Hunters

di dimest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio di tutto ***
Capitolo 2: *** Un brusco risveglio ***
Capitolo 3: *** Il Rito di Pandora ***



Capitolo 1
*** L'inizio di tutto ***


Capitolo 1

 
La mattina è il momento della giornata che meno preferisco.
Odio il trillo acuto della sveglia che mi strappa dal sonno e il saper di dovere abbandonare le calde lenzuola per appoggiare i piedi sul pavimento gelido ed iniziare così una nuova ed entusiasmante giornata. Trovo irritante la voce di mia madre che, dalla cucina, impartisce ordini a tutti, e trovo assolutamente fastidioso fare la fila al bagno, specialmente quando ad occuparlo è mia sorella.
Mi chiedo come faccia la maggior parte delle ragazze a svegliarsi presto la mattina, indossare una maschera di fondotinta ed altri cosmetici che soffocano la pelle, acconciarsi i capelli e scegliere i vestiti più belli ed alla moda solo per andare a scuola. Capisco l’età, la voglia di apparire carine di fronte al sesso opposto, ma non capisco l’enorme dose di vanità con cui sembrano andare costantemente a braccetto; quello che, invece, mi confonde più di tutto è la quotidianità del fatto ed il suo continuo ripetersi, giorno dopo giorno, fino alla probabile morte (e nemmeno per allora sono certa che questo ciclo vizioso possa arrestarsi) di una ricerca di finta perfezione e bellezza. Insomma, dopo tanto tempo passato davanti allo specchio, dovrebbe diventare stressante tentare di apparire gradevoli agli occhi della gente senza poter indossare ciò che più si preferisce, giusto?
Niente di più sbagliato.
La routine assume la sfaccettatura di “dipendenza cronica”: aumenta con il passare dei giorni e i suoi effetti sono irreversibili. Una volta che cominci, sei perduto. O almeno questa è la conclusione a cui son giunta.
Da canto mio preferisco indossare vestiti comodi, sottolineare le palpebre con dell’eyeliner ed applicare un sottile strato di correttore per coprire le occhiaie. Veloce, semplice e, soprattutto, alla fine della giornata sono sicura di non aver trucco sbavato o pelle appesantita dagli inutili eccessi.
Batto i piedi a terra, infastidita dal lungo tempo d’attesa. Inveisco contro mia sorella nella speranza che questa decida di affrettarsi, ma è tutto inutile: dalla porta sento provenire solo parole provocatorie e di giustificazioni campate per aria in cui mi rinfaccia di fatti mai esistiti e di altri ingigantiti solo per comodità, così prendo la mia roba e mi avvio verso il “bagno dei maschi”. Essendo tre donne e due uomini in famiglia, i miei genitori hanno pensato bene di trasferirsi in un appartamento con due bagni. Decisione saggia visto che la mattina il tempo è tiranno ed ognuno ha le sue esigenze.
Fortunatamente riesco ad intercettare mio padre poco prima che entri. Mi giustifico addossando la colpa a mia sorella, poi chiudo la porta a chiave. In cinque minuti sono già pronta: vestita e lavata mi affretto a lasciare il mio posto agli altri.
Prendo zaino, bici e, con un frettoloso saluto, mi avvio verso la fermata dell’autobus.
- Anche oggi sarà una giornata fredda. - penso, mentre l’aria gelida continua a sferzarmi il viso.
Guardo fisso la strada davanti a me evitando di alzare gli occhi al cielo e all’orizzonte, è una vista a me troppo dolorosa. Mi fa pensare a chi non c’è più e a quanto sia lontano.  
- Colpa tua. Potevi almeno prendere i guanti. - mi rinfaccia prontamente Magic.
Magic è il mio demone personale, uno spirito immaginario insomma, che mi aiuta a superare i momenti di solitudine. Ha un carattere ironico, pignolo, talvolta provocatorio ed è parecchio sgarbato. Ha l’aspetto di una sfera luminescente o opaca (dipende dal mio distacco mentale dal mondo circostante), due occhi triangolari allungati biancastri ed accusatori; una striscia zigzagante forma la linea di una bocca che non apre mai. È il prodotto del mio subconscio, una piccolissima parte del mio carattere che vorrei mostrare al mondo, ma che continuo a tenermi dentro come fosse uno squallido segreto. Magic non mi lascia mai: mi rammenta ogni cosa, anche quella più insignificante e mi rimprovera su tutto; davvero poche son le volte in cui mi conforta. L’ultima psicologa a cui ho raccontato della sua esistenza, mi ha rassicurata sulla normalità dei fatti (dicendo anche che è un tratto comune, soprattutto nei bambini, in quanto visto come un utile esercizio di dialogo), complimentandosi infine per la mia volontà di non cedere alla depressione. Da allora ho smesso di andarci: c’è già il mio subconscio a ricordarmi il mio aspetto infantile e folle, non mi serve sentirmelo ripetere da qualcun altro.
Quando arrivo alla fermata fatico ad aprire e chiudere le mani. Impiego più tempo del necessario per chiudere la bicicletta e ne impiego altrettanto per raggiungere gli altri studenti.
C’è chi chiacchiera vivacemente, chi sta’ per i fatti suoi, chi invece rimane avvinghiato al proprio fidanzato o fidanzata, scambiandosi baci umidi e rumorosi.
- Dannate coppiette. Credono che il freddo sia una giustificazione valida per stare così appiccicate? - esplica Magic tutto ad un tratto e non posso evitare di sorridere.
Probabilmente Giorgia sarebbe stata d’accordo con lui. Ed il sorriso scompare totalmente dal mio viso, lasciando il posto ad un’espressione triste e cupa.
All’incirca un anno fa è morta la mia migliore amica, forse l’unica che avevo.
Giorgia era bellissima: aveva un carattere solare, ironico, forte ed espansivo; il suo sorriso poi sembrava scaldarti l’animo. Ogni mattina, alla fermata dell’autobus, mi si avvicinava per chiedermi se stavo bene e, nonostante i miei sforzi per apparire al meglio, lei mi abbracciava sussurrandomi all’orecchio che era lì per me.
Di sera uscivamo spesso: ci accampavamo su una panchina al parco e parlavamo con gli occhi rivolti al cielo, persi in un’immensità che non abbiamo mai compreso, ma che affascinava entrambe. Aveva un ragazzo che amava tantissimo, eppure questo fatto non l’ha mai portata via da me. Se avevo bisogno di lei, mi bastava mandarle un messaggio oppure telefonarle, dopo poco giungeva a casa mia con il fiatone e un caldo abbraccio.
E per questo l’amavo.
Non gliel’avevo mai confessato, avevo troppa paura di perderla, in più a scuola c’era anche un’altra persona che m’interessava da alcuni anni; un amore a senso unico in ambedue i casi comunque, ma non me ne sono mai lamentata. Adoravo starle accanto e sparlare di quello stesso ragazzo. Poi, una mattinata, mentre Giorgia stava passando sulle strisce per corrermi incontro, l’autobus non si è fermato. Un colpo di sonno dell’autista forse, una piccola distrazione, e la mia amica è stata risucchiata dalle doppie ruote del veicolo. Mi è morta davanti agli occhi, tra le mie braccia mentre le dicevo che l’amavo, che non volevo se ne andasse, che restasse con me, ma fu tutto vano. Le sirene dell’ambulanza, mia madre che mi stringeva forte a sé e che mi accarezzava i capelli, il pianto disperato della madre di Giorgia… in quel momento tutto il mondo era scomparso, risucchiato da un vortice oscuro fatto di dolore e incredulità.
Misero fu il tempo che passava; le parole degli psicologi pagati da mia madre e le attenzioni dei compagni di classe. Squallido fu il suo ragazzo che le raccontava di amarla, che aveva pianto al suo funerale e che si era messo con una sua compagna di classe qualche mese dopo.
Enorme, invece, fu il dolore, il senso di vuoto, la rabbia… e fu quest’ultima che mi portò a compiere un gesto avventato. Era una mattina di scuola, ero in ritardo e mia madre non faceva che urlarmi contro, così afferrai il primo oggetto appuntito sulla scrivania e, con forza, lasciai alcuni tagli sul braccio. La sensazione di benessere e sollievo che ne seguì fu la mia rovina. Da allora, quasi ogni sera mi rifugio nella doccia alla ricerca di quello stesso stato. Senza accorgermene ne sono diventata completamente dipendente, ma, mentre la mia mentre s’inebriava di quella nuova sensazione ed il mio corpo si riempiva di cicatrici, la mia depressione aumentava. Non aiutarono i pensieri tetri, le fantasie su una possibile morte, i desideri che continuavo a formulare tra un pianto ed un altro.
Ed eccomi qui, oggi, incapace di guardare il cielo come facevo tempo addietro, additata come sfigata dalla mia nuova compagna di classe e piena di sentimenti contrastanti. Vorrei solo far la finita, stare finalmente bene… non penso di chiedere troppo all’universo.
Mi stringo nel cappotto, afferro il braccio sinistro, stringendomelo al petto: alla fine tutto ciò finirà, devo solo resistere.
Poi vedo in lontananza l’autobus e, in un gesto istintivo, mi volto. Se fossi rimasta a guardare, probabilmente, sarei scoppiata a piangere ed urlare, il che avrebbe portato ad accrescere le malelingue che circolano sul mio conto. I ragazzini sanno essere crudeli quando si radunano in gruppetti. Salgo per ultima sul veicolo e occupo posto su uno dei sedili davanti. Alzo il cappuccio sulla testa, la musica nelle orecchie e dimentico il mondo per tutto il resto del tragitto. Vorrei solo piovesse.
 
La mattinata è stata lunga e faticosa, così quando torno a casa la prima cosa che faccio è sdraiarmi sul letto con la faccia rivolta sul cuscino. Anche oggi i miei compagni hanno trovato uno stupido pretesto per deridermi. I professori tentano ogni qualvolta di fermare questo loro bullismo, ma cominciano a demordere nell’impresa: il loro atteggiamento protettivo non fa altro che acuire l’invidia degli studenti. Ho raggiunto il limite anch’io.
Dalla sala mi giunge la voce di mia sorella e di mio fratello; stanno litigando sul programma da vedere in televisione. Prendo l’mp3, scelgo una canzone a caso e m’isolo dal mondo. Senza accorgermene mi addormento.
Al mio risveglio, però, in casa non c’è nessuno. Mia madre dev’essere uscita un’altra volta con una sua amica, mio padre è al lavoro e, probabilmente, i miei fratelli sono usciti già da qualche ora. Solo io resto in casa tutto il giorno, chiusa in camera a dormire o a non fare nulla. Ormai questa è divenuta la mia deprimente quotidianità.
Mi alzo dal letto con fatica, stiracchiandomi e facendo scrocchiare qualche osso, e quasi mi dimentico di avere le cuffiette nelle orecchie. Fortunatamente sento il filo tendersi, così la caduta dell’mp3 è sventata poco prima che questo raggiunga il confine ultimo del materasso. Assicurato il fedele-compagno-di-vita nella tasca dei pantaloni, mi avvio verso l’armadio, prendo il costume dal cassetto, infine, indossando una comoda tuta, esco dalla camera alla ricerca del mio borsone.
Al fine di allontanarmi dal dolore continuo, mia madre mi iscrisse al corso di nuoto: immergermi totalmente nell’acqua aiuta a rilassarsi. Talvolta riesco perfino a dimenticare tutto ciò che mi circonda.
Ogni passo che risuona nel corridoio buio aumenta il senso di vuoto nel mio petto. Cerco di non pensarci troppo, vorrei evitare una crisi prima di uscire.
Prendo il borsone e ci infilo tutto ciò che mi serve. Faccio una fermata anche al bagno per lavarmi i denti, la faccia e legarmi i capelli, poi esco di gran fretta. Siamo in inverno e, anche se sono solo le sei del pomeriggio, la luna splende alta nel cielo. Camminare nel paesaggio notturno mi rilassa: è come se ogni mio problema, ogni fibra del mio essere fosse inglobata dalla piacevole oscurità.
All’improvviso avverto una corrente gelida strisciarmi sulla schiena provocandomi spiacevoli brividi, eppure non c’è vento e nessuna macchina mi è passata accanto. Mi guardo attorno, ma non vedo nulla; solo le ombre nascondono l’ orizzonte.
- Stai ancora sognando ad occhi aperti? – mi sussurra Magic.
- Mi era parso di sentire qualcosa. – gli mormoro di rimando.
Continuo a camminare, frettolosa e a disagio.
Un altro brivido mi costringe a voltarmi, tuttavia, ancora una volta, vedo solo ombre.
Stringo i manici del borsone e, con il cuore in gola, inizio a correre. Ho poco fiato e la mia resistenza sull’asfalto è pessima; i polmoni iniziano a bruciare dopo pochi metri, ciò nonostante voglio arrivare almeno in prossimità della strada principale. È stata una follia imboccare la scorciatoia, perché solitamente la prendo durante il percorso di ritorno dalla scuola ed anche a quell’ora è frequentata da poche persone.
Ancora qualche metro mi separa dal primo incrocio, proprio sotto al lampione.
Rallento e mi volto per vedere se qualcuno mi ha seguito, poi ecco che finalmente un’ombra si muove sullo sfondo.
O almeno così credevo.
L’attimo dopo sono sbalzata in aria ed il colpo è tale da togliermi il fiato oltre a provocarmi un forte dolore alla spalla e alla cassa toracica. Ritrovo il borsone qualche metro più avanti, i manici rotti come la giacca che indosso. Noto quelli che paiono essere segni di artigli, ma non ho visto animali, non ho urtato contro alcun albero o cespuglio nella caduta.
Osservo una scia grigiastra spostarsi dietro di me con velocità. Il cuore prende a martellarmi furiosamente nel petto e sudore freddo inizia a imperlarmi la pelle. Decido di ignorare la confusione e tento di mettermi a correre, ma le gambe sono paralizzate dalla paura. Provo ad alzarmi puntellando le mani al terreno, facendo forza sui polsi e sulle ginocchia, però nulla pare funzionare.
Così prendo un respiro profondo ed urlo a pieni polmoni sperando che qualcuno nelle vicinanze riesca a sentirmi; non m’importa del dolore insistente alla gola e continuo ad urlare mentre cerco di coprirmi il viso con il braccio prima di ricevere un nuovo colpo.
Questa volta sento il bruciore degli artigli sulla carne: è una sensazione sgradevole, peggio di qualsiasi ferita io mi sia autoinflitta. Guardo il braccio e vedo chiaramente tre striate nette che partono dal polso per finire al gomito. La pelle è sbrindellata sulla superficie, non sembra essere profondo, anche se il sangue sgorga a fiotti e sembra non volersi fermare presto.
Inizio a piangere, a gridare per la ferita, tuttavia non vedo nessuna persona accorrere in mio soccorso. Ciò che vedo ora è un mostro alto tre metri, nero, con occhi cha paiono i fanali di un’auto. Dalla sua bocca s’intravedono denti aguzzi, la bava ne ricopre quasi integramente la mandibola ossuta e affusolata. Le braccia sono lunghe al termine delle quali sono attaccate tre (altrettanto) lunghe lame affilate. Il corpo bitorzoluto lascia intravedere le ossa. Si erge sulle zampe ricurve posteriori; i passi sono lenti ed incerti, deve aiutarsi con gli artigli delle braccia per rimanere in equilibrio.
Lo fisso atterrita. Sta per scagliare un altro colpo, ma questa volta, non so come, riesco a mettermi in piedi ed evitarlo di poco.
Scappo via tenendomi stretto il braccio ferito, pregando di raggiungere la strada principale… il mostro però mi è davanti in un attimo: le zampe ricurve devono servire da molla, permettendogli così di spostarsi in pochi istanti. Anche se corro con tutte le mie forze, questo potrebbe ributtarmi al suolo con estrema facilità.
Mi affloscio sulle ginocchia in preda a spasmi di puro terrore: finalmente lascerò questo mondo, anche se a causa di una morte atroce (oltre all’essere inspiegabile). Potrò finalmente rivedere Giorgia, stare con lei, abbracciarla… eppure una parte di me ora si attacca disperatamente alla vita. Non voglio arrendermi alla morte in modo passivo senza nemmeno aver tentato di difendermi.
Avverto il bisogno di lottare, in fondo è nella natura animalesca dell’uomo il tentare di sopravvivere in qualsiasi situazione ed in qualsiasi modo, ed è forse questo il motivo per cui non mi sono ancora decisa a mettere in pratica tutti quegli scenari macabri con cui ho condiviso i miei sogni e pensieri negli ultimi mesi.
Cerco nelle tasche un qualsiasi oggetto possa tornarmi utile. Non ho coltelli con me, né armi contundenti, le chiavi sono troppo corte, rischierei di morire al primo assalto.
Sono alle strette, non ci vorrà molto prima che il mostro mi divori.
Poi mi balena nella testa un’idea folle.
Torno indietro e mi dirigo rapidamente verso il borsone alla ricerca del telefono a cui avevo attaccato le cuffiette. Nell’istante in cui ero stata sbalzata via, il filo degli auricolari deve essersi staccato a causa dalla stessa violenza con cui si sono lacerate le maniglie del borsone. Spero solo non si siano rotte.
Sento il mostro atterrare davanti a me, ho pochissimo tempo prima che mi scagli contro un altro fendente, così sposto ripetutamente lo sguardo sul suolo intorno a me con impazienza. Ringraziando il cielo, quando le ho acquistate, le ho scelte bianche quindi, se non sono finite tra l’erba alta, dovrebbero risaltare almeno un poco.
Il mostro avanza il colpo e, non so come, riesco ad evitarlo. Nel pugno stringo le cuffiette e, se vorticato ad una certa velocità, anche un piccolo filo può far davvero male. Forse un cavo alla cui estremità è attaccato il jack dovrebbe provocare qualche danno in più. So bene che sarà un colpo debole, non sufficiente a scalfirne la pelle, per questo motivo all’altra estremità lego le chiavi, rimaste (fortunatamente) all’interno della tasca chiusa della giacca.
Prendo slancio e gli sferro il jack sull’arto. Il mostro lancia un urlo rabbioso e la bava gli cola giù per la gola; il colpo deve aver sortito il suo effetto. La sensazione deve essere stata quella di una frustata, comunque troppo debole da provocargli tagli profondi o ferite abbastanza gravi da riuscire ad abbatterlo.
Presa dall’adrenalina, mi scaglio su di lui infierendo più volte sugli arti usando entrambe le estremità del cavo. Le chiavi riescono a penetrare la pelle, anche se con squarci superficiali. L’epidermide squamosa fa rimbalzare ogni colpo, non importa con quanta forza e rabbia lo aggredisca.
Il mostro si riprende dall’assalto improvviso, intravedo il suo sguardo furioso, nonostante ciò, presa come sono dalla foga del momento, non gli presto particolare attenzione; quello mi si avventa contro con un colpo tale da togliermi il fiato.
Ha colpito il torace, probabilmente deve avermi incrinato una costola o due. L’aria non entra pienamente nei polmoni, fatico a fare qualsiasi gesto, specie il respirare la cui semplice azione diviene una vera tortura; vorrei accasciarmi al suolo, mettermi a piangere e scavarmi la pelle con le unghie.
È questa la mia fine?
- Devi combattere. In piedi, forza. – m’incita Magic a pochi centimetri da me.
È una strana situazione perché, essendo oggetto del mio subconscio, non dovrei essere capace di vederlo date le attuali circostanze. Eppure eccolo qui. Nitido come non lo è mai stato prima. Mi fissa intensamente con i suoi piccoli occhi bianchi e l’averlo accanto mi dà forza.
Posso farcela, devo solo volerlo.
Artiglio la terra, cerco di rialzarmi in fretta anche se ogni movimento è una fitta atroce che risuona in tutto il corpo, ma non mi arrendo. Il lungo dolore, la depressione, il non arrendermi all’idea del suicidio mi ha irrobustita, temprata al perseverare a combattere. Afferro le cuffiette e gli sferro le chiavi in pieno viso un istante prima che quello possa attaccarmi nuovamente.
Il mostro lancia un urlo rabbioso al cielo, tenta di coprirsi il volto con gli artigli e questo mi dà il tempo di aggirarlo. Gli tiro un calcio alle gambe abbastanza forte da fargli perdere l’equilibrio. Gliene assesto un altro nello stesso punto e, finalmente, cade al suolo. Lo vedo far forza con gli arti superiori al terreno per tentare di rialzarsi, ma con una frustata alla schiena ossuta riesco a tenerlo fermo per qualche altro secondo, giusto il tempo di arrampicarmi sopra di lui e ad allacciargli il filo alla gola. Puntello un ginocchio alla base della testa e poi tiro e cuffiette verso di me. Stingo la presa finché non sento le mani iniziare a dolermi per la pressione, sempre di più finché le ossa del mostro iniziano a cedere sotto la pressione della mia rotula.
Questo si accascia a terra ormai privo di vita e, sarà a causa dell’adrenalina o della paura mista ad una svariata serie di emozioni che rimango ferma dove sono con il filo degli auricolari stretto nei pugni decisa a non lasciare andare la presa. Ho come l’impressione che, se lo facessi, morirei.
Non ho idea di quanto rimanga qui, in ginocchio sul cadavere di un incubo che non avrebbe mai dovuto avverarsi; non m’interessa delle ferite riportate, di quelle brucianti sopra e sotto la pelle, tutto diviene ininfluente davanti all’accaduto ed il mondo assume una sfaccettatura nuova, completamente sconosciuta e priva di realtà.
- Ehi tu, tutto bene? - domanda all’improvviso una voce a qualche metro da me.
Mi volto spaventata, stringendo contemporaneamente il nodo sulla gola del mostro. Sento gli occhi pungermi dal gran che li ho spalancati e il fianco mandarmi fitte pungenti in tutto il corpo.
Dapprima non riesco a vedere nulla, la vista è offuscata dal vortice di sensazioni che mi hanno sopraffatta in questi pochi minuti, e solo quando metto a fuoco l’obiettivo, mi accorgo che un gruppo di cinque persone mi si è avvicinato. Un uomo vestito di nero è a pochi passi da me e mi fissa incredulo. Non so dire con precisione se stia effettivamente fissando me o il mostro ai miei piedi.
Ed è solo ora che comprendo la situazione. Rivolgo lo sguardo verso il basso, vedo il mostro ormai morto al cui collo sono avvinghiate le mie cuffiette. Osservo la scena senza riuscire a vederla realmente.
Sono stata davvero io a fare questo?
Libero la presa, balzo in piedi come una molla e sento le mani pulsarmi. Il sangue torna a circolare nelle vene ed il formicolio che crea mi disgusta. Non posso credere di essere capace di una simile violenza.
- Io… cosa…? – balbetto, sconcertata dalle mie stesse azioni.
- Tranquilla, muoviti con calma. – mi dice l’uomo avanzando un passo verso di me, le mani leggermente alzate nel tentativo di non spaventarmi.
Non sono un animale rabbioso e violento, in circostanze normali non sarei capace di azioni simili e, anche se in questo momento sono completamente spaesata, riesco a distinguere chiaramente un uomo da un mostro oppure cosa sia giusto e cosa, invece, sia sbagliato. Sto per rinfacciargli la cosa quando un giramento di testa mi coglie alla sprovvista. Inciampo nei miei stessi piedi e se non fosse per l’azione repentina di quell’uomo nell’afferrarmi, probabilmente sarei finita col culo a terra. Vorrei liberarmi dalla sua presa, allontanarmi dalla scena, tornare a casa e dimenticare questa vicenda, anche se so che finirei con l’avere incubi per tutta la vita, eppure non ne ho le forze. Sento il corpo pesante, la testa mi duole, mentre le ferite riportate continuano a bruciarmi intensamente. Ogni secondo che passa queste sembrano ardere di più, tanto da diventare insostenibili. Vorrei urlare per quanto mi facciano male, ma le costole rotte me lo impediscono. Riesco a malapena a respirare, figuriamoci emettere dei suoni.
Magic è al mio fianco, mi fissa derisorio. È tornato ad essere la solita sfera semi-visibile di prima, eppure sembra quasi sporco. Forse la mia mente sta elaborando uno scenario in cui anche Magic è stato coinvolto. Pensare è faticoso, così rinuncio a pormi domande.
Mi sento patetica, debole ed ipocrita verso me stessa: avevo l’opportunità di morire, di raggiungere Giorgia e l’ho scartata per poter lottare una volta ancora. Probabilmente ho un’indole masochista.
Osservo l’uomo parlarmi: le labbra si stanno muovendo e le sue sono parole dovrei riuscire a comprendere perfettamente, ma chissà a causa di quale motivo, non riesco a capirne il significato nonostante stia parlando la mia stessa lingua ad un soffio da me. Mi sforzo di comprendere qualche stralcio di conversazione… nulla da fare, sono troppo stanca. L’unica cosa che riesco a fare ora è lasciarmi andare all’oscurità.
Perdo i sensi tra le braccia di uno sconosciuto.

 


N.A:
Salve a tutti.
Non mi dilungo ulteriormente, ma ci terrei a ringraziare chiunque di voi sia arrivato a leggere fino a qui.
Spero che la storia non vi paia fin troppo banale e se avete critiche positive, neutre o negative da rivolgermi, non fatevi scrupoli ad inviarmele (sia per recensione che per messaggio).
Vi ringrazio e spero di sentirvi presto nel prossimo capitolo.
Dimest.

 

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Capitolo 2
*** Un brusco risveglio ***


Capitolo 2

 

Al mio risveglio capisco già di non essere a casa nel mio letto.
L’odore che sento è fresco ma allo stesso tempo forte, talmente tanto da darmi il capogiro e, di sicuro, differente a quello a cui son abituata: sa di ammoniaca e di limone, al cui si aggiunge poi una sfumatura di lavanda che, molto probabilmente, proviene da fuori la finestra lasciata aperta; l’insieme crea un miscuglio di fragranze che proprio non riesco a tollerare. Oltretutto i miei sensi sembrano essere amplificati, l’odore che sento sembra arrivarmi direttamente giù per la gola, irritandola e acuendo un principio di mal di testa.
Cerco di mettermi a sedere e, per quanto ci provi, non ho abbastanza forze in corpo da riuscire subito nell’intento. Mi ci vogliono alcuni tentativi anche solo per tirarmi un poco più su ed appoggiare meglio la testa sui cuscini. Avverto fitte di dolore in ogni parte del corpo e ho paura di quanti possibili lividi abbia collezionato.
Non è stato un sogno. – è tutto quello a cui riesco a pensare.
Ovviamente l’avevo già realizzato sul campo mentre cercavo di tenermi in vita, ma continua ad essere un’esperienza troppo surreale per parere vera.
In più, da quando ho riaperto gli occhi, mi sento a disagio, come se ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato, e il senso di estraneità non aiuta a calmarmi. Così mi guardo intorno con aria indagatrice soppesando con superficialità i dettagli che riesco a scorgere.
La stanza ricorda vagamente quella di un ospedale: muri dipinti di un chiarissimo celeste, alcune brande vuote dalle lenzuola candide ed immacolate con paraventi a confinare ogni letto. Addirittura vedo spuntare l’asta metallica di una flebo al mio fianco. Il colore trasparente del sacchetto è identico a quello usato negli ospedali.
Decido di seguirne il percorso, soffermandomi sulla cadenza delle gocce cristalline, poi percorro la linea del tubicino finché lo vedo terminare al mio braccio, più specificatamente nella parte interna del gomito.
Improvvisamente realizzo e, spaventata, scatto a sedere cercando di togliermi l’ago dalla vena, ma sono sopraffatta da una forte fitta allo sterno che ferma un mio qualsiasi impulso. Prendo dei bei respiri profondi, anche se mi causano altro dolore, e tento di calmarmi per non peggiorare i possibili danni che riporto.
Devono essere le costole che molto probabilmente mi sono rotta durante lo scontro.
Mi tasto il fianco e solo ora mi accorgo delle fasciature sul busto, attorno al braccio sinistro e anche ad una caviglia (suppongo) dal momento che non riesco a muoverla. Osservo i lividi violacei sulle braccia: dal punto in cui parte la fasciatura c’è un grosso ematoma interno al braccio, mentre su quello in cui ancora è attaccata la flebo pare essercene una costellazione.
Guardare nuovamente la parte interna del gomito mi riporta alla realtà ed alla situazione assai astrusa in cui mi trovo. Non ho il tempo di contare i danni subiti, devo andarmene alla svelta da qui e, proprio quando sto per strapparmi l’ago dalla vena (imprecando contro ogni divinità esistente e non), qualcuno entra nella camera.
Ti sei svegliata finalmente. – esordisce lo stesso uomo che ho visto poco prima di svenire.
– Chi sei tu? E che ci faccio io qui? – domando impaurita. Tutta questa situazione non mi piace: prima vengo massacrata da una creatura misteriosa e poi mi rapiscono. – Tanto per chiarire i miei genitori non sono ricchi. Se hai intenzione di stuprarmi invece…–
– No, aspetta. Fermati un attimo. – m’interrompe l’uomo avanzando di qualche passo con una mano alzata. Alla sua azione, indietreggio rischiando quasi di cadere dal letto. Lo fisso come se in mano stringesse un’arma insanguinata, così lui arresta ogni suo movimento. – Non ho quel genere d’interesse nei tuoi confronti e noi non siamo quel tipo di persone. Puoi stare tranquilla su questo punto. –
– Allora perché sono qui? Chi siete voi? E cosa mi state facendo? – chiedo con insistenza alzando il braccio a cui è attaccato il tubicino trasparente.
Ad ogni minuto che passa la situazione pare degenerare. Prendo atto di dettagli nuovi e tutti mi sembrano terrificanti. Voglio piangere, mettermi ad urlare, tornare a casa dalla mia famiglia e rintanarmi sotto le coperte per non uscirne mai più.
Che cosa ho fatto di male al mondo per meritarmi una fine simile?
– Quella che ti stiamo iniettando in corpo è morfina, serve ad alleviare il dolore delle varie fratture. Hai riportato ferite cui è stato necessario intervenire facendoti assumere dei medicinali per contrastare il veleno del demone. –
– Demone? – domando basita.
– Quello che hai visto ieri sera era un demone di rango C. Non sono creature molto potenti e, solitamente, non attaccano da soli, anzi sono soliti spostarsi in piccoli gruppi. Quello di ieri è stato un caso raro, potremmo definirlo ambiguo. Potrebbe averti seguita o essersi separato dal gruppo quando ha percepito il tuo odore… Ancora non lo sappiamo con certezza.– mi spiega brevemente lui.
Sono una serie d’informazioni senza senso per me. Lui rimane fermo nello stesso punto ed io non mi sento minimamente più tranquilla.
Aspetta… Ieri sera? –
Se è per la tua famiglia che ti stai preoccupando, allora non vi è motivo di farlo. Li abbiamo avvertiti noi che saresti stata via sia stanotte sia la notte scorsa. – mi risponde con tono saccente, come se questa fosse la situazione più naturale del mondo.
In parole povere hanno soggiogato la mia famiglia con qualche strano trucco perché non c’è modo che i miei genitori ed i miei fratelli si possano fidare di costoro e lasciarmi in mano a dei perfetti sconosciuti. Questo significherebbe che non mi amano, che a loro non importa nulla di me, ma, per quanto mi sia convinta della loro indifferenza verso i miei sentimenti e stato d’animo negli ultimi mesi, voglio credere di essere ancora importante.
– Cosa? Come? –
– La versione ufficiale è che ti sei fermata a dormire a casa di un’amica. Tua madre è stata alquanto sorpresa nel sentirlo, ha fatto delle domande, ma poi ha acconsentito. Starai qui anche stanotte, finiremo di curarti e domattina potrai tornare a casa. – m’informa brevemente, poi resta fermo come se stesse riflettendo o ascoltando qualcosa che solo lui può udire, infine annuisce e torna a concentrare la sua attenzione su di me. – Ora devo andare, tornerò più tardi a vedere come stai e a rispondere alle tue ultime domande. – mi comunica percorrendo velocemente la camera fino a trovarsi davanti alla porta. – Cerca di riposare. – dopodiché esce ed io rimango di nuovo sola.
– Strano tipo, vero? – borbotta Magic tutto ad un tratto, ricomparendo al mio fianco, fissando anche lui la porta.
Annuisco, incapace di formulare una frase di senso compiuto. Ho così tanti dubbi in testa che, se dovessi aprir bocca ora, temo uscirebbero tutti nello stesso istante.
Non posso fare a meno di chiedermi se questa situazione non sia il frutto della mia galoppante immaginazione. Da sempre desidero un po’ di avventura nella mia monotona vita, ma questoquesto è decisamente troppo.
Mi corico nuovamente cercando di ignorare le fitte e l’ago nella parte interna del gomito, non potrei andare da nessuna parte malandata come sono, in aggiunta l’uomo mi ha detto di non aver alcun interesse illecito nei miei confronti e che non corro alcun pericolo; voglio credergli nonostante continui a conservare una nota di scetticismo. Se avesse voluto farmi male, non avrebbe avuto a cuore il mio stato d’animo né tanto meno la pazienza di rispondere alle mie domande. Non mi fido di lui, ovvio, ma ho paura di andare là fuori da sola, non dopo aver subito un’aggressione simile.
Il tempo pare trascorrere lentissimo e senza musica o internet o un libro davanti, mi annoio presto. Potrei dormire oppure fare mente locale di tutti gli eventi verificatesi finora, ma il mal di testa pare potrebbe aumentare se anche solo provassi a pensare alla causa per cui sono finita qui dentro.
Osservo i lividi sulle braccia, ne traccio i contorni con lo sguardo senza osare toccarli: sono orribili e creano un contrasto sgradevole con la carnagione pallida. Poi porgo l’attenzione alle bende poco più in basso. L’uomo ha parlato di veleno, probabilmente è entrato in circolo quando quel mostro ha lacerato la pelle ma, presa com’ero dalla situazione, non mi sono accorta di nulla ed è forse stata quella la causa del mio svenimento. Lascio andare un sospiro e Magic si fa più vicino.
– Che stupida. – mi riprende con aria strafottente.
Sbuffo e cerco di non porre troppa attenzione alla sua frecciatina; sono ormai abituata alle sue parole e so per esperienza che l’unico modo per evitare di arrabbiarsi è non dare importanza a quello che dice.
Scema. – canticchia lui.
– Smettila. So di essere stata un’idiota a non accorgermi di cosa accadeva al mio corpo in quel momento, ma rinfacciarmelo ora non mi è di alcun aiuto. – ribatto, fissandolo arcigna.
Lui stira la linea della bocca guardandomi di rimando: lo fa in segno di sfida ed io non voglio perdere. È un gioco che facciamo da sempre, il premio in palio è il mio orgoglio.
Mi gira intorno continuando a fissarmi. Vorrei riuscire a farlo sparire in momenti simili.
Qualcuno bussa alla porta e il gioco s’interrompe.
– Scusami, ti disturbo? – domanda una ragazza dai capelli lunghi di un bel rosso mogano, elegantemente legati in una treccia e dagli occhi chiari cerchiati da un sottile strato di matita.
È vestita di nero, gli abiti aderenti nei punti giusti ne risaltano il fisico tonico. Più la guardo e più m’incanto, così decido di spostare l’attenzione sulle lenzuola, sistemandole sul bacino e nascondendo le braccia.
– No, tranquilla. – le rispondo imbarazzata, rimettendomi nuovamente a sedere. Non so chi sia o che cosa voglia; potrebbe essere una sociopatica (e, considerati gli ultimi eventi, non ne sarei sorpresa) o una pazza venuta a torturarmi, ma ora non m’importa. Sono sopraffatta dal mix di pensieri e medicinali per darle vera importanza.
Lei si avvicina, occupa posto sul lettino a fianco al mio e mi sorride. È un sorriso dolce, molto simile a quello che mi rivolgeva Giorgia i primi tempi in cui avevamo iniziato a socializzare. Il cuore mi si stringe al ricordo, mi volto a guardare i piedi che s’intravedono da sotto le coperte.
– Ti starai chiedendo chi sono, cosa ci fai qui e tante altre cose, immagino. –
Il mio silenzio è un tacito assenso. In verità nemmeno io conosco con precisione il cosa voglio sapere: le domande sono così tante che si affollano l’una sull’altra e nessuna è più importante delle altre, ciò crea solo più confusione.
– Partiamo dal principio, ti va? Il mio nome è Athena e sono una grande amica di Lucky, nonché sua partner. –
Al mio sguardo confuso le scappa una breve risata.
– Oddio, non dirmi che non ti ha detto nulla. – mi guarda attentamente ed io scuoto la testa in senso di diniego. – Allora temo dovrò partire proprio dalle basi, anche se non penso tocchi a me farti questo genere di discorso poiché solitamente se ne occupa chi ha salvato il marchiato. – m’informa lisciandosi una ciocca di capelli e spostandola dietro l’orecchio.
Restiamo in silenzio per qualche minuto, il passare dei secondi scandito dal suo orologio da polso. Non l’avevo notato prima, forse perché il cinturino nero si confondeva con l’abbigliamento.
– È strana. – sussurra Magic, al che gli schiocco un’occhiataccia che lo costringe a stare in silenzio.
– Cos’è un marchiato? E, chi è Lucky? – le domando incuriosita.
– Vuoi dirmi che non si è nemmeno presentato? – di nuovo scuoto la testa e lei sorride divertita. Probabilmente non sta ridendo di me, ma non posso fare a meno di sentirmi a disagio. – Lucky è il ragazzo che ti ha aiutato la notte scorsa, a primo impatto può sembrare scostante e difficile, ma sa prendersi cura delle persone a lui care; con lui non avrai nulla da temere. – gli occhi verdi paiono brillarle e in un istante diviene ancor più bella.
Dev’essere innamorata di lui. penso.
– Per quanto riguarda i marchiati, invece, sono persone prese di mira da un demone inferiore. Quest’ultimo è innocuo ed ha il solo compito di marchiare, appunto, coloro la cui depressione li ha portati a desiderare la morte, ma che, per qualche motivo, non hanno ancora compiuto l’atto di suicidio. –
L’ascolto senza quasi respirare. Le braccia paiono, d’improvviso, scottare e mi sento talmente inadeguata da voler scomparire, oppure da voler correre lontano, rintanarmi in qualche angolo buio e compiangermi. Sapevo perfettamente di non essere l’unica al mondo a provare questo tipo di sentimenti, eppure è difficile stare ad ascoltare le persone quando ne parlano e mantenere un atteggiamento scostante.
Non devi aver paura o sentirti a disagio. Qui siamo tutti simili: ognuno ha la sua triste storia che non vuole raccontare a nessuno, ma che lo rende un perfetto candidato per stare in questo posto.
Mi chiedo quale sia la sua triste storia. Da quel viso sereno e dallo sguardo luminoso non traspare nulla, sembra quasi il tipo di persona che ha avuto tutto dalla vita. Al contrario io, ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo solo l’ombra della me stessa di alcuni anni fa. Probabilmente percepisce i miei pensieri perché mi appoggia una mano sopra la mia in segno di conforto; solo ora mi accorgo di star stringendo le lenzuola.
So bene che tutto questo ti sembra strano e senza senso, ma vedrai che ti ci abituerai presto. –
È permesso? - domanda un ragazzo sull’entrata.
Oh Drew, ti stavamo aspettavamo. – gli risponde lei allontanando la mano.
Togli quel noi perché di certo io non lo stavo aspettando. Insomma: chi è questo? E, ti prego, basta incontri per oggi, questa giornata è già sufficientemente strana. – penso arrogantemente mentre sulla pelle avverto l’eco del suo tocco e mi trovo stupidamente a desiderare di essere confortata ancora da lei.
Magic ride di gusto, mentre il mio astio nei suoi confronti continua a crescere; non lo sopporto quando si fa beffe di me.
Drew si avvicina al letto: ha i capelli di un biondo dorato con un taglio moderno ad incorniciare il viso squadrato, gli occhi azzurri risplendono man mano che ci viene incontro con il corpo stretto da una tenuta simile alla ragazza di fronte a me.
– Ciao. – mi saluta.
Per tutta risposta lo guardo aspettando che qualcuno professi qualche altra frase.
– Drew è il mio novizio e ti farà da guida nei prossimi giorni. – m’informa Athena presentandolo. – Drew questa è la novizia di Lucky. È qui da meno di un giorno quindi trattala bene. –
Novizia? – domando mentre un brivido freddo mi corre giù per la schiena.
E adesso cos’è questa storia?
Più resto confinata in questo letto e più mi sembra di essere rinchiusa in un dannato incubo (molto reale) dal quale non riesco a svegliarmi.
– Magari si tratta di una qualche setta satanica o di un programma top-secret a cui sei stata ammessa a tua insaputa. – scherza Magic, ma il suo commento, invece di farmi ridere, mi rende solo maggiormente nervosa.
– Chiamiamo novizi tutti quei ragazzi nel primo anno della “crescita”. Ora ti spiego… –
Ma non fa in tempo a cominciare a parlarmene che dalla porta compare Lucky. Ha lo sguardo torvo, la mascella contratta e i suoi occhi sono fissi su Athena.
Lei si fa improvvisamente piccola, mentre l’uomo avanza nella stanza, pigola uno “scusa” quando lui si ferma ad osservarla dall’alto del suo metro e novanta; la situazione pare degenerare ogni momento che passa. Li guardo confusa, aspettandomi una qualche spiegazione ma loro m’ignorano totalmente. Solo Drew mi rivolge uno sguardo comprensivo ed un sorriso amichevole, forzato però dalla tensione nell’aria.
– C’è qualcosa che non va per caso? – chiedo.
Magic sogghigna al mio fianco, un’espressione che col tempo ho imparato a decifrare come un “proprio non riesci a farti gli affari tuoi”, così gli scocco un’occhiataccia.
Finalmente ottengo l’effetto sperato: tutti si voltano verso di me dandomi l’attenzione voluta fin da quando Athena è stata costretta ad interrompersi.
– In parte. – espira Lucky a braccia conserte. – Potreste lasciarci soli? –
Senza proferire parola, sia Drew sia Athena, si alzano dal letto ed escono piano dalla stanza. Improvvisamente attorno a noi viene a crearsi un silenzio opprimente; Lucky sospira prima di mettersi a sedere sul mio letto. Le domande affollano la mia testa e proprio non saprei da dove iniziare a chiedere.
Quando sento il suo peso sul materasso, la prima reazione che ho è quella di spostarmi fino al bordo del letto. Imbarazzo ed incertezza mi opprimono lo stomaco; con Athena ero quasi riuscita ad abituarmi a tutta quest’assurdità, ma con lui da sola nella stanza non riesco a stare calma: l’ansia dell’ignoto mi divora le membra lasciandomi in uno stato di allarme perenne.
Deve avvertire la mia tensione perché si alza nuovamente in piedi per poi adagiarsi nello stesso punto dove stava la ragazza poco prima. Sbuffa con una nota di stanchezza, si passa una mano tra i capelli bruni tirati indietro dal gel e mi guarda, aspettando che mi calmi, poi prende la parola: – Non so fin dove Athena si sia prodigata a raccontarti di ciò che succede qui, ma non era compito suo farlo. Come tuo tutore ho il dovere di starti accanto, quindi se avrai qualche domanda da fare, d’ora in avanti, vieni da me e non chiedere a nessun altro, intesi? –
Faccio un breve cenno con la testa e lui, di rimando, annuisce compiaciuto attendendo la valanga di domande che sono pronta a porgli.
– Dove mi trovo? – è l’unica fra le tante cose che voglio sapere che abbia davvero importanza. Lucky poi potrebbe allargare la risposta facendo chiarezza su altri miei dubbi, giusto?
– In una stanza d’infermeria per i novizi. Nulla di cui devi preoccuparti, qui troverai un personale organizzato e pronto a fornirti le migliori cure. –
– Questo l’avevo capito da me. – penso.
– Ok, ma dove mi trovo esattamente? –
Lui sospira, spostando il peso in avanti, i gomiti poggiati sulle ginocchia con le dita incrociate sotto il mento. – È complicato. – enuncia.
– Te l’avevo detto: setta satanica o programma top-secret. Io voto per il programma. – sogghigna Magic alle mie spalle, nascondendosi dalla vista dell’uomo.
– Non è nulla di preoccupante, tranquilla. – si affretta Lucky a rassicurare quasi avesse udito Magic blaterare. – La nostra può essere considerata una società ben organizzata, una comunità d’individui simili tra loro che combattono contro demoni o mostri molto somiglianti a quello che hai affrontato tu. Finché rimarrai qui, non avrai nulla da temere; nessuno ti farà del male. –
– Quindi non potrò più uscire da qui senza che sia attaccata da un demone? – gli domando con il panico che traspare nella voce.
È vero, la mia vita non era perfetta e molte volte ho pensato a come sarebbe stato piacevole andarsene da questo mondo che tanto odio, ma nemmeno nelle mie più fervide fantasie, mi sarei mai immaginata un epilogo simile.
Sento gli occhi bruciare e non posso impedire a qualche lacrima di cadere. Non vorrei mostrarmi così debole di fronte ad uno sconosciuto, non voglio che mi prenda per una piagnucolona, ma cosa posso fare? Le possibilità sono ben poche: vivere da reclusa per il resto della mia vita o uscire con il rischio d’imbattermi di nuovo in un demone (e non è detto che in quell’eventualità qualcuno venga in mio soccorso).
– Ti daremo tutto il supporto necessario per condurre una vita il più possibile normale, tuttavia non possiamo assicurarti che in questo modo sarai salva da qualsiasi altro attacco. Purtroppo una volta che si viene a conoscenza dei demoni, la tua vita cambia in modo radicale. – fa una breve pausa ed il peso delle sue parole mi schiaccia dentro; per me ormai non c’è alcuna via di fuga.
Vorrei solo mettermi a piangere ed urlare, vorrei poter tornare indietro nel tempo e cancellare la serata appena trascorsa. Lo vorrei più d’ogni altra cosa.
Arpiono la stoffa delle lenzuola tra le dita, stringo forte fino a far diventare le nocche bianche mentre una paura sorda riempie ogni cellula del mio corpo; sapere cosa ti ucciderà e non poter far nulla per impedirlo è terribile. Conosco il nome ed il volto del mio assassino, ma, per contrastarlo, ho solo un paio di mani vuote.
– In verità una soluzione ci sarebbe. Ti avverto che non sarà semplice e, se deciderai di intraprendere questa strada, sarà per sempre. – m’informa Lucky qualche secondo dopo.
Ha il volto serio e gli occhi mi scrutano attentamente. Se non fossi così confusa e spaventata dal mio futuro, probabilmente lo sarei per questo suo cambio di tono.
– E cioè? – gli chiedo mentre tento di fermare le lacrime.
– Puoi scegliere di combattere. –


 


N.A:
Salve a tutti.
Eccomi di nuovo qui a distanza di quache anno. 
Ho deciso di riprendere in mano le mie storie e portarle a compimento.
Non ci sono giustificazioni per la mia assenza, ma spero ugualmente che il capitolo vi sia piaciuto.
Grazie mille a chi ha letto ed apprezzato.
Ci "vediamo" presto con il prossimo capitolo.
(Come sempre ricordo che se avete una qualche critica positiva, neutra o negativa da farmi, è sempre ben accetta).
Dimest.

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Capitolo 3
*** Il Rito di Pandora ***


Capitolo 3

 
Se mai ho creduto che sarei morta per mano di un demone, in breve tempo ho capito di sbagliarmi: sicuramente la serie di allenamenti preparati da Lucky mi ucciderà molto prima.
Ho dovuto pensarci su una notte intera prima di prendere la decisione di combattere. Può sembrare la scelta migliore, ma… lo sarà stata davvero?
“Affrontare il problema o scappare” è una scelta che dobbiamo fare tutti i giorni nella nostra vita, certe volte anche inconsapevolmente. Qui però non c’è in gioco una qualche stupida decisione ma la vita stessa e, nonostante morire fosse una cosa che desideravo da tempo, mi terrorizza.
Per questo motivo non è stato facile scegliere.
Ho dovuto fare qualche pro e contro per giungere ad una conclusione: morire combattendo o provare a vivere la mia vita aspettando che la sfortuna decida di sbarrarmi il cammino con un demone. Su questo punto l’esser preparati a fronteggiare l’avversario ha giocato un ruolo fondamentale.
Lucky si è da subito prodigato a prepararmi una serie di esercizi da fare: corsa, pesi, rinforzo muscolare e una dieta equilibrata, e poiché il centro possiede una palestra molto ben equipaggiata, mi alleno qui dove un istruttore mi segue passo dopo passo.
Ovviamente il mio percorso ha richiesto un rinvio fino al momento in cui il dottore non ha decretato che il mio corpo potesse sopportare la fatica: con mio sollievo ho scoperto che le costole che credevo essermi rotta, in realtà erano solo incrinate e, in meno di tre settimane, mi ero ristabilita quasi completamente. Più difficile fu spiegare a mia madre il perché dei lividi.
– Sono caduta sul selciato. – le snocciolai in fretta.
Lei rimase a fissarmi con preoccupazione mista a terrore, poi, dopo qualche giorno, vedendo che mi ristabilivo in fretta, prese a calmarsi. Qualcosa, dentro di lei, deve essersi messo in allarme perché continua tuttora a guardarmi con attenzione ogni volta che ne ha la possibilità; non è facile mantenere il segreto.
In aggiunta, tutti i giorni, devo presentarmi in sede ad un orario ben preciso, tuttavia, solo quando ho portato a termine i vari esercizi in programma, posso tornare a casa. Questo è stato motivo di litigio con i miei genitori in diverse occasioni.
– Non puoi perdere il ritmo proprio all’inizio del tuo percorso. – mi ha riferito l’istruttore soprannominato Lo spartano da tutto il personale della palestra; il motivo non è così difficile da intendere.
“Estenuante” è la parola che riassume perfettamente questo nuovo presente.
Il mio spazio personale è stato completamente distrutto nel giro di pochissimi giorni - due per essere precisi.
Con grande sorpresa, ho scoperto che anche Drew fa parte del gruppo di Iniziati che si allenano al centro. È qui da circa sei mesi, ma, piuttosto che cominciare a prepararsi per affrontare le missioni, preferisce continuare ad allenarsi con gli ultimi arrivati. Dice che non è ancora pronto ad affrontare un nuovo tipo di allenamento; forse la sua è solo paura, magari del cambiamento o di qualche altra cosa più spaventosa e grande di lui. E come gli si può dar torto?
Almeno il fatto di affrontare insieme la preparazione muscolare ci ha avvicinati: dopo un iniziale attrito, si è creata una bella intesa.
Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo e, pian piano, incomincio a sentirmi parte di questo mondo. In verità non ho ben compreso se il sentimento che mi esplode in corpo sia felicità o un’ansia tremenda. Per ora cerco solo di godermi la giornata così come si presenta, o almeno lo farò finché il futuro rimane un orizzonte incerto.
 
In mensa però il sentimento di ambientazione svanisce.
Nei tavoli si radunano persone di ogni genere: “ognuna con la propria triste storia” che l’ha portato inevitabilmente a far fronte a questo stile di vita. Vi è una varietà infinita di persone uguali ma differenti tra loro che convivono liberamente e, in qualche modo, in sintonia. Sarà forse per il comune destino o per lo stesso attaccamento alla vita che ci sentiamo così vicini l’uno all’altro.
Poi, dall’altra parte della stanza, quasi come se a dividerci ci fosse un muro di vetro, siedono i purosangue, in altre parole persone che vivono in questo mondo fin dalla nascita e che si sono riconosciuti il dovere di farci sentire in debito con loro.
Possiamo dire che la loro filosofia di accettazione si avvicina molto alla xenofobia che talvolta è presente in uno Stato; ovviamente la questione non coinvolge tutti i purosangue, ma una buona e gran parte di essi.
Negli spazi comuni condivisi con loro, non mancano le battutine e i nomignoli offensivi nei nostri confronti quali bastardelli o infetti. Fortunatamente sono pochi questi luoghi e si restringono principalmente alla mensa ed alla palestra attrezzata come arena. Bisogna ringraziare il progettista ed il fatto che abbia deciso di suddividere la struttura in base alla necessità dei differenti gruppi, altrimenti sarebbe stato molto più difficile riuscire ad accettare questo nuovo stile di vita.
Alcuni dicono che il loro modo di essere sia dato dall’influenza subita dai genitori o dal gruppo di cui fanno parte, altri invece pensano che il loro modo di essere sia dato solo da puro piacere personale.
Io opto in favore della seconda.
Tra i purosangue, spicca Eys: un ragazzo alto quasi un metro e ottanta, con una muscolatura definita e ben proporzionata; i capelli rossicci dal taglio moderno e i tatuaggi sugli avanbracci gli danno un’aria che si potrebbe definire “normale”. È, sotto molti aspetti, un bel ragazzo, ma il suo carattere strafottente rende impossibile condividere la stessa aria per più di una frazione di secondo. A rendere peggiore la sua figura, c’è l’egoismo di cui sembra essere composto per un buon 90% e, a completare il tutto, vi è una spietata sete di potere. È a capo di un gruppo che abbiamo soprannominato “Killers” a causa delle loro missioni suicide, ma, dietro la scelta del nome, è nascosta una duplice ragione: chi vi entra ha poche speranze di tornare indietro, mentre, chi riesce a sopravvivere, acquista una maggior potenza grazie al numero di demoni che uccide durante la liberazione - chiamata anche pulizia o annientamento - dei covi.
– Più un demone è forte, più potere acquisisce chi lo uccide. – mi ha detto un giorno Drew insieme alla raccomandazione di stare ben lontana da quella cerchia di persone.
Nonostante Eys veda gli Iniziati come mosche fastidiose, nelle missioni che organizza, non disdegna affatto la loro partecipazione.
A chiunque fa gola una simile opportunità: la sete di successo e la voglia di scommettere con la morte, o semplicemente di farla finita, spingono molti a desiderare di farne parte.
Comunque è sempre Eys a scegliere chi possiede i requisiti per far parte della sua squadra: lui seleziona accuratamente le proprie vittime, soprattutto quando si avvicina la data per un’importante missione. Qualche giorno prima fa una distinzione partendo dalle persone più disperate, di coloro a cui non importa nulla della loro vita e che possono essere facilmente sacrificabili, per poi usarle come pedine per avanzare e raggiungere il suo principale obiettivo. Durante l’attacco, non si schiera mai in prima linea se non quando si mostra un demone più forte degli altri. Anche per questo è una persona da evitare: questo mondo è già crudele di per sé senza che gli altri si mettano a giocare con la tua vita per i propri tornaconti.
Mi guardo intorno cercando un posto a sedere, ma evitando accuratamente di girarmi verso i purosangue aggruppati su due tavoli in fondo alla sala, troppo intenti a schiamazzare e gesticolare tra loro. Nel frattempo riesco ad individuare Drew che mi fa cenno di raggiungerlo; con lui vedo anche Giulia e Bill, anche loro Iniziati, un po’ come tutti quelli seduti ora nella mensa. Giulia si è unita a noi da qualche settimana: ha grandi occhi marroni e corti capelli di un biondo paglierino. Bill invece si è unito al gruppo da poco più di un mese: ha occhi neri cerchiati da profonde occhiaie che riprendono un po’ il colore dei suoi capelli; è un transgender che fa coppia fissa con Giulia. Da quando si sono incontrati, tra loro si è subito creata una forte complicità.
Se fossi più sincera con me stessa, ammetterei di invidiarli.
Lui cinge con un braccio la vita di lei, mentre parlano animatamente con Drew, la attrae a sé e le schiocca un bacio o due tra i capelli. Davanti a loro c’è solo il vassoio vuoto con piccole rimanenze di cibo. Probabilmente hanno già finito da qualche minuto di pranzare e di lasciare il posto per svolgere qualche compito affidatogli dal loro tutore, non hanno voglia.
Mi siedo al fianco di Drew cercando di inserirmi nella conversazione. Non è tanto difficile farlo: nessuno di noi può riferire ciò che accade al di fuori della struttura.
È stato Lucky ad avvertirmi di questa regola non scritta. Dice che serve a proiettarci verso questa nuova realtà, a legare meglio con quello che stiamo imparando a conoscere; come spiegazione, per il momento, me la faccio bastare.
Quando ho scelto di combattere, oltre a recidere i rapporti con la mia vecchia vita, ho deciso di gettare via anche il mio nome. È un modo per proteggere e separare il nostro passato dal nostro futuro, per dividerci da chi eravamo costretti ad essere e ciò che siamo realmente, ma credo vi sia una ragione più profonda alla base di tutto di cui Lucky non mi ha parlato – non so se per volere o dovere.
Luna è il nome che ho scelto per quest’inizio: è l’astro che mi guida e l’unico a cui rivolgo (o al cui rivolgevo) lo sguardo ogni notte da quando ne ho memoria. Con Giorgia perdevo ore a rimirare quella grande palla lattiginosa sospesa al centro della volta celeste, mentre noi, sedute sulla panchina o sull’erba fresca, parlavamo di ogni cosa. In un qualche sciocco modo penso che, così facendo, lo spirito della mia migliore amica possa proteggermi ed accompagnarmi.
Forse è anche per questo motivo che nessun altro nome potrà mai essergli comparato.
 

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Mi guardo allo specchio e noto solo le occhiaie violacee fare da contrasto con l’incarnato pallido del viso. Un’altra notte passata a leggere quante più informazioni possibili sul nuovo mondo che, da qualche mese, mi ha inglobato.
Durante uno dei giri di visita alla struttura insieme a Drew, sono incappata nella biblioteca della sede. Una grande, enorme, biblioteca.
Sviluppata su due piani, entrambi ricolmi di libri; conta una varietà molto ben fornita di scritti, con una sala lettura abbastanza ampia e ben illuminata. Se visto superficialmente, il piano inferiore assomiglia ad una normalissima biblioteca, mentre il piano superiore pare più un archivio per quanto è stipato di documenti e saggi ormai vecchi ed ingialliti.
Il primo giorno mi sono persa a rimirare i volumi antichi e i titoli più famigliari: ero assolutamente rapita da tutto ciò che i miei occhi vedevano, tanto che volevo rimanere lì per sempre.
Man mano che prendevo confidenza con quei tomi, mi accorsi della vera differenza che intercorreva tra i due piani: il primo contiene libri che puoi trovare in qualsiasi edicola o biblioteca del Paese, mentre al secondo piano sono custoditi saggi che riguardano esclusivamente i demoni e molte altre curiosità e ricerche su questo mondo.
Spinta dalla curiosità, la sera stessa, ne presi uno (ovviamente promettendo di nasconderlo alla vista dei miei parenti). In breve tempo divenni schiava di quelle informazioni che m’incatenavano al libro fino a notte tarda, purtroppo a discapito della mia salute fisica. Mia madre per questo motivo, e per il trascurarsi dello studio, mi rimproverò molto; così, per non farla insospettire, decisi di prelevare un libro ogni due settimane da leggere con calma mentre alternavo lo studio e gli allenamenti alla lettura. Tuttavia, come ogni buon lettore sa, quando uno scritto ti prende, non c’è modo di riuscire a staccarsene finché il sonno o gli impegni ti reclamano a sé.
Ed è proprio quello che mi è capitato in questo caso. Sfortunatamente non sono riuscita a riemergere dalla lettura fino a quando la sveglia non ha suonato; a soli due capitoli dalla fine, ho dovuto accantonare il libro ed iniziare a prepararmi per la scuola.
Faccio una boccaccia al mio riflesso e mi dirigo verso l’armadio con la cadenza di un morto vivente: scelgo una pesante felpa scura, dei jeans scoloriti e li indosso con la stessa voglia che solo un condannato a morte che si dirige al patibolo può avere. Poi volgo lo sguardo verso il titolo sulla copertina del piccolo volume senza vederlo realmente: i caratteri, scritti in un elegante corsivo dorato, recitano “Le quattro classi e il rito di Pandora”. Per quello che ho letto, il libro descrive dettagliatamente di come gli Iniziati scoprano la loro classe di appartenenza, di come possono imparare ad utilizzarla sul campo e gli effetti che questa ha; uno studio che riprende la storia delle tecniche dai tempi antichi fino ai giorni nostri.
Nascondo velocemente il volume tra le fodere dei cuscini ed esco da casa prima che mia madre si accorga del mio stato attuale.
Lucky non sarà felice di scoprire che non ho dormito questa notte.
Sapendo quel che mi aspetta nel pomeriggio, decido di marinare la scuola: passo dal forno e, con una fetta di gnocco tra le mani, mi avvio verso il parco, aspettando il momento più adatto per rincasare senza destare sospetti.
Anche se da sola, di giorno mi sento più tranquilla: i demoni escono allo scoperto soprattutto di notte quando possono assumere una vera forma per cibarsi di piccoli animali restando, però, nascosti nelle tenebre, mentre di giorno possono muoversi solo se attaccati allo stato emotivo di una persona o di un animale. Può sembrare che durante le ore diurne siano più pericolosi, ma non avendo un vero corpo possono intaccare solo lo stato fisico dell’ignaro ospite, sensibilizzando il loro stato immunitario e acuendo i pensieri tristi, nulla di più. Piuttosto, è nelle ore notturne che sono temibili: possono prendere possesso del corpo di qualcuno e renderlo succube della loro maligna influenza, portando l’ospite o alla morte o alla pazzia. Tra le loro vittime più comuni, ci sono i Marchiati, in altre parole ragazzi che sono stati morsi o feriti da un demone e che, infettati dal loro veleno, hanno la possibilità di entrare a far parte di un mondo - fino a quel momento - sconosciuto.
È raro, tuttavia, che la vittima sia attaccata senza che prima sia stata morsa da un demone Marcatore, ed è ancora più raro che la medesima persona sopravviva. Io rientro a far parte di questi rarissimi casi, ma non per questo i miei allenamenti sono diversi dagli altri.
Lucky dice che i primi sono mesi di adattamento e non importa come la persona sia arrivata fino a qui. Il corpo deve abituarsi a un nuovo stile di vita che comprende soprattutto la sopravvivenza tramite il combattimento; nessuno è escluso o può saltare questo trattamento.
Mi adagio sulla prima panchina un po’ isolata che trovo: il cielo è limpido con poche nuvole all’orizzonte, l’erba germoglia qui e là sul prato sporco di fanghiglia e, sugli alberi, comincia a spuntare qualche fiore; siamo alla fine dell’inverno ormai, ma io, calato il cappuccio della felpa sul viso, non ho ancora superato il dolore che m’impedisce di guardare in alto verso il cielo azzurro.
 
Quattro ore di sonno non recuperano un’intera nottata passata a leggere, una mancanza vista nel rendimento fisico e, a causa di ciò, Lucky mi ha severamente rimproverato.
– Il tuo corpo è ancora in fase di sviluppo e non puoi permetterti di passare una nottata insonne. – mi ha detto prima di cominciare l’allenamento.
Nonostante il fastidio dovuto alla paternale, già sentita e risentita troppe volte durante questa breve vita, ho portato a termine l’allenamento. Non è stato facile però: una parte di me voleva andarsene dalla stanza sbattendo la porta con rabbia, e di certo non ha aiutato la presenza di Magic che, ridendosela, continuava a ripetere canticchiando le parole di Lucky, l’altra parte, quella che ho imparato a coltivare in questi mesi e che è diventata parte integrante di me, ha preferito rimanere e scaricare l’irritazione negli esercizi.
Un’oretta e mezzo dopo, sono sdraiata sul materassino, intenta a riprendere fiato.
Osservo con la coda dell’occhio Lucky avvicinarsi e temo voglia sgridarmi ancora. Sul volto gli leggo una profonda serietà. Qualsiasi cosa sia, è molto importante.
– Ottimo lavoro. – dice mentre si appoggia con la schiena al muro.
Scatto a sedere e lo guardo sbalordita: tutto mi sarei aspettata, ma, di certo, non un complimento. Magic sogghigna, scherza sull’espressione buffa che ho stampata in viso e, per cercare di farlo smettere, gli sbuffo contro.
– Sembri un toro. – sghignazza, poi si nasconde alle mie spalle, lontano dalla vista di tutti.
– Stupido demone. – penso.
Riporto tutta l’attenzione su Lucky che, invece, ha lo sguardo fisso su alcuni ragazzi intenti a svolgere una serie di esercizi di parkour. Può sembrare un allenamento stupido a prima vista, soprattutto per chi è abituato a frequentare palestre attrezzate con macchinari e con corsi di aerobica, ma vi assicuro che non lo è; salto, coordinazione, previsione e calcolo sono elementi fondamentali in questo mondo. Non sempre gli avversari si nascondono in distese d’erba pianeggiante, talvolta i covi o le segnalazioni di gruppi di demoni arrivano da edifici in disuso, quartieri malfamati, cantieri o in qualche centro città. Il parkour ci insegna a prendere confidenza con atterraggi bruschi su qualsiasi tipo di superficie, a calcolare la traiettoria di un salto e scegliere velocemente quale tipo eseguire (secondo quale tra i molti è più efficace e ti permette di raggiungere l’obiettivo in meno mosse) e, non meno importante, prevedere cosa si deve affrontare una volta fatta una mossa in base a ciò che ti circonda. Ad esempio: se bisogna affrontare un demone in un parco pubblico, è possibile che ci si ritrovi a dover eseguire un certo tipo di mosse per aggirare una costruzione per bambini. La scelta più logica sarebbe, appunto, aggirarla, tentando di non andarci a sbattere contro durante il combattimento, ma la scelta migliore è muoversi attraverso la stessa costruzione sfruttando uno scivolo, un’altalena o un’asta metallica a proprio vantaggio.
Ogni cosa può fare la differenza tra la vita o la morte, niente deve essere lasciato al caso.
– Domani ti aspetto alle diciassette precise nell’atrio principale. Ti porterò dal Direttore generale. – rivela l’uomo dopo qualche minuto d’attesa.
Lo fisso come se mi avesse appena rivelato di aver ucciso una persona.
Da quando sono arrivata qua, non ho incontrato il Direttore nemmeno una volta. Quest’appuntamento mi terrorizza: mi chiedo cosa ho fatto di male, il motivo per cui Lucky ritiene che debba presenziare di fronte un uomo così importante e, ogni risposta che il mio cervello in preda al panico sembra trovare è il vuoto totale; un’infinità di azioni avrebbero potuto portarmi dove sono ora e nessuna pare peggiore rispetto ad un’altra.
Lucky mi appoggia una mano sulla spalla, mi dice di stare tranquilla e che è solo un incontro formale, ma dentro di sono già persa in un guazzabuglio di sentimenti contrastanti e il poco che registro nella testa lo dimentico la sera stessa.
Questa volta, a tenermi sveglia è l’ansia.
 
Mi presento nell’atrio principale con mezzora di anticipo. A casa non riuscivo a concentrarmi sullo studio e al centro di allenamento sbagliavo sempre gli esercizi. Lo Spartano mi ha urlato contro tutto il tempo prima di decretare che era meglio rivedersi l’indomani.
Sotto l’acqua bollente ho tentato di lavare via qualsiasi pensiero, ma come potevo calmarmi quando nemmeno io sapevo su cosa dovessi farlo?
Ho parlato anche con Drew e quello che ne ho riscavato è stato… zero. Tentando di riprendere fiato dopo aver eseguito una serie di mosse, mi ha dato lo stesso avviso di Lucky: tranquillità.
Avrei voluto prenderlo a pugni.
Gli ho chiesto come si presenta il Direttore, il suo aspetto, che persona è, ma anche qui Drew è stato di pochissime parole: con un “non saprei dire” e un “è difficile trovare una parola per descriverlo”, mi ha liquidato.
Cattivo segno.
Mi siedo su una delle panchine vicino al muro. Guardo l’orologio posto sopra l’ascensore, il quadrante nero con i numeri digitali di un bianco brillante spicca sull’intonaco bianco,  e vedo che mancano ancora più di venti minuti.
Mi alzo, giro un po’ per il piano nel tentativo sia di scaricare la tensione sia di far passare il tempo.
Adesso solo venti minuti.
Mi siedo. Accendo il telefono e apro qualche applicazione. Controllo i messaggi, scorro la home di facebook, passo a Youtube…
… Dieci minuti e trenta secondi.
Non ho mai odiato l’orologio come adesso. Se avessi avuto qualche informazione in più, probabilmente non sarei così agitata.
– È inutile che continui a controllare l’ora. Finché non compare Lucky, continuerai ad essere in anticipo. – m’informa Magic seguendomi in un’altra passeggiata in giro per l’atrio.
Tento di ignorarlo mentre cammino avanti e indietro davanti la porta metallica dell’ascensore, aspettando che il mio tutore possa uscirne da un momento all’altro.
Otto minuti.
– Puoi guardare quel quadrante quanto vuoi. I tuoi begli occhioni non faranno girare quelle lancette più velocemente. –
Sbuffo e cerco di pensare ad altro. Faccio un altro giro.
Cinque minuti.
– Te l’avevo detto. – canticchia vicino al mio orecchio.
– Vuoi farla la finita? – gli urlo contro.
– Farla la finita per cosa esattamente? – domanda una voce a qualche metro da me.
Squittisco, voltandomi colta di sorpresa. In piedi vicino all’ascensore sta Lucky che mi guarda con un cipiglio confuso stampato in viso.
Balbetto un niente e mi affretto a raggiungerlo.
Lucky indossa un pantalone nero abbastanza morbido da permettergli di compiere qualsiasi movimento con facilità, la T-shirt bianca gli fascia i muscoli delle braccia e dei pettorali, al polso indossa un orologio moderno dal cinturino nero. Il tutto è corredato dai soliti anfibi neri lucidati perfettamente.
– La tenuta di un combattente: elegante e comoda. – penso con una nota di amarezza.
Non posso fare a meno di fare un paragone col mio abbigliamento povero: una maglietta rossa con una scritta stupida semi-nascosta da una felpa grigia, dei pantaloni di una tuta scura seguiti da delle banalissime scarpe da ginnastica bianche; in questo momento impersono il classico esempio di ragazza che non si cura del proprio aspetto.
Se prima ero in ansia per via dell’incontro, adesso, oltre al concentrato di emozioni, mi sento anche inadeguata. Vorrei poter correre a casa a cambiarmi.
– Vieni. – mi esorta l’uomo mentre preme il pulsante dell’ascensore.
Con quel gesto, riesco ad intravedere un dettaglio molto particolare del mio tutore che finora non avevo mai notato: nell’interno del polso, sono tatuate due L quasi sovrapposte tra loro e incorniciate da quello che mi pare essere un triangolo. Quando entriamo nell’abitacolo, scorgo un altro tatuaggio all’interno del polso sinistro. Questa volta è una data con sotto un nome.
Lucky sembra percepire il mio sguardo su di sé perché mi chiede se li ho visti.
– In uno è scritto il mio nome o, per meglio dire, il nome che ho scelto quando sono entrato qui, posto all’interno di un triangolo equilatero a significare la vista che ho acquisito quando sono stato marchiato. L’altro… – prende un grosso respiro, guarda in basso e poi in alto verso il quadrante in cui è segnato il numero del piano corrente. Negli occhi scuri gli leggo una profonda tristezza, non posso fare a meno di chiedermi il motivo – l’altro è il nome del mio tutore. Nicky. Era un grande uomo, forse ti sarebbe piaciuto. Purtroppo è morto molto tempo prima che tu arrivassi. La data indica il giorno in cui è scomparso. –
Rimaniamo in silenzio finché le porte non si aprono sul quarto piano. Anche volendo, non avrei mai potuto trovare le parole giuste per continuare la conversazione.
Un pavimento liscio di marmo scandisce i nostri passi. Statue e fotografie moderne s’intervallano a dipinti con pennellate decise; le opere sono appese per tutto il corridoio.
A fianco della vetrata, dietro una grande scrivania circolare, siede una segretaria troppo intenta a pigiare i tasti del computer per alzare lo sguardo nella nostra direzione.
– Abbiamo un appuntamento con il Direttore. – esordisce Lucky.
Lei, senza sollevare gli occhi dallo schermo, ci chiede di attendere qualche minuto.
Il mio tutore, probabilmente abituato a questo tipo di formalità, si avvicina alla finestra ed ispeziona il panorama fuori. Io mi perdo ad osservare l’interno.
Il biancore dello spazio è spezzato dai colori dell’arredo e dalla capigliatura viola della segretaria. Deve avere circa una trentina d’anni: i segni del tempo non le hanno ancora intaccato il viso lungo, ma la stanchezza dovuta alla continua vicinanza al computer e alle ore di lavoro, è ben visibile sotto gli occhi scuri vivacizzati da un trucco leggero. Porta un paio di occhiali rotondi che toglie non appena si ferma a parlare per qualche istante con Lucky dopo averci informati di poter entrare.
Ecco, il momento è finalmente giunto.
Sento l’ansia vibrare nelle vene e nemmeno l’inspirare profondamente aiuta ad alleggerire la tensione.
Le porte a vetri opachi si aprono, ma tutto quello a cui riesco a pensare è il motivetto di Star Wars.
Stupido cervello che partorisce idee ancora più sceme nei momenti meno appropriati.
Scuoto la testa nel tentativo di allontanare tale pensiero, addossando la colpa alla mancanza di sonno e all’impellente bisogno di smorzare l‘atmosfera; in altre circostanze, mi sarei sicuramente presa a sberle. Forti magari, così da non correre il rischio di averle accantonate in un qualche angolino della testa.
Lo studio che ci accoglie ha un aspetto straordinariamente ordinario rispetto all’immagine che mi ero fatta di esso; se togliamo le vetrate sulle due pareti e i quadri simili a quelli in corridoio sul muro alla mia destra, solo qualche oggetto etnico dà un’identità alla stanza. Purtroppo non riesco a vedere altri dettagli, tutta la mia attenzione è per la scrivania ricolma di documenti e per l’uomo di là di quella.
– Benvenuti. – ci accoglie il Direttore sfoggiando un caloroso sorriso e alzandosi in piedi per riceverci.
I capelli brizzolati, tirati indietro sulle parti, gli conferiscono un’aria giovanile anziché di autorevolezza; gli occhi di un verde brillante son messi in risalto dalla carnagione olivastra, mentre il viso è segnato da una cicatrice che parte dal sopracciglio e si ferma sullo zigomo. Non supererà il metro e ottanta d’altezza, eppure il modo in cui si pone - da vero soldato mi viene subito da pensare - lo fa sembrare più alto. Una catenina d’argento scompare dietro il colletto della camicia bianca arrotolata fino ai gomiti.
Mi porge la mano ed io la stringo con timore, sperando che la mia non sia sudata.
– Piacere, Luna. – mi presento meccanicamente.
– Benvenuta. –
– Siamo qui oggi per avere il permesso di procedere con il rito di Pandora. – enuncia Lucky, impassibile anche al mio sguardo sconvolto.
Il Direttore si appoggia contro lo schienale della poltrona e tira un gran sospiro.
– È già arrivato quel periodo, eh? – sussurra.
È una domanda che rivolge più a se stesso che a noi.
Sono confusa: da come il libro ne parlava, sembrava un momento di gioia da condividere con tutti perché il rito è in grado di dare un’identità al combattente. Conoscendo la classe a cui appartiene, l’Iniziato comincia ad allenarsi secondo l’elemento che lo contraddistingue.
Allora perché il Direttore ha un’espressione malinconica stampata in viso?
Poi, con la coda dell’occhio, vedo Lucky irrigidirsi un poco.
Ok, ora sono decisamente spaventata.
– Da quanto sei con noi? – mi chiede l’uomo seduto di fronte a mesi passa una mano tra i capelli.
– Tre mesi, signore. – gli rispondo imbarazzata.
– Due mesi in verità. – rimbecca Lucky.
– Non è vero sono tre. Ho accettato di unirmi a voi a Dicembre. –
– Questo è vero, ma sei rimasta ferma per un mese circa a causa delle ferite che hai riportato. Hai cominciato ad allenarti in sede da due mesi, quindi è giusto affermare che sei entrata qui da tre mesi, ma sei effettivamente con noi da due. – spiega il mio tutore.
Mi stringo nelle spalle cercando di farmi più piccola.
– È pronta? – chiede l’uomo di fronte scambiandosi un’occhiata seria con Lucky.
– Sì, signore. – gli risponde prontamente l’ultimo.
Entrambi tengono un tono di voce basso, grave perfino, e passa qualche secondo prima che il Direttore, sospirando pesantemente, pronunci: – Ebbene, benvenuta tra noi, Luna. –
Non so per quale motivo, dentro di me, sento che questo “benvenuta” abbia un significato ben diverso da quello che ha usato alcuni minuti fa.
 

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Guardo la porta davanti a me senza vederla davvero.
Il cuore mi batte forte per l’emozione, ingoio boccate d’aria cercando di calmarmi, ma è impossibile farlo in circostanze simili.
Finalmente è arrivato il giorno del rito, ossia il momento in cui conoscerò la mia classe di appartenenza.
È passata una settimana dall’incontro con il Direttore e ancora non so bene cosa sia successo e, più cerco di dare un logica a quegli attimi, più quest’ultimi paiono nascondersi dietro una coltre di nebbia - dovuta specialmente alla poca lucidità di quegli attimi.
Con Lucky non ho parlato molto in questi giorni. C’erano molte domande che volevo porgli dopo il colloquio, ma non ho trovato mai il momento giusto per farlo. Dopo quel breve scambio di parole, ero troppo furiosa e confusa per chiedere qualsiasi cosa: dalla bocca uscivano solo risposte a monosillabi, qualunque altra frase di senso compiuto fu espressa tramite sbuffi e versi gutturali. I giorni successivi, invece, sono stata assorbita dal vortice di allenamenti che Lo Spartano sentiva la necessità di farmi recuperare.
– Ti sei allenata male e con incostanza. – ha detto come per giustificare la fatica degli esercizi.
Così il tempo è volato e, prima che avessi la possibilità di accorgermene, eccoci all’evento fatidico.
Lucky mi ha accompagnato dall’atrio fino al piano interrato. Il corridoio stretto e freddo incuteva timore, ma la curiosità che mi esplodeva in corpo, distorceva il campo visivo: non vedevo nulla tranne la passeggiata interminabile davanti a me. Arrivati, la prima cosa che mi ha colpita è stato l’architrave in pietra sul cui sono incisi caratteri latini che Lucky mi ha prontamente tradotto: “la conoscenza al di là di questa porta, ti guiderà attraverso il tuo cammino”. Poi l’uomo mi ha lasciato sola, consigliandomi di entrare solo quando fossi stata pronta. Odio quando il mio tutore termina con frasi simili (ad effetto come direbbe qualcuno) per lasciarmi nel caos totale.
Al momento mi trovo nella stessa situazione di uno studente quando riceve il voto di un esame: da una parte c’è la curiosità di conoscere la risposta, dall’altra l’ansia che ti ferma l’istante prima di vedere se il punteggio è positivo o negativo.
– Allora, vuoi entrare oppure no? – domanda Magic.
Nonostante i suoi commenti puntigliosi, la sua vicinanza mi rilassa. Non glielo confesserei mai, questo è ovvio.
Prendo un grosso respiro, appoggio la mano sulla maniglia ed entro nella stanza.
Ci vogliono pochi secondi per abituare gli occhi alla luce soffusa all’interno, completamente differente da quella artificiale che mi ha accompagnata per tutto il tragitto.
L’ambiente è in realtà un piccolo giardino interno circondato dal muro della sede; erba di un verde brillante si estende per un paio di metri davanti a me; alla mia destra le lunghe fronde di un salice accarezzano la terra mentre un piccolo cerchio di pietre compare alla vista pian piano che avanzo per raggiungere l’esaminatore il cui, con una maschera bianca a coprirne il volto e una pesante tunica nera a nascondere il corpo, mi aspetta con aria solenne. Se il suo è un abbigliamento realizzato con il fine di intimorire la gente, è sicuramente riuscito nell’intento.
Sollevo lo sguardo, qualche metro più in alto vedo comparire il viso di Lucky assieme a quello di Athena, entrambi in piedi che mi osservano con interesse: Athena mi sorride, tentando di incoraggiarmi, Lucky, invece, è concentrato sui miei movimenti. Sembra preoccupato, ma in merito a cosa non saprei dire.
– Adesso assisteremo a qualche magia o magari un bel sacrificio. Immagina come sarebbe divertente se scoprissimo che il tributo fossi tu. – a quelle parole un brivido mi passa attraverso la spina dorsale.
Ritiro ciò che ho detto di buono su Magic: nella mia testa immagino di inscatolarlo e gettarlo in qualche angolo lontano, sarebbe fantastico se fosse dall’altra parte del pianeta.
– Chiudi gli occhi e pensa a te stessa, alle cose che ti piacciono e che ti fanno arrabbiare, alla tua vita partendo dalla tua infanzia. – enuncia l’esaminatore allargando di poco le braccia.
– Sembra un corvo che sta per spiccare il volo. – osservo un attimo prima di assecondare i suoi ordini.
Piano, vengo avvolta dall’oscurità della mia mente, tuttavia solo nel momento in cui riesco a rilassarmi, provo a scavare dentro di me. Immagini del mio passato si riversano davanti a me senza che abbia la possibilità di fermarle: come in un caleidoscopio, mi rivedo bambina giocare sul prato con le amichette, gli errori sciocchi commessi negli anni e quanto sia stato facile, a quel tempo, essere felice.
Effettivamente da piccola era tutto più semplice: quegli occhioni sognanti non si soffermavano sui dettagli, ammiravano la complessità del mondo senza afferrarne le sfumature cupe che, successivamente, cominciai a notare.
I peli sulle braccia si raddrizzano nel percepire l’aria fredda cominciare a soffiare nell’ambiente, ma persevero nell’intento di trovare un’identità di me stessa. È un arduo compito, ma grazie alla brezza, ora mi sento più leggera ed anche i pensieri sembrano riversarsi con naturalità dietro le palpebre.
Penso a quanto ami andare in bicicletta, alla sensazione del vento tra i capelli e quanto mi rilassi stare immersa nell’acqua.
Rimugino sulla magia dell’autunno, al camminare sotto gli alberi mentre cadono le foglie.
Ed ecco arrivare l’azzurro del cielo e rimugino sul quanto fosse meraviglioso fino a qualche tempo fa.
Improvvisamente le immagini si fanno nebbiose. Sento la voglia di reagire - fino a quel momento repressa in fondo all’anima - tentare di fuoriuscire da quell’incubo e, quasi come fosse una punizione, insieme a quel ricordo, il fantasma di Giorgia mi assale: rivedo l’autobus che la trascina sotto le ruote e la mia voce spezza l’illusione.
Riapro gli occhi di scatto, appena in tempo per vedere il vortice scuro che mi vortica attorno prima che questo si dissolva in una coltre di polvere. Davanti a me galleggia una sfera azzurrognola spaccata a metà. I bordi frastagliati si espandono fino a dissolvere tutta la superficie.
Ho il fiato corto e sento le lacrime pungere al lato degli occhi. Dinanzi a me c’è l’esaminatore, le spalle contro il muro e lo sguardo atterrito che s’intravede dalle fessure della maschera.
Guardo in alto, spaventata. Incrocio lo sguardo stupefatto di Athena e gli occhi scuri e seri di Lucky. Ha la solita espressione distaccata, eppure, dopo aver trascorso del tempo con lui, riesco a scorgere i sentimenti attraverso quegli stessi occhi. Li osservo e rabbrividisco: dietro quel vetro stoico, c’è preoccupazione profonda che a tratti pare quasi terrorizzata.
Scoppio a piangere senza nemmeno rendermene conto.


 


N.A:
Salve a tutti.
Avrei tanto voluto postare questo capitolo qualche giorno prima di partire per le vacanze, ma gli impegni non me l'hanno permesso.
Al mio ritorno ho deciso di aggiungere qualche evento in più e, prima che me ne accorgessi, eccoci arrivati alla fine di Agosto.
Ma, bando alla ciance, ringrazio infinitamente tutti coloro che hanno letto e sono arrivati fino a qui e, un grazie speciale va a chi spenderà qualche minuto per lasciare un commento a riguardo. Come sempre ci terrei a sapere se qualche cosa non va all'interno del testo, così da poterlo correggere il prima possibile.
A presto (spero) ~

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