Something New

di Lady I H V E Byron
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** (I) ***
Capitolo 2: *** (C) ***
Capitolo 3: *** (H) ***
Capitolo 4: *** (S) ***
Capitolo 5: *** (U) ***
Capitolo 6: *** (C) ***
Capitolo 7: *** (H) ***
Capitolo 8: *** (E) ***
Capitolo 9: *** (N) ***



Capitolo 1
*** (I) ***


Note dell'autrice: salve, Aliens! Se avete letto l'altra mia storia sui TH "Fell it all", ricorderete che avevo scritto che sarei andata avanti con la storia, di conseguenza scriverne delle altre su di loro, dopo aver concluso altre storie in sospeso. Però questa non me la sentivo di lasciarla da parte, quindi ecco un'altra storia da aggiungere all'elenco... che pacchia essere scrittori, neh? Ora vi dico cosa c'è da sapere su questa nuova storia: già vi dico che non sarà mai bella quanto "Atme die Liebe" di "unleashedliebe", ma diciamo che mi ha dato un pizzico di ispirazione; una piccola parta sarà composta di elementi autobiografici (grazie al cielo, non il ragazzo morto); per quanto riguarda i nomi di alcuni personaggi e la località, se un paio di mesi fa siete passati per la sezione "Linkin Park", avevo pubblicato i primi capitoli di una storia intitolata "Destinazione: Linkin Park", dove c'era un ragazzo di nome Gabriele come protagonista, residente a Bologna, che aveva scoperto che nel pacco che aveva vinto per un concorso c'erano due biglietti per assistere al concerto dei Linkin Park in Italia e la storia, tra le altre cose, trattava della sua ricerca di una persona che andasse con lui al concerto, venendo aiutato proprio da Chester Bennington e da Mike Shinoda (con la magia di Skype), che lo aiuteranno anche per altre questioni, soprattutto quelle di cuore. Fra alcuni personaggi ci sono Filippo, il suo migliore amico, Daniela, un'amica (e allieva del padre di Filippo, insegnante di storia medievale) che poi scopre essersi presa una cotta per lui (che, poi, ricambia, nonostante ella sia più grande di lui di quattro anni), e Elena, la ragazza cui Gabriele fa la corte dai tempi delle medie, senza risultati. Ecco, quei personaggi li ho messi qui; ma in questa storia è Daniela ad essere la protagonista.
Beh, sicuramente non piacerà e nessuno la leggerà, ma ho fatto del mio meglio.
Ah, il titolo non è stato messo a caso. Ecco il messaggio che voglio dare, sebbene sia scontato: quando siete tristi, o annoiati, l'unica cosa da fare è cercare qualcosa di nuovo.


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28 Marzo 2017.
Milano.
Doveva essere il giorno più bello della mia vita. O meglio, uno dei giorni più belli della mia vita.
Infatti lo era.
Ero andata a vedere i Tokio Hotel dal vivo. Finalmente. Dopo una decade di attesa.
Un’esperienza bellissima, che avrei tanto voluto ripetere all’infinito.
E Bill… oh, Dio… l’emblema della bellezza maschile. E poi non capivo perché alcuni sentissero nostalgia del loro vecchio stile: Bill, dieci anni prima, era TROPPO femminile, effettivamente.
Non mi erano mai piaciuti gli uomini con la barba, ma a Bill, precisamente, a entrambi i Kaulitz, non stava male. Dava loro un aspetto più adulto e maschile. Adulto… per modo di dire. Avevano ancora lo stesso volto da ragazzini. Il tempo sembrava non essere mai scorso per tutti i membri dei Tokio Hotel.
Ero uscita dal Fabrique, con il sorriso sulle labbra, insieme a due ragazze trentine che avevo conosciuto quel giorno, Lorenza e Giada; alloggiavano nello stesso hotel dove alloggiavo io, proprio nella stanza accanto alla mia, ecco come ci eravamo conosciute.
Il mio cellulare squillò.
Pensai fosse mia madre o mio padre, per sapere come stavo.
Quando vidi il nome, mi stupii: Filippo.
Era un mio amico, o meglio, il figlio del mio professore di storia medievale, all’università. Avevamo scoperto di avere molte passioni in comune, soprattutto quella per i videogiochi, e diventammo amici.
Confusa, accettai la chiamata.
-Pronto?-
-Ciao, Dani…-
Daniela. Così mi chiamo. Un nome stupido, vero?
La sua voce era triste.
Mi preoccupai anch’io.
-Cos’è successo?-
Quanto mi raccontò in seguito, fece scivolare il mio telefono dalle mie mani, che cadde per terra, procurandosi l’ennesima crepa sul vetro. Poi caddi io, perdendo i sensi, facendo spaventare Lorenza e Giada, che chiamarono subito l’ambulanza.
Avevo letto da qualche parte che il dolore era più forte se preceduto da un forte momento di felicità.
Sì, lo era.
Gabriele, il ragazzo di cui mi ero innamorata, era morto.
Un incidente in moto, mi aveva detto Filippo. Una macchina non gli aveva dato la precedenza e lo aveva investito, provocandogli la frattura delle ossa, soprattutto della colonna vertebrale, e diverse lesioni interne.
Non c’era stato niente da fare. Il colpo fu fatale.
Il funerale venne celebrato due giorni dopo.
C’era molta gente: parenti, amici, compagni di scuola…
Tra loro scorsi Elena, la ragazza a cui Gabriele faceva la corte dalla seconda o dalla terza media, una ragazza di origini russe, capelli neri, occhi glaciali, la perfezione in persona, insomma; ma lei non aveva mai ricambiato il suo amore. La odiai dal primo momento in cui lui me ne aveva parlato.
Infatti, non facevo altro che guardarla, piena di odio. Non c’era momento in cui non bramassi di darle fuoco ai capelli.
Come osava presentarsi al suo funerale? Lei, che praticamente ripugnava Gabriele! Usciva con lui solo quando più le aggradava! Lo trattava come fosse una riserva, se proprio non trovava nessuno con cui uscire la sera. E da come mi aveva detto Gabriele, capitava che disdicesse l’appuntamento all’ultimo minuto.
Persino Filippo aveva cercato di convincerlo di rinunciare a lei, ma invano.
Io comprendevo Gabriele. Prima di conoscerlo, ero anch’io in una situazione simile.
Mi ero presa una cotta, tra tante persone, per uno Youtuber, uno dei tanti che pubblicava video su videogiochi. Non so spiegarmi come sia arrivata ad innamorarmi di lui, ma dal 2014 avevo cominciato a fargli i complimenti per i video, per le sue idee, un po’ anche per il suo aspetto… tutte cose pur di farlo avvicinare a me. Beh, l’avevo anche incontrato di persona, proponendomi come sua accompagnatrice per il Rimini Comix; fu una giornata davvero gradevole. Conobbi persino altri youtuber, altrettanto gentili e simpatici. E lui si era mostrato sempre gentile con me, così cominciai ad illudermi.
Le mie illusioni, ovviamente, risultarono vane; tuttavia, non mi arresi. Questo mi rendeva simile a Gabriele, per la tenacia.
Ma entrambi ci rendemmo conto che i nostri tentativi erano vani, anzi, proprio inutili.
Non ricordo da quando cominciai a vedere Gabriele con occhi diversi, sotto un’altra luce. Diciamo che la prima, lieve, scintilla era partita quando mi aveva invitata al suo diciottesimo compleanno. Conobbi i suoi compagni di classe, la ragazza di cui si era preso una cotta… vidi come lo trattavano: come un idiota, un bullizzato, un capro espiatorio, come il ragioniere Fantozzi. Avevano messo a soqquadro lo spazio festa affittato da lui (e che doveva, poi, pulire lui stesso), versando di tutto sul pavimento, e gli avevano persino rovinato la torta, mettendoci le mani sopra.
C’era anche Filippo, ma lui non entrava in quella categoria.
Si potrebbe dire che… Gabriele e Filippo erano migliori amici.
La prima volta che conobbi Gabriele fu durante un torneo di videogiochi; successivamente, avevo scoperto che era amico del figlio del mio insegnante di storia medievale e da lì cominciammo a frequentarci.
Ero più grande di lui di quattro anni, ma lui era più maturo di me. Era sempre gentile e premuroso con me, su WhatsApp mi condivideva spesso dei video e io facevo lo stesso. Questo, ovviamente, quando lo vedevo solo come un amico. Le cose sono più semplici, quando siamo solo amici.
Poi, almeno in me, scoccò un’altra scintilla, non so dire precisamente quando. Da un po’ di tempo non ci parlavamo più, su WhatsApp ci scrivevamo sempre di meno e quando eravamo insieme non incrociava mai il mio sguardo.
Pensai, di punto in bianco, di stargli antipatica e che non voleva più vedermi.
Tuttavia, con la coda dell’occhio, mi sembrava di scorgerlo intento a guardarmi.
Rinunciai ad amare “Roito_X” per Gabriele. E lui aveva detto che con Elena era ormai ad un punto morto.
Mi illusi di nuovo, sperando mi andasse meglio di prima.
Passarono mesi e ancora niente. Eravamo troppo timidi per fare un passo in avanti. Entrambi coprivamo la nostra timidezza con qualcos’altro: lui trattandomi male (sapete, con le tipiche bottarelle tra amici…) e io comportandomi più da maschiaccio del solito.
Mi domandavo spesso: “Con Elena le cose erano più semplici?”
Quanto rimpiansi, di non averglielo mai chiesto…
Si era dichiarato due volte a lei. DUE volte.
E lei per due volte lo ha rifiutato.
“Perché con me non lo ha ancora fatto? Sono più brutta di lei? Non sono femminile come lei? Non ho gli occhi azzurri come i suoi?”
Questo ero solita chiedermi, cadendo in depressione.
Quando eravamo soli, però, se camminavamo, si avvicinava a me, la sua mano sfiorava la mia, o mi sfiorava il sedere. Se lo avessi visto ancora come un amico, mi sarei scansata, con aria offesa. Erano momenti in cui mi illudevo di interessargli, anche un pochino, non mi importava.
Ma poi, quando mi invitava casa sua, per vedere un film, invitando anche Filippo, lo vedevo, su WhatsApp, controllare Elena. E lì il mondo mi cadeva addosso.
Non potevo più vivere in quel modo.
Avevo tre strade di fronte a me: rinunciare a lui, dichiararmi, o trovare un modo per far dichiarare LUI.
Avevo anche trovato, forse, la strategia migliore: un CD pieno di canzoni d’amore, incartato con i cuori, con sopra un bigliettino con scritto non una dichiarazione, ma un passo di una poesia di Leopardi, “Consalvo”, una delle mie preferite.
 
Parto da te. Mi si divide il cor
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
In tutto il viver mio?
 
Studiavo lettere, all’università, e ho avuto il modo di analizzare a fondo questa poesia. Piangevo spesso a leggere questo passo, perché immaginavo me, al posto di Consalvo, morente, e Gabriele, al posto di Elvira, chinarsi su di me, e darmi il primo e ultimo bacio; ma, nello stesso tempo, immaginavo lui al posto di Consalvo e Elena al posto di Elvira, e questo mi faceva soffrire ancora di più.
E la compilation di canzoni? Non canzoni qualsiasi, ma dei Tokio Hotel! Ovvio, no?
Avevo già in mente cosa mettere:
 
-In die Nacht
-Love Who Loves You Back
-Sacred
-Girl Got A Gun
-Alien
-Strange
-Zoom Into Me
-Not Over You
-Don’t Jump
-Phantomrider
-What if
-Louder Than Love
-By your side
-Love&Death
 
Ripensando all’ultima… “Amore e Morte” era anche il titolo di una poesia di Leopardi. Dopotutto… io, allora, consideravo Bill Kaulitz come una sorta di “moderno Leopardi”. Non dal punto di vista estetico, ovviamente.
Comunque, quelle canzoni, per me, erano adatte per Gabriele, in base alla sua personalità, alla sua esperienza amorosa. Magari, se lo avessero ispirato, avrebbe trovato la forza di dichiararsi a me.
Ma ormai era tardi.
Non avrebbe mai ascoltato quelle canzoni.
“That day never came.” tanto per citare i Tokio Hotel…
Gabriele era morto, e io non avevo ancora avuto il primo bacio da lui.
Mi resi conto di aver sprecato tutto il tempo che avevo avuto con lui.
Durante il funerale, sentii il mondo chiudersi intorno a me. Ogni tanto i miei occhi giravano per il vuoto, osservando i presenti. Tra di loro notai persino i suoi compagni di classe.
Ipocriti.
Tutta una vita a prenderlo in giro per quello che era e qualunque cosa facesse e poi vengono a piangere sul suo cadavere. Ovvio che piangessero: non avevano più nessuno da prendere in giro.
Quel giorno mi sentivo completamente priva di sentimenti e non avevo neppure la forza di muovermi: se così non fosse stato, avrei dato inizio ad un massacro, li avrei uccisi con le mie stesse mani.
Ma mi sentivo un guscio vuoto; no, peggio, una statua. Una statua con il cuore spezzato che non faceva altro che piangere.
Era il secondo lutto che mi capitava: cinque mesi prima, era morta mia zia, l’unica, nella mia famiglia, che mi ascoltasse. Il cancro all’intestino se l’era portata via, lo stesso che aveva portato via mio nonno, quando avevo cinque anni. Da quel momento odiai i medici con tutto il mio cuore.
Non mi ero ancora ripresa da quel lutto, anzi, penso che non me ne libererò mai. Quelli che cercano di consolarti dicendo: “Tutto passa.” sono quasi sempre persone che non hanno mai provato nulla del genere.
Ma quando celebrarono il funerale di mia zia, non sono stata nemmeno alla veglia, non ci ero andata proprio, sia per il dolore, sia per non ricevere condoglianze a destra e a manca. Anche per non vedere mia nonna piangere. Non lo avrei sopportato.
Ma con Gabriele partecipai a tutto. Presi parte persino al corteo, per portarlo al cimitero. Non smettevo un attimo di piangere. Filippo era accanto a me, che mi prendeva per mano. Anche lui stava piangendo.
Fra i tre, lui era il più stoico. Ma come si può trattenere le lacrime, sapendo che la persona che sta per essere sotterrata è il tuo migliore amico, o, quantomeno, una persona a cui tenevi molto?
Speravo di resistere, speravo di non crollare.
Ma quando vidi la bara sprofondare sotto terra e poi essere coperta dalla terra stessa, mi resi conto che non era solo Gabriele ad essere stato sotterrato, ma anche il mio cuore, i miei sentimenti, il mio senno.
Sentivo il mio cuore spezzarsi, frammentarsi, disperdersi nei meandri del mio corpo.
Riuscii solo a gettargli una rosa bianca che avevo preso dalla veglia. Ci versai persino una lacrima sopra, depositandovi tutti i miei sentimenti, pensando che sarebbe divenuta nera, come il buio che ormai albergava nel mio cuore. Non ero riuscita a dichiararmi a Gabriele, ma almeno avrebbe portato il mio amore con sé, nell’aldilà.
Quando morì mia zia, a stento trascinavo le mie gambe all’università, ma cercavo di comportarmi normalmente, per non essere compatita. Ma aggiungendoci il mio lutto per Gabriele… non parlavo più, non mangiavo più, mi rifiutavo persino di alzarmi dal letto. Restavo tutto il giorno a piangere, nel buio della mia stanza.
Era un dolore troppo forte da sopportare.
Dopo tre giorni, ero ancora nella mia stanza da letto. Mio padre non ne poteva più.
-Adesso basta, Daniela!- aveva tuonato, appena entrato nella mia stanza –Stai esagerando! Sono tre giorni che non esci da qui! Vogliamo superare questa situazione?!-
Non ebbi la forza di rispondergli. Non l’avevo mai avuta. Fin da piccola, mio padre mi aveva sempre fatto paura, con la sua imponenza, la sua voce grossa, lo sguardo che sembrava penetrarti nel cuore; dava l’impressione di poter manipolare le persone con quello sguardo.
Subivo, senza dire nulla.
Mia madre entrò in quel momento. Era la perfetta mediatrice in momenti simili, anche quando mio padre ed io avevamo le nostre “sfuriate”.
Per dirla alla Freud: io ero l’Es, mio padre il Super-Io e mia madre l’Io che faceva da mediatore fra le due parti.
-Flavio, calmati!- gli disse –Sii comprensivo. Ha perso un amico.-
Magari fosse stato solo un amico, mamma. MAGARI.
-Sì, ma bisogna superarle certe cose! Sennò non si vive più!-
La tipica mancanza di tatto e di sensibilità dei militari…
Scommetto che non ha versato neppure una lacrima per la sorella defunta…
-Domani tu torni all’università, altrimenti te la faccio pagare!-
Furono le sue ultime parole, prima di uscire, sbattendo la porta.
Già stavo soffrendo per Gabriele. Poi si erano aggiunte le grida di mio padre. Mi facevano male, avevano un effetto strano su di me, come un burattino che deve fare solo ciò che il suo burattinaio gli fa fare. Solo che, nel mio caso, i fili erano parole.
Mia madre Maia non era proprio brava a consolare.
-In effetti, tuo padre ha ragione…- mi aveva detto –Non puoi continuare a recluderti così…-
Anche lei non era dotata di sensibilità: mi domandavo spesso cosa le avesse fatto mia nonna per renderla così fredda.
E non capivo nemmeno da che parte stesse, se dalla sua o dalla mia.
Quando accadono momenti simili, la soluzione migliore è cercare un alleato, ma io sono sempre stata sola contro il mondo, fin da piccola. Questo mi aveva fatto intendere che avevo sempre torto e il mondo sempre ragione. Filippo e Gabriele erano gli unici a capirmi, poiché anche loro non andavano d’accordo con i propri genitori.
Il giorno seguente mi rifiutai di nuovo di andare all’università.
Mio padre non cercò nemmeno di farmi alzare con la forza: parlava tanto e si mostrava minaccioso, ma alla fine non faceva mai nulla di ciò che minacciava. Motivo di grande delusione, per me.
Forse aveva finalmente capito che parlandomi in quel modo non avrebbe risolto nulla, se non peggiorare la situazione. Non si scusò mai. Non con me.
Lo sentii quella notte parlare con mia madre, rivelandole quanto si fosse pentito di avermi parlato in quel modo.
Vigliacco.
Mio padre altro non era che un vigliacco.
Da piccola era il mio idolo, per la sua sicurezza, o meglio, per la sua tendenza a mostrarsi sicuro in tutto ciò che faceva o diceva, per la sua abilità nell’arte oratoria, per tutto. Ma, crescendo, mi resi conto che era una vera delusione, una persona che escludeva ogni tipo di conflitto, a parte con me, costante vittima dei suoi rimproveri e il capro espiatorio più vicino ogni volta che aveva le giornate storte.
Mi portò, inizialmente, dal dottore di famiglia; poi, da degli psicologi, sperando che trovassero un modo per “guarirmi”.
Niente. Non c’era verso di farmi parlare.
Non avevano trovato la cura per il mio lutto.
Un parente è un conto, ma la persona che ami è un altro. Dipende dai casi.
L’ultimo psicologo aveva proposto ai miei genitori una possibile soluzione: mandarmi in un ospedale psichiatrico.
Mio padre la prese subito male.
-Mia figlia in mezzo a degli psicopatici?! Non se ne parla! Lei resta a casa, punto e basta!- protestò, cercando di convincere lo psicologo, con la forza del suo sguardo minatorio.
Ma lui mantenne la calma e cercò di spiegare la situazione.
-Signori Savoia, vi prego, cercate di capire…- disse, con voce quasi rassicurante –Vostra figlia ha subito un grave lutto. Non parla, non mangia e non dorme da giorni e sembra che la situazione stia via via peggiorando. Se continua così, potrebbe avvicinarsi al suicidio.-
Per la prima volta, percepii i battiti accelerati del cuore di mio padre. Lo aveva messo con le spalle al muro, spingendolo ad abbandonare lo sguardo minatorio, sostituendolo con quello preoccupato.
Volle, però, ugualmente mascherare la sua preoccupazione.
-Sciocchezze. Daniela è una ragazza intelligente. Non oserebbe mai suicidarsi.-
Che affermazione sciocca.
Effettivamente, ero vicina a farlo. A suicidarmi. Non riuscivo più a sopportare quel dolore.
Gabriele non c’era più. Che senso aveva vivere?
-Sarà come dice lei…- proseguì lo psicologo –Ma Daniela ha bisogno di persone che la accudiscano, persone qualificate in grado di aiutarla.-
-Tutto ciò di cui nostra figlia ha bisogno è della sua famiglia!- si ostinò mio padre.
-Ne è sicuro, signor Savoia? Dalla postura che sta assumendo sua figlia, direi tutto il contrario…-
Mi ero stretta  nelle mie spalle, ogni tanto ne abbassavo una, ogni volta che mia madre voleva mettervi una mano sopra, nel tentativo di consolarmi.
Non avevo bisogno di loro. Volevo allontanarmi il più possibile da loro. Volevo vivere da sola nella mia disperazione.
-Daniela, vuoi tornare a casa tua?- mi domandò lo psicologo. Io feci “no” con la testa.
Erano così le mie sedute: mi facevano domande e io rispondevo con la testa.
-Daniela, solo i ciuchi rispondono con la testa!- puntualizzò mio padre, severo –Tu sei una persona! Parla!-
-Vede, signor Savoia?- fece notare lo psicologo, indicandomi; avevo inclinato la testa verso il basso, emettendo qualche lamento –Daniela, tuo padre ti parla spesso così?-
Annuii.
-Come?!- protestò mio padre, sorpreso e anche arrabbiato –E quando?-
-Adesso basta, signor Savoia! Così sta torturando sua figlia!-
Mi comprese.
Avevo trovato il mio alleato, anche se temporaneo.
A malincuore, i miei, alla fine, accettarono di inviarmi in un ospedale psichiatrico. Non era lontano da dove abitavo, per il sollievo dei miei genitori e familiari.
Un piccolo pullman mi venne a prendere il giorno dopo quella seduta. Non volevo farmi accompagnare dai miei, per non vedere i loro volti carichi di delusione nei miei confronti. Ammettere alle persone di avere una figlia in manicomio non era un argomento gradevole di cui parlare…
La mia famiglia era così, soprattutto nella parte paterna: dovevamo apparire al mondo come la famiglia perfetta, come fossimo ancora nell’epoca della monarchia e noi fossimo una famiglia nobile.
Non era per me che mio padre non voleva mandarmi in ospedale, ma per la “reputazione” che aveva creato con gli amici e il resto dei familiari, magari per vantarsi con i cugini di avere una “figlia modello”.
Mi avevano dato più volte l’impressione che non mi volessero bene. Il sentimento era ricambiato.
Odiavo la mia famiglia. Odiavo tutto.
E con la morte di Gabriele la situazione non era certo migliorata.
Per tutto il tempo, nel tragitto che separava casa mia dall’ospedale, ascoltai “Don’t Jump”, una delle mie canzoni preferite. Non avevo ascoltato altro da giorni. Mi teneva viva, mi aiutava a combattere la mia tentazione di togliermi la vita. I Tokio Hotel mi avevano salvata.
Andare nell’ospedale psichiatrico fu quasi una gioia, per me. Lontana dall’ambiente familiare, ormai soffocante. Mi sentivo libera dalle loro regole, dalla falsa tirannia di mio padre, da tutto quel mondo.
Non ero nemmeno obbligata a parlare. Ero persino disposta a restare muta per tutta la vita, se necessario.
Mi diedero una camera singola, con vista sull’esterno. La prima cosa che feci era attaccare la foto profilo di Facebook di Gabriele, che avevo stampato da una vita, ma rimasta sempre nei meandri del mio cassetto, sul muro, di fronte al letto, così, svegliandomi la mattina, lo vedevo di fronte a me.
Era seduto sull’erba, guardando in alto, mentre la luce del sole lo illuminava. Stava benissimo.
Da quel giorno, cominciò la mia nuova vita.

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Capitolo 2
*** (C) ***


Note dell'autrice: vi spiego come funziona la storia; è introspettivo, è vero, ma ci saranno quattro P(oint) o(f) V(iew), ovvero le vicende viste con gli occhi dei quattro protagonisti.

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Passò quasi una settimana e ancora niente. Mi ostinavo a non parlare. Mi rifiutavo ancora di mangiare.
Nemmeno le pasticche antidepressive furono di aiuto. Non del tutto. Mi davano solo l’impressione di stare bene. Ma il dolore tornava, più forte di prima.
Avevo un’infermiera personale, una ragazza di trent’anni, Chiara, bionda, con i capelli sempre raccolti in una treccia bassa, che aveva il solo compito di portarmi i pasti (che non consumavo mai) e le pillole, e annotare i miei comportamenti, giorno dopo giorno. Ogni tanto si fermava per parlarmi. Io la osservavo senza dire una parola, ascoltando tutto quello che mi diceva.
Per il resto, vivevo la vita da perfetta reclusa, sempre chiusa nella mia stanza: mi avevano permesso di portare qualche oggetto da casa mia, oltre che dei vestiti. Ero sempre attaccata o al televisore, guardando film o serie TV, giocando ai videogiochi, o al computer, dove, ogni tanto, mi collegavo a Internet. Ero circondata da dischi, e non solo quelli dei Tokio Hotel. Avevo portato con me anche la raccolta completa degli album dei Queen, un altro gruppo che adoro tutt’ora. Li ascoltavo in un vecchio lettore CD, appartenuto a mia madre, che poi aveva volentieri ceduto a me, con le cuffie.
Nessuno si lamentava, come invece succedeva in casa. Ai miei non piaceva la mia vita da “reclusa”, sempre a fare avanti e indietro dalla Playstation al mio computer. All’ospedale, nessuno diceva niente, per fortuna.
Forse Chiara avrebbe tanto voluto lamentarsi, ma non voleva per timore di peggiorare la mia situazione.
Ah, inoltre, mi diedero un piccolo quaderno, il mio primo giorno in ospedale. Un diario per raccogliere i miei pensieri, o raccontare cosa avevo passato quel giorno, i miei sogni o roba simile. Un altro strumento per sorvegliarmi, insomma. Sapevo che Chiara lo leggeva e poi riportava tutto ai medici.
 
L’ambiente è gradevole e tranquillo.
 
Avevo scritto nel diario, al termine del primo giorno.
 
Le persone sono davvero gentili e gradevoli. Quando avevo udito “ospedale psichiatrico” per la prima volta, immaginavo un luogo simile a quello dove avevano portato Tasso. Ma c’è anche da dire che sono passati almeno quattro secoli, da allora, e le cose sono cambiate. Le persone “spostate” non vengono più trattate come animali, ma come persone che possono essere ancora salvate. Un po’ come fossero giocattoli che possono essere ancora aggiustati, se i bambini vogliono giocarci ancora. Chiara è una ragazza perbene, ma ormai ha assunto il ruolo di avvoltoio, invece della semplice “sorvegliante”. Sembra aspettarsi anche una piccola parola da me. Se non fosse così simpatica, direi che è la copia di mio padre. Ma perché nessuno mi vuole lasciare in pace? Voglio solo essere lasciata sola.
 
Avevano provato ad inviarmi altri psicologi, ma io continuavo a non parlare. Avevo deciso di restare muta.
Se volevano che dicessi qualcosa di diverso da “sì” o “no”, lo scrivevo.
Ma parlare no. Mi rifiutavo.
Vedere la foto di Gabriele in camera mia… non so dire se mi dava la forza di continuare a vivere o continuare a soffrire. Non passava momento senza che io lo pensassi. Rileggevo spesso anche i messaggi che mi inviava su WhatApp, rimuginando su eventi mai avvenuti, provando profondi rimpianti.
La osservavo ogni giorno, nel frattempo ascoltando “Elysa”. Secondo quanto aveva rivelato Bill Kaulitz, parlava di una persona che non c’era più. Era perfetta per accompagnare la memoria di Gabriele o di mia zia.
Chiara aveva provato a staccarla dal muro, un giorno. Fu l’unico momento in cui non mi comportai da vegetale: ringhiando come un animale selvaggio, le ero saltata addosso, mordendole la mano, e le braccia, per costringerla a ridarmi la foto. Mi calmai, rivedendo l’immagine di Gabriele. Non mi furono iniettati sedativi.
Sapevo che lo aveva fatto per il mio bene, per non vedermi più in quello stato, ma io non potevo vivere senza avere ancora qualcosa di Gabriele.
Anche i Tokio Hotel mi tenevano in vita.
Passare un giorno senza ascoltare nemmeno una loro canzone? Da escludere a priori.
Ma non passavo le giornate solo a lessarmi il cervello di fronte a degli schermi. C’erano anche i libri.
Mi è sempre piaciuto leggere, fin da quando ero piccola.
Nell’ospedale avevano anche una libreria: ordinavo spesso libri che mettevo sulla mia scrivania. Leggevo prevalentemente classici, la mia passione. Non ero e non sono tutt’ora un’amante dei libri moderni, sebbene li leggessi ugualmente.
E il mio libro preferito era ed è Jane Eyre. Per me la storia d’amore più bella del mondo. Forse per il fatto di raccontare una storia di amore platonico, puro, vero, senza il sesso di mezzo. Dio solo sa quante volte lo avrò letto e riletto…
Immaginavo spesso che mi accadesse qualcosa di simile, prima con “Roito_X”, poi con Gabriele. La dichiarazione d’amore del signor Rochester è la più bella che abbia mai letto.
 
Io ti offro la mia mano, il mio cuore, i miei beni.
 
Gabriele… dal giorno in cui venni a conoscenza della sua morte lo sognavo tutte le notti. A volte lo sognavo che si allontanava con Elena, abbracciati l’un l’altra, e io li inseguivo piangendo, senza mai raggiungerli.
-No! Non lasciarmi sola!- urlavo, nel frattempo.
Oppure Gabriele era con me, poi scorgiamo entrambi Elena in lontananza, che ci osserva con disprezzo, poi si voltava e diceva: -Tutti uguali voi uomini… Prima sbavate dietro la figa di turno e poi vi mettete con il primo cesso che trovate perché sono brave donne di casa…-
Lui, poi, si accingeva a seguirla, urlando: -Elena, torna da me!-, mentre io lo prendevo per mano, piangendo, e urlavo: -Gabriele, resta con me!-
A volte lo sognavo senza guardarlo in volto; in genere, erano sogni dove lui fuggiva sempre da me.
Questo mi faceva soffrire, non bastava il solo pensiero che non sarebbe più tornato da me.
Ma l’incubo peggiore era questo: ero sdraiata sull’erba, mentre il sole del tramonto colora il cielo di un grazioso blu cobalto, sfumato con il rosso e le nuvole di rosa. Gabriele era sdraiato accanto a me e, ad un certo punto, si metteva su un fianco e mi metteva un braccio addosso, come per abbracciarmi. Provando una rilassatezza mai provata in vita mia, stringevo il suo braccio a me, desiderando con tutta me stessa che quel momento non passasse mai.
-Oh, Dani… se solo avessi vissuto momenti simili anche con Elena…- mi diceva.
Elena… quella strega… quella sgualdrina russa… era solo un sogno, ma gioivo ugualmente di avere finalmente Gabriele tutto per me. Non provavo rabbia o gelosia, perché lui era con me e non con lei.
-Lei non mi ha mai accettato per quello che sono, ma tu sì. Mi hai sempre supportato, sei sempre disponibile per me…-
Stava per dirlo, me lo sentivo.
-Ma nel mio cuore non ci può essere posto per due persone…-
Speravo che stesse per dire che avrebbe rinunciato a Elena, per me.
-Oh, Gabriele…- dicevo io, mentre il mio cuore batteva a mille per l’emozione, seppur fosse solo un sogno –Sei un ragazzo così romantico… soprattutto ora che nel tuo cuore ci sarà posto per me…-
-Per lei.- mi faceva eco lui, interrompendo la mia frase.
Quelle due parole si rivelavano una vera pugnalata per me. Il mio cuore si spezzava e una forte rabbia si impossessava di me.
-C-cosa…?!- balbettavo, voltandomi verso di lui, sgomenta.
-Come…?- mormorava lui, confuso.
-C-come sarebbe a dire “per lei”?-
In quel momento, scattavo a sedere.
-Dani, io…-
-Ma io credevo che tu…-
-N-no, voglio dire… sei una brava ragazza… ma… Elena…-
Elena. Di nuovo quel nome.
La rabbia mi accecava completamente.
-NO!!!- urlavo, con tutto il fiato che avevo in gola, alzandomi.
La peggior paura di una persona innamorata: non essere ricambiata.
Anche lui, spaventato, si alzava.
-Dani, calmati! Stiamo solo parlando!- diceva, prendendomi per le spalle, cercando di tranquillizzarmi.
-NO! HO RINUNCIATO AD AMARE LUI PER TE!- mi riferivo a “Roito_X” -HO PERSINO RISCHIATO UN BANN, QUANDO HO RIVELATO IL SUO VERO NOME A TUTTI I SUOI ISCRITTI, PROPRIO PER NON DOVER PIU’ AVERE NIENTE A CHE FARE CON LUI!-
-Dani, cerca di capire! Tu sei più grande di me di quattro anni, non può mai funzionare!-
-IO HO SCELTO TE!- ero diventata sorda, oltre che cieca dalla rabbia –HO SCELTO TE, E ORA TU SCEGLI ME!-
-Non è così che funziona, Daniela! Io non ti amo e mai ti amerò, perché ho scelto Elena.-
La figura della russa appariva in lontananza, con i suoi occhi glaciali.
-NO! TU STARAI CON ME, CHE TU LO VOGLIA O NO!- urlavo, prima di ricevere uno spintone da lui. Cadevo tra l’erba, che stava diventando un pavimento freddo e liscio, di marmo.
Lui stava correndo da lei. Io, quindi, correvo da lui.
Ma qualcosa mi bloccava. Delle sbarre. Ero in trappola, non potevo più uscire. Non potevo più raggiungerlo.
Non mi restava altro che guardare Gabriele e Elena allontanarsi, picchiando sulle sbarre e urlando come una pazza, piangendo. Mi svegliavo urlando e piangendo, facendo allarmare Chiara, che entrava nella mia stanza con un sedativo in mano, per poi iniettarmelo. Mi calmavo, ma la sensazione rimaneva.
Erano le urla di un cuore spezzato. Era il mio peggior timore, quando lui era ancora vivo.
Una parte di quel sogno, in effetti, era vera: io avevo scoperto il vero nome di “Roito_X” e il giorno in cui avevo deciso di rinunciare a lui per sempre, avevo rivelato il suo vero nome a tutti coloro che lo seguivano su Facebook. Usando un account falso, ovvio.
Non potevo sapere che si sarebbe trattato da subito di una battaglia persa.
Mi ritornava spesso, in mente, il testo di “Elysa”: la mia situazione non poteva essere più azzeccata a quelle parole.
 
No fight I wouldn’t have fought for you
But I can’t love you anymore
Cause you
You left to the stars
My world fell apart
Now that you live in the dark.
 
Ma io non riuscivo proprio a dimenticarlo. Con che coraggio avrei potuto strappare la sua foto?
-Dani, è ora.-
Ah, dimenticavo una cosa importante: Chiara è una mia cugina, più o meno. O meglio, i nostri nonni erano cugini, ma noi ci comportavamo come fossimo veramente cugine. Anzi, si poteva dire che fossimo amiche. Mi sollevò il fatto che sarebbe stata lei la mia infermiera. Avevo sempre confidato tutto a lei. Infatti sapeva già di Gabriele. Era l’unica, al mondo, che fosse a conoscenza della mia infatuazione per lui.
Un giorno, infatti, ci eravamo messe d’accordo (lei parlando e io scrivendo) nell’andare al cimitero a trovarlo.
Mi sceglieva i vestiti e mi pettinava, alcune delle poche cose che mi rifiutavo di fare. Indossai una camicetta a quadri grigi, bianchi e neri, le mie converse nere e i miei amati jeans strappati sulle ginocchia.
Non indossavo più volentieri i miei abiti: da quando praticamente abitavo nell’ospedale, portavo casacche grandi tre volte me, tipo quelle per signore anziane, e pantaloni leggeri, larghi anch’essi e calzini antiscivolo, se non le ciabatte tipo da infermiera.
Ma per uscire, non potevo indossare abiti di quel tipo. Dovevo fare lo sforzo di indossare i miei abiti.
Per fortuna, ai malati era consentito uscire, purché fossero in compagnia degli infermieri.
Il cimitero distanziava un quarto d’ora dall’ospedale, in macchina.
Comprammo una rosa bianca in una bancarella proprio di fronte al cimitero.
Era una giornata serena e soleggiata, oltre che temperata. Vedere il sole mi sollevò un po’ l’umore, anche se pochino.
Ricordavo bene dove avessero sepolto Gabriele. Chiara mi accompagnò lì e mi disse, con premura: -Prenditi il tempo che ti serve. Ti aspetto fuori.-
Di norma, non sarebbe saggio lasciare uno psicopatico da solo, ma la tomba di Gabriele non era molto lontana dall’entrata, quindi Chiara poteva tenermi d’occhio anche da lontano, intervenendo quando ci sarebbe stato il bisogno.
Sistemai la rosa in mezzo a tutti gli altri fiori, probabilmente messi dalla madre.
Gabriele… sembrava così felice nella foto. Avevano messo la vecchia foto del profilo di WhatsApp, quella quasi in controluce. Ma era bella lo stesso. Lui era bello.
Rimuginai sui miei rimpianti e caddi sulle mie ginocchia, piangendo. Mi si spezzava il cuore il solo pensiero che il ragazzo che amavo fosse chissà a quanti metri sottoterra da me. Vedere la sua tomba mi fece ritornare in mente il giorno in cui venne sepolto. Fu terribile.
Senza farmi sentire, cantai il pezzo di “Elysa” che ho scritto poco prima.
Non parlavo, è vero, non volevo parlare; a malapena cantavo. La tentazione di cantare tornava sempre.
Per il resto, non ricevetti alcuna visita, in quella settimana. Solo una, quella dei miei genitori, nonché l’unica.
L’unico che veniva a trovarmi spesso, quasi tutti i giorni, era Filippo. Ma non quel genere di visita, quello “normale”, dove una persona si presenta di fronte a te. Facevamo delle partite online alla Playstation e lì chattavamo. Gli dicevo come stavo, com’era il luogo in cui vivevo e lui mi parlava delle sue giornate a scuola. Questi erano i nostri incontri. Ma a me andava bene. Anche lui voleva distrarmi da quello che stavo passando e non smetterò mai di ringraziarlo, nel suo piccolo.
 
Stanotte ho sognato di nuovo Gabriele. Ho fatto di nuovo il sogno dove lui sceglieva Elena invece di me.
 
Mi limiterò a scrivere questa frase, del pensiero di quel giorno. Iniziavo la mattina, appena sveglia, a scrivere sul diario, finché avevo ancora in testa il ricordo del sogno fatto quella notte, poi scrivevo la mia giornata, praticamente minuto per minuto.
E la sera, prima di andare a letto, lo mettevo sopra un tavolino; poi, Chiara lo prendeva da una finestrella che collegava la sua camera alla mia per leggerne il contenuto al direttore.
Io stessa mi stavo rendendo conto di scrivere ormai le stesse cose da una settimana. Ogni giorno era lo stesso: mi svegliavo, scrivevo il sogno fatto quella notte (tutti su Gabriele), giocavo alla Play, navigavo su Internet, a volte mi chiamava lo psicologo per farmi parlare, seppur inutilmente, leggevo, guardavo qualche film o serie TV, e poi a letto. Tutti giorni senza pasti, nonostante Chiara continuasse a portarmeli, per poi riprenderli esattamente come e dove li aveva lasciati.
Non avrei nemmeno mangiato il brodo di coda di bue di Chencha, personaggio di uno dei miei libri e film preferiti, “Come l’acqua per il cioccolato”, dove la protagonista, a cui era successa una cosa simile alla mia, era stata mandata in manicomio e non aveva parlato o mangiato fino a quando non le fu portato quel brodo, e aveva improvvisamente ripreso a parlare. Con me non avrebbe funzionato.
Ad ogni modo, le mie giornate erano così, tranne quella volta in cui erano venuti i miei. Lì avevo scritto questo:
 
Oggi sono venuti a trovarmi i miei genitori. Pensavo avessero portato anche  nonna Caterina, ma c’erano solo loro. Meglio così, hanno evitato di farla soffrire ulteriormente. Dopo quanto è successo a zia Silvia, come biasimarla? Il resto dei parenti? Figuriamoci. Non mi stupirebbe se, per loro, ormai, non esisto più. A chi interesserebbe avere una psicopatica come parente, in fondo? Non perdo molto, pensandoci bene, anzi. Sto meglio da sola che in compagnia di quegli ipocriti. Mia madre mi ha portato dei dolcetti, i bignè alla panna e la pasta frolla con la crema pasticcera e la frutta, i miei preferiti, ma io non li ho mangiati, nemmeno toccati. Mi limitavo ad osservarli, invece che osservare i miei genitori. Non voglio mangiare, voglio stare digiuna tutta la vita, se necessario. Non mi interessa se morirò di stenti. Mio padre ha cercato in tutti i modi di farmi parlare, invano. Mi ha chiesto come stavo, con tono tra lo stoico e il finto premuroso. Patetico. Gli leggevo in faccia la delusione che provava per me. Scommetto che aveva una voglia così di tirarmi i capelli, per costringermi a parlare contro la mia volontà. Non voglio parlare. Non potete costringermi. Mi domando cosa lo abbia spinto a venire qui. Cosa abbia spinto entrambi a venire qui. Non li volevo, non li voglio e non li vorrò mai vedere. Perché anche loro non mi lasciano in pace una buona volta per tutte? Voglio stare sola. Cosa costa a loro? Che sia la tipica patetica scusa del “Siamo i tuoi genitori e ti vogliamo bene.”? Cazzate. Fai un passo falso e loro si scoprono essere i peggiori giudici del mondo. E i miei lo sono stati, da quando ho smesso di parlare. Conoscendo mio padre, è troppo orgoglioso per ammettere di essersi fatto un esame di coscienza e riflettere su cosa mi aveva detto sere fa.
Li odio. Odio tutto il mondo. Ma cosa mi spinge a continuare a vivere? Se Gabriele non c’è più che senso ha vivere?
 
Suicidarmi? Non ci avevo nemmeno provato. Non avevo il coraggio. Eppure, teoricamente, ero pronta: privata dell’unica cosa che mi teneva in vita, abbandonata da tutto il mondo… c’erano i Tokio Hotel, questo era chiaro, no? Se ero giù, ascoltavo le loro canzoni, piangendo, e mi sentivo subito meglio.
Così erano le mie giornate. Tremendamente noiose e ripetitive. Forse non era stata una buona idea, l’ospedale psichiatrico.
 
 
Chiara’s P.o.V.
 
 
“Devo aver visto troppe volte l’ultima puntata di “Agents of S.H.I.E.L.D.”. Stanotte ho sognato che io ero di fronte a Elena. Praticamente, io ero Ghostrider e lei era Aida/Ofelia, che moriva per mano mia. Le stringevo le braccia con una tale forza da spezzargliele. Improvvisamente, ecco che dalle mie mani escono delle fiamme che la circondano. Lei urla, voltandosi verso Gabriele, come per supplicargli di aiutarla, ma lui è immobile, intimorito, mentre io rido, soddisfatta, mentre il suo cadavere diventava cenere, che si sgretolava sulle mie mani.”
Chiusi il diario, appena finii di leggere il resto delle righe.
Non era cambiato niente. Daniela non mostrava segni di miglioramento. Era solo alla prima settimana, ma ogni giorno le sue condizioni sembravano peggiorare, nonostante la cura cui venisse sottoposta: sognava Gabriele ogni notte, a volte si svegliava urlando e piangendo, e trovava modi sempre più macabri di uccidere Elena.
Ormai non parlava più, nemmeno con me. A volte la sentivo cantare, e mi illudevo che fossero dei passi in avanti, ma così non era. Si chiudeva sempre più in se stessa, guardando serie animate, ascoltando le canzoni dei Tokio Hotel, e giocando alla Playstation tutto il giorno; nemmeno la terapia di gruppo era servita.
Di solito gli ospedali non consentono di portare con sé oggetti come consolle, ma dovevamo pur trovare un modo per distrarre Dani e i libri non sembravano sufficienti. Non voleva nemmeno uscire, se non per andare a trovare Gabriele.
Era fuggita da una prigione per poi entrarne in un’altra.
Almeno io dovevo trovare un modo per aiutarla.
Avevo un piano, in effetti, ma non ero sicura che i miei superiori lo avessero preso bene.
Mi ero informata su delle SPA in tutta Italia, cercando fra quelle migliori. Era da tempo che Dani e io avevamo pianificato di andarci. Ma, sapete com’è… il lavoro...
Con i massaggi, i trattamenti e i bagni, pensai e sperai che fosse la soluzione ideale per la depressione di Dani, povera cara… già la morte di sua zia, poi quella del ragazzo che amava… sono stati colpi troppo duri per lei.
Non aveva bisogno di un gruppo di medici e delle pasticche antidepressive, ma di distrarsi. “Perché non ci ho pensato prima?” pensai, dandomi, inoltre, della stupida.
Una sera mi ero fatta coraggio: navigai su Internet e stampai la locandina di una SPA che mi attirava molto. La portai con me, quando andai dallo psicologo a cui Dani era stata affidata, e al direttore dell’istituto, il dottor S. (per rispetto nei suoi confronti, meglio chiamarlo così) per leggere loro quanto scritto da lei quel giorno.
-Non sta dando risultati.- notò Alberto (fra colleghi ci si dava del tu e ci si chiamava per nome, per rendere il nostro lavoro meno pesante; ma non al direttore), forse un po’ preoccupato –Anzi, sembra persino peggiorare di giorno in giorno. Anche durante le mie sedute non parla. E’ un vegetale che respira. Chiara, giorni fa hai riferito di aver provato a staccare la foto dal muro, giusto?-
-Sì, perché?-
-Di conseguenza, lei ti ha aggredito.-
-Sì, e si è calmata subito dopo averla ripresa, grazie al cielo.- ricordai con dolore quel giorno. Cosa diavolo mi era passato in mente…? Come ho potuto essere così insensibile? Anch’io avrei reagito in quel modo se mi avessero strappato l’oggetto più prezioso che possedevo. Stupida, stupida, stupida! Mi sono meritata quei morsi sulle braccia.
-E’ stata l’unica volta che ha mostrato un atteggiamento differente dal solito. Che ha reagito, oserei dire. Come un qualsiasi esemplare di animale femmina quando viene privata del proprio infante. Lei cosa pensa, direttore?-
Il dottor S. si mise a riflettere. Strizzava gli occhi verdi fino a divenire delle fessure e nascondeva i baffi grigi dietro alle mani, che aveva incrociato di fronte al volto, poggiandoci il naso.
-Questo è un caso molto complicato…- mormorò –Se fosse stato un normale caso di depressione, sarebbe stato curabile con le nostre terapie, ma, da come ci hai letto, Chiara, qui è coinvolto ben altro che la depressione. La medicina non può nulla contro i cuori spezzati. A quella ragazza non servono cure o pasticche, serve una degna distrazione. E non solo gli oggetti cui è stata fornita.-
-Distrazione? E che tipo di distrazione, visto che si rifiuta di parlare e anche di uscire?- fece notare Alberto.
Esattamente ciò che pensavo. Imbarazzata, mostrai la locandina della SPA  che avevo stampato poco prima.
-A questo proposito, professore…- spiegai, mentre lui prendeva il foglio e leggendoci sopra; anche Alberto diede un’occhiata, interessato –Volevo proporre di far trascorrere Daniela in questo posto. E’ da una vita che pianifichiamo di andarci, ma lo abbiamo sempre rimandato. Pensavo fosse l’occasione migliore di andarci, sia per lei che per me. Almeno lì possono tenerla impegnata con massaggi, bagni, trattamenti e c’è anche una piscina dove potrebbe nuotare. Cosa ne pensate…?-
Idiota. Avevo fatto la figura dell’idiota.
Alberto, da psicologo modello che era, volle subito protestare: -Sei tipo impazzita, Chiara? Ti sembriamo persone da inviare i pazienti ai centri benessere? Siamo qui per curarli, non per viziarli.-
-Sarei dello stesso parere se Daniela fosse una pazza assassina, ma non lo è.- ribattei, fiera e sicura della mia scelta, perché sapevo che era la cosa giusta da fare -E’ una ragazza che ha bisogno di distrarsi per superare il trauma che ha passato.-
-Ma poi chi le paga tutti i trattamenti? Tu?-
-No.- tagliò corto il dottor S. –Lo pagheremo tutti noi.-
Alzai le sopracciglia, sorpresa. Non avevo dubbi che avesse accettato, ma, nello stesso tempo, temevo che avrebbe reputato la mia idea sciocca.
-Professore, non dirà sul serio…?-
-Sono serissimo, Alberto. Daniela è una nostra paziente, ed è nostro dovere aiutarla, quindi spenderemo una parte dei soldi dell’istituto per la settimana di trattamenti. Le terapie che usiamo qui sembrano non aver funzionato. Vediamo cosa si risolve, facendola distrarre.- si rivolse a me –Naturalmente, la accompagnerai tu, Chiara, come sua infermiera personale, e mi aspetto che tu, ogni sera, ci aggiornerai sui suoi comportamenti e leggerai cosa ha scritto sul suo diario, come fai di solito.-
Ero entusiasta. Mancava poco saltassi dalla gioia. Dani e io a trascorrere una settimana in un centro benessere!
-Sì, lo farò con piacere.- mi limitai a dire, per mantenere la mia professionalità.
-Molto bene. Alla prenotazione ci penserò io. Tu limitati soltanto a dare la lieta notizia a tua cugina.- concluse il dottor S., prima che mi congedassi.
Alberto, però, volle aggiungere un’ultima cosa.
-Però, professore…- disse, un po’ titubante –Se anche questo non dovesse bastare? Se non ci fossero risultati?-
Il direttore fece spallucce, sospirando. Un altro dei miei timori stava per essere rivelato.
-Allora non ci rimane altro che la soluzione estrema. Privarla di tutti i sentimenti.-
Impallidii: si trattava della lobotomia.
No, non potevo permetterlo. Daniela stessa, tempo addietro, mi aveva detto che avrebbe preferito morire che essere privata dei suoi sentimenti.
-Non sarà necessario.- dissi, sicura del mio successo –Vedrete che la paziente starà meglio, quando tornerà.-
 
Attesi la mattina seguente per dirlo a Dani.
La trovai già alzata, con le cuffie alle orecchie: dal suo sguardo era chiaro che avesse avuto un altro incubo.
-Ciao, Dani…- la salutai, chiudendo la porta, sorridendole.
Lei si tolse le cuffie, osservandomi con aria impassibile, come una statua. Muta, ma non certo maleducata.
Anche quando le parlavo, mi guardava e mi ascoltava.
-Ascolta, non ci crederai mai, ma…- le dissi, un po’ agitata, mettendomi a sedere sul letto; non potevo dirle subito che saremmo andare in una SPA; non potevo rischiare che avesse uno sbalzo di emozioni troppo brusco; dovevo arrivarci per gradi –Ieri sera ho letto i tuoi pensieri al tuo psicologo e al direttore. Hanno entrambi detto la stessa cosa, che ormai stai scrivendo ogni giorno quasi la stessa cosa che hai fatto il giorno precedente.- Dani aveva abbassato lo sguardo. Comprensibile -Oh, ma non è colpa tua, tesoro.- cercai di rassicurarla, mettendole una mano sulla spalla; non detrasse –Loro stessi si stanno rendendo conto che le terapie usate non sono sufficienti. Guardati, tesoro: non mangi da più di una settimana, stai dimagrendo troppo, non parli più e stai sempre qui chiusa in camera davanti ai tuoi schermi. Per questo, persino il direttore ha pensato che sarebbe meglio tentare un nuovo… sistema.- lei mi guardò, inclinando la testa –Hai bisogno di distrarti, cara, e io ho trovato un modo, lo stesso che non abbiamo fatto altro che proporci da tempo.- continuava a guardarmi in modo stoico, ma scorgevo una specie di lampo nei suoi occhi; come se sapesse già cosa stavo per dirle –Tu ed io… andremo in una SPA, per una settimana.- aprì la bocca, accennando il suo stupore e la sua felicità nello stesso momento.
 
 
Daniela’s P.o.V.
 
–Tu ed io… andremo in una SPA, per una settimana.-
Quando Chiara mi disse queste parole, per un attimo credetti di sognare; il mio cuore sobbalzò dalla sorpresa: era da una vita che programmavamo di andarci, ma il suo lavoro glielo impediva. Sì, nel profondo sapevo che era la soluzione migliore.
Ma il mio primo pensiero fu: “No, non posso.”
Avevo completamente perduto la voglia di vivere.
Come potevo anche minimamente pensare di rilassarmi in una SPA, mentre Gabriele giaceva a chissà quanti metri sotto terra? Come potevo fare questo al suo ricordo?
Chiara, non so come, percepì questo mio pensiero. Forse lo intuì e basta.
-Io non ho mai conosciuto Gabriele di persona.- disse, guardando la foto con tenerezza; ogni giorno, la foto mi sembrava diventare ogni giorno più bella –Non so che tipo fosse, ma sono sicura che non vorrebbe vederti in questo stato. A nessuno piacerebbe vedere le persone piangere ogni giorno. Sono sicura che lui stesso vorrebbe che continuassi a vivere, non dimenticandoti del tutto di lui, ma almeno conservare nel tuo cuore tutti i bei momenti passati con lui.-
“I momenti sprecati con lui, vorrai dire…” pensai. Avevamo… io avevo continuato a girarci intorno. E avevo sprecato il mio tempo. Ed ecco la punizione che mi ero meritata, per non essermi fatta avanti.
E se fosse veramente così? E se lui non volesse veramente vedermi triste…?
Ci riflettei un attimo: avrebbe davvero esatto che serbassi il suo ricordo, a tal punto da far del male a me stessa…? E poi, quella SPA… Chiara e io lo stavamo programmando da una vita. Se avessi rifiutato, me ne sarei pentita fino alla fine.
-Ora spero che questo non ti spinga a rifiutare, tesoro…- aggiunse lei –Ma dovrò continuare a sorvegliarti. Non perché mi piaccia, ma sono ordini del direttore. Sai, per sapere se questa distrazione servirà per la tua condizione e se porterà dei risultati. Così potremo riportarti a casa.-
Ecco. Giusto il motivo per non farlo. Tornare a casa, intendo.
Non volevo tornarci.
Non con gente come la mia famiglia.
Avevo quasi pensato di restare muta tutta la vita, di proposito, e passare il resto dei miei giorni nell’ospedale.
-Ma non temere. Andremo là e ci divertiremo come non mai.-
Su questo non ci sarebbero stati dubbi.
Una vacanza.
In una SPA.
Con Chiara.
Perché no?
E poi mi stavo annoiando a giocare agli stessi giochi, ogni giorno, o vedere film.
Ma ascoltare i Tokio Hotel no.
Quello mai.
 
 
Chiara’s P.o.V.
 
Sorrise. O era solo l’accenno di un sorriso, non mi importava.
L’importante era che quello sguardo da Mercoledì Addams fosse svanito.
Si buttò sulle mie spalle. Era un abbraccio.
Non me lo aveva dato nemmeno quando l’avevano portata qui.
Seguito da dei singhiozzi.
Commossa anch’io, ricambiai.
La nostra agognata vacanza insieme, finalmente.

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Capitolo 3
*** (H) ***


Note dell'autrice: da questo capitolo i P.o.V. diventeranno quattro.

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Daniela’s P.o.V.

Partimmo quel pomeriggio stesso.
Chiara, dopo la nostra discussione, preparò la mia valigia. Non ero provvista di un costume da bagno, visto che nell’ospedale non mi sarebbe servito, ma mi disse che me lo avrebbero dato lì alla SPA.
Per precauzione, mise dentro anche la Playstation, il mio computer e tutti i film che avevo, oltre alcuni libri.
Nessuno poteva rischiare che avessi un attacco di astinenza che avrebbe portato ad un altro attacco isterico, o gli sforzi sarebbero stati inutili.
Fissai la foto di Gabriele. Non potevo lasciarla lì. Lui mi serviva.
Allungai la mano e la staccai dal muro.
Venni a conoscenza di quanto era stato deciso la sera prima: il direttore dell’istituto aveva chiamato la SPA, spiegando la mia situazione; sembrava che non ci fossero problemi ad “ospitare” una come me.
Una come me.
Neanche fossi la peggiore delle psicopatiche.
Avrebbero affidato delle camere comunicanti per me e Chiara, un po’ come nell’istituto, vitto e trattamenti, tutti inclusi nella tariffa settimanale.
Comodo, no?
Nel mio dolore, sentivo che sarebbe stata una bella vacanza. Mi sollevò dovermi allontanare da Bologna.
Già mi sentivo più leggera, oserei dire, quando vidi Chiara sistemare la mia valigia nella sua macchina, una bella Ford C-Max color canna da fucile.
Il direttore era sceso per salutarci e augurarmi ogni bene possibile per la mia guarigione.
Era quello che speravo anch’io, nel mio stoicismo.
Mi sedetti accanto a Chiara e mi misi subito le cinture.
Accese la radio, per accompagnare il viaggio. Io, silenziosa, osservavo il paesaggio fuori. Uscimmo da Bologna, ma allora non seppi dire che direzione prese Chiara. Non mi importava. Ciò che mi importava era essere il più lontana possibile da Bologna.
Restare lì mi riportava alla mente brutti ricordi. Me ne resi conto solo giorni dopo.
-Senti, tesoro…- disse Chiara, appena entrata in autostrada –Perché non chiudi un po’ gli occhi? Il viaggio sarà lungo.-
Ci fermammo solo due volte, per andare in bagno e comprare qualcosa da mangiare (sempre per Chiara, ovvio.).
Sì, alla fine riuscii a dormire un po’, nell’ultimo tratto di viaggio.
Se l’ho sognato di nuovo?
Sì.
E ho risognato anche Elena. Sognai la sera in cui la conobbi per la prima volta, al diciottesimo compleanno di Gabriele. Si era presentata a me sorridendo e porgendomi la mano.
-Ciao, io sono Elena. Tu sei amica del Bena?-
Gabriele Benari, era questo il suo nome, ma tutti lo chiamavano Bena, tranne me e Filippo. Non mi era mai piaciuto quel soprannome, lo facevano sembrare uno sfigato.
Nella vita reale, anche io mi ero presentata.
Ma nel sogno… feci una cosa per molti orribile, ma non per me: affondai la mia mano nel suo petto, come facevano i cattivi della serie televisiva “Once Upon A Time”, e le strappai il cuore, ancora pompante.
Gabriele, da lontano, mi urlava: -Dani, cosa hai fatto?!-
-Dani? Dani, svegliati.-
Chiara mi scuoteva con leggerezza, per svegliarmi.
Eravamo arrivate.
Per la prima volta in quasi dieci giorni, mi emozionai. Non sembrava un centro benessere, ma una reggia.
Un grande edificio con una piscina di fronte, intorno ad un meraviglioso panorama con ampie distese di verde che si stagliava all’orizzonte.
Pensai fossimo in Toscana, dato il meraviglioso paesaggio. Ma… meglio non rivelare dove mi aveva portato.
Sì, avrei passato una bella vacanza, pensai, mentre sorrisi senza muovere le labbra.
Non mi sbagliai: l’interno sembrava davvero una reggia. Già la hall era un ampio salone quasi tutto rivestito in marmo, dando un aspetto fresco e rilassante. Non è a questo che servono i centri benessere, in fondo?
C’erano anche dei divani dalle imbottiture bianco perla sui quali avrei tanto voluto sedermi, giusto per sapere se fossero morbidi come sembravano, ma Chiara ed io ci dirigemmo subito alla portineria.
Lo scoprii i giorni seguenti, per fortuna.
Dietro il bancone c’era una ragazza coetanea di Chiara, bionda come lei, che ci riconobbe in base al foglio a lei porto.
-Ah, lei sarebbe l’ospite speciale?- domandò, osservandomi; dovetti farle una gran pena dallo sguardo che fece; beh, meglio dello sguardo disgustato che certa gente ottiene sempre quando tutti sanno di avere di fronte uno psicopatico –Povera cara… ma non temere. Faremo del nostro meglio per rimetterti in forma. Ti faremo fare tanti massaggi, tanti bagni e tanti trattamenti. Oh, ovviamente puoi andare liberamente in piscina. Non vogliamo tenerti in prigione.-
Che gentile. D’altronde, doveva esserlo per attirare clienti. Essere “malati” aveva il suo vantaggio, in fondo: venivi coccolato da tutti. Un po’ come mi era successo all’esame di Stato, quando mi presentai alla prima prova con il gesso sul braccio sinistro. Ero scivolata sulle scale di casa mia e avevo battuto contro uno scalino. Quindi crack! Ma almeno avavo fatto tenerezza alla commissione.
Ve lo consiglio a metà, cari futuri maturandi, di rompervi un osso: da una parte, è vero, fate tenerezza, ma dall’altro… dovete patire il caldo con quella roba addosso, ed è una gran scomodità per dormire.
A proposito di dormire… come ho detto prima, quella SPA era anche un hotel. Ci diedero subito le chiavi delle nostre stanze e ci aiutarono a portare le nostre valigie.
La mia stanza… a distanza di anni non so ancora come descriverla: un paradiso. L’unica parola che mi viene in mente.
La prima cosa che feci fu sistemare la foto di Gabriele non sul muro, come all’ospedale, ma sul comodino.
Rispetto alla mia camera all’ospedale, il muro era lontano dal letto; sul comodino lo avrei visto sempre accanto a me.
Poi, ammirai la mia stanza: un letto a una piazza e mezzo, con lenzuola bianche, pareti dipinte di un colore caldo, simile a pesca, ma sfumato con il bianco, un’ampia finestra con vista sulla piscina, un armadio grande abbastanza da mettere la mia roba, e tanti mobili. Era grande quanto la mia stanza e la stanza che avevo all’ospedale messe insieme, con tanto di bagno ammesso. Una vasca-doccia tutta per me, un ampio spazio per asciugarmi e fare altre cose, mentre all’ospedale avevo solo una squallida doccia senza tendina in un bagno strettissimo. C’era persino un televisore, dove collegai subito la mia Playstation.
Senza che me ne rendessi conto, mi scappò un sorriso sfuggente, con sospiro ammesso.
Il mio dolore era sempre presente nel mio cuore, ma non potevo non sorridere di fronte ad uno spettacolo simile.
Chiara, dopo aver parlato con il facchino, mi porse un foglio.
-Tesoro, qui ci sono segnati i trattamenti a cui verrai sottoposta e i relativi orari.- mi spiegò; erano davvero tanti, dai massaggi all’olio ai bagni al miele; sentivo c’era lo zampino del direttore dell’ospedale, per quanto riguardava gli orari; una perfetta cooperazione tra ospedale psichiatrico e centro benessere –Ma stai tranquilla, ti lasceranno il tempo da dedicare a te stessa.-
Tanto meglio, altrimenti mi ero portata computer, Play e tutto il resto per niente.
Cominciai quel giorno stesso: il viaggio, in fondo, era durato a malapena un paio d’ore, e in quel frangente di tempo avevo anche dormito, quindi non potevo definirmi distrutta.
E poi, nei centri benessere fanno tutto fuorché metterti sotto pressione, eh. Cominciai con massaggi all’olio: dicevano facesse bene per l’umore.
Infatti, così fu.
Che mani delicate che aveva quella fisioterapista…  o forse era l’effetto dell’olio d’oliva che usava per massaggiarmi, non lo so con precisione. Fatto sta che sentii una sensazione di rilassatezza che non avevo più provato da quasi dieci giorni. Non mi dimenticai di punto in bianco il mio lutto per Gabriele, ma non volevo certo guastarmi la vacanza. Lui non lo avrebbe voluto.
Quel massaggio mi fece sentire meglio.
Quello fu solo il primo: non ho intenzione di sprecare parole per descrivere gli altri trattamenti che feci, anche perché non li ricordo più da quanti erano.
 
Chiara’s P.o.V.
 
Una bella vacanza era quello che ci voleva. E non solo per Dani, ma anche per me.
Quando lei andava a farsi fare i trattamenti che il direttore aveva prescritto con l’ausilio dei dipendenti della SPA, anch’io andavo a farmi fare qualche massaggio. D’accordo, il mio dovere era quello di sorvegliarla, ma non starle attaccata come un avvoltoio. Persino in ospedale la lasciavo spesso da sola: dopotutto dovevo solo portarle i pasti (che non prendeva mai) e le pasticche.
Per tutta la settimana, provai un po’ di tutto in quella SPA: massaggi, bagni di fango, aromaterapia… tanto era già compreso nel prezzo. Quando mi sarebbe ricapitata una cosa simile? Meglio cogliere l’attimo, no?
Era solo il primo giorno, ma già dal primo trattamento vedevo Dani un po’ più rilassata e meno “funerea” di prima. Incrociai le dita: pregai che la mia idea funzionasse.
Insieme, nel secondo pomeriggio, andammo in piscina: c’erano molti turisti venuti lì per passare la settimana pasquale, ma trovammo ugualmente due posti per noi. Non so spiegarvi quanto fosse graziosa Dani con il costume che le avevano dato alla SPA: era un costume intero nero, ma esaltava le sue forme rotonde, ma non troppo. Era anche dimagrita, dopo quasi due settimane di digiuno… Dovevo stare attenta che qualche mascalzone con qualche idea strana per le sue due teste non si avvicinasse a lei. La sistemai su un lettino, prima di porgerle la crema solare. Il sole non picchiava come in estate, ma meglio essere prudenti, no?
-Vuoi che ti aiuti a metterla?- le domandai.
Lei scosse la testa per dire “no” e la prese, mettendosene un po’ sulla mano.
Fino a ieri aveva bisogno di me persino per vestirsi: allora i trattamenti stavano funzionando davvero, se voleva mettersi la crema da sola. Oddio… giocare alla Playstation e a navigare su Internet lo faceva già da sola, ma quelli erano dettagli.
Una sete incredibile mi prese all’improvviso: per prendere qualcosa da bere dovevo andare al bar, ma questo voleva dire lasciare Dani da sola. Forse mi conveniva portarla con me, ma così facendo qualcun altro avrebbe occupato i lettini su cui ci eravamo sedute e non ne erano rimasti altri liberi.
-Dani, io vado a prendermi da bere.- dissi, intanto –Vuoi venire con me?-
Lei fece nuovamente di “no” con la testa, accompagnato da un gesto della mano. Si avvicinò alla piscina, sedendosi sul bordo e immergendovi le gambe.
Beh, come biasimarla?
“Ma sì, cosa vuoi che le capiti?” pensai, prima di dirle –Torno subito, allora.-
 
Daniela’s P.o.V.
 
L’acqua era freschissima e limpida. Un sollievo per le mie gambe. Annusai il cloro dopo tanto tempo, avvertendo una forte nostalgia di tante estati e momenti passati in piscina. Non mi era mai piaciuto il mare, avevo sempre preferito la piscina.
Mi è sempre piaciuto l’odore del cloro.
Poi osservai il cielo. C’era qualche nuvola, ma non da preannunciare pioggia o un temporale. Ma per precauzione, Chiara ed io ci eravamo messe ugualmente la crema solare.
Restai qualche minuto seduta sul bordo della piscina, con lo sguardo rivolto verso il cielo, con gli occhi chiusi, assorta in quel momento di rilassatezza, di contemplazione “alla Schopenhauer”, come dicevo sempre; sai, quando sei talmente rilassato che ti dimentichi del luogo in cui ti trovi, quando hai l’impressione di essere completamente da sola. Anche se il caro Arthur lo diceva riferito all’effetto che può dare l’arte sull’essere umano, soprattutto la musica. Ma a me piaceva estenderlo dappertutto.
Potevo finalmente definirmi in pace con me stessa se solo… se solo nella mia mente non si fosse materializzata all’improvviso l’immagine di Gabriele.
Aprii gli occhi di scatto e, senza rendermene conto, mi alzai in piedi. Inavvertitamente, però, urtai una persona che stava passando in quel momento. Aveva un bicchiere in mano, a giudicare dal liquido che cadde sul cotto.
-Ah…! Scheiβe!- imprecò; era una voce maschile; un po’ imbarazzata, un po’ per la mia condizione, non lo guardai in faccia; notai solo uno strano movimento con le braccia, come se si stesse togliendo qualcosa di dosso; forse il liquido gli era caduto anche un po’ addosso; incrociai i polsi davanti al petto e guardai in basso, dispiaciuta; -Guarda che disastro!- stava parlando in inglese, con un forte accento tedesco; la sua voce era molto familiare –Sta’ un po’ attenta a dove vai, ragazza!- disse, camminandomi accanto; io facevo il possibile per non farmi toccare. Avrei tanto voluto dirgli “Mi dispiace, non l’ho fatto apposta.” ma non ne ebbi la forza.
-Cos’è? Non sai parlare? Parlo troppo veloce per te? Non mi comprendi?- cercò di mettermi una mano sulla spalla, forse per spingermi ad osservarlo, ma io arretrai, mugolando, come se di fronte a me ci fosse un assassino o un ladro.
Anche lui arretrò, un po’ sorpreso dalla mia reazione.
-Oh, scusa.- si lasciò sfuggire –Sei così delicata che la gente non ti può nemmeno toccare?-
-Dani!-
Chiara. Grazie al cielo. Aveva una lattina di Lemon Soda in mano.
-Non ti posso lasciare sola un attimo, che subito arriva qualcuno che ti molesta…- mi disse, prendendomi un braccio e allontanarmi di un passo da chi avevo di fronte –Cos’è successo qui?- domandò, alludendo al liquido sceso sul cotto -Ti sei fatta male?- feci di “no” con la testa, voltandomi verso di lei.
-Ehm…- non seppi dire se la terza persona avesse compreso quanto aveva udito, ma volle ugualmente dire la sua, ancora in inglese –Tecnicamente, lei mi è venuta addosso.-
Chiara lo osservò in cagnesco, da quanto riuscii a scorgere con la coda dell’occhio.
-Addosso o meno…- parlò anche lei in inglese –Stai lontano da lei e non toccarla. E’ in terapia e non può provare questi tipi di emozioni.-
Udii un sospiro quasi divertito.
-Oh, adesso mandano anche gli psicopatici nelle SPA italiane?- ironizzò –Questa mi mancava. E io che credevo di godermi queste vacanze in santa pace…-
-Tom, adesso basta!-
“Tom?” pensai, un po’ sorpresa.
Avevo udito un’altra voce maschile, stavolta in lingua tedesca. Ma era ugualmente familiare. Lì per lì non compresi molto bene cosa si erano detti poco dopo. Lo scoprii più tardi.
-Sono sicuro che non l’ha fatto apposta.-
-Non l’ha fatto apposta? Mi sono sporcato tutto di succo! Guarda che roba, Bill!-
Prima “Tom”. Adesso “Bill”.
“No, non può essere…” pensai, mentre sentivo il mio stomaco e il mio cuore sobbalzare.
Poi, mi voltai verso le due figure, che ancora stavano discutendo, e lì il fiato mi mancò.
Mi sorpresi di non essere svenuta dall’emozione.
La seconda persona si rivolse a noi, in inglese.
-Vi chiedo scusa per mio fratello. Ora ce ne andiamo.-
L’altro protestò, ma alla fine si allontanarono da noi, andando dall’altra parte della piscina.
-Stranieri…- brontolò Chiara, serrando le labbra –Vengono in Italia e credono di fare quello che vogliono… Dani, stai bene? Non ti ha fatto male?-
Io non dissi nulla. Nemmeno mi mossi.
Avevo deciso di non parlare più, ma quella volta stavo tacendo per l’emozione e la sorpresa.
Fra tutti i luoghi, fra tante persone, non mi aspettavo di incontrare, di persona, proprio loro.
Bill e Tom Kaulitz.
 
Bill’s P.o.V.
 
Io adoro Tom.
Peccato per quel suo carattere un po’ impulsivo.
-Non ti sembra di aver esagerato?-
Lui sospirò, ringhiando. Per poco non lo sentirono tutti. Eravamo ancora in piscina, quando discutemmo.
-Cioè, una si schianta addosso a me, facendomi rovesciare il succo addosso ed è colpa mia?! Senti!- si annusò le braccia –Si sente ancora l’odore di ananas, accidenti!-
Solitamente, il mio fratellino è un Casanova, con le donne; ma è anche vero che ci sono dei limiti.
-Non ho detto che è colpa tua, Tomi.- cercai di chiarire –Voglio dire, l’hai vista quella ragazza? Era pallida come un lenzuolo e non ha fatto altro che tremare quando le parlavi.-
-Adesso prendi le difese degli psicopatici?-
-Non credo sia una psicopatica. Non l’avrebbero portata qui.-
-Già… ora che ci penso…- Tom si stava via via calmando; come sempre, ogni volta che si arrabbia –Proprio stamattina, prima di raggiungerti, avevo sentito due inservienti conversare tra di loro. Parlavano in italiano, ma sono riuscito a cogliere qualche parola qua e là. Sembravano parlare di una specie di “ospite particolare”. Io pensavo fosse un politico o una persona simile.-
Quella frase catturò la mia attenzione e mi voltai verso di lui.
-Credi che sia lei?- domandai, curioso.
-E’ probabile. Ma perché darsi tanta pena per una psicopatica?-
-Ancora quella parola…?-
-Non conosco altre parole per descrivere persone di quel tipo...-
Ostinato come un mulo… Ma è anche per questo che lo adoro.
Sapevo che non potevo contare sul suo aiuto, quindi mi rassegnai sul fatto che dovevo cavarmela da solo.
Ad un certo punto, ci alzammo entrambi dai lettini per poi dirigerci in due direzioni differenti: lui in camera, per farsi la doccia (non per il succo; a quello ci aveva già pensato la nuotata che ci siamo fatti nella piscina) e io in portineria.
Volevo sapere di più su questa “ospite”, più che altro se fosse stata davvero una psicopatica. Ma se così fosse stato, perché rischiare di portarla in un luogo pieno di gente?
Parlando in inglese (ero tentato più volte di parlare italiano, ma avevo sempre paura di sbagliare qualcosa; mi limitavo a poche parole), chiesi alla ragazza dietro il bancone: -Mi scusi, un’informazione. Ho sentito dire in giro che c’è una specie di “ospite speciale”. Di chi si tratta, esattamente? E’ per caso una persona importante?-
La ragazza mi guardò con sguardo un po’ strano: temetti che non mi avesse compreso perfettamente.
-Un’ospite speciale…?- fece, pensierosa –Ah, sì! Aspetti un attimo…!-
Controllò tra i documenti. Su uno c’era un foglio.
-Ah, sì! Lei!- esclamò, ricordandosi di colpo –Sì, possiamo definirla “ospite speciale”. Viene da un ospedale psichiatrico.-
Pensai che forse Tom non avesse tutti i torti a chiamarla “psicopatica”. Ma dall’altra parte pensai anche che non era giusto definire “psicopatici” tutti quelli che vanno negli ospedali psichiatrici.
-Il direttore dell’ospedale aveva detto che stanno sperimentando un nuovo modo per sconfiggere la depressione, senza l’ausilio delle pasticche. Stiamo facendo del nostro meglio per sollevare l’umore di quella povera creatura.-
-Depressione?- domandai, sorpreso –Sa per caso cosa le è accaduto?-
-No, mi dispiace. Hanno detto che era confidenziale. Perché queste domande?-
-Più che altro per sapere se possiamo stare tranquilli o meno.- spiegai, un po’ imbarazzato -Quando si parla di ospedali psichiatrici si pensa sempre alle persone pazze o violente. Non credo che ai clienti faccia piacere avere una persona di quel genere in un posto come questo, non crede?-
La ragazza si mise a ridere, perché anch’io ridacchiai. Come mi fosse venuta in mente un’affermazione del genere solo Dio lo sa.
-Non si preoccupi. Ci hanno detto che è completamente innocua. Crede che l’avrebbero portata qui, se fosse come ha detto lei?-
In effetti era vero. Era esattamente come avevo affermato poco prima con Tom.
Potevamo stare tranquilli.
Ci saremmo goduti questa meritata pausa dal tour in pace.
 
Daniela’s P.o.V.
 
In effetti lo avevo letto nell’account Instagram di “Tokio Hotel Italian Team”, che dopo il concerto di Varsavia, i Kaulitz sarebbero andati in Italia per passare le vacanze pasquali in un centro benessere.
Era davvero una coincidenza? A volte mi piace pensare che Chiara lo sapesse e mi avesse portato lì di proposito, anche se lei aveva affermato che così non era.
Ad ogni modo, era stata una bella sorpresa trovarli lì, a due centimetri di distanza da me. Con uno mi ci ero perfino scontrata. C’è chi pagherebbe oro per questo.
 
Primo giorno alla SPA di…: ho visto i gemelli Kaulitz!
 
Non potevo scrivere solo questo. Per quanto per me significasse già tanto, per quelli dell’ospedale non era abbastanza. Mi dilungai.
 
Non avrei mai pensato di trovarli qui. A dirla tutta, è iniziata con uno scontro casuale: senza volerlo, ho urtato Tom. Per poco non mi uccideva se non fosse stato per Chiara e Bill. Bill… cavolo, averlo visto sul palcoscenico, da lontano, era un conto, ma da vicino… è davvero bellissimo. Anche Tom è bellissimo, non per nulla sono gemelli. Poi ha quel fisico muscoloso che lo rende a dir poco affascinante. Ma, per quanto mi piacciano entrambi, io sono più fan di Bill che di Tom. Ho sempre amato il suo sguardo tragico, il suo stile, la sua filosofia…
 
Mi resi conto di aver cambiato stile nello scrivere, più spontaneo e meno oscuro: era l’emozione di aver visto i gemelli Kaulitz proprio di fronte a me. Però, cavolo, sapevo che erano fumatori, ma mai mi sarei aspettata che odorassero così tanto di sigaretta. Scrissi anche quest’ultima frase nel diario, ridacchiando.
“Chissà che faccia farà Chiara e anche il direttore S. e il mio psicologo appena leggeranno questa frase…” pensai.
Dopo aver descritto i trattamenti che avevo fatto quel giorno, aggiunsi anche questo, parlando della piscina.
 
L’aria era pulita. Potevo finalmente respirare. Non immaginavo sarebbe stato così bello allontanarsi da Bologna e finire in questo paradiso in terra. Sentivo l’acqua accarezzarmi le gambe, l’aria accarezzarmi la pelle e il sole, seppur debole, sfiorare il mio volto. Mi sentivo rinascere. Ho sentito di star resuscitando. Se avessi saputo che sarebbe bastato questo per farmi tornare, anche se per poco, il buonumore, non sarei mai andata all’ospedale psichiatrico. No, forse è stato meglio così. Preferisco essere qui con Chiara che con i miei genitori.
 
“E anche per oggi, i pensieri sono finiti.” pensai, chiudendo il diario.
Lo misi di fronte alla porta che collegava la mia camera a quella di Chiara e vi bussai.
Lei si affacciò: era in accappatoio e aveva un asciugamano avvolto sulla testa. Si era appena fatta la doccia.
-Ah, grazie, tesoro.- disse, raccogliendolo –Io, dopo, vado giù a cenare. Vieni anche tu?-
Feci di “no” con la testa. Non sentivo ancora il bisogno di mangiare. Non percepivo più la fame.
-Allora buonanotte.- salutò lei, chiudendo la porta.
Poverina… si stava preoccupando troppo per me.
Accesi il computer, collegando il cavo al televisore. Facevo sempre così, quando volevo vedere una serie TV.
Decisi di vedere il ventesimo episodio della sesta stagione di “Once Upon A Time”, la mia serie TV preferita.
Era l’episodio-musical, un po’ come avevano fatto con Xena, nella quarta stagione. Non ci incastrava nulla con il resto, ma le canzoni non erano male.
Le mie preferite erano quella di Regina e anche quella di Emma.
Prima che iniziasse a cantare, misi in pausa.
Osservai nuovamente la foto di Gabriele. Mi avvicinai. Non potevo vedevo chiaramente, ma ricordavo un piccolo particolare di lui: i suoi occhi erano simili a quelli dei Kaulitz, ma lui li aveva più allungati. Lui era fan dei Linkin Park, ma forse gli sarebbero piaciuti i Tokio Hotel, se fosse vissuto abbastanza da ascoltare almeno una loro canzone…
Un senso di nostalgia mi prese di nuovo. La pace provata quel pomeriggio era svanita, appena mi ricordai di Gabriele. Quella foto era la mia rovina, ma anche la mia ragione di vita. Sentivo che sarei stata peggio, se non avessi potuto vederla almeno una volta al giorno. Avevo paura di dimenticarmi di Gabriele, di dimenticarmi dei momenti passati con lui, di dimenticare quello che provavo per lui, quanto avevo sofferto per amore. Non volevo dimenticarmi quelle sensazioni.
Mi alzai dal letto, lacrimando in silenzio, mentre le mie gambe, involontariamente, mi portarono verso la porta. Vi appoggiai la schiena e mi misi a sedere, continuando a lacrimare.
Il televisore era ancora acceso, con l’immagine di Emma Swan ancora ferma, un secondo prima che iniziasse a cantare la sua canzone.
Decisi io di farlo al posto suo.
Once I lived in darkness
Out there on my own
Left to brave the world
Alone
Everything seemed hopeless
No chance to break free
Couldn’t hear the song inside
Of me
 
Mi fermai a quel pezzo. Il resto non me lo ricordavo molto.
Mi piaceva cantarlo. Melanconico e poetico, come piaceva a me.
Forse mi rivedevo un po’ in quella canzone.
Mi rialzai in silenzio e tornai sul letto, per spegnere tutto.
Lessi qualche altra pagina di “Jane Eyre” e poi mi misi a dormire.
 
Bill’s P.o.V.
 
Avevo perso il mio cellulare.
Erano rare le occasioni in cui capitava, ma era sempre un’impresa ricordarsi dove lo avevo lasciato l’ultima volta.
Per fortuna, i camerieri lo avevano messo in un punto in cui potessi vederlo facilmente. E per fortuna, mi ero accorto in tempo di essermi dimenticato del cellulare.
Avevo una voglia così di dormire, ma non ero così distrutto da prendere l’ascensore, così presi le scale.
Mentre mi avvicinavo al primo piano, sentii un rumore strano.
No, non era un rumore.
Era una voce.
Una voce femminile.
 
Once I lived in darkness
Out there on my own
Left to brave the world
Alone
Everything seemed hopeless
No chance to break free
Couldn’t hear the song inside
Of me
 
Com’era bella quella voce…
Dolce, melodiosa, intonata…
Angelica.
Mi aveva come catturato.
Dovevo scoprire a chi apparteneva. Affrettai il passo, così da raggiungere il più presto possibile il primo piano e la stanza da cui proveniva.
Ma appena salii l’ultimo scalino, la voce tacque.
Mi incupii: non ero stato abbastanza veloce. O la canzone era troppo corta.
Pensai che non avrei mai più sentito una voce come quella in tutta la mia vita.
Con passo normale, salii le scale verso il secondo piano, dove c’era la mia stanza. O meglio, mia e di Tom.
Guai a separarci, eh!
Aveva lasciato le chiavi sulla serratura per non essere costretto ad alzarsi per venirmi ad aprire.
Come pensavo, lo trovai a letto, già a russare.
Ah, Tom… sempre così incorreggibile.
Dovetti aspettare la mattina seguente per dirgli quanto avevo appena udito.
Mi misi sotto le coperte, accanto a lui.
Ricordo ancora quella notte, quasi come fosse passato ieri.
Non riuscii a dormire. Stetti per tutta la notte a pensare a quella voce, domandandomi a chi mai appartenesse. Si era ormai impossessata della mia mente.
Quella canzone riecheggiò per la mia testa.
E quella bellissima voce mi aveva catturato, ammaliato, come fosse quella di una Sirene.
Una Wassernixe.
Una sirena. Una ninfa dei mari.
 
Chiara’s P.o.V.
 
-“Mi sentivo rinascere. Ho sentito di star resuscitando. Se avessi saputo che sarebbe bastato questo per farmi tornare, anche se per poco, il buonumore, non sarei mai andata all’ospedale psichiatrico. No, forse è stato meglio così. Preferisco essere qui con Chiara che con i miei genitori.”-
Mai mi ero sentita più sollevata nel leggere righe come questa. La cura stava funzionando.
Persino il dottor S. se ne compiacque, un po’ anche Alberto.
Li avevo contattati tramite Skype. In un modo o nell’altro avrei dovuto metterli a conoscenza delle giornate di Daniela, no?
-Beh, noto già dei progressi…- notò il direttore –Allora tutto quello che le serviva era solo distrarsi un po’.-
-Ma, dottore, siamo solo al primo giorno.- Alberto non si smentiva mai; era il solito guastafeste.
-Dottor Guerra, per favore… C’è altro, Chiara?-
Controllai nuovamente il diario.
-Non c’è altro. Mi ha dato il suo diario prima che cenassi.-
-E come va il suo appetito?-
-Ancora niente, direttore. Ma come ha detto giustamente il dottor Guerra, Daniela è ancora al primo giorno.-
-Ma c’è anche da mettere in considerazione che sono quasi due settimane che si rifiuta di mangiare.-
Il dottor S. non aveva tutti i torti: Dani stava dimagrendo. Se non avesse mangiato nulla nemmeno quella settimana, avrebbe rischiato il collasso. Ma non potevo costringerla con la forza. Ci avevano provato anche all’ospedale, ma lei rifiutava qualsiasi cosa. Anche in quei giorni non si comportava da vegetale: lanciava via i piatti, sputava quanto le avevano messo in bocca, e si lamentava, dimenandosi come una vera psicotica. Il primo giorno era stata un’impresa iniettarle il sedativo.
-Signorina Savoia, mi rendo conto che i nostri metodi non siano i più adatti…- aveva provato a spiegarle Alberto, appena  si era calmata –Ma lei deve mangiare.-
Nemmeno con la flebo avevano ottenuto risultati: se la staccava.
La stessa cosa, però, non si poteva dire con il bere. Quello lo faceva normalmente.
Le mettevo dello zucchero nelle sue bottigliette d’acqua, per darle almeno un pochino di nutrimento.
Avevamo provato a darle anche delle zuppe, o altri cibi frullati, visto che non voleva mangiare niente di solido, ma niente.
-Ma avere fretta non serve a niente…- aggiunse il direttore –Aspettiamo e vediamo gli sviluppi. Tu, Chiara, continua a fare il tuo lavoro.-
-Nessun problema.-
-Se posso aggiungere qualcos’altro…- tagliò corto Alberto –Ho trovato interessante la parte in cui Daniela ha scritto su quei due ragazzi… come si chiamano…?-
-Bill e Tom Kaulitz. Membri della sua band preferita.-
Ecco dove li avevo già visti. Mi sembravano dei volti familiari, infatti. Dani aveva fatto mettere anche dei poster dei Tokio Hotel sul muro della sua camera, non solo la foto di Gabriele.
-Sì, com’era minuziosa ed entusiasta nel descriverli, le sensazioni provate… non è stata la fredda e malinconica Daniela a cui eravamo abituati.-
Rilessi, a mente, la pagina dedicata alla disavventura capitatale oggi.
 
Primo giorno alla SPA: ho visto i gemelli Kaulitz! Non avrei mai pensato di trovarli qui. A dirla tutta, è iniziata con uno scontro casuale: senza volerlo, ho urtato Tom. Per poco non mi uccideva se non fosse stato per Chiara e Bill. Bill… cavolo, averlo visto sul palcoscenico, da lontano, era un conto, ma da vicino… è davvero bellissimo. Anche Tom è bellissimo, non per nulla sono gemelli. Poi ha quel fisico muscoloso che lo rende a dir poco affascinante. Ma, per quanto mi piacciano entrambi, io sono più fan di Bill che di Tom. Ho sempre amato il suo sguardo tragico, il suo stile, la sua filosofia… Tom era sempre stato quello più “rude”, una cosa che non ha cambiato di se stesso. Nessuno dei due era cambiato così tanto, grazie al cielo.
Se non fosse per la barba, giurerei che il tempo non è per niente trascorso su di loro: hanno praticamente gli stessi volti, gli stessi sguardi, gli stessi bellissimi sorrisi che avevano quando erano ancora ragazzi. Non riesco a credere che abbiano quasi trent’anni… non li dimostrano per niente.
Ricordo ancora la prima volta che ho visto Bill biondo: lì per lì mi aveva lasciata un po’ scioccata, ma non gli sta male, il suo nuovo look… peccato per quell’orrendo taglio con la sfumatura alta. Se non se li tira indietro con il gel, da dietro assomiglia ad un fungo… secco secco con quei capelli… In compenso adoro i capelli di Tom, quando se li scioglie. Praticamente sono simili ai miei, ma più scuri. Non rimpiango i suoi dread biondi.
Anzi, ancora non riesco a capire perché alcune fans rimpiangano il loro vecchio look: Bill, prima, sembrava una ragazza, con i capelli lunghi e il trucco. Almeno ora che ha la barba, gli haters non potranno più mettere in discussione la sua sessualità. Poi voglio dire… se ammiri una persona la devi ammirare per quello che è, pregi e difetti, come in amore. Per fortuna hanno ancora tanti fans, anche se… mi fa ancora incazzare il fatto che gli One Direction abbiano più di 22 milioni di iscritti nel loro canale YouTube, mentre i TH, in confronto, non ne hanno nemmeno 1/8. Loro, che fanno poesie, non solo canzoni!
Mah, prima o poi dovrò studiarli a fondo, per scoprire cos’hanno in più dei TH… sperando di non preferirli a loro.
Tornando ai Kaulitz, non so se essere lieta o imbarazzata di essere nello stesso luogo in cui si trovano loro. Ma aver scoperto che questa sarebbe stata la SPA dove avrebbero passato le vacanze pasquali è stata una bella sorpresa.
 
Risi.
Sembrava il diario di una ragazzina. Non che ci fosse niente di male in questo. Chi non si sentirebbe eccitato di fronte ai propri idoli? Anch’io mi sarei espressa in quello stesso modo, se mi fossi trovata davanti Beyoncé o Ariana Grande.
-Ho notato una spontaneità che non avevo mai notato in lei. A tal punto da mettere in secondo piano i trattamenti cui è stata sottoposta.-
Vi aveva dedicato poche righe; il resto è stato per i Kaulitz.
-E tu preferiresti che avesse parlato delle sensazioni provate durante i trattamenti, piuttosto che quelle che ha provato di fronte a due dei suoi idoli?- reagii, bruscamente, un po’ anche per la stanchezza.
-Non ho detto questo…- risponde lui, mantenendo la calma –Ho solo fatto un’osservazione.-
Per fortuna, il direttore pose fine alla discussione, prima ancora che iniziasse sul serio.
-Sì, anch’io ho trovato interessante questo suo cambiamento.- aggiunse –Come se l’emozione e la sorpresa provata da lei per aver visto quei due ragazzi avessero sbloccato una parte della sua anima, oltre a farla reagire in modo positivo, come il primo giro di una chiave in una serratura. In questo caso, la serratura sarebbe l’autismo di Daniela. E, dopotutto, tutto è partito da una forte emozione dovuta ad una sorpresa, no? Quindi perché non ricominciare con la sua emozione opposta, ma altrettanto forte?-
Sì. La notizia della morte di Gabriele. Era tutto iniziato da lì.
-Chiara, la tua proposta sembra funzionare. Ma è ancora troppo presto per trarre conclusioni. Aspettiamo ancora un paio di giorni. Vediamo cosa succederà. Ora fatti una bella dormita, Chiara. Ne hai bisogno. Buonanotte.-
-Buonanotte.-
Spensi il tablet con sollievo. Era mezzanotte.
Avevo una voglia così di dormire che non potevo immaginare neppure io.
Aprii la porta che collegava la mia camera a quella di Dani e posizionai il diario proprio sul comodino accanto al suo letto. Lei stava già dormendo.
Daniela… mi stava dando le spalle, ma sperai che quella notte non avesse i suoi soliti incubi.
Lo avrei scoperto la sera seguente.
Distrutta, mi buttai sul letto. Mi addormentai subito.

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Capitolo 4
*** (S) ***


Note dell'autrice: lo so, mi rendo conto che l'ho buttata sul provinciale...

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Daniela’s P.o.V.
 
Stanotte ho sognato di nuovo Gabriele. Ma è stato un sogno un po’ più particolare del solito. Ero vestita da Diva e stavo cantando di fronte ad una folla. Avevo uno splendido abito nero brillante, di quelli senza spalline, aderente e lungo, con uno spacco su una gamba. Avevo un collier di diamanti, con orecchini abbinati, e un’acconciatura bellissima, dei boccoli raccolti sul cranio, con qualche ciuffetto ribelle che cadeva. Mi sentivo bellissima. Al termine della mia esibizione, si stringono tutti intorno a me, per parlarmi, chiedermi autografi e roba simile. Ma non riuscivo a vedere i loro volti o la loro forma: erano tutte figure scure, di cui, però, sentivo la voce. In lontananza, vedo lui, Gabriele, che mi osserva con aria triste, prima di darmi le spalle e andarsene. Cerco inutilmente di farmi strada fra i miei spasimanti, per raggiungerlo.
In quel momento, mi sono svegliata.
 
Mi ero di nuovo alzata con quel fastidioso senso di melanconia addosso. La prima cosa che feci fu annotare il mio sogno sul diario, come facevo ogni giorno.
Erano quasi le 7:00. I raggi del sole filtravano dalla persiana.
A vederla ebbi una strana sensazione.
Percepii come una strana voglia di aprirla. Solitamente era Chiara ad aprire la persiana, ma quel giorno volli farlo da sola.
Di fronte a me apparve uno spettacolo mozzafiato, che mi fece quasi paralizzare dallo stupore: il paesaggio era bellissimo a quell’ora del mattino. Il sole stava spuntando da dietro le colline, e i raggi illuminavano gli alberi lì intorno.
Annusai l’aria, chiudendo gli occhi: fresca, frizzante, genuina.
Era come assistere ad un risveglio della natura, non so come altro descriverlo.
O forse ero io a vederlo così, dopo un periodo in cui tutto era buio per me.
Comunque, sentii un senso di soavità nel mio cuore che mi fece quasi dimenticare la mia melanconia.
Sarei rimasta per ore ad ammirare quell’infinita distesa di natura; Chiara entrò nella mia stanza mezz’ora dopo, sbadigliando.
-Buongiorno, cara…- mi disse; ci impiegò tipo dieci secondi per accorgersi che la persiana era già aperta; infatti si stupì –Ehi, ma… questo…?!- In realtà, non aveva la più pallida idea di cosa dire.
Non risposi. Mi limitai ad inclinare un angolo della mia bocca verso l’alto, come per dirle: “Chissà…”
Come ogni mattina, non feci colazione. Non sentivo la fame. Non ancora. Non sentivo il bisogno di mangiare. Bevvi solo un po’ di acqua zuccherata, come al solito.
Mi sarebbe aspettata una mattinata di trattamenti, il secondo giorno alla SPA: almeno un bagno e persino un corso di yoga. Meditazione, per la precisione.
Chiara venne a prendermi dopo colazione, accompagnata da un’inserviente, che mi avrebbe condotta verso la stanza dove avrei fatto il primo trattamento.
Scendemmo al piano terra, passando di fronte a molte porte. Alcune erano chiuse, altre solo socchiuse.
Le guardavo tutte, senza battere ciglio. Ad un certo punto, il tempo sembrò rallentare.
Ero passata davanti una porta socchiusa: dietro di essa vidi proprio loro, i Kaulitz. Specialmente Bill.
Il caso volle che incrociasse il mio sguardo. Il mio respiro si mozzò di nuovo dalla sorpresa.
Non era un sogno o un illusione. Loro erano davvero lì. Nella SPA dove ero io.
Una volta lontana da lì, rimuginai sul suo volto. Pensai di nuovo a Gabriele. In Bill mi era sembrato di rivedere Gabriele. O in Gabriele rivedevo Bill. I loro occhi erano molto simili, come quello che esprimevano.
Forse era anche per questo che mi piaceva Gabriele: perché assomigliava un po’ a Bill Kaulitz.
 
Tom’s P.o.V.
 
-Tomi, non puoi capire. Era una voce bellissima. Mi stava quasi chiamando a sé, come una sirena…-
Era dal nostro risveglio che Bill non faceva altro che raccontarmi la stessa cosa.
E la voce… e la sirena…
Il mio caro fratellino, a volte, si scordava di essere ormai troppo grande per credere alle favole.
Sperai che la seduta di fisioterapia lo facesse zittire. Niente.
-Billi, devo per caso ricordarti che, nel mondo delle fiabe, con le sirene non finisce mai bene?- gli dissi, ormai al limite della pazienza; per fortuna, le massaggiatrici non compresero una sola parola di quello che stavamo dicendo –Il loro canto trascina verso la morte gli sciagurati uomini che ne rimangono ammaliati.-
La fortuna di essere gemelli è il fatto di capirsi all’istante. Bill seppe cogliere il sarcasmo nelle mie parole.
-Spiritoso…- mi disse, direi un po’ offeso –Se l’avessi sentita anche tu non parleresti così. Era a dir poco angelica… dolce…-
“No, lo sguardo sognante no! Lo sguardo sognante no!” pensai “Poi va a finire sempre male!”
-Devo assolutamente scoprire a chi appartiene quella voce!-
Cercai di riportarlo coi piedi per terra.
-Bill, non puoi giudicare o fantasticare su una persona in base alla sua voce.- dissi, mentre le tenere mani della massaggiatrice toccavano le mie scapole –E se scoprissi che è il cesso dei cessi? Magari un’anziana? O peggio, una ragazza grassa con il monosopracciglio che magari non si depila da mesi?-
Dallo sguardo disgustato che fece e da come guardò da un’altra parte, intuii che aveva colto il messaggio.
Punto per me. Di nuovo.
O così credevo.
Lo rividi di nuovo con lo sguardo sognante. No, non era proprio “sognante”, direi più ipnotizzato, e compresi il motivo.
La porta della stanza in cui eravamo era mezza aperta: la ragazza che il giorno prima mi aveva versato il succo addosso stava passando proprio lì davanti. Indossava degli abiti molto larghi, e non proprio da ragazza giovane, quanto, piuttosto da donna anziana: un camicione verde tre volte grande lei e dei pantaloni grigi sbiaditi. Era davvero pallida in volto e malinconica. Il giorno prima l’avevo vista di sfuggita: a vederla così, sentii come un lieve senso di colpa ad averle parlato in quel modo.
Per fortuna non era una psicopatica, di quelle violente. Bill mi aveva già avvertito di questo. Se gli avevano detto che il suo era solo un caso di depressione, allora potevamo stare tutti tranquilli.
Il suo sguardo era puntato verso Bill, in quanto proprio davanti alla porta, e lui ricambiò, seguendola con il suo, di sguardo.
Non credo mi avesse visto.
Ero in un punto un po’ più “nascosto” rispetto a Bill, che ancora non si era levato di faccia quello sguardo da ebete, senza battere ciglio. Esattamente come fosse stato ipnotizzato.
-Bill? Bill!- urlai, schioccando le dita.
Se ero geloso di Bill? Sì. Un po’ lo sono ancora.
Per fortuna reagì, cadendo nuovamente dalle nuvole.
-Eh?! Cosa…?!-
Quando fa la faccia da ebete, ho sempre una voglia così di prenderlo a schiaffi.
Sospirai.
-Fammi indovinare, stavi guardando la ragazza di ieri.-
Mi osservò di nuovo, e capii tutto.
-No, non dirlo, ti prego…-
Ma quel furbetto lo disse lo stesso.
-Invece sì. Pensa un po’ se quella voce appartenesse a lei…-
Odiavo quando faceva così, ma adoravo quando faceva così.
Beh, in fondo, non aveva tutti i torti a pensarlo. “Se così fosse, brutta non è…” pensai.
Ero tentato di dirglielo, ma l’istinto protettivo mi prese di nuovo. Non ci posso fare niente, sono fatto così.
-Bill, te l’ho detto mille volte di smettere di vedere i film della Disney o di leggere le favole, che ti danno alla testa con tutti quei colpi di fulmine e le coincidenze. Cose del genere capitano solo nei film.-
Bill continuava a prendere l’amore troppo seriamente, come una favola, credeva al vero amore, al colpo di fulmine e via discorrendo. Non mi sorprendeva che tutte le sue storie d’amore fossero finite male. Oddio… anch’io dovrei stare zitto su argomenti di questo tipo…
-E se così fosse?- si ostinò lui.
-E’ impossibile.- continuai –Anche se fosse, secondo quanto ti hanno detto, quella ragazza è muta. Come può una persona muta cantare?-
Lo so, suonava un po’ cinico, ma lo facevo per il suo bene; che diamine, è il mio fratellino… dovevo proteggerlo, no?
Lui sospirò, pur sapendo che lo facevo per il suo bene. Non ho mai sopportato vederlo triste, con il cuore spezzato. Si spezzava anche a me. Non osai nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto, se le cose non fossero andate come voleva lui…
-Forse non è muta del tutto…- mormorò –E se fosse in grado di parlare, ma semplicemente non vuole? Non so come dirlo, ma… è una cosa che sento dentro.-
Sapevo esattamente cosa intendeva dire.
“Lo credevo anch’io, con Ria…” pensai, storcendo di poco la bocca “Ma, come già sai, non è finita bene.”
Ero caduto anch’io in un’illusione; non volevo che a Bill capitasse, di nuovo, la stessa cosa.
Non volli dirglielo, ma forse lo aveva già intuito. Non per niente siamo gemelli.
Smettemmo di parlare per tutto il resto del trattamento.
 
Daniela’s P.o.V.
 
La lezione di yoga era stata molto interessante. Dovevo tenere gli occhi chiusi tutto il tempo e respirare il più possibile. Dicevano che era l’ideale per scacciare i brutti pensieri. Effettivamente, aveva funzionato.
Era l’insegnante a guidarmi: mi mostrava come muovere le braccia in un certo modo o le gambe, non perché non fossi in grado di farlo, ma per fare in modo che memorizzassi i movimenti, senza il bisogno di guardarla fare quei movimenti, per le prossime lezioni, per evitare di distrarmi. Avrei dovuto ripetere quella lezione ogni mattina, dopo l’orario di colazione.
Dopo il bagno, Chiara mi aveva accompagnato in camera, senza nemmeno chiedermi se volevo pranzare. Tanto la risposta era scontata. Sembrava attendere il momento in cui sarei stata io a dirle: -Ho fame.-
Mi chiese ugualmente, però, se avevo bisogno di qualcosa. Scossi la testa, sorridendo lievemente.
Appena entrata, mi feci un bagno normale. So che suona anche questo strano, ma mi stupii anche averlo solo pensato. Era sempre stata Chiara a farmi la doccia, quando ero all’ospedale; anche il giorno prima, alla SPA, mi aveva fatto la doccia. L’ho scritto, no, che gli unici momenti in cui mi muovevo erano solo per navigare su Internet e giocare alla Playstation?
Per il resto, non facevo nulla; mi aiutava Chiara.
Restai a mollo per quasi un’ora, rilassandomi come non mai. Sentire l’acqua accarezzarmi la pelle mi rilassava.
Dopo quasi una settimana di docce, tornare a farmi il bagno era un rientro in paradiso.
Anche spazzolarmi i capelli fu come una rivelazione: mi ero dimenticata quanto mi piacesse spazzolarmi da sola. Toccarmi i capelli.
Questo già lo feci il giorno prima, facendo stupire Chiara.
Stavo piano piano riacquisendo la mia indipendenza.
I trattamenti stavano funzionando. O forse ero anch’io che stavo lottando contro il mio lutto.
Cercavo di non pensarci; cercavo di concentrarmi sulla vacanza.
Quando morì mia zia, ci misi quattro settimane per tornare “normale”. E con “normale” intendevo tornare a sorridere, parlare con la gente, vedere la gente, come se niente fosse accaduto.
Ma questo non significava scordarmi definitivamente di Gabriele o del mio lutto.
I lutti non sono nemici facili. Anche se passa il tempo, sentirai sempre, seppur piccola, quella morsa amara nel tuo cuore, soprattutto se la persona era a te cara. Piccola, ma letale.
Il mio cuore ne stava subendo due, di lutti. Se ne fosse capitato un altro, non avrei esitato a togliermi la vita. Pregai che non succedesse.
Sono sempre stata un tipo che somatizzava i sentimenti “forti”: cedevo facilmente soprattutto al dolore, all’umiliazione, alla paura, a tutti i sentimenti negativi, per questo mi sono sempre definita una persona debole.
Il dolore è impossibile da sopportare, quando sei una persona debole. L’unica via che ti resta davanti, per liberartene, è il suicidio. In fondo, chi avrebbe pianto la mia scomparsa?
Mi avevano ormai abbandonato tutti, da quando sono stata mandata all’ospedale psichiatrico.
Il lutto che provavo per Gabriele non mi abbandonava nemmeno un secondo, non importava quanto mi sentissi o mi mostrassi serena, o quanto riuscissi a distrarmi con i trattamenti. Tornava sempre da me, come un lupo che gira intorno alla sua preda, in attesa di attaccarla.
Facevo il possibile per sopravvivervi, anche fare piccoli gesti, come quello di farmi il bagno da sola o asciugarmi i capelli da sola. Gesti normali e stupidi, ma che dimostravano a me stessa che stavo reagendo.
Quel pomeriggio avrei avuto soltanto una seduta di fisioterapia, subito dopo l’orario stabilito per il pranzo.
Il resto del pomeriggio lo passai di fronte alla Playstation, a giocare a Call Of Duty con Filippo. Mi chiedeva spesso come stavo, anche via WhatsApp.
Le mie uniche risposte erano “Cerco di andare avanti”, giusto per non farlo preoccupare per me.
Naturalmente, lo avevo messo al corrente della SPA, infatti gli raccontavo quali trattamenti che dovevo fare e come mi sentivo al loro termine. Ero solo al secondo giorno, ma notavo dei progressi.
Ero lieta di avere almeno una persona, in tutto il mondo, che si preoccupasse per me.
Mi chiedevo spesso come se la stesse cavando: la morte di Gabriele aveva colpito entrambi, ma forse non così tanto da dividerci. Conoscendolo, forse aveva smesso definitivamente di uscire. O forse aveva affrontato la situazione in modo stoico e aveva deciso di guardare avanti.
Non era come me. E non me la sentivo di seguire il suo esempio. Ci avevo provato, inutilmente.
Osservai la foto di Gabriele. Ogni giorno che passava, appariva sempre più bello, come nella realtà.
Non ebbi mai il coraggio di dirgli che ogni volta che lo vedevo, appariva sempre più bello ai miei occhi.
I miei rimpianti… mi fecero nuovamente cadere nella malinconia.
 
Oggi ho pensato a molte cose, soprattutto a Gabriele. Rivedendo la sua foto, ho riprovato i miei rimpianti. Soprattutto non avergli mai detto quanto fosse bello.
 
Ebbi l’impressione di essere tornata al punto di partenza. Gabriele era il soggetto principale dei miei pensieri. Da una parte, non potevo fare a meno di osservare la sua foto, dall’altra sapevo che era il motivo principale della mia malinconia.
“Avrei dovuto lasciare che Chiara staccasse la sua foto dal muro?” mi domandavo spesso.
No. Non potevo prendere e lasciare il mio unico ricordo di Gabriele. Vederla mi faceva star male, ma almeno potevo ricordarmi di lui.
Il mio era un vero e proprio dilemma.
Mi ritornò in mente Elysa e la cantai, per intero.
Successivamente, riscrissi nel diario.
 
“I miss your feeling
I miss you every single day
If you can hear me
Come back and stay”
 
Quanto vorrei che queste parole si realizzassero…
 
Le lacrime scesero di nuovo e mi buttai sul letto, con la faccia immersa nel cuscino, per non far sentire a nessuno i miei singhiozzi.
Non durarono a lungo.
Udii bussare alla porta. Tre colpi brevi. Una pausa. Un colpo breve.
Chiara.
Era una specie di codice che avevamo creato in ospedale, per distinguere lei dagli altri “visitatori”.
Scesi dal letto e le aprii.
Era tornata in piscina.
Quel giorno non ne avevo voglia. Un po’ per paura di rivedere i Kaulitz e un po’ perché nel pomeriggio il cielo si era annuvolato e io temevo che fosse un preludio alla pioggia. Per fortuna non piovve.
Era entrata essenzialmente per vedere come stavo. Feci il possibile per nascondere le lacrime e mostrarmi non turbata.
Tanto lo avrebbe scoperto comunque, appena letto il mio diario.
Al di là del dolore stavo bene. Mi stava già piacendo quella vacanza.
Pianificai di andare in piscina, il giorno successivo, dopo la lezione di yoga.
Dopodiché avrei avuto il pomeriggio pieno.
Alle 19:00 Chiara uscì dalla stanza, dopo avermi chiesto se volevo andare con lei a cena.
La mia risposta, come sempre, fu negativa, mentre bevevo la mia acqua zuccherata.
Quella sera decisi di vedere un film, “Jane Eyre”, per la precisione, quello del 2011, la versione più fedele al libro.
Gli attori principali erano azzeccatissimi con i loro personaggi. Mia Wasikowska e Michael Fassbender erano dei perfetti Jane Eyre e Edward Rochester.
Persino gli altri attori erano azzeccati con i loro personaggi, specie la signora Fairfax e la signorina Ingram.
Blanche Ingram.
Nel libro ero arrivata al capitolo in cui veniva introdotta, o meglio, quando Jane la vede per la prima volta.
Nello stesso momento, io immaginavo di essere Jane Eyre, Gabriele il signor Rochester e Elena Blanche Ingram. Mi chiedevo spesso chi, per lui, fosse Jane Eyre e chi Blanche Ingram…
Ad un certo punto, misi in pausa la riproduzione. Era la scena del duetto tra Blanche Ingram e il signor Rochester.
Ebbi come uno strano lampo nel cervello. Ma dovetti attendere, prima di fare la pazzia che avevo intenzione di fare.
Poi, a film terminato, spensi tutto.
Presi la chiave della mia stanza e uscii.
Avevo ancora gli abiti che avevo quella mattina. Ci stavo praticamente sei volte, ma almeno mi sentivo libera.
Senza farmi sentire, scesi le scale. Per fortuna era tutto rivestito in moquette.
I corridoi erano illuminati, ma almeno non c’era nessuno.
Mi diressi verso il salone-ristorante. C’erano ancora alcune luci accese.
In mezzo, c’era un pianoforte. Un pianoforte nero, bellissimo.
Era da tempo che non ne vedevo uno.
Da piccola avevo preso lezioni di piano, per poi passare alla tastiera.
Avevo smesso di suonare da almeno sei anni, a causa della scuola, ma a volte la riprendevo, se avevo voglia di suonare qualcosa.
Anche quel pomeriggio ero scesa furtivamente in direzione del ristorante.
Non so cosa mi spinse a farlo, ma lo feci ugualmente.
Mi ero nascosta dietro ad un angolo, stando bene attenta a non farmi scoprire: era un salone enorme, bellissimo, bianco, elegante, con il pavimento di marmo.
C’erano dei tavoli riservati agli antipasti, ai finger food e alle insalate, come in ogni hotel.
Vidi subito Chiara, che con aria golosa stava prendendo diversi crostini, dei pomodori ripieni e chissà cos’altro… mi faceva pena vederla da sola a mangiare, ma io ancora non ne sentivo il bisogno; non mi venne neppure l’acquolina in bocca di fronte a quelle delizie.
Poi, involontariamente, notai loro: i gemelli Kaulitz. Insieme, come al solito.
Essendo vegetariani, si stavano gustando un flan alle verdure; o almeno, sembrava un flan.
Parlavano e ridevano, Dio solo sa di che cosa. Il mio sguardo, però, era puntato verso Bill.
L’emblema della bellezza maschile. E quegli occhi che esprimevano ancora purezza e genuinità, come ai tempi di “Monsoon”, ma che nascondevano sempre qualcosa di oscuro e melanconico. Sì, decisamente quel look gli donava molto più di quello precedente.
In quel momento, avevo notato anche il pianoforte, al centro del salone.
Rimasi ammaliata dalle note, dalla melodia; mancava poco avessi la crisi di Stendhal.
E, naturalmente, nessuno degnò di un applauso il pianista, impegnati com’erano tutti a mangiare.
Quel pianoforte aveva fatto scattare una strana molla in me. Uno sfizio che volevo togliermi a tutti i costi.
Sempre in punta di piedi, mi avvicinai, salendo sul piedistallo su cui era stato messo.
Non era stato chiuso a chiave.
Lo aprii, poi togliendo il panno che copriva la tastiera.
Era da una vita che non vedevo tasti così lucidi e ammalianti.
Non so ancora cosa mi spinse ad uscire dalla mia stanza quella sera; forse stavo impazzendo, forse la mia depressione si stava trasformando in pura follia, ma da quel momento mi domandai spesso cosa sarebbe accaduto, se non avessi fatto così.
Guardandomi intorno, per assicurarmi che non ci fosse nessuno, feci un breve esercizio di riscaldamento, suonando con entrambe le mani.
Poi, suonai veramente qualcosa.
Una melodia triste, che venne accompagnata da una canzone.
 
Bill’s P.o.V.
 
Quella voce era ormai entrata nella mia testa.
Mi domandavo spesso se mi conveniva ascoltare Tom o agire seguendo il mio cuore.
Scelsi la seconda, ovviamente. Non mi importava se fosse una persona brutta o bella, volevo sapere a chi apparteneva quella voce bellissima, angelica.
Salendo nuovamente le scale, quel pomeriggio, la sentii di nuovo.
Stava cantando “Elysa”, una delle canzoni del nostro ultimo album, all’epoca.
Ma non era un frammento: grazie a Dio la cantò per intero, così scoprii finalmente da dove proveniva. Come avevo dedotto, proveniva da una stanza del primo piano.
La seguii, fino a quando non si fece più forte. Raggiunsi la porta e mi fermai.
Sì, la sentivo forte e chiaro. Fa sempre uno strano effetto sentir cantare le proprie canzoni, lo dico per esperienza.
Ma quella voce… com’era triste… sembrava fosse tutt’una con la canzone, come se stesse provando le stesse sensazioni che avevo provato io nel comporla. Come se anche lei… stesse provando un lutto.
Volevo bussare ed entrare, principalmente per farle i complimenti. Ma poi udii dei singhiozzi.
“Forse è meglio lasciar perdere…” pensai, prima di dirigermi in camera.
Almeno sapevo il numero della stanza.
Inutile dire che discussione venne fuori appena ne parlai nuovamente con Tom.
L’unica cosa che posso dire è che non ne parlammo più.
Dopo cena, ero nuovamente sceso al piano terra per prendere un paio di bottigliette d’acqua al bar.
Fu lì che la sentii di nuovo.
Die Sirene.
Proveniva dal salone. Sentii persino il pianoforte.
Determinato, corsi immediatamente lì.
Quella volta non me la sarei lasciata sfuggire.
Riconobbi la canzone. Era un’altra delle nostre.
Volli udirla per intero, come avevo fatto quel pomeriggio con “Elysa”.
 
I wonder I your body tastes
Inside of someone else’s place
Pull away your eyes
there’s nothing left to heal
I’m alone but I know everything you fell
And you waiting on the rain
Through tears my heart is caged
And we fall through fate
But we raise and raise again
And I run run run run run
And I run run run run run
I run run run run run
I just run run run
Tell me how you close the door
Knowing nobody could love you more
Telling all your friends that this love
Was just made for bleeding
Hung up underwater but still
Keep on trying to breathe in
And you waiting on the rain
Through tears my heart is caged
And we fall through fate
But we raise and raise again
And I run run run run run
And I run run run run run
I run run run run run
I just run run run
Our lust for fighting
Tied up in silence
And you waiting on the rain
Through tears my heart is caged
And we fall through fate
But we raise and raise again
And I run run run run run
And I run run run run run
I run run run run run
I just run run run
 
Rimasi ammaliato. La ascoltai con gli occhi chiusi.
Mi avvicinai al pianoforte senza far rumore.
Sorrisi appena scoprii finalmente di chi era quella voce: era proprio lei.
La ragazza dell’ospedale psichiatrico.
Tratti del volto delicati e graziosi, con tante lentiggini, occhi scuri, capelli castani; non riuscii a intravedere le forme del corpo, a causa degli abiti larghi che indossava. Anche il suo aspetto era quello di un angelo.
Non era solo la luce del salone ad illuminarla. Percepivo un’altra luce, più eterea, quasi divina, che la illuminava.
Riuscivo a leggere la tristezza nei suoi occhi, nella sua voce.
Avevo ragione: non era muta del tutto.
“Tom, questa volta ho vinto io.” pensai, soddisfatto.
Ingenuamente, mi feci scoprire.
Avevo posato le bottigliette dell’acqua per terra, per applaudirle.
-Brava.- le dissi, in italiano –Sei bravissima.-
Lei mi guardò spaventata: naturalmente, non si aspettava la mia presenza.
Scese immediatamente dal piedistallo, correndo verso l’uscita, in direzione delle scale.
Io ero entrato da un’altra porta, che collegava il ristorante al bar.
Mi lanciai all’inseguimento, raggiungendola in breve tempo.
-Ehi, aspetta!- le urlai, stavolta in inglese; lei non si voltò nemmeno; udivo il suo respiro, sempre più affannoso e non solo per la corsa; dovevo averla spaventata molto.
Per sdrammatizzare, la buttai sul ridere.
–Solo perché la canzone si intitola “Run  run run”, non significa che tu debba correre per forza!-
“Bill, sei proprio un idiota.” pensai, un secondo dopo. “Davvero un bel modo per cercare di sistemare questa situazione…”
Ero sempre stato una frana in certe cose.
Prima che salisse l’ultimo gradino, riuscii a prenderla per un polso, stringendolo.
Lei si dimenava come un animale, per liberarsi; ogni tanto si lamentava.
-Ti prego, non scappare!- supplicai, cercando di rassicurarla –Non devi avere paura di me.-
Ma lei non sembrò ascoltarmi. Continuava a dimenarsi e a lamentarsi, ma io non mollavo.
Fino a quando non la sentii esclamare: -Leave me alone! (Lasciami sola!)-
Mi sgomentai, a tal punto da mollare la presa.
La vidi sparire nel buio, prima di udire una porta che si apriva e poi si chiudeva.
Sì, era la stessa stanza da cui quel pomeriggio avevo sentito “Elysa”.
Ero rimasto incantato dalla sua voce, sia mentre cantava, sia quelle poche parole che aveva pronunciato.
Che bella pronuncia che aveva…
E le sue labbra… così colorite, come se si fosse tolta da poco il rossetto. No, erano così di natura.
Persino le sue mani erano belle, con le dita lunghe ed eleganti, come quelle di una pianista.
Preso da un improvviso impeto di rabbia, battei un piede per terra, dandomi continuamente dello stupido.
Sì, davvero un pessimo modo per iniziare una conoscenza.
Rassegnato, tornai al piano terra, per riprendere le bottigliette d’acqua.
 
Daniela’s P.o.V.
 
Mi ero esercitata tantissimo per suonare e cantare “Run run run”.
A casa di Gabriele c’era un pianoforte da parete; pensavo di suonargli questa canzone, una volta tornata a casa sua dopo il concerto.
Mi ricordavo ancora le note, grazie al cielo.
Era stata un’impresa ricordarmele tutte, ma, per amore, tutto è possibile.
Non mi aspettavo proprio la presenza Bill Kaulitz.
Lo vidi comparire all’improvviso, mentre mi applaudiva.
Presa da una forte ansia, cercai di scappare.
Lui era riuscito a raggiungermi e non aveva la minima intenzione di mollarmi.
A quel punto, mi era sfuggito.
-Leave me alone!-
Tornai subito in camera, chiudendomi la porta alle spalle, riprendendo fiato.
Ripensai a quanto era successo poco prima: avevo parlato.
Dopo quasi due settimane, avevo nuovamente parlato.
Che strana sensazione provai a sentire nuovamente la mia voce. E non cantata, ma parlata.
Sentii il mio cuore farsi più leggero, come se parlare avesse sbloccato un’altra piccola parte di me.
Dovetti combattere la mia tentazione di entrare in camera di Chiara e urlarle che ero tornata a parlare.
Avevo sempre odiato parlare, ma erano bastate quelle tre parole a farmi venire una voglia smisurata di parlare fino allo sfinimento.
Chiara non aveva ancora preso il mio diario. Era nuovamente sotto la doccia.
Approfittando di quel breve lasso di tempo, scrissi questo.
 
Stasera, dopo aver cantato “Run run run”, ho di nuovo parlato. Di fronte a Bill Kaulitz!

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Capitolo 5
*** (U) ***


Note dell'autrice: ho voluto pubblicare questo capitolo per altri due motivi: uno, in omaggio al compleanno dei fantastici gemelli Kaulitz! <3 Il secondo è un annuncio: il 13 novembre io andrò al concerto di Bologna. Eventualmente, se qualcuno volesse "incontrarmi"... può parlarmene qui:
https://www.facebook.com/Lady-I-H-V-E-Byron-1196003080417859/?ref=tn_tnmn

Intanto, buona lettura e auguri di buon 28° compleanno a Bill e Tom!

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Chiara’s P.o.V.
 
Ho di nuovo parlato.
 
Quella frase lasciò di stucco sia me, che il direttore e Alberto.
Sì, quel giorno Dani si era comportata in modo strano.
Anche io avevo un quaderno, dove annotavo i suoi comportamenti, del tipo:
 
La paziente si è aperta la persiana da sola.
La paziente si è lavata da sola.
 
Dopo aver letto quel pezzo di diario, aggiunsi:
 
La paziente afferma di aver parlato, dopo quasi due settimane di mutismo.
 
Lessi quanto scritto successivamente da lei:
 
Ero scesa nel salone solo per suonare un po’ il piano. Era da una vita che volevo provare a suonare e cantare “Run run run” dei Tokio Hotel, per farlo sentire a Gabriele, se solo non fosse morto. Ma quando ho finito, lo vidi accanto a me: Bill Kaulitz. Mi stava applaudendo, sorridendo. Imbarazzata, sono scappata, ma lui era riuscito a raggiungermi. La sua mano stringeva il mio polso. Che forza che aveva in quella morsa. Non me lo sarei mai aspettata da uno della sua corporatura. Sembrava non volermi lasciar andare, e dimenarmi non serviva a nulla. Mi ero trovata quasi costretta a parlare, per convincerlo a lasciarmi. Lui sembrò aver colto il messaggio, infatti mi aveva lasciata. Sono rientrata in camera senza nemmeno voltarmi. Spero solo non aver svegliato l’intero hotel.
Aver parlato dopo tanto tempo… davvero una strana sensazione. Adesso percepisco come una voglia matta di parlare e non finire più. O forse è solo un’illusione. Non voglio che la gente legga il dolore nelle mie parole, non voglio turbarle con il mio lutto. Forse restare muta è la decisione migliore.
 
Il direttore rifletté molto su queste ultime parole e anche io.
-Una situazione estrema…- mormorò –In cui si è trovata costretta a parlare. Non eri presente, Chiara?-
Imbarazzata, mi morsi il labbro inferiore.
-Ero a farmi la doccia.- mi giustificai –Non sapevo che sarebbe uscita.-
-Ma già una volta ti è sfuggita…- aggiunse Alberto –Non hai forse letto che Daniela era uscita anche per l’orario del pranzo?-
Sì, aveva scritto anche quello. Stava facendo progressi. Ma erano anche preoccupanti. C’era il rischio che potesse scappare o mettere in allarme la SPA. Già non ero sicura che i dipendenti avessero creduto alla storia della depressione o dell’incapacità di muoversi al di fuori del suo spazio vitale. Ora che Daniela sembrava essere nuovamente in grado di fare alcune cose da sola, meno che mai.
-Sì, è così.-
-Allora sarà meglio che d’ora in avanti tu stia sempre con lei, per sicurezza.- concluse il dottor S.
Era la cosa migliore da fare, lo sapevo anch’io. Ma l’istinto mi suggerì di fare una piccola protesta.
-Sempre con lei? Farla di nuovo sentire oppressa o legata? Rendermi praticamente il suo avvoltoio? Così non migliorerà mai.-
-Chiara, nel caso te ne fossi dimenticata, Daniela è stata affidata a te.- tagliò corto Alberto, con la sua solita mancanza di tatto –Di norma, dovresti stare sempre con lei. E poi, cerca di metterti nei panni dei clienti. Già sapere di avere tra di loro una proveniente da un ospedale psichiatrico non ti metterebbe in allarme? Figuriamoci, allora, trovarla in giro da sola.-
Era quello che pensavo io. La gente poteva prenderla per una incapace di intendere e di volere. Sì, stare con lei era la decisione giusta.
Daniela non l’avrebbe presa bene.
 
Bill’s P.o.V.
 
-Ti ha davvero parlato?-
Fu la prima cosa che dissi a Tom, la mattina seguente. Sapendo già a priori che mi avrebbe preso per un ossessivo.
-Ha detto solo “Leave me alone”. Ma, sì, ha parlato.-
Avevo uno sguardo soddisfatto sul volto.
Tom storse la bocca, dopo aver ingoiato il pezzo di cornetto che aveva in bocca.
-Allora suppongo tu avessi ragione.- ammise –Che non fosse muta del tutto… Ma almeno era carina?-
-Un angelo.-
-Volto?-
-Lievemente ovale, con tante lentiggini.-
-Capelli?-
-Neri.-
-Occhi?-
-Marroni. Più scuri dei nostri.-
-E le mani?-
Sì, mi prendeva ancora un po’ in giro per la mia fissazione per le mani.
-Dita lunghe, eleganti e quasi magre, proprio come quelle di una pianista.-
-Aveva le misure giuste nei punti giusti?-
Divenni quasi rosso dall’imbarazzo: ho sempre odiato quando faceva così…
-Non ti rispondo nemmeno...-
Sospirò.
-Non ti ha detto altro oltre “Leave me alone”?- disse, parlando d’altro.
-No, solo quello.- risposi, mordendomi il labbro inferiore.
-Ma tu cosa le hai detto?-
-Le ho solo fatto i complimenti per la sua voce e…-
Sì, gli dissi anche della mia frase di spirito. Già mi ero dato da solo dell’idiota, mancava solo che anche mio fratello mi desse dell’idiota.
-Fratellino, lasciatelo dire, sei proprio un imbranato per queste cose…-
Beh, le due parole sono più o meno sinonimi, no?
Fissai la mia tazza, ormai vuota, storcendo la bocca.
-E se magari le chiedessi scusa…?- mi scappò dalla bocca.
-Billi, stai parlando di una che ti ha espressamente detto “lasciami in pace!”.- commentò Tom –Come puoi pensare che voglia rivederti?-
Non aveva tutti i torti. Ma io ero anche un tipo tenace.
-Beh, vale la pena tentare, no?-
-E… vuoi davvero andarci da solo?-
Mi guardò con aria furba.
Dannata connessione gemellare. Potevo mentire a tutti, ma non a lui. Sarebbe stato come mentire a me stesso.
Scossi la testa, prima di fare lo sguardo supplichevole.
-Ti prego, vieni con me. Non riesco a fare niente, se non mi prendi per mano e mi dici che posso farcela…-
Lui sorrise di nuovo, da furbetto.
-Ma certo che vengo con te.- disse, prima che ci alzassimo per dirigerci verso le scale –Tu sei perduto senza di me.-
-Sì, parla quello che non può stare due giorni senza vedermi…- aggiunsi, sorridendo divertito; ero passato al contrattacco; sulle prese in giro, intendo… Misi la mano stile telefono e imitai la sua voce –Ehi, dove sei? Torni a casa? Posso venire anch’io?-
Si voltò verso di me, strizzando gli occhi.
-Ritorna su quell’argomento e ti strappo quel piercing che hai sul naso…- mi minacciò, scherzando.
Faceva e fa tutt’ora così: parla, parla, e poi non fa niente di quello che dice. A parte nel campo musicale, s’intende.
Per fortuna, ricordavo benissimo dove si trovava la sua stanza: avevo memorizzato il numero sopra la porta.
Non era lontano dalle scale.
Ricordo ancora l’imbarazzo che provai una volta di fronte ad essa: un attimo prima ero determinato, ma poi il dubbio e le farfalle nello stomaco mi avevano preso all’improvviso.
E nel frattempo restavo con il pugno a mezz’aria, indeciso se bussare o meno.
E Tom non mi aiutò per niente, da quel punto di vista.
-Allora, bussi o no? Perché non bussi?- mi domandava di continuo, un po’ deluso nei miei confronti; come biasimarlo? –Cosa c’è? Ti arrendi? O ti sei dimenticato come si bussa?-
Ero bloccato. Deglutii.
“D’accordo. Ora vado da lei, ma cosa le dico…?” pensai, mordendomi le labbra.
-Prima eri tutto determinato…- proseguì Tom –E adesso arretri di fronte ad una porta. Questo non è il Bill che conosco. Il vero Bill non lascia le cose a metà ed è disposto a tutto pur di ottenere quello che vuole.-
Giusto. Quello non ero io.
Ringrazio spesso Dio per aver creato Tom e averlo reso il mio gemello: cosa sarei e cosa farei senza di lui?
E se lui era con me, potevo fare qualunque cosa.
Respirando profondamente, bussai sulla porta. Improvvisamente, alzai le sopracciglia.
-Strano, la porta è aperta…- notai, un po’ sorpreso.
La porta, infatti, non era chiusa, era socchiusa. Si era aperto uno spiraglio, quando avevo provato a bussare.
E ormai avevo superato il nervosismo di poco prima.
Con cautela, mi affacciai allo spiraglio.
-Permesso…?- dissi, in inglese. Entrare in quel modo non era certo da persone educate. Ma non udii risposta.
Poi mi ricordai che lei era “muta” e quindi non poteva, o meglio, non voleva rispondere.
Scostai di poco la porta: la stanza era vuota, sebbene la persiana fosse stata aperta.
Spalancai la porta e Tom entrò con me.
-Non è nemmeno in bagno…- notai, osservando la porta, aperta, del bagno –Quindi deve fuori.-
-Che intuito…- commentò Tom, assumendo uno sguardo buffo e abbassando un sopracciglio.
Percepivo che mi stava dando, tra sé, del più grande idiota dell’universo; si guardò intorno –Però… si tratta bene la signorina… ehi, guarda! E’ nostra fan!- su uno dei comodini accanto al letto, infatti, c’erano tutti i nostri album; avevo già intuito fosse nostra fan da come aveva cantato “Run run run” e “Elysa”.
-Tom, lo sai che è maleducazione rovistare nella stanza di una signora?- feci, un po’ nervoso per il timore che qualcuno entrasse all’improvviso; magari stavano pulendo la stanza e l’inserviente si era assentata per un attimo.
-Non sto rovistando.- si giustificò lui –Se alcuni oggetti sono in bella vista, non significa rovistare. Ehi, guarda, una PS4!- si precipitò sulla Playstation 4 che vide e sulle custodie dei videogiochi lì presenti –E guarda quanta roba…! “The Order 1886”, “Skyrim”, “Kingdom Hearts”, “Final Fantasy” “Tekken”… ce ne sono tanti! E… no!- mi mostrò, fiero, la custodia dell’ultimo “Call of Duty” –Una ragazza che gioca ai picchiaduro e agli sparatutto merita il mio rispetto!-
Ah, Tom… no, se qualcuno chiede, quel genere di ragazza non gli era mai interessato, se non per fare solo amicizia; preferiva le ragazze “belle”, in particolare le modelle.
A me… chissà? Mi era sempre bastato che fosse fedele. Tom mi prendeva sempre un po’ in giro per questo: per me l’amore era sempre stato un sentimento serio, assoluto. Come succede nelle favole, insomma.
Io non mi azzardai nemmeno a toccare gli oggetti di quella stanza, per rispetto. Tuttavia, qualcosa catturò la mia attenzione.
Una foto.
Sull’altro comodino vicino al letto.
La presi, per vederla da vicino.
Era un ragazzo. Fotografato dalle spalle in su. Era appoggiato ad una finestra ed era in controluce, però era possibile vedere tutte le parti del suo volto.
Ciò che catturò in particolare la mia attenzione furono gli occhi.
Allungati. Color marrone. Come i nostri. Coincidenza?
“Chissà chi è…” pensai, serio.
-Tom…- mormorai, senza voltarmi o muovermi; lui si avvicinò a me.
-Sì?-
-Non trovi che lui ci somigli?-
Anche lui osservò la foto ed ebbe la mia stessa reazione.
-E’ vero…- fece, mettendosi, poi, una mano sotto il mento –Chissà chi è… Speriamo non sia una specie di fratello segreto…-
Io, però, avvertivo come un lieve senso di angoscia a vedere quella foto… Chi era? E cosa aveva a che fare con la ragazza dell’ospedale psichiatrico?
Notai un’altra cosa su quel comodino: un quaderno. Con la copertina grigia.
Lo aprii, preso dalla curiosità: la calligrafia non era malvagia e le parole seguivano la riga, ma era tutto scritto in italiano, che sapevamo entrambi pochissimo. Notai, però, la ripetizione dei nomi “Gabriele” e “Elena”.
Preso dai miei pensieri, non mi accorsi che qualcuno si stava avvicinando. Nemmeno Tom se ne era accorto.
-Ma guarda te se dovevo dimenticarmi proprio di…-
Un’altra persona era entrata nella stanza.
Non ci accorgemmo della sua presenza, fino a quando non urlò, in inglese: -Ehi! Cosa fate voi qui?-
La donna che era insieme alla ragazza un paio di giorni prima, in piscina.
Doveva avere all’incirca la nostra età, capelli biondi raccolti in una treccia, occhi marroni e fisico tra il magro e il robusto. Si fermò in mezzo alla stanza, cogliendoci con il quaderno ancora aperto.
Tom e io ci guardammo, imbarazzati, dopodiché io balbettai, in inglese: -Ehm… la porta era aperta…-
Sgranò gli occhi, puntando lo sguardo verso la foto che avevo ancora in mano.
-Per l’amor di Dio! Posa subito quella foto!- esclamò, quasi strappandomela dalla mano, insieme al quaderno –Se lei vi vedesse, non si farebbe scrupoli ad aggredirvi…-
Impallidii.
-Aggredirci…?-
Mi mostrò un braccio, con aria seria. C’erano come delle incisioni sopra. Dei morsi.
-Vedi questi segni? Me li ha fatti lei, quando mi ha beccata a rimuovere quella foto dal muro della sua camera.-
Lì per lì rimasi basito da quella rivelazione: non potevo credere che una creatura angelica come quella ragazza avesse un lato selvaggio. Che fosse veramente psicopatica?
Tom sembrò osservarmi come per dire: “Te l’avevo detto…”
La cura con cui sia la foto che il quaderno vennero sistemati dava quasi i brividi; esattamente come li avevamo trovati.
-E’ così che fate con i vostri fans?- domandò la donna, osservandoci con aria fredda; quegli occhi fecero rabbrividire entrambi –Entrate nelle loro stanze e frugate tra le sue cose?-
Tom ed io ci guardammo di nuovo entrambi.
-Ecco… noi…- feci io, imbarazzato –Io non pensavo che la porta fosse aperta. Volevo solo parlare con la ragazza…-
-Si chiama Daniela.- tagliò corto lei.
“Daniela… che nome grazioso…” pensai.
-Ok, Daniela. E volevo chiederle scusa per ieri sera.-
Senza aggiungere altro, e forse senza ascoltarmi, lei ci prese per le braccia e ci condusse alla porta.
-Sentite, apprezzo il pensiero, ma devo chiedervi di uscire da qui.-
Che forza in quelle braccia.
-Accidenti, che forza, signorina!- commentò Tom, prima di venir spinti fuori dalla porta -Ma il primo requisito di lavorare negli ospedali psichiatrici è andare in palestra a fare pesi tutto il giorno?-
Avrei tanto voluto mordergli il naso. Poi lo feci. Più tardi, ma lo feci.
Non poteva finire così. Lei stava provando a chiudere la porta della stanza, ma noi facevamo il possibile per tenerla aperta. Fu una vera e propria gara di resistenza.
-La prego, signora, non volevamo fare niente di male!- supplicai –Voglio solo parlare con Daniela. Mi dica almeno dove posso trovarla.-
-E’ a fare yoga, in questo momento. E sarà impegnata tutto il giorno.-
-Ma cosa le è successo? Perché ha deciso di non parlare? Chi è il ragazzo della foto?- era il momento sbagliato per porre tutte quelle domande, ma lo feci ugualmente.
-E’ confidenziale.-
-Almeno mi dica quando posso vedere Daniela. Le voglio chiedere scusa per ieri sera, per come mi sono comportato con lei. Non le ho fatto niente, giuro! Le ho solo fatto i complimenti per come cantava!-
Lei smise di opporre resistenza; così facemmo anche noi. Tom aveva il fiatone e anch’io.
I suoi occhi marroni ci fissarono dalla testa ai piedi. Poi osservò me.
-Tu sei Bill Kaulitz, giusto? Il cantante dei Tokio Hotel?- mi domandò.
Annuii.
Tom, ovviamente, volle dire la sua, facendo lo sborone: -E io sono Tom Kaulitz, il chitarrista.-
Ma lei sembrò non averlo nemmeno udito.
-Prima rispondi a una domanda.- disse -Lei ti ha davvero parlato?-
Io, senza pensarci due volte, le risposi: -Mi ha detto solo “Leave me alone”. Ma prima ancora l’ho sentita cantare. Una delle nostre canzoni, precisamente.-
Lei storse la bocca, guardando in basso, senza cambiare espressione, annuendo leggermente.
Lì per lì mi allarmai: temetti di aver detto qualcosa di sbagliato, che potesse peggiorare la condizione di Daniela.
-Ho detto qualcosa che non va?- domandai, preoccupato; poi mi ricordai della prima volta in cui avevo sentito la sua voce –Ma lei cantava di già, per caso?-
La donna, con tono completamente freddo, come il suo sguardo, mi rispose: -Sì, ogni tanto cantava, ma parlare no. E ora, se volete scusarmi…-
Non avemmo tempo di dire altro che la porta si chiuse.
Abbassai lo sguardo, sospirando.
Un altro buco nell’acqua.
Nemmeno la mano di Tom sulla mia schiena servì a farmi risollevare il morale.
 
Chiara’s P.o.V.
 
-Mi ha detto solo “Leave me alone”.-
Appena chiusi la porta, tirai un gran sospiro di sollievo.
Dani aveva di nuovo parlato. Finalmente ne avevo la prova certa.
Erano solo tre parole, ma era già qualcosa.
Senza pensarci due volte, tornai in camera mia e presi il mio quaderno.
 
Giorno 3: Ho ottenuto la prova di quanto scritto dalla paziente nel suo diario. Ha davvero parlato di nuovo, secondo quanto riferito dal testimone oculare e auricolare.
 
La cura stava funzionando… o forse era aver visto i suoi idoli ad averla fatta reagire? E se fossero state entrambe le cose?
 
Tom’s P.o.V.
 
Se c’è una cosa che non ho mai potuto sopportare è vedere il mio fratellino triste e deluso.
Ma quel giorno se l’era proprio cercata.
-Ti è andata male, Billi.- dissi, sdraiandomi sul letto, una volta rientrati nella nostra stanza –Ma puoi sempre ritentare. Magari sarai più fortunato.-
Si voltò verso di me, con lo stesso sguardo di un cane, prima di aggredirti.
Lo so, quello che ho detto suonava cinico e da persona insensibile, ma ci volevo andare giù pesante per farlo reagire.
-Già… lo credi facile?- mi disse, con il suo naso praticamente ad un centimetro di distanza dal mio –Per te, quando si tratta di ragazze, è sempre facile. Come sanno tutti…- si allontanò da me; percepii dei singhiozzi nel suo tono -…sono sempre stato io quello negato per i flirt, mentre tu sei il Casanova del gruppo.- concluse, allargando le braccia. Sì, stava lacrimando.
Forse c’ero andato TROPPO pesante. Mi diedi dell’idiota.
-Andiamo, Bill.- proseguii, alzandomi dal letto; gli misi nuovamente una mano sulle spalle; stavo cercando di sistemare tutto –Devi solo attendere il momento giusto. Guarda, attendiamo che l’infermiera esca dalla stanza per scoprire dove l’hanno portata, tu la attendi proprio nel corridoio e le chiedi scusa alla prima occasione.-
Mi sembrava un buon piano. Ma lui scosse la testa.
-Lascia perdere, Tom, è inutile.-
Dio, quanta testardaggine… e poi diceva di me che ero testardo…
Bill sapeva (e sa tutt’ora) essere paranoico quando le cose non andavano come aveva programmato.
Se vogliamo metterlo a paragone con la mia impazienza…
Sospirai anch’io, allargando le braccia, in segno di resa.
-Dio, Bill, ma sei davvero impossibile!- imprecai –Per forza non ci sai fare con le donne! A volte mi domando se ti interessino veramente… Anzi, no! Per te le uniche donne della tua vita sono Frau Merkel e Britney Spears!-
Ripensandoci adesso, non posso fare a meno di provare imbarazzo ad aver pronunciato quella frase. Ero davvero furioso. Volevo aiutare il mio fratellino e lui si ostinava a rifiutare.
-Esattamente!- mi rispose lui, con il mio stesso tono –Proprio stanotte ho sognato la leggendaria Britney che si esibiva solo per me… nuda!-
Nel frattempo, stava scrutando dentro un cassetto, tirando fuori il suo costume da bagno.
Lo osservai come se fosse il più grande idiota dell’universo. In effetti, un po’ lo era.
-E ora che intenzioni hai?-
Si spogliò di fronte a me. Non mi scandalizzai per niente.
Dopotutto, eravamo gemelli. Conoscevamo ogni parte del corpo dell’altro; praticamente era come vedersi allo specchio.
-Cosa ho intenzione di fare?!- esclamò, indossando il costume da bagno e mettendosi l’asciugamano sottobraccio –Vado a farmi una bella nuotata in piscina per vedere se riesco a ordinarmi le idee!-
Senza aggiungere altro, uscì dalla stanza, forse senza nemmeno sentire quando gli dissi in seguito.
-Fuori è nuvoloso. Occhio che rischi di prenderti un malanno e addio ai prossimi concerti.-
Ma, come avevo previsto, non mi prestò orecchio. Chiuse la porta sbattendola.
Sospirai di nuovo, abbandonandomi su una delle poltroncine della stanza, vicino alla finestra, nascondendomi il volto tra le mani.
Entrambi eravamo dei veri idioti.
Non per niente siamo gemelli.
 
Daniela’s P.o.V.
 
Era stata una giornata davvero impegnativa.
Non ebbi nemmeno la forza di leggere o di guardare un film, la sera.
Come sempre, non cenai.
Andai subito a letto, addormentandomi quasi subito.
 
-Dani? Svegliati.-
Aprii gli occhi, stupendomi un secondo dopo: non ero nella SPA. Ero in un cinema.
Scossi la testa: ero davvero in un cinema.
Sullo schermo erano proiettati i titoli di coda di un film.
Gli altri spettatori si stavano alzando per uscire.
Sentivo una mano scuotermi una spalla.
Una mano grande, dalla presa forte.
Il respiro si mozzò quando udii una voce familiare.
-Non pensavo ti saresti addormentata.-
Era lui.
Gabriele.
Era vivo!
Ed era insieme a me!
Capelli neri lunghi fino alla nuca, occhi marroni un po’ allungati, naso con la punta leggermente rivolta verso l’alto, labbra grandi, alto più di un metro e ottanta… sì, era proprio lui!
Ma allora… il concerto, la sua morte, l’ospedale psichiatrico, la SPA, i gemelli Kaulitz… possibile che avessi sognato tutto?
-Eppure film di questo genere ti appassionano, Dani…-
Io cercai di alzarmi, mentre sentivo un lieve giramento alla testa.
Ero confusa. Non sapevo neppure come mi trovassi lì. Tantomeno quando ero entrata al cinema.
Non potevo chiedergli che giorno fosse, (più che altro per sapere se il concerto dei Tokio Hotel fosse già passato o meno) altrimenti avrei fatto la figura della stupida.
Dovevo trovare una scusa valida.
-Scusa… ultimamente sto dormendo poco.- mentii, mettendomi una mano sulla testa. I capogiri, però, li sentivo davvero –E mi gira un po’ la testa.-
Lui assunse uno sguardo preoccupato. Mi mise una mano sulle spalle, sorreggendomi.
-Allora, vieni, ti aiuto.- disse, premuroso, come lo era solitamente –Ti porto a casa mia.-
Uscimmo dal cinema, in direzione di casa sua: la sua casa, una piccola villetta con soli due piani, era praticamente vicina, quindi vi andammo a piedi.
Non avevo nemmeno chiamato mio padre per farmi venire a prendere. Avevo 23 anni, avevo la patente, ma non avevo ancora una macchina mia. E le macchine servivano ai miei, quindi...
Camminavamo uno accanto all’altro, ma, come al solito, guardavamo in tutte le direzioni, fuorché nei nostri sguardi. Ma sentivo spesso la sua mano sfiorare la mia o i fianchi, come accadeva tutte le volte in cui camminavamo insieme. Erano quelli i momenti, seppur piccoli, in cui mi illudevo di interessargli, che avesse finalmente dimenticato Elena.
Una volta di fronte a casa sua, aprì il cancello e io lo seguii. Lucky, il suo cocker spaniel, da lui definito “stupido”, ci corse incontro, facendoci le feste.
-Lucky, giù!- gli urlò Gabriele, ma Lucky continuava a mettere le zampe anteriori sulle mie gambe.
Io gli accarezzavo la testa, invece.
-Lascia stare la signorina!-
A quel punto, il cane si metteva giù, ma non smetteva di guardarmi.
Solitamente, quando andavo da lui, entravo dal piano inferiore, dove Gabriele aveva la propria postazione da gamer, o semplicemente il suo spazio per studiare. L’ingresso vero e proprio si trovava sopra una piccola scalinata.
Infatti, fu proprio nello stanzino dove entrammo. O meglio, dove stavamo per entrare.
La sua mano restò ferma sulla maniglia. Lui stesso si bloccò, all’improvviso, con la testa rivolta verso il basso.
Lì per lì mi allarmai; temetti che non si sentisse bene.
-Qualcosa non va?- domandai, inclinandomi leggermente in avanti, per scorgere almeno il suo sguardo.
Lui rimase in silenzio per pochi secondi.
Poi si voltò verso di me, mordendosi le labbra.
-Dani, c’è una cosa che volevo dirti…- il mio cuore sobbalzò; che stesse…? –Ci conosciamo solo da un paio d’anni, è vero, forse non ti conosco bene come dovrei, ma mi sono reso conto che con te non sto così male. Soltanto che… non sono più sicuro di vederti solo come un’amica…-
Sì, stava per dirlo. Si voltò completamente verso di me. Anche il suo cuore stava battendo. Come al solito, stava mascherando il suo imbarazzo con un sorriso ridicolo. Ma era adorabile quando faceva così.
-Durante il mio compleanno, mi hai dato supporto morale, mi hai consolato. Lo apprezzo tantissimo. Ti sei sempre preoccupata per me. Sei sempre stata lì per me. Grazie. Hai fatto tutto ciò che la ragazza che mi piaceva non aveva mai fatto. Dani, tu mi piaci.-
Sorrisi anch’io, mentre il cuore continuava a battermi forte e le lacrime uscivano dai miei occhi, mentre singhiozzavo.
Sì, era avvenuto! Si era dichiarato! Io gli piacevo! Non Elena! Io! IO!
Senza ormai avere il pieno controllo delle mie azioni, lo abbracciai, bagnandogli la spalla con le mie lacrime.
Sentivo la sua mano toccarmi i capelli, accarezzandoli delicatamente, mentre sentivo la sua guancia appoggiarsi sulla mia fronte.
Ci staccammo; pensai volesse darmi il primo bacio. Invece, aprì la maniglia della porta.
-Vieni.- mi invitò, sorridendo.
Lui entrò, e io lo seguii.
Sì. Il mio desiderio si stava avverando. Gabriele era finalmente mio. Finalmente potevamo stare insieme.
Improvvisamente, però, qualcosa mi bloccò. Non riuscivo più ad andare avanti.
 
Aprii gli occhi.
Era buio. I miei piedi scalzi stavano toccando qualcosa di freddo.
Due mani mi stavano stringendo sul torace, sotto i miei seni, con una presa salda.
Sentivo la mia schiena e la mia testa a contatto con qualcosa.
Annusai nell’aria un odore a me familiare: vaniglia e sigaretta.
Di fronte a me, il vuoto.
-Sei impazzita?-
 
Bill’s P.o.V.
 
Era un segno. Un sogno premonitore.
Stavo salendo le scale dell’hotel, correndo, senza sapere il motivo. Ma sentivo di doverlo fare.
Sembrava quasi una scena del video “Don’t jump”.
Da un certo punto di vista, lo era.
Raggiunsi il tetto, ansimando. Piano, freddo, ventoso, buio, angoscioso.
Scorsi una figura sul bordo: Daniela. Aveva indosso una veste larga, che seguiva i movimenti dei suoi capelli, in preda al vento.
Si voltò verso di me: aveva un’aria triste, ma sorrideva. Dai suoi occhi marroni stavano uscendo delle lacrime, che si sparsero per aria, brillando come diamanti.
-Daniela? Cosa fai qui?- domandai.
In realtà, sapevo benissimo cosa aveva intenzione di fare.
Le sue bellissime labbra si mossero.
-Leave me alone…- mormorò.
In quel momento, alle sue spalle, comparve il ragazzo della foto. Era proprio simile a me. Anche in altezza.
Sorrideva in modo maligno. La abbracciò dalle spalle, come fosse un oggetto prezioso dal quale non voleva separarsi.
-Lei verrà con me…- sibilò.
Si inclinarono indietro.
Io, impaurito, corsi verso di loro, nel tentativo di salvare Daniela.
-NO! NON FARLO!- ripetei, allungando una mano in avanti.
Ma lei non si mosse; cadde nel vuoto con il ragazzo, sorridendo tra le lacrime, e a me non restava altro che guardarla precipitare nel buio della notte.
Mi svegliai di soprassalto.
Tirai un sospiro di sollievo. “Era solo un sogno…” pensai, cercando di stabilizzare i battiti del mio cuore.
Accanto a me, Tom stava ancora dormendo, russando. Come sempre.
Per fortuna, non avevamo fatto lo stesso sogno, come invece capitava spesso.
Mi sdraiai sul letto, senza riuscire, però, a riprendere sonno. Delle continue immagini si proiettarono nella mia mente, senza che ne potessi prendere il controllo. Quel sogno mi aveva lasciato come sgomento e confuso. Provavo un’angoscia quasi indescrivibile, bisogna provarla per capirla; ma era come se fosse reale. Tremendamente reale.
Cercavo inutilmente di non pensarci e prenderlo come il sogno che, effettivamente, era.
Tuttavia, qualcos’altro mi privò del sonno, quasi spaventandomi. Un canto. Un canto senza parole.
Ero tentato di rimanere a letto, ma la curiosità era troppo forte. In punta di piedi, aprii la porta della mia stanza, affacciandomi leggermente.
-Chi c’è?- domandai, in inglese.
La voce si faceva sempre più vicina.
Il cuore mi batteva forte dall’emozione e dalla paura.
“Ci sono i fantasmi?” pensai, quasi ansimando.
I corridoi erano illuminati, il che mi permise di individuare la causa.
Daniela.
Aveva lo stesso abito che indossava nel mio sogno.
Stava salendo le scale per il terzo piano.
-Ehi…! Ehi…!- la chiamai, a bassa voce, per non svegliare quelli delle porte accanto –Daniela…!-
Non sembrò udirmi. Continuava a salire le scale.
Riflettei, mordendomi il labbro inferiore.
“E se quel sogno non fosse stato un caso…?” pensai. Temetti che le cose sarebbero andate proprio come nel mio sogno.
Dovevo fare qualcosa, finché ero ancora in tempo.
Lasciando la porta socchiusa, la seguii.
Si stava dirigendo verso il tetto, esattamente come nel mio sogno.
E stava camminando proprio verso il bordo.
Corsi da lei, afferrandola appena in tempo, stringendola a me.
Rosa.
Odorai un delicato profumo di rosa. Capii che proveniva da lei.
-Sei impazzita?- le domandai, in inglese.
Cercavo di stringerla a me il più possibile, per evitare che cadesse e io con lei.
 
Daniela’s P.o.V.
 
Di fronte a me c’era solo il buio. Non la casa di Gabriele.
Ripensai al mio sogno: se avessi proseguito, se avessi seguito Gabriele, se avessi fatto un altro passo in avanti, se Bill non mi avesse fermata, prendendomi tra le sue braccia…
Un orribile pensiero si balenò nella mia mente.
Il mio cuore sussultò.
Poi pensai a Gabriele: lo avevo perduto, per sempre.
Non ci vidi più.
 
Bill’s P.o.V.
 
Urlò.
Era un vero urlo di terrore, isterico, che quasi mi aveva reso sordo.
Poi si dimenò. Se non l’avessi trascinata indietro in tempo, saremmo caduti entrambi.
Facevo il possibile per tenerla stretta a me.
-Sshh!- feci, cercando di calmarla, tentando, invano, di accarezzarle i capelli –Stai calma! Va tutto bene! Ti prego, non fare così!-
Alternava gli urli a dei singhiozzi, come se stesse piangendo. Impossibile dire se mi avesse sentito o meno.
Non smetteva un attimo di muoversi, come se volesse allontanarsi da me. Ma io non mollavo, perché temevo che avrebbe davvero tentato il suicidio.
Udii, nonostante le urla, dei passi di corsa: la donna bionda che aveva chiuso la porta in faccia sia a me che a Tom si presentò sul tetto.
-Dani!- urlò, avvicinandosi a noi.
Aveva una vestaglia e un pigiama largo.
Mi guardo quasi in cagnesco.
-Tu! Lasciala subito andare!- mi minacciò, prendendomi un braccio.
Avrei tanto voluto dirle che non era come pensava.
Ma Daniela, continuando ad urlare, le diede un calcio sullo stomaco, che la fece cadere per terra, senza lasciarmi il tempo di spiegarle.
Non avrei resistito a lungo, a tenerla ferma.
Una quarta persona raggiunse il tetto: Tom.
-Cosa sta succedendo qui?!- domandò, in tedesco.
Poi mi vide.
-Billi, cosa stai facendo?-
Senza pensarci due volte, mentre la ragazza continuava a dimenarsi, gli urlai: -Aiutami!-
Forse non c’era nemmeno il bisogno di dirlo, forse lo aveva già intuito. Infatti, la prese per le gambe, sollevandola da terra, stringendole ai propri fianchi. Non mi avrebbe sorpreso se in quell’istante gli fossero passate strane idee per la testa.
-Non ti posso lasciare solo un momento, che un secondo dopo hai bisogno di me!- commentò, con una punta di sarcasmo.
La donna bionda si era rialzata: dalla tasca aveva estratto qualcosa, una siringa, da cui rimosse il tappo.
-Tenetela ferma.- ci ordinò, in inglese. Da quella siringa uscì un liquido strano.
L’ago entrò nel suo braccio e ciò che c’era al suo interno entrò in lei.
Daniela, piano piano, si stava calmando, smettendo via via di dimenarsi, prima di addormentarsi del tutto.
Tom ed io la adagiammo sul pavimento, con delicatezza, mentre la sua infermiera tirava un sospiro di sollievo.
Io e Tom, invece, stavamo ansimando, ma non dalla fatica, ma dallo spavento, soprattutto io. Il cuore mi batteva ancora forte.
Era il momento giusto per spiegare.
-Non volevo farle del male.- dissi, in inglese –Pensavo stesse tentando il suicidio e quindi…-
Ma lei tagliò corto, digrignando i denti dal dolore del calcio che aveva subito: -Non mi interessa. Cercate di fare qualcosa di utile, almeno; aiutatemi a riportarla in camera.-
Fu Tom a prenderla, caricandosela sulle spalle. Magari era una scusa per toccarle le gambe.
Aveva un’aria quasi soddisfatta sul volto, mentre scendevamo le scale, come se stesse dicendo: “Beh, non è messa male…”.
Prima ancora, però, aveva fatto un commento sull’infermiera, in tedesco, così per essere sicuro che non l’avrebbe compreso: -Certo che ha un bel caratterino…-
Io mi voltavo spesso, a vedere il volto delicato di Daniela, appoggiato sulla spalla di Tom.
Quando dormiva sembrava un angelo.
Sarei rimasto ore ad osservarla, senza stancarmi.
Venne adagiata con cura sul suo letto, quando tornammo nella sua stanza.
La donna bionda le aveva sistemato delicatamente le gambe sul letto, per poi coprirla nello stesso modo.
Tom e io eravamo lì fermi, a fissarle entrambe.
Poi lo sguardo della donna si posò su di noi.
-Se qualcuno dovesse chiedere, voi non sapete nulla.- ci ordinò, con aria seria.
-Ma…- dissi io, confuso.
-Penserò io a spiegare tutto.- tagliò corto lei -Voi dite di non aver sentito niente e che stavate dormendo. E ora… vi prego di uscire.-
Tom e io ci guardammo, poi osservammo nuovamente l’infermiera: annuimmo.
Ci accompagnò all’uscita, in modo più gentile rispetto a quella mattina.
Fuori dalla porta, mi voltai di nuovo.
-Signora…- ripresi, tornando al discorso di poco prima –Non è come pensa… Non mi sognerei mai di far del male a Daniela.-
-Questo sarà lei a dirmelo.- rispose lei, bruscamente –E ora… se volete scusarmi…-
Ci chiuse nuovamente la porta in faccia.
Tom storse la bocca e inclinò la testa.
-Beh, non mi sorprende se quella ragazza è impazzita, con un’infermiera del genere…-
Non battei ciglio a quel commento. Stavo ripensando al mio sogno, a quello che era accaduto nella realtà, alla foto di quel ragazzo…
Coincidenze? Forse.
 
Tom’s P.o.V.
 
Quando Bill pensa, il mondo si chiude intorno a lui. Ora come allora.
Sapevo che qualcosa lo turbava, quindi trovai il modo di farlo cadere dalle nuvole.
Schioccai le dita.
-Ehi! Terra chiama Bill! Mi senti?- lui sobbalzò -Ah, proposito…- dissi, sorridendo –Non ho potuto fare a meno di notare dove hai messo le mani quando cercavi di tenere ferma Daniela…-
Forse accidentalmente, forse no, le mani del mio fratellino avevano stretto le sue tette, o, quantomeno, un punto molto vicino ad esse, quando ero intervenuto per aiutarlo.
Lui, come previsto, divenne tutto rosso dall’imbarazzo.
Bingo.
Io non avevo problemi a parlare di argomenti del genere, lui… sì. Un pochino, almeno.
Per stuzzicarlo ulteriormente, gli diedi dei colpetti sul braccio, senza smettere di sorridere.
-E dimmi, com’erano? Eh…?! Eh…?! Eh…?!- domandai.
Come risposta, lui mi osservò in cagnesco, serrando le labbra e soffiando dal naso.
-Se proprio vuoi saperlo…- disse, un po’ seccato –Erano grandi quanto le mie mani, contento?-
Sollevai le sopracciglia, facendoci un piccolo pensierino. Poi osservai le mie mani: Bill e io, dopotutto, siamo gemelli, quindi le nostre mani sono grandi uguali.
-Eh, però…- commentai, muovendo la testa in avanti –E se ti può interessare…- mossi le dita delle mani come se stessi suonando il pianoforte –Ha anche le chiappette sode.-
-LA VUOI SMETTERE?!-

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Capitolo 6
*** (C) ***


Note dell'autrice: saaaaaalve a tutti! Scusate se è da una vita che non aggiorno la storia, ma sapete com'è, con l'università e tutto. E poi sono anche un po' impegnata con un'altra storia sul forum dei Tokio Hotel e un contest di scrittura sul "The XIII Order Forum", quindi...
ma almeno un capitolo sono riuscita a finirlo. Scusate se è scritto male.

Riassunto dei capitoli precedenti: dopo essere venuta a conoscenza della morte del ragazzo che amava, Daniela cade in uno stato di depressione quasi irrecuperabile. Su consiglio della sua infermiera dell'istituto psichiatrico dove è stata inviata, passa una settimana in una SPA, nel tentativo di distrarla dal suo lutto. Ivi, con grande sorpresa, incontra i gemelli Kaulitz, da lei ammirati molto, di cui uno, Bill, una sera, sentendola cantare, sembra provare interesse per lei, nonostante le raccomandazioni del fratello. Il suo interesse si spinge a tal punto da entrare nella stanza d'albergo di Daniela, scovando, tra altre cose, la foto di un ragazzo a lui molto somigliante. Quel ragazzo lo sognerà quella notte stessa, mentre trascina con sé Daniela verso un dirupo. Scoprirà che quel sogno era premonitore: incuriosito da strani rumori provenienti dal corridoio, Bill esce, notando la ragazza camminare in direzione del tetto. Per evitare che accada ciò che aveva sognato, riesce a salvarla, prima che sia troppo tardi, magari temendo che si volesse suicidare. Ma la realtà è ben altra...

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Chiara’s P.o.V.
 
Stanotte ho fatto un sogno strano. Era tutto così reale… Ero al cinema… con Gabriele. Non so quale film abbiamo visto, ma ero con lui. Sembrava preoccupato, diceva che mi ero addormentata durante il film. Dopo avergli detto che stavo bene, lui mi prende per mano e insieme usciamo dal cinema, per andare a casa sua. Dopo avermi detto che mi amava, apre la porta e mi fa cenno di seguirlo.  Improvvisamente, però, sentii due braccia stringermi il torace e una voce dire: “Are you gone mad?”. Ero sul tetto della SPA, proprio sul bordo di un precipizio. E dietro di me… c’era Bill Kaulitz. Ero tra le sue braccia.
 
Era tutto scritto confuso, sintetico, tremolante ed erano presenti diverse macchie di lacrime, ma almeno avevo avuto la prova dell’innocenza di Bill.
 Ero nel salone da pranzo, per colazione, quando stavo leggendo il diario di Dani. Curiosa com’ero di indagare su quanto era successo quella notte, cosa stava facendo Bill con lei, non attesi la sera, per leggere cosa aveva sognato.
Senza pensarci due volte, presi il mio quaderno, scrivendoci qualcosa.
Notai due figure avvicinarsi a me.
-Ehm… buongiorno…- udii, in italiano, con accento germanico, e una lieve nota di imbarazzo.
Alzai la testa: i gemelli Kaulitz.
Fra i due, era il biondo ad essere il più nervoso, a giudicare da come si mordeva il labbro inferiore. Il moro, invece, era tranquillo. Erano in accappatoio, con i cappucci alzati. Diavolo, visti in quel modo erano davvero identici... Per fortuna, li abbassarono.
-Possiamo sederci…?- proseguì il primo, parlando in inglese.
Senza pensarci due volte, indicai le sedie di fronte a me.
-Prego.- dissi.
Si sedettero, quasi deglutendo. Dovevo aver loro fatto una cattiva impressione, con il comportamento che avevo avuto i giorni precedenti, nei tentativi di proteggere Daniela. Sembravano aver paura di me.
-Signora…- iniziò Bill, dopo essersi morso le labbra –Posso spiegare…-
Io tagliai corto, forse un po’ troppo brusca: -Ho un nome. Chiara. Non chiamarmi “signora”.-
-Ok, Chiara.-
-Che nome carino…- commentò Tom, osservandomi con un’aria strana, nel tentativo di sedurmi. Ma io ero una tosta.
-Prima di tutto…- riprese Bill, con aria preoccupata –Come sta Daniela?-
-Sta bene. Ora è a lezione di yoga, ma è ancora un po’ scossa da ieri notte.-
Tirò un sospiro di sollievo.
-Meno male, eravamo molto preoccupati.-
-Lui era preoccupato…- disse Tom, cinico.
-Non ne avete parlato con nessuno, vero?- domandai, seria in volto, per incutere loro un po’ di timore.
-Siamo stati muti come pesci.- rispose il moro, facendo il gesto della zip sulle labbra –Proprio come ci aveva suggerito.-
-Beh, tanto meglio.-
-Le posso assicurare che quanto è accaduto questa notte non è come pensa…- parlò il biondo.
-Lo so.- aggiunsi, seria –E se la cosa può sollevarvi, non voleva nemmeno tentare il suicidio.-
Posai il mio quaderno sul tavolo.
-Era sonnambula.-
Infatti, avevo scritto:
 
Giorno 3: la paziente ha contratto di nuovo una crisi di sonnambulismo nel cuore della notte.
 
I gemelli alzarono le sopracciglia folte.
-Sonnambula?- domandarono, all’unisono.
-Sì, avrei dovuto immaginarlo. E non avrei dovuto sospettare delle vostre intenzioni. Sembrate dei così bravi ragazzi…-
Entrambi sorrisero, grati sia del complimento che della loro innocenza.
-E per quel che vale… grazie per aver salvato Dani.-
Mi morsi le labbra, dall’imbarazzo, nell’aver anche minimamente pensato che Bill volesse abusare di lei.
-Quando possiamo dare una mano…- ringraziò Tom, sistemandosi i capelli e mettendosi comodo sulla sedia.
-Le capita spesso il sonnambulismo?- domandò Bill, facendosi serio.
Sfogliai il mio quaderno, alla ricerca di tutti i momenti in cui l’avevo sorpresa a vagare, di notte, nell’istituto, sonnambula.
-In effetti, questa è la terza volta che le capita.- spiegai –Ma nelle volte precedenti riuscivo a raggiungerla, prima ancora che salisse o scendesse le scale. Non oso immaginare cosa sarebbe capitato se non l’avessi fermata in tempo, Bill.-
Come previsto, lui si fece rosso e sorrise, mentre il gemello gli dava una leggera pacca sulle spalle. Davvero adorabile. In quel momento, compresi l’ammirazione di Dani nei suoi confronti….
Poi, tornò subito serio.
-Chiara, cosa è successo a Daniela?- domandò –Perché ha deciso di restare muta? Perché è stata inviata all’ospedale psichiatrico? E, soprattutto, chi è il ragazzo della foto?-
Mi stava supplicando anche con lo sguardo. Anche Tom sembrava curioso.
Già una volta me lo aveva chiesto e io avevo risposto chiudendo loro la porta in faccia.
Li osservai entrambi: sì, glielo dovevo.
-Dato che avete salvato Daniela… suppongo di dovervi spiegare come stanno le cose…- cominciai –Il ragazzo che avete visto in foto… era una persona cui Daniela teneva molto. E’ morto proprio la sera del vostro concerto a Milano.-
 
Daniela’s P.o.V.
 
Ero tornata in piscina, dopo la lezione di yoga.
Quando Chiara era venuta a prendermi, le scrissi di portarmi in camera, poiché volevo tornare in piscina.
Ero seduta sul bordo vasca, con le gambe in acqua, mentre continuavo la mia lettura di “Jane Eyre”.
Ero arrivata proprio alla mia parte preferita, la dichiarazione del signor Rochester a Jane.
 
Io le offro la mia mano, il mio cuore e i miei beni.
 
Io le domando di trascorrere la vita al mio fianco, di essere il mio secondo io e la mia migliore compagna sulla terra.
 
Poi ripensai al sogno fatto quella notte, a Gabriele.
Sembrava tutto così reale!
Avrei tanto voluto che quel sogno fosse la realtà e la realtà fosse un incubo. Un terribile incubo.
Un incubo dal quale mi sarei risvegliata, e mio padre entrava nella mia stanza, dicendomi che era ora di alzarmi per andare all’università.
Gabriele… non volli mai accettare il fatto che non ci fosse più, che fosse ormai lontano da me, per sempre.
Che fosse morto.
E se lui era morto… che senso aveva vivere?
Piansi, macchiando la pagina.
Scorsi un’ombra, avvicinandosi sempre più a me.
-Ciao.-
Riconobbi quella voce.
Quell’odore di vaniglia e sigaretta.
Mi asciugai in fretta le lacrime e mi voltai.
Il mio salvatore.
Il mio idolo.
Bill Kaulitz.
Più bello che mai.
La mia malinconia stava quasi svanendo, alla sua vista.
Quel volto così angelico, puro… mi bastava guardarlo, per risollevarmi il morale.
-Posso sedermi qui?- mi domandò, in inglese. Prima, mi aveva salutato in italiano.
Annuii, sorridendo leggermente.
-A proposito… buona Pasqua.-
Giusto. Era il 16 aprile. Era Pasqua. Ma io non facevo più molto caso alle festività. Ormai erano solo scuse per abbuffarci come maiali.
Immerse anche lui le gambe in acqua. Ogni tanto, ne tirava su una e poi la rimetteva in acqua.
Quasi ridacchiai a vedere i tatuaggi della tazza e del gelato. Erano davvero delle scelte strane come tatuaggi…
Lui, però, aveva lo sguardo sul libro.
-E’ il tuo libro preferito?- domandò.
Ci misi il segnalibro sopra e lo chiusi, mostrando il titolo.
Non diedi risposta.
-Sai, a me non piace molto leggere…- proseguì lui, guardando il cielo. Quel giorno era nuvoloso; esattamente in tono con il mio umore –A scuola ci facevano sempre leggere libri noiosi, quindi puoi immaginare a cosa mi abbia portato. La scuola dovrebbe insegnarti tante cose, orientarti verso quello che vorresti fare in futuro, farti apprezzare quello che studi… ma sono tutte cazzate. Alla fine si studia solo per avere un buon voto e sprecare pomeriggi a fare calcoli ed esercizi inutili.-
Esattamente quello che pensava Gabriele. Avevano mentalità molto simili sulla scuola. E anch’io la pensavo allo stesso modo.
Non dissi nulla. Ridacchiai e basta, e Bill con me.
Avrei tanto voluto parlargli, ma la mia bocca rimase chiusa.
-Sai, sono proprio contento che tu stia bene.- riprese, dopo un’altra pausa –Pensavo che dopo quanto è successo ieri notte non saresti nemmeno uscita dalla tua stanza.-
L’intento era quello, infatti. Chiara mi aveva quasi trascinato a forza fuori dalla mia stanza per andare alla lezione di yoga. Alla fine, mi diede dei calmanti in pasticche per calmarmi e convincermi ad uscire.
Abbassai la testa, con aria triste.
Bill sospirò, forse per la mia reazione, forse per l’imbarazzo di non saper cosa dire.
Mi osservò, con aria compatita.
-Sai, Chiara mi ha raccontato tutto.-
In quel momento, fui io a sospirare.
Pensai persino: “Farsi i fatti suoi no, eh?” Ovviamente rivolto a Chiara, non a Bill.
-Mi dispiace quanto ti è accaduto, Daniela.- proseguì; che effetto strano sentire il mio nome da lui, e con una pronuncia così elegante, tra l’altro… -Non deve essere facile, per te, me ne rendo conto. Sappi che ti sono vicino.- mi mise premurosamente una mano sulla spalla –Anch’io ho perso delle persone a me care. E non ti nascondo che un po’ ne soffro ancora. Dicono che il tempo guarisce tutte le ferite, ma quando si tratta della perdita di una persona cara… beh, quello è più complicato.-
Mi mostrò il braccio sinistro, quello con tutti i tatuaggi, facendo in modo che il mio sguardo cadesse sul fantasmino.
Era molto buffo, come se fosse stato disegnato da un bambino.
-Vedi questo tatuaggio?- domandò, alzando un angolo della bocca –Mi rendo conto che può sembrare buffo, ma ha un significato molto più profondo. Simbolizza la morte di tutte le persone che ho perso, per ricordarmi di loro.-
“Chi lo avrebbe mai detto?” pensai.
Alzai le sopracciglia, sorpresa da quella rivelazione.
Rappresentare una cosa triste e seria come la morte in una figura piccola, buffa, apparentemente innocente, sembrava più una mentalità tipica della Banda Osiris che dei Tokio Hotel.
-I lutti sono delle belve terribili, nemici persino più forti di te, che sembrano vincere tutte le battaglie che combatti contro di loro.- continuò -Ma poi riesci a vincerli, un modo si trova sempre per affrontare i lutti, Daniela. Io so quello che provi, ed è un sentimento terribile. Ma devi sapere questo. Ci sono cose, nella vita, cui non puoi fare niente. Come la morte di una persona cara. Lo so, per i primi tempi fa male, senti un enorme vuoto dentro e non vuoi più vedere nessuno. E' un dolore che a stento puoi sopportare, ti fa quasi impazzire. Sei consapevole che non torneranno più, che non puoi fare niente per riportarli in vita e questo ti fa soffrire sempre di più. Alla fine scopri... che tutto quello che puoi fare per loro... è vivere.-
Riflettei su quelle parole, rimanendone incantata.
L’unica cosa che potevo fare per Gabriele… era vivere?
Non comprendevo il motivo per cui Bill Kaulitz si stesse dando tanta pena per una sua fan. Una delle tante. Ma apprezzavo tantissimo i suoi tentativi di sollevarmi il morale. Davvero. Anche se non lo dimostravo.
Per questo lui si era alzato, in procinto di allontanarsi. Forse gli avevo dato l’impressione di non gradire la sua presenza e che volevo rimanere sola. Mai cosa fu più sbagliata.
Fece pochi passi, in direzione dell’interno della SPA, mentre io combattevo la mia tentazione di parlargli e dirgli “grazie”, oltre ad invitarlo a non andarsene.
Si fermò.
-Io non ho mai conosciuto Gabriele…- disse, forse voltandosi verso di me; io avevo ancora lo sguardo fisso sulla piscina; sapevo che Chiara gli aveva rivelato il nome del ragazzo cui mi ero innamorata –Ma non credo che gli piacerebbe vederti così triste. Se anche lui teneva a te, sono sicuro che preferirebbe che vivessi la tua vita, e non sprecarla a pensare e piangere lui.-
Erano più o meno le stesse parole che mi aveva detto Chiara, il giorno in cui eravamo partite per la SPA.
Dette da lui faceva uno strano effetto. Specie il giorno dopo avermi salvato la vita.
Lui proseguì, diretto verso l’interno della SPA.
No, non potevo lasciarlo andare così. Aveva ragione lui: dovevo affrontare il mio lutto, in qualunque modo. Ero stufa di perdere tutte le mie battaglie contro di esso. Almeno per una volta, volevo uscirne vincitrice.
Mi voltai.
-Bill, non te ne andare, ti prego!- dissi, in inglese.
Lui si voltò di scatto, stupito.
Fu di nuovo strano sentire nuovamente la mia voce. Non si era arrochita come quella di Clara di “La casa degli spiriti”, come temevo. Dopotutto, ero rimasta muta solo due settimane, non dieci anni.
Era rimasta la solita, ridicola voce che avevo.
Lui si avvicinò a me, un po’ in imbarazzo, mentre mi alzavo. Sicuramente non si aspettava una mia risposta.
-D-Daniela… l-la tua voce…- balbettò, sorpreso.
Io risi, divertita da quella reazione. Era ancora un ragazzo timido, nonostante l’età.
-Grazie.- ripresi –E grazie, per avermi salvato la vita, stanotte.-
Lui ricambiò il sorriso: sì, lui e Gabriele erano proprio simili. Avevano la stessa forma degli occhi, anche lo stesso sorriso.
-F-figurati…-
Anch’io ero imbarazzata, tanto. Forse era meglio se fossi rimasta muta: almeno non correvo il rischio di avere una conversazione imbarazzante con il grande Bill Kaulitz.
Ero negata per le conversazioni, ma trovai ugualmente un modo per rompere il ghiaccio.
-Non so se Chiara ti ha detto come mi chiamo, per intero…- allungai una mano, mentre con l’altra tenevo “Jane Eyre” –Comunque, mi chiamo Daniela Savoia, e sono una grande fan dei Tokio Hotel.-
Divertito, mi strinse la mano.
-Hai davvero un nome e un cognome adorabili. E mi lusinga trovarmi di fronte ad una fan che non urla o non sviene o non mi salta addosso.-
Io avevo sempre creduto che “Daniela Savoia” fosse la combinazione nome-cognome più stupida del mondo…
Per quanto riguarda il resto… beh, l’educazione militare di mio padre aveva fatto in modo che contenessi certi sentimenti. No, il motivo maggiore era la mia timidezza.
Prima che aggiungessi altro, lui mi interruppe.
-Perché non facciamo due passi, ti va?- propose, offrendomi il suo braccio.
Quante volte mi sarebbe capitato nella vita? Camminare sottobraccio al grande Bill Kaulitz?
Accettai subito la sua proposta, quindi presi il suo braccio.
 
Tom’s P.o.V.
 
Credevo che il mio fratellino avrebbe fatto un altro buco nell’acqua.
Lo avevo accompagnato fino alla veranda, proprio di fronte alla piscina.
La vedemmo entrambi china in avanti, a leggere un libro.
Bill era nervosissimo. Non faceva altro che guardarmi, come per cercare la forza e il coraggio che gli mancavano.
-Tomi…-
-Coraggio, va’ da lei…- lo esortai, con gentilezza.
Inspirando ed espirando senza sosta, uscì.
Rimasi lì tutto il tempo, per assicurarmi che non facesse cazzate.
Quando si era alzato, scossi la testa, pensando: “Dio, è davvero negato…”
Mi stupii anch’io a sentire la ragazzina parlare di nuovo. Era stato davvero improvviso, inaspettato.
“Allora davvero non era muta del tutto…” pensai.
Sorrisi, quando la vidi allontanarsi con Bill, sottobraccio.
-Il mio fratellino sta crescendo…- mormorai.
La tentazione di seguirli era forte. Sì, la mia gelosia per Bill non era ancora passata. E non passerà mai.
Ma non volevo rovinare il momento.
L’infermiera lo avrebbe fatto. Infatti, si presentò a me tre secondi dopo che Bill e Daniela avevano iniziato il loro giro per il cortile.
-Allora, come è andata?- domandò, ansimando, quasi reduce da una corsa.
Io, subito: -Ah, bene. Ha parlato.-
Lei sgranò gli occhi.
-DAVVERO?!- tuonò.
Io la intimai di tacere, o, almeno, di non urlare.
-Sì, e adesso sta passeggiando con il mio fratellino.-
Lo stupore si tramutò in apprensione.
-Credi sia una buona idea lasciarli da soli?- domandò, osservandomi di nuovo –Non voglio dubitare di tuo fratello, ma…?-
Io tagliai corto: -Stai tranquilla, Bill è innocuo. Daniela è in buone mani.-
Non sembrava molto convinta.
Tentai la stessa strategia di Bill, per, almeno, attirare la sua attenzione. Le porsi un braccio.
-Visto che siamo qua…- dissi, galante –Perché non ci prendiamo qualcosa da bere?-
Chiara prima osservò me, poi osservò il braccio, con aria seria.
Poi fece spallucce.
-Beh, perché no?-
Si era diretta verso il bar, precedendomi.
Sospirai, lasciando cadere il mio braccio.
-Tipo tosto da prendere, eh?- mormorai, in tedesco, seguendola.
 
Bill’s P.o.V.
 
-Di cosa parla quel libro, esattamente?-
-E’ la storia d’amore più bella del mondo. Parla di una ragazza che si innamora del proprio padrone. Lui è un tipo scontroso e duro, ma questo perché sta soffrendo.-
Passeggiammo e chiacchierammo per chissà quanto tempo. Mi aveva parlato del suo libro preferito, di Jane Eyre, il suo amore per il signor Rochester e la gelosia che provava per la sua “rivale”, Blanche Ingram. Non ero mai stato appassionato di libri, però devo ammettere che aveva suscitato la mia curiosità. Mi promisi di comprarlo, una volta finito il Dream Machine Tour.
Poi, ci parlammo l’un dell’altra. Anzi, parlò più lei che io. Daniela sapeva già molte cose di me, dalle interviste, da Tokio Hotel TV e da Instagram. Fastidioso, ma al tempo stesso comodo: così evitavo di annoiarla, raccontandole della mia vita.
Studiava lettere all’università, ma, in realtà, non era sicura di cosa fare nella vita, ma di una cosa era sicura: quella di trovare la persona giusta con cui passare il resto dei suoi giorni. Proprio come me.
Mi parlò anche di Gabriele. Soprattutto di Gabriele. Era il secondo lutto che subiva. Sì, due lutti, quasi uno dietro l’altro, sono davvero due bestie.
Mi resi conto che lui mi assomigliava, anche come personalità: come me, anche lui era vittima di ingiustizie, e di bullismo. Era davvero fortunato ad avere un’amica come Daniela, con la sua dolcezza. Percepivo l’odio nel suo tono, quando mi parlava della sua “rivale” in amore.
Guardavo spesso Daniela, mentre parlava di Gabriele: non era solo lo sguardo di una persona in lutto che scorsi in lei, ma anche quello di un cuore spezzato. Lo sguardo di una persona che non era riuscita a dichiararsi prima che fosse troppo tardi. Sì, comprendevo quella sensazione.
Non potevo vederla in quello stato. Per sollevarle il morale, le raccontai qualche aneddoto divertente di me o degli altri membri dei Tokio Hotel.
-No! Sul serio?!-
-Sì! E ti giuro che è stato arduo tirarlo fuori da lì!-
Rise, tantissimo. E questo mi consolò.
Il sole era già alto, quando finimmo la nostra passeggiata. Avevo il mio telefono a portata di mano.
Gli diedi un’occhiata e alzai le sopracciglia.
-Cavolo, è già mezzogiorno.- rivelai, sorpreso.
Anche Daniela ebbe la mia stessa reazione.
-Sul serio?! Come è passato in fretta il tempo…- mi sorrise dolcemente –Grazie, Bill, per avermi ascoltato. Mi ha fatto bene parlare. Adesso mi sento molto meglio. Spero solo di non averti annoiato…-
Anche queste sono soddisfazioni. Anche io sorrisi.
-Non mi hai annoiato, anzi. Sono felice di esserti stato di aiuto.- mi voltai un attimo; sperai che non lo prendesse come gesto di maleducazione, ma stavo solo riflettendo; poi, mi ricordai di una cosa che avevo letto tra gli annunci affissi nella hall dell’albergo; incrociai di nuovo il suo sguardo –Stasera fanno un falò, proprio qui, in giardino, e a me piacerebbe andarci. Mi chiedevo… se volessi venire…-
Il suo sorriso si tramutò in uno sguardo riflessivo, quasi dispiaciuto. Un po’ sapevo cosa stava per dirmi.
-Mi spiace. Non mi piace uscire di notte.-
Dopo quanto era successo la notte precedente, come biasimarla?
Mi morsi le labbra, per nascondere la mia amarezza. Beh, almeno sapevo qualcosa in più su di lei.
Era un tipo interessante e mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio. Mi illusi che pensasse lo stesso di me.
Eravamo vicini alla SPA, quando lei, dopo un piccolo momento di silenzio, mi prese un braccio.
Aveva uno sguardo quasi imbarazzato sul volto.
-Ehi, Bill… io ho fame.-
 
Daniela’s P.o.V.
 
Per la prima volta, dopo quasi due settimane, sentii di nuovo il languorino sullo stomaco.
Che incantesimo aveva lanciato Bill su di me? Prima mi aveva fatto di nuovo parlare, poi la fame.
Sì, parlare con lui mi aveva fatto bene e lui sembrava ascoltare tutto con attenzione.
Era un ragazzo meraviglioso, perché non aveva ancora una ragazza? Questo mi chiedevo. Forse nessuna meritava uno come lui o forse lui era troppo romantico per le ragazze “normali”.
Al salone da pranzo ricevevo sguardi strani dai commensali. Le voci giravano in fretta. Sapevano chi ero e mi trattavano già come fossi una psicopatica da cui dovevano tenersi lontano.
Non mangiavo da due settimane, ma non sentivo una gran fame. O meglio, non sentivo ancora il bisogno di mangiare molto. Presi solo un’insalata dal buffet e qualche crostino. Mi sembrava giusto per iniziare.
Con mia grande sorpresa, vidi Chiara con Tom. Scoprii più tardi che si erano messi d’accordo con i camerieri per unire i nostri tavoli.
Stavano parlando e ridendo. Da come mi aveva raccontato Bill, sembrava che Chiara ripugnasse Tom.
Io ero lì ferma a fissarli, con il piatto ancora in mano.
Non mi accorsi di Bill, che si fermò accanto a me.
-Vuoi mangiare qui?-
Caddi dalle nuvole. Per poco non feci cadere anche il piatto.
Che imbarazzo che provai… non osai nemmeno pensare a me stessa fare la bella statuina in mezzo ad una sala.
Tom si voltò verso di noi, lo stesso fece Chiara; entrambi ebbero la stessa reazione a vedermi con un piatto in mano.
-Ehi, che novità è mai questa, signorina?- domandò lui, con il suo solito approccio diretto, indicando, ovviamente, il piatto.
Mi accomodai di fronte a Chiara e Bill prese posto accanto a me. Il cuore mi batteva ancora forte, nonostante fossi stata con lui per tutta la mattinata. Chi non sarebbe emozionato ad avere accanto il proprio idolo, in fondo?
-Beh… mi era venuto un languorino…- fu la mia unica risposta.
Chiara quasi sorrise a quelle parole: era lieta di vedere finalmente dei miglioramenti.
Sì. Parlare mi aveva fatto bene. Mi sentivo più sollevata. Erano passate due settimane da quando ero venuta a conoscenza della morte di Gabriele. Il lutto era ancora forte in me, ma non abbastanza da impedirmi di tornare, passo dopo passo, alla normalità.
E Bill… per me era come un angelo caduto dal cielo con l’intento di aiutarmi. Tre volte mi aveva salvato la vita: prima con le sue canzoni, poi, la scorsa notte, prendendomi tra le sue braccia, e quella mattina aveva come lanciato un incantesimo che mi aveva liberata dal mutismo e dal digiuno.
Gli dovevo molto.
Tom, però, osservò il mio piatto con aria perplessa.
-Sì… lo vedo… occhio a non abbuffarti, però.- commentò.
Bill gli tirò uno schiaffo sulla fronte. “Bella mossa.” pensai, ridacchiando.
-Tom, non essere maleducato!-
-Comunque, non ha tutti i torti.- lo difese Chiara e questo lasciò stupiti noi tre, soprattutto Tom –Cara, non hai mangiato da due settimane. Meglio riprendere piano piano, per riabituare il tuo corpo al cibo, o rischi il collasso.-
Sapevo mi avrebbe detto queste cose, per questo avevo preso solo qualche crostino e un’insalata.
-Ma allora ti interesso…- riprese Tom, con il suo tipico sguardo da marpione, lieto di avere una persona che la pensasse come lui; Chiara lo allontanò da sé. Tipico.
Bill scosse la testa, ridendo anche lui.
Quando sorrideva, il mondo si illuminava. Sarei rimasta ore a osservarlo.
Mi tornò improvvisamente in mente “In your shadow I can shine”.
Era esattamente quello che provavo, quando stavo al fianco di Bill.
Sentivo di splendere, nella sua ombra. Nei pochi minuti che avevo passato con lui, mi ero sentita come rinata. E poi, con la sua gentilezza e la sua sensibilità, mi aveva fatto sentire a mio agio, fatto passare, anche se per un solo istante, la mia malinconia.
Forse era la mia gratitudine per avermi salvata la notte scorsa.
Mentre assaporavo lentamente i crostini al pomodoro, ascoltavo la conversazione tra i Kaulitz e Chiara. Non l’avevo mai vista così sorridente; non dalla mia permanenza all’ospedale psichiatrico.
Inoltre, fu strano sentire il sapore del cibo: era come assaggiare un nettare divino, lieve al primo tocco con la lingua, ma che diveniva sempre più forte e dolce, con la consapevolezza di ottenere l’immortalità.
Mi resi conto che il cibo mi era mancato.
Lo sguardo di Tom si posò su di me.
-Ehi, sei tornata muta?- mi canzonò.
Inghiottii l’ultimo pezzo di crostino, sobbalzando. Per poco non soffocai.
-Vi stavo solo ascoltando!- protestai, offesa -E non ho niente di interessante da dire…-
-Per forza, hai vomitato tutto al mio fratellino…-
Dallo sguardo che assunse subito dopo e da come si era piegato in avanti, dedussi che Bill gli aveva tirato un calcio sullo stinco.
-Comunque…- riprese questi, incrociando le dita delle mani sotto il mento, come se nulla fosse  avvenuto -Stasera noi due andiamo al falò, nel cortile. Daniela ha rifiutato il mio invito. Tu vuoi venire, Chiara?-
Ci stava provando anche con lei?
Un lieve senso di gelosia mi prese all’improvviso, quasi senza motivo.
Lei guardò Bill. Poi guardò me. E poi guardò di nuovo Bill.
-Niente di personale, ma non posso nemmeno io.- rispose, in cuor sul dispiaciuta -Se Daniela non vuole andare, non devo andare neppure io. Dopo quanto è successo questa notte e, dal momento in cui sta cominciando a mostrare dei miglioramenti, devo restare con lei.-
Mi voltai di scatto verso di lei.
-Chiara, non sono più una bambina!- protestai -Non ho bisogno di essere sorvegliata!-
-Mi dispiace, cara, ma tu sei stata affidata a me. Per forza devo sempre stare con te. Le piccole fughe che hai fatto ultimamente e l’incidente di stanotte sono state il frutto della mia svogliatezza. Davo per scontato che non ti saresti mossa dalla tua stanza senza di me e non mi sono resa conto dei tuoi miglioramenti. Se questa notte non ci fosse stato Bill… oddio… non oso pensare cosa ti sarebbe capitato. No, non ripeterò questo errore.-
Forse mi conveniva restare muta. Forse dovevo continuare a comportarmi da depressa. Mi sarei sentita meno da… “cane al guinzaglio”.
-Lasciatemi comunque dire che a Milano siete stati magnifici.- aggiunsi, cambiando argomento -È valsa la pena l’attesa di dieci anni.-
I Kaulitz si osservarono l’un l’altro, ridendo di gusto.
-Beh, il nostro intento non è certo deludere i nostri fan, no?- commentò il moro, sarcastico.
-Per quello che vale, allora, mi è piaciuto soprattutto il “Drum battle” tra te e Gustav.-
Si atteggiò nuovamente da pavone, lisciandosi i capelli neri.
-Modestia a parte, sono troppo figo…-
Per tutto il pranzo, un pianista stava suonando il grande pianoforte al centro del salone, lo stesso dove io avevo suonato “Run run run” (e quando ho definitivamente incontrato Bill).
Ad un certo punto smise.
-Signore e signori, adesso è l’ora dei clienti.- annunciò, senza alzarsi -Vale a dire che voi, ora, cantate al posto mio.-
Era praticamente un karaoke.
L’ho sempre odiato. Per il fatto di essere naturalmente intonata mi chiedevano tutti di cantare.
-Coraggio. C’è qualcuno che vuole farsi avanti?- si guardò intorno –Lei? Lei, signore? O magari lei?-
Molte persone si atteggiarono come me; dandogli le spalle, sperando di non essere scelti.
Avrei tanto voluto avere il potere dell’invisibilità, per sparire all’improvviso.
Bill mi osservò con aria strana, quasi sorridendo. Scorsi con la coda dell’occhio che anche Chiara mi stava osservando.
Non detenevo il potere della telepatia, ma sapevo cosa stessero pensando.
Io lo supplicai con lo sguardo, mentre facevo lentamente “no” con la testa.
“Ma perché non ci va lui, piuttosto?” pensavo, serrando le labbra, e rivolgendo il mio sguardo verso il piatto vuoto.
Stavo per entrare in paranoia. Ho sempre odiato fare le cose se forzata.
-Magari la signorina con la camicia azzurra?-
Camicia azzurra… Un camicione azzurro, voleva dire. Lo avevo indossato poco prima di camminare con Bill, con dei pantaloni larghi bianchi e delle ballerine grigie. Un brutto accostamento, nevvero?
Sì, si riferiva a me.
Bill fece una mossa strana, ritirando un braccio di scatto.
Bastardo.
Mi aveva indicato al pianista, sperando che non lo notassi.
Avrei dovuto notarlo dalla faccia di Tom, che si stava coprendo la bocca, ma stava ugualmente ridendo dal naso.
-Coraggio, signorina, venga. Non abbia timore.-
Guardai Bill, Chiara e Tom come se fossi un predatore e loro le mie prede. Li avrei divorati tutti.
-Vi odio…- mi uscì tra i denti, mentre mi alzavo.
Mi stavano guardando tutti.
Forse con orrore; dopotutto, ai loro occhi, io ero ancora la ragazza psicotica.
Avrebbero cambiato opinione di me, dopo avermi sentito cantare?
Avrei tanto voluto svenire e far prendere un colpo a tutti, mentre mi avvicinavo al pianista.
-Cosa vuole cantarci, oggi?- mi chiese, cortesemente.
Se era un modo di farmi sentire a mio agio si sbagliava di grosso. Ho sempre odiato essere al centro dell’attenzione. Non ero come Bill, insomma.
Ma non ebbi altra scelta.
Pensai a Gabriele. Quante volte mi aveva sentito cantare? Forse nessuna, grazie al cielo. Non sarebbe stato come gli altri, che mi chiedevano sempre di cantare.
Pensai a lui. Pensai a mia zia, a cui piaceva sentirmi cantare e continuava sempre a chiedermi di cantare.
Pensando a loro, feci la mia scelta.
-Conosce “Gocce di memoria”, di Giorgia?-
Era una delle mie canzoni preferite. Rispecchiava esattamente come mi sentivo in quel momento.
-Ma certamente signorina.- annuì il pianista –Quale tonalità?-
Ero brava a cantare, ma per le nozioni di teoria della musica non ero negata, di più. Se volevo suonare qualcosa, andavo sempre a orecchio.
-L’originale.- dissi, un po’ in imbarazzo.
Per fortuna, lui comprese e mi diede un microfono.
Mi girai verso i commensali.
Stavo tremando dall’emozione.
Cantare per conto mio era un conto, ma di fronte a tanta gente…
“E se non piace? Cosa mi diranno? Oddio, sono vestita malissimo”
Questi erano alcuni dei pensieri che mi attraversarono la mente.
Il piano stava già suonando le prime note.
Guardai Bill, che mi sorrise lievemente.
Arrossii.
Non potevo tornare indietro.
 
Sono gocce di memoria
Queste lacrime nuove
Siamo anime in una storia
Incancellabile
Le infinite volte che
Mi verrai a cercare
Nelle mie stanze vuote
Inestimabile
E’ inafferrabile
La tua assenza
che mi appartiene
Siamo indivisibili
Siamo uguali e fragili
E siamo già così lontani
 
Mi tenevo stretta soprattutto i ricordi di Gabriele, mentre cantavo. Mi faceva sentire tutt’una con la canzone.
Avevo gli occhi chiusi, per non vedere i volti delle persone. Per paura di vedere le loro reazioni di fronte alla mia voce. Soprattutto quella di Bill.
Odiavo quello sguardo di ammirazione, adorazione. Non lo sopportavo.
Già si levarono i primi applausi. Odiavo anche quelli.
Li ignorai, attesi che il pianista finisse il pezzo con il piano, poi proseguii.
 
Con il gelo nella mente
Sto correndo verso te
Siamo nella stessa sorte
Che tagliente ci cambierà
Aspettiamo solo un segno
Un destino
Un’eternità
E dimmi come posso fare
Per raggiungerti adesso
 
Altro momento di pausa. Altri applausi.
 
Per raggiungerti adesso
Per raggiungere te
 
Non potei vederlo, ma mi fu raccontato che i Kaulitz, proprio entrambi, si erano alzati, applaudendo, e altri avevano seguito il loro esempio.
Ma io ignoravo gli applausi. Certa gente avrebbe pagato per essere al posto mio, per avere il mio talento.
Glielo avrei ceduto volentieri. Ma come fare? E’ praticamente impossibile.
Solo per una persona avrei cantato, quella che avrei amato per sempre. Se non Gabriele, chi altri?
Le ultime frasi rispecchiavano proprio me: cosa potevo fare per raggiungerlo, adesso?
Mi ricordai, tuttavia, delle parole di Bill: l’unica cosa che potevo fare per lui era solo vivere, conservando i bei ricordi nel mio cuore. Significava anche vivere una vita miserabile, piena di dolore, piangere tutti i giorni per la morte di una persona cara, reclusa dal mondo e rifiutata da tutti? Non era vivere, era vegetare.
Era questo che intendeva il mio idolo?
Proseguii per la seconda strofa
 
Siamo gocce di un passato
Che non può più tornare
Questo tempo ci ha tradito
È inafferrabile
Racconterò di te
Inventerò per te
Quello che non abbiamo
Le promesse sono infrante
Come pioggia su di noi
Le parole sono stanche
Ma so che tu mi ascolterai
Aspettiamo un altro viaggio
Un destino
Una verità
E dimmi come posso fare
Per raggiungerti adesso
Per raggiungerti adesso
Per raggiungere te
 
Nella parte finale, gridai tutto il mio dolore, mascherandolo con intermezzi vocalici, come nella canzone originale.
Finalmente, finii.
Ebbi il coraggio di aprire gli occhi: tutti in piedi, applaudendo, alcuni fischiarono.
Per poco non svenni. Ma non dall’emozione, bensì dal disprezzo.
Non sorrisi, ma feci ugualmente un lieve inchino, prima di scappare verso il tavolo.
Chiara, Bill e Tom stavano continuando ad applaudire.
-Hai visto?- mi domandò Bill, sorridendo –Ci voleva molto?-
-Ti odio…- ripetei, osservandolo in cagnesco. Ma, invero, era così bello che gli si poteva perdonare tutto.
Tom mi allungò una mano.
-Signorina, ti devo fare i miei complimenti!- aggiunse; un po’ perplessa, gliela strinsi –Hai una voce stupenda. Ora capisco il mio fratellino. Vuoi essere la nostra nuova cantante?-
Il gemello gli rivolse un’occhiata minatoria, serrando le labbra.
-Scusa, Billi, dicevo per dire…-
-Comunque, dovevi vederlo, Daniela…- aggiunse Bill –Stava quasi piangendo.-
Fu il turno di Tom per lo sguardo cagnesco.
-Io non stavo…-
Vennero interrotti da una “visita” al nostro tavolo.
-Signorina, dobbiamo farti le nostre congratulazioni.-
Era una coppia anziana. Turisti italiani, grazie al cielo.
La classica coppia formata dal marito quasi magro, cappellino sulla testa, occhiali da vista, barba incolta bianca, e la moglie grassa, avvolta da un abito largo a fiori, e truccata con mascara e rossetto.
-La sua voce è magnifica.-
Io feci un verso strano con le mie labbra e annuii.
Mi uscì un lieve “Grazie” dalla bocca.
Per fortuna, Chiara intervenne.
-Vi prego, signori, non disturbatela. Meglio non darle certe emozioni.-
-Oh, che modi!- si offese la donna, prima di allontanarsi col marito –Volevamo solo fare dei complimenti!-
Ecco il vero motivo per cui non volevo più cantare.
-Hai visto, tesoro?- aggiunse Chiara, abbracciandomi –Li hai stregati tutti!-
Bill sorrise a sua volta.
-Sì… come una sirena…-
Sì… forse non mi avrebbero più visto come una psicopatica, ma come una cantante. Il che era peggio, per me, almeno.
 
La giornata trascorse in fretta.
Dopo il pranzo c’era stata il bingo, a cui partecipammo tutti e quattro, Bill, Tom, Chiara ed io.
In palio c’era un uovo di Pasqua gigante, alto mezzo metro.
Chiara ed io dovemmo tradurre in inglese i numeri usciti per i gemelli. Conoscevano pochissimo l’italiano.
Tutto sommato, fu divertente.
Fu Chiara a vincere, con grande dispiacere di noi tre.
Ma, alla fine, divise l’uovo con noi.
Non mi piacevano molto le uova di Pasqua. Ad eccezione di quelle della Kinder, ovvio. Di quelle ne avrei mangiate a iosa.
Mi attendevano altri massaggi e bagni, prima che scendesse la sera.
Stavo giocando a “The Order 1868”, dopo cena, già in camicia da notte, ma non ne avevo molta voglia.
Misi il gioco in pausa e camminai verso la finestra. Non avevo ancora chiuso la persiana.
Vidi il falò di Pasqua. Mio Dio… faceva quasi impressione. Ma, allo stesso tempo, era come ipnotico.
Le fiamme erano ipnotiche.
C’erano delle persone intorno. Tra loro distinsi i Kaulitz, ovviamente.
Belli come i raggi del sole all’alba.
Le fiamme stavano illuminando i loro volti, rendendoli ancora più belli.
Ma il mio sguardo era diretto soprattutto al più piccolo, al bellissimo Bill.
Il mio idolo.
Il mio salvatore.
Lo osservavo in adorazione, come se io fossi una sacerdotessa in preghiera ad un’antica divinità greca.
Lui era il mio nuovo Apollo.
Così raggiante.
Così puro.
Così angelico…
L’emblema della bellezza maschile, pura e corrotta nello stesso tempo.
Si voltò nella mia stessa direzione.
Sobbalzai, imbarazzata.
Lui sorrise, e mi salutò con la mano.
Anch’io sorrisi e ricambiai il saluto.
Bill… inutile ripetere che mi aveva cambiato la vita.
Esortandomi a cantare… non so…
Cantare “Gocce di memoria” mi fece sentire… strana. Più leggera. Ma altrettanto malinconica.
Il pensiero di Gabriele continuava a tormentarmi.
Era questo che provava Giorgia, quando perse Baroni? Era questo che l’aveva ispirata a comporre questa canzone?
Era una sensazione fastidiosa. Ero consapevole che me la sarei trascinata dietro per l’eternità.
Ma Bill… mi aveva aiutato a rimuovere dei massi dal carico di pietre che stava gravando nel mio cuore, facendomi di nuovo parlare, sfogare il mio dolore con una canzone.
Chiusi la persiana, senza smettere di guardare quell’angelo caduto sulla terra, e mi appoggiai con la schiena alla finestra, sospirando.
Per la prima volta, dopo quasi due settimane, sorrisi, con l’anima leggera.
 
 
 
 
Bill’s P.o.V.
 
Spesso mi capita di fare sogni strani. Anzi, direi di frequente.
Quella notte, sognai di essere un marinaio. Ero su una barca, con Tom, cercando di domare le onde di una tempesta.
Alla fine, siamo caduti entrambi in acqua, a causa di un’onda che ci fece ribaltare.
Eravamo quasi perduti: sebbene sapessimo nuotare, non sapevamo per quanto tempo saremo riusciti a resistere alla tempesta.
Poi, una voce dolce, melodiosa, angelica ci diede nuovamente la speranza.
Scorgemmo una roccia, illuminata da un raggio di sole. Su di essa vi era una sirena, dalla coda nera come il cielo di notte. Aveva vari gioielli sul collo, sulle braccia, sui polsi, del medesimo colore.
Stava cantando una melodia che oserei dire angelica, pettinandosi i lunghi capelli neri ornati con perle e una coroncina di diamanti neri. Fece attirare sia me che Tom al suo cospetto.
Non era una sirena qualunque: era Daniela.
La MIA sirena.
MEINE Sirene.
Come tale, ci aveva attirati col suo canto, ma non verso la morte, come raccontano le leggende.
Improvvisamente, il cielo si fece scuro, e qualcosa spuntò dall’acqua: una presenza maligna era apparsa alle spalle della mia Daniela, con posa fiera e brillanti occhi gialli. Una creatura dal corpo metà umano e metà serpente marino, che rideva malignamente.
Gabriele. Il volto era quello di Gabriele.
Ma quella risata… mi fece spaventare a tal punto da svegliarmi di soprassalto.
Ansimai, mettendomi seduto.
Ero ancora nella mia stanza d’albergo, nel cuore della notte.
Tirai un sospiro di sollievo.
-DANNATA CONNESSIONE GEMELLARE!- anche Tom era sveglio; mi stava dando delle botte sul braccio e sulla testa –Non ti bastava raccontarmi di lei, ora me la fai anche sognare!-
Compresi all’istante il senso delle sue parole.
-Non mi dire che…-
-Sì.-
Di nuovo. Avevamo fatto lo stesso sogno.
Tra tutte le cose che potevamo sognare insieme, proprio quello.
Mi sentii leggermente in imbarazzo.
-Anche se… forse non c’è da biasimarti…- si era calmato nel giro di pochi secondi; erano sempre così le nostre liti, ci scaldavamo per pochi istanti, poi tutto tornava come prima –Voglio dire… avevi ragione sulla sua voce. E’ davvero angelica.-
Fui colto da un piccolo brivido sulla schiena: gelosia. Ero già geloso di Daniela.
Io ho sempre amato Tom, ma il pensiero di dividere con lui una persona… no, non potevo accettarlo.
-Tu sei stato con lei per tutta la mattina a raccontarvi i fatti vostri…- proseguì, sdraiandosi di lato sul letto, rivolto verso di me; i capelli corvini erano sparsi per tutto il cuscino –E visto che io non ho più sonno e tu nemmeno… cosa hai scoperto su di lei?-
Ah, Tom… sempre così imprevedibile. Prima mi metteva in guardia da Daniela e un attimo dopo voleva sapere tutto di lei. Ma c’è anche da dire che anche lui era stato colpito dallo stesso incantesimo che aveva colpito anche me…
-Suo padre è militare.- raccontai –E da come mi ha raccontato Dani, spesso si porta il lavoro a casa, nel senso che è praticamente cresciuta con un’educazione militare. Sua madre, invece, è una donna molto fredda, perché non ha mai avuto amore da parte dei suoi genitori.-
Tom storse la bocca e alzò le sopracciglia.
-Cavoli, cominciamo bene…- commentò, forse iniziando a provare pietà per Daniela.
-E a scuola le cose non andavano certo meglio.- proseguii –Io venivo bullizzato dai miei compagni per il mio look, ti ricordi?-
-Io ricordo i loro volti a contatto con le mie nocche…-
Sì, già da piccoli Tom mi proteggeva dagli altri. Cosa farei senza di lui?
-Daniela veniva bullizzata dalle sue stesse maestre. Mi ha detto che la prendevano in giro per la sua timidezza e per la sua tendenza a distrarsi facilmente. I suoi compagni ridevano insieme a loro.-
-Che stronze… Dicono di aiutarci, invece si rivelano i nostri peggiori nemici. Ha tutta la mia comprensione.-
-E a casa veniva bullizzata dal padre e anche dalla nonna, che la umiliavano per colpa della scuola, inoltre nessuno della sua famiglia voleva ascoltare le sue opinioni. E siccome è figlia unica… è come se fosse sempre stata sola…-
Percepivo in Tom il mio stesso stato d’animo, con quelle parole. Noi avevamo l’un l’altro, ma Daniela…
-Poveretta…- mormorò.
-L’unica che la ascoltava era sua zia, la seconda sorella maggiore di suo padre.-
-Sì… quella morta l’anno scorso…- Chiara ci aveva raccontato anche questo –Non c’è da biasimarla se sta soffrendo ancora la sua morte. Come quella di… come si chiama…? Gabriele?-
Gabriele… quel nome mi faceva sempre infuocare lo stomaco e il cuore. Ma perché?
-Da come mi ha raccontato, anche lui aveva vissuto una vita simile alla sua, lo stesso vale per un loro amico in comune.- mi aveva raccontato anche di Filippo –Anzi… sarebbe meglio dire che… Gabriele mi somigliava molto… e non solo per l’aspetto.-
-Che intendi?-
-Anche lui era vittima di ingiustizie e di bullismo. Inoltre, era da anni che ci provava con una ragazza che non ricambiava il suo amore. Se solo si fosse svegliato… se solo si fosse reso conto quello che Daniela provava per lui…-
Ora comprendevo quei bruciori: era il mio odio per Gabriele, per la sua svogliatezza. Un odio per una persona che nemmeno ho conosciuto. Sensato e insensato nello stesso tempo.
Anche Tom stava pensando alla stessa cosa.
-Se l’avesse sentita cantare, sono sicuro che avrebbe lasciato quella stronza…- commentò, cambiando posizione, con la schiena rivolta verso il letto; io non mi ero mosso, ero ancora di fianco –Daniela… sì… è davvero come una sirena.-
 Visto che c’ero, gli raccontai anche della formazione musicale di Daniela: effettivamente, aveva studiato canto, dall’età di sette anni, ma era stata una decisione di sua nonna, non la sua. La sua voce meravigliosa, però, l’aveva di natura.
Io ci rimasi quasi male, quando mi disse che erano passati otto anni da quando aveva smesso di prendere lezioni; Tom ebbe la stessa reazione, quando glielo raccontai.
-E’ un talento sprecato.- disse. Era la stessa cosa che avevo detto a Daniela, forse per persuaderla a riprendere lezioni.
Aveva rinunciato un po’ per noia, un po’ per questioni economiche, ma soprattutto per la scuola.
-Sì, la scuola rovina sempre tutto.-
Su questo Tom e io eravamo d’accordo. Non per niente siamo gemelli.
-Inoltre mi ha detto che esibirsi sul palcoscenico, essere invasa dai paparazzi o roba simile non era quello che voleva fare nella vita.- conclusi –Non è come me, insomma.-
-Ma un sogno lo avrà, no?-
-Sì, trovare l’uomo della sua vita e passare il resto dei suoi giorni con lui.-
Vi fu un breve attimo di silenzio tra noi due.
Silenzio che venne spezzato da Tom, che si mise a ridere a crepapelle, quasi rischiando di svegliare l’intero hotel.
-E’ proprio la persona giusta per te, fratellino!- già stavo prevedendo cosa stava per dire –Entrambi correte dietro a desideri fiabeschi! E poi… lei pare avere tendenze un po’ mascoline e tu sei donna per metà… farete una bella coppia! Ah, ah, ah!-
Odiavo quando faceva così…
 
Tom’s P.o.V.
 
Trovare la persona della nostra vita.
Non è quello che vorremo tutti, in fondo?
Per esperienza personale… dico solo che non è altro che un’illusione.
Non volevo che anche Bill vi cadesse. Il mio cuore si era letteralmente spezzato, quando scoprii la vera personalità di Ria. No, non lo raccomando a nessuno.
Ma la voce di Daniela… avvertii come una strana sensazione. Di sentire nuovamente il mio cuore intero.
Bill non aveva esagerato: era davvero una sirena.
Una sirena che aveva colpito anche me, con il suo canto.
Mi pareva di sentire ancora la sua voce cantare quella bellissima e triste canzone: nemmeno io potei fare a meno di trattenere una lacrima, quando Bill e io ne leggemmo la traduzione in tedesco e scoprimmo la storia dietro di essa.
Mi sentii a disagio, mentre davo le spalle a Bill, in modo che non incrociasse il mio sguardo: Daniela avrebbe sicuramente preferito lui a me, con la sua dolcezza e la sua fedeltà, il sogno di ogni donna. Io ero un vero depravato. Ma anche questo è il sogno di ogni donna, solo… non di donne come Daniela.
Il mio cuore vibrò: mi stavo forse innamorando anch’io di lei? Che davvero avesse lanciato un incantesimo d’amore anche su di me, con la sua voce angelica? Questo albergava nella mia mente.

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Note finali: avrete notato che ho cambiato le note principali. Sì, ci sarà un triangolo e un "threesome", ora vi spiego perché: stanotte ho fatto un sogno strano, dove c'era prima il ragazzo che mi piace, poi, stranamente, anche i Kaulitz! Ho sempre ammirato Bill, ma ero seduta vicino a Tom e gli ho anche fatto una carezza. Sapeste la sensazione che ho provato... sembrava stessi davvero toccando la sua pelle (liscia, tra l'altro!) e la sua barba. Mi sono svegliata dicendomi: "Sempre queste storie d'amore con Bill, nelle fanfiction (almeno da quelle che ho letto); perché non metterci anche Tom?"

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Capitolo 7
*** (H) ***


Note dell'autrice: scusate per il capitolo scritto male.


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Chiara’s P.o.V.
  
-Quindi Daniela… ha davvero parlato?!-
Alberto non credeva alle proprie orecchie. Persino il dottor S. si stupì di quella rivelazione.
-Le è bastato davvero passare del tempo con quel cantante?- mormorò, direi un po’ scettico.
-A quanto pare sì.- risposi, annuendo –Ne ho avuto la prova oggi a pranzo, quando… beh, ha ripreso anche a mangiare.-
Non so ancora spiegarmi se lo sguardo che assunsero entrambi fosse un sospiro di sollievo o una specie di smorfia di sgomento. Effettivamente, non si erano visti risultati così repentini.
Ma era anche vero che erano passate due settimane dalla morte di Gabriele, non due giorni.
Tuttavia, vedevo ancora il lutto negli occhi di Daniela. Non mi aspettavo certo che guarisse subito non appena avrebbe ripreso a parlare e a mangiare, ma già che avesse mostrato segni di miglioramento rispetto ai primi giorni all’ospedale era già qualcosa.
-Quindi, ricapitolando…- Alberto stava riflettendo –In soli tre giorni Daniela ha ricominciato a muoversi autonomamente, a parlare e anche a mangiare. Ciò che non è riuscita a fare nella prima settimana qui all’ospedale. Anzi, si può dire che all’ospedale non ha fatto proprio nulla, per migliorare. Era forse necessaria una distrazione?-
Stavo per rispondere affermativamente, ma il dottor S. mi precedette.
-No.- disse, scuotendo la testa –E’ meglio così. Farla distrarre a distanza di pochi giorni dal lutto avrebbe aggravato la sua situazione. Era necessaria almeno una settimana per… calmarla, oserei dire. Da quanto mi hai detto, Chiara, la situazione familiare era notevolmente critica, vero?-
-Sì, infatti…-
-La lontananza dall’ambiente familiare, un luogo a lei ostile, è stato il primo passo. No, dottor Guerra, niente è stato vanificato.-
Alberto era sempre più scettico. Alla fine dovette rassegnarsi, o almeno lo sembrava.
-Sarà come dice lei…- si rivolse nuovamente a me –Parlami, piuttosto, Chiara, di quanto è accaduto questa notte.-
Il mio stomaco sussultò e il sangue si gelò nelle mie vene: non potevo non riferire loro quanto era accaduto la notte precedente.
-Da quando siete alla SPA, è la terza volta che Daniela ti è sfuggita.- Alberto non aveva tutti i torti; no, aveva assolutamente ragione –E’ Daniela quella che deve rilassarsi, non tu. Per tua, e soprattutto sua fortuna, c’erano quei due ragazzi. Se non ci fossero stati loro, a quest’ora Daniela sarebbe morta!-
-Me ne rendo conto e non ho fatto altro che colpevolizzarmi tutto il giorno per questo! Non era prevedibile un’altra crisi di sonnambulismo!-
-Come sua infermiera dovresti starle sempre vicina. Immagina se dovesse succedere di nuovo. La prossima volta non potreste essere fortunate, soprattutto Daniela.-
-Allora prometto che non succederà più, anche a costo di rinchiuderla nella sua stessa stanza. Farò così, quando uscirò e lei vuole rimanere in camera, la chiuderò dentro e porterò la chiave con me.-
Dissi quelle parole quasi involontariamente. Ero con le spalle al muro.
Praticamente l’avrei resa una prigioniera. Daniela non me lo avrebbe perdonato, ma era la cosa migliore per lei.
-Una misura estrema…- notò il direttore –Ma spero che lei capirà. Naturalmente ci aspettiamo che tu le stia accanto, nel caso volesse uscire.-
Divenni razionale. Non osai obiettare. C’era in gioco il bene di Dani.
-Come fossi la sua ombra.-
 
Daniela’s P.o.V.
 
Stanotte ho sognato nuovamente Gabriele, ma questo sogno è stato più particolare del solito. Lo avevo visto in lontananza ed ero corsa verso di lui. Quando fui vicina, lui svanì nel nulla.
Rimango nel buio, da sola, per un po’. Dopodiché, sento delle voci e delle risate strane.
Mi volto: erano gli “amici” di Gabriele, gli stessi che lo avevano sempre bullizzato.
-Ma guarda… la ragazza del Bena…-
Bena… quanto odio quel soprannome…
La sua ragazza…? Magari se così fosse stato.
-Sono sicuro che non se la prenderà se ce la spassiamo un po’ con lei…-
Non fui abbastanza veloce da difendermi: due di loro mi avevano preso per le braccia e fatta cadere supina. Altri due mi tenevano per le gambe. Cerco di liberarmi, invano. Stavo persino urlando “Aiuto!”
-Vedrai che ti piacerà…-
Si stava già sbottonando i jeans e io mi dimenavo sempre di più.
-Gabri! Gabri!- urlavo. Niente, lui non comparve.
Tuttavia, il ragazzo di fronte a me venne atterrato da un pugno. Gli altri quattro ragazzi mollarono la presa su di me, per mettersi contro al mio salvatore. Caddero tutti e quattro. Io alzo lo sguardo verso il mio salvatore.
No, i miei salvatori.
I gemelli Kaulitz.
 
Ora che parlavo, forse non avevo più bisogno di scrivere sul diario. No, ne avevo ugualmente bisogno.
Ormai era diventata un’abitudine per me, scrivere quello che avevo sognato la notte, così come i miei pensieri.
Bill e Tom… i bellissimi gemelli Kaulitz… non potevo ancora credere che fossero nella stessa SPA dove ero io… che mi avessero salvato la vita, prendendomi tra le loro braccia.
Chiara mi raccontò che c’era anche Tom quella notte, accorso in aiuto di Bill per tenermi ferma.
Ero loro grata. Come potevo mai sdebitarmi?
Mentre ci pensavo, aprii la persiana.
Era di nuovo nuvoloso. Ma il clima non era freddo.
Erano le otto del mattino. Quindici minuti dopo, Chiara entrò nella mia stanza.
-Buongiorno, cara.- mi salutò, con un lieve sorriso; si era fatta la sua solita treccia; in rari momenti l’avevo vista con i capelli sciolti –Dormito bene?-
Annuii.
-Sì…- aggiunsi, prima di osservare di nuovo il cielo; tanto quella sera avrebbe letto il mio diario.
-Andiamo a fare colazione?-
Il languorino era tornato. Sì, stavo tornando verso la normalità. Ma quella settimana stava per finire. Avrei tanto voluto non finisse mai. Ovviamente in compagnia dei gemelli Kaulitz.
 
Chiara’s P.o.V.
 
Quella mattina, Dani aveva preso solo un pezzetto di pane tostato e un vasettino di marmellata per colazione. E dire che lei non sopportava la marmellata e neanche il tè che vi prese insieme. In realtà, glielo avevo consigliato io. Doveva riabituare il suo corpo al cibo, gradualmente. Non era ancora pronta per bere il latte.
Infatti, mi guardò malissimo, soprattutto dopo aver notato il mio piatto.
Sì, io, effettivamente, avevo esagerato. Tra paste, panini, cappuccino… non la biasimai.
Fortuna volle che, prima di avere il tempo di protestare, arrivò Bill. Anche lui era stato piuttosto modesto nella sua scelta.
-Buongiorno.- ci disse, sorridendo. Sì, era proprio adorabile. Anche Dani sorrise, ricambiando il saluto.
Tuttavia, qualcosa non quadrava.
Era solo. E Tom non era nemmeno al buffet.
Anche Dani se ne accorse.
-Dov’è Tom?- domandò, infatti, guardandosi intorno.
-Ha detto ci raggiungerà tra poco.- rispose lui, prima di mangiare la sua torta -Stanotte non è riuscito a dormire. Ha bisogno dei suoi tempi per svegliarsi, se capite ciò che intendo…-
Io ridacchiai al solo pensiero di Tom con le occhiaie sotto gli occhi stile zombie. Anche Dani fece lo stesso; forse stava pensando la stessa cosa.
 
Tom’s P.o.V.
 
Non ero più riuscito a dormire quella notte.
Non dopo il sogno che Bill e io avevamo fatto e non dopo quanto Bill mi aveva raccontato su Daniela. Avevo compreso cosa intendesse con “la sua voce mi è entrata in testa”.
Era capitato anche a me. La sua voce era entrata anche nella mia, di testa. Quella maledetta canzone…
Continuavo a sentirla. Stava diventando un vero tormento.
Non facevo altro che contorcermi nel letto, mentre nella mia mente riaffiorava il ricordo di Daniela che cantava “Gocce di Memoria”; scattai in avanti, passandomi le mani tra i capelli e sul volto.
Forse non era tanto la canzone quanto quello che c’era dietro, le sensazioni che Daniela aveva espresso, il suo lutto, la sua tristezza, che mi facevano sentire così.
Anche Bill si sentiva nello stesso modo. Non per niente siamo gemelli.
Mi guardai allo specchio, appena ebbi la forza di entrare in bagno: le mie occhiaie erano ancora profonde, ma quel giorno lo erano più del solito.
Daniela… la sua voce… la mia ossessione.
Mi aveva stregato, ammaliato, come una sirena. Non sapevo se quello che stavo già provando per lei si potesse definire infatuazione, ma già il fatto che non riuscissi a smettere di pensare a lei me lo fece pensare.
Sapevo che Bill provava lo stesso.
Guardai l’orologio: erano le nove passate. Sicuramente Bill, Daniela e Chiara avrebbero finito di fare colazione, pensai.
Mi infilai le prime cose che mi erano capitate sottomano, una felpa bianca, jeans larghi (anche se mai della grandezza che ero solito indossare una decina di anni prima) e scarpe da ginnastica. Mi legai i capelli nel mio solito “Man Bun”, presi la chiave della stanza e uscii, per dirigermi nel salone da pranzo.
Per fortuna trovai Bill, Daniela e Chiara ancora al tavolo.
Daniela… quel giorno la trovai stranamente raggiante. Era forse la riacquisizione della parola e della fame a renderla così? O ero io a vederla sotto un’altra luce?
Cercai di non pensarci troppo, mentre davo il via al saccheggio del buffet.
-Tomi!-
“Ma perché Bill deve mettermi in ridicolo di fronte a tutti?” pensai, sospirando.
Tomi… non mi piaceva che mi chiamasse in quel modo di fronte alle persone. Lui lo sapeva bene, ma lui era ed è tutt’ora un tipo strano: gli piaceva provocare la gente. Brutto modo di divertirsi, vero?
Mi avvicinai al tavolo, con il mio piatto praticamente pieno e una tazza di caffè.
-Buongiorno…- salutai, senza osservare le due ragazze, soprattutto Daniela.
Chiara mi aveva osservato con aria furba.
-Chi non muore si rivede, eh?- mi domandò, sorridendo in modo strano.
Bill e Daniela risero. Erano entrambi adorabili quando ridevano. Io risposi facendo il becco dell’oca con la mano e una smorfia di disapprovazione.
Per fortuna il caffè mi aiutò a risvegliarmi o avrei rischiato di crollare sulla mia colazione.
 
Bill’s P.o.V.
 
-Sapete, ci dispiace molto andarcene da qui…- mormorai, ad un certo punto, dispiaciuto.
Mi diedi dell’idiota.
Tom mi osservò malissimo, mentre Daniela assunse la mia stessa espressione.
Eh, sì… avremmo tanto voluto che quella vacanza non finisse mai. Ma sapevo già come sarebbe andata a finire, ovvero con me e Tom che avremmo sentito la mancanza di fare concerti e roba simile.
-Anche noi dovremo tornare all’ospedale…- aggiunse Chiara. Non compresi il suo stato d’animo. Sembrava indifferente –Quando ripartirete?-
-Il 19 mattina.-
-Già…- aggiunse Daniela, con un filo di voce –Avete il primo concerto in Russia…-
Giusto.
Novosibirsk.
Per dieci giorni ci saremmo mossi in vari punti della fredda Russia…
Storsi la bocca, annuendo.
-E’ un vero peccato, sai?- feci, osservando Daniela; i suoi occhi erano più scuri dei miei, sembravano quasi neri, come quelli di un cerbiatto; faceva tenerezza –Mi sarebbe davvero piaciuto conoscerti meglio, Daniela.-
Mi guardò con tenerezza e malinconia insieme: sembrava una bambina.
La tentazione di toccarle una guancia era troppo forte: non volevo dubitare del suo buonsenso, ma temevo che lo avrebbe sbandierato sui social. “Bill Kaulitz mi ha toccato!” o cose simili. Sperai che non avesse scritto da alcuna parte di quei momenti in cui l’ho incontrata, o quando Tom e io le avevamo salvato la vita. Per fortuna non lo aveva fatto e di questo ringraziai Dio. No, non era quel tipo di persona. Mi maledissi anche averlo solo pensato.
-Ehi, e la mia opinione non conta nulla?!-
“Tom, la tua opinione conta sempre.” pensai, sperando che avesse percepito il mio messaggio.
Sembrò aver capito.
-Anche a me sarebbe piaciuto avere più tempo.- disse, dopo aver inghiottito un pezzo di croissant; guardava il piatto, non guardava me o le ragazze; qualcosa lo stava turbando –Una settimana è troppo poco. Dieci giorni, forse…-
Si era fatto malinconico. Non era una cosa nuova, ma non avevo ben chiaro il motivo. O forse lo avevo, ma speravo non fosse ciò che stavo pensando.
-Beh, almeno ci siamo goduti queste vacanze pasquali…- concluse.
Ovviamente, non volle dire nulla su due notti prima: dopotutto, era stato un incidente, no?
A nessuno piaceva l’idea di tornare alla vecchia routine, soprattutto a Daniela.
Poveretta… tornare in quel cupo ospedale…
Guardai fuori: era ancora leggermente nuvoloso, ma pregai che non piovesse.
Mi venne un’idea, un lampo.
-Senti, Daniela, hai da fare stamattina?-
Lo dissi quasi tutto d’un fiato, sfoggiando il mio solito sorriso da idiota.
Lei si fece seria, come se stesse pensando.
-Beh, avrei la mia lezione di yoga e poi avrei il trattamento con l’olio…- mormorò, quasi titubante, come temesse la mia reazione –Ma dopo pranzo sarei libera. Perché?-
-Oh, beh… volevo fare una piccola nuotata in piscina e mi chiedevo se volevi venire… anche nel primo pomeriggio, dopo pranzo…-
Un altro buco nell’acqua. “Non ci so proprio fare per queste cose…” pensavo.
-Sì, ci sto!- la sua voce era squillante ed entusiasta; poi si rivolse alla sua infermiera –Posso, vero, Chiara?-
Lei le sorrise.
-Ma certo che puoi.- rispose –Anzi, penso che ti farà bene andare in piscina con lui. Dopotutto, è lui che ti ha restituito la parola e l’appetito.-
-Perché solo con lui?- domandò Tom, un po’ offeso; almeno aveva alzato la testa –Io non posso andare con loro?!-
Quella frase spiazzò Chiara e fece ridere sia me che Daniela.
-Non ho detto questo, Tom.-
-Sei cattiva, Chiara! Mi sono veramente offeso, sai?-
-Scusa, Tom!-
 
Tom’s P.o.V.
 
-Coraggio, a chi arriva primo!-
Era la terza gara tra di noi. E con “noi” intendo Bill, Daniela ed io.
Chiara si era seduta su una sdraio, facendo finta di leggere una rivista.
Non smetteva un solo istante di osservarci.
Aveva insistito per venire con noi, in piscina, anche se non per nuotare.
Ovviamente, io ci scherzai sopra.
-Cosa c’è? Non ti fidi di noi?- domandai –Hai paura che mettiamo Daniela incinta?-
-Con voi maschiacci non si sa mai.-
Poi ci aveva spiegato che dopo gli eventi di due notti prima e le altre due fughe che aveva fatto, doveva controllare costantemente Daniela, per precauzione.
Bill e io non approvammo, ma non volemmo dire nulla su questo: non ci sembrava giusto controllare Daniela come se fosse veramente incapace di intendere e di volere.
Per fortuna ci guardava e basta. Ci aveva persino detto di fare come se lei non ci fosse.
Così facevamo, infatti.
Era la terza volta che nuotavamo tutti e tre da una parte all’altra della piscina.
Vincevo sempre io nelle gare. Ma Daniela riusciva a tenermi testa.
Nuotava bene. Era davvero una sirena: le mancava solo la coda di pesce.
E Bill ci raggiungeva quasi col fiatone. Oddio, anch’io non ero messo meglio…
Era in quei momenti in cui ci dicevamo di smettere di fumare, ma poi non lo facevamo mai.
-Basta! Pietà!- disse Bill, piegando la testa all’indietro e bagnandosi i capelli (che erano già bagnati, tra l’altro).
Anche Daniela si rilassò, galleggiando supina sull’acqua.
Ebbi modo di osservarla meglio: il primo giorno, quando mi venne addosso rovesciandomi il succo, l’avevo vista di sfuggita. Quel costume le esaltava le forme morbide. Non era né grassa né magra. Una via di mezzo.
Con le misure giuste nei punti giusti.
Poi osservai il mio fratellino: si era appoggiato al bordo vasca.
Entrambi sembravano due creature marine. Due bellissime creature marine.
Avanzando a rana, mi misi in mezzo a loro.
-Ti ho sempre detto che fumi troppo, Billi.- dissi, sarcastico –E poi, al primo cenno di movimento fisico, ti sfiati facilmente.-
Lui, ovviamente, non la prese bene, ma era quella la mia intenzione.
-Senti da che pulpito arriva la predica!- ribatté, fingendosi offeso. Ci conoscevamo troppo bene per prenderci sul serio.
Daniela rise, divertita dal nostro litigio. Anche nei Meet&Greet i nostri litigi facevano divertire i fans, tranne quando passavamo alle mani, ovvio.
Improvvisamente, qualcosa mi colpì sulla fronte.
Una goccia.
No, né Bill né Daniela mi avevano schizzato.
La goccia veniva dall’alto.
Lo scoprimmo quando ne seguirono tante altre.
Persino Chiara scattò, alle prime gocce.
-Dobbiamo tornare dentro!- esclamò, alzandosi dalla sdraio.
Noi tre uscimmo subito dalla piscina: non tuonò, per fortuna, ma non si sapeva mai.
Prendemmo ognuno i propri asciugamani e tornammo nel solario, avvolgendoci in essi.
Eravamo rientrati appena in tempo: stava venendo giù il mondo.
Bill, Daniela ed io eravamo rimasti lì fermi a fissare la pioggia che cadeva sulla piscina: il movimento dell’acqua era come ipnotizzante.
Non mi avrebbe sorpreso se Chiara ci avesse scambiato per tre statue.
-Beh, almeno ci siamo goduti la piscina…- commentò Bill. Ah, se non ci fosse lui: strano ma vero, era lui l’anima ottimista dei Tokio Hotel. Trovava sempre un modo per vedere il lato positivo delle cose.
 
Daniela’s P.o.V.
 
-Beh, almeno ci siamo goduti la piscina…-
Sì, è vero. Mi ero dimenticata di quanto fosse bello nuotare. Sentire l’acqua scorrerti sulle braccia e accarezzarti tutto il corpo.
Mi era sempre piaciuto nuotare.
E poi… vedere i gemelli Kaulitz in costume e con i capelli bagnati era come un sogno che si realizzava. Una visione.
Erano bellissimi. Due angeli caduti sulla terra.
Poi vidi me, cicciona, brutta e con la faccia che mi ritrovavo.
Facevo il possibile per coprirmi il corpo con l’asciugamano, dalla vergogna.
Era anche da più di una settimana che non mi depilavo.
Sentii la mano di Chiara sulla mia spalla.
-Cara, dobbiamo tornare in camera.- mi disse, amorevolmente –Sennò rischi di prenderti il raffreddore. E lo stesso vale per voi due mascalzoni.-
-Aspettate!- ci fermò Bill; la sua voce era così melodiosa… –Stavamo pensando… visto che domani è l’ultimo giorno in cui staremo tutti qui… abbiamo scoperto una pizzeria nei paraggi. Domani sera vi andrebbe di andarci, tutti insieme?-
Una pizza coi gemelli Kaulitz?! Un’occasione da non perdere!
Io ero entusiasta all’idea; infatti, senza pensarci due volte, dissi di sì.
Ma Chiara… non sembrava molto convinta. Per me, non per lei.
Mi osservò, infatti, storcendo la bocca.
-Beh… basta che non ne prendi una complicata.- disse, un po’ scettica.
Non aveva detto “no”. Quindi tirai un sospiro di sollievo.
-Tranquilla, prenderò la solita Margherita!-
Anche Bill apparve sollevato.
-Perfetto, allora vado a prenotare per domani alle 20:15!-
-Ciao!-
Ci ritirammo ognuno nelle proprie stanze, promettendoci di rivederci in giro o direttamente a cena.
Anzi, per precauzione, ci scambiammo i numeri di telefono, per tenerci in contatto su WhatsApp.
Avevo i numeri dei Kaulitz! Non potevo crederci!
Quella vacanza alla SPA si stava rivelando la migliore della mia vita: avevo incontrato i gemelli Kaulitz, avevo parlato con loro, avevo nuotato con loro, ed ero stata salvata da loro. Molte ragazze avrebbero provato non poca invidia nei miei confronti.
Tornata in camera mi lavai con l’acqua calda. Che sollievo provare un po’ di calore sulla pelle: restare in costume, nonostante l’asciugamano sulle spalle, bagnata e con la pioggia aveva fatto calare un po’ la mia temperatura corporea.
-Io vado un po’ in sauna.- mi disse Chiara, appena uscii dal bagno –Vuoi venire?-
Io feci “no” con la testa.
-No, voglio stendermi un po’.- aggiunsi. Ora che avevo ripreso a parlare non volevo finire più. –Forse mi metterò a giocare.-
Lei fece uno strano cenno.
-Ok. Allora ci vediamo dopo.-
Chiuse la porta, ma udii un suono strano. Come quello di una chiave che chiudeva una serratura.
Il mio cuore sussultò a quel rumore: sperai non fosse ciò che temevo.
Cercai di aprire la maniglia, ma la porta non si aprii. Riprovai. Niente.
Mi guardai intorno, alla ricerca della mia chiave di stanza.
Non la trovai.
L’unica persona che poteva averla…
No… Non poteva essere…
-Chiara? Chiara!- urlai, entrando quasi in paranoia –Che cosa hai fatto?! Mi hai chiusa dentro?! Apri immediatamente!-
Per fortuna era ancora fuori dalla mia stanza.
-Mi dispiace, cara.- rispose, forse un po’ dispiaciuta –Ma devo, per il tuo bene. Ho sottovalutato i tuoi tempi di guarigione e guarda cosa è successo. Già tre volte mi sei sfuggita e nell’ultima potevi morire. Non posso rischiare. Tu non puoi rischiare.-
Stavo entrando in isteria: mi succedeva spesso, quando le cose non andavano come volevo, anche prima della mia depressione.
-CHIARA APRI QUESTA CAZZO DI PORTAAAA!!!- urlai, ruggendo, e battendo i pugni e i calci sulla porta.
-Non posso!- replicò lei –Ho promesso ai medici che ti avrei controllata, anche a costo di chiuderti dentro la tua stessa stanza. Non voglio che ti succeda qualcosa!-
-CHIARA?! CHIARA!!!-
Se veramente teneva a me, non avrebbe permesso questo mio brusco sbalzo di umore. Anche i medici l’avevano raccomandata di non farmi provare emozioni forti per timore di un mio collasso.
Aveva fallito. Di nuovo.
Avrebbe dovuto dirmelo. Ma anche in quel caso sarei entrata in isteria.
Non avevo problemi a stare nella mia stanza, ma esserci chiusa dentro non era la stessa cosa.
Una prigione. Ecco cosa diventava.
Cercai di aprire la porta che divideva la mia stanza da quella di Chiara. Chiusa.
Sì, ero proprio in prigione, come un animale.
Quando divento isterica perdo completamente la ragione: ripresi ad urlare come una pazza, dando pugni e calci alle pareti, pestando i piedi per terra. Saltai sul letto, prendendo il cuscino e lo sbattei sul letto, sul muro, accecata dalla rabbia. Senza volerlo, lo sbattei anche contro il comodino, proprio quello con il mio diario e la foto di Gabriele.
Appena me ne resi conto, ripresi la ragione. Lasciai il cuscino e, allarmata, scesi dal letto.
-Nonononono…!!!- dissi.
La foto non aveva subito danni, per fortuna. La presi in mano; osservai Gabriele.
Quanto sentivo la sua mancanza… Ogni giorno sentivo la sua mancanza.
Mi illudevo di essere felice, serena, ma poi quel sentimento amaro ritornava.
Non dovevo vedere quella foto, ma se non l’avessi fatto, mi sarei dimenticata di lui, e questo non lo volevo.
Un forte senso di malinconia mi prese, ampliato con il mio crollo emotivo dovuto all’isteria.
Urlai di nuovo, quella volta dal dolore. Piansi.
 
Tom’s P.o.V.
 
-Che tempo del cazzo…- mormorai, prima di bere l’ennesimo bicchiere di champagne.
Bill e io stavamo finendo la seconda bottiglia. Se qualcuno chiede, sì, eravamo delle vere e proprie spugne.
Io ero alla finestra, lui sul letto.
-Lo hai detto…- sbadigliò; scorsi, dal vetro, che si mise su un fianco –La pioggia fa anche un effetto narcolettico…-
“O anche lo champagne…” pensai.
Udii dei suoni strani, tipo urli. Ma sperai venissero da fuori e che fosse il vento. Ero anch’io un po’ sotto l’effetto dello champagne per reagire e domandarmi cosa fosse.
Mi strofinai gli occhi, tornando a guardare fuori.
“Davvero delle belle vacanze pasquali…” pensai, un po’ deluso.
Uno, quando va in Italia, spera di trovare sole tutti i giorni. Ma quel giorno ebbi come l’impressione di essere a Londra.
-Senti, ma se…?-
Mi voltai: Bill era già crollato. Stava già ronfando sul letto con la sua solita faccia da ebete.
Il mondo lo vedeva come un idolo: per me era il solito idiota. Ma era il mio idiota.
Presi il telefono, andando distrattamente su WhatsApp. Quasi senza volerlo, controllai il profilo di Daniela.
Appariva serena. Non si era fatta foto recenti, ovviamente. Quella foto doveva risalire prima del suo trauma, quindi.
Pensai a lei.
Poi mi ricordai quando Bill e io entrammo nella sua stanza e io notai la PS4 e la miriade di giochi intorno.
Un pensierino strano attraversò la mia mente; scrissi un messaggio a Bill tramite WhattsApp, presi la chiave della stanza e uscii.
Mi ricordavo bene il numero della stanza di Daniela.
Bussai, deciso. Mica mi facevo seghe mentali come il mio fratellino.
 
Daniela’s P.o.V.
 
“Le giornate pioggia mi ostinano a ricordare il mio pezzo preferito di Jane Eyre, il bacio tra Jane ed Edward, dopo la dichiarazione di quest’ultimo. Aveva preceduto un temporale. Io li immagino baciarsi in mezzo alla pioggia: non credo ci sia niente di più romantico di un bacio sotto la pioggia. Ai romantici piacevano le tempeste, no? Allora anch’io mi definisco una romantica, in tutti i sensi, e ne sono fiera. E’ più o meno così che immaginavo il mio primo bacio con Gabriele, con noi due, sotto la pioggia, che ci scambiamo il nostro primo bacio, liberando ciò che uno provava nei confronti dell’altro. Ma non accadrà mai, perché lui non c’è più. E l’unica vera pioggia che proverò sulla mia pelle saranno le lacrime amare che verserò, pensando a lui.
Mi manca tantissimo.”
Mi ero calmata dalla mia crisi isterica, ma, come ogni volta che mi capitavano, ero entrata nella fase “scarico di nervi”. Una sensazione fastidiosa, perché hai come l’impressione di non provare più alcun sentimento.
Decisi di aggiornare il diario, raccontando ciò che avevo fatto quella mattina e quel pomeriggio, con i Kaulitz. E aggiunsi anche questo pezzo.
Ma oltre a questo… non sapevo cosa altro fare.
Non avevo nemmeno la forza di accendere la Play e fare una partita.
Improvvisamente, sentii bussare.
Tre colpi decisi. Non era Chiara. Non era il suo modo di bussare.
“Chi può essere…?” pensai, con sospetto, avvicinandomi alla porta.
Potevo fingere di non esserci, ma la luce della mia stanza era facilmente visibile da sotto la porta.
Rassegnata, dissi: -Chi è?-
Dall’altro lato, una voce maschile.
-Sono io, Tom.-
Tom.
Il mio cuore sussultò.
Perché Tom era lì? Dietro alla mia porta?
-Senti, volevo chiederti… so che hai una PS4, quindi deduco che ti piacciano i videogiochi.- mi disse –Anche io sono un videogiocatore e, effettivamente, sento un po’ la mancanza della mia consolle. Mi chiedevo… se ti andava di fare una partita, insieme, a Call of Duty.-
Giocare alla Playstation con Tom Kaulitz… non mi sembrava vero.
Tuttavia… non era possibile.
-Tom, non vorrei deluderti.- risposi, dispiaciuta –Ma ho solo un joystick.-
Sperai bastasse per fargli cambiare idea, senza rivelargli che ero chiusa dentro.
Mi sbagliai.
-Non c’è problema.- rispose –Facciamo a turno. Posso entrare?-
Dovetti dirgli la verità.
-Non posso. Sono chiusa dentro.-
-Dentro? Come chiusa dentro?-
-Chiara si è portata via la chiave e lei ora è a farsi una sauna. Dopo quanto è avvenuto due notti fa, ha paura che si possa ripetere una cosa simile, per questo mi ha rinchiusa qui.-
Stavo per perdere un’occasione d’oro, per colpa di Chiara. Non glielo avrei mai perdonato.
Non fino a quando udii, con sorpresa: -Non importa, troverò un altro modo per entrare.-
 

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Capitolo 8
*** (E) ***


Note dell'autrice: scusate per gli errori di grammatica... non avevo voglia di riguardare tutto.


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Tom’s P.o.V.
 
Non è solo Bill a essere tenace. Anche io lo sono.
Avevo deciso di giocare alla Playstation con Daniela e così sarebbe stato; dovevo solo trovare un modo per entrare nella sua stanza.
Forse ero stato troppo avventato a dire quella frase.
Il problema era come entrare.
Non potevo certo entrare di soppiatto nello spogliatoio della sauna a cercare la chiave della stanza di Daniela negli abiti di Chiara.
Sapevo cosa fare, in realtà, anche se era una vera pazzia.
Scesi fino al piano terra, uscendo nel cortile: stava ancora piovendo a dirotto.
Non ci tenevo certo a bagnarmi.
Cercando di stare il più possibile attaccato al muro, protetto dal tetto, mi misi alla ricerca di qualcosa per raggiungere la finestra della camera di Daniela.
Poi, la vidi: una grondaia.
Ecco la mia via per entrare in camera di Daniela, dall’esterno.
Mi diedi da solo del pazzo anche solo pensare a una cosa simile.
E poi era anche complicato indovinare quale fosse la finestra giusta.
Per precauzione, presi il telefono e inviai a Daniela un messaggio.
 
Ciao, sono Tom. Potresti affacciarti alla finestra, per favore?
 
Lo ricevette: lo constatai da come si era appoggiata al vetro della finestra.
Era accanto alla grondaia: bene. Avrei evitato manovre da “Assassin’s Creed”.
Non potei vedere la sua espressione da quella distanza, ma lo scoprii dal messaggio che mi inviò.
 
-Sei pazzo? Vuoi veramente entrare dalla finestra?!
-Nella vita bisogna rischiare, no?
 
Senza indugio, infatti, mi arrampicai sulla grondaia. Non lo avevo mai fatto, prima di allora. E per fortuna non soffrivo di vertigini come Georg.
Cosa non si fa per raggiungere i propri fini…?
Peccato che il tetto dell’edificio non mi coprì, mentre mi arrampicavo.
Infatti, mi bagnai, con mio grande rammarico. Anzi, proprio mi incazzai per questo. Li avevo lavati e asciugati da poco. Era una gran seccatura doverli asciugare di nuovo.
La finestra, per fortuna, aveva lo spazio di fronte, il che mi rese più semplice aggrapparmi.
Daniela era proprio lì di fronte: per poco non si spaventò a vedermi.
Senza pensarci, aprì la finestra: era di quelle che si aprivano verso l’interno, per fortuna.
Mi allungò le mani, per aiutarmi.
“Che dita lunghe…” pensai, mentre stringevo le mie mani alle sue. Sì, non biasimai Bill per averle osservato e apprezzato le mani: erano proprio mani da pianista, con le dita lunghe e eleganti.
Incrociammo i nostri sguardi, restando fermi per pochi secondi: gli occhi di Daniela erano davvero molto scuri. Aveva lo sguardo da cerbiatto, che la rendeva dolce. Una Bambi al femminile, insomma.
Non seppi come, ma arrossii.
 
Daniela’s P.o.V.
 
-Tu sei un pazzo!- esclamai, mentre aiutavo Tom a salire –E sei anche bagnato come un pulcino!-
Lui mise un piede sul pavimento, facendo spallucce. No, non era così tanto bagnato. Non da lasciare una pozza intorno a lui, intendo…
-Beh, sta piovendo, dopotutto…- disse, sarcastico.
Tom Kaulitz. Di fronte a me. Ero emozionatissima, nonostante avessi nuotato con lui quel pomeriggio.
Impacciata, infatti, gli indicai una sedia.
-Siediti qui, ti prendo un asciugamano!- dissi, prima di correre in bagno -Dovrei averne due, infatti…-
Sì, ne avevo due. Presi quello asciutto, prima di tornare da lui. Si era sciolto il codino, scuotendo la testa e anche i capelli bagnati.
Era una visione. Era bellissimo con i capelli sciolti e bagnati. Gli donavano un aspetto ancora più angelico di quanto non lo fosse già. Sembrava un dio greco. Precisamente Apollo. Entrambi i Kaulitz sembravano Apollo.
Senza pensarci, gli buttai l’asciugamano sulla testa e cominciai a strofinare.
-Ehi, piano! Mi fai male!- si lamentò.
Io arretrai, un po’ in colpa.
-Oh, scusa…-
Lo udii ridacchiare.
-Posso farlo da solo, lo sai?- ribatté, divertito.
-Scusa, è stato involontario…-
Gli alzai leggermente l’asciugamano, scorgendo il suo volto.
Lo osservai di nuovo negli occhi, per poi farmi di nuovo triste. Perché? Perché gli occhi dei Kaulitz erano così uguali a quelli di Gabriele?!
Osservando Tom, percepii la stessa sensazione che provavo quando guardavo lui negli occhi: la tentazione di dargli un bacio sul naso. E Tom aveva un naso bellissimo. Lui e Gabriele avevano più o meno lo stesso profilo.
-Ehm…- mormorò lui, un po’ in imbarazzo –So di essere carino, ma fissarmi così…-
La solita figura da idiota. Come facevo a ritrovarmi in situazioni simili, mi domandavo…
Scattai all’indietro, più imbarazzata di lui. Ero ancora sottosopra dalla mia crisi, per questo ero più distratta del solito.
Lo osservai di nuovo, senza farmi vedere: si stava ancora asciugando i capelli con il mio asciugamano.
Sarei rimasta ferma per ore a guardarlo.
Poi, si fermò, guardandosi la felpa. Era leggermente bagnata.
-Ti dispiace se mi tolgo la felpa?- mi domandò, ponendosi l’asciugamano sulle spalle –Non temere, ho la T-Shirt sotto.-
Glielo lasciai fare. Anche se fosse stato a torso nudo, in quell’istante non mi sentivo in vena per… sapete no? Apprezzamenti volgari, possiamo dire.
E poi… dopo la morte di Gabriele, si erano spenti in me i due volti dell’amore: quello platonico e quello carnale. Quindi non mi sarei sentita “accaldata” se lo avessi visto con i pettorali e il resto in bella mostra.
Anche quel giorno, in piscina, per quanto, nella mia mente, avessi esaltato e acclamato i loro corpi, non provavo altro. Nessuna eccitazione. Tutto si era spento in me.
-Allora? Una partitella a CoD?- domandò, sorridendo, mentre si sedeva sul mio letto.
Un forte senso di ansia mi prese, con quella domanda.
Stavo per giocare a “Call Of Duty” con Tom Kaulitz!
Una cosa rapida, prima che Chiara tornasse dalla sauna. Il massimo era un’ora. Avevamo tre quarti d’ora scarsi per giocare.
Infatti, senza pensarci due volte, accesi la Play e misi subito l’ultimo “Call of Duty”.
-Ti va se facciamo la partita online?- domandai, tentando l’approccio della “voce innocente” per farmi convincere –Una partita a testa.-
Tom fece spallucce, spingendo il labbro inferiore in avanti.
-A me va bene qualunque cosa.-
Scoprii che anche Filippo si era connesso: infatti, quando iniziai la partita, mi arrivò un suo messaggio, in chat.
 
Ciao, Dani, come stai?
 
La mia risposta non tardò.
 
-Tutto bene. Oggi temo che farò massimo due partite. Non mi sento molto in forma.
 
-Non importa. Mia madre mi ha messo sotto stretta sorveglianza, quindi anch’io farò al massimo due partite.
 
Durante la missione, Tom faceva il tifo per me. No, proprio il C.T. calcistico. Nel frattempo, gli avevo parlato di Filippo, come ci eravamo conosciuti, che Gabriele era il nostro amico comune e via discorrendo.
Mi ero seduta accanto a lui, sul mio letto. L’emozione era ancora forte in me.
Ci alzammo entrambi, esultando, quando finii. Avevo ottenuto un buon punteggio. Leggermente più alto del mio amico.
 
-Brava.
-Grazie. Ora non scrivere più. Un’altra persona, ora, mi darà il cambio.
-Un’altra persona? Chi?
-Uno che ho conosciuto nella SPA, che sa poco l’italiano. Se stasera sei libero, ti spiegherò tutto su WhatsApp.
-D’accordo.
 
Diedi il joystick a Tom.
-E’ in italiano.- lo avvertii –Va bene lo stesso?-
-Ma sì. Tanto mi ricordo tutto. E poi è una buona occasione per imparare un po’ la tua lingua.-
Sperai di avere avuto un’illusione: mi fece l’occhiolino.
Ma cercai di non illudermi. “Magari gli è andata una ciglia nell’occhio…” pensai, guardando in basso.
Mi sorpresi dell’abilità di Tom con CoD. O forse no.
Fatto sta che anche lui batté Filippo, facendo un punteggio più alto del mio.
Gli applaudii, sorpresa.
 
Good job gli scrisse Filippo.
Tom gli rispose pure con Thanks
 
Forse un’altra partita ci sta.
 
Una terza partita…?
Tom mi guardò, con aria quasi seria. Gli avevo tradotto ciò che Filippo aveva scritto.
Storse la bocca, per distenderla un secondo dopo.
-E se ci dividessimo il joystick?- propose.
Lì per lì non compresi, o meglio, sperai di aver frainteso il senso della sua frase.
No, era proprio quello che pensavo: giocammo la terza partita insieme.
Dallo stesso joystick, lui controllava il personaggio e io sparavo.
O meglio, ci provavamo.
-Ok, ora spara!-
-Mira! Mira!-
-Cosa? Oh, giusto!-
Ne uscì fuori una partita assurda. Assurda per l’assurdo duo Kaulitz-Savoia, si intende…
Il risultato? Oh, semplice. Vinse Filippo.
Dopotutto, glielo dovevamo, poveretto. Aveva perso le altre.
Come promesso, lui si disconnesse, con la promessa di una conversazione, dopo cena, su WhatsApp; Tom e io rimanemmo di fronte al menù principale di “Call of Duty”.
-Campagna?- domandò lui –Un quadro a testa.-
Così facemmo. Restammo per una buona mezz’ora a giocare a “Call of Duty”. Un’esperienza insolita, ma altrettanto gradevole. Ci divertimmo tantissimo, sia a giocare sia a fare il C.T. dell’altro.
Bastò, per farmi tornare il buonumore e distrarmi dalla crisi che avevo avuto prima.
-Vai! Fai esplodere quel bastardo!-
Il missile che sparai fece letteralmente esplodere l’elicottero nemico.
-Evvai!- esultò Tom, tra i miei urli di soddisfazione –Mitica, Dani!- ci demmo il cinque come fossimo due amici maschi: mi piaceva quel tipo di cinque. E poi, scambiarlo con Tom era il massimo.
Sì, anche io mi sentivo decisamente meglio.
Sospirando, si sdraiò sul letto, per poi osservarmi con il suo sguardo caldo e sensuale.
Dopo tanto tempo, sentì il mio cuore vibrare leggermente. No, era già successo con Bill.
-Beh, pessima cooperativa, non trovi?- domandò, facendomi cadere dalle nuvole. Si stava riferendo alla terza partita contro Filippo.
Imbarazzata, incrociai le gambe sul letto, scostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.
-Ehm… ecco…- non avevo la minima idea di cosa dire. La sua, inoltre, non era stata una domanda molto cortese. –Mi dispiace molto.- mi limitai a dire, stringendomi nelle mie spalle.
Ma poi lui si mise a ridere.
-Stavo scherzando, dai!- esclamò, scattando in avanti e dandomi una lieve botta amichevole sul braccio; proprio come era solito darmele Gabriele. E lasciava lo stesso dolore, stranamente… -Tuttavia abbiamo fatto un buon lavoro nella Campagna, non trovi?-
Annuì, silenziosa e sorridendo.
-Ma vuoi sapere una cosa? Giochi di questo tipo ci piace farli dal vivo, sia a me, a Bill che agli altri ragazzi dei Tokio Hotel. Hai mai giocato a Paintball?-
Scossi la testa.
-Ogni volta è un’esperienza magnifica. Soprattutto la soddisfazione di colpire gli avversari in mezzo alle chiappe! Soprattutto se le chiappe in questione sono quelle di Bill. Pensa che prima di giocare si vanta di essere…- imitò alla perfezione la sua voce -…un gran tiratore.- tornò a parlare con la sua solita voce –Hai presente la soddisfazione di far breccia sull’arroganza altrui? E non ti dico le scenate che fa quando scopre di aver fatto meno punti degli altri…-
Si sdraiò di nuovo sul mio letto, mettendosi su un fianco, ridendo.
Io risi con lui, immaginandomi la scena.
Aveva distolto il suo sguardo dal mio: sapevo che stava osservando la foto di Gabriele sul mio comodino, sopra il diario.
Anche lui mi avrebbe chiesto informazioni su di lui, o almeno, era quello che temevo.
-Dimmi…- dissi, facendo nuovamente in modo che mi guardasse –Tu fai sempre così, quando hai di fronte una ragazza brutta?-
Tom apparve confuso.
-Così come?-
Alludevo al mio braccio. Infatti glielo indicai.
-Perché? Ti ho fatto male?- domandò, alzandosi leggermente.
-No. E’ solo che… scommetto che non avresti fatto così, se fossi bella.- anch’io guardai la foto di Gabriele, incupendomi; se solo il suo aspetto non fosse stato come quello dei Kaulitz…! –Anche lui mi faceva spesso così, ma non ebbi mai il coraggio di dirglielo.-
Come al solito, mi ero tradita da sola: da che non volevo che Tom parlasse di Gabriele, ero finita io a parlare di lui.
Mi osservò con aria compatita. Si alzò dal letto, tornando seduto. Stranamente, mi cinse le spalle con un braccio. Il mio cuore vibrò di nuovo dall’emozione. Proprio vibrare, non battere. Non provavo più niente, ormai: le mie emozioni erano solo illusioni di emozioni, non erano vere.
-Scusa.- mi sussurrò; il suo alito rovente entrò nel mio orecchio –Non volevo farti del male. Volevo solo sembrare simpatico. E no, non faccio così con le ragazze brutte. E forse nemmeno lui lo faceva con questa intenzione.-
“Come fa a dirlo?” pensai, serrando le labbra, senza osservarlo “Non lo conosceva nemmeno!”
-A volte noi maschietti nascondiamo il nostro imbarazzo dietro questi… “gesti”, ecco. Ma non è per questione di antipatia: a volte lo facciamo perché non riusciamo a sopportare lo sguardo della persona che amiamo. Ma molto spesso non è la cosa giusta da fare: va a finire che l’altra persona si fa idee sbagliate di noi e pensa che gli stiamo antipatici e storia finita.-
“Sì, certo.” pensai “Ma scommetto che con Elena non lo faceva.”
Avevo visto come le parlava al diciottesimo compleanno, come la guardava. Non potei non provare rabbia al solo pensiero, o provare di nuovo la tentazione di dare fuoco ai capelli di Elena, o strapparle il cuore dal petto o ucciderla in tutti i modi in cui avevo sognato di farlo.
La odiavo. La odiavo tantissimo.
Forse intimorito dallo sguardo che avevo assunto, Tom abbandonò la presa su di me.
-Scusami di nuovo.- mormorò, mordendosi le labbra –Non dovevo dirlo… E… scusami anche per come ti ho parlato, quando ti ho incontrato.-
Sì… come dimenticare quel giorno, quel momento…?
-Se avessi saputo da subito la tua situazione, non mi sarei comportato in quel modo, scusami.-
Che dolce… Lui si fingeva duro, ma quel pomeriggio scoprii che anche in lui vi era dolcezza.
Io gli sorrisi lievemente, scacciando dalla mia testa i brutti pensieri assorti pochi istanti prima.
-Non importa.- mi limitai a rispondere. Non riuscii a guardarlo negli occhi: non era per il timore di rivedere Gabriele in lui, ma per evitare che riuscisse a leggere la mia rabbia e il mio odio, per evitare di essere compatita.
Non sarebbe stato da lui, consolare.
Guardai l’orologio, sgranando gli occhi.
Osservai Tom, allarmata.
-Tom, è meglio se te ne vai!- avvertii.
Lui inclinò la testa.
-Chiara potrebbe tornare da un momento all’altro.- spiegai, abbassando gradualmente la mia voce –Se ti vede qui sono guai!-
Anche lui percepì il rischio, infatti corse nel bagno, riprendendo la felpa dal termosifone per poi indossarla, e si diresse di nuovo alla finestra, che aprì. Stava ancora piovendo, fuori.
Senza dire una parola, uscì, ma non scese subito; volli salutarlo, almeno.
-Grazie di essere venuto.- ringraziai, sorridendo –Mi sono davvero divertita, anche se è durato poco.-
Anche lui ricambiò il sorriso.
-Anche io mi sono trovato bene. Mi dispiace non avere più modo di rifarlo. Forse domani, ti va?-
Riflettei un poco. Alla fine annuii.
-Perfetto. Allora ci rivediamo a cena?-
Annuii di nuovo.
Lui mi sorrise, senza mostrare i denti. Aveva un sorriso così dolce… involontariamente, mi avvicinai a lui, baciandolo sulla guancia.
Quel gesto sembrò averlo preso di sorpresa. Non lo biasimai: persino io mi stupii di me stessa.
Non so spiegare il motivo: avevo solo voglia di farlo, tutto qui.
Lui, però, sorrise lo stesso, toccandosi la guancia.
-Grazie.-
Tornò alla grondaia, scendendo verso il piano terra. Ci salutammo un’ultima volta, con la mano, prima che lui entrasse nell’edificio.
Mi sentivo come Raperonzolo e Tom era il principe salito sulla torre. Oppure eravamo come Romeo e Giulietta alla scena del balcone.
Sospirando, chiusi la finestra.
Avevo giocato a CoD con Tom Kaulitz.
Sul letto c’era ancora l’asciugamano con cui si era asciugato i capelli.
Lo presi e lo annusai: sapeva di lui. Sigaretta e acqua di colonia. Mi sdraiai, tenendomelo stretto: un vero tesoro che avrei conservato con gelosia.
Sentii bussare alla porta. Riconobbi i tocchi: Chiara.
Il sollievo quando sentii la chiave girare, aprendo la porta.
-Dani? Sono io.- entrò, con un asciugamano sulla testa; aveva una tuta da ginnastica, addosso –Cielo… dicono che la sauna faccia bene, a me ha fatto solo sclerare dal caldo e dal sudore. Non la farò mai più, giuro!- si diresse verso la sua camera, senza badare a me; o era quello che credevo –Cosa hai fatto, comunque?-
Io feci spallucce.
-Niente.- dovevo fingere di apparire malinconica e annoiata; non doveva sapere di Tom; o meglio, non ancora –Ho giocato e basta.-
Mi guardò con aria dispiaciuta. Si avvicinò a me e mi abbracciò: pregai non sentisse l’odore di Tom.
-Oh, tesoro, mi dispiace tanto. Non volevo chiuderti qui dentro, ma ora che stai iniziando a camminare di tua volontà sta diventando quasi rischioso lasciarti libera. Dopo quanto è successo due notti fa devo starti vicina, per il tuo bene, prendendo ogni precauzione necessaria. Lo capisci, vero?-
No, non lo avrei mai capito. Ero in grado di intendere e di volere, non ero una demente. Perché doveva starmi sempre addosso? Se temeva per l’albergo, era un altro discorso. Ma stava parlando di me.
Non dissi nulla, per evitare un’altra crisi.
Ma lei, in un modo o nell’altro, comprese.
Si staccò da me, stirandosi.
-Io vado a fare una doccia.- disse –Poi mi preparo per la cena. Ti conviene metterti qualcos’altro per stasera.-
Si aprì la porta che collegava la sua stanza alla mia, sparendo, poi, nella porta del bagno.
Sapevo cosa fare in quel breve lasso di tempo: presi il mio diario e vi scrissi sopra.
“Dopo la pioggia segue sempre il sole, però. E il sole in questione è alto, moro, tedesco e si chiama Tom Kaulitz. Come un principe delle fiabe, è salito fino alla mia stanza e insieme abbiamo giocato a “Call of Duty”. Ho sempre detto di essere stata più fan di Bill che di Tom, ma, dopo tutto questo… ora sono anche fan di Tom. Amerò sempre lo sguardo tragico e tenero di Bill, il suo volto puro e angelico, ma negli occhi di Tom… non so perché, ma ho percepito come una sensazione di calore, di dolcezza, di premura, che farebbe sciogliere persino una pietra…”
 
Bill’s P.o.V.
 
Quando bevo troppo o vado ripetutamente in bagno o dormo.
Quel giorno mi era capitata la seconda opzione.
E dormii anche alla grande. Tanto che quella notte non dormii proprio.
Non seppi per quanto tempo dormii o cosa sognai.
Sapevo solo che ero in pace con me stesso.
Fino a quando non sentii qualcosa premermi sulla gola: un oggetto affilato.
Un taglierino.
Il mio cuore sussultò e con esso i miei occhi.
Ero paralizzato. Non riuscivo a muovermi.
Riuscii solo a vedere chi avevo di fronte.
Il ragazzo uguale a me e Tom. Gabriele.
Mi stava fissando con aria minacciosa e con l’altra mano mi stringeva i capelli.
In quel momento, udii una melodia, nell’aria.
Una voce. La voce di Daniela intonare una canzone. Proprio come una sirena.
-Cosa hai intenzione di fare con lei?- mi domandò, freddo.
Io ero terrorizzato: non sapevo cosa fare.
Uscirono solo suoni strani dalla mia bocca.
-N-non so di chi stai parlando…!- balbettai, ansimando.
Il taglierino fece più pressione sulla mia gola.
-Vuoi portarmela via?-
-N-no…! Io…!-
Il suo volto si fece più vicino al mio.
-Nessuno avrà Daniela!- riprese Gabriele, strizzando gli occhi e mantenendo la presa salda sul taglierino –Se non l’ho avuta io, nessuno l’avrà!-
Senza aggiungere altro, passò rapido la lama sul mio collo, uccidendomi.
Mi svegliai di soprassalto appena in tempo, con il mio cuore che batteva a mille.
Misi una mano sul mio collo: integro.
La stanza era buia. C’ero solo io.
-Tomi?- chiamai.
Mi voltai verso il mio telefonino.
 
Sono a giocare alla Play con Daniela. Mi sono portato via la chiave.
 
Con tanto di emoticon della faccina che da i baci.
Ecco cosa mi aveva scritto Tom su WhatsApp.
-E’ andato da lei senza di me?!- esclamai, scioccato.
Sentivo la testa farmi male.
Quella melodia… era ancora nella mia testa. Era la stessa del sogno che Tom e io avevamo fatto la notte prima.
E quel ragazzo… Gabriele… era la seconda volta che lo sognavo.
“Come può una semplice foto sconvolgere così una persona…?” pensai, passandomi le mani sia sulla fronte che sui capelli; sì, tutto era iniziato da quando Tom e io avevamo visto la sua foto; che mi avesse sconvolto davvero così tanto? Perché lo avevo nuovamente sognato?
In quel momento, si aprì la porta della camera e la luce si accese, facendomi quasi accecare, distogliendomi dai miei pensieri.
-Ehi, il bello addormentato si è svegliato, finalmente!-
Ah, Tom.. sempre il solito…
I miei occhi, per fortuna, si stavano riabituando alla luce. Ebbi modo di vedere il mio fratellino, tutto fradicio.
Non nascondo che mi lasciò sorpreso. E lui sapeva che lo stavo pensando.
-Spero tu non l’abbia messa incinta…- dissi, osservandolo male, mentre lui si sdraiava sul letto, proprio accanto a me. Per fortuna non bagnò così tanto il cuscino –E perché sei così bagnato?-
-Vuoi davvero ridere?- rispose lui, sarcastico –La sua infermiera l’ha chiusa dentro.-
Anche questo mi scioccò.
-Come chiusa dentro?!-
-Per paura che si ripetesse quello che è accaduto due notti fa, solo senza sonnambulismo. Tutto con la classica scusa “E’ per il tuo bene!”.-
-Allora come sei entrato in camera sua?-
-Non ci arrivi? Da fuori. Non vedi che sono tutto bagnato?-
Mi raccontò delle partite di “Call of Duty” e di cosa hanno fatto in seguito, ovvero parlare.
Non l’aveva messa incinta. Per fortuna.
-Comunque, avevi ragione.- concluse -Daniela sa davvero di rosa.-
Come dimenticare quel profumo? La sua voce era nella mia testa, ma quel profumo di rosa era entrato nelle mie narici e vi aveva preso dimora.
-Sì, dispiacerà anche a me allontanarmi da lei. Poteva essere una valida partner per quando gioco alla Play. E’ meglio persino degli altri. Vedessi quanti “Headshot” ha fatto…-
Perché non poteva essere un “Heartshot”? Ma quando ci pensai, ebbi di nuovo un lieve senso di gelosia: che davvero anche Tom…? No, mi rifiutavo di crederlo.
-Bill, mi stai ascoltando?-
Caddi di nuovo dalle nuvole.
La testa mi faceva ancora male dallo champagne ed ero ancora scosso dal sogno che avevo fatto.
-Scusa…- biascicai, passandomi una mano sul volto. Poi la rimisi sulla gola, lo stesso punto dove Gabriele mi aveva ferito.
Lui si fece subito premuroso. Infatti, mi mise una mano sui capelli.
-Ehi, tutto bene?-
-Sono… ancora tramortito dal mio pisolino, ma sto bene.-
Sapeva che mentivo. Siamo gemelli, no? Ma sapeva anche che quando facevo così, non volevo parlare di cosa mi affliggesse. Forse glielo avrei detto in un altro momento.
Improvvisamente, lui schioccò le dita.
-Idea! Perché non chiamiamo Georg e Gustav?- propose, a voce alta.
Quell’idea era venuta all’improvviso, quasi senza motivo, prendendomi di sorpresa.
Effettivamente… non li avevamo contattati dal nostro arrivo alla SPA.
E nemmeno a farlo apposta, mi arrivò un messaggio di Georg.
 
Hey! Io e Gustav siamo in birreria! Voi come ve la passate?
 
Tom e io ci guardammo: pensammo la stessa cosa.
Lo chiamai. Anzi, videochiamai.
Non tardò a rispondere, per fortuna.
-Hey! Ciao, ragazzi!-
Avevano già in mano dei grossi boccali di birra; provai un po’ di invidia, forse anche Tom, avvertendo l’improvvisa voglia di bere birra.
-Ciao, Schorschi! Ciao, Juschtel!- salutammo. Ci dispiacque non averli chiamati per tutta la settimana. –Vergogna! Bere così di fronte a noi!-
-Perché? Senti la mancanza della birra?-
Georg dovette reputarsi fortunato se a dividerci in quel momento era uno schermo e diversi chilometri di distanza. Tom, infatti, ridacchiò.
Per fortuna, Gustav riprese le redini della situazione.
-Come va alla SPA? Vi trovate bene? Vi siete rilassati?-
-Questo e altro!- risposi, entusiasta –Non ci crederete, ma abbiamo incontrato una nostra fan!-
Entrambi si sorpresero. Per poco non si soffocavano con la birra.
-Ma dai!- esclamò Georg –Non vi ha dato fastidio, vero…?-
Fu Tom a rispondere.
-Se vi raccontiamo l’intera storia, non ci credereste.-
Ovviamente raccontammo loro di Daniela. Sui loro sguardi si poteva leggere la stessa espressione che avevamo noi, quando Chiara ci aveva raccontato della sua situazione.
-Povera cara…- commentò Gustav –Spero si rimetta presto. Diamine… brutto colpo perdere una persona DOPO aver assistito ad un nostro concerto.-
-Ma voi due avete fatto per caso qualcosa di particolare con lei…?-
Dio… quando Georg faceva quella faccia da furbo, avevo sempre una voglia così di prenderlo a schiaffi, con gli anelli.
-Abbiamo solo parlato, nuotato e lui ha appena giocato a “Call of Duty” con lei!- feci, subito. Che tipo… pensare a quel tipo di cose nei nostri confronti… Tuttavia, mi feci malinconico –Mi spiace che dopodomani ripartiamo. Avremmo tanto voluto conoscerla meglio.-
-E se le chiedeste di venire con noi per le ultime tappe del tour?- azzardò Georg, dicendolo come fosse una cosa ovvia, semplice.
Lo guardammo tutti allibiti.
-Eh?!- facemmo, all’unisono.
-Schorschi, hai bevuto di nuovo troppo, stai delirando.-
-Perché no, scusate?- si difese lui –Ho fatto solo un anno di Psicologia, ma comprendo che il suo caso di depressione non può essere curato solo da medicine. Ha bisogno di distrarsi, vedere cose nuove, cose che non le facciano ricordare Bologna o il ragazzo che ha perduto. E poi… cosa c’è di meglio della Russia, come luogo lontano?-
Non aveva tutti i torti. Fosse dipeso da me, avrei accettato all’istante. Ma Daniela avrebbe accettato? No, il vero problema era Chiara. Non eravamo sicuri se avrebbe accettato. O forse sì, se le avessimo detto che era per il bene di Daniela.
 
Chiara’s P.o.V.
 
“Domani sarà il mio penultimo giorno alla SPA, e penultimo giorno in cui starò con Bill e Tom. Da dopodomani ricomincerà la routine dell’ospedale psichiatrico. Ma almeno gli strizzacervelli avranno modo di ascoltare la mia voce e i miei pensieri, per una buona volta. Vorrei tanto che questa settimana non passasse mai. Ho ripreso a parlare, ho ripreso a mangiare grazie ai Kaulitz. Non trovo mai le parole giuste per dire loro quanto sia stata felice di averli incontrati, conosciuti, visto il loro lato “reale”. Il tempo trascorso insieme non è stato abbastanza. Il solo pensiero di non rivederli più mi riempie di tristezza, di un dolore ben più forte di quello che provavo prima. Avevo trovato finalmente qualcuno con cui passare del tempo, divertirmi, farmi di nuovo sentire viva, farmi di nuovo sorridere. Temo di tornare al mutismo e al digiuno. Forse questo è il mio destino, quello di essere eternamente infelice e sfortunata. Le piccole felicità che ho provato a fianco dei Kaulitz, forse, erano solo illusioni. Perché finisco sempre con illudermi di ottenere la felicità? Forse era meglio se Bill non mi avesse inseguita, quando ho avuto il mio attacco di sonnambulismo.”
A cena, Dani e i gemelli facevano a gara a chi fosse il più depresso. Le separazioni non sono facili da accettare. Dani aveva persino instaurato un buon legame con i suoi idoli. Nonostante tutto, erano bravi ragazzi. Si era distratta, allontanandosi da Bologna, un luogo che le faceva richiamare brutti ricordi, aveva incontrato gente nuova che l’aveva salvata più di una volta.
Il dottor S. sembrava aver letto i miei pensieri, dallo sguardo che assunse.
-Lo so, Chiara…- disse, infatti –Non possiamo farci niente. Non possiamo nemmeno chiedere un’altra settimana di permanenza.-
-Non cambierebbe nulla.- tagliai corto; la questione non era il luogo, ma le persone che Daniela aveva incontrato –Senza i Kaulitz, che senso avrebbe per lei restare qui un’altra settimana?-
Alberto fece spallucce.
-Il rovescio della medaglia di legarsi anche se non sentimentalmente ad un musicista. Metteranno sempre il loro dovere verso la musica che agli affetti personali…-
Delicato come al solito… avrei tanto voluto dargli un pugno su quei bei dentini.
-Daniela potrebbe davvero tornare al mutismo e al digiuno, se ritorniamo all’ospedale.- tagliai corto, reprimendo i sentimenti negativi verso Alberto.
-Sarebbe un vero peccato, dati i suoi precedenti progressi.- osservò il direttore, facendosi serio e mettendosi a riflettere.
Alberto non sapeva cosa dire, per fortuna.
-Dimmi una cosa, Chiara…- aggiunse il dottor S. –So che come domanda sembrerà un azzardo, ma… non è che quei due ragazzi sarebbero disposti a portarvi con loro?-
Inclinai la testa, confusa. In realtà, sapevo dove voleva arrivare. Sì, era un azzardo.
-C-come…?!- feci, infatti.
-Esattamente quello che ho detto. Voglio dire… dopotutto sono ancora dieci giorni fino alla fine del loro tour, e le ultime date sono in terra russa, in base a quello che ci hai detto, no? Potrebbero bastare per Daniela per distrarsi a sufficienza per riprendersi. Non dico del tutto, ma…-
-Dottor S., ma ne è davvero sicuro?- interruppe Alberto –E poi chi lo dice ai genitori? Già il padre ha protestato sull’iniziativa di portarla alla SPA, figurarsi cosa può dire su un viaggio in Russia… Non mi fraintenda, io sarei d’accordo sulla sua decisione, ma il signor Savoia…-
-Dottor Guerra, qui si sta parlando del bene di Daniela. A quella ragazza servono distrazioni, non medicine. Il signor Savoia deve imparare a comprenderlo. Se avrà da ridire qualcosa gli domanderemo se gli fa davvero piacere avere una figlia muta in casa. La risposta sarà altamente negativa.- tornò a parlare con me –Chiara, pensi di domandare a quei ragazzi se possono portarvi con voi?-
Cercai di non illudermi, ma annuii lo stesso. Se fosse andato tutto bene, Dani sarebbe stata la persona più felice del mondo. E io con lei.
Chiusi la chiamata, presi la chiave e uscii dalla mia stanza, in pigiama e ciabatte. Avevo già chiuso Daniela dentro la sua stanza, per precauzione.
Ricordavo bene il numero di stanza dei Kaulitz, infatti salii di un piano e bussai forte alla porta della loro stanza.
Era l’una di notte, ma non mi importava; era una questione importante.
Ad aprirmi fu Bill, completamente assonnato.
-Chiara…?- biascicò, dando l’impressione di mettermi a fuoco –Cosa fai qui? E’ tardi…-
-Devo parlare con te e tuo fratello, immediatamente.- tagliai corto –Posso entrare?-
Lui storse la bocca, come per dire “Se proprio devi…”, prima di farmi entrare.
Anche Tom si svegliò, lentamente. Mi dispiacque averli svegliati in quel modo, ma di fronte al dovere non mi fermavo davanti a nulla.
Porsi loro il diario di Daniela; sì, lo avevo portato con me.
-Ogni sera leggo il diario di Daniela ai suoi dottori dell’ospedale psichiatrico.- spiegai, appena seduta su una poltroncina della loro camera. Loro erano seduti sul loro letto. –E ho letto alcuni piccoli segreti che non mi ha detto…-
Li guardai con aria severa e loro impallidirono.
Sì, lessi della piccola visita di Tom nella sua camera e di come, a pranzo, i due gemelli le avessero offerto una forchettata dei loro spaghetti, nonostante il mio divieto. Temevo che mangiare subito roba complicata avesse nociuto a Dani, per questo l’avevo rimproverata quando ha preso alcuni dei miei fili di pasta all’amatriciana.
Bill stava per dire qualcosa, ma io lo fermai subito.
-No, in realtà sono felice che lo abbia fatto; vuol dire che sta ritornando normale. Da quando vi sta frequentando, anche se sono stati pochissimi giorni, Daniela ha mostrato segni di miglioramento, ha fatto in un giorno ciò che non ha fatto in una settimana all’ospedale psichiatrico. Ha parlato, sta riprendendo a mangiare, a sorridere, a vivere. Le avete cambiato la vita, ragazzi, l’avete salvata. Grazie.-
Bill e Tom si osservarono, quasi sorridendo.
-Ne siamo felici.- disse il primo, guardandomi.
-Tuttavia… temo che la separazione da voi la porterà di nuovo al mutismo e forse al suicidio.-
Entrambi si allarmarono.
-Come? Perché?- domandò Bill, preoccupato.
-A voi farebbe piacere essere privati di un oggetto o di una persona con cui vi sentite a vostro agio?-
I loro sguardi risposero per loro: a chi piacerebbe, in fondo?
-Daniela, come sapete… non è mai stata una ragazza fortunata. Teme che il tempo passato con voi sia stato solo un’illusione, se non proprio un sogno.-
-No, è tutto reale!- ribatté Bill.
-Noi sappiamo di aver passato del tempo con lei, perché non dovrebbe crederlo?- aggiunse Tom, dello stesso umore del fratello.
-Ragazzi, dovete considerare che lei ha subito un trauma e non è bastata questa settimana a farla distrarre. Se domani la riporto all'ospedale, temo che tutti i suoi progressi saranno vanificati e tornerà tutto come prima. Se così sarà, l'unica maniera estrema per aiutarla temo sarà... la lobotomia.- quella parola sembrò sconvolgere i due gemelli; forse nemmeno loro volevano quel destino per Daniela; arrivai al nocciolo della questione senza pensarci due volte –Però c'è un'altra soluzione, per evitare questa misura estrema. So che questa richiesta può sembrare assurda, ma… non è che… potreste portarci con voi, in Russia?-
I gemelli rimasero con il fiato sospeso. Forse avevo formulato la domanda in maniera troppo brusca, come mio solito.
Avrei dovuto arrivarci a gradi.
Entrambi accennarono una lieve risata.
-Buffo…- mormorò Tom –Prima di cena… ne abbiamo persino parlato con i nostri due amici… il nostro bassista è arrivato più o meno alla tua stessa conclusione. Mi domando se non sia per il fatto che entrambi abbiate studiato psicologia…-
Mi stupii di quella risposta: mi aspettavo un “no, non ce lo possiamo permettere.”. Ma quella non era la risposta definitiva.
-E voi cosa pensate?-
-Il problema più grosso eri tu, Chiara.- rispose Bill –Pensavamo che tu non fossi d’accordo a portare Daniela in un posto… ecco… TROPPO lontano da Bologna. Per tutta la sera ho cercato invano un modo per dirtelo, ma non ci sono riuscito. Pensavo di parlartene domani, ma… con questa rivelazione… mi hai colto di sorpresa.-
Rimasero entrambi in silenzio.
-Per noi non ci sono problemi a portarvi con noi.- decise Bill, con approvazione di Tom -Anzi, siamo felici di esservi d'aiuto.-
Tirai un sospiro di sollievo. Non vedevo l’ora di dirlo a Daniela. Avrebbe sfoggiato il sorriso più bello della storia.
-Tuttavia… non possiamo prenotare camere per voi. Spero non vi dispiaccia dormire nel Tour Bus. I letti non sono scomodi, anzi, ma…-
-Va benissimo.- lo interruppi.
-E soprattutto, se, per caso, volete partecipare a dei concerti o ai nostri After Shows…- aggiunse Bill –Dovremo procurarvi dei travestimenti, per non dare nell’occhio.-
-Tranquillo, non ce ne sarà bisogno. Daniela odia luoghi con troppe persone.- assicurai, alzandomi dalla poltrona. Anche loro si alzarono, per accompagnarmi alla porta; prima di uscire, li abbracciai, stupendoli entrambi –Grazie. Grazie ancora.- mormorai, felice per Dani.
Loro non sapevano cosa dire: come biasimarli? Avevano sempre visto il mio lato freddo e aggressivo.
Ma ricambiarono l’abbraccio con qualche leggera pacca sulla spalla.
-Figurati.- dissero all’unisono.
Ci demmo la buonanotte, prima che io entrassi di nuovo nella mia stanza, accendendo di nuovo Skype.
-Dottor S.? Hanno accettato!-

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Capitolo 9
*** (N) ***


Note dell'autrice: scusate se non aggiorno da un po', ma sapete... la vita reale... e l'università, e gli esami, e il contest di scrittura del forum cui sono iscritta...
Ok, a voi un nuovo capitolo. E ci sarà solo un "Point of View".

Riassunto dei capitoli precedenti: venuta a conoscenza della morte di una persona a cui teneva molto, Daniela Savoia cade nella depressione e nel mutismo forzato. Le medicine non sembrano aiutarla; la soluzione migliore risulta essere una vacanza in un centro benessere, nel tentativo di distrarla e farla rilassare. Ivi incontra i suoi due idoli, i gemelli Kaulitz, che più di una volta riveleranno di essere di grande aiuto per il recupero della ragazza, soprattutto quando, in un inaspettato attacco di sonnambulismo, riescono a salvarla da morte certa, cadendo da un precipizio. Quel gesto fa guadagnare loro la fiducia di Daniela, che ritorna a parlare, e anche della sua infermiera, Chiara. Fra i Kaulitz e la loro fan nasce da subito un rapporto di amicizia, ma la settimana di vacanza sta finendo e la ragazza ritorna nella sua malinconia. Chiara, preoccupata per la salute di Daniela, si confronta con i gemelli, chiedendo loro di portarle in Russia, dove i Tokio Hotel avrebbero tenuto le loro ultime date. I due ragazzi non ci pensano due volte ad accettare. Ma questo Daniela ancora non lo sa...


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Daniela’s P.o.V.
 
Agognare la morte… per raggiungere Gabriele…
Non era questo, in fondo, quello che Giorgia ha voluto trasmettere in “Gocce di memoria”?
Non era giusto. Non era giusto. Non era giusto che il destino fosse stato così crudele con me.
Perché farmi assaporare quei piccoli momenti di felicità, per poi rendermi consapevole che non sarebbero durati per sempre? Stavo tornando verso la mia depressione, forse più forte di prima.
Avevo di nuovo riassaporato la felicità, ma poi era svanita, come quando ero andata al concerto dei Tokio Hotel a Milano e Filippo mi aveva dato la notizia della morte d Gabriele.
Il mondo mi stava di nuovo crollando addosso. Che senso aveva, ora, vivere le mie giornate senza i Kaulitz?
Questo pensai, in lacrime, prima di addormentarmi, seppur per un’ora scarsa.
Sognai di essere in un cimitero, di fronte alla tomba di Gabriele. Piangevo, ovviamente, abbracciando quella pietra, così fredda a contatto con la mia pelle. Non mi sentivo più il cuore, ma percepivo che si stava di nuovo spezzando. Il nulla dentro il mio petto si stava nuovamente spezzando.
-Dimmi come posso fare… per raggiungerti adesso…- cantai, piangendo. Le mie lacrime bagnarono la sua foto, con il suo volto sereno, sorridente. Per fortuna era protetta dal vetro, altrimenti avrei rovinato quella bellissima immagine.
All’improvviso, vidi due ombre avvicinarsi a me.
-C’è un modo.-
Mi voltai, spaventata: Bill e Tom. Vestiti entrambi di nero.
Mi spinsero, facendomi cadere all’indietro: ad attendermi non era il ghiaino, ma una fossa profonda tre metri. Atterrai in una bara aperta. Non ebbi il coraggio di guardarmi intorno: ero paralizzata e tutto ciò che potevo fare era guardare in alto.
La bara si chiuse da sola: c’era una finestrella, da cui vidi cosa accadde subito dopo: Bill e Tom avevano delle pale in mano. Gettarono della terra su di me, sulla mia bara.
Io non potevo muovermi; li guardai con orrore: cosa stavano facendo…?
-Non è questo quello che vuoi?- disse Bill, freddo. Sì, potevo sentirlo come se fosse stato proprio di fronte a me. –Noi stiamo solo realizzando il tuo desiderio. Ora potrai raggiungere il ragazzo che ami e stare con lui per il resto della tua vita.-
-E in questo modo…- aggiunse Tom, freddo anche lui –Potrai lentamente accettare la morte, il tuo vero obiettivo.-
I Kaulitz… mi stavano… sotterrando… viva…?
La terra coprì completamente la bara. Si fece tutto buio. L’aria diveniva sempre più irrespirabile.
Non seppi come, ma potevo finalmente muovermi; mi guardai intorno, spaventata.
Ero dentro una bara.
Ero sepolta viva.
Misi le mani in avanti, toccando il legno freddo.
Sentii qualcosa muoversi alle mie spalle, facendomi quasi urlare. Due braccia mi circondarono il torace con delicatezza, uno sopra il petto e l’altro sul ventre.
-Ciao, Dani…-
Quella voce… quella voce grave… Lacrimai.
-Gabri…-
Non mi chiesi perché fosse lì, con me. Forse ero morta anch’io; avevo finalmente trovato il modo di raggiungerlo nell’aldilà.
-Sei qui…- mormorai, ancora piangendo.
-Sì, sono qui… ora e per sempre…- rispose lui, baciandomi la testa.
Improvvisamente, ebbi come l’impressione di non essere più sdraiata in una bara, ma di essere in piedi, in un luogo buio. Il mio corpo stava come emettendo una luce propria, anche quello di Gabriele. Non mi voltai, ma continuavo a sentire la sua voce.
-Dani…- fece, infatti, senza staccarsi da me –Perché vuoi morire?-
Stavo per rispondere “Per poter stare con te”, ma c’era molto altro dietro.
-Ogni volta che provo una piccola briciola di felicità, si dissolve subito nel nulla, come se non fosse mai esistita. Ogni volta che mi illudo di poter essere felice, succede sempre qualcosa che ribalta tutto. Il destino è sempre stato crudele con me e Dio mi sta condannando all’eterna infelicità! E’ successo con te, e ora anche con i Kaulitz! Non capisci? Io ho una maledizione addosso! La felicità mi è negata! Non posso continuare a vivere così! Ora comprendi perché voglio morire?-
Ripresi a piangere, singhiozzando a voce alta, mentre le calde braccia di Gabriele mi stringevano ancor più al suo petto.
-Anche io volevo morire.- mi sussurrò –Costantemente bullizzato, preso in giro, rifiutato da colei che credevo di amare… non mi rimaneva niente per cui valesse la pena vivere. Il mio desiderio è stato realizzato, ma non come volevo. Forse era destino che morissi in un modo così rapido. Ho evitato di soffrire. Dani, io sono morto, ma tu sei viva. Puoi ancora combattere contro questo tuo “destino” e conquistare la tua felicità. Oppure puoi rimanere qui, con me, in questa oscurità.-
Avevo sempre pensato ad una vita dopo la morte: tra la sofferenza a cui ero destinata nella vita e il tepore e la pace che stavo provando in quel momento, con il ragazzo cui ero innamorata, ero ben disposta a scegliere la seconda.
-Quando ero vivo, eri sempre lì per me. Come ho fatto a non aprire gli occhi e rendermi conto che provavi qualcosa per me? Sono stato uno sciocco.- sentii le sue labbra sfiorarmi l’orecchio –Non lasciarmi solo, Dani… Non voglio più stare da solo.-
No, non lo sarebbe stato. Sì, avrei accolto con fierezza la morte.
La mano di Gabriele mi toccò una guancia, per costringermi a guardare su.
Si stava piegando su di me, per baciarmi.
Un bacio mortale. La chiave per stare con lui, per sempre.
“Due cose belle ha il mondo: Amore e Morte.”
Leopardi aveva ragione. Io stavo per ottenerle entrambe.
Morire per raggiungere il mio amore.
Improvvisamente, una luce ci abbagliò entrambi.
Una luce forte, enorme, quasi accecante.
Sentii come una forza attirarmi verso di essa. Solo io, però, non Gabriele.
Non facemmo in tempo a prenderci le mani che io mi allontanai bruscamente da lui, piangendo.
Perché non potevamo stare insieme? Perché negarmi la morte?
Lo espressi in un urlo.
-GABRIIIII!!!-
Mi svegliai. Ero nella mia stanza da letto, nella SPA.
Non ero morta. Ancora una volta il destino era stato crudele con me.
Perché continuare a vivere? Dal giorno seguente sarei tornata a Bologna, nell’ospedale psichiatrico.
Notando dei miglioramenti in me, mi avrebbero riportato a casa, l’ultimo posto dove volevo stare.
Perché non potevo morire? Gabriele era morto e Bill e Tom avrebbero ripreso la loro vita.
Scrissi immediatamente sul diario ciò che avevo sognato quella notte e poi mi diressi alla finestra, per aprire la persiana.
Il sole era sorto. C’erano ancora delle nuvole, ma non quanto il giorno precedente.
Guardai in basso, facendomi triste, esattamente come i miei primi giorni all’ospedale psichiatrico.
Tornai ad essere vuota, malinconica. Stavo per tornare al mutismo.
Non potevo vivere in quel modo.
Davanti a me c’era l’unica via. Non sarebbero bastate le canzoni dei Tokio Hotel, per farmi sentire meglio.
Sì, ero pronta. Ero pronta per dire addio a questa vita infelice e tragica.
Stavo per scavalcare il muro, quando Chiara entrò nella mia stanza, sorridendo.
-Buongiorno, ca…- cambiò subito espressione, appena mi vide con un ginocchio sopra il muretto della finestra; ebbe una specie di sincope –Cosa stai facendo…?!-
Senza dire una parola, tornai con entrambi i piedi sul pavimento: era meglio evitare spiegazioni.
Era meglio non parlare proprio.
“Perché?!” mi domandai, trattenendo le lacrime; ero forse condannata a soffrire? Non potevo essere felice, nemmeno percorrere la via per la pace eterna. Perché stavo continuando a vivere? Gabriele era morto, dal giorno successivo non avrei più rivisto Bill e Tom…
Tirai su con il naso, tornando a sedere sul mio letto.
Forse feci preoccupare Chiara, ma lei sorrise di nuovo, eccitata; si mise di fronte a me, sedendosi sulle sue ginocchia.
-Ascolta, tesoro, ho una buona notizia per te.-
“Mi rimanderanno a casa?” pensai, pessimista, guardandola negli occhi.
-Ieri ho parlato con il direttore e il tuo psicologo. Abbiamo discusso sui tuoi progressi…- spiegò, serena in volto –E ne siamo fierissimi, davvero. Il modo in cui hai recuperato le tue vecchie abitudini è davvero sorprendente. E siamo tutti e tre convinti che sia stato a causa dei Kaulitz.-
“Hai detto cazzi…” pensai, storcendo la bocca.
-Sei stata benissimo con loro, vero?-
Annuii, quasi tornando a piangere. La feci inquietare con quel mio gesto. Temeva giustamente che fossi tornata muta. Non errava a pensarlo.
-Hai recuperato in fretta, ma sono passati troppi pochi giorni. Non è sufficiente per dichiararti guarita. Se ti riportiamo adesso in ospedale, il tuo recupero verrà vanificato. E restare qui un’altra settimana non è possibile.-
“E non sarebbe la stessa cosa senza Bill e Tom…” aggiunsi, nella mia mente.
-Quindi… beh… siamo giunti ad un’altra soluzione.- si fece silenziosa per pochi attimi –Ho parlato con Bill e Tom, stanotte…-
Mi illuminai, sollevando lo sguardo verso di lei.
-E vuoi sapere a cosa siamo arrivati? Ci porteranno con loro nelle ultime date del loro tour!-
Sentii il mio cuore gonfiarsi, quasi fino a scoppiare. Mi coprii la bocca con entrambe le mani.
Altre lacrime scesero sulle mie guance, ma non erano lacrime di tristezza: erano di gioia.
Di felicità.
Ecco la luce del mio sogno!
Ecco la mia occasione!
Abbracciai Chiara, singhiozzando e piangendo di felicità.
In Russia… con i Tokio Hotel! Se avessi avuto il potere di viaggiare nel tempo avrei detto alla me stessa di dieci anni prima che non solo avrei visto i Tokio Hotel dal vivo, ma sarei andata in tour con loro!
Non potevo crederci! Avrei trascorso altro tempo con Bill e Tom, lontanissima da Bologna!
Non potevo essere più felice! Quello fu il giorno più bello della mia vita.
Forse la felicità che stavo provando fu troppo forte, perché ebbi un lieve mancamento e la testa iniziò a girarmi.
Il passaggio da depressa a felice era stato troppo brusco. Meno male che le esperienze di quei giorni mi avevano un po’ stabilizzata, altrimenti avrei rischiato un collasso forse fatale.
Ma ero felice, felicissima.
-Grazie…!- dissi, parlando di nuovo.
La ringraziai per aver parlato con Bill e Tom, per avermi fermata dal mio intento di suicidio.
Lei mi toccò i capelli, accarezzandoli.
-C’è in gioco il tuo bene, Dani.- mi disse –A te serve distrarti. L’ospedale è d’accordo, ovviamente a patto che continui a sorvegliarti.-
-A me va benissimo.-
-E un’altra cosa… Bill e Tom hanno detto che forse non ce la fanno a prenotare delle stanze d’albergo per noi. Spero non ti dispiaccia dormire nel Tour Bus. Hanno detto che è comodo, però…-
-A me va benissimo.-
Potevo dormire anche sul pavimento o sulla strada; mi bastava stare con Bill e Tom per farmi sentire felice.
Mi avevano nuovamente salvata. Erano i miei eroi. Come potevo sdebitarmi?
-Andiamo a festeggiare con una buona colazione?- propose Chiara, sorridendo.
La risposta era scontata: sì.
Trovammo Bill e Tom già ai loro tavoli.
Sorridevano anche loro. Mi illusi fosse per causa mia. No, era meglio pensare che fossero felici di riprendere il loro tour.
-Buongiorno!- salutò Bill, appena ci vide accompagnandolo con l’apposito gesto della mano.
-Ehi, che sorriso stamattina!- notò Tom, vedendomi.
Avevo preso dei cereali con il latte, quella mattina. Dovevo ancora abituarmi al cibo, non potevo permettermi di abbondare. Non ancora, almeno.
I piatti dei miei compagni di tavolo erano pieni, ovviamente.
-Allora, Daniela?- domandò Bill, appena presi posto accanto a lui. Aveva un sorriso dolcissimo, il sorriso più bello del mondo –Sei contenta?-
Sarebbe stato riduttivo dire che ero contenta. No, ero proprio felice.
Per evitare di dare spettacolo, mi trattenni dall’abbracciare sia Bill che Tom, con la consapevolezza di pentirmene. Ma quanto avrei voluto farlo…
-Tantissimo.- mi limitai a rispondere, con tono timido.
Chiara non disse nulla, ma sorrideva anche lei, mentre mangiava.
Tom batté le mani una volta.
-Si ritorna in piscina, dopo colazione? O hai degli impegni anche oggi, Daniela?-
Essendo l’ultimo giorno alla SPA, e visto che ero tornata “normale”, quel giorno ero esonerata da massaggi, bagni e trattamenti. Ero libera.
Beh, tutto tranne da una cosa.
-Effettivamente… un impegno lo avrei…- risposi, lievemente in imbarazzo –Ma verso le dieci vedrò di raggiungervi in piscina.-
I gemelli, anche Chiara, mi guardarono confusi.
Dovevo essere perfetta per loro, se volevo tornare in piscina; e, visto che eravamo in un centro benessere… mi feci fare la ceretta. Dappertutto.
Era da più di tre settimane che non mi depilavo; avevo certi peli lunghi che mancava poco ci inciampassi.
Il giorno precedente facevo il possibile per restare in acqua e nuotare a rana, per non far vedere loro i peli sotto le ascelle.
Anche gli altri giorni in cui ero con il costume, cercavo di tenere le braccia aderenti al corpo per il medesimo motivo.
Fu un sollievo vedermi finalmente senza peli.
Ora sì che potevo nuotare con i gemelli Kaulitz. A stile, anche a dorso.
Ero più veloce persino di Tom, anche se di poco. Anzi, quel giorno scoprii che entrambi avevano il fiatone se facevano anche solo due bracciate. Ma ci divertimmo ugualmente.
E poi, senza peli, riuscivo a sentire meglio l’acqua sulla mia pelle. Una sensazione bella e rilassante.
A pranzo non mangiai molto, come a colazione. E poi come potevo avere appetito, visto che la felicità e l’eccitazione di passare altri dieci giorni con i miei idoli avevano riempito ogni singolo centimetro del mio corpo?
Ad un certo punto, Tom aveva smesso di mangiare; si voltò verso Chiara, schiarendosi la voce.
-Senti, Chiara, volevo chiederti una cosa…- non appariva intimorito, sembrava abbastanza sicuro di sé; mi guardò per un attimo, con aria di rimprovero –Visto che QUALCUNO ha fatto la spia su quello che abbiamo fatto ieri…-
Ebbene sì: ero venuta a conoscenza da loro che Chiara li aveva informati di quello che avevo scritto nel diario. In piscina mi avevano anche leggermente rimproverato per questo. Io avevo risposto che non potevo mentire o non sarei mai “guarita”. Non potevo certo mentire ai medici, no? Più volte, però, ebbi la tentazione di scrivere, mentendo, che ogni giorno stavo sempre peggio… tutto, pur non rimandarmi a casa. Ma la mia dannata coscienza mi imponeva sempre il contrario. Che seccatura essere onesti…
Sperai lo avessero capito. Sperai che quello di Tom fosse sarcasmo.
-…volevo chiederti se potevo avere il permesso di giocare di nuovo con Daniela alla Playstation, oggi pomeriggio.-
Chiara lo stava osservando con aria strana, come se avesse avuto di fronte il più grande idiota dell’universo.
Poi osservò me, seria, prima di osservare di nuovo Tom.
Alla fine sospirò.
-Va bene, te lo concedo.- decise; anche Bill sembrò tirare un sospiro di sollievo –Così non sarò costretta a chiuderla dentro. So che siete bravi ragazzi, e, francamente, mi sento più tranquilla col pensiero di Dani in compagnia vostra che da sola. Ma solo per un’ora, massimo due. Dobbiamo anche prepararci per la cena di stasera, ricordate?-
-Sì, è vero!- si ricordò Bill, sorridendo –E’ da quando sono qui che non bramo che una buona pizza…!-
Tom scosse la testa, divertito.
-Non fate caso a lui.- ci disse –Quando viene in Italia il suo primo pensiero è la pizza. E il mio è la stracciatella.-
Come biasimarli? Da quando avevo recuperato l’appetito, i miei primi pensieri furono proprio la pizza e il gelato, i miei cibi preferiti in assoluto.
Ma la frase di Chiara mi fece riflettere: evidentemente, quello che stavo per fare stamattina l’aveva messa in allarme. Non potei biasimarla. In compagnia dei Kaulitz non avrei potuto certo fare gesti simili.
Tom mi raggiunse in camera mia subito dopo pranzo. C’era anche Bill con lui.
-Che fate? Mi lasciate solo?- aveva domandato –Non posso nemmeno andare in piscina, si sta rannuvolando…-
Quel pomeriggio, infatti, il cielo era di nuovo diventato scuro, come il giorno precedente.
Se qualcuno chiede, no, non mi dispiacque per nulla la presenza di Bill, anzi.
Quel giorno non avevo voglia di CoD. Nella Playstation 4 misi un altro CD, che destò la curiosità dei gemelli.
Insegnai a Tom come giocare a Kingdom Hearts, il mio videogioco preferito in assoluto. La meravigliosa unione tra la Square Enix e la Disney.
Anche ai Kaulitz piaceva la Disney: tutti e tre, in fondo, eravamo cresciuti con i loro cartoni. Come poteva non piacerci?
-Quindi per attaccare devo solo pigiare “X”?-
-Sì, continua senza fermarti, Tom!-
Non fu difficile insegnargli le basi. Demmo il joystick anche a Bill, ad un certo punto. All’assalto degli Heartless e alla battaglia contro il Darkside sia nella Stazione del Risveglio che nelle Isole del Destino aveva fatto il tifoso o il commissario tecnico.
Entrambi rimasero stupiti dagli elementi Disney ivi presenti, specie vedere Paperino mago e Pippo combattere con uno scudo. Anche dalle piattaforme stile rosone gotico delle principesse Disney.
-Oh, accidenti! Sono già le quattro!- esclamò Bill, controllando il telefono; era morto per l’ennesima volta contro Cerbero, del mondo di Hercules.
Avevamo sforato di un’ora del limite massimo concesso da Chiara. Sì, Kingdom Hearts era piaciuto pure a loro.
-Mensch, il tempo è passato veloce.- notò Tom, un po’ dispiaciuto –Bel gioco, comunque. Lo porterai con te, vero? Anche noi abbiamo la Play 4. Però dobbiamo ricominciare tutto da capo, accidenti! Ci ho messo una vita a sconfiggere quel boss del mondo di Tarzan…-
Lo Stegogecko, sì. Ma mai tosto quanto Cerbero, garantito.
Entrambi si alzarono, stirandosi la schiena.
-Beh, noi torniamo in camera nostra.- disse Bill –Ti lasciamo preparare in pace per stasera.-
-Che tradotto vuol dire che LUI comincerà subito a prepararsi.- lo derise il gemello –E’ peggio di una donna.-
Bill gli mostrò la lingua. Dopodiché, parlò con me.
-Io non sono appassionato di videogiochi, ma ammetto che Kingdom Hearts mi è piaciuto molto. E poi combatti con Paperino e Pippo, vai nei mondi Disney…-
-E, se vi può interessare…- tagliai corto –Nel 2 vanno anche nelle Terre del Branco.-
I loro occhi si illuminarono. Da fan quale ero, sapevo che avevano un debole per “Il Re Leone”.
-E PERCHE’ NON CE L’HAI DETTO SUBITO?!- esclamarono, all’unisono, scattando verso di me –Allora la prossima volta giocheremo al 2!-
Risi, divertita dalla loro reazione. Sì, forse sarebbe diventato anche il loro videogioco preferito. Dovevano, però, tenersi pronti alla trama complicata…
-Allora vi bussiamo verso le 19:30.- disse infine Bill, prima di uscire dalla mia camera, seguito da Tom.
-Ciao.-
Rimasi sola. Per qualche minuto. Mi sdraiai sul letto, con il sorriso sulle labbra: dal giorno seguente sarei andata in Russia con i Tokio Hotel! Ero ancora eccitata.
Cambiai espressione, quando mi voltai verso la foto di Gabriele: ebbi come una strana sensazione, come se, per qualche istante, mi fossi completamente dimenticata di lui.
Per tutto il tempo in cui i Kaulitz erano con me, non avevo pensato a lui. Non lo avevo pensato. Mi sentii quasi in colpa. Non volevo dimenticarlo. Non volevo subisse la sorte delle persone defunte: l’oblio.
Non me lo sarei mai perdonato.
Presi il mio diario e vi scrissi sopra.
 
Ho passato l’intera giornata con i Kaulitz, la mattina in piscina e il pomeriggio in camera mia. Li ho introdotti a Kingdom Hearts e sembra che sia piaciuto. Domani partirò con loro per la Russia, per dieci giorni! Sono davvero molto, molto felice. Essere lontana da Bologna, ecco cosa mi rende felice. Non voglio più tornare a casa. Voglio fare il possibile per rimanere nell’ospedale il più a lungo possibile, dovessi anche morirci. No, voglio restare con Bill e Tom. Loro mi hanno fatta sentire viva, mi hanno donato la luce che mi mancava, che mi è sfuggita con la morte di Gabriele. Più sto con loro, più lo dimentico. Non voglio dimenticarmi di Gabriele, non voglio dimenticare il monsone di sentimenti che provavo per lui, non voglio dimenticare i brevi momenti che ho passato con lui, non voglio dimenticare il suo volto. Assomigliava molto a Bill e Tom, in loro rivedo lui. Sto forse impazzendo, invece di guarire?
 
Era quello che mi domandavo spesso. Bill e Tom avevano davvero una piccola somiglianza con Gabriele o era la mia mente a volerlo? Magari in realtà non c’era niente in loro che ricordasse lui.
Sì, forse era tutto frutto del mio lutto e della mia malinconia, della mia intenzione a non voler accettare che lui fosse morto.
In quel momento, entrò Chiara. Aveva passato tutto il pomeriggio a farsi cure di bellezza: maschere, bagni, persino la ceretta, come avevo fatto io quella mattina. Anche lei teneva a fare una bella impressione ai Kaulitz.
-Ciao, cara. Tutto bene?-
Chiusi il diario, storcendo la bocca. Non disse niente sulla mia reazione, consapevole che avrebbe scoperto tutto leggendo il mio diario, quella sera.
-Meglio cominciare a prepararsi per stasera.- disse –Vai pure a lavarti, mentre io ti scelgo degli abiti adatti.-
Abiti adatti. Una parola. C’erano solo camicioni e pantaloni da persona anziana lì dentro. Cercare un qualcosa di decente per una cena era come trovare un ago in un pagliaio.
Ma su una cosa Chiara aveva ragione: sul lavarmi. Era da quella mattina che non mi lavavo, non mi ero neppure fatta la doccia dopo la piscina.
Entrai in bagno, mi spogliai, mi riempii la vasca versandovi del bagnoschiuma alla rosa, il mio preferito, e restai a mollo per quasi un’ora. Mi rilassai, svuotai la mia mente, smisi di pensare a qualunque cosa, a Gabriele, a Elena, ai miei genitori, all’ospedale, a Bologna, a Bill e Tom, a tutto. Tra i vapori al profumo di rosa, ero in pace con me stessa.
L’acqua calda fu un sollievo per la mia malinconia.
Quando uscii dalla vasca mi sentivo come rinata e pronta per godermi l’ultima serata con i Kaulitz, in Italia.
Dal giorno seguente non li avrei più visti spesso, ma a me bastava solo essere lontana da Bologna e vederli anche solo una volta al giorno.
Sentii bussare.
-Cara? Hai finito? Ti ho scelto l’abito per stasera e non asciugarti i capelli, te li asciugo io. Posso entrare?-
La lasciai entrare. In quel momento, avevo indosso solo la biancheria intima, l’unico cambio che mi ero portata in bagno.
Vidi inorridita quello che Chiara aveva scelto per me: una maglia rosa a fiori a maniche corte lunga abbastanza da poter essere un vestito, ma larga quanto i camicioni. Mi avrebbe resa ancora più grassa di quanto non lo fossi già.
-Dai, vestiti.-
Non mi sentivo nella condizione di protestare. No, in realtà lo feci, ma Chiara mi convinse a indossare quell’orrore a fiori.
Sì, mi rendeva decisamente più grassa.
Tuttavia, Chiara aveva qualcos’altro sul braccio, una sciarpa leggera bianca o una cosa simile, che mi legò al punto vita, lasciando cadere le estremità sulla gamba sinistra. Beh, qualunque cosa fosse, era un miglioramento. La pancia non fu del tutto nascosta, ma non si può avere tutto nella vita. Ah, e ai piedi indossai le ballerine grigie.
Come succedeva all’ospedale, Chiara mi asciugò i capelli. Ma prima ancora aveva strappato dei pezzetti di carta igienica, su cui aveva avvolto diverse ciocche dei miei capelli.
Sì, mi fece i boccoli.
Appena asciutti sembravo una bambola e non in senso positivo: quel vestito, quei capelli… come potevo presentarmi a Bill e Tom ridotta in quello stato?
Nel vano tentativo di farmi apparire più “decente”, i boccoli che mi cadevano sul volto vennero spostati dietro le orecchie da una passata nera. Fallimento totale.
Ma ormai era tardi, altrimenti mi sarei scomposta tutta la pettinatura, avrei scelto dall’armadio i primi stracci che mi sarebbero capitati agli occhi e sarei uscita come se niente fosse.
Anche Chiara si era lavata e vestita per la serata: dei semplici jeans con una maglia accollata. Per quanto riguarda i capelli… per la prima volta la vidi con la coda alta.
Faceva davvero la sua porca figura con la coda. Ebbi modo di vederle meglio il volto: aveva le mascelle leggermente quadrate. Avevo sempre creduto che il suo volto fosse ovale, come il mio.
Alle 19:30, come stabilito, Bill bussò alla porta.
Quando aprii loro la porta… Dio, perché certa gente è stupenda anche negli abiti semplici?
I Kaulitz si erano vestiti in maniera né elegante né casual; un giusto mezzo. Ma erano belli ugualmente.
Bill aveva dei pantaloni bianchi che lasciavano le caviglie scoperte, dei mocassini neri ai piedi e una camicia aperta sul davanti, con il tatuaggio in bella mostra, mentre Tom era in jeans, maglietta, converse e giubbottino di pelle. Ovviamente, i suoi capelli erano raccolti in un codino basso.
-Wow… Dani…- fece Bill, appena mi vide –Sei davvero carina, stasera…-
-Sì, sembri una bambola di porcellana…- aggiunse Tom.
Lo avevano sicuramente detto per farmi piacere. Si vedeva palesemente che ero un orrore; me lo dicevo anche da sola.
Meno male Chiara non aveva nulla per truccarmi, altrimenti sarei stata ancora più orrenda.
Prendemmo la sua macchina per andare in pizzeria. Io ero seduta accanto a lei, mentre Bill e Tom si erano seduti dietro.
Arrivammo puntuali, per le 20:15 precise.
-Buonasera, avevamo prenotato a nome “Kaulitz”.- disse Bill al primo cameriere che incrociammo.
C’erano molti clienti nella sala, ma nessuno in grado di riconoscere i gemelli. Per loro fortuna non avevano più la notorietà di un tempo, così da non chiedere di concederci l’intero locale per noi per timore di essere riconosciuti e “molestati” da eventuali fans. Ci saremmo goduti la nostra serata.
Chiara ed io facemmo per sederci, ma Bill e Tom ci fermarono: spostarono le nostre sedie all’indietro per farci sedere più facilmente, come due gentiluomini. Che dolci, vero?
Quando ci diedero il menù, io sapevo subito cosa volevo.
-Prendo una margherita.-
Nella mia condizione non potevo permettermi pizze complicate.
-Ma, se possibile…- aggiunse Chiara –Potreste farla più piccola delle dimensioni che fate? La metà, intendo…-
-Nessun problema.-
Non si prese il disturbo di essere messa al corrente delle mie sventure.
-Comunque… per me una capricciosa.-
Anche i Kaulitz fecero la loro scelta.
-Margherita.- dissero insieme, a loro insaputa. Infatti risero, divertiti.
Ah, fu proprio una bella serata: parlammo per tutto il tempo, come facevamo al ristorante della SPA.
E poi… dopo tanto tempo avevo mangiato di nuovo la pizza. Quanto mi era mancata! La pasta non era alta e la mozzarella filava, come piaceva a me.
E la tentazione di prendere il dessert era forte, specie perché fra le scelte c’erano anche le coppe gelato. Chiara mi aveva concesso di prenderne una piccola, a patto che la dividessi con lei.
I gemelli, per fortuna, proposero una controfferta: prendere una coppa un po’ più grande e dividerla tra noi.
Chiara non amava il gelato, quindi la coppa la divisi con Bill e Tom. L’idea faceva uno strano effetto, nonostante fossi ormai abituata alla loro presenza.
Bill e Tom… per tutta la sera non feci altro che osservarli, ammirando la loro bellezza, i loro volti, le loro labbra… il sogno di ogni fan era divenire compagne della loro vita. Il pensiero aveva attraversato anche la mia mente, ma che speranza potevo avere? Loro erano due angeli, io un cumulo di spazzatura.
Meritavano molto di più.
Ritornammo alla SPA alle 23:00. Per il giorno seguente, la sveglia era prevista per le 06:00.
Chiara aveva già preparato le nostre valige.
-Pronta per il gran giorno?- mi domandò Chiara, prima di entrare nella sua stanza. Avevamo già dato la buonanotte ai Kaulitz.
Io annuii, con un grande sorriso sulle labbra.
-Buonanotte, cara.-
-Buonanotte.-
Come potevo dormire? Ero così eccitata! Gli unici viaggi all’estero che avevo fatto erano stati uno in Germania e l’altro in Gran Bretagna, al liceo. Ma mai così lontano come in Russia.
Mi sedetti sul letto, prendendo di nuovo il mio diario.
Scrissi solo questa frase.
 
Voglio stare con Bill e Tom il più a lungo possibile.
 
Quella frase concluse il diario. Avevo finito le pagine. Scrivere i miei pensieri e le mie emozioni era divenuta ormai un’abitudine, una parte di me. Sarebbe stato arduo farne a meno per qualche giorno. Magari, il giorno seguente, avrei preso un altro quadernino, in aeroporto.
Sì, volevo stare con Bill e Tom il più a lungo possibile. Bill mi aveva restituito la parola e l’appetito e Tom il piacere di giocare ai videogiochi in compagnia. Mi domandai quali altri miracoli avrebbero potuto fare ancora per me, i miei due angeli.
Osservai la foto di Gabriele per un’ultima volta. Poi la presi e la misi dentro il diario, prima di posizionarlo davanti alla porta che collegava la mia stanza a quella di Chiara.
Poi mi misi sotto le coperte, dopo aver letto un altro capitolo di Jane Eyre, quello della fuga della protagonista da Thornfield; non so dire se mi addormentai o meno. Non ricordo nulla di ciò che sognai quella notte. Forse non avevo sognato proprio.
Alle 06:00 in punto, Chiara mi svegliò.
Bill e Tom ci stavano attendendo nella hall, circondati di valige. All’uscita c’erano due mezzi: uno era dell’ospedale psichiatrico. No, non per riportarmi lì, ma per riportare alla mia stanza alcune delle mie cose, come alcuni libri e la Playstation 4, per esempio. Tanto i Tokio Hotel avevano la loro nel Tour Bus, mi era stato detto…
Con me portai alcuni videogiochi,  “Jane Eyre”, il lettore CD con gli album dei Tokio Hotel e il computer, consapevole che da quel giorno fino al 29 sarebbero stati pochi i giorni con me di fronte ad uno schermo.
L’altro mezzo era un taxi che avrebbe portato i Kaulitz, me e Chiara all’aeroporto.
La Ford sarebbe tornata all’ospedale: lasciarla nel parcheggio dell’aeroporto non sembrava sicuro, per Chiara.
Diedi al tassista la mia valigia, prima di prendere posto sui sedili posteriori, accanto a Bill, che si era seduto in mezzo. Inutile dire che dall’altra parte c’era Tom.
Quando il motore della macchina si accese, io sorrisi; una nuova avventura mi stava aspettando.

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