Seventeen - Il potere dei ricordi

di annalisa93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0.1 Prologo : Frammenti di tela ***
Capitolo 2: *** 0.2 Prologo: Frammenti di tela ***
Capitolo 3: *** 0.3 Prologo : Frammenti di tela ***
Capitolo 4: *** 1.1 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 5: *** 1.2 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 6: *** 1.3 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 7: *** 1.4 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 8: *** 1.5 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 9: *** 1.6 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 10: *** 1.7 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***
Capitolo 11: *** 2.1 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 12: *** 2.2 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 13: *** 2.3 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 14: *** 2.4 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 15: *** 2.5 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 16: *** 2.6 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 17: *** 2.7 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***
Capitolo 18: *** 3.1 Capitolo 3: Profumi ***
Capitolo 19: *** 3.2 Capitolo 3: Profumi ***
Capitolo 20: *** 3.3 Capitolo 3: Profumi ***
Capitolo 21: *** 3.4 Capitolo 3: Profumi ***
Capitolo 22: *** 3.5 Capitolo 3 : Profumi ***
Capitolo 23: *** 3.6 Capitolo 3: Profumi ***
Capitolo 24: *** 3.7 Capitolo 3: Profumi. ***
Capitolo 25: *** 4.1 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 26: *** 4.2 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 27: *** 4.3 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 28: *** 4.4 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 29: *** 4.5 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 30: *** 4.6 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 31: *** 4.7 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 32: *** 4.8 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 33: *** 4.9 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***
Capitolo 34: *** 4.10 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***



Capitolo 1
*** 0.1 Prologo : Frammenti di tela ***


Los Angeles, 7/12/08, ore 20
Los Angeles, 7/12/08, ore 20.00

Il tavolo rotondo era apparecchiato con una tovaglia rosa, sulla quale posavano tre piatti fondi di finissima porcellana bianca, ancora vuoti. Due coppe da vino erano capovolte. Una terza venne lentamente riempita con del vino. Una donna sulla quarantina si accomodò al suo solito posto a tavola, con l'intento di godersi il silenzio precario che regnava nella stanza e degustarsi il vino pregiato che aveva comprato in Italia diversi anni prima con lo scopo di aprirlo in occasione di un evento importante, come quello. Iniziò a ripercorrere con la mente gli ultimi anni della sua vita quando, improvvisamente, il filo dei suoi pensieri venne interrotto dal rumore di passi che venivano verso di lei.

 Iniziò a ripercorrere con la mente gli ultimi anni della sua vita quando, improvvisamente, il filo dei suoi pensieri venne interrotto dal rumore di passi che venivano verso di lei

«Che bello! Finalmente si mangia!» Esclamarono in coro Magnolia e Alysia.

La donna fece un sorriso forzato. Le due ragazze la osservarono perplesse.

«Che c'è mamma, c'è qualcosa che non va?» Chiese preoccupata Alysia.

La donna non rispose, si limitò ad abbassare lo sguardo.

«Mamma, lo sai che non ci devi nascondere niente!» Intervenne Magnolia con forza.

«No, ragazze, davvero, non è nulla.»

«Non ci hai convinte per niente!» Le due sorelle sbuffarono irritate.

«... Va bene... Avete ragione...» La donna posò la coppa sul tavolo. Era sempre piena. Tirò un lungo sospiro e si alzò in piedi. «E' il momento che voi sappiate...» Il suo sguardo cambiò, mostrando una gelida determinazione. Nei suoi occhi color nocciola le ragazze scorsero un guizzo sinistro che le fece rabbrividire.

«Sapere cosa?» Il loro tono si fece incerto.

«Venite con me...»

La donna le guidò fino alla porta sul retro, che si affacciava sull'immenso giardino. Mentre lei uscì, seguita da Magnolia, Alysia indugiò sull'uscio. «Mamma, io non posso andare fuori conciata così! Rischierei di prendere un malanno.» Osservò la ragazza. Addosso aveva solo l'accappatoio.

La madre si voltò, incenerendola con lo sguardo, con uno sguardo truce.

«Mamma...» La voce della ragazza tremava, colpita dall'atteggiamento della madre. Decise di seguirla in silenzio, mentre una strana sensazione cominciava a divorarle lo stomaco. Raggiunsero la casetta di legno in cui tenevano gli attrezzi per il giardinaggio. Entrarono. La donna tolse il tappeto verde che ricopriva il pavimento e schiacciò un bottone nascosto dietro ad un barile. Una voragine si aprì nel suolo.

«Cos'è...?» Le ragazze erano incredule.

«Entrate.» Le due non fecero altre domande ed obbedirono alla madre. Scesero per una decina di metri circondate da umidità, muffa e una puzza incredibile di chiuso.

Le due sorelle si scambiarono sguardi timorosi e preoccupati lungo tutto il tragitto, fino a quando raggiunsero una porta dai vetri scuri.

«Mrs Collins,» Disse, con voce fredda, la donna «Eh!!!» Le due ragazze erano davvero sbalordite.

«Buongiorno Mrs.» A quel punto la porta si aprì e davanti ai loro occhi apparve un laboratorio: un enorme computer occupava l'intera parete di fondo ed una scrivania di cristallo nero era posizionata al centro della stanza. «Mamma, ma che posto è questo?»

«Questa è la mia base segreta.» Annunciò con orgoglio, passando le lunghe dita sulla superficie lucida del tavolo. «Qui dirigo il lavoro dei miei assistenti.» Puntualizzò.

«Assistenti?» Le due ragazze erano visibilmente confuse.

«Esatto.» Sullo specchio nero del tavolo si rifletté un sorriso maligno. «Presto anche voi lo diventerete.»

Terni, 07/12/08, ore 3.00

«Maresciallo!!!» Un ragazzo dai riccioli castani stava correndo verso l'ufficio del suo capo. Un uomo dai baffi e i capelli color pece, con due occhi blu ghiaccio si affacciò alla porta.

«Cosa c'è da urlare a quest'ora?!» Chiese seccato.

«Capo! E' arrivato un pacco!»

«Allora?! Secondo te è un motivo per disturbare la mia lettura?!» Sarà sicuramente un regalo da parte di mia madre!»

«No, signore... Non è così... Il mittente è anonimo.» Chiarì il giovane carabiniere.

«Chi potrebbe averlo mandato?» Chiese, richiudendo il libro che aveva fra le mani.

«Non ne ho idea.»

Il maresciallo raggiunse velocemente il ragazzo.«Josh, ma sei sicuro di quello che mi hai detto?»

«Sì, sul pacco c'è scritto: Per il signor Roberto Martini e il Signor Joshua Lewis.»

I due raggiunsero la saletta della pausa caffè, dove notarono una scatola posata sul tavolo. Il signor Martini l' aprì. Dentro c'erano due confezioni di medicinali. Il maresciallo le rigirò fra le mani. Lesse il nome dello stabilimento in cui erano state prodotte e ne rimase sorpreso. Josh, che intanto aveva infilato la testa nella scatola, vide che c'era dell'altro, così affondò le mani al suo interno e afferrò quello che al suo tatto sembrava essere un libro. Una volta che fu alla luce della lampadina, i due capirono che non si trattava di un libro, bensì di un diario. Sulla copertina erano stampate due iniziali: R.S. Le pagine, ingiallite dal tempo, emanavano un forte odore di muffa, di vecchio. Molte erano illeggibili, alcune addirittura strappate.

«Cos'hai in mano?»

«Non so... Forse è un diario... Ma non riesco a leggere niente.»

«Fa' vedere...» Roberto Martini osservò l'oggetto.

«Non c'è nient'altro?»

«Aspetti che controllo...»

Josh si infilò nuovamente nella scatola. Questa volta ne tirò fuori una scatolina. Era una confezione di bustine di tè. Nel pacco c'erano anche alcune camelie di porcellana e una busta indirizzata a Josh. Il ragazzo l'aprì e lesse il contenuto a voce alta: Questo pacchetto di tè e queste camelie sono degli oggetti esclusivamente suoi, non deve cederli per nessun motivo e soprattutto non deve perderli. Il tè non si può bere. E neppure buttar via. Come del resto le camelie-

«Che significherà? A cosa potrebbe servire un pacchetto di tè, se non per utilizzarlo a colazione?» Josh si accorse che parlare con il maresciallo era come parlare al muro. Infatti il capo era intento ad osservare il diario. «Lei sa a chi potrebbe appartenere?» Il ragazzo si era incuriosito.

«Purtroppo no, è ridotto troppo male.» Poi dopo una pausa aggiunse. «Però, forse c'è un modo per scoprirlo...»

****

«Avete capito?»

«Sì.» Risposero le due ragazze come ipnotizzate.

«Vi ho affidato questa missione e dovrete portarla a termine. Dovrete impossessarvi di quello che vi ho detto.»

«Sì, lo faremo.» Risposero come se fossero degli automi.

«Prima di andare vi devo consegnare due oggetti che vi appartengono.» La donna aprì un cassetto e prese i due oggetti.

«Magnolia, questo è per te». La ragazza afferrò un fermaglio tempestato di cristalli. Era uno di quei fermagli che cambiavano colore a seconda del calore corporeo e delle emozioni di chi li indossava. Una volta che furono nelle mani di Magnolia, i cristalli si oscurarono fino a diventare neri.

«Mentre per te, Alysia, c'è questo.» La ragazza aprì il palmo della mano, pronta a ricevere una molletta o qualcosa del genere, ma con sua grande sorpresa sentì della stoffa caderle sulla testa. Lo prese fra le mani e vide che si trattava di un bel vestito di organza con il corpetto in pizzo nero, adatto per andare ad un ballo di gala. Alla vista di quei due bellissimi oggetti, le due sorelle rimasero impassibili, a differenza di qualsiasi altra ragazza che, vedendoli, probabilmente sarebbe partita per il mondo dei sogni, immaginandosi di essere ad un ballo, ammirata da tutti per il vestito e per il fermaglio.

«Ora potete andare. E' meglio che dormiate, dovete riposarvi.»

«Sì, mamma.» Le due ragazze si alzarono. I loro cuori erano impregnati di odio, i loro occhi avevano perso tutta quella dolcezza che fino ad allora li avevano caratterizzati. In silenzio lasciarono il laboratorio, salirono fino alla casetta degli attrezzi, attraversarono il giardino, varcarono la porta di casa e, separandosi, Magnolia e Alysia si diressero alle proprie stanze. Senza dirsi una parola, senza neppure augurarsi buonanotte. Appena chiuse le porte delle rispettive camere, le due ragazze indossarono il pigiama e s'infilarono sotto le coperte. Spinte dal peso della stanchezza, le palpebre calarono sugli occhi inespressivi.

Angolo di annalisa93
Ciao a tutti! Come ho detto nella presentazione questa storia non è mia, ma ho il permesso della mia amica di pubblicarla qui :)
Questo è il suo profilo : https://www.wattpad.com/user/ChiBa93
A presto :)
 

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Capitolo 2
*** 0.2 Prologo: Frammenti di tela ***


Oslo, 9/12/08, ore 6.00

Non ce la faceva più, non era sicuro di poterla trattenere ancora. Doveva scendere dal letto e andare in bagno. Niente di più facile. Ma per lui, pigro come pochi, era come andare a scalare l'Everest. Non voleva abbandonare il calore che il suo corpo si era costruito sotto le coperte. Al tre mi alzo S'impose. Dopo aver contato fino a tre, in un lampo scostò le coperte, si mise a sedere, indossò le pantofole, si alzò in piedi e fece uno scatto fino alla porta. L'aprì. Non sono sicuro di essermi svegliato pensò non credendo a ciò che stava vedendo. Si tirò un pizzicotto sulla guancia e costatò di aver provato dolore. Quindi non si trattava di un sogno, però non riusciva a capire. Non era nel corridoio di casa sua, era nella stanza di una ragazza, ma non si trattava della camera di sua sorella. Era completamente buia. Dedusse che si trattava della camera di una ragazza dal profumo di pulito, di buono, che poté respirare , un profumo che camera sua non aveva mai conosciuto.

«Ti prego aiutami...» Quelle parole gli giunsero alle orecchie come un soffio.

«Chi è là?» Domandò lui.

«Ti prego...» Guidato dalla voce riuscì a muoversi, seppur con difficoltà, nel buio della stanza.

«Parlami. Ho bisogno di sentire la tua voce per venire da te!»

«Come ti chiami?» Gli domandò lei.

«Luke.» L'aveva già raggiunta. La stanza non doveva essere molto grande. «C'è buio qua. Come posso avere un po' di luce?»

«Alla tua destra c'è la mia scrivania, sopra ci sono una candela profumata e un accendino, accendi la candela e mettila pure qui per terra.» Il ragazzo obbedì, ma gli ci volle un po' per accendere la candela. Al buio non era facile. Quando finalmente ci riuscì appoggiò la candela per terra. Poi alzò lo sguardo. I suoi occhi si spalancarono dallo stupore. Di fronte a lui era seduta una ragazza bellissima, con indosso una camicia da notte bianca, di stoffa finissima, dalla quale trasparivano le forme sensuali e innocenti del suo corpo. I capelli lunghi, lisci e sottili erano di un lucente color nero, su cui la candela lanciava riflessi dorati. I suoi occhi brillanti e scuri trasmettevano timore, angoscia.

«Aiutami...» Ancora una volta dalle labbra rosse e carnose uscirono le stesse parole. Luke non capiva perché dovesse aiutarla. Continuava a guardarla, rapito dalla sua figura. Solo dopo alcuni minuti, abbassando lo sguardo, comprese. Vide delle catene stringerle le caviglie.

«Chi ti sta tenendo prigioniera?» Luke si piegò in avanti e le prese il piede, cercando di forzare le catene.

«Non lo so...» Il volto si velò di tristezza.

«Non ti preoccupare, ti libero io.» Questa volta ci mise più potenza. Nella sua voce c'era determinazione, ma niente da fare. Aveva bisogno di un qualche attrezzo, come quelli che aveva in camera sua. Forse riesco a tornare in camera mia a prendere i miei attrezzi; in fondo sono arrivato qua semplicemente aprendo la porta della mia stanza, magari funziona anche al contrario. Senza pensarci due volte si alzò in piedi con l'intenzione di raggiungere la porta, ma la ragazza lo prese per la mano.

«No, non te ne andare! Ti prego resta con me!» Lo tirò con tale forza da costringerlo a sedersi di nuovo. Poi si mise in ginocchio e con una mano andò ad accarezzargli la guancia. «Abbracciami, ne ho bisogno.» Gli sussurrò. Luke, che non si aspettava una richiesta del genere, in un primo momento sgranò gli occhi, ma poi comprendendo la solitudine che la ragazza doveva aver provato, decise di accontentarla. L'abbracciò. Lo fece con dolcezza, cercando di farla sentire al sicuro. Mentre con una mano la teneva stretta a sé, con l'altra iniziò ad accarezzarle i capelli. Lei strinse fra le mani la maglia del pigiama di Luke e si lasciò andare ad un pianto liberatorio.

«Non ti preoccupare, ti libererò.» Le assicurò Luke, gli occhi si incendiarono di determinazione.

«Promettimelo.» La ragazza alzò la testa mostrando gli occhi lucidi.

«Te lo prometto.» Più guardava quegli occhi più sentiva che avrebbe perso presto il controllo. Non riusciva più a resistere, quelle labbra sembravano chiamarlo. Messo alle strette dal suo istinto, prese fra le mani il viso della ragazza e la baciò. Lei non sembrò ritrarsi, anzi ricambiò. Il suo profumo lo inebriò, gli penetrò la pelle, gli perforò il cuore, in un attimo. Poi all'improvviso la luce si spense e come per magia tutto finì. Non sentiva più il corpo della ragazza sotto le sue mani, non percepiva più il suo profumo. Era nel suo letto.

Sentì lo stridio delle tende che venivano scostate, un rumore assordante alle 7.00 di mattina.

«Luke! Alzati!» La voce della sorella gli parve uno squillo di tromba

 

 

«Luke! Alzati!» La voce della sorella gli parve uno squillo di tromba.

«Ma che fai! Sei forse impazzita?» Domandò il ragazzo, ancora stordito.

«Tuo padre ti vuole parlare!»

«Arrivo...Dammi almeno il tempo di cambiarmi.» Luke fece uno sbadiglio profondissimo.

«Bene, fra cinque minuti vieni giù.»

«Sì, va bene Margareth...» Intanto si mise a sedere sul letto e si stropicciò gli occhi. «Mi dici perché hai scostato le tende se sai perfettamente che fuori è buio?» Domandò con la voce impastata dal sonno.

«Non ci posso fare niente, è la forza dell'abitudine.» Sorrise. «In fondo, sono appena tornata! Dammi il tempo di riabituarmi al caro vecchio clima norvegese!»

«Già, hai ragione...» Luke ricambiò con un pigro sorriso.

«Io vado giù. Tu fai presto, mi raccomando.» Aggiunse Margareth.

«Va bene...»

Quando Margareth se ne fu andata, chiudendo la porta, Luke tirò un lungo sospiro e ripensò al sogno che aveva fatto. «Chissà se la rivedrò... Era una ragazza così bella... Magari... Magari non è solo il frutto della mia mente... Magari esiste davvero. E devo liberarla». Ancora nel cuore e nella mente erano impresse le sensazioni che aveva provato in sogno.

«Ah! Perché papà mi ha svegliato così presto! Ho sempre sonno, io!» Luke era assonnato e, ancora con addosso il pigiama a righe nere e argento, i capelli biondo-dorati arruffati e gli occhi grigi semichiusi, stava percorrendo il corridoio dalle pareti in metallo fino a che non giunse di fronte a una porta in piombo. Poggiò la mano sul monitor a fianco.

«Buongiorno signor Skarsgård.» La porta si aprì, lasciandolo passare.

«Finalmente, Luke.»

«Buongiorno papà...Mi dici perché cavolo mi hai svegliato a quest'ora?» Domandò furioso il ragazzo, mentre prendeva posto accanto a Margareth.

«Devo affidarvi una missione a cui parteciperete entrambi.»

«Di che si tratta?» Chiesero i due incuriositi.

«Dovrete andare a Lucca.»

«In Italia?» I due non credettero alle loro orecchie.

«Proprio così.» Rispose lui secco. «Partirete stasera.» Il signor Skarsgård guardò i volti meravigliati dei figli. «So che avrei dovuto avvisarvi prima, ma è una faccenda improvvisa e piuttosto urgente.»

I due ragazzi diventarono seri. «E cosa dovremmo fare una volta arrivati là?» Domandò Luke.

Il padre estrasse delle foto dal cassetto sotto la scrivania e le allineò sul tavolo. «Dovrete rintracciare questi ragazzi, memorizzate bene i loro volti...»

«Ma sono tutti insieme?»

«No, ma lo saranno presto.»

«Come fai a dirlo con tanta sicurezza?»

«È inevitabile.» Disse, poi fece una pausa. «È nella loro natura, è il loro destino.» Spiegò, guardando Luke dritto negli occhi. «Ah...Per questa missione dovrete portare con voi anche la nonna.» Puntualizzò.

«Eh! Perché?» Luke e Margareth erano sorpresi. «Come potremmo portare a termine il nostro compito con lei fra i piedi? Sai che ha bisogno di essere tenuta sotto controllo.» I due ragazzi cercarono di far ragionare il padre.

«Lo so, ma fidatevi. Fate quello che vi dico.» Il suo tono era fermo e deciso, sapeva quello che faceva.

«Va bene.» A Luke non restava che fidarsi e obbedire.

«Mi raccomando, conto su di voi.»

Luke e Margareth annuirono. «Non te ne pentirai, vero Maggie?» Aggiunse il ragazzo rivolgendosi alla sorella.

«Certo... Ma non mi chiamare così!» Rispose lei, infastidita.

«Oh, scusami sorellina!» La canzonò lui.

Lei alzò la mano pronta a tirargli uno schiaffo, ma la voce del padre la trattenne. «Ragazzi! Smettetela.» Ordinò lui con tono autoritario. I ragazzi si ricomposero in silenzio.

«Un'ultima cosa...» Tirò fuori una busta dal cassetto della scrivania e la consegnò a Luke. «Aprila dopo con calma.» Estrasse poi un fermaglio-gioiello e un diadema da principessa e le porse rispettivamente a Margareth e a Luke.

«Questi oggetti sono vostri e non potete cederli a nessuno. E soprattutto non dovete gettarli nella spazzatura.» Alle orecchie dei ragazzi l'affermazione del padre suonava alquanto strana, bizzarra.

«Ma papà... E allora cosa dovremmo farci con queste? Giocarci?» Luke era perplesso. «Non siamo mica dei bambini!»

«Ha ragione, papy, questo fermaglio va bene per la bambina a cui faccio da baby-sitter!»

«Ma no, cara, guardala bene, qualunque colore diventi starebbe bene sui tuoi capelli belli neri: esiste o no il detto il nero sta bene con tutto?» Disse lui, cercando di sdrammatizzare, perdendo quel tocco di professionalità e rispettabilità che l'aveva contraddistinto fino ad allora.

«Papà, ma non dire scemenze!» Gli urlarono i due fratelli indignati.

«E io cosa ci dovrei fare con questa corona da principessa?» Chiese Luke.

«Se non la vuoi, puoi regalarla alla tua ragazza!»

«Papà... Io non ho una ragazza e anche se l'avessi di sicuro non avrebbe sei anni!» Luke si voltò in direzione della sorella in cerca di supporto. «Meg, aiutami...»

«Ora papà hai davvero superato il limite! Si può sapere a che gioco stai giocando?» Meg sentiva che avrebbe sbottato da un momento all'altro. Il padre non rispose e a quel punto i due ragazzi, presi da un'ira incontrollabile, fecero marcia indietro e uscirono dalla stanza, lasciando che la fredda porta di metallo si chiudesse alle loro spalle. Una volta che le voci adirate di Margareth e Luke furono un brutto ricordo per la quiete di quella stanza, il signor Skarsgård tornò ad essere l'uomo serio e responsabile di sempre. «Ragazzi, scoprirete presto a cosa serviranno quegli oggetti che voi considerate inutili... Neppure voi potrete sfuggire alla vostra natura e al vostro destino.» Affermò guardando il suo riflesso sulla superficie nera e liscia della scrivania.

Lucca, 12/12/08, ore 12.00

Era una fredda giornata d'inverno e il Sole splendeva pallido nel cielo azzurro, mentre le bianche e soffici nubi si muovevano lentamente. La città era ricoperta da un manto spesso di neve, una moltitudine di piccoli coriandoli di ghiaccio luccicavano colpiti dai raggi del Sole. Chiunque fosse passato di lì avrebbe avuto l'illusione di vedere una distesa ricoperta da morbido cotone bianco, investito da una pioggia di porporina dorata. Un buon profumino stava riempiendo l'aria. Proveniva da un ristorante.

Un uomo, Jenzaburo Akagi, stava cucinando del buon ramen, stava cucinando per un cliente invisibile. Il ristorante era vuoto, ma tanta era la voglia di lavorare che avrebbe cucinato per un esercito intero, senza guadagnare un euro.

«Uffa... Quanto vorrei che entrasse qualcuno! Mi sento così solo!» Esclamò sconsolato. «Oggi fa talmente freddo che nessuno ha voglia di uscire!» Osservò. «Speriamo che alla fine qualcuno riesca a mangiare questo ramen squisito!» Non fece in tempo a finire la frase che sentì la porta del locale aprirsi.

«E' permesso?» Il volto di Jenzaburo s'illuminò. Le sue preghiere erano state ascoltate. Un giovane ragazzo si avvicinò al bancone.

«Buongiorno, è lei il Signor Akagi?»

«Sì. Desidera?»

«Devo consegnarle un pacco e una lettera.»

«Ah...» Si poteva leggere chiaramente la delusione sul volto dell'uomo. Jenzaburo, però, tentò di camuffare questa delusione prendendo il pacco con fare indifferente. Per curiosità, poi, rigirò la busta fra le mani e fu colpito nel vedere che il francobollo era russo. La lettera era stata inviata da un certo Aleksej Bashmakov. In quel momento la contentezza e lo stupore si amalgamarono in un sentimento fortemente espresso dai suoi occhi sgranati.

«Non ci credo! Sono anni che non ho più sue notizie! Mi domando quale sia il motivo che l'ha spinto a scrivermi dopo tutto questo tempo.» Senza indugiare ulteriormente aprì la busta, con dita tremanti ne tirò fuori una lettera, la spiegò e la lesse. Rimase agghiacciato dal contenuto, il suo cuore si fermò per un millesimo di secondo. Dopo alcuni minuti passati in uno stato di trance, si riprese lentamente e sempre un po' scosso allungò la mano per aprire la scatola che aveva precedentemente appoggiato sul bancone. Il pacco era destinato alla signorina Emily Akagi. Una volta tolto lo scotch, alzate le alette superiori del contenitore marrone, vide che al suo interno c'era un astuccio di velluto azzurro. Jenzaburo, con il cuore che gli balzava in gola, l'aprì e rimase abbagliato da una luce accecante. Un collier di diamanti e zaffiri era sistemato sul cuscinetto di spugna, color argento. «Wow!»

Esclamò, e con lui anche il postino. Subito, però, Jenzaburo si fece cupo No... Non posso farlo... Se potessi lo rimanderei indietro... No... Non posso dirglielo ora e non posso darle questa collana di inestimabile valore. In fondo è solo una ragazza di diciassette anni... L'uomo si chiuse in un silenzio meditabondo, mentre il postino lo fissava con aria interrogativa. Poco dopo il signor Akagi riuscì ad uscire da quel turbine di pensieri e con voce sicura comunicò la sua decisione. «Ora so cosa devo fare. Le dirò tutto quando saranno insieme.

«Bene. Visto che qui il mio lavoro è terminato, io me ne vado. Buona giornata signor Akagi!» Il ragazzo stava per varcare la soglia, quando Jenzaburo lo fermò.

«Ragazzo ti andrebbe un bel ramen per riscaldarti corpo e anima in una fredda giornata d'inverno?»

«Veramente... E' proprio quello che mi ci vuole!»

«Allora che aspetti, siediti!» Gli disse il padrone del locale passandogli una scodella di brodo fumante.

Angolo annalisa93
Ciao a tutti! Speravo di aggiornare prima ma l'altra settimana sono stata impegnata con la fine dell'università :D Vi volevo avvisare che la prossima sarà l'ultima parte del prologo e poi iniziamo con i capitoli, ma state tranquilli ce ne sono già molti scritti! I disegni sono stati realizzati dall'autrice con una sua amica :)
Ricordo che il suo profilo ufficiale è su wattpad :
https://www.wattpad.com/user/ChiBa93
Ringraziamo tutti quelli che sono passati a dare un'occhiata, se vi va fateci sapere cosa ne pensate :)
Un bacio e a presto!

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Capitolo 3
*** 0.3 Prologo : Frammenti di tela ***


Lucca, 12/12/08

Era persa nei suoi pensieri e la voce del professore giungeva ovattata, come se la sua mente fosse stata una stanza insonorizzata. Fu la vibrazione del cellulare a riportarla alla realtà. Aveva ricevuto un messaggio. Lo lesse velocemente, poi non credendo ai suoi occhi lo rilesse lentamente scandendo mentalmente ogni singola lettera. I suoi occhi color miele s'illuminarono di una luce che ormai non riconoscevano più. I suoi occhi brillavano di gioia, il suo cuore si riempì di felicità. Dopo tre anni Emily poteva riabbracciare la sua amica, dopo tre anni di angoscia e silenzio.

****

Il suono dei palloni che rimbalzavano sul campo di pallavolo echeggiava nei corridoi temporaneamente silenziosi. Nathan e Sakura stavano seguendo la lezione di educazione fisica.

«Ahi! Nate, mi hai fatto male!» Come al solito Sakura intralciava la traiettoria perfetta delle battute di Nate.

«Sei sempre la solita esagerata! L'ho lanciata pianissimo!» La canzonò lui con un ghigno sul volto. «E poi, mica è colpa mia se tu te ne stai immobile, come un palo, in mezzo al campo! Vai a fare lezione con la tua classe! Guarda che cose divertenti che fate!!» Nate si voltò, e con lui anche Sakura. La scena che si presentava ai loro occhi non era molto allettante.

«Ragazze, ma siete delle polentone! Su, ricominciamo dall'inizio!» La voce potentissima della professoressa rimbombò con forza tra le quattro mura della palestra. Attese impaziente che la musica partisse, ma niente. «Qualcuno faccia partire lo stereo!» Aggiunse inviperita. I due ragazzi osservarono allibiti la professoressa di educazione fisica, intenta ad insegnare alle sue alunne la coreografia di step. «Su, fate come me!» Mentre parlava si muoveva, mostrando alle ragazze i passi da fare. «Uno, due, tre, mambo e mambo giro!»

«Io non ci vado neppure morta a fare quella roba!» Sakura era contrariata.

Non fece in tempo ad aggiungere altro che sentì la campanella che indicava il termine della lezione.

Che fortuna Pensò.

Il suono della campanella riportò in vita i corridoi. Erano talmente sovraffollati che i tanti ragazzi immersi nella calca parevano numerosissimi puntini rumorosi.

«Ti accompagno in classe.» disse Sakura a Nate, uscendo dagli spogliatoi dopo essersi cambiata.

I due si affrettarono a raggiungere la classe di Nate, la 4SF. Ciò che videro una volta arrivati in classe, li stupì. Il banco di Nate era immerso di buste colorate. Erano le lettere delle numerose ammiratrici che non perdevano occasione di mostrargli la loro stima e il loro amore. Una moltitudine di cioccolatini e dolci erano sparsi per terra. «Ma come hanno scoperto che questo è il mio banco? Giuro che se prendo chi ha fatto la spia, lo ammazzo.» Nate sentì la collera farsi strada dentro di lui.

«Dai, calmati, che vuoi che sia! Al massimo domani chiedi a qualcuno di fare a cambio di banco con te.»

Sakura non sembrava infastidita, anzi si divertiva, si divertiva alle spalle di quelle ragazze, ridendo della loro superficialità e disperazione. D'altra parte lei era la ragazza di Nate e non riusciva a capirle. Proprio per la sua fortuna fortemente invidiata, una volta tornata in classe, la ragazza trovò sul banco una valanga di lettere il cui contenuto era opposto a quello delle "poesie" che riceveva il suo ragazzo. Quantità infinite di parole erano unite in frasi minatorie. Sakura, invece di spaventarsi, le cominciò a leggere con tono ironico, di sufficienza. Una dopo l'altra fra le sue mani passarono una decina di lettere. L'undicesima si distingueva dalle altre: la busta era di colore nero carbone, le lettere argentate, scritte a mano brillavano al neon del soffitto. Anche Nate ne notò una identica fra le sue buste, la prese e ne lesse il retro. Il mittente di entrambe le missive era lo stesso, come pure il contenuto:

11/12/08

Gentile Sakura / Nate

Una settimana fa ho ricevuto una lettera dall'avvocato di famiglia che mi informava di essere stata scelta da mia nonna come erede di una villa situata a Ponte a Moriano, pochi chilometri fuori da Lucca e mi chiedeva di incontrarla là l' 13-12-08 per un sopralluogo. Da quel giorno, però, ho la sensazione di essere osservata. Ti ho scritto perché ho saputo che fino ad ora hai risolto brillantemente casi del genere e ho bisogno di qualcuno che mi accompagni a visitare la villa. Se deciderai di accettare questo incarico, ti prego di venire oggi davanti al cancello principale alle 16.30,

Minami Yoshikawa

«Se non mi sbaglio Minami Yoshikawa è un' alunna dell'ultimo anno.» Commentò Nate cercando di ricordarsi della ragazza.

«Mi sembra che sia della 5C e se non ricordo male segue il corso di cucina con me.» Sakura cercò di fare mente locale. «Per fortuna oggi pomeriggio c'è la seconda lezione del corso, così posso parlarci.»

Erano le 13.00 e la lezione di italiano era appena terminata, Nate stava sistemando le sue cose nello zaino quando un dito gli puntellò sulla spalla. Si girò di scatto.

«Ciao Nate, come va?»

«Ciao Emily, che c'è? Devi forse dirmi qualcosa?» Dal tono si poteva dedurre che Nate era alquanto infastidito.

«Oggi non è solo l'anniversario della morte di Susan Serravalle, ma anche il giorno in cui tornerà una persona importante.» Disse con un tono cupo, la testa china. «Preparati ad accoglierla.» Aggiunse, alzando la testa e mostrando un brillante sorriso. Poi cominciò ad allontanarsi saltellando.«Ci vediamo Nate...» E sparì dietro l'angolo.

«Certo che Emily è diventata proprio una tipa strana.» Commentò il ragazzo e intanto si dirigeva verso il laboratorio di fisica per le lezioni pomeridiane. Emily era vicina di casa di Nate e sua compagna di classe dall'asilo. Da tre anni, da quando la sua migliore amica si era trasferita in Francia, si era fortemente incupita e passava la maggior parte del tempo tutta sola nell'aula di chimica a trafficare con le varie sostanze. Non curava molto il suo aspetto e negli ultimi tre anni il modo di vestire era diventato molto più trasandato. Portava i capelli biondi-castani raccolti in una coda laterale e portava un paio di occhiali dalle lenti enormi. Era la ragazza più alta della classe. La sua forma longilinea ricordava quella di un cipresso e i suoi 180 cm la facevano sembrare irraggiungibile, tanto che qualunque ragazzo si sentiva intimidito di fronte a lei. Era slanciata, ma tendeva a nascondere il suo fisico da ballerina sotto vestiti larghi, quasi sempre dalla fantasia a scacchiera. Da quando, però, al consiglio studentesco si era votato a favore dell'introduzione delle uniformi, era costretta ad indossare indumenti più femminili per andare a scuola. Fortunatamente, le ragazze potevano scegliere liberamente se indossare gonna o pantaloni, in questo modo chi non si sentiva a suo agio a portare la gonna, come nel suo caso, poteva tranquillamente indossare i pantaloni.

Fortunatamente, le ragazze potevano scegliere liberamente se indossare gonna o pantaloni, in questo modo chi non si sentiva a suo agio a portare la gonna, come nel suo caso, poteva tranquillamente indossare i pantaloni

 

 

*****

Una volta raggiunta l'aula, o meglio la cucina dove si tenevano le lezioni del corso di cucina, Sakura, con il fiatone, si mise a cercare Minami tra tavole, forni e sedie, in mezzo ad un insieme indistinto di persone. Quando riuscì a trovarla cercò di farsi strada tra i ragazzi per arrivare al tavolo della compagna. Minami era una ragazza con i capelli corti, lisci e corvini, gli occhi color nocciola, talmente minuta che Sakura non riuscì quasi a vederla.

«Ti ho trovata, finalmente!» Disse Sakura con un sorriso trionfante

 

 

«Ti ho trovata, finalmente!» Disse Sakura con un sorriso trionfante. «Ci tenevo a dirti che ho trovato la tua lettera e che ho accettato l'incarico.»

«Meno male, non sai come mi senta sollevata.» Rispose Minami tirando un lungo sospiro. «E Nate? Ho mandato una lettera anche a lui.»

«Sicuramente ha accettato. Lui non si tira mai indietro di fronte a queste richieste.»

Minami sorrise rincuorata. «Questa è una notizia splendida!» Esultò. «Sai, ho chiesto informazioni in giro riguardo la villa e mi hanno detto che ha un aspetto inquietante e corre voce che sia infestata da un fantasma!» Minami rabbrividì. «Io, sinceramente, non me la sentivo di andare in quel posto da sola, per questo vi ho chiesto aiuto.»

«Ma come, tu non ci sei mai stata?» Sakura era visibilmente sorpresa.

«No, non sapevo neppure che mia nonna avesse una villa, ma scommetto che nessuno ci abbia messo piede da un po' di tempo.»

«Sai una cosa? Io sono di Moriano! Conosco bene la zona. Non abito molto lontano dalla villa.» Sorrise Sakura. «Per questo non ho problemi ad accompagnarti.» Aggiunse.

«Ma davvero?» Sul volto di Minami si dipinse un'espressione stupita. «Questa sì che è una coincidenza!»

«Già! So bene dove si trova quella villa.» Sorrise. «Sapessi quante volte avrei voluto entrarci ed esplorarla!» I suoi occhi brillavano di desiderio. «E finalmente posso farlo!» Aggiunse con voce emozionata.

«Senti, Minami, ti va di raccontarmi nei dettagli la storia della lettera?» Sakura, da buona detective, non perse tempo. Minami annuì. «Ho ricevuto quella lettera esattamente una settimana fa, ma a differenza delle altre buste nella cassetta della posta, quella non aveva il francobollo ed era indirizzata a me. Insospettita e incuriosita dalla mancanza del francobollo, ho aperto la busta e ho cominciato a leggere la lettera.» Minami fece una pausa. «Se vuoi, posso darti anche la lettera. Ce l'ho qui con me.» Minami prese la cartella e, dopo aver frugato velocemente al suo interno, tirò fuori la busta che porse a Sakura. «Che scrittura infantile che ha questo avvocato. Sembra di un bambino di prima elementare!» Esclamò Sakura sbigottita.

«Ma tu l' hai contattato l'avvocato?» Domandò, poi, cambiando discorso.

«Sì certo, l' ho fatto ieri. Le ho confermato che ero disponibile ad incontrarla alla villa, come mi aveva proposto.» Spiegò Minami. «Così poi posso passare dal cimitero a cambiare i fiori sulla tomba della nonna.» La ragazza abbassò lo sguardo, tentando di trattenere le lacrime.

«Minami...Scusa se te lo domando, ma quando è morta tua nonna?» Chiese Sakura, esitando. «Non intendo costringerti a rispondere se non vuoi.»

«È morta due settimane fa. Noi due avevamo un bel rapporto, era come un'amica per me...Sai, non ho molti amici. Mia madre è morta e mio padre è sempre via per lavoro, per cui vivevo con lei.» La ragazza non riusci ad aggiungere altro, iniziò a singhiozzare. Minami stava piangendo.

«Minami non fare così.» Sakura cercò di consolarla accarezzandole la schiena. «Tua nonna starà bene, sarà in un posto migliore.»

«Ma mi manca tanto.»

«Ti capisco. Non è facile pensare di non potere rivedere una persona a cui vuoi bene, ti sembra che si sia trasferita in un altro posto e che prima o poi ritorni, ma in verità non tornerà.»

Minami annuì. Era veramente la sensazione che provava.

«Minami ti vorrei chiedere una cosa, mi serve per il mio lavoro.» Sakura tentò di giustificare la sua insistenza. «Tua nonna ti ha lasciato tutti i suoi averi, ma cosa ne farai della villa?»

«Non so, se ne occuperà mio padre. Sicuramente vorrà vendere sia la villa che la casa in cui vivo attualmente, ma io sono contraria perché, in fondo, qui è dove io e mia nonna abbiamo vissuto da quando sono nata, è stata casa mia per diciotto anni.» Le lacrime ricominciarono a rigarle il volto.

«Perché vorrebbe vendere anche casa tua? E tu dove andrai?»

«Attualmente mio padre si trova a Parigi, ma tornerà dopodomani per portarmi con lui.» Spiegò Minami.

«Senti, nella lettera hai detto che hai l'impressione di essere spiata, hai idea di chi possa farlo?»

«No, io non conosco molte persone, ma ti assicuro che quelle poche persone hanno tutta la mia fiducia.»

«Capisco...» A quel punto Sakura dovette interrompere la conversazione con Minami perché la professoressa le stava adocchiando da un bel pezzo. «Grazie di avermi chiarito le idee...»

«Non c'è di che...Visto che ormai la lezione è già iniziata e la prof. ci sta tenendo d'occhio, oggi puoi lavorare con me su questo tavolo, se ti va.» Propose Minami, abbozzando un sorriso.

«Va bene!» Sakura era entusiasta.

Appena sentì il suono della campanella che indicava il termine delle lezioni, Sakura sfrecciò fuori dall'aula. «Ciao Minami, ci vediamo domani pomeriggio!» Salutò l'amica e cominciò a correre più veloce che poteva, una persona la stava aspettando. Era talmente contenta di poterla vedere che non stava attenta a dove metteva i piedi quando, come succede a chi non guarda dove va, andò a sbattere contro qualcuno. Sentì cadere qualcosa a terra. «Scusami non volevo...»

«Non ti preoccupare, non è niente.» Dalla voce sembrava essere un ragazzo.

Sakura posò lo sguardo su ciò che era caduto e vide il bellissimo plastico di un tempio greco, dalle pareti dorate, parzialmente distrutto. «Oh, no! Cosa ho combinato!» Subito si buttò per terra a raccogliere i resti dell'opera. «Mi dispiace. Come posso rimediare al mio danno?»

«Non ti preoccupare, non ce n'è bisogno, posso rifarlo.» A quel punto il ragazzo si chinò per aiutare Sakura a rimettersi in piedi. La ragazza alzò la testa e i suoi occhi si specchiarono in un mare verde acqua. Rimase folgorata da quel colore particolare.

«Stai bene?» Le domandò lo sconosciuto.

«S... Sì... Grazie.» Il ragazzo le tese la mano, Sakura la strinse, si dette una spinta per sollevarsi e, mentre lei si alzava in piedi, il ragazzo si presentò.

«Piacere, sono Lucas.»

«Piacere, Sakura.» In quel momento, guardandosi intorno, notò che nel corridoio erano soli e subito si ricordò che, prima di scontrarsi con Lucas, stava correndo verso il cancello della scuola. «Scusami, devo andare. Spero di poterti incontrare di nuovo e di poterti aiutare con il tuo progetto.» Lucas si limitò a sorriderle e ad alzare la mano in segno di saluto. Poi la osservò uscire dal portone principale.

All'improvviso, accanto a lui apparve Emily

 

 

All'improvviso, accanto a lui apparve Emily. «Sakura Stevenson è la ragazza di Nathan Martini, il ragazzo più popolare della scuola. Però...» Sussurrò, mentre sul volto mostrava un sorriso malefico.

«Però, cosa?»

«Dicono che la loro relazione sia agli sgoccioli...» Mentì.

«Davvero?»

Lei annuì energicamente. «Ti consiglierei di non perdere questa occasione...» Emily sparì nel nulla, così come apparve.

****

Una volta tornato in camera, Luke si sedette sul letto e, incuriosito, aprì la busta che gli aveva dato il padre. Dentro c'era un disegno, sembrava realizzato su una pergamena. Accese l'abat-jour che aveva sul comodino. Rimase come folgorato. Osservò attentamente l'immagine, scorse una scritta minuscola, la lesse: Non siete altro che frammenti di una grande tela, trovatevi e ricomponete questa maestosa opera.

Piccola nota delle autrici: in questo prologo ci saranno sicuramente delle cose che non vi tornano, ma non vi preoccupate, ve le spiegheremo nel corso della storia! :D Inoltre, come avete potuto notare, Seventeen non è un romanzo vero e proprio, m...

Angolo annalisa93
Buonasera a tutti!
Come avevo già detto, questa è l'ultima parte del prologo, dalla prossima volta iniziano i capitoli :)
Inoltre, vi volevo informare che penso di aggiornare il sabato :)
Infine, ringrazio, anche a nome dell'autrice, tutti coloro che sono passati a dare un'occhiata e se vi va fateci sapere cosa ne pensate :)
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 4
*** 1.1 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


Lucca, 12/12/08, ore 16.30

Sakura uscì fuori, la gelida aria invernale la investì in pieno, facendole scuotere il corpo, colpito da lunghi brividi. Senza perdere tempo iniziò a cercare qualcuno, volgendo lo sguardo in ogni direzione. Finalmente vide chi stava cercando. Sorrise. Scese le scale e corse più veloce che poteva, senza distogliere gli occhi dal suo obiettivo. «Dave!» Urlò poi con tutta l'aria che aveva nei polmoni. Un ragazzo alto, biondo, dagli occhi castani, le stava sorridendo, appoggiato al cancello. Appena gli fu vicino gli saltò al collo e l'abbracciò con tutta la forza che aveva nella braccia. «Come sono contenta, non vedevo l'ora di rivederti. Com'è andato lo scambio? Ti sei divertito? Faceva freddo?»

«Calma, ma quante domande!»

«Scusami, è l'emozione.» Le lacrime di gioia le stavano inumidendo le ciglia. A quel punto il volto di David si distese in un dolce sorriso. «Anche te mi sei mancata, piccoletta!» Disse accarezzandole i capelli. «Piuttosto, non vedo il mio caro amico Nate.» Aggiunse guardandosi attorno.

«Sai che ama uscire con calma.» Non fece in tempo a finire la frase che vide il ragazzo varcare il portone. Lei lo chiamò per attirare la sua attenzione. Lui la vide e annuì sorridendole. Senza perdere tempo corse verso di loro e subito andò a salutare l'amico. «Ehi, amico!» I due si batterono il cinque e fecero il loro saluto. «Nate, non sei forse contento di vedermi?» Domandò David, notando l'espressione pensierosa che aleggiava sul volto del ragazzo.«Sì certo, ma non è questo.» Nathan tirò fuori la busta nera all'interno della quale aveva riposto la lettera di Minami.

«Allora è vero, ne hai ricevuta una anche tu!» Sakura si affrettò a tirare fuori dallo zaino una busta identica a quella del ragazzo. «Ecco, guarda. Sono uguali.»

Nathan fece per dire qualcosa, ma lei lo precedette, intuendo quello che stava per chiederle «Non ti preoccupare, Tesoro, ho già parlato io con Minami e le ho assicurato che l'avremmo accompagnata.»

«Ehi, ma mi dite di che state parlando, per piacere?» Li interruppe David, incuriosito. I due non si fecero pregare due volte e subito lo misero al corrente della richiesta della loro compagna. David, che aveva notato un velo di preoccupazione che aleggiava sul volto di Nathan, ascoltò in silenzio il racconto dei due amici, poi chiese di poterli accompagnare a visitare la villa. Senza contare che era da tempo che non partecipavano ad una missione tutti e tre insieme. «Dave, sei il benvenuto!» Rispose Sakura sorridendo. «Mi sei mancato, amico.» Aggiunse abbracciandolo di nuovo. David l'accolse fra le sue braccia. Rimasero un po' così, fino a quando il ragazzo non si ricordò di una cosa. «Quasi dimenticavo. Vi devo far conoscere una persona. Ci sta aspettando al nostro bar.»

Il MisteriX Café era un locale molto tranquillo dove i tre ragazzi si ritrovavano per fare il punto della situazione sui casi che dovevano risolvere, o semplicemente per passare un po' di tempo assieme parlando di cose futili. Quel posto era speciale, perché era il luogo d'incontro di tutti gli amanti del mistero. Ogni tanto si tenevano delle riunioni in cui si discutevano i fatti di cronaca di tutto il mondo che avevano a che fare con omicidi o presunti suicidi, insomma che ruotavano intorno ad una vittima e un colpevole. Il proprietario e i dipendenti del bar erano molto simpatici e mostravano un occhio di riguardo nei loro confronti. Infatti i ragazzi avevano un tavolo riservato, il numero tre. Appena entrata nel locale, Sakura guardò in direzione del tavolo e rimase a bocca aperta. Qualcuno, vestito con un cappotto di velluto rosso e il cappuccio alzato sedeva al posto che normalmente occupava lei. La ragazza subito gli corse incontro dicendogli: «Mi scusi, ma questo è da sempre il nostro tavolo e adesso ne avremmo bisogno.» Nella voce c'era una punta d'insistenza.

«Mi dispiace, ma io ho ricevuto l'ordine di non muovermi di qui.» Rispose secca una voce femminile. Sakura la guardò sorpresa.

«Ah, sì? E sentiamo, chi le ha dato quest'ordine?» Ribatté, poi, visibilmente alterata.

«Io. Sono stato io.» David le raggiunse continuò a spiegare: «E' lei la persona che avrei voluto farvi conoscere.»

«Veramente?»

«Sì. Lei è Emma, la mia ragazza.»

«Cosa?! La tua ragazza?!» Esclamarono Sakura e Nathan, sconvolti.

«Felice di fare la vostra conoscenza. Dave mi ha parlato molto di voi.» Disse Emma tirandosi giù il cappuccio.

«E' di Londra e sa parlare tantissime lingue: oltre all'Inglese conosce l'Italiano e un po' di Tedesco, Francese, Spagnolo e Giapponese.»

«Wow, anch'io in teoria dovrei sapere un po' di inglese, un po' di francese e un po' di spagnolo, visto che faccio il linguistico, ma è già tanto se so l'italiano!» Ammise Sakura ridendo. «Piuttosto, come avete fatto a conoscervi? Raccontaci, dai!» Lo incitò, accomodandosi sulla panca, di fronte ad Emma.

«Ma ragazzi, è una storia troppo lunga!»

«Dai, tesoro, anch'io voglio sapere qual è stato il momento esatto in cui ti sei innamorato di me!» Per convincerlo Emma gli si avvicinò, gli prese il braccio, se lo mise attorno al collo e si appoggiò al suo petto facendosi piccola piccola. Poi alzò il viso e, con gli occhi dolci e supplichevoli, gli chiese nuovamente di raccontare la storia. David, che non poteva resistere agli occhi dolci della ragazza, sospirò rassegnato «Va bene, come volete.»

«Grazie, tesoro!» Emma si allungò per stampargli un bacio sulla guancia, lui in cambio la strinse più forte e in quel momento respirò il suo profumo. Nel preciso istante in cui la fragranza al miele che impregnava i capelli e la pelle della ragazza pizzicò il suo olfatto, il ricordo dell'incontro con Emma gli si ripresentò davanti in tutta la sua nitidezza.

Secondo lo scrittore francese Marcel Proust il nostro passato è nascosto nella nostra memoria involontaria e necessitiamo di un oggetto per poterlo recuperare e ricondurlo a noi. Molto spesso quell'oggetto si identifica con un odore o un sapore perché gli odori e i sapori rimangono per sempre, anche quando sopraggiungono la morte di ogni essere e la distruzione di ogni cosa. Così a risvegliare in David le sensazioni legate all'incontro con la fidanzata fu proprio un odore: il profumo di miele. David chiuse gli occhi. Doveva incanalare le sensazioni che stava provando e trasferirle nelle parole che di lì a poco avrebbe utilizzato per raccontare la storia agli amici, in modo da renderle in grado di trasmettere ciò che lui sentiva anche a chi lo stava ascoltando. Gli occhi erano ben serrati. David cominciò a udire il rumore della pioggia che batteva con insistenza sull'ombrello. Sulla tela nera davanti a lui si delinearono le sagome di numerosi alberi, mentre intorno ad essi lentamente si stava materializzando una fitta ragnatela di corde e pezzi di legno, che andavano a formare i percorsi del parco-avventura. Sotto i piedi riusciva a sentire la terra che si era tramutata in una pericolosissima distesa di fango. Nonostante la brutta giornata il luogo brulicava di gente, di scolaresche.

In realtà David non ci sarebbe voluto andare, si era appena ripreso da una frattura alla gamba e non voleva rischiare di farsi male di nuovo. I suoi amici, però, avevano insistito così tanto che non poté far a meno di accettare, anche se controvoglia.

Adesso se ne stava lì, in piedi come un palo, con l'ombrello in mano, a osservare gli amici che si divertivano a terminare i percorsi. Non era invidioso, era solo annoiato. E, come se non bastasse, cominciò a sentire male al collo perché per poter osservare i compagni aveva dovuto tenere la testa alzata per molto tempo. Per alleviare il dolore chinò il capo e lo rialzò. Fu in quel momento che la vide. Attraverso la fitta pioggia scorse la figura di quella che sarebbe stata la sua futura fidanzata. Era una ragazza davvero carina. aveva gli occhi castani dai riflessi verdi, mentre i capelli castano-rossi le scendevano lungo le spalle per arrivare all'altezza del seno. Ciò che lo colpì maggiormente fu il colore delle sue labbra: erano delle labbra rossissime, che qualsiasi altra ragazza non sarebbe riuscita ad avere neppure mettendosi il rossetto più brillante e rosso del mondo. Le labbra mettevano in risalto la pelle chiara della ragazza, pelle che sembrava porcellana, pelle, che insieme ai lineamenti delicati del volto, la facevano sembrare una bambola. Faceva da guida a un gruppo di boyscouts e stava aiutando i bambini a salire sull'albero. Qualche minuto dopo quasi tutti stavano percorrendo il tratto in cui dovevano camminare su una fune. L'ultimo bambino era terrorizzato. Guardava in basso con occhi spaventati. La ragazza, dietro di lui, con voce dolce e paziente, lo incitava a proseguire. Il bambino si voltò indietro e la guardò. Lei gli sorrise con un sorriso che infondeva sicurezza. Lui, vedendola, ritrovò una certa fiducia in sé stesso, fiducia che gli permise di farsi coraggio e tentare di raggiungere la fine della corda. Pian piano riuscì a muoversi fino ad arrivare quasi dall'altra parte. Ma quando fu quasi al traguardo poggiò male il piede e si ritrovò rovinosamente sospeso per aria. Il suo corpo si paralizzò per la paura. La ragazza lo guardò con gli occhi spalancati dalla preoccupazione. Lui, dopo il momento di paralisi totale, una volta accortosi di ciò che gli stava accadendo, cominciò a urlare e a muoversi come un forsennato. La ragazza cercò di calmarlo, ma tutto fu inutile. Il bambino sentì il gancio del moschettone aprirsi. Irrimediabilmente il suo corpo precipitò, attratto dalla forza di gravità. Il tempo parve fermarsi. David, in un primo momento non seppe che fare, poi, senza pensarci su due volte, lasciò cadere a terra l'ombrello e corse sotto la fune. Scivolò a causa del fango, ma riuscì prendere in tempo il bambino, prima che finisse per terra. La ragazza, terrorizzata, li raggiunse. Prese in braccio il bambino che, scioccato, scoppiò a piangere. David, invece, era ancora sdraiato per terra. Privo di sensi.

Emma appoggiò delicatamente il bambino a terra e lo incitò ad andare verso James, l'altro ragazzo che assieme a lei si occupava dei bambini. Dopodiché senza indugiare ulteriormente, si gettò sul ragazzo per soccorrerlo. Gli tastò la nuca accuratamente per accertarsi che non avesse ferite, poi, tremante, si guardò le dita e vide con orrore e terrore che erano imbevute di una sostanza rossa e viscosa: sangue.

«Chiamate un'ambulanza! Qui c'è un ragazzo che sta perdendo sangue!» Urlò. Urlò con quanto fiato avesse in gola, con quanta disperazione avesse in corpo. E mentre aspettava che qualcuno la venisse ad aiutare, lei rimase lì, immobile, china sul corpo di quel ragazzo , un ragazzo sconosciuto a cui però era immensamente grata. Rimase lì, immobile, mentre la pioggia continuava a scendere con forza. Fino all'arrivo dei soccorsi. Dopodiché si scostò dal corpo per lasciare agire i paramedici, che caricarono il ragazzo prima sulla barella e poi sull'ambulanza per trasportarlo d'urgenza all'ospedale. Lo tennero in prognosi riservata per tre giorni e ogni giorno Emma lo andò a trovare.

Fino a quando non si svegliò.

 

Angolo annalisa93
Buon sabato a tutti!
Ecco qui l'inizio del primo capitolo, anche questo, come il prologo, è diviso in piccole parti. Speriamo che vi piaccia!
Grazie a tutti coloro che hanno dato un'occhiata e a chi ha lasciato un messaggio o una recensione :)
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** 1.2 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


La luce del mattino, che filtrava dalle tapparelle semichiuse, lo colpì con la forza di una lama lucente e affilata. I suoi sensi erano fortemente intorpiditi, un po' per gli analgesici, un po' perché aveva dormito parecchio. Dopo che si era risvegliato dal coma, tutte le volte che si appisolava, finiva per fare lunghissime dormite. Per questo ci mise un po' per realizzare dove si trovasse. Era ancora in ospedale e la prima cosa che riuscì a distinguere fu la voce dell'infermiera fuori dalla stanza.

«Attenda un momento, prego.» La donna fece scorrere la porta ed entrò nella stanza. «Buongiorno caro.» Gli disse con un sorriso rassicurante. «Hai visite.» A quelle parole il viso di David si illuminò di stupore. Non ebbe il tempo di chiederle chi fosse venuto, che l'infermiera fece entrare il visitatore. Lì, in piedi sulla soglia, c'era una ragazza. Il suo volto era nascosto dietro un bellissimo mazzo di fiori colorati. Al segnale della donna si avvicinò lentamente al letto, poi con grazia appoggiò i fiori sul comodino, mostrando il viso fino a quel momento occultato. Era la ragazza del parco-avventura. David, nel momento in cui la riconobbe, sentì il corpo diventare preda dell'imbarazzo ed ebbe l'impressione che il cuore gli fosse balzato in gola, perciò deglutì nel tentativo di ricacciarlo al suo posto. Le mani e il viso cominciarono a sudare e lui non capiva il perché. Non gli era mai capitato niente del genere. Forse è colpa dello stress fu la spiegazione che ingenuamente si dette.

«Allora io vi lascio soli.» Disse l'infermiera facendo l'occhiolino. «Vi ricordo che l'orario di visita termina alle 9.00.» Precisò uscendo. David non aveva il coraggio di parlare, si sentiva stranamente emozionato. Così fu lei a rompere il ghiaccio.

«Ti volevo ringraziare per aver salvato il piccolo Jason, ti sei comportato da vero eroe.»

«Figurati, l'ho fatto con piacere! Mica potevo lasciare che un bambino si facesse del male.» David abbozzò un sorriso. Non era facile per lui muovere i muscoli facciali dopo che questi erano stati in stato di inattività per più di tre giorni. Emma comprese lo sforzo. Sorrise dolcemente. «Grazie ancora. Salvando Jason hai salvato anche me e il mio lavoro.» Lei lo guardò dritto negli occhi esprimendo col suo sguardo tutta la gratitudine che provava verso di lui e che nessuna parola al mondo sarebbe riuscita a rivelare. Lui arrossì. Decifrò il messaggio che quegli occhi luminosi gli stavano mandando, ma non riuscì a sopportare la loro l'intensità, perciò fu costretto ad abbassare il viso.

«Che c'è? Ti senti male per caso? Aspetta che vado a chiamare l'infermiera» Allarmata, Emma era già diretta verso la porta.

«Ferma!» David cercò di intervenire prima che fosse troppo tardi. «Non ti preoccupare» rispose, ancora visibilmente imbarazzato. «Non è niente.» A quelle parole Emma si tranquillizzò e si riavvicinò al letto.

«Posso fare qualcosa per te? Hai sete?»

«No, grazie, non ho sete.» Dopo una breve pausa David riprese a parlare «Però c'è una cosa che puoi fare per me.»

«Ovvero?»

«Lì sul tavolo ci sono un CD dei Bon Jovi e uno stereo. Non è che potresti mettere il cd nello stereo e farlo partire? Sai, la musica mi rilassa molto. E mi carica.»

«Sì, certo, lo faccio subito.»

«Grazie.» David abbassò la testa e piantò lo sguardo sulla coperta che nascondeva le sue gambe. «A te piacciono i Bon Jovi?»

«Moltissimo, sono la mia band preferita. Poi» A quel punto gli occhi di Emma s'illuminarono «Io amo John Bon Jovi. Più invecchia più diventa bello.»

«Già...» David si rattristì sentendo quelle parole. Il suo cuore fu invaso da un sentimento sgradevole a cui però non riusciva dare un nome. Gelosia? No, non poteva essere gelosia. Non poteva essere geloso di una ragazza che neppure conosceva e neppure provare invidia per Bon Jovi, con cui né lui né lei avrebbero mai avuto a che fare di persona. Allora cos'era?

David non poté darsi una risposta perché venne interrotto da Emma. «La mia canzone preferita è la numero quattro. E' una canzone così romantica...»

«Se ti fa piacere, mettila pure.»

Emma non se lo fece ripetere due volte. In men che non si dica la stanza si riempì delle note di Always dei Bon Jovi. La ragazza ne rimase estasiata. Si avvicinò nuovamente al letto. Si sedette e sfilò le ballerine che aveva ai piedi. «Ce la fai ad alzarti?» Chiese poi al ragazzo.

«Insomma, sono tutto indolenzito...» David si portò la mano destra sulla schiena e la massaggiò. Poi, dopo aver riflettuto un attimo su ciò che gli aveva chiesto la ragazza, incuriosito, volle sapere il perché di quella domanda.

«Mi è venuta voglia di ballare.» Rispose sincera Emma. Sul volto del ragazzo si dipinse un'espressione sorpresa. «Ma io veramente non credo di essere nelle condizioni migliori per farlo.» Il suo tono era incerto, non voleva ferire la ragazza. Poi, vedendo che lei si era rattristata, cercò di rimediare. «Va bene, ci proverò, ma sappi che non posso andare tanto lontano con questo.» disse indicando l'ago che aveva nel braccio.

«Non ti preoccupare, non ti farò dannare.» Intanto gli dette una mano a scendere dal letto. Nel preciso istante in cui toccarono terra, le gambe di David cedettero. Ma Emma riuscì a sostenerlo.

«Forse è meglio se la canzone l'ascoltiamo stando sul letto.» Disse con un filo di voce. David sorrise amaramente. Gli dispiaceva di non poterla accontentare. Emma lo aiutò a sedersi e con lui si accomodò anche lei. Ma la canzone oramai era terminata. Così si alzò con l'intenzione di farla ripartire e in un lampo andò allo stereo, fece ripartire la canzone e tornò al letto, su cui si sedette nuovamente.

«Ecco, adesso ci siamo.» Disse con un sorriso soddisfatto. I due, che erano seduti sul letto, si lasciarono cadere all'indietro, sdraiandosi sul materasso. Entrambi serrarono i propri occhi per poter assaporare pienamente ogni singola nota. Intorno a loro si andò a creare un'atmosfera magica, calda ed accogliente. Vicino a quel ragazzo Emma si sentiva al sicuro, c'era qualcosa nella sua presenza che le trasmetteva calma e tranquillità. Senza accorgersene appoggiò la sua testa sulla spalla del ragazzo. Quel contatto inaspettato colse David di sorpresa. Ben presto, però, il suo volto si distese in un sorriso colmo di tenerezza. Chiuse gli occhi e, insieme ad Emma, si lasciò trasportare dalla melodia della canzone, una melodia nuova, arricchita dal ritmo di due cuori che battevano all'unisono.

 

 

Angolo annalisa93

Buon sabato a tutti!
Non so voi, ma io sto morendo di caldo, c'è un'afa pazzesca -.-"
Cooomunque spero che la storia vi stia piacendo e se vi va lasciate un commento :)
Grazie a tutti e alla prossima!

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Capitolo 6
*** 1.3 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


«Non ci credo. Ti sei inventato tutto. Tu che salvi la vita ad una persona?»

Sakura conosceva molto bene David e non riusciva a credere fosse in grado di trovarsi una ragazza e di essere romantico, lui che era sempre stato un eterno bambino, burlone e giocherellone. Così guardò Emma in cerca di una smentita. Ma gli occhi della ragazza dicevano tutt'altro. No, non ci poteva credere. Sempre aveva pensato di conoscere David più di chiunque altro, ma adesso saltavano fuori lati del suo carattere che per lei erano nascosti e non le restava altro che accettare il fatto che, in realtà, non sapeva tutto dell'amico.

«Così hai salvato un bambino e ti sei pure trovato una ragazza carina?! E bravo Dave!» Pronunciare a voce alta quelle parole le rendeva più facile ammettere la verità. Poi guardò Nathan, che non si era per niente scomposto di fronte al racconto dell'amico. Lui sì che lo conosceva bene. L'amicizia che lo legava a David affondava le proprie radici nel periodo dell'asilo, la loro era un'amicizia profonda e consolidata. Lei, invece, non aveva mai avuto un'amica del cuore con cui condividere i propri segreti, aveva avuto amici e amiche con cui si era divertita, ma di cui in realtà non si era mai fidata fino in fondo, gli unici di cui realmente aveva imparato a fidarsi erano stati proprio David e Nathan. Forse era anche per questo che, nonostante fosse contenta per lui, in fondo al cuore provava dispiacere pensando che Dave si fosse fidanzato, provava dispiacere sapendo che Emma, col suo viso dolce e con i suoi gentili modi fare, si fosse presa il suo migliore amico. L'amicizia certo sarebbe stata la stessa, ma il tempo da passare insieme sarebbe sicuramente diminuito. In fondo era giusto così, anche Dave doveva trovarsi la ragazza, di certo non poteva rimanere single tutta la vita solo per lei. E lei doveva accettarlo. Così, da ragazza matura, cercò di scacciare i pensieri egoistici che fino ad allora le avevano riempito la testa, si alzò dalla sedia e andò ad abbracciare Emma. «Benvenuta nella nostra città!» Disse sorridendo. «Se hai bisogno di qualcosa chiedi pure, sarò felice di aiutarti.»

«Grazie, Sakura, sei molto gentile.» Emma le prese la mano. «Ho veramente bisogno di un'amica in questo momento.» Le sorrise con gratitudine.

«Ma certo, conta su di me! Farò qualsiasi cosa per renderti questo soggiorno piacevole.» Disse con convinzione Sakura. «Volete qualcosa?» Chiese poi rivolgendosi agli altri due. «Vado a prendervelo io.» Aspettò che Nathan e David decidessero poi, dopo aver memorizzato l'ordinazione, si diresse al bancone.

«Aspettami, Sakura!» Le urlò David. «Ti aiuto, altrimenti non riuscirai a portare tutto a destinazione.» In un baleno fu da lei.

«Grazie per le belle cose che hai detto a Emma.» Le bisbigliò all'orecchio.

«Figurati, farei di tutto per la ragazza del mio migliore amico.» Gli rispose lei. David sorrise. Il suo era un sorriso di gratitudine. «Piccoletta, sei davvero una persona speciale.» Disse mettendole la mano attorno al collo e tirandola a sé, quasi soffocandola. «Dave, lasciami che così affogo!» Protestò lei. Lui non se lo fece ripetere due volte e la lasciò in modo brusco. «A proposito, devo darti una cosa» Velocemente frugò nelle tasche e dopo poco ne tirò fuori una spilla. «Tieni, questa l'ho presa per te» Disse porgendola alla ragazza. «L'ho vista e ti ho subito pensato.» Sakura la osservò incantata.

«Dave, ma è bellissima!» Si trattava di un fiore di ciliegio di un vivo color rosa adagiato su una cornice circolare di fili d'oro tempestati da brillanti rosa. «La metto subito sulla giacca della divisa.»

«Divisa?»

«Sì, non lo sapevi? Quest'anno il liceo scientifico ha deciso di utilizzare le uniformi. I colori che avrebbero rappresentato la scuola sono stati scelti tramite votazione da parte di tutti gli studenti. Come vedi, hanno vinto il rosso e il nero.» Spiegò, indicando i vestiti che aveva addosso. «Poi, ogni indirizzo di studio avrebbe avuto una divisa caratteristica, rispettando, però, i colori.» Fece una pausa. «Ognuno poteva proporre la sua idea per l'uniforme affiggendone una foto su una bacheca apposita, poi la proposta che avrebbe avuto più voti sarebbe diventata la divisa ufficiale dell'indirizzo.»

«Non ci posso credere!» David era stupito. «Immagino che, come tutte le idee che partono dal Vallisneri, anche questa si sia diffusa tra le altre scuole.» Nel pronunciare quelle parole sbiancò. «Non voglio sapere cosa hanno deciso all'ITIS.»

Sakura scoppiò in una fragorosa risata «Domani andrai a scuola e scoprirai che hanno deciso di vestirsi da Pokémon!» Al pensiero di tutti quei ragazzi vestiti da Pikachu la ragazza si piegò in due dalle risate.

«Non dirlo neppure per scherzo!» David stava sudando freddo. «Ho paura ad andare a scuola domani.» Il suo sguardo si posò sulla spilla che aveva regalato a Sakura.

«Posso mettertela io?»

«Certo, come vuoi.» La ragazza restituì la spilla all'amico. David la prese e si piegò in avanti per applicare la spilla sulla giacca dell'uniforme di Sakura.

«Ecco fatto!» Esclamò dopo alcuni minuti.

«Grazie.» Sakura lo abbracciò e gli stampò un bacio sulla guancia.

«Di nulla, piccoletta!» Il ragazzo si alzò e prese uno dei due vassoi appoggiati sul bancone, Sakura prese l'altro e insieme si diressero nuovamente al loro tavolo.

«Certo che se stai via tre mesi quando torni ti senti spaesato! Guardate quanto è cambiato questo posto!» Esclamò David mettendosi a sedere e guardandosi intorno. In effetti il locale era cambiato molto dall'ultima volta che c'era stato. Le pareti bianche avevano lasciato il posto a pareti color crema che garantivano al locale un'illuminazione naturale. I proprietari lo avevano ristrutturato riprendendo come modello i bar ottocenteschi europei, i bar in cui si riunivano gli intellettuali del tempo. In particolare, il locale s'ispirava al famoso bar delle Folies-Bergère dipinto da Manet. Per questo non potevano mancare gli enormi e pesanti lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto, gli ampi tavoli in marmo, le panche e le sedie in legno scuro di ciliegio con cuscini in velluto rosso. Lo spazio era distribuito per lo più in lunghezza, anche se il locale era stato costruito su due piani. La parete che dava sulla strada presentava enormi vetrate, mentre sull'altra, chiamata Wall of Fame, erano appese le foto dei clienti che più si erano distinti nel mondo del crimine, intervallati da enormi specchi che moltiplicavano lo spazio interno. Il locale terminava, oltre il bancone, con uno specchio che occupava tutta la parete di fondo, su cui si rifletteva il piano superiore, delimitato da una balaustra in marmo e a cui si accedeva salendo una scala, anch'essa in legno di ciliegio.

L'occhio di David cadde sulle foto della Wall of Fame. «Ragazzi, ma avete visto?! Ci siamo anche noi!» Nel costatare ciò il ragazzo fu percorso da un fremito di euforia. «Nate, c'è pure tuo padre!» Poi, osservò una a una le foto «Certo che in bianco e nero sembriamo molto più affascinanti!»

«Già, io sembro una donna di classe, elegante come Audrey Hepburn.»

«Mpf, Audrey Hepburn! Ma Fammi il piacere.» Nathan si lasciò sfuggire un sorrisino divertito. «Ma se quando cammini mostri la grazia di un elefante!»

La ragazza si bloccò un istante, giusto il tempo di rielaborare ciò che aveva appena sentito, poi la reazione non tardò ad arrivare. «Sei uno stronzo! Come ti permetti di offendermi in questo modo di fronte ad una ragazza che abbiamo appena conosciuto!» Stava per dirgliene quattro, ma venne interrotta dalla suoneria del cellulare di Nathan. Il ragazzo, con la sua solita calma glaciale, estrasse il cellulare dalla tasca e rispose. Dall'altra parte si udiva solo un respiro ansimante.

«Pronto, chi è?»

«Aiuto...» A parlare fu una tremante voce femminile.

«Chi parla?» La voce di Nathan acquistò vigore e potenza.

«Scuola...» Fu la risposta sconnessa, poi il silenzio. Aveva riattaccato.

Nathan rimase col cellulare in mano. Sul viso aveva un'espressione attonita.

«Nate, che è successo?» Gli chiese Sakura preoccupata.

«Dobbiamo andare a scuola. Subito.» Disse riponendo il cellulare nella tasca della giacca. Il suo tono era freddo e deciso.

«Non abbiamo tempo da perdere, c'è una ragazza in pericolo.» Aggiunse alzandosi dalla sedia e prendendo il giacchetto e lo zaino a tracolla. Sakura, David e Emma, allarmati dalle parole dell'amico, fecero lo stesso e senza perdere altro tempo sfrecciarono fuori dal MisteriX Café. David, prima di uscire però, gettò un'occhiata al tavolo e, attratto dalla brioche ancora integra dell'amico, non perse l'occasione di prenderla e di infilarsela furtivamente nello zaino.

«Che c'è?» Emma aveva visto tutto e lo stava guardando allibita «Le avventure mi mettono fame» Si giustificò cercando di assumere un'espressione innocente. Lei non commentò, si limitò ad incitarlo a muoversi, gli altri due erano già spariti.

 

Angolo annalisa93
Buon pomeriggio a tutti!
Ecco qua la terza parte del primo capitolo :)
Spero che la storia vi stia piacendo e poi volevo ringraziare tutti coloro che la stanno leggendo, grazie!
A sabato prossimo :)

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Capitolo 7
*** 1.4 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


Oslo, 9/12/08, ore 16.00

I vestiti erano piegati e sistemati sul letto, aspettavano solo di essere messi nella valigia che Margareth stava preparando lentamente, seguendo il filo dei suoi pensieri. All'improvviso sentì qualcuno bussare.

«Avanti!»

Da dietro la porta fece capolino la testa bionda e arruffata di Luke. Lentamente si avvicinò alla sorella, si mise a sedere sul letto e cominciò a osservarla preoccupato, mentre lei era piegata sulla valigia. Continuò così per una manciata di minuti, continuò a fissarla, mentre fra lui e lei si andava creando un muro di silenzio. L'unico suono presente era il continuo aprirsi e chiudersi delle cerniere, un suono stridulo dal quale traspariva una nota d'inquietudine, che Luke riuscì a percepire chiaramente. Non sapeva né che dire né che fare. Poi, con voce incerta, decise di infrangere la barriera che si era appena formata. «Meg, come ti senti?» Temeva una reazione negativa da parte della sorella.

«Sto bene.» Rispose secca, senza alzare la testa e riponendo con gesti frettolosi la maglia nel bagaglio.

«Sicura?» Insistette, anche se non era certo che fosse la cosa giusta da fare.

«Sicurissima.» La risposta fu fredda, ancora. A quel punto Luke decise di smettere con le domande e riprese a guardarla senza dire una parola. Più passavano i minuti più l'atmosfera nella stanza diventava insopportabile. Più i suoi occhi erano posati su di lei, più sentiva che gli dava fastidio il fatto che lei non avesse intenzione di alzare la testa e di mostrargli cosa realmente stesse provando. Cercò di resistere il più possibile, sapeva com'era fatta sua sorella ed era ancor più consapevole dell'estrema delicatezza della situazione, ma non ci riuscì. Alla fine sbottò. «Smettila di fingere, lo sai che con me non funziona!» Disse tirando un calcio al coperchio in plastica che ricadde pesantemente sul resto del bagaglio. Meg prontamente ritrasse le mani prima che potessero essere schiacciate. Rimase con la testa bassa. «Smettila di urlare, vai a cambiarti e a preparare le valigie, è tardi.» Il suo tono era sempre secco e distaccato.

«Come vuoi.» Ormai a Luke non restava che arrendersi di fronte a tanta testardaggine. Si allontanò e silenziosamente uscì. Appena chiuse la porta vi si appoggiò con la schiena, aspettando. Dopo pochi minuti sentì dei sospiri e dei singhiozzi sommessi. Provò una sensazione strana. Da una parte si sentiva soddisfatto perché aveva ottenuto la conferma di non essersi sbagliato, dall'altra, invece, era dispiaciuto per il fatto che Margareth stesse soffrendo in silenzio e lui non potesse fare niente per aiutarla. Lei era un tipo orgoglioso, che aveva sempre voluto cavarsela da sola e allo stesso tempo era timida ed introversa. Per lui era un'impresa ardua capire come si dovesse comportare nei suoi confronti, neppure adesso lo sapeva. Avrebbe dovuto andarsene e lasciarla sfogare in solitudine, o tornare dentro e consolarla? Si allontanò dalla porta, deciso ad andarsene, fece qualche passo in avanti, ma poi, all'improvviso, come impossessato da una volontà esterna, tornò indietro. Aprì la porta piano piano, cercando di fare meno rumore possibile, si avvicinò alla sorella, le si sedette accanto, le mise un braccio intorno alla vita e l'avvicinò a sé. Lei cominciò lentamente a lasciarsi andare, appoggiò la testa alla spalla del fratello. «Sai, la freddezza che hai dimostrato stamani durante l'incontro con papà, mi ha veramente sconvolto. Ti ho osservato tutto il tempo, ma non hai fatto una piega. Mi dici come sei riuscita a mantenere la calma?»

«In realtà io sapevo. Sapevo da tanto tempo, anche prima che partissi per il mio viaggio. Ieri sera ho avuto modo di parlare con papà che mi ha spiegato molte cose... anche proprio riguardo al viaggio che ho fatto... mi ha raccontato praticamente tutto. In questo modo ho avuto la notte intera per capire e metabolizzare le informazioni che avevo ricevuto.» Spiegò la ragazza. «Ero quasi riuscita a farmene una ragione ma tu, brutto scemo, sei entrato in questa stanza con quella faccia da cane bastonato e mi hai ricordato quanto penosa sia questa faccenda...» Aggiunse, il volto le si velò di tristezza.

«Scusami, non era mia intenzione... ero solo preoccupato per te...» Disse, dando un bacio leggero sulla testa della sorella.

«Lo so... mi dispiace per averti trattato male poco fa... ma cerca di capire...»

«Non c'è bisogno che ti scusi, me lo sono già dimenticato!» Luke sorrise, cercando di rassicurarla. Margareth lo guardò con gratitudine.

«Come farò? Ho paura, Luke. Non so se riuscirò ad affrontare tutto questo...» La voce si fece tremante.

«Sorellina, non ti preoccupare, partirò anch'io con te, non ti lascerò da sola.»

Meg affondò il viso nella maglia del fratello, confortata dalle sue parole. Poi, notando qualcosa di strano, cominciò ad annusargli la maglia. «Perché sulla tua maglia sento un profumo da donna?»

A quelle parole Luke s'irrigidì, il viso sbiancò, gli occhi si dilatarono per la sorpresa. Com'era possibile?

 

 

Angolo annalisa93
​Buon sabato a tutti!
Eccoci qua con una nuova parte del primo capitolo, spero che la storia vi stia piacendo e incuriosendo!
Se vi va lasciate un commento e niente alla prossima, un bacio :)

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Capitolo 8
*** 1.5 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


Non ci misero molto a raggiungere la scuola. Sakura e Nathan erano già al cancello. Erano circondati dagli altri studenti che erano rimasti a scuola per studiare in gruppo e dal custode. Da quel che avevano capito, nessuno di loro aveva fatto la chiamata ricevuta da Nathan. Mano a mano che si avvicinavano David ed Emma percepivano che l'atmosfera intorno a loro stava cambiando, stava diventando inquietante: gli alberi si piegavano pericolosamente, spinti da un vento che soffiava con una potenza inaudita, il cielo era livido di pioggia, i nuvoloni sembravano essersi compattati dando forma ad una cupola scurissima, le numerose finestre dell'edificio si aprivano e chiudevano sbattendo con forza, le luci al suo interno si accendevano e spegnevano ad intermittenza.

«Che diavolo sta succedendo là dentro?» Chiese David con gli occhi spalancati.

«Susan Serravalle è tornata.» Annunciò secco Nathan.

David si voltò verso l'amico, sorpreso dalle parole da lui appena pronunciate. «Che hai detto? Te che credi a certe storie?»

«No, certo che non credo a certe storie. Credo solo che ci sia qualcuno che voglia farci credere che Susan Serravalle stia infestando la nostra scuola.» Puntualizzò.

«E chi pensi che sia?»

«Lo scopriremo presto, mio caro Watson.» Nathan stava già scavalcando il cancello, che si era chiuso per la forza del vento.

«Aspettate!» Sakura era pallida, la vista della scuola l'aveva messa in agitazione. «Non ditemi che davvero volete entrare lì dentro?!»

David e Nathan la guardarono con un'espressione che le fece capire l'inutilità della domanda, sapeva già la risposta.

«Sakura, non possiamo fare altrimenti, qualcuno là è in pericolo» Le rammentò il fidanzato. «Che fai? Entri con noi?» Le domandò poi.

Lei non sapeva come agire, aveva paura e poteva sentire il terrore penetrarle fin dentro le ossa, assieme al freddo di quella giornata invernale. Il cuore aveva accelerato il suo battito, le mani avevano incominciato a tremare, la fronte si stava imperlando di sudore e più guardava la scuola, più quel sentimento spiacevole s'impossessava di lei. Si voltò verso Emma in cerca di sostegno, sicura che anche lei stesse provando ciò che stava sentendo lei. Emma la guardò e la vide annuire con il capo, lei sarebbe entrata con i ragazzi. A Sakura non restava che fare lo stesso, non voleva rimanere lì da sola, facendosi consumare dal freddo e dalla preoccupazione per gli amici. Si fece coraggio e si arrampicò sul cancello, poi, con l'aiuto di David, saltò dall'altra parte. Aspettò Emma e insieme agli altri si avvicinò al portone della scuola, mentre Giovanni, il custode, urlava loro di stare attenti e di tornare sani e salvi.

«E se fosse davvero il fantasma di Susan Serravalle?» David era eccitato, era appassionato di fenomeni paranormali. Nel momento in cui sentì la parola fantasma Sakura, al contrario, impallidì ulteriormente . «F..Fan...Fantasma??» Balbettò, ormai era nel panico totale.

«Sì, non hai mai sentito parlare di Susan Serravalle?»

La ragazza scosse il capo ancora visibilmente turbata. «Lo so io che faccio l'ITIS e non lo sai tu che frequenti lo scientifico? Il ragazzo scosse il capo in segno di disapprovazione. «Non ti preoccupare, ci penso io ad istruirti al riguardo.» Aggiunse con un sorriso elettrizzato. Non aspettava altro che raccontare la storia della sfortunata ragazza, per cui lo fece mettendo nel tono della voce e nella gestualità più enfasi possibile.

Susan Serravalle era una studentessa che aveva frequentato quello stesso liceo e che proprio l'undici dicembre di quarant'anni prima venne ritrovata morta, impiccata nella vecchia aula di musica. Si era suicidata. Le motivazioni erano ancora sconosciute.

«Si dice che il suo fantasma si aggiri nei corridoi della scuola.» Concluse il giovane, visibilmente emozionato.

«Smettila di dire scemenze, Dave!» Gli intimò Nathan, che non sopportava niente di ciò che non rientrava nei limiti del razionale.

Adesso erano tutti e quattro di fronte al portone principale. I ragazzi entrarono senza la minima esitazione, Emma e Sakura invece rimasero immobili sulla soglia. Lo spettacolo che si presentava ai loro occhi le terrorizzava. La paura le ghermì con rinnovata forza, lasciandole senza respiro. Attonite, con le mani e le gambe che tremavano, bagnate da un sudore freddo, con il cuore che martellava in petto, osservarono i loro compagni addentrarsi in quella caotica confusione. Le finestre continuavano a sbattere violentemente, liberando nell'aria un motivo assordante, il vento continuava a soffiare impetuoso percorrendo i corridoi una volta affollatissimi, i lunghi neon appesi al soffitto sibilavano paurosamente, sembravano in procinto di scoppiare.

I ragazzi si voltarono per vedere dove fossero le ragazze. «Che fate lì impalate?» Domandò David. Le due provarono a parlare, ma non ci riuscirono, le mascelle erano paralizzate. I loro sguardi adesso erano persi nel vuoto. Il ragazzo, intuendo il loro stato d'animo, tornò indietro, le prese entrambe per mano e le trascinò lungo tutto il corridoio. Il suo tocco, caldo e sicuro, sembrò smuoverle. Emma e Sakura abbandonarono per un momento l'immobilità cui la paura le aveva costrette e seguirono il ragazzo in silenzio, confortate dalla sua stretta. Avanzarono con difficoltà, dovettero far forza contro la barriera di vento che si era creata davanti a loro, ma dopo un po' riuscirono a raggiungere Nathan.

«Tenete.» Disse il ragazzo tirando ad ognuno di loro una torcia che aveva preso dallo stanzino del bidello, poi, senza aggiungere altro, riprese a camminare finché non terminò il corridoio. Si fermò. E con lui si arrestarono anche il movimento e la confusione che fino ad allora li aveva circondati. David, Sakura e Emma si guardarono attorno sbigottiti. Nathan, invece, continuava a guardare avanti.

Erano di fronte alla porta della vecchia aula di musica, l'aula in cui morì Susan Serravalle. Sopra era appeso il cartello che vietava l'accesso. Per quarant'anni, da quel terribile giorno, nessuno, a parte la polizia, ci aveva messo piede, o almeno così si credeva.

«Dave, aiutami, dobbiamo tirarla giù.»

«Ma Nate, non possiamo entrare! Ricordi cos'è accaduto a Filippo e Summer, i due ragazzi che lo hanno fatto?»

«Certo che me lo ricordo.» Si voltò verso l'amico . «Proprio per questo penso che chi mi ha chiesto aiuto sia lì dentro.» I suoi occhi di ghiaccio erano sicuri, determinati. Sapeva a cosa andava incontro.

Due anni prima, quando ancora frequentavano il secondo anno di superiori, due ragazzi, loro coetanei, s'intrufolarono nell'aula passando dalla finestra e non ne uscirono mai più. Gli agenti li cercarono in ogni angolo della scuola, ma non riuscirono a trovarli, erano spariti, volatizzati.

Per evitare che la storia trapelasse, il preside pagò i genitori perché tenessero la bocca chiusa e intimò ai professori di spiegare ai compagni dei due alunni che Summer Lucchesi e Filippo Del Giudice, si erano trasferiti. Per questo erano in pochi a conoscere quella storia e fra quei pochi c'erano anche Nathan e David. Per quest'ultimo i misteri erano come una calamita, per cui, anche se non frequentava il liceo scientifico, il ragazzo non aveva perso l'occasione di studiare da vicino la scomparsa dei due studenti. Molto spesso prima di andare a lezione passava a salutare Nathan e Sakura e intanto ne approfittava per portare avanti la sua indagine personale, anche se per colpa di questa abitudine rischiava sempre di perdere l'ultima navetta diretta alla sua scuola.

«E' un rischio che correremo.» Concluse Nathan. David annuì, non stava più nella pelle, voleva vedere cosa si nascondeva dietro quella porta, non era più titubante, la curiosità aveva avuto la meglio. Lasciò le mani delle due ragazze, che fino a quel momento aveva continuato a stringere, e si mise in posizione. Avrebbe preso la rincorsa e si sarebbe fiondato sulla porta.

«Un momento!» Emma e Sakura ritrovarono la voce. «Noi, lì dentro, non ci entriamo.» Per loro era stata già dura arrivare fin lì, il loro cuore non avrebbe retto un'altra volta la tensione a cui era stato sottoposto in precedenza. Ma le loro parole non sortirono alcun effetto, Nathan non le ascoltò nemmeno. E neppure David. Avevano appena notato che la porta dell'aula di musica era già aperta. «Che la ragazza sia entrata da qui?» David era sorpreso.

«Non ci resta che entrare per scoprirlo.» Nathan spalancò la porta e si addentrò nel buio della stanza, seguito a ruota dall'amico. Emma e Sakura rimasero ancora una volta sulla soglia a fissare la parete nera che si stagliava di fronte a loro. Il cuore aveva ricominciato a battere velocemente, le mani avevano ripreso a tremare, questa volta, però, la paura aveva lasciato il posto ad un brutto presentimento, un bruttissimo presentimento. Sentivano che i ragazzi avevano commesso un grave errore, non dovevano entrare lì dentro. E loro non potevano lasciarli soli, dovevano seguirli. Così si guardarono negli occhi, si dettero la mano per farsi forza a vicenda, deglutirono e, con un passo in avanti, si lasciarono inghiottire dal buio. Adesso erano tutti all'interno della stanza. Intorno a loro tutto era nero e silenzioso. Gli unici suoni che Sakura ed Emma riuscivano a sentire era il battito del loro cuore, accelerato in modo inverosimile, e il loro respiro affannato. La tensione le stava consumando. Poi, all'improvviso, udirono un mugolio soffocato. Subito tutti e quattro accesero le torce puntandole in direzione del rumore, ma non c'era nulla. Senza abbassare la guardia, si misero spalla contro spalla e incominciarono a illuminare in ogni direzione. David, che era rivolto verso la porta, guardò avanti. Spalancò gli occhi sbigottito. Ciò che vide lo sconvolse talmente tanto che allentò la presa e lasciò cadere la torcia che aveva in mano. «R-Ragazzi...Gu-Guardate là!» Balbettò. il suo respiro si era fatto pesante, il suo corpo aveva cominciato a vibrare. Stava tremando, tremando per la paura.

Sakura e Nathan, che avevano le proprie spalle attaccate a quelle dell'amico, percepirono la preoccupazione del compagno attraverso il suo corpo, che non smetteva di agitarsi. I due ragazzi erano sorpresi. Era strano, molto strano. David non si era mai comportato in quel modo, se adesso era così agitato sicuramente c'era qualcosa che non andava. D'istinto si voltarono e quello che videro li lasciò senza parole.

 

 

Angolo annalisa93
Buon pomeriggio gente!
Eccoci qui con un'altra parte del primo capitolo che si conclude con un po' di suspense, cosa avranno visto i ragazzi? Lo so, si intrecciano molti episodi riguardanti diversi personaggi e spero che riusciate a districarvi in mezzo a tutte queste suddivisioni xD Se vi va lasciate un commento :)
Buon weekend e alla prossima settimana! :)

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Capitolo 9
*** 1.6 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


I resti del tempio greco che aveva costruito in maniera certosina erano tutti sparsi sul tavolo da lavoro, pronti per essere rimessi insieme. Lucas li stava fissando da una decina di minuti, ma li stava fissando con aria assente. La sua mente era altrove, era tornata all'incontro che quella mattina aveva avuto con quella ragazza, Sakura. Possibile che l'abbia finalmente trovata? Si domandò, ancora incredulo. Abbassò lo sguardo per un attimo. Le mani erano ferme su un quaderno aperto, appoggiato sul tavolo. Le spostò e tornò ad osservare lo schizzo che aveva fatto. Ritraeva una ragazza, identica a quella con cui si era scontrato e che aveva fatto a pezzi il lavoro di tre notti insonni. Stessi capelli color grano, stessi occhi verdi, limpidi come il mare delle Maldive. Stesso sorriso. Adesso ne era sicuro, non poteva che essere lei. Finalmente era riuscito a trovare l'unica persona che avrebbe potuto aiutarlo. Accanto al suo quaderno c'era una rivista, su cui il suo occhio inevitabilmente cadde. In copertina campeggiava una sua foto che lo ritraeva mentre, seduto su uno sgabello, suonava la chitarra e cantava una delle sue tante canzoni, circondato dalle sue numerose fans. Sotto, a caratteri cubitali, c'era una scritta: Lucas Cross, la popstar senza passato. Leggere quelle parole lo fece cadere nello sconforto più totale. Era vero. Nessuno conosceva il suo passato, nessuno sapeva niente della sua vita risalente a prima che diventasse una star. Nessuno, neppure lui. Chi sono io davvero? Si chiese, portandosi le mani al volto, in un gesto disperato. Era stato una buona persona o una cattiva persona? Aveva fatto del male a qualcuno? Aveva fatto del bene? Aveva qualche conto in sospeso? Non lo sapeva. Da sempre questa consapevolezza lo aveva lasciato senza respiro, bloccato nel buio dell'incertezza, incapace di scegliere la direzione in cui muoversi per vivere il futuro. Senza conoscere il suo passato, non sapeva cosa aspettarsi dai giorni a venire.

Ma di una cosa era certo: Sakura, la stessa ragazza che aveva mandato in mille pezzi il suo tempio greco, era l'unica in grado di aiutarlo a rimettere insieme i pezzi del suo passato.

****

«Ma cosa diavolo significa??» Sakura era confusa. Il corridoio che fino a poco prima era avvolto nel caos totale, adesso era silenzioso, silenzioso e diverso. Le macchinette erano sparite, le pareti azzurre avevano perso il loro colore tornando ad essere bianche. I ragazzi si guardarono attorno turbati. I muri erano tappezzati da scritte, da un nome che si ripeteva continuamente: Orfeo. Perché OrfeoFu la domanda che in quel momento si fece spazio nelle loro menti. Dalla calligrafia trasudava l'insana ossessione che tormentava l'autore di quei graffiti. Era inquietante. Quel nome compariva dappertutto: sulle porte, sulle finestre, sui cestini, sui vasi delle piante e sembrava che dietro al suo ripetersi infinito si celasse una mente malata. David era terrorizzato. Lui aveva paura dei matti, soprattutto quelli che si comportavano in quel modo. Li temeva più degli assassini. Confuso e spaventato, assieme a Nathan e Sakura, cercò di orientarsi e constatò che la stanza in cui si trovavano era quella in cui effettivamente erano entrati. Il pianoforte era sempre lì, al centro dell'aula, poco più in là poteva distinguere le sedie che un tempo utilizzava l'orchestra della scuola. Tutto, però, sembrava nuovo e pulito. Anche il pavimento era perfettamente visibile, il metro e mezzo di polvere che lo aveva ricoperto fino a pochi minuti prima si era dissolto. Nathan gettò nuovamente uno sguardo al corridoio. Non vi erano dubbi, era quello che avevano percorso poco prima. Era diverso, ma, osservandolo meglio, si accorse che anche così arredato non gli sembrava nuovo, lo aveva già visto. Il problema era capire in quale occasione. Si rinchiuse in sé stesso per qualche istante, sforzandosi di ricordare, poi finalmente venne colpito da un flash. Sì, lo aveva già visto, lo aveva visto nel collage che ripercorreva la storia della scuola, in particolare in una foto risalente al '68. 1968 equivale a dire quarant'anni fa pensò e nel preciso istante in cui terminò la frase si bloccò, sbigottito. Non è possibile, questo vuol dire che... Non fece in tempo a finire di formulare il pensiero che le sue orecchie si riempirono di un urlo agghiacciante, acuto e stridulo. Il grido di Emma.

 

Angolo annalisa93
Ciao a tutti :)
Allora visto che questa parte è più corta delle altre e siccome anche questa vi lascia col fiato sospeso, cercherò di pubblicare la prossima parte prima di sabato :) contenti? Spero di sì :) 
Baci e a presto :)  

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Capitolo 10
*** 1.7 Capitolo 1: Tuffo nel passato ***


I ragazzi continuavano a mantenere le rispettive posizioni, rimanendo in allerta, spalla contro spalla, schiena contro schiena. Emma era rivolta verso l'interno della stanza. Continuava a guardare avanti. Il suo sguardo non ne voleva sapere di lasciare il pianoforte, c'era qualcosa che stonava, che non la tranquillizzava per niente, ma non riusciva a capire cosa. All'improvviso capì. Da vari minuti stava osservando lo strumento musicale, quando notò che la superficie nera del coperchio rifletteva, oltre alle loro figure, una sagoma al quanto singolare, posizionata esattamente sulle loro teste. Istintivamente alzò lo sguardo e puntò la torcia in alto. Spalancò gli occhi, che in poco tempo si riempirono di lacrime. Rimase in silenzio per una frazione di secondo in cui elaborò le immagini che avevano attraversato il suo cervello. Poi, tirando fuori una forza immane, urlò. Urlò con quanto fiato aveva in gola, il suo parve un grido straziante.

«Nate!!» La sua voce era stridente, disperata. Spaventata, si allontanò indietreggiando e si rifugiò presso il pianoforte. Nathan la vide e non capì il motivo del suo atteggiamento.

«Guarda sopra di te!» Tremava, il suo corpo era colpito da spasmi. Il ragazzo subito piegò il capo verso l'alto. Lo sapevoEsclamò fra sé e sé. Se veramente questa è l'aula di musica così com'era quarant'anni fa, non poteva non esserci... Pensò, ancora incredulo. I suoi occhi sbarrati erano rivolti al soffitto. Appeso, proprio sopra le loro teste, pendeva un cadavere. David e Sakura rimasero attoniti. «Ma cosa...» Riuscirono a sussurrare appena, scioccati. Rimasero in silenzio, cercando di dare una spiegazione a ciò che stavano vivendo.

Quando avevano deciso di creare la compagnia denominata "Misteriosamente Misterioso", insieme a Nathan, i due non avrebbero mai pensato che si sarebbero imbattuti in un cadavere in carne ed ossa. Fino ad allora si erano occupati di casi semplici: molto spesso i loro compagni di scuola e i loro vicini di casa li contattavano per rintracciare vecchi amici che avrebbero tanto voluto rivedere, ma con cui avevano perso i contatti, oppure per ritrovare i cani e i gatti che si erano allontanati troppo da casa, o ancora, per smascherare qualche spasimante misterioso che preferiva rimanere nell'ombra. Tutto al più, capitava che dovessero esplorare edifici abbandonati, ma mai e poi mai si sarebbero aspettati di ritrovarsi ad indagare su un caso così serio, con un morto vero.

«C-Come c'è arrivato fin lassù??» Domandò all'improvviso David, con voce tremante, puntando il dito verso il cappio che stringeva il collo della vittima. Non riusciva a comprendere come il suicida fosse arrivato ad appendersi alla trave del soffitto, era altissimo.

«M-a chi è?» Sakura era ancora sconvolta. Si avvicinò lentamente per osservare meglio il corpo. «Sembra essere una ragazza.» Affermò con un soffio, notando che la vittima indossava una gonna midi rosa, lunga fino alle caviglie, con ampie pieghe. La gonna si stringeva in vita con un vistoso nastro fucsia, annodato a formare un grande fiocco, che metteva in risalto la morbida camicia bianca, ricamata con elaborati inserti in pizzo. Le mani e le braccia erano gravemente ustionate, le maniche bruciacchiate e annerite fino al livello del gomito. I lunghi capelli lisci, ricadevano pesantemente verso il basso, in sottili fili argentati che raggiungevano l'altezza delle ginocchia.

«Per forza, è Susan Serravalle.» Affermò Nathan con naturalezza, come se quello che aveva detto fosse ovvio e normale. Sakura e David lo guardarono increduli, schiacciati dal peso di quelle parole. «Nate, ma ti rendi conto di quello che dici?» Gli domandarono all'unisono, tornando ad fissare il corpo, sbalorditi.

«Non può essere altrimenti.» Poi, voltandosi verso la porta, aggiunse: «Vi siete resi conto che il corridoio ha ripreso l'aspetto che aveva quarant'anni fa?»

I due cominciarono a pensare e, dopo essersi ricordati della foto appesa nell'atrio, s'illuminarono. «Certo, hai ragione!» Non fecero a tempo a chiarirsi che già un altro dubbio si stava insinuando nelle loro menti. «Quindi siamo tornati indietro nel tempo?! Ma come abbiamo fatto?» David era confuso.

«Non lo so, ma ci sarà sicuramente una spiegazione valida.» Nathan intanto si era avvicinato al pianoforte, facendo allontanare Emma, che si spostò vicino alla porta. «Dave, aiutami a posizionarlo sotto il cadavere.» Disse cominciando a spingere lo strumento in direzione della porta. L'amico andò a dargli una mano e insieme riuscirono a trasportarlo fino al punto stabilito.

«Non basta. Dobbiamo prendere anche alcune di quelle sedie e metterle una sopra l'altra.»
Presero le sedie e furono capaci di posizionarle sul pianoforte, impilandole su tre colonne di altezza crescente, in modo da formare una specie di scala, di cui il gradino più alto era composto da quattro sedie sovrapposte. «Adesso dovrei riuscire ad arrivare all'altezza del volto.» Con agilità Nathan salì in cima alla scala che avevano costruito. Adesso era a pochi centimetri dal viso di Susan Serravalle, nascosto dai capelli. Con cautela scostò le ciocche fino a quando il volto fu totalmente visibile. Ciò che i ragazzi videro, li fece rabbrividire.

Era un volto deforme, su cui si potevano scorgere ampie macchie rosse e lucide, alternate a parti squagliate, similmente alla cera di una candela accesa. In prossimità della fronte i capelli erano diradati e quelli che erano rimasti parevano unti nell'olio. Grosse bolle gialle incorniciavano gli occhi sproporzionati: uno era uscito fuori dall'orbita e l'altro era piccolissimo, nascosto dalla pelle.

Di fronte a quello spettacolo raccapricciante i nervi di Emma cedettero, le gambe l'abbandonarono e lei si ritrovò in terra a piangere disperata. Sakura subito andò in suo soccorso, l'abbracciò cercando di rassicurarla, nonostante anche lei fosse visibilmente turbata e avesse le lacrime agli occhi. «Calmati, Emma, ci siamo noi qua, non c'è niente di cui devi aver paura.» La ragazza, però, non capì che non era stato il disgusto a spingere l'amica a reagire così; Emma piangeva perché provava compassione e dispiacere per quella povera ragazza, morta di una morte orrenda. L'empatia verso il prossimo, che l'aveva spinta a dedicarsi al volontariato, era il suo dono, ma anche la sua condanna. Talmente acuta era la sua sensibilità che riusciva a sentire sulla propria pelle ogni singola bruciatura, ogni singola ferita che scorgeva sul corpo di Susan, e provava dolore, una profonda sofferenza.

Nathan, al contrario, non sapeva neppure cosa fosse la sensibilità. Continuava imperterrito ad esaminare il cadavere, fino a quando la sua attenzione si focalizzò sulla mano bruciata. Stava stringendo un foglio stropicciato e bruciacchiato. A quel punto il ragazzo ne distese le dita, estrasse il brandello di carta, lo spiegò e lo lesse. Solo a quel punto capì che si trattava di una parte dell'ultima pagella di Susan Serravalle.

«Ehi, amico, cos'hai trovato?» Gli domandò David, che stava tentando di mantenere stabile l'impilamento di sedie su cui Nathan stava stazionando.

«Una pagella, o almeno quello che ne resta.»

«Fa' vedere!»

David si sporse verso il compagno per afferrare il reperto. Sakura, invece, era accucciata accanto ad Emma e la stava abbracciando per farle forza. Nel mentre continuava a studiare la salma della giovane liceale.

«Come avrà fatto a ridursi in quello stato?» Chiese a voce alta, anche se la domanda voleva essere pensiero fra sé e sé. Inaspettatamente, udì un leggero fruscio alla sua sinistra e subito si voltò verso l'entrata della stanza.

«Ve lo spieghiamo noi.» Rispose una squillante voce femminile. I quattro ragazzi piantarono lo sguardo sulla porta, meravigliati.

 

 

Angolo annalisa93

Ciao a tutti :)
Ce l'ho fatta a pubblicare prima di sabato, yeahhh xD Ma questa è stata un'eccezione visto che, come ho detto l'altra volta, la scorsa parte era corta e così ho voluto aggiornare prima :) Questa era l'ultima parte del primo capitolo, sabato cominciamo con il secondo!
Baci xxx

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Capitolo 11
*** 2.1 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


Do you feel cold and lost in desperation?

You build up hope, but failure's all you've known

Remember all the sadness and frustration

And let it go. Let it go  

(Da Iridiscent, Linkin Park)

 

11/12/08, Da qualche parte sull'autostrada, ore 15.30

Mentre guidava, Josh ripensava alle parole del capo:

«Forse c'è un modo per far luce sulla provenienza di questi oggetti.» Affermò il il maresciallo, rivolgendogli uno sguardo apprensivo.

«Cioè?» Chiese Josh, ansioso di conoscere la risposta.

«Dovremmo andare a Lucca, lì sicuramente troveremo delle risposte.»

Gli occhi del ragazzo si spalancarono di stupore. Lucca. Pensò. Il nome di quella città gli rimbombò in testa come le pallottole di una pistola impazzita, pronte a riaprire le tante ferite ancora sanguinanti che gli laceravano l'anima. Lucca. Ripeté, scioccato. Da allora si era ripromesso che non ci avrebbe messo più piede, niente più lo legava a quel posto. Adesso, però, nonostante tutto, era costretto a tornarci se voleva risolvere questo caso.

«Te la senti di andare?» Gli chiese il suo superiore, accorato.

Josh lo guardò spaesato. Non riusciva a parlare. In preda all'ansia, cominciò a sudare freddo e a tremare. Gli occhi s'inumidirono, il cuore gli era salito in gola. Davvero sarebbe dovuto tornare nella sua città natale, nella città dei tanti ricordi felici, delle tante avventure mozzafiato? Davvero sarebbe dovuto ritornare nella città del dolore, dove la nostalgia lo avrebbe tormentato fino a lasciarlo senza respiro? Davvero era pronto per tutto questo?

«I-io non...» Riuscì a balbettare.

«Se non credi di poter affrontare il viaggio, posso chiedere a mio figlio Nathan e ai suoi amici di fare qualche ricerca.» Il signor Martini cercò di rassicurarlo. «Sono molto bravi in queste cose, hanno un intuito infallibile.»

Josh era ammutolito. Abbassò il viso. Non avrebbe voluto tirarsi indietro, ma sapeva benissimo che non sarebbe riuscito a compiere la missione.

Che destino beffardo, commentò. Comprese con amarezza che tutti i tentativi che aveva fatto per rifuggire dal passato erano stati vani. Nonostante tutti i suoi sforzi era costretto ad affrontarlo di nuovo. Fu in quel momento che un'ipotesi agghiacciante si fece spazio nella sua mente: chiunque avesse inviato quel pacco doveva essere a conoscenza della sua storia, altrimenti perché si sarebbe rivolto a lui? Evidentemente il mittente sapeva bene che il maresciallo avrebbe mandato lui a Lucca. Ma perché? Cosa voleva da lui? Strinse i pugni. Quelle domande fecero scattare qualcosa in lui. Era giusto tirarsi indietro? Il suo sguardo cadde sugli oggetti sparsi sul tavolo. E quegli strani oggetti? Qual era il loro significato? Gli sarebbero tornati utili per portare a termine quell'incarico? Il fatto che fossero suoi significava forse che lui fosse l'unico in grado di risolvere quel mistero? Alzò il capo riccioluto. Non aveva altra scelta se voleva far luce sulla faccenda. Era l'ora di tornare a casa.

«No, signore, andrò io.» Rispose con determinazione, pur sapendo quanto male gli avrebbe procurato quel viaggio.

«Ragazzo, sei sicuro?»

«Sì.» Replicò. Il mio cuore soffrirà, ma sopravviverà. Pensò, trattenendo il respiro.

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Ormai era completamente assorto nel suo ricordo, quando una voce acuta, proveniente dai sedili posteriori lo fece tornare alla realtà.

«Papà! Mi scappa la pipì!»

«Amelia, dimmi che stai scherzando!» Domandò lui allibito.

«No, papà, mi scappa davvero! E mi scappa forte!» Rispose la bambina cercando di convincerlo.

«Ma l'hai fatta neanche 20 minuti fa.»

«E allora? Mi scappa di nuovo!»

«Lo sai che se continuiamo a fermarci ad ogni autogrill che incontriamo ti toccherà dormire in macchina perché arriveremo domani mattina, vero?» La fece ragionare Josh.

La bambina tacque sorpresa. Si chiuse in un silenzio meditabondo. «No... no, papà... io... io non voglio dormire in macchina... Il seggiolone è scomodo!» Aggiunse dopo un po'.

«Allora la devi smettere di fare i capricci.» Le intimò il ragazzo, con voce severa.

«Va bene, papà! Non lo faccio più, te lo giuro!» Affermò lei, sentendosi colpevole. «Ma mi scappa forte la pipi, tanto forte che se non andiamo al bagno adesso, la faccio sul seggiolone!»

«Per carità!» Esclamò il giovane, sbiancando. «Adesso mi fermo subito, ma tu trattienila, mi raccomando!»

«Sì, fai presto, però!» Lo pregò la figlia.

Josh svoltò verso l'entrata per l'autogrill e, appena parcheggiata la macchina, fece scendere Amelia dal seggiolone. Una volta a terra, la bambina lo fissò con i suoi grandi occhi color cioccolato.

«Papà, mi porti in braccio?» Chiese poi, allargando le braccia verso di lui.

«Non dire sciocchezze! Sei abbastanza grande per poter camminare con le tue gambe.» Il suo era un tono da rimprovero.

«Ma papà! Non riesco a camminare quando mi scappa la pipì così forte!»

A quel punto sospirò rassegnato. La prese in braccio. «Che sia l'ultima volta, capito?»

La bambina annuì col capo, soddisfatta.

 

 

Angolo annalisa93
Buonasera a tutti! Scusate l'ora tarda, ma non ce l'ho proprio fatta oggi pomeriggio ad aggiornare.
A sabato prossimo :)

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Capitolo 12
*** 2.2 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


L'autogrill era uno di quelli a ponte, sospeso sopra le due carreggiate. Una volta dentro, Amelia rivolse al padre un'espressione colpevole. «Papà, se ti dico una cosa, mi prometti che non ti arrabbi?»

Josh la guardò perplesso. Non sapeva cosa aspettarsi. «Te lo prometto.» Replicò, quasi intimorito di sapere la risposta.

«Prima non l'ho fatta la pipì.» Ammise la piccola, abbassando il viso.

Quella confessione lo stupì. «E perché non l'hai fatta?»

«Non ci riesco da sola.»

«Come non ci riesci da sola? E all'asilo come fai?» Le chiese allarmato.

«Ma papà, all'asilo siamo tutti bambini e c'è il gabinetto piccolo. Qui il gabinetto è troppo alto, non ci arrivo nemmeno se mi metto in punta di piedi.» Spiegò la figlioletta, sfuggendo il suo sguardo per la vergogna. «E poi...» Aggiunse rabbuiandosi «Tutte le bambine sono accompagnate dalle loro mamme, io, invece, ero da sola!» Quell'affermazione lo spiazzò. In quel momento avvertì con chiarezza tutta la tristezza che impregnava le parole della bambina. Sentì un velo di malinconia avvolgergli il cuore in una stretta dolorosa. Se ci fosse stata lei, sarebbe stato tutto diverso. Ma adesso era solo e doveva arrangiarsi. Appoggiò dolcemente la fronte su quella di Amelia. «Se ti accompagnassi io, ti andrebbe bene lo stesso?»

«Tu non puoi entrare nel bagno delle femmine, sei un maschio!» Osservò lei, accigliata.

«Ma posso se dico che entro per accompagnare te.» Sorrise Josh. «Altrimenti mi metto una parrucca, in modo da sembrare una femmina.» Aggiunse, ironico.

«Se ti travesti da Sailor Moon ti fanno entrare sicuramente.» Annuì fiduciosa Amelia.

«Sì, così è la volta buona che mi arrestano!» Mormorò fra sé e sé il ragazzo, dirigendosi verso i bagni.

Come di consueto al bagno delle donne c'era la fila, al contrario quello degli uomini era praticamente vuoto. il ragazzo era molto tentato di entrare nel bagno degli uomini, ma subito cambiò idea pensando al disagio che la bambina avrebbe provato lì dentro. Perciò si fece coraggio e chiese alle signore e alle ragazze presenti il permesso di poter entrare nel bagno delle donne.

«Scusate, posso entrare? Devo accompagnare mia figlia di cinque anni.» Chiese esitando.

Le tre donne all'interno si guardarono e annuirono.

«Certo, faccia pure.»

Josh sorrise in segno di gratitudine. «Chi è l'ultima?» Domandò poi, scrutando una ad una le presenti.

«La signorina.» Rispose una signora sulla cinquantina, indicando la ragazza al suo fianco. Il giovane carabiniere spostò l'attenzione su quest'ultima e rimase abbagliato dalla sua bellezza: indossava un maglione grigio che metteva in risalto il seno sodo e prosperoso, un paio di pantaloni di pelle, neri e aderenti che fasciavano due gambe toniche e snelle. Un caschetto asimmetrico color ebano incorniciava il viso dai tratti delicati. Le morbide labbra rosee spiccavano per la loro dolcezza, mentre gli occhi grandi e neri erano ostili. A colpirlo maggiormente fu l'espressione dura che aveva sul volto, che lo trafisse da parte a parte come la lama affilata di una spada.

Perché mi sta fissando in quel modo? Si domandò, perplesso. Provò a sorriderle in modo amichevole. Lei non rispose continuando a puntargli gli occhi addosso, con odio. Lui, non riuscendo a sostenere ulteriormente quello sguardo così rabbioso, si voltò dall'altra parte, aspettando il turno di Amelia in silenzio. Ogni tanto sbirciava nella sua direzione nel tentativo di far luce sul motivo di tanta rabbia nei suoi confronti. Possibile che l'avesse già incontrata da qualche altra parte? Era probabile, visto che il suo volto angelico non gli sembrava nuovo. Ma dove poteva averla vista? E soprattutto che cosa poteva averle fatto per meritarsi tanto astio? Proprio non riusciva a ricordarsi.

«Signora, perché sta guardando male il mio papà?» All'improvviso Amelia dette voce ai suoi pensieri.

Eh?! L'intervento della bambina colse alla sprovvista entrambi, sia lui che lei.

«Amelia!» Esclamò Josh con severità.

«Ma lei ti stava guardando male, papà! Come se tu fossi cattivo! Ma tu non sei cattivo...» Cercò di giustificarsi la piccolina.

A quel punto il ragazzo spostò lo sguardo dalla figlia alla sconosciuta. Lei continuava a osservarlo in silenzio.

«Mi dispiace...» Riuscì a dire prima di essere interrotto dal rumore di due porte che si aprivano. Toccava a loro. Vide la fanciulla sparire dietro una delle porte che si erano aperte.

«Papà, ora puoi farmi scendere.» Lui non se lo fece ripetere due volte e appoggiò la piccola a terra. Quando rialzò il capo la ragazza aveva già chiuso la porta. «Sbrigati, non ce la faccio più, mi scappa troppo forte!» Lo incitò Amelia, che si era già fiondata nel secondo bagno che si era liberato. 
Josh la raggiunse e si chiuse la porta alle spalle.

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Capitolo 13
*** 2.3 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


Il volto di David s'illuminò di stupore.

«Summer! Filippo! Ma allora siete vivi!»

I due ragazzi abbozzarono un sorriso.

Non poteva crederci. Per due anni era stato convinto che non li avrebbe mai più rivisti. Si vergognava ad ammetterlo, ma aveva pensato al peggio. Ma adesso, per fortuna, erano lì di fronte a loro. Vivi, anche se un po' emaciati. La sofferenza sui loro volti era palpabile. Gli occhi gonfi e i visi scavati, le vesti logore che coprivano quei corpi fortemente debilitati, parlavano per loro. Gridavano, liberando nell'aria tutta la frustrazione che aveva impregnato ogni fibra dei loro corpi in quei due lunghissimi anni. Dei giovani ragazzi pieni di vita, che aveva visto nelle foto di classe, non era rimasto che il ricordo.

«Che vi è capitato?!»

«Siamo rimasti bloccati qui, così come lo siete voi adesso.» Summer rispose in modo cupo. «Vi stavamo aspettando, siete i nostri salvatori!» I suoi occhi s'illuminarono di speranza.

«Salvatori? Ma di che state parlando?» Domandò Nathan, mal celando il suo scetticismo.

«Se volete ve lo spieghiamo ma, per favore, non qua.» Filippo fece per andarsene.«Venite con noi.»

Sakura aiutò Emma a rialzarsi, Nathan scese dal pianoforte e, insieme a David, seguirono i due ragazzi. Percorsero a ritroso il corridoio che portava all'entrata, girarono a sinistra e proseguirono lungo il corridoio che collegava la palestra piccola all'edificio principale della scuola. Una volta raggiunto il luogo in cui si svolgevano le lezioni di educazione fisica, decisero di sistemarsi al centro del campo di pallavolo.

«Qui è perfetto.» Summer si sedette, seguita dagli altri che si posizionarono in modo da formare un cerchio.

«Adesso possiamo rispondere a qualsiasi domanda vogliate porci.» Annunciò Filippo. Sakura alzò la mano timidamente. «Ehm, ecco... io mi stavo domandando... come è possibile che siamo tornati indietro nel tempo?» Pronunciare quelle parole a voce alta le fece realizzare quanto assurda fosse quella domanda. «Cioè, voi come avete fatto a tornare indietro nel tempo?» Probabilmente i due ragazzi erano tornati al 1968 con la stessa modalità che, inconsapevolmente, avevano adottato anche lei e i suoi amici. «Purtroppo non te lo sappiamo dire con precisione.» Summer subito si scusò, notando la delusione sul volto di Sakura. «Tutto ciò che ricordiamo è che in un attimo siamo passati da una stanza polverosissima a una stanza pulitissima.» Continuò la ragazza, sforzandosi di fare mente locale. Aveva tentato tante volte di rimuovere dalla mente ciò che era successo quel giorno maledetto e forse ci era riuscita.

«Ma cosa vi ha spinto ad entrare lì dentro?» David era impaziente di ascoltare il racconto dei due liceali sfortunati. Era curioso di verificare se una delle mille ipotesi che aveva elaborato riguardo la loro scomparsa fosse stata corretta.

«Sono stati i ragazzi del Circolo.» Sputò Filippo con rabbia. «Sono loro che ci hanno costretto ad entrare lì dentro.»

«Quale Circolo?» Nathan si mostrò interessato, voleva raccogliere il maggior numero di informazioni utili.

«Il Circolo di Giasone, altrimenti detto il Circolo degli Argonauti.» Più parlava più il risentimento che lo sventurato studente provava diventava evidente. «Si tratta di un circolo esclusivo, i cui membri s'interessano alla storia e alla mitologia della Grecia Antica. Gli alunni che ne fanno parte non frequentano tutti questo liceo, anche se è qui che si ritrovano per le loro riunioni segrete.» Sakura e Nathan si guardarono sorpresi. Ignoravano l'esistenza di quella specie di setta.

«Ma perché hanno scelto proprio la nostra scuola come sede delle loro assemblee?» Domandarono i due.

«Che domande fate, ragazzi?» David era sorpreso. «Credevo foste più svegli!»

«Ah sì? Allora sentiamo la teoria di Mr. Sapientone!» Gli amici gli rivolsero uno sguardo di sfida.

«Forse perché il fondatore del Circolo, che probabilmente si farà chiamare Giasone, frequenta la vostra scuola?!»

A quel punto Sakura e Nathan si sentirono veramente degli idioti.

Anche Summer e Filippo lo fissarono sbalorditi. «Come fai a sapere che i membri utilizzano degli pseudonimi?»

«Semplice: in qualsiasi club segreto che si rispetti i componenti adottano dei nomi fittizzi, in modo che non possano essere identificati.» Spiegò il ragazzo, compiaciuto.

«Se Giasone è il fondatore del circolo, gli appellativi degli altri membri saranno i nomi dei più importanti guerrieri che hanno preso parte alla spedizione per la conquista del vello d'oro, dico bene?» Questa volta fu Emma a parlare, la sua voce suonava particolarmente sicura. La mitologia greca era il suo campo. Ne era tanto affascinata da divorare un numero spropositato di volumi sull'argomento.

«Proprio così. Oltre a Giasone, abbiamo contato la presenza di altre otto persone: Anceo il Grande, Argo, CalaideEchioneMeleagroMopsoOileo, Orfeo e Zete.» Precisò Summer.

A quel punto David impallidì, aveva appena sentito "Orfeo" e subito, come in un dejà vu, rivide quel nome tappezzare le pareti del corridoio. «Aspettate!» Summer, sbaglio o hai appena detto Orfeo?»

«Sì.»La ragazza lo guardò dritto negli occhi. «So cosa stai per dire.» Il suo sguardo s'illuminò di un guizzo oscuro, colmo di rancore.

 

Angolo annalisa93
Buon sabato a tutti! Come va? Qui da me si muore di caldo -.-" 
Cooomunque ecco una nuova parte del capitolo, spero che vi piaccia :) 
Grazie a chi ha commentato e anche a tutti quelli che leggono in silenzio, a sabato prossimo :) 

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Capitolo 14
*** 2.4 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


«Siamo stati noi a realizzare quelle scritte.» Aggiunse secco Filippo. Le sue parole rimbombarono nelle menti dei ragazzi, che li fissarono allibiti. Filippo si alzò, doveva in qualche modo sbollentare la rabbia che aveva in corpo e nervosamente cominciò a percorrere il campo di pallavolo. «Eravamo arrabbiati, pieni di odio, e in qualche modo dovevamo sfogarci.»

«E' stato colui che si fa chiamare Orfeo a proporre la prova a cui saremmo stati sottoposti, è lui il responsabile di tutto ciò che ci è successo.» Summer chiarì il motivo di tale comportamento.

«Scusa, ma di quale prova stai parlando?» Le domandò Sakura, che era seduta accanto alla ragazza.

«Come ho già detto prima, il Circolo di Giasone è esclusivo e, come tale, non ammette nuovi membri tanto facilmente.» Fece una pausa. «Infatti ogni Aspirante, ovvero colui che vuole entrare a farne parte, deve affrontare una prova, stabilita dai Membri Effettivi.»

«Il caso volle che la nostra prova, come probabilmente avrete capito, consistesse nell'entrare nell'aula di musica, dove era morta Susan Serravalle, e scattare delle foto alla scena del crimine.» Filippo continuava a muoversi su e giù per la propria metà campo.

«Ovviamente dalla porta non potevamo entrare, così decidemmo di andare al piano superiore, di arrampicarci sull'albero vicino e poi da lì, con un po' di agilità, attenzione e fortuna, saremmo riusciti ad entrare.» Summer riprese a raccontare guardando uno a uno i ragazzi che le stavano intorno, come si fa quando si racconta una storia di paura. «Era buio pesto, per cui accendemmo le nostre torce. Sembrava una stanza normalissima. Presi la macchina fotografica e, usando il flash, scattai una foto. In quel momento tutto era cambiato intorno a noi, ma non ce ne accorgemmo subito. Ci voltammo e ciò che si presentò ai nostri occhi fu talmente orribile che, piuttosto che vederlo, avrei preferito diventare cieca.» Summer si tappò gli occhi con le mani, come se in quel modo potesse scacciare le immagini del corpo morto che le attanagliavano la memoria. «La salma di Susan Serravalle era davanti a noi, penzolante. Ci avvicinammo per vederla meglio e, più che una ragazza, ci è sembrata un mostro. Neppure in un film horror è possibile vedere di peggio, ve lo assicuro.» La ragazza cominciò a tremare e a singhiozzare. Nonostante lei e Filippo stessero convivendo con quel cadavere da più di due anni, bloccati nella scuola, ancora non riusciva ad abituarsi. Non ci si poteva abituare a una cosa del genere, neppure dopo cent'anni. A volte, spinta dalla disperazione, aveva desiderato di essere al posto di Susan Serravalle. Pensava che in quel modo avrebbe messo fine a tutta quella sofferenza. Ma poi guardava Filippo e si convinceva che non poteva farlo, non doveva farlo. Come avrebbe resistito a tutto ciò da solo, senza di lei? Doveva vivere per lui. Insieme, forse, sarebbero riusciti ad allontanarsi da quel baratro oscuro in cui sarebbero presto caduti se avessero rinunciato alla speranza.

«E' stato terribile...» Le lacrime cominciarono a scendere copiose, bagnandole il viso. Emma e Sakura, in mezzo alle quali era seduta la ragazza, le si avvicinarono per consolarla come meglio potevano.

Vedendo l'amica in quelle condizioni, Filippo decise di continuare il racconto al posto suo, perciò riprese a parlare: «Eravamo talmente spaventati che andammo subito alla finestra, determinati ad uscire, ma venimmo respinti da una forza invisibile, come se ci fosse stata una barriera. Ormai, presi dal panico andammo alla porta e cominciammo a batterci con forza. Finalmente si aprì. Pensavamo di essere tornati al nostro tempo, ma non fu così. Gli altri ragazzi erano spariti, probabilmente se ne erano andati anche prima che noi entrassimo nella stanza perché altrimenti, come noi, anche loro sarebbero dovuti rimanere intrappolati nel tempo.»

Ogni parola che pronunciava era scandita dal disprezzo che provava nei confronti di quei ragazzi.

«Che infami!» Sakura non trattenne il suo pensiero, mentre passava una mano sul capo di Summer, accarezzandole i finissimi capelli lisci e biondi, che le giungevano all'altezza della vita.

«Puoi dirlo forte.» David concordava. «Immagino che, codardi come sono, i membri del circolo indossino delle maschere o delle mantelle che possano nascondere i loro volti.» Ipotizzò, passandosi una mano fra i capelli biondo scuro, rassegnato.

«Esatto... portano delle mantelle di color argento con un cappuccio ampio calato sulla testa, mentre i tratti del volto sono celati dietro una maschera bianca, con un ghigno malefico disegnato a livello della bocca.»

«Sembra proprio che abbiamo a che fare con una vera e propria setta, con i propri riti e con il proprio scopo...» Cominciò a ragionare Nathan, rigirando fra le mani la torcia che aveva rubato dallo stanzino del bidello e che aveva ripreso prima di lasciare l'aula di musica. «Sappiamo che lo scopo degli Argonauti era quello di riportare in Grecia il vello d'oro... Ma quale può essere lo scopo del circolo?»

Secondo il mito degli Argonauti, infatti, Giasone venne mandato alla ricerca del vello d'oro da suo zio Pelia, che si era impossessato del trono di Iolco, strappandolo al legittimo erede, Esone, suo fratello, nonché padre di Giasone. Il sovrano mandò il nipote in missione per ritardare il momento in cui avrebbe dovuto cedergli il trono, che il giovane giustamente reclamava. Giasone accettò la richiesta, anche perché aveva scoperto che lo zio era perseguitato dall'ombra di Frisso, uomo che, per non essere sacrificato, era scappato a cavallo di un ariete divino. Quando Frisso morì, poiché era fuggito dal suo destino, non gli venne concessa alcuna sepoltura e, finché la sua ombra non fosse stata riportata in patria, insieme al vello d'oro dell'ariete, la terra di Iolco non sarebbe riuscita a prosperare. Per portare a termine il compito assegnatogli, il giovane convocò alcuni volontari perché partissero con lui per la Colchide (un antico stato georgiano, situato nella Georgia occidentale), dove si trovavano sia l'ombra di Frisso che il vello d'oro.

«Da quanto abbiamo potuto capire dalle indagini che abbiamo condotto per conto del giornalino della scuola, i membri del Circolo si erano impossessati di un volume appartenuto precedentemente a Susan Serravalle, una raccolta dei numerosi episodi facenti parte della mitologia greca, scritto in una lingua incomprensibile.» Filippo fece una pausa, lisciandosi la barba scura e incolta. «Probabilmente si erano messi in testa di decifrare l'intero contenuto.» Concluse, osservando gli sguardi stupiti dei suoi ascoltatori.

«Cosa? Sei sicuro che si trattasse di una lingua sconosciuta?» Domandarono scioccati i quattro ragazzi.

Il giovane annuì col capo, muovendo i capelli bruni, che si erano allungati notevolmente in quei due anni. Subito mise una mano nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori un orologio a cipolla. «I caratteri sono simili a questi incisi sul coperchio.» Si avvicinò al gruppo e si accucciò fra Emma e Nathan, mostrando loro l'oggetto. 

Nathan lo sottrasse dalle mani di Filippo, mentre Emma lasciò la presa su Summer e si sporse verso l'amico, in modo che entrambi potessero studiarlo meglio. I due sgranarono gli occhi. Era vero, quei caratteri erano strani, incomprensibili. Le mani di Nate cominciarono a tremare impercettibilmente, mentre un sudore freddo cominciò a imperlargli la fronte. Quei caratteri, così incomprensibili, lui li aveva già visti. O meglio, alcuni di quei simboli gli erano familiari. Sì, non aveva dubbi: erano gli stessi che aveva visto tante volte nei terribili sogni che lo avevano perseguitato per tanto tempo, nei sogni che per tanto tempo gli avevano reso la vita impossibile. Per fortuna, però, alla fine era riuscito ad allontanarli, grazie alla forza e all'amore che i suoi genitori, sua nonna e i suoi amici David, Emily e Amanda, li avevano donato. Erano passati sette anni dall'ultimo incubo e ormai si era convinto che fosse tutto finito. E invece, no. La vista di quei simboli lo fece piombare nello sconforto più totale, sentì la terra crollare sotto i suoi piedi, ebbe come l'impressione di essere inghiottito nel mare nero dell'angoscia, in cui aveva rischiato di annegare molte volte, durante quelle notti insonni. Udì il passato bussare alla sua porta, anzi lo udì prenderla a spallate, fino a farla cadere a terra, ed entrare con prepotenza. Erano di nuovo uno di fronte all'altro, ma sarebbe riuscito a sconfiggerlo un'altra volta?

Emma, notando le mani tremanti del compagno, gli rivolse uno sguardo apprensivo. «Nate, che hai?» Gli sussurrò all'orecchio. Il ragazzo si ridestò dal torpore in cui era caduto. «N-niente, sto bene, tranquilla.» Con una mano si asciugò la fronte e si portò all'indietro la frangia color rame, in modo da trovare un certo refrigerio. Poi, rivolgendosi a Filippo, cercando di scacciare via i pensieri che si erano affollati nella sua mente, chiese: «Voi non siete riusciti a decifrare questo codice?

Il giovane scosse la testa. «Purtroppo no. Non sappiamo da dove iniziare.» Sospirò sconsolato.

«Vedrai che, una volta tornati al nostro tempo, riusciremo a scoprirne il significato!» Affermò David, il suo sguardo brillava di ottimismo.

Intanto Nathan aveva notato che Summer aveva tirato fuori degli oggetti dalla piccola borsa che portava a tracolla. «Cos'hai in mano?» Le domandò.

«Quando siamo entrati per la prima volta in questa stanza abbiamo trovato questi.»

Summer dispose sul pavimento una pagella mezza bruciata, una foto di cui erano rimasti dei pezzi insignificanti, un accendino, uno specchio rotto e una filastrocca. «Come vi avevo già anticipato prima, noi possiamo spiegarvi la dinamica dei fatti che ha portato Susan Serravalle alla morte.» La ragazza prese la pagella e la foto. «Probabilmente il suo intento era semplicemente di bruciare questi due oggetti, ma, sfortunatamente, ha perso il controllo della situazione e ha preso fuoco, prima la mano, poi il volto.» Stava per adagiare nuovamente la foto e la pagella, quando Nathan gliele sfilò dalle mani.

«Posso?»

«Sì, certo.» Lei intanto prese lo specchietto e continuò ad esporre la sua teoria. «Accidentalmente deve essersi guardata allo specchio e, dopo aver visto il suo terribile aspetto, disperata, con le poche forze che aveva, si è suicidata.»

«Ma la filastrocca cosa c'entra?» Chiese David, era da un po' che stava osservando quel pezzo di carta.

«Probabilmente serve per riportarci al 2008.»

«Come?! Susan Serravalle aveva con sé la soluzione al vostro problema?» David era davvero sorpreso. «Questo vuol dire che lei aveva già previsto tutto, ma com'è possibile?»

Già. Cosa c'entrava Susan Snow con quello che era accaduto a Summer e Filippo? Come sapeva che i due studenti sarebbero rimasti intrappolati nel passato? Quelle domande riecheggiarono nelle menti dei ragazzi. Seguirono minuti di silenzio, in cui ognuno di loro cercò di rielaborare una possibile spiegazione. A rompere il muro di silenzio che si era creato fu Nathan, che si allungò verso Summer per prendere la filastrocca e recitarla a voce alta.

Tu che qui nel 1968 con me bloccato sei

qui nell'anno in cui la vita mia perdei

se al mondo tuo tornar vuoi

invocar devi i salvatori tuoi,

quattro fra i Guardiani riportar qui dovrai;

quando la stanza varcheran tu riconoscerli potrai:

non importa in che anno lo faranno

indietro al 1968 torneranno.

Presto, il tempo è tiranno!

se le parole in tempo non pronunceranno

passata un'ora, senza di te i Guardiani a casa rientreranno.

Il giovane terminò la lettura, poi rivolse lo sguardo di ghiaccio agli amici. Sui loro volti dominavano la sorpresa e lo stupore.

 

Angolo annalisa93
Hola gente! 
Volevo informarvi che non so se la prossima settimana posso aggiornare, perciò nel caso vi aspetto tra due settimane, mi dispiace ma probabilmente non sono a casa.
Magari però tenete d'occhio lo stesso la pagina. Buon ferragosto a tutti :)
Annalisa

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Capitolo 15
*** 2.5 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


Buon sabato a tutti! Come vedete oggi ho pubblicato yeahhh xD Ci sta però che non possa pubblicare sabato prossimo, col fatto che oggi sono a casa, può darsi che sia via la prossima settimana... Mi dispiace... Cooomunque come sempre state in guardia xD Vi auguro buona lettura ;)

 

We were the kings and queens of promise

We were the victims of ourselves

Maybe the children of a lesser God

Between heaven and hell

Heaven and hell

(Da Kings and Queens, 30 Seconds to Mars)

Una volta uscito dal bagno, Josh sperò di ritrovare la ragazza che avevano incontrato poco prima. Ma purtroppo non c'era più. Fece lavare le mani ad Amelia e, insieme, i due si diressero verso il ristorante. «Hai fame? Vuoi fare merenda?» Chiese il ragazzo rivolgendosi alla bambina, che annuì sorridente. Si fermarono per aspettare di essere serviti. Il giovane  si mise a guardare oltre le grandi vetrate e notò, infastidito, che aveva iniziato a piovere. Impegnato a guardare fuori, non si accorse che, fra le persone in fila davanti a loro, c'era anche la ragazza del bagno. Amelia, invece, da bambina sveglia qual era, riuscì a notarla. Con la coda dell'occhio vide che aveva preso un succo d'arancia e un budino al riso, che era anche il suo dolce preferito.

«Cosa ti piacerebbe mangiare?» Le chiese Josh.

«Il budino di riso!» Esclamò entusiasta la bambina.

«Non c'è, è finito.» Le comunicò lui, osservando attentamente la vetrina. «Se vuoi c'è il muffin al cioccolato.»

«No, voglio il budino di riso!» Ribatté lei, indispettita.

«Ma il muffin al cioccolato ti piace tanto.» Insistette il giovane.«Ti prendo quello, va bene?» Il suo tono non ammetteva repliche. Amelia annuì col capo, rassegnata. «Nel frattempo tu vai a sederti in uno dei tavoli qui vicino e non ti muovere per nessun motivo, capito? Le intimò, poi. Dopodiché si voltò verso il bancone, aspettando di poter ordinare. Intanto la piccola, che non aveva smesso di seguire con lo sguardo la ragazza col budino di riso, la vide accomodarsi ad un tavolino non molto distante da loro. Senza perdere tempo le si avvicinò.

«Scusa signora...» La ragazza aveva il bicchiere in mano, pronta a  sorseggiare il suo succo. Sorpresa, la guardò incuriosita. «Mi puoi regalare il budino di riso?» Le chiese Amelia sfacciata, lasciandola interdetta. «Non ce ne sono più e io volevo tanto mangiarne uno, è così buono.» Cercò di giustificarsi. A quel punto il viso della giovane si distese in un dolce sorriso, un sorriso angelico, dietro cui si celava un ghigno diabolico, ben camuffato. Appoggiò sul tavolo il bicchiere che aveva fra le mani e si piegò col busto verso la bambina, in modo da poterla guardare negli occhi.

«Se ti do il budino, tu me lo fai un favore?» Stranamente il suo tono di voce, a differenza dello sguardo che aveva rivolto a Josh mentre erano in bagno, suonava rassicurante. La bambina, non percependo nessuna minaccia, accettò di buon grado. Annuì convinta.

                        ****

«Quindi noi saremmo i Guardiani...» Mormorò David, ancora incredulo. «Ma i Guardiani di che?»

«I Guardiani del Cosmo, i custodi del tempo e dello spazio.» Puntualizzò Summer, tirando su col naso e asciugandosi gli occhi. «Secondo il mito erano i sacerdoti-guerrieri della dea della notte, la padrona delle stelle.» Aggiunse con voce nasale.

«Però c'è una cosa che non capisco...» Intervenne Emma. «Nella filastrocca si dice almeno quattro.» Fece una pausa e guardò Summer. «Questo vuol dire che non siamo i soli, vero?»

«Proprio così.» Confermò la ragazza porgendole una specie di pergamena arrotolata. «In tutto siete in quindici, guarda tu stessa. Ad ognuno di voi corrisponde un segno zodiacale, ad eccezione del segno dei gemelli e quello dei pesci, a cui appartengono due guardiani ciascuno.»

Emma srotolò il foglio. Non credeva ai suoi occhi. «Ma cos'è?» Continuava a fissarlo stupita. Era un disegno, raffigurava loro, c'erano tutti. Seduto al centro c'era Nathan, con i suoi capelli ramati e i suoi occhi blu ghiaccio, vestito con una polo blu e un paio di pantaloni beige. Alla sua destra c'erano David, con i capelli biondo scuro sempre scompigliati e gli occhi marroni, la felpa dei Pokémon e un paio di jeans, ed Emma, con i capelli color cioccolato acconciati in una treccia complessa, gli occhi scuri e un look da bohémienne, con una gonna lunga e leggera, un top che le lasciava scoperto l'ombelico e un cardigan lungo. Seduta alla sinistra di Nathan, invece, c'era Sakura, con i capelli biondi e mossi, gli occhi verdi e un look semplice: una morbida camicia bianca e un paio di jeans aderenti che le lasciavano le caviglie scoperte. Erano in cerchio insieme ad altri ragazzi: accanto a Sakura c'era un ragazzo dagli occhi verde acqua e i capelli castani, nascosti in parte da un borsalino grigio scuro. Indossava una camicia nera, un gilet e un paio di pantaloni, entrambi dello stesso colore del cappello. Sakura si sporse verso l'amica per vedere meglio, e subito lo riconobbe. Lucas? Appena lo vide, le tornò in mente di quando quel pomeriggio, uscendo da scuola, si era scontrata con lui. E se il loro turbolento incontro non fosse stato solo un caso? Si ritrovò a pensare, sbalordita. Da quanto mostrato dal disegno, erano destinati a rivedersi. Entrambi erano Guardiani. A quel pensiero si sentì rincuorata. Finalmente avrebbe avuto la possibilità di rimediare al danno che aveva combinato distruggendogli il progetto. Sorrise, riportando lo sguardo sul disegno.

Accanto a Emma c'era Emily, i capelli castano chiaro raccolti in una coda laterale, e gli occhi color miele nascosti dietro un paio di lenti spesse, vestita con una semplice tuta da ginnastica. Vicino ad Emily sedeva una ragazza molto bella, con voluminosi riccioli rossi e gli occhi celesti, fasciata in un raffinato vestito giallo e una elegante giacca turchese, il tutto completato da orecchini e collana abbinati.

David si fece passare la pergamena, la studiò insieme a Nathan, che gli si era avvicinato, ed entrambi la riconobbero. Mandy? I due si guardarono negli occhi, sconvolti e preoccupati. David deglutì.

Amanda era la sua migliore amica, nonché ex-ragazza di Nathan. Tre anni prima era partita per la Francia, il paese natale dei suoi genitori, così, senza dire niente. Con il suo trasferimento, il mitico Quartetto del Colle si era frantumato in mille piccoli pezzi. Da quando se n'era andata, il rapporto fra Nathan ed Emily si era lacerato completamente. Da quando Amanda non c'era più, fra i due si era creato un muro insormontabile, entrambi avevano perso la capacità di comunicare l'uno con l'altra. E lui ne aveva sofferto parecchio. Vedere i suoi migliori amici allontanarsi sempre di più lo addolorava. Nonostante tutti e tre fossero vicini di casa, non si incontravano mai. Emily, pur di evitare Nathan, la mattina usciva di casa prestissimo e Nathan, per non vedere Emily, al ritorno da scuola percorreva una strada differente. E lui si era ritrovato in mezzo a quei due fuochi, incapace di decidere da che parte stare. L'arrivo di Sakura nelle loro vite aveva reso la scelta naturale perché, avvicinandosi al suo migliore amico, la ragazza, con la sua sbadataggine e la sua energia, era riuscita a ristabilire l'equilibrio che lui e Nathan avevano perduto. Fu così che il quartetto si trasformò in un terzetto, lo stesso terzetto che aveva fondato il "Misteriosamente Misterioso".

A quanto pareva, però, quell'equilibrio, che tanto faticosamente avevano raggiunto in quei tre anni, era un equilibrio  precario, destinato a rompersi. Il ritorno di Amanda avrebbe sicuramente portato scompiglio e almeno uno dei suoi amici ne avrebbe risentito in maniera negativa, che fosse Sakura, Nathan, Emily o Amanda stessa. E lui doveva impedire che ciò succedesse. Il suo occhi cambiarono, da smarriti divennero decisi, determinati. Nessuno dei suoi amici avrebbe sofferto, di questo era certo. Con questo pensiero nella mente tornò ad osservare il foglio.

Gli altri ragazzi erano di spalle, non erano riconoscibili. Però, in un angolino, in basso, scorse due iniziali: R.S. «Ragazzi, ditemi che sapete chi è questo R.S!» La sua voleva essere più una supplica che una domanda. La sua sete di sapere non avrebbe resistito di fronte ad un altro quesito senza risposta.

Filippo scosse il capo. «No, purtroppo non lo sappiamo. Mi dispiace, Dave.»

A quelle parole David sospirò mestamente.

Nathan, nel frattempo, aveva continuato ad esaminare la pergamena. Aveva notato che tutti loro avevano gli occhi puntati nella stessa direzione, a terra, al centro del cerchio. «Sapete dirmi cosa stiamo guardando tutti?»

«Probabilmente state osservando un gioco. Se giri il foglio vedi che la filastrocca continua.» Gli indicò Filippo. Il ragazzo fece come suggeritogli e cominciò a leggere il resto:

Se ancora salvarti i Guardiani vorranno

trovar il gioco e imparar a usarlo dovranno

giuste serviran sei domande e sei risposte

perché tu possa esaudire una delle speranze più riposte

attenzione, attivarsi potrà il gioco

quando si riuniran sette Guardiani attorno al fuoco.

Alla fine sospirò.

Rammentando le parole della prima parte della filastrocca, Sakura non poté far a meno di guardare l'ora. Quando erano entrati nell'edificio erano circa le sei e, probabilmente, quando erano tornati indietro nel tempo l'orologio segnava le sei e un quarto. Adesso erano le sette e dieci. Mancavano cinque minuti scarsi e il tempo a disposizione sarebbe scaduto. «Ragazzi, dobbiamo muoverci, fra poco torneremo al presente!» Lì informò, allarmata.

I ragazzi sentirono il panico impossessarsi dei loro corpi.

«Summer, Filippo! Diteci la formula che dobbiamo pronunciare!» Li incitò David, agitando la torcia che teneva in mano. Summer frugò nelle tasche e nella borsetta. Sbiancò. Cominciò a tremare dall'ansia. «No... ho perso il foglietto con le parole!»

«Cosa?!» I ragazzi la guardarono scioccati e preoccupati. «E adesso?!» Si alzarono in piedi con uno scatto e cominciarono a cercare guardando per terra. Non c'era.

«Ragazzi, non ce la faremo mai a trovarlo in meno di cinque minuti. Cercheremo il gioco e verremo a salvarvi utilizzando quello.» Assicurò Nathan, mantenendo il suo solito sangue freddo.

«Ve lo prometto, torneremo.» Sakura guardò Filippo e Summer, era allo stesso tempo dispiaciuta e determinata.

«Aspettateci ragazzi, e intanto cercate il foglio!» David era sempre ottimista.

«Tenete duro, fatevi forza a vicenda.» Si raccomandò Emma, abbracciando Summer.

Non fecero in tempo ad aggiungere altro che furono catapultati nuovamente nel regno delle tenebre. Erano tornati. Attivarono i sensi, si posizionarono ancora una volta spalla contro spalla. Nel silenzio di quella stanza, i ragazzi riuscivano a sentire solo i battiti dei loro cuori. Battevano all'unisono, con regolarità. Questa volta Emma e Sakura non avevano paura, erano determinate, volevano aiutare Filippo e Summer. Con calma e lucidità, i quattro ragazzi affilarono il proprio udito. Aspettarono, pronti a scattare da un momento all'altro. All'improvviso ecco un mugolio, che giunse alle loro orecchie come un suono nitido e chiaro. Accesero le torce, che avevano momentaneamente spento, e illuminarono nel punto da cui era giunto il rumore. Questa volta videro qualcosa. Anzi, qualcuno.

 

 

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Capitolo 16
*** 2.6 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


Salveee :) come avevo previsto l'altra settimana non ho potuto aggiornare, ma ora eccoci qui con una nuova parte del secondo capitolo :) Vi auguro una buona lettura e se vi va fateci sapere cosa ne pensate, 
un abbraccio :) 

 

No I'm not saying I'm sorry

One day maybe we'll meet again  

(da Closer To The Edge, 30 Seconds To Mars)
 

Trento, 10/11/12 ore 16.00

Era da ore che se ne stava seduto sul letto a gambe incrociate, con la chitarra in mano. Mancavano solo dieci giorni al concerto che avrebbe aperto il suo tour e non aveva ancora scritto neppure una riga. Appena scriveva due o tre note ecco che puntualmente si bloccava. Disperato, aveva strappato ogni foglio che aveva usato e l'aveva appallottolato, gettandolo per terra. Intorno a sé aveva una trentina di palle di carta. Abbassò il viso e scosse la testa. Era inutile. Ovunque volgesse lo sguardo, vedeva quei due occhi grandi, verdi e disarmanti. Due occhi maledettamente belli. Non ce la faceva più. Da quando li aveva visti la prima volta, non lo avevano mai abbandonato. Eppure era stato lui a volerli allontanare per sempre, era stato lui a lasciarla, a dirle addio. Da quella volta non passava giorno in cui si chiedesse se avesse preso la decisione giusta. L'aveva amata tanto e lo avrebbe fatto per tutta la vita, ma sentiva che sarebbe stato meglio per entrambi che si separassero, altrimenti avrebbe finito per farle del male. Nonostante il modo risoluto con cui quel giorno le aveva parlato, in fondo al suo cuore, sperava che un giorno si sarebbero ritrovati. Anche perché quegli occhi, così brillanti e gentili, non smettevano di perseguitarlo.

«Basta!!»

Preso dalla disperazione, strappò con forza l'ultimo foglio del blocco, lo accartocciò e lo gettò contro il muro, gridando. Poi stremato si abbandonò indietro sul letto. Fissò il soffitto bianco, finché, anche lì, non si proiettò l'immagine di quegli occhi tanto odiati. Prese il cuscino e se lo schiacciò contro il volto, ma niente da fare. A salvarlo da quella tortura fu la voce di Stefano, il suo manager.

«Jared, ci sei? E' arrivato un pacco per te!»

«Sì, ci sono» Rispose scocciato.

Stefano aprì la porta ed entrò nella stanza, fra le braccia aveva una lunga scatola.

«Cos'è?»

«Che ne so! Con il pacco c'era anche una busta. Prendila, è in cima alla scatola.»

Jared fece come gli disse Stefano e aprì la busta. Dentro c'era una lettera, la estrasse, la spiegò e la lesse.

Gentile signor Zener,

La prego di conservare con la massima cura gli oggetti da lei ricevuti, la prego di non cederli a nessuno e di tenerli sempre con lei, si tratta di oggetti speciali.

«Ehi, vedi un po' che c'è dentro.» Ordinò al manager.

Lui non se lo fece ripetere due volte, non aspettava altro. Appoggiò la scatola per terra, tolse lo scotch e sollevò le alette. Sul suo viso si dipinse un'espressione incredula. Jared, notando la faccia dell'amico, gli si avvicinò. Vide la custodia di una chitarra, l'aprì. Conteneva una bellissima chitarra elettrica, una di quelle che ogni chitarrista vorrebbe, con il corpo nero e il battipenna argentato, la tastiera in polissandro e il manico fatto d'ebano. Il plettro era in carapace di tartaruga.

Jared la sollevò con attenzione, se la mise al collo e cominciò a suonare con delicatezza, temeva di rovinarla. L'energia della musica dalle mani cominciò a scorrere per tutto il corpo, con la velocità e l'efficacia di una scarica elettrica. L'ispirazione, tanto agognata, era finalmente arrivata. Si mise sul letto e annotò velocemente parole e note, in meno di un'ora aveva composto un nuovo pezzo. Stefano lo aveva osservato per tutto il tempo, incredulo. Era senza parole.

«Ecco qui il pezzo che mi avevi chiesto.» La sua voce tornò ad essere fredda, come sempre. Si alzò dal letto e si diresse alla scrivania, prese il borsalino nero e se lo mise in testa, coprendosi il volto. «Io devo partire per qualche giorno, ma tornerò in tempo per prepararmi per il concerto.» Assicurò, porgendogli il pentagramma con la melodia, accompagnato dal testo della canzone. Il manager afferrò il foglio e lesse il titolo:

Green Eyes.

                                                   ****

Due ragazze erano sedute laddove un tempo solevano prendere posto gli elementi dell'orchestra scolastica.

Sakura strizzò gli occhi nel tentativo di vederci meglio: da lontano, senza occhiali, era cieca come una talpa. Dopo uno sforzo immane riuscì a mettere a fuoco le due figure. «Minami?! Che ci fai qui?» Nel preciso istante in cui pronunciò il suo nome, sentì la ragazza dimenarsi, sembrava non riuscisse a muoversi liberamente, non riusciva neppure a parlare, era in grado solo di emettere mugolii soffocati. Nathan, che era al suo fianco, fece un passo avanti. «Tranquilla, vi libero io.»

Sakura lo guardò confusa, non comprendeva il perché di quelle parole. Tornò a guardare le ragazze, sforzò ancora una volta la vista, subito le venne mal di testa, ma lei continuò a tenere il capo alzato, finché non capì. Entrambe avevano un fazzoletto legato sulla bocca e le mani legate dietro la sedia.

«Non così in fretta!» Una tuonante voce maschile riempì la stanza. I ragazzi piantarono gli occhi sulla spessa tenda che copriva la finestra in fondo alla stanza. Ne uscì una figura vestita di nero, il collo adornato da una cravatta verde, scarpe nere perfettamente lucidate, la testa leggermente abbassata, il volto nascosto da un borsalino nero.

«Chi sei?» Domandò David che, guardandolo con aria decisa, si mise in posizione di attacco.

«Il tuo migliore amico, o forse il tuo peggior nemico, dipende.» Affermò il ragazzo misterioso, con un irritante tono provocatorio.

«Dipende da cosa?» Domandò Emma.

«Dal gioco. Voglio il gioco, datemelo.»

«Noi non abbiamo nessun gioco.» Esclamò Sakura con determinazione. Senza alzare la testa, il misterioso individuo la guardò. S'irrigidì. Sentì i brividi corrergli lungo la schiena, ma cercò di dissimulare.

«E anche se lo avessimo avuto non te lo avremmo mai dato.» Aggiunse David.

«Ah, è cosi? Ditemi, allora, che diritto avete di tenervi il gioco?» Chiese, con tono di sfida, riprendendo il controllo sulle proprie emozioni.

«Te lo spiego io.» Rispose Nathan. «Com'è stato stabilito, il gioco appartiene ai Guardiani e i Guardiani siamo noi, quindi, a rigor di logica, il gioco ci appartiene. Semplice, no?» Gli spiegò con un sillogismo che non faceva una piega.

«E chi ti dice che non sia un Guardiano anch'io?»

Cosa? Quell'ultima affermazione colpì i ragazzi con la potenza di un macigno, un macigno che in un secondo mandò in frantumi la sicurezza e la determinazione che fino ad allora li avevano animati. Quel ragazzo poteva benissimo mentire, come dire la verità. Come avrebbero potuto chiedergli una prova di quello che stava affermando? Sapevano con certezza che Emily, Lucas e Amanda erano Guardiani, li avevano riconosciuti nel disegno mostrato loro da Summer e Filippo. Ma come avrebbero fatto a rintracciare gli altri otto? C'era un segno di riconoscimento, un simbolo, un oggetto, qualcosa che avrebbe potuto aiutarli? L'unico aiuto su cui avrebbero potuto contare, per il momento, sembrava essere il gioco: da quello che avevano potuto capire, solo i Guardiani sarebbero stati in grado di utilizzarlo. Purtroppo, però, dovevano ancora trovarlo.

«Su, non ho tempo da perdere con gente come voi, datemi il gioco.» Il ragazzo si avvicinò a Minami. «Altrimenti faccio del male alle vostre amiche.» Tirò fuori un coltello, cinse il collo di Minami con il braccio e lentamente lo fece scorrere verso destra, finché la lama non fu sulla giugulare della giovane sventurata. Premette leggermente, sulla pelle bianca della ragazza apparve una leggera striscia rossa.

«Non farlo!» Urlarono David ed Emma. Il ragazzo tese la mano sinistra in avanti, come per ricevere qualcosa. «Voglio il gioco.» La mano destra, invece, era stretta sul manico del coltello.

«A cosa ti serve il gioco? Perché lo stai cercando?» Intervenne Nathan.

«Non sono affari che ti riguardano, moccioso!» Il suo tono era aspro.

«Provami che sei uno di noi.» Tentò di bluffare. Se davvero fosse stato un guardiano e ci fosse stato un marchio, un oggetto, che gli avrebbe consentito di riconoscere gli altri come lui, glielo avrebbe mostrato.

«Io a te non devo mostrare niente.» Lo guardò con sfida. Non avrebbe permesso a un ragazzino di prendersi gioco di lui. «Il gioco è mio, mi appartiene. Datemelo.» Sibilò a denti stretti, trattenendo a stento quell'ultimo briciolo di pazienza che gli era rimasto.

«Te lo ripeto per l'ultima volta.» Sakura strinse i pugni per controllare la rabbia, che lentamente si stava insinuando in lei. «Noi non abbiamo nessuno gioco!»

Il misterioso ragazzo, ancora una volta, la guardò senza alzare la testa, il suo corpo s'irrigidì, irrimediabilmente. Vide due occhi belli, grandi, verdi, e sinceri. Due occhi disarmanti. L'intensità di quel colore lo fece desistere. Abbassò la mano con il coltello, chiuse l'altra, che ancora era tesa in avanti, e la girò in modo che in alto ci fosse il dorso del pugno. In quel momento le torce in mano ai ragazzi scoppiarono, lanciando in aria coriandoli di vetro.

«Ma che diavolo è successo?!» Domandarono all'unisono i quattro giovani mal capitati. Automaticamente, dopo pochi secondi, gli occhi si sensibilizzarono al buio e gli altri sensi si acuirono. Udirono il misterioso individuo muoversi, il suono dei suoi passi si faceva sempre più insistente. Sakura sentiva che si stava avvicinando, si stava muovendo nella sua direzione. Il cuore le balzò in gola. Cominciò a tremare. Non sapeva che fare, la paura si era impossessata del suo corpo, le aveva annebbiato il cervello. Poi, inavvertitamente, un pungente profumo di pino giunse al suo olfatto, con la forza di migliaia di aghi invisibili, pronti a inchiodarla contro un muro immaginario. Era vicinissimo, percepiva il suo respiro a pochi centimetri da lei. Un lungo brivido percorse velocemente la sua schiena. Cominciò a sudare, sentì il suo corpo andare in fiamme, in preda al terrore. Poi, all'improvviso, due dita le presero il mento con decisione, con la forza di due tenaglie di ferro. Lo sconosciuto le alzò il volto, lentamente. «Ti avverto, mia cara, questo bel visino ti procurerà molti problemi.» Le sussurrò. Il ghigno malefico, dipinto sul volto, risplendeva nella penombra di quella stanza buia.

Con la luce spenta, non potendo vedere quegli occhi stregati, riusciva a controllarsi.

Al contrario, Sakura si ritrovò paralizzata, inerme. D'un tratto i muscoli delle gambe si rilassarono. Sarebbe crollata a terra se non fosse stato per la presa decisa del ragazzo, che non mollava il suo mento. Gli occhi si riempirono di lacrime.

Poi arrivò, dal niente. Un ricordo, un frammento lontano che aveva dimenticato. 

«Il tuo volto sarà la tua condanna, l'ho visto, ti condurrà alla morte! Stai attenta.»

Qualcuno le aveva già fatto un discorso simile, ma non ricordava chi fosse.

Le lacrime scesero più copiose, prima le bagnarono le guance, poi caddero nel vuoto, in pesanti goccioloni che si dissolsero a contatto con il terreno.

 

«Lasciala!» Ringhiò Nathan.

Con un gesto rude ed improvviso, lo sconosciuto liberò il volto della ragazza, si allontanò e attraversò la soglia della stanza. Sakura ritrovò la forza e il controllo sul proprio corpo e, prima che potesse essere troppo tardi, si voltò. Lui era di spalle, la sua figura era in contrasto con la luce del corridoio. «Aspetta!» Cercò di fermarlo. «C-che significa?!» Balbettò. «Dimmi, ci siamo già incontrati?» Gli chiese. «Sei stato tu a pronunciare quelle parole, tanto tempo fa?»

«Non so proprio a cosa tu ti stia riferendo.» Le rispose con un tono piatto. «Io e te non ci siamo mai incontrati.» Aggiunse, abbassando impercettibilmente lo sguardo.

«Allora chi sei?» Gli domandò con voce flebile, quasi temesse di udire la risposta.

«Il tuo migliore amico.»

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Capitolo 17
*** 2.7 Capitolo 2: Incontri (e scontri) che lasciano il segno ***


Josh stava attendendo pazientemente che il barista imbranato potesse servirlo, quando, ad un certo punto, sentì qualcuno toccargli la tasca della giacca. Si voltò si scatto. Con grande sollievo vide che era Amelia.

«Perché sei venuta qua? Ti avevo detto di aspettare seduta.»

«Lo so, papà. Ma ci stai mettendo tanto, così sono venuta a vedere che facevi.» Gli spiegò la piccola.

«Stavo in fila, ecco cosa facevo.» Affermò, seccato dall'attesa. «Comunque fra poco tocca a noi, quindi vai a sederti.» Le ordinò. La bambina annuì e tornò indietro.

Il ragazzo aspettò che la cioccolata calda e il caffè che aveva ordinato fossero pronti, mentre dietro di lui si era formata una fila piuttosto consistente. Finalmente, dopo aver ottenuto ciò che aveva ordinato, riuscì con fatica a farsi strada fra la calca. Una volta allontanatosi a sufficienza dal bancone, cominciò a guardarsi intorno, cercando Amelia. Ad una prima occhiata non riuscì a trovarla, così cominciò a scrutare l'ambiente con più attenzione. Ma niente, non la vide. Invaso da una sensazione spiacevole, cominciò a chiamarla a gran voce. Di Amelia non sembrava esserci traccia. Con le mani tremanti dalla preoccupazione, appoggiò il vassoio con il cibo sul primo tavolo vuoto che vide e iniziò a correre su e giù per l'autogrill chiedendo ai passanti se avevano visto la bambina. Nessuno ci aveva fatto caso. Poi, all'improvviso, passando accanto alle grandi vetrate che davano sul parcheggio, la vide. E non era sola. Stava camminando tenendo per mano una ragazza con il caschetto nero, che indossava una giacca di pelle color perla e un paio di pantaloni di pelle neri, molto aderenti. La riconobbe subito, non aveva dubbi. Quella era la ragazza del bagno. Vide che si erano appena allontanate dalla sua auto e si stavano dirigendo verso un'altra vettura, una Lancia Ypsilon parcheggiata a tre posti di distanza. «Oh no!» Esclamò, nel panico più totale. «Accidenti, Amelia!» Imprecò. «Quante volte ti ho detto di non parlare con gli sconosciuti!» Intuendo subito cosa sarebbe successo, iniziò a correre più velocemente che poteva, mettendo nei muscoli delle braccia e delle gambe una forza incredibile, forza derivata dalla disperazione che provava al solo pensiero di perdere la sua bambina. Purtroppo, però, all'entrata del locale si era formata una calca insormontabile: i viaggiatori si erano ammassati all'ingresso, in cerca di un riparo dalla pioggia, che si era fatta più insistente. Cercò di farsi spazio con spintoni e gomitate, in un modo poco gentile che normalmente non gli apparteneva. D'altronde non c'era tempo per l'educazione, si trattava di un'emergenza: doveva impedire a tutti i costi il rapimento della figlia. Riuscì ad uscire fuori giusto in tempo per vedere l'auto imboccare l'uscita dalla stazione di servizio. «Fermate quella macchina!» Gridò, rivolgendosi ai passanti. «Amelia!» Urlò, straziato dalla disperazione, mentre la pioggia continuava a scendere imperterrita. «Torna qui!» Aggiunse con il poco fiato che gli era rimasto, mentre correva verso l'uscita. Ormai l'abitacolo si era immesso nella carreggiata dell'autostrada. Si guardò intorno, indeciso su cosa fare, poi, senza perdere tempo raggiunse la propria vettura. Stava per aprire lo sportello del guidatore, quando vide un fazzoletto di carta, appallottolato in modo strano, spuntare da sotto la macchina. Si scostò un ricciolo che, appesantito dall'acqua, gli si era piazzato davanti agli occhi e si chinò per raccogliere il fagotto. Lo toccò con cautela, sembrava fosse avvolto attorno a qualcosa di solido. Lo prese in mano e lo srotolò. Impallidì. Riconobbe le chiavi dell'automobile. Incredulo, si tastò velocemente le tasche della giacca. Ma come facevano ad essere lì? Come era riuscita a prendergliele? Non si ricordava che quella ragazza gli si fosse avvicinata tanto da potergliele sottrarre. Poi, all'improvviso, ebbe l'illuminazione. La ragazza no, ma Amelia sì. Si ricordò di quando, mentre era in fila al bar, aveva sentito qualcuno toccargli il cappotto, qualcuno che, poi, si rivelò essere la bambina. «No, non è possibile...» Mormorò incredulo e avvilito. «Perché?» Si domandò. Non fu difficile per lui trovare la risposta: sollevando le chiavi dall'involucro notò un messaggio impresso sul fazzoletto. Sicuramente lo aveva scritto quella ragazza, non poteva essere altrimenti, Amelia era ancora troppo piccola per saperlo fare. Lo lesse. Scusami papà, ma il budino di riso era troppo buono! Accanto alla scritta riconobbe due fiori di pesco, come solo la piccola sapeva disegnarli. Ormai erano diventati la sua inconfondibile firma. Sentì una stretta al cuore. «Bastarda...Come ha potuto approfittarsi in questo modo di una bambina di cinque anni?!» Ringhiò di rabbia, accartocciando il fazzoletto e battendo il pugno contro la portiera della macchina. Subito nella sua mente si andò formulando una nuova domanda: a che scopo convincere Amelia a rubargli le chiavi? A cosa le servivano? Seguendo il suo istinto, aprì il bagagliaio per vedere se mancasse qualcosa. Il suo zaino era sparito. «Oh no!» Esclamò, fiondandosi alla sua spasmodica ricerca. No, non c'era più. E con lui anche il diario, le camelie, la confezione di tè e i medicinali erano scomparsi. «Cazzo!» In preda ad un'ira crescente, richiuse con forza il bagagliaio, si fiondò in macchina, accese il motore e partì, determinato a riprendersi Amelia e tutti gli oggetti che gli erano stati rubati, tra cui uno dei suoi ricordi più preziosi: il gioco dei Guardiani del Cosmo.

 

Angolo annalisa93
Eccoci qui alla fine del secondo capitolo, dalla prossima settimana comincia il terzo :) Come sempre speriamo che vi sia piaciuto :) 
Ciao, alla prossima!

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Capitolo 18
*** 3.1 Capitolo 3: Profumi ***


Ciao a tutti :) Aggiornamento anticipato perché domani non so se posso, quindi per non farvi aspettare ecco qui la prima parte del terzo capitolo, buona lettura :)

 

 

So give me reason

To prove me wrong

To wash this memory clean

Let the floods cross

The distance in your eyes

Give me reason

To fill this hole

Connect the space between

Let it be enough to reach the truth that lies

Across this new divide  

(da New Divide, Linkin Park)



Autostrada, ore 17.15

Ormai era più di un'ora che guidava sotto la pioggia battente. I riccioli castani grondavano ancora di pesanti gocce d'acqua, gli occhiali erano appannati, i vestiti freddi e bagnati attaccati al corpo. Tremava, ma non gli importava. Voleva raggiungere al più presto quella maledetta Lancia Ypsilon. Voleva raggiungere la sua piccolina. La sua luce, la sua aria, la sua vita. Amelia era stata la luce in grado di guidarlo attraverso quel lungo e oscuro tunnel in cui si era ritrovato all'improvviso il 31 ottobre di quattro anni prima, era stata la sua boccata d'ossigeno giornaliera, contro quell'aria rarefatta che impregnava i frammenti di una vita spezzata, era diventata la sua unica ragione di vita. Ma adesso, una ragazza poco più piccola di lui, con una scaltrezza e una furbizia imbevute di odio, gli aveva sottratto il dolce balsamo che pian piano stava guarendo le profonde ferite che gli laceravano l'anima: l'amore di sua figlia.

«Perché?!» Domandò, con un urlo. Batté un violento pugno contro il volante, mentre una goccia di pioggia gli scivolava lungo la tempia destra poi mescolarsi con l'acqua salata di una lacrima amara. «Perché l'ha fatto? Qual è il motivo che l'ha spinta a fare una cosa del genere?» Che lo avesse fatto per vendetta? Ma cosa poteva averle mai fatto di così terribile da meritarsi tanto disprezzo? Non riusciva proprio a ricordarselo. Però non poteva dimenticarsi quegli occhi che lo fissavano con intensità, così grandi e scuri, come il rancore che provava verso di lui. Avrebbe voluto indagare più a fondo, leggere in quello sguardo ciò che aveva alimentato la fiamma della rabbia che ardeva nel suo animo. Ma non ci era riuscito. Voleva capire, voleva sapere, voleva provare a porre rimedio al dolore che, inconsapevolmente, le aveva procurato. Distrattamente, lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore, e fu lì che lo vide. Vide il sé stesso di cinque anni prima, il vecchio Josh diciottenne: gli occhi beffardi dietro la visiera, la testa nascosta sotto un casco nero e argento, il suo numero che campeggiava orgoglioso sulla sommità, pronto a conquistarsi la vetta della classifica del motomondiale, il numero ottantacinque.

Sgranò gli occhi, sorpreso. Il respiro gli si bloccò in gola.

Che la ragione del comportamento di quella ragazza fosse da ricercarsi in quegli anni che lui aveva tentato tante volte di cancellare dalla sua memoria? Quando era ancora un giovane ragazzo convinto di poter tenere il mondo in una mano? Quando era convinto di essere invincibile?

Sospirò, frustrato. Non ci sarebbe riuscito, ne era convinto. Era ancora troppo presto. Quei ricordi erano troppo dolorosi, non era pronto a riviverli. Li aveva rimossi proprio per prevenire il fiume di sofferenza che la nostalgia gli avrebbe procurato. Ognuno di essi sarebbe stato una stilettata al suo corpo, al suo cuore, alla sua anima. Ne sarebbe uscito martoriato, più di quanto non lo fosse già.

Nonostante lui si sentisse incapace di compiere questo passo sovrumano, tutto intorno a lui sembrava incitarlo a farlo, perché il tempo era giunto: gli strani oggetti, il viaggio a Lucca, la ragazza misteriosa, tutto ciò lo stava spingendo in quella direzione. Ma lui, finché avrebbe potuto, avrebbe ignorato tutti i segnali. Avrebbe volentieri rinunciato anche a scoprire la causa dell'astio che quella ragazza nutriva per lui, se questo significava rivangare il passato. Non gli interessava saperlo, gli sarebbe bastato riprendersi la sua bambina, poi non l'avrebbe mai più vista. Le avrebbe impedito di avvicinarsi ad Amelia, di questo era certo. Benedisse il giorno in cui aveva deciso di entrare nell'Arma dei Carabinieri. Se le avesse anche solo torto un capello, l'avrebbe fatta marcire in galera.

Poi, all'improvviso, un bip bip interruppe il flusso dei suoi pensieri. Si guardò attorno spaesato, poi piantò lo sguardo davanti a sé, sul volante. Fra il mazzo di chiavi attaccato al cruscotto, una luce bianca lampeggiava intermittente. Bip bip. Sono due. Contò mentalmente il numero dei suoni che aveva percepito. Ne manca ancora uno. Constatò, trattenendo il respiro. Attese per altri due minuti, mentre sentiva l'ansia penetrargli subdolamente nelle ossa. «Su, cosa aspetti?! Avanti!» Gridò poi, in preda al panico.

Bip bip.

Finalmente. A quel punto sorrise, chiudendo gli occhi e respirando a pieni polmoni. Una seconda lacrima, che era rimasta nascosta, scese giù dall'occhio sinistro, portandosi via tutta la preoccupazione che aveva in corpo.

La sua bambina stava bene.

                                                 ****

Amelia era seduta sul seggiolone sistemato sul sedile posteriore, con la cintura allacciata. Continuava a torturarsi le mani, avvolte in un paio di guanti rosa fucsia, sul viso aveva un'espressione preoccupata. Sentiva i rimorsi farsi strada nel suo animo. Non doveva seguire quella ragazza. Suo papà le aveva detto tante volte di non parlare con gli sconosciuti e lei non solo ci aveva parlato, ma l'aveva pure seguita. Già poteva sentire i rimproveri che avrebbe dovuto sorbirsi. Però, prima che la macchina ripartisse, aveva sentito il suo papà urlare il suo nome e non le sembrava arrabbiato, anzi, le era parso triste e spaventato. E lei ne era dispiaciuta, non voleva che lui si sentisse così. Doveva dirgli che stava bene. Frugò velocemente nella tasca del piumino e prese il suo portachiavi, sorridendo.

«Signora, mi puoi dire che ore sono?» Chiese poi alla ragazza.

«Sono le cinque e venticinque.» Le rispose lei, perplessa.

«Vuol dire che sono già passate le cinque e mezza?»

«No, mancano ancora cinque minuti. Perché?» Le domandò, incuriosita.

«Quando arrivano le cinque e mezza, me lo dici?» Amelia strinse forte il suo prezioso amuleto. Era un portachiavi in argento, con le sembianze di una bambina. Sul vestitino aveva due cuoricini al posto dei bottoni. Il primo era un piccolo pulsante argentato, il secondo era in vetro e conteneva una minuscola lampadina. Al livello dell'addome aveva una serie di forellini concentrici che consentivano l'emissione di un suono. «Così il mio papà non sarà più tanto triste.»

La giovane annuì, sorpresa. Dopodiché attese, con pazienza, di vedere cosa avesse intenzione di fare la piccola.

Passarono cinque minuti in silenzio: Amelia continuava a guardare fuori dal finestrino, nervosa, mentre la ragazza le lanciava delle occhiate attraverso lo specchietto retrovisore, preoccupata.

«Sono le cinque e mezza.» Annunciò, poi, la giovane.

 A quel punto, gli occhi color cioccolato della bambina si illuminarono di contentezza. «Davvero?» Domandò, stupita. Subito, senza perdere tempo, premette il bottoncino a forma di cuore argentato sul portachiavi. Il cuoricino di vetro s'illuminò di bianco. Ripeté il gesto una seconda volta, seguito dalla luce bianca. La terza volta, però, il cuoricino non s'illuminò. La bambina fissò l'oggetto spaventata. Temeva si fosse rotto.

La ragazza, cogliendo il panico sul volto di Amelia attraverso lo specchietto, intervenne:

«Prova a premerlo un'altra volta. Magari con questo freddo si è ghiacciato e si è inceppato.»

La piccola annuì, determinata. Sapeva che doveva farlo tre volte, così le aveva insegnato suo papà.

«Devi premerlo due volte se ti è successo qualcosa di brutto. Se, invece, stai bene ed è tutto a posto, lo devi pigiare tre volte.»

Perciò, strinse gli occhi in due fessure, per concentrarsi meglio, e lo schiacciò di nuovo, decisa. Altrimenti suo papà avrebbe pensato che fosse in pericolo. Dopodiché iniziò a scrutare l'oggetto, in attesa. Poi, finalmente, s'illuminò un'altra volta. «Sì! evviva, funziona!» Esclamò, contenta. «Adesso papà non sarà più preoccupato e saprà che tu sei una brava persona, signora.» Spiegò, guardando in avanti, con un'espressione soddisfatta e sorridente. Non sapeva il perché, ma quella ragazza le infondeva fiducia. Non aveva paura. «Mi hai pure messo sul seggiolone. Papà mi dice sempre che mi mette sul seggiolone perché mi vuole bene, dice che così non mi faccio male.» Aggiunse, accarezzando il suo portachiavi, con affetto. «Grazie, signora.» La voce suonava amichevole e colma di gratitudine.

Udendo quelle parole, la ragazza spalancò gli occhi, meravigliata. Un leggero senso di commozione le inumidì le ciglia. Sorrise. Questa volta il suo sorriso non aveva niente di diabolico. Era sincero, luminoso, e bellissimo.

«Ti prego, non chiamarmi signora, mi fai sentire vecchia.» Fece una pausa, mostrando un lieve disappunto. «Chiamami Alysia.»

 

Spazio autrici: Eccoci di nuovo qui, con un bel po' di ritardo

 

 

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Capitolo 19
*** 3.2 Capitolo 3: Profumi ***


Buon pomeriggio a tutti :) 
Anche questa settimana aggiorno di venerdì perché domani non posso, vi auguro come sempre buona lettura :)

 

 

And anytime you feel like you just can't go on

Just hold on to my love

And you'll never be alone

Hold on

We can make it through the fire

And my love

I'm forever by your side

And you know

If you should ever call my name

I'll be right there

You'll never be alone

(Da You'll Never Be Alone, Anastacia)

 

 

Lucca, ore 19.45

Quelle parole arrivarono dritte al cuore, colpendolo con la precisione di un proiettile. Le rimbombarono in testa, in un'eco tartassante, che la lasciò incredula, persa in uno stato di perfetta apatia.

Rimase alcuni minuti immobile, a ripensare alle parole che aveva sentito, poi, lentamente tornò in sé.

«Che vuol dire?» Domandò, confusa. Mosse un passo in direzione dello sconosciuto.

«Non ti avvicinare!» Tuonò lui.

Sakura non gli dette retta e avanzò ancora di un paio di passi, tremolanti.

«Ti ho detto di non muoverti.» Sibilò a denti stretti, minaccioso.

«Sakura, fai come ti ha detto!» Le intimò Nathan, afferrandola per un braccio. «È un tipo pericoloso, potrebbe farti del male.»

Sakura si voltò verso il suo ragazzo. Scosse la testa. «Lasciami, Nate! Io voglio sapere! Qualcuno ha predetto il mio destino e io voglio capire se è stato lui!»

Nathan, a quel punto, colpito dalle parole della ragazza, la lasciò andare. «C-cosa?» Sussurrò, con un groppo in gola.

Le lacrime continuavano a solcarle il viso, ma lei, imperterrita, continuava ad accorciare la distanza che la separava dal giovane.

«Maledizione! Ci vuoi stare ferma?! Ti ho detto di non venire qui!» Sbottò, spazientito. A quel puntò si voltò. «E va bene.» Sospirò, rassegnato. «Te la sei cercata!» Ringhiò, protendendo il braccio destro in avanti, con il palmo della mano aperto, alzato verso di lei, come se le stesse dando un segnale di stop. Dopodiché ruotò il braccio, eseguendo un movimento di pronosupinazione. All'improvviso un forte vento sollevò da terra Sakura e Nathan, che era dietro di lei, e li scaraventò contro le sedie in fondo alla stanza.

«Nate, Sakura!» Gridò David preoccupato, precipitandosi ad aiutarli. «Ragazzi, state bene?»

«Sì, più o meno.» Rispose Sakura, spostando alcune sedie che le erano cadute addosso. Dopodiché si alzò in piedi e andò subito a soccorrere Nathan che era rimasto sotto di lei. Poco prima dell'urto, infatti, lui le aveva cinto la vita da dietro, facendole da scudo con il proprio corpo e attutendo il colpo.

«Nate, stai bene?!» Gli chiese, vedendolo dolorante, rimuovendo i leggii e gli sgabelli che lo bloccavano a terra. «Ci penso io a lui. Dave, tu pensa a liberare le ragazze.» Aggiunse, risoluta. David annuì e andò dalle ragazze, visibilmente turbate.

Sakura aiutò Nathan a mettersi a sedere. «Ti sei fatto male?» Chiese, accarezzandogli la testa, agitata. Il ragazzo scosse il capo, scuro in volto.

«Allora, aspetta, ti aiuto a rialzarti.» Detto questo, si posizionò di fronte al ragazzo e gli prese le braccia, tirandole verso di sé, in modo che Nathan potesse sollevarsi dandosi una spinta. Ma lui sembrava non volersi muovere. Sakura era interdetta. «Nate, che fai? Alzati.»

Lui non rispose, lo sguardo era piantato a terra. I due rimasero così, in silenzio, per alcuni minuti, le mani di lei ancora strette attorno alle braccia di lui. Poi, inaspettatamente, anche lui afferrò i polsi di lei e lì tirò con forza verso di sé. Sakura perse l'equilibrio e gli cadde addosso. A quel punto Nathan la strinse forte a sé, così forte da lasciarla senza respiro. «Nate...»Tramite quel contatto così intimo, Sakura poté percepire l'agitazione, la tristezza, e lo sconforto vibrare attraverso le vesti di Nathan, poté sentire il suo cuore galoppare velocemente, nervoso. «Ti prego, non fare così...» Sussurrò, accarezzandogli la schiena, a cui era aggrappata.

«Non ce la farò mai.» Sussurrò lui, con voce spezzata. «Sono un inetto, uno stupido, un buono a nulla... Se solo non fossi stato così cieco e ottuso.» Sputò, con disprezzo.

«Non dire sciocchezze, tu ce la farai in qualche modo, tesoro mio. Sei la persona più forte, coraggiosa e intelligente che conosca, hai fatto scelte difficili e dolorose nel corso della tua vita e sono state tutte scelte giuste. Tutte, nessuna esclusa.» La ragazza sottolineò le ultime parole e gli posò un delicato bacio sulla fronte, appoggiando una mano sulla spalla e una sul capo. «Non sarai mai da solo, io sarò sempre con te.»

Per tutta risposta, Nathan la strinse più forte, quasi in maniera disperata, assaporando a pieni polmoni il delicato profumo di camomilla che inebriava i capelli di Sakura. «Non mi lasciare.»

«Mai.» Assicurò lei.

Di fronte a quella scena, David sentì il cuore stringersi un pochino, mentre gli occhi si fecero malinconici. Scosse la testa, mandando via la tristezza che lo aveva sfiorato con le sue fragili spire, e subito tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo. Aveva rimosso i bavagli alle due ragazze e adesso si accingeva a sciogliere i nodi che tenevano le mani legate dietro alla sedia. Sembrava un lavoro complicato.

«Em, puoi venire ad aiutarmi, per favore?» Chiese, rivolto ad Emma. Ma non ottenne risposta. «Em?» La chiamò, guardandosi attorno. Nella stanza non c'era. Poi, la sua attenzione si posò sul rettangolo di corridoio a cui lo stipite della porta faceva da cornice, illuminato debolmente dalle luci d'emergenza. Dritto davanti a lui, in fondo al lungo corridoio, c'era il portone principale. Attraverso il vetro, vide la figura di Emma, appena rischiarata dalla pallida luce della luna, correre verso il cancello. «Ma che sta facendo?» Si domandò.

Quando lo vide lasciare la vecchia aula di musica, guardandosi il braccio, il suo istinto le aveva gridato di andargli dietro. Un alone misterioso, quanto affascinante e terribile, sembrava avvolgere quello strano ragazzo. Era un alone oscuro, inquinato dal rammarico, dal dolore e dall'aridità della solitudine. Lo aveva percepito chiaramente, grazie alla sua sensibilità. Non doveva farselo scappare, voleva saperne di più, per questo decise di dar retta al suo istinto. Corse più veloce che poteva, anche se i polmoni erano in fiamme, le gambe le dolevano, l'aria fredda della notte contro la sua pelle madida di sudore le provocava lunghi brividi su tutto il corpo. Oltrepassò il cancello e lo inseguì fino alla fine della via delle rose, la via in cui si trovava la scuola, raggiungendo le strisce pedonali che portavano al piazzale della chiesa di S.Anna. Le attraversò e continuò tutto a dritto, fino a raggiungere la parte opposta del piazzale, dove era stato piazzato un altro attraversamento pedonale. Il semaforo era rosso. Si fermò, facendo tintinnare rumorosamente i numerosi ciondoli che indossava. «Ehi!» Urlò Emma, con quel poco fiato che le era rimasto, piegata in due, con le mani sulle ginocchia. A quel punto lo vide arrestarsi dall'altra parte delle strisce. Lui si voltò, sorpreso. «Che ci fai qui, ragazzina?»

«Perché... Perché vuoi il gioco?» Chiese, fra un respiro e l'altro. «A cosa ti serve?»

«Come ho già detto al tuo amico, non sono affari tuoi, piccola ficcanaso.» Rispose in modo brusco, in modo che non trapelasse nessuna emozione.

«Ho come l'impressione che per te abbia un valore affettivo profondo, sbaglio?»

Il misterioso individuo sgranò gli occhi, meravigliato. «Come fai a dirlo?»

«E' una sensazione.» Confessò.

Lui si voltò dall'altra parte, dandole completamente le spalle. «Vedremo se la tua sensazione ha qualche fondamento.» Disse, lanciandole qualcosa che atterrò ai suoi piedi. Poi, tenne il braccio e la mano alzati, in segno di saluto. «Ci vediamo... piccola sensitiva. Tornerò quando avrete il gioco.» Aggiunse. Dopodiché tirò giù il braccio e si alzò la manica della giacca. Il marchio dei Guardiani del Cosmo era ancora lì e brillava nel buio della notte. «Dunque quei marmocchi dicevano la verità, il gioco non lo avevano loro. Qualcun'altro deve averlo attivato.» 

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Capitolo 20
*** 3.3 Capitolo 3: Profumi ***


Buonasera a tutti :) Anche per questa settimana aggiorno di venerdì, mentre la prossima purtroppo devo saltare l'aggiornamento quindi ci "vediamo" tra due settimane.
Buona lettura :) 

 

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Across this new divide

(da New Divide, Linkin Park)

 

Autostrada, uscita Lucca est, ore 19.45

Quando vide l'enorme cartello verde recitare "Lucca Est" sentì il forte impulso di fare retromarcia e tornare a Terni. Ma non poteva farlo, non doveva farlo. Doveva ritrovare la sua bambina. Aveva la sensazione che fosse lì e sperava di non sbagliarsi. Si era calmato un po' da quando Amelia le aveva mandato il segnale tramite il portachiavi, ma era sempre preoccupato. Perciò si fece coraggio e svoltò in direzione del casello autostradale, per pagare il pedaggio. Proprio mentre stava porgendo il denaro all'addetto, sentì un forte bruciore al livello della base del collo. Un sudore freddo cominciò a bagnargli la fronte. Quella sensazione l'aveva già provata, l'aveva sperimentata cinque anni prima. «Non dirmi che...» Affermò, in un soffio, la mano sospesa fuori dal finestrino per ricevere il resto dell'importo.

L'impiegato lo guardò confuso.

Josh scosse la testa. «Mi scusi, non dicevo a lei.» Abbozzò un sorriso tirato, da cui traspariva tutto il suo nervosismo. «Grazie, arrivederci.» Ritirando la mano alzò il finestrino e imboccò l'uscita. Adesso il bruciore aveva lasciato il posto ad un insistente quanto fastidioso formicolio, fugando ogni dubbio che si era affollato nella testa del giovane carabiniere.

Aveva bisogno di fermarsi per verificare il sospetto che gli stava mozzando il fiato. Appena fuori dall'uscita dell'autostrada c'era un McDonald e la prima cosa che gli era venuta in mente di fare era di fermarsi lì, perciò si sbrigò a raggiungerlo.

Una volta entrato nel locale, si fiondò in bagno, chiudendosi la porta alle spalle. Era vuoto, per sua fortuna. Con gesti frenetici cominciò a spogliarsi, liberandosi degli indumenti che gli fasciavano il busto. Si sfilò il cappotto, il cardigan arancione, la camicia e la cannottiera, scoprendo un torace asciutto, ma non più tonico. C'era ancora un accenno di pettorali e di addominali, che un tempo erano perfettamente scolpiti, ma niente di più. Si guardò allo specchio. Appoggiò le mani sul mobile del lavabo e sospirò. Sapeva bene cosa significasse quel formicolio, ma non aveva il coraggio di voltarsi e controllare. Perché se davvero era ciò che stava pensando, quello avrebbe indicato l'inizio del cammino dei ricordi che avrebbe dovuto intraprendere. Gli occhi si strinsero in due fessure colme di sofferenza e paura. Respirò a fondo, poi, senza pensarci ulteriormente, prima che il terrore lo ghermisse con le sue dita affilate, si voltò. Oh, no! E invece, sì. Era lì, e brillava in tutta la sua fierezza. Il simbolo dei Guardiani del Cosmo, il marchio dei sacerdoti della dea della notte: un ramo argentato a forma di esse, adornato da quindici fiori, sette di pesco e otto di ciliegio.

Josh strinse i pugni, per trattenere la rabbia e il dolore. Dunque qualcuno aveva attivato il gioco. Era stata la ragazza che aveva rapito Amelia e che gli aveva rubato il cimelio? Oppure qualcun altro, magari un complice? Chiunque fosse stato, di una cosa poteva essere sicuro: doveva essere un Guardiano anche lui.

Stava riflettendo sulle sue supposizioni, quando udì dei passi muoversi nella sua direzione. Colto alla sprovvista, recuperò tutti i suoi indumenti, e riuscì a chiudersi all'interno di uno dei gabinetti proprio prima che un uomo facesse ingresso nel bagno. Si rivestì velocemente e uscì come se nulla fosse, esibendo un sorriso di circostanza.

Corse alla macchina, impossessato dall'impellente bisogno di trovare delle risposte. Per poter soddisfare questa sua necessità doveva prima rintracciare quella ragazza, anche se non aveva la più pallida idea di dove potesse essere. E cosa più importante, voleva riprendersi Amelia. Sapeva che stava bene, ma come poteva essere sicuro che non le sarebbe successo niente di spiacevole? Stava per accendere il motore, quando il cellulare squillò. Lesse il nome sul display: Anna Martini, la madre del maresciallo. Stando a quello che gli aveva spiegato il capo, la signora lo stava aspettando a casa sua, dove avrebbe soggiornato con la bimba per il tempo necessario affinché potesse concludere le indagini, a cui avrebbero preso parte anche i suoi colleghi di Lucca.

«E adesso come glielo dico alla signora che ho perso mia figlia? Mi crederà un pessimo padre.»

Rispose al telefono, un po' timoroso. «Pronto, signora Martini?»

«Salve. Parlo con Joshua?» La voce della donna era squillante.

«Sì, sono io.»

«Oh bene. Ciao, caro. Volevo avvisarti che Amelia è qui con me.

A quel punto le labbra di Josh non poterono che distendersi in un largo sorriso, carico di sollievo, la piccola era al sicuro.

«E' venuta con una ragazza, di cui non conosco il nome. È la tua fidanzata, per caso?» Domandò lei, titubante.

Lui, non sapendo cosa rispondere, disse: «Sì, proprio così.» Mentì. Sempre meglio che dirle la verità, pensò.

«Me lo immaginavo. Hai proprio dei gusti raffinati, è davvero una bella figliola.»

Quel commento lo lasciò interdetto e imbarazzato. Però, doveva ammetterlo, la signora aveva ragione. Quando l'aveva incontrata nel bagno dell'autogrill era stato rapito dalla sua bellezza, che era passata subito in secondo piano, inghiottita dalla spessa coltre di odio e disprezzo che emanavano il suo cuore e la sua anima.

Da buon agente semplice qual era, non si fece scappare l'occasione di poter interrogare la giovane. «Mi dica, signora... la mia ragazza è sempre lì?»

«Oh, sì, sta giocando con Amelia.»

«Bene. Può impedirle di allontanarsi da casa sua finché non arrivo io?»

«Ma certo, caro. Lascia fare a me.» Il tono di Anna sembrava quello di chi la sapeva lunga.

«Grazie, signora Martini. A dopo.»

«Di nulla. A dopo, caro.»

A quel punto Josh chiuse la telefonata e fece partire il motore, diretto a S.Maria a Colle, la frazione in cui abitavano i Martini. Per tutta la durata del tragitto non fece altro che concentrarsi solo ed esclusivamente sulle macchine: un solo sguardo alle mura della città, alla gelateria in cui andavano sempre dopo scuola, al supermercato in cui andavano a fare la spesa prima dei week-end di gara, sarebbe bastato a farlo crollare sotto il peso dei ricordi.

Fortunatamente non impiegò molto tempo prima di raggiungere la destinazione. La famiglia del maresciallo viveva all'interno di una corte, in cui, quando arrivò, scorse la tanto odiata Lancia Ypsilon. Non fece in tempo a finire di parcheggiare che sentì Amelia gridare.

«Papà, papà! E' arrivato il mio papino!» Saltellava dalla gioia.

Appena scese dall'abitacolo, la bambina gli si tuffò fra le braccia.

«Non ti arrabbiare con me.» Esordì lei, affondando il viso nel cappotto di Josh. Lui la strinse amorevolmente e si piegò verso il basso. «Per adesso mi basta sapere che non ti è successo niente, ma dopo faremo i conti, mia piccola peste!» Aggiunse dandole un bacio fra i capelli biondi. Poi, alzò lo sguardo e vide la signora Martini. Le fece cenno di portare via la figlia. Aveva bisogno di parlare con colei che lo stava trapassando da parte a parte con lo sguardo, appoggiata allo stipite del portone.

«Vieni, Amelia, andiamo a vedere se di là troviamo qualche giocattolo che ti piace.» Propose Anna, tendendole la mano. Lei la prese entusiasta e, insieme, le due entrarono in casa, chiudendo la porta. Adesso Josh e Alysia erano uno di fronte all'altro, ad appena pochi metri di distanza, mentre un vento gelido sferzava i loro corpi. Mosso da un improvviso moto di rabbia, lui le andò incontro e, velocissimo, la inchiodò al muro, cingendole la gola con una mano. «Non ti azzardare a fare un'altra volta una cosa del genere, o giuro che ti ammanetto questi esili polsini», le prese il polso e lo alzò all'altezza del viso, «E ti sbatto in gattabuia.» Piantò gli occhi in quelli neri della ragazza. Era determinato a realizzare ciò che qualche ora prima non era riuscito a fare. Cominciò a scandagliare quei pozzi neri come il buio, in cerca di una risposta al tanto odio nei suoi confronti, cominciò ad esplorare il mare tumultuoso che sembrava separarli. Finché non la vide. Soffocata dagli spessi strati di rancore che aveva accumulato in tutti quegli anni, scorse una luce debole, flebile, fioca. E la riconobbe. Quella era la luce dell'amore, la luce della speranza, la luce che un tempo brillava solo per lui. Sgranò gli occhi, incredulo.

«A-Aly?»

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Capitolo 21
*** 3.4 Capitolo 3: Profumi ***


Ciao a tutti, eccomi di nuovo qui :) spero di riprendere il normale aggiornamento ogni sabato :) inoltre spero anche che la storia vi stia piacendo e vi ricordo che non è mia ma di una mia amica, trovate il link del suo profilo ufficiale su Wattpad in descrizione :) vi auguro come sempre buona lettura :) 

 

I feel the knife at my throat

And it cuts and it burns

Have you no mercy

You laugh as I twist and I turn

Crushing the air in my chest

Till there is no air to breathe

Pray there's a way to escape

But the joke is on me

Show me some hope

Show me some light

'Cause I got nothing left in my tonight

If I don't go

If I say no

Is it the end?

Somebody tell me

Have I just wasted a lifetime?

Show me some hope

God it's so cold

Throw me a lifeline

It's so cold

It's so cold

Throw me a lifeline

(Da Lifeline, Anastacia)

 

Si sentiva smarrito. Come aveva potuto dimenticarla? Dopo tutto quello che avevano passato insieme? Forse perché faceva parte di quel filo di ricordi che aveva sepolto sotto un pesante cumulo di dolore e rifiuto. La guardò ancora. Era bella, bella come lo era allora. Ma quegli occhi, che un tempo parlavano d'amore, brillanti e dolci, adesso erano scuri e gridavano rabbiosi e sofferenti. E il responsabile di quel cambiamento era lui, lui le aveva causato tanta rabbia e sofferenza.

«Aly, sei tu?» Le domandò, con un groppo in gola.

Lei distolse lo sguardo, ruotando la testa lateralmente.

Lui, senza aspettare una conferma, puntò gli occhi sulla mano stretta attorno al polso della ragazza. La fece scivolare giù, lungo tutto l'avambraccio, fino a fermarsi al livello del gomito, in modo da scoprirle la pelle. Adesso non aveva dubbi, era lei. Il marchio dei Guardiani era lì, dove si ricordava che fosse.

Lasciò la presa, sconvolto, indietreggiando di qualche passo. «Allora sei stata tu ad azionare il gioco.»

Lei non rispose, si limitò a tirarsi giù la manica della giacca e ad allontanarsi dal muro per dirigersi alla macchina, alle spalle di Josh. Nel momento in cui gli passò accanto, una fragranza di vaniglia, mista al profumo di pesca, lo avvolse, stringendolo in una morsa dolorosa. Fu allora che li percepì tutti, uno per uno: i ricordi che tanto faticosamente aveva lavato via dal suo cuore, i ricordi di un tempo passato che aveva disperatamente rifiutato. All'improvviso sentì l'agitazione e l'adrenalina della prima gara della stagione nel circuito sudafricano, l'aridità di Jerez nel deserto spagnolo, il calore e l'affetto del gran premio di casa, l'odore della pioggia sull'asfalto di Donington, il jet lag micidiale dei viaggi per le competizioni extraeuropee, la determinazione nel giocarsi il tutto per tutto nell'ultima gara a Valencia. Ognuno di quei ricordi era permeato dal nostalgico odore, dolce e stucchevole, creato dall'intrecciarsi dei profumi delle due donne della sua vita: sua sorella e la sua ragazza. Momoka e Alysia. A quel punto accadde ciò che aveva temuto di più. Le gambe cedettero, incapaci di sopportare il peso dei frammenti di una vita ormai andata. Cominciò a tremare, mentre gli occhi si riempivano di lacrime incontrollate, che sgorgarono come un fiume in piena, senza che lui potesse fare niente per impedirlo.

«Non ti sembra di aver esagerato?» Domandò con lo sguardo perso nel vuoto, la voce incrinata. «Come pensi che io possa resistere a tutto quello che il gioco comporta?»

Lei era in piedi dietro di lui e gli dava le spalle.

«Se pensi che io lo abbia attivato per vendicarmi di te, ti sbagli di grosso.» Affermò con tono sprezzante. «L'ho fatto perché dovevo farlo.» I suoi occhi si strinsero in due fessure. «Per te ho in mente ben altro.» Si allontanò di qualche passo.

«Hai davvero intenzione di lasciarmi affrontare tutto questo da solo?» La sua era quasi una supplica. L'aria cominciava a scarseggiare, risucchiata dal tormento.

«Perché non dovrei?» La voce piatta voleva simboleggiare una calma stoica. «Tu non hai avuto alcun riguardo nei miei confronti, perché io dovrei averne per te?»

«Maledizione, Alysia!» Urlò, allibito, prendendosi la testa fra le mani. «Come puoi paragonare la tua sofferenza con la mia?!» Il corpo era in preda agli spasmi della disperazione, la voce distorta dal pianto.

«Tu hai la vaga idea di quanto io sia stata male per colpa tua?» Insinuò lei, mantenendo un tono neutro.

«Posso immaginarlo, e mi dispiace. Ma non è la stessa cosa!» Ribadì, piegandosi su se stesso, in preda allo sconforto. «Lo vuoi capire?!»

Aumentò la stretta delle mani sulla testa, con talmente tanta forza da conficcare le unghie nella pelle, come se con quel gesto potesse estirpare il pensiero che gli attanagliava la mente. Ma era tutto inutile. «Momo è morta!» Gridò, con voce graffiata, espellendo tutto il dolore che gli divorava l'anima e il cuore, mentre copiose gocce salate gli bagnavano le labbra e scivolavano giù, cadendo a terra rumorosamente. «La mia adorata sorellina non c'è più!» L'alito vitale che per diciott'anni aveva alimentato la fiamma che ardeva nel suo animo, l'aveva abbandonato, lasciando dietro di sé solo un cumulo di ceneri morenti.

Fu in quel momento straziante che la rivide: il viso di Momo gli apparve sorridente, pieno di entusiasmo.

«Questa volta il gradino più alto del podio sarà mio, la Leonessa ti batterà, mio caro Domatore!»

Sorrise amareggiato, mentre il cuore continuava a sanguinare. Solo Dio sapeva cosa avrebbe dato pur di poter gareggiare ancora una volta con la sua Leonessa. Quante volte aveva desiderato abbracciarla, come faceva alla fine di ogni competizione, come faceva ogni sera prima di andare a dormire? Ma non poteva farlo. Perché lei non c'era più. Quante volte si era immaginato di vederla accanto a lui sul divano, mentre sgranocchiava pop corn, facendoli cadere quasi tutti per terra? Quante volte si era immaginato di sentire la sua voce infuriata, felice, triste? Ormai aveva perso il conto.

«Non tornerà mai più da me...» Si portò la mano al petto. Sentì un dolore lancinante, come se una spada affilata lo avesse trapassato da parte a parte. Boccheggiò, in cerca di aria. Faceva male, come ogni volta che la ricordava. Aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi, qualcuno che potesse salvarlo da quel mare di nostalgia e tormento. Forse il fatto che Alysia fosse tornata era un segno, forse era lei il suo salvagente, solo lei poteva comprendere la sua sofferenza. Stette in silenzio, tentando di soffocare i singhiozzi, mentre una mutua richiesta di soccorso si librava  nell'aria, sfiorando il cuore di Alysia. Ma lei l'allontanò, scacciandola con il suo odio e con il suo rancore.

Con passi gelidi e insensibili salì in macchina e partì, lasciando Josh solo, avvolto nel buio della notte. Proseguì per alcuni metri, poi dovette fermarsi, costretta dal dolore che stava per sopraffarla. Non fece in tempo a spegnere il motore che scoppiò in un pianto disperato. Per la prima volta aveva realizzato che non l'avrebbe mai più rivista, non avrebbe mai potuto riabbracciarla, non avrebbe più potuto parlarle. Momoka, la sua migliore amica, la sua confidente, la sorella maggiore che non aveva mai avuto, se n'era andata per sempre, e a lei mancava terribilmente. Era appoggiata al volante, quando squillò il telefono: era Magnolia. Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e tirò su col naso.

«Pronto?» Rispose con voce nasale.

«Sei riuscita a trovarlo?»

«Sì, è arrivato poco fa a casa dei Martini. Ho anche provveduto ad attivare il gioco.» La informò. «Tu, invece, li hai trovati gli altri?»

«Sì, sto seguendo i cinque che si sono intrattenuti al liceo. Gli altri devo ancora rintracciarli. Ma penso che non ci vorrà molto prima che giungano tutti qua.»

«Bene. Continua a tenerli d'occhio. Dobbiamo portare a termine la missione affidataci da nostra madre.»

«Certo. Tu fai lo stesso.» Magnolia riattaccò, scrutando attentamente il cancello del Vallisneri, mentre un sorriso diabolico rifletteva la luce tagliente della luna.

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Capitolo 22
*** 3.5 Capitolo 3 : Profumi ***


Emma continuò ad osservare l'uomo allontanarsi, finché non fu sparito del tutto dalla sua visuale. Si era resa conto di provare sentimenti contrastanti nei suoi confronti: poteva sentire il terrore che le incuteva fin dentro le ossa, ma allo stesso tempo era attratta da lui, c'era qualcosa di familiare nella sua presenza, in grado di riscaldarle il cuore. Stava per perdersi nei suoi pensieri, quando si rammentò dell'oggetto che lui le aveva lanciato. Si guardò i piedi e, grazie alla luce del lampione, riuscì a trovarlo e a raccoglierlo. Dopodiché cominciò ad osservarlo attentamente. Sembrava essere una pila a bottone. «E cosa ci dovrei fare con questo?» Si domandò, grattandosi il capo, perplessa. «Forse Dave e Nate avranno qualche idea, meglio portarlo a loro.» Così dicendo, fece rientro nell'edificio scolastico, ignara del fatto che qualcuno la stesse spiando.

****

«Ragazzi, potete darmi una mano? Non riesco a sciogliere i nodi alle mani senza un po' di luce.» Affermò David, tastando le funi.

Sakura si staccò da Nathan. «Ha ragione Dave. Non è il momento di disperarsi, dobbiamo aiutare le ragazze.» Gli sussurrò.

A quel punto il ragazzo annuì impercettibilmente e si alzò da terra, aiutò Sakura a mettersi in piedi e si avvicinò alle due sedie, tirando fuori il cellulare. «Accendi la torcia e usala per illuminare le mani delle ragazze.» Lo passò a Sakura, che obbedì senza battere ciglio. Quando si avvicinò a Minami la udì respirare spasmodicamente, in cerca di aria. «Minami, tutto ok?» Le chiese Sakura, illuminandole le mani dietro la schiena. Lei si limitò ad annuire con un mugolio. Poi, quando Nathan le liberò le mani, cominciò ad aprire e chiudere i pugni per riprendere sensibilità. «Grazie.» La sua voce era debole, quasi un sussurro. Sakura le sorrise e l'abbracciò. «Sono contenta che tu stia bene.»

David, invece, era alle prese con l'altra prigioniera. «Da quando le ho tolto il fazzoletto non si è mossa, non vorrei fosse svenuta.» Li informò preoccupato. Nathan le si avvicinò e aspettò che David finisse di rimuovere le funi attorno alle mani prima di sollevarla dalla sedia. «Dobbiamo portarla fuori.»

Sakura passò il cellulare a David. «Prendi tu il cellulare, ci penso io a Minami.» Aggiunse, aiutando la ragazza a tirarsi su. A quel punto, David si mosse per primo verso l'uscita, illuminando la via da percorrere, seguito da Nathan, che teneva fra le braccia la ragazza svenuta, e Sakura che chiudeva la fila, sorreggendo Minami che faticava a camminare.

«Portiamola in quella specie di infermeria, vicino alla palestra grande.» Suggerì Sakura. Nathan annuì continuando a camminare, imboccando il corridoio dei pinguini, il corridoio che collegava il padiglione vecchio con quello nuovo, conosciuto come zona più fredda della scuola. La palestra si trovava proprio a metà del corridoio, mentre dall'altra parte, al piano terra del padiglione nuovo, c'erano i laboratori di scienze. David, che aveva un udito fine, riuscì a distinguere, nel silenzio del luogo, il rumore di qualcosa che bolliva, così incuriosito andò a controllare, lasciando Nathan e gli altri perplessi.

«Ecco, adesso dovrei esserci, devo aggiungerci giusto un po' di sodio e il gioco è fatto. Giusto, Stefano?» Domandò Emily, rivolta al tecnico di laboratorio, mentre prendeva una provetta contenente una polverina argentata. Svitò il tappo e, proprio mentre stava per rovesciare un po' del metallo all'interno della beuta sul fuoco, venne interrotta da David. «Secchiona! Che ci fai qui?» La sua voce la fece trasalire, le fece fare uno scatto che la portò a rovesciare per terra tutto il contenuto della provetta. «Oh no!» Emily guardò prima per terra e poi il ragazzo, con un'espressione sconcertata dipinta sul volto.

«Ops!» David sentiva di aver combinato un grosso guaio.

«Ops?! E' tutto quello che riesci a dire?» Emily era furiosa. Lasciò il suo esperimento e andò da David, pronta ad urlargli sul muso. «Ma ti rendi conto che adesso mi tocca rifarlo per colpa tua? Sono qui da due ore e mezzo, ho sopportato la fine del mondo, il vento, i vetri che scoppiavano, le luci che sibilavano, tutto per elaborare questo esperimento che tu mi hai rovinato! E' per domani, se non riesco a finirlo il professore mi darà un'insufficienza!»

«Dai, Lily, calmati. Non era mia intenzione rovinarti l'esperimento.» David mise le mani avanti, indietreggiando di qualche passo. Istintivamente si voltò verso Nathan, che intanto li aveva raggiunti, ed ebbe un'idea geniale. «Più tardi ti aiuterà Nate a finirlo, così potrete dire al professore che l'avete fatto insieme.»

A quelle parole i due amici lo guardarono con un'espressione incredula.

Lui, invece, sorrise soddisfatto. Non poteva presentarsi occasione migliore per far fare pace a quei due testardi di Emily e Nathan. Dovevano tornare ad essere amici, ora più che mai, visto che entrambi erano Guardiani. Il destino li avrebbe costretti a riavvicinarsi, a parlarsi, a ricucire il loro rapporto, e lui lo avrebbe aiutato. La bocca si allargò in un sorriso determinato. Finalmente avrebbe potuto riavere indietro i suoi migliori amici.

«Io non credo sia una buona idea...» Ammise Emily, mentre un velo di tristezza le oscurava gli occhi color miele.

Nathan non rispose, voltò la testa dall'altra parte.

«Andiamo, ragazzi! Non potete continuare così!» Sospirò lui, esasperato. «Ma vi rendete conto che è da tre anni che non vi rivolgete la parola? Come avete potuto dimenticare tutte le avventure che abbiamo vissuto insieme durante questi anni?»

Udendo quelle parole, i due si scambiarono un'occhiata di sottecchi. David aveva ragione, non potevano continuare così, lasciando che l'indifferenza si portasse via quindici anni di amicizia, come un'onda che spazza vie le conchiglie, ritirandosi dal bagnasciuga. Ma erano entrambi troppo orgogliosi per ammettere di aver sbagliato, perciò si trincerarono in un silenzio ostinato.

A quel punto, vedendo che nessuno dei due avrebbe ceduto facilmente, David scosse la testa. «È inutile che facciate così, tanto stasera venite a cena da me, miei cari.» Sibilò, beffardo. Loro erano cocciuti, ma lui lo era di più. «E non accetto un "no" come risposta.» Li avvertì.

I due sospirarono rassegnati. «E va bene! Hai vinto tu!» Esclamarono all'unisono.

«Allora? Quand'è che sei tornato?» Domandò Emily, rivolta a David, mettendo fine alla situazione di disagio che si era creata.

«Oggi pomeriggio.» Disse poi mostrando un sorriso a trentadue denti.

«E non è tornato da solo.» Aggiunse Sakura guardando Emma, che l'aveva raggiunta poco prima e adesso la stava aiutando con Minami, con uno sorrisino malizioso. Emily guardò Emma con un'espressione interrogativa. Il ragazzo subito procedette con le presentazioni. «Lei è Emma, la mia ragazza.»

Emily si pietrificò. «Cosa?!»

Di fronte alla reazione dell'amica, il ragazzo scrollò le spalle sconsolato. «Ma perché tutti reagiscono così quando dico che Emma è la mia ragazza?»

«Perché tu hai il tatto di un elefante, non sei in grado di trattare con una ragazza!» Gli dissero in coro Sakura ed Emily.

Lui, per tutta risposta, si spostò dalla porta, fingendo di essersi offeso, permettendo ad Emily di notare che in braccio Nathan portava una ragazza. «Ma che le è successo?»

«E' una storia lunga...» Rispose David.

«Dai, racconta.»

Lui, Emma e Sakura guardarono Nathan. Avrebbero dovuto raccontarle tutto ciò che era accaduto? O era meglio tacere?

L'amico annuì col capo. In fondo, come aveva dimostrato il disegno, anche Emily era una di loro, era suo diritto sapere. E poi c'era quel pazzo che pur di avere quel gioco avrebbe ucciso. Emily era un Guardiano e lui avrebbe benissimo potuto prendere di mira anche lei. Era compito loro avvisarla. «Vieni con noi, ti racconteremo tutto strada facendo.» Le propose David. Emily acconsentì, e salutando Stefano, si aggregò alla compagnia. Fecero il loro ingresso nell'infermeria che il giovane aveva appena terminato il resoconto del pomeriggio, lasciando la giovane sconvolta. «Secondo voi quel tipo può tornare davvero?» Domandò lei, mentre lui aiutava Nathan a stendere la ragazza sul lettino.

«Credo di sì. Il gioco sembra interessargli davvero, visto che per averlo ha persino preso in ostaggio due ragazze innocenti. Sono sicuro che appena lo avremo trovato verrà a prenderselo.» Rispose lui. «E noi ovviamente non glielo lasceremo fare.» Concluse con determinazione.

«Però c'è una cosa che non capisco... secondo quello che mi avete raccontato questo tizio vi ha detto di essere un Guardiano... ma allora perché non collabora invece di mettersi contro di noi?»

La domanda di Emily spiazzò i ragazzi. Aveva ragione. Perché lo sconosciuto si era messo contro di loro?

«Anch'io non riesco a capire...» Intervenne Emma, che intanto stava aiutando Sakura a sollevare Minami e ad adagiarla sull'altro lettino «Non capisco perché non si voglia unire a noi, mi ha pure dato uno strano oggetto che secondo me potrebbe esserci utile.»

«Cosa? E che ti ha dato?!» Domandarono Nathan e David sorpresi. Emma infilò la mano in tasca e prese lo pseudo bottone donatole dal tipo. «Ecco, è questo.»

Nathan subito si avvicinò e glielo sfilò dalle mani. Lo fissò per alcuni secondi, poi lo alzò, tenendolo con l'indice e col pollice, per guardarlo alla luce del neon sul soffitto, uno dei pochi ancora funzionanti. Sforzando un po' la vista, riuscì a tratti a distinguere dei puntini. Anche Emily e David lo raggiunsero, per scrutarlo con attenzione. «Sembra uno specchietto.» Suggerirono i due. A quel punto, colti da un'illuminazione, i tre si guardarono con un sorriso compiaciuto. Senza neppure dirsi una parola, Emily andò a spegnere l'interruttore della luce, David estrasse il cellulare e lo passò a Nathan, il quale lo puntò sul piccolo specchio che teneva con l'altra mano. D'un tratto videro il fascio di luce riflettersi sull'oggetto e colpire il muro di fronte a loro, proiettando un'immagine che li lasciò a bocca aperta.

 
 

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Capitolo 23
*** 3.6 Capitolo 3: Profumi ***


Buon sabato a tutti :)
la scorsa settimana è stato un parto aggiornare perché per non farvi rimanere senza la nuova parte, ho dovuto fare l'aggiornamento dal cell perché non andava il wi-fi, sono stata senza per più di una settimana, meno male dopo chiamate su chiamate è venuto il tecnico e ora internet e telefono di casa vanno di nuovo, yuppiii >.< 
Detto questo, vi auguro come sempre una buona lettura :) 


 

Davanti ai loro occhi, nel buio della stanza, si proiettò la rappresentazione di una raffinata villa, circondata da una massiccia recinzione di ferro, dipinta di nero e con piccoli inserti in oro. Il cancello, in base alle proporzioni, sembrava posto ad una notevole distanza dalla dimora. Era tutto nero e aveva la forma di un albero, i cui rami si stagliavano fieri contro il cielo e sembravano squarciare l'edificio alle spalle in tanti piccoli frammenti. Una scritta, dalle lettere dorate, riluceva, in contrasto con i colori aranciati del cielo al tramonto: nonostante i rami le innalzino sempre più verso il cielo, le foglie di un albero, cadendo, ritorneranno sempre alle radici.

I ragazzi erano attoniti.

«Ma come facevate a saperlo?» Domandò Sakura, sbalordita.

«Merito delle maratone estive di Detective Conan.» Ammise David, con orgoglio.

«Q-quella...» Li interruppe Minami, ancora provata dal rapimento, attirando l'attenzione di tutti i presenti. «Quella lì è la villa dei miei nonni...»

I cinque sgranarono gli occhi per lo stupore. E adesso cosa c'entrava la famiglia di Minami con quello strano tipo?

A quel punto, Emily riaccese la luce. «Ragazzi, qui il mistero si infittisce. Non c'è dubbio.»

«Già.» David si fece meditabondo.

«Quello è un pazzo. Probabilmente vuole prendersi gioco di noi.» Sentenziò Nathan, i suoi occhi di ghiaccio erano fortemente ostili. «In ogni caso, se c'è qualcosa da scoprire, la scopriremo. Domani dovevamo accompagnare Minami all'appuntamento con l'avvocato.»

A quelle parole Emily abbassò la testa. Avrebbe tanto voluto poter andare con loro, le mancavano tutte le avventure che aveva vissuto con Nathan, David e Amanda, quando ancora erano il quartetto del Colle. Ma non poteva. Le cose erano cambiate molto da allora: Amanda era partita, Nathan si era messo con Sakura, e David si era fidanzato. Sentiva che adesso non c'era più posto per lei all'interno di quella nuova combriccola, nonostante anche lei fosse un Guardiano come loro. Di fronte a quella consapevolezza il naso cominciò a pizzicarle, mentre le lacrime salivano agli occhi, ma lei le ricacciò indietro. In fondo era stata lei ad allontanarsi da loro e non poteva biasimare nessuno se non sé stessa.

«Lily, che hai?» Le domandò David, accorato. Non aveva smesso di tenerla d'occhio da quando avevano lasciato il laboratorio di scienze.

A quel punto lei non poté far a meno di sorridere. Era da tanto che nessuno la chiamava Lily. Gli unici che la chiamavano così erano proprio David, Nathan e Amanda. Si asciugò gli occhi con la manica della camicia. «Niente, ho un po' di raffreddore.»

Lui mugugnò, non troppo convinto, guardandola di sbieco. «Nate, tu hai avvisato la tu nonna che stasera non ci sei a cena?» Chiese poi, rivolto all'amico.

«Non ancora.»

«E che aspetti?

«Va bene, rompipalle, adesso la chiamo.» Proprio quando aveva sbloccato il cellulare per effettuare la chiamata, lesse la data. Si passò una mano sul viso. «Cavolo, ragazzi, stasera devo assolutamente cenare a casa.» Affermò. «Un collega di mi pa' è venuto da Terni e starà da noi per un po'. A quanto pare deve svolgere un'indagine congiunta con i carabinieri di Lucca.» Fece una pausa, poi riprese a parlare. «Si chiama Joshua Lewis, ed era un motociclista. Viveva a Lucca fino a quattro anni fa.» A quel punto, osservò le facce stupite dei suoi amici, tutti appassionati di moto. Intercettò le domande che ognuno di loro voleva porgli e, prima che potessero farlo, rispose ad ognuna di esse. Prima guardò Sakura. «Sì, è proprio quel Joshua Lewis, quello a cui la Honda aveva offerto un contratto nella classe regina, che lui rifiutò, prima di ritirarsi dal mondo delle moto.» Poi rivolse la sua attenzione ad Emma. «Già, è il fratello di Momoka Lewis.» La vide rattristarsi parecchio, prima di inchiodare uno sguardo intransigente su David. «No, non puoi chiedergli un autografo o farti dare il pass per il prossimo gran premio del Mugello. Non dobbiamo far alcun riferimento a quella parte della sua vita. I miei si sono raccomandati che non lo facessimo, sta ancora soffrendo.» Osservò David chinare il capo, deluso.

Infine posò gli occhi, freddi come il ghiaccio, su Emily. «E sì, è venuto con sua figlia.»

La figlia venuta dal nulla. Solitamente a nessuno di loro interessava la vita privata dei motociclisti, ma lui rappresentava un'eccezione, forse perché era loro concittadino. Il mistero che ruotava attorno a quella bambina li aveva da sempre affascinati. Si diceva che perfino i genitori di Josh non sapessero che lui sarebbe diventato padre, finché non ebbe portato a casa la bambina e che nessuno conoscesse l'identità della madre della piccola.

«Quanti anni ha la bimba?» Domandò Sakura.

«Se è nata quando lui aveva poco più che diciott'anni, dovrebbe averne cinque e qualcosa.» Le rispose David, facendo mente locale.

«E' diventato padre davvero molto giovane. Secondo voi chi è la madre?» Domandò Emma, posando un fazzoletto bagnato sulla fronte della ragazza svenuta.

«Secondo me l'ha avuta dalla sua ragazza di allora, quella americana. Se non ricordo male si chiamava Alysia... Collins, credo.» Azzardò Emily.

«No, dicono che lei non fosse incinta...» La contraddisse Sakura. «Magari ha avuto una tresca con qualche altra ragazza.»

«No, altrimenti Alysia lo avrebbe lasciato, dopo un tradimento del genere. Eppure lei ha continuato a stargli accanto...» Constatò Emma.

«Ma insomma, ragazze! Vi fate i fatti vostri?!» Tuonò Nathan, facendo trasalire i presenti. «Sembrate la mi nonna con le su amiche pettegole!» Rimarcò, irritato. «Lasciate perdere la vita privata di Joshua, abbiamo altre cose a cui pensare.» Disse, indicando Minami e la sua amica con un cenno del capo, sembrava che la ragazza si stesse svegliando.

«Anita!» Minami scese dal lettino e, con le poche forze che aveva recuperato, andò ad abbracciarla. «Scusami! Mi dispiace, è stata tutta colpa mia! Se non ti avessi chiesto di aspettarmi fino alla fine del corso di cucina, adesso saresti a casa al calduccio!» Esordì tutto d'un fiato, rilasciando tutta la paura e la preoccupazione che aveva covato in corpo fino a quel momento.

Anita ricambiò affettuosamente e timidamente l'abbraccio. «Non dire sciocchezze, amica mia. Di certo non avevi previsto che ci sarebbe accaduto una cosa del genere.» La rassicurò, poi.

«A proposito, cosa vi è successo di preciso?» Domandarono Sakura ed Emma, con premura.

A quel punto Minami si staccò, consentendo ad Anita di scorgere la presenza dei cinque ragazzi. Vedendo l'espressione perplessa dell'amica, la giovane si affrettò a spiegarle la situazione. «Sono stati loro a salvarci dalle grinfie di quel maniaco.»

«Ciao Anita!» La salutò in coro il quintetto, dopodiché si presentarono uno ad uno.

«Quindi siete voi che quel tizio stava cercando.» Osservò con una punta di risentimento, facendo cadere sulle loro teste un pesante velo di sensi di colpa. «Vi stava aspettando. Ci ha rapito e ha creato tutto quel caos perché voleva voi; il vento, le luci che sibilavano, le porte che sbattevano e i vetri che si rompevano... Tutto questo è stato opera sua.»

«Già, ci ha portato nell'aula di musica di proposito, voleva che voi ci entraste. Per questo mi ha permesso di fare quella chiamata, per spingervi a tornare a scuola.» Puntualizzò Minami.

«È per via del gioco.» Affermò Sakura, stringendo i pugni per trattenere la rabbia. «Ragazze... perdonateci, è colpa nostra...» Abbassò lo sguardo, dispiaciuta, imitata dagli altri.

«Sakura, non ti devi dispiacere.» Minami le prese la mano. «Voi ci avete salvato. E questo è quello che conta.»

Lei sorrise mestamente.

«Faremo di tutto per impedire a quel tizio di avvicinarsi a voi.» Assicurarono Nathan e David, determinati.

Sakura ed Emma li fissarono allarmate. «Pensate che possa tornare a far loro del male?»

I due annuirono.

«Non è un caso che abbia deciso di prendere loro due in ostaggio. Altrimenti come lo spieghi che fra tutti gli studenti che c'erano in quel momento nella scuola, abbia preso proprio loro?» Domandò David, passandosi una mano fra i capelli biondo scuro.

«Magari loro sono state le prime che ha trovato.» Azzardò Sakura.

«Sbagliato.» Affermò Nathan, a braccia conserte. «Loro si trovavano ancora nell'aula dove si è svolto il corso di cucina, che si trova al terzo piano. Poteva benissimo prendere in ostaggio uno dei tanti studenti che si erano riuniti per studiare in gruppo, che di solito occupano le aule del primo piano.»

Minami ed Anita strabuzzarono gli occhi per lo stupore. «E voi come fate a sapere che eravamo ancora lì?»

David fece per rispondere, ma venne preceduto da Emily. «Dalle tue mani. Sono ancora sporche di cioccolato, segno che non hai avuto il tempo di lavartele alla fine della lezione. Probabilmente il tizio vi ha trovato prima che tu potessi farlo. Dico bene?» Domandò poi, sciogliendosi i capelli, con l'intento di rifarsi la coda.

Minami assentì con un cenno del capo.

«Quindi che facciamo? Non possiamo assolutamente lasciare che questo accada di nuovo.» Chiese Sakura, preoccupata. «E poi non dobbiamo dimenticare lo specchietto che ha trovato Emma, su cui è raffigurata la villa Yoshikawa. Sicuramente quel ragazzo è in qualche modo legato alla tua famiglia, Minami.»

«Che ne dite se intanto vi accompagnamo a casa? Non me la sento di lasciarvi tornare da sole, al buio.» Propose Emma, poggiando una mano sulla spalla di Anita.

«Ve ne saremmo grate.» Rispose all'unisono Anita e Minami.

A quel punto David rivolse la sua attenzione ad Emily. Ormai era un libro aperto per lui, la conosceva fin troppo bene per lasciarsi sfuggire l'ombra della solitudine che aleggiava nei suoi occhi. Per quei tre lunghi anni, in cui lui e Nathan avevano continuato a coltivare la loro amicizia, Emily era rimasta sola, forse per colpa di quel peso che portava sul cuore. Adesso poteva vederlo chiaramente, non aveva dubbi: lei stava nascondendo un segreto, una segreto che, lentamente e inesorabilmente, la stava trascinando verso il fondo, come una zavorra. Qualunque cosa fosse, lui l'avrebbe liberata da quel peso, poteva giurarci. Non sopportava di vedere i suoi amici soffrire in silenzio. Per questo le si avvicinò, mettendole un braccio attorno al collo. «Lily, vieni anche tu? Così poi facciamo la strada del ritorno tutti assieme.» Le propose, distendendo la bocca in un sorriso smagliante e rassicurante.

Gli occhi di Emily si illuminarono e il cuore, per un attimo, si riscaldò per la contentezza, allontanando momentaneamente le sue preoccupazioni.
«Certo.» 

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Capitolo 24
*** 3.7 Capitolo 3: Profumi. ***


I tried to carry you

And make you whole

But it was never enough

I must go

Who is gonna save you

When I'm gone?

And who'll watch over you

When I'm gone?

(Da Watch Over You, Alter Bridge)

 

Stazione di Lucca, ore 19.40.

Era seduto su una panchina, attendendo pazientemente l'arrivo del treno che lo avrebbe portato a Ponte a Moriano. Sulle gambe teneva la custodia contenente la chitarra che gli era arrivata per posta. Sospirò. «Ma perché diavolo ho deciso di venire qua?!» Jared si batté una mano sulla fronte, maledicendosi. Aveva lasciato il suo manager da solo a pochi giorni dall'apertura del tour, rischiando di mandare tutto a monte. Ma doveva farlo, per trovare Sakura. Ormai era diventata la sua missione personale. Anche se sapeva benissimo che sarebbe andato incontro al rischio di rivedere anche lei, Margareth. Abbandonò la testa all'indietro, nel panico. Con che coraggio avrebbe potuto guardarla negli occhi, in quegli occhi verdi e maledettamente belli? Lui l'aveva lasciata. L'aveva lasciata quando lei aveva più bisogno di lui, nel momento in cui lei era più fragile. Ci aveva provato, aveva tentato di starle accanto, ma non ci era riuscito. D'altronde come avrebbe potuto riuscirci, quando anche lui era a pezzi? Se fossero rimasti insieme si sarebbero soffocati a vicenda, si sarebbero trascinati sul fondo, invece di salvarsi l'un l'altra. In fondo, l'aveva fatto per il bene di entrambi.

Ma non c'era giorno che passasse senza che si chiedesse se lei fosse finalmente riuscita a trovare qualcuno che vegliasse su di lei, che la salvasse dalle sue paure, come aveva provato a fare lui fino ad allora. Inspirò a fondo, ma nel momento in cui avrebbe dovuto espellere l'aria, sentì un bruciore sulla parte destra dell'addome, seguita da un formicolio. Si raddrizzò, sgranando gli occhi. Tirò giù la zip della giacca di pelle e si alzò leggermente un lembo della maglia per controllare cosa fosse. Scorse il simbolo dei Guardiani del Cosmo. Non ci poteva credere: qualcuno, dopo tredici anni, aveva riattivato il gioco.

Stazione di Pisa Centrale, ore 19.40.

«Avvisiamo i gentili passeggeri che il treno proveniente da Firenze e diretto ad Aulla-Lunigiana delle ore 19.40 è in arrivo al binario uno.»

Il treno che li aveva portati a Pisa da Firenze, li avrebbe condotti prima a Lucca e poi a Ponte a Moriano, la frazione in cui era ubicata la dimora degli Yoshikawa. Erano giunti a Firenze da Oslo due giorni prima e, poiché il loro padre aveva spiegato loro che molti dei guardiani sarebbero arrivati a Lucca l'11 dicembre, decisero che nel frattempo avrebbero potuto soggiornare nel capoluogo toscano.

Erano a bordo del convoglio almeno da tre quarti d'ora. Luke continuava a rigirare fra le mani alcune delle foto dei ragazzi che lui e Margareth avrebbero dovuto trovare e tenere d'occhio. Era nervoso. Aveva un brutto presentimento riguardo a quella missione, sentiva sul collo il soffio di quel terribile presagio, sentiva che tutti loro si stavano cacciando in qualcosa nettamente più grande di loro. E poi c'era Margareth. La vedeva così forte, determinata, ma sapeva che dentro di lei c'era un mare in tempesta. Spostò lo sguardo sulla sorella, seduta accanto a lui, vicino al finestrino. La vide accarezzare pensierosa le tre foto che aveva appoggiato sul tavolo, quelle di Sakura Stevenson, Magnolia Collins e Jared Zener. Le labbra le si incresparono in un smorfia di tristezza. Aveva bisogno di piangere, ma si stava trattenendo, lo si vedeva chiaramente. Le si avvicinò, baciandole il capo. «Meg...»

«Cosa succederà quando rivedrò Magnolia? E Sakura?» La voce tremava, frustrata. «E Jerry...» Pronunciare quel nome le provocò una fitta al cuore, un pizzicorio al naso, e sentì gli occhi inumidirsi. Non poteva dimenticare le parole che lui le aveva urlato quella volta, l'ultima volta che lo aveva visto:

«Vattene! Non farti più vedere! Sei solo un peso per me, una zavorra, un ostacolo alla mia carriera! Devo liberarmi di te per poter andare avanti con la mia vita!»

Strinse i pugni, così forte da far impallidire le nocche. «Non dicevi sul serio quella volta, vero?» Chiese con voce amareggiata. Ancora si ricordava il suo disperato tentativo di fargli rimangiare ciò che le aveva detto, abbracciandolo con forza, ma lui si era staccato da lei in malo modo e se ne era andato, lasciandola sola. Da allora erano passati due anni, aveva saputo che era riuscito a diventare un cantante e ad incidere un disco e che mancavano pochi giorni all'apertura del suo tour. Alla fine era riuscito a realizzare il suo sogno, senza di lei. Forse era stata davvero un peso per lui. Ma, nonostante tutto, nonostante le parole che le aveva rivolto, aveva provato a rintracciarlo. Ci aveva sperato, aveva sperato con tutto il cuore di poterlo rivedere, di potergli parlare, di poterlo amare ancora.

Stanco di vederla affranta, Luke afferrò la foto di Jared e, in un impeto di rabbia, la strappò con foga, riducendola ad un mucchietto di coriandoli di carta.

«Devi dimenticarti di quel bastardo, capito?!» Se l'avesse avuto sotto mano lo avrebbe conciato per le feste, il suo migliore amico. Anzi, ex miglior amico. Lui e Jared erano sempre stati come l'acqua e il fuoco, il giorno e la notte, il nero e il bianco, opposti in tutto, ma indissolubilmente legati. Si erano conosciuti quando ancora erano molto piccoli, quando lui, Margareth, il loro fratello Elias e i loro genitori passavano le vacanze in Alto Adige, nella casa di proprietà della famiglia della loro madre, la famiglia Asper-Callegari. Ma non poteva fargliela passare liscia, non dopo tutto il male che aveva procurato a sua sorella. Nessuno poteva permettersi di trattarla così. «Gliela faccio vedere io, a quel fallito!» Esclamò, attirando l'attenzione degli altri passeggeri.

«Smettila.» Margareth, ancora scura in volto, lo tirò per la giacca, costringendolo a sedersi. «Tu non farai proprio niente. Questi non sono affari che ti riguardano, è una cosa fra me e Jared.» Una lacrima sfuggì al suo controllo, rigandole il volto. Questa volta non lo avrebbe fatto scappare. Non un'altra volta.

All'improvviso sentì un bruciore, proprio sotto la clavicola sinistra, seguita da un formicolio insistente. Incredula, si portò la mano al petto, proprio sul punto che le dava fastidio. «Luke...» Sussurrò, agitata.

«Hanno attivato il gioco...» Affermò lui, con gli occhi sbarrati, tastandosi la schiena, a livello della colonna lombare.

Il conto alla rovescia era iniziato, entro poche ore i Guardiani si sarebbero finalmente riuniti.

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Capitolo 25
*** 4.1 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Buon pomeriggio a tutti! Eccoci qui con la prima parte del 4° capitolo :) come sempre, buona lettura! 

 

Estate 1996, Trentino Alto Adige.

Finalmente anche l'estate era arrivata e, come tutti gli anni, Luke e la sua famiglia erano arrivati in Trentino per trascorrere le vacanze. Su quelle montagne la calura di metà luglio era mitigata dalla brezza che gentile e soave muoveva i sottili e brillanti fili d'erba e spargeva nell'aria il profumo dei fiori che trapuntavano allegramente la lussureggiante vallata che ospitava la loro villetta. I cinque membri della famiglia Skarsgård respirarono estasiati, a pieni polmoni, l'atmosfera magica che li avvolgeva, lasciando che le pigre spire del vento scompigliassero i loro capelli biondissimi, mentre sul volto della piccola Margareth, di appena cinque anni, si dipinse un'espressione di puro stupore. «Mamma! Papà! Guardate quanti fiori!» Esclamò cominciando a saltare euforica, intorno ai genitori. «Ma si chiamano tutti come me?» Domandò indicandone alcuni vicino ai suoi piedi. A quel punto, Fredrik e Heidi si guardarono, sorridendosi, per poi accucciarsi accanto alla bambina. «Ma no, tesoro, solo quelli con i petali bianchi e sottili si chiamano come te, "margherita". Gli altri hanno nomi diversi» Spiegò suo padre, mostrandole un fiore con quattro petali viola. «Questo, per esempio, si chiama "dafne".»

«Davvero? Come la mia amica dell'asilo! E ci sono anche fiori che si chiamano Luke ed Elias?» Chiese, riferendosi ai due fratelli maggiori, a qualche passo più avanti di loro.

«Che schifo! Se mi chiamo come un fiore voglio cambiare nome!» Sputò acido un Luke dodicenne. «Vi immaginate se lo venissero a sapere i miei compagni di scuola? Mi prenderebbero in giro per l'eternità.» Affermò calciando un sassolino lontano. «E Jerry? Già me lo immagino che si sbellica dalle risate.»

«Qualcuno mi ha chiamato, per caso?» Una voce energica li colse alle spalle, costringendo tutta la famiglia a voltarsi.

Un bambino, dai capelli corvini e dagli occhi di un'inconfondibile sfumatura viola, si ergeva fiero sul sellino di una sfavillante mountain bike.

«Jerry!» Esclamarono all'unisono Margareth, Luke ed Elias, andandogli incontro.

«Ragazzi! Finalmente siete qui! È da giorni che aspetto il vostro arrivo.»

«È colpa di mamma e papà che hanno dovuto lavorare fino a ieri!» Puntualizzò Luke.

A quel punto Jared rivolse un'occhiata imbarazzata a Fredrik e Heidi.

«Scusaci, Jerry.» Gli sorrise Heidi. «Però, per farci perdonare, questa volta staremo qui con te per tre settimane, invece che due.» Aggiunse, sapendo quanto quella settimana in più significasse per il bambino.

«Davvero?» Il volto di Jared s'illuminò di felicità. «Ma è magnifico!» Poi, indicando la bicicletta su cui era seduto, aggiunse: «Così possiamo andare in bici tutti giorni, tutti insieme. Non è vero, fiorellino?» Insinuò, scoccando un'occhiata beffarda all'amico.

Per un attimo Luke lo fissò incredulo, come se non avesse capito. Poi la reazione non tardò ad arrivare. «Ehi, tu! Brutto bastardo infame che non sei altro! Come ti permetti di chiamarmi così?!» Sbraitò, afferrandolo per il colletto della maglietta.

«Non volevi avere anche tu il nome di un fiore?» Domandò Jared, con un tono fintamente ingenuo.

«Lo vedi che non capisci nulla?!» Luke strinse un pugno, minaccioso. «Ho detto che se avessi avuto il nome di un fiore avrei sicuramente voluto cambiarlo.»

«Ahh, se è così devo aver capito male...Scusami ancora, fiorellino.»

«Ehi, ma allora sei proprio duro, eh!» Fece per afferrarlo per un braccio, ma lui sgusciò dalla sua presa.

«Prendimi, se ci riesci!» E così dicendo, si allontanò, con un sorrisetto divertito sulle labbra.

Di fronte a quella scena Fredrik e Heidi scossero il capo, esasperati. Quei due erano come cane e gatto, non facevano che stuzzicarsi a vicenda. Ma sapevano che entrambi erano molto contenti di rivedersi, come dimostravano gli sforzi che facevano per trattenere le lacrime quando arrivava il momento di salutarsi, alla fine delle vacanze.

«Te la farò pagare per avermi chiamato fiorellino!» Ribadì Luke, correndogli dietro.

«Ehi Luke, Jerry! Aspettatemi!» Urlò Margareth, lasciando la mano del padre, per raggiungerli, mentre Elias continuava a camminare qualche passo davanti ai genitori, con la sua inseparabile macchinina rossa fra le mani.

«Che male c'è a chiamarsi come un fiore?» Domandò il piccolo, ragionando a voce alta, rigirando la sua piccola porsche 911. «A me piacerebbe...»

«Hai ragione, amore mio, non c'è niente di male a chiamarsi come un fiore.» Heidi lo cinse per le spalle e gli rivolse un sorriso dolce e rassicurante. Elias, di sei anni, le sorrise di rimando, mentre gli occhi s'incastonavano in quelli della madre, verdi acqua come i suoi.

Risalirono tutta la vallata, in cima alla quale era situato un albergo a conduzione familiare, l'Hotel Imperiale, gestito dalla famiglia e dai parenti di Jared, gli Zener. Da lassù la vista era mozzafiato: in fondo, ai piedi della vallata, si poteva ammirare la villetta degli Skarsgaard, a pochi metri da un bellissimo lago, le cui acque cristalline erano lambite da una folta foresta di abeti.

Mentre erano intenti ad ammirare il panorama, gli Skarsgaard vennero raggiunti da Paolo e Lucia, i genitori di Jared.

«Fredrik, Heidi! Bentornati!» Esordirono abbracciandoli. Poi, scrutando incuriositi Luke, Elias e Margareth, affermarono: «Ma guarda qui che bei giovanotti che abbiamo! E che bella signorina!»

I tre bambini sorrisero, contenti.

«Siete giunti proprio in tempo per partecipare alla nostra "Colazione sull'erba", vi va di unirvi a noi?» Propose Paolo.

«Colazione sull'erba?» Domandò Fredrik, perplesso, lisciandosi il pizzetto biondo. «Di che si tratta?»

«Abbiamo pensato di organizzare un brunch in giardino, sull'erba, a mo' di picnic, con l'intento di ricreare l'atmosfera rilassata e d'altri tempi dei dipinti impressionisti, prendendo come riferimento le opere di Renoir e Monet.» Spiegò Lucia, aggiustandosi il grembiule da cuoca che stava indossando.

A quel punto il volto di Heidi si distese in un meraviglioso sorriso emozionato.

«Ma è un'idea splendida!» Molte volte aveva sognato di trovarsi avvolta dal così gioviale e felice immortalata nei quadri dei pittori francesi, che lei aveva avuto la fortuna di ammirare nei più importanti musei del mondo, quando ancora faceva la modella.

«Ovviamente ci sarà un dress code specifico.» Puntualizzò Paolo. «Siamo riusciti a recuperare più di duecento abiti tipici della seconda metà dell'800, grazie all'aiuto della compagnia di teatro locale.»

«Così i nostri ospiti potranno indossarli e tornare a quell'epoca.» Intervenì Lucia. «Che ne dite, ragazzi? Volete provarli anche voi?» Domandò, rivolta ai bambini.

Luke, Elias e Margareth annuirono timidamente, non sapendo bene cosa aspettarsi.

«Allora andiamo dentro a prepararci!» Esclamò Paolo, allargando le braccia e invitandoli ad entrare nella hall dell'albergo. Oltrepassarono l'enorme fontana centrale del cortile, circondato da giardini ben curati, disposti in forme geometriche armoniose, e si diressero all'ingresso nell'imponente struttura, risalente alla seconda metà dell'ottocento, che si chiudeva a ferro di cavallo attorno al cortile. Il rosa tenue delle pareti contribuiva a rendere il luogo magico, mentre il rosso delle rifiniture e delle imposte alle porte e alle finestre davano un tocco deciso all'ambiente. All'interno, la spaziosa hall riprendeva i colori dell'esterno: il rosa, il rosso e il bianco. L'arredamento era volutamente essenziale, in modo che non distogliesse l'attenzione dalla bellezza della natura circostante. I soffitti alti e le grandi vetrate, incorniciate elaborati fregi floreali, garantivano un'illuminazione naturale, mentre le poltrone in velluto rosa e rosso ravvivavano l'atmosfera. Il bancone circolare della reception, posizionato al centro alla sala, in legno chiaro, rendeva tutto molto romantico e rustico, assieme alle piante e ai fiori dai profumi inebrianti, posizionati in maniera strategica.

Paolo e Lucia si arrestarono all'altezza del bancone, per rivolgersi al receptionist, loro nipote. «Ehi, Giacomo, potresti accompagnare i signori a scegliere i vestiti da indossare per la "Colazione sull'erba"?»

«Ma certo zii, vado subito.» Giacomo abbandonò la postazione e attraversò l'arco che dava l'accesso agli altri ambienti dell'hotel. «Prego, seguitemi.»

«Noi andiamo, abbiamo ancora molto da fare. Vi aspettiamo fra un'ora in giardino, per dare inizio alla festa. Mi raccomando, siate puntuali.» Paolo strizzò l'occhio e si allontanò, diretto alle cucine. Lucia, invece, indugiò un attimo. «Jerry, vai con loro e vestiti anche tu.»

Il bambino annuì, felice. Di solito non amava partecipare agli eventi organizzati dalla sua famiglia, non gli piacevano: in quelle occasioni erano tutti indaffarati e stressati e lui non sopportava il clima teso che si veniva a creare. Perciò, il più delle volte, si allontanava dal trambusto e si ritrovava a giocare da solo, dimenticato da tutti. Questa volta, però, era diverso, perché con lui c'erano Luke, Elias e Margareth. La loro presenza era in grado di rassicurarlo, di racchiuderlo in una bolla di spensieratezza, e alleggerire il suo cuore. A quel pensiero, sentì la bocca allargarsi in un sorriso pieno di gioia.

«Andiamo! Venite da questa parte.» Esclamò, con entusiasmo, superando Giacomo e guidando gli ospiti verso la sala da pranzo, che, per l'occasione, era stata adibita a camerino, in cui era stati sistemati tutti gli abiti.

Di fronte a tutti quei colori sgargianti, a pizzi, merletti, gonne ampie ed elaborate crinoline, Heidi e Margareth vennero travolte dall'eccitazione e subito iniziarono a spulciare l'abbondante campionario, sotto gli occhi attoniti di Jared, Giacomo e dei maschi della famiglia Skarsgård.

Dopo un'ora di continui cambi d'abito e di battibecchi con Luke, che si rifiutava di vestirsi come un damerino dell'800, la famiglia era pronta per partecipare all'evento: Fredrik aveva indossato un frac smanicato, sopra ad una camicia di cotone, e un paio di pantaloni aderenti, completati da un paio di stivali e un cilindro in testa, mentre Elias, Luke e Jared, al posto dei pantaloni lunghi, vestivano un paio di pantaloncini corti. Heidi, invece, sfoggiava un abito bianco, ampio e riccamente elaborato, simile a quello di Margareth, che pareva la sua versione in miniatura, se non per il fatto che il vestito della piccola di casa arrivasse poco al di sopra del ginocchio,mentre quello della madre toccava terra.

Senza attendere ulteriormente si diressero nell'immenso giardino sul retro dell'albergo, dove vennero travolti dall'aria di festa che vi si poteva respirare. Sgranarono gli occhi per lo stupore e, per un momento, ebbero il dubbio di aver effettuato un viaggio nel tempo.

«In che anno siamo...?»

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Capitolo 26
*** 4.2 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


When the lights go out and we open our eyes,

Out there in the silence, I'll be gone, I'll be gone

Let the sun fade out and another one rise

Climbing through tomorrow, I'll be gone, I'll be gone

(Da I'll Be Gone, Linkin Park)

 

 

Davanti a loro, il giardino sul retro dell'Hotel Imperiale, racchiuso in una sorta di radura da un fitto boschetto che ne segnava i limiti, era stato allestito a dovere, con tanto di gazebo in ferro battuto, verniciato di bianco, situato vicino all'entrata dell'albergo e sotto cui si era posizionata la banda incaricata della musica. Gli invitati, tutti vestiti di tutto punto, con abiti dai colori vivaci e dai ricami svolazzanti, completati da graziosi cappelli, erano in piedi, impegnati a scambiare quattro chiacchiere fra di loro, mentre i più piccoli correvano allegri, sfrecciando fra i larghi teli colorati adagiati sul manto erboso. Il clima era reso più suggestivo dai raggi del sole che, filtrando attraverso le chiome degli alberi, creavano strani giochi di luce, proiettando guizzanti macchie luminose sul terreno.

«Che meraviglia!» Esclamò affascinata Heidi.

Subito vennero raggiunti da Paolo. «Eccovi! Mancavate solo voi!» Poi aumentando il volume della voce annunciò: «Signore e signori, che la festa abbia inizio! Ogni famiglia, ospite della nostra struttura, ha il proprio telo, sui cui possono accomodarsi per la consumazione del pasto. Buon appetito!»

Dopodiché, rivolto a Fredrik bisbigliò: «Il vostro telo è quello blu, laggiù in fondo.» Indicò dritto davanti a lui. «Aspettateci lì, che vi portiamo quella cosa...» Ordinò, con fare misterioso. «Jared, tu vieni con me, ho bisogno del tuo aiuto.»

«Ai tuoi comandi, capitano!» Esclamò, facendo il saluto militare. «Torno subito, ragazzi.» Assicurò, seguendo il padre.

Fredrik poggiò una mano sul capo di Luke. «Vai anche tu con loro.»

Il bambino guardò il padre e l'espressione che scorse sul suo volto sembrava dirgli: sai cosa devi fare. A quel punto assentì deciso. «Jerry, vengo anch'io, aspettami.»

L'amico si voltò e gli fece cenno di sbrigarsi. «Muoviti, fiorellino!»

Luke sbuffò irritato e, a pugni serrati, raggiunse Jared a passo di carica, per poi mollargli uno scappellotto sulla nuca.

«Ahi!»

«Così impari!» Commentò, indispettito.

«Ragazzi, smettetela di litigare!» Intimò Paolo, con tono severo.

I due si scambiarono uno sguardo in cagnesco, prima di raggiungere il proprietario dell'hotel.

Fredrik, Heidi, Margareth ed Elias, invece, iniziarono a servirsi, riempiendo i piatti al tavolo riccamente imbandito del buffet.

«Che delizia, la cucina italiana!» Di fronte a tutto quel ben di Dio, Fredrik sentiva già l'acquolina in bocca. Senza pensarci troppo mise nel piatto un po' di tutto, sia dolci che piatti salati.

«E voi, bambini, cosa volete mangiare?»

Elias e Margareth si misero in punta di piedi, per osservare meglio le varie cibarie.

«Mmm... Io voglio il riso freddo, sembra buono.» Rispose Elias, meditabondo, continuando a torturare la macchinina che aveva fra le mani.

«Io, invece...» Margareth scrutò attentamente ogni pietanza sul tavolo, per poi soffermarsi su una teglia contenente lasagne. «Mammina, cos'è quella cosa?»

«Quelle sono lasagne, un piatto tipico italiano. Vedrai, ti piaceranno molto, tesoro.»

«Allora le voglio assaggiare!» Esclamò entusiasta.

Heidi e Fredrik riempirono i propri piatti e quelli dei figli, si diressero all'angolino riservato a loro e si sistemarono sul telo blu. Cominciarono a consumare il loro pasto, mentre aspettavano il ritorno di Paolo, Jared e Luke. Attesero una buona mezz'oretta, finché i tre non riapparvero. Trasportando una torta. In cima ad essa svettava una Porsche 911 in tre dimensioni, rossa. Elias era sbalordito, gli occhi luccicavano per la contentezza. «Quella è per me?!» Domandò, scattando in piedi.

«Per chi altro potrebbe essere un dolce del genere?» Commentò, quasi sarcastico, il padre.

«Ma non è il mio compleanno!» Osservò, insospettito.

«È vero, tesoro.» Concordò la madre, con gli occhi lucidi, ancora seduta sul telo. «Ma è un giorno altrettanto importante: oggi, esattamente sei anni fa, io e il tuo papà abbiamo potuto portarti a casa dopo tre lunghi mesi all'ospedale.» Quel giorno sarebbe rimasto impresso nella sua mente per sempre. Il suo bambino era nato prematuro, a ventisei settimane, e il personale ospedaliero aveva fatto di tutto per tenerlo in vita, trasportandolo d'urgenza dal piccolo ospedale di provincia al centro universitario di Oslo per poterlo mettere in incubatrice, ma durante il viaggio il neonato era andato incontro ad un danno ipossico-ischemico cerebrale, che fortunatamente non aveva avuto gravi conseguenze. Lo avevano tenuto in unità di terapia intensiva neonatale, all'interno di una incubatrice, per tre mesi, cioè per il lasso di tempo che mancava per il completamento della gestazione. Era stata dura vederlo intrappolato in quell'intricato groviglio di fili e tubi, quasi più grandi di lui. E soprattutto, era stata dura non poterlo abbracciare. Dover reprimere quell'istinto materno che le gridava di stringerlo e proteggere quello scricciolo così piccolo e indifeso, fornendogli tutta la forza di cui aveva bisogno, così come aveva fatto per i sei mesi in cui l'aveva l'aveva cresciuto nel suo grembo, fornendogli tutti i nutrienti di cui necessitava.

Per tre lunghi mesi non aveva potuto far altro che osservarlo speranzosa al di là di un freddo vetro. Per tre mesi aveva covato quell'ansia viscerale, quella paura folle di non aver poter provare la gioia di abbracciare il suo cucciolo. Fino al 12 luglio 1990. Il giorno in cui il dottor Stevenson, il primario di neonatologia, aveva comunicato loro che il bambino stava bene e che avrebbero potuto portarlo a casa e, cosa più importante, che sarebbe cresciuto come un bambino normale, salvo per un lieve deficit motorio, che col tempo sarebbe sicuramente diventato impercettibile. Quello fu il giorno in cui la speranza era tornata ad ardere nell'animo di Heidi, Fredrik e del piccolo Luke, che a quel tempo aveva appena sei anni. Per questo doveva essere ricordato.

Rivolse al figlio uno sguardo pieno di amore. «Quel giorno è stato uno dei più belli della mia vita, amore mio.» Ammise, con voce tremante per la commozione, allungando il braccio per stringere la mano di Elias nella sua.

Attesero che Paolo, che portava il dolce, un pan di spagna al coccolato ripieno di crema pasticciera e gocce di cioccolato, l'appoggiasse sul telo.

Elias spalancò la bocca per lo stupore. «La macchina sembra vera!» Esclamò, affascinato.

«È merito di Jared se è venuta così bene! Si è impegnato molto affinché venisse perfetta, aggiustando tutto ciò che secondo lui non andava.» Spiegò, Paolo, cingendo le spalle del figlio con un braccio e avvicinandolo a sé.

«Davvero?» Chiese Elias sbalordito. «Grazie Jerry!» Esclamò, poi, abbracciandolo.

«Figurati! È questo che si fa per gli amici, no?» Domandò imbarazzato.

Elias annuì, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

«Ehi, e noi non ci ringrazi?» Insinuò Luke, fingendo di essere contrariato. «La mamma e il papà hanno avuto l'idea di farti fare una torta, ma sono stato io a proporre di metterci sopra la Porsche, visto che è la tua macchina preferita, mentre Margareth ha deciso i gusti.

«Mamma... papà... Luke... Maggie...» Balbettò emozionato e incredulo. Tutto quell'amore gli era arrivato al cuore, riscaldandolo. «Vi voglio bene!» Aggiunse.

A quel punto Margareth si fiondò addosso al fratello. «Ti voglio bene anch'io, fratellone piccolo!»

Quelle parole, la piccola le aveva dette con il cuore. Voleva veramente bene a suo fratello perché era l'unico che giocava con lei alla casa con le bambole e beveva con lei il té delle cinque in compagnia dei suoi pupazzi. Luke, il suo fratellone grande, si rifiutava sempre di accontentarla. Ma, per fortuna, poteva contare sempre sul suo fratellone piccolo.

Anche Heidi e Fredrik si alzarono, aggiungendosi all'abbraccio fra i due figli minori. «Oh, anche noi te ne vogliamo, e non sai quanto!» Sorrisero.

Jared lanciò un'occhiata incuriosita all'amico, che ancora non si era avvicinato ad Elias. «Fiorellino, che hai?»

Lui scosse il capo. «Niente.» Rispose, ma il suo sguardo diceva ben altro. Nei suoi occhi si poteva scorgere una luce fiera, l'orgoglio e l'ammirazione che provava per il fratellino. Sua mamma gli aveva raccontato che, mentre Elias era ancora all'ospedale, fu proprio lui a tenere viva la fiamma della speranza nel cuore dei genitori: un giorno, quando era andato a trovare la mamma all'ospedale, il suo papà lo aveva portato a vedere il suo fratellino e, osservando tutti quei bambini rinchiusi in quelle scatole di vetro, non poté far a meno di notare che rispetto agli altri Elias era più vivace, faceva piccoli movimenti, come stringere il pugni, muovere le braccia e le gambe, movimenti piccoli e limitati da tutti i fili a cui era legato il corpo. «Secondo me il fratellino non ci vuole stare in quella scatola, non vede l'ora di venire a casa con noi.»

Fredrik lo guardò con un'espressione interrogativa sul volto. «Come fai a dirlo?

«Gli altri stanno tutti fermi, mentre lui si muove, come se dicesse: voglio uscire di qui.»

E alla fine ci era riuscito davvero ad uscire da lì. Perché lui era un guerriero, di questo non poteva che esserne certo.

«Fiorellino, perché non vai da Elias anche tu?» Gli domandò Jared, che gli si era avvicinato.

«Vieni anche tu.» Affermò Luke, cogliendolo di sorpresa.

« E io che c'entro?» Domandò, allibito.

«Tu sei uno di famiglia ormai...» Aggiunse lui, biascicando le parole, come se si vergognasse ad ammetterlo.

L'affermazione dell'amico spiazzò Jared, ma lo rese immensamente felice. Perciò, senza farsi pregare ulteriormente, si precipitò ad abbracciare Elias, imitato da Luke. Il piccolo Elias venne avvolto dall'affetto dei familiari e all'interno di quel grande abbraccio si sentiva al sicuro, protetto da qualsiasi male.

Dopo una manciata di minuti, Paolo si schiarì la voce richiamando l'attenzione dei presenti. «Mi dispiace mettere fine a questo toccante momento, ma dovremmo tagliare la torta. Chi vuole farlo?»

«Io!» Esclamarono all'unisono Luke e Jared, che tornarono a fissarsi in maniera ostile.

«Io sono il più grande, perciò tocca a me!» Argomentò Luke.

«Ma se abbiamo la stessa età!» Ribatté Jared, seccato.

«Sì, ma io sono nato l' 11 febbraio, mentre tu sei nato il 13 novembre, quindi sono ben nove mesi più grande di te.»

Jared incrociò le braccia al petto, infastidito. «Vorrai dire che sei più vecchio di me...» Di fronte all'evidenza, non gli restava che prenderlo in giro. «Fiorellino rinsecchito!»

Luke stava per tirargli un cazzotto, ma venne fermato dalle voci autoritarie di Paolo e Fredrik. «Ragazzi, basta! Potete non litigare per almeno dieci minuti di fila?»

I due annuirono, desolati. «Scusate.»

«Adesso, per punizione, sarò io a tagliare il dolce.» Affermò Paolo, brandendo il coltello. Dopodiché, con gesti veloci, decisi e precisi, divise la torta in otto parti e, aiutato da Jared, le adagiò all'interno di piattini di carta dorati, per poi servirli ad ognuno degli Skarsgård.

«Ecco qui.» Affermò soddisfatto, dopo aver passato l'ultimo piattino a Jared. «Spero che il dolce sia di vostro gradimento. Lucia ci ha messo il cuore nel prepararlo.»

«Grazie mille, Paolo. E ringrazia anche Lucia.» Disse Fredrik, infilzando il dolce con la forchettina di plastica. «Siete stati molto gentili a fare tutto questo per noi.»

«Per noi è stato un piacere omaggiare un angioletto come il piccolo Elias.» Rispose Paolo, strizzando l'occhio al bambino.

A quel punto una signora richiamò l'attenzione dell'uomo. «Adesso, se volete scusarmi, devo tornare al mio lavoro. Gli ospiti hanno bisogno di me.» Dopodiché si allontanò sorridendo. «Se avete bisogno di qualcosa, non esitate a chiamarmi!» Si raccomandò.

La famiglia Skargård lo osservò immergersi nella folla festante, mentre erano tutti pronti a gustarsi la torta. Appena ne assaggiarono un pezzo, rimasero piacevolmente sorpresi dalla sua bontà.

«È squisito!» Esclamarono in coro.

«Il pan di spagna si scioglie in bocca, non è per niente secco.» Osservò Heidi estasiata.

«Questo perché la mamma ha usato una bagna all'aroma di rum.» Puntualizzò Jared. Per una volta aveva deciso di partecipare attivamente all'organizzazione di un evento all'albergo e aveva aiutato la madre a preparare la torta, seguendo ogni passaggio nei minimi dettagli.

La torta venne spazzolata in pochissimo tempo, rimasero solo le due fette riservate a Paolo e Lucia. Soddisfatti della vorace abbuffata, i sei si lasciarono cadere indietro sull'enorme telo blu, sazi.

«Sto scoppiando!» Luke si sbottonò i pantaloni, sospirando rumorosamente.

«A questo punto proporrei di scendere a valle rotolando. Che dite?» Scherzò Fredrik. «Io non riesco proprio ad alzarmi in queste condizioni.» Confessò, suscitando le risate dei presenti.

Passarono il quarto d'ora seguente con il naso rivolto all'insù, contemplando in silenzio il placido movimento delle bianche nuvole nel cielo azzurro. Poi, arrivò il momento dei balli. La banda cominciò a suonare una musica più allegra, invitando implicitamente gli ospiti a dare inizio alle danze.

Heidi si raddrizzò all'istante e subito si mise in piedi. «Su, alzatevi, andiamo a ballare. Quale modo migliore per smaltire tutte le calorie che abbiamo assunto con la torta?» Dopodiché passò all'azione, strattonando il marito, i figli e anche Jared, riluttanti al pensiero di doversi muovere, per costringerli a seguirla. Dopo poco erano già tutti in postazione: chi voleva danzare si era messo in cerchio, in modo che ci fosse un'alternanza fra maschio e femmina. Si presero per mano e cominciarono a muovere quattro passi verso destra, poi le femmine presero il maschio alla loro destra a braccetto e si scambiarono la posizione e così via fino alla fine della melodia.

Al momento del cambio della musica e, quindi, dello schema di movimento, si creò un certo caos. In quel momento Elias si tastò le tasche dei pantaloni e si rese conto di non avere più con sé la sua adorata macchinina. Lanciò un'occhiata allarmata al telo su cui si era seduto e, fortunatamente, era lì. Si fece strada fra la folla e raggiunse il punto in cui era caduta la sua Porsche, per poi chinarsi a raccoglierla.

E fu allora che accadde. All'improvviso uno spiffero di aria gelida colpì gli Skarsgård e Jared. Lunghi brividi scivolarono lungo le loro schiene, lasciando dietro di sé una scia di inquietante terrore. Si bloccarono, in preda a un panico soffocante. «Dov'è Elias?» Domandarono allarmati. Si guardarono attorno, freneticamente. Di colpo tutti quegli abiti elaborati, quelle facce sorridenti, quegli strani giochi di luce, si trasformarono in un'immagine distorta, terrificante. Ogni cosa si era trasformata in un incubo, che li separava dal loro adorato Elias.

«Elias! Dov'è il mio bambino?» Domandò Heidi, sconvolta, mentre spintonava gli altri invitati, cercando di crearsi in varco.

«Elias!!» Gridarono Fredrik, Luke, Margareth e Jared.

A fatica riuscirono a raggiungere punto in cui avevano mangiato, di fronte al quale si fermarono, attoniti. Sul telo c'era ancora la Porsche 911 rossa, ribaltata. Accanto c'era un fazzoletto di stoffa, bianco, pulito. Che non apparteneva a nessuno di loro. E su cui erano state ricamate due iniziali: R.S.

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Capitolo 27
*** 4.3 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Buon sabato a tutti! Volevo avvisarvi che siamo quasi in pari con le parti pubblicate dall'autrice su Wattpad, tranquilli ci sarà ancora l'aggiornamento regolare di sabato (salvo miei imprevisti) ancora per qualche altra settimana, mentre in seguito dovremo aspettare fin quando lei non aggiorna.
Come sempre vi auguro buona lettura :) 
 
 
 
Luke si svegliò di soprassalto, scuotendo anche Margareth che si era appisolata sulla sua spalla. Era madido di sudore, come tutte le volte che tornava a quel terribile giorno di quella estate lontana. Guardò fuori da finestrino, spaesato. Erano arrivati alla stazione di Lucca. Il treno sarebbe ripartito alla volta di Aulla-Lunigiana dopo un quarto d'ora.

Margareth lo fissò con aria assonnata. «Che hai, Luke?»

Lui le rivolse uno sguardo perso e, in quegli occhi grigi, Margareth rivide le immagini di quel giorno funesto, in cui la loro famiglia venne letteralmente distrutta. «Hai sognato Elias un'altra volta?» Gli domandò.

Lui, annuì, ancora sconvolto. Come poteva evitarlo? Quei fatti avevano segnato per sempre la sua esistenza e quella dei suoi cari. Il loro adorato Elias era sparito, scomparso nel nulla. Da quel giorno, lo avevano cercato ininterrottamente per più di tre mesi, perlustrando attentamente ogni bosco, ogni lago e ogni anfratto più nascosto di quelle zone, ma di Elias non vi era traccia. L'unico indizio era rappresentato da quel fazzoletto bianco che riportava quelle due misteriose iniziali: R.S. Per anni gli inquirenti avevano provato a dare un significato a quel reperto, senza riuscirci. Il commissario della polizia li aveva avvisati che i casi di persone scomparse, soprattutto di bambini, erano casi difficili da risolvere e che molte volte rimanevano insoluti. Da quel giorno lui e la sua famiglia si ritrovarono su una specie di bilancia, che oscillava tra la speranza di ritrovarlo vivo e la rassegnazione di non rivederlo mai più, oppure di ritrovarlo morto. E più passavano i giorni, più la bilancia, irrimediabilmente, pendeva verso il piatto contenente l'esito più infausto, finché, dopo dieci anni, la rassegnazione ebbe la meglio, portando i suoi genitori a dichiarare la morte presunta del loro figlio adorato.

Da allora si era chiesto molte volte che tipo di ragazzo sarebbe potuto diventare Elias. Lui era un tipo tranquillo, sicuramente sarebbe diventato uno studioso, un secchione di prima categoria, si rispondeva, con un certo rammarico. Se lo immaginava iscriversi alla facoltà di Medicina e Chirurgia e diventare un medico, magari anche più bravo di lui. Sì, perché lui aveva scelto di diventare un medico e, forse, quella scelta l'aveva fatta anche per Elias. Il suo fratellino aveva combattuto così tanto per rimanere attaccato alla vita in quei tre mesi in ospedale, ma alla fine aveva vinto il destino e se lo era portato via, così come aveva previsto alla nascita. E lui, da quel giorno aveva maturato l'idea, l'ambizione, di dare a quanti più bambini prematuri, come lo era stato Elias, il futuro che a suo fratello era stato ad ogni modo precluso. Aveva deciso di intraprendere la carriera di neonatologo e aveva pianificato di trasferirsi in Italia, alla fine dei sei anni del corso di laurea, per frequentare la specialistica presso la facoltà di Pisa e poter lavorare a contatto con Konstanz Stevenson, il dottore che si era occupato di suo fratello e che adesso viveva in Italia con sua moglie Elena e sua figlia Sakura.

«Sai, non so perché ma, nonostante tutto ci suggerisse il contrario, io ho sempre pensato che Elias fosse vivo.» Confessò Margareth, con sommo stupore di Luke. «Ho sempre immaginato che vivesse in qualche zona soleggiata dell'Italia. Purtroppo non ho molti ricordi di lui, ma ogni tanto ho dei flash in cui io e lui giochiamo assieme, e dai quei brevi frammenti di vita ho potuto intuire che fosse un bambino gentile e sensibile. Perciò ho ipotizzato che potesse aspirare a diventare uno scrittore o un poeta.»

«Meg...» Sussurrò il fratello, interdetto. Sua sorella, per quanto fosse dura e forte, aveva da sempre mostrato un atteggiamento pessimistico nei confronti della vita. Di conseguenza, le parole ottimistiche che gli aveva appena rivolto lo spiazzarono. Se le aveva pronunciate, significava che ci credeva davvero.

Lei gli sorrise mestamente. «Scusami, ho detto una sciocchezza. Fai finta che non abbia detto nulla.» Affermò alzandosi, indossando il giacchetto e allacciandosi il marsupio alla vita. «Io vado a cercare Magnolia, come mi ha raccomandato di fare nostro padre.» Fece per imboccare l'uscita del vagone, quando Luke la bloccò per un polso, costringendola a voltarsi.

«Stai attenta. Non voglio perdere anche te.» La sua parve una supplica.

Lei annuì, decisa. «Sta' attento anche a tu, fratellone.»

A quel punto Luke accennò un sorriso e la lasciò andare. La osservò scendere dal treno e sparire nel sottopassaggio, mentre fra le mani rigirava il mazzo con le foto di tutti i Guardiani. Ad un certo punto i suoi occhi si posarono sulla prima foto, su quella di Alysia. Da quando suo padre gliel'aveva mostrata la prima volta, non riusciva a staccare gli occhi dall'immagine della giovane. C'era qualcosa che non riusciva a capire. Questa ragazza mi deve molte spiegazioni.

*****

«Eccoci, siamo arrivati.» Annunciò Anita. L'appartamento della famiglia della ragazza si trovava nel centro città di Lucca, in piazza S.Giusto, proprio dietro Piazza Napoleone, una delle piazze principali, detta anche Piazza Grande. 
«Grazie per averci accompagnate. Ve ne siamo molto grate.» Intervenne Minami, rivolta ai cinque ragazzi. Avrebbe soggiornato a casa dell'amica fino a quando suo padre non fosse tornato dal suo viaggio a Parigi. Dopo tutto quello che era successo, la inquietava il pensiero di dormire a casa, da sola.

«Scherzi? Non ci devi ringraziare. È importante per noi impedire che quel pazzo possa farvi ancora del male.» Affermò Sakura, stringendole una mano, inguantata.

«Sei sicura che in casa ci sia tua mamma, Anita? Le domandò David. «Perché, altrimenti, noi potremmo rimanere a farvi compagnia finché lei non rientra.»

«Sì sì. Non ti preoccupare.» Gli sorrise. «Adesso le citonofo, per sicurezza.» E così dicendo, premette il pulsante del campanello. Attesero pochi istanti prima che una voce femminile rispondesse, rassicurando i giovani:

«Chi è?»

«Mamma, siamo noi.»

Subito la porta scattò, aprendosi. «Allora noi andiamo. Grazie di tutto.» Disse, voltandosi ancora una volta verso di loro. Nathan, Sakura, David, Emma ed Emily sorrisero.

«Se avete bisogno di qualcosa, non esitate a chiamarci.» Si raccomandò Nathan.

Le due annuirono, prima di richiudere il portone.

Rimasero qualche attimo a fissare il campanello. Speravano che la questione si fosse risolta così e che le due ragazze fossero definitivamente al sicuro.

«Etciù!» All'improvviso Sakura starnutì. Non fece in tempo a rialzare la testa, che lo fece per altre tre volte.

«Piccoletta, ti sei presa il raffreddore?» Domandò preoccupato David.

«Forse...»

«Dove hai messo la sciarpa, il cappello e i guanti?» Nella voce di Nathan c'era una punta di rimprovero.

«Ehm... al MisteriX.» Ammise lei. «Per la fretta li ho lasciati là.»

«Te pareva.» Nathan incrociò le braccia al petto, esasperato. «È da quando ti conosco che fai così: ogni volta che andiamo al MisteriX, non puoi far a meno di lasciarci qualcosa. Ci lasceresti anche la testa se tu non l'avessi attaccata al collo.»

Sakura incassò in silenzio la critica di Nathan. In fondo lo sapeva anche lei che aveva ragione. Ma non ci poteva fare nulla: più si sforzava di stare attenta nell'eseguire determinati compiti o nel non dimenticarsi nulla, più diventava impacciata e combinava un disastro o perdeva qualcosa. Era come se stando più attenta si distraesse di più. Però era stato grazie alla sua goffaggine e alla sua sbadatezza se lei e Nathan si erano incontrati. Perciò non sentiva di dover correggere a tutti gli effetti questi suoi difetti.

«Andiamo a prenderli. Intanto usa questa.» Le disse poi, porgendole la propria sciarpa.

«Grazie.» Se l'avvolse attorno al collo e subito un profumo di menta le pizzicò l'olfatto e per poi avvilupparsi alla fragranza di camomilla dei suoi capelli, creando un intreccio di odori particolare, unico. Il profumo del loro amore. Respirò a fondo e il suo volto non poté che distendersi in un largo sorriso. Una miriade di ricordi cominciarono a turbinare nella sua mente, risvegliando in lei forti sensazioni, soprattutto quelle legate al loro primo incontro al Luna Park. Quante avventure avevano passato da allora, quanti ostacoli avevano superato assieme e quanti ancora ne avrebbero dovuti superare.
Distolse lo sguardo e vide Nathan tenderle una mano. Lei la l'afferrò, contenta. A contatto con quella del suo ragazzo, la sua mano congelata si riscaldò all'istante. Era incredibile come, con così poco, lui riuscisse a farla stare bene. Con lui al suo fianco avrebbe potuto superare qualsiasi cosa. Anche un presagio di morte. Con Nathan al suo fianco avrebbe combattutto contro il suo destino. E avrebbe vinto. Con questo pensiero ad animarla, si incamminò, con Nathan, verso il MisteriX, seguiti da Emily, che aveva l'aria assente, ed Emma e David che chiudevano la fila e procedevano abbracciati l'uno all'altra.

Emily stava osservando Sakura e Nathan davanti a lei. Nonostante Sakura non le piacesse, poteva vedere con i suoi occhi quanto quei due si amassero.

Fino ad allora aveva sempre pensato che Nathan fosse ancora innamorato di Mandy e che Sakura fosse una sorta di rimpiazzo, ma stava iniziando a pensare che forse si era sbagliata. E subito la sua mente non poté che tornare a quella mattina. Guidata dalle sue convinzioni, aveva informato Lucas del fatto che la coppia fosse in crisi, giocando sull'interesse che il ragazzo aveva mostrato nei confronti della bella bionda di origini norvegesi.

Lei aveva agito in quel modo principalmente perché desiderava ridare a Nathan e Amanda la felicità che avevano perduto. Perché, sì, Amanda era tornata. E lei non avrebbe sopportato di vederla soffrire, non dopo tutto ciò che l'amica aveva passato in quegli ultimi tre anni.

Ma adesso stava sperimentando i primi segni di pentimento: se Sakura e Nathan si fossero lasciati per colpa sua, lei non sarebbe mai riuscita a recuperare il rapporto con il suo amico, non avrebbe mai avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, fingendo che non fosse successo niente.

«Ehi, Lily!» David richiamò la sua attenzione. «Che aspetti ad entrare?»

Lei lo fissò confusa. Si era completamente immersa nei suoi pensieri, tanto che non si era accorta di aver raggiunto il MisteriX Cafè. «Io vi aspetto qui.» Affermò, sostando davanti alla fornice che, da via S.Croce, immetteva nella seminascosta piazzetta S.Carlo, dove era situato il locale. «A quest'ora ci sarà tanta gente e io non voglio ritrovarmi schiacciata come una sardina.»

«Va bene.» Concordarono gli altri. «Facciamo presto, non ti preoccupare.» Assicurò David, toccandole una spalla. Lei annuì e, mentre gli amici si allontanavano, si appoggiò con la schiena al muro e cominciò ad osservare i passanti che affollavano via Santa Croce, tutti all'affannata ricerca dei regali di Natale, che si stava inesorabilmente avvicinando. Le luci impreziosivano la via, pendendo, come collane d'oro, tra un lato e l'altro della strada. Vedere tutte quelle facce sorridenti la rattristava. Quanto le mancava il Natale, quello vero, quello che passava con i suoi genitori e con i suoi amici! Era tradizione, ormai, che ogni Santo Stefano la sua famiglia e quelle di David, Nathan e Amanda si riunissero per festeggiare tutti assieme, ma da quando Amanda era partita, nonostante l'usanza fosse stata mantenuta, il clima non era più quello allegro di una volta: Nathan si chiudeva puntualmente in un silenzio indifferente, lei se ne stava in disparte e David s'innervosiva, non sapendo bene come agire.

«Uff...» Sospirò sconsolata. Riusciremo a tornare quelli di una volta? Si domandò. Proprio in quel momento, con la coda dell'occhio, vide avvicinarsi da destra una chioma inconfondibile, un cesto di lunghi boccoli rosso amarena, la mano stretta attorno al manubrio della sua inseparabile Graziella color crema. Di fronte a tale scena la bocca si spalancò, incredula, e li occhi s'illuminarono di brillante felicità. Avrebbe voluto urlare, ma l'emozione la rese improvvisamente afona. Perciò si mosse, cominciò a correre come se le gambe non le appartenessero più, e andò incontro alla sua amica, mentre le lacrime le solcavano il volto. Dopo tre anni di angoscia e silenzio, poteva finalmente riabbracciare la sua migliore amica.

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Capitolo 28
*** 4.4 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Mandy! Non poteva crederci. Era tornata davvero. «Mandy!» Provò a far uscire la voce, per attirare l'attenzione dell'amica. Riuscì nell'intento perché Amanda puntò lo sguardo dritto davanti a sé, nella sua direzione. Notò i suoi occhi, blu come l'oceano più profondo, illuminati dalle decorazioni natalizie, dilatarsi per lo stupore. «Lily?» Domandò, appoggiando la bicicletta al muro.

Subito Emily la travolse, sollevandola qualche centimetro da terra. «Oh, Mandy, sei qui!»

«Lily!» Appena Amanda pronunciò quel nome, una cascata di lacrime incontrollate le bagnò il viso e all'improvviso sentì quei tre anni di lontananza schiacciarla con il peso di un macigno. Avvolse le braccia attorno il collo dell'amica e respirò a pieni polmoni la fragranza dolciastra di agrumi che da sempre l'aveva caratterizzata, risanando in parte quel buco che la distanza aveva creato. «Dio, quanto mi sei mancata!»

«Anche tu, amica mia.» Sussurrò Emily con la voce rotta dall'emozione. Rimasero così per un po', immobili, assaporando la presenza l'una dell'altra, di cui per tanto tempo avevano dovuto fare a meno. Poi, lentamente Emily appoggiò Amanda a terra e si staccò da lei, prendendole la mano. «Perché sei qui?» Le domandò poi. «Mi avevi detto che non saresti tornata mai più.» Le ricordò, scura in volto.

E fu allora che Amanda poté percepirlo chiaramente. Poté carpire con la sua anima il dolore che aveva procurato ad Emily decidendo di partire per Parigi con sua madre e il suo compagno. E probabilmente anche David e Nathan avevano sofferto quanto lei. Scorgere la sofferenza negli occhi della sua amica fu come una pugnalata al cuore. Non avrebbe voluto fare del male ai suoi migliori amici, ma non rimpiangeva la scelta che aveva fatto. Andarsene era la cosa più giusta che avrebbe potuto fare.

«Hai ragione, Lily... Ma, vedi, Giulio è stato richiamato in Italia per lavoro, perciò siamo rientrate anche noi con lui.» Poi, chinando il capo, aggiunse. «Spero tu possa perdonarmi per tutto il dispiacere che ti ho causato.»

«Non dirlo neanche per scherzo! Non c'è niente per cui io ti debba perdonare.» Affermò, stringendole anche l'altra mano, con convinzione. «Sono sicura che tu abbia patito più di noi questa situazione difficile.»

Le parole di comprensione che Emily le aveva rivolto la commossero. Sapeva quanto fosse un'amica preziosa e, in quel momento, ne ebbe la conferma. A quel punto le labbra s'incresparono in un mezzo sorriso che, a stento, riusciva a trattenere la gratitudine che stava provando. Si fiondò addosso all'amica e la strinse più forte che poteva, sperando che con quel gesto potesse farle capire quanto bene le volesse. Però non poté far a meno di pensare che, forse, Emily era riuscita a perdonarla solo perché sapeva, era a conoscenza di tutto ciò a cui lei era dovuta andare incontro. E non poteva essere sicura che David e Nathan avrebbero fatto lo stesso. Nathan soprattutto.

«Dave e Nate come stanno?» Domandò, affondando il viso nel giacchetto di Emily.

«Bene.» Rispose, con un'espressione amara sul volto. Non poteva dirle altro. Non poteva dirle che Nathan era andato avanti con la sua vita e che adesso stava con un'altra ragazza, le avrebbe spezzato il cuore. Non poteva dirle che il Quartetto di Colle si era sgretolato per sempre. L'avrebbe devastata. Perciò si limitò a ricambiare l'abbraccio di Amanda, appoggiando il mento sul suo capo riccioluto.

«Loro due non sanno, vero?»

«No, loro non sanno.» Assicurò, chiudendo gli occhi e facendo scivolare giù una lacrima. «Ti avevo promesso che non avrei detto nulla e così ho fatto.» Mantenere quella promessa le era costato molto: per farlo aveva rinunciato all'amicizia di Nathan e David. Pur di essere sicura di non dire nulla, aveva preferito evitarli, staccarsi da loro. E ci era riuscita. Per tre anni era riuscita a tenersi per sé quel segreto così grande, che giorno dopo giorno si era fatto sempre più pesante e stava gravando sempre più sul suo cuore. Non sapeva quanto ancora avrebbe potuto resistere, ora che era costretta a riallacciare i rapporti con i due ragazzi per la questione dei Guardiani. Ma doveva stringere i denti. Per il bene di tutti.

Amanda si sentiva così fortunata ad avere accanto una persona leale come Emily. Sciolse lentamente l'abbraccio. «Sei la migliore amica che una persona possa avere.» Disse. «Sul serio, Lily.» Aggiunse carezzandole un braccio.

«Faccio del mio meglio, Mandy.» Sorrise lei.

«E per questo io ti ringrazio dal profondo del mio cuore.» Poi si avvicinò alla bici, sollevò il cavalletto e, con un velo di tristezza nella voce, aggiunse: «Scusami, ma adesso devo andare. Nonna Franca e nonno Luciano mi aspettano per cena.» Cercò di abbozzare un sorriso. «Spero di rivederti nei prossimi giorni. Dobbiamo recuperare tutto il tempo che abbiamo perso.» E così dicendo riprese a camminare.

«Ma certo.» Emily la salutò agitando la mano. Era sicura che l'avrebbe rivista: d'altra parte viveva a due passi da casa sua «Ci conto.» Sussurrò. Poi seguì la sagoma dell'amica, finché non sparì in corrispondenza di piazza Bernardini, dove abitavano i nonni.

«Ehi! Qualcuno fermi quei tre!» Una voce allarmata, proveniente dalla direzione del MisteriX, la fece trasalire.

Si guardò attorno spaesata. Focalizzò la sua attenzione sulla persona che aveva pronunciato quelle parole. Ma quella non è la Consani? Che sta succedendo?

****

Il locale, come previsto, era affollatissimo.

I quattro raggiunsero il bancone a fatica. Videro Luisa, la proprietaria, indaffarata a servire l'aperitivo ai numerosi clienti. Era una donna sulla cinquantina, molto elegante, ma allo stesso tempo molto giovanile. «Ciao Luisa!» Esordì Sakura, agitando la mano per catturare la sua attenzione.
«C'è Nicola, per caso?»

«Ciao Sakura!» La salutò, mentre preparava un cocktail. «Ti sei dimenticata qualcosa anche questa volta?» Domandò col tono di chi la sa lunga. Ormai era prassi che Nicola, uno dei camerieri, raccogliesse ciò che lei lasciava lì e lo mettesse da parte per poi restituirglielo. Poi si guardò attorno. «Ci dovrebbe essere, ma qui non lo vedo. Probabilmente è di sopra.»

Sakura annuì. «Vado a controllare. Grazie mille, Luisa. Buona serata!»

«Grazie. Anche a te, cara!» Le sorrise.

I quattro, seguendo l'indicazione della donna, si incamminarono verso le scale, procedendo in fila indiana. Nathan continuava a tenere saldamente la mano di Sakura. Sapeva che se l'avesse lasciata, in mezzo a tutta quella gente, lei si sarebbe persa, e sapeva anche che la sua stretta la calmava, la rassicurava. Con estrema pazienza e agilità, riuscirono ad arrivare al piano superiore e subito si misero alla ricerca di Nicola. Fortunatamente, non dovettero attendere molto prima di avvistarlo.

«Eccovi qua, signorina Stevenson! Mi domandavo quando sareste tornata a recuperare i vostri effetti personali.» Un giovane sulla trentina, sbarbato e con i capelli legati in un codino centrale, rasato ai lati del capo, le porse la sciarpa rosa perfettamente ripiegata, sui cui erano adagiati i guanti e il cappellino ad essa coordinati. «Ormai è diventato un appuntamento fisso, vero?» Domandò con un sorriso divertito.

«Eh già!» Sakura sospirò rassegnata. «Per fortuna che ci sei tu che raccogli tutto ciò che lascio in giro.» Affermò prendendo il corredo. «Grazie, Nico.»

«Figurati, questo fa parte del mio lavoro, no?» Poi iniziò a scrutare uno ad uno i ragazzi, soffermandosi su David. «Ehi, ma allora il nostro miglior cliente è tornato!» E subito andò ad abbracciarlo. «Non vorrei dirtelo ma, da quando sei partito, abbiamo contato molte più paste e cornetti avanzati.»

«Ma no, dai! Così mi fai sembrare un ciccione ingordo!» Protestò David, sbuffando.

«Perché? Non è così?» Insinuarono all'unisono Nathan e Sakura, con un tono provocatorio.

«Prima ti sei portato via pure il cornetto di Nate!» Gli ricordò Emma, rincarando la dose.

«Begli amici che siete...» Sussurrò a denti stretti, mentre gli altri scoppiarono a ridere.

«E come ti sei trovato in quel di Londra? Hai imparato qualche parola d'inglese in questi tre mesi?» Gli domandò Nicola, incuriosito.

«Hai voglia! Ora come ora, con tutto quello che ho imparato potrei sopravvivere ad un'interrogazione con la prof. Martini.» Affermò, scoccando un'occhiata soddisfatta a Nathan.

«Non ne sarei così sicuro.» Lo contraddisse Nathan, piuttosto dubbioso. «I miei tornano a Lucca nella settimana di Natale. Vuoi che chieda a mi' ma' di interrogarti su Shakespeare per verificare le tue conoscenze?»

La madre di Nathan, Michela, era una professoressa di lingua e letteratura inglese ed era rinomata per essere un'insegnante severa ed esigente, temutissima da tutti gli studenti. Aveva insegnato al liceo scientifico fino al giorno in cui il marito, Roberto Martini, non venne trasferito a Terni con l'incarico di Maresciallo. Quel giorno di due anni prima, infatti, decise che lo avrebbe seguito nella città umbra. Anche Nathan sarebbe dovuto andare con loro, ma si era opposto con tutte le sue forze all'idea di dover lasciare la sua città, i suoi amici, sua nonna e Sakura. Così venne stabilito, in accordo con tutta la famiglia, che Nathan sarebbe rimasto a Lucca con la nonna, Anna.

«Manco per sogno! Guarda che mica dicevo sul serio, eh.» Il solo pensiero di dover essere interrogato lo mandava nel panico più totale, soprattutto se ad interrogarlo era Michela Martini.

«Lo spero per te, perché non ne usciresti vivo. Ricordo che ai miei tempi la chiamavano Godzilla, per le stragi che faceva.» Intervenne Nicola, ripensando ai giorni del liceo.

«Anche quando insegnava da noi, la chiamavamo così.» Confermò Sakura. La ragazza ebbe la fortuna di avere la madre di Nathan come professoressa di inglese il suo primo anno di liceo. Poiché era un'insegnante molto valida, oltre ad alcune classi dello scientifico a indirizzo ordinario, le erano state assegnate tutte le classi dell'indirizzo linguistico, tra cui anche la 1LA, la classe di Sakura. E doveva ammettere che, nonostante tutto, riusciva ad ottenere buoni voti con lei. E nessuno poteva avanzare l'ipotesi che ciò fosse dovuto a dei favoritismi della professoressa nei suoi confronti, visto che a quel tempo conosceva Nathan a malapena.

A quel punto Nathan scoppiò a ridere, attirando su di sé gli sguardi allibiti degli amici e di alcuni clienti. «Ma davvero la chiamavate Godzilla?!» Si passò una mano sul volto. Si era immaginato un lucertolone di dieci metri di altezza con la testa di sua mamma. «Questa non la sapevo!» Esclamò con le lacrime agli occhi. «Quasi quasi, d'ora in poi, la chiamerò così anch'io!» Con questa affermazione suscitò le risate anche dei presenti.

Sentirlo ridere di gusto fece provare agli amici una sensazione strana. Era veramente da tanto tempo che non lo vedevano così divertito e spensierato. La sua risata aveva un suono così rassicurante e contagioso, un suono di cui loro ormai si erano dimenticati. E Sakura non poté far a meno di pensare che il suo viso sorridente fosse bellissimo e radioso. Gli si avvicinò all'orecchio. «Dovresti ridere così più spesso. Sei stupendo quando lo fai.» Gli sussurrò emozionata, avvolgendogli al collo la sciarpa che le aveva prestato e lasciandolo interdetto. Poi, indossando i suoi indumenti appena riavuti, disse: «Io devo andare un attimo in bagno.»

«Vengo anch'io con te, Sakura.» Intervenne Emma. «Voi ci aspettate qui?» Chiese ai ragazzi, che annuirono.

Nathan si aggiustò la sciarpa, rimuginando sulle parole della sua ragazza.

Come puoi chiedermi di tornare a ridere spesso, dopo quello che è successo?

                                                                                ****

Le ragazze scesero le scale con fatica: la folla era immensa, gli spazi erano angusti, e loro erano talmente minute da passare inosservate e da non riuscire ad evitare di essere sballottate da una parte e l'altra della rampa. Per non perdersi, le due ragazze si mossero tenendosi per mano e, arrancando, riuscirono ad entrare nei bagni. Poco dopo uscirono stranamente notarono che si stava creando un ingorgo proprio vicino al bancone. Così Sakura, incuriosita, si mosse verso il gruppo di persone che col tempo sembrava estendersi a macchia d'olio, trascinando Emma con sé. Riuscirono a sgattaiolare fino all'entrata, al lato del bancone, un punto dal quale si poterono godere a pieno la scena che si dipanava davanti ai loro occhi, una scena che le lasciò interdette: una ragazza, inginocchiata, stava supplicando un ragazzo che la stava guardando imbarazzato e che goffamente stava tentando di farla smettere.
«Ti prego, solo uno! Ti giuro che poi ti lascio andare e non ti importunerò mai più!» 
«No, non posso farlo! Hai idea di quale assurdo scandalo sarebbero in grado di inventarsi i paparazzi?» Il ragazzo sembrava irremovibile.
«Dai, ti scongiuro!» La ragazza, invece, sembrava disperata. 
«No. Al massimo ti posso fare un autografo, ma niente di più.» Ribadì lui.
«Dai! Non ti chiedo niente di indecente, solo un bacio sulla guancia e una foto!» Pregò la giovane prostrandosi ai piedi del ragazzo.
«Ti prego, alzati, che così mi metti in imbarazzo!» Disse lui porgendole le mano e aiutandola a rialzarsi. La scrutò per alcuni secondi, poi, tirando un sospiro rassegnato, aggiunse: «Ok, ti accontenterò.» La guardò dritto negli occhi. «Ma niente più di un bacio sulla guancia, che sia chiaro.» La sua voce, chiara e sicura come una lama tagliente, non ammetteva repliche. Lei si limitò ad annuire freddamente, la sua voleva essere una reazione stoica, che riuscì a sorprendere il ragazzo. Sebbene il suo corpo avesse reagito stoicamente, i suoi occhi la tradirono: se la si guardava in volto con attenzione, si poteva notare che i suoi occhi luccicavano di immensa gioia. Il ragazzo se ne accorse e, per questo, sorrise.
E mentre la ragazza si preparava a farsi travolgere dalle mille emozioni che quel bacio le avrebbe trasmesso da un momento all'altro, intorno a lei si cominciò a sollevare un sempre più fastidioso e insistente brusio ricco di sconcerto, invidia.
«Avete sentito? Il grande Lucas Cross bacerà quell'antipatica giornalista da quattro soldi della Consani.» Riuscì a distinguere Sakura tra i tanti sussurri di coloro che erano venuti ad assistere all'incontro, alla ricerca di un autografo o di una foto con il proprio beniamino. In quel momento, quelle parole la indussero a ricollegare il cervello agli occhi e a rielaborare la scena che poco prima aveva visto svolgersi. Si focalizzò su i due protagonisti e si accorse di conoscerli. Quel ragazzo, quel Lucas Cross, quel ragazzo che sembrava essere famoso, era il ragazzo che quella stessa mattina si era scontrato con lei in corridoio, era il ragazzo a cui aveva distrutto il progetto di storia, quel bellissimo tempio greco. La ragazza, invece, era Caterina Consani, una ragazza dell'ultimo anno, il terrore della scuola. Direttrice del giornalino del liceo, con la sua mania dello scoop perfetto, aveva l'abitudine di girare furtivamente per l'istituto, captando con le sue orecchie ipersensibili qualsiasi discorso che potesse essere interessante e seguendo, con il suo passo felpato, chi sembrava nascondere chissà quale strano segreto. Quante volte l'aveva seguita, quante volte le aveva scattato foto compromettenti che poi ovviamente pubblicava sul giornale della scuola! La perseguitava con la vana speranza di riuscire a beccarla mentre compiva qualche passo falso, così da poterla mettere in cattiva luce. Ma qual era il vero motivo di tanta ossessione nei suoi confronti? Se l'era chiesto molte volte e tante volte aveva provato a trovare una spiegazione valida. Aveva pensato che forse anche lei, come tutte le ragazze di quella scuola, fosse segretamente innamorata di Nathan e non aspettasse altro che lui la lasciasse. O magari si comportava in quel modo solo perché sapeva che se avesse scritto un articolo su Sakura Stevenson o Nathan Martini, questo sarebbe stato sicuramente letto da tutta la scuola, visto che i Natura erano al centro dell'attenzione di tutti gli studenti. Comunque stessero le cose, Caterina Consani non era mai riuscita a raggiungere il suo scopo e lei poteva essere fiera di se stessa.
Mentre assisteva a quella scena patetica, Sakura sentì qualcosa accendersi dentro di lei. Sentì crescere un irrefrenabile desiderio di impedire a Lucas di baciare quella ragazza, desiderio alimentato da una parte dalla voglia di vendetta per quelle foto che la Consani non avrebbe dovuto pubblicare, che magari la ritraevano mentre si metteva le dita nel naso, e dall'altra dalla necessità da parte sua di rimediare al danno che aveva combinato scontrandosi con Lucas. Doveva farsi perdonare per avergli distrutto quella bellissima opera d'arte ed essere scappata in quel modo. Quella sembrava essere l'occasione più giusta per farlo: dall'espressione che aveva sul volto, Lucas non sembrava entusiasta della situazione.
Senza pensarci due volte Sakura, con un'agilità che non le apparteneva, trascinando Emma con lei, afferrò Lucas per un braccio con la mano libera e corse fuori dal locale più forte che poteva.

All'interno del locale calò un silenzio di tomba. Ancora nessuno aveva realizzato ciò che era successo. Passarono così alcuni minuti, finché non scoppiò un boato di furia e indignazione.

Subito la marea di ragazze, che stavano attendendo pazientemente il loro turno, si riversò fuori dal locale, riempiendo via Santa Croce e iniziando la caccia al tesoro.

                                                                           ****

Emily era incredula. Oltre alla Consani, vide  un'ondata di persone attraversare la fornice dell'arco che dava accesso al MisteriX e affollare la strada.

«Qualcuno fermi quei tre!» Sentì ripetere Caterina, a capo della rivolta. Sembrava furiosa. «Arghh!! Sakura Stevenson, questa me la paghi!». 

Adesso era confusa. Cosa c'entrava Sakura? Incuriosita, seguì con gli occhi la direzione in cui stava guardando la ragazza e vide tre figure allontanarsi velocemente, verso Porta Elisa. Le riconobbe tutte e tre: Sakura, Emma e... Lucas. Il suo borsalino grigio e i suoi capelli lunghi erano inconfondibili. Che ci fa Lucas con Sakura ed Emma? Domandò allarmata. 

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Capitolo 29
*** 4.5 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Buon pomeriggio! Volevo scusarmi per non aver aggiornato sabato ma non ce l'ho proprio fatta, sorry! 
Ecco qui una nuova parte e come sempre vi auguro una buona lettura :)

 

Cos'è successo
Sei scappata da una vita che hai vissuto
Da una storia che hai bruciato e ora fingi che non c'è
Cos'è successo sei cambiata
Non sei più la stessa cosa
O sei ancora quella che
È cresciuta insieme a me?

(Qualcosa di grande, Lunapop)


 

Nathan e David stavano attendendo le ragazze, ignari del trambusto che queste ultime avevano creato, e stavano intrattenendo una conversazione con Nicola.

«Ah! Avete saputo la novità?» Chiese loro Nicola, come se all'improvviso si fosse ricordato di una cosa importante.

«A cosa ti stai riferendo?» Domandarono Nathan e David, incuriositi.

«Stamani sono venuti i signori Damante, Franca e Luciano, a fare colazione da noi, erano al settimo cielo. Quando abbiamo chiesto loro a cosa era dovuta tanta felicità, loro ci hanno risposto dicendoci che Amanda sarebbe rientrata a Lucca nel pomeriggio. Non è grandioso?» Subito, però, il sorriso gli morì sulla bocca. Osservò i volti dei suoi interlocutori. Sembravano tutt'altro che contenti. D'un tratto percepì l'aria farsi pesante e capì che era il momento di togliere le tende e tornare a lavorare. «Ehm, ragazzi, io vado. Ci vediamo!»

David lo salutò con un sorriso teso. Ma che bravo! Prima sgancia la bomba e poi scappa. Pensò sconcertato. Poi rivolse uno sguardo preoccupato a Nathan. Sembrava impassibile, ma sapeva che non era così. «Nate...» Sapeva che in lui si era attivato il vulcano di sentimenti contrastanti, tutti legati a quel nome, a quella ragazza, Amanda.

Nathan, in silenzio, si mosse raggiungendo la balaustra che si affacciava sul piano inferiore e si appoggiò ad essa, guardando giù. David lo imitò e aspettò che l'amico parlasse.

«Immaginavo che l'avrei rivista. In fondo, in quel disegno c'era anche lei, anche lei è un Guardiano. Ma non credevo sarebbe successo così presto...» Affermò Nathan, osservando distrattamente i clienti che, come formiche, riempivano il locale. «Io non voglio incontrarla, Dave. Se mi trovassi di fronte a lei, so che non risponderei più delle mie azioni...» Strinse i pugni, la rabbia cominciava a ribollire nelle vene. «Mi ha deluso. Se ne è andata da un giorno all'altro, senza dirmi nulla, come se io non contassi niente per lei. Io le ho dato il mio cuore e lei lo ha fatto letteralmente a pezzi! Se si aspetta che io la riaccolga a braccia aperte si sbaglia di grosso... non la perdonerò mai.»

David colse chiaramente la durezza nelle parole dell'amico. «Neppure a me ha detto niente, Nate. E sono sicuro che ci sia un motivo dietro questa scelta... Non dimenticarti che stiamo parlando di Mandy, della nostra Mandy. Lei non farebbe mai qualcosa che potrebbe farci soffrire solo per il gusto di farlo...»

«Perché la difendi sempre, anche quando è chiaramente nel torto?!» Sbottò Nathan. Nella sua voce c'era una punta di risentimento.

«Io non la sto difendendo. Io sto solo dicendo che non è nell'indole di Mandy fare una cosa del genere senza una valida motivazione. E tu dovresti saperlo più di tutti.» Ribatté David, la voce intaccata dal nervosismo. Anche a lui era dispiaciuto che la sua amica fosse partita senza metterlo al corrente dei suoi piani, ma non riusciva a biasimarla, almeno non finché non avesse scoperto perché lo avesse fatto. Lui non era un tipo in grado di portare rancore, men che meno a una sua cara amica. Ma era consapevole che la situazione di Nathan era diversa perché era diverso il rapporto che aveva con Amanda: lui ne era innamorato.

«Non m'interessa sapere perché lo abbia fatto. L'unica cosa che so è che si è comportata male, che ha calpestato e distrutto tutto ciò che eravamo. So solo che, andandosene, ha lasciato dentro di me un vuoto enorme, colmo di sofferenza.» Puntellò i gomiti sulla balaustra e si prese la testa fra le mani. «E poi non voglio che Sakura debba essere costretta a relazionarsi con lei. Immagina il disagio che proverebbe sapendo di dover avere a che fare con la ex del suo ragazzo.»

«Già...» Sospirò David. «Le hai mai parlato di Mandy?»

«Certo, non sarei mai stato capace di nasconderle una parte così importante della mia vita. Ci siamo promessi che fra di noi non ci sarebbero mai stati segreti e ho mantenuto la parola data.»

«E pensi che l'abbia riconosciuta nel disegno che ci hanno mostrato Filippo e Summer?»

«No, non credo. Non le ho mai mostrato foto di Amanda. Anche perché, in un impeto di rabbia, ho bruciato nel camino tutto ciò che mi ricordava lei e buttato via ciò che non potevo bruciare.»

«E cosa pensi possa succedere quando si conosceranno?»

«Non ne ho idea, Dave... Non ho mai dovuto affrontare una situazione del genere e vorrei ritardare il più possibile il momento in cui dovrò farlo.»

****

Amanda camminava lentamente, lasciando che tutti sentimenti che l'incontro con Emily aveva ridestato si assopissero. Aveva provato felicità perché finalmente era tornata a casa dai suoi nonni, da suo papà e dai suoi amici, ma, al contempo, era terrorizzata. Cosa sarebbe successo se David e Nathan avessero scoperto tutto? Come avrebbero reagito? Non osava neppure pensarci. Altrettanto lentamente attraversò tutta l'area di forma rettangolare di Piazza Bernardini, fino a giungere al portone del grande complesso di appartamenti in cui vivevano i suoi nonni paterni. Fortunatamente, nonostante i suoi genitori avessero divorziato quando lei aveva poco più di otto anni, sua madre non aveva mai ostacolato i suoi rapporti con i familiari di suo padre e le aveva permesso di vederli regolarmente, fino al giorno in cui è dovuta partire per la Francia. Durante quei tre anni di lontananza le erano mancati molto. Legò la bicicletta alla rastrelliera e suonò al campanello. Subito udì la nonna rispondere: «Chi è?»

«Nonna, sono io, Mandy!»

Dopo un attimo udì il rumore dello scatto della serratura.

«E' aperto?» Domandò la donna.

A quel punto Amanda provò a spingere il portone, schiudendolo appena. Intravide una cassetta di bottiglie vuote proprio vicino all'uscio.

«Sì sì, è aperto.» Rispose lei. «Nonna... Sono tue le bottiglie sulla porta?»

«Oh, sì! Me ne ero dimenticata!»

«Vuoi che le riempia io? Così te le porto su?»

«No, tesoro, non ti preoccupare. Semmai mando più tardi tuo nonno a farlo.»

«Davvero, per me non è un problema. Ci penso io!» Senza attendere la replica della nonna, la giovane afferrò la cassetta e richiuse il portone alle spalle. «Torno subito!» Subito si diresse verso Piazza Antelminelli, situata dietro a Piazza Bernardini e al centro della quale erano posti un'ampia fontana circolare e una fontanella di acqua potabile. Si avvicinò alla fontanella e cominciò a riempire le bottiglie, osservando il profilo del duomo di S.Martino, che si affacciava sulla piazza. Le chiazze di neve, illuminate dai fiochi lampioni e dalla luna, rendevano il luogo surreale, assieme al silenzio che vi regnava, accompagnato dal solo scroscio dell'acqua. Poco dopo vide apparire il vecchio guardiano, intento a chiudere il santuario. L'uomo, attirato dal suono dell'acqua, si voltò verso di lei. «Buonasera!» La salutò.

«Buonasera.» Sorrise lei, riponendo la prima bottiglia nella cassetta e prendendo la seconda. Seguirono attimi di silenzio, che vennero bruscamente interrotti da tre voci affannate.

«Ho lasciato la macchina proprio fuori dalla porta S. Pietro. Se tagliamo per il duomo possiamo raggiungerla velocemente.» Suggerì Lucas, ponendosi a capo del gruppetto, seguito da Sakura ed Emma, che annuirono decise.

«Dobbiamo fare presto, le sento avvicinarsi!» Li avvertì Sakura. «Se ci raggiungono mi linciano, ne sono sicura!»

«E se entrassimo nel duomo, in modo da imbrogliare le ragazze che ci sono alle calcagna?» Suggerì Emma.

«Buona idea.» Concordarono Sakura e Lucas. «Entriamo.» Si avvicinarono all'entrata e notarono che il duomo stava chiudendo. I tre salirono i gradini e cominciarono a implorare il guardiano, disperati. «La preghiamo, aspetti! Ci faccia entrare per qualche minuto!»

L'uomo, in un primo momento, rimase interdetto. Poi, con voce irremovibile, rispose: «Mi dispiace ragazzi, non posso.»

«La scongiuro, è un'emergenza. Le chiediamo di farci entrare per qualche minuto, niente di più!» Insistette Sakura.

«E così si tratterebbe di un'emergenza.» Commentò il guardiano in tono ironico. «E che emergenza sarebbe?»

Sakura, colta alla sprovvista, in un primo momento non seppe rispondere. Poi, però, colpita da un lampo di genio, enunciò una valida motivazione: «La mia amica è una turista e, come tale, desidererebbe molto visitare il duomo e, soprattutto, ammirare il monumento in onore di Ilaria del Carretto.» Si sforzò di essere il più convincente possibile, sebbene sapesse perfettamente di essere una pessima mentitrice.

«E questa sarebbe un'emergenza? Ma per piacere!» La schernì il guardiano con tono scocciato. «Potete benissimo tornare domani.»

«Il problema è proprio questo.» Lucas cercò di intervenire, l'ansia nella voce era palpabile, le ragazze che li stavano inseguendo si facevano sempre più vicine. Non avevano tempo di trovare un altro nascondiglio. «La nostra amica tornerà a casa proprio domani mattina.»

«La prego, ci tenevo tantissimo a vedere l'opera di Jacopo della Quercia.» La voce di Emma suonava dolce come il miele. «L'adoro da sempre.» Aggiunse con il suo buffo accento inglese. Il guardiano sospirò. Aveva capito che se non avesse dato retta a quei ragazzi, sarebbe rimasto lì fino a mezzanotte.

«E va bene! Ma solo per pochi minuti!» Si raccomandò, assumendo un'espressione intransigente. A quel punto gli occhi dei tre ragazzi si illuminarono di inaspettata sorpresa. «Grazie mille!» Esclamarono all'unisono. Il guardiano fece appena in tempo ad aprire la porta che i ragazzi si fiondarono dentro. «Un ultima cosa: se delle ragazze chiedono di noi, dica loro che abbiamo proseguito dritto.» Aggiunse Lucas, facendo il suo ingresso nel santuario. I tre ragazzi entrarono, attraversarono velocemente la lunga navata principale e si nascosero dietro l'altare. Rimasero lì, immobili, accucciati, per almeno dieci minuti, continuando ad ansimare per la corsa che avevano appena fatto. Poco dopo udirono i loro respiri ansanti confondersi con il suono dei passi delle loro inseguitrici, che avevano raggiunto il duomo. Lucas, Sakura ed Emma si fissarono terrorizzati, trattennero il respiro e si appiattirono maggiormente contro il freddo marmo dell'altare.

«Mi scusi, ha mica visto passare di qui due ragazze e un ragazzo?» Domandarono le sei inseguitrici, rivolgendosi al guardiano.

«Sapete quanti ragazzi passano di qui?! Centinaia, se non migliaia. Dovete essere più precise.»

Le ragazze, per tutta risposta, sbuffarono spazientite. «Senta, li ha visti o no?»

Lui scrollò le spalle. «No, io non ho visto nessuno, se non quella ragazza laggiù.» Affermò, indicando Amanda.

A quel punto le giovani le rivolsero uno sguardo speranzoso. «Tu li hai visti, vero?

Amanda, messa con le spalle al muro, non poté far a meno che assentire. «Sì, sono andati verso Piazza Napoleone, ho sentito che volevano uscire da Porta S.Anna.» S'inventò. Aveva capito che quei tre ragazzi erano in difficoltà, perciò decise di aiutarli.

Le sei si scambiarono uno sguardo di intesa. «Grazie mille!» E, senza perdere tempo, imboccarono la direzione indicata dalla giovane. Quando furono abbastanza lontane, il guardiano si affacciò all'entrata della cattedrale. «Venite fuori, se ne sono andate.» Sollevati, i tre uscirono dal loro nascondiglio. «Grazie per avermi salvato, Miss-distruggi-progetti-di-storia!» Sussurrò divertito Lucas all'orecchio di Sakura.

La ragazza rise di rimando. «Di nulla, Mr- teen-idol-in-incognito.» Lucas sorrise imbarazzato, poi, rivolto al guardiano disse: «Grazie mille, signore.»

«Dovete ringraziare anche la ragazza qui fuori, che ha contribuito a depistare le vostre inseguitrici.»

Lucas, Emma e Sakura, perciò, si affacciarono all'esterno. «Grazie!» Sorrisero ad Amanda, che rispose con un cenno del capo. Poi Emma tornò a rivolgersi al guardiano «Potremmo chiederle un ultimo favore? Potrebbe aprirci anche la sacrestia? Così posso vedere il monumento.»

L'uomo acconsentì sbuffando, scocciato e rassegnato, rientrando nella struttura e facendo strada ai ragazzi.

A quel punto, all'esterno si alzò una folata di vento che avvolse il corpo di Amanda in un tetro abbraccio. Una sensazione sgradevole si fece strada dentro di lei, seguita dal presentimento che da un momento all'altro dovesse succedere qualcosa di spiacevole. Il suo istinto le suggerì di entrare nel duomo. Presa dal panico, gettò un'occhiata nervosa alla cassetta dell'acqua. Era indecisa se lasciarla lì o portarla con lei. Poi, senza indugiare ulteriormente, la sollevò e raggiunse il più velocemente possibile l'entrata del duomo, per poi fare ingresso nel santuario. Appoggiò il portabottiglie ai piedi dell'acquasantiera e si precipitò dai tre ragazzi e dal guardiano. Era terrorizzata dall'idea di rimanere da sola.

«Scusate, posso vedere la statua anch'io?» Chiese titubante. «Non ho mai avuto l'occasione di ammirarla.» Si giustificò, avvicinandosi a Lucas.

«Ma certo.» Rispose Lucas, cordiale. «Qui siamo dentro il duomo di San Martino, la cui facciata è in stile romanico. L'interno ha una disposizione a croce latina e decorazioni in stile gotico.» Cominciò a spiegare, come se fosse una vera e propria guida turistica. «Al suo interno è custodita l'opera realizzata da Jacopo Della Quercia in onore di Ilaria del Carretto, la giovane moglie di Paolo Guinigi, un ricco mercante lucchese vissuto nel 1400.» Proseguì, mentre si avvicinavano alla scultura.

«Se non sbaglio, la ragazza sarebbe morta di parto all'età di venticinque anni.» Aggiunse Sakura, cercando di riportare alla mente i pochi rimasugli delle lezioni sulla storia lucchese. I ragazzi erano impegnati nel fornire ad Emma un resoconto sulla storia del luogo quando un cellulare squillò, rimbombando fra le lunghe e ampie navate della chiesa.

«Scusate, è mia moglie.» Affermò il vecchio. «Sarà sicuramente preoccupata per me. Ed è colpa vostra se sto facendo tardi.» Brontolò. «Io esco a rispondere, appena avete finito con la vostra lezione, venite ad avvisarmi.»

I ragazzi annuirono e guardarono il custode allontanarsi bofonchiando al telefono. Quando furono soli, i quattro ragazzi poterono finalmente ammirare la statua. Emma si avvicinò incantata. Era affascinata dalle sculture, ogni volte che le capitava di ammirarne una si domandava come fosse possibile che da un blocco di pietra squadrato potessero uscire opere talmente belle e dettagliate. Le considerava delle vere e proprie magie.

Osservò la scultura nel suo insieme, era estasiata. La figura, sebbene rappresentasse una ragazza deceduta, era molto molto aggraziata e trasmetteva un senso di pace, di serenità. Poi, con occhi avidi, cominciò ad osservarne i dettagli, finché la sua attenzione non cadde sul cagnolino che era stato scolpito ai piedi della donna. «Ma è dolcissimo!» Esclamò.

Emozionata, andò ad accarezzare delicatamente il marmo levigato, partendo proprio dal cagnolino e risalendo poi verso l'alto. Il marmo era freddo al tocco, ma lei, ovviamente, non se ne meravigliò. Chiuse gli occhi e cominciò a muovere la mano lentamente, dando sfogo alla sua fantasia e alla sua immaginazione. Le dita iniziarono con un continuo sali e scendi delle pieghe della veste. Poi salì lentamente fino al livello del ventre, dove trovò le mani, appoggiate una sull'altra, e seguì il movimento ondulato dato dalla presenza delle dita, per poi riprendere le morbide asperità create dai panneggi della veste. Mentre le sue dita si muovevano delicatamente ad un ritmo tutto loro, all'improvviso, sentì il freddo marmo cambiare consistenza: era diventato morbido. Caldo e morbido. Si fermò un istante. Si rese conto che non era la sua immaginazione. Quello che le sue dita percepirono era un addome vero. Sentì le dita bagnate. Spalancò immediatamente gli occhi e in una frazione di secondo vide spegnersi ogni singola fonte di luce. Vide solo buio. «Sakura!» Urlò con voce tremante, piena di angoscia e paura.

«Emma! Sono qui, accanto a te!» Fortunatamente la voce di Sakura era molto vicina. Non perse tempo e, con la mano libera, strinse quella dell'amica e lo fece più forte che poté, come se, stringendola, potesse mitigare la sua paura trasferendola in parte a Sakura. Come se Sakura non avesse già paura per conto suo.

«Che diavolo sta succedendo?!» Si domandarono i quattro. Non fecero in tempo a finire di formulare la frase che una forte folata di vento attraversò tutto l'edificio, portando con sé un intenso profumo di pino. Quell'odore era inconfondibile: apparteneva al ragazzo con il borsalino nero. Così come era successo nell'aula di musica, appena le spire del pungente aroma le pizzicarono il naso, il corpo di Sakura s'irrigidì e cominciò a tremare. Si accorse che anche la mano di Emma, avvolta nella sua, si era irrigidita. Probabilmente anche lei stava sperimentando la sua stessa situazione. Perché? Perché quel profumo aveva quell'effetto su di loro? Voleva capire, ma non ci riusciva. Era confusa, si sentiva smarrita, come se stesse per perdere conoscenza da un momento all'altro. Ma poi qualcosa la ridestò da quello stato di torpore: una mano le strinse forte il braccio. Il sangue le si gelò nelle vene. Cominciò a sudare. Avvertì la mano estranea aggrapparsi in maniera disperata al suo braccio, tanto disperatamente da conficcarle le unghie nella pelle. Percepì rivoli di sangue scivolare lungo il braccio, provocandole un dolore lancinante e, talmente intenso, che avrebbe voluto urlare. Ma non poteva perché non riusciva ad aprire la bocca. La voce era intrappolata nel nodo che le si era formato in gola. Le lacrime, invece, riuscirono a farsi strada e salirono agli occhi per poi scendere copiose lungo le guance. Di chi era quella mano? Era del tizio col borsalino nero? No. Dalle dita affusolate e dalle unghie lunghe Sakura poté ipotizzare che fosse una mano femminile.

Emma, presa dal panico, tolse la mano da corpo della ragazza e, istintivamente, la spostò ai piedi di quello che prima era il monumento. Con sua sorpresa la mano affondò in un morbido pelo vero. Lì sotto c'era un cane in carne ed ossa. Ritrasse la mano intimorita. Il cane si mosse. Cominciò ad abbaiare scendendo dal supporto in pietra, per correre verso l'uscita quando, inaspettatamente, si fiondò da Lucas e Amanda, che lo accolsero increduli fra le loro braccia. I due cominciarono ad accarezzarlo. Non sembrava molto grande, poteva essere un cucciolo oppure un cane di piccola taglia. Da come si muoveva, sembrava agitato e preoccupato. Con gli occhi ormai abituati al buio, Amanda cercò le due ragazze, ma riuscì a distinguerne solo le sagome tremanti. Non riusciva a comprendere del perché tremassero. Poi all'improvviso capì. Le luci si riaccesero, probabilmente per opera del vecchio guardiano. La giovane rabbrividì. Le sembrò di essere stata catapultata in un film horror: la statua di Ilaria del Carretto aveva lasciato il posto ad una ragazza in carne ed ossa in fin di vita, ricoperta di sangue. Stava stringendo con talmente tanta forza il braccio di una delle due ragazze da farlo sanguinare, mentre le due amiche, tremanti, si tenevano per mano, probabilmente per farsi coraggio a vicenda. Lasciò la presa sul cane, esterrefatta. «C-cosa significa?»

Appena si riaccesero le luci, l'odore di pino si dissolse nell'aria e sparì, così come era venuto. Fu allora che Sakura riuscì a riconquistare il controllo sul proprio corpo. In un primo momento venne accecata dalla luce appena tornata, ma poi, istintivamente, abbassò lo sguardo e ciò che vide la fece piangere. Le lacrime scesero con più forza. Le sue non erano lacrime di dolore o paura, ma lacrime di preoccupazione, angoscia, ansia. Erano lacrime di disperazione. Emma si mise la mano alla bocca, mentre i suoi grandi occhi marroni si spalancarono, increduli e gonfi di lacrime.

«Oh Minami... Cosa ti hanno fatto?» Le parole le uscirono dalla bocca come un soffio, la voce soffocata dai singhiozzi. Minami era ricoperta di sangue, aveva un enorme ferita da arma da taglio sull'addome. Era spaventata, respirava affannosamente.

«Minami, chi ti ha fatto questo?!» Le domandò Sakura, quasi urlando, mentre il cuore le era salito in gola. Minami provò a parlare, ma non ci riuscì, era troppo faticoso per le sue condizioni. Ma continuava a stringerle il braccio. Le stava chiedendo aiuto in silenzio.

Amanda sgranò gli occhi, era sbigottita. «Minami...?» Sussurrò. Scombussolata dallo shock, si avvicinò alla ragazza.

Sakura si voltò, sorpresa: «Conosci Minami?»

Lei annuì col capo. «La conosco da quando siamo piccole... È la vicina di casa dei miei nonni...» Chiarì, con voce spezzata, carezzandole il volto, delicatamente. Minami si voltò lentamente, donandole uno sguardo supplichevole e terrorizzato.

«Minami!» A quel punto Amanda perse totalmente il controllo sulle proprie emozioni e cominciò a piangere, disperata, piegandosi sul corpo dell'amica. Attirato dal pianto della giovane, il cagnolino, rivelatosi uno Shiba Inu, si allontanò da Lucas e corse da Amanda, strusciando il muso sul suo giubbotto, nel tentativo di consolarla. «Natsu... Sei tu?» Domandò lei, passando una mano sul morbido pelo del piccolo. Lui, per tutta risposta, abbaiò, in segno di conferma, per poi andare all'altro lato del monumento, dove cominciò a leccare la mano destra di Minami, anch'essa intrisa di sangue. «Ehi ragazze, guardate.» Lucas notò che la ragazza stava stringendo qualcosa. Emma si allungò e cercò di aprirle la mano. «Non... è possibile...» Sussurrò estraendo un fazzoletto bianco, ormai irrimediabilmente macchiato di sangue. Lo dispiegò e in basso, in un angolino, notò la presenza di due iniziali: R.S.

 
 
 

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Capitolo 30
*** 4.6 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Ehi salve a tutti :) sabato prossimo non potrò aggiornare, se ce la faccio ci "vediamo" tra due settimane ;) Quindi oltre ad augurarvi una buona lettura, vi auguro di passare un Buon Natale, un abbraccio <3 :)

 

La mano di Emma cominciò a tremare. Quel fazzoletto bianco, con quelle iniziali, aveva risvegliato in lei vecchi ricordi. Perché lei, un fazzoletto del genere, lo aveva già visto. Guardò Minami, sconcertata. Possibile che la ragazza c'entrasse qualcosa, che fosse in qualche modo collegata a quel fatto accaduto molto tempo prima?

Sakura, invece, era ancora stordita dalle forti emozioni che aveva appena provato. Confusa, lesse distrattamente le lettere riportate sul lembo di tessuto in mano ad Emma. Ben presto, però, si rese conto che quelle iniziali non le erano tanto nuove. Cominciò a ripeterle come un mantra, nel tentativo di rammentare. R.S... R.S... Dove ho già sentito queste iniziali? Si chiuse in un silenzio meditabondo finché, finalmente, capì. «Ma certo... Em, ti ricordi?»

Emma, a quel punto, le rivolse un'espressione interrogativa.

«Ma sì, dai! L'autore della filastrocca dei Guardiani si era firmato come un certo R.S.»

«Oh My Gosh... That's true!» Emma era talmente scioccata che aveva perso la capacità di formulare le frasi in italiano. «Don't tell me that... non dirmi che stai pensando che si tratti della stessa persona?» Domandò, riprendendo il controllo sul proprio cervello.

«Non lo so... Però è una coincidenza strana, non credi?» La fece ragionare Sakura.

Amanda e Lucas le fissarono disorientati.

«Quindi sapete chi è questo R.S?» Domandò Amanda, la voce resa rauca dal pianto. Con la mano continuava a carezzare Minami.

«Guardiani? Cioè?» Chiese Lucas, incuriosito, la voce sovrastata dai guaiti del piccolo Natsu che, agitato, risalì sul supporto in marmo, riprendendo la sua posizione originaria.

«Ehm...»

Proprio in quell'istante Sakura ed Emma realizzarono che i due ragazzi che avevano di fronte erano anch'essi Guardiani. Nell'illustrazione c'erano anche loro. Avrebbero dovuto metterli al corrente di tutta la storia del Gioco e della questione di Summer e Filippo, ma non era quello il momento più adatto per farlo.

«No, purtroppo non sappiamo chi sia. Più tardi, però, dobbiamo tassativamente parlarvi di una cosa importante che vi riguarda e che potrebbe essere collegata a Minami, in qualche modo.» Rispose Sakura, ancora scossa. La priorità, in quel momento, era capire se Minami sapesse chi le avesse inferto quella profonda ferita. «Minami...» Sussurrò Sakura, prendendole delicatamente la mano che poco prima si era saldamente aggrappata al suo braccio.

«Ti prego, dimmi chi ti ha fatto questo...» Le lacrime ricominciarono a rigarle le guance.

Minami ruotò, a fatica, la testa verso di lei. Provò ad aprire la bocca, ma non ci riuscì. L'unica cosa che fece fu fissarla intensamente e, in quello sguardo, Sakura vide il mondo: paura, sofferenza, rassegnazione e una luce oscura, che non riuscì a decifrare a pieno, ma che l'aveva colpita nel profondo. Una macchia oscura che destabilizzò la sua anima.

«Minami...» Si asciugò gli occhi, appannati dalle lacrime. Si era accorta che l'amica respirava a fatica. «Resisti, ti prego...» Non fece in tempo a aggiungere altro che vide l'amica espirare. Gli occhi erano ancora tinti dal riverbero di quella luce oscura.

«Oh, no...» Singhiozzarono Amanda ed Emma. A quel punto Sakura s'inginocchiò e cominciò a piangere piegata sul corpo della giovane. Lucas continuava ad accarezzare Natsu, che guaiva disperato.

I ragazzi erano così presi dal triste evento, che non si accorsero dell'arrivo del custode, che si ritrovò ad assistere ad una scena al limite del grottesco: tre ragazze che piangevano in maniera disperata, piegate su una statua, e un ragazzo che accarezzava un cane di pietra nel tentativo di tranquillizzarlo. «Che diamine state facendo?» Domandò lui scioccato e allibito. I ragazzi si voltarono increduli, scossi e spaventati. Possibile che non vedesse cosa stesse succedendo?

«Non vede che qui c'è una ragazza morta?» Domandarono indignati Lucas ed Emma.

«Oh, è vero, avete ragione! In effetti c'è una ragazza morta... morta da più di 600 anni! Posso capire che vi dispiaccia per la povera Ilaria, d'altra parte era una cosi giovane donna, ma non vi sembra di esagerare? A meno che...» L'uomo era chiaramente sconvolto. «Avevo sentito parlare della Sindrome di Stendhal, ma pensavo che fosse una leggenda... E, invece, forse esiste davvero!» Concluse esterrefatto.

«Sindrome di Stendhal...?» Sibilarono i quattro. Tutto era tranne quello. Nessuno era stato colpito da suddetta particolare condizione. Si voltarono lentamente, intuendo che qualcosa non quadrasse, e videro che, effettivamente, Minami e Natsu erano scomparsi, restituendo il posto alla statua della giovane lucchese e al suo cagnolino. Sbatterono tutti le palpebre due o tre volte di seguito, per accertarsi che non stessero sognando. Dunque era una visione. Ma com'era possibile che tutti e quattro avessero percepito la stessa cosa?

Una visione di gruppo? Sakura, sconcertata, cominciò a ragionare. Possibile che la capacità di avere una visione di questo tipo sia un dono che possiedono i Guardiani? Non poteva escluderlo. In fondo, coloro che si trovavano nella sacrestia in quel momento erano tutti Guardiani.

«In ogni caso, ora che avete visto il monumento e vi siete emozionati, direi che potete togliervi di torno.» Bofonchiò il guardiano, che non vedeva l'ora di rientrare a casa.

«Sì...» I quattro si avviarono all'uscita, con le membra e le viscere sconquassate dalla visione che avevano avuto, e Amanda ne approfittò per riprendersi la cassetta dell'acqua. Una volta fuori, la fredda aria invernale sferzò i loro visi e, avvolti dal freddo, attesero in silenzio che il Guardiano chiudesse il duomo.

«Bene, ragazzi, vi saluto.» Affermò il vecchio.

«Arrivederci! Grazie di tutto.» Lo salutarono Emma e Sakura, con un mezzo sorriso.

«E si scusi con sua moglie da parte nostra per il ritardo che le abbiamo fatto fare.» Si raccomandò Lucas.

Lui annuì con il capo e si allontanò velocemente a piedi. Appena fu abbastanza lontano, Emma si avvicinò all'orecchio della giovane. «Sakura.»

«Che c'è, Em?»

«Dobbiamo chiamare Minami o Anita, per sapere se stanno bene.» Ancora aveva il terrore negli occhi per ciò che aveva visto.

«G-giusto!» Senza farselo ripetere, Sakura estrasse il cellulare dalla tasca del giubbotto e subito compose il numero. Trattenne il respiro, divorata dall'ansia e dalla preoccupazione, così come Emma, Amanda e Lucas. Ogni secondo d'attesa era un battito in meno dei loro cuori. Attesero per un tempo che parve infinito, finché non successe l'inesperato. Minami rispose. La sua voce fu come una ventata di aria fresca, che i ragazzi respirarono a pieni polmoni, rilasciando la tensione che aveva preso in ostaggio i loro corpi. Non poterono trattenere i sorrisi che, tremanti, incresparono le loro labbra. «Minami, stai bene...» Sussurrò Sakura, asciugandosi una timida lacrima di gioia che le aveva inumidito le ciglia, imitata da Amanda ed Emma.

«Sì, sto benissimo! Abbiamo appena finito di mangiare e stavamo giusto aiutando la madre di Anita a sparecchiare la tavola.» Fece una pausa. «Perché mi hai chiamato? È per caso successo qualcosa?»

A quel punto Sakura, non sapendo cosa dire, guardò Lucas, Amanda ed Emma, in cerca di aiuto. I tre scossero energicamente il capo, suggerendole di non parlare a Minami della visione. Avrebbero rischiato di istigare in lei la paranoia.

«No, non è successo niente. Volevamo solo sapere come stavi.» La rassicurò.

«Che cari che siete! Non dovete preoccuparvi per me.» Più facile a dirsi che a farsi per i ragazzi, che avevano dovuto assistere alla sua terribile morte. Ancora non riuscivano a dare una spiegazione a quella visione. Era una premonizione o aveva tutt'altro significato? Nascondeva qualche messaggio criptato? Non riuscivano a comprenderlo. «In ogni caso, credo che più tardi mi farò accompagnare a casa da Anita e dai suoi genitori, così prendo il mio cane e lo porto con me. Non è abituato a stare da solo per più di una giornata.»

«Va bene. Ma se hai bisogno di qualsiasi cosa, chiamami!» Si raccomandò Sakura, prima di riagganciare.

Amanda, Lucas ed Emma la fissarono in attesa di ricevere le dovute informazioni.

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Capitolo 31
*** 4.7 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Buonasera / buonanotte a tutti! Mi scuso tanto per l'ora... comunque eccovi qui una nuova parte del capitolo :) 
Spero che abbiate passato un Buon Natale e vi auguro un felice anno nuovo! Grazie di cuore a chi segue questa storia e soprattutto a ChiBa93 per averla scritta (trovate la sua pagina su Wattpad) <3  grazie e buon anno! Un abbraccio :) 


My shadow's the only one that walks beside me

My shallow heart's the only thing that's beating

Sometimes I wish someone out there will find me

Till then I walk alone  

(Da Boulevard Of Broken Dreams, Green Day)

 

«Ha detto che sta bene e che più tardi si farà accompagnare dalla sua amica Anita e dalla sua famiglia per portare Natsu con sé.» Alle parole della ragazza, i tre sorrisero, sollevati.

«Allora credo che rimarrò sveglia fino al suo arrivo, almeno avrò modo di sincerarmi che stia bene.» Affermò Amanda. «Così, se dovesse succedere qualcosa di allarmante, posso avvisarvi.» Non poteva stare tranquilla, non dopo ciò che avevano visto all'interno del Duomo di S.Martino.

Sakura annuì. «Ti lascio il mio numero per sicurezza.» Detto questo, aspettò che la ragazza avesse il cellulare a portata di mano e cominciò a dettarle il numero. Dopo che ebbe finito di digitarlo, Amanda si rese conto che non si erano ancora presentate l'un l'altra. «Come ti chiami?» Le domandò.

«Sakura Stevenson.» Sorrise, scorgendo lo stupore dipingere il volto della sua interlocutrice.

«Non sei italiana, vero?» Amanda cominciò a scrutarla incuriosita, seguendo le linee di luce che la luna, lattiginosa, disegnava sul volto della giovane. Il viso leggermente squadrato, le labbra piene e tonde, e gli occhi verdi, chiari e brillanti, quasi diafani, rievocavano le forti radici nordiche.

«In realtà, lo sono per parte di madre. Mio padre, invece è norvegese.»

«Ci avrei scommesso.» Sorrise Amanda. «E il nome giapponese a cosa è dovuto?»

«I miei hanno deciso di chiamarmi Sakura perché volevano darmi un nome che ricordasse un fiore o una pianta e che, al contempo, fosse particolare. Non per niente, Sakura significa...»

«Fiore di ciliegio. Dico bene?» Domandò Amanda, compiaciuta.

Sakura asserì col capo, stupita. «Come fai a saperlo?»

«Avevo un amico appassionato di manga e di cultura giapponese che mi ha insegnato molte cose.» Le parole uscirono in un soffio dalle labbra tremanti di nostalgia. Ripensò a David che, ogni volta che poteva, ne approfittava per rivelare curiosità riguardanti il paese del sol levante, che scopriva durante le sue ricerche o durante le lunghe conversazioni con Jenzaburo Akagi, il padre di origini giapponesi di Emily. Sentiva di averlo perso, così come aveva perso Nathan, e questa triste consapevolezza le procurò una fitta al cuore. Il pensiero che l'amico non le avrebbe più rivolto il suo sorriso luminoso, positivo e incoraggiante, la faceva sprofondare nello sgomento. Forse si stava rassegnando all'idea che avrebbe dovuto far a meno dell'appoggio del suo miglior amico e cavarsela da sola, come aveva fatto da quando si era trasferita a Parigi. Per quattordici anni si era sentita al sicuro, poiché supportata dalla presenza di Nathan, Emily e David che erano stati capaci di tenderle la mano e di salvarla anche nei momenti più bui. Erano sempre stati con lei, avevano camminato al suo fianco, fin da quando ne aveva memoria. Ma da quando si era dovuta spostare in Francia, aveva dovuto intraprendere un cammino differente e procedere in solitaria, in balia della tristezza e della paura, in mezzo ai frammenti di una vita che aveva sognato e che non avrebbe mai avuto la possibilità di vivere.

«Ehi, tutto bene?» Le domandò Sakura, accorgendosi del velo di tristezza che era andato ad ottenebrare gli occhi equorei di quella ragazza dai bellissimi riccioli rossi.

Amanda annuì lentamente. «Sì, tutto a posto.» Cercò di essere convincente. «Io, invece, sono Amanda Damante.» Affermò, cambiando discorso e permettendo a Sakura di segnarsi il nome.

«Aspetta un attimo...» Sakura provò a sbloccare il cellulare, ma lo schermo continuava a rimanere nero. «Oh, no, no, no!» Esclamò poi, impallidendo.

«Che è successo?» Domandò Amanda, preoccupata.

«Mi si è scaricato il cellulare. Se mi chiama il mio ragazzo e vede che non rispondo, si preoccuperà un sacco.»

«Allora ti conviene tornare da lui. Deve essere una ragazzo d'oro se si preoccupa per te.» Commentò con un sorriso amaro sulle labbra, sull'orlo di un pianto. Anche lei aveva un ragazzo premuroso che si preoccupava per lei, che lei non avrebbe lasciato per nulla al mondo, se non fosse successo quello che era successo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per cancellare quei tre anni della sua vita e mantenere intatta la sua relazione con Nathan, ma non poteva.

«Sì, lo è. Sono stata veramente fortunata ad incontrarlo.» Rispose Sakura, sognante. Le sue parole erano colme d'amore, il suo sguardo luminoso. «Prima di tornare da lui, però, io ed Emma dobbiamo parlarvi di una faccenda molto importante.» Poi, rivolta ad Emma, chiese: Puoi avvertirli tu? Dì loro che abbiamo avuto un imprevisto e che, se vogliono, possono avviarsi verso casa, noi li raggiungeremo più tardi.»

Emma annuì, prendendo il cellulare per digitare il messaggio.

«Avete bisogno di un passaggio?» Domandò Lucas.

Le due ragazze si scambiarono un'occhiata indecisa. Il pensiero di dover percorrere tutta la Sarzanese a piedi e al buio non le entusiasmava un granché però, al contempo, non avrebbero voluto approfittare della gentilezza di Lucas.

«Sei sicuro che per te non sia un problema?»

«Nessun problema, ragazze.» Assicurò. «Altrimenti non mi sarei offerto.»

«Già.» Sorrisero le due. «Grazie mille, Lucas, è molto gentile da parte tua.»

«Di nulla.»

Amanda, Lucas e Sakura attesero in silenzio che Emma terminasse di scrivere il messaggio e che lo inviasse.

«Fatto.» Annunciò la ragazza, riponendo il cellulare nella tasca.

«Quindi voi siete Emma e Lucas.» Constatò Amanda, mentre il suo sguardo si spostava da Emma a Lucas, per poi soffermarmi su quest'ultimo. Aveva l'impressione di averlo già visto da qualche parte. «Sbaglio o noi due ci siamo già incontrati?»

A quella domanda Lucas cominciò a sudare freddo, in preda al panico. Come poteva spiegarle che non sapeva darle una risposta perché non aveva memoria di ciò che aveva vissuto fino a cinque anni prima? «Può darsi... Non saprei...» Cercò di mantenersi vago, tentando di non far trasparire la sua preoccupazione.

«Magari lo hai visto in tv.» Suggerì Sakura. «Ho appena scoperto che abbiamo a che fare con una famosa star della musica italiana.» Affermò ammiccando un po'. «Hai presente le ragazze che ci stavano inseguendo? Volevano un autografo dal bel Lucas Cross, che sarebbe lui.»

«Sul serio?» Amanda, allibita, cercò una conferma da parte del ragazzo. Cominciò ad osservarlo bene, scandendo mentalmente il nome del giovane. «Aspetta un attimo! Non dirmi che sei Lucas "Cross" Crossignani, quello che ha partecipato al Sanremo giovani di quest'anno?!» Esclamò riportando alla mente i volti di tutti i concorrenti che avevano preso parte alla manifestazione. Fortunatamente la kermesse canora veniva trasmessa in eurovisione, permettendo anche agli italiani che risiedevano all'esterno di poterla seguire senza grossi problemi.

«Ebbene sì.» Ammise, tastandosi i lunghi capelli biondi, evidentemente in imbarazzo. Non si era ancora abituato ad essere riconosciuto per strada ed essere rincorso dalle fans. La fama non era fatta per lui, lui che era un tipo timido e introverso, che scriveva canzoni perché era l'unico modo che gli consentiva sfogarsi, visto che non aveva amici o familiari, nessuno con cui poterlo fare. La musica della sua chitarra e il suono della sua voce avevano rappresentato l'unica forma di compagnia di cui aveva potuto giovarsi da cinque anni a quella parte.

«La tua esibizione è stata molto toccante. Ho ancora i brividi e la pelle d'oca, se ci penso.» Confessò Amanda con ammirazione. «Mi dispiace solo che tu sia arrivato terzo. Ti meritavi la vittoria.»

«Grazie, sei troppo gentile.» Le sorrise lusingato.

«Hai partecipato a Sanremo giovani?!» Intervenne Sakura sconcertata. «Che scelta coraggiosa che hai fatto! Io non riuscirei mai ad espormi mediaticamente, non riuscirei a sopportare tutta la pressione a cui sarei sottoposta.»

«Più che una scelta coraggiosa, è stata una scelta necessaria.» Sebbene la fama non fosse nelle sue corde, aveva scelto di seguire la carriera di musicista, ritenendo che la notorietà lo avrebbe aiutato ad aprire una breccia nella spessa coltre scura del suo passato e a liberare tutte le persone che un tempo gli erano care e che adesso erano state imprigionate nel buio della dimenticanza. Aveva deciso di intraprendere quella strada pensando di poter sfruttare la notorietà per ritrovare qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo a rimettere insieme il puzzle della sua vita. E aveva fatto centro: la chiave che gli avrebbe consentito di risolvere tutti i suoi problemi era proprio davanti a lui e si chiamava Sakura.

«E qual è la necessità che ti ha spinto a fare questo grande passo?» Insistette Sakura, incuriosita.

«Non posso dirtelo adesso, si tratta di una questione delicata, che ti rivelerò a tempo debito.» Pronunciò quelle parole con fare misterioso. Non era quello il momento più giusto per vuotare il sacco. «Piuttosto, perché voi due non ci parlate di quella storia dei Guardiani di cui avete accennato poco fa? Cosa sono questi Guardiani? E poi cos'è stata quella apparizione di cui siamo stati testimoni?»

«Già!» S'intromise Amanda. «Dite che sia una premonizione?» Ipotizzò preoccupata. «Perché, se fosse così, dovremmo fare di tutto per proteggere Minami! Non la lascerò mor...» Il respiro le si bloccò in gola, appena le immagini della morte dell'amica le offuscarono la mente.

A quel punto Emma le prese una mano. «Impediremo che questo accada.» Affermò determinata, cercando di infondere coraggio nella nuova amica. Amanda annuì, sicura. Avrebbero salvato Minami, a tutti i costi.

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Capitolo 32
*** 4.8 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Salve a tutti! Scusate se ieri non ho aggiornato... 
Allora come avete passato queste feste? Tutto bene? Spero di sì :) 
Come sempre vi auguro una buona lettura :)

 

Bright lights, big city

She dreams of love.

Bright lights, big city

He lives to run.  

(Da Bright Lights, Thirty Seconds To Mars)

 

Dopo un quarto d'ora di attesa alla stazione di Lucca, finalmente l'altoparlante annunciò la partenza del treno che lo avrebbe condotto a Ponte a Moriano. Raccolse la chitarra e il piccolo trolley che si portava appresso e salì sul convoglio. Gettò uno sguardo ai vagoni a destra e a sinistra, optando poi per quello di destra, praticamente vuoto. Prese posto vicino al finestrino, in modo da poter seguire il percorso del treno, visto che non sapeva con precisione a quale stazione sarebbe dovuto scendere. Per l'ennesima volta, contemplando il suo riflesso sul vetro del finestrino, Jared si domandò se avesse fatto la scelta giusta. E per l'ennesima volta non seppe darsi una risposta. Ma il fatto che il simbolo dei Guardiani marchiato sul suo addome fosse tornato a risplendere, gli suggeriva che forse, in fondo, si trovasse al posto giusto nel momento giusto. Era partito senza pensarci troppo, seguendo il suo istinto. Non si era neppure preoccupato di trovarsi una sistemazione per il tempo che sarebbe rimasto a Lucca. «Cavolo, adesso mi toccherà pure dormire sotto un ponte.» Sospirò irritato. L'unico risvolto positivo di tutto quel viaggio era che, alla fine, l'avrebbe ritrovata. L'avrebbe rivista, avrebbe risentito la sua voce. Alla fine di quel viaggio ci sarebbe stata Sakura.

Con quel pensiero in testa ad animarlo, lasciò che gli occhi si abbandonassero all'osservazione del paesaggio, fiocamente illuminato dalla Luna, che iniziò a scorrere accompagnando il movimento del treno. Sotto il suo sguardo assente passò un cartello che pubblicizzava una serata alternativa di musica rock al teatro di Ponte a Moriano, mentre la sua mente pensava alle parole che avrebbe dovuto usare con Sakura. 

                          ****

Appena il treno ebbe lasciato la stazione di Lucca, le mani di Luke iniziarono a sudare copiosamente. Era agitato, emozionato. Finalmente dopo tanti anni avrebbe incontrato nuovamente il suo maestro, il suo modello, la sua fonte di ispirazione: il dottor Stevenson. Certo, non era la prima volta che lo incontrava, visto che era un amico dei suoi genitori, ma era la prima volta che ci parlava da quando aveva preso consapevolezza dei propri sogni e di ciò che sarebbe voluto diventare in futuro. Aveva tanta voglia di imparare da uno dei neonatologi più rinomati d'Europa e tanta voglia di mettersi alla prova. Probabilmente agli occhi del dottore lui era rimasto ancora il ragazzino scapestrato e ostinato che aveva poca voglia di studiare, e voleva dimostrargli che ormai era cambiato, che era cresciuto e stava maturando. Si torturò nervosamente le mani per una decina di minuti, cioè per tutta la durata del viaggio, finché non udì la voce registrata dell'altoparlante.

«Siamo in arrivo a Ponte a Moriano.» Recitò, poco dopo che il treno ebbe superato l'Esselunga di Marlia.

Luke si alzò, si preparò e, trascinando la valigia, raggiunse il corridoio. Jared fece lo stesso. Attesero che il convoglio frenasse e che i portelloni si aprissero per farli scendere. Scesero. Ad accoglierli a braccia aperte ci furono un vento gelido e un silenzio spettrale, interrotto ogni tanto dal sibilo inquietante dei neon che illuminavano il piccolo e tipico edificio delle stazioni di provincia. Si mossero di qualche passo e, solo allora, si accorsero l'uno della presenza dell'altro. Si voltarono, i loro sguardi sorpresi s'incrociarono.

«Tu... che ci fai qui?» Sussurrò Luke.

«Fiorellino...?» Domandò Jared, riconoscendo la voce.

Senza dargli nemmeno il tempo di salutarlo come si deve, Luke gli andò incontro e, con una rabbia inaudita, lo colpì con un destro sul volto. Jared, in un primo momento, spalancò gli occhi per lo stupore, poi si tastò la guancia dolorante. Subito, però lo stupore lasciò il posto ad un ghigno beffardo, che andò ad illuminargli il viso. Non si sarebbe aspettato niente da meno da parte di Luke. Attendeva di ricevere quel pugno da ormai due anni, da quando aveva lasciato Margareth in quel modo orrendo. «Un pugno degno di un fratello davvero incazzato. Bravo, Fiorellino.»

«Bastardo! Come ti sei permesso di trattare Meg in quel modo?! Sai quanto ha sofferto per causa tua?» Gli inveì contro, prendendolo per il bavero della giacca.

«Posso immaginarlo. Ma ti assicuro che avrebbe sofferto di più se fossi rimasto con lei.» Disse freddamente, guardando l'amico dritto negli occhi.

«Ma che diavolo stai dicendo?! Voi due eravate chiaramente innamorati. Siete fatti l'uno per l'altra! Perché mai Meg dovrebbe soffrire con te al suo fianco?

«È inutile parlare con te, non capiresti.» Rispose Jared scrollandosi dalla presa di Luke e avviandosi al cancelletto che consentiva di uscire dalla stazione, trascinando il trolley a cui aveva saldamente legato la custodia della chitarra.

«Mi stai dando dello stupido, forse?» Domandò raggiungendolo e spintonandolo ad una spalla, in segno di provocazione. Jared, che ormai stava per perdere la pazienza, lo allontanò in malo modo. «No, ma in ogni caso, è una questione che non ti riguarda.»

Luke, che odiava essere trattato così, si fiondò su di lui, spingendolo a terra​, e cominciando a colpirlo. «Certo che mi riguarda! Lei è mia sorella e tu sei il mio migliore amico! Tutto ciò che può turbare il nostro rapporto diventa anche affar mio!» Esclamò fra un pugno e l'altro.

«Ti ho detto che non voglio parlarne, con te soprattutto!» Replicò Jared fuori di sé, reagendo e mettendo l'amico con le spalle sul pavimento e posizionandosi su di lui. «Perciò, smettila di insistere!» Disse, con la mano a mezz'aria pronta per sferrare un ultimo pugno.

«Che sta succedendo qui?» Domandò all'improvviso una voce grave, mettendo fine alla rissa.

I due ragazzi si voltarono. Dalla loro posizione poterono osservare due scarpe perfettamente lucidate a pochi passi da loro. Lentamente sollevarono lo sguardo e scorsero la figura di un uomo sulla sessantina, che li stava squadrando con un'espressione severa dipinta sul volto.

«Dottor Stevenson!» Esclamarono Jared e Luke, staccandosi l'uno dall'altro e mettendosi in piedi. «Ci scusi...» Mormorarono avviliti, tentando si ricomporsi.

L'uomo, senza parlare, fece saettare lo sguardo, duro come la pietra, da uno all'altro. Sorpreso, si soffermò su Jared. «E tu che ci fai qui? Io aspettavo solo Luke.»

«Ehm...» Jared non si era assolutamente preparato una possibile spiegazione che giustificasse la sua presenza nella cittadina Toscana. Non poteva certo dire al dottore che era arrivato a Lucca per vedere la figlia. «Io e Luke ci siamo incontrati per caso. Io sono qui perché mi è stato chiesto di esibirmi nel teatro di Ponte a Moriano per la serata rock di domenica.» Disse, rammentandosi del cartellone pubblicitario che aveva visto mentre era sul treno. Era la prima scusa verosimile che gli fosse venuta in mente.

«Capisco.» Convenì Konstanz. «Visto che sei qui perché non vieni anche tu? Elena sarà contenta di vederti.» Gli propose. «Così potrete disinfettarvi quelle brutte ferite che vi siete procurati.» Aggiunse con una nota di rimprovero nella voce, afferrando la maniglia del trolley di Jared. «A quanto pare il tempo passa, ma voi siete sempre gli stessi. Sempre a bisticciare come quando eravate piccoli.» Commentò, accennando un sorriso divertito.

A quelle parole Luke non poté che sentirsi scoraggiato. Avrebbe voluto dimostrare al dottore che era cresciuto, che era maturato, ma era riuscito solo a confermare l'immagine che probabilmente aveva di lui, quello di un ragazzo impulsivo e immaturo. 

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Capitolo 33
*** 4.9 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Ciao a tutti :) 
Volevo informarvi che dopo questa ho soltanto un'altra parte da pubblicare, poi dobbiamo aspettare che le autrici pubblichino su Wattpad...
Come sempre, vi auguro una buona lettura :) 

 

There are things that we can have, but can't keep

If they say

Who cares if one more light goes out?

In a sky of a million stars

It flickers, flickers

Who cares when someone's time runs out?

If a moment is all we are

We're quicker, quicker

Who cares if one more light goes out?

Well I do

(Da One More Light, Linkin Park)

 

Il viaggio in macchina fu molto silenzioso. Sui sedili posteriori, Jared e Luke continuavano a guardarsi in cagnesco, mentre tamponavano le ferite sanguinanti con dei fazzoletti: Jared aveva un labbro rotto, Luke stava facendo i conti con un'epistassi che faticava ad arrestarsi. Si limitarono a seguire in silenzio il percorso della BMW che il dottore guidava attraverso la campagna lucchese. La dimora degli Stevenson era immersa fra le verdeggianti colline del morianese, circondata da uliveti e vigneti che si estendevano a perdita d'occhio, e raggiungibile solo percorrendo una stretta e tortuosa via, piena di ciottoli e buche, che la collegava alla strada principale. Dopo aver attraversato l'ultimo tratto della stradina sterrata e aver parcheggiato l'auto, Konstanz si voltò verso i due ragazzi. «Siamo arrivati.» Annunciò. I tre scesero e, una volta recuperati i propri bagagli, Luke e Jared seguirono il dottore che li condusse all'ingresso della villa, un imponente casolare completamente ristrutturato, illuminato dagli eleganti lampioni che costeggiavano il viale, ricoperto di ghiaia, che collegava il parcheggio allo spiazzo circolare antistante l'edificio, adornato da enormi vasi di pietra, destinati a riempirsi di fiori colorati con l'arrivo della primavera.

Dopo aver fatto ingresso in casa, il signor Stevenson chiamò la moglie:

«Ellie, siamo noi. Puoi portarmi la mia cassetta del pronto soccorso?»

In men che non si dica, udirono dei passi concitati muoversi nella loro direzione. Poco dopo videro sbucare dal tinello una donna bionda, i capelli biondi raccolti in uno chignon disordinato, tutta trafelata, con un'espressione preoccupata dipinta sul volto. «Che è successo?» Domandò, asciugandosi le mani con uno straccio. A quel punto Konstanz, senza dire una parola, si spostò, rivelandole la presenza dei due ragazzi e dei loro volti tumefatti. Lo sguardo incredulo della donna si spostò velocemente da Luke a Jared e viceversa. Fu in quel momento che comprese: quei due si erano picchiati. «Oh, ragazzi... ma cosa avete combinato?» E subito andò ad abbracciarli.

«Ciao Elena, è un piacere rivederti.» Dissero i due, ricambiando l'abbraccio e scambiandosi un'occhiata imbarazzata e dispiaciuta, come se si fossero resi conto, solo in quel momento, della stupidità con cui avevano agito, facendo a botte.

Poi, lentamente, Elena sciolse l'abbraccio e, rivolgendosi a Jared, disse: «Non mi aspettavo di vederti, ma sono contenta che anche tu sia qui. Spero tu voglia rimanere a cena con noi.»

«Veramente... non vorrei approfittare della vostra gentilezza e arrecarvi disturbo.»

«Tranquillo, nessun disturbo, tanto devo ancora buttare giù la pasta. Purtroppo, però, non ho avuto molto tempo, perciò vi dovrete accontentare di una pasta al pomodoro e di cotolette impanate, con contorno di patatine fritte o insalata. Spero vada bene.» disse, guidando i ragazzi verso il tinello e facendoli accomodare a tavola. «Mentre Konstanz disinfetterà e medicherà le vostre ferite, io vado a finire di preparare la cena. Se avete fame, lì, sul tavolo, ci sono dei grissini e un po' di focaccia.»

«Va benissimo. Grazie.» asserirono Jared e Luke, sedendosi e osservando la loro ospite sparire nella cucina attigua, da cui proveniva un invitante profumo di sugo al pomodoro. Elena era una cara amica di vecchia data di Paolo e Heidi, si erano conosciuti ai tempi dell'università, quando tutti e tre frequentavano l'università di Trento, e da allora non si erano mai separati e avevano trovato il modo di vedersi nel corso degli anni e di far conoscere i loro figli, in modo che potessero diventare amici, anche se vivevano lontani.

«Io salgo di sopra a prendere la cassetta del pronto soccorso.» Intervenne il dottore. «Spero che abbiate il buon senso di restare tranquilli e di non riprendere a litigare.»

I due, all'affermazione dell'uomo, non poterono trattenere un sorriso a metà fra il divertito e l'indignato, della serie: per chi ci prende? Non abbiamo mica dieci anni! Possiamo stare dieci minuti da soli senza azzannarci a vicenda. «Ma certo, stia tranquillo, dottor Stevenson. Quando tornerà ci troverà non più distrutti di quanto lo siamo adesso.» promisero solennemente.

«Bene. Torno subito», e così dicendo salì la rampa di scale che conduceva al piano superiore. I ragazzi, nel frattempo, cominciarono a guardarsi attorno. L'arredamento della stanza era di gusto classico e raffinato e gli elementi, tutti dello stesso colore, erano estremamente coordinati fra di loro: un grande tavolo in legno, ovale e beige, dai gambi arricciati, era posizionato al centro, circondato da sei sedie ad esso coordinate per foggia e materiale. Ad una delle pareti laterali poggiava un'alta e ampia credenza, anch'essa di legno, dalle cui ante in vetro si poteva intravedere la pregiata cristalleria da essa custodita. All'altra parete, invece, era addossato un altro mobile più basso, su cui erano posizionate una piccola televisione a schermo piatto e alcune foto di famiglia. Una delle pareti di fondo era occupata da una grande porta finestra che dava sul giardino sul retro, mentre sull'altra una pesante tenda, dai panneggi chiari, copriva una finestra che si affacciava sullo spiazzo all'ingresso. L'occhio di Luke cadde sulle numerose foto posizionate sul mobiletto, che ritraevano la famiglia Stevenson, e un profondo senso di disagio e dispiacere invase il suo animo. C'era una nota stonata in ognuna di esse, e lui lo sapeva benissimo. Distolse un attimo lo sguardo e lo puntò su Jared. Si sorprese nel trovarlo assorto, con gli occhi fissi su una foto di Sakura, in cui lei aveva più o meno dodici anni.

«Dimmi la verità. Perché sei qui?» domandò all'improvviso, cogliendolo alla sprovvista.

Jared tacque un istante, poi, con voce ferma e tranquilla, rispose: «Te l'ho detto, devo suonare alla serata Rock al teatro del Ponte.»

«Se pensi che possa credere a questa scusa inventata all'ultimo minuto, sei proprio un povero scemo» lo accusò lui, prendendo un grissino ricoperto di sesamo dalla cesta al centro del tavolo. «Ti prego... dimmi solo che non sei qui per lei...» lo scongiurò, poi, indicando con un cenno del capo la foto che poco prima aveva attirato l'attenzione dell'amico.

Il giovane lo fissò con l'espressione di chi era stato colto in fallo. A quel punto, gli occhi grigi di Luke si indurirono e, assumendo un cipiglio severo e sensibilmente adirato, si inchiodarono in quelli viola del suo interlocutore. Aprì la bocca, ma Jared lo anticipò, impedendogli di esprimere la propria opinione al riguardo. «Se sono qui, non è per il motivo che pensi tu... ho una missione personale da compiere e, per portarla a termine, devo parlare con Sakura.» affermò con decisione, serrando i pugni.

«M-missione...?» balbettò Luke, visibilmente sorpreso. «Che genere di missione?»

«Non te lo posso dire, per adesso.» Avrebbe voluto rispondergli in maniera più colorita, come avrebbe fatto normalmente, ma non voleva provocarlo, o la discussione sarebbe finita, ancora una volta, con una scazzottata. E non poteva permetterlo, vista la parola che avevano dato al dottore.

Luke sospirò rumorosamente, rivelando chiaramente la sua insoddisfazione e la sua irritazione per la risposta ricevuta. Tuttavia, cercò di mantenere la calma. «E come pensi di fare? Come farai a parlarle?» Domandò. «Insomma... sai cosa intendo... lei non si ricorda di noi.»

«Credi che non lo sappia? Mi inventerò qualcosa, non ti preoc-» s'interruppe bruscamente, poiché il dottor Stevenson fece il suo ingresso nella stanza.

«Eccomi di ritorno, ragazzi.» disse, appoggiando la pesante cassetta sul tavolo. Dopodiché studiò attentamente, con occhio clinico, le ferite riportate dai due ragazzi. «Direi di iniziare da te, Jared. Benché siano tutte superficiali, le tue ferite sono più numerose» affermò, prendendo posto sulla sedia proprio accanto a quella del ragazzo. «Luke, ci sei andato giù pesante, eh» commentò allibito e sarcastico, aprendo la valigetta e ed estraendo una boccetta di disinfettante a base di acqua ossigenata, del cotone e un dispenser di gel igienizzante per le mani.

Lui, per tutta risposta, mostrò un sorriso tirato. «Eh sì, forse ho un tantino esagerato.» In realtà, se il dottore non fosse intervenuto e avesse sedato la rissa, avrebbe continuato a picchiarlo ancora un po', tanta era la rabbia che aveva covato in corpo.

«Lo credo anch'io.» Convenì Konstanz, erogando due gocce di gel sulle mani e stofinandole con attenzione. Subito l'odore di quella sostanza andò a pizzicare le narici di Luke, catapulatandolo ai giorni del tirocinio in ospedale quando, cercando di non farsi vedere dagli infermieri, dai medici e dagli specializzandi in reparto, se si trovava nei pressi di un carrello dei medicinali, ne approfittava per lavarsi le mani con quel gel. Adorava l'odore e il senso di freschezza che lasciava sulle mani. Per questo, vedendo il contenitore sul tavolo, non poté trattenersi dall'utilizzarne anche lui qualche goccia. Sfregandosi le mani, poi, cominciò ad osservare in maniera scrupolosa ogni azione eseguita dal dottore durante la medicazione, anche se si trattava di un'operazione semplice, che tutte le persone sanno fare, più o meno. E mentre portava avanti il suo lavoro, il dottore intrattenne una conversazione con i due giovani, parlando dei loro progetti futuri, della carriera da musicista di Jared, che stava decollando rapidamente e sarebbe stata definitivamente sancita con il debutto del Thunder & Lightening Tour, e degli studi di medicina di Luke, che si sarebbero conclusi di lì a meno di un anno.

«E dopo la laurea cosa vorresti fare?» domandò Konstanz a Luke, rimettendo a posto tutti gli strumenti impiegati nella pulizia delle lesioni che aveva appena portato a termine.

Luke, a quel punto, si spostò i capelli dalla fronte con un gesto imbarazzato e distolse lo sguardo dal dottore. «Mi piacerebbe... ecco, io... io vorrei seguire le sue orme e fare il neonatologo.» Strinse i pugni, quasi per prendere coraggio. «Mi piacerebbe fare per altri bambini, quello che lei ha fatto per Elias. Vorrei poter rendere omaggio alla memoria di mio fratello, aiutando altri bambini come lui.» Confessò, riportando finalmente gli occhi sul signor Stevenson. Nel suo sguardo scorse una nota di profondo stupore.

«Sono davvero onorato che tu mi prenda come esempio.» affermò l'uomo. «Ma la tua motivazione... quella sì che è ammirevole.» continuò, mentre il labbro tremava leggermente. «Elias era un bambino così buono e sensibile, avrebbe sicuramente appoggiato con molto entusiasmo questa tua scelta. Sono sicuro che sarebbe molto fiero di te.»

«Lo spero, signore. Lo spero con tutto il cuore.» Sussurrò Luke. Ci sperava davvero, sperava che il suo fratellino potesse essere fiero di lui, che fosse disperso da qualche parte nello spazio sconfinato della Terra o che fosse in cielo a sorridere con gli angeli.

«Se hai bisogno di un aiuto nell'elaborazione e nella stesura della tesi, non esitare a chiedere. Qui, in casa, abbiamo una biblioteca scientifica ben fornita.»

«Se potesse dare un'occhiata a quello che sono riuscito a buttare giù fino ad ora, gliene sarei immensamente grato.»

«Certo, quando vuoi.»

Proprio in quel momento, dalla porta della cucina fece capolino la testa di Elena. «La cena è pronta. Ragazzi, vi va di aiutarmi ad apparecchiare?»

«Arriviamo.» Jared e Luke si alzarono e raggiunsero la donna in cucina, mentre Konstanz riportò la cassetta del pronto soccorso a posto.

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Capitolo 34
*** 4.10 Capitolo 4: Profumi (parte 2) ***


Ciao a tutti! Come vi avevo già avvisato ecco l'ultima parte che l'autrice ha pubblicato su Wattpad, ora andiamo di pari passo e quindi quando lei aggiornerà, lo farò anche io qui :) speriamo sia presto per non lasciarvi in attesa, detto questo vi auguro una buona lettura :)  

 

 

La cena venne consumata in silenzio mentre gli odori delle pietanze si perdevano nella sala assieme ai pensieri dei quattro commensali, che aleggiavano nella stanza come fantasmi. Il silenzio era interrotto solo dal tintinnio prodotto dalle posate. Addentando distrattamente i bocconi di carne che aveva nel piatto, ogni tanto Jared alzava lo sguardo e studiava il volto di Elena, che sedeva di fronte a lui. Più volte aveva dischiuso le labbra con l'intenzione di chiederle di Sakura: avrebbe voluto sapere se stesse bene, se fosse serena, se fosse felice. Ma ogni volta richiudeva la bocca e mandava giù il boccone in silenzio. Non aveva il coraggio di affrontare l'argomento.

Quando tutti ebbero spazzolato tutto ciò che avevano nel piatto, Konstanz fece per alzarsi, ma Elena lo fermò trattenendolo per un braccio e costringendolo a sedersi di nuovo.

«Ragazzi, dobbiamo dirvi una cosa.»

«Cioè?» Luke e Jared fecero saettare lo sguardo da Elena a Konstanz e viceversa, non sapendo cosa aspettarsi.

«Tuo padre ci ha chiamato qualche giorno fa , Luke, e ci ha chiesto di trovare una sistemazione per te e tua sorella» spiegò Konstanz. «Abbiamo pensato, quindi, di farvi restare qui con noi per tutto il tempo che dovrete rimanere a Lucca. Anche tu, Jared.»

I due ragazzi tacquero sorpresi, scambiandosi una lunga occhiata.

«Io non credo che sia una buona idea» obiettò Luke, titubante. «Avere Sakura e Margareth nella stessa casa potrebbe essere molto rischioso. E voi lo sapete meglio di me.»

«E poi Margareth mi odierà, e sicuramente condividere la casa con me sarà l'ultima cosa che desidera» intervenne Jared a voce bassa, cercando di evitare lo sguardo di Elena e Konstanz.

«Non vi preoccupate. Abbiamo già pensato a tutto» li rassicurò Elena. « Per te, Luke, e per Margareth abbiamo preparato una delle due dependance presenti nella proprietà, mentre tu, Jared, alloggerai in una delle stanze di sopra.»

Seguì un attimo di silenzio. Fuori aveva iniziato a piovere e si udiva il ticchettio delle gocce di pioggia che si infrangevano contro le tegole del tetto. Luke osservò i coniugi Stevenson e, per un attimo, gli parve di vedere i suoi genitori. Scorse un dolore simile nascosto dietro le rughe appena accennate di Elena e quelle più profonde di Konstanz. E in quel momento, per quanto la loro proposta potesse sembrare insensata e rischiosa, decise di accettare. «Va bene, restiamo. Ma solo perché non mi farete dormire con questo traditore» rimarcò, guardando di sbieco l'amico.

«Concordo!» Replicò Jared infastidito. «Se avessimo dovuto dormire insieme, non credo che saremmo giunti sani fino alla fine di questo soggiorno.»

Elena e Konstanz sospirarono rassegnati.

«Comunque, grazie dell'ospitalità»

«Non c'è di che, ragazzi. Sarà bello avervi qui per un po'.» Elena sorrise, alzandosi da tavola. «Ci pensi tu a sistemare qui, caro?» Domandò rivolta al marito. «Io, intanto, vado a preparare la stanza per Jared.»

«Ma certo. Vai pure, tesoro.» Konstanz si alzò, raccogliendo le stoviglie, imitato da Luke e Jared. «Dottore, lasci che l'aiutiamo.»

«No, ragazzi, non è necessario.»

«Sì, invece.» Replicò Luke. «È il minimo che possiamo fare per ringraziarvi.» Quindi prese la pila di piatti e la portò in cucina.

«Per quanto detesti ammetterlo, ha ragione.» Commentò Jared, prendendo la cesta del pane.

Konstanz sorrise. «Conoscendo la vostra testardaggine, immagino che non possa dire niente per farvi desistere.»

«Ormai ci conosce fin troppo bene.» Concluse Jared divertito.

I tre passarono la mezz'ora seguente a rassettare la cucina e la sala da pranzo chiacchierando del più e del meno. Mentre erano in cucina e stavano asciugando gli ultimi piatti da riporre poi nell'apposita credenza, vennero raggiunti da Elena. «Ma come siete stati efficienti!» Disse lei, ammirando il lavoro che avevano fatto. Tutto era lindo e in ordine. Si avvicinò a Jared e gli sottrasse il piatto e lo straccio dalle mani. «La tua stanza è pronta, se vuoi puoi andare su e sistemare le tue cose.»

«Vieni con me che ti mostro dove si trova.» Konstanz infilò l'ultimo piatto nello scolapiatti e si diresse verso la sala da pranzo. «Vieni anche tu, così dopo andiamo nella dependance» aggiunse diretto a Luke.

«Arrivo.»

Una scala rustica in legno di nocciolo li condusse al piano superiore: uno spazioso corridoio, dipinto di un luminoso color crema, dava accesso alle quattro camere da letto disposte sui lati più lunghi e ai due bagni disposti sulle due pareti di fondo. Jared e Luke seguirono il padrone di casa nella stanza più vicina al bagno più piccolo. Prima di entrare Konstanz trasse un profondo respiro, quasi fosse agitato. Poi appoggiò la mano sulla maniglia e la tirò giù. Il locale era immerso nel buio, perciò premette l'interruttore: le numerose luci ad incasso illuminarono un ampio ambiente racchiuso da pareti bianco panna. Ad uno dei muri era addossato un letto da una piazza e mezzo e un comodino in legno chiaro, ai piedi dei quali era disposto un tappeto a fili viola. Su quello di di fronte, sotto la grande finestra, c'era uno scrittoio bianco. Il tutto era poi completato da un capiente armadio a muro e un pouf posizionato in mezzo alla stanza.

Jared era incredulo. Non si aspettava di certo di poter alloggiare in una stanza tanto bella. «Questa camera è il massimo...» Si avvicinò al letto e carezzò la coperta. Il profumo fresco di lavanda gli sfiorò il viso e, all'improvviso, un senso di disagio lo assalì. C'era qualcosa in quella camera che gli parlava di lei. Che fosse l'odore, i colori o la casa in sé, non sapeva dirlo. Eppure era riuscito a carpire il sospiro nostalgico e malinconico custodito fra quelle quattro mura da chissà quanto tempo. Si voltò verso il signor Stevenson in cerca di una conferma ai suoi sospetti e alle sue sensazioni, ma lui distolse lo sguardo. «Dobbiamo muoverci a raggiungere la casetta prima che inizi a piovere con maggior insistenza» affermò sbrigativamente, come se non vedesse l'ora di uscire da quella stanza. Era già sulla soglia, quando si girò verso Jared. «Tu preferisci rimanere qui, o vieni con noi?»

Lui si guardò un'ultima volta attorno. «Vengo con voi.» Dopodiché raggiunse gli altri due e si chiuse la porta alle spalle.

Le due dependance erano disseminate nel grande campo che circondava il casolare, uno spazio sterminato segnato da terreni scoscesi, da un continuo saliscendi tappezzato di vigneti e uliveti.

«State attenti a non scivolare» si raccomandò il dottore, mentre affrontava una discesa piuttosto ripida. Il fascio della grossa torcia che teneva in mano rivelava un terreno fangoso, reso ancora più sdrucciolevole dalla neve e dalla pioggia che erano cadute nelle ultime ore. Jared e Luke, avvolti nei loro impermeabili colorati, lo seguivano muniti di due pile più piccole. Finalmente, ormai bagnati fradici, raggiunsero la prima delle due dependance, riconoscibile per l'intonaco di un acceso, quanto improbabile, arancione. Entrarono. L'interno ricordava tanto una di quelle soluzioni tipicamente proposte dall'Ikea per riorganizzare lo spazio in pochi metri quadrati: la cucina ad angolo, dalle credenze a vista, si chiudeva attorno a un piccolo tavolo quadrato e si appoggiava ad un muro che la separava dal bagno. Sopra il bagno era stato costruito un soppalco che ospitava due letti, due comodini e una cassettiera.

«Che ne pensi?» Domandò Konstanz con una punta di orgoglio nella voce. Lui, sua moglie e sua figlia avevano passato tante giornate a ristrutturare quelle due case in miniatura.

Luke, ammutolito, salì la piccola scala con la quale si accedeva al soppalco e si buttò sul letto di schiena. «Cosa ne penso? Che è meglio di qualsiasi cosa che avessi mai desiderato!» Poi, rigirandosi su se stesso, aggiunse: «Lasciatemi pure qui. Mi faccio una doccia e mi godo questo angolo di paradiso prima che arrivi Margareth.»

Konstanz rise. «Va bene. Allora noi andiamo.» L'uomo fece per aprire la porta, quando Luke lo fermò. «Aspetti, Dottore!» Con un balzo lo raggiunse e lo abbracciò. «Grazie di tutto, signore.»

Konstanz sorrise. «Grazie a te per tutto ciò che hai fatto in tutti questi anni.»

Luke sentì l'uomo stringerlo in maniera sincera, con un misto di riconoscenza e commozione, trasformando quell'abbraccio in qualcosa di più di un gesto fra semplici conoscenti. Quando sciolsero l'abbraccio, i due si scambiarono un ultimo sorriso, poi Konstanz e Jared lasciarono la casetta.

Luke, quindi, decise di ributtarsi sul letto e di riposarsi prima di mettersi sotto la doccia. Spense la luce. Per una manciata di minuti rimase in silenzio, cullato solo dal rumore della pioggia che continuava a cadere imperterrita. Immobile, contemplava il caleidoscopio di luci e ombre che la Luna riusciva a proiettare sul soffitto, resistendo alle nubi che tentavano di oscurarla.

Poi, d'un tratto, l'incantesimo si spezzò. Il soffitto in parte si oscurò con un'ombra piuttosto consistente. L'ombra di qualcuno. D'istinto, Luke guardò fuori dalla finestra. Oltre la cortina di pioggia, riuscì a distinguere una sagoma dai contorni sfocati, una presenza inquietante, spettrale. «C'è qualcuno?» Si alzò di scatto e si precipitò di sotto. Fu allora che attorno a lui si diffuse un forte profumo di pino. Prima ancora che potesse rendersene conto, udì dei passi provenire dal soppalco. Chiunque avesse visto lì fuori, adesso era lì dentro con lui. Cominciò a sudare freddo. Cercando di non perdere la calma, si diresse verso l'interruttore e provò ad accendere le luci. Ma il contatore saltò con un click. «Maledizione!» Sibilò a denti stretti. Senza darsi per vinto afferrò la pila che aveva precedentemente appoggiato sul tavolo e, a passi felpati, facendo meno rumore possibile, imboccò la scala. Ad ogni gradino, sentiva il cuore risalire sempre più su, fino alla gola. Deglutì. Una volta in cima, accese la torcia. Il sangue gli si gelò nelle vene. Un uomo gli stava dando le spalle. Lo vide voltarsi e guardarlo sorpreso. Si fissarono per un attimo che parve infinito. Poi, anche la torcia saltò. Luke provò subito a riaccenderla. Il fascio partì, illuminando tutta la stanza. Ma dell'uomo non c'era traccia. Si dette un'occhiata intorno per vedere che fosse tutto a posto, quando la sua attenzione venne catturata da un tonfo e da qualcosa di vetro che si infrangeva al suolo. La sveglia. Andò a raccoglierla e, per scrupolo, controllò l'ora. Era indietro di un quarto d'ora. Segnava le 10.45.

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