The Stranger

di None to Blame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giorno -8 ***
Capitolo 2: *** Giorno 1 ***
Capitolo 3: *** Giorno 3, 4 ***



Capitolo 1
*** Giorno -8 ***




 
You may never understand
how the stranger is inspired,
but he isn’t always evil
and he is not always wrong.
Though you drown in good intentions
you will never quench the fire,
you’ll give in to your desire
when the stranger comes along.
 
Billy Joel, “The Stranger”
 
 
 


 
 
 
 
Giorno -8




 
Francamente, l’appartamento cade a pezzi. Macchie di muffa compongono strani disegni sul soffitto, crepe profonde solcano le pareti e mancano molte assi dal parquet. Il mobilio promesso dall’annuncio è vecchio e marcio, ma il ripiano cottura funziona, l’acqua calda arriva – dopo un paio di minuti – e lo scarico non dà problemi. Non ho ancora fatto il mio ventesimo passo su questo pavimento e già so che ci vorranno mesi di lavoro e valanghe di soldi che non abbiamo per rimetterlo in sesto. Mia madre si concede un attimo di cedimento, ma subito raddrizza la schiena e rivolge un sorriso smagliante all’agente immobiliare.

«Credo che faccia al caso nostro. »

Quindi sarà questa la mia nuova casa. Lancio un’occhiata ai vetri crepati delle finestre tenuti insieme dal nastro adesivo. Sento un improvviso nodo alla gola ma lo mando giù con decisione. L’agente immobiliare – Phil? Bill? – sta mostrando a mia madre alcuni punti del contratto.
« Quando possiamo trasferirci? » gli chiedo, infilando i pollici nelle tasche dei jeans. « Sei emozionata, piccolina, eh? » ridacchia. Neanche per sogno, vorrei dirgli. Devo solo prepararmi, abituarmi all’idea. Mi risponde che dopo la firma possiamo venire qui immediatamente, e non so se è una buona notizia oppure no.

« Voglio essere onesto con te, Maria » continua, rivolgendosi a mia madre « la casa è funzionale, ma ci vuole pazienza- »

« Ne ho da vendere. »

« Le finestre sono sfondate. I condotti del gas sono da rifare completamente. Il riscaldamento- »

« Siamo in California. Ci servirà a poco il riscaldamento. »

« Vorrei solo che ripensassi alla semi-indipendente sulla Lincoln Avenue. »

« Ceeerto, dici ai proprietari di abbassare di trentamila dollari! »

L’agente apre bocca per protestare ancora, ma mia madre gli mette una mano sulla spalla: « Phil, quello che ti ho offerto è il mio massimo tetto di spesa. Stiamo cercando un posto da più di un mese, mi hai mostrato dodici case diverse che sfondavano di brutto il budget. Il proprietario di questo appartamento è arrivato a chiedermi la metà della somma. È un bel quartiere, la scuola si raggiunge a piedi, c’è un supermercato qui di fronte, l’ufficio è a quattro fermate d’autobus e il condominio è tranquillo. Non m’importa quanto tempo ci vorrà. Mi sta bene questa sistemazione. »

Questo discorsetto convince l’agente, che annuisce e le porge i documenti, ma io conosco mia madre, so che lei è spaventata quanto me e più disperata. Forse spera che la casa le dia qualche preoccupazione, in modo da non doversi fermare a pensare. Non abbiamo mai lasciato l’Oregon. Lei ha trovato una casa sette chilometri più a sud rispetto alla villetta dei suoi genitori e non ci siamo mai allontanate da lì, neanche per una vacanza. Mio padre è quello che viaggia, e sono convinta che sia questo il motivo per cui si è infilato nelle mutande di tutte le stagiste che si è ritrovato fra le mani: l’atmosfera provinciale che trovava a casa gli faceva venire voglia di avventure più sfrenate. Con l’ultima avventura ha esagerato e così mia madre ha scoperto che non si trattava solo di sesso: aveva una relazione stabile con una delle sue ex segretarie, dalla quale ha avuto una figlia cinque anni fa.
Tecnicamente, io non dovrei sapere niente di tutto ciò. Me l’hanno tenuto nascosto motivando la separazione con qualche bugia ben organizzata. Ma mia zia Nina sa che ne ho diciassette di anni, non undici, e quindi mi ha comprato un gelato, si è seduta davanti a me e mi ha raccontato tutto.
Il giorno dopo, ho preso a pugni la mia migliore amica. Dopo una settimana, mia madre mi annuncia che ha intenzione di trasferirsi.

Ed ora siamo qui.
Un veloce tratto di penna ci separa dal rendere definitiva questa situazione. Mamma ha trovato un nuovo lavoro. Probabilmente compreremo una macchina. I bagni hanno lucide mattonelle verdi sulle pareti. La scuola ha corsi pomeridiani di teatro e ceramica.
Ho paura, ma mi adatterò. Ci adatteremo. 






 

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Capitolo 2
*** Giorno 1 ***




Giorno 1
 






Non sono riuscita a chiudere occhio. A quanto pare il minimarket sotto casa è aperto tutta la notte. Molto comodo, ma il neon dell’insegna mi ha tenuta sveglia fino alle due col suo rosso accecante. Ad un certo punto ho deciso di arrendermi, così mi sono tirata su e ho avviato Mulan dal portatile. Penso di non aver dormito per più di cinque minuti di fila. Lo specchio se n’è accorto e mi sta restituendo una versione spaventosa della mia faccia. Accenno un sorriso di prova, ma il riflesso non è lusinghiero. Tant’è, partivo svantaggiata comunque. Inforco gli occhiali e mi avvio in cucina facendomi largo nel dedalo di pacchi, buste e borse. Il frigorifero nuovo di zecca sembra fuori posto in questo macello. Prendo la bottiglia del latte e mi trascino al tavolo, su cui giace quasi per intero la spesa esagerata che abbiamo fatto ieri. Scavando un po’, trovo delle merendine alla crema. Apro il pacco e, approfittando dell’assente controllo materno, me ne posiziono davanti tre: in fondo, merito calorie e merito dolcezza. Ingollo l’ultimo boccone senza preoccuparmi di mettere a posto. Mi lavo e vesto in fretta, afferro lo zaino già pronto ed esco.

Prima di andare a dormire, mia madre mi ha fatto uno dei suoi discorsi d’incoraggiamento, del quale non ho ascoltato nemmeno una parola. So come funziona il liceo e so cosa mi aspetta. Sono una studentessa mediocre, ho un aspetto mediocre e una personalità mediocre.

Non punto all’eccellenza, io voglio solo stare tranquilla.
 


 

 




Il mio arrivo a scuola passa del tutto inosservato. Ho già tutte le informazioni che mi servono, capisco subito dov’è il mio armadietto e noto con piacere che l’aula di matematica – prima ora – è vicina. Mi illudo per qualche minuto che il sogno possa durare, ma la mia sbadataggine manda tutto in fumo: entrando in aula con lo sguardo basso, sono andata a sbattere contro qualcuno, il cui zaino è caduto a terra rovesciando il suo contenuto sul pavimento. L’incidente provoca ilarità generale, più per la mia vittima che per me. Imbarazzata, mi inginocchio ad aiutare il ragazzo senza rivolgergli né un’occhiata né una parola di scuse. Raccatto un borsello e delle fotocopie, ma non faccio in tempo a prendere il suo contenitore del pranzo, che viene invece raccolto da un altro ragazzo.

« Guardate qua! » esclama, esibendo la sgargiante scatoletta « Bugs Bunny? Sei alle elementari, chiattone? »

Finalmente sollevo lo sguardo sulla vittima, che sta ancora a terra, ignorando il bulletto e riponendo i libri nella borsa.

« Mi dispiace, » gli dico. Mi rivolge un’occhiata pietosa da dietro le lenti spesse, le sue guance sono paonazze. Scuote la testa.

« Non dici niente, lardoso? Parli con la tua fidanzatina? » poi si china al nostro livello e prende di mira me. « Sei la sua fidanzatina? Ti paga per dargliela? »

A questo punto mi alzo e, sapendo che sto firmando la mia condanna a morte sociale, guardo in faccia questo arrogante stronzetto. E resto a bocca aperta: è di una bellezza mozzafiato. Per un lunghissimo secondo mi dimentico tutto, il ragazzo a terra, la nuova scuola, il trasloco. Sono sola al mondo con questo Adone splendente, con le sue morbide ciocche brune e gli zigomi taglienti. Poi le sue labbra perfette si piegano in un ghigno malevolo e ripiombo con durezza nella realtà. Mi schiarisco la voce, scrollandomi le fantasie da dosso.

« Sei un arrogante coglione maleducato » gli sputo con stizza « e dovresti sfondarti di seghe più spesso così magari la smetti di fare lo stronzo frustrato. »

« Signorina! »

Cazzo.
Il professore.
Dev’essere entrato pochi istanti fa. Nessuno si è accorto di niente, siamo tutti sgomenti. L’uomo guarda me, poi il ragazzo a terra e infine l’arrogante stronzetto.

« Spiegatemi cosa- Anzi, no. Tutti e tre, in presidenza. Immediatamente! »

Grandioso.
 
 





 
Tutto sommato, poteva andarmi peggio. La preside, una donna robusta e giovanile, ci ha accolti nel suo studio interrogando ciascuno sull’accaduto. Ha promesso di non procedere duramente né su di me né su Wyatt Auburn, che ho scoperto essere il nome della vittima. Lui era mortificato al punto che ho preso io a raccontare l’incidente e il successivo accanimento dei compagni.

« … e in particolare di questo qui, » concludo, indicando l’arrogante stronzetto seduto alla mia destra. La donna rivolge all’imputato un’espressione severa.

« Ernie, è vero? Di nuovo? »

L’arrogante stronzetto – Ernie – si limita a scrollare le spalle e schioccare la lingua. La preside sospira. « Sarò costretta a chiamare tuo padre, » annuncia con tono pesante « e dirgli che il tuo comportamento influirà pesantemente sulla tua media. Se continui così potrei doverti sospendere. »

Ernie tira su col naso e abbassa lo sguardo, ma continua a non rispondere. La spavalderia è svanita: sembra improvvisamente spaventato e in quell’attimo provo una profonda pena per lui. Lei quindi scuote la testa.

« Tornate in classe, » ordina, facendo cenno a loro. Ernie spinge via la sedia ed esce in fretta, Wyatt ringrazia sommessamente la preside. Quando la porta si chiude, lei si gira verso di me.

« Signorina Norwood… Gianna, » dice « alla Western Whitehill non tolleriamo un simile linguaggio né una simile mancanza di rispetto. »

Annuisco piano, aspettando che continui. « Capisco il disagio che stai provando in questo periodo, tua madre mi ha messo al corrente di ogni cosa. Hai bisogno di parlarne, di metabolizzare la rabbia che provi, magari trasformarla in qualcosa di utile. » Mi osserva alla ricerca di una reazione, ma non gliene offro nessuna. Sto cercando di rendere il mio volto gelido come le dita delle mie mani.

« Una separazione è difficile da affrontare, » continua, senza mollare la presa « e in più devi anche gestire un trasloco. La lontananza da casa, la perdita di punti di riferimento, la ricerca di nuove familiarità… Io capisco, Gianna. Tuttavia, sfogarsi sui propri compagni di classe, che per giunta ancora non conosci, offenderli– »

« Stavo solo difendendo Wyatt, » mi scappa senza che lo volessi. Deglutisco per cancellare le mie parole, ma purtroppo è tardi: ho offerto terreno fertile alla preside.

« È un gesto altruista, » mi concede, usando un tono materno « in questa scuola affrontiamo una tenace lotta contro il bullismo, possibile solo grazie al contributo di molti studenti. Ti sei identificata con Wyatt? » chiede infine a bruciapelo.

Onestamente non so come rispondere. Detesto chiunque cerchi di psicanalizzarmi, ogni tipo d’introspezione, mi sento sempre più a disagio. Voglio andarmene. E così decido di mentire.

« Sì. »

Da lì in poi è facile. M’invento una serie di fesserie, borbottando di essere stata il bersaglio di ingegnose cattiverie da parte dei compagni di scuola. Lei inizia quindi a snocciolare una serie di consigli, mi dice di rivolgermi al professor Gilson, che è il consulente per questo genere di cose, e mi promette che a mia madre riferirà solo quanto accaduto in classe. Poi mi condanna a due settimane non negoziabili di punizione. Mi congeda con i migliori auguri e finalmente sono fuori.

Mancano cinque minuti alla fine della prima ora, non vale la pena entrare in aula. Tiro fuori l’orario: ho un’ora di matematica e poi due d’inglese, le aule si trovano entrambe al secondo piano. Ho paura di incrociare l’inserviente, ma al limite gli spiego la situazione. Capirà che si tratta di una faccenda eccezionale. Sospiro e rimetto a posto il foglio, pensando che stamattina mi sono svegliata con l’unico desiderio di far passare in fretta la giornata per poi rintanarmi in casa con Netflix ed un pacco extra large di patatine. Non avrò questa fortuna, purtroppo.
 
 
 
 
 






La mensa è sorprendentemente piccola per una scuola che ospita seicento studenti, il che procura evidenti problemi di sistemazione pranzo – e non solo alla sottoscritta. Nel mio vecchio liceo la divisione per gruppetti era la norma ma qui, non ho ancora capito se per l’elevata densità o per misure sociali a me sconosciute, sembra essere assente anche la più elementare forma gerarchica. Questo caos è destabilizzante. Ho giusto adocchiato un posticino solitario di fianco al distributore delle bibite quando Wyatt Auburn mi si para davanti. Non ci siamo rivolti una parola da stamattina, e lo stesso vale per Ernie. Ho riscosso un certo generale successo per qualche minuto, prima che i miei nuovi compagni di classe capissero che non ero affatto una reginetta brillante, e in seguito mi sono limitata a scambiare chiacchiere di circostanza e appunti con un paio di anonime ragazze.

« Ciao » saluto, sporgendomi oltre il capoccione del ragazzo per controllare il mio posto.

« Ti volevo ringraziare » dice d’un colpo, senza guardarmi. Io faccio un cenno liquidando la questione. Mi sposto di un paio di passi al lato, per aggirarlo. « Se vuoi, » continua lui « puoi sederti con noi. »

Lancio un’ultima, drammatica occhiata al mio posticino allettante mentre decido di accettare l’offerta, perché sarebbe molto scortese rifiutare e forse così potrei iniziare a fare conoscenza all’interno della classe. Wyatt sorride felice e mi scorta al tavolo, indicandomi una sedia libera fra un tipo dall’aria ubriaca e l’incarnazione di una volpe. Seguono le dovute presentazioni e precisazioni sul mio nome.

« Jenna? »

« Gianna. »

« Oh, Gina »

« Gianna. »

« Gee… Anna? »

« Eh, quasi. »

« Un nome davvero curioso! » esclama la ragazza-volpe. La guardo perplessa: « Tu ti chiami Tallulah ». Lei inclina la testa e stringe gli occhi, come se non capisse. Lascio perdere e indico i suoi capelli. « Che è successo? Hai fatto il bagno nella candeggina? »
Il ragazzo ubriaco ridacchia. T. solleva la sua treccia massiccia, metà rossa e metà bianco-verdastra: « Li ho decolorati qualche mese fa, mi ero stufata di questi capelli arancioni. Adesso sono ricresciuti. »
« Vuoi dirmi che hai avuto i capelli verdognoli per un certo periodo di tempo? Per scelta? » commento io, acidamente. Non riesco a fare a meno di trovare il tutto così frivolo e inconsistente. Ma alla fine non funzionano sempre così i primi incontri? Sorrisi e moine, devi saperti vendere. Per mia fortuna T. ha solo l’aspetto di una volpe, e quindi non coglie il mio cinismo, dandomi la possibilità di riscattarmi. « Sono sicura che ti starebbe bene qualsiasi colore » dico, imbarazzata. Lo penso davvero, ma non lo direi mai se non fosse necessario.

« Oh, ma grazie! Che ti ho detto? » tira una gomitata a Brandon, il ragazzo ubriaco « E’ una gentile! »

Brandon sospira annoiato e annuisce. Ho il terrificante sospetto che io e questo caso umano potremmo andare d’accordo. T. si sporge in avanti sul tavolo, come a volermi rivelare un segreto.

« Certe ragazze dicono in giro che sei un po’ una stronza e che te la tiri » mi confida. Io sollevo le spalle: « Magari hanno ragione. »

« Per niente! Non ti conoscono!

« Nemmeno tu. »

« Tu sei una che non sopporta i bulli. »

« Nessuno sopporta i bulli » le faccio notare. 

« Forse, ma nessuno vuole mai sporcarsi le mani » si indigna. « Tu sei finita in presidenza per difendere qualcuno che nemmeno conosci! La gente passa i guai per aver rotto una finestra o fumato in palestra, mica per cose così! »

Tallulah si sta infervorando al punto che ha alzato il tono di parecchi decibel, e quindi i tavoli vicini hanno interrotto le loro conversazioni per assistere alla filippica. Mi sta trasformando in una specie di paladina dei deboli. Sento decine di occhi fissi su di me, la pelle mi sta formicolando, la bottiglia si sta deformando nel mio pugno, sempre più rigido.

Scatto in piedi, fremendo per la rabbia. Mi chino sul tavolo.

« E’ il mio primo giorno. Lasciatemi stare. »

Credevo che avrei gridato, credevo che la sedia sarebbe caduta all’indietro concedendomi un po’ di teatralità, credevo che sarei uscita dalla mensa nel silenzio attonito degli astanti.

E, invece, dopo aver sibilato la mia protesta mi sono semplicemente seduta di nuovo, continuando il mio pranzo con gli occhi bassi.
 
 
 





Quando entro nell’appartamento mi accoglie un insolito profumo di cucinato. Mollo zaino e chiavi nel corridoio e mi affaccio in cucina. C’è mia madre ai fornelli che fischietta armeggiando con un cucchiaio di legno. Indossa ancora i vestiti da ufficio.

« Mamma? » sono cauta mentre mi avvicino. Da stamattina, il nostro unico contatto è stato un suo messaggio (“Mi ha telefonato la preside. Ne parliamo stasera.”). Lei si gira e mi sorride. Non si è nemmeno struccata. Si è limitata a raccogliere i capelli con un mio elastico – e non lo fa mai, non credevo neanche che sapesse come farsi una coda. Poggia il cucchiaio nel lavello e si pulisce le mani.

« Sto preparando la cena! Oggi ho finito presto e quindi mi sono messa a spacchettare. Indovina cosa ho trovato in uno degli scatoli? »

Aspetto che concluda la frase retorica, ma poi mi accorgo che vuole davvero che indovini.

« …della salsa scaduta? »

« Ma no! Dai, intanto, assaggia e dimmi com’è » prende un boccone di pane e lo intinge nel sugo, porgendomelo. È squisito. Sembra quasi…

« Hai trovato il ricettario della nonna! » esclamo. Lei batte le mani e tira fuori un’agenda marrone, tenendola fra le mani come una Bibbia.

« Dov’era finita? » chiedo, sfogliando delicatamente le pagine. La nonna ha iniziato a compilarla quando aveva quindici anni. È un compendio di ricette originali scritte di suo pugno e altre ritagliate da giornali o altri libri. È il suo lascito più prezioso. A parte, naturalmente, il pendente con la perla che mi ha già promesso.

« Dobbiamo telefonarle per dirglielo! »

« Prima finisco la bolognese, poi possiamo darle la buona notizia. »

Lei si rimette al lavoro mentre io leggo avidamente la ricetta del salame di cioccolato. Ho un discreto talento come cuoca e con questo Sacro Graal posso fare faville.

« Ne vogliamo parlare? » chiede d’un tratto, buttando le linguine nell’acqua bollente, « Abbiamo giusto nove minuti. »

Chiudo il diario di ricette. Non posso scamparmi la conversazione, ma lei capirà. « Non c’è niente da dire: ho mandato a fanculo un cretino che stava prendendo in giro un ragazzo. Se l’è meritato. »

« Non ho dubbi, ma il punto è un altro: hai picchiato Rachel, non rispondi più alle telefonate di tuo padre e adesso questo, per giunta in una nuova scuola. Sono preoccupata. »

« Non devi. »

« Sei arrabbiata. »

« Anche tu sei arrabbiata. »

Mi guarda. C’è un brevissimo momento in cui siamo entrambe deboli, senza veli. È incazzata, terrorizzata, insicura. Potrei far durare questa intimità e raggiungerla, dare una svolta al nostro rapporto, connettermi a lei; le mentirei promettendole un futuro luminoso, snocciolando frasi da cartolina sul cambiamento. Potremmo essere una famiglia, di nuovo.

Ma il momento passa.
Abbasso gli occhi, lei si strofina le mani sul grembiule. « Per quanto riesca capire quello che stai passando, non posso assolutamente passarci sopra. Ti comprendo ma non ti giustifico, Gianna. Una punizione è necessaria, perciò dopo cena mi consegnerai il tuo computer ed il cellulare. »

« Che cosa?! Come faccio senza telefono? » le grido. Lei è irremovibile. « Ti darò il mio buon vecchio Samsung senza connessione internet. »

« Ma le sim non saranno compatibili! Non posso usare un modello vecchio! »

« Allora lo dovrai usare con la scheda che c’è dentro. Prima di darmi il tuo telefono manda un messaggio con il numero temporaneo alla nonna, a tuo padre e a chi vuoi. »

Sbatto i pugni sul tavolo, ma mi trattengo dal protestare oltre quando lei mi lancia un’occhiata minacciosa. Afferro lo zaino che avevo abbandonato sul pavimento e corro in camera mia. « Fra due minuti è pronto! » mi ricorda mia madre. Chiudo la porta con violenza. Ho un terribile prurito sottopelle, devo lasciarlo uscire, devo sputarlo fuori. Mi butto sul letto e inizio a tirare pugni al cuscino, con rabbia crescente. Dopo i primi colpi non sono più padrona del mio braccio, che si muove da solo senza controllo. Ci vuole parecchio perché lo sforzo sciolga la tensione, ma quando accade mi sento finalmente svuotata. Sono rilassata.
Abbandono la testa sul cuscino martoriato, sfinita. Mentre mi concentro sul mio respiro – dentro e fuori, la regolarità mi tranquillizza – mi torna in mente il bulletto di oggi, Ernie. Deve avere un bel po’ di rabbia imbottigliata nelle sue vene per comportarsi così da stronzo. Chissà se anche con lui funzionerebbe il metodo del cuscino.





 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Giorno 3, 4 ***


Giorno 3
 
 
 
Brandon è uno skater. Non credevo esistessero davvero al di fuori delle pubblicità e dei programmi trash sugli sport estremi. Quando T. mi ha invitata ad uscire con loro perché “Brandon si esibisce al parco” pensavo più ad uno strimpellatore di motivetti indie con ai piedi un cappello pieno di spiccioli. E invece va su e giù per questa pedana da un quarto d’ora, insieme ad altri tre ragazzi, con uno skateboard lercio che una volta dev’essere stato verde. Sono talmente bravi che mi sento quasi a mio agio in questa situazione.

« È sorprendente! » esclamo, mentre Brandon salta e fa evoluzioni come se fosse senza peso. Wyatt mi sorride e T. applaude entusiasta. Sta guardando Brandon come io guardo il salame di cioccolato. Purtroppo Brandon ha iniziato a pattinare solo quando ha visto arrivare una bella biondina con l’aria da cheerleader, ed è chiaro che si sta esibendo per i suoi occhi. A guardarla bene potrebbe effettivamente essere una delle nostre cheerleader, ha un volto familiare.
Come d'abitudine, prendo il telefono dalla tasca per controllare Facebook, ma quando le mie mani si stringono intorno all’ingombrante pezzo di antiquariato che mia madre mi ha rifilato esalo un grugnito di frustrazione. Wyatt ridacchia. Lui trova divertentissima la punizione. T. invece crede che sia del tutto fuori luogo e che per quello che ho fatto meriterei una fornitura a vita di muffin al triplo cioccolato – e se non lo farà mia madre ci penserà lei stessa, portandomene uno da mangiare a pranzo ogni giorno finché lo riterrà necessario. Devo ammettere che questa è una delle cose migliori che mi sono capitate finora.
Mentre scavo fra i denti alla ricerca di qualche residuo di cioccolato, il cellulare dell’anteguerra squilla.


Chiamata in arrivo…

Papà


Clicco sul tastone rosso e lo schermo torna scuro. Traccio il profilo dell’apparecchio con il pollice riflettendo sulle mie possibili scelte per l’immediato futuro. Lentamente mi alzo e mi metto la borsa a tracolla.

« Non dirmi che te ne vai! » strilla T.

« Devo tornare a casa. »

Non ho scelta, le spiego. Le lamentele di T. mi fanno tentennare appena, ma poi rinsavisco e saluto definitivamente, facendo cenno da lontano anche a Brandon.

La folla intorno alla pista di pattinaggio è aumentata e riconosco vagamente le figure di persone che ho intravisto a scuola, ma è ancora troppo presto perché riesca a riconoscerli. Mi impegno a non incrociare lo sguardo di nessuno, tenendo la testa bassa e camminando a passo svelto. Mi stanno già aspettando. Non dovrei comunque metterci più di cinque minuti ad arrivare a casa. Non che abbia fretta, certo.
 
 
 
 
 
 

Mio padre mi ha regalato una borsa. Pelle morbida, viola chiaro, una stella di paillettes opalescenti che pende dalla cerniera. Mi ha accolta in casa – casa mia, casa nostra – con una gran risata divertita, quasi cattiva, si è lamentato del mio ritardo e della mia giacca (« Un po’ da maschio, non trovi? »), e subito mi ha rifilato un pacchetto mal incartato. « Non mi piace » gli ho detto una volta aperto. L’ho richiusa nella carta e gliel’ho restituita, ma lui non l’ha voluta. « Non fare la permalosa » è stata la sua risposta. Avrei potuto sbattergli il regalo in faccia. Sapevo che avrebbe sminuito le mie reazioni, che si sarebbe preso gioco del mio stato d’animo.
Crede che lo faccia apposta, che sia solo un capriccio da ragazzina.

« Gianna, vai nell’altra stanza, per favore » era poi intervenuta mia madre, impedendomi saggiamente di fare una scenata.

Ma io non sono diplomatica, perciò prima di chiudermi la porta alle spalle ho dovuto dire la mia.

« Perché la borsa non la dai a Katie? Scommetto che a lei piacerebbe. »

Ho visto la mia sorellastra solo nel paio di fotografie che mi ha mostrato zia Nina. Katherine. Una splendida bambolina bionda. In una foto aveva il volto ricoperto di marmellata e il sorriso più spensierato del mondo mentre tendeva la manina grassa verso la telecamera, reggendo una fetta di torta spappolata. Un’altra la ritraeva più piccola, che sbadigliava fra le braccia di mio padre, entrambi stanchi, beati e felici.
In nessuna delle nostre foto sorride in quel modo.

Mio padre ci ha sostituite. Si è costruito un’altra famiglia. Io non posso sostituirlo, non posso trovarmi un altro padre, ma ho tutto il diritto di eliminarlo dalla mia esistenza.

Non ho ancora acceso la luce e la camera è nel buio più assoluto – grazie alle mie nuovissime tende, il primo oggetto di arredamento che ho acquistato. Riesco a sentirli parlare, al di là della porta. Hanno toccato già gli argomenti più scottanti (avvocati, tribunale, la banca e, ovviamente, « Come fa Gianna a sapere di Katherine? »), e adesso è l’ora dei pettegolezzi. Mrs Whitehill, che abita di fronte al nostro vecchio appartamento, è stata informata dei motivi della separazione da chissà chi e sta spargendo la voce. È in corso una sorta di ostracismo nei confronti di mio padre – bene – e una donna gli ha urlato « Porco! » mentre era in auto. Mamma gli consiglia di trasferirsi. Lui ha già messo in vendita la casa. Con tono più basso parlano di come e quando comunicarmelo. Fatica sprecata: non ho più alcun interesse nei confronti della vecchia casa, della vecchia città, della vecchia vita. La vendessero pure, non m’importa.

« Ho incontrato Rachel con la madre » dice lui ad un certo punto.

Mi si gela il sangue nelle vene.

« Era solo un taglietto » spiega « le hanno messo un punto ma non pareva neanche necessario. Alla fine gliel’ha fatto il braccialetto di Gianna. »

Non un braccialetto, papà, era il mio orologio. L’orologio del nonno, un po’ rovinato, col cinturino tutto in metallo che ha strappato la pelle dal mento della mia migliore amica.

« Rachel è sempre stata una delicatina » commenta mia madre.

« In ogni caso, mi hanno raccontato alcune cose. »

« Cosa? »

« Cose che non mi sono piaciute. Ho deciso di mandare Gianna da uno psicoanalista. »

Sento distintamente mia madre sibilare un « Ma vaffanculo » in risposta.

« Ti prego, Maria, pensaci. Hai visto cosa sta diventando. Non ci si può più ragionare, ho paura che le stia succedendo qualcosa. Io voglio solo evitare che mia figlia venga su ancora più strana. »

Segue un rumore secco che non riesco a distinguere.

« Pensa all’altra tua figlia. Con Gianna me la vedo io. »

Non voglio più ascoltare.
Mi rialzo da terra a fatica pulendomi i jeans dalla segatura che ricopre i pavimenti da una settimana. Afferro il telefono e scorro in rubrica fino a trovare il numero di Rachel. Resto a fissare le lettere, mi rigiro il suo nome fra le labbra – Rachel, così familiare. Premo i pulsanti per una buona decina di minuti, cancellando e riscrivendo le stesse parole.
 

Mi dispiace. Non doveva andare così.
G.

 
Lo invio, un po’ intimorita. Non doveva davvero andare così.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
23.57
Cancella il mio numero e non farti MAI PIÙ sentire, altrimenti ti denuncio.
R.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Giorno 4
 

Ernie ha spaccato la faccia a qualcuno. Sto ancora cercando di vederci chiaro. Girano parecchie voci: la vittima è Simon, il ragazzino disabile del terzo anno che guida una Bentley rossa; la vittima non è Simon ma Vincent Carter, matricola figlio di un famoso avvocato o quel che è; la vittima è in realtà una ragazza; la vittima è ignota, ma è certo che ha la faccia ridotta male e ha il naso/mandibola/cranio rotto. Altra cosa certa: la lite è nata a causa di un parcheggio sbadato che ha strisciato la preziosissima automobile di Ernie. Il futuro di quest’ultimo è altrettanto certo, tutta la scuola scommette sulle settimane da scontare di sospensione.
Almeno ho scoperto il suo nome per intero – Ernest Jacob King.

Mi aspettavo che T. gioisse, e invece la trovo piuttosto indifferente alla notizia. « Prevedibile » il suo unico commento.

Le lezioni in questa scuola sono facili da seguire. Gli insegnanti del vecchio liceo erano bruschi, la loro preparazione mediocre, mentre il professor Grime, qui, è un concentrato di comicità. Non ho mai amato lo studio. Sono un tipo di persona che apprende in modi non convenzionali, perlopiù autonomamente, e trovo complicato seguire costantemente un programma. In ogni caso me la sono sempre cavata, tra alti e bassi.

Questa è fra le poche cose che la mia famiglia non può recriminarmi.

« …schifosa… »

Ho una media discreta.

« …una figlia strana… »

Passabile.

« …Rachel mi ha detto… »

Appena decente.
 
 
 
 


Parlano tutti di Ernie. E di Vincent Carter, la vittima confermata dai professori. T è ancora in silenzio. Per me è prematuro cercare di capirne il motivo solo sulla base di questi quattro giorni di conoscenza, perciò tocco piano il braccio di Wyatt indicandogli la sua amica. Lui scuote la testa. È Brandon a intervenire.

« T, che cavolo c’hai da stamattina? » le chiede. Lei sobbalza come se fosse stata punta e lo guarda spaventata, ma non risponde. « Allora? » rincara lui.

« C’entra Ernie? » ho fatto centro. Mi guarda quasi sofferente. Wyatt le prende la mano, rassicurandola. T sembra calmarsi, ingollando una sorsata di succo di mirtillo.

« Ho strisciato io la macchina. »

La reazione iniziale è di sgomento, poi Brandon inizia a ridere sguaiatamente attirando l’attenzione dei tavoli vicini. Quando finalmente tace chiedo a T. perché l’abbia fatto.

« È uno stronzo. »

« Ma tu vieni con l’autobus » le dice Wyatt.

« L’ho rigata con le chiavi. »

Sospirando, mi abbandono contro lo schienale della sedia. « Devi dirlo alla preside. O al tutor. A qualcuno. »

« Ma così quel pazzo le romperà i denti! » protesta Wyatt.

« Ha già sfogato la sua frustrazione sul naso di Vincent. È salva. »

« Non se ne parla proprio! Ernest è pericoloso! »

« È un ragazzino a cui non è stato insegnato l’autocontrollo. »

« Appunto, reagisce come vuole! Potrebbe arrivare a picchiare Tallulah! »

« Perché? »

La domanda non viene dal nostro gruppo. Mi giro e in piedi accanto al nostro tavolo c’è la ragazza di Ernie. Non l’avevo ancora vista così da vicino.

« Perché Ernie dovrebbe picchiarti? » dice rivolta a T, che è troppo intimorita ormai per rispondere. « Hai visto qualcosa? Stamattina? » incalza.

« Non sono affari tuoi » mi sento rispondere. Maledico quelle parole nel momento esatto in cui hanno lasciato la mia lingua. Tengo gli occhi bassi aspettando la sfuriata ma non succede niente. La ragazza si limita a fissarmi col sopracciglio inarcato e, forse mi sbaglio, c’è una leggera punta di divertimento nei suoi occhi.

« Gianna, giusto? La tizia nuova. »

Ora che mi sta guardando non riesco a smettere di fissarla. La folta capigliatura è tenuta su da un fermaglio, le ciocche ribelli danno alla sua testa la forma di un carciofo aperto.

« Loro sono incapaci di essere obiettivi » dice, indicando Wyatt, T e Brandon « ma tu sei appena arrivata, non hai ancora pregiudizi e quindi spero che tu sia in grado di ragionare. »

Quando parla i riccioli ballonzolano intorno al suo volto, come a enfatizzare le sue parole. È la ragazza più bella che abbia mai visto. Non mi sorprende che stia con il quarterback.

« Ti spiego una cosa semplice semplice: se Tallulah ha visto qualcosa di diverso dalla versione ufficiale dovrebbe immediatamente riferirlo alla preside… »

Wyatt è accigliato: « Ma– »

« …perché sia Vincent che Ernie » continua lei imperturbabile, senza staccare gli occhi da me « rischiano grosso, un bel po’ di soldi, il college e magari pure la fedina penale, per una stronzata come una strisciata su un’auto, e se lei sa qualcosa che può aiutarli deve parlare. Oppure lo faccio io. »

Sono leggermente stordita. Avrei reagito meglio ad una lite, invece lei è stata decisa senza essere aggressiva. Mi ha fregata. « Va bene » è l’unica risposta che riesco a tirar fuori. Sembra che le basti, così accenna un sorrisetto a me e lancia uno sguardo d’intesa a T; quindi torna al suo posto.

Wyatt inizia ad imprecare fra i denti, snocciolando un epiteto sessista dopo l’altro. Brandon ha abbracciato T, ma lei non sta piangendo. Sul viso coperto di lentiggini le si è dipinta un’espressione determinata.
So che si costituirà.

Vorrei rassicurarla e dirle che il gesto verrà apprezzato e che non le accadrà niente, perché è una studentessa modello ed una brava ragazza, vorrei dirle che la preside capirà e Ernie forse la perdonerà, ma dalla mia bocca non esce niente. Ho uno strano formicolio sottopelle che cammina verso la mia faccia, si infila nei polmoni.
La stanza e il mondo intero si stringono intorno al mio cuore.

Non riesco a muovermi. Non riesco a respirare.

Due minuti dopo – oppure una vita dopo – sento le dita ruvide di Brandon sul mio braccio. È a pochi centimetri dal mio volto, si è seduto accanto a me e mi scruta preoccupato.
Lancio un’occhiata agli altri due, che sono impegnati in una conversazione concitata e non si sono accorti di nulla.

« Bevi » mi porge il suo cartone del latte. Ringrazio e lo ingurgito tutto.

« Sto bene »

« Certo »

« Davvero »

Inarca un sopracciglio. Liquido i suoi dubbi con un gesto della mano, facendogli capire che non voglio parlarne e lui, seppur riluttante, mi accontenta.
 
 
 
 

T. è stata sospesa per due giorni. La preside le ha assicurato che la notizia del suo coinvolgimento non verrà diffusa, un piccolo privilegio guadagnato nel corso degli anni. Non possiamo però garantire che Ernie e Vincent tengano la bocca chiusa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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