La saga di Umberto Sgarri

di Dahu
(/viewuser.php?uid=970969)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Verso Nord ***
Capitolo 2: *** Il Teschio D'Argento ***
Capitolo 3: *** Sangue per il dio del sangue ***
Capitolo 4: *** Sopravvivere ***
Capitolo 5: *** Le fiamme del bivacco ***
Capitolo 6: *** E che Ulrich la mandi buona! ***
Capitolo 7: *** Un incontro inaspettato ***
Capitolo 8: *** Arys di Frondascura ***
Capitolo 9: *** Il Conte di Annevie ***
Capitolo 10: *** Che razza di vita! ***



Capitolo 1
*** Verso Nord ***


Umberto Sgarri sospirò ed il suo fiato si condensò formando una nuvoletta di vapore nella fredda mattina d’inverno. Il tileano si alzò dal ceppo di legno su cui era seduto e si stirò le membra mugugnando di dolore.
Maledetta guerra, toccava farla negli angoli più schifosi della terra, pensò.
Con fare stanco, per quanto fosse prima mattina, Umberto si avvolse nel suo mantello di lana, ormai troppo stracciato per essere ricucito, e si avviò verso i carri delle salmerie.
Gli Haflings si prodigavano per fornire ai soldati una brodaglia ricavata da resti di interiora, ossa, cortecce ed altri ingredienti sulla natura dei quali mantenevano un discreto riserbo.
Umberto aspettò il proprio turno battendo i piedi sul terreno gelato, nel vano tentativo di scacciare il freddo.
Imprecò selvaggiamente quando la suola di uno stivale si staccò, lasciandolo praticamente a piedi nudi.
Gli uomini erano molto nervosi, da oltre un mese non ricevevano la paga e da quasi due settimane il rancio aveva smesso di arrivare.
Non per questo, tuttavia, si era interrotta la marcia in quelle lande ghiacciate e ostili. Umberto pensava che avrebbero finito per arrivare in capo al mondo a forza di marciare.
Finalmente il Tileano ricevette la propria razione e ne ingollò una generosa sorsata. Gli occhi gli si riempirono di lacrime per il disgusto, ma lui si sforzò di mantenere il liquido all’interno del corpo; non avrebbe avuto altro pasto fino a sera e poi era quasi caldo.
Non prima di aver maledetto per l’ennesima volta la guerra, Umberto tornò alla sua tenda. I sette lancieri con cui divideva l’angusto riparo avevano già provveduto a smontarla.
Il tileano indossò la corazza e l’elmo, facendo una smorfia quando l’imbottitura interna di questo gli sfiorò la tempia sinistra.
Per sicurezza si controllò la fasciatura attorno alle tempie, ma non c’era da preoccuparsi, il tessuto insanguinato ed irrigidito dal freddo non era bagnato.
Un compagno gli diede una pacca sulla spalla e disse con aria sconsolata –Berto, c’è l’adunata, lo senti il tamburo?- Umberto si voltò, il soldato era un veterano proveniente dal Reickland, un valoroso dal volto scavato e solcato di cicatrici.
–Si torna a casa?- Chiese sapendo già la risposta. Confermando il sospetto del Tileano, l’altro rispose –No, il sergente fa segno di incolonnarsi fronte a Nord, si continua-.
Umberto annuì dirigendosi verso i commilitoni.
–Muoviti balordo!- Gli gridò il corpulento sergente. Sgarri sospirò e si mise in linea. Non aveva mai capito se quel sergente fosse un uomo tutto d’un pezzo o semplicemente uno stupido; tutti sapevano che il Tileano era stato trasferito nei lancieri dal corpo degli spadaccini imperiali dopo che aveva ucciso in duello il proprio sergente, così come tutti sapevano che l’unico motivo per cui non era ancora stato promosso a grandispade era la sua proverbiale insofferenza alle regole.
La colonna in marcia aveva l’aspetto di una colonna di profughi; davanti i cacciatori, tremanti di freddo, procedevano sparpagliati, esplorando ogni fosso ed ogni macchia, per permettere alla colonna di avanzare sicura.
Dietro venivano loro, i lancieri, scortati da due distaccamenti di archibugieri. Poi venivano i carri delle salmerie, tirati da quelli che forse un tempo erano cavalli e spinti dai mezz’uomini, per farli avanzare nella neve gelata. In retroguardia quelli che erano stati splendidi cavalieri, si rannicchiavano nelle pellicce, così che sembravano signore imbellettate in sella a scheletrici destrieri.
In mezzo a tutti lui, Maxwell Myrikov, capitano dell’Impero e dubbio stratega, rabbrividiva nelle sue preziose vesti. Ancora più indietro avrebbero dovuto esserci un contingente di alabardieri e tre pezzi d’artiglieria, ma gli alabardieri erano stati annientati in una recente imboscata dei Norsmanni e l’artiglieria era stata abbandonata per muoversi più rapidamente.
–Piomberemo loro addosso come falchi- Così aveva detto il Capitano. Tutto quello che avevano fatto in un mese, invece, era stato perdere un’unità di alabardieri, marciare e, in molti casi, morire di stenti.
A metà mattinata iniziò a nevicare. Non era una soffice nevicata, come quelle che avvolgevano le montagne tileane in un candido manto ed alle quali Umberto era tanto abituato, era una nevicata violenta, con cristalli di ghiaccio che pungevano il viso arrossato e rendevano più penosi gli sforzi dei soldati per avanzare.
Sgarri fu tentato di imitare i molti soldati che, esausti, gettavano via la spada, considerata un peso inutile per un lanciere. Avanzarono per circa quattro ore senza parlare, ognuno rinchiuso nel suo regno di sofferenza e fatica, poi finalmente il cielo si aprì, mostrandosi plumbeo e minaccioso, ma smettendo di scaricare la sua rabbia sui servi dell’Impero.
Mano a mano che le nuvole si ritiravano, gli uomini poterono vedere la collina che avevano appena superato, l’accenno di fosso in corrispondenza del fiume gelato che correva alla loro destra, le nere sagome che avanzavano verso di loro. Le nere sagome dei cacciatori che cadevano a terra, i norsmanni che avanzavano.
-I Norsmanni!- Gridò qualcuno. Il sergente dei lancieri gridò ai suoi di retrocedere per proteggere le salmerie che, nel frattempo, si stavano ritirando verso la collina, fiancheggiate dagli archibugieri.
I cavalieri, guidati da Myrkov in persona, lasciarono la strada battuta dai fanti per prendere il nemico sul fianco. “Idea geniale” Pensò Sgarri “Peccato che ci sia la neve” Poi il tamburo scosse i suoi pensieri e, da esperto soldato qual’era, prese il suo posto in terza riga, abbandonando a terra il mantello. Un gruppo di norsmanni a cavallo raggiunse il terreno battuto dai fanti e si lanciò alla carica, seguito dai predoni a piedi.
Nel frattempo i cavalieri imperiali avevano raggiunto il fianco dello schieramento nemico, ma i norsmanni avevano scelto bene la loro posizione. I cavalieri, infatti, finirono in un fosso, dove la neve arrivava al ventre dei cavalli. Prima che potessero uscire da quell’incomoda situazione, vennero raggiunti da una ventina di norsmanni.
In quell’occasione le magnifiche armature si rivelarono fatali per i cavalieri e lo stesso capitano venne trascinato nella neve e massacrato come tutti gli altri. Sgarri imprecò, i nemici erano vicini, molto vicini.
La prima linea venne schiantata dai cavalli, mentre la seconda si difendeva come poteva dai mazzafrusti. Con gesto calmo, Umberto puntò la lancia al petto di un cavaliere che roteava un’ascia.
Affondò il colpo e ritrasse velocemente l’arma per evitare che il nemico, contorcendosi, imprigionasse la lancia. Sgarri aveva combattuto in molti posti durante la sua decennale carriera di mercenario, sapeva quindi che l’armatura di un cavaliere imperiale era più debole sotto le ascelle, mentre i cavalieri bretonniani andavano colpiti al collo, gli orchi, invece, andavano feriti alle gambe, perché si inginocchiassero scoprendo i punti vitali.
Contro i norsmanni non serviva quest’esperienza, essi combattevano a petto nudo. La seconda linea cedette e Sgarri vide distintamente il cranio del sergente essere colpito da un mazzafrusto. La testa nuda volò in mille pezzi. “maledetto idiota” pensò il tileano “quante volte gli ho detto di portare l’elmo come tutti gli altri?!”.
Umberto si spostò di lato, coprendo lo spazio lasciato vuoto dal suo amico del Reickland, ucciso da un giavellotto, e protese la lancia, uccidendo al contempo un cavallo ed un predone.
Il Tileano lasciò l’arma nel cumulo di corpi e sguainò la spada, arma con la quale si sentiva molto più a suo agio.
Alcuni lancieri avevano abbandonato lo schieramento ed Umberto si voltò per ragguingerli, era un buon momento per raggiungere le salmerie. Quello che vide lo fece raggelare.
I carri, troppo pesanti per il ghiaccio del fiume, erano precipitati nelle sue nere acque e molti archibugieri stavano seguendo il loro crudele destino urlando come disperati, prima di essere inghiottiti dalla morte. Frattanto un nutrito gruppo di predoni stava per tagliare la strada ai lancieri in fuga.
Gli archibugieri tirarono, ma ben poche delle loro armi fecero fuoco. –Formate un quadrato!- Gridò Sgarri. -Presto! Presto!-
Troppo pochi lo ascoltavano. Il Tileano vide l’ombra di un’ascia che calava su di lui.
Con una veemenza che solo un uomo in pericolo di vita poteva avere, Umberto afferrò al volo il polso del cavaliere e lo disarcionò con uno strattone.
Il norsmanno rotolò nella neve e Sgarri lo infilzò al collo, senza neanche rallentare la sua corsa. Non aveva ancora capito come poteva essere riuscito in un gesto simile, ma al momento aveva altri problemi. Capendo che una strenua resistenza era la sola possibilità di salvezza, i soldati si erano alfine riuniti in quadrato.
Umberto saltò il primo lanciere in ginocchio e rotolò nel centro del quadrato bestemmiando Sigmar per la suola del suo stivale che, correndo, gli aveva scavato un solco sanguinolento nel piede. Solo quando ebbe finito di imprecare, il Tileano si accorse che tutti gli sguardi erano per lui, si rese improvvisamente conto che era stato lui a dare gli ordini per la difesa, ora tutti si aspettavano che fosse lui a guidarla, lui, un’umile fante imperiale.
Si guardò attorno spaesato, pronto a difendersi dal secondo assalto nemico che tardava ad arrivare. Lui. Lui che si era arruolato per pagare i debiti di gioco, a lui toccava la difesa.
Guardò i volti segnati dei soldati e vi lesse la paura… e l’ammirazione per lui. Si guardò i piedi e proruppe in un’imprecazione; si era staccata anche l’altra suola, maledetta guerra!
Sgarri si guardò attorno, il quadrato era stato fatto malamente, non avrebbe retto ad un altro assalto.
Tuttavia i norsmanni sembravano interessati solo a depredare i morti. “Buon acciaio imperiale” Pensò il tileano “per loro è come l’oro”
Sputò in terra pensando che non avrebbe mai potuto pagarsi da bere con una borchia e subito sogghignò per la stupidità di questa constatazione. Incredibile a quali idiozie pensino le persone nei momenti più critici.
–Comandi- Una voce nervosa riscosse il tileano. A parlare era stato un archibugiere dalla divisa ornata di arabeschi dorati. –Comandi, Capitano Tharnem, della compagnia dell’orso grigio- Sgarri scosse la testa confuso.
Non era abituato ad essere al comando e, soprattutto, non era abituato ad avere un ufficiale a rapporto. Di solito era lui a rapporto da qualche ufficiale, per prendere la sua razione di frustate o di lavori sporchi.
S’impose di calmarsi, doveva solo cedere il comando a quel capitano e tutto si sarebbe risolto, avrebbe potuto tornare nei ranghi a combattere come si confaceva ad un balordo ubriacone di Tilea. Cercò le parole formali per dire all’archibugiere che il comando passava a lui ma non riusciva a ricordarle, in realtà non era nemmeno sicuro di dover cedere il comando, forse il grado dell’altro era sufficiente a garantire che non vi fossero fraintendimenti.
Così lui rimase muto mentre, a sorpresa, il capitano parlò ancora –Signore, cosa facciamo? Attendiamo disposizioni per lo schieramento, se volete un mio parere così non reggerà- Sgarri ingoiò.
Quel’ufficiale sembrava ben contento di delegare a lui l’incombenza di dare gli ordini in quel grave momento. Inspirò a fondo l’aria gelida. Sospirò. –Capitano, voi comanderete tutti gli archibugieri, anche quelli non della vostra compagnia.-
L’ufficiale annuì e Sgarri si guardò attorno in cerca dell’uomo giusto per guidare i lancieri. Non ve n’erano. –I lancieri li guiderò personalmente- Dichiarò.
Sotto le disposizioni del tileano e con sorprendente docilità, i soldati formarono un nuovo schieramento. Gli uomini ancora armati di lancia erano intervallati dai compagni armati di spada o di armi improvvisate recuperate sul momento.
Gli archibugieri in seconda linea avrebbero fatto fuoco nello spazio tra le teste dei compagni. Tuttavia la linea non era completa, poiché erano rimaste poche lance. Il nemico si era allontanato di alcune centinaia di metri ed Umberto decise di rischiare.
Condusse un gruppo di dieci uomini fuori dal quadrato in cerca di armi, possibilmente lance, di scudi e di mantelli. Non poterono recuperare molto poiché i predoni avevano già spogliato la gran parte dei cadaveri, comunque il tileano riuscì ad appropriarsi di una lancia e di un mantello di pelliccia appartenuto ad un norsmanno.
Si soffermò ad osservare il cadavere, era un uomo giovane dalla chioma bionda, ucciso da un proiettile in fronte. Era mingherlino per essere un norsmanno.
Sgarri stimò che dovesse essere più o meno della sua corporatura. Finalmente avrebbe potuto cambiare quegli odiosi stivali. Si chinò sul cadavere per togliergli i calzari, ma un lanciere lo bloccò con un grido.
Un nutrito gruppo di norsmanni stava correndo verso di loro.
Sgarri imprecò e gridò di ritirarsi e, quando fu di nuovo tra i suoi, stava ancora imprecando contro il nemico che gli aveva impedito di impadronirsi di quegli stivali. Per questo motivo non si accorse subito del falò che ardeva al centro del quadrato.
A bruciare erano le uniformi stracciate dei caduti, che ora giacevano nudi e scomposti. –Erano l’unico combustibile disponibile- Si affrettò a giustificarsi il capitano Tharnem. Sgarri guardò sogghignando l’ufficiale che gli spiegava come il fuoco fosse il modo più spiccio per avere sempre micce di riserva accese e come una lama scaldata tra le fiamme fosse il sistema più veloce per arrestare un’emorragia.
Era un uomo minuto, di media altezza e molto nervoso, sempre intento a raddrizzarsi i tondi occhialini. Il tileano si grattò la barba rossa, lunga di qualche giorno ed annuì.
–Ottimo lavoro- Disse distrattamente, calmando subito la trepidazione del capitano.
Le lance recuperate furono distribuite tra i soldati peggio armati e si corresse lo schieramento in modo che non vi fossero punti deboli.
Il nuovo mantello era caldo e confortevole, anche se odorava di selvatico, era un bel passo avanti rispetto a quello di prima.
–Che ora sarà?- Domandò Sgarri senza rivolgersi a nessuno in particolare. –Poco oltre mezzodì- Rispose Tharnem maneggiando un orologio da taschino. Il tileano si chiese se esisteva una domanda alla quale l’archibugiere non sapeva rispondere. Rabbrividì e volse lo sguardo al cielo plumbeo.
–Nevicherà ancora?- Chiese sapendo chi gli avrebbe risposto –Non saprei signore, ma non credo, non prima di domani comunque- Il discorso rimase in sospeso; entrambi sapevano benissimo che, con ogni probabilità, non sarebbero arrivati al domani.
–Signore- Disse un archibugiere rivolto al Capitano –Pensate che ne usciremo?- Il piccolo ufficiale sorrise rassicurante –Ma certo, mi sono trovato in situazioni molto peggiori! E ne sono sempre uscito!- Il soldato sorrise rincuorato e tornò al suo posto.
Il capitano parlò in un soffio, in modo che lo sentisse solo Sgarri –In realtà questo è il mio primo combattimento, non ero mai uscito prima dalla mia guarnigione.-
Il tileano sorrise divertito e posò la mano sulla spalla dell’ufficiale. –Arrivano- disse qualcuno. Era una liberazione, finalmente l’attacco che li avrebbe sottratti alla sfibrante e gelida attesa cui erano sottoposti.
Sgarri si passò le mani sulle terga riscaldate dal falò e sguainò la spada. I norsmanni temevano l’effetto del quadrato sulla cavalleria, per cui avanzavano a piedi.
Umberto fece un rapido conto, erano uno contro venti a favore del nemico. Bruttissima situazione.
–A tiro!- Gridò Tharnem –Pronti al fuoco!- Gli archibugieri soffiarono sulle micce per ravvivarne l’innesco.
–Puntare!- L’ufficiale aveva messo da parte il suo nervosismo, divenendo d’un tratto calmo e preciso, tanto da sembrare una macchina. –Fuoco alle polveri!-
Tutti gli archibugieri tirarono la leva di scatto e scomparirono in una sola enorme voluta di fumo, mentre un tuono lacerava l’aria.
Quando la nube si fu diradata Umberto poté vedere che il gruppo di attaccanti si era sfoltito. Ma non abbastanza.
Non abbastanza. –Saldi!- Gridò il tileano –Pronti a reggere l’urto!- Le lance si levarono e gli scudi si serrarono in attesa dell’impatto.
Un barbaro mulinò il mazzafrusto, imitato da molti altri.
–Ricaricare!- Gridò il capitano mentre strappava una cartuccia con i denti.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il Teschio D'Argento ***


I mazzafrusti si abbatterono con violenza, mozzando lance ed arti e frantumando ossa e scudi. 
La prima linea cedette di schianto e la seconda si aprì lasciando passare alcuni nemici.
 –Fuoco!- Diversi norsmanni armati di mazzafrusto caddero centrati dal micidiale tiro a breve distanza. 
Il capitano Tharnem roteò il pesante archibugio come una clava e mandò un nemico a ruzzolare nel falò.
 Le urla del barbaro si persero nel fragore della battaglia. Sgarri si abbassò fulmineo, schivando un mazzafrusto ed infilzò il nemico che lo maneggiava. 
Sentì l’altro fremere, ma lui, da esperto soldato qual’era, aveva già addocchiato un altro avversario. 
Sfilò l’arma dal cadavere e si preparò ad affrontare il nemico seguente. Solo quando l’ascia dell’altro parò il suo fendente Sgarri si accorse che aveva reagito come un soldato e non come un comandante. 
Arretrò di due passi, lasciando che fosse un altro a battersi con il norsmanno. 
La linea aveva ceduto su tutti i lati e la battaglia si era frammentata in decine di duelli, dove la forza fisica e la schiacciante superiorità numerica del nemico non lasciavano scampo ai soldati. 
–Riformate i ranghi!- Umberto aveva l’impressione di urlare al vento –Nei ranghi maledetti bastardi, tornate in riga stupidi buffoni!- 
Era stata come un’illuminazione, il tileano si era improvvisamente ricordato che, negli scontri più cruenti, a spronarlo non erano gli ordini ma gli insulti dei sergenti. 
Confermando l’intuizione del tileano, i soldati si raggrupparono, formando un rozzo quadrato.
 –Rimanete…- Ansimò Sgarri mentre evitava di scarsa misura una spada. –…In linea!- Gridò mentre mozzava la mano che reggeva l’arma.
Il tileano schivò ancora un’ascia; era circondato da nerborute maschere d’odio barbute. 
Si chinò a raccogliere lo scudo di un morto, ma sapeva che non sarebbe bastato. 
Sin dai suoi primi scontri con i briganti sui monti tileani, il giovane Sgarri aveva appreso che, se si doveva combattere con più avversari, era fondamentale colpire per primo. 
Così si gettò verso il nemico di fronte a lui. 
Parò la spada del norsmanno con lo scudo ed affondò la sua arma, ma fallì il colpo. Imprecò tra i denti aspettandosi un colpo mortale, ma uno dei nemici alle sue spalle crollò al suolo e gli altri si voltarono per affrontare la nuova minaccia. 
Sgarri sentì un violento colpo sulla corazza e cadde al suolo. Il grosso barbaro lo sovrastava, ma lui parò con lo scudo ed affondò la lama nella coscia nuda, recidendo l’arteria femorale. 
–Per Ulric!!- Gridò a pieni polmoni, esattamente come aveva fatto due anni prima uccidendo un Troll assieme al suo reggimento di spadaccini del Middenland. 
In realtà Sgarri non credeva in Urlic come suo dio, ma per lui era un punto di contatto col suo amato gruppo di spadaccini, con i quali aveva combattuto per sei anni e con i quali aveva diviso punizioni e medaglie in centinaia di scontri. 
–Signore!- L’urlo di Tharnem riscosse il tileano. 
Il capitano era scosso e gli occhialini storti sul naso adunco. Tuttavia le mani dell’ufficiale erano occupate da una coppia di pistole fumanti, per cui fu con il polso che tentò di raddrizzarli. 
–Signore, non possiamo farcela, sono troppi- 
-Grazie di avermi reso partecipe dei tuoi ottimistici ragionamenti- Rispose seccato lo spadaccino.
–Quello che intendevo…- Riprese imperterrito l’ufficiale, col tono di un insegnante di scuola elementare che spiega l’alfabeto, quasi non si accorgesse degli arti mozzati che volavano tutto attorno.
-…è che credo dovreste sfidare il loro capo. Vedete, i norsmanni hanno l’abitudine di ritirarsi per eleggere un nuovo capo quando uno cade in battaglia. Si tratta di un rituale piuttosto lungo che passa attraverso combattimenti rituali e gare di lotta… Per cui potremmo avere la possibilità di allontanarci- 
Sgarri sbuffò, un po’ seccato da quella lezione e un po’ preoccupato per i guerrieri che si stavano facendo largo verso di lui. 
–Signor genio saprebbe anche dirmi come cavolo faccio a riconoscerlo in mezzo a questa marmaglia di topi di fogna?- Chiese sprezzante. 
–Basterebbe chiamare una sfida, lui l’accetterà di certo- Fu la timida risposta. 
Sgarri rise, poi si arrestò sconcertato.
–Non mi dite che conoscete la loro lingua…- L’altro gongolò e lui bestemmiò Sigmar. 
Quant’era saccente questo dannato capitano. 
Seguendo le istruzioni dell’archibugiere, Sgarri prese la spada per la lama e la sollevò sopra la testa urlando a squarcia gola la parola nordica per “sfida”. 
Con sua stessa sorpresa i nemici non lo attaccarono e, anzi, il combattimento ridusse la sua intensità fino a placarsi del tutto, perché tutti potessero vedere. 
Senza perdere tempo, il capitano approfittò della tregua per formare una nuova linea di difesa e per permettere ai feriti di medicarsi. 
Dai ranghi dei norsmanni emerse una specie di gigante barbuto, alto una spanna più di Umberto, che già svettava tra gli uomini, e largo oltre il doppio. 
Il mostruoso individuo maneggiava un’ascia ed una inquietante mazza ferrata con fare sicuro. 
Sgarri comprese improvvisamente le conseguente del suo gesto. 
I norsmanni lo avevano circondato, rendendo vano il piano del capitano che prevedeva di uccidere con un colpo di archibugio il nemico. 
Se l’avesse saputo, il tileano sarebbe stato contrario, era pur sempre uno spadaccino imperiale, anche se distaccato presso i lancieri. Tuttavia battersi contro quell’orso armato fino ai denti non era esattamente un’opzione allettante.
Purtroppo non ne aveva altre. Con orrore, il tileano si accorse che gli tremavano le gambe, e non era colpa del freddo pungente. 
Sospirò. C’era una sola cosa da fare, ma dubitava che lo avrebbe aiutato. 
Con gesto automatico lo spadaccino batté l’arma sullo scudo ed urlò 
–Ulric!- 
Improvvisamente si sentì spalleggiato dai suoi compagni ed un coraggio folle si impadronì di lui. 
Il mondo ora era un sogno di sangue, un unico indistinto desiderio di morte, come quella volta nelle pianure di Kislev. 
Stava ancora inseguendo visioni lontane quando vide, come in un sogno, l’ascia del nemico passargli a pochi centimetri dalla testa, che si era scansata in automatico. 
Rispose, e poi ancora e ancora, fino a passare in vantaggio. L’altro colpì con la temibile mazza, ma Sgarri sfruttò la potenza del colpo, che gli frantumò lo scudo, per ruotare su se stesso ed imprimere più potenza nel colpo di spada che arrivò alla nuca del nemico. 
Il colpo fu così forte da mozzare di netto la grossa testa pelosa, che rotolò nella neve. 
Prima ancora che il corpo smettesse di fremere, Sgarri aveva già sollevato al cielo il macabro trofeo, urlando per l’ultima volta il nome del dio lupo. 
I predoni si guardarono l’un l’altro per alcuni istanti, indecisi sul da farsi, poi si ritirarono in silenzio, lasciando a terra decine di morti e feriti di entrambe le fazioni. 
Dalla linea imperiale Osvald Tharnem guardò esterrefatto il tileano che avanzava verso di lui reggendo una testa mozzata. 
Durante la colluttazione, un ciondolo che Sgarri portava al collo con un laccio di cuoio era uscito da sotto la giubba e tintinnava sulla corazza ammaccata ed insanguinata. L’archibugiere si avvicinò e lo prese tra le dita. 
Era un piccolo teschio d’argento, non più grande di una moneta, ma si distinguevano due lettere, KH. 
–Non saranno quelle che penso- disse con tono ammirato. 
–Era il ciondolo di Kurt Helborg, me lo diede dopo una battaglia a Kislev- Rispose asciutto lo spadaccino 
–Sarebbe un grande onore per un cavaliere, per uno come me è solo il ricordo di una grande sudata con un freddo maledetto- Sgarri si allontanò verso il suo mantello e gettò via la testa. 
–Muoversi!- Gridò 
–Potrebbero tornare, andiamo ad arroccarci sulla collina- 
I soldati scattarono in tutte le direzioni per eseguire l’ordine, e Osvald sorrise. 
Se fosse stato solo quello, Sgarri l’avrebbe venduto da tempo.
Forse ci si poteva aspettare più di un mediocre servizio da un ubriacone tileano con il vizio del gioco.

Il gruppo di soldati imperiali aveva raziato stivali e pellicce ai cadaveri, gli abiti dei norsmanni, infatti, erano molto più adatti a difendersi dal freddo. 
Ora, stretti nei loro nuovi abiti, lavoravano alacremente per liberare la cima della collina dalla neve che poi usavano per costruire un parapetto. 
Sgarri lavorava con gli altri, in teoria non sarebbe stato necessario visto che era il comandante del gruppo, ma lui non si era neppure posto il problema, abituato com’era a sudare tra gli insulti dei sergenti. 
Si fermò solo quando Tharnem gli picchiettò gentilmente sulla spalla. Il capitano sembrava una vecchia signora per via del mantello di pelliccia. Sgarri vide che il capitano gli stava porgendo qualcosa, con un tuffo al cuore riconobbe gli stivali che stava per rubare al norsmanno morto. 
–Credo che questi potrebbero farvi comodo- Gli disse timidamente. Sgarri lo squadrò stupito, poi prese gli stivali e sorrise. 
–Grazie capitano- Sgarri si levò a fatica i vecchi calzari 
–maledetta guerra!- inveì come suo solito. 
Gli uomini parevano galvanizzati dal fatto di essere ancora vivi ma, non appena ebbero finito di liberare la sommità della collina, si accasciarono sui mantelli, esausti e cominciarono i mormorii. Qualcuno ringraziava Sigmar di averlo risparmiato, altri commentavano che, anche se erano ancora vivi, non lo sarebbero rimasti per molto. 
A peggiorare la situazione, non avevano nulla da mangiare. 
Il tileano guardava quella banda di disperati in silenzio, seduto sul parapetto di neve. 
Qualche soldato era riuscito ad accendere un piccolo falò, ma non bastava a scacciare il freddo della sera che avanzava. 
L’idea era di mandare qualcuno a recuperare la carcassa di un cavallo per sfamare tutti ma un gruppo di norsmanni era apparso ed un cordone di nemici si teneva a debita distanza per non essere colpito dai moschetti, ma abbastanza vicino da impedire un’azione come il recupero di un cavallo. 
Sgarri sospirò. 
Per qualche istante aveva davvero creduto che la sua vita sarebbe finita in quella landa desolata. 
Forse era il suo destino andare a crepare in qualche schifoso angolo di mondo, il suo amico del Reickland lo diceva sempre che prima o dopo i soldati muoiono in battaglia. 
Sgarri si passò le mani sui quadricipiti ancora tesi e rivolse mentalmente una preghiera alla memoria dell’amico, ma s’interruppe a metà.
A che serviva pregare per lui? Oramai era morto. 
Sospirò e promise che, se mai fosse riuscito a portare a casa la pelle, sarebbe andato al villaggio di Sternim a porgere personalmente le condoglianze alla famiglia dell’amico. 
Pensò alla rubiconda moglie del soldato, che un giorno di primavera gli aveva offerto un pasticcio di carne. 
Gli sembrava quasi di poterne sentire l’aroma, e di udire le urla dei due figli dell’amico. 
Si sforzò di ricordare il nome almeno della figlia maggiore, che ormai doveva essere in età da marito, ma non era mai stato bravo a ricordare i nomi. 
In realtà non ricordava nemmeno dove si trovasse esattamente il villaggio, ma probabilmente le sue ossa sarebbero rimaste a congelarsi su quella collina, per cui non era un problema. 
Maledetta guerra, maledetto paese, perché accidenti doveva fare così freddo? 
Ormai la neve aveva assunto un colorito bluastro, mentre le ombre calavano sul mondo. 
Sgarri si accorse che diversi soldati stavano nervosamente osservando il gruppo di predoni che li accerchiava. 
–Non verranno avanti- cercò di rassicurarli, ma tutto ciò che ottenne fu il grugnito di un paio di soldati. 
Tharnem gli apparve al fianco e Sgarri si chiese se quel dannato capitano avesse per caso dei parenti maghi per come appariva sempre dal nulla, poi si rispose che era dovuto alla sua minuta figura ed alla modesta statura. 
–Signore, posso provare a stenderne uno?- Il tileano guardò severamente l’ufficiale. 
In effetti i norsmanni erano decisamente fuori gittata per i moschetti, ma il capitano brandiva un moschetto Hockland. 
Sgarri meditò un istante, ma si rispose che la distanza era decisamente troppa anche per quell’arma. 
Per quanto il proiettile potesse arrivare, era impossibile per il tiratore decretare dove sarebbe arrivato e un tiro fallito avrebbe ridotto ulteriormente il morale già scarso. 
Ma il capitano interpretò il suo silenzio come un assenso e cominciò a darsi da fare sull’arma. 
Sgarri voleva impedirgli di tirare, ma si sentiva la testa vuota e non aveva voglia neppure di parlare, così si sedette ad osservare il piccolo archibugiere. 
Tharnem tolse il panno che copriva il meccanismo d’innesco dell’archibugio e poi la copertura di cuoio che proteggeva il cannocchiale montato sull’arma. 
Quindi usò un fazzoletto bianco per pulire le lenti di vetro, sia quelle del cannocchiale sia quelle degli occhialini, gesto che strappò un sorriso a tutti i presenti. 
Invece di usare le cartucce preparate che teneva nella cartucciera, il capitano riempì lo scodellino con una polvere di migliore qualità che teneva in un corno, quindi ne versò una ragionevole quantità nella canna. 
Sgarri notò che il viso dell’uomo pareva quasi sognante mentre saggiava con le dita le palle di piombo che teneva nella bisaccia, alla ricerca della più perfetta. 
L’operazione durò più di un minuto, ma alla fine il capitano parve particolarmente soddisfatto da un proiettile e lo inserì nella canna. Usò il calcatoio per assicurarsi che la polvere fosse ben compressa, quindi poggiò l’arma a terra sul suo mantello e si diresse al falò più vicino, che usò per dare fuoco ad una corda che poi fissò al meccanismo di scatto del moschetto Hockland.
Il capitano scavò nel parapetto una specie di forcella per tenere ferma la pesante arma, quindi si sedette a gambe incrociate, portandosi il calcio nell’incavo della spalla. 
Il tiratore si portò la mano sinistra al petto, in modo da tenere il calcio tra il pollice e l’indice, sostenendolo. La guancia del capitano si posizionò alla perfezione sul calcio dell’arma mentre la mano destra si muoveva lenta avvicinandosi alla leva di sparo. Le dita affusolate carezzavano il legno di Darkwald come avrebbero sfiorato la pelle di una donna, poi si arrestarono sulla leva. 
Sgarri rimase stupito dalla dolcezza con cui Tharnem tirò la leva di sparo. 
La corda incendiata si abbatté sullo scodellino facendo esplodere la polvere che conteneva ed innescando l’esplosione della polvere nella canna. 

Un boato lacerò l’aria ed il fumo nascose il bersaglio agli occhi del tiratore, ma un grido lancinante confermò la validità del tiro. 
Sgarri vide distintamente un norsmanno che si trascinava con una mano stretta alla coscia sinistra e si concesse un sorriso, mentre i soldati urlavano di giubilo e si complimentavano con il tiratore che era stato quasi gettato supino dal rinculo dell’arma. 
I norsmanni si allontanarono di alcune decine di metri, inseguiti dagli sfottò dei soldati, mentre Tharnem si alzava e subito si affaccendava attorno al suo amato moschetto. 
Sgarri diede una lieve pacca sulla spalla del tiratore, quindi si diresse verso il lato opposto della postazione; le risate dei soldati e la loro baldanzosa sicurezza lo urtavano, aver piantato una palla nella gamba di un nemico non cambiava per nulla la loro triste situazione e lui cominciava seriamente a preoccuparsi, non che morire lo spaventasse, aveva sempre saputo che sarebbe successo un giorno, ma gli dava fastidio morire a stomaco vuoto. 
Ormai era scuro, per cui gli uomini si prepararono per la notte e lui dovette disporre le sentinelle, adesso anche la borraccia del liquore era vuota. 
Maledetta guerra.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Sangue per il dio del sangue ***


La notte passò gelida come sempre, ma senza guai per il manipolo di soldati imperiali.
Sgarri aveva fatto due giri di ronda per controllare le sentinelle, per ora sembrava che tutto il gruppo avesse accettato la sua leadership, per quanto gli fossero arrivate voci del malcontento di alcuni lancieri, contrari al farsi guidare da un pluri punito.
La plumbea alba regalò al mondo la luce sbiadita di un pallido sole, che mostrò un nutrito gruppo di nemici in assetto da guerra.
Sgarri si stiracchiò e si mise una mano sul ventre gorgogliante. Non aveva neppure voglia di maledire la guerra, voleva solo un bel piatto di zuppa, o anche un bel pollo con le patate, quelle strane piante che arrivavano dalla Lustria e che nell’Impero erano ancora poco diffuse. Pensò ai fianchi tondi di una taverniera che gli porgeva uno stufato fumante e si diede dello stupido.
Scrollò la testa per scacciare il sonno e si portò la fiasca del liquore alle labbra.
Vuota, lo sapeva già che era vuota, ma era un riflesso condizionato.
In un impeto di rabbia la scagliò oltre il parapetto.
–Permettete un consiglio?- Chiese Tharnem, apparso alle sue spalle.
–No- Rispose Sgarri asciutto –Ve lo do io un consiglio, smettete di arrivarmi alle spalle all’improvviso, o la prossima volta vi spezzo il collo- e si allontanò lungo il parapetto.
Non era proprio dell’umore giusto per sopportare le lezioni del capitano e poi quella voce sempre timida ma gentile lo urtava terribilmente.
–Ve lo do lo stesso- Rispose l’archibugiere trotterellandogli dietro.
Sgarri sbuffò e, per un istante, provò il desiderio di scagliarsi sull’ufficiale per mostrargli quanto le risse di taverna gli avevano insegnato.
Ma il piccolo ufficiale, ignorando completamente lo sguardo omicida negli occhi scuri del suo interlocutore, continuò a parlare in tono gentile. “Come ad un bambino un po’ scemo” pensò il tileano.
 –Gli uomini sono nervosi, ma ripongono in voi le loro speranze, voi siete un esempio. Un vero comandante dovrebbe dominarsi e non mostrarsi mai arrabbiato o stanco, o perderà il rispetto dei suoi uomini.
Il vostro gesto di poco fa, se mi permettete, non è stato una buona mossa, tantopiù che già più di un soldato ha ventilato l’idea di sostituirvi al comando con un candidato più popolare-
-Che mi frega?!- Rispose irato Sgarri –Se vogliono sostituirmi lo facciano non me ne frega niente, anzi, mi toglierebbero un gran rompimento di scatole. Al diavolo, non sono un ufficiale io! Ogni uomo nasce col proprio destino e comandare altri uomini non è il mio!-
Ciò detto Sgarri andò a sedersi accanto ad un fuoco, dove un soldato stava usando l’elmo come pentolino per sciogliere la neve.
–Va bene- Si arrese il capitano –Ma io credo che ci sia più di un semplice soldato in voi-
-Infatti, dovreste parlare con le ragazze del bordello di Middenehim, siamo in due sotto questa divisa- Confermò Sgarri riscoprendo la sua crudele ironia.
Alcuni soldati risero alla battuta, ma la gran parte si limitò ad un mezzo sorriso, conscia del mortale pericolo che pendeva sulle teste di tutti.
Tharnem si allontanò rosso in viso, ma sorridente.
–Arrivano!- Gridò una sentinella.
–Come sarebbe arrivano?!- Disse esterrefatto il capitano accorrendo già armato.
–Un procedimento piuttosto lungo eh? Lotte e prove di forza vero?! Ma dove l’avete studiata la cultura di questi vermi?! Guardateli li come corrono!- Ringhiò Sgarri.
Tharnem non seppe cosa rispondergli, era sicuro che ci sarebbero voluti giorni, invece i nemici li stavano già attaccando.
–Non state là impalato Tharnem, mettete i vostri in linea!- Il capitano scattò come una molla e cominciò a dispensare ordini a destra e a manca, così che i suoi archibugieri furono pronti in meno di un minuto.
Sgarri aveva chiamato tutti i soldati sul lato attaccato, tranne tre uomini che aveva messo uno per ogni altro lato. Tharnem s’interrogò per alcuni istanti sul senso di tale mossa, ma capì quasi subito che lo spadaccino lo aveva fatto per tutelarsi da eventuali attacchi alle spalle. Astuto.
Tharnem era in collera con il tileano per come lo aveva trattato, soprattutto in virtù dei rispettivi gradi, ma non poté fare a meno di ammirare la freddezza dello spadaccino che aveva pensato lucidamente pur avendo il nemico quasi addosso.
 –Fate fuoco!- Gridò Sgarri.
–Non ancora!- Corresse il capitano –Quando vedete il bianco dei loro occhi e mirate a quello dritto davanti a voi, che nessun colpo vada sprecato-
Umberto annuì, il capitano aveva valutato la distanza dal nemico ed aveva capito che c’era tempo per una sola scarica di fucileria, quindi tentava di renderla il più micidiale possibile. Ormai i nemici erano ai piedi del parapetto, meno di tre metri dai soldati.
–Fuoco!- La scarica a bruciapelo fu così violenta che i norsmanni colpiti volarono indietro, come tirati da un filo invisibile, e le prime linee dei barbari svanirono nella puzzolente nuvola di fumo.
Quasi istantaneamente i lancieri si fecero avanti e gli archibugieri si ripararono dietro i compagni per ricaricare.
Sgarri ringhiò e menò un fendente contro una sagoma nera che urlò e cadde oltre il parapetto. Con un urlo di sfida un norsmanno si parò davanti al tileano da sopra il parapetto, ma Umberto gli sferrò un violento calcio all’inguine non protetto.
–Tornatene dal tuo dio nel suo schifoso buco!- Gridò mentre spingeva l’avversario giù dal muro di neve.
La fortificazione costruita dai soldati imperiali si era rivelata una formidabile postazione di difesa. Il pendio, infatti, rendeva difficoltosa la corsa dei nemici che arrivavano già affannati al parapetto, qui dovevano oltrepassare un muro di neve verticale alto oltre un metro, mentre dal lato dei difensori era alto la metà, consentendo ai soldati di battersi al di sopra di esso senza impicci e proteggendo le loro gambe.
Gli aggressori non avevano grandi perdite, il loro numero, infatti, rendeva necessario il liberarsi dell’avversario molto velocemente ed il modo più veloce era quello di far cadere i norsmanni in modo che rotolassero giù dal pendio.
Per contro, i soldati avevano alcuni feriti, ma restava il fatto che, per quanto si ostinassero, i nemici non avevano possibilità di mettere piede sulla sommità dell’altura.
Tharnem si assicurò che tutti i suoi uomini avessero ricaricato, quindi si voltò per controllare gli altri lati dell’altura.
Con un tuffo al cuore si accorse che il soldato incaricato di sorvegliare il lato opposto a quello dove era in corso il combattimento giaceva trafitto al collo da un giavellotto.
Diversi norsmanni stavano scavalcando il parapetto.
–Avverti il rosso!- Gridò all’uomo più vicino, poi dispose i suoi di fronte alla minaccia.
–Mirate con cura!- ordinò –ne va della vostra pelle! Aspettate… Fuoco!-
Ancora una volta il tiro dei moschetti a breve distanza si rivelò micidiale, dei barbari che avevano messo piede sul terreno sgombro nessuno rimase in piedi.
Ma altri nemici superarono il parapetto per prendere il posto dei morti.
Sgarri colpiva dall’alto, lasciandosi sfuggire un grugnito ad ogni fendente, come un taglialegna al lavoro.
Da solo riusciva a tenere a bada quattro nemici, ma in una posizione come quella avrebbe potuto combattere con successo anche contro cinque o sei avversari.
Sorrideva soddisfatto mentre mirava alle braccia degli avversari, in modo da renderli inoffensivi e pensava che, forse, se il nemico avesse continuato ad attaccare così, l’incubo sarebbe finito, perché tutti i norsmanni sarebbero morti in un’unica catasta alle pendici della collina.
Proprio mentre quell’idea cominciava a convincerlo, sentì una temibile scarica di archibugio.
Un soldato lo tirò per una manica e gli indicò il pendio alle sue spalle.
Sgarri si sentì invadere dal terrore nel vedere i nemici già oltre il parapetto, ma una parte della sua mente rimase fredda e lucida.
Il tileano corse lungo la linea, tirando per la collottola un soldato ogni due.
In questo modo i soldati scelti si voltavano e, visti i nemici, vi si scagliavano contro.
Grazie a questo sistema, Sgarri riuscì a trasferire metà della sua forza contro la nuova minaccia in una manciata di secondi ed in perfetto ordine.
I norsmanni sgranarono gli occhi esterrefatti quando videro materializzarsi dal nulla una linea di lancieri davanti agli archibugieri e non riuscirono a contenere l’impeto dei soldati, che li ricacciarono oltre le opere di difesa.
Per quanto i barbari si sforzassero, non riuscirono più a mettere piede oltre le linee nemiche e vennero sterminati dai lancieri e dagli archibugieri che, armati di coltelli e lunghi pugnali, si erano uniti al massacro.
Dopo circa un’ora di combattimento erano più i norsmanni gravemente feriti di quelli ancora sani, così che anche i testardi barbari si risolsero ad una ritirata piuttosto precipitosa.
Sgarri salì sul parapetto intriso di sangue e sollevò la lama resa vermiglia dalle uccisioni.
 –Sangue per il dio del sangue!- Gridò scimmiottando il credo dei nemici.
Non era ancora mezzodì e il tileano ordinò che fosse recuperata una carcassa di cavallo, finalmente si sarebbe mangiato!
Sei soldati erano morti ed una decina erano feriti, il che voleva dire circa la metà degli effettivi, ma era stata un grande vittoria.
Due ore dopo la fine del combattimento, sgarri stava consumando il suo pasto, allegro nel cuore ma con un oscuro presentimento, che il capitano gli confermò.
Nessuno dei morti portava l’ascia del capo, questo voleva dire che il nemico sarebbe tornato nonostante tutto.
Sgarri abbassò il capo sconsolato e lanciò un’imprecazione; uno stivale si era strappato durante il combattimento ed ora copriva il piede quanto un sandalo. Maledetta guerra!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sopravvivere ***


Tra gli uomini di Sgarri c’erano ben tre ex macellai, per cui non fu necessario molto tempo per macellare una carcassa di cavallo e portarla all’interno dell’improvvisato fortilizio.
Sgarri sorrise, carne, finalmente. I soldati fecero festa, felici di essere ancora vivi, ma soprattutto di avere finalmente lo stomaco pieno.
Anche Umberto si era avventurato tra i cadaveri ai piedi della collina, nella speranza di trovare un altro paio di stivali, purtroppo la maggior parte dei corpi erano già stati spogliati e nessuno di quelli cui erano stati lasciati gli stivali aveva la sua corporatura.
Il tileano sospirò e si risolse a legare assieme i lembi dello stivale danneggiato con la benda che gli fasciava la testa, la cui ferita era ormai rimarginata.
Al suo ritorno Tharnem lo chiamò.
–Che c’è capitano?- Chiese Sgarri la cui ostilità era completamente scemata durante il banchetto, anche grazie al goccio di liquore che il capitano aveva ancora e di cui gli aveva fatto dono.
 –Cosa contate di fare ora?- Domandò questi con tutta la semplicità di cui era capace.
Sgarri si grattò la nuca. Ci aveva pensato, ma non era sicuro della cosa migliore.
Quella notte un archibugiere era morto assiderato e le giornate erano sempre più fredde, il che rendeva una necessità l’allontanarsi rapidamente da quella posizione così avversa dal punto di vista climatico.
Tuttavia il viaggio avrebbe presentato molte avversità, sia a causa del freddo sia a causa dei norsmanni che certamente si sarebbero presto riavuti della sconfitta.
Se i predoni li avessero raggiunti in campo aperto, il tileano ne era certo, i soldati non avrebbero mai potuto sopravvivere allo scontro.
Era anche molto probabile che questo sarebbe successo molto prima che il gruppo potesse raggiungere il confine imperiale e mettersi al sicuro, il che rendeva vano qualsiasi tentativo di fuga.
Il tileano stava per rispondere sconsolatamente al capitano quando ebbe un’improvvisa illuminazione.
–Kislev!- Esclamò. –Andremo a Kislev-
Il capitano annuì, evidentemente aveva pensato la stessa cosa.
–è più lontano- rispose –ma è l’ultima cosa che i predoni si aspettano-
-Senza contare che le pattuglie di confine kislevite sono più efficienti delle nostre- Aggiunse Sgarri.
Il capitano annuì –Resta solo il problema di come allontanarsi senza lasciare tracce- Meditò Sgarri.
Tharnem sorrise –Il fiume! I nostri carri hanno rotto il ghiaccio, per cui ora si è formato un nuovo strato gelato, sul quale la neve non ha fatto in tempo a depositarsi-
-Niente tracce- Concluse per lui il tileano.
Per la prima volta Sgarri si accorse di quanto stimava quel saccente archibugiere.
Il tileano si scrollò le spalle. Ecco un bel problema, comunicare il suo piano ai commilitoni, come l’avrebbero presa?
Sgarri si schiarì la voce , ma non ottenne l’attenzione che desiderava.
–Ragazzi- Urlò. Ora tutti gli sguardi erano per lui.
–Dobbiamo andarcene di qui, capite che è necessario?- Fin qui tutto bene, nessuno fiatava.
 –non punteremo sul confine imperiale, poiché questo è quello che i nostri nemici si aspettano, punteremo invece su kislev, lo so che è più lontano, ma abbiamo più possibilità di salvarci e…- Quello che Sgarri temeva, una voce aspra lo interruppe.
–Ci stai dicendo che dovremmo fare più miglia in questo inferno bianco?!- Chiese ironico un lanciere dai monumentali baffi a manubrio, un veterano molto rispettato.
Sgarri tentò di spiegarsi, ma il veterano lo interruppe ancora.
–Umberto, tu sei un bravo soldato e ti seguo volentieri in battaglia, ma non pretendere di metterti al comando in altre situazioni, il cervello non è mai stato il tuo forte- Scroscio di risa. Ancora una volta Sgarri tentò di replicare, ma non gli venivano le parole.
Ormai si era diffuso un mormorio tra i militari e il tileano sapeva che tutti stavano parlando di lui, e non in modo lusinghiero a giudicare dai toni.
–Silenzio!- ordinò il capitano.
Immediatamente il chiacchiericcio si placò, i soldati erano abituati ad obbedire e tacquero all’istante.
–Il tileano dice bene, l’unico modo per salvarci è seguire il suo consiglio- Per alcuni istanti un mormorio di approvazione avvolse il campo, ma il veterano parlò di nuovo
–Come facciamo a fidarci di un capitano che affida la sua vita ad un fante pluripunito?- Chiese con tono d’acciaio.
Immediatamente la domanda fu ripresa da molti presenti mentre il malcontento esplodeva. Tharnem si voltò verso Sgarri
–Sgarri, un comandante non spiega le sue ragioni, da ordini e basta- Il tileano avrebbe voluto rispondere in tono acido, ma gli mancavano le parole.
 Il veterano si alzò. –Io me ne vado adesso- Affermò –Chi vuole venire con me è il benvenuto-
Ciò detto il lanciere raccolse i suoi pochi averi, un ragionevole quantitativo di carne e si avviò oltre il parapetto, verso sud.
Lo seguirono una ventina di uomini. Sgarri guardò tristemente gli otto uomini che gli erano rimasti, di cui sei feriti.
–Ragazzi- disse tristemente –Si parte, andiamo a est-
I soldati imperiali guardarono tristemente il gruppo di commilitoni che si allontanavano verso sud; in caso di attacco non avevano speranze.
Sgarri sospirò, quegli uomini si erano fidati di lui e non era riuscito a tenerli uniti. Maledetta guerra!
 
Umberto Sgarri non aveva neppure più la forza di imprecare.
Da giorni marciava nel più totale nulla assieme al suo manipolo di disperati, bevendo l’acqua sciolta dal calore delle mani e raccolta nell’elmo.
La carne cruda cominciava a risultare ben più che indigesta a tutti gli uomini, ma non c’era modo di cuocerla visto che il grande Sigmar aveva pensato bene di benedire i soldati con giornate gelide ma serene, dove un filo di fumo si sarebbe notato a miglia di distanza.
I piedi del tileano avevano ormai perso sensibilità a causa dei calzari che si sfasciavano di più ad ogni penoso passo.
Neppure Tharnem, quel logorroico archibugiere, aveva più la forza di parlare, e questo era un bene visto che l’umore di Sgarri era già di per se ai minimi storici.
Mentre avanzava faticosamente con la neve al ginocchio il tileano farfugliava furiosamente
–Uccidetemi, squartatemi, rompetemi le ossa, affamatemi, pugnalatemi alle spalle; basta che non mi rompete le scatole!-
E nel vederlo in quelle condizioni gli altri divenivano ancor meno loquaci.
Due uomini erano morti durante la marcia, li avevano abbandonati a terra, senza una parola, senza un gesto di compassione, erano cose che non esistevano li alla fine del mondo.
Quando calava la notte i militari si stringevano l’un l’altro nel tentativo di scaldarsi, ma ogni giorno perdevano colore e i piedi variavano dal blu al nero.
Sgarri si guardò attorno, il viso coperto da un panno che lasciava vedere solo gli occhi.
Neve, solo maledettissima neve, e cielo, di un azzurro spietato. In lontananza vedeva chiaramente delle case, ma sapeva che si trattava solo di un miraggio causato dalla spossatezza; decine di volte i suoi uomini avevano gridato “città, città” e poi avevano trovato solo neve.
Alla loro destra si vedeva un piccolo rilievo roccioso, unica interruzione al candido deserto. Il tileano si accosciò e sbuffò, certo che Kislev era davvero lontana.
–Berto!- chiamò un lanciere.
Umberto si voltò stancamente verso di lui e poi nella direzione indicata dal suo braccio. C’erano dei punti neri sulla neve, nelle vicinanze del promontorio, correvano verso le rocce. Aguzzando la vista Sgarri individuò un gruppo molto più nutrito di sagome che avanzavano nella medesima direzione.
–Sono i nostri!- Gridò Tharnem che aveva messo mano al cannocchiale dell’Hockland.
–Il secondo gruppo?- Chiese speranzoso il tileano.
–No, quelli che scappano; gli altri sono predoni-
Sgarri imprecò e si mise a correre anche lui verso il promontorio.
–Che fai pazzo di un tileano?- gridò il capitano arrancandogli dietro.
Sgarri ansimò –Ci vedrebbero comunque, tanto vale cercare di arroccarsi tra le rocce- Quand’ebbe finito di dirlo erano già arrivati.
Si trattava proprio dei loro commilitoni; un lanciere spiegò che erano stati sorpresi da una pattuglia nemica e che si erano quindi risolti a dirigersi verso est, ma poi si erano trovati tutti addosso.
Sgarri imprecò, così facendo avevano condannato anche loro, ora ne era certo visto che i suoi erano quasi tutti disarmati e i nemici erano un gruppo decisamente nutrito. Cercò il veterano che li aveva condotti via dall’altura e lo trovò accasciato contro una roccia e intento a tamponarsi una ferita al ventre.
–Sai Olaf- Gli disse senza guardarlo –Forse non ci sarà un’altra occasione, per cui vorrei dirtelo ora… Sei veramente un cretino!-
Ciò detto gli sferrò un pugno in viso e subito se ne pentì per il dolore alla mano gelata.
L’altro non si mosse e Sgarri capì che, quando lui era arrivato, era già morto.
Sgarri imprecò selvaggiamente e solo allora si accorse che i cinque archibugieri sopravvissuti stavano sparando a cadenza di fuoco molto serrata.
A dirigere l’inutile tiro era Tharnem.
Il tileano gli diresse uno sguardo interrogativo; quel fuoco non riusciva neanche ad infastidire i nemici, che presto sarebbero entrati tra le rocce.
Il capitano si drizzò gli occhialini ed imbracciò il moschetto –Un bravo comandante non si arrende mai Sgarri, lo ricordi!-
Il tileano sorrise mestamente e sguainò la spada che gli cadde con gran fracasso dalle dita intirizzite.
Maledetta guerra, possibile che non gli riuscisse neanche di crepare in modo onorevole?! Sgarri guardò Tharnem, che ora aveva abbandonato a terra il moschetto ed incitava gli uomini, con una pistola per mano ed il sorriso dei folli sul viso.
Quanto lo ammirava.
L’urlo d’odio di un norsmanno lo richiamò alla gelida e violenta realtà.
Raccolse la spada e schivò l’attacco del nemico; retrocedere, parare, schivare, finta, affondo, ritrarre la lama, finta, parata, colpo da sinistra, affondo.
Sgarri doveva ripetere a se stesso le proprie azioni e le parole gli rimbombavano nel cervello, mentre il corpo, abituato da dieci anni a quelle reazioni automatiche, agiva.
Con un ringhio disperato Sgarri superò un cumulo di cadaveri, un nemico gli si parò davanti, lui lo travolse e lo gettò oltre il bordo della roccia.
Sigmar! Sigmar? Lui pregava Ulric, non Sigmar, perché Sigmar? Impero! Morte! Ammazza! Le urla In comune laceravano l’aria.
Non può essere, un trucco del vento? No, dietro lo schieramento nemico era apparsa una marea multicolore.
Il nemico vacillò, fuggì, ma era circondato, dopo pochi minuti gruppi sparuti di norsmanni fuggivano disperatamente.
Sgarri non ci poteva credere; decine e decine di soldati marciavano tra i cadaveri, depredando i caduti e finendo i feriti. Non erano come lui, che si vestiva di stracci annodati, portavano uniformi ordinate, pulite, alcune sembravano nuove.
–Ehi soldato- Sgarri si voltò –Soldato?- Lo apostrofò ancora il nuovo arrivato.
Si trattava di un soldato equipaggiato di una magnifica armatura completa, col viso tondo incorniciato da un’ordinata barba castana ed un sorriso bonario.
Sgarri rimase a guardarlo, soffermandosi sulla lucida alabarda e sul basco del nuovo arrivato. –tutto bene soldato?- chiese ancora l’uomo in tono pacato.
–Si- rispose brusco il tileano –Si…-
Sgarri era totalmente spaesato, che diavolo ci faceva un alabardiere dal marcato accento wissenlander in mezzo al nulla? Stava sognando? Il militare accese una pipa d’osso e cominciò a tirare fumo.
Alfine il tileano si risolse a parlare –Ma… voi… Qui che ci fate?-
L’altro lo squadrò sorpreso –Ci pagano per stare qui, non hai mai sentito dei mercenari di Lemec?-
Sgarri scosse la testa.
–Sigmar benedetto!- proruppe il wissenlander –Ma da dove vieni?!-
Sgarri si mise involontariamente sull’attenti –Secondo battaglione, terza compagnia lancieri dell’Ostland; eravamo con la spedizione a Nord-
L’uomo lo squadrò –Ostland?! Qui sei al confine con Kislev amico, dov’è il resto dell’armata?-
-Tutto quello che resta siamo io e i miei uomini a quanto ne so- Rispose tristemente.
Il soldato perse il sorriso –Mi spiace amico, resti solo tu-
Sgarri ci mise un po’ a capire, ma poi superò il wissenlander e corse verso il punto dove aveva visto per l’ultima volta Tharnem.
La linea degli archibugieri era stata travolta da alcuni barbari armati di mazzafrusti, i cadaveri erano attorcigliati e maciullati in tal modo che era impossibile riconoscere chicchessia, ma non era necessario riconoscere il capitano; a terra giacevano rotti ed insanguinati i suoi occhialini.
Sgarri chinò il capo e si appoggiò alla fredda roccia. Il capitano, il pazzo, il saccente, il guerriero, l’amico.
Improvvisamente il ricordo di tutti gli amici persi in battaglia affiorò nella mente del tileano ed una calda lacrima gli percorse la guancia sinistra.
La voce dell’alabardiere lo riscosse, bisognava andare, ai caduti ci avrebbero pensato i lupi; inutile cercare di seppellirli in quel terreno gelato.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Le fiamme del bivacco ***


Sgarri camminò nella neve, si sentiva svuotato, apatico.
Non sentiva i canti dei soldati che marciavano allegri festeggiando la facile vittoria, si accorse solo che un canto era in tileano, ma lasciò correre perché non aveva la forza di registrare quest’informazione nel cervello.
Le case che aveva visto non erano un miraggio, si trattava di un villaggio di piccole dimensioni, cinto da una bassa e logora palizzata.
Sull’unica torre uno stendardo a frange di foggia bretonniana garriva il vento.
A differenza degli stendardi che Sgarri era abituato a vedere, questo non era né sgargiante né prezioso. Si trattava semplicemente di tessuto nero, logorato dalle intemperie e percorso unicamente da una V rovesciata di colore bianco punteggiata di nero.
A dispetto delle case cadenti, il villaggio appariva benestante, se non addirittura ricco; i kisleviti indossavano abiti caldi e confortevoli, le donne erano pettinate e gli uomini portavano barbe curate.
Tuttavia ad ogni passo si riconoscevano i segni di un recente periodo di squallore e decadimento.
Era evidente che l’arrivo dei mercenari aveva risollevato le sorti dell’insediamento.
Sgarri faceva ben poca attenzione al calore con cui i normalmente freddi kisleviti accoglievano i mercenari; nella sua testa rivedeva solo, come attraverso la nebbia, i momenti vissuti fianco a fianco con i compagni nei giorni precedenti.
Appena oltre il villaggio, si estendeva un paese ben più grande, formato di tende e catapecchie mal costruite.
Per quanto i ripari fossero spartani, l’insediamento appariva molto ben costruito; con vie ampie a griglia.
Alcuni ripari portavano un vessillo. I mercenari si dispersero rumorosamente nel campo, bevendo liquori e ridendo fragorosamente.  
Sgarri rimase solo in un incrocio, a fissare senza vederlo un cane che giocava con un osso nella neve.
Non avrebbe saputo dire quanto rimase così, ma quando decise di muoversi il sole stava già calando. Si mosse a passi pesanti verso una destinazione sconosciuta, vagando per il campo tra l’indifferenza generale.
Dopo alcuni isolati si trovò di fronte un vessillo dal quale pendevano due enormi asce nere, guardato da due arcigni alabardieri.
Erano molto diversi dagli alabardieri imperiali; alla leggera corazza di questi avevano infatti preferito dei lunghi giachi di cuoio borchiati e rinforzati da piastre metalliche, che gli arrivavano fino al ginocchio.
Sgarri non poté fare a meno di notare il loro sguardo fiero e i volti segnati di cicatrici. Ma la differenza più evidente con le truppe regolari erano gli scudi.
A quelli tondi dell’Impero gli alabardieri avevano infatti preferito scudi rettangolari che recavano l’araldica dello stendardo; una metà gialla, l’altra rossa e un’ascia nera dipinta nel centro.
Sgarri fece per passare oltre, ma un alabardiere lo fermò interponendo la larga lama dell’arma.
 –Dove pensi di andare?- Domandò in tono ferreo.
Sgarri lo guardò stupito ed in quella notò una specie di gigante barbuto che indossava la livrea giallo rossa ed era intento a scolarsi una bottiglia.
–Allora?- Incalzò la guardia –Cerchi problemi?-
Il gigante vide Sgarri e per poco non si soffocò con il liquore.
–Credimi Waldo- Disse l’uomo avvicinandosi da dietro l’alabardiere –Se questo topo di fogna cercasse problemi tu saresti già morto-
L’uomo si scostò un po’ interdetto.
–Ciao Raimund- Disse il tileano sorridendo improvvisamente.
–Allora non ti hanno ancora ammazzato eh?!- Rispose l’altro con uno sgraziato accento del Reickland.
L’enorme individuo mise il braccio attorno alle spalle di Sgarri e lo condusse oltre la sentinella, che s’irrigidì nel saluto militare.
Il tileano si guardò attorno spaesato; ovunque alabardieri con la livrea giallorossa e l’ascia nera dipinta s’affaccendavano nelle più diverse occupazioni, tutti avevano l’aria assassina di veterani temprati.
–Ma chi sono questi?- Chiese Sgarri.
Raimund sorrise allegro increspando la barba castana che gl’incorniciava il viso. –Le Asce Nere, il miglior reparto di alabardieri del mondo, gli Ammazzagiganti!-
Improvvisamente Sgarri rammentò di aver sentito parlare di questo reparto che, a quanto si diceva, aveva addirittura ucciso un gigante.
–Devi scusare la mia sentinella- riprese l’alabardiere –A noi non piace che la gente venga a curiosare nel nostro campo-
-Vostro campo?- Domandò Sgarri sedendosi accanto all’amico su un tronco e scaldandosi le mani al vicino falò.
–Certo- Rispose fieramente l’altro –Io sono il sergente-
Sgarri scoppiò a ridere. Aveva conosciuto Raimund quattro anni prima durante una rissa da taverna tra militari del Middenland e del Reickland, se l’erano suonate di santa ragione; così tanto che quando era arrivata la milizia cittadina non avevano avuto la forza di scappare ed erano finiti in cella per una settimana.
Avevano finito per diventare amici per la pelle e Sgarri non avrebbe mai più potuto dimenticare Raimund che, in piedi su un tavolo, roteava sopra la testa un povero archibugiere del Middenland.
Così ora il fatto che il suo amico fosse sergente lo faceva davvero ridere.
Raimund si lamentò della spacconeria dei suoi uomini e della loro mancanza di disciplina con tale veemenza che Sgarri si chiese se il reicklander ricordasse ancora di quella volta che si erano ubriacati così tanto che si erano svegliati, nudi, in una vigna vicino Altdorf, mentre le raccoglitrici li guardavano scandalizzate.
Delle signorine che avevano diviso con loro sbronza e serata nessuna traccia, come dei loro vestiti e dei loro valori del resto.
Il tileano si scoprì a sorridere nella soffusa luce del fuoco mentre ascoltava le lamentele dell’amico e ricordava i giorni passati; tutte le punizioni e le sbronze prese assieme, tutti i pugni dati e anche quelli ricevuti.
Si accorse che, tutto sommato, il sergente parlava con grande fierezza dei suoi indisciplinati spacconi.
Raimund divise il proprio cibo con il tileano e gli parlò del suo signore, André Lemec.
Sgarri ascoltava a tratti, rapito da quella vita di accampamento che tanto gli era famigliare e che lo faceva sentire appagato, così che perse metà del discorso tra le danzanti scintille del fuoco.
L’unica cosa che capì era che si trattava di un tipo in gamba, abile in guerra e generoso nel dividere il bottino.
Poi Raimund disse qualcosa sul fatto che di sicuro gli sarebbe piaciuto conoscerlo e che era stato educato in Tilea, pur essendo bretonniano, ma che ora era intento in un’incursione e chissà quando sarebbe tornato.
Poi il loro discorso si perse nei canti sconci dei soldati e nelle accoglienti bottiglie.
Come succede sempre, gli uomini di valore si erano visti e riconosciuti, ora le Asce Nere dividevano fraternamente fuoco e bottiglie col tileano e la serata finì ridendo in una tenda con una prostituta.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** E che Ulrich la mandi buona! ***


Umberto si svegliò con la bocca impastata e la testa dolorante del dopo sbornia.
Una fastidiosa luce azzurrina penetrava dalla porta semi aperta della baracca dove lui giaceva avvolto nel suo mantello nordico.
Tutto attorno, sul pavimento d’assi diseguali, giacevano abbandonati cinque o sei giacigli.
Il tileano si stropicciò gli occhi e si alzò faticosamente. Il corpo gli doleva terribilmente ed il puzzo di sudore e sangue, misti al vino stantio, che emanava dal mantello era davvero insopportabile.
Lo spadaccino si grattò la nuca e si diresse a passo malfermo verso l’uscita.
Il riverbero della neve gli ferì gli occhi scuri, che si ridussero a fessure.
–Per i denti di Sigmar!- Bestemmiò una voce alla sua sinistra –Vatti a lavare Berto, fai davvero schifo!-
Sgarri riconobbe la voce di Raimund, ma non si voltò, si limitò a dirigersi verso il lavatoio di fronte a lui.
Le Asce Nere oziavano allegramente o affilavano le armi tramite lo sfregamento con la cote; producendo un suono che a Sgarri pareva un urlo infernale.
Il tileano si lasciò cadere nel lavatoio, incurante delle due donne che stavano pulendo i loro panni e che urlarono scandalizzate quando l’acqua gelida le schizzò.
Il contatto con l’acqua gelida riportò alla lucidità lo spadaccino che, immediatamente, iniziò a battere i denti.
Tremando di freddo si spogliò e lavò accuratamente se stesso e gli abiti che indossava. Raimund gli prestò camicia e calzoni, così che potesse far asciugare i suoi panni.
Il mantello era da buttare, la tunica invece era ancora utilizzabile, per quanto fosse stracciata e forata.
Fortunatamente per Sgarri era una giornata calda rispetto agli standard degli ultimi giorni e con un cielo straordinariamente terso.
Il leggero vento che si era alzato nella tarda mattinata avrebbe aiutato ad asciugare gli stracci del tileano. Sgarri si fece offrire il pranzo da Raimund che gli doveva non poche corone e spese tutti i soldi che gli restavano per farsi rappezzare la corazza dal fabbro delle Asce Nere, che lo prese in simpatia e gli affilò gratuitamente la spada.
Si trattava di una vecchia lama acquistata per pochi soldi in un villaggio vicino Middenehim ed era ormai scheggiata e dentellata in modo irreparabile, ma era solida; Sgarri non dubitava che l’arma avrebbe potuto effettuare ancora molte parate prima di dover essere sostituita.
Il tileano passò l’intero pomeriggio ad osservare gli alabardieri che si tenevano in esercizio; si trattava davvero di guerrieri abili, ma il tileano si aspettava di meglio da una compagnia così nota.
Probabilmente il loro valore sul campo di battaglia era dovuto più alla spavalda ed incrollabile fede che alle reali capacità belliche.
Sgarri era ancora seduto su un tronco accanto a Raimund quando squillarono le chiarine.
Era un richiamo lancinante, due note, una acuta e una bassa. Tutte le Asce Nere scattarono come molle; chi si stava battendo interruppe istantaneamente la lotta, chi stava fumando gettò la pipa nella neve.
Raimund prese ad urlare concitatamente con la sua voce profonda e roca –Alle armi, alle armi signorine!-
Anche Sgarri aveva riconosciuto il segnale d’allarme e si affrettò ad indossare la sua corazza appena riparata.
 –Che succede?- Domandò a Raimund mentre indossava l’elmo.
Il sergente farfugliò un “attacco” mentre si gettava il grande scudo a tracolla, da una fusciacca che portava a tracolla gli pendeva una grossa scimitarra senza fodero, che appariva particolarmente minacciosa sul fianco del colossale Reicklander.
Un veterano dall’aria truce aveva estratto il vessillo dal terreno gelato e se l’era messo in spalla.
In pochi istanti l’intera compagnia era equipaggiata e radunata attorno al vessillo.
–Vengo con voi- Gridò Sgarri all’amico e questi gli gettò un’alabarda che il tileano prese al volo.
–Sta in ultima fila!- Ringhiò il sergente prima di dare il secco ordine di partenza nel suo ruvido dialetto.
Il tamburino delle Asce Nere cominciò a battere sulla pelle del suo strumento come se col solo suono potesse respingere il nemico.
La compagnia si inquadrò in pochi istanti e ci mise ancor meno a trovare il passo.
Sgarri sentì un impeto d’orgoglio nel marciare al fianco di questi veterani e si unì allo spavaldo coro degli alabardieri.
Le altre unità di fanteria fiancheggiarono le Asce Nere, formando una linea davanti al villaggio kislevita.
Dalla sua posizione nell’ultima linea della compagnia Umberto non riusciva a scorgere il nemico, ma sentiva distintamente un galoppo inframmezzato dalle secche detonazioni di diverse pistole.
Pochi minuti dopo il tileano vide una decina di pistolieri che correvano a briglia sciolta verso gli alabardieri.
Con manovra perfetta il gruppo si divise per passare negli stretti corridoi lasciati dalle unità che avevano fiancheggiato gli alabardieri.
–Sono tutti vostri ragazzi!- Gridò con aria gioviale uno dei cavalleggeri mentre passava accanto alle Asce Nere.
Solo a quel punto Sgarri individuò un nutrito gruppo di cavalieri norsmanni che erano quasi addosso alla prima linea.
Gli alabardieri lanciarono un grido di sfida e protesero avanti le armi, mentre la prima fila si inginocchiava.
Solo allora il tileano comprese l’utilità di quegli scudi rettangolari; proteggere il fianco sinistro delle Asce Nere dalla spalla al ginocchio, lasciando libere le mani per manovrare l’alabarda.
–Lemec!- Ringhiarono gli alabardieri mentre la cavalleria si schiantava rovinosamente su di loro.
Un cavaliere barbaro volò in aria ed atterrò ai piedi di Sgarri, mentre le sue interiora piovevano sugli alabardieri della file precedenti.
Un norsmanno si liberò dal cadavere del suo cavallo e mulinò l’ascia con aria assassina, ma il suo urlo di sfida fu soffocato da un colpo di alabarda che gli sfondò la gabbia toracica.
La cavalleria iniziò a manovrare per portare un secondo assalto, ma le unità che proteggevano i fianchi delle Asce Nere scattarono in avanti circondandola.
Ovunque i barbari, terrorizzati, venivano disarcionati e uccisi.
Improvvisamente le retrovie nemiche furono bersagliate da un’imponente pioggia di dardi scagliati dagli arcieri che si trovavano alle spalle della fanteria imperiale.
I cavalieri erano terrorizzati e disorientati; quello che credevano essere un gruppo sparuto e demotivato di fanti si era rivelato un impenetrabile muro di scudi.
Con la loro studiata fuga i pistolieri li avevano attirati proprio nel punto più forte della linea di difesa.
–Facciamoli a pezzi!- Gridò Raimund mentre, impugnando a due mani la sua temibile scimitarra, sfondava il cranio nudo di un nemico.
Il pesante stendardo della compagnia si abbatté con violenza su un attonito nemico, schiantandolo a terra assieme al suo cavallo.
In pochi minuti il nemico fu annientato, ma una minaccia ben maggiore si presentò al posto della cavalleria.
I distaccamenti arretrarono tornando in linea con gli alabardieri mentre una temibile linea di fanteria avanzava lentamente verso le linee imperiali, guidata da una specie di colosso mutato protetto dalla nera armatura del caos.
Il nemico caricò urlando; i mazzafrusti e le grandi lame sfondavano scudi ed ossa.
Al grido di “Lemec” le Asce Nere si strinsero attorno all’alfiere, nel tentativo di reggere il tremendo urto dei potenti muscoli mutati dei nemici.
L’impeto nemico si ruppe; per quanti alabardieri cadessero nel tentativo di contenere la caotica furia, le Asce Nere non cedevano un passo, per ogni uomo che cadeva nella neve rossa un altro si faceva avanti per morire col nome di André Lemec sulle labbra.
Alla lunga questa abnegazione fiaccò gli animi dei nemici, che rallentarono l’assalto.
Ma tale resistenza non bastò d’esempio per i distaccamenti che, disorientati dalla violenza del nemico, si ritirarono per riorganizzarsi.
Sgarri imprecò quando si accorse che il nemico li stava circondando dai fianchi lasciati sguarniti.
Un colosso di norsmanno con una chela al posto del braccio sinistro gli si fece incontro, ma un alabardiere s’interpose.
La chela lo stritolò, facendo a pezzi la sua gabbia toracica. –Lemec!- Urlò l’uomo mentre, con le ultime forze, piantava un pugnale nella gola del nemico.
Sgarri si chiese cosa poteva aver fatto questo André Lemec per guadagnarsi una simile devozione da parte dei suoi uomini.
Il terrore si fece largo tra i pensieri del tileano; ma che stupida idea quella di combattere con le Asce Nere, che gli era venuto in mente? Non era necessario, non aveva senso…
Un nemico tentò di mozzargli la testa con un colpo d’ascia, ma il tileano si abbassò fulmineo e gli gettò contro l’alabarda.
Lo spadaccino estrasse la sua arma favorita e ne baciò la lama.
–Forza- Ringhiò ignorando la paura che gli torceva le budella –Vieni verso il tuo destino!-
Il norsmanno tentò ancora di colpirlo e, probabilmente, non comprese mai che il tileano lo aveva ferito alla coscia, tanto fu rapito Sgarri nel ferirlo al petto ed all’addome.
Il tileano spinse via il nemico agonizzante con un calcio e parò un colpo d’ascia, pronto a combattere ancora, mentre gli alabardieri gridavano a gran voce –Di qui non si passa! Indietro vermi!-
Ma il nemico era numeroso e galvanizzato dalla forza del suo campione che, da solo, stava facendo strage di arcieri.
Sgarri infilzò un nemico e vide un altro norsmanno che tentava di colpirlo, ma un’alabarda lo infilzò al petto.
Il tileano si sentiva assurdamente fiero di trovarsi in quella pericolosissima situazione al fianco di quegli uomini così valorosi.
Si sentiva di nuovo come quand’era con i suoi fratelli spadaccini del Middenland.
Le Asce Nere non avevano mai permesso che il loro stendardo cadesse a terra ed ora Sgarri ne comprendeva il motivo; tutti si erano stretti in cerchio attorno al vessillo e nessuno osava dare il benché minimo segno di cedimento, tutti si battevano con disperato valore.
Ma il nemico era troppo numeroso.
Proprio quando Sgarri stava per essere colpito da una mazza, il nemico che la reggeva cadde all’indietro, trafitto dalla lama di una spada lunga.
Un reggimento di grandispade si stava facendo sanguinosamente largo verso gli alabardieri, che si voltarono ed acclamarono a gran voce un singolare personaggio che camminava tra i soldati.
Indossava una corazza da cavaliere ed un elmo con visiera, ma non portava una tenuta sgargiante, bensì una livrea nera, decorata solo con la V rovesciata dello stendardo che il tileano aveva visto all’ingresso del villaggio.
Il cavaliere si muoveva sul campo di battaglia con estrema baldanza, come se non fosse in corso uno scontro e per un istante Sgarri ripensò al capitano Tharnem.
Il singolare personaggio non portava lo scudo ed impugnava una spada decorata di rune che emetteva un luccichio sinistro.
Al suo passaggio i fanti scandivano –Le mec, Le mec!!-
Lui accennò un saluto alle Asce Nere, quindi si diresse a passo sicuro verso il campione nemico.
Il caotico lo guardò con odio e gli si scagliò addosso mentre Lemec lo insultava a gran voce in bretonniano.
Le due lame cozzarono e si disimpegnarono, quindi cozzarono ancora.
Sgarri era uno spadaccino eccellente e gli bastò vedere questo semplice scambio di colpi per capire quanto il bretonniano fosse abile.
Non era particolarmente forte o veloce, ma inclinava sempre la lama in modo che i colpi nemici spiovessero verso terra, affaticando l’avversario.
I campioni si muovevano in cerchio e l’intero combattimento si era arrestato per permettere ai guerrieri di assistere all’epico scontro.
Il teso silenzio era rotto solo dai grugniti dei combattenti e dal cozzare del metallo.
Con un urlo che era odio puro il caotico abbatté la sua pesante lama nera.
Lemec si scostò e roteò due volte su se stesso. Al primo giro mozzò le mani al nemico, al secondo gli mozzò la testa.
Quindi rovesciò il cadavere con un calcio –Vai a farti fottere!- Grugnì in tileano.
Il cavaliere mulinò la spada e la puntò verso un nemico –Avanti il prossimo- Ringhiò in comune.
I norsmanni stavano ancora osservando basiti il corpo fremente del loro campione quando gli imperiali si fecero avanti per riprendere lo scontro.
Senza pensarci due volte i barbari si girarono e fuggirono disordinatamente, in seguiti dalle invocazioni a Sigmar e dagli insulti dei vincitori.
 
Sgarri camminava tra le Asce Nere, oltre la metà dei quali erano sorretti dai compagni.
Dietro di loro i caduti erano trasportati sui carri verso l’accampamento.
Raimund arrivò sorridendo, brandiva ancora la scimitarra insanguinata ed aveva le tempie fasciate da una benda scarlatta.
–Siamo invincibili!- Disse allegramente.
Sgarri lo osservò un po’ interdetto, aveva visto cadere un terzo del reggimento e metà dei sopravvissuti era ferita, dov’era la vittoria?
Ma Raimund sembrava felice del fatto che i suoi avessero dimostrato ancora una volta il loro valore.
Mentre attraversavano il villaggio i kisleviti li guardavano silenziosi, poi una donna si colpì la mano sinistra con la destra.
In pochi istanti l’applauso crebbe d’intensità e di volume, mentre gli abitanti ringraziavano con urla e fischi i salvatori del loro villaggio.
Sgarri era spaesato; ovunque era stato la gente l’aveva solo visto come un ubriacone potenzialmente pericoloso per l’onore delle figlie, non come la persona che impediva al nemico di sgozzare la candida figlia.
Si ritrovò a sorridere con aria ebete mentre una fanciulla biondissima gli gettava le braccia al collo e lo baciava su entrambe le guance.
 
Era passata una settimana dall’attacco ed il nemico non s’era più visto.
Le Asce Nere erano tornate all’originale numero di effettivi in pochissimo tempo, poiché un gran numero di veterani degli altri reggimenti aveva chiesto l’onore di essere arruolato e, dopo essere stati messi alla prova, molti erano stati accettati.
 Raimund chiese anche al tileano di entrare nel corpo, ma Sgarri declinò gentilmente l’offerta perché alle Asce Nere era richiesta una grande abilità con l’alabarda, loro arma favorita, abilità che lui non aveva.
Il reicklander insistette comunque perché il tileano si presentasse ad André Lemec, certo che questi gli avrebbe trovato un impiego, ma quando furono alla sua capanna i due scoprirono che il Bretonniano aveva lasciato il campo subito dopo la battaglia in compagnia di una decina dei suoi cavalieri migliori per ragioni personali e che nessuno sapeva quando sarebbe tornato.
 Così una mattina dal cielo plumbeo il tileano informò l’amico che intendeva partire. Raimund, seduto davanti al suo riparo si strinse nel mantello.
–Dove pensi di andare?- Domandò il reicklander.
Sgarri si strinse nelle spalle. –Non lo so, penso che cercherò di trovare un ingaggio ad Altdorf-
Raimund quasi si strozzò con il liquore che stava trangugiando. –Altdorf?! Perché vuoi arruolarti con quelle femminucce?-
Il tileano rispose un po’ a disagio –Vedi Raimund, come avrai notato non ho molti soldi… Anzi, per dirla tutta non ho neanche una moneta bucata, e vorrei tornare in Tilea a fare visita alla mia famiglia, per cui mi arruolo con i provinciali di Altdorf che pagano meglio degli altri…-
Raimund annuì –E laggiù difficilmente conoscono la storia di come sei stato sbattuto fuori dagli spadaccini imperiali-
Il tileano sorrise e prese la borraccia dell’amico bevendone una robusta sorsata.
Raimund annuì lentamente –Avrai bisogno di fondi per un viaggio simile, come pensi di fare?-
Sgarri volse lo sguardo al cielo basso –Pensavo di vendere il mio equipaggiamento; ai provinciali di Altdorf lo detraggono dal primo salario-
Il reicklander si grattò la barba e riprese la borraccia con aria assorta.
–Senti- Disse –Ho bisogno di teste d’alabarda e corazze per il mio reggimento, pensavo di pagare un messo per portare l’ordine e la promessa di pagamento al nostro fabbro di fiducia, ma il viaggio è tutto via terra e sinceramente preferisco affidare il messaggio ad un soldato esperto e che conosce bene il territorio, quindi senti un po’, io ti do un cavallo, provviste e vettovaglie per il viaggio, tu consegni il messaggio, poi vendi il cavallo e ti paghi il viaggio via fiume fino ad Altdorf-
Sgarri annuì interessato; non gli era mai piaciuta l’idea di vendere il suo vecchio e solido equipaggiamento e questa offerta gli offriva una valida alternativa.
–Come mai dici uno che conosca il territorio?- Chiese all’amico
–Raimund si strinse nelle spalle –Il nostro fabbro di fiducia si trova nel paese di Ulricland, vicino Middenehim, se non sbaglio si tratta della zona di foresta che pattugliavate abitualmente voi Lupi del Middenland-
Sgarri annuì convinto –Altroché- Confermò –Ci sono passato decine di volte da Ulricland, la mia spada è stata forgiata proprio dal fabbro di quel paesino-
-Bene, allora accetti?- Domandò Raimund.
Il tileano sorrise, c’era forse bisogno di chiederlo?
Il sergente s’alzò di scatto e lanciò pochi ordini secchi per farsi portare il necessario.
–Non che voglia liberarmi di te, ma vorrei avere quei rifornimenti il prima possibile-
Sgarri annuì e raccolse i suoi pochi averi.
Quando passò davanti all’amico stringendo il mantello da norsmanno questi lo fermò.
–Non scherziamo- Disse severamente –Prendi questo- Così dicendo gli porse uno dei pesanti mantelli delle Asce Nere, che riprendeva lo stemma del reggimento.
Sgarri gli sorrise e lo ringraziò mentre, gettatosi sulle spalle il caldo indumento, prendeva le briglie del cavallo che era appena arrivato condotto da uno stalliere.
Il tileano controllò provviste e vettovaglie che erano state agganciate alla sella, quindi balzò goffamente in groppa all’animale.
Il reicklander salutò militarmente l’amico che rispose al saluto. –Non farti ammazzare, almeno non prima d’aver portato il messaggio al fabbro-
Sgarri rise –E tu vedi di non annoiarti troppo quassù, ti vedo già con la pancia-
Il tileano spronò ed il cavallo si mise in movimento, gli zoccoli che rimbombavano sul terreno gelato dell’accampamento.
Proprio mentre passava sotto lo stendardo del reggimento Sgarri fu bloccato dalla sentinella.
–Che c’è Waldo, cerchi problemi?- Chiese allegramente.
L’alabardiere sorrise e gli porse una lunga daga.
Il tileano la sfoderò e la contemplò attentamente. Era un’arma sottile ed affilata, ideale per infilarsi tra le giunture delle corazze, ma era anche abbastanza robusta per parare i colpi nemici.
–Da parte di tutti i ragazzi- Spiegò Waldo –è stato un onore combattere al fianco di un teschio d’argento-
Il tileano sorrise e ringraziò l’alabardiere, quindi i due si salutarono e Sgarri ripartì con la promessa di offrire da bere a tutto il reggimento.
Sporadici fiocchi candidi avevano preso a cadere lenti quando il cavallo imboccò la strada del sud.
Il tileano respirò a pieni polmoni l'aria fredda; era per questo che viveva, un abitato caotico e allegro alle spalle, il vento sulla faccia, una foresta sterminata all'orizzonte e che Ulric la mandi buona!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Un incontro inaspettato ***


Lembi di nebbia si aggrappavano agli alberi dalle fronde basse, mentre un leggero nevischio continuava a scendere dal cielo candido.
Il cavallo procedeva a fatica lungo un sentiero che esisteva solo nella memoria del cavaliere. Un cervo apparve per un istante alla destra del cavaliere e corse goffamente fino ad un punto più fitto della foresta. Sgarri imprecò mentalmente pensando che un arco avrebbe potuto risparmiargli un’altra cena a base di carne secca e gallette.
Si strinse nel mantello e fissò lo sguardo sul sentiero che, oltre la nube di vapore delle sue narici, proseguiva per il Middenland. La barba rossa del tileano, lunga di una settimana, era coperta di cristalli di ghiaccio, al pari delle sopracciglia.
Il cavallo sbuffò allarmato e Sgarri lo tranquillizzò con una pacca gentile sul collo.
Un branco di lupi lo stava seguendo da tre giorni, ogni tanto uno si faceva più ardito ed avanzava fino a dove il cavallo lo poteva fiutare, ma fino ad ora non avevano dato grossi fastidi. La luce stava rapidamente scemando e il tileano individuò un buon posto per un riparo.
Balzò a terra con le gambe che dolevano per la lunga cavalcata e s’infilò in una specie di grotta formata dalle grandi fronde innevate di un abete.
Con pochi colpi d’ascia il tileano si procurò fronde sufficienti a completare il riparo e dissellò il cavallo, mettendo al riparo i bagagli.
Sgarri era un esperto della vita nei boschi, in effetti aveva fatto parte di una compagnia di spadaccini d’élite, specializzata nella caccia agli uomonibestia e che passava la maggior parte del suo tempo nella foresta.
In pochi istanti il tileano aveva individuato alcuni rami che, riparati da altre fronde, erano rimasti asciutti e li tagliò.
Scavando con un piede, liberò dagli aghi secchi larga parte del suo riparo e, al centro, in corrispondenza del buco che aveva lasciato nella copertura, scavò una piccola fossa che circondò di pietre.
Il tileano posizionò con cura la legna, in modo che i rami più grandi stessero in piedi, quasi a formare una piccola capanna.
Era il sistema migliore per ridurre al minimo il fumo prodotto dal bivacco, non che ci fosse una ragione particolare per nascondere la sua presenza; le profonde tracce nella neve erano così chiare che, anche al buio, avrebbe potuto seguirle perfino un bambino, era più una questione di abitudine.
Sgarri staccò un ciuffo di muschio secco dal tronco dell’abete e lo usò come esca.
Con pochi colpi d’acciarino, il militare fece infiammare il muschio che poi mise nel mezzo del circolo di pietre.
Pochi secondi dopo un allegro fuoco riscaldava l’ambiente.
Il tileano condusse il cavallo al riparo sotto lo stesso abete, in modo che potesse riposare al riparo dalla neve e che allo stesso tempo facesse da sentinella.
Per farlo stare caldo Sgarri lo coprì con una coperta, quindi rientrò nel suo riparo e bloccò l’entrata con una frasca.
Il tileano si tolse il mantello e lo riempi di aghi secchi, creando così un morbido materasso che posizionò a debita distanza dal fuoco, quindi si sedette sulla sua coperta per isolarsi dal suolo e cominciò a scaldare la carne secca in un pentolino di ferro pieno di neve che aveva posato su una delle pietre del bivacco.
Quell’aria leggermente fumosa ed il profumo di resina gli riportarono alla mente ricordi che gli fecero luccicare gli occhi.
In un riparo molto simile, pochi anni prima, riposava accanto al fuoco con i suoi commilitoni. Ronald dalla barba nera, che intagliava un giocattolo per la figlia piccola da un ramo di larice, Marcus il biondo, che continuava ad affilare la spada strofinandola con la cote, Harry lo sfregiato che riparava lo scudo, bestemmiando sottovoce ad ogni colpo di martello, Fred il lungo, che suonava l’ocarina traendone le allegre note d’una canzone popolare che tutti accompagnavano a tratti, raccontando la storia del puttaniere di Middenehim, che con dieci amanti s’innamorò della sua grassa moglie.
E fuori l’urlo del vento.
Una lacrima scese lentamente lungo il duro viso dello spadaccino.
Sgarri recuperò la carne ammorbidita e bestemmiò sonoramente quando si scottò le dita.
La carne faceva davvero schifo, ma lo scoppiettare allegro del fuoco riuscì a cambiare umore al militare, che si sdraiò sul giaciglio e, gettatasi sopra la coperta di lana, cominciò a canticchiare “Vi narro ora la storia di Pino, c’amava donne, giuoco e vino…” .
Il tileano si destò alle prime luci dell’alba, sorprendentemente aveva dormito bene. I resti del suo fuoco erano coperti da un leggero strato di neve, entrata dal foro sul tetto.
Sgarri aprì la porta del suo bivacco e si gettò il mantello in spalla, quindi si assicurò le armi alla cintura.
Il cavallo aveva mangiato tutto il fieno che il tileano gli aveva lasciato, così sgarri cercò nella sella la tasca dei cereali e fece per dargliene una manciata, ma l’animale era troppo agitato. Sgarri cercò di calmarlo, ma il quadrupede non era per nulla incline a farsi sellare.
Sgarri fissò il cielo candido che minacciava altra neve, quindi si rivolse al cavallo
 –Dai bello, dacci un taglio, adesso fatti sellare che poi ce ne andiamo di qui eh?-
Ma l’animale nitriva e scalciava, così che il tileano dovette allontanarsi a distanza di sicurezza.
Imprecando tra i denti il militare fece per avvicinarsi nuovamente all’animale quando, con la coda dell’occhio, individuò un leggero sbuffo di fumo.
Un cittadino l’avrebbe scambiato per il riverbero della neve, ma Sgarri era nato e cresciuto in montagna ed aveva lavorato a lungo nella foresta; per lui era chiaramente lo sbuffo di vapore emesso dalle narici di un animale in corsa, troppo piccolo per essere un cavallo e troppo grosso per essere un gatto selvatico.
Il militare si volse di scatto sguainando al contempo la spada.
Un grosso lupo grigio si arrestò istantaneamente di fronte a lui. E cominciò a ringhiare piano. Il tileano imprecò; sperava che ai lupi sarebbe bastato il cervo che aveva visto e che avrebbero smesso di seguirlo, o che per lo meno non avessero il coraggio di attaccarlo.
Invece, lentamente, tutto il branco lo circondò.
Se avesse ucciso il cavallo probabilmente sarebbe riuscito a fuggire attraverso il branco, ma senza cavallo aveva poche possibilità di raggiungere la sua meta.
Sgarri sguainò anche la daga e si preparò a subire un assalto.
Il lupo che aveva di fronte era chiaramente il capo branco, per cui era il nemico da eliminare per primo, in modo che il resto del branco si scoraggiasse.
Il militare mulinò la spada preparandosi ad attaccare, ma il lupo fu più rapido.
Sgarri osservò spaventato gli occhi gialli del lupo e le sue zanne digrignate, si concentrò sul leggero rimbombo delle sue zampe in corsa e comprese.
Lo avevano fregato, un altro lupo lo stava attaccando alle spalle, non c’era modo di uccidere entrambi.
Con un ringhio risoluto Sgarri si preparò ad infilzare il capo branco, nella speranza che le ferite inflittegli dall’altro non gli avrebbero impedito di continuare a combattere.
I lupi balzarono all’unisono e Sgarri si slanciò in avanti.
Il tileano affondò la lama, che si conficcò fino all’elsa nel ventre del capo branco.
L’impeto del grosso canide travolse l’uomo, che cadde all’indietro.
Mentre cadeva supino nella neve, Sgarri vide l’altro lupo passargli sopra ed atterrare poco più avanti.
 Il militare pregò Ulric di richiamare i suoi servi e si preparò a difendersi dal secondo attacco, ma il lupo non si rialzò.
 Sgarri ci mise alcuni secondi ad accorgersi che l’animale era stato trapassato da parte a parte da una freccia.
Con un balzo felino il tileano si rimise impiedi e passò la daga nella destra, pronto a combattere ancora, ma i lupi non sembravano intenzionati a proseguire.
Una figura grigia e longilinea era appena apparsa nel cerchio di lupi e stava rivolgendo loro musicali parole in una lingua a Sgarri ignota.
Pochi istanti dopo il branco fuggì. La misteriosa figura si avvicinò al lupo trafitto e posò l’arco, quindi chiuse gli occhi e recitò quella che sembrava una preghiera, sempre nella sua misteriosa lingua.
Sgarri lo osservò un po’ interdetto; l’essere lasciava impronte leggere come quelle d’un bambino, pur essendo alto quanto lui.
–Un elfo eh?- Disse il tileano –Beh, non esattamente l’essere che incontro con più piacere, ma grazie comunque-
Così dicendo Sgarri porse la mano all’elfo.
Questi annuì ma non strinse la mano all’uomo.
Aveva gelidi occhi d’un azzurro metallico e capelli grigi, come tutti i suoi vestiti.
Sembrava malato, era pallido come un morto e tremava leggermente.
–Hai un foco?- Chiese in comune.
Il tileano annuì ed aiutò l’altro ad alzarsi, quindi lo distese sugli aghi secchi che aveva usato come giaciglio quella notte e liberò dalla neve il bivacco.
–Torno subito- disse uscendo alla ricerca di legname.
 
Dopo alcuni minuti accanto al fuoco l’elfo si mise a sedere.
Appariva ancora pallido ed emaciato, ma riusciva a parlare.
–Cosa fa un elfo malato in mezzo alla foresta?- Domandò il tileano.
L’elfo sospirò prima di rispondere
–Sono solo ferita, niente di serio, ma noi elfi dei boschi siamo più deboli in inverno… E non è stato facile convincere quei lupi che tu e il tuo cavallo siete indigesti-
Sgarri si grattò la nuca a disagio, non era mai stato un esperto nel trattare con gli elfi e, cosa ancor più imbarazzante, si era accorto che l’elfo era una femmina.
–Che… Che cosa fai così lontano dalla tua foresta?- Domandò velocemente, quasi biascicando le parole.
L’elfa aveva aperto il suo largo mantello mostrando una tunica grigia che rendeva evidente la sua femminilità.
–Io non vivo più a Loren; ora sono una mercenaria- Sgarri non sapeva che gli elfi dei boschi avessero rappresentanti tra le lame al soldo, ma non ritenne opportuno farlo sapere alla sua esausta ospite, anche perché aveva appena notato una larga chiazza di sangue sul lato sinistro dell’addome dell’elfa.
 –Bisogna rifarti la fasciatura- Disse evitando di guardarla negli occhi, che dal grigio avevano rapidamente variato ad un verde scuro simile a quello degli aghi di abete.
L’elfa sbuffò –So badare a me stessa, grazie, appena ne avrò la forza rimarginerò la ferita con la magia del mio popolo-
Sgarri annuì poco convinto, non pensava che l’elfa fosse in grado di rimarginare del tutto la ferita, ma non osava dirlo; in fondo lei gli aveva appena salvato la vita.
–Dove sei diretta?- Domandò invece.
–Volfenburg, sono diretta a Volfenburg-
Sgarri annuì, pensava che avrebbe dovuto offrirsi volontario per accompagnarla visto che mancava una settimana abbondante di cammino e lei era ferita.
Ma l’elfa non gli diede il tempo di parlare –A cinque miglia in direzione Nord Est, in una radura con due alberi caduti, ho lasciato i miei bagagli. Li trovi sotto un piccolo abete, penso che dovresti prenderli se dobbiamo proseguire assieme-
Il tileano stava per risponderle male, ma poi vide il viso longilineo contrarsi in una smorfia di dolore.
Con un sospiro si gettò in spalla il pesante mantello delle Asce Nere, prese la borraccia, si mise in tasca alcune gallette ed uscì dal riparo.
Controllò rapidamente la posizione del sole e individuò facilmente la direzione indicatagli dall’elfa.
C’era molta neve verso Nord e Sgarri decise che avrebbe fatto prima ad andare a piedi piuttosto che a cercare un passaggio praticabile per il cavallo.
Così indossò il cappuccio e si avviò con la neve a metà coscia.
Faceva meno freddo del giorno prima, ma dopo poco più di un’ora prese a nevicare copiosamente.
Il tileano si fermò un istante e mangiò un paio di gallette, quindi si colpì la guancia gelata con uno schiaffo; doveva stare attento, non poteva più procedere immerso nei suoi pensieri come aveva fatto fino a quel momento o si sarebbe perso nella nevicata.
Si rimise in cammino facendo bene attenzione a dove deviava per evitare le impervietà del terreno.
Ora che il sole era scomparso e che la nevicata aveva aumentato d’intensità la visibilità era ridotta a pochi metri e non era facile orientarsi.
Dopo una ventina di minuti Sgarri si fermò e poggiò le mani sul tronco di un grosso larice.
Le mani esperte dello spadaccino percorsero la dura corteccia in cerca di risposte che solo un uomo di montagna poteva comprendere. La quantità di muschio sui vari lati del tronco gli raccontò una storia di vento e gelo.
Sgarri carezzò l’albero, quasi a ringraziarlo, quindi riprese il cammino piegando leggermente verso sinistra; si era infatti accorto di essere finito troppo a Sud rispetto alla direzione che si era prefissato.
Proseguì per un periodo di tempo che non avrebbe saputo quantificare prima di individuare un leggero avvallamento nella neve.
Doveva trattarsi del torrente che aveva superato il giorno prima, dunque doveva essere poco oltre la meta.
Restava da vedere se fosse a Nord o a Sud rispetto alla radura indicata dall’elfa.
Era inutile cercare tracce; lei era troppo leggera e la neve caduta troppa perché se ne potessero trovare.
Tuttavia il tileano aveva servito per anni nei Lupi del Middenland, la cui mansione principale era la caccia agli uominibestia; una simile esperienza lo aveva reso abilissimo nella ricerca di qualunque segno di passaggio. Sgarri sbuffò e si mise all’opera.
Cercava qualunque segno indicasse il passaggio della sua ospite; un rametto spezzato, un’impronta sotto le fronde di un abete, un lembo di mantello tra gli arbusti… Si aggirò attorno al letto del torrente in semicerchi sempre più ampi, per ore.
Alla fine era stanco ed infreddolito, col naso che colava ed i piedi intirizziti, ma non aveva trovato nulla.
Imprecando sottovoce il tileano riprese a cercare; non intendeva tornare sconfitto, era una questione di principio.
E la sua ostinata perseveranza fu premiata. Sul letto di aghi morti ai piedi di un monumentale abete erano rimaste tre impronte quasi impercettibili.
Sgarri sorrise, l’elfa si era fermata a salutare lo spirito dell’albero, il quale aveva preservato le tracce dalla neve.
Il tileano poggiò una mano sul tronco dell’abete e lo ringraziò mentalmente, quindi decise di sedersi li all’asciutto e mangiare le rimanenti gallette.
Lo spadaccino si concesse diversi minuti per tirare il fiato.
Ripensò ai Lupi del Middenland, erano sempre preceduti dalle leggende sulla loro solidità ed incrollabile fede, tanto che un prete di Ulric li aveva definiti “Gli eletti del dio lupo”.
Sgarri sorrise, il vero motivo per cui si battevano a quel modo era l’addestramento.
Per diventare un Lupo era necessario superare un addestramento così duro che al confronto le battaglie più sanguinose sembravano normale amministrazione.
La mente del tileano tornò al giorno della sua prova finale; alcuni cavalieri del lupo bianco l’avevano prelevato da un bordello e picchiato abbondantemente, quindi lo avevano bendato e legato mani e piedi.
Poi lo avevano portato da qualche parte nella foresta, avevano gettato a terra chissà dove la sua spada, gli avevano fatto stringere un pugnale tra i denti e lo avevano gettato giù da cavallo mentre andavano al galoppo.
Ci aveva messo mezza giornata solo per liberarsi ed altrettanto per ritrovare la spada.
Per trovare la strada per Middenheim aveva impiegato quattro giorni.
Era stato il quarto a tornare in caserma, però era l’unico che recava con se la testa di un centigor.
–Beh Berto, ne hai passate di peggio nei Lupi, questa marcia non è niente- Si esortò il tileano mentre usciva dall’asciutto riparo.
Dall’inclinazione dell’ultima impronta era facile dedurre la direzione di marcia, per cui Sgarri non trovò alcuna difficoltà nel seguire il cammino dell’elfa.
La cosa positiva dell’abbondante nevicata era che non si rischiavano brutti incontri; neanche i demoni del caos avrebbero marciato con un simile tempo.
Il tileano individuò una radura che poteva corrispondere alla descrizione della sua ospite, quindi si avvicinò al piccolo abete e prese a scavare nella neve con le mani intirizzite. Con immensa gioia trovò uno zaino in materiali vegetali.
Aveva alcune vettovaglie agganciate a varie corde ed una coperta avvolta legata in cima.
Su un lato era appesa una lunga spada dall’elsa squisitamente decorata con un motivo a foglie di rampicanti dall’aspetto straordinariamente realistico.
Quando viveva ancora al paese con la sua famiglia, Umberto si era anche dilettato nella scultura su legno, con risultati non proprio esaltanti, più per mancanza d’impegno che per assenza di talento.
Questa sua predisposizione lo portava ad ammirare particolarmente i lavori d’intaglio che coprivano tutte le parti di legno presenti nel bagaglio.
Sgarri slegò la coperta e se l’assicurò a tracolla, così da ripararla dalla nevicata col mantello. L’elfa aveva avuto l’accortezza di usare alcune frasche per coprire l’equipaggiamento, facendo si che il tutto si mantenesse asciutto.
Lo zaino era piuttosto pesante e Sgarri capì perché lei se n’era liberata prima di correre in suo aiuto.
Con uno sbuffo il tileano si mise in marcia.
Aveva resistito alla tentazione di frugare nel bagaglio solo perché la luce stava rapidamente scemando e lui non aveva alcuna intenzione di farsi sorprendere dal buio.
Nonostante il freddo intenso e la sfibrante marcia nella neve alta, il fatto di aver trovato il bagaglio aveva messo di buon umore Sgarri, il quale prese a darsi il passo cantando una delle sue amate canzoni da osteria.
–Chi è che dice che il vino fa male, è tutta gente, è tutta gente… Chi è che dice che il vino fa male è tutta gente già nella tomba… Io ne ho bevuto tanto e non mi ha fatto male, l’acqua fa male, il vino fa cantar…-

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Arys di Frondascura ***


Il freddo si era fatto molto più intenso da quando era calato il buio e Sgarri aveva perso ogni residuo di buon umore.
Da quasi un’ora camminava in cerchi sempre più larghi alla ricerca del suo riparo.
Aveva abbandonato la direttrice di marcia per seguire quello che credeva essere un nitrito del suo cavallo, invece non aveva trovato ancora nulla e, con ogni probabilità, si era perso.
Il tileano si strinse nel mantello e si forzò a proseguire.
Nevicava ancora, anche se con meno intensità ed il cielo era invisibile, così che il buio formava una coltre quasi impenetrabile.
Un mucchio di neve cadde da una fronda proprio sopra la torcia di Umberto.
Lo spadaccino bestemmiò sonoramente Sigmar quando la luce svanì in un sibilo.
Nel buio il tileano sentì alcuni scricchiolii e l’inconfondibile suono di passi nella neve.
Con il cuore in gola si spostò di alcuni passi rispetto al punto dove aveva perso la fonte luminosa.
L’ultima cosa che aveva visto era una radura, e lui non intendeva restarci.
Avanzando a tentoni riuscì ad individuare il solido tronco di un albero, non avrebbe saputo dire di che albero si trattasse.
Tendendo le orecchie il militare poggiò la schiena al tronco, così almeno non avrebbe potuto essere preso alle spalle.
Il cuore gli martellava la bocca dello stomaco; i lupi ci vedevano benissimo al buio, mentre lui cominciava appena a distinguere le nere sagome degli alberi e temeva che la visione non sarebbe migliorata.
Ancora passi, ma non era in grado di determinarne la direzione, l’unica cosa certa era che si avvicinavano.
Cercando di ridurre al minimo i rumori, Sgarri impugnò la daga e la estrasse lentamente.
I denti gli battevano all’impazzata, forse per il freddo o forse per la paura.
Improvvisamente gli parve di cogliere delle voci, ma poteva anche essere un ramo che scricchiolava sotto il peso della neve.
Involontariamente il tileano si abbassò, la daga stretta spasmodicamente nella destra gelata.
 Ancora passi, erano numerosi e goffi, troppo goffi per essere lupi e troppo rumorosi per essere orsi.
Luci. La notte si era illuminata di quelle che sembravano decine di torce.
Una creatura tozza e sgraziata apparve alla sinistra dello spadaccino reggendo un tizzone ardente.
Si fermò e fece roteare attorno il fuoco, per esplorare il terreno.
Sgarri nascose l’arma nel grande mantello e si rannicchiò contro l’albero, non aveva alcun desiderio di farsi scoprire da quell’essere.
Quando l’esploratore grugnì soddisfatto e riportò la torcia in posizione normale una scintilla gli illuminò il grottesco volto.
Una seconda creatura apparve pochi metri più a sinistra ed apostrofò la prima in una lingua sgraziata e brutale.
Le petulanti voci dei due goblin si scambiarono quelle che Sgarri interpretò come informazioni, e poi una serie di quelle che avevano tutta l’aria di essere maledizioni.
 Spostandosi leggermente Sgarri fece scricchiolare un ramo.
Il goblin appena arrivato smise subito di parlare ed indicò nella direzione del nascondiglio di Umberto, ma l’altro urlò qualcosa di poco educato in risposta.
I due parevano molto alterati e Sgarri comprese che il nuovo arrivato desiderava controllare personalmente la zona, mentre il primo difendeva il suo operato e riteneva un insulto il desiderio del suo simile.
I goblin si avvicinarono l’un l’altro e sembravano sul punto di picchiarsi quando apparvero altre torce.
Un orco si fece avanti ed apostrofò i due esploratori, questi petularono qualcosa e lui li afferrò, uno per mano, e, sollevati da terra gli sventurati, li sbatté violentemente l’uno contro l’altro.
L’orco lasciò cadere la coppia di animosi che gli sgattaiolarono via tra le gambe piagnucolando.
L’incidente parve chiuso, perché i goblin riaccesero le torce, spentesi durante la colluttazione con l’orco, e ripresero a marciare sputandosi e rivolgendosi gesti sconci.
L’orco rimase fermo per alcuni minuti fiutando l’aria, quindi diede un secco ordine e prese la direzione tracciata dagli esploratori, seguito da una torma di pelleverde.
Sgarri ne contò una ventina, probabilmente una pattuglia.
Il tileano riprese a respirare solo quando il barlume delle torce scomparve.
Maledetti pelleverde, se lo avessero scoperto sarebbero stati guai seri.
Riprese la marcia nella direzione dalla quale era venuto, poiché era contraria a quella presa dai pelleverde.
Marciò per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, poi qualcosa attirò la sua attenzione, sembrava il barlume di una torcia.
Poteva trattarsi di una seconda pattuglia, tuttavia era il caso di andare a controllare.
Lo spadaccino iniziò a muoversi con grande cautela, poiché il buio gli impediva in gran parte di vedere dove andava.
Improvvisamente il lume scomparve. Sgarri continuò a marciare nella medesima direzione, la daga sempre stretta in pugno.
Il tileano si chinò per passare sotto ad un albero inclinato che gli ostruiva la strada, la luce era riapparsa.
Con sua stessa sorpresa il tileano la vide nuovamente scomparire appena superato l’ostacolo.
 Sempre più inquieto rallentò ulteriormente.
Ormai doveva essere a poche decine di metri dal punto in cui aveva visto la luce e decise di avanzare carponi.
La luce riapparve. Sgarri si rialzò e questa scomparve, quindi si acquattò e questa riapparve.
Il tileano sorrise allegramente, aveva ritrovato la strada di casa; la luce filtrava da un buco nel muro di fronde del suo riparo.
 –Entra- disse una voce armoniosa dall’interno.
Sgarri era esterrefatto; si era avvicinato così silenziosamente che neppure il suo cavallo aveva nitrito.
Comunque ora era troppo stanco per occuparsi di queste cose ed entrò.
L’elfa giaceva su un fianco ed appariva un po’ più in forze di quando l’aveva lasciata, tuttavia la ferita non appariva per nulla rimarginata.
Sgarri le lasciò cadere vicino il bagaglio, quindi si sedette pesantemente a terra.
Era stanchissimo ed il freddo gli entrava nelle ossa suggerendogli di dormire, ma lui sapeva che non aveva ancora il tempo di distendersi.
Con fare stanco si liberò dei calzari fradici e dei pantaloni, quindi si spogliò anche della camicia su cui il sudore si era gelato e del mantello.
Fortunatamente l’elfa aveva subito sostituito la coperta del tileano con la sua, quindi Sgarri poté riappropriarsene per coprirsi mentre faceva asciugare gli indumenti vicino al fuoco.
 Solo quando alzò lo sguardo dalla camicia stesa si accorse che l’elfa lo fissava con aria divertita.
Lui la guardò interrogativo.
 –Succede sempre a voi uomini col freddo?- Domandò lei con voce musicale.
Il tileano stava per formulare una domanda quando lei indicò con una risatina il suo inguine e lui capì.
Immediatamente lo spadaccino imprecò e cercò di coprire l’evidente rigonfiamento della coperta con le mani, mentre le orecchie gli diventavano scarlatte per l’imbarazzo.
–Temevo che i pelleverde ti avessero preso- Disse lei facendosi seria.
Sgarri balbettava chiaramente a disagio, ma riuscì a risponderle –Li ho visti passare, ma loro non hanno visto me… Ma tu sapevi che pattugliano la foresta?-
L’elfa annuì –Sono passati nei pressi del riparo poche ore fa, ma era ancora chiaro e il tuo cavallo è molto ubbidiente, per cui sono riuscita a non farmi scoprire, coperto com’è di neve questo riparo è praticamente invisibile di giorno, ma temo che di notte filtri la luce da qualche punto-
Sgarri annuì e, ricordatosi della luce che lo aveva aiutato a ritrovare la strada, raccolse un sasso e tappò il buco da cui fuoriusciva il bagliore.
Lei si strinse nelle spalle –Non basterà a nasconderci del tutto; i pelleverde mi hanno ferita molto più a Nord di qui, se stanno già pattugliando questa zona vuol dire che marciano velocemente e prima o poi mi troveranno-
Il tileano la squadrò –Perché una tribù di orchi dovrebbe cercare proprio te? Con tutto il cibo che c’è in zona dovrebbero interessarsi a te che non sei neanche un granché come pasto?-
L’elfa rise di una risata così cristallina da ricordare l’acqua sulle rocce. –Non lo so perché, ma ce l’hanno con me-
Lo spadaccino era convinto che lei mentisse, era l’unica alternativa al decretarla pazza, eppure quella pattuglia marciava in condizioni proibitive e l’orco aveva sedato la lite tra i goblin invece che gettarsi nella gazzarra, questo non era un comportamento normale. –Cosa hai detto che vai a fare a Volfenburg?-
Lei gli sorrise con una dolcezza che avrebbe sciolto un blocco di ghiaccio –Niente di male soldato, niente di male-
Ciò detto l’elfa si coricò e parve appisolarsi immediatamente.
Sgarri scosse la testa e si raggomitolò nella coperta. –Berto, sei un asino, ogni volta va a finire che ti fai fregare dalle femmine!- In pochi minuti il tileano si addormentò con un sorriso enorme stampato sul viso.
Maledetto asino!
 
Sgarri si svegliò con le gambe intorpidite, la fatica del giorno precedente non se n’era andata del tutto col sonno.
I suoi abiti in compenso erano asciutti, l’elfa doveva essersi svegliata periodicamente per ravvivare il fuoco che ora scoppiettava allegro.
Lei non c’era.
Con uno sforzo immane il tileano si rivestì e sortì dal riparo.
Sgarri orinò nei pressi di un larice, quindi si assicurò in vita il cinturone delle armi.
Aveva smesso di nevicare e la foresta era rischiarata da una luce grigia.
Lo spadaccino cominciò ad esplorare il terreno, ma le tracce dell’elfa si allontanavano dal riparo in direzione Nord e lui non aveva molta voglia di seguirle.
Decise che avrebbe aspettato la sua ospite per un paio d’ore, mentre consumava una spartana colazione e preparava le vettovaglie per rimettersi in marcia.
Lei aveva lasciato il bagaglio nel riparo, prendendo solo arco e spada, segno che intendeva tornare.
Il cibo certo non gli mancava con i due lupi abbattuti, ma il foraggio per il cavallo cominciava a scarseggiare, doveva partire.
Infine il tileano sospirò e prese per le briglie l'animale.
Temeva che lei potesse aver avuto un calo di forze, ma non si decideva a cercarla.
Con un sospiro montò in sella, quindi fece voltare la bestia verso Nord.
Per quanto lei avesse fatto una cosa molto stupida non poteva abbandonarla.
In realtà si, la conosceva appena ed era un’elfa, ma lui era troppo orgoglioso per abbandonarla al suo destino.
Maledetto senso dell’onore, che sentimento fuori posto in un ubriacone tileano!
Ma Sgarri non dovette procedere a lungo, il cavallo aveva fatto appena pochi passi quando lei apparve, spettrale come sempre.
Portava la spada al fianco ed una faretra a tracolla, nella quale aveva trovato posto anche un lungo arco di legno lavorato.
–I pelleverde stanno pattugliando il guado del torrente e, interrogando gli alberi, ho scoperto che hanno bloccato il sentiero più a Sud, sanno che siamo qui.-
Lui la osservò attentamente, sembrava molto migliorata, anche se zoppicava leggermente.
–Monta- Le ordinò scendendo da cavallo –Sei debole, è bene che sia tu a cavalcare-
Lei lo fissò, gli occhi ridotti a fessure grigie –Stupido uomo, io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, cavalca tu che sei una creatura debole e pelosa!-
Sgarri era stupito da un simile accesso di rabbia, ma si ricordò di quello che diceva sempre sua nonna “sta in guardia Umberto, che tutti gli elfi sono pazzi, ma quelli della foresta sono i più psicopatici!”.
Saggia donna era sua nonna. Una delle ragioni per cui Umberto era scapolo, oltre al suo lavoro ovviamente, era che aveva una straordinaria capacità nel far infuriare le donne.
 Quando una donna lo insultava o aveva uno scatto d’ira, Umberto semplicemente si limitava ad un freddo commento, spesso sarcastico, e senza mai alzare la voce.
Questa sua calma urtava terribilmente le donne della sua vita, comprese sua madre e la sua adorata sorella Annalisa a dirla tutta.
Ancora una volta Sgarri dimostrò di essere in grado di far perdere le staffe a qualunque donna, di qualunque età e razza, l’unica a non aver mai dato in escandescenze con lui era la nonna paterna.
Il tileano scese pacatamente da cavallo e mostrò i palmi delle mani in segno di resa.
–Dammi il tuo bagaglio, non ha senso che lo porti quando posso legarlo alla sella-
Non era una domanda e l’elfa fu sul punto di sguainare la spada tanto era arrabbiata, ma il suo viso contratto e la mano stretta all’elsa sembravano turbare il tileano quanto lo preoccupava la politica imperiale, ossia molto meno del suo stivale strappato.
 Lei fissò per alcuni lunghi istanti gli occhi scuri ed inespressivi di Sgarri, fissò il suo volto spigoloso ingentilito dai riccioli della barba rossa lunga di un paio di settimane, il naso che formava una leggera gobba là dove anni prima era stato rotto e le rughe della fronte, decisamente premature per la sua età.
Umberto Sgarri, infatti, aveva solo ventisei anni, per quanto a vederlo affannato e coperto di barba e stracci potesse dimostrarne quaranta.
A quattordici anni, sceso in paese per alcune commissioni, aveva perso tutti i soldi datigli dal padre con un baro alla taverna.
Prima di giocare costui gli aveva offerto da bere e Sgarri, da ragazzino qual’era, si era subito ubriacato, non riuscendo più a capire dove mai finisse la biglia che il baro nascondeva sotto tre ciotole che poi mescolava.
Quando si svegliò era steso in un letamaio, senza un soldo e senza il coltello che suo padre gli aveva regalato per il dodicesimo compleanno.
Piuttosto che ripresentarsi a casa ed ammettere la sua stupidità, Umberto si era arruolato in un’unità di picchieri mercenari di passaggio.
Ufficialmente doveva fare da sguattero, ma il capitano della compagnia, Diego Malatesta, lo aveva in simpatia ed aveva preso a dargli qualche lezione di scherma.
Sgarri si era subito dimostrato uno spadaccino provetto, grazie alle lezioni ricevute sin dalla tenera età da suo padre che era stato uomo di spada del principato di Miragliano prima di ritirarsi in montagna per fare il boscaiolo, ma soprattutto grazie all’indole di Umberto, che lo portava sempre al centro della mischia.
In pochi mesi ottenne armatura e picca.
A seguito di un disastroso scontro con gli skaven nei pressi di Miragliano la gran parte dell’esercito del Malatesta fu sbaragliato e molti picchieri decisero di cercare fortuna tra le truppe provinciali dell’Impero.
Così fece anche Umberto Garri che, per via della sua intolleranza alle rigide regole imperiali, fu ribattezzato dai compagni “Umberto Sgarri”.
Inseguendo i ricordi Sgarri sorrise involontariamente e l’elfa lo interpretò come un ulteriore segno di disinteresse nei suoi confronti, anche perché il tileano stava fissando il cielo.
In un istante tutta la furia della creatura silvana svanì e lei porse ad Umberto il bagaglio.
Il tileano assicurò il tutto alla sella e, preso il cavallo per le briglie, si avviò fuori dal sentiero.
 L’elfa era troppo imbronciata per chiedergli dove stesse andando e, d’altronde, non poteva lasciarlo andare da solo, così gli si accodò, chiusa in un silenzio stizzoso.
Il tileano non dubitava delle informazioni ricevute dalla compagna di viaggio, dunque si stava dirigendo verso un altro sentiero, più ad ovest rispetto a quello che aveva seguito in precedenza.
Si trattava di una pista che portava a Volfenburg, ma proveniva da un villaggio vicino ai monti di mezzo, per cui non aveva senso che dei viaggiatori provenienti dal nord la percorressero.
Non aveva quindi senso cercare viaggiatori provenienti da nord su quella pista, ed era su questo che si basava il piano del tileano.
Un piano discretamente ben congegnato, non fosse che a sera, dopo aver camminato tutto il giorno in silenzio, la pista ancora non si vedeva.
Il tileano si sedette nel riparo appena costruito e strofinò le mani tra loro per riscaldarsi.
 Maledetto paese, dove l’avevano nascosta quella dannata pista?
I due viaggiatori cenarono ancora in silenzio, ma infine lei parlò.
–Complimenti, sei riuscito a perderti-
Lui la guardò interrogativo.
 –Se cercavi la pista per Volfenburg l’abbiamo superata tre ore fa- Spiegò l’elfa con un tono che a Sgarri ricordò terribilmente il capitano Tharnem.
Umberto bestemmiò –Perché non me lo hai detto?!-
 -Non me lo hai chiesto, e poi non sei tu quello che sa tutto?-
Il tileano era alterato, come l’elfa del resto. –Stupida gallina, credi che sia un gioco?! Quelli se ci trovano ci sgozzano!-
-Chi ti credi di essere soldato per parlare così a me?!-
-Ma se neanche so chi accidenti sei?!-
-Io Sono Arys, guardavia del clan della felce scura!-
-Ma dai?! Ed è costume di tutti i guardavia usare la testa solo come appoggio per il naso?!-
L’elfa imprecò e sguainò la spada. Mentre la punta dell’arma si agitava minacciosamente davanti alla gola dello spadaccino, un silenzio glaciale piombò nel riparo.
Il tileano abbandonò improvvisamente il tono belligerante e parlò con voce pacata, gelida e dura, come il rumore dello scalpello sulle pietre tombali.
–Pensaci. So giudicare un guerriero e tu sei una brava combattente Arys di felcescura, ma io ho ucciso guerrieri che valevano dieci volte te e che non erano feriti. Io non sono nessuno, solo un umile soldato e non certo un nobile guardavia come te, ma sono pericoloso. Non lo scordare-
C’era qualcosa di terribile nella voce del tileano, e non era la totale assenza di paura, sembrava così sicuro di quello che diceva da sembrare più pericoloso lui seduto con una spada alla gola, rispetto ad Arys, armata di fronte a lui.
Per alcuni istanti calò il silenzio, poi lei parlò con una voce molto meno minacciosa di quanto avrebbe voluto.
–Chi mi dice che tu non cercherai di vendermi ai pelleverde? Avrai capito ormai che chi mi cattura viene ricompensato principescamente-
Lui sorrise, di un sorriso senza gioia, quello di un uomo che è divenuto tale molto prima del tempo.
–Se volessi consegnarti ai pelleverde colpirei la tua spada con l’avambraccio, sfodererei la mia daga e ti taglierei la gola prima che tu possa anche solo maledirmi.
Ma non è mia abitudine uccidere a sangue freddo, così come non è mia abitudine schierarmi con chi assolda i pelleverde. Non so quale sia la tua missione né m’interessa, ad essere sincero, ma ti porterò fino a Volfenburg, poi proseguirò per i miei affari.
Per cui metti via la tua spada, elfa, e siediti a mangiare.-
Lei lo scrutò per un lunghissimo istante, poi ripose l’arma e si sedette. –Ho fatto bene a correre in tuo soccorso, soldato, sei davvero in grado di portarmi fino a Volfenburg.-
Umberto scosse la testa –Sapremo che ce l’ho fatta quando ci saremo.-
Lei annuì. –Sei sicuro di non voler conoscere la natura della mia missione?-
Umberto annuì –Sono curioso, ma so che ometteresti molte cose, come il motivo per cui i pelleverde ti danno la caccia e chi li paga. Non ho alcun interesse nel farmi raccontare una mezza verità.-
Lei era molto stupita e lo osservò a lungo prima di replicare –Dimmi il tuo nome soldato, chi sei veramente?-
Sgarri sorrise –Mi chiamo Umberto Sgarri e sono un soldato, niente nobili natali o cose affascinanti-
Anche l’elfa sorrise, con aria stranamente saggia –Non ti sminuire Umberto Sgarri, forse non sei il più nobile o il più onesto degli uomini, ma sei un uomo e questa è una qualità rara-
Sgarri meditò a lungo sulla risposta dell’elfa, prima di addormentarsi, ma alla fine si rispose che il problema più pressante era procurarsi un bel paio di stivali nuovi.
Magari scamosciati, in caldo cuoio, foderati all’interno…

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il Conte di Annevie ***


I viaggiatori si svegliarono in un’alba scura e plumbea.

La nebbia sembrava formare ragnatele enormi tra un albero e l’altro, riducendo la visibilità. L’elfa si occupò della colazione, il solito spartano insieme di gallette e carne secca, mentre Sgarri esplorava i dintorni.

Il tileano si era infatti accorto che lei aveva molto patito la marcia forzata del giorno precedente e non voleva che si sforzasse in un giro di perlustrazione.

Aveva quindi approfittato di un tipico clichè di Tilea, ovvero che se è presente una donna è lei a doversi occupare del cibo, per forzarla accanto al fuoco. Si era beccato un bel po’ di maledizioni e gli dei degli elfi probabilmente lo odiavano, ma almeno era riuscito a non farle fare sforzi.

Percorse a ritroso alcuni chilometri, finché non giunse nei pressi di una radura.

Due esploratori goblin erano accampati sotto un larice e stavano arrostendo una lepre.

Sgarri procedette gattoni, avendo cura di non toccare nulla che potesse fare rumore tradendo la sua presenza.

Con estenuante lentezza percorse il margine della radura, passando a meno di tre metri dai nemici, quindi riprese la marcia.

Poche centinaia di metri più avanti trovò altri due esploratori, troppo occupati ad insultarsi tra loro per fare caso a lui. Maledetti bastardi, avevano trovato le loro tracce e stavano pattugliando l’area!

Ma Sgarri era convinto che il grosso dei pelleverde fosse ancora indietro, il che gli permetteva di sgattaiolare tra le pattuglie e prendere la pista, poi tutto sarebbe dipeso dalla loro capacità di muoversi velocemente.

Tornò rapidamente al campo, evitando abilmente gli esploratori, quindi espose il suo piano ad Arys. Lei annuiva in silenzio sbocconcellando una galletta.

–Il problema- Disse lui addentando un pezzo di carne –è che dovremo abbandonare il cavallo, è impossibile passare non visti con un cavallo al seguito-

Lei gli fece esporre tutto il piano, poi si alzò in silenzio e poggiò le mani sul tronco di un monumentale abete.

Rimase così per diversi minuti, poi tornò a rivolgersi al tileano –C’è il letto di un torrente in secca più a Nord, gira attorno alle pattuglie nemiche e si ricongiunge alla pista per Volfenburg, è perfetto-

Sgarri annuì –Ma chi ci dice che non sia presidiato?-

Lei sbuffò con aria di sufficienza –Stupido uomo, sarai anche un grande guerriero, ma in quanto a cervello… Me l’hanno detto gli alberi che è sgombro, loro vedono tutto!-

Sgarri si grattò la nuca –Va bene, se hai finito di prendermi per il naso possiamo anche metterci in marcia-

Lei annuì disarmata, non c’era proprio gusto nel prenderlo in giro, era troppo mite, troppo calmo per risultare soddisfacente.

Nei giorni passati assieme lui si era arrabbiato una sola volta ed una sola volta le aveva parlato con tono serio, altrimenti aveva sempre usato quel suo tono a metà tra l’uomo vissuto e la burla.

I viaggiatori ripresero il cammino, non si curarono di nascondere i segni del loro passaggio; la loro era una sfida di rapidità.

Il torrente in secca c’era veramente e, dopo quattro ore di marcia, con grande sollievo di Sgarri, si rivelò realmente una strada sicura per la pista, che lo traversava con un piccolo ponticello di legno.

Sgarri tirò il cavallo su per la sponda innevata, mentre Arys balzava agilmente sul ponte.

La zona era sgombra.

Senza dire una parola ma con grande sollievo i due ripresero il viaggio, molto più velocemente ora che avevano un sentiero da seguire.

A mezzodì si fermarono per mangiare, dei pelleverde nessuna traccia, tanto che Arys propose di fermarsi a riposare un poco, ma Sgarri rifiutò.

Sapeva che lei aveva un disperato bisogno di riposare, ma aveva combattuto troppe guerre per commettere ancora l’errore di rilassarsi prima della fine della battaglia.

Come diceva sempre il vecchio Diego Malatesta “gli unici picchieri che sono morti combattendo le pecore sono il picchiere Sereno ed il picchiere Tranquillo”.

Così i due si rimisero in marcia.

Lei era più pallida del solito e cominciava a zoppicare leggermente, il tileano chiese di poter vedere la ferita, ma ottenne uno sdegnoso rifiuto.

Ormai le ombre della sera cominciavano a calare e Sgarri aguzzò la vista in cerca di un posto adatto a ripararsi.

Per questo motivo si accorse immediatamente delle ombre che apparvero alla sua sinistra. Orchi.

Lo spadaccino si era involontariamente rilassato durante la marcia ed impiegò alcuni secondi a comprendere la situazione.

Il primo orco che aveva messo piede sulla pista aveva preso a guardarsi attorno allibito, mentre il secondo gli aveva rifilato uno schiaffone.

In pochi istanti era scoppiata una discussione così animata da sembrare una rissa.

Era evidente che la pattuglia aveva sbagliato strada nella foresta ed era capitata nel posto sbagliato.

Furono istanti preziosi, che avrebbero permesso a Sgarri di mettere in salvo i suoi, non fosse che il tileano era troppo basito per fare qualsiasi cosa.

Evidentemente la reazione dell’elfa doveva essere stata del tutto simile a quella dello spadaccino, perché rimasero entrambi piantati in mezzo alla pista.

Il cavallo nitrì ed il suono distolse gli orchi dalla gazzarra. Finalmente videro i due viaggiatori che stavano cercando da giorni.

Il lato positivo della semplice psicologia orchesca era che un orco era semplicemente troppo stupido per stupirsi, quindi i ragazzi si gettarono mulinando asce e zpakka contro i due viaggiatori.

Le urla di guerra ruppero lo stupore di Sgarri che scattò come una molla; estrasse così rapidamente che spada e daga parvero materializzarsi tra le sue mani. Il primo avversario lo aggredì con violenza.

La spada del tileano sprizzò scintille mentre deviava l’ascia nemica.

L’orco tentò di colpire il fianco dello spadaccino con la zpakka che maneggiava con la destra, ma Sgarri interpose la sua daga.

Con stessa sorpresa del tileano, la daga resse magnificamente l’urto.

Sgarri aveva rinunciato da alcuni anni al sistema di combattimento tipicamente tileano della spada ed arma da parata, sostituendolo con il classico spada e scudo degli spadaccini imperiali, perché non riusciva a trovare una daga degna. Ora l’aveva.

Lo spadaccino colpì l’inguine del nemico con una poderosa ginocchiata e gli piantò la daga nella gola.

Senza perdere un istante si scostò e parò l’arma di un secondo aggressore.

Arys si batteva con grazia e furore, maneggiando con perizia distruttiva la sua sottile spada che tracciava serpentine scintillanti.

Era incredibilmente veloce e si batteva con spettacolari piroette.

Sgarri mozzò la testa del nemico con un poderoso colpo a girare, quindi incrociò le sue lame per bloccare un colpo di zpakka, al quale replicò con un calcio al ginocchio del nuovo avversario.

L’elfa spiccò un incredibile salto ed eseguì un salto mortale sopra la testa di un orco.

Mentre girava si distese e gli piantò la spada dall’alto nel collo, fino a giungere al cuore. Era stato un istante, poi la lama tornò al suo posto ed Arys terminò la rotazione con le gambe attorno al collo di un secondo avversario.

Sfruttando la forza degli addominali, lei roteò verso sinistra e rovesciò il nemico.

L’elfa atterrò come una gatta e trafisse l’orco.

Arys lanciò un terribile urlo di guerra che esprimeva furore ed odio, ma non ebbe il tempo di sollevare nuovamente l’arma perché un orco la colpì al ventre con la guardia della zpakka e lei si afflosciò come una foglia secca nel vento.

Il tileano spaccò un ginocchio con un abile colpo di spada e, quasi contemporaneamente, sfruttò l’affilatissima daga per recidere le vene sul polso di un altro avversario.

La situazione era senza uscita; per quanti ne potesse uccidere, gli orchi restavano troppo numerosi, non poteva affrontarne venti da solo.

Sgarri roteò le armi con fare minaccioso, i nemici l’avevano circondato eppure nessuno sembrava intenzionato ad attaccare, per un attimo la terribile efficienza dello spadaccino aveva piegato perfino gli animi bellicosi dei pelleverde.

Fu solo un attimo, poi due orchi partirono all’unisono.

Sgarri roteò su se stesso usando le lame come schermo ed i nemici si scontrarono l’uno contro l’altro.

Il tileano attaccò un avversario che si riparò con la zpakka, quindi iniziò a tempestarlo di colpi, costringendolo ad arretrare, infine un colpo circolare superò le difese del nemico e gli tagliò la gola.

Lo spadaccino si voltò di scatto; l’orco più grosso che lui avesse mai visto lo sovrastava.

Era un essere enorme che portava una maschera con due zanne delle dimensioni di un braccio umano.

Era armato di un’ascia così grande che col solo peso avrebbe potuto schiantare lo spadaccino a terra.

Sgarri imprecò, il nemico era così vicino che lui poteva sentirne il fiato puzzolente e così arrabbiato che il manico dell’ascia, spasmodicamente stretto dalle sue enormi mani, scricchiolava.

Sgarri si sentì mancare il terreno sotto i piedi mentre un secondo orco lo aggrediva sul fianco. Improvvisamente questi si voltò e la sua testa, spiccata dal corpo, volò a diverse decine di metri di distanza.

L’enorme orco dalle zanne sferrò un pugno verso le spalle di Sgarri ed un cavaliere in armatura cadde di sella rovinando nella neve.

Cinque cavalieri bretonniani si erano gettati al galoppo nel mezzo della mischia mulinando le enormi spade. Il primo non portava la blusa multicolore degli altri, indossava invece una casacca nera che gli copriva un’armatura brunita.

Anche la gualdrappa del cavallo era nera, probabilmente un tempo aveva recato dei simboli, ma ora erano troppo infangati per essere riconoscibili.

Quasi a voler sottolineare la sua già cupa figura, il cavaliere aveva scelto un destriero nero come la notte.

Il cavaliere nero colpì subito Sgarri perché, invece che battersi in sella come i suoi compagni, si gettò da cavallo, travolgendo un orco.

Il bretonniano si voltò roteando la spada bastarda e decapitò un orco.

La spada del cavaliere sprizzò scintille nel parare un’ascia, poi con un movimento incredibilmente rapido, roteò e mozzò la mano che la reggeva.

Con il colpo di ritorno, dal basso in alto, il cavaliere sfondò il cranio dell’orco

–Crepa bastardo!- Ringhiò in bretonniano.

Un ennesimo orco tentò di colpirlo alle spalle, ma il bretonniano roteò la spada in modo che la lama gli passasse accanto al busto, rivolta all’indietro.

Con una mossa repentina il cavaliere infilzò il nemico, affondandogli la spada nel ventre fino all’elsa.

L’orco dalle zanne, evidentemente il capo della fazione, balzò ruggendo verso il cavaliere nero.

Sgarri conosceva molto bene il bretonniano, poiché nel suo paese d’origine, all’estremo confine Nord del principato di Tobaro, era molto più usato del tileano.

Non gli fu quindi difficile comprendere l’urlo di uno dei cavalieri

–Attento signor Conte!-

Il tileano era stupito; il cavaliere nero portava i capelli castani incolti e lunghi fino alle spalle, la sua barba era più lunga sul mento ed in corrispondenza dei baffi, segno che solitamente la curava, ma ora era lunga di diversi giorni, inoltre era quello vestito in modo più spartano in tutto il gruppo, proprio non aveva l’aria del conte.

Il cavaliere nero balzò indietro e sfoderò una daga da duellista.

Sgarri aveva notato che il conte non portava gli schinieri e le scarpe di ferro tipici dei cavalieri, bensì un semplice paio di stivali a sbuffo. Evidentemente era più avvezzo a battersi a piedi piuttosto che in sella.

Il capo orco fece per attaccare il bretonniano, ma fu preceduto dall’ultimo superstite della pattuglia pelleverde.

–Signor Conte!- Gridò nuovamente il cavaliere che aveva precedentemente avvertito il nobile.

Ma il cavaliere nero aveva già provveduto

–Tienimi questa!- Urlò all’orco che lo attaccava di lato mentre gli lanciava una rapida occhiata.

Nel dire questo lanciò la daga che roteò due volte in aria e si piantò fino all’elsa, con precisione chirurgica, nella gola dell’avversario.

Il capo calò l’enorme ascia, ma il bretonniano roteò su se stesso e deviò l’arma colpendo col proprio avambraccio gli avambracci dell’orco.

L’arma si schiantò a terra sollevando un’enorme sbuffo di neve.

L’orco imprecò selvaggiamente e menò un formidabile colpo circolare.

–Troppo lento- Lo canzonò il cavaliere mentre schivava di scarsa misura l’attacco.

Il mostro vibrò un potentissimo colpo di ritorno, ma il bretonniano allargò le braccia e spinse indietro la testa.

–Dovresti gestire meglio la tua rabbia- Canticchiò mentre l’ascia gli passava a tre dita dal mento.

Un nuovo colpo dall’alto venne nuovamente deviato dall’avambraccio del conte.

–Magari farci qualcosa di costruttivo- Continuò il cavaliere rifilando un temibile sinistro nelle costole dell’orco.

Il pelleverde bloccò l’avversario contro il proprio petto, tentando al contempo di strangolarlo con il manico dell’ascia.

–Conoscevo un tale che intagliava il legno per rilassare…- Il manico di legno soffocò la battuta del cavaliere, che afferrò con entrambe le mani l’ascia, quindi si lasciò cadere in ginocchio, imprimendo un movimento rotatorio all’asse del suo corpo.

Il movimento rovesciò l’enorme orco che si ritrovò improvvisamente a guardare il nemico da supino.

Con una sorprendente prontezza di riflessi il pelleverde si rialzò e vibrò un fendente.

Il bretonniano si avvicinò al nemico e si voltò di spalle in modo che il colpo passasse oltre ed il gomito nemico sbattesse sullo spallaccio di ferro dell’armatura.

Rapidamente il bretonniano bloccò il braccio dell’orco e sfruttò lo spallaccio come leva. Il secco rumore dell’articolazione fratturata riecheggiò nella foresta.

L’orco urlò di dolore ed il cavaliere gli rifilò una gomitata che fratturò diversi denti.

Il mostro cadde supino.

–Spada!- Ringhiò il conte.

Immediatamente un cavaliere gli scagliò la propria arma.

Il cavaliere nero prese l’arma al volo e le impresse la rotazione necessaria a piantarla di punta nel corpo del nemico a terra.

Un solo colpo, diritto al cuore. Il mostro gorgogliò e si afflosciò.

Un silenzio irreale era caduto sulla foresta. Il conte estrasse l’arma dal cadavere e la restituì al legittimo proprietario, quindi si diresse verso i resti degli orchi che custodivano le sue armi.

Il cavaliere disarcionato era tornato in sella e sembrava stare bene.

Quando ebbe terminato le operazioni di recupero e pulizia sommaria delle armi, il conte rimontò in sella e si rivolse a Sgarri.

–Sembra che vi abbiamo tirato fuori da un bel pasticcio eh soldato?-

Sgarri annuì –Così sembra eccellenza-

Il Bretonniano sembrò riflettere tra se –Non ti inchini soldato?-

Sono stanco eccellenza, ho combattuto a lungo in questi mesi e temo che inchinarmi sarebbe troppo gravoso per la mia schiena-

Il bretonniano scoppiò a ridere –Sarebbe molto più gravoso per il tuo orgoglio; a quanto ho visto la forza della tua schiena è più che sufficiente a massacrare orchi! Mi piaci soldato, un uomo che affronta da solo una simile banda è un perfetto imbecille, ma anche una persona che non deve inchinarsi di fronte a nessuno. Di dove sei?-

-Vengo dal contado di Callan, eccellenza, nel principato di Tobaro… Non credo possiate conoscerlo-

Il bretonniano rise –Certo che lo conosco soldato, io sono il conte di Annevie-

Ciò detto il conte fece un gesto eloquente ed i cavalieri ripartirono al trotto nella direzione dalla quale Sgarri arrivava.

–Che Mirmidia ti conceda una buona giornata valdasitano!- Gridò il conte.

–Che la Dama benedica il vostro cammino eccellenza!- Gridò di rimando lo spadaccino.

Il paese natale di Sgarri si trovava nella Val d’Asita, una regione al confine con Bretonnia e che confinava appunto con il contado di Annevie.

Il tileano sapeva che il conte era vecchio e malato, ma non era a conoscenza di un erede, forse si trattava di un nuovo conte nominato dal duca.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Che razza di vita! ***


Sgarri si accostò all’elfa che giaceva prona nella neve macchiata di sangue.
Il corpo snello di lei era esanime.
Il tileano la girò delicatamente e ne osservò il viso pallido ed apparentemente privo di vita.
Sentì il cuore perdere un battito.
 –Dai- La incitò –Non puoi creparmi adesso, su dai!-
Così dicendo le tastò il collo con due dita; il battito era debole, ma c’era.
Per lo meno era viva.
Un poco sollevato Sgarri accostò l’orecchio destro alla bocca della giovane e ne sentì il respiro, leggero come quello di un uccellino ferito.
Il tileano rifiatò, poiché a vederla in quelle condizioni l’aveva creduta morta, ma era ancora preoccupato per la ferita che stava macchiando di rosso la tunica della bella guerriera.
Con gesto risoluto Umberto trasse il suo coltellaccio e tagliò le vesti dell’elfa, per mettere a nudo la ferita.
Con uno strattone finì di strappare la tunica e lasciò cadere nella neve i due lembi.
Si trattava di una gran brutta ferita e lo spadaccino era davvero stupito che l’elfa riuscisse ancora a camminare dopo diversi giorni.
Una freccia l’aveva colpita all’addome, penetrando in profondità ed uscendo in prossimità dell’ombelico.
Arys aveva tagliato la punta e tentato di estrarre l’asta, ma una parte del legno doveva essere rimasta nella ferita, poiché il ventre era violaceo e gonfio, segno evidente di una infezione.
 Tentando di ignorare il sangue che fuoriusciva dai due fori, Sgarri avvicinò le mani alla ferita; doveva allargare col pugnale il punto di entrata, così da poter estrarre le schegge rimaste.
Sarebbe stata un’operazione inutile se il dardo avesse leso organi interni, ma se lei era sopravvissuta per così tanti giorni era evidente che, per fortuna o per magia, nessun organo era stato toccato dall’arma.
Il tileano vide le sue mani coperte di sangue nero e decise di lavarle nella neve, quindi brandeggiò il coltellaccio.
Dovette respirare profondamente un paio di volte, ma alla fine trovò il coraggio.
Mise tra i denti della guerriera un pezzo di legno e le bloccò le mani sotto un ginocchio, quindi le poggiò la sinistra sul ventre gonfio ed avvicinò il coltello.
Fu rapidissimo nell’incisione, ma il dolore fu lo stesso intenso. Lei si svegliò all’improvviso e digrignò i denti così forte che, se non avesse avuto il pezzo di legno, se li sarebbe spezzati.
Le sfuggì un urlo agghiacciante mentre tentava di sottrarsi alla presa dello spadaccino.
Ma lui riuscì a tenerla bloccata grazie al suo peso e le infilò due dita nella ferita.
Per fortuna il pezzo di asta era rimasto intero ed abbastanza superficiale; fu facile afferrarlo. Con uno sforzo enorme per trattenere il legno reso viscoso dal sangue, Sgarri riuscì ad estrarlo dalla ferita.
Arys sputò il legno ed urlò mentre le lacrime le scendevano dagli occhi, poi una fitta di dolore fu troppo intensa per lei e svenne nuovamente.
Il tileano ne fu sollevato, poiché toccare un ferito era in assoluto la cosa che lo spaventava di più nel suo lavoro.
Aveva curato decine di ferite, ma non avrebbe mai scordato nessun gemito di nessun ferito che aveva soccorso.
Era una cosa che lo turbava profondamente, anche se non lo dava a vedere.
Tagliò due strisce da ciò che era rimasto della tunica di lei e le usò come tamponi per bloccare l’emorragia, quindi le fissò con bende di circostanza della stessa provenienza.
 
Arys si svegliò in un riparo di fortuna, costruito con dei rami che chiudevano l’unico lato aperto di un anfratto di roccia. L’aria era profumata dal fumo di resinose che, sprigionato da uno scoppiettante fuoco, ristagnava leggermente nel riparo prima di perdersi in un apposito varco tra i rami.
Faceva molto caldo e lei stava sudando.
Si accorse di essere stesa su un giaciglio di aghi di pino foderati dal mantello del tileano e protetta sotto due coperte. Sgarri non c’era.
L’elfa si tastò la ferita, che le doleva terribilmente, e tentò di alzarsi, ma una terribile fitta alla testa la obbligò a desistere.
Solo allora si accorse di essere completamente nuda, fatta eccezione per il suo perizoma di fibre vegetali intrecciate.
L’uomo entrò nel riparo scostando una frasca.
Tremava di freddo perché aveva usato il mantello per rendere più confortevole il giaciglio ed appariva molto stanco.
 
Appena si richiuse la porta dell’angusto rifugio alle spalle, Sgarri notò che la giovane era sveglia e s’illuminò.
Aveva un bell’aspetto nonostante il pallore e doveva aver bevuto la tisana curativa che le aveva lasciato, poiché non sembrava affatto febbricitante.
La osservò per un lungo istante, poi l’occhio gli cadde sui piccoli seni tondi che la guerriera aveva involontariamente scoperto abbassando un braccio ed arrossì visibilmente mentre distoglieva lo sguardo.
Lei parve accorgersi dell’imbarazzo del soldato e si coprì.
Con un enorme sforzo Arys si puntellò sui gomiti. –Dove siamo?- Domandò con voce debole e rotta dall’affanno.
Sgarri prese a pestare un pezzo di corteccia tra due sassi e le rispose senza guardarla, poiché ancora il rossore non era del tutto sfumato dal suo viso spigoloso. –A poche decine di metri dalla pista; ho trovato un anfratto sotto un roccione e ho allestito il campo… Dovrai riposare per qualche giorno.-
L’elfa annuì, il dolore stava aumentando e le pareva quasi di sentire il sangue che le premeva sulla ferita con l’intento di fuoriuscire.
Sgarri versò il vegetale pestato in un pentolino di acqua che aveva fatto scaldare e glielo porse.
 –Bevi- Le ordinò –Ti farà dormire-
Lei annuì in silenzio e bevve.
Pochi minuti dopo dormiva beatamente ed il tileano si distese accanto a lei, preparandosi per una notte fredda senza la sua coperta.
I due giorni seguenti passarono rapidi, mentre Sgarri esplorava la foresta in cerca di cibo.
Il terzo giorno riuscì a catturare un cervo, segno che i due avrebbero smesso di attingere alle già scarse provvigioni del tileano.
Arys era molto migliorata ed aveva anche ripreso colore, tuttavia lui le aveva proibito di provare ad alzarsi.
Ora che avevano cibo in abbondanza Sgarri usciva di rado, solo per controllare i dintorni o per governare il cavallo.
La gran parte del tempo lo passava con Arys, a parlare del più e del meno.
Più che altro lei gli parlava di Loren, la sua amata foresta.
Lei parlava degli spiriti degli alberi e descriveva il comportamento degli animali.
Lui invece le raccontava degli amici e compagni d’armi, delle sbronze negli accampamenti e delle fughe dalla ronda cittadina, ogni volta che le raccontava delle pazzie fatte con qualche amico Arys rideva con quel tono cristallino che al tileano ricordava tanto un ruscello di montagna, e poi gemeva per la ferita.
Andarono avanti così per una intera settimana.
Una sera Sgarri stava dormendo sotto la coperta che da alcuni giorni si era ripreso, ma qualcosa lo svegliò.
Stava tentando di capire cosa ci fosse di strano quando sentì un fiato caldo sull’orecchio destro.
Una voce musicale gli stava sussurrando qualcosa, parole che sapevano di sole e mele mature.
–Non significa nulla, sia chiaro, voglio solo ringraziarti per avermi salvato la vita-
Lui ebbe appena il tempo di riconoscere la voce dolce dell’elfa, prima di avvertirne il respiro che si avvicinava, fino a fondersi con il suo, in un bacio appassionato quanto inaspettato.
Lei s’infilò sotto la coperta del soldato e lui si accorse che era coperta solo dalle bende che le fasciavano la ferita.
Si amarono teneramente, assaporando ogni momento, mentre il fuoco proiettava le loro forme sulle pareti dello spartano riparo.
Sgarri si addormentò abbracciato a lei, il viso affondato nel profumo dei suoi capelli.
Erano anni che non si sentiva così sereno e, per un istante, credette di aver trovato un futuro diverso, una bella donna con cui condividere una vita di tranquillità.
Poi lei allungò il braccio affusolato per tirarsi di fianco la spada e Sgarri si ricordò dove si trovava.
Si in un giaciglio con una donna meravigliosa, ma anche nel mezzo di una foresta brulicante di nemici e pericoli di ogni genere.
Come faceva da anni allungò la destra ed impugnò la daga; era così che dormiva un soldato, sempre vigile, mai tranquillo, mai sereno.
E prima di addormentarsi Sgarri pensò per un istante al buon vecchio Malatesta ed ai suoi primi anni da mercenario.
Che razza di vita.





Un saluto ai miei affezionati lettori!
Lo so, non sono solito rivolgermi direttamente a voi, di solito parlo attraverso i miei personaggi, ma ci tenevo a ringraziarvi per la costanza con cui seguite il mio, invece, scostante postare.
Vi ringrazio quindi per la fedeltà e la pazienza, mentre vi invito a lasciare un vostro commento.
Sia chiaro, non vi sto chiedendo di tirare giù una recensione da oscar, mi piacerebbe solo avere con voi un minimo di dialogo, sapere quali personaggi amate, come pensate proseguirà la storia... Insomma, mi piacerebbe scambiare con voi due impressioni.
Grazie dal Dahu!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3544549