Isole (titolo provvisorio)

di Riziero Ippoliti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


I
 
Da qualche parte su questo devastato pianeta, vi era una grande vallata, avvolta nell’oscurità della notte, in cui il vento soffiava forte. Verso nord grandi nuvole, illuminate dalla luna, si andavano addensando. Bagliori di fulmini ne squarciavano l'oscurità. Nella conca circondata da colline e basse montagne dai dolci pendii, c'era un'aria fresca e umida, tipica di fine settembre. La zona era illuminata solo parzialmente dalla luna, quasi piena.
Non si scorgevano luci artificiali. La zona era infatti disabitata e non c'erano centri abitati per miglia. Centri abitati abbandonate, rovine sparse, strade in pessime condizioni, cartelli divelti e arrugginiti suggerivano che non era sempre stato così. La parte più meridionale della conca, orientata da sud est a nord ovest, era circondata da reti, e fili spinati e ovunque vi erano cartelli di pericolo che recavano scritto come “Pericolo di morte” o “Pericolo chimico” o “Zona contaminata da isocianato di metile”. Altri cartelli recavano i simboli del pericolo chimico, del pericolo di corrosione chimica e il pericolo di incendi.
Grazie alla luce lunare, nella zona recintata si potevano a vedere le sagome nere di grandi edifici. Una cupola, e una torre. Un'intera città in rovina circondata da una distesa arida, di terra avvelenata. Fuori dalla recinzione invece la vegetazione era rigogliosa, e oramai aveva invaso tutto ciò che restava del passato, nella conca, comprese le rovine di due altre piccole città. Cespugli di rovi, e boschi. Pezzi di muro, ricoperti di edere. In alcuni punti la vegetazione era così fitta che era impossibile passare.
Su questa giungla, sospesi su piloni di metallo e cemento, verniciati di bianco, passavano due tubi circondati da passerelle e intramezzati da traversine. Erano i binari della ferrovia magnetica, che seguivano l'antico tracciato dell'autostrada attraverso i monti Appennini, risalente a quando questa zona era ancora chiamata Italia. Anzi più precisamente Italia Centrale.
Ad un certo punto al frusciare del vento tra la vegetazione si aggiunse un suono lontano. Una luce si avvicinava lungo il tracciato della ferrovia. Un treno magnetico diretto a sud sfrecciò sui binari. Una scia luminosa nel buio di quella campagna abbandonata, seguito pochi istanti dopo da un boato come d’uragano.
Mentre nella conca il suono del treno rimbombava ancora, due veicoli fluttuanti apparvero sulle colline a sud est. Aveva l’aspetto di navi da guerra, lo scafo grigio metallizzato. Sulle fiancate avevano alettoni e file di rotondi oblò. I due veicoli producevano un continuo ronzio, prodotto dai motori. Essi, situati sotto la poppa e sotto la prua, avevano forma circolare, e brillavano di una luce bluastra. Talvolta da essi sprigionavano scariche elettriche. A volo radente i due veicoli discesero il pendio, galleggiando nell’aria, come navi nell’acqua. Giunti ai piedi delle colline svoltarono, virarando lentamente in direzione nord ovest. Mantennero questa direzione per circa dieci chilometri, dopodiché svoltarono verso sud ovest.
Nella plancia di una delle due aereonavi, sulla una poltrona girevole, il capitano osservava la scena dalla grande finestra del ponte di comando. Era sulla trentina. Aveva lineamenti spigolosi e portava la barba. Indossava vestiti comuni. Sulle spalle teneva una giacca, vecchia e consunta, residuo dell'alta uniforme dell’esercito, e la portava con le maniche penzoloni. Solo una delle spalline dorate era rimasta su una delle spalle.
In piedi accanto alla poltrona del capitano, stava un uomo calvo. Era vestito con giacca, cravatta e pantaloni neri, e sotto una camicia bianca. Nel taschino era infilato un paio di occhiali da sole. Sul suo viso completamente glabro, aveva un’espressione fredda. Tenendo la mano appoggiata sullo schienale della poltrona, osservava anch’egli quel che si trovava di fronte all’aereonave.
«Penso che qui vada bene, capitano» disse quando il veicolo giunse sopra una radura.
Il capitano annuì.
«Spegnere i motori, ed estendere i sostegni»
«Sissignore!» rispose il pilota, che cominciò a premere tasti e spostare leve sulla sua postazione. Subito una serie di ronzii e rumori metallici si propagarono per la nave.
Poi il capitano si voltò verso una ragazza, che stava seduta ad una postazione sulla destra della plancia. Aveva i capelli castani, che le scendevano fino alle spalle, e tra le ciocche pendeva un dreadlock, chiuso con una piccola fibbia metallica. Indossava un paio di cuffie, a cui era collegato un microfono.
«Megara, comunica all’altra nave di fare lo stesso!»
«Sì, capitano» disse l’addetta alla comunicazione, stringendosi nella sua giacchetta di pelle. Dopodiché accese la radio e parlò nel microfono: «Aquila 2-DX9, qui Aquila 3-DX8. Spegnere motori ed estendere i sostegni»
«Ricevuto!» fu la gracchiante risposta che venne dalla cassa.
I due veicoli rallentarono e si fermarono a mezz’aria, vicini alla ferrovia magnetica. Lentamente il ronzio dei motori si fece più basso, fino a sparire. La luce bluastra divenne via via fioca, fino a spegnersi. Dalla chiglia di entrambe fuoriuscirono braccia e sostegni meccanici, mossi da sistemi idraulici. Le due aereonavi erano ora ferme nella radura, appoggiate al terreno.
«Fammi parlare con tutta la nave» disse il capitano, facendo un cenno all’addetta alle comunicazioni.
«Sissignore!» rispose lei, spostando una levetta con il dito.
«Ragazzi» disse il capitano, «abbiamo un lavoro da compiere! Tutti a terra e al lavoro! Ricordate che siamo nel territorio del Dominio. La zona è disabitata dai tempi della prima rivolta, tuttavia potrebbero esserci sono sensori e dispositivi d’allarme che possono scattare in ogni momento, quindi attenzione.»
Gli altoparlanti si spensero con un crepitio, e il capitano si alzò e si diresse verso la porta. Tutti i presenti nella plancia lo seguirono, salvo il pilota e l’addetta alle comunicazioni.
«Avvertitemi se c’è qualche problema!» disse loro il capitano, prima di uscire dalla plancia.
«Sissignore» risposero entrambi all’unisono.
La plancia rimase in silenzio, un silenzio rotto solo dal ronzio dei macchinari e dei computer di bordo. La ragazza si appoggiò con il gomito sul banco della sua postazione, ed osservò annoiata il quadrante del radar. Ad intervalli regolari, da un punto verde centrale, si spandeva un cerchio, seguito da un bip. Sospirando si abbandonò sullo schienale della sua poltroncina.
In quel momento una mano le scostò una ciocca di capelli castani dal viso. Il pilota aveva lasciato la sua postazione. Lei gli prese la mano, e la carezzò.
«Stanca?» chiese lui sorridendo.
«Però, che occhio!» rispose lei ridacchiando. 
Per tutta risposta, lui prese a massaggiarle le spalle, dopo aver scostato il suo dreadlock. Lei chiuse gli occhi, espirò lentamente e inclinò la testa. Si alzò lentamente tendendosi verso il pilota, ma questi la baciò prima che fosse del tutto in piedi.
«Siamo... siamo in servizio...» cercò di dire l'addetta alle comunicazioni, ma il pilota non l'ascolto e prese a baciarle il collo. Lei si arrese del tutto e lo trasse verso il suo viso, e i due restarono legati con le labbra premute le une sulle altre.
Intanto le operazioni di sbarco si stavano per concludere nella radura, ampia e dal terreno irregolare, disseminato di sassi e radici, che rendevano molto difficile il lavoro.  Intorno alla radura si intravedeva quel che restava di uno svincolo, che si diramava dalla strada principale. Il ponte ricurvo era però quasi del tutto crollato, e le sue rovine erano avviluppate dalla vegetazione. Proprio al limitare della boscaglia c’era un cartello appena leggibile, con su scritto: “Ugnano (comune di…)”.
Il capitano dell'aereonave DX8 camminava avanti e indietro, mentre l'uomo in giacca e cravatta stava in piedi, appoggiato ad uno dei sostegni dell'aereonave, con le braccia conserte. I due osservavano l’equipaggio che scaricava dalla nave alcune casse di legno. Sui coperchi della casse c'era scritto “maneggiare con cura”, e accanto c'era un simbolino triangolare con il disegno stilizzato di un'esplosione. Anche l'equipaggio della DX9 stava facendo lo stesso. La DX9 era leggermente più grande della DX8, ed era priva di armamenti. Era un veicolo da trasporto di materiali.
Dopo aver impartito degli ordini, l'altro capitano si avvicinò al suo collega alzando la mano per salutare. «Malloy, eccoti qui!» disse.
«Vedo che i tuoi ragazzi sono più lenti dei miei, Guerras!» sorrise.
«Per forza: abbiamo portato noi il carico più grande di tritolo!» rispose il capitano Guerras. Poi rise insieme a Malloy.
Anche il capitano Guerras indossava abiti comuni: un paio di jeans e una maglietta a maniche corte. Unico segno del suo comando, era una un cappello simile a quello dei marinai, che ora portava in mano. Vi era una scucitura laddove un tempo stava il simbolo del Dominio.
«Mille chili di tritolo!» disse Guerras, «Se quella robetta che ci avete portato voi dominati è davvero tritolo!»  aggiunse poi guardando verso l'uomo in giacca e cravatta.
Questi gli si avvicinò lentamente e rispose con voce seria: «Quelle casse contengono tritolo concentrato! Lui non ha nessun interesse nell'ingannarvi!»
«Ah non ne dubito» disse Guerras, alzando le mani, «Ma mi insospettisce molto il fatto che il dispositivo di scoppio ce lo fornisca lei, agente Berti! Chi ci dice che questa non sia una trappola? Che non volete farci saltare in aria a distanza?!»
L'agente inrociò le braccia e alzò un sopracciglio.
«Vi assicuro» rispose con un ghigno, «che se lo Stato avesse voluto davvero liberarsi di voi Ribelli, non sareste qui adesso. Ma come ben sapete, voi servite a questo paese. Ed è per questo che lui vi aiuta! Chiaro?»
«Vedremo!» rispose Guerras.
Il ribelle e l'agente si fissarono per qualche secondo senza parlare.
Fu il Capitano Malloy il primo a rompere quel silenzio: «Mi dica, agente, perché ci ha consigliato di fare questo lavoretto proprio qui?»
«Semplice: siamo molto vicini ad una zona altamente contaminata, quindi non ci sono pattuglie di controllo a difesa di questa parte della ferrovia!»
«Capisco» rispose Malloy ironico, «Evidentemente anche voi temete l’avvelenamento da radiazioni!»
«Malloy» disse l’agente con aria di sufficienza, «le manca qualche nozione di storia!»
«Allora mi illumini lei, Berti!»
«Con piacere, capitano.» rispose l’agente sarcastico, dopodiché cominciò a raccontare. Le sue parole erano accompagnate dal rumore delle operazioni di scarico, e dalle imprecazioni degli uomini che stavano lavorando.
«Circa quaranta anni dopo il Grande Incendio, venne fondata Europa Nuova, la prima Nazione Sopravvissuta! La capitale era l’unica grande capitale europea rimasta, ovvero Roma»
«Questo già lo sapevamo, Berti!» disse Guerras, ma l’agente lo ignorò.
«Era una dittatura militare!» continuò, «tutto ciò che le Isole producevano se lo teneva per sé, e alle Isole solo le briciole. Era ben più brutale del Dominio di cui voi tanto vi lamentate. Era chiaro che una situazione di questo genere non poteva durare a lungo. Infatti la Prima Nazione Sopravvissuta ebbe a durare appena quaranta anni, al termine dei quali in tutto il territorio cominciarono a scoppiare sommosse, rivolte, manifestazioni. Ed i militari che componevano il governo risposero nell’unico modo che conoscevano, signori: sanguinose guerre di repressione, ma l’unica cosa che ottennero fu di instillare ancor più rabbia e odio nel popolo. E qui vicino si è compiuto l’atto che ha scatenato la prima rivolta! Nella città in rovina, vicino a dove ci troviamo, fu indetto uno sciopero generale e le forze di polizia furono respinte dalla folla inferocita. Allora il governo bombardò la città con tonnellate di isocianato di metile. Sapete di cosa si tratta?»
«Davvero usarono quella roba?!» chiese invece Malloy sgranando gli occhi.
«Esattamente. Gli effetti sono terribili. Brucia la pelle, brucia gli occhi, e ad ogni respiro brucia anche i polmoni. Si racconta che morirono a migliaia nel volgere di pochi minuti, e i pochi sopravvissuti vennero tutti fucilati. Morirono quasi centocinquantamila persone! Questa città» continuò indicando un punto verso sud est, «non è stata colpita da un’arma nucleare bensì chimica, e pertanto non ci sono radiazioni qui!»
Un momento di silenzio, durante il quale i due capitani cercarono di parlare ma non riuscirono a dire nulla e l’agente se ne accorse.
«Il Dominio non vi sembra più tanto male, eh?» chiese ironico l’agente. Poi proseguì: «Ad ogni modo l’aver compiuto questo crimine di guerra, si rivelò un grave errore, infatti fu questo a scatenare la Prima Rivolta! Frange dello stesso esercito si ribellarono, e tutto lo stato mosse guerra al governo centrale, che venne inevitabilmente sconfitto circa sei anni più tardi, quando venne fondata la Repubblica» e anche stavolta l’agente Berti pronunciò l’ultima parola con forte sarcasmo.
«La Repubblica che presto tornerà!» replicarono all’unisono i due capitani.
L’agente Berti sospirò, con condiscendenza.
In quel momento un giovanotto biondo si avvicinò ai due capitani e all’agente.
«Capitano Malloy, Capitano Guerras» disse mettendosi un momento sull’attenti.
«Ebbene?» rispose severo Malloy.
«Signori, il carico è stato posizionato intorno ai piloni della ferrovia»
«Molto bene!» disse Malloy, «Ora tocca a lei, Berti. Ci dia il detonatore!»
L’agente non rispose, e frugò in una borsa che stava poggiata ai suoi piedi. Ne estrasse un piccolo dispositivo metallico, con un schermo digitale e una piccola tastiera.
«Lo posizionerò io, se non vi dispiace, signori» disse l’agente.
«Come vuole lei, ma si sbrighi!» rispose il capitano Malloy con un gesto della mano.
L’agente annuì, e poi si diresse verso i piloni della ferrovia dietro gli alberi, dove gli uomini dei due equipaggi avevano posizionato le casse di tritolo, pronte a far saltare in aria la ferrovia. Le avevano disposte intorno a tre piloni. La ferrovia sarebbe stata letteralmente spezzata, e i binari sarebbero schizzati in aria in frantumi. C’era tritolo sufficiente per distruggere almeno un chilometro di ferrovia e ci sarebbe voluto parecchio per ripararla.
Berti arrivò alle casse di tritolo, seguito dai due capitani, e posizionò il detonatore. Premette alcuni tasti, e il piccolo schermo si illuminò.
«Venti minuti vanno bene, no?» chiese voltandosi verso Guerras e Malloy, e questi annuirono.
Allora Berti collegò alcuni fili, e armeggiò con i tasti finché sul piccolo schermo apparvero dei numeri: 20:00. L’attentato alla ferrovia era pronto.
«Non vi resta che premere il pulsante, appena ce ne andremo e dopo venti minuti…» l’agente aprì con un gesto improvviso le dita della mano, mimando un’esplosione.
«Noi non avevamo intenzione di compiere questo attentato, in questo momento, Berti. Lei ci ha assicurato che farlo ora sarà utile alla nostra causa.» chiese Guerras.
«Certamente, e sarà utile anche a noi» rispose Berti. «Voi riuscirete a causare un bello scompiglio nel Dominio, distruggendo uno tratto ferroviario importante come questo, e noi avremo la giustificazione per instaurare leggi e regolamenti più repressivi verso Operai ed Elettori».
Intanto nella plancia dell’aereonave DX8 il navigatore e l’addetta alle comunicazione erano ancora legati in un abbraccio. Le mani di lui si erano insinuate sotto la maglietta e ne stavano carezzando la schiena, e il cinturino del reggiseno. A sua volta lei stava carezzando i fianchi di lui. A turno si baciavano la bocca e il collo. Entrambi respiravano affannosamente.
In quel momento ai loro sospiri, s’aggiunse un suono. Era un allarme. Dovette suonare tre volte prima che la ragazza si staccasse dal navigatore, scuotendo la testa. Respirando profondamente, deglutì e indossò nuovamente le cuffie. Sul quadrante del radar erano apparse due tracce, che si avvicinavano rapidamente al punto centrale. La forma dei due oggetti, i loro movimenti e la loro velocità non lasciavano dubbi su che cosa fossero.
«Guarda la traccia» disse il pilota.
«Sì, lo vedo. Sono apparse all’improvviso…» constatò lei. Poi esclamò: «Dispositivo antiradar!»
Premette un tasto sulla consolle e cominciò a chiamare il capitano.
«Capitano! Capitano!»
«Qui Malloy, che succede?» rispose il capitano, con una voce metallica dalle casse.
«Capitano, aereonavi da guerra in avvicinamento!» disse la ragazza.
«Ricevuto!» gracchiò la voce del capitano dall’altoparlante.
Il capitano Malloy strinse nelle mani il suo comunicatore per un momento, poi si voltò verso l’agente. Si avventò su di lui e lo afferrò per la cravatta, stringendola come un cappio: «E così lui lo sapeva vero?! E così lui ci aiuta, vero?!»
Berti, rantolò, tentando di risponder, ma non riuscì ad articolare alcuna parola. Aveva perso la sua calma e la sua sicurezza. Malloy lo lasciò andare con una spinta, e poi corse veloce verso gli uomini che stavano pigramente raccogliendo le attrezzature.
«Ragazzi, via! Navi nemiche in avvicinamento» gridò.
Un brusio si sparse nella folla formata dai due equipaggi. Gli uomini cercarono di mantenere la calma e di radunare le attrezzature, ma non appena nella conca risuonò il boato lontano delle due aereonavi nemiche, si diffuse il panico. Corsero tutti verso i sue veicoli parcheggiati, e si accalcarono intorno alle scalette. Cominciarono a salire uno alla volta, mentre quelli che restavano indietro gridavano, imprecavano ed insultavano chi gli stava davanti. I più impazienti, spinti anche dal riecheggiare delle aereonavi del Dominio che si faceva sempre più vicino, si arrampicarono sui sostegni idraulici. Un gruppo di sei uomini in preda al terrore fuggì nella boscaglia. A nulla valsero i tentativi dei due capitani di calmare i rispettivi equipaggi.
Quando infine anch’essi riuscirono a salire, dettero subito ordine di riaccendere i motori e di disimpegnare immediatamente l’area. 
«Torniamo subito al Vettore» disse Malloy.
Il pilota non se lo fecero ripetere due volte, e i motori emisero nuovamente quella luce bluastra e quel ronzio elettrico. Il veicolo si sollevò in aria, sopra il bosco e, puntando la prua verso sud est, partì, seguito dall’altro. Il bosco sotto di loro diventò un mare impetuoso, blu e verde scuro.
Intanto quelli che erano fuggiti, senza salire sulle aereonavi, continuavano a correre. Dopo aver percorso più di un chilometro, si trovarono in un’altra radura, ancor più ampia di quella precedente. Si fermarono per qualche minuto a riprendere fiato, poi ripresero la marcia. Tentarono di aggirare il grande prato, correndo lungo il limitare del bosco. Quello che correva più lentamente, un uomo sulla quarantina che faticava più dei suoi compagni a tenere il passo, si trovò a guardare in basso e notò un puntino di luce verde che li seguiva sul terreno.
Non ebbe il tempo di gridare, né tantomeno di avvertire i suoi compagni. Non ebbe neanche il tempo di realizzare. Riuscì solo a percepire il suono del veicolo nemico alle sue spalle e poi un boato. Due boati. Tre boati. Decine, centinaia di boati in rapida successione.
Una sventagliata di mitragliatrice li investì in pieno.
L’uomo che aveva visto il laser di puntamento, fu colpito da questa prima raffica di proiettili. Il suo busto, letteralmente strappato dalle gambe saltò in aria, schizzando sangue e perdendo budella. Una seconda raffica colpì gli altri uomini. I proiettili penetrarono nelle loro carni squarciandole. Anche i loro corpi vennero smembrati.
Il veicolo passò a volo radente sopra quel che restava di loro, fendendo l’aria. Dopodiché si sollevò nuovamente sopra le chiome degli alberi e si unì alla sua compagna, che si era già data all’inseguimento delle aereonavi ribelli. Queste ultime furono raggiunte nel volgere di pochi istanti.
Le aereonavi nemiche, dalla livrea blu oltremare, presero subito a mitragliare quelle ribelli.
«Megara, collegami con Guerras» fu l’ordine concitato del capitano Malloy.
«Sissignore!» 
«Guerras, qui Malloy. Dividiamoci, cerchiamo di confonderli!»
«Ricevuto» gracchiò l’altoparlante in risposta.
Subito i due veicoli si separarono. L’aereonave DX8 continuò la sua corsa verso sud est, mentre la DX9 virò verso nord-est accelerando. Lo stesso fecero le due aereonavi nemiche. Benché la DX9 avesse aumentato di molto la velocità, grazie anche al fatto che non era più gravata dal carico di tritolo, il veicolo nemico gli fu subito alle calcagna. Era evidente che le navi nemiche erano molto più veloci e agili. I nemici continuarono a bersagliare di mitra il veicolo ribelle, che privo di armi non poteva far altro che schizzare via nell'aria, tentando di schivare i colpi nemici. All’improvviso l’aereonave del Dominio rallentò allungando la distanza, benché continuasse ad inseguire la DX9.
Guerras, che era un capitano esperto, capì subito quel che stava per succedere. Lanciò ordini disperati ai suoi uomini.
«Scendere di quota... virare verso nord...» gridò.
Ma era troppo tardi.
Dal veicolo nemico si sprigionò una fiammata. Un cannone aveva lanciato un missile. Il proiettive volò rapidissimo verso la poppa della DX9, lasciandosi dietro fiamme azzurre. L’aereonave ribelle tentò di schivarlo virando, ma il missile era dotato di un sistema di inseguimento. Sfrecciando nell’aria il dardo colpì la poppa della DX9 lateralmente e, scoppiando, danneggiò il motore posteriore. Questo emise una serie di scariche elettriche, per poi esplodere. Dapprima la poppa dell’aereonave si impennò ma poi, non più privata del suo peso, ricadde verso il suolo trascinando con sé il resto del veicolo.
All’impatto con il suolo il veicolo non si fermò, ma continuò a procedere in avanti, per inerzia. Talvolta la prua sbatteva contro il terreno per poi rimbalzare puntando verso l'alto. In questa folle corsa, il veicolo scavò un profondo solco, abbattendo tutti gli alberi e rovine che incontrava, finché la prua andò a schiantarsi contro una rupe. La poppa era ormai completamente fracassata, ed aveva preso fuoco. Le paratie erano divelte, e dai cavi elettrici recisi ad intervalli regolari si sprigionavano scintille e fiammate.  
A questo punto buona parte dei membri dell'equipaggio, capitano compreso, erano morti infilzati dalle lamiere arsi vivi dal fuoco. I pochi sopravvissuti cercarono di abbandonare il veicolo in fiamme.
Ma in quel momento l’aereonave nemica compì una rapida virata di centottanta gradi, e salì di quota. Subito dopo si gettò in picchiata contro la carcassa morente della DX9. Due lampi di luce, e questa volta partirono due missili. I due dardi raggiunsero l’obiettivo fiammeggiando. Colpirono la nave e ne incendiarono il carburante. L’aereonave ribelle esplose con un terribile boato, in una palla di fuoco che incendiò il bosco circostante.
Il veicolo del Dominio compì un’agilissima virata verso l’alto, a pochi metri dal suolo, e non appena fu salita a parecchie centinaia di metri sopra il tetto del bosco, virò ancora, verso sud est andando a raggiungere la compagna.
Quest’ultima stava incontrando non poche difficoltà nel seguire la DX8. Benché fosse più lenta e meno agile dei veicoli del Dominio, essa era dotata di armamenti sufficienti a tener loro testa. L’aereonave nemica lanciò numerosi missili, ma ogni volta la DX8 riusciva a confonderne il sistema di puntamento lanciando a sua volta dei missili, o scendendo verso il suo per poi risalire all’ultimo secondo.
«Vediamo di cosa sono capaci questi bastardi! Aumentare la velocità, virare verso ovest e scendere di quota!» ordinò Malloy.
«Sissignore» rispose il pilota.
L’aereonave compì una lunga virata, invertendo la rotta, e si abbassò. Cominciò a sfrecciare sopra la boscaglia, sfiorando le chiome più alte, come una nave farebbe tra le onde. L’aereonave nemica gli tenne subito dietro, aumentando la velocità. Intanto gli addetti alle armi di entrambi i veicoli continuarono a lanciarsi contro raffiche di mitragliatrice, e batterie di missili. Le munizioni di entrambi stavano per terminare.
«Frenare» gridò Malloy.
«Cosa?!»
«Ho detto, frenare!»
«Ma capitano…»
Malloy lo interruppe, si alzò dalla sua poltrona, e spodestò il pilota dalla sua postazione. Prese i comandi, e operò una brusca frenata, tanto che chiunque a bordo non si stesse reggendo fu sbalzato in avanti. L’aereonave nemica che procedeva a grande velocità, non riuscì a frenare in tempo. Nel tentativo di evitare lo schianto, compì una virata.
L'impatto con poppa della DX8 avvenne lateralmente. Barcollando a mezz’aria, il veicolo nemico sembrò cadere verso il suolo, riuscendo però a riprendere il controllo, mentre il veicolo ribelle venne sbalzato in avanti con la prua rivolta verso il basso. Malloy riuscì però a rimettere la nave in assetto di volo, ed operò un’altra virata, riprendendo la rotta verso sud est. Dopodiché si alzò, restituendo la postazione al pilota.
«Capitano» disse l’addetta alle comunicazioni, «le tracce nemiche si allontanano. Li abbiamo seminati.»
«No, Megara, ti sbagli» rispose il capitano con aria seria mentre riprendeva posto sulla sua poltrona, «non li abbiamo seminati. Ci hanno lasciato andare. Non costituiamo una minaccia, per loro. Notizie della DX-8?»
Megara scosse la testa, e il capitano chinò il capo.
Poi si voltò verso l’agente Berti che stava appoggiato ad una paratia, con la fronte imperlata di sudore. Berti fece per aprir bocca, e alzò le mani, ma Malloy lo fermò con un gesto.
«Per quanto riguarda lei, Berti» disse con disprezzo, «verrà con noi alla nostra base. Lì ci spiegherà quali fossero i suoi ordini.»
«Io non posso rivelare tutti i miei ordini, sono tenuto…»
«Le assicuro che ce li dirà. Levatemelo da davanti!» disse rivolgendosi a due dei suoi uomini, che prontamente afferrarono l’agente per le braccia e lo condussero fuori dalla plancia.
Nel mentre che veniva trascinato via, Berti continuava gridare: «Aspettate… ragionate… se l’avessi saputo, credete davvero che sarei rimasto con voi…» ma nessuno lo ascoltò.
«Non era mai successo che il Dominio ci tradisse così…» commentò Megara.
«Mai, è vero.» rispose il capitano.
«Cosa può significare?»
«Significa che il tacito patto stipulato quasi trenta anni fa tra noi Ribelli e il Dominio, è stato appena rotto. Significa che questo tempo di pace volge al termine. Significa, insomma che lo scontro aperto è ormai vicino!»

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Capitolo 2
*** II ***


II
 

“L'Imperatore è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale.”

Articolo 70, primo comma, della Legge Fondamentale del Dominio
 

Nell’ampia e buia stanza da letto penetrava solo uno spiraglio di luce mattutina, passando attraverso le due tende di broccato azzurro che coprivano la finestra, e colpendo le gocce di cristallo del grande lampadario proiettava uno scintillio di luci colorate sulla parete opposta e sul grande letto a baldacchino. E lì, avvolto in coperte di seta e lana finemente ricamate, dormiva un anziano signore, sull’ottantina, dal respiro lento e regolare. Stando steso di lato, un braccio ossuto sporgeva da fuori delle coperte poggiato sul comodino. Vicino al punto dove stava la mano, c’erano un paio di occhiali e alcune boccette rovesciate dalle quali erano cadute delle pillole di vari colori. 

Dal corridoio fuori dalla stanza da letto proveniva un certo tramestio. Inservienti stavano preparando la cerimonia che si svolgeva ogni mattina nella residenza privata. Alcuni stavano pulendo il corridoio e le stanze adiacenti con dei silenziosi aspirapolvere, altri lucidavano i soprammobili d’argento, d’oro e di cristallo, che erano sparsi sui mobili ornamentali. Altri con delle pezze e delle boccette di prodotto sgrassatore e cominciò a lavare i fregi e le scanalature delle colonne corinzie che ornavano il corridoio.
Tutti indossavano la stessa uniforme da lavoro.
A dirigere queste operazioni di pulizia nel corridoio e nelle stanze in cui si sarebbe poi spostato il cerimoniale, c’era un arcigno signore di mezza età con i capelli perfettamente pettinati e lisciati, e il viso incipriato. Il maestro delle cerimonie si muoveva avanti e indietro per il corridoio impartendo ordini agli inservienti, riprendendone qualcuno di tanto in tanto.
«Dovete sbrigarvi, operai!» disse ad un certo punto cadenzando le parole, «è quasi ora! Sua Eccellenza deve trovare tutto perfetto! Il minimo sbaglio sarà segnalato ai vostri Guardiani di riferimento!»
Per un attimo gli inservienti si fermarono, e lo guardarono.
«Non pensiate che qui nella Splendoris Civitas i Guardiani siano più morbidi rispetto a quelli delle fogne da cui venite! Al contrario…» soggiunse con un ghigno.
A quelle parole gli inservienti presero a lavorare più febbrilmente e più rapidamente, passando nuovamente dove avevano già lavato. Sapevano infatti che se fossero stati segnalati, avrebbero rischiato delle frustate o peggio, e tutti loro almeno una volta ci erano passati.
Il maestro delle cerimonie fu compiaciuto nel vedere quanto la sua minaccia avesse accelerato le operazioni. Esperto e geloso del suo mestiere, voleva che tutto fosse perfetto, come ogni mattina di ogni giorno. Aveva lavorato come maestro delle cerimonie per quaranta anni, servendo ben tre capi di stato diversi, e non aveva mai sbagliato nulla. Non voleva pertanto cominciare adesso.
Intanto le operazioni di pulizia si era concluse con successo. Il maestro passò velocemente in rassegna il corridoio e le sale, controllando che fosse tutto in ordine. Con soddisfazione constatò che tutto era perfettamente pulito e lindo. Pronto per la giornata che stava per iniziare.
«Molto bene.» disse, senza tradire alcuna emozione, agli inservienti che si erano disposti uno accanto all’altro in due file, come soldati.
«Molto bene» ripeté, «adesso andate alle cucine e state pronti a portare la colazione al suono della campanella!»
Gli inservienti si dileguarono, sparendo in una porta in fondo al corridoio, mentre il maestro controllò gli ultimi dettagli ossessivamente e risistemò la propria uniforme. Tutto doveva essere perfetto.
Egli si stava già disponendo fuori della porta della stanza da letto, quando nel corridoio un antico orologio a pendolo suonò sette rintocchi. Il maestro, allora bussò tre volte alla porta.
Dopo di ché la aprì e a bassa voce sussurrò: «Eccellenza, è ora.»
L’anziano signore nel letto si contorse e inspirò profondamente, dopodiché si alzò mettendosi a sedere sul bordo del letto con le spalle rivolte verso la porta.
«Buongiorno, Eccellenza» disse con deferenza il maestro delle cerimonie, chinando leggermente il capo, «le faccio portare subito la colazione!»
Il signore non rispose, e il maestro delle cerimonie uscì richiudendo la porta. Il vecchio si alzò, infilò una vestaglia da notte color ruggine che stava appesa alla parete accanto al letto, e si mise gli occhiali che stavano sul comodino. Sul piccolo mobile c’era una pulsantiera, e il vecchio premette il tasto sotto il quale c’era scritto “agenda”.
Subito il dispositivo si illuminò. Una melliflua voce femminile disse: «Primo ottobre, anno 2305. Incarichi della giornata: ore 11:00, seduta del Consiglio Supremo della Guerra e della Sicurezza; ore 15:00 visita medica; ore 16:30 incontro con la delegazione dei…»
L’uomo premette nuovamente il pulsante, interrompendo la voce.
Si avvicinò alla finestra e aprì le tende. La luce del giorno inondò la stanza, rendendo visibili le pareti e la volta a crociera affrescata.
Nella stanza, oltre al letto a baldacchino, c’erano anche un tavolo con delle sedie di legno intagliato e con intarsi in madreperla, e un cassettone in stile art nouveau, con le maniglie di cristallo, sormontato da uno specchio.
Sul cassettone vi erano alcune cornici con fotografie. Una rappresentava una bella signora di una certa età, e sulla cornice era incisa una parola: “Penelope”. Un’altra rappresentava un uomo giovane dall’aria vagamente triste, e l’intestazione recava “Claudio”. Infine ve ne era un’altra in cui erano ritratte due ragazze, una con i capelli biondo cenere e l’altra, più giovane, con i capelli di un colore biondo ramato, che si tenevano abbracciate. I nomi impressi sulla cornice erano “Selene e Domiziana”. Infine vi era un'altra foto che ritraeva la famiglia al completo.
L’uomo restò in piedi con i pugni che si toccavano dietro la schiena, e attraverso le piccole, nere e opache lenti dei suoi occhiali, guardò fuori dalla finestra. Dall’alto della Turris Maxima egli osservava la capitale, che si estendeva per chilometri in tutte le direzioni, solcata, da nord est a sud ovest, dalla scia verdognola del suo fiume.
I quartieri più vicini alla residenza, erano stati ristrutturati, eppure c’erano ancora molti antichi edifici in rovina, invasi da piante rampicanti, e circondati da cumuli di macerie. Molte chiese diroccate e campanili spezzati. Molti tetti crollati.
In mezzo ad essi spiccavano edifici moderni, torri e grattacieli, che parevano fatti di cristallo, e riflettevano la luce del sole mattutino. Molti di questi grattacieli erano collegati fra loro da ponti, e passerelle sospese a centinaia di metri sopra gli antichi tetti circostanti, ed erano dotati di terrazze, sui cui venivano coltivati lussureggianti giardini pensili, i cui innaffiatoi automatici spruzzavano sulle piante acqua nebulizzata che rifrangendo la luce produceva arcobaleni. Strade e ferrovie sopraelevate passavano tra i grattacieli, o attraverso essi. Velocissimi treni sfrecciavano su di esse.
Si vedeva anche una serie di veicoli fluttuanti di varie dimensioni, che sciamavano tra gli edifici. Erano le aereonavi, singolari veicoli mossi da motori antigravitazionali. Agili, veloci e con una forma simile a quella delle chiglie delle antiche navi che solcavano gli oceani.
Il contrasto con l’antichità della città era molto forte, uno scontro fra epoche diverse. Anche alcuni degli antichi edifici erano stati ricostruiti o riparati. Tra questi, verso ovest, proprio di fronte alla finestra, vi era una grande basilica bianca, con una maestosa cupola che spiccava al pari degli altri grattacieli. Su di essa era in corso una ristrutturazione; lo si capiva dalle impalcature allestite intorno alla sua mole bianca, come molti altri edifici antichi della città. Ovunque infatti si scorgevano gru e impalcature, ed altri veicoli volanti che trasportavano materiali. Ovunque si tentava di preservare quel che restava di Roma.
L’Imperatore osservava la sua capitale, quando si udì il trillo di una campanella a mano e fu di nuovo bussato alla porta. Si voltò verso la porta e proferì la prima parola della giornata, con voce bassa e fredda: «Avanti»
La porta si aprì.
«Eccellenza, la sua colazione» disse il maestro delle cerimonie aprendo la porta.
L’Imperatore rispose con un gesto con la mano.
Il maestro chinò il capo, e poi batté le mani. Subito un inserviente spinse dentro la stanza un carrello con il piano di cristallo. Su di esso, perfettamente ripiegata, c’era una tovaglia e accanto c’era un vassoio d’argento con una tazza di caffè e un’altra, più grande, di latte, un piattino con una brioche calda, con la glassa che luccicava riflettendo la luce, e un contenitore con due diverse tipologie di zucchero. Vicino alla tovaglia e al vassoio c’era una giornale piegato a metà e fresco di stampa.
Un altro inserviente seguì il primo, e arrivati al tavolo lo apparecchiarono insieme, disponendo tutto in perfetto ordine. Quando fu tutto pronto, i due inservienti e il maestro delle cerimonie accennarono un inchino all’Imperatore.
Dopodiché fece un altro gesto con la mano e quelli se ne andarono chiudendo la porta. L’Imperatore amava consumare i suoi pasti da solo, e non visto se non dai suoi parenti.
Non appena rimase solo, Marco Silla prese posto, disponendo la sedia lateralmente al tavolo e iniziò a mangiare.
Quando ebbe terminato l'Imperatore prese il giornale e lo aprì. Era un'edizione del giornale che Silla abitualmente leggeva, ovvero “L'Impero”. Sotto il titolo della testata, campeggiava in prima pagina un grande titolo scritto tutto in maiuscolo: SCONTRI AL SENATO IMPERIALE. L’occhiello recava: Saraga, andiamo avanti. Mentre il sommario: Roma, ancora proteste al Senato Imperiale da parte delle opposizioni contro il decreto economico presentato dal Consiglio Esecutivo il 19 settembre, il Senatore Reggente John Mills sospende otto senatori dell'FDD. E sotto c'era una foto che ritraeva gli scranni del Senato tra i quali alcuni senatori aveva sollevato cartelli con messaggi di protesta.
Sulla destra della pagina c'era il lungo editoriale del direttore del giornale che aveva titolo ”Perché Marco Aurelio Silla, Nono Imperatore, deve restare”. Il direttore chiedeva all'Imperatore di espletare un terzo mandato, in altre parole di restare in carica fino alla fine dei suoi giorni, vista la sua età avanzata, visto che in quella situazione non c'era nessun altro che fosse all'altezza di sostituirlo come capo dello stato. Silla ne lesse solo la prima parte, senza badarci.
Riceveva questi appelli pieni di ipocrisia quasi tutti i giorni da qualche tempo, ma aveva sempre rifiutato. Non aveva intenzione di presentarsi davanti al Senato Imperiale, e farsi eleggere una terza volta Imperatore del Dominio. In fondo aveva già espletato due mandati, ed era da ventisei anni che reggeva le sorti dello stato. Era vecchio e stanco, ed era fin troppo intelligente per essere attaccato ancora al proprio seggio.
Per questo rispondeva sempre: «Avete un anno e mezzo, fino alla scadenza del mio secondo mandato, per trovare un candidato adeguato: trovatelo, dunque!»
In quel momento fu di nuovo bussato nuovamente alla porta, e l’Imperatore ripeté: «Avanti!»
Il maestro delle cerimonie entrò chinando il capo come sempre.
«Eccellenza, c’è qui il consulente militare.»
«Fatelo entrare.»
Il maestro chinò nuovamente il capo, e poi fece cenno a qualcuno fuori della porta.
«Prego.» disse.
Entrò allora un uomo in alta uniforme, con i capelli brizzolati, che portava una borsa di cuoio bruno. Non appena si trovò dinanzi al Capo dello Stato l’uomo si drizzò e fece un saluto militare con la mano destra. L’Imperatore rispose con un cenno del capo.
«Prego.» disse indicando l’altra sedia.
L’uomo stette un momento ad osservarlo.
C'è chi dice che il potere logora: Marco Aurelio Silla, almeno dal punto di vista fisico, ne era la dimostrazione vivente. Da quando ventisei prima era stato eletto Imperatore, era stato colpito da numerose patologie che lo avevano lasciato magro, deperito e pallido come un cadavere.
Era di bassa statura, e superava di poco il metro e cinquanta. Leggermente ingobbito, spesso tendeva a zoppicare. La fronte era ampia, spaziosa e solcata da numerose rughe parallele che formavano acuminate cuspidi sopra gli occhi, quando parlava. L'attaccatura dei capelli bianchi era molto alta. Il viso era anch’esso solcato da rughe e scavato abbastanza da poterne perfettamente distinguere le ossa del cranio e della mandibola.
Ciò che più impressionava di lui erano gli occhi. Pare che una grave malattia avesse pregiudicato la sua vista, ed era per lenirne gli effetti che portava sempre quel paio di occhiali dalle lenti nere e opache e dalla esile montatura. Le lenti non coprivano l’intera orbita, come occhiali normali, ma solo l’apertura delle palpebre, e quando aggrottava la fronte lembi di pelle avviluppavano le lenti, che sembravano così parte del suo corpo. Questo gli dava l’aspetto di una specie di insetto.
Il consulente si sedette e, posata la borsa sul tavolo, ne estrasse un fascicolo.
«Eccellenza, qui ci sono in sintesi gli argomenti che saranno trattati nella seduta di oggi del Consiglio Supremo della Guerra e della Sicurezza»
Silla li prese senza fare una parola, e li esaminò.
«Come può vedere le ho aggiunto un sommario all’inizio…» e qui il consulente prese a spiegare le varie strategie che l’esercito stava seguendo in quel periodo, per risolvere le dispute di confine con le altre Nazioni Sopravvissute, cioè il Nord Europa e la Nuova Russia. Continuò poi con i movimenti dei Ribelli negli spazi tra le Isole.
«Ieri notte si è verificato un incidente e le nostre nuove aereonavi hanno risolto la situazione»
«Si spieghi!»
«Il sistema d’allarme delle ferrovie magnetiche è scattato alle ore 23:49. I computer hanno rilevato l’approssimarsi di mezzi non autorizzati ai binari magnetici presso le rovine di Firenze.»
«Mezzi?»
«Due aereonavi modello Aquila Due e Aquila Tre» rispose il consulente.
«Mi risultava che i Ribelli possedessero solo mezzi di terra. Da quando hanno anche delle aereonavi da guerra?!»
«Eccellenza, hanno... hanno depredato un di deposito di aereonavi dismesse circa tre settimane fa»
«E come mai non sono stato informato?»
«Perché non c’è da preoccuparsi, Eccellenza: si tratta di modelli vecchi e lenti, come le Aquila Due e Tre, o le Gheppio Otto. Molte di esse sono anche gravemente danneggiate. Non possono competere con il nuovo modello Falco Quindici! E l’incidente di ieri lo ha dimostrato.» disse alzando le mani.
«Cioè?»
«Signore… Eccellenza, quei Ribelli stava piazzando del materiale esplosivo. Volevano far saltare la ferrovia. Le nostre Falco Quindici sono giunte sul posto in un minuto. All’approssimarsi delle nostre due Falco Quindici hanno tentato di fuggire, ma la serie Aquila è troppo lenta rispetto alla serie Falco. Una è stata abbattuta, mentre l'altra è riuscita ad allontanarsi, ma solo dopo essere stata pesantemente danneggiata. Dubito che potrà servirgli in seguito!»
«Non si può negare che sia un buon risultato, tuttavia non possiamo abbassare la guardia,» disse l’Imperatore, «non possiamo permetterci il lusso di sottovalutarli!»
«Certamente, Eccellenza!»
«Rammenta cosa avvenne al mio predecessore?»
«Certo, Eccellenza. Come dimenticare la tragica dipartita di Sua Eccellenza Antonio Scavari? Fu un grande uomo…»
«Senza ombra di dubbio, ma era anche un ingenuo idealista!» disse l’Imperatore scuotendo il capo.
Il consulente non rispose. Silla si appoggiò con il gomito al tavolo, tenendosi la testa.
«Può bastare così, sergente» disse. «E’ tutto!»
«Eccellenza!» disse il consulente alzandosi e facendo un saluto militare.
«Lasci quelle carte. Potrebbero servirmi ancora. E riferisca al Generale Seelber che voglio delle informazioni in più circa l'incidente di ieri sera» disse Silla, mentre si alzava e dava le spalle al suo interlocutore.
«Sissignore!» disse facendo un altro saluto militare, dopo di ché uscì chiudendosi dietro la porta.  
L'Imperatore tornò alla finestra, una mano stretta a pugno dietro la schiena e l'altra che  massaggiava l'ampia fronte calva. Adesso il numero di aereonavi da trasporto che solcavano i cieli della capitale era notevolmente aumentato, e le strade erano oramai congestionate. Silla osservò la scena, per qualche minuto, riflettendo su quanto il consulente gli aveva appena riferito e sulla situazione del paese.
Ribelli che si impossessavano di aereonavi, attentati presso la ferrovia, tensioni che sfociavano in scontri aperti con le altre Nazioni Sopravvissute, scontri e scandali nelle istituzioni, proteste da parte degli Elettori ancor più che dagli Operai. Era chiaro che la situazione stava per precipitare. La precaria pace che Silla aveva garantito per quasi trenta anni al Dominio, governandolo inflessibilmente, si avviava oramai al termine. Il sistema morente che aveva cercato di preservare stava ormai per implodere su sé stesso.
E la minaccia non veniva solo dall'esterno, dai selvaggi fuori dal continente, dai Ribelli o dalle altre Nazioni Sopravvissute, ma anche e soprattutto dall'interno. Dignitari, politici e imprenditori avidi di denaro e potere, pazzi e incoscienti, disposti a sacrificare la stabilità del paese pur di raggiungere i loro scopi individualistici. Silla scosse il capo. Per trenta anni aveva fatto da arbitro in questo pericoloso gioco, ridimensionando chiunque tra questi andasse troppo oltre. Quel che più lo preoccupava era che nessuno, tra coloro che si candidavano a succedergli, era lontano da quelle ambizioni, ed era anche questo il motivo per cui gli si chiedeva di restare. Faceva comodo una figura forte a fare da arbitro imparziale. Ma oramai si sentiva troppo stanco e vecchio per continuare ad arginarli.
Guardò il suo orologio da polso che segnava le nove, e allora uscì dalla stanza e si diresse verso il bagno. Anche la stanza da bagno era degna della residenza imperiale. Tutto l'ambiente era rivestito di mattonelle e maioliche. L'Imperatore entrò e si chiuse dietro la porta.
Ne uscì una mezz'ora dopo, pronto per la giornata. Aveva indossato un completo blu scuro, e una cravatta dello stesso colore, sotto la quale si intravedeva una camicia di fine seta bianca. Fazzoletto al taschino, e poco sopra una medaglietta appuntata. La stoffa del nastro era rossa, salvo per un rombo bianco nel mezzo. Sul tondo d'oro della medaglietta era inciso un simbolo: una croce, come quella delle chiese, sormontata da un'aquila con le ali aperte e il becco rivolto verso destra.
Sua Eccellenza, l'Imperatore, era pronto a svolgere gli incarichi della giornata.
Si avviò, con andatura lenta e claudicante, verso la porta in fondo al corridoio. L’Imperatore premette un tasto e l'ascensore sfrecciò subito, e gli edifici che circondavano la Turris Maxima parvero cambiare forma man mano che scendeva verso il basso, e i particolari erano sempre più nitidi. Con una frenata leggera la cabina si fermò alcuni piani più in basso. Le porte si aprirono mostrando all'Imperatore un corridoio molto simile a quello della sua residenza, solo che era più corto. In fondo si apriva un ampio salone luminoso.
L'Imperatore percorse il corridoio silenziosamente, accompagnato da una musica suonata su un'arpa.

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Capitolo 3
*** III ***


III
 
Alcuni piani più in basso rispetto alla residenza imperiale, c’era un altro appartamento, costruito intorno ad un grande ambiente. Un ampio salone che sembrava esser stato arredato prima del Grande Incendio. I mobili erano tutti antichi, e rifiniti con decorazioni floreali. Il pavimento, se visto in contro luce, era pieno di crepe ed abrasioni, segno dei tanti piedi che per più di un secolo lo avevano calpestato. Le pareti erano ricoperte da una carta da parati da parati bruna con gigli e fiori intrecciati fra loro.
Appeso ad una parete, vi era un grande televisore al plasma, che stonava con l’arredamento datato della sala. Il televisore era acceso, ed era sintonizzato su un telegiornale. Dalle casse non proveniva alcun suono, in quanto l’audio era stato disattivato.
Di fronte al televisore, al centro della sala c’era un grande divano rivestito di tessuto bianco. E lì stava seduta una giovane ragazza con i capelli di un biondo ramato, che le ricadevano mossi in ciocche arancioni, fin sotto le spalle. Aveva il viso picchiettato di efelidi. Indossava un paio di leggins attillati, e una canottiera bianca.
Su un piccolo piedistallo era posto una spartito, ed ella reggeva appoggiata sulla spalla sinistra una grande arpa, dipinta di nero, e con la colonna scolpita con fregio corinzio. La ragazza si stava esercitando, seguendo lo spartito. Con la mano sinistra suonava i bassi, mentre con la destra armeggiava con più corde, tendendo pollice ed indice. Poi si fermò.
«Allora…» disse posando l’indice sul foglio, «re… fa… re… sol…» e ripetendo le note che leggeva, riprese a pizzicare le corde dell’arpa, e le note de La Danza delle Fate Confetto di Tchaicovsky riecheggiarono nel salone. Si fermò solo un momento per voltare pagina.
Concentrata come era sullo strumento e sullo spartito la ragazza non si accorse che qualcuno era entrato nel salone. Un uomo anziano e di bassa statura, che non disse nulla per non interrompere l’esecuzione della ragazza. Quest’ultima si accorse della presenza del vecchio qualche minuto dopo che era entrato, e vedendolo con la coda dell’occhio sobbalzò ridacchiando. 
Smise di colpo di pizzicare le corde e si voltò, volgendo due occhi blu cobalto verso il vecchio. Posata l'arpa, andò incontro all'Imperatore sorridendo.
«Nonno, mi hai spaventata!» disse lei con voce allegra e squillante.
Silla l'abbracciò e sorrise. Sorrise di un sorriso che solo le sue due nipoti, Selene e Domiziana, riuscivano a strappargli. Solo loro riuscivano a distrarlo da intrighi politici, interessi nazionali ed altro.
«Sono passato a trovarvi, prima di andare in ufficio.» sospirò.
Domiziana lo guardò. «Ci sono molti impegni oggi?»
«Uno solo, mia cara. È un solo impegno, ma è uno che ne vale mille, di impegni: governare questo paese! Un impegno che sono costretto a portare avanti da ventisei anni.»
«Ed è un paese complicato, questo.» lo anticipò Domiziana.
Aveva sentito suo nonno ripetere quella frase centinaia di volte, fin da quando era bambina.
«”Complicato” è un eufemismo! A nessuno qui interessa l’interesse dello stato, ma solo il proprio interesse. E per perseguire i propri interessi tutti vogliono sempre più denaro e potere. Ed io dico che il potere andrebbe conferito solo a chi non lo vuole!»
«…solo a chi non lo vuole!» lo imitò Domiziana sottovoce, stando attenta a non farsi sentire.
«Dovrei scambiare due parole con tua sorella.» disse guardandosi intorno, mentre il sorriso svaniva dal suo volto.
Aggrottò subito le ciglia, facendo un impercettibile movimento con gli occhi dietro le lenti. «Dove è tua sorella?» chiese alla più giovane delle sue nipoti.
«Dorme.» si apprestò a rispondere Domiziana. «Ieri sera è tornata tardi! È andata con i suoi compagni di università ad una festa» rispose la ragazza, volgendo gli occhi verso una delle porte che si aprivano sul fondo della sala.
L'Imperatore non rispose. Scosse la testa, e poi guardò uno dei mobili nella stanza. Su di esso c’era una giacca di pelle nera, che di certo non apparteneva a nessuna delle sue nipoti.
«Capisco» disse annuendo il vecchio annuendo, e dirigendosi fuori dalla sala.
Si fermò sulla soglia, e voltandosi un’ultima volta verso Domiziana, le disse: «Dì a Selene che le voglio parlare. Dille di raggiungermi nel mio ufficio appena… appena può!» concluse calcando la voce sull’ultima parola.
«Sì, nonno.» rispose Domiziana, sorridendo.
Il vecchio si diresse verso l’uscita con le sottili labbra contratte, e storcendo il naso. Non appena fu uscito, l’espressione sul volto della ragazza, cambiò. Dal sorriso passò al sollievo, e sbuffò. Camminò fino alla porta della camera, e la dischiuse lentamente.
Una voce venne da dentro la stanza: «Se ne è andato?»
«Sì» annuì Domiziana.
La ragazza entrò nella camera, con il grande letto poggiato alla parete di fronte e sormontato da un baldacchino. La stanza era calda, ed in disordine, con vestiti e scarpe sparsi sul pavimento e sulle sedie. Il letto disfatto aveva le coperte rivoltate e contorte, e tra di esse giaceva l’altra nipote dell’Imperatore. Selene era distesa per sbieco sul materasso, i capelli che le coprivano il viso, e non era sola.
Tra le coperte e le lenzuola intrecciate, accanto a Selene, vi era un altro corpo. La chioma castana, le spalle ed la schiena glabre, e le natiche rotonde solo parzialmente coperte da un lembo del lenzuolo bianco.
«Grazie per averci coperto, piccola.» disse Selene, ma Domiziana scrollò la testa.
«Il vecchio mi ha detto che vuole vederti.»
«Non gli sfugge niente, a quello!» sbuffò, poi si voltò verso l’altra ragazza sorridendo. «È meglio se vai, bella» le sussurrò.
«Davvero?» ridacchiò quella.
Rise anche Selene, poi la prese per il mento e la baciò. La ragazza rimase ferma, arcuando di tanto in tanto la schiena e respirando forte. Selene prese a carezzarle la schiena, toccandola con delicatezza. La sua mano scese lentamente lungo la schiena, e si soffermò sul sedere, compiendo un movimento circolare. E poi si insinuò fra le cosce, al che la ragazza inspirò profondamente e chiuse seccamente le labbra.
Domiziana tornò nel salone, con un sorrisetto. Giunta al divano riprese ad esercitarsi con l’arpa, suonando lo stesso pezzo di prima. In sottofondo si sentivano gemiti e sospiri. Finché Domiziana udì un grido più forte degli altri, che la distrasse facendole perdere la concentrazione e sbagliare. Per la frustrazione pizzicò una delle corde più basse dell'arpa, facendola vibrare.
Dieci minuti dopo la ragazza con i capelli castani uscì dalla stanza seguita da Selene. Avevano entrambe i capelli scompigliati. La nipote più grande dell’Imperatore aveva indossato una maglietta bianca, e dei pantaloni larghi. La ragazza con i capelli castani, invece, si era vestita con gli abiti della sera prima. Jeans attillati, tacchi a spillo, e una camicetta rossa, volutamente sbottonata sopra il petto. Mancava solo la sua giacchetta di pelle, che aveva imprudentemente lasciato su un mobile della sala dell’appartamento. Allungò la mano per prenderla, e Selene ne approfittò per darle una pacca sul sedere.
«Vai adesso! E chiamami, eh!» » disse ridacchiando.
«Sì, sì! Scappo a casa a cambiarmi, che poi mi aspettano in redazione!» rispose quella sorridendo.
Si sporse in avanti, e dette un veloce bacio a Selene.
Poi fece un cenno di saluto a Domiziana, che annuì in risposta. Selene restò ad osservarla sulla soglia, mentre si precipitava fuori dalla sala e correva all’ascensore in fondo al corridoio.
Nel frattempo Domiziana aveva nuovamente messo le mani sull’arpa, facendo l’atto di ricominciare a suonare. Ma invece di iniziare a pizzicare le corde, osservò sua sorella provando, come sempre, un certo senso di invidia.
Selene Giulia Silla, questo il suo nome completo, era infatti indubbiamente più bella della sorellina minore, non del tutto sbocciata. Era alta ed atletica, pur avendo le giuste curve, ed un seno perfetto, alto, sodo e proporzionato. La sua pelle non era né troppo chiara, né troppo scura. Il suo viso, grazioso ed armonico, era impreziosito da un paio di labbra carnose, e dai suoi occhi, due gemme di un blu profondo. Unico elemento di rottura nel volto di Selene, era una vistosa e marcata fossetta sul mento.
Quando la bionda si voltò verso di lei, Domiziana distolse rapidamente lo sguardo, fingendo di armeggiare con una delle chiavi del suo strumento per accordarlo. Selene se ne accorse e sorrise. Dopodiché si accese una sigaretta. Appoggiata allo stipite della porta, aspirò profondamente con gli occhi chiusi, mentre il fuoco percorreva la carta, ed espirò un densa nuvola di fumo bianco.
«A che punto siete arrivate tu e Gloria?» disse Domiziana sorridendo.
«Da quello che anche tu hai potuto vedere, siamo ad un ottimo punto» rispose facendole l'occhiolino, e la sorellina ridacchiò.
«Ne sono ben lieta, Sele, ma io mi riferivo alla vostra indagine. Allora, ha scoperto qualcosa di nuovo?» chiese Domiziana, senza guardare la sorella.
«Nulla!» rispose Selene dopo aver aspirato nuovamente. «Nessun nuovo elemento, salvo il l’ennesima conferma che papà era preoccupato e teso nei giorni precedenti! Ogni volta che ci sembra di aver fatto qualche passo avanti, ne facciamo il doppio all'indietro!» affermò, pigiando rabbiosamente la sigaretta in un posacenere.
Se ne accese subito un'altra.
«Nessuna novità, dunque...» continuò la ragazza più giovane, che ancora armeggiava con l'arpa.
«Niente di nuovo, ti dico. Abbiamo letto e analizzato mille volte tutti i resoconti, i verbali e gli articoli di quel giorno»
«E?»
«...e niente! Secondo tutti i rapporti alle ore nove di quel giorno l'aereonave senatoriale aveva spento i propulsori, ed ha diminuito progressivamente la potenza dei motori gravitazioni, seguendo la normale procedura d’atterraggio.»
«...e poi improvvisamente è scoppiata.» aggiunse Domiziana.
«Esatto, l'aereonave è saltata in aria. Tutti i rapporti dicono per un guasto all'impianto di raffreddamento del dei motori, che ha portato alla repentina combustione di tutto il carburante contenuto nel serbatoio del veicolo» ripeté Selene meccanicamente, avendo letto quella frase, ed avendola ascoltata come risposta decine e decine di volte, talvolta contornata anche dalle specifiche tecniche dei motori gravitazionali delle aereonavi. «Se si usa il deuteruro di litio bisogna stare attenti, i motori a fusione fredda vanno opportunamente raffreddati» soggiunse con una vocina sarcastica.
Poi si voltò, sospirò, ed un flusso di ricordi le attraversò la mente.
Selene aveva sedici anni quando suo padre era morto. Suo padre era un senatore, ed era anche uno dei più in vista in quel momento. In parte le dava fastidio di vedere il nome di e l’immagine di suo padre ovunque in quei giorni. Ma era normale tutta questa visibilità: Claudio Silla era uno dei candidati a succedere all’Imperatore Silla alla fine del suo primo mandato, ed era anche il più favorito in quanto figlio dell’Imperatore stesso. Nessuno osava parlare di nepotismo. Nessuno osava mettere in dubbio a quel tempo l’autorità dell’Imperatore del Dominio, a quel tempo.
Di suo padre Selene aveva bei ricordi. Ricordava che era spesso impegnato, ed ogni momento libero lo dedicava a sua moglie, a Selene e alla piccola Domiziana, che a quel tempo aveva soltanto cinque anni. La ragazza ricordava suo padre astuto e integerrimo, come suo nonno, ma differenza di questi, non era per nulla serioso. Sapeva essere ironico e irriverente al punto giusto. Ed infatti qualche volta Selene aveva accompagnato suo padre al lavoro, al Senato Imperiale, e lì il padre le aveva insegnato l’arte del fare politica, e grazie al modo di spiegare le cose di suo padre, la ragazza non si era mai annoiata, tanto che aveva quasi pensato di intraprendere la carriera politica, sulle orme di suo padre e di suo nonno, l’Imperatore.
Fu grazie all’ottimo rapporto che aveva con il padre, che Selene si era decisa a confessargli che provava attrazione per le donne, oltre che per gli uomini. Voleva farlo proprio al suo ritorno, proprio quel giorno…
Fu anche per questo che quello che era accaduto quel 21 aprile l’aveva sconvolta. L’uomo era andato a compiere una missione senatoriale in una delle Isole settentrionali, ed era stato via per più di una settimana. Sarebbe dovuto tornare un giorno prima, ma l’aereonave su cui viaggiava aveva subito un guasto ed aveva dovuto essere riparata. Con sua madre si recò al porto aereonavale dove sarebbe dovuto atterrare. Attesero per mezz’ora. Quand’ecco che nel cielo a nord apparve l’aereonave.
Lussuosa, dalla livrea bianca e con finimenti dorati a nastri e foglie d’acanto. Alta, su un pennone, sventolava la bandiera del Dominio, con i suoi colori rosso e bianco, e con il simbolo della croce con l’aquila. Mentre l’aereonave perdeva quota, Selene notò un particolare del veicolo che si faceva progressivamente più nitido e vicino, ovvero un magnifico timone ornamentale di legno dorato che brillava al sole sul ponte dell’aereonave. Una copia dei timoni delle antiche navi lignee.
«È in arrivo al Terminal 4, l’aereonave 12-S, attenzione» aveva detto la suadente voce dell’annunciatrice del porto. Questo ricordava del momento subito precedente: il timone dorato dell’aereonave in fase di atterraggio, che luccicava al sole del mattino, e la voce dell’annunciatrice.
Poi accadde.
Il veicolo aveva appena estratto i sostegni idraulici e stava per toccare la piattaforma del terminal quando si udì un ronzio, e l’aereonave fu avvolta da una luce. Una luce di un biancore così intenso che sembrava magnesio incendiato. Un bagliore fortissimo, seguito da un violento boato, e quando la luce calò, oramai l’aereonave già avvampava in una bolla di fuoco. Selene non pianse, né gridò. Restò impietrita, come anche sua madre che le stringeva forte la mano, mentre la folla impazzita all’intorno si muoveva come un’unica massa, cercando di allontanarsi dalle fiamme dell’incendio.
Una colonna di fumo nero già si alzava nei cieli della capitale, e due figure, nere di fronte al bagliore rossastro delle fiamme, restavano a guardare. Solo Selene osò guardarsi intorno, e fu lì che le venne il primo sospetto che non fosse stato un incidente: nella folla che gorgogliante, vide un uomo. Occhiali da sole, pelle scura. Osservava il fuoco anch’egli e stringeva qualcosa in mano. Un qualcosa di elettronico, con un prolungamento metallico. Un telecomando? Quando costui s’accorse d’esser stato visto da Selene, si voltò e sparì tra la folla, ma la ragazza lo aveva visto bene.
Da quel giorno non smise mai di fare domande, di indagare. Non si fece andar bene, la spiegazione dell’accaduto come un semplice tragico incidente. Ricollegò tutto ciò che aveva visto e sentito nei giorni precedenti. Non si accontentò nemmeno dei giorni di lutto disposti da suo nonno, l’Imperatore, il quale aveva perso il figlio. Nessuno tuttavia le volle crederle, nemmeno sua madre. Dicevano che quel che aveva visto era frutto del trauma subito, che l’uomo era probabilmente una persona che si trovava lì per caso come tutti gli altri. E alle sua spalle tutti mormoravano, sostenevano che il colpo subito l’aveva traumatizzata a tal punto da farle perdere il senso della realtà, impedendole di accettare.
Selene ripensava a tutto ciò, emettendo dalla bocca un’altra voluta di fumo bianco.
«Selene» disse Domiziana avvicinandosi alla sorella maggiore, «hai mai considerato che quel che è successo a nostro padre possa essere stato realmente un incidente? Voglio dire, è da quando ero piccola che continui ad inseguire una verità che...»
«No!» la interruppe la bionda, e Domiziana si fermò, «Io so ciò che ho visto! Ero al terminal quel giorno e tu lo sai!»
«Io so che nostro padre è morto in un incidente, e che tu a distanza di dodici anni non riesci ad accettarlo!»
«Non mi psicanalizzare! Ti ripeto che so quel che ho visto: un uomo nella folla che fuggiva, stringendo in mano qualcosa, uno strano suono un attimo prima dell'esplosione. E soprattutto quella era un'aereonave adibita al trasporto di senatori, ministri e altri pezzi grossi, non un rottame per operai! Per altro quel giorno a bordo c'era il figlio dell'Imperatore! Ti sembra normale che nessuno controlli e faccia revisioni al veicolo?!»
«Un malfunzionamento può sempre capitare»
«E le tracce di esplosivo tra i rottami del veicolo, come me li spieghi?! Chissà perché nessuno mi sa rispondere a queste domande!» disse Selene, «No, nessuno mi convincerà del contrario: nostro padre è stato ucciso, in un attentato. Ed io troverò esecutori e mandanti!»
«E sentiamo, cosa avresti intenzione di fare dopo averli trovati, ammesso che esistano e che tu riesca ad individuarli?»
«Giustizia.» rispose Selene determinata. Si voltò e rientrò nella sua stanza.

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