hanno scelto appositamente questo luogo per nidificare: è praticamente disabitato e le loro uova e i loro cuccioli sono al sicuro.»
«Fino ad ora» ghignò Krugar. Adam ricambiò il sorriso e tornò a osservare il panorama che si stendeva davanti ai suoi occhi, come una tela in perenne movimento. Più l’Andromeda si addentrava nelle Kal Schelas, più i fianchi delle montagne diventavano stretti e irti di spuntoni di roccia scura, fino a congiungersi e diventare un’unica catena infinita nei pressi del Varco, il confine ultimo tra il mondo dei mortali e quello delle divinità.
Adam li fece arrestare poco prima: i nidi di Ardrir erano più numerosi nei pressi della congiunzione e avrebbero avuto maggiori probabilità di scovarne uno.
Durante il tragitto non vi era stata alcuna traccia dell’ombra sinuosa dei draghi: nessuno si era mai spinto fino a quei recessi e avevano abbandonato con sicurezza i propri nidi per andare a caccia, sebbene alcuni potessero essere rimasti di guardia, rintanati negli anfratti della roccia. Ciò che più Adam temeva, infatti, era un’imboscata da parte di quelle creature: proprio mentre erano in procinto di avvicinarsi ad un nido, un Ardrir sarebbe potuto spuntare all’improvviso dal suo nascondiglio e attaccarli.
«Qual è il tuo piano?» domandò Krugar. Lo stesso pensiero aveva attraversato la sua mente, e aveva iniziato a scrutare con attenzione -e apprensione- le pareti di roccia, questa volta alla ricerca di possibili nascondigli.
«Farai avvicinare la nave alla parete di roccia il più possibile, poi mi legherò con una corda che verrà assicurata al parapetto o alla poppa o dove preferisci, basta che sia abbastanza resistente; mi calerò dall’alto sopra un nido di Ardrir e prenderò un cucciolo. È grande come un gatto e assolutamente innocuo. Voi mi trainerete indietro e lo stesso farete nel caso in cui debba spuntare un drago adulto, il più in fretta possibile, grazie»
«Tutto qui?» domandò Krugar inarcando un sopracciglio cespuglioso, «Tu farai il funambolo mentre noi staremo a guardare e a trainarti come una Waahl?»
«Credo di essere l’unico in grado di poter affrontare un Ardir» gli fece notare Adam. Krugar scoppiò a ridere: una risata sguaiata, sgraziata che sparse gocce di saliva tutt’intorno e mise in mostra la chiostra di piccoli denti appuntiti e bianchi, tra i quali scintillava un dente d’oro.
«Credi che questo tatuaggio serva solo a nascondere il marchio?» domandò, «Non ti sei chiesto perché abbia scelto proprio un Ardir e non un qualsiasi altro drago o animale?»
«Sinceramente, non me lo sto chiedendo nemmeno ora» sbuffò il Dragoron.
«Ne ho affrontata una, di quelle bestiacce. Non qui, ma più a sud, verso Arsenia e le piane di Condanar. Lì ci sono le Rovine di Davanster, la Tomba del Re di Sabbia, con tutti i suoi tesori. Non immaginavamo che quell’Ardrir infernale ne fosse il custode e avesse deciso che le rovine erano il suo territorio di caccia. Ci attaccò all’improvviso, fulmineo: era veloce, scattante, letale. Provava a ferirci con le sue ali ma riuscì solo a lacerare le vele. Dovevamo abbatterlo se volevano avere una qualche possibilità di raggiungere la Tomba. Ma i miei uomini sono tutti dei cacasotto ed è toccato a me l’ingrato compito. Brandendo il mio spadone a due mani, mi sono gettato sulla bestia, e cercando di evitare le sue ali velenifere e sperando di non cadere, ho piantato la lama nelle sue cervella, fino all’elsa. Un combattimento mozzafiato, peccato che, tornato vittorioso sulla nave, mi sia accorto di un graffio all’altezza del cuore, inferto dalle sue ali malefiche. Un graffio da nulla, in realtà, per uno dalla scorza dura e spessa come un orco, ma il suo veleno poteva già essere entrato in circolo. Fece più male spurgarmi dal veleno che la ferita che mi aveva procurato il drago.»
«Ora si spiega la scelta appariscente» commentò Adam, privo di reale interesse, «Spero che tu sappia ancora usare quel tuo spadone.»
«Fernecar è la mia fida compagna e l’unica cosa che mi sia rimasta del mio passato.»
«Vedi di usarla come si vede quando dovrai decapitare qualche Ardrir» si raccomandò Adam. Voleva evitare di essere infettato da uno di quei draghi. Era per questo che avrebbe pagato profumatamente l’orco.
Krugar fece cenno ad Ariel di salire di quota e l’abile timoniere obbedì.
«Come riesci a vedere quei fottutissimi nidi?» domandò, aguzzando la vista per cercare di distinguerli in quell’intrico di spuntoni e sporgenze.
«Basta saper dove guardare» rispose evasivo l’altro. Ne individuò uno proprio sotto di loro, rintanato nel mezzo di due sporgenze divergenti; sondò con lo sguardo l’area circostante, alla ricerca di un possibile Ardrir, ma non ne scorse nessuno e chiese a Krugar di procurargli una corda.
«Dunabar» tuonò, «renditi utile e va a prendermi una corda. La più resistente che abbiamo, ma non troppo spessa, non ho alcuna intenzione di scorticarmi le mani per questo damerino pretenzioso di merda.»
Adam ignorò elegantemente l’offesa e osservò il nano affrettarsi sottocoperta con un ridicolo passo claudicante.
«Adoro farlo correre da una parte all’altra della nave» ridacchiò Krugar, «È uno spasso vederlo caracollare con quelle gambette storte. E non può nemmeno lamentarsi: gli è stata tagliata la lingua.»
Adam trovò piuttosto grottesco l’umorismo dell’orco, ma non poteva nemmeno aspettarsi qualcosa di diverso da uno della sua razza.
Dunabar arrivò tutto trafelato e completamente ricoperto da una corda robusta che sfuggiva dalla presa delle sue braccia, quasi si fosse trattato di un serpente; all’ultimo si inciampò in un lembo e finì lungo e disteso ai piedi di Krugar, che scoppiò nuovamente a ridere.
«Se non fosse un meccanico straordinario, l’avrei lasciato a qualche circo: è esilarante!»
Il nano lanciò un’occhiata carica di odio al capitano, tutto ciò che poteva fare nelle sue condizioni.
L’orco lo rimise in piedi con malagrazia e gli strappò la corda dalle mani; ne lanciò un capo ad Adam e mentre il Dragoron se l’avvolgeva strettamente attorno alla vita, Krugar l’assicurava al parapetto della nave.
Il cavaliere si premurò di controllare la resistenza del nodo, sotto lo sguardo visibilmente offeso dell’altro.
«Dieci anni e passa che sto su una nave e crede che non sia ancora capace di fare i nodi» borbottò.
Ariel assestò la nave e Adam si arrampicò sul bordo della balaustra, sotto di lui si apriva il nido di Ardrir: un nugolo di paglia e sterpaglia per tenere i piccoli al caldo, circondato da frammenti della roccia scura che costituiva le montagne. I piccoli erano quattro: tre femmine e un maschio, più piccolo e snello delle sorelle. Adam aveva puntato a quello: sarebbe stato più semplice da prelevare, le femmine tendevano ad essere più scorbutiche e cattive, mentre i maschi si animavano solo nel periodo dell’accoppiamento.
Il Dragoron prese un respiro profondo, allargò le braccia e si gettò nel vuoto.
Krugar e i suoi uomini più forzuti e muscolosi trattenevano la corda: al salto del cavaliere uno strattone li proiettò in avanti, ma riuscirono a frenare la caduta di Adam un paio di metri sopra il nido.
«Fatemi avvicinare lentamente» urlò.
«Che pretese!» si lamentò Krugar, facendo attentamente scivolare un tratto di corda per volta.
«Basta così» giunse la voce ovattata di Adam, «Ora cercate di non farmi sfracellare sulle rocce.»
«Giuro che quando riemerge lo getto giù dalla nave, ma senza corda» borbottò l’orco. Detestava prendere ordini, soprattutto da un fighetto del cazzo come Adam, ma la prospettiva della ricompensa bastava a fargli ignorare l’atteggiamento presuntuoso e indisponente dell’umano.
Il Dragoron si allungò verso il nido, i draghi avevano iniziato a soffiare e ad agitarsi, ma non potevano fare molto altro: non producevano ancora il veleno e non avevano denti.
Si protese verso il maschietto, mentre le femmine tentavano di proteggere il fratello uggiolando e mordendo le braccia di Adam con le sole gengive. L’operazione si stava rivelando più difficile del previsto: non riusciva ad afferrare i draghi che continuavano a muoversi, e se avessero proseguito a emettere quei versi, avrebbero attirato qualche drago adulto nei paraggi. Prima di essere catturati andavano sedati.
«Tiratemi su» sbraitò Adam e per tutta risposta ricevette uno strattone che gli strappò l’aria dai polmoni e per poco non lo fece rimettere. La delicatezza non era esattamente il forte di quei pirati.
Lentamente venne trascinato di nuovo sulla nave e sotto lo sguardo confuso e sorpreso dell’orco e di due umani nerboruti, si sedette cavalcioni sulla balaustra.
«Dobbiamo sedarli» li informò, «Si agitano troppo e non riesco a prenderli.»
«E me lo dici ora?» sbottò Krugar alterato.
«Non pensavo che sarebbe stato così complicato» si difese Adam.
«Sei tu che avresti dovuto pensarci prima, porca puttana! È tua questa idea!» iniziò a sbraitare l’orco, «Per chi cazzo mi hai preso? Credi che abbia un arsenale di sedativi nella stiva? E poi con cosa cazzo si seda un Ardrir?»
«Penso che un sedativo qualsiasi possa andar bene, la loro pelle è molto fragile e sottile» rispose l’altro con noncuranza.
«Tu mi stai pigliando per il culo» replicò Krugar, furibondo, «Credi che collezioni sedativi e veleni nel tempo libero? Non ho un cazzo di sedativo! Avresti potuto pensarci prima e l’avremmo preso a Valamer!»
«Dovremmo trovare un altro modo, allora» rispose Adam, imperturbabile.
«Ma non mi dire» esalò l’orco, le pretese di quel damerino stavano iniziando ad innervosirlo: nessuno aveva mai osato trattarlo in quel modo, come uno schiavo o un servitore, non da quando era diventato un capitano rispettato e temuto. Solo perché aveva accettato di lavorare per lui, quel cavaliere si era arrogato il diritto di poterlo comandare a bacchetta, come se si fosse trattato di un suo sottoposto. Krugar aveva ormai raggiunto il livello di sopportazione, ma con quell’ultima, improbabile richiesta era stato irrimediabilmente superato.
«Non immaginavo che sarebbero stati così combattivi» si scaldò Adam, «Sono degli stramaledetti cuccioli: innocenti e assolutamente privi di difese»
«I lividi sulle tue braccia sembrano dire il contrario» commentò caustico l’altro.
«Capitano» li interruppe uno dei pirati, «Temo che ci sia un Ardrir in avvicinamento.»
Krugar spostò lo sguardo fiammeggiante dal Dragoron allo spicchio di cielo di fronte a lui, contro cui si stagliava un’inconfondibile forma sinuosa che serpeggiava veloce attraverso l’aria, tagliandola con le sue molteplici ali membranose, striate di vermiglio. Il muso era lungo e appuntito e anch’esso aveva l’estremità rossa, così come i corni che si diramavano dalla testa, facendola distinguere dal corpo serpentiforme che si contraeva e distendeva, spingendo il drago verso la nave. I piccoli occhi gialli emanavano malvagità e sete di vendetta. Quell’Ardrir era più grosso di quello che aveva affrontato l’orco, probabilmente si trattava di una femmina, richiamata dai lamenti dei cuccioli, che aveva tutta l’intenzione di speronare l’imbarcazione.
«Merda» fu tutto quello che Krugar riuscì a dire, prima che il mostro impattasse contro la nave.

Avviso ai naviganti:
Volevo avvisare tutti coloro che stanno leggendo/seguendo/spulciando la storia che la pubblicazione verrà sospesa per due settimane e ripresa come di conseuto il 31 luglio. Ci scusiamo per il disagio.

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Capitolo 11
*** X ***


X

L’Ardrir incontrò la durezza del fianco della nave, più resistente e duro di quelli in legno a cui era abituato, e rimase stordito. 
Il colpo non sortì alcun effetto: la nave non venne sventrata come si aspettava, e il drago si ritirò sgomento e sorpreso.
Il contraccolpo, però, fece ondeggiare il vascello e Krugar venne sbalzato contro il parapetto, così come la maggior parte della ciurma, Adam venne gettato fuori bordo e si ritrovò a penzolare a testa in giù, sospeso sul nido di Ardrir.
«È l’ultima volta che lavoro per qualcuno» borbottò Krugar riacquistando l’equilibrio. Approfittò del temporaneo stordimento dell’animale per sbraitare ordini a destra e a manca e preparare una controffensiva. Il ponte si animò: gli uomini iniziarono a correre freneticamente da una parte all’altra, come schegge impazzite, e si riversarono nei boccaporti alla ricerca di quanto il loro capitano aveva richiesto.
«Dov’è finito quel damerino rompicazzo?» si domandò il pirata accorgendosi in quel momento dell’assenza di Adam. Dal canto suo, il cavaliere continuava a oscillare appeso alla corda, e non appena il timoniere iniziò la manovra di spostamento, venne strattonato e costretto a seguire il movimento. Il sangue gli era affluito al volto e si sentiva alquanto nauseato e stordito, oltre che un emerito deficiente.
«Credo sia caduto fuori bordo, signore» mormorò uno dei suoi uomini indicando la corda ancora legata alla balaustra e tesa fino allo spasmo.
«Tiratelo su! Porco il cazzo!» sbraitò il capitano mentre correva sottocoperta a recuperare la sua spada, «E dategli un’arma: ci ha ficcato in questo casino ed è bene che si dia da fare per tirarcene fuori!»
Adam sentì uno strappo verso l’alto che gli artigliò l’aria dai polmoni, lasciandolo senza fiato, seguito dalla sensazione di essere trainato. Il nido si allontanava al ritmo singhiozzato degli uomini che stavano tirando la corda. Lo stavano recuperando, segno che l’orco aveva preferito non lasciarlo penzolare come un deficiente, come il Dragoron aveva, invece, supposto.
Appena giunto sul ponte, iniziò a trafficare con la corda per sciogliere il nodo.
«Tienitela!» sbraitò Krugar, riemergendo da sottocoperta, «E anche voi dovreste legarvi se non volete fare un salto di quasi tredicimila piedi! Dunabar procura altre cazzo di corde!»
L’orco aveva indossato un giustacuore di cuoio bollito, mostrando come preferisse non ripetere l’esperienza passata: una ferita di Ardrir gli era bastata. Il braccio non armato era rivestito da uno spallaccio di metallo scuro, costituito da diverse punte che lo facevano somigliare alla cresta di un drago. Con lo stesso metallo era stata forgiata Fernecar che brillava tra le sue mani.
L’Ardrir, nel frattempo, si era ripreso dalla sorpresa ed era pronto ad attaccare di nuovo.
Le prime palle di cannone sibilarono nell’aria, ma il drago era agile e veloce, e le schivò facilmente. Emise un basso suono gutturale di sfida, e frustò l’aria con la sua lunga coda, mettendo in mostra le pinne sull’estremità, anch’esse striate di cremisi.
«La pancia, rincoglioniti! Puntate alla pancia!» sbraitava Krugar, come un ossesso, ma i suoi tiratori sembravano essere ciechi: non un colpo era riuscito a sfiorare l’Ardrir.
«Lo stiamo solo innervosendo» fece notare Adam.
«Non ho bisogno di prendere ordini da te, damerino» lo rimbeccò l’altro, «Ho già abbattuto una volta queste bestiacce, ed avevo solo la mia spada e la mia forza. Sconfiggere questo sarà un gioco da ragazzi!»
Ma come confermando le parole del Dragoron, un poderoso colpo di coda si abbatté sulla nave, facendola dondolare pericolosamente.
Gli uomini riuscirono a non precipitare fuori bordo, abituati a quel genere di scossoni, ma Adam non fece in tempo, e prima che potesse rendersene conto, venne brutalmente scagliato oltre la balaustra e si ritrovò ad attraversare l’aria come un saltimbanco al circo. Improvvisamente, si trovò davanti una delle enormi ali membranose dell’Ardrir, che si era erta a difesa del fianco vulnerabile del drago.
«Oh cazzo» esalò.
Il mondo divenne improvvisamente un caleidoscopio di azzurri e verdi, prima di diventare completamente bianco e poi annullarsi in un nero uniforme.
Adam rimase stordito: percepiva il proprio corpo galleggiare nell’aria, ma era come se non gli appartenesse, e quelle sensazioni giungessero da un’altra dimensione onirica. Sentiva l’aria attorno a sé e le grida degli uomini, distanti e ovattate, attorno a lui si ergeva solo una coltre di buio e nebbia sfilacciata.
Improvvisamente si sentì afferrare e trasportare, l’aria gli frustava il viso e gli fischiava nelle orecchie; una presa salda e decisa lo tratteneva per la vita e un odore penetrante gli invase le narici.
Sbirciò tra le ciglia, la vista stava iniziando a snebbiarsi, e intravide la pelle verdastra e butterata del collo di Krugar.
«Ma che cazz…?» esclamò, prima di venire brutalmente scaricato sul ponte della nave.
«Forse è il caso che tu vada sottocoperta» ghignò l’orco, «Questo non sembra un posto adatto a principessine come te»
Adam avvampò, rendendosi conto di quanto fosse appena successo: vedendolo penzolare svenuto dopo l’impatto con l’ala del drago, l’orco si era affrettato a soccorrerlo e a riportarlo al sicuro sulla nave, come se si fosse trattata di una sciocca donzella in pericolo. Aveva fatto la figura dell’idiota e si era reso ridicolo davanti a tutti quegli uomini che stavano rischiando la vita per lui; probabilmente lo consideravano un inetto, ma ciò non lo turbava affatto dal momento che teneva in gran poca considerazione l’opinione di quei pirati. Lo infastidiva, però, il fatto che Krugar potesse dubitare di lui e decidere di non lavorare più per un tale inetto.
L’umiliazione bruciava sul volto del Dragoron: non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa e deridere da un pirata.
«È stato un incidente» si difese, riprendendo il solito contegno sprezzante.
«Lo spero per te» replicò Krugar, «Ma sappi che se cadi di nuovo fuori bordo, ti lascio lì!»
Il drago pareva come impazzito: si arrotolava e si contraeva convulsamente, battendo freneticamente le ali e agitando la coda, nell’affannoso tentativo di schivare i proiettili.
«Dobbiamo trattenerlo» pensò ad alta voce il capitano, «O questo continuerà a dimenarsi come una puttana in calore»
Adam trovò la similitudine del pirata scurrile ma azzeccata: se il drago continuava ad agitarsi selvaggiamente e a sfuggire, i colpi non sarebbero mai andati a segno.
«Preparate gli arpioni» fu il comando perentorio di Krugar.
«Gli arpioni?» domandò uno dei suoi uomini, confuso, «Quelli per le Waahl?»
«Come cazzo pensi di impedire di muoversi ad un mostro di merda del genere?» replicò l’orco esasperato, spesso gli sembrava di avere a che fare con dei decerebrati. Il sottoposto umiliato corse ad eseguire gli ordini, e mentre palle di cannone ancora sibilavano nell’aria, gli arpioni vennero approntati.
«Lasciate a me quello più grosso» ordinò il capitano, «E puntate alle ali. Vicino al limite esterno sono più fragili»
Krugar prese posizione, le gambe divaricate e lo stesso ghigno malefico che aveva distorto i tratti del suo volto quando l’arpione era puntato contro Adam.
Questa volta il bersaglio era meno semplice, dal momento che si muoveva in maniera più convulsa e veloce; avrebbe dovuto anticipare le sue mosse, ma ogni azione era imprevedibile.
L’orco si concesse qualche secondo per studiare i movimenti dell’Ardrir e si accorse che seguiva uno schema preciso, come in una sorta di danza, con piccole variazioni che aveva una base di fondo sempre identica.
Aspettò che facesse rientrare l’ala e sparò il colpo. L’arpione fischiò nell’aria e squarciò l’ala sinistra del drago. Questi rigettò il capo all’indietro, esalando un latrato di dolore e furia.
Inizio a torcersi su sé stesso, cercando di liberare l’ala ma lacerandola ancora di più.
«Bisogna immobilizzare anche la seconda!» latrò Krugar.
Adam spinse via uno degli uomini dell’orco e prese il suo posto: avrebbe dimostrato a quel gretto pirata che non era una donzella in pericolo da spedire sottocoperta.
Il Dragoron era da sempre stato uno dei migliori tiratori e nemmeno in quel caso si smentì. La fiocina andò a lacerare la seconda ala e il colpo fu tale che portò via con sé una parte del fianco molle e non rivestito di squame della bestia.
«Finalmente qualcuno in grado di comprendere le indicazioni» si complimentò Krugar, «Non sei così inutile, dopotutto.»
Adam sorrise tronfio, ma non riuscì a pregustarsi a lungo la vittoria. L’Ardrir si era imbestialito: fino a quel momento aveva creduto di essere invulnerabile, ma le lacerazioni sulle ali e lo squarcio sul suo fianco ostentavano il contrario; i suoi occhi trasudavano rabbia e sete di vendetta, promettendo un attacco terribile.
«La coda!» urlò uno dei pirati, mentre con un guizzo azzurro l’estremità caudale dell’Ardrir colpì l’Andromeda, destabilizzandola. Le corde che tenevano legati gli uomini si tesero producendo lamenti preoccupanti, ma resistettero. Un nuovo colpo di coda gli obbligò ad abbarbicarsi al parapetto.
«Vuole farci precipitare, il bastardo» digrignò i denti Krugar, «Vedete di non far avvicinare quella dannatissima coda alla nave o vi taglio le palle e le do in pasto al drago!»
Gli uomini risposero con grida inarticolate mentre l’Ardrir provava ad afferrare la nave e ad avvolgerla.
«Gliela mozzo quella maledetta coda!» ghignò l’orco «Puntate un cannone contro quella bastarda!»
Un paio di uomini sentirono il suo ordine e ruotarono i piccoli cannoni, che si trovavano sul ponte, verso il drago. Nell’aria esplose il rombo assordante della detonazione e una delle ali più piccole della creatura venne brutalmente strappata dal resto del corpo, assieme ad uno schizzo di sangue verdastro.
Non era esattamente ciò che l'orco si era aspettato, ma risultò altrettanto efficace: il drago ululò di dolore ed emise un fischio basso e assordante, mentre si allontanava di scatto, proteggendo con il corpo la parte offesa.
«Ben fatto!» si complimentò, tornando accanto ad Adam sul ponte.
L’Ardrir, però, si sollevò verso l’alto con un grido esacerbato di dolore e rabbia, per poi gettarsi verso il basso, trascinandosi dietro la nave. Gli uomini vennero spinti gli uni contro gli altri e furono costretti ad aggrapparsi nuovamente alla balaustra.
Adam si sentì per un momento come sospeso nel vuoto, poi, una sensazione di vertigine lo invase e incominciò la caduta. L’aria gli venne brutalmente strappata dai polmoni, il cuore gli salì in gola assieme allo stomaco e al suo contenuto, una voragine si aprì all’altezza degli intestini e una spiacevole sensazione di leggerezza si impossessò delle sue membra.
«Oh merda!» imprecò Krugar. La creatura aveva intenzione di farli sfracellare al suolo.
«Preparate Berta!» gridò.
Il pirata aveva compreso che con quel bestione bisognava ricorrere all’artiglieria pesante.
«Chi sarebbe Berta?» domandò Adam confuso.
Per tutta risposta una parte del ponte all’altezza della prua si lacerò, lasciando emergere un cannone enorme con la bocca larga due braccia: era un colosso di metallo nero e lucido dall’aria letale, trattenuto da pesanti catene. Adam aveva già visto cannoni simili, ma erano in dotazione dell’esercito imperiale e venivano utilizzati durante gli assedi.
«Dove l’hai preso?» esalò.
«Non ti piacerebbe saperlo» ghignò l’orco.
Sul fianco qualcuno aveva scritto con una grafia storta e infantile poche lettere in stampatello: B-E-R-T-A.
«Questo è riservato per le occasioni speciali» gongolò Krugar, «Non credevo sarebbe servito, ma questo Ardrir è un osso duro.»
La prua puntava direttamente contro la schiena del drago, lanciato in una caduta a capofitto verso il fondo delle Kal Schelas.
«Non appena sparerò il colpo, fate rientrare gli arpioni» ordinò, «Ariel, tu sai cosa devi fare.»
«Sarà divertente» assicurò poi rivolto ad Adam, abbracciato al parapetto d’osso come una cozza allo scoglio.
L’orco caracollò fino al cannone e rovinò su di esso. Si aggrappò all’arma come ad un’ancora di salvezza e grazie a quella riuscì a mantenere l’equilibrio in quella folle discesa verso la morte.
«Soffoca nel piombo, figlio di puttana!» gridò e fece partire il colpo.
L’enorme palla tranciò l’aria come una lama di coltello e squarciò la schiena del mostro, trapassandolo da parte a parte. Frammenti di carne e spruzzi di sangue verde si dispersero in un macabro fuoco d’artificio.
Adam aveva chiuso gli occhi, in attesa della fine imminente, ma quando ormai stava dando l’estremo saluto alla propria vita, si sentì bruscamente strattonato per la corda, la testa iniziò a girargli e di punto in bianco si ritrovò in posizione orizzontale.
Quasi contemporaneamente alla detonazione, gli arpioni erano stati ritratti con uno scatto, e Ariel, con un enorme sforzo di braccia, aveva virato bruscamente la nave, facendola impennare e frenando la sua caduta, ma anche facendo risalire il contenuto dello stomaco dell'intera ciurma.
Con un'altra mossa azzardata l'aveva raddrizzata e i pirati erano stati scaraventati gli uni contro gli altri in un intrico di gambe, braccia e corde. Ma almeno erano vivi.
L’Ardrir emise un verso acuto e angosciante, di dolore e sconfitta, precipitò nel vuoto e il grido si disperse nell’aria, per poi estinguersi completamente, sostituito dalle urla di giubilo e di vittoria dei pirati.

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Capitolo 12
*** XI ***


XI



A mia madre


«Un drago da cui estrarre il cuore ora ce l’hai, senza bisogno di prendere i cuccioli» gli fece notare Krugar.
«Non è così semplice» sospirò Adam davanti all’inettitudine e alla superficialità dell’altro, «Il cuore deve essere estratto ancora funzionante. Non mi serve a nulla un cuore fermo, perché non pompa e non produce energia.»
«Quindi ti servono draghi vivi» concluse l’orco, «Fantastico!»

Perché mi sono imbarcato in questa faccenda? Si maledisse tra sé.
L’impresa stava risultando più rischiosa del previsto. Non che si aspettasse di vedere i draghi salire a branchi sulla propria nave, ma stava iniziando a dubitare che sarebbe riuscito ad uscirne vivo.
In quel momento un suono agghiacciante attraversò l’aria, gelando il sangue nelle vene all’orco: aveva già sentito quel verso sordo e gutturale, simile ad un tuono che romba in lontananza, era il suono che emettevano gli Ardrir poco prima di attaccare.
«Capitano» balbettò uno dei suoi sottoposti, tremando come una foglia, «Ne stanno arrivando altri.»
All’orizzonte si profilarono tre ombre filamentose, che assunsero lentamente i contorni di tre Ardrir: erano più piccoli di quello che avevano appena abbattuto, e più giovani, il rosso delle loro estremità era brillante e lucido e non cupo come il vermiglio che chiazzava le ali del loro predecessore, segno che avevano iniziato da poco a produrre a accumulare veleno.
«Sono i fratelli maggiori» osservò Adam.
«Sarà molto più semplice abbatterli» commentò Krugar, facendo roteare la spada con aria baldanzosa.
L’aver ucciso l’Ardrir l’aveva insuperbito: se era riuscito ad eliminare un drago di quelle dimensioni, sconfiggere quei draghetti, che erano grandi la metà e poco esperti, sarebbe stato semplice e veloce come svuotare un boccale di rum.
«Preparatevi all’impatto!» ordinò, nello stesso istante il primo dei draghi si slanciò contro lo scafo, trovando il duro osso ad accoglierlo.
«Ma sono tutti così ritardati?» si domandò, scorgendo la bestia retrocedere confusa e stordita, «È già il secondo che ci prova» 
«Non penso siano abbastanza intelligenti da distinguere una nave di legno da una fatta di ossa di balena» fece notare Adam.
«Tanto meglio!» replicò Krugar assumendo la posizione di guardia, «Più sono stupidi, più cadono facilmente.»
Gestire tre Ardrir contemporaneamente si rivelò essere più complicato: dovevano difendersi su più fronti dal momento che attaccavano da punti diversi, cercando di far ribaltare o precipitare la nave, fustigandone i fianchi con le code serpentine e tentando di tranciare chiunque provasse ad avvicinarsi.
«I cannoni!» urlò qualcuno, «Provate ad allontanarli con i cannoni!»
I boati delle detonazioni iniziarono a riempire l’aria, mentre volute di fumo grigio, oscurarono il cielo. I colpi, però, sembravano avere effetto e gli Ardrir sferravano attacchi in maniera meno accanita, impegnati a schivare le palle di cannone.
«Facciamo vedere loro che non basta una lucertola troppo cresciuta per abbatterci!» urlò Krugar iniziando a ridere sguaiatamente, dondolando dalla sartia a cui era appeso, sporto verso i draghi.
Gli assalti degli Ardrir si erano affievoliti, volavano nervosamente attorno al vascello, cercando un punto vulnerabile in cui sferrare l’attacco, ma i fischi delle esplosioni gli facevano ritrarre spaventati: quelle strane uova nere e dure avevano già provocato danni più o meno gravi, la coda di uno dei draghi aveva perso una delle pinne e un’altra palla aveva lacerato il fianco di un altro Ardrir, ma senza ferirlo gravemente.
Improvvisamente, uno scossone sconvolse l’imbarcazione e un tonfo terribile si propagò nell’aria e nelle assi, che tremarono come in preda alle convulsioni. Una massa azzurra e snella era piombata tra gli uomini urlanti.
Il primo Ardrir che aveva attaccato, più piccolo e agile, si era insinuato tra il sartiame ed era precipitato direttamente sul ponte.
«Merda» fu il lapidario commento di Adam. Il corpo del drago si contorceva convulsamente. I movimenti della creatura erano limitati dallo spazio ristretto, ma proprio per questo risultavano più devastanti: ad ogni suo spostamento mieteva vittime. I pirati iniziarono a fuggire, gridando come dei forsennati, cercando di sottrarsi alle ali letali dell’animale, e calpestandosi l’un l’altro nel tentativo.
«Smettetela di comportarvi da checche» sbraitava Krugar, cercando di ristabilire un minimo di ordine.
Gli altri due draghi non avevano smesso di attaccare, e l’equilibrio dell’Andromeda, gravata da quel peso supplementare, era seriamente compromesso. Il drago flagellava il ponte con la coda, cercando di abbattere gli alberi, ma questi, fortunatamente, erano stati rinforzati da un’armatura di acciaio per resistere alle correnti più violente e alle tempeste. Nonostante questo, se non si fossero sbarazzati di quel drago impazzito si sarebbero sfracellati: l’Andromeda stava perdendo quota, scossa e sfiancata dai colpi dei draghi, e Ariel riusciva a fatica a mantenerla stabile. Si aveva come l’impressione di essere su una giostra, e gli uomini venivano scaraventati da una parte all’altra dell’imbarcazione come marionette a cui fossero stati tagliati i fili. I pirati erano abituati a quegli sballottamenti, avevano affrontato tempeste e mareggiate, e riuscivano a contrastare gli strappi bruschi e improvvisi, ma Adam veniva scagliato con forza da una parte all’altra, simile ad una bambola di pezza, e il suo volto abbronzato era virato ad un inconsueto pallore per stabilizzarsi su una sfumatura verdognola. Aggrappato al parapetto, cercava di trattenere nello stomaco ciò che risaliva ostinatamente.
«Mozzategli la coda» comandò Krugar, slanciandosi contro il drago.
Questi si avvide del suo arrivo e gli sbarrò la strada con le ali membranose. Adam, si trovò improvvisamente davanti agli occhi quella muraglia membranosa color acquamarina, e solo per un miracolo era riuscito a schivarla all’ultimo. L’ala era una struttura portentosa, sostenuta da uno scheletro sottile che si intuiva in trasparenza, le cui appendici andavano oltre la membrana, decorando l’ala con spuntoni d’osso letali, incastrati tra le assi del ponte. L’orco non si era fatto cogliere di sorpresa e, aggrappatosi ad una sartia per evitarla, ruotava sopra il drago, facendolo imbestialire. Il mostro muoveva freneticamente la coda, nella speranza di abbattere quel moscerino verde che gli ronzava attorno. La nave si inclinò paurosamente e Adam si ritrovò l'osso della balausra conficatto nello stomaco già provato.
Il tuono di una detonazione e il fischio di una palla, che lacerava l’aria, sovrastarono la cacofonia sonora che aveva perturbato il silenzio quasi sacrale delle Kal Schelas . La coda del mostro, che si contorceva convulsamente nell’aria, venne squarciata nel bel mezzo del suo movimento, in un’esplosione di sangue verde e squame. Adam rotolò su un fianco per sottrarsi al mozzicone, che cadde con un tonfo a poca distanza da lui in una pioggia di sangue vischioso. Il rimasuglio sobbalzò e strisciò per qualche metro, spargendo un rigagnolo verde tutto attorno, per poi rimanere immobile, immersa in un viscido lago.
Il Dragoron vomitò.
L’Ardrir emise un verso straziante e infuriato si torse, spandendo le sue ali letali tutto attorno, con l’intenzione di vendicare la sua perdita. 
«Questi mostri sono immortali!» esalò uno dei pirati.
«Bisogna colpirli in mezzo agli occhi, nel cervello, o al cuore» riferì un altro.
Con una capriola, Krugar atterrò sopra la testa dell’animale, con grande disappunto di quest’ultimo.
L’attenzione del drago era stata distolta dalla nave, concentrandosi solo sulla formica verde che danzava sulla sua testa, aggrappata a uno dei corni, per mantenere l’equilibrio. L’Ardrir iniziò a dibattersi per tentare di scrollarsi di dosso l’ospite indesiderato, ma Krugar resistette. In equilibrio precario sulla fronte dell’animale, la percorse fino a giungere a poca distanza dagli occhi gialli e squamosi, lacerati da un sottile squarcio verticale che costituiva la pupilla.
Allargò le gambe per stabilizzarsi e sotto lo sguardo strabiliato di Adam sollevò la spada e infilzò l’Ardrir.
Il mostro emise un verso acuto e straziante di dolore e disperazione, ma l’orco non si fece impietosire e affondò ancora di più la lama nella pelle sensibile e vulnerabile. La bestia aveva smesso di dibattersi, completamente assoggettata al dolore indicibile che si irradiava dalla sua fronte. Con uno scatto, Krugar rigirò la lama e la estrasse, assieme ad uno spruzzo di sangue verde e cervella.
Il drago smise di divincolarsi e giacque immobile.
Gli altri due draghi, addolorati per la perdita del fratello, intensificarono le cariche, incuranti dei proiettili.
«Abbiamo finito le munizioni» fu il grido angosciato di uno dei pirati.
L’Andromeda era ormai in balia della furia degli Ardrir. Privi di munizioni, avevano rinunciato a lanciarsi contro di loro con le armi sguainate: i movimenti improvvisi dei draghi e della nave modificavano la traiettoria, facendo andare a vuoto i colpi.
«Mi spiace molto, Duca» Krugar si avvicinò ad Adam. Quest'ultimo era ancora piegato su se stesso, sebbene avesse smesso di vomitare, ma solo perché non era rimasto più nulla da rimettere.
«Temo che l’ultima immagine che avrò di te sarà quella di un damerino vestito da idiota che vomita sul ponte della mia nave. Non molto lusinghiera, in effetti…Mi spiace solo che sia finita così.»
In quel momento il cielo venne rischiarato da una vampata e un forte odore di zolfo si diffuse nell’aria.
I colpi alla nave erano diminuiti e solo un Ardrir ancora si accaniva contro di essa.
«Che sta succedendo?» era la domanda che rimbalzava di bocca in bocca. Krugar non si interessò alla questione: ciò che contava in quel momento per lui era che potesse finalmente affrontare l’Ardrir ed eliminarlo, approfittando del vantaggio temporaneo.
«Aprite le bocche di fuoco!» fu l’ordine repentino.
Gli uomini richiamati all’ordine scemarono sotto coperta e azionarono gli argani con cui il fianco dell’Andromeda si squarciò, rivelando una fila di pozzi neri come la pece e dall’aria minacciosa.
All’apparenza potevano sembrare cannoni qualsiasi, ma quei gioielli di ingegneria sputavano un fuoco che non poteva essere estinto con l’acqua, e anzi si nutriva della stessa.
La formula di quel prodigio era costata cara a Krugar, ma si erano rivelati soldi molto ben spesi: il fuoco inestinguibile mandava in confusione persino i suoi nemici più ostinati e coraggiosi.
«Io attirerò il drago all’altezza delle bocche. Pronti a fare fuoco!» 
L'abbraccio delle fiamme avrebbe avviluppato quel mostro.
Non si serviva spesso delle bocche di fuoco, dal momento che i materiali per produrlo erano difficili da reperire, ma quella era un’emergenza e grazie all’agevolazione provvisoria, sarebbero riusciti ad ustionare lo scocciatore, quel tanto che bastava perché battesse in ritirata.
Krugar si gettò contro il drago e svolazzò attorno alla sua testa: aveva recuperato una pistola e scaricava i colpi contro la testa dell’animale, per infastidirlo e attirare la sua attenzione.
L’Ardrir si avventò contro di lui e l’orco proiettò il suo corpo verso il fianco. Le bocche erano spalancate, mostrando i loro neri abissi rigurgitanti fuoco e fiamme.
«ORA!» sbraitò il capitano, nel momento stesso in cui il corpo serpentino del mostro si inerpicava lungo il fianco, per raggiungere quel fastidioso moscerino e schiacciarlo.
Le bocche si accesero e una fiammata colossale partì dal fianco della nave e colpì la pelle sensibile dell’addome e del torace del drago. Un forte odore di carne bruciata si diffuse nell’aria assieme ad un gemito acuto e straziante.
L’Ardrir si innalzò verso l’alto, la parte anteriore che fumava e sfrigolava, il capo ritorto all’indietro, la bocca schiumante e la sofferenza impressa in ogni membra. Il mostro rimase sospeso per un momento, stagliandosi contro il cielo terso, per poi precipitare.
«Dove è finito l’altro?» domandò Krugar. Aveva i vestiti anneriti e i capelli bruciacchiati, ma per il resto era illeso.
«Un drago!» esclamò qualcuno, «Un drago di rame sta attaccando l’Ardrir!»
Il pirata si fiondò sulla poppa, dove sembrava essersi spostato il combattimento: l’unico superstite si stava accanendo contro un drago di sembianze simili, anch’esso filiforme e sinuoso. Ma le squame di quest’ultimo risplendevano di una luce metallica e il suo corpo era percorso da tubicini in cui era convogliato un liquido giallognolo, sulla fronte scintillava una runa che spandeva una luce viola ogni qualvolta il drago si apprestava ad attaccare.
Una nuova fiammata venne eruttata dalla gola del drago in direzione degli Ardrir ed una delle ali accessorie venne bruciata, facendo emettere all’offeso un latrato lacerante di dolore.
«Chi è?» domandò uno dei suoi sottoposti, osservando l’apparente maestria e facilità con cui riusciva a sottrarsi ai tentativi dell’Ardrir di abbatterlo.
L’orco aveva riconosciuto il drago e non voleva credere ai propri occhi: aveva ucciso quel bastardo, l’aveva visto cadere in mare, venire inghiottito dalle onde e l’acqua tingersi di rosso!
Con un ultimo colpo il drago di rame costrinse alla ritirata anche l’ultimo sopravvissuto che si dileguò in un lampo azzurro.
L’animale meccanico si avvicinava inesorabilmente, puntando l’Andromeda, i contorni del suo cavaliere si fecero man mano più nitidi e terribili: da un’indistinta macchietta scura prese forma una figura slanciata, circondata da lunghi capelli rossi, come il sole al tramonto. La gamba sinistra era abbandonata mollemente contro il fianco del drago e all’altezza della caviglia, un rigonfiamento segnava la presenza di una fasciatura.
Un rigonfiamento si intravedeva anche all’altezza del braccio destro, rilassato contro il dorso del drago.
«Arandil» esalò Krugar, incredulo.
«Ma non era morto?»

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Capitolo 13
*** XII ***


XII

«Evidentemente no, dal momento che sta volteggiando come una farfalla davanti al mio naso!» sbraitò Krugar. Era convinto di aver estinto quella minaccia, e non poteva credere ai propri occhi: Arandil si stava avvicinando con un sorriso sprezzante e tutta l’aria di voler restituire il favore all’orco.
«Lasciatelo a me» sibilò, un ghigno minaccioso e una scintilla omicida negli occhi. Voleva eliminare quell’elfo una volta per tutte e l’avrebbe fatto alla vecchia maniera: con un duello all’ultimo sangue.
«Checca, se hai il coraggio vieni ad affrontarmi! Da uomo a uomo!» lo provocò il pirata, e si lasciò cadere con la corda su uno spuntone di roccia.
Arandil sbuffò: non aveva alcuna intenzione di fornire uno spettacolo penoso e sanguinolento a quei pirati: zoppicava vistosamente e sarebbe risultato ridicolo, non riusciva a muoversi più così agilmente, la sua gamba sinistra rispondeva in ritardo e non come avrebbe voluto lui. Il proiettile aveva reciso il legamento e sarebbe occorso qualche mese perché guarisse, rimanendo sciancato per il resto dei suoi giorni.
Ma se non avesse accettato la sfida avrebbe fatto la figura del codardo e avrebbe perso la possibilità di affrontare Krugar senza tutto il suo armamentario, sarebbero stati solo loro due e le loro abilità.
Con un sospiro rassegnato, fece affiancare Krupfer allo sperone roccioso, che si protendeva quasi orizzontalmente sull’abisso. La superficie liscia e nera ricordava una distesa di ossidiana, ma quella pietra non rifletteva la luce e pareva, invece, ingoiarla e annullarla in una cupezza uniforme e desolante.
Il cavaliere atterrò malamente, la gamba offesa gli inviò una fitta e impiegò qualche secondo per riacquistare l’equilibrio. Krugar sorrise: ucciderlo sarebbe stato di una facilità disarmante, quasi gli spiaceva per lui.
Roteò la spada, la lama luccicava ancora del sangue di Ardrir e il filo scintillava letale sotto la luce inclemente del sole di mezzogiorno.
«Quella mezza calzetta si farà ammazzare» imprecò Adam tra i denti. Era rimasto sull’Andromeda, preferendo rimanere a guardare come si sarebbero svolti i fatti: se Arandil fosse morto sarebbe stata una liberazione; ma se invece fosse stato Krugar a soccombere, avrebbe dovuto trovare un modo per mettere da parte l’elfo ed evitare che ostacolasse il suo piano.
Arandil estrasse la spada che portava al fianco come simbolo della sua posizione, non l’aveva mai usata anche se si era premurato di tenerla sempre affilata e pulita. La lama emise un lamento strozzato, strappata a forza dal suo giaciglio in cui aveva riposato fino a quel momento.
«Pensi di potermi battere con quel puntaspilli?» lo provocò Krugar.
«Il maestro di spada ci ha insegnato che non importa la lunghezza dell’arma, ma l’uso che se ne fa. Anche un ago può essere letale se brandito nel modo giusto.»
In realtà quelle erano le parole che suo padre gli ripeteva costantemente, quando ancora nutriva speranze nei confronti del figlio e del suo futuro da guerriero, prima che Arandil gli confessasse il suo amore per il cielo e il vento e perdesse ogni stima nei suoi confronti, domandandosi cosa avesse sbagliato nella sua educazione.
«Inoltre, sai cosa si dice su chi porta le spade lunghe…» lo stuzzicò. Krugar avvampò e strinse con maggiore forza l’elsa della spada, quasi si fosse trattato del collo dell’elfo.
Arandil assunse la posizione di guardia, la caviglia che strillava di dolore, e aspettò l’assalto dell’avversario.
L’orco non si fece pregare e caricò con tutta la sua forza, l’elfo scattò, con sommo disappunto della parte lesa, e sgusciò lontano dalla portata dello spadone. Krugar si voltò in un tondo, tendendo la spada con una mano sola, nella speranza di sorprenderlo nel mezzo dello scatto, ma il Dragoron schivò, abbassandosi di colpo, e la lama ruotò sopra la sua testa in un sibilo raccapricciante.
L’elfo rispose con un montante che l’altro evitò, volgendo le spalle all’avversario. Arandil provò un’imboccata ma venne intercettata dalla spada dell’altro. Krugar girò, tornando a mostrare il proprio brutto muso, e replicò con una serie di assalti incalzanti.
«Colpire di spalle è da villani» lo rimproverò, «Non te lo hanno insegnato all’Accademia?»
Il Dragoron cedette di fronte alla forza dell’altro e scivolò di lato, sottraendosi al fendente diretto alla sua testa. La gamba non rispose immediatamente e riuscì a ritrarla all’ultimo; Fernecar baciò il polpaccio dell’elfo, lasciandovi il suo marchio: un sottile rigagnolo dorato brillò sul gambale di cuoio.
«Non sei più tanto atletico, adesso» gli fece notare l’orco, sprezzante.
«Nemmeno tu sembri tanto in forma, cacciare draghi è sfiancante» ansimò Arandil. La verità era che l’elfo era in una situazione più critica e disperata dell’orco: la gamba lesionata azzerava il suo vantaggio, non potendo più contare sulla propria velocità e agilità; i movimenti bruschi avevano riaperto la ferita sul petto e il giovane sentiva il sangue gocciolare e impregnare la stoffa. Krugar, invece, non aveva riportato ferite gravi e l’uccisione del drago l’aveva reso baldanzoso e feroce.
Un nuovo tondo che Arandil riuscì a parare all’ultimo, la forza si propagò dalla lama al suo braccio, facendolo tremare per lo sforzo.
Non poteva sperare di battere l’orco su quel piano, doveva puntare sull’astuzia e sull’imprevedibilità.
Cercava di rievocare gli allenamenti estenuanti all’Arena, quando lo costringevano a misurarsi con Gorgar il Titano un Ibrido alto il doppio di lui e largo il triplo, con le dimensioni del cervello inversamente proporzionali alla mole, ma ugualmente difficile da abbattere, soprattutto per uno scricciolo maldestro come lui. Aveva sempre detestato quegli scontri, in cui non faceva altro che saltare e schivare i fendenti dell’avversario, come una cavalletta impazzita. Grazie a quelle sessioni aveva imparato ad essere scattante e veloce, ma non a rispondere ai colpi del nemico. Aveva sempre odiato quelle sessioni stancanti e prive di utilità, almeno dal suo punto di vista: ogni volta che aveva provato a contrattaccare, si era ritrovato con le chiappe nella polvere e lo sguardo deluso del suo maestro ad avvilirlo.
Ridoppio, tondo, rovescio, era difficile elaborare una strategia e contemporaneamente tentare di contrastare gli attacchi serrati dell’avversario. I colpi di Krugar non erano poderosi, per quanto forti, segno che si stava divertendo con lui, lo stava stuzzicando e stava giocando con lui come il gatto fa con il topo.
Se avesse voluto dividerlo a metà ci sarebbe perfettamente riuscito con un unico, portentoso fendente, ma il pirata voleva umiliarlo e sconfiggerlo un poco alla volta, ridurlo in pezzi, un brandello dopo l’altro.
Tondo, e la risposta fu troppo lenta: un'altra parte di armatura si squarciò e un nuovo scintillio dorato baluginò sulla spalla destra dell’elfo.
Dritto, e la gamba cedette, permettendogli di schivare il colpo che gli avrebbe aperto un sorriso sul collo.
«L’unico modo per abbattere una montagna è sgretolandone le fondamenta» le parole di suo padre gli rimbombarono nella testa. Era difficile intaccare la solidità di gambe ampie come tronchi d’albero e la fermezza di piedi lunghi come zattere, come quelli di Gorgar. Krugar, però, si era mostrato meno stabile, e nello scontro precedente era stato semplice farlo cadere…
Arandil si abbassò fulmineo e provò a spazzare la roccia sotto il contendente per sottrargli l’appoggio, ma l’orco aveva imparato la lezione e appena si accorse del movimento dell’altro, saltò. L’elfo fece in tempo a terminare la mossa per parare un fendente improvviso del pirata, calato dall’alto come l’ascia del boia. Era piegato in due per lo sforzo e la fatica faceva urlare i muscoli, la caviglia pulsava e bruciava, gli squarci che lo costellavano dolevano e la ferita al petto mandava fitte atroci ogni volta che si inspirava: sarebbe stato schiacciato dalla sua potenza e dalla sua forza, fallendo miseramente. Di nuovo.
Una nuova serie di colpi incalzanti lo fecero indietreggiare. Arandil inciampò, vide lo scintillio della lama sopra il suo volto e sentì l’aria solleticargli la nuca. I capelli ricadevano nel vuoto e si rese conto che la sua testa era sospesa sopra l’abisso. Deglutì e con un colpo di reni si sottrasse al precipizio, Fernecar morse la pietra, staccandone qualche briciola.
Con una capriola schivò il dritto dell’altro, e la ferita al petto si aprì definitivamente, mandando una fitta di lancinante dolore, simile a una pugnalata.
«Non c’è divertimento a combattere con te» lo provocò Krugar, aveva appoggiato la spada sulla spalla e osserva l’altro piegato in due dal dolore, ansimante e sudato.
«Senza quella tua ferraglia sputa-fuoco, sei impreparato, lento, incapace e debole!» l’orco si era stancato di giocare con l’elfo, l’aveva spossato abbastanza perché avesse i riflessi ancora più ritardati e i movimenti ancora più impacciati e imprecisi. Fino a quel momento, si era solo scaldato e aveva sondato le capacità dell’altro, trovandole imbarazzanti: nemmeno il cuoco di bordo armato di mestolo tirava di scherma così penosamente.
«Facciamola finita, tanto sappiamo entrambi quale sarà l’esito!» ringhiò alla fine, sollevando in alto Fernecar.
Quella volta Arandil non avrebbe fallito: era stato umiliato e coperto di vergogna troppe volte, per troppo tempo aveva fatto la figura dell’inetto e dell’incapace ed era stato oggetto delle derisioni e dei rimproveri dei suoi compagni e dei suoi superiori; era stanco di essere guardato solo con disapprovazione e pietà, come se non meritasse altro. Aveva anche lui un amor proprio e una dignità da difendere!
Con uno scatto, estrasse subitaneo un pugnale d’osso dallo stivale, la caviglia ululava di disperazione e il suo grido di protesta si propagò per tutta la gamba, ma Arandil lo ignorò. Nel momento in cui Krugar caricò il fendente, sgusciò sotto di lui e affondò il pugnale nel suo costato.
Il pirata si ritrasse, sconvolto, e fissò incredulo la lama che spuntava dal suo torace. Arandil approfittò di quel momento di esitazione per menare un tondo che aprì uno squarciò nella gola dell’avversario. Tutti i suoi muscoli urlarono, una fitta di sofferenza indicibile si irradiò dal petto e lo avvolse completamente, lasciandolo senza fiato. Le spade di entrambi caddero in un clangore agghiacciante.
L’orco si afferrò la gola e si portò una mano davanti al volto, incredulo: non riusciva a capire come quell’elfo menomato fosse riuscito a sconfiggerlo. Con un gemito strozzato e pietoso, Krugar si accasciò, il volto rimasto cristallizzato in un’espressione di sincero stupore. Denso sangue cremisi gocciolava dalla ferita, allargandosi in un lago ai sui piedi, in cui ricadde, immobile.
Arandil rimase a fissarlo, non riuscendo a credere nemmeno di lui di essere stato in grado di commettere quell’omicidio. Non si sentiva soddisfatto, sebbene, alla fine, fosse riuscito a portare a termine il suo incarico: Krugar era stato eliminato.
Era stremato e anche lui era prostrato sulla roccia, il petto che si alzava e si abbassa freneticamente, i muscoli scossi da fremiti incontrollati, spossati dalla fatica, e il respiro rotto, raschiante.
Un leggero tonfo alle sue spalle gli fece sollevare lo sguardo inebetito: Adam si era lasciato scivolare dalla corda, atterrando lieve ed elegante.
«Stai lontano da me!» gli intimò, ma la minaccia risultò piuttosto patetica dal momento che era piegato in due dalla fatica e dal dolore.
«Non voglio farti del male» rispose Adam, allargando le braccia per dimostrare che non portava con sé alcuna arma.
«Sei un traditore!» gridò Arandil, rialzandosi con un enorme sforzo e puntandogli la spada di Krugar contro il petto. Le gambe tremavano e non sapeva quanto ancora sarebbero riuscite a reggerlo.
L’accusa aleggiò nell’aria, pesante nella sua gravità.
«Non è come credi» si difese Adam, «Ho solo finto di voler condividere con lui quelle informazioni. Avevo bisogno di conquistare la sua fiducia, per distruggerlo dall’interno.»
Adam appariva convincente ma il suo piano sembrava fin troppo complicato ed elaborato, e l’elfo non riusciva ancora a credergli pienamente.
«Quale guadagno avrei ottenuto nel dirglielo?» gli domandò Adam.
«Un alleato, con cui sovvertire il sistema e rovesciare l’Impero» sputò Arandil.
«Mi credi davvero capace di un’azione simile?» lo guardò scettico l’altro.
L’elfo non sapeva più a cosa credere, non riusciva più a distinguere il vero dal falso: fino a qualche giorno prima aveva sentito con le sue stesse orecchie il piano di conquista e dominio del Dragoron, e quello stesso glielo stava smentendo tassello per tassello, sostenendo che fosse solo una copertura.
«Non so più chi tu sia davvero» mormorò, «Non riesco più a fidarmi delle tue parole. Sembravi così convincente quando parlavi con Krugar e mi hai attaccato.»
«Non ti sei accorto che ti ho salvato la vita più volte? E che sbagliavo volontariamente le stoccate?»
Arandil spalancò gli occhi: si spiegava lo strano atteggiamento che aveva tenuto quella volta, la sua esitazione e l’improvviso deterioramento delle sue tecniche di scherma.
«Tu mi stavi aiutando?» domandò.
«Stavo provando a tenere il piede in due scarpe, in realtà» sospirò l’altro togliendosi il cappello e passandosi una mano tra i capelli corvini, appena spruzzati d’argento, «Non volevo far saltare la mia copertura con l’orco, ma nemmeno farti del male…Sono pur sempre un Dragoron!»
L’elfo si stava pian piano convincendo, aveva abbassato l’arma, sebbene lo continuasse a fissare con sguardo circospetto.
Adam tirò un impercettibile sospiro di sollievo, Arandil sembrava aver abbassato la guardia nonostante il suo sguardo inquisitore non lo abbandonasse per un solo istante.
«Non ho mai voluto tradirvi, non ho mai pensato di farlo. I Dragoron sono l’unica famiglia che ho, l’unico luogo in cui non vengo giudicato per la mia origine e la mia provenienza; dove non vengo etichettato come “bastardo” e vengo guardato con disprezzo, ma dove sono valutato in base alle mie sole capacità, alle mie forze. Come potrei ingannare chi mi ha permesso di fare pace con me stesso?»
Detestava profondersi in questo genere di smielati sentimentalismi, ma se fosse servito a bruciare qualsiasi dubbio ulteriore dell’elfo, allora era disposto a fare la figura della checca sentimentale.
Arandil era esausto, non sarebbe riuscito ad affrontare Adam in condizioni ottimali, figurarsi in quello stato. Credergli risultava più semplice e conveniente: non aveva né la forza né la voglia per contrastarlo.
Lasciò cadere l’arma di Krugar, completamente svuotato e accettò le parole dell’altro. Quel duello e la sua conclusione avevano fagocitato ogni scintilla di energia, non sentiva più nemmeno il dolore ma solo un eco sordo e lontano, prevaricato dall’immensa stanchezza che attecchiva alle sue membra provate. Abbassò definitivamente la guardia e Adam ne approfittò.
«Mi dispiace» mormorò e con un calcio alla tempia, spedì Arandil nel mondo delle tenebre.

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


Epilogo

Adam uscì nel cortile e rabbrividì, schiaffeggiato dalle fredde folate del vento del Nord che portavano con loro un nevischio acquoso e gelato.
Il processo finale era finalmente terminato, e per quanto fosse stato eterno ed estenuante, aveva avuto un esito più che positivo. 
Almeno per lui.
Poteva ritenersi soddisfatto: il suo piano era riuscito meglio di quanto si fosse aspettato, era riuscito a togliere due ostacoli in un colpo solo. Krugar era stato definitivamente eliminato, portando a termine l’incarico e la lauta compensa della Compagnia Orientale era stata intascata dal Dragoron. La testa dell'orco giaceva ancora nell’Aula Magna come prova. 
Inoltre, era riuscito a rigettare le accuse di tradimento di Arandil e farle ricadere su di lui, togliendo di mezzo anche quello scocciatore troppo informato. Avrebbe potuto continuare a ingannarlo, ma sapeva che l’elfo non gli aveva mai creduto fino in fondo.
I libri di ingegneria e alchimia nella sua stanza, i disegni di cui erano disseminate le pareti, i progetti di draghi e gli appunti, a volte contenete anche informazioni riservate, erano state propizie e avevano rappresentato un terreno fertile in cui innestare il suo ultimo inganno: era bastato far rinvenire qualche lettera abilmente falsificata per far ricadere la terribile accusa sul rosso e rigirare le sue recriminazioni.
Arandil aveva denunciato Adam, ma lo stesso si era difeso strenuamente e aveva procurato prove a sostegno delle sue parole, mentre l’elfo si era basato solo sulla propria parola: era lui il vero traditore, e quei mesi spesi a fingere di catturare l’orco, erano stati sfruttati per stipulare accordi con lo stesso. L’obiettivo di Arandil era costruire i propri draghi meccanici, fuori dalla giurisdizione e dal controllo dell’Ordine, i progetti erano chiari e le prove schiaccianti.
L’elfo aveva provato a replicare, ma era la parola del Dragoron migliore supportata da fatti materiali e scritti, contro quella di un cavaliere che non si era mai mostrato all’altezza dei compiti che gli erano stati affidati, che si era sempre mostrato ribelle e non amalgamato ai meccanismi dell’Ordine, che era rimasto sempre in disparte, e l’unico argomento per cui avesse mai mostrato un minimo di interesse erano stati proprio i draghi. Adam aveva messo in luce quegli elementi, insinuando che non fossero mere coincidenze e aveva ritratto un quadro terrificante, le cui parti si incastravano perfettamente le une alle altre.
L’interesse e la curiosità di Arandil erano state la sua condanna e la sua rovina. 
Non gli sarebbe accaduto nulla di terribile: sarebbe stato definitivamente allontanato dall’Ordine e non avrebbe mai più potuto mettere piede al Palazzo di Cristallo, il suo drago sarebbe andato distrutto e l’elfo sarebbe stato costretto a vivere una vita normale, guadagnandosi il pane come chiunque altro, trovandosi un lavoro e una sistemazione alternativa.
Era stato Adam a chiedere questa clemenza: alla fine Arandil, non aveva ancora iniziato a mettere in atto il suo progetto, era riuscito a sventarlo quando ancora era in una fase embrionale, e le sue idee non avevano ancora avuto un’applicazione pratica; non aveva senso che subisse una punizione peggiore, sarebbe stato solo un inutile accanimento.
Adam gongolò per la propria magnanimità, non si preoccupava di Arandil e di una sua possibile vendetta: non avrebbe mai avuto i mezzi di cui il Dragoron disponeva, primo fra tutti la furbizia e l’intelligenza che l’avevano sempre distinto dagli altri; inoltre possedeva la malizia e quel pizzico di intraprendenza che erano totalmente sconosciuti all’elfo, ancora troppo ingenuo e incapace di muoversi nel ginepraio del mondo.
Aveva dimostrato in quello stesso processo di essere un debole e di non avere la stoffa per essere un Dragoron, l’uomo gli aveva solo fatto un favore, allontanandolo da quel mondo che non gli apparteneva e in cui non sarebbe mai riuscito a sopravvivere.
Adam raggiunse l’eliporto di Evernia che si dipanava a poca distanza dal Palazzo, simile ad una piovra di metallo antracite. Tra le ingombranti navi mercantili della Compagnia Orientale, rollava pigramente l’Andromeda, sospinta appena dalle correnti settentrionali.
La nave non apparteneva più a nessuno ora che Krugar era morto, e la sua ciurma si era dispersa come soffioni al vento alla caduta del loro capitano.
Adam vi salì con un piccolo saltello: doveva ancora recuperare quei cuori di Ardrir.

Ringraziamenti

All'inizio non riuscivo a capire come gli scittori quasi piangessero quando ricevevano una recensione, si trattava solo di poche righe n cui si esprimeva la propria opinione, nulla di particolarmenre esaltante. Ma, quando iniziai anche io a scrivere "seriamente" e pubblicare con costanza, capii come queste poche righe fossero in realtà fondamentali e assolutamente necessarie. Per questo, mi sento in dovere di ringraziare in primo luogo e dal più profondo del mio cuore coloro che dal primo all'ultimo capitolo hanno letto e recensito questa storia, lasciando quelle righe così semplici eppure così vitali, che mi hanno sostenuta, confortata e spronata. La mia immensa gratitudine va quindi a Nirvanamorgengabe, le mie assidue lettrici a cui pian piano mi sono abituata. A loro dedico questa storia, per rigraziarle, almeno in parte, del grandissimo supporto che mi hanno fornito. 
Mai saprò come sdebitarvi con voi!

Un altro sentito ringraiamento va a colei che ha permesso la nascita di questa storia,  fornendomi l'ispirazione e lo spunto per iniziarla: TotalEclipseOfHeart. Grazie infinite per aver indetto il contest che è stata la miccia che ha acceso questa storia ^^
Un  ringraziamento speciale va all'onniprensete Chiara, senza di lei il personaggio di Arandil non sarebbe mai esistito, e a Bruna, che legge le mie storie e non me lo dice nemmeno. Grazie per essere i miei baluardi, senza i quali non sarei qui a imbrattare questo sito con le mie scempiaggini.
Grazie anche a quanti hanno aggiunto questa storia tra le seguite (Camaleonte, Dark_sky114, evuzzola, Hime, hola1994, kastalia70, Little Rock Angel 5, Onyx Crysus, The DarkBerserker e Trix)  e tutti i lettori silenziosi.

Grazie per rendere i miei sforzi utili e le mie pare mentali totalmente inutili ^^

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