Tutti i nostri demoni

di Micchan018
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bentornato in città ***
Capitolo 2: *** Il mattino dopo ***
Capitolo 3: *** Su un piatto d'argento ***
Capitolo 4: *** Dietro la maschera ***
Capitolo 5: *** Nuvole di fumo ***
Capitolo 6: *** Saliò el sol ***



Capitolo 1
*** Bentornato in città ***


Entrai nel bar e la prima cosa che percepii fu l'aria calda appesantita dalla cappa di fumo di sigarette e joint e dall'odore poco piacevole di decine e decine di persone stipate in uno spazio troppo piccolo per contenerle. Io e gli altri ragazzi cercammo di farci largo attraverso alla folla fino al bancone, dando gomitate e pestando piedi senza scusarci. Era un locale angusto e sovraffollato, un piccolo spaccio di ogni sorta di droga, ma era il nostro posto preferito. Imboscato, lontano da tutti, era quasi impossibile trovarlo se non sapevi esattamente dove fosse. Riuscimmo a raggiungere il bancone, dietro al quale un signore con una folta barba bianca e un vecchio cappello a tesa larga serviva drink ormai da quarant'anni.

 

«Ehi, Gandalf!» gridai, cercando di sovrastare il brusio assordante delle voci e il rimbombo della musica «non ti sei ancora stancato di servire da bere in questo postaccio?»

 

Il barista si voltò a guardarmi e mi rivolse un largo sorriso. «Guarda chi si vede, Manuel!» esclamò posando lo shaker di metallo e porgendomi una mano ossuta e raggrinzita «da dove sbuchi, si può sapere? Non ti vedo da anni!»

 

Strinsi la mano senza metterci troppa enfasi, ricambiando il sorriso con uno sghembo formato dalle due bottiglie di vino che avevo già bevuto a cena.

 

«Sono tornato ieri, stiamo festeggiando!» gridai, indicando il terzetto che mi accompagnava formato da mio fratello, la sua ragazza di turno e un nostro amico di infanzia.

 

«Sei stato in vacanza?» domandò il barista, distogliendo lo sguardo per tornare a preparare drink alla folla che si accalcava intorno al bancone sudicio.

 

«Sono stato in un'altra città per quattro anni, Alf!» lo informai ridendo.

 

«Davvero, è passato così tanto?»

 

«Stai invecchiando amico!» commentai ridendo di gusto.

 

Lui mi rivolse un'occhiata, sorridendo sotto la folta barba.

 

«Sì, ma ricordo ancora cosa bevi. Gin tonic e tancheri?»

 

Poggiai un gomito sul bancone, pentendomene subito dopo ricordando che la giacca che indossavo costava quasi più del mio affitto.

 

«Grande. Senza fretta, io aspetto. Per i miei amici, tre birre.»

 

Il vecchio barista preparò in fretta il mio drink e stappò tre birre per i ragazzi, che porsi loro prima di ricominciare a spintonare la gente per tornare all'esterno. Dentro si soffocava e fuori non faceva troppo caldo, quindi non aveva senso rimanere lì. Riuscimmo ad uscire e ci poggiammo contro una parete, tirando fuori una sigaretta a testa quasi all'unisono. Accesi la mia Marlboro e presi una lunga boccata di fumo, lasciando che grattasse contro la gola e prendesse a pugni i miei polmoni. Di qualcosa dovevo morire, e quello non mi sembrava un brutto modo.

 

«Emi, hai già trovato un lavoro?» chiese Giada, la ragazza che per tutta la sera era rimasta appiccicata a mio fratello come se avesse paura di perdersi. Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che non l'avrebbe più rivisto: era troppo appiccicosa, e lui troppo "cavallo selvaggio." E le piacevano troppo le chiacchiere stupide.

 

«No, ma inizierò a cercare domani stesso. Chi ha tempo non aspetti tempo, no?» risposi sorridendole. In realtà la stavo squadrando: non era male, bel viso occhi grandi e luminosi, alta, magra e belle tette. Non era all'altezza delle altre che William aveva avuto, ma forse poteva entrare nella top ten. A proposito, pensai, è il caso che me la trovi anche io una da top ten.

 

A Giulianova non avevo problemi a trovare donne, potevo tranquillamente permettermi di uscire ogni sera con una diversa. Non che fossi una persona poco seria, avevo avuto delle relazioni ma l'unica donna che avessi mai amato l'avevo già persa e per sempre, e ormai da parecchio tempo non trovavo di nessun interesse l'idea di impegnarmi.

 

Scolai l'ultimo goccio di gintonic e Will mi fece l'occhiolino. Sapevo esattamente cosa significava, così posai il bicchiere vuoto su un tavolino lì accanto passandomi la punta della lingua sulle labbra, poi lo seguii dentro al locale abbandonando Giada e Al a loro stessi.

 

Dovemmo nuovamente farci strada a suon di gomitate, ma questa volta per raggiungere il bagno, un buco ricavato nella parete ancora più sudicio del resto del locale. Nel momento in cui arrivammo davanti alla porta, eccola lì. La mia tipa da top ten. Uscì dalla toilette accompagnata da un'amica, e nonostante provenisse forse dal posto più sporco dell'intero pianeta sembrava scesa direttamente dal paradiso. Aveva dei lunghi capelli biondo scuro schiariti dal sole che le accarezzavano il fondoschiena, la pelle ambrata e il viso piccolo e perfetto, zigomi alti e naso alla francese, due labbra da fare uscire di testa e un corpo perfetto, con tutte le curve al posto giusto, avvolto in un tubino blu scuro e accompagnato da un paio di tacchi neri in fondo a due gambe scandalosamente lunghe. La cosa più spettacolare però erano i suoi occhi: erano gialli come ambra, talmente brillanti da sembrare fari. Uscì dalla piccola porta della toilette e mi rivolse a malapena uno sguardo di indifferenza totale, mentre io rimasi a guardarla con la bocca spalancata come un'idiota per poi seguirla con lo sguardo mentre sfilava via sparendo in mezzo alla folla. Mio fratello tentò di riportami alla realtà con una pacca sulla spalla.

 

«Manu lascia stare, che quella è un dieci e a te non ti si fila neanche nei sogni.»

 

Mi risvegliai e lo seguii dentro al bagno, chiudendo la porta alle mie spalle con due giri di chiave. Giusto per stare sicuri.

 

William frugò un po' nelle tasche, poi tirò fuori un piccolo involucro di pellicola trasparente dentro al quale c'era la coca che aveva comprato due ore prima da un "amico" che aveva incrociato al ristorante. Stando a quanto diceva, era di quella buona. Avremmo potuto condividerla con Giada e Al, ma semplicemente non volevamo. Era uno sfizio che ci concedevamo solo nelle serate speciali, e che condividevamo solo con la famiglia e le persone che lo meritavano. La storia di una notte e un amico che sentivo una volta l'anno non erano abbastanza per far parte del nostro piccolo droga club.

 

Will preparò due strisce generose sulla superficie di marmo accanto al lavandino, usando la tessera dell'università che finalmente aveva trovato un'applicazione utile nella sua vita, poi arrotolò una banconota da cinquanta e me la porse.

 

«Prima tu» disse sorridendomi «bentornato in città.»

 

Si fece da parte e io mi abbassai e tirai su lentamente, cercando di godermela. Mi rialzai di scatto e chiusi gli occhi per un istante, aspettandomi di sentire un retrogusto amaro in fondo alla gola che non arrivò. Era buona per davvero. Passai la banconota a Will e mi fermai per qualche istante davanti allo specchio. L'ultima volta che mi ero guardato in quello specchio ero più giovane di quattro anni, ne avevo sedici ed ero lì dentro per un motivo totalmente diverso. Il ragazzo che mi fissava ora era simile, ma per certi aspetti totalmente diverso. Aveva gli stessi occhi verdi e i capelli neri, lo stesso naso dritto e le labbra "da bocchinara", come le definiva mio fratello, ma il suo viso era più spigoloso, gli occhi più rossi e le occhiaie più profonde, e la barba che quattro anni prima non esisteva contornava il mento e le guance, perfettamente in ordine. Quattro anni prima ero un ragazzino, ora ero un uomo. Un bell'uomo, lo sapevo e non ne facevo segreto. La modestia è roba da deboli.

 

Mi strinsi nella mia giacca di pelle color antracite mentre Will ripuliva tutto, sistemandomi la camicia nera e i jeans.

 

«Ok, usciamo?» domandò mio fratello. Io annuii, e aprii la porta. Sembrava tutto diverso, ora. La musica sembrava migliore, le luci più forti, la gente più simpatica. Iniziavo a perdere la sensibilità ai denti, ma era una cosa che amavo. Mentre provavo a farmi strada per uscire nuovamente, la vidi. La mia tipa da dieci. Stava poggiata al bancone con le braccia incrociate, e dio quello era il lato B più bello che avessi mai visto. Rimasi nuovamente imbambolato a fissarla.

 

«Manu» mio fratello mi picchiettò sulla spalla «allora, ti muovi?»

 

Mi morsi un labbro, e decisi che non sarei tornato a casa senza scoprire cosa c'era sotto quel tubino.

 

«Vai tu Will, io ho ancora sete...»

 

Scivolai in mezzo alla gente fino a raggiungerla, e poggiai un braccio al bancone cercando di tirare fuori tutto il mio charme. Sapevo di averne a quintali. Avevo conquistato decine di donne, ormai ne avevo fatto un'arte.

 

«Ciao» dissi, mostrandole il mio sorriso migliore. Provocante ma rassicurante. Lei si voltò appena, fissandomi con quegli occhi incredibili e rischiando di farmi perdere la concentrazione.

 

Mi squadrò da testa a piedi. Con i tacchi era alta quasi come me.

 

«Ciao» mormorò muovendo appena le labbra, per poi tornare a fissare il barista. Capii immediatamente che era ora di fare la mia mossa.

 

«Ehi, Alf!» gridai «prepara due japan, uno per me e uno per la signorina qui!»

 

Lei scattò lo sguardo verso di me con gli occhi sgranati, e io le rivolsi nuovamente il mio sorriso da rimorchio.

 

«Non c'è di che.»

 

«Non mi piace il Japan» sibilò lei, distogliendo lo sguardo.

 

«Peccato...e cosa ti piace?»

 

«I tipi che si fanno i fatti loro.»

 

Questa è una difficile.

 

«Allora sono il tipo che fa per te. Piacere, Emanuele» dissi porgendole la mano. Lei la guardò con aria schifata, poi voltò nuovamente lo sguardo.

 

Alf, che fa sempre quello che gli viene chiesto, porse un bicchiere pieno fino all'orlo a me e uno alla tipa da dieci, che lo studiò per qualche istante prima di accettarlo.

 

«Ok, allora salute» dissi avvicinandole il bicchiere per brindare. Lei mi squadrò nuovamente, poi mi sorrise mostrando una fila di denti bianchi come perle. «Grazie mille, mi hai risparmiato mezz'ora di tempo» disse, poi se ne andò via scivolando come un serpente in mezzo alla folla. Rimasi di sasso. Non ero mai stato ignorato così da nessuna in vita mia, e mi ci volle qualche secondo per riprendermi. Presi il mio drink e tornai all'esterno, accendendo una sigarette nello stesso istante in cui misi piede fuori. Mio fratello stava limonando con Giada con una certa insistenza, e Al si era dileguato.

 

Mi appoggiai allo stipite della porta, sorseggiando il drink e guardandomi attorno. E la vidi nuovamente. Stava chiacchierando con un gruppo di amici, e beveva il Japan che le avevo offerto. E meno male che non ti piaceva, pensai. Scolai quello che rimaneva nel mio bicchiere, e fu una pessima idea perché mi andò immediatamente alla testa. Gettai il bicchiere di plastica, presi un lungo tiro dalla mia sigaretta, poi mi raddrizzai e andai a passo spedito verso di lei.

 

«Ehi, scusa» dissi forse a voce troppo alta. Lei si voltò a guardarmi e mi sorrise con aria maliziosa.

 

«Oh, hai portato un altro drink?» disse. Non riuscii a capire se stesse cercando di provocarmi, e la cosa mi mandò su di giri.

 

«No, è che sai» mi abbassai per riuscire a sussurrarle nell'orecchio «di solito, quando offro da bere a una ragazza mi piacerebbe almeno sapere come si chiama.»

 

La sentii ridacchiare, poi voltò il viso in modo da poter essere lei a sussurrarmi nell'orecchio.

 

«Forse non te ne sei accorto, ma sono con i miei amici.»

 

I suoi amici erano la banda di sfigati peggiore che avessi mai visto. Dopo appena un'occhiata li avevo già bocciati tutti, e tornai a guardarla sorridendole malizioso.

 

«Sì ma sai, non mi sembrano tipi molto interessanti.»

 

«E tu sei interessante?» replicò. Mi guardava sbattendo le ciglia scandalosamente lunghe, e non riuscii a non mordermi il labbro. Fortunatamente non mi conosceva, altrimenti avrebbe saputo che quello era un indicatore infallibile del fatto che ero eccitato, e non poco.

 

«Io sono molto interessante. E sai cos'altro lo è? Il tuo nome.»

 

Lei mi scrutò per qualche istante con un ghigno divertito in volto, poi mi fece cenno di avvicinarmi.

 

«Giulia» sussurrò talmente piano che faticai a sentirla.

 

«Ok Giulia, molto piacere. Rimani qui ad annoiarti, o vieni a divertirti un po' con me?»

 

Lei rise, poi fissò i suoi amici per qualche istante. Ci stava pensando.

 

«Chi mi dice che tu non sia un maniaco pervertito?» domandò.

 

«Non te lo dice nessuno, dovrai fidarti di me.»

 

Lei rimase immobile per qualche istante, poi si voltò e iniziò a camminare nella direzione opposta allontanandosi dal gruppo. Loro le urlarono dietro qualcosa che ignorò. Quando fummo abbastanza lontani, si fermò e aspettò che io mi avvicinassi.

 

«Allora, che facciamo?» domandai. Lei non disse una parola, semplicemente allungò una mano e la infilò nella tasca dei miei pantaloni. Per un secondo mi si fermarono i battiti, poi mi resi conto che aveva preso il mio cellulare. Armeggiò per qualche secondo, poi me lo porse e vidi che aveva aggiunto un contatto alla rubrica. "Sei stupido, ma carino", assieme a un numero di telefono. Senza dire un'altra sola parola, girò i tacchi e se ne andò via. Io rimasi lì con un sorriso trionfante in volto, e la prima cosa che feci fu cambiare il nome al contatto e scrivere "Giulia." Normalmente sarei tornato da lei e avrei insistito fino a convincerla a venire a casa con me, ma c'era qualcosa in quella tipa da dieci, in Giulia, che mi diceva di non farlo. Per quella sera, potevo anche arrangiarmi da solo.

 

«Ehi, Manu» esclamò Will con respiro affannato comparendo accanto a me «andiamo a casa a farci un ultimo bicchiere?»

 

Fissai Giulia ancora per qualche secondo, poi mi voltai verso mio fratello.

 

«Sì, andiamo.»

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Capitolo 2
*** Il mattino dopo ***


 

Mi svegliai sentendo il suono della sveglia, e allungai una mano cercando a tentoni il telefono che non voleva proprio stare zitto. Riuscii a spegnere la suoneria, e abbandonai il braccio sul letto, cercando la forza di alzarmi.

Fanculo, pensai, devo smetterla con questa merda.

Dopo parecchi minuti riuscii a girarmi a pancia insù, e ad aprire gli occhi cisposi. Rimasi immobile a fissare il soffitto immacolato, bianco come una collina innevata, in attesa che le mie sinapsi cominciassero a collaborare. Mi sentivo come se qualcuno stesse martellando a tutta forza all'interno della mia testa, e lo stomaco era ancora sottosopra per il troppo alcol ingerito la sera prima.

Mentre ero ancora troppo addormentata per rendermi conto di cosa stesse accadendo, sentii qualcuno bussare alla porta. Non ebbi neanche il tempo di invitare la persona ad entrare, che una ragazza con i capelli biondo fragola, tinti per metà di fucsia, comparve nella mia stanza.

«Iolanda...» biascicai con voce lagnosa, girandomi su un fianco e coprendomi gli occhi con un braccio.

«Buongiorno principessa!» esclamò la mia migliore amica, sedendosi sul letto senza essere stata minimamente invitata. Iole era una persona dinamica e solare, forse anche troppo per me. A volte mi chiedevo come facessimo a essere amiche da quasi dieci anni.

«Iole, che ore sono?» biascicai, alzandomi molto lentamente e mettendomi a sedere.

«Mezzogiorno e venti» cinguettò lei con aria contenta «dovremmo uscire. Sai, pranzo con gli altri...»

Sbuffai seccata. Non avevo nessuna voglia di uscire a pranzo con gli amici.

Iolanda mi scrutava con un'espressione a metà tra la comprensione e la pietà.

«Che c'è?» chiesi, cercando di non mostrarmi troppo infastidita. Iole fece spallucce.

«No, niente.»

«Ti conosco da dieci anni, conosco quella faccia. Sembra che tu stia guardando un cucciolotto abbandonato che vuoi adottare, e non mi piace.»

Lei rise, poi si sdraiò sul mio letto con lo sguardo rivolto verso il soffitto.

«Niente, è che mi chiedevo chi fosse quel ragazzo carino che ti ha avvicinato ieri sera.»

Eh? «Quale ragazzo carino?»

«Quello che ti ha offerto il japan» replicò Iole.

Cercai con tutte le forze di provare a capire di cosa diavolo stesse parlando, ma con scarsi risultati. Tutto quello che ricordavo della sera prima, erano una gran puzza di sudore e alcool a fiumi. Iole scoppiò a ridere. «E dai, non hai bevuto così tanto! Quello con gli occhi verdi e i capelli neri. Giacca di pelle, ben pettinato, si sentiva l'odore di fumo e testosterone da un chilometro.»

Ebbi un improvviso flash, ricordando il ragazzo fin troppo sicuro di sé che mi aveva avvicinata al bancone del bar e mi aveva offerto un drink, con una sfacciataggine che m'aveva colpita. Tentai di ricordarmi il nome, ma era una causa persa.

«Non ne ho idea, Iole» mormorai passandomi una mano tra i capelli pieni di nodi «immagino fosse uno che non vedeva una figa da un bel pezzo.»

Iolanda rise, alzandosi in piedi.

«Era carino però.»

«Iolanda» disse seccamente «no. Non ancora. E poi...chi lo vedrà più a quello?»

Lei mi sorrise con aria compassionevole, e io sentii una voglia irrefrenabile di prenderla a schiaffi. Non avrei saputo che fare senza di lei, ma a volte sapeva rimescolarmi il sangue come nessun'altra.

«Giulia, sei sicura di stare bene?»

Sospirai, distogliendo lo sguardo. Che domanda stupida. «No che non sto bene, Iole.Sono passati solo tre mesi..insomma, usciamo una sera e guarda come mi riduco. Non ricordo nemmeno il nome di quel tizio. Volevo dimenticare il nome di...di quello, non degli altri.»

Iolanda sorrise, con quella che voleva essere un'aria rassicurante.

«Tranquilla, passerà. Devi solo trovare qualcuno che sia meglio di lui.»

Alzai gli occhi al cielo, e cercai di cambiare discorso. «Tra quanto devo essere pronta?»

«Venti minuti! Ti consiglio di sbrigarti!»

Uscì dalla stanza, con i capelli biondi che dondolavano come un pendolo impazzito. Sapevo che avrei dovuto alzarmi, andare in bagno, farmi una doccia e rendermi presentabile, ma non ne avevo nessuna voglia. Non avevo più voglia di fare niente, da una settimana a quella parte. Era un miracolo che Iolanda fosse riuscita a convincermi a muovermi da casa, la sera prima.

Nel giro di tre mesi, la mia vita era cambiata totalmente. Sette giorni prima ero la giovane promessa sposa di un ragazzo fantastico, e ora ero una ragazza single, sola e triste che viveva a casa della propria migliore amica, in una città che le era totalmente estranea.

Se non fosse stato per Iolanda, non so che fine avrei fatto. Eravamo amiche dai tempi delle medie, fin da quando ci eravamo conosciute durante le prove del laboratorio teatrale. Ai tempi non aveva metà dei capelli rosa, ma era comunque stramba da fare paura. Non era pazza, solo...esaltata. Le piaceva chiunque, era sempre allegra, sembrava che nulla potesse scalfirla. La nostra amicizia era durata anche quando lei si era trasferita tre anni prima per frequentare l'università che aveva scelto, ed eravamo sempre rimaste in contatto. In fondo, è questo che significa essere amiche del cuore.

Così quando tre mesi prima, durante la peggiore vigilia di Pasqua che si possa ricordare, le avevo telefonato dicendole che avevo trovato il mio promesso sposo a letto con un'altra e che il matrimonio era saltato, lei non aveva esitato un attimo e mi aveva invitata a lasciare immediatamente Varese e a trasferirmi da lei. E così avevo fatto. Non sapevo cosa mi avesse convinto a piantare in asso lavoro, famiglia e amici e ad andare a vivere nella camera degli ospiti della mia migliore amica, ma non me ne ero pentita. Iolanda mi aveva offerto un tetto sulla testa e una spalla su cui piangere, e lei e Grace, la sua ragazza, erano state l'unico motivo per cui non ero completamente crollata sotto il peso della mia vita che andava a pezzi.

Quindi, mi dissi, il minimo che le devi è di renderti presentabile per questo pranzo.

Mi alzai di scatto dal letto e aprii l'armadio, in cerca di qualcosa da mettermi. Riuscii a trovare una maglietta bianca che sembrava abbastanza elegante e un paio di jeans a vita alta, li posai sul letto e andai in bagno a farmi una doccia.

Mi godetti il getto dell'acqua calda, mentre spazzava via ogni traccia della sbronza della sera prima, e cercai di togliere i nodi dai capelli con un quintale di balsamo. Avrei dovuto tagliarli, ma mi sembrava un crimine.

Tornai in camera mia avvolta in un accappatoio rosa, e mi sedetti sul letto. Stavo per prendere la crema idratante dal comodino, quando notai una lucetta di notifica lampeggiare sul mio Huawei. Iolanda è così impaziente da mandarmi anche i messaggi per dirmi di sbrigarmi? Pensai divertita.

Quando sbloccai lo schermo, però, mi accorsi che non era Iolanda a cercarmi. Avevo una chiamata persa da un numero che non era salvato in rubrica. Mi saltò il cuore in gola. Nonostante il lutto per la mia storia naufragata, avevo trovato la forza di passare gli ultimi tre mesi nella nuova città a cercare lavoro. Forse finalmente la mia ricerca aveva dato qualche frutto. Mi affrettai a richiamare, sperando con tutto il cuore che fosse qualcuno intenzionato ad offrirmi un lavoro. Mentre il cellulare squillava, il cuore mi martellava in petto come un martello pneumatico. Ci vollero circa dieci secondi, prima che una voce maschile interrompesse il beep del telefono.

«Giulia?»

Sentii il battito fermarsi. Oddio, è veramente un datore di lavoro. Era l'unica spiegazione razionale al fatto che conoscesse il mio nome.

«Ehm...sì, buongiorno...ho trovato una chiamata persa da questo numero» dissi, cercando di non balbettare e di suonare il più professionale possibile.

Dall'altra parte del telefono sentii una fragorosa risata. Rimasi spiazzata, domandandomi che razza di titolare fosse quello con cui ero al telefono.

«Caspita, sei sempre così formale da sobria?» domandò la voce.

Iniziai ad avere il sospetto che quella non fosse una telefonata di lavoro. «Posso sapere chi parla?» domandai.

«Emanuele il Magnifico, mia cara. Ritieniti fortunata, sono tante quelle che vorrebbero una mia telefonata, poche quelle che la ricevono.»

Emanuele? Non avevo la più pallida idea di chi fosse. «Scusa, ma credo di non sapere proprio chi tu sia.»

Le mie parole furono accolte da un breve silenzio, seguito da uno sbuffo di esasperazione. «Ti prego dimmi che ieri sera non hai bevuto così tanto da dimenticarti di me...» disse con voce lagnosa. Anche se ebbi la netta sensazione che fosse tutta una finzione.

«Per quanto mi dispiaccia darti una delusione, credo sia successo proprio questo.»

Lo sentii emettere un verso, qualcosa a metà fra una risata e un sospiro. «Quindi non ricordi nulla di un ragazzo incredibilmente figo che ti ha offerto il miglior Japan Ice Tea della tua vita?»

Mi sfuggì un grugnito. Il ragazzo del japan, ma certo. Avrei dovuto ascoltare di più Iolanda, quando parlava. «Io ricordo solo un ragazzo incredibilmente arrogante» replicai. Bugia, non ricordavo quasi nulla, ma che era arrogante me lo suggeriva la conversazione che stavamo avendo in quel preciso istante.

«Così mi ferisci, tesoro» mugolò lui, suonando sempre meno convincente. Io sbuffai seccata. Mi stava facendo perdere un'enormità di tempo.

«Ok...Emanuele, senti, immagino tu mi abbia chiamato per rimediare un appuntamento, ma ti dico subito che non ne ho nessuna voglia. Quindi ti ringrazio per l'interesse, ma ci salutiamo qui.»

Lo sentii ridacchiare, e per qualche motivo la cosa mi suscitò un fastidio incredibile.

«E va bene» disse «immagino che con te il mio fascino da cattivo ragazzo non funzioni. Ti chiedo scusa. Facciamo così...ciao, mi chiamo Emanuele, e tu sei stata la cosa più bella che abbia visto ieri sera, o in tutta la settimana. Per favore, possiamo metterci d'accordo per vederci ancora? Perchè mi hai davvero colpito.»

Mi sorpresi a ridere, ma ciononostante ero decisa a non retrocedere. «La risposta è sempre no» dissi cercando di suonare convincente.

«Posso sapere il perché?»

«Non c'è un perché, semplicemente non ne ho voglia.»

Ci fu un istante di silenzio, poi Emanuele sospirò. «E va bene. Chiedo scusa per il disturbo.»

«Tranquillo. Ti saluto.»

Chiusi la telefonata, senza lasciargli il tempo di replicare. Nonostante la sua arroganza, dovetti ammettere che quella telefonata mi aveva divertita. Senza dubbio era uno che con le ragazze ci sapeva fare, e forse, se non avessi visto il mio futuro matrimonio andare in pezzi appena tre mesi prima, ci sarei cascata anche io.

Abbandonai il cellulare sul letto e mi vestii, per poi uscire dal mio bunker e raggiungere Iolanda in soggiorno. Non mi sorpresi minimamente, quando la trovai intenta ad amoreggiare con Grace sul divano. Emisi un lieve colpo di tosse, e loro si allontanarono immediatamente e mi rivolsero due sorrisi a dir poco radiosi.

«Giulia!» esclamò Grace «stai benissimo! Come va oggi?»

Io mi sforzai di ricambiare il sorriso. «Tutto a posto, grazie.»

Grace, ovvero Graziella, era l'esatto opposto della sua ragazza. Capelli a caschetto castani, vestita all'ultimo grido, carattere calmo e tranquillo. Se non fossi stata fermamente convinta che l'abito non fa il monaco, sarei stata piuttosto sorpresa dal fatto che fosse lesbica. In fondo però, non è lo stile di una persona a decretarne l'orientamento sessuale.

Grace era una ragazza dolcissima, e da quando ero arrivata si era presa cura di me come se fossi stata la sua migliore amica e non quella della sua ragazza.

«Ok, direi che siamo tutte pronte!» esclamò Iole, saltando in piedi «andiamo?»

Prima che potessi rispondere, mi arrivò un messaggio sul cellulare. Era lo stesso numero di prima. Emanuele.

Aprii il messaggio, e vidi che mi aveva inviato un selfie, lui steso sul divano, con una didascalia che recitava "sicura di voler dire di no a questo faccino?"

Il ragazzo è testardo, poco ma sicuro.

Osservai il viso di Emanuele nella foto. Era senza dubbio un bel ragazzo, con gli occhi verdi e i capelli scuri e ribelli. Forse troppo bello, per una come me. Ero abituata ai ragazzi normali, e di quelli come lui, belli e sicuri di sé, non mi ero mai fidata. Ciononostante c'era qualcosa in lui che mi attraeva...non sapevo spiegare cosa, so soltanto che, senza rendermene conto, digitai un messaggio.

"Se fai il bravo, magari il no diventa un sì."

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Capitolo 3
*** Su un piatto d'argento ***


 

 

Un sorriso si allargò sul mio viso, mentre rileggevo soddisfatto il messaggio di Giulia. 
Non ero il tipo di ragazzo che si fermava al primo no, o al secondo, e neanche al terzo. Soprattutto quando qualcosa valeva la pena di essere conquistata...e lei ne valeva la pena. Quella mattina mi ero svegliato col pensiero fisso della ragazza stupenda che avevo incontrato la sera prima, e la breve conversazione che avevamo avuto non aveva fatto altro che rafforzare la mia voglia di conoscerla meglio. Qualsiasi altra ragazza si sarebbe sciolta nel giro di pochi istanti, ma lei no. Lei era diversa...e se la sera prima mi era sembrata piena di sé e arrogante, dopo quei pochi minuti al telefono avevo il sospetto che ci fosse qualcosa di molto diverso e molto più grande dietro quella facciata, e non vedevo l'ora di scoprire cosa.
Digitai un messaggio di risposta piuttosto semplice: e sentiamo, cosa intendi con "fare il bravo"?
«Buongiorno fratellone» esclamò William, irrompendo in salotto con addosso soltanto una canotta della Adidas e dei boxer neri. I capelli biondi lunghi fino alle spalle sembravano un ammasso di pagliericcio, e aveva occhiaie talmente profonde da sembrare fossati.
«Buongiorno, Will. Qualcosa mi dice che ti sei addormentato a malapena tre ore fa.»
Lui annuì appena, prendendo una tazza dalla credenza e versandoci il rimasuglio del caffè che avevo preparato appena sveglio. Prese un lungo sorso, per poi sputarlo nel lavandino.
«E' freddo» mugolò asciugandosi la bocca col dorso della mano.
«Cosa pretendevi? E' lì da due ore.»
Will fece una smorfia, poi si avvicinò sul divano ciondolano e ci si abbandonò sopra, evitando per un pelo di spezzarmi una gamba.
«Fa il bravo Manu, preparane dell'altro.»
«Mi sembrava che mamma avesse fatto le mani anche a te.»
Lui rispose con un gestaccio, e io mi alzai rassegnato. «Bel benvenuto di merda» borbottai, mentre vuotavo la moka nel lavandino e sciacquavo il filtro.
«Dov'è Giada?» domandai, frugando nella dispensa per cercare il caffè. 
«E io che ne so. Non mi interessa nemmeno, tanto se non se ne fosse andata da sola, l'avrei cacciata via io.»
Nascosi un sorriso. Esattamente come immaginavo. «Pensi di trovarti una donna fissa, prima o poi?»
Lo sentii ridacchiare. «E tu? L'ultima volta che hai avuto una relazione seria avevi sedici anni.»
«Io sto aspettando la ragazza dei miei sogni» risposi, senza troppa serietà.
«Mh...tipo la ragazza di ieri sera?»
Mi voltai di scatto, e vidi William che mi sorrideva sornione. Ricambiai il sorriso. «Intendi Giulia?»
«Ah, è così che si chiama.»
«Ci sto lavorando. E' una tipa difficile.»
«Sono le migliori.»
Quanto è vero, pensai tra me e me.
L'aria fu invasa dall'odore del caffè che saliva gorgogliando, e io afferrai la moka e riempii la tazza senza aspettare che salisse tutto, e la posai sul tavolino di fronte a mio fratello.
«Tieni, disgraziato.»
«Grazie. Ah, comunque, ti è arrivato un messaggio.»
Scattai verso il cellulare, mentre William se la rideva, e sbloccai lo schermo il più in fretta possibile.
«Cazzo» commentò mio fratello «non vedi proprio l'ora di scopartela questa Giulia, eh?»
«Sei un coglione.»
Non so...potresti cominciare dicendomi qualcosa di te. Intendo, qualcosa di diverso dal fatto che tutte le donne della città cadono ai tuoi piedi come mosche.
Mi morsi un labbro, sedendomi accanto a William che ormai aveva occhi soltanto per il suo caffè.
Dovevo giocarmela bene, molto bene. Potevo fare lo sbruffone, ma sapevo che non avrebbe funzionato, o il bravo ragazzo. Oppure, ancora meglio, una via di mezzo tra le due cose. 
Qualcosa di me...mi chiamo Emanuele Tersigni, ho ventidue anni, sono diplomato in meccanica, e vivo con quel coglione di mio fratello William. E sono incredibilmente sexy, ma questo lo sai già.
William si alzò dal divano, e si diresse verso la cucina. Abbandonò la tazza vuota nel lavandino, per poi poggiare le mani sul lavandino e rimanere fermo a fissarmi.
«Cosa c'è?» domandai, posando il cellulare accanto a me.
«Sai già come muoverti per il lavoro?»
Sbuffai, fingendomi seccato. «Mamma mia che palle, sono qui da un giorno e già pressi.»
Will sorrise, capendo che stavo scherzando. Sapeva benissimo quanto per me fosse importante trovarmi un buon lavoro, e che non avrei perso tempo.
«Per carità, mi chiedevo solo se volessi cercare come meccanico, o...»
«O come cosa? Fattorino.»
«Pensavo più a gigolò, in realtà. Hai la stoffa.»
Accolsi il suo commento spiritoso alzando gli occhi al cielo, e allungai le braccia incrociandole dietro la testa.
«Come mai questa preoccupazione improvvisa?»
Will fece spallucce, e si volto verso la credenza. «No, niente, solo che...» aprì un'anta e tirò fuori un piatto, posandolo su uno dei fornelli «se ti interessa, ho un amico che ha un posto libero nella sua autofficina.»
Accese la fiamma sotto al piatto, e si voltò verso di me con un sorriso. Inarcai un sopracciglio, scrutandolo con aria di diffidenza.
«Sai che non voglio aiuti, faccio da solo» tagliai corto «cosa stai facendo con quel piatto?»
Lui mi rivolse uno sguardo di innocenza totale che era quasi convincente. «Niente, mi preparo per il lavoro.»
«William...»
«Rilassati. Una pacca ogni tanto, che male vuoi che faccia.»
Cercai di mantenere la calma, mentre lui toglieva il piatto dal fuoco e tirava fuori la bustina della sera prima dall'orlo dei boxer.
«Faccio finta di crederti, ma se fai stronzate ti distruggo con le mie mani.»
Lui mi ignorò, abbassandosi sul piatto per tirare su la striscia che aveva preparato. Rialzò la testa di scatto, e rimase qualche istante con gli occhi chiusi e il viso rivolto verso il soffitto.
«Coglione, parlo con te.»
«Tranquillo» mormorò «sai che con me non hai di che preoccuparti.»
Lo spero.
Mi alzai dal divano, cellulare alla mano, e mi diressi verso il bagno. Avevo bisogno una doccia, e volevo assolutamente arrivarci prima di William. Lui ci metteva ore.
Chiusi la porta a chiave, e mi tolsi maglietta e shorts. 
Quando stavo per entrare nel box, il cellulare vibrò, il rumore amplificato dal ripiano di vetro su cui era posato.
Giulia.
Molto essenziale come descrizione.
L'angolo della bocca si sollevò in un sorriso.
Per ora può bastare, il resto lo scoprirai di persona. E tu? Posso sapere qualcosa di te?
Dovetti attendere solo qualche istante per ricevere una risposta, segnale che mi fece presagire che stavo lentamente facendo colpo.
Io mi chiamo Giulia Zanni, ho ventidue anni, diplomata da estetista, fino a tre mesi fa ho lavorato come parrucchiera in un negozio di Varese. Da tre mesi vivo qui in città, a casa della mia amica Iolanda.
Non persi nemmeno un istante di tempo, e cercai immediatamente Giulia Zanni su Facebook. Trovai il suo profilo in meno di un secondo. Era veramente stupenda...sfogliai velocemente le sue fotografie, prima di mandarle una richiesta di amicizia.
La reazione non si fece attendere.
Mi hai chiesto l'amicizia su Facebook?!
Certo, gioia. Ora posso avere un caffè con te, per favore?
Messaggio visualizzato, nessuna risposta, offline. Aspettai un minuto, prima di bloccare il cellulare e buttarmi sotto il getto caldo della doccia. 
Quando uscii quindici minuti dopo, pulito e profumato, la mia risposta era arrivata.
E quando vorresti prenderlo questo caffè?
Era la mia occasione. Decisi di lanciarmi: o la va o la spacca.
Che ne dici di oggi alle quattro?
Tornai in camera mia, e indossai boxer, pantaloni e una maglietta con la scritta "Everything ends except for parties." 
Avevo una sensazione positiva, così iniziai già a prepararmi per il mio appuntamento con Giulia. Tornai in bagno e mi sistemai i capelli, pettinandoli con una generosa dose di crema fissante, e indossai tonnellate del mio profumo preferito.
Quando tornai in camera e controllai se ci fossero nuovi messaggi, vidi che i miei sforzi non erano stati vani.
Oggi alle quattro può andare, il posto però lo decido io.
Trionfante, mi infilai il cellulare in tasca e tornai in salotto. William era ancora seduto al tavolo, a inviare messaggini dal cellulare. Probabilmente rimorchiava qualche nuova tipa.
«Ehi, fratellino» esclamai con un sorriso radioso. Lui alzò la testa, e mi squadrò da testa a piedi.
«Vai da qualche parte?» domandò con una smorfia divertita.
Mi sedetti sulla sedia accanto alla sua, sfoderando la mia miglior aria vittoriosa. «Vado a conquistare la mia tipa da dieci.»
Lo sguardo di William si illuminò, e mi colpì la spalla con un pugno amichevole.
«Grande! Mi raccomando, torna vittorioso o non tornare per niente.»
«Hai dubbi? Comunque, Will, mi serve un aiutino.»
Lui inarcò un sopracciglio, e attese che spiegassi di cosa avessi bisogno. «Mi serve...un po' di carica» dissi, indicando con un lieve cenno della mano il piatto che giaceva ancora di fronte a lui. William guardò prima l'oggetto, poi me, e con un enorme sorriso, afferrò il piatto e si alzò dal tavolo. 
 

// 
 

Ciao a tutti! Eccoci al terzo capitolo di questa nuova storia.
Come avrete capito, sto cercando di pubblicare un capitolo alla settimana. Al momento aggiorno solo questa, appena finirò di lavorare (13 settembre, ci siamo quasi) spero di riuscire a pubblicare due o tre giorni a settimana, storie diverse ovviamente. 
Ne ho diverse da finire!
Intanto, spero che la storia di Emanuele e Giulia vi piaccia. Ci sono sorprese in arrivo, state pronti!
Un bacio,

Mila

 

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Capitolo 4
*** Dietro la maschera ***


 

Lanciai il cellulare sul divano, senza preoccuparmi del fatto che potesse rompersi, e mi passai le mani tra i capelli.
«Iolanda, sei la più grande cogliona dell'universo!» sbraitai, camminando nervosamente per la stanza.
Lei stava seduta al tavolo della cucina, ridendo e sorseggiando tranquillamente il suo the al lampone.
«Perchè?»
«Come perché?! Adesso questo si aspetta che esca con lui.»
Iole prese un lungo sorso di the, per poi posare la tazza sul tavolo e rivolgermi un sorriso serafico. «E tu escici, no?»
La guardai sbalordita, poi scattai verso il tavolo e posai entrambe le mani sulla superficie di vetro, abbassandomi in modo da poterla guardare dritta negli occhi.
«Forse ti sono sfuggiti due piccolissimi dettagli.»
«E sarebbero?» La sua aria divertita e strafottente non faceva che irritarmi ancora di più.
«Punto primo, sei stata tu ad accettare il suo invito, non io. Punto secondo, io non ci voglio uscire.»
Lei sospirò, come se fosse stata una madre che aveva a che fare con un bambino molto stupido.
«Giulia, tu vuoi uscirci, ma te la stai facendo sotto.»
Sentii la rabbia crescere come un'onda, e cercai di controllarmi. Calma, Giulia, è pur sempre la tua migliore amica.
«Di cosa avrei paura, sentiamo. Qual'è la tua grande teoria.»
Lei mi fece cenno di sedermi, e io la accontentai esasperata. Quando Iolanda si comportava così mi faceva venire voglia di seppellirla sotto chilometri di cemento.
«Tu hai paura perché tre mesi fa eri fidanzata ufficialmente, perché adesso dovresti essere a Varese a provare il tuo vestito da sposa, non qui a sclerare perché un bel ragazzo vuole uscire con te, e perché, beh, è un bel ragazzo. Davvero un gran bel ragazzo. Un po' arrogante forse, ma credo che sia compreso nel DNA dei gran bei ragazzi. Ti piace, o meglio ti intriga, ma hai paura perché l'ultima volta che sei stata single avevi diciotto anni e non ti ricordi più come si fa.»
Rimasi a bocca aperta, mentre il mio inconscio mi ricordava per quale motivo Iolanda fosse la mia migliore amica. Per quanto mi seccasse ammetterlo, spesso sapeva capirmi molto meglio di quanto non sapessi fare io.
Lei mi guardava con aria soddisfatta, aspettando che trovassi un modo per replicare.
«Ok, forse hai ragione» ammisi «ma rimane il fatto che sono passati solo tre mesi. Io...io devo ancora guarire.»
La mia migliore amica mi rivolse uno sguardo carico di dolcezza, e allungò una mano sul tavolo per sfiorare la mia.
«Lo so tesoro. So che è dura. »
Alzai lo sguardo, e sapevo benissimo cosa dicevano i miei occhi. Urlavano "aiuto, non ci capisco niente."
«Che dovrei fare, secondo te?»
Lei si alzò di colpo, con un grande sorriso. «Devi trovare qualcosa di carino da indossare, e truccarti decentemente. Vieni.» 
Mi fece cenno di seguirla, e mi alzai controvoglia e le andai dietro mentre partiva verso camera mia.
Aprì di scatto le ante del mio armadio, mentre io mi sedevo sul letto con le spalle incurvate e l'aria poco convinta. 
Prima che potessi protestare in alcun modo, aveva già rovesciato sul copriletto accanto a me metà dei miei abiti.
«Iolanda, credo di essere in grado di vestirmi da sola.»
«No, non lo sei. Di solito sì, ma questo è un primo appuntamento e tu sei un po' arrugginita.»
Mentre lei scrutava la pila di abiti, scartando cose e salvandone altre, sentii il cellulare suonare nell'altra stanza. Mi alzai, mentre la mia amica era ancora concentrata sui vestiti, e andai a recuperarlo dal divano su cui l'avevo lanciato. C'era un messaggio, e di chi poteva essere, se non di Emanuele?
Sono le tre meno dieci, pensi di potermi dire dove devo aspettarti?
«Vuole sapere dove incontrarvi, vero?» gridò Iole. La raggiunsi sbuffando, tuffandomi nuovamente sul letto.
«Sì. Io sono abbastanza nuova qui, non conosco molti locali...»
«Infatti nessuno ha parlato di locali. Dagli appuntamento in un posto neutrale, la stazione, una piazza, il locale poi lo sceglierete insieme.»
Osservai sorpresa il volto di Iole, mentre con un sorriso afferrava la pila di vestiti e la rimetteva confusamente nell'armadio, chiudendo le ante. In quel momento, sembrava una specie di guru degli appuntamenti.
«Ok, mi fido...» borbottai, tornando a fissare lo schermo del cellulare.
Possiamo incontrarci alla stazione degli autobus.
«Alzati» disse Iolanda. Vidi che in mano aveva un paio di jeans grigio chiaro, e un crop-top bianco.
«Dovrei uscire così al primo appuntamento?» domandai, osservando gli abiti con fare dubbioso.
«E come vorresti uscire?»
«Che ne so, non sarebbe meglio qualcosa di più romantico?»
Lei alzò gli occhi al cielo, facendomi cenno di togliere i vestiti che avevo ancora addosso dal pranzo.
«Hai ventidue anni, tesoro. Inoltre, un ragazzo così non lo conquisterai col romanticismo.»
«E chi ti dice che voglio conquistarlo?»
Lei non rispose, si limitò a lanciarsi sui miei trucchi mentre io mi cambiavo.
Quando ebbi finito di vestirmi e di indossare un paio di ankle boots neri con dei tacchi larghi e scandalosamente alti, Iolanda mi costrinse a sottostare a una sessione infinita di trucco e parrucco. Quando finalmente ebbe finito, erano le quattro meno venti.
Lei incrociò le braccia, scrutandomi con aria soddisfatta.
«Non c'è niente da fare, sono la migliore.»
«Sarai anche la migliore» sbuffai «ma sono in ritardo.»
Presi un giacchino di pelle nero dall'armadio e lo indossai, per poi afferrare la borsa e schizzare verso la porta.
«Oh Iole, grazie mille, sei stata così gentile!» mi scimmiottò lei. Io sorrisi, poi tornai indietro e le stampai un bacio sulla guancia.
«Grazie, Iò.»
«Prego. Divertiti, mi raccomando.»
Mi sorrise, e forse il suo sorriso fu l'unica cosa che mi diede il coraggio necessario ad uscire dalla porta ed incamminarmi verso la stazione degli autobus.

Quando mi sedetti sulla panchina della pensillina A, erano le quattro e dieci. Ero in ritardo, ma a quanto sembrava lo era anche Emanuele. 
La stazione era deserta, le tre pensiline erano vuote e l'unico autobus solitario parcheggiato a poca distanza da me era spento. Il cielo era plumbeo, e tutto contribuiva ad aumentare il mio nervosismo. Continuavo a picchiettare in terra coi tacchi, muovendomi sulla panchina come se fossi stata seduta sulle spine. 
Emanuele non accennava ad arrivare, e non era più online da parecchio. Forse ha deciso di darmi buca, magari sarebbe meglio così.
Proprio quando formulai questo pensiero, sentii una mano picchiettarmi sulla spalla. Mi voltai di scatto, e quando vidi che era lui non seppi se sentirmi sollevata, o ancora più spaventata. Mi sorrideva, e si capiva che stava aspettando che dicessi qualcosa.
Mi ricordai le parole di Iolanda mentre armeggiava con i miei ombretti. Cerca di mostrarti sicura di te, non fargli capire neanche per un secondo che te la stai facendo sotto. Altrimenti prende il controllo lui, e poi è un casino.
Sorrisi, sperando di sembrare convincente, e dissi la prima cosa che mi venne in mente.
«Sei in ritardo.» Cercai di mantenere la voce ferma, ma sapevo che era un tentativo ridicolo.
«Lo so» disse lui con noncuranza. Sembrava che niente al mondo fosse in grado di turbarlo. «Allora, dove vuoi andare?»
Mi alzai in piedi, e distolsi lo sguardo. Me ne pentii un secondo dopo, sicuramente aveva intuito il mio nervosismo.
«A bere qualcosa, direi. Mi sembra l'idea migliore.» Indicai il cielo grigio sopra di noi, con le nuvole che preannunciavano una pioggia torrenziale.
Lui mi sorrise, e tirò fuori sigaretta e accendino dalla tasca dei jeans.
«Vieni» disse «conosco il posto ideale.»
Si incamminò attraverso il piazzale deserto, e io lo seguii cercando di tenere il passo. Stava due o tre passi avanti a me, e avevo la sensazione che mi stesse guardando, cercando di non farsi notare. Pensa a qualcosa da dire Giulia, forza. I silenzi imbarazzanti sono una pessima idea.
«Comunque, scusa per il ritardo. Mio fratello ha voluto a tutti i costi che gli prestassi la moto per non so quale motivo, sono dovuto venire a piedi» disse lui, togliendomi il peso di dover pensare a un argomento di conversazione.
«Hai una moto?» domandai, attaccandomi a quel dettaglio come a un'ancora di salvezza.
Lui annuì, gettando la sigaretta in un tombino.
«Una Kawasaki. Un giorno ti porto a fare un giro, se ti va.»
Io sorrisi. Le moto mi piacevano un sacco. Bel ragazzo e moto, iniziava a guadagnare fin troppi punti.
«Beh, vedremo. Se oggi ti comporti bene, potrei anche concederti di farmi fare un giro in moto.»
Lui si voltò e mi sorrise, un sorriso che sapeva di sfida; poi indicò la vetrina di un bar a pochi passi da noi.
«Può andare?» chiese.
«Se fanno da bere, va più che bene.»
Mi sembrò di sentirlo ridacchiare, mentre apriva la porta del bar e scivolava all'interno. Aspettò che lo seguissi, prima di richiuderla. Il locale era carino, con un ampio bancone in legno e una serie di tavolini che ricoprivano il perimetro formando una specie di ferro di cavallo. Ogni tavolo aveva dei divanetti in pelle bordeaux al posto delle sedie, e al soffitto erano appesi dei grossi lampadari color ottone. Le uniche altre fonti di luce erano la pesante porta a vetri e un paio di finestre, il che contribuiva a creare un'atmosfera di riservatezza che aveva un che di romantico.
Ci accomodammo ad un tavolo, uno di fronte all'altra, e fummo raggiunti da una cameriera in meno di un secondo. Fece per porgerci due menù, ma Emanuele la fermò con un gesto della mano.
«No grazie, non servono. Può prepararci due spritz aperol?» 
La cameriera annuì, e sparì senza dire una parola. Io lo guardai con un mezzo sorriso.
«Non è un po' presto per l'aperitivo?»
Lui indicò la maglietta che indossava. «Non è mai presto per gli apertivi.» Everything ends except for parties, tutto finisce tranne le feste. 
«Mi sembra una filosofia di vita un po' pericolosa» commentai, togliendomi la giacca di pelle e posandola accanto a me.
«Può darsi che lo sia, ma abbiamo una vita sola, quindi perché non godercela?»
«Mh...» posai il gomito sul tavolo, adagiando dolcemente il viso sul palmo aperto della mano «quindi tu sei uno di quei tipi da "carpe diem"?»
Lui rise, e mi guardava dritta negli occhi. Cercai di nascondere il brivido che mi attraversò da capo a piedi.
«Io sono un tipo da "non perdere mai tempo", e mi sembra di avertelo già dimostrato.»
«Sì, ma io avrei usato parole diverse.»
«Ad esempio?»
«Impaziente.»
Fece una smorfia, poi si allungò, rilassandosi e incrociando le braccia sul petto.
«Allora, Giulia» i suoi occhi mi scrutavano come se volesse leggermi dentro, come se volesse capire tutto di me con un solo sguardo «cosa ti porta in questo buco di città?»
Io mi irrigidii. Avrei dovuto raccontargli la storia del mio matrimonio fallito, di come ero scappata per non doverlo più guardare negli occhi, ma sapevo di non averne la forza. Cercai di nascondere l'imbarazzo, mentre gli sorridevo e facevo un gesto noncurante con la mano.
«Iolanda si è trasferita qui, e ho deciso di seguirla. Siamo amiche da tanti anni, e poi era da un po' che volevo lasciare Varese.»
Lui continuava a guardarmi, senza dire una parola.
«Che c'è?» domandai, e questa volta non riuscii ad impedire che il nervosismo trapelasse dalla mia voce.
«Perchè ho la sensazione che tu non mi stia dicendo la verità?»
Non feci in tempo a rispondere, perché la cameriera si ripresentò al nostro tavolo e porse un bicchiere a me e uno a Emanuele. La rigraziammo, e lei si dileguò con un sorriso. Presi la cannuccia tra le dita, e cominciai a giocare con il giacchio, spingendolo in fondo al bicchiere e osservandolo mentre tornava in superficie.
Emanuele prese un sorso, poi mi sorrise. «E va bene» disse «comincio io.»
Io alzai un sopracciglio. «In che senso?»
Lui incrociò le braccia sul tavolo, sporgendosi in avanti. «Io sono nato qui. Vivevo con mia madre, mio padre e mio fratello William» prese un lungo sorso dal suo bicchiere, poi tornò a guardarmi negli occhi. C'era qualcosa di strano nel suo sguardo, una sorta di malinconia. «Un giorno poi, sei anni fa, mia madre e mio padre sono morti in un incidente stradale. Un camion ha perso il controllo in autostrada e loro sono rimasti coinvolti. Io e mio fratello eravamo distrutti, ma abbiamo reagito in modi diversi. Lui è rimasto calmo, ha cercato di andare avanti con la sua vita nonostante il dolore. Io invece mi sono chiuso in me stesso. Non parlavo con nessuno, non volevo vedere nessuno, andavo a scuola due o tre volte a settimane e la maggior parte delle volte entravo in ritardo.»
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso, dall'espressione calma ma che nascondeva le sue vere emozioni: un dolore profondo e non ancora superato.
«A scuola c'era questa mia compagna di classe, si chiamava Arianna. Non mi si era mai filata, ma un bel giorno decise che doveva a ogni costo riuscire a farmi dire qualcosa. Continuò così per diversi giorni, finchè finalmente riuscì ad avere una risposta. Non so perchè lo avesse fatto, penso che semplicemente fosse il tipo di persona che, quando vede qualcuno soffrire, non può stare con le mani in mano. Fatto sta che funzionò, ricominciai ad aprirmi e in breve tempo diventammo amici, poi migliori amici, e alla fine ci innamorammo. Siamo stati insieme per due anni...io ero pazzo di lei. Era la prima volta che mi innamoravo, e lei è stata la prima in molte cose. Ero arrivato al punto di vivere e respirare soltanto per lei. Finché un giorno lei ha deciso di lasciarmi. Dal nulla, senza neanche spiegarmi il motivo. L'ho scoperto da solo, qualche mese dopo, quando l'ho vista in stazione, valigie in mano, mentre baciava il mio migliore amico. Non pensavo di poter colpire qualcuno così forte, specialmente lui che per me era come un fratello, e non pensavo di poter piangere così tanto. Si frequentavano da mesi, e stavano per trasferirsi assieme a Milano, dove lui avrebbe frequentato la Bocconi. Volevano tenermelo nascosto, così lei aveva mollato tutto per andare via assieme a lui. Quello stesso giorno sono tornato a casa, ho riempito due valigie e un trolley, e me ne sono andato. Ho passato quattro anni a Giulianova, dai miei nonni paterni, e sono diventato una persona diversa. L'altro giorno ho trovato una foto di Arianna e me in un vecchio diario...ho capito che il dolore era passato, e ho deciso di tornare da William, nella mia vera casa.»
Terminò il suo racconto con un sorriso, e io non riuscii a capacitarmene. Ero stata lasciata all'altare tre mesi prima, eppure in quel momento il mio dolore sembrava niente a confronto con quello di Emanuele. Lo guardavo, studiando ogni dettaglio del suo viso, e iniziai a capire che in lui c'era molto di più del ragazzo testardo e insistente che mi aveva abbordata in un bar la sera prima. 
«Allora, un gatto ti ha mangiato la lingua?» chiese con noncuranza totale.
«N-no, è...» balbettai, distogliendo lo sguardo «...mi dispiace davvero tanto.»
Lui rise, passandosi una mano tra i capelli. «Non devi dispiacerti, ormai sono passati anni. Non so neanche che fine abbiano fatto quei due, e non mi interessa saperlo. Preferisco sapere, invece, la tua storia. Perchè sappi che non mi freghi con la storiella dell'amica che si è trasferita qui e bla bla bla. Io sono stato sincero, è il tuo turno.»
Mi morsi il labbro inferiore, e abbassai lo sguardo sul tavolo. Dei nostri drink era rimasto solo il ghiaccio sciolto e l'alone sul tavolo, così guardai Emanuele con un sorriso di sfida.
«Tu procurami un altro drink, e io ti racconto tutto.»       

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Capitolo 5
*** Nuvole di fumo ***


Feci cenno alla cameriera di avvicinarsi al nostro tavolo, e lei arrivò in una frazione di secondo.
«Può portarci altri due di questi, per favore?» le chiesi, guardandola negli occhi e sorridendole, e lei arrossì e sparì in un attimo portandosi dietro i bicchieri vuoti. Guardai Giulia, che mi studiava con aria di sfida. 
Cercava di mostrarsi sicura, ma si vedeva lontano un miglio che era nervosa. Teneva le braccia incrociate sul tavolo e le gambe avvinghiate tra loro sotto, e continuava a distogliere lo sguardo. Forse era soltanto grazie a quel suo nervosismo se avevo avuto il coraggio di rivangare una storia che comunque rappresentava il periodo più buio e doloroso della mia vita. Non mi faceva affatto piacere parlare di Arianna, eppure c'era qualcosa in quella ragazza dagli occhi di gatto che mi faceva venire voglia di dirle ogni cosa di me. Forse era il modo in cui mi guardava sorridendomi appena, o il fatto che quando parlava la sua voce era calma e dolce, ma mi sentivo come sotto l'effetto di un'incantesimo. 
«Lo sai che sei davvero bella?»
Non so come mi venne in mente di dire quella frase, solitamente non spargevo complimenti in giro, specialmente se volevo farmi una ragazza. Forse era proprio questo il problema: io non volevo farmi Giulia, o meglio, non volevo solo quello. Solitamente andavo a letto con una poi ognuno per la sua strada. In quel momento invece avevo voglia di portarla a cena, fare l'amore, dormire con lei e poi andare a fare colazione assieme e magari per negozi. E la cosa mi faceva sentire bene.   
Lei mi sorrise, sistemandosi i capelli dietro le orecchie e mettendo in risalto quegli occhi da paura. «Grazie» mormorò.
  «Allora, questa storia?»
Lei alzò gli occhi al cielo, ridendo. «E va bene. Io sono nata a Varese, in una famiglia tranquilla. Mio padre è un avvocato divorzista e mia madre primario di chirurgia generale, quindi...»
«Quindi sei piena di soldi!» esclamai con assoluta mancanza di tatto. Me ne pentii immediatamente, ma per fortuna lei rise.
«In realtà, volevo dire "quindi li ho visti poco e niente per tutta l'infanzia." Non sono cattivi genitori, si sono sempre impegnati al massimo, ma erano sempre molto indaffarati. E sì, sono pieni di soldi, ma non mi sono mai serviti a nulla.»
Dalli a me allora, pensai, ma decisi di lasciar perdere. Non mi andava di passare per venale al primo appuntamento, anche perché non lo ero. Avevo soldi miei, non mi servivano quelli degli altri; ma il fatto che lei fosse sicuramente ricca da fare paura e che non sembrasse importarle minimamente era un dettaglio intrigante. 
La cameriera ci portò due bicchieri pieni, ma nessuno dei due la degnò della minima attenzione.
Giulia prese un piccolo sorso, e continuò il suo racconto con gli occhi fissi sul bicchiere. «Ho avuto una vita abbastanza tranquilla, non mi piaceva studiare quindi ho fatto la scuola per estetiste e sono diventata parrucchiera, e ho sempre vissuto bene e in pace. Era l'unica cosa che volevo dalla vita: non i soldi, non la fama, non arrivare chissà dove...solo vivere serena e tranquilla. Un giorno poi ho incontrato un ragazzo, e diciamo che questo mio obbiettivo è un po' andato a quel paese. Avevo diciotto anni e lui era venuto a tagliarsi i capelli nel mio salone. Siamo usciti un paio di volte, dopo un mese o giù di lì la cosa è diventata una relazione seria, e sei mesi fa molto seria.» Si fermò un istante per bere un altro sorso del suo drink, decisamente più lungo. Iniziavo a pensare di poter intuire il suo umore da quanto beveva.
«Che vuoi dire con "molto seria"?» domandai.
«Che mi ha chiesto di sposarlo, e io ho detto sì.»
La storia si fece immediatamente molto interessante. Ero curioso di sapere cosa ci facesse una ricca ragazza di Varese, che sei mesi prima aveva accettato di sposare un altro uomo, seduta al tavolo di un bar con me. 
«Abbiamo iniziato i preparativi, scelto la data, il posto, avevo anche trovato un abito stupendo...poi tre mesi fa, alla vigilia di Pasqua, sono andata a casa sua con un uovo gigante che gli avevo preso come regalo. Avevo le chiavi e lui doveva essere a lavoro, così sono entrata per fargli una sorpresa al suo ritorno. E invece l'ho trovato a letto con la sua ex.»
«Cazzo...» mormorai. Giulia distolse lo sguardo, forse per cercare di nascondere il suo dolore. Non ce n'era bisogno, perché riuscivo perfettamente a comprenderla. 
«Inutile dire che il matrimonio è saltato. Lui mi ha chiesto scusa in tutti i modi, ma non ne ho più voluto sapere. Quando ho chiamato Iolanda e le ho raccontato tutto, lei mi ha detto di fare immediatamente le valigie, lasciare Varese e raggiungerla, e così ho fatto. Mi sono lasciata alle spalle tutto, non rispondo nemmeno più al telefono ai miei genitori, che non hanno idea del vero motivo per cui il matrimonio è saltato. Non voglio neanche più sapere che Varese esiste...quella parte della mia vita è finita quel giorno, quando l'ho trovato nudo con la sua ex. E non ho nessuna intenzione di tornare indietro.»
Finì il suo drink in un paio di sorsi, e si mise a fissare un punto del vuoto. Avrei voluto dire qualcosa, qualcosa che potesse farla sentire meglio, ma non ero il tipo e sapevo che non avrebbe aiutato. Invece scolai il contenuto del mio bicchiere, e mi armai di un sorriso raggiante.
«Ti va di andare a fare una passeggiata?»
Lei ricambiò il sorriso e annuì. Ci alzammo e pagammo ciò che avevamo bevuto, poi uscimmo dal locale. Il sole stava iniziando a tramontare, e per strada non c'era quasi nessuno. Ci avviammo camminando uno accanto all'altra, in silenzio. La osservavo, cercando di non farmi notare. 
«E così sono quattro anni che non hai un appuntamento, eh?» le dissi. Lei mi sorrise, ma i suoi occhi dicevano che mi odiava per averle fatto quella domanda.
«Già. Che sfigata, vero?»
«No, a me piace. E' che non me lo aspettavo da te.»
Lei si accigliò. «Che intendi con "da me"?»
Mi strinsi nelle spalle. «Che ieri sera mi eri sembrata una di quelle tipe piene di sé, che schiacciano gli uomini sotto i tacchi e sanno manipolarli meglio di un cellulare. Invece sei una ex futura sposina in fuga dai propri demoni. Se prima eri interessante, adesso sei qualcosa di incredibilmente ipnotico.»
Giulia mi rivolse uno sguardo che non riuscii a decifrare, poi rivolse lo sguardo dritto davanti a sé. «Beh, mi sembra di non essere l'unica che ha dei demoni da cui scappare.»
«Sì, ma io mi sono fermato, ho smesso di fuggire.»
Si morse un labbro, e mi chiesi se non fosse un vizio che avevamo in comune. «Io credo di aver appena cominciato.»
«Vorrà dire che scapperemo insieme.»
Lei rise, facendo un gesto strano con la mano. «Non ti sembra di correre un po' troppo?»
Mi indicai con un dito. «Tipo che non perde tempo, ricordi?»
«Giusto, scusa per la dimenticanza.»
Tirai fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca, ne misi una tra le labbra e ne porsi una a Giulia. «Vuoi?»
Lei mi rivolse uno sguardo pieno di disgusto. «No, grazie.»
Mi lasciai andare a una risata. «Non dirmi che sei una di quelle perfettine a cui fa schifo l'odore del fumo. Se hai intenzione di farmi un sermone sul fatto che uccide e bla bla bla, lascia perdere perchè la mia risposta è che tanto di qualcosa dobbiamo pur morire, quindi un modo vale l'altro.»
Lo sguardo che mi rivolse era talmente affilato che avrebbe quasi potuto uccidermi. «No, sono una di quelle tipe che fumavano come ciminiere ma hanno smesso per fare contento l'ex, e che ora stanno cercando di non riprendere il vizio.»
Sgranai gli occhi, esagerando un'espressione di stupore. «Caspita! Mi sorprendi, e pensare che per un secondo ho pensato che fossi una brava ragazza.»
Rise, e per la prima volta pensai che la sua risata era il suono migliore che avessi mai sentito. «Mi dispiace deluderti, a quanto pare non sono la santarellina che tutti pensano io sia.»
Nascosi il sorriso compiaciuto che mi spuntò in volto, e le offrii nuovamente la sigaretta. Lei la studiò per un istante.
«Sai quanto mi ci è voluto per perdere il vizio?»
«Non preoccuparti, con me prenderai questo e molti altri. Hai solo sollevato il coperchio, aspetta di riuscire a toglierlo del tutto.»                                 
Mi squadrò da testa a piedi, poi finalmente accettò la sigaretta. Accesi la mia, poi le porsi l'accendino. Restammo in silenzio per qualche istante, passeggiando sotto le luci dei primi lampioni che si accendevano e sbuffando nuvole di fumo che si dissolvevano nell'aria. Faceva freddo, e vedevo Giulia stringersi nella sua giacca di pelle. Istintivamente mi avvicinai e la cinsi con un braccio. Mi aspettavo che sussultasse, invece non sembrò né sorpresa, né infastidita. Solitamente le ragazze reagivano quando le toccavo, o sfioravo, lei invece sembrava totalmente a suo agio e la cosa mi sorprese. Mi chiesi dove fosse finito il nervosismo di poco prima. Forse era soltanto astinenza da nicotina, pensai tra me e me, cercando di soffocare una risata.
«Non hai paura?» chiese lei a bruciapelo.
«Di cosa?»
«Di me.»
Gettò la sigaretta, e infilò le mani nelle tasche del giacchino.
«Di te? Perché mai dovrei avere paura di te?»
Lei sorrise. «Io stavo per sposarmi, e tu non mi sembri esattamente un tipo da matrimonio.»
Annuii, finendo la mia sigaretta. «Tu sei una tipa da matrimonio?»
«Stavo per sposarmi.»
«Non significa nulla. Uno può non essere tipo da matrimonio, ma decidere di farlo comunque per amore di una persona.»
Si voltò guardandomi dritto negli occhi. «Sei bravo, Emanuele.»
Ci eravamo fermati in mezzo alla strada, e io ero rapito dal suo sguardo. Era diverso da prima, un misto di determinazione e dolcezza. Mi guardava dritto negli occhi, e a me sembrava di essere sotto l'influsso di un magnete. Mi avvicinai a lei, e in quel momento decisi di lasciar cadere tutte le maschere, tutte le recite. Volevo abbandonare i giochi, le tattiche, ed essere me stesso. Era una sensazione che non provavo più dal giorno in cui avevo capito di essere innamorato di Arianna, e il pensiero che la ragazza che avevo davanti, Giulia, potesse farmi provare di nuovo quelle emozioni era insieme terrificante e confortante. Ero stanco di giocare, era il motivo per cui avevo lasciato Giulianova. Volevo una persona vera, una che valesse più di una notte di divertimento, e l'avevo davanti. 
Posai le mani sui suoi fianchi, e lei si appoggiò delicatamente al mio petto. «Che vuol dire che sono bravo?» le chiesi. Eravamo così vicini che riuscivo a sentire il suo respiro accarezzarmi il volto. 
«Che non ti fermi all'apparenza. Questa, per come la vedo io, si chiama intelligenza.»

Mi sfuggì un sorriso, e le circondai la vita con le braccia. «O furbizia.»
Le chiuse gli occhi per un istante, e io approfittai di quel breve attimo per baciarla. Lei ricambiò il bacio con cautela, come se avesse paura di lasciarsi andare, ma non mi importava. Sentivo elettricità pura attraversarmi dalla testa ai piedi. Speravo che lei non si allontanasse, che quel bacio non finisse mai, perché sentivo che non sarebbe mai stato abbastanza. Volevo baciarla tutta la notte, se necessario. 
Le passai una mano tra i capelli, e lei si lasciò andare schiudendo leggermente le labbra e permettendomi di approfondire con passione quel bacio, che si fece sempre più intenso. 
Persi il senso del tempo, e quando lei si allontanò facendo delicatamente pressione sul mio petto mi chiesi se fosse passato un secondo o un'ora.
Giulia mi sorrise, continuando a stare pericolosamente vicina alle mie labbra.
«Sai...quando sono uscita di casa mi ero ripromessa di non baciare nessuno.»
Io mi morsi il labbro, e non me ne importava nulla di nascondere quello che provavo in quell'istante. «A me piace infrangere tutte le regole, specialmente quelle stupide come questa.»
«Ah, davvero?»
«Davvero...»
Questa volta fu lei a baciarmi, e io la strinsi a me più forte di prima, mettendo tutto me stesso in quel bacio. Mi accarezzò i capelli con le dita, e io le mordicchiai il labbro.  Mi passò una mano sul viso, poi si allontanò, guardandomi negli occhi.
«Sì, sei proprio bravo...»
«I baci sono la mia specialità.»
Le passai le dita tra i capelli, e lei socchiuse gli occhi per un istante.
«Vuoi sapere chi sono davvero?» le chiesi a bassa voce, studiando ogni angolo del suo viso, cercando di memorizzare ogni dettaglio.
«Che vuoi dire?» domandò lei, schiudendo gli occhi dolcemente. 
«Credo che tu ti sia fatta un'opinione di me, ma vorrei farti vedere come sono veramente. Qual'è la mia vita.»
Lei mi sorrise, e io cercai con ogni fibra del mio corpo di stampare quel sorriso nella testa e non scordarmelo più. «E come pensi di farlo?»
Mi raddrizzai, e le presi la mano. «Vieni con me» le dissi «ti porto in un posto.»      

Spazio Autore       
Buongiorno lettori!
Questa storia sta procedendo spedita, e la cosa mi rende molto contenta. Mi sto divertendo tanto a scriverla, e sono felice che venga apprezzata.
Una novità, che non s'è mai vista prima sul mio profilo, è che ho deciso di dare uno schema preciso alle pubblicazioni delle storie.

Per questa storia, il giorno è giovedì. Quindi, non dimenticatevi di sintonizzarvi qui ogni giovedì per un nuovo capitolo!
Fatemi sapere se vi è piaciuto l'aggiornamento di questa settimana, mi raccomando.
Al prossimo giovedì!              

 

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Capitolo 6
*** Saliò el sol ***


Seguii Emanuele per chilometri, lungo le strade della città che mano a mano diventavano sempre più buie. Ci allontanammo dal centro, passando per zone che erano sempre più deserte via via che proseguivamo il nostro percorso. Gli avevo chiesto più volte dove volesse andare, ma lui mi aveva risposto che era una sorpresa. Quando ormai il dolore ai piedi, causato dai tacchi, era diventato totalmente insopportabile, tirai fuori il cellulare per controllare da quanto tempo stessimo camminando. Era passata un'ora. 
«Ehi, Emanuele» ansimai, interrompendo il suo discorso sulle moto da corsa «quanto manca? I piedi mi stanno uccidendo.» Lui si voltò a guardarmi e mi sorrise. Alzò il braccio, indicando una palazzina di fronte a noi.
«Complimenti per il tempismo, Giulia. Siamo arrivati.»
Alzai gli occhi, studiando il condominio che avevamo davanti. Era uguale a tanti altri, dipinto di bianco e con i balconi circondati da ringhiere di un grigio spento. Le finestre avevano ancora le tapparelle al posto degli scuri. Non era né un posto trasandato, né di lusso, era normalissimo.
«Che posto è?» domandai.
«Non è ovvio? Casa mia» rispose lui con tutta la tranquillità del mondo. 
Strabuzzai gli occhi, e improvvisamente mi sentii mancare l'aria. Una vocina in fondo alla mia testa iniziò a urlare: no, no, e no. Non adesso. No. 
Sapevo benissimo cosa significava salire a casa sua, e non ero neanche lontanamente pronta. In tutta la mia vita ero stata a letto con un solo uomo, ed era troppo presto per il secondo.
Continuavo a far scattare lo sguardo da lui al condominio, pensando a una scusa plausibile per rifiutare di salire nel suo appartamento.
In qualche modo, lui sembrò intuire il mio disagio, perché scoppiò a ridere e si avvicinò a me, dandomi un piccolo buffetto sotto il mento.
«Tranquilla, non faremo niente che non ti va di fare» disse con voce calda e rassicurante.
«Tu dici?» replicai, cercando di mantenere la calma. Mi sentivo ridicola, una donna di ventidue anni che va in panico al pensiero di stare sola con un uomo. Uno da cui era attratta, e che aveva finito di sbaciucchiare poco prima.
«Certo. E' solo il primo appuntamento, se non ti va lo capisco. Vieni, tranquilla.»
Mi tese una mano, e io la afferrai sentendomi più serena. Giulia, sei una cretina. Sei una donna adulta, mi diceva la mia testa.
Emanuele mi guidò verso il portone di casa, e tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca. Armeggiò per qualche secondo con la serratura, poi aprì la porta e lo seguii all'interno del palazzo.
«Perché mi hai portato qui?» domandai mentre lui richiudeva la porta alle mie spalle.
Lui mi sorrise, precendomi sulle scale. «Tiro a indovinare: tu ti sei fatto l'idea che io sia un festaiolo, uno che è sempre in giro e che rimorchia ragazze ogni sera, probabilmente anche tossico, giusto?»
Arrossii. Mi scocciava ammetterlo, ma in effetti era parte dell'idea che mi ero costruita di lui. Il classico bad boy da discoteca. Non avevo minimamente il coraggio di affermarlo ad alta voce, ma per fortuna non ce ne fu bisogno.
«Come pensavo» disse lui prima che potessi aprire bocca. Sembrava fosse capace di capire ogni mio pensiero semplicemente guardandomi in faccia, e la cosa mi faceva sentire in qualche modo vulnerabile, come se fossi stata completamente nuda.
«E devo immaginare che sia un'immagine sbagliata?»
«Non del tutto...quella è l'immagine che la maggior parte delle persona ha di me, ma c'è dell'altro. Molto altro.»
Arrivammo davanti alla porta del suo appartamento, al secondo piano. Il campanello recitava "Tersigni William - Tersigni Emanuele"
Emanuele aprì la porta, e mi fece cenno di entrare. Era completamente buio, e quando lui chiuse la porta alle nostre spalle, lasciando fuori l'illuminazione che proveniva dal pianerottolo, per un attimo mi saltò il cuore in gola.

Dopo qualche istante, accese le luci.

Rimasi a bocca aperta.

Mi trovavo in un soggiorno luminoso, con le pareti bianche e tantissime lampade
di vario tipo sparse per la stanza. Alla mia sinistra c'era un mobile di legno
lungo tutta la parete, con sopra un televisore enorme, un impianto audio da
fare invidia a un cinema, due o tre console, e due porta CD pieni di videogames
e dischi musicali. Al lato opposto della stanza c'era un lungo divano con penisola
in tessuto color beige, e sulla parete al di sopra era appeso un enorme quadro
raffigurante un paesaggio di montagna. L'intera stanza era piena di mobili e
soprammobili di vario tipo, che riempivano l'ambiente.  Uno dei quattro lati confinava con una cucina
in legno scuro con i ripiani in finto marmo, e un tavolo nero lucido.

«Santo cielo!» esclamai dopo essermi guardata
attorno per qualche istante «ma che cavolo di lavoro fate tu e tuo fratello?»

Lui scoppiò a ridere, togliendosi la giacca e posandola su un bracciolo del
divano. «Hai i genitori straricchi e ti impressioni per un appartamentino così
semplice?»

«Io e Iolanda non possiamo permetterci tutta questa roba. La metà dei nostri mobili sono di cento anni fa. E comunque ho ventidue anni, so lavorare, non uso i soldi dei miei.»

Iniziai a passeggiare per la stanza, mentre lui mi osservava con
una vaga forma di ammirazione in viso.

«Che c'è?» chiesi quando me ne accorsi. Lui si strinse nelle spalle.

«Niente, mi chiedevo se per caso hai fame.»

«Sì.»

Store il naso, sollevando l'angolo della bocca in un sorriso. «Caspita, adesso
mi tocca preparare qualcosa.»

Si diesse a passo spedito verso la cucina,e aprì il frigorifero. Io lo seguii
appogiandomi con le mani a una delle sedie.

«Guarda che non c'è bisogno che i disturbi.»

«Tranquilla, mi piace cucinare. E poi, speravo di poter avere un'occasione di mostrarti le mie abilità in cucina.»
Richiuse il frigorifero, con le braccia piene di ingredienti di vario tipo. Posò tutto sul tavolo, e mi rivolse un sorriso.
«Spero che tu non sia vegetariana» disse prima di tornare a concentrarsi sugli ingredienti.
«Neanche per idea» dissi scuotendo energicamente la testa. Avevo un'antipatia piuttosto forte per vegani e vegetariani. «Che cosa prepari?»
«Conchiglie con formaggio, salsiccia e pistacchi.»
«Sembra buono» commentai, mentre mi rendevo conto di avere davvero fame.
«Lo è» aveva iniziato ad armeggiare con coltelli, padelle e utensili di vario tipo, e io stavo seduta al tavolo della cucina, osservandolo con un vago sorriso in volto.

 

Mentre lui preparava la cena, io me ne stavo seduta su una delle sedie, osservandolo. C'era qualcosa di particolare in lui, nella concentrazione che dedicava a quel compito. Non parlava e aveva l'aria serissima, come un artista impegnato a dipingere un capolavoro. Era ancora più bello, e allo stesso tempo faceva quasi tenerezza, e una parte di me aveva voglia di alzarsi e abbracciarlo.Non disse una sola parola fino a quando, dieci minuti dopo, mi mise davanti un piatto di pasta fumante che emanava un odore delizioso.«Caspita» commentai, prendendo tra le dita la forchetta che mi stava porgendo «se è buono quanto il profumo, potrei avere un orgasmo da cibo.»
Lui si sedette davanti al suo piatto con un sorrisino trionfante in volto.«Beh, assaggia e fammelo sapere. Buon appetito.»

Mi lanciai sul piatto, e dovetti contenermi per non fare versi ambigui. Era probabilmente la cosa più buona che avessi mai mangiato. Lui sembro intuire la mia approvazione, perché sollevo le sopracciglia guardandomi con divertita curiosità.«Ti piace?» domandò.
«Ok, facciamo così» bofonchiai, senza smettere di mangiare «da domani, sei ufficialmente assunto come cuoco a casa nostra. Ne io ne Iolanda riusciremo mai a preparare qualcosa di così buono.»
Emanuele scoppiò a ridere, mentre prendeva una forchettata enorme senza togliermi gli occhi di dosso.«Non sai cucinare?»
«Si, me la cavo anche piuttosto bene, ma non così bene. Iolanda invece è pessima.»
Lui ridacchio, versando un goccio di vino rosso nel suo bicchiere.«Devi farmela conoscere, questa Iolanda. Sembra un tipo divertente.»
«Lo è.»
Finimmo di mangiare in silenzio, e quando letteralmente due minuti dopo entrambi avemmo svuotato i rispettivi piatti, Emanuele sgomberò il tavolo in mezzo secondo, lasciando solo i bicchieri e la bottiglia di vino. Mi offrii di aiutarlo a lavare i piatti, ma lui rifiutò con un sorriso. «I piatti possono stare lì. Ti va di vedere un film?»

Si diresse verso il soggiorno, inginocchiandosi di fronte al mobile su cui era poggiato il televisore. Aprì uno dei due ampi cassetti, e avvicinandomi vidi che era pieno di DVD ordinatamente messi in fila con il dorso rivolto verso l'alto. Fece scorrere lo sguardo lungo qualche secondo, poi un sorriso gli illuminò il volto e tirò fuori una custodia, rivolgendola verso di me. Io mi avvicinai per leggere il titolo, e mi sfuggì una risata: Spiderman 2
  «Vuoi guardare Spiderman?» domandai con tono divertito.
«Sì.» 
«Perché?»
«Perché è il mio eroe fin da quando ero bambino.»
Si alzò in piedi, posando la custodia sotto al televisore, e si avvicinò di qualche passo. Per poco non mi mancò il respiro quando lo vidi togliersi la maglietta, rivelando il fisico spettacolare che nascondeva. Era quello che per me rappresentava la perfezione fisica in un uomo: magro e con qualche muscolo, ma non eccessivamente. 
Rimasi col cervello appannato per qualche istante, domandandomi per quale motivo si fosse denudato così di punto in bianco, finché non lo vidi: un tatuaggio in basso, appena sopra la linea dei pantaloni, che recitava "falli secchi, tigre", con la piccola immagine di una tigre colorata con i colori del costume di Spiderman. Avevo visto tutti i film della saga di Sam Raimi, più volte, e riconobbi immediatamente la citazione. Alzai lo sguardo e gli sorrisi dolcemente.
«Ti piace?» chiese lui.
«Tanto.»
Si rimise la maglietta, e dopo avermi rivolto uno sguardo che non seppi decifrare si abbassò per inserire il DVD nella Playstation.

  «Perché Spiderman?» domandai.
«In che senso?»
«Che ci sono tanti supereroi, Batman, Superman e compagnia cantante...quindi perché proprio Spiderman è così importante da meritarsi un tatuaggio?»
Emanuele si soffermò un istante, poi voltò il viso verso di me con un'espressione stranamente seria.
«Perché è uno sfigato» disse «nel senso...è un ragazzo normale e anche parecchio imbranato, poi un bel giorno viene morso da un ragno radioattivo e boom, ha i superpoteri...ma non è subito il migliore dei supereroi, deve imparare e diventare più forte, prendendosi un sacco di legnate nei denti. E' umano, è un po' come tutti noi. Da bambino mi piaceva credere che un giorno sarei stato come lui, che sarei diventato un figo capace di resistere a ogni cosa...ora che sono adulto, mi rendo conto di aver seguito il suo esempio. Ho preso tante legnate, e ne sono uscito più forte» inclinò leggermente un angolo della bocca in una specie di ghigno «e anche un po' più stronzo.»
Io annuii, e andai a sedermi sul divano. Lui si voltò a guardarmi con aria corrucciata. «Che fai?»
«Mi metto comoda» dissi, togliendomi i tacchi e incrociando le gambe sul divano «per guardare il film del tuo eroe insieme.»  
Lui rise, avvio la riproduzione, e si sedette accanto a me. Si tolse le scarpe, allungandosi comodamente sul divano.  
Non erano passati neanche due minuti, che lui si voltò a guardarmi. Lo vidi con la coda dell'occhio, ma tenni lo sguardo fisso sullo schermo.
«Tu hai tatuaggi?» chiese.
«Due minuti di film e già parli. Sappi che è una cosa che odio.»
«Anche io, ma questa cosa mi interessa veramente.»
Io ci pensai qualche istante, prima di rispondere. «Sì» dissi infine «ho un tatuaggio sulla schiena, in basso.»
Mi voltai, e lo vidi osservarmi con gli occhi sgranati. «Davvero? Che cos'è?» chiese.
«Un mandala a forma di fiore di loto. Lo ha disegnato Iolanda.»
Mi sorrise, con aria maliziosa. «Mi piacerebbe vederlo, un giorno.»
Io lo osservai per qualche secondo, indecisa. Una parte di me voleva rispondere con "beh, magari un giorno", e continuare a vedere il film. L'altra...l'altra era stata presa da un improvviso coraggio, un'intraprendenza che non sentivo mia ma che voleva a tutti costi prendere il controllo. 

Avevo il sospetto, o la paura, che lo scopo di Emanuele fosse proprio quello. Mostrarmi il lato più dolce di lui per arrivare dove voleva, ottenere quello che otteneva da ogni ragazzo.
O forse gli piacevo veramente, e aveva voluto aprirsi con me. Non sapevo quale delle due ipotesi fosse quella giusta...sapevo solo che mi aveva colpita come non succedeva da anni. Guardavo i suoi occhi verdi che mi fissavano, il suo sorriso ironico, provocatorio, e mi ritrovai ad agire senza riflettere.
Senza pensarci ulteriormente mi voltai, dandogli le spalle. Mi tolsi la giacca, tremando, posandola sul tavolino alla mia sinistra, poi con dita esitanti abbassai lentamente i jeans, quel tanto che bastava per mostrare il disegno impresso poco sopra il mio fondoschiena. *
Lo sentii trattenere lievemente il respiro, e dopo un istante sentii le sue dita sfiorarmi delicatamente nel punto in cui c'era il tatuaggio, facendomi trasalire.
«E' davvero bello» mormorò «pensi che Iolanda potrebbe disegnarne uno anche per me? E' brava.»
«Penso di sì, se glielo chiedi...» risposi, col fiato corto. Il suo tocco leggero si fece più forte, spostandosi lungo la schiena. Lo sentii avvicinarsi, scivolando sul divano, e vidi le sue braccia avvolgermi. Abbandonai la testa sulla sua spalla, mentre lui mi spostava i capelli e iniziava a lasciarmi una scia di baci delicati sul collo. Con una mano prese la mia, intrecciando le dita, mentre l'altra si muoveva delicatamente sulla mia pancia. Lo sentii salire, poi si fermò un istante.
«Posso?» sussurrò nel mio orecchio.
«Che?»
«Posso toccare, o ti da fastidio?»
Mi sfuggii una risata, troncata dal respiro che era diventato via via più corto e veloce.
«Alla tua età mi chiedi se puoi toccarmi? Hai dodici anni e non me lo hai detto?» lo provocai.
Con un unico, brusco movimento, lui mi fece voltare, e mi spinse sul divano stendendosi sopra di me. «Sei tu quella che si faceva un sacco di paranoie...» mormorò, mentre una mano si infilava lentamente sotto la mia maglietta, baciandomi un angolo della bocca. Sentivo caldo, un caldo tremendo, e una parte di me cominciava a sperare che si sbrigasse a togliermi i vestiti.
«Ho cambiato idea.»
«Ah sì? E come mai?»
Mi feci coraggio, e afferrai il bordo della sua t-shirt, sollevandola. Lui la tolse senza farselo ripetere due volte, per poi togliere la mia. Infilò le braccia sotto di me, slacciando il reggiseno. Iniziò a tracciare il profilo con le dita, delicatamente.
«Perché ho imparato che se un uomo deve fare il bastardo, lo farà comunque, che abbiate fatto l'amore o no. Quindi tanto vale divertirsi...»
Lui mi baciò, con calma, e io avvolsi le braccia attorno al suo corpo, carezzandogli delicatamente la schiena con le unghie. Lo sentii emettere un piccolo gemito.
«Fare l'amore...come sei romantica.»
Si allontanò quel poco che bastava per guardarlo negli occhi, e il suo sguardo mi provocò un brivido che mi percorse dalla testa ai piedi, insieme a un'ondata di calore. Erano fuoco puro. Nessun uomo mi aveva mai guardato in quel modo...forse perché nessuno degli uomini che avevo conosciuta, era anche solo lontanamente paragonabile ad Emanuele.
«Tu come lo chiami?»
Lui sorrise, provocante. Si alzò mettendosi in ginocchio, e mi tolse i jeans con un gesto brusco e improvviso che mi causò una scarica di eccitazione senza precedenti. Lo vidi togliersi i jeans e i boxer, mentre quel poco di lucidità che mi rimaneva mi abbandonava definitivamente. 
Infilò le dita nel bordo dei miei slip, per poi sfilarli lentamente.
Eravamo nudi, e io sentivo il cuore battermi in petto come un martello pneumatico impazzito. Avevo paura di svenire, e rovinare tutto. Non solo perché era incredibilmente bello in ogni dettaglio, ma perché era il secondo uomo che vedevo nudo in tutta la mia vita, a cui permettevo di vedermi nuda, e lo avevo conosciuto solo il giorno prima.
O io ero del tutto impazzita, o lui era più speciale di quanto potessi immaginare.
Si abbassò, posando il suo corpo nudo sul mio, baciandomi con trasporto. Io mi aggrappai a lui, stringendolo tra le gambe, come una silenziosa richiesta di fare quello che volevo facesse, prima  che la paura prendesse il sopravvento e cambiassi idea. 
Si fermò, per un solo istante, avvicinando le labbra al mio orecchio.
«Tesoro...io lo chiamo fare l'alba.» 
                                 

 

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