On the Wire

di Arny Haddok
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Destinazione meraviglia ***
Capitolo 2: *** E tu chi diavolo sei? ***
Capitolo 3: *** Happy Birthday John ***
Capitolo 4: *** Happy Birthday Sherlock ***
Capitolo 5: *** In bilico, insieme ***
Capitolo 6: *** Dal basso ***
Capitolo 7: *** Sussurri e Sorrisi ***
Capitolo 8: *** Skinny love ***



Capitolo 1
*** Destinazione meraviglia ***


Ciao a tutti! Oggi voglio proporre qualcosa che spero di riuscire a portare avanti senza intoppi e con un minimo di costanza. Si tratta di una CircusAU, ma credo che certe spiegazioni verranno date alla fine e nel mio angolo di scrittrice. Detto questo, buona lettura miei volenterosi circensi! 


 


On the wire

 

Prologo

 

Un piede, poi l'altro. Fino alla fine. Non posare lo sguardo su nulla, niente deve catturare la tua attenzione. Ricorda: non guardare verso il basso, tieni l'asta dritta, non sbilanciarti e continua a camminare. Un piede, poi l'altro.

Erano questi i pensieri che affollavano la mente del funambolo, anche se ormai esperto e capace di isolarsi completamente nel mezzo di uno spettacolo, dimenticandosi di tutti gli spettatori. Chi non riesce a trattenere un sospiro ansioso, chi si aggrappa al braccio del marito durante l'esibizione, chi invece si aspetta divertito una caduta. Allontanava con una semplicità impressionante tutti quei sussurri, quelle voci flebili e catturate dalla sua maestria.

Un applauso scrosciante accompagnava i suoi eleganti inchini alla conclusione delle evoluzioni sul cavo. Rilassava le spalle tenute in tensione, sorrideva debolmente, senza mostrare i bianchi denti e le sottili rughe che si formavano accanto agli occhi; il sudore scendeva lentamente sulla sua pelle, sui muscoli della schiena, senza sfiorare il costume di scena.

La luce si spostava al centro dell'arena, illuminando non più il suo sforzo fisico di circense, ma l'ammaliante e misteriosa voce del presentatore.

Solo allora il funambolo si accorse di quanto intensamente uno spettatore lo stava guardando. I suoi occhi catturati ancora una volta da uno spettacolo muto, senza musiche, senza espressioni. Ricambiò lo sguardo, intensamente e con il battito accelerato nonostante la sua parte nello spettacolo fosse conclusa. Non si aspettava di vederlo ancora una volta tra il pubblico, non lui.



Capitolo primo

Destinazione Meraviglia

 

- Devi farmi provare con una corda in meno questa volta! Lo hai visto anche tu che sono capace di voltarmi anche con tre, non ti sembra il momento di rendere gli allenamenti più interessanti? So benissimo che ti piacerebbe vedermi per terra Mycroft, e non negare l'evidenza. - tentò il più giovane della troupe circense.

- Scordatelo Sherlock, sono solo due settimane che ti alleni con questa difficoltà, e non nascondo affatto che mi piaccia vederti cadere miseramente con tutta quell'ostinazione in corpo. - replicò prontamente il fratello con un ghigno ironico stampato sulle labbra.

Per tutta risposta Sherlock lo guardò negli occhi un'ultima volta, prima di voltarsi e lasciarsi il direttore con un'espressione scocciata sul volto alle spalle. Il giovane Holmes aveva dimostrato un'estrema caparbietà e un enorme talento come funambolo. Fin dal primo giorno dell'addestramento voleva salire sulla corda, per imparare quali trucchi gli avrebbero permesso di stare in equilibrio su di essa, ma l'attuale artista, come uomo d'esperienza e dall'infinita pazienza, l'aveva preso per un braccio e riportato a terra dopo il secondo piolo della scala. Assicurare il cavo, capire quale asta era la più adatta alla sua corporatura, esercitarsi ad occhi chiusi e a camminare in linea retta: queste erano le basi necessarie, quelle che anche un ragazzo dall'evidente talento come Sherlock doveva sedimentare adeguatamente.

Seguire quel petulante individuo per mesi di prove e allenamenti non era semplice, tanto è vero che Andrew si era guadagnato il soprannome di Mr Endurance. Spesso lo riprendeva durante gli esercizi, quando Sherlock prendeva a parlare di quali evoluzioni gli sarebbe piaciuto imparare i segreti, e di altre che avrebbe voluto provare, alcune inventate di sana pianta. Nella sua vita il giovane circense sarebbe potuto diventare qualsiasi cosa, e nemmeno mancavano i soldi a lui e a suo fratello per pagarsi gli studi; poteva diventare un legale richiestissimo, un imprenditore dall'enorme successo, un ricercatore o addirittura un antropologo di fama internazionale e i suoi studi sarebbero stati presi in esempio da chiunque. Invece si era innamorato perdutamente degli attrezzi, delle capacità di tutti gli artisti e del loro modo di ingannare il pubblico con semplici trucchi di magia: nel circo itinerante Hound's Wonders non mancava nulla. Ogni spettacolo, ogni addetto ai lavori era preparato meticolosamente e costantemente aggiornato sulle novità che il mondo dello spettacolo aveva da offrire. E come poteva Sherlock Holmes lasciarsi sfuggire tutta quella bellezza? Si sarebbe annoiato a morte in uno studio legale, oppure a chiamare i contabili nel suo ufficio per discutere di semplici cifre, e mai sarebbe salpato per annotare su un taccuino tutte le caratteristiche di una tribù sud americana. Una perspicacia invidiabile, una testardaggine in grado di far innervosire persino Andrew, una curiosità incolmabile e una parlantina degna dei più importanti propagandisti. Ecco che cos'era Sherlock Holmes, ed ecco con cos'aveva a che fare quotidianamente il funambolo della compagnia.

 

Da qualche tempo l'artista aveva dimostrato stanchezza e affaticamento eccessivo, nello stesso periodo in cui il giovane Holmes dava prova dei frutti degli allenamenti in esibizioni notturne in compagnia del suo maestro. Il loro rapporto era estremamente intimo, e somigliava a quello tra un padre e un figlio. Andrew restava sveglio fino a tarda notte per meravigliarsi della rapidità con cui Sherlock migliorava, per consigliarlo e guidarlo durante le prove di esibizioni di cui solo loro erano a conoscenza. Fu lo stesso funambolo a trovare il giovane raggomitolato sulla sua branda in preda a una violenta reazione all'assunzione di cocaina. Era corso ad avvertire il fratello, dopo averlo sollevato e avvolto in una coperta di pesante lana, per tenerlo sdraiato su un fianco.

- Perché mai ha assunto quella... roba, Mycroft! Ho bisogno di spiegazioni! - aveva chiesto al maggiore dei fratelli Holmes, aspettandosi una spiegazione esauriente e soddisfacente.

- Signore, le ricordo che nonostante la mia giovane età si deve rivolgere alla mia persona come direttore di questo circo! Ci sono storie che è meglio non raccontare, ora può andarsene, devo accertarmi delle condizioni di mio fratello. - con queste ultime battute, rientrava nella tenda, durante una notte di pieno inverno.

Chiedendo informazioni a quante più persone possibile, l'anziano funambolo scoprì che i fratelli Holmes aveano perso entrambi i genitori per una grave malattia, e che Mycroft avrebbe deciso di assumere il ruolo di direttore del circo che un tempo era ricoperto da un lontano zio per lasciare Londra. Tutto accadeva quando Sherlock aveva appena undici anni, in balia dei ricordi vividi della sofferenza dei due genitori, che trattenne senza sfogarsi per due anni. Al compimento dei tredici, dopo aver festeggiato con la troupe al completo, aspettò la tarda notte per provare quel “divertimento” di cui tutti parlavano entusiasti, e fu nell'attimo in cui ricomparve nella sua mente l'immagine dei genitori che, piangendo per la prima volta dopo l'accaduto, spinse l'ago della siringa il più in fondo possibile, sperando ingenuamente che il “divertimento” gli potesse così raggiungere più velocemente cuore e cervello. Il fratello venne svegliato da un urlo soffocato e dalla visione di un ragazzino sull'orlo del baratro: Sherlock stava male.

Quella era la prima delle storie che Mycroft custodiva gelosamente.

 

Andrew non riuscì a cavare altre informazioni che superassero l'immagine del maggiore dei fratelli Holmes che diveniva direttore, quindi decise di rinunciare e continuò gli allenamenti con Sherlock pretendendo di non sapere nulla sulla sua ultima assunzione di droga, l'unica di cui era a conoscenza. Ora però capiva il perché della continua ricerca di attenzioni da parte del suo apprendista, attenzioni che dovevano però arrivare solo da lui, il suo maestro. L'aspirante funambolo vedeva in lui il padre che gli era venuto a mancare anni prima. A sedici anni ancora aveva bisogno di una guida che non fosse suo fratello maggiore, e quella guida era il suo maestro.

 

- Dimmi Sherlock, perché hai assunto questa dose? - chiese Mycrfot ora che il giovane dai capelli scuri si era leggermente ripreso ed era intorpidito dal freddo invernale.

- Avevo freddo Mycroft... - la voce flebile e gli occhi che osservavano il vuoto, socchiusi.

- Hai per caso ascoltato qualche conversazione che non ti riguardava? Qualcosa sul tuo insegnante, per esempio. - sapeva perfettamente cos'era successo. Lo aveva capito appena Andrew aveva gridato il suo nome perché corresse da suo fratello. A quella domanda l'aria che l'aspirante circense inspirò fu gelida, e i suoi occhi si aprirono di più. Non voleva ricordare.

- Avrai tutto il tempo per accettarlo, Sherlock, e mi dispiace, ma deve accadere, com'è naturale che sia. -

- Lasciami in pace Mycroft. - riuscì a dire senza convinzione. Non voleva che se ne andasse, perché aveva bisogno di lui, dato che era l'unico rimasto. Un brivido gli percorse la spina dorsale, obbligandolo a portare le gambe vicino al petto.

Il fratello maggiore si sistemò l'elegante bastone da passeggio tra le gambe e si rilassò, posando una mano sulla testa di Sherlock e lasciando che i suoi occhi si posassero sulla luce filtrata dal pesante tessuto della tenda.



 

___

 

 

Correva ormai da una decina di minuti, verso luoghi che sulle mappe non aveva mai notato, ma come poteva importargli di dettagli simili in quel momento? Si fermò al centro della carreggiata per voltarsi e ispezionare l'area: nessuno lo seguiva, certamente da un bel pezzo. La rabbia e la paura gli erano montate in petto in pochi istanti, ed ecco che era scappato, ancora una volta. Quella sera non si sarebbe presentato al corso serale di infermieristica perché non era nelle condizioni di prestare attenzione, e sarebbe rientrato di nascosto a casa ormai a tarda notte, nel silenzio più assoluto. Così fece: camminava lentamente per la strada da cui proveniva, con un andamento lento e cadenzato, quasi fosse quelle di un militare, eppure le sue spalle erano piegate in avanti, rivelando uno stato di tranquillità; arrivato al retro dell'abitazione, spostò delicatamente una cassa di legno contenente attrezzi da giardino per salirci ed entrare dalla finestra del primo piano, sempre aperta. Era da almeno un paio di settimane che aveva trovato quella maniera di rincasare.

Anche quel giorno, suo padre lo aveva minacciato di imporgli la carriera militare, e ancora una volta John Watson era scappato di fronte alla severità del genitore. Mai sarebbe diventato un aviatore, un pilota, un fante; Se c'era qualcosa che il giovane voleva diventare, era dottore. Non voleva sottrarla la vita, la voleva assicurare, donare. A tutto questo però si opponevano problematiche che poteva a malapena fronteggiare. La sua famiglia non era mai stata in buone condizioni economiche, e permettere a John di frequentare un corso di infermieristica era dispendioso. Certo, l'aspirante medico aveva un lavoro con cui copriva gran parte della spesa, ma non riusciva a coprirla completamente, ed era quindi costretto a chiedere ai genitori. Sua madre a malapena cercava di prendere parte al discorso, consapevole del fatto che suo marito le avrebbe impedito di aprir bocca, mentre suo padre sollevava il volantino del servizio militare per sbatterlo sul tavolo della cucina con una violenza inaudita. Di solito era quello il momento in cui John cominciava a correre il più lontano possibile, sapendo perfettamente che suo padre non avrebbe superato il confine del quartiere di periferia.

Nonostante i suoi diciotto anni, il giovane Watson non sapeva come affrontare la situazione, e fino a quella sera aveva tentato due soluzioni: gridare più forte per averla vinta lasciando da parte il senso di colpa per il sacrificio che i suoi avrebbero dovuto compiere, o scappare più in fretta e lontano possibile. Mai nella sua vita era riuscito a costruire un dialogo che non fosse a senso unico con suo padre, e in quel frangente, mentre si parlava di soldi e lavoro, sapeva perfettamente che non doveva tentare un nuovo approccio. Sarebbe risultato inutile.

 

 

___

 

 

Passarono due anni da quel gelido inverno, durante il quale non cadde nemmeno un fiocco di neve per rallegrare la festa del natale. Quell'anno però di neve ne arrivò moltissima, per la gioia dei ragazzini che si divertivano per le strade, e per il nervosismo dei lavoratori che dovevano occuparsi anche di quell'impiccio.

Dalla finestra della sua piccola camera, il giovane Watson, basso e dai capelli chiari, sentì chiaramente le risate di un bambino. Si affacciò per capire cosa portasse quel piccoletto ad essere tanto felice, e scorse in mano alla madre dei biglietti, colorati e vivaci come mai ne aveva visti. Una nuova compagnia circense stava stazionando a Londra, e dall'aspetto singolare degli inviti doveva essere veramente importante.

Non passò troppo tempo, forse qualche secondo, perché John scendesse le scale frettolosamente, con una strana e singolare curiosità che gli attraversava i pensieri.

- Esco! - avvisò a gran voce ormai già fuori dalla porta d'ingresso, mentre si chiudeva la sciarpa di lana grigia intorno al collo. I suoi genitori ormai si erano abituati a questa realtà di silenzi e incomprensioni, tant'è che le liti tra padre e figlio si erano placate. C'era però un patto che avrebbe segnato la fine di quell'ostilità, che allo stesso tempo era divenuta pace: John Watson si sarebbe lasciato alle spalle la stupida idea di diventare medico, per abbracciare la carriera militare al compimento dei vent'anni. Tra pochi giorni sarebbe stato il suo compleanno, e si sarebbe goduto qualche ultima libertà prima di indossare una divisa mai desiderata.

Cosa c'è di meglio di una serata esclusiva alla quale si sarebbe infiltrato senza troppi complimenti?

 

 

Mancava meno di mezz'ora allo spettacolo, e la cavea era già gremita di spettatori, pronti a passare la fine di una giornata con un po' di divertimento.

Guardò per un'ultima volta il suo costume, nuovo e ricamato. Era stata Molly Hooper, la nuova costumista arrivata da un paio di mesi, a confezionarlo per lui. Era aderente, ma non troppo, con qualche fronzolo sulle spalle che avevano bisogno dell'imbottitura. Sherlock già possedeva un fisico atletico, ma ancora doveva formarsi nella sua completezza, e i deltoidi proprio non ne volevano sapere di mostrarsi, nonostante tutti gli esercizi e i pesi.

- Alla battaglia. - sussurrò in direzione del vistoso completo, che portava all'altezza del cuore due iniziali ricamate in oro: A. H.

- Prima o poi me lo dirai perché mi hai chiesto quelle iniziali? Sempre che tu voglia, chiariamoci, se non vuoi dirmelo... lascia perdere. - Molly abbassò il capo con questo tentativo di cominciare una conversazione.

- Meglio. - rispose Holmes senza guardarla in viso.

Aspettò che la costumista si fosse allontanata per indossare “l'armatura” come gli piaceva definire il suo costume, e con uno sguardo celere e intenso alla foto di Andrew Hamilton, suo maestro, uscì dalla tenda che utilizzava la troupe per cambiarsi, raggiungendo finalmente gli altri che lo stavano aspettando.

 

Un'atmosfera barocca regnava all'interno del tendone. Una realtà che nemmeno ci si poteva immaginare dall'entrata. John riuscì agevolmente nell'intento di intrufolarsi nell'arena senza essere scoperto, e prese posto appena l'inizio dello spettacolo fu annunciato dal presentatore.

- Signori e Signore. Bambini e Bambine. Benvenuti. Il circo itinerante Hound's Wonders è felice di ospitarvi per questa magica serata natalizia! Questa sera sarete in mia compagnia, e insieme ammireremo meraviglie di altri mondi, creature bizzarre e evoluzioni che nemmeno potete immaginare! Questa sera, signori miei, la destinazione del nostro indimenticabile viaggio è una sola... DESTINAZIONE MERAVIGLIA!- la voce acuta del presentatore lasciò a bocca aperta chiunque nell'arena. Un uomo abbastanza basso, dai capelli scuri e gli occhi di un nero intenso e magnetico. Un'eleganza sopraffina, accompagnata però da movimenti rapidi e precisi.

Si susseguirono spettacoli di equilibrismo, musica esplosiva, evoluzioni con cavalli e leoni lasciati liberi di correre a pochi metri dal pubblico, spettacolari contorsionisti e incantevoli trucchi di magia.

 

- Noto con piacere che questo viaggio vi sta divertendo e stupendo signori miei, e nulla scalda il cuore quanto una coppia di trapezisti innamorati pronti a lanciarsi l'una nelle braccia dell'altro pur di restare vicini. Forse però è il momento di mostrarvi uno degli spettacoli che più vi incanterà! Un'evoluzione che mai dimenticherete per via della sua pericolosità e della paura che si poserà sul vostro sguardo. Signori, gradirei un applauso veramente eccezionale per il nostro giovane funambolo, che a diciotto anni, sfida la morte camminando su un cavo di acciaio all'altezza di trenta metri! - e con quelle parole l'abbagliante fascio di luce si posò sulla figura di Sherlock Holmes, in piedi con l'asta già pronta nelle mani e i piedi allineati di fronte al cavo.

Nella Londra del 1938, il giovane dai capelli ricci e scuri e dagli occhi del colore dell'acqua gelida del Nord, affrontava la sua prima esibizione.

Un compito solo: fare ciò che Andrew gli aveva insegnato, concentrandosi e ignorando tutti quegli occhi attenti che lo scrutavano da terra. Lui era più in alto, lui quasi volava.

La musica sfumò fino al completo silenzio. Niente divertimento, niente risate, solo stupore.

Mosse il primo passo, poi il secondo. Prima un piede, poi l'altro, protetti solo dalle sottili suole di cuoio nero. Chiuse gli occhi, senza perdere l'equilibrio. Senza accorgersene, ascoltando solo la tensione nei muscoli delle gambe, era giunto alla metà del cavo.

Dal basso, uno sguardo si levava verso la figura sicura e forte del giovane. Non aveva mai visto nulla del genere. Tutto, John si era dimenticato tutto in quel momento.

Seguì senza distrarsi tutta l'esibizione, e non applaudì all'arrivo del funambolo all'altro capo del cavo. Era ammaliato, incantato. Non riusciva a togliersi dagli occhi quell'immagine perfetta del giovane che chiudeva gli occhi e continuava a camminare, sicuro che mai sarebbe caduto.

Sherlock non si scompose, nemmeno si commosse. La sua prima esibizione. Andrew Hamilton non era più lì per vederlo compiere il primo passo verso le evoluzioni più complesse.

 





Spazio (in)utile: eccoci qua! Spero che questa sorta di introduzione vi sia piaciuta almeno la metà di quanto quest'idea è piaciuta a me. Ho in mente davvero tanto per questa storia, e come dicevo all'inizio mi dispiacerebbe davvero lasciarla cadere insieme ad altro, quindi cercherò di impegnarmi al massimo, perlomeno ad annotarmi tutto quello che mi piacerebbe inserire. Se le cose vanno "com'era nei pianiiiii" *canta* allora arriveranno quasi tutti i personaggi, e sì, è Johlock, è arrivato il momento di redere pubblico l'amore spassionato che provo per questa coppia. Tutto questo mi è venuto in mente dopo aver passato due giorni ad un festival di artisti di strada e poi il film "The Walk", che spero abbiate visto tutti voi maledetti, è rispuntato dopo che lo avevo visto tmesi orsono con le magie del protagonista, storia vera tra l'altro! (Cercate Philippe Petit se volete saperne di più).
Un'ultima cosa prima della pubblicità: sapete come diminuire l'interlinea? Io uso Open Office per scrivere, quindi è possibile che stia lì il problema, ma tutto quello spazio tra una riga e l'altra proprio repel me.
Pubblicità al mio schifo, Pagina Facebook > Arny Haddok EFP   Profilo Twitter dove parlo di cose e ritwitto altre cose > @CallmeBoo

Alla prossima! 

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Capitolo 2
*** E tu chi diavolo sei? ***


Oddio non ci credo, sono di nuovo qui. Allora, piccola premessa, questo capitolo ha quel 'non so che' di passaggio, anche se sarete voi a dirmelo. Per quanto riguarda il futuro invece, già dal terzo farà finalemente il suo ingresso una personcina molto speciale.
Vi lascio e ci rivediamo in fondo, sempre buona fortuna miei circensi! 

 





On the Wire

 

Capitolo secondo

E tu chi diavolo sei?
 

-Forza! Sistemiamo tutto prima che qualcuno possa credere che siamo ancora in città! Sono stanco di tutti quei ragazzini che chiedono quando ripeteremo lo spettacolo! - gridava l'addetto al caricamento degli animali in direzione del punto dove in molti si occupavano di piegare il grande tendone bianco.

Un ragazzo dalla bassa statura fece appena in tempo ad abbassare il capo per nascondersi meglio dietro ad una cassa, così da non essere trovato e rispedito sulla via di casa. Non aveva la benché minima intenzione di rincasare, e come poteva? Dopo tutto quello a cui aveva assistito la sera precedente mai si sarebbe sognato di imbracciare un fucile e imparare a sparare. A diciannove anni, John Watson ancora credeva nell'avventura, anche se era stato quel circo a fare in modo che tornasse a crederci. Una sensazione che negli anni si era assopita in un angolo del suo cuore, restando in letargo, fino a quella sera. Non era mai riuscito a permettersi un biglietto per un'esibizione, nemmeno quello per una compagnia circense scadente o ormai in bancarotta. Il suo stile di vita ormai gli aveva imposto di non sprecare denaro per il divertimento, ma di investirlo solo in necessità o ottime opportunità. Quella era un'opportunità che non si sarebbe mai lasciato sfuggire, e nemmeno aveva un prezzo!

Quel talentuoso ragazzo che lo aveva fatto camminare sull'immaginazione per tutta la durata della sua performance lo aveva conquistato, doveva andare con loro e scoprire quanto la vita avesse da offrire. Per quella ragione, e per non entrare nelle fila dell'esercito inglese, John stava cercando un modo per scappare da Londra, dalla sua abitazione e da suo padre, e lo aveva trovato proprio di fronte ai suoi occhi: viaggiare con quel circo itinerante e lasciarsi il passato alle spalle.

Fu così che si nascose tra diversi bauli di legno di mogano che presto si sarebbero mossi su un carro trainato da un'automobile.

 

Appena scese la scala a pioli alla fine della sua esibizione, gli sarebbe piaciuto togliersi il costume, ma doveva aspettare la fine dello spettacolo e i saluti finali per poter realizzare quell'impellente desiderio. Quando finalmente tutto si concluse, Sherlock sbottonò con urgenza la giacca nera per sistemarla alla bell'e meglio su un manichino che Molly gli aveva fatto trovare nella tenda. Durante la notte non avrebbe aiutato a sistemare e a caricare, piuttosto avrebbe aspettato pazientemente l'alba per comprare il quotidiano e leggere il resoconto della loro performance a Londra. Doveva sbollire la tensione che portava in corpo, della quale non si aspettava l'arrivo.

Tese ripetutamente le dita delle mani, guardando quel suo gesto ipnotico e i suoi tendini sforzarsi, per poi abbassare la testa e tornare sdraiato sulla branda. In dieci minuti smontava tranquillamente la tenda da solo, ma quella mattina non si aspettava che suo fratello si sarebbe fatto vivo.

-Non sei caduto da quel cavo, peccato, al pubblico sarebbe piaciuto, almeno avrebbe smorzato quell'inutile ansia che tutti provano ogni volta che sali su quella “corda”. - cominciò Mycroft senza alcun tipo di tatto, pronto a replicare ad ogni possibile risposta del fratellino.

-Dopo tutti quegli allenamenti sarebbe stato da idioti cadere, e poi perché mai sarebbe dovuto accadere? Credi abbia paura di qualche persona che mi guarda? Oh Mycroft, se sono sopravvissuto alle tue frecciatine posso sopportare qualsiasi cosa. Sono immortale. - la sua espressione non era divertita o offesa, era seria, nonostante quel sopracciglio sinistro alzato che accompagnava il sussurro delle ultime due parole.

-Dovresti imparare ad essere meno prevedibile, Sherlock. A te piace tanto stupire... immagina, se fossi caduto tutti sarebbero rimasti impressionati e shoccati, con un'espressione di orrore sul volto, tutti quei bambini, spaventati e attaccati alle gonne delle madri. -

-Ti saresti divertito così tanto, ora vattene, e sappi che non accadrà mai. Non mi vedrai mai cadere dal cavo Mycroft. - concluse il più giovane sdraiandosi sul fianco in modo da non dover più vedere la faccia del fratello maggiore.

-Prima o poi imparerai che la meticolosità e l'attenzione non sono mai abbastanza, soprattutto per un mestiere come questo. - e dicendo questo, il direttore dell'Hound's Wonders uscì dalla tenda e si incamminò verso un gruppo di artisti intenti a caricare i bagagli.

Sherlock rimase nuovamente solo, senza nessuno a porgli stupide domande, e pronto a concentrarsi di nuovo sulla sua tensione. Doveva rilassarsi: la sua prima esibizione era andata egregiamente, dietro le quinte tutti si erano complimentati e gli avevano mostrato cordiali e sinceri sorrisi. Lui però aspettava solamente il momento giusto per allontanarsi e calmarsi. L'idea di Andrew che lo aveva lasciato tornò a tormentarlo anche mentre era steso sulla branda a guardare la precaria struttura della tenda. Non avrebbe assunto droghe, non dopo lo spettacolo o prima dell'imminente partenza. Avrebbe fatto preoccupare suo fratello inutilmente, rallentando tutto e tutti, senza una buona ragione. Chiuse lentamente gli occhi e respirò profondamente, senza addormentarsi, ma restando immobile e finalmente calmandosi.

 

___

 

 

Passarono diverse ore dalla partenza, da quando la troupe aveva festeggiato le ottime critiche che il quotidiano riportava sul loro spettacolo: la compagnia aveva trovato fama e fortuna da quando Mycroft era diventato direttore, e nessuno aveva mai smesso di ringraziarlo per questo, per aver risollevato le sorti di tante persone e aver portato un po' di divertimento in ogni città in cui si sostava. Ogni volta era un lavoraccio, contando la fatica che tutti dovevano impiegare per sollevare il tendone e tutto l'accampamento, ma ne valeva sempre la pena. Sempre. Per tutti quei bambini che si fermavano anche dopo lo spettacolo per salutare gli artisti, per tutte quelle famiglie che volevano assicurarsi il biglietto per quando sarebbero tornati in città, e per tutti quei magnifici complimenti che ricevevano, sempre più entusiasti. Tutti dovevano qualcosa a Mycroft Holmes, e lui, con la sua ironia e serietà, teneva in piedi tutta quella realtà. Certo, non era da solo, perché tutti gli artisti facevano la loro parte, da Moriarty, il presentatore a cui piaceva moltissimo divertirsi a stuzzicare gli artisti, passando per Irene Adler, la contorsionista, e arrivando all'ombroso Sherlock, che di rado si intratteneva con i festeggiamenti insieme agli altri.

In tutto quel tempo, il giovane Watson aveva ascoltato le conversazioni di alcuni circensi che si erano accomodati sui sedili posteriori della macchina, e aveva capito diverse cose su come quel “Signor Holmes” avesse salvato il circo. Non era certo comodo, seduto da ore sul pesante legno del carro e rannicchiato tra i pressanti bauli. Il suo fondoschiena gridava vendetta come mai aveva fatto, ma le insistenti buche del terreno proprio non ne volevano sapere di dargli pace. Prima o poi avrebbe avuto la sua occasione per saltare fuori dal cilindro e per farsi conoscere, con solo due possibili scenari ad attenderlo: sarebbe stato cacciato via senza mezzi termini, con questo fantomatico direttore a minacciarlo di morte per qualche strana ragione, oppure sarebbe stato accolto nella compagnia e avrebbe lavorato per loro. La fantasia di John non spaziava moltissimo, e quelle due ipotesi ne erano la triste conferma. Fortunatamente, la macchina si arrestò, dando al suo lato B un momento di pausa. Tra poco sarebbe calata la sera su quello spazio aperto dove avevano deciso di sostare, e lui sarebbe sceso dal carro per sgranchirsi le gambe.

Passata qualche ora, tutti i componenti del Hound's Wonders aveva trovato riparo dalla lieve brezza invernale in qualche tenda montata per l'occasione. In tutte quelle ore di viaggio, il diciannovenne dai capelli chiari non aveva mai rivolto nemmeno un pensiero ai suoi famigliari, che stavano vivendo la tenera atmosfera natalizia in panico, non avendo idea di dove loro figlio potesse essere. Dopo due giorni avrebbe finalmente compiuto vent'anni, avvenimento di cui suo padre aspettava la venuta da tempo, ma non lo avrebbe svegliato trionfante, obbligandolo a presentarsi per ritirare la divisa il 23 Dicembre.

No, lui era da tutt'altra parte. E ora che ci faceva caso, non aveva assolutamente capito in che direzione la compagnia circense aveva lasciato Londra. Non era importante. Si era alzato lentamente in piedi, scrutando ogni angolo gli fosse possibile per capire se sarebbe stato visto. Assicuratosi di essere solo e coperto dall'auto, spostò un piede sull'erba per poi scendere silenziosamente dal carro. Le ginocchia erano rimaste paralizzate per moltissimo tempo e ora lo ripagavano per quell'impulsiva decisone che aveva preso la sera precedente. Cercando di non emettere alcun lamento causato dai dolori, John si era allontanato dalle tende e dalla macchina, per poter finalmente urinare. Ne aveva bisogno più dell'aria in quel momento.

Tra le altre informazioni che aveva ricavato dalla conversazione degli artisti, sapeva che la mattina seguente sarebbero ripartiti, e Watson durante la notte aveva già pianificato di spostare i bauli per stare più comodo durante il resto del viaggio. Non poteva sapere che quella notte, qualcun altro aveva deciso di restare sveglio.

 

Non impiegò molto tempo per individuare due alberi abbastanza robusti nella boscaglia vicino all'accampamento. Dopo aver memorizzato la loro posizione, era tornato verso il carro con gli attrezzi di scena e si era caricato in spalla il cavo d'acciaio. Improvvisamente sentì la necessità di fermarsi.

Un ragazzo più basso di lui e con due occhi sgranati, lo stava guardando attraverso la fioca luce della luna, in una posizione di fermo, quasi fosse stato un animale illuminato senza preavviso da un fascio di luce.

-E tu chi diavolo sei?! - una domanda, semplice e istintiva.

John cominciò a correre verso la boscaglia con particolare urgenza, inseguito da un molto più agile e veloce Sherlock, il quale non impiegò più di due minuti per trovarlo e prenderlo per un braccio, premendo il corpo del fuggitivo contro il tronco di una pianta. La sua stretta era forte e non lasciava vie di fuga. Watson aveva immaginato diverse volte il modo in cui lo avrebbero scoperto, ma mai la sua ingrata immaginazione gli aveva proposto un siparietto simile.

-Invece che fissarmi come un ebete, potresti rispondere! Sei un ladro? Anche se da come sei vestito non si direbbe. No, non puoi essere un ladro. Troppo idiota, ti sei fatto beccare senza difficoltà. - concluse Sherlock, deducendo quel che poteva con quella poca luce filtrata dalle fronde degli alberi che la notte gli offriva.

-I-io... io un ladro?! - cominciò il ragazzo con un anno in più, interrotto però bruscamente dal più alto che non accennava a mollare il suo braccio – Ti ho appena detto che non lo sei, imbecille! Ce l'hai un nome, oppure sei un orfano cresciuto tra le strade di qualche città? È da quando siamo andati via da Londra che ti nascondi tra la nostra roba, non è così? No, nemmeno un orfano, sei troppo spaventato. Chi cresce per strada è abituato a correre e a farsi prendere come in questo momento. - continuò il ragazzo dagli occhi affilati senza distogliere lo sguardo dall'esile figura del più basso.

-Mi chiamo Watson, John Watson, e sì, sono di Londra. - replicò con un briciolo di sicurezza -Ora non è che mi lasceresti il braccio? Da come mi hai appena parlato non ti dovrebbe risultare difficile prendermi ancora nel caso tentassi la fuga... -

Dopo aver ricambiato il suo sguardo ormai non più intimorito, Sherlock mollò la presa, ma senza allontanarsi - Per quel che mi riguarda potrei svegliare tutti, oppure farti pestare dal mangiafuoco, ma al Golem non piace essere svegliato mentre si riposa. Ti sei salvato, per questa notte. Adesso rimarrai con me fino a quando qualcuno non si sveglierà e decideremo cosa farne di te. - definì il funambolo rimettendosi in spalla il cavo arrotolato che precedentemente aveva lasciato cadere per badare a quel John Watson.

Non voleva chiedergli perché avesse deciso di seguirli, non era proprio il momento per intavolare una conversazione. Sherlock assicurò le corde di sicurezza ai due alberi, stringendo i nodi con attenzione perché il cavo non si muovesse. Assicuratosi della sicurezza dell'attrezzo, salì tirandosi su con la forza delle braccia. Aveva scordato l'asta, ma già da qualche tempo evitava si utilizzarla; in più non era sollevato ad un'altezza esagerata, circa due metri e mezzo. Non sentiva il bisogno dello strumento per aiutarlo con l'equilibrio. Senza troppi sforzi si mise in piedi sul cavo e cominciò a camminare, quasi dimenticandosi del ragazzo che, da terra, lo guardava e realizzava una semplice verità.

- ...Ma tu sei il funambolo! -

Il moro perse leggermente la stabilità, rischiando di cadere, e esprimendo il suo disappunto per quell'indesiderato intervento con un'espressione particolarmente comica: occhi sgranati, mento incassato nel collo, naso arricciato e labbra assottigliate. Riacquistò la concentrazione e tornò a rilassarsi, chiudendo gli occhi e respirando profondamente.

- Sai che la tua esibizione è stata la più bella? Davvero fantastico. - continuò Watson da terra con un'espressione convinta sul volto, gli angoli della bocca all'ingiù ad accentuare il commento.

Ancora una volta, Holmes si ritrovò ad occhi aperti e con l'equilibrio compromesso. Ora il giovane funambolo capiva perfettamente perché Andrew era infastidito quando gli parlava durante gli allenamenti sul cavo. Eppure, quel complimento, quell'unico complimento, gli aveva fatto un certo effetto. Non avrebbe replicato, però sarebbe rimasto all'erta, consapevole del fatto che quel ragazzo avrebbe parlato nuovamente mentre eseguiva l'esercizio. Riprese quindi a camminare, questa volta però tenendo gli occhi aperti. Ormai arrivato all'altro capo del cavo, ecco che si voltò, velocemente, con un suono metallico accentuato ad accompagnare quel movimento preciso e composto.

- Grandioso! - lo definì John, solo con quella parola, che durante l'esibizione nemmeno aveva avuto la forza di pronunciare tanto era preso dal momento – Comunque ancora non so il tuo nome. Non ti do del Lei, il presentatore parlava di... diciotto anni? Se è così allora sei anche più giovane di me. - confessò il più basso continuando a guardare il moro assorto nel suo esercizio.

L'artista raggiunse il centro del cavo e si stabilizzò, puntando lo sguardo verso il suo unico spettatore, senza però voltare la testa – Il mio nome è Sherlock Holmes. - non si sbilanciò oltre, sapere che il pubblico aveva qualche anno in più di lui lo aveva scosso leggermente.

-Ti alleni sempre di notte, Sherlock? Mi hanno insegnato che non è salutare perdere ore di sonno prezioso per sforzi fisici, e mi sembra che tu ti stia sforzando. -

-Non chiamarmi per nome, nemmeno mi conosci. Comunque no, solo quando ci spostiamo mi alleno la notte. -

-Oh, ok. -

Odiava avere qualcuno a guardarlo mentre si allenava, soprattutto dopo la morte del suo insegnante. Nessuno doveva essere testimone dei suoi errori, o delle sue rare cadute, di quando infilava le calzature di cuoio e di quando si fasciava con delicatezza i palmi delle mani, rovinati dalle brasature causate dalle corde di sicurezza. Ma quel ragazzo, John Watson, la sua presenza non riusciva a infastidirlo, a scocciarlo. Niente di questo gli era mai capitato, con nessuno della troupe, nonostante conoscesse ognuno dei componenti fin dal primo momento in cui aveva messo piede nell'arena del circo. Le intrusioni cadenzate da parte di Moriarty che gli sorrideva con un'aria quasi sinistra mentre si esercitava, le conversazioni a senso unico che Irene finiva per fare. La presenza di John non somigliava nemmeno lontanamente a tutto questo.

 

Il mattino seguente Sherlock avvisò suo fratello della presenza di John. I due avevano avuto modo di parlare durante la notte, una volta che i piedi del moro avevano toccato terra dopo un'estenuante sequenza di – Incredibile! - oppure – Magnifico... - e ancora – Splendido! - da parte di Watson. Il più giovane aveva capito che il più basso aveva frequentato corsi di infermieristica, superandoli a pieni voti, ma senza mai averli portati a termine a causa di problemi economici, anche se quest'ultima parte l'aveva dedotta il funambolo. Non potendolo abbandonare in aperta campagna, molti della compagnia decisero di lasciare che il giovane venisse con loro, almeno fino alla prossima esibizione. Se questo si sarebbe dimostrato utile, nessuno gli avrebbe negato un posto nel circo Hound's Wonders, e, incredibilmente, anche Mycroft aveva accettato le condizioni di quell'accordo.

Da quel freddo giorno di inverno, da quella notte gelida che aveva accompagnato le chiacchiere dei due ragazzi, John Watson divenne membro della compagnia circense.

 

 

“Noi siamo figli delle stelle

senza storia e senza età, eroi di un sogno

Noi stanotte figli delle stelle

ci incontriamo per poi perderci nel tempo”

 

Alan Sorrenti – Figli delle stelle


 

Spazio (in)utile: lo ammetto, le citazioni o gli estratti a fine/inizio capitolo mi sono mancati moltissimo, dato che li usavo sempre per la long di Haikyuu. Anyway, eccoli qua, i nostri due bambini di 18 e 19 anni che fanno conoscenza. Se devo dirla tutta, nella mia testa la scena del loro incontro è particolarmente divertente, con John ammaliato e Sherlock che rischia di cadere per ben due volte. Non ho davvero nulla da dire questa volta, quindi vi lascio ad alcune info "tecniche" su cosa potrebbe cambiare per quanto riguarda il testo e non solo. Se non ve ne frega nulla, estremamente comprensibile, allora saltatele a piè pari. 
Spero davvero di riuscire ad allungare i capitoli da ora in poi, anche se finisco sempre con le 3000 parole uff. Per quanto riguarda il testo in sé: ho scoperto di avere Word su un portatile, e ho deciso di scrivere lì, perché mi elimina l'interlinea che su Office proprio non riesco a sistemare. Ergo, dal capitolo tre in poi, si potrebbero notare diversi cambiamenti, come l'assenza dello spazio bianco ad ogni 'a capo', non so se mi sono spiegata. So che è orribile, perché è un cambiamento brusco e parecchio evidente, ma davvero, non ce la faccio a vedermi quella striscia bianca ogni volta. Per finire, vi chiedo di cominciare a portare pazienza: l'estate sta finendo, tra un mese tornerò a scuola e in palestra regolarmente, quindi mi tocca scrivere moltissimo in questo periodo (in cui devo comunque studiare) e razionare la storia con una cadenza settimanale. Probabilmente sarà il lunedì, ma questo dipenderà soprattutto dagli allenamenti. Vi scongiuro, se mai non dovessi farmi sentire per un periodo di due/tre settimane, linciatemi, inviatemi degli alligatori molto affamati per posta, perché questa storia, a parer mio, non si merita di morire. 
Ora pubblicità! Pagina Facebook > Arny Haddok EFP   Twitter > @CallmeBoo

Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Happy Birthday John ***


E anche questo lunedì ci sono riuscita! Ringrazio tutti i lettori silenziosi e chi mi lascia una recensione, che è sempre gradita; probabilmente senza di voi nemmeno sarei qui a editare.
Vi auguro buona lettura e ci rivediamo alla fine del capitolo!
Fatevi forza miei circensi.




On the Wire

 

Capitolo terzo
Happy Birthday John 

 

John si sollevò a fatica dalla branda che gli avevano assegnato, e dato che era stato il giovane funambolo a proporre che entrasse a far parte della compagnia, questa fantomatica branda era nella stessa tenda insieme a quella di Sherlock. L’idea non poteva che essere stata di Mycroft, il quale aveva sempre permesso al fratello uno spazio in cui potesse rimanere solo.

- Non abbiamo altro luogo, Sherlock, il nostro nuovo compagno dovrà dormire con te. – aveva definito il più grande facendo roteare il bastone con la mano destra, mente il ragazzo dagli occhi azzurri lo stava seguendo per fargli cambiare idea. Peccato che il direttore non avesse la benché minima intenzione di farsi convincere dalle suppliche del più giovane. La compagnia si preparava alla restante parte del viaggio: avrebbero continuato fino alla nuova destinazione durante la notte.

- Mycroft – ritentò – non posso pensare di condividere il mio spazio con un completo sconosciuto! E se avesse brutte intenzioni? – era la prima volta che l’artista difendeva così voracemente il suo “terreno”, come se anche l’idea di John violasse la sua persona.

- Fratello caro… sai meglio di me che quel ragazzo non ti farà mai niente, credo che tu lo abbia capito in meno di un minuto, anche prima che questo potesse aprir bocca per meravigliarsi delle tue “sentenze”. – a quella provocazione il giovane Sherlock non sapeva come replicare. Aveva finito le pallottole per la pistola da autodifesa, aveva finito le sue “sentenze” nei confronti del fratello maggiore.

A quel punto il giovane dai capelli scuri e ricci adottò una smorfia di sincera disapprovazione, per poi girarsi e incamminarsi con passo pesante verso la sua ormai non più solitaria tenda.

Nel frattempo, all’impavido aspirante dottore venne in mente che il giorno seguente avrebbe compiuto vent’anni. Nessuno lo sapeva tra gli artisti della compagnia, ma si sarebbe tenuto impegnato con altro, scaricando casse e bauli ad esempio.

Per festeggiare era solito uscire con Stanford, suo caro amico e compagno di corso d’infermieristica: sarebbero usciti a bere qualcosa, magari una birra, e John avrebbe cercato di allontanare il più possibile le pressioni del padre dai suoi pensieri. Forse quelle serate fuori servivano più a quello, al dimenticare, invece che a festeggiarsi.

Arrivò la sera, e l’ultimo arrivato attese istruzioni su dove avrebbe passato il viaggio. Il presentatore degli spettacoli si avvicinò a lui con uno smagliante sorriso, leggermente inquietante, almeno, questo era il parere di Watson.

- Quindi tu sei il tanto chiacchierato John Watson! Qui parlano tutti di te, sai? Non accade tutti i giorni che venga ritrovato un ragazzo tra i nostri bagagli. Comunque parlando d’altro, io sono Moriarty, Jim, se vuoi. – nel mentre, il giovane artista gli aveva circondato il collo con il braccio destro, e il ragazzo dai capelli chiari poté notare, abbassando il capo per l’eccessiva confidenza, che quel personaggio era elegantissimo: tralasciando il cilindro che gli calzava a pennello come fosse una corona, la sua camicia non presentava una singola piega, una grinza, una scucitura, ed era di un bianco sorprendente anche dove solitamente il colore sbiadisce a causa del sudore; portava un cappotto nero poggiato sulle spalle, di modo che le maniche seguiserro fluidamente ogni suo vistoso movimento; i pantaloni sembravano cuciti su misura, sempre neri, e le scarpe lucide ed appariscenti. Se non si fosse trattato di uno dei circhi più importanti dell’Inghilterra, John si sarebbe chiesto perché mai un uomo di una tale eleganza e sfrontatezza fosse lì in quel momento. Nonostante la sua presentazione non riportasse nessun dettaglio discutibile, un brivido percorse rapido la schiena del londinese, accompagnato da una perpetua sensazione d’insicurezza e inquietudine. Se Sherlock era il motivo della sua presenza nell’Hound’s Wonders, allora Moriarty poteva tranquillamente essere la ragione della sua decisione di tornare a Londra e accettare la divisa da militare.

Non riusciva a fidarsi di Jim Moriarty, e nemmeno si erano intrattenuti in una conversazione.

 

Durante il tragitto il presentatore aveva invitato Watson a sedersi in macchina con lui, spiegandogli che avrebbe guidato più volentieri durante una lunga notte d’inverno con una persona da conoscere sul sedile di fianco. A John già sembrava strano che un individuo del genere potesse guidare, avrebbe scommesso che qualcuno lo facesse per lui. Sui sedili posteriori invece si era accomodato Sherlock, sdraiandosi e occupando così tutto lo spazio a sua disposizione. Già lo infastidiva l’idea di condividere il suo sonno con il nuovo arrivato, era meglio prendersi più spazio possibile finché ne aveva la possibilità, no?

Moriarty aveva sempre il giovane funambolo come compagno di viaggio, e fin dal suo arrivo nel circo, lo aveva stuzzicato senza dargli una giornata di tregua. Il giovane dai capelli scuri, si era ritrovato questa presenza ingombrante fin da ragazzino, e non aveva idea del perché una persona con qualche anno più di lui, che quindi doveva mostrarsi adulta, si divertiva così tanto ad infastidirlo. Durante gli allenamenti era capace di portarsi un comodo sgabello di legno e restare a guardare le sue performance sul cavo, commentando con un tono acuto e insensibile, nonostante spesso si trattasse di complimenti. Durante i lunghi viaggi erano soliti parlare, soprattutto Jim, di quanto i costumi fossero comodi o di qualche notizia che girava da tempo “dietro le quinte”: Sherlock non lo sopportava, così come non sopportava il fatto che tutte le chiacchiere e i gossip si impossessassero di ogni loro conversazione, che, in caso contrario, sarebbero state di un’intelligenza e cultura importanti.

Quella notte però la scena di “verginello” o “a Molly come piacerebbe chiamare vostro figlio?” gli era stata rubata da John Watson, e mai smise di ringraziarlo per la sua presenza.

- Dimmi John, mi hanno raccontato che sei scappato di casa e che sei rimasto incantato dal nostro giovane e attraente funambolo, devo considerarlo un colpo di fulmine? – al più basso saltò un battito, e la sua divertente e imbarazzata espressione non fece altro che confermare la teoria di Moriarty.

Nessuno, nessuno aveva mai parlato di come John fosse rimasto esterrefatto dalla leggiadria e concentrazione del più giovane degli Holmes. Come diavolo faceva quell’uomo a saperlo?

- C-Cosa? Colpo di fulmine? Ma… assolutamente no! – replicò dopo qualche brevissimo istante di stabilizzazione –Comunque ha detto bene, sono scappato. – avrebbe cercato di cambiare argomento il prima possibile, odiava ricordare il volto tinto di rabbia di suo padre, anche se aveva lasciato casa da due giorni soltanto. Mai nessuno che gli chiedesse quale fosse il suo colore preferito.

- Mi piace di più pensare che tu sia rimasto shoccato di fronte alla bravura e alla compostezza del nostro misterioso e giovanissimo Holmes, sai, è proprio bravo su quella sua corda o come si chiama. – al conducente non interessava minimamente della vita passata del ragazzo seduto di fianco a lui.

- Cavo. – intervenne un tono profondo e serio.

- Scusami, caro Sherlock. – replicò prontamente Jim, come se si aspettasse una risposta mentre ancora formulava volontariamente l’errore. Il suo tono si era alzato all’improvviso, mentre si voltava per guardare il suo interlocutore.

L’aspirante medico, in quelle brevi battute, riuscì a percepire un quantitativo tale di tensione, che, se imbottigliata in forma liquida, avrebbe dissetato l’intera città di Londra. Chi erano quei due personaggi? E perché mai Moriarty continuava ad inquietarlo? Forse era la voce, forse l’espressività con cui pronunciava ogni singola sillaba, o forse gli occhi, vispi, neri e vuoti.

La conversazione proseguì, e fortunatamente l’argomento centrale divenne l’interesse medico del giovane Watson, che però ponderava ogni periodo prima di pronunciarlo, per paura di rivelare troppo in presenza di quello strano presentatore.

 

Quando finalmente la compagnia giunse a destinazione, nessuno si prese l’impegno di sgranchirsi per bene gambe e schiena: bisognava montare le tende e scaricare bauli e attrezzi, per poi cominciare con il lavoro più faticoso, cioè il tendone. Erano conosciuti non solo per la spettacolarità delle loro performance, ma anche per la loro efficienza con i lunghi preparativi, che per alcune troupe significavano anche tre giorni di lavoro. Il circo Hound’s Wonders non ci aveva mai impiegato più di trentasei ore, era il loro standard, e mai lo avrebbero cambiato, soprattutto viste le numerosissime richieste che gli venivano fatte.

Subito John si mise a disposizione per dare una mano, e cominciò volenteroso a scaricare dei gran pesi. Non si poteva dire di lui che fosse mingherlino, qualche muscolo si poteva intravedere, ma tutto quello spazio vuoto che rimaneva tra la sua pelle e la camicia, la sua unica camicia, era semplice carenza di esercizio fisico. Se fosse entrato nell’esercito non sarebbe mai tornato a casa in quelle “misere condizioni”, così lo definiva il padre.

Non passò troppo tempo perché le braccia gli chiedessero pietà, quindi decise di dedicarsi ad un compito meno faticoso: montare le tende. Si affrettò a raggiungere l’unica persona che aveva un’aria rassicurante, a detta sua, tra tutti quegli artisti, e sollevò qualche picchetto da terra con conseguente rumore metallico, ritrovandosi in pochissimi istanti due occhi azzurri a fissarlo. Sherlock si reggeva sugli avampiedi, la camicia di lino già impregnata di sudore sulla schiena e sbottonata sul collo, i capelli a coprirgli la fronte con quell’ordine che solo i riccioli scuri del giovane Holmes potevano avere.

- Uno lì, e un altro a circa mezzo metro di distanza. - diede istruzioni per poi voltarsi e tornare a sciogliere i nodi delle corde per la tenda.

Watson rimase a guardarlo per qualche istante, chiedendosi dove diavolo fossero cortesia ed educazione in quel ragazzo, ma decise di ignorare la domanda e piantare i picchetti. In poco tempo e senza scambiarsi più di venti parole, avevano finito. Recuperarono due bauli, le brande e gli attrezzi da funambolo che il più alto non si fidava a lasciare insieme agli altri strumenti. Quando si resero conto di non avere più nulla con cui occupare il silenzio, si sedettero entrambi sulle rispettive brande. Potevano tranquillamente uscire e cercare un’altra occupazione, un altro incarico, eppure nessuno dei due sembrava intenzionato a lasciare quella tenda.

- Quel Moriarty, o forse voi lo chiamate solamente Jim, non ti dà i brividi? – iniziò il più basso alzando la testa per guardare il suo interlocutore in faccia – intendo, è come se con gli occhi cercasse di torturare chiunque. – non sapeva esattamente in che modo poter descrivere quello che aveva provato dialogando con l’elegante presentatore.

- Dopo anni ci si fa l’abitudine. Ormai non riesco più a prendere sul serio tutto quello che dice, la maggior parte del tempo non fa altro che straparlare. – era secco e conciso il giudizio di Sherlock.

- Quindi è da molto che lavora per il vostro circo? – chiese curioso John. Dovevano conoscersi da tanto tempo, perché quel giovane funambolo potesse rispondergli come aveva fatto durante il tragitto in auto.

- Da prima che arrivassimo io e mio fratello. Al tempo però si occupava solo dei cavalli. –

- Il che è successo veramente tanti anni fa, sbaglio? – cavare un’informazione da quel soggetto con i ricci scuri era un lavoro che spettava ad una persona paziente. Come avevano fatto gli alcuni membri della compagnia a sopportarlo restava un mistero per molti.

- Corretto. Dimmi, John, so che hai lasciato casa tua, che non sei in buone condizioni economiche ma hai una famiglia, che studiavi infermieristica prima di infilarti tra i nostri bauli… qualcuno ti faceva pressioni? Magari tuo padre, o uno zio? –

A quel punto Watson rimase a fissare gli occhi di Sherlock per qualche secondo prima che potesse formulare un qualsiasi tipo di risposta. Il suo sguardo lasciava trasparire una sola idea: come diavolo faceva a sapere che suo padre gli faceva pressioni?

- Ecco, un’altra persona che lo fa. – Holmes sollevò il capo e chiuse gli occhi, sospirando, per poi riaprirli e tornare a guardare il suo compagno di tenda.

- Cosa? – era estremamente confuso, - Che fa che cosa? – ancora doveva metabolizzare il vomito d’informazioni che il funambolo gli aveva lasciato tra le mani ad una velocità disumana.

- Quello sguardo, quell’espressione, quella faccia! Dio… siete tutti uguali, non sapete fare altro che guardarmi sorpresi, però sembrate anche spaventati! – al che Sherlock si era alzato in piedi e, dall’alto, guardava John, - Perché durante gli spettacoli rimanete sorpresi e felici quando un prestigiatore fa sparire un fazzoletto bianco, mentre quando vi faccio capire che non sono un’idiota ve ne state lì, inermi, capaci solo di balbettare e fissarmi sconvolti? –

- Ma… non ho mai nemmeno pensato che tu fossi un idiota, quando lo avrei detto? – l’espressione del ragazzo ancora seduto sulla sua branda era confusa, ma pennellata da un sorriso ironico. Non capiva il perché di tanta “isteria” improvvisa.

- Mi è bastato guardarti in faccia per capirlo. – Holmes aveva ancora tanto da imparare.

- Credi sia strano che una qualsiasi persona rimanga impressionata dal fatto che hai appena azzeccato un dettaglio a cui mai, e con nessuno, avevi accennato? Per l’amor del cielo… Sherlock, - non era ancora sicuro di poterlo chiamare per nome, nonostante lui lo facesse senza preoccupazioni – hai capito che mio padre mi perseguitava senza informazioni di alcun tipo! – ora anche Watson si era alzato, e teneva i palmi delle mani sollevati verso l’alto, mantenendo la stessa espressione confusa di prima.

Sentendo il suo nome, l’artista rilassò impercettibilmente i muscoli della faccia, mantenendo però la fronte corrugata e gli occhi assottigliati – Quindi si tratta di tuo padre! Quella dello zio era un’opzione troppo insensata, troppi dettagli senza prove. – ora la sua voce era calma.

Ora John era davvero confuso.

- Ora spiegami perché diavolo prima hai dato di matto. – pretendeva delle spiegazioni.

- Quando? –

- Come quand- oh, lascia stare. Piuttosto, fammi capire come hai intuito la storia di mio padre. –

- Oh, ma quello è estremamente semplice! – ogni traccia di rabbia era svanita all’improvviso così com’era arrivata, e gli occhi di Holmes presero a osservare l’aria in ogni direzione, veloci e attenti – So che non sei in una buona situazione economica, insomma, guarda i tuoi vestiti, soprattutto le scarpe, non si tratta di nulla di speciale e i tuoi pantaloni sono stati ricuciti diverse volte, indice del fatto che la tua famiglia non può permettersi di spendere denaro in abbigliamento. – cominciava a muovere qualche passo deciso di fonte alla branda e nello stretto spazio tra la sua e quella di Watson. – Poi il fatto che sei scappato, bene, la notte in cui ti sei fatto scoprire come un idiota mi hai raccontato che studiavi infermieristica, e perché mai un ragazzo giovane che stava realizzando il suo sogno di studente sarebbe scappato con una stupida compagnia circense? Dato che non provieni da una famiglia ricca, era ovvio che quel corso venisse a costare ingenti sacrifici a tutti i tuoi parenti, e potrebbe anche essere che in casa non ci siate solo tu, tua madre e tuo padre, ma anche un fratello o una sorella. Sfamare tante bocche non è semplice, con solo padre e figlio che lavorano, e con un corso di studi da pagare. Questo ci riporta al fatto che tu sei qui, e non con i tuoi parenti, e perché mai saresti scappato? Qualcuno cercava di toglierti dalle mani quello a cui tieni, e un ragazzo che nella sua vita non ha mai posseduto nulla, e dato che non si tratta di una ragazza, non offenderti, doveva essere per forza qualcosa legato al tuo sogno. Qual è il tuo sogno, John Watson? Diventare medico. Tuo padre voleva impedirtelo perché costava troppo, e avrete anche discusso animatamente perché tu finissi qui. Non si scappa se le conversazioni sono ben controllate e prive di grida e obblighi. Ecco come faccio a saperlo. –

Durante la spiegazione, il più basso era tornato lentamente a sedersi sulla branda, senza che Sherlock se ne accorgesse, troppo preso dalle sue deduzioni. Lo guardava ammaliato, dal basso, come aveva fatto durante la sua esibizione – Fantastico. – fu il suo unico commento. Gli aveva solo rivelato che voleva diventare medico, il resto lo aveva dedotto da solo.

- Hai ancora quell’espressione sulla faccia. Se ti interessa saperlo, le uniche persone che non la propongono mai sono solo due: mio fratello Mycroft e Moriarty. –

- Un soldato, ecco cosa mio padre voleva che diventassi. – la luce che si era presentata nello sguardo di John qualche attimo prima era sparita, lasciando spazio ad un’ombra prepotente e dalle sfumature amare.

 

 

Ognuno steso sulla sua branda, Sherlock e John parlarono ancora: le risposte concise del moro e le incertezze del nuovo arrivato. Il funambolo aveva qualcuno con cui parlare, dopo mesi di solitudine o delle stupide chiacchiere di Jim.

Il più basso non riuscì a trattenere un’importante informazione, o almeno, quella che per lui era un’importante informazione. Era il suo compleanno. Lo aveva rivelato dopo un paio di minuti di silenzio, in cui la conversazione si era persa. Era notte fonda ormai, e dall’altro lato di quel fazzoletto che chiamavano tenda, non arrivò nessuna risposta. Sherlock si era addormentato.

 

 

“I’ve been reading books of old
The legends and the myths
The testaments they told
The moon and its eclipse
And Superman unrolls
The suit before he lifts
But I’m not the kind of person that it fits”

 

Coldplay ft. Chainsmokers – Something just like this



 

Spazio (in)utile: Eccomi qua come di consueto. Allora... il personaggio di Jim... eh, non è facile. Mi ha conquistata dal primo momento in cui è apparso sullo schermo, e questo carisma è rimasto impresso nella mia mente. In questa AU mi sembrava carino inserirlo come componente del circo, non come nemico o come concorrenza, quindi eccolo lì, a fare il presentatore e a strappare le risate degli spettatori (poi con il cilindro lucido, la coda della giacca e i bottoni d'oro ma scherziamo?! Perfetto, me lo immagino proprio). I nostri splendidi bambini continuano ad interagire, e Sherlock è ancora nella sua "fase embrionale": non sa esattamente come comportarsi, quindi reagisce ancora d'istinto e fatica a tenere a bada le emozioni, quindi John gli è d'aiuto, un aiuto che deve ancora concretizzarsi (pazienza piccolo Holmes, pazienza). 
Il computer continua ad odiarmi e io non so cosa gli ho fatto, davvero. Sta usando Open Office per vendicarsi. 
Vi lascio alle vostre considerazioni sul capitolo, e spero che la storia vi stia piacendo! 
Alla prossima!

Pubblicità a me medesima sottoscritta: Pagina Facebook > Arny Haddok EFP   Profilo Twitter > @CallmeBoo (altrimenti @AnitaMurelli)

 

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Capitolo 4
*** Happy Birthday Sherlock ***


Ciao a tutti! Anche questo lunedì sono qui con il capitolo, forse quello più "corposo" fino ad ora, perché succede... qualcosa ecco. Ringrazio tutti i lettori silenti e un ringraziamento in particolare per Koa, che con una pazienza disarmante recensisce ogni capitolo con interesse e cortesia.  
Vi lascio alla storia, buona lettura e forza miei circensi! 

 



On The Wire 


Capitolo quarto 

Happy Birthday Sherlock



Arrivò Natale, un freddo e pungente Natale. Nonostante molti si lamentassero del gelo e delle notti passate a rannicchiarsi per cercare un po’ di calore, durante la festa nessuno osò lamentarsi, perché nessuno ne sentiva il bisogno. Da sempre all’Hound’s Wonders si festeggiava per le occasioni importanti, e il 25 Dicembre era una di quelle: tutti riuniti sotto al tendone dell’arena, al centro dello spazio esibizioni, dove si chiacchierava allegramente e si beveva eggnog° caldo, data la mancanza di stufe. 
Sherlock odiava il Natale, e da qualche anno a quella parte non ne sopportava nemmeno le più antiche tradizioni. Fin da piccolo preferiva starsene per conto suo, al massimo con lo zio che si fermava a Londra per festeggiare con la famiglia. Lui sì che piaceva al piccolo Holmes, con quei suoi regali curiosi e colmi di fascino che portava dalle sue trasferte col circo in giro per l’Inghilterra. Poteva anche trattarsi di un semplice cappello, ma al bambino dagli occhi chiari sarebbe piaciuto ugualmente. Se non fosse stato per la presenza carismatica dello zio, Sherlock si sarebbe rifugiato nell’angolo del salotto, sulla sua poltrona, a studiare il dono appena ricevuto, intanto che Mycroft conversava abilmente con tutti i parenti, che gli lodavano arguzia ed educazione.
Al contrario, John adorava il Natale, e quel Natale gli stava piacendo moltissimo. Nonostante fosse arrivato da pochissimi giorni, tutti lo consideravano un bravissimo ragazzo, adorabile e simpatico. Gli misero tra le mani più volte la tipica bevanda alcolica, e mai tentò di rifiutare. Alzava trionfante il bicchiere quando ne vedeva un altro sollevato, e brindava, scordandosi di tutto quello che aveva passato prima di imbucarsi tra quelle persone. 
Per il funambolo quello fu l’ennesimo Natale in cui si allontanò prima del tradizionale scambio di regali: il maggiore dei fratelli Holmes riusciva sempre a delegare a qualcuno il compito di preparare la tradizione, in modo che tutti dovessero regalare qualcosa ad un’altra persona;si procedeva per estrazione, fino a quando tutti non ricevevano un biglietto con il nome di un altro membro della troupe scritto sopra; a quel punto ognuno si impegnava per donare qualcosa di adatto. Per anni Mycroft aveva chiesto esplicitamente che il foglietto per suo fratello contenesse il proprio nome, così da non mandare il più giovane in paranoia o per evitare che sbattesse in un pacchetto il primo oggetto privo di significato che si trovasse tra le mani, un po’ come accadeva con lui. Ma quell’anno, il direttore della compagnia aveva dimenticato di comunicare questo insignificante dettaglio, ricordandosene solo a tradizione iniziata. 
Cercava il giovane artista ovunque, con lo sguardo, per capire come si sarebbe comportato. Le probabilità che il destinatario del suo regalo fosse Mycroft erano davvero bassissime. Non riuscì a scorgere nemmeno un ricciolo scuro, ma decise di rimanere insieme a tutti gli altri, almeno fino a dono ricevuto e consegnato. 
-Io ho ricevuto il biglietto con scritto Sherlock… - iniziò timida Molly Hooper dopo aver ottenuto in dono una splendida sciarpa fatta a mano dall’addetta al trucco degli artisti.
-Ehi, Sherlock! Dove sei? Ci sono i regali da scambiare! – la voce acuta di Moriarty fece quasi eco nel silenzio calato all’improvviso sull’arena. Il fine udito del ragazzo dai capelli scuri captò l’informazione, ma non sarebbe mai uscito dalla sua tenda, si sarebbe rivelata una scelta ancora peggiore del restare sdraiato sulla branda. 
La tradizione dei regali era stata stupidamente interrotta, costringendo la compagnia a ripartire da un altro individuo. Essendo Watson l’ultimo arrivato, ed essendo arrivato a pochi giorni dalla ricorrenza, ricevette il proprio dono per ultimo e dal direttore, dato che erano ormai settimane che i biglietti erano stati consegnati. Nonostante la fretta e altre decisioni da prendere, Mycroft aveva trovato una libreria ben fornita in centro a Canterbury°°, e lì prese un diario che possedeva di certo qualche anno, e un’ottima stilografica. – Così, Watson, potrà appuntare qualche dettaglio  o magari qualche appunto medico. – aveva detto al ragazzo dopo avergli consegnato il regalo. 
Rimase solo un pacchetto incartato frettolosamente in una carta dal forte rosso sul tavolo, ed era quello di Sherlock, destinato ad Irene Adler: la contorsionista sorrise quando, aprendo la confezione, trovò una catenella di metallo con un ciondolo a forma di rosa. I regali avevano un costo massimo di poche sterline, quindi molti si impegnavano per farli da sé, ma il giovane artista non sapeva sicuramente come maneggiare metalli o pietre, quindi si ritrovò durante il pomeriggio della vigilia ad acquistare collana e carta da regalo. Mycroft rimase sorpreso. Non si aspettava che suo fratello potesse pensare ad un dono e azzeccarlo in base al destinatario. 
La verità? Sherlock non aveva mai letto il foglietto con il nome della donna se non la mattina del giorno precedente. Lo aveva lasciato nella tasca del suo cappotto, sicuro che si trattasse delle solite lettere “Mycroft Holmes”. Invece no, quell’anno qualcosa era andato storto, e camminando annoiato per le strade di Canterbury in cerca di una distrazione, aveva colto l’occasione al volo. 
Il funambolo non aveva nemmeno pensato alla possibile reazione della contorsionista, aveva posato i suoi spiccioli sul bancone ed era tornato indietro con quella che credeva una stupidaggine tra le mani. 

L’entrata della tenda si aprì con indecisione, mostrando la timida figura di Molly, la quale non accennò nemmeno ad un passo verso la branda del ragazzo. Fuori era davvero buio, e si sentiva ancora la voce rauca di qualche membro della troupe ormai ubriaco. Sherlock era seduto di schiena rispetto alla costumista, e non si prese la briga di girarsi, semplicemente la salutò.
-Molly, ciao. – 
-Ciao Sherlock… so che non ti piacciono i festeggiamenti, e prima non c’eri quando dovevo darti il regalo… - aveva la voce flebile, incerta. La voce di una ragazza innamorata. 
-Vuoi darmelo ora? – il funambolo alzò gli occhi sopra la propria spalla sinistra fissando il suo sguardo in quello della Hooper. 
-Esatto… come sempre capisci tutto senza bisogno di spiegazioni. – si sforzò di mantenere il sorriso, quando invece il tono tagliente del suo interlocutore l’aveva irrimediabilmente intimorita, come accadeva la maggior parte delle volte. 
Allungò alla sua  sinistra il pacchetto, staccando gli occhi da quelli magnetici di Holmes. Lui fu costretto a voltarsi in direzione della tremante mano della ragazza, e concentrò la sua visuale sul dono. Lo prese e cominciò a scartarlo, lentamente, senza fretta o avidità, con eleganza. Posò la carta che portava i segni delle piegature su un baule vicino alla branda, e portò vicino al volto un oggetto dalle piccole dimensioni. 
Molly aveva pensato moltissimo al regalo, aveva speso interi pomeriggi a fantasticare sulla scena dello scambio, e non si aspettava che potesse finire in quel modo. Ci aveva impiegato diversi giorni per finirla, ma non riusciva a smettere di girarsela tra le mani, lasciando per interi minuti i costumi da sistemare da parte. La spilla che aveva confezionato era splendida: una base di rame che aveva ricavato da una vecchia spilla rotta e sistemata, e sopra una piccola rondine cucita a mano, sottile e irrigidita dal metallo che era stato inserito all’interno del velluto nero; il volatile era stato posizionato sopra un fiore di fresia, candido e delicato; le cuciture in vista non erano nascoste, ma messe in risalto da un filo dorato che impreziosiva senza appesantire la piccola opera. Molly era fiera di quella creazione, con tutta l’attenzione e l’impegno spesi. Aveva scelto accuratamente il fiore, conoscendone il peculiare significato, “fascino”. Quello che Sherlock possedeva e che ostentava senza rendersene conto.
Il funambolo tornò a cercare gli occhi della costumista, e li trovò immediatamente, emozionati. 
-Grazie Molly, è veramente bella. – faceva fatica a sorridere, ma si sforzò per ingraziarla del bel dono ricevuto, che, per la prima volta da anni, non erano un paio di suole di cuoio per il cavo. 
-Mi ci sono impegnata molto, sai… buon Natale Sherlock.- concluse lei, abbassando il viso verso la sua spilla, voltandosi e uscendo dalla tenda, aspettando anche un semplice augurio, che non arrivò.


 
___


Il 6 Gennaio Watson poté vivere per la prima volta la tradizione dell’epifania: alcuni artisti della compagnia avevano preparato diversi estratti della commedia “Twelfth Night” di Shakespeare, recitata da moltissimo tempo alla fine delle festività natalizie. Nella sua vita, l’aspirante medico non aveva mai avuto l’occasione di andare a teatro, se non per eventi veramente rari, come la visita di parenti lontani o regali di compleanno importanti. Da qualche anno a quella parte, una compagnia teatrale nei pressi di Londra portava in scena quella stessa commedia, e dopo averne sentito parlare per molto tempo, finalmente poteva goderne qualche parte. Non tutti erano nell’arena quella notte, per guardare lo spettacolo, ma agli attori non importava, chissà per quante volte l’avevano già inscenata. Tra gli spettatori, in penultima fila, lontano dal centro del tendone, era seduto il giovane Holmes, in attesa dell’inizio dello spettacolo, e John lo raggiunse con qualche goffo passo sulla cavea. Non si aspettava di trovarlo lì. 
- È la prima volta che guardo questa rappresentazione… anche se, a dirla tutta, sono stato a teatro solo tre volte in tutta la mia vita. – il più basso si sistemò nella posizione più comoda che riusciva ad adottare, mentre il funambolo restava con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani a spingere sotto al naso, sguardo fisso in avanti. 
Sherlock non sapeva come replicare, e non aveva intenzione di fare riferimento alle difficoltà economiche del suo compagno di tenda. Non gli sembrava carino. 
Fortunatamente, John riprese dal punto in cui aveva interrotto dopo pochi secondi – La prima rappresentazione a cui ho assistito nemmeno la ricordo… che sfiga eh? Per fortuna che sono qui adesso, altrimenti starei strisciando su del freddo terreno con un fucile sulla schiena, dico, mi ci vedi? Con un fucile in mano intendo. – a quel punto si voltò verso il circense. Ora sì che aspettava una risposta. 
- No, John, non riesco ad immaginarti con una qualsiasi arma in mano: sei basso, non molto agile, pochissima massa muscolare. Sarebbe meglio se tuo padre ti lasciasse studiare come medico. Ne andrebbe della tua vita. – rispose con sicurezza Sherlock spostando l’attenzione che concentrava sul palco, verso gli occhi del ragazzo al suo fianco. Tornò ad una posizione composta, sollevando la schiena e spostando le braccia di fianco al busto, facendo pressione con i palmi delle mani sul legno della cavea.
Se uno dei due avesse divaricato di quindici centimetri le gambe, le loro ginocchia si sarebbero sfiorate, eppure entrambi non accennavano a nessun movimento. A Watson saltò un battito nell’istante esatto in cui le iridi celesti dell’artista si erano mostrate in direzione delle sue. Nonostante si trattasse di un ragazzo, doveva ammettere che i suoi lineamenti, i suoi zigomi, erano peculiari. Erano belli.
- Delicatissimo. – e rise, alzando il viso e scuotendo lentamente la testa.
Il ricciolo adottò un’espressione leggermente confusa, si aspettava un occhiataccia, una replica dai toni offesi, e invece, John Watson stava ridendo. 
Quando la luce che puntava al palco si spense all’improvviso, i due ragazzi tornarono seri, e Sherlock non commentò lo spettacolo com’era solito fare, lasciò che il suo compagno di tenda lo guardasse senza distrazioni. Quello gli sembrava carino. 

- Grazie di aver sopportato per un altro anno questa commedia, e tanti auguri al nostro giovane Sherlock che oggi compie diciannove anni! - concluse l’attrice sul palco in direzione del più piccolo dei fratelli Holmes. Di rimando, il ricciolo sfoderò un sorriso sbilenco senza mostrare i denti. Era imbarazzato, questo secondo John almeno.
- Potevi dirmelo che oggi era il tuo compleanno! Ora che non ho niente da regalarti mi sento quasi in colpa. – ammise Watson una volta usciti dal tendone. Lo spettacolo non era durato molto, e prima di mezzanotte erano fuori a cercare qualcosa con cui far passare il tempo.  Nessuno dei due aveva sonno, e restare sdraiati sulle brande fino a tarda notte non era un’idea allettante. 
- Non c’è bisogno di alcun regalo. Sono bastati gli auguri di Moriarty e di Irene, quest’anno si sono dati da fare. – la voce di Sherlock era obiettivamente incrinata dal fastidio e dal nervosismo. Odiava parlare di ciò che lo riguardava più da vicino, sempre che non si trattasse della sua intelligenza o del suo talento artistico. 
- Non credo sia il caso di arrabbiarsi perché qualcuno ti ha fatto gli auguri. Io, ad esempio, ne sarei felice. – il più basso non si era soffermato sugli individui nominati nella battuta precedente dal funambolo. 
- Io invece sono particolarmente suscettibile. – una risposta secca e seria. Ancora una volta, gli occhi di Sherlock incrociarono quelli colpevoli di John. L’aspirante medico si sentiva in colpa, non si aspettava una replica simile, piuttosto una battuta. Ancora non conosceva Holmes, e doveva essere accaduto qualcosa di particolarmente grave quel pomeriggio. 
Rimase qualche passo dietro di lui: la schiena dritta e le gambe allenate, il passo sicuro e silenzioso, le spalle ancora da scolpire. Quello era lo Sherlock Holmes che John conosceva. Non aveva nemmeno scalfito la superficie. Il circense entrò nella loro tenda e ne uscì con una camicia color sabbia e un paio delle sue calzature di cuoio non rigide. Si sarebbe allenato. 
Il ragazzo dai capelli tendenti al biondo seguì l’enigmatica figura dell’artista fino all’inizio della scala a pioli, restando però a debita distanza: il funambolo si posizionò di schiena al più basso e si sbottonò la camicia bianca e aderente, lasciando la schiena scoperta. Prima che l’altro indumento gli scivolasse sul corpo, Watson intravide le fossette di Apollo del giovane compagno di tenda. Non le aveva mai viste su un uomo che non fosse disegnato su un testo scolastico, un dettaglio pregevole. Diede una rapida occhiata alla tensione delle corde di sicurezza, e cominciò a salire la scala dopo essersi infilato le suole, e John rimase a guardarlo fino a quando non aveva raggiunto la piccola piattaforma dalla quale avrebbe mosso il primo passo. 
Appoggiata al palo c’era l’asta d’acciaio che Holmes sollevò senza difficoltà e che si posizionò sui palmi delle mani rivolti verso l’alto. Cominciò a camminare, concentrandosi solo sul suo equilibrio, dimenticando qualsiasi tipo di distrazione, compreso John, che nel frattempo stava salendo dalla scala. Si sedette sulla piattaforma di legno da cui il moro aveva cominciato il suo esercizio, in silenzio, senza parlare. Arrivato quasi all’altra estremità del cavo, Sherlock spostò l’attrezzo sulle spalle e si voltò con un gesto quasi estemporaneo. Trovò Watson dall’altro lato a cercare il suo sguardo. 
- Mi dici che è successo con quei due? Moriarty e la contorsionista intendo. Il giorno del proprio compleanno una persona dovrebbe essere felice, invece prima eri sul punto di sbottare quando te ne ho parlato. – era serio il giovane ventenne. Fissava gli occhi del circense intensamente, come se cercasse di infondergli fiducia, di sussurrargli “non sono come loro, puoi dirmi come ti senti, anche se l’ho già capito”. 
Sherlock rimase bloccato, così come il suo sguardo, incatenato a quello sicuro di John. Lui era su un cavo sospeso a trenta metri di altezza, il compagno su una struttura studiata per resistere al peso dei trapezisti. Mosse un passo.
- Oggi pomeriggio. Mi stavo allenando e hanno lasciato questa busta sulla cavea, sopra c’era il mio nome scritto con un’elegantissima calligrafia. Credevo volessero semplicemente restare a guardare, invece si sono presi a braccetto, Jim mi ha rivolto uno dei suoi sorrisi e se ne sono andati. – parlava velocemente, ma si sentiva l’affanno, come se in qualche modo si stesse sforzando di pronunciare le parole giuste. Nel frattempo aveva sollevato lo sguardo per guardare il vuoto che aveva di fronte a sé – Quando scesi mi diedi il tempo di riprendere fiato e solo dopo lessi il contenuto della busta. Parlava di Molly, Molly Hooper, la costumista, come se avesse dovuto dirmi qualcosa, ma quella non era affatto la sua calligrafia che invece è disordinata e piena di fronzoli. Allora ho cominciato a preoccuparmi, credo lo abbia capito anche tu che Moriarty non è affidabile, e ho cercato Molly per capire che cosa fosse successo. L’ho trovata in infermeria, seduta su un letto con gli occhi gonfi dal pianto. – si fermò di nuovo, inspirò profondamente e poi riprese. – Quando si era accorta della mia presenza si era alzata velocemente e mi aveva fulminato con lo sguardo, però sembrava veramente triste. Io continuavo a non capire, lei mi aveva evitato nel passarmi di fianco e aveva lasciato sul letto un foglio. Leggendola sembrava una lettera d’amore scritta da me. – rabbrividì al ricordo di quella lettura, ma continuò ad avanzare in direzione di John. 
- Era indirizzata a quella Adler? A me sembra così stronza – la delicatezza con cui Watson parlava era esagerata. In ogni frase doveva inserire almeno una parola sgraziata se non direttamente un’imprecazione.
- Esatto. – concluse stupito il funambolo, che ormai aveva raggiunto la piccola piattaforma. Con un ultimo passo, poggiò entrambi i piedi su una superficie sicura, trovò una giusta collocazione per l’asta e si sedette di fianco al più basso. Guardava verso il basso, mentre l’aspirante dottore preferiva l’altezza del tendone. 
Faceva freddo, e Sherlock non si era nemmeno scaldato con quel misero allenamento. Il nuovo arrivato si strinse nelle spalle, per poi rivolgersi di nuovo al circense.
- Hai cercato quella ragazzo dopo che… beh, dopo che è scappata in lacrime? – 
-Non so se sia “scappata in lacrime”, non sembrava. – 
- Rispondi alla domanda. – 
- No, non l’ho cercata. – 
- Cosa sei?! Un idiota? Sì, solo un idiota potrebbe lasciar andare una ragazza in quelle condizioni! Chissà poverina quanti pensieri si sarà fatta, magari è ancora sveglia a crearsi delle valide ragioni per scusarti. Dio, ti facevo più intelligente “genio che capisce tutto solo guardandoti”. – John si era aiutato con le dita per la definizione del compagno di tenda. Era sfacciato, quasi si divertiva nel poterlo prendere in giro, ma Holmes rimase serio e stupito, non era infastidito, nonostante la sua permalosità.
- Dici che dovevo rincorrerla? Cercarla? Chissà dov’è finita adesso, magari è da qualcuno a farsi consolare. Comunque non sono un idiota. – replicò dopo qualche lungo secondo il ricciolo.
- Sì che lo sei. E ancora sì, dovevi cercarla. Sai cosa farai adesso? La cerchi, e le spieghi come sono andate le cose. – il tono del biondo non ammetteva repliche, così come il suo sguardo accentuato dalle sopracciglia alzate.

Sherlock, per la prima volta dalla morte di Andrew, diede ascolto ad una persona. Cercò Molly e la trovò seduta al suo tavolo di lavoro immersa in una riparazione. A lei saltò un battito quando intravide la figura del circense, e forse qualcuno di più quando questo si scusò per non averle dato una spiegazione ore prima. La Hooper lo abbracciò, e Holmes ricambiò sorridendo appena, anche se alla costumista sarebbe piaciuto un abbraccio che non fosse unilaterale. 
Evidentemente imbarazzato, il funambolo raggiunse John fuori dalla tenda in cui aveva parlato con Molly. Cercava invano di nascondere le sue emozioni. 
- Allora, com’è andata? –
- Siamo diventati migliori amici adesso? Ci dobbiamo confrontare su tutto quello che ci capita? –
Ormai a corto di speranza, l’aspirante medico rispose dopo aver sospirato e aperto gli occhi più del dovuto verso il cielo – Non puoi dirmi cos’è successo e basta? – 
- Credo mi abbia perdonato… insomma, un abbraccio è una buona cosa, no? – 
- Direi di sì. Certo che con le persone sei proprio negato, eh? Se quel Moriarty ce l’ha con te posso capirlo, sei ottuso e antipatico, senza peli sulla lingua e troppo sicuro di te. – 
Sherlock aprì la bocca per replicare, ma non riuscì a formulare una risposta adeguata.
- Ah già, anche se in ritardo perché ormai è notte fonda, Buon compleanno. –
- Grazie. – 





 
“Per sempre
solo per sempre
cosa sarà mai portarvi dentro solo tutto il tempo
per sempre
solo per sempre
c'è un istante che rimane lì piantato eternamente”


Luciano Ligabue – Per Sempre



 
Note: 

° l'eggnog è un tipico dolce alcolico del periodo natalizio che gli inglesi mantengono come tradizione. Dal 1700 viene bevuto alle rimpatriate famigliari e se vi interessa qualche informazione in più la potete trovare qui:  https://it.wikipedia.org/wiki/Eggnog

°°  Il tempo impiegato per coprire la distanza è relativamente poco, e lo era anche all'epoca, ma immagino che un circo itinerante abbia diverse problematiche da sistemare, e trattandosi di una compagnia numerosa non ci si può fermare in una qualche locanda per sostare e ripartire un'ora dopo. Gli spostamenti verranno sempre affrontati con lentezza da qui in poi, ma non ho intenzione di usarne troppi.


 
Spazio (in)utile: è il capitolo più lungo finora, ma nonostante questo (perché credetemi, vorrei riuscire a scrivere cinquemila parole ma sto faticando moltissimo) non sono soddistaffa. Non so che cosa manchi o cosa sfori, però sento che c'è, oppure sono solo io che mi faccio le saghe cinematografiche mentali. Comunque, dopo l'entrata in scena di Moriarty la scorsa volta, mi sembrava doveroso farlo muovere un pochino, e così ho cercato di fare, sempre nella fede di non andare OOC. Più avanti avrà un ruolo più rilevante, e l'idea dello scherzetto mi intrigava. 
Aspetto ancora il momento giusto per scrivere un po' di sano angst, e spero di non bruciare le tappe con i due protagonisti accelerando o forzando la relazione, che deve nascere come amicizia in ogni caso. Il compleanno di Sherlock me lo immagino sempre triste, ma sono stati i Moffitis a darmi quest'impressione con l'ultima stagione,  quindi is not my fault. Qui ho voluto usare quest'immagine trasportandola nell'universo circo, e John non poteva che empatizzare. Molly è preziosa e si merita più di quanto crede, ma la sua infatuazione per Sherlock è ancora al primo stadio durante l'adolescenza (in realtà nemmeno potrei parlare di adolescenza con ragazzi di 18/20 anni, e vado anche alle Scienze Umane. Si vede quanto la pedagogia mi interessi maronn). 
Spero di non avervi annoiato con questo capitolo, ma giuro che nel prossimo la trama si spiccia (alla buon'ora, direte voi). 
Grazie ancora a tutti i lettori e vi lascio alla pubblicità
Pagina Facebook > Arny Haddok EFP    Profilo Twitter > @CallmeBoo oppure @AnitaMurelli 

Alla prossima!

 

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Capitolo 5
*** In bilico, insieme ***


Premessa seria! Il capitolo esce oggi e non lunedì perché sarò in vacanza fino al 9 di Settembre, ergo, fino al mio ritorno non riuscirò a pubblicare nulla (sarò ugualmente disponibile per rispondere ad eventuali recensioni e MP). 
Detto questo, vi lascio al capitolo più lungo che abbia mai scritto, e buona lettura miei circensi!
P.s. Grazie a tutti coloro che leggono la storia e a quelli che la inseriscono tra le seguite o le preferite, lo apprezzo moltissimo. 




On the Wire


Capitolo quinto
In bilico, insieme

 

 

Passarono diversi mesi dall’arrivo di John nel circo. Gli spettacoli aggiungevano sempre qualche evoluzione in più, qualche rischio ancora, e tanti volti esterrefatti. C’erano performance che i bambini adoravano sopra ogni altra cosa, come i trucchi di magia o i numeri con le belve feroci. Gli adulti invece, che nella loro quotidianità si disincantavano giorno per giorno, ma seduti in cavea sembrava riacquistassero tutta quella fanciullezza persa, anche se preferivano il brivido del pericolo. Sherlock veniva adulato alla fine delle sue esibizioni, forse più di altri. Il pubblico era consapevole di quanto fosse rischioso camminare a trenta metri di altezza.
Ormai i due ragazzi erano amici, anche se nessuno dei due lo aveva ancora ammesso o espresso a voce alta, e spesso si trovavano alla stessa ora nel tendone, Watson a fare da spettatore, e Holmes ad allenarsi. Si scambiavano qualche battuta, mentre il più basso scriveva sul suo quadernino nozioni mediche, e intanto il moro si riposava sulle piattaforme di sicurezza.
Una sera la concentrazione del giovane intento a riempire con la sua fidata stilografica pagine di appunti, venne rotta da un rumore metallico improvviso. L’asta per la stabilizzazione era caduta dalle mani del funambolo, che aveva ritrovato miracolosamente una posizione stabile.
- Che cazzo Sherlock! Cos’è successo?! – John dovette gridare perché l’artista riuscisse a sentirlo chiaramente.
- Nulla di grave, John! – a sua volta il circense dovette alzare la voce.
L’aspirante dottore si alzò dal legno scuro della cavea per avvicinarsi alla scala, intanto il ricciolo aveva raggiunto la piattaforma. Dal basso Watson non riusciva a capire come mai al suo amico fosse scivolato l’attrezzo dalle mani, lui che era sempre preciso e sicuro. Nello scendere il giovane dagli occhi celesti prestava attenzione alla mano destra, a non appoggiare il palmo ma solo le dita, senza pressione. Arrivato a terra si trovò addosso lo sguardo confuso del compagno di tenda, che catturò con i suoi occhi magnetici. Dopo pochissimi istanti però, entrambi ritornarono in sé, prestando attenzione alla mano di Holmes. Lui stringeva il proprio polso destro con la sinistra, come se cercasse di fermare un qualche tipo di emorragia.
John prese delicatamente sul suo palmo sinistro il dorso della mano di Sherlock. Questo trattenne per un momento il respiro, ma non si trattava di un gesto dettato dal dolore: era emozione.
Con la mano destra il più basso aprì con rapidi movimenti le dita dell’amico: un taglio profondo attraversava la pelle, e dalla mano cominciava a gocciolare più sangue del dovuto.
John non aveva chiesto il permesso al più alto di controllare le sue condizioni, aveva agito e basta, e Holmes lo aveva lasciato fare incapace di proferire parola. Aveva ordinato al moro di stringersi il polso fino al suo ritorno, con tono deciso e sicuro, così com’erano i suoi movimenti nell’appurare la gravità del dolore. Era tornato dopo pochi minuti, affannato per la corsa, ancora non sapeva dov’erano i kit per il primo soccorso. Chiese a Sherlock di sedersi in cavea, e lui non obiettò in alcun modo, mentre il colorito della sua mano già pallida, si perdeva attimo dopo attimo.
Le ultime gocce di sangue caddero sui pantaloni del funambolo che ormai non sentiva più nessun rumore, se non le parole di conforto di Watson. I suoi occhi faticavano a rimanere aperti sulla propria mano, mentre John non poteva fare altro che cercare frettolosamente un rimedio.
Sherlock dovette chiudere gli occhi, sforzando le palpebre, come se non vedendo più nulla, il dolore potesse diminuire. Il disinfettante bruciava, bruciava moltissimo. La profondità del taglio non lasciò tregua al circense, che fu costretto a trattenere gemiti di dolore. John era concentrato, e una volta sistemata la medicazione in modo sicuro, chiuse la cassetta del pronto soccorso e tirò un lungo respiro. Il ricciolo fece altrettanto dopo aver sollevato davanti al viso la mano ferita. La garza era già sporca di sangue, e i suoi occhi chiari erano lucidi.
Nessuno dei due riuscì a capire perché Watson aveva agito con fretta e ansia, come se da quel taglio potesse dipendere l’intera carriera artistica del più alto. Si scambiarono uno sguardo rapido, ma contemporaneamente tornarono a guardare altro. Erano in imbarazzo.
- Come hai fatto a tagliarti in quel modo? Cazzo, era davvero un brutto taglio. – esordì il castano per rompere la tensione che si era creata.
- Credo sia colpa delle abrasioni, insomma, continuo a tirare delle corde oppure il cavo d’acciaio. È bastata una pressione maggiore sull’asta e ho sentito un fastidio alla mano, quasi un formicolio, quindi ho aperto gli occhi e ho visto del sangue… era… mi sono spaventato, diciamo. Dovrei sistemarla, in qualche punto è quasi scheggiata. – Holmes si vergognava ad ammetterlo ma era successo proprio quello che stava raccontando. Era capace di bucarsi le braccia, ma si era spaventato davvero in quel momento.
- Anche io mi sono spaventato a morte, ero tutto immerso nei miei appunti e all’improvviso sento la tua asta cadere, credevo ti fosse successo qualcosa di grave, però ho tirato un sospiro di sollievo quando hai recuperato l’equilibrio. – ora l’aspirante medico era rilassato, ma non si rendeva conto di avere al suo fianco un ragazzo nel più profondo disagio.
Sherlock proprio non capiva che cosa lo stava riducendo in quello stato, non riusciva a fare altro che ricordare e rivivere il momento in cui John cercava di calmarlo. A quanto pare aveva un’espressione davvero idiota sul volto mentre il compagno di tenda lo medicava, per meritarsi tutti quei – tra poco il bruciore passerà, vedrai. – oppure – Sherlock devi tenere la mano ferma, se continui a tremare non sarà facile stringere le bende. –
- Grazie, John. – non riuscì a proseguire. Non riusciva a mettere in fila più di qualche parola, e non sapeva assolutamente come continuare il discorso. A lui stava bene anche restare lì, seduto con il più basso che parlava e parlava. Forse si sarebbe calmato.

 

___

 

 

Ormai la polizia aveva interrotto le ricerche. Era sparito da mesi, e nessuno aveva idea di dove potesse essersi cacciato. John era un bravo ragazzo, si era sempre impegnato per la sua famiglia, per sua sorella, per sua madre, ma nulla gli aveva impedito di scappare.
- Come sarebbe a dire che smettete di cercare mio figlio?! – si era lamentato Joseph Watson dopo la definitiva decisione della polizia. Nonostante il rapporto che condivideva con il figlio, non poteva rinunciare a lui: certo, era un peso in meno da sopportare, ma allo stesso tempo aiutava per le entrate. Più che come un giovane, l’aspirante medico veniva trattato come un semplice aiuto, un bisogno. In più la sorella Harriet si era chiusa in se stessa come mai aveva fatto prima d’ora. John serviva ai componenti della famiglia più che mai, anche se nessuno aveva mai rivelato questo particolare, ma il genitore non se era mai preoccupato come in quel periodo.

 

- Dobbiamo trovare una soluzione Joseph, non possiamo lasciare che nostro figlio sparisca semplicemente dalle nostre vite solo perché la polizia si rifiuta di cercarlo ancora. – la voce spezzata dalla preoccupazione. Dall’istante preciso in cui l’agente gli aveva riportato la decisione presa dal capo dell’operazione di ricerca, Adelle, la madre di John, aveva cambiato qualcosa. Non avrebbe taciuto ancora, non se in ballo c’era la vita di suo figlio.
- So che dobbiamo trovare una maledetta soluzione! – inveì sbattendo i palmi sul tavolo della cucina e rovesciando parte del tè sul piattino di ceramica bianca. Aveva i capelli in disordine, spostati in continuazione dal nervosismo che lo portava a passarsi le dita sulla testa.
- Paghiamo qualcuno, un investigatore magari, altrimenti giuro che sarò io stessa a cercarlo, a costo di trovare i soldi in un bordello! – erano giorni che insisteva su quel punto, precisamente da quando la polizia li aveva lasciati con un pugno di mosche in mano.
- Continuerò a ripetertelo, Adelle, - quasi mai la chiamava per nome – non metterai mai piede in uno di quei postacci, fosse l’ultima possibilità che ci rimane! Non è certo colpa tua se nostro figlio ha deciso di scappare e lasciarci qui come degli idioti, s’è comportato come un bastardo e questa motivazione è forse l’unica che mi porta a volerlo trovare. Non si merita altro se non una brutta fine! – fissava con intensità gli occhi della moglie, un’intensità disturbante, severa, quasi disgustosa.
- Non ti permetto di chiamarlo in quel modo. –
- In quale modo, bastardo? – un impercettibile ghigno si posò sulle sue labbra, era esasperato.
- Smettila Joseph! – teneva stretto al petto un canovaccio con entrambe le mani. La tensione era tale da farle sbiancare le nocche. I suoi occhi erano arrossati e si stavano rapidamente riempiendo di lacrime.
Harriet, dalla stanza del fratello, fu testimone dell’ennesima lite tra i genitori, e a quelle non riusciva a farci l’abitudine. Sentire la voce di John alzarsi non era così snervante, ma quella della madre sì. Non l’aveva mai sentita così turbata come in quel periodo, e avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire di nuovo i passi furtivi del fratello che tornava nella sua camera a notte fonda.

 

Il postino porse la corrispondenza alla signora Watson per poi riprendere a pedalare fino al quartiere successivo. Bastò una veloce occhiata alla posta appena consegnata, per capire che, quella volta, non si trattava solo di bollette. Rientrò in casa e raggiunse la cucina con una strana agitazione addosso, e con un coltello aprì una busta bianchissima, che presentava unicamente nome ed indirizzo:

 

Cari signori Watson,

 

Sono un agente della polizia di Scotland Yard. Mi sono giunte alcune informazioni riguardo vostro figlio e desidererei indagare a tal proposito. So che le indagini sulla scomparsa del giovane John non hanno portato ad alcun risultato, ma mi sono offerto per lavorarci individualmente anche quando mi avevano comunicato la rinuncia: è stato allora che è giunta una lettera al mio indirizzo che conteneva una possibile traccia per il ritrovamento, qualche indizio. Non ho comunicato nulla ai miei superiori perché preferirei confrontarmi con voi prima, per capire se si tratta di uno stupido scherzo o di una pista.

Hanno rinunciato alla ricerca, ma so che voi non volete rinunciare a vostro figlio. Potrei aiutarvi, e spero vivamente di riuscirci.

Lestrade Gregory

 

 

___

 

 

Qualche volta l’ultimo arrivato della compagnia rifletteva sulla sua scelta: si immaginava Harriet che lo sgridava bonariamente per quello che era successo, ma che dopo poco cominciava a parlare di quel delizioso abito che aveva adocchiato con la madre mentre l’accompagnava a fare spesa in drogheria; non faticava a ricordarsi del viso gonfio di rabbia del padre, che riusciva sempre a provocarlo e che nemmeno gli avrebbe lasciato salutare Adelle prima di spedirlo in accademia. Aveva più di una ragione per chiedere un passaggio per Londra, molte, a dire la verità, ma non riusciva proprio a pentirsi della decisione che aveva preso. Finalmente riusciva a vivere senza la costante preoccupazione di tornare a casa, di sedersi a tavola e non dover aprir bocca riguardo al corso di infermieristica per evitare gli sguardi assassini di Joseph, di subire quelli di traboccanti di scuse da parte della madre. Non era quello il modo in cui voleva continuare a vivere.
Al circo aveva Sherlock, l’innamoratissima Molly Hooper, diverse persone con cui passare le pigre serate di primavera, a raccontare e ascoltare storie. Stava bene, e si rendeva utile come medico dove e quando era necessario: si era appropriato di un kit di pronto soccorso e lo aveva arricchito con diversi materiali che risultavano sempre utili. Finalmente riusciva a lavorare come voleva, per quello che aveva studiato.

 

___

 

 

In pochi giorni sarebbero giunti a Liverpool. Più si avvicinava l’estate, più la compagnia si spostava verso il nord dell’Inghilterra. Nonostante non arrivasse mai davvero la calura estiva tipica di altre nazioni, sotto al tendone del circo si soffriva moltissimo l’umidità. Gli artisti si dovevano esercitare, insieme poi alle prove precedenti agli spettacoli, che obbligavano i circensi ad indossare i costumi di scena, assolutamente non traspiranti e nemmeno troppo leggeri. Avevano passato un anno in quel modo, e Mycroft si era rifiutato di ripetere l’esperienza.
In viaggio John e Sherlock furono divisi per la prima volta dopo l’arrivo del più basso nel circo: Watson fece compagnia a Molly, mentre Sherlock dovette sopportare i ragionamenti perfettamente logici e sicuramente giusti del fratello maggiore. Avrebbe volentieri cambiato con Moriarty, piuttosto che ascoltare le sentenze del direttore del circo.

 

- John… oh scusa magari vuoi riposare! – il silenzio che era caduto tra di loro dopo il saluto iniziale li aveva colti entrambi di sorpresa, e Watson quasi si era appisolato osservando il tramonto del sole dal finestrino. Il conducente e l’uomo che gli sedeva accanto avevano preso a parlare di costellazioni e oroscopo, tutte stupidaggini prive di fondamento.
- No, no tranquilla, - si sistemò più composto sul sedile aiutandosi con le braccia – dimmi pure. – quando voleva il giovane dai capelli chiari era estremamente educato, anche se con il funambolo non si comportava mai in quel modo.
- Ok… beh, mi chiedevo, passi tutto quel tempo con Sherlock, com’è? Intendo, ti è simpatico, oppure non lo sopporti. – Molly teneva un tono basso, e concludeva sempre le frasi in maniera tale da non lasciar intendere se si trattasse di una domanda o di un’affermazione. Per John quella era una domanda.
- Credo di non riuscire a rispondere con chiarezza. Diciamo pure che lo immagino a metà tra le due opzioni. Certe volte scherza, mentre in altre occasioni vorresti ridurlo in poltiglia con quella sua asta da funambolo. Non so se mi spiego. – sorrideva intanto che parlava di Holmes, e nemmeno se ne rendeva conto.
- Ti spieghi benissimo – la Hooper si fece scappare una brevissima risata, la risata di una giovane ragazza serena.
- Avete risolto dopo l’episodio di Natale? Era uno scherzo di cattivo gusto, e Sherlock si era davvero arrabbiato. Sai quando evita un argomento e lo rende quasi tabù? Ecco, era successa la stessa cosa quel giorno. –
- Abbiamo chiarito la sera stessa, fortunatamente, non so se avrei resistito senza sapere che cos’era successo tra lui e Irene… - la costumista non sapeva che era grazie a John che il circense era tornato da lei per parlarle. 
- Mi fa piacere, deve ancora capite tante cose sulle persone, e sono io che parlo dall’altezza dei miei vent’anni! – esclamò sollevando leggermente sopra la testa la mano destra con il dito indice alzato.
- È da quando sono arrivata qui che Sherlock mi piace. – ne parlava con il viso rivolto alle proprie scarpe, per poi rendersi conto delle parole appena pronunciate – Nel senso, mi sembra un bravo ragazzo, certo, un po’ rude a volte, forse un po’ troppo sicuro di sé, però è affascinante… anche se non mi tratta con il massimo riserbo. Non si fa problemi se deve mandarmi via o se non ha voglia di chiacchierare. – l’espressione felice che aleggiava sul volto di Molly sparì mentre elencava i difetti del funambolo, lasciando spazio ad un’altra faccia, più seria e quasi stanca.
Watson non sapeva esattamente come replicare, come proseguire con quel discorso. Certo, era capitato anche a lui che il suo compagno di tenda non lo salutasse per giorni, nonostante dormissero nello stesso posto, ma non ci aveva mai prestato tanta attenzione. Lo mise quasi a disagio quella sensazione di tristezza che perseverava intorno alla figura della Hooper. Non si era mai sentito così per Sherlock Holmes.
- Ormai credo se ne siano accorti tutti… - le voci del conducente e del suo amico ormai erano solo un sottofondo che alleviava lo sconforto della conversazione – insomma, è così evidente. A me piace Sherlock, e continuo ad illudermi che possa succedere qualche cosa… eppure nemmeno mi guarda, si rivolge a me solo per qualche stupida cucitura, o per chiedermi altri favori. Come dovrei fare, John? Tu che lo conosci meglio, - l’ormai medico della compagnia continuava a guardare la sua interlocutrice, non si era mai reso conto di passare tutto quel tempo con quel ragazzo, non abbastanza da conoscerlo meglio – hai qualche consiglio? Magari un colore preferito o un piatto che apprezza più di altri… - la verità è che John non conosceva Sherlock meglio di nessuno, forse lo conosceva a malapena, e mai avevano discusso di colori.
Ora la costumista lo stava guardando negli occhi: aveva le pupille dilatate, che si confondevano con le iridi scurissime. Molly non era una ragazza bellissima in viso, e la sua andatura era sgraziata, lontana da quella della Adler o di sua sorella Harriet. Non era abituato a quel modo di camminare – Non saprei, Molly. Non parliamo di quelle cose… -
Quel briciolo di speranza che si era fatto strada nello sguardo della ragazza, tornò a nascondersi altrove. Forse John non voleva parlare di Sherlock, di quello che sapeva su di lui. Aveva visto il modo in cui lui la guardava, distaccato, a volte senza nemmeno un accenno di emotività sul volto. La Hooper aveva detto bene, si illudeva, e si voltò verso il finestrino in cerca di una distrazione.
Watson rimase a guardare i suoi capelli raccolti da diversi nastri per qualche secondo. La conversazione era finita, e non riusciva a capire che cosa provasse alla conclusione: poteva essere infastidito da tutte le attenzioni che la giovane rivolgeva al suo amico, ma poteva anche provare uno strano sentimento di pena nei suoi confronti. Lui e Holmes parlavano veramente poco di Molly, e non ne avevano assolutamente bisogno.
- La spilla, quella che gli ho confezionato per Natale, dove la tiene? – restava rivolta verso il paesaggio che scorreva pigro di fronte a lei.
- È sempre posata su un baule di fianco alla branda, quando si esibisce la mette sul costume, vicino alle due iniziali in oro. -

 

Sostarono per una notte intera, in attesa di ripartire per raggiungere la città e di proporre il proprio spettacolo. Ovviamente Sherlock non poteva restare nel suo, calmo e pacifico nella sua branda a leggere un libro o a lasciare che i suoi flussi di coscienza prendessero finalmente voce. No, lui doveva per forza allenarsi. Si caricò in spalla il cavo, e Watson lo seguì goffamente con le corde di sicurezza e l’asta. Potevano quasi definirlo il suo personale galoppino da qualche tempo a quella parte: dove c’era il giovane Holmes, se non era stato chiamato altrove, c’era anche il nuovo medico della compagnia, sempre qualche passo dietro di lui, a seguirlo con falcate più lunghe del suo normale e sciatto andamento.
Assicurate le corde da sé, perché mai avrebbe lasciato che qualcun altro lo facesse al suo posto, si fece allungare l’attrezzo dal più basso, che intanto aveva cercato con lo sguardo un anfratto dove potersi accucciare. Non c’erano molti alberi, quindi la luna illuminava i due ragazzi senza intoppi. Era una notte limpida, senza nuvole e con le stelle ben visibili in cielo, che a Londra il giovane dai capelli chiari non riusciva mai a vedere per la troppa luce della città. Sospirò accusando la stanchezza del viaggio, e poggiò la schiena contro il tronco di uno dei due alberi tra cui era teso il cavo. Ogni tanto sollevava il volto per guardare Holmes, come se dovesse in qualche modo accertarsi che fosse ancora lì. Aveva fatto l’abitudine allo scricchiolio metallico della corda d’acciaio che si fletteva sotto alla pressione del ricciolo, quindi i suoi occhi avevano bisogno di vigilare. Il discorso che aveva costruito con Molly quel pomeriggio lo aveva infastidito in qualche modo, e aveva il timore di parlarne con il funambolo. Le dita iniziavano a formicolargli al solo pensiero.
Sherlock socchiuse gli occhi: John lo stava guardando e abbassò immediatamente il capo. – Tu, sei scappato di casa. – si interruppe per un istante – Vuoi diventare dottore. Non hai mai pensato di provare? – una domanda a cui il circense non aveva ancora trovato risposta nella sua mente. Tanto valeva porla, questa domanda.
- Provare che cosa? – Watson aveva rialzato gli occhi verso il compagno di tenda con espressione curiosa.
- Questo. – lasciò scivolare l’asta verso terra accompagnandola con la mano destra. Allargò poi le braccia abbassando i palmi rivolti al vuoto di fronte a lui, indicando la sua figura.
John tentennò. Non ci aveva mai pensato prima, e quella richiesta arrivò all’improvviso. Si alzò in piedi sistemandosi la giacca di flanella e si decise a rispondere. Effettivamente sembrava un idiota a continuare a fissarlo in quel modo – Non saprei. Ti ci saranno voluti chissà quanti anni per imparare a camminare su quel cavo. Non posso nemmeno immaginare il modo in cui cadrei rovinosamente, magari fratturandomi qualche vertebra. – sorrideva con la bocca aperta, un’aria divertita gli percorreva lo sguardo.
- Certo, potresti, cadere rovinosamente e magari fratturarti qualche vertebra, e mai ti lascerei salire qui sopra da solo, non riusciresti nemmeno a muovere un passo. – Sherlock scese dal cavo con agilità e passò di fianco al più basso in direzione dell’accampamento senza dargli nessun tipo di spiegazione.
- Dove diavolo stai andando?! – disse a bassa voce camminando svelto dietro al funambolo.
Holmes non rispose. Si infilò silenziosamente tra le tende per tornare pochi minuti dopo con una scala sotto braccio. Guardò serio l’aspirante medico che era rimasto ad aspettarlo al confine dell’accampamento. Non riusciva a decifrare la sua espressione, probabilmente un ibrido tra paura e confusione. Il ragazzo più basso aveva capito perfettamente le intenzioni dell’altro.
- Non penserai davvero di farmi salire su quell’affare traballante, vero?! – chiese retoricamente mentre tornavano verso il luogo dell’allenamento.
Poggiò all’albero la scaletta di legno, ignorando bellamente la domanda – Bene, John. Ora salirò e tu mi passerai l’asta. Non mi fido senza, e poi ti accorgerai subito che dà molta stabilità. – iniziò a salire i primi pioli – Quando mi alzerò in piedi, mi raggiungerai e farai tutto quello che ti dirò. Capito? Cero che hai capito. – Watson aveva capito.
- Senti, Sherlock, non penso proprio che sia una buona idea… potrebbe finire male per entrambi e dio solo sa dov’è l’ospedale più vicino. –
- Al diavolo il pericolo, Dottor Watson! Sei scappato di casa per cercare una vita migliore e ti spaventi per un paio di metri di altezza? Che avrai intenzione di fare con davanti l’intestino di un uomo e un paio di forbici in mano? – non aveva tutti i torti, e il più basso, ancora a terra, lo sapeva benissimo, quel ragionamento era sensato.
- E allora facciamolo. Ma giuro che se mi fai cadere io ti… non lo so, ma ti farò qualcosa! – al che l’aspirante medico cominciò a salire, e raggiunto il penultimo piolo della scala, allungò un piede verso il cavo metallico.
Il più alto teneva l’asta tra il collo e la spalla, piegando la testa per evitare che scivolasse, e prese i fianchi del petto di Watson, in corrispondenza della gabbia toracica. John si ritrovò sollevato su una corda d’acciaio a due metri d’altezza, con le mani lunghe e stranamente scheletriche di Sherlock ad impedirgli la caduta. La presa del funambolo era salda, e gli infondeva sicurezza. In qualche modo era addirittura godibile.
Il circense riuscì a sollevare l’attrezzo di fronte a John con qualche faticoso movimento, cercando di evitare che l’ultimo arrivato si muovesse troppo o scivolasse in chissà quale stupida maniera.
- Ora, stringi le mani intorno all’asta, ma da sotto, con i palmi rivolti verso l’alto. Mi avrai visto chissà quante volte, ma chi lo sa se hai davvero badato alla tecnica o se eri troppo impegnato a scrivere su quel tuo diario. – l’amico obbedì senza ribattere. L’ansia di volar via superava qualsiasi genere di provocazione. Le gote del giovane Watson si colorarono di un lieve rosso nel momento in cui le dita allenate del circense raggiunsero le sue, strette intorno al metallo freddo dell’attrezzo. Perché mai era in imbarazzo?! Le mani di Sherlock dovevano essere callose, rovinate dalle abrasioni, eppure la sensazione di averle sulle proprie era diversa da come ci si poteva aspettare: era piacevole, e anche la garza per la ferita creava una sensazione gradevole al tocco.
- Un passo, John, anche piccolo. –
- Io scivolo. –
- Non scivoli, John. Fidati di me. Se ti sbilanci ti riporto io nella posizione giusta. –
Sherlock non era mai stato tanto vicino ad una persona, solo ad Andrew e a Mycroft, quando era in difficoltà o quando lo trovavano drogato dopo aver assunto una dose. Era da un po’ che la tentazione si era alleviata, aveva molto a cui pensare, molto che lo distraesse dal ricordo dei suoi genitori o dalla morte del suo maestro.
Passo dopo passo, petto contro schiena, i due ragazzi avanzarono di circa un metro, in silenzio. La tensione che aleggiava tra di loro era altissima, paragonabile a quella del cavo.
Arrivarono fino all’altro albero, e il funambolo dovette intervenire diverse volte sui fianchi di John per evitargli una brutta caduta.
A quel punto scesero entrambi, e Watson sollevò lo sguardo in cerca di quello di Sherlock, che però era nascosto dai riccioli scuri che gli ricadevano sul viso. Era davvero imbarazzato, e nella sua testa, nella sua lucida e orgogliosa mente, risuonava un’unica domanda: “Perché gli ho chiesto di salire sul cavo con me?”.
Non sapeva come ricambiare allo sguardo eccitato dell’amico, e non aveva vie di fuga. Forse voleva solamente che qualcun altro ci provasse, che qualcun altro potesse capirlo. Erano soli entrambi, per ragioni diverse, con storie diverse. Ma ad entrambi mancava la compagnia di una persona fidata. Non provava emozioni così piacevoli da lungo tempo ormai, e si sentì fragile, indifeso, a scoprirsi ancora una volta in grado di emozionarsi in quel modo.
Holmes sollevò finalmente il viso. Un’espressione seria dipinta sul volto e gli occhi che in qualche modo si erano schiariti, non più cupi come lo erano mentre montavano la tenda o il cavo.
Watson non riusciva a decifrare quell’intensità, e se quella luce era lì da quando le loro mani si erano sfiorate? Non poteva saperlo, ma una tiepida sensazione di speranza alleviò sia l’eccitazione che la tensione.

 

 

 

“I think about that day
I left him at a Greyhound station west of Santa Fé
We were seventeen, but he was sweet and it was true
Still I did what I had to do”

 

La la land Cast – Another Day of Sun



 

Spazio (in)utile: Siete arrivati in fondo ancora una volta, e ancora una volta vi sorbirete questo angolo autrice. Spero di non avervi annoiata con questi dialoghi senza fine, ma dovevo riportare nella trama la famiglia dell'impavido John, così avevo una scusa per tirare in ballo il giovane Lestrade che merita una particina. La parte finale è la mia preferita, e spero l'apprezziate almeno la metà di quanto piaccia a me <3 (il cuoricino storto con questo font fa ancora più rincretinita lol). 
Non ho molto da dire, se non una cosa: è azzardata la scelta di questo pezzo di canzone di La la land? A me pareva così bellina e azzeccata vabb.
Vi ringrazio per le letture e in regia mi dicono che è ora della pubblicità! 
Pagina Facebook > Arny Haddok EFP   Profilo Twitter > @CallmeBoo oppure @AnitaMurelli

Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Dal basso ***


Dopo due settimane di pausa sono tornata ayeeee. Nell'angolo autrice darò il peggio di me spiegando la situazione in cui mi trovo/troverò da qui in poi, quindi vi lascio all'entrata in scena di Lestrade e non aggiungo altro.
Buona lettura, miei circensi!


 
 

On the Wire
 

Capitolo sesto
Dal basso

Il té della signora Adelle aveva un gusto intenso. Non gli aveva chiesto quale aroma preferisse, anche se nella scatolina di legno reinventata a porta the se ne scorgevano almeno cinque varietà differenti. La quantità di zucchero e latte però li aveva potuti scegliere. Si era accomodato su una poltrona di seconda mano posizionata vicino al piccolo divano, e i colori che la facevano da padrona erano scuri e cupi, sul tono del marrone più spento che l’agente di polizia avesse mai visto. 
- Sapevo che avreste risposto in fretta alla mia lettera, signora Watson. Mi presento, sono Lestrade Gregory, come avrete sicuramente capito dalla corrispondenza, e sono un agente di polizia, uno semplice, senza incarichi importanti. – un ragazzo giovane, dall’aspetto gentile e affidabile. Sorrideva cordialmente in quel momento, anche se quel sorriso somigliava parecchio a quelli che si sfoggiavano per educazione. Eppure aveva qualcosa di stranamente intimo, non freddo e finto. Una barba di due giorni ammorbidiva i tratti del viso di Lestrade, che sfoggiava un colorito quasi olivastro, strano per un londinese.
- Se un uomo si presenta assicurando di possedere informazioni sulla scomparsa di mio figlio, beh, non posso fare altro che invitarlo per parlare di queste suddette informazioni, vi pare? – il tono della donna, apparentemente felice, nascondeva una nota intimidatoria. Probabilmente era stata quella stessa nota a non chiedere al ragazzo quale fragranza di té preferisse. 
Gregory sollevò la schiena, prima leggermente curva in direzione del basso tavolino al centro del salotto, senza prima posarci la tazzina già vuota. 
- Non posso che darvi ragione… a proposito di queste informazioni, - quella parola continuava a riecheggiare nella conversazione – ho portato con me la lettera che le contiene. Non ho idea di chi possa essere il mittente, non c’è un indirizzo, una sigla, niente di niente. – il poliziotto estrasse dalla carta di buona fattura una foto e un bigliettino: era un cartoncino di carta da acquerello, spesso e ruvido; non c’era nulla al di fuori di un veloce disegno di un palloncino rosso. Dietro la foto erano scritte le generalità del ragazzo sparito, nient’altro. 
- Signor Lestrade… lei mi aveva detto di possedere indizi! So qual è l’identità di mio figlio, non ho bisogno che una fotografia me le ripeta. – Adelle era abbastanza sicura di voler alzare la voce, ma cercò di darsi un contegno. 
- Questo scatto, signora Watson, può darci moltissimi indizi. Lasci che mi spieghi, la prego. – Gregory era tornato chino sulle proprie ginocchia, i gomiti a premere su di esse – Questo presumo sia vostro figlio, - un cenno di assenso non tardò ad arrivare dalla madre – non è in città, in nessun tipo di città, sembra quasi si tratti di aperta campagna, questo ci dice che non è più qui a Londra. Si intuisce che non è solo, ma in compagnia di qualcuno… se si tratta di molte persone oppure poche, questo non riesco a dirlo, ma non è ferito, o in gravi condizioni. Si nota chiaramente che è in salute e sta bene. Voi sapete se è scappato di sua spontanea volontà, se ci sono motivazioni che potrebbero averlo spinto a non tornare, o se qualcuno lo ha catturato? Escluderei l’ultima opzione però. – gli occhi del poliziotto, con le iridi scure, infondevano una sensazione di sicurezza, come se le sue parole fossero state pesate con cura e scelte perché fossero quelle giuste. 
La foto vedeva una figura intera di John, con una camicia più larga di una o due taglie, che non gli apparteneva, un paio di calzoni sporchi di terra e delle scarpe stringate, le stesse con cui aveva lasciato la sua abitazione. Non mostrava un’espressione preoccupata, o impaurita, così come nessun segno di violenza. Una borsa di cuoio dall’aspetto pesante era sorretta da entrambe le braccia del ragazzo. I capelli tagliati e il viso pulito. John stava bene. 
- Da qualche anno il suo rapporto con il padre si è rovinato, ma negli ultimi tempi, prima di scappare, aveva raggiunto un accordo con lui. Abbiamo parlato di questo anche con gli altri agenti, con i suoi insegnanti del corso d’infermieristica e con i suoi amici. Ci hanno tutti detto che si era tranquillizzato, in qualche modo, che non mostrava più quell’impulsività che lo caratterizzava… eppure ci ha lasciati. – il volto della donna si era incupito, come se volesse intonarsi con la mobilia della stanza. 
- Se posso permettermi… in cosa consisteva quest’accordo? – 
- La volontà di Joseph è sempre stata quella di mandare John nell’esercito, in questo momento di bisogno per la nazione e a causa della nostra situazione economica. Il giorno del suo ventesimo compleanno nostro figlio doveva cominciare l’addestramento, e pochi giorni prima, è scappato. – il pensiero di Lestrade era leggermente confuso: moltissimi giovani passavano l’infanzia a desiderare d’imbracciare un fucile, di difendere la propria patria, e in qualche modo anche lui aveva vissuto parte della propria vita a desiderarlo. Forse a spingere John alla fuga era stato proprio questo, eppure nessuno dei suoi conoscenti aveva accennato a questa possibilità. 
- Ad ogni modo… il ragazzo sta bene e sappiamo che è scappato di sua iniziativa. Il motivo credo possa passare in secondo piano attualmente, prima sarebbe meglio scoprire dove si trova e con chi, e credo che questo disegno possa dirci qualcosa, ma non so esattamente da dove cominciare. Se non le dispiace ora dovrei andare a lavoro, le lascio il mio contatto telefonico. Sarebbe inutile quello della polizia. Grazie dell’ospitalità. – 
- Un’ultima cosa signore… - Lestrade si era già alzato in piedi e sistemato la giacca – perché avete deciso di aiutarci? – 
Gregory inspirò profondamente prima di rispondere, spostando lo sguardo sul vuoto che aveva di fronte, per poi ritornare a quello indecifrabile della signora Watson – Questa lettera mi inquieta… in qualche modo. È arrivata a me, non alla polizia, contiene indizi e sicuramente ci sono abbastanza informazioni per costruire una pista. Deve esserci qualcosa sotto, e non mi sembrava saggio chiedere l’aiuto di chi ha rinunciato alla ricerca. Ripeto che non c’è un motivo ben preciso che mi ha spinto a farlo, ma spero di riuscire ad aiutarvi, signora Watson. – così dicendo, abbassò impercettibilmente il capo e raggiunse l’ingresso. 

 
 
 
 
___
 

Il presentatore si era tranquillamente seduto in cavea, con il suo costume già indosso. Non aveva nulla con sé, non una lettera, non un tè caldo. Si sistemò con movimenti lentissimi il cilindro sul capo, e alzò lo sguardo verso un giovane concentrato sul suo allenamento. Uno sguardo ambiguo, inquietante perché vuoto, indecifrabile. Ora congiungeva le mani sul proprio stomaco e rilassava le membra. 
- È un così gran peccato che il nostro caro Hamilton non ti possa vedere… - gli angoli della bocca si erano abbassati in una smorfia di tristezza artificiosa. Il funambolo aprì rapidamente gli occhi, senza però indirizzare il proprio volto verso la sua distrazione – parlava sempre di te, quando non c’eri, sai? “Quel ragazzo è un talento unico! Prenderà il mio posto prima che possa lasciarlo di mia spontanea volontà!”. – esclamava accentuando il tono e imitandone uno più rauco, appartenuto ad Andrew. 
A quel punto Sherlock tentennò sul cavo, aspettando qualche attimo in più prima di compiere un altro passo. Quella sera era prevista la prima dello spettacolo nella città di Canterbury, e la prima esibizione era sempre la più importante, carica di tensione e difficoltosa. Con più pubblico ad occupare il tendone, dovevano regalare agli spettatori una performance splendida, affinché la voce del loro arrivo si spargesse anche nelle vicine campagne o nelle periferie. 
- Moriarty, che cosa vuoi? – un’agitazione trattenuta sibilava nella domanda, che come risposta desiderava solo la figura di Jim allontanarsi verso l’uscita. 
- Come siamo scortesi, e io che credevo di farti piacere con un po’ di compagnia, ora che il tuo maestro non c’è più. – marcò l’accento sull’ultima parola – Non ti annoiavi a guardarlo? Sempre dal basso… da quaggiù, da dietro le quinte durante gli spettacoli. Non sei mai stato invidioso, Sherlock? – 
Troppo tempo passato a ragionare sul movimento successivo. Il ginocchio sinistro tremò lievemente, costringendolo a tendere i muscoli dell’intera gamba. Mai aveva provato invidia nei confronti del suo insegnante – No, non è mai successo. – 
- Lo ammiravi così tanto da non provare nemmeno un briciolo di invidia? L’invidia è un sentimento umano, non dovresti vergognartene, è normale essere invidiosi e pensare, anche solo un paio di volte, - allargò le braccia facendo roteare i polsi, un gesto quasi plateale, come se il pubblico fosse sempre presente intorno a lui, – “perché non ci sono io al suo posto? Che cosa mi manca, che cosa non ho io che lui ha”! – sorrideva senza nascondere la sua parte più meschina, eppure il circense non poteva saperlo. Doveva osservare l’altro capo del cavo, doveva raggiungerlo il prima possibile, non era stabile. 
- Smettila. – quell’unica parola gli rimase tra i denti, e Moriarty aspettava una risposta. 
La sua espressione tornò vacua, le iridi assolutamente nere ancora puntate sull’insicura figura di Sherlock. Si alzò in piedi e mosse qualche passo in avanti senza fretta o impulsività, tradito solo dall’aria agghiacciante, – Vuoi che me ne vada? Posso sempre accontentarti, e credo che lo farò. – iniziò a camminare verso l’uscita – Certo non potrò mai sostituire la presenza di Andrew… quanto mi è dispiaciuto apprendere la triste notizia della sua morte. Stasera sarò sempre in prima fila per guardarti, Sherlock, come ogni volta! –
Nell’esatto istante in cui la scarpa lucida del presentatore varcò il limite del tendone, la calzatura di cuoio del giovane Holmes raggiunse la piattaforma. Allungò la mano destra di fronte al viso, mentre ansimava in cerca dell’aria che gli era mancata durante la traversata. L’apriva e la chiudeva, senza allentare la tensione sui tendini. Ancora quella sensazione di disagio della sua prima esibizione, la stessa che lo aveva assalito una volta sceso. Era così fastidiosa. 

- E questi, signori, erano Poppy e Ophelia! I nostri meravigliosi trapezisti! Un forte applauso! – i due artisti si inchinarono per accogliere quello sciabordio di battiti di mani, illuminati dalla luce calda del faro. Nel frattempo, un’altra circense stava facendo il suo ingresso in scena, preparando diverse valigie dalla dimensione variabile, e chiudendosi in una di esse mentre l’illuminazione ancora puntava sul presentatore.
- Ora, per lo stupore dei nostri gentili ospiti, un numero di contorsionismo che di magico ha solo il vostro rimanere senza fiato! Ecco a voi la Crook Queen! °- a quel punto, una donna dalla piccola statura e con un trucco dalle forme sinuose dei colori blu e oro, uscì da uno dei bagagli al centro dell’arena. Qualche esclamazione incredula si levò dalla cavea, accompagnata da espressioni deliziate e divertite. 
Irene aveva una presenza scenica ottima, sempre sorridente e con un fisico sì asciutto, ma elegante, proporzionato. I capelli scuri sempre raccolti in acconciature impreziosite da nastri colorati, che richiamavano le tonalità del costume aderente, sempre cosparso di pietruzze sgargianti. Raramente nel suo guardaroba si scorgevano colori tenui o pastello, d’altronde, lei amava stupire ed essere guardata. Se non fosse stata una famosa contorsionista, non si sarebbe certo sprecata come lavandaia o prostituta: qualsiasi baronetto poteva interessarsi a quella bellezza, che anche senza trucco, si rivelava intrigante. Le sue performance spesso potevano ingannare il pubblico, che si aspettava chiavi nascoste nel body o nei capelli durante i numeri comprendenti l’uso di manette e lucchetti, ma in realtà non c’era alcun trucco, solo una strabiliante abilità e intelligenza, conoscenza dei propri limiti fisici e ore di allenamento ed esercitazioni. Anche quella sera, non si era smentita, e aveva lasciato uomini, donne e bambini a bocca aperta. 
Sherlock intanto s’impegnava per controllare le corde di sicurezza, e un altro gruppo di persone aveva assicurato il cavo d’acciaio. Andrew gli aveva sempre ripetuto una frase che era diventata il suo mantra: prova che tutto sia sotto controllo, ogni corda, ogni cavo, ogni piattaforma su cui ti devi esibire… non vorrai finire laggiù. Su quell’ultima vocale, il suo sguardo si spostava, ogni volta, verso il basso, verso il suo apprendista, che lo guardava aspettando di vederlo camminare nell’aria. Il suo cuore accelerò imprevedibilmente quando posò finalmente i piedi sulla pedana.
- Ringrazio questo pubblico così caloroso, e vi chiedo un momento di silenzio per il prossimo numero. – la luce tornò ad abbagliare Jim – Un ragazzo che per anni ha speso il suo tempo ad allenarsi per raggiungere le sue attuali capacità, e che porta nel petto il ricordo di una persona importante, il celebre funambolo Hamilton, il suo maestro! – John, che da dietro le quinte si stava godendo lo spettacolo, scoccò un’occhiata confusa in direzione di Molly, che si stava occupando di un copricapo a cui mancavano delle piume; entrambi provarono una strana sensazione, e bastò uno sguardo condiviso perché si chiedessero come mai Moriarty la tirasse tanto per le lunghe. Watson tornò a guardare Sherlock, che teneva gli occhi fissi verso il vuoto. Ovviamente il più basso non poteva accorgersene, ma il ricciolo inspirava ed espirava con prepotenza, e il suo sguardo era perso, catturato da chissà quali pensieri. – Incoraggiamo questo giovane artista con un fortissimo applauso per favore! – allora tutti gli spettatori volsero il viso in direzione della piattaforma, guidati dal faro che ora metteva in risalto il luccichio dei dettagli del costume di Sherlock. 
- Spero solo che non finisca davvero qui a farmi compagnia… - un tono dispiaciuto e sottile. Il presentatore aveva quell’eccezionale dote teatrale di esagerare le espressioni facciali, e questa volta, rivolto a se stesso e non al pubblico, aveva rivelato tutta la falsità della propria preoccupazione. Sperava di aver scelto le parole migliori per risvegliare quel dolore cui il giovane Holmes credeva di essere sfuggito. Eppure serviva così poco, qualche vivido ricordo, perché tornasse a sguazzarci dentro, in cerca di una fune cui aggrapparsi. 

I primi passi, i primi movimenti, erano apparentemente così controllati e sicuri, come se il circense avesse scacciato rapidamente dalla sua mente quel tarlo che lo perseguitava dal pomeriggio. Bastò un’insignificante incertezza a fargli aprire gli occhi. Mai lo aveva fatto durante una performance. 
Strinse la presa attorno all’asta, cercando un appiglio, e l’avvicinò di qualche millimetro di troppo al corpo. Lo strumento doveva servire per l’equilibrio, non per la sicurezza. In questi brevissimi istanti, il ginocchio sinistro cedette senza preavviso. 
Tese polpaccio e quadricipite per simulare a se stesso un momento di stabilità. Doveva andare avanti, spostare il piede sinistro davanti all’altro. Cominciò a sentire una sensazione di disagio all’altezza dell’intestino, lo sguardo sempre più irrequieto, quasi distratto. Mosse un passo, e si obbligò a fermarsi per ristabilirsi. 
Vacillò di nuovo, e fu costretto a piegare le ginocchia per poi rialzarsi. Quello stesso disagio che si era bloccato, raggiunse le sue mani, ormai private del loro colore a causa della pressione troppo forte. Iniziarono a tremare. 
Aveva paura di cadere, ma non era a due metri d’altezza con John pronto a ridere di lui e a domandargli se sentisse dolore in qualche parte del suo corpo. Era solo e dannatamente spaventato. Il suo spettacolo stava procedendo con una lentezza disarmante, e un sorriso a dir poco inquietante si dipingeva sulle labbra di Moriarty. – Mamma mamma, ma se cade che gli succede? – la voce acuta del bambino arrivò ovattata alle orecchie del funambolo. Aveva praticamente gridato quella domanda, che permise a Sherlock di interrompere l’assordante rumore del battito del proprio cuore. 
Riprese a camminare con cautela, anche se i suoi movimenti tradivano la sua fretta. Arrivò alla pedana e lasciò che l’applauso glielo assicurasse, inchinandosi distrattamente e chiudendo gli occhi. L’agitazione continuò a circolare nelle sue vene fino al saluto conclusivo, quando riuscì a dileguarsi con l’attenzione di John concentrata sulla sua schiena. 

Una pioggia delicatissima aveva inumidito l’aria rendendola pesante, e le sue spalle si bagnarono dopo pochi passi fuori dal tendone. Le grida di gioia delle famiglie che si allontanavano soddisfatte verso le proprie case cercavano invano di scaldare l’atmosfera della serata. Raggiunse la sua tenda e s’inginocchiò di fronte al proprio baule, sempre stracolmo di quella che a Watson piaceva chiamare “spazzatura”. Effettivamente non aveva mai perso tempo a riordinare i suoi effetti personali, come abiti stropicci o libri con angoli piegati. Spostando un paio di camicie, in fondo al bagaglio, raggiunse un piccolo cofanetto: rosso, con una chiusura metallica arrugginita dal tempo. Conservava gelosamente quel contenitore, testimone dei peggiori momenti della sua vita, dei più bui. Si procurò poi un bicchiere di vetro dal kit per il pronto soccorso di John, che quella sera era stato sollevato dal suo incarico di medico d’urgenza. 
Riempì il bicchiere con un po’ d’acqua dalle scorte e con una fretta lontana dalla sua normale andatura, si allontanò quanto poté dal tendone e dalla parte maggiore dell’accampamento, cioè dove molti piantavano le tende per dormire e dove si sistemavano i fornelli da campo. In una zona poco illuminata del prato, poggiò la schiena contro il dorso di un carro e si sedette, sistemandosi il più comodamente possibile, il bicchiere posato sul prato e coperto dalla sua mano sinistra per impedire alla pioggia di mescolarsi all’acqua pulita. Aprì il cofanetto con un po’ di pressione, e qualche goccia cadde sul contenuto, dopo essere scivolata dai suoi capelli ormai fradici. Prese una piccola ampolla che riempì parzialmente di acqua, e fece lo stesso con una minima parte di quella polvere bianca che teneva chiusa in un sacchetto di carta. Con il sottilissimo ago della siringa mescolò la miscela. 

Una sensazione di freddo lo pervase lentamente, quasi come una carezza inaspettata nel cuore della notte d’estate. Sherlock aprì gli occhi e mostrò uno sguardo lucido, sembrava quasi privo di vita. Gli sembrava quasi di essere in mare con tutta quell’acqua, la camicia ormai sembrava abbracciarlo per ogni lembo della pelle con cui entrava in contatto. Era sdraiato su un fianco, e mentre la sua mente riportava in superficie ricordi degli anni passati, cominciò a piangere. 

Una mano si posò sulla sua spalla. Era dannatamente calda, al primo tocco sembrava quasi scottare. Allora non era estate.
- Sherlock! -


 


"No, I can't look down
I'm trying to fight the feeling
I will fall to the ground
If I ever see you
'Cause I feel like I'm walkin' a tightrope
My heart is in my throat
I'm counting on high hopes to get me over you
And I've got my eyes closed
As long as the wind blows
I'm counting on high hopes to get me over you, you
'Cause I'm a man on a wire, on a wire
I'm a man on a wire, on a wire"


The Script - Man on a Wire




 
° "Crook Queen" in italiano non so esattamente come tradurlo, ma sappiate che "crook" è un verbo dai molteplici significati, tra i tanti ho scelto "curvarsi". Irene in questa storia è una contorsionista, quindi mi sembrava un'idea non troppo campata per aria, ecco. Come suono cambia totalmente nel momento in cui si pronuncia "Cruuk Queen", altrimenti letto come si scrive è proprio da brividi. 

 
Spazio (in)utile: Se in precedenza avevo già fatto presente come Sherlock avesse problemi con la droga, mi è sembrato giusto metterli "in pratica", inserendoli in un momento di estrema debolezza da parte sua. Chi sarà a gridare il suo nome? Potrebbe essere anche il Doctor Who, ma non si tratta di un crossover. Ho cercato di rendere al meglio quelle che sono le capacità di Moriarty, ma che non si sprecheranno solo in questo modo. Lui si diverte a mettere fuori gioco il funambolo, e ci riesce attraverso più vie. Quella di Molly e questa di Andrew Hamilton erano quasi degli esempi, perché dalla serie sappiamo cosa è in grado di fare Jim. 
La canzone alla fine dovrebbe essere un contrasto con il titolo, ed è ovviamente riferita al giovane Holmes, che qui non si trova proprio liberissimo, nonostante sia sul suo cavo. Non potete sapere quanto mi piace cercare testi e citazioni da mettere in fondo ai capitoli, potrei fare una raccolta solo di questa roba. 
Ora passiamo alle cose noiose che avevo annunciato nell'introduzione: credo che la maggior parte di voi lettrici abbia frequentato o stia frequentando le superiori, di qualsiasi genere. All'inizio di questa storia avevo messo in chiaro quanto ci tenessi, e quanto mi piacerebbe portare a termine questo percorso con costanza. Bene, ci proverò. Ci saranno pomeriggi in cui studierò cinque/sei ore, altri in cui il computer sarà fuori portata oppure la mia testa riempita di roba che mi impedirebbe di buttar giù qualcosa di decente. Se mai mi vedessi troppo in difficoltà, credo proprio che dividerò la storia in due parti, proprio per evitare di pentirmi in futuro di quello che scrivo. 
Avrò bisogno di voi per una motivazione che mi spinga a continuare,e già sapere che ho delle lettrici fedeli, perché i numeri delle visualizzazioni parlano chiaro, mi rincuora (so che può sembrare stupido, ma le considerazioni altrui sono utilissime e senza un riscontro continuare a scrivere sembra quasi una condanna, qualcuna potrebbe capirmi in questo).
Come al solito ho scritto un sacco, so sorry, quindi grazie a tutte voi che leggete, e vi lascio alla pubblicità
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Adieu!


 

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Capitolo 7
*** Sussurri e Sorrisi ***


Ciao a tutte! Se mi seguite sui social sapete perché il capitolo è uscito con un giorno di ritardo, ma bando alle ciance. Vi aspetto in fondo, come al solito, quindi buona lettura miei circensi!



On the Wire


 
Capitolo settimo
Sussurri e Sorrisi

 
Si precipitò verso quel corpo disteso a terra, senza rendersi immediatamente conto del fatto che appartenesse a Sherlock. Avrebbe agito così per chiunque si fosse trovato in quella situazione, ma avrebbe gridato il suo nome nello stesso modo, con urgenza?
Piegò le gambe e si inginocchiò davanti al giovane Holmes, cercando di svegliarlo muovendolo con la mano ripetutamente, senza smettere di chiamarlo con tono estremamente preoccupato. Solo dopo aver notato la siringa abbandonata a terra, John capì che quanto era successo, andava ben oltre le sue basilari competenze. Certo, avevano discusso a lezione diverse volte di come alcune sostanze alleviassero il dolore e offuscassero i pensieri e le emozioni, e di come queste venissero sfruttate sui campi di battaglia dai soldati e dai medici militari durante gli interventi. Ma quel ragazzo non stava combattendo, quindi perché mai aveva assunto della droga, qualsiasi essa fosse?
- Mycroft? – un sussurro, e Watson spostò rapidamente lo sguardo sul viso dell’amico: gli occhi vitrei del funambolo avevano ripreso un briciolo di vita, ma restavano rossi e gonfi. Che si trattasse di pianto o di un effetto della droga, John non riusciva a capirlo. Posò nuovamente la mano sulla spalla del compagno di tenda, cercando di richiamare la sua attenzione.
- Sherlock. Sherlock mi senti? Sono io, John, John Watson. – fu costretto ad alzare la voce e parlare lentamente. Nel frattempo si stava togliendo il maglione per coprire il corpo infreddolito di Holmes.
- Dov’è Mycroft. – non aveva la cadenza di una domanda. Il circense non aveva la forza di badare all’intonazione delle poche parole che riusciva a pronunciare. Ora sentiva una strana sensazione di calore all’altezza della gabbia toracica, in contemporanea un rumore confuso, una voce che arrivava ovattata alle sue orecchie.
Il medico della compagnia, ormai fradicio a causa della pioggia che aumentava sempre di più, si vide costretto a rialzarsi e cercare il direttore il più velocemente possibile. Il pensiero di dover lasciare il suo amico disteso a terra e solo lo bloccò prima che potesse voltarsi in direzione delle tende: si abbassò nuovamente per passarsi il braccio di Sherlock attorno alle spalle, sostenendolo con la mano destra. La differenza d’altezza non lo aiutava in quel frangente, e nemmeno la muscolatura del giovane Holmes. Prima di riuscire a muovere qualche passo, il ricciolo si piegò in avanti preso da un conato di vomito, e John dovette reggergli il busto perché non cadesse di nuovo a terra.
 
Con un andamento altalenante e lento, Watson riuscì a raggiungere la tenda di Mycroft e a svegliarlo chiamando il suo nome con insistenza, lasciando trasparire tutta la stanchezza e la preoccupazione che aveva in corpo. Il direttore si coprì con una vestaglia di tessuto pesante e fece coricare suo fratello sulla propria branda, dopo avergli tolto il maglione del più basso e avergli coperto le spalle con un panno di lana abbastanza grande.
- Sherlock, sono Mycroft, adesso dovrai sopportare il caldo ma ti passerà. – aveva occhi solo per il funambolo in quel momento di difficoltà, mentre John restava ad un paio di metri dal corpo fradicio di Sherlock. Aveva adottato un’espressione che fino a quel momento mai gli si era dipinta in volto: bocca socchiusa e occhi stanchi, sembravano vivi solo a causa di quell’ansia che aleggiava senza sosta intorno al suo volto. Non aveva mai visto nulla di simile, e l’ultima persona da cui si sarebbe aspettato una cosa del genere era il suo amico, il suo unico vero amico tra tutti quegli individui con cui intratteneva discorsi superficiali. Come diavolo poteva un ragazzo tanto brillante e talentuoso come Sherlock Holmes rovinarsi con della droga, per quale ragione soprattutto.
- John, credo che per te sia arrivato il momento di andare. – il tono del fratello maggiore non ammetteva repliche, nonostante quel “credo” all’inizio della frase. Watson doveva andarsene, e non faticava ad immaginarsi la faccia del direttore, seduto in direzione del giovane circense e che nemmeno si era voltato per chiedergli di lasciare la sua tenda. Il ragazzo dai capelli chiari afferrò il concetto, e tornò sotto la pioggia battente senza nemmeno salutare. A quanto pare Mycroft sapeva gestire nel modo corretto le crisi di Sherlock, lo si capiva dalle parole che aveva utilizzato, dall’espressione poco sorpresa. Pensava a questo, John, mentre si cambiava con qualcosa di asciutto e caldo, abbandonando il maglione sul proprio baule e lasciando che l’umidità imperniasse l’aria della tenda e le sue narici.
 
Ovviamente non si addormentò. L’immagine di Sherlock bagnato e scosso da brividi sotto la coperta di lana lo tormentava. Gli occhi azzurri, in quel momento dello stesso colore del ghiaccio, socchiusi e vuoti che cercavano una sicurezza e chiamavano silenti il nome del fratello. Lo avevano spaventato, quegl’occhi, quei maledettissimi occhi gli avevano fatto saltare diversi battiti prima di farlo agire. Se quel momento lo aveva lasciato inerme, come poteva suo padre immaginarselo nascosto in una trincea e pronto ad affrontare la disperazione nello sguardo dei nemici. Ammettiamolo, sono davvero poche quelle persone che gridano di gioia nel conficcare pallottole di piombo nello stomaco degli avversari, il problema è che nessuno sa che cosa si troverà di fronte in battaglia, e sono pochi quelli che tornano ancora in grado di utilizzare il senso dell’udito.
Si sollevò dalla branda senza nemmeno pensarci, e si ritrovò in piedi vicino all’ingresso della tenda. Si infilò un cappotto dai colori spenti e un berretto: la pioggia non aveva ancora smesso di battere con violenza, ma restare sdraiato a pensare al suo amico perdendo la cognizione del tempo era una possibilità che lo irritava. Mycroft lo aveva praticamente cacciato, senza nemmeno ringraziarlo per aver trovato suo fratello di cui altrimenti nessun’anima si sarebbe accorto. Un grazie, un’esclamazione, un’emozione forte. Niente di tutto questo faceva parte della grigia figura del direttore del circo.
Da quanto tempo andava avanti quella storia? Per quanti anni Sherlock si era drogato, era successo anche nel periodo in cui lui era stato accettato nel circo? Erano le domande che frullavano e riempivano i pensieri di John, che si era accostato alla tenda buia del pezzo grosso della compagnia dalla quale non si intravedeva nemmeno una luce o una fiamma di candela. Sentiva un respiro profondo provenire dall’interno, che però non poteva appartenere al giovane Holmes: di notte sembrava un morto, non cambiava mai posizione così come non russava o emetteva qualunque tipo di suono. Talvolta la tentazione di provargli il battito era tanto forte da convincerlo a destarsi dal dormiveglia e stringere il polso pallidissimo del compagno di tenda. Una volta capito che no, non era morto, se ne tornava sotto alla coperta e poteva dormire tranquillo.
In quel momento la preoccupazione per Sherlock occultava tranquillamente l’agitazione. Non sapeva se entrare e illuminare fiocamente il volto del funambolo, oppure tornare indietro e lasciar perdere.
Indietro ci tornò, ma per prendere una candela e un pacchetto di fiammiferi. L’immaginazione di Watson non cessava di produrre simpatici scenari in cui Mycroft lo cacciava senza ripensamenti dall’Hound’s Wonders, abbandonandolo come un animale per la strada, tornando poi indietro e togliendogli bruscamente il cappello, la sua unica protezione dall’acqua battente. Eppure era lì, di fronte all’entrata, con la mano a proteggere la fiamma e l’altra a scostare silenziosamente lo spesso telo di plastica. Essendoci stato qualche ora prima si ricordava che il fratello maggiore aveva l’altra branda in fondo alla tenda, mentre il minore era abbastanza lontano, quindi sì, la preoccupazione di essere scoperto esisteva, ma non era troppo forte da impedirgli di controllare le condizioni di Sherlock. Perché ne aveva così tanto bisogno, di vederlo dormire tranquillo, accostarsi al suo viso per sentirlo respirare debolmente. Piegò le ginocchia e avvicinò la candela all’amico: aveva i riccioli gonfi a causa dell’umidità, e il medico sapeva perfettamente che se ci avesse passato le dita in mezzo avrebbe dovuto sciogliere qualche nodo; le ciglia già chiare, si schiarirono ancora di più per la fiamma; le labbra spigolose ammorbidite dal tremolio della luce, così come gli zigomi. Se non fosse stato per le occhiaie scure, John avrebbe sicuramente pensato che era splendido. Certo, lo pensava ugualmente, ma quelle occhiaie gli ricordarono il perché delle sue condizioni. Quel respiro silenzioso che lo caratterizzava in quel momento era affaticato, e il giovane poteva sentirlo anche a mezzo metro di distanza. Sherlock era avvolto nella coperta e rannicchiato su se stesso, senza dubbio si sarebbe svegliato intorpidito e dolorante, con i muscoli tesi.
Gli occhi del funambolo si aprirono lentamente con la stanchezza che sopravviveva sulle palpebre pesanti. Si limitò a fissare John aspettando che reagisse al suo sguardo. Si stavano guardando, e il ragazzo steso aveva ripreso abbastanza lucidità perché le sue capacità deduttive tornassero a funzionare. Il suo amico era lì per controllarlo, anche se dalla sua espressione non trasparivano altro che due sentimenti contrastanti: preoccupazione e rabbia.
- John. –
- Sherlock… - sospirò il più lentamente possibile per raccogliere le parole e la calma necessarie – che diavolo è successo. – si morsicava il labbro cercando di nascondere il gesto, ma la luce della candela bastava ad illuminare il viso di entrambi.
Inchiodò il proprio sguardo in quello del più basso. Non poteva raccontargli il motivo che lo aveva spinto a tanto. Aveva aspettato troppo per rispondere, quindi non fece altro che abbassare gli occhi. – Almeno dimmi questo: - un altro sospiro trattenuto – come ti senti adesso? –
- Mi gira la testa, ho freddo e mi hai svegliato, ma poteva andare peggio… - la sua voce era rauca e debole. Il giorno seguente Watson lo avrebbe legato alla branda per non fargli prendere freddo. Perché si preoccupava in quel modo per un ragazzo che sicuramente sapeva badare a se stesso? Perché evidentemente non sapeva farlo, ecco perché.
Non sapevano più come portare avanti la conversazione e il giovane dai capelli chiari non poteva bombardarlo di domande. L’impulso di provargli la temperatura lo colse alla sprovvista, e la sua mano sinistra si poggiò sulla fronte del moro che rimase impassibile di fronte a quel gesto. Solo il rossore sulle guance lo tradì, ma John era troppo occupato a “visitarlo” per accorgersene. Era accaldato, ma non solo a causa della coperta che lo copriva quasi completamente, e aveva bisogno di riposo, molto riposo.
Si erano entrambi dimenticati della presenza di Mycroft che fortunatamente dormiva tranquillo, presi dall’intimità di quei gesti e di quel momento. Si erano scambiati qualche battuta, e le parole di Sherlock saranno state anche impertinenti, ma Watson era ancora lì, con la mano sulla sua fronte. Si stava prendendo cura di lui, anche se sarebbe stato tutto più semplice se fossero stati nella loro tenda. Il giovane Holmes avrebbe trattenuto quella mano ancora a lungo, fino a riaddormentarsi, per essere sicuro di avere qualcuno accanto, e chiuse gli occhi con le dita leggermente fredde di John a raffreddargli la fronte. Il ragazzo allontanò la mano.
La febbre lo aveva assopito, e sentiva diminuire la tensione sulle braccia – John? –
- Sì, Sherlock? –
Ancora una volta non rispose, voleva sapere se lo stava ancora guardando e anche ad occhi chiusi ne aveva la certezza. Sapeva che il giorno dopo sarebbe stato ancora lì nella compagnia, che avrebbero dormito sotto la stessa tenda ancora a lungo, che avrebbero parlato fino a notte fonda. Lo sapeva.
Si addormentò con questa consapevolezza, e John rimase ad ammirarlo per qualche minuto prima di tornare a dormire finalmente tranquillo. Appena si sarebbe ripreso, Sherlock, gli avrebbe dovuto spiegare tutto, scendendo nei dettagli.
 
___
 
 
 
Ricordava perfettamente il giorno del processo: abito elegante e sorriso sicuro, un ghigno divertito di chi sapeva di poter farla franca un’altra volta. Aveva tutto sotto controllo e non si sarebbe fatto mettere le manette per una sciocchezza come quella, ma ancora più importante, mai avrebbe passato più di una notte in prigione.
Osservò per un ultimo momento la cartolina del punto in cui il circo si era sistemato a Londra per lo spettacolo di diversi mesi prima, per poi imbustarla.
- Questa volta ti lascio l’onore, prego. –
Sorrise e si allontanò scostando l’ingresso della tenda incamminandosi in direzione della città.
 
Si copriva con insistenza, come se stringendosi l’ampia sciarpa attorno alle spalle potesse in qualche modo scaldarla e dare l’impressione di trovarsi di fronte ad un caminetto. Spostava l’attenzione da un lato all’altro della strada, anche se non aveva nulla in particolare da cercare o adocchiare se non una cassetta delle lettere. Il passo impercettibile non richiamava l’attenzione delle famiglie che passeggiavano in quel freddo pomeriggio. Sicuramente i bastoni da passeggio pestavano in maniera più pesante la strada, ornati dai pomelli dorati o di mogano intagliato. Trovò quello che cercava, e lasciò che la busta cadesse sulle altre in fondo alla cassetta prima di tornare a camminare nel centro della cittadina.
 
 
___
 
 
Gettò la corrispondenza sul tavolo della cucina, oltre che tavolo della sala, e si liberò di giacca e berretto. Aveva appena concluso un compito che gli era stato assegnato giorni prima di cui non vedeva l’ora di disfarsi, e tutto quello che aspettava era tornare a casa e rilassarsi con una buona tazza di tè bianco. Si accomodò su una delle due sedie di legno con un coltello in mano pronto a sorbirsi altre richieste o bollette, ma c’era qualcosa di diverso. Un’altra busta, un’altra foto.
Quella volta però, non si trattava di una fotografia, ma di una cartolina: una zona non proprio splendida di Londra, ma comunque ben illuminata e frequentata. Spesso venivano allestite fiere di grande estensione, oppure mostre di vario genere. Il mittente doveva essere lo stesso della foto di John Watson, ancora una volta nessun indirizzo, sigla o nome. Una sensazione di nervosismo si faceva rapidamente spazio negl’intenti di Lestrade, che dopo aver sbuffato senza contegno di sorta, si rassegnò e cercò di riacquisire quella concentrazione che era scemata una mezz’ora prima. Mise l’acqua a bollire e si preparò una delle tazze più grandi che aveva nella dispensa, insieme alla zuccheriera e a tutto ciò che aveva tra le mani: un’immagine del ragazzo sparito, un cartoncino con un misero disegno e una cartolina di una zona della città. Poteva cercare il negozio dal quale il mittente aveva acquistato la fotografia, consapevole però del fatto che si trattava di un acquisto estremamente economico, con una carta non troppo spessa e capace di non resistere molto a lungo insieme a dei colori già sbiaditi, e non a causa del tempo ma della poca qualità. Non sembrava rovinata, e gli angoli erano perfettamente integri, segno che chiunque l’avesse maneggiata, non lo aveva fatto per molto tempo. Un acquisto veloce, senza che ci si dovesse impiegare denaro o tempo.
Quel luogo doveva avere qualcosa a che fare con John, altrimenti non avevano ragione di spedirgli una cosa del genere. Che si trattasse di una falsa pista? Di un indizio per mandarlo fuori dallo schema? Greg non poteva saperlo, e nemmeno gli era passato per la testa. Era un buon osservatore, questo era vero, ma non possedeva una mante brillante e contorta come quella dei fratelli Holmes o di Moriarty. Si infilò la giacca lasciando il cappello appeso all’appendiabiti, dimenticandosene, e uscì per raggiungere la cabina telefonica più vicina con qualche spicciolo che gli tintinnava in tasca.
 
- Pronto? – i telefoni pubblici rendevano le voci sempre metalliche e più dure rispetto alle originali.
- Buonasera Signore, sono Lestrade Gregory, il ragazzo che ha parlato con sua moglie del caso di suo figlio, avrei bisogno di parlare con tutta la famiglia quando possibile. – era chino sulla cornetta con gli occhi che saettavano attraverso il vetro della cabina.
- Mia moglie mi ha parlato di voi… perché avreste bisogno di un colloquio? Per farci altre stupide domande come quelle della polizia? – forse non era il telefono ad indurire la voce di Joseph, ma il suo vero tono.
Il giovane cercò di non farsi intimidire, dopotutto aveva a che fare con colleghi più anziani e grossi di lui tutti i giorni pronti ad impartirgli lezioni di vita e mansioni da svolgere – mi dispiace contraddirla, signore, ma sono già a conoscenza di qualche informazione in mano alla polizia, credo che sua moglie abbia avuto l’occasione di discutere del nostro incontro con lei… - manteneva sempre un atteggiamento cordiale, non alzava quasi mai la voce e mai si rifiutava di obbedire a qualche ordine. Forse un giorno si sarebbe permesso di gridare “Non è di mia competenza”, seduto dietro ad una possente scrivania di legno su una di quelle sedie girevoli e di pelle rossa.
- Certo che me ne ha parlato. Mia moglie e mia figlia domani saranno a casa tutto il giorno, io rincaserò verso le cinque del pomeriggio. Veda di essere breve e puntale con quello che avrà da dirci. –
- Certo, signore. – e posò la cornetta. Nemmeno aveva usato più di una moneta tanto la conversazione era stata sintetica.
 
L’indomani si presentò in casa Watson e l’immagine che aveva in mente del padre di John era praticamente identica alla realtà: un uomo dall’atteggiamento distaccato ma facilmente irascibile; il classico padre di famiglia duro e severo, ma dalle grandi aspettative sui figli, non una gratificazione, non un complimento.
Dopo aver riassunto le informazioni che si era preoccupato di appuntare su un taccuino, mostrò la cartolina e nessuno aveva niente da dire, se non Harriet – questa fotografia credo di averla già vista altrove. È una cartolina di seconda mano, come ha spiegato lei, e credo che una cartoleria vicina a questo posto la venda… non ricordo il nome, ma so che l’insegna presenta un elefante dipinto di rosso, più o meno la stessa tinta del palloncino. – un dettaglio insignificante, quello dell’insegna, che poteva essere utile per chi cercava il negozio e basta.
Lestrade ringraziò la ragazza per quest’indicazione, e dopo aver discusso ancora qualche momento con i Watson, si congedò e affrettò il passo nel tentativo di raggiungere il prima possibile la cartoleria.
 
 
___
 
 
Mentre era in città, si preoccupò di acquistare una cartolina, l’ennesima. Era sempre suo questo compito, e poteva quindi scegliere quelle più belle. Se per la prima non aveva tanta moneta a disposizione, ora ne aveva, così come per le altre, e si preoccupò di selezionarne alcune tra le più dettagliate e vive. Quella volta ne comprò una quasi poetica: la piazza illuminata da qualche fioca finestra in contrasto con la potenza del tramonto; si percepivano i colori caldi del cielo. Chissà se avrebbe fatto la stessa scelta.

 
 
 
 

 
“And anytime you feel the pain,
Hey Jude refrain,
Don't carry the world upon your shoulders.
For well you know that it's a fool,
Who plays it cool,
By making his world a little colder”
 
The Beatles – Hey Jude





 
Spazio (in)utile: eccoci qua. Il momento tra i due protagonisti è quasi ambiguo, e me ne sono accorta solo rileggendo il capitolo (brava Anita, bravissima). Non ho tante parole da spendere riguardo a quella prima parte (che è anche la più lunga), quindi passo ai personaggi.
Lestrade è ormai una presenza fissa, e difficilmente ci lascerà: ha un compito nelle sue mani, ed è determinato abbastanza per volerlo portare a termine. In questo chap, Moriarty non c'è, perché dopo la grande presenza e impatto che ha avuto nel precedente, mi sembrava giusto lasciarlo riposare un pochino. Mycroft veste i panni del direttore del circo che non vuole far sapere niente a nessuno, ma in cuor suo è preoccupato per Sherlock e ringrazia John per averlo trovato prima che la situazione degenerasse. L'atmosfera buia e gelida mi sarà riuscita? Dato che non so rispondermi con fermezza mi dico: mboh.
Il prossimo capitolo è ancora in lavorazione (tipo fabbrica capite), e spero di riuscire a finirlo entro la prossima settimana. Come sapete sono abbastanza impegnata, e lo studio già mi occupa dei pomeriggi, anche se non è nemmeno passata una settimana di scuola. Sposterò il giorno di pubblicazione da lunedì a martedì per varie ragioni che non sto a spiegarvi. 
Detto questo vi saluto senza pubblicità perché non ne voglia :D 
Grazie a tutte voi che leggete e Adieu! 
 

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Capitolo 8
*** Skinny love ***


 
 
Ciao Ciao Ciao a tutte! Aggiorno la sera per varie ragioni, ma facciamo finta di niente. Vi aspetto alla fine per le cose importanti.
Forza circensi miei!


On The Wire
 
Capitolo ottavo
Skinny love 


 
 
Con un maglione di lana e la coperta a proteggersi, Sherlock raggiunse la sua tenda, dove poco dopo fece il suo ingresso anche John di ritorno dalla colazione.
- Se vuoi qualcosa da mettere sotto i denti posso andarla a prendere. – intento a finire il suo pane tostato, Watson si preoccupò di chiudere al meglio l’entrata per evitare che il freddo si facesse sentire più del necessario. 
- Ci ha già pensato Mycroft…  grazie. – appena sveglio, suo fratello aveva insistito perché mangiasse, cosa che di solito evitava con la scusa di sentirsi appesantito. La realtà era che la mattina presto le persone riuscivano a farlo innervosire ancora più facilmente. 
- Per ieri notte… beh, non so perché l’ho fatto, ma l’ho fatto e basta. Spero di non averti infastidito, anche se sembravi stare abbastanza bene rispetto a quando ti ho trovato. – il funambolo aveva l’intera scena in mente, senza che potesse essere interrotta da nulla, ma le ultime battute dell’amico lo lasciarono senza parole per qualche attimo. Dovette ricostruire l’avvenimento, o almeno, quei frammenti che ricordava: allora non era stato Mycroft a trascinarlo e condurlo al riparo, ma John, con le spalle gracili e con la stanchezza addosso – Mi hai spaventato. Avevi gli occhi vuoti, non so se riesci ad immaginarlo ma… avevo paura. – 
Sherlock lo guardava avvolto nella coperta seduto sulla sua branda, giramenti di testa che non gli lasciavano tregua e una strana sensazione nel petto. Il cuore gli batteva più velocemente, e fu costretto ad abbassare la testa così che i riccioli potessero coprirgli il volto evidentemente a disagio. Non gliene aveva mai parlato ed erano mesi che condividevano uno spazio angusto come quello dove si trovavano in quel momento. Era passato troppo tempo perché la sua risposta potesse apparire spontanea e non ragionata – Sei la terza persona che mi vede in quello stato. Mycroft ha sempre cercato di tenerlo nascosto e io non ho fatto nulla per impedirglielo. Cosa avrebbero pensato di me sapendo che ho bisogno di farmi? – 
- Ne hai bisogno? – la voce di John interruppe la replica del moro – Sherlock, non ho mai conosciuto qualcuno con un talento simile al tuo, e ieri ho quasi creduto fossi morto. Morto, oddio, nemmeno riesco ad immaginare una cosa del genere! – stava gesticolando e la sua espressione lasciava trasparire limpidamente il suo trattenersi – Non m’interessa che cosa potrebbero pensare gli altri, ok? Voglio solo sapere perché. – si fermò in piedi di fronte al circense con le mani sui fianchi e uno sguardo che non ammetteva stronzate. 
Il giovane Holmes sospirò cercando di fare meno rumore possibile – Andrew. Ti ho parlato di lui, forse anche troppo, e non so esattamente cosa mi succede quando penso troppo al mio maestro. Mycroft riesce solo a dirmi “è stata una persona importante, quindi è normale che tu ti senta male quando lo ricordi”, ma so che non basta, eppure non riesco a capire cosa mi manca. Dovrei provare nostalgia, no? È quel sentimento che le persone normali provano nel ricordare una bella persona o un bel momento. Io invece mi sento male. –
- Quante volte è successo? – non sapeva come replicare alla storia di Andrew, aveva troppa paura di dire qualcosa di sbagliato, soprattutto dopo che aveva scoperto che la “dipendenza” di Sherlock era causata da quello. 
- Negli ultimi mesi non ne ho più avuto bisogno. – non voleva ammettere che John lo aveva distratto dalla sua sofferenza – Ma sono diversi anni che succede. – ora non poteva fare a meno di chiedersi che cosa il suo amico pensasse di quella situazione, o forse di lui. Come lo reputava ora che era a conoscenza del suo problema più grande?
Il volto del più basso, ancora inchiodato in piedi al centro tra le due brande, non era cambiato troppo, ma si scorgeva un alone di tristezza nei suoi occhi: non era pietà o delusione, ma un insieme di preoccupazione e interesse. Assottigliò le labbra e si lasciò cadere su un baule alla sua sinistra, scorgendo così il viso scavato e pallido del suo amico – Sherlock, se mai dovesse capitare di nuovo, di sentirti in quel modo, ti prego, chiamami. Sono tuo amico, e come tale ti posso proteggere, o almeno provarci… non ho mai avuto persone a cui confidare tutto quello che mi passava per la testa, nemmeno a Stanford ho raccontato tutto quello che invece ho detto a te. Ti posso considerare l’amico più stretto che ho. – sperava che il suo sguardo incrociasse quello del funambolo, e così accadde. 
Non era però uno sguardo leggero, limpido. Sherlock stava piangendo silenziosamente e i suoi occhi erano gonfi a causa delle lacrime. Si era commosso perché aveva capito di non essere più solo, che quella mano che si era posata sulla sua fronte la notte precedente era reale. Allo stesso tempo stringeva con le mani la coperta come se la paura che lo aveva sconvolto durante l’esibizione potesse tornare a prenderlo. John vedeva un bambino solo e al buio. Si alzò e abbracciò il suo amico, che continuò a piangere. 
 
 
___
 
 
Il circo si esibì per più serate consecutive, senza che Sherlock potesse partecipare, anche se le sue parole esprimevano tutto il suo disappunto riguardo quella situazione. John, che lo teneva d’occhio dalla sua branda, concordò con Mycroft che non sarebbe stato il caso di farlo salire sul cavo per un po’, e il direttore della compagnia, soprattutto lui, s’impuntò perché la loro decisione venisse rispettata. Aveva già assistito a episodi simili in passato, ma questa volta era accaduto a distanza di parecchio tempo rispetto alle precedenti, e il fisico del fratello ne aveva risentito per diversi giorni. Watson, che in altre occasioni si sarebbe schierato silenziosamente dalla parte del funambolo, insistette perché si riposasse e si lasciasse aiutare nelle situazioni più disparate. 
A Moriarty la situazione divertì parecchio: rideva al pensiero del giovane medico che girava freneticamente per l’accampamento in cerca di un bicchiere d’acqua o di chissà cosa. Tutti i componenti dell’Hound’s Wonders sapevano perfettamente che, quando voleva, Sherlock sapeva essere una prima donna peggiore di una ballerina della scala in attesa di salire sul palco per il primo spettacolo. In tutto questo, il presentatore stava comodamente seduto su un cassone ad immaginarsi Molly Hooper invasa dalla gelosia nei confronti di quel ragazzo piuttosto basso. Voleva esserci lei al suo posto, ma divertirsi torturando ancora quella povera fancuilla non era un’idea che lo allettava come all’inizio, anche se di questo era stata Irene a convincerlo. Inoltre, avevano altro cui pensare, come sistemare il discorso di presentazione ora che il loro formidabile funambolo era costretto dietro le quinte.
 
 
___
 
 
L’agente di polizia giunse finalmente alla cartoleria dopo aver chiesto indicazioni con la sola descrizione dell’insegna e dell’indirizzo. Il negozio era modesto, semplice, e ciò che saltava all’occhio era sicuramente quell’elefante rosso che incuteva un certo timore a causa della tinta scurissima degli occhi. La vetrina era allestita con quella poca merce di un certo valore che la cartoleria offriva, tra cui una stilografica, qualche quaderno rilegato in pelle di seconda mano, inchiostri di almeno quattro colori diversi, e un paio di piume. Lestrade si soffermò ben poco all’ingresso, e si chiuse la porta a vetri alle spalle con una certa velocità, quel pachiderma non lo faceva certo sorridere, e il suono di un campanello accompagnò tutti i movimenti del nuovo cliente. Benché la zona di Londra in cui la bottega si trovava era tra le più infelici, e la spoglia vetrina non aiutasse il grigiume dell’ambiente, il negozio era perfettamente ordinato e pulito, con diversi punti di colore che catturavano immediatamente l’attenzione. Un signore anziano ma particolarmente arzillo, quasi saltellava nel raggiungere il bancone, con un sorriso rilassato e due occhi vivi, rimpiccioliti da un paio di occhiali tondi e spessi. Era alto e snello, e Gregory si rese conto di sorridere a sua volta, forse rincuorato nel vedere una persona serena nel mezzo di tutta quella tensione che si trovava quotidianamente intorno. 
- Signore, questa è la mia modesta attività: cercate qualcosa in particolare, oppure qualche carta da lettera? – una voce comune, ma con un tono curato.
- A dire la verità, signore, avrei una richiesta molto particolare, ma temo che non abbia molto a che fare con un possibile acquisto… - il volto del proprietario espose un’espressione curiosa. Non era molto comune trovare un ragazzo così giovane e con un argomento insolito da trattare, avrebbe intrattenuto quel discorso volentieri. 
- Mi dica, mi dica. Cercherò di essere esauriente per quanto mi sarà possibile. – e così dicendo, allargò il sorriso e inclinò leggermente il capo verso sinistra. 
- Tempo fa ho ricevuto questa cartolina, - Lestrade estrasse dalla cartella di cuoio scuro una busta con tutte ciò che aveva raccolto per il caso da lui stesso definito “Trovare John Watson”. Con i nomi doveva ancora fare pratica – e mi pare che il luogo fotografato, non sia molto distante dal vostro negozio. Quindi mi sono recato qui per saperne di più. – a questo punto la cartolina era sul bancone di alburno di quercia. 
Il commerciante sistemò gli occhiali sul naso spingendoli verso gli occhi, e sollevò con cautela la fotografia – Questo posto è oltre questa via, e questa cartolina la vendo da molti anni. Sono veramente pochi i clienti che ne acquistano però, sa, tutta quest’agitazione per la guerra rende le persone meno propense a viaggiare, quindi questo genere di prodotti rimangono invenduti ultimamente. Ha bisogno di altro? – 
L’agente era davvero sollevato dalle parole dell’anziano: il negozio era quello giusto e poche persone acquistavano cartoline negli ultimi tempi; questo significava che tra quei pochi, c’era sicuramente la persona che stava cercando, cioè quella che gli aveva inviato quella seconda corrispondenza. In più, il proprietario era realmente disponibile – Registra le vendite, signor… -
- Bryan, il mio nome è Bryan. Non mi piace che mi si chiami per cognome e no, non sono solito registrare le vendite, a meno che non si tratti di oggetti di un certo valore, anche se il suo non mi sembra il caso. Però è difficile che dimentichi i clienti, sa, sono così pochi… - ovviamente Gregory non poté non pensare ad una sola soluzione: se avesse l’attività in qualsiasi altro punto della città sarebbe stato molto meglio. 
- Mi rende davvero un ragazzo fortunato, signor Bryan. – cominciò sorridendo – Si ricorda chi può aver acquistato questa cartolina? – sapeva di stare chiedendo parecchio, ma riponeva una certa speranza in quell’uomo, del tutto infondata. I suoi modi gli ispiravano fiducia. 
- Sono cose che dovrei tenere per me, ragazzo, ma non posso certo nascondere il fatto che questa sua “irruzione” – si aiutò con le dita per enfatizzare il termine – mi abbia migliorato non solo la giornata, ma anche l’intera settimana! Spesso capita che qui si fermino solo giovanotti in cerca di china, o di una boccetta d’inchiostro per il proprio padre, invece ho qui di fronte quello che mi pare essere un mistero, e non posso certo lasciare che il mio interesse scemi nella sola vendita di carta da regalo, le pare? – Lestrade scosse la testa lentamente – Quindi è questo che ricordo: una donna, giovane certo, avrà avuto meno di trent’anni, non molto alta per la statura che una donna dovrebbe avere, capelli neri raccolti sul capo. Era elegante, questo è certo, con una pelliccia scura. Non riesco a ricordare le scarpe, mi perdoni, ma alle mani aveva un paio di guanti di pelle neri. Uscì solo con questa cartolina, ma né l’avevo mai vista, né la rividi più. – 
- La ringrazio infinitamente, signore. Queste informazioni mi saranno sicuramente utili… se posso porle un’ultima domanda: quando è successo? – domandò sporgendosi impercettibilmente verso il suo interlocutore.
- Era inverno, Gennaio. Un freddo che gelava le strade. – 
-Grazie. Spero di non averla disturbata troppo, signor Bryan. Le auguro di poter accontentare qualche cliente in più. – e così dicendo, l’agente, dopo aver risistemato la fotografia nella busta e la busta nella cartella a tracolla, fece un passo verso la porta, prima che la sua attenzione fosse richiamata dalla voce del proprietario.
- Se posso… che cos’è successo con quella cartolina? – un tono decisamente educato, diverso da quello chiacchierone di qualche attimo prima. 
- È scomparso un ragazzo e questo pezzo di carta potrebbe aiutarmi a scovarlo. – Gregory sorrideva mostrando i denti, come non faceva da tempo. A questo punto, piegò la maniglia e uscì dal negozio pienamente soddisfatto.
Bryan lo aveva colpito positivamente, e di rado si trovavano persone così disponibili a parlare, soprattutto con la guerra che si muoveva verso l’Inghilterra a piena potenza. La gente era spaventata e si chiudeva nelle proprie abitazioni, conversando il meno possibile, e gettando un’occhiata sospetta so ogni sfortunato passante obbligato a sentirsi gli occhi di qualche abitante curarlo dalla finestra del secondo piano. Se quel commerciante non fosse esistito, qualcuno doveva inventarlo, a questo pensò Lestrade, sistemandosi la tracolla di cuoio alla bell’e meglio sulla spalla sinistra. 
 
___ 
 
 
Mycroft fece chiamare suo fratello nella propria tenda prima di cena. Non avevano ancora discusso di ciò che era successo, e un dialogo urgeva ad entrambi. Questa era una delle loro abitudini più fondate: quando accadeva qualcosa di grave o d’importante, questo qualcosa doveva essere condiviso, soprattutto se uno dei due era coinvolto personalmente. In questo caso era Sherlock ad essere stato coinvolto, e il maggiore dei fratelli Holmes non sapeva cosa aspettarsi dalla chiacchierata che stavano per affrontare.
Il funambolo entrò con una certa freddezza scostando il pesante tessuto che ricopriva la parte interna dell’ingresso e si sedette. Era solito tenere un atteggiamento distaccato, ma in quell’occasione faticava al solo pensiero di dover soppesare parole ed espressioni facciali con una certa minuzia. Stava molto meglio, fisicamente si era ristabilito, e quel pomeriggio aveva rimesso finalmente piede sul cavo senza che né John né lui lo vedessero, approfittando della pausa pranzo per infilarsi nel tendone e fare giusto una volta andata e ritorno con il pavimento a parecchi metri d’altezza.
Il “colloquio” iniziò con i loro classici convenevoli, e dopo poco il direttore della compagnia diede la battuta d’inizio a quella che, per il ragazzo dagli occhi celesti, non sarebbe stata una conversazione delle più piacevoli – Ora che è passato qualche giorno, vorresti spiegarmi che cosa ti ha portato a infilarti quel delizioso ago nel braccio? – cercava invano di nascondere quella preoccupazione che lo aveva da sempre accompagnato con un’ironia spicciola. Mycroft teneva a suo fratello, ma il problema che entrambi presentavano era il mostrare quest’affetto latente, sempre coperto da un velo d’indifferenza e apparente disinteresse. 
- Sai che da tempo non assumevo nulla, Mycroft. Questa volta però è successo qualcosa di diverso. Mentre ero sul cavo, durante l’esibizione, ho iniziato a tentennare, come se non mi risultasse più cosi semplice camminare. Mi sono distratto, e sai benissimo che non mi capita mai. – il suo viso era teso, e la sua volontà di mostrare espressioni apatiche restava stretta in quel groviglio di dita che continuava a muovere con impazienza e agitazione. Non gli piaceva starsene seduto su quelle scomode sedie di legno, troppo lontano dallo scrittoio per poterci poggiare le braccia, e per cui suo fratello aveva tanto insistito.
- Consapevole che non ti capita mai, perché questa volta sì? Deve essere accaduto qualcosa di grave. – lo fissava con sguardo serio, ma negl’occhi si intravedeva quel bisogno di sapere, di avere la situazione sotto controllo perché tutto potesse tornare al suo posto. 
Sherlock ricambiò lo sguardo di suo fratello con uno più prevedibile: aveva deciso che avrebbe raccontato tutto, senza omettere nulla. Aveva le pupille leggermente dilatate e le labbra in continuo movimento – Il pomeriggio mi stavo allenando come sempre prima di uno spettacolo. È entrato Moriarty, e dopo essersi accomodato in cavea ha cominciato a parlarmi, solo che non mi stuzzicava, non voleva la solita risposta acida da parte mia. Ha parlato di Andrew, Mycrfot. Mi ha chiesto se ne ero mai stato geloso, e io ho iniziato a sentire una strana sensazione. A quel punto ho accelerato per raggiungere la piazzola di sicurezza e lui stava uscendo. La sera avete sentito tutti la sua presentazione, no? Quella mi ha disturbato ancora, di nuovo. – aveva parlato velocemente, spostando gli occhi in diverse direzioni, incapace di mostrarsi tranquillo.
Dall’altro lato dello scrittoio, il direttore era rimasto a mani giunte sulla superficie di legno ascoltando il breve racconto del ricciolo. Da una parte c’era Jim che aveva smosso qualcosa, toccando un tasto dolente, probabilmente consapevole, almeno parzialmente, dell’effetto che avrebbe avuto sul ragazzo; dall’altra Sherlock, che non era riuscito a mantenere la concentrazione perché gli erano tornati alla mente i ricordi che aveva del suo maestro. In quel momento, Mycroft, era sinceramente tentato di commentare la fragilità emotiva che suo fratello aveva mostrato, rispetto ad altre situazioni che, dal canto suo, parevano peggio. Non lo fece. Se era arrivato a tal punto di assumere cocaina non si trattava sicuramente di una stupidaggine: il funambolo era intelligente, sveglio, e conosceva le sue potenzialità meglio di chiunque altro dentro a quella compagnia di artisti. Il dubbio che si fece rapidamente strada tra quei ragionamenti fu uno solo, e riguardava il loro presentatore. Era parte della troupe dai tempi in cui loro zio era direttore, e mai aveva contestato le decisioni di Mycroft, così come mai si era intromesso in affari che non lo riguardavano. Era bravo a svolgere il suo compito, e il massimo che era in grado di fare era usare le proprie capacità linguistiche al meglio, svelandosi un abile conversatore nei momenti in cui una buona chiacchierata era tutto ciò di cui si sentiva il bisogno. Possibile che Moriarty avesse parlato troppo? 
Ovviamente lo aveva fatto, ma il problema poteva essere Sherlock, magari non era al massimo della forma il giorno della prima. 
 
 
A qualche tenda di distanza, Moriarty stava discutendo con Irene.
 I due si conoscevano da anni e fu lo stesso presentatore a farla conoscere a Mycroft una volta entrato di ruolo come direttore. Entrambi lavoravano in ambito artistico, e la contorsionista non si era fatta ripetere la proposta una seconda volta: era stata invitata ad entrare nella compagnia, e in poche ore aveva lasciato il circo in cui lavorava per sollevare pensati valige e caricarle nel bagagliaio di un’automobile. Aveva avuto la fortuna di incontrare Jim qualche anno prima, e di ritrovarlo per un periodo di fermo degli spettacoli a Londra. La prima volta ebbe il piacere di ascoltarlo nella lettura in teatro di alcuni passi di “Moby Dick”. L’aveva colpita il modo in cui aveva ringhiato attraverso le minacce del capitano ad un uomo del suo equipaggio.
“- Ammazzare – esclamò Queequeg  contorcendo il volto tatuato in un’espressione di sovrumano disprezzo. – Ah! Lui pesce piccolissimo; Queequeg non ammazzare pesci così piccolissimi; Queequeg ammazzare grande balena! –
- Stai ben attento – ruggì il capitano, - io ammazzare te, cannibale che non sei altro, se fai un altro scherzo del genere qui a bordo. Perciò stai ben attento -” 
Poche battute, eppure efficaci. La sua espressione l’aveva colta alla sprovvista, ed ebbero modo di parlare e discutere delle proprie storie: il ragazzo era uno studente che passava parecchio del suo tempo a preparare serate teatrali o discorsi introduttivi alle compagnie che si esibivano sia in opere classiche, sia in altre più moderne. La signorina Adler, invece, proveniva da una famiglia di artisti di strada abbastanza conosciuta nel panorama dell’intrattenimento, ed era cresciuta come una di loro. Fin da bambina aveva frequentato gli amici dei genitori che le avevano insegnato come comportarsi di fronte al pubblico, come mantenersi allenata e tutto ciò che potesse rivelarsi utile nel suo futuro di circense. Un giorno trovò un ingaggio, e dopo poco entrò a far parte di una troupe di nuova formazione. Rincontrare Jim un anno dopo, che nel frattempo era stato notato da Holmes per la sua peculiare capacità linguistica, fu uno degli accadimenti più fortunati della sua giovane carriera, e fu accolta nell’Hound’s Wonders in brevissimo tempo anche grazie alla buona fama che Moriarty si era costruito tra i suoi compagni, che le si avvicinarono senza timidezza.
Era passato moltissimo tempo da quell’incontro, e il presentatore non aveva mai perso la sua passione per la lettura, così come quella per l’organizzazione e la zizzania. Amava alla follia disturbare le persone, infastidirle, danneggiarle in certi casi, e in Irene aveva trovato un ottima compagna. Era capitato raramente che fosse resa partecipe delle azioni vere e proprie, ma calcolavano insieme le mosse successive, le parole giuste. Lei non se lo aspettava, dal ragazzo perso nella recitazione, nello studio letterario: credeva di aver trovato un giovane con interessi lontani dalle scienze, buono e gentile. Ciò che accadde nei mesi successivi la sconvolse, in qualche modo, ma aveva deciso che Jim non era una così cattiva compagnia, e insieme a lui e alla sua esuberanza, si divertiva. Solo in un’occasione si era pentita, e ancora in quel periodo non poteva far altro che ripensarci e darsi della stupida, per non aver evitato quella tragica conclusione, per non averne colto i segnali.
Holmes era morto, o meglio, era stato ucciso. 
Doveva semplicemente allontanarsi da Londra, e così aveva fatto, eppure continuava a insistere, sul fatto che non aveva colpe, che potevano continuare a passarla liscia in tribunale, ma che prima o poi qualcuno avrebbe parlato, e loro avrebbero fatto una brutta fine. A quel punto Moriarty si era stancato, e mentre gli altri si erano già scordati di quei lunghissimi processi, Jim aveva dato l’ordine di premere in grilletto. 
Li aveva aiutati, consigliandoli su come far cadere tutte le accuse nei loro confronti, creando alibi e nascondendosi per non dover testimoniare. Tutto però, con la certezza che nessuno sarebbe morto alla fine di quella storia. Quando il presentatore era rientrato nella sua tenda con sguardo brillante e sorriso soddisfatto, aveva capito immediatamente che qualcosa era andato storto, ma i processi si erano conclusi, Holmes se n’era andato, i loro compagni di malefatte si erano dileguati. Cercò di dimenticare quell’espressione, ma non ci riuscì mai. 
- A cosa stai pensando? – si stava sistemando il nodo della cravatta davanti ad un piccolo specchio. Tra poco sarebbero usciti per la cena, e come sempre doveva essere impeccabile, o perlomeno, un gradino sopra gli altri.
- Nulla d’importante, stavo ricordando qualche stupida storia. – abbassò leggermente il volto restando seduta su un baule con le braccia incrociate sulle gambe accavallate.
- Speravo in qualche colpo di genio. – sorrise – Dici che una giacca possa servire? – 
- Se stai parlando di quella nera con i bottoni rossi allora sì, serve. – ricambiò il sorriso attraverso il riflesso dello specchio e si alzò in piedi, aspettando il presentatore che, recuperato l’indumento, la raggiunse. 
 
 
 
“To avoid complications
She never kept the same address
In conversation
She spoke just like a baroness
Met a man from China
Went down to Geisha Minah
Then again incidentally
If you're that way inclined
 
Perfume came naturally from Paris
For cars she couldn't care less
Fastidious and precise
 
She's a Killer Queen”
 
Queen – Killer Queen



 
Spazio (in)utile: ed è con questa canzone dei Queen che chiudo questo capitolo... strano? Sono la prima a dire che non mi convince per niente, ma piuttosto che lasciar perdere preferisco così. Irene si è ricordata di qualcosa d'importante nell'ultima parte, e credo possiate tratte da soli le vostre conclusioni, oppure farvi venire in mente qualcosa di nuovo. Sherlock e John sono lentissimi (ed è colpa mia I know, faccio tanta fatica con loro due), ma Watson si sta impegnando per entrambi, soprattutto ora che il funambolo non è proprio a posto. Lestrade lo vedo troppo come un baldo giovane super-educato con tutti, dopotutto, anche nella serie è difficile vederlo alterato (il massimo che fa è dare calci alle gomme dell'auto e schiacciare quasi Donovan nella portiera e noi ancora ci chiediamo perché non è andato fino in fondo). 
Ora, la solita solfa: la scuola ha già cominciato con la pressione (soprattutto "psicologica"), e io sono nata stanca. Tra una cosa e l'altra, questo capitolo l'ho scritto nel giro di due settimane, con una confusione in testa che proprio non mi serve in questo momento della narrazione, e sono veramente fuori fase. Se a tutto questo sommiamo gli allenamenti... beh, immagenate voi. So che ci sono situazioni peggiori di questa, so che ci sono persone che si impegnano a fondo pur di portare avanti un lavoro, una passione, ma lasciarvi dei capitoli di 1200 parole, inconcludenti, senza una buona caratterizzazione... proprio no. 
Ergo, l'idea è questa: stoppare, bloccare la pubblicazione settimanale fino a quando non ho pronto un capitolo lunghissimo e che chiuda una prima parte della storia. Al massimo dividerlo in varie parti quando arriverà il momento di postarlo, altrimenti niente, un mattone. 
Devo smetterla di fare queste digressioni che non interessano a nessuno. 
Vi chiedo scusa. Davvero. 

P.s. Se c'è qualcuno che volesse, senza imopegno, farmi da beta, VI MANDO UNA TORTA VI GIURO. 
P.p.s. ho aperto un account Wattpad (so che in tanti lo odiano, me compresa), e ho pubblicato una sorta di passatempo, se volete fare un salto: Arny_Haddok 

Adieu



 
 
 
 
 
 
 

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