Heartlines

di Luana89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** No light, no light ***
Capitolo 2: *** Reflection ***
Capitolo 3: *** Revenge ***
Capitolo 4: *** Baby, it's a wild world ***
Capitolo 5: *** Perdition ***
Capitolo 6: *** The truth will set you free, but first it will piss you off. ***
Capitolo 7: *** Darkness falls ***
Capitolo 8: *** Alexander ***
Capitolo 9: *** Getsemani ***
Capitolo 10: *** Hail and Farewell ***
Capitolo 11: *** Speranza ***
Capitolo 12: *** I hate you, but.. ***
Capitolo 13: *** Secret ***
Capitolo 14: *** Hope (Ending) ***



Capitolo 1
*** No light, no light ***



 

I


«Torna qui puttanella.»
Ignorai le sue urla isteriche azionando la playlist mentre fuggivo letteralmente via da quella casa. Abito in uno dei quartieri ispanici del southwest side di Chicago, detti anche Back of the Yard. Anzi no, mi correggo: vivo in un quartiere di merda qualsiasi a Chicago. Ci trasferimmo all’incirca otto anni fa, quando mia madre probabilmente preda di fumi alcolici decise di seguire un certo Santos. Inutile dire che si mollarono qualche mese dopo, ma mia madre non perse la predilezione per gli ispanici dal grilletto facile.
I miei short in cotone dalle stampe floreali tirano ad ogni mio passo, la canotta grigia diviene più scura sulla schiena laddove il sudore si accumula mentre corro fino a sentire scoppiare i miei polmoni. Un giorno o l’altro andrò via da tutta questa merda, è quello che mi ripeto ogni secondo durante la mia solita corsetta pomeridiana, o durante le liti con mia madre o peggio durante quelle con Carlos il suo nuovo ‘’fidanzato’’. Condividono la passione per l’alcool, volendo vederla positivamente è un bene dormire in casa con un uomo che tiene la pistola sul comodino. Volendola invece vedere male, è pessimo l’essere svegliati ogni notte dagli spari lungo la via. Ho contato quattro proiettili conficcati alla parete vicino la porta d’ingresso, e la sera durante i miei colloqui con Dio prego che il quinto si conficchi nel cranio di quel sudicio bastardo.
Osservo l’ambiente attorno a me, qualcuno ha gettato un materasso lercio accanto ai bidoni, alcuni bambini giocano a basket in mezzo alla strada e sembrano così ..adulti. Giocano con consapevolezza, è come se l’infanzia non esistesse qui a Back of the Yard. In effetti io sono l’esempio palese, ho diciassette anni e non ricordo un cazzo della mia età infantile, o più comunemente definita età d’oro. Niente albero di Natale, niente regali di compleanno, niente torte appena sfornate.
 Mi duole il fianco, giro l’angolo e stringo i denti mentre sposto un ciuffo castano dietro l’orecchio. Una goccia di sudore scende giù dalla fronte incastrandosi tra le mie ciglia, e le urla di due donne mi distraggono facendomi quasi inciampare, le osservò rallentando sperando in una scazzottata epica. Qui si che le donne sanno menar le mani, mica come le lady che vedo in tv, quelle troiette qui morirebbero. Morirò anch’io un giorno di questi, ma lo farò mordendo e graffiando. Respiro profondamente sentendo il primo crampo al polpaccio, rallento un po’ ma non mi fermo e non lo faccio non perché tenga particolarmente alla mia linea quanto più per il rumore d’auto dietro di me. Stringo i denti fingendo di non aver sentito il clacson, in fondo ho le cuffie alle orecchie quindi direi sia un’ottima scusa. Non lo è. Una mano mi afferra e io non riesco a sobbalzare, fingo male e come attrice sarei penosa. Il braccio rientra dentro il finestrino per far posto al viso dalla carnagione olivastra: Juan Hernandez.
«Dolcezza, salta su». Juan è il mio ragazzo. O meglio lui si è proclamato tale, considerando la sua appartenenza ai Latin Kings chi diamine lo contraddirebbe? Io, probabilmente. Ma dopo avergli visto ammazzare un tizio con calci e pugni, dopo aver visto quel viso ridotto una maschera informe di sangue e carne, diciamo che lo contraddico sottilmente ecco. La verità è che sono una puttana, come dice mia madre. Una puttana codarda, una la cui vita non vale un cazzo. Prego in una scossa, in un incontro anche veloce che mi faccia pensare ‘’okay, esiste qualcosa di meglio oltre le mura piene di graffiti di questo posto’’. Ma non arriva, non arriva mai.
«Hope?». Questo è il mio nome, no vi prego non sottolineiamo la crudele ironia. Mia madre mi odiava fin dal mio primo vagito probabilmente. Fisso i suoi occhi scuri, non è brutto anzi è piuttosto attraente nei suoi sfolgoranti diciannove anni, ma francamente penso di detestarlo a giorni alterni.
«Juan, a differenza tua frequento regolarmente le lezioni e quindi devo studiare». Tolgo le cuffie con un sorriso affabile che celi la profonda cazzata appena detta.
«Andiamo, studiare a che pro? Ti darò io i soldi, vivrai da regina insieme a me». La sua risata sguaiata mi disarma, lo vedo battere il cinque con l’amico. Eirc, un coglione borioso poco più grande di me che pensa di avere potere solo per il ferro che porta dietro la schiena.
«Vivere da regina alle tue spalle è proprio il mio sogno nel cassetto dolcezza – riavvolgo con cura le cuffie dandomi un lieve slancio per scendere dal marciapiede – allora dove si va stasera?». Come ho già detto: sono una puttana codarda. Questa è la spiegazione che mi do ogni volta pur di non ammettere che preferisco scoparmi Juan, piuttosto che passare un’altra dolorosa serata in quella casa di merda.
 
 
La sveglia suona insistentemente, allungo una mano schiacciando alla cieca finché non la becco gettandola a terra. Dovrò comprarne un’altra, e siamo a quota cinque. La stanza è completamente immersa nel buio, un vizio che porto da sempre, non riesco a dormire se non c’è ogni singola finestra sigillata. Nessun odore di caffè o colazione mi accoglie, probabilmente perché mia madre si alza sempre in tempo per il pranzo, che neppure cucina perché troppo impegnata a stappare la prima bottiglia di vino. Ha perso ogni lavoro racimolato con fatica, le suggerirei la prostituzione salvo poi ricordare che con Carlos è ciò che in effetti fa.
La scuola è uno dei pochi momenti di pace, mi piace molto la letteratura immergermi in mondi lontani e sconosciuti, conoscere il significato di amore e passione attraverso i versi scritti da qualcuno ormai morto. Sospiro infilandomi i jeans, l’ennesimo strappo si è formato all’altezza delle cosce, è una fortuna che siano alla moda così o farei concorrenza ai barboni dietro casa mia. Indosso una semplice canotta verde acido e una giacca in cotone nera, pettino i capelli e mi rendo conto di quanto siano adesso lunghi, forse dovrei tagliarli? Lasciamo perdere, l’ultima volta che c’ho provato avevo dodici anni e sembravo la sosia di un ananas meglio imparare dai vecchi errori.
La cucina è immersa nel silenzio, cerco di far piano ma uno scricchiolio mi tradisce.
«Stai uscendo?». Osservo Carlos steso sul MIO divano a guardare la MIA televisione.
«Ti stupirà ma la gente comune la mattina lavora, o nel mio caso: si istruisce». Mi fissa con quegli occhi viscidi, vorrei vomitargli la colazione in faccia se solo l’avessi avuta.
«Dovresti solo stare con Juan, è quello il tuo posto. Sei solo una femmina, e pure frigida.»
«Il fatto che io mi rifiuti di aprirti le cosce non fa di me una persona frigida, ma qualcuno con del buongusto». Gli sorrido candidamente ma la mia vittoria dura troppo poco, lo vedo alzarsi lentamente e sospirare come suo solito, con quel silenzioso dirmi ‘’sei tu a provocarmi’’.
«Ho detto a tua madre che non ha saputo educarti come avrebbe dovuto». Il rumore del coltello ancora sporco di burro che sfrega contro il tavolo mi fa accapponare la pelle. Non rispondo, a che pro? Parlava di qualcuno che non esisteva più, quella stronza che ancora russava nella stanza accanto non era mia madre. Devo pensare e agire, la porta dista solo qualche metro, se lo colgo di sorpresa posso riuscire a scappare e con un po’ di fortuna quando tornerò stasera lui avrà dimenticato perché troppo ubriaco. Lo vedo slanciarsi verso di me, la mia gamba si muove da sola piantandogli il ginocchio sulla coscia, sento le sue imprecazioni soffocate e capisco che è la mia occasione. Peccato la mia disperazione non superi abbastanza la sua rabbia, non in quel momento.
 
 
«Signorina Kurtzman vorrebbe dirmi qualcosa?». Qualcosa. Io vorrei dire tante cose, ma credo non servirebbe.
«No dottoressa Freeman». Le sorrido gelidamente fissando la stanza attorno a me, i colloqui con lo psicologo sono divenuti ormai un appuntamento fisso nella mia vita. La scuola pensa sia un buon modo per tutelare i propri studenti.
«Nemmeno sul livido sotto l’occhio?». Lo tocco involontariamente, fa un fottuto male e sono passati solo due giorni.
«Su questo avrei da dire parecchie cose, ad esempio che mischiare rum e vodka è una pessima scelta per il mio equilibrio ..oh ma aspetti non dirà mica ai professori che bevo pur essendo minorenne vero?». Il suo sospiro è la mia sconfitta, anche se lei pensa il contrario.
«Mi stai dicendo quindi che te lo sei procurato accidentalmente?». Beh..
«Si». Vedo la sua idea di chiamare i servizi sociali sfumare miseramente, come ogni volta. Sembra avermi preso a cuore e forse si chiede anche il perché io mi ostini a negare tutto. Il punto è che non esistono vie d’uscita, dopo i servizi sociali ci sarà solo vendetta. Verso di me, verso mia madre che francamente non merita la mia preoccupazione. La gang di Carlos non scherza, e lui all’interno di quella merda detiene un certo potere.
 
«Non ti fermi?». L’auto continua a seguirmi, la voce di Juan diventa pericolosamente aggressiva. Mi giro forzandomi a sorridere.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Che cazzo hai fatto all’occhio?». Inarco un sopracciglio e sorrido.
«Uccideresti Carlos per me?». Lo vedo sbiancare per un secondo, in fondo fanno parte della stessa banda: i Latin Kings.
«Che cazzo di domande sono?»
«Allora non chiedermi cos’ho fatto all’occhio». Capisce finalmente, in fondo ci tiene a me. O meglio la sua è solo smania di possedere ciò che sa di non poter avere, nonostante le mie moine sa che non provo nulla. Neppure quando la sua mano mi scosta le mutandine. Sono sorda e muta.
 
***
 
Il cappuccio della felpa mi copre del tutto la fronte e parzialmente gli occhi, ciuffi lunghi ribelli escono rendendo palese il mio sesso, come se non si capisse dai jeans che fasciano ad arte il mio culo. Ho un gran bel culo, e non lo dice solo Juan. Sono passati dieci giorni dal cazzotto, il livido ormai è quasi sparito. Mi fermo di fronte la caffetteria con un sospiro, vorrei comprare delle ciambelle ma non posso permettermele, quel bastardo di Juan non si fa vedere da una settimana ergo non posso spillargli soldi. Metto una mano in tasca e afferro le monetine, le conto due volte per essere sicura.
«Un caffè, amaro e senza panna». Sollevo di scatto il viso per capire da dove proviene la voce e infine lo vedo. Ha la schiena poggiata al muro del locale, un ginocchio piegato e l’espressione indolente. Mi fissa con quelle iridi ingannevoli e penetranti, se gira il viso a destra il sole li farà apparire verdi, se invece gira il viso verso sinistra allora sembreranno color caramello e questo basta a renderli ingannevoli (anche se la gente normale li definirebbe: cangianti). Per finire i capelli corvini e un’altezza che santo dio cosa diamine gli hanno dato da mangiare?
«Come scusa?». Il mio tono esce più sostenuto di quanto volessi mentre stringo nel pugno le mie monete.
«Prenderai un caffè amaro e senza panna perché non puoi permetterti altro». Scrolla le spalle sorridendo strafottente. Vuole forse che gli faccia mangiare le monetine? Lecco l’angolo delle mie labbra infilando nuovamente le mani in tasca, avvicinandomi spavalda.
«E tu che cazzo ne sai?». Non si muove, evidentemente non lo intimorisco il che è un bene. Non si scosterà quando la mia ginocchiata gli farà rientrare le palle.
«Vuoi picchiarmi quindi?». Penso di aver mosso un passo indietro per lo spavento, legge nel pensiero?
«Niente di tutto questo». Ha letto ancora la mia mente, lo sento ridere e chinarsi appena per poi indicarmi.
«Mi stai prendendo per il culo? E’ un tuo passatempo questo?»
«Prenderti per il culo? In effetti sembra meritevole». Oh questa si che era divertente, glielo faccio notare sfoderando la risata più falsa che ho in repertorio.
«Semplici deduzioni, la gente è come un libro: basta saperlo leggere. Hai dei jeans alla moda, il modello però è vecchio, alcuni strappi sono dovuti al troppo utilizzo. La felpa è logora ai bordi delle maniche e sui lacci del cappuccio, ti sei soffermata troppo a contare gli spicci. A meno che tu non sappia contare volevi accertarti bastassero per la cosa più economica: il caffè. – una breve pausa mentre sentivo la mia bocca spalancarsi fuori controllo – e poi .. hai sospirato fissando la vetrina, eri frustrata. Per non parlare della zona in cui sembri a tuo agio.»
«Complimenti Sherlock – sfoggio il mio sarcasmo migliore, ma lui continua a ridere – guarda che non sei l’unico bravo a questo gioco». La mia frase fa cessare il suo divertimento e risveglia l’interesse.
«Ah si? Allora leggimi». Merda, ha raccolto la sfida. Mi concentro iniziando a fissarlo, a parte l’essere una specie di figo da paura non noto molto. E non posso di certo dirglielo.
«Cos’è quella macchia tra pollice e indice?». La fisso domandandolo più a me che a lui, sembra ..pittura? Tempera?
«Sei un muratore?»
«E tu una stupida.»
«Vai a farti fottere Mago Merlino». Alzo il mio dito medio mollandolo lì, ma la sua presa mi blocca, sorride di nuovo.
«Hai bisogno di soldi, giusto?»
«Non mi prostituisco». Fisso ancora la sua mano, non si mangiucchia le unghie.
«Buono a sapersi, anche se ritrarre una baby prostituta sarebbe figo». Ritrarre? Lo fisso nuovamente interessata.
«Sei un artista». Mi sento una cogliona per l’ovvietà. Lui sorride, sa cosa sto pensando.
«Si, poseresti per me?»
«Non ho tempo da perdere». Tecniche d’abbordaggio patetiche, o almeno voglio sperare sia così.
«Neppure per cinquanta dollari l’ora?»
«CINQUANTA—Cinquanta dollari?». La sua risata è assurda, mi sta sul cazzo.
«Lo farai?»
«No.»
«Ottimo». Mi sorride afferrandomi la mano, voltando in su il palmo per scrivervi sopra qualcosa. E’ un numero. Il suo.
«Se questo è un tentativo di abbordaggio..» le sue dita mi stringono il polso, i suoi occhi mi scrutano.
«Se avessi voluto abbordarti te ne saresti accorta. Al momento vivo nella zona di Hyde Park». Non riesco a spiccicar parola mentre lo vedo riporre la penna e darmi le spalle andando via silenziosamente, proprio come era arrivato.
 
Ricordo solo dopo pochi istanti una cosa a mio parere essenziale: Avevo chiesto una scossa, e ne avevo ricevute due nell’arco di pochi minuti.
 

 

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Capitolo 2
*** Reflection ***


II



Il rumore assordante delle sirene è il sottofondo dell’ennesima mattinata qui a Chicago, scesi i tre gradini di casa guardandomi attorno per cercare di capire chi fosse morto stavolta. Non era una scena inusuale anzi, almeno due volte a settimana i poliziotti venivano a chiedere informazioni e l’ambulanza portava via un cadavere. Stavolta era toccato a Raphael Blacke, un ragazzino afroamericano di undici anni. Undici fottuti anni.
«Tu vivi qui?». Il poliziotto mi affiancò con espressione severa, erano tutti prevenuti ormai. Consapevoli del fatto che chiunque sapesse non avrebbe parlato. Mi limitai ad un cenno d’assenso col capo mentre attorcigliavo le cuffie celesti tra le dita.
«Hai visto qualcosa?». Domanda da prassi, così come il ‘’no’’ secco in risposta. In effetti non avevo visto un cazzo, e anche se lo avessi fatto non lo avrei di certo detto agli sbirri. A che pro? Per finire come il giovane Raphael se non peggio? Mi allontanai alla svelta ignorando gli occhi penetranti del poliziotto che mi seguirono fin quando non svoltai l’angolo. Sentivo il sudore imperlarmi la fronte, lo asciugai con la mano e notai i numeri scritti in nero. Erano passate circa quarantotto ore dal mio incontro con quel ragazzo, non avevo lavato la mano per non sbiadire il suo recapito. Per alcuni suonerebbe come un’idiozia, perché non appuntarlo su di un foglio e curare la propria igiene personale? Era una scelta di comodo, se lo avessi segnato da qualche parte gli avrei dato importanza. ‘’Perché non lavarsi la mano per due giorni è meno grave?’’, misi a tacere il grillo parlante della mia coscienza attraversando con disattenzione la strada. Un auto si accostò e il viso di Juan mi diede ufficialmente il suo buongiorno.
«Dovresti stare a casa per oggi, la situazione è un po’ . .» non finì di parlare, non ce n’era bisogno. Era ovvio che lui fosse complice di quell’omicidio. Respirai profondamente.
«Non ho piantato io un proiettile sul cranio di un bambino». La mia voce uscì più acida del dovuto.
«E’ stato un errore». Quindi i Latin Kings commettevano sbagli? Mi lesse quella domanda negli occhi e la sua espressione divenne livida. Respirai ancora.
«Un ragazzino afroamericano che passa per caso nella zona ispanica, non sono sicura sia stato un ‘’errore’’. Ma sai di cosa sono sicura? – ci fissammo per pochi istanti – sono sicura che i Crips verranno qui a farvi il culo Juan. E francamente non voglio esserci». Mi avviai verso il marciapiede ignorando il rumore della portiera, almeno finché non sentii la presa dolorosa sul mio polso. Provai a divincolarmi ma rischiavo di spezzarmelo, quindi desistetti.
«Da che parte stai Hope?». Aveva usato un tono così mellifluo da accapponarmi la pelle. Io non stavo da nessuna parte, provavo ribrezzo per entrambe le bande senza alcuna distinzione.
«Non è un obbligo per me stare dalla parte di qualcuno, non sono un vostro membro». La presa divenne sempre più dolorosa, urlai ma non mostrò pietà.
«Ed è qui che ti sbagli dolcezza, tu sei la mia ragazza. La fottuta ragazza che mi scopo, e se io ti chiedo da quale parte stai ..la risposta è semplice: la mia». Il suo viso vicinissimo, aveva bevuto lo sentivo dall’alito. Mi baciò e forzai ogni nervo del mio corpo per non scostarmi disgustata. Scrollai il polso dalla presa osservando le impronte lasciatemi come ennesimo regalo.
«Aveva solo undici anni..» sentii il magone ostruirmi la gola, alle volte avrei voluto spogliarmi della pelle e scappare via.
«E’ stato un errore bambolina, non pensarci troppo. Non è un tuo problema. Fatti bella stasera, andremo a divertirci». Mentre lo fissavo allontanarsi ebbi l’impulso di tornare dal poliziotto e fare il suo nome. Le sirene passarono in quel preciso momento e i miei occhi incrociarono quelli del poliziotto di poco prima, era afroamericano anche lui. Chinai il capo infilando le cuffie nelle orecchie fuggendo dalla mia vita.
 
–  Quarantotto ore, un bel record per cinquanta dollari l’ora, non credi?
–  Hai detto Hyde Park?
–  L’ho detto si.
–  A che ora?
–  Quando vuoi, non ho impegni.
–  Mandami l’indirizzo.
 
Riattaccai col cuore in gola fissando la mano ancora sporca d’inchiostro. Avevo marinato la scuola, non avevo un posto dove andare e neppure un cent nelle mie tasche logore. Solo chi vive una vita di continui stenti può capire la sensazione di non possedere nulla, neppure un nichelino per un tozzo di pane. Ti senti svuotata, ti senti sola, e il vuoto nello stomaco è paragonabile a quello che si spalanca al centro del tuo petto. Qualcuno tempo fa disse che i soldi non fanno la felicità, sono d’accordo ma sicuramente averli ti aiuta ad affrontare i problemi a pancia piena e non è un male. ‘’Tutte stronzate’’, io avevo chiamato a prescindere dal denaro, volevo risentire quella sottile scossa elettrica ancora una volta.
 
Il South Side di Chicago non era sicuramente una zona tutta fronzoli e merletti, nonostante il dispendio di energie per risollevarsi le bande di strada anche lì spadroneggiavano indisturbate. Un ragazzino mi superò velocemente, notai il rigonfiamento sotto la maglia logora, probabilmente era una pistola. Lì tutti possedevano un’arma, alcuni l’avevano acquistata per semplice protezione finendo poi col somigliare ai delinquenti che tanto detestavano. Il palazzo di Mago Merlino era meno fatiscente del mio dovevo ammetterlo, ma niente di che comunque. Suonai una volta, poi un’altra e un’altra ancora ma nessuno rispose. Sentivo i piedi anchilosati, sarei dovuta semplicemente andar via. Aveva detto lo avrei trovato lì, aveva mentito.
«Caspita, sei venuta davvero». Riconobbi la voce, mi voltai troppo velocemente e con troppa enfasi.
«Io mantengo sempre la mia parola, dove stavi?». Sollevò una busta estraendo delle chiavi dalla tasca dei jeans, i suoi erano perfetti a differenza dei miei.
«Ho notato che mancavano alcuni colori, quindi li ho acquistati». L’androne era buio, qualcuno aveva rotto la luce interna probabilmente con una pietra. Approfittai della penombra per osservarlo meglio, aveva un portamento sicuro e quasi elegante a tratti, nonostante vivesse al quinto piano non c’era ombra di stanchezza, il suo fiato sempre regolare. Era uno sportivo? Stavo diventando sociopatica come lui a furia di fissare i dettagli.
La prima cosa che notai una volta dentro fu l’assenza quasi totale di mobili e il persistente odore di tempera, continuai comunque a seguirlo. La casa possedeva tre stanze in totale – escludendo il bagno – , il soggiorno e la cucina all’ingresso, quella che doveva essere la sua camera lungo il corridoio a destra e infine lo studio il luogo dove mi condusse. Quadri appesi ovunque, tele incomplete, odore forte che impregnava le mie narici, un divano letto o almeno tale sembrava dall’aspetto e una scrivania cosparsa di colori, pennelli e cose ai miei occhi sconosciute.
«Vuoi sul serio che posi per te?». Mi sorrise ambiguamente annuendo.
«Non offro denaro a chiunque.»
«Okay, allora dovrai rispondere ad alcune mie domande». Lo seguii con gli occhi, si poggiò alla scrivania incrociando le braccia al petto. Erano possenti e delineate. Faceva sport?
«Chiedi, ma risponderò a mia discrezione.»
«Fai sport?». Ma che cazzo di domanda era. Dio che imbecille.
«Quando capita si..» mi fissò dubbioso continuando a sorridere.
«No no, resetta non era questa la domanda – sollevai le mani e lo vidi ridere, mi ricordai del numero ancora presente sul palmo e le riabbassai subito – quanti anni hai?»
«Ne ho ventidue». Quindi era più grande di me di cinque anni?
«Tu diciassette, giusto? Hai l’aria della liceale». Ecco che tornava Sherlock, non risposi.
«Come ti chiami?». Mi avvicinai scrutandolo.
«Chiamami Aj». Quindi non era questo il suo nome?
«Perché dovrei chiamarti così?»
«Perché lo permetto solo alle persone simpatiche, sei fortunata». Lo ero? Iniziavo ad avere qualche dubbio.
«Vivi solo? Sei di Chicago? Ti mantieni dipingendo?». Okay sembravo compulsiva.
«Vivo solo, non sono di Chicago e mi capita di guadagnare con i miei quadri». La terza risposta suonava ambigua e lo sapeva anche lui. Quindi non era di Chicago, buono a sapersi. Non avrebbe risposto ad altro, lo capivo dai suoi occhi. Rovistò nelle tasche estraendo un pacco di sigarette ancora sigillato, lo aprì gettando le carte a terra senza cura accendendone infine una. Il fumo alterò la mia vista e il suo viso divenne sfocato.
«Ne vuoi una?». Afferrai il pacchetto scrollando le spalle, non avevo i soldi per il cibo figuriamoci per le sigarette. Mi sedetti sul divano fumando e fissandolo.
«Ti fermerai molto qui?». Per qualche motivo mi sembrava vitale saperlo.
«Chi lo sa, una cosa è sicura: sparirò quando meno te lo aspetti». Sorrise in maniera così accattivante da far perdere consistenza alla sua affermazione. Lo mandai a cagare tornando a fumare, gli sbuffi salivano confondendosi con la polvere che aleggiava nella camera.
«Che tipo di ritratto hai intenzione di farmi?»
«Nudo». Centellinò quelle parole con cura, lo disse con calma e enfasi per vedere la mia reazione. Ci misi tutta la mia buona volontà per non strozzarmi.
«Vuoi che posi nuda ..per te?»
«Da vestita non mi serviresti a molto». Questo figlio di puttana.
«Perché proprio io?»
«Due motivi, ma te ne dirò solo uno per il momento: i tuoi occhi.»

 

 

AJ

 
Era spaesata, una bambina che imitava gli adulti. Era seducente per questo probabilmente, non si rendeva minimamente conto del suo potenziale. Del suo reale potenziale. Non quello usato per far le moine al primo stronzetto in strada.
«I miei occhi? Ho sempre pensato fossero.. inquietanti». Sorrisi, li aveva in effetti enormi e quando ti fissava sembrava scandagliarti dentro.
«Sono affascinanti e mostrano tutte le verità che celi. Quando stavi ferma di fronte quella vetrina trasudavano pietà in maniera imbarazzante. Imbarazzante per chi ti osservava però, non per te». L’avevo turbata, era evidente. La brace della sigaretta cadde a terra confondendosi col pavimento. Si alzò respirando rabbiosa.
«Non è pietà quella che cerco, sai dove puoi infilartela?»
«Scommetto nello stesso posto in qui dovrei infilarmi i cinquanta dollari giusto?». Era uno spasso.
«Esatto fottuto bastardo». Mi diede le spalle allontanandosi come un tornado furioso, mi bastò allungare una mano per riacchiapparla.
«Vieni picchiata spesso?». Mi fissò interdetta nascondendo il polso tra le pieghe della felpa.
«Sei sempre così stronzo?»
«No, con te ci sto andando piano perché voglio davvero ritrarti.»
«Nuda». Sorrisi.
«Nuda, si». Sorrise anche lei, ma in maniera diversa.
«Sei una specie di maniaco sessuale? Con la scusa del dipinto ti spari seghe su seghe pensando ai corpi nudi». Mi grattai il mento.
«Che c’è di male nella masturbazione? Tu è evidente ne pratichi poca, non conosci per nulla il tuo corpo». Ci fissammo e i suoi occhi mi misero di nuovo a disagio.
«Qual è la seconda motivazione?»
«Ah quella .. hai il culo più bello di Chicago». Silenzio. Le nostre risate si fusero in un’unica cosa.
 
Hope Kurtzman, il suo cognome mi ricordava il mio insegnante di violino. Diciassette anni e una vita che cadeva a pezzi. Sentivo i suoi occhi fissarmi mentre diluivo i colori, probabilmente invidiava la mia vita. Pensava fosse perfetta nella sua solitudine, sorrisi sollevando il capo.
«Non ti decidi ancora a spogliarti?». La vidi sbuffare, era imbarazzata ma non voleva ammetterlo.
«Vuoi che ti aiuti?». Non attesi risposta, mi alzai andandole incontro. Le mie mani si poggiarono sui suoi fianchi scendendo verso il bottone, aprii la cerniera e solo in quel momento le sue dita mi bloccarono.
«Riesco anche a farlo da sola, stronzetto.»
«Ogni capo tolto dieci dollari in più. Almeno per oggi». Le sorrisi ambiguamente e capii quanto fremesse dalla voglia di schiaffeggiarmi.
«Pensi di riuscire a comprare tutto col denaro?»
«No». Non era la risposta che si aspettava. Si allontanò iniziando a svestirsi, via i jeans e poi la felpa, mancava solo l’intimo. La fissai attentamente, aveva un bel corpo e un’altrettanto bella anima.
«Devo togliere anche questi?»
«Ovviamente». Era divertente.
«Sei un lercio..» mormorò quelle parole a denti stretti, non mi toccò più del necessario. In fondo per quanto volesse far ricadere la colpa su di me era lei a rimanere ancora.
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?

 
 

Hope

 
«Posso muovermi?». Era la decima volta che lo chiedevo.
«No». Ed era la decima volta che mi rispondeva così. Sbuffai stanca, sentivo gli arti intorpiditi dall’eccessiva immobilità. Aj invece sembrava instancabile, mi piaceva osservarlo in quei momenti. La faccia da stronzetto saccente crollava in favore di qualcos’altro, qualcosa di più adulto e affascinante. Osservai una piccola goccia di sudore sul suo collo, scivolava giù perdendosi all’interno della maglia, lungo la pelle nascosta e celata a differenza della mia.
«Finirai oggi di questo passo». Per la prima volta sorrise sollevando lo sguardo su di me, fissandomi davvero.
«Non credo, sto solo delineando le curve al momento». Tornò a fissare la tela, ero curiosa in effetti di vedere il risultato.
«Parliamo, questo silenzio mi snerva». Ero sincera, stare così mi ricordava la mia nudità.
«Okay, di cosa?». La sua voce distratta ma pressante al tempo stesso.
«Come ci riesci? Dico.. come diamine riesci a capire quelle cose, si insomma quelle cose sulla gente, come con me in caffetteria». Sbattei le palpebre fissando il sole tramontare.
«Sono sempre stato un tipo attento ai dettagli, la mia mente è iperattiva. Alle volte risulta compulsiva quasi.»
«Cocaina?». Lo dissi scherzando ma ricevetti solo silenzio. Spianai la fronte muovendo di scatto il capo.
«Non muoverti.»
«Cocaina..?». Non so perché fosse vitale per me saperlo.
«Vuoi sapere se sono un tossico come il tuo pseudo fidanzato?». Lo stava rifacendo.
«E tu che diamine ne sai?»
«Questa è facile. Sei bella, sei molto bella, ma abiti in un quartiere orrendo. Avrai attirato attenzioni, facendo due più due il risultato è semplice». Rividi il viso di Juan.
«Forse, ma che ne sai che a me non piaccia?». Lo vidi fermarsi e riporre il pennello, sollevò il capo fissandomi per la seconda volta mentre un lento sorriso delineava le labbra.
«Io questo non l’ho mai detto». Mi aveva battuta, decisamente.
 
Novanta dollari riempivano adesso le mie tasche mentre uscivo dal portone lungo la strada solitaria. Mi sentivo come stordita, bombardata dalle troppe informazioni sconnesse che avevo provato a racimolare su di lui. Non sapevo neppure se fossero tutte esatte, né sapevo il perché mi sentissi così ossessionata.
Attraversai la strada bloccandomi in prossimità della segnaletica, voltandomi a fissare il palazzo alle mie spalle. I miei occhi risalirono lungo le mura finché il cellulare non vibrò nella tasca facendomi sobbalzare. Il numero era familiare.
 
–  Fissare la mia finestra è da stalker.
–  Fissarmi mentre fisso la tua finestra è da psicopatici.
–  Magari lo sono.
–  Rincuorante, ho un debole per i pazzi.
–  Ali di pollo piccanti e birra.
–  Come?
–  Portale la prossima volta, è il minimo dopo i novanta dollari.
–  Ti ho mostrato le tette, non basta?
–  Non me le hai mica fatte toccare.
–  Tu non l’hai chiesto.
 
Riattaccai con un mezzo sorrisino, riuscivo a vedere la sua sagoma, lo salutai sollevando il dito medio e mentre mi allontanavo fui sicura di sentire la sua risata accompagnarmi. Ero andata lì alla ricerca di risposte e mi ritrovavo ore dopo solo con domande scomode tra le mani, ma almeno una cosa l’avevo ottenuta: la scossa. Anche quel giorno aveva assunto un misero significato.

 
 

AJ

 
Azionai il giradischi ascoltando la musica propagarsi nell’aria, riempire le mura incrostate di muffa e pittura scadente mentre occupavo il divano con ancora il lenzuolo spiegazzato ai margini. Chiusi gli occhi respirando profondamente, le mie unghie graffiarono la stoffa consunta, eppure mi piaceva. Non erano odori familiari ma lentamente sembravano esserlo diventati. Riaprii gli occhi osservando la tela appena iniziata, ancora simile ad una piccola larva che deve divenire farfalla. Linee su linee, eppure le mie iridi riuscivano a coglierne l’essenza: la sua. Non pensavo di incontrare la mia musa in un luogo simile, eppure era arrivata in punta di piedi, a suon di parolacce e interrogatori. Il cellulare squillò in quel momento e un’ombra sfrecciò sul mio viso, risposi al quinto squillo.
 
–  La casa è nel caos senza te.
–  Sopravvivrete.
–  Non credo, non resti che tu. Sei l’unico erede, o vuoi lasciare tutto nelle sue mani?
–  Sono andato via per questo, continua ad amministrare al posto mio.
–  Per quanto?
–  Per il tempo necessario.
–  AJ..
–  Se tornassi adesso, cosa pensi succederebbe? Pareti imbottite, e catene ai polsi.
–  Non lo permetterei.
–  Sarò io a non permetterlo.
–  Dimmi almeno dove ti trovi.
–  Nel mio studio, ho finito di dipingere.
–  Molto divertente, intendo il luogo. La città.
–  Non voglio dirtelo, poi dovrei trasferirmi e non voglio. Ho appena trovato qualcosa di interessante.
–  Trovi sempre qualcosa di interessante, a tuo dire.
–  Stavolta è vero. Hai mai visto qualcuno con più occhi che anima?
–  Ho capito, ti sei fatto. Avevi detto che avresti smesso.
–  Non mi faccio da circa due settimane, ora che ci penso dovrei rimediare.
–  AJ.
 
I want to find something I've wanted all along
Somewhere I belong
 
 

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Capitolo 3
*** Revenge ***


III



Bevvi avidamente il caffè seduto sopra la moto intento ad osservare il traffico del mattino, non era particolarmente stimolante né era ciò che cercavo in quel preciso momento. Ciò che cercavo si intrufolò in una bettola pochi minuti dopo, finii il caffè accartocciando il bicchiere, attraversando la strada senza curarmi delle auto. La sala giochi era immersa in una nube di fumo e chiacchiericcio insistente, attraversai diversi tavoli ignorando le occhiate astiose dirigendomi in fondo.
«Sei arrivato finalmente». B-bomb imbucò la palla con precisione rivolgendomi uno dei suoi soliti sorrisi brillanti in contrasto col colore scuro della sua carnagione. Presi posto in uno degli sgabelli liberi accendendomi la seconda sigaretta della giornata, mischiando la mia nube tossica a quella già presente.
«Ho visto il tuo messaggio, dì un po’ non potresti mandare messaggi in segreteria come tutti o chiamare?». Lo sentii sghignazzare venendomi vicino, quella mattina di fronte il mio portone spiccava l’ennesimo graffito, di un blu intenso proprio come il loro colore d’appartenenza. Una semplice parola marchiata a fuoco e seppi con certezza fosse per me.
«Non lo sai? Ormai i cellulari non sono più sicuri, diciamo che le acque sono burrascose al momento». La notte precedente avevo udito spari in lontananza, i Latin Kings avevano ricambiato il servizietto di due giorni prima ai danni di alcuni compagni.
«Cosa ti serve?». B-Bomb mi fissò, così come me nessuno era certo del suo reale nome. Lo avevo conosciuto una vita fa a Los Angeles, ero uno dei pochi bianchi per la quale provava stima, oltre i membri della cricca. Ironico come fossi io quello soggetto al razzismo in quel luogo.
«Mi serve la testa di Juan Hernandez e Carlos Suarez, puoi darmela?». Ci fissammo scoppiando a ridere. Qualcuno mi passò una lattina di birra, bevvi avidamente tirando poi dalla sigaretta.
«Tocca a te staccargliela di netto, non vuoi mica che i tuoi compagni pensino io sia più valoroso di te?». Lo presi in giro beccandomi una finta occhiata truce,sapevo che non era tutto.
«Amico le cose si stanno mettendo male, quei figli di puttana ci stanno sfidando e l’Irlandese non è per niente contento». L’Irlandese, così chiamato nella cricca probabilmente a causa delle sue origini era colui che deteneva il monopolio della filiale lì a Chicago. I Crips erano nati nei sobborghi di Los Angeles anni prima, ma le loro spire ormai coprivano l’intero stato.
«Lo immagino, Raphael era solo un bambino». Il ragazzino di undici anni ucciso tre giorni prima era il nipote di uno dei membri, non l’avrebbero fatta passare impunemente.
«Farò a loro la stessa cosa, donne bambini non me ne frega un cazzo. Qualcuno pagherà.»
«Dovrebbe pagare solo chi è coinvolto, altrimenti saresti uguale a loro». Lo sapeva ma se ne fotteva, in fondo anche loro non erano meglio degli ispanici.
«Juan o Carlos hanno mogli, compagne, figli?». Mi irrigidii appena, il punto era quello e temevo arrivasse.
«Lascia perdere le donne. Carlos vive dove capita e scopa persino le prese d’aria, quanto a Juan..» rimuginai qualche istante e fu il mio errore.
«Ha una donna vero?». Scossi il capo bevendo avidamente la birra.
«Lui la considera tale, ma lei lo detesta». Scrollai le spalle con indolenza lasciandomi scrutare da quegli occhi neri.
«O hai indagato troppo bene, o conosci la puttana». Mi indicò col dito e un sorriso storto, risi senza suono.
«Entrambe le cose, quindi lascia in pace la ragazza. Puoi farlo?». Ci fissammo mutuamente, non ero sicuro mi avrebbe ascoltato. Alla fine sospirò sbattendo a terra la stecca.
«Potrei farlo si. Mi raccomando allora, sei i miei occhi in quella zona di merda.»
Respirai a pieni polmoni l’aria estiva una volta uscito, mentre camminavo a zonzo la mia mente andò indietro di qualche settimana.
 
Bighellonavo nella zona dei Latin Kings come al solito, era tutto noioso e stantio, finché un suono non mi colpì le orecchie. Urla. Urla di una donna ubriaca, e il tonfo di una porta. Fu allora che la vidi mentre correva con quegli improbabili short fiorati e la canotta grigia. Mi colpirono i suoi occhi, e quando un auto l’abbordò mi colpirono le sue pessime conoscenze. Era quindi la donna di Juan Hernandez quella? L’avevo depennata dalla mia mente fino al secondo incontro casuale in quella caffetteria. Se era piombata nuovamente di fronte a me doveva pur esserci un motivo, no? E poi quando mi sarebbero ricapitati ancora degli occhi così?
 

Hope

 
Erano passati esattamente tre giorni, era scomparso l’inchiostro dalla mia mano ma non il suo viso dalla mia mente. A dirla tutta non sapevo se stessi sbagliando io a non andare o lui a non chiamare, eravamo rimasti come sospesi e incompleti un po’ come la tela usata per il mio ritratto.
Un clacson mi costrinse a girarmi, ero sicura di vedere la Mustang rossa di Juan venirmi incontro ma così non fu. Mi chinai e il sorriso della dottoressa Freeman mi fece tornare a respirare.
«Sali, ti do uno strappo fino a casa». Acconsentii e due minuti dopo fissavo i palazzi fatiscenti dal comodo sedile in pelle.
«La ringrazio dottoressa.»
«Chiamami pure Nicole quando non siamo a scuola». Il suo sorriso era dolce, mi permisi di osservarla meglio. Capelli biondi e lievemente mossi lunghi appena sopra il seno, fisico slanciato, trentacinque anni al massimo. Non aveva fede al dito ma all’anulare spiccava un diamante che non passava inosservato.
«Ti sposerai?». Lo indicai e fui certa di vederla arrossire.
«L’anno prossimo, a Dio piacendo». Era credente quindi.
«Non è di Chicago, vero?»
«No, sono nata in California, ho preso un periodo di pausa dall’ospedale per dedicarmi a chi ha bisogno concreto e non può permettersi aiuti economicamente». Chicago era molto concreta, e piena di casi umani ai suoi occhi.
«Sei una brava persona». Le diedi del tu e ne ricevetti in cambio un sorriso simpatico.
«Volevo vederti oggi, ti ho cercata durante la pausa senza successo. Vorrei facessimo più sedute insieme, vorrei non pensassi di essere sola». Strinsi la cartella tra le dita, appena girato l’angolo avrei visto casa.
«Non si getti in cause perse dottoressa Freeman.»
«Nicole». Mi corresse gentilmente nonostante avessi gelidamente usato il cognome di proposito.
«Non ho bisogno di aiuto». Le sorrisi forzatamente uscendo dall’auto, non si mosse finché non mi vide entrare.
Al mio ingresso per poco un piatto non mi centrò in pieno viso deformandomi i connotati, lo schivai appena in tempo voltandomi sbigottita verso la figura dai capelli rossicci.
«Mamma stavi per ammazzarmi». Mi fissò con gli occhi lucidi e annacquati.
«Pensavo fossi un poliziotto». Un che? E da quando i poliziotti possedevano le chiavi di casa? Ma soprattutto da quando li accoglievi coi piatti?
«Sono venuti ancora? Dovresti solo sbattere fuori quel parassita.»
«Parli di te?». Se mi avesse schiaffeggiata avrei gradito di più. Si sedette al tavolo bevendo con mani tremanti.
«Per colpa sua moriremo un giorno di questi, non vuoi rendertene conto?». Mi ritrovai a sussurrare rabbiosamente quelle parole beccandomi un’occhiata velenosa. La porta si aprì di colpo e Carlos insozzò l’aria col suo fetore, era quello il segnale per sparire nella mia camera.
Indossai degli skinny neri in pelle e una maglia lunga e larga piuttosto vecchiotta, era meglio concentrarsi sullo studio e svuotare la mente dallo schifo oltre la mia porta. Riuscii nell’intento solo per un’ora scarsa prima che la mia porta si aprisse con un boato.
«Devi uscire, ho una commissione per te». Conoscevo bene le ‘’commissioni’’ di Carlos.
«Sto studiando.»
«Resti comunque una puttana frigida pure se riempi il tuo cervello di stronzate, muovi il culo». Restai immobile fissando il taglierino vicino a me. Mi sentii afferrare e trascinare fuori, osservai mia madre riversa sul divano, mi fissava come se non mi vedesse. La odiavo.
«MAMMA». Provai inutilmente a metterla in mezzo, non mi ascoltò seppellendo il viso tra i cuscini.
«Prendi questo pacco e imbucalo nella cassetta delle lettere in disuso». Era droga.
«Fallo tu». Lo schiaffo rese rovente la mia guancia. Mi ficcò il pacco a forza tra le mani sbattendomi fuori casa. Senza scarpe. Diedi alcuni pugni all’uscio e un calcio che servì solo a farmi imprecare di dolore. Fissai il cielo, non c’erano stelle quella notte, tirai su col naso i miei occhi completamente pieni di lacrime che non volevano cadere nel vuoto. A piedi scalzi camminavo sul marciapiede, auto chiassose mi superavano ignorandomi o prendendomi per il culo, stringevo il pacco tra le mani convulsamente finché un rumore insistente non attirò la mia attenzione. Era una moto, non mi voltai. E se erano poliziotti in borghese? Sentii la pelle d’oca mentre con la coda dell’occhio la vedevo accostarsi e venirmi sempre più vicina, iniziai a correre e giurai di aver sentito una risata.
«Ma ti piace proprio risultare assurda?». Quella voce ebbe il potere di bloccarmi con un piede ancora in aria. Per poco non caddi mentre fissavo il mio personale Pittore sorridere divertito.
«E tu che diavolo ci fai qui?». Domanda legittima.
«Sono uscito con alcuni amici». Risposta altrettanto legittima della quale non mi fidai, quindi conosceva gente nel mio quartiere?
«Capisco..». Non era vero, non capivo. Tornai a camminare, la cassetta della posta a pochi metri.
«Dove stai andando?». Indicai la sagoma rossa imbrattata di graffiti e ormai abbandonata senza dare altre spiegazioni. Lo vidi fissare il pacco tra le mie mani ma non disse nulla, camminò fianco a fianco con la moto finché non imbucai quella maledetta consegna.
«Vieni con me?»
«Dove?». Lo fissai dubbiosa.
«Credo sia preferibile dormire da me piuttosto che per strada, o no? E poi devo ancora finire il mio ritratto, pensavo ti fossi tirata indietro». Stavo per ribattere ma la sua espressione mi zittì, mi stava prendendo per il culo provando a darmi tutta la colpa di quel silenzio prolungato.
«Vai a farti fottere». Sollevai la gamba salendo dietro di lui, allacciando le braccia ai suoi fianchi.
«Agli ordini.»
«Dì un po’, come mi hai riconosciuta a quella velocità?». Si voltò appena.
«Vuoi che non riconosca il culo più bello di Chicago?». Partimmo al suono rombante del motore e della sua risata, entrambe talmente aggressive da lasciarmi interdetta.
Restai immobile con la guancia sulla sua schiena a fissare il panorama che sfrecciava sotto i nostri giovani occhi, era demotivante sapere che nessuno si sarebbe preoccupato della mia sparizione improvvisa, a nessuno interessava dove dormissi o se uscissi scalza per consegnare droga. Esistevano sul serio quelle madri che rimboccavano le coperte, cucinavano pasti caldi, allacciavano meglio la sciarpa attorno al collo dei propri figli? Dovevo chiederlo alla dottoressa Freeman forse, per qualche motivo ero sicura Aj non avrebbe saputo rispondermi.

 
 

AJ

 
Spensi il motore di fronte casa, attesi di vederla scendere e avviarsi verso il portone per estrarre il cellulare. Pochi tasti, qualche secondo, prima di riporlo e raggiungerla.
«Non hai portato il cibo». Mi fissò cercando di capire se dovesse prendermi seriamente, la lasciai nel dubbio infilandomi nell’androne buio.
«Non vedo un cazzo, esci il cellulare». Le sue imprecazioni mi divertivano, era così poco ‘’femminile’’ alle volte.
«Affidati ai tuoi sensi.»
«Certo, tanto se mi spacco la faccia sarò io a dover subire una plastica». Risi ancora e le presi la mano, non si divincolò e io l’appuntai mentalmente.
«Allora affidati a me.»
«Queste frasette spicce funzionano?»
«Ah ma allora sei di coccio, ti ho detto che se ci provassi te ne accorgeresti». Ero sicuro mi stesse guardando con il desiderio di mandarmi a cagare.
«Certo, certo.»
«Cos’è quel tono? Sei delusa perché non ci provo?». Mi spinse rudemente, incassai il colpo soffocando la risata con un finto colpo di tosse. Aprii la porta lasciandola passare fissandole i piedi scalzi e anneriti. Respirai insoddisfatto facendole cenno di seguirmi.
«Non vorrai mica che posi per te a quest’ora?». Il modo in cui lo disse suonò comico.
«Esiste un’ora specifica per l’arte?». Il mio tono genuinamente curioso le tolse qualsiasi risposta.
«Io dico che è una scusa per vedermi nuda, ancora.»
«Io dico che vorresti lo fosse, ancora». Un’altra botta alla mia spalla e accesi le luci dello studio. Mi diressi verso il divano che aprii senza troppi sforzi indicandoglielo per poi sedermi sullo sgabello. La fissai raggomitolarsi in maniera pressoché identica alla posa usata quel giorno per ritrarla. Non parlammo per un tempo indefinito, limitandoci a fissarci e studiarci, o semplicemente rifletterci l’uno negli occhi dell’altro. Alla fine mi avvicinai sedendomi accanto a lei, la mia mano toccò la guancia arrossata non più rovente.
«Una persona tempo fa mi disse ‘’AJ tu attiri schiaffi’’, non ha proprio conosciuto te». Rise a bassa voce nonostante gli occhi lucidi.
«Quella persona ha ragione, te ne darei uno in questo istante». Non ebbi dubbi sulla veridicità.
«Dovresti darlo a chi ti ha fatto il livido sotto l’occhio o quello al polso, sarebbero schiaffi decisamente più meritati». Ne ero sicuro? Forse no. Alcuni li meritavo anch’io.
«Hai una famiglia?». Restai in silenzio qualche secondo elaborando, persino domande comuni mi suonavano difficili.
«Tutti hanno una famiglia». Scrollai le spalle con noncuranza ma stavolta non se la bevve.
«Tua madre e tuo padre non sentono la tua mancanza?»
«No. E comunque non sono più in vita». Non vidi commiserazione nei suoi occhi, sembrava invidiarmi.
«Sognare la morte della propria madre è un peccato mortale, vero?». Non risposi.
«Dovresti solo muovere il culo e andar via da quella casa». Una smorfia le alterò i lineamenti belli e puliti.
«Juan mi scoverebbe persino all’inferno». Si stoppò consapevole di aver parlato troppo, abbozzai un sorrisino.
«Juan ti ucciderebbe sapendo che dormi con un altro ragazzo?». La fissai in maniera furba.
«Teoricamente dormirò da sola, il ragazzo in questione giura di non volerci provare». Toccò a lei adesso fissarmi in maniera furba.
«Quindi glielo dirai?». Mi puntò spavalda.
«Certo». Che bugiarda.
«Dobbiamo scongiurare il pericolo, non posso rischiare che il fantomatico ‘’Juan’’ sappia di me». Assottigliò lo sguardo senza capire, finché non mi sporsi catturandole le labbra con le mie. Il suo corpo si irrigidì una frazione di secondo, le labbra immobili si mossero appena e infine si schiusero con un sospiro. Fu quello il segnale. La mia lingua invase l’antro caldo della sua bocca, accarezzò la gemella lasciando che la scoprisse, aggrovigliandosi e lasciandosi andare. Sentii le sue dita artigliare la stoffa della mia camicia attirandomi ancora più vicino, non che volessi allontanarmi in quel momento. Era elettrizzante, un po’ come dipingerla completamente nuda. Sospirai all’interno della sua bocca prima di lasciarla andare, respirava veloce e le sue labbra erano arrossate.
«Juan ti staccherebbe la testa per questo.»
«Dì a Juan che ‘’giuro di non volerci provare’’». Mi alzai con un mezzo sorriso ascoltando la sua risata quasi sospirata, vi era scherno nel tono.
«Baci tutte le tue modelle?». Finsi di pensarci attentamente.
«Solo quelle che come te so ci starebbero». Provò a strapparmi la maglia da brava donna infuriata ma sgusciai velocemente fuori dalla stanza.
 
 

Hope

 
Perché tutti gli uomini che giravano come satelliti in quel pianeta che era la mia vita, dovevano essere dei fottuti bastardi? Tutti in maniera diversa ovviamente, sia mai mi abituassi alla tediosa routine per carità. Soffocai un’imprecazione contro il cuscino, ero stesa in quella maledetta stanza dall’odore di tempera da ore, o almeno così pensavo. Quel maledetto viscido stronzo infame probabilmente dormiva della grossa nella sua stanza, sarei voluta andare ai piedi del suo letto e sgozzarlo. Mi misi a sedere puntando lo sguardo oltre la finestra, sul muro di fronte spiccava il marchio distintivo dei Crips, non che ne fossi stupita quella era la loro zona. La mia mente tornò a dissociarsi pensando al bacio avvenuto in quel divano, che cosa significava per lui? Probabilmente un cazzo. Probabilmente era stato una specie di gesto di pietà nei miei confronti, o semplice orgoglio maschile quando avevo citato Juan. Sospirai riavviandomi i capelli alzandomi in punta di piedi per imboccare il corridoio, aprii piano la sua porta intravedendo la sagoma stesa sul letto. Era nudo? Soffocai uno sbuffo roteando gli occhi, non aveva il minimo pudore quello stronzo infame. Continuai a fissarlo finché non sentii le molle del letto cigolare, col cuore in gola scappai nuovamente nello studio seppellendomi sotto le lenzuola. Cercai di udire altri rumori, si era svegliato? Mi aveva visto? Mi addormentai preda dell’ansia senza rendermene conto.
 
Un rumore impercettibile, un respiro appena più profondo, mugugnai accarezzandomi l’addome scoperto. Ci misi qualche istante a ricordare tutto, i miei occhi si aprirono e la prima cosa che vidi fu Aj seduto intento a fissarmi. Balzai a sedere.
«Da quanto sei lì?». Mi sorrise col suo solito modo di fare accattivante.
«Ha importanza?»
«Ovvio. Osservare la gente mentre dorme è da pazzi». Lo indicai sbuffando.
«Quindi sei pazza». Silenzio. Mi aveva visto ieri, merda. Non risposi schiarendomi la voce, lo vidi alzarsi e afferrare un bicchiere di carta che mi passò. Caffè, sorrisi senza un reale motivo bevendo con gusto.
«Come sai che mi piace zuccherato?». Lo guardai dal bordo fumante.
«Consideri la tua vita troppo amara, prediligi le cose dolci». Lo stava facendo ancora, era impossibile averla vinta con lui e quella sua mania d’osservare.
«Hai avuto solo fortuna, ammettilo e falla finita». Tornai a bere fissando oltre la finestra, sapevo di dover tornare a casa ma non volevo.
«I tuoi vestiti sono sulla sedia». Annuii senza particolare enfasi, avevo saltato nuovamente la scuola.
«Grazie per l’ospitalità». Continuai a non guardarlo ma sentii chiaramente i suoi passi dirigersi verso la porta, stava uscendo.
«Domani». Stavolta mi venne impossibile non guardarlo.
«Domani cosa?»
«Domani continuiamo il ritratto, ti aspetto nel pomeriggio sii puntuale». Uscì così come suo solito, come un ladro esperto a cui avevano consegnato una copia delle chiavi. Iniziavo a detestarlo. Ma mentre mi vestivo capii quanto mentissi a me stessa.
 
Le urla dentro casa mi accolsero già dal primo gradino, mi feci coraggio inserendo la chiave nella toppa ed entrando. La mia faccia sbigottita accolse Juan che mi veniva incontro mentre Carlos imprecava e mia madre fumava nervosamente.
«DOVE CAZZO STAVI». Dovevo dargli spiegazioni?
«Eravamo preoccupati». Juan fu più pacato, ma il mio viso dubbioso non ebbe tentennamenti. Da quando si preoccupavano per me?
«Che succede?». Perché era ovvio fosse successo qualcosa. Juan mi circondò le spalle con un braccio.
«Ieri dopo la tua consegna alcuni membri dei Cruz – altro nome dei Crips – hanno fottuto la partita di droga bruciandola in mezzo alla strada». Le urla di Carlos coprirono la voce di Juan che mostrava tensione dalla rigidità del corpo. Mia madre mi fissò.
«Non ho visto nessuno in strada quando..» la mia voce morì sul finale, sospettavano di me? Carlos sembrò leggermi nel pensiero.
«Se scopro che è tutta opera tua ti uccido, lurida puttana..» non finì la frase provando ad avventarsi ma Juan fu più veloce mettendosi in mezzo.
«Piantala Carlos lei non c’entra». Non sapevo per cosa mostrarmi più impaurita, se per Carlos o per la preoccupazione di Juan.
Per la seconda volta nell’arco di poche ore mi trovai trascinata fuori da casa mia. Stavolta però al mio fianco c’era Juan, non Aj. Provai a convincermi che andava bene così. Una cosa era certa, qualcuno aveva fatto una soffiata ai Cruz .. ma chi?
 
«Dove hai dormito stanotte?». Fissai il mio pseudo fidanzato senza saper bene cosa dire.
«In strada». Pessima bugia, ma conoscendo Carlos e le mie poche interazioni sociali era credibile.
«Perché non sei venuta da me?». Mi fissò con occhi indagatori e non seppi cosa rispondere.
«Ascoltami bene Hope, se scopro che provi a fottermi ..Carlos sarà l’ultimo dei tuoi problemi». Mi sorrise e la sua carezza mi raggelò il cuore.
 

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Capitolo 4
*** Baby, it's a wild world ***


IV

Taglia, allinea, avvolgi la banconota, tira e perditi.
Taglia, allinea, avvolgi la banconota, tira e perditi.
Taglia, allinea, avvolgi la banconota, tira e perditi.
 
 

Hope

 
Seduta al tavolo della mensa fissavo il grande orologio di fronte a me provando a scovarmi dentro poteri psichici che spingessero in avanti le lancette, tornai a guardare il mio vassoio quasi intatto. Quel giorno servivano cotolette a scuola e gli studenti attorno a me sembravano felici. Scartai gli alimenti solidi aprendo il succo di frutta che bevvi avidamente, la temperatura fuori iniziava a essere più gradevole, ottobre era già a metà e senza rendercene conto saremmo piombati dritti nel Natale. Ma nella mia vita quella festa era bandita, niente canti natalizi o pupazzi di neve. La sedia di fronte la mia si mosse, sollevai gli occhi incontrando quelli azzurri di Nicole che mi sorrise.
«Ti ho vista tutta sola e ho pensato di tenerti compagnia, non ho sedute per le prossime due ore.» Continuava ancora a girarmi intorno e per quanto io la scacciassi iniziavo ad abituarmi alla sua presenza.
«Quindi ha pensato bene di tenersi in allenamento psicanalizzando me». Pensavo l’avrei offesa, mi stupì sentirla ridere e il senso di colpa divenne pressante.
«Voglio solo conversare, anche se ci credi poco». Sbocconcellò la mela svogliatamente, evidentemente eravamo in due a non avere appetito.
«Okay, conversiamo allora, domandi pure». Perché sapevo ci fossero delle domande.
«Tua madre non si è mai presentata alle riunioni né alle attività ricreative..» tentennò un po’, era evidente sapesse di addentrarsi in un campo minato. Mi guardai attorno, le voci divennero ovattate e io mi dissociai totalmente.
«Lei ha una madre dottoressa? – annuì con cautela cercando di capire dove volessi andare a parare – suppongo sua madre sia una ‘’madre’’.»
«La tua non lo è?». Non lessi pietà nei suoi occhi, era un passo avanti.
«E’ questo il punto. Lei non potrà mai capirmi, perché non c’è passata, non ha mai vissuto una situazione simile. Sua madre probabilmente l’ha sempre spronata a inseguire i propri sogni, a non demordere solo perché ‘’donna’’ a non sentirsi discriminata, le avrà fatto regali di compleanno, sarà stata presente alla sua laurea, avrà ascoltato le sue confidenze sui fidanzati. Avrà..» non riuscii a proseguire, piangevo senza neppure rendermene conto e il fiato mi mancò. La sua mano coprì il dorso della mia.
«Io penso che tua madre sia ancora lì, purtroppo esistono dei demoni che possiedono il nostro corpo senza poter far nulla. Quello di tua madre è l’alcool». Non volevo la giustificasse.
«Penso che se morisse non verserei neppure una lacrima». Tirai su col naso e mi sentii una bugiarda. Asciugai i miei occhi schiarendomi la voce.
«Vedo spesso un ragazzo girarti intorno – non so perché pensai stupidamente ad Aj – è Juan Hernandez, e non è raccomandabile». Risi senza un motivo apparente.
«Oh dottoressa, lei ha proprio l’indole da crocerossina». Mi fissò severa per poi ridere, non ero riuscita ad offenderla neanche stavolta.
«Ciò che voglio dire è che aspettare la manna dal cielo è sbagliato Hope, se la tua vita non ti piace smettila di circondarti di persone che possono solo peggiorarla. Come Hernandez». Juan aveva decisamente una vasta, nonché pessima, reputazione.
«Ho conosciuto un ragazzo». Non so perché lo dissi, forse avevo sul serio bisogno di amiche.
«E com’è?». I suoi occhi si riempirono di curiosità e divertimento, forse a causa del mio viso.
«E’ uno stronzo, ma bello. E dipinge. Dipinge me». Sorrisi fintamente orgogliosa, lei se ne accorse e rise.
«Non fatico a crederci, sei così bella da affascinare chiunque. Anche il tuo bel pittore». Restammo in quel tavolo per un tempo infinito che durò troppo poco. Quando mi alzai da lì la mia cartella sembrava più leggera e sentivo di aver trovato un’amica.
 
Il murales blu dei Crips era stato coperto da altri scarabocchi, suonai il citofono attendendo di sentire la sua voce. Non arrivò. Due minuti più tardi – e altrettanti squilli dopo – sentii solo il portone aprirsi. Era stata una bella giornata, nei limiti, e man mano che salivo le scale sentivo la trepidazione crescere a dismisura. Era sbagliato farsi coinvolgere tanto da qualcuno che neppure conoscevi, non sapevo il suo nome né chi fosse, poteva pure essere un killer su commissione per quanto ne sapevo.
Osservai la porta socchiusa e percepii qualcosa di diverso che non seppi catalogare. Richiusi l’uscio avviandomi verso il corridoio che ormai conoscevo bene e finalmente lo vidi. La stanza era nel caos, tele distrutte e squarciate gettate a terra, la mia – una delle poche superstite – giaceva contro il muro ancora incompleta. Osservai le sue spalle ricurve sul tavolo mentre tirava una striscia di coca con una banconota da cinquanta dollari. I miei probabilmente.
«Oggi non si dipinge, non ho ispirazione». Il suo tono nervoso, diverso dal solito.
«Che stai facendo?». Domanda banale, probabilmente lo pensò anche lui.
«Va via». Tirò su col naso, gli occhi rossi e aridi, il suo corpo si muoveva a scatti e quasi teso.
«Quindi era vero, tiri coca». Non riuscivo a crederci, attesi che il disgusto mi inondasse come succedeva con Juan, ma mi accolse solo il silenzio.
«Essere me non è semplice». Le dita affusolate si insinuarono tra i capelli già spettinati.
«E’ la scusa che ti dai?». Lo guardai sprezzante e ne ricevetti in cambio uno sguardo di puro astio.
«Oppio, cocaina, marijuana, ecstasy qualsiasi cosa distragga le voci dal mio cervello». Si picchiettò la tempia con l’indice, riuscivo ancora a vedere Aj oltre quella patina.
«Quella merda ti fa solo scoppiare il cervello.»
«Che cazzo ci fai qui?». Il tono aggressivo mi fece indietreggiare, adesso lo riconoscevo a stento. Il sorriso era solo una smorfia, il pallido riflesso di ciò che era stato.
«Sei stato tu a chiedermi di ..» non riuscii a finire il discorso, per cosa mi stavo giustificando esattamente?
«Sei soddisfatta adesso?». Lo fissai dubbiosa.
«Dovrei?»
«Hai provato a capire fin dal nostro primo incontro, sei soddisfatta adesso? Sei soddisfatta di vedere la mia vita in pezzi come la tua?». I miei occhi si inumidirono, quella era una cattiveria che non ero sicura di meritare. Forse ero stata invidiosa di lui si, mi resi conto di essermi fermata solo all’apparenza.
«Sei un bastardo.»
«Lo diceva spesso anche mio padre, e forse mia madre gli avrebbe dato ragione se solo mi avesse conosciuto». Tornò a chinarsi e tirare un’altra striscia perfettamente allineata, stava parlando di se e per un attimo il fatto che lo stesse facendo sotto l’effetto di droghe passò in secondo piano. Volevo continuare ad ascoltare e mi avvicinai.
«Sei incuriosita Hope – il mio nome assunse nuovi significati, colori, sfumature e profondità – sei così ossessionata dall’idea che hai cucito di me.»
«Non sai ciò che dici». O forse lo sapeva sin troppo bene.
«Hope. Hope. Hope. Quando ti conobbi pensai avessi un bel nome, faceva proprio al caso mio – mi sorrise – perché tutti abbiamo bisogno di una patetica speranza. Di qualcosa che zuccheri le nostre vite, le edulcori abbastanza. Che ci faccia stare a galla.»
«E’ per questo che volevi ritrarmi?». Non rispose alzandosi e iniziando a camminare in circolo.
«Devi sparire». Sollevò le mani scacciando l’aria e con essa anche me. Mi sentii rifiutata anche da lui.
«Sai che c’è di nuovo? Sei come tutti gli altri, un patetico stronzo che si finge superiore solo quando usa colori e pennelli, ma in realtà sei solo un comunissimo ragazzino immaturo». Avevo il fiatone. Lo vidi accucciarsi al pavimento e fissarmi.
«Ho conosciuto puttane che si spogliano per molto meno di cinquanta dollari, avrei dovuto chiedere a loro». La mia rabbia si diramò in ogni arto, oscurò i miei occhi, mi coprì come una coltre salendo sino al cervello. Non ebbi più controllo del mio corpo mentre urlavo avventandomi contro di lui. Le mie dita artigliarono la maglia, la sentii lacerarsi ma ciò che non sentii fu la sua resistenza e quando me ne accorsi era già troppo tardi. Le mie unghie avevano graffiato la pelle e strappato la sua maglia, steso sul pavimento mi fissava senza alcuna sorpresa.
«Sei contento adesso?». Mi fissai le mani, tremavano.
«Dovresti usare questa rabbia più spesso, la gente eviterebbe di calpestarti». Ne ebbi abbastanza dei suoi giochini subdoli, girai i tacchi correndo via da quella stanza, da quella casa e da lui. Avevo chiuso. Mi venne in mente Nicole e le cose che le avevo confidato, mi sentii ancora più patetica.
 
Juan dormiva a pochi metri da me completamente nudo, mi coprii sentendo improvvisamente freddo. Un freddo che penetrava le mie ossa. Mi misi a sedere fissando il tramonto infuocato oltre il balcone, anche quello sembrava privo di colori. Tutto era assenza. La tavolozza del pittore sparita come lui, non lo sentivo né vedevo da dieci giorni, la mia vita era piombata nuovamente nella ciclica e letale routine che mi ero forgiata con le mie mani. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’espressione del suo viso mentre tirava col naso quella disgustosa polvere bianca. Anche quell’immagine appariva in bianco e nero, mi guardai le mani e anche queste persero colore. Sentivo la gola riarsa, il letto cigolò e un sospiro mise fine alla mia agonia.
«Sei sveglia? – annuii senza guardarlo – vestiti e fatti bella, stasera andiamo al locale». Il ‘’locale’’, la bettola preferita da alcuni membri dei Latin Kings, musica latina, rum a fiumi e tanta dissolutezza. Non era male, togliendo Juan e tutta la sua cricca. Sospirai alzandomi dal letto, trascinandomi addosso il lenzuolo spiegazzato dalle futili stampe floreali.
 
‘’Hope. Hope. Hope’’, la lenta cadenza che scandiva il mio nome accompagnava ormai i miei passi, il modo in cui lo aveva pronunciato era impossibile da scordare. La musica impazzava dentro il locale dalle luci soffuse, corpi avvinghiati ballavano anche se personalmente ero sicura stessero copulando. Un braccio mi cinse le spalle, istintivamente abbassai la minigonna a jeans lungo le cosce guardando Juan.
«Ti diverti?». Beh.. no?
«Molto, hanno cambiato gestione di nuovo?». Osservai il barman, non lo conoscevo.
«Si, vieni ti presento un amico». Conoscevo tutti gli amici di Juan, era un nuovo membro della gang? Mi afferrò la mano, le fissai entrambe con una smorfia prima che i miei occhi non si posassero su una figura di spalle poggiata al bancone. Era familiare.
«Ti presento Aj, ci siamo conosciuti giorni fa.»
 
Sentii un buco nero spalancarsi sotto i miei piedi.
 

AJ

 
Minigonna, una maglia bianca corta e aderente lasciava scoperto l’ombelico. Era impossibile non fissarla, non notarla, non pensare cose assurde. Il viso di Juan si frappose tra noi due, sorrisi adesso padrone di me, il fatto che fosse sbiancata e tremasse non mi sfuggì, forse pensava fossi lì per farla uccidere?
«Lei è Hope, la mia donna». Il tono possessivo era così disgustoso e degradante, sorrisi ugualmente inarcando un sopracciglio.
«Hai proprio buongusto». Soltanto lei capì il retrogusto mordace della mia affermazione, Juan si limitò a ridere.
«Tienimela d’occhio, chiamo i ragazzi». Si allontanò così lasciandoci soli a squadrarci.
«Che diavolo ci fai qui?». Attaccò lei riprendendo lievemente colore.
«L’ho conosciuto qualche giorno fa, il dove non ti piacerebbe». La fissai ambiguamente e lei capì. Chissà se era gelosa del sapere che il suo fidanzato andava con le puttane.
«Vai a puttane?». Forse non lo era, no.
«Te l’ho detto, cerco qualcuno che si spogli per me e si lasci ritrarre». La ferii ancora. Bevvi avidamente la mia birra, le sue dita si toccarono le braccia come se avesse freddo. Eppure in quel posto c’erano circa cinquanta gradi percepibili. Afferrai il mio chiodo nero gettandoglielo tra le braccia.
«Bel giubbotto.»
«Mettilo, e la prossima volta pensaci bene prima di uscire nuda». Le fissai le cosce e fui certo di vederla arrossire.
«Come conosci Juan?»
«Te l’ho detto, è stato un caso». Non mi credeva. Risi divertito.
«Se volevi vedermi bastava chiamarmi». Reclinai il viso fissandola incuriosito.
«Sei sicura quindi fosse una scusa per vedere te?»
«Non lo è?». Ci sperava. Mi morsi l’interno della guancia adocchiando Juan poco distante, mi sorrise sollevando un bicchiere, non ricambiai.
«Ho pensato avessimo chiuso, no?». Non capì probabilmente che cercavo una conferma.
«Tiri ancora?». Era questa la cosa importante?
«Ti diverte molto metterti in croce per gli altri, vero? Se proprio vuoi saperlo, non succede spesso, è qualcosa che – ponderai bene le parole – è solo qualcosa che capita. Ti consiglio comunque di non curarti troppo dei miei problemi, ne hai uno proprio alle tue spalle». Si voltò in tempo per vedere Juan ed Eric venirci incontro.
«Allora avete fatto amicizia?». Evitai di ridere sarcasticamente, e Hope non rispose. Non credo avessimo mai affrontato la tappa dell’amicizia noi due, anzi ad oggi penso sia impossibile.
«Hai una fidanzata taciturna». Ridemmo entrambi e Hope mi corrose con un’occhiata.
«Aj viene da Detroit». La vidi fissarmi cercando di capire se fosse o meno la verità.
«Già». Il mio laconico commento le tolse qualsiasi dubbio: avevo mentito.
«I suoi genitori lavorano in fabbrica e lui sopravvive con lavoretti racimolati per caso». La vidi faticare nel mantenere un’espressione neutra. Avevo esagerato con le stronzate?
«Ma che bravo ragazzo». Il sarcasmo grondava da ogni poro. Risi involontariamente, Juan ci fissò stranito ma non ebbe il tempo di ribattere. La musica si stoppò improvvisamente sovrastata dal rumore di spari. La prima cosa che fece Juan fu estrarre l’arma, la prima cosa che feci io fu afferrare il polso di Hope e trascinarla a terra.
«Stai bene?». Ci guardammo e annuì. I Cruz non si annunciavano mai suonando il campanello. Vidi B-Bomb marciare in testa con il mitra in mano. Bicchieri frantumati e urla isteriche non riuscivano a coprire quelli delle armi. Juan disse qualcosa ma non lo sentii, approfittai della sua distrazione per trascinare Hope via da lì verso l’uscita laterale.
«Che cazzo sta succedendo?». Era nel panico.
«Sul serio non lo sai? – correvo fissandola poco convinto, la sua espressione restò immutata – CAZZO NON LO SAI SUL SERIO». Corsi più veloce fino alla moto, estrassi le chiavi dai jeans e il motore ruggì, le feci cenno di salire allontanandomi dal Poco Loco e dagli spari.
 
«Perché i Cruz erano lì?». Scese come una furia di fronte casa sua.
«Ricordi Raphael? – annuì come se temesse il continuo – era il nipote di uno dei ragazzi dei Crips, vogliono la testa di Juan e Carlos, insieme a molte altre». Sbiancò barcollando, le afferrai il braccio trattenendola ma si scostò inferocita.
«Hanno visto anche te, adesso vorranno anche la tua testa e tu vivi nel loro quartiere». Quindi era preoccupata per me? Le sorrisi divertito premendo l’acceleratore.
«Non preoccuparti, sopravvivrò». Non dissi altro allontanandomi da lì, sentendo i suoi occhi sulla mia schiena. Sembravano mandarmi a fuoco.
 

 

Hope
 

Il giubbotto riposto ordinatamente sulla gruccia, appeso allo specchio, mentre lo fissavo seduta sul mio letto. Dovevo mettere insieme i pezzi, sentivo la mente confusa dalle troppe informazioni. Aj aveva mentito a Juan sul suo passato, il che non era poi così assurdo visto che non parlava neppure a me della sua vita. I Crips volevano lo scalpo di Juan, avevo sentito Carlos parlare con mia madre e a quanto pare durante la sparatoria era rimasto ferito al braccio mentre alcuni suoi amici ci erano rimasti secchi. Mi coprii il viso con le mani, tremavano ma non me ne curai. Sarebbero andati a cercare anche lui? Lo avevano visto con Juan, magari pensavano erroneamente facesse parte dei Latin Kings. Erroneamente? Se non per me, per chi e cosa si era spinto fino a quel punto? Perché diventare amico di Juan? Ecco, quelle erano le tessere che non riuscivo a incastrare. La luna fece capolino da una nuvola, la sua luce fece brillare un oggetto metallico ai miei piedi: le sue chiavi di casa. Le afferrai fuggendo come una ladra dalla mia stessa casa, attenta a non farmi vedere da nessuno nel cuore della notte.
 
La mezzanotte era ormai passata da venti minuti, le chiavi girarono nella toppa e io sgusciai veloce dentro l’androne buio e odoroso di muffa, persino quelle stupidaggini sembravano divenute una routine. Salii lentamente poggiandomi al corrimano, dovevo riprendere a fare sport o quelle scale mi avrebbero decisamente distrutta. La porta chiusa mi si parò davanti, rigirai le chiavi tra le dita indecisa, magari dormiva? Gliele avrei lasciate sul comodino in quel caso andando via. Annuii decisa e finalmente aprii, non sentii alcun rumore ma la luce dello studio era accesa, quindi non stava dormendo. Silenziosamente percorsi il corridoio, sentii una voce che non era familiare ed ebbi un cedimento ma ormai era tardi, aprii lentamente osservando la scena che mi si parò di fronte: seduto sul solito sgabello, la tela di fronte a se e il pennello tra le dita mentre una ragazza nuda stesa sul letto posava per lui. Non so perché risi, non c’era un cazzo da ridere in effetti.
«Ecco svelato il mistero delle chiavi». Non mi guardò impegnato a fissare la ragazza che dal canto suo invece mi osservava basita.
«Non pensavo di disturbare.»
«Ormai il danno è fatto». Lo incenerii con un’occhiata, non aveva colto il mio sarcasmo quindi? Strinsi le chiavi tra le dita cercando di mantenere la calma. Sostituita. Ecco come mi sentivo, era quella la parola che balzava da parete a parete nel mio cervello, come una pallina impazzita lanciata con troppa forza. Quindi bastava un corpo qualsiasi per prendere il mio posto? Ma certo. Almeno Juan non sembrava riuscire a rimpiazzarmi, a differenza sua. La cosa però non sembrava consolarmi. Sentii i suoi occhi su di me, ma io non riuscivo a distogliere i miei da quel letto sfatto e da quel corpo nudo.
«Ti paga?». La mia voce non sembrava mia. La ragazza si mosse a disagio tra le lenzuola.
«No, lui non paga mai è solo un.. passatempo». No? Non sapevo come prenderla. Tornai a fissarlo.
«Pensavo avessi chiuso con me». Oh che bastardo. Risi ancora.
«Non propinarmi stronzate, è solo questo che fai da quando ci conosciamo, no?». Non rispose, e mi fece male e rabbia al tempo stesso.
«Sto solo cercando qualcuno come te.»
«Direi che sei sulla buona strada». Indicai la ragazza, non l’avevo guardata benissimo ma la sua bellezza non passava inosservata.
«Sono sulla pessima strada». Non mi guardò pulendo il pennello, l’odore impregnò le mie narici. Era solo uno stronzo come tanti, scossi il capo ripugnata da me stessa e dagli sciocchi pensieri che mi avevano fatto vivere nella stupidità voltandogli le spalle. Riuscii a percorrere circa tre passi prima che la sua mano si serrasse sul polso, trattenendomi. Provai a divincolarmi.
«Mollami subito». Non lo fece, grazie a dio.
«Dovresti andare». Non lo disse a me ma alla ragazza sul letto che dal canto suo stava già rivestendosi, percepiva anche lei la sensazione di essere superflua? Io si, fino a due minuti fa era esattamente così che mi sentivo.
«Ti è finita l’ispirazione?». Lo beffeggiai crudelmente.
«Non è mai iniziata a dirla tutta». Come sempre non si piegò ai miei mezzucci. Il tonfo della porta e fummo soli. Mi lasciò andare solo in quel momento tornando a sedersi sullo sgabello, afferrando il pacco di sigarette per accenderne una. Mi lasciava sul serio basita, era normale? O ero io quella anormale? Percorsi i pochi passi che mi separavano dalla poltrona dove mi accomodai, sentivo ogni fascio di nervi pronto a scattare e con la coda dell’occhio vidi il mio ritratto incompleto ancora poggiato al muro. Lo indicai.
«Non lo hai distrutto alla fine?». Seguì la mia traiettoria nonostante sapesse a cosa mi riferissi.
«Speravo di trovare qualcuna che potesse sostituirti, magari solo il corpo se non il viso. Ma non ho avuto successo». Sollevò le spalle lasciandomi sbigottita.
«Non credo di essere così unica.»
«Non vedi oltre, è questo il tuo problema. Pensi che ritrarti voglia dire solo conoscere la misura delle tue tette? Pensi sia solo quello che dipingo?». Sembrò offeso per la prima volta, e mi sentii quasi in colpa.
«Smetti di frequentare Juan». Mi sorrise sghembo.
«Temi gli dica che posi nuda per me? O che ti ho baciata? O che presto faremo sesso?». Aprii più volte la bocca per parlare, ma ci riuscii svariati tentativi dopo con suo sommo divertimento.
«Faremo sesso?». Non mi venne niente di brillante a parte quello.
«In effetti non mi dispiacerebbe». Ecco, un minuto prima mi lasciava accaldata e l’attimo dopo ustionata a causa della rabbia.
«A me si». Sorrisi a denti stretti.
«Dovresti allontanarti tu da Juan, la situazione diventa sempre più tesa Hope. I Cruz prepareranno una vendetta coi fiocchi, questi assalti sono solo un antipasto». Sembrava parecchio informato.
«E io che c’entro?». Ci fissammo.
«Non risparmieranno sicuramente la fidanzata di Juan». Mi raggelai, non volevo morire. Lo avevo pensato spesso si, ma non volevo sul serio ..insomma. Volevo un sacchettino e lui lo capì. Mi venne vicino trascinandomi sul divano aperto, stendendomi quasi a forza per poi imitarmi. Si girò su un fianco continuando a guardarmi.
«Non posso lasciarlo, nessuno lascia Juan Hernandez è lui che al massimo ti getta via». Attendevo lo facesse da un anno.
«Il problema non è lasciare solo Juan, ma tutta la tua vita. Quando avrai il coraggio di vedere, vedere davvero, lo capirai». Io lo capivo già, ma appunto mancava il coraggio. Chiusi gli occhi sentendomi stranamente tranquilla con le sue dita sulla mia schiena.
«I tuoi genitori lavorano in fabbrica, eh?». La mia voce strascicata non perse l’ironia, sentii la sua risata attutita dal cuscino, era piacevole.
«Quantomeno adesso so il perché.»
«Il perché di cosa?». Mi sentivo andare alla deriva.
«Il perché preferisci me a lui». Non riuscii a rispondere, la mia lingua non rispondeva ai comandi e il mio corpo era intorpidito. E poi che bugia avrei potuto propinargli di fronte a quella disarmante verità?
 

 

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Capitolo 5
*** Perdition ***



 

V


Osservai il mio riflesso allo specchio applicando con tenacia l’eyeliner, non ero mai stata bravissima nella cura dei dettagli quindi mi assicurai che la mia mano non tremasse, la linea non fosse storta e che non apparissi eccessiva. Lucidalabbra rosato, un po’ di fard ed ero pronta. Indossai dei semplici pantaloni bianchi dalla vita molto bassa, con la mia magrezza alle volte eccessiva potevo permettermeli, e una canotta a righe blu. Misi il giubbotto e fuggii da casa senza avvisare nessuno, in fondo a chi importava?
Il tempo è un ladro. Non ricordo dove lo lessi ma per qualche motivo sembrò restarmi impresso, in fondo non ero molto d’accordo insomma il tempo toglieva tanto ma in egual modo donava, stava a noi approfittarne e centellinarlo in maniera sapiente. A diciassette anni erano quelle le mie conclusioni. Centellinavo il mio tempo, anzi no io lo donavo totalmente a un’unica persona ormai, Aj riempiva gran parte del mio tempo libero. Snocciolavo con maestria ormai a Juan scuse per non vederlo, non sapevo quanto sarebbe durata né volevo pensarci.
Suonai il citofono e stavolta la risposta arrivò immediata, salii sorridendo le scale che se all’inizio mi erano sembrate infinite e affaticanti, adesso venivano percorse quasi automaticamente. Probabilmente anche per lui era stato così all’inizio, poi era subentrata l’abitudine. Attendevo che arrivasse anche nel nostro ‘’rapporto’’ – se così potevo chiamarlo – ma non ero sicura di volerlo. Nonostante tutto ciò che portava quel ragazzo fosse assurdo e pazzo, a me in qualche modo piaceva. Piaceva davvero. Stava di spalle a fissare qualcosa oltre la finestra, ne approfittai per sistemarmi i capelli, un auto passò con la musica a tutto volume. Quel giorno indossava i pantaloni di una tuta rossa e una maglia bianca, la natura era stata fin troppo generosa con lui era uno smacco all’orgoglio di molti seriamente. Si girò in quell’istante e i nostri occhi si soppesarono, sorrisi alzando la mano in segno di saluto.
«Scusa il ritardo». Cinque minuti non di più, ma conoscendolo pensavo di ritrovarlo steso a terra in preda alle convulsioni. Avevo scoperto con sorpresa quanto fosse perfettino in molte occasioni, nonostante la pessima impressione di quella ‘’famosa’’ sera. Non mi rispose limitandosi a superarmi e uscire dalla stanza, restai immobile senza sapere bene che fare, dove diavolo era andato? La mia domanda trovò risposta una manciata di secondi dopo quando riapparve con in mano un piccolo telo che mi lanciò letteralmente addosso: era zuppo.
«Per prima cosa lavati la faccia». Non lo aveva detto sul serio.
«Perché dovrei?»
«Perché ti sei truccata? Volevi fare colpo su di me?». Mi sorrise impertinente come al solito, lo detestavo. Sinceramente. Davvero.
«Hai una mente ristretta se pensi che mi trucchi per far colpo su di te». Il fatto che ci avesse preso in pieno mi lasciava basita.
«E menomale, non sei neppure brava. Hai messo male l’eyeliner e hai troppo fard. Toglilo o non inizieremo mai». Sollevò le spalle con noncuranza dopo avermi praticamente accoltellato a tradimento varie volte. Ma come faceva?
«Mi chiedo come tu faccia a fare schifo con tanta nonchalance.»
«E’ una dote di natura». La sua risata era l’unica cosa a restare immutata nei miei ricordi. Prese posto sul solito sgabello aspettando pazientemente che togliessi il trucco dal mio viso ed infine i miei abiti. Osservai il riflesso del mio corpo allo specchio, ero dimagrita ancora. A casa il cibo non abbondava, e il più delle volte mi passava semplicemente la fame al solo guardare Carlos e mia madre.
La posizione della ‘’culla’’, l’avevo chiamata così. Accarezzavo con i polpastrelli i piedi nudi, fissavo fuori dalla finestra sgomberando la mente. Detestavo ammetterlo ma posare nuda non era più imbarazzante, anzi, era un momento di stasi quasi, come se tutto attorno a me si fermasse e io fossi libera di spaziare con la mente guardando fuori da quel piccolo scorcio di città.
 
«Ho fame». Si stiracchiò sbadigliando sonoramente e io ripresi contatto con la realtà. Da quanto stavo ferma in posa?
«E’ già così tardi?». Quel pensiero mi intristì.
«No, sono solo le quattro del pomeriggio». Reclinò il viso fissandomi con attenzione, il modo che aveva di guardarmi non sarei riuscita a spiegarlo neppure volendo. Qualcosa di viscerale e a tratti imbarazzante nonché doloroso, come se scavasse al centro del mio petto con quelle iridi ingannevoli dal colore indefinito. Mandai giù la saliva coprendomi col lenzuolo, stavolta ero imbarazzata.
«Ho fame anch’io». Mi toccai lo stomaco e la sua risata mi contagiò. Si alzò di fretta andando verso la cucina, salvo poi tornare due minuti dopo con quell’aria furba da bambino beccato con le mani dentro la cioccolata.
«Oggi proverai le gioie del fare la spesa. Con me». Mi indicò gli abiti come se fossi talmente idiota da uscire di casa nuda o coperta dal lenzuolo, mi chiedo spesso il perché non gli tiri mai in faccia qualcosa. Sospirai vestendomi in fretta, dopo aver nominato il cibo non riuscivo a pensare a nient’altro, quel ragazzo era seriamente contagioso. Infettava le mie voglie e i miei pensieri.
 
«Il minimarket non dista molto». Annuii distrattamente troppo presa dall’osservare la differenza abissale tra le nostre altezze, aveva mai giocato a Basket? Sarebbe stato perfetto come pilastro o canestro. L’uno accanto all’altro percorrevamo i pochi isolati che separavano l’appartamento dal discount. Ero talmente distratta che non lo sentii imprecare e bloccarsi; mi voltai confusamente muovendo due passi indietro.
«Cosa c’è?». Lo sentii respirare profondamente, la lingua umettò il labbro inferiore e un lento sorriso venne a formarsi pochi istanti dopo.
«Come te la cavi con la corsa? Ti ho vista fare jogging devi essere brava». Sul serio? Ma quando?
«Beh..» tentennai cercando di capire dove volesse andare a parare finché non lo vidi indicare qualcosa dietro di me. Erano in sette circa e ci fissavano parlottando tra loro, se fossimo stati in un’altra zona non ci avrei neppure fatto caso ma lì era il South Side.
«Al mio tre devi correre». Strabuzzai gli occhi credendo di non aver sentito bene ma il conto alla rovescia iniziò davvero mentre il panico sembrava inondarmi. Lo fissai confusa, fu questione di attimi prima che le sue dita serrassero il mio polso.
«Tre. CAZZO, TRE». Non aveva neppure detto ‘’uno’’ quel lurido figlio di puttana. Uno strattone ben assestato e mi ritrovai sballottata lungo la via a correre inseguita da dei bestioni che non conoscevo neppure.
«CHI DIAVOLO SONO». Cercavo di urlare e superare il rumore del mio cuore impazzito ma nessuna risposta arrivò a chiarire il mistero. Continuavo a girarmi cercando di capire quanto vantaggio avessimo su di loro.
«HOPE, LA CATENA». Quale catena? Mi voltai improvvisamente osservando l’ostacolo di fronte a me, saltammo simultaneamente e lo sentii ridere di gusto. Si divertiva? Stavamo per essere tramutati in spezzatino e lui rideva? Avevo la conferma che non fosse normale lì nero su bianco, quindi perché non mi scrollavo dalla sua presa mandandolo al diavolo? Mi tornarono in mente le parole di Nicole, ero io a scegliermi le conoscenze. Quindi ero io la masochista, per forza. Svoltammo a destra e solo allora rallentò, notai il cinema ma non ci feci caso almeno finché non mi trascinò verso il botteghino sbattendo alcune banconote oltre il vetro.
«Due biglietti, qualsiasi film». Sorrise alla ragazza dai capelli ricci che ci diede i biglietti fissandoci basita, avrei voluto dirle che si aveva ragione: non eravamo gente normale.
La sala buia e il film già iniziato, ci sedemmo a metà sala abbassandoci più del necessario e io riuscii a respirare ancora.
«Chi diavolo – persi un respiro, misi una mano contro il petto – chi diavolo erano quelli?»
«Hai mai sentito parlare dei Bloods? Oh cazzo ma è Via col vento questo». Indicò lo schermo ma io ero troppo scioccata per fissare qualcosa oltre il suo profilo. Chiedeva se conoscessi i Bloods? Dopo i Crips erano la banda più pericolosa della zona.
«I Bloods ti inseguivano?». Non riuscivo a capacitarmene, continuavo a fissarlo.
«Vorrai dire CI inseguivano. Smetti di fissarmi.»
«Non ti sto fissando». Continuai a fissarlo. Lo vidi ridere e voltarsi verso di me.
«Hai ragione tu». Aggrottai la fronte confusa.
«Lo so.. no aspetta in che senso ho ragione io?»
«Che adesso hai ragione tu: ci sto provando con te». Probabilmente la mia mascella toccò le ginocchia mentre sentivo la salivazione azzerarsi. Era solo una tattica per cambiare argomento, ed era riuscita alla grande.
«Tu..» non riuscii a finire, lo vidi tornare a concentrarsi sul film.
«Guarda il film, Hope». Continuai a fissarlo.
«Lo sto guardando». La sua risata attirò alcune imprecazioni mentre allungava una mano che mise sul mio capo forzandomi a girare il viso verso lo schermo.
 
 
«Via col vento è una figata». Il cielo era ormai buio, mi resi conto di aver avuto una sorta di appuntamento insieme a lui.
«Mi dirai perché i Bloods vogliono la tua testa?». Lo fissai camminandogli accanto, senza smettere di guardarmi attorno circospetta. Era meno imbarazzante parlare di questo che della sua pseudo confessione.
«Dovrei dirtelo?». Lo domandò con curiosa sincerità, era assurdo.
«Non dovresti?»
«Non mi fido a tal punto». Ero sul punto di mandarlo a cagare quando vidi il solito sorrisino formarsi su un solo lato della bocca. Mi morsi il labbro ricacciando indietro le parole.
«E’ sfiancante, sai? Non so il tuo nome, non so da dove vieni, cosa fai davvero per vivere, non so cosa tu faccia qui, non so chi diamine sei». Avevo alzato la voce senza rendermene conto bloccandomi sul posto. Lo vidi mettere le mani in tasca e fissarsi le scarpe.
«Hanno importanza queste cose?». Era serio?
«Tu sai tutto di me, odio le cose impari». Annuì senza proferire parola allontanandosi da me, era evidente che la nostra giornata insieme si fosse appena conclusa.
Odiavo quell’alone di mistero nella quale si trincerava, come una fortezza inespugnabile. Perché il suo non dire era solo una pallida e triste difesa verso se stesso, o almeno era questo ciò di cui volevo convincermi. Camminai verso casa continuando a martoriare il mio cervello, avrei voluto metterlo in stand-by, spegnerlo del tutto ma quello non ne voleva sapere. Che tipo di vita poteva avere Aj – ammesso fosse il suo nome poi –  per non volerla mostrare a nessuno? ‘’Nessuno’’, anch’io facevo parte di quella categoria, lo sgomento arrivò contemporaneamente a due grossi fari che mi abbagliarono.
 
Coprii gli occhi con la mano cercando di capire chi diamine fosse, sentii la portiera sbattere e poi la sua voce talmente calma e finta da gelarmi il sangue.
«Dove sei stata?» Juan mi venne incontro sorridendo. Arretrai senza rendermene conto.
«Ho fatto due passi..». Lo vidi annuire, le mani sui fianchi.
«Due passi .. due passi da oggi a mezzogiorno quindi?». Aprii la bocca per parlare ma la sua mano fu più veloce. Mi colpì talmente veloce e forte da farmi barcollare e cadere a terra. Sgranai gli occhi toccandomi la guancia infuocata, non riuscivo a crederci. Fino a quel momento si era limitato a qualche stretta eccessiva, ma mai.. i miei pensieri si ingarbugliarono.
«Mi hai colpita?». Lo fissai provando a sollevarmi ma il secondo schiaffo arrivò implacabile, e poi il terzo e infine il quarto. Qualcosa di caldo colava dal mio naso e impastava il mio palato. Non riuscii a respirare bene, un colpo di tosse fu provvidenziale mentre sputavo saliva e sangue.
«Ti rifaccio la domanda HOPE, dove cazzo sei stata?». Tirò su col naso, l’altra portiera si aprì e sbucò fuori il viso di Eric, aveva ancora alcuni lividi dalla rissa al Poco Loco.
«Sono stata al cinema». Juan rise indicando Eric.
«Hai sentito? Ha detto di essere stata al cinema». L’altro annuì scrollando le spalle, mi stavano prendendo per il culo. Le sue dita si chiusero tra le ciocche dei miei capelli sollevandomi di peso, gli bloccai il polso urlando di dolore era come se miliardi di spilli fossero conficcati nella mia nuca.
«Se scopro che al cinema ci sei stata con qualcuno ti uccido Hope. Mi senti bambolina? Io ti ammazzo». Lo avrebbe fatto davvero, non avevo motivo di dubitarne ma non mi interessava poi molto. Lo fissai con odio.
«Cosa cazzo credi di fare?». Pensavo fosse la mia voce ma ci misi qualche istante a capire che non ero stata io a parlare. Finalmente mollò la presa sui miei capelli, sentivo la testa indolenzita e formicolante, mi accasciai voltandomi per guardare la sagoma alle mie spalle: era un poliziotto. Allora Dio esisteva. Fu questione di attimi prima di vedere Juan entrare in auto e fuggire letteralmente, consapevole che l’uomo non mi avrebbe mai lasciata lì sanguinante. Ma lui si.
«Ragazzina stai bene?». Annuii sentendo il mio corpo scosso da tremiti e iniziai a ridere. Poi a piangere. Poi ad urlare sotto gli occhi di quell’uomo che non sapeva più come calmarmi.
 
«Li conoscevi?». Scossi il capo in cenno di diniego, seduta sul marciapiede con un bicchiere di caffè tra le mani.
«Quindi non sai i loro nomi?». Juan e Eric, non lo avrei comunque detto e quindi scossi ancora il capo. Il poliziotto sospirò riponendo il taccuino.
«Ragazzina, siete voi a non volere il cambiamento. Finché proteggerete questi animali per paura, la paura vi ucciderà giorno dopo giorno». Ci guardammo in silenzio finché non lo vidi montare in auto e lasciarmi sola. Sola con la mia paura. Nascosi la fronte tra le ginocchia chiudendo gli occhi per capire bene quanto dolore provassi e dove, credo finii con l’addormentarmi finché un clacson non mi fece sobbalzare. Temevo fosse Juan ma così non era, l’auto mi superò ignorandomi. Mi alzai sentendo le ginocchia cedere e mi mossi nella direzione opposta a quella di casa mia. Ne avevo abbastanza di percosse e urla, almeno per quella sera.

 

AJ

 
Le voci erano tornate, torturavano la mia mente, la rendevano schiava di qualcosa che non sembravo riuscire ad afferrare. Sentivo le sue urla, i suoi occhi che mi fissavano perennemente inferociti. E poi le fiamme, il fumo, i lamenti.
«Ma mi ascolti cazzo?». Sbattei le palpebre tornando alla realtà, B-bomb mi sedeva accanto.
«Si, ti sto ascoltando». Stronzate, avevo perso il nesso fin dal mio ingresso in casa sua. Un ragazzino di nome Michael impacchettava cocaina sul tavolo della cucina, sospirai bevendo un liquore forte che ustionò la mia gola.
«Amico stai uno straccio». Sentii lo schiaffo sulla mia schiena e mi costrinsi a sorridere. Ovunque scappassi non c’era verso di divenire invisibile, irrintracciabile a quelle maledette voci. Il medico lo aveva detto ‘’risiedono dentro di te, non c’è modo di sfuggire. Puoi solo affrontarle’’, semplicemente non volevo.
«Credo tornerò a casa, ti ho comunque detto tutto». Scrollai le spalle alzandomi da lì, gli avevo raccontato dell’incontro con i Bloods che probabilmente non avevano gradito l’ultima incursione nel loro quartiere. Mi si avvicinò con la mano tesa, feci lo stesso con la mia e qualcosa scivolò tra le mie mani. Sollevai una bustina trasparente, all’interno due pillole di microscopiche dimensioni dal colore rosa pallido.
«Prima di andar via provane una». Il suo sorriso accattivante seguì il mio, forse avrei avuto altra tregua.
 
La tengo sulla lingua, bevo, ingoio, inizia il viaggio.
 
Suppongo caddi sul divano poco distante, le mie pupille si dilatarono come se potessero vedere oltre e forse lo facevano sul serio. Le voci presero corpo, adesso dettavo io le regole.
 
«Sei solo un fottuto bastardo, un assassino». Continuava ad urlare tenendo la spranga in mano. Era stempiato, rughe precoci solcavano il suo viso rendendolo più vecchio di quanto in realtà non fosse; aveva solo 39 anni in fondo. Io nove.
La cantina dove mi nascondevo odorava di marcio e sporcizia, eppure era il luogo più sicuro della casa almeno finché non mi trovava. Avevo preso lezioni di violino, ma un giorno decise di spezzarmi le dita e quindi desistetti. Poi toccò al baseball, ma ruppe la mia gamba. Credo volesse tarparmi le ali, proprio come pensava io le avessi tarpate a lui e al suo matrimonio.
«Quando la notte dormi devi ricordare il viso di tua madre mentre urla di dolore e muore per darti alla luce». Il punto è che io quel viso non lo ricordavo, non potevo. Ma in qualche modo ci riuscii, forse a causa delle sue continue urla, feci mio un ricordo che non lo era. Le parlavo alle volte, la vedevo camminare per casa, scivolavo inesorabilmente nel baratro insieme a lui. E mentre lo facevo covavo rabbia e odio, per quella vita impossibile nella quale mi aveva sigillato. Fissavo la sua schiena e mille coltelli gli si conficcavano addosso in ogni mia fantasia, finché una notte tutto prese fuoco.
Hope è di fronte a me, piange e dice ‘’Sognare la morte della propria madre è un peccato mortale, vero’’? Avrei dovuto risponderle allora, adesso è inutile perché sparisce proprio com’è apparsa.
Sento il fuoco addosso a me, mi corrode. Osservo le mie mani e cazzo stanno prendendo fuoco, c’è fumo attorno a me, non riesco quasi a respirare. Ma aspetta ..questo è il mio fottuto sogno. Allora mi alzo ed esco dalla porta e mi trovo di fronte una strada sconosciuta, e corro corro corro..

 
«AJ?». Mi scosse con talmente tanta forza che sentii l’aria risucchiata dai polmoni. Boccheggiai ma solo per pochi istanti, lo fissai sgomento, sentivo il sudore imperlarmi la fronte.
«Che cazzo urli, B.»
«E’ da un’ora che straparli, non ti ci voglio secco sul mio divano». Mi spinse ridendo e soffiando fuori il fumo. Mi sentivo lievemente stordito, era comunque forte quella roba. Avrei dovuto prenderne ancora, molto meglio delle mie sedute di ipnosi. Mi alzai senza salutare, e silenziosamente così com’ero arrivato andai via. Prima o poi sarei sparito definitivamente, come sempre del resto; quando un luogo mi ingabbiava io fuggivo, era l’unica protezione che avevo.
Osservai una sagoma accucciata di fianco al portone, era familiare ma per qualche motivo pensai fosse un’altra allucinazione. Non c’eravamo salutati nel migliore del modi, anzi, comprendevo la sua rabbia ma allo stesso tempo me ne fottevo e giravo le spalle.
«Che ci fai ..» non riuscii a completare la frase, quando sollevò il viso riuscii solo a fissare l’ematoma violaceo sullo zigomo e il sangue ormai secco e rappreso su una narice e sull’angolo del labbro. Mi passai una mano sul viso.
«Non sapevo dove andare.»
«Chi è stato?». I suoi occhi spaventati si posarono su di me, iniziavo a detestarli. Così enormi, puliti e sporchi allo stesso tempo, vuoti e pieni. Un eterno contrasto.
«Non fare niente per favore». Esplosi.
«NON FARE NIENTE? E TU? QUANDO CAZZO FARAI QUALCOSA TU». Le andai vicinissimo, si ritrasse spaventata per poi prendere coraggio subito dopo.
«Non permetterò che succeda ancora.»
«Sarò io a non permetterlo». Mi voltai ma le sue mani mi trattennero.
«Devo risolverla io. E lo farò, se succederà ancora puoi star certo che non ne uscirà illeso». Non mi calmai, ma lei voleva crederlo ugualmente. Voleva pace, ma la pace non esisteva. Non lì, non nel South Side, non a Back of the Yard. Non con me. Non dissi nulla, aprii solo il portone lasciando che mi seguisse in silenzio. La casa era ancora come l’avevamo lasciata insieme ore prima, lo capì anche lei mentre toglieva il giubbotto che poggiò sul divano. Le feci cenno di seguirmi, non volevo stare nello studio.
«Sei stato fuori?». Voleva indagare o distrarsi? A giudicare dallo sguardo distante optai per la seconda.
«Si, con amici a bere qualcosa». La mia camera era in penombra, accesi una lampada svuotandomi le tasche, la vidi fissare qualcosa e capii: la bustina con l’ultima pasticca giaceva adesso sul comodino.
«L’hai presa?». Pensavo ad un altro scoppio di rabbia, invece sembrava solo curiosa.
«Si.»
«E com’è stato?». Avevo una vaga idea di dove volesse andare a parare, presi la bustina gettando la pasticca sul palmo della mia mano, soppesandola.
«Piccola ma potente». Ne portavo ancora gli strascichi. Ci fissammo, le ombre rendevano il suo viso tumefatto ancora più bello se possibile.
«Solo per oggi». Mi tese la mano, sorrisi infilandomi la pasticca in bocca.
«Vieni a prenderla allora». Uscii la lingua muovendo un passo indietro, ma lei fu più veloce. Le sue mani sul mio viso, la sua bocca sulla mia, le lingue si cercarono e trovarono e io persi il mio tesoro donandolo a lei. Mollò la presa lasciandosi cadere sul letto con un sospiro.
«Solo stanotte». Era una menzogna, o meglio lo era in parte. Forse non l’avrebbe mai più provata, ma il suo corpo quello lo avrebbe donato ancora a me.
 

 

Hope

 
Andai lì senza cercare sul serio una meta, i miei piedi semplicemente si erano mossi spinti da un istinto più potente della ragione. Stesa su quel letto vidi il tetto spalancarsi simile ad un buco nero, e poi il suo viso sopra di me. Sentivo le sue mani toccarmi, era come se affondassero nella mia carne, dentro fino alle ossa. Toccava il sangue che fluiva dentro le mie vene sempre più veloce, lo baciai ancora lasciandomi spogliare. Non tolsi solo i miei vestiti, per la prima volta riuscii nell’intento di spogliarmi persino della mia pelle, finalmente nuda con solo la mia anima a coprirmi proprio come volevo. Andavo alla deriva e mi piaceva, sorridevo e il labbro non faceva male. I miei lividi assunsero nuove forme mentre mi impegnavo a scoprire il suo corpo. Lo baciai e leccai, sospirando eccitata dalla sua pelle calda che sfregava su di me. Chiusi gli occhi ascoltando la sua voce, diceva qualcosa ma non capivo realmente cosa.
Osservai le sue labbra sul mio seno, la lingua lambì il capezzolo scendendo sempre più giù, adesso era al centro esatto del mio stomaco ma non voleva fermarsi. Ansimai piegando il ginocchio che sfiorò il suo viso, e quando lo sentii nel punto più profondo, più intimo, del mio corpo esplosi in un gemito fuori controllo. La sua lingua si muoveva esperta, la mia carne sembrava ardere sotto quelle attenzioni. Era così quindi? Era questo il tanto famoso sesso che alla gente piaceva? Non ero una ‘’puttanella frigida’’? O era colpa di quella pasticca?
Capovolsi la situazione, bloccai i suoi polsi con le mie piccole dita, in quel momento mi sentivo forte persino più di lui. Lo vidi sorridere divertito mentre scendevo ad assaggiare quella pelle che vedevo finalmente in ogni sua minuscola sfaccettatura. Quante volte era stato lui a vedere me? Adesso la nostra bilancia sembrava oscillare rimettendosi lentamente in pari, o almeno questo mi piaceva credere. Baciai il suo membro a labbra schiuse, lo sentivo sospirare di piacere e godevo, la punta della mia lingua ne percorse l’intera lunghezza mentre il suo sapore mi inondava il palato. Aveva un odore speziato, simile a quello della sua pelle, inconfondibile ma più pressante, mi piaceva. Ne inglobai interamente la lunghezza perdendomi in quel piacere che sentivo essermi preclusa da tutta una vita.
Ancora in quel letto, ancora noi due sulle lenzuola madide di sudore mentre le mie dita lasciavano scie rossastre sulla sua schiena, lo sentivo entrare quasi con disperazione dentro di me, era tutto così assurdo e fantastico al tempo stesso. Inarcai la schiena osservando il suo viso, nei suoi occhi vidi me stessa, mi specchiai in quelle iridi cangianti.
Il palmo della mia mano abbandonato sul bordo del cuscino, vicino al mio viso, vidi le sue dita coprirlo e intrecciarsi alle mie. Mi sentii finalmente al posto giusto nel momento giusto.. con la persona giusta?
Quando il mio piacere esplose per la terza volta in quella notte infinita, non avevo ancora trovato una risposta a quella domanda
.
 

AJ

 
Lo avevo osservato per giorni, lo chiamavano B-Bomb, dicevano che era lì per un crimine e che gli avvocati avevano voluto parargli il culo. Avevo 16 anni e lui 21. Sedeva in giardino con la testa rasata tra le mani, si lamentava ma non capivo cosa dicesse.
«Non sei un po’ grande per piagnucolare?». Ero sempre stato un’attaccabrighe, era l’unico modo per far capire alla gente quanto faticoso potesse essere sottomettermi. I suoi occhi ardenti si piantarono su di me.
«E tu non sei un po’ piccolo per desiderare la morte?». Quella frase mi colpì davvero, talmente tanto che scoppiai a ridere convulsamente lasciandomi cadere sulla panca di fronte alla sua.
«Mi chiamo AJ.»
«Che cazzo di nome è?». Inarcai un sopracciglio.
«Considerando che sto parlando con un certo B-Bomb direi che hai poche possibilità di replica». Mi fissò scoppiando infine a ridere.
«Voglio una cazzo di sigaretta». Tirò su col naso, forse voleva anche altro? Rovistai nella tasca del pigiama estraendo un pacco smezzato e un accendino.
«Chiedi e ti sarà dato». Mi fissò sbigottito e incredulo afferrando quello che ai suoi occhi sembrava un ‘’tesoro’’,
«Perché sei qui? Non sembri.. insomma». Si stoppò e tornai a ridere, ma la sfumatura nei miei occhi era cambiata.
«Amico, in manicomio ci stanno solo i pazzi. E’ questo che siamo tutti qui dentro, dei fottutissimi svitati.»
 
Mi mancò l’aria, boccheggiai spalancando gli occhi. Tutto era sempre uguale, riconobbi la mia stanza e stranamente anche il corpo nudo accanto a me. Hope mi dava le spalle, giaceva in posizione fetale vicinissima a me. Le circondai il fianco con il braccio, la volevo più vicina ma sembrava scottarmi. Mi alzai uscendo sul balcone senza curarmi della mia nudità, chiusi gli occhi abbandonando le braccia lungo i fianchi e il rumore di un tuono in lontananza mi costrinse a sorridere: la tempesta era in arrivo?
 
 
 

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Capitolo 6
*** The truth will set you free, but first it will piss you off. ***



 

VI



‘’Freedom’’. Le dita del ragazzino si mossero abili e veloci soffermandosi sul piccolo ghirigoro che chiuse la parola. Abbandonò la bomboletta accanto al muro contemplando la sua opera, ferma dall’altro lato della strada mi domandavo se ci credesse sul serio. Esisteva sul serio la libertà? Personalmente l’ho sempre trovato un concetto troppo vasto, mille sfumature delineano quella semplice parola; basta sul serio vivere come si vuole per essere liberi? Un rumore mi distrasse da quei pensieri aggrovigliati, una banda di teppistelli saltava sopra il tettuccio di un auto completamente sfasciata. ‘’Freedom’’, loro incarnavano alla perfezione il concetto, almeno in quel momento.
 
Nicole mi venne incontro sorridente, non la vedevo da qualche giorno. Le sue labbra appena truccate si incurvarono all’ingiù alla vista del mio livido, sviai i suoi occhi svoltando a destra lungo il corridoio. La mia fuga non era dovuta al non volerle dare spiegazioni, ma al semplice fatto che non riuscivo a mettere in pratica i suoi consigli. Le lezioni mi sembrarono infinite, forse perché sapevo che fuori la scuola ci sarebbe stato lui ad attendermi. Sorrisi senza una reale motivazione, erano passati tre giorni da quella famosa notte, Juan non si era ancora fatto vivo e l’ansia di rivederlo era l’unica ombra che macchiava il mio umore.
«Hope!». La voce di Nicole mi costrinse a voltarmi, a pochi passi da me si sporse per afferrarmi il braccio.
«Dottoressa..» sorrisi costernata, non volevo mi ponesse domande scomode.
«Non ci vediamo da un po’, ti ho pensata». Avrei voluto dirle che anch’io l’avevo pensata spesso. Le sue parole stranamente sembravano ristagnare dentro di me. Il rumore di un clacson mi distrasse, mi voltai in tempo per vedere AJ sopra la moto a pochi metri da me: indossava il casco. Che ragazzo furbo.
«Devo andare» Nicole fissò AJ con espressione stranita mollando la presa su di me.
«Va tutto bene?». Annuì distrattamente per poi sorridermi.
«Si, si.. la figura del tuo amico sembrava familiare ma devo essermi sbagliata». Aj familiare? Impossibile, era unico nel suo genere, persino col viso coperto trasudava quell’aura impossibile da dimenticare. Le sorrisi avviandomi di corsa verso il bordo del marciapiede.
«Pensavo non saresti venuto». Tolse il casco e me lo passò.
«Indossalo tu». Lo rigirai tra le mani annuendo appena prima di infilarmelo. Salii sulla sua moto aggrappandomi stretta a lui, qualcosa però mi disturbò. Qualcuno aveva urlato il mio nome, ma chi? Sembrava la voce di Nicole.
 
***
 
«Tra meno di due giorni è Halloween, hai programmi?». Leccai il mio gelato che sembrava sciogliersi troppo velocemente, fissandolo interessata.
«No non credo, tu?». Mi sorrise rubandomi un bacio. Ci misi qualche istante a riconnettere le mie sinapsi.
«No..cioè si. Ci sarà una festa nel nostro quartiere perché non vieni? In fondo Juan ti considera ormai un suo amico». Lo beffeggiai pentendomene subito dopo, ero io quella fidanzata e con un amante a tempo pieno.
«Non credo sia una buona idea.. o forse si». Il suo sorriso diabolico mi fece perdere un battito, alle volte avevo paura della sua mente, come se viaggiasse su frequenze a me sconosciute. Nonostante tutte le cose che ci legavano, Aj continuava a essere per me un mistero.
«Devo ricordarti di non combinar casini?». Inarcai un sopracciglio, la sua mano si mosse lesta rubandomi il gelato che iniziò a mangiare con gusto.
«Diciamo che io e Juan abbiamo interrotto il nostro sodalizio». Il tono ambiguo con cui lo disse mi fece accapponare la pelle. Juan sapeva di noi? Mi avrebbe uccisa. Faticai a deglutire fissandolo con gli occhi spalancati, aspettando che proseguisse il racconto ma da come gustava il gelato era evidente non ne avesse alcuna intenzione.
«Lui.. sa di noi?». Attesi col respiro spezzato. La sua risata scrosciante mi rilassò almeno in parte.
«Se non glielo sbatti sotto al naso non lo scoprirà mai, è troppo idiota». Picchiettò con l’indice la tempia e io non mi sentii di contraddirlo. Juan era bravo solo a menar le mani e usare armi, tutto ciò che riguardava la sfera intellettiva era totalmente bandita. I miei pensieri vennero schiacciati dal pressante odore che invase le mie narici, sbattei le palpebre ritrovandomi quel viso talmente vicino da riuscire a contare le pagliuzze dorate nei suoi occhi. Oggi erano verdi.
«Farglielo sapere non rientra tra le mie priorità». Il bagliore nei suoi occhi mi destabilizzò.
«Ma che furbetta, vuoi stare quindi con due ragazzi contemporaneamente?». Aprii la bocca per negare, ma la richiusi subito dopo. Ne avevo il diritto? In fondo era la verità, volevo trascinare il più a lungo possibile quella situazione e le ripercussioni che ne sarebbero derivate. Mi baciò ancora.
 

 

AJ

 
Juan sapeva. Una soffiata lo aveva messo a conoscenza delle mie ‘’amicizie’’, considerando che il mio migliore amico era uno dei membri dei Crips fare due più due non era stato poi così difficile, persino per un ritardato simile. Non che la cosa mi importasse poi molto, certo adesso sarebbe stato difficile passare informazioni, ma non ero un membro effettivo della banda quindi non avevo particolari obblighi e doveri. Inoltre la mia relazione con Hope deteneva al momento la priorità, alle volte sembrava quasi che le mie voci si calmassero quando le sue piccole mani si poggiavano su di me. Alle volte invece mi schiacciavano rendendomi impossibile vivere.
Sedetti sullo sgabello girando in tondo, ogni giro corrispondeva ad un indumento in meno sul corpo di lei. Al quarto la ritrovai nuda. Sorrisi sghembo.
«Di questo passo non mi ritrarrai più, ogni volta che mi denudo finisce sempre allo stesso modo.»
«Come se ti dispiacesse». Mi beccai un’occhiata al vetriolo e risposi con una sonora risata.
«Sei meno mediocre degli altri a letto, devo concedertelo». Altri? Quali altri? Sembrò leggermi la domanda negli occhi e sviò il mio sguardo. Ero certo che avesse avuto solo Juan.
«Oggi facciamo qualcosa di diverso». Mi alzai col suo sguardo indagatore addosso iniziando a spogliarmi, vidi le sue pupille dilatarsi appena per lo stupore.
«Questo sarebbe ‘’diverso’’?». Risi scuotendo il capo afferrando un barattolo di vernice rossa.
«E’ molto diverso». Intinsi il dito all’interno, un colore rosso infuocato lo imbrattò totalmente e iniziai il mio ennesimo lavoro. Stavolta la tela era lei, e il pennello il mio dito. Disegnai una A sul suo stomaco, le feci il solletico iniziò a ridere provando a scappare, la trattenni continuando ad imbrattare il suo corpo.
«Sembra divertente, fallo fare anche a me». Annuii impercettibilmente e divenni a mia volta una tela.
Usai parecchi colori, adesso la mia mano era totalmente gialla, la poggiai sul suo seno colorandolo mentre le sue dita tracciavano un cuore all’altezza del mio petto di un rosa acceso. Le nostre lingue si intrecciarono al pari delle mani ormai impastate da troppi colori. Finimmo sul divano ridendo, percorsi la lunghezza della sua coscia, ne accarezzai la consistenza serica sentendola sospirare. Toccò al blu ceruleo con la quale imbrattai il suo viso, le stava d’incanto.
Fu un’esplosione di colore e piacere, in fondo il sesso era arte. Un tipo diverso d’arte magari, ma lo era davvero. Baciai ogni fessura del suo corpo, mentre le sue dita si poggiavano sul mio membro strappandomi brividi e gemiti.
«E’ rosa antico, molto poco virile». Una risata, un altro bacio, mentre mi impegnavo a mostrarle quando ‘’virile’’ riuscisse ad essere anche il semplice rosa.
 
Ero dentro di lei, sentivo la carne umida avvolgermi, avvilupparmi come se non volesse farmi fuggire. Ansimai contro il suo collo, lo leccai e morsi lasciandole un segno violaceo all’altezza della clavicola anch’essa ormai imbrattata.
 
Mi dava la schiena, le mani aggrappate al bordo del divano, i capelli umidi di sudore e le labbra schiuse che mi invogliavano a prenderla ancora e ancora. Dietro di lei le sollevavo i fianchi, allargavo le sue cosce, spingendomi sempre più a fondo come se non riuscissi a farmi bastare tutto ciò che mi donava. Morsi la sua schiena, lasciai segni ovunque per coprire quelli antichi molto più dolorosi.
 
Sporchi e sudati stavamo stesi sul divano giocando ad intrecciare le nostre dita dai mille colori. Sollevò il viso verso di me fissandomi con titubanza.
«Non farlo». L’ammonii ma non cedette.
«Qual è il tuo nome?». Sospirai stancamente scostandomi da lei.
«Aj, quante volte dovrò ripeterlo?». Era così difficile.
«Quello è un sopranome, non un nome, ‘’AJ’’ ». Il mio nome sembrò una barzelletta improvvisamente.
«Tuo padre è vivo?». Cambiai nuovamente argomento sperando bastasse a tenerla buona, e poi ero sul serio curioso. Si poggiò su un fianco sollevando il gomito per sorreggersi.
«Più o meno, a quanto ne so è scappato prima che nascessi. Mia madre non l’ha mai superata». Ricordai la voce di quella donna, intrisa d’alcool e solitudine.
«Mi riconoscerai alla festa?  In fondo è obbligatoria la maschera». Le sorrisi furbamente.
«Ovvio, ti riconoscerei tra mille». Lo disse con una convinzione tale da lasciarmi in bilico tra frustrazione e compiacimento. Divideva le mie emozioni, le spaccava a metà senza darmi il tempo o i mezzi per riportare tutto in ordine.
«Sai che dovrò fare un murales per il liceo? Qualcosa che rappresenti la scuola e gli studenti». Si girò a pancia in su, osservai i suoi seni.
«Dovrei aiutarti?». Rise di gusto dandomi una spintarella.
«Guarda che non sei l’unico a saper scarabocchiare». Scarabocchiare? Dio, meritava tanti di quegli schiaffi sul culo.
«Smettila di dimagrire, ogni volta mi tocca memorizzare misure del tuo corpo sempre diverse». Mi fissò a bocca aperta.
«Conosci le mie misure?»
«Ti ho vista nuda miliardi di volte». Aggrottai la fronte alzandomi.
«Okay, e come sono?». Mi voltai, stava adesso a pancia in giù fissandomi maliziosa.
«Mah ..mediocri». La sua scarpa mi colpì veloce e con potenza dritta sullo stomaco. Incassai il colpo provando a ridere senza fiato. Era tutto fottutamente assurdo e per un momento desiderai continuare a vivere in quella nuova gabbia che ormai vedevo chiaramente.
«Sono nato il 31 dicembre». Mi fissò immobile e alla fine sorrise felice, non era molto ma ai suoi occhi lo sembrava sul serio.

 

Hope

 
Avevo scelto di impersonare ‘’La sposa cadavere’’, decisamente diversa dal film uscito nelle sale pochi anni prima, alle volte riuscivo ad essere parecchio crudele verso me stessa e le disgrazie della mia vita. Indossai un vecchio abito bianco che sporcai ad arte, macchiai la gonna ampia di terriccio e il corpetto di rosso per emulare il sangue. Alla fine toccò al viso, il livido che spiccava ancora sul mio zigomo favorì di molto la credibilità del trucco dovevo ammetterlo, aggiunsi solo alcuni dettagli abbondando con l’ombretto nero e potei definirmi pronta. Un rumore mi distrasse, poggiai il cellulare sulla scrivania desistendo dall’idea di cercare Aj, voltandomi verso la porta che si aprì pochi istanti dopo mostrandomi il viso di Juan. Mi sorrise ma io non ricambiai, dal braccio nascosto dietro la schiena uscì un mazzo di rose rosse.
«Cazzo se sapevo che era questo il tuo vestito non li avrei portati, sembrano rose funebri adesso». Il paragone unito al mio ultimo ricordo con lui mi fece accapponare la pelle. Aveva scelto la maschera di Nightmare, ironico come gli calzasse a pennello. Era l’incubo della mia vita.
«Non c’era bisogno di disturbarti. Gettai i fiori sopra la scrivania fissandolo freddamente, lo vidi avvicinarsi e mi scostai.
«Andiamo piccola, vuoi tenermi il broncio?». Il broncio? Io volevo ucciderlo. Fissai istintivamente la borsa sopra il letto, la notte prima avevo rubato a Carlos una pistola.
«Pensavo fosse chiaro che non volessi vederti». Mossi un passo in direzione della porta ma le sue braccia mi bloccarono da dietro, stringendomi con forza. Il suo fiato sul collo mi diede la nausea.
«Bambolina lo sai che ti adoro, se tu non ti comportassi male certe cose non succederebbero». La colpa era mia quindi? Provai a divincolarmi senza successo.
«Non mettermi mai più un dito addosso». La sua risata fece tremare le mie ginocchia.
«Non succederà più, promesso». Seppi con certezza che odore avessero le bugie.
 
Carlos sedeva sul divano intento a smistare armi e provarle, ci guardò di sfuggita senza degnarci di attenzioni, mia madre fissava la tv accesa e muta. Lasciammo quel patetico teatrino per entrare in uno totalmente nuovo, ciò che faceva muovere i miei piedi verso l’auto di Juan era la consapevolezza che avrei visto AJ.
La casa in questione non era altro che un luogo abbandonato, una famiglia come tante una sera venne sterminata sparendo come polvere e la loro dimora restò vuota in balia dei vandali. Alcuni si erano occupati di arredarla, sul patio in legno mi accolse una zucca dalle fattezze demoniache, storsi le labbra lasciandomi trascinare dentro da Juan che come sempre mi teneva vicino a se concedendo ogni attenzione a quei cinghiali che aveva per amici. Eric mi fissò in cagnesco, tra di noi non correva buon sangue così come altri anche lui era convinto fossi una cagna approfittatrice. Non aveva tutti i torti probabilmente, ormai consideravo mio quell’abito cucitomi addosso con dolore.
Mi guardai intorno, fissavo ogni maschera nella speranza di vedere quella giusta ma ogni volta finivo col distogliere lo sguardo delusa.
«Vai a prendermi da bere». La voce di Juan si frappose al viso di AJ nella mia mente, per una volta fui ben lieta di fargli da schiava. Tutto era preferibile alle sue sudice mani su di me. La calca attorno al tavolo degli alcolici era incredibile, provai a farmi strada a suon di spintoni e urla riuscendo a fatica a ritagliarmi un minuscolo spazio vitale e fu in quel momento che lo vidi. In piedi dal lato opposto del tavolo, indossava la maschera di un diavolo e i suoi occhi vedevano solo me. Il bicchiere per poco non mi scivolò dalle mani, mi divincolai provando a raggiungerlo ma quando arrivai la sagoma era sparita. Mi guardai attorno affannosamente iniziando a girare in lungo e in largo per la casa, ero sicura fosse lui. Una presa decisa sul mio polso, il mio singhiozzo di sorpresa, e infine il buio.
«Hai superato la prova, mi hai riconosciuto». Il corridoio in penombra gettava fascino su quel viso che adesso mi turbava.
«Te l’ho detto: ti riconoscerei ovunque». Sorrisi sporgendomi verso la parete per capire dove fosse Juan. La sua mano fu più veloce però nell’afferrarmi il mento e costringermi a guardarlo.
«Sei la sposa cadavere più sexy che abbia mai incontrato». Avrei voluto dirgli che lui era il demonio alla quale avrei dato volentieri la mia anima più e più volte ma non ne ebbi il tempo, mi baciò con urgenza e irruenza. Sospirai contro le sue labbra artigliando la camicia all’altezza del petto. La sua mano si insinuò sotto la mia gonna accarezzando la pelle nuda della coscia. Mi scostai col fiatone.
«Sei pazzo? Juan è qui». Sorrise nella penombra, non preannunciava nulla di buono.
«Ancora meglio, non lo trovi eccitante?». Strabuzzai gli occhi provando a spingerlo, e quando lo sentii ridere capii mi stesse prendendo per il culo.
«Sei un imbecille.»
«Non sai quanto. Non sei felice di vedermi?». Provò a baciarmi ancora, scostai all’ultimo il viso per fissare la folla dietro le nostre spalle, l’ansia mi corrodeva.
«Scommetto ti diverti». Gli scoccai un’occhiata di fuoco, sorrise nella penombra aveva denti bianchi e dritti.
«Molto, comunque non fare troppo tardi, stanotte passo a prenderti». Improvvisamente divenni attentissima, mi lasciò andare e io sistemai il corpetto.
«Sul serio? Per andare dove?». Scrollò le spalle muovendo un passo indietro.
«Dove capita, è pur sempre Halloween no? Ho visto che dalla finestra alla strada non ci sono molti metri, riuscirai a saltare.»
«Posso anche uscire dalla porta sai?». Dovevo rompermi l’osso del collo quando non fregava a nessuno cosa facessi? Mi ammonì sollevando una mano.
«Juan ti tiene d’occhio, ad esempio adesso sta impazzendo per capire dove sei. Potrebbe anche farti pedinare, meglio non rischiare. Usa la finestra ed esci dal retro..». Mi afferrò a tradimento il mento scoccandomi un altro bacio prima di sparire e mischiarsi alla folla.
«Ma che cazzo stai facendo?». La voce di Juan mi fece prendere un colpo, mi girai di scatto portando una mano sul petto.
«Nulla, non riuscivo a prendere da bere con tutta quella confusione, aspettavo si diradasse..» mi fissò attentamente e io temetti seriamente di svenirgli davanti. Alla fine sembrò rilassarsi afferrandomi per mano, trascinandomi con se mentre io continuavo a scandagliare la folla per avere un’altra assurda visione del mio bellissimo Lucifero.
 

 

AJ

 
«Sei arrivato finalmente?» B-bomb sedeva sui gradini del proprio patio.
«Sai che ho un futuro come spia? Dovrei prendere in considerazione questa possibilità». Presi posto accanto a lui gettando a terra la maschera ormai inutilizzata.
«Quindi, stasera saranno lì?». Annuii distrattamente, ero andato alla festa principalmente per vedere Hope anche se B-bomb pensava vi fossi andato per scoprire qualcosa.
«Verranno qui domani notte, il quartiere a nord secondo loro è il meno coperto, mireranno a caso». Ci fissammo in silenzio per qualche istante, lo vidi ridere arcigno.
«Quei figli di puttana..». Si alzò facendomi cenno di seguirlo.
«Non so se hai notato ma dovrei cambiarmi». Mi indicai eloquentemente dando vita ad un’altra serie di risate.

 
 

Hope

 
Avevo perso Juan tra la folla senza riuscire più a trovarlo, neppure Eric riuscì a darmi indicazioni e alla fine desistetti usandola come scusa per andar via da lì. Aj sarebbe venuto parecchie ore dopo, era solo mezzanotte in fondo quindi avrei avuto tempo per struccarmi e sistemarmi.
La casa era silenziosa, percorsi in punta di piedi il corridoio salvo rendermi conto all’ultimo di essere totalmente sola. Dove diavolo erano Carlos e mia madre? Non che mi interessasse davvero saperlo, i loro interessi non erano i miei. Il vestito scivolò ai miei piedi, nuda mi diressi in bagno portando con me dei semplici jeans stinti e una felpa altrettanto vecchiotta, dovevo decidermi a rimodernare il mio guardaroba. Ripensai ad Aj mentre il getto caldo mi colpiva in pieno, lui sembrava sempre così perfetto. I suoi abiti sembravano costosi, il suo portamento eccessivamente elegante, persino il suo linguaggio era appropriato. Era sul serio un semplice artista di strada? Mi venne un improvviso pensiero, e se oltre ad usarla la droga la vendesse pure? Ecco risolto il mistero dei soldi. Scacciai quel pensiero vestendomi in tutta fretta sgusciando verso la mia stanza.
«Puttana». Il click della porta coincise con il rumore della sua voce, mi gelai girandomi lentamente. Juan era poggiato alla mia scrivania e teneva in mano il mio cellulare. Ricordai solo in quel momento di averlo dimenticato a casa prima di uscire.
«Che ci fai tu qui? Ti ho cercato dappertutto..» non riuscii a finire la frase, mi lanciò contro il cellulare che si schiantò contro la parete. Un’unica certezza: aveva letto i messaggi con Aj.
«PUTTANA E PURE STUPIDA». Era livido di rabbia, le ginocchia cedettero e istintivamente fissai la mia borsa.
«Juan vattene». Lo sentivo respirare a fatica, i pugni stretti e gli occhi iniettati di sangue.
«Adesso è tutto chiaro, adesso so perché i Crips sapevano ogni nostra fottuta mossa. Da quanto lavori per loro?». Iniziavo a sentire le vertigini, il senso di quelle parole scivolava via come fosse cosparso di olio.
«Non so di che diavolo parli.»
«Ah no? Aj lavora per i Crips, è uno di loro. TI SCOPAVA PER AVERE INFORMAZIONI, LURIDA SGUALDRINA». Si avventò contro di me, la mano serrò la mia gola e l’aria sembrò bloccarsi nella trachea. Provai a fargli mollare la presa ma era tutto inutile.
«Bazzicava spesso in queste zone, pensavo fosse un forestiero e decisi di accoglierlo tra noi. La partita di droga bruciata, la retata al Poco Loco, sei la sua complice.. VERO?»
«Non respiro..» riuscii ad articolare quella supplica mentre sentivo gli occhi invasi dalle lacrime, vidi la mia vita scivolare via e frantumarsi. Juan non si placò anzi strinse ancora di più e in quel momento il mio istinto di sopravvivenza ebbe la meglio, il ginocchio si mosse quasi da solo colpendolo in mezzo alle cosce. Uno sbuffo prima che mollasse la presa accasciandosi. Mi avventai sulla borsa approfittando del momento di libertà ottenuta, rovistando freneticamente dentro e quando afferrai l’arma la puntai contro di lui.
«UN ALTRO PASSO E TI AMMAZZO». Urlavo e piangevo, le lacrime offuscavano la mia visuale mentre mi muovevo lentamente e lui indietreggiava.
«Che cazzo pensi di fare con quell’arma? Ascoltami bene Hope, io ti toglierò tutto. Ti priverò di ogni cosa, resterà di te uno schifoso scarto umano». Dovevo dirgli che mi sentivo già tale? Mi mossi appena in avanti muovendo la pistola.
«STAI INDIETRO». Ci fissammo in silenzio prima che provasse nuovamente ad avventarsi su di me, chiusi gli occhi e sparai. 

 

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Capitolo 7
*** Darkness falls ***


VII

Chiusi gli occhi e sparai.
 
Un tonfo sordo seguì lo sparo, riaprii gli occhi osservando Juan riverso a terra e per poco non svenni. Urlava tenendosi il braccio, la manica della maglia zuppa di sangue, non sapevo esattamente che tipo di danni avesse riportato né mi interessava molto al momento, afferrai in fretta il cellulare pregando che funzionasse ancora e fuggii letteralmente via da quella casa. In sottofondo la sua voce urlava il mio nome.
A piedi scalzi corsi e corsi senza fermarmi, solo quando fui lontana parecchi isolati mi nascosi dietro alcuni cassonetti dell’immondizia controllando le condizioni del telefono, sembrava funzionare quindi premetti il primo numero d’emergenza e il nome di Aj iniziò a lampeggiare. Uno squillo.
«Andiamo, rispondi». Due squilli e infine la segreteria, urlai piangendo e mi rialzai. Forse era sotto la doccia e non mi sentiva, dovevo raggiungerlo. Nella mia mente le parole di Juan avevano perso consistenza, semplicemente le rifiutavo. Non potevo essermi sbagliata così tanto, non poteva avermi usata sul serio né potevo aver confuso i nostri momenti insieme. Come mi guardava, come mi toccava o baciava, il modo in cui facevamo l’amore sesso. Iniziò a piovere, la mia felpa zuppa sembrava pesare il doppio ma questo non bastò a fermarmi, scivolai sull’asfalto bagnato imprecando mentre toccavo la caviglia dolorante, mi rialzai a fatica proseguendo senza alcuna intenzione di fermarmi.
Ero terrorizzata, Juan era si vivo ma a che prezzo? Mi considerava una traditrice, aveva scoperto di me e Aj e inoltre gli avevo sparato. Ovunque fossi andata mi avrebbe scovata e uccisa, o peggio.. conoscevo i modi orrendi di Juan, Carlos e molti dei latin kings. Ma almeno avevo Aj, in tutta quella merda continuava a esserci lui. Sempre e solo lui.
 
Mi fiondai verso il portone osservando una donna uscirvi, le sbarrai la strada spaventandola probabilmente, le mie condizioni non erano delle migliori. Tirai su col naso chinando il capo, scusandomi a mezza voce mentre entravo nell’androne buio e dall’odore di muffa, era confortante mi sentivo finalmente al sicuro. Salii in fretta i gradini tenendomi al corrimano, i miei piedi nudi e bagnati sembravano fatti di cera e non volevo correre di certo il rischio di stramazzare al suolo e restarci secca. Ero appena sfuggita a uno strangolamento in piena regola, la mia voglia di vivere e l’adrenalina schizzavano lungo le pareti del mio cervello rendendo il mio corpo un fascio di nervi.
La porta era socchiusa, mi bloccai col respiro affannato, perché? La spinsi lentamente e non so bene il motivo per la quale divenni cauta nei movimenti, fissavo solo la luce dello studio accesa e delle voci concitate al suo interno.
«Adesso che Juan ha scoperto chi sei devi stare attento». Riconobbi la voce ma non seppi catalogarla.
«No, Juan non ha scoperto un cazzo di niente su di me». Quella la riconobbi eccome.
«Hai capito il concetto, recidi ogni legame e non farti vedere in giro.»
«B-bomb so badare a me stesso, tu piuttosto pensa ai ragazzi e all’agguato di dopodomani, non voglio ci restiate secchi». I suoi occhi incrociarono i miei, ero ferma sulla soglia mentre osservavo la mia vita cadere a pezzi. Juan aveva detto la verità.
«Hope». Avevo da sempre una predilezione per il modo in cui diceva il mio nome, ma quella sera mi disturbò. Fissai il ragazzo dalla pelle d’ebano accanto a lui.
«E’ la donna di Hernandez?». Sorrisi ma fu più una smorfia.
«Aveva ragione lui, mi hai usata per passare informazioni a loro..» continuavo a fissare B-bomb desiderando la pistola che giaceva purtroppo sul pavimento della mia camera accanto al corpo urlante di Juan. Vidi il ragazzo avanzare verso di me, sembrava minaccioso ma io non avevo paura, Aj si mise tra noi fissandolo.
«No». B-bomb continuò a guardarmi mentre io voltavo le spalle a tutta quella merda incamminandomi verso l’uscita. Sentii la presa sul mio polso, la scrollai con ferocia fissandolo.
«Mi fai schifo.»
«Hope, non è così». Il suo solito tono con una lieve sfumatura di nervosismo.
«Ho frantumato la mia già pessima vita per un tizio che non mi ha mai detto chi fosse. Dovevo capirlo, dovevo capire il perché tutti quei misteri». Mi fissò interdetto, voleva prendermi ancora in giro.
«Pensi fosse a causa loro?». Non lo era? Non mi importava, non più. Lo schiaffeggiai con forza e sentii un’imprecazione alle sue spalle. B-bomb ci fissava.
«Sei solo un ammasso di merda, Aj». Gli diedi le spalle e stavolta non mi voltai più mentre percorrevo a ritroso il percorso, stavolta senza alcuna enfasi o fretta. Niente più adrenalina, niente più batticuore, a che pro in fondo? Adesso ero sola, avevo perso tutto e tutti. Non che avessi mai avuto granché, ma quantomeno un letto in quella topaia mi era da sempre stato riservato. E adesso? Cosa restava adesso? Non sapevo dove passare la notte, che ne sarebbe stato di me? Le lacrime si mischiarono alla pioggia ormai scrosciante mentre camminavo senza meta unica superstite in quella valle desolata.
Estrassi il cellulare digitando con forza il numero due della tastiera, le gocce mi rendevano difficile la lettura, il numero di Nicole apparve come un faro nella notte. Premetti la cornetta verde e attesi. La risposta arrivò imminente.
 
«Hope, ma che è successo». Tremavo di freddo di fronte la sua porta, le mie labbra erano livide e gli arti totalmente intorpiditi. 
«Posso.. posso entrare?»
«Ma certo, dio mio vieni». Mi circondò le spalle accompagnandomi dentro, il tepore della casa non sciolse i miei muscoli né tantomeno il mio cuore ghiacciato. Mi portò con se al piano superiore, mi diede abiti puliti e riempì per me la vasca con acqua bollente e sali profumati. La lingua sembrava incollata al mio palato, non riuscivo nemmeno a ringraziarla, era una fortuna che non parlasse né chiedesse spiegazioni. Lei più di chiunque altro sembrava capirmi.
Ero sommersa da acqua e schiuma, fissavo la parete di fronte a me vedendo il viso di Aj e B-bomb, poi Juan che mi strangolava, ancora lui riverso a terra. E Carlos, e mia madre. Scivolai lentamente e mi forzai a non riemergere, volevo morire così. Ma l’istinto è qualcosa di troppo forte, il mio corpo si sporse furiosamente verso l’alto e io annaspai lasciando che l’aria rientrasse nei miei polmoni.
Venti minuti dopo sedevo sul divano accanto a Nicole, reggevo una tazza di tisana tra le mani e finalmente riuscii anche ad osservare l’arredamento. Era carino, abitava in una zona tranquilla e tutto sembrava perfetto.
«Vuoi dirmi cosa è successo?». Scossi il capo mentre lacrime silenziose solcavano le mie guance, erano fredde e mitigavano il bruciore della pelle.
«Vorrei stare qualche giorno qui, se non è di troppo disturbo». Mi accarezzò i capelli ancora umidi.
«Ma certo, Hope vorrei capissi che io sono dalla tua parte». Tirai su col naso asciugandomi le lacrime, anuii e ne fui sinceramente convinta per la prima volta. Le accennai qualcosa, omettendo la scoperta su Aj.
«Non preoccuparti, è stata legittima difesa nessuno verrà ad arrestarti». La fissai sbigottita, io non avevo paura della galera, ma dei Latin Kings. Anzi forse il carcere mi avrebbe protetto. Annuii ugualmente senza dire altro, per quella sera credevo di aver già fatto e detto troppo.
 

AJ

 
Spensi la sigaretta accendendone un’altra, le mie mani non riuscivano a star ferme. I suoi occhi mi tormentavano, l’avevo cercata dappertutto in quelle ore e adesso all’alba mi trovavo sul divano a maledire solo ed esclusivamente me stesso. Le sue parole mi tormentavano, aveva frainteso e la colpa era mia. Come poteva anche solo pensare che l’avessi frequentata per ricevere informazioni? Il modo in cui i miei occhi la scrutavano, in cui osservavano ogni dettaglio, il modo in cui le mie mani la toccavano, come diavolo..
«Dimentica la puttana e passiamo oltre». I miei occhi torvi si poggiarono su Matthew, uno dei ragazzi di B-bomb.
«Nessuno ha chiesto la tua opinione». Il silenzio calò nella stanza, eravamo in tre ma la tensione così alta da farmi divenire claustrofobico.
«Sarà già andata da quei bastardi ispanici a spifferare tutto. Ciuccerà il cazzo a Juan e verrà dimenticata ogni cosa». Respirai profondamente, fu questione di pochi attimi prima che la mia mano afferrasse la pistola sul tavolo e gliela puntasse contro. B-bomb si alzò mettendosi in mezzo.
«CHE CAZZO CREDETE DI FARE. AJ DATTI UNA CALMATA». Continuai a tenere l’arma puntata contro Matthew che dal canto suo si fece avanti afferrando la propria.
«Io sono perfettamente calmo, ed è con calma che ti spappolerò il cervello figlio di puttana». Sorrisi premendo appena il grilletto, le mani di B-bomb mi spinsero lontano, afferrò Matthew per il colletto della polo sbattendolo fuori dalla stanza, voltandosi verso di me.
«Sei sicuro? Sei così sicuro di lei?». Abbassai la pistola gettandola sul tavolo.
«Non la conosci, lei non è come me. Come te. Come tutta questa merda – mi scompigliai i capelli imprecando silenziosamente – me lo devi B-bomb, mi devi un favore e tu lo sai». Mi guardò e tra noi passarono troppe cose che pensavamo ormai passate.
«Allora dammi qualche ora». Ci fissammo ancora e annuii, avrei saputo dove cazzo stava in un modo o nell’altro e avrei risolto le cose.
 
***
 
«Non è tornata in quella topaia di casa, e a quanto ne so è successo un casino». L’accendino scattò una volta e l’odore di erba pervase l’aria. Seduti sui gradini di casa ci passavamo una canna come se non avessimo alcun pensiero.
«Che cazzo è successo quella notte. L’ho mollata a quella merdosissima festa e poi?» B-Bomb mi fissò per poi deviare verso un punto alle mie spalle, mi voltai osservando Matthew e altri ragazzi della banda venire verso di noi, era evidente volesse scusarsi. Non lo fece verbalmente, si limitò a fissarmi e chinare il capo ascoltando una storia che forse già sapeva.
«Un ragazzino che vive lì mi ha dato informazioni in cambio di erba. A quanto pare Juan e Hope hanno avuto una discussione feroce, e lei ha sparato – si bloccò fissando la mia espressione, mi contenni mostrandomi freddo e vuoto – non lo ha ucciso, purtroppo mi sento di aggiungere, la pallottola lo ha solo colpito di striscio al braccio. Il problema è Carlos. Vuole la sua testa». Annuii carezzandomi il mento, la barba punse le me dita.
«L’unica testa che penderà sarà quella di Carlos». Ci fissammo mutuamente.
«Lo sai che siamo sempre pronti». Rise divertito e gli altri lo seguirono.
«No. Farò da me». Mi alzai mollandoli lì, proseguendo lungo il marciapiede come se fossi diretto da qualche parte. La realtà era che non avevo una meta, e questo per la prima volta sembrava destabilizzarmi. Mi ero trincerato per anni in una vita da vagabondo, avevo vomitato addosso alle catene sui miei polsi eppure Hope era diventata lentamente un percorso. Ogni curva del suo corpo ritratta nel mio dipinto era una strada, e adesso tutto era totalmente buio.
 

Hope

 
Erano passati quattro giorni da quella notte, il mio corpo sembrava riprendersi ma la mia anima era ridotta un cumulo di cenere. Non ero andata a scuola, mi ero barricata in casa di Nicole con il terrore che venissero a cercarmi e facessero del male anche a lei. Non era andata così fortunatamente, neppure Aj si era fatto sentire. Il suo nome provocò una fitta dolorosa al petto, strinsi la stoffa della maglia tra le dita, una smorfia alterò i miei lineamenti e Nicole se ne accorse.
«Stai male?». Mi fissò preoccupata dalla scrivania nella quale lavorava, togliendo gli occhiali.
«No..» scossi il capo sorridendo mesta, in fondo sapevo che per quel dolore non esistevano medicine.
«Hope.. vedi ancora quel ragazzo?». Restai in silenzio qualche istante, cercando di capire di chi parlasse salvo poi ricordarmi che le avevo detto di Lui.
«Non proprio, perché?». Mi sorrise, sembrava sollevata eppure ero certa non si conoscessero.
«Pura curiosità, sai ha l’aria di qualcuno con una vita complessa, e per quanto tu possa tendere loro una mano ..le vedrai sempre tirarti a fondo». Già, probabilmente Nicole non aveva idea di quanto avesse ragione. Respirai profondamente e il mio cellulare vibrò, lo fissai sentendo le mani tremare. Era lui? Mi stava cercando? Presi un bel respiro prima di aprire la cartella, e ciò che lessi mi sconvolse.
 
''Sono la mamma, ti prego ho bisogno del tuo aiuto.''
 
Il cellulare mi cadde dalle mani, come avevo fatto a non pensarci? Carlos era sicuramente furente, e non trovando me se la sarebbe presa con lei. Gli occhi si riempirono nuovamente di lacrime, avevo condannato a morte mia madre? Avevo desiderato la sua morte e adesso il solo pensiero che qualcuno le facesse male mi scavava una voragine nel petto. Mi alzai di scatto e Nicole sobbalzò.
«Devo uscire..». Notò probabilmente il mio nervosismo e si preoccupò.
«Hope, non fare niente di stupido..»
«No, non temere». Sorrisi tremante, odiavo mentirle. Afferrai il giubbotto e prima di uscire passai dalla cucina rubando un coltello, lo ficcai dentro la felpa incastrandolo al pantalone e uscii. Mi venne in mente il ragazzino con l’arma nascosta sotto la giacca logora, ero diventata come lui? No, io volevo solo proteggere me stessa e ciò che amavo. 
Continuai a voltarmi ogni cento metri, e quando arrivai al mio quartiere li ridussi a venti temendo che qualcuno mi seguisse. Non potevo rischiare che Juan, Eric o altri mi vedessero. Il mio piano era semplice, entrare in casa e trascinare mamma con me. Solitamente la sera Carlos vedeva i Latin Kings, avrei avuto tutto il tempo di fuggire.
Casa sembrava sempre uguale, i proiettili conficcati allo stipite erano ancora quattro e la solita puzza di chiuso mi accolse quando girai il pomello. Il non chiudere a chiave era un atto dispregiativo di Carlos nei confronti della gente, come a dire ‘’vedete? Io dormo con la porta aperta perché sono intoccabile, e voi merde’’. Lurido figlio di puttana. Chiusi l’uscio piano guardandomi attorno.
«Mamma..?». Sussurrai quelle parole col cuore pieno d’angoscia, temevo di vederla riversa da qualche parte ma dopo una breve perlustrazione della casa mi resi conto che lei non c’era. Non c’era nessuno. Tornai nel soggiorno pronta ad andare via ma un rumore mi colpì come un proiettile in testa.
«Vai via senza salutare?». La voce di Carlos mi raggelò, mi voltai lentamente e lo vidi seduto sul divano. Era sempre stato lì? Probabilmente la controluce gli aveva fornito una sorta di illusione ottica, solo sapendo dove fissare riuscivi a vederlo.
«Dov’è mia madre». Lo guardai rabbiosa toccandomi il ventre, sentivo la durezza del coltello.
«Eri lì che giravi e giravi chiamando ‘’mamma mamma’’ – scimmiottò la mia voce con disprezzo alzandosi lentamente e mostrandomi il cellulare – hai creduto sul serio che lei ti avesse cercata? Non vali un cazzo Hope, neppure si è resa conto che sei sparita». Arretrai di qualche passo estraendo il coltello che gli puntai contro.
«Ho sparato a Juan, pensi non abbia il coraggio di accoltellare te?». La mia mano tremò la coprii con l’altra.
«Avanti allora, fallo. Fallo perché oggi morirai. Ma prima mi passerò il mio personale piacere con te». Arretrai ancora osservandolo slacciare i pantaloni, mi si bloccò il respiro in gola.
«Non ti avvicinare». Qualcosa scivolò sotto i miei piedi facendomi perdere l’equilibrio, Carlos approfittò di quel momento per avventarsi contro di me. Il coltello cadde contro il pavimento, la mia testa sbatté violentemente a terra e per un secondo temetti di perdere i sensi. Quando vidi Carlos sopra di me, il suo ginocchio tra le mie cosce, desiderai ardentemente di svenire e rinvenire quando tutto sarebbe finito.
«NON MI TOCCARE, SCHIFOSO BASTARDO». Urlai beccandomi uno schiaffo in pieno viso, il suo peso era eccessivo e non riuscivo a togliermelo di dosso. Le sue mani sudice mi strapparono la felpa e slacciarono i pantaloni, toccandomi ovunque soprattutto in mezzo alle cosce. Il pianto divenne singhiozzo mentre provavo a spingerlo.
«Andiamo non essere drammatica, il cazzo ti piace è solo che non vuoi ammetterlo. Tra qualche minuto urlerai pregandomi di continuare». Era un incubo, era tutto uno schifoso incubo. Lo sentii armeggiare con i miei pantaloni che abbassò con uno scossone violento, le mie unghie graffiarono il suo viso, mi bloccò i polsi con una sola mano e gli vidi uscire quell’orribile e puzzolente fallo dalle mutande. No non stava succedendo davvero, urlai ancora ma un rimbombo allucinante sovrastò persino la mia voce. Sentii il peso di Carlos collassare su di me, mentre qualcosa di umido e appiccicoso colava sul mio viso e infine lo vidi: Aj in piedi di fronte a me con una pistola tra le mani.
«Hope..» mi venne incontro togliendomi Carlos di dosso e in quel momento vidi il suo viso, o meglio quello che ne rimaneva, toccai il mio e mi resi conto di essere totalmente imbrattata di materia cerebrale e sangue.
«Mi hai sparato..» non riuscivo a crederci, iniziai a tremare violentemente.
«No, ho sparato a lui e dobbiamo andar via». Mi fissò la felpa e poi i pantaloni abbassati con rabbia. Mi sollevò quasi di peso rivestendomi in fretta.
«MI HAI SPARATO». La mia isteria toccò vette a me sconosciute mentre passavo ossessivamente le mani sul viso, mi sentii scrollare con forza.
«Hope ho mirato a lui, non potevo sbagliare o non lo avrei mai fatto». Era serio? Poteva dirottare per sbaglio il tiro e maciullarmi. Continuai a tremare e vidi il terreno mancarmi sotto i piedi, pensavo stessi per svenire salvo poi rendermi conto che mi aveva preso tra le braccia portandomi fuori di peso.
«La polizia.. la polizia ti arresterà». Gli afferrai la maglia e probabilmente finii con lo strappargliela.
«Non risaliranno a me, penseranno sia stata qualche banda rivale». Continuai a strattonarlo scossa dai singhiozzi mentre vedevo la mia vita passarmi davanti agli occhi. Era normale? No. La normalità era qualcosa che mai avevo sperimentato prima, la mia esistenza era costellata da sangue e violenza. Mi mise quasi a forza sulla moto e io rischiai di cadere circa tre volte, ma le sue mani erano sempre su di me. Sentii in lontananza le sirene della polizia, e rabbrividii.
 

 

AJ

 
Non avevo fatto altro che appostarmi vicino casa di Hope durante gli ultimi giorni, conoscevo Carlos ed ero sicuro l’avrebbe presa in trappola con i suoi mezzucci. Hope non frequentava più le lezioni e nessuno sapeva dove fosse, il solo modo di beccarla era farla venire nella tana del lupo. Quando vidi la sua sagoma furtiva aprire la porta di casa il mio corpo ebbe uno spasmo, avevo pessimi presentimenti a riguardo e l’urlo di qualche minuto dopo non aveva fatto altro che confermarmelo. Carlos doveva morire, ferirlo era inutile, una scoria come lui doveva solo trapassare senza alcun rimpianto. E non mi c’era voluto poi molto coraggio mentre assistevo al tentato stupro della ragazza per cui mi sentivo impazzire. La stessa ragazza che adesso era coperta da un telo e sedeva accucciata sul mio letto fissandomi spiritata.
«Ti vuoi calmare?». Mi alzai andandole vicino, si scostò senza fissarmi.
«Hai ucciso un uomo, torneranno a cercarti». Era questa la sua preoccupazione?
«Non lo faranno, sanno chi è Carlos, niente arma niente impronte e quindi dovranno scegliere il colpevole giocando a ‘’indovina chi’’». Mi fissò truce.
«Beh, tra i tanti concorrenti ci sei tu. Un membro dei Crips». Sputò fuori quelle parole con rabbia malcelata. Mi avvicinai ancora e lei si scostò nuovamente.
«Non sono un membro della banda. Sono un amico di B-bomb, alle volte gli faccio favori. E’ stato lui a trovarmi casa quando mi trasferii qui, lo conosco da sei anni». I suoi occhi si accesero di curiosità.
«Dove lo hai conosciuto?». Sorrisi sghembo, al momento c’erano altre cose che detenevano la mia priorità.
«Hope, non ti ho usata. Quando ti fermai in quella caffetteria sapevo chi eri, ma non ti chiesi di posare per me per sapere qualcosa – mi bloccai, per la prima volta cercavo le parole giuste – volevo passare del tempo con te perché mi ispiravi, mi facevi venir voglia di dipingere in un momento in cui persino l’odore della vernice mi dava la nausea.»
«Perché non me l’hai detto?». L’astio nei suoi occhi diminuì ma era evidente continuasse a dubitare.
«Perché pensavo ne avessi abbastanza di bande e sparatorie. Se ti avessi detto qualcosa i tuoi occhi lo avrebbero rivelato a Juan e saresti stata nella merda, forse non lo sai ..ma sei una schiappa a mentire». Risi di gusto e i suoi occhi ebbero un bagliore, mi piacevano da impazzire.
«I tuoi amici mi odiano». Si stese supina e io la imitai avvicinandomi, stavolta non si scostò.
«Scommetto che entro due giorni dovrò fare a pugni con tutti perché pazzi di te». Le scostai una ciocca di capelli dal viso e la vidi sorridere.
«Quindi anche tu sei pazzo di me?». Mi fissò.
«Io sono pazzo e basta». La sua risata cristallina mi fece sorridere, non immaginava neppure quanto crudele fosse quella battuta nei miei confronti. Le accarezzai il fianco ma si scostò titubante.
«Hope rilassati, non voglio farti niente». Provò a scrutare dentro i miei occhi e ciò che vide evidentemente le piacque perché rilassò le spalle rannicchiandosi contro il mio petto.
«Nicole sarà preoccupata per me». Chinai appena il capo fissandole la nuca.
«Chi è Nicole?»
«La dottoressa Freeman, la psicologa della mia scuola, lei mi ha ospitato. Siamo amiche». Non le permisi di guardarmi limitandomi a tenerla stretta, sorrisi nel buio mentre il mio viso somigliava più ad una maschera grottesca. Il destino sembrava divertirsi alle mie spalle.
«Dormi adesso». La cullai nella penombra della camera, ormai lontanissimo da lei.
«Hai mai ucciso qualcuno oltre Carlos?». La sua voce flebile suonò così lontana, quasi estranea.
«Dormi Hope». Non parlammo più, per la prima volta ero sicuro non avesse dubbi: le avevo tacitamente dato una risposta affermativa.

 
 
Los Angeles, 2003 – Ospedale psichiatrico
 
«Sono la dottoressa Nicole Freeman, e tu sei?»
«Un sedicenne pazzo qualsiasi dottoressa, non si curi di me e vada oltre.»
«Io non ti vedo così.»
«I suoi occhi dicono il contrario dottoressa,  come può pretendere fiducia tenendo tra le mani quella merda?»
«Queste sono delle medicine, qualcosa che ti farà stare meglio.»
«Questa è merda, qualcosa che metterà in loop la mia mente facendomi rivivere sempre le stesse scene.»
«E tu non vuoi vederle?»
«A lei piacerebbe rivedere suo padre carbonizzato?»
«E’ stato un incidente.»
«Ne è sicura?» 


 

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Capitolo 8
*** Alexander ***



 

VIII



Osservai la strada desolata di fronte a me, il South Side non era poi così diverso dal mio precedente quartiere, alcuni ragazzini si radunarono in cerchio iniziando una battaglia di freestyle, mossi il capo a tempo sorridendo, erano parecchio bravi. Non mi accorsi quasi della presenza accanto a me, il che era strano visto che sembravo un girasole perennemente orientata verso il proprio sole personale.
«Aspetti da molto?» Aj in piedi mi fissava divertito, mi ero trasferita da lui, era il luogo più sicuro al momento e non volevo risalissero a Nicole, la mia unica amica, una delle poche persone che tenevano davvero a me. Scossi il capo sporgendomi verso di lui, ricevendo in cambio un bacio che si tramutò in qualcosa di più profondo nel giro di pochi secondi; non era cambiato nulla tra noi, prendevamo fuoco anche solo sfiorandoci, alle volte pensavo che quella pelle, quel corpo, fossero stati creati appositamente per combaciare con me.
«Dov’eri?». Sollevò una busta, indovinai il contenuto senza neppure guardando.
«Il mio ritratto è ormai completo». Lo vidi pensieroso.
«Più o meno, potrei finirlo anche senza te, ma mi piace troppo usarla come scusa per vederti nuda». Lo spinsi con una risata, mi prese la mano incamminandosi con me lungo il marciapiede. Il cielo era terso, neppure una nuvola in quel pomeriggio di metà Novembre. Dall’omicidio di Carlos erano passati otto giorni, nessuno era venuto a cercarci ma tramite Aj sapevo che gli ispanici erano in pieno fermento. A differenza delle altre bande di strada, i Latin Kings avevano una gerarchia ben definita dove vi era un unico capo, un po’ come le associazioni di stampo mafioso. Non sapevo che fine avesse fatto mia madre, fissai il ragazzo accanto a me.
«Hai avuto notizie di mia madre?». Lo vidi esitare, sentivo mi nascondesse qualcosa, gli strinsi con forza la mano bloccandomi per guardarlo.
«Senti Hope ho una notizia, e non so francamente se sia positiva o meno». Il mio cuore perse un battito, mamma stava bene?
«Parla.»
«Ho ancora alcuni amici nel quartiere, beh loro sostengono che tua madre è scomparsa la notte prima che Carlos morisse. E con ‘’scomparsa’’ intendo dire che l’hanno vista fuggire nel cuore della notte». I miei occhi divennero vitrei, fissavo Aj senza vederlo davvero e alla fine sorrisi. Sapevo cosa voleva dire, sapevo il perché fosse stato così restio a dirmelo: mia madre mi aveva semplicemente scaricato scappando. Aveva reciso ogni legame con me senza neppure un briciolo di rimorso. Mi sentii uno scarto ancora una volta, le sue dita sfiorarono la mia guancia.
«Sto bene». Mentivo lui lo capì e mi abbracciò. Mi strinse a se, sentivo il suo odore riempire ogni mio senso, era l’unica cosa rimasta in piedi nella mia scalcinata vita. La sua imprecazione mi destabilizzò, sollevai di scatto il viso e mi allontanai.
«Hope ascoltami bene, inizia a correre e raggiungi la sala giochi dall’altro lato della stata». Lo fissai confusa sentendomi afferrare bruscamente per il braccio, mi spintonò e allora lo vidi: dall’altro lato della strada, un coltellino nelle mani, era uno dei Latin Kings.
«No, non ti lascio». Mi spinse ancora fissandomi.
«Se non torno entro cinque minuti di a B-bomb di venire. CORRI». Me lo urlò con talmente tanta rabbia da lasciarmi senza fiato. Annuii sconvolta iniziando a correre senza più voltarmi indietro, dovevo  solo raggiungere la sala giochi, non avrei aspettato i suoi maledettissimi cinque minuti da eroe consumato. Spalancai la porta incurante delle occhiate, scrutando la sala convulsivamente finché non trovai il soggetto delle mie ricerche.
«B-BOMB». Gettò la stecca sul tavolo venendomi incontro, diciamo che i nostri rapporti si erano vagamente distesi da quando aveva capito che la mia fedeltà andava unicamente ad AJ. Non ebbi il tempo di raccontargli nulla, la voce familiare alle mie spalle rischiò di farmi svenire. Ci fissammo simultaneamente tutti e tre, e io capii che pessime notizie erano arrivate a rovinare la pace di quella giornata.
«Andiamo nella saletta privata». B-bomb annuì facendoci strada, il luogo in questione era simile a uno sgabuzzino, forte odore di fumo e un pressante bisogno di pulizia vista la polvere su ogni mobile. Mi sedetti sul divanetto consunto tenendo convulsamente la mano di Aj.
«Mi aspettava dall’altro lato della strada, era Joseph uno degli amici di Carlos». La sala si riempì in poco tempo, eravamo adesso in sette e tutti trattenevamo il respiro.
«I Latin Kings non sono così incauti da varcare i confini per giunta soli». Fu Matthew a parlare e io annuii. Aj riprese a parlare.
«Non erano venuti per cercare una rissa, mi hanno proposto un accordo». Il pugno chiuso di B-bomb si schiantò contro il tavolo.
«Hanno fegato quei fottuti ispanici. Che accordo? Magari potrebbe convenirci, stiamo perdendo troppi ragazzi.»
«Non ho intenzione di accettare» Aj deglutì consapevole di ciò che aveva detto, e io lo fissai sbalordita alzandomi di scatto.
«Sei pazzo? L’accordo è ciò che ci serve per vivere in pace». La sua morsa ferrea serrò il mio polso, me lo torse quasi dolorosamente e in mezzo a quel frastuono la mia mente si rischiarò.
«Vogliono te. Hope per la tregua e l’omicidio di Carlos». Le ginocchia mi cedettero e ricaddi sul divano. Mi avrebbero data  a loro senza pensarci, in fondo io non valevo un cazzo per i Crips, e Aj solo che poteva fare?
«Figli di puttana..» Carter imprecò a mezza voce accendendosi una sigaretta.
«Accordo negato, dillo ai Latin Kings e riferisci loro che Juan seguirà nella tomba Carlos molto presto». B-bomb sorrise mentre emetteva quella sentenza di morte, ci fissammo e per la prima volta lo vidi sorridere.
«Sono state queste in effetti le parole che gli ho detto». Aj,perennemente impertinente, arrogante, assurdo come sempre. Piombò il silenzio che finì in risate e strepiti.
«Stasera festeggiamo. FORZA CRIPS.»
 
***
 
L’alcool si disperdeva come un fiume in piena, avevo perso il conto dei drink passati dalle mie mani, non riuscivo neppure a capire da dove venissero. Aj accanto a me rideva con alcuni ragazzi, mi piaceva fissarlo sembrava essere a suo agio in qualsiasi ambiente egli si trovasse, come se fosse nato per vestire qualsiasi tipo di abito nonostante quell’aura di prestigio non lo abbandonasse mai. B-bomb prese posto accanto a me passandomi quella che sembrava una canna, l’odorai aspirandola poi titubante ed ebbi un conato di vomito che gli provocò convulsioni a furia di ridere.
«Non posso ancora credere tu sia l’ex donna di Hernandez». Non ci potevo credere neppure io come biasimarlo quindi?
«Conosci da molto Aj?». Fissammo entrambi il soggetto in questione poco lontano intento a bere circondato dalla folla.
«Circa sei anni». Strabuzzai gli occhi, ero sicura sapesse molto più di me e questo mi mise tristezza.
«Come vi siete conosciuti?». Divenne improvvisamente evasivo ma sorrise ugualmente.
«Sai cosa? Tu mi piaci Hope, davvero, e penso lui sia pazzo di te. Ed è per questo che dovresti chiedere al diretto interessato». Ancora segreti quindi, sorrisi amaramente.
«Credo di non piacergli abbastanza allora.»
«O forse è proprio il contrario». La sua frase criptica mi destabilizzò, che voleva dire? Aj si vergognava del suo passato? Era così atroce da non potermelo raccontare?
«Posso solo dirti che gli devo la vita, senza di lui sarei impazzito davvero». Non capii neppure quelle parole, ormai sembrava routine.
 
Sfrecciavamo lungo le strade sulla decappottabile di B-bomb, mi alzai sul sedile allungando le braccia la cielo ignorando gli sguardi di tutti coloro che ci osservavano, piccole macchie indistinte senza importanza. Per la prima volta mi sentii felice, libera, sentivo di essere nel posto giusto e con le persone giuste. Non desideravo spogliarmi della mia pelle, la mia anima a brandelli si cicatrizzò ancora un po’ e io abbassai lo sguardo su di lui. Lui seduto che mi teneva saldamente per non farmi cadere, lui che mi fissava in una maniera così intima da farmi tremare le ginocchia, lui custode di segreti atroci, la persona alla quale dovevo la mia vita. La persona alla quale avevo deciso di donare me stessa, per l’eternità.
 
Un’eternità che si consumò nel fulgore di una notte.
 
 

AJ

 
Il suo corpo nudo riverso su di me, sentivo ancora il respiro spezzato mentre ricordavo i momenti vissuti pochi istanti prima. Le sue cosce avvinghiate ai miei fianchi, la sua voce che mi incitava chiamando il mio nome, io che sprofondavo dentro di lei. Era tutto fottutamente perfetto, e questo mi spaventava. Mi stavo aggrappando a lei, era pericoloso, quando il momento sarebbe arrivato come sarei riuscito a sparire silenziosamente? Per una volta desiderai andasse diversamente, avrei fatto il possibile per restarle accanto, e se non ci fossi riuscito avrei fatto il possibile affinché avesse una vita migliore. Anche senza di me.
 
La porta della caffetteria tintinnò appena entrai, l’odore di dolci e caffè colpì le mie narici. Mi sentivo ancora nauseato dalla notte prima e da tutto l’alcool ingerito, eppure la chiamata ricevuta mi era stato impossibile rifiutarla. La vidi seduta in uno degli ultimi tavoli, era sempre uguale come se il tempo per lei non passasse, sollevò una mano per attirare la mia attenzione.. non sapeva sul serio di averla calamitata ormai da un po’?
«Non ci vediamo da tempo, Alexander». Nicole Freeman mi sorrise e io mi sedetti senza ricambiare.
«Come hai avuto il mio numero?»
«L’ho preso dal cellulare di Hope una notte a casa mia, è stato uno shock per me vederti di fronte la scuola». Osservai le sue dita intrecciate, era nervosa quindi? Stavolta sorridere mi venne spontaneo.
«Arriva al dunque dottoressa, non ho molto tempo». O meglio non volevo sprecarlo così e soprattutto con lei o con quelli come lei. Non più.
«Vorrei parlarti di Hope..» annuii appena, era palese fosse lei l’oggetto della nostra discussione.
«Vuoi per caso dirmi di lasciarla perdere? Vuoi offrirmi soldi per sparire? Ricordati che sono ricco di mio». Mi poggiai pigramente allo schienale beffeggiandola, ma lei non mi diede soddisfazione.
«Mi appello al tuo senso di giudizio, Alexander.»
«AJ». La corressi meccanicamente a denti stretti, sospirò bevendo un sorso di tisana.
«Hope è una brava ragazza, pensi di poterti prendere cura di lei? Non riesci neppure a prenderti cura di te stesso..» le sue parole mi disturbarono, allargai le narici freddandola con un’occhiata, sporgendomi con i gomiti sul tavolo.
«Perché non le racconti tutto allora? Magari mi lascerebbe sapendo.»
«Perché non glielo racconti tu?». Era come una partita a scacchi, e in quel momento sentivo che m’avesse mangiato una pedina importante.
«Il passato è passato, e resta dov’è.»
«No, il tuo passato è più presente che mai e diverrà anche futuro finché non lo accetterai. O pensi che l’essere scappato da un ospedale psichiatrico ti renda automaticamente libero?». Il tono di voce ridotto un sussurro. Strinsi i denti scuotendo il capo.
«Tu lo sai. Tu sai che non..» non sono pazzo, avrei voluto dirlo ma la lingua non volle ascoltarmi. Perché?
«Sono solo preoccupata per lei, e anche per te pure se non ci crederai». La fissai in tralice e risi, io le credevo sul serio. Nicole incarnava tutto ciò che disprezzavo perché irraggiungibile per me. Eternamente scissa tra il dovere e i suoi sentimenti, con la testa mi chiedeva un sacrificio e col cuore non riusciva a non darmi almeno il beneficio del dubbio. Annuii appena.
«Non posso lasciarla, lei è diversa. Lei mi fa sentire diverso». Per la prima volta la vidi concordare con me, e allora capii cosa fosse più giusto fare.
«So che lo è, Hope è magnifica». Il suo tono trasudava orgoglio.
«Promettimi una cosa.»
«Cosa?». La voce si incrinò appena, penso temesse l’idea di fare affari con me.
«Se non dovessi più esserci, se dovessi sparire, prenditi cura di lei. E non parlo delle tue fottute sedute inutili, parlo di aiuto concreto». I miei occhi la inchiodarono alla sedia, era evidente non comprendesse fino in fondo l’inizio del mio discorso. Io invece ero aperto a ogni evenienza, sapevo quanto il mio destino fosse spesso infame.
«Non ho bisogno di promettertelo, era ciò che programmavo di fare». Sorrisi soddisfatto rubandole la tazza dalla quale bevvi per poi posarla disgustato.
«Perché bevi questa merda? – mi alzai con una smorfia divertita poggiando i soldi sul tavolo – offro io per oggi, dottoressa.»

 
 
Los Angeles, Ospedale psichiatrico 2003
 
«Morirò qui». B-bomb era nel pieno di un’altra crisi delle sue, gli sedetti accanto nel giardino accendendomi una sigaretta.
«Vuoi andare via da qui?». Mi fissò stralunato, gli occhi lucidi.
«Si. Questo è peggio della prigione, quelle medicine ..quelle medicine mi stanno fottendo il cervello, cazzo neppure la cocaina mi ha mai annientato così». Mi venne spontaneo ridere, scossi il capo facendo un tiro dalla sigaretta riflettendo.
«Posso farti fuggire». I suoi occhi divennero attenti.
«Come?»
«Il come ti verrà spiegato a tempo debito, ma ricordati: adesso mi sei debitore». Ci fissammo in silenzio.
«Un patto è un patto». Annuii soddisfatto, avevo sedici anni e una vita distrutta mentre con quei mezzucci subdoli provavo a ricostruirla pezzo dopo pezzo.
B-bomb fuggì dall’istituto grazie a me e alle mie mazzette due settimane dopo, nel cuore della notte, ci salutammo oltre l’inferriata e nei nostri occhi ripassò ancora una volta quella promessa. Non gli dissi addio, non ne avevo bisogno in fondo: lo avrei rivisto presto o tardi.

 
 

Hope

 
Lavai ossessivamente e per due volte il pavimento della casa, sistemai le cianfrusaglie sparse qui e lì, misi in lavatrice i vestiti e mi sedetti sul divano fissando la finestra. Aj era uscito senza più tornare, era quasi ora di cena e non avevo ancora notizie di lui. Ero preoccupata, temevo andasse con gli altri a risolvere la faccenda coi Latin Kings senza di me, nonostante sapessi di non potergli essere d’aiuto già il fatto di essere con lui mi rendeva più sicura.
Chiusi gli occhi poggiando una mano sul cuore, mi concentrai sul mio battito immaginando fosse uguale a quello di Aj e mi convinsi stesse bene. Poche ore prima sistemando avevo trovato una busta ancora sigillata contenente della polvere bianca, era cocaina. La usava ancora quindi? Mi chiedevo che tipo di dolore covasse, e se quella roba servisse sul serio, mi voltai a fissarla sul tavolo vicino a me e sorrisi senza un reale motivo. Volevo solo capire. Mi alzai sedendomi, non era poi così difficile prepararla, bastava tagliarla e allinearla no? Mi ci misi d’impegno arrotolando infine una misera banconota da pochi dollari, fu in quel momento che una mano mi bloccò il polso, sollevai il viso e Aj apparve come per incanto.
«Cosa pensi di fare?». Il suo tono tagliente mi colpì.
«Non lo fai anche tu?». Senza dire nulla afferrò la droga sparendo oltre la porta, sentii il rumore dello sciacquone e poi i suoi passi nuovamente dentro la stanza. Lo sgabello scricchiolò, si era appena seduto.
«Se pensi che quella ti dia risposte, o peggio ti faccia dimenticare, beh ti sbagli. Lo posso dire con assoluta certezza». Allargò le braccia e per un istante mi sembrò di vedere un Aj sconosciuto, più consapevole e padrone di se.
«Hai detto che riuscivi a spegnere le voci nella tua testa.»
«Ed è vero, ma a che prezzo? Finisco ogni giorno scivolando nel baratro, le voci non muoiono anzi si arricchiscono sempre di più». Un dolore nascosto e sepolto nel tempo ingobbì le sue spalle, mi alzai andando da lui abbracciandolo da dietro.
«Vorrei che riuscissi a fidarti abbastanza di me..» percepì il mio dolore, lo assimilò probabilmente provando a renderlo suo.
«Ho sempre pensato che amare qualcuno equivalesse a far crollare le barriere, diventare un’unica cosa». Dimenticai come si respirasse mentre ascoltavo quelle parole per me surreali.
«Aj..»
«Non è così. Penso, anzi no, sono sicuro di essermi innamorato di te ma continuo a restar fermo sempre nello stesso punto». Sentii le lacrime pungermi gli occhi, la voce venne meno per un istante.
«Se non verrai tu da me, allora sarò io a farlo. Sempre». Lo strinsi più forte e fui sicura stesse sorridendo.
«Sono sicuro lo farai. Sei Hope. »
«Anch’io». Restammo in silenzio, lui sapeva a cosa stessi rispondendo.
 
L’amore non ha definizioni, non ha cliché e non è stereotipato come pensano in molti. Me ne resi conto nei giorni vissuti con lui, il suo modo di amarmi ero sicura non lo avrei sperimentato mai più. Il suo amore era come veleno per se stesso, lo vedevo quando mi guardava e toccava, sentirsi inadeguato in un sentimento che non riusciva a gestire. Mi amava ma non riusciva a muoversi e avanzare verso di me, bloccato lì ad abbracciare i suoi mostri.  

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Capitolo 9
*** Getsemani ***



 

IX


Il ciuffo ricadde sulla mia fronte sudata, lo sentivo ansimare dietro di me sorrisi stringendo i denti e velocizzando il passo. La sua risata mi seguì lungo la via, mi voltai iniziando a correre all’indietro.
«Correre all’alba è da coglioni, ma sai cosa lo è di più?». Mi fissò con i suoi occhi penetranti, quel giorno erano cangianti.
«Cosa, sentiamo.»
«Acconsentire e correre insieme a te». Scoppiai a ridere e lui ne approfittò per superarmi, tornai a voltarmi per riuscire a colmare le distanze tra noi. Correre mi aiutava a pensare, a rimettere insieme i pezzi della mia vita che aveva subito troppi cambiamenti. Il rumore della palla da basket sbattuta ripetutamente sul terreno sembrava quasi lo scandire del tempo, fissai le sue dita affusolate prenderla e lanciarla ancora e ancora, e mi persi un po’..
Novembre era scivolato via tra feste, pianti soffocati nel cuore della notte, dichiarazioni d’amore e risse tra i vari quartieri. Il perno costante era AJ, lui era sempre accanto a me, ormai avevamo scoperto l’uno le abitudini dell’altro e vivere insieme non sembrava poi così male. No, mi correggo, vivere insieme era l’unica cosa che mi teneva ancorata a quel mondo. Avevamo dato il benvenuto a Dicembre, l’aria si era riempita di atmosfera natalizia e freddo pungente, i nostri cuori non erano mai stati così caldi però.
«Prendila al volo». La sua voce mi riscosse dal mio torpore, vidi la palla arrivarmi dritta in faccia e per poco non ci lasciò lì la forma, l’afferrai balzando indietro per lo spavento.
«Sei deficiente?». Lo rimbrottai più acida del dovuto e l’unica cosa che ne ricavai fu un’altra risata di scherno, per quanto riguardava il mio assolutamente misterioso fidanzato nulla sembrava cambiato. Lo vedevo la notte sudare e parlare nel sonno, continuava a combattere i suoi demoni e amarmi contemporaneamente, ma io restavo perennemente ai margini. Iniziammo a palleggiare fissandoci maliziosamente, andare al parco per fare sport era divenuta una piacevole routine. Sentii degli occhi fissarmi, mi voltai e vidi una bambina dai capelli rossicci seduta su una panca, aveva gli occhi più azzurri che avessi mai visto e la madre accarezzava le sue trecce intenta a passarle un gelato. Le sorrisi ma non ricambiò, mi fissava quasi con invidia e questo mi divertì. Era prerogativa dei bambini anelare l’adolescenza, l’età adulta, e io avrei tanto voluto raggiungerla e dirle che no si stava sbagliando. La mia età non era solo feste e fidanzati, l’età più bella era proprio quella che stava attraversando lei, con le cure di una madre amorevole e tanti rapporti senza pretesa. Il viso di mia madre mi balzò alla mente, dov’era? Con chi? Ma soprattutto perché era andata via. Alla fine si era resa conto di quanto marcio fosse Carlos, o almeno speravo, e probabilmente io ero rientrata nel mucchio a forza. Una pallonata mi colpì in testa facendomi barcollare, mi afferrò il polso velocemente strattonandomi verso di lui, ricaddi contro il suo petto e lo fissai indispettita.
«Odio quando ti perdi». La sua voce come zucchero.
«Se io perdessi te passerei la mia vita a cercarti». Non mi rispose come sempre, limitandosi ad un sorriso ambiguo. Riprendemmo a palleggiare e quello fu un altro giorno felice insieme a lui.
 
 
La scritta ‘’freedom’’ spiccava sul muro di cinta della scuola, posai la vernice allontanandomi di qualche metro per osservarla meglio, era venuta bene. Non avevo sicuramente il ‘’dono’’ come AJ ma supponevo la scuola ne sarebbe rimasta soddisfatta. Avevo pensato spesso a quel graffito e avevo deciso di riprodurlo per il lavoro che mi avevano affidato.
«E’ bellissimo». La voce di Nicole mi costrinse a sorridere, mi voltai giungendo le mani a mo di preghiera.
«Dici sul serio?». Annuì accarezzandomi i capelli, riusciva ad essere molto materna.
«Come stai Hope?»
«Benissimo». Non ci riflettei molto per rispondere, mi balzò semplicemente alla mente il suo viso e rispondere divenne quasi automatico. Mi scrutò con attenzione come se volesse cogliere tracce di bugie, e quando non le trovò sembrò rasserenarsi.
«Ho una notizia per te». La fissai fintamente scocciata.
«E io che pensavo fossi qui per vedere il mio capolavoro». Indicai il murales e scoppiammo entrambe a ridere. Estrasse dalla tasca un bigliettino spiegazzato.
«Ti ho trovato un lavoretto part-time, una caffetteria che frequento sempre. Andrew il proprietario è mio amico, ha detto che gli servirebbe una barista nel periodo natalizio». Afferrai il pezzo di carta mordendomi il labbro.
«Nicole, grazie davvero.. per tutto quello che fai, io..» non riuscii a finire, le sue braccia mi avvolsero strette e io ricacciai indietro le mie stupide lacrime.
«Hope, vivi ancora con quel ragazzo?». Mi riuscì difficile non notare il velo di preoccupazione insito nei suoi occhi e nella sua voce, mi scostai appena annuendo impercettibilmente.
«Nicole, AJ è un bravo ragazzo e so che può sembrare strano, o misterioso, ma lui ci tiene davvero a me». Deglutii nervosamente, non sapevo bene perché ma avere la sua approvazione per me era importante.
«Ci sono molte cose che non sai di lui..» lo conosceva? Perché parlava come se lo conoscesse? Era impossibile.
«Tu..lo conosci?». Mossi un passo verso di lei, ero incerta e traballante come se la terra si fosse appena mossa bruscamente.
«Ne parleremo, te lo prometto. Verrò a trovarti in caffetteria uno di questi giorni». Mi accarezzò ancora una volta ma a me non bastava più. Volevo dicesse cosa sapeva su AJ. Una voce ci interruppe, il preside la chiamò e lei sparì così com’era venuta. Fissai nuovamente il graffito, era la libertà quella che volevo ma puntualmente finivo per incatenarmi io stessa con dubbi paure e curiosità. Forse non era la libertà quella che cercavo?

 
 

AJ

 
«Un lavoro?». Masticai lentamente fissandola di fronte a me, la vidi annuire con un mezzo sorriso tornando a guardare gli spaghetti.
«Ricordi la dottoressa Freeman?». Scrollai le spalle.
«Vagamente». Ero bravo a mentire ma per qualche motivo lo scintillio nei suoi occhi mi fece pensare che forse non lo ero poi molto. Avevamo cucinato insieme come al solito, la routine non mi stava inesorabilmente uccidendo come avevo pensato, forse perché una reale routine non c’era davvero. Ogni cosa fatta con Hope era degna di lode, sempre nuova e mai noiosa, persino le sue stupide corsette all’alba, il suo modo scomposto di dormire e lamentarsi nel sonno, tutto mi entrava dentro impregnando la mia essenza e non ne usciva mai.
«Beh, è stata lei a trovarmelo. Verrai?». Mi sorrise speranzosa, masticai fingendo indifferenza.
«Per morire avvelenato dai tuoi caffè? No grazie». Un calcio mi colpì da sotto il tavolo, imprecai soffocando una risata fissandola divertito.
«Notizie dai Latin Kings?». L’atmosfera cambiò nuovamente, sospirai poggiando la forchetta sul piatto adesso vuoto.
«Si preparano tutti all’agguato. I Cruz sono pronti, e i Lating Kings sanno bene che verranno. Dovranno giocare sul poco effetto a sorpresa rimastogli». Il suo viso imbronciato e pensieroso mi spalancava una voragine di fuoco allo stomaco. Mi alzai facendo il giro, costringendola quasi ad alzarsi per poi attirarla contro di me.
«Non voglio che tu vada». Annuii dandole un bacio a fior di labbra.
«Se non vuoi non andrò». Sorrise e il suo volto tornò a rischiararsi come per magia, ero io il padrone dei suoi sentimenti, come se comandassi lo strano interruttore dentro di lei.
«
Promesso?»
«Promesso». La baciai con trasporto, le sue piccole mani sollevarono la mia maglia mentre la trascinavo verso la camera da letto in penombra. Ci spogliammo con urgenza, o forse ero solo io a sentirmi agonizzante. Il suo corpo nudo, i suoi capezzoli che sfregavano contro il mio petto, le cosce seriche avvinte ai miei fianchi era tutto assurdo, il mio mondo sembrava capovolgersi ad ogni spinta, ad ogni dito intrecciato, ogni goccia di sudore che scivolava sulla schiena, ogni ansimo, ogni scoppio di piacere che riversavo su di lei.
 
***
 
– Buon natale Aj.
– Kevin mancano ancora due giorni.
– Mi porto avanti, sia mai non rispondessi quel giorno.
– Come vanno le cose?
– Una merda, ma grazie per averlo chiesto Alex!
– Piantala.
– Devi tornare a casa, lo capisci? Qui è tutto a soqquadro, quel bastardo di tuo zio..
– Lo so, si crede il padrone.
– Lo crede perché tu non ci sei. Alexander, hai ventidue anni adesso non potrà più internarti né manipolarti.
–  So anche questo, perché pensi mi sia nascosto fino a oggi?
– Sai tutto tu che bello. E allora torna a casa, cazzo. TORNA.
 
Chiusi la chiamata con un sospiro, Hope mi guardò attraverso il bancone sorridendo felice di vedermi. Adesso era lei il motivo per la quale non potevo tornare. Avrebbe mai capito? Era il momento di raccontarle la verità? Di dirle perché sembrassi sempre un fuggiasco? Mi sedetti al tavolo e due minuti dopo una tazza di caffè si materializzò davanti ai miei occhi.
«Chi era al telefono?». Sollevai il capo sorridendo sghembo.
«Temi per caso mi senta con altre?». Sospirò mettendo le mani sui fianchi, era divertente esasperarla.
«Perché non dici semplicemente ‘’non voglio dirtelo’’?». Mi conosceva così bene da destabilizzarmi.
«Dobbiamo parlare – il suo viso si adombrò, e io risi a bassa voce – Non fare quella faccia.»
«Quando? Di cosa? E perché?». Sollevai le mani in segno di resa.
«Vacci piano tigre. Ne parleremo, ma non ora. Godiamoci i giorni di festa, e prima che l’anno nuovo arrivi giuro che parleremo.»
«Promesso?». Mi squadrò da capo a piedi.
«Promesso». Era l’unica a riuscire in quel folle proposito, io odiavo promettere e nel giro di pochi giorni mi ero ritrovato a farlo miliardi di volte e tutte con lei. Scossi il capo bevendo il caffè, continuando a fissarla lavorare e sorridere. Era la cosa più bella che avessi mai visto, non potevo voltarle le spalle e andarmene così. Dovevo restare, parlare, provare ad aggrapparmi a lei.
 

 

Hope

 
Sorseggiai il mio drink fissando B-bomb e il suo improbabile cappellino natalizio venirmi incontro a braccia spalancate.
«Buon natale bambolina». Mi abbracciò e io risi divertita spingendolo via, ci sedemmo fissando la stanza gremita di ragazzi. Era assurdo pensare che ognuno di loro tenesse con se un’arma, tutti i membri dei cruz riuniti lì per festeggiare il santo natale.
«Togli quel cappello, mi fai accapponare la pelle». Aj apparve in quel momento rubando il copricapo dell’amico che provò a protestare senza successo.
«Allora ti piace la festa? Sono o non sono un uomo dalle mille risorse». Ci fissammo scrollando appena il capo, l’egocentrismo di B-bomb era secondo solo alla sua rabbia.
«Dimmi che non intonerai ‘’Silent Night’’ ubriaco come tre anni fa». Mi feci improvvisamente attenta, quindi Aj tre anni prima era lì a Chicago? Eravamo così vicini eppure lontani, mi chiedevo il perché adesso le nostre strade si fossero incrociate.
«Ho saputo che la mia bambina speciale ha trovato un lavoro onorevole». B-bomb mi cinse le spalle con un braccio, ero sicuro lo facesse di proposito per infastidire AJ. Adoravo vederli insieme, nonostante le enormi differenze sociali era come se fossero affini in molte cose.
«Stranamente non ha avvelenato nessuno con i suoi caffè letali». Risero alle mie spalle beccandosi un’occhiata inceneritrice da parte mia.
«Siete fastidiosi». Mi alzai fingendomi offesa mollandoli lì, ad accompagnarmi le loro risate che si fusero al frastuono della sala.
Fu un bel Natale, così diverso da ciò che ero abituata a vivere. Cantammo, bevemmo, ci scambiammo regali e auguri. AJ mi regalò un anellino, il simbolo dell’infinito spiccava ora al mio dito. Dal canto mio ero riuscita a racimolare abbastanza mance da potermi permettere una sciarpa che adesso indossava spesso solo per me. Era tutto perfetto, forse troppo, non lo sapevo in fondo? La mia vita era troppo imprevedibile, abituarsi alla stabilità in un mondo simile era un grave errore. Un errore che commisi pentendomene amaramente.
 
Arrivò il 31 Dicembre, pulivo i tavoli ossessivamente fissando la finestra della caffetteria. Non era solo il compleanno di AJ oggi, ma anche il nostro ‘’momento’’. Sapevo di cosa volesse parlarmi, sapevo che finalmente avremmo chiarito ogni malinteso e mistero, così come sapevo che mentre io affrontavo il mio piccolo dramma dall’altro lato della città i Cruz tendevano l’agguato ai Latin Kings.
Senza me e senza AJ.
Mi sarei finalmente liberata di Juan?

 

AJ

 
Non dormivo decentemente da giorni, più si avvicinava il momento di dire tutto a Hope più la mia ansia cresceva. Sfregai le mani cercando di difendermi dal freddo di Dicembre, la neve iniziò a cadere senza che me ne rendessi conto, rendendo il mio cappotto umido. La caffetteria distava ormai pochi isolati, e la mia mente corse a B-bomb, che stava facendo in quel momento? Erano già a Back of the yard? Erano già con i Latin Kings? Sollevai gli occhi al cielo e quando li riabbassai una sagoma mi apparve davanti, distava qualche metro e nonostante il lampione tremolasse di luce scarsa io lo riconobbi: Juan Hernandez mi fissava venendomi incontro.
«Ma quale assurdo piacere». Sorrisi muovendo qualche passo, attento a ogni suo movimento.
«Volevo augurarti buon anno». Ne dubitavo fortemente, ma era divertente provare a prenderlo sul serio.
«Saggia scelta, se ora fossi con gli altri probabilmente saresti già carne da macello». Lo vidi bloccarsi confuso, era evidente fosse andato via prima. I suoi occhi presero lentamente consapevolezza, e con essa la rabbia.
«Il primo della lista sarai tu, poi penserò anche a quella feccia che ti porti sempre dietro». Adesso eravamo vicini, riuscivo a scorgere l’odio ribollire nei suoi occhi.
«Penso ti apriranno il culo.»  
«Dimmi solo una cosa: hai ucciso tu Carlos?». Sorrisi divertito, e il sorriso divenne risata. Una risata che salì in cielo perdendosi con la neve che cadeva sempre più abbondante.
«Ci sei arrivato solo ora? Mancavi tu all’appello, è un bene sia venuto di tua iniziativa». La mia espressione cambiò drasticamente mentre passavano nella mia mente tutte le immagini di quei mesi, Hope ferita, Hope a terra con Carlos addosso, Hope accucciata contro il mio portone con il sangue rappreso sul viso. Il primo pugno arrivò inaspettato o quasi, barcollai asciugandomi il sangue dalle labbra.
«Mi dispiace tanto, credo non potrò mantenere la mia prima promessa». Hope non poteva sentirmi, ma mi scusai ugualmente mentre mi avventavo contro di lui. Più i miei pugni lo colpivano più la mia rabbia cresceva, lo vidi a terra, tossiva e sputava sangue e le sue spalle ebbero un tremito. C’era una cosa che non avevo considerato, Juan non era un uomo d’onore e lo capii quando un intenso bruciore avviluppò la mia schiena, all’altezza del fianco. Mi voltai fissando il viso di Eric, stringeva un coltello sporco di sangue. Il mio.
«Figlio di puttana». Gettai fuori quelle parole con una risata strozzata, sentii una mano afferrarmi la spalla e girarmi con irruenza, mi ritrovai faccia a faccia col viso di Juan.
«Buon anno Aj, porta i miei saluti all’inferno». Un altro intenso bruciore, stavolta allo stomaco. Estrasse la lama e la rientrò con forza, e ancora una volta. Non riuscivo a respirare mentre il dolore mi sommergeva, mossi qualche passo traballante fissando le due sagome di fronte a me, stavano fuggendo. Non riuscii a corrergli dietro, mi guardavo intorno e tutto sembrava girare e girare, mi mancava l’aria. Le mie ginocchia cedettero, annaspai e la mia mano rovistò nelle tasche, la vista si offuscò mentre provavo a comporre un numero. Caddi a terra, la guancia contro l’asfalto, mentre fissavo la gente passare ignorando il  vicoletto buio nella quale giacevo riverso. Non sarei riuscito a mantenere neppure la mia seconda promessa, e questo fece più male delle ferite.
 

Hope

 
Dieci minuti di ritardo sono ammissibili, ma trenta no. Salutai il mio capo sollevando il bavero del mio cappotto, percorrendo a ritroso la strada verso casa. Sapevo solitamente il percorso che AJ prendeva, ero sicuro di ritrovarmelo davanti correndo trafelato, gli avrei dato una bella lezione quella volta. Osservai una folla di fronte a me, sembravano fissare qualcosa, alcuni urlavano in preda al panico, velocizzai il passo spintonando la gente che non voleva farmi passare, e alla fine lo vidi. Un uomo inginocchiato accanto a lui, e infine riconobbi la sciarpa. Sentii un fischio perforarmi le orecchie, e l’urlo che uscì dalla mia gola annichilì me stessa e tutto intorno a me.
Mi gettai ai suoi piedi scuotendolo con forza, non stava succedendo davvero, quello che avevo tra le mani non era sangue, e il corpo esanime non era AJ.
«CHIAMATE UN AMBULANZA». Qualcuno mi rispose ma io non riuscii a sentire, i miei singhiozzi squarciavano la barriera del suono mentre lo scrollavo con forza supplicandolo di aprire gli occhi. Lui non poteva lasciarmi, non adesso. Avevo solo lui, anzi no, io volevo solo lui.
Poggiai la fronte contro il suo petto, era come se mi aspettassi di sentire la sua mano calda posarsi sul mio capo e dirmi ‘’va tutto bene’’. Ma solo il gelo mi accolse, continuai a piangere e urlare chiedendo di Dio e stringendomi a lui. 


 

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Capitolo 10
*** Hail and Farewell ***



 

X

Continuavo a tremare tenendogli la mano mentre l’ambulanza veloce ci scortava al più vicino ospedale, lo fissavo con gli occhi offuscati dalle lacrime senza riuscire a credere a ciò che avevo di fronte.
«Ragazzina sei una sua parente?». Il medico neppure mi guardava intento ad osservare la dilatazione delle sue pupille. Ricordai quelle iridi cangianti, non potevo pensare ad un mondo senza quegli occhi a scrutarlo.
«Si.. cioè no, sono la sua ragazza ». La voce venne meno all’ultima parola.
«Devi dirmi il suo nome, la sua età e il suo gruppo sanguigno se lo conosci ». L’uomo non sembrò notare il mio turbamento mentre nuove lacrime strabordavano dai miei occhi.
«Ha 22 anni, e io ..non so nulla ». Singhiozzai disperatamente, era tutto un incubo. Non sapevo neppure il suo nome, il suo fottutissimo nome.
«Non sai il suo nome? Chi diamine sei tu ». Mi fissò con occhi indagatori, non potevo di certo biasimarlo.
«Si fa chiamare AJ.»
«Aj? Quindi, Adam? Alan? Alexander?». Inarcò un sopracciglio e io restai a bocca aperta senza sapere cosa dire.
 
La barella correva veloce lungo il corridoio, le mie dita aggrappate ad essa mentre fissavo le profonde ferite adesso coperte dalle bende, aveva perso troppo sangue il suo colorito quasi grigiastro, non riuscivo a vederne la vita scorrergli dentro.
«Tu resti qui». Sentii delle braccia bloccarmi, il mio cammino insieme a lui si arrestò bruscamente mentre le porte della sala operatoria mi si chiudevano in faccia. Mi accasciai sentendo le ginocchia cedere, caddi a terra e non riuscii più a rialzarmi. Non riuscivo neppure a respirare, era come se una mano comprimesse la mia gola.
«Tutto quel sangue..» non riuscivo a pensare ad altro. Tolsi con foga la sciarpa e sbottonai i primi tre bottoni del cappotto bianco ormai chiazzato di sangue, a bocca spalancata provavo a prender fiato ma sembrava tutto inutile.
«Signorina, va tutto bene?». Un’infermiera si inginocchiò preoccupata, le afferrai la maglia sporcandola di sangue.
«Salvatelo vi prego, voi dovete salvarlo, voi..» non riuscii a finire, non sentivo neppure ciò che mi stava dicendo. Parole di conforto forse vuote, o forse non stava parlando e le mie orecchie sentivano cose inesistenti. Improvvisamente mi venne un pensiero, afferrai il cellulare e composi un numero frettolosamente. E poi un altro ancora. Mi trascinai sulla panca e lì mi sedetti ad aspettare, se la condanna o l’assoluzione questo non potevo saperlo.
 
La prima ad arrivare fu Nicole, mi venne incontro trafelata e io l’abbracciai istintivamente iniziando a singhiozzare.
«Hope ti prego non piangere, spiegami cos’è successo – provai a farlo ma le parole uscivano spezzate e incoerenti, mi bloccò – no Hope, calmati prima e poi parliamo». Ci volle un’ora prima che ne fossi in grado.
«Lui è in sala operatoria, ha quattro ferite da taglio .. due all’addome e una alla schiena. Io l’ho trovato così, c’era tutto quel sangue e il medico .. lui voleva.. lui.. non so neanche il suo nome ». Mi fissai le mani imbrattate e nuove lacrime sgorgarono copiose. Sentii la sua stretta sulla mia spalla.
«Si chiama Alexander, e devo parlare con un medico assolutamente». Mi voltai lentamente, temevo di non aver sentito bene.
«Tu conosci il suo nome?» . La fissai incredula, le lacrime si asciugarono rendendo il mio viso arido e appiccicoso.
«Si.. era di questo che volevo parlarti». Sospirò e io sentii il mio cuore fermo battere una piccolissima volta. Dei passi attirarono la mia attenzione.
«HOPE». B-bomb mi venne incontro trafelato, respirò affannosamente guardandomi con la paura negli occhi.
«Lui..» mi tremò il labbro e quindi restai in silenzio, non volevo farmi vedere debole più di quanto non apparissi.
«E’ stato Juan insieme a Eric». Il mio viso si sollevò di scatto, Nicole accanto a me portò una mano alle labbra.
«Che diavolo vuoi dire». La mia voce improvvisamente tesa e senza sbavature.
«Quei due figli di puttana non erano con noi, uno di loro, Santiago, dopo qualche cazzotto ha cantato per bene. Non vedevamo Juan e questo ci ha insospettito. Ho provato ad avvisare AJ ma non ha risposto..» fissò la sala operatoria con dolore ma io ero troppo presa da quella nuova scoperta per curarmi di ciò che succedeva attorno a me. Era stato Juan. Mi vennero in mente le sue parole, aveva giurato di togliermi tutto e lo aveva fatto sul serio. Le mie iridi tremarono appena, la mia espressione mutò in qualcosa di spaventoso mentre osservavo con insistenza la cinta di B-bomb, sapevo che lì teneva la pistola, lui non se ne separava mai. Mi alzai andandogli incontro, approfittando del suo dolore e della sua distrazione gliela strappai quasi a forza iniziando a correre.
«HOPE ». Le voci concitate di Nicole e B-bomb mi arrivarono alle orecchie ma io ero sorda all’appello, lo avrei ammazzato con le mie mani stavolta. Correvo e correvo tenendo l’arma tra le mani, incurante di chi potesse vedermi ma delle mani mi afferrarono all’uscita dell’ospedale. Urlai scalciando con rabbia, ringhiando tutto il mio dolore finché uno schiaffo non mi stordì abbastanza da togliermi tutte le forze, mi accasciai tra quelle braccia massicce mentre Nicole mi fissava con la mano ancora alzata.
«Non te lo permetterò. La legge Hope, è quella ciò che ci distingue dalle bestie. Vuoi giustizia? Allora esci le palle e denunciali». Lentamente la presa attorno al mio corpo si sciolse e la pistola mi venne sottratta. Nicole aveva ragione, Juan doveva pagare ma nel modo giusto.
«Lo farò marcire in galera». Sussurrai quelle parole tra le lacrime, una lenta carezza sui miei capelli mentre Nicole si allontanava lasciandomi sola con B-bomb che continuava a fissarla.
«La conosci?». Lo guardai con apatia.
«L’ho vista da qualche parte». Scrollò le spalle sorridendo evasivo.
«Lei conosce Alexander». Al suono di quel nome si pietrificò, deglutì annuendo appena.
«Mi dispiace..» allargò le braccia e io non fui sicura di capire per cosa esattamente si sentisse dispiaciuto, fissai il cielo attendendo il momento giusto per andare alla stazione di polizia ma non prima di essermi accertata che lui stesse bene. I fuochi d’artificio illuminarono il cielo, il duemilanove mi aveva appena salutato senza lui al mio fianco.
Ci vollero cinque ore, ormai era l’alba quando le porte si aprirono e il medico uscì guardandosi attorno. Tutti e tre avanzammo preoccupati, mi torcevo le dita sentendo un dolore senza fine. Ricordai il finto messaggio di mia madre, a differenza di allora non c’era solo la voragine nel mio petto ma anche una mano che dentro stringeva il mio cuore nell’indecisione di strapparlo o meno. Era così doloroso.
«Siete qui per il ragazzo ferito stanotte? – annuimmo in religioso silenzio – abbiamo fatto il possibile anche se ha perso molto sangue, per quanto mi riguarda l’operazione è riuscita. Aspettiamo che si svegli per saperne di più». Mi sorrise e le mie ginocchia cedettero ancora, B-bomb mi sorresse e io sentii il suo corpo in tensione. Non avrebbe mai pianto davanti a me, e so che aspettava di restar solo. Fissai Nicole con decisione.
«Andiamo, ho una denuncia da fare». La vidi sorridermi e annuire, adesso che Aj stava bene potevo allontanarmi senza alcuna remora. Guardai B-bomb senza dire nulla, annuì facendomi cenno di andare tornando a sedersi sulla panca. Lo stavo lasciando in buone mani.
 

 

AJ
 

Le mie palpebre volevano aprirsi ma le sentivo talmente pesanti che rinunciai parecchie volte. Sentivo i rumori attorno a me, e quel dolore persistente allo stomaco. I miei ricordi erano confusi ma sapevo sommariamente cosa fosse accaduto; mi venne in mente il viso di Hope, mi stava aspettando in caffetteria? Quanto era passato? Aveva pianto? Credo furono quei pensieri a darmi la forza di aprire gli occhi, e quando lo feci il primo viso che vidi fu l’ultimo che mi aspettavo.
«Ben svegliato, Alex». Mi fissò con sguardo preoccupato, nonostante ciò si curò almeno di sorridere e camuffare il tutto.
«Come cavolo mi hai trovato, Kevin..» la mia voce impastata di sonno mentre fissavo colui che per una vita era stato come un fratello.
«So dove sei da circa un mese, è una fortuna che ti abbia fatto tener d’occhio. Sono corso qui col primo volo disponibile. Cristo Alexander, devi proprio farmi prendere questi infarti?». Mi fissò arrabbiato, abbozzai un sorrisino che si spense notando la sua espressione.
«Okay, spara». Provai a sollevarmi ma non ci riuscii.
«Non sono l’unico a sapere dove ti trovi». Il tono grave seguì il nostro silenzio, sorrisi senza gioia fissando le luci al neon.
 
Mi dispiaceva non poterla vedere ancora una volta, un’unica singola volta.
 
 

Hope

 
Sbocconcellai il cibo spostandolo infine disgustata, sorseggiando la strana tisana preparatami da Nicole. Continuava a fissarmi preoccupata, dopo il colloquio con la polizia aveva temuto un altro mio tracollo, in realtà a dominarmi era la fretta, volevo correre da lui e vedere se si fosse svegliato. Mi aveva convinto a lavarmi e infine a mangiare qualcosa, avevo accettato solo per poterle parlare.
«Voglio sapere tutto. Adesso». Il mio tono risoluto non sembrò spiazzarla troppo.
«Non posso dirti ‘’tutto’’, posso solo dirti ciò che so». Mi sorrise come a volersi scusare, non potevo di certo dirle che era meglio del non sapere nulla. Mi sedetti rigidamente e la guardai.
«Okay, sono pronta». Strinsi i denti e mi preparai, mi guardò fissamente per un istante per poi trascinarmi nel caos totale.
 

Los Angeles, 2003 – Ospedale Psichiatrico

 
«Dottoressa Freeman, hai un momento?». Il dottor Craig mi fissò con una cartella in mano.
«Si certo, dimmi pure». Ero nuova in quell’ospedale, non conoscevo ancora nessuno e aiutare i colleghi pensavo fosse un buon modo per socializzare e farmi largo in un’equipe ormai consolidata.
«Ho un paziente, ma non un paziente qualsiasi. Lui sta nella lista ‘’VIP’’, ha sedici anni e si chiama Alexander». Sbattei le palpebre annuendo appena, mi chiesi come mai non avesse citato il cognome.
«Cosa ti serve Josh?». Sembrò tentennare.
«Solo qualche colloquio, non collabora con noi e ha già aggredito tre delle nostre infermiere. Forse un viso nuovo lo renderà più ..collaborativo». Fu la prima volta in assoluto in cui provai disprezzo per qualcuno, insomma lo stronzo mi stava mandando in pasto al lupo cattivo.
Il lupo cattivo sedeva composto al tavolo della propria camera – o cella, come la definiva lui – era così bello e .. serio? Non so, non so il tipo d’aggettivo giusto che dovrei usare. Conobbi così Alexander, capendo dopo pochi giorni il perché della sua reputazione. Non solo era violento con chi tentava di prevaricarlo, ma era molto subdolo nei discorsi, confondeva verità e bugie abilmente. Era in ospedale perché dopo la morte del padre, avvenuta sette anni prima, a seguito di un incendio era divenuto ‘’strano’’. Non si specchiava mai, anzi distruggeva ogni specchio nella quale si imbatteva come se ne avesse paura, sentiva ‘’voci’’ e non capivamo di che natura, e aveva scatti violenti verso se stesso e gli altri. Tentò tre volte il suicidio.
Una notte, un anno dopo, lui fuggì. Eravamo sicuri avesse avuto la complicità di un addetto, e io sono quasi sicura di sapere chi fosse: Alice. Un’infermiera che aveva interagito spesso con lui. Aveva trentacinque anni, ed era riuscita a farsi sedurre da un ragazzino di diciassette. Non riuscimmo a sapere più niente di lui, le sue cartelle sparirono nel nulla, e nessuno lo nominò più. Alle volte mi capita di ricordare ancora i suoi discorsi, il suo tono di voce, il suo modo di fissarmi.

 
Quando finì di parlare sentivo l’aria ormai a corto nei polmoni, adesso avevo uno scorcio della sua vita più ampio di quanto mi aspettassi, sapevo il suo nome, sapevo il suo passato e ciò che mi aveva nascosto. Persino la storia delle voci adesso assumeva un senso e un significato. Chinai il capo, le mie mani serrate e le nocche sbiancate, mi importava davvero? Adesso, dopo aver scoperto tutto, mi rendevo conto di quanto fossi pazza di lui. A me non importava il passato dalla quale scappava, a me importava del presente costruito insieme a me.
«Voglio andare da lui, ha bisogno di me». Sollevai il viso e mille parole inespresse passarono tra noi, lei mi capì e sorrise.
 
Le urla di B-bomb mi accolsero nell’atrio, vidi un’infermiera oltre il bancone dall’aria più spaventata che mortificata, corsi verso di lui insieme a Nicole e gli afferrai un braccio attirando la sua attenzione.
«Che succede?». Si voltò, gli occhi iniettati di sangue e io temetti il peggio. Era per caso.. morto? La mia presa perse sicurezza.
«Che succede? SUCCEDE CHE QUESTA PUTTANA MI PRENDE PER IL CULO». Sputò con rabbia quelle parole voltandosi verso la povera malcapitata che dal canto suo non riusciva più a controllare la situazione.
«La prego, si calmi, le sto dicendo la verità». Nicole si fece avanti mostrando il proprio documento.
«Per cortesia, può dirmi che succede?»
«Il signore cerca una persona, ma questa persona non è mai stata qui». Sorrise tremante fissandoci. La mia presa sul suo braccio venne meno definitivamente.
«Cosa sta dicendo, il nostro amico è stato portato ieri notte qui d’urgenza. Il suo nome è Alexander, aveva ferite d’arma da taglio, per favore controlli meglio». Fu Nicole a parlare per me, io non ne ebbi la forza mentre la realtà si delineava con dolorosa chiarezza.
«Ho controllato già cinque volte, non esiste nessun Alexander ricoverato in chirurgia, mentre gli altri non corrispondono alla descrizione». Il mio mondo prese a girare vorticosamente, io e Nicole ci fissammo e probabilmente entrambe andammo a ritroso nel tempo. Un tempo che lei aveva vissuto in prima persona, e io in seconda tramite il suo racconto.
 
‘’Sparirò quando meno te lo aspetti’’. Questa fu l’unica promessa che Aj riuscì a mantenere.
 
***
 
Gettammo in aria i cappelli tra lo scroscio degli applausi e le risate liberatorie di noi studenti finalmente liberi dal liceo. Nicole mi venne incontro sorridendo, una busta tra le sue mani.
«Posso abbracciare la mia futura collegiale?». Ci sorridemmo e io non attesi oltre gettandole le braccia al collo. In un anno era cambiato tutto e niente, Nicole era divenuta la mia tutrice legale e insieme dopo il diploma delineavamo la nostra nuova vita insieme. Scorsi B-bomb oltre i margini del prato, mossi una mano in segno di saluto invogliandolo a raggiungermi. Ogni volta che lo vedevo il mio cuore batteva più veloce nella speranza che portasse notizie di lui, ma puntualmente venivo delusa dal suo scuotere il capo tristemente.
La mia vita stava andando avanti, ero felice ma quel profondo dolore dentro me era impossibile da mandare via. Volevo che AJ vedesse i miei progressi, la persona che miravo di diventare, sapere comunque che fosse vivo da qualche parte era ciò che mi spronava ogni mattina a muovere i miei piedi verso il futuro.
Un raggio di sole mi colpì dritto in faccia, mi schermai con la mano fissando un punto poco distante, una sagoma ben distinta ritta contro l’albero mi fissava. Le voci divennero attutite, quasi inesistenti, mentre i miei piedi si muovevano veloci, sempre più veloci verso di lui. Sentii chiamare il mio nome ma non vi badai, spingevo la gente mirando a quel punto preciso, ma quando arrivai il nulla mi accolse. Mi guardai intorno col fiatone, mandando giù il bolo amaro di saliva, era stata solo la mia immaginazione. Mi ero immaginata davvero tutto? Sarebbe mai tornato da me? Quella domanda restò marchiata a fuoco nella mia mente, non tolsi il suo anello mentre la mia nuova vita iniziava ufficialmente con il sottofondo dei motori aerei che mi portavano finalmente lontana da Chicago.
 
 


 

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Capitolo 11
*** Speranza ***



 

XI

Manhattan, 2017

 
La porta si aprì stridendo appena, la guardia carceraria lasciò passare il detenuto, fissai le sue manette seduta comodamente sulla sedia aspettando che prendesse posto.
«Ti trovo bene». Sorrisi divertita accavallando le gambe, le sue labbra si schiusero in una smorfia.
«Ho saputo che hai ficcato il naso ancora una volta nel mio processo d’appello». Mi sporsi verso di lui assottigliando lo sguardo.
«Testimonierò altre mille volte se dovesse servire, e userò tutte le mie conoscenze pur di tenerti qui a marcire. Non avrai alcuno sconto di pena Juan». Ci fissammo per un tempo che parve indefinito finché non mi scostai appena poggiandomi allo schienale, lo vidi fissare la mia pistola d’ordinanza.
«Detective Kurtzman, sono passati otto anni non è forse il momento di mettere da parte il rancore?». Otto anni scivolati via, cristallizzati dal loro scorrere incessante. Avevo lasciato Chicago con Nicole, mi ero iscritta all’accademia di polizia divenendo un detective a New York. Avevo perso i contatti con B-bomb ormai da anni, vedere Juan me lo riportò alla mente così come riportò a galla la mia eterna ferita mai rimarginata.
«E’ giusto pagare per i tuoi crimini.»
«No, tu vuoi farmi pagare solo per una cosa. Questa non è giustizia». Mi fissò rabbioso e io sorrisi alzandomi.
«Hai ragione, questa forse non è la giustizia – poggiai le mani contro il tavolo chinandomi su di lui – ma questa è la MIA giustizia». Carezzai il suo viso con lo sguardo per poi avviarmi alla porta, ogni settimana da anni venivo lì a cibarmi di rancore e odio, andavo avanti con la mia vita ma non dimenticavo quella dannata notte di anni prima.
«Non hai prove, lui è sparito, ha corrotto gente e nessuno può associarmi alla sua aggressione». Rise di gusto gli occhi lucidi da folle, lo fissai disgustata.
«La tua coscienza ha talmente tante tombe da somigliare a un cimitero, non uscirai di qui Juan, te lo giuro». Il cellulare squillò all’uscita della prigione, lessi il numero sorridendo.
 
– Nicole!
– Sei in ritardo o sbaglio?
– Non sbagli, ma ho casini a lavoro. Lo sai che qui la criminalità non dorme mai.
– Va bene paladina della legge, io e Justin ti aspettiamo in caffetteria.
 
Justin era mio fratello, o meglio lo reputavo tale visto e considerato che lo avevo praticamente visto nascere e crescere. Nicole alla fine era convolata a nozze, e circa sei anni fa aveva dato alla luce il mio mostriciattolo preferito. Infilai le cuffie avviando la musica, in quello non ero cambiata per niente, aprii lo sportello dell’auto e la brezza autunnale sferzò il mio giubbotto facendomi rabbrividire, lo sentii alla base del collo quasi all’altezza della nuca, mi voltai ma il nulla mi accolse. Entrai in auto e partii senza più voltarmi.
 
«Allora, come va con Simon?». Sorseggiai il mio frullato fissando Justin giocare con alcune sagome di pongo.
«Bene, stasera abbiamo un appuntamento». Mi fissò frustrata dalla mia indifferenza e io risi di gusto.
«Insieme o separatamente? No perché visto il tuo entusiasmo nulla è scontato». La guardai scuotendo il capo, era impossibile averla vinta con lei.
«Nicole, sono solo cauta. Simon mi piace, è bello e responsabile, ma non voglio affrettare le cose». Fissai le mie dita attorno al bicchiere, l’anello con l’infinito non sostava più sul mio anulare ormai da tempo. Avevo attraversato parecchie fasi, nonostante non passasse giorno in cui pensassi a lui c’era una latente rabbia a covare nel profondo di me stessa. Perché non mi aveva mai cercata? Ero sicura stesse bene, quindi perché? Probabilmente non si ricordava neppure più di me, ero semplicemente stata il suo diversivo in quel pazzo inverno a Chicago.
«Sono sicura farai la cosa giusta». Coprì il dorso della mia mano con la propria e io sorrisi, facevo sempre la cosa giusta? Forse Nicole mi sopravvalutava.
«Piuttosto, sono molto incazzata con lei dottoressa». La fulminai con un’occhiata e lei roteò gli occhi sospirando.
«Hope è il mio mestiere, se mi viene chiesta una perizia psichiatrica non posso mentire.»
«Andiamo Nicole, ha ucciso tre prostitute non è pazzo è solo un figlio di puttana». Allargai le braccia frustrata, adoravo il mio lavoro ma forse prendevo tutto troppo sul personale. A differenza del mio partner non riuscivo a tornare a casa, farmi un bel bagno caldo e dimenticare lo schifo che vedevo ogni giorno. Chiunque conoscesse il mio passato pensava fossi una masochista a cui piaceva osservare la violenza, in realtà era proprio quel passato ad aver guidato i miei passi. Volevo semplicemente un mondo migliore e volevo contribuire per renderlo tale.
«Sei stata ancora da Juan?». Non risposi finendo il contenuto del mio bicchiere.
«Nicole ho un appuntamento per la quale prepararmi, ti farò sapere quanto e se andrà bene». Le feci l’occhiolino e ne ricavai un sospiro esasperato da parte sua, risi scompigliando i capelli del mostriciattolo per poi sparire oltre le porte del locale.
 
Lisciai le pieghe del mio abito nero, i tacchi mi concedevano quei dieci centimetri che facevano la differenza. Simon era abbastanza alto e imponente, lavorava in borsa e adorava il baseball, mi aveva trascinata a decine di partite insieme a lui, il fatto che glielo concedessi voleva dire che nutrivo abbastanza interesse da farmi andar giù uno sport nella quale non capivo un cazzo.
Il campanello suonò una volta, afferrai la borsetta uscendo frettolosamente dalla camera da letto, vivevo in quel loft a Soho ormai da cinque anni, mi piaceva parecchio ed era una delle poche abitazioni che consideravo familiarmente come ‘’casa’’.
«Sei bellissima». Sorrisi dolcemente lasciandomi baciare e scortare fuori. L’aria della sera era fresca al punto giusto, misi un copri spalle leggero ed entrai in auto, respirai l’odore di nuovo fissando oltre il finestrino.
«Allora, dove mi porterai stasera?». Mi fissò sorridendo allontanandosi da casa mia, guidava in maniera sicura e per niente spericolata.
«Una mostra, è da un po’ che cercavo i biglietti per noi e quando pensavo di non riuscirci eccoli apparire, volevo farti una sorpresa. Tempo fa dicesti che amavi molto l’arte». Lo avevo fatto? Abbozzai un sorriso dandomi mentalmente dell’idiota, annuendo appena.
«Si, hai avuto una grandiosa idea». No, era un’idea di merda quella ma la colpa era solo mia quindi lo avrei accompagnato fingendo interesse tutto il tempo.
«Com’è andato oggi il lavoro?». Simon mostrava parecchio interesse per tutto ciò che mi riguardava, gli sorrisi con affetto accarezzandogli la guancia.
«Normale routine, e oh.. non ho avuto nessuna scazzottata». Lo fissai ironicamente e l’abitacolo si riempì del suono di risate. Conducevo una bella vita, mi ero lasciata il passato alle spalle nonostante questo mi desse forza per arrivare ai traguardi che mi ero prefissa, la mia vita era cambiata, io ero cambiata e maturata. Non avevo notizie da mia madre ormai da anni, dopo la sua fuga nel cuore della notte non si era messa mai una volta in contatto con me; non avevo detto a Nicole di aver usato gli archivi della polizia per cercare lei .. e Aj. Inutile dire che non avevo avuto alcun riscontro in entrambi i casi, infine avevo desistito. Evidentemente la mia vita doveva proseguire senza loro al mio fianco, era inutile tenere porte socchiuse per gente che le aveva varcate senza rimpianti mollandomi indietro sola e disperata.
 
Le luci illuminavano l’ingresso, due guardie sostavano all’ingresso in smoking con tanto di auricolare, uno dei due sembrava familiare ma perché? Che avesse qualche precedente penale? Lo fissai con sospetto mentre Simon lasciava spulciassero nella lista, e smisi solo quando sentii la presa sul mio polso che mi dirottò all’interno. Sospirai riavviandomi i capelli, le mie deformazioni professionali iniziavano a causarmi troppi problemi, non potevo fissare la gente come se fossimo nella sala interrogatori.
«Ti piace?». Sbattei le palpebre tornando alla realtà, sorridendo e infilando il braccio nell’incavo del suo.
«Assolutamente si». A dirla tutta non avevo ancora visto niente, quindi poteva anche farmi schifo per quanto ne sapevo. Cinque minuti dopo non mi pentii di essere andata lì, i quadri erano bellissimi, le forme perfette e i colori così assurdamente armonici tra loro.
«Vorrei vedere ‘’speranza’’, il suo quadro migliore a quanto pare, peccato non sia in vendita». Speranza? Non ci potevo credere, che coincidenza assurda, volevo vederlo.
«Chi è l’artista?». Sorseggiai lo champagne seguendo Simon lungo una delle tante gallerie.
«Oh è questo il bello, vedi quel tipo?». Mi indicò un uomo sui trent’anni, capelli biondi abbastanza attraente ma anonimo.
«E’ lui?» Simon rise scuotendo la testa, avvicinandomi come se dovesse confidarmi uno dei misteri di Fatima. Okay, ammetto che alle volte era eccessivo nelle reazioni.
«No, lui è Kevin Guzam ed è l’agente del misterioso artista». Interessante come un documentario sulle foche monache, ma evitai di dirlo. Non era una novità nel mondo dell’arte mantenere un certo riserbo, persino gli scrittori usavano acronimi.
«Oh..» mi fissò come se non avessi colto il punto fondamentale.
«Non capisci, lui è qui – virgolettò il ‘’lui’’ e io mi sentii osservata – solo che nessuno sa chi sia.»
«Oh». Stavolta la mia esclamazione fu abbastanza sorpresa da compiacerlo. Fissai uno dei quadri bevendo champagne, una voce si intromise.
«Posso rubarti il fidanzato per qualche minuto?». Sorrisi ad Adam annuendo appena, come sempre Simon aveva esteso l’invito anche a lui. Se non fossi stata sicura del suo interesse per me li avrei già etichettati come coppia gay non dichiarata. Li fissai parlottare e mi allontanai continuando a fissare i quadri esposti. Un cartello sopra un bivio: ‘’seguimi’’ e una freccia lampeggiante. Risi di gusto ascoltando quel consiglio originale, arrivando al cuore della galleria, alcune persone fissavano l’unico quadro della sala e i miei occhi vi si poggiarono, il calice cadde rompendosi in mille pezzi. Una lacrima scese sulla guancia involontariamente e venni sbalzata a otto anni prima.
 
Aj era sparito da 48 ore, le passai rannicchiata contro il suo portone aspettando che qualcosa accadesse. Non pensavo di certo potesse apparirmi davanti, ma magari chiunque lo avesse portato via sarebbe tornato a prendere le sue cose. Non accadde. Attesi allora che qualcuno uscisse per intrufolarmi nell’androne e scassinare il suo appartamento da perfetta ladra consumata alla ricerca di prove. Il mio tentato scasso comunque non ebbe successo, perché trovai la porta già forzata. Esitai a entrare ma alla fine mi feci coraggio, un respiro profondo, e varcai le porte di quel luogo che conoscevo a memoria. Era tutto in perfetto ordine salvo una camera: lo studio. Tutte le sue tele totalmente distrutte e sparpagliate al pavimento, ne raccolsi un frammento e riconobbi i miei occhi, piansi ogni lacrima fino a prosciugarmi dentro, fino a consumarle tutte. Dopo quella notte smisi di piangere per lui.
 
«Signorina tutto bene?». Sbattei le palpebre asciugandomi frettolosamente gli occhi, chinandomi per raccogliere i cocci.
«Si, mi perdoni è scivolato..»
«Non si preoccupi, lasci fare a me». La donna mi sorrise gentilmente, la mollai come in trance avvicinandomi al quadro: era il mio ritratto. Ero sicura fosse lo stesso, non potevo dimenticarlo anche volendo. Com’era arrivato sin lì? Ero sicura fosse stato distrutto. Un movimento attirò la mia attenzione, una delle guardie fece il suo ingresso parlando attraverso l’auricolare e io ebbi il secondo cedimento della serata.
«Oh mio dio». La sorpresa nella mia voce attirò la sua attenzione, mi fissò e la curiosità divenne sbalordimento puro e infine disagio. Mi venne incontro deglutendo nervosamente.
«Hope..» B-bomb allargò le braccia fissandomi a bocca spalancata.
«Che diavolo ci fai tu qui, ti ho chiamato senza sosta .. no aspetta». Scossi il capo muovendo un passo indietro.
«Era complicato, ho pensato fosse meglio sparire per i guai con la polizia e poi..» non ci fu bisogno di continuare.
«E’ lui l’artista della mostra». Allargai le narici, le labbra tremavano ma non piansi. Chinò il capo e per me valse più di mille conferme. La guardia che pensavo di aver riconosciuto fuori la galleria era uno dei Cruz.
«Penso che questa sia una coincidenza che rasenta i miei peggiori incubi nevrotici». Si grattò il capo rasato guardandosi attorno. Gli afferrai la manica.
«Dimmi dov’è». Il mio tono risoluto lo fece ridere.
«Guarda che sono la sua guardia del corpo, devo proteggerlo da quelle assetate di violenza come te». Rovistai nella mia borsa uscendo il distintivo con un sorrisetto, seguì un suo fischio.
«Cazzo. Fortuna che ho cambiato vita eh?». Incrociò le braccia al petto.
«Ripeto la domanda?». Misi le mani sui fianchi, il mio sorrisetto vittorioso migliore dipinto sulle labbra.
«Beh ..te lo direi, se lo sapessi». La mia vittoria durò effettivamente poco.
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che lui è qui, ma non so dove. Fa sempre così lo stronzo, Kevin si occupa di tutto e lui.. lui si diverte a vedere le reazioni dietro le quinte». Non era cambiato di una virgola, evidentemente il mistero lo aveva nel DNA. La voce di Simon mi riscosse.
«Hope ti ho cercata dappertutto». Mi cinse il fianco con la mano e a B-bomb non sfuggì, lo vidi annuire appena e sorridermi come se mi dicesse ‘’hai fatto bene, bisogna andare avanti’’, fu peggio di una coltellata.
«Ho solo incontrato un mio amico.. lui è…» allungai una mano come a volerlo presentare rendendomi conto però di conoscere solo quello stupido nomignolo. Ci pensò lui stesso a risolvermi dall’impiccio.
«Sono Mike piacere». Si strinsero la mano e il suo sguardo tornò su di me.
«Piacere mio, sono Simon il ragazzo di Hope». Marcava il territorio per caso? Il pensiero mi fece quasi ridere.
«Hope, che ne pensi del Presidente Roosevelt?». Lo fissai imbambolata, si drogava ancora? Aggrottai la fronte e probabilmente persino Simon iniziò a porsi due domande sulle mie discutibili conoscenze. B-bomb rise scrollando le spalle.
«Io, beh..»
«Pensaci attentamente». Ammiccò per poi mollarmi lì come una stronza.
«Ma era un tuo amico? Oddio ma quella ragazza è identica a te». Mi gelai fissando il quadro, sorridendo senza alcuna sincerità.
«Già, sono rimasta stupita, è solo una stupida somiglianza .. senti Simon credo di non sentirmi troppo bene, andiamo?». Sentii nuovamente quel formicolio alla nuca, mi girai e stavolta i suoi occhi erano lì a svuotarmi l’anima. Sentii l’aria risucchiata, continuava a fissarmi in silenzio finché non lo vidi voltarmi le spalle e sparire tra la folla. Mossi un passo pronta a corrergli dietro, tra noi erano passate così tante parole silenziosa, avevamo urlato in quella sala gremita di gente, come poteva semplicemente andar via? La stretta sul mio braccio mi riportò alla realtà, era durato tutto così poco.
«Certo, andiamo dai sembri pallida». Il mio mondo capovolto totalmente, la mia vita che pensavo ormai passata mi aveva appena schiaffeggiata con forza. Lui era qui.

 

AJ

 
Sorseggiai lo champagne seduto alla mia scrivania, i piedi sopra il pregiato legno e lo sguardo fisso al monitor di fronte a me, la porta si aprì.
«Non riuscirai a crederci». B-bomb entrò con la sua solita enfasi, il lavoro di bodyguard era perfetto per lui.
«Fammi indovinare, Hope è qui con il suo fidanzato e ha visto il mio quadro.»
«ESATT—Mi prendi per il culo?». Mi fulminò con un’occhiata sedendosi di fronte a me, risi di gusto finendo il liquore.
«Si. L’ho vista stamattina, ero lì per avere notizie di Juan.»
«Alexander, lei sa che tu sei qui». Mi fissò come se fosse al cospetto di un demente, sospirai.
«Lo so, era ciò che volevo o non avrei inviato gli inviti a quell’idiota con cui si frequenta, né avrei esposto il suo ritratto.»
«Santo dio, sei uno psicopatico». Ci fissammo eloquentemente scoppiando a ridere. La definizione di pazzoide mi calzava a pennello, probabilmente persino lei ormai sapeva il mio passato e ne avrebbe convenuto. Dubitavo Nicole avesse chiuso il becco in otto anni insieme.
Il motivo della mia scomparsa, ciò che avevo fatto in tutti quegli anni, c’erano tante cose che avrei voluto dirle ma non ero sicuro di poterne avere l’occasione. Mi alzai con uno sbadiglio soffocato allentandomi la cravatta.
«Portami a casa, sono stanco di tutta questa gente». Fissai nuovamente i monitor con apatia, in fondo il pezzo migliore era appena uscito dal parcheggio, no? Peccato avesse dimenticato la sua anima nel quadro che portava il suo nome.  Se ne rendeva conto?
 

Hope

 
«ROOSEVELT». Sbattei le mani contro la scrivania alzandomi di colpo. Lucas il mio partner cadde quasi dalla sedia fissandomi stralunato.
«Mi fa piacere tu conosca la storia americana dei presidenti, ma piantala». Lo fissai con sarcasmo malcelato. Non avevo praticamente dormito tutta la notte mentre rimuginavo sull’assurdità in cui era piombata la mia vita. Le parole di B-bomb erano come un tarlo, finché non avevo capito.
«Alexander Roosevelt, ecco il suo nome». Lucas mi fissò stralunato per la seconda volta, improvvisamente si sporse con fare attento.
«Perché cerchi la famiglia Roosevelt?». Voltai il capo come fossi un robot i cui ingranaggi andavano oliati.
«Tu li conosci?»
«Sei idiota? Non conosci la catena alberghiera Roosevelt?». Le ginocchia cedettero facendomi ricadere sulla sedia, le conoscevo si ma non le avrei mai associate a lui. Era un po’ come dire di conoscere Paris Hilton, per capirci.
«Dove trovo Alexander?»
«Alexander Junior Roosevelt? Spiegami perché un semi-dio dovrebbe scendere tra noi mortali». Mi venne da ridere istericamente e lo feci. AJ, ecco spiegato il nomignolo.
«Già, perché?». Infilai le dita tra i capelli scompigliandoli, dovevo forse dirgli che c’era già sceso e persino rimasto parecchio tempo fa?
«E poi meno lo vedo quel piccolo bastardo, e meglio sto». Sbadigliò tornando a poltrire, sbattei il pugno contro la scrivania facendolo sobbalzare.
«Frena, lo conosci? Nel senso ..lo conosci?». Sembravo idiota, non c’era bisogno del suo sguardo per capirlo.
«L’ho arrestato a quindici anni per rissa, ha mandato in ospedale un compagno, sai cosa successe?»
«Cosa?». L’ansia mi attanagliava.
«Un cazzo. Venne scagionato e persi le sue tracce. Se lo ribecco giuro che lo prendo a calci nel culo.»
«Sul serio? Allora sono arrivato al momento giusto». Ci girammo simultaneamente e io persi totalmente la lucidità mentale. Aj era lì di fronte a me, sorrideva come se il tempo non fosse mai passato, la barba appena più pronunciata, quegli occhi verdi manipolatori, vestito impeccabile e pronto a trascinarmi nuovamente all’inferno insieme a lui.
 


 

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Capitolo 12
*** I hate you, but.. ***


 

 

XII



Non riuscivo a credere ai miei occhi, era lì chinato sulla mia scrivania come se il tempo non fosse mai passato. Sbattei le palpebre provando a riprendermi dallo shock riservandogli la mia occhiata più fredda, ma questo sembrò solo divertirlo.
«La tua partner potrebbe prendersi una pausa?» Parlava a Lanny ma fissava me, sentii il mio collega sospirare nervoso evidentemente Aj non indisponeva solo me.
«Ho per caso scritto in fronte ‘’baby-sitter’’? Mi chiedi il permesso?» Aj sporse le labbra pensieroso, oscillando lievemente il capo come se fosse in difficoltà, sapevo che era tutta scena.
«Beh.. se in fronte avessi scritto ‘’baby-sitter’’ agevolerebbe i tuoi lavori sotto copertura, peccato si senta la puzza di sbirro a distanza, ecco perché i piccoli criminali scappano prima che tu possa prenderli». Mi alzai di scatto come se avessi le molle ai piedi, la sedia di Lanny si mosse irruentemente. Allargai le braccia fulminandoli con un’occhiata.
«Okay, piantatela. Esci di qui». Mi sorrise e il mio cuore fece una piccola capriola, mi diede le spalle muovendosi con la sua solita aria sicura senza curarsi se lo seguissi o meno, come se ne fosse già certo. Ignorai le domande negli occhi di Lanny sgusciando via prima che potesse espormele verbalmente e mettermi in una posizione scomoda.
Trovai Aj poggiato contro il muretto fuori la stazione, ebbi uno strisciante senso di disagio, ricordava quasi il nostro primo incontro. Pensavo di avere così tante cose da dirgli, ma quando me lo ritrovai di fronte i miei pensieri si ingarbugliarono e persero prima ancora che riuscissi a portarli fuori.
«Hope Kurtzman detective a Manhattan, questo si che è assurdo.» Le mani in tasca, gli occhi verdi e luminosi mi squadrarono da capo a piedi. Incrociai le braccia al petto con aria sostenuta.
«E tu? Chi sei tu, Alexander Junior Roosevelt?»
«Chi pensi io sia?» Sospirai seccamente.
«Non rispondere con altre domande.» Mossi un passo e un altro ancora.
«Siamo nel pieno di un interrogatorio?» Inarcò un sopracciglio senza muoversi dal proprio posto, come se non temesse la mia vicinanza.
«Sei venuto qui a che pro? Farti due risate alle mie spalle?» La mia voce perse la consueta calma.
«Sono venuto qui per te. Per vederti, e spiegarti.» Sorrisi sprezzante.
«Spiegare? Spiegare cosa? Il perché sei sparito da una camera d’ospedale senza più cercarmi?» Assottigliai lo sguardo deglutendo con fatica, le emozioni prendevano sempre il sopravvento con lui di fronte. Per la prima volta lo vidi fissarmi con una traccia di amarezza e ..rimpianto? Non riuscivo a qualificarlo, era tutto così assurdo, era finalmente lì potevo toccarlo soltanto allungando una mano. Non lo feci.
«Questa è una delle tante cose, si.» Incrociò le braccia al petto, l’aria prevenuta. Era ancora lo stesso.
«Magari non mi importa più saperlo, non ci hai pensato?» Feci una pausa tattica osservandolo, non si scompose. «Sto con una persona adesso sai? Lui non ha misteri, non sparisce senza spiegazioni, lui mi ama..»
Mi sorrise con così tanta ironia e divertimento che la mia voce si perse prima ancora di aver finito: «Non è divertente? Somiglia a una sorta di dejà-vu, quando ti incontro stai sempre con qualcuno, e alla fine preferisci me.» Si chinò dall’alto del suo metro e novanta, il solito sorriso beffardo.
«Le cose sono cambiate.» Sul serio? Sembrò pensare la stessa cosa mentre mi fissava scettico, alla fine raddrizzò la schiena umettandosi il labbro, ne seguii il movimento quasi affascinata.
«Credo mi sposerò entro la fine dell’anno.» Mossi un passo indietro come se mi avesse appena schiaffeggiata, fu un riflesso involontario della quale mi pentii.
«E sei qui per cosa? Darmi l’invito? Mi dispiace, ho un impegno quel giorno.» Lo rimbeccai acidamente e ottenni solo la tua risata di scherno.
«Diciamo che non ho ancora la cosa più importante: una donna. Ma credo che mia sorella stia già vagliando parecchie candidate, vuoi che ti aggiunga alla lista?» Le mie orecchie fischiarono, non sapevo per cosa essere più sconvolta.
«Hai una sorella?» Annuì seccamente.
«Ha undici anni più di me, te l’ho già detto: ci sono tante cose da chiarire.» Mi fissò e vidi la gravità dipinta sui suoi lineamenti.
«Speranza.. come hai fatto? Ho visto quel quadro ridotto a brandelli.» Un lampo di dolore passò ad alterare i lineamenti controllati del suo viso.
«Ti ho ridipinta.» Scossi il capo.
«Impossibile, era così preciso quel quadro, non avresti potuto..» mi si avvicinò.
«Eppure è così, senti Hope..» la sua mano toccò il mio braccio, mi scostai con troppa irruenza. Ero così sconvolta che persino un semplice tocco mi avrebbe fatto dissolvere lì all’istante. Lo ferii, i suoi occhi freddi ma non abbastanza da camuffarlo.
«Non mi farò prendere in giro ancora da te, lasciami in pace.» Mi allontanai in fretta senza più voltarmi, ad ogni respiro mi ripetevo di aver fatto la cosa giusta, di non aver sbagliato nulla. Ma se era così davvero, perché rischiavo di soffocare per le lacrime accumulate in gola?
 
***
 
«Odio i doppi turni.» Il sospiro di Lanny mi giunse attutito, seduta sul sedile del passeggero continuavo a fissare oltre il finestrino, provando a non farmi schiacciare dal senso di inadeguatezza che sentivo accumularsi dentro le mie ossa. Erano passati tre giorni, non avevo avuto più sue notizie e avevo evitato di raccontare tutto a Nicole. Non aveva quindi intenzione di cercarmi ancora? Mi diedi dell’imbecille per quel pensiero, a che gioco pensavo di giocare? Tocca e fuggi? Se avessi voluto davvero quelle risposte sarei rimasta con lui, invece ero fuggita come la peggiore delle codarde e la più stronza delle rancorose.
«Eccoli ancora, quei piccoli bastardi.» Mi voltai posando i miei occhi sul bordo della strada malandata, i due ragazzi intenti a parlottare tra loro. Sospirai stancamente facendo segno a Lanny di fermare l’auto cosa che fece scendendo subito dopo. Lo seguii spostando appena il giubbotto, lasciando che il distintivo spiccasse, come se le nostre facce non fossero abbastanza eloquenti.
«Okay bamboli, fermi lì e facce contro il muro dai.» Alzai appena la voce fissandoli beffarda, era già la seconda volta che fermavamo uno dei due per possesso di droga, ormai conosceva i suoi diritti meglio di noi poliziotti. Il piccolo pusher sbuffò rivolgendosi all’amico, disse qualcosa e per me fu abbastanza.
«NO.» Urlai nello stesso istante in cui si diedero alla fuga, maledetti bastardi. Mi dolevano le gambe, ero stanca e loro pensavano bene di distruggermi?
«VI CONVIENE FERMARVI CON LE BUONE.» La voce di Lanny mi arrivò vicinissima, mi voltai vedendolo alle mie calcagna, ebbi il tempo di voltarmi nuovamente per vedere uno dei due gettarmi addosso una schifosissima pattumiera, la evitai con un’imprecazione correndo ancora più veloce. Girarono a destra e io li seguii, la strada finiva con un’inferriata che gli stronzi stavano pensando bene di saltare, mi avventai sul primo sbattendolo contro le grate che produssero un rumore stridente.
«Fine della corsa Romeo.» Respirai profondamente fissando l’altro ragazzo già in manette, le misi al suo compare facendoli voltare, afferrandogli la borsa con uno strattone.
«Siete dei crampi in culo.» Fissai il più bassino con occhi risentiti aprendo la borsa, dentro vi era cocaina e anfetamina, abbastanza per farci un bel gruzzolo.
«E non hai visto i miei colleghi alla stazione, muovetevi.» Gli afferrai il gomito costringendolo a camminare.
«Non mi perquisisci, poliziotta? Inizia da qui.» Mosse oscenamente il bacino con una risata sguaiata, ero abituata alle battute sessiste. Il più alto dei due restò in stoico silenzio, sembrava nuovo del giro.
«Possesso illegale di droga e oltraggio a pubblico ufficiale, Lanny pensi che riusciamo a mandarlo in galera?» Lo sentii imprecare, l’umorismo gli era finito.
 
Seduti di fronte a me non sembravano in vena di collaborare, nonostante Paul – il pusher nano –  ormai fosse un veterano era l’altro a colpirmi. Aveva un qualcosa di familiare, forse gli occhi o i lineamenti così straordinariamente belli.
«La vendi con lui?» Mi fissò truce e io ebbi un mancamento, non era possibile.
«No, ero lì solo per acquistare qualche pasticca, stasera c’è una festa all’upper east side.» Annuii meditabonda, i figli di papà amavano viziarsi con quella merda. Il più basso non parlò. Un brusio si levò dalla sala, sollevai gli occhi e la mia mascella rischiò di cadere. Mi veniva incontro ma non mi fissava, neppure un piccolo saluto o un accenno, niente di niente mentre andava dritto verso il ragazzo alto e dall’aria familiare.
«Combinare guai sembra la tua vocazione.» Sorrise freddamente sollevandogli il mento con due dita, forse pensava l’avessimo picchiato. Il ragazzo scostò con uno schiaffo la sua mano.
«Dicono io abbia preso dal migliore.» Sorrise e io capii il perché mi suonava così familiare, era identico all’uomo in piedi accanto a se. Aj guardò Lanny.
«Ho pagato la cauzione, può andare suppongo, no?»
«A mio parere una notte in prigione non gli farebbe male, per niente.» Aj sorrise sprezzante sollevando quasi di peso il ragazzino.
«Lanny, il tuo parere è irrilevante persino a tua moglie. Chiediti il perché.» Non aspettò le imprecazioni dell’uomo, limitandosi a uscire. Non mi aveva fissata neppure una volta, come se fossi trasparente.
«Buon sangue non mente, maledetti bastardi.» Lanny gettò dei fascicoli a terra con rabbia.
«Chi era quel ragazzo?» Mi fissò con aria stanca, secondo il suo parere dovevo conoscere ogni riccone di NYC.
«Bryan Roosevelt, ovviamente. Il nipote di quel bastardo, il figlio di Kristine la primogenita della famiglia Roosevelt.»

 

AJ

 
In auto non volava una mosca, spinsi il piede sull’acceleratore e l’auto obbedì senza nessuno sforzo. Stringevo con le mani il volante provando a elaborare un discorso che sortisse un qualche tipo di effetto.
«Mamma lo sa?» Sorrisi ambiguamente.
«Lo saprà presto, e tu mio carissimo nipote sei nella merda.» Lo fissai eloquente e mi beccai una scrollata di spalle indolente. Doveva per forza somigliarmi così tanto? Era fastidioso.
«Non credo, se ne dimenticherà presto.» Lo guardai con commiserazione.
«E’ per questo? Pensi che combinando guai lei finisca col notarti? Bryan è tua madre, lei ti noterà sempre.» Kristine si occupava delle filiale estere dei nostri alberghi, sempre in viaggio e sempre concentratissima con la propria carriera, non era cambiata di una virgola negli anni.
«Tu dici? Tra una settimana è il mio compleanno, ha detto che non riuscirà a tornare dagli Emirati.» Strinse il pugno fissandomi rabbioso.
«Tua madre non è venuta a trovarmi nemmeno una volta in clinica, era sempre troppo impegnata e io pensavo mi odiasse.»
«Ed è così?» Il suo sguardo dolente mi ferì, sospirai scuotendo il capo.
«No. Mi ama moltissimo, lo vedo ogni volta che ci fissiamo, quando tornai qui otto anni fa mi disse: Ero sicura saresti tornato, ti aspetto da anni.» Il silenzio piombò nell’abitacolo.
«Io sono suo figlio, io ho diritti..» provò a protestare ma venne stoppato dalla mia risata.
«Hai molti diritti, ma non dubitare del suo amore. Ciò che fai lederà solo te stesso, la droga, le pessime compagnie ti ridurranno uno straccio. Vuoi diventare l’ombra di te stesso?»
«Tu non lo sei, hai vissuto una vita assurda eppure guardati.» Non seppi cosa rispondere, mi fissavo spesso e non riuscivo a vedere l’uomo grandioso che Bryan pensava di conoscere.
«Preferisco guardare te, sei molto più avvenente, mi hai soffiato il primato.» Ridemmo di gusto stemperando la tensione.
«Non credo, ho visto come ti guardava la poliziotta. Hai presente? Quella bella, coi capelli scuri..» non avevo bisogno di dettagliate descrizioni per ricordarla. Mi era costato uno sforzo disumano non fissarla e trascinarla ancora fuori da lì.
«Ah si? Allora dovrei proprio invitarla a uscire con me.»
«Mamma ti strapperà i coglioni se non prendi moglie, quindi si ti conviene trovarti qualcuno alla svelta, anche la poliziotta manesca.» Una smorfia alterò i lineamenti del mio viso, avere trent’anni era dura.
 
«Come sta andando la mostra?» Mi sedetti sulla poltrona, i piedi sopra la scrivania e lo sguardo fisso su alcuni registri.
«Più che bene, vogliono acquistare ‘’Speranza’’.» Sollevai gli occhi senza dire nulla reclinando appena il capo, lasciai cadere i registri sulla scrivania lasciando che producessero un rumore secco.
«Conosci già la mia risposta Kevin, perché quindi continui a chiedermelo?» Lo vidi sedersi di fronte a me, eravamo amici da una vita.
«Perché hanno offerto due milioni di dollari.» Sporsi le labbra pensieroso e alla fine sorrisi.
«Neppure ventimilioni basterebbero.»
«Neppure se fossi Picasso te ne offrirebbero tanti, stronzo arrogante.» Sollevai le mani in gesto di resa.
«Speranza non è in vendita, fine della discussione. Piuttosto come stanno procedendo i preparativi della festa?» Si sbottonò l’unico bottone della giacca sospirando.
«Bene, tua sorella mi snerva in video chat per avere sempre l’ultima parola sull’allestimento, e quel piccolo stronzetto di tuo nipote continua a scartare le proposte per il buffet. Alex, la tua famiglia mi snerva, ho bisogno di uno psichiatra.» Scoppiai a ridere accarezzandomi la guancia lievemente ispida.
«Troverò il modo di far tornare Kristine, Bryan ha bisogno di lei.»
«Saggia scelta, un’altra denuncia e le manette gliele salderanno ai polsi.» In effetti non aveva tutti i torti.
«Ha scelto già la mia accompagnatrice, vero?» Sollevai un sopracciglio e Kevin sbuffò, non era molto d’accordo con quella storia. Come biasimarlo? Chiunque avesse una relazione con me finiva con il soffrire, come Hope. Il suo ricordo mi mozzò il respiro.
«La figlia del senatore James, hai presente no? Devi solo scambiare tre parole con lei, piuttosto che due come col resto degli invitati.» Allargò le braccia indolente.
«Okay, facciamolo. Ah, devi spedire un invito per me.» Sorrisi ambiguamente e Kevin si mosse nervoso sulla sedia, si fidava poco e faceva quasi sempre bene.
 

Hope

 
Le chiavi tintinnarono tra le mie dita, aprii il portone entrando dentro l’androne illuminato e pulito dirigendomi come di consuetudine verso la cassetta delle lettere. Bollette, coupon, pubblicità e.. il cartoncino elegante scivolò lungo le mie dita, era lievemente ruvido al tatto. Non salii a casa aprendolo direttamente lì, e ciò che lessi provocò in me una vampata di rabbia mista a sorpresa. Una sorpresa fin troppo piacevole per i miei gusti. Girai il cartoncino e il suo numero di cellulare spiccava sul bordo marginalmente, sorrisi sprezzante componendo il numero.
 
– Sul serio?
– Bryan vuole ringraziarti per le adorabili ore insieme.
– Non verrò.
– Va benissimo.
– ….
– Volevi ti supplicassi per caso?
– Posso portare chi voglio?
– A dirla tutta no, ma se proprio ci tieni..
– Potrei tenerci, si.
– Hope.
– Non chiamarmi così.
– E’ il tuo nome.
– ….
– Sono riuscito a baciarti ad una festa con Juan a pochi metri. Puoi portare chiunque, lo sai che niente mi ferma.
–Tu.. TU SEI UN LURIDO.. PRONTO?? AJ?
 
Riattaccai spingendo più del dovuto contro lo schermo, avrei voluto romperlo in mille pezzi. Ma chi diamine si credeva di essere? Detestavo la tua arroganza. Qualcuno alle mie spalle respirò profondamente, mi venne la pelle d’oca e istintivamente mi bloccai.
«Hope..» avrei riconosciuto quella voce tra mille.
«Mamma..?» Mi voltai e il telefono cadde contro il pavimento. 

 

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Capitolo 13
*** Secret ***


XIII



La tazzina poggiata sul piattino produsse un lieve rumore, la sua mano tremava appena mentre mi fissava con imbarazzo. Ritrovarmela davanti così improvvisamente era stato quasi più traumatico della serata alla mostra, continuavo a fissarla cercando possibili differenze, rughe in più sul suo volto. Aveva tagliato i capelli che adesso le accarezzavano lievemente il mento, il biondo artefatto scomparso sostituito dal suo solito castano così simile al mio.
«Perché proprio adesso?» La mia voce uscì più tesa di quanto avessi voluto.
«Mi dispiace di essere sparita così, pensavo fosse la soluzione migliore.» Tutti pensavano che allontanarsi e abbandonarmi fosse la soluzione migliore, era divertente in maniera tragica.
«Mollarmi sola e senza un soldo era la soluzione migliore per chi? Per te forse.» Non toccai il mio caffè, la bile minacciava di ostruire la mia gola.
«Carlos minacciava di ammazzarmi se non gli avessi detto dov’eri.»
«Tu non lo sapevi.» Mi fissò attentamente.
«Lui non mi avrebbe creduta.» Bevve avidamente, la mano tremava meno adesso.
«Bene, c’hai messo un bel po’ a tornare.» Sorrisi appena e non le diedi il tempo di ribattere. «Vuoi soldi vero? Sei tornata per questo, probabilmente hai saputo che adesso possiedo un lavoro, ed eccoti qui.» Il tono sprezzante la fece trasalire.
«Non cerco i tuoi soldi, Hope..»
«NON MENTIRE.» Mi alzai, ero furibonda, la rabbia fluiva dentro di me ostruendo la mia mente. Mi fissò con gli occhi umidi.
«Non sto mentendo, non sapevo dove fossi ecco perché non sono mai riuscita a mettermi in contatto con te.»
«Ah si? E adesso? Chi ti ha detto dove fossi.» Restò in silenzio stringendo la borsa sulle ginocchia.
«Non ha importanza, l’importante è che io sia qui.» La fissai con astio.
«Cosa vuoi mamma?» Chiamarla in quel modo mi costò fatica, non ero riuscita a buttarmi alle spalle tutto il nostro passato.
«Non bevo più da quattro anni, sai? Ho trovato persino lavoro..» sorrise in maniera tremolante, come se cercasse di compiacermi. Restai spiazzata.
«Devo ripetere la domanda?» Si alzò sospirando, gli occhi bassi.
«Sono qui per rimediare, so che è difficile perdonarmi, e non ti biasimo. Vorrei solo sentirti qualche volta..» Non seppi cosa dire, continuavo a fissarla come in trance, dovevo perdonarla? «Faccio volontariato in alcune comunità, sai mi fa stare bene aiutare chi come me si sente perso.. un tempo anch’io ero schiava dei miei dolori.» Deglutì, parlare le costava fatica.
«Vuoi dimostrarmi di essere cambiata?» Il suo sguardo stavolta trasudava sicurezza.
«L’ho voluto dimostrare a me stessa prima di ogni cosa.» Si avvicinò prendendomi le mani, sorridendo.
«Come hai potuto andar via così..» le lacrime scesero senza controllo mentre le sue braccia mi avvolgevano strette e calde come mai prima d’ora.
«Non passa giorno senza che me ne penta, mi odio così tanto Hope. Sei la mia bambina, lo sei sempre stata nonostante lo abbia dimostrato male.» Adesso sentivo le sue lacrime inzupparmi la maglia, la strinsi esitante chiudendo gli occhi. Aveva l’odore familiare della famiglia.
 
***
 
«Lanny, hai visto i fascicoli sulla mia scrivania » Un’occhiata torva mi trapassò.
«Il mio nome è Lucas, piantatela di chiamarmi Lanny.» Sorrisi angelicamente sbattendo le ciglia.
«Ma hai la faccia da Lanny.» Allargai le braccia come se avessi detto la cosa più ovvia del mondo.
«Come cazzo ha la faccia un Lanny?» Aggrottò la fronte gettando i fascicoli sulla mia scrivania e io sorrisi.
«Come la tua?» Ci fissammo per qualche istante finché non lo vidi mimare un ‘’vaffanculo’’ voltandomi le spalle. Mi sedetti ridendo iniziando a sfogliare i fascicoli, non riuscivo a captare neppure una parola di quei maledetti verbali, la mente persa ai recenti avvenimenti. Non potevo ancora credere di aver ritrovato mia madre, aveva passato la notte da me, le avevo presentato Nicole e sembrava andassero d’accordo. La mia vita iniziava a percorrere sentieri meno irti, tranne che per una cosa, anzi una persona: Aj. Sbuffai senza rendermene conto quando quel viso si materializzò nella mia mente, il suo era un argomento eccessivamente pericoloso e spinoso, almeno per me. Non avevo detto nulla a Simon e questo mi faceva sentire quasi in difetto, come se nascondessi un cadavere nel baule dell’auto e questo puzzasse di decomposizione solo nella mia mente. Poggiai la fronte sulla scrivania chiudendo gli occhi, dovevo andare a quella festa? Ma soprattutto dovevo forse andarci sola? Il cellulare squillò, lessi il nome di Simon e mugolai tormentata ignorando l’occhiata curiosa di Lanny Lucas.
 
 

AJ

 
«Ho bisogno di uno dei tuoi fantastici caffè per dare un senso a questa giornata inutile.» Mi fissò scuotendo il capo divertita e io la fissai attentamente.
«La giornata di un ricco ereditiero può essere inutile quindi?» Il caffè fumante si materializzò davanti a me, scrollai le spalle con noncuranza.
«Ti stupirebbe saperlo. Ho vissuto parecchi anni inutili.» Ci fissammo con gravità e io ricordai la volta in cui la vidi per la seconda volta, quattro anni prima, anche allora mi aveva offerto qualcosa di caldo.
«Qualcuno tempo fa disse che se in un solo singolo anno hai pianto e riso nulla è andato perso.»
«Frase alquanto ad effetto.» Ci sorridemmo complici, bevvi ancora un po’ di caffè. «Vieni a cena con me stasera?» Inarcai un sopracciglio.
«Sono un po’ vecchia per te sai?» Mi stuzzicò pulendo il bancone.
«Adoro le pensionate.» Schivai lo straccio umido che provocò un colpo simile alla frusta fendendo l’aria.
«Ti farò spendere così tanto che ti pentirai di avermi invitata.»
 
***
 
La porta si aprì lasciando apparire il viso scarno di Juan, mi sorrise in maniera arcigna sedendosi di fronte a me.
«Dovevo immaginarlo, le pessime notizie vengono sempre in coppia.» Inutile chiedergli a chi si riferisse.
«Volevo vedere come te la passassi, la suite è di tuo gradimento?» Lo beffeggiai crudelmente tamburellando le dita contro il metallo spento del tavolo. Alcuni detenuti parlavano a bassa voce coi propri parenti ignorandoci.
«Francamente sei l’unico tra noi con la voglia di fare conversazione, spero questo non turbi il tuo piccolo animo sincero e puro.» Sorrisi in maniera sterile, non era cambiato di una virgola anche se stranamente i suoi capelli sembravano ingrigirsi ogni volta di più, come se quel luogo gli togliesse la giovinezza risucchiandola tra le fitte sbarre della sua cella.
«Sei pronto per il processo?» Scrollò le spalle con noncuranza.
«Abbastanza, stavolta verrò assolto riferiscilo anche a quella puttanella della tua amica.» Mantenni la calma studiandolo tranquillamente.
«Non credo, sai? La testimone che ho trovato ti farà marcire qui ancora per molto.» Si irrigidì appena, fu questione di pochi attimi prima di sciogliersi in un sorriso spensierato.
«Hope non può testimoniare, lei è emotivamente coinvolta e inoltre grazie a te nessuna prova..»  non lo feci neppure finire, mi chinai come se avessi un segreto da raccontargli.
«Ma io non parlo di Hope.» Il suo sorriso si spense, il mio si accese come le luci a Time Square.
«Non è possibile.» Annuii beffardo alzandomi con agilità.
«E’ proprio chi pensi tu. Nessuno meglio di lei può sapere in cosa trafficavate tu e Carlos. Vedi Juan? Alla fine pagherai anche per lui.» Si alzò irruentemente gettandosi su di me, bloccai i suoi polsi sbattendogli il viso contro il tavolo provocando un frastuono che zittì l’intera stanza. Avevo pochi secondi.
«Figlio di puttana.» Lo sentii ringhiare quelle parole mentre provava a divincolarsi, la porta si aprì e i secondini corsero verso di noi.
«Sei finito Juan Hernandez, sei un morto che cammina.» Mi strapparono da lui e io mi divincolai intimando loro con un gesto di non toccarmi. Ci fissammo un’ultima volta prima che lo abbandonassi al suo destino, un destino che si era intrecciato a me anni prima e che finalmente ero riuscito a recidere.

 

Hope

 
«Che schianto, bambola.» Mi voltai fissando Justin sulla soglia della porta, da quando frequentava la scuola elementare il suo gergo giovanile era qualcosa di irriverente.
«Quando sarai alto un po’ più della maniglia di quella porta riuscirò a prenderti seriamente, prima di allora ..fuori di qui.» Lo inseguii fino alla soglia lasciando che scappasse. La risata di Nicole mi colse alla sprovvista, entrò sedendosi sul letto, accavallando le gambe. Aveva un’eleganza innata, mica come me che facevo concorrenza alle scaricatrici di porto.
«Nicole dovresti fare qualcosa per correggere quel piccolo mostro.» Indicai il nano adesso seduto a sbafare merendine.
«E’ giusto che cresca, piuttosto parliamo di te.» Sorrise furbamente ammiccando e io non riuscii a fare a meno di ridere.
«Esco con Simon se può interessarti, si.» Sistemai le spalline del vestito sedendomi sulla poltrona per infilare le scarpe.
«Non mi interessa lui, mi interessa l’erede dei Roosevelt che a quanto dice Lucas è venuto a cercarti.» Mi immobilizzai sentendomi come Justin quando veniva beccato a rovistare tra le mie cose personali.
«Non c’è molto da sapere, è riapparso e poi sparito quando l’ho cacciato. Si è arreso molto facilmente.» Il mio tono noncurante non la colpì particolarmente.
«Quindi non andrai alla festa sabato?» Sgranai gli occhi.
«Sei tu adesso la poliziotta della famiglia?» ‘’Famiglia’’, un termine così vasto.
«Hai lasciato l’invito in bella mostra sul tavolo, stupida ragazzina, se lo avesse visto Simon?» Reclinò appena il viso e io mi sentii sul serio una ragazzina.
«Non ho intenzione di perdonarlo.»
«Gli hai almeno dato la possibilità di spiegare?» Restai in silenzio sentendomi colpita a tradimento da lei.
«Da che parte stai tu?» Assottigliai lo sguardo e Nicole sorrise bonariamente.
«Non sono una fan sfegatata di Alexander, lo sai, ma se dopo otto anni è tornato ..credo ci sia una buona motivazione, no?» Annuii lentamente.
«Probabilmente è solo smania di avere ciò che non cade ai suoi piedi con lo schiocco delle sue regali dita.» Il mio tono uscì più acido di quanto avrei voluto.
«Se ne sei così sicura allora hai fatto benissimo.» Se prima non ero stata felice di ritrovarmela contro, adesso ero persino più sconfortata nel suo darmi ragione. Non provava a farmi riflettere meglio?
«Tutto qui?»
«Hope, stai cercando qualcuno che ti fornisca una scusa per andare da lui in modo tale da non prendertene le responsabilità. Pensi non l’abbia capito?» Trasalii come se mi avesse colpita.
«Non è vero..» Lo era eccome, lo sapevamo entrambe. Il citofono suonò in quell’istante salvandomi da una situazione che a mio parere non aveva molte vie d’uscita. La guardai eloquentemente indossando il cappotto prima di salutare Justin e richiudermi la porta alle spalle. Simon mi accolse elegante e sorridente come sempre.
«Vederti questa settimana è sembrata ardua.» Mi ripetei mentalmente che non lo avevo evitato di proposito, e per avvalorare la tesi mi lasciai baciare più del solito.
«Sono stata impegnatissima con il lavoro, scusami.»
«Non scusarti, è giusto così.» Mi sentii una bugiarda mentre salivo sull’auto mettendo la cintura di sicurezza. Simon non era Juan, non meritava bugie e sotterfugi, anzi. Probabilmente era il miglior fidanzato che avessi avuto nella mia vita, era lui la persona alla quale dovevo prestare ogni grammo delle mie attenzioni.
«Dove mi porti stasera?»
«Oh a cena, è da un po’ che non andiamo in quel ristorantino che ti piace tanto. Quello sulla trentesima, hai presente?» Annuii distrattamente fissando fuori dal finestrino, le parole di Nicole sembravano perseguitarmi.
Entrammo nel locale seguiti dal cameriere che ci scortò in uno dei tavoli liberi, mi sedetti liberandomi dal cappotto sorridendo a Simon di fronte a me.
«Sto letteralmente morendo di fame.» Aprii alcuni grissini sgranocchiandone uno svogliatamente, fissandomi attorno senza vedere davvero. Una risata mi colpì, aggrottai la fronte a causa della familiarità e la seguii con lo sguardo fino a fermarmi su una donna. Una donna ben conosciuta.
«Mamma?» L’uomo accanto a se si voltò fissandomi e il grissino mi si incastrò nella trachea. Iniziai a tossire sentendomi soffocare, Simon si alzò preoccupato e mia madre mi corse incontro, sentii le sue mani battermi la schiena e mi scostai affannata.
«Hope, che coincidenza!» Sembrava entusiasta peccato fosse la sola, tornai a fissare l’uomo con lei che sorrideva divertito. Lurido figlio di puttana.
«Ti scopi mia madre? Cos’è una specie di giochetto sadico da ‘’non posso avere la versione giovane e fresca, quindi ripiego sulla vegliarda’’?»
«Mi stai dando della vecchia?» Ignorai mia madre e i suoi occhi divertiti, Simon si schiarì la voce.
«Vi conoscete?»
«No.»
«Si.» Rispondemmo all’unisono e io lo incenerii con un’occhiata.
«Alexander non conosci quindi Hope?» Mia madre sembrava divertirsi un mondo. Sorrisi aspramente.
«Non saprei, tua figlia non vuole avere niente a che fare con me quindi direi che non ci conosciamo adesso, o si?» Sporsi le labbra annuendo appena con la tipica espressione da ‘’bel colpo Roosevelt, fai schifo’’ e lui in cambio allargò le braccia innocentemente come a dire ‘’beh? Ho detto una bugia?’’.
«Hope, mi spieghi?» La voce di Simon sempre controllata perse un po’ del suo solito carisma, lo fissai per la prima volta sorridendo forzatamente.
«E’ solo .. una mia vecchia conoscenza.» Il suo sbuffo perforò i miei timpani, tornai a fissarlo con occhi assassini.
«Non mi definirei una ‘’conoscenza’’, ecco.»
«Zitto. Che ci fai con mia madre qui?» Lo scrutai con rabbia.
«Devo stare zitto o rispondere alle tue domande?» Mi spiaccicai una mano in viso ormai esasperata.
«Volete cenare con noi?» Simon e la sua eccessiva educazione.
«NO.» Dissi forse con troppa irruenza.
«Si.» Disse lui con eccessiva calma. Ancora una volta le nostre risposte all’unisono non coincisero, Aj mi fissò sorridente prendendo posto insieme a mia madre.
«Quindi lei è la madre di Hope? E’ un piacere conoscerla, lei non .. cioè non abbiamo mai parlato di lei.» Mia madre incassò bene il colpo, mentre la mia mortificazione mi portò a ingozzarmi di grissini e bere vino come fosse acqua il tutto sotto gli occhi ardenti di Aj che sembrava vedere solo me in quel tavolo.
«Io e Hope non ci siamo viste per qualche tempo, sono tornata da poco in città.» Brava mamma, ora so da chi ho preso il mio animo nero e bugiardo.
«E invece lei è..?» Simon si rivolse ad Aj che lo ricambiò fissandolo come fosse il suo lustrascarpe, volevo infilzarlo con la forchetta.
«Alexander Roosevelt, piacere.» Simon batté le mani con gioia.
«Ha lo stesso nome del famoso ereditiero.» Calò il silenzio nel tavolo. Mi schiarii la voce.
«Lo è.»
«Come?» Simon sembrò interdetto.
«Lui è quell’Alexander, Simon..» ci mise due secondi a collegare per poi fissare AJ a bocca spalancata, adesso più che un lustrascarpe sembrava il portiere sfigato del villone Roosevelt.
«Ho soggiornato in un vostro albergo a Los Angeles, favoloso.» Aj sorrise pragmatico, aveva imparato le buona maniere quantomeno. Mi avvicinai a mia madre tirandola verso di me.
«Dimmi che non esci con lui.» Sussurrai quelle parole il più in fretta possibile.
«Potrei mai uscire con un ragazzo innamorato di mia figlia?» Mi fissò furbamente e io sentii la gola seccarsi.
«Qualsiasi cosa ti abbia detto è un bugiardo, sappilo.» Sentii stavolta i suoi occhi su di me, ero sicura di aver parlato piano.
«Hope smettila di denigrarmi con lei.» Mi fissò quasi annoiato mentre il cameriere si materializzava davanti a noi. Ordinammo tutti, mi sentivo bianca come un cencio e non avevo bisogno di specchiarmi per immaginare. La cena sembrò assurdamente surreale, Simon tediava AJ parlando di affari, mia madre mi lanciava occhiatine maliziose e io .. io bevevo.
«Scusate, devo andare in bagno..» a vomitare o sbattermi la testa contro il muro, dovevo ancora decidere bene. Mi alzai dandomi un contegno partendo spedita verso il fondo della sala, mi sentivo osservata continuamente e la cosa non aiutava il mio già precario equilibrio dopo l’alcol e i tacchi.
Finalmente sola mi poggiai al lavandino, spruzzai un po’ d’acqua sul viso sentendolo ardere nonostante il pallore, perché Aj era con mia madre? Perché si conoscevano? L’idea che potessero andare a letto insieme mi nauseava. La porta cigolò appena richiudendosi subito dopo, vidi i suoi occhi attraverso il riflesso dello specchio e mi voltai velocemente.
«Esci subito, è il bagno delle donne.» Scrollò le spalle.
«Non è la prima volta che mi ci intrufolo.» Lo fissai tra lo sgomento e l’imbarazzato, era proprio un porco casanova.
«Va bene, allora goditi il bagno delle donne da solo.» Mi voltai con rabbia ma la sua presa sul polso per poco non mi fece ruzzolare a terra, mi strattonò con eccessiva forza e io ricaddi contro di lui, il suo petto duro mi diede le vertigini. Sollevai il viso e lo trovai intento a sorridere divertito.
«Te l’ho detto no? Ci sono riuscito persino con Juan a pochi metri.» Non ebbi il tempo di rispondere, le sue labbra furono sulle mie devastandomi l’anima e la mente. Chiusi le dita sulla sua maglia provando a respingerlo, mugolando contrariata, la pressione che esercitava rendeva molli le mie ginocchia e prima di rendermene pienamente conto stavo già ricambiando quel bacio. La mia mano accarezzò lo zigomo pronunciato, i capelli morbidi serrandosi tra essi, sospirai sentendo la sua mano sollevare il bordo del mio vestito, sembrava l’ennesimo dejà-vu una sorta di punizione. Quando si staccò entrambi respiravamo affannati, lo spinsi provando a schiaffeggiarlo ma stavolta fu più lesto di me a bloccarmi.
«Perché mi schiaffeggi per qualcosa che hai ricambiato?» Allargai le narici sgomenta liberandomi dalla sua presa, ero arrabbiata con me stessa non con lui. Fuggii letteralmente via tornando al tavolo, senza più il coraggio di incrociare gli occhi di nessuno dei tre.
A fine serata rasentavo la sbronza, mi alzai barcollando sui tacchi ma una presa ferrea si serrò sul mio gomito tenendomi saldamente, sollevai il viso arrossato incrociando quegli occhi cangianti.

 
 

AJ

 
Incontrare Hope non era di sicuro nei miei piani, soprattutto in compagnia della madre né tantomeno di quel coso che lei definiva ‘’fidanzato’’. La fissai perdendomi in quegli occhi troppo grandi.
«Torna a casa con me.» Mi sembrò quasi di averla implorata nonostante il tono fermo, lei scosse il capo sciogliendosi dalla presa.
«No, ne ho abbastanza dei tuoi giochetti.»
«Non è come pensi tu.» Fissai Simon intento ad aiutare Abby col cappotto, il tempo stringeva.
«Non è mai come penso io, certo.» Mi sorrise così tristemente da sentirmi rovesciare le budella.
«Vieni alla festa Hope, ti racconterò tutto.» Mi fissò come se fosse indecisa su qualcosa.
«Hai troppi segreti Aj, non penso di poterli gestire.» Le strinsi il gomito in maniera eloquente.
«Niente più segreti, te lo giuro.» Simon arrivò in quel momento, dovetti lasciarla andare mio malgrado vedendola andar via ancora una volta senza di me.
«Sei proprio in un bel guaio ragazzo mio.» Fissai Abby sospirando.
«Io sono sempre nei guai, non lo sai?» Rise divertita, almeno qualcuno riusciva a cogliere il lato comico della mia esistenza.
 

 

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Capitolo 14
*** Hope (Ending) ***




 
La luce del sole ferì i miei occhi, li stropicciai con un mugugno infastidito tenendomi la testa con entrambe le mani, sentivo come se dovesse scoppiarmi da un momento all’altro. Le immagini della sera prima passarono davanti le mie palpebre chiuse strappandomi un gemito frustrato che soffocai contro il cuscino, perché la mia vita doveva essere sempre così complicata? Il campanello suonò perforandomi un timpano, seppellii la testa sotto il cuscino senza la minima intenzione di alzarmi, volevo murarmi viva per circa dieci anni dimenticando la figuraccia fatta con Simon, il bacio con AJ, e mia madre in sua compagnia.
«Hope so che sei lì, ti ho portato i muffin!» La voce di mia madre mi trafisse la tempia come se l’avessi evocata, mi sollevai con troppa enfasi finendo col cadere sul pavimento a faccia in giù, imprecai provando a sollevarmi cercando di districare l’intreccio delle lenzuola tra le mie caviglie.
«Hope?»
«UN MOMENTO». Urlai riuscendo finalmente a liberarmi barcollando fino alla porta che aprii, mi sorrise sventolandomi davanti la busta di una famosa caffetteria, sospirai lasciandola passare.
«Pessima giornata?» Mi accarezzai una natica dolorante scoccandole un’occhiata a mio dire ‘’eloquente’’.
«Non più del solito da due settimane a questa parte». Il che non era poi così falso, da quando AJ era tornato niente sembrava andarmi per il verso giusto. Mi sedetti sul tavolo della cucina sorreggendomi il capo come se dovesse cascarmi da un momento all’altro, fissando mia madre preparare il caffè perfettamente a suo agio. Non aveva intenzione di parlarmi della sera precedente, vero? Non credo avrei retto. Eppure la curiosità mangiava ogni parte di me senza eccezioni. L’odore del caffè mi rianimò quel tanto che bastava a collegare le mie sinapsi e farmi aprire per bene gli occhi, sorseggiai con cautela dalla tazza con la scritta ‘’I’M BATMAN’’ sbocconcellando svogliatamente il muffin con gocce di cioccolato fondente, uno dei miei preferiti.
«Dovremmo forse parlare di ieri?» Mi fissò come se fosse seriamente indecisa sulla questione, il che non migliorava le cose.
«Mi basta sapere che non ci vai a letto». La sua risata perforò i miei timpani, dovevo prendere qualcosa per l’emicrania decisamente.
«Perché dovrei? Aj è come un nipote per me». Apprezzai che non avesse usato la parola ‘’figlio’’, mi mancava solo l’incesto.
«Meglio così.»
«Non vuoi sapere come l’ho incontrato quindi?» Assottigliai lo sguardo bevendo una grossa sorsata di caffè sospirando.
«Sono sicura non fosse casuale, lui ti avrà cercata di proposito». Misi su una smorfia e mi stupii dell’espressione severa di mia madre.
«E’ stato un incontro casuale, Hope». La sua voce tagliente mi fece trasalire, strinsi la tazza attendendo altre delucidazioni. «L’ho incontrato in una comunità dove facevo volontariato. Aveva i vestiti sporchi, gli diedi un pasto caldo e lui probabilmente mi riconobbe.»
«Lui era in comunità?» Strinsi la tazza confusa.
«No, non so perché fosse lì visto il suo immenso patrimonio, cercava cibo. Forse era fuggito da casa, a quanto ne so lo faceva spesso». Masticò il suo muffin pensierosa.
«Okay, e poi?» Improvvisamente divenni attenta, persino il ronzio nella mia testa smise di darmi fastidio come se volesse ascoltare anche lui.
«E poi venne sempre più spesso, mi disse di conoscerti nonostante non ti vedesse da anni. Il modo in cui parlava di te mi spinse a fidarmi e permettergli di cercarmi ancora. Mi chiese di testimoniare contro Juan, e io inizialmente rifiutai. Ho accettato solo recentemente, dopo averti vista..» mi sorrise tremula e io le presi la mano stringendola a mo di conforto. Quindi era così? Chinai il capo.
«Avresti dovuto dirmelo.»
«Lo so, ma lui non voleva diceva ti saresti arrabbiata – mi fissò eloquente, non aveva avuto tutti i torti – è stato lui a dirmi dove trovarti, ti ho seguita dalla stazione di polizia quella sera». Sentii la gola serrarsi, respirai profondamente.
«Mamma,ho rovinato tutto.»
«Hope..» disse il mio nome con così tanta dolcezza che il mio muffin sembrò improvvisamente amaro al confronto.
 

AJ

 
«Vederti è sempre un piacere». Le sorrisi seduto sulla poltrona, una gamba penzolava oscillando da un bracciolo. Camminava come suo solito con sicurezza, i tacchi che sembravano perforare il pavimento, vestita con uno dei suoi tanti tubini severi, la coda stretta che ondeggiava insieme a lei.
«Sei un piccolo bastardo, lo sai vero?» Mi sorrise, un sorriso così simile al mio, mentre mi si accomodava di fronte.
«Me lo dici da una vita sorellina, sono felice tu sia tornata.»
«Tornata? Mi hai praticamente costretta col ricatto». Mi scoccò un’occhiata severa, i nostri dieci anni di differenza mai così visibili.
«Bryan ha bisogno di te, minacciarti era l’unico modo per portarti alla ragione». Stavolta toccò a me squadrarla con freddezza, abbassò il capo giocherellando con gli anelli alle sue dita.
«Ho commesso anche con lui lo stesso errore, vero?» Mi fissò spaventata riportandomi a un tempo solo nostro, un tempo della quale temevo di ricordare troppo.
«No, sei ancora in tempo. Lui ti ama, è tuo figlio». Ci sorridemmo così simili e diversi allo stesso tempo.
«Hai già chiamato la figlia del ministro?»
«Ho disdetto a dirla tutta, se devo sposarmi lo farò alle mie condizioni». Ci fissammo in silenzio, inarcò un sopracciglio.
«E’ a causa di quella ragazza del commissariato? Kevin mi ha già accennato». Roteai gli occhi sbuffando.
«Accennare? Glielo hai estorto con i tuoi modi da Strega Satanica?» Mi sorrise altezzosa accavallando elegantemente le gambe, i suoi quarantadue anni inesistenti.
«Non è forse per questo che mi hai mandato nelle filiali estere? Non c’è nulla che non ottenga, io». Era una chiara sfida quella, la raccolsi sogghignando.
«Ti stupirà saperlo, ma anche per me è così.»
«La vuoi sul serio, o è solo smania di vincere?» Il ghigno sparì sostituito da un’espressione grave e tesa.
«Io la amo». Il silenzio piombò tra di noi, la vidi annuire lentamente quasi faticasse ad associare quelle parole alla mia persona.
«Suppongo era ora succedesse, sei umano anche tu.»
«L’ho invitata alla festa». Tornò a sorridere furbamente.
«Verrà?» Si sporse verso di me e io risi.
«Chi lo sa. E’ brava a farmi impazzire.»

 

Hope

 
Il vestito lungo dalla consistenza leggera accarezzava il mio corpo, posai il cellulare sul comodino infilandomi le scarpe, sul display vi era ancora l’ultimo numero composto: Simon. Continuare quella farsa adesso mi sembrava inutile, era un bravo ragazzo e a prescindere da come finisse la mia intricata situazione sentimentale quindi proseguire il mio percorso insieme a lui era stupido, e crudele. Non lo amavo, probabilmente non lo avrei mai fatto, e averglielo fatto credere sarebbe stato uno dei miei tanti rimorsi.
Il taxi mi attendeva sotto casa, diedi il nome della via abbandonandomi infine sui sedili dall’odore di fumo e stantio, fissando oltre il finestrino. Sentivo un macigno persistente allo stomaco, aggrovigliava le mie viscere impedendomi di respirare correttamente, mi sentivo come se stesse per scoppiare l’Apocalisse. In fondo era simile al giorno del giudizio quello, il mio personale ma pur sempre devastante.
Le scalinate in marmo mi accolsero luccicanti e sfarzose, i tacchi silenziosi sul tappeto rosso mentre consegnavo l’invito alla guardia all’ingresso, riuscivo a sentire la musica persino da lì, aveva già iniziato quindi? Percorsi i pochi metri che mi separavano dalla sala, e quando le porte si aprirono fissai la moltitudine di gente che parlava, ballava e beveva. Camminai insicura guardandomi attorno, una voce mi fece trasalire, squadrai il ragazzo con espressione scioccata.
«Bryan?»
«La poliziotta manesca?» Mi indicò come stupito, e io ebbi la voglia di fargli vedere quanto manesca riuscissi a essere.
«Sei proprio suo nipote, mi provocate le stesse voglie.»
«Spero di no, sei vecchia per me..» Sollevò le mani e io mossi un passo decisa a prenderlo a calci, sentivo le guance roventi.
«Potresti evitare di picchiare il festeggiato, almeno finché non arriva la torta?» La voce al mio fianco mi fece trasalire, sollevai lentamente gli occhi incrociando i suoi. Verdi e sfavillanti, messi in risalto dal completo bianco candido così in contrasto con la sua persona. Non riuscii a spiccicare parola, Bryan si allontanò e io nemmeno me ne accorsi. Mi tese una mano: «Balli con me?» La fissai annuendo appena, sentii la scossa pervadere ogni mio nervo quando le nostre dita si toccarono, fui sicura l’avesse percepita anche lui visto il modo in cui mi guardava.
Le mie braccia avvolsero il suo collo, continuavo a guardarlo senza dire nulla.
«Sei venuta alla fine». Sembrava non riuscire a crederci.
«Grazie..» avrei voluto dirgli di mia madre, ma non ci riuscii. «Per l’invito, intendo». La sua risata bassa formicolò sulla mia pelle.
«Prego». Restammo in silenzio entrambi, era come se parlassimo con gli occhi e ad un certo punto mi resi conto di avere l’affanno, come se stessi correndo a perdifiato. Dirottai lo sguardo sulla sala, una donna dai lunghi capelli scuri ci fissava con un sopracciglio inarcato e l’aria vagamente divertita.
«Ignora mia sorella». Aveva seguito il mio sguardo, sgranai gli occhi fissandolo.
«Quella è tua sorella?» Annuì senza particolari inclinazioni espressive facendomi piroettare per poi stringermi a se.  
«Ti somiglia parecchio..» quella famiglia aveva un qualche gene stregato, o non si spiegava la sfolgorante bellezza di ogni suo membro. Sembrò leggermi nel pensiero, si chinò sussurrando contro il mio orecchio.
«Sei più bella tu». Arrossii maledicendo l’effetto che continuava a farmi, la musica finì e io venni trascinata lontano da lì.
«Dove andiamo?»
«Non credo tu sia qui per la festa». Non riuscii a ribattere fissando le sue dita intrecciate alle mie mentre abbandonavamo la sala, salimmo delle scale infilandoci in un corridoio, aprì una porta spingendomi dentro e quando accese le luci capii si trattasse del suo studio. Mi voltai e lo vidi liberarsi della giacca, andò verso un vassoio riempiendo un bicchiere di liquido ambrato.
«Brandy. Ne vuoi?» Scossi il capo, era meglio restare sobria e comunque dopo la sbronza epica della sera precedente non avrei toccato alcool per un po’.
«Ho lasciato Simon». I suoi occhi scintillarono di interesse.
«Perché?»
«Perché non lo amo, e lui è una brava persona». Il mio riserbo per Simon sembrò infastidirlo, ingollò più della metà di liquore fissandomi.
«Mia madre morì di parto dandomi alla luce, e mio padre impazzì di dolore». Trattenni il respiro, aveva finalmente iniziato il suo racconto. «Mia sorella all’epoca aveva dieci anni, subì con dolore il cambiamento di un padre che secondo lei era ‘’amorevole’’, divenne violento. Un mostro. Picchiava solo me, secondo lui ero io la causa della morte di sua moglie». Scrollò le spalle con indolenza e io mossi un passo.
«Aj..» Sembrò non sentirmi, sentivo fosse da tutt’altra parte.
«Da bambino passavo più tempo in cantina nascosto che a scuola, mia sorella scappò di casa a quattordici anni e mio padre la diseredò. Iniziai a vedere mia madre, allucinazioni probabilmente, e una notte lei mi disse di appiccare un incendio. Mi parlava attraverso lo specchio, non vedevo me stesso ma lei». Si stoppò e io ricordai le parole di Nicole, adesso sapevo perché avesse odiato gli specchi. «Appiccai io il fuoco, nonostante dicano sia stato un incidente, mio padre morì mentre io fissavo la casa bruciare. Pensavo fosse tutto finito ma mi sbagliavo, impazzii o almeno questo disse mio zio, il fratello di mio padre, che divenne il mio tutore legale e mise mano sull’eredità». Deglutì con fatica scolando l’intero contenuto del bicchiere. «Ho perso il conto dei manicomi che visitai, nessuno riusciva a capire fossi ferito e schiacciato dal senso di colpa forse la pazzia era comoda per tutti, almeno finché non fuggii definitivamente a diciassette anni, quando incontrai la tua Nicole». Mi guardò.
«Lo so, me lo disse..» la mia voce un sussurro.
«Circa un anno prima avevo fatto fuggire B-bomb, mi doveva un favore e mi accolse per qualche tempo da lui. Mio zio mi trovò e dovetti fuggire di nuovo, tornai a Chicago un mese prima di incontrarti. Ho passato tutta la mia vita da fuggiasco, era come se portassi il marchio in fronte, persino il mio nome era proibito da dire. Ero troppo conosciuto, chiunque avrebbe potuto avvisare mio zio anche involontariamente. La notte in cui Juan mi aggredì..» si stoppò avvicinandosi a me. «Quando mi svegliai trovai Kevin al mio capezzale, mio zio mi aveva trovato, ancora. Dovetti scappare senza  lasciare traccia, in fondo il nome dei Roosevelt non poteva essere macchiato. Tornai a NYC, mi misi in contatto con mia sorella e insieme riuscimmo a riprenderci ciò che ci spettava di diritto. Anche se nei primi anni continuai a soffrire, le voci mi torturavano ..forse non accettavo semplicemente ciò che avevo fatto». Gli accarezzai una guancia senza rendermi conto di stare piangendo.
 

AJ

 
Raccontare la mia vita era più semplice di quanto mi fossi aspettato, o forse erano i suoi occhi a iniettarmi il giusto coraggio.
«Mio zio è morto circa cinque anni fa, lasciai mia sorella a capo di tutto e iniziai a vivere senza meta. Fu lì che incontrai tua madre, pensai i nostri destini fossero sul serio allacciati in maniera indissolubile». La guardai, sorrise e mi riscaldò le ossa gelate.
«Lo penso anch’io..»
«Ti amo Hope, sono andato via perché dovevo proteggerti. Non potevo dargli ancora armi per distruggermi, avrebbe preso di mira te perché tu eri la mia debolezza. E quando morì.. non avevo abbastanza forza per cercarti, ripresentarmi davanti a te. Capii che per esserne degno dovevo cambiare, affrontarmi e crescere, lo feci ..e ti cercai.»
«Il quadro..» sembrava ossessionata da quello, sorrisi divertito stemperando la tensione.
«Kevin distrusse tutto prima che arrivasse mio zio, soprattutto il tuo ritratto. Lui avrebbe avuto una pista. L’ho ridisegnato, identico si, perché eri assolutamente scolpita nel mio cuore e nella mia mente Hope. Sai cosa chiesi a tua madre?» La vidi scuotere il capo. «Le chiesi perché quel nome, e lei mi rispose: è stata la mia ‘’speranza’’ quando tutti mi avevano abbandonato. Ecco, sei stata la stessa cosa per me, eri come un faro onnipresente e pronto a indicarmi la giusta via». Non riuscii a finire, le sue labbra su di me, le sue braccia mi avvolsero mentre la realtà si sgretolava, così insignificante rispetto a lei. Tutto era insignificante se paragonato ai momenti vissuti con lei.
«Mi dicesti ‘’se io perdessi te passerei la mia vita a cercarti’’, ho ricordato quelle parole e le ho messe in pratica». Mi sorrise baciandomi ancora, era come se i pezzi della mia vita si stessero lentamente ricomponendo, ognuno senza forzature né sbavature, come se quello fosse il singolo momento che attendevo da tutta una vita.
 
«Credo di aver fatto bene». La fissai interrogativo.
«A fare cosa?»
«A non lavarmi la mano col tuo numero quando ti incontrai.»

 

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