I'm not a princess

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Into the Woods (Jess, Ariela, Belle) ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - You're Everything a Big Bad Wolf Could Want (Roxy, il Lupo) ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Her Looks Have Got No Parallel (Kate, Blanche, Jess, Belle) ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Poor, Unfortunate Souls (Ariela, Blanche, Jess) ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - I'm Not Red Riding Hood, But I Think the Wolves Have Got Me (Belle, Violet, Roxy, Ella) ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Into the Woods (Jess, Ariela, Belle) ***


Capitolo I
 
Into the Woods
 
(mattina di domenica 8 settembre)
 
 
I. [Jess]
 
La finestra della sua stanza alla Casa Famiglia Blue Lily era aperta, e quello che doveva essere l'ultimo sole dell'estate entrava prepotentemente dalle imposte spalancate. Le due scrivanie erano state ripulite, i due letti erano stati rifatti con lenzuola nuove dalle operatrici e sulla parete alle sue spalle era rimasto il segno del rettangolo in precedenza occupato dal poster di Taylor Swift.
La sua compagna di stanza da sei anni l'aveva salutata insieme alle altre ragazze dell'istituto il pomeriggio precedente, durante la noiosa festicciola organizzata dalla direttrice – come se effettivamente ci fosse stato qualcosa da festeggiare.
Jess aveva avuto il sospetto che tutti si aspettassero che lei avrebbe pianto. Lacrime di felicità, naturalmente. Invece, non le era scesa neanche una goccia per sbaglio. Sapeva, comunque, che l'isterismo ritardatario si sarebbe sfogato in tutto il suo fulgore quella notte, in casa di sua madre.
Il trolley verde acqua era sistemato orizzontalmente sul materasso accanto al suo borsone sportivo e a un vecchio peluche rosa a forma d'ippopotamo, con cui era arrivata per la prima volta alla Casa Famiglia. Jess era seduta accanto al suo bagaglio, una gamba penzoloni dal letto e l'altra sollevata in modo che la ragazza potesse abbracciare il proprio ginocchio.
Sbuffò.
L'orologio che portava al polso segnava le nove meno un quarto del mattino, e lei aveva fame. Non aveva toccato nulla durante l'incontro fra sua madre e la direttrice. Il solo pensiero di ingoiare un solo biscotto mentre Claire giocava a fare la smielata mamma perfetta insieme a quella strega della Pritchard e all'assistente sociale le faceva venir voglia di vomitare anche il polpettone di tre sere prima.
Nella mezz'ora seguente al colloquio aveva continuato a rimuginare e a ripercorrere mentalmente ogni tappa di quello strazio, chiedendosi se stesse davvero succedendo a lei. Aveva sognato il momento in cui avrebbe lasciato la Casa Famiglia sin dal primo attimo in cui ci aveva messo piede. Se l'era sempre immaginato come una partenza in grande stile, il giorno del suo diciottesimo compleanno, zaino in spalla e biglietto di sola andata per qualche metropoli – New York e Los Angeles erano le sue prime scelte, ma per iniziare le sarebbero andati bene anche Chicago, Buffalo o Philadelphia. Certo, il prosieguo del suo sogno ad occhi aperti era parecchio sfumato...Jess non aveva ancora ben pianificato cosa avrebbe fatto dopo la sua pseudo fuga. Probabilmente si sarebbe trovata un posto come cameriera in qualche fast-food e avrebbe messo da parte i soldi necessari per affittarsi un piccolo monolocale da qualche parte – i primi tempi se la sarebbe cavata benissimo dormendo in un motel, d'altronde l'aveva fatto per otto anni consecutivi – e intanto avrebbe partecipato a un provino dietro l'altro per ottenere una parte in qualche spettacolo teatrale, finché non l'avessero presa e da allora la sua strada verso il palcoscenico di Broadway sarebbe stata tutta spianata e in discesa.
E invece no.
La donna che l'aveva mollata all'istituto e che non si sarebbe aspettata di rivedere mai più aveva pensato bene di fare la sua ricomparsa proprio ora che si era messa il cuore in pace, e di riportarla a casa.
Jess si riscosse quando sentì bussare contro lo stipite della porta aperta. Sollevò lo sguardo sulla donna rotondetta e bassa di statura che le sorrideva sulla soglia. Magda, l'assistente sociale che aveva seguito il suo caso per sei anni, la guardava con un misto di commozione e tenerezza.
- Sei pronta?
- Sì. Scendo fra un minuto.
- Non far aspettare tua madre. Ne abbiamo già parlato. So che adesso ti sembra strano, ma vedrai che fra un mese sarai felice di essere tornata a casa.
Jess evitò di dirle che si stava sbagliando di grosso. Le regalò un sorriso tirato per rassicurarla, e attese che se ne andasse prima di sprofondare di nuovo nel suo rimuginare.
Nessuno là dentro era seriamente convinto che la cosa potesse funzionare. Nemmeno quella vecchia stronza della direttrice Pritchard lo era, e quella era in assoluto la prima volta in sei anni che Jess si trovava d'accordo con lei.
Magda, invece, era stata convinta che le cose sarebbero andate in quella direzione sin dal momento in cui aveva preso fra le mani il fascicolo dedicato al suo caso. Jess se lo ricordava ancora, lei era il caso 27. La prima cosa che Magda le aveva detto era stata “stai tranquilla, la mamma tornerà a prenderti quando sarà guarita”.
Jess le aveva urlato in faccia di rimando che lei, sua madre, non la voleva più vedere. Ed era stata accontentata per i sei anni successivi.
Quando, sei mesi prima, la direttrice l'aveva convocata nella sala degli incontri dell'istituto, Jess quasi non l'aveva riconosciuta.
Sentì che dei passi si stavano avvicinando alla sua stanza lungo il corridoio deserto e, pensando che si trattasse di Magda venuta a chiamarla per la seconda volta, si affrettò ad alzarsi in piedi e raccogliere il suo bagaglio per non farsi ripetere di scendere. Mentre si metteva il borsone a tracolla, guardò l'ippopotamo rosa che aveva lasciato sul materasso. Fu tentata di abbandonarlo lì, a lei non serviva più e alla peggio gli educatori l'avrebbero regalato a qualche ospite più piccola della Casa Famiglia. Stava veramente per farlo, quando una strana sensazione l'assalì e tornò indietro di volata un attimo prima di varcare la soglia della porta.
Recuperò l'ippopotamo rosa, se lo strinse al petto per non che cadesse e uscì.
Come previsto, incontrò Magda in corridoio, e la donna insistette per accompagnarla fino in cortile. Jess non disse una parola per tutto il tragitto. La camminata lungo il miglio verde venne accompagnata dalle altre ospiti dell'istituto che si affacciavano alle porte delle loro stanze per vederla andare via. Era un evento, la partenza di una ospite, soprattutto se non si trattava di una neo-maggiorenne che era costretta a lasciare la Casa Famiglia perché aveva superato l'età massima per stare là dentro; erano rari i casi in cui i genitori venivano a riprendersi una figlia.
A maggior ragione, la partenza di Jess era vista con ancora più interesse perché circa sei mesi prima un'altra ragazza, Irene, aveva lasciato la Casa Famiglia dopo essere stata adottata.
Le ragazze più grandi parlottavano fra loro, mentre le più piccole o la guardavano di sottecchi o la salutavano agitando la mano. Jess non badò a nessuna di loro.
Il sole mattutino le fece bruciare gli occhi quando finalmente uscirono in giardino. La direttrice Pritchard era in piedi, dritta e impettita come al suo solito, a pochi metri da una vecchia Honda che aveva conosciuto giorni migliori. Jess venne assalita dal ricordo di quella volta in cui, quando lei aveva sei anni, sua madre si era messa al volante di quella stessa auto ubriaca e avevano colpito in pieno un palo della luce con il fanale anteriore destro. Cercò con lo sguardo l'ammaccamento di quella botta, ma non lo trovò più.
C'era un'altra donna accanto alla Pritchard, appoggiata alla portiera della Honda. Quando vide Jess e l'assistente sociale uscire dall'istituto, si rimise in piedi velocemente, aggiustandosi le pieghe del tailleur grigio e abbozzando un sorriso.
- Ciao, tesoro...- salutò, l'entusiasmo subito smorzato dall'espressione imbronciata di Jess. La ragazza non la degnò di una risposta ed evitò di guardarla mentre apriva la portiera e s'infilava nel sedile del passeggero. Claire Woods prese dalle mani di Magda il borsone e il trolley e li sistemò nel baule della Honda.
- Allora...- si ravvivò i capelli, rivolgendosi ora alla direttrice ora all'assistente sociale.- Grazie di tutto...
La Pritchard non le rispose. Magda, invece, le rivolse un piccolo sorriso.
- Si figuri, signora Woods. Ci vediamo il 10 ottobre per la prima supervisione con lei e con Jessica...
- D'accordo. Allora...la aspettiamo, vero, tesoro?- guardò ancora Jess, la quale non rispose.
Magda strinse la mano a Claire, salutò Jess e seguì la direttrice all'interno dell'edificio.
Claire montò in macchina e afferrò il volante con entrambe le mani.
- Si parte!- annunciò con entusiasmo forzato.- Sarà un bel viaggetto. Everbrooke dista da qui circa un paio d'ore. Casa nostra è a soli venti minuti dal centro della città, te l'ho detto?
Jess continuò a fissare il cruscotto di fronte a sé, e scosse il capo in segno di diniego.
- Venti minuti di metro e sei lì. E dista solo mezz'ora di autobus dalla tua scuola, ed è vicinissima a casa della nonna. E' una bella fortuna, no?
Jess non rispose. Claire la guardò per qualche istante, pensierosa, poi mise in moto e partì.
 
Il viaggio dalla Casa Famiglia Blue Lily a Everbrooke fu lungo, lento e straziante. Jess – che dopo i primi dieci minuti di tragitto aveva piantato i piedi sul cruscotto – si era imposta di fare come si era ripromessa e aveva partecipato il meno possibile alla conversazione che sua madre aveva tenuto da sola. Claire aveva continuato a sproloquiare di fesserie come il suo nuovo lavoro, la camera da letto che aveva preparato solo per lei, della salute della nonna e di come la sua testardaggine non le avesse fatto acconsentire di trasferirsi presso casa loro in via definitiva.
- Conosci tua nonna, sai che quando ci si mette sa essere cocciuta come un mulo. Ha voluto restare a casa sua, però sono riuscita a convincerla ad assumere una badante e lei ha fatto meno storie del previsto. Siamo state fortunate, abbiamo trovato al primo colpo una ragazza veramente meravigliosa. Si chiama Ella Radescu, viene da Bucarest, ed è molto giovane, sai? Credo che non abbia più di vent'anni...vive con la nonna cinque giorni su sette, e io e lo zio ci dividiamo le spese. Ah, non te l'ho detto? Lo zio fra un paio di settimane si trasferisce a Everbrooke...
- Ma non abitava a Darwin?- Jess decise che poteva permettersi uno strappo alla regola per chiarire meglio quella questione. La nonna non le parlava spesso dello zio, quando veniva a trovarla alla Casa Famiglia – la sua ultima visita risaliva a due anni fa, prima che la sua salute le imponesse di non intraprendere più viaggi così lunghi, ma le telefonava quasi ogni giorno. Anzi, Jess ricordava vagamente che la nonna avesse menzionato il suo secondogenito solo due o tre volte, e quando lei aveva non più di dieci anni. Jess sapeva che suo zio si era trasferito in Australia per una borsa di studio come ricercatore presso la facoltà di Biologia Marina all'Università di Sydney, e che ora viveva da qualche parte vicino a Darwin.
Claire annuì con decisione.
- Lavorava all'acquario di Darwin come biologo e veterinario. Poi ha saputo che la nonna stava poco bene e che tu stavi per tornare, così ha deciso di prendersi un anno sabbatico e un po' di ferie in arretrato per lavorare qui all'acquario di Everbrooke, così ci può stare vicino.
- Beh, mi spiace di avergli scombinato la vita...
- Ma che dici?! E' stata una decisione spontanea, la sua, e poi aveva voglia di rivederti...ti ricordi di zio Erik, vero?
- No.
Tutto ciò che Jess ricordava di lui erano le sue gambe. Un paio di gambe fasciate in jeans strappati e stivali marroni che facevano il paio con quelle nude e scalze di Claire mentre litigavano furiosamente sulla soglia della stanza di uno squallido motel alla periferia di San Francisco. Jess aveva tre anni e stava giocando con alcuni cubetti di legno sul pavimento. Ricordava solo le urla di suo zio e la voce impastata e strascicata di sua madre.
Era il periodo appena successivo a quando Claire era scappata di casa portandosi via sua figlia e avevano girato mezzi Stati Uniti come due vagabonde, dormendo dove capitava e vivendo dei lavoretti saltuari che Claire otteneva e perdeva con la facilità con cui cambiava un fazzoletto di carta. La maggior parte dei soldi se ne andava in tequila o eroina. Col senno di poi, Jess aveva intuito che molto probabilmente Erik Woods si trovava in quel motel dopo averle cercate per mesi e infine ritrovate, e che sempre molto probabilmente era venuto lì per riportarle a casa.
Jess ricordava anche che aveva cercato di prenderla in braccio per portarla via con sé. Ma poi Claire si era messa a strillare e a picchiarlo, e Jess stessa aveva iniziato a piangere dicendo di voler rimanere con la mamma.
Avrebbe fatto meglio ad andarsene via con lui.
Claire parve spiazzata dalla risposta.
- Oh, beh...sì, in effetti è normale, avevi tre anni l'ultima volta che...- si bloccò, evidentemente anche lei presa alla sprovvista dal medesimo ricordo.- Comunque, vedrai che ti piacerà. E' un tipo simpatico. Sai, ha solo ventotto anni ed è già...
- Sì, la nonna mi ha detto tutto - tagliò corto Jess. In realtà la nonna non le aveva detto mai niente di eccessivamente specifico sul conto di suo zio. Jess aveva però sempre compreso che doveva trattarsi di un mezzo genio, che aveva completato tutti i percorsi di studi in tempo record, laureandosi a ventun'anni in Veterinaria e a ventiquattro in Biologia Marina, che aveva ottenuto un dottorato e che, insomma, era uno tutto lavoro e studio. C'era da chiedersi come facessero lui e Claire a essere parenti.
Jess decise che non aveva più voglia di ascoltare le chiacchiere di sua madre, così si mise le auricolari e accese l'I-Pod. Il gesto scoraggiò qualsiasi tentativo di continuare da parte di Claire, e il viaggio proseguì in silenzio fino a quando non arrivarono a Everbrooke.
Fu solo quando vide il cartello che dava loro il benvenuto in città che Jess si decise a mettere a tacere Taylor Swift e a prestare più attenzione a ciò che la circondava. Non ricordava quasi niente di Everbrooke: ci aveva vissuto fino a tre anni, e si sa che tutti i ricordi di quel periodo della vita se ne andavano in fumo, e poi per un paio di mesi a otto anni, prima di venire portata alla Casa Famiglia, e anche in quel periodo era sempre stata in casa, con la sola compagnia della nonna e con Claire che non si alzava dal letto per tutto il giorno. Ricordava solo vagamente un parco giochi vicino a una gelateria in cui ogni tanto la nonna la portava a fare merenda, ma chissà se esisteva più.
Jess provò a cercarlo con lo sguardo, per poi accorgersi di ciò che stava facendo e smetterla immediatamente. Non voleva avere niente a che fare con quella città, dal momento che nella peggiore delle ipotesi ci sarebbe dovuta rimanere solo quattro anni prima di levare le tende e partire per New York.
Anzi, se fosse stata fortunata si sarebbe trattato solo di un anno. O sei mesi. Forse anche meno.
Quelli dell'istituto e il tribunale minorile non erano stati tanto fuori di testa da affidare di nuovo la figlia a una squilibrata che l'aveva piantata in asso come un pacco postale e si era dimenticata di lei per sei anni. Il giudice era stato più che chiaro su quel punto: Claire Woods aveva una seconda possibilità, ovvero quella di riportarsi a casa sua figlia per un anno intero e vedere se le cose avrebbero funzionato o no. Una volta al mese, Magda sarebbe venuta a casa sua per un controllo di supervisione e avrebbe scritto una relazione mensile che avrebbe consegnato al tribunale come resoconto della situazione. Alla fine dell'anno di prova, se tutto fosse filato liscio, Claire avrebbe riacquistato la patria potestà su sua figlia e le due sarebbero potute tornare a vivere insieme senza problemi o ulteriori interferenze.
Ma valeva anche il contrario.
Jess aveva sorriso di soddisfazione quando la Pritchard aveva freddato l'entusiasmo di sua madre dicendole che qualora la situazione fosse apparsa grave o sospetta, Magda aveva la facoltà di portare via seduta stante Jessica da casa sua.
Aveva sorriso perché era sicura che sarebbe andata esattamente così. Prima o poi, Magda sarebbe venuta da loro e avrebbe trovato la casa in un gran bordello, Claire ubriaca e addormentata nel suo stesso vomito e lei, Jess, seduta sul divano e con le valigie già pronte per fare ritorno all'istituto.
Sua madre aveva provato fin troppe volte a disintossicarsi, di sicuro questa non sarebbe stata quella buona. Claire era un caso disperato, e lo sapevano tutti. Poco importava se per il momento fosse sobria e si fosse data una ripulita.
Jess le scoccò un'occhiata di sottecchi. Non sembrava più neanche sua madre, quella donna.
Claire aveva trentadue anni – aveva avuto sua figlia a diciotto – e sarebbe stata ancora una bella donna se le sue occhiaie troppo marcate e il suo incarnato smunto non avessero rivelato i suoi trascorsi da alcolista e cocainomane. Era alta e robusta, con gli occhi grandi e scuri e i capelli biondi e lisci tagliati corti e acconciati in un caschetto – Jess riusciva a sentire il profumo di lacca a significare che doveva essere stata dal parrucchiere apposta per quell'occasione. Jess non si ritrovava con tutto questo: l'ultima volta che aveva visto sua madre aveva i capelli più lunghi e pettinati a rasta, con le punte tinte di rosa fucsia, il trucco nero e pesante e il rossetto vermiglio sbavato. Era sempre poco vestita, perennemente in shorts, calze a rete e magliette che lasciavano scoperto l'ombelico su cui faceva capolino un piercing. Anche i lobi delle sue orecchie erano pieni di piercing e orecchini, e Jess ricordava vagamente che avesse un tatuaggio a forma di geco su una scapola e un altro con il nome completo di sua figlia sul dorso della mano destra.
Jess osservò senza farsi notare quella donna senza neanche un filo di trucco, elegantissima nel tailleur grigio perla con la gonna perfettamente stirata e le scarpe con i tacchi alti di vernice lucida. Non trovò nessuna traccia del tatuaggio con il geco che spuntasse dalla scollatura della giacchetta, ma intravide la C e la A del nome Jessica che facevano capolino oltre la manica.
Non si somigliavano per niente, constatò Jess. Lei somigliava a suo padre; o almeno, supponeva di somigliargli, dato che era diversissima da Claire, anche se non poteva dirlo con certezza dato che non lo aveva mai conosciuto. Claire era rimasta incinta a diciassette anni e nessuno aveva mai saputo chi fosse il padre di sua figlia. Di fatto, nessuno se ne era mai preso la responsabilità. Jess era giunta alla conclusione che dovesse trattarsi di un poco di buono, magari uno di quei bulli teppistelli che andavano in giro a sfasciare le auto altrui, oppure – perché no? – un professore che aveva avuto una storia con una sua studentessa.
Sua madre non aveva mai detto chi fosse il mascalzone in questione. Ma a questo mascalzone, probabilmente, Jess doveva somigliarci: era piccola di statura e non sarebbe cresciuta oltre il suo metro e sessantadue, era rotondetta e aveva un viso ovale e abbastanza grazioso, gli occhi azzurri, le labbra a cuore, il naso all'insù e una cascata di capelli mossi color castano chiaro.
Claire, visto che sua figlia si era tolta le auricolari, aveva ripreso a chiacchierare a ruota libera di Everbrooke, di quanto fosse un bel posto e di quanto le sarebbe piaciuto. Aveva guidato a velocità più o meno costante da quando erano entrate in città, ma a un certo punto rallentò fino a fermarsi nel bel mezzo della corsia.
Davanti a loro un vigile urbano stava bloccando l'esiguo traffico per lasciar passare un corteo funebre. Jess vide il feretro avanzare lentamente seguito da tre persone in abiti scuri – due donne con addosso degli occhiali da sole, entrambe pallide e vestite di nero, tutt'e due con i capelli corvini, ma una di loro doveva avere quarant'anni, mentre l'altra non ne dimostrava più di venti; la donna più matura si sorreggeva al braccio di un giovanotto all'incirca venticinquenne o poco più, quest'ultimo senza occhiali da sole, gli occhi cerchiati e l'espressione contrita.
Dietro di loro seguiva una massa di gente ad accompagnare il feretro.
Jess non si lasciò sfuggire l'occasione.
- Oh! Anche gli abitanti di Everbrooke muoiono?- ghignò.
Sua madre non raccolse la provocazione. Si fece il segno della croce.
- E' il funerale di Amos Schreave.
- Chi era? Lo conoscevi?- inquisì la ragazza.
- Non di persona, ma era un uomo molto noto qui in città. Era il proprietario della Schreave Inc., ne avrai sentito parlare, immagino...
- L'azienda di cosmetici?
- Proprio così. La sede principale è qui a Everbrooke. Pover'uomo, aveva già perso la prima moglie e un figlio...una vera tragedia...- Claire si fece di nuovo il segno della croce. Jess pensò che questo atteggiamento fosse l'ipocrisia allo stato puro, da una persona che aveva sempre sentito imprecare e bestemmiare come un'eretica.
Il corteo funebre passò, e Claire ripartì.
Jess cominciò a guardarsi intorno ostentando scarso interesse. In realtà, cercava di accumulare più informazioni possibili su quel posto. Claire le disse che Everbrooke era essenzialmente una città universitaria, c'era un acquario, un bel po' di café e tavole calde, un solo locale notturno, una spiaggia e un luna park che però restava aperto solo fino alla fine d'autunno.
- Stai cercando qualcuno, tesoro?- domandò a un certo punto Claire, accortasi che sua figlia stava cercando di sbirciare all'interno di un bar.
- No - rispose Jess, brusca, smettendo di guardare.
In realtà, le era appena tornato alla mente che la ragazza dell'istituto che era stata adottata un anno prima, Irene Andrews, le aveva detto che si sarebbe trasferita con la sua nuova famiglia proprio lì a Everbrooke. Jess non aveva mai avuto una vera e propria amica alla Blue Lily, e nemmeno Irene a dire il vero lo era, ma si trattava di una delle persone con cui chiacchierava di più. Era una tipa okay, anche se un po' strana. Non negava che non le sarebbe dispiaciuto rivederla; per lo meno, avrebbe avuto un volto conosciuto a cui far riferimento, oltre alla nonna.
- Eccoci qua! Siamo arrivate...- annunciò Claire, raggiante, rallentando fino ad affiancare un'abitazione alla periferia sud di Everbrooke. Jess abbassò il finestrino. Era una casa interamente costruita su un piano e senza giardino. Era bianca con il soffitto dalle tegole blu scuro, molto ben tenuta nonostante in alcuni angoli la vernice fosse scrostata.
Claire parcheggiò e scese dall'auto. Fece per aiutare Jess a prendere le valigie, ma sua figlia la batté sul tempo.
- Riesco da sola...- bofonchiò. Claire guardò brevemente l'ippopotamo rosa, poi la precedette e infilò le chiavi nella serratura della porta. Entrò in casa senza aspettarla e socchiuse la porta.
Jess dovette aprirla con una spallata.
- Bentornata!
Ciò che l'accolse fu un coro a tre voci e una manciata di coriandoli e festoni. Jess ridacchiò e lasciò cadere il trolley e il resto del bagaglio. Aveva riconosciuto la voce della nonna.
Lucy Woods, sua figlia Claire, e una ragazza che Jess non aveva mai visto erano schierate intorno al tavolo della cucina, su cui erano stati posti dei piatti e delle posate, bicchieri di plastica, bibite e una grande torta di mele al centro.
Jess corse ad abbracciare sua nonna, e fu solo in quel momento che si rese conto che non era seduta su una seggiola normale, bensì su una sedia a rotelle.
- Sono così contenta che tu sia a casa!- Lucy la strinse così forte da farle male.
Jess si scostò una ciocca castana dietro l'orecchio.
- Nonna, ma...ma sei su una sedia a rotelle...?- boccheggiò; non le aveva accennato nulla di simile durante nessuna delle sue telefonate, e due anni prima, quando l'aveva vista per l'ultima volta, camminava da sola dritta e impettita come un fuso.
Jess la trovò parecchio cambiata: sua nonna aveva solo sessantasette anni, ma aveva i capelli bianchi e non più grigi come al loro ultimo incontro, era più magra e sembrava più vecchia e più stanca.
Lucy Woods fece una smorfia e alzò gli occhi al cielo.
- Già. Così vogliono le mie due carceriere...- accennò a sua figlia e all'altra ragazza.- Allora, sei contenta di essere a casa? Avrebbe dovuto esserci anche tuo zio, ma mi ha telefonato tre ore fa da Sydney e mi ha detto che l'aereo era in ritardo...
- Tre ore fa, mamma? Mi aveva detto che sarebbe arrivato fra un paio di settimane...- fece Claire, perplessa. Lucy alzò le spalle.
- Ha anticipato, che vuoi che ti dica. Sai com'è fatto tuo fratello. Jess, fammi la cortesia, prendimi una sigaretta nella borsa, ho voglia di fumare prima di metterci a tavola...
- Non ci sono le sigarette, signora Lucy - mormorò la ragazza sconosciuta, in piedi a pochi centimetri dalla sedia a rotelle.
- Come no?! Ti avevo detto di comprarle...
- Il medico ha detto che deve cercare di smettere.
- Ha ragione, mamma - soggiunse Claire.
Lucy sbuffò, facendo un gesto con la mano come a volerle mandare entrambe al diavolo.
- E' da due anni che dico che sei troppo efficiente. Jess, ti presento Ella - la nonna indicò la ragazza sconosciuta. Era alta e in carne, con una cascata di capelli mossi color castano chiaro che le ricadeva sulla schiena, sulle spalle e sul petto, nascondendole un poco il viso. Non si poteva dire che fosse bella: il volto aveva una forma leggermente allungata, il mento appuntito e gli zigomi troppo alti, il naso aquilino e nonostante fosse giovane – non doveva avere più di vent'anni – sembrava già una trentenne. L'unica cosa graziosa erano gli occhi, scuri, luminosi e penetranti, anche se troppo piccoli per il suo volto.- E' la mia badante. O carceriera, come la chiamo io.
- Ella è molto brava - disse sua madre.- Si prende cura della nonna molto bene.
- Anche troppo!- ridacchiò Lucy Woods. Jess strinse con poco entusiasmo la mano che Ella le porgeva. Aveva un'espressione imbambolata, sembrava addirittura poco intelligente. Indossava dei jeans sformati, troppo grandi per lei, e un maglione bianco.
- E ora, prima di metterci a tavola, ho un regalo per te...- Lucy tornò a rivolgersi alla nipote. Chiese a Ella di prenderle una borsa di plastica sistemata in un angolo. Jess guardò quella ragazzona caracollare goffamente nella sua direzione e poi porgere la borsa alla nonna. Lucy la porse a Jess.
Sorrise soddisfatta quando vide lo sguardo della ragazza illuminarsi.
Dentro alla borsa c'era una mantella di tessuto rosso fuoco, con la cerniera nera come quella delle due tasche ai lati dei fianchi, lunga fino alle ginocchia e con il cappuccio.
- L'ho vista l'altro giorno esposta nella vetrina di un negozio mentre ero a passeggio con Ella. Il rosso è ancora il tuo colore preferito?
Jess annuì saltellando per la contentezza e abbracciò sua nonna.
- Grazie, grazie, grazie! La posso provare?
- Certo! Così ti mostro anche la tua stanza...- Claire si affrettò a raccogliere le valigie da terra e a fare cenno a sua figlia di seguirla.- Vedrai, ti piacerà un mondo. L'ho preparata apposta per te...Ella, per favore, fai scaldare le cialde? Vieni, tesoro, da questa parte...
La casa non era molto grande, come aveva immaginato. La cucina comunicava direttamente con un salotto sparuto e arredato solo con due divani color lavanda, un tavolino di legno scuro che Jess ricordava vagamente aver visto a casa della nonna quando era piccola e una vecchia televisione. A sinistra della cucina si apriva uno stretto corridoio che dava accesso a tre porte: Claire gliele indicò come la propria camera da letto, il bagno e la sua stanza.
Quest'ultima era stata arredata in modo del tutto impersonale. C'era un letto a due piazze, e questa fu una delle poche cose positive che Jess vi trovò. I cuscini erano bianchi e colorati, i muri spogli fatta eccezione per qualche mensola spoglia. Alla destra del letto era sistemata una libreria su cui non era stato messo nulla, mentre alla sua sinistra c'erano un comodino con una lampada anonima e vicino alla finestra vi era uno specchio che ritraeva la figura intera di chi vi si rifletteva. Sulla parete opposta al letto, accanto allo specchio, c'era un vecchio armadio a due ante marrone scuro – anche quello Jess ebbe la sensazione di averlo visto da piccola a casa della nonna.
Claire aprì le ante di quest'ultimo e iniziò a trasferire gli abiti della figlia dal trolley a esso.
- Ti...ti ho comprato dei vestiti...- mormorò. Jess degnò solo di una rapida e distratta occhiata i completi che le aveva preso sua madre – fra cui spiccava una salopette in jeans e un vestito a fiori con la gonna al ginocchio – pensando che erano tutta roba di seconda mano e per di più adatta a una bambina piccola, invece che a una quattordicenne.- Spero che ti piacciano...credo che ti vadano giusti, magari più tardi potresti provarli...ho ancora lo scontrino del negozio, se non ti piacciono o non ti vanno ho tempo fino al mese prossimo per cambiarli...anzi, magari potremmo andarci insieme, che ne dici? Ti piace fare shopping? So che a molte ragazze piace...
Jess la ignorò. Si piazzò di fronte allo specchio e infilò la mantella rossa che le aveva regalato la nonna. Tirò anche su il cappuccio. Le stava bene, dovette convenire, non era troppo stretta ma neanche sformata, e il rosso le donava.
Fece un giro su se stessa per guardarsi meglio nello specchio.
Claire batté le mani.
- Ti sta benissimo! Magari potresti indossarla domani per il primo giorno di scuola...
La frase arrivò come una doccia fredda.
- Come?
- Domani. E' il primo giorno di scuola. Te ne eri dimenticata?
Sì, se n'era completamente scordata. Jess si umettò le labbra.
- Sì, giusto. Il primo giorno di scuola, sì.
- Ti ho già iscritta alla Everbrooke High School. L'ho frequentata anch'io alla tua età, sai? E' davvero un bel posto, i ragazzi sono simpatici, sono sicura che non avrai problemi a farti degli amici...
- Okay, grazie, mamma. Se vuoi puoi andare, io mi cambio e arrivo.
- Sei sicura? Ti do una mano a disfare le valigie, così facciamo prima...
- No, grazie - il tono di voce di Jess assunse una sfumatura secca e infastidita.- Faccio da sola. Cinque minuti e arrivo, vai pure.
- O-okay...- Claire parve ferita e delusa da quella risposta, ma Jess decise che non era un suo problema. Lei non si era mai preoccupata del fatto che sua figlia di otto anni si fosse sentita ferita e delusa per essere stata mollata in un accidenti d'istituto.
Claire le rivolse l'ennesimo sorriso forzato e si avviò verso la porta senza smettere di guardarla, camminando all'indietro, e rischiando per un pelo di urtare l'armadio.
- Comunque, puoi sistemare tutto come vuoi...- accennò alla libreria vuota e alle mensole.- Se ti serve altro, dillo senza problemi. Ho anche lasciato un po' di spazio sui muri, sai, se vuoi appendere qualche quadro, o poster...
- Ho capito. Grazie.
- Mi raccomando, non fare tardi che si raffredda...
Claire richiuse la porta con una lentezza snervante, e solo quando udì lo schiocco della serratura Jess si concesse il lusso di tirare il fiato.
Tornò a guardarsi allo specchio. L'entusiasmo per la mantella nuova era già scemato, e Jess stava cercando di controllare il nervosismo. Era chiaro che sua madre progettava di tenerla lì con sé per parecchio tempo, come se fosse già sicura che avrebbe riottenuto la patria potestà.
Si sbagliava. Oh, se si sbagliava.
 
II. [Ariela]
 
La voce della hostess annunciò attraverso l'altoparlante che fra pochi minuti l'aereo sarebbe atterrato all'Aeroporto Internazionale John. F. Kennedy di New York. Il dottor Erik Woods arrancò fuori dal bagno reggendo fra le mani la propria giacca di pelle marroncina e la camicia che aveva addosso quando era partito da Darwin e su cui ora, per gentile concessione della sbadataggine di una hostess alle prime armi, faceva bella mostra una chiazza di caffé che l'aveva anche ustionato talmente era bollente.
Ovviamente l'intera compagnia aerea si era scusata a nome suo, e lui aveva trascorso un quarto d'ora chiuso in bagno a cambiarsi. Ora aveva addosso una maglia bianca di lino che gli stava troppo stretta e che aveva messo in valigia solo perché piaceva a sua madre.
Si fece strada fra le due file di sedili, scansando una hostess che conduceva un carrello di bibite e viveri e un altro passeggero che aveva anche lui bisogno del bagno. Raggiunse il suo posto e la signorina che aveva trascorso la maggior parte del viaggio seduta accanto a lui – e che non aveva mai spiccicato parola – spostò le gambe di lato per farlo passare.
- Grazie...- soffiò il dottor Woods, lasciandosi cadere pesantemente sul sedile accanto a lei. Le rivolse un sorrisetto imbarazzato mentre aggrovigliava la camicia sporca nel suo zaino da viaggio.
La signorina ricambiò il sorriso, un po' incerta.
- La ringrazio per aver controllato la mia roba - disse Erik.- E' stata molto gentile.
La signorina continuava a sorridere, ma non rispose.
Era salita a bordo durante lo scalo a Parigi, e nelle restanti dodici ore di volo – in tutto erano ventitré – il dottor Woods aveva avuto modo di osservarla bene. Non era una gran bellezza, anzi, era troppo magrolina e aveva la vita troppo stretta per i suoi gusti, ma alcuni avrebbero potuto definirla carina. Aveva un viso infantile circondato da una chioma di capelli color rosso fuoco, che le arrivava fino alle spalle ma che lei per tutto il viaggio non aveva fatto altro che torturare attorcigliandosi le ciocche intorno alle dita magre o allacciandoli e sciogliendoli in disparate acconciature – una coda di cavallo, poi sciolti, poi uno chignon, una crocchia, una treccia malfatta, poi ancora sciolti e dopo ancora raccolti in uno chignon.
Aveva la pelle chiarissima e le lentiggini, come di solito era caratteristico delle persone con i capelli rossi, e gli occhi color nocciola. Le labbra erano sottili e quando sorrideva si poteva vedere chiaramente che uno spazietto di vuoto le separava i due denti davanti. Da seduta era difficile dirlo, ma sembrava abbastanza alta e slanciata. Aveva le braccia piene di bracciali colorati e una collana con un pendaglio a forma di piuma verde e fucsia. Indossava un top arancione sopra una gonna bianca appena sopra al ginocchio, e delle ballerine. Erik aveva pensato che dovesse essere in vacanza, ma non aveva avuto la faccia tosta di chiederglielo, né peraltro di domandarle da dove venisse o dove fosse diretta.
Aveva trascorso più della metà delle ventitré ore di viaggio a rimuginare su sua sorella, sua madre e sua nipote, e l'altra metà a lambiccarsi il cervello sulla quantità di roba che avrebbe dovuto fare una volta arrivato a Everbrooke. E tanto per andare bene, la paura per il volo che l'aveva attanagliato la prima volta che aveva preso l'aereo per studiare in Australia non l'aveva abbandonato.
Quando il sedile aveva tremato durante il decollo da Parigi, si era aggrappato con entrambe le mani ai braccioli e aveva trattenuto il fiato. La ragazza vicino a lui si era tappata la bocca con una mano e si era voltata dall'altra parte per non che lui la vedesse ridere.
Inutile dire che, ora che stavano per atterrare, almeno uno dei suoi problemi stava per risolversi.
Era persino di buon umore.
- Siamo arrivati, finalmente...- abbozzò, cercando di sistemarsi al meglio fra la giacca e lo zaino che aveva avuto la cocciutaggine di non infilare nel bagagliaio sopra la sua testa.- Ha fatto buon viaggio?
La ragazza – Erik si rendeva conto solo adesso che doveva avere all'incirca ventiquattro o venticinque anni –, che aveva preso a sfogliare una rivista, non alzò neanche lo sguardo su di lui.
Erik stava per lasciare perdere. Si era sempre vantato di saper riconoscere i propri limiti, e uno di questi era l'essere sempre stato una frana a rimorchiare. E ancora peggio nel mantenere una relazione. L'ultima che aveva avuto era anche stata la più lunga, ed era durata cinque mesi.
Eppure, nessuno di sua conoscenza lo avrebbe definito una persona sgradevole. Certo, non era il massimo dell'avvenenza. Aveva una carnagione abbastanza scura, i capelli neri e corti, dei tratti del volto anonimi e un po' spigolosi, e non aveva mai perso il vizio di lasciarsi crescere la barba leggermente più del dovuto. Aveva un'altezza media per un uomo, era smilzo e cercava di tenersi in forma più che poteva per non fare la fine di certi suoi colleghi e amici trentenni che una volta accasati si erano lasciati andare e adesso esibivano delle pancette da birra e patatine da far invidia a un uomo di sessant'anni che non aveva mai visto una palestra in vita sua.
Erik cercava di mantenersi in buona salute, ma non era ossessivo su questo punto. Anzi, a ben pensarci, non era ossessivo su niente. Non impazziva se si perdeva una partita di football in TV, non era uno di quegli intellettualoidi che si accanivano sui libri ignorando tutto il resto del mondo – anzi, quando staccava dal lavoro l'unica cosa che voleva era sdraiarsi sul divano e guardare qualche programma stupido per distrarre il cervello – e non era nemmeno il Don Giovanni dell'ultima ora che si divertiva a rimorchiare una ragazza diversa a sera – anche perché data la sua imbranataggine su quel fronte avrebbe fallito miseramente pure in quello.
Aveva sempre pensato a se stesso come una persona abbastanza tiepida, forse anche poco interessante. Ogni volta che si lasciava scappare di avere due lauree a soli ventotto anni e di essere il vincitore di ben tre borse di studio, tutti – specialmente le signore – lo guardavano ammirati attendendo che specificasse di occuparsi di qualcosa come matematica, astrofisica o nanotecnologie. Restavano tutti abbastanza delusi quando venivano a sapere che era un biologo marino e un veterinario specializzato in ittiologia.
La delusione nei loro occhi era palese.
- Ah...ma quindi curi i pesci rossi?
Ormai non si sprecava più neanche a spiegare tutte le emorragie interne a cui poteva andare incontro uno squalo bianco in cattività.
Sospirò e allacciò la cintura di sicurezza. Combinazione volle che la ragazza avesse alzato lo sguardo su di lui proprio in quel momento, e lo imitò.
Erik le sorrise, impacciato.
- Le serve aiuto?- chiese, vedendo che faticava ad allacciare la propria cintura. Lei non gli rispose, comunque riuscì a fare da sé e riprese in mano la rivista. Erik vide di cosa si trattava.
- Scusi, è un numero di Aquatic Toxicology, quello?- domandò. Sfiorò con la punta dell'indice la copertina della rivista, e la signorina alzò ancora lo sguardo su di lui. Gli porse il giornale, sempre sorridendo.
- No, davvero, io volevo solo...
Lei insistette.
- Beh, grazie...- Erik lo prese fra le mani e lesse qualche parola di un articolo che parlava degli effetti delle scorie radioattive nell'ambiente lacustre.- Mi spiace se l'ho disturbata, è solo che non si vede mai nessuno in giro leggere questo genere di cose. E' interessata anche lei alla biologia marina? Io lo faccio di mestiere...
La signorina continuava a sorridergli e a non rispondere. Erik stava per chiederle se andasse tutto bene, quando una hostess si avvicinò a loro con il carrello delle vivande.
- Un'ultima cosa da bere prima dell'atterraggio?- domandò cortese.
Erik, memore dell'esperienza con il caffé bollente, non prese nulla; la ragazza studiò le bibite per una manciata di secondi, prima d'indicare con l'indice una lattina di Coca Cola. La hostess gliela porse e lei cominciò a berla da una cannuccia.
Il dottor Woods le porse la mano destra aperta.
- Erik Woods, piacere...lei è?
La ragazza accettò la stretta con entusiasmo, regalandogli il solito bel sorriso ma senza degnarlo di una risposta. Erik la guardò, perplesso.
Lei parve accorgersi del suo sbigottimento, perché si passo una mano fra i capelli, imbarazzata. Sollevò una ciocca rossa e indicò il proprio orecchio con aria di scuse.
Erik comprese immediatamente, e cadde dalle nuvole.
- ...non udente?- boccheggiò.
La ragazza indicò ancora il proprio orecchio, poi portò le dita all'altezza delle proprie labbra.
- Non udente e muta?
La signorina prese la propria borsetta e ne estrasse un block-notes e una penna. Scrisse velocemente alcune frasi, poi porse il blocchetto a Erik.
 
Qualche volta riesco a leggere le labbra. Non sempre, ma di tanto in tanto sì.
Dica pure “sordomuta”, non c'è problema, so di esserlo. Di solito porto un apparecchio
acustico, ma in aereo è un vero fastidio.
Comunque sono Ariela Vand, piacere di conoscerla.
Può ripetermi il suo nome, per favore? Quello non l'ho afferrato...
 
Erik le scrisse il proprio nome sul block notes. Lei scrisse di nuovo.
 
Bel nome. E' di New York?
 
Al dottor Woods veniva quasi da ridere al pensiero di star comunicando in quel modo, ma a ben rifletterci c'era ben poco da divertirsi di fronte a una ragazza che non ci sentiva. S'impose di non fare l'imbecille e di portare avanti la conversazione.
 
Dalla provincia. Sono americano, ma abito a Darwin da una vita.
Lei di dov'è?
 
Ariela per rispondere a quell'ultima domanda prese una cartina geografica che teneva piegata sul tavolino in plastica del sedile, l'aprì e gli indicò la Danimarca. Erik segnò la città di Copenhagen e lei annuì per dire che sì, veniva esattamente da lì.
 
E' qui in vacanza?
 
Ariela esitò un istante prima di rispondere, ma poi annuì di nuovo e scrisse che era una studentessa e che si trovava in USA per un progetto di scambio culturale avviato dalla sua Università. Impugnò ancora la penna per scrivere qualcos'altro sul blocchetto, ma l'altoparlante dell'aereo annunciò l'atterraggio. Lei non lo sentì, ma Erik sì, e le fece cenno di prepararsi.
Il dottor Woods cercò di trattenersi quando il sedile tremò di nuovo per l'atterraggio, ma si ritrovò come suo solito aggrappato a entrambi i braccioli e con il fiato bloccato in gola.
Ariela se ne accorse e gli strinse lievemente l'avambraccio come a invitarlo a farsi forza.
 
L'aereo arrivò sano e salvo sulla pista dell'aeroporto J. F. K. di New York, senza incidenti, esplosioni e corredato dal meritato applauso al pilota, così che i passeggeri poterono scendere e iniziare la lunga e isterica trafila fatta di controlli alla dogana, documenti che non saltavano mai fuori al momento opportuno e bagagli andati sperduti.
Questo fu il destino delle tre valigie del dottor Woods.
- Avete almeno un'idea di dove possano essere finite?- domandò all'impiegato dell'ufficio oggetti smarriti. Era praticamente accasciato sul bancone dallo sfinimento, e l'unica cosa che voleva era sedersi a terra e aspettare che la soluzione al problema lo cogliesse dall'alto, per magia. Magari candendogli dritta in testa.
- Stiamo cercando di capirlo, signore. Ma ci vorranno alcune settimane. Per favore, compili il modulo...
Erik sospirò, affranto, e prese a compilare il foglio per denunciare la scomparsa del bagaglio. Era stanco morto e quell'incidente che gli dava il bentornato a casa gli sembrava quasi un oscuro presagio di disastri e calamità naturali ben peggiori che lo attendevano, una volta giunto a Everbrooke.
Sempre che ci arrivi, di questo passo, pensò, cupo.
Ariela Vand, che non aveva rimesso l'apparecchio acustico ma che aveva compreso perfettamente ciò che stava accadendo, e aveva insistito per accompagnarlo fino all'ufficio degli oggetti smarriti, gli mise una mano sulla spalla come a volerlo consolare.
Erik la ringraziò con un sorriso sghembo che lei ricambiò. Avrebbe voluto dirgli di non preoccuparsi, che c'era passata anche lei quella volta quando, a quindici anni, i suoi genitori avevano portato lei e le sue sorelle in vacanza a Istanbul, e che tutto si era risolto per il meglio, ma non lo fece. In parte perché mettersi a scrivere in quel momento le sembrava inopportuno e quando parlava senza avere addosso l'apparecchio acustico aveva grosse difficoltà a modulare il tono di voce – finiva sempre incidentalmente per gridare – e in parte perché non voleva rivelare troppo su di sé, nella situazione in cui si trovava.
Appuntò mentalmente di stare più attenta, farsi coinvolgere meno e mantenere il buon proposito di non dare nell'occhio.
Il dottor Woods terminò di compilare il modulo e lo porse all'impiegato, già rassegnato a non vedere mai più i suoi vestiti e i suoi libri. Per quel che ne sapeva, potevano essere rimasti a Darwin, oppure a quest'ora se ne stavano in qualche isola caraibica a prendere il sole alla faccia sua che adesso si ritrovava senza neanche un pigiama per la notte.
- Speriamo che mia madre abbia conservato qualche vestito di quand'ero ragazzo...- borbottò a mezza voce, allontanandosi dal banco insieme ad Ariela. La ragazza, invece, non aveva avuto problemi con le valigie. Erik notò che viaggiava leggera, per una che aveva appena compiuto un viaggio intercontinentale: aveva solo la borsa con cui era salita a bordo, un trolley verde chiaro e uno zaino sportivo pieno di ciondoli e pupazzetti portafortuna.
Su quest'ultimo, scorse un logo che non conosceva, ma che mostrava la sagoma stilizzata di un nuotatore che praticava stile libero immerso in una piscina.
- Ah, pratica nuoto?- domandò, solo per ritrovarsi di fronte allo sguardo stranito di Ariela e ricordarsi che non poteva sentirlo. Indicò il logo sullo zaino, poi la ragazza e mimò – piuttosto malamente – l'atto di nuotare.
Lei sorrise, entusiasta, e scrisse sul blocchetto che quasi tutti nella sua famiglia praticavano nuoto. Gli chiese, tramite carta e inchiostro, se anche lui nuotasse.
 
So farlo, ma non come sport. Credo di essere troppo pigro.
E poi, vedo abbastanza acqua durante il mio lavoro. Sono un veterinario specializzato
in creature d'acqua salata.
 
Ariela sembrò sinceramente impressionata dalla cosa, e scrisse che a lei i pesci piacevano molto.
 
Soprattutto i delfini.
Anche se mi rendo conto che è banale.
 
Erik le scrisse che non ci trovava nulla di banale, e parlarono un altro po' di pesci marini e non, finché il dottor Woods non si rese conto – non senza una punta di dispiacere – che erano le nove e mezzo del mattino e che il taxi che aveva prenotato lo stava aspettando fuori dall'aeroporto.
Scrisse ad Ariela che doveva ripartire, e che le augurava una buona vacanza.
 
Grazie e buon viaggio. Spero che il suo ritorno a casa
sia piacevole.
 
Erik avrebbe voluto rispondere qualcosa come lo spero anch'io o nutro poche speranze in merito, ma si astenne, limitandosi a ringraziarla di nuovo e a salutarla.
Ariela rimase a guardarlo e a salutarlo con la mano fino a che non lo vide uscire dall'aeroporto e salire su un taxi giallo. Un po' le dispiaceva: aveva trovato simpatico quel ragazzo, e una carta a suo favore era stata quella di non essersi preso male una volta scoperto che lei non ci sentiva.
Era un vero peccato che con ogni probabilità non lo avrebbe rivisto mai più.
Rimase a ciondolare accanto all'uscita dall'aeroporto per quattro o cinque minuti, spostando il peso da un piede all'altro, poi si mise alla ricerca dell'uscita che conduceva alla stazione degli autobus. Dopo che l'ebbe trovata, prese un cappuccino con brioche a uno dei bar dell'aeroporto, comprò un paio di riviste per il resto del viaggio e fece una passeggiata guardando i vestiti esposti nelle vetrine dei negozi del J. F. K. Le attraversò la mente che forse avrebbe dovuto comprare un regalo per ciascuna delle sue sorelle, per farsi perdonare per quando fosse tornata a casa, ma decise che ci avrebbe pensato più tardi, magari quando avesse portato a termine il suo obiettivo e fosse stata più serena e con la mente più lucida.
Quando fu il momento di uscire e dirigersi alla stazione degli autobus, Ariela pensò che fosse il momento opportuno per rimettersi l'apparecchio acustico, ma poi ci ripensò. Era inutile negarlo anche a se stessi, quell'affare era di grande aiuto ma al contempo rappresentava un gran fastidio. Lo indossava il meno possibile – quand'era a casa non lo portava affatto, poiché i suoi genitori e le sue sorelle conoscevano il linguaggio dei segni, e all'Università lo toglieva ogni volta che si annoiava durante una lezione, nelle pause per il caffè o quando le andava di isolarsi. Era invece quasi costretta a metterlo quando usciva in strada, ma quel giorno pensò che non le sarebbe stato di alcun aiuto.
Il sole di fine estate era caldo, e Ariela indossò gli occhiali da sole mentre attendeva sulla banchina. Un autobus si avvicinò a lei e alle altre persone in attesa, e la ragazza lesse il cartello oltre il parabrezza.
 
EVERBROOKE
 
Ripose la valigia nel bagagliaio, salì senza smettere di sorseggiare il frappé alla fragola che aveva comprato prima di uscire, pagò il biglietto e fece in modo di trovare un posto fra gli ultimi sedili in fondo. Si tolse gli occhiali e terminò di bere il frappé mentre sperava con tutta se stessa che a nessuno venisse in mente di sedersi accanto a lei.
Fu accontentata.
Quando le porte scorrevoli si chiusero e l'autobus partì, Ariela si guardò intorno un'ultima volta e poi estrasse dallo zaino un iPad e lo accese. Selezionò il numero di telefono che desiderava e attese che la persona dall'altro lato rispondesse alla sua videochiamata.
- Ariela!- esclamò la ragazza nello schermo un attimo dopo che la sua immagine fu comparsa.
Ariela si portò l'indice alle labbra, facendole segno di stare zitta. L'intera situazione sarebbe risultata più facile se lei si fosse messa l'apparecchio: avrebbero potuto conversare ad alta voce, e dal momento che lo avrebbero fatto in danese probabilmente nessuno su quell'autobus avrebbe capito nulla di quanto stavano dicendo. Ma Ariela non se la sentiva di correre rischi inutili.
Utilizzando il linguaggio dei segni, domandò a sua sorella Andrina come fosse la situazione a casa.
Lei le rispose utilizzando a sua volta il linguaggio dei segni danese, ma non le disse ciò che Ariela voleva sapere.
- Sei arrivata?! Come stai?
- Sto bene. Sono arrivata circa mezz'ora fa. Ora sono sull'autobus diretto a Everbrooke. Com'è la situazione lì?- ripeté Ariela.
- Come vuoi che sia? La mamma è disperata. Papà vuole andare dalla polizia a denunciare la tua scomparsa.
- Digli di non farlo. Attirerebbe solo l'attenzione della Strega del Mare.
- Lo sai com'è papà. Non poteva denunciare la tua scomparsa prima di due giorni, ma stasera ha detto che andrà dalla polizia.
- Inventati qualcosa per tenerlo buono.
Sua sorella Andrina fece una pausa. Era la secondogenita delle sette sorelle di cui era composta la cucciolata di Ariela – lei era la più piccola –, ma benché la differenza d'età fosse notevole – Ariela aveva ventiquattro anni, Andrina trentatré – era quella con cui fra tutte aveva un rapporto migliore.
Andrina era poco più alta di Ariela, ugualmente magra e slanciata, ma aveva più seno, fianchi più morbidi, carnagione più scura, occhi verdi e capelli biondi e ricci. Delle sei sorelle, Ariela era l'unica ad avere una chioma rossa: Aquata, Arista, Adela e Alana avevano due i capelli neri e due castani, mentre Andrina e Attina erano bionde.
- E cosa gli dovrei dire?- chiese infine Andrina, senza smettere di impiegare il linguaggio dei segni.
- Non lo so, qualcosa...digli che ti ho telefonato e che ti ho detto che mi fermo a dormire da un'amica.
- Okay, ma il giorno dopo? E poi, chi sarebbe questa tua amica? Papà e mamma lo vorranno sapere...
- Digli che sono da una mia compagna di classe all'Università. E digli che mi fermerò lì a casa sua per due settimane, perché dobbiamo lavorare a un progetto per il prossimo esame. Digli che ho promesso di tenerti aggiornata.
- Vorranno sapere perché non chiami loro direttamente...
- Rispondi che ti ho detto che mi sono andati male un paio di esami e che ho bisogno di staccare la spina per un po'.
Andrina rifletté un po' sulla cosa, poi acconsentì.
- E dopo?
- Dopo cosa?
- Sarai tornata a Copenhagen dopo due settimane?
- Non credo.
- Ariela, accidenti! Già non ero d'accordo che tu t'imbarcassi in questa storia, adesso mi chiedi anche di spalleggiarti mentre rischi di farti ammazzare...!
- Non l'avevamo messa in questi termini, quando l'abbiamo deciso.
Ad Ariela dispiaceva mentire ai suoi genitori e alle altre sue sorelle, e ancora di più le dispiaceva che Andrina fosse costretta a raccontare delle bugie per colpa sua, o che si preoccupasse per lei.
Ma era troppo importante.
Sua sorella maggiore era stata l'unica persona a venire a conoscenza del suo progetto, ed era inoltre stata – e lo era tutt'ora – la sua complice più o meno volente. Ariela inizialmente aveva pianificato di fare tutto da sola, ma poi si era resa conto che non ce l'avrebbe fatta. Le sarebbe occorso qualcuno che la spalleggiasse, che le coprisse le spalle e soprattutto che monitorasse l'intera situazione a Copenhagen per non che la Strega del Mare scoprisse tutto, o sospettasse di qualcosa.
Molti – inclusi i suoi genitori e le sue sorelle – pensavano che il più grande problema di Ariela, in qualsiasi momento o ambito della sua vita, sarebbe stata la sua sordità. Invece, l'essere sordomuta era stato il minore dei mali, in quella situazione.
Ariela aveva avuto bisogno di documenti falsi, un biglietto d'aereo, e soldi, oltre che alle dovute conoscenze e contatti a Everbrooke.
Non poteva procurarsi nulla di tutto ciò da sola.
La scelta di chiedere aiuto a sua sorella non era stata poco sofferta, tutt'altro. Ariela si era lambiccata il cervello per settimane per decidere se fosse il caso di coinvolgere Andrina oppure no. E anche in quel caso, la scelta non era caduta in modo casuale fra le sue sorelle. Non solo fra le sei era quella con cui andava più d'accordo, ma dopo aver saggiato il terreno Ariela si era resa conto che Andrina era quella che più condivideva il pensiero in merito alla faccenda, quella più portata all'azione, quella che se avesse potuto sarebbe scesa sul campo di battaglia senza pensarci due volte.
Si era anche offerta di andare lei al suo posto.
Era stata Ariela a insistere riguardo al contrario. Andrina, all'epoca del fattaccio, era apparsa in parecchie fotografie sui quotidiani e sui telegiornali, e la Strega del Mare avrebbe potuto riconoscerla.
Ariela, invece, dopo un'attenta indagine, si era resa conto che il suo volto non era mai apparso da nessuna parte. All'epoca era ancora minorenne, e suo padre e sua madre avevano fatto i salti mortali perché non venisse sbattuta in prima pagina come un fenomeno da baraccone e potesse riprendersi – fisicamente e mentalmente – in tutta tranquillità.
E poi...era amaro da dire, ma chi avrebbe mai sospettato che una ragazza sordomuta avrebbe potuto fare tutto questo? Da sola, per di più.
Andrina scosse il capo, poi chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie.
- Hai ragione. Scusami. E' solo che sono molto preoccupata.
- Lo so. Non fa' niente. Mi dispiace per tutto quello che stai passando.
- Cerca solo di stare attenta. E ricordati cosa mi avevi promesso: almeno tre chiamate al giorno, SMS in alternativa. Salta una sola chiamata e sarò io a filare dalla polizia, non papà.
- Sei buffa quando minacci.
- Non sto scherzando.
- Tranquilla. Mantengo sempre le mie promesse. Tu cerca di far star buoni mamma e papà, e non lasciarti scappare niente con le altre, intesi?
- Sai che questa cosa prima o poi verrà a galla, vero?
- Sì. Ma per allora spero di aver trovato quello che cerchiamo. E potrai sempre dire che ti ho preso per i fondelli con quella storia dell'amica dell'Università e che non ne sapevi niente.
- Ariela, ti prego, stai attenta. Ricordati: qualsiasi problema, qualsiasi guaio tu abbia, ti basta una telefonata. M'imbarco sul primo aereo disponibile, dovessi viaggiare nella stiva.
Ariela rise.
- Ti ci vorrei vedere.
- Sono seria.
- Anch'io.
- Dove sei?
- Te l'ho detto, in autobus.
- Quanto ti ci vorrà per arrivare in...come hai detto che si chiama quel posto dimenticato da Dio?
- Everbrooke. Nome strano, lo so. Comunque, credo ci vorranno minimo un paio d'ore ad arrivare.
- Voglio che mi mandi un messaggio su Whatsapp appena metti piede sul suolo di quella città.
- Agli ordini, sergente!
- Ariela, sii un po' più matura...
- E tu rilassati. Andrà tutto bene.
- Lo spero.
- Ora chiudo la chiamata. La batteria è quasi scarica e voglio risparmiarla. Tu in questi giorni tienimi aggiornata sulla situazione a casa. E se sai qualcosa sui movimenti della Strega del Mare...
- Sì, ti avviso. Al momento sembra tutto tranquillo. Continua la sua vita di sempre. Ufficio, cene di lavoro, conferenze stampa...stasera ti mando una mail con l'intervista che ha rilasciato sul Jyllands-Posten...
- Perché ancora nessuno le abbia spaccato la faccia non lo capisco...
- Perché ha i soldi.
- Giusta osservazione. Per fortuna ci siamo io e te che la manderemo presto con il fondoschiena a terra. Ci sentiamo più tardi. Ti voglio bene.
- Anch'io ti voglio bene, testa di rapa.
Ariela ridacchiò di nuovo e chiuse la conversazione. Spense l'iPad e lo ripose nello zaino, guardando fuori dal finestrino. Supponeva che fra non molto sarebbero definitivamente usciti da New York, ma aveva letto su Internet che il viaggio a Everbrooke avrebbe richiesto almeno tre ore, e non due come aveva detto ad Andrina.
Estasse dallo zaino una copia de La mia Africa di Karen Blixen e decise che avrebbe letto sia per distrarsi sia per ammazzare l'attesa. Se tutto fosse andato bene, sarebbe arrivata a Everbrooke verso mezzogiorno.
Sbirciò l'orologio da polso: erano le dieci e venti.
 
III. [Belle]
 
La radiosveglia era quasi del tutto coperta dalla quantità di cianfrusaglie ammassata sul comodino, ma fra un calzino sportivo e un paio di occhiali da sole che ne ostruivano i tre quarti, spuntava comunque la cifra 10:20.
A sua volta sepolta sotto un cumulo di lenzula e coperte sfatte e stropicciate, in parte attorcigliatesi intorno alle sue gambe, Belle Gordon socchiuse l'occhio destro nel momento esatto in cui il numero venti si trasformava in un ventuno.
Bastò quello per prendere il sopravvento sul sonno e il mal di testa.
La ragazza scattò seduta alla velocità del fulmine, scalciando via le lenzuola e facendo cadere a terra una coperta e tre o quattro t-shirt maschili. Imprecò a bassa voce mentre scendeva dal materasso e si metteva alla ricerca del cellulare.
Sollevò i cuscini e altre coperte, poi si gettò in ginocchio sul pavimento e guardò sotto il letto.
Dovette allungare al massimo il braccio per recuperare il suo telefonino che era finito all'altezza della testiera del letto.
- Ma come accidenti ci sei finito lì?- sbuffò, le tempie che martellavano. Si rialzò a fatica e prese a guardarsi intorno.- Dove sono i pantaloni?
Aveva addosso solo le mutandine e la maglietta nera con la stampa di una rosa rossa circondata da un bagliore di luce che si era infilata di volata la sera prima al momento di uscire. Niente reggiseno, perché con la sua misera taglia prima di seno sarebbe stato inutile.
Si mise a cercare i jeans strappati che ricordava di essersi tolta la sera prima e di aver gettato da qualche parte nella stanza di Lum. Il fatto che la camera da letto in questione fosse un vero macello non aiutava.
Alla fine li ritrovò incastrati fra la scrivania e una serie di scatole di scarpe dove Lum conservava tutti i suoi videogames. Se li infilò il più veloce che poteva, ringraziando di essere riuscita a recuperare anche uno dei suoi anfibi militari nella ricerca.
Tutto adesso stava nello scovare l'altro.
- Lum!- strillò.- Lum, sei in casa? Perché cavolo non mi hai svegliata?!- prese a saltellare su una gamba sola per infilarsi il primo anfibio, la patta dei jeans ancora aperta.- Merda! Merda, merda, merda...
- Non te l'hanno insegnato che le signorine perbene non imprecano?- sbadigliò una voce annoiata mentre la porta della camera iniziava lentamente ad aprirsi. Belle le diede una manata così forte da farla richiudere con un colpo secco. Sentì un lamentoso ahi!.
- Ma che fai...?- la voce ora era tappata. Belle immaginò che dovesse averlo colpito sul naso.
- Non entrare, sono ancora in mutande...- si rimise carponi per cercare l'altra scarpa, e nel mentre armeggiava con la zip dei jeans.
- Come madamigella comanda...- sbuffò Lum dal corridoio, massaggiandosi il setto.
- Perché non mi hai svegliata? Merda, mio padre aveva detto che sarebbe tornato per le undici...
- Ti ho chiamata almeno cinque volte, ma tu russavi come un orso in letargo.
Il ragazzo entrò cautamente nella propria camera da letto proprio mentre Belle si stava infilando il secondo anfibio.
La ragazza scattò nuovamente in piedi e prese a radunare le sue cose. Lum si appoggiò allo stipite della porta, tazza di caffè in mano e un sorrisino divertito.
- E aiutami...!- sbuffò Belle.
Lum non si mosse né mutò la propria espressione. La ragazza prese la borsa a tracolla con cui era arrivata la sera prima e si assicurò che il computer portatile al suo interno fosse sistemato in modo da essere protetto il più possibile dagli urti che – ne era sicura – ci sarebbero stati durante la corsa a casa, poi mise dentro anche il cellulare, il cavo dell'alimentazione per il PC e i fogli accartocciati su cui si era spaccata il cervello fino alle cinque del mattino.
- Okay...e ora la felpa...- ansimò, trafelata, recuperando il suddetto indumento in mezzo alle coperte e ai cuscini.- Scusami se non ti rifaccio il letto, ma vorrei evitare di farmi ammazzare...
- Sopravviverò. Anche se devo dire che è veramente maleducato da parte tua, dopo aver occupato il mio giaciglio per tutta notte e avermi costretto a dormire sul divano...
- Perché sul divano? Camera dei tuoi non è libera?- chiese Belle mentre indossava la felpa color malva. Si passò una mano fra i capelli castani che in quel momento somigliavano a un nido di pettirossi.- Oh, cavolo, è tornata tua madre?! Ti prego, dimmi che non c'è tua madre...
- Non c'è. Torna lunedì prossimo.
Belle aveva un rapporto ambivalente con la madre del suo cosiddetto migliore amico. Da una parte la considerava una donna fantastica, affabile e gentile e che faceva degli ottimi maccheroni al sugo; dall'altra, aveva sempre fatto di tutto per sfuggire alle sue frecciatine secondo le quali lei e suo figlio sarebbero stati una bellissima coppia.
Vertiginosamente aumentate da quando Lum aveva deciso che Babette Deniel era la donna della sua vita. La madre di Lum non la sopportava, Babette. Belle aveva sempre evitato di manifestare in sua presenza quanto condividesse questo sentimento.
Si chinò per raccogliere i suoi calzini e infilarli a loro volta nella borsa.
- Io non so se sei cretino o che cosa...- borbottò.- Lo sai che mio padre non vuole che esca la sera quando lui non è a casa, perché accidenti non mi hai svegliata? Uno spintone e mi buttavi giù dal letto, hai due spalle che io me le sogno...
- Te l'ho detto, russavi così bene che svegliarti sarebbe stato un crimine.
- Il crimine lo fai salire tu a me...!- Belle fece per uscire ma Lum le bloccò il passaggio piantando un braccio contro lo stipite opposto a quello a cui stava appoggiato. Era un ragazzone, alto un metro e ottanta e con spalle larghe e robuste, ma sebbene solitamente una stazza del genere tenderebbe a incutere timore, bastava guardarlo in faccia per comprendere che non avrebbe fatto del male a una mosca.
A ventidue anni aveva i tratti di un ragazzino, con il mento pronunciato, gli occhi piccoli, verdi e ridenti, e il fatto che portasse i capelli biondi pettinati in un taglio sparato, perennemente inondati di gel e brillantina non aiutava a dargli un'aria più adulta. Restava comunque il fatto che le sue proporzioni massicce rappresentassero un problema non da poco per una piccoletta scarna e mingherlina come Belle.
La ragazza gli diede una sberla sul braccio perché lo abbassasse.
- Idiota!- bofonchiò, uscendo in corridoio.
Lum la seguì a ruota.
- Non ti fermi per colazione?
- L'avrei fatto se qualcuno mi avesse svegliata in tempo. E poi, non aspetti Babette?
- E che c'entra?
- C'entra che a saperlo prima mi sarei portata candela e fiammifero. E poi la tua ragazza mi vorrebbe vedere morta.
- Non esagerare. Non ti vorrebbe mai morta...si limiterebbe a ghignare se tu venissi investita da un camion.
- Quanta cortesia. Immagino sia da escludere la possibilità che tu mi presti la tua moto per tornare a casa, vero?
- Immagini bene.
- Ti odio.
- No, non è vero.
Scesero le scale che conducevano al salotto, l'uno alle calcagna dell'altra. Lum a quanto pareva s'era già organizzato per fare colazione con la sua ragazza: sul tavolino di fronte al sofà c'era abbastanza da sfamare un reggimento, fra caffé, latte, zucchero, biscotti, e un vassoio strabordante di fette di pane su cui erano stati spalmati marmellata e burro. Belle ne rubò una e se la portò alla bocca.
- Comunque, dato che non voglio telefonarti più tardi mentre stai facendo sesso con la tua ragazza, ti dico già subito che la missione è stata compiuta - annunciò con la bocca piena.- Di' pure a quello che ti ha ingaggiato che può star tranquillo. Non resterà traccia di nessuna delle porcate che ha combinato con i fondi aziendali.
- Il mondo dell'evasione fiscale ti ringrazia.
- Mi basta che ci ringrazi il tizio. Quando ha detto che pagherà il resto della cifra pattuita?- Belle si fermò con la mano aggrappata alla maniglia della porta d'ingresso. Lum si strinse nelle spalle.
- Ha detto che mercoledì mi darà il resto del cash. Giovedì sera vieni da me con la scusa di una pizza e dividiamo.
- Quanto in tutto?
- Mille dollari. Cinquecento a testa.
Belle convenne fra sé e sé che la cifra non era male, ma non si sentiva pienamente soddisfatta.
- Potremmo provare ad alzare un po' il tiro - suggerì.
Lum agitò la mano come a dire che lui si tirava fuori.
- Troppo rischioso. Non tanto per me quanto per te.
- Eh?
- La vuoi quella borsa di studio? Difficile che te la diano, se ti beccano.
- Non saresti capace di beccarmi nemmeno tu - Belle gli fece l'occhiolino, e spalancò la porta d'ingresso proprio nel momento in cui qualcuno suonava il campanello. La ragazza si trovò faccia a faccia con Babette Deniel.
A Belle parve d'intravedere un'ombra di sorriso sulla sua faccia – comunque di sicuro non destinato a lei – che però morì immediatamente quando la vide. La sua espressione divenne accigliata.
- Ehi, Babette...- abbozzò Belle, cercando di passare fra lei e lo stipite della porta.- Io e Lum dovevamo finire un lavoro, ora me ne vado e lo lascio tutto pre te...
- Bene.
Babette non fece neanche il cenno di scansarsi e lasciarla passare più agevolmente. Belle fu costretta a stringersi la borsa a tracolla al petto e a scivolare contro il legno della porta per uscire da casa di Lum. Babette era alta quasi quanto il suo ragazzo, infatti Belle non stentava a credere che giocasse da pallavolista in una squadra di serie B. Lei e Lum si erano conosciuti all'Università – Babette frequentava il secondo anno di Scienze Motorie, mentre lui era fuori corso in modo imbarazzante alla facoltà di Ingegneria Elettronica – e non si erano più separati. Lei era molto bella, con la pelle mulatta e i capelli neri e ricci, le labbra carnose e il naso dritto, e aveva un accento francese – Belle non aveva mai avuto il coraggio di chiederle se fosse originaria proprio della Francia o se fosse canadese – che, a detta di Lum, era una meraviglia.
A Babette non stava molto simpatica Belle, sentimento peraltro del tutto reciproco. Non c'era un perché, anzi, Belle non era nemmeno sicura che la sua fosse antipatia: semplicemente, più stavano lontane l'una dall'altra e megli stavano entrambe.
A volte aveva il sospetto che Babette tollerasse la sua presenza solo perché lei e Lum erano amici sin dai tempi in cui che un maschietto e una femminuccia facessero il bagno insieme senza il costumino era considerato del tutto normale.
Alla fine Belle riuscì a sgusciare via dalla trappola mortale fra la porta e la pallavolista stangona, e corse lungo il vialetto di casa di Lum agitando una mano nella direzione dell'amico.
- Ci vediamo giovedì! Me la pagi la cosa della moto, sappilo...!
Scavalcò la staccionata che circondava la villetta e prese a correre a perdifiato in direzione di casa sua. Si trovava in un quartiere diverso ma confinante con quello in cui abitava Lum, e a piedi camminando a passo spedito la distanza era di venticinque minuti.
Belle corse il più veloce che poteva sperando che suo padre non fosse già a casa ad attenderla imbestialito e al contempo ringraziando la sua forza di volontà che la portava a fare almeno mezz'ora di jogging ogni mattina. Questo le conferiva una buona resistenza, ma aveva paura di far ballonzolare troppo il computer – o peggio, che la tracolla si rompesse per il troppo movimento e il PC finisse sul marciapiede – e la stessa borsa la rallentava parecchio.
Alla fine arrivò a casa sua. Era molto meno graziosa di quella di Lum – che aveva un giardino, era dipinta di bianco, aveva una staccionata di legno e due piani, oltre che una veranda –, ma Belle si era sempre detta che era perfetta per sole due persone: non c'era il giardino né la staccionata, e nemmeno la veranda, e non era neppure dipinta di bianco; però era su due piani, era di proprietà – Lum invece stava in affitto – e la camera di Belle aveva una finestra sotto la quale i proprietari precedenti avevano fatto costruire una scala antincendio.
Il che si rivelava molto utile, specialmente casi come quello.
Belle arrivò a casa sua nel momento esatto in cui suo padre stava parcheggiando l'auto nel garage. Realizzò che non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere la porta senza che lui la vedesse, così fece marcia indietro e si diresse verso la scala antincendio.
Si arrampicò fino alla sua finestra e aprì le ante. Sentì suo padre che avanzava lungo il corridoio e la chiamava. Entrò in fretta e richiuse le ante.
- Belle? Sei in casa?
La ragazza lanciò la borsa sotto al letto e s'infilò sotto le coperte, vestiti e scarpe addosso. Si accoccolò contro il cuscino e chiuse gli occhi.
- Belle?
Suo padre bussò due o tre volte alla porta della camera, poi l'aprì.
L'ispettore John Gordon – sua figlia ogni tanto lo prendeva in giro per la somiglianza del suo nome con quello del commissario di Batman – scrutò con occhio critico prima la stanza poi la ragazza che dormiva sotto le coperte. Aveva rinunciato a pretendere che sua figlia tenesse in ordine la propria roba sin da quando aveva sei anni, età in cui aveva posto fine allo scontro e alzato bandiera bianca.
La stanza di Belle non era molto grande, c'era spazio a malapena per un letto a una piazza, un comodino e una scrivania, sulla quale era infissa una mensola. Sua figlia teneva i vestiti ammassati in un armadio a una sola anta accanto al letto, e anche quello era un casino fatto di jeans e magliette stroppicciate arrotolate una sopra all'altra e di scarpe spaiate. Altri abiti erano sparsi sul letto, sul pavimento e sulla sedia di fronte alla scrivania, la quale era occupata da due grandi computer bianchi a schermo piatto, una stampante con fax, libri universitari e una lampada che l'ispettore Gordon aveva regalato a Belle per i suoi sedici anni, più un ammasso di fogli scribacchiati e accartocciati, block notes, una calcolatrice scientifica, penne, matite e pennarelli sparpagliati su tutta la superficie. La mensola sopra la scrivania era curva, piegata sotto il peso di una quantità inverosimile di volumi della letteratura del Settecento e Ottocento – la maggior parte ereditati dalla madre di Belle – mentre sul comodino facevano capo altri libri – una biografia di Alan Turing, L'uomo che ride di Victor Hugo, altri due volumi universitari, un manuale di manutenzione per computer e Via dalla pazza folla di Thomas Hardy – una radiosveglia e una lampada al led arancione. Ai piedi del letto c'era un vecchio stereo con delle antiquate musicassette e una pila di DVD in precario equilibrio accanto a un lettore di film portatile.
L'ispettore Gordon cercò di farsi strada fino al letto scavalcando quell'accumulo di cianfrusaglie. Allungò la mano verso il volto di sua figlia e le sfiorò la guancia e il sopracciglio per svegliarla.
- Ehi...- chiamò, quando lei aprì gli occhi.- Abbiamo dormito parecchio, eh?
- Mmmm...- Belle si finse assonnata.- Che ore sono?
- Le undici passate. Sicura di star bene? Di solito alle sei del mattino sei sempre in piedi.
- E' okay. Ieri sera sono stata alzata fino a tardi per vedere un film. Sei tornato adesso?
- Cinque minuti fa. Se ti va oggi posso preparare io...- l'ispettore Gordon s'interruppe, spostando lo sguardo dal volto di sua figlia a una ciocca dei suoi capelli. Belle vide con la coda dell'occhio che impigliato a essa c'era un filo d'erba.
- Cos'è questo?- inquisì suo padre, togliendole il filo d'erba ed esaminandolo.
Belle cercò d'inventarsi una scusa alla velocità della luce, ma suo padre senza alcun preavviso afferrò le coperte e le tirò via di colpo.
Belle avrebbe voluto chiudere gli occhi e scomparire. L'ispettore fece correre lo sguardo sui jeans e gli anfibi di sua figlia, poi tornò a guardarla.
- E...come sta Lum?
- ...bene.
Sarebbe voluta morire. L'ispettore Gordon sospirò e girò i tacchi.
- Fatti una doccia e cambiati.
Così dicendo, uscì dalla stanza e richiuse la porta.
Belle mugolò, poi serrò gli occhi e lasciò ricadere il capo sul cuscino.
 
Si fece una doccia e indossò un paio di shorts in jeans e una maglietta bianca senza maniche. Mise le infradito e si legò i capelli bagnati in una coda di cavallo. Quando scese al piano di sotto, trovò suo padre appisolato sul divano in salotto di fronte alla TV accesa.
Il notiziario di Everbrooke stava mandando in onda un servizio su un caso di cronaca che Belle seguiva con interesse da qualche mese, ma non alzò il volume per non svegliare suo padre. Si diresse in cucina e iniziò a preparare il pranzo cercando di sentire le parole del giornalista attraverso la porta aperta.
Il servizio riguardava il Lupo, soprannome dato al serial killer che da un anno aveva fatto diverse vittime lì a Everbrooke. Suo padre le aveva spiegato che era stato chiamato così per via del fatto che si accaniva sulle sue vittime anche dopo che esse erano morte. Uccideva a colpi di coltello, sempre di notte e sempre in luoghi isolati.
Tre delle vittime erano ragazze – studentesse del liceo locale – mentre una, l'unica sopravvissuta, era forse stata attaccata da lui, anche se alcuni elementi non tornavano. Primo fra tutti, il fatto che fosse stata attaccata a colpi di pistola e non accoltellata.
La sopravvissuta, Rosebud Thorn, era in coma da tre mesi.
Purtroppo il servizio non diceva nulla di nuovo. Si trattava solo di un resoconto sugli eventi degli ultimi mesi legati al Lupo, niente che Belle trovò utile o interessante. Staccò definitivamente la spina dell'attenzione e si concentrò sul preparare il pranzo.
Pensò che, avendo saltato la colazione, suo padre non avrebbe avuto voglia di qualcosa di troppo pesante, ma che era comunque necessario mettere nello stomaco qualcosa di sostanzioso. Optò per dei sandwich al formaggio fuso e dei panini con prosciutto e maionese. Mise tutto in un vassoio e si dedicò a preparare il caffè.
Fu in quel momento che l'ispettore Gordon, assonnato, entrò in cucina strascicando le scarpe sul pavimento. Si sedette pesantemente sullo sgabello accanto al tavolo e poggiò i gomiti sulla superficie. Addentò uno dei sandwich al formaggio fuso.
- Grazie...- borbottò, mentre sua figlia gli poneva di fronte la sua tazza di caffé.
Belle dovette arrampicarsi sul proprio sgabello per riuscire a sedersi. Prese uno dei panini.
- Sei arrabbiato?- chiese, dopo un po' che suo padre sbocconcellava in silenzio.
L'ispettore Gordon sospirò.
- Non sono sicuro che tu abbia afferrato il nocciolo della questione - mormorò debolmente, ma il suo sguardo era risoluto.- Io non voglio che tu esca di notte quando io non ci sono non perché non mi fidi di te o di Lum. E' degli altri che non mi fido. E ti ho già spiegato che da un anno a questa parte uscire la sera è diventato pericoloso.
- Ti posso assicurare che non uscirei se non fosse strettamente necessario - disse Belle.- Lo so del Lupo, papà.
- Non ti voglio vedere sotto un telo di plastica ridotta come quelle povere ragazze.
- Non succederà, infatti. Voglio solo che tu capisca che...
- ...lo so che ci tieni al tuo amico e che alla tua età hai voglia di divertirti, ma stiamo parlando di una questione di sicurezza.
- Era per un progetto per l'Università - mentì.
Suo padre la guardò.
- Lum aveva bisogno del mio aiuto con alcune analisi statistiche e ho fatto una scappata da lui. Poi è diventato tardi e mi sono fermata lì a dormire, non sono stata in strada.
L'ispettore Gordon scosse il capo, pensieroso, e prese un altro sandwich.
- Per stavolta passi. Ma finché le acque non si calmano e non prendiamo quel bastardo, se vuoi uscire me lo devi dire e sarò io ad accompagnarti e a venirti a prendere, intesi?
- E' per questo che hai lavorato tutta notte? Stai seguendo il caso del Lupo?- Belle pensò fosse meglio cambiare discorso, sia per alleviare la tensione sia perché era seriamente interessata alla faccenda.
- Sì e no. La centrale di polizia di Everbrooke è piccola, lo sai, quindi ci dobbiamo dividere il lavoro. E' la squadra del commissario Torrance a occuparsi del caso del Lupo, a me è stato assegnato il compito di indagare su Rosebud Thorn.
Belle cercò di non lasciar trasparire la propria delusione.
- Novità su di lei?
- Stiamo cercando di capire se è davvero una vittima del Lupo oppure no. Il fatto che sia stata aggredita a colpi di pistola farebbe pensare di no, ma chi altri potrebbe essere? E' così giovane, e da quel che ci risulta nessuno avrebbe potuto volerle male...
- Non avete trovato niente d'interessante?
- Qualcosa, se ne stanno occupando i ragazzi del reparto informatico. A quanto pare aveva utilizzato spesso un software chiamato TOR, negli ultimi mesi...
Belle drizzò le antenne.
- E...?
L'entusiasmo nella sua voce la tradì. L'ispettore Gordon le lanciò un'occhiata in tralice, e non disse più nulla. Belle lo scosse per un braccio.
- E dai!
- No.
- Perché no?
- Lo sai perché.
La ragazza sbuffò.
- Se non fosse stato per me, i tuoi cari esperti del reparto informatico sarebbero ancora persi dietro una marea di dati inutili!
- Non si sta parlando di utilità, Belle, ma di etica.
- Ho risolto io quei due casi!
- E spera che nessuno lo venga mai a sapere. Rischi la galera.
- Vedi? Questi sono i limiti che impediscono a te e ai tuoi colleghi di risolvere i casi più in fretta!
La ragazza si malediceva ancora adesso per non aver fatto attenzione e non aver distrutto le copie di quei documenti. Suo padre aveva scoperto l'intera faccenda per caso, e da allora viveva nel terrore che lei potesse rifarlo. A nulla valevano le rassicurazioni sul fatto che fosse completamente sicuro, che lei sapesse ciò che faceva. Aveva anche minacciato di portarle via il computer.
I PC erano sempre stati l'unica cosa in cui Belle fosse veramente, veramente brava.
Aveva cominciato a navigare in Internet da ragazzina, a dieci o undici anni, e se prima si limitava a cercare il divertimento su Facebook o YouTube, presto aveva compreso che il mondo del web era molto più ricco di segreti di ciò che si pensasse.
Il passo successivo era stato imparare a navigare meglio e con più consapevolezza, a riconoscere i siti, le minacce, gli accorgimenti tecnici. Il mondo della rete aveva preso a essere meno misterioso e più manipolabile. A tredici anni, Belle aveva compreso che nessun sistema era infallibile, tutti avevano un punto debole, e che non occorreva necessariamente una password per entrare da qualche parte.
Qualsiasi sistema poteva essere violato, penetrato, smontato da cima a fondo. Aveva scoperto l'esistenza del Deep Web, i trucchi per non farsi scoprire e le soluzioni più efficaci a qualsiasi rompicapo.
A quattordici anni aveva violato il suo primo sistema informatico.
A sedici, era diventata una delle hacker più ricercate del web.
Ormai non esisteva più nessun segreto nell'Internet che lei non conoscesse, si muoveva silenziosa fra i vari siti e conosceva praticamente tutti gli algoritmi applicati da essi.
Era stata di Lum l'idea di far fruttare la cosa per guadagnare qualche soldo.
Il suo amico lavorava in un negozio di elettronica, che altro non era se non uno scantinato dove il proprietario ammassava computer e cellulari portati dai clienti per essere riparati. Lum era bravo a sua volta con il PC, anche se non quanto Belle. Quando aveva visto ciò che la sua amica era in grado di fare, le aveva proposto di mettersi in società: lui le procurava i clienti e lei violava sistemi su sistemi.
Avevano cominciato con l'entrare abusivamente nel sistema informatico scolastico quando erano al liceo per scaricare i compiti in classe e poi rivenderli ai compagni per pochi spiccioli; stessa cosa avevano fatto una volta entrati all'Università. Poi, la pesca si era fatta più grossa: Lum metteva sistematicamente in contatto Belle con persone che desideravano sapere se il coniuge le tradiva, uomini d'affari che volevano coprire qualche transazione di denaro illecita, o anche semplicemente innamorati che volevano far trovare una sorpresa nel PC della loro fidanzata senza che lei se ne accorgesse.
Belle si accontentava di poche istruzioni, e nel giro di una nottata il lavoro era fatto.
Lei e Lum rifiutavano pochi lavori – eliminavano le richieste di chi voleva rovinare una vita altrui, o aveva pretese che andavano contro la loro morale – e intascavano bene, dividendosi i profitti.
E poi, un giorno, quando aveva diciassette anni, Belle aveva saputo che suo padre era in difficoltà nel provare l'evasione fiscale di un pezzo grosso. E non aveva resistito alla tentazione.
I documenti che provavano tutti gli illeciti erano comparsi sulla scrivania dell'Ispettore Gordon il mattino seguente.
Lo stesso era ricapitato sei mesi dopo, per un caso di sequestro di persona. La vittima aveva ancora il cellulare connesso al Wi-Fi: era bastato isolare il campo in diversi segmenti, e una telefonata anonima aveva avvisato la polizia di dove si trovasse il luogo in cui era tenuta la ragazza.
Stavolta, però, Belle aveva compiuto un passo falso e l'ispettore Gordon si era accorto di tutto.
L'aveva sgridata, le aveva urlato che così facendo rischiava di finire in riformatorio, e l'aveva obbligata a vuotare il sacco. Non le aveva portato via il PC solo in virtù del fatto che lei avesse promesso di non farlo mai più, e per sei mesi filati i rapporti fra lei e Lum erano stati ridotti a zero.
Ovviamente Belle aveva ricominciato, all'insaputa di suo padre, anche se non aveva più interferito nei casi della polizia di Everbrooke.
- Ti ho detto che non lo avrei più fatto.
- E me lo auguro. Devi pensare a laurearti. A proposito, che intenzioni hai quest'anno?- chiese l'ispettore mentre sua figlia si alzava per lavare i piatti.
- Che intendi?
- Domani ricominciano le lezioni all'Università. Pensi di frequentarle?
- Non sono necessarie per gli esami. E ti ricordo che me ne mancano solo sette alla laurea.
- Lo so. Quello che mi preoccupa è che non sembra interessarti molto ciò che studi.
Belle esitò un istante prima di rispondere.
- Mi piace, ma le lezioni sono noiose. E i professori non mi vogliono. Non hai idea di quanto s'incazzino ogni volta che li correggo...
L'ispettore si passò una mano sul volto.
- Perché hai voluto studiare Informatica se sai già tutto?
- Perché credevo che avrei imparato qualcosa di nuovo. E perché è quello che voglio fare. L'unico corso veramente interessante è quello sull'Intelligenza Artificiale del professor Greystoke...
- Ed è per un dottorato in quel campo che vuoi vincere una borsa di studio?- l'ispettore ammiccò.
Belle inarcò un sopracciglio.
- Tu come fai a saperlo? Chi te lo ha detto?
- Un uccellino.
- Lum!
- No, i titoli dei libri che studi giorno e notte. Non sono ancora rimbambito, sai?
Belle fece un sorrisetto sghembo e si appoggiò con i fianchi e i gomiti al lavello della cucina.
- C'è la possibilità di un dottorato alla Cornell University – confessò.- Ma siamo in tanti a concorrere per quel posto. Non è così scontato che io la vinca.
- Tu metticela tutta. Ma non trascurare il resto.
- Il resto cosa?
- Sarebbe anche normale che tu ogni tanto esca con qualche amica, o che ti trovi un ragazzo. Sei carina, sono sicuro che qualcuno che ti fa la corte c'è. Non eri uscita con quel Hunter? Gaston Hunter, si chiamava così...?
Belle alzò gli occhi al cielo. Suo padre ogni tanto se ne usciva con questi discorsi. Oscillava dallo stereotipo del padre iperprotettivo e geloso dell'unica figlia femmina al genitore che non vuole altro se non vedere accasata la sua bambina.
Belle non era mai stata molto brava nei rapporti sociali. A Everbrooke non c'erano molte occasioni di conoscere gente nuova: era una cittadina piccola dove tutti sapevano i fatti di tutti e dove era molto facile venire marchiati a vita. Lei, ad esempio, era quella strana o la ragazza che sta sempre per i fatti suoi.
Il massimo delle possibilità di socializzazione era concentrato a scuola. Belle aveva provato a farsi delle amiche, ma nessuno dei suoi tentativi era mai andato a buon fine. Nessuna delle ragazze era interessata al mondo dell'informatica, e lei da parte sua non capiva niente di cosmetici e abiti griffati. La maggior parte delle sue “amiche” la mollava dopo qualche mese quando trovava di meglio.
L'essere un'orfana non aveva aiutato.
Belle aveva perso sua madre, Caroline Gordon, quando aveva un anno e mezzo. Non se la ricordava nemmeno. Ciò che sapeva di lei era che era una poliziotta rimasta uccisa a ventotto anni durante una rapina mentre era in servizio. Di lei restava solo qualche fotografia.
Belle non aveva mai capito che diamine si aspettassero tutti quanti da una che aveva perso sua madre. Da piccola tutti si aspettavano che piangesse di continuo, stavano attenti a non pronunciare la parola mamma in sua presenza, di tanto in tanto sentiva le maestre parlare di lei sussurrando frasi come “quella povera bambina...”; si aspettavano che andasse al cimitero tutti i giorni a parlare con una tomba – Belle al cimitero ci andava una volta al mese e non le era mai nemmeno passato per l'anticamera del cervello di mettersi a fare conversazione con un pezzo di pietra – e che da adolescente probabilmente facesse qualche fesseria come drogarsi o ubriacarsi ogni sera, per poi giustificarla dicendo idiozie quali “sai, con quello che le è successo...”.
Belle non aveva mai soddisfatto nessuna di queste aspettative. A volte si domandava se non fosse lei a essere cinica e insensibile, ma non capiva come si potesse soffrire per la perdita di qualcuno che praticamente neanche conoscevi.
Di Caroline Gordon non restava niente se non appunto qualche foto che immancabilmente strappava la solita frase di circostanza:
- Caspita, Belle, come somigli a tua madre!
Su questo doveva dar loro ragione. Lei somigliava parecchio a Caroline: avevano gli stessi tratti del viso, lo stesso naso e lo stesso mento dritti, gli occhi di forma leggermente allungata, scuri con un barlume di furbizia, i capelli castani e lisci. L'unica cosa che le differenziava era che, dalle fotografie, Caroline sembrava una donna alta e formosa. Belle, invece, era piccola di statura – a malapena arrivava al metro e sessanta, e il non indossare mai i tacchi non aiutava – era esile e magrolina, non aveva seno né fianchi.
Era capitato, quando ad esempio si tirava il cappuccio della felpa fin sulla fronte, che la scambiassero per un ragazzo.
In quello, somigliava a suo padre. John Gordon era allampanato e secco, con il volto scarno e i capelli e i baffi neri che cominciavano a ingrigire. Gli occhiali da vista non mettevano in risalto gli occhi grigi.
Se c'era qualcuno che aveva sofferto veramente per la morte di Caroline era lui, dato che non si era mai risposato. Belle non ricordava che avesse mai nemmeno avuto una fidanzata e, se ce l'aveva avuta, allora era stato veramente bravo a non far intuire nulla a sua figlia.
Belle era cresciuta praticamente solo con suo padre. I suoi nonni materni non erano stati felici del matrimonio di Caroline con l'ispettore Gordon, e quando la figlia era morta avevano interrotto qualsiasi contatto con genero e nipote. I nonni paterni non c'erano più da prima che lei nascesse, e né suo padre né sua madre avevano fratelli o sorelle.
Fino ai cinque anni suo padre la portava in ufficio con sé quasi tutti i giorni perché non sapeva a chi lasciarla e una baby-sitter era troppo costosa, così Belle era venuta su circondata dalla maggioranza di uomini che componeva la squadra di polizia di Everbrooke. Non ricordava di aver mai avuto una presenza femminile nella sua vita. L'unica donna a lei vicina, la sua madrina del battesimo nonché presunta migliore amica di sua madre, si era sempre disinteressata a lei salvo quelle due telefonate di auguri a Natale e per il suo compleanno. Di tanto in tanto la madre di Lum le faceva da tata – era così che aveva conosciuto suo figlio –, ma niente di più.
Era venuta su guardando i film di Die Hard, leggendo i fumetti di Spider-Man e inscenando duelli cavallereschi con le Barbie. Gli unici effetti collaterali erano stati due: il primo quando, a undici anni, si era svegliata nel cuore della notte con l'interno coscia imbrattato di sangue e aveva iniziato a strillare che stava morendo dissanguata; il secondo, che nessuno le avesse mai veramente spiegato come ci si dovesse comportare nelle faccende sentimentali.
Belle non si era mai innamorata. Aveva avuto qualche cotta, ma roba di una settimana o due, e mai nessun fidanzato.
Circa un anno prima, un suo compagno di facoltà, Gaston Hunter, le aveva chiesto di uscire. Belle aveva accettato spinta dal fatto che fosse obiettivamente un bel ragazzo – muscoloso e alto quel tanto che bastava per superarla ma non farla sentire una nanerottola, capelli neri lunghi fino alle spalle come i suoi e mascella pronunciata – e che fosse molto intelligente – aveva sempre ottimi voti durante gli esami.
Purtroppo si era resa conto solo troppo tardi di aver a che fare con un troglodita mascherato da Principe Azzurro, ovvero quando l'aveva trascinata in una birreria piena di gente dall'aria poco raccomandabile e da dove era riuscita a portarlo fuori prima che si ubriacasse irrimediabilmente. La maggior parte dei suoi discorsi avevano spaziato dalla partita di calcio, a se stesso, alla sua macchina sportiva, se stesso, locali dove ci si poteva ubriacare a poco prezzo, di nuovo se stesso...
Belle ci sarebbe ancora potuta passare sopra e fingere che non fosse successo nulla, arrivederci e grazie, se lui, dopo averla accompagnata fino a casa in auto, non avesse cercato di metterle una mano in mezzo alle gambe. Tutto ciò che aveva ottenuto lui era stato un naso sanguinante, e lei un nuovo rivale nella conquista della borsa di studio.
A quanto pareva, Gaston aveva preso parecchio male il rifiuto – o il cazzotto, se non entrambi – e aveva fatto una questione di principio il soffiarle quella borsa di studio.
Questo – come anche la faccenda della mano morta – aveva però evitato di raccontarlo a suo padre.
- Non è andata a buon fine - tagliò corto.
- E non c'è proprio nessuno che ti piace? Non mi dispiacerebbe vederti con un fidanzato...
- Al momento non c'è nessuno che m'interessi. Tu, invece?
- Io, cosa?
- Perché non ne trovi una tu? Di fidanzata - precisò.- Sei ancora giovane. Sono sicura che a lei non dispiacerebbe.
- Lei chi?
- Lei - Belle accennò prima al soffitto e poi a una cornice poco distante, che ritraeva Caroline Gordon con in braccio sua figlia di nove mesi. Suo padre sbuffò divertito e biascicò qualcosa d'incomprensibile, poi annunciò che sarebbe andato a dormire.
- Lavori anche stasera?
- Torno alla centrale verso le due del pomeriggio. Finché non risolviamo questa brutta gatta da pelare è meglio non perdere tempo. Ricordati la promessa che mi hai fatto.
- Certo. Dormi bene.
Ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Belle si conosceva: era una sbruffona, le piaceva impiegare le sue capacità per il gusto di farlo, e...lei e Lum stavano appresso alla storia del Lupo da quando era iniziata.
Sono morte tre ragazze e una quarta è in coma..., pensò.
Un'ora dopo, assicuratasi che suo padre stesse dormendo, Belle era già di fronte al computer portatile alla scrivania di camera sua, e il cellulare nella mano destra.
Cominciò a registrare un messaggio vocale su Whatsapp mentre sullo schermo del PC appariva la schermata degli archivi privati della polizia di Everbrooke.
- Lum, so che avevo detto che non ti avrei disturbato mentre tu e Babette facevate quattro salti, ma appena ti stacchi dalla tua dolce metà, gradirei che mi richiamassi. Ho un nuovo lavoro per noi due...
Mentre lo diceva, la stampante aveva iniziato a riprodurre il dossier privato del caso Rosebud Thorn.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Se siete arrivati fino a qui...complimenti! XD
Scherzi a parte, grazie per aver letto fino a qua. Sono quasi le due di notte mentre scrivo, dunque sarò breve altrimenti collasso qui: so che molti di voi penseranno che so scrivere solo rielaborazioni di favole. In parte è vero. La verità è che miti, fiabe e leggende mi piacciono così tanto che mi diverto ogni volta a darne interpretazioni nuove e visioni diverse.
Questa in particolare è il mio tentativo di allontanarmi un po' dal filone. E' una versione più matura del mio antiquato A Fairytale for a Lifetime, che poi ho abbandonato per motivi che spiegherò più avanti, ed è un modo per allontanarmi dal tema delle favole restando ancora legata a esso.
Ho promesso a me stessa che, dopo questa storia, mi sarei dedicata solo a “Grimm” per quanto riguarda l'ambito fiabesco e dintorni. Questa storia è una sorta di tentativo di guarigione XD.
Spero comunque che vi sia piaciuto il primo capitolo. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, come sempre :).
A presto.
Un bacio,
 
Beauty

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - You're Everything a Big Bad Wolf Could Want (Roxy, il Lupo) ***


Capitolo II
 
You're Everything a Big Bad Wolf Could Want
 
(primo pomeriggio di domenica 8 settembre)
 
 
I. [Roxy]
 
Le luci psichedeliche erano ormai spente da più di otto ore e gli inservienti avevano quasi terminato di pulire e di rimettere tutto in ordine per la riapertura di quella sera. Roxy Randall buttò giù tutto d'un fiato il restante contenuto del suo boccale di birra; di fronte a lei, del pasto che il suo capo le aveva offerto – che era allo stesso tempo colazione, pranzo e cena – restavano solo un trancio di pizza capricciosa e una ciotola di patatine fritte pressoché intatta.
- Non ti piacciono?- domandò Charlie, accennando a esse. Stava asciugando uno dei bicchieri con uno straccio. Roxy pescò una patatina e se la portò alle labbra per dargli il contentino.
- Sono solo stanca - mentì.- Non vedo l'ora di andarmene a dormire.
- Non sei obbligata a fare ogni notte questi straordinari.
- Ah, no?- biascicò la ragazza, inarcando un sopracciglio.
Charlie sospirò mentre posava il bicchiere e ne prendeva un altro.
- Sai che se potessi permettermi di farti lavorare qualche altra serata in più, lo farei.
- Sì, lo so.
- Forse potresti provare a cercarti un part-time per le sere scoperte. O durante il pomeriggio.
- Grande idea, Einstein. Peccato che tu sia arrivato tardi - Roxy prese la borsetta di Valentino sul bancone e ne estrasse un curriculum vitae. Lo sventolò sotto al naso del ragazzo.- Ho un colloquio di lavoro oggi alle cinque.
Charlie prese in mano il CV e lo lesse, accigliato. Poi lo posò sul bancone, prese una penna e cominciò a cancellare sistematicamente alcune righe.
- Ehi, ma che fai?!- protestò Roxy, cercando di riprendersi il pezzo di carta. Charlie le allontanò la mano e non smise di cancellare le parole stampate.
- Non ti assumeranno mai se scrivi che hai lavorato qui - borbottò.- Quindi...te ne vai?
Roxy sbuffò divertita.
- Scherzi?! Non mollerei questo posto di lavoro neanche se la Burberry mi offrisse un posto come modella a tempo indeterminato...
- Perché stento a crederci?
- Perché sei diffidente fino all'osso. Comunque sta' tranquillo, non ti pianto in asso. E' un part-time tre giorni a settimana, e chiudono alle sei del pomeriggio.
- Che posto è?
- Il Be Our Guest.
Roxy aveva dato la risposta fra i denti, e aveva evitato di guardare il ragazzo mentre lo diceva. Charli alzò lo sguardo su di lei, perplesso.
- Non fare commenti - borbottò la ragazza.
- E' solo che non ti ci vedo - Charlie le restituì il curriculum.
- A servire hamburger e patatine?
- Così, non ti ci vedo - Charlie regalò all'outfit di Roxy uno sguardo a metà fra il critico e lo sprezzante. La ragazza indossava una giacca a vento leggera su uno dei tanti completi delle ballerine del Bearskin. Per le nuove arrivate c'era un guardaroba comune nel camerino che conteneva tutti i modelli con un range di taglie abbastanza ampio, fino a che non riuscivi a mettere da parte abbastanza soldi per comprartene uno intero a tua esclusiva disposizione.- Ce l'hai una camicia a casa? Mettitela.
Al Bearskin le ballerine dovevano indossare un completo a seconda del tema della serata. La nottata precedente c'era stato un addio al celibato, e Roxy aveva ancora addosso il costume intero e scollato che, unito a un berretto e a un manganello finto alla cintura, dava l'idea di una sexy poliziotta. A completare il tutto c'erano delle calze a rete nere e delle scarpe di vernice con il tacco quindici.
- Quanto la fai lunga. E' un colloquio per un lavoro da cameriera, mica devo andare in un ufficio o roba simile.
- Evita comunque di dire che lavori qui per il resto della settimana. E copriti le cosce.
Roxy prese un altro paio di patatine e le masticò con lentezza, chiedendosi che diamine avesse Charlie di lì a dieci giorni. Il ragazzo era sempre stato un po' orso da che lo conosceva, un tipo di poche parole e che tendeva a starsene sulle sue, si faceva gli affari suoi e mandava avanti il suo locale, punto e stop. Quando era di cattivo umore diventava intrattabile e brontolone, ma nel giro di qualche ora o un giorno sbolliva e tornava a essere quello di sempre.
Era da due giorni che trattava tutti con sufficienza. Persino lei.
- Che ti prende?- gli chiese alla fine, con noncuranza ostentata.
Charlie la guardò, sorpreso. Il ragazzo aveva quattro anni in più della ventitreenne Roxy, ma sembrava molto più vecchio talmente era sempre serio. Aveva un fisico asciutto e palestrato – una volta aveva raccontato a Roxy che, ai tempi del liceo, guadagnava qualche soldo posando come modello oltre che lavorando nel locale di famiglia, e quella rivelazione era stata un evento più unico che raro, dal momento che Charlie non raccontava quasi mai nulla di sé –, era alto e aveva i capelli castani che portava leggermente più lunghi rispetto alla moda, e gli occhi scuri. Roxy non gliel'avrebbe mai detto neanche sotto tortura, ma sin dal primo giorno in cui aveva messo piede al Bearskin aveva pensato che quelle pupille color cioccolato fossero mozzassero letteralmente il respiro. Non aveva mai visto degli occhi così, bellissimi e penetranti, che sembravano scandagliarti l'anima.
Roxy non sapeva se qualcuno glielo avesse mai detto, ma era certa che se lei lo avesse fatto, Charlie come minimo le avrebbe risposto di non sparare stronzate e di rimettersi al lavoro.
- Perché? Che mi prende?- le fece il verso.
- Sembra quasi che tu voglia mandare affanculo il mondo.
- E da quando è una novità?- Charlie scrollò le spalle e riprese ad asciugare i bicchieri.- Con la merda in cui ci troviamo a vivere, mi stupirei del contrario. Tu, piuttosto...
- Io, cosa?
- Non sei andata al funerale.
Charlie abbassò la voce mentre lo diceva. Sapeva che a Roxy non piaceva parlarne e che non avrebbe sopportato di venire collegata a quella famiglia. Lei lo capì e internamente apprezzò il gesto, ma le diede comunque fastido quell'affermazione, come se il ragazzo volesse farla sentire in colpa per qualcosa.
Si sporse in avanti sul bancone per poter parlare a voce più bassa.
- Quale disturbo psichiatrico ti ha convinto che ci sarei andata?
- Roxy, con me e con chiunque altro hai sempre giocato a fare la ragazzina ribelle che manda al diavolo le convenzioni, e mi sta pure bene - Charlie sbatté il bicchiere sul ripiano del bancone e fece una smorfia infastidita.- Ma non è che puoi far finta di nulla su questa faccenda.
- Dove sta scritto che non posso?
- Resta sempre la tua famiglia. Era il marito di tua madre.
- E non mi stupisce che sia morto d'infarto. Gliel'avrà sicuramente fatto venire lei, con tutte le sue angherie.
Charlie tacque. La guardò per qualche istante, poi distolse lo sguardo e strofinò il bicchiere con più energia. Roxy ebbe la netta sensazione che volesse dirle qualcosa...e difficilmente le sue sensazioni sbagliavano.
- Ehi...!- chiamò.- Che c'è?
- Non lo sai, vero?
- Cosa?
Charlie inspirò a fondo, ma non disse nulla. Trascorsero diversi secondi, e Roxy era sul punto di mettersi a insistere perché le rispondesse, ma non ce ne fu bisogno.
- Non è stato un infarto.
- Che vuol dire?
- Che quella è stata la notizia che la moglie e il figlio maggiore hanno voluto venisse divulgata sui giornali e alla TV. Non gli è venuto un infarto, l'hanno ammazzato.
Roxy cercò di controllare la propria espressione facciale in modo che il ragazzo non si accorgesse che la notiza l'aveva colpita in pieno. Non fu sicura che avesse funzionato. Si ravvivò i capelli passando una mano fra le ciocche castane e mosse intervallate qua e là da mèches rosse, e chiese a Charlie se potesse servirle un'altra birra.
Lui le rispose che era finita.
- Non ci credo.
- Come ti pare, non crederci.
- Whisky? Negroni?
- Finiti.
- Mi va bene anche del vino.
- Niente alcolici. Però se vuoi posso servirti dell'acqua. Della bella acqua fresca, che ne dici?- il ragazzo sogghignò e prima che Roxy potesse rispondergli – per mandarlo all'Inferno – prese la bottiglia di acqua minerale e riempì un bicchiere che fece scivolare lungo il bancone.- E' quello che ti ci vuole. Sei diventata bianca come una morta.
Roxy bevve in silenzio. Charlie appoggiò i gomiti sul bancone a pochi centimetri da lei.
- Mi spiace di averti sconvolta.
- Non sono sconvolta. Solo, non capisco perché mentire.
- Per lo stesso motivo per cui tu stai mentendo a me in questo momento. Non vogliono mostrare di essere vulnerabili. Comunque, se ci pensi ha un senso - Charlie cambiò velocemente registro quando si accorse che Roxy lo stava guardando male.- Un uomo così noto nel mondo dello spettacolo, della moda, del business...è anche sensato che vogliano evitare che la pubblicità lucri su questa storia. Soprattutto perché a quanto pare il killer non è ancora stato preso.
- Tu come fai a sapere tutte queste cose?- inquisì Roxy.
- Voci - Charlie alzò le spalle e non fornì ulteriori dettagli se non un:- Lo sai, qui dentro non sempre gira gente rispettabile.
Roxy aprì la bocca per rispondere, ma venne preceduta da un paio di vibrazioni e dalla cover di Lee Mead di Paint it black. Charlie recuperò il proprio cellulare dalla tasca del grembiule e guardò lo schermo. La ragazza in quel momento vide chiaramente la sua espressione cambiare, farsi più cupa e la mascella serrarsi. Charlie rifiutò la chiamata e ripose il telefonino nella tasca.
Roxy sgranò gli occhi.
- Ma che fai? Non rispondi?
- No, non...era solo un piantagrane...- borbottò Charlie.- Senti, se non ti dispiace, io gradirei chiudere il locale e andarmene a letto. Odio gli addii al celibato...
- Mi stai buttando fuori?- rise Roxy.
- Proprio così. A calci, se serve - Charlie le allungò venti banconote da dieci dollari.- Le mance di stasera. Buona fortuna per il tuo colloquio, ci vediamo domani sera. Puntuale, mi raccomando...
- E quando mai faccio tardi?
- Più o meno tutte le sere da cinque anni.
Roxy prese la borsetta di Valentino, lo salutò e uscì. Quando fu in strada, tirò su la cerniera della giacca a vento e salutò il buttafuori. L'entrata del Bearskin era all'interno di un vicolo cieco, molto stretto – il Bearskin non era quel genere di locale come le discoteche di New York o di altre metropoli, dove trovavi file chilometriche di fronte all'ingresso –, dove i clienti si potevano infilare senza essere visti o riconosciuti.
La clientela del Bearskin era prevalentemente maschile. Roxy lavorava lì da cinque anni, e aveva visto uomini di tutti i tipi, dai single alla ricerca di un po' di compagnia agli sposati che volevano qualche avventura o un po' di distrazione. E la ottenevano, se avevano i soldi.
A dire il vero, il Bearskin era un po' di tutto. Era un pub costruito su due piani: a quello inferiore c'era una pista da discoteca circolare, intorno alla quale un piano sopraelevato ospitava i divanetti, gli sgabelli e i tavolini su cui i clienti potevano consumare l'aperitivo oppure ordinare un hamburger con patatine da sbocconcellare; alla stessa altezza dei tavolini c'era il bancone dietro a cui Charlie serviva i cocktail e gli alcolici. Uno stanzone a lato di esso dava accesso a un seminterrato che fungeva da sala da biliardo e da poker, e dove si poteva giocare alle slot machines. Attraverso una scala a chiocciola in ferro si accedeva al piano superiore, che altro non era se non un terrazzino circolare a sua volta munito di tavolini e sedie, e che permetteva una veduta dall'alto della vera attrazione del locale.
Al piano inferiore, di fronte alla pista da ballo e in mezzo a essa, sorgeva uno spiazzo sopraelevato dalla forma di palcoscenico e passerella, più alcuni piedistalli di forma cubica staccati da esso e sparsi lungo tutta la pista. Alcuni pali di ferro erano piantati verticalmente nel metallo delle pedane.
Era là sopra che avvenivano gli spettacoli delle ballerine: lap dance e spogliarelli. Roxy quattro sere a settimana cominciava il suo turno di lavoro vestita con un completino succinto e per almeno tre volte a notte si ritrovava a ballare in topless con addosso solo il tanga.
Durante le nottate di addio al celibato come quella precedente, grazie alle mance dei clienti che pagavano per vedere lei e altre ragazze ballare mezze nude, Roxy guadagnava quasi più in mance che con il suo regolare stipendio. E i soldi aumentavano se una delle ragazze accettava di ballare durante uno “spettacolo privato”.
Al Bearskin c'era una camera particolare, la stanza rossa, come veniva informalmente chiamata – anche se Charlie detestava quel nome forse più della stanza in questione. Era cosa nota che fosse stato suo padre, notevolmente un maiale della peggior specie, a volerla. Si trovava a poca distanza dai bagni, ed era una stanzetta munita di divanetto foderato di rosso e piazzato proprio di fronte a una pedana sopraelevata a forma di cilindro.
Se un cliente lo voleva, poteva pagare una somma extra perché una delle ragazze, scelta a suo piacimento, eseguisse uno spogliarello solo per lui nella stanza rossa. Roxy era lì solo da cinque anni, ma Chloe, una delle spogliarelliste che lavorava al Bearskin da più tempo, le aveva raccontato che le cose erano di gran lunga migliorate da quando il vecchio proprietario aveva tirato le cuoia e a prendere le redini del locale erano state prima la vedova e poi il figlio. Quando il padre di Charlie gestiva il tutto, le aveva spiegato Chloe, nella stanza rossa ci potevano entrare anche sei o sette uomini con una sola ballerina, i soldi li intascava tutti il proprietario e non importava a nessuno se la ragazza scelta fosse d'accordo o meno nell'intrattenersi con il cliente di turno – difatti, aveva specificato Chloe, all'epoca uno spettacolo nella stanza rossa era automaticamente sinonimo di scopata o, a volte, di stupro.
Charlie era benvoluto dalle ballerine anche per il fatto di aver modificato le regole della stanza rossa. Tanto per cominciare, i soldi extra per uno spettacolo venivano divisi al 50% fra il proprietario del Bearskin e la spogliarellista. Roxy ricordava a memoria le parole che lui le aveva rivolto quando era stato il momento di spiegarle le regole della stanza rossa.
- I rapporti sessuali non sono inclusi nella prestazione. Se vuoi andare a letto con uno dei clienti, così come se decidi di farti pagare per questo o meno, è una tua scelta. Metà del denaro per lo spogliarello la intasco io, l'altra metà è tua. Non, e su questo punto non transigo, ripeto non entrare nella stanza rossa con un cliente senza prima aver ricevuto una mia esplicita autorizzazione. Se qualcuno ti chiede una prestazione per uno spettacolo privato, invialo prima da me, o meglio ancora vieni tu con lui. Decido io chi può usufruire del servizio e chi no. Se qualcuno è ubriaco, sotto l'effetto di sostanze, ha un'aria poco raccomandabile o semplicemente ha una faccia che non mi piace, può scordarsi di ricevere la prestazione. Ci tengo alla salute delle mie ragazze. A questo proposito, si entra nella stanza con solo un cliente per volta. Vai là senza il mio permesso o con più di una persona e ti butto fuori a calci. Ah, un'altra cosa: quella a cui spetta sempre l'ultima parola sei tu. Se non ti piace il tipo, o non vuoi fare lo spogliarello per lui, anche se io ho dato l'autorizzazione basta che tu mi dica di no e non se ne fa più nulla. Ci siamo chiariti?
Roxy doveva ammettere di non avere chissà quella grande esperienza con la stanza rossa, complice anche il fatto che Charlie era abbastanza restio a permetterne l'uso – correva voce che volesse smantellarla, ma era da più di un anno che lo dicevano e ancora non se n'era fatto nulla. C'era stata, certo: era un ambiente cupo e polveroso, completamente foderato di vermiglio e cremisi, e la maggior parte dei clienti che le erano capitati erano dei poverini repressi che nella peggiore delle ipotesi si erano limitati a toccarsi un po' mentre lei si spogliava al ritmo di musica.
Niente che non avesse messo in conto nel momento in cui aveva accettato il lavoro al Bearskin, insomma.
Pensandoci bene, Roxy realizzava sempre che le sue sortite nella stanza rossa erano state tutte concentrate nel suo primo anno di lavoro al locale. Poi, Charlie aveva smesso di accettare le richieste dei clienti che la indicavano come la prescelta – e ce n'erano state parecchie, questo Roxy lo sapeva per certo da Chloe e Samantha.
Roxy ne era rimasta un po' sconcertata e si era anche sentita punta sul vivo. Non le era mai parso che Charlie riservasse lo stesso trattamento anche alle altre ballerine. Una sera aveva provato a chiedergli spiegazioni, ed era stata una delle poche volte in cui l'aveva visto perdere la pazienza: le aveva urlato in faccia che il proprietario lì era lui, dunque era lui che decideva e che se non le stava bene così non c'era nessuno che la trattenesse dall'andarsene.
Roxy ricordò questo episodio mentre rimuginava sul comportamento bizzarro di Charlie negli ultimi tempi. Anche quella telefonata non accettata le era parsa in qualche modo curiosa, come se lui nascondesse qualcosa. Una parte di lei le suggeriva di non darci troppo peso: Charlie era sempre stato un po' strano. Non solo era schivo e riservato, proprio non dava mai confidenza a nessuno e non raccontava mai niente della sua vita.
Roxy si era resa conto di essere l'unica al Bearskin a essersi guadagnata la sua fiducia quel poco che bastava perché loro due avessero un minimo di confidenza. Charlie con lei rideva e scherzava, ascoltava i suoi problemi, la consigliava e cercava di darle una mano per quel che poteva; ma Roxy a malapena conosceva il suo cognome e la sua età, di lui sapeva solo che abitava in un appartamento sopra al Bearskin, che aveva ereditato il locale da un padre con cui – sempre stando alle voci di camerino – non aveva mai avuto un gran rapporto, e che dopo la morte di sua madre vivesse da solo. Roxy non aveva idea se avesse una fidanzata, quale fosse il suo titolo di studio, se fosse mai uscito da Everbrooke o se avesse fratelli o sorelle. Presumeva fosse figlio unico.
Il solo fatto che una volta le avesse rivelato che gli piacevano gli horror e la cucina messicana equivaleva a una grande conquista informativa, per lei.
Roxy ridacchiò, ripensando al suo colloquio di lavoro cinque anni prima.
- Spiacente, sono al completo con le cameriere.
- Io sono qui per il posto come ballerina.
Charlie l'aveva guardata sospettoso. Era stato in quel momento che Roxy si era resa conto di che occhi meravigliosi avesse.
- Senti, ragazzina, non ho tempo da perdere.
- Non sto scherzando.
- Quanti anni hai, si può sapere? Bisogna essere maggiorenni per lavorare qui come ballerina. E a questo proposito, non so se hai capito che con ballerina intendo anche...
- Sì, sì, l'ho capito che bisogna spogliarsi e ballare nude. Ho diciotto anni, comunque. Vuoi vedere un documento?
Charlie aveva esaminato la sua carta d'identità e la sua patente con la stessa concentrazione e solerzia che avrebbe riservato la decifrazione di un documento top secret per la CIA. Alla fine se n'era uscito con un:- Ma sei scappata di casa?
- Mi hanno detto di andarmene e io ho ubbidito. Allora, me la fai fare una prova?
Gliel'aveva fatta fare. Roxy ricordava ancora che la musica che aveva messo su era Hit me baby one more time di Britney Spears e che Charlie l'aveva bloccata quasi terrorizzato quando aveva capito che stava per togliersi la camicetta.
- Che diavolo, ho detto che volevo solo vedere come ballavi!
- Ma tanto è questo che dovrò fare, no? Ho pensato che sarebbe stato più completo...
- Allaccia i bottoni, subito.
- Allora, mi assumi? Ti prego, ho bisogno di lavorare!
- Va bene, va bene! Cominci lunedì...tanto in capo a qualche mese avrai già trovato di meglio.
E invece era rimasta cinque anni. Roxy non stentava a capire perché Charlie l'avesse assunta.
Lei apparteneva alla rarissima razza di donne e ragazze che sono bellissime e sanno di esserlo. Forse il suo volto era di una bellezza un po' tiepida – naso piccolo, labbra sottili, guace piene e forma ovale, dei tratti abbastanza anonimi –, ma se c'era una cosa buona che le aveva lasciato sua madre era un bel fisico in eredità. Roxy era alta un metro e settantacinque, aveva un corpo sodo, le gambe lunghe, i fianchi stretti e un seno abbonandante anche se non eccessivamente prominente, gli occhi castani e i capelli castani e mossi che amava modellare in mille acconciature – sciolti sulle spalle, una o due trecce, acconciatura a corona, chignon, coda alta o bassa, treccine, permanente – e in mille tonalità – in passato era stata bionda, rossa, l'unico colore che aveva veramente evitato era il corvino perché intimamente si sarebbe sentita troppo simile alla sua sorellastra, e al momento li aveva ancora castani con delle mèches rosse e una ciocca davanti color rosa shocking; avrebbe voluto tingersi l'intera chioma di rosa shocking, ma quando le era sfuggito questo proposito con Charlie lui l'aveva minacciata di rinchiuderla nei bagni e di raparla a zero.
Il classico fisico che attirava l'attenzione degli uomini, insomma. A ciò si univa anche il fatto che Roxy – ne era consapevole – fosse molto appariscente: non usciva mai se non era truccata – le piacevano le tonalità forti, il rossetto vermiglio, l'eyeliner e l'ombretto neri, unghie lunghissime e smaltate con colori pastello a cui aggiungeva sempre uno o più brillantini – si riempiva le braccia di bracciali e aveva un amore smodato per gli orecchini a pendaglio. Non disdegnava le minigonne e i tacchi alti, su cui non aveva problemi a camminare perché il suo lavoro le aveva fornito una capacità di equilibrio e una sensualità che molte sue colleghe invidiavano.
A Roxy piaceva ballare, e si considerava anche brava. Prendeva lezioni di danza classica e hip hop da quando aveva sei anni, e a dodici aveva iniziato con i balli da camera e il latino americano. Pensava spesso che, quando sarebbe stata troppo vecchia per lavorare al Bearskin, avrebbe potuto aprire una scuola di danza.
Con i risparmi di un secondo lavoro sarebbe stato possibile.
Mentre pensava questo, uscendo dal vicolo, Roxy urtò accidentalmente con quello che a prima vista le parve un cumulo di rifiuti. Si scansò, solo per accorgersi un attimo dopo che si trattava di un clochard, avvolto in un cappotto troppo pesante per la stagione e con il capo coperto da un telo di stoffa strappato, che se ne stava raggomitolato nell'angolo del marciapiede.
- Scusa, amico...- mormorò Roxy.- Non ti avevo visto...
Il senzatetto non sembrava neanche essersi accorto del fatto che lei gli avesse praticamente tirato un calcio per sbaglio, e alzò lo sguardo quando la sentì parlare. Fu allora che Roxy vide che si trattava di una donna.
Una ragazza, pensò. Doveva avere la sua età, o essere poco più giovane. Aveva il volto pallido e smunto, molto magro ma comunque ancora grazioso, e dei grandi occhi scuri. Dal telo che teneva avvolto intorno al capo sfuggiva qualche ricciolo castano.
La guardò senza dire nulla.
- Beh, scusa...- disse ancora Roxy, e proseguì per la sua strada. La ragazza non rispose e si coprì naso e bocca con una sciarpa lisa che teneva intorno al collo.
Roxy proseguì a passo spedito senza voltarsi. Il Bearskin si trovava alla periferia di Everbrooke, così come lo squallido appartamento che la ragazza aveva affittato e così come il Be our guest. Roxy fece una smorfia. Avrebbe anche evitato di trovarsi un secondo lavoro, ma i soldi che guadagnava non erano abbastanza.
Prima viveva in un bell'appartamentino a due passi dal locale, che costava poco e che riusciva a permettersi senza fare i salti mortali. Poi aveva ricevuto lo sfratto perché il padrone di casa aveva bisogno di un appartamento libero per farci venire a vivere il figlio appena sposato, e l'unica cosa che lei era riuscita a trovare era un monolocale che solo per l'affitto e le spese basilari se ne andavano stipendio e mance.
E lei non voleva assolutamente chiedere aiuto a...
Roxy interruppe a metà il flusso dei propri pensieri. Rallentò il passo fino a quasi fermarsi.
L'hanno ammazzato.
La notizia che Charlie le aveva dato l'aveva colpita, inutile negarlo. Ma non tanto per sua madre, per lo stesso Amos Schreave, o per se stessa, quanto per...
Roxy chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Si domandò se lui lo sapesse. Come avesse reagito. Se avesse trovato un modo per andare al funerale nonostante tutto, se la sua condizione glielo avesse impedito o se si fosse rifiutato come aveva fatto lei.
Si domandò se fosse il caso di avvisarlo.
E se non lo sapesse?, la domanda era scontata. Vuoi davvero essere tu a dirglielo per prima?
Alla fine razionalizzò, e si disse che, con quello di cui era capace, di sicuro non era rimasto all'oscuro della vicenda a lungo. Ma decise comunque di sentire anche l'altra parte della famiglia rinnegata.
Attraversò la strada di corsa e raggiunse una cabina telefonica seminascosta accanto alle fronde di un albero piantato in un'aiuola. Vi si chiuse dentro e iniziò a frugare nella borsetta di Valentino alla ricerca della scheda e di un paio di dollari.
Quando finalmente riuscì a comporre il numero, Roxy dovette attendere solo pochi istanti prima che le rispondessero.
- Sì? Desidera?
- Joseph, ciao. Sono Roxy - la ragazza resse la cornetta del telefono incastrandola fra la spalla e il mento e recuperò un pacchetto di sigarette e un accendino dalla borsetta. Ne accese una e iniziò a fumare, socchiudendo un po' la porta della cabina perché il fumo fuoriuscisse.
- Buongiorno, signorina Roxanne. Le chiedo scusa se non l'ho riconosciuta, ma sullo schermo non è apparso né il suo nome né il suo numero di telefono. In cosa posso esserle utile?
- Sto chiamando da una cabina telefonica perché non volevo che nessuno sentisse.
- Molto saggio da parte sua, signorina Roxanne.
- Lui è in casa?
- Il padrone è salito nel suo studio mezz'ora fa per lavorare. Desidera che passi la chiamata al suo telefono?
- No, non farlo. Devo dirti una cosa, Joseph, meglio che sia tu a comunicargliela. Sai come prenderlo.
- Di cosa si tratta, signorina Roxanne?
- Beh, ecco...il tuo vecchio capo...sai, Amos Schreave...beh...
- Ho letto la notizia sui giornali, signorina Roxanne. Condoglianze.
- Risparmiatele, non me ne importava niente di quello stronzo. E' solo che...beh...lui come sta?
- Il padrone ha ricevuto la notizia con estrema calma. Non ha profferito parola in merito. Si è solo limitato a osservare che chiunque abbia voluto morto il signor Amos doveva avere delle ragioni molto serie...
- Ah! Quindi sa che lo hanno ammazzato?
- Con tutto il rispetto, signorina Roxanne, lei davvero crede che il padrone potrebbe essere all'oscuro di un fatto simile?- il tono nella voce di Joseph lasciò temporaneamente la sua tipica neutralità svizzera per assumere una sfumatura alquanto canzonatoria. Roxy si accigliò.
- E' andato al funerale?
- Non ne ha espresso la richiesta, e d'altronde lei sa che sarebbe stato rischioso.
- Sicuro che stia bene?
- Sembra che la notizia non lo abbia toccato, come le ho detto.
- Va bene...salutamelo, okay?
- Sarà fatto, signorina Roxanne.
- E tienimi aggiornata se ci sono novità di qualunque tipo.
- Naturalmente, signorina Roxanne. Desidera altro?
- No, grazie, Joseph. A presto.
- Le auguro una buona giornata.
Roxy chiuse la chiamata e terminò la sua sigaretta fuori dalla cabina telefonica. Quando si voltò, vide che la ragazza senzatetto era sparita.
 
II. [Il Lupo]
 
Alle due e quarantacinque minuti del pomeriggio l'ispettore Gordon si stava trascinando stancamente verso il suo ufficio alla centrale di polizia di Everbrooke, quando la segretaria lo chiamò alla sua scrivania.
La centrale di polizia di Everbrooke era piccola e ospitava al suo interno dieci poliziotti, fra commissario, ispettori e agenti, e tre civili, tra cui una signora che si occupava delle pulizie, una segretaria che faceva anche da centralinista e temporaneamente anche uno studente universitario di criminologia che doveva scrivere la tesi.
Era naturale che ci si conoscesse tutti. E sarebbe stato da idioti non accorgersi che la segretaria non era la bella signora di quarantacinque anni che lavorava alla centrale tutti i giorni.
- Louisa?- boccheggiò l'ispettore Gordon, sbalordito.
La segretaria alzò lo sguardo dal computer su cui stava lavorando. Era una brunetta con i capelli ricci che le circondavano il volto a cuore e il collo, fermati da un cerchietto in cima al capo, e gli occhi verdi; era piuttosto graziosa, con le guance rosee e le labbra a bocciolo.
E aveva diciassette anni.
- Buongiorno, ispettore - mormorò come se nulla fosse.- Il commissario Torrance ha richiesto la sua presenza nel suo ufficio. La sta aspettando.
- Che diamine ci fai qui?!- bisbigliò l'ispettore Gordon, poggiando le mani sulla superficie della scrivania e chinandosi verso di lei.- Dov'è tua madre? E tu perché non sei andata a scuola?
- La mamma non stava bene, ha vomitato tutta notte, così oggi ho pensato di sostituirla io. Non si preoccupi per la scuola, oggi non c'era niente d'importante. Il commissario Torrance...
- Sì, me l'hai già detto! Dannazione, Louisa, te l'avrò detto mille volte che non devi saltare la scuola!
- Ha anche chiamato sua figlia per sapere se era arrivato. Preferisce farle uno squillo lei o vuole che la richiami io?
Gordon batté un pugno sulla scrivania. Un agente che passava di lì reggendo un bicchiere di plastica ricolmo di caffè trasalì e si fermò a guardare che stava accadendo.
L'ispettore lo guardò in cagnesco.
- Fatti gli affari tuoi, Hunter!- ringhiò; tornò a rivolgersi alla giovanissima segretaria.- Louisa, finiscila di cambiare discorso, per favore. Io e te ci eravamo parlati in modo molto chiaro. Mi avevi promesso che non avresti saltato la scuola per sostituire tua madre.
La ragazza gli restituì lo sguardo di fuoco.
- Sa benissimo che la mamma non può permettersi detrazioni dallo stipendio perché è malata, ispettore!- sibilò.
- Finirai per farti bocciare, se continui così.
Lei fece spallucce come a dire che non le importava niente, e riprese a lavorare al computer; a Gordon non sfuggì che gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Quando parlò, infatti, la voce le uscì incrinata.
- Che me ne faccio del diploma? Tanto finirò a fare la cassiera al Walmart in fondo alla strada...
- Ci finirai per davvero, se ti ostini a saltare la scuola.
- Insomma, le ho detto che il commissario la sta aspettando! Vuole andare sì o no?!- sbottò la ragazza alla fine. Ormai intorno a loro si era radunato un capannello di gente che, chi con la scusa di fare fotocopie, chi fingendo di farsi gli affari propri o di sbrigare le proprie faccende, stava origliando la loro conversazione.
L'ispettore sospirò e si raddrizzò, deciso a non mettere Louisa ancora di più in imbarazzo. Si allontanò di un passo, ma non distolse lo sguardo dalla ragazza.
- Comunque io e te non abbiamo finito...- sussurrò, prima di girare i tacchi e dirigersi verso l'ufficio del commissario. Era la stanza più ampia della centrale di polizia, e l'arredamento corrispondeva allo standard di tutti gli altri uffici: scrivania, una poltrona, due sedie di plastica e qualche accessorio a piacere, in questo caso una pianta in un angolo, uno scaffale alle spalle della scrivania e un ritratto incorniciato del Presidente degli Stati Uniti.
Entrando, l'ispettore Gordon non poté fare a meno di notare un'altra fotografia incorniciata: si trattava di una ragazza di circa vent'anni, con i capelli castani e ricci e grandi occhi scuri, che gli sorrideva smagliante come se lo conoscesse da sempre.
A Gordon quella povera ragazza aveva sempre ricordato sua figlia o Louisa.
- Dobbiamo fare qualcosa per quella ragazzina...!- disse infatti, un secondo dopo aver richiuso la porta.- Non può continuare a saltare la scuola ogni volta che Karen sta male.
Il commissario Torrance smise di prestare attenzione al fascicolo del caso che stava esaminando e lo guardò stranito. Gordon avanzò verso la scrivania.
- Non credo di aver presente la persona di cui sta parlando, ispettore.
- Louisa. La figlia di Karen Larabee. La segretaria - precisò al limite della sopportazione, dato che lo sguardo del commissario lasciava intendere che non avesse la più pallida idea di chi fossero non solo la figlia, ma anche la segretaria stessa della centrale di polizia. Quando nominò la mansione che Karen Larabee svolgeva, l'uomo parve ricordarsi improvvisamente di lei.
- Ah, sì. Certo, la signora Larabee, come no...è ancora malata?
- Sì. E sua figlia è venuta al suo posto, oggi.
- E dove sta il problema?
Gordon lo guardò, sbalordito.
- Ha diciassette anni. Ogni volta che la madre è malata o deve occuparsi dell'altra figlia, salta la scuola per venire qui.
- A diciassette anni ha la possibilità di scegliere se prendere il diploma oppure no.
- Non è questo il punto. Louisa verrà bocciata, con tutte queste assenze.
- Il contratto della signora Larabee prevede che i giorni d'assenza dal lavoro vengano detratti dal suo stipendio mensile. Se lo desidera, è libera di cercarsi un altro impiego che soddisfi le necessità date dai problemi di salute suoi o della figlia minore.
- Resto comunque dell'idea che dovremmo fare qualcosa - insistette l'ispettore.- Tutti in città conoscono la situazione di quella famiglia. Ne avrà sentito parlare anche lei. Se potessimo almeno...non so, rivedere il contratto di Karen...o meglio ancora, fare qualcosa per allontanare quell'uomo...
- Perché se la prende tanto a cuore, Gordon? Sono suoi parenti?
L'ispettore rispose che non lo erano, e bofonchiò qualcosa riguardante all'etica morale che risultò confuso e campato per aria anche a se stesso. Torrance lo guardò quasi compassionevole, come se volesse prenderlo per i fondelli.
- Senta, capisco che l'aver tirato su una...bambina senza l'aiuto dell'agente Caroline Gordon, riposi in pace, l'abbia resa particolarmente sensibile nei confronti dei genitori single e dei loro figli, ma non c'è nulla che possiamo fare se la signora Larabee ha deciso di gestire la sua vita privata in questo modo. Spetta a lei gestire i problemi della sua famiglia; al massimo, se la situazione fosse critica, se ne dovranno occupare gli assistenti sociali. Quanto al compagno della signora Larabee...sì, ho sentito alcuni pettegolezzi in giro, ma senza una denuncia o senza l'evidenza di un reato non possiamo agire, lo sa anche lei.
L'ispettore provò a insistere ancora, ma Torrance alzò una mano aperta come per fermarlo.
- Per favore, risparmi le sue energie per questioni più importanti. Non l'ho convocata per sentirla parlare dei problemi della signora Larabee.
- Già. Immagino voglia aggiornamenti sul caso Rosebud Thorn...- sibilò l'ispettore. Richiuse le dita della mano destra a pugno e poi le distese, facendo scricchiolare le nocche nel processo.- Le comunico che per il momento non ci sono novità.
- Non dico che mi faccia piacere saperlo, ma per il momento la prima questione è conclusa. L'ho chiamata anche per un'altra cosa.
- Dica.
Torrance chiuse il fascicolo che stava leggendo all'ingresso di Gordon e ne estrasse un altro da un cassetto della scrivania. Li fece scivolare entrambi sulla superficie di legno in modo da piazzarli sotto al naso dell'ispettore.
- Il caso Amos Schreave?- lesse quest'ultimo.
- E il caso del Lupo. Apra la prima pagina - lo invitò il commissario, indicando il secondo fascicolo.
Gordon lo fece e il primo impatto fu tale da costringerlo a chiudere gli occhi per un istante: la prima pagina del fascicolo riguardante il Lupo mostrava la fotografia del cadavere di una ragazza, ancora seduto al posto del guidatore della sua auto: il corpo giaceva scompostamente con le gambe fuori dall'abitacolo, un braccio abbandonato contro il volante e il dorso appoggiato allo schienale del sedile. Il capo era reclinato all'indietro, e all'altezza della giugulare si poteva osservare con chiarezza uno squarcio – sicuramente inferto da un'arma da taglio, magari una mannaia, pensò Gordon – che le aveva quasi mozzato la testa talmente era profondo; da esso, il sangue era scorso giù a imbrattarle il collo e il torace lasciati scoperti dalla maglietta scollata; altre coltellate allo stomaco e all'addome avevano fatto in modo che anche i jeans e le scarpe da ginnastica diventassero un lago rosso.
La bocca della ragazza era spalancata in un grido e gli occhi erano sbarrati in un'espressione di terrore.
Terrore, rifletté Gordon guardando quegli occhi senza vita. Terrore, sì...ma anche sgomento. Come se fosse stata spaventata ma incredula. Come se non si aspettasse che proprio una certa persona potesse ucciderla.
In cima alla pagina c'era una didascalia.
 
Possibile vittima n. 4
Adele Jimmerson, 18 anni
 
- Quando l'hanno trovata?
- Oggi, verso le sei del mattino. E' stata una signora che era uscita per portare a passeggio il cane a trovarla e a dare l'allarme. Era in fondo a una stradina isolata in periferia, nei pressi del bosco.
Gordon avvertì una fitta al cuore al pensiero del bosco. Aveva sempre considerato Everbrooke una bella cittadina, tranquilla e sicura – il Lupo aveva cominciato a colpire solo da un anno, e prima di casi eclatanti a cui lavorare ce n'erano stati, certo, ma si potevano contare sulle dita di una mano –, se non fosse stato per il bosco che la circondava. Era una foresta non intricatissima, ma abbastanza folta e che si estendeva per diversi chilometri; al suo interno c'erano pendii, scarpate, ed era cosa nota a tutti che fosse pieno di cinghiali e che fosse la meta preferita di tutti i tossicodipendenti che andavano lì dentro per bucarsi.
Non esattamente il genere di luogo adatto per delle escursioni o per un picnic. Lui stesso era fra i primi ad aver sempre raccomandato fino alla nausea alla propria figlia di non andarci.
- Crede che ce l'abbiano portata?
- No, penso proprio che sia da escludere. E' chiaro che il corpo non possa essere stato spostato dal sedile del guidatore. Anche la spiegazione che hanno fornito i genitori sul perché si trovasse lì ha un senso.
- Quindi, la famiglia è già stata avvertita...
- Sì. L'agente Hunter e due dei nostri esperti si sono recati a casa loro stamattina alle dieci, hanno anche già riconosciuto il corpo. Siamo riusciti a raccogliere un po' d'informazioni su di lei: Adele Lucille Jimmerson, diciotto anni compiuti il trenta luglio scorso, si era appena diplomata alla Everbrooke High School con il massimo dei voti ed era stata ammessa alla Central Washington University. Avrebbe dovuto trasferirsi lì a inizio ottobre.
- Come hanno giustificato il fatto che si trovasse lì, in quel postaccio?
- Stava lasciando la città. Aveva detto di voler andare a trovare un'amica a New York. Secondo i genitori, quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbero avuto modo d'incontrarsi per parecchio tempo, dato che Adele si sarebbe trasferita nel dormitorio della CWU. Hanno anche confermato che l'auto, una Kia Sportage usata, fosse sua.
- L'amica in questione è stata contattata?
- Sì. Lavora come commessa in un grande magazzino a NY. Ha confermato che aspettava Adele per l'indomani mattina. Ha pure un alibi di ferro, ha detto di aver passato la serata in un locale con qualcosa come quindici persone.
- Vuole che sia io a prendere in carico il caso, commissario?
Torrance ridacchiò. Gordon aveva sempre trovato la sua risata alquanto sinistra, anche se non avrebbe saputo dire con esattezza il motivo. Il commissario non era un bell'uomo – e a pensarlo era un altro che somigliava a un manico di scopa rinsecchito –, poco alto, tozzo, con un ventre non prominente ma che lasciava intendere una certa familiarità con la birra, una calvizie incipiente e una mandibola molle, cascante, che unita agli occhi acquosi gli dava l'apparenza di un rospo, un viscido rospo. Di certo, non il tipo di persona che ispirava confidenza; specialmente in un tipo come John Gordon per cui il massimo del concedere confidenza consisteva nel permetterti di dargli una pacca su una spalla.
- I casi, ispettore - precisò il commissario, e picchiettò con l'indice sul fascicolo Amos Schreave.- Io e l'ispettrice capo Holsey riteniamo che siano collegati.
Gordon si mostrò sorpreso.
- Le altre tre vittime del Lupo sono state uccise con colpi di arma da taglio, e così anche questa poveretta - indicò l'immagine del corpo dilaniato di Adele Jimmerson.- Amos Schreave è stato ucciso a colpi di pistola.
- Dimentica Rosebud Thorn.
- Le hanno sparato, è vero. E infatti non eravamo del tutto convinti che si trattasse dell'opera del Lupo.
- Ricorda dove è stato ucciso Amos Schreave?
Gordon se lo ricordava. Ricordava a memoria nomi, età, e dettagli di tutte le vittime dei tre casi che in quel periodo stavano tenendo occupata l'intera centrale di polizia di Everbrooke.
Era cominciato tutto circa undici mesi prima.
La prima vittima era stata Hailey Delariva, una cheerleader di sedici anni. Trovata sgozzata su una panchina del parco.
La seconda si chiamava Denise Cresswell, quindici anni e scrittrice del giornalino scolastico della Everbrooke High School. Pugnalata a morte nel giardino di casa sua. La maggior parte delle ferite erano sulla schiena, il che faceva pensare che avesse tentato di scappare.
La terza, Jamie Ronning, era una quattordicenne che frequentava il primo anno, occhialuta, secchiona e un po' bruttina, per niente popolare. Lei era stata quella su cui il Lupo si era accanito di più, squarciandole l'addome e quasi mozzandole braccia e gambe tanta era stata la furia delle coltellate.
Questi primi tre omicidi avevano condotto tutti sulla pista del maniaco sessuale, sebbene nessuna delle vittime avesse riportato segni di violenza carnale – anzi, Denise e Jamie erano ancora vergini –, del pervertito fissato con le adolescenti e le studentesse.
Poi, era arrivata Rosebud Thorn. A Everbrooke la conoscevano tutti, e tutti si ricordavano di lei sebbene se ne fosse andata dalla città già da due anni. Gordon stesso si ricordava di lei perché lei e Belle seguivano qualche corso insieme al liceo e in un paio di occasioni Rosebud era venuta a casa sua per farsi dare ripetizioni di matematica da sua figlia.
Anche se Belle sosteneva di averle fatto solo un favore, che non fossero amiche.
Il padre di Rosebud, Stephen Thorn, era il proprietario di una catena di ristoranti e locali di lusso di cui la moglie, Leah Thorn – il suo cognome da nubile era Beaufort-Spencer, il che esplicava in modo più che cristallino il suo retaggio da figlia di ricca e antica famiglia aristocratica inglese – era la PR e la manager. Rosebud era la loro unica figlia, una bella ragazza dal fisico snello, gli occhi azzurri e i capelli biondi, che vestiva sempre con capi griffati e andava a scuola accompagnata dall'autista. Dalle informazioni che avevano raccolto durante le indagini, al liceo era impegnata in mille attività – era il capo delle cheerleader e la rappresentante d'istituto, la presidentessa del Comitato per le Decorazioni e le Organizzazioni della Everbrooke High School, l'ultimo anno era anche stata eletta reginetta del ballo scolastico e partecipava a tantissime attività extracurricolari: scriveva articoli sul giornalino scolastico, andava in piscina, giocava a tennis, suonava il pianoforte, era socia di un club di lettura – tanto da essere raramente a casa; eppure, a scuola aveva degli ottimi voti, tanto che con la sua media era stata accettata alla Princeton University con una borsa di studio.
Aveva lasciato la città per frequentare il college e laurearsi in giornalismo.
E poi, tre mesi prima, era tornata.
I suoi genitori avevano giustificato il fatto che fosse tornata perché voleva prendersi una pausa dallo studio – era sempre stata una ragazza riservata, per questo aveva preso un appartamento per conto suo per starsene un po' tranquilla.
Le avevano sparato mentre stava guidando la sua auto. Anche lei stava attraversando il bosco. I proiettili avevano attraversato il finestrino e la portiera e Rosebud Thorn era stata colpita a una spalla, al torace, un paio di pallottole le si erano conficcate in una gamba e una le aveva perforato una tempia.
Era un miracolo che non fosse morta sul colpo. Il 911 era stato avvisato da una chiamata anonima, ed era stato solo grazie a quella telefonata che Rosebud non era morta nella sua auto per la ferita alla testa. Ora era in coma da tre mesi, nessuno sapeva spiegare chi e perché avrebbe potuto avercela con la nuova Laura Palmer rediviva, e non erano ancora riusciti a risalire a chi diavolo avesse fatto quella telefonata. Rosebud non poteva essere stata, perché i medici erano certi che avesse perso i sensi nel momento in cui la pallottola l'aveva colpita alla tempia, e l'operatrice telefonica che aveva accettato la chiamata aveva riferito che si trattava di una voce palesemente truccata in modo da non poter essere riconosciuta.
Gordon comprendeva dove il commissario Torrance volesse andare a parare: Rosebud Thorn era stata attaccata alla guida della sua auto, nel bosco; l'ultima vittima, Adele Jimmerson, stava guidando lungo una strada costeggiante il bosco, quando era stata uccisa; e infine, anche Amos Schreave si trovava al volante della sua macchina, al momento della sua morte.
Sulle prime, i casi di Rosebud Thorn e del magnate dell'industria di cosmetici erano stati effettivamente collegati: Amos Schreave non era neanche nei pressi del bosco, stava guidando per i fatti suoi durante una piovosa serata di inizio settembre lungo una strada già di per sé poco trafficata, e quella notte deserta a causa del tempo. Tutti, inclusi la vedova e il figlio maggiore, avevano detto che Amos stava tornando da una cena d'affari al ristorante Bramblesses Roses – crudele scherzo del destino voleva che questo fosse di proprietà della famiglia Thorn.
La dinamica era ancora poco chiara, ma per un qualche motivo Amos Schreave aveva fermato l'auto in mezzo alla strada, era sceso – o qualcuno l'aveva obbligato a scendere – ed era stato giustiziato con un colpo di pistola alla nuca.
In quei giorni, una delle piste era quella del regolamento di conti, ma adesso l'ispettore Gordon comprendeva che il commissario Torrance voleva condurlo su un altro sentiero. Era d'accordo sul fatto che l'assassino di Amos Schreave e quello che aveva cercato di uccidere Rosebud Thorn potessero essere la stessa persona, ma non coglieva il collegamento con il Lupo e le altre vittime.
Lo disse.
- L'autopsia sul corpo di Adele Jimmerson è stata disposta per domani mattina - rispose il commissario.- Ma il medico legale, durante il primo esame, mi ha fatto notare un dettaglio interessante.
Torrance indicò l'addome della ragazza.
- Dalla fotografia non si nota - disse.- Ma quando vedrà il cadavere, ispettore, potrà osservare che prima di accoltellarla, l'assassino le ha sparato un colpo all'altezza dell'addome. Potrebbe essere il fil rouge di tutta questa storia: il Lupo ha ucciso le sue prime tre vittime con soltanto un'arma da taglio, poi in qualche maniera è riuscito a procurarsi una pistola...o ce l'aveva già e ha deciso fosse il momento di provarla...
La porta si spalancò senza che nessuno avesse bussato, ed entrambi gli uomini trasalirono. Entrò un giovanotto che non doveva avere più di trentacinque anni, con la barba più lunga e incolta di quel che di solito si addiceva a un rappresentante della forze dell'ordine, i capelli color sabbia spettinati e vestito completamente in borghese – jeans strappati alle ginocchia, scarponi da trekking e una camicia bianca appena sbottonata sul petto e coperta da un gilet marrone. Su di esso c'era una tracolla con una fondina, unico indizio che lo avrebbe classificato come poliziotto.
- Ah, Hunter!- lo salutò il commissario.- Venga, si sieda, la stavamo aspettando...ispettore, l'agente Hunter sa già tutto. Sarà il suo partner nella risoluzione del caso del Lupo...Hunter, a proposito del caso della...ragazza scomparsa - Torrance accennò alla foto della ragazza appesa alla parete.- Ho già provveduto a sollevarla dall'incarico e ad affidarlo a qualcun altro di meno occupato. Un agente come lei, che ha avuto esperienza in una città come NY, mi occorre su questo caso...
Hunter rivolse un sorriso complice all'ispettore Gordon, il quale non ricambiò e anzi finse di non averlo notato. Si sentiva profondamente infastidito per il fatto che Torrance avesse informato prima l'ultimo arrivato di lui, che lavorava alla centrale di polizia di Everbrooke da quando era uscito dall'accademia. Senza contare che il suo nuovo partner non gli era mai piaciuto.
Alexander – chiamatemi “Alex”, ragazzi! – Hunter era un agente arrivato solo sei mesi prima da New York, dove aveva sempre lavorato. Il trasferimento era parso sospetto a tutti – nessuno voleva venire a Everbrooke, soprattutto se si trattava di fare il salto da una metropoli come New York a una cittadina di provincia come quella –, ma lui aveva sostenuto che dopo anni nel casino della città aveva bisogno di rilassarsi aggiungendo anche che il suo cuore era lì.
- Che tradotto significa: la fidanzata abita a Everbrooke - aveva osservato Karen Larabee.
Fidanzata che nessuno aveva ancora avuto il piacere e l'onore d'incontrare, ma non era quello il punto. Il punto era che Alex Hunter era il classico poliziotto che si vedeva nei film d'azione hollywoodiani, belloccio, sbruffone, del tutto privo del senso della realtà e abituato a inseguimenti spericolati nella metropoli newyorkese.
Una volta Gordon e l'ispettrice capo Holsey avevano avuto la malaugurata idea di accettare la sua offerta di uno strappo dalla tavola calda Be our guest dove avevano speso la pausa pranzo alla centrale di polizia. Dopo tre semafori rossi bruciati, cento chilometri all'ora in pieno centro, quattro curve in cui l'ispettore aveva temuto che i pneumatici stessero per prendere il volo, all'arrivo Gordon era certo che stesse per prendergli un ictus, mentre la Holsey aveva i capelli dritti in testa.
- Sono sicuro che saremo una bella squadra, eh, John?- fece Hunter; ecco un'altra cosa che l'ispettore non tollerava: il novellino tendeva a dare confidenza a tutti, indistintamente.
Torrance si schiarì la voce.
- Dicevo...
- L'assassino ha sparato ad Adele Jimmerson per immobilizzarla, in modo che poi potesse finirla tranquillamente con la lama - proseguì l'ispettore, e intanto rifletteva. E' possibile che si tratti di un sadico, pensò. Avrebbe potuto ucciderla a colpi di pistola, ma non l'ha fatto. Ha preferito sgozzarla come un animale e farla morire soffocata.- Ha cercato di fare lo stesso con Rosebud Thorn e con Amos Schreave - proseguì.- Ma nel primo caso, probabilmente l'autore della telefonata è arrivato sul posto prima che potesse accanirsi su di lei, così è dovuto scappare...
- Perché non sparare anche a lui, allora?- l'interruppe Hunter.
- Forse aveva esaurito le munizioni. O forse il suo arrivo inaspettato lo ha gettato nel panico e la fuga gli è parsa l'unica soluzione possibile. Ma tu hai già visto il nuovo fascicolo?
- Sì, stamattina.
- Comunque, per quel che riguarda Amos Schreave...
- Scusa, John, ma la tua teoria non mi sembra proprio perfetta...- lo interruppe di nuovo Hunter; Gordon dovette soffocare l'impulso di rifilargli un pugno in pieno naso.- Se il suo intento era solo quello d'immobilizzare Rosebud Thorn come ha fatto con l'altra disgraziata, perché le ha scaricato addosso un intero caricatore? E poi, come la metti con Amos Schreave? Lì il colpo era uno solo, e l'assassino non avrebbe avuto motivo di scappare...
- Forse il fatto che fossero in una strada poco nascosta come nel bosco gli ha messo fretta.
- Perché non attendere un altro momento? E poi, il colpo è stato sparato alla nuca. Tutto fa pensare a un'esecuzione.
Gordon su questo doveva dare ragione a Hunter. C'erano parecchie cose che non quadravano, compreso il sesso e l'età delle vittime: Hailey Delariva, Denise Cresswell, Jamie Ronning, Rosebud Thorn, Adele Jimmerson...erano tutte ragazze, tutte giovanissime e tutte studentesse. Amos Schreave era un industriale di quasi sessant'anni che in quel mucchio c'entrava come i cavoli a merenda.
- Sta a voi due spiegare queste incongruenze...- Torrance pronunciò questa frase mentre Gordon tornava a guardare la foto di Adele Jimmerson. Fisso quegli occhi senza vita e sbarrati, increduli.
John Gordon aveva visto altri cadaveri in vita sua; non poteva vantarsi di averne visti tanti quanti Hunter o qualche altro suo collega che lavorava nella squadra omicidi di qualche metropoli, ma abbastanza da poter leggere loro negli occhi.
Tutti pensavano che le orbite dei morti non avessero espressione, che fossero morte e basta. Gordon non riteneva fosse del tutto falso, ma neanche del tutto vero.
Ogni volta che vedeva gli occhi di qualcuno che era stato ucciso, riusciva sempre a scorgere una domanda. O meglio, due.
La prima cosa che quegli occhi morti sembravano comunicare era perché a me? Perché sta succedendo questo? Perché proprio adesso, perché proprio a me?. Questa domanda la ponevano tutti gli occhi che aveva visto. L'aveva scorta riflessa anche in quelli di sua moglie, prima che il medico legale le abbassasse pietosamente le palpebre.
La seconda, che non tutti ponevano ma che era caratteristica di alcuni, era perché proprio tu?.
Era sempre così. Gordon vedeva quella domanda ogni volta che guardava gli occhi di chi era stato ucciso da qualcuno che non si aspettava. Una persona che conosceva, magari a cui voleva bene. Un marito, una moglie, un figlio, un amico...
E gli occhi di Adele Jimmerson stavano ponendo quella domanda.
Perché proprio tu? Che cosa ti ho fatto?
- Il finestrino dell'auto era abbassato?- domandò Gordon, all'improvviso.
Torrance sembrò sorpreso dalla domanda.
- Sì.
Il finestrino dell'auto di Rosebud Thorn era stato infranto dalle pallottole. Adele Jimmerson invece aveva il finestrino aperto, oppure doveva averlo abbassato per parlare con qualcuno. L'autopsia, pensò l'ispettore, avrebbe anche rivelato la distanza da cui era stato sparato il colpo.
Era probabile che Adele Jimmerson conoscesse il suo assassino. E se anche le altre vittime...?
- Si sa qualcosa in più di lei?- domandò ancora.
- I genitori erano troppo sconvolti per parlare - rispose Hunter, e Gordon ebbe la netta sensazione che non conoscesse quei dettagli perché gli erano stati riferiti da Torrance, ma che fosse lui l'agente che aveva dato la tragica notizia.- Hanno detto solo che era una ragazza del tutto normale, parole loro. Era molto contenta di essere stata ammessa all'università e non vedeva l'ora di raggiungere la sua amica a New York.
- M'interesserebbe sapere qualcosa di più su di lei. I suoi interessi, che tipo di posti frequentava, chi erano i suoi amici...- incalzò Gordon.
- A quanto pareva era una ragazza molto riservata. Aveva pochi amici e non usciva molto di casa. Secondo i genitori era dovuto al fatto che il suo ragazzo fosse un tipo parecchio geloso...
- Aveva un ragazzo?
Hunter annuì.
- Il suo ex, a dirla tutta. Si erano lasciati sei mesi fa. O meglio, lei aveva mollato lui, e lui non l'aveva presa bene. Il padre ha detto che per due mesi ha continuato ad aspettarla sotto casa o fuori da scuola, a chiamarla sempre, anche nel cuore della notte, diceva che senza di lei non poteva più vivere e che se non l'avesse perdonato si sarebbe ammazzato...una volta lei lo ha beccato a pedinarla mentre era al centro commerciale con delle amiche, e un'altra ancora l'ha scossa per le spalle urlandole in faccia che se non si fosse rimessa insieme a lui avrebbe prima ucciso lei e poi si sarebbe sparato in bocca...è stato dopo questo episodio che lei si è decisa a denunciarlo...
- Aspetta, abbiamo una denuncia?!- scattò su Gordon.
- Non esattamente. A quanto pare lei ha ritirato il tutto dopo un paio di settimane. Lui aveva smesso di darle fastidio e lei non voleva metterlo nei guai un'altra volta, così ha detto la madre.
- Che significa un'altra volta?- incalzò il commissario.
Hunter si strinse nelle spalle.
- A quanto pare aveva già avuto dei guai con la giustizia, ma non so di che genere.
- Perché si erano lasciati?
- La madre ha detto che sua figlia sosteneva che fosse troppo possessivo e che frequentasse brutta gente...
- Ti hanno detto il nome del ragazzo?
- No. Ma il padre ci ha tenuto a precisare che a loro non è mai piaciuto...credo che sia il caso di inizare da qui. E magari fare un salto a casa Schreave nel pomeriggio, eh, John? Credo che a quest'ora siano nel pieno del rinfresco...
 
 





 
 
 
 
Angolo Autrice: Ringrazio chi ha letto il capitolo precedente, SansaStark17 e ValeStark per aver aggiunto la storia alle preferite e Aching heart e Jessica24 per averla aggiunta alle seguite.
Il prossimo capitolo vedrà gli eventi del tardo pomeriggio, della sera e della notte di domenica 8 settembre, mentre dal capitolo IV cominceremo con il primo giorno di scuola e da lì, a parte in alcuni casi, i capitoli copriranno giornate intere.
Fatemi sapere che ne pensate.
A presto.
Un bacio,
 
Beauty

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Her Looks Have Got No Parallel (Kate, Blanche, Jess, Belle) ***


Capitolo III
 
Her Looks Have Got No Parallel
 
(tardo pomeriggio, sera e notte di domenica 8 settembre)
 
 
I. [Kate]
 
 
Roxy aveva deciso di seguire il consiglio di Charlie e passare da casa a cambiarsi prima del colloquio. Non teneva a quel lavoro, ma teneva allo stipendio che ne sarebbe derivato e teneva alla sua indipendenza e capacità di provvedere a se stessa da sola. E quindi per avere il posto sarebbe stata obbligata a fare una figura quantomeno decente.
Non sapeva bene che cosa ci si aspettasse da una che si presentava per un colloquio come cameriera. Non poteva neanche giocare sul fatto di conoscere all'incirca gli standard del locale, perché non era esattamente il genere di posti che frequentava.
Era stata al Be Our Guest la prima ed unica volta ben dieci anni prima. Lei aveva tredici anni, si stava leccando le ferite dopo un ceffone ben assestato da parte del patrigno e il suo fratellastro, seduto sul divanetto all'altro lato del tavolo, le aveva fatto scivolare di fronte un bicchierone di frappé al cioccolato per consolarla.
Roxy ancora adesso si lambiccava il cervello chiedendosi come avesse fatto lui a scoprire cosa le piacesse.
Era certa che il Be Our Guest fosse parecchio cambiato, in tutto quel tempo. Era fisiologico, si poteva dire. Quando il suo fratellastro ce l'aveva portata come ultima tappa prima di rientrare in quell'incubo di magione che era casa Schreave, dieci anni prima, il Be Our Guest era conosciuto per essere il posto più politically correct di tutta Everbrooke: era una tavola calda la cui clientela era composta soprattuto da impiegati in pausa pranzo e da famiglie con bambini urlanti, oppure da ragazzini e adolescenti che si fermavano lì per una cioccolata dopo la scuola o prima di andare al cinema; la maggior parte dei suoi affari più fruttuosi li faceva con le feste di compleanno o con gli eventi organizzati in occasione di Natale, Halloween o del ballo scolastico alla Everbrooke High School, non serviva alcolici neanche sottobanco – e non solo ai minorenni, se la tua intenzione era quella di berti un bicchiere di prosecco ti trovavi decisamente nel posto sbagliato – e il tutto era permeato di un'atmosfera zuccherosa, fatta di risate di bambino, gelato e buoni sentimenti.
A Roxy era rimasto impresso soprattutto un dettaglio, di quel pomeriggio all'insegna del frappé al cioccolato: il colore rosa. Le pareti, i divanetti, gli sgabelli e le sedie, perfino il bancone e le cornici dei quadri appesi al muro erano di una tonalità che spaziava dal rosa pastello al fucsia sbiadito, interrotto soltanto dal bianco delle piastrelle, dei tavolini e del soffitto. Il tutto contornato da uno stile palesemente anni Sessanta, con poster di Elvis Presley e dei Beatles, e la divisa delle cameriere – naturalmente rosa – con il grembiule di pizzo e le scarpe da tennis bianche.
Roxy si era sorpresa che non servissero ai tavoli sfrecciando su dei pattini a rotelle.
Si augurava che, in dieci anni, quell'ambiente da carie dentaria fosse cambiato. Che fosse diventato una tavola calda normale, magari meno strabordante di mocciosi e meno...rosa.
La sua delusione – dopo mezz'ora di autobus ed essersi messa addosso l'abbigliamento più neutro che era riuscita a combinare, pantaloni neri con camicetta bianca, e capelli legati in una coda di cavallo – nel vedere che il Be Our Guest era rimasto praticamente identico a quel giorno in cui il suo fratellastro l'aveva portata lì per asciugarsi il moccio fu quasi pari a quella volta in cui il suddetto fratellastro l'aveva stracciata a Monopoli – gioco in cui si era sempre vantata senza ombra di modestia di essere una campionessa.
L'edificio sembrava una roulotte, tutto su un piano rialzato separato dal marciapiede da soli due scalini, con la porta bianca e le pareti rosa confetto con delle vetrate da cui si poteva sbirciare all'interno. Una tenda a righe bianche e rosse era stata arrotolata fino a essere richiusa sul tetto, e sotto di essa quattro tavolini di ferro erano stati spinti contro il muro e coperti con delle sedie rovesciate, segno che l'estate era finita e che non era più il momento di consumare il caffè all'esterno. Roxy fu tentata di fare dietrofront e cercarsi un altro lavoro altrove, ma poi si decise ad attraversare la strada e a raggiungere il locale sul marciapiede opposto.
Passò accanto a un palo della luce a cui era stato affisso un foglio di carta stampata con la fotografia di una ragazza. Roxy lo guardò distrattamente: la persona nell'immagine era una giovanissima donna, non più che ventenne, con grandi occhi scuri, incarnato pallido e una cascata di riccioli color cioccolato intervallati da qualche riflesso biondo. Da ciò che si poteva intuire dalla foto, che ritraeva solo il busto e il volto della ragazza, aveva addosso la parte superiore di un bikini rosso e si stava divertendo, sorridendo alla macchina fotografica.
Sotto alla fotografia c'erano poche righe.
 
 
SCOMPARSA
 
Kathryn Miranda Torrance, di anni 20
Scomparsa il 5 maggio 2015
Capelli castani e ricci, occhi marroni, altezza 175 cm.
Se qualcuno avesse informazioni, è pregato di riferirle al più presto a...
 
 
...seguiva un elenco di luoghi con tanto di indirizzo e numeri telefonici. Roxy non si preoccupò di leggerli e dopo nemmeno due secondi il volto e il nome della ragazza del volantino scomparvero dalla sua mente.
Raggiunse il Be Our Guest a passo spedito ed entrò facendo tintinnare il campanello. Dentro, dovette ammetterlo, qualche cambiamento c'era stato: le sembrava ci fossero decisamente meno poster di Elvis e le pareti erano bianche. C'era poca gente: una signora anziana seduta in un angolo che sorseggiava del té con una fetta di torta al limone, un gruppetto di dodicenni che si scattava selfie di fronte ai cibi che avevano ordinato e al centro, al tavolo a cui si era seduta dieci anni prima, una mamma stava imboccando il figlio di tre o quattro anni sistemato su un ovetto troppo piccolo per lui.
Roxy si perse un attimo a guardare quella scena. Fuori dalla finestra il sole era stato offuscato dalle nuvole e alcune foglie in strada venivano sollevate dal vento, ma dieci anni prima – era un pomeriggio di fine marzo – c'era un bel sole e la tavola calda era molto più affollata. Il suo fratellastro era seduto al posto occupato dalla madre in quel momento, e aveva la sua solita aria che ostentava indifferenza, quando invece il solo essere lì con lei era chiaro segno che di quella tredicenne rompipalle che non aveva fatto altro che frignare per una settimana, beh, almeno qualcosa doveva importargliene.
- Posso esserti utile?
Roxy cadde dal pero e per poco la borsa di Valentino non le scivolò dalla spalla. Era stata in dubbio se portarsela dietro o meno – la voce del suo buonsenso le suggeriva che sarebbe stato un po' equivoco presentarsi a un colloquio per un posto da cameriera con una borsa griffata che ai tempi doveva essere costata più di lei stessa e di quello che aveva addosso, ma alla fine si era detta che quel modello era vecchio di più di dieci anni e...le aveva sempre portato fortuna.
E poi la voce del suo buonsenso somigliava un po' troppo al brontolare di Charlie, per i suoi gusti.
Roxy guardò la donna che aveva parlato: era una signora bassa e rotonda, che le arrivava a stento alla spalla, sui quarantacinque, che le sorrideva con un faccione grasso e bonario. Si schiarì la voce ed estrasse il curriculum vitae dalla borsa di Valentino.
- Sono qui per il posto da cameriera. E' ancora libero?
- Certo che sì. Vieni, sediamoci sul retro, così possiamo stare tranquille...
- Lei è la proprietaria?- chiese Roxy; non le era sfuggito il fatto che quella donna si fosse soffermata più del dovuto sulle sue unghie laccate e sulla ciocca color rosa shocking che le penzolava di fronte agli occhi, ma non aveva notato né smorfie né disapprovazione nel suo sguardo. Era un passo avanti.
- In persona. Magdalena Potts, piacere. Tu sei...?
- Roxanne Randall.
La condusse in quelle che erano le cucine, la fece sedere su una sedia e senza neanche guardare il curriculum vitae prese a farle le solite domande di rito, quanti anni avesse, se avesse già esperienza come cameriera, il suo titolo di studio. Roxy cercò di rilassarsi e le riuscì abbastanza bene, soprattutto quando comprese che la signora Potts non le avrebbe posto domande riguardanti la sua famiglia oppure le solite idiozie del tipo come ti vedi da qui a dieci anni? o che cosa sentiva di avere in più rispetto ad altri candidati.
A un certo punto, Roxy si accorse che una terza persona stava assistendo al colloquio: una ragazzetta smilza e ancora più bassa della proprietaria, con addosso una divisa da cameriera – grazie al cielo il grembiule non era più di pizzo, ma in compenso la tonalità del vestito era azzurro pastello, il che faceva a pugni con gli altri colori dell'ambiente.
L'impicciona era appoggiata allo stipite della porta con le braccia conserte e ascoltava con la stessa attenzione di un fan dei New York Knicks durante la finale di NBA. Roxy pensò che se al posto della signora Potts ci fosse stato Charlie non avrebbe esitato un attimo a cacciarla via a male parole; invece, la proprietaria del Be Our Guest non sembrò dare molta importanza alla cosa.
Il colloquio andò bene. Dopo neanche dieci minuti la signora Potts comunicò a Roxy che se voleva il posto era suo. Due mattine e un pomeriggio a settimana, domenica libera. Sei dollari e cinquanta centesimi l'ora.
Roxy accettò di volata, concentrandosi sul termosifone rotto in casa per inibire l'impulso di andarsene. La signora Potts parve entusiasta della cosa: le comunicò che avrebbe cominciato il martedì seguente, poi fece cenno all'impicciona sulla porta.
- L'aiuti tu con la divisa?- le chiese.- E' alta, ma sono sicura che nello spogliatoio qualcosa c'è. Sto io in sala, tanto c'è poca gente. Fate conoscenza, eh?- aggiunse, come se stesse parlando a due bambine di sei anni troppo timide per mettersi a giocare insieme.
La cameriera si scansò per lasciar uscire la signora Potts dalla cucina. Dovette accorgersi dell'espressione perplessa di Roxy, perché la guardò come a volersi scusare.
- E' fatta così. Ti ci abituerai. O meglio...ti ci abituerai finché non troverai qualcosa di meglio.
Roxy inarcò un sopracciglio.
- L'ultima volta che mi hanno detto così il mio lavoro è durato per cinque anni.
- Doveva essere un bel lavoro, allora.
- Dura ancora adesso, a dirla tutta.
- Sei qui per arrotondare?
- Perché t'interessa?
- Non m'interessa, è solo che ti si legge in faccia - la cameriera sospirò e lasciò la soglia della cucina.- Vieni, vediamo se c'è qualcosa qui sul retro. Le scarpe te le devi portare da casa, comunque.
Roxy la seguì di malavoglia. Nella sua mente la situazione si stava delineando con maggiore chiarezza. L'avevano assunta con troppa facilità.
- Dimmi la verità, siete a corto di personale?- buttò lì, mentre la ragazza prendeva un vestito azzurro pastello e controllava la taglia.
Glielo porse.
- Provati questo, vediamo se ti sta. Comunque sì, ora che ricominciano le scuole ci servono camerieri. A cucinare ci pensa la signora Potts, ma chi lavora qui di solito è uno studente e non può fare un full-time sette giorni su sette.
- Sei una studentessa?
- Everbrooke State University, facoltà d'Informatica. Tu, invece?
- Mi spoglio per sopravvivere - Roxy pronunciò quella frase con l'intento di sconvolgere l'altra ragazza, ma si trovò di fronte a un muro d'impassibilità. La guardò: era una ragazzetta talmente bassa e magrolina da apparire quasi anoressica, anche se il volto era pieno e carino, con dei lineamenti regolari e graziosi, il naso piccolo e dritto e gli occhi castani e allungati, i capelli scuri e lisci che in quel momento erano annodati in una coda bassa, ma che sciolti le dovevano arrivare a metà schiena. Era totalmente priva di fianchi e seno, sembrava un pezzo di legno. Roxy notò che aveva un tatuaggio: una rosa rossa rampicante all'altezza del polso destro.
- Interessante - replicò la ragazza, prendendo un grembiule da un cassetto.- Pornostar?
- Spogliarellista. Ma pensavo di dedicarmi a quella carriera, qualora la sfavillante via del servire i tavoli fallisse.
- So che a San Fernando Valley si fanno affari d'oro. Belle Gordon, comunque - si presentò con un sorriso.
- Roxy Randall - si era spogliata e aveva indossato la divisa azzurra; le andava a pennello, ma la chiusura era sulla schiena e lei con le sue unghie non riusciva ad afferrare la zip; Belle le diede una mano a tirare su la cerniera.- Grazie.
- Prego. Allora, aspirante Tori Black, io adesso dovrei spiegarti il lavoro e cercare di convincerti quanto sia bello stare qui. Lascerò perdere la seconda. Ti dico solo che è meno tragico di quel che sembra e che dopo un po' ci si fa l'abitudine. Ma tu non avrai questo problema, sono sicura che fra non molto ti arriverà una telefonata per una parte da protagonista in un film a luci rosse...
- Lavori qui da molto?- inquisì Roxy.
- Tre anni da quando ho iniziato l'università. Tre pomeriggi a settimana, il venerdì, il sabato e la domenica, dalle quattro alle otto di sera.
- A sei dollari e cinquanta l'ora? Come fai a pagarti gli studi?- Roxy inarcò le sopracciglia.
Belle le regalò un sorrisetto sghembo e sornione.
- Ho altre entrate - disse semplicemente, poi le fece l'occhiolino.- Vieni, ti faccio fare un tour rapido del locale. Il lavoro non credo necessiti di spiegazioni, si tratta di prendere le ordinazioni giuste su un blocchetto e di servire ai tavoli. La signora Potts vuole che la colazione sia servita dalle cinque alle nove del mattino, il pranzo dalle undici alle tre del pomeriggio. Per la cena vedremo tutto venerdì, saremo di turno insieme, quel giorno...
Il giro d'onore del Be Our Guest durò venti minuti scarsi: Belle mostrò a Roxy la sala centrale e una saletta interna con veranda e tettoia in cui si poteva prendere un caffè senza essere disturbati, la cucina, i bagni, lo stanzino dove si sarebbe dovuta cambiare a inizio e fine turno, la macchina per fare il gelato e quella per il cappuccino e le bevande calde. In tutto quel tempo, il locale si era svuotato e riempito per ben due volte, e adesso gli unici due clienti erano la signora anziana – alla sua terza tazza di té – e un uomo in giacca e cravatta che leggeva il giornale di fronte a un bicchiere di latte e cacao.
Quest'ultima era stata la prima ordinazione di Roxy – Belle l'aveva incoraggiata a fare una prova e a vedere come se la cavava con la macchinetta per il caffé. Mentre prendeva dimestichezza con quella per i gelati, la signora Potts aveva detto a Belle che approfittava per andare a prendere suo figlio al doposcuola.
Le lasciò sole.
- Che tipo è?- domandò Roxy.
- A volte tende a calarsi un po' troppo nel prototipo della mamma chioccia, ma è okay. Tira avanti questo posto da sola da quando il marito è andato in pensione.
- Ha un figlio...
- Chip. Credo che sia il bambino più tranquillo che io conosca. I primi tempi credevo lo imbottissero di sedativo.
Roxy sorrise impercettibilmente. Belle le aveva fatto una buona prima impressione. Non aveva cercato di convincerla che quello fosse il lavoro più bello del mondo, aveva capito che il suo era un ripiego e non l'aveva giudicata per questo, e stava cercando di metterla a suo agio.
Roxy le disse che le piaceva il suo tatuaggio. L'altra ringraziò e fece una battuta sul fatto che suo padre l'avesse quasi diseredata quando a sedici anni lei si era tatuata quella rosa di nascosto e lui l'aveva scoperto.
- Non l'aveva notato?
- Non mi sono fatta la doccia per una settimana e andavo in giro per casa con maglie a maniche lunghe. Ed era fine giugno.
Roxy trattenne il fiato, aspettandosi che il passo successivo fossero le domande di circostanza sulle rispettive famiglie. Si preparò a sfornare con quanta più noncuranza possibile la bugia che snocciolava a chiunque da cinque anni a quella parte, ma a salvarla ci pensò il campanello d'ingresso del locale.
Entrambe le ragazze si voltarono in direzione della porta, ma fu ben chiaro a entrambe che non era un potenziale cliente quello che era appena entrato. Roxy riconobbe con un certo stupore la ragazza senzatetto a cui aveva tirato un calcio all'uscita del Bearskin: aveva addosso lo stesso cappotto liso grigio lungo fino alle caviglie, i capelli coperti da un foulard marrone e una vecchia sciarpa che le copriva lo spazio fra la giugulare e il naso. Roxy vide che aveva addosso delle scarpe da ginnastica e dei jeans il cui orlo era coperto da sei dita di sporco.
Sulle spalle teneva uno zaino scolastico.
Ancora di più la stupì che Belle non avesse fatto una piega nel vederla entrare. Roxy sapeva che la maggior parte dei locali non volevano che dei clochard entrassero a chiedere le elemosina. La ragazza si avvicinò al bancone come se nulla fosse e si rivolse a Belle chiedendole se ci fossero delle bevande in attesa.
Belle rispose che non ce n'erano, ma le fece cenno di aspettare. Prese due dollari da una tasca del grembiule e domandò alla ragazza cosa volesse.
- Quello che avete.
- Abbiamo tutto.
- Caffè?
- Arriva!- Belle inserì i due dollari nella cassa e chiese a Roxy di preparare un caffé maxi con latte e almeno tre cucchiai di zucchero. Roxy eseguì la richiesta, sconcertata.
Quando il caffé fu pronto, Belle lo passò alla ragazza.
- Grazie. Posso usare il bagno, dopo?
- E' libero.
La ragazza ringraziò e le pieghe della sciarpa rivelarono l'accenno di un sorriso. Roxy rimase a osservare mentre si sedeva al tavolo più lontano rispetto alle altre persone, mentre il signore in giacca e cravatta lasciava il conto sul tavolo e si alzava in fretta e la donna anziana faceva una smorfia disgustata al passaggio della senzatetto.
Roxy guardò Belle.
- E' la terza o la quarta volta che viene qui in un mese - bisbigliò quest'ultima.- Chiede sempre se ci sono caffè in attesa, ma anche quando non c'è niente le offro qualcosa io. Non so come si chiami - aggiunse, anticipando una possibile domanda di Roxy, la quale rispose che l'aveva vista quella mattina.
- Dove?
- Vicino al posto dove lavoro. Bazzica Everbrooke?
- Penso proprio di sì, ma non so da quanto.
Intanto, la ragazza si era raggomitolata in un angolo di un divanetto, in modo da essere più lontana possibile sia rispetto agli altri clienti sia rispetto alla finestra che dava sulla strada. Abbassò il capo e incurvò le spalle, e sollevò la sciarpa quel tanto che le bastava per soffiare sul caffé bollente senza scoprire troppo il viso.
Iniziò a sorseggiare la bevanda calda con calma, ma senza smettere di lanciare occhiate verso la strada o alle persone all'interno del Be Our Guest. Per fortuna, nessuno sembrava fare caso a lei: la cameriera di cui non sapeva il nome, quella bassa e gentile che le aveva offerto il caffé, aveva ripreso il suo lavoro, mentre la signora anziana la stava deliberatamente ignorando.
L'unica che di tanto in tanto sbirciava nella sua direzione era la nuova cameriera – nuova, supponeva, perché non l'aveva mai vista prima. In genere cercava di capitare al locale il venerdì, il sabato o la domenica pomeriggio, perché aveva capito che in quei giorni c'era la piccoletta e lei era sempre gentile con lei, a differenza di altre che invece la cacciavano via.
L'altra, la stangona con i capelli multicolorati, era sicura di non averla mai vista al Be Our Guest, ma aveva un'aria familiare. La ragazza ci rifletté mentre terminava di bere, e alla fine realizzò che si trattava della tizia che le aveva tirato un calcio in piena coscia solo due o tre ore prima, all'angolo della strada fra la fermata dell'autobus e il Bearskin.
Ingoiò in fretta l'ultimo sorso di caffè, anche se era bollente e le ustionò la gola. Si alzò e raggiunse il bagno, quindi si chiuse dentro a chiave.
Lasciò cadere lo zaino sulle piastrelle umide.
Sospirò.
Il caffè le avrebbe riempito lo stomaco per un paio d'ore. Si tolse il cappotto e lo appoggiò al bordo del lavandino, poi si liberò dei jeans e del maglione dal collo alto, insieme alla sciarpa e al foulard. In biancheria intima e usando della carta igienica arrotolata intorno alle mani, iniziò a strofinare con dell'acqua calda le caviglie, i polpacci, le braccia, le zone intime, il collo, il volto, fino a che non si sentì abbastanza pulita. Togliendosi il foulard la sua massa di ricci si era liberata e ora le sfuggivano da tutte le parti come sempre, ma non erano più gonfi e vaporosi come una volta. La ragazza si arrotolò un riccio intorno all'indice: erano sporchi, pensò, avrebbe dovuto procurarsi uno shampoo al più presto se non voleva avere anche un altro problema da risolvere, quello dei pidocchi.
Decise comunque di bagnarli. Aprì il rubinetto e reclinò la testa in avanti. L'acqua era fredda, ma cercò comunque di strofinarli meglio che poteva.
L'acqua continuò a gocciolarle dai capelli lungo le spalle, la schiena e il collo mentre la ragazza utilizzava dell'altra carta igienica per togliere lo sporco dai jeans e dai vestiti. Il tarlo nell'orecchio che le era venuto mentre era seduta al tavolo non se n'era andato, anzi, aveva iniziato a scavare più forte. La nuova cameriera l'aveva guardata in modo strano. Magari era semplice diffidenza per il suo essere una senzatetto, ma non se la sentiva di rischiare.
Sarebbe stato meglio se non si fosse fatta vedere al Be Our Guest per un po' di tempo.
 
Roxy era appoggiata alla parete accanto alla macchinetta del caffè a braccia conserte. La signora anziana se n'era andata e non c'erano altri clienti, fatta eccezione per la ragazza che si era chiusa nel bagno da più di mezz'ora e ancora non ne era riemersa.
Roxy non avrebbe saputo spiegare perché, ma quella clochard la metteva a disagio. Le sembrava di conoscerla, come se fosse stata una ex compagna di classe antipatica di cui avevi rimosso le fattezze, ma che evitavi come la peste ogni volta che la incrociavi per strada.
- Ci mette sempre così tanto?- domandò a Belle.
- Raramente usa il bagno quando viene qui - rispose l'altra ragazza; anche lei era piuttosto inquieta. Era sul punto di lasciare il bancone e di andare a bussare alla porta del bagno, quando quest'ultima si aprì e ne uscì la giovane senzatetto – sempre imbacuccata nel cappotto e con il foulard in testa.
- Grazie - mormorò, un secondo prima di coprirsi bocca e naso con la sciarpa. Passò velocemente accanto a Roxy e superò la porta del locale.
Il tintinnio del campanello e la fugace vista del volto della ragazza furono come un pulsante d'accensione per la memoria di Roxy. Immagini e parole iniziarono a danzarle di fronte agli occhi e nella testa, e in capo a qualche secondo realizzò.
- E' la tizia del volantino!- esclamò.
Bella la guardò, perplessa.
- La tizia del volantino?
- Il volantino, quello fuori! Quello della ragazza scomparsa!- Roxy corse verso la porta. Le pupille di Belle si dilatarono quando comprese. Seguì Roxy di corsa fuori dal locale.
Il cielo si era annuvolato, una calotta scura di nuvole pregne d'acqua aveva oscurato il sole e sovrastava la città. Un vento gelido e temporalesco che spostava foglie e cartacce da terra fece loro scompigliare i capelli e sollevare i grembiuli.
- Dov'è andata? La vedi?- fece Roxy, guardandosi intorno e girando su se stessa per raccogliere il più spazio visivo possibile in poco tempo.
- No...- Belle sollevò un avambraccio per proteggersi gli occhi dal vento sferzante, senza smettere di cercare la ragazza con lo sguardo.- Il vento ha fatto volare via il volantino...- disse, quando non vide più la segnalazione di scomparsa affissa al palo della luce.
Roxy imprecò.
- Merda! Ma come abbiamo fatto a non averla riconosciuta?! Ce la siamo fatta scappare!
Belle estrasse il proprio telefono cellulare dalla tasca del grembiule e sbloccò la password. Lo passò a Roxy.
- Tieni, chiama la polizia e dille di venire qui subito. Chiedi dell'ispettore Gordon, vedrai che faranno più in fretta...io vedo se riesco a trovarla!
Belle attraversò la strada di corsa e si spinse fino alla fermata dell'autobus, per poi correre a perdifiato fino alla fine della strada. La direzione opposta avrebbe condotto a un vicolo cieco, di consequenza era solo da quella parte che la ragazza sarebbe potuta andare, si era detta.
Svoltò l'angolo con la ferma speranza di trovarla, ma così non fu. In strada non c'era nessuno, nessun passante a cui poter chiedere, e della clochard nessuna traccia. Belle provò a correre fino al termine di quella seconda via, ma una volta arrivata in fondo si trovò di fronte a una biforcazione a due strade.
Aveva il fiato corto. Non sarebbe riuscita a trovarla, realizzò.
Imprecò fra i denti e tirò un calcio a una lattina abbandonata sul marciapiede.
Lontano da lei – non molto, ma abbastanza da non essere trovata – Kathryn Torrance si faceva strada a fatica contro il vento che le soffiava contro, reggendo fra le mani il volantino che segnalava la sua scomparsa.
Lo stracciò in due parti, poi in quattro, e infine spezzettò la carta fino a che delle parole e della fotografia che la ritraeva sorridente non rimase solo un cumulo di pattume. Lo accartocciò e lo gettò a terra.
I pezzetti di carta si dispersero nel vento, e pochi istanti dopo le gocce di pioggia cominciarono a frantumarli.
 
II. [Blanche]
 
- Sono sicuro che te la caverai alla grande...!- proruppe Hunter dopo dieci minuti passati a confabulare sottovoce con...chiunque stesse parlando al telefono. Gordon, seduto sul sedile del passeggero dell'auto della polizia – Hunter aveva insistito per guidare, e l'ispettore era sicuro che la strada con limite dei trenta all'ora presa sparata ai novanta sarebbe stata la causa scatenante dei vent'anni di psicoterapia a cui si sarebbe dovuto sottoporre – e in procinto di appisolarsi contro il finestrino, trasalì e si drizzò contro lo schienale.
Hunter rise.
- Ma io sono serissimo. Davvero, tu cerca solo di rilassarti e vedrai che filerà liscio come l'olio. Le è piaciuta la sorpresa?- attese la risposta.- Mmmm...e che ha detto?- fece ancora una pausa.- Te l'ho già detto, è solo questione di tempo, e poi tutto si sistemerà. Funziona sempre così, a quell'età. Sì...- si accarezzò la barba e poi si passò una mano fra i capelli.- Sì, anche a me dispiace, ma purtroppo non sono riuscito a liberarmi. Sarà per domani, o dopodomani...un giorno in più non farà grande differenza, no?
Gordon lo guardò scocciato e iniziò a tamburellare contro il cruscotto. Hunter finse di non essersene accorto.
- Mmmm...sì...sì, anch'io...- sfoderò un sorrisetto ebete che per Gordon fu un significativo test alla sua forza di volontà nell'impedirgli di sferrare un pugno al suo collega.- Stai tranquilla e goditi la serata, okay? Ci vediamo più tardi...ciao.
Chiuse la chiamata e si rivolse all'ispettore Gordon mentre riponeva il cellulare nel gilet.
- Grazie per la pazienza.
- E che sarà mai...un quarto d'ora di telefonata...- mugugnò l'altro poliziotto, stizzito.
- Seriamente, sei un amico!- Hunter gli batté una mano su una spalla.- Non è da tutti. Grazie davvero, era veramente importante e se non avessi chiamato mi sarei sentito ancora più in colpa...beh, direi che possiamo andare.
- Era ora...- bofonchiò l'ispettore, scendendo dall'auto.
Pioveva a dirotto, e in capo a pochi attimi entrambi si ritrovarono bagnati da capo a piedi. Avevano parcheggiato la volante della polizia sul ciglio della strada di fronte a una residenza verso la fine della strada in Rosewood Boulevard.
Rosewood Boulevard era uno dei quartieri più eleganti di Everbrooke – per non dire il più elegante, dato che la cittadina era troppo piccola per averne più di uno. Non somigliava tanto a un quartiere, bensì a una sola strada, poiché era costituito da una sola, ampia via costeggiata da case. Era una zona totalmente residenziale, non c'erano locali, supermercati o edifici pubblici, ma solo abitazioni private.
Era il quartiere più a sud di Everbrooke – oltre a quello s'imboccava la strada che conduceva alla tangenziale, e procedendo verso est si arrivava, dopo qualche ora, a New York – ed era isolato dalle altre zone abitative e dal centro. Non era difficile comprendere perché. La maggior parte delle persone che abitavano lì non aveva intenzione di mescolarsi alla classe medio-basso borghese, o ancora più sotto nella scala sociale. Tutte le abitazioni erano ville di almeno due piani, quasi nessuna era sprovvista di giardino recintato e i proprietari avevano generalmente abbastanza soldi da buttare da permettersi di viaggiare fino a NY solo per il lusso di cenare al Dorsia.
Erano tutte persone con un conto in banca molto elevato – industriali, ricchi professionisti, personaggi del mondo dello spettacolo – che avevano scelto Everbrooke per stare lontani dal caos newyorkese o per gestire meglio i propri affari.
Gordon a Everbrooke ci era nato e cresciuto, e sapeva meglio di Hunter come funzionavano determinate dinamiche. Sin da ragazzino aveva compreso che a Rosewood Boulevard esistessero gerarchie non esplicitate, che tutto non era rose e fiori come lo si voleva far passare, e che la disposizione e l'aspetto delle case la diceva lunga su chi vi abitava.
Una regola non scritta voleva che le ville in fondo alla via appartenessero a persone che o non volevano che alcuni dei loro loschi affari venissero a galla o volevano mantenere una facciata di soldi e rispettabilità a scapito di una casa che cadeva a pezzi e che tentavano di nascondere il più possibile.
Tutto sta nel capire a quale delle due categorie appartengano gli Schreave, pensò l'ispettore, stringendosi nella giacca marrone zuppa d'acqua mentre l'agente Hunter smanettava con il citofono. La pioggia battente rendeva difficoltoso alla persona dall'altro lato comprendere le parole che l'agente stava urlando a squarciagola. Alla fine la voce femminile all'interno della casa riuscì ad afferrare le parole polizia e appuntamento e signor Schreave e a metterle insieme in una frase di senso compiuto. Il cancello con apertura automatica emise un click.
Hunter aveva i capelli che gocciolavano.
- Non ci fanno entrare con l'auto, non c'è spazio!- gli disse, facendogli cenno di seguirlo.- La prossima volta che usciamo, anche se ci fosse un sole che spacca le pietre, prendiamo l'ombrello...
Gordon iniziò a percorrere a passo svelto insieme ad Hunter il viale acciottolato che conduceva attraverso il giardino verso l'ingresso principale della casa. Ancor prima della sua morte, Amos Schreave era conosciuto come una persona con tendenze neanche troppo sottili alla megalomania, tanto che aveva deciso di battezzare la propria casa come se fosse stata una quinta figlia – infatti, su una delle colonne che fiancheggiavano la cancellata, vi era infissa una targhetta dorata con incise le parole Rose Manor.
- Un tributo alla mia prima moglie - aveva spiegato l'allora vivo e vegeto magnate in un'intervista televisiva.- Serena Charlotte aveva una passione smodata per i fiori.
L'intera villa era un inno al guardate qua, gente!. Il cancello in ferro battuto era lucido e presentava motivi floreali – a Gordon sembravano rose rampicanti, ma in quel momento la volontà di evitare una polmonite fu più forte della curiosità, e non si fermò a controllare. L'abitazione era costruita interamente di mattoni rossi, così come il muro di cinta che la circondava.
Il giardino era enorme, contava diversi metri e Gordon ebbe la sensazione che fosse dieci volte più grande di casa sua. Diverse auto erano parcheggiate sull'erba, segno che il ricevimento post-funerale non doveva ancora essersi concluso. C'erano pochi alberi – un salice piangente alla destra di Hunter attirò l'attenzione dei due poliziotti: sotto le foglie flosce e bagnate c'era una panchina verniciata di un verde brillante, e poco più in là delle aiuole morte e secche giacevano patetiche sotto l'acquazzone.
Alla sinistra, il ramo di una grossa quercia sosteneva due altalene le cui corde erano lise e i cui sellini di legno erano marci, ma a quanto pareva nessuno si era preso la briga di sostituirle o rimuoverle; stesso destino lo aveva avuto una porta da calcio dalla traversa scrostata e dalla rete rotta, poco distante dalle altalene, e accanto alla quale giaceva un pallone bianco e nero sgonfio e sporco di terra.
Più in basso, vicino al cancello, una fontana di marmo che una volta doveva essere stato bianco, ma che adesso era incrostato di muffa e sporcizia, mostrava la figura patetica di un angioletto di pietra dall'aria sconsolata e dalla faccia lurida di melma, ed era priva di acqua se non quella accumulata al suo interno dalla pioggia. Un dettaglio che saltò all'occhio di Gordon fu che quasi ovunque era pieno di aiuole secche e vasi di fiori spaccati o con solo al loro interno del terriccio.
Quel giardino era l'emblema dello squallore e dell'abbandono, rifletté l'ispettore. Come se una volta ci fosse stato qualcuno che si prendeva cura di esso con dedizione, e che poi per qualche motivo quel qualcuno si fosse stancato e lo avesse lasciato all'incuria e alle intemperie.
Era un contrasto stridente con il palazzo che si stagliava di fronte ai loro occhi.
La villa di mattoni rossi era ben curata e somigliava più a un castello che a una casa. Contava tre piani, e ai lati sorgevano due costruzioni che somigliavano a delle torri medievali. Lo stile era palladiano, ricordava molto una costruzione vittoriana, ma le finestre frontali erano alte, gotiche, appuntite e con i vetri colorati come quelle delle cattedrali. Le luci erano accese, e dall'interno proveniva un forte brusio.
Hunter fu il primo a raggiungere la veranda. Salì i quattro gradini di legno bianco reggendosi alla balaustra del medesimo colore intervallata da colonne in stile dorico.
Gordon era sicuro che quella sera sua figlia lo avrebbe dovuto trascinare d'urgenza in ospedale causa broncopolmonite fulminante.
- Non sono sicuro che ci stessero aspettando...- sbuffò Hunter, al riparo sotto la veranda, scrollandosi il gilet in modo da far gocciolare via l'acqua.- Eppure il commissario aveva detto alla signora Schreave che saremmo passati...
- Forse speravano più tardi - osservò Gordon, gli occhiali appannati.- Se è vero che hanno voluto tenere nascosta la verità, non c'è da stupirsi che non vogliano che gli ospiti vedano due poliziotti...
- Beh, ormai è fatta - l'agente fece per suonare al campanello, ma la porta d'ingresso si socchiuse prima che potesse farlo. Dallo spiraglio fece capolino un volto femminile, un viso mulatto sui vent'anni incorniciato da una chioma riccioluta. Con la coda dell'occhio, Hunter vide che indossava una divisa blu con grembiule di pizzo e teneva i capelli raccolti con un nastro.
Doveva essere una dipendente.
- Salve - salutò.- Sono l'agente Hunter, lui è il mio collega, l'ispettore Gordon...- fece per tirare fuori il distintivo da una tasca del gilet, ma la ragazza lo zittì premendosi l'indice sulle labbra carnose.
- Abbassi la voce. Lo so chi siete. Stavamo aspettando qualcuno dalla polizia, ma la signora Schreave mi ha detto di non farvi passare dove sono gli ospiti.
Gordon si sentì morire. Hunter guardò prima il suo collega, poi il giardino invaso dalla pioggia e infine di nuovo la giovane cameriera.
- Significa che dobbiamo fare il giro?- la prospettiva di cercare la porta sul retro correndo sotto l'acquazzone era quasi meno preferibile alla morte.- Seriamente, non c'è un altro modo?- bisbigliò, quasi implorante.
La ragazza aggrottò le sopracciglia. Ci pensò su qualche istante, poi fece cenno di entrare.
- Ora, non parlate - sussurrò.- Camminate in punta di piedi e non fatevi notare. Seguitemi, vi porto al piano di sopra.
L'atrio in cui li aveva accolti era talmente immenso che i due poliziotti si trovarono quasi disorientati. Era illuminato in ogni angolo, non c'era spazio che fosse in penombra. Un grande tappeto persiano rosso e blu copriva quasi interamente le piastrelle lucide, mentre i lampadari facevano scintillare le suppellettili poste sui tavolini in legno di ciliegio.
Di fronte a loro c'era una scalinata che conduceva al piano superiore, mentre alla loro sinistra una porta socchiusa lasciava fuoriuscire un rumore di spadellare e un brusio di voci, insieme al profumo di qualcosa di commestibile; a destra, un altro corridoio conduceva a una porta spalancata su un salotto pieno di persone vestite a lutto ma che più che addolorate sembravano concentrate a rimpinzarsi al buffet che era stato allestito.
Hunter e Gordon seguirono la cameriera al piano superiore e poi lungo un corridoio; anche in quest'ultimo l'opulenza regnava sovrana, ma era meno impersonale: entrambi notarono che erano presenti numerose fotografie incorniciate.
Le prime in ordine di apparizione ritraevano una ragazzina sui tredici o quattordici anni, con i capelli corvini, chiaramente in posa per un book fotografico. In una foto la si vedeva con addosso un costume per bambini all'ultima moda, in un'altra indossava abiti ispirati alle favole, in una terza era in un ambiente urbano con jeans strappati, stivaletti, occhiali da sole e borsa all'ultima moda gettata sulle spalle. Procedendo, la ragazzina tredicenne diventava adolescente, fino a giungere all'età di una giovane donna, ma senza smettere di essere in posa. Le fotografie si facevano più audaci e sexy, con una ragazza più che ventenne che indossava abiti succinti e trucco pesante sulla pelle bianchissima, labbra rosse e i capelli corvini ora sciolti ora sistemati in acconciature elaborate che avrebbero voluto apparire casuali e scarmigliate. Di tanto in tanto, accanto al volto della ragazza comparivano nomi di riviste di moda famose oppure slogan pubblicitari a caratteri cubitali.
Alla fine, la cameriera li condusse in uno studio privato e li invitò a sedersi.
- Riferisco alla signora Schreave e al signorino Sebastian che siete qui - disse loro.- Gradite che vi porti qualcosa, al mio ritorno?
- No, grazie - borbottò Gordon.- Siamo a posto, la ringrazio, signorina...?
- Babette Deniel - rispose la ragazza, e stava per andarsene quando Hunter la bloccò.
- A dire il vero, se non è di troppo disturbo, io berrei volentieri un caffé. Sa, con tutta quell'acqua...
Babette rispose che avrebbe riferito in cucina, e li lasciò soli dopo essersi chiusa la porta alle spalle.
Lo studio in cui li aveva lasciati era a sua volta un'ostentazione alla ricchezza, con una scrivania lucidissima e un tappeto persiano che ricopriva quasi l'intero pavimento. Una finestra grande quanto l'intera parete si stagliava alle spalle della poltrona in pelle della scrivania, affacciandosi sul retro del giardino. Un mobiletto con impilate bottiglie di alcolici era sistemato accanto a una libreria, mentre sulla scrivania vicino a computer e stampante erano posti un astuccio con penne stilografiche da collezione e un posacenere di vetro lavorato.
Completavano l'opera alcune poltroncine e due seggiole foderate di fronte alla scrivania.
Gordon alzò lo sguardo sulle pareti: erano un tripudio di autocelebrazione. Stavolta non erano fotografie, non tutte almeno: per la maggior parte erano articoli di giornale. Sembravano essere state appese alla parete a seconda della persona che ne era protagonista. Gordon rivide alcuni scatti in posa della ragazza che tappezzavano il corridoio, mentre dalla parte opposta c'erano due o tre fotografie riguardanti un giovane: Amos Schreave avvolgeva un braccio intorno alle spalle e stringeva la mano destra a un ragazzo con una corona d'alloro sul capo, e quel medesimo ragazzo tornava in altre immagini tratte dai giornali mentre accompagnava Schreave a questo o quell'altro evento, ma erano tutti scatti pubblici. Non c'era niente che ritraesse quel ragazzo in un momento quotidiano o in famiglia.
La maggior parte dello spazio, comunque, era occupato dal volto di Amos Schreave. Anche in questo caso, si trattava per lo più di fotografie ufficiali o di scatti presi dai giornali. Una foto più gramde delle altre mostrava un ritratto abbastanza decente del magnate: Amos Schreave era stato un uomo alto di statura e robusto, con un accenno di doppiomento e baffi grigi in accordo con i capelli che portava sempre lisci sul capo con uno spruzzo di brillantina. Gordon aveva visto svariate volte qualche sua intervista in televisione – era un uomo che non si faceva desiderare, sotto quell'aspetto – e aveva avuto l'impressione che si trattasse di un uomo carismatico, che ci sapeva fare con le parole e con le persone, non propriamente un bell'uomo ma che riusciva ad apparire affascinante grazie alla sua dialettica e al suo denaro.
Riusciva sempre ad apparire ciò che gli altri avrebbero voluto vedere in lui: il datore di lavoro paziente e comprensivo, l'amico con cui scambiare due battute sul fondoschiena di una bella donna o a cui confidare le tue rogne di tutti i giorni, il padre affettuoso e orgoglioso della sua prole, il marito fedele e amorevole che non tornava mai a casa la sera senza un mazzo di fiori per la sua consorte.
In gioventù, Amos Schreave aveva avuto fama di playboy e donnaiolo, e si era sposato due volte. Sotto la sua gigantografia, due foto testimoniavano questi eventi.
Entrambe mostravano la stessa scena, ovvero quella dell'industriale che usciva dalla chiesa tenendo a braccetto una donna vestita da sposa, ma le differenze erano evidenti. Nella prima foto, veniva rappresentato un Amos Schreave decisamente giovane, accompagnato da una ragazza neanche trentenne dagli occhi chiari e i capelli color cioccolato, con addosso un abito da sposa firmato Chanel, con il velo e lo strascico, che sorrideva un po' distante al neomarito; nella seconda, Schreave era molto più vicino all'età della sua dipartita, e la donna che lo teneva sottobraccio aveva chiaramente superato i trentacinque anni: aveva i capelli neri raccolti e coperti da un cappellino a cui erano stati fermati dei fiori di plastica, e indossava un tailleur color perla. Era seria, composta, quasi stesse partecipando a un evento ufficiale più che al proprio matrimonio.
Hunter si lasciò cadere sulla sedia, distese le gambe e allargò le braccia per poi incrociarle dietro la nuca.
- Hai visto che roba?- accennò all'ambiente intorno a loro.- Ah, mia madre aveva ragione: avrei dovuto studiare economia e buttarmi nel mondo del business e della finanza, invece di fare il poliziotto...!
 
Qualcuno bussò un paio di volte alla porta della stanza. L'interno, vuoto, riportò solo l'eco dei colpi contro il legno.
Dal corridoio provenne un sospiro esasperato.
- Blanche, guarda che non te lo ripeto più!- altri colpi sul legno, più secchi e nervosi.
Dall'interno della camera non si ebbe alcuna risposta.
Sebastian Schreave, in piedi in mezzo al corridoio deserto del terzo piano, chiuse gli occhi e si sfregò la fronte e le tempie con il pollice e l'indice. Aveva mal di testa da più di tre giorni, e quella mattina si era svegliato con la sensazione che qualcuno stesse suonando dei tamburi djembe nel suo cervello – sensazione che era andata peggiorando durante il corso della giornata.
Aveva sperato che dopo il funerale e il ricevimento sarebbe potuto andare in camera sua e dormire fino al giorno dopo, ma proprio mentre stava salutando una delle ultime coppie di ospiti Babette gli si era avvicinata e gli aveva detto che due poliziotti lo stavano aspettando nello studio di suo padre.
Era stato costretto a inventarsi una scusa per fare in modo che le ultime persone se ne andassero il più rapidamente possibile, ovviamente dovendo sorbirsi la sfilata di strette di mano e condoglianze.
E poi, come se non bastasse, ci si era messa anche sua sorella.
A dire il vero, Babette aveva riferito la cosa solo a lui e a Grimilde, il che implicava che la presenza di Blanche non fosse necessaria, ma conoscendo la piccola testa di rapa con ogni probabilità si sarebbe offesa per non essere stata convocata a sua volta e lo avrebbe tartassato per tutta la durata della cena con domande e recriminazioni...per poi magari fare i capricci e lamentarsi quando l'avrebbero convocata in centrale per altre domande di routine.
Meglio tagliare subito la testa al toro, si era detto.
E invece Blanche aveva dovuto rendere il tutto difficile anche quella volta. Babette era tornata da lui mezz'ora dopo che le aveva chiesto di trovare sua sorella, dicendo che la signorina Blanche non è reperibile da nessuna parte. Sebastian aveva compreso sin dal primo giorno in cui la nuova cameriera – una studentessa di Scienze Motorie che doveva pagarsi gli studi – aveva iniziato a lavorare da loro che lei e sua sorella non si sarebbero mai prese neanche in caso di un frontale in auto, quindi aveva pochi dubbi sul fatto che Babette non si fosse sforzata poi granché nel cercare sua sorella.
E Blanche stava di nuovo facendo le sue solite scenate.
Così ci era andato di persona. Per trascorrere i cinque minuti seguenti a implorare di fronte a una porta chiusa.
Si schiarì la voce.
- Blanche!- chiamò, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per mantenere un tono di voce calmo e fermo.- Blanche, hai tempo tre secondi per uscire da lì, o vengo a prenderti!- minacciò. Suonò patetico anche a se stesso. Non era il tipo che faceva certe cose, anzi, di solito preferiva usare la diplomazia per venire a capo di un problema, ma quella era la tecnica che suo padre e suo fratello utilizzavano sempre per gestire i capricci di Blanche.
Sebastian ricordava bene che, quand'erano ragazzini, a suo fratello bastava urlare quella frase perché sua sorella scattasse in piedi e ubbidisse. E così pure tutti loro. Lui ci aveva provato qualche volta, con lo stesso tono e lo stesso cipiglio, ma era evidente che non avesse lo stesso carisma e la stessa autorità del padre o di suo fratello maggiore.
E infatti, ciò che ottenne come risposta fu il nulla cosmico.
Sebastian prese in considerazione l'idea di lasciarla perdere, e al diavolo!, che si arrangiasse una buona volta, ma poi dal niente lo assalì un pensiero tremendo. La morte di Amos era stata un colpo durissimo per tutti, ma in particolare per Blanche – che, Sebastian aveva sempre sospettato, non aveva mai incassato del tutto nemmeno la scomparsa della mamma e del fratello.
L'idea che sua sorella non gli rispondesse non per il suo solito fare le bizze, ma perché avesse compiuto qualche idiozia, gli impedì di ragionare lucidamente, e senza rifletterci afferrò il pomello della porta ed entrò.
Gli venne subito in mente che Blanche come minimo gli avrebbe tirato una scarpa – sua sorella odiava quando qualcuno violava la sua privacy, ed entrare senza bussare ed essere invitato rientrava nella lista delle violazioni –, ma non accadde nulla. La camera era vuota.
Il letto a baldacchino era rifatto e in ordine, la toilette con spazzole e trucchi non era stata toccata e la portafinestra che dava sul terrazzo personale di Blanche era socchiusa e le foto tratte dalle riviste di moda per cui sua sorella aveva posato lo guardavano da ogni angolo della stanza. Sul comodino bianco accanto al letto c'era un vaso con dei ciclamini che stavano appassendo, e alcuni petali erano caduti nel posacenere insieme ad alcuni mozziconi di sigaretta.
Di sua sorella nessuna traccia.
Sebastian si chiese dove potesse essere altrimenti. Fece per andarsene, ma poi notò che l'anta scorrevole della cabina armadio era chiusa male. Gli mancò il respiro al pensiero di trovare sua sorella appesa a una sbarra per una corda e un cappio, e spalancò l'anta.
Sua sorella non era appesa per il collo, ma seduta per terra in un angolo. Si era tolta le scarpe che giacevano accanto alle sue caviglie foderate con calze a rete lunghe fino alle cosce, la gonna del vestito sollevata e i capelli corvini legati in una crocchia cascante. Era più pallida del solito.
Tutto lo spavento di Sebastian scomparve così com'era arrivato, e si tramutò in un enorme fastidio.
Sua sorella non lo guardò nemmeno e si accese una sigaretta. Il fumo riempì la stanza e Sebastian scacciò via con una mano quello che gli saliva fino al volto. Lui detestava il fumo, soprattutto negli spazi chiusi, proprio come suo padre, ma in quella casa l'unica a fargli il sacrosanto favore di andare a fumare sul terrazzo o in veranda era Grimilde. Blanche non ci sentiva su quella questione, così come su molte altre.
- Blanche, quante volte te lo devo dire che se vuoi fumare devi farlo fuori?
- Che ci fai qui? Non ti ho dato il permesso di entrare!- ringhiò sua sorella, tirando una boccata.
- Ci sono dei poliziotti nello studio di papà.
- E allora?- Blanche alzò le spalle.
Sebastian si sentì prudere le mani; da una parte si sentiva in colpa, ripetendosi che quello era il modo di sua sorella per affrontare il lutto, ma dall'altra aveva solo una gran voglia di darle uno schiaffo.
- Allora, per favore, alza il fondoschiena e vieni con me. Credo che vogliano farci delle domande.
- Ce le hanno già fatte!- Blanche gli si rivoltò contro come una vipera, e finalmente lo guardò negli occhi.- Abbiamo riconosciuto il corpo in tre, abbiamo già risposto alle loro domande, che altro vogliono?! Di certo non troveranno qui quello che ha ammazzato papà! Riesci a dirglielo o sei troppo smidollato anche per questo?
Sebastian contò fino a dieci prima di risponderle.
- Erano domande di routine. E' probabile che abbiano delle novità e che vogliano approfondire alcune cose. Possiamo essere utili.
- Va bene, allora. Vai.
- Anche tu puoi essere utile, Blanche.
- Io non ho niente da dire.
- Blanche, guarda che sto perdendo la pazienza...
Sua sorella lo guardò, seria, e per un attimo Sebastian pensò di aver finalmente colpito il segno; ma poi Blanche spense la sigaretta contro la parete della cabina armadio e gettò il mozzicone a terra, e guardò suo fratello con un ghigno a metà fra il canzonatorio e il compassionevole.
- Risparmiati la scena, Seb. Fai pena quando cerchi di imitare Adam.
Sebastian l'afferrò per un braccio e la tirò in piedi a forza mentre lei gli strillava che avrebbe fatto ancora più schifo quando sarebbe passato a dover imitare Amos nella gestione degli affari. Lui cercò di non darle ascolto e la trascinò fuori dalla cabina armadio.
- L'azienda è tua solo perché Adam è morto! Ma con te finiremo in malora nel giro di sei mesi!
- Alzati, ho detto!- Sebastian alzò il braccio libero per difendersi quando sua sorella iniziò a dargli schiaffi e gomitate sul petto e sulle spalle. Gli urlò di lasciarla stare e insistette talmente tanto e con così tanta forza che alla fine il ragazzo fu costretto a mollarle il braccio.
- Va bene, hai vinto, stronzo!- gli sputò contro.- Scendo, ma col cazzo che mi presento così!
Sebastian si allontanò; Blanche si rimise le scarpe e si abbassò la gonna del vestito – che comunque le arrivava abbondantemente sopra al ginocchio – e si diresse verso la toilette. Suo fratello la guardò mentre si sistemava l'eyeliner nero intorno agli occhi e si rifaceva il rossetto, in attesa che finisse, ma dopo un attimo Blanche gli urlò di andarsene fuori.
Sebastian l'accontentò, ma sbatté la porta così forte da far cadere alcuni rossetti sul pavimento.
 
Gordon e Hunter non dovettero attendere molto prima che i due membri restanti della famiglia Schreave raggiungessero loro due e il terzo nello studio di Amos. Poco dopo che la cameriera se n'era andata, quella che si presentò come la signora Schreave aveva fatto capolino nel salotto e si era accomodata su una poltroncina accanto alla scrivania, in modo da guardarli negli occhi.
Si erano scambiati i soliti convenevoli e i due poliziotti le avevano fatto le loro condoglianze, che la donna aveva ricevuto con cortese distacco. Aveva detto loro che prima di cominciare con le domande desiderava attendere il figliastro, perché si sarebbe sentita più a suo agio.
Prima di mettersi in auto per raggiungere Rose Manor, Gordon aveva datto una lettura veloce al fascicolo su Amos Schreave. Non era riuscito a leggerlo tutto, ma una parte che gli era saltata all'occhio era stata quella riguardante i suoi due matrimoni. L'industriale si era sposato la prima volta nel 1987 con la sua prima moglie, Serena Charlotte Bloomsberg, e pochi anni prima, con Grimilde Sforza Randall Schreave.
- Lei di dov'è, se non sono indiscreto?- domandò Hunter a un certo punto.- Non è americana, vero? Il suo accento non lo dimostra...
- Nessuna indiscrezione, s'immagini. Sono italiana. Sono nata nella provincia di Verona, ma i miei genitori erano di Milano.
- “Sforza” come quegli Sforza?
- Non credo. Forse un ramo minore della famiglia.
- E il suo secondo cognome, Randall?
La signora Schreave lo guardò come se le avesse chiesto di che colore fosse la sua biancheria intima. Gordon pensò che evidentemente o non comprendeva il senso di quelle domande o non le riteneva opportune. Hunter, comunque, non sembrava imbarazzato; anzi, pareva quasi che ci godesse.
- L'ho preso dal mio primo marito. Ci tengo a conservare tutti i miei cognomi.
- Spero che nessuno debba mai chiamarla con il suo nome completo, o come minimo dopo avrà bisogno di riprendere fiato - Hunter rise, e Gordon si vergognò al posto suo. La signora Schreave parve quasi scandalizzata dalla battuta, se poi ci si aggiungeva anche il fatto che fosse stata pronunciata in un periodo di recente lutto, beh, c'erano tutti i presupposti per girare la faccia del suo collega con una cinquina.
Fu comunque educata al punto da non rispondere per le rime, ma grazie alla sua buona stella Gordon non dovette attendere di subire altre umiliazioni, perché nello studio fecero il loro ingresso i due figli superstiti di Amos.
Erano i due ragazzi che avevano visto nelle fotografie: la ragazza, sui ventuno o ventidue anni, era la modella di tutte le copertine incorniciate, ed era bella come in fotografia, alta e magrissima ai limiti dell'anoressia, ma con il viso pieno a sufficienza da dimostrarne la salute; i capelli corvini erano mossi e sciolti, le arrivavano fino a metà schiena, ed era pallidissima e con le labbra rosse come il sangue – complice anche un abbondante uso del rossetto; indossava un vestito nero con le spalline sottili e la gonna corta, a cui aveva aggiunto uno scialle traspartente intorno alle braccia e alle spalle; le gambe lunghe erano fasciate da delle calze a rete scure e ai piedi portava un paio di scarpe di vernice a tacco quindici.
Gli occhi chiari erano circondati da un pesante ombretto nero ed eyeliner scuro. Il suo abbigliamento contrastava molto con il sobrio tailleur nero della signora Schreave, la quale, a differenza della ragazza – che aveva un rolex intorno al polso e un bracciale d'oro intorno all'altro – non indossava gioielli ed era truccata solo con un filo di mascara, mentre i capelli – anch'essi neri e lunghi – erano lasciati ricadere sulle spalle in una permanente fermata sulla tempia destra da una spilla argentata.
La ragazza non si degnò di salutare nessuno e andò a sedersi sul bordo della scrivania il più lontano possibile dall'altra donna. Accavallò le gambe così che la gonna si sollevasse ancora di più e le scoprisse le cosce, e iniziò a fumare una sigaretta senza guardare nessuno.
Il ragazzo – quello che appariva con la corona d'alloro nelle fotografia – sembrò infastidito dal suo comportamento, ma fece finta di nulla e salutò i due poliziotti. Si sedette alla scrivania, e a Gordon non sfuggì il sorriso rassicurante che si scambiò con la signora Schreave.
- Chiedo scusa se vi abbiamo fatto attendere...- mormorò; aveva l'aria incredibilmente stanca, come se non dormisse da giorni.- L'ispettore Gordon e l'agente Hunter, presumo..- in quel momento, Babette entrò con un carrello su cui erano sistemate alcune tazze e delle teiere.
Servì del caffé ad Hunter, al ragazzo e alla signora Schreave, la quale domandò un po' di cognac per correggerlo. La ragazza chiese piuttosto sgarbatamente del té caldo all'aroma di menta con tre cucchiaini di zucchero, e Gordon per non fare la figura del maleducato prese a sua volta del caffé nero.
- I signori sono qui per farci alcune domande su papà, suppongo...- mormorò Grimilde, sorseggiando il suo caffé corretto; Gordon doveva ammettere che fosse veramente una bella donna, nonostante fosse chiaro che avesse quasi l'età di Karen Larabee: era alta e snella, ancora piacente, e con meno rughe di quante ne avessero le quarantacinquenni di sua conoscenza; sembrava anche molto sofisticata e raffinata.
- Sì, è così...- disse l'ispettore, posando la tazzina sul carrello.- Condoglianze, signor Schreave. Condoglianze, signorina...
La ragazza lo guardò come se fosse stato uno scarafaggio il cui unico scopo nella vita fosse quello di farsi schiacciare.
- Grazie...- rispose Sebastian.- Sa, mi fa strano essere chiamato con l'appellativo con cui ci si rivolgeva a mio padre...- Gordon gli sorrise come a dire che lo capiva.- Avete novità? Resta sempre la richiesta di tenere i reali motivi della morte privati, naturalmente...
- Ci conti, signor Schreave. Per quanto riguarda le novità...al momento nessuna, ma stiamo avanzando delle ipotesi che potrebbero portarci su una determinata pista...
- Quali ipotesi?
Gordon spiegò sommariamente la questione del Lupo e il perché pensassero che Amos Schreave fosse un'altra delle vittime del serial killer, senza scendere nei dettagli riguardanti gli altri casi.
Alla fine, la signora Schreave e Sebastian erano abbastanza perplessi.
- Ma...il Lupo...intendete quel pazzo che ha ucciso quelle ragazze? Al telegiornale lo chiamano così...- mormorò Grimilde.
- Sinceramente, io questo collegamento non lo vedo - s'intromise bruscamente Blanche.- Quello spostato ha ucciso delle ragazzine a coltellate, no? Che c'entra mio padre? Gli hanno sparato alla nuca, a me sembra più un'esecuzione...
- In effetti le modalità dell'omicidio lasciano pensare a un'impronta di stampo mafioso - ghignò Hunter.- Lei confermerebbe un'ipotesi del genere, signorina Schreave?
Blanche avvampò, mentre Grimilde si portò le mani alla bocca in un'espressione sconvolta. Sebastian diede un pizzicotto all'avambraccio di sua sorella.
- Non abbiamo niente da nascondere, agente - si difese.- Dico sul serio. Lavoro con mio padre da quando mi sono laureato. Mi occupo della parte amministrativa e finanziaria dell'azienda. Se avessi notato qualcosa di pulito, sarei stato il primo a farvelo presente quando ci siamo incontrati la prima volta. Comunque, se volete posso farvi avere tutti i documenti necessari in questo momento...- Sebastian fece per alzarsi, ma Gordon lo bloccò.
- Non ce n'è bisogno. Non per il momento, poiché non abbiamo un mandato. Ma le chiederei in ogni caso di rendersi disponibile qualora avessimo necessità di visionare alcune transazioni di denaro...
- Certo. Ci conti.
Sebastian si rimise seduto, ma non smise di lanciare occhiate in cagnesco a sua sorella. Blanche prese a fumare nervosamente.
- Comunque, non siamo qui per accusare nessuno - intervenne Hunter.- Vorremmo solo cercare di ricostruire con voi le ultime ore di vita e possibilmente i giorni precedenti all'omicidio del signor Schreave. Ricordate cosa è accaduto quella sera?
Grimilde rifletté, poi parlò a bassa voce:- Beh, non...nulla di particolarmente diverso dal solito. Amos è tornato dall'ufficio verso le sei insieme a Sebastian, poi io e mio marito ci siamo seduti in salotto e abbiamo preso l'aperitivo...lo facevamo tutte le sere prima di cena...
- Ma quella sera suo marito ha cenato fuori...- incalzò Gordon.
- Sì. Aveva appuntamento con Stephen e Leah. I coniugi Thorn - precisò.- Lo avevano invitato a cena al Bramblesses Roses, lo conosce?
- Solo lui?- buttò lì Hunter; la signora Schreave arrossì violentemente, e Gordon era sicuro che il figliastro stesse per rifilare un cazzotto al suo collega.
- Quello che l'agente intendere chiedere, è se era un'abitudine - si affrettò a dire.- Il signor Schreave era abituato a uscire fuori a cena da solo?
- Di solito cenavamo tutti insieme, sia fuori che dentro casa - Sebastian rispose al posto della donna.- Ma l'altra sera ha detto di voler andare da solo perché Stephen gli era parso strano al telefono.
- “Strano”, in che senso?
- Giù di morale, ha detto mio padre. Ha detto anche che secondo lui Stephen e la moglie avevano bisogno di un po' di compagnia...sa, dopo quel che è successo alla figlia...
- Eravate intimi con i Thorn?
- Stephen e mio padre erano amici sin dai tempi del college. La moglie la frequentavamo per riflesso.
- Pensa che potessero esserci degli attriti fra suo padre e i Thorn?
- Non credo. Papà non ci ha mai detto niente. Perché? Che genere di attriti avrebbero dovuto avere?
- Non possiamo escludere nessuna ipotesi. Che mi dice di Rosebud, la figlia dei Thorn?- chiese Hunter.- La conoscevate?
Sebastian e Grimilde si guardarono in silenzio per qualche istante, ma fu Blanche a parlare.
- Un paio di volte era venuta qui a cena con i genitori. Questo prima che partisse per Princeton...
- E prima?
- Lei e Blanche erano molto amiche, da ragazzine - disse Grimilde, guadagnadosi un'occhiata di traverso da parte della ragazza.- Veniva qui quasi tutti i pomeriggi dopo la scuola per giocare e fare merenda, vero, cara?
- Ci siamo perse di vista con gli anni - l'interruppe Blanche.- Già a sedici o a diciassette frequentavamo giri diversi. Poi lei è andata al college e io sono rimasta a lavorare con papà...
- Di che si occupa la vostra azienda?- domandò Hunter.
- Produzione di cosmetici, principalmente; ma da qualche anno realizziamo anche servizi fotografici per pubblicizzare i nostri prodotti - rispose Sebastian.
- La signorina fa la modella?
- Come fa a saperlo?- chiese Blanche.
- Mi è caduto l'occhio su alcune delle sue ristrette e scarne fotografie...
- Perché lei e Rosebud Thorn vi siete allontanate?- Gordon cercò di riportare la conversazione sui binari del quieto vivere.- Avete litigato?
Blanche parve sorpresa dalla domanda. Fece spallucce.
- No. Gliel'ho detto, frequentavamo giri diversi. Lei voleva diventare giornalista, io avevo già una carriera avviata...si cambia parecchio, da quando si ha tredici anni.
- Naturalmente. Un'altra domanda, quando è stata l'ultima volta che avete visto o sentito il signor Schreave?
- Prima che uscisse di casa - disse Sebastian; Blanche e Grimilde confermarono.
- E nei giorni precedenti alla sua morte? Vi è parso che fosse strano, o che qualcosa non fosse nella norma?
- No, era tutto regolare. Come le ho detto, lavoro con mio padre, quindi mi sarei accorto di qualche suo atteggiamento preoccupato o di qualche movimento fuori dalla routine...
- Com'era l'atmosfera in famiglia? C'erano stati litigi?
- Assolutamente no - rispose Grimilde, secca.
- Qualcuno che avrebbe potuto avercela con lui per qualche motivo?- insistette Hunter.- Non saprei, un dipendente, un socio in affari...qualche altro membro della famiglia...
I tre componenti della famiglia Schreave si scambiarono occhiate di sottecchi. Sebastian scosse la testa, ma Gordon ebbe l'impressione che stesse avendo una discussione con se stesso, e quel gesto non fosse un segno di diniego rivolto a loro.
- Beh, potrebbe essere...- iniziò Grimilde.
- No - Sebastian la bloccò.- Non è stata lei.
- Però penso che dovremmo comunque dirglielo - mormorò la donna.- Potrebbero ascoltare anche lei...
Hunter inarcò le sopracciglia.
- Lo sa, signora, che a questo punto è praticamente obbligata a dircelo?
- Mia madre sta pensando alla mia sorellastra - rispose Sebastian, di malavoglia.- Ma non credo che lei c'entri qualcosa. Non ne avrebbe motivo, e poi sono anni che non si fa né vedere né sentire.
- Può darci qualche informazione in più su sua sorella?- domandò Gordon.
- E' la loro sorellastra, ispettore - fece Grimilde.- Mia figlia. Dal mio primo matrimonio. Quando Amos mi ha chiesto di sposarlo l'ho portata a vivere qui con me...sa, suo padre non c'è più da tanti anni...
- Quanti anni ha la ragazza?
- Ventitré, sì? Dovrebbe averne compiuti ventitré il mese scorso, vero Sebastian?
- Nome?- Hunter estrasse un taccuino da una tasca del gilet e allungò la mano per prendere una delle stilografiche sulla scrivania.
- Roxanne Randall.
- E dove si trova ora?
- Non lo sappiamo - rispose Blanche, acida.- Ha levato le tende il giorno dopo il diploma. Sono cinque anni che non ne sappiamo niente. Può anche darsi che non abiti più a Everbrooke.
- Ha mai provato a contattarla?- Gordon si rivolse a Grimilde.- Che so...avrà lasciato un recapito telefonico, o un indirizzo. Ha detto dove sarebbe andata?
- L'abbiamo cercata, ma non ci è mai riuscito di sapere che fine avesse fatto.
- Avete sporto denuncia per la sua scomparsa?
La signora Schreave lo guardò esterrefatta.
- No! Insomma, non mi sembrava opportuno. Roxanne se n'è andata di sua spontanea volontà, abbiamo assistito tutti...lei stessa prima di andarsene ha detto che non ci voleva più vedere...
- Conosce il motivo per cui ha voluto andarsene in questo modo?
- Mia figlia è sempre stata una ragazza un po' strana, ispettore.
- Si spieghi meglio, per favore.
- Sa, la classica adolescente ribelle. Svogliata in casa, andava male a scuola, le piaceva uscire la sera e divertirsi, non ubbidiva mai. Ogni tanto le chiedevo perché non potesse essere come Blanche o Sebastian. Era...viziata. In parte la colpa è stata certamente mia. Dopo la morte del mio primo marito ho cercato di darle tutto, e spesso evitavo di rimproverarla o sculacciarla anche quando, francamente, se lo sarebbe meritato.
- Ci sta dando un ritratto di sua figlia ben poco lusinghiero...
- Non era una ragazza cattiva, solo come le ho detto un po' viziata ed egoista. Credo soffrisse di carenze affettive. Mi ha fatto una scenata da melodramma quando le ho detto che mi sarei risposata.
- Non le piaceva il patrigno?
- A Roxanne non piaceva nessuno. Credo temesse di perdere l'affetto della sua mamma.
- In che rapporti era con suo marito?
- Pessimi. Non mi fraintenda, non sto parlando di violenza o litigi continui o cose di questo genere. Amos ha cercato d'impartirle l'educazione che ha fornito ai suoi figli, ha tentato di guadagnarsi il suo affetto in ogni modo e di farla sentire parte integrante della famiglia, ma Roxanne lo ha sempre rifiutato. Penso che lo vedesse come un usurpatore di suo padre.
- Non le perdonava il fatto di essersi risposata, signora Schreave?
- Roxanne non era mai soddisfatta di nulla che io facessi. Mi dava contro in tutto.
- Solo a lei o anche a suo marito?
- Mia figlia non andava d'accordo con nessuno. A parte forse...- Grimilde s'interruppe; pareva molto turbata dalla conversazione, e si voltò più volte in direzione del figliastro per chiedere aiuto.
Sebastian raccolse la richiesta.
- L'unica persona con cui Roxanne sia mai andata d'accordo è mio fratello Adam.
- E dove si trova suo fratello in questo momento?
- E' morto nel 2004.
Calò un silenzio pregno di tensione e imbarazzo. Blanche si morse l'interno di una guancia. Hunter guardò il suo collega come a dire hai fatto una bella gaffe, amico!, poi si rivolse a Sebastian.
- E...come è successo?
- Vede, agente, lui...
- Siamo qui per parlare di mio fratello, adesso?!- sibilò Blanche.- Non è per lui che siamo qui, è per trovare l'assassino di mio padre!
- Lo so, signorina Schreave, ma ogni informazione può essere importante per...
- Non capisco cosa c'entri Adam in tutto questo!- Blanche saltò giù dalla scrivania e gli si piazzò di fronte.- “Come è successo”?! Che domande idiote fa? Lo sapete benissimo come è successo, voi della polizia! Queste cose ce le avete già chieste all'epoca...
- Signorina, io sono a Everbrooke da poco...
- E allora s'informi, prima di parlare!- Blanche gli regalò un insulto e marciò in direzione della porta. Suo fratello si alzò dalla scrivania e la raggiunse; la trattenne per un braccio cercando di farla ragionare, ma lei si divincolò e regalò un insulto anche a lui.
- E lasciami in pace!- concluse, uscendo a grandi passi e sbattendo la porta.
Percorse il corridoio quasi correndo, poi salì al piano di sopra e si chiuse in camera sua. Girò due volte la chiave nella serratura e poi si gettò sul letto in posizione supina. Sentiva gli occhi e il naso pizzicare, aveva voglia di mettersi a piangere, ma non ci riuscì.
Trattenersi dallo spiattellare tutta la verità sbugiardando Grimilde era stata durissima. E suo fratello, quello smidollato, non si era accorto di niente.
Quante cazzate!, pensò. Quante cazzate!
Rimase distesa a occhi chiusi per tantissimo tempo, forse più di un'ora. A un certo punto, quando si fu un po' calmata, le venne anche il dubbio di essersi appisolata per qualche minuto. Sentiva il capo pesante e le tempie che pulsavano. Si girò sulle coperte, e raggiunse il comodino.
Girò la chiave dell'unico cassetto e lo aprì.
Cercò di non guardare la fotografia che teneva nascosta là dentro, ed estrasse invece un pacchetto avvolto in una carta da spedizione. Era piccolo e rettangolare, più o meno della grandezza di un astuccio dove Blanche teneva le collane.
Le era stato recapitato tre mesi prima, ma era ancora intatto. Non aveva avuto il coraggio di scartarlo. Fra il nastro che teneva unita la carta c'era una busta con un biglietto: quello Blanche lo aveva letto, ed era stato il motivo per cui si era rifiutata di aprirlo.
Aprì la busta ed estrasse il rettangolino di carta scritto con inchiostro nero e una calligrafia elegante ed elaborata, che Blanche aveva riconosciuto sin dal primo istante perché di essa erano piene pagine del suo diario segreto delle medie e i bigliettini d'auguri che conservava ancora in una scatola delle scarpe posta dietro a tutte le altre nella cabina armadio.
Sul biglietto erano state scritte poche righe:
 
Per Blanche Schreave:
 
Per favore, non far vedere il contenuto di questo pacchetto a nessuno; e per favore, non gettarlo via. E' veramente molto importante. Non sei obbligata ad aprirlo subito o a farlo da sola. Basta che lo conservi fino a che non ti contatterò io. Presto capirai tutto, dico davvero.
Scusa se ti affibbio questa zavorra. So che io e te non siamo più amiche da tanto tempo, e ancora una volta ci tengo a dirti che mi dispiace veramente moltissimo per quello che ho fatto. Ma davvero, non sapevo di chi altri fidarmi.
Spero mi perdonerai. Intanto, grazie di tutto. So che non mi tradirai.
 
Ti voglio bene. Ci vediamo presto,
 
Rosebud
 
Blanche fu tentata di aprirlo come ogni volta. Ma poi si ricordò di tutto quanto, e lo ripose nel cassetto chiuso a chiave.
 
III. [Jess]
 
La “cena in famiglia” in sé era stata una pena, ma Jess doveva riconoscere che lo zio Erik non fosse niente male.
Se si escludeva che si era presentato mezzo trafelato e con una maglietta troppo stretta per lui.
E se si trascurava anche che la prima cosa che aveva detto era che gli avevano smarrito le valigie in aeroporto.
La nonna era stata felice di rivederlo; Claire un po' meno. Lei e suo fratello si erano scambiati solo un rigido abbraccio che aveva visto soltanto lo sfiorarsi delle braccia e del collo. Jess aveva compreso subito che, checché ne dicesse sua madre, Erik Woods era tornato a Everbrooke quando aveva saputo del ritorno di sua nipote. La freddezza che aveva mostrato nei confronti di sua sorella maggiore era un esempio emblematico di come non si fidasse di lei. Non più, almeno.
Jess si trovò a chiedersi se quei due fossero mai andati d'accordo.
Non che con lei fosse stato più spigliato. Non l'aveva neanche abbracciata – ma a Jess andava bene così, si sarebbe sentita ancora più a disagio –, si era limitato a stringerle la mano e a ritirare la propria alla velocità della luce.
Per i primi cinque minuti della cena Jess si era quasi convinta fosse l'ennesimo cretino, ma poi si era dovuta ricredere. L'avevano fatto sedere fra lei e la nonna, ed era stato trattato quasi come l'ospite d'onore insieme a Jess stessa.
Era stata la badante della nonna a cucinare e a servire quasi tutta la cena. Ella Radescu aveva preparato non solo la torta di mele ma anche la pasta al sugo, la bistecca con le patate arrosto e il gelato.
Claire aveva iniziato ad aiutarla nel servire i pasti, ma poi il telefono di casa era squillato e lei si era eclissata per più di quindici minuti nel salotto a parlare a bassa voce. Nessuno aveva detto nulla in proposito.
Quando era tornata aveva un sorriso forzato e un po' triste. Era stato in quel momento che Jess si era accorta che la tavola era stata preparata per sei persone.
- Ma...aspettiamo qualcun altro?- aveva chiesto Erik mentre Claire toglieva il piatto, il bicchiere e le posate in eccesso e li riponeva nella credenza.
- No - la madre di Jess aveva risposto evasiva.- Ho solo fatto male i conti e ho messo un piatto in più. Sai, ero così emozionata...non mi sembrava vero che la mia bambina stesse per tornare a casa!
Jess era stata sul punto di correre in bagno a rigettare.
Erik aveva tenuto la conversazione per la maggior parte del tempo. Era quello che aveva più cose da raccontare. Jess ebbe modo di scoprire quasi tutto sul suo lavoro e la sua vita.
- E quando cominci?- gli aveva chiesto a un certo punto.
- Domani mattina. Preferisco iniziare il prima possibile, non mi piace stare senza far niente. E tu, Claire?- Erik aveva alzato lo sguardo dal piatto.- Che lavoro fai adesso?
Jess era stata parecchio curiosa su questo punto. Aveva solo dei vaghi ricordi di come sua madre mantenesse se stessa e lei nei loro vagabondaggi per gli Stati Uniti, e la maggior parte erano lavoretti saltuari, come babysitter, colf, o aiutante in traslochi, e duravano tutti non più di due settimane, per una ragione o per un'altra.
Jess ricordava vagamente che, nel periodo in cui avevano vissuto a Scottsdale – lei aveva qualcosa come sei o sette anni –, Claire aveva lavorato per qualche mese in una birreria, e che per non lasciare sua figlia da sola a casa la notte la portava al lavoro con sé e la faceva dormire su una brandina nel retro del locale, fra le cassette di birra. Poi, si era fatta cacciare anche da lì perché una mattina il proprietario aveva trovato il locale aperto e mezzo saccheggiato, e Claire ubriaca marcia addormentata sui gradini.
E una bambina di sei anni che dormiva beata nel retro della birreria senza che lui ne sapesse nulla.
Jess aveva pregustato gli attimi precedenti alla risposta di sua madre. Era stata certa che Claire avrebbe detto che al momento aiutava la nonna ma che si stava dando da fare per cercare un impiego, come aveva sempre fatto.
- Faccio la cassiera - aveva invece detto.- Da un anno e mezzo, ormai.
- Al Walmart? Esiste ancora?
- Esiste ancora, ma non è lì che lavoro. Hai presente...forse te n'eri già andato quando l'hanno aperto...- Claire aveva esitato, e la nonna era intervenuta in suo aiuto.
- Era già a Darwin, non lo conosce. Comunque, Claire lavora al Bramblesses Roses.
- Che cos'è?- aveva chiesto Jess.
- Un ristorante. E' all'incrocio fra Rosewood Boulevard e Cressmoon Road.
- E fai la cassiera lì?- Jess non aveva neanche voluto celare il proprio scetticismo.
- Sto seduta dietro il bancone e calcolo il conto della cena degli avventori. Sai, battere scontrini e roba simile...- Claire aveva alzato le spalle come se nulla fosse, ma sorrideva; si vedeva che era soddisfatta, e Jess non riusciva a capire di cosa; forse di essere riuscita a mantenere uno straccio di lavoro per così tanto tempo.
Tanto si ritroverà a casa prima della fine dell'anno, aveva concluso.
- E tu che mi dici, Jessica?- aveva chiesto Erik quando ormai lei era a metà della fetta di torta, lui e Claire al caffé e la nonna stava fumando spaparanzata sulla sua sedia a rotelle; prima che suo figlio arrivasse era riuscita a mandare Ella – che in quel momento stava lavando i piatti – a comprarle un pacchetto di sigari. L'odore del fumo era nauseabondo, e Claire aveva dovuto spalancare la finestra per permettere a tutti loro di respirare. La nonna li aveva definiti pelle delicata.- Andrai a scuola qui, immagino...
- Sì - Claire aveva risposto al posto suo.- Comincia domani.
- Prima andavo alla scuola locale con le altre ragazze della Casa Famiglia...- Jess aveva mormorato solo per educazione.
- E come vai a scuola? Ti piace?
Jess aveva alzato le spalle e non l'aveva guardato. Aveva preso a giocherellare con la fetta di torta senza più neanche mangiarla.
- Quali sono le tue materie preferite?- aveva insistito Erik.
- Me la cavo bene in inglese.
- Hai già in mente che cosa vorresti fare da grande?
Jess stava per rispondere di no, anche se aveva bene in mente la sua strada. Era solo convinta che, per qualche motivo, né lo zio né sua madre avrebbero gradito la risposta voglio fare l'attrice. La nonna era intervenuta al suo posto:
- Ma lasciala stare, povera creatura! A quattordici anni il massimo dell'aspirazione è mangiarsi un hamburger con gli amici e pomiciare con il suo ragazzo.
Jess era arrossita lievemente, ma aveva riso.
- Nonna, dai...!- si era schernita.
- E che ho detto di male?- la nonna aveva tirato una boccata.- Mica possono essere tutti come tuo zio e i suoi amici. Ne ho conosciuti solo tre della razza di tuo zio. Ragazzi che già a undici anni avevano chiaro il loro percorso nella vita. Lui, quel Will Rainer, e il ragazzo più grande degli Schreave...Stavano sempre insieme, tuo zio e loro due. Tre mezzi geni. Poi quel povero ragazzo è morto, tuo zio è andato a studiare all'estero e si sono persi di vista...
- A proposito, che fine ha fatto Will?- aveva chiesto Erik.- Ne sai niente?
- Non esco di casa da un po', ma da quel che so ha aperto uno studio qui da queste parti. Sarebbe stato sprecato a gestire quel postaccio...com'è che si chiama? Oh, beh, non importa. Tornando a noi, Jess, ce l'hai il ragazzo?
- E' troppo giovane, mamma - era intervenuta Claire.
Da che pulpito, era stato il primo pensiero di Jess, ma non lo aveva esternato.
- E dove sta scritto? Le ragazze di questi tempi sanno già tutto a quest'età. Sono sicura che Ella ce l'ha il ragazzo. Ce l'hai, vero, Ella?
La badante si era voltata appena senza smettere di lavare i piatti, aveva sorriso e non aveva risposto. Jess si era domandata per l'ennesima volta durante quella cena se Ella capisse ciò che le veniva detto o no. Non aveva praticamente spiccicato parola se non con nonna Lily e solo per chiederle se stesse bene, male, se avesse freddo, se gradisse dell'altro caffé o no.
All'ennesima domanda inutile, Lily Woods le aveva detto di chiudere il becco, e si era zittita. La nonna, comunque, era scoppiata a ridere.
- Ma va', sto scherzando! Questa ragazza ha un solo difetto: si inibisce per niente!
Naturalmente Ella non aveva dato segno di aver colto la battuta. Jess stava cominciando a pensare che fosse un po' stupida.
 
Decise di chiederlo alla nonna quando la cena fu terminata. Erik ancora non aveva avuto il tempo di trovarsi un posto dove stare per conto suo, così venne stabilito che avrebbe dormito sul divano del salotto in casa di sua madre finché non avesse provveduto.
- Grazie, mamma. Ma la camera dove dormivamo io e Claire da ragazzi? L'hai smantellata?
- No. Claire ha vissuto con me fino a che non ha preso casa da sola. Ma adesso ci dorme Ella in quella stanza, ti pare che la mando a dormire sul divano al posto tuo?!
Sempre a proposito di Ella, Claire la ringraziò per averla aiutata a preparare la cena e la nonna per essersi fermata anche di domenica. Le disse che se avesse voluto la sera seguente sarebbe potuta tornare a casa e avrebbe avuto il venerdì successivo libero, in modo da godersi il week-end lungo.
Jess colse l'occasione in cui Ella andò a recuperare la propria giacca per avvicinarsi alla nonna, che attendeva la badante sulla soglia di casa.
- Ma...capisce quando le parli?- bisbigliò, chinandosi sulla sedia a rotelle.
- Certo che capisce. Ogni tanto casca su qualche parola, ma parla l'inglese quasi meglio di noi quattro messi insieme.
- E' che mi sembra...non so, a volte pare che non ci stia molto con il cervello...
- Ma che dici! E' solo timida, mica è scema! Non giudicare il libro dalla copertina e vattene a letto - la nonna le diede un bacio su una guancia accompagnato da uno schiaffetto su una coscia.- Domani ti accompagno a scuola insieme alla mamma, okay?
- Okay...- Jess avrebbe voluto dire alla nonna che le voleva bene, ma in quel momento arrivò Ella e fu costretta a rimangiarselo. Quando ebbero salutato lei ed Erik, alla ragazzina prese un groppo alla gola.
Si sentì improvvisamente a disagio, da sola con sua madre. Avrebbe di gran lunga preferito che il tribunale la collocasse a casa della nonna – era lei l'unica che a conti fatti si era interessata minimamente della sua salute, in quei sei anni – e per un attimo l'afferrò l'idea di correre dietro a Lily e chiederle se poteva fermarsi a dormire da lei, quella notte.
Non lo fece, e l'atmosfera in casa si fece pesante e silenziosa.
Ella aveva sparecchiato e rimesso tutto in ordine, quindi non c'era niente che Jess potesse fare per tenersi occupata e per parlare il meno possibile con sua madre. Claire le propose di vedersi un film insieme in salotto, e la ragazza colse la palla al balzo per dire che si sentiva stanca e che preferiva andare a letto presto perché voleva essere in forma per il primo giorno di scuola.
- Ah! D'accordo. Sì, in effetti fai bene, sono già le dieci passate...beh, sarà per la prossima volta, eh?- Claire le regalò l'ennesimo sorriso tirato che Jess non ricambiò.
Si lavò i denti e si mise il pigiama per poi chiudersi in camera sua senza neanche augurare la buona notte a sua madre. Provò ad ascoltare della musica con le cuffie, ma non servì a calmarla. Il pensiero di essere di nuovo a casa con sua madre, unito a quello del primo giorno di scuola in un altro istituto, le causò una crisi di pianto.
Jess puntò la sveglia per le sette del mattino e spense la luce della lampada per potersi raggomitolare nelle coperte e piangere in pace.
 
Era certa di essersi addormentata, a un certo punto. Si risvegliò che era ancora buio, e l'orologio luminoso della sveglia segnava l'una e tre minuti di notte. Jess sospirò. Sentiva le palpebre pesanti a causa del pianto, ma il sonno le era passato.
Rimase a crogiolarsi per qualche minuto sotto le coperte, chiedendosi se potesse permettersi di zampettare fino in salotto e controllare se sua madre avesse Netflix o meno, quando sentì la porta della sua camera aprirsi.
Era certa di averla chiusa, ma non si spaventò. Anzi, si sentì infastidita: era sicura che sua madre fosse venuta a controllare che non si fosse tagliata le vene nella notte, oppure l'aveva sentita piangere. O peggio, voleva farle le coccole mentre dormiva.
Si risolse a fingere di dormire, e serrò gli occhi nella speranza che i passi che avevano iniziato a farsi strada sul pavimento di camera sua tornassero da dove erano venuti.
- Scusa se stasera non sono potuto venire...
La voce la gelò. Jess s'impose di non trasalire e di continuare a fingere di dormire. A parlare era stata una voce maschile, bassa, come se stesse sussurrando.
- Dormi?
Jess si accorse di essersi bagnata di sudore dalla testa ai piedi. Cercò di mantenere la calma e il proprio respiro regolare. Quello in camera sua era un uomo, nessun dubbio. Non poteva essere zio Erik, era andato a casa con la nonna e non avrebbe avuto motivo di tornare indietro e infilarsi in camera sua. E poi, non le pareva la voce del fratello di sua madre.
Era qualcuno che non conosceva.
Sentì dei rumori sommessi, e comprese che quell'uomo si era tolto i vestiti. Gli occhi chiusi le si allagarono di lacrime di paura e fu sul punto di gridare.
L'uomo sollevò le coperte del suo letto e si distese al suo fianco. Jess stava per alzarsi e mettersi a strillare, ma quello che accadde la sorprese. Lo sconosciuto grugnì e le sfiorò una spalla con una mano, prima di girarsi dall'altro lato e darle le spalle.
- Beh, buona notte, piccola. Ci vediamo domani mattina...- tirò un sonoro sbadiglio, si raggomitolò sotto le lenzuola e non si mosse né disse più nulla.
Jess rimase paralizzata nel letto a occhi chiusi.
La paura era in qualche modo diminuita, quel poco che bastava da permetterle di non fare idiozie e di regolarizzare il respiro e il battito cardiaco, ma restava.
Chi diavolo era, quello? Un maniaco? Uno che s'infilava nel letto delle sconosciute facendo finta che fossero la sua mogliettina? Non ci teneva a scoprirlo. E non teneva neanche a scoprire cosa sarebbe successo la mattina seguente, ammesso che ci sarebbe arrivata.
Attese diversi minuti, forse più di mezz'ora, fino a che non fu sicura che si fosse addormentato. A quel punto, sollevò le gambe con cautela e le mise giù dal materasso. Il suo piano era di sgattaiolare fuori dalla stanza, chiudere la porta a chiave e poi svegliare Claire – sperando che non fosse già ubriaca marcia – perché chiamasse la polizia.
Era quasi riuscita a rimettersi seduta, quando lo sconosciuto allungò un braccio verso di lei e le cinse la vita.
- Ah, sei sveglia...!
Jess strillò, e l'uomo ritirò la mano. Lei non rifletté ulteriormente: prese la lampada dal comodino e colpì lo sconosciuto nel buio. Jess non vedeva niente, ma fu sicura di averlo beccato sulla testa.
L'uomo emise un uggiolio di dolore e iniziò a contorcersi sul materasso. Jess lo prese a pugni alla cieca, colpendo dove le capitava per rallentarlo, poi scattò in piedi mentre lui mugolava ed emetteva gemiti e rantoli.
Corse verso la porta della camera e accese la luce del corridoio. Prese a correre in direzione della cucina, ma la porta della stanza di sua madre si spalancò e lei si trovò fra le braccia di Claire.
La donna barcollò per il colpo.
- Jess!- esclamò, più sorpresa che altro.- Jess, che è successo! Ho sentito dei rumori...
- In camera!- strillò la ragazzina, con un timbro isterico.- C'è uno in camera mia!
- Come? Chi?
- Chiama la polizia! C'è un uomo in camera!
Claire si voltò verso il buio oltre la porta spalancata. Da esso continuavano a provenire rantoli di dolore. La sua espressione divenne di pietra.
- Oh, no!- gemette; Jess si vide mollare completamente a se stessa e guardò esterrefatta sua madre che correva verso camera sua e accendeva la luce.
Seduto sul bordo del suo letto c'era un uomo con i capelli color sabbia e la barba di una settimana, sui trentacinque anni, in boxer e canottiera, che si reggeva il capo. A terra sul pavimento c'erano le sue scarpe, i jeanse, una camicia e un gilet.
La lampada che Jess gli aveva dato sulla testa giaceva sul materasso.
Claire gli corse incontro e s'inginocchiò di fronte a lui, prendendogli le spalle.
- Alex!- chiamò.- Alex, che è successo?
Jess era sicura che la propria mandibola fosse caduta a terra.
L'uomo sollevò gli occhi verdi accecati dalla luce improvvisa.
- Che ci fai in camera di Jess?!
- Scusa...non volevo svegliare nessuno, e sono ancora poco pratico di questa casa...
Claire guardò prima la lampada e poi lui, e si portò le mani alle guance.
- Oh, mio Dio! Fammi vedere le pupille...- gli prese il volto fra le mani.- No, sembra tutto regolare...vuoi andare in ospedale?
- No, no. Sto bene. Mi spiace tanto, piccola, ti giuro che non volevo...
Jess era impietrita sulla porta. L'uomo – Alex – sollevò lo sguardo su di lei e assunse un'aria di scuse.
- Non volevo spaventarti, scusami...ho sbagliato camera...
- Lei chi è?!- sputò fuori la ragazzina.
L'uomo non rispose, continuando a massaggiarsi la testa. Claire gli passò una mano sul volto in un accenno di carezza. Si umettò le labbra.
- Jess, lui...lui è Alex.
- Alex?
- Il mio fidanzato.
Jess si sentì crollare ancora di più il mondo addosso. Non aveva preso in considerazione l'ipotesi che sua madre potesse avere un compagno. Non ci aveva neanche pensato.
Claire ne aveva avuti, in passato, ma non erano mai durati molto e comunque raramente li portava in casa. Erano tutti disperati tossici e alcolizzati come lei, naturalmente. Solo l'ultimo che aveva avuto sembrava decente.
Jess aveva quattro anni ma se lo ricordava bene. Si chiamava Robbie e faceva il camionista. Era la relazione più duratura che sua madre avesse avuto, tanto che lui se l'era anche portata in casa. Per sei mesi avevano vissuto con lui nel suo appartamento al sesto piano di una palazzina che si affacciava sulla New York Harbor e le cui scale puzzavano di pesce ed erano piene di cartacce, lattine e mozziconi di sigaretta. Claire divideva la stanza con Robbie, mentre Jess dormiva sul divano in cucina.
Robbie sembrava anche una brava persona – non aveva grande considerazione per la figlia della sua compagna, si limitava a ignorarla anche quando lei gli rivolgeva la parola –, peccato che puzzasse di sudore e ketchup e avesse il brutto vizio – peraltro condiviso con sua madre – di alzare il gomito.
Poi, un giorno, Jess aveva fatto cadere una bottiglia di grappa sul pavimento, mandandola in mille pezzi, e Robbie le aveva tirato uno schiaffo che l'aveva sbattuta contro il muro e fatto spuntare un livido violaceo sulla guancia e lo zigomo.
Claire gli era saltata addosso e lo aveva picchiato, e lui le aveva sbattute fuori di casa tutt'e due.
Dopo, per quel che Jess ne sapeva, sua madre non aveva più avuto altri fidanzati.
Ora restava da vedere che razza di testa di cazzo si fosse tirata in casa questa volta.
Il tizio le tese la mano destra.
- Alexander Hunter. Sono un poliziotto, lavoro qui alla centrale di Everbrooke - ritrasse la mano quando vide che la ragazzina continuava a tenere le braccia conserte.- Tu devi essere Jessica, giusto? Tua madre mi ha parlato tantissimo di te...complimenti, Jessica, sei molto forte e hai anche un'ottima mira al buio...
- Te ne volevo parlare - provò a giustificarsi Claire.- Alex sarebbe dovuto venire a cena stasera...
- Ho avuto un contrattempo al lavoro. Mi spiace davvero tanto, Jessica, non volevo spaventarti. Ti avevo scambiata per tua madre.
- Ti serve del ghiaccio - mormorò Claire.- Jess, andresti a prenderlo in cucina, per favore?
Jess stava per risponderle di no, ma poi comprese che sarebbe stata una buona occasione per non assistere a quella scena e schiarirsi le idee. Quando si fu allontanata abbastanza perché non lo potesse sentire, Hunter guardò la sua fidanzata.
- Non era proprio la prima impressione positiva che speravo di farle...
 
IV. [Belle]
 
Erano le due del mattino, tutto andava bene e lei stava mettendo a dura prova il suo udito ascoltando Monster di Skillet con le cuffie a tutto volume. Era stravaccata a pancia in giù sul letto, computer portatile acceso a ore due e di fronte un volume dell'università aperto a destra e il dossier su Rosebud Thorn a sinistra. Sopra al suo letto era appeso, come se fosse un poster, uno dei volantini che segnalavano la scomparsa di Kathryn Miranda Torrance.
Anche lo schermo del computer mostrava la pagina di un quotidiano online che parlava della ragazza. Belle era tornata dal lavoro alle nove di sera, aveva preparato la cena e aveva fatto il bucato, e dopo aver seguito il telegiornale sul divano con suo padre – peraltro senza che trasmettessero nulla d'interessante – era salita in camera sua con il serio intento di mettersi a studiare, ma aveva prestato più attenzione ai casi di Rosebud Thorn e di Kathryn Torrance che alla lezione di database.
Belle si sentiva in colpa. Sapeva che avrebbe dovuto studiare. Sapeva che era inutile sognare di vincere quella borsa di studio per la Cornell University se poi non faceva nulla per ottenerla. Anche solo non volerla dare vinta a Gaston avrebbe dovuto rappresentare un incentivo, per una come lei che era competitiva anche con Lum quando si trattava di stabilire che avrebbe dovuto mangiarsi l'ultimo biscotto al cioccolato.
Suo padre le aveva sempre ripetuto che se voleva qualcosa, allora doveva tirarsi su le maniche per guadagnarsela.
Eppure era da qualche mese che era la stessa musica. Studiava poco, e passava gli esami solo grazie alle conoscenze informatiche che già possedeva. Inizialmente aveva dato la colpa al fatto che studiasse cose che aveva già imparato con l'esperienza, poi si era anche posta delle domande sul reale interesse che nutriva verso quella strada, se non avesse completamente sbagliato facoltà.
Se quel dottorato alla Cornell le interessasse per davvero.
Alla fine, aveva compreso qual era il suo problema. Non era svogliatezza, e nemmeno mancanza d'interesse. Era paura.
Belle si sentiva stupida, codarda e immatura ogni volta che ci pensava. Sin da piccola aveva sognato di lasciare quella cittadina, di andarsene via, magari in Europa o in Asia. Camera sua era tappezzata di poster di città come Parigi, Londra, Tokyo, ma Belle sapeva che se le avessero offerto di partire l'indomani mattina stesso, si sarebbe tirata indietro.
Quando si era diplomata, aveva rinunciato a fare domanda per università dell'Ivy League pur sapendo di avere le carte in regola per essere considerata una possibile candidata per l'ammissione. Si era accontentata di restare alla Everbrooke University, conscia che quella scelta le avrebbe chiuso parecchie porte, per poter stare vicino a suo padre. All'epoca aveva diciotto anni e temeva che John ci sarebbe stato male a essere lasciato da solo, anche in virtù del fatto che non aveva più una moglie né nessun altro.
Belle non era nemmeno sicura che suo padre se la sarebbe cavata da solo. A pensarci bene, ancora adesso era lei che faceva tutto in casa: John lavorava quasi ininterrottamente, ed era lei che preparava i pasti, faceva la lavatrice, e teneva in ordine – non era una massaia perfetta, tutt'altro, ma ci provava. Partire alla volta di qualche università prestigiosa sarebbe stato ai suoi occhi come abbandonare suo padre, dopo che erano sempre stati solo lui e lei da soli, sempre insieme.
Adesso, si rendeva conto che a diciotto anni era lei, quella a non essere pronta. E non era pronta neanche adesso, che di anni ne aveva ventidue, le mancavano sette esami alla laurea e aveva l'occasione di un dottorato alla Cornell University. L'idea di partire sulle prime la metteva in eccitazione, ma poi si lasciava assalire dall'ansia: ansia di lasciare casa sua, ansia di lasciare suo padre, ansia di abbandonare tutto ciò che aveva sempre conosciuto e ansia di non farcela e non riuscire a combinare niente nella vita.
A tutto ciò si aggiungeva la consapevolezza di non avere un futuro, lì a Everbrooke. Non solo si sarebbe persa la possibilità di esplorare il mondo e di farsi una vita migliore, ma avrebbe con ogni probabilità buttato via la sua laurea. Everbrooke non era il tipo di città in cui c'era spazio per una ragazza laureata in Informatica e amante nei computer. Probabilmente sarebbe rimasta a lavorare part-time al Be Our Guest per tutta la vita, oppure avrebbe trovato un posto come commessa o in un call-center.
Non voleva nemmeno questo.
Per fortuna, a distrarla dai suoi pensieri catastrofisti, ci pensò il cellulare. Belle lo aveva lasciato in modalità silenziosa per non svegliare suo padre che dormiva in fondo al corridoio – era stanco morto quando era tornato dalla centrale, e se c'era una cosa che lo mandava fuori dalla grazia divina era la musica dopo le nove di sera –, ma vide lo schermo che s'illuminava e il nome di Lum sul display.
Si tolse le cuffie.
- Qui Belle Gordon dal Pianeta Terra.
- Ancora sveglia?
- Potrei dire la stessa cosa di te.
- Ti chiederei cosa stai facendo, ma credo di saperlo. Seriamente, non posso credere che tu abbia incrociato per davvero una persona scomparsa. Credevo che certe cose succedessero solo nei film.
- Io invece non riesco a credere di non essermi mai accorta che fosse lei e di essermela lasciata scappare...- Belle guardò il volantino appeso al muro; quando Roxy aveva telefonato alla centrale della polizia le avevano detto l'ispettore Gordon non c'era, ma avevano comunque mandato una pattuglia presso il locale.
Belle non aveva detto nulla né a Roxy né alla signora Potts, ma le era sembrato strano che a capo della pattuglia ci fosse il commissario Torrance. Da quel che le aveva raccontato suo padre, il commissario raramente scendeva in campo, di solito si limitava a dirigere l'azione dalla centrale.
Invece aveva visto scendere dall'auto niente meno che il commissario Torrance in persona.
Forse sono parenti, le aveva suggerito il Capitan Ovvio che viveva in lei. Sarebbe stato logico, il cognome era lo stesso. Quanti “Torrance” c'erano a Everbrooke?
- Sei già in modalità Mr. Robot?
- No. Cosa te lo fa pensare?- Belle spostò il libro dell'università accantonando anche i suoi sensi di colpa, e tirò il PC verso di sé.
- Mmmm...vediamo...la tua sbruffonaggine?
- Lum, sto cercando di smetterla, okay? Questo è l'ultimo anno. Devo pensare alla tesi, e poi c'è quella borsa di studio...
- Saggia decisione. Ma in tutta sincerità, ci credo poco che lascerai perdere.
- D'accordo, lo ammetto: sto leggendo un articolo online su Kathryn Torrance - sbuffò.- Ma l'ho trovato su Google. E lo sto leggendo solo per curiosità.
- Che cosa dice?
- Poca roba. Con i motori di ricerca normali, e sai cosa intendo, non si trova granché. Kathryn Miranda Torrance, detta Kate, vent'anni, scomparsa il cinque maggio di quest'anno - Belle lesse ad alta voce.- Dicevo...scomparsa il cinque maggio di quest'anno, è uscita di casa dicendo che andava a comprare alcune cose e non è più tornata. Da camera sua mancano pochi vestiti e tutti i soldi che possedeva, non è stato chiesto alcun riscatto. Si pensa a un allontanamento volontario, e oggi ne ho avuto la conferma.
- Sei certa che fosse lei?
- Siamo in due ad averla vista. E ti assicuro che non aveva l'aria di una che è tenuta prigioniera.
- Altro?
- Nada.
- Non si dice se studiava, se lavorava, qualcosa sulla sua famiglia...?
- Qui c'è un accenno al padre. Vediamo...Kathryn, che da qualche mese viveva con il padre, il commissario di polizia Rumford Torrance, lo sapevo!- strillò, balzando in ginocchio sul letto.
Dall'altra parte della cornetta non giunse alcun suono.
- Lum?- chiamò Belle dopo un po'.- Sei ancora vivo?
- Il tuo tentativo di farmi venire un infarto non è andato a buon fine. Ma con l'assordarmi ci sei quasi riuscita.
- Scusa. Comunque, è come pensavo: Torrance è suo padre.
- Torrance?
- Sì, come quello del libro di Stephen King. Il commissario, il capo di mio padre.
- E' sua figlia?
- Pronto? La NASA vuole mettersi in collegamento con Lumer Lightcandler. Certo che è sua figlia.
- A proposito, tuo padre che ha detto?
- Della storia di Kathryn? Niente di che. A quanto pare alla centrale hanno fatto un casino a spiegargli come erano andate le cose e lui ha capito che mi ero fatta male o roba simile. E' arrivato al Be Our Guest come una furia credendo di trovarmi morta stecchita o che so io. Il suo collega non la finiva più di ridere.
- Ti ha fatto domande?
- Ha assistito a quelle di routine da parte dei suoi colleghi. A casa si è sincerato che io non avessi fatto altre cazzate informatiche, come le chiama lui.
- E le avevi fatte?
- Non stavolta - Belle rispose sinceramente.- Te ne volevo parlare in settimana, ma...forse è il caso che ne discutiamo adesso...
- Vuoi mollare?
- Non del tutto. Però...pensavo più di limitarci alle cose non illegali. Tipo, basta violazione di sistemi di sicurezza, basta hackeraggio di dati privati...
- Ti è presa la strizza?
- Voglio solo evitare di farmi beccare. Ho capito che a quella borsa di studio ci tengo. E tu ci tieni a sposarti il prima possibile con la tua bella pallavolista, e non potrai farlo tanto presto, se ci mettono in galera.
- Quindi, vuoi chiudere bottega?
- Teniamo magari solo i casi più innocui. Tipo le sorprese nei computer dell'innamorata, o i compiti in classe rubati dalla mail dei professori. L'università non si paga da sola, d'altronde.
- E con il caso di Rosebud Thorn? Sembravi decisa a portarlo a termine, oggi pomeriggio quando mi hai chiamato.
- Lo ero. Ma lo facevo per mio padre. Stasera mi ha detto che Torrance lo ha sollevato dal caso. Ora si occupa di un'altra cosa, ma non ha voluto dirmelo.
Chiacchierarono del più e del meno per un'altra mezz'ora, poi Lum le disse che era stanco e che doveva essere al lavoro alle nove, il giorno dopo. Belle si ripromise di seguire la retta via, presentarsi alle lezioni l'indomani e cominciare a studiare in modo più regolare.
Salutò Lum e chiuse la chiamata, e decise di ascoltare le ultime due o tre canzoni prima di andare a letto. Mentre i Three Days Grace cantavano Animal I Have Become nelle cuffie, Belle cercò per sfizio altri articoli sulla scomparsa di Kate Torrance.
Pur tenendosi su Google, ne trovò uno più dettagliato degli altri. In uno di essi, si diceva che la ragazza aveva perso la madre da poco a causa di un'incidente d'auto, e che aveva abbandonato gli studi alla Princeton University. Questi due avvenimenti erano ritenuti dagli inquirenti possibili cause di un crollo emotivo che aveva indotto Kate ad allontanarsi da casa.
Belle si bloccò. Rilesse le parole Princeton University. Il dubbio l'assalì, e recuperò il dossier di Rosebud Thorn per controllare ciò che aveva letto quella mattina.
Ricordava bene: Rosebud Thorn studiava giornalismo alla Princeton University. Lo stesso college frequentato da Kathryn Torrance.
Con un paio di calcoli mentali, Belle realizzò che Kate era scomparsa da casa nello stesso periodo in cui Rosebud era stata vittima dell'aggressione del Lupo. Un'ulteriore occhiata al dossier le rivelò che la rampolla Thorn era stata ferita ed era finita in coma il 3 maggio, e Kate era sparita il 5.
Belle serrò gli occhi e lasciò cadere la testa in avanti, la fronte cozzò contro il materasso.
Le parve quasi di udire gli echi dei suoi buoni propositi andare a quel paese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Spero che questo capitolo vi sia piaciuto :).
Ringrazio Azalea69 per aver inserito questa storia nelle preferite e nelle seguite, Sylphs per averla inserita fra le ricordate e Aching heart per aver recensito.
Il prossimo capitolo coprirà gli eventi di lunedì 9 settembre.
A presto. Un bacio,
 
Beauty

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Poor, Unfortunate Souls (Ariela, Blanche, Jess) ***


Capitolo IV
 
Poor, Unfortunate Souls
 
( mattina di lunedì 9 settembre)
 
 
I. [Ariela]
 
Il temporale del giorno prima si era lasciato dietro un'aria fredda e pregna di umidità, ma alle sette e mezza del mattino le nuvole si erano in parte diradate permettendo ai raggi del sole di risplendere debolmente sulla città.
Vedendo che il tempo si era ristabilito, Ariela inaugurò la giornata spalancando le finestre.
Il clima della Danimarca era tutto meno il clima che la maggior parte delle persone avrebbe voluto avere trencentosessantacinque giorni all'anno – di certo se abitavi a Copenhagen non avevi la sensazione di essere su un'isola caraibica –, ma a lei mancava già. Le era sempre piaciuto stare all'aria aperta, anche quando pioveva.
La prima volta che era stata in USA – aveva sedici anni, mamma aveva ricevuto un incarico di collaborazione con la NBC di Miami per tre mesi e ne aveva approfittato per portare in vacanza il marito e le figlie – aveva trascorso l'estate in Florida, sempre in spiaggia, con il sole che scaldava le membra e il mare cristallino. Un giorno era scoppiato un acquazzone all'improvviso, ma mentre le sue sorelle e le altre persone prendevano armi e bagagli e tornavano di corsa alle loro auto e alle camere d'albergo, lei si era fermata a correre e a ballare sotto la pioggia cercando di berne un po'. Suo padre aveva dovuto caricarsela in spalla e portarla via di peso.
Era stata l'ultima vacanza che lei e la sua famiglia avevano fatto. Dopo, papà aveva sempre avuto troppi scrupoli nel portarla all'estero o anche solo a permetterle di lasciare Copenhagen. Sua madre aveva cercato di resistere alle sue proclamazioni riguardanti il tutelare le loro figlie e prendersi cura della piccola, ma poi anche lei aveva convenuto che fosse meglio così.
Ariela aveva sempre avuto un rapporto migliore con sua madre, ma c'era una cosa di lei che non aveva mai tollerato: il suo negare l'evidenza per il timore di ferire qualcuno che amava. Preferiva raccontare bugie su bugie alle sue figlie piuttosto che pronunciare un brutale quel vestito che ti piace tanto ti sta di merda o sì, Adella, anche se non te lo dico penso che studiando Biologia Marina farai la fame o sebbene io faccia finta di nulla, non credo che tu, Ariela, te la sappia cavare da sola, adesso che hai perso l'udito.
Il tutto ovviamente era andato peggiorando dopo che Ariela era diventata sordomuta: se Triton non si faceva problemi a lasciarle intendere che lei, per lui, adesso era una creaturina fragile e bisognosa di essere protetta, Athena ancora millantava idee in cui non credeva secondo cui anche in quelle condizioni Ariela avrebbe potuto fare tutto ciò che facevano le sue sorelle e le altre ragazze.
Il suo comportamento naturalmente contraddiceva le sue parole: Athena, ancora adesso a distanza di otto anni, tendeva a rifiutare incarichi quando si accorgeva che le avrebbero sottratto del tempo per dedicarsi alla sua più piccola, la chiamava almeno dieci volte al giorno per sapere dov'era e come stava – e con le sue sorelle si stufava subito al secondo SMS –, le sue prime parole quando rientrava a casa erano spese per sapere dove fosse Ariela, come stesse Ariela, se Ariela avesse mangiato/bevuto/dormito, se ad Ariela servisse qualcosa quando usciva a fare la spesa...
Fino a un paio d'anni prima pretendeva di accompagnarla in Università prendendo l'autobus con lei.
Ariela era arrivata a chiedersi, al momento della sua fuga verso Everbrooke, se quello che la stava spingendo a fare quel viaggio – di fatto a scappare di casa – fosse veramente la volontà di giustizia, oppure la smania di far vedere a mamma e papà che anche con un apparecchio acustico lei era in grado di fare da sé. Per fortuna era certa che si trattasse della prima opzione, ma si era detta che, se dalla prima fosse derivata anche la seconda...tutto di guadagnato.
Qualcuno stava bussando alla porta da un paio di minuti, ma Ariela se ne accorse solo quando si voltò e vide vibrare la maniglia. L'apparecchio acustico era ancora abbandonato sul comodino dalla sera prima, quando aveva svuotato borsa e valigia. Ariela corse ad aprire.
A bussare era stata la proprietaria dell'albergo. Era una signora anziana con i capelli grigi raccolti in una crocchia e che indossava sempre abiti casalinghi – un vestito a quadri lungo fino a metà del polpaccio e un grembiule.
Le sorrise mentre le porgeva un vassoio.
- La colazione - scandì; quando aveva scoperto che Ariela era sordomuta, aveva preso a parlarle a gesti e a scandire brevi parole e frasi ad alta voce come se stesse parlando a una persona un po' dura d'orecchi. Per Ariela era un vantaggio, perché così riusciva a leggerle bene le labbra.
Le sorrise di rimando e la ringraziò, prendendo il vassoio fra le mani.
Richiuse la porta con il gomito e posò il vassoio sul letto.
Quand'era arrivata a Everbrooke, nel primo pomeriggio del giorno prima, aveva presto scoperto tramite Google che in città c'era un solo albergo. La sua prima preoccupazione era stata quella che non ci fossero camere libere – era l'8 settembre e dunque ancora stagione balneare, sebbene tardiva – e lei non voleva allontanarsi da Everbrooke per nessuna ragione; poi, però, aveva altrettanto presto realizzato che quella non era esattamente la classica località dove i turisti spendono le loro vacanze.
L'albergo – l'insegna un po' sbiadita al suo esterno recava la scritta Under the Sea su uno sfondo di legno bianco circondato da una cornice blu ai lati della quale spuntavano alcune decorazioni “marine”, come un salvagente, una stella marina e dei pesciolini – era stato chiaramente pensato per essere un luogo la cui principale clientela era composta da turisti e bagnanti – le porte di vetro scorrevoli ricalcavano quelle degli hotel a cinque stelle in cui Ariela aveva soggiornato durante i suoi viaggi con i genitori, la tappezzeria nella hall era in tema oceanico, e anche l'unico quadro della sua stanza mostrava un'istantanea del mare; senza contare che bastava attraversare la strada per essere in spiaggia –, ma subito Ariela si era accorta che, con l'andare degli anni – e il diminuire della clientela –, era stato ridotto a pensione per persone di passaggio a Everbrooke. Gente che si fermava per una notte e ripartiva la mattina seguente.
La proprietaria l'aveva accolta da dietro un bancone di legno un po' scheggiato posizionato sulla destra di quella che fungeva da hall e sala d'attesa insieme. Di fronte a esso c'erano due divani di pelle marrone separati da un tavolino di vetro decorato con un centrino di alghe finte e stelle marine essiccate, e appeso alla parete torreggiava un salvagente bianco e rosso; dietro al bancone, al campanello dorato e al registro polveroso, si apriva la porta della cucina.
Ariela si era aiutata con il block-notes per spiegare alla donna che le occorreva una stanza per un paio di settimane e che no, non la stava prendendo in giro, era sordomuta. La proprietaria prima era avvampata, poi aveva preso a gesticolare per farle firmare il registro e per condurla nella sua stanza.
Lo scroscio delle onde del mare arrivava fino alla finestra della camera 107, e l'aria salmastra era ancora più accentuata dal temporale del giorno prima. Ariela chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Casa sua le mancava: anche la stanza che divideva con sua sorella Alana si affacciava sul mare, e da quella posizione si poteva vedere la statua della Sirenetta.
Ariela si era già fatta la doccia e indossava ancora l'accappatoio, e i capelli bagnati erano appiccicati al collo e al cranio; se li stava strofinando con l'asciugamano, quando il PC portatile aperto sul letto mandò un bagliore. La ragazza si avvicinò e vide che c'era una videochiamata in attesa.
Si sedette sul letto e l'attivò.
Il volto di sua sorella Andrina le apparve sullo schermo, e la salutò usando il linguaggio dei segni danese. Ariela decise che avrebbe potuto fare a meno dell'apparecchio acustico.
- Come va, stamattina? Mamma e papà?
- Non dico che si siano dati una calmata, ma va meglio di ieri. Sono giusto un po' incazzati perché non hai detto a loro direttamente che andavi da una compagna di Università in vacanza.
- L'importante è che abbiano creduto alla balla.
- Papà però vuole il numero di casa di questa compagna. Dice che vuole parlare con te al telefono.
- E tu che hai detto?
- Che te lo avrei chiesto. Che m'invento, adesso?
- Dagli il numero dell'ufficio di Simon - Simon era il fidanzato di Andrina, lavorava come contabile al Den Bla Planet National Aquarium e Triton non lo poteva soffrire, tanto che non voleva sapere niente di lui, nemmeno il numero di cellulare.
- E che gli dico? Di parlare in falsetto e fingersi una donna? E poi io non gli ho raccontato quello che hai fatto!
- Digli...inventati qualcosa, non lo so...digli di spacciarsi per il padre della mia amica e dirgli che sono da loro e sto bene.
- E se chiede di parlare con te?
- Sono in bagno.
- Ogni volta che chiama, sei sempre in bagno?!
- Si possono fare tante cose, in un bagno. Oppure, sono in Università, o sono uscita con la mia amica a fare shopping. Gli hai detto che volevo staccare la spina?
- Sì.
- Beh, allora capiranno se non ho voglia di parlare. Spero.
- Non è che puoi basarti sulla speranza e risolvere tutto a tarallucci e vino!- sbottò Andrina.
- Non lo faccio. Senti, al massimo, tienimeli buoni per queste due settimane...un mese, se ci riesci. E poi, di' loro la verità.
- Per farmi ammazzare ancora più dolorosamente?
- Inventa che ho raggirato anche te e che non sai dove sono. Prima che mi rintraccino ci vorrà del tempo, e per allora avrò trovato tutto ciò che ci serve.
- Sto meditando di spifferare tutto subito e porre fine alle mie sofferenze...
- Piuttosto, aggiornami.
- La Strega del Mare ha rilasciato un'intervista al TV Avisen ieri. Non lo vedi DR1, lì dove sei?
- Credimi, se vedessi il posto in cui sto ti passerebbe qualsiasi fantasia. Hanno ancora le vecchie televisioni a scatola, qui.
- Comunque, ti faccio un riassunto veloce: ha parlato di un nuovo programma per la salvaguardia della fauna e della flora marina e per la prevenzione dell'inquinamento dell'acqua potabile. Naturalmente ha smentito il proprio coinvolgimento nella faccenda di otto anni fa, quando il giornalista l'ha riportata alla luce.
- Ha detto nulla riguardo al suo viaggio?
- Confermato. Parte alla fine della settimana.
Ariela sorrise e strinse forte le mani insieme, facendo un gesto di vittoria. Andrina alzò gli occhi al cielo.
- Pretendi che ti si tratti come un'adulta, ma a volte ti comporti proprio come una bambina.
- Stavo festeggiando il primo passo verso la vittoria - Ariela si voltò verso il vassoio: la colazione prevedeva caffé e una brioche. Sollevò la tazza e mimò il gesto alla tua salute rivolto allo schermo, prima di bere.
- Novità con quei documenti?- domandò dopo aver posato la tazza.- Intoppi?
- Nessuno. Sei stata accettata come stagista per sei mesi all'Everbrooke Aquarium. Non hanno notato che i documenti erano dei falsi. Ariela Vand, di anni venti – ti sei resa più giovane di quattro anni, sei tremenda! –, studentessa di Archeologia Subacquea alla UCPH, in USA per uno scambio culturale. Come tu abbia fatto a falsificare i documenti resta un mistero per me, ma non sono neanche tanto sicura di volerlo svelare...
- Qualcuno ha chiamato per accertarsi della veridicità dei documenti?
- Sì, un tizio dell'acquario. Mi sono finta un'addetta alla segreteria della UCPH.
- Rotacismo finto incluso?
- Piantala!
- Ti viene così bene...!
- Comunque, cominci venerdì.
Ariela non si curò di nascondere la propria delusione. Disse a sua sorella che avrebbe preferito cominciare prima, magari il giorno stesso o quello dopo. Andrina le rispose che quello era il massimo che si poteva fare, e che se ci pensava andava comunque bene così.
- La Strega del Mare arriva lunedì o martedì prossimo. Per quell'ora sarai già operativa sul campo e di conseguenza in vantaggio. La stronza non passa molto tempo a Everbrooke, è probabile che sarà mezza morta dal fusorario e rimbambita, se ci va bene.
- Per lunedì o martedì avrò già trovato qualcosa, se tutto va bene.
- Aspetta...qui vedo che hai lasciato il sordomutismo. Perché? Ariela, con l'apparecchio parli e ci senti normalmente, e nascosto sotto i capelli non si vede. La Strega del Mare potrebbe fare due più due.
- Quante studentesse sordomute ci sono al mondo? E poi lei non sa chi sono, non mi ha mai vista in faccia. Senza contare che...
- Cosa?
Ariela aveva avuto un'illuminazione, durante il primo incontro con la proprietaria dell'albergo. A un certo punto, vedendola gesticolare e sbracciarsi in tutti i modi possibili per farsi comprendere, la ragazza aveva avuto pietà di lei e aveva tirato fuori l'apparecchio acustico dalla borsa, e l'aveva indossato mentre la donna le dava le spalle. Era stato a quel punto che l'aveva sentita dire, neanche a bassa voce, a un ragazzo – probabilmente un cameriere – incontrato sulle scale:- La ragazza qui non ci sente. Vacci piano con lei, non te la prendere se non risponde.
Ariela non aveva detto nulla e aveva continuato a fingere di non sentirci, complici anche i capelli che le nascondevano l'apparecchio. Non era la prima volta che le capitava. Quando le persone non si accorgevano che lei aveva addosso l'apparecchio acustico, davano per scontato che non ci sentisse o che non sapesse leggere le labbra, e parlavano di qualsiasi cosa in sua presenza.
E da lì era nata l'idea. Le sarebbe bastato indossare l'apparecchio ma fingere di non averlo. I capelli l'avrebbero nascosto. L'unico effetto collaterale sarebbe stato quello di non poter parlare per tenere su la farsa, ma in questo modo avrebbe avuto più possibilità di ascoltare discorsi privati e raccogliere informazioni.
Lo disse ad Andrina con il linguaggio dei segni.
Stranamente, sua sorella non protestò. Fece una smorfia di disapprovazione, ma poi convenne che avrebbe potuto funzionare.
- E avrò anche bisogno di un registratore - aggiunse Ariela.- E magari di una telecamerina. Sai, tipo quelle cimici che vedi sempre nei polizieschi...
- Non ti sembra di allontanarti un po' troppo dalla realtà?
- No.
- Come ti pare. C'è un negozio di elettronica, in quel posto?
- Non ne ho idea. Lo spero. Forse avrei dovuto pensarci quando ero ancora a Copenhagen o quando sono atterrata a NY. Non è che sia una metropoli, qui. Vedrò cosa riesco a trovare.
La conversazione andò avanti ancora per un paio di minuti, ma furono solo convenevoli. Andrina era in ansia, questo Ariela lo comprendeva, ma non poteva far nulla se non sperare che sua sorella non si tradisse prima che lei avesse trovato ciò che cercava.
Salutò Andrina e chiuse il PC. Si distese sul letto, ancora in accappatoio, godendosi il rumore e il profumo del mare. Finì di bere il caffé e prese a sbocconcellare la brioche.
Venerdì, rifletté. Cominciava venerdì, e doveva procurarsi registratore, telecamera, e magari qualche snack. Ne avrebbe approfittato per dare un'occhiata in giro.
Quella Everbrooke sembrava veramente un luogo dimenticato dal mondo. L'ideale per chi vuole fare i propri sporchi affari senza essere scoperto...
 
II. [Blanche]
 
La torta di mele era talmente morbida che bastava il cucchiaino per tagliarla. Blanche si portò alla bocca il primo pezzetto e lo assaporò godendoselo fino in fondo.
La nuova cameriera, Babette Deniel, era una studentessa di Scienze Motorie che era stata assunta part-time un paio di mesi prima per occuparsi delle faccende di minore incombenza: dare una mano al giardiniere, spolverare la biblioteca di Amos, aiutare in cucina...
Il suo compito principale era assicurarsi che la stanza e il guardaroba della signorina Blanche fossero in ordine e puliti. A Blanche quella ragazzetta con l'accento francese e la puzza sotto al naso non piaceva per nulla, sentimento peraltro reciproco, ma doveva ammettere che il lavoro lo svolgeva bene, era discreta, e parlava solo se strettamente necessario. Inoltre, un giorno, per caso, era saltato fuori che sapesse cucinare molto bene la torta di mele.
Grimilde l'aveva messa alla prova così per sfizio, e il dolce che aveva cucinato si era rivelato più buono di quello che di solito preparava il loro cuoco. Sebastian aveva offerto un extra sullo stipendio a Babette se lei si fosse occupata di cucinare la torta di mele tutte le mattine, e lei aveva accettato.
La torta di mele era il dolce preferito di Blanche da sempre, da quando era piccola ed era sua madre a prepararglielo. Ed era anche l'unico dolce che si concedeva di mangiare, poiché con il suo lavoro da modella non poteva sgarrare più di tanto sulla dieta.
Erano le otto del mattino ed erano tutti e tre riuniti nella sala da pranzo per colazione. Consumare i pasti insieme era una tradizione di casa Schreave – Amos ci teneva molto, ma più per mantenere la facciata della famigliola felice che per vero desiderio di trascorrere del tempo con la moglie e i figli. Serena Charlotte, lei sì che ci teneva veramente, ma anche il piacere di cenare o fare colazione insieme era morto insieme a lei.
Blanche mandò giù il pezzetto di torta e ne tagliò un altro dalla fetta posta nel piattino accanto a lei. La sua colazione consisteva in una fettina di torta di mele e in una tazza di cappuccino; quella della sua matrigna era ancora più scarna: Grimilde prendeva solo una tazzina di caffè che non mancava mai di correggere con del cognac.
C'era silenzio. L'unica che aveva il coraggio di fare rumore era Grimilde, e solo con il tintinnio del cucchiaino contro la tazzina mentre mescolava il caffè. Lei sembrava rilassata, a differenza della tensione che si respirava pesante come un macigno nell'aria.
Sebastian si era presentato a tavola quando la sorella e la matrigna erano già sedute, aveva salutato solo Grimilde e si era messo a leggere il giornale che il cameriere gli faceva trovare ogni mattina accanto alla sua colazione. Non aveva alzato gli occhi dalle pagine per un quarto d'ora e il suo piatto di salsiccia, uova e bacon e il suo caffè erano intatti.
Grimilde, all'alba delle otto e un quarto, ruppe il silenzio con un lungo sospiro.
- Farai tardi, stasera, Blanche?- cinguettò, e le rivolse un sorriso.
La ragazza sollevò lo sguardo, ma restò curva sulla propria colazione.
- Chiedilo a lui - borbottò.
Sebastian non smise di leggere il giornale, ma a Blanche non sfuggì che avesse aggrottato le sopracciglia.
- Perché?- Grimilde sembrò confusa.
- Oggi c'è quel servizio fotografico per la collezione invernale.
- Lo sai che io non c'entro niente con le tempistiche - bofonchiò Sebastian, senza guardarla.- Quando hai finito te ne torni a casa. Oppure vai dove accidenti di pare.
Grimilde gli strinse un avambraccio.
- Non parlarle così...
- Lascia perdere, Grimilde. E' incazzato per la storia della mafia.
- Sono sicura che Blanche non l'ha fatto apposta. Voleva aiutare la polizia...
- Hai ragione, Grimilde. Non l'ha fatto apposta. E lo sai perché? Perché non ha neanche il cervello per farlo apposta!- Sebastian lanciò il giornale al centro del tavolo e regalò a sua sorella un'occhiata sbilenca.- La cretina non aveva nessuna informazione utile da dare, ma non resiste al bisogno di essere al centro dell'attenzione e mi ha fatto fare la figura del delinquente!
- Ti ho già chiesto scusa ieri sera...- Blanche ingoiò un altro pezzetto di torta, ma il ringhio della sua risposta si udì ugualmente.
- Sì, come no. E' la tua specialità. Prima fai danni e poi chiedi scusa. Sai chi mi ha chiamato stamattina alle sei? Tale ispettrice capo Holsey. Ha detto che oggi verrà a fare un sopralluogo in azienda.
- Può darsi che sia una cosa di routine - suggerì Grimilde.- Fanno il loro lavoro. E' bene che non escludano nessuna possibilità.
- Il sopralluogo in azienda lo avevano già fatto mercoledì scorso. Se Blanche avesse tenuto chiusa quella fogna di bocca, a quest'ora potrei cercare di concentrarmi sul lavoro, invece che su inesistenti azioni illegali...bella considerazione che hai papà, peraltro!
Blanche stette zitta. Come se papà non avesse mai fatto cazzate e tu non lo sapessi, pensò.
Si sentiva cattiva. Pensava che avrebbe dovuto provare più dolore per la morte di Amos. Aveva pianto, sì. Soffriva, certo. Ma non si era mai schierata nel partito di coloro che millantavano pregi e buone qualità nei defunti, quando in realtà in vita l'uomo in questione era stato l'ultimo degli stronzi.
Blanche sapeva che suo padre non era stato una brava persona. E lo sapeva anche Sebastian, sebbene continuasse a difenderlo per sgravarsi la coscienza. I giornali e i programmi televisivi avevano sempre dipinto Amos come il prototipo del self made man – uno come lui era il simbolo del sogno americano, nato in una famiglia di contadini del Texas e partito alla volta di New York per cercare fortuna, riuscendo grazie al sacrificio e al duro lavoro a creare dal niente un impero all'apparenza indistruttibile. Blanche aveva creduto a quel mito fino a che aveva avuto tredici anni...poi, un giorno, ceracando una delle sue Barbie, era entrata in camera di suo fratello Adam e aveva letto poche righe di un fascicolo di documenti nascosto in un cassetto...e il bel castello di carte era crollato.
Blanche non aveva fatto in tempo a leggere neanche la prima pagina di quel fascicolo. Suo fratello era entrato in camera all'improvviso, le aveva urlato contro e l'aveva buttata fuori trascinandola per un braccio. Ma era stato abbastanza.
Blanche non aveva dubbi sul fatto che Amos fosse diventato ciò che era diventato grazie al proverbiale sudore della fronte...ma non poteva essere solo questo. Qualcuno doveva avergli dato una mano. In che modo e con quali mezzi...non lo sapeva.
Ma Blanche non aveva dimenticato il nome che aveva letto su quelle poche righe.
A quanto pareva Amos aveva avuto dei rapporti – non si sa di che genere – con tale Ursula Heks. Il nome sulle prime non le aveva detto niente, poi tempo dopo avrebbe scoperto che la signora in questione si era trovata coinvolta in uno scandalo riguardante l'inquinamento di falde acquifere in Danimarca, otto anni prima.
Blanche avrebbe voluto come mai in quel momento che suo fratello Adam fosse lì per darle una spiegazione...ma Adam era morto.
Ed era stato quell'evento e ciò che ne era seguito che aveva finalmente rivelato a Blanche la reale pasta di cui fosse fatto suo padre. Blanche era passata sopra al fatto che si fosse risposato dopo neanche tre mesi dalla morte di Serena Charlotte. Aveva fatto finta di nulla di fronte alla sua palese preferenza nei confronti di Sebastian rispetto agli altri due figli e alla figliastra.
Ma aveva stentato a credere alle sue orecchie, quella sera.
Adam era appena morto. L'autopsia aveva confermato che il cadavere ritrovato nell'ala incriminata di Rose Manor fosse il suo e quello era il giorno del funerale. Blanche e Roxy avevano pianto tutto il pomeriggio e si erano addormentate abbracciate nel letto della prima. A un certo punto – erano circa le dieci di sera, aveva saltato la cena e il magone non le era passato – Blanche si era svegliata ed era scesa al piano di sotto per intrufolarsi in cucina e rubacchiare qualcosa da mettere sotto i denti per se stessa e la sorellastra, ed era passata di fronte allo studio di suo padre.
La porta era socchiusa e lei si era arrestata quando aveva sentito suo padre parlare con qualcuno a proposito di Adam.
- Finirò all'Inferno per questo, ma il bastardo se l'è meritato - aveva detto Amos; Blanche era rimasta paralizzata.- Non l'ho mica ammazzato io, d'altronde. Si è fottuto da solo. E sai che ti dico? Meglio così. Mi risparmia l'imbarazzo di avere un figlio psicopatico e avanzo di galera. Chissà che cazzo d'altro mi avrebbe combinato, se non fosse morto...
Blanche era scappata via. Non aveva mai saputo con chi Amos stesse parlando.
Aveva raccontato tutto a Roxy. La sua sorellastra l'aveva presa peggio di lei.
- Figlio di puttana!- aveva ringhiato.- Porco, lurido figlio di puttana!
Amos non si era mai curato di Roxy. Tendeva a ignorarla. La reputava al massimo non più di un bel faccino, e aveva progettato d'indirizzarla alla carriera di modella come aveva fatto con Blanche, ma quando aveva compreso che Roxy non ne voleva sapere, allora non se n'era fatto più niente di lei.
La sua sorellastra non aveva alcun timore o soggezione di Amos. Litigavano spesso e non le importava quante punizioni o quanti schiaffi prendesse, ogni volta era la stessa storia. Blanche aveva la sensazione che Roxy talvolta lo provocasse apposta.
Sebastian invece era sempre stato il cocco di papà. Amos aveva puntato tutto su di lui, già prima che Adam morisse. Aveva spinto perché si laureasse in economia e lo affiancasse nella gestione della ditta. Suo fratello, da parte sua, non si era opposto. Blanche supponeva gli piacesse il suo lavoro e avesse un ottimo rapporto con il padre.
Sebastian non era cattivo, ma purtroppo era all'oscuro di troppe cose.
Come del vero motivo per cui sua sorella e Rosebud Thorn avessero tagliato i ponti.
Il ricordo di Rosebud e della zavorra che le aveva mollato a tradimento la distolse dal pensare a un insulto abbastanza creativo da rivolgere a suo fratello. Sebastian trangugiò la propria colazione in meno di cinque minuti, poi si alzò e annunciò che avrebbe fatto tardi, quindi uscì salutando solo la matrigna.
Blanche serrò le palpebre quando sentì il suono secco della porta sbattuta da suo fratello.
In altre condizioni non sarebbe passata sulla fogna di bocca e su tutto il resto, ma l'emicrania le stava tamburellando contro le tempie, non riusciva a non pensare al pacchetto che teneva nascosto nel cassetto e a suo padre, quando invece avrebbe voluto solo concentrarsi sul servizio fotografico di quel pomeriggio.
Lasciò a metà la fetta di torta e si alzò.
Salì al terzo piano con l'intenzione di sistemarsi il trucco e indossare qualche gioiello prima di uscire. Era presto per andare alla ditta, ma non aveva voglia di restare in casa.
Era a metà del corridoio quando sentì dei passi rincorrerla e Grimilde chiamarla.
Si voltò appena in tempo per trovare il volto della matrigna a pochi metri dal proprio. Quasi tutte le persone che conoscevano – ed erano parecchie – sostenevano che loro due si somigliassero parecchio. La prima impressione era supportata dal fatto che entrambe avevano i capelli neri, entrambe erano alte, magre e slanciate – Blanche non l'aveva mai chiesto a Grimilde, ma sospettava che anche lei avesse un passato da modella. Per il resto, l'una aveva gli occhi azzurri, mentre le pupille dell'altra avevano una strana tonalità fra il nero e l'ocra. In alcune condizioni particolari di luce, sembrava che gli occhi della signora Schreave fossero viola, come quelli di Elizabeth Taylor.
Grimilde aveva la carnagione più scura di quella di Blanche, e nonostante i suoi quarantasei anni era ancora molto bella grazie alla sua alimentazione sana e ai trattamenti a cui si sottoponeva ogni settimana – e a tanta fortuna.
Spesso, chi non conosceva la famiglia Schreave scambiava le due per madre e figlia. E nessuno si prendeva mai la briga di correggerli.
Blanche si era resa conto con un certo sconcerto di somigliare a Grimilde più della sua figlia biologica. Quand'era ragazzina passava dei quarti d'ora interi di fronte allo specchio a cercare somiglianze e differenze con la sua matrigna.
Grimilde le mise una mano su una spalla.
- Non te la prendere - le sussurrò.- Tuo fratello è solo nervoso perché da oggi sarà lui l'uomo di casa. In tutti i sensi...- sospirò.- Sebastian ha ventisei anni e deve prendere le redini dell'impero che ha lasciato tuo padre. Così, da un giorno all'altro...come se non fosse già abbastanza tutto quello che è successo...
In quel momento, Blanche si vergognò di non aver dedicato neanche un pensiero a Grimilde. Non aveva considerato neanche per un attimo che forse era lei quella che soffriva più di tutti. Aveva perso suo marito...ed era già rimasta vedova una volta.
Si sforzò di sorriderle, e annuì.
- E poi, lo sai com'è Sebastian - proseguì Grimilde.- Sempre con quell'ansia da prestazione, sin da ragazzino. E' un tipo nervoso, teme di non essere all'altezza...
- Si sente in colpa - scappò detto a Blanche.
- In colpa?
- Verso Adam - Blanche si allontanò di un passo e prese a fissarsi le scarpe.- Lui non lo dice ma io lo so che è così. E' sempre stato geloso di Adam. E adesso pensa in continuazione che sta occupando il posto non di un uomo che non c'è più, ma di due...
- Non dire sciocchezze!- la rimproverò Grimilde; le accarezzò i capelli.- Sebastian sta cercando di fare del suo meglio, e avrà bisogno di tutto il nostro aiuto. Tuo padre gli manca molto, così come manca a noi...e...- esitò.- E anche Adam ci manca, lo sai.
L'abbracciò. A Blanche non erano mai piaciute le moine, ma si lasciò abbracciare perché ne aveva bisogno – e sentiva che Grimilde ne avesse più bisogno di lei. Infatti, quando si staccò, vide che la matrigna aveva gli occhi lucidi.
- Allora!- inspirò la donna, lisciando la giacca della figliastra; Blanche quel giorno indossava una minigonna di pelle con calze color carne e una maglietta trasparente che lasciava intravedere il reggiseno, sopra cui aveva abbinato una giacchetta; il tutto, scarpe con i tacchi a spillo inclusi, era in total black. Grimilde, invece, aveva il suo solito tailleur grigio.- Chiamo l'autista e gli dico di aspettarci in cortile. Ti accompagno in ditta per il servizio fotografico e poi pranziamo insieme al Prince's, ti va?
Blanche annuì con entusiasmo.
- Sistemo solo un attimo il trucco.
- Va bene. Fai con comodo. Io ti aspetto di sotto.
La ragazza andò di corsa in camera sua e chiuse la porta. Trovò Babette che rifaceva il letto. La cameriera non la salutò, e lei non si curò di farlo per prima. Si sedette alla toeletta e sistemò il fondotinta, il mascara e l'ombretto, e passò una seconda volta lucidalabbra e rossetto.
Le venne in mente che con quell'outfit si sarebbe abbinata bene la collana di perle Akoya. Erano tre fili di perle che se indossate le arrivavano fino all'ombelico, e gliele aveva regalate sua madre prima di morire – così come una borsa rossa di Valentino, che però Blanche non trovava più da diversi anni. A Grimilde non piaceva molto, quella collana; diceva che la trovava poco fine e che in ogni caso si sarebbe dovuta indossare per andare a ballare o per qualche serata di gala, non per andare in giro tutti i giorni. Blanche invece considerava quelle perle la sua collana preferita.
Ma quando aprì il portagioie per prenderla, non la trovò.
Cercò per un minuto buono le perle sollevando e spostando le altre collane, gli orecchini e i braccialetti, ma non le trovò.
- Hai lucidato i miei gioielli?- chiese a Babette, che stava spolverando l'anta della cabina armadio.
- Sì, signorina Schreave.
- Oggi?
- L'altro ieri, mi pare.
- Manca una collana - Blanche si rese conto di aver pronunciato quella frase in tono accusatorio, e si affrettò a cambiare registro.- L'hai spostata?
Babette la guardò, sorpresa.
- Io non ho spostato niente.
- Eppure non c'è...- Blanche le mostrò il portagioie.- L'avevo lasciata qui, sono sicura.
- Quale collana?- Babette posò lo spolverino e si mise a sua volta a frugare nel portagioie.
- I tre fili di perle Akoya.
Babette spostò i gioielli e cercò la collana, ma non vi fu verso di farla saltare fuori. E il portagioie non era profondo dieci metri. Alla fine, la cameriera guardò Blanche.
- E' proprio sicura di averla lasciata qui?
- Sì. Non sposto mai i gioielli. C'era, l'altro ieri, quando hai pulito?
- Al momento non ricordo, devo essere sincera.
- Dove altro pensi che potrebbe essere?- Blanche si guardò intorno e cercò di sbirciare sotto il letto.
- Non ne ho idea. Ma posso cercarla - disse Babette.- Se deve andare, signorina Schreave, vada pure. Stasera le farò sapere se l'ho trovata...
 
La sede della Schreave Inc. era l'edificio più grande e più alto di Everbrooke. In mezzo a tutte quelle costruzioni di provincia sembrava essere stato preso e trasportato direttamente da New York a lì. Era un palazzone alto e grigio con la scritta dell'azienda a caratteri cubitali sul tetto, e le numerose vetrate davano una vista diretta all'interno degli uffici.
Quello del fu Amos Schreave era al settimo piano, ed era il più ampio e spazioso; si trovava proprio a due passi da quello di suo figlio. Sebastian aveva già dato disposizione affinché le sue cose venissero trasferite sulla scrivania di suo padre.
Amos Schreave era stato il Presidente e il Direttore della ditta, mentre Sebastian era Amministratore Delegato. Aveva deciso che avrebbe mantenuto quel ruolo e avrebbe assunto anche quelli del padre, almeno i primi tempi, in attesa di capire se fosse meglio così o se fosse il caso di assumere un nuovo CEO.
Appena arrivò in ufficio, la segretaria di suo padre si alzò per accoglierlo. Sebastian le sorrise senza troppo entusiasmo.
La donna gli andò incontro reggendo una cartellina.
- Salve, signor Schreave. E ancora condoglianze...- mormorò, aggiustandosi gli occhiali quadrati sul naso. Era stata al funerale il giorno prima, ma non si era presentata al rinfresco usando la solita scusa: devo andare a casa da mia figlia.
Ogni volta che si assentava dal lavoro, o non poteva presenziare a qualche impegno, anche se si trattava di una festa organizzata dall'azienda, la ragione era sempre sua figlia. La segretaria di suo padre era una donna sui trentacinque anni, alta e magra, con i capelli color castano chiaro che portava sempre annodati in una coda di cavallo, e gli occhi color nocciola perennemente nascosti da degli occhiali dalla montatura grigia, quadrati e spessi. Era piuttosto bruttina, con i denti non proprio dritti e dei lineamenti insignificanti; il fatto che si vestisse sempre come una maestrina di collegio religioso femminile di fine anni Trenta non aiutava.
Quella donna aveva una passiona smodata per i pantaloni di tela spessa, le scarpe basse e maschili, le camicette a fiori abbottonate fino alla gola e i golfini sformati. Suo padre la definiva sempre un cesso, stando bene attento a precisare che l'aveva assunta solo in virtù del suo curriculum aggiornatissimo e nella speranza che sarebbe migliorata, almeno nel modo di vestire. Sebastian sospettava che Amos avesse sperato un giorno o l'altro di portarsela a letto, ma non aveva mai esternato questo pensiero per rispetto nei confronti di Grimilde – a cui, lo sapeva, suo padre non era mai stato fedele, come peraltro non lo era stato a Serena Charlotte –, preferendo ignorare eventuali commenti per amor di equilibrio interiore e pace spirituale.
- Comunque, io mi sono stufato. Quella racchia sarà anche brava, ma mi ha rotto con la storia della figlioletta malata e mi rovina l'immagine dell'azienda, conciata in quel modo - aveva annunciato Amos una sera a cena, qualche giorno prima di essere ucciso.- Aspetto che finisca la stagione autunno-inverno, e le do il benservito.
Sebastian non si era sentito di fare altrettanto. Un po' perché trovava le motivazioni di suo padre stupide e ingiustificate di fronte a una donna che aveva un effettivo bisogno di lavorare, e un po' perché conoscendo la situazione della segretaria di Amos non se la sarebbe mai sentita di buttarla in mezzo a una strada.
Si trattava di una donna estremamente riservata – parlava poco con chiunque, in più di otto anni non era mai riuscita a stringere un rapporto amichevole o confidenziale con nessuno dei colleghi, non dava mai informazioni su se stessa neanche in maniera indiretta – non c'era uno straccio di fotografia sulla sua scrivania, nemmeno di quella figlia che pareva amare tanto – non si fermava mai a prendere il caffé alle macchinette o a chiacchierare dopo la fine dell'orario d'ufficio, pranzava senza smettere di lavorare oppure tornava a casa, e non aveva mai partecipato a una festa organizzata dalla ditta; eppure, tutti conoscevano la sua condizione.
Si sapeva che fosse una madre single di una bambina – bambina? ragazza? non era dato sapere l'età della suddetta piccina – che aveva dei seri problemi di salute – di che genere, neanche questo era concesso di sapere – e che cresceva da sola e a cui dedicava tutta se stessa e le sue energie.
Sebastian non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciarla a casa.
- Grazie, Gothel - le rispose, sedendosi alla scrivania.- Ci sono novità?
- La riunione con il consiglio d'amministrazione è oggi alle undici, e ci sono delle persone che hannp chiesto di vederla. Hanno detto di non avere un appuntamento, e quando ho risposto loro che lei non riceveva senza appuntamento mi hanno mostrato un distintivo e hanno detto di essere della polizia. Ispettrice capo Holsey e ispettore Gordon. Li ho fatti accomodare in sala d'attesa. Vuole che li faccia entrare?
 
III. [Jess]
 
- E comunque quello è un coglione - sentenziò Erik Woods, seduto al posto del passeggero della Honda di sua sorella. Jess, stravaccata sul retro accanto a nonna Lily, alzò gli occhi al cielo.
- Erik, per favore...- Claire aveva il labbro tremulo.
- Neanche lo conosci. E' un tipo a posto - disse nonna Lily rivolta a suo figlio.- Anche a te sarà capitato di fare qualche stronzata.
- Non una stronzata come infilarmi nel letto della mia figliastra!
- Ti ho già detto che non l'ha fatto apposta!- protestò Claire.- Tesoro, diglielo anche tu che Alex non voleva e che non ti ha fatto niente...
Jess non disse nulla e continuò a masticare il chewing-gum che aveva in bocca. La nottata precedente era andata avanti se possibile ancora peggio: Claire aveva fatto sedere l'idiota in cucina, gli aveva tamponato il bernoccolo con il ghiaccio neanche fosse stato un bimbetto di cinque anni e intanto il suddetto cretino aveva trovato il tempo sia per spazzolarsi via quel che restava della torta sia per fare il simpatico – o almeno provare a farlo – con Jess.
Aveva ripetuto di chiamarsi Alexander Hunter, “Alex” per gli amici – Jess si domandava come uno come lui potesse avere degli amici –, e che stava con sua madre da otto mesi. Non vivevano insieme, eh, che stesse pure tranquilla, le avrebbe lasciato i suoi spazi fino a che lo avesse desiderato e si sarebbe potuta strapazzare la sua mamma finché avesse voluto, ma le aveva fatto presente che da sei mesi si era trasferito a Everbrooke per stare vicino a Claire.
Un punto a suo favore – l'unico – era stato il suo offrirsi di andarsene a dormire a casa sua; quando si era tolto di torno, Claire aveva cercato di scusarsi e di darle ulteriori, inutili spiegazioni, ma Jess l'aveva freddata dicendole che era stanca, e se n'era andata a letto mollandola lì.
La mattina seguente erano venuti la nonna con la sua badante tardona accompagnate dallo zio – il quale si era vestito con un completo a giacca e pantaloni neri su camicia bianca e cravatta nera.
- Come sto?- aveva chiesto a Jess; si vedeva che era nervoso per il primo giorno di lavoro all'Everbrooke Aquarium. Jess aveva annuito per non rispondergli che sembrava vestito per un funerale.
Claire si era nascosta con sua madre per parlarle in privato di quanto era accaduto la notte precedente; peccato che Erik avesse sentito e avesse dato fuori di matto, pretendendo di sapere chi diavolo fosse quel pervertito e che accidenti avesse fatto a sua nipote. Jess aveva ghignato prendendo seriamente in considerazione la possibilità di consegnare Alex Hunter a suo zio e vedere gli effetti che quel gesto avrebbe comportato.
Era diventata una questione di Stato che aveva occupato loro tutto il tragitto da casa di Claire alla Everbrooke High School.
La sera precedente Jess era stata contenta che anche la nonna l'accompagnasse per il primo giorno; riflettendoci meglio, ora si sentiva in imbarazzo come poche volte in vita sua. Venire accompagnata a scuola in auto dalla mamma, la nonna e lo zio, come una bimbetta di sei anni. E con il faccione rintronato di quella straniera che, alla faccia di quel che sosteneva Lily, Jess era convinta capisse la metà di quello che dicevano.
Claire parcheggiò la Honda accanto al marciapiede opposto a quello che dava accesso a un edificio basso e lungo, a cui si accedeva tramite una scalinata bianca. Jess guardò la sua nuova scuola: somigliava in modo impressionante a quella che frequentava quando stava alla Blue Lily, dalle pareti bianche e il tetto piatto, ma era una costruzione più nuova e il giardino, affollato di studenti e motorini, era più ampio e meglio curato.
- Ecco qua!- annunciò Claire.- Ti passo a prendere oggi pomeriggio alle quattro, così facciamo la strada insieme in autobus. Impari quello che devi prendere e così da domani puoi andare e tornare da sola - la sera prima a cena le aveva spiegato che con il suo lavoro non avrebbe potuto accompagnarla e venirla a prendere a scuola tutti i giorni. Jess non si era sentita minimamente dispiaciuta.
- Finché non le compriamo il motorino.
- Mamma! Lo sai che io ho paura...
- Eh, beh? Anche tu e tuo fratello ce l'avevate alla sua età! Mollala un po', questa ragazza...
Lo zio Erik le fece un in bocca al lupo, ancora torvo, mentre sua madre si voltò a guardarla.
- Buona fortuna per il primo giorno, tesoro. Vedrai che farai faville. Bacio?- chiese, indicandosi una guancia con l'indice. Jess il bacio lo diede invece sulla guancia della nonna, ignorando completamente sua madre.
- Ci vediamo stasera - bofonchiò, e uscì dalla Honda.
 
Trovare l'aula della prima ora non era stato difficile. Jess sapeva che sarebbe arrivata in ritardo, perché alla segreteria aveva trovato una fila chilometrica che le aveva fatto venire in mente di saltare la scuola il primo giorno.
La segretaria le aveva dato il benvenuto, le aveva consegnato la scheda con gli orari delle sue lezioni e le aveva indicato aula e sezione, oltre ad averle consegnato le chiavi del suo armadietto.
La Everbrooke High School era più piccola di quel che lasciasse intendere vista dall'esterno. Jess trovò l'aula quasi subito. Consultò la scheda degli orari: lunedì, 8:30-9:3, aula A-12, professoressa H. Buchanan, inglese.
La stanza puzzava di chiuso e di disinfettante. La maggior parte dei ragazzi era seduta sui banchi o in piedi a fumare, e tutti parlavano a bassa voce. Gli argomenti più gettonati erano le vacanze estive e Jess sentì pronunciare più volte il nome “Adele Jimmerson”.
In molti si voltarono a guardarla, altri l'ignorarono, nessuno le rivolse la parola. Jess si stava chiedendo se fosse il caso di fare la simpatica esclamando un scusate, è questa l'aula A-12? per rompere il ghiaccio, pur sapendo benissimo dove si trovava, quando si sentì chiamare per nome e cognome.
Si voltò in direzione della voce.
- Non ci credo. Jess! Jessica Woods...
Jess sorrise quando le si avvicinò una ragazzetta alta all'incirca come lei, ma più magra e ossuta, con i fianchi stretti, le dita sottili e vestita con jeans e un maglione troppo larghi per lei; aveva gli occhi castani e i capelli color paglia che portava annodati in una treccia che le arrivava fino a metà schiena. Non era bella, con il naso troppo grande per il viso piccolo e appuntito e gli occhi infossati, ma quando sorrideva era carina, nonostante i denti non proprio drittissimi.
Le si avvicinò e parlò a voce bassa affinché nessuno potesse sentirla.
- Jessica Woods, vero? O hai cambiato cognome anche tu?
- Sono sempre Woods - rispose Jess.- E tu...Irene Andrews, adesso, vero?
- Eccomi qui!- ridacchiò la ragazza.
L'abbracciò così forte da farle anche un po' male.
- Non ci credo! Sei qui! E siamo anche in classe insieme...!
Jess ricambiò l'abbraccio senza farsi troppe domande. Irene era sempre stata un po' strana: era capace di non degnarti di uno sguardo per un pomeriggio intero per poi lasciarsi andare all'improvviso a gesti di affetto, baci e abbracci senza una ragione precisa.
Tutti dicevano che fosse perché soffriva di carenze affettive e bassa autostima.
Jess e Irene non erano mai state propriamente “amiche del cuore”, al tempo della Blue Lily. Frequentavano due sezioni diverse a scuola e alla Casa Famiglia di tanto in tanto capitavano sedute a tavola vicine, o erano nella stessa squadra di pallavolo durante la ricreazione, o ancora finivano a giocare insieme a Scarabeo o a Monopoli la sera. In quelle occasioni chiacchieravano animatamente e Jess trovava Irene molto simpatica e alla mano, ma per una ragione o per un'altra il loro rapporto non era mai andato oltre alla partita a dama della domenica sera.
Nonostante ciò, Jess aveva sperato di reincontrarla a scuola a Everbrooke, giusto per avere un volto amico a cui fare riferimento. E ora, stranamente, si sentiva contenta di rivederla, quasi fossero state amiche per la pelle.
- Vieni!- Irene la prese per mano.- Ti siedi vicino a me? La mia compagna di banco dell'anno scorso puzzava di sudore...
Jess rise e si sedette.
Dietro di loro, in un banco singolo, aveva preso posto una ragazzetta smilza e con i capelli biondi come il grano. Era vestita con calze a rete strappate e anfibi neri, una gonna di pelle e una maglietta con le maniche svasate e l'orlo sbrindellato che lasciava scoperto l'ombelico dotato di piercing. Un altro piercing a forma d'anello era stato applicato all'angolo della narice sinistra, mente altri spuntavano sui lobi e i padiglioni delle orecchie e un altro sulla lingua. I capelli biondissimi erano fermati da una fascia nera come il resto degli abiti della ragazza, mentre trucco nero come il rossetto era calcato pesantemente sulle palpebre e agli angoli degli occhi. Le unghie erano corte e mangiucchiate e le mani coperte da guanti neri trasparenti che lasciavano scoperte le dita.
La ragazza sogghignò. Jess non capì come mai, ma non approfondì.
- Quindi...sei sempre Woods?- ripeté Irene.- Come mai anche tu qui a Everbrooke?
- Ci sono nata. Mia madre s'è rifatta viva sei mesi fa - Jess fece una smorfia.
- Alla fine allora non ti hanno dichiarata adottabile...
Jess fece segno di no con il capo.
Lei e Irene avevano storie abbastanza simili, anche se la seconda aveva decisamente sofferto di più. A otto anni, quando era arrivata alla Casa Famiglia Blue Lily, Jess aveva passato il primo pomeriggio a piangere, finché non le si era avvicinata Irene – ai tempi una mocciosetta della sua stessa età con l'apparecchio per i denti e le trecce. Le aveva chiesto cosa ci fosse che non andava, e lei le aveva detto tutto, di sua madre che era sempre ubriaca e strafatta, della nonna, del fatto che Claire l'avesse mollata lì con la promessa di disintossicarsi e di tornarla a prendere, e di come lei non ci credesse, che sua madre l'aveva già detto mille volte ed era sicura che non sarebbe tornata mai più.
Irene, allora, le aveva raccontato la sua, di storia.
Lei stava alla Casa Famiglia da più tempo, le aveva detto, da quando aveva cinque anni. Suo padre era un muratore e sua madre una casalinga. Anche sua madre beveva, spesso, perché non era felice. Un giorno, poi, era sparita, ed era sparito anche il ragazzo che lavorava come idraulico in fondo alla via e che sua madre chiamava in casa quasi ogni giorno per riparare la vasca da bagno, anche se non era rotta. E a quel punto anche suo padre aveva cominciato a bere, solo che quando lo faceva diventava molto più cattivo, e per mettere in punizione sua figlia la chiudeva nel ripostiglio tutto il giorno e le spegneva i mozziconi di sigaretta sulla schiena. Questo era andato avanti finché una mattina la vicina di casa sentendo piangere la bambina non aveva chiamato la polizia, e con la polizia erano arrivati anche gli assistenti sociali che avevano portato Irene nella Casa Famiglia.
Irene poi era stata dichiarata adottabile, mentre Jess no. A otto anni, però, non si era ancora fatto avanti nessuno, e alla Casa Famiglia si sapeva che da quell'età in su si era praticamente spacciate. Chi venivano adottate erano le bambine di uno o due anni, al massimo tre o quattro. Nessuno voleva una ragazzina di dodici o tredici anni, in piena crisi preadolescenziale con gli sbalzi d'umore e gli ormoni impazziti.
Invece, circa due anni prima, i coniugi Andrews da Everbrooke si erano presentati alla Casa Famiglia. Volevano adottare una bambina, avevano detto, e possibilmente l'avrebbero voluta già grandicella perché con il loro lavoro sarebbe stato complicato occuparsi come si deve di una piccolina di sette o otto anni, o anche meno.
La Pritchard, Magda e la psicologa dell'istituto avevano fatto loro incontrare Irene, e in meno di un anno le pratiche per l'adozione erano complete. Ora era Irene Andrews a tutti gli effetti. Jess ricordava ancora il giorno in cui se n'era andata dalla Blue Lily con la sua nuova famiglia, e tutte le bambine e le ragazze che la salutavano.
- E come ti trovi?
- Sono arrivata solo ieri. Comunque non credo che mi fermerò molto.
- Tua madre?
- Per adesso è pulita, ma se è come quando ero piccola di sicuro tempo un paio di mesi e tornerà a sbronzarsi a merda come ha sempre fatto, e allora me ne tornerò alla Casa Famiglia.
- Magari non sarà così...
- Fidati, la conosco, quella. I tuoi, piuttosto? Come ti trovi?
- Bene!- Irene le sorrise, ma era un sorriso un po' distante, incerto.- Sì, insomma, voglio dire...con il lavoro che fanno non sono molto a casa, ma quando ci sono, sono veramente dei grandi...
- Che fanno?
- Paul è un pilota d'aerei, e Frances è una hostess. Sono sempre in giro per il mondo. Comunque, ti ripeto, quando ci sono si fanno perdonare delle assenze. Frances mi ha detto che non hanno avuto figli loro perché lei non può averne, e che hanno aspettato così tanto tempo per adottarne uno per via del loro lavoro. Si vede che volevano un bambino. Mi adorano, e mi lasciano fare praticamente tutto quello che voglio...
- Quindi, hai spesso casa libera...
- Eccome. Anche in questo periodo. Se vuoi, venerdì dopo la scuola puoi venire da me per una cioccolata...
Nel momento esatto in cui Jess accettava la proposta, la porta dell'aula si aprì e tutti gli studenti si affrettarono a raggiungere il proprio banco. Jess e Irene sollevarono lo sguardo.
- E' la Buchanan - sussurrò la seconda ragazza.
- Che tipo è?- bisbigliò Jess.
Irene fece spallucce.
- Ha tutte le rotelle a posto. Nel senso, è brava. Non s'incavola quasi mai. E ha un debole per Shakespeare, quindi dille che adori Romeo & Giulietta e una A è assicurata...
- Per cosa sta H?
- Helen.
La professoressa Helen Buchanan era una donna sui trentotto o trentanove anni, bassa di statura burrosa. Era vestita in modo abbastanza anonimo, con gonna lunga marrone come la sua giacca, scarpe classiche con il tacco e camicetta bianca. I capelli castani scuri erano sciolti e spettinati, e portava gli occhiali.
Jess e Irene si ammutolirono quando iniziò a parlare. Salutò tutti e fece qualche domanda sulle vacanze estive appena trascorse, i soliti convenevoli; Jess temeva come la peste il momento in cui quest'anno abbiamo una nuova compagna di classe! con annessa presentazione penosa; invece, proprio quando credeva che stesse per pronunciare la fatidica frase, la Buchanan attaccò tutt'altro discorso.
- Prima di iniziare con la lezione vera e propria, c'è una questione importante di cui voglio discutere con voi - aveva una voce dolce e calma, che infondeva fiducia e tranquillità, ma si vedeva lontano un miglio che fosse nervosa.- Come molti di voi sapranno, ci ha lasciati una nostra ex alunna, Adele Jimmerson.
In classe nessuno parlava se non per bisbigliare qualcosa al compagno di banco. Una ragazza seduta a pochi metri da Jess e Irene scoppiò a piangere.
- Chi è Adele Jimmerson?- sussurrò Jess.
- Una delle diplomate di giugno - sillabò Irene, senza distogliere lo sguardo dalla Buchanan.- L'hanno trovata morta ammazzata ieri mattina vicino al bosco. Lo sai cos'è il bosco, sì?
Jess rispose che lo sapeva. Se lo ricordava da quand'era piccola. La nonna le raccomandava sempre di non andare là dentro perché era pieno di lupi. Ora Jess sapeva che di lupi là dentro probabilmente non ce n'erano, ma era a conoscenza delle varie dicerie su quel posto.
La Buchanan si tolse gli occhiali e li posò sulla scrivania.
- Voglio essere sincera con voi. Probabilmente lo avrete già sentito alla televisione o letto sui giornali, e d'altra parte mentirvi sarebbe inutile. E' molto probabile che...che la nostra povera compagna sia stata una delle vittime del Lupo.
Si levò qualche mormorio, ma nessuno sembrò realmente sorpreso. La professoressa continuò:
- La polizia sta indagando, naturalmente, ma la nostra scuola non vuole che qualcun altro incappi in questo assassino. In comune accordo con il preside, il commissario Torrance del distretto di polizia di Everbrooke ha consegnato alcune linee guida di comportamento che adesso vi leggerò, e a cui invito tutti gli studenti ad aderire...- la donna aprì una cartellina e ne estrasse un foglio di carta; inforcò gli occhiali e cominciò a leggere ad alta voce.
- Numero uno: evitare il più possibile luoghi isolati...
Jess si sporse verso Irene.
- Cos'è questa storia del Lupo?- domandò.
Irene attese qualche istante prima di rispondere, assicurandosi che la Buchanan non stesse prestando attenzione a loro.
- ...numero due: evitare di uscire dopo le sette di sera, oppure farlo accompagnati da qualcuno...
- Da circa un anno va avanti questa storia - Irene parlò piano scandendo bene le parole per farsi capire.- C'è questo assassino, si fa chiamare “il Lupo”, che va in giro ad ammazzare le persone. I professori vogliono farci credere che siamo tutti in pericolo, ma è chiaro che quello abbia la fissa per le ragazzine e le studentesse. Ha ammazzato già quattro ragazze della scuola: Hailey Delariva, Denise Cresswell e Jamie Ronning, e adesso anche Adele Jimmerson. Jamie Ronning frequentava anche lei le lezioni della Buchanan.
- E non sanno chi è?
- Se lo sapessero lo prenderebbero, no?- berciò una voce alle loro spalle. Jess e Irene si voltarono; a parlare era stata la ragazza vestita da emo. La Buchanan smise di sciorinare il suo elenco.
- Ha qualcosa da dire, signorina Larabee?- domandò.
- Dicevo che è veramente una tragedia - la ragazza lo disse con un tono e un sorrisetto che lasciavano intendere tutto tranne che dispiacere.- Speriamo che prendano presto quel pazzoide.
La professoressa non sembrò tanto convinta. Finì di leggere le linee guida, poi mise da parte il foglio.
- Bene. Passando ad altro...prima di cominciare a illustrare il programma di quest'anno...
- Non fare caso a lei - stava dicendo Irene in quel momento a Jess.- E' Violet Larabee. Lei e sua sorella Louisa sono due casi umani.
- Non gli unici due di questa scuola, comunque...- ghignò Violet alle loro spalle.
- ...abbiamo una nuova compagna di classe. Jessica Woods. Jessica, vuoi venire alla cattedra e raccontarci un po' di te?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: So che avrei dovuto pubblicare l'intera giornata di lunedì 9 settembre, ma poi mi sono resa conto che erano già quindici pagine e che mancavano ancora i punti di vista di Belle, Roxy, Ella, Louisa e il Lupo, e per quanto non mi piaccia spezzettare e allungare ulteriormente il brodo, credo che capitoli troppo lunghi possano stufare chi legge. Fatemi sapere se volete capitoli più lunghi o se preferite che spezzetti per non fare chilometri e chilometri di pagine.
Il prossimo capitolo sarà incentrato sul pomeriggio, la sera e la notte di lunedì 9 settembre e dal prossimo ancora passeremo a venerdì 13 settembre.
Ringrazio mintheart per aver aggiunto questa storia alle seguite e Aching heart per aver recensito e per le meravigliose immagini su questa storia <3.
Le recensioni, anche critiche, sono sempre ben accette :).
A presto con il prossimo capitolo.
Un bacio,
 
Beauty

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Capitolo 5
*** Capitolo V - I'm Not Red Riding Hood, But I Think the Wolves Have Got Me (Belle, Violet, Roxy, Ella) ***


Capitolo V
 
I'm Not Red Riding Hood, But I Think the Wolves Have Got Me
 
(pomeriggio, sera e notte di lunedì 9 settembre)
 
 
I. [Belle]
 
Il cellulare vibrò facendo ballonzolare le penne sul banco.
Belle lo aprì e lesse l'SMS.
 
Giorno di autopsia. Non aspettarmi alzata.
 
Papà
 
Sollevò un angolo della bocca in un sorrisino impercettibile e appena velato di tenerezza. L'ispettore Gordon sapeva che il suo nome veniva visualizzato sullo schermo del telefonino ogni volta che chiamava sua figlia o che le inviava un messaggio, ma si ostinava a firmarsi papà alla fine del testo.
Ripose il cellulare nella borsa marrone a frange in stile hippie e ne estrasse un pacchetto di biscotti Oreo. Ne prese uno e cominciò a sgranocchiarlo cercando di non farsi notare.
Era mezzogiorno, la lezione era appena iniziata e lei oltre ad avere già fame si stava anche annoiando a morte. Non seguiva più le lezioni universitarie da circa un anno e mezzo, si recava alla Everbrooke State University solo per sostenere gli esami. Quella mattina aveva scelto il corso di database solo perché era tenuto dal professore che avrebbe gestito il dottorato, nella speranza che dicesse qualcosa in merito.
Era stata accontentata.
Il dottorato sull'A.I. sarebbe cominciato nel settembre successivo. Vi avevano accesso solo i laureati con una media superiore al ventisette su trenta, e vi era un solo posto coperto dalla borsa di studio.
Fottutamente impossibile, aveva pensato Belle in quel momento.
La spiegazione sulle modalità di accesso al dottorato – media dei voti, esame scritto da sostenere a giugno e successivo colloquio orale – si era conclusa in dieci minuti, e il professore aveva iniziato a spiegare quei concetti triti e ritriti che Belle conosceva a menadito dalla terza media.
Si ficcò in bocca quel che restava del biscotto alla crema e cioccolato, pescò le cuffie dalla borsa e se le mise sulle orecchie. Premette play su Believer degli Imagine Dragons e tornò a concentrarsi sullo schermo del portatile che teneva di fronte, acceso.
L'annuario scolastico della Princeton University era tranquillamente reperibile online sul sito dell'istituto, e ora Kathryn Miranda Torrance la guardava con un'espressione severa e quasi di rimprovero.
Era una foto molto più seria, quella che era stata messa sull'annuario, e che a parere di Belle non rendeva giustizia all'aspetto della ragazza. Kate non sorrideva, anzi, le labbra erano tirate in una smorfia che avrebbe voluto essere seria e composta, ma che dava l'impressione che la non volente modella fosse tesa e preoccupata, addirittura arrabbiata per qualcosa. La luce sotto la quale era stata scattata la fotografia era bianca e bruciata, e le colpiva il volto in modo da rendere l'incarnato smorto e malaticcio. I capelli ricci e color cioccolato erano tirati indietro in una coda di cavallo che non le stava bene, e il mezzo busto mostrava il colletto di una camicetta bianca e un maglione blu mare.
Belle aprì un'altra pagina dell'annuario: Rosebud Thorn aveva lo stesso outfit, ma era come sempre uno schianto, una fotomodella formato Barbie con i capelli biondi e gli occhi azzurri, e un sorriso scintillante.
La sua intuizione era stata corretta. L'ispettore Gordon non era stato assegnato al caso della scomparsa di Kate Torrance, dunque non le aveva detto nulla in merito, ma da quel che aveva potuto vedere dopo aver hackerato gli archivi privati della polizia, a nessuno era venuto in mente di collegare l'aggressione di Rosebud Thorn alla scomparsa di Kate Torrance.
Eppure gli elementi c'erano tutti.
Le due ragazze avevano entrambe vent'anni. Erano nate lo stesso anno, ed erano entrate a Princeton nello stesso periodo. Entrambe avevano uno o entrambi i genitori a Everbrooke. Rosebud Thorn era stata attaccata il 3 maggio, e Kate, in città quello stesso periodo, aveva fatto perdere ogni traccia di sé due giorni dopo.
Belle aveva dato un'occhiata al curriculum online di entrambe, messo a disposizione dalla Princeton: Rosebud aveva frequentato la Everbrooke High School, mentre Kate un altro liceo del New Jersey. Questo era un colpo al fianco alla sua teoria, ma poteva anche darsi che si fossero conosciute dopo, magari alla Princeton stessa.
Si guardò intorno. Non poteva entrare nel Deep Web né fare operazioni di hackeraggio, lì in Università, dove chiunque poteva vedere ciò che stava facendo. Si limitò a navigare nel World Wide Web e a cercare ciò che le interessava. In capo a mezz'ora, aveva trovato le informazioni che aveva sperato, e anche qualcosa in più.
Chiuse il portatile, ma mentre lo stava riponendo nella borsa a frange, qualcosa la colpì al collo.
Sibilò di dolore, mentre si portava una mano all'altezza delle spalle. Si trovò le dita impiasticciate con una pallina fatta di carta e saliva.
La gettò sul pavimento con una smorfia schifata.
Alle sue spalle, iniziarono ad arrivare delle risatine soffocate. Belle si voltò: non si era neanche accorta che Gaston fosse seduto due banchi dietro di lei, insieme a un suo amico.
Inspirò a fondo, raccattò le ultime cose, si mise la borsa in spalla e uscì senza voltarsi.
 
Un'ora e quaranta dopo – e un trancio di pizza al salame piccante, una Coca Cola e un caffé a seguire –, Belle era appoggiata a una delle colonne della veranda di fronte a casa di Lum, dondolandosi sulle punte delle scarpe, cappuccio tirato sul capo e secondo bicchiere di caffé con latte alle labbra.
Beveva a piccoli sorsi, come se temesse di finirlo troppo in fretta.
Alzò lo sguardo dalle piastrelle della veranda quando sentì la porta d'ingresso aprirsi.
- Scusa, Lum. Avevo bisogno di parlarti, e visto che oggi pomeriggio tu non...oh!- si bloccò non appena vide Babette sulla soglia. La fidanzata di Lum indossava un paio di jeans e una canottiera bianca, i capelli neri sciolti e lo sguardo assassino.
Belle indietreggiò, imbarazzata.
- Ciao, Babette. Scusa, me ne vado.
- Sei venuta a rompere le palle solo per dirmi che te ne vai?- ribatté Babette, acida.
- Sarei venuta a rompere le palle in un altro momento, se avessi saputo che c'eri tu. Non ho...ehm...non ho interrotto niente, vero?
- Se per interrompere qualcosa intendi Arancia Meccanica, allora sì - Babette si scostò per farla passare, e lei entrò. Lum lavorava al negozio di elettronica part-time, e il lunedì staccava a mezzogiorno. Il ragazzo era spaparanzato sul divano di fronte alla TV, il film in stop, popcorn e schifezze varie in mezzo alle quali spuntava il computer aperto.
- Ehi!- ammiccò, facendole cenno di sedersi. Belle afferrò un cuscino, lo piazzò sul tappeto e ci si accovacciò sopra. Babette andò ad accoccolarsi accanto al fidanzato. Belle guardò prima lei, poi la schermata TOR aperta su una pagina di conversione dollari-BitCoin del PC di Lum.
- Tranquilla, so tutto - la freddò Babette ancor prima che Belle potesse parlare.- Lum mi ha raccontato tutto qualcosa come sei mesi fa.
- Ed è d'accordo?- Belle inarcò le sopracciglia e si rivolse all'amico.
- Non sono una santa, e poi sospettavo che Lum non tirasse a campare con solo lo stipendio di commesso - Babette fece spallucce.- Qual è il tuo nickname, a proposito?
- Rogue - bofonchiò Belle.- Senti, Lum, non sapevo fossi con Babette. Mi spiace. Se vuoi me ne torno a casa e ne parliamo stasera al telefono.
- Ma figurati! E poi Arancia Meccanica l'abbiamo già visto due volte...- Lum avvolse un braccio intorno alle spalle della fidanzata e spense la TV.- Di che vuoi parlarmi?
- Posso restare, sì?- s'intromise Babette.- O è una cosa di lavoro?
- Cavolo, l'ha veramente presa bene...- commentò Belle.- Sì, non c'è problema. Te ne intendi?
- Mai stata sul Deep Web e uso il PC solo per le mail e i giochini online. Ma imparo in fretta.
- Scusa, piccola, ma io ancora non ho capito se soffri di perdita di memoria a breve termine o se mi stai prendendo per i fondelli - Lum si massaggiò il capo brillantinato.- Ieri sera mi avevi detto...
- Lo so, lo so, e ho intenzione di piantarla - Belle piazzò il proprio portatile sul tavolino.- Dopo che ti avrò fatto vedere questa cosa...
Aveva lasciato il computer acceso in standby sulla pagina dell'annuario scolastico della Princeton, con la foto ingrandita di Kate Torrance. Babette si sporse in avanti per guardare meglio.
- Quella ragazza che è scappata di casa, vero?- fece.- Già, Lum, mi hai detto che lei l'ha vista, ieri! C'era anche la tua foto sul giornale, stamattina.
Belle trattenne una smorfia. L'aveva vista, quell'immagine, sull'Everbrooke News Mirror. Si trattava di una fotografia del Be Our Guest e dell'area circostante, con due auto della polizia, il commissario Torrance pallido come un cencio e con l'aria di chi ha appena assistito all'apparizione di uno spettro, l'agente Hunter appoggiato a una vettura e suo padre che era stato beccato proprio mentre sbadigliava; e in un angolo, distanti da tutto e da tutti, c'erano lei – seduta sui gradini del locale con una mano che le sosteneva la testa – e Roxy – appoggiata al palo della luce che scrutava l'orizzonte con aria assente.
- Dunque...- Lum si sporse a sua volta per vedere meglio sia la sua amica che lo schermo del PC.- Che hai scoperto, Mr. Robot?
- E' un nuovo nomignolo, questo?- Belle iniziò a smanettare con il computer.- In ogni caso...scoperto, ben poco, ma ho fatto alcuni collegamenti. Kate Torrance e Rosebud Thorn frequentavano entrambe Princeton. Rosebud è stata aggredita il 3 maggio di quest'anno, e due giorni dopo Kate è scappata di casa. Dico scappata perché credimi, pur conciata maluccio, non aveva l'aria di una che è stata rapita o portata via e trattenuta contro la sua volontà. Ho cercato di fare mente locale, e ogni volta che l'ho vista al locale se ne stava sempre sulle sue, era da sola e non sembrava ci fosse niente o nessuno che la controllasse. E poi, andrebbe contro ogni logica, no? Voglio dire, Lum, se tu e io fossimo dei rapitori non lasceremmo gironzolare la nostra vittima in libertà, giusto?
- Quindi, abbiamo praticamente appurato che questa Kate Torrance è scappata di casa - buttò lì Babette.- Ma per che motivo? E poi, come questo può essere collegato a Rosebud Thorn? Perché mi è parso di capire che la tua teoria sia quella...
- E' qui ti volevo...- Belle aprì un documento in PDF.- All'inizio credevo di essere sulla pista sbagliata. Kate studiava giurisprudenza, Rosebud giornalismo. Sembrava improbabile che si potessero conoscere solo in base a questo, ma poi...beh, ho dato un'occhiata ai loro curricula privati...
- Hai hackerato l'archivio della Princeton?- domandò Lum.
- Ovvio. Ecco qui, leggete...- Lum prese il PC di Belle e se lo posò sulle ginocchia.
Belle attese, giocherellando nervosamente con l'orlo della maglietta. Alla fine, Lum sospirò.
- Potrebbero essersi conosciute in quest'occasione - constatò.- Hai trovato informazioni su questo posto?
- Solo quelle disponibili a tutti sul World Wide Web. Ho cercato tutto quanto mentre ero in autobus, non potevo andare troppo in profondità...si tratta di uno studio legale in collaborazione con un altro che si occupa di investigazioni private. Rosebud Thorn ha iniziato uno stage a gennaio 2015 presso quest'ultimo e ci è rimasta fino a metà marzo, quando ha deciso di tornare qui a Everbrooke per la sua “pausa di riflessione”...
- E che c'entra Kate Torrance?- domandò Babette.
- A sedici anni ha iniziato a lavorare part-time come segretaria in quel posto, tutti i pomeriggi dopo la scuola - le spiegò Lum.- E a quanto pare ha continuato anche durante il periodo universitario.
- C'è di più - disse Belle, riprendendo fra le mani il PC; selezionò un file in jpg dal desktop e lo ingrandì fino a che non fu a schermo intero, poi restituì il computer a Lum. Il ragazzo e Babette si ritrovarono di fronte alla foto a mezzo busto di una donna, che a occhio e croce doveva essere molto magra e nei suoi primi anni della quarantina. Aveva un'espressione seria e anche un po' arcigna, ma se avesse sorriso di più sarebbe certamente risultata molto più bella. Aveva gli occhi color nocciola nascosti dietro due lenti quadrate e severe, e una chioma di capelli biondi e lisci le ricadeva sulle spalle, incorniciandole il volto ovale.
- Chi è?- domandò Babette.
- Avvocato Lynn Osborn, la titolare dello studio legale - rispose Belle.- Il suo nome compare nell'anagrafica di Kate Torrance alla Princeton. Era sua madre.
- “Era”?- fece Lum.
- E' morta in un incidente d'auto a metà marzo di quest'anno.
Belle aveva fatto le sue ricerche. Mostrò a Lum e a Babette una serie di articoli online che parlavano della morte di Lynn Osborn. Nessuno differiva in maniera particolare dagli altri, e la storia era piuttosto lineare: l'avvocato Osborn era uscita di casa alle sette di sera per recarsi a una cena con delle amiche. Non vedendola tornare, alle quattro del mattino la figlia aveva dato l'allarme. La Mercedes Classe B di Lynn era stata ritrovata verso le nove della stessa mattina, in un burrone, con il corpo senza vita della donna al suo interno.
- Cause dell'incidente?- domandò Lum.
- Qui dice che si pensa a un malore - lesse Belle.- Ma l'ultimo articolo che ho trovato risale al 20 marzo, tre giorni dopo l'incidente. Probabilmente è stato archiviato. E stando a quello che ho letto ieri sera, Kate è tornata a Everbrooke per vivere con il padre dopo che la madre è morta.
Lum si massaggiò il mento. Babette sembrava concentrata nella lettura dell'articolo riguardante la morte della Osborn.
- Erano divorziati?- domandò infine.
- Non ho fatto in tempo a informarmi, ma presumo di sì.
- Perché mollare gli studi e tornare a vivere con il padre, se aveva vent'anni? Kate non era minorenne, nessuno l'avrebbe obbligata...
- Forse non aveva di che mantenersi - azzardò Lum.
- Il perché credo che dovremo scoprirlo noi - borbottò Belle.- Mi sembra che ci siano un po' troppe coincidenze, o mi sbaglio? Ragioniamo un attimo: Rosebud Thorn e Kate Torrance frequentavano entrambe la Princeton. Kate lavorava tutti i pomeriggi nello studio legale della madre, e Rosebud ha fatto uno stage là dentro per quasi tre mesi. Devono essersi incontrate per forza. Poi la madre di Kate muore, e nello stesso periodo sia lei che Rosebud tornano a Everbrooke, città in cui, guarda caso, entrambe sono nate e in cui hanno lasciato almeno un genitore. Rosebud viene aggredita e ridotta in coma il 3 maggio...due giorni dopo, Kate decide di sparire.
- E' un po' tirato per i capelli - osservò Lum.- Voglio dire...potrebbero anche essere delle coincidenze e basta, non credi?
- Sì, certo, ma magari non lo sono. Devo solo avere il tempo di...
- Di rimangiarti tutto quanto un'altra volta?
Belle ammutolì. Lum non era stato brusco o maleducato, ma il suo tono di voce non era scherzoso. Quando incontrò il suo sguardo, trovò serietà mista a un pizzico di malcelata preoccupazione.
- Seriamente, Mr. Robot. Ieri mattina mi dici che dobbiamo alzare il tiro, che a fare lavoretti da niente guadagniamo poco. Ieri sera al telefono mi dici che no, il tiro lo dobbiamo abbassare, che vuoi farla finita. O mi stai prendendo in giro, o hai dei problemi.
- Io...
- A te piace questo lavoro, pur sapendo che è illegale e che non è neanche un lavoro - Lum la bloccò di nuovo.- Ti piace scavare nell'Internet, ti piace risolvere i casi di tuo padre. Belle, dai, io e te ci conosciamo da una vita. Non negare l'evidenza.
Babette fece per alzarsi e lasciarli soli, ma Lum la trattenne.
- Vuoi vincere quella borsa di studio, e non metto in dubbio che tu ci tenga. Ma se non succedesse? Lo sai meglio di me che potrebbe non accadere...
- Mi troverò un altro lavoro - Belle si strinse nelle spalle ostentando indifferenza.
- Che lavoro? La cameriera per tutta la vita al Be Our Guest? O la commessa al Walmart? Perché lo sappiamo tutti e due che hai una paura fottuta di andartene da Everbrooke. Hai rinunciato a frequentare un college prestigioso perché non volevi lasciare tuo padre...Belle, se non capisci veramente ciò che vuoi dalla vita, la tua laurea e il tuo talento li butterai veramente nel cesso...
Lum concluse il discorso afferrando il telecomando e accendendo di nuovo la TV.
Babette era forse la più imbarazzata dei tre. Si umettò le labbra.
- Allora...ti va di fermarti a pranzo? Faccio dei buoni toast con il burro di arachidi...
 
II. [Violet]
 
Violet Larabee aveva aspettato sua sorella maggiore all'uscita della scuola per più di mezz'ora, invano. Non si erano date un appuntamento, ma a casa Larabee da dieci anni a quella parte vigeva una regola marziale: non rientrare prima delle sette di sera. Così, le tre sorelle Larabee si aspettavano sempre fuori da scuola perché trascorrere il pomeriggio insieme non solo era meno noioso, ma aiutava anche a prepararsi psicologicamente per l'inizio del coprifuoco.
Lei e Louisa non erano mai state molto legate. Violet voleva bene a sua sorella e credeva che anche Lou ne volesse a lei, ma non erano sulla stessa lunghezza d'onda. Una volta, c'era Marion a fare da collante fra loro due. Lei sì che era brava. Poi però Marion aveva mollato la scuola, a casa non c'era mai e anche i rapporti fra loro tre si erano incrinati.
Quando le era stato chiaro che Lou non sarebbe venuta, Violet si era rassegnata a trascorrere il pomeriggio da sola. Era andata in biblioteca e aveva buttato giù il suo discorso per la trasmissione di venerdì sera – sperando che una volta a casa nessuno le rompesse le palle; aveva preso un bicchiere di latte al cacao e aveva gironzolato senza meta per la città ascoltando i Nightwish con il lettore musicale.
Da due anni, Violet aveva fatto l'abitudine alla gente che per strada si voltava a guardarla.
La maggior parte dei suoi beneamati concittadini la evitava. Per loro vigeva il binomio borchie uguale bestia di Satana, anche se qualche compassionevole e assiduo frequentatore della parrocchia la domenica sosteneva che poverina, con tutto quel che sta passando conciarsi così è solo una disperata richiesta di attenzione.
Che andassero un po' tutti a farsi fottere.
Violet si vestiva così perché le piaceva. Si sentiva a suo agio in nero, piena di piercing e bracciali, e aveva già deciso che per il suo diciottesimo compleanno si sarebbe tatuata la scritta BITCH, I'M FABULOUS a caratteri cubitali e con tanto di teschio sulla schiena. Era il suo modo per esprimersi. Come se avesse voluto dire andatevene tutti affanculo, io sono così e sto bene così.
E poi faceva incazzare Roy. Ma Roy aveva paura di lei. Non lo ammetteva e cercava di fare il gradasso, ma Violet sapeva che aveva una paura dannata che lei lo strangolasse nel sonno con una catena mentre era troppo ubriaco per reagire.
Il capolinea dell'autobus era anche la sua fermata. Erano quasi le sette e mezza di sera, e Violet era rimasta l'unica passeggera.
Quando il signor Larabee era ancora vivo, la sua famiglia viveva in un appartamento in affitto nei pressi del centro di Everbrooke, vicino alla scuola, ai locali e al cinema. Da circa dieci anni, invece, loro quattro si erano dovute trasferire a casa di Roy, una villetta a un piano nella periferia della città.
Quella zona di Everbrooke era lo stereotipo vivente della periferia malfamata dei film americani: Outback Road, così si chiamava la via in cui vivevano la signora Larabee, il suo compagno e le tre figlie, era a soli due chilometri dal bosco, era sporca, poco illuminata, e in genere ci abitava chi non poteva permettersi un affitto superiore ai duecentocinquanta dollari mensili.
Violet, Lou e Marion avevano posto come coprifuoco le sette di sera proprio perché dopo neanche un'ora sarebbe stato troppo rischioso muoversi per quelle strade, che al calare del sole puntualmente pullulavano di spacciatori, prostitute e ladri. Violet percorse la distanza che la separava dalla fermata dell'autobus a casa di Roy tenendo lo zaino in spalla e uno spray al peperoncino stretto nella destra e seminascosto dalle pieghe della gonna e delle maniche.
Vide la bicicletta di Louisa parcheggiata e fermata con una catena accanto a quella di sua madre, entrambe poggiate contro il muro lercio della casa. Nessuna abitazione in Outback Road poteva dirsi del tutto decente, ma Violet aveva sempre pensato – e detto – che quella di Roy facesse veramente vomitare a spruzzo. Era squadrata, scassata, nel giardino l'erba le arrivava fino alle ginocchia e non si potevano fare due passi senza inciampare in lattine di birra e bottiglie vuote, per non parlare dei mozziconi di sigaretta. Una finestra aveva il vetro rotto: il suo patrigno ci aveva lanciato contro una pentola quell'aprile. Voleva colpire Marion, ma lei si era scansata e la pentola aveva fracassato il vetro. I soldi per sostituirlo ancora non li avevano cavati fuori, così Karen l'aveva sigillata con un pezzo di cartone e del nastro adesivo, in modo da evitare che entrassero gli spifferi notturni e le gocce di pioggia.
Quella soluzione andava bene per la primavera e l'estate, ma Violet non aveva idea di che si sarebbe inventata sua madre, ora che stavano entrando nell'autunno.
La porta era aperta. Violet entrò e si diresse verso il fascio di luce proveniente dalla cucina, da cui proveniva il rumore della TV.
L'interno della casa faceva schifo come tutto il resto. Karen ogni giorno si affannava a pulire – sua madre teneva molto all'ordine e alla pulizia; non era maniacale, ma le piaceva che tutto avesse un proprio posto e che non ci fosse polvere o sporcizia in giro –, ma ogni volta che Roy rientrava tutto tornava sudicio e incasinato. C'erano solo quattro stanze: la cucina, che fungeva anche da salotto, il bagno e due camere da letto.
Violet trovò sua madre da sola, in cucina. Karen indossava un paio di pantofole e una vecchia tuta smessa della sua primogenita. Era in piedi di fronte al tavolo e stava triturando delle carote, mentre alla televisione davano Casablanca con Humphrey Bogart. Sua madre aveva una passione smodata per i film in bianco e nero che raccontavano tragiche storie d'amore, oppure gialli intricati ambientati in un'epoca in cui le signore non usciavano mai senza gioielli e i signori si presentavano a cena abbigliati con un frac. Roy, neanche a dirlo, detestava tutte quelle puttanate, e così Karen per guardare un po' di TV era costretta ad aspettare che il compagno non fosse in casa.
- Ehi...- salutò Violet a mezza voce, lasciando cadere lo zaino sulla soglia della porta.
Karen alzò lo sguardo. Era una donna alta, magra e nervosa, con i capelli castani e mossi che portava sempre raccolti sul capo. Aveva gli occhi verdi e grandi come quelli di Marion e Lou, e sul suo volto c'era già qualche ruga di vecchiaia. Ma era ancora piacente, per avere quarantacinque anni, e ogni volta che Violet pensava che stava sprecando il suo tempo appresso a una testa di cazzo ignorante come Roy, si sentiva ribollire di rabbia.
- Ehi, ciao!- Karen ricambiò il saluto e tornò a triturare la verdura.- Come è andata a scuola?
- Bene.
- Voti? Novità?
- Niente. Lou è tornata?
- Sì, sta di là in camera...ha detto che non si sentiva tanto bene e che non aveva voglia di cenare. In effetti è da un paio di settimane che si lamenta di avere i capogiri e la nausea, non vorrei averle passato l'influenza...ora penso che dorma, stai attenta a non svegliarla quando vai di là - Karen accennò con il capo alla porta chiusa alle spalle della sua terzogenita.- Cambiati e lavati le mani, fra mezz'ora è pronto.
- Roy?
- In birreria.
Nell'aria aleggiò un sospiro di sollievo che però nessuna delle due si lasciò sfuggire dalle labbra.
Quando Roy era in birreria allora significava che non sarebbe tornato prima delle tre o delle quattro del mattino. Di solito erano i suoi amici di sbornia a riportarlo a casa, perché lui era talmente ubriaco da non riuscire neanche a reggersi in piedi. Una mattina, Karen l'aveva trovato addormentato sugli scalini dell'ingresso.
Roy era quasi sempre ubriaco, e quando non lo era se ne stava tutto il tempo seduto sulla poltrona in cucina, davanti alla TV, a imprecare contro il football, o in camera da letto a ronfare. Naturalmente non lavorava: di tanto in tanto trovava un impiego da qualche parte, per lo più muratore, facchino od operaio, ma immancabilmente finiva per farsi cacciare perché litigava con i superiori, attaccava briga con i colleghi o si presentava sul posto di lavoro sbronzo marcio.
L'unica che lavorava a casa era la mamma. Karen faceva la segretaria presso la centrale di polizia di Everbrooke. Era stato il suo primo impiego dopo quasi quindici anni.
Karen Larabee non aveva mai preso il diploma. Aveva avuto un'infanzia non troppo rosea: sua madre era morta quando era piccolissima, e suo padre era un uomo rigido che, in fondo, non aveva mai voluto diventare genitore. Era scappata di casa a diciotto anni per sposarsi con un ragazzo che suo padre non approvava. Si erano stabiliti a Everbrooke, avevano preso in affitto un bell'appartamento e, mentre il marito lavorava come aiuto panettiere, Karen era rimasta a fare la casalinga e a crescere le loro tre figlie, Marion, Louisa e Violet.
Violet non ricordava granché di suo padre. Di lui aveva solo qualche fotografia: era un uomo basso e con un ventre prominente, con i capelli biondi e radi, la barba e un sorriso gentile. Era sicura che Louisa e Marion lo ricordassero meglio, ma lei aveva quattro anni quando era morto, e ricordava solo sensazioni e momenti: il gioco del “dondolino cavalluccio” sulle ginocchia del signor Larabee, suo padre che guardava i cartoni animati insieme a loro...e poi, un giorno, era arrivato un cancro e se lo era portato via.
Da lì erano cominciate tutte le disgrazie. Sua madre aveva dovuto trovarsi un lavoro, e a trentacinque anni e senza nessuna esperienza, il massimo che era riuscita a ottenere era un infimo contratto come segretaria alla centrale di Everbrooke, senza indennizzi per malattia, ferie e retribuzione a ore lavorative. Naturalmente il suo stipendio non bastava quasi per le spese basilari, figurarsi per pagare l'affitto, ed era stato proprio a tre mesi dallo sfratto che Karen aveva conosciuto Roy.
Un tempo, sua madre ancora provava a difendere il suo compagno. Faceva finta di nulla di fronte alla sua perenne disoccupazione, al fatto che fosse perennemente sbronzo, e non diceva niente nemmeno quando le gridava contro o le alzava le mani. Alle proteste delle sue figlie, rispondeva che Roy era stato loro molto utile e che dovevano solo avere pazienza e non farlo arrabbiare. Ora non ci provava neanche più, e nemmeno fingeva di esserne innamorata. A lui andava bene così: Roy voleva una cameriera e una colf, e Karen voleva un uomo con una casa di proprietà che ospitasse lei e le sue ragazze.
Con il tempo, Violet e le sue sorelle avevano capito perché Karen si ostinasse a stare con Roy. Non era perché lo amava. Non ne era mai stata innamorata e non aveva mai voluto veramente rifarsi una vita dopo la morte del primo marito, come aveva cercato di far credere loro i primi anni.
Aveva conosciuto Roy durante una serata in un locale per single. Il signor Larabee era morto da sei mesi, lei era ancora disoccupata e avevano lo sfratto. In tutto ciò, le vicine di casa e le amiche di Karen continuavano a ripeterle che aveva poi solo trentacinque anni, era ancora giovane, era quasi un suo dovere rifarsi una vita. Così, una sera, esasperata, era andata a una serata per single, aveva incontrato Roy e in capo a due settimane tutte e tre si erano trasferite a casa sua.
Marion l'aveva detto sin dal primo istante:- Quello è un idiota.
E aveva avuto ragione.
Roy non lavorava. Beveva. Bestemmiava. Quando si arrabbiava – e succedeva spesso – si sfogava contro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: mobili, muri, Karen...spesso sua madre si metteva in mezzo per evitare che Roy colpisse le sue figlie. A Roy piaceva prendersela, chissà per quale motivo, oltre che con la sua compagna anche con Marion.
Violet pensava che fosse perché Marion gli rispondeva per le rime. Lou si eclissava e si chiudeva in camera ogni volta che il patrigno dava fuori di testa, e lei, Violet, semplicemente lo ignorava – senza contare che Roy veramente pensava che lei fosse una qualche adepta di una setta satanica, quindi non si sfogava granché su di lei.
Era per questo che Marion dormiva letteralmente al lavoro.
- Perché non lo molli?- aveva domandato Lou una sera, quando erano loro tre – lei, Violet e Karen – sole a cena. Sua madre aveva un livido all'altezza dell'occhio e un altro all'angolo del labbro, e non le aveva risposto.
La verità era che con il solo stipendio di Karen non ce l'avrebbero fatta, nemmeno ora che si era aggiunto quello di Marion – che peraltro sua madre puntualmente rifiutava perché lei i soldi di una baldracca non li voleva. Roy era il proprietario della casa, e dal momento che lui e sua madre non erano sposati, si sarebbero ritrovate tutte e quattro in mezzo a una strada.
Violet si assicurò che sua madre non avesse segni o lividi. In volto non ce n'erano, ma era pallida.
- Come ti senti, oggi?- chiese.
- Meglio, grazie. Molto meglio. Domani torno al lavoro - Karen gettò i pezzi di carote nella pentola sul fornello.- Forza, spicciati. E dai un'occhiata a tua sorella, quando vai in camera...
- Marion torna?
- Non penso.
Violet andò in camera sua. Erano due metri per tre occupati da un letto a castello e da una brandina, in mezzo ai quali trovava spazio una scrivania con sedia e computer. Vide la sagoma di sua sorella Louisa sdraiata sotto le coperte, sul materasso superiore del letto a castello, faccia al muro. Non si muoveva.
- Come va?- chiese Violet, dopo aver richiuso la porta.- Febbre? Non ti ho vista oggi a scuola...non sei venuta di nuovo?
Lou non si mosse. Stava dormendo.
Violet si avvicinò alla scrivania, si tolse i bracciali e recuperò una penna che infilò in una tasca della gonna insieme al piccolo taccuino che si portava sempre dietro.
La camera da letto era accanto al bagno. Violet ci scivolò dentro, chiuse la porta e iniziò a struccarsi. Fu quando si chinò per gettare il cotone imbevuto nel cestino della spazzatura che se ne accorse.
Nascosto malamente sotto cotton fioc usati, salviette struccanti e batuffoli di cotone, c'era un bastoncino bianco e blu. Violet lo riconobbe subito. Spostò la spazzatura e lo estrasse.
Non era naive come sua madre e Louisa credevano, e nemmeno come parecchie sue compagne di classe. Sapeva riconoscere un test di gravidanza, quando ne vedeva uno.
Il cuore di Violet fece un tuffo nel suo petto quando vide le due lineette rosse che indicavano la positività del test. Si sentì crollare il mondo addosso.
Sua madre era incinta di Roy.
 
III. [Roxy]
 
Le luci rosse e blu del Bearskin lampeggiavano a intermittenza gettando ombre scure e variopinte sulle pareti, i tavoli, gli avventori, e i corpi sinuosi delle ballerine. La musica era così alta da risultare assordante, ma come dicevano sempre tutti non si andava in quel posto per ascoltare, ma per vedere.
Roxy piegò un braccio dietro alla schiena. In una frazione di secondo sganciò la chiusura, e la parte superiore del costumino di scena volò via. Fece appena in tempo a vederlo scomparire nel garbuglio di braccia e mani dei clienti ai piedi della pedana sopraelevata dove lei e le altre nove ballerine del Bearskin, prima di voltarsi e ammiccare in direzione dell'uomo che da più di due minuti le stava toccando la gamba nuda.
Il cliente le allungò una banconota da cinquanta dollari.
- Sei bellissima!- urlò con la voce impastata. Roxy prese la banconta, la infilò nel filo del tanga del costume di scena e schioccò le labbra nella direzione dell'uomo.
- Troppo gentile, tesoro...!
Le ballerine continuarono a muoversi e a spogliarsi al ritmo di musica fino a che questa non cessò. Roxy guardò l'orario: erano quasi le dieci di sera; il lunedì era il giorno in cui finiva più presto; il suo turno era terminato.
Balzò giù dalla pedana ignorando i fischi e gli sguardi dei clienti in direzione del suo seno coperto solo dalle ciocche di capelli, mentre la musica di sottofondo riprendeva. La imitarono anche le altre ballerine, e tutte e nove scesero dalle pedane per il quarto d'ora di pausa che era loro concesso.
Sette, osservò Roxy. Oltre a lei, a esibirsi c'erano solo altre sette ballerine, invece di nove.
Roxy si fece strada fra la folla di clienti e raggiunse lo spazio relativamente tranquillo del bancone. Si stupì di non trovare Charlie come al solito, bensì solo gli altri due baristi. Si sedette su uno sgabello accanto a un uomo che se ne stava chino sul suo drink, e appoggiò le braccia nude sul ripiano del bancone.
- Un Godmother, grazie - ordinò a uno dei ragazzi, il quale la squadrò con un sopracciglio inarcato e non si mosse.
Roxy ricambiò lo sguardo.
- Che c'è? Sei quello nuovo? Ascolta, se Charlie non te l'ha spiegato qui le ballerine hanno diritto alla consumazione gratis. E sì, è normale che io abbia addosso solo i tacchi e...
- Sei Roxanne Randall?- la bloccò quello.
- Sì. Perché?
- Devi guidare stasera?
- Che t'importa?
- Charlie ha detto di non darti da bere alcolici, se devi guidare.
L'uomo seduto sullo sgabello a fianco di Roxy aveva seguito lo scambio di battute con attenzione. La ragazza alzò gli occhi al cielo.
- Torno a casa in autobus, okay? Contento? Sgancia quel Godmother, adesso.
Il barista sembrò convinto; le preparò il drink, che Roxy cominciò a bere mordicchiando l'estremità della cannuccia.
- Tipico di lui - borbottò a denti stretti.- Farsi gli affaracci propri, no?
Il cliente seduto accanto a lei posò il suo Whisky Sour e la guardò quando la sentì parlare. Roxy sfoderò un sorrisino ebete e girò la cannuccia nella vodka.
- Tranquillo, amico. Non ce l'ho con te. Da queste parti va di moda insultare il proprio capo.
- Sei amica di Charlie?
La domanda la colse di sorpresa, lasciandola spiazzata. Roxy sbatté più volte le palpebre e cercò di ricomporsi. Esaminò meglio l'aspetto del tipo: era un uomo sui ventotto anni, sbarbato, dai tratti del viso regolari e un po' infantili, i capelli lunghi e di un colore biondo sporco che gli coprivano il collo, gli occhi castani e una cicatrice all'altezza del sopracciglio destro. Era alto almeno quanto lei e molto magro.
Le luci al neon e le ombre nel locale nascondevano in parte il suo abbigliamento, ma Roxy riuscì comunque a scorgere una giacca blu scuro che aveva conosciuto tempi più prosperi e una camicia bianca e stirata alla perfezione, niente cravatta.
Si riprese quando un attimo di esitazione in più l'avrebbe fatta sembrare una completa cretina.
Fece spallucce e assunse un'espressione noncurante come se il tipo le avesse chiesto l'ora.
- E' il mio capo - ghignò.- Ma in ogni caso...sì, diciamo pure che siamo amici. Lo conosci?
- Abbastanza bene, a dire il vero - l'uomo allontanò il proprio drink da sé e le tese la destra aperta.- Will Rainer.
Roxy accettò la stretta.
- Roxy Randall. Rainer, hai detto?- “Rainer” era il cognome di Charlie; Roxy lo aveva scoperto per sbaglio due anni prima quando il suo capo aveva dimenticato il portafoglio al Bearskin e lei lo aveva tenuto un intero week-end prima di rivedere il ragazzo e restituirglielo.- Tu e Charlie siete parenti?
- Noi...
- Che ci fai qui?
Entrambi trasalirono e si voltarono di scatto quando udirono la voce di Charlie. Il ragazzo era a pochi passi da loro, non con addosso il grembiule e la canotta di quando stava dietro al bancone, ma con un paio di jeans, una maglia bianca sotto una giacca in pelle nera e un paio di stivali. Con il buio e la musica, nessuno dei due l'aveva visto o sentito arrivare.
I suoi occhi scuri e penetranti erano furibondi.
- Ehi!- salutò Roxy, ma Charlie la ignorò quasi del tutto. Sembrava concentrato sullo sconosciuto.
- Che ci fai qui?- ripeté.
Will Rainer terminò di bere il Whisky Sour in un sorso, e posò il bicchiere vuoto sul bancone.
- E' da un po' che non ci vediamo - constatò con tutta la calma di questo mondo; Charlie era palesemente nervoso, ma Rainer non sembrava condividere il suo stato d'animo.- Come te la passi?
- Bene, senza te in mezzo alle scatole.
- Ho saputo...
- Non qui - Charlie accennò a Roxy. La ragazza si sentì punta sul vivo, anche se non avrebbe saputo dire perché. Naturalmente gli affari privati di Charlie erano fatti suoi, ma le dava fastidio che lui la escludesse così palesemente da una questione che – tutto lasciava intendere ciò – doveva essere abbastanza spinosa per lui.
- Tutto okay?- buttò lì, nella speranza di cavare qualcosa come spiegazione.
- Tu che fai ancora qui?- Charlie le pose la domanda in modo brusco.- Il tuo turno è finito dieci minuti fa. E per l'amor di Dio, copriti!- sbottò, accennando al torace nudo della ragazza.
Roxy si sentì ancora di più colpita sul personale.
- E che cavolo, rilassati!- sbuffò; bevve un altro sorso di Godmother.- Stavo bevendo qualcosa prima di andare, d'accordo? Finisco e mi tolgo dalle palle. Ti sei alzato con la luna storta?
- Scusami, Roxy, ma non mi va di perdere troppo tempo con le moine. Non è serata. Finisci di bere e tornatene a casa - tornò a rivolgersi a Will Rainer.- Vieni. Cerca di non farti notare troppo.
Rainer le rivolse un cenno del capo in segno di saluto, poi si alzò e seguì Charlie. Roxy sorseggiò con calma mentre li guardava andarsene.
Quando fu certa che fossero abbastanza lontani, mollò a metà il Godmother e li seguì tenendosi a distanza in modo da non essere notata. Charlie e tale Will Rainer fecero il giro del bancone, s'infilarono nel corridoio che conduceva alla stanza rossa e al camerino delle ballerine e salirono lungo la scala che conduceva all'appartamento del proprietario del Bearskin. Roxy si aggrappò allo stipite della porta e si sporse per vederli salire. Fin lì la musica non arrivava se non ovattata e lontana. Charlie fece entrare Will in casa e lo seguì. Poco dopo, Roxy sentì la chiave girare nella serratura.
 
Entrò nel camerino e arraffò la prima vestaglia disponibile, solo per accorgersi mentre la stava indossando di non essere sola.
Marion Larabee, una delle ballerine che non erano presenti sul palco, era seduta di fronte alla specchiera e si stava struccando. Il mascara le era un po' colato lungo le guance, e aveva i capelli raccolti in due trecce ai lati del volto.
- Ciao - la salutò, guardandola dallo specchio.
- Ciao - Roxy si allacciò la cintura della vestaglia intorno alla vita.- Hai già finito stasera?
- Sì. Ho mal di testa, così ho chiesto a Charlie di staccare prima. Tu?- Marion appallottolò la salvietta struccante; Roxy aprì la bocca per rispondere, ma un rumore secco e acuto la fece sobbalzare. Entrambe le ballerine si voltarono verso la porta semichiusa che conduceva alla seconda stanza del camerino. Roxy non si era accorta che ci fosse qualcun altro.
Questo qualcuno non doveva aver avuto una buona giornata. Una voce femminile imprecava e bestemmiava in sottofondo, prendendosela con una certa puttanella e con un lurido bastardo; il tutto condito da oggetti che venivano spostati e fatti cadere a terra, e quando quest'ultima cosa succedeva si andavano ad aggiungere altre bestemmie.
Roxy cercò di identificare la sagoma che passava nervosamente su e giù di fronte alla fessura della porta, e alla fine ci riuscì.
- Chloe?- sillabò a mezza voce.
Marion annuì.
- Charlie le ha dato il benservito - sussurrò.
- L'ha licenziata?
L'altra ballerina annuì ancora. Roxy era stupefatta: era la prima volta in cinque anni che Charlie licenziava qualcuno. A dirla tutta, non lo credeva neanche capace di una cosa del genere. Con lui le regole erano poche, e non era neanche troppo difficile rispettarle. Bastava rigare dritto ed eri a posto. Certo, quando era di malumore ti regalava qualche urlata in più del solito, ma mai niente di tragico.
- Stasera. Non so il motivo - aggiunse Marion.- L'ha chiamata appena prima che iniziasse il primo numero. Li ho sentiti discutere, poi lei ha iniziato a urlare e lui anche. E alla fine ho sentito che lui le gridava di non farsi più vedere o avrebbe chiamato la polizia...che dici, forse stavano insieme?
Roxy fece cenno di no con il capo. La teoria di Marion non era da buttare, e così riservato com'era Charlie non sarebbe stato strano che nessuno di loro si fosse mai accorto di una eventuale relazione fra lui e Chloe. Solo che il ragazzo non le sembrava proprio il tipo da lasciare una donna giovane senza lavoro così, di punto in bianco, solo perché fra loro due non aveva funzionato.
- Non credo. Charlie non è il tipo - disse infatti.- E poi, anche se fosse...perché chiamare la polizia?
Marion fece per dire qualcos'altro, ma la porta da socchiusa si spalancò di colpo. Chloe Miller incespicò reggendo fra le braccia il borsone con dentro tutte le sue cose, i capelli biondi sciolti e spettinati e lo sguardo furioso.
- Che cazzo hai da guardare?!- abbaiò diretta a Marion, quando la scoprì a fissarla. L'altra ragazza si affrettò a distogliere lo sguardo. Chloe diede una spallata a Roxy nell'uscire, e se ne andò sbattendo la porta così violentemente che i trucchi sulla specchiera tremarono.
Marion tirò un lungo sospiro.
- Credo che non lo sapremo mai - mormorò.
- Già, credo anch'io. A proposito di misteri...tu conosci un certo Will Rainer?
Marion ci pensò un po' su, poi scosse il capo.
- Sinceramente no. Però...ora che ci penso...c'è quell'agenzia, no?- all'espressione perplessa di Roxy, si affrettò a precisare:- Qui a Everbrooke, in Outback Road. C'è un'agenzia di sicurezza. Mi pare che si chiami...oddio, non ricordo, ma so che c'entra il cognome “Rainer”...
- Di che si occupa?
Marion alzò le spalle.
- Sicurezza, so solo quello. Non mi sono mai veramente interessata. Credo...qualcosa come guardie del corpo o roba simile...
- Quello aveva tutto meno l'aria della guardia del corpo.
- “Quello”, chi?
- Un tizio che era al bancone poco fa.
- Non l'ho visto - Marion si alzò in piedi, massaggiandosi le tempie.- Hai un'aspirina?
- In borsa. Te la prendo. A che ora hai l'autobus?
- Alle undici, tu?
- Idem. Se ti va possiamo fare la strada insieme. Non ho tanta voglia di andarmene in giro per Outback Road di notte da sola.
- Già, nemmeno io. Ci vediamo all'uscita.
Marion entrò nella parte del camerino dove prima c'era Chloe, e chiuse la porta. Roxy prese a cambiarsi: indossò di nuovo il reggiseno e infilò i jeans con cui era arrivata, poi raccolse i capelli in una coda di cavallo; stava per mettersi la maglietta, quando la borsa di Valentino vibrò.
Roxy estrasse il cellulare. Sentì un tuffo al cuore quando vide il nome sullo schermo, ma si ricompose subito. Controllò che Marion fosse ancora nel camerino, quindi si sedette e accettò la chiamata.
- Ciao...- sussurrò, senza smettere di lanciare occhiate alle due porte chiuse.
- Ti ho già chiamata tre volte - ammonì la voce truccata all'altro capo del telefono.
A Roxy faceva sempre un certo effetto sentirla. Non era molto diversa rispetto a quella naturale, ma parlare a una cornetta e parlare di persona erano due cose molto differenti.
- Scusa. Stavo lavorando.
- Puoi parlare?
- Sì, ma dobbiamo fare in fretta. Sono nel camerino.
- Ti ho vista sul giornale.
Roxy chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Aveva saputo sin dal primo istante che lui sarebbe venuto a saperlo, e senza neanche scavare così a fondo. Ci aveva pensato l'Everbrooke News Mirror a servirgli il piatto direttamente in tavola.
- Devo venirle a sapere da un giornale, queste cose?- ringhiò la voce all'altro capo.
- Ma non è successo niente!- protestò Roxy.- Abbiamo visto la ragazza scomparsa e abbiamo chiamato la polizia. Tu c'entri qualcosa?- inquisì.- Con Kathryn Torrance...
- Non io. Non strettamente.
- Qualcuno legato a te?
- Non voglio dirtelo per telefono.
- D'accordo. Capisco. Quando...quando posso venire da te?- Roxy si morse il labbro inferiore e si attorcigliò la ciocca rosa intorno all'indice.- Mi manchi - aggiunse.
- Preferisco tu ne stia fuori.
Era categorico. Roxy lo conosceva bene. Sapeva che quando era così c'era poco da fare.
Tentò comunque.
- Mi dirai almeno cosa sta succedendo?
- Se mi prometti di non immischiarti...
- Ma perché non mi devo immischiare? Riguarda Amos, vero? O ti è successo qualcosa?
- Stai facendo troppe domande. Ricordi cosa avevamo pattuito?
- Sì - Roxy sentì che le erano salite le lacrime agli occhi; se li strofinò con il dorso della mano per cacciarle via.- E' solo...sono preoccupata per te. Tu fai sempre tutto da solo e non dici mai niente a nessuno. Lo so che te la sai cavare e che...beh...lo sai. Vorrei aiutarti.
- Mi aiuti già così. Con la polizia in giro non possiamo vederci, per il momento. Devono calmarsi le acque.
- Quanto pensi che ci vorrà?
- Un mese, forse due. Ti hanno chiesto qualcosa, quando hai visto quella ragazza?
- Solo come si erano svolti i fatti.
- Hanno preso il tuo nominativo?
- Sì.
- Dannazione!
Si era innervosito, più di prima. Roxy cercò di gettare acqua sul fuoco.
- Forse non collegheranno le due cose.
- Le collegheranno di sicuro, se non sono dei completi incapaci.
- Sai come procedono le indagini?
- So che ieri due poliziotti sono stati a Rose Manor, e so che hanno fatto delle domande a Sebastian, Blanche e a tua madre. Stamattina c'è stata un'ispezione alla Schreave Inc., sto analizzando i dati disponibili in questo momento, ma ci vorrà qualche giorno prima di avere un quadro completo.
- Cosa faccio se risalgono a me?
- Niente. Rispondi alle domande che ti fanno su Amos con sincerità, tu non c'entri niente. Per tutto il resto, attieniti alla verità ufficiale: tu non sai nulla di eventuali contatti e azioni illegali e Adam Schreave è morto nel dicembre 2004 a diciassette anni.
- Certo, è ovvio. Hai...- Roxy si umettò le labbra.- Hai già...insomma...ti sei fatto un'idea di chi potrebbe essere stato?
- Di sicuro non è stato il Lupo.
- Quindi secondo te...- Roxy udì i passi di Marion avvicinarsi alla porta.- Devo andare! Ci risentiamo. Ti voglio bene...
La chiamata venne chiusa dall'altro lato, ma Roxy non spostò il cellulare dal proprio orecchio. Si schiarì la voce e iniziò a declamare a gran voce:- Certo, zia. Certo, ovvio che passo a trovarti questo fine settimana...! Hai bisogno che ti faccia un po' di spesa? Come va la schiena?- vide con la coda dell'occhio Marion che usciva dal camerino e recuperava la propria borsa.- Okay. Certo, anche tu mi manchi. Ci vediamo domenica, ciao!- chiuse la chiamata e spense il cellulare. Recuperò dalla borsa di Valentino l'aspirina e la porse a Marion.- Ecco. Sei pronta? Possiamo andare?
 
Marion Larabee abitava in Outback Road come lei. Roxy l'aveva scoperto quando si era trasferita a sua volta nel monolocale in quel quartiere dopo aver ricevuto lo sfratto. Marion, le aveva detto, invece viveva lì da circa dieci anni. Le loro case non erano vicine – fra l'una e l'altra si passavano almeno tre chilometri e dieci minuti buoni di auto –, ma l'autobus era lo stesso, e quando avevano il medesimo orario di uscita da lavoro capitava che facessero la strada insieme.
Marion parlava poco, e i suoi argomenti si esaurivano sul tempo, sul lavoro, su qualche cliente particolarmente buffo o particolarmente porco, sull'ultima sfuriata di Charlie, su cinema e attori. Era una new entry al Bearskin: aveva cominciato a lavorare come ballerina e spogliarellista al locale da circa un anno, e aveva soffiato a Roxy il primato di più giovane fra le spogliarelliste: Marion aveva solo diciannove anni.
Come Roxy, il suo volto era di una bellezza tiepida, niente di eccezionale, con il naso piccolo e a patatina, i tratti regolari e un po' spenti, gli occhi piccoli color verde sporco, labbra sottili e perennemente screpolate e capelli color castano chiaro lisci e lunghi fino alla vita, che spesso Marion portava annodati in una treccia o due, come quella sera. Quell'acconciatura infantile non faceva altro che accentuare la sua giovane età e a darle un'aria da adolescente. A differenza di Roxy, tuttavia, il suo fisico non era niente di mozzafiato: Marion Larabee, anche con addosso i tacchi alti, arrivava a malapena all'orecchio delle altre spogliarelliste; aveva un corpo burroso, dalle curve morbide, tendente a ingrassare; il seno era piccolo, decisamente sottosviluppato; a ballare non era quel granché: era impacciata, poco sinuosa, spesso sui tacchi traballava e aveva costante bisogno di tenersi aggrappata al palo della passerella; spogliarsi davanti a decine di sconosciuti e ballare mezza nuda la imbarazzava, era evidente, tanto che spesso era costretta a buttare giù due o tre bicchieri di vino prima di salire sul palco.
I primi tempi, tutte le altre spogliarelliste – Roxy compresa – si erano domandate che accidenti ci facesse lì. Roxy lo aveva chiesto a Charlie.
- Perché l'hai assunta?
- Ha bisogno di lavorare. Come te cinque anni fa.
Roxy era giunta alla conclusione che molto probabilmente Marion era arrivata al Bearskin strisciando e aveva implorato Charlie di farle fare qualcosa. Lui in fondo non era lo stronzo senza cuore che cercava sempre di apparire, e l'aveva assunta come ballerina. Il vero mistero era come ci fosse finita una ragazza così giovane a fare quel lavoro. Roxy sapeva che di solito erano le disastrate ad accontentarsi di un lavoro del genere per portare a casa uno stipendio; lei stessa poteva essere considerata parte della categoria, in più di un senso.
La risposta l'aveva avuta con il tempo. E gliel'avevano data i graffi e i lividi sulle gambe e le spalle di Marion.
- Chissà cosa è successo con Chloe...- disse quest'ultima dopo diversi minuti di camminata in silenzio, distogliendo Roxy dai suoi ricordi riguardanti la telefonata di poco prima.- Parlo della faccenda della polizia.
- Sei sicura di aver sentito bene?- chiese Roxy, stringendosi nel giubbotto.
- Sicura. Charlie sembrava veramente arrabbiato.
Erano arrivate a pochi metri dalla fermata dell'autobus. C'erano due vie per raggiungerla: una, più breve, attraversava un lungo sottopassaggio che sbucava direttamente dall'altro lato della strada a pochi passi dalla fermata dell'autobus; l'altra, più lunga, prevedeva di attraversare la strada con tre semafori e percorrere un altro tratto a piedi fino alla panchina davanti alla quale l'autobus si sarebbe fermato.
Roxy non aveva idea di che preferenze avesse Marion; lei di solito usava il sottopassaggio. Nessuna delle due si consultò con l'altra, ed entrambe si avviarono verso il tunnel; Roxy cominciò a scendere i primi gradini, ma si accorse subito che qualcosa non andava.
Il sottopassaggio era sempre illuminato, sia di giorno che di notte; quella sera, invece, nessuna delle tre lampade era accesa.
Marion si avvicinò a Roxy e si sporse per vedere meglio. L'interno del tunnel era completamente buio; da dove si trovavano riuscivano a vedere solo il fondo delle scale, non il resto del sottopassaggio, ma pareva proprio che non ci fosse alcuna luce.
- Che facciamo?- Marion si torse l'orlo del giubbotto.- Non si vede niente...
- Lo senti anche tu, questo?- bisbigliò Roxy. Marion scese un altro gradino fino a trovarsi alla stessa altezza dell'altra ragazza. Dal fondo del tunnel provenivano strani versi. Gemiti soffocati. Un po' di trambusto sommesso.
Marion cominciò a sudare freddo.
- Che cos'è?
- Non ne ho idea.
- Dici che dovremmo controllare?
Roxy esitò. I rumori erano cessati.
- No - disse infine.- Torniamo indietro. Prendiamo l'altra strada.
- Okay...- Marion la seguì mentre si allontanavano dal sottopassaggio; restò in silenzio fino a che non furono quasi alla fermata dell'autobus.- Però forse dovremmo chiamare qualcuno. Tipo la polizia, perché facciano un controllo...
Roxy ripensò nuovamente alla telefonata. Si era già esposta abbastanza. Rischiava di smascherare anche lui, realizzò. L'ultima cosa che voleva era la polizia fra i piedi.
- Lascia stare. Non era niente. Probabilmente erano solo due fidanzatini che pomiciavano. Dai, andiamo, perdiamo l'autobus...
 
IV. [Ella]
 
La TV accesa stava mandando in onda una puntata registrata del The Oprah Winfrey Show. Ella finì di piegare la biancheria intima e la ripose nell'armadio, poi andò a socchiudere la finestra della camera da letto per far uscire i residui di fumo.
Lily Woods, seduta sul letto sotto le lenzuola e con il dorso e il capo poggiati contro una massa di cuscini, le scoccò un'occhiata di rimprovero quando la vide sollevare il posacenere dal comodino e gettare i residui dei mozziconi nel cestino della spazzatura.
- Che fai?
- Basta sigari per stasera, signora Lily - disse Ella.- Devo chiudere la finestra.
- Lasciala aperta.
- Non fa più così caldo, l'aria notturna non le fa bene.
- Rompipalle - sbuffò Lily.
Ella ridacchiò. Seguirono diversi minuti in cui gli unici suoni nella camera da letto furono quelli della voce della conduttrice e degli ospiti e quelli sommessi di Ella che si aggirava per la camera rassettando le ultime cose. Sbirciò fuori dalla finestra, e poi la richiuse.
Lily sospirò.
- Non ti avevo dato la serata libera?
- Lavo i vetri della finestra in cucina e me ne vado.
- Lascia perdere i vetri, puoi farlo anche domani mattina. Sono già le dieci e mezza di sera. Se ti dai una mossa fai ancora in tempo a vederti un film o a prendere da bere in un pub...
- Lo sa che non bevo, signora Lily.
- Hai capito cosa intendo, non fare la finta tonta. Sei incredibile. Qualsiasi ragazza di vent'anni alle parole serata libera si sarebbe scapicollata verso la porta lasciandosi alle spalle vecchia e carrozzina. Tu oltre ad aver lavorato tutta la domenica ti sei fermata qui fino a notte fonda. Sembra quasi che tu non abbia voglia di tornare a casa...
Ella non rispose. Lily Woods le aveva detto che se ne sarebbe potuta tornare a casa alle sei del pomeriggio, lei se la sarebbe cavata, ora che c'era suo figlio. Invece, Ella era rimasta ben oltre le sei: aveva preparato la cena per Lily ed Erik, mangiato insieme a loro, fatto la lavatrice e steso i panni sullo stendibiancheria in corridoio, pulito il pavimento e il tavolo della cucina, lavato i piatti, preparato il divano per il figlio della signora Woods e guardato il telegiornale con entrambi, per poi aiutare Lily a cambiarsi per andare a letto e a stenderla sul materasso.
Aveva finito tutto e ora non aveva più nessuna scusa per perdere tempo.
- Lo faccio volentieri - buttò lì.- Ieri mi sono divertita. Mi aveva detto che era preoccupata per l'incontro fra sua nipote e i suoi figli, ma è andata bene.
- Sì, ma io aspetterei a cantare vittoria troppo presto - bofonchiò Lily, cupa.- Mia figlia ci sta mettendo tutta la sua buona volontà, ma quella ragazza non ha visto sua madre per sei anni. Ci credo che pensi che l'abbia abbandonata.
- Sono sicura che tutto si risolverà - disse Ella, non sapendo che altro dire.
- E la tua?
- Come ha detto, signora Lily?
- Tua madre dov'è, Ella? E' rimasta in Romania? Non mi parli mai della tua famiglia...
Ella si schernì.
- Oh, non è una storia interessante!- cambiò velocemente discorso.- Ha preso le medicine, signora Lily?
- Naturalmente.
Dopo sei mesi, Ella conosceva la canzone. Si avvicinò al comodino e aprì il cassetto, trovando la scatolina con ancora dentro le due pastiglie che aveva preparato un'ora prima.
Lily sbuffò, infastidita.
- Hai poca fiducia nei miei confronti.
- E faccio bene - Ella versò dell'acqua nel bicchiere che aveva preparato precedentemente, poi lo diede a Lily insieme alle due pastiglie.- Non capisce che è per la sua salute, signora Lily?
- Salute un corno!- Lily Woods ingoiò entrambe le pillole di malavoglia.- I dottori sono tutti dei boia, l'ho sempre detto. Ci riempiono di queste porcheria perché non gli rompiano le scatole, in attesa che tiriamo le cuoia.
- Lo sa che non è vero.
- Come fai a essere così maledettamente accondiscendente?- Lily guardò la ragazza.- Sei così di natura o lo sei diventata a furia di stare con i rimbambiti come me?
- Di natura, credo. E lei è la prima signora che accudisco.
- Sul serio? E che facevi prima?
- Pulizie. Lavoravo per tre famiglie.
- E in Romania?
- Niente di speciale...
Lily Woods comprese che non era il caso di insistere su quel punto, non quella sera. Stava per regalare a Ella un complimento, poi però la vide perdere tempo aggiustando le pieghe delle coperte e cambiò idea.
- Ma che fai?!- diede un calcio alle lenzuola per allontanarla.- Seriamente, sembra quasi che tu non te ne voglia andare. Fuori, non voglio vederti più fino a domani mattina...!
Ella rise di nuovo, anche se aveva voglia di piangere. Salutò Lily e le augurò la buona notte.
- Buona notte anche a te. Ah, prima che mi dimentichi...!- la richiamò un attimo prima che la ragazza chiudesse la porta della camera da letto.-Sulla cassapanca in corridoio ci sono i soldi di questa settimana. E ho aggiunto un extra per l'autobus.
- Grazie, signora Lily, ma non occorre. Ho la bici.
- Lasciala qui e prendi l'autobus. E' tardi, e con quel...Lupo in giro è meglio essere prudenti.
- Non si preoccupi. Ci vediamo domani mattina.
Lily Woods rimase ad ascoltare i passi della badante allontanarsi lungo il corridoio fino a che non udì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi. Tornò a concentrarsi sul talk show, e si stava per appisolare quando suo figlio entrò in camera senza neanche bussare.
La donna gli lanciò un'occhiata in tralice.
- E' questa l'educazione che ti ho insegnato?
- E' andata via?- domandò Erik Woods, con addosso i pantaloni di una vecchia tuta di suo padre e una canottiera; non gli era riuscito di recuperare neanche uno straccio di pigiama.- La badante, intendo.
- Tanto per cominciare, le persone hanno un nome e tale nome va usato. E' un po' come se io anziché chiamarti Erik mi rivolgessi a te come “deficiente”. In secondo luogo, sì, Ella è andata via. Hai bisogno di qualcosa?
- Ho sentito che parlavate. E' sempre così abbottonata?
- Non va in giro a seno scoperto, di sicuro.
- Intendevo, è sempre così restia a parlare di sé? Le hai fatto delle domande sulla sua vita in Romania, e lei non ti ha risposto.
- Saranno affari suoi. Se non ne vuole parlare, nessuno la costringe.
- Cosa sai di questa ragazza? L'hai scelta tu?
- Claire. E ne so abbastanza. All'agenzia ci hanno fornito un'ottima presentazione, ed è una persona deliziosa, oltre che in gamba. E ora, fai un favore a me e a te stesso, piantala di fare insinuazioni e tornatene a dormire, prima che ti ci spedisca io a calci in culo...
 
Ella non aveva seguito il consiglio della signora Woods. Aveva riposto i soldi nella tasca sinistra dei jeans, mentre due sole banconote erano nella tasca destra. Aveva preso la sua bicicletta e aveva iniziato a pedalare verso casa.
Everbrooke di notte era una città fantasma. Il sabato e la domenica si ravvivava un po', e in centro città si trovavano diverse persone uscite per fare due passi, guardare le vetrine o prendersi una Coca Cola. Ma nei giorni settimanali non c'era nessuno in strada. E adesso che in giro c'era il Lupo, nessuno o quasi metteva il naso fuori casa dopo le otto di sera.
L'aria autunnale notturna era fredda, e quando finalmente Ella Radescu arrivò a Rosewood Boulevard aveva le guance gelide e arrossate.
Ogni volta che qualcuno – pochi – le domandava dove abitasse, Ella rispondeva sempre in modo vago ed evitava alla fine di dare qualsiasi indirizzo. Non solo per privacy, ma anche perché nessuno avrebbe mai creduto che una badante abitasse in un quartiere come Rosewood Boulevard.
Anche se Villa Cenuşȃ non aveva nulla a che vedere con quell'ambiente e le persone che ci vivevano.
Ella aprì il cancello di metallo quel tanto che bastava per potersi insinuare insieme alla bicicletta, quindi lo richiuse con il chiavistello.
Villa Cenuşȃ era stata costruita seguendo il modello di un maniero medievale. O di un castello delle favole, come era sempre sembrato a Ella. I mattoni grigi e rosi dal tempo e dalla pioggia erano impilati l'uno sull'altro a formare una costruzione di due piani articolati in un blocco centrale e due torri ai lati.
Alcuni lo avrebbero trovato fiabesco e romantico, Ella invece aveva sempre pensato che fosse pacchiano e di cattivo gusto. Soprattutto nelle condizioni in cui era abbandonato, con l'erba alta e incolta, le aiuole morte, la muffa fra le crepe dei mattoni.
Ella attraversò il vialetto e abbandonò la bici contro la parete. Le luci all'interno di Villa Cenuşȃ erano tutte spente, e quello per lei non poteva essere che un bene. Girò le chiavi all'interno della serratura ed entrò.
Prima che lo zio Carol morisse, l'interno della casa era arredato con i mobili che suo padre e lo zio avevano importato da Bucarest. Ora, a causa dei debiti, la contessa aveva venduto tutto, e l'interno era più spoglio che mai. I tre salotti erano vuoti, così come anche l'atrio e quasi tutte le camere. Le uniche cose che la contessa si era rifiutata di vendere erano il lungo tavolo in sala da pranzo – dove lei e le sue due figlie consumavano ogni pasto – gran parte del mobilio della cucina e i tre letti a baldacchino occupati dalla contessa e dalle contessine, oltre a naturalmente gli specchi e gli accessori per la toeletta. Ella accese la luce della cucina: era la stanza più arredata di tutta la casa e quella in cui la ragazza passava la maggior parte del suo tempo quando staccava dal lavoro.
La lampadina sospesa sopra il tavolo non emanava abbastanza luce per illuminare l'intera stanza, ma Ella vide che i piatti di sabato erano ancora abbandonati nel lavello, e sul tavolo c'erano i residui dei piatti pronti di cui la ragazza riforniva la credenza ogni fine settimana.
Si tolse il giubbotto e iniziò a lavare i piatti.
Perse la cognizione del tempo, e non aveva idea di quanto tempo fosse passato quando uno scalpiccio la raggiunse alle sue spalle.
- Quando sei arrivata?- berciò Dorina Dragoş.
- Un'ora fa, credo.
- Ti fermi a dormire? Che palle!- Dorina si sedette al tavolo della cucina.- Già che ci sei, preparami del latte con il miele. Non riesco a dormire.
- Va bene.
Ella prese il latte dal frigo mentre Dorina giocherellava con le proprie dita. Sua cugina non le somigliava per niente, sebbene sua madre e il padre di Ella fossero sorella e fratello. Dorina era molto più bassa di statura, più snella e più carina, con i capelli biondi e il naso all'insù. Ella fece scaldare il latte nel microonde e ci aggiunse due cucchiai di miele.
Dorina le strappò quasi la tazza di mano.
- Non ci avevi detto che tornavi.
- E' stata una cosa improvvisata. La signora Lily mi ha dato la serata libera, ma domani mattina torno al lavoro.
- Vado a svegliare la mamma - Dorina posò la tazza sul tavolo e si alzò in piedi. Ella la trattenne per una manica della camicia da notte.
- No, non c'è bisogno...
- E lasciami!- Dorina scrollò malamente il braccio.- Ci pulisci il culo della vecchia con quelle mani, non voglio che mi tocchi.
Ella indietreggiò di un passo.
- Non serve che chiami la zia - disse.- Lasciala dormire. Le telefono io domani per salutarla.
Dorina la guardò come se stesse parlando con una povera mentecatta, poi girò i tacchi e corse al piano di sopra a svegliare sua madre. Ella chiuse gli occhi e si passò una mano fra i capelli.
Finì di lavare i piatti e di sistemare la cucina, per poi pulire il pavimento nell'atrio e nella sala da pranzo. Era stanca e avrebbe preferito farlo venerdì, ma sapeva che la contessa le avrebbe ordinato di farlo comunque, quindi tanto valeva portarsi avanti.
Dopo mezz'ora, sua cugina Dorina si affacciò alla balaustra delle scale.
- La mamma ha detto che puoi andare da lei - annunciò, per poi marciare via e tornarsene in camera sua. Ella si tolse le scarpe da ginnastica e le abbandonò in un angolo, e prese a salire faticosamente le scale. Si rese conto solo in quel momento di avere male ai muscoli delle gambe.
Il piano superiore era spoglio come quello inferiore. A ogni passo, Ella poteva quasi rivedere i mobili e le suppellettili che erano state sistemate nei vari angoli quando ancora lo zio Carol era vivo, e che erano state vendute quando anche tutta l'eredità era stata spesa.
La porta della camera della contessa era socchiusa, e da essa fuoriusciva il fascio di debole luce creato dalla abat-jour accesa. Ella bussò comunque.
- Entra pure - le concesse la voce della contessa, in romeno.
Ella scivolò nella camera da letto come un'ombra silenziosa. La contessa soffriva di emicranie, non si sapeva mai quando arrivavano e quali rumori la infastidissero.
- Che fai lì sulla soglia? Avanti, non ho tutta la notte...- la contessa parlava solo in romeno, sia con lei che con le sue figlie; Ella sospettava non conoscesse l'inglese, o che lo conoscesse solo in modo molto approssimato; d'altra parte, non uscendo mai di casa, non aveva bisogno di utilizzarlo.
Entrò; la contessa Ioana Dragoş le fece cenno di avvicinarsi. Anche appena sveglia, e seminascosta dalla penombra, Ella poteva comunque osservare quanto sua zia fosse bella. Sembrava che i quarant'anni e i colpi della vita non l'avessero toccata. I lunghi capelli fulvi erano sciolti sulle spalle, la pelle perfetta, e adagiata contro i cuscini e in camicia da notte bianca, al buio, sembrava quasi un etereo angelo vendicatore.
- Sei tornata. Posso sapere per quale motivo?
- La signora Lily mi ha concesso la serata libera. Come sta, zia?- chiese Ella.- Le fa ancora male la testa?
- Va decisamente meglio. Mi sistemeresti il lenzuolo? Proprio in quel punto...
Ella lisciò la piega indicata dalla contessa.
- Hai novità da raccontarmi?
- No, zia, nessuna.
- La vecchia ti ha pagato i soldi di questa settimana?
- Sì, zia.
- E cosa aspetti a darmeli?
Ella estrasse dalla tasca sinistra la mazzetta di denaro e la consegnò nelle mani della contessa.
- Brava ragazza. Manca del denaro?
- No, zia.
- Quanto ti fermerai?
- Solo stanotte. Torno al lavoro domani mattina e sono di nuovo a casa venerdì.
- Meglio così. Non è bene che tu stia troppo in casa. Crei invidie e zizzanie fra le mie bambine. Già che sei qui, dai una pulita la piano di sotto...
- L'ho appena fatto.
- Brava. Prima che tu vada a letto, gradirei una tazza di té.
- Gliela porto subito, zia.
- E non fare rumore. Le piccole si saranno appena assopite.
- Certo.
Ella scese al piano di sotto e preparò il té. Dopo averlo servito a sua zia, aspettò che terminasse di bere, poi le augurò la buona notte e scese di nuovo in cucina a lavare tazza, cucchiaino e teiera. Preparò la colazione per la mattina seguente e poi salì in camera sua.
La contessa aveva disposto che lei dormisse nella stanza in una delle torri, quella di destra, che lo zio Carlos usava come ripostiglio. Occorreva salire una scala a chiocciola che portava a una stanza dal soffitto spiovente, in cui era stata sistemata una brandina e una cassapanca dove Ella teneva i vestiti, i libri e qualche fotografia di quando ancora abitava in Romania.
La ragazza si tolse i jeans e il maglione e infilò il pigiama; estrasse le due banconote dalla tasca destra dei pantaloni, quindi si chinò sul pavimento e sollevò un'asse di legno smossa del pavimento. Nascose i soldi insieme ad altre banconote già presenti, per poi rimettere a posto l'asse e sdraiarsi sopra la brandina. C'era una finestra sola nella stanza, che si affacciava sul giardino dei loro vicini di casa. La villa adiacente era chiamata Rose Manor.
Ella chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Si stava per addormentare quando sentì dei colpi secchi contro il legno della ringhiera al piano di sotto. Sospirò e si mise a sedere sul materasso.
- Che c'è?- domandò ad alta voce.
- Aurelia ha mal di schiena - fece Dorina dal fondo delle scale.- Vieni a farle un massaggio, così riesce ad addormentarsi.
Ella si alzò dal materasso e scese al piano di sotto.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti! Grazie per aver letto fino a qui :).
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. So che al momento la storia è molto lenta, ma è perché il tutto sta prendendo avvio. Alcune interazioni fra i personaggi possono apparire nonsense, ma vi assicuro che avranno senso in futuro.
Due parole su “Cenerentola”: mi rendo conto che al momento sembra assolutamente la creatura passiva e sottomessa della fiaba originale, ma vi assicuro che c'è un motivo per cui si comporta così, e più in là verrà svelato.
Il prossimo capitolo vedrà la giornata di martedì 10 settembre, con alcune considerazioni in merito alle indagini sul Lupo.
Come sempre, le recensioni, anche critiche, sono molto gradite :).
A presto.
Un bacio,
 
Beauty
 
P.S. Faccio un piccolo appunto qui perché okay svelare le cose di volta in volta ma in questo caso mi sembra opportuno darvi la possibilità di inquadrare due cose: le sorelle Violet, Louisa e Marion Larabee sono rispettivamente Riccioli d'Oro, la figlia del mugnaio e la moglie di Barbablù. 

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