Schadenfreude

di mrs konstantyn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La porta di legno e vetro trasparente si chiuse con un discreto fragore, facendo tremare di conseguenza la vetrata adiacente a essa, che si affacciava sulla strada. Un alito di vento gelido accolse il ragazzo appena uscito, come se lo stesse attendendo da ore al di fuori del caffè in cui lavorava. Il tedesco si strinse nel giaccone color cenere che aveva indosso, increspando le labbra in una smorfia che esprimeva il suo fastidio, e rimpiangendo immediatamente il torpore del luogo appena lasciato. Sopra la sua testa, una cappa plumbea e pesante inglobava il cielo austriaco, coprendo Vienna come un cappotto sulle spalle di un uomo.

Il freddo era tale da aver apparentemente scoraggiato i più abitudinari frequentatori della Kärntnerstraßepoiché essa appariva incredibilmente vuota, in confronto al suo consueto.
In più, l'orario sicuramente non era quello in cui una persona avrebbe avuto piacere di uscire dalla propria abitazione, se nulla l'avesse costretta o invogliata a farlo.
Quella sera di ottobre, ben pochi si erano avventurati nella zona pedonale viennese: una buona maggioranza di negozianti degli esercizi circostanti, e una manciata di turisti, a giudicare dalle lingue differenti che parlavano. 
La figura del giovane si mosse tra quelle persone, attraversando la strada con le mani nelle tasche dei pantaloni. Il suo aspetto suscitava interesse, mistero, contrapposti ad un pizzico di timore. Due particolari lo rendevano particolarmente interessante: i capelli, lunghi sui lati del capo e più corti sulla fronte, la cui tinta si avvicinava più all'avorio che alla cenere, e gli occhi cremisi, lucenti ed imperscrutabili, inquietanti quanto stuzzicanti. Quella coppia di dettagli, fusi nella sua persona, erano le componenti di un binomio perfetto.
Di certo, Gilbert Beilshmidt non passava mai inosservato; non che questo fatto gli avesse mai arrecato alcun tipo di fastidio: attirare l'attenzione, gli sguardi della gente, passare almeno un secondo sulla bocca di ognuno, era fonte di un appagamento non indifferente. L'amore per sé era una componente predominante del suo essere, e come lui stesso sosteneva, una delle sue più grandi qualità. Fargli notare che non tutte le occhiate ed i commenti a lui dedicati sarebbero potuti essere benevoli, era una perdita di tempo assoluta. Gilbert era, sin da quando ne avesse memoria, irrimediabilmente convinto della sua supremazia sugli altri, e di quanto apprezzamento avrebbe meritato per le sue "capacità innate" -l'albino era molto restio ad approfondire il concetto, spiegando quali esse fossero realmente-.
Mentre un lugubre boato spezzava il silenzio del quartiere, la vibrazione del suo cellulare, infilato nella stretta tasca dei jeans, costrinse il ragazzo ad arrestare il proprio passo, per controllare chi volesse parlare con lui.
Sbuffò seccato, e forse deluso, realizzando che il mittente della chiamata non era altri che suo fratello, pronto ad inondarlo con fiumi di domande sulla sua posizione, la sua salute ed il suo impego, magari inserendo tra di esse una richiesta, implicita o meno, di tornare in Germania.
La prospettiva di un'ennesima conversazione superflua, senza alcuna conclusione, diede l'impulso di muoversi sullo schermo al suo pollice, facendogli premere il pulsante rosso lampeggiante al centro del display, troncando il  prevedibile dialogo ancora prima che avesse possibilità di nascere. 
Raggiunse il capolinea della zona pedonale dopo qualche minuto di camminata, accompagnando il tragitto con un concitato monologo incentrato su quanto la sua vita sarebbe stata più semplice, se non fosse stato pressato dal controllo maniacale del minore. Tra i due vi era una differenza di soli tre anni, la quale, per un estraneo, sarebbe stata impossibile da intuire: Ludwig era più alto, più sviluppato e -secondo il suo giudizio personale- molto più maturo di Gilbert. Sin dalla loro adolescenza, il più piccolo aveva assunto il ruolo di padre ausiliario, per sopperire alla scarsa presenza dei genitori, provvedendo ad impartigli piccole lezioni di educazione ogni volta che Gilbert, chiaramente più confusionario e meno disciplinato dell'altro, commettesse qualche piccolo sgarro. 
Certamente i risultati non mancarono, ma una delle conseguenze di quella direttiva fu la voglia crescente e premente del maggiore di staccarsi dalla famiglia. 
All'età di ventuno anni, lui e Ludwig si trasferirono all'università di Monaco di Baviera, e lì trascorsero quattro anni della loro vita, fino a quando il primo non interruppe bruscamente i propri studi per trasferirsi in Austria, rendendo conto ai genitori della sua decisione solo una volta attraversato il confine. Da quel dì in avanti, non passò un giorno in cui il fratello non gli telefonò per accertarsi che stesse bene.
Nonostante litigassero spesso a causa della condotta di vita a tratti sregolata di Gilbert, il rapporto che li legava era forte ed indissolubile. I due fratelli erano uniti da un enorme affetto, il quale entrambi erano riluttanti a palesare, colpevole il loro orgoglio.

Gilbert salì in macchina, bofonchiando qualcosa sull'insufficiente vita sessuale di Ludwig, e interruppe il suo parlottare solo quando accese il mezzo. Lo mise in moto, girando la chiave, e solo allora, attirato dal picchiettare incessante proprio sopra la sua testa, il giovane alzò gli occhi dal cofano, accorgendosi finalmente di un flusso crescente di gocce d'acqua che si abbattevano senza pietà sul suo parabrezza. Sbuffò rumorosamente, esprimendo tutta la sua contrarietà, mentre schiacciava l'acceleratore, ingranava la retromarcia e usciva dal parcheggio.

La pioggia aumentava la violenza del suo flusso ad ogni metro percorso, riducendo la strada di fronte al tedesco a nulla di più di un'immagine sfocata dai soli contorni definiti, obbligandolo a guidare senza nemmeno scorgere nitidamente il tragitto che stava percorrendo, girando meccanicamente il volante come un automa, affidandosi soltanto alla sua memoria, per distinguere il punto nel quale si trovava. Ad aggiungersi ai fattori che rendevano pressappoco impossibile la guida, vi era la tartassante suoneria del suo cellulare, la quale non gli concedeva nemmeno un attimo di tregua. Il suo sguardo, fino a poco prima fisso sulla strada, si sposta con estrema rapidità sul proprio cellulare, solo per controllare chi fosse il mittente della telefonata. Era quasi ovvio che si trattasse di Ludwig, adirato per essere stato ignorato le volte precedenti. 
Evitando per l'ennesima volta di parlare con il fratello, Gilbert tornò a concentrarsi sul tragitto, strizzando gli occhi nel vano tentativo di acquistare un minimo di visibilità in più, stringendo spasmodicamente il volante per non permettere alle ruote di slittare sull'asfalto sdruccioloso. Ormai stava procedendo alla cieca, non essendo più in grado di vedere alcunché, se non le migliaia di gocce di pioggia illuminate dagli abbaglianti dell'automobile, intente ad assediare la città, innumerevoli, tali che gli sarebbe stato impossibile distinguerne nitidamente una dalle altre centinaia attorno ad essa, come se fossero un blocco unico, uno schermo che lo separava dalla realtà attorno a lui. Proprio in quell'istante, il suo cellulare squillò per la terza volta. Esasperato, preda di uno scatto di rabbia e frustrazione, il ragazzo si sporse verso il sedile del passeggero per afferrare il telefono, stringendolo con la mano destra, relegando alla sola sinistra il compito di reggere il volante. La sua attenzione venne catturata per pochi attimi dall'apparecchio, giusto il tempo necessario per premere il pulsante di risposta sullo schermo e portarlo all'orecchio. 
«Gilbert!- La voce profonda del fratello arrivò molto vicina a sfondargli il timpano. Dopo quell'iniziale sfogo, tuttavia, si placò con velocità disarmante, palesando, con un sospiro esausto la sua intenzione di riprendere la calma. -Mein Gott, si può sapere che fine hai fatto? È da tutto il giorno che non mi rispondi.» Se il maggiore avesse potuto imitare la risposta dell'altro, ancor prima che questo la pronunciasse, avrebbe probabilmente pronunciato quelle esatte parole. Gilbert si trattenne dal salutarlo con un sempreverde "ciao anche a te, mamma", ma risolse che Ludwig era alterato a sufficienza, e dargli un'ulteriore ragione per esserlo non sarebbe stato una scelta saggia. «Ero a lavoro.» Replicò frettolosamente, utilizzando la stesa scusa con la quale, fino ad allora, aveva mascherato qualsiasi situazione del genere.
Per motivi completamente oscuri all'albino, il fratello rifiutò per la prima volta quell'attenuante, la quale non sembrò far altro se non irritarlo maggiormente. Ludwig ricominciò a sbraitare, accusandolo di essere un completo incosciente, tirando in ballo l'irresponsabilità dimostrata, non solo quel giorno, ma sin da quando decise di lasciare la Germania.
Infastidito dalle accuse del più piccolo, dal suo repentino e apparentemente immotivato cambio di atteggiamento nei suoi confronti, Gilbert abbandonò il suo proposito di rimanere calmo per concludere al più presto la telefonata, rispondendo con altrettanta ira, dando inizio ad una lite velenosa alla quale nessuno dei due, se avesse avuto l'occasione di scegliere avrebbe voluto dare inizio.
Furibondo, Gilbert espresse tutta la sua frustrazione in un grido, sputando con rabbia quanto non sopportasse il maniacale bisogno di controllo del fratello, quanto preferisse stargli lontano.
E fu allora che si distrasse, per un breve ma fatale momento. Perse il controllo della macchina, che slittò sull'asfalto a velocità spaventosa. A quel punto, il tedesco credette che si sarebbe ammazzato. Afferrò saldamente il volante, in un tentativo disperato di riprendere la padronanza, e mentre tentava di raddrizzare la vettura sulla carreggiata, schiacciò con forza incredibile il pedale sinistro. L'automobile scivolò per ancora qualche metro, i freni stridettero, producendo un rumore acuto e perforante, inquietantemente simile ad un grido, prima che la macchina si arrestasse completamente. L'albino era sicuro di aver visto la sua intera vita passargli davanti agli occhi, in neanche un minuto di terrore. Le mani del giovane corsero lungo tutto il suo corpo, toccandone ogni singola parte raggiungibile, per assicurarsi che fosse ancora tutto intero. Come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato, respira affannosamente, tentando di tranquillizzarsi.
Fu in quel momento che, in una manciata di secondi, realizzò che ciò che aveva udito poco tempo prima era realmente l'urlo di un uomo.

Gilbert spalancò lo sportello, scendendo dalla vettura barcollando, ancora fisicamente scosso dall'accaduto, e corse verso un piccolo gruppo di passanti addensatosi attorno un punto preciso, noncurante della pioggia ancora incessante, la quale, nel giro di cinque secondi, lo aveva già inzuppato dalla testa ai piedi. Si fece largo a spintoni tra la folla che andava aumentando, riuscendo a spostarsi al centro di essa, luogo nel quale giaceva un corpo immobile, con la schiena schiacciata contro l'asfalto e le braccia aperte, mentre gli arti inferiori erano leggermente accavallati in una posizione assolutamente innaturale. Una terribile morsa gelida attorcigliò lo stomaco del tedesco. Se fu assalito dall'orrore solo osservando le condizioni da lui stesso causate a quell'uomo, credette che quella orribile sensazione di gelo lo avrebbe portato a vomitare, quando riconobbe la persona che aveva investito.
I capelli castani dell'uomo, leggermente lunghi sul davanti, ora completamente zuppi, appiccicati scompostamente sul viso macchiato di sangue, i lineamenti dolci, femminei del volto, che accompagnavano delle guance scarne, e infine gli occhi, dei quali, nonostante fossero chiusi, aveva in mente il colore scuro tendente all'ametista, ipnotico ed ammaliante, vivido nella sua memoria nonostante il tempo trascorso dall'ultima volta che li aveva visti.
L'austriaco non aveva indosso gli occhiali, con tutta probabilità scivolati via durante la collisione, e ora dispersi chissà dove. Il tedesco scivolò in ginocchio davanti a lui, le gambe che avevano smesso improvvisamente di reggerlo. Fu tentato di toccarlo, per essere sicuro che non si trattasse di un'illusione, incapace di accettare che fosse veramente lui, eppure non lo fece. Si limitò a pronunciare il suo nome, in un sussurro flebile, coperto dallo scrosciare della pioggia che si abbatteva sull'asfalto e dalle sirene dell'ambulanza che si avvicinava.
"Roderich."

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


L'albino sedeva rigido di fronte alla costosa scrivania di mogano, con la schiena dritta e i muscoli apparentemente congelati, i pugni stretti sulle ginocchia e il capo chino, posizione che aveva assunto sia per la profonda stanchezza, che per una malcelata vergogna nei confronti di colui che aveva davanti.
Quella stanza finemente arredata, da due ore a quella parte aveva assunto il ruolo di una prigione, dalla quale sentiva il bisogno fisico di allontanarsi prima di impazzire definitivamente. Sentiva che se si fosse messo ancora a osservare il mobilio che lo circondava pur di non alzare lo sguardo sull'austriaco, gli sarebbe venuto il voltastomaco. Eppure, la sensazione che lo teneva in pugno non era certo più piacevole della nausea: a ogni singolo respiro, la stessa aria gli graffiava la gola, apparendo pesante come mai avrebbe pensato che potesse essere; avrebbe tanto voluto incolpare quel malessere fisico del gelo che gli attanagliava lo stomaco, ma avrebbe soltanto mentito a se stesso.
Non si sentiva diverso da come sarebbe stato se lo stesso Roderich avesse le mani strette attorno al suo collo con l'intento di strangolarlo, cosa che l'altro, a dispetto della rabbia che provava nei suoi confronti, non sarebbe stato fisicamente in grado di fare. Il suo aspetto portò Gilbert a convincersi che, se egli avesse compiuto un movimento troppo rapido, si sarebbe spezzato come un ramoscello secco. La carnagione naturalmente pallida dell'uomo si era colorata di una tonalità spenta e malata, tendente al grigio, le sue guance erano spaventosamente incavate, scarne, e quegli occhi scuri e profondi, una volta simili a due ametiste, ora opachi e vuoti, privi della vita che una volta si specchiava in essi; il castano a stento sembrava in grado di reggere il suo stesso corpo sulla sedia. La consapevolezza di essere stato lui soltanto ad averlo ridotto in quello stato costituiva una straziante tortura psicologica che, ne era certo, non avrebbe mai smesso di perseguitarlo.

Una mano si abbatté senza preavviso sulla scrivania, facendo saltare Gilbert sulla sedia, dato il fragore che produsse. Il tedesco alzò finalmente il capo in un riflesso automatico, e si ritrovò costretto a posare lo sguardo su Roderich, che sedeva composto e inflessibile di fronte a lui, gli avambracci adagiati sui braccioli della sedia, la testa tenuta alta dal suo immortale orgoglio. Lo osservava immobile e impassibile, celando la sua ostilità dietro a quella stoica freddezza. Al suo fianco stava un uomo biondo, con i capelli a caschetto, gli occhi verdi, di media statura e vestito piuttosto elegantemente; avrebbe potuto avere all'incirca la loro età. Era piegato verso di lui, i denti digrignati in un'espressione furiosa, la mano ancora aperta e appoggiata sul tavolo, mentre l'altra stringeva priva di delicatezza una decina di fogli stropicciati -causa, la sua palese pazienza-. «Mi sta ascoltando, signor Beilshmidt?» Domandò retoricamente, visto che entrambi i presenti avevano notato la disattenzione dell'albino, con il suo tedesco preciso eppure non totalmente pulito, quasi come se si sforzasse a parlarlo.
"Svizzero." Pensò il giovane appena quello aprì bocca la prima volta. 

 Annuì stancamente, pronunciando un "sì" flebile e poco convincente. Quella breve replica fece andare il biondo su tutte le furie.
«Può almeno fingere di avere rispetto per il signor Edelstein, visto che è stato lei a ridurlo in questo modo? O si sta divertendo a vederlo così?- A ogni parola, la sua collera sembrava crescere, alimentata dalla stessa vista del ragazzo davanti a lui. Se fossero stati soli, convenne Gilbert, con tutta probabilità gli avrebbe messo le mani addosso.- Si sente fiero di se stesso, non è vero?» Essere accusato di provare piacere, nell'essere costretto a guardare Roderich in quello stato, faceva tremendamente male. Come se i sensi di colpa che lo tormentavano incessantemente, ogni volta che chiudesse gli occhi, sin dal giorno dell'incidente non fossero abbastanza. Avrebbe voluto dire tutto questo per far tacere l'uomo, ma le parole gli morirono in gola.

«Vash, adesso smettila.- Gli intimò l'austriaco, calmo ma ugualmente intransigente, precedendo quelle con un gesto secco della mano. -Basta così.» Seppure la sua voce fosse poco più di un sussurro esausto, lo svizzero smise immediatamente di inveire contro il tedesco. Quasi imbarazzato dall'aver perso le staffe, strinse i pugni e tornò a sedersi, riprendendo la discussione principale, dopo aver compiuto un paio di respiri profondi per tornare in sé, da dove l'aveva interrotta.
 «Lei è consapevole di aver causato un danno permanente al mio cliente?- Gilbert disse di sì, senza alcun tipo di emozione, come aveva fatto le altre tre volte in cui l'avvocato gli aveva posto quella domanda. - Niente potrà ripagare ciò che lei ha portato via al signor Edelstein, ma le abbiamo proposto ugualmente una cifra simbolica come risarcimento. E sa bene che non siamo disposti a negoziare.»
Prossimo a raggiungere il limite della sopportazione, il tedesco tentò con tutte le sue forze di mantenere un contegno diplomatico, sospirando rassegnato alla sua condizione. «Vi ho già detto che non posso pagarla.» Gilbert aveva un'assicurazione sugli infortuni, che però non sarebbe mai stata in grado di rendergli l'intera cifra richiesta dal legale di Roderich. Avrebbe potuto ritirare ogni suo risparmio custodito in banca, vendere la sua macchina o farsi pignorare fino all'ultimo degli oggetti che possedeva e non sarebbe comunque riuscito a pagare il risarcimento.  Per un ragazzo che lavorava in una caffetteria, semplicemente possedere una simile somma rappresentava un'autentica utopia. 
Vash assunse un'aria noncurante, che lo rese, agli occhi del tedesco, quasi più detestabile di quando gli stava sbraitando contro. «Non ci interessa. È ciò che il giudice ha stabilito, quindi non può fare altro che rispettarlo. Faccia un'ipoteca sulla casa, se attualmente non possiede l'intera cifra.»
Fu a quel punto che l'albino si rifiutò di fingersi pacato per l'ennesima volta, e perse definitivamente la calma. La scarsa considerazione con cui lo svizzero aveva appena trattato i suoi problemi di soldi, lo offese a tal punto da soffocare la sua vergogna. Così, il suo atteggiamento accondiscendente cessò di manifestarsi, cedendo il testimone alla collera più pura. 

«Volete mandarmi sul lastrico per dei soldi che non vi servono? Pur di avere una somma che di certo non vi cambierà la vita, volete distruggere la mia?» Esclamò ad alta voce, stanco di mormorare e tenere la testa bassa. 
In quel momento, l'austriaco smise di mantenere quel contegno forzato e di semplice apparenza, gridandogli contro con tutta l'ira che si era tenuto dentro tanto a lungo. «Proprio tu parli di rovinare la vita agli altri? Tu che mi hai fatto questo?»
L'albino dimenticò tutto a un tratto ciò che avrebbe voluto dire, bloccato da quella risposta carica di  esasperazione.
Si alzò in piedi con uno scatto, spingendo indietro la sedia senza un minimo di grazia. Non disse neanche una parola, né degnò Roderich e l'avvocato di un ultimo sguardo prima di lasciare lo studio dell'abitazione del castano, nella quale aveva promesso a se stesso di non rimettere mai più piede, parecchio tempo prima di allora.

«Voglio interrompere questa relazione.- Le parole dell'austriaco spezzarono il silenzio vuoto creatosi tra le quattro mura della camera da letto. Produssero un suono simile a quello di un un proiettile che sferza l'aria: furono decise, inflessibili; non echeggiarono con prepotenza, ma sostarono abbastanza per essere udite e comprese.

Il diretto interessato, ancora adagiato sul proprio letto, coperto dai soli jeans ed una canottiera, fu evidentemente colto in un momento nel quale era assorto: sussultò ed alzò il proprio capo, aprendo la bocca per lo sconcerto, impietrito da quella dichiarazione inaspettata e dolorosamente solenne. -Ormai è evidente che nessuno di noi è più sufficientemente appagato dall'altro.»   Gilbert si affrettò a spostare la sua attenzione sull'improbabile partner, che aveva pronunciato quelle parole rivolgendogli le spalle, dinnanzi alla finestra posta di fronte alla porta. Quella sera, non uno spiraglio di luce filtrata da essa.

Era intento ad abbottonarsi la camicia, con gesti svelti delle dita esili, la cui fretta era dettata dall'idea che prima si sarebbe vestito, prima quel capitolo si sarebbe concluso.
Teneva un contegno imperturbabile, degno di una statua di marmo. Non si piegò, tanto meno tremò. L'unica componente di lui che si permise di indugiare, fu il suo sguardo: percorse il perimetro che si mostrava davanti ai suoi occhi, descrivendo con delicatezza ogni dettaglio ed imprimendolo nella sua memoria, come per dare un estremo saluto a quella stanza che aveva funto da sipario per mesi, celando lo spettacolo che era il loro peccato.
Le molle del letto cigolarono sotto la pressione e la conseguente mancanza del peso del tedesco, che si levò per avvicinarsi all'uomo. «Stai scherzando?- Quando si trovò dietro di lui, appoggiò la mano destra sulla sua spalla, e lo costrinse a voltarsi per fronteggiarlo. Le iridi scure e fiammeggianti di Gilbert scannerizzarono l'intera figura dell'austriaco, sostando sul suo viso  abbastanza per suscitare in lui un certo timore. Strinse la presa delle dita, artigliando con forza la scapola, sottolineando la rabbia crescente. -Lo fai per dettare altre condizioni, non è così?»
Digrignò i denti furente, sottolineando la sua intenzione di non assecondare quell'ennesimo capriccio. Non era certo la prima volta che l'uomo si prendeva la libertà di imporre delle regole in quel rapporto, per proteggere la sua dignità e fingere di possedere ancora un minimo di pudore.
Scrollando le spalle con vigore, l'austriaco costrinse il tedesco a liberarlo dalla sua stretta così aggressiva. «Pensi che tutto giri attorno a te, non è così?» Sputò acidamente, il disprezzo nella sua voce inequivocabile.
Superò l'albino con passo lesto, fermandosi per raccogliere dal pavimento il cappotto viola che vi aveva abbandonato poche ore prima, sperando di essersi espresso a sufficienza, e avergli fatto comprendere che sarebbe rimasto irremovibile sulla sua decisione.
Purtroppo per lui, non aveva fatto i conti con la tenacia di Gilbert. Il moro emise un verso acuto e contrariato quando si sentì afferrare nuovamente il braccio sinistro, venendo poi costretto a voltarsi verso l'altro. Sfruttare la forza di cui il tedesco era indubbiamente dotato rappresentava un colpo basso, che però non si era mai fatto scrupoli ad attuare. Erano entrambi ben consapevoli di come l'albino fosse in grado di sottometterlo fisicamente senza troppi sforzi; stargli vicino così a lungo avrebbe potuto portare ad una piega decisamente spiacevole, almeno per Roderich.
«Da quando sono un ragazzino?- Lo incalzò furente, avvicinando il volto contratto dalla rabbia al suo, ora timoroso, nonostante cercasse di non darlo a vedere. -Da quando non servo più a farti divertire?» Calcò l'ultima parola con una combinazione di astio e scherno, ottenendo, come conseguenza l'evidente indignazione dell'altro.
Deglutendo a vuoto per riprendere un contegno, il castano trovò il coraggio di controbattere.
«Lo sei sempre stato.- Sibilò a denti stretti. -E adesso lasciami.» Si liberò dalla presa del ragazzo con un violento strattone, ed indietreggiò rapidamente fino alla porta.
Le mani di Gilbert tentarono vanamente e molteplici volte di trattenere Roderich ulteriormente, ma quello scatto di risolutezza fu tale da spingerlo fino al capolinea.
Egli non ascoltò i richiami carichi di furia del tedesco, e lo abbandonò di fronte alla porta, sancendo, con il boato provocato dal chiudersi di essa, la fine della loro ultima conversazione.

 

Mentre Vash imprecò ripetutamente contro Gilbert, urlandogli di tornare indietro e maledicendolo decine e decine di volte, Roderich non tentò neanche di trattenere il tedesco quando lo vide andarsene. Anche se avesse voluto corrergli dietro, non avrebbe potuto farlo.
Non'appena quest'ultimo se ne andò, egli si lasciò andare contro lo schienale, rassegnato e semplicemente stanco, troppo persino per chiedere allo svizzero di calmarsi. Portò una mano al viso, massaggiandosi le tempie con il pollice da un lato e il medio dall'altro, chiudendo lentamente gli occhi, serrando le palpebre pesanti, per trovare un po' di temporaneo sollievo.
Rimase fermo in quella posizione, immobile, sfinito ed esasperato, con il petto che si alzava e abbassava flemmatico, il corpo schiacciato sotto la sua stessa debolezza e le gambe paralizzate legate al sostegno della sedia a rotelle.

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