In your kitchen lights you can see all my wounds

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alcolizzati e Psicopatici ***
Capitolo 2: *** Raccontami di te ***
Capitolo 3: *** Lo sto aspettando ***
Capitolo 4: *** Un Angelo e un Bento ***
Capitolo 5: *** Colazione con Sorpresa ***
Capitolo 6: *** Problemi, ancora ***



Capitolo 1
*** Alcolizzati e Psicopatici ***


IN YOUR KITCHEN LIGHTS YOU CAN SEE ALL MY WOUNDS

CAPITOLO PRIMO: ALCOLIZZATI E PSICOPATICI

-Si può sapere dove mi state portando oppure è un segreto di Stato?
Tom si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, osservando senza nemmeno troppo interesse la strada stretta e maltenuta che si inoltrava nella triste pianura tedesca, piatta e desolata, sotto l’immenso cielo color perla dove si inseguivano banchi di nuvole grigie e smorte, nemmeno un timido raggio di sole a fendere il grigiore della Pannonia, quel giorno. Guardò Georg, seduto accanto a lui, in giacca e cravatta come un avvocato che si rispetti, al volante della vecchia macchina. Guardò il profilo marmoreo, i muscoli sviluppati, i capelli corti ma alla moda, la linea dura della bocca. Era arrabbiato, e nessuno poteva biasimarlo.
-Non sei nella posizione di fare domande.- rispose seccamente Georg, decelerando quando cominciarono a intravedersi le prime villette sperdute nel grigio, malinconiche e decadenti come un paesino al confine con la Polonia che si rispetti. Faceva male sentirlo così, sentire quella voce che sì, poteva essere furiosa, ma soprattutto era delusa. Tom sospirò, ingoiando il suo solito sarcasmo come un rospo amaro. Aveva deluso Georg, e ne era pienamente cosciente ma non aveva avuto ancora il coraggio di chiedergli umilmente scusa. Scusa per averlo terrorizzato a morte, scusa per non averlo ascoltato, scusa per tutti i guai che gli aveva portato. Non era facile farlo, quando avevi mancato miseramente tutte le aspettative che il tuo migliore amico aveva su di te, mostrandoti per quello che veramente sei, una testa matta persa nel suo egocentrismo e nelle sue scelte, egoista tanto da aver ridotto tutti a uno stato angoscioso per te. Non avrebbero dovuto volergli così bene, pensava Tom. Non pensava di meritarsi gente come quella che aveva intorno.
-Ti portiamo nella tua nuova casa.- rispose da dietro Gustav, sgranocchiando qualche patatina al chili, e insozzando di conseguenza la macchina – Lontana dal casino, dalla città, e, soprattutto, lontana dai pub.
Tom chiuse per un attimo gli occhi, ingoiando a vuoto. Teoricamente, Georg si era assicurato che la disintossicazione funzionasse, il metodo era quello che tutti definivano vincente. Ma, per Tom, non era funzionato per nulla. Sì, ok, forse gli si era aggiustato il fegato, sempre che si potesse aggiustare il fegato di uno che beveva come una spugna da quando aveva quattordici anni e i dread in testa, però non gli aveva per nulla curato la testa. Anzi, forse gli aveva fatto venire ancora più voglia di bere di quanta non ne avesse prima, così, anche solo per contravvenire alle regole e al secco “Se lei tocca ancora dell’alcol, è morto”. Cosa gli importava in fondo? Aveva qualcosa da perdere? Ne aveva mai avuto qualcuna? Si inumidì le labbra con la lingua, pregustando il momento in cui avrebbe potuto finalmente riprendersi in mano una bottiglia di birra, di vodka, di gin, non gli importava, e fare quello che era abituato a fare sin da ragazzino. Sedersi sul tetto, la notte, a guardare le stelle cadenti, attaccato alla bottiglia come fosse ossigeno, da solo, come il perfetto alcolizzato senza speranza che era. Alla riabilitazione, erano tutti cinquantenni bruciati dopo un divorzio, o ragazzi della sua età che avevano alzato troppo il gomito a qualche festa. Lui si distingueva tra tutti anche per il solo fatto che beveva solo. Alle feste, non era di sicuro quello che beveva di più, anzi, a volte non toccava affatto nemmeno un bicchiere. No, Tom beveva quando era solo, quando i suoi demoni tornavano a bussare con troppa forza, quando rimaneva lui e la sua infanzia che faceva capolino nella memoria, e non gli rimaneva che una bella bottiglia in cui nascondersi e in cui affogare i ricordi che tornavano a premere come una marea. Stava bene, seduto sul tetto quando ancora viveva con sua madre a Loitsche, a guardare il cielo opprimente della pianura tedesca, il whisky trafugato dall’armadietto degli alcolici. Stava bene, al davanzale della casa di Magdeburgo, a guardare le luci della strada e a bere fino a svenire, cercando di svegliarsi la mattina e trascinarsi a lavorare. Stava bene, nei pub, seduto da solo al bancone, liquidando con un mezzo sorriso chiunque tentasse di avvicinarlo, la sua aria triste e malinconica che attirava ma spaventava. Non era contento che il piano di Georg, Gustav e di sua madre non avesse avuto i suoi frutti, ma non si stupiva nemmeno: il problema di fondo era che lui non voleva affatto disintossicarsi. Voleva essere un alcolizzato, non ci credeva nemmeno per ridere ai discorsi delle psicologhe, non credeva ai medici che gli assicuravano che sarebbe guarito, perché lui avrebbe fatto di tutto per non farlo. Non c’era un motivo valido, si diceva. Era solo fatto così, era un egoista senza via di scampo che voleva rimanere nel vortice dell’alcol e non uscirne. Chissà come mai, da piccolo, il suo passo preferito de “Il Piccolo Principe” era proprio il pianeta dell’ubriaco; quel “bevo per dimenticare che ho vergogna di bere” era la sua massima di vita, il suo motto, il suo “alea iacta est”. Eppure lui non si vergognava di bere, era poco importante.
-Abbiamo trovato un cottage poco fuori Magdeburgo, dividerai l’affitto col proprietario della casa. Abbiamo già preso noi accordi con lui, la casa non è divisa, vivrete a stretto contatto, ma per i primi tempi dovresti starci bene.- disse Georg, con tono piatto, prendendo una stretta stradina laterale, non asfaltata.
-Emozionante, un coinquilino.- commentò Tom senza allegria, appoggiandosi al finestrino, roteando gli occhi al cielo – Un’anticipazione su di lui?
-E’ un tipo strano.- intervenne Gustav, scuotendo il corto codino biondo, la mascella impegnata a ruminare patatine su patatine – E, ti avverto, è frocio fino al midollo. Quindi non rimanere scioccato se ti accoglie come ha accolto me e Geo l’altra volta, con vestaglia rosa, foulard leopardato e unghie smaltate di rosso, con tanto di “Tesori, benvenuti!”
-Cosa?!- Tom strabuzzò gli occhi, facendo una smorfia – E’ proprio quel tipo di frocio?
-Non abbiamo trovato altro.- tagliò corto Georg, mentre la macchina si avvicinava a un cottage sperduto da solo nella Pannonia, con la porta azzurra e un dondolo a fiori in giardino, le pareti bianche e le persiane azzurre con petunie nere alle finestre. – E … un’altra cosa, prima di entrare a conoscerlo: il tuo coinquilino ha subito un lutto piuttosto recentemente. Non ho capito di che tipo, ma è un po’ in crisi, credo. O meglio, Gus, il succo di tutto quel panegirico era questo, no?
-Ma che ne so, Geo, parla a raffica, e ha quell’odioso accento berlinese incomprensibile. - abbaiò Gustav, pulendosi le dita grasse e unte nella maglia – E sia chiaro, io ti saluto e scappo, quello non lo voglio vedere.
Georg parcheggiò la macchina nel vialetto perfettamente ordinato e tirato a lucido, e Tom si guardò intorno stranito. Era tutto così … pulito per i suoi gusti. Sembrava di essere in quelle bomboniere inglesi che si vedono con Miss Marple, con i fiori dappertutto, la casa linda, la porta e le persiane dipinte senza una minima screpolatura, il tappetino spazzolato. Si grattò il collo, incerto se ce l’avrebbe mai fatta a mantenere tutto quell’ordine, lui, che viveva in un appartamentino di Magdeburgo in mezzo a libri sparpagliati, Green Day a palla, bottiglie vuote dappertutto, vestiti sporchi e puliti insieme, poster degli Hollywood Undead alle pareti. Vigeva il delirio che qualunque quasi trentenne che non voleva crescere aveva in casa. Come avrebbe fatto ad abituarsi lì dentro? Si guardò attorno, lasciando scivolare lo sguardo sui vasi di fiori viola e neri accuratamente innaffiati e accuditi. Lui non aveva mai voluto dei fiori nella sua stanza, era qualcosa che lo soffocava, che lo infastidiva, quelle creature pulsanti e silenti a un metro da lui che lo osservavano con i loro occhi vegetali ciechi, eppure lì sembrava essercene in ogni angolo, con il loro profumo nauseante e i loro colori cupi eppure stranamente vivi. Non poteva nascondere a sé stesso di essere in ansia. Non aveva mai convissuto con nessuno, fino ad ora. Viveva da solo, in un appartamento lurido nei grossi palazzi del dopoguerra, lui e le sue bottiglie di superalcolici a tenergli una compagnia perversa. Qualche ragazza aveva provato a convincerlo a condividere l’appartamento, alcune con le lacrime, altre con le lusinghe, ma bastava una delle sue occhiate tristi, un po’malinconiche e le convinceva a lasciarlo vivere in pace, con i suoi ritmi, la sua solitudine. Il suo vuoto interiore.
Si sciolse i capelli, lunghi e scuri, sfregandosi gli occhi assonnati, annoiato dall’esistenza, e girellò stancamente davanti al portoncino azzurro, lanciando qualche occhiata distratta a Georg, appeso al campanello, e a Gustav, rintanato nei pressi della macchina, la sua valigia che gli sbatteva contro la gamba e l’aria solitaria. Sembrava un ragazzino portato dai genitori a casa della vecchia zia per farlo tornare sulla retta via, farlo studiare e fargli piantare lì videogiochi e cannabis. Ma lui non era più un ragazzino, e quelli non erano i suoi genitori, ma i suoi migliori amici che si preoccupavano della sua salute minata da anni di alcolismo silenzioso. Si avvicinò a Georg, ma non disse nulla, limitandosi a guardare la porticina chiusa che proprio non si addiceva a un tipo come lui, abituato alle porte di alluminio mezze scassate della periferia di una grande città. Non conosceva la campagna, la calma e la vita sana, abituato alla città caotica, al rumore delle discoteche, alla droga e all’alcol come via di fuga da qualcosa che gli faceva ribrezzo, e aveva paura. Paura di quello che lo avrebbe accolto una volta reinserito nella società normale. Tom non era mai riuscito veramente a inserirsi nel mondo, rimanendo sempre un po’ in disparte da tutto, osservando svogliatamente quello che avveniva attorno a lui come uno spettatore annoiato in un solitario drive-in in Alabama. La politica, l’aveva sempre presa come uno scherzo, non c’era mai nulla che gli andasse davvero a genio, non si diceva comunista, estremista, voleva un’anarchia che esisteva solamente nella sua mente, un menefreghismo che l’aveva sempre caratterizzato da quando era bambino. Sembrava che nulla potesse smuovere la sua perenne noia, animare quei grandi occhi scuri così tristi, che si spegnevano più passavano gli anni, risvegliare l’attenzione di quel ragazzo che si chiudeva in sé stesso per tenere gli altri lontani da sé e dal suo mondo chiuso. La sua musica, nessuno la capiva. Dicevano che era roba strana, inascoltabile, che era da psicopatici strafatti di LSD, ma lui la suonava lo stesso, per ore, la notte, suonava alle sue bottiglie vuote sistemate ordinatamente davanti ai suoi occhi stanchi e arrossati; per la band, faceva quello che gli veniva ordinato, senza voglia, passione, solo tecnica e una malinconia così struggente che era percepibile anche se stavano suonando roba punk rumorosa e anarchica.
Tom era fatto così, un ragazzo quasi uomo che galleggiava stancamente nella sua esistenza depressa e alcolizzata senza trovare una sola via di uscita, chiudendosi sempre di più in quell’immaginaria bettola rock’n’roll in Louisiana che tanto andava a genio alla sua chitarra e alle sue bottiglie.
Aveva anche paura di dover condividere la casa con qualcuno che non aveva mai visto. Non sapeva quanto avrebbero potuto resistere ma sapeva da solo che tanto non sarebbe stato: chi reggeva un alcolizzato depresso come coinquilino? Appunto. Tom era abituato al disordine, a suonare a orari improponibili, a stare sveglio fino a tarda notte a suonare la chitarra, a bere fino a svenire e sapeva che la disintossicazione non era servita a niente se non a convincerlo a bere ancora di più. Come avrebbe fatto adesso, con qualcuno che gli avrebbe imposto delle regole, regole che ovviamente non avrebbe rispettato, perché lui era uno spirito libero che si era sempre rifiutato di obbedire a qualsivoglia persona, non tanto per reazione ma per inerzia morale? Come avrebbe sopportato un’altra persona con sé, con le sue, di abitudini, con la sua vita? Aveva bisogno del rumore per soffocare i suoi pensieri troppo incasinati, di musica ad alto volume la notte per conciliarsi un sonno che lo uccideva ogni notte di più. E chi, per quanto potesse essere accomodante e paziente, poteva sopportarsi ogni notte gli Hollywood Undead o i Sex Pistols a tutto volume? Chi poteva reggere un coinquilino che non parlava mai ma si trascinava per casa come un fantasma dolente, con delle catene invisibili al collo e ai polsi? Chi sarebbe stato così folle da resistere a vivere con lui?
-Ma siamo sicuri che sia in casa?- la voce di Gustav interruppe i suoi pensieri. Il grasso biondo aveva messo il naso fuori dalla macchina e li guardava incarognito e indagatore allo stesso tempo – Per me è morto.
-E perché dovrebbe essere morto?- chiese Tom, piegando la testa da un lato.
-Perché ci gioco la casa che ha l’AIDS. E sicuramente sarà un tossicodipendente. E …
-Gustav, il fatto che non ti piacciano le persone omosessuali non ti autorizza a sparlargli dietro in questo modo.- lo redarguì Georg alzando gli occhi al cielo. – Non è che tutti i gay hanno l’AIDS o sono eroinomani. Piuttosto, speriamo che si ricordi che ti devi trasferire qui.- battè con più forza il pugno sulla porta, dicendo, a voce un po’ più alta – Ehm … Bill? Bill, scusa, sono Georg Listing, l’avvocato, avevamo l’appuntamento per oggi.
-Magari non c’è.- commentò senza gioia Tom, cercando di spiare dalle finestrelle della sua nuova casa, con le tende inamidate. Anche se, perché c’erano petunie nere come fiori e perché le tendine avevano una complessa decorazione al punto croce nera che pareva una croce? – A questo punto posso anche …
Non fece in tempo a finire di parlare, che una nuova voce, malinconica, infantile, inquietante, si aggiunse al terzetto, facendoli voltare sobbalzando. E Tom non poté fare a meno di trattenere il fiato a vedere il ragazzo che si stava avvicinando ciondolando dal giardino.
-Sì? State cercando Hansi? A chi devo il piacere?
Tom osservò con uno stupore che non provava da anni il nuovo venuto e scambiò un’occhiata imbarazzata e vagamente scioccata con Georg e Gustav. Più che un uomo, pareva un giunco, tanto era longilineo e magro ai limiti dell’anoressia, con un andatura ciondolante e incerta sui piedi nudi, così tanto pallido da sembrare un fantasma slavato di qualcosa di vivido un tempo lontano. Aveva i capelli biondo platino, evidentemente tinti, accuratamente pettinati, una quantità notevole di piercing sul viso e sulle orecchie, un largo sorriso dolce e innocente come quello di una bambola, e l’aria di un folle. Ma erano i suoi enormi occhi neri come l’inferno che fecero rimanere Tom di stucco. Magistralmente ricoperti da quintali di trucco, erano come un paio di specchi d’ossidiana maledetta. Tom non aveva mai pensato che un paio di occhi potessero essere così espressivi, inquietanti e malati, ma quelli erano qualcosa di cui non si era mai nemmeno sentito. Vi sembravano trasparire onde e onde di nostalgia che si propagavano gelide come il mar Baltico in mezzo a loro, fiumi delicati eppure assassini di malinconia congenita, un senso di freddo e di perdita che poteva concorrere con il Generale Inverno. Erano occhi che sapevano di Siberia, non di Magdeburgo. Erano occhi ghiacciati dai venti ed erosi dall’oceano, quelli, occhi vivi eppure morti. Erano meravigliosi, si ritrovò a pensare Tom, deglutendo rumorosamente. Non sapeva chi fosse quello straordinario ragazzo con i jeans strettissimi e una camicia di lamè argentato, ma sapeva che aveva gli occhi più malati che potessero esistere. E che era la figura più sensuale che avesse mai avuto il piacere di vedere da anni.
-Oh, Bill, eccoti.- Georg si fece avanti, porgendogli la mano, che venne guardata con estremo stupore e non venne stretta – Spero ti ricordi di me, sono Georg Listing, l’avvocato, e lui è Gustav Schafer. Eravamo venuti per combinare l’affare sul tuo nuovo coinquilino. Ecco, lui è Tom Kaulitz, pienamente disposto a trasferirsi qui.
Se fosse stato per lui, il ragazzo avrebbe tranquillamente grugnito un ciao e avrebbe distolto lo sguardo, ma un’occhiata assassina del suo migliore amico lo costrinse a fingere un sorrisetto tirato e ad allungare timidamente la mano.
-Ciao, sono Tom. Piacere.
La reazione fu alquanto strana, o almeno così la vissero i tre amici. Bill li guardò tutti, con attenzione, socchiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia perfettamente disegnate, come se non avesse minimamente capito con chi stesse parlando. Piegò la testa da un lato, scrutandoli con un’attenzione maniacale, prima di risvegliarsi completamente dalla breve e inquietante trance e strillare
-Ah, sì, giusto! Mi ricordo! Ciao, io sono Bill, Bill Schadenwalt, è un piacere! Tu sei il mio nuovo coinquilino! Wow, è così eccitante! Non ne ho mai avuto uno! Fa molto universitari! Io ho due lauree! Ma nessun coinquilino! Ho un’altalena, se vuoi! Ti piacciono le altalene? Io le amo! Sono così divertenti! Se hai qualche animale, portalo pure in casa! Mi piacciono gli animali! Prima non potevo averne, quindi sarebbe bello se tu ne avessi uno! Volete del the? Ne ho tanti tipi! Dei biscotti? Li ho fatti io! Cucino, ovviamente! Basta che mi aiuti per la spesa, ti faccio tutto quello che vuoi! Sono abituato intanto! Qualunque tipo di cucina, sono aperto a tutto! Fumi? Perché io sì, spero non ti dia fastidio! L’unica cosa, se …
-Ehm, certo, magari ne potete parlare quando sarete soli.- lo interruppe Georg, con un sorriso incredibilmente tirato, ponendo finalmente un freno a quello sproloquio completamente insensato di frasi.
Tom era semplicemente basito. Si avvicinò a Gustav, e sussurrò
-Aspetta, volete mettermi in casa con sta checca psicopatica invece di lasciarmi a casa mia, in pace? Che cazzo vi siete fatti?!
-Scusa T., lo so che è un’infamata da parte nostra, ma è per il tuo bene.- gemette di rimando il biondo ragazzone, rifacendosi il codino.
-Te lo dico chiaro, lasciatemi qui, e riprendo a bere.- Tom era sbiancato, guardando Bill saltellare in giro a Georg come Heidi – Lo giuro. Adesso saliamo su quella macchina e scappiamo finché siamo in tempo.
-Ehm, ma dai, a prima vista magari non è particolarmente invitante ma …
-Invitante? Schafer, Cristo buon Dio, è uno psicopatico! Secondo quale perversione io dovrei disintossicarmi stando in casa con quel coso saltellante tinto male?!
-Senti, Tom, lo so! Credi che ci piaccia lasciarti qui con lui, sapendo cosa ne penso io dei froci? Appunto. Ma Georg ha ragione: non puoi stare a Magdeburgo, adesso, hai bisogno di calma, di vera calma, che qui in campagna puoi trovare davvero. In città, rischi troppo grosso, qui non hai nulla che ti possa tentare. Anche perché il prossimo pub è a mezz’ora di macchina, che tu non hai a disposizione.
-Perché qualcuno di mia conoscenza ha pensato bene che prendere la moto del proprio migliore amico per scarrozzarsi la ragazza e andarsi a schiantare contro il municipio era più sensato che prendere la metro notturna …
-E piantala di rivangare sta storia, mi fai sentire in colpa. Comunque, dipende da te: prima ti reputeremo in grado di tornare in città, prima abbandonerai il frocio e la casetta in campagna.
Fu la voce vagamente isterica di Georg a far smettere i due di confabulare in un angolo, facendoli concentrare su Bill che li guardava con quei suoi enormi occhi folli e quel suo sorriso vagamente maniacale.
-Bene, Tom, allora noi pensavamo che potremmo anche andarcene. Torneremo domani a portarti le ultime cose che sono rimaste nel vecchio appartamento.
Tom era sicuro di non ingannarsi a vedere l’espressione afflitta dell’amico. Forse anche a loro bruciava averlo completamente allontanato dalla sua vecchia vita, relegandolo in un posto sconosciuto nelle mani di quel tipo strano. In fondo, se l’era cercato anche lui, dopo tutte quelle volte, non poteva credere che lo avrebbero lasciato stare. Inconsciamente, gli faceva piacere vedere quanto Georg e Gustav gli volessero bene, quanto si fossero impegnati per salvarlo, e si faceva schifo da solo pensando a quanto poco bene lui volesse loro, con il suo menefreghismo e la sua voglia di farla finita così. Ma era il suo carattere bastardo, non lo avrebbero cambiato. Li guardò salutare timidamente Bill e salire in macchina, mollandogli ai piedi i suoi zaini, salutarlo con un sorriso incoraggiante e partire sgommando per la stradina. Agitò stancamente una mano, senza avere il coraggio di voltarsi verso il suo nuovo coinquilino.
-Bene, Tom, sono molto contento di conoscerti. Vogliamo entrare? Ti faccio fare il giro della casa.
La timida vocina di Bill, così dolce e remissiva lo riscosse dalla trance in cui si era autoindotto. Si voltò, tentando per uno dei suoi mezzi sorrisi che tutti trovavano irrimediabilmente sexy, ma che per lui non erano altro che un modo per segnalare la sua stanchezza. Annuì, caricandosi gli zaini in spalla e seguì il biondo dentro la casa. Una tiepida oscurità li accolse, rilassante e morbida. Tom sbatté gli occhi, guardandosi attorno con estrema curiosità. Era tutto così … estraneo per uno come lui, abituato al rumore e al caos, alle luci asettiche del vecchio lampadario, alle notti illuminate dai nightclub e dalle volanti della polizia, gli occhi bruciati dalle luci a led ultravioletti per la sua piantagione casalinga di marijuana da spacciare. Non sapeva se gli sarebbero mancate le luci, il casino della periferia, se avrebbe potuto abituarsi alla calma campagnola. Beh, ma la coltivazione di marijuana non gliel’avrebbe levata nessuno, avrebbe convinto Gustav con qualche scusa a portargliela nella casa nuova. Come pensava che arrotondasse lo stipendio? Con la sua roba, no? Si sarebbe messo le luci blu in camera sua, insieme all’inascoltabile musica house di cui si riempiva le orecchie quando sperimentava strani incroci con le sue amate droghe naturali che creava con spirito scientifico estremamente innovatore. Un delizioso profumo gli invase le narici, così diverso dal tanfo di alcol, pizza andata a male e marijuana della sua vecchia casa. No, questo sapeva di cipria, torta di mele, rose appena colte e qualcosa che non sapeva bene identificare, ma che sapeva di vecchio e di buono. Era molto più riposante che l’odore penetrante delle fabbriche di Magdeburgo, ti metteva in pace con te stesso. Un vago sentore di fumo, forse. In mezzo al delicato zucchero a velo. Un profumo da donna dei più raffinati. Fiori ancora bagnati di rugiada. Libri vecchi sempre chiusi. Legna da ardere. Erba appena tagliata. Fresco. Campagna. Si guardò attorno curioso, osservando la sobria mobilia di legno, la quantità di abatjour deliziose, un’enorme libreria che non riusciva più a contenere i volumi che vi erano stipati dentro a forza, una poltrona rossa con grosse nappe gialle che troneggiava padrona nel centro del piccolo salotto tirato a lucido. E milioni di foto, dappertutto. Tutto il contrario dei vecchi mobili di alluminio che aveva, i poster alle pareti, l’impianto stereo tarroccato che aveva rubato da adolescente, il divano sfondato recuperato da una discarica, la tv mezza rotta, solamente disordine fastiodoso e snervante.
-Allora, Tom, cosa ne dici del salotto? Ovviamente, potrai sistemare qui tutto ciò che vuoi. Ti chiedo solamente di non spostare le fotografie, ci tengo moltissimo. Per quanto riguarda i libri, ora sono anche tuoi, fanne ciò che preferisci.- Bill lo stava guardando con un enorme sorriso, il piercing sulla lingua e l’anello al naso che brillavano sinistramente. Era bello, decise Tom. Di una bellezza ferita, spezzata ed effimera, ma lo era comunque. Gli piaceva il suo sorriso isterico, e i grandi occhi esaltati da qualcosa che non sembrava droga, ma qualcosa di più squilibrato. Gli piacevano quelle lunghe mani magrissime e ingioiellate che si muovevano come ragni su un’invisibile ragnatela, quel tatuaggio dello scheletro così inquietante ma interessante, quel corpo così magro e così alto, slanciato e ciondolante.
-E’ una casa molto carina.- disse, impacciato, nascondendosi dietro la cortina di capelli, facendo vagare lo sguardo per la stanza - Senti, forse sembrerò un po’ maleducato ma … ci sono delle regole? Intendo dire, mi spiego, c’è qualcosa che assolutamente non devo dire, o fare, o qualcosa di simile?
La risata che conseguì a quella frase, Tom non seppe se trovarla terrificante oppure adorabile. Era qualcosa di terribilmente … psicopatico. O meglio, come il ragazzo immaginava che ridessero gli psicopatici, con tanto di occhioni esaltati e manine che battevano.
-Ma assolutamente no! Questa è anche casa tua, mi aiuti a pagare le spese, come posso darti delle regole?- Bill si strinse nelle spalle. Dio, com’era magro  - Però posso chiederti dei favori, questo sì. Tipo, le foto. Sei pregato di non toccarle, o spostarle, o farci qualsiasi cosa. Per quanto riguarda la televisione, io non ce l’ho, ma se vuoi portarne una ti farò compagnia. Sono anni che non la guardo, però quando vedrai i film horror, non contare su di me, mi spavento molto facilmente. La musica punk mi piace un sacco, anche di notte, tanto non dormo molte ore, e se vuoi suonare libero di farlo quando vuoi, se vuoi ti accompagno col pianoforte. Ovviamente, cucino io, come ti ho detto sono ferrato in qualunque genere di cucina, possiamo cenare insieme, e la colazione idem. La casa la pulisco io, faccio il bucato, e farò anche il tuo, se vuoi, ti rifaccio anche il letto, non è un problema. Magari tu puoi fare la spesa, questo sì. Ho una moto, ma non ho la patente, e andare sino in città con la corriera è davvero stancante. Bene, credo sia tutto.
Tom era rimasto a boccheggiare per tutta la tirata di Bill, guardandolo come si può guardare un elefante in smoking.
-Cioè … no, scusa, fammi ricapitolare. Come hai fatto a capire che mi piacciono gli horror e il punk? E poi … non posso accettare! Siamo coinquilini, non sono mica un ospite, tutto ciò è gentilissimo da parte tua ma è esagerato. Ho capito, lo so che non ho esattamente l’aria del casalingo, ma qualcosa so fare, eh.
Per tutta risposta, Bill rise di nuovo e scosse i capelli biondissimi
-E’ semplicissimo; hai la maglietta dei Korol I Shut, se non fossi un fissato del punk non conosceresti la band e di conseguenza non avresti una loro maglietta. Per quanto riguarda gli horror, da quella borsa sbuca la collezione dei film di Wes Craven, che dicono tutto. Davvero, Tom, non ti devi preoccupare: mi faresti solo che un favore a farmi fare la donna di casa. Sono sempre stato abituato così, per me è una routine obbligatoria.
I due ragazzi si guardarono un po’ negli occhi, finché Tom non distolse lo sguardo, infastidito nel profondo da quelle iridi nere come l’ossidiana più nera. Più stava a contatto con Bill, più si rendeva conto di quanto avessero sbagliato Georg e Gustav a lasciarlo nelle sue mani. Uno psicopatico e un alcolizzato, dove sarebbero mai finiti? Era una cosa quasi inconcepibile, tanto valeva metterselo in casa. Cosa diceva loro che non avrebbe bevuto, in quella casa, dove non c’era nessuno a controllarlo, erano lontani almeno un’ora da Magdeburgo e bastava un niente per scappare in Polonia e finire i suoi giorni miserabili in uno dei vecchi alberghi di Varsavia in mezzo alla vodka pura? Doveva per forza esserci qulcosa sotto, qualche trucco strano che legava loro e Bill, la casetta tirata a lucido e il profumo di strudel e cipria. Non ci credeva minimamente alle scuse piccine dei suoi amici, quei vaghi “sei lontano dai pub”, “la campagna è tranquilla”, “meno stimoli”. Tutte cazzate, lo sapevano tutti e tre. Di pub ne aveva visti almeno tre lungo la strada, il casino non vedeva cosa c’entrasse con la sua nuova vita, visto che per lavorare ci doveva ben andare giù in città, e per gli stimoli, beh, ne aveva forse bisogno? Appunto. Doveva esserci qualcosa che non gli volevano dire, qualcosa che riguardava il biondo più di quanto volessero fargli credere. Ma cosa poteva essere? Il fatto che forse fosse un ex alcolizzato e lo avrebbe aiutato? Uhm, no, non ne aveva la faccia. Magari un’alcolizzato di the alla fragola e torte di mele, quello sì. Non credeva nemmeno alla ricerca di un coinquilino per dividere le spese; come se non conoscesse le facce della gente che stava più che bene economicamente, e Bill aveva la classica faccia di uno ricco. Mentre lui arrivava ai livelli da straccione, quindi non sapeva davvero cosa gli sarebbe servito. Scrutò di sottecchi il suo nuovo e misterioso coinquilino saltellare in giro blaterando di torte di mele e zucchero a velo al nulla più completo e si guardò attorno, un fastidioso senso di terrore ad attanagliargli la gola. C’era qualcosa che gli stava urlando “scappa”, eppure pareva che l’uscita dalla Wonderland fosse lontana anni luce e il Ciciarampa lo stesso braccando da troppo vicino. Si chiese anche perché dovessero tenere le luci tutte spente e perché le tendine fossero nere. Guardò le fotografie sul camino, e si chiese chi fossero i due ritratti. Una, la più grande, era la foto di un matrimonio. Osservò curiosamente un ragazzo longilineo, coi capelli color platino lunghi almeno fino alla vita, con lo smoking addosso e lo sguardo più cattivo e perverso che avesse mai visto, tenere a braccetto un altro ragazzo, effeminato fino alla nausea, coi capelli neri e bianchi sparati dappertutto, truccatissimo, con un enorme vestito da sposa bianco e rosa, con tanto di strascico. Chissà chi erano, pensò, non sentendo nemmeno la voce di Bill che strillava qualcosa su “la torta, avevo preparato la torta di mele ma poi i tuoi amici se ne sono andati, la vado a prendere!”. Erano bellissimi, continuò a pensare, osservando le altre foto, la stessa coppia, momenti diversi, stessi pungenti occhi celesti di quello biondo che perforavano la foto e stessa dolcezza del moro che si dipanava in morbide onde positive. Osservò con più attenzione, sentendosi trapassare fastidiosamente dal ragazzo biondo, da quel ghigno sadico che non poteva esattamente chiamare sorriso, e dal visino innamorato e imbambolato di quello truccato e ingioiellato come una ragazza. Davano quasi dipendenza, a guardarli così, abbastanza tossici da costringere Tom a osservare con crescente curiosità le fotografie che era stato invitato a non toccare. Fece passare un dito sulla cornice, quando la voce di Bill, così sensuale anche se così inquietante, lo fece sobbalzare
-Ti piacciono?
Lo guardò, gli occhi truccati fattisi improvvisamente lucidi, un sorriso triste e nostalgico sulle belle labbra piene, una di quelle dita lunghe e nobili che accarezzava distrattamente la foto, così delicata eppure così bruciante.
-Sono molto belle.- grugnì Tom, imbarazzato – Posso sapere chi sono?
-Come chi sono?- Bill rise, una risata triste e sola. Che strano suono che aveva, come mille diamanti che si spezzano e crollano al suolo. Tom non era abituato a ridere sinceramente; non sapeva nemmeno come potesse suonare una vera risata divertita, abituato al riso metallico della periferia  – Questo sono io.- indicò il ragazzo coi capelli sparati, inguaiato nel vestito da sposa principesco – Sono molto cambiato da quel giorno, è vero.
Tom annuì, senza sapere bene che cosa dire, limitandosi a sentire il profumo di Bill, che sapeva di vaniglia, mascara e shampoo delicato ed era così buono.
-Lui è Hansi, mio marito.- Bill indicò il ragazzo biondo con l’aria cattiva, e una solitaria lacrima gli percorse la guancia.
-Tuo marito?- Tom lo guardò incredulo, sentendosi in colpa a vederlo versare quella lacrimuccia delicata come un soffio di vento nel deserto – E … se mi è permesso chiedertelo, perché non è qui? Avete divorziato?
-Divorziare? Noi? Ma non dire sciocchezze!- Bill lo guardò come si potrebbe guardare a un bambino stupido, e scosse la testa.
-Non volevo insinuare, è solo che mi pareva strano che ti servisse un coinquilino se sei sposato, solo questo.- commentò Tom sulla difensiva, distogliendo lo sguardo colpevole. C’era una bellissima torta di mele appena sfornata sul tavolo, e pensò che un bicchiere di gin ci sarebbe stato divinamente. Ma lui non doveva bere.
-Giusto, scusa, tu non puoi sapere.- Bill fece un sorriso strano, e lo spinse delicatamente verso il tavolo e la torta di mele dorata e ricoperta di zucchero a velo – Da quando se n’è andato, mi sono reso conto che stare del tutto solo non giova né a me, né ai miei libri, quindi ho deciso di cercarmi qualcuno con cui vivere. Per rallegrarmi le giornate, mica per altro. Per avere qualcuno a cui cucinare la torta di mele, quando ero solo finiva che la dovevo sempre buttare via. Per distrarmi. Vivere completamente soli è pesante, sai? Non parlare mai con nessuno, eccetera. È un anno che ci penso su, finalmente mi sono deciso. Sei un dono del cielo, sai?
Tom non si era mai sentito dare del “dono del cielo” da nessuno. O meglio, dalle sue bottiglie, quello sì, ma non sapeva se valeva.
-Aspetta … quindi, se ho capito, tu sei solo perché Hansi è … - Tom lasciò volutamente la frase in sospeso, mordicchiandosi nervosamente il piercing al labbro che resisteva da quasi quindici anni.
-Esatto.- Bill si strinse nelle spalle, sfregandosi un dito sulla fede luccicante che portava al dito, così semplice in mezzo ai grandi anelli gotici – Hansi è morto l’anno scorso. Io sono la sua vedova.

l***
Ciao ragazze! Eccomi qui con una storia nuova, e, come al solito, orribile ... non ho molto da dire se non che 1) per quelle sante che seguono le altre due ff in corso sui ragazzi, non disperate arrivano gli aggioramenti, 2) welcome to our madness a quelle nuove (cit Seremedy necessaria scusate). Boh. spero che il primo capitolo vi abbia intrigato e che vogliate lasciare qualche recensione! Un bacio a presto! E buon inizio scuola a quelle che come me devono tornare all'inferno :(
Charlie xx

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Capitolo 2
*** Raccontami di te ***


CAPITOLO DUE: RACCONTAMI DI TE

Tom deglutì abbastanza rumorosamente e si tirò il colletto della maglietta. Ecco, partivano già male, lo sapeva. Guardò Bill, con la sua aria triste e gli occhi all’ingiù e gli posò timidamente una mano sulla spalla
-Ehm, Bill, mi dispiace, condoglianze. Io … beh, non sapevo, e …
-Va tutto bene, Tom. È già passato un anno, dopo tutto.- Bill sorrise, quel suo sorriso vuoto e inquietante e si passò una mano tra i capelli color platino. Poi si mosse, con quella sua buffa andatura ondeggiante e vagamente danzante e con un cerimonioso gesto della bella mano pallida e inanellata, lo invitò ad accomodarsi – Spero ti piacciano le torte di mele. Io ne ho una vera e propria passione.
Tom si limitò ad annuire, mentre si sedeva con circospezione al tavolo perfettamente pulito e ordinato. Però non era normale, si ritrovò a pensare, squadrando le tazze di porcellana tirate così a lucido da luccicare e da farlo riflettere nella loro superficie. Era tutto così pulito e profumato da dare quasi la nausea … sembrava una casa delle bambole in formato gigante. Non che d’altronde il padrone di casa non sembrasse lui la Barbie inserita da qualche bambina capricciosa in quella casa contemporaneamente da sogno e da incubo. Era tutto così statico e soffocante, non c’era nulla fuori posto, come se quello fosse una sorta di cristalleria, di reliquario. Se non l’avesse saputo, Tom sarebbe stato convinto che nessuno vi avesse mai vissuto dentro, ma che fosse solo rassettata nell’attesa di qualcosa che ancora non era arrivato. Ma com’era umanamente possibile mantenere tutto come in una bolla temporale, senza sconquassare nulla, senza lasciare depositare il minimo granello di polvere? Era … stressante, decise. Sì, lo stava già agitando tutta quella perfezione assoluta. Lui avrebbe sicuramente rovesciato qualcosa, avrebbe inavvertitamente rotto qualcos’altro, avrebbe rovesciato la marmellata sulle poltrone dove sembrava che nessuno vi si fosse mai accomodato sopra.
Guardò con ancora più circospezione Bill che gli tagliava meticolosamente una fetta di torta, un’enorme, soffice, perfetta, torta, come tutto il resto. Si guardò in  giro con nonchalance, cercando di individuare l’armadietto degli alcolici, perché poteva anche essere la casa perfetta ma nessuno, nemmeno la bambola bionda, avrebbe fermato le sue incursioni notturne a impossessarsi di qualche bottiglia.
-Mi dispiace, Tom, ma in casa non c’è alcol.
Quell’affermazione lo fece letteralmente sobbalzare sulla sedia, e non tanto per il contenuto in sé della frase, era quasi ovvio che ci sarebbe stata la fregatura, ma per il modo in cui Bill aveva parlato, così pacifico mentre gli serviva la benedetta fetta con una tazza piena di the bollente. Cioè, c’era qualcosa che non gli quadrava.
-Ah ehm … ma come hai fatto a capire che stavo pensando a quello?
Non doveva aver l’espressione particolarmente intelligente in quel momento, con gli occhi a palla e la bocca mezza aperta, perché Bill rise, di nuovo.
-Non è così difficile, i tuoi amici mi hanno detto che tu sei un alcolizzato appena uscito dalla riabilitazione. E cosa deve cercare un alcolizzato se non dell’alcol?- Bill si versò una tazza di the, con quei movimenti lenti e meticolosi – Per l’appunto, io ti ripeto che qui non troverai nemmeno una goccia di alcol. Mio marito non beveva molto, io non posso per via delle medicine che prendo. Quindi, caro Tom, qua dovrai sul serio affrontare la riabilitazione. E non ti credere, lo scopro immediatamente se porti qualcosa in casa.
“Seh”, pensò Tom, “non mi scopriva mia madre, vuoi scoprirmi tu, con i tuoi occhioni allucinati?”, ma non disse nulla, limitandosi ad annuire distrattamente e a distogliere lo sguardo. Aveva quasi paura di assaggiare quella soffice torta di mele e zucchero a velo, quasi che potesse contenere veleni a lui ignoti.
-Beh, Bill, cosa fai nella vita?
Ok, lo sapeva da solo che era veramente il modo peggiore per iniziare una conversazione, ma non ce l’avrebbe fisicamente fatta a reggere quel silenzio intoccato e perfetto da tomba che c’era in quella casa da incubo. Come faceva Bill a sopportare quel silenzio? Come faceva a vivere in quella dimensione di cristallo?
-Scrivo.- Bill gli sorrise timidamente, sedendosi accanto a lui e accavallando le lunghe gambe magrissime, sorseggiando il the con quel modo vagamente principesco e affettato – Ho una certa fama nel mondo del noir, anche se scrivo sotto pseudonimo femminile, ovviamente. Non so se hai mai letto i libri di Dafne Skuld: beh, sono io.
-Ma dai!- Tom tentò per un sorriso rassicurante – Georg è un tuo grandissimo fan! Se sapesse che fossi tu … come mai non ti vuoi far conoscere? Avresti uno stuolo di fan che ti chiederebbero di autografargli qualche copia dei tuoi romanzi.
Bill rise, un risolino schivo e imbarazzato, arrossendo delicatamente
-No, Tom, figurati. Non mi piace la fama, preferisco stare nell’ombra, è tutto molto più stimolante. È un po’ come avere due parti di uno specchio: una avvolta da un morbido velluto nero, e l’altra di delicata seta trasparente. Cosa scegli?
Tom non aveva capito fosse una domanda fino a quando non si rese conto che Bill lo stava fissando con troppa insistenza, battendo il pregiato cucchiaino di argento sulla superficie linda del tavolo di legno. Preso in contropiede, tossì
-Io? Ah … boh, direi … quella di velluto?
Fissò Bill quasi con maleducazione, rendendosi conto solo di stare quasi aspettando un segno: aveva detto giusto? O sbagliato? Qual’era la risposta che s’aspettava quella buffa creatura platinata?
-Esattamente.- Bill gli dispensò un bellissimo sorriso, e il ragazzo quasi sospirò di sollievo per aver azzeccato la risposta – La seta è più fresca, e più pregiata, forse, ma quel suo candore è così stancante, e si sporca così facilmente. Mentre il velluto no. Rilassa, culla, avvolge. E se lo macchi, non si vede così chiaramente. Le vedi quelle tende? Sono di broccato nero, e sono una sorta di schermo per la vita che voglio condurre. Mi tengono chiuso nel guscio che non voglio venga rotto.
-E non vorresti uscire, qualche volta? D’estate, per esempio?- sussurrò Tom, affascinato da quei occhi persi che vagavano per la stanza come se non appartenessero davvero a quel mondo, quel sorriso gentile eppure perso che sembrava impossibile da cancellare ma che sembrava così affascinante.
-Non ne ho bisogno, Tom.- rispose pacificamente il biondo, bevendo graziosamente un sorso di the – Ho sempre avuto ciò che desideravo nel mio guscio, e di uscire proprio non ne ho voglia. Chissà quanti incubi potrebberero soffocarmi. E comunque Hansi, mio marito, non ha mai voluto che la gente mi vedesse. Diceva che mi avrebbero fatto del male, è sempre stato molto protettivo nei miei confronti e io … beh, mi fido di lui. Se voleva tenermi segregato in casa, sicuramente avrà avuto un ottimo motivo per farlo.
Tom alzò un sopracciglio, assumendo un’espressione costernata e posò la tazza di porcellana sul tavolo, squadrando il suo anfitrione
-Cioè, credo di essermi perso un passaggio. Lui ti teneva chiuso qua? Ti obbligava? Ma Bill, è … ingiusto! Non poteva costringerti a rimanere in casa se volevi uscire e conoscere gente.
-Non dire sciocchezze.- Bill lo guardò storto, roteando gli occhi al cielo – Hansi ha sempre saputo cosa è meglio per me. La gente … è pericolosa. Dove sei nato, Tom?
-Qui, a Magdeburgo. La triste città di confine.- Tom fece una smorfia, stringendosi nelle spalle – Perché? Tu di dove sei?
-Appunto. Tu non puoi davvero sapere quanto le persone possano essere cattive.- non sapeva perché, ma Bill stava cominciando a spaventarlo seriamente. Gli faceva paura quella voce infantile e cocciuta da bambina nel corpo di un uomo, gli facevano impressione quegli occhi spalancati che giravano istericamente per la stanza con una velocità assurda, gli faceva strano quella mano completamente tatuata che, in un ossessivo tic, stringeva e mollava la tazzina di porcellana. Si stava agitando, presuppose il ragazzo, scompigliandosi da solo i capelli. E ora, che avrebbe dovuto fare? Sul manuale delle Giovani Marmotte non aveva mai letto di come calmare uno psicopatico, avrebbe dovuto fare tutto a sentimento. Lui. Ahah. – Non sei nato nella periferia di Berlino, in mezzo alla violenza che io ho vissuto giorno per giorno. Ne consegue che la gente è cattiva. Hansi voleva solo proteggermi da quelli che mi hanno fatto del male in  passato. La gente è cattiva. Cattiva. Cattiva cattiva cattiva.
Sempre nel suo mutismo basito, Tom lo guardò ingoiare rapidamente due piccole pillole azzurrine, sfarfallare un po’ gli occhi, e poi sorridergli teneramente. Ok, quello sì che faceva paura. Ma, d’altronde, lui cosa doveva temere se non la presunta guarigione dai suoi angeli alcolici? Sicuramente, non avrebbe temuto un ragazzetto omosessuale con gli occhi matti e la risata da bambina. O forse sì?
-Senti, non volevo offenderti. Non era mia intenzione. Tornando comunque al discorso di prima … sei di Berlino? E come ci sei finito in questo posto infame?-Non è infame.- rispose pacificamente Bill, spazzolandosi i pantaloni neri estremamente aderenti – E’ molto pacifico, un altro mondo rispetto a Reinickendorf. Sai, dove vivevo prima era tutto così … rumoroso. E sporco. E la gente era pericolosa, strana, non so come ne sarei uscito vivo se Hansi non mi avesse portato via con sé. Diceva che qui era perfetto, perché io sarei potuto vivere in pace, senza fastidi e rumori molesti, e non avrei dovuto temere nulla quando lui se ne andava. Spesso andava all’estero per lavoro, e io rimanevo solo, ma renditi conto di quanto possa essere più rassicurante rimanere soli in questo paradiso, oppure farlo in un quartiere degradato e malfamato come Märkisches Viertel. Più ci pensava, meno Tom riusciva a visualizzare un Bill adolescente che fumava sugli enormi scaloni distrutti dei palazzi del blocco del Märkisches Viertel. Sembrava un ragazzo così a modo, così fine, un tipo più da Charlottenburg, per dirla tutta, e invece pareva che fosse proprio un figlio dei peggiori agglomerati urbani della capitale. Lo faceva sentire quasi un borghese, lui, nato, cresciuto e dilaniato dalla triste e spenta Magdeburgo, sotto alle fabbriche metallurgiche e al cielo della Pannonia buio e morto. Niente di cui vantarsi, nessuno dei due.
-Beh, sì, effettivamente sono d’accordo. Non so, ma non ti ci avrei visto molto a spacciare eroina, ecco.- commentò Tom, scostandosi i capelli dal viso. Bill rise gettando indietro la testa e lui sorrise, impacciato.
-Oh, Tom, sei così divertente. Forse parlare di eroina è esagerato, ma la mia dose di marijuana l’ho dovuta smerciare anche io, ovviamente. Se non volevo finire male.- Bill abbassò le lunghe ciglia truccate, bevendo un sorso di the, con un sorriso vago sulle belle labbra magistralmente ricoperte di un pallido rossetto. Spacciava droga. E ne parlava come se gli stesse raccontando di aver fatto lo scout. Beh, effettivamente, per i ragazzi del blocco, spacciare era come fare lo scout per i ragazzini di Magdeburgo, solo che la posta in gioco era molto più alta che qualche stelletta di latta sulla camicia: il tuo posto nel branco, o una vita da reietto.
-Non so perché ma mi sto sentendo particolarmente stupido in questo momento a dire che io ero stato costretto a fare lo scout per i Lupi della Pannonia mentre tu passavi la tua infanzia a vendere canne e ascoltare musica illegale.- commentò Tom, masticando lentamente la sua torta di mele. Per un attimo, pensò a come sarebbe stato se quella torta fosse stata imbottita di cocaina.
-Beh, non sono tanto sicuro che sia una bella cosa gironzolare fino a tarda notte col rischio di essere preso a pugni e calci praticamente ogni giorno.- Bill si strinse nelle spalle – Ma, d’altronde, Hansi mi ha portato via prima che fosse troppo tardi, dunque il problema in sé per sé non sussiste. Parliamo di te, adesso. Dove lavori?
Tom lo guardò sfregarsi distrattamente la fede d’oro zecchino con un brillante che portava al dito, in mezzo a una cascata di grotteschi anelli dark.
-In un’officina. Sì, lo so, è triste, ma non ho nessuna laurea e diciamo che il mio esito dell’esame finale delle superiori lascia vagamente a desiderare, dunque … no, non sono come te, non sono un genio della letteratura, sono solo un meccanico che arrotonda lo stipendio con la coltivazione di marijuana, appunto e …
-Ah  no!- Bill lo interruppe agitando un dito, lungo e ossuto, coronato da un artiglio smaltato di rosso ciliegia – Io non voglio più avere a che fare con la droga. Se proprio devi coltivarla, non mettermi a parte di nulla.
-Non avevo intenzione di farlo.- si difese Tom, socchiudendo gli occhi scuri – Ma non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare, te lo prometto. Piuttosto, non per farmi gli affari tuoi, però … tuo marito … era malato?
-Intendi se è morto di malattia? Oh no, è stata una cosa molto più rapida.- Bill si strinse nelle spalle, avvolgendosi una delle molte collane attorno al dito. – Non ne parlo molto volentieri, però, quindi preferirei che l’argomento si chiudesse con oggi.
Tom si sentì particolarmente in quel momento, scandagliato da quegli occhioni più vuoti dello spazio e più bui degli oceani. Occhi morti ancora prima di aprirsi, occhi ciechi che però vedevano. Occhi inquietanti. Occhi da bambola.
-Hansi è stato ucciso. Accoltellato.
-Co … cosa? Assassinato?- Tom non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi, strozzandosi con la tazza di the. Faceva sempre strano sentirselo dire in faccia.
-Un suo paziente aveva perso la calma.- Bill si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore – Era uno degli psichiatri più quotati del mondo, sai? Ma se n’è andato così giovane … e io … comunque, possiamo non approfondire ancora l’argomento? Preferirei raccontarti di quando era ancora in vita. Del matrimonio, cose del genere.
Tom annuì, tentando di sembrare comprensivo, quando in realtà l’unica cosa a cui stava pensando era di voler scoprire qualcosa di più su quella strana coppia che aveva abitato il cottage. Non poteva fare a meno di sentirsi particolarmente ficcanaso, ma contemporaneamente come poter ignorare quella strana e amara sensazione che strisciava nel suo stomaco ogni volta che inavvertitamente posava l’occhio su quelle fotografie. Non aveva mai sperimentato prima nulla di simile a quella cupa atmosfera grottescamente felice che gravava in casa, e nel sorriso dolce del suo biondo coinquilino, e ancora non era sicuro di essere felice di esserci finito dentro. L’unica cosa che poteva dire era che almeno, wow, la torta di mele era davvero insuperabile.
-Ti faccio vedere la tua stanza.
Bill si era alzato, spazzolandosi i jeans da pieghe inesistenti. Gli sorrise teneramente, indicandogli le scale che sparivano al piano superiore.
Silenziosamente, Tom lo seguì, così a disagio in mezzo a tutta quella perfezione tirata a lucido, osservando i finti Munch alle pareti, le belle lampade Tiffany che illuminavano le scale, le porte di legno massiccio, i tappeti morbidi con motivi persiani sul pavimento di legno. Sembrava un sogno quell’abbaino velato sopra la loro teste, esattamente come la camera perfettamente in ordine dove lo condusse Bill. Tom non era mai stato abituato ad avere una stanza bella e in ordine. Quando viveva con sua madre, la sua stanzetta era sempre sporca, in disordine, con poster alle pareti e vestiti buttati alla rinfusa. Ogni tanto sua madre tentava di metterla a posto, ma arrivava la sera così stanca e distrutta che proprio non aveva tempo per stare dietro a lui in questioni così fondamentalmente inutili. La stessa fine l’aveva subita il suo piccolo appartamento dove aveva vissuto fino a prima di essere deportato a fare la riabilitazione. Un covo lercio dove vivere era quasi stressante. E invece, adesso, gli veniva offerta una camera bellissima, con un letto lindo e tirato a lucido. Qualcosa di meraviglioso. Entrò quasi con reverenza, guardandosi curiosamente attorno, sembrava un bambino in un castello incantato. Beh, pensò, per uno che l’adolescenza non l’ha vissuta, troppo impegnato a rovinarsi la vita con le proprie mani, questo sì che è un castello magico. Con una principessa trans dentro, ma magico comunque.
-Wow, è … è fantastica.- commentò. – Credo che sia la camera più bella che abbia mai avuto il piacere di vedere in ventott’anni di vita.
-Non è niente di speciale, Tom.- cinguettò Bill con voce flautata, scivolando silenziosamente dietro di lui per aggiustare l’impercettibile spostamento di un quadretto alla parete. Chissà perché, si chiese Tom con un brivido, era la copia della Vampira di Munch. Grottesco, a pensarci, esattamente come trovarsi a pensare alla favola di Barbablu. Sì, solo che qui lui si sentiva la sposa e vedeva quel giunco glamster come il malvagio e sadico sposo con la cantina piena di cadaveri spenzolanti. Sarà l’effetto di non aver più potuto toccare dell’alcol che mi porta a sragionare, pensò, grattandosi distrattamente il collo. – Oh, a proposito, sei impegnato con qualcuno? A me non da fastidio se porti gente in casa. Basta che nessuno sposti le foto.
-Eh? Ah, no, non ho nessuno. Sì, beh, ci sono Georg e Gustav ma non contano.
-Pensavo che potessi avere una ragazza. Un ragazzo come te è strano sia solo.- Bill sorrise ancora, scivolando di nuovo accanto alla litografia. Si assomigliavano così tanto, lui e la Vampira. Non avrebbe saputo davvero dire come, ma c’era un qualcosa, un’aura mistica, che permeava quella casa, i suoi quadri, il padrone, e le fotografie. Almeno in quella stanza non ce n’erano, fortunatamente. Non sapeva bene definire la sensazione amara che gli si era depositata nello stomaco, ma gli sembrava che ogni cosa lì dentro nascondesse del marcio dietro a tutta la pulizia perfetta e al profumo delizioso di mele e vaniglia. Come se da un momento all’altro fosse crollato tutto e fosse rimasto uno scheletro ingioiellato in un rudere avvolto da rovi e corvi spelacchiati, puzzolente di morte e disperazione. C’era qualcosa di strano, anche nella dolcezza stucchevole di Bill. Erano due uomini coetanei che avrebbero dovuto vivere insieme per un tempo indeterminato, e allora perché si comportava come fosse la servetta di un castello principesco perso nella Foresta Nera? Perché nulla era fuori posto? E come mai quelle fotografie che riempivano ogni angolo sembrava angosciarlo così tanto? Tom diede la colpa alla riabilitazione, anche se sapeva da solo che non era solo per quello che si sentiva così dannatamente a disagio. Non era un ragazzo incline alla paura, non lo era mai stato, troppo menefreghista della vita per potersi permettere il lusso di spaventarsi e provare qualche emozione così triviale. Ma quel luogo riusciva a inquietare anche lui. Doveva esserci qualcosa di strano, sicuro.
-E invece sono da solo. Non mi piacciono le ragazze.- appena si rese conto della gaffe e vide gli occhi di Bill luccicare ritrattò immediatamente la sua dichiarazione – Cioè, no, non mi piacciono nemmeno i ragazzi. Non mi piace la gente, in  generale. Com’è che si dice? Asessuato? Beh, allora sì, sono asessuato.
Bill rise, scuotendo la testa, e Tom trovò che la risata di Bill era vagamente oscena. Ma per questo non meno sensualmente isterica.
-Che cosa buffa, Tom. Ammetto che non me lo sarei mai aspettato.
Effettivamente, nessuno riusciva mai a crederci quando lo diceva. Quantità industriali di ragazze, e occasionalmente qualche ragazzo, avevano provato a estorcegli un appuntamento, un bacio, una notte insieme ma lui era sempre riuscito a svicolare elegantemente. Lui odiava le persone. Trovava tutto così insulso, così inutile, così indegno di attenzione che preferiva starsene in pace con una bottiglia e una pianticella nana di marijuana da coltivare piuttosto che stare a letto con una zoccola rifatta e tinta di biondo platino. Trovava il sesso la cosa più inutile del mondo, lo vedeva come uno spreco di tempo nel quale invece lui poteva starsene a fare filosofia insieme a una bottiglia di vodka e a una sigaretta sul tetto di casa. Non capiva Georg quando litigava con la sua fidanzata, non capiva Gustav che faceva commenti sulle tipe che vedeva per strada. Per lui non erano altro che inutili creature che si frapponevano tra lui e il mondo parallelo nel quale si rifugiava. Solamente che oramai non era più in grado di distinguere tra mondo reale e mondo fantastico, l’alcol aveva fatto in modo che si fondessero e che lui vivesse perso in un limbo inumano tra realtà e follia, camminando in mezzo alla gente ma senza davvero vederla, sopportando cose umane che non gli si addicevano. Tom viveva sospeso, sospeso nel vuoto, nella morte cerebrale, nei mondi che si distruggevano e creavano a milioni davanti ai suoi occhi bruciati e stanchi. Tom era diverso, diverso da tutti, fluttuava nei suoi cieli, nelle sue nuvole, nella sua apatia congenita. Voleva scappare, ma non aveva ancora capito come me. Voleva nascondersi, ma era sempre stato una schiappa a nascondino. Voleva volare, ma nessuno gli aveva medicato la ali. Voleva affogare, ma l’acqua gli era nemica. E allora beveva, beveva perché quando lo faceva riusciva a scappare, a nascondersi, a volare, ad affogare. Riusciva a vivere quello che nella realtà gli era vietato. Tom era ancora un ragazzino, un rigetto della società, quello che tutti volevano eliminare, il fallimento generazionale di gente che non aveva futuro perché era nata senza passato, l’orribile esempio che nessuno avrebbe dovuto seguire. Tom era semplicemente l’aborto fallito di un mondo sull’orlo del collasso, con figli imperfetti e storie vuote come gli schermi delle televisioni. Onde radio ormai morte, stanze solitarie, bambini ciechi con giochi d’acciaio, pecore spaventate da incubi inesistenti. Tom avrebbe anche voluto piangere, ma non aveva lacrime, solo vuoto dentro di sé, non aveva batterie, non aveva una spina: era solo una bambola abbandonata in un parco giochi avvolto da fiamme di fuoco greco.
-A me la gente fa paura, quindi sono sicuro che andremo d’accordo.- cinguettò Bill, sistemandosi la camicia. – La nostra sfera di solitudine ci cullerà fino alla fine dei nostri giorni, e noi staremo in pace. L’ho scritto anche in un mio libro. Comunque, sistemati quando vuoi, intanto ti faccio vedere il resto della casa. C’è solo una cosa che ti vorrei chiedere, per favore. La cantina. Ecco, … preferirei che tu non ci entrassi. Almeno per adesso, vedi, ci sono tutte le cose di Hansi e … oddio, so che non dovrei chiedertelo, ma preferirei che almeno per un po’ nessuno le vedesse o le toccasse. Quando mi deciderò cosa farne, te lo farò sapere.
Quando Tom si trovò ad annuire con quello che sperava fosse un sorriso comprensivo e blaterava un “Certo, capisco, non ti preoccupare non avrei nulla da fare in cantina”, gli venne in mente il raccapricciante dettaglio della storia di Barbablu. La cantina, con tutti i corpi brutalmente uccisi che penzolavano tristemente dal soffitto, sopra a una piscina di sangue scarlatto. E chissà perché si stava sentendo sempre di più la giovane e innocente sposina data in pasto al maligno nel meraviglioso castello nelle campagne.

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Capitolo 3
*** Lo sto aspettando ***


CAPITOLO TRE: LO STO ASPETTANDO

-Cazzo, cazzo, cazzo! Hansi, che cazzo facciamo adesso?!
-Porca troia, sta morendo, cazzo!
-Non sta morendo, dannazione! Bill? Bill, mi senti? Stai tranquillo, andrà tutto bene, respira. Respira! Bill, non chiudere gli occhi, va tutto bene, capito? Respira!
Bill sentiva quelle voci rimbombargli in testa, ma l’unica che era sicuro di conoscere era quella sibilante e arrochita dal fumo di Hansi, che gli sussurrava nell’orecchio. Però sentiva male, un dolore terribile che gli esplodeva dietro agli occhi, qualcosa che non sembrava avere una fonte precisa. Cosa gli stava succedendo? Era cominciato tutto con delle fortissime coliche ai reni e poi … poi non ricordava. Forse aveva vomitato, a giudicare dalla puzza che aveva addosso.
-Dobbiamo portarlo in ospedale!
-Non dirlo nemmeno, Klaus. Nessuno andrà in nessun ospedale, posso curarlo da solo.
-Non sei un fottuto medico, Hansi, sei solo al primo anno di medicina!
-Ma ne so abbastanza per salvarlo! Bill è il mio ragazzo, è di mia proprietà e decido io cosa farne!
Bill vedeva delle ombre danzargli dolcemente davanti agli occhi, e sentiva il profumo di qualcosa di dolce. Forse sorrise, inebetito da tutto quel dolore assurdo. Non poteva dire con precisione cosa fosse davvero accaduto, ma dopo che Hansi gli aveva somministrato quelle pastiglie rosa, aveva cominciato ad avere un dolore atroce allo stomaco, che poi si era diffuso nei reni, e alla testa, e poi agli occhi, all’intestino, tanto da sembrare solo una palla di male. Quando gliele aveva messe in mano, Bill aveva sfarfallato gli occhioni con stupore, i lunghi capelli corvini acconciati in una complessa sfera sparata dappertutto che gli lambivano il visetto da bambolina. “Provale, tesoro” gli aveva sussurrato Hansi sulle labbra, accarezzandogli i capelli “Dovrebbero farti passare il mal di testa”. Fiducioso, le aveva ingoiate, eppure non sembrava che avessero ottenuto l’effetto desiderato.
-Non avresti dovuto usarlo come cavia! Ci sono tanti ratti qui a Berlino!
-Ho bisogno di cavie umane, idiota. Vuoi forse essere tu il prossimo?
 
Tre giorni. Erano passati tre giorni nella nuova casa, era arrivata la sua coltivazione di marijuana clandestina (guardata con un certo sospetto da Bill) e aveva già fatto incetta di torte di mele. Dunque, teoricamente andava tutto bene. Praticamente, invece, c’era sempre qualcosa che non quadrava. Ci stava pensando in quel momento, seduto con Georg e Gustav in un bar della periferia, prima di prendere la corriera che lo avrebbe depositato a casa, davanti a un triste bicchiere d’acqua naturale che gli faceva ampiamente ribrezzo, aumentato dalla vista dei suoi amici che bevevano tranquillamente due boccali di birra scura schiumante.
-Adesso potete anche smetterla con quella pagliacciata della “riabilitazione”. Perché mi avete parcheggiato da Bill?- disse, schiarendosi la gola.
Georg lo guardò di traverso, inforcando qualche patatina fritta e alzò un sopracciglio
-Per nessun altro motivo, Tom. Hai ventotto anni,  semmai sei tu che puoi anche smetterla con le tue stupide teorie complottiste.
-Questa non è una teoria complottista, è la mia vita!- sbottò il ragazzo, scostandosi i capelli dal viso. – Insomma, non ha senso che mi abbiate relegato con una specie di psicopatico fissato con la pulizia. Avreste potuto trovare gente più normale.
Gustav alzò gli occhi al cielo, grattandosi la pancia e pulendosi gli occhiali
-Ma per una santa volta in vita tua non puoi farti andare bene qualcosa senza ficcanasare in giro?
-No che non posso!- Tom fece tanto d’occhi, guardando con schifo il suo bicchiere d’acqua – Ma stiamo scherzando?! Mi mettete a vivere con uno scrittore malato di mente con la mania delle torte di mele e pretendete pure che io me ne stia?!
Georg e Gustav si guardarono negli occhi, sbuffando in sincrono. In fondo, il problema con Tom era sempre stato quello: era … fuori dal mondo. Quello che l’aveva poi trascinato nel vortice dell’alcol era quella sua stranezza, quel suo estraniamento dalla realtà, quel suo farsi domande senza senso che però nella sua testa matta quadravano perfettamente. Non era un ragazzo che andasse bene per quell’epoca, era ancorato a ideali già morti e aveva idee troppo strane per poter essere capite. Semplicemente, Tom non esisteva per nessuno se non per sé stesso. Da un lato, troppo antiquato, dall’altro troppo avanguardista.
-Non pretendiamo questo, solo che … dai tempo al tempo, per piacere.- disse Georg, sistemandosi i capelli corti e perfettamente in ordine – Secondo me tu e Bill potreste andare d’accordo. E poi sicuramente qualunque persona normale non sarebbe riuscita a reggerti. Tom, ti rendi conto di essere un caso psichiatrico?
-Ho capito che sono un alcolizzato, ma non mi pare di essere matto! Insomma, lo fanno vedere pure nei film, tutte quelle menate sugli ex alco …
-Ma non è il tuo caso, cazzo!- abbaiò Gustav, dando un pugno sul tavolo per sicurezza. Era arrabbiato, e non lo nascondeva – Senti, bello, parliamoci chiaro: te non sei normale, alcol a parte. Sei scollegato da questo mondo, sei apatico, sei cinico in maniera esagerata e non hai minimo senso di rapporto umano: non puoi pretendere di essere normale e non puoi nemmeno pretendere di poter vivere con delle persone integrate, ok? Faresti impazzire chiunque! Passi giorni a non parlare, di notte vagabondi per casa, ascolti sempre la solita musica punk a tutto volume, hai la presenza di spirito di un’ameba bollita e filosofeggi su cose che solo te capisci.
Tom si morse il labbro, e abbassò la testa, sconsolato. Ecco, lo sapeva che prima o poi ci sarebbero caduti, come al solito. Effettivamente, non poteva dare torto ai suoi amici, nonostante lui continuasse a fingere di essere un ragazzo nella norma. Il mondo era così difficile e arduo da affrontare, e lui invece era così pigro, e svogliato …  non lo faceva mica apposta ad essere così. Forse Bill poteva essere l’unico abbastanza fuori di testa per poterlo sopportare, siccome pareva che anche lui fosse piuttosto in disaccordo con la normalità e la fretta del nuovo millennio.
-Va bene, ho capito, ma ciò non toglie che voglia sapere.- incrociò le braccia sul tavolo, con l’espressione di sfida. – Ho scoperto che il marito di Bill era uno psichiatra estremamente quotato, ed è stato ucciso da un suo paziente, mentre Bill è uno scrittore famoso, quindi non mi pare che mi possiate aver mandato lì per aiutarlo a pagare le spese della casa. È straricco, io non ho un soldo bucato, come la mettiamo? E poi, dai: ho la corriera a un passo, posso andare in città a bere quando mi pare, piantatela di dire che la campagna mi terrà lontano.
Georg roteò gli occhi al cielo, sbuffando.
-Va bene, Sherlock, complimenti per le qualità investigative. Ti abbiamo mandato da Bill perché … beh, io lo conoscevo. O meglio, non proprio di persona, conoscevo suo marito, per un caso legale che aveva coinvolto l’ospedale dove lavorava. Avevo saputo che Bill era un ragazzo un po’ strano, e quando di conseguenza mi è giunta notizia che mr. Schadenwalt era morto e che Bill era rimasto solo … beh, mi è parso naturale mandarti lì. Voglio dire, l’equazione quadrava: tu hai dei problemi, lui ha dei problemi, insieme potevate in qualche modo tirarvene fuori.
-E dirmelo prima, santa madonna?!- Tom boccheggiò e scosse la testa, quasi offeso. Da quando era uscito dalla riabilitazione Georg e Gustav lo trattavano in maniera quasi imbarazzante, nemmeno che fosse uscito da un ospedale psichiatrico. Dunque, Georg conosceva Hansi. Bene, e con questo? Tom non era davvero sicuro di capirlo, ma c’era qualcosa che gli diceva che prima o poi quell’informazione gli sarebbe venuta utile. Non sapeva come né benché meno perché, ma aveva deciso che non avrebbe mai ignorato il sesto senso. Cominciavano ad aggiungersi elementi al suo complicato gioco di Barbablu, personaggi, nozioni, luoghi da far quadrare. Era come un gigantesco puzzle, ma Tom non li aveva mai saputi fare, nemmeno da bambino.
-Non ci sembrava adatto.- lo zittì Gustav, bevendo un sorso di birra e fulminando Tom prima che tentasse di rubargli il boccale. – E poi, cosa c’è? Ti trovi male?
-Beh, no, affatto. Bill è molto … carino, con me. Anche se non sembra di stare in una casa, ma in un museo delle cere.
-E allora non lamentarti.- Gustav era diventato intrattabile, dopo la riabilitazione. Era furioso con lui, e forse non poteva nemmeno biasimarlo, ma continuava comunque a chiedersi come mai nessuno si fosse fatto delle domande allora sul perché lui era un’alcolizzato. Lo incolpavano, e basta, non si erano mai presi la briga di capire le sue motivazioni, la sua solitudine che lo divorava ogni giorno di più. Certo, era facile andare avanti quando la vita ti dava una motivazione, ma quando pare che nulla abbia più un senso e si esiste invece che vivere, come si fa a non sentire il bisogno quasi fisico di evadere in qualche modo dalla realtà quotidiana e proiettarsi lontano, in altri mondi, in altri paradisi? C’era chi ricorreva all’autolesionismo, ma Tom era troppo attaccato a sé stesso per farlo, idem per il suicidio. C’era chi cadeva nella droga e chi nell’alcol, e alla fine il ragazzo aveva scelto il bere. Più economico, più rapido e sicuri che non si sarebbe finiti nella mani della giustizia per una birra di troppo nascosta sotto al letto. Ma perché devo essere così triste, si chiedeva a volte, quando guardava il soffitto, nelle sue notti insonni. Non lo capiva, non capiva perché era diverso, non capiva perché soffriva.
-Ditemi almeno se devo fare l’agente segreto sotto copertura oppure no.- commentò acidamente, rimescolando tristemente col dito il bicchere d’acqua intoccato che aveva davanti.
-Non devi fare nulla, T.- Georg gli posò una mano sul braccio, tentando di fare un sorriso solidale – Devi solo guarire, va bene? Bill ti aiuterà, non ti preoccupare.
-Sicuro, mi aiuterà a diventare allergico alle mele. Cristo, ma non mangia altro che quelle benedette torte. Mattino, pranzo e cena: fetta di torta e tazza di the.- Tom spalancò comicamente gli occhi.
-Vuoi che ti mando del cibo?- propose subito Gustav, dimentico della rabbia di prima e pieno della solita compassione alla quale lo muovevano le persone sprovviste di vivande – Non puoi deperire a suon di mele!
-Evita, Gus, tranquillo.- Tom tentò per un sorriso che gli morì miseramente sul volto quando propose – E, comunque, non volete rivelarmi nulla riguardo ad Hansi? Dai, Geo, più o meno lo conoscevi. Che tipo era? Come mai ti avevano ingaggiato? Che battaglia legale era stata? E come è morto?
-Smettila di fare il bambino, Tom!- sbottò Georg, lanciandogli un’occhiataccia. – A cosa ti serve saperlo? Era un medico, ok ti posso concedere che era il classico psichiatra psicopatico, ma intanto è morto ormai. E lui non c’entrava nulla col caso in sé.
-Ti prego, Georg, dimmelo! Come mai era stato indagato l’ospedale? Tu chi proteggevi? O chi accusavi?- con gli occhi brillanti e l’aria da bambino entusiasta, Tom sembrava veramente partecipe al discorso più di quanto lo fosse mai stato in vita sua e Georg non poté fare altro che bere un sorso di birra con aria stanca. Tanto lo sapeva, nulla lo avrebbe potuto distogliere da quel chiodo che si era prefissato in testa. Apatico, troppo spesso. Investigatore scanzonato, a volte. Mente eccitabile, ogni santo giorno.
-Primo, non è stato niente di eclatante o emozionante, dunque non partire per i tuoi stupidi film mentali, chiaro?- cominciò Georg, accavallando le gambe – I familiari di una donna deceduta hanno trascinato in aula la clinica psichiatrica dove era internata dicendo che invece di curarla l’avessero sfruttata per presupposti esperimenti umani. Diciamo che studiando le ultime sedute della donna, sembrava impossibile che potesse suicidarsi, cosa che poi è effettivamente accaduta. Io ero dalla parte dei medici, e di conseguenza ho conosciuto il marito di Bill. Avevamo vinto la causa, era ovvio che la donna non fosse stata in alcun modo “costretta” al suicidio. Voglio dire, i familiari erano solo una banda di esaltati. Quando ti dico che Hansi non c’entrava, era perché lui non era nella crew dei medici curanti la defunta. Anzi, mi aveva pure dato una mano a cavare d’impiccio i suoi colleghi. Ammetto che potesse essere un tipo strano, sicuramente geniale, ma strano.
Tom ripensò per un attimo alle fotografie, e un brivido gli percorse la spina dorsale. Bill sembrava sempre così indifeso e innocente, forse con l’espressione un po’ allucinata, le spalle strette dalle mani scheletriche di Hansi, che fissava l’obiettivo con quegli occhi chiarissimi, vagamente a mandorla, quel ghigno cattivo e rapace che non si poteva davvero chiamare sorriso. Bello, bellissimo, ma così inquietante.
-In che senso la famiglia accusava la clinica di averla indotta al suicidio facendole esperimenti umani sopra?
-Tom, per piacere, non stiamo girando una puntata di Poirot, va bene?
-Ma poi che te frega, dio mio, non puoi pensare alla barista super tettona come ogni persona normale invece di andarti a imbarcare in questioni pseudo-investigative creandoti più problemi di quanti già tu non ne abbia?!
-Ovvio, perché secondo voi pensare a quella specie di pupazzo gommoso e schifoso dietro al bancone è più intelligente che ragionare su un presunto caso di cronaca nera che, guarda caso, coinvolge il mio coinquilino! Ah, ma giusto, tanto io sono quello alcolizzato con problemi dissociativi, scusate!
-Non fare l’offeso, adesso, Gustav intendeva solo dire che …
-Quello che ho detto, Georg! Che dovrebbe piantarla di ficcanasare in giro e tentare di rimettersi in carreggiata!
-Io non sono mai stato in carreggiata, e non ci starò neanche adesso! Dai, allora? Vai avanti col caso della clinica!
-Devo andare, ho un appuntamento.- Georg si alzò, fulminando i due migliori amici con astio – Tom, per piacere, vedi di piantarla qui con il tuo giocare al detective. Gustav, evita di girare il coltello nella piaga, sei inopportuno.- si passò una mano tra i capelli e tossicchiò – Detto ciò, ci sentiamo domani ragazzi.
Tom e Gustav rimasero da soli al pub, guardandosi senza sapere bene cosa dire, prima di alzarsi a testa mogia, salutarsi a testa bassa e rincasare lentamente all’imbrunire della sera.
 
-E’ successo qualcosa, Tom? Ti vedo strano.
Bill era chino su di lui, con quei grandi occhioni truccati impeccabilmente che lo scrutavano con curiosità. Erano seduti al tavolo della cucina; cenavano insieme quotidianamente, oramai, e Tom lo trovava una cosa quasi carina. A parte che Bill sapeva cucinare davvero bene, era bello scambiare qualche parola con qualcuno, invece che cenare con roba fredda sul divano, in compagnia dei Green Day nelle casse. Era … stimolante mentalmente.
-Eh? No, niente, ho solo litigato con Georg e Gustav, ma niente di serio. Com’è andata la giornata?
In realtà, Bill non faceva niente tutto il giorno. Stava in casa, metteva a posto, scriveva il suo libro, e metteva a posto di nuovo, ma aveva un modo così poetico di raccontare la sua monotona quotidianità che a Tom piaceva moltissimo.
-Oh, oggi è andato tutto molto bene. Il libro è quasi alla sua conclusione, e sono piuttosto soddisfatto di quello che ho scritto, cosa alquanto eccezionale, siccome sono davvero troppo insicuro. E sai cosa? Oggi ho bagnato le piante, hai presente quella bellissima pianta di miseria dietro all’orto? Ecco: mentre la stavo innaffiando, vedo che sotto una foglia si nascondevano due coccinelle. Due, ti rendi conto?! Ero così contento! Ovviamente, ho smesso di bagnare e le ho osservate, per quella che credo possa essere stata un’ora. Non si muovevano di molto, giravano solo attorno alla foglia, e mi hanno fatto venire un’idea bellissima per l’ultimo capitolo del mio libro. Un paragone con la dolcezza delle coccinelle.
Tom sorrise: ecco, lui non ce l’avrebbe mai fatta a fare una cosa del genere. Restare un’ora inginocchiato per terra a guardare due piccole insettini che pedonavano su una foglia, invece Bill lo faceva, con quella semplicità sempre stupita e sempre innocente di un ragazzo che non viveva mai davvero in quel mondo, ma sempre qualche passo sopra tutti, sospeso nella sua vita alternativa. Sapeva cogliere la bellezza più insignificante con una rapidità e con un’acutezza pungente, era in grado di sognare ad occhi aperti su ogni piccolo particolare che colorava la sua sedentaria vita. Tom si chiedeva se non fosse stata proprio quella reclusione a portarlo a trovare la meraviglia in tutto. I ragazzi di oggi hanno tutto, pensò e pensava anche a sé stesso. La musica come droga, la libertà, la politica, la lotta, i diritti: era un continuo mettersi in gioco, un gioco di caste e forza, potere continuo, cadute e risalite, polvere e sudore, onore e gloria o vite da reietti, qualcosa che nessuno godeva ma che tutti combattevano. E poi arrivava Bill, nella sua casetta in campagna, tenuto lontano da tutto senza che se ne accorgesse, e immediatamente partecipe di ogni sogno naturale e umano.
-E’ fantastico, Bill.- tentò di sorridere, ma il sorriso gli morì sul volto quando vide di nuovo quella cosa che lo stava disturbando da oramai una settimana. Ogni sera, Bill apparecchiava tavola per tre, e serviva il terzo piatto come se ci fosse una persona seduta lì veramente. A fine cena, sospirava, e buttava tutto via. Quella cosa inquietava Tom più di quanto avrebbe voluto, come se insieme a loro ci fosse una terza presenza diabolica che angustiava la casa e non li faceva vivere in pace. Tossicchiò, guardando il piatto di crauti e salsicce intoccato accanto a sé e osò dire, con nonchalance costruita – Ehm … non vorrei sembrare indiscreto ma … aspetti qualcuno? Voglio dire … il terzo piatto. Per chi è?
Bill lo guardò aggrottando le sopracciglia e scoppiò in una scrosciante risata
-Come per chi? Ma per Hansi, ovviamente!
Tom spalancò gli occhi a palla, boccheggiando. Forse aveva capito male. Sì, dai, per forza aveva capito male.
-Per Hansi? Ma Hansi tuo marito, quello biondo nelle foto?
-E chi se no.- Bill si strinse nelle spalle, con un sorriso imbarazzato – Io lo sto aspettando. So che sembra impossibile ma … ma se lui tornasse? Deve essere tutto pronto per il suo arrivo. La casa, la cena, il letto, tutto! Ma non devi avere paura: Hansi sarebbe sicuramente contento che mi hai tenuto compagnia. Sei un ragazzo così a modo.
Se Tom era uno che si spaventava molto difficilmente, ora poteva dirsi assurdamente terrorizzato a morte. Bill gli stava dicendo che aspettava un fantasma? Era inconcepibile e non poteva nascondere che un senso di disagio gli stava correndo sottopelle. L’eterna attesa di un morto. La distruzione di un cuore. Un ragazzo rovinato dalla disperazione. E lui che piombava nella sua vita di cristallo con una piantagione di marijuana e i dischi dei Sex Pistols. Eppure, un’altra domanda si stava facendo strada nel suo cervello. Quanto carisma doveva avere Hansi per aver assoggettato così tanto Bill? Quanto doveva essere forte per aver lasciato un’impronta così bruciante nel suo cuore? Oppure, quanto doveva essere crudele per essersi imposto così? Tom a quel punto era quasi curioso di conoscere quel giovane uomo ormai morto, parlargli di persona, cercare di capire quanta influenza avesse sul suo dolce coinquilino. Se c’era qualcosa che non andava prima, ora era più che sicuro che le cose che non andavano nel castello di Barbablu erano tantissime e tutte molto oscure, più di quanto avrebbe effettivamente voluto. Doveva raccogliere le informazioni: uno psichiatra più misterioso di quello che pensasse, uno scrittore segregato in casa che viveva in un mondo di cristallo, un caso legale che coinvolgeva una clinica psichiatrica e un migliore amico che forse sapeva più di quanto volesse ammettere. Sì, Tom poteva non essere Sherlock Holmes, ma in quel caso si sarebbe dovuto improvvisare più di quanto avesse potuto pensare prima.
 
-Bill, mio caro, ti presento l’avvocato Listing. Avvocato, lui è Bill, il mio consorte.
Bill chinò il capo, sistemandosi i lunghi capelli corvini abilmente acconciati e sorrise timidamente, avvolto in quella pesante pelliccia di visone. Porse al giovane uomo prestante e dal viso franco la manina guantata e inanellata, arrossendo sotto al trucco pesante quando l’avvocato gliela strinse.
-E’ un piacere conoscerla, Bill.- Georg gli sorrise, e Bill avvampò, stringendosi al braccio di Hansi. Lo guardò, in cerca di approvazione, e trovò un sorrisetto graffiante, il viso per metà nascosto dai lunghissimi capelli biondissimi.
-Caro, andiamo fuori a cena con mr. Listing. Dobbiamo parlare di affari.- Hansi lo prese sottobraccio, cominciando a guidarlo lungo la strada. Bill ondeggiò sui tacchi a spillo e si strinse nella pelliccia
-Che tipo di affari?
-Una brutta storia.- intervenne Georg, aggiustandosi la cravatta – La clinica è indagata per il suicidio di una paziente; la famiglia dice che è stato indotto e che la donna fosse vittima di esperimenti.
-Un’assurdità, ovviamente.- commentò Hansi, accarezzando distrattamente la schiena di Bill – Però, è un momento delicato per tutti noi. Siamo su tutti i giornali, e come ti avevo detto, non è una cosa che possiamo permetterci.
-Capito.- Bill annuì, i lunghi orecchini di pietre preziose che dondolarono – Ma, Hansi, quando mi avevi detto che era morta una vostra paziente, non mi avevi anche detto che il suo medico curante era Klaus?
-Sì, Bill, lo sappiamo. Ma questo non c’entra.
-Ma non era lui che ti aveva portato quelle strane pastiglie viola, quelle che mi hai detto che dovevamo provare e ….
-Bill, taci.- Hansi gli rivolse un’occhiata così gelida che Bill squittì, abbassando immediatamente la testa. La sua voce sibilante e vagamente arrochita dal fumo pareva proprio quella di un serpente, bassa, misteriosa, ingannatrice, le s arrotolate proprio come quelle di un rettile.
-Pastiglie? Posso sapere di cosa stiamo parlando?- si intromise Georg, osservando con un certo stupore indagatore la strana coppia che gli camminava affianco.
-Nulla, avvocato, Bill è solo molto confusionario. Si confonde, vero, Bill?
-Sì, avvocato, certo. Sono molto confusionario.
Bill cercò di sembrare il più convincente possibile mentre lo diceva, ma si rese conto di non esserci riuscito quando ricevette l’ennesima occhiataccia scottante da parte di Hansi. Aveva le pupille innaturalmente sottili, proprio come quelle di un serpente.

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Capitolo 4
*** Un Angelo e un Bento ***


CAPITOLO QUATTRO: UN ANGELO E UN BENTO

Tom aveva deciso che vedere la televisione con Bill era un’esperienza da fare, almeno una volta nella vita. Da quando aveva portato la sua vecchia tv nella casa nuova, avevano pigramente preso l’abitudine di passare le serate insieme in compagnia di qualche film pescato all’ultimo momento. Ma qualunque fosse il film proiettato, Bill aveva il suo spettacolino da fare, condendo la visione da continui commenti a mezza voce, che potevano passare dagli scioccati “ma guarda te se ti sembrano cose da fare!” se c’erano scene di sesso più o meno esplicite, a terrorizzati “ma … ma Tom! Lo stanno uccidendo! Fai qualcosa!” ogni volta che vedevano un film d’azione agli inevitabili “ma che carini che sono” se era una pellicola romantica. Tom oramai guardava più le smorfie stupefatte del suo coinquilino che il film, sorridendo da solo a seconda delle reazioni quasi infantili che aveva Bill verso ogni scena possibile e immaginabile. Compreso lo storico “guarda che film diseducativo! La besciamella non si cucina così!” che avrebbe fatto ridere Tom fino alla fine dei suoi giorni. Bill era un vero e proprio personaggio meraviglioso, viveva in una dimensione tutta sua che era impossibile smontare, chiuso in una bolla di innocenza e stupore che sarebbe stato un delitto rompere.
Anche quella sera Tom lo stava osservando, raggomitolato sul divano, avvolto in uno scialle, concentratissimo a seguire la trama estremamente contorta del thriller in onda, con tanto di tazza di tisana in mano. Teneva la sopracciglia aggrottate, e gli occhioni scuri saettavano da una parte all’altra dello schermo, quasi che avesse voluto cogliere elementi che neanche erano mostrati. Era adorabile, pensava Tom, adorabile nella sua algida bellezza berlinese. Gli sembrava una sorta di bambolina di porcellana da guardare e non toccare, chiusa nella sua teca di vetro e segretamente gli faceva piacere essere il custode della suddetta bambolina. Come fosse una sirena che nuota in una piscina credendo che sia l’oceano. Come un angelo al quale anno strappato le ali. Come una silfide abbandonata in una città. Ma Tom non si sentiva un ignobile carceriere, semmai solo un guardiano, un vecchio amico, il ragazzino visionario che vede ciò che nessun altro può vedere.
Non sapeva dare un nome al piacere che derivava dal stare seduti accanto a Bill sul divano; non era qualcuno di sensuale, e nemmeno di romantico. Era piuttosto la sensazione di essere vicino a qualcuno che, per quanto strano, ti poteva capire. Tom e Bill erano agli opposti, ma il ragazzo moro era sicuro di non aver mai incontrato una persona che lo facesse sentire così a posto con sé stesso, e non importava che si conoscessero da poco, importava solo che gli bastava guardarlo negli occhi e pensare che fosse un ragazzo meraviglioso. C’era calma in Bill, una calma che Tom non aveva mai avuto il lusso di conoscere, una tranquillità naif che avrebbe rilassato il più focoso degli animi, una tranquilla marea che lambiva la barca ancorata da troppo tempo e le faceva tornare voglia di solcare il mare. Il sorriso un po’ triste sembrava l’ultimo lumicino in una notte di tempesta, la voce vellutata con quel buffo accente berlinese abbastanza incomprensibile era qualcosa di rilassante per le orecchie. Tom non avrebbe saputo dire se quella fosse attrazione, ma aveva deciso che era una bella sensazione e che finché avesse potuto, avrebbe continuato a gioire di avere Bill vicino. Era una sensazione estranea, qualcosa che non aveva mai provato prima d’ora e dalla quale non sarebbe di sicuro scappato. Assurdamente, gli pareva che la sua apatia congenita venisse continuamente attaccata da ogni lato per colpa di quegli occhi di cristallo nero.
Si voltò quando sentì la testa bionda di Bill sfiorargli la spalla e lo vide, addormentato sul divano come una bambina, raggomitolato su su stesso e appoggiato a lui come se fosse un’ancora. Tom, l’ancora di tutti e di nessuno, l’amico già perso, il finto suicida, il ragazzo fantasma di una perifera soffocante, il morto che fuma, stella deflagrata di un universo in via di estinzione. Guardò con un certo stupore il viso da bambola del suo coinquilino chiuso in una sfera di sonno timido e fanciullesco; Tom non era abituato al contatto fisico. Era troppo vuoto e insensibile per una cosa simile e ogni volta che qualcuno tentava anche solo di abbracciarlo si ritraeva arrossendo e borbottando frasi sconnesse. Eppure Bill gli faceva un effetto diverso. Qualcosa che non si poteva catalogare come nulla di umano, era più qualcosa che avrebbe capito un filosofo, un suicida oppure un bambino. Ecco sì, quello che in fondo era Tom: stufo della vita, cercatore di nuove esistenze e infantile nelle sue scelte.
-Bill, vai a dormire.- sussurrò, ma non ottenne risposta che non fosse un mugolio indistinto nel sonno. Si era già addormentato, pensò, e sorrise impercettibilmente. Gli passò un braccio attorno alle spalle magrissime, come quelle di un passerotto. O come quelle di un angelo. Bill poteva sembrare anche un angelo, considerò Tom, ma non di quelli custodi o di quelli di cui parla la Bibbia. No, qualcosa di più melanconico, di più etereo ancora. Uno spirito del tempo, forse, figlio del vento e della polvere di stelle, una creatura futuristica piovuta per sbaglio su questa terra mortale. Un soffio vitale di mondi inimmaginabili persi in angeliche galassie fuori dal tempo dove vanno a morire gli astronauti, un gelido tocco spaziale come ultime gocce di sangue di supernova, un fantasma senza casa e senza dimensione che vagabonda nel mondo e nell’esistenza senza davvero farne parte, una creatura alata che può esistere da sempre come non essere ancora nata. Sì, Bill era un angelo, aveva le ali, potevi scorgerle sorgere da quelle spalle ossute e sporgenti, ali bellissime, ali oceaniche che si trascinavano dietro le sabbie di tempi perduti e ferite di mondi che dovranno ancora venire, ali che hanno volato per tutto l’universo, in ogni spazio, in ogni spaccatura temporale, ali che hanno vinto la morte e la vita, ali che non hanno né inizio né fine ma solo un eterno presente che si protrae da millenni. Per gli angeli non esiste passato e nemmeno futuro, esiste l’attimo dilatato fino agli estremi possibili, manipolano il tempo per rinchiudersi in milioni di uguali attimi in mille parallelismi che si snodano nelle curve sinusoidali delle curve dello spazio, nuotando in  oceani stellati e volando in cieli marini. Tom non aveva mai creduto negli angeli, ma dopo aver visto il suo coinquilino, beh, era pronto a crederci.
-Bill, forse è ora di andare a letto.- disse, a voce poco più alta, scuotendo delicatamente il ragazzo al suo fianco, che, pacifico, si girò dall’altra parte. Tom si morse il labbro: bene, dormiva. E lui, cosa avrebbe dovuto fare? Parte di sé stava urlando per farlo andare a letto e lasciare Bill lì sul divano, mentre l’altra commentava che avrebbe dovuto portarlo su di peso e metterlo a dormire. Ora, che Tom propendesse naturalmente verso la prima era un dato di fatto, ma la vocina gli ricordò, con tono amaro, che ci avrebbe fatto una figura meschina nei confronti del ragazzo biondo. Giusto. Con che coraggio gli avrebbe dato il buongiorno il giorno dopo? Sospirò rumorosamente, si alzò e, impacciato come mai in vita sua, gli passò un braccio sotto le ginocchia e dietro le spalle, sollevandolo con estrema facilità. Era così leggero … leggero come se avesse le ossa cave. Irrazionalmente, fece attenzione a non ferire le ali di cristallo ripiegate sulla schiena di Bill e lo guardò in viso. Tom non era mai stato capace di osservare la bellezza pura e non ottenebrata dai mille veli che l’alcol gli sovrapponeva davanti alle iridi scure. Eppure, adesso che vedeva i tratti delicati e la pelle pallida del suo coinquilino, fu quasi convinto di aver trovato quella Bellezza ideale che non era mai riuscito a desumere. Bill era bellissimo. Truccato, certo, e ingioiellato, ma erano i leggeri tratti somatici, il sorriso triste che illuminava il viso addormentato, le lunghe ciglia, gli occhi chiusi che rendevano Bill così meraviglioso, contemporaneamente angelico e mortale.
Aumentò la presa e cominciò a salire le scale, lentamente, ben deciso a non svegliarlo e lo portò nella sua camera. A ben pensarci, non l’aveva mai vista. Si fermò per un attimo sulla soglia, incerto; non che avesse davvero paura ma non poteva nascondere a sé stesso il sottile filo di ansia che lo aveva preso. Era pur sempre la camera del padrone di casa, e, che lo volesse o no, la stanza di Barbablu. Se vi avesse trovato crudeli strumenti di tortura non si sarebbe nemmeno stupito così tanto. Fece leva sulla maniglia e si infilò nella stanza in penombra, accedendo la luce a tentoni. E, per poco, non lasciò il povero Bill precipitare al suolo: c’era un altare. Un altare! Prima di fargli veramente del male, lo depositò con tutta la grazia possibile sulle coltri blu notte del grosso letto matrimoniale intagliato in legno scuro e poi si guardò intorno, fino a focalizzare la sua attenzione sull’altarino ai piedi del letto. C’erano foto di Hansi e Bill, altre decine di foto una sopra all’altra. Foto di due ragazzini su una moto, foto del matrimonio, foto di due giovani uomini seduti sull’uscio di casa, foto delle lauree, foto di congressi scientifici, premi di ricerca, oggettini, mazzi di fiori freschi. Un vero e proprio reliquiario per Hansi, e qualcosa che fece correre un brivido lungo la spina dorsale del ragazzo. Era qualcosa di ossessivo, malato, … inquietante. Sembrava che dovunque ti girassi, avessi sempre quei sottili occhi azzurro ghiaccio che ti perforavano la schiena. Tom si chiese come Bill avesse potuto condividere il letto, la casa, la vita con un uomo del genere; bello, certo, bellissimo, ma era così angosciante quello sguardo e quel ghigno sadico, faceva a pugni con la dolcezza e la stucchevole innocenza di Bill. Si guardò attorno, studiando i quadri alle pareti, quadri cupi, bui, di paesaggi fangosi e soffocati da soli spenti, le pareti di legno scuro, una piccola libreria incassata nel muro dove riposavano tomi rilegati dall’aria difficile. Tom deglutì, e si voltò verso il biondo, raggomitolato sul letto; sospirando, gli aggiustò addosso una coperta accuratamente ripiegata ai piedi del letto, con gesti impacciati e vagamente infantili. Non era abituato a mettere persone a dormire; non sapeva se doveva infilargli un pigiama, se doveva metterlo sotto le coperte o se doveva lasciarlo lì com’era, ma alla fine optò per una sana via di mezzo: lo lasciò con la sua ridicola veste da camera rosa confetto ma gli mise sopra una coperta. Perfetto, non avrebbe potuto rinfacciargli niente la mattina dopo. Senza quasi rendersene conto, gli mise a posto un ciuffo di capelli sfuggito alla perfetta pettinatura. Aveva i capelli così morbidi.
-Tom?
Fosse stato un ragazzo normale probabilmente avrebbe sobbalzato, o avrebbe cacciato un urlo, ma siccome era Tom, non si preoccupò particolarmente del fatto che in realtà Bill avesse aperto gli occhi impastati di sonno e lo stesso guardando con ancestrale stupore. Senza muoversi. Come un animale ferito e braccato.
-Stavi dormendo, Bill. Ti ho messo a letto. Buonanotte.- sussurrò Tom, scandendo bene le frasi, e gli sorrise, impacciato. Lui non aveva mai dato la buonanotte a nessuno. Cioè, non sapeva quando la bottiglia di gin potesse contare.
-Oh. Grazie.- Bill si aggiustò un pochino e poi gli tese una mano, magrissima e bianca – Vuoi dormire con me, per caso?
Tom rimase un attimo spiazzato, ma fu rapido a tossicchiare
-Ehm, no, grazie dell’offerta, ma … no. Vado in camera mia, sì.
Non aveva mai condiviso il letto con nessuno in vita sua, e non avrebbe sicuramente iniziato in quella camera con annesso reliquario. Sinceramente, aveva paura di come avrebbe potuto comportarsi, lui, che non aveva nemmeno mai dormito da piccolo nel lettone con i suoi genitori. Non gli piacevano le persone, non gli piaceva il contatto fisico e non gli piaceva nemmeno doversi distendere al fianco di qualcuno. E poi, non era abituato a dormire. Le sue ore di sonno erano poche e agitate, forse colpa del suo cervello sovraeccitato e ridotto in pappa, passava le sue notti sveglio, a guardare il soffitto in cerca di un’ispirazione che mai trovava, una bottiglia vuota accanto al letto e la musica a palla per non sentire i proprio pensieri che cozzavano furiosi nel suo cervello. Le teste matte non troveranno mai pace, gli ricordava sempre Gustav e lui non poteva essere più d’accordo. Non sapeva nemmeno cosa volesse dire essere in pace con sé stesso, divorato costantemente da demoni dei quali a stento conosceva l’origine e da idee strane e perniciose che non riusciva a eliminare. No, non avrebbe potuto dormire con Bill, rimanendo sveglio a fissare fuori dalla finestrella. Capace di arrivare al punto di svegliarlo e chiedergli se secondo lui esisteva la reincarnazione delle anime.
-Oh. Allora, buonanotte Tom.- Bill sorrise timidamente, chiudendo gli occhi già impastati di sonno, aggiustandosi un po’ meglio nelle coperte e Tom si limitò a fargli un cenno di saluto che avrebbe voluto essere rassicurante, e si avviò verso la sua stanza. Bill … gli faceva davvero un effetto strano. Ma estremamente positivo.
Come tutto in quella casa, d’altronde, si ritrovò a pensare mentre accendeva le casse con gli Hollywood Undead e cominciava a sistemare la sua piantagione illegale di marijuana, con cura estrema.
 
All’officina dove Tom prestava servizio, nessuno poteva davvero dire di conoscerlo. Solitario, silenzioso, lavorava alacremente senza rivolgere troppe parole in giro, si sapeva fosse affetto da depressione e che fosse caduto nell’alcolismo e si sapeva anche che era appena uscito dalla riabilitazione. Niente altro. Quindi, fu una bella sorpresa per tutti i suoi colleghi quando, in pausa pranzo, assistettero all’arrivo di una creatura che nessuno di loro poteva nemmeno sognare.
Il gruppetto di meccanici si stava giusto dividendo tra chi andava al pub e chi si era portato il pranzo da casa, che una strana voce vellutata e innocente, col pesante accento berlinese, non aveva fatto voltare tutti. Davanti a loro, stava una sorta di modello di haute couture coi capelli biondi che pareva più uscito dalle più esclusive passerelle parigine che da una scassata corriera della campagna, con addosso una pelliccia di foca autentica dalla quale sbucavano un paio di stivali col tacco a spillo di pelle nera lucida.
-Ehm, scusatemi se vi disturbo ma … sto cercando Tom.
-Bill? Bill, ma cosa ci fai qui?
Tom sbucò fuori dalla piccola folla, sotto gli sguardi increduli di tutti. Già il fatto che Tom parlasse era un caso da segnare sul calendario, e che poi conoscesse un tipo del genere … fuori dal mondo.
Dal canto suo, l’interessato non sapeva veramente come comportarsi. Bill era uscito di casa ed era piombato lì all’officina, così, senza una motivazione. Ma perché?
-Oh, caro, meno male che ti ho trovato.- il biondo infilò le mani nella borsa di lacca rossa e ne cavò fuori un piccolo bento – Ti ho portato il pranzo!
-Eh? Il pranzo? Ma … aspetta, vieni un attimo.
Sbattendo gli occhi incredulo, il ragazzo guidò Bill in un angolo più appartato, guardando con aria stranita il bento dal quale proveniva un delizioso profumo di torta di mele. Tutto ciò era assurdo. Va bene che gli aveva dato l’indirizzo della sua officina, ma che senso aveva venire a portargli il pranzo quando era un uomo adulto e vaccinato, e, soprattutto, capace di badare a se stesso? Non c’era niente che lo obbligasse ad occuparsi di lui quando era fuori casa, e nemmeno dentro, se era per quello. Afferrò Bill per le spalle, tentando per un sorriso gentile
-Bill, io ti ringrazio davvero per avermi portato da mangiare ma … vedi, non ti devi preoccupare per me. Mi ero già preparato un panino questa mattina. Hai preso la corriera da solo, sei uscito solo per …
-Certo che mi preoccupo per te!- strillò Bill, sfarfallando gli enormi occhi truccati – Sei stato molto bravo questa mattina a rimettere a posto la cucina, tanto che non ci ho fatto caso che ti fossi preparato già il pranzo. Dunque ho pensato che saresti rimasto senza mangiare fino a sera, ed è inaccettabile!
Dio, quel ragazzo. Tom non aveva mai incontrato nessuno che si preoccupasse così tanto per lui, che fosse così attento e premuroso. Insomma, cosa lo obbligava a stare attento alla sua salute? Nulla. Eppure guardalo lì Bill, col pranzo pronto e quell’aria adorabilmente cocciuta sul viso da bambola.
-Sei stato davvero carino, Bill. Grazie. Vuoi rimanere qui in città, torniamo a casa insieme questa sera?- il fatto che Tom odiasse i contatti sociali non significava che fosse un completo cafone. A favore, corrispondeva favore.
-Oh no, io prendo la corriera subito. Sai che odio stare lontano da casa. Tutta questa gente, e queste macchine, e questo traffico, atroce!
Era uscito per lui. Aveva affrontato una delle sue paura per lui. Tom non ci credeva.
-Come preferisci. Però vuoi che compro qualcosa per stasera?
Bill si illuminò e batté le lunghe mani ingioiellate. Ci voleva poco per farlo ridere.
-Uh, sì! Sarebbe fantastico! Allora, io direi che potresti comprare del latte, dell’insalata, fresca mi raccomando, delle mele, tante mele, per fare le torte, e del lievito, tanto lievito. Anche qualche pacco di farina 00 già che ci sei. Uh, e del formaggio, quello che preferisci.
Tom tentò per un sorriso accondiscente e si appuntò mentalmente la lista, quando gli venne in mente un’altra cosa. Insomma, Bill era stato un angelo. Lui era solo un lurido umano di periferia, ma poteva fare almeno finta di fare la persona buona e affettuosa, anche se non lo era.
-Devo passare in farmacia? Non so, le tue pastiglie … ne hai finita qualcuna?
Non passava certo inosservato il fatto che Bill fosse continuamente impegnato a ingoiare pillole su pillole. Di tutti le forme e i colori. Non che a Tom interessasse più di tanto, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi che razza di complicazioni potesse avere un ragazzo così giovane per doversi imbottire così tanto di medicine. Chissà, magari aveva avuto un tumore. O forse aveva problemi di cuore. O l’asma.
-Come? Oh no, non ti preoccupare. Non sono medicine che si comprano in farmacia.
Bill gli sorrise, passandosi una mano tra i capelli perfettamente tirati all’indietro, e Tom fece una buffa smorfia. “Non si comprano in farmacia” – e allora dove diavolo le andava a comprare? Il suo primo pensiero fu internet, ma si rese conto che era già tanto che Bill sapesse cosa fosse un telefono fisso, ci mancava giusto spedizioni su Ebay. Non avevano confezioni, o, almeno, lui non le aveva mai viste. Vedeva solo pillole blu, rosa, rosse, gialle che sembravano caramelle scivolare nella gola di Bill, accompagnate da un singulto e da un bicchiere d’acqua. Chissà, forse avrebbe dovuto indagare un po’ più a fondo, magari la notte, invece di stare a guardare il soffitto e leggere per l’ennesima volta i libri di Oscar Wilde, nemmeno che nelle righe di Dorian Gray potesse trovare la risposta ai suoi drammi esistenziali. Per passare il tempo, anche solo per colorare quelle notte colorate dall’alcol che ora erano solo tristi scene vuote di un teatro polveroso dimenticato a Manhattan. In fondo, Bill poteva rivelarsi un ottimo divertimento per Tom. Tanti misteri, incongruenze, segreti, fotografie: un sano passatempo che non gli rovinava il fegato.
-Capisco. Beh … allora, grazie mille. Per il bento con la torta.- Tom si grattò distrattamente il collo, vagamente imbarazzato. – Ci vediamo stasera?
-Ti aspetto, caro. Corro, rischio di perdere la corriera!
Tom avrebbe voluto accompagnarlo alla stazione, ma si ritrovò semplicemente immobile nel vicoletto mal acciottolato a fissare la ciondolante figura di Bill zampettera incerta sui tacchi, la borsa appesa alla spalla. Guardò il bento e sorrise tra sé, scuotendo i lunghi capelli scuri. Sì, Bill meritava indubbiamente un’indagine. Anche solo per la sua gentilezza che, se fosse stato un ragazzo normale, avrebbe commosso lo stesso Tom.

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Capitolo 5
*** Colazione con Sorpresa ***


(Scusate se il capitolo arriva solo ora; ho avuto molti problemi seri e difficoltosi da superare quest'anno e non trovavo l'ispirazione per andare avanti, ma ora eccoci qui col nuovo capitolo! Spero che qualcuna di voi voglia ancora leggerlo, un bacio, Charlie)

CAPITOLO CINQUE: COLAZIONE CON SORPRESA


Tom aveva sempre sofferto d’insonnia, non era una novità. Da quando poi era caduto nel vortice dell’alcol, le sue ore di sonno si potevano contare sulle dita di una mano. Semplicemente, passava le notti a guardare le stelle e a cercare la Stella Polare, magari leggendo qualche libro, curando le sue pianticelle di marijuana, con la sua amata musica a palla per non sentire il sordo ronzio della sua mente vuota. Dicevano che ascoltare musica alta aiutava a non sentire il rumore dei propri pensieri. Beh, per Tom era il contrario: gli serviva per colorare quella stanza buia e polverosa che era la sua testa. A volte, invece, usciva per strada e girovagava sino a che le prime luci dell’alba non bagnavano la città. Tom non dormiva, ma ciò non gli pesava: aveva troppa paura di restare solo con i suoi incubi.
Nemmeno nella casa nuova riusciva a chiudere occhio; sdraiato sul suo letto, guardava il soffitto e fantasticava sulle stranezze del suo coinquilino, i The Clash che gli tenevano compagnia nelle orecchie, il sordido retrogusto alcolico che ancora gli bruciava la gola. Bill si era ritirato nella sua stanza oramai da ore, con la sua vestaglia di raso rosa e la sua tazza di tisana bollente e Tom aveva continuato a guardare le stelle, fino a che un noioso pensiero non era andato a intaccare la sua falsa quiete. Ovvero, la cantina alla quale Bill gli aveva categoricamente vietato di accedere – ma come si sa, ai bambini, quando si vieta qualcosa, viene voglia di rompere il divieto. E Tom, indubbiamente, era ancora un bambino dentro di sé. Avrebbe potuto trovare qualche indizio per la sua scapestrata indagine, forse, sepolto nelle fondamenta di quella casa da incubo. O forse avrebbe solamente avuto modo di passare la notte a fare qualcosa di più produttivo che non fosse dormicchiare svogliatamente.
Si alzò silenziosamente, spegnendo la musica e scivolò in corridoio; gli faceva ancora strano quel silenzio notturno, quella pace quasi mistica, esattamente come gli faceva strano camminare in punta di piedi, al buio più totale. Si sentiva un fantasma anche lui, e segretamente si chiese se quello in fondo non fosse che il paradiso. Magari chissà, era andato in coma etilico ed era morto in ambulanza. Dunque, quello era l’altro mondo: effettivamente, tutto avrebbe raggiunto un senso. Il silenzio e la pace divina che in terra non poteva esistere. La casetta oltremodo perfetta. Un angelo suo guardiano. Un’indagine per redimere la sua anima sporca e portarlo in paradiso. Si schiaffeggiò mentalmente da solo quando perse l’equilibrio in fondo alle scale, e per non cadere rovesciò un libro per terra. Lo rimise a posto alla cieca, tendendo l’orecchio: ma sembrava che quando Bill chiudesse la camera da letto, nulla avrebbe più potuto farlo uscire. Si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, sciolti sulle spalle, e zampettò verso la cantina. La casa, di notte, era strana, pensò, mentre tentava di arrivare alla piccola porta sul retro che portava alla cantina. Il silenzio irreale che la avvolgeva pesava sui pesanti mobili di legno e sulle tende scure, creando un’atmosfera soffocante e insalubre, aiutata dai pallidi raggi lunari che illuminavano chiazze di pavimento tirato a lucido. Sembrava l’incubo di un folle: la calma falsa di un inferno che scoppiettava dietro all’apparente teatro di pace, uno spettacolo fallito che aspetta di essere applaudito da spettatori inesistenti, una commedia nera le cui oscure trame si avvolgono e avviluppano attorno a oggetti che un tempo erano normali ma che col passare degli anni si sono tramutati in tetri simulacri di passioni perdute.
Quando posò la mano sulla porta della cantina, non si aspettava di trovarla aperta. Proprio come a dire: vieni, Tom. Vieni e dannati. Era buio pesto, dentro, buio come la sua stessa mente stanca e dolorante – forse, forse non era una buona idea infilarsi là dentro. Avrebbe potuto parlarne con Bill il giorno dopo. Avrebbe potuto tentare di fregarsene e non andare a ficcanasare in posti dove giustamente non erano affari suoi entrare. Avrebbe anche potuto dare un’occhiatina e scappare, però, come un bambino pestifero che disobbedisce alla mamma. Si leccò le labbra, vittima di un’eccitazione che non credeva possibile da provare: l’avrebbe fatto. Si sarebbe infilato nella cantina di nascosto e avrebbe cercato risposte ai quesiti che angustiavano la sua mente stanca. Intanto, cosa poteva andare storto? Nulla, Bill non si sarebbe mai accorto di niente, bastava che non toccasse in giro e non spostasse posizione agli oggetti che avrebbe trovato. Poteva farcela, sì.
Il ragazzo deglutì a vuoto un’ultima volta prima di infiltrarsi nella cantina, scendendo a tentoni le scalette che si inoltravano in buio caldo e avvolgente. Perse quasi l’equilibrio quando arrivò in fondo ai gradini e si resse al muro di pietra vagamente umidiccio. Accese la torcia e la fece girare per la stanza, lentamente; ammetteva a sé stesso di avere molta paura di quello che avrebbe potuto trovare ma quella voglia di indagine e di curiosità non lo lasciava in pace. Si alzò silenziosamente, spegnendo la musica e scivolò in corridoio; gli faceva ancora strano quel silenzio notturno, quella pace quasi mistica, esattamente come gli faceva strano camminare in punta di piedi, al buio più totale. Si sentiva un fantasma anche lui, e segretamente si chiese se quello in fondo non fosse che il paradiso. Magari chissà, era andato in coma etilico ed era morto in ambulanza. Dunque, quello era l’altro mondo: effettivamente, tutto avrebbe raggiunto un senso. Il silenzio e la pace divina che in terra non poteva esistere. La casetta oltremodo perfetta. Un angelo suo guardiano. Un’indagine per redimere la sua anima sporca e portarlo in paradiso. Si schiaffeggiò mentalmente da solo quando perse l’equilibrio in fondo alle scale, e per non cadere rovesciò un libro per terra. Lo rimise a posto alla cieca, tendendo l’orecchio: ma sembrava che quando Bill chiudesse la camera da letto, nulla avrebbe più potuto farlo uscire. Si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, sciolti sulle spalle, e zampettò verso la cantina. La casa, di notte, era strana, pensò, mentre tentava di arrivare alla piccola porta sul retro che portava alla cantina. Il silenzio irreale che la avvolgeva pesava sui pesanti mobili di legno e sulle tende scure, creando un’atmosfera soffocante e insalubre, aiutata dai pallidi raggi lunari che illuminavano chiazze di pavimento tirato a lucido. Sembrava l’incubo di un folle: la calma falsa di un inferno che scoppiettava dietro all’apparente teatro di pace, uno spettacolo fallito che aspetta di essere applaudito da spettatori inesistenti, una commedia nera le cui oscure trame si avvolgono e avviluppano attorno a oggetti che un tempo erano normali ma che col passare degli anni si sono tramutati in tetri simulacri di passioni perdute.
Quando posò la mano sulla porta della cantina, non si aspettava di trovarla aperta. Proprio come a dire: vieni, Tom. Vieni e dannati. Era buio pesto, dentro, buio come la sua stessa mente stanca e dolorante – forse, forse non era una buona idea infilarsi là dentro. Avrebbe potuto parlarne con Bill il giorno dopo. Avrebbe potuto tentare di fregarsene e non andare a ficcanasare in posti dove giustamente non erano affari suoi entrare. Avrebbe anche potuto dare un’occhiatina e scappare, però, come un bambino pestifero che disobbedisce alla mamma. Si leccò le labbra, vittima di un’eccitazione che non credeva possibile da provare: l’avrebbe fatto. Si sarebbe infilato nella cantina di nascosto e avrebbe cercato risposte ai quesiti che angustiavano la sua mente stanca. Intanto, cosa poteva andare storto? Nulla, Bill non si sarebbe mai accorto di niente, bastava che non toccasse in giro e non spostasse posizione agli oggetti che avrebbe trovato. Poteva farcela, sì.
Il ragazzo deglutì a vuoto un’ultima volta prima di infiltrarsi nella cantina, scendendo a tentoni le scalette che si inoltravano in buio caldo e avvolgente. Perse quasi l’equilibrio quando arrivò in fondo ai gradini e si resse al muro di pietra vagamente umidiccio. Accese la torcia e la fece girare per la stanza, lentamente; ammetteva a sé stesso di avere molta paura di quello che avrebbe potuto trovare ma quella voglia di indagine e di curiosità non lo lasciava in pace.
La cantina era molto più grande di quanto si aspettasse, e le pareti erano tappezzate da grosse librerie di legno massiccio. Qualche sparuta lampadina penzolava dal soffitto e si chiese come mai fosse tutto così disordinato quando invece la casa era praticamente intonsa. Soffocò uno colpo di tosse e mosse qualche passo incerto nell’oscurità, lasciando correre lo sguardo sui tomi che riempivano ogni angolo. Molti erano libri di medicina, di psichiatria, di anatomia umana e cose strane e difficili che Tom non capiva assolutamente, ma in mezzo a tutti i libri c’erano anche tantissimi faldoni accuratamente numerati e un po’ impolverati. Sapeva che probabilmente la cosa più saggia da fare sarebbe stata tornare a dormire, ma di nuovo l’impeto di curiosità lo vinse e lo costrinse ad allungare una mano sino a prendere uno dei faldoni. Deglutì a vuoto, un po’ spaventato e a fatica lo estrasse dal ripiano. Una nuvola di polvere si sparse tutt’attorno e di nuovo dovette trattenersi dallo starnutire rumorosamente. Tirando su col naso, si lasciò cadere per terra, sul pavimento di pietra freddo e puntò la torcia sul faldone: sulla targhetta, una serie di numeri e, in fondo, una firma scritta in bella calligrafia “Hansi Spiegelmann”. Era il nome del marito di Bill, registrò Tom, grattandosi il retro del collo, ancora più incuriosito. Aprì il faldone, facendo attenzione a non lasciar cadere nessuno dei foglietti, dei post-it, delle fotografie che vi erano infilate dentro e lanciò qualche scorsa alle pagine. Erano tutte fittamente scritte con inchiostro da pennino con quella calligrafia svolazzante e pomposa, intervallate da alcuni schemi e disegni fatti a mano, estremamente precisi e accurati. Tom aguzzò la vista, scorrendo rapidamente pagine e pagine dove regnavano sovrani quelli che lui poteva presumere essere appunti di medicina, che lui non capiva assolutamente, ma si rese chiaramente conto di una cosa. C’erano consistenti parti scritte in polacco. Si chiese come mai cambiare così repentinamente dal tedesco a quella lingua un po’ di nicchia e segretamente si congratulò con sé stesso: perché lui il polacco lo sapeva, eccome se lo sapeva. Non riusciva davvero a ricordare perché si fosse messo a studiarlo così accuratamente quando era adolescente, ma in quel caso, gli sarebbe venuto più che utile. Si sfregò gli occhi arrossati e cominciò a leggere distrattamente qualche parte, le didascalie dei disegni, gli elenchi di numeri, saltando da una parte all’altra e presto un’altra cosa gli si fece chiara in mente: le parti in tedesco erano tutti appunti comprensibilissimi per un medico, parlavano di vari pazienti, di cure, di anedotti e note prese durante i convegni mentre le parti in polacco erano di tono radicalmente diverso. Erano più accurate ancora, ma altresì piene di punti interrogativi, strani schemi, numeri e tutte contrassegnate da quello che pareva un unico soggetto chiamato “Paziente X”. Tom si chiese chi fosse il famoso Paziente X e perché c’era bisogno di contrassegnarlo così, mentre tutti gli altri avevano nome e cognome. Chi era? E come mai aveva quel posto prioritario negli appunti dello psichiatra?  Ma soprattutto, perché scriverli in polacco? Cosa c’era di così strano da dover essere tenuto nascosto? Tom si grattò una guancia, incerto, e continuò a leggere stralci degli appunti, aggrottando sempre di più le sopracciglia. Più si andava avanti, più c’erano annotazioni incomprensibili di date e quantità, come fosse un diario da aggiornare periodicamente.
… il Paziente X ha reagito piuttosto bene alla somministrazione del KPD: mi chiedo se aumentando le dosi a due pastiglie al giorno si otterrebbero più rapidamente gli effetti desiderati – devo indagare.”
“… il Paziente X ha oramai smesso di mangiare da tre giorni e, insieme, è in uno stato catalettico che mi preoccupa oltremodo. Sono convinto che la colpa è da attribuire tutta a quel nuovo farmaco: dannazione, non sta andando secondo i piani. Dovrò ricorrere a metodi molto più invasivi per farlo riprendere, e devo anche chiamare Klaus. Non sia mai che il nuovo farmaco finisca in mani sbagliate”
“… grazie al cielo, il Paziente X non ha accusato affatto i possibili effetti collaterali del PFH, anzi, ha reagito divinamente: non l’ho mai visto così sveglio e reattivo. Potremmo introdurla come nuovo eccitante alternativo? Direi che per ora gli esperimenti sul PFH sono conclusi – ho paura che una somministrazione troppo elevata possa nuocere al cuore del Paziente X. Non sia mai”
Tom strabuzzò gli occhi sempre di più a mano a mano che leggeva quelle note inquietanti e fuori dal mondo. Quello era il diario di un pazzo, era qualcosa di completamente fuori dal mondo … non riusciva a capire nemmeno una riga di quello che vi era scritto. Si grattò la testa, incerto sul da farsi. Avrebbe dovuto contattare Georg, fargli sapere cosa aveva trovato, forse costringerlo a riaprire l’indagine … ma per cosa? Solo perché aveva la mente troppo eccitabile? Per far passare il tempo? Oppure perché davvero voleva aiutare Bill?
Tom non lo sapeva, ma qualcosa dentro di lui gli stava suggerendo di andare in fondo a quella storia per un bene superiore. Bene che non riusciva ancora a visualizzare ma che sicuramente avrebbe portato a qualcosa di buono. Pensò per un attimo a  Bill, ai suoi strani occhi malati, ai suoi modi affettuosi e ai segreti che nascondeva in piena vista in casa, e automaticamente sorrise. Meritava sicuramente una piccola indagine esattamente come il suo strano marito. Chissà se Bill fosse a conoscenza dell’esistenza di quelle assurdità nel suo seminterrato … sì, Tom era decisamente perplesso. Ma si sarebbe messo d’impegno a cercare delle risposte alle sue incessanti domande: se lo costringevano a vivere, che almeno potesse farlo come meglio credeva.
Chiuse il faldone e lo mise a posto, prendendone un altro da uno scaffale più in basso. Portava una data più recente ma era ugualmente impolverato; dentro, la stessa solfa. Appunti e schemi mezzi in tedesco e mezzi in polacco, e di nuovo l’apparizione del Paziente X, che pareva essere intollerante all’Azul43B ma perfettamente idoneo alla somministrazione di J8LP, nomi che al giovane non dicevano niente e che, anzi, inquietavano. Lo mise a posto, e ne prese un terzo, questa volta dallo scaffale più alto e mentre lo sfogliava, sentì scivolare per terra una fotografia. La raccolse, illuminandola con la torcia, e suo malgrado si ritrovò a sorridere. Era una vecchia foto sgualcita di un Bill di dieci anni più giovane, i capelli neri sparati dappertutto, il trucco pesante e un’adorabile sorriso infantile. Tom sorrise, scrutando quei grandi occhi scuri così espressivi e innocenti; sembrava stesse molto meglio di come lo vedeva adesso, meno malaticcio, meno sofferente.
Rimise a posto la foto nel faldone e scorse ancora quelle assurde notazioni, per poi rimetterlo lentamente al suo posto e far girare oziosamente la torcia lungo il perimetro della stanza. Oltre agli scaffali pareva vuota, se non fosse stato per delle casse sul fondo. Tom si avvicinò circospetto, osservando curiosamente quelle lunghe casse basse di metallo; nonostante provò a forzarne l’apertura, nessuna si aprì, lasciandogli un leggero amaro in gola. Era selvaggiamente curioso di sapere cosa si nascondesse in quelle scatole. Controllò rapidamente se ci fosse qualche buco, ma sembrava che le casse fossero chiuse ermeticamente da tutti i lati; sbuffò, ma si ripromise di tornare giù la notte dopo attrezzato per aprirle. Oramai la curiosità aveva preso il sopravvento, e tutti sapevano che un Tom curioso era davvero ingestibile. Sbuffò, passandosi una mano tra i lunghi capelli e si rialzò, avviandosi nuovamente verso l’uscita. Mentre saliva le strette scale che portavano in casa fu preso da una strana angoscia: non riusciva a darsi pace per quello che poteva nascondersi dietro l’apparente perfezione di Bill, della casa e di Hansi.
-Cosa mi nascondi, Hansi?- sussurrò alla grossa fotografia sul caminetto, una volta sbucato nuovamente in salotto e dopo essersi preoccupato di chiudere la porta e di lasciarla esattamente come l’aveva trovata. – Cosa mi nascondi?
Lo ripeté, più a sè stesso che alla foto, mordicchiandosi nervosamente l’anellino al labbro. Gli sembrò quasi di ricevere un sorriso diabolico da quell’immagine del matrimonio, apparentemente gioiosa e sussultò. Era … inquietante. Tutto quello che c’era in casa lo era, che fossero quelle foto appese dappertutto, quei faldoni nascosti nel sottoscala, quelle torte di mele, e persino lo stesso Bill con le sue vestaglie rosa di mussola e il suo sorriso storto. Passò un dito sulla superficie di vetro e di nuovo gli parve che il viso perfetto di Hansi si piegasse in un riso crudele, come a prenderlo in giro, a sfidarlo nel scoprire i suoi segreti
-Stai certo che scoprirò tutto quello che c’è da scoprire.- disse Tom, a denti stretti, guardando con aria di sfida dritto negli occhi celesti del suo nuovo nemico. Non si sentiva pazzo a parlare con un fantasma, non gli importava più niente. Aveva combattuto battaglie più aspre, aveva messo in gioco molto di più che un paio di notti insonni. Poteva non avere più voglia di vivere, ma c’era quell’ultimo appiglio di amor proprio che lo spingeva a contrattaccare se stimolato. E quello, per Tom, era una vera e propria lotta nella quale doveva uscire vincitore. Lottava contro un morto, dannazione, non poteva lasciarlo vincere. A meno che in realtà non fosse morto anche lui, e allora, beh, allora era tutta un’altra storia.
 
-Ti vedo strano, oggi. Sicuro di stare bene?- Bill gli stava sorridendo mentre serviva il the.
Era una bella domenica mattina, e i due erano seduti in giardino a fare colazione, guardando i fiori ondeggiare alla brezza fresca della pianura e le nuvole candide rincorrersi nel cielo di smalto azzurro.
-Uh? Sì, sì sto bene. Ero solo soprapensiero.- Tom sorrise, scostandosi i capelli dal viso. Era ancora impegnato a ripensare alla notte precedente che quasi non aveva nemmeno rivolto la parola al suo coinquilino.
Coinquilino che, in quel momento, gli stava servendo una fetta di torta di mele condita con panna e crema, il solito sorriso triste sulle labbra.
-E’ successo qualcosa di brutto?
Bill si sedette accanto a lui, sistemandosi la vestaglia rosa, picchiettado distrattamente la tazza di porcellana.
-Oh, no, affatto. Bill, mi stavo chiedendo … parli polacco?- Tom la buttò lì così, senza impegno, guardando le reazioni dell’altro con estrema attenzione.
Nessuna reazione. Solo occhi stupefatti e smorfia dubbiosa.
-No, io e le lingue proprio siamo su due pianeti diversi, non so nemmeno una parola di inglese, figurati di polacco.- Bill rise, gettando indietro la testa e Tom non poté fare a meno di pensare che, dannazione, era davvero troppo bello. – Perché?
-Ah … ehm, no, curiosità. Magdeburgo è vicino al confine, così … mera curiosità.
Tom tentò per un sorriso convincente, anche se sapeva da solo che non era un gran mentitore. Bene, un indizio in più: se Bill non capiva, come mai scrivere gli appunti dei Paziente X in quella lingua? Cosa c’era da tenere nascosto? Il ragazzo si grattò il collo, dubbioso. Doveva per forza esserci un motivo per nascondere al biondo i dettagli del Paziente X, ma non riusciva a comprenderlo. Come avrebbe potuto reagire Bill se avesse compreso il significato di quella parte di diario?
-Oh, peccato.- Bill si passò una mano tra i capelli platinati, piegando la testa – Speravo mi dicessi di andare a fare una gita insieme in Polonia. Mi sarebbe tanto piaciuto andarci, ma Hansi era sempre impegnato e non aveva tempo da dedicare ai miei capricci. Figurati che non siamo nemmeno andati in viaggio di nozze. Cioè, mi ha portato a Miami con lui per un congresso internazionale di neurologia, ma non me la sento di considerarla una luna di miele, ero sempre solo.
-Mi dispiace, Bill.- Tom arrossì senza volerlo, e gli posò una mano sul braccio con intento comprensivo. Voleva andare in Polonia con lui. Assurdo, contando che Tom non era mai andato in vacanza con nessuno, a parte giusto una settimana in Francia con Georg e Gustav dieci anni prima dove si era ubriacato ed era quasi andato in come etilico. Brutti ricordi, decisamente.
Eppure … era strano. Bill che sfarfallava gli occhioni scuri e che gli chiedeva una cosa simile così schiettamente era qualcosa di incredibile per uno come Tom. Non sapeva nemmeno come comportarsi di fronte a una richiesta del genere. Avrebbe dovuto forse dirgli che sì, l’avrebbe portato in Polonia, avrebbero fatto una gita in moto, ma non lo disse. Si limitò a farfugliare qualcosa, affondando il viso nella tazza di the e si rese conto di essere arrossito.
-Chissà, magari un giorno ci andrò lo stesso in Polonia.- Bill sorrise, battendo le lunghe mani inanellate e curate. – Cosa ne dici, Tom?
Ecco. Ora doveva per forza rispondere. Il ragazzo alzò lo sguardo, mordicchiandosi nervosamente l’anellino al labbro, cercando nelle peonie una risposta.
-Aehm, certo.- borbottò poi, cercando di sembrare il più serio possibile – Magari, un giorno …
-Potremmo prendere il treno, cosa ne dici?- insisté Bill, sorridendo come un bambino – O se vuoi, prendiamo la moto. Sarebbe così divertente!
Come no, pensò Tom. Esilarante, proprio. Ma non poteva fare a meno di trovare adorabile l’espressione sognante del biondo e il suo sorriso innocente che gli illuminava il viso ricoperto di piercing e trucco. Chissà, magari avrebbe anche potuto fare uno sforzo e andare con lui in Polonia, forse ci si poteva infilare uno strappo alla regola e bere finalmente qualcosa di alcolico.
-Sì, Bill. Va bene.- sorrise a sua volta, e fece per alzarsi quando Bill gli saltò letteralmente al collo, facendogli perdere l’equilibrio.
-Grazie, Tom!
Per quanto leggero, la spinta del ragazzo e del suo incontenibile entusiasmo li fece ruzzolare per terra, sul praticello perfettamente curato. Rotolarono un pochino per terra e quando si ritrovarono abbracciati uno all’altro sotto all’infinito cielo tedesco, Tom pensò che sicuramente doveva essere un segno divino. Non finivi abbracciato a un assurdo essere biondo con gli occhi malati in una mattina estiva solo per caso. E non finivi a rimanere immobile a fissarlo nella profondità dei suoi grandi occhi, come se ci dovessi trovare la risposta ai tuoi problemi. E non non finivi a trovare il suo profumo di vaniglia, mele e perfezione assolutamente inebriante.
Tom non si capacitava nemmeno di come potessero essere rimasti lì immobili, uno sopra all’altro, a guardarsi in faccia senza alzarsi, muoversi o nemmeno respirare, ma sapeva che non avrebbe dovuto fare nulla. Sentiva, dentro di sé, che quell’immobilità era qualcosa di giusto, di positivo, di perfetto per quella situazione quasi paradossale. Sì, perfetto. Almeno finché Bill non gli stampò un bacio direttamente sulle labbra.

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Capitolo 6
*** Problemi, ancora ***


CAPITOLO SEI: PROBLEMI, ANCORA

Tom era stupefatto. Anzi, era letteralmente attonito. Non si era minimamente aspettato una cosa del genere, e si sentiva strano come mai in vita sua. Bill lo aveva baciato, e questo non aveva senso. Era … sbagliato. Nessuno poteva nemmeno avvicinarsi al ragazzo alcolizzato, e ora, di punto in bianco, quello strano scrittore si prendere addirittura la libertà di baciarlo, così, come se nulla fosse. Tom non sapeva nemmeno se sentirsi disturbato, felice, o semplicemente sconvolto. Guardò Bill negli occhi, incapace di fare alcunché. Come avrebbe dovuto comportarsi? Spingerlo via? Ricambiare, seppur impacciato, il bacio? Si chiese se gli era piaciuto, prima di tutto, e anche a quello non sapeva dare una risposta. Lui odiava il contatto fisico con le persone, lo aborriva in ogni modo eppure sentire le morbide labbra di Bill sulle sue non gli aveva fatto un brutto effetto. Forse perché è un angelo, pensò.  Ma tutto continuava a non tornargli, lo aveva messo di fronte a una cosa così triviale che non sapeva proprio da che parte girarsi. C’era Bill, da un lato, con la sua stucchevole stranezza e i suoi scheletri nell’armadio, mentre dall’altro c’era lui stesso, con i suoi demoni in testa e il suo odio per il mondo. Come avrebbero potuto conciliarsi due esistenze del genere? Non avrebbero potuto, semplicissima risposta. Anche se il perché non lo sapeva nemmeno lui; forse era semplicemente troppo spaventato per poter ragionare lucidamente, il suo complicato cervello isolato era stato brutalmente espugnato e adesso non era più capace di correre ai ripari. Anzi, forse non lo era mai stato e in particolare in frangenti simili, dove ci sarebbe stato bisogno di un po’ di umanità, stessa umanità che il giovane non aveva mai dimostrato di possedere.  Si riscosse subito da quegli stupidi pensieri quando Bill si staccò da lui come se si fosse scottato. Era balzato in piedi, premendosi le lunghe mani sulla bocca e sembrava ancora più sconvolto di quanto non lo fosse lo stesso Tom.
-Oh mio dio. Oh mio dio. Oh mio dio, non intendevo!- strillò, rompendo il silenzio tombale che era calato nel giardino.
Tom si rialzò lentamente, passandosi una mano tra i capelli, tentando per un sorriso rassicurante e la voce più calma che gli riusciva
-Tranquillo, Bill, non è successo niente.
-Come no!- Bill spalancò comicamente i grandi occhi, ridicolmente spaventato – Ti ho … ti ho baciato! Non volevo, non volevo, scusami! È solo che … stavo pensando ad Hansi … e io …
-Bill, per favore, calmati.- Tom lo prese per le spalle gracili, con tutta la gentilezza che possedeva – Capisco tutto, e non c’è problema. Succede. Sei stanco, magari.
-No! No! Lasciami stare! Scusami!
Bill si divincolò dalla sua stretta, e in un turbinio di vestaglia rosa corse in casa, sbattendosi la porta alle spalle, lasciando Tom immobile in giardino, in compagnia di qualche malinconica farfalla azzurra e del canto di una ghiandaia. A essere franchi, lo aveva lasciato più sconvolto quell’abnorme reazione del bacio in sé – insomma, in fondo non era successo granché … certo, non che non fosse rimasto stupito da una dimostrazione di affetto del genere, però non l’aveva sicuramente vissuta male. Era una cosa così aliena e strana per lui che valeva quasi la pena di perderci del tempo a filosofeggiarci sopra, magari in compagnia di un po’ d’erba e di sano punk. Ma Bill sembrava averla presa così male che quasi gli dispiaceva. Guardò il cielo azzurro e si strinse nelle spalle, pensando che forse avrebbe fatto meglio a raggiungere il suo buffo coinquilino e cercare di convincerlo a non disperarsi. Non voleva che un angelo come Bill soffrisse per una cosa così stupida, nemmeno che lui si fosse arrabbiato. Entrò in casa, in punta di piedi, quasi per non voler disturbare l’imbarazzo del ragazzo che sembrava quasi essersi sparso per tutto il salotto. Per una volta era lui quello che avrebbe dovuto fare l’uomo, e questa cosa lo destabilizzava. Non sapendo come funzionavano le normali sensazioni, aveva qualche difficoltà nel prendere in mano la situazione, ma decise che, almeno quella volta, ce n’era un effettivo bisogno. Si era preso a cuore la salute di Bill quasi più che la sua, e non intendeva lasciare le cose così. Se voleva davvero proteggerlo dai vecchi mostri del passato, doveva diventare automaticamente il suo scudo, la persona fidata, l’ancora a cui aggrapparsi quanto tutto intorno crolla. Tom sapeva di non essere una buona ancora, sapeva di essere matto, apatico e cinico ma per la prima volta sentiva che era sulla strada giusta per una redenzione che esisteva solo nella sua testa. Aveva deciso che se oramai lui aveva perso ogni speranza, Bill aveva diritto ad averne ancora, a riconquistarsi la sua vita e lui ne sarebbe stato il mezzo. Scapestrato e alcolizzato, ma pur sempre un cavaliere.
-Bill … - chiamò, con voce tentennante – Bill, tutto okay?
Nessuna risposta che non fosse il lento frusciare delle tende nere nella brezza estiva che soffiava gentile dalle finestre spalancate.
-Bill, davvero, non è niente. Si può chiudere tutto nel dimenticatoio, non mi preoccupo mica di una cosa simile … - continuò, aggirandosi lentamente in quella che ancora non riusciva a chiamare “casa”.
Ancora silenzio. E una strana preoccupazione che cominciava a insinuarsi come un serpente sotto pelle. Si passò una mano tra i capelli, salendo silenziosamente al piano superiore, l’orecchio teso a sentire un qualunque possibile singhiozzo. Li sentì, soffocati e improvvisamente assunse un’espressione triste, mentre si affacciava timidamente alla porta della camera da letto e lo guardava, raggomitolato sul letto, in lacrime. Vedere piangere una persona simile sembrava quasi un delitto. Non riusciva a vedere nulla di umano in quei grandi occhi scuri, ma più ci pensava più gli ricordavano quelli di un angelo. Venati da una malinconia che non era per tutti, lasciavano trasparire la nostalgia di qualcosa di impalpabile e divino come il Paradiso, come piccole perle le lacrime rotolavano sulle guance smunte, trascinando con loro lingue che non è dato sentire a orecchio umano. A Tom sembrò di intravedere le grandi ali spezzate piegarsi lentamente sul loro padrone, come a volerlo proteggere, eppure perdevano piume e sangue, che andava a mischiarsi col pianto. Smuovevano l’aria satura di fiori e parevano seguire il ritmo di un lamento sconosciuto, qualcosa di così mistico eppure dolce da essere un piacere per la vista. Quanto gli sembrava inavvicinabile in quel momento, avvolto dal suo mondo naturale, spezzato come solo gli angeli caduti lo possono essere, sofferente per un cielo che gli era stato vietato, reietto dal paradiso e cacciato dall’inferno, costretto a rifugiarsi in Terra e versare lacrime sulle ferite salate inflitte da qualcosa di più grande. Impacciato, entrò nella camera e non seppe nemmeno perché. Forse voleva consolarlo. Curargli le ali. Permettergli di volare di nuovo. Liberarlo dalla sua pena. Non lo sapeva, ma non gli importava, non quando si sedette sul bordo del letto e allungò timidamente una mano verso le spalle ossute
-Bill … ehi, non piangere. - lo disse piano, con dolcezza, come si parlerebbe a un bambino. – Non sono arrabbiato con te, va tutto bene.
Bill tirò su col naso, e alzò appena gli occhi su di lui.
-Non va tutto bene. Non avrei dovuto baciarti.
-E a me non importa. Può succedere, non hai ucciso nessuno, ok?- gli accarezzò la spalla e sorrise – Amici come prima?
Bill lo guardò sotto le lunghe ciglia e represse un altro singhiozzo, soffocandolo nella vestaglia
-Lasciami solo, per favore. Tom, io … no, non puoi capire!
-Cosa, Bill? Se non posso capire, prova a spiegarmelo.- Tom fece un sorriso gentile e gli si avvicinò un pochino, accarezzandogli la schiena ossuta.
-Cosa mi diresti se ti dicessi che l’ho fatto apposta? Che ero perfettamente cosciente di baciarti? Che … basta, lasciami solo!
Tom evitò per un attimo un’unghiata e ritenne preferibile battere in ritirata chiudendosi la porta alle spalle, lasciando Bill a piangere da solo, piuttosto che rimanere lì a infastidirlo ancora di più. Sapeva per esperienza quanto una persona potesse ogni tanto avere bisogno di momenti di assoluta solitudine. L’aveva sperimentato sulla pelle, quei giorni in cui non voleva vedere altro che una bottiglia di whisky, quei giorni in cui sperava di farla finita e lasciarsi alle spalle quell’inferno che era diventata per lui la vita. Lo sapeva e per questo lasciò il biondo a piangere in solitudine, non volendo turbare quella necessità di esternare la propria paura con niente altro che sé stessi. Eppure, rimase seduto per terra con la schiena appoggiata alla porta, ancora più allibito di prima, gli occhi fissi sulla fotografia appesa davanti al suo naso e la bocca aperta in un’espressione poco intelligente. Tutto quello lo stava scombussolando nel profondo: troppe emozioni umane nel giro di niente per uno come lui, troppe relazioni e sentimenti da mettere in gioco. Sbuffò, massaggiandosi le tempie pulsanti. Non poteva credere alle proprie orecchie: lo aveva baciato … volontariamente? Ma come poteva anche solo aver avuto un minimo di interesse in lui, rifiuto umano della peggior specie? No, non poteva essere vero. Un angelo non doveva venir impestato da un lurido alcolizzato di periferia, non … ma non cosa, Tom, si disse da solo. Faceva fatica a mettere ordine tra i suoi sentimenti, era stranito, lusingato e spaventato allo stesso tempo. Stranito, perché gli era tutto così estraneo. Lusingato, perché considerava Bill qualcosa di irraggiungibile. Spaventato, perché non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Tornare dentro e rassicurarlo? Ma rassicurarlo di cosa? Lo amava anche lui? La sua era pura attrazione per l’ignoto? Provava un affetto vero per lui?
Troppe domande danzavano nella sua mente, facendogli venire una tragica emicrania che lo costrinse ad alzarsi dalla sua postazione e trascinarsi stancamente lungo il corridoio. A volte si sentiva così tanto un bambino, sempre bisognoso di qualcuno che lo aiutasse a vivere e a destreggiarsi nella mondanità. No, Tom non sarebbe mai cresciuto, non avrebbe mai imparato ad essere un adulto. Era ancora un bambino senza infanzia, un adolescente troppo cresciuto, cercava la sua seconda stella a destra e cercava di ritrovare sogni ai quali aveva dato fuoco tantissimi anni prima. Stava rinascendo pian piano dalle ceneri, aveva bisogno del suo tempo per ricostruirsi le sue di ali, prima di dedicarsi a quelle di Bill, ma prima o poi l’avrebbe fatto. Chissà che entrambi non avrebbero cominciato a involarsi nei cieli tedeschi, sempre più in alto, sino a sparire alla vista. Chissà cosa si provava ad essere un angelo. E chissà perché, in quel momento aveva decisamente bisogno di schiarirsi le idee e aggiustare quell’incresciosa situazione. Avrebbe chiamato Georg. Forse lui sarebbe stato in grado di risolvere quel casino.
 
Due ore dopo, era seduto in pub con l’amico di una vita, sempre il suo bravo bicchiere d’acqua davanti e la sua migliore espressione abbattuta.
-Così, ti ha baciato e ti ha fatto intendere che gli piaci.
-Esatto. Ma non è così bassa come l’hai messa tu - ribatté Tom, facendo una buffa smorfia da bambino – Bill … è diverso. Non ha niente a che vedere con gentaglia come noi. È un angelo.
-E tu gli hai lasciato intendere che gli piaci, - concluse Georg, ammiccando.
-No! Cosa dici?! A me non piace Bill!- Tom rischiò di strozzarsi con l’acqua. – Non mi piacciono le persone.
-Tom, guarda che non ci sarebbe nulla di male.
Il giovane avvocato gli sorrise, poggiandogli una mano sul braccio e il ragazzo avrebbe voluto sprofondare venti metri sottoterra. Dio, che razza di casino dove si era andato a impelagare.
-Sì che ci sarebbe qualcosa di male! È … è assurdo. E fastidioso. E strano. E … oh, Georg, lasciatemi in pace.
Il ragazzo affondò la testa tra le mani, con una buffa smorfia infantile. Non era pronto a piacere a qualcuno, non era nemmeno pronto a sopportare qualcosa di triviale come l’amore, tantomeno se doveva coinvolgere il suo coinquilino. Lui voleva bene a Bill, su quello era certo, ma amarlo addirittura … era troppo. Tom era una persona solitaria e confusionaria, non riusciva a incanalarsi in nessun binario delle persone comuni e di questo ci soffriva. Era difficile vivere fuori dagli schemi, difficile perché non capiva le cose normali, non riusciva a entrare davvero in sintonia con nessuno e rimaneva sempre un passo indietro a tutti. Ma era fatto così, e non c’era molto da discutere. Aveva imparato a convivere con la sua stranezza e ad adattarsi a lei. Anche se adesso sembrava che Bill avesse sconvolto anche quei confini che era riuscito a creare per incanalarsi anche lui in qualcosa, e avrebbe dovuto ricominciare tutto daccapo. Rivedere le sue credenze. Risistemare i propri bordi. Ricostruire le sue barriere. Tutto per colpa di quello stupido bacio. C’era un motivo se Tom era allergico all’amore: creava solo problemi, e lui, di problemi, ne aveva già abbastanza per conto suo.
-G., però ho scoperto delle cose, - rialzò la testa, e gli occhi gli luccicavano di nuovo sinistramente. – Bacio a parte.
-Thomas Kaulitz, ti avevo detto chiaramente di starne fuori.- ruggì Georg, lanciandogli un’occhiata ustionante. Quando faceva quella determinata espressione, tutti tendevano a cedere le armi. Ma non Tom, ovviamente.
-E io ti avevo detto chiaramente che non lo farò, - ribatté deciso – Ieri notte sono entrato nella cantina, di nascosto, quella che Bill mi aveva vietato.
Georg fece per dire qualcosa, ma poi tacque, soffocando un’imprecazione. Sapeva per esperienza che il suo amico era ingestibile quando partiva alla ricerca di qualcosa, e sapeva che avrebbe dovuto assecondarlo. Poteva essere un alcolizzato e l’ultimo degli ultimi, ma era cocciuto come un mulo. E squilibrato come uno schizofrenico.
-E’ una stanza enorme e umida, sembra che copra metà delle fondamenta della casa. Buia, polverosa, inquietante: immaginato la scena? Bene, è tappezzata da scaffali che contengono faldoni appartenuti ad Hansi. Ne ho aperti alcuni, e ho notato una particolarità. Sono delle sorte di appunti medici su una sequela di pazienti, annotazioni di congressi internazionali, e roba sul genere, ma a un certo punto ognuno dei faldoni riporta consistenti parti scritte in polacco dove si parla di un non ben specificato Paziente X e di una serie di medicinali con nomi astrusi. Ora, ne ho letti davvero molti e il tono usato è così assurdo: il Paziente X è il protagonista silenzioso di una quantità di prove di farmaci, c’erano descritte reazioni, dosi, schemi di somministrazioni, appunti su chiamare alcune persone, ma ritornava sempre alla stesso punto: ovvero, usare X come cavia per qualcosa. Sottolineava sempre il punto “X non si è ancora accorto di nulla”.
-Cosa?- Georg lo interruppe, gli occhi fuori dalla testa – Tu mi stai dicendo che potrebbero trattarsi di esperimenti umani?!
-Non lo so, non potrei giurarci. Ma è roba strana, Georg. Diceva cose del tipo “il Paziente X reagisce bene al PFH, ma non vorrei tirare troppo la corda”, oppure “Le dosi di vattelappesca sono state somministrate con rischi gravi”, eccetera.
-Ti stai rendendo conto di cosa mi stai dicendo, vero?- l’avvocato era quasi cianotico – Tom, è … è una cosa fuori dal mondo.
-Lo so, ed è qui che entri in scena tu.- Tom puntò il dito sull’amico – Perché lo conoscevi, hai lavorato al suo fianco, hai seguito un caso dov’era implicata la sua clinica. Sei l’unico che può aiutarmi a capirci qualcosa di più.
-Mi stai dicendo di riaprire il caso? Non posso farlo, T.!
-Non ti sto chiedendo di riaprirlo pubblicamente, ma di continuare le indagini al mio fianco. Avrai ben in mano i documenti, le denunce, e il resto.
Georg tacque un attimo, bevendo un sorso di whisky per prendere tempo, guardando il viso esaltato dell’amico.
-Tom, perché lo stai facendo? Cosa ti importa, Hansi è morto ormai. Caso chiuso, qualunque cosa facesse oramai è finita in quella tomba.
Era stanco, Georg, mentre parlava con tutta la calma possibile. Ma Tom era più reattivo che mai.
-Lo sto facendo per Bill. Cristo, Georg, lo ama ancora, ha diritto di sapere che razza di uomo ha sposato!
-E non credi che forse non saperlo lo farebbe vivere in pace e quanto potrebbe essere devastante per lui scoprire che Hansi non era quello che lui credeva essere?
Tom rimase un attimo zitto, e si morse il labbro. Certo, il discorso di Georg era ineccepibile. Forse Bill avrebbe voluto semplicemente continuare a ricordare Hansi come il ragazzo perfetto che lo aveva amato. O forse, avrebbe voluto sapere davvero cosa era successo nel seminterrato della casa perfetta.
-Ho comunque intenzione di andare a fondo della vicenda. Voglio sapere, capire. Ti prego, non ti sto chiedendo così tanto: aiutami solamente a indagare, rendimi partecipe di quello che è successo anni fa e forse riuscirò a creare un collegamento con quello che ho trovato in cantina.
-Tu dici che il Paziente X potrebbe essere la donna morta in clinica? Quella del caso?- Georg si morse il labbro, tentennando – Allora potrebbe darsi che la famiglia avesse ragione … e io … no …
-Non fasciamoci la testa.- intervenne subito Tom – Potrebbe non essere lei, potrebbe anche non c’entrare niente ed essere una pista morta ancora prima di cominciare. Ma se la famiglia della donna insisteva che fosse stata vittima di esperimenti umani e i dati nei faldoni sembravano proprio riferirsi a una cosa simile … troppe coincidenze per un solo uomo. E troppe coincidenze per Bill.
Georg scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli.
-Cristo Tom … hai tirato su un vespaio incredibile. Cosa ti devo dire: proviamo a scoprire qualcosa di più. Ma non appena ci rendiamo conto che c’è qualcosa di troppo grosso in ballo, si molla tutto ed eventualmente si va dalla Polizia.
Tom sorrise e annuì, strani lampi esaltati a brillargli nel profondo degli occhi scuri. Avrebbero cominciato ad indagare seriamente. Avrebbe aiutato Bill. Adesso, bisognava solamente avere il coraggio di tornare in quella cantina.
 

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