On My Own - The 5th Wave

di halsey1696parrish
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Let Me Tell You ***
Capitolo 2: *** 2. I gave my soul to the devil ***
Capitolo 3: *** 3. Lost Girl ready to find ***
Capitolo 4: *** 4. Messenger of Death ***
Capitolo 5: *** 5. Red like Fire ***
Capitolo 6: *** 6. Someone to die for ***
Capitolo 7: *** 7. The Rest of Us ***
Capitolo 8: *** 8.Can you feel my Heart? ***
Capitolo 9: *** 9. Rise from the Ashes ***



Capitolo 1
*** 1. Let Me Tell You ***


Caro Andy,

Anzi no...ricomincio.

Caro Andrew, 

Mi chiamo Eva, forse non mi conosci, non so. Ma frequentavamo lo stesso liceo prima che...beh sai cosa. 

Non ho potuto dirti quanto sono cotta di te perché non ne ho avuto tempo. Ma te lo dico ora. Non so se leggerai mai questo lettera, ma la scrivo lo stesso. 

Perché mi manchi anche se non ti ho mai conosciuto. Mi togli il respiro ancora al solo tuo pensiero, e non so com'è possibile. 

Ti sto scrivendo da un posto sconosciuto a me, sconosciuto al mondo che conoscevamo. Sono sola. Gli Altri mi hanno portato via tutto. 

E forse, forse morirò. Assiderata. Forse i lupi mi sbraneranno. O peggio ancora, i banditi mi cattureranno. Non so.                                       

 Se sei ancora vivo e un giorno leggerai questa lettera, forse non sarò più su questa maledetta terra. Ma doveva andare così, ogni singola cosa.                                                                                                   

E mi dispiace tanto che questo mondo non ci ha mai visti e forse non ci conoscerà mai.                

 Ma so solo che sto morendo e sto piangendo su una fottuta lettera, canticchiando una stupida canzone. 

Ti amo Andy.

Eva


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Capitolo 2
*** 2. I gave my soul to the devil ***


Avevo paura, del buio.
Ma non m'importava. 
Piangevo perché era l'unica cosa che potevo fare.
Ero decisa, impetuosa come il vento, caldo di giugno, freddo di dicembre.
Non mi sarei fermata, non ora.

-

Quando la nave Madre è arrivata, solcando il cielo sopra le nostre teste, eravamo tutti immersi nelle nostre comunissime vite. 
Erano le 10:59 di un giovedì mattina, quando la corrente era saltata improvvisamente, ma ancora non sapevamo cosa stava succedendo.
-Pss..- Nate cercava di comunicare con me, ma stavo seguendo la lezione di storia dell'arte su Michelangelo ed ero irremovibile. 
-Pss.- e a quanto pareva anche lui lo era.
Alzai gli occhi al cielo, distogliendo la mia attenzione dallo schema del David. 
-Cosa vuoi?- dissi storcendo gli occhi.
Se potessi tornare indietro nel tempo, non mi sarei comportata così. La vecchia Eva era molto più snob e rude, di quella che sono ora. 
Ero così ingenua. Non sapevo di certo cosa sarebbe accaduto e cosa avrei dovuto combattere.

-Ho fatto una cazzata...- disse sibilando e punzecchiandomi la schiena con la matita. 
Prima che potessi voltarmi e chiedergli cosa avesse fatto, la luce saltò. 
Rimanemmo quasi al buio. 
Non era una mattinata particolarmente soleggiata, non lo era per niente. 
Le nuvole rendevano il cielo come una cappa d'acciaio. L'orologio segnava le 10:59.
Tutti iniziarono a vociferare, ma la voce della professoressa lì sovrastò.
Io non ero particolarmente sorpresa, forse un sovraccarico di energia. Ma ripensandoci avrei dovuto avere paura di quel black-out momentaneo.
Alle 11:00 la luce tornò, la lezione tornò normale e non diedi più retta a Nate. 
Alle 11:45 ci trovavamo tutti in mensa per il pranzo e c'era un'agitazione generale quel giorno, più del solito. Passando tra i tavoli con il vassoio tra le mani ricordo di aver sentito alcuni che dicevano che insieme alla corrente erano saltati anche i cellulari e gli orologi. Non gli diedi importanza perché non era una cosa possibile. Non era possibile prima della Prima Onda, che si sarebbe abbattuta sulla terra esattamente dopo un paio d'ore da quel piccolo sfarfallamento di luci.
Forse quel primo black-out era stata solo una prova dei nostri carissimi amici alieni verdi. Oppure un loro malfunzionamento.
Ma noi tutto ciò non lo sapevamo.
Ma l'avremmo scoperto ben presto.

-Perché le sorelle Carter ci guardano?- afferrai un pomodorino dalla mia pasta e me lo infilai in bocca. 
-Mbè...era la cazzata di cui parlavo...- farfugliò Nate indaffarato con il suo cellulare. -Però prima di parlare di questa cosa, vai su Facebook e scorri la tua home. Questo è più sconvolgente di quello che ho fatto io.- la sua voce era tremolante, quasi eccitata da quelle notizie. 
Gli diedi ascolto e aprii Facebook: la home era piena di post che parlavano di una navicella di forma conica che si trovava nella nostra orbita. 
-Che diavolo...sarà un fake.-  E no cara Eva! Quella era una navicella, la navicella che avrebbe sterminato tutta la popolazione umana. Forse mi rifiutavo di crederci, ma in una parte profonda, davvero profonda di me, avevo paura di quella cosa. 
-Ora però voglio...- 
-Nathiel Marlò!- Leen Carter, seguita dalla sua sorella gemella diversa, Kim, arrivò al nostro tavolo. Chiusi gli occhi e respirai profondamente. Non sopportavo quelle ragazze all'epoca e per il cervello che avevano, ora saranno sicuramente morte, da tempo. 
-Che diavolo hai fatto Nate?- chiesi guardandolo di sottecchi. Di certo se sapevo che quelli fossero stai i miei ultimi giorni "normali" da 17enne avrei fatto molte cose del tipo: andare il Australia, oppure mangiare pizza e hamburger a colazione, o una cosa molto più intelligente, dire ad Andrew "sonotuttofigo" Biersack che ero cotta di lui. Ma quelle cose non le ho mai fatte, specialmente l'ultima. Andy. Non passo notte in cui non ci penso, perdo il sonno a pensare a cosa saremo potuti diventare. 
Sempre se sapeva della mia esistenza.

-Niente di particolare, ma per loro si...- Nate mi stava facendo innervosire.
Le due bamboline erano in piedi affianco al nostro tavolo. -Nathiel.- 
-È Nathaniel Marshall.- la corressi io con un pizzico di veleno nella voce. -Fa lo stesso Morticia. Sai cosa ha fatto il tuo amichetto pel di carota?- le mie sopracciglia saltarono sulla fronte, mentre masticavo una patatina e guardavo Nate che stava sudando a freddo.
-Sentiamo la cazzata dell'anno.- sentenziai enfatizzando con le mani. 
-Mi ha invitata al ballo! Al ballo capito?! Ma come...argh! Io ho terminato le parole, Kim tu hai da dire qualcosa?- disse Leenette, portando le mani sui fianchi coperti da una maglia rossa. 
Avevo sempre odiato quella maglia e la odio ancora. Se in qualche modo dovesse capitarmi per mano, gli darei fuoco. 
-Oh no, Kimberleigh, risparmiati lo spettacolo. Abbiamo capito la gravità della cosa e sono certa- guardai Nate con occhi in fiamme. -che Nate non oserà fare più una cosa del genere, vero Nate?- pestai il piede del rosso da sotto il tavolo, facendogli un sorriso finto. 
-Ma certo Kim...,no Leen. Scusa..- le due se ne andarono mentre tutta la mensa era interessata stranamente a noi.
Odiavo essere al centro dell'attenzione. 
-E anche oggi si passa inosservati domani.- sussurrai. -Te ne avrei parlato se solo la corrente non fosse saltata.- disse con tono acuto Nate, addentando il suo panino. 
Io e Nate siamo diventati amici in primo liceo, lui era più grande di me di due anni, nonostante ciò si trovava nel mio stesso corso di Filosofia. Siamo diventati amici quando lui mi ha versato sopra un intero vassoio con il pranzo. Tutta storia. -Lascia stare, quando troveranno un altro argomento di cui ne faranno un fatto di Stato, questo spettacolo sarà dimenticato. Si chiuderà il sipario.- 
E l'altra notizia stava per arrivare. Non so se doveva essere una cosa positiva o negativa, perché alla fine l'arrivo degli Altri ha fatto dimenticare a tutta la scuola il ridicolo dibattito che c'è stato in mensa quel giovedì. 
Però gli Altri hanno massacrato mezzo pianeta, quindi no, non esulterò per il loro arrivo.

Il pranzo finì e tutti andammo verso i nostri ultimi due corsi. Io avevo l'allenamento di pallavolo, Nate, allenamento di football.
Mi cambiai prima delle altre, non volevo vedere nessuno. 
Portavo le ginocchiere nella mano destra e il cellulare nella mano sinistra, e uscii dallo spogliatoio, beandomi della poca luce di quella mattina. Il sole oscurato e l'aria leggera e piacevole. Mi piegai per mettermi le ginocchiere, del medesimo colore della mia divisa, rosso. Quel giorno, mi ricordo, che ero stanchissima, sembrava che qualcuno mi avesse strappato l'anima dal corpo e non avessi più energie. Era tutto strano ma non sapevamo perché.
La me di adesso lo sa perfettamente. Forse quella stupida nave ci strappava via le energie per alimentarsi o cose del genere. 
Non avevo mai creduto a quelle storie di rapimenti alieni in mezzo al deserto della California, ad esempio. Persone che raccontavano che gli alieni erano figure bianche di luce, che ti portavano sulla loro navicella per analizzarti il cervello con degli strumenti simili a quelli del dentista. Si e magari ti offrivano anche una tazza di tè con un dolcetto alla cannella, non si sa mai. 
Gli Altri non hanno mai fatto una cosa del genere, che io sappia. Nessuno ha visitato la loro navicella, nessuno li ha visti, fino alla Quarta Onda. Ma di certo non erano figure di luce con strumenti da dentista. 
Pff gli Altri erano come noi. Ed era difficile che andassero in giro con un bisturi o un aspira saliva. 
Beh, insomma quel giorno, il nostro ultimo giorno da persone normali, non fu poi così normale. Stavamo facendo i giri di campo per scaldarci, mentre in lontananza vedevo Nate che si esercitava con i lanci insieme ad Andy che si esercitava sulle riprese. 
Nate mi mandò un'occhiata ammiccante. 

-Marshall!- Andy lo richiamò, ma la palla colpì comunque la sua faccia. Continuai per la mia strada con il telefono in mano. Il cielo non prometteva bene, nell'aria si poteva sentire l'odore pungente della pioggia in arrivo. 

Mi fermai nel campo iniziando a fare del riscaldamento, mentre fissavo Andy. Vedevo i muscoli del suo collo tendersi per ogni movimento o risata. Vedevo le sue mani che afferravano la palla e per un momento ho desiderato essere tra le sue braccia. Si era talmente stupida all'epoca, forse avrei dovuto pensare ad altro. 

-Bene ragazze!- l'allenatore fischiò e tutte ci avvicinammo intorno a lui. -Questo mese inizierà il campionato, e come ben sapete, per voi è fondamentale lo sport se volete ottenere una borsa di studio per il college.- il signor Hill continuava a parlare, ma forse solo io gli stavo dando ascolto. Tutti erano concentrati sui telefoni, sentivo bisbigli e singhiozzi, ma non capivo. Leen insieme a sua sorella stavano scorrendo sullo schermo con la mano tremante. 

-Signorina Carter se vuole gentilmente condividere con tutta la squadra cosa dice la home di Facebook, ne saremo ,molto entusiasti.- il tono del prof divenne acuto. -Tolga quel cellulare immediatamente.-

Leenette alzò la testa ma prima che potesse parlare, i fari del campo si spensero, facendoci rimanere avvolti nel freddo grigio del cielo. Non in lontananza, sulla strada statale che collegava la scuola al centro, varie macchine tamponarono a catena.

-Ma cosa sta succedendo?-anche i giocatori di football fermarono il loro allenamento per guardarsi intorno. Corsi verso Nate, che nel frattempo già aveva il suo cellulare in mano. -Cavolo Eva! Il mio telefono è andato.- lasciò cadere il suo casco a terra mentre, a grandi falcate, si avvicinava a me. -Cosa? Non è possibile.- controllai anche il mio ed effettivamente si, i telefoni erano morti. Ancora non realizzavo cosa stava succedendo, ma la paura cresceva ogni secondo di più. -Cosa diavolo sta succedendo Nate? Ho paura.- 

Nate mi guardava. Con occhi fissi e congelati dalla paura, non riusciva a darmi una risposta. Ma nessuno poteva, nessuno sapeva quello che stava accadendo. 

Poi un boato riempì il cielo. No, non erano gli altre se ve lo state chiedendo, ma era ciò che avevano fatto. Era la Prima Onda. Isolarci. In lontananza un aereo stava planando a 80 km orari verso di noi, non lo scorderò mai. Da quel momento in poi iniziò la confusione totale: grida, preghiere, gente che correva, chi piangeva e chi come Andy, rimaneva fisso sul posto.

Avevo letto una volta di persone che in situazioni di pericolo non riescono a muoversi. Sono congelati sul posto. Come se fossero in un sogno, non riescono a realizzare che quello che sta accadendo è pura realtà. 

Allora lo feci, corsi verso di lui e lo trascinai all'interno della palestra, insieme agli altri studenti. Il boato si fece più forte, poi la terra tremò sotto i nostri piedi e infine un'esplosione. Per un momento pensai che sarei morta, risucchiata da una voragine o schiacciata da quell'aeroplano. Ma no, ho resistito fino ad ora. 

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Capitolo 3
*** 3. Lost Girl ready to find ***


5 months later

Le montagne mi circondavano. Loro erano sempre state lì, come uno scudo. E sempre sarebbero state lì. Neanche gli Altri potevano smuoverle. E forse ci deridevano anche. 
Mentre tutto il genere umano veniva sterminato in un respiro, loro erano lì a guardarci. 
Ora il sole stava tramontando dietro di loro, creando una luce rosso sangue che tingeva il cielo, come per avvertirci che nel giro di pochi mesi (forse settimane) gli Altri ci avrebbero annientati tutti. 
La neve si propagava come una macchia su tutto il terreno, nel corso dei giorni, e le notti si facevano più fredde e mortali. 
Mi chiedevo sempre, prima di chiudere gli occhi, cosa mi avrebbe ucciso, come sarei morta. Per colpa di cause naturali, freddo, fame, disidratazione. Sbranata da qualche animale selvatico, forse un lupo inferocito. Oppure una pallottola, sparata da un fucile di un Altro, piantata in testa, nello stomaco o dritta nel cuore. Forse in quell'istante non avrei provato più dolore per le mie perdite, o forse avrei sofferto di più, sapendo che non ero buona a niente. Neanche a proteggere me stessa.

Ma la cosa che mi preoccupava di più è cosa sarebbe diventato il mondo. 
Prima dell'Arrivo non mi sarebbe importato una ceppa del mondo, semplicemente perché non c'è n'era il bisogno. Problemi come l'insufficienza di energia, l'esaurimento di petrolio e l'inquinamento del pianeta, andavano avanti dalla mia nascita e nessuno non se ne era mai importato particolarmente. Tutti facevano il proprio piccolo per aiutare, ma c'era sempre quella persona che buttava la cicca per terra, e l'inquinamento continuava a propagarsi. C'era uno spreco continuo del nostro pianeta e a nessuno importava particolarmente. Se gli Altri non fossero arrivati, ora forse ci ritroveremo senza più energia, tornati all'era della pietra. O forse gli Altri sono venuti apposta per punirci, per farci vedere come siamo realmente: un branco di zombie che non si cura del proprio pianeta, che si uccido fra di loro. O forse era solo il caso. Doveva andare per forza così.

Il freddo divenne più persistente e potevo sentire il mio respiro affaticarsi man mano, il fumo uscire dalla mia bocca, le labbra che iniziavano a tremare e i polmoni che si raffreddavano lentamente. Chissà che colorito avevo assunto. 
Mi raggomitolai nel mio sacco a pelo blu, che era diventato il mio letto ormai da cinque mesi. I primi giorni era impossibile dormire, con la paura che qualche strano omino verde oppure argentato, dipende dalle aspettative, ti venga ad uccidere nel sonno. Magari con una pistola laser e l'ultima cosa che vedrai prima di morire sarà il tuo corpo fumante riflesso negli occhioni neri e lucidi della creatura. 
Ma ora era quasi semplice prendere sonno. Non perché ormai sapevo che forma avevano gli Altri, semplicemente perché gli Altri stavano annientando ogni forma di speranza rimasta tra i sopravvissuti. Il sonno veniva quasi naturalmente sapendo che il domani sarebbe stato uguale a tutti gli altri giorni. Ormai non c'era più speranza di salvare il mondo e ci si abbandonava tra le braccia di Morfeo, sperando anche che qualche omino verde ti sparasse con la sua pistola laser. 
Nessun Luke Skywalker ti avrebbe salvato, nessun Jedi avrebbe usato la sua spada laser e controllato la sua Forza per difenderti. 
L'umanità ormai era sola.
Sempre se era rimasta un po' di umanità.

Al mio fianco tenevo la mia pistola, lucida e nera, che al tramonto risplendeva ancora di più. Il metallo era freddo ma non faceva tanta differenza con il mio corpo. 
Dopo che l'ultimo raggio solare scomparve dietro i giganti di roccia, iniziarono le mie preghiere mentali. Supplicavo chiunque ci fosse in cielo, di superare la notte. 
Strinsi la pistola, sicura inserita, e chiusi gli occhi, pregando che il sonno sarebbe arrivato presto. 

La mia mente già si trovava al confine, conscio e inconscio. Già sentivo le forze che mi abbandonavano e il senso di piacere che mi pervadeva il corpo. 
Mi sentivo leggera come una piuma, all'interno di quel sacco a pelo. Ma non durò tanto. 
Vari colpi di una mitraglietta mi fecero sobbalzare e sbattere la testa su un ramo. 
Gli Altri non avevano mitragliette, per lo meno coloro che cacciavano nei boschi. 
Mi rannicchiai sotto quella specie di tenda che avevo costruito (fatta di un telone verde trovato  sopra una serra).

Gli occhi cercavano in qualche modo di cogliere qualche dettaglio, qualche guizzo di luce, ma non riuscivo a vedere niente. Solo il buio che mi circondava. Forse gli spari erano stati frutto della mia mente. Forse stavo diventando realmente pazza. O forse stavo morendo assiderata. Avevo delle allucinazioni.
Ma no, i spari sembravano troppi reali. Avevo ancora il loro eco nella testa. Erano sordi e facevano male solo a sentirli. 
Ogni volta che sentivo uno sparo, molto di rado, sapevo che un altro sopravvissuto era morto. Oppure che un altro ospite era stato annientato. In ogni caso non era una cosa positiva, gli Altri si espandevano a macchia d'olio e i sopravvissuti diventavano sempre meno.

Se gli Altri vogliono realmente il nostro pianeta, perché non annientarci tutti in una sola volta? Perché farci soffrire? Perché farci impazzire? Perché farci uccidere i nostri fratelli e sorelle?
Forse anche gli Altri avevano un cuore, una mente. Oppure non avevano neanche un'anima e si gustavano le nostre morti come uno spettacolo di burattini.

Altri spari. Questa volta strinsi la pistola più forte, togliendo lentamente la sicura. 
Respiravo piano, anche perché il freddo me lo impediva. Ma la paura in quel momento sovrastava il resto. 
Ero sicura che quegli spari fossero reali. 
Ma non ero sicura di chi impugnasse quella mitraglietta. 
O gli Altri si erano armati fino ai denti, oppure era un fuggitivo dai cacciatori. Un umano.

Sentii dei passi, dei tonfi, la neve che veniva schiacciata, altri spari e infine un respiro affannato. Era più vicino di quanto immaginassi.

Le mani tremavano, le gambe erano molli e il cuore batteva senza controllo. Forse ero vicina alla morte. E forse sarebbe stato un sollievo, una liberazione. 
Un'ombra fece capolino davanti al bordo della tenda verde, quasi per assicurarsi della mia presenza. Non li facevo così svegli. 
Rimasi ferma finché l'ombra non fu più grande e quindi più vicina. 
Saltai fuori colpendo il mio bersaglio dritto allo stomaco, con la canna della pistola. Atterrai sopra di lui e lo fermai mettendomi a cavalcioni. Cercava di dimenarsi ma lo tenevo in pugno.

Non sarebbe stato il mio primo omicidio o il mio primo alieno morto. Solo un altro da aggiungere alla lista e ai miei peccati.

-Ferma, ferma!- quella voce roca mi scaldò.

Conoscevo perfettamente quella voce e non credevo che prima o poi l'avrei risentita di nuovo.

-...Andrew sei tu?- chiesi incredula, lasciando di poco la presa. 
Potevo essermelo immaginato. 
Poteva essere un normalissimo cacciatore. 
Oppure gli Altri mi stavano tenendo una trappola. 
O peggio, Andy era uno di loro, pronto ad uccidermi. 
Chissà se gli ospiti ricordano le loro vite precedenti. Il loro vissuto prima dell'arrivo della navicella Madre. Chissà se ricordano i loro sentimenti e le persone che hanno amato. 
O agiscono solo per volere degli Altri, come dei fantocci. Come se fossero già morti.

-Ci conosciamo?- la sua voce tremava. -Aspetta! Io so chi sei, Eva! La ragazza che mi ha salvato nel campo.- per un momento il suo tono di voce si alzò e io sperai che nessun cacciatore ci avesse sentito.

-Si sono io...oddio, sono felice di rivedere un volto famigliare.- gli occhi mi si appannarono. Stavo piangendo. Con le lacrime incise sulla pelle dal freddo.

Ci trascinammo accovacciati nella neve fino alla mia tenda. 

-Sto vagando da giorni, i Cacciatori mi sono stati alle calcagna per tutto il tempo.- disse con tono basso e quasi affranto. 
-Io sono in questi boschi da mesi ormai.- dissi flebilmente. Osservai il suo profilo scuro, riflesso nella notte. -Io...non vedevo un essere umano da mesi.- Avevo paura che tra un momento all'altro scomparisse. Che forse stavo sognando, oppure che ero morta e lo stavo incontrando dall'altra parte. 
Oppure avevo paura che mi uccidesse. 
Ecco cosa stavano facendo gli Altri. Ci facevano dubitare dei nostri simili. Ci facevano credere che i nostri vicini, i nostri fratelli, i nostri mariti o figli, fossero come loro. Gustandosi il momento fino in fondo. Da quando noi cadiamo nelle loro trappole fino a quando non punti una pistola alla tempia di tua madre. Poi premi il grilletto e tutto sparisce: incertezze, domande. Sparisce tutto. 
Ma è solo questione di pochi istanti, prima che il dolore ti sovrasti. 
Ed è quello ad ucciderti.

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Capitolo 4
*** 4. Messenger of Death ***


L'ultima volta che vidi Andy fu ella quarantena della nostra città. 
Erano state allestite tende e lettini in tutta la palestra principale e nel campo da football.

Il retro della scuola si era trasformato invece in una discarica per i corpi non identificati oppure per coloro che non avevano più nessuno. 

La Terza Onda era arrivata da tre settimane e per le strade aleggiava l'odore della morte. 
O la Morte Rossa, come osavamo chiamarla. 
Ti consumava da dentro, fino a farti esplodere in un mare di sangue, letteralmente. All'inizio sembrava una semplice influenza ma dopo vari giorni, anche meno se eri più fortunato, iniziava il calvario. Per alcuni dei più fortunati, la morte era breve, in pochi giorni lasciavano questa terra tormentata da estranei. Mentre per altri la discesa verso i fondali della morte era più lenta e dolorosa. Sangue che sgorgava dagli occhi, dalle orecchie, dal naso e dalla bocca. Come una vera inondazione. 
La Morte Rossa si era portata via mio padre, e insieme a lui anche il novantasette percento dei sopravvissuti alle prime due Onde.

Mi ricordo i giorni passati in quel liceo. Ogni adolescente sogna nella propria vita di salutare il liceo il giorno del diploma, con una toga e una pergamena in mano. Ma io non ho avuto questa fortuna. Vidi l'ultima volta il mio liceo durante la Terza onda, martoriato da malati, pareti macchiate di sangue, lasciato al degrado, con il tanfo dei corpi cremati e un'aureola di fumo e cenere che circondava i piani più alti. Mi ricordo i visi famigliari marcati dalla rassegnazione, visi vuoti e occhi spenti. In loro non vedevo più il luccichio della speranza, quella che stavo perdendo anche io.

L'aereo precipitato nella Prima Onda si trovava ancora nei pressi della scuola e aveva causato oltre due mila morti, un numero nemmeno lontanamente comparabile a quello che avevamo raggiunto con la Morte Rossa.

In un modo o nell'altro, le persone lasciavano questa terra. Morti più brutali rispetto ad altre, ma in un certo senso sceglievano la via più facile.

Quelli a mettersi in gioco erano i sopravvissuti, come me, che anche involontariamente sceglievano di rimaner e combattere. Oppure erano scelti da una forza superiore. 
Non si sa come ma io, mio fratello e mia madre eravamo immuni da quell'epidemia piovuta dal cielo, a causa degli uccelli. 
Ma mio padre non lo era.

Un mese dopo la Terza Onda si era abbattuta su tutto il globo come un messaggero della morte. 
Papà si è ammalato quasi subito, ma il suo calvario è stato lungo. 
Dopo la prima settimana era stato tra i primi cento ad essere internato nella quarantena della nostra città. Di lui non ricordo quegli ultimi istanti, quando la malattia l'aveva consumato fino all'anima. Di lui ricordo i suoi insegnamenti, la sua tenacia e soprattutto il suo bene nei miei confronti. Ricordo il suo sorriso dolce e forte, che mi rassicurava nelle notti di temporale, durante la mia infanzia. Ricordo la prima volta che mi ha dovuto lasciar andare, perché ero diventata grande, una giovane donna sulla soglio della vita. Una vita che non è quella che sto vivendo ora. Anzi quello era sopravvivere.

Dopo tre settimane mio padre ci ha lasciati. Era notte fonda. Una notte buia e senza stelle.

Alcune volte cerco di ricordarmi il mondo prima che gli Altri arrivassero. Non ricordo più le mie abitudini, non ricordo più la mia vita da adolescente. Sembra quasi che la vita prima dell'Arrivo fosse stata cancellata, come se la mia vita ha avuto inizio in quel maledettissimo giorno in cui un A380 è precipitato nella nostra città. Ho cancellato tutto, e se forse un giorno tutto tornerà alla normalità, avrò inciso su pelle questi momenti.

Quando entrai con mio fratello nella quarantena, indossavamo una mascherina, di quelle che portano i medici. Le uniche cose che portavo in quel periodo erano una semplice maglietta nera, logora e dei jeans. Doveva essere all'incirca agosto e faceva leggermente caldo, non come al solito però. Gli Altri avevano cambiato anche il clima forse.

Mia mamma non ce l'aveva fatta a venire con noi per recuperare il corpo di papà.

Superammo i primi letti, barelle e tende divisorie dove c'erano i malati in una fase poco avanzata del virus. Tra quei lettini riconobbi il viso famigliare di Andy. In quel momento non era il mio pensiero principale, la mia vita si era capovolta. Vederlo mi provocava solo nostalgia. Un pezzo della mia vecchia vita e normalità, che stava andando perduto. Anche lui stava abbandonando questo mondo, ma non sapevo che mesi dopo l'avrei rivisto. Proprio lui. 

Era seduto su un lettino, con una maglietta viscida e sporca di sangue e una tuta scolorita, era scalzo. Aveva una bacinella tra le mani, gronda di sangue. Era più pallido del solito e i suoi tatuaggi avevano perso brillantezza. Andrew forse è stato l'unico che rividi di particolarmente famigliare, l'unico della mia vita passata. 

Arrivati alla fine della palestra, sul fondo, dietro un telone bianco, corpi avvolti in lenzuoli macchiati dalla Morte Rossa, corpi che appartenevano ancora ad una famiglia, non erano del tutto soli. Afferrammo il corpo di nostro padre e ci lasciammo alle spalle quel lazzaretto rosso.

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Capitolo 5
*** 5. Red like Fire ***


La Terza Onda aveva portato morte e distruzione. Avevo visto la gente che conoscevo morire davanti ai miei occhi, e io non potevo fare niente. 
Mi sentivo così sola in quel mondo così grande. 
Dopo la morte di mio padre, rimanemmo solo io, mio fratello e mia madre nella nostra casa. 
Casa, se ancora poteva essere definita tale. 
L'unica cosa che mi rimaneva della mia vecchia vita era un quaderno, che avevo sempre con me. Era una specie di resoconto delle giornate. 
Lì tenevo le mie foto più care, quelle poche che ero riuscita a recuperare. Ad esempio avevo una foto scattata con Cameron pochi mesi prima, oppure una foto di famiglia del Natale scorso. E portavo sempre con me l'annuario delle scuola, una delle ultime cose che avevo creato a scuola con il gruppo del giornalino.
A volte, rivedere quelle foto causava in me una strana sensazione, come un gran vortice nello stomaco, pronto a risucchiarmi. 
Ora sapevo benissimo cos'era quella sensazione: la paura di rimanere sola, la paura di aver perso tutto e che quel tutto non tornerà mai fra le tue mani, il terrore di vivere una vita in modo diverso, dire addio al mondo che si conosceva e alle persone più care, non accettare di perdersi nell'immenso di tutto ciò che stava accadendo. 
Delle persone riuscivano a lasciarsi andare, ma io no. Sentivo che dovevo restare, che avevo uno scopo. O forse ero solo io che volevo dare un'ultima speranza alla vita, dargli un'opportunità migliore rispetto alla via del "lasciarsi andare". 
C'erano cose che semplicemente ancora non accettavo, come il fatto di esser stati cacciati dal nostro mondo e annientati subito dopo su questo stesso suolo, la nostra casa. Non riuscivo ad accettare il fatto che tutto stava cambiando intorno a me e non riuscivo a trovare il mio posto. 
Ah! Sfiderei chiunque a sentirsi a proprio agio su questa terra maledetta e calpestata da stranieri. 
Restava il fatto che in quella giornata di fine settembre qualcosa si riacesse in me, come un fuoco.

Spesso andavo in centro per comprare qualcosa da buttar giù nello stomaco, per me e mio fratello, a volte anche per nostra madre, ma anche lei come tanti altri si stava lasciando andare. 
Mi recavo nel piccolo mercato allestito proprio in piazza, costituito da bancarelle improvvisate e baratti fatti con oggetti vitali. Una mela per del sapone oppure delle coperte per un po' di fagioli in scatola. Si, erano scambi molto squilibrati ma dopo l'invasione non c'era più un essere umano a dettare le regole, ed era già tanto se eravamo riusciti a mantenere quel poco di civiltà.

Il tragitto da casa mia al centro durava all'incirca venti minuti in bici e in quel piccolo tratto riuscivo a captare come il mondo stesse cambiando e tutto stesse mutando in peggio. Quartieri desolati e quasi totalmente distrutti dalle prime due Onde, zone completamente deserte e terrificanti. Mentre in città, beh, i palazzi diroccati non mancavano e di certo i vari terremoti non avevano giovato molto alla sicurezza di quei posti. 
Nel mio piccolo quartiere erano rimaste due famiglie in croce compresa la mia. 
Ormai eravamo come estranei, se si necessitava si parlava con il vicino altrimenti rimanevano tutti in silenzio. Un silenzio che faceva esplodere la testa e il cuore. Ci avevano ridotto a ciò gli invasori. Ed io ne avevo già abbastanza.

Era appena autunno, ma il caldo afoso, quasi estivo persisteva. Arrivata al mercato, misi nel cestino poche cose, le più necessarie: latte, un pacco di pasta e qualche frutta ancora in buono stato. L'acqua per fortuna potevamo recuperarla dal lago vicino casa. 
Ogni volta che mi recavo in città, non potevo evitare di non pensare a tutti quei volti segnati dalla stanchezza e dall'esasperazione dei sopravvissuti. 

Risalendo in bici, notai il cielo farsi sempre più scuro, così decisi di pedalare più veloce che potevo. Ormai neanche un semplice temporale era sicuro. Superai la zona industriale, la più spaventosa di tutte, che in pochi mesi aveva subito il degrado più totale. Il cielo stava assumendo una brutta tonalità rossastra il che era poco rassicurante. Arrivata nella veranda di casa feci in tempo a chiudermi in casa prima di veder quella pioggia che colpiva tutta la natura intorno. 
Una pioggia acida stava facendo marcire quel poco di bello e verde che caratterizzava ancora il nostro pianeta.

Rimasi a fissare fuori ancora molto finché qualcuno non mi toccò la spalla. 
-Non è la prima pioggia acida.- la voce di Theo mi arrivò quasi distante. Sentivo l'aria intorno a me più pesante e viscida, non mi permetteva quasi di respirare. 
Guardai negli occhi mio fratello, i miei stessi occhi, e gli feci un cenno. C'eravamo molto avvicinati in questi mesi ed era una delle poche cose a farmi stare bene. Aveva la fronte imperlata da goccioline di sudore e la sua solita camicia di jeans con le maniche ripiegate fino ai gomiti.
-Sta notte è successo anche. Dicono sia a causa di qualche centrale nucleare, si spiegherebbe anche il cielo rosso.- mio fratello continuava a parlare, mentre giocherellava con la sua collana. 
Era l'unica cosa che riaveva del suo passato, il regalo della sua ragazza. Era morta nell'incidente aereo, rimasta uccisa nel campo. 
-Sono rientrata in tempo allora.- dissi voltandomi e osservando la casa buia. Era circondata da una strana luce rossa, che mi ricordava sempre più il sangue degli innocenti versato senza motivo. 
Udimmo un rumore sordo, la porta sul retro che veniva sbattuta e poi dei passi. 
-Mamma?- dissi incerta. 
La paura iniziò a crescere dentro di me, a poco a poco e sentivo il cuore pulsare, la gola secca e il sudore che scendeva fino a bagnarmi il colletto della maglia. Strinsi instintivamente la mano di mio fratello maggiore, che mi affiancò senza problemi.
La figura di mia madre, esausta spuntò in soggiorno, proprio di fronte a noi. I suoi capelli neri corvini erano attaccati alla fronte ed era più pallida del solito. Respirava a fatica, come se avesse corso per tanto tempo o avesse compiuto uno sforzo disumano.

-Ragazzi aiutatemi, l'ho salvato in tempo. Si trovava nella strada, proprio sotto la pioggia.- disse annaspando leggermente. Aveva riportato delle escoriazioni sul viso, ma niente a confronto del corpo inerme che aveva tra le braccia.
Un ragazzo, coperto di ustioni causati dalla pioggia. I capelli rossi erano fracidi ed emanavano un odore disgustoso, come il resto dei suoi vestiti, quasi ridotti a brandelli. Avvicinandomi sussultai quando capii che quel ragazzo non era altro che Nate. 
Nate coperto di sangue e ustioni, rossi come i suoi capelli, rossi come il cielo infiammato del mondo. 

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Capitolo 6
*** 6. Someone to die for ***


Il sole sorgeva lentamente, cullando il mondo come in un caldo abbraccio. 
Alcune cose non cambiavano mai, neanche dopo un'invasione aliena. E molto probabilmente erano quelle cose a farti andare avanti e a non farti perdere del tutto la speranza. 
La consapevolezza che una volta che tutto sarà finito si potrà riacquistare quella normalità che si aveva prima. Anche se io ho un paio di dubbi su questa cosa. 
-Davvero ti porti dietro l'annuario del liceo?- la risata di Andy mi scaldò il cuore ancora una volta. Eravamo svegli già da un po',o per lo meno Andy, in quanto io stranamente non ero riuscita a chiudere occhio.
Il ritrovo di Andy aveva scaturito in me una sorta di paura che era riuscita ad attanagliare il mio cuore e anche a togliermi quel poco di sicurezza che avevo riacquistato in vari mesi. Era strano, in quanto doveva essere il contrario. Il ritrovamento di una persona famigliare, soprattutto di una persona a cui tenevi molto, doveva darti sicurezza e speranza. Con me era stato diverso. Avevo la folle paura che Andrew si trasformasse davanti ai miei occhi da un momento all'altro e mi soffocasse. Che mi tradisse.

-Si...volevo ricordarmi tutti quelli che conoscevo. Avevo paura di dimenticare i loro volti.- dissi con tutta sincerità, stringendomi nel mio misero cappotto umidiccio. 
Andy affilò lo sguardo e lo abbassò subito dopo, facendo guizzare le piume che aveva tatuate sul collo. 
Andrew, per essere un giocatore di football e anche il più popolare della scuola, sembrava più il classico ragazzo da cui stare alla larga: molti tatuaggi sparsi per il corpo, due piercing, guardaroba completamente nero e appassionato di metal. Beh, era diverso. Ma dovevo ammettere che sapeva il fatto suo. Una media impeccabile e il suo cuore grande gli regalavano dei punti in più che lo facevano volare direttamente in cima alla classifica. 
Iniziò a sfogliare le pagine, una ad una, con tanta accuratezza, come se le pagine si potessero disintegrare da un istante all'altro. Si fermò proprio su tutti gli alunni del nostro anno. Lui era fra i primi. 
-Cavolo, questa foto è uscita proprio male.- disse indicando se stesso nella piccola foto stampata su quella pagina. Mi lasciai scappare una leggera risatina. -Dai, non è poi così male. Guarda la mia allora.- sfogliai la pagina subito dopo, trovando la mia foto sotto la lettera "M". Evangeline Miller. 
Sembravo un'altra persona in quella foto. Era come riguardare la storia di un'altra vita. O ancora peggio, sfogliare un album di una vita non più tua. 
Mi ricordo ancora il giorno in cui vennero scattate le foto dell'annuario, uno dei pochi che ricordo. 
-Dai perché? Eri carina in questa foto.- si complimentò Andy con me, guardandomi dritto negli occhi. Sprofondai nel suo blu immenso, come ai vecchi tempi. 
Avevo sempre amato i suoi occhi, soprattutto il loro colore. Una sfumatura particolare di blu mare, tendente molto all'azzurro. Sarei stata ore a guardare i suoi occhi senza mai stancarmi. Se gli occhi erano lo specchio dell'anima allora l'anima di Andy doveva essere proprio pura. Ma se questo detto dica la verità o meno, tutti i sopravvissuti oggi avrebbero gli occhi spenti o come buchi neri dove perdersi. Si, perché le nostre anime erano segnate da tutto quello che era successo, da tutti i gesti violenti compiuti e senza più umanità.  
-Oh...Nate...- Andy sosprirò profondamente, spostando il suo indice qualche fila sopra di me, sulla foto di Nate tutto sorridente. I capelli rossi perfettamente pettinati, ricordo ancora che cosa indossava quel giorno, la sua camicia preferita in flanella. Per non parlare della sua acqua di colonia, ne ricordo ancora la puzza. Sotto la foto recitavano le parole "Nathaniel "Nate" Marshall, squadra di football. 
-Sai per caso qualcosa di lui?- mi chiese Andy stringendo leggermente gli angoli dell'annuario, come se quella domanda gli fosse costata. 
Ma anche a me era costata, tanto. 
Nate rimaneva uno dei miei tanti tasti dolenti insieme alla mia famiglia. 
-Ho smesso di cercarlo due mesi fa, quando la Quarta Onda era ormai padrona del mondo.- chiusi gli occhi a quel ricordo. Era come se, ogni volta che la mia mente si focalizzava su certi ricordi, qualcuno mi buttasse un macigno sul cuore in grado di mozzarmi il respiro. E faceva molto male. 
-Cercarlo? Cosa gli è successo?- chiese Andy più preoccupato che mai. Lui era amico di Nate, non solo compagno di squadra. 
-Scomparso. Non so se sia morto, ma ho perso le speranze. L'hanno portato via dal campo in cui ci eravamo rifugiati, insieme a mio fratello e molti dei ragazzi che c'erano lì. Erano dei soldati, Altri ovviamente. Non so dove erano diretti ma è successo tutto nel cuore della notte.- dissi farfugliando. Appallottai un po' di neve, creando una sfera fredda e compatta, come il nostro mondo. Era diventato un campo aperto di guerre e battaglie, spargimenti di sangue e omicidi, una terra fredda e non più accogliente.
La strinsi sempre più forte finché non si disintegrò nella mia mano in una poltiglia quasi trasparente e gelata. 
-E tu? Perché non ti hanno presa con loro?- Andy chiuse l'annuario riponendolo al suo fianco. 
-Ricordo che mi ero nascosta, non ricordo bene dove ma non mi trovarono. Il punto è che sono passati due mesi e forse ora tutte quelle persone saranno morte.- dissi alzandomi in piedi e pulendomi i pantaloni dalla neve. 
-Sarebbe meglio spostarci e magari trovare qualcosa da mettere sotto i denti, ora che è mattina.- lo dissi con tono autotitario ma Andy non disse nulla a riguardo. Non parlavo con una persona reale da mesi, scrivevo e basta. 
Io ero cambiata, lui sembrava sempre lo stesso. Aveva tanta forza di volontà. 
Raccogliemmo la poca roba che avevamo e, caricandoci gli zaini in spalla, camminammo per tanto. Il sole ormai si trovava quasi alto nel cielo, segno che era quasi mezzogiorno. 
Avevamo attraversato buona parte del bosco quando Andy parlò. 
-Sai, pensavo a quello che mi hai raccontato. Non sono nessuno per giudicare, ma volevo dirti, perché ti sei arresa? Insomma io avrei continuato a combattere per la mia famiglia se ancora ne avessi una. Ma tu, tu ti sei arresa. Io penso che Nate e tuo fratello si trovino ancora da qualche parte altrimenti quegli alienj avrebbero sterminato l'intero campo in quella notte, senza fare tutto quel teatrino.- era piacevole sentirlo parlare, il suo ragionamento non faceva una piega. Ma dovetti ribattere per una cosa. 
-Andy, io ormai ho perso la speranza. Non so cosa ti sia accaduto, non oso immaginarlo. Ognuno di noi ha la propria storia e la mia è che dopo svariati mesi non riesco più a trovare la luce. E anche se morirò domani saprò di aver fatto degli sforzi e di aver combattuto.-

Passarono un paio di minuti prima che la risposta di Andy arrivasse. E le sue parole fecero accendere qualcosa in me. 
-Non sarebbe meglio combattere fino alla fine? Come quei cavalieri che davano la vita per il loro scopo. Loro morivano ma credevano in quello che facevano e ciò lì rendeva eroi, c'era qualcuno a ricordarli. E anche se domani non ci sarà più nessuno sulla faccia della terra in grado di ricordarci, io voglio combattere. Fino alla fine.- prese un lungo respiro e fermandosi all'ombra di un pino, mi guardò dritta negli occhi ancora una volta facendomi tremare. -Eva, tuo fratello e Nate non sono abbastanza importanti per te? Qualcuno per cui morire?-

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Capitolo 7
*** 7. The Rest of Us ***


Il vento soffiava forte, impedendomi di vedere ciò che avevo di fronte.
Era passato all'incirca un mese da quelle piogge acide. Nate aveva ancora molte ustioni, non gravissime. Quell'avvenimento aveva lasciato cicatrici permanenti non solo sulla sua pelle ma anche nel suo cuore. Ci facevamo coraggio a vicenda ogni singolo giorno. E quel giorno era il giorno in cui forse tutto sarebbe cambiato. 
Avevo le persone più importanti della mia vita con me e, anche se molte le avevo perse, non mi sarei mai arresa con loro al mio fianco. 
Quel giorno eravamo diretti verso un campo di sopravvissuti, un campo immerso nei boschi, fuori città. Ovviamente, se gli Altri volevano trovarci e sterminarci l'avrebbero potuto fare tranquillamente. Senza nessun problema. 
Avevamo percorso l'intera interstatale prima di inoltrarci nel bosco fitto e ombroso. 
Dopo le piogge il clima era cambiato radicalmente, lasciando spazio a un freddo quasi glaciale, nelle città. In quel bosco invece sembrava che l'umidità fosse padrona. Il freddo era sopportabile, ma l'umidità rendeva più pesante ogni nostro passo: i vestiti che si attaccavano alla pelle e il sudore che colava sulla fronte rendeva tutto più estenuante. 
Mio fratello capitanava il tragitto, io gli stavo subito dietro con una bussola in mano, evitando che ci perdessimo. 

Sembrava di esser capitati in uno di quei film che vedevo da piccola con mio padre e mio fratello. Film d'avventura dove i protagonisti riuscivano sempre a uscire dalla foresta e trovare il tesoro che cercavano da tanto. Ma lo sapevo, quella era la vita reale non un film. Da un momento all'altro sarebbe potuto saltare fuori un Altro e ci avrebbe uccisi a sangue freddo, senza la mi ima pietà. 

-Manca davvero poco.- disse Theo asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica del cappotto. -Basta solo superare il fiume e...- uno sparo tagliò il silenzio che c'era nell'aria, con un fischio sordo. Ci abbassammo tutti contemporaneamente tra i cespugli che affiancavano il sentiero. 
Eravamo ad un soffio dall'arrivo e ci avevano trovati. Io ero finita a destra con mio fratello, mentre mia madre era con Nate dall'altro lato del sentiero. 
-Credi siano gli Occhi?- chiesi respirando a fatica. Avevo il cuore che stava per spezzare le costole e saltare fuori da un momento all'altro. E di certo tutta quella pressione non mi aiutava a calmarmi. 
Gli Occhi erano dei droni mandati dagli Altri a controllarci e annientarci, non erano tanto efficaci però. Avevano una forma ovale ed erano sottili come piatti. Nella luce del giorno non si riusciva neanche a notarli in quanto erano creati da una lega metallica non del pianeta terra, che rifletteva perfettamente la luce del sole, diventando quasi invisibile. 
-No, troppo lento. Era uno sparo troppo lento per essere quello di un Occhio.- constatò Theo accartocciando la mappa da qualche parte dentro al suo cappotto. -Non fiatare. Non sappiamo cosa ci ha appena sparato, quindi meglio stare zitti.- annuii lentamente appiattendomi sulla terra. 
Il cielo stava diventando scuro, ombrato dalle nuvole cariche di pioggia. 
-Dobbiamo uscire prima o poi. Se arrivano le piogge acide sarà la nostra fine.- dissi stringendo le spalline dello zaino, zuppo di acqua piovana. 
-Okay, è vero. Il campo è vicino, se corriamo, possiamo superare il fiume e arrivare con la pelle intera al campo.- mia fratello si era rannicchiato, con le ginocchia che toccavano il fango e il viso poco sopra il cespoglio. Lo imitai, vedendo al di là del sentiero la testa rossa di Nate.

Mio fratello gli stava dando istruzioni sul da farsi. 
La testa mi faceva male e anche le gambe ma sapevo che dovevo fare un ultimo tratto per salvarmi. Dovevo tenere duro.
Nessuno aveva più sparato, chiunque ci fosse, qualunque cosa fosse, si era calmata. 
Theo alzò la mano facendo il conto alla rovescia.
Tre, due, uno. Scattammo verso nord, annaspando nel fango morbido mischiato al fogliame.

Un polverone si alzò alle nostre spalle, segno che il sicario ci stava alle calcagna. 
Ci ritrovammo davanti ad un fiume in piena. Eravamo in preda al panico. 
-Lì! Possiamo attraversare da lì!- Nate indicò un punto di accesso più in basso. Un vecchio ponte fissato con pali di legno nel fiume, l'acqua che lo inondava. 
-Non è tanto sicuro.- affermò mia madre tenendosi il braccio. Forse aveva un crampo. 
-Sarà più sicuro di ciò che ci sta inseguendo.- dissi saltando per prima. Il legno era abbastanza scivoloso, per non parlare della corrente che incombeva sulla struttura, rendendola molto instabile. Passammo uno alla volta e riprendemmo subito a correre. 
Eravamo diretti verso quel campo, una vecchia segheria utilizzata come rifugio. Si potevano già scorgere i vecchi macchinari e alcune strutture in legno. 
Un altro sparo squarciò l'aria, seguito dall'urlo di mio fratello. Gli aveva colpito la spalla a bruciapelo, però continuò a correre al mio fianco. Eravamo vicini, potevo distinguere le case in legno. 
Un ultimo sforzo, mi dicevo. 
Ma poi sparò di nuovo e questa volta non colpì una corteccia o solo a bruciapelo. No, questa volta colpì in pieno mia madre che si accasciò a terra rotolando varie volte a causa della corsa. 
E fu lì che lo vidi: non era un Occhio o un omino verde. Era un giovane uomo, sulla trentina forse. Aveva dei normalissimi vestiti e un fucile da caccia tra le mani. Gli occhi vuoti e spenti. Le labbra erano storpiate all'ingiù e del sangue colava dal suo naso. Sembrava furioso e non capivo il perché ci stesse sparando. 

Urlai così forte che la gole mi bruciava. Puntai i piedi a terra e corsi verso il corpo di mia madre. 

-No, no, no! Mamma stai con me ti prego. Siamo arrivati al campo, loro ti cureranno. Ti prego!- non capivo cosa stava succedendo intorno a me, ma mia madre stava morendo. Gli occhi aperti a malapena e la bocca pallida ricoperta di sangue. Il respiro mozzato e le lacrime che gli pulivano il viso; le mie mani premettero sopra la ferita, all'altezza dello stomaco. Il sangue mi macchiò le mani e le maniche della camicia ma non m'importava. 

Mia madre scosse la testa sorridendomi e l'anima lasciò il suo corpo mentre diceva le sue ultime parole rivolte a me: "Ti voglio bene."

Urlai ancora, ma il pianto si impossessò di me, quasi strappandomi via la vita dal petto. Avevo perso anche lei, mia madre. Tutto a causa degli Altri, che mi hanno portato via tutto. 

Cullai il corpo di mia madre mentre le lacrime mi appannavano la vista e nell'aria c'era solo il frastuono degli spari. Sentii qualcuno che mi scuoteva la spalla e vidi Nate con il viso sporco di sangue, alcuni tagli sulla fronte. Aveva lo sguardo affranto, così mi strinse in un abbraccio. 

Venimmo trascinati via, ma non avevo le forze di reagire. Mio fratello era stato adagiato su di un telo legato a due aste di legno e con quello lo stavano trasportando, era svenuto. Mia madre era stata avvolta in un lenzuolo bianco e si trovava tra le braccia di un ragazzo. Non conoscevo quei volti ma ero troppo sconvolta per pensare a qualcosa di sensato.

Nate mi aveva sussurrato che Theo aveva ricevuto un colpo alla tempia ed era svenuto, ma erano arrivati dei soccorritori dal campo e avevano ucciso quel "Cacciatore", loro li chiamavano così. A quanto pareva era sotto il controllo degli Altri, ancora non sapevano come era possibile ma avevano ipotizzato che erano stati impiantati nel loro sistema nervoso degli agenti dormienti e nel momento in cui la Nave Madre era attraccata sopra le nostre teste, questi agenti si erano risvegliati controllando del tutto questi umani. Non era una cosa sicura, ma era la più plausibile. 
Una cosa era sicura, li avrei uccisi tutti. Fosse stata l'ultima cosa che avrei fatto su questa terra.

E quello era solo l'inizio della Quarta Onda. 

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Da ora in poi metterò una scheda per ogni personaggio, in modo da inquadrarli bene. Farò una breve descrizione per sapere le cose fondamentali. Ancora grazie a tutte le persone che leggono questa storia. 


                                                          









 





Nome: Evangeline "Eva" 

Cognome: Miller 

Compleanno: 12 Maggio (17 anni)

Segno zodiacale: Toro

Aspetto fisico: Media statura, magra, capelli lunghi castano scuro e occhi grandi azzurri. 

Carattere e curiosità: Ha un fratello maggiore che si chiama Theo. Eva gioca nella squadra di pallavolo del suo liceo. Prima dell'Arrivo era una ragazza come tutte le altre, leggermente snob e spensierata. Ora il suo carattere è molto maturato, è molto più sensibile e si fida poco di ciò che la circonda, è una tra i pochi sopravvissuti rimasti sulla terra.

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Capitolo 8
*** 8.Can you feel my Heart? ***


Andrew camminava a passo spedito e io lo seguivo leggermente affaticata.
Mi mancava quasi il fiato, sia per l'eccessivo freddo, che per la lunga camminata. -Aspetta! Ti prego, aspetta. Non ho più fiato.- dichiarai appoggiandomi ad un tronco umidiccio. 
-Oh scusami.- disse affiancandomi. Eravamo diretti ad un Wallmart proprio sulla statale che percorreva l'intero perimetro nord del bosco. 
Ero andata solo una volta in quel Wallmart da quando vivevo nei boschi, per prendere delle coperte e basta. Avevo paura di quel luogo.
Da dove eravamo si potevano vedere già i lucernari completamente in vetro ricoperti da un manto bianco che riflettevano la luce del sole.

-Sai- iniziai a parlare guardando di traverso il bosco che ci stavamo lasciando alle spalle. -non mi hai ancora raccontato cosa ti è successo dopo l'incidente a scuola.- non gli dissi che l'avevo visto nel lazzaretto.

-Beh, fa un po' schifo la mia storia.- disse lui abbassandosi la bandana dalla bocca e sistemandosi lo zaino sulle spalle. 
-Non penso che qualche sopravvissuto abbia una storia bella da raccontare.- constatai io guardandolo mentre tirava fuori dallo zaino una fotografia.

-Non so se sai ma avevo una sorella. I miei sono morti nella Seconda Onda, anche se non li rivedevo da prima dell'arrivo. Sono morti nell'inondazione di Dublino, si trovavano lì per lavoro.- accarezzò gli angoli rovinati della foto e continuò a parlare. -Quindi sono rimasto solo con mia sorella, Ronnie. Aveva solo sette anni. Io, quando ho saputo della morte dei miei, sono crollato, non sapevo cosa fare e come comportarmi. E tutta la situazione intorno a noi non aiutava affatto.-

Poi Andy mi mostrò la foto: c'era lui tutto sorridente al centro, ai lati una donna molto giovane e un uomo con gli stessi occhi di Andy. Il ragazzo aveva le mani selle spalle di una bambina con i lunghi capelli neri e gli occhi del medesimo colore di Andy.

-All'arrivo della Terza Onda, mi ammalai. Mi prelevarono dalla nostra casa e mi portarono nel liceo che ormai era diventato un posto dove accatastare i cadaveri. Rimasi lì per molto, non so di preciso quanto, ma il tempo non passava mai mentre quella cosa mi divorava le viscere. E Ronnie, lei era immune e rimaneva con me giorno e notte che temetti perfino che si ammalasse.- sospirò facendo un mezzo sorriso.

Intorno a noi non si sentiva il minimo rumore se non il fruscio del vento che ci gelava l'anima e il cuore.

-Quando la guardavo il mio cuore si riscaldava. Era come se mia sorella mi desse la forza di andare avanti e in un certo senso era l'unica cosa per cui non mi lasciavo scivolare nel baratro. Tanto sta che Ronnie non si ammalò, io iniziai a guarire e ormai la Terza Onda stava per giungere al termine. E questo fu la fine, per me.- guardò il cielo che ora stava lasciando spazio a nuvole cariche di neve che avevano il potere di spegnere anche il sole.

-Eravamo ancora nella scuola quando arrivarono i soldati. Sembravano dei robot. Noi sapevano che non erano umani quando iniziarono a sparare a tutti: i malati, i sopravvissuti, le donne. C'era più sangue di quanto la Morte Rossa aveva sparso, una cosa impensabile. Però non avevano toccato i ragazzi e i bambini, no. Avevano trucidato gli adulti ma avevano risparmiato i giovani.- si riprese la foto e la ripose nello zaino con sguardo duro.

Aveva i pugni serrati e la mascella contratta ma continuò lo stesso a parlare, per quanto doloroso poteva essere. 
-Mi ricordo quasi niente di quello che successe dopo. La malattia mi aveva reso debole e ancora non riacquistavo la lucidità, ma una cosa la ricordo. Quando mi strapparono mia sorella dalle braccia. A me mi lasciarono lì, forse credendo che ero ancora infetto e che nel giro di un giorno sarei morto. Ma sono ancora vivo e...Dio loro hanno Ronnie e non so da dove iniziare a cercare. Io voglio trovarla perché so che è ancora viva.-

Fu la prima volta che vidi crollare le barriere di Andy, e fu bruttissimo. 
-Mi dispiace molto Andy. Io davvero...-

-No. Non dispiacerti, non ora. Prima ho detto quelle cose perché ci credo. Le stesse cose che hanno portato via Ronnie hanno preso anche tutti gli altri ragazzi del tuo campo. Appunto non dobbiamo arrenderci, non ora. Io sono convinto che li troveremo.- e come una maschera, il suo viso tornò neutro.

Eravamo bravi a nascondere i nostri sentimenti, forse perché facevano troppo male ammetterli. Dire come stavano veramente le cose nella nostra testa e nel nostro cuore, come tutto ci sembrava surreale e impossibile. 
Perché no, nessuno poteva fare una cosa del genere. Nessuna forza superiore, perché esiste, farebbe una cosa del genere. 
Semplicemente è un momento buio. Ma nulla è semplice, noi umani siamo fatti apposta per complicare le cose. Ma queste creature provengono da un altro pianeta, un'altra galassia e chi lo sa forse da un altro universo. 
L'unica cosa che non riuscivo ad accettare in quel momento era che non potevo stringere qualcuno per sentirmi meglio, oppure sentirmi dire da qualcuno che tutto sarebbe andato bene e tutto sarebbe tornato al suo posto. 
Non avrei mai ripreso la mia vita nelle mani perché sentivo che ormai la mia vita era legata ad un filo più sottile che mai, e che il burattinaio non avrebbe avuto pietà. Sempre se gli Altri sapevano cos'era un burattinaio, avevo dei dubbi.

Tornammo a camminare in silenzio, con il silenzio che ci faceva compagnia. 
Ci trovammo la strada davanti, piena di macchine abbandonate. Lo stacco tra la civiltà e la natura era netto; in questo momento la natura ci rideva in faccia.

Il grande magazzino faceva paura, anche se era pieno giorno. 
Io e Andy camminavamo rannichiati tra le auto tamponate. Camminavamo sul vetri rotti coperti dalla neve, mentre i resti di alcuni cadaveri stavano lì insieme a noi come a ricordarci cosa saremmo diventati. Tenni stretta la mia arma tremando, non sapevo se era a causa del freddo o per la paura. 
Il grande parcheggio sembrava un porto di auto abbandonate: alcune sembravano deteriorate da tempo, sportelli aperti, vetri distrutti. 
Passammo nel mezzo, come dei sopravvissuti. Beh, lo eravamo. 
Entrammo dall'entrata principale, guardandoci subito dietro le spalle per essere sicuri che nessuno ci stesse seguendo. 
-Prendiamo tutto ciò che ci può servire tipo...acqua, cibo in scatola. Beh sai cosa prendere.- disse Andrew sporgendosi oltre la casa. Si voltò con in mano un mazzo di chiavi. 
-C'è il reparto caccia...non si sa mai.- sorrisi alle sue parole. 
-Sta attenta, se c'è qualcosa che non va grida, forte che ti sentirò. Ci ritroviamo qui.-

-Anche tu sta attento.- dissi prima di voltarmi e iniziare a camminare lungo gli scaffali. Ora che lo osservavo meglio era davvero un luogo angusto. Non me lo ricordavo affatto così.

Le corsie erano davvero ampie e deserte. Non c'era nessuno, solo tanta roba ammassata e marcia. 
Iniziai a riempire lo zaino, ma non troppo. Bisognava viaggiare leggeri. Presi fagioli in scatola e del cibo secco che si manteneva ancora. 
Non era passato tanto tempo, certo, però preferivo prendere quel cibo invece di patatine o cose del genere. 
Presi delle barrette energetiche e dei galloni di acqua, e poi mi spostai nel reparto vestiti. Avevo bisogno di nuove cose da indossare così presi due magliette e un paio di jeans, feci lo stesso per Andy. 
Camminavo tranquilla e pensavo. Ormai non facevo altro. Se era come diceva Andy, mio fratello doveva essere ancora vivo e anche Nate. 
Forse si trovavano sulla nave? No, non era possibile. Se gli Altri hanno preso il controllo di militari un nesso dovrà pure esserci. Una base militare? Era probabile, ma perché? Non aveva senso.

Nulla aveva senso in quel momento. 
Sentii un tonfo alle mie spalle, voltandomi, trovai delle scatole di scarpe a terra. 
Non ci pensai due volte prima di nascondermi dietro dei scaffali.

Avevo il cuore a mille, lo sentivo dalle mie orecchie. Sarei morta, ero sicura questa volta.
Non sapevo se urlare per chiedere aiuto ad Andy, ma se avrei urlato il Cacciatore (sempre se era uno di quelli) sarebbe arrivato prima di Andy e mi avrebbe uccisa. Ma se non avrei urlato sarei morta comunque. 
Cacciai la mia arma e la tenni stretta, nalla penombra mi nascondevo. Forse ero pronta a morire. 

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Risultati immagini per andy biersack
Nome: Andrew "Andy"  

Cognome: Biersack

Compleanno: 26 Dicembre (18 anni)

Segno zodiacale: Capricorno

Aspetto fisico: Alto, leggermente muscoloso, capelli corti castani e occhi azzurri. 

Carattere e curiosità: Andy gioca nella squadra di football del suo liceo; era il più popolare della sua scuola. Dopo l'Arrivo non è cambiato molto, ha solo imparato a nascondere meglio le cose che prova. Ha una sorella di nome Veronica (Ronnie) ed è tutto per lui. Ha sconfitto la Morte Rossa e, insieme ad Eva, cercherà di fare li stesso con gli Invasori.

Scusate per l'immenso ritardo ma sono stata impegnaissima.

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Capitolo 9
*** 9. Rise from the Ashes ***


Una forte campana mi risvegliò da un sonno profondo e pieno di incubi, che di giorno diventavano realtà. 
Era ora di alzarsi ma il mio corpo non voleva, ero ancora troppo scossa. 
Erano passati all'incirca tre giorni dalle celebrazioni per mia madre; l'avevamo sepolta nel bosco, tra gli alberi e il profumo dei pini. 
Ero rimasta chiusa in quel dormitorio due giorni, piangendomi e dimenandomi nel sonno. Nessun altro faceva caso a me perché era normale, dopo tutto ciò che avevo passato. 
Theo dormiva affianco a me e tutte le volte che mi svegliavo a causa di un incubo, mi abbracciava forte e diceva che sarebbe andato tutto bene. E io riuscivo a convincermi che era così. 
Quella mattina era la prima mattina che uscivo realmente da quella baracca in legno, ed era la prima volta che vedevo così tante persone insieme dopo l'Arrivo. 
Avevo trovato ai piedi del mio letto dei vestiti puliti, che indossai con tanto piacere. 
La luce del sole mi diede leggermente fastidio. 
Il campo era molto grande: tutte le strutture della vecchia segheria erano state riutilizzate per creare molti dormitori, una sala comune, la mensa e tante altre sale dove poter passare il tempo. Al centro del campo c'era un enorme falò, intorno ad esso dei tavoli con delle sedie. Se si andava più in là, si trovavano dei vari orticelli, di piccole dimensioni, e delle serre, dove producevano il cibo per sostenere tutti i sopravvissuti del campo. 
Oltre quelli c'era la fossa comune, non ero mai andata lì, forse una volta o due, per tutta la mia permanenza al campo.
Mio fratello mi aveva raccontato che c'erano tutti i corpi che la Morte Rossa aveva martoriato, come si faceva per la peste. Si mettevano tutti i corpi in una fossa comune, tutte quelle persone che non avevano più nessuno, più niente, più una famiglia, neanche un nome. 
Era mattina presto e il sole era appena sorto, e tutti avevano già del lavoro da fare. 
Mi recai in mensa per fare colazione, una delle case più grandi del campo. Quando entrai, c'era la fila per prendere il cibo, come a scuola. Una fitta al petto mi scosse, e ricacciai indietro le lacrime. In quel momento mi sentivo più sola che mai, ero smarrita. Nulla mi era familiare, nulla sembrava reale e possibile.

Mi misi in fila per prendere solo un po' di spremuta e un muffin confezionato. Individuai, tra i pochi tavoli occupati, uno dove sedeva mio fratello con Nate e un altro ragazzo. Mi avvicinai, tenendo in equilibrio il mio vassoio. 
Mi sedetti, sussurrando un saluto appena percettibile.

-Buongiorno Eva.- disse con un tono neutro Theo, bevendo il suo latte. Nate guardava fisso il suo vassoio, con della frutta e un succo. Era più pallido del solito e le occhiaie gli segnavano il viso, intorpidito dalla stanchezza. Mi guardai le mani, leggermente a disagio. Erano piene di graffi e lividi, che non ricordavo neanche come me li ero procurati. 
-Oh Eva, lui è And. And lei è Eva, la mia sorellina.- quel nomignolo mi scaldò per un momento. 
Guardai il ragazzo che avevo subito affianco, And. Sembrava avere la mia età.
Dei pantaloni troppo grandi per lui, una maglietta logora e una giacca da football, con dietro scritto "Rowe". 
I capelli neri erano tirati perfettamente indietro, gli occhi erano come il mare e il viso perfettamente riposato. Sembrava che l'apocalisse non l'avesse nemmeno sfiorato. 
-Piacete, Anderson Rowe, ovviamente chiamami And.- mi porse la mano, molto più grande della mia che strinsi titubante. 
Tornammo tutti a stare in silenzio, immersi nella leggera confusione mattutina della mensa.

Varie ore dopo, forse erano le dieci o giù di lì, il sole brillava alto nel cielo, scaldandoci un poco. 
Il mio compito quella mattina era controllare i bambini che stavano nelle serre a sperimentare un po'. Il cuore mi si scaldava vedendoli, così ingenui e indifesi.

-Eva.- mi sentii chiamare dalle spalle così mi voltai. Era And, quel tizio strano della mensa. 
-Ciao And.- dissi atona tornando a controllare i bambini. Si stavano tutti impastrocchiando nel fango, solo alcuni stavano annaffiando sul serio le piantine.

- Anche a me misero qui i primi giorni. Sembra una sorta di iniziazione.- si fermò al mio fianco con le mani nelle tasche dei pantaloni.

Feci un cenno con la testa e rimasi zitta. Non sapevo proprio cosa dire. 
-Beh? Come ti sembra questo campo?- continuò lui sedendosi su un tronco tagliato, iniziando a guardarmi con quei suoi occhi chiari.

-Grande e molto...affollato. Forse è pericoloso.- dissi attorcigliando una foglia tra le mani.

-Pericoloso? Perché mai?- disse quasi con tono beffardo. Sembravo una stupida dicendo quelle cose ma era semplicemente logica.

-Più siamo concentrati in un posto e più facile sarà per loro stanarci. È semplice.- alzai le spalle e guardai per l'ennesima volta i suoi occhi blu.

Mi ricordavano quelli di Andy. No, Andy lì aveva azzurro ghiaccio. Anderson invece lì aveva azzurro mare, molto più gradevoli. 
Ovviamente amavo quelli di Andy.

-Non fa una piega. Ma sai, senza questo campo solo un quarto della gente che si trova qui dentro sopravvivrebbe la fuori, da sola. Questo posto gli da sostentamento fino al giorno del giudizio. Prima o poi lasceremo tutti questa terra.- disse con tono amaro. 
E aveva ragione. Non c'era motivo per combattere ancora. 
Altri 1 - Umanità 0. Era elementare. Eravamo già spacciati.

Volevo tanto sapere la sua storia, perché era lì, se aveva ancora qualcuno, da dove veniva, cosa faceva prima dell'Arrivo. Avevo tante domande.

-Ehi Squalo! Oggi tocca a me con la bici, mi aiuti vero?- un dolce bambino dai capelli biondi e una salopette in jeans malandata, si avvicinò al ragazzo con un sorrisone. 
Mi fece sorridere. Era così piccolo.

-Certo puzzola, ora va ad annaffiare altrimenti niente bici.- gli scompigliò i capelli prima di lasciarlo andare. 
-Squalo? Perché ti chiama così?- chiesi alzando un sopracciglio.

-In realtà in molti mi chiamano così, non solo Hemmet. Sono sopravvissuto alla Seconda Onda, l'unico della mia città. - disse in modo diretto facendo scomparire il sorriso dal suo viso.

-Mi trovavo sul palazzo più alto della città. Osservavo tutti e tutto mentre andavano a fondo, senza riuscire a mettersi in salvo. Mi sentivo molto un predatore che osservava le sue prede. Ma non ero nulla del genere, anzi me la stavo facendo nei pantaloni. Da qui il nome Squalo, come il predatore.- disse battendo una sola volta le mani prima di alzarsi davanti a me. Era molto alto.

-La tua storia me la vuoi raccontare invece?- disse avvicinandosi ancora un po'. 

-Ora non ho tempo devo controllare loro.- dissi indicando i ragazzini con il mento.

-Non ti sto forzando. Ora, più tardi, fra due giorni. Quando ti sentirai pronta, io ti ascolterò. Abbiamo tutto il tempo del mondo, o forse no.-

E con questo uscì dalla tenda, portandosi via quel tepore di mistero.

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Nome: Anderson "And"/ Squalo

Cognome: Rowe

Compleanno: 13 Giugno (17 anni)

Segno zodiacale: Gemelli

Aspetto fisico: Alto, magro, capelli corti castano scuro e occhi azzurri. 

Carattere e curiosità: Anderson, o come si fa chiamare, Squalo è uno dei pochi sopravvissuti alla Seconda Onda nella sua città natale, Atlantic City. È un ragazzo molto misterioso, cupo delle volte, ma se lo si conosce meglio è un grande amico. Prima dell'Arrivo giocava nella squadra di football del suo liceo. È un nerd per eccellenza e ama esserlo. Dopo il liceo sarebbe andato ad alla Harvard University. Stringerà, inoltre un grande legame con i fratelli Miller e sarà tra i ragazzi scomparsi del campo.

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