Take a look at me, now

di ComeWhatKlaine__
(/viewuser.php?uid=361991)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Some things never change ... Don't they? ***
Capitolo 3: *** Where are you, now? ***
Capitolo 4: *** Shooting Stars ***
Capitolo 5: *** Or will we forever only be pretending? ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Spazio dell'autrice:
Ciao a tutti! :)
Questa è la prima long su Dragon Ball che scrivo, prima di oggi mi sono cimentata solo ed unicamente con le OS, quindi chiedo scusa in anticipo se la storia potrà sembrare a tratti poco scorrevole o, al contrario, troppo rapida, ma prometto di impegnarmi al massimo per cercare di fare il migliore dei lavori per quelle che sono le mie capacità.

Inutile specificare che amo questa coppia alla follia e che occupa un posto speciale nel mio cuore praticamente da sempre.
Spero vi piaccia questo piccolo prologo, prestissimo arriverà il primo capitolo effettivo.
Baci a tutti.
-Giuls



La prima cosa che mi viene in mente quando ripenso alla mia infanzia è il rumore della pioggia contro la finestra della mia camera.
Può sembrare estremamente triste e deprimente, ma in realtà non è affatto così: adoravo fissare le gocce che scivolavano quiete sul vetro, unendosi e scindendosi, in una danza sempre diversa.
Immaginavo che arrivassero tutte trafelate dal cielo proprio per ritrovarsi lì, ad un palmo di mano da me, 

e per partecipare a quell’esclusiva festa da ballo, prima che il Sole ricomparisse, segnando i loro personali rintocchi di mezzanotte.

Mi sentivo al sicuro, rannicchiata sotto la mia coperta e seduta sul davanzale.
Protetta e cullata da quel suono per me tanto dolce.
E’ strano: dall’esterno chiunque mi definirebbe come una persona solare, eppure io mi sono sempre ritenuta una figlia della pioggia.

Poi i venti si sono fatti più forti, fuori e dentro di me, e ogni volta un pezzetto della ragazzina tutta occhi e sogni andava via con la corrente.
Credo sia inevitabile quando si cresce, ma nonostante tutto sono rimasta in piedi, sempre, ad ogni colpo, conservando di quella ragazzina la parlantina ed il sorriso.
E poi venne un vento più forte di tutti gli altri e da figlia della pioggia sono diventata figlia della tempesta.


Non c’erano più delicate strisce sul vetro a solleticare la mia fantasia, ma solo uragani e un cielo più scuro della notte.
Mi sono fatta trascinare nel vortice, senza ritegno e riserva alcuna.
Sono stata trasportata fino ai picchi più alti del piacere assoluto e poi scaraventata giù, in basso, contro muri di indifferenza.
Ma il mio cuore era la tempesta più impetuosa ed amava, amava, amava quel gioco masochista.
D’altronde, quella partita a due mi ha regalato la mano migliore della mia vita.
E due occhi neri e profondi che guardano in quel modo me e solo me.
Non ero più sola ad inventare le mie storie: ero fuori, in balìa della corrente a viverli in due.
Ero viva.

Ma a volte una vita di tempeste brucia più di qualunque fiamma e quel sorriso, che anche dopo i colpi di ventura peggiori era rimasto intatto , sentivo che iniziava a svanire.
Il turbine si era fermato.
Il cielo rischiarato.
Ed io mi ero fermata.
Ero immobile, statica. Ed avevo toccato il fondo.
Dicono che quando accade, ciò che puoi fare è solo riemergere.

Ma, mi chiedo, come puoi risalire davvero se a quel fondo ci sei ancorata?






 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Some things never change ... Don't they? ***


“Mamma, mamma? Dove ti sei cacciata?”
Trunks sorvolava rapido la cupola color burro della Capsule Corporation, con il ciuffo ribelle che gli sbatteva sulla fronte.
Aveva ormai quasi quindici anni ed ogni giorno che passava era sempre più simile a suo padre: le braccia perennemente incrociate, l’aria scontrosa e quel cipiglio che sarebbe stato davvero identico a quello del Principe se non si fosse scorto sotto di esso lo stesso azzurro limpido degli occhi di sua madre.
“Mamma? Sei qui?”
Atterrò sulla grande terrazza centrale e corse dentro, cercando di scorgere il caschetto azzurro di sua madre in mezzo al biancore degli interni.
Finalmente lo vide, al di là della poltrona rosa e sorrise soddisfatto.
“Hey, eccoti qui. Ti ho cercata ovunque. La Camera Gravitazionale ha qualche problema, credo.
Prima è andata via la luce e per un po’ l’interruttore non ha funzionato.
Forse è meglio che tu dia un’occhiata, sennò lo sai papà come … Mamma, ma mi stai ascoltando?”
La vide trasalire, come se solo ora, che le aveva posato una mano sulla spalla per scuoterla, si fosse accorta di non essere più sola.
“Oh … Ciao, ciao tesoro. Va tutto bene?”
“Ehm, sì mamma grazie … Ma, hai sentito quello che ti ho detto?”
“Oh, certo … certo. Non preoccuparti.”
Trunks la fissò, profondamente, con un’apprensione sottile che lo fece sembrare ancora più simile a suo padre, in quel modo unico di guardarla.
“Mamma, sei sicura di stare bene?”
Bulma lo guardò di rimando, occhi negli occhi, un azzurro più spento dell’altro, e sorrise stancamente.
“Va tutto bene tesoro! Stai tranquillo.”
Il cipiglio si increspò, ma prima che entrambi potessero dire qualcosa, il pianto proveniente dalla culla accanto al divano ruppe il silenzio.
“Oh, no, no, piccola, va tutto bene. La mamma è qui.”
Il giovane Saiyan osservò la figura esile di sua madre che prendeva tra le braccia la sua sorellina, che aveva ormai quasi un anno.
Sembrava il quadretto familiare perfetto: Bulma, splendida, nel suo tubino verde, con Bra che a poco a poco chiudeva gli occhi tra le sua braccia e Trunks a guardarle, con un sorriso leggero, appoggiato allo schienale.
Ma di perfetto, forse, in quel quadro, c’era solo la cornice, mentre sul resto avanzava inesorabile un’ombra scura.
Scura come il passato e gli occhi dell’ultimo protagonista di quello stesso quadro, rimasto appoggiato alla porta finestra in disparte, come sempre.
-Sei sicura di stare bene, Bulma?-

La notte era calata in fretta, quel giorno: il vento fresco di settembre preannunciava l’avvicinarsi dell’autunno e le ore di allenamento alla luce del Sole
erano sempre meno.
Sferrò un ultimo attacco contro il robot della Gravity Room, forte, mirato, preciso.
Quell’ammasso di ferro e bulloni crollò immediatamente sotto i suoi colpi e la caduta del metallo sul pavimento fu seguita da un boato e dall’ennesimo blackout della giornata.
Bulma, evidentemente, non l’aveva ancora riparata.
Strano.
Azzerò la gravità e si diresse dentro casa, con i pantaloncini strappati e la solita asciugamano sulle spalle.
Dentro c’era quiete, una quiete e un silenzio da lui spesso tanto agognati, ma che dopo tutti quegli anni sulla Terra aveva preso quasi a guardare con sospetto, avanzando in essi con la stessa, calcolata prudenza di un animale che fiuta nell’aria l’arrivo del predatore.
Attraversò i lunghi corridoi, sorseggiando una birra, ed entrò infine nel bagno annesso alla camera da letto, quasi in punta di piedi, per evitare di svegliare la bambina che certamente a quell’ora dormiva placida nella nursery lì accanto.

Vegeta non lo avrebbe mai ammesso, ma spesso, nel buio, quando tutti a casa dormivano e persino sua moglie smetteva di borbottare, stesa al suo fianco, si dirigeva, senza toccare terra, in quella piccola camera che era il regno della sua secondogenita e la osservava dormire , calma, nella sua culla.
Quella bambina era davvero “la cocca del papà” e ciò, in più di un’ occasione, aveva scatenato la gelosia di Trunks, che, nei suoi impeti ribelli da adolescente, la sfogava creando un muro tra lui e il resto del mondo.
Ovviamente Vegeta amava profondamente il suo primogenito, che sembrava il suo ritratto in miniatura, e in più di un’occasione lo aveva dimostrato.
Ma Bra, con i suoi 11 mesi e quel viso così simile a quello della donna che aveva incatenato il suo cuore per l’eternità, aveva la capacità straordinaria di spiazzarlo.
-E’ davvero tutta sua madre-
Lo pensava spesso, mentre la guardava stringere i pugnetti attorno alla coperta oltre le sbarre della culletta rosa.

Il getto d’acqua tiepida sciolse un po’ la tensione accumulata dai suoi muscoli pulsanti e la stanchezza per l’intensa giornata di allenamento iniziò a farsi sentire.
Si asciugò rapido, infilandosi un paio di calzoncini puliti e si diresse verso la sua camera.
O meglio, quella che ormai da più di dodici anni era la loro camera.
Fissò il letto vuoto, senza stupirsi, nonostante ormai le lancette sul comodino segnassero le 3.00: era forse la decima volta che succedeva in un mese, la quarta solo quella settimana.
E per la quarta volta la trovò nello stesso punto: seduta per terra, a gambe incrociate, sulla terrazza annessa, con una coperta sulle spalle.
In silenzio.

“E’ tardi.”
Disse solo quelle due parole, restando in piedi accanto a lei, guardando ovunque, tranne che nei suoi occhi, forse per paura di ciò che avrebbe potuto leggervi.
“Mmh, solitamente a dirti questo sono io!”disse Bulma, con una risatina appena accennata, continuando a fissare le stelle.
Vegeta seguì la direzione del suo sguardo, trovandosi di fronte lo spettacolo del cielo terso.
Aveva percorso le vie dell’Universo migliaia di volte, nel corso della sua vita: anche i suoi primissimi ricordi erano legati alle stelle e ai viaggi interplanetari.
Si era sentito invincibile a solcare quei mari sconosciuti, a collezionare anni e anni luce dietro sé.
Eppure, ora, la vista di quelle stesse stelle, a cui era legata gran parte  della sua vita passata, pareva insopportabile.
Insopportabile, perché era ormai troppo tempo che la donna per cui il suo spirito aveva rinunciato a quella vita di pellegrinaggi spaziali e conquiste, si rifugiava in esse e su di esse riversava i suoi silenzi.
“E’ strano.” Disse ancora una volta lei, continuando, con un filo di voce.
“Non è l’unica cosa ad essere strana, qui.”
Poi, silenzio.

La notte era calata in fretta, quel giorno, ma Vegeta aveva l’impressione che ultimamente, dalla sua casa, la notte non andasse mai via. 








 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Where are you, now? ***


Doveva essere passata mezz’ora ormai, mezz’ora che andavano avanti in quel modo, mentre la pioggia cadeva piano, dissetando l’erba del giardino.
L’aria era grigia, fuori e dentro la stanza: dell’inferno rovente che di solito regnava dietro le tende candide ora restava solo una vaga ombra, più un ricordo che una realtà effettiva.
Vegeta era sopra di lei, con i gomiti ai lati del suo petto, ed affondava ritmicamente nel suo calore.
Teneva gli occhi socchiusi, quanto bastava per riuscire comunque a scorgere lei, sudata e spettinata, ma comunque troppo composta rispetto al solito.
L’espressione sulla faccia di Bulma era quasi granitica e Vegeta poteva giurare di non averle sentito emettere neppure un verso. Neanche il più piccolo, insignificante gemito.
Ma ciò che più lo rendeva irrequieto, mentre consumavano quell’amplesso così atipico per loro, erano i suoi occhi: non brillavano, non si stringevano per il piacere.
Erano fissi, concentrati sul soffitto, distanti miglia e miglia da quella stanza.
Tentò di raddrizzarsi e le spostò una ciocca di capelli dalla fronte, unendo poi a quella la sua.
Le ansimò direttamente nell’orecchio, tentando di suscitare in lei una reazione, una qualunque reazione che non fosse quel silenzio surreale.
“Dio, donna, sei così calda.”
Non usava quasi più quel nomignolo ormai, lo faceva solo in situazioni come quella, quando erano soli, nudi e avvinghiati stretti tra le lenzuola, con Bulma che sentendolo si inarcava ancor più sotto di lui.
Quella volta non fu così.
Lei lo guardò per una impercettibile frazione di secondo, per poi stringere le palpebre e voltarsi ancora.
-Ma cosa diavolo ha?-
Le prese il mento fra due dita ed unì le loro labbra, tentando in quel modo di rilassarla.
Cercò la sua lingua, voglioso, sovrastandola ancora di più.
Eppure, nonostante non ci fosse neppure un centimetro di spazio rimasto tra loro, sentiva crescere ogni secondo una gelida distanza.
Poi, lo sentì.
Un sospiro, un leggerissimo fiato, che nulla aveva a che fare con il piacere.
I suoi occhi azzurri non erano più serrati, ma evitavano completamente il suo sguardo, coperti da veli che Vegeta riconobbe come lacrime.
Si fermò e si ritrasse, scottato da qualcosa di molto diverso dal calore che di solito provava quando era in sua compagnia.
Uscì fuori da lei, evitando il più possibile di toccarla e si rimise in fretta e furia i pantaloni della tuta, che erano finiti sulla poltrona accanto al letto, il tutto senza proferire parola.
C’era un problema, non si poteva più negare a quel punto.

La conosceva ormai da più di 15 anni e mai, mai prima di allora si era sentito così distante da lei, neppure quando a separarli erano gli anni luce o quando la considerava soltanto una presenza irritante e buona solo a farlo godere nei loro occasionali incontri notturni.
Ora erano settimane che a malapena gli rivolgeva la parola, intenta sempre a fare altro, chiusa nei suoi laboratori o in soffitta, senza che si degnasse nemmeno di presenziare a tutti i pasti.
Quella sera era la prima volta che facevano l’amore dopo quasi un mese.
O, meglio, che lui provava a fare l’amore con lei: era partita alla grande in realtà, dal momento che era stata lei a saltargli addosso, approfittando dell’assenza temporanea di Trunks e della piccola che riposava.

E ora, questo.
Non capiva.

Nessuno dei due parlava, nessuno dei due accennava a muoversi: lui, in piedi, le dava le spalle, inspirando profondamente e lei, rannicchiata in posizione fetale, guardava fissa al di là della vetrata.
Fu la voce profonda ed insolitamente tremante di Vegeta a rompere il silenzio.
“Okay, senti, che diavolo c’è?”
Bulma sembrò riscuotersi solo in quell’istante, come se si fosse appena svegliata.
Sembrava totalmente spiazzata, probabilmente perché era forse la prima volta che Vegeta prendeva per primo la parola per affrontare un dibattito.
Si sollevò, poggiando il caschetto azzurro sulla testata del grande letto matrimoniale, prima di sospirare ancora e rispondere:
“Che vuoi dire?”
“Sai benissimo di cosa parlo.”
La tensione stava crescendo a vista d’occhio, mentre l’aria si saturava con settimane di parole non dette.
“No Vegeta, non lo so cosa vuoi dire! Non ho la sfera di cristallo sai, non sono onnisciente e magari ogni tanto mi piacerebbe che argomentassi!”
“Stai sviando il discorso, Bulma.”
“Quella è una tua specialità, non mia.”
“Continui a farlo.”
A quel punto si voltò, accorgendosi del repentino scatto di sua moglie che tirava su il lenzuolo per coprirsi del tutto, mentre si passava una mano sulle ciglia umide.
“Si può sapere che cos’hai da piangere?!”
Stava alzando la voce e se ne rendeva conto. Stava perdendo il controllo e si detestava per questo, perché era sua prerogativa il non mostrarsi mai, mai vulnerabile di fronte agli altri e specie di fronte alla sua famiglia.
Ma non capiva, non capiva perché d’un tratto della donna testarda ed elettrica che lo aveva trasformato non rimanesse nient’altro che un involucro vuoto.
Non capiva cosa si celasse dietro quelle lacrime e dietro le sue assenze.
Stava sparendo lentamente di fronte ai suoi occhi e, Dio, doveva impedirlo.

Poi, lei scoppiò.
La vide stringersi i capelli tra le dita e tremare, fin quasi a spaventarlo.
A spaventare lui, che per così tanti anni aveva giocato con la morte divertendosi di fronte a spettacoli come quello.
“Tu sei solo il solito, stupido scimmione! Il tatto non sai proprio dove stia di casa vero? Ma d’altronde io cosa mi aspetto …”
“Infatti, vorrei proprio sapere che diavolo ti aspetti da me se l’unica cosa che continui a fare è frignare senza arrivare ad un punto!”
Stavano urlando adesso, senza più freni: se c’era una cosa in cui entrambi erano maestri erano proprio i litigi a colpi di battute taglienti.
“Non ci pensi che magari se non parlo è perché per una volta, UNA SOLA VOLTA, sono io a non aver voglia di parlare?
O cos’è, all’improvviso sei diventato una persona espansiva, Vegeta?”
Vegeta strinse i pugni, tentando di trattenere per quel che poteva la rabbia che iniziava a salire e restò in silenzio, inspirando profondamente.
“Che c’è, non parli più? Sua Maestà ha già perso la parola?!”
La guardò: uno sguardo nero e gelido dietro il quale, tuttavia, non riuscì a nascondere quel velo di preoccupazione che ormai montava dentro di lui senza che potesse far nulla per fermarla.
Le cose, negli anni, erano davvero cambiate, non c’è che dire.
“Sei una stupida! Per quale ragione credi che io mi sia fermato? Per quale cazzo di motivo pensi che io abbia voluto iniziare questo ennesimo battibecco? Per sorbirmi due ore dei tuoi strilli?! Non ci arrivi proprio!”
“Magari è proprio questo che volevi invece! D’altronde quando mai le tue azioni hanno avuto un senso?”
“Sì, va bene, forse è questo che volevo, idiota, almeno avrei avuto un segno che tu fossi ancora viva visto che ormai sembri un cadavere che cammina!”
“Mi stai gettando addosso questa tua stupida frustrazione per il tuo cazzo di orgasmo mancato, ma sai che ti dico, io non …”
Il suono di un pianto disperato interruppe quelle urla: Bra doveva essersi svegliata sentendoli.
Bulma afferrò la vestaglia rosa che era alla base del letto e si precipitò nella nursery, seguita, poco dopo, da un Vegeta sempre più confuso.

“Shh, tesoro, va tutto bene. Shh …”
Il Principe osservò le due donne della sua vita strette sulla poltroncina a dondolo accanto alla culla, mentre se ne stava appoggiato allo stipite della porta.
Sulle ciglia di sua moglie si scorgevano, ora, le sagome di nuove lacrime.

La pioggia aveva smesso di cadere giù dal cielo a quel punto e l’aria si era rinfrescata.
Tutto pareva essersi calmato: niente più vento, niente più fulmini all’orizzonte e Bra che dormiva di nuovo in piena quiete.
Ma una nuova tempesta era scoppiata ed attanagliava la mente e i pensieri di Vegeta, che era tornato a letto, sdraiato e solo.
Bulma era rimasta nella nursery per un po’ e poi era scesa al piano di sotto, chiudendosi nel suo vecchio studio e ancor di più in sé stessa.
Quella era la prima volta che a restare solo nel loro letto era lui: lei non sarebbe tornata quella notte, ne era certo.
Rivolse lo sguardo alla porta, quasi a voler scrutare attraverso la casa ed arrivare fino a lei.

-Dove sei finita, Bulma?-




 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Shooting Stars ***


“E’ tutto qui quello che sai fare?”
L’aria attorno a loro, scarlatta per la sua gravità, pareva tremare, sotto ogni colpo.
Le due chiome bionde guizzavano da una parte all’altra della camera, rapidissime, quasi fossero fulmini nella notte nera.
“Avanti, Trunks, devi essere più rapido di così.”
Un colpo ben assestato in pieno petto e una di quelle luci improvvisamente spenta.
Vegeta si abbassò, fino a toccare di nuovo terra e azzerò la gravità dal regolatore centrale.
Trunks era ancora dietro di lui, a massaggiarsi il torace, con gli occhi lievemente lucidi.
“Ouch! Papà sei pazzo, mi hai quasi ucciso!”
Vegeta si lasciò sfuggire una risatina.
“Ti ho dato colpi molto più forti in passato. E’ evidente che ti stai rammollendo.”
“Ma …”
“E non voglio che accada di nuovo che diserti gli allenamenti con la scusa dell’influenza. Sono stato chiaro?”
“Non era una scusa!”
“Per favore, potrei sentire il battito accelerato che hai quando menti anche se fossi su un altro pianeta.”
Trunks abbassò lo sguardo a quella affermazione e poi sorrise imbarazzato tra sé e sé: beccato!
“Allora?”
“Cosa?”
“Perché questa bugia tanto patetica?”
Trunks temporeggiò a rispondere, guardando fisso il pavimento bianco e sul quale serpeggiavano alcune fessure dovute agli sbalzi gravitazionali.
Poi prese un respiro profondo e sospirò.
“Sono preoccupato per la mamma.”
Si aspettava un rimprovero per il suo fare da femminuccia, una delle sue solite battute sarcastiche.
E invece niente.
Solo un silenzio che certamente valeva molto di più.
Quando Vegeta parlò di nuovo, a Trunks parvero passati secoli.
“Si è fatto tardi, è il caso di rientrare. Cerca di esercitarti di più anche prima di venire ad allenarti con me.”
“Va bene.” Disse Trunks, spostandosi stancamente una ciocca di capelli dalla fronte, con un gesto che a Vegeta ricordò così tanto Bulma.
Si mise a scrutare le stelle attraverso una delle finestre della Gravity room e chiuse gli occhi, cercando di trasferire su di sé almeno un po’ di quella così sconosciuta pace che la notte calma sembrava suggerire.
Trunks si rimise la felpa, che aveva prima abbandonato distrattamente sul pavimento e si incamminò verso l’uscita.
“Trunks.”
“Eh? Sì, che c’è?”
“Buon compleanno, ragazzo.”
Un sorriso radioso illuminò il volto del giovane Saiyan.
Se ne è ricordato.
E Vegeta, per quella notte, forse trovò davvero un po’ di pace dentro sé.

“Questi vanno di sopra. Invece quei tavoli li voglio sistemati in giardino, con le tovaglie rosse.”
Bulma era in piedi, al centro del grande salotto, circondata da tanti dei piccoli robot da lei progettati e che abitualmente si vedevano gironzolare per casa.
“Forza, ci sono ancora un mucchio di cose da fare.”
Il Principe la stava osservando, silenziosamente e con la stessa apprensiva attenzione che le rivolgeva nell’ultimo periodo.
Era passata una settimana da quella sfuriata notturna ed ancora non avevano ripreso a parlare.
Lei lo evitava e ormai ai pasti non la si vedeva praticamente più.
“Ho molto da fare, tesoro.” Diceva a Trunks ogni volta che loro figlio si avvicinava per chiederle spiegazioni.
Lui, da parte sua, aveva tentato di avvicinarsi a lei in qualche modo, ma aveva avuto serie difficoltà: era sempre stato abituato ad aprirsi con lei nella penombra della loro camera, stretto a lei tra le lenzuola fresche o anche urlando, ma con la trasparenza che l’aveva sempre caratterizzata ad accompagnarlo.
Ora davanti a sé aveva un muro e, sebbene nel corso della sua vita ne avesse eretti personalmente a decine, era totalmente disorientato, perché a costruirlo, questa volta, era stata l’unica persona che gli aveva offerto calore e braccia aperte e non freddezza come chiunque altro.
Quindi, la teneva d’occhio, raccolto nella sua ombra, tentando di capire cosa fosse andato storto.
“Andiamo, non abbiamo tutta la giornata. La festa è tra poche ore, insomma!”
Se ne stava lì, con il suo enorme taccuino tra le mani, mentre coordinava ogni mossa di quegli automi, come un eccentrico direttore d’orchestra.
Un sorriso gli si dipinse istantaneamente sulle labbra sottili, vedendola sbraitare istericamente e appuntare ogni cosa da fare sui fogli.
In quel breve istante, gli sembrò che nulla fosse cambiato: la sua solarità, il suo caratterino tutto pepe che lo aveva magneticamente attratto, l’eccitazione per la festa da preparare.
Ma la realtà era diversa.
Non c’era nessun bacio ad aspettarlo, quando la stanza si fu liberata dai robot.
Nessuna maliziosa provocazione che lui sarcasticamente smontava.
Niente di quel gioco segreto e solo loro che per tanti anni gli aveva scaldato il cuore in una maniera che non sapeva ancora del tutto spiegarsi.
Solo un’occhiata rapida, immediatamente distolta e il dietrofront verso la cucina.
Quella situazione doveva davvero finire.

Arrivò sera, e con essa la Capsule Corporation si gremì di gente.
C’erano proprio tutti, come sempre.
Gohan e Videl, se ne stavano seduti, con le mani intrecciate sull’erba del giardino, mentre Junior faceva volteggiare la piccola Pan tra le braccia, anche se lei, da furbetta qual era, spesso gli sfuggiva di mano, librandosi in volo e divertendosi a fare capriole in aria.
Yamco, Crili e Muten erano intenti a rimpinzarsi di spiedini di carne, sulla terrazza, mentre C18, lì accanto, aggiustava ai codini di Marron, seduta sulle sue gambe.
Tensing e Rif si unirono a loro, prendendo a parlare delle avventure passate.
Infine, seduta ai tavolini in giardino stavano i coniugi Son, con Goten e il festeggiato che provavano, nascosti da una delle tovaglie, l’ultimo videogioco arrivato in regalo.
La signora Brief faceva avanti e indietro dall’abitazione, portando vassoi carichi di ogni sorta di manicaretto, per la felicità degli invitati e soprattutto della fazione Saiyan.
Ad eccezione di Vegeta, che quella sera non toccò neanche un boccone.
Bra, gattonando, gli gironzolava attorno alle caviglie e occasionalmente gli tirava il bordo dei pantaloni, per attirare la sua attenzione.
Vegeta abbassò lo sguardo per guardarla ed avvertì una strana sensazione allo stomaco nel constatare quanto il sorriso sul volto della sua bambina fosse identico a quello di sua moglie, che in quel momento si era avvicinata a Junior per accarezzare amorevolmente una guancia della piccola Pan.
Vegeta la riviveva ogni giorno attraverso i suoi figli e forse quello rendeva i suoi silenzi meno opprimenti.
“Ehilà, Vegeta!”
La voce, allegra come sempre di Goku, lo riportò alla realtà.
“Umpf.”
“Allegro come al solito, vedo.”
“Che diavolo vuoi, Kaharot?” 
Goku si grattò la testa ridacchiando, prima di recuperare la serietà e dire:
“Beh, in realtà, ecco … Non hai toccato cibo.”
“E allora? Cosa sei la mia balia?”
“Ma ti pare! E’ solo che mi chiedevo se andasse tutto bene, ecco.”
Vegeta, a quell’affermazione, si irrigidì.
-Persino lui se ne è accorto- pensò.
“Andava tutto bene fino a quando non sei spuntato tu qui.”
Goku ridacchiò ancora, abituato al tono sarcastico del compagno di battaglia.
“Beh, certamente la tua simpatia sta bene, a quanto vedo.” Disse Goku, che poi si inginocchiò, allungando una delle sua mani possenti verso Bra, che la afferrò ridendo e facendo ridere anche lui.
Vegeta non disse più nulla, sentendosi però, in qualche modo, rincuorato da quelle risate vicine a lui.

“Su forza, venite tutti in terrazza, è il momento dei fuochi d’artificio!”
Stavano tutti mangiando l’enorme torta gelato, mentre il cielo notturno iniziò a tingersi sotto l’effetto di quelle variopinte esplosioni.
Vegeta era appoggiato al muro,  con la camicia lievemente sbottonata e Trunks seduto sulla ringhiera poco distante da lui.
Quella era una delle invenzioni terrestri che forse non avrebbe mai compreso del tutto.
Dal suo punto di vista, era davvero qualcosa di poco esaltante: nelle sue peregrinazioni spaziali aveva visto spettacoli molto più sorprendenti.
Comete dalle sfumature violacee, asteroidi, la polvere di stelle delle galassie.
Non riusciva a capire come quei rumorosi cerchi nel cielo potessero destare tanta ammirazione a livello mondiale da diventare quasi un emblema di gioia.
A volte gli era passato per la mente che forse i fuochi d’artificio fossero un po’ il modo elaborato dei Terrestri per creare le proprie personali stelle cadenti.
Per avere un motivo valido per guardare il cielo.
Per avere una parvenza di universo a portata di fiammifero.
Per sentirsi, in qualche modo, rincuorati.

Forse era proprio quella la verità.

I suoi occhi si spostarono dalla volta del cielo verso sua moglie, incapaci di staccarsi ormai da lei, anche se non lo avrebbe mai ammesso.

La osservò da lontano, mantenendo le braccia incrociate e la schiena saldamente ancorata al muro: 
sotto gli scoppi di luce colorati era bella più che mai, ma di quel bagliore tutto speciale che emanava direttamente dai suoi occhi non c'era neanche l'ombra.
Si soffermò sul suo braccio candido, che vide stringersi un po' più forte attorno alla bambina e per la prima volta, in tanti anni, le sembrò totalmente indifesa.
Più indifesa ora, nel giardino di casa e senza la presenza oscura della morte incombente.
Più indifesa ora, che quel Principe Sanguinario di un tempo era al suo fianco e non a stringerle le mani attorno ai polsi.
L’ultimo scoppio dorato si perse nel cielo e fu seguito da un lungo applauso collettivo e da un rinnovamento di auguri per il primogenito di casa Brief.

La serata volgeva ormai al termine e gli ospiti, a poco a poco, presero la via di casa.
Mentre le voci che avevano riempito la casa nelle ore precedenti si facevano sempre più rade, Vegeta continuava a guardare il cielo, riuscendo a scorgere ancora qualche baffo di fumo lasciato dai fuochi.
Ripensò a quei colori e agli occhi di tutti che sotto di essi sembravano più vivi che mai.
E capì che quello per lui non valeva.

Non aveva mai sentito il bisogno di esaltarsi sotto qualcosa come i fuochi d’artificio, ma in quell’istante si rese conto che le sue personali stelle cadenti gli stavano scivolando via dalle dita troppo in fretta.












 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Or will we forever only be pretending? ***



La luna, nel cielo terso di quell’estate, era stata l’unica che avesse osato scrutare ciò che le ombre nascondevano al di là delle tende.
I gemiti si confondevano, sovrapponendosi, e assumendo a tratti le sembianze di vaghi ruggiti nella notte.
“Oh, sì, continua.”
Ricordava ancora quella primordiale soddisfazione percepita dopo ogni affondo e le urla di lei, che, sotto di questi, si inarcava per il piacere.
Non ricordava le sue iridi azzurre, quelle no, né il suo volto arrossato.
Aveva tenuto gli occhi strettamente serrati durante tutto l’amplesso, durante ogni bacio famelico, durante ogni sospiro.
Non doveva avere alcun contatto visivo con quella insulsa terrestre.
Nessun tipo di contatto in realtà.
Doveva solo spingere, spingere e godere e poi sparire ancora.
Spingere e sottometterla, perché ne aveva il potere.
Spingersi in lei e nel suo invitante calore.
Poteva solo spingere.

“Oh, oddio, sì.”
La sentiva dimenarsi e urlare tutto il suo godimento direttamente sul suo petto.
Era letteralmente in fiamme sotto di sé.

Poi lo sentì.

Per tutto il tempo si era assicurato di restarle lontano, limitandosi al piacere, all’unione delle sole intimità, ma quando le dita delicate di lei si erano chiuse attorno alla sua mano, sul materasso, lui non aveva potuto fare a meno di sentirle.
Di sentirle più di quanto avesse mai sentito i colpi nemici sulla schiena.
Più del sapore del sangue nella lotta.
Fu un contatto infuocato, ustionante, che lo portò a ritrarre la mano e ad immobilizzarle entrambi i polsi sopra la testa.
“Stupida ingenua.”
Uscì da lei con un colpo secco, dileguandosi nell’oscurità del corridoio, là dove neppure la Luna osava scrutare, senza rivolgerle l’ombra di uno sguardo.
Quella notte, Vegeta la passò a curare il suo orgoglio che sentiva esser stato intimamente violato.
Ma quel contatto c’era stato e non sarebbe bastata una vita di negazione per mandarlo via da lui.


Vegeta ci aveva pensato spesso, per non dire sempre, ultimamente.
Aveva ripensato a quella prima volta, consumata ardentemente fra le lenzuola profumate della stanza di lei.
In quella che ora, dopo quindici anni, era la loro stanza.
Lo stesso parquet scuro, le stesse tende di raso alle finestre, un mare di sentimenti e parole non dette di mezzo.
Anche ora, a distanza di anni e tormenti interiori, ricordava perfettamente la sensazione di calore che quel contatto aveva lasciato sulle dita della sua mano e sul suo animo lacerato.
Era stato il primo punto, la prima cucitura per rimettere insieme i pezzi.
Il primo passo del percorso a ostacoli che aveva portato a dove era ora.
A dove erano ora.
Aveva ripercorso con la mente ogni tappa di quel percorso, in quei giorni, alla ricerca della carta storta che avesse fatto crollare il suo castello.
E ciò che aveva compreso era che nessuna carta era davvero dritta: tutto ciò che avevano costruito insieme, in quella folle, assurda relazione, era fatto di pezzi imperfetti incastrati tra loro, in un gioco di equilibri noto solo a loro.
Tutto era sbagliato, ma aveva finito per funzionare.

Con la morte del Majin Bu cattivo, si era conclusa non solo una delle battaglie più dure che si fossero mai trovati ad affrontare, ma anche la sua crisi d’identità interiore, che lo aveva portato nello stesso giorno a rinunciare al pieno autocontrollo di sé, a portarsi dietro centinaia di vite innocenti, soffiandole via come fossero paglia, ad abbracciare suo figlio con parole dolci e dal sapore per lui così nuovo, fino a morire, esaurendo letteralmente ogni atomo di sé, per due paia di occhi azzurri, così simili tra loro, e che erano, in quell’istante, tutto il suo mondo.
Aveva ammesso la sconfitta, l’inferiorità di potere ed aveva salutato quella lotta con un sorriso, rivolto anche a quello che era stato ed era il suo rivale numero uno e, anche se avrebbe preferito tornare all’Inferno piuttosto che ammetterlo, anche fratello.
E da allora, tutto era stato in discesa: la loro relazione era più forte, con lei più serena per quella prima, concreta prova d’amore eterno e con lui che, più di una volta, si era lasciato sfuggire, tra le lenzuola umide e ad una lei dormiente, quelle due parole che per anni aveva scacciato lontano da sé e dal suo mondo interiore.

E, dunque, che cos’era?
La risposta non avrebbe tardato a venire.

Era una giornata grigia, uggiosa, di quelle in cui la luce del Sole filtra attraverso la coltre di nuvole ed è più accecante che mai.
Qualche leggera goccia di pioggia iniziava già, qui e lì, ad inumidire il prato e le ciocche morbide dei capelli di Trunks, che, rapido, si dirigeva verso la porta di casa, dopo le sue lezioni.
Vegeta lo osservava dall’ampia vetrata del salotto, mentre correva, stretto nella sua felpa e con il suo andamento impacciato da adolescente, che si dissolveva non appena iniziava a fluttuare e a combattere.
Era molto fiero di lui, sebbene cercasse in tutti i modi di dissimulare l’orgoglio che provava nei confronti del suo primogenito.
Si faceva comprendere da lui in altri modi, per altre vie, proponendogli di allenarsi insieme all’aperto, solo lo ro due, in giro per il mondo, o affacciandosi a guardarlo dormire, prima che Bulma passasse e accostasse meglio la sua porta.
E a Trunks stava benissimo così: un altro castello di carte sbilenco, ma che non era crollato affatto.
Lo vide correre nel salotto, sbattendo i piedi sullo zerbino e passandosi una mano tra i capelli ribelli per tentare di disciplinarli eliminando un po’ di umidità.
“Oh, hey, ciao papà! Scusami, vado di fretta, sto andando da Goten e resto da lui per la notte, ma ti giuro che domani mattina sarò qui presto così potremmo riprendere subito gli allenamenti.”
Un lieve cenno del capo e un sussurro, in risposta.
Un altro di quei modi silenziosi di approvazione che tanto facevano gioire il ragazzino.
“Grazie papà. Mi cambio e vado. A domani!”
Sparì dietro l’angolo del corridoio.
La casa, di lì a poco, sarebbe stata nuovamente investita da quel silenzio innaturale che era ormai atmosfera quotidiana, fatta eccezione per i leggeri lamenti di Bra, prontamente calmati da sua madre, che sembrava non volersi staccare un secondo da lei.
Per Vegeta, quello era solo un ennesimo pretesto per evitarlo. Bra rappresentava un’ancora a cui aggrapparsi, un universo intero verso cui rivolgere la sua attenzione.
Ma questa volta nulla lo avrebbe fermato.
Aspettò che Trunks uscisse dalla porta di casa, dopo aver salutato sua madre ed aver rivolto alla porta della nursery un ultimo sguardo preoccupato e poi decise che era giunto il momento.
Quello della verità, quello del chiarimento.
Quello che avrebbe riportato quella carta storta in armonia con le altre o che invece avrebbe fatto crollare tutto irreversibilmente.
Guardò un’ultima volta il cielo, bianco ed accecante, quasi a voler cercare le parole. Parole che forse non avrebbe mai trovato. Parole che forse non avrebbe mai avuto occasione di pronunciare.
Si incamminò verso la cameretta di Bra, convinto di trovarla lì, china sulla culla e senza un soffio di vita più negli occhi.
-Non c’è- constatò.
Fu solo dopo qualche attimo, assorto com’era nei suoi pensieri, che si accorse del leggero fruscio dell’acqua che scorreva.
Veniva dal bagno in fondo al corridoio, dalla doccia.
Doveva essere lì.
Vegeta azzerò quella distanza con pochi passi, deciso più che mai ad avere spiegazioni e quasi sollevato dal fatto che nella sua linea d’azione non ci fosse la sua secondogenita, che dormiva beata con il ciuffetto azzurro riverso sulla fronte.
Non si sentiva alcuna voce provenire dal bagno, nessun irritante motivetto canticchiato sotto il getto dell’acqua.
Ma in fondo non ne rimase stupito.
Entrò, facendo forza sulla maniglia per sbloccarla dalla mandata, senza bussare, senza annunciarsi.
Lo sbalzo di temperatura lo investì e fu travolto da una densa nube di vapore tanto da dover socchiudere gli occhi.
Nonostante ciò, riuscì chiaramente a distinguere una sagoma bianca, al di là del vetro opaco.
Bulma era nella doccia, seduta sul fondo, completamente rannicchiata su sé stessa: le braccia esili stringevano con inaudita forza le ginocchia e il caschetto azzurro era riverso sulle stesse.
Nulla si scorgeva del suo volto, ma la cosa che più gli fece male fu il potersi immaginare distintamente quale fosse l’espressione su di esso.
E non era bella. Decisamente no.
Dopo un secondo di esitazione, si avvicino alla porta della doccia, aprendola con forza controllata, ma ugualmente calcata dall’esasperazione.
La sentì urlare, sgranare quegli occhi così spenti ormai da essere quasi grigi per la sorpresa.
Poi, li vide.
E sentì un altro urlo, questa volta, decisamente più forte, provenire direttamente dal suo animo, che fu in quell’isante di nuovo lacerato.


NdA: Hola a tutti!
Scusatemi tantissimo per l'imperdonabile ritardo, ma l'Università mi ha tenuta impegnatissima!
Spero di riuscire a farmi predonare almeno un po' con la pubblicazione di questo nuovo capitolo.
Direi che stiamo entrando finalmente nel vivo!
A prestissimo!

Baci, Giuls.





 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3702681