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di A i r a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le stelle non sorridono ***
Capitolo 2: *** I numeri non contano ***
Capitolo 3: *** Una chiave che non apre nulla ***
Capitolo 4: *** Le lacrime non sono salate ***
Capitolo 5: *** I sorrisi non sanno parlare ***
Capitolo 6: *** Gli occhi non cedono ***
Capitolo 7: *** Le bugie non si riconoscono ***
Capitolo 8: *** Il passato non è mai limpido ***



Capitolo 1
*** Le stelle non sorridono ***


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♦♦♦
1| Le stelle non sorridono

Quanto costa uno sbaglio?
Quanto può un malinteso incidere l’anima?
Quanto tempo ci impiega un errore a cambiare il futuro?
 
Uno aveva ucciso la persona più cara che aveva.
L’altro aveva bruciato il proprio futuro.
 
Uno provava pateticamente a colmare ciò che ormai non aveva più.
L’altro cercava semplicemente un motivo per andare avanti.
 
Uno era la personificazione di una notte d’inverno.
L’altro sembrava più una giornata di Sole con il vento.
 
Due soggetti, la cui vita cambiò a causa di un errore, accomunati dal fatto di non sapere che a tutti, prima o poi, è concessa la possibilità di ricominciare.
 
 *** Sabato 23 Febbraio – 10:03  ***
 
Gli era sempre più difficile svegliarsi la mattina.
Si alzò svogliatamente dal letto sbadigliando rumorosamente contro il soffitto. Mosse le spalle indolenzite, sentiva la testa che pulsava, le palpebre erano pesanti e le energie quasi nulle.
Con passo ondulante si incamminò verso il bagno e, quando ebbe finito di lavarsi la faccia, si guardò allo specchio abbassando sempre di più l’asciugamano sulle sue guance.
Erano scavate e il colorito diafano del suo viso faceva risaltare le occhiaie, ormai perenni, che coronavano i suoi occhi dalle iridi verdi. In un certo senso si sentiva come un vecchio ingranaggio che avrebbe smesso di lavorare da un momento all’altro. La busta paga però era l’olio che faceva girare quell’ingranaggio arrugginito. 
Aveva perso più o meno quattro chili in due mesi e mezzo e il continuo stress che il lavoro lo sottoponeva era devastante. Il suo corpo, robusto e muscoloso quanto bastava, oramai reggeva a malapena cinque ore di lavoro.
Si osservò per altri tre secondi disprezzando il proprio riflesso poi, dopo essersi vestito e aver impugnato frettolosamente la tracolla di pelle marrone, uscì dall’appartamento che affittò, lasciando cadere distrattamente una strana lettera incastrata nella fessura della porta.
Scese di corsa le scale d’emergenza, lasciando che il freddo vento invernale gli pungesse il volto. Solo successivamente sentì una voce a lui familiare chiamarlo.
«Jaeger!» Era la sua superiore, Annie Leonhardt, che lo chiamava dall’altro lato della strada.
Ogni volta che la vedeva sentiva inutili sensi di colpa che non esistevano a causa del suo sguardo glaciale, accentuato dal colore chiaro dei suoi occhi. I capelli biondi, legati a caso sopra la nuca, erano il segno che anche lei lavorava come una matta ma a differenza di Eren, godeva di diversi vantaggi come, per esempio, conoscere le temute “fonti” dell’agenzia.
«Buongiorno, ha qualche notizia da riferirmi?» chiese cordialmente mentre lo sguardo del giovane andò a posarsi sulla sua macchina fotografica nera che da un momento all’altro avrebbe impugnato. Ne sentiva la mancanza dopo una lunga settimana senza a causa di un problema alla batteria.
 «Sì. Mi ha telefonato una delle nostre fonti; ha individuato due tizi che trafficano sostanze stupefacenti e hanno già chiamato la polizia.» Affermò porgendogli un piccolo foglio strappato. «Il tuo compito è quello di fotografare il loro arresto e scriverne un articolo. Come al solito.»
Un attimo di silenzio, in cui il giovane lesse ciò che vi era scritto in quel pezzo di carta strappato, probabilmente, da un angolo di un’agenda.
392 North End St. Boston – MA 02715
«Si trova vicino al museo d’arte.» precisò vedendo la faccia confusa del suo sottoposto.
«Ma è a dieci isolati da qui!» esclamò guardandola esasperato.
«Sì, ma se questo articolo andrà bene, potresti guadagnare il doppio. L’editore capo ha detto che al giorno d’oggi la droga è uno dei maggior problemi in questa città. Prendi.» disse porgendogli l’oggetto.
Quella macchina fotografica era una specie di partner per lui. La prima volta che la impugnò, due anni fa, era ancora un novellino. Ricordava ancora l’agitazione che raggiunse le sue mani facendo così ballare quella macchina dall’obbiettivo ancora lucido e senza graffi.
La sensazione dell’impugnatura in gomma era gradevole ma le sue mani erano talmente sudate che l’apparecchio scivolò come una saponetta bagnata e così, già dal primo giorno di lavoro, gli venne detratto il prezzo dell’obbiettivo per un valore di almeno cinquecento dollari.
Inutile dire che quella fu la prima di tante cadute ma, più che una questione di valore, Eren ne fece più una questione di affetto. Nonostante le litigate con il capo e le continue persuasioni nell’aggiungere un laccio da mettere attorno al collo per non far cadere quella benedetta macchina, Eren rispondeva sempre con la stessa frase:
«Se la tenessi legata, non avrei più nessuna libertà.»
Quella macchina fotografica era una compagna che gli ricordava molto la madre. In più, il talento del ragazzo unito a quell’oggetto dagli scatti infallibili, erano una vera e propria manna dal cielo per l’agenzia.
Il problema era uno soltanto: il tempo.
«Qual è la scadenza?» chiese intimorito ma senza darlo a vedere.
Le scadenze erano la causa principale del suo deterioramento fisico.
«Le due di questo pomeriggio.» rispose guardando l’orologio allacciato al polso destro. «Direi che ti rimangono quattro ore, circa.»
 
Sei.
                                                                                    
«Hai una foto di questi individui?»
«Sì, eccola. Mi raccomando, conto su di te.»
Voleva sprofondare. L’agenzia giornalistica per cui lavorava era famosa per la sua velocità nel riportare le notizie, ma addirittura dargli a malapena quattro ore di tempo era un suicidio.
Una gara di triathlon quotidiana, ecco cos’era il suo lavoro.
Cominciò a correre verso un taxi appena chiamato e, salito su di esso, si sporse in avanti mostrando l’indirizzo all’autista.
«La prego, faccia presto.» L’ansia lo faceva sempre sudare in modo anomalo e il tono con cui lo disse fece sorgere qualche dubbio al ragazzo che conduceva il veicolo che, giratosi verso Eren con un sopracciglio alzato, lo guardò con aria sospetta.
«Non è che stai scappando da qualcuno? Non voglio aiutare un assassino a fuggire dalla polizia.»
«Un assassino girerebbe con una macchina fotografica del genere?» Il tono di voce si alterò, sfiorando l’isteria.
«Quindi sei un ladro?»
«Sono un giornalista!» sbottò avvicinandosi al viso dell’autista sembrando il più serio possibile. «Ascoltami bene, ho quattro ore per fare una fottutissima foto e scrivere un articolo su due spacciatori che si trovano dall’altra parte della città in chissà quale vicolo di drogati quindi, se mi fai il favore di accompagnarmi almeno al luogo più vicino, mi faresti un favore.» disse tutto d’un fiato.
L’autista che lo guardava accigliato, si rilassò allargando un sorriso a trentadue denti.
«Ehi amico, calmati. È la tua giornata fortunata. Il sottoscritto, anche se ha la patente da due settimane, ti garantirà un servizio comodo e veloce!» esclamò puntandosi fieramente il pollice sul petto.
«Che cos-»
Non fece in tempo a realizzare ciò che ebbe appena sentito che l’automobile già sfrecciava nelle strade di quella città piena di grattacieli e fiumi di macchine gialle.
Si sentiva come un grillo intrappolato in un barattolo che veniva ripetutamente scosso e, per fortuna, non aveva fatto colazione altrimenti avrebbe sicuramente rimesso sui tappetini rossi dell’auto.
 
Dopo esser sceso da quell’auto infernale e aver fatto un viaggio tutt’altro che comodo, si trovò di fronte ad una strada affiancata da una decina di edifici in mattoni rossi.
Era in un quartiere di periferia ma, al contrario di quello che si era immaginato, era abbastanza pulito e le palazzine erano curate e una affianco all’altra, creando al povero giornalista un gran bel problema.
Si guardò intorno per poi controllare il piccolo foglio su cui c’era impresso l’indirizzo ed effettivamente, la strada era quella.
Guardò la foto dei due soggetti e non appena alzò la testa per guardarsi nuovamente intorno, li vide uscire da uno di quei complessi di appartamenti con un sacco pieno di polvere bianca.
Eren, a quel punto, si nascose frettolosamente dietro il primo albero che vide e pensò subito alla ricca ricompensa: il lavoro si fece più leggero.
Cominciò a scattare le prime foto e ad analizzare la situazione; i due ragazzi misero un dito dentro il sacco per poi sniffare all’aria aperta il contenuto. Gli occhi della ragazza diventarono lucidi, forse per gli effetti della droga, mentre il ragazzo mise il contenuto in bocca con aria soddisfatta.
Non aveva mai visto persone maneggiare una sostanza simile con così tanta leggerezza ma, dopotutto, questi erano i casi di cui un giornalista doveva essere pronto ad affrontare. Scattò altre tre foto poi, notando che la polizia non arrivava, decise di seguirli.
Le loro espressioni erano alquanto felici e la loro andatura era calma e regolare, ma Eren decise di seguirli comunque con movimenti furtivi, di albero in albero e, quando quest’ultimo mancava, usava l’angolo dell’edificio più vicino.  Aveva già scattato diverse foto ma della polizia neanche l’ombra e le ore erano sempre più prossime alla scadenza così, non appena ebbe l’occasione, cominciò a correre provando ad avvicinarsi sempre di più ma, senza neanche accorgersene, si ritrovò con la faccia a terra.
Gli ci vollero almeno cinque secondi per realizzare della caduta e ce ne vollero altrettanti per constatarne la causa. Si alzò massaggiandosi la testa con una mano. La luce del Sole era forte ma venne bloccata per metà dalla figura che si ritrovò davanti.
«Cosa vuoi da quei due?» chiese una voce fredda.
Non sapeva cosa rispondere. Era stato scoperto da un soggetto che lo aveva notato da chissà quanti minuti e in quel momento, Eren non possedeva la lucidità per rispondere. Era stato colto in flagrante.
«S-sono un giornalista.» Cominciò a spiegare. Sì, l’unica cosa da fare era spiegare tutto per non venire fraintesi. «Loro due sono spacciatori di droga e mi hanno incaricato di fotografare il loro arresto.» Chiaro e conciso.
Quella spiegazione fece storcere il naso all’uomo che lo fissava con aria apatica, distaccata e alquanto indifferente.
«Quindi ti sembrano spacciatori…» Si scostò leggermente per vedere meglio i due ragazzi che si allontanavano sempre di più. La loro andatura alla “Heidi” non faceva che rafforzare l’idea che si era fatto di loro: due tuttofare completamente menefreghisti del mondo. Certo, qualche volta gli capitava di sentire le loro voci dal suo appartamento ma in fondo erano dei bravi ragazzi.
«Esatto, la prego, mi faccia lavorare e–»
Si ricompose, tornando a fissare il ragazzo davanti a lui. «Hai frainteso, quella là era farina di cocco» Una pausa. «Sono i miei vicini, purtroppo.» Il tono più basso della sua voce faceva intuire rassegnazione.
Eren era allibito. Non sapeva se credere alle parole di uno sconosciuto oppure continuare a seguirli.
Ma come quasi tutti avrebbero fatto, scelse la seconda opzione.
Fece per incamminarsi ma non appena sentì di aver calciato qualcosa, si fermò e guardò l’oggetto indirizzarsi verso la strada. Solo due secondi dopo realizzò di aver condannato a morte l’obbiettivo della macchina fotografica. Provò a rincorrerla ma il passaggio dell’ennesima macchina ridusse l’oggetto in un piccolo mucchietto di pezzi ormai indistinguibili.
 
Cinque.
 
Quella fu la prima volta che l’obbiettivo si staccò e fu anche la prima volta che ad Eren venne spontaneo fare la stessa fine dell’oggetto appena distrutto.
Non poteva più lavorare e ciò voleva dire che non avrebbe portato a termine il lavoro, di conseguenza: niente soldi.
«Non è vero…» disse tra sé e sé mettendosi le mani tra i folti capelli castani.
Doveva ritornare all’agenzia e fare rapporto. Sapeva già che le spese per ripararla le avrebbe pagate lui – come sempre ma doveva informare subito i suoi superiori.
Se ne andò amareggiato, deluso, affranto impugnando quello che ne restava della macchina fotografica mentre l’uomo incontrato pochi istanti prima si limitò a guardarlo andare via.
Il lavoro era finito.
 
«Di nuovo? Jaeger, mi prendi in giro!?» sbraitò.
Eren era lì, di fronte alla grande scrivania del capo redattore che lo sgridava per l’ennesima volta.
«E’ stato un incidente!» Cercò di difendersi sapendo che forse, quella, sarebbe stata l’ultima volta.
Si sentiva in trappola, come un cerbiatto costretto in un angolo senza possibilità di fuggire mentre, davanti a lui, il cacciatore gli puntava il fucile.
«Balle, Jaeger! Quante volte ti è caduta quella macchina? Quante volte abbiamo dovuto detrarti i soldi dallo stipendio per colpa della tua goffaggine?»
«Mi lasci spiegare, è success–»
Le parole si bloccarono. Il respiro si bloccò. La sua bocca si bloccò. Lui si bloccò.
Il capo era seduto composto con le dita incrociate e gli occhi gelidi fissi su di lui. Il silenzio tangibile.
Era il tipico silenzio da funerale.
 
Quattro.
 
«Jaeger»
 
Tre.
 
«Sei licenziato.»
 
Bang.






♦ Schizzo Time 
Mi sarà scaduto il login almeno tre volte per quanto mi è difficile usare il codice html...
Volevo dire: salve a tutti!
Sono Aira, una patita per il caffè e Shingeki. Spero di fare tante nuove conoscenze in questo fandom =D
Per quanto riguarda la ff, spero non sia presente una storia simile. Se così fosse, vi sarei grata se mi avvisaste. Non voglio assolutamente mancare di rispetto a qualcuno.
E' la mia prima storia per cui scusatemi se c'è qualcosa di poco chiaro.  
Sarà una long [LeviEren - JeanMarco] che con il tempo potrebbe diventare di rating rosso. Dipende se il mio cervello sarà in grado di partorire quello che pensa >_<
Un abbraccio 
Grazie mille per aver letto!
Aira.

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Capitolo 2
*** I numeri non contano ***


 
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♦♦♦
2| numeri non contano
 
*** Ore: 15:57  ***
 
Due.
 
Silenzio.
Per Eren fu come essere colpiti ad un polmone da un proiettile di piombo.
L’aria si fece poca e soprattutto dolorosa da mandare giù. Gli occhi sbarrati e la sua figura immobile erano il chiaro segno del suo shock che, un minuto dopo, si trasformò in rabbia.
Si avvicinò alla scrivania accigliato, con due occhi che esprimevano rancore misto a disperazione; ormai nulla lo frenava nel dire quello che pensava, così, sbattendo le mani sul tavolo, urlò:
«Giuro che ve ne pentirete!» Una pausa, irrigidendo il proprio indice davanti al naso del superiore. «E lei, “signor sopracciglio”, sappia che ho sempre sperato che un giorno si strozzasse con quelle sue dannatissime palline da golf!» sbottò. «Fanculo!»
 
Non era certo la prima volta che si avvicinava ad un numero così basso: i tempi del liceo furono difficili ed indelebili come una cicatrice in pieno volto. Immaginava che prima o poi, nella sua miserabile vita, gli sarebbe successo di nuovo ma mai, mai avrebbe immaginato che il lavoro si trasformasse in un conto alla rovescia.
Si era sempre impegnato al massimo nella vita professionale, dedicava – letteralmente – tutto se stesso al lavoro che lo appassionava; il suo colorito e le sue occhiaie lo provavano. Per lui, il lavoro era più importante della sua salute. La sua dieta era fatta da cibo istantaneo riscaldato nel microonde oppure saltava direttamente i pasti pur di scrivere in tempo un articolo degno del giornale per cui lavorava.
Sacrificio dopo sacrificio, pensava che se si fosse impegnato al massimo nessuno avrebbe mai potuto licenziarlo. Pensava che l’impegno e la costanza fossero l’arma vincente per andare avanti nella vita ma la verità era che non importava quanto impegno, quanto sudore, quante lacrime, quante notti insonni si avesse fatto.
Eren l’aveva appena capito: non importa quanto è alto il proprio castello, perché finché è fatto di carte, basta una misera brezza per buttarlo giù. C’è un limite a quanto una persona possa sopportare una certa situazione ed Eren era appena passato ad un numero prossimo allo zero.
 
Uno.
 
Uscì sbattendo la porta con un nodo alla gola che gli impediva di respirare in modo regolare ma dentro di sé, sapeva di essersi liberato di un peso enorme. Finalmente non avrebbe più dovuto assorbire le cazzate del suo superiore come “offrite il vostro tempo al giornale!” oppure “non lo sentite questo profumo? E’ l’inchiostro che marcherà il vostro futuro!”. Odiava quando strillava nel bel mezzo delle riunioni ordinandogli di andare a prendere un caffè ristretto, freddo e con un ombrellino da cocktail che metteva sempre da parte. A che scopo? Cosa ci faceva con quell'ombrellino, lo usava per la sua segretissima collezione di bambole? Mah. Ora non era più affar suo.
Ritornò a casa con un’andatura che ricordava vagamente quella di uno zombie mentre la lucidità che serviva a mantenere un minimo di razionalità se ne stava poco a poco andando.
Era stanco, lo stomaco continuava ad emanare ruggiti che potevano far invidia a quello di un leone in preda alla fame e, ahimè, gli erano rimasti sette dollari che si doveva far bastare per chissà quanto tempo.
Lo stipendio che il lavoro gli garantiva era basato sul lavoro svolto e, tra i soldi detratti per la macchina fotografica e l’affitto, gli rimanevano circa duecento dollari al mese.
Stava per inserire la chiave nella fessura della porta di casa quando notò una lettera sul pianerottolo del suo appartamento. La raccolse dalle gelide piastrelle di terracotta e vide che sopra c’era scritto il suo nome.
L’aprì, azione di cui si pentì subito dopo averne constatato il contenuto che non fece altro che peggiorare la giornata ormai tragica: avviso di sfratto.
 
Zero.
 
Eren aveva raggiunto il punto definitivo per la seconda volta nella sua vita.
 
Rannicchiato sulla scalinata della stazione, guardava la gente andare e venire. Lui, in tutto quel viavai, era l’unico che non si muoveva dal punto in cui era; i suoi pensieri erano talmente contorti e numerosi che qualunque tentativo di muoversi sarebbe fallito.
Avvolto nella sua sciarpa di lana blu, pensava alla causa di tutto quello che gli successe in quella fottuta giornata senza riuscire a trovarla.
Cos’aveva sbagliato? Dove aveva cominciato a sentire quella vocina interiore che lo assillava? Perché invece di ascoltare Armin e andare alla “Colossal” seguì il consiglio di Mikasa? E perché quei due non rispondevano al telefono?
Armin e Mikasa. Mikasa ed Armin. I suoi amici. Perché lui aveva degli amici. Due.
Un maschio e una femmina. Un biondo e una mora.
E poi c’era lui: bruno.
Un trio colorato che si formò alla tenera età di quindici anni, quando la pubertà era ai suoi massimi livelli e i brufoli sul volto erano più frequenti delle sbronze del sabato sera.
«Oi Jaeger, perché non ti difendi?»
«Ehi frocetto, ti piace farti prendere a calci?»
Sospirando, si portò le mani sul viso, coprendolo. Non ci stava più con la testa.
Aveva fame e aveva bisogno di un posto in cui dormire, così, alzandosi e impugnando la valigia piena di oggetti personali, si guardò intorno e mise le mani nelle calde tasche del giubbotto.
Il freddo vento di febbraio si faceva sentire mentre il Sole lasciava spazio alla Luna calante.
Non sapeva dove andare e le persone cominciavano a diminuire, segno che tra poco sarebbe stata ora di cena. All’improvviso sentì qualcosa nella tasca destra del giubbotto, lo prese fuori e vide il piccolo pezzo di carta stropicciato con sopra l’indirizzo di quella mattina.
Alla prima lettura, l’oggetto gli suscitò rabbia e frustrazione.
Alla seconda, i suoi occhi si sgranarono, i denti si strinsero: quella brezza tanto fredda quanto stronza che gli fece cadere il suo castello di carte con uno sgambetto, fu la stessa che non gli fece pensare a come mettere fine ai suoi giorni.
 
Prese il primo taxi che andò da lui e non appena salì, una voce a lui familiare lo accolse con allegria.
«Ci si rivede, giornalista da strapazzo!»
Era lo stesso tipo di quella mattina solo che al posto dei capelli tutti arruffati, aveva un’acconciatura più ordinata.
«Ah. Sei tu.» rispose sistemando la valigia di fianco a lui. «Portami al luogo di stamattina.»
Il ragazzo dai capelli color fieno notò lo stato d’animo del cliente. Pensò che probabilmente gli fosse accaduto qualcosa. Si sapeva che i taxisti dovevano intrattenere il cliente come meglio potevano, per non dimenticare il “fattore ficcanaso” che la maggior parte di loro possedeva. Beh, lui non era da meno.
«Che c’è? Articolo venuto male?» provò ad indovinare.
«Mpf, magari.» Un sorriso amaro. «Sono stato licenziato.»
L’atmosfera era cupa nonostante le luci della strada illuminassero parzialmente l’interno del veicolo insieme ai loro volti. Il conducente se ne stette in silenzio per circa un minuto, poi cominciò un vero e proprio dialogo.
«Ahahahah! Ma dai, seriamente!»
«Ehi bastardo, ritira subito quello che hai detto!»
«Ah ma dai, come hai fatto? Cos’è, ti si è rotta la macchina fotografica?»
Un momento di silenzio precedette un patetico “sì”.
«Ahahah, non ci posso credere! Come ti chiami?»
«Vuoi sapere come mi chiamo così che tu possa diffamarmi? No, grazie. Per te sono solo Marco.» Disse il primo nome che gli venne in mente.
«Io sono Jean Pierre, ma puoi chiamarmi Jean.» Eren non poteva vederlo ma sul volto del ragazzo vi era stampato un sorriso divertito. Sembrava si stesse divertendo. «Senti, questo giro lo offro io, giusto per farmi perdonare, okay?» Era serio, sapeva cosa significasse essere licenziato.
Un’altra pausa ma stavolta, a romperla non fu Jean.
«Jean Pierre… sembra un nome da perfettino.»
«Jean!» Ribadì. «E comunque, se lo fossi non sarei qui a guidare uno schifosissimo taxi con una ridicola statuina di un giocatore dell’NBA.»
Al solo guardare quell’oggetto dal sorriso più grande del volto e la testa che si muoveva ad ogni sobbalzo della macchina, Jean impallidiva. Da qualunque parte lo guardasse sembrava che lo fissasse, così gli mise sopra un fazzoletto di carta bianco con sopra lo scarabocchio di un volto da fantasma. Quell’idea lo rese fiero e soddisfatto, oltre che a renderlo più tranquillo nella guida.
Ne seguì uno strano silenzio in cui Eren cercava di pensare a cosa avrebbe fatto dopo che lo avesse portato a destinazione ma in quel momento avrebbe solamente voluto dormire in un letto caldo.
«Siamo arrivati, Marco.» disse girandosi verso di lui che continuava a stare seduto immobile al centro dei sedili posteriori, mani intrecciate, gomiti appoggiati sulle ginocchia e testa abbassata.
«Mi hai sentito?»
«Grazie» disse forzatamente. «Dubito che ce l’avrei fatta a pagare.»
Uno dei pochi aspetti negativi del suo lavoro, oltre a quella ridicola statuina, era il fatto di non poter fare niente per aiutare i clienti abbattuti come Eren. È vero, non era la persona più altruista del mondo, ma sapeva benissimo come ci si sentisse quando nessuno ti aiuta ad affrontare il mondo.
«Se hai bisogno, questo è il mio biglietto da visita, sai, ho anche io dei clienti affezionati.» Si vantò mentre il giovane uscì dal veicolo assieme alla valigia.
Era abbastanza insolito che un tipo come lui, con la patente da solo due settimane e con una guida da far ritorcere le budella persino ad un campione di rally avesse già dei “clienti affezionati”, ma a Eren, questo, poco importava.
 
Chiuse la portiera salutando con un cenno, dopodiché, davanti a lui, si presentò una via illuminata da vari lampioni e piccole lanterne affissi sulle entrate delle case. Sembrava il tipico quartiere urbano benestante.
Si ricordava più o meno l’edificio in cui quei due ragazzi uscirono e, guardando meglio sulla casella postale, l’indirizzo era quello.
Entrò con un grandissimo colpo di fortuna e, non sapendo come quell’uomo si chiamasse, andò a sentimento.
I nomi incisi nelle targhette d'ottone vicino ad ogni campanello avevano per lui la massima importanza.
Salì le scale, raggiungendo il primo piano.
«Nac Tius.» lesse ad alta voce guardandosi intorno e scrutando dentro lo spioncino.
Si sentiva sporco come un ladro, tanto da sudare più del normale ma doveva farlo. Doveva trovare il colpevole del suo licenziamento perciò, affrontare l’ansia di essere scoperto da qualcuno era il minimo.
Proseguì leggendo nomi come “Thomas Wagner” e “Luke Siss” ma nessuno di loro gli ispirava l’uomo che vide quel mattino.
Salì al secondo piano leggendo il nome di “Dot Pixis”. Guardò dallo spioncino e giurò di aver visto un vecchietto grattarsi il fondoschiena e voltarsi verso la porta d’ingresso. Possibile che lo avesse sentito?
Due secondi dopo, vide la maniglia dell’appartamento di un certo “Marco Bodt” abbassarsi, creando un attimo di panico che lo fece nascondere sulla rampa di scale che portava al terzo piano. Si affacciò quanto bastava per non farsi vedere: quel ragazzo dall’aria gentile non era l’uomo che stava cercando.
Salì al piano successivo e anche l’ultimo.
Non appena mise piede sull’ultimo gradino, dal corridoio sentì un impreco che attirò la sua attenzione.
A sinistra, una porta con affianco una targhetta con su scritti i nomi di “Sasha Blouse e Connie Springer”, mentre quella voce proveniva dall’appartamento a destra. Si avvicinò per leggere il nome inciso sulla targhetta: “Levi Ackerman”. Era abbastanza certo che quell’imprecazione appartenesse allo stesso uomo che incontrò quella mattina; quella sicurezza lo fece bussare alla porta. Quando essa si aprì, la figura che gli si presentò davanti apparteneva ad un uomo accigliato con le pantofole ai piedi.
 
Bingo.
 
La rabbia gli alzò la pressione sanguigna ma la disperazione e la delusione gliel’abbassarono, creando un equilibrio di depressione che caratterizzò l’espressione del più giovane, indecifrabile per l’uomo dai capelli neri come l’umore di Eren.
Davanti a lui si concentrò un metro e sessanta di gelido menefreghismo, ma questo non lo poteva sapere. Voleva insultarlo. Voleva dirgli che aveva buttato giù il suo alto castello di carte ma, effettivamente, non avrebbe capito la metafora. L’istinto di prenderlo a calci si arrestò grazie al buon senso che, per fortuna, prese in mano la situazione.
Il calcio si tramutò in un gesto impulsivo: un indice rigido e accusatorio che puntò verso il viso irritato del più vecchio, sperando di far uscire tutto il risentimento che aveva verso di lui.
«Assumiti le tue responsabilità!»
Silenzio.
E una sonora porta in faccia. Ecco cosa aveva guadagnato da tutta la fatica che aveva fatto.
Aveva trovato la causa del suo licenziamento ed era proprio lì, dietro ad una semplicissima porta blindata di un quintale, in cemento armato, rivestito di piombo e più inespugnabile della cassaforte della banca nazionale.
O almeno era così che Eren la vedeva.
Come poteva quella situazione finire prima di cominciare? Eren questo non lo avrebbe permesso.
Voleva almeno parlargli e così, invece di bussare, suonò il campanello una volta, due volte, cinque, dieci, venti, tantissime volte. Troppe.
La porta si aprì mentre l’ultimo tintinnio finì di riecheggiare nell’appartamento.
«Oi, si può sapere che vuole un moccioso alle nove di sera?»
In un qualche modo ad Eren, la parola “moccioso” detto da un uomo che sarà stato una decina di centimetri più basso di lui, risultò leggermente ridicolo. Si indignò.
«Il moccioso,» fece il segno delle virgolette con le dita. Marcò molto quelle virgolette, ci teneva. «Ha perso il suo lavoro per colpa del tuo sgambetto. È colpa tua se mi si è rotta la macchina fotografica ed è colpa tua se sono stato licenziato!» si sfogò con le mani che tremavano dalla rabbia.
No! Non era lo sguardo intimidatorio e l’assurda capacità nel guardarlo dall’alto in basso di questo Levi a farlo tremare, era la rabbia. La rabbia!
L’uomo appoggiò la spalla sulla soglia della porta con le braccia incrociate e un’espressione tipica di chi non fregava nulla di quello che gli era stato appena detto.
«E cosa vuoi che faccia? Ti devo far da babysitter finché non trovi un nuovo lavoro? Fammi capire.»
In effetti non aveva pensato a cosa potesse fare per aiutarlo.
«Ho perso tutto. Quantomeno vorrei dei soldi come risarcimento.» affermò accigliato mentre la faccia di chi gli stava davanti era palesemente irritata. Molto.
«Un favore…» riformulò meno convinto.
Un sopracciglio alzato lo intimidì nuovamente.
«Un consiglio per andare avanti?»
«Vai a casa, fatti una bella dormita e cercati un lavoro in cui non devi fotografare qualcuno.»
Casa, era questo il punto.
Increspò le labbra amaramente ma senza abbassare lo sguardo. «Non posso.»
Levi notò la valigia alle spalle del giovane e sbuffò chiudendo gli occhi, portando pollice e indice su quest’ultimi, massaggiandoli. Era sfinito, voleva andare a letto e invece gli toccava sorbire i problemi di un ragazzo dall’aspetto simile a quello di un randagio senza casa, salute e lavoro. Pensò che se proprio doveva espiare la sua colpa – perché lui aveva sbagliato e lo sapeva – poteva pensare a qualcosa che potesse avere un vantaggio anche per lui così, con fare meno delicato possibile, gli fece la fatidica domanda.
«Sai spolverare?»







 Schizzo Time 
Bene bene bene. 
Ok, forse non tanto, visto che Eren è stato anche sfrattato.
Oltre al danno pure la beffa. E Levi. 
Anche se Levi... eheh... tante cose.
Mi scuso per la lunghezza del capitolo, forse è un po' troppo lungo, ma ho introdotto Levi ora cosicché il terzo capitolo iniziasse con un giorno nuovo :)
Grazie mille a chi ha messo tra le seguite/recensito/letto la mia ff  T___T davvero.
Un abbraccio ♥
Aira.

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Capitolo 3
*** Una chiave che non apre nulla ***


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♦♦♦
3| Una chiave che non apre nulla 
 

***  Domenica 24 Febbraio – 9:34  ***
 
Quella mattina ringraziò mentalmente chiunque, secondo lui, avesse inventato la domenica.
Aveva passato tutta la notte a lavorare e ora si ritrovava con due occhiaie che chiunque l’avesse visto lo avrebbe scambiato per un panda sonnambulo.
Mangiò qualcosa in un bar lì vicino per cercare di reggere fino a mezzogiorno e, subito dopo, si diresse nella stessa palazzina in cui la notte prima accompagnò Marco, o meglio, Eren.
Entrò senza farsi notare, approfittando della porta socchiusa. Si guardò intorno e lesse i nomi incisi sulle targhette d’ottone sentendosi una specie di ninja, anche se a dirla tutta, non fu una gran cosa.
I suoi occhi vagavano come una palla che rimbalzava ovunque, in cerca di quel nome tanto semplice ma importante.
Nel giro di ventiquattro ore, quella palazzina sembrò essere diventato un luogo d’interesse pubblico e questo, al vecchietto del secondo piano che passava le sue giornate a fissare fuori dallo spioncino, non piacque per niente.
Aveva raggiunto il secondo piano, dopo due rampe di scale che sembravano non finire più. Inoltre quei gradini erano più alti del normale e per Jean fu abbastanza faticoso, considerato che era già tanto il fatto che camminasse.
«Marco Bodt.» lesse sottovoce dopo aver visto la fatidica targhetta con il nome inciso sopra.
Bussò. Silenzio.
Bussò di nuovo. Ancora silenzio.
Suonò al campanello. Una pausa, poi un “arrivo” rimbombò da dietro la porta che dopo una decina di secondi si aprì, rivelando un ragazzo moro dalle lentiggini e sulla ventina, con un’aria alquanto assonnata.
Jean non sapeva come reagire. Rilesse di nuovo la targhetta ed effettivamente c’era scritto “Marco” ma, quel Marco, non era Marco. Quindi… chi era quel Marco?
«E tu chi sei?» Chiese un Jean leggermente confuso.
Quella frase avrebbe dovuto dirla il moro ma pensò di lasciar perdere, la faccia di Jean di prima mattina gli incusse un po’ di timore, ecco.
«Sono Marco, hai bisogno di qualcosa?»
«No, tu non sei Marco.»
«Scusa, ma sono abbastanza certo di sapere come mi chiamo.»
La cosa si stava facendo imbarazzante, così tanto che il ragazzo dai capelli color paglia cominciò a toccarsi il naso. «Merda, devo aver sbagliato appartamento.» ammise ruotando testa e occhi a destra.
«Aspetta,» Il moro sembrava quasi felice. «Ti andrebbe del caffè? Stavo per accendere la macchinetta.»
Jean si girò stupito.
Inarcò un sopracciglio, sospettoso. «Perché me lo chiedi?» Schietto.
Quel ragazzo era fin troppo gentile agli occhi del taxista, la cosa gli puzzava.
Se c’era una cosa che aveva imparato a scuola era quello di non fidarsi mai troppo delle persone cordiali. Queste volevano sempre qualcosa in cambio e la loro arma migliore erano i ricatti.
Odiava le persone gentili.
Marco gli sorrise. «Sembri stanco, ho pensato che avresti gradito una tazza di caffè, tutto qui.»
«E se non la volessi?»
«Non ti sto obbligando, solo che le occhiaie che hai di certo non ti donano.»
«Guarda che tra i due, tu sei quello messo peggio.» affermò acido, forse per via della stanchezza, guardandolo negli occhi. La risata che ne scaturì fu leggera e spontanea, Jean non se l’aspettava.
«Già, forse hai ragione, ma questo caffè non si fa da solo.» Una pausa. «Allora, che vuoi fare?»
In fondo, una tazza di caffè non ha mai ucciso nessuno, soprattutto nei momenti in cui se ne aveva più bisogno.
Il suo maledetto orgoglio gli imponeva di rifiutare ma il suo fisico reclamava caffeina e quel ragazzo glielo stava addirittura offrendo quindi la risposta, seppur difficile, gliela diede senza tanti giri di parole.
«E va bene.»
Non appena varcò la soglia del piccolo appartamento sentì un profumo accogliente che avvolgeva l’abitazione.
Era un aroma che gli ricordava tanto la lavanda ma era leggermente più deciso.
Marco lo guidò fino al tavolo della cucina dove si sedette aspettando la sua tazza con impazienza.
«Come ti chiami?» chiese un Marco leggermente imbarazzato dal fatto che non glielo avesse chiesto prima.
«Jean.» Una pausa fatta di pensieri contorti misto ad imbarazzo. «Tu sei Marco, giusto?»
Una domanda scontata per una risposta scontata. Bravo Jean, continua così.
«Sì, vivo qui da due anni e non mi sono ancora abituato alla vita frenetica della città. Chissà, forse perché ho sempre vissuto a contatto con la natura.» Una risata leggera, di nuovo.
«Perché, da dove vieni?» chiese diventando involontariamente curioso.
«Vengo da un piccolo paese italiano.» disse sorridendo e offrendogli la tazzina fumante. «Attento che scotta.»
«Italia… capisco, e siete sempre così ospitali? Voglio dire, offrite caffè anche agli sconosciuti?»
Marco rise di gusto, sedendosi di fronte all’ospite sorseggiando il suo espresso.
«Diciamo che è un vizio di famiglia. Allora?» chiese inclinando leggermente la testa.
All’inizio era un po’ titubante nel berlo. Non era sicuro che quei tre centimetri di caffè lo avrebbero svegliato. In confronto al frappuccino che era solito ordinare da Sunbucks, quello era uno sputo.
Respirò a pieni polmoni fino a mandare giù il caffè tutto d’un fiato, un po’ come se fosse uno shottino.
«Mmh, è davvero buono.» Approvò con stupore.
Marco stava per dire qualcosa riguardo al suo modo di bere la bevanda ma Jean si alzò in piedi, facendo sfregare le gambe della sedia sul pavimento e rompendo quello strano silenzio che si era creato.
«Grazie per il caffè ma ora devo proprio andare.»
«Un’ultima cosa,» disse cercando di attirare l’attenzione, Marco. «Avevi bisogno di qualcosa?»
In effetti Jean non aveva spiegato il motivo per cui aveva suonato alla sua porta. Una spiegazione gliela doveva, al diavolo l’orgoglio.
«Ah, vedi, ieri un cliente ha dimenticato questa chiave nella mia macchina e considerando diversi fatti, ho pensato che vivesse qui, ma a quanto pare mi sbagliavo.»
«Uhm, ho capito. Se ti capita di venire di nuovo da queste parti, il caffè te lo preparo volentieri, non esitare a chiedere.» disse con un sorriso stampato sulle labbra. Lui era così disponibile e gentile che a Jean dava quasi sui nervi. Quell0 era più un invito a rivedersi ma testa di fieno non colse la palla al balzo.
Salutò con una mano all’aria sorridendo cordialmente, svanendo tra le rampe di scale.
Quella palla non la prese volontariamente.
 
***  Ore: 14:01  ***
 
Orologio che segnava le due del pomeriggio, fazzoletto anti polvere sul viso, guanti di gomma gialli alle mani e spugna super soft per non graffiare mobili. Aveva finito di spolverare, sistemare le pochissime cose che vi erano sui mobili, pulire i vetri e nutrire il pesciolino rosso che dava un tocco di umanità all’abitazione.
Si fermò al centro del piccolo salotto, vicino al basso tavolino, con aria rassegnata e leggermente delusa.
Vediamo: come diamine aveva fatto a cacciarsi in una situazione del genere?
Ah già, dopo aver parlato con quell’uomo era diventato una specie di governante di quell’assurdo appartamento grigio, freddo e maledettamente ordinato.
Assunto a tempo determinato, avrebbe percepito uno stipendio simile a quello di un fioraio senza pollice verde. Sarebbe restato in quella casa fino a quando tutti i mobili non sarebbero stati puliti alla perfezione, ma Levi divise comunque la dimora come i naufraghi avrebbero fatto con un’isola sperduta.
Eren non sapeva molto di quell’uomo. La sera prima aveva notato che non era il massimo della loquacità ma una cosa l’aveva capita bene: era un maniaco delle pulizie e considerato il confine che aveva delineato con un pezzo di nastro adesivo colorato, pensò che nascondesse qualcosa. Non sapeva se il fatto che non ci fossero oggetti personali era dovuto dalla ovvia facilità di pulire i mobili ma l’assenza di questi, rendeva la casa molto triste e senza un minimo di calore.
Il giorno dopo sarebbe stato il primo lunedì senza il suo lavoro ed Eren, al solo pensiero, si sentì inutile, vuoto, solo. Dopo quella giornata traumatica, la lotta per il suo futuro era ricominciata da zero.
Poi si ricordò che aveva degli amici.
Si fiondò sul cellulare appoggiato sul tavolino del piccolo salotto e pigiando un tasto a caso, vide che la schermata non si accendeva. Era morto.
«Merda!» imprecò fiondandosi sulla valigia con dentro vestiti piegati a caso. Frugò ficcando la mano alla cieca assumendo un’espressione concentrata, simile a quando ci si impegna a scrivere tirando fuori leggermente la lingua come i bambini. Tastò l’universo che vi era dentro ma niente da fare, non trovava nessun oggetto che potesse ricordare un banale caricatore.
Era una corsa contro il tempo, sapeva che la rabbia di Mikasa era direttamente proporzionale al tempo che passava e questo non era certo una bella cosa, anzi, molte volte gli capitava di avere gli incubi per colpa sua.
Si guardò intorno in cerca di qualcosa vagamente somigliante a un cavo, poi ragionò. Guardò il suo cellulare: era un modello molto in voga, penultimo modello, acquistato dopo tanti mesi di sacrifici e articoli strappalacrime.
Pensò che magari Levi avesse il suo stesso modello di cellulare e che da qualche parte avesse un caricatore appeso ad una presa elettrica ma era anche vero che – teoricamente – non poteva superare il confine segnato da un patetico nastro adesivo rosso. Ma chi era lui per farsi fermare da un insignificante confine? Si tolse i guanti e li appoggiò sul divano poi, con la stessa grazia che ci mise Armstrong a fare il primo passo sulla Luna, Eren mise il piede oltre il confine di quell’appartamento tanto piccolo quanto pulito.
Un leggero brivido gli percorse la schiena ma pensò fosse dovuto dal fatto che la finestra era aperta in pieno inverno.
Per sua sfortuna, Levi non gli fece fare il tour completo della casa; gli aveva detto che non ce n’era bisogno, lui doveva pulire solo quei due terzi di appartamento.
A causa di ciò, Eren esplorò il restante terzo della casa come un gatto appena portato in una nuova dimora.
Passi felpati, lunghi, lenti e soprattutto incerti caratterizzavano la sua andatura. Era la seconda volta in due giorni che si sentiva un ladro e, in effetti, se lo fosse stato veramente, avrebbe fatto passi da gigante.
Aveva paura di qualcosa ma non sapeva cosa. Era una sensazione strana.
Camminò fino alla fine del corridoio che separava il soggiorno dalla camera da letto e non appena aprì la porta, Eren vide il piccolo pezzo di mondo di quell’uomo freddo e distaccato: una semplice camera costituita da un letto matrimoniale, un grande armadio e una scrivania su cui poggiava un computer portatile. Le tende di raso nere e le lenzuola blu notte donavano alla stanza un’atmosfera elegante e semplice allo stesso tempo.
Si avvicinò ai mobili e notò che non c’era nemmeno un granello di polvere, ovviamente.
Non vi erano quadri e nemmeno oggetti personali, così aprì il comodino, trovò una carta di credito e una foto di una ragazzina con in mano un retino e un cerotto sulla fronte.
Il viso dai lineamenti leggermente infantili, capelli rossi e disordinati raccolti in due codini, sorriso a trentadue denti, occhi gioiosi. Girò la foto, sul retro c’era una dedica.
-Sono riuscita a prendere il pesciolino della felicità!  Appena torno te lo regalo.
Ti voglio bene, fratellone-
Un brivido gli attraversò la schiena ma stavolta non fu l’aria fredda. Solo in un secondo momento si rese conto che c’era una cosa che rendeva unica la camera: il suo profumo, un misto tra acqua di colonia e muschio bianco.
In quel momento, si sentì come abbracciato e allo stesso tempo solo. La sua mente si liberò, increspò le labbra, sapeva cos’era la solitudine.
Alla fine non trovò nessun caricatore.
 
***  Ore: 15:48  ***
 
«Quell’idiota!» Strinse il cellulare più forte che poteva, denti stretti e fronte corrugata.
Erano giorni che quel ragazzo non si faceva vivo e Mikasa stava per chiamare la polizia in preda ad un attacco d’ira mentre, lo sfortunato Armin, doveva cercare di calmare lei e il suo piede che continuava a spingere sull’acceleratore sfiorando la velocità consueta delle gare clandestine.
La perenne segreteria telefonica le faceva crescere la rabbia ormai incontrollata così stabilì che ad ogni chiamata senza risposta, Eren, avrebbe ricevuto un pugno nello stomaco e fino ad ora, quel povero ragazzo se ne era guadagnati ben settantadue.
Era anche vero che erano passati solamente tre giorni da quando si videro l’ultima volta ma lei era fin troppo premurosa – giusto per usare un eufemismo – nei confronti di Eren.
Al liceo veniva sempre considerata un maschiaccio per via del suo carattere, i capelli corti e la fissa per lo sport. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi ad un soggetto così irascibile, a parte Eren.
Se lo ricordava bene quel giorno d’autunno in cui si rivolsero la parola per la prima volta. Sembrò la scena di un film: lei seduta sullo scivolo di uno dei tanti parchi della città e lui che le parlò così naturalmente che qualunque ragazza si sarebbe sciolta alle sue parole.
«Smettila di fare la vittima. Vivi per te stessa.»
Beh, forse non erano parole proprio romantiche ma Mikasa aveva colto subito il senso di quello che Eren voleva dire. Lei era semplicemente una ragazza a cui piaceva kick boxing e che in futuro avrebbe voluto aprire una caffetteria tutta sua, non era una persona così immatura da preoccuparsi del giudizio della gente.
La sua personalità era il risultato della cattiveria delle persone ma nonostante il carattere aggressivo che creò per difendersi, la prima persona a infrangere le sue barriere fu proprio Eren.
Lui fu il suo primo amico e il suo primo amore.
«Non preoccuparti Mikasa, starà sicuramente bene, in fondo ha venticinque anni, non è più un bamb–»
Fu zittito dallo sguardo glaciale della ragazza. Era furibonda ma Armin sapeva che tra quella rabbia si nascondeva la stessa preoccupazione che una sorella aveva per il proprio fratello.
«Tuo nonno doveva per forza fare l’eremita in montagna come quello di Heidi? Guarda un po’, ci ritroviamo con quattro chiamate perse e poi il nulla. E se gli fosse successo qualcosa? Non potrei perdonarmelo.»
«Mikasa!» urlò dal seggiolino anteriore di quella sottospecie di sauna con le ruote. Nonostante fossero in inverno, quel veicolo diventava una vera e propria trappola. «Calmati, magari ha perso il caricatore. Non è di certo la prima volta. E poi, fallo respirare, forse sta scrivendo un articolo importante, che ne sai?»
La faccia imbronciata e turbata della ragazza diceva tutto. Cercava di calmarsi ma dentro di sé sapeva che qualcosa non andava.
 
Arrivarono finalmente al piccolo edificio in cui alloggiava Eren con una brusca frenata, un’irrequieta Mikasa uscì dal veicolo in fretta e furia; non vedeva l’ora di bussare a quella dannata porta per vedere il suo migliore amico. Bussò freneticamente ma nessuno rispose. Guardò dallo spioncino ma le luci erano spente e gli oggetti personali che di solito erano appoggiati su una credenza in cucina, non vi erano più.
«Oh no. No no no no.»
Armin la vide scendere le scale di emergenza frettolosamente con un’espressione ai limiti della preoccupazione. Decise di raggiungerla, anche per evitare il peggio.
«Mikasa che succede?»
«La casa è vuota. Vieni, dobbiamo parlare con uno dei vicini.»
I due si diressero verso uno degli appartamenti al piano terra e bussarono. Nell’attesa di una risposta, il biondo non esitò a farsi avanti.
«Lascia fare a me.» si portò davanti a lei, spostandola leggermente indietro. Sapeva che Mikasa non era la persona adatta a questo tipo di cose, soprattutto se c’era di mezzo Eren.
La porta si aprì rivelando un signore dalla corporatura robusta, barba incolta e un paio di occhiali tondi.
«Signore, scusi il disturbo ma, ecco, volevamo sapere se sapeva dirci qualcosa sul ragazzo che vive al primo piano di questo edificio.» chiese Armin con tono pacato e sorridendo cordialmente.
«Mmh, sì, ricordo che se n’è andato ieri. Dovevate sentire quante parolacce… Non so dirvi altro, giovanotti.»
Quelle parole lasciarono i due amici senza parole. Fu un fulmine a ciel sereno.
Armin, dopo aver ringraziato il signore, si girò sperando di veder Mikasa ancora in piedi. Effettivamente lo era ma sembrava fissare il vuoto.
Non sapevano dove fosse andato e la peggior delle ipotesi sfiorò la mente della mora che cominciò a dirigersi verso la macchina, ma venne tempestivamente fermata dall’amico.
«Ora guido io.»





 Schizzo Time 
Ehilà! 
In questo capitolo abbiamo tre situazioni diverse:
l'equivoco che ha condotto Jean da Marco [ehehehehe]; 
il povero Eren costretto a colf dell'appartamento di Levi che ancora non ha una dimora fissa [arriverà... arriverà];
e una Mikasa sull'orlo di una crisi di nervi che guida come un pilota di rally.
Tutto nella norma, insomma :D e la giornata non è ancora finita...
Volevo ringraziare moltissimo chi ha deciso di seguire i miei viaggi mentali, grazie millemila *dà cioccolatino* 
Un abbraccio,
Aira.

 

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Capitolo 4
*** Le lacrime non sono salate ***


Reload
♦♦♦
4| Le lacrime non sono salate 
 
***  Ore: 17:30  ***
 
Sì, era vero, aveva passato la notte in casa di quella sottospecie di ghiacciolo diabolico, ma per Eren fu come trovarsi ad un ritrovo per depressi cronici. Quel salotto, al buio, faceva più paura di Mikasa, inoltre quel divano era duro, freddo e con solo due posti. A misura di Levi, insomma.
Al solo pensarci, una risatina isterica ruppe quel silenzio quasi surreale che vi era in quella casa, mentre Eren se ne stava sulla soglia della porta aperta a guardare il bianco divano tanto odiato.
Si voltò vero l’uscita, non aveva più niente da fare poiché non vi era un granello di polvere e, con valigia alla mano, munito di guanti, cuffia e sciarpa di lana avvolta attorno al collo, uscì dall’appartamento.
Mentre scendeva le scale, mise una mano nella tasca del giaccone e notò che quei sette dollari erano ancora lì, leggermente stropicciati sulla sua mano che sembravano urlargli “spendici!”; li ascoltò. Sapeva cosa fare con uno di quei sette dollari.
Cominciò a vagare senza meta quando vide un’edicola in cui spendere il primo.
Si comprò un giornale pieno di annunci di lavoro e quando lo prese in mano, ci fu un attimo in cui ebbe fiducia nel futuro. Sì, quello fu un gran bell’acquisto.
Mise il giornale nella tasca interna della giacca e continuò a vagare, fino a quando si fermò di colpo in mezzo a un marciapiede poco trafficato, facendo sbattere la persona dietro di lui contro la sua schiena.
Un «Ah!» fece voltare Eren, che si trovò di fronte una donna un po’ più alta di lui con capelli raccolti in un’alta coda e occhiali leggermente spessi. Nel momento in cui si guardarono, sentì una sensazione strana, come se gli mancasse qualcosa.
«Mi scusi, ma…» Eren iniziò a slacciarsi i primi bottoni del giubbotto, guardando dentro la maglietta.
«Oh, che ragazzo impavido! Però penso che non sia né il luogo né il momento più adatto…»
 
La collana che aveva attorno al collo non c’era più e nella testa cominciò a regnare il panico. Le parole della donna furono ignorate, era troppo concentrato nel cercare l’oggetto perduto.
«Ehi, mi stai ascoltando?» chiese la donna che con il volto leggermente imbronciato decise di agitargli la mano davanti al viso in modo da attirare la sua attenzione.
«Come?» Un Eren sulla soglia della disperazione la guardò negli occhi mentre frugava con una mano dentro la valigia. «La prego di scusarmi, ma penso di aver perso qualcosa d’importante.» ammise mentre i movimenti diventarono sempre più frettolosi e i denti sempre più stretti.
La donna lo notò, prendendosi il mento tra indice e pollice.
«Interessante… in una scala da uno a dieci, quanto era importante?» chiese con occhi curiosi.
«Dieci… ma non si preoccupi, non è colpa sua.» rispose chinandosi per cercare con una nuova prospettiva fino a quando la donna interruppe la ricerca a causa di quello che sentì uscire dalla sua bocca: non avrebbe retto ancora un’altra frase.
Era incredibile quanto le nuove generazioni fossero sempre più maleducate, pensò, aggiustandosi gli occhiali, mani sui fianchi e un’espressione quasi offesa.
«Ehi giovanotto, ti sembro così vecchia da darmi del lei?»
«Eh?» Eren alzò il capo leggermente confuso. «Ecco io… volevo solo essere cortese.» provò a spiegare cercando di calmare la donna che sembrava avercela a morte con lui finché l’espressione offesa della “signorina” fece largo ad una sonora risata che per il giovane sembrò simile a quella di un camionista del Texas.
«Stavo scherzando!» esclamò dandogli una pacca sulla schiena così forte che per poco il bruno non sputò un polmone. «Tu devi essere Eren, dico bene?» Il sorriso a trentadue denti confuse ancora di più il povero Eren che era sull’orlo di una crisi isterica. Era sicuro di non aver mai visto quella donna in vita sua.
«Scusa… ci conosciamo?» chiese facendo attenzione a non usare un’espressione formale.
«Sono Hanji Zoe, ti stavo seguendo da quando sei uscito dalla palazzina di Levi.» La sincerità prima di tutto.
Il solo fatto che quella donna dall’improponibile impermeabile giallo canarino e gli stivali color cioccolato lo stesse in un qualche modo seguendo lo spiazzò. Oltre a essere perseguitato dalla sfortuna, ci mancava solo un’amica del ghiacciolo.
«Perché?» chiese solamente.
Quella domanda fu decisiva per far scattare la scintilla negli occhi della donna che, contenta, iniziò a spiegare.
«Stamattina Levi ha accennato ad un “randagio idiota” che ha dormito in casa sua. Dovevi vedere la mia faccia,» una risata. «Mi sono catapultata a casa sua a vedere che tipo di cane avesse preso ma a quanto pare ho frainteso, eheh.»
Lo sguardo di Hanji fu talmente ambiguo che Eren ebbe un attimo di confusione interiore.
 
Okay, piano.
 
Eren, venticinque anni, sfrattato e senza lavoro.
Le uniche cose che gli rimanevano erano sei dollari stropicciati, un cellulare morto, una valigia piena di inutili cose personali e un giornale.
Certo, aveva bisogno di aiuto. Certo, Hanji poteva aiutarlo. Ma no, lui non voleva aiuto, specialmente dagli sconosciuti.
Nei suoi venticinque anni di vita gli erano stati affibbiati diversi soprannomi: cane rabbioso, pazzo suicida, mostro… ma mai “randagio idiota”.
E ora eccolo lì, a ritrovarsi con un sorriso idiota, senza soldi né un tetto sotto cui stare.
 
Sorrise così spontaneamente e senza secondi fini che lui stesso si sorprese. Ormai per lui i nomignoli erano come il pane, ma “randagio idiota”, alle sue orecchie, non suonava male. Pensò che quell’appellativo fosse la risposta involontaria al “ghiacciolo diabolico” che si era inventato per Levi. Karma, insomma.
«Piuttosto azzeccato direi.» Accennò una risatina, poi approfittò del loro incontro per chiederle una cosa.
«Hanji, potrei chiederti un favore?»
Per la prima volta in quella giornata, la donna si rese utile, prestando il suo carica-batterie portatile. Inutile descrivere la faccia di Eren quando lo vide, a metà tra la vista di un oasi in mezzo al deserto e una visione celestiale.
Subito dopo aver messo in carica l’aggeggio elettronico, con la mente leggermente più lucida, gli riaffiorò alla mente l’immagine infuriata dell’amica. Solo in quel momento capì che forse sarebbe stato meglio restare nella beata ignoranza e non vedere la home, ma sempre grazie al suo fantastico buon senso, andò avanti.
Cominciò a sudare freddo, il cuore iniziò ad accelerare i battiti, infine deglutì a vuoto aspettando che il cellulare si accendesse.
Inserì il PIN con dita fredde e rigide.
Aspettò cinque lunghissimi secondi.
Ottantotto chiamate e novantatré messaggi, venti dei quali in segreteria.
Notifiche quasi tutte di Mikasa.
Era fottuto.
 
***  Ore: 18:03  ***
 
L’appartamento di Mikasa si trovava in una palazzina di sei piani non molto lontano da una delle due stazioni di Boston; lei si trovava al quinto piano. L’edificio era tenuto bene, la gente era cordiale e lei era uno dei residenti più giovani assieme a Annie Leonhardt, collega di Eren, con la quale litigava spesso.
In quel momento stava camminando avanti e indietro per la camera da letto come un’ossessa, cellulare alla mano e piede che di tanto in tanto batteva nervosamente sul parquet come un tic nervoso.
«Cosa faccio, lo chiamo?» chiese per la quarantasettesima volta in quel giorno, affacciandosi leggermente alla porta della camera per farsi sentire meglio da Armin che se ne stava al tavolo della cucina a pensare come avrebbero potuto rintracciarlo.
«No, aspetta.» Disse solamente dopo aver fatto ruotare la penna tra pollice e indice.
«Okay, lo chiamo.»
Il biondo sbuffò guardando fuori dalla finestra, abbandonandosi ai suoi pensieri che dopo circa venti secondi furono interrotti da una Mikasa euforica.
«Suona! Il cellulare di Eren suona!» esclamò con un entusiasmo simile a quello dei tifosi di calcio.
Era veramente raro vedere le emozioni così trasparenti di Mikasa.
Dopo l’affermazione fatta, Armin si diresse nella camera della ragazza e aspettarono di sentire la voce dell’amico.
Ci vollero circa due squilli per sentire la paura provenire dall’altra parte.
«M-Mikasa?»
Inutile dire che i due si guardarono con occhi pieni di speranza e gioia.
«Eren dove sei? Stai bene? Cosa ti è successo? Torna a ca–»
La frase venne interrotta dalla voce di una donna, mentre in sottofondo, la voce dell’amico esclamò un «Ehi!» infastidito.
«Pronto pronto, mi senti?» Hanji aveva preso prepotentemente il cellulare del bruno mentre la sua espressione era abbastanza divertita; era una fortuna che i due amici non la potessero vedere.
«Accompagno io questo fanciullo a casa, non ti disperare. Passo e chiudo!»
Chiuse la chiamata senza neanche ascoltare la risposta della povera Mikasa che si ritrovò in mano un cellulare dal distinto suono di una telefonata chiusa in faccia.
«Chi era?» chiese un Armin curioso mentre Mikasa, turbata, fissava il frigo dal letto della sua camera, come se questo potesse rispondere al caos che aveva in testa.
«Non lo so.»
 
***  Ore: 20:32  ***
 
Era cresciuto in una famiglia felice, normale e semplice nel Connecticut.
Sempre stato vivace, era il classico bambino che tornava a casa pieno di lividi e che sorrideva nel mostrarli alla madre, fiero di essersi rialzato dopo le svariate cadute.
Aveva molti amici, una vita tranquilla fino a quando, un giorno di primavera, conobbe quel sentimento che lo avrebbe fatto diventare lo zimbello della scuola. L’amore, quella cosa che nei libri era sempre descritta come un sentimento puro, colorato, luminoso e passionale, per lui fu fonte di dolore, inadeguatezza e vuoto.
Tutti elementi che affollarono la testa di un Eren sull’orlo di una crisi.
Il primo anno di liceo fu uno dei più duri: quell’anno capì cosa significasse toccare il fondo.
Provò con tutte le sue forze a rialzarsi, a sorridere, a socializzare ma pensò seriamente che tutto quello che stava facendo non sarebbe servito a niente.
“Tu sei forte.”
Se lo ripeteva in continuazione. A casa, a scuola, al corso di karate, in autobus, in bagno e anche prima di addormentarsi. Quelle tre parole furono capaci di farlo andare avanti per un anno e mezzo, fino a quando non incontrò Armin e Mikasa, dopo aver cambiato casa e, di conseguenza, anche scuola.
Solo dopo molti mesi si rese conto di quanto fu fortunato ad aver trovato persone come loro.
 
Gli stessi amici che in quel momento lo stavano abbracciando più forte che potevano.
Per Eren, fu una sensazione liberatoria. Era tornato a casa e l’inconfondibile profumo di Mikasa gli inebriava le narici, calmando sempre di più i battiti del suo cuore. La gioia nel sentire di nuovo i suoi migliori amici affianco a lui era tale da farlo piangere.
Quelle lacrime finalmente potevano uscire senza esitazione né vergogna.
Le lacrime di gioia si tramutarono in lacrime amare, piene di tutto lo stress che provò negli ultimi giorni.
Frustrazione;
«Balle, Jaeger!»
Rabbia;
«Giuro che ve ne pentirete!»
Delusione.
«Moccioso.»
Le dita strette alle maglie dei suoi amici, il volto contorto dalle emozioni e i singhiozzi soffocati dall’orgoglio dimostrarono la sua fragilità, un lato di lui che solo loro avevano già visto in passato.
«Sono successe molte cose.» Ammise ancora tra le loro braccia.
Armin e Mikasa potevano sentire molto chiaramente il bagnato sulle loro spalle e quanto teso fosse Eren.
«Eren, scusaci se ti abbiamo lasciato da solo. Davvero, perdonaci.» Disse Armin.
Eren scosse leggermente la testa. «Non è colpa vostra. Piuttosto dispiace a me; non sono potuto venire con voi. So che non vedi tuo nonno da molto tempo, e se vive in montagna non è certo colpa tua. A proposito: sta bene?»
Si staccarono per guardarsi negli occhi ed Eren ne approfittò per asciugarsi le lacrime.
Armin sorrise, uno di quei sorrisi felici e incoraggianti che Mikasa non vedeva da molto. Nonostante avesse dato dell’eremita a suo nonno, gli voleva bene come se fosse suo. Quell’uomo era buono come un pezzo di pane. Rimasto vedovo ancor prima della nascita di Armin, aveva sviluppato doti culinarie che nemmeno lui sapeva di avere. Era sempre allegro e qualche volta, durante il liceo, andavano tutti insieme a mangiare a casa sua, in città. Mikasa ricordava ancora il pollo fritto con salsa barbecue ostruirle le arterie mentre Eren si strozzava con i maccheroni al formaggio da quanti ne metteva in bocca con un Armin che, nel frattempo, gli dava le pacche sulla schiena.
«Sta bene.» Rispose la mora distogliendo lo sguardo dal biondo per posare i suoi occhi su un Eren risollevato.
«Ne sono felice.» Sorrise.
Armin continuava a guardare Eren. Dopo ciò che raccontò l’amico, sapevano cosa aveva passato e in quel momento sapeva le parole da dirgli.
«Eren,» Attirò la sua attenzione, facendo in modo che lo guardasse negli occhi. «So che è dura. So che sei distrutto. Ma so, anzi, sappiamo che sei in gamba. Non importa quante volte tu cada, l’importante è che ci sia quell’unica volta in più che ti rialzi e ci riprovi. La vita è fatta per cadere, rialzarsi, camminare e volare.»
La bocca si storse; la delusione era tanta. «Il problema è che nonostante abbia venticinque anni sono ancora qui a cadere come un idiota!» Eren si odiava per questo. Pensava di non aver fatto abbastanza. Credeva di non avere più speranze. Ma l’amico, nel momento in cui abbassò lo sguardo, gli mise una mano sulla spalla. «Se continui a fallire vuol dire che quando inizierai a volare, avrai meno possibilità di cadere.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che non stai sprecando tempo!» Armin aveva la situazione sotto controllo. «Arriverà il giorno in cui volerai e fidati, sarà il più bello della tua vita.»
Gli occhi smeraldini si spalancarono: quello che il biondo voleva fargli capire arrivò dritto e chiaro nella sua testa da idiota – in senso buono – qual era.
«Ti ho preparato l’occorrente per il bagno. Sei stanco, ti lavo la schiena.» Saltò su Mikasa, alleggerendo l’atmosfera involontariamente.
«No Mikasa, faccio da solo.»
 
***  Ore: 22:04  ***
 
Per colpa della notizia ricevuta il giorno prima, andò a lavorare nonostante fosse domenica. Il lavoro gli faceva venire sempre mal di testa e lo rendeva più irritabile del solito, cosa non molto gradita dalle sue poche conoscenze.
Prese fuori le chiavi di casa e dopo aver girato la chiave aprì la porta, scoprendo la figura dell’ultima persona che avrebbe voluto vedere sulla faccia della Terra.
C’era solo una persona che riusciva a tenergli testa anche alle sei di domenica sera, e quella era proprio lì, di fronte a lui.
Al lavoro, lei era denominata "la castra-uomini" mentre lui "lo squarciatore di anime". Quei due erano completamente diversi, accomunati dallo stesso lavoro e l’interesse per Grease Anatomy, serie tv non molto popolare, incentrata sulle storie di meccanici alle prese con diversi problemi ‘meccanici’. Che fossero questioni di cuore, sesso o motori, quei grandi lavoratori sporchi di grasso lubrificante, attizzavano sempre e comunque.
Comunque, collega, amica e rivale, Hanji era una delle poche persone di cui si fidava ma che, allo stesso tempo, non sopportava. Ogni volta che la incontrava, pensava che probabilmente aveva sbattuto la testa da piccola altrimenti non sapeva davvero come spiegare la sua insanità mentale.
«Cielo, no.» Voltò gli occhi al soffitto.
«Lo so, lo so che ti sono mancata.» Sorrise soddisfatta prima di tirar fuori sei pezzi di carta ritagliati accuratamente, sfoggiandoli come soldi appena vinti. «Guarda cosa ti ho portato, buoni sconto! Allora, sono o non sono stata brava?» chiese dandogli un leggero colpo di gomito sul braccio.
Tante erano le domande che stavano passando per la testa del povero uomo e una di queste era il come diavolo avesse fatto Hanji ad entrare nel suo appartamento. Poi pensò che non lo voleva sapere, arrabbiarsi gli avrebbe fatto sprecare troppe forze e l’unica cosa che voleva in quel momento era sedersi.
L’uomo si svestì, appoggiando la giacca e la sciarpa sul divanetto bianco per poi sedercisi sopra.
Voleva silenzio, voleva mangiare e voleva riposare: tutte cose impossibili con Hanji in casa.
«Buoni sconto applicabili a quale tipi di prodotti?» Si toccò un argomento importante, doveva sapere di più.
«Prodotti per la pulizia.»
«Per la cucina? Il bagno? Il salotto? Spiegati, quattrocchi.»
Hanji si sistemò gli occhiali sorridendo.
«Tutto quanto.» Fu attenta a scandire per bene quelle due parole che sicuramente avrebbero generato un’attenzione quasi mistica da parte del moro.
Infatti, al solo sentire una cosa del genere si alzò e lottando contro la stanchezza, le strappò dalle mani quei pezzi di carta.
Ma un pensiero gli attanagliò la mente: quando quella sottospecie di demonio si presentava con degli omaggi non era mai una buona cosa. In quel caso, tanti erano i buoni quanto più grave era la notizia che Hanji doveva dirgli e, su una scala dall’uno al dieci, sei buoni era decisamente un numero preoccupante per concludere la settimana in bellezza.
Gli occhi esaminatori di Levi si spostarono sulla figura in piedi vicino a lui.
«Cos’è successo?»
Il viso della donna si oscurò e, sedendosi nella poltrona di fronte al divano, accavallò le gambe.
«Si tratta di Grease Anatomy.»
Anche il volto di levi si oscurò.
«Di nuovo? Eppure mi era sembrato di essere stato chiaro l’ultima volta.»
C’era una ragione ben precisa per cui venne soprannominata la castra-uomini. Quella portatrice di caos era talmente logorroica da far cadere i cosiddetti a tutti coloro che intraprendevano un dialogo con lei.
Bisognava destreggiarsi nell’antica arte del dialogo per poter evitare potenziali spoiler.
«Il problema è un altro.» Fece una lunga pausa in cui si poté udire il suono di una sirena in lontananza. «Hanno posticipato l’ultimo episodio.»
Il sottile sopracciglio di Levi si alzò, impassabile.
«Avanti, che c’è?»
Lo sguardo di Hanji si spostò verso il piccolo mobile che stava vicino al televisore, su cui vi era una macchina fotografica senza obbiettivo.
«Si tratta del caso Ral. Mi hanno affidato la cliente di Moblit.»







 Schizzo Time 
Yohoo!
Come state? Io ho un bellissimo raffreddore :-,D [<--- sarebbe una faccina con il moccio]
Ok, finalmente la domenica è finita. E' stata lunga, ne sono successe tante ma almeno Eren ha potuto 
riabbracciare i suoi cari amici. 
Adoro Armin, nel manga ha avuto una crescita spaventosa e ne sono veramente orgogliosa. 
Per errori e/o incomprensioni, io sono qui =]
Spero di non aver annoiato nessuno e vi auguro buona giornata 
^^ 
Baci,
Aira.
 

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Capitolo 5
*** I sorrisi non sanno parlare ***


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♦♦♦
5| I sorrisi non sanno parlare

 
*** Venerdì 1 Marzo – 11:31 ***
 
Dopo essersi sistemato quasi adeguatamente a casa di Armin, Eren passò la settimana a cercare un lavoro serio.
Non pensava certo di continuare a fare la ‘donna delle pulizie’ nella casa di quel ghiacciolo per il resto della sua misera vita. No, lui voleva essere indipendente, e trovarsi un lavoro onesto era la cosa più importante.
Anche se in quel momento era davanti a quell’appartamento angusto e freddo nonostante non fosse il suo giorno lavorativo. Il motivo era uno: si era accorto di aver dimenticato la sua adorata macchina fotografica, nonché partner di mille avventure, a casa di Levi.
Suonò il campanello una volta, che bastò a far rivelare l’uomo dalle occhiaie fin sotto i piedi.
«Disturbo?» chiese un Eren leggermente spaventato.
Eren pensò che già di per sé l’espressione naturale di Levi non era molto amichevole e se si aggiungeva il fattore “irritabilità” assieme alla “Luna storta”, questo sembrava più un diavolo sceso in terra.
«Certo che disturbi. Che c’è?» Le sue parole erano fredde e pesanti come marmo ma Eren non ci diede peso.
«Ecco…» Inclinò leggermente la testa per intravedere l’interno dell’appartamento. «Ho dimenticato una cosa importante e vorrei riprendermela.» Affermò quasi sull’attenti.
Levi si voltò indietro per vedere in quali condizioni fosse l’appartamento e… beh, faceva schifo.
Documenti sparsi ovunque, palline di carta seminati per tutto il salotto e il suo enorme libro, rovinato dal tempo, sul tavolo della cucina con trucioli di matita sparsi su tutto il ripiano. Sembrava fosse passato un tornado.
Non dormiva da due giorni e aveva finito il caffè. Stanco e ridotto peggio di un universitario con quattro esami nella stessa settimana, decise di pestare il suo orgoglio e di far entrare il ragazzo.
«Tch, entra.» Lo invitò togliendo la catena.
Appena la porta si aprì del tutto, gli occhi di Eren si sbarrarono, sorpreso che tutto quel caos l’avesse fatto Levi.
Pensò che nemmeno lui sarebbe stato capace di eguagliare un disordine simile e, proprio per questo, gli scappò una leggera risatina. Avendo conosciuto il soggetto di fianco a lui e la sua mania per la pulizia, gli sembrò quantomeno ironico il fatto che la sua ossessione era tanto grande quanto il caos che riusciva a fare.
Questa cosa la trovò, in un qualche modo, adorabile.
«Che hai da ridere, moccioso?» ringhiò il moro accigliato e con le braccia incrociate.
«Niente, solo che non so se riuscirò a trovare l’oggetto che cerco in mezzo a tutto questo caos.» Mentì.
Aveva già adocchiato la sua macchina fotografica ma considerata la situazione, decise di aiutarlo – o di fare straordinari gratuiti, era uguale. –
Levi pensò subito che il moccioso volesse morire giovane, ma in quel momento non aveva nemmeno la forza per stare in piedi, figuriamoci per arrabbiarsi.
«Fa quello che devi fare, basta che non mi disturbi.» Anche se, effettivamente, la sua sola presenza lo stava disturbando, cercò di concentrarsi sullo studio di quel libro e sottolineare le cose importanti per scrivere il dannatissimo documento che gli serviva per il lavoro.
Eren, nel frattempo, si mise a raccogliere le cartacce e buttarle nel sacchetto preso da sotto il lavandino.
A far da sottofondo a quella scena tranquilla, vi era solamente un orribile silenzio che al più giovane sembrò simile a quello del suo licenziamento. Decise di compiere il primo passo, anche al costo di farlo più lungo della gamba.
«Dovresti riposare.» Il suo tono sfiorò l’incertezza ma in fondo, era solo preoccupato.
«Non dirmi quello che devo fare.» Era come se Levi si fosse rinchiuso in una bolla.
Certo, Eren non era nessuno, ma vederlo in quelle condizioni gli faceva tornare alla mente il vecchio se stesso che lavorava senza sosta per uno stipendio che gli garantiva l’affitto e il mangiare per un mese.
Solo in quell’istante si rese veramente conto che il suo impiego non era dignitoso.
Come poteva considerarsi un lavoro ciò che consuma il corpo?
A giudicare dai capelli, le occhiaie, l’umore e i movimenti, Eren poteva intuire che non dormiva da almeno due giorni. Ne sapeva abbastanza in materia e non voleva che qualcun altro stesse male come lui.
Prese tutto il coraggio che portava con sé e, facendo cadere per terra il sacchetto pieno di palline di carta e fogli stracciati, andò a sedersi di fronte a lui, accigliato e pieno di determinazione finché la sua ombra, che andò a coprire il macigno dal quale Levi traeva informazioni, non irritò quest’ultimo sull’orlo di una crisi.
«Eren!» Il suo sguardo si trasformò in una lama, pronta ad affondare nell’anima del bruno che, dopo aver visto quegli occhi e udito il suo nome pronunciato con quel tono, si sentì un topo in trappola.
La sua determinazione sparì come un mucchio di cenere dinanzi a una tempesta. Gli occhi smeraldini andarono a posarsi sulle mattonelle di ceramica scura, cercando di dire qualcosa. Qualunque cosa potesse convincere Levi a staccare anche solo per cinque minuti.
«R-riposati, per favore.» Sembrava quasi una supplica, al quale il più grande inizialmente non sembrò vacillare.
Quello sguardo tagliente non accennava a staccarsi da Eren fino a quando, con un sospiro, cedette.
Si alzò dallo sgabello chiudendo il grosso libro poi, con fare non curante, si buttò sul divano bianco.
Eren, al solo vedere quella scena, pensò che Levi e quel divanetto si completassero a vicenda, come un puzzle.
Levi, testa sul cucino e braccio destro sugli occhi, interruppe il silenzio che si creò.
«Solo cinque minuti, sia chiaro.»
Le labbra del più giovane si distesero in un sorriso un po’ troppo largo che fortunatamente Levi non vide. Era riuscito a convincere il ghiacciolo diabolico a riposarsi. Per lui, quella, fu una grande vittoria.
«Sì, sì… io intanto cerco la mia mac–»
«E’ sul mobile vicino al televisore.» Affermò. «Oltre la linea di confine delle tue pulizie.» Aggiunse.
Il sangue del giovane si gelò, non sapeva cosa aspettarsi. Una punizione? Denuncia? Tortura? Esilio?
Niente di ciò. Solo indifferenza, che al giovane cuore del bruno sembrò quasi peggio di tutte le cose sopracitate.
«Grazie.» Sputò solamente prima di andarsene a gambe levate.
Uscito dall’appartamento, un sorriso mongolo si impresse sul suo viso, dando l’impressione a chiunque lo guardasse, di aver raggiunto un traguardo importante per la prima volta.
Non sapeva se essere felice del fatto che Levi non lo cacciò subito da casa sua dandogli semplicemente l’oggetto o essere terrorizzato da quell’indifferenza che gli causò un battito in meno.
Quella singola frase bastò per trasferire tutto il caos di quella casa nella sua testa.
 
*** Ore: 13:52 ***
 
Sembrava più la ricerca di Cenerentola che una semplice caccia al proprietario di quella chiave.
Nessuno sapeva chi fosse quel dannato Marco dagli occhi verdi e quelli che affermavano di conoscerlo, non si trattava della stessa persona.
Decise che finché non avesse trovato il soggetto in questione, avrebbe appeso la chiave a cavallo dello specchietto retrovisore centrale, sperando soprattutto che lo avrebbe distratto da quell’orribile giocatore dell’NBA.
Certo, fare il taxista in una città come Boston era una vera e propria piaga ma qualche volta, le coincidenze capitavano anche quando meno le si aspettava.
«Buongiorno, portami subito all’ospedale!» Il tono della persona appena entrata quasi prepotentemente, era stranamente allegro, tanto che fece girare il conducente, trovandosi una donna vestita con stivali marroni, impermeabile giallo canarino, sciarpa rigorosamente arancione e un paio di occhiali spessi che facevano da contorno a due occhioni color nocciola, vispi e sicuri.
«Ehm… per caso è felice?» Sì, decise di tirar fuori il lato "taxista ficcanaso" che era in lui.
«Ahahahah, ragazzo, certo che lo sono! Un mio amico si dimette oggi. E’ un collega, un rivale e un tipo dall’umorismo di un bradipo ma a quel ragazzo è impossibile non volergli bene.» Una pausa, in cui Jean capì che sarebbe stata una chiacchierata molto lunga. «Oggi è il suo compleanno, non è grandioso?! Una coincidenza del genere non la vedevo da almeno due anni! Ah, che ricordi, in quei tempi…»
Ed era proprio in quelle occasioni che il ragazzo avrebbe tanto voluto mangiarsi la lingua.
 
Il viaggio continuò per un’oretta abbondante, assieme alla chiacchierata di Hanji che sembrò essere più una seduta dallo psicologo che un semplice dialogo fatto per riempire il silenzio o ammazzare la noia.
Ad un tratto però la donna smise di parlare, attirata dalla chiave dorata che ondeggiava per via dei piccoli sobbalzi del veicolo.
«Che bella chiave, come mai l’hai appesa lì?» Finalmente una frase che non riguardasse la sua vita.
«Non è mia. L’ha persa un cliente.» Rispose noncurante.
L’immagine di Eren comparì nella mente della bruna che al solo ricordo di lui alle prese nella ricerca dell’oggetto, rise sotto i baffi.
«Un ragazzo dagli occhi verdi?» domandò.
Gli occhi di Jean andarono a posarsi sullo specchietto retrovisore, in modo da vedere la sua cliente in faccia.
«Pensiamo alla stessa persona?»
«Chissà.» Farfugliò Hanji tra sé e sé, guardando fuori dal finestrino.
Giunti a destinazione Hanji impugnò la sua borsa e chiuse la portiera, lasciando il povero autista senza risposte, fino a quando un ticchettio attirò la sua attenzione.
Abbassò il finestrino del lato del passeggero anteriore, dove gli parlò un’Hanji divertita.
«Eren è un po’ sbadato. Perdonalo.»
Detto ciò, la sagoma della donna sparì dietro la grande porta d’ingresso dell’ospedale, lasciando Jean confuso.
Cosa diavolo aveva appena sentito?
Purtroppo non poté soffermarcisi molto poiché l’uomo sedutosi nei sedili posteriori gli stava già chiedendo di partire.
«Dove la porto, signore?» chiese con tono cordiale.
«Museo d’arte, per favore.»
«Ricevuto.»

 
*** Ore: 16:27 ***
 
Il museo d’arte non era mai molto affollato, a parte i giorni delle gite scolastiche: quelle erano le peggiori.
Era il suo posto preferito, calmo e pieno di colori, l’atmosfera e il profumo gli donavano una strana serenità interiore. Lui era il tipo che arrivava sempre in anticipo, così dedicò un po' tempo ad ammirare i quadri e le sculture che ornavano le pareti bianche della galleria.
Quel pomeriggio doveva incontrarsi con uno dei suoi sottoposti: una delle fonti dell’agenzia.
«Signor Smith, mi scusi il ritardo.»
Un giovane dalla palese passione per la palestra si presentò davanti all’uomo con in mano un taccuino non molto grande. Nessuno sapeva molto della sua vita privata, ma era una delle figure più importanti dell’azienda; il capo dalla pettinatura sempre rigorosamente ordinata si fidava di lui.
«Ho portato l’articolo di Ymir.» Aggiunse porgendogli l’oggetto dalla copertina rosso scuro.
Le labbra del più anziano si distesero in un sorriso soddisfatto.
«Reiner, hai notizie di Jaeger?» Sembrava preoccupato ma era solamente curioso.
«No, signore. Però Annie mi ha detto che la sua vicina di casa non la smetteva più di chiedere di lui. Forse gli è successo qualcosa.» Dal tono sembrava che la cosa non lo toccasse minimamente.
Reiner Braun era un ragazzo dallo sguardo intimidatorio da far gelare il sangue. A intimidire la gente era anche il fatto che facesse il buttafuori in una delle discoteche più discusse della città. Lui, però, era solamente un fidato sottoposto di Erwin Smith, il redattore capo della rivista "Titan News".
«Capisco.» Disse solamente rimettendosi ad osservare il dipinto davanti a lui con aria pensierosa.
 
Giunse la sera e non appena arrivò a casa, Erwin si liberò dalle scarpe di cuoio poi, tirandosi su le maniche della camicia bianca, si sedette al tavolo della cucina aprendo il computer portatile come ogni sera.
Aprì la posta elettronica e stranamente trovò una mail da parte di Jaeger.
La aprì, curioso, e la lesse, notando subito che quella non era una mail né di scuse né tantomeno dal tono formale.
 
– Signor sopracciglio,
il solo fatto di scrivere questa mail è un atto che ferisce indiscutibilmente il mio orgoglio ma voglio che lei sappia una cosa. Lo sa, l’agenzia si è sempre fidata delle fonti, di queste persone che agiscono nell’anonimato perché considerato un lavoro rischioso. Io, in prima persona, pensavo che fossero una sottospecie di eroi della notte ma la devo informare che durante il mio ULTIMO impiego, una persona mi ha riferito che i presunti spacciatori, su cui mi era stato dato il preciso compito di fotografare il loro arresto, non erano tali ma bensì due ragazzi che trasportavano della semplice farina di cocco.
In parole povere: la fonte o ha sbagliato o ha mentito.
E, per l’amor del cielo, non sto rivendicando il mio posto di lavoro; il fatto che lei mi abbia licenziato senza nemmeno ascoltare la mia versione, basandosi solamente su una macchina fotografica rotta, fa di lei una persona vigliacca e superficiale, solo questo.
Deve sapere però che negli ultimi mesi, in agenzia, sembrava essere stato scoperto il nome di una di queste fonti: Reiner Braun. Il motivo mi è sconosciuto.
Purtroppo non ho prove per accusare nessuno, ma spero che la prossima volta che licenzierà qualcuno, lei abbia almeno la pazienza di ascoltare le ultime parole del suo sottoposto.
Eren Jaeger. –
 
L’ultimo sorriso della giornata si distese sulle labbra dell’uomo che dopo aver letto le ultime righe, pensò di chiamare il suo collega più fidato, nonché amico d’infanzia. Quella mail gli fece ricordare un avvenimento non molto recente che coinvolse Reiner.
«Pronto, Mike? Sono io, Erwin.»
 
*** Ore: 20:45 ***
 
Suonò la sveglia che era stata messa accuratamente sul tavolino vicino al divano su cui era steso.
Quel rumore fastidioso lo svegliò dal breve letargo, facendogli spingere il piccolo pulsante in cima all’oggetto.
I suoi occhi si aprirono di colpo non appena notò che era già buio. Guardò l’ora: 20:45.
«Cazzo!» imprecò prima di vedere un piccolo post-it sotto l’odiata sveglia.
Era scritto in corsivo ma lo lesse facilmente.
-Non star sveglio tutta la notte. Eren-
Inutile dire che quel foglietto confermò il pensiero che Levi fece quella mattina: quel ragazzo voleva veramente morire giovane.






 Schizzo Time 
Ma ciao C: 
Ooohhh, finalmente del dialogo! Finalmente Eren fa il "primo" passo!
Se qualcuno se lo stesse chiedendo, l'amico che Hanji è andata a trovare è proprio Moblit. Quell'uomo è troppo sfortunato.
Cosa chiederà mai Erwin a Mike? E perché Moblit era in ospedale?
Mmmmmmah.
Dal prossimo capitolo, comparirà una figura mooolto importante. Spero di aver incuriosito qualcuno, ahaha.

Ho voglia di gelato alla menta.
A presto!
Aira.

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Capitolo 6
*** Gli occhi non cedono ***


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♦♦♦
6| Gli occhi non cedono

 
*** Lunedì 4 Marzo – 20:05 ***
 
Sapeva che prima o poi quel lavoro gli avrebbe logorato l’anima, e sapeva anche che avrebbe rischiato un’intossicazione da gas nocivi se non avesse preso un profumatore per ambienti il prima possibile.
Il suo ultimo passeggero, quella sera, uscì dalla macchina lasciando briciole ovunque e una bibita rovesciata sui sedili posteriori, dando un senso a quel ‘merda’ che sentì dopo la brusca frenata all’ultimo semaforo.
Sceso dalla macchina, si grattò il capo pensando a come potesse  pulire quello schifo lì dietro.
Vero, aveva finito il turno, ma certamente non poteva consegnare l’auto in quello stato. Eppure, aveva avvisato quell’odioso ciccione di non entrare col cibo ma a quanto pare se l’era nascosto anche tra i rotoli di ciccia.
«Fanculo.» Imprecò dando un calcio alla ruota posteriore e facendosi pure male.
 
Doppio fanculo.
 
Jean era una delle poche persone cui la faccia diceva tutto di lui, specialmente sul fatto che fosse una persona senza peli sulla lingua.
«Accidenti a lui e al suo hamburger di merda!»
Voleva solo andare a casa ma, finché la macchina era in quelle condizioni, non sarebbe potuto andare molto lontano.
Sapeva che nelle vicinanze vi era un distributore di benzina assieme al meccanico e pensò/sperò che almeno lì avrebbe trovato quantomeno gli attrezzi necessari per il lavaggio interno delle macchine, altrimenti si sarebbe dovuto arrangiare, cosa che voleva evitare.
Arrivato sul posto con tutti i finestrini aperti, ad accoglierlo vi fu un signore sulla cinquantina in tuta da meccanico che dopo un breve dialogo, lo condusse sotto la tettoia rossa, luogo in cui avrebbe trovato il meccanico che lo avrebbe aiutato.
Fece come gli era stato detto e non appena parcheggiò la macchina, uscì borbottando qualcosa riguardo agli straordinari.
Si guardò intorno. Nell’officina c’erano due macchine: una nera con il parabrezza rotto e una grigio tenue con le portiere distrutte; del collega neanche l’ombra. I suoi muscoli facciali erano tutti contratti in un’espressione arrabbiata, pensò che quella giornata non poteva andare peggio di così ma quando il meccanico sbucò da sotto la macchina grigia, i muscoli si rilassarono di colpo.
«Marco?»
Gli occhi color cioccolato del ragazzo dai lineamenti delicati si sgranarono, dando vita ad un’espressione felice ed incredula allo stesso tempo.
«Jean! Ci si rivede.» Era leggermente imbarazzato ma gli si poteva leggere la felicità negli occhi.
Nonostante fossero passati giorni dal loro primo incontro, Marco ricordava ancora quanto si sentì a suo agio mentre bevevano il caffè della domenica mattina.
Jean fu il primo ospite da quando si trasferì in America.
Il taxista però non voleva farsi distrarre da una semplice conoscenza appena fatta. Aveva bisogno di pulire il più velocemente possibile quella macchina. Non vedeva l’ora di stendersi sul letto.
«Ehi.» Salutò con un entusiasmo pari a quello di un bradipo in letargo. «Dovrei pulire la macchina per riportarla al capo.» Aggiunse.
«Non preoccuparti, finisco poi ti aiuto.» Affermò rimettendosi sotto l’auto. «Questione di cinque minuti.»
Cinque minuti sarebbero bastati a Jean per esaminare attentamente il luogo in cui Marco lavorava.
L’odore del ferro e dell’olio per motore invadevano l’aria; le chiavi inglesi appese al muro, le luci non troppo luminose e il caratteristico rumore degli arnesi metallici che toccavano a loro volta il metallo rendevano l’ambiente da officina una discreta officina.
Solo in un secondo momento si accorse di un vaso con delle rose bianche che stonavano con l’ambiente circostante.
 
Che diavolo ci fanno delle rose qui?
 
Marco intanto aveva finito di sistemare la macchina. «Sono qui. Dimmi tutto.» Disse andandogli incontro pulendosi le mani con uno straccio di stoffa bianco.
La mano sinistra di Jean andò a toccare la propria tempia che non accennava a smettere di pulsare dalla stanchezza. Il suo sguardo rimaneva fisso sugli interni sporchi dell’auto, convincendosi che tra meno di un’ora si sarebbe ritrovato nel suo letto caldo. Il moro, che lo guardò per qualche secondo, si avvicinò all’auto per vederne gli interni.
«Wow, che disastro.»
Tranquillamente prese tutto il necessario da una cassetta vicino al vaso di rose e, porgendo un piccolo aspirapolvere al taxista, iniziarono a pulire.
«Cliente pesante?» Chiese con un mezzo sorriso sulle labbra mentre puliva con il vapore i sedili posteriori.
Marco aveva detto le due paroline magiche che scatenarono in Jean una specie di sorriso che arrestò non appena si rese conto che le labbra si stavano allargando un po’ troppo.
«In tutti i sensi.» Rispose schiarendosi la gola e riprendendo il controllo dei muscoli facciali. Il tono calmo con cui diede la risposta fu seguito da una leggera risata proveniente dal giovane di fronte a lui.
Testa di fieno non voleva far trasparire i suoi sentimenti. Era sempre così quando voleva tenere le distanze da una persona. Specialmente con quel ragazzo. Non gli piaceva. Non si fidava.
E poi, a dirla tutta, che diavolo aveva da sorridere sempre? Chi era, Biancaneve?
Cosa ci guadagnano le persone a essere gentili? Era questo che Jean si chiedeva da quando era bambino.
Ci fu un silenzio contornato dal rumore della città. I due erano concentrati sul pulire la vettura ma ci fu un momento nel quale i loro sguardi si incrociarono. Marco distolse subito lo sguardo, Jean, al contrario di quel che si potesse pensare, continuò a studiarne il comportamento fino ad arrivare ai lineamenti.
Lo sguardo era fisso sull’oggetto da pulire eppure riusciva a intravedere la serenità in quegli occhi color nocciola. Notò la bocca increspata per via della difficoltà nel togliere quella macchia di aranciata, il respiro leggermente più veloce del suo, le lentiggini sfumarsi alla luce fioca dell’officina, le piccole increspature della fronte che si corrugava per la concentrazione… Marco si stava impegnando, anzi, a Jean sembrava che stesse dando tutto se stesso per aiutarlo.
«Perché?» Sputò fuori Jean senza accorgersene.
Marco si voltò, curioso. «Perché cosa?»
 
Bravo Jean, inventati una scusa, su.
 
«Perché… Bryan vuole andarsene senza dire niente a Eric?» Grease Anatomy era ovunque.
Anche Marco seguiva la serie, specialmente per la semplice curiosità di vedere se quei meccanici dicevano il vero o sparavano nomi e “diagnosi” a caso.
Una domanda senza senso avrebbe ricevuto quasi sicuramente una risposta senza senso, pensò Jean.
«Penso che Bryan abbia le sue ragioni. Dopotutto, Eric gli ha quasi rotto un piede con la palla da bowling.»
Il tempo si fermò.
Questa volta Grease Anatomy mieté le sue vittime legandole per bene con un sottile ma robusto filo rosso.
 
*** Ore: 23:50 ***
 
Strano.
Sì, fu decisamente strano il fatto che quella stessa sera Eren stesse lavorando senza mettere le mani su prodotti chimici o guanti di lattice. Dopo numerose telefonate, un benedetto ristorante ebbe la decenza di rispondere con un: «Ma certo tesoro, puoi cominciare stasera.»
Ora capiva il motivo di tale entusiasmo da parte della direttrice: i clienti non accennavano a diminuire e in più, da quello che gli aveva riferito la signora, mancava una cameriera per cui il lavoro da fare era un “pochino” di più. Ed era quasi mezzanotte.
«Lo sapevo, mi sarei dovuto informare di più.» Pensò, senza troppi rimpianti mentre serviva l’ennesimo cliente. In fondo quel lavoro era onesto e in più gli avrebbe garantito un piccolo gruzzolo da mettere da parte per prendere in affitto un appartamento decisamente più decente dell’ultimo.
I piedi cominciavano a pulsare e non poteva fermarsi un attimo a causa di tutti quegli schifosi addii al celibato/nubilato che si erano svolti fino a quel momento.
Il brusio generale e i diversi tintinnii delle posate sui bicchieri gli rimbombavano nella testa.
Tutto quel casino fu uno dei motivi per cui una signorina, non molto lontana da lui, fece fatica ad attirare la sua attenzione.
«Ehm, scusa!» La giovane donna alzò la mano quasi timidamente attirando, finalmente, l’attenzione del povero Eren sfinito.
Il suo turno sarebbe finito verso le due del mattino, quando il ristorante chiudeva.
Il cameriere andò dalla ragazza che teneva in braccio la propria bambina che avrà avuto circa un anno.
«Cosa posso fare per lei?» Chiese cortesemente.
La donna sembrò leggermente imbarazzata ma allo stesso tempo un po’ pallida.
«Avrei bisogno di andare in bagno. Per favore, mi può tenere la bimba per cinque minuti?»
Se c’era una cosa che non sapeva fare era accudire i bambini. Con lui qualsiasi apparente angioletto si sarebbe trasformato in una vera e propria calamità per l’umanità. Eren aveva il potere di incutere paura a qualsiasi cosa tenesse in mano perciò gli venne naturale rifiutare.
«Ecco, vede, non si offenda ma non posso. Sono molto impegnato e–»        
“Non penso che il capo me lo permetta.” Stava per dire prima che la donna gli avesse rimesso addosso.
Il mal di testa si trasformò in mal di stomaco mentre tutti si voltarono verso di loro: alcuni con faccia stupita, altri schifata, altri ancora avevano preso in mano il cellulare e fotografato la scena.
 
Ed è solo il primo giorno, bene così.
 
«Mi-mi scusi, davvero sono mor–»
Il colpo di grazia, sulle scarpe.
Con la sfortuna che aveva con i bambini e con il fatto appena accaduto, Eren pensò che probabilmente non sarebbe potuto sfuggire al destino e così, col sudore freddo e quasi immobile per lo schifo che aveva addosso, raggruppò tutta la forza di volontà e cercò di rimanere il più composto possibile.
«Vado a prenderle dell’acqua.» Disse dopo aver notato una bottiglia di vino vuota sul tavolo.
La donna dai capelli ramati era seduta da sola con la faccia di chi avrebbe voluto nascondersi sotto terra; la figlia in braccio e un biberon tra le mani.
Il cameriere andò prima di tutto a cambiarsi.
Non appena raggiunse gli spogliatoi dopo aver sfilato pietosamente davanti agli occhi di tutti, si cambiò in fretta per poter garantire un servizio decente alla povera cliente.
L’aveva notata durante il viavai tra una portata e l’altra: sembrava dovesse aspettare qualcuno, seduta in quel tavolo singolo con una candela accesa che sembrava spegnersi da un momento all’altro, ma nell'attesa aveva già fatto fuori una bottiglia di vino bianco. Da quel che ricordava, era lì da almeno due ore.
«Jaeger!» La direttrice lo stava chiamando. «Jaeger, vieni subito qui.»
A quel richiamo il ragazzo pensò al peggio. Corse subito dal capo e giunto col fiato corto dalla donna, notò subito la sua espressione, sembrava preoccupata.
«Per oggi il tuo turno finisce qui, accompagna la cliente a casa. Fallo per quella povera creatura.» Disse guardando la bambina addormentatasi tra le braccia della madre.
Il povero Eren fu spiazzato dall’ordine appena ricevuto ma dopo due o tre pensieri contrastanti, pensò che probabilmente sarebbe stato meglio così invece di continuare a servire la clientela con addosso l’odore di ciò che successe pochi minuti prima.
Cambiatosi nuovamente come una scheggia, prese il braccio della donna e lo mise attorno al suo collo, in modo da aiutarla a camminare mentre spingeva la carrozzina con la bimba addormentata.
 
Era notte fonda, non vi era quasi nessuno e i lampioni erano l’unica fonte di luce in quella strada tetra.
«Che sciocca, non so ancora il tuo nome.»
«Eren, e il tuo?» I suoi occhi rimanevano fissi sulla strada che, dopo un paio di incroci, gli sembrò leggermente famigliare.
«P-Petra…» Disse il suo nome quasi disgustata. «Grazie per accompagnarmi da lui. Davvero.»
«E’ tuo marito?» Abbastanza impertinente da parte sua ma qualche informazione gliela doveva, in fondo le stava facendo un favore.
Un sorriso si distese sulle sue labbra sottili e carnose, l’espressione serena che si dipinse sul suo volto, ad Eren pareva quella di un’anima in pace.
«Magari. Sono sicura che lui non mi avrebbe mai abbandonato.» Affermò guardando la sua bambina dormire e stringere il suo pupazzo preferito. Quella piccola giraffa era l’unico rimedio per farla dormire.
«E lei invece, come si chiama?» Chiese Eren curioso.
«Rel. Mi è rimasta solo lei.» Confessò guardandola dolcemente.
Il ragazzo continuava ad aiutarla a camminare con una mano mentre spingeva la carrozzina con l’altra. Petra non era ubriaca ma era molto debole. Gli aveva confessato che era tutto il giorno che non mangiava.
Non ne ebbe la forza; al solo pensiero di rincontrare quella persona le faceva venire il voltastomaco.
I minuti passarono e per Eren la strada si fece sempre più famigliare. Troppo famigliare.

Oh no.

«Siamo arrivati, puoi lasciarmi andare, non preoccuparti, non crollo mica.» Cercò di tranquillizzare, Petra.
Ma Eren non si fidava.
«In quell’edificio non hanno l’ascensore. Io ti porto la bambina, starò dietro di te, non preoccuparti.» Sorrise.
Un sorriso che la rese più tranquilla.
Durante gli scalini, Eren era super concentrato a controllare la bambina, non far cadere la piccola giraffa e stare attento ai movimenti di Petra che si stava dirigendo verso l’ultima rampa di scale; per cui non riuscì ad accorgersi che l'appartamento cui era diretta era proprio quello.
La giovane donna bussò alla porta e quando si aprì, la figura che le si presentò davanti aveva un paio di calzini di lana rossa ai piedi.




 Schizzo Time 
Io. Sono. Una. Brutta. Persona.
Chiedo scusa a tutti quelli che hanno messo la fic tra le seguite per non aver più aggiornato, purtroppo il mio vecchio computer ha deciso di morire dopo un mese (circa)
dall'ultima pubblicazione e per comprarne un altro, tra università e imprevisti, i soldini non erano mai abbastanza >.< chiedo venia.
Finalmente è entrato un personaggio molto importante nella storia ed Eren, finalmente, si è trovato un lavoro "pulito" (ahaha no, non faceva ridere).
Ma poi, Petra, non ce l'ha una casa? Beh, sì, però...
Scusate ancora il tremendo ritardo e alla prossima (spero)! 

Aira.

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Capitolo 7
*** Le bugie non si riconoscono ***


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♦♦♦
7| Le bugie non si riconoscono
 
*** Martedì 5 Marzo – 00:52 ***
 
L’espressione palesemente irritata dell’uomo che aprì la porta svogliatamente si trasformò in sorpresa nel vedere la giovane donna davanti alla porta di casa sua con occhi gonfi di lacrime. Era sull’orlo dello scoppiare a piangere e l’unico che avrebbe potuto darle pace era lui.
«Levi!» Gli saltò al collo cominciando a piangere sulla sua spalla.
Lo sguardo basso, braccio che cingeva rigidamente la vita della donna e maniche tirate su fino ai gomiti, in modo che le avanbraccia scoperte lasciassero intravedere le venature delle braccia. Eren si era soffermato su dettagli del tutto normali, banali, insignificanti. Poi un piccolo sussulto: la piccola Rel, ancora in braccio al ragazzo, non aveva più il ciuccio viola e stava cominciando a sentirne la mancanza; se ne accorse, si poteva intravedere la preoccupazione nei suoi occhi.
Nel frattempo Levi alzò lo sguardo, notando Eren che cominciò ad accarezzarle la schiena per aiutarla a dormire meglio.
«E tu che ci fai qui?» Chiese leggermente curioso squadrandolo dalla testa ai piedi.
«Mi ha aiutata a venire qui. E’ stato gentilissimo, ti prego, fagli fare una doccia veloce.» Intervenne Petra supplicandolo e poggiando le sue esili dita sul petto del moro che alzò un sopracciglio. Non si accorse che i due non si guardavano come perfetti sconosciuti.
Eren non pensava che lo sguardo di Levi fosse così pesante e, per non ricevere ulteriori umiliazioni in quella serata, decise di alzare i tacchi.
«Ti ringrazio Petra ma non ce n’è bisogno, davvero.» Un sorriso forzato. «Vado a casa, sono stanco.» Indicò con il pollice le scale dietro di lui. «Vedrai che tutto si risolverà. Grazie comunque per il pensiero. Buona notte.» Se ne andò, lasciando i due sulla soglia di casa Ackerman assieme alla piccola.
Un congedo che si chiuse non appena gli occhi di Eren e Levi si incrociarono per un istante, lasciando scorgere a quest’ultimo un velo di delusione in quelle grandi iridi chiare.
 
*** Ore: 10:07 ***
 
Gentile, delicata, sveglia, forte, decisa, testarda, umile, spontanea, dolce…
Sarebbe andato avanti per ore per rispondere alla domanda appena fattagli.
Lei era la ragazza di cui si innamorò in un normale giorno d’autunno, in una tranquilla biblioteca.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, il viso si rilassava al ricordo di lei che poggiava l’esile mano sul quaderno, mentre la penna nera ondeggiava dolcemente su quella distesa bianca dalle mille righe le quali, un giorno, avrebbero narrato la storia di un ragazzo condannato dai suoi occhi.
I morbidi capelli dal dolce profumo di fiori e le ciglia illuminate dal sole, lo mandavano in estasi ogni volta che si avvicinava a lei anche solo per spostarle un ciuffo di capelli.
«Seriamente, cos’è che ti piace di lei? Voglio dire, da come la descrivi tu sembra una Dea scesa in terra. Dai, dimmi qualcosa di più… umano.»
L’amico che aveva di fronte a lui aveva appena finito di bere il suo boccale di birra. Il terzo, per l’esattezza, ed era ancora sobrio.
Auruo rispose dopo un sospiro.
«Oltre a sua figlia, lei ha anch-»
«Woh woh woh piano, amico. Ha una figlia? Non me l’avevi detto!» esclamò sbigottito pulendosi la schiuma dalla bocca con la manica della maglia. «Un’altra!» urlò subito dopo, alzando il boccale vuoto quasi come se volesse affondare quella notizia nel dimenticatoio.
Solo dopo essersi schiarito la voce ed essersi messo composto sulla sedia, tornò alla serietà dell’argomento.
«Auruo, ti parlo da amico. Io me ne intendo di donne, lo sai, ma vedi…» la sua faccia si deformò per lo sforzo di dover mettere assieme le parole giuste. «Questa Petra che tu conosci… da quanto, cinque mesi?» Scosse la testa. Non era convinto della scelta dell’amico. «Non mi dice granché, sono sincero.»
«Dimmi almeno il motivo.»
«Non mi hai detto qualche minuto fa che ha assunto un avvocato per un processo?»
«Sì, mi ha detto che sta divorziando. Suo marito l’ha abbandonata.» Affermò specchiandosi nella birra che anche lui aveva preso.
Si chiedeva molte volte come fosse questo marito. Sicuramente era più alto di lei, ma non riusciva ad immaginare il viso, la voce, i modi di fare. Solo di una cosa era sicuro: avrebbe avuto sicuramente la faccia da stronzo come il tipo che accompagnava la ragazza appena entrata nel locale, uguale a Petra.
«Petra?» Si alzò dal posto in cui era, mentre lei con in braccio la figlia di un anno, si sedette al bancone del bar continuando a parlare con l’uomo vicino a lei.
 
Si ricordava ancora quando Petra gli raccontò la situazione in cui si trovava.
I due si conobbero ad una festa organizzata da amici. Fu il classico colpo di fulmine. Si amarono per tre anni, fino a quando Petra scoprì di essere incinta e decise di tenere il bambino. Lo stress del lavoro, il compagno che non voleva il bambino, le continue litigate, le solite incomprensioni...
Per lei fu un miracolo non aver avuto un aborto spontaneo e, due settimane prima della nascita di quel fagotto di tre chili e due, il suo compagno se ne andò senza farsi mai più rivedere. Scomparve nel nulla.
Petra si ritrovò da sola con la piccola Rel.
 
Era arrabbiato, anzi, furibondo: la presenza della giovane donna gli azzerava sempre i pensieri.
Si avvicinò a loro che sedevano al bancone con passo silenzioso ma veloce. Accigliato e con uno sguardo omicida, era sicuro che la figura vicino a lei fosse quel pezzo di merda; non appena raggiunse le spalle di quest’ultimo, fece per attirare la sua attenzione. Lui si girò e non appena i loro sguardi si incrociarono, un gancio destro colpì la guancia della vittima, attirando l’attenzione di tutto il locale.
«Levi!» urlò Petra impaurita mentre il moro le fece segno di allontanarsi.
Intanto l’amico di Auruo, ancora seduto al tavolo, lo incitò con il boccale all’aria. Era brillo.
«Questo è per quello che le hai fatto, schifoso bastardo!» Ringhiò restando in guardia.
Levi si alzò dallo sgabello, rivelando la sua altezza quasi patetica agli occhi dell’attaccabrighe, cosa che lo fece quasi ridere. Non sapeva che se avesse veramente riso, probabilmente non sarebbe ancora vivo.
Levi si toccò il naso, sanguinava. Prese fuori il fazzoletto bianco che portava sempre con sé e dopo essersi pulito, i suoi occhi si posarono sull’artefice del suo dolore e improvvisamente, la sua altezza passò in secondo piano.
Il moro lo prese per le spalle e una pesante ginocchiata andò a colpire lo stomaco di Auruo che cadde sulle ginocchia, raggomitolato su se stesso per il dolore.
«A quanto pare nessuno ti ha insegnato le buone maniere.» Disse un Levi irritato e con una guancia rossa.
L’uomo lo guardò con occhi pieni di rabbia, digrignando i denti.
«Non meriti di stare con lei. Petra ha già sofferto abbastanza.» Tossì dolorosamente.
«Oi, con chi pensi di parlare?»
Petra, dopo aver assistito alla scena, si alzò con la bambina in braccio e si mise tra i due litiganti dando le spalle a Levi. Non voleva che la situazione peggiorasse ulteriormente.
«Auruo, basta così! Hai frainteso.» Increspò le labbra leggermente delusa e imbarazzata. «Lui è il mio avvocato.»
Dopo quell’affermazione, Auruo si guardò intorno, quasi spaesato. Sentiva il peso di tutti gli sguardi della clientela, sussurri, foto fatte di nascosto, mamme preoccupate, bambini che piangevano.
Fortunatamente per lui, Erd, l’amico, andò in suo soccorso, aiutandolo ad alzarsi nonostante fosse lui quello che in teoria non sarebbe dovuto stare in piedi a causa dell’ebbrezza.
Una lacrima piena di umiliazione e pentimento rigò la guancia di Auruo che dopo essersi scusato con la donna e tutti i presenti, se ne andò tenendosi una mano sul punto in cui Levi lo colpì.
La piccola Rel, a quel punto, iniziò a piangere e costrinse Levi e Petra a lasciare la caffetteria per dover andare a casa di quest’ultima.
 
Il tragitto verso la casa di Petra non durò molto, Petra abitava a due isolati dal locale e ormai Rel si era addormentata nel passeggino assieme all’amata giraffa.
«Ti ringrazio per tutto quello che fai per noi, davvero.» Espresse gratitudine Petra, avvicinandosi a Levi di un passo, sfiorando i cinque centimetri di distanza tra i due.
«E’ il mio lavoro. Nonostante tutto, io ti difenderò.» In senso professionale. Levi non avrebbe mai potuto innamorarsi di una cliente. Era la regola.
Un dolce sorriso stese le labbra rosee della donna, subito dopo, un abbraccio.
Le esili braccia di Petra circondarono il busto di un Levi preso alla sprovvista e con le braccia rigide, leggermente piegate. Non era il tipo che dimostrava affetto, specialmente verso i clienti. Anzi, se proprio si doveva essere pignoli, lui e Petra non sarebbero dovuti andare a bere un caffè ma Petra riuscì a persuaderlo dopo aver dormito a casa sua la notte precedente. Le circostanze della sera prima e le mille lacrime versate, riuscirono a formare una leggera crepa nel cuore di ghiaccio dell’avvocato.
Mise le mani sulle spalle della donna dai capelli ramati per allontanarla da lui. Non poteva starle vicino. Doveva separare vita privata dalla vita professionale. Petra era solo una cliente, niente di più.
«Petra, ascoltami. Vai in casa e riposati. Ne hai bisogno.»
Il cuore di Petra mancò un battito. Quella frase le sembrò molto simile a quella che le disse il suo ex prima di abbandonarla.
«Ehi piccola ascolta: vai a casa, fatti un bagno e rilassati. Io tornerò finito il turno.»
«Ma io ho bisogno di te!» Uscì quello che avrebbe voluto dire l’ultima volta che vide il padre di sua figlia.
Si aggrappò al suo petto, stringendo i lembi della giacca nera con entrambe le mani.
Agì d’istinto.
Chiuse gli occhi inebriata dal suo profumo, la morbidezza della giacca e dal calore che emanava, seppur flebile.
La nostalgia prese il controllo della sua mente, facendola agire sconsideratamente: un bacio a fior di labbra, rubato, delicato, malinconico, proibito.
Gli occhi plumbei dell’uomo si spalancarono leggermente, fu la seconda volta che abbassò la guardia, quel giorno.
Questa volta, la presa sulle spalle della donna fu più forte e con una mossa decisa, l’allontanò una volta per tutte.
Davanti a lui, un volto rigato da lacrime piene di ricordi, labbra strette e fronte corrugata dal dolore.
«S-scusami.» Sussurrò.
Annuì. «Devo andare. Ti farò sapere riguardo il processo.»
Petra lo guardò andarsene dal vialetto di casa sua mentre questo chiamò qualcuno al telefono.
Le ultime parole che sentì in lontananza furono: «Stasera farai gli straordinari.»
 
*** Ore: 21:00 ***
 
Due parole in croce, una telefonata riattacata in faccia e nessuna spiegazione. Ovvio che Eren passò tutto il giorno con l'ansia. 
Quella mattina fu la prima volta che Levi gli telefonò e quando rispose a quel numero, ovviamente non registrato in rubrica, gli venne un mini infarto al suono della sua voce. Gli sembrava come se questa, dall'altra parte della linea, fosse leggermente più roca.
«Fatti trovare da me alle 21.»
Guardò l’orologio. Le 21:00 spaccate.
Che cosa diavolo voleva quel fissato delle pulizie alle nove di sera da un ragazzo sfrattato e con un lavoro part-time che a malapena gli garantiva i viveri necessari per sopravvivere?
Armin era senza dubbio di grande aiuto, gli garantiva un tetto sotto cui dormire ma non voleva vivere sulle sue spalle.
Essere indipendente era una delle piccole gioie della sua vita, seppur la considerasse misera.
Suonò il campanello. Ora che lo ascoltò bene, gli ricordava tanto una canzone che sentì quella mattina per radio, mentre accompagnò Mikasa dalla signora Kirschtein a prendere del pane per tramezzini. In quel momento non ricordò il nome, ma era abbastanza famosa.
La porta si aprì, rivelando un Levi quasi esasperato, con una mano tra i capelli e il viso, quasi come se si volesse togliere la stanchezza che aveva addosso.
Sbuffò. «Entra.»
Eren era abbastanza a disagio.
Nel giro di pochi secondi, nella sua mente, fece una specie di riassunto veloce per cercare di ricordarsi se avesse fatto qualcosa di sbagliato ma, sfortunatamente, non gli veniva in mente niente.
Il confine non l’aveva superato. O almeno non vi erano prove che l’avesse fatto.
La polvere l’aveva tolta persino tra i libri che vi erano sugli scaffali bianchi.
Aveva dato da mangiare al pesciolino.
Aveva gettato la spazzatura.
Chiuso le finestre prima di andar–.
 
Cazzo.
 
Non si ricordava più. Le aveva chiuse le finestre, vero? VERO?
Cominciò a sudare freddo. E ora? Cosa avrebbe dovuto fare per espiare la sua colpa?
L’ansia cominciò a mangiargli l’anima mentre un Levi accigliato lo prese per un polso e lo mise a sedere sulla poltrona vicino al basso tavolino del salotto. Levi si sedette sul divano, ovviamente.
Il ragazzo era rigido come un manico di scopa, non riusciva a rilassarsi ma, in fondo, nessuno ci sarebbe riuscito con una faccia minacciosa come quella che aveva davanti.
«Ho un problema.» Ammise il moro senza tanti giri di parole. Stranamente però non sembrava imbarazzato nel dirlo. Eppure ad Eren sembrava un uomo orgoglioso…
«Tipo?»
L’indice di Levi era rivolto verso una piccola scatola di cartone posta vicino al camino acceso. Eren seguì con lo sguardo il dito e, dopo aver alzato leggermente di più la testa, vide due palle di pelo accovacciati uno sopra l’altro che dormivano.
«G-gatti? Da quando?» Chiese curioso e allo stesso tempo intenerito.
«Da questa mattina. Stavo tornando a casa, li hanno abbandonati qui vicino e li ho presi.»
L’espressione scioccata di Eren era indescrivibile: Levi aveva un cuore?
«E quindi?»
Non riusciva davvero a capire dove voleva andare a parare.
«Prendine uno.»



 Schizzo Time 
Yo ~
Come va? Da me, nonostante le nuvole, fa caaaaldo >-< troppo caldo! 
Il titolo di questo capitolo dice la verità (un po' come Shigatsu/Your lie in april): c'è nascosta una "piccola" bugia. Non so se si capisce, io non faccio testo quindi boh, chissà se qualcuno la nota.
Comunque! In questo capitolo abbiamo un Auruo umiliato, una Petra leggermente nostalgica e un Eren spiazzato.
E la colpa è tutta di Levi. Bene così.
Fa la sua comparsa anche Auruo, sì. Nonostante sia un personaggio di "poco" rilievo nel manga/anime, qui il rilievo ce l'avrà. Verso la fine, ma ce l'avrà
u.u
Per quanto riguarda i gatti... oltre a essere gattara nel cuore,  avranno un ruolo pure loro  fondare un cat cafè con Levi vestito da camerierA  
Bene, penso di aver detto tutto :D Per incomprensioni, dubbi, correzioni o incoerenze sono qui ^^/
Buonissima estate!
Aira.

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Capitolo 8
*** Il passato non è mai limpido ***


Reload
♦♦♦
8| Il passato non è mai limpido
 
*** Ore: 21:14 ***
 
Una risata pervase l’appartamento.
«Sei serio?»
«Sì.»
«Ti ricordo che a stento riesco a mantenermi, cosa ti fa credere che riesca a prendermi cura di un gatto?»
Levi fece spallucce. «Se non lo vuoi dallo a qualcuno di affidabile. Ho solo bisogno che qualcuno si prenda cura di uno dei due. All’altro ci penso io.»
Levi che si prendeva cura di una creatura vivente che non fosse un pesce?
«Pff.» Gli scappò. Errore molto grave, al quale cercò di rimediare. «Non pensavo ti piacessero i gatti, ecco.»
«Non è che mi piacciano particolarmente.» Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua. «Semplicemente se lo dessi a quella quattrocchi di merda, quel gatto non raggiungerebbe l’anno di vita.»
Ritornò nel piccolo soggiorno con due bicchieri colmi d’acqua. Uno per lui e l’altro per i gatti.
Eren arricciò la bocca leggermente infastidito: era l’ospite dopotutto, e aveva corso per presentarsi puntuale.
«Posso avere dell’acqua anche io?» Chiese più pacatamente possibile. Doveva stare attento a non farlo arrabbiare. Si sapeva, no? Più sono bassi, più sono cattivi quando si arrabbiano.
«Serviti da solo. Ormai la casa la conosci.»
Si alzò e proprio mentre raggiunse l’angolo della cucina, uno strano foglio stropicciato destò la sua attenzione.
Si trovava vicino al grande barattolo di vetro dei biscotti. In quel momento, non seppe se essere più sorpreso nel vedere un foglio stropicciato sul banco della cucina o immaginare Levi che mangiava biscotti.
Senza farsi scoprire lo lesse e lo riconobbe subito. Era il post-it che gli scrisse quel giorno in cui Levi cedette al suo consiglio finendo per addormentarsi.
L’espressione mentre dormiva non se la sarebbe dimenticata facilmente. Le ciglia illuminate dalle luci della città, i capelli leggermente spettinati che gli cadevano sulla fronte come neri fili perlati, la bocca leggermente aperta… sembrava quasi innocente, come quei bambini che si addormentano dopo aver creato il caos più totale.
Il cuore sussultò per poi mettersi una mano tra i capelli, un po’ per vedere se la testa c’era ancora.
Mise a posto il bigliettino mentre con la coda dell’occhio guardava Levi che aveva appoggiato la testa sullo schienale del divano, seduto, immobile e soprattutto stanco.
Con il bicchiere pieno in mano e in preda a un mistico ottimismo ottenuto dopo aver visto il biglietto stropicciato ma conservato, si diresse verso il divano e, fermandosi esattamente dietro di lui, gli appoggiò delicatamente il bicchiere sulla guancia, ancora un po’ gonfia.
Fu la prima cosa che notò prima di entrare.
Ma la freschezza del bicchiere e il gesto inaspettato fecero agire Levi in modo del tutto istintivo: uno scatto della sua mano portò l’acqua a rovesciarsi sul ragazzo, bagnandogli i capelli e la maglia verde militare che stava indossando.
I loro occhi si scontrarono, cercando di capirsi a vicenda ma senza riuscirci.
«S-scusa, sembrava doloroso…» cercò di giustificarsi, ma a questo c’era arrivato anche Levi.
«Tch.» Si alzò senza dire una parola lasciando un Eren mortificato e bagnato alle sue spalle.
Lo sapeva, un altro passo più lungo della gamba. Ma il solo fatto che Levi conservò un bigliettino così insignificante l’aveva reso felice. Sul serio.
Si portò una mano sul viso, cercando di alleviare il caldo che sentiva. Le guance gli andavano a fuoco.
Si chinò per raccogliere il bicchiere che fortunatamente non si ruppe e quando si alzò, vide Levi che gli porse un asciugamano pulito e una camicia bianca.
«Prendi. Vai in bagno.» Più che un ordine era un consiglio, Eren questo lo aveva capito.
Mise piede nel freddo e piccolo bagno e non appena si mise la camicia, il profumo di Levi, inevitabilmente, finì per pervadergli le narici. Si portò il colletto al naso, inebriandosi di quell’acqua di colonia mista a una delicata essenza floreale.
Il suo cuore giocò alla cavallina mentre un nodo in gola si creò; per un secondo, pensò che la droga, nonostante non ne avesse mai fatto uso, sicuramente gli avrebbe fatto lo stesso effetto.
Si rese conto solo dopo del gesto che fece e la sua immagine riflessa nello specchio diceva tutto.
Si vergognò del suo stesso riflesso: era pietoso.
 
Solo una volta gli era capitato di innamorarsi. Se lo ricordava ancora, il primo anno di liceo.
L’ammirazione, la curiosità nel conoscere una persona, il cuore che batteva più velocemente del solito, l’ansia nel rivolger la parola, la mente che si svuotava…
Forse… già dal fatto che si chiamasse Ares, poteva immaginare come sarebbe andata a finire.
Con levi era diverso, però.
 
Si sciacquò la faccia con dell’acqua fresca. Doveva ripigliarsi.
Decise di non pensarci troppo, uscì con l’asciugamano sulla testa e quando rivide Levi, quest’ultimo lo stava invitando a sedersi. Per terra, davanti a lui.
«Che?»
La faccia di Eren era incredula e confusa: per quale motivo avrebbe dovuto sedersi proprio lì?
Voleva tanto sedersi vicino a lui, il posto lì affianco sembrava brillare da quanto era invitante e libero, ma poi vide l’espressione di Levi.
Non sapeva come decifrarla, era più seccata o imbarazzata?
No no, seccata era sicuramente la faccia che stava facendo. Era quella che più gli si addiceva, dopotutto.
«Taci e siediti.» Sì, quella volta fu decisamente un ordine.
Cos’era diventato, sua madre?
Si sedette sul cuscino grigio che Levi aveva preparato proprio ai suoi piedi, così che Eren potesse dargli le spalle.
Levi tolse l’asciugamano dalla sua testa e accese l’asciugacapelli, cominciando ad asciugarli più delicatamente di quanto pensasse Eren.
Con la coda dell’occhio notò il filo leggermente tirato: arrivava a malapena a dove era seduto. Sorrise. Aveva capito il motivo per cui lo fece sedere a terra e notò che quella presa era la più vicina al divano.
Dopo aver sentito le mani di quello scorbutico sulla sua testa, prendere il polso di quest’ultimo fu quasi naturale.
«Posso asciugarmeli da solo.» Disse rimanendo girato verso il camino.
Un attimo di silenzio.
«Ne sono responsabile, quindi sta zitto.»
Sapeva che con l’età i dolori sarebbero aumentati, ma non era un po’ troppo presto per gli infarti?
Restò in silenzio, per un motivo o per un altro, lo aveva preso alla sprovvista.
 
Il silenzio era quasi palpabile, nell’aria vi era solo il rumore del phon e qualche clacson che suonava per colpa di qualche idiota che probabilmente si era addormentato durante il rosso.
Levi non poteva vedere il volto di Eren ma aveva capito che era teso e a disagio, non si muoveva di un centimetro. I suoi occhi plumbei restavano fissi sulla testa del povero ragazzo che per poco non li sentiva da quanto Levi era concentrato. Era un uomo meticoloso, il quale metteva l’anima in tutto quello che faceva.
Grazie all’aria calda mossa dall’apparecchio, Levi poté sentire il tenue profumo dei capelli del giovane a cui mancava solo la nuca ad essere asciugata.
Levi sfiorò quest’ultima con delicatezza ma le sue mani fredde ebbero il potere di scatenare un brivido che portò il povero Eren ad avere la pelle d’oca.
La punta delle orecchie diventavano sempre più rosse e la testa di Eren si abbassò per l’imbarazzo, lasciando scoperto l’osso del collo al quale, subito dopo, Levi diede un colpo leggero: aveva finito.
Spense l’aggeggio e si alzò mettendo via l’oggetto, lasciando Eren seduto assieme alla sua vergogna.
 
L’atmosfera che vi era in quel piccolo appartamento si poteva tradurre con una sola parola: imbarazzante.
Eren sentiva freddo ma era sicuro che quelle dannate finestre fossero chiuse.
Quando Levi ritornò vide un Eren in piedi davanti a lui con due occhi cristallini che lo stavano fissando.
«Cosa ti è successo?» Diretto, sicuro e incisivo. Eren fece il fatidico passo e stavolta non sembrò essere più lungo della gamba. O almeno lo sperava.
Levi rimase impassabile alla domanda che, con fare pacato, si diresse verso la cucina; Eren lo seguì per essere sicuro di sentire la risposta.
Passarono i secondi e Levi, che riempì un bicchiere d’acqua dandogli le spalle, non fiatò. Il giovane non poté fare a meno di notare la larghezza delle sue spalle, le gambe sottili ma robuste, il taglio sfumato verso la nuca scoperta. Era basso, okay, ma era dannatamente ben proporzionato.
Gli occhi affilati del moro andarono a posarsi su un Eren che sobbalzò leggermente dopo che si girò porgendogli il bicchiere d’acqua, dita che afferravano il bordo del bicchiere come se questo scottasse.
Lo strano modo in cui teneva il bicchiere evidenziava le nocche delle sue mani virili e affusolate e dopo che Eren osservò anche quel particolare, si affrettò a prendere il bicchiere rendendosi conto di essere in ritardo nel farlo.
Levi appoggiò la schiena al piano della cucina e mise le mani sul bordo di quest’ultima, poi parlò. Probabilmente voleva coprire quel silenzio imbarazzante.
«Mi ha punto una zanzara.» Affermò serio come se la cosa fosse vera.
Ci fu un momento di silenzio, cui contribuirono anche le macchine che fino a qualche secondo fa clacsonavano come se non ci fosse un domani. Una risata sincera che pervase la stanza alleggerì l’aria creatasi in quell’appartamento troppo affollato per i gusti del moro.
Eren aveva capito fin da subito che qualcuno lo aveva colpito ma mai si sarebbe aspettato una risposta del genere.
«Dev’essere stata…» Una pausa. Il fatto che un tipo come Levi avesse espresso un concetto così banale per esprimere la considerazione che aveva del suo aggressore lo fece impazzire, soprattutto perché era sicuro che quello che Levi aveva sul volto non era niente in confronto al danno che fece al suo avversario.
Le zanzare, di solito, si schiacciano, no?
«Dev’esser stata una zanzara bella grossa.» riprese.
Levi posò una mano sulla sua bocca, coprendola, voltando la testa verso la finestra che dava sulla strada.
C’era la Luna calante.
Eren, tra quelle dita, avrebbe giurato di aver visto un flebile sorriso.
 
*** Ore: 21:39 ***
 
«Mike, hai scoperto qualcosa?»
«Sì, il fatto che mi hai raccontato l’altro giorno era vero: Reiner Braun è un buttafuori del Weak-Flower, la discoteca vicino al parco nord della città. Qualche mese fa, dopo una rissa, si è scoperto che l’attaccabrighe era un individuo che abusava di droga. Se non ricordo male, Annie ha fatto un articolo su di lui.»
Mike aspettava una risposta dall’altra parte del telefono ma sentì solo il respiro di Erwin fermarsi.
«A cosa pensi?» chiese Mike sapendo che Erwin aveva capito qualcosa.
«Niente, ti richiamo io. Grazie.» Riattaccò, lasciando l’amico da solo assieme al caratteristico suono di una telefonata chiusa in faccia.
Erwin, seduto sulla comoda poltrona del suo ufficio, appoggiò i gomiti sulla scrivania, incrociando le dita con la bocca appoggiata ad esse.
Sapeva che Reiner facesse un secondo lavoro ma non sapeva che fosse un dipendente del Weak-Flower.
Quel locale era famoso per lo scandalo che accadde un anno fa: una ragazza fu uccisa da una macchina nera mentre attraversava la strada. Si diceva che la vittima fosse drogata.
I suoi occhi si strinsero in due fessure.
«Droga, eh?»
 
*** Giovedì 7 Marzo – 10:53 ***
 
«Potresti essere la prossima, Cecile…»
Quella mattina si svegliò nell’ennesimo letto sconosciuto.
La sera prima andò a sballarsi in una delle sue discoteche preferite. Non aveva nessun freno, nessuna regola, nessun sentimento. Voleva disperatamente fuggire da quello schifo di realtà che invadeva le sua vita.
Alzò il busto strofinandosi gli occhi e notando che indossava solamente le calze nere, abbinate a quel vestito grigio che tanto si abbinava ai suoi occhi cerulei.
Ad un tratto, un braccio le cinse il collo, facendo avvicinare l’uomo che le giaceva vicino, dandole un bacio sulla guancia destra.
«Divertita stanotte?»
Si girò, quell’uomo avrà avuto circa cinque anni più di lei. L’aveva incontrato in discoteca, il modo in cui ballava l’aveva attratta ma la sua tariffa sarebbe stata comunque la stessa. Disgustosa.
«Mh.» Annuì rivestendosi in silenzio. Non poteva certo sboccargli addosso il drink della scorsa serata.
«Dammi il tuo numero, avanti~» Provò a persuaderla ma l’unica risposta che ricevette in cambio fu:
«Solo se mi darai i soldi che mi avevi promesso.»
L’uomo si guardò intorno per cercare i pantaloni nei quali aveva messo il portafogli. Appena lo trovò, tirò fuori cinquecento dollari.
Li contò velocemente, facendoli scivolare tra le dita poi, dalla tasca dei suoi jeans, la donna prese fuori un piccolo foglio di carta con il numero telefonico già inciso sopra. Aveva imparato alcuni trucchi prima delle uscite notturne e questo era uno dei tanti.
«Tieni,» iniziò porgendogli quel pezzo stropicciato tra due dita. «Questo è il locale in cui lavoro.»
E dopo ciò, lasciò quella topaia d’appartamento. L’ultimo pensiero che le balenò per la testa, fu la speranza di non aver incontrato alcuna malattia.
 
I suoi genitori divorziarono quando aveva solo cinque anni. Fu affidata alla madre, poiché in giro si diceva che il padre affondava le sue sofferenze nell’alcool.
A dodici anni, però, la sua vita cambiò.
«Donna, trentasei anni. Trauma cranico e perdita della gamba destra. Un camion ha perso il controllo.»
«Portatela in sala operatoria! Presto, presto!»
«Mamma! Dove la portate? No, lasciatemi, voglio andare con lei! Mamma!»
Il funerale fu breve, quasi quanto l’ultimo addio che la piccola Cecile rivolse alla madre.
Quell’immagine si impresse nella sua testa, indelebile. Anche quel giorno, la madre indossava il rossetto rosso che portava sempre per andare a lavorare. La mattina, era solita dare un bacio sulla morbida guancia della figlia, lasciandole sempre il segno delle sue labbra. Le diceva che in quel modo non l’avrebbe mai abbandonata.
Quando Cecile si asciugò le lacrime, realizzando una volta per tutte che la madre avrebbe dormito per sempre in quella fredda e scomoda bara di legno scuro, si avvicinò pacatamente a lei, sotto gli sguardi di tutti.
Si fermò di fronte a lei, a pochi centimetri dal suo corpo poi, da una delle due tasche dei suoi jeans preferiti, prese il tanto amato rossetto alla quale la madre era affezionata.
Lo aprì, sentendo per l’ultima volta il profumo di quelle giornate. Se lo mise, sorridendole come quest’ultima faceva con lei prima di darle un buffetto sulla guancia per poi baciarla.
Fece lo stesso.
La toccò. Era fredda. La pelle non era più elastica come quando facevano le smorfie insieme.
Le lacrime rigarono nuovamente la guancia di Cecile che, con un bacio sulla guancia, le diede l’addio definitivo.
Il segno delle sue piccole labbra le avrebbero fatto compagnia per l’eternità.
 
Lei era un vetro rotto, come quelli che si trovano sulla spiaggia in estate.
Non quelli levigati dall’acqua, ma quelli con ancora i bordi taglienti e pericolosi. Quelli a cui se ti avvicini, ti fai male ma che, se preso nel modo giusto e messo alla luce del Sole, risplende di più.
 
La perdita della madre portò l’affidamento al padre che, nel frattempo, si era già fatto un’altra famiglia.
La donna con la quale si risposò era più giovane di lui di quasi dieci anni e la figlia ne aveva circa sei.
Quella bambina era il gioiello della famiglia e Cecile, solamente la sua ombra.
Nel vicinato la famiglia di Cecile era una delle più rispettate ed elogiate del quartiere. Tutti ammiravano le due figlie ma i sorrisi dell’uomo ormai cinquantenne, diventavano sempre meno.
Ogni sorriso mancato si tramutava in un atto di violenza contro la moglie che ogni volta difendeva la piccola Cecile.
«Hai sentito le urla scatenate dei Ral, la scorsa notte?»
«Certo. Ho sentito che la figlia più grande, Cecile, è scappata di casa.»
Fu l’unica soluzione e anche l’inizio della sua vita, mettendo dentro uno zainetto il minimo indispensabile.
Non era pronta ma era certa che non sarebbe tornata indietro. 
La strada, quella notte di primavera, era ben illuminata, come per accoglierla tra le sue braccia.
Con sé, un ombrello rotto, una sciarpa sgualcita e un rossetto rosso.
 
Da quel giorno passarono diciannove anni, passati tra i locali più sporchi, droghe, relazioni instabili, tradimenti e fallimenti. Aveva trovato un lavoro come cameriera in un locale non molto lontano dalla riva del fiume della città e, per arrotondare, ‘intratteneva’ i clienti in un pub in periferia.
Era la regina del locale, altrimenti conosciuta come Chloe.
 
*** Ore: 22:38 ***
 
«Alcidamante, guarda cos’ho qui!»
Era convinta che agitando ripetutamente il sacchetto dei croccantini quella palla di pelo sarebbe venuta verso di lei, ma si sbagliava, e di grosso.
Sotto il mobile di legno, vicino al televisore, il gatto era messo in posizione di guardia, zampe basse e sedere leggermente in su. Hanji poteva vedere le pupille di quegli occhi verdi dilatarsi sempre di più e capì che la preda era diventata lei.
Non ebbe nemmeno il tempo di indietreggiare poiché era stesa per terra, a pancia in giù, sul pavimento dell’appartamento di Levi che, in quel momento, stava leggendo un libro.
Tutti e dieci gli artigli del piccolo gatto andarono a conficcarsi sulla faccia della povera Hanji che si alzò urlando istericamente.
«Levi, fa qualcosa!» Urlò agitando le braccia all’aria. Per fortuna aveva addosso gli occhiali, quindi gli occhi erano salvi. Forse.
«Te lo meriti. Con quel nome, le prenderesti persino da Ray.» Attaccò Levi voltando pagina con nonchalance.
Ray era il figlio ipotetico di Hanji. Qualche mese fa saltò fuori il discorso della vecchiaia, dell’avere troppe cose da fare e troppo poco tempo per svolgerle e, una di queste, era crearsi una famiglia.
Hanji affermò di voler almeno due figli e uno di questi, maschio o femmina che fosse, si sarebbe dovuto chiamare ray, in onore degli “x-ray” che tanto amava. Aveva sempre sognato di vedere attraverso le cose con i propri occhi. Un sogno impossibile, perverso, assurdo e malato. O almeno era questo quello che Levi pensava.
Hanji finì di lottare contro la piccola creatura e, dopo averlo messo per terra e vederlo correre sopra uno scaffale pieno di libri, si buttò sul divano di fianco all’uomo. Per poco non gli fece cadere gli occhiali da lettura.
«Ce l’ho fatta.» disse sfinita e sconfitta.
«Tch.» Con tutto quel casino non aveva capito le ultime tre righe.
«Dai Levi, non startene lì a fare l’asociale! Aiutami a trovare un nome per quel gatto.»
«Non vedi che sto leggendo?»
Era curiosa, quasi come il piccolo gatto che in quel momento se ne stava sopra uno dei tanti scaffali bianchi.
Si avvicinò al moro e allungò il collo per vedere che tipo di libro stesse leggendo. Levi era leggermente irritato.
«Come si chiama il protagonista?» chiese Hanji nella speranza di scorgere un nome “da gatto”.
Levi continuava a leggere, o almeno ci provava. Sì, perché la sola presenza di Hanji ti scuoteva l’anima, anche se a Levi faceva più scuotere qualcos’altro.
«Kevin.» rispose annoiato dall’allegria dell’ultra trentenne.
Gli occhi della donna si illuminarono.
«Come il protagonista di “Mamma ho perso l’aereo”!»
Ad Hanji piaceva quel nome, ma non era abbastanza… gattesco.
«Nivek!» Esclamò dopo aver ribaltato il nome al contrario. Pensò che per quel gatto fosse particolarmente adatto, considerato il fatto che Levi era spesso fuori casa e che, di conseguenza, il gatto sarebbe stato solo dentro casa come il protagonista del film.
Sì sì, Nivek era perfetto.
«Vada per Nivek. Sono un genio! Vero?»
Si rivolse a Levi con fare entusiasta, come se le fosse stato detto che sarebbe andata al luna park. Ahimè, però il moro non sembrava tanto entusiasta quanto lei. Anzi, sembrò che non gliene fregasse nulla. La sua espressione era uguale a come quando entrò in quel freddo appartamento, forse con qualche vena pulsante in più.
«Vero?» ribadì inarcando di più le sopracciglia, sperando in una risposta.
Ricevette solo un’occhiataccia, la quale le scatenò un brivido di paura. Lo sguardo fulminante del moro era a dir poco terrificante.
L’occhialuta sospirò principalmente perché era annoiata. Ora che il nome del gatto era già stato deciso, non c’era più niente di “divertente” da fare. Così, decise di dar da mangiare al pesciolino.
«Ora che ci penso, questo pesciolino ce l’ha un nome? Altrimenti gliene do uno io, già che ci sono.»
Il pesciolino rosso dal muso bianco e la coda leggermente rovinata cominciò a nuotare verso la superficie dell’acqua, andando incontro al cibo.
«Vediamo…» La bruna cominciò a studiare il piccolo pesce, provando a trovare un nome che lo rispecchiasse. «Talete.» Basta con i nomi di filosofi. Ci voleva qualcosa di meno… umano.
«Nettuno.» Nah, troppo imponente per una creatura così piccola. Forse ci voleva qualcosa di più… magico.
«Sailor Mercury.» Okay, qui si stava sfiorando il delirio. Ci voleva qualcosa di più… realistico.
«Mississippi.» Troppo lungo. Anche se forse avrebbe potuto abbreviarlo con Miss. Ippi…
«… un nome. Hai capito?»
Si voltò di scatto dopo aver sentito la sua voce e fece la solita espressione da “non-ho-capito-puoi-ripetere”.
«Ho detto che quel pesce ce l’ha già un nome.» Disse impugnando leggermente più forte il libro che teneva con la mano sinistra e alzando lo sguardo sulla donna davanti alla boccia di vetro.
«Non lo sapevo. E qual è?»
Ci fu un attimo di silenzio prima della risposta.
«Enif.»
Era da tanto che non lo chiamava per nome.
«Lo chiamerò Enif, come la stella che abbiamo visto al planetario.»
Gli occhi plumbei dell’uomo restarono a fissare il pesce per qualche secondo, come se fosse intrappolato anche lui in quella bolla di vetro.
«Va a casa. È tardi.» Ruppe il silenzio ormai stanco del caos che stava facendo.
Hanji mise il broncio. Il tipico broncio che fa un bambino quando gli si nega un giocattolo.
«Perché mi mandi via?» Chiese facendo gli occhi da cerbiatto, capace sin da quando era piccola. Hanji odiava stare da sola, per questo spesso invadeva l’appartamento di Levi. Per lei, lui era il suo migliore amico. Se non fosse per il tentato omicidio da parte del moro, lo abbraccerebbe sempre. Anche al lavoro.
«Sono stanco.»
«Ma io voglio continuare a parlare con te!»
Levi alzò un sopracciglio chiudendo con forza il libro che stava leggendo. Si rassegnò all’idea di non riuscire a finire il capitolo.
«E di cosa, sentiamo.» Si tolse gli occhiali da lettura. Era stanco anche di pensare.
«Del tuo super animale domestico.»
«Super?»
«Ma sì, il randagio.»
«Oi, quattrocchi di merda, ti è andato a male il cervello?»
Hanji ruotò gli occhi. «Eren.»






 Schizzo Time 
Il capitolo mi è uscito un po' lungo... ^^" 
Bene! In questo capitolo compare Cecile, la sorellastra di Petra. Una donna che ne ha passate tante e che ne combinerà altrettante.
Eren e Levi cominciano ad avvicinarsi un passo alla volta mentre Hanji diventa sempre più insopportabile (agli occhi di Levi, ovviamente).
Come si fa a non amarla quella donna?
Nel prossimo capitolo il gatto di Eren adempirà al suo compito e finalmente qualcosa si smuoverà.
Mamma mia, siamo già a settembre. Ma come è possibile? O.O Vado a mangiarmi un gelato, mi sta scendendo la depressione.
Baci,
Aira.

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