Perfetti Sconosciuti

di Hi Asija
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Who Knew? ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Her World ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - His World ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Foxes ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - Alyssa White ***



Capitolo 1
*** Prologo - Who Knew? ***


~~Me ne sto seduta sulla fredda panchina ad aspettare l'autobus, un ammasso blu mezzo distrutto che non arriva mai in orario ed è sempre troppo pieno di neri per potersi permettere un posto a sedere.
Sono arrivata in anticipo, quindi so già che passerò molto tempo ad aspettare.
Eppure, sorrido.
Un anno fa non mi sarei immaginata qui, con i capelli di un colore normale, finalmente. Con addosso vestiti normali e colorati, ma soprattutto, senza borchie.
Un anno fa, semplicemente, non riuscivo a immaginarmi felice.
Ero una ragazza estremamente chiusa; avevo difficoltà nel relazionarmi con gli altri, anzi, non ci parlavo proprio, perché ero convinta che qualunque cosa avessi detto sarebbe risultata stupida o inadeguata al contesto. Preferivo essere ignorata.
Serrare le labbra e guardare a terra.
La scuola, perciò, era un vero inferno per me. Odiavo andare alla lavagna, sentivo il peso di tutti gli sguardi dei miei compagni addosso a me, pronti per vedermi fallire, ancora. Ecco, ero terrorizzata all'idea di sbagliare.
Sapevo che non sarei mai stata in grado di rimediare ai miei errori. Ero troppo debole.
I miei capelli erano abbastanza lunghi e perennemente tinti di rosso, in modo tale da attirare l'attenzione lì, e coprire i miei occhi neri, come le mie felpe.
All'epoca prendevo l'autobus che si fermava in tutte le attrazioni di Detroit e dell’8 Mile, e c'era sempre un gruppo di ragazze nere che appena passavo iniziavano a ridermi dietro, a indicarmi e affibbiarmi terribili soprannomi. Sapevano trovare un difetto in tutto ciò che facevo, dal modo in cui camminavo al mio tono di voce. Mi facevano sentire così sbagliata.
Iniziai a vedermi come loro mi vedevano, senza pregi, con un carattere insopportabile, un fisico che era meglio nascondere sotto abiti di due taglie più grandi e un'autostima inesistente. Detestavo essere me, volevo cambiare... ma non ne avevo idea di come fare.

Il mio umore iniziava a essere sempre più instabile; qualche volte ero così arrabbiata da trattare male chiunque, altre volte così triste che temevo di sprofondare nelle mie stesse lacrime...
C'era un locale gotico, sempre aperto, ed io ogni mattina ci passavo davanti, perché era nel mio tragitto fermata-scuola. Ogni sera, qualcuno si esibiva.
Quanto ho odiato quel posto. Era sempre pieno di persone e ragazzi che uscivano con un contratto, ed io non potevo fare altro che odiarli, e odiarli, perché sapevo che nessuno avrebbe mai apprezzato la mia voce.
Perciò acceleravo sempre il passo, i miei occhi fissi sul cemento screpolato del marciapiede, la musica a tutto volume nelle mie orecchie.
Ascoltavo rock, ma in particolare ero affascinata dal metal. Avevo modelli come Amy Lee, Jonathan Davis, Kurt Cobain, Chris Cornell, Corey Taylor. Suonavo anche il basso. Era l'unica cosa che amavo.
Avevo deciso; volevo tagliare tutti fuori dal mio piccolo mondo.
Sapevo che se non mi sarei affezionata a nessuno, non avrei sofferto... eppure stavo già malissimo.
Poi un giorno, mia madre cominciò ad avere problemi con il lavoro, fino a quando non la licenziarono. Decisi di prendere coraggio e iscrivermi all'esibizione del sabato sera.
Avevo una band, ma non avevamo mai fatto nulla, figuriamoci esibirsi davanti a delle persone.
Avevo paura, paura di sbagliare. Io e i miei gusti, eravamo una x in un quartiere di y.
Ricordo ancora perfettamente quel giorno; era un’afosa nottata di giugno, c’eravamo appena esibiti. Nessuno aveva applaudito, tutto era andato male, e anche quella volta avevo sbagliato.
Stavo scappando da quel posto, senza preoccuparmi di nulla. Avevo con me il mio basso.
I miei capelli erano completamente sulla mia faccia ed ero immersa nei miei pensieri, ecco perché non mi accorsi che davanti c'era qualcuno, fermo, che mi fissava. Gli andai a sbattere contro.
Due grandi mani mi afferrarono per le spalle, impedendomi di cadere.  D'istinto, cercai di divincolarmi, ma non ci riuscì. I miei capelli rossi furono fermati dietro un orecchio e una voce roca mi domandò se stessi bene. Abituati a quella luminosità, i miei occhi misero a fuoco un ragazzo dai vestiti troppo larghi, gli occhi azzurri e un sorriso gentile. Aveva un incarnato chiaro e uno sguardo misterioso. Ed io lo conoscevo, era il mio vicino di casa. E lo odiavo veramente tanto.

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Capitolo 2
*** Capitolo I - Her World ***


~~Perfetti Sconosciuti.

«Quando i silenzi si mettevano tra noi
E ognuno andava per i fatti suoi
Come perfetti sconosciuti.
Doveva andare tutto così
Anche se adesso ci troviamo qui
Sulla stessa strada, dopo una vita già spesa
Io sono stata sempre qui
A innamorarmi ogni giorno di più
Di questa vita vera
Che ci ricorda ancora
Che quando si ama non si perde mai
No, non si perde mai.»

•••

Detroit, novembre 2000.
L'amore non è fatto per quelle come Diana, che credono in tutto quello che viene detto e s'illudono con poco.
Quelle che amano un'altra persona più di loro stesse e darebbero qualsiasi cosa pur di vedere quella persona felice.
Quelle che hanno la paura di rimanere da sole anche in una stanza affollata, piena di persone che ridono e scherzano.
Quelle che sanno apprezzare i difetti degli altri, perché si sa che i difetti son quelli che rendono unico qualcuno.
Quelle che sono stanche. Stanche di lottare per qualcuno, che non arriverà e non si accorgerà minimamente della loro presenza.
Quelle vuote, che non riescono a provare più nulla se non rabbia, gelosia e tristezza.
Diana era così, si reputava inferiore alle altre persone, alle altre ragazze, a chi la circondava.
Diana Robinson, diciassette anni, classe '83, una delle tante e anonime bianche della caotica e malfamata Big D. Niente di speciale, bisogna ammetterlo: gambe corte e formose, segno che non è mai stata – e mai sarà – magra e alta come le sue compagne di classe che hanno rapporti orali a pagamento; una folta chioma di capelli abbastanza lunghi e tinti di un rosso acceso, delle guance rosee e degli occhi normali, castani, anonimi.
Non era mai stata un genio a scuola, ma era una grande appassionata di letteratura e di lingue; al secondo anno di liceo aveva già una notevole padronanza del russo e dell'italiano. Adorava immergersi nella grammatica delle lingue più complicate e dure. A volte immergeva la mente in lunghi e complessi libri in lingua originale e li leggeva come se fosse inglese: sciolta, pura e appassionata. La matematica non le era mai andata a genio. Le sufficienze nei primi tre anni di liceo, in quella disciplina, erano state relativamente poche, la maggior parte guadagnate in seguito a scopiazzate e ad aiuti del professore che aveva una cotta per sua madre, Faith Robison Jones.
Faith Robinson Jones, trentaquattro anni, classe '66. Una donna che aveva sempre avuto il massimo dalla vita, sempre: droga, sesso, soldi e donne. Lesbica dichiarata sin dalle scuole medie, era stata molestata a sedici anni da un compagno di scuola che non la accettava per la sua sessualità, da lì era nata Diana. Un errore? Può darsi, lei se lo ripeteva sempre, ma sua madre credeva il contrario. Faith Jones era una donna assurda, spettacolare. Dei corti capelli castani e ricci che le cadevano appena sulle spalle, un fisico notevolmente magro e uno sguardo penetrante. Era solita frequentare una donna diversa ogni fine settimana, e Diana lo sapeva bene, aveva bisogno di una donna stabile. Per del tempo la ebbe, Penny Diver, una prostituita bionda che fu portata via troppo presto dall'ecstasy, ma che aveva lasciato alla famiglia Robinson una bimba di sette anni.
Mariah López Robinson, figlia di Penny e un uomo che per svariati anni le era stato un fedele cliente. Aveva tre anni in più di Diana, ed era entrata a far parte della sua vita quando quest'ultima ne aveva solo quattro. Mariah aveva sempre voluto essere la migliore, sin da bambina. Non aveva nessun vero legame di parentela con Faith, eppure, prestava più attenzione a lei che a Diana.
Dopotutto, era Mariah la bambina che a soli undici anni era ai campionati regionali di un concorso di bellezza importante. Era da sempre stata una biondina dagli occhi chiari, che durante l'adolescenza era sbocciata in una quasi quinta di seno e in un fondoschiena che faceva capogiro. Anche Diana aveva le sue belle forme, una quinta di seno che però andava dietro al suo peso, e non a un dono che il Lord le aveva fatto. Fortunatamente, Mariah aveva levato le tende a diciassette anni.
Erano così differenti:
A Mariah piaceva sfilare,
A Diana piaceva scrivere.

La potevi trovare alle quattro del mattino sulla sua scrivania a scrivere, scrivere di una vita che lei non aveva mai avuto e che avrebbe voluto avere: una famiglia normale, un dono dal cielo in matematica, una vera sorella, un fidanzato, una fidanzata.
Sin da quando era una bimba, Diana aveva avuto grandi dubbi sulla sua sessualità. Durante il periodo delle medie era in una grandissima fase ormonale che scattava alla sola vista di tette e culi. Presa dalla foga del momento aveva anche frequentato uno psicologo, che, dopo aver ascoltato i suoi dubbi e le sue perplessità, la aveva caratterizzata come pansessuale. Amava chiunque, le bastava ricevere affetto.
La sua casa, se così si può definire, era una casa mobile nel trailer park della 8 Mile, numero civico, inesistente. La si poteva notare grazie alla presenza di numerosi adesivi provocatori di donne nude attaccati alle pareti esterne ed interne. Nonostante i due elementi che vi vivevano, la casa era sempre immersa in un silenzio religioso, gli unici suoni si potevano sentire solamente la notte: un basso e degli orgasmi. Un'altra passione di Diana era quello strumento che lei definiva "chitarra a quattro corde": lo adorava perché il suo idolo era Twiggy Ramirez, il bassista della sua band preferita: i Marilyn Manson.
Al contrario, la casa del suo vicino di casa era tutt'altro che tranquilla. Dalla mattina alla sera si sentivano urli, pianti, insulti e musica hip hop, cosa che Diana odiava.
Quella era la casa di Marshall Mathers.

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Capitolo 3
*** Capitolo II - His World ***


~~L'amore non è fatto per quelli come Marshall, che mollano subito perché sono stati distrutti una volta.

Quelli che amano un'altra persona a tratti, senza capire mai ciò che realmente vogliono.

Quelli che hanno la paura di rimanere delusi in tutte le fottute occasioni.

Quelli che cercano di distinguersi, ma alla fine non ci riescono perché hanno paura.

Quelli che sono stanchi di provare a cogliere un'occasione che probabilmente non arriverà mai.

Quelli pieni di rabbia, gelosia e tristezza.

Marshall era così, si reputava inferiore alle altre persone, ai neri, a chi lo circondava.

Marshall Mathers, ventisette anni, classe '73, uno dei tanti ed anonimi rapper esordienti bianchi della caotica e malfamata Big D. Un bel ragazzo: alto, muscoloso e con uno sguardo perennemente incazzato. Aveva dei corti capelli tinti di biondo, una carnagione chiara e dei bellissimi occhi blu. Tutti lo soprannominavano Rabbit, perché "era veloce e scopava un sacco".

Non era mai stato un genio a scuola, infatti la lasciò a sedici anni, ma era un grande appassionato di musica hip hop e di freestyle. Si perdeva tra milioni di possibili rime e frasi. A volte immergeva la mente in lunghi e complessi testi: quando faceva freestyle era sciolto, puro e appassionato. Questa sua passione non aveva mai portato un buon profitto, fino al '97 quando pubblicò il suo primo album prodotto dal grande Dr. Dre. Alla faccia di sua madre.

Debbie Mathers, una donna che aveva sempre avuto poco nella vita. Droga, la sua unica amica.
Il padre di Marshall non era ma stato presente nella sua vita, e probabilmente era stato meglio così.

Debbie Mathers era una donna anonima. Dei lunghi capelli biondi e mossi erano la sua caratteristica. Era solita frequentare il Bingo, dove spesso trovava uomini più giovani di lei che le garantivano una vita sessuale attiva.

Il migliore amico di Marahall era Chris, un cocainomane che lo seguiva dalle scuole medie.
Chris era un vero e proprio personaggio, non c'era nulla da dire sul suo conto se non che adorava farsi di qualsiasi droga, le donne e la musica. Però era intelligente allo stesso tempo, bravo a scrivere e un buon amico. Senza Marshall non esisteva Chris, e senza Chris non esisteva Marshall. Basti solo pensare che si conoscevano da talmente tanto tempo che a volte nemmeno si ricordavano come si erano conosciuti.
Grazie a Chris, Marshall aveva conosciuto Kim, quella che in seguito era diventata sua moglie e nel '95, la madre di sua figlia, Hailie Jade.
Kim era particolare, non aveva un carattere semplice e mostrava la sua vera se stessa solo con poche persone. Nei confronti di Marshall era gelosa e allo stesso tempo permissiva: le cose si sfasciarono in seguito dopo svariati tradimenti e a vantaggi/svantaggi della sua vita.

Erano così differenti:
A Kim piaceva essere in vista,
A Marshall piaceva starsene sulle sue.

Lo potevi trovare alle quattro del mattino sulla sua scrivania a scrivere, scrivere della vita che viveva tutti i giorni e che non avrebbe mai voluto avere: una famiglia distrutta, una figlia lontana, un fratello in casa famiglia, una moglie così. Pensò persino al suicidio. Le uniche due cose che lo salvarono furono Hailie e le battaglie di freestyle, tutti i venerdì sera.

La sua casa, se così si può definire, era una casa mobile nel trailer park della 8 Mile, numero civico un po' scassato, ma ancora 19946. La casa era sempre immersa in casino immenso, tra orgasmi, urla, insulti, pianti, litigi, si poteva sentire spesso una melodia, della musica hip hop, forse ascoltata ad un volume troppo alto per coprire quei litigi di sua madre in cui lui non c'entrava nulla.

Al contrario, la casa della sua vicina di casa era tutt'altro che caotica. Dalla mattina alla sera non si sentiva nulla, a volte della musica, a volte degli orgasmi di donna.

Quella era la casa di Diana Robinson.

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Capitolo 4
*** Capitolo III - Foxes ***


~~Chris continuava a cantare la stessa cantilena da ormai svariati minuti, mentre Marshall guidava verso quella che, per i due, sarebbe stata la loro meta. Avevano una vecchia 1928 Delta, la quale tendeva a spegnersi ogni due per due. Solitamente, quando succedeva, il disprezzo nei confronti della macchina era accompagnato da una serie d’interminabili imprecazioni.

Ma quella sera non c'era nessuno, solo loro due. Un bianco e un nero.

Chris aveva proposto di raggiungere quel posto nella parte più malfamata di Detroit, dall'altra parte dell’8 Mile, perché aveva constatato il fatto che ci fossero belle ragazze e buona musica. Era uno street club, affollato e sporco. Ne parlavano tutti, le informazioni arrivavano alle orecchie di Rabbit come il "luogo dove accadono tutte le magie".

«Bello, ne sei sicuro?» chiese Marshall, muovendo la testa a ritmo di quella che era la canzone della loro serata: Sweet Home Alabama. Chris non rispondeva, muoveva anche lui la testa, mimando di suonare una chitarra o un basso.

Marshall era preoccupato, ma i suoi occhi dicevano il contrario. L'adrenalina era più forte della paura di sentirsi sbagliato in quel posto. Kim lo aveva appena lasciato, mentre Chris... Chris era fidanzato.
Si avvicinavano al posto, e sempre più, potevano notare della musica forte. Chitarra, batteria e basso: ciò che componeva quelle melodie che non sembravano attrarre i due giovani ed esordienti rapper.

«Cazzo... » sussurrò Marshall, parcheggiando quella che si poteva definire ancora per poco "macchina". Avevano sbagliato ancora.

«Senti, bello... » provava a scusarsi e a difendersi Chris, ma senza riuscirci.

Marshall cominciava a irritarsi, mentre i suoi occhi, originariamente marroni, cominciavano ad appesantirsi. «Bello, un altro locale per metallari del cazzo non lo voglio nella mia lista delle "cose da fare prima di morire"» gli diceva, un poco divertito, perché in realtà non lo pensava.

Chris coglieva l'ironia nella voce costruita di Marshall. Percorrevano la strada verso quello che era il locale "proibito da Dio", mentre la musica s’insidiava sempre più nelle loro orecchie che chiedevano assiduamente un cambio repentino di genere.

Marshall cominciò a guardarsi intorno, cercando con lo sguardo attento, qualche ragazza. Il locale era non era troppo affollato. Solo donne e uomini, troppo simili tra loro. Capelli neri, matita sugli occhi, borchie e merletto rigorosamente nero. Quei due erano due estranei.

«Bello, siediti lì», gli indicò un divanetto di pelle nera, poco più distante da loro, «vado a prendere qualcosa da bere» disse infine. Marshall fece un cenno con il capo, poi fece come Chris aveva detto. Da quella prospettiva riusciva a vedere tutto il locale, a grossomodo.

Era il periodo gotico, e tutti sembravano essere la stessa persona. Alle casse si potevano sentire le note di qualche gruppo sconosciuto alle orecchie del rapper, ma che tanti altri riconoscevano come "Evanescence". Effettivamente, quella canzone l'aveva sentita svariate volte alla radio. Si soffermò ad ascoltare la voce dorata e candida della cantante, condotta da flebili e ben scandite parole. Dopo poco si avvicinò Chris, con in mano due cocktail che all'occhio potevano sembrare decisamente troppo forti per Marshall.

«Sì, lo so. Questa roba non fa per te... » disse, riferendosi a tutte quelle circostanze sconosciute alla conoscenza del rapper, «ma guarda quella», gli indicò una ragazza poco lontana da loro.

Capelli biondi, lunghi e lisci. La pelle candida e bianca come il latte, con delle labbra marcate da un rossetto rosso sangue. Lo sguardo di Marshall si posò sulle sue gambe, sfortunatamente coperte da uno strato di tessuto nero, quasi trasparente. «È bella...»

Chris annuì. «Immaginala senza quelle cinture di castità nere che indossa» fece allusione ai vestiti gotici, «è ancora più bella, bro.»

Marshall ridacchiò, continuando a guardare attento la ragazza, come se volesse spogliarla con gli occhi. Cantava quella che era la canzone trasmessa alle casse, insieme con un ragazzo, pressoché coetaneo.

«Ti piace?» chiese Chris, finendo il suo cocktail in poco tempo. Marshall annuì, poi prese parola.

«Ti guarda...» sussurrò, senza avere ancora tolto lo sguardo da lei. La ragazza disse qualcosa al ragazzo che le sedeva vicino, poi si avvicinò ai due rapper.

«Sì, Rabbit.»

Le gambe della ragazza si muovevano leggere mentre attraversava il locale, avvicinandosi sempre di più ai due. Sempre più vicina, le si potevano scorgere svariati piercing sul viso. «Hey», disse, ormai vicina ai due. Marshall spostò lo sguardo per pochi secondi, notando che il palco era ormai allestito con vari strumenti.

«Hey», replicò secco Marshall.

Lei porse la mano a entrambi, prima a Chris, poi soffermandosi su Rabbit. «Sono Mariah, piacere» disse, fingendo una trasparente dolcezza nella sua voce. I due si presentarono, poi fecero sedere la ragazza tra loro. «Avete proprio un bel coraggio a venire qua», li prese in giro.

«Perché?» chiese Chris, sconcertato.

Mariah rise, poi estrasse dalla borsetta nera un ventaglio, cominciando a sventolarlo contro di lei. «Vedete, questo posto è frequentato solo da, insomma... le persone che lo frequentano sono in relazione con la musica che viene suonata...» fece una pausa «e devo dire che oggi è abbastanza vuoto» raccontò ai due. Chris e Marshall si guardano, allarmati.

«Dove vuoi arrivare?» chiese Marshall, guardando Mariah con uno sguardo investigativo.

«Al fatto che, voi finti rapper, vi credete troppo superiori» ridacchiò. Marshall notò gli occhi del ragazzo amico di Mariah, puntati su di lui. «In questo posto, quelli come voi non fanno una bella fine» comunicò ai due. «Però, sta sera non c'è praticamente nessuno» ripeté, «e non biasimo nulla.»

«Perché non c'è nessuno?» chiese Marshall.

«Questo posto è come un videogame», spiegò Mariah, prendendo in mano il cocktail di Marshall e bevendone una bella parte. «Se c'è qualcuno di valido a suonare, c'è il pienone. Sennò, beh, è così.»

«Chi suona sta sera?» la interruppe Chris.

«Oh, la mia sorellina... canta e suona il basso nella sua "band"» rispose Mariah, mimando le virgolette con le dita.

Chris rise, poi le si avvicinò lentamente. «Strano, sei così una bella ragazza. È strano che ci sia così poca gente...»

Anche Mariah rise, avvicinando le sue labbra all'orecchio sinistro di Chris. «Sì, ma mia sorella è una sfigata...»

I due risero all'unisono, mentre Marshall restava in ascolto. Sul palco cominciarono a salire tre ragazzi, i quali si misero alle rispettive postazioni: un chitarrista, un tastierista e un batterista. Al centro dello stage, giaceva abbandonato un microfono con cavalletto. I ragazzi avevano all'incirca vent'anni, e rispettavano dettagliatamente le descrizioni che Mariah gli aveva dato poco prima: degli sfigati.

«Come si chiama la band della tua sorellina?» chiese Chris. Mariah non rispose subito.

«Foxes, una cosa simile...» cercò di ricordarsi la ragazza.

Marshall quasi si strozzò con la sua stessa saliva. «Foxes?» chiese, quasi incredulo. Non sapeva chi fossero, ma il nome non gli sembrava per nulla sconosciuto.

Chris rise sguaiatamente. «Foxes, Rabbit... che coincidenza è questa?!»

Mariah aggrottò un sopracciglio. «Rabbit?» chiese, rivolta a entrambi i ragazzi.

«Sì... lo chiamiamo Rabbit da tempo, perché è veloce e scopa un sacco!»

Mariah lanciò un’occhiata divertita su Marshall, poi poggiò un braccio attorno alle sue spalle, come per farlo avvicinare a lei. «È vero?» gli chiese, cercando di risultare il più sensuale possibile.

Ma Marshall non sembrava ascoltare le parole della bionda che cercava di abbordarlo. I suoi occhi erano puntati su quel palco, nell'attesa della venuta della cantante.

Di lì a poco, si fecero strada una t-shirt nera di qualche band che probabilmente Marshall non conosceva e delle gambe formose, coperte da un sottile strato di calza a rete e da un paio di shorts neri, collegati con delle bretelle alla maglia. Poi alzò lo sguardo. Davanti ai suoi occhi si pararono una chioma ricoperta da capelli di un rosso acceso e degli occhi chiari, tendenti al grigio. Palpebre pesantemente truccate di nero. Tacco dodici. Sullo zigomo destro aveva disegnato un crocefisso. La guardò attentamente, poi capì.

«Diana?» sussurrò, cercando di non farsi sentire dai due.

«Diana Robinson» ripeté Mariah, divertita. «La conosci?»

Marshall annuì, poi balbettò qualcosa. Era impressionante come il suo sguardo rimanesse sempre lo stesso, in qualsiasi situazione. «Più o meno. In concreto solo di vista. Vive con la madre, a tipo due case da me...» cominciò, «nell'ultimo periodo credo che mi abbia insultato almeno tre volte il giorno...»

Mariah annuì. «Io me ne sono andata via a diciassette... quella casa era un incubo» ridacchiò.

«È almeno brava a cantare?» chiese Chris.

Scrollò le spalle «Gusti.»

Diana poggiò le sue mani sul basso, cominciando a fare alcuni accordi, mentre la musica del locale spariva lentamente.

«I don't have to leave anymore...» sembrò come sussurrare la ragazza. Le sue labbra si poggiavano lentamente e timidamente sul microfono, mentre suonava, accompagnata dai tre dietro di lei. «What I have is right here...» chiuse gli occhi, continuando a suonare.
Marshall era concertato su ogni suo singolo movimento, e nonostante la trovasse odiosa per il comportamento che aveva nei suoi confronti, non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. Voleva che riaprisse i suoi occhi, per poterla guardare dritta e colpirla nell'anima, nel caso lei lo notasse, data la sua vicinanza con il palco.
«Spend my nights and days before...» continuò, con una voce sempre più flebile e quasi strozzata, ma sempre roca e bassa. «Before... I am yours now.»

«Che strazio, bro...» commentò Chris, accarezzando i capelli alla bionda seduta tra i due ragazzi.

Ma Marshall non aveva sentito nemmeno quello. Continuava a guardare fisso con gli occhi, ogni singola e più piccola azione della ragazza di fronte a lui. Un cambiamento di tono, un segno di cedimento a causa della troppa ansia, qualsiasi cosa che avrebbe potuto scattare in lui un minimo di movimento, di sussulto.

Bastarono alcune parole, ripetute ancora. «I am yours now...»

Diana aprì gli occhi, puntandoli in qualche luogo sconosciuto del locale. Il suo tono di voce cambiò, raggiungendo di colpo un acuto assordante, ma allo stesso tempo intonato. Gli occhi di Marshall si spalancarono, ma non si spostarono di un millimetro. La guardava, la ammirava, nonostante avesse un ben di Dio al suo fianco. Nonostante fosse sua sorella.

«If you stand there and watch me burn, it's alright because I like the way it hurts» pronunciò Diana, con voce spezzata e sempre più roca. Quelle parole balenarono nella mente di Marshall in un secondo: erano perfette. Avevano metrica, avevano un ritmo ben preciso, ma soprattutto, avevano un senso.
Milioni di combinazioni cominciarono a svilupparsi nella sua piccola e contorta mente. Avrebbe voluto dirglielo, urlarle che lui aveva la continuazione esatta per quel verso così delicato e perfetto. Eppure rimase in ascolto, sistemandosi meglio sul divanetto di pelle e allontanandosi evidentemente da Mariah.

«If you stand there and make me cry» continuò Diana, spostando lo sguardo investigativo sulle persone presenti nel locale: sembrava assortita dal dolore di qualcosa, esattamente come Marshall. «I don't mind because I love the way you lie...»

Gli occhi chiari di Diana incontrarono quelli castani e profondi di Marshall. Quegli occhi che finalmente riuscivano ad essere come erano veramente. Senza quel sottile strato azzurro che li colorava. Diana smise di suonare, per pochi secondi. Le sue labbra erano fisse su quel microfono.
Si guardavano perché si conoscevano, ma fuori da quelle quattro mura in cui vivevano come vicini di casa, erano dei perfetti sconosciuti.

«I love the way you lie...»

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Capitolo 5
*** Capitolo IV - Alyssa White ***


~~Diana correva, scappava, cercava di nascondersi. Non le importava di nessuno, se non del suo basso, e lui era con lei. Correvano sotto a una pioggia tipica del clima autunnale e soprattutto di Novembre, una pioggia fredda e amara, acida. Come l'ennesima sconfitta provata quella sera.

Ad un certo punto le persone si stancano anche di provare a migliorare se stessi e le proprie azioni. A volte, cercare di vincere è inutile, non ci arriverai mai. La tua vista si offuscherà sempre, all'ultimo momento, grazie a qualcuno o qualcosa. Perché ognuno ha il suo qualcuno o qualcosa.

A volte, semplicemente, ti stanchi della vita misera che ti porta avanti mano nella mano ogni giorno. Perché a un certo punto, semplicemente non sei più una persona, non ci sei più. Sei solamente un corpo con un cuore che batte, organi che funzionano perfettamente - se sei fortunato -, ma un' anima vuota. E lo resterà per molto altro tempo, perché a un certo momento, solo il tempo può aggiustare le cose: le pacche sulle spalle non lo fanno.

E la pioggia che batte sulla testa, sui suoi rossi capelli, sulla sua nuca e sui suoi umidi e stracciati vestiti non è da meno. È solo un modo inutile e momentaneo per mescolare le lacrime con altri liquidi naturali. Liquidi che in realtà nessuno sa come sono riusciti a cadere su quella che chiamiamo crosta terrestre. L'eyeliner sbavato e il rossetto ormai scomparso danno l'idea del pianto che Diana continua a divorare per non dimostrarsi debole di fronte agli occhi di chi sta campeggiando fuori da quel locale maledetto.

Perché a volte ti senti stanco, ti senti debole. E quando ti senti debole, vorresti solo arrenderti.

«Dannazione!» disse una voce femminile.

La pioggia, l'umore di Diana e le casualità erano il combo perfetto per creare quella sorta di alchimia tra le probabilità d’incontrate qualcuno che la degnasse di una parola in quella malfamata e bagnata città. Le spalle di quelle due ragazze si erano scontrate, facendosi un po' del male, ma non dando tanto fastidio da creare una sorta d'odio nella sconosciuta, ovviamente nei confronti di Diana.

«Sì, scusa...» biascicò lei, rendendosi in seguito conto del danno fatto. Un paio di fogli erano sparsi per terra. Sembravano importanti per la ragazza, poiché era china sul marciapiede, intenta nel raccoglierli e ripararli dal temporale.

«Guarda che hai fatto, rossa... Erano i miei manichini...» commentò la ragazza. Solo in quel momento Diana si rese conto della situazione. Una ragazza bionda, sulla ventina, stava disperatamente cercando di far sì che il suo lavoro e il suo impegno non venisse portato via dagli inferi della pioggia. Un po' come lei con il canto. Solo che il tutto era relativamente meno bagnato.

«Io non... Scusami.»

La bionda mise i fogli nella sua borsa nera in pelle, poi degnò di uno sguardo misero la rossa. La sua espressione cambiò radicalmente. «Oh mio Dio, ma guardati. Stai bene?» le chiese la ragazza, accarezzandole il viso con un'espressione preoccupata.

Diana annuì.

«Santo cielo, vieni qui sotto.»

La bionda prese con forza il polso di Diana, trascinandola senza pretese sotto il portico. Le due si sedettero sul bordo del marciapiede, come se fossero due amiche che parlano tranquillamente di ragazzi o altre cose che abitualmente sono presenti nei discorsi delle adolescenti. La bionda la guardò una seconda volta, poi sospirò in segno di stupore. «Oh Dio!» disse, asciugandole le lacrime e sporcandosi il palmo della mano di un nero intenso. «Ti senti bene?» le chiese infine. Il tono della sua voce era preoccupato, aveva paura di essersi imbattuta in qualcuno che stava veramente male. In effetti, la parte estetica di Diana, in quel momento, non era una delle migliori, ma il dolore è soggettivo. Lei stava realmente soffrendo per qualcosa?

«Mi sento, mi sento...» biascicò Diana, reggendosi la testa con entrambe le mani. Alzò lo sguardo al cielo, chiedendo aiuto a qualcuno.

La bionda le accarezzò le guance, spostandole lentamene una ciocca di capelli rossi. «Chi ti ha fatto questo? Intendo, chi t ha fatta stare male? Ovviamente non serve che tu me lo dica... Ma sei ti fa stare bene sfogarti, puoi parlare con me.»

«Lascia stare...» sussurrò Diana, indecisa sul parlare o meno. In seguito alzò lo sguardo, notando una figura maschile dall'altro lato della strada. Le scrutava attentamente, era una figura che aveva già visto, ma a causa della sua miopia, non riusciva a identificarne a pieno i lineamenti.

«Alyssa White, sono nuova qui. Insomma, sì, vivo qui da due anni, ma non esco spesso, forse è per quello che non mi hai mai visto. Sempre se te lo stai chiedendo.» si presentò la ragazza, parlando sempre troppo. Diana spostò lo sguardo su di lei, sorridendole, cercando di non pensare al dolore che provava.

«Diana Robinson, e qui ci sono nata.»

Diana spostò di nuovo lo sguardo verso la figura avvistata poco prima, ma di questa, non ne vide nessuna traccia. La sua espressione cambiò velocemente, da triste, divenne sconcertata e confusa.

«Alyssa, io devo andare» inventò una scusa, cercando di risultare il più credibile possibile agli occhi della bionda.

«Non pensare nemmeno che ti lascerò girare per questa strada da sola alle due di notte! Avanti, ti riporto a casa...» commentò Alyssa, alzandosi dal marciapiede e seguendo la rossa.

Diana si fermò, prese il polso destro della ragazza e la fissò negli occhi. «Non oggi, bionda. Sono nata qui.»

Poi lasciò la sua presa, lasciò letteralmente andare la ragazza di fronte a lei.

Per quella sera, Diana non era più sua. Se n'era andata esattamente come avevano fatto tutti nella vita di Alyssa. Vent'anni per nulla, diceva lei. Non avrebbe mai combinato nulla nella vita, la sua moda non piaceva a nessuno. O almeno era quello che lei credeva. Non osava mostrare a nessuno i suoi modellini, li teneva per sé, e quando aveva ispirazione, ne creava altri o arricchiva quelli vecchi. In realtà, Alyssa aveva un grande talento, che ai suoi occhi era solamente un hobby da non portare oltre.

Ma ora Diana se ne stava tornando a casa, e probabilmente non si sarebbero più viste. E le dispiaceva, perché l'unica cosa che voleva in quel momento era trovare qualcuno con cui instaurare un rapporto.

«Ci vediamo, Diana...» urlò Alyssa, cercando di farsi sentire dalla rossa. Ma lei non la sentì, o probabilmente fece finta di non sentire la voce speranzosa e delusa allo stesso tempo di Alyssa.

Diana attraversò la strada, avvicinandosi al posto esatto in cui aveva visto la figura maschile. La pioggia continuava e la rossa si bagnava sempre di più: a quei vestiti ci teneva, e non le andava proprio di comprare nuovi capi. Allora decise che non era importante sapere chi fosse quella persona, e come ogni volta, riprese il suo basso sulle spalle, e cominciò a correre verso casa. L'unico posto che poteva nasconderla dalle persone.

Scappò da quel posto, da quella strada, da Alyssa, che senza un vero motivo le era apparsa come una ragazza gentile, ma allo stesso tempo come un pericolo. Corse, scappò, senza preoccuparsi di nulla. L'unica cosa che importava era lì con lei.

I suoi capelli; la sua frangia era completamente appiccicata alla sua faccia, ma non le dava fastidio. Era completamente immersa nei suoi pensieri un po' contorti, un po' malati. Talmente persa che non si accorse che davanti a lei c'era qualcuno, fermo, che la fissava. Gli andò a sbattere contro. Due grandi mani l'afferrarono per le spalle, impedendole di cadere. D'istinto, Diana cercò di divincolarsi, ma non ci riuscì. I suoi capelli rossi vennero fermati dietro un orecchio e una voce roca e stanca.

«Yo, stai bene?»

Abituati a quella luminosità, i suoi occhi misero a fuoco un ragazzo dai vestiti troppo larghi, gli occhi azzurri e un sorriso gentile. Aveva un incarnato chiaro e uno sguardo misterioso.

«Marshall, per favore, devo andare a casa, non chiedermi ora se sto bene, okay? Non serve, mi hai vista. Sai come sto» commentò lei, liberandosi finalmente dalla presa del ragazzo.

Percorse alcuni passi, camminando, non correndo, perché forse voleva che lui la seguisse. «Ti porto in macchina, gli autobus non ci sono più a quest'ora. Casa è lontana, e in più dobbiamo andare nello stesso posto. O sbaglio? Non sei tu la vicina rompi coglioni? Quella che alle due di notte mi urla contro dalla finestra di camera sua perché sto ascoltando la musica?» chiese lui, sapendo di colpire il bersaglio, di provocarla. Sapeva quanto Diana fosse irritabile e brava a provocare le persone.

Diana si fermò, guardò Marshall negli occhi, poi si avvicinò a lui. «Preferirei sentire tua madre e quel ventenne scopare per tutta la notte che la tua musica inutile e ripetitiva, Rabbit.»

«Yo, non dire nulla di mia madre» ridacchiò lui, avvicinandosi a Diana. «Potrei dire lo stesso della tua, che si scopa pure le zingare.»

Diana volle reagire, tirargli un pugno, sputargli in faccia, ma non fece nulla. Marshall aveva colpito nello stesso identico modo con cui lei aveva fatto poco prima. Rise e basta, poi abbassò lo sguardo. La pioggia finalmente stava cominciando a smettere.

«È un peccato, è proprio una bella donna... ma toglimi una curiosità. Mariah non è la tua vera sorella, no?» chiese lui.

Diana scosse la testa, non aveva voglia di parlare di quella biondina che le aveva distrutto l'adolescenza e l'infanzia. «No, legalmente sì» disse solamente.

Marshall annuì, poi porse la sua mano verso la rossa, la quale lo guardò con uno sguardo confuso, in cerca di risposte. «Ti ho detto che non ti lascio andare a casa da sola, Robinson.»

Diana alzò lo sguardo al cielo. «Non posso accettare, Rabbit. La mamma mi ha insegnato che non si accettano mai» disse facendo una leggera pressione sull'ultima parola, «passaggi dagli sconosciuti.»

Lui rise. «Ma noi non siamo sconosciuti!» esclamò sorpreso.

«Siamo perfetti, sconosciuti.»

Marshall sospirò, poi prese con forza le spalle della rossa, dirigendola verso la sua macchina, dove Chris li avrebbe aspettati. Diana non cercò di liberarsi, si fece guidare da Marshall, fino alla vettura all'apparenza normale, ma in realtà distrutta e usata.

Diana abbassò lo sguardo appena si accorse dell'amico di Marshall. Non lo conosceva, e Diana aveva paura di chi non conosceva. Gli occhi del ragazzo sembravano persi nel pensiero di qualcosa sconosciuto a tutti, il che fece preoccupare la ragazza, senza darlo a vedere.

«Chris, lei è Diana.»

Il ragazzo era un omone di quasi due metri, di colore, dai corti e castani dread. All'apparenza poteva sembrare cattivo ed egoista, ma la realtà era che nessuna di queste caratteristiche gli si addiceva. Aveva un carattere dolce e simpatico quasi con tutti, era sempre disponibile e divertente. Una specie di burattino, a volte. Faceva tutto quello che volevi, per quello molto spesso si metteva nei guai. Era fatto dalla mattina alla sera, e casa sua era ricoperta da piantine di Maria.

Chris porse la sua mano alla rossa, la quale la strinse. «Piacere mio» dissero all'unisono. Non sapevano che quella sarebbe stata solamente una delle prime volte, così.

Chris fatto.
Marshall indifferente.
Diana spaventata.

Come il solito.

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