Esper - Order and Holders

di EffyLou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00 - Prologo ***
Capitolo 2: *** 01 - Gin Lemon ***
Capitolo 3: *** 02 - Terra consacrata ***
Capitolo 4: *** 03 - Preda e predatore ***
Capitolo 5: *** 04 - Cattedrale dell'Angelo Custode ***
Capitolo 6: *** 05 - Professor Xavier ***



Capitolo 1
*** 00 - Prologo ***


Introduzione.
Eccomi con una nuova storia! Stavolta tratterò di un genere che in passato mi appassionò tantissimo, ora un po' meno, ma comunque non sono mai stata una grande fan delle storie e altre opere sovrannaturali, non ne conosco molto. Strano eh?
In questa storia parlerò di creature sovrannaturali in misura ridotta, poiché sarà un paranormale incentrato sulla percezione extrasensoriale dei cosiddetti Esper (i sensitivi). 
Ho già previsto che ci sarà un sequel e ho già stilato la trama: Master and Servants
Ho scelto di fondere a questa storia due saghe di creepypasta, qualcuno probabilmente le conoscerà già: Holders e SCP. Era da un po' che volevo scrivere qualcosa in merito ma non ho mai preso in considerazione l'idea finché non mi è venuta l'ispirazione per Esper.
Qui il booktrailer: video.
Qui il link della storia su Wattpad: click.

Vi lascio a questo breve prologo, buona lettura!
Se volete farmi sapere cosa ne pensate, ne sarò ben felice! ♥


 
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Esper
Order and Holders


 
Nascere e crescere a Nashville dovrebbe preannunciare un futuro da cantanti o musicisti. Così credevo, insomma. La famiglia Cyrus – Miley, Billy Ray, proprio loro – veniva da Nashville e anche Hayley Williams, la cantante dei Paramore.
Nashville, la città della musica.
In effetti i miei genitori tentarono di farmi prendere lezioni di canto, quand’ero bambina. Non è andata bene. Non sono fatta per la musica.
Mi iscrissero ad un corso di hockey femminile e non andò bene neanche lì.
Sapete, non ho avuto una vita molto serena nonostante avessi tutte le carte in regola per poterla vivere. I miei problemi cominciarono all’età di undici anni.
 
Ricordo che ero al parco, mia madre era seduta su una panchina al limitare della zona giochi e parlava con una vecchia amica.
Io mi stavo arrampicando sulla parete da scalata con gli appigli di plastica. Quando arrivai in cima mi sedetti e mi sbracciai per richiamare l’attenzione della mamma e farle vedere quant’ero stata brava, che tutto sommato non ero una frana.
Fu mio fratello ad accorgersi di me. Mitchell era più grande di tre anni, quindi al tempo ne aveva quattordici e il viso con i punti neri.
Per sbracciarmi persi l’equilibrio e caddi rovinosamente indietro, battendo la schiena e la testa.
Mi risvegliai in una stanza d’ospedale, ma stavo bene.
Mi venne detto che ero solo appoggiata lì, perché dovevo fare alcuni controlli, ma non mi ero fatta male gravemente.
In seguito alla tac risultò che avevo un lieve trauma cranico, ma che si sarebbe riassorbito da solo. Quindi niente di grave, come previsto, anche se la schiena continuò a farmi un male fottuto per quasi una settimana.
Quella fu la fatidica settimana in cui vidi.
Quando mi affacciavo alla finestra, vedevo i mostri che camminavano per le strade come se fossero persone normali. Demoni, spettri, uomini e donne con occhi rossi o gialli che brillavano come fanali. Non volevo uscire di casa, ma a settembre cominciò la scuola e dovetti per forza.
Ricordo che Mitch mi venne a prendere all’uscita e mi strinse la mano mentre camminavamo verso casa.
«Li vedi anche tu?» sussurrai.
I mostri si fermavano a fissarci quando passavamo per strada, annusavano l’aria, ci guardavano con interesse.
Mitch annuì lentamente con il capo.
«Perché gli altri non li vedono?» domandai ancora.
«Non lo so, Phoebe. Non dobbiamo dirlo a nessuno.»
Annuii, incerta. Eppure volevo sapere. Volevo parlarne con qualcuno e chiedere quale fosse il problema. Ma avevo una paura fottuta.
Camminammo lungo la via mano nella mano, con i mostri che si fermavano a fissarci e annusare l’aria. Però, man mano che andavamo avanti, quelli ci seguivano.
Quelli con gli occhi rossi avevano la bocca così grande da essere deforme, piena di denti da squalo, la pelle pallida come cera con le vene nere in evidenza, gli occhi neri come biglie e unghie affilate; quelli con gli occhi gialli avevano unghie lunghe e canini affilati come rasoi, camminavano a quattro zampe; gli spettri erano molto diversi l’uno dall’altro, qualcuno aveva il corpo integro ma altri sembravano essere stati massacrati da pochi, le vesti erano zuppe di sangue. Infine i demoni… Come ve li immaginate? Orribili e tutti diversi, l’unica cosa che li accumunava erano le lunghe corna curve verso l’alto.
Ricordo che rimasi terrorizzata a quella vista inquietante. Emisi un singhiozzo tra le lacrime, stringendomi di più a Mitch, e quelli ci attaccarono. Noi fummo costretti a dividerci e cercare rifugio da qualche parte, ognuno per conto proprio. Il primo posto che trovai, fu una nicchia in cui c’era la statuetta della Madonna con un paio di candele e fiori. Mi nascosi lì dietro, mi accorsi che lì quei mostri non potevano prendermi. Sperai che Mitch avesse trovato rifugio in un posto come quello.
Rimasi a piangere aggrappata alla nicchia, singhiozzi disperati e terrorizzati da quei mostri che tentavano di agguantarmi, azzannarmi. Non ho mai avuto così tanta paura in vita mia. Possibile che nessuno se ne fosse accorto?
Non potevo stare lì per sempre. Non seppi dire perché, istinto credo, ma staccai il rosario dal collo della statuetta, lo tenni stretto tra le dita e uscii allo scoperto. I mostri si allontanavano se sventolavo il rosario davanti a loro, era come un’aura protettiva. Mi feci strada così verso casa.
I miei genitori mi accolsero spaventati e si preoccuparono perché Mitch non c’era.
 
Una settimana dopo, ci dissero che Mitch era morto. Di lui erano rimasti solo brandelli di maglietta, una scarpa, lo zaino stropicciato e una pozza di sangue nel vicolo in cui era stato ucciso. Le autorità non ritrovarono mai il corpo, né un sospettato o un colpevole. Seppellimmo una bara vuota sotto una lapide inutile: “Mitchell Montgomery. Nashville, 1990 – Nashville, 2004”.
Continuavo a vedere i mostri. Loro continuavano a fissarmi, ad annusarmi, e io non volevo mai essere lasciata sola. Li vedevo di notte, nei miei sogni. Ormai dormivo con una croce tra le mani, nel letto con mamma e papà. La camera di Mitch era stata chiusa a chiave e io avrei tanto voluto mettermi nel suo letto, per sentirlo vicino ancora una volta. Mi mancava da morire e io non avevo idea di come avrei fatto a sopportare una vita senza il mio prezioso fratello, senza i suoi sorrisi e le sue carezze di conforto, senza vedere la sua testa di ricci biondo scuro che gironzolava per casa. Avevo bisogno di lui, non sopportavo l’idea che non ci fosse più.
Alla fine sbottai, raccontai ai miei genitori e alle autorità cosa fosse successo, di quelle creature che ci inseguivano e della verità su chi avesse ucciso Mitch.
Nessuno mi credette. Mi portarono in un centro di igiene mentale e mi chiesero di raccontare di nuovo l’accaduto.
Avevo sperato che la diagnosi valesse anche per l’omicidio di mio fratello, invece quello era l’unica cosa reale. Il resto era tutto frutto della mia testa.
Schizofrenia.

 
 

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Capitolo 2
*** 01 - Gin Lemon ***


Esper
Order and Holders



Capitolo primo.
Gin Lemon


 
Las Vegas.
Non l’avrebbe mai immaginato di finire a Las Vegas, e ogni tanto si chiedeva se quella vita non fosse altro che un’allucinazione. Eppure era lì, nella Città del Peccato almeno da due anni.
Era partita da Nashville con una valigia piena di progetti e davanti alle lenti degli occhiali da sole il sogno di diventare ricca come Paris Hilton.
Phoebe Montgomery non aveva poi tante aspirazioni: le bastava diventare miliardaria, non chiedeva altro.
Ma come ogni miliardario che si rispetti, prima doveva infilarsi nel fango fino alle ginocchia e anche più su. Tutto sommato però le era andata bene.
Era riuscita a trovare un posto come barlady all’hotel casinò Mirage, sulla Strip. Il direttore e il capo del personale, Amethyst Moore, rimasero molto colpiti dalla parlantina di Phoebe e la presero per questo. Si rivelò presto una grande lavoratrice, pronta a rimboccarsi le maniche anche per i lavori più sporchi. Parlava ininterrottamente con la clientela, facendoli sentire a proprio agio e facendo amicizia con quasi tutti, motivandoli a tornare ancora. Era veloce a servire le ordinazioni, aveva una buona memoria. Aveva la straordinaria capacità di ascoltare anche se, di fatto, non ti stava ascoltando. Era come se avesse il cervello diviso in due: una parte andava per fatti suoi, un’altra era vigile a ciò che la circondava.
Il suo capo aveva fatto fatica a credere che una ragazza del genere fosse schizofrenica. Gli schizofrenici, oltre alle allucinazioni, avevano anche estrema difficoltà nel rapportarsi. Lei sembrava così a suo agio tra le gente, invece. All’inizio non le aveva creduto, poi l’aveva vista riempirsi di pasticche per allucinazioni e aveva cambiato idea.
Amethyst Moore le aveva creduto da subito invece, ma non per questo le aveva riservato un trattamento di favore. I primi tempi l’aveva bacchettata, perché era goffa, ma poi l’aveva trattata con dolcezza e pazienza, vedendo che Phoebe era molto determinata e volitiva. Imparò in fretta.
La accolse persino in casa sua, provvisoriamente, ma la ragazza nel giro di qualche mese guadagnò abbastanza da comprarsi una casina a Wynn Road, poco lontano dalla Strip. Le due divennero inseparabili amiche. Amy aveva sette anni più di Phoebe, ne aveva trenta mentre la ragazza ventitré.
Amy era alta, bionda, bellissima e sembrava una modella di Victoria’s Secret.
Phoebe sembrava un folletto. Un folletto alto. Con i suoi occhioni verdi, il sorriso dispettoso, il naso all’insù.

Erano a casa della donna, avevano appena finito di divorare una pizza enorme e di vedere un film.
«Ma che cosa abbiamo guardato?» borbottò Phoebe.
«Credo si chiami Suite francese
«Ma non dovevamo guardare quel film con Heath Ledger, Parnassus? O come si chiama. Io amo quel film. E amo Heath. Pace all’anima sua, mi manca fottutamente tanto.»
«Sì, ma non ho il dvd di quel film e ci siamo arrangiate. Non ricordi? – sospirò Amy, mettendosi in piedi. – Vuoi bere?»
Phoebe aggrottò le sopracciglia. A sua discolpa poteva dire che all’inizio del film e per buona parte della sua durata, non era sobria. Non del tutto. Ma d’altronde, da quando era a Las Vegas, non lo era quasi mai nei momenti liberi. Sin City, d’altronde, la città del peccato.
Annuì poco convinta e le fece un cenno col mento.
«Acqua.»
Si mise a sedere, tenendosi la testa tra le mani. Aveva cambiato posizione e ora aveva le vertigini. Succedeva sempre, era uno degli effetti collaterali delle pasticche di clozapina, contro le allucinazioni. Duravano poco, attimi di pura confusione mentale e tempie che esplodevano. La testa che vorticava come se fosse dentro una lavatrice e chiudere gli occhi non serviva proprio a niente.
Amy tornò con il bicchiere d’acqua fresca e fu un toccasana per Phoebe.
«Tutto bene?»
«Tutto bene. Solo… le vertigini, sai.»
«Forse dovresti smettere di prendere quella roba. – provò a dire Amy. – Ti sta logorando. Non puoi uscire nelle giornate soleggiate, e siamo in Nevada! Non puoi fare movimenti bruschi, non puoi rischiare di tagliarti… Prova a prendere medicine più leggere, a questo punto.»
«Amy, purtroppo quelle più leggere non hanno alcun effetto. Ci ho provato. Ecco perché prendo la clozapina, è l’unica che fa effetto.» replicò uno sguardo fugace.
«E se non vedessi più quelle brutte cose?»
«La schizofrenia è cronica.» sospirò, inarcando le sopracciglia con aria eloquente.
Amy non disse più nulla.
Vide Phoebe alzarsi, recuperare le sue cose e infilarle nella borsa di pelle nera. Le diede un bacio sulla guancia, augurandole la buonanotte, ed uscì nel buio della strada debolmente illuminata per raggiungere la sua bicicletta.
D’altronde non aveva mica bisogno di una macchina. Quando sarebbe diventata ricca, ne avrebbe avute a bizzeffe, di macchine.
 
 

«Phoebe, tesoro! Due Manhattan! Uno per me, e l’altro per il mio amico.» le urlò uno dei clienti abituali.
Phoebe eseguì l’ordine. Whiskey e vermouth rosso in eleganti calici da cocktail di vetro. Il liquido si fece scuro e lo servì ai due.
«Michael, lei è Phoebe. La migliore barlady di tutta Las Vegas. – ammiccò verso di lei. – Se dovesse servirti personale, sai a chi venirlo a fottere.»
Michael la guardava come se la volesse mangiare, lei non ci faceva troppo caso. Però quegli occhi avevano qualcosa di strano, brillavano d’una luce pericolosa che costrinse Phoebe a rivolgergli più attenzione.
Era un uomo molto più grande di lei, biondo, con gli occhi azzurri, la pelle cerea. La sigaretta che pendeva tra le labbra carnose. Degustò il suo Manhattan senza staccarle gli occhi di dosso.
Lei gli rivolse un sorriso. D’altra parte, non era la prima volta che un uomo le rivolgeva quello sguardo. Phoebe non era particolarmente bella, non come Amy o altre ragazze nel locale, ma aveva quell’aria frizzante e dispettosa che evidentemente piaceva.
«Gestisce un locale, signor…?»
«Bane. Michael Bane. – rispose, sistemando la giacca porpora. ─ Sì, gestisco un albergo Non prestigioso come questo, ma un bel ritrovo per chi vuole un po’ di pace in questa caotica città.»
«Signor Bane. – ripeté Phoebe, annuendo, mentre serviva i gin tonic a due amiche. – Il nome dell’albergo?»
«The Hole.»
«Insolito.»
«Appropriato.» la corresse con un sorriso che avrebbe fatto impazzire tutte le donne lì dentro.
Il signor Bane era senz’altro un bell’uomo. Una bellezza glaciale, non facile da trovare a Las Vegas.
Quel suo albergo, il Buco. Era un nome insolito, di sicuro non avrebbe attirato fiumi di clienti come il Mirage ma d’altronde, come detto dallo stesso Bane, era un luogo in cui si poteva stare in pace dalla caotica Sin City.
L’affascinante imprenditore le lasciò sul bancone il suo biglietto da visita, strizzandole l’occhio prima di alzarsi, infilare le mani nelle tasche, e raggiungere un tavolo da poker con l’amico che li aveva presentati.
Phoebe intascò il biglietto e si diresse da Amy, dall’altro lato del bancone circolare.
La donna stava servendo un paio di mojito.
«Ho conosciuto un uomo.» esordì raccogliendo ordinazioni.
«Non è strano.» le lanciò un’occhiata divertita.
«Michael Bane. Piccolo imprenditore.»
Amy tacque e la guardò con le sopracciglia aggrottate, Phoebe non la notò e si occupò dei cocktail.
«Non è un tipo molto affidabile.»
«Mica devo confidargli i segreti. – sorrise. – Curioso nome per un albergo però… “the Hole”.»
L’altra sospirò, non le disse nulla.

 
* * *
 
Da quel giorno il signor Bane tornò a far visita al casinò del Mirage quasi ogni sera.
Intratteneva amabili discussioni con Phoebe.
Il signor Bane era un uomo molto eclettico, gli piaceva il bondage, lo spanking e soprattutto gli piaceva essere chiamato daddy dalle ragazze giovani che frequentava. Tuttavia Phoebe era l’unica che non lo chiamava così e non era ancora riuscito a portarla al The Hole per una nottata con sé. In realtà non era riuscito nemmeno ad offrirle un caffè fuori dal lavoro, il Mirage era l'unico posto in cui la vedeva. Lei stava al gioco, ma non abbastanza. Era pur sempre un cliente. E lei era una ragazza professionale, tutto sommato, e i gusti eclettici di Michael Bane non è che le piacessero poi tanto.
“Amici okay, ma tu stai nel tuo e io nel mio”, era quello che si ripeteva e che aveva spiegato a Bane. Anche se lui non era si era trovato molto d’accordo.
«Stasera cose le porto, signor Bane?» gli domandò mentre serviva altri due clienti.
«Ti ho detto di chiamarmi daddy. Disobbedisci alle mie regole, Phoebe?» le fece un sorriso che le accapponò la pelle. Sentì un formicolio dietro la nuca, come se fosse di fronte ad un pericolo.
«Sono le sue regole, non le mie. – spiegò paziente, mentre versava un po’ di gin e lemonsoda in un bicchiere con limoni e ghiaccio. – Ecco il suo gin lemon.»
«Non te l’ho chiesto.»
«Non ce n’era bisogno, la conosco. È ciò che le piace.»
«Ci sono tante cose che mi piacciono, Phoebe, ma tu non sei disposta a darmele tutte.»
Lei alzò le spalle, innocente. «Non può ottenere tutto quello che vuole. – sfarfallò le ciglia. ─ Dov’è il suo amico? È un po’ che non si vede.»
Bane indurì la mascella, facendo cozzare i denti. Odiava quell’atteggiamento di Phoebe e al contempo lo esaltava.
«È morto, non lo sapevi? – replicò senza trasporto. ─ Lo hanno trovato con la gola tagliata, dissanguato, un paio di giorni fa in un vicolo. Dicono sia stato rapito e poi ucciso. Qualcuno che non ha pagato il riscatto per tempo, immagino.»
Phoebe sfarfallò le ciglia, esterrefatta e confusa. «Mi sta prendendo in giro? E perché al notiziario o sul giornale non ne hanno parlato?»
«Pare che la polizia non voglia far sapere niente. – si strinse nelle spalle. – Per il momento, credo.»
Lei lo guardò con le sopracciglia aggrottate, come se non lo riconoscesse.
Se erano amici, Michael Bane avrebbe dovuto essere ben più triste di così. Eppure era una statua di ghiaccio, pietra inscalfibile. Nemmeno nei giorni precedenti a Phoebe sembrò turbato o rattristato, si comportava normalmente. Eppure erano amici.
Il campanello d’allarme suonò nella testa della ragazza, che sgrullò la testa e si dedicò agli altri clienti. Non rivolse più una parola a Michael Bane, ma poteva sentire i suoi occhi azzurri bruciarle sulla pelle.



Angolo autrice:
Bentrovati! Grazie a chiunque spulci questa storia e a chiunque decida di scrivermi due righe. Domande, opinoni, consigli... sempre ben accetti!
Per questa soria non ho intenzione di scrivere capitoli troppo lunghi, ma si prospetta abbastanza lunga - secondo la scaletta (?).
Oggi abbiamo conosciuto Amy e Michael Bane, ma presto conosceremo anche gli altri personaggi più importanti della storia che ho ben più a cuore di quel viscido di Bane HAHA.
Alla prossima! ♥

 

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Capitolo 3
*** 02 - Terra consacrata ***


Capitolo secondo
Terra consacrata


Phoebe non aveva più risposto alle chiamate e ai messaggi di Michael Bane e lui non si era più presentato al Mirage. Questo inquietava e rendeva più tranquilla al tempo stesso la giovane barista.
Era rimasta sconvolta dalla notizia di quel cliente abituale morto in modo orribile e anche la freddezza disarmante di Bane nei confronti dell’assassinio dell’amico l’aveva turbata.
Dopo qualche giorno andò a dormire a casa di Amy. Vedeva qualcuno aggirarsi intorno alla sua casa, vedeva la sua ombra dalla finestra e sulle tende. Aveva una paura terribile e il giorno dopo era corsa a casa della sua amica con un borsone pieno di vestiti.
Lei l’aveva ascoltata con le sopracciglia aggrottate.
«Forse le pasticche non fanno più effetto e ho di nuovo le allucinazioni.» diceva Phoebe, nervosa, camminando avanti e indietro per il salotto.
«E se invece fosse davvero qualcuno che gira intorno casa tua?»
«A questo punto perché non ha sfondato una finestra e non è entrato? È una fottuta allucinazione, dio mio, di nuovo.» si passò le mani tra i capelli.
Amy alzò gli occhi su di lei, osservò i suoi movimenti nevrotici e ascoltò le parole che fluivano dalla sua bocca ben scandite ma pronunciate alla velocità della luce. Riusciva a parlare davvero veloce. «Ti terrorizzano tanto. Mi chiedo cosa vedi.»
«Mostri. Demoni, fantasmi, persone con abbaglianti occhi rossi o gialli, che mi danno la caccia. Credevo che loro avessero ucciso mio fratello, invece probabilmente è stato solo un assassino in un vicolo.»
La bionda aggrottò le sopracciglia, stavolta seriamente interessata. Come se stesse riflettendo.
L’amica si stava martoriando le unghie con i denti, consumando le suole delle scarpe nel suo nervoso andirivieni per il salotto. Non l’aveva mai vista così tesa, così agitata.
Improvvisamente si fermò, come se si fosse spenta. Lanciò un’occhiata di sottecchi tra le tende, fuori la finestra, nella strada debolmente illuminata dalla luce dei lampioni. In lontananza, la Strip sfavillava.
«Se fossero stati reali, le altre persone li avrebbero visti e si sarebbero spaventati. Se fossero stati reali... – chiuse gli occhi. – Avrei continuato a vederli anche con le pasticche. Non ci sono tante spiegazioni, Amy, ho una malattia mentale. Quindi quell’ombra dev’essere frutto della mia mente malata.»
Amethyst le si accostò, facendole una carezza sulla schiena. Poi le fece un cenno col capo, per farle capire che doveva aiutarla ad aprire il divano-letto per la notte.

 
* * *

 
Phoebe si passò i lacci del grembiule rosso cremisi intorno alla vita e li allacciò sulla schiena.
Indossò il cappellino e sistemò i capelli nocciola in una coda bassa laterale. Il direttore ci teneva che le ragazze fossero carine sul lavoro, anche le divise le rendevano apprezzabili.
Controllò sull’orologio da polso l’orario, fece un rapido conteggio, e decise che l’effetto delle pasticche stava per finire e doveva prenderne altre.
Infilò la mano nella borsa ed estrasse il tubetto di pastiglie.
Vuoto.
«Oh, no. Cazzo.»
Cercò istericamente se nella borsa avesse altri tubetti.
Non poteva stare senza quelle pasticche, non poteva. Non aveva alcuna intenzione di vivere di nuovo quegli incubi con mostri orrendi che l’annusavano e la inseguivano. Le avevano perseguitato il sonno da quando aveva undici anni, le avevano reso la vita piena di ansia e un continuo conto alla rovescia per controllare la durata dell’effetto delle pasticche e quando avrebbe dovuto prenderne un’altra dose. Era terrorizzata.
Ma non c’era nessuna pasticca, nemmeno di scorta, nemmeno sfuggita dal tubo di plastica arancione trasparente. Niente.
Si guardò allo specchio un’altra volta. Gli occhi arrossati di lacrime sembravano ancora più verdi, l’espressione stravolta e terrorizzata. Lisciò il grembiule con le mani, anche se in realtà si stava solo asciugando il sudore, e prese un bel respiro.
Mancava ancora un po’ prima che effettivamente le pasticche che aveva preso esaurissero il loro effetto e dunque poteva andare a comprarle in una farmacia. Doveva solo essere svelta.
L’avrebbe detto ad Amy, l’avrebbe avvertita.
Arrivò al bancone del bar, si accostò subito ad Amethyst.
«Devo andare in farmacia. Urgente. Puoi coprirmi?»
La bionda la guardò confusa. «Sono chiuse a quest’ora.»
«Una che rimane aperta ventiquattr’ore non c’è in questa città?»
«Devi provare quella in fondo alla Strip, ma i proprietari fanno sempre quello che vogliono.»
Alzò gli occhi al cielo, la mascella serrata. «È una fottuta farmacia! Non possono fare quello che vogliono.»
Amy la guardò di sottecchi, come se la stesse soppesando.
«Sono finite le pasticche, eh? Vai. E sta’ attenta.»
Phoebe si slacciò il grembiule, lasciandolo da qualche parte sotto il bancone. Quando si voltò, incrociò gli occhi azzurri di Michael Bane. Una sigaretta tra le labbra, un Martini in mano. La fissava in modo indecifrabile, enigmatico. Come se non lasciasse trasparire alcuna emozione, oppure ne volesse mostrare troppe.
Lei s’irrigidì ma non lo degnò di una parola.
Uscì dall’angolo bar come una furia. Poi fu fuori dal casinò, nella hall dell’hotel e in strada.
Non aveva nemmeno la bicicletta con sé, non andava a lavoro pedalando perché casa sua era molto vicina al Mirage. Ma in quel momento si maledisse per non averla portata, la Strip era lunga da fare a piedi e non poteva passare da casa per prenderla.
L’aria estiva del deserto del Nevada, a luglio, infuocava l’asfalto anche la sera.
Phoebe fece scivolare il primo bottone della camicia dall’asola e cominciò a correre. Sfrecciava vicino ai passanti che le rivolgevano sguardi fugaci, insulti più o meno coloriti quando li urtava, e occhiate confuse di chi non capisce perché una persona ha tanta fretta. D’andare dove, poi?
Due chilometri dal Mirage alla farmacia. Poteva farcela. Nonostante le vertigini che stringevano il cervello come una morsa, nonostante il fiato che abbandonava i polmoni prima del previsto. Eppure Phoebe era sempre stata piuttosto atletica, era agile e anche veloce. Durante l’adolescenza era dedita al parkour, per sfogare l’indole iperattiva. O qualcosa che doveva somigliarci molto, ecco.
Ora era stanca, affaticata, le cosce bruciavano. Ma doveva correre, doveva comprare quelle pasticche. Non voleva vedere i mostri, non voleva avere le sue allucinazioni terrificanti e così reali da essere malsane.
Durante la sua corsa a perdifiato verso la “salvezza”, si rese conto – tra una vertigine e l’altra – che l’effetto delle pasticche era svanito. I mostri camminavano per la Strip, indisturbati e accompagnati da donne normali o mostruose come loro. Si soffermavano a guardarla, annusavano l’aria.
Come il giorno in cui perse Mitch. Stavolta non la rincorrevano, perché?
La farmacia era chiusa, la serranda abbassata. Diede un pugno al metallo, e sventolò la mano perché si era slogata il polso. Si accasciò sul marciapiede, il sudore che scendeva dalle tempie.
Era vulnerabile ai mostri, ma loro non l’aggredivano. Si limitavano a fissarla, annusare l’aria intorno a lei. Avrebbe voluto diventare minuscola, oppure venir inghiottita dal cemento del marciapiede. Qualsiasi cosa era meglio di stare lì, a farsi guardare come una bestia allo zoo dalle vere bestie e farsi annusare.
«Trovata.» sibilò la voce di qualcuno.
Phoebe girò la testa di scatto. Due luminosi occhi rossi, incastonati sul viso squadrato e cereo di un uomo simile ad un divo del cinema con i capelli biondi, la fissavano. Vicino a lui ce n’era un altro, ma i suoi capelli tendevano al bianco nonostante fosse molto più giovane. Dovevano essere fratelli.
Quello più giovane le saltò addosso, Phoebe lanciò un grido, e gli mollò un calcio sul diaframma che lo fece volare almeno un metro indietro. Ne approfittò per scappare, ma non implorò aiuto.
Cercò nei suoi ricordi il giorno in cui era stata inseguita la prima volta, a come era sfuggita. Il rosario, la nicchia con la Madonna.
Un luogo di culto.
Il suo cervello sembrò quasi un navigatore satellitare, cercò strade, cunicoli, edifici. Chiese, moschee, sinagoghe, qualsiasi ritrovo religioso.
E dietro di lei, i mostri comandati da quei due con gli occhi rossi che la inseguivano. Saltavano agili sui tetti delle case, correvano rapidi. Quelli con i lampeggianti occhi gialli correvano a quattro zampe come i cani, le zanne affilare scoperte in un ringhio. Quelli con gli occhi rossi avevano volti deformati da larghe bocche nere piene di denti acuminati come quelle degli squali, la pelle cerea e vene nere esposte.
I demoni avevano corna, pelle putrefatta o bruciata, e nella maggior parte dei casi anche le corna; i fantasmi erano semi trasparenti, evanescenti, gli occhi neri come le orbite vuote di un teschio.
Il fiato le mancava, i polmoni bruciavano, i muscoli delle cosce s’infiammavano per la fatica. Cercò di seminarli, ma non ci riuscì. I bidoni che lasciava cadere dietro di sé non arrestavano la loro caccia.
I cancelli della parrocchia le si pararono di fronte, e quasi le sembrarono le porte del paradiso. Phoebe fece appello a tutte le rimembranze di parkour per scavalcarlo: la mente dimentica, il corpo no. Riuscì ad arrampicarsi nonostante il tremore che le scuoteva le membra per via dell’adrenalina, nonostante le vertigini, nonostante il panico totale.
E quando fu dentro si accorse che quelle creature, se provavano a toccare le inferriate, si bruciavano le mani.
Indietreggiò di un paio di passi, alzando il dito medio nella loro direzione. Il petto si sollevava ed abbassava frenetico nel tentativo di riprendere fiato. Bussò alle porte della parrocchia, un prete tremendamente anziano le aprì dopo un po’. Era vestito con una tunica bianca dalle maniche larghe, la barba grigia e ispida.
Lanciò un’occhiata fuori dai cancelli, vedendo tutta quella gente che ronzava lì intorno come se quella ragazza fosse un boccone prelibato. Poi guardò di nuovo lei, gli occhi arrossati dal pianto e i capelli scarmigliati, il fiato corto. Si sorreggeva allo stipite della porta a causa delle forti vertigini.
Il prete la condusse dentro, aiutandola a sorreggersi, e la fece accomodare su una delle panche di fronte all’altare. Andò a prenderle un bicchiere d’acqua fresca.
«Nottataccia.» borbottò Phoebe.
«Cos’è successo?»
«Sa, gli acidi e altre droghe sintetiche che si trovano nelle discoteche... Non rendono tranquille le serate. Brutte allucinazioni, scappavo da loro.»
Il prete la guardò di sottecchi. Non sembrava una tossica. Non aveva gli occhi stralunati di chi era imbottito di acidi, ecstasy e altri intrugli sintetici in pasticca. E poi…
«Scappavi da tutta quella gente? Cosa vedevi di tanto orrendo per scappare così da quelle persone? Erano vestite di tutto punto. Erano forse i membri di una gang?»
Lei lo guardò in tralice, scoccandogli un’occhiataccia carica di seccatura. Quante domande per essere un prete, non si stava mica confessando.
Ma poi un pensiero le balenò nella testa. Quelle persone erano reali, l’avevano inseguita. Il suo cervello creava su di loro immagini distorte a causa della malattia, ma erano reali. Forse erano davvero i membri di un’associazione criminale, ma perché la cercavano? Perché avevano ucciso Mitch quando aveva solo quattordici anni e perché ora tentavano di uccidere lei, dopo così tanto tempo? Forse avevano un conto in sospeso con i suoi genitori e si erano accaniti sui figli, dopotutto succedeva sempre così. Solo che dodici anni prima avevano trovato solo Mitch e di lei avevano poi perso le tracce. Doveva essere una spiegazione del genere, ma sentiva che c’era qualcosa che mancava perché non tutto combaciava con questa sua teoria. C’erano tante domande a cui la sua ipotesi non riusciva a dare una spiegazione.
Si prese la testa fra le mani, gli occhi fissi al pavimento. Talmente sconvolta da non riuscire neppure a piangere. Non poteva chiamare Amy, non poteva chiamare i suoi genitori. Non aveva il telefono.
«Non lo so, non lo so! – passò le dita tra i capelli, mordendosi il labbro. – Senti, prete, domani devi farmi un favore. Un atto di carità, l’elemosina. Ho bisogno di pasticche, non posso uscire da qui.»
«Le tue droghe sintetiche?» la incalzò, ironico, facendole ben intendere che non ci credeva alla sua montata tossicodipendenza.
«Qualcosa del genere, clozapina. È un farmaco.»
Il prete sembrò addolcirsi un po’, lo sguardo compassionevole.
«Domani mi darai tutte le indicazioni. Posso sapere il tuo nome?»
«Phoebe Montgomery, lavoro come barista all’hotel Mirage. Non ho niente con me, è tutto al casinò dell’hotel, mi dispiace non poterti dare prove.»
«Non sono mica un poliziotto. – le fece un sorriso rassicurante. – Domani mattina andrò a comprarti le pasticche e recupererò le tue cose al casinò. Ma, se posso, ti consiglio di restare qui per qualche giorno. Nessuno potrà farti del male, nella casa del Signore. È terra consacrata.»
 

 

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Capitolo 4
*** 03 - Preda e predatore ***


Capitolo terzo.
Preda e predatore


 
 
Il giorno seguente, il prete le aveva portato le pasticche e le sue cose.
Anche Amy era andata a trovarla alla parrocchia. Avevano parlato, ma non delle allucinazioni. Il direttore aveva concesso a Phoebe cinque giorni di riposo, periodo in cui la ragazza restò con il prete di nome Adam.
Non credeva in Dio né in nient’altro, eppure era interessata alla spiritualità e alla religione in generale. Una curiosità viscerale. Vedeva quei racconti come leggende, non come “parola del Signore”. Era come ascoltare i miti greci, li trovava interessanti allo stesso modo.
Assisteva alle messe di Adam, cattoliche, ma in passato aveva assistito anche a quelle protestanti, ortodosse, mussulmane, ebraiche.
Assisteva in silenzio, in un angolo della parrocchia, non si univa né ai canti e nemmeno alle preghiere. Adam non aveva cercato in alcun modo di “convertirla” e dirle che il cristianesimo era la giusta via: l’interesse della ragazza verso la religione in generale era sinonimo di una spiritualità latente. Semplicemente, qualcuno come Phoebe non poteva legarsi ad un solo credo, era troppo poco, ma al contempo non avrebbe potuto abbracciarli tutti. Era convinto che un giorno quella ragazza avrebbe attinto un po’ da tutte le religioni senza concentrarsi su nessuna in particolare.

In quei cinque giorni, Phoebe non aveva preso le sue pasticche. Nei confini della parrocchia era al sicuro, ne approfittò quindi per dare sfogo alla sua schizofrenia, cercare di capire e studiare meglio il loro aspetto. Vedeva alcuni mostri passeggiare in strada durante il giorno, ma non erano poi molti. Prevalevano demoni e fantasmi, qualcuno di quelli con gli occhi gialli. Quelli con gli occhi rossi, che dovevano essere vampiri, non c’erano e quella fu la conferma delle sue teorie.
Qualcuno di loro quando passava davanti la parrocchia, fiutava la presenza della ragazza e l’adocchiava. Lei alzava il dito medio ogni volta che qualcuno di loro la fissava. «Che avete da guardare? Andate a farvi fottere.» perentoria.
Nella sala riservata ai ragazzini del catechismo, Phoebe si era messa a disegnare i mostri e li aveva mostrati al prete e ad Amy.

Il quinto giorno ingurgitò le pastiglie e uscì dalla parrocchia con le sue cose nella tracolla. Doveva assolutamente farsi una doccia e mangiare gelato. Era una questione di priorità.
Tutto era tornato alla normalità, nessun mostro, nessuno sguardo famelico. Temeva che con il calare della sera e l’affollamento di mostri nelle strade l’avrebbero aggredita di nuovo.
Decise che, dopo la doccia e il gelato, sarebbe andata alla polizia a denunciare il fatto accaduto. Perché era vero che aveva una visione distorta della gente, ma qualcuno l’aveva rincorsa sul serio fin fuori la parrocchia. Se fosse accaduto di nuovo e fosse finita male, avrebbe avuto una garanzia. Come se mettesse le mani avanti.
Il getto d’acqua fredda scacciò via il sudore, i pensieri e le preoccupazioni.
Il gelato le restituì un po’ d’allegria e un po’ di ottimismo. Si sarebbe sistemato tutto.
Saltò in sella alla sua bicicletta e pedalò fino alla centrale di polizia di Las Vegas. C’erano alcuni membri della S.W.A.T. dentro. Phoebe ascoltò distrattamente alcune direttive: pareva che erano stati presi alcuni ostaggi all’interno di un albergo.
Mentre pronunciavano il nome dell’hotel, un poliziotto le si parò davanti. Aveva baffi bianchi e occhiali sul naso, una pancia tesa sotto la camicia blu. Mancava la ciambella glassata tra le dita.
«Posso fare qualcosa per lei, signorina?»
Cercò di darsi un tono sollevando il mento, e sembrare una persona affidabile e risoluta.
«Vorrei esporre denuncia per tentata aggressione.»
Il poliziotto fece segno ad un altro, più giovane, di seguirli in una stanza più tranquilla.
C’erano tre scrivanie con sopra computer e scartoffie, tre armadietti di metallo grigio scuro, quadri e fotografie. E una piantina mezza morta in un angolo.
L’agente più giovane doveva avere trentacinque anni, i capelli scuri e gli occhi altrettanto torbidi, sopracciglia folte e naso piccolo.
Phoebe gli dedicò un’occhiata più lunga del previsto. Era tenebroso, magnetico, ma non faceva niente per attirare l’attenzione. La camicia blu a maniche corte era stretta sul corpo scolpito, delineandone i muscoli.
I pantaloni neri, larghi e pieni di tasche, infilati negli anfibi. La cintura nera con agganciate manette e fondina. Sulla manica c’era un bollo di stoffa: “Las Vegas S.W.A.T. Police”.
Lui ricambiò la sua occhiata con cauta curiosità, la testa lievemente inclinata. Phoebe pensò che si stesse giustamente domandando cos’avesse da guardare.
L’ispettore si sedette dietro una scrivania, lei davanti e quello giovane seduto dietro un’altra scrivania con le gambe distese, le braccia sui braccioli della sedia.
«Bene, signorina, mi mostri il documento d’identità.» le disse l’ispettore riscuotendola dai suoi pensieri.
Phoebe glielo porse e lui gli lanciò un’occhiata fugace, controllando che fosse tutto in regola. Dopodiché, per una manciata di minuti, armeggiò con il computer e infine con un registratore.
«Racconti, cerchi di essere dettagliata.»
Lei prese un bel respiro e cominciò a raccontare.
Disse tutto: della prima aggressione a Nashville dodici anni prima, della schizofrenia, e poi della serata in sé che stava per trasformarsi in tragedia se non avesse scavalcato il cancello della parrocchia. Gli disse anche dell’ombra che vagava intorno casa sua.
Spiegò che era vero che aveva le allucinazioni, ma di fatto la sua mente si era limitata a distorcere mostruosamente i volti degli aggressori. Era stata inseguita sul serio, e il prete poteva confermarlo se avessero voluto certezze.
Le chiese se avesse comprato droga da uno spacciatore e non avesse pagato per tempo: rispose di no.
Le chiese se avesse fatto arrabbiare un malavitoso: rispose raccontando di Michael Bane, aveva paura che fosse lui il suo persecutore pur non essendo un delinquente. Almeno non all’apparenza.
«Michael Bane è il proprietario del The Hole. – cominciò l’agente della S.W.A.T. – È in quell’hotel che sono tenuti in ostaggio dodici persone.»
Ecco perché le squadre della S.W.A.T. erano state mobilitate con tanta urgenza.
Phoebe lo guardò allibita, gli occhi verdi sgranati. «Cosa…»
L’agente teneva il viso sul palmo della mano, la guardava con intenso interesse. Come se stesse cercando di studiarla e, al contempo, di comunicarle qualcosa con lo sguardo. La ragazza arrossì vistosamente e vide il poliziotto arricciare appena un angolo delle labbra. Distolse lo sguardo.
Maledetto fascino della divisa.
«Non è la prima volta.  – mormorò l’ispettore. – Molto bene, signorina Montgomery, è stata esaustiva. Stia attenta, non esca di notte. Buona giornata.»
Lei annuì e si alzò in piedi. Gli strinse la mano ringraziandolo della pazienza e fece un cenno col capo anche all’agente più giovane, prima di andarsene.
Avrebbe voluto non uscire la sera, come le era stato consigliato. Ma doveva lavorare, e i suoi turni erano quasi sempre di notte.
Sperò che chiunque si nascondesse dietro quei volti mostruosi, si fosse dimenticato di lei.

 
* * * 

Nessun attacco nelle due settimane che seguirono dalla denuncia alla polizia. Solo sguardi da parte di molte persone al casinò.
Michael Bane non si fece vedere al Mirage. Era un sollievo. Quell’uomo nascondeva qualcosa di oscuro, doveva essere un malavitoso, ed era convinta che c’entrasse qualcosa con la tentata aggressione di due settimane prima: guarda caso era al Mirage proprio quella sera. Attirava le persone in quel buco d’hotel che gestiva e le teneva in ostaggio. E forse anche il suo amico aveva fatto la stessa fine, per questo non era scosso.
Perché i giornali o la televisione non ne parlavano? Non era giusto: la gente doveva sapere, non doveva mettere piede al The Hole. La città si rendeva complice dei rapimenti, in questo modo. E gli ostaggi? Una volta che venivano liberati non potevano passare parola?
Troppi pensieri, troppe domande. Phoebe era spaventata dal mondo oscuro e nascosto di Las Vegas, così apparentemente divertente. Era lì da due anni e non aveva mai sospettato niente. Era lì da due anni e solo quella fatidica sera in cui aveva avuto le allucinazioni aveva, paradossalmente, aperto gli occhi e venuta a contatto con una realtà così diversa da quello che le era sembrata.
Las Vegas era come il Paese dei Balocchi: tutto bello all’apparenza, ma poi diventavi un asino come nella favola di Pinocchio, restavi fregato. Non voleva conoscere i segreti di Sin City, forse erano troppo grandi per lei.
Con Amy non aveva più passato le serate libere. Aveva paura di tutto, non riusciva più a fidarsi di nessuno da quando aveva scoperto di Bane. La notte dormiva nella parrocchia di Adam. Non si fidava a restare in casa sua, aveva paura. Il minimo rumore la faceva saltare, la minima ombra, a volte persino la sua.

Quella sera aveva fatto cadere un paio di cocktail a terra, ed era stata rimproverata da Amy. Era troppo distratta. Troppi pensieri, troppe domande. Era tanto tempo che non succedeva, di solito era una barista impeccabile.
Appese la divisa nello spogliatoio del personale e sciolse i capelli. Ingoiò una pastiglia senz’acqua, e uscì con la borsa a tracolla per tornare alla parrocchia. Nella Strip affollata, piena di Lamborghini parcheggiate e camminatrici notturne, riusciva a notare gli sguardi che molta di quella gente le rivolgeva. Come predatori affamati. Leoni. E lei era la gazzella.
Si avviò verso la chiesa, accelerando il passo. Qualcuno aveva cominciato a seguirla senza dare nell’occhio, sgusciando all’ombra senza incontrare la luce dei lampioni.
Ingoiò un groppo.
«Quanta fretta. Dove vai?» la voce di Michael Bane le arrivò attutita. Era seduto al posto del guidatore dentro una Porsche viola, parcheggiata. Il finestrino nero abbassato, il braccio che penzolava fuori e le dita strette su una sigaretta mezza consumata.
«Signor Bane.» esalò, esangue.
«Adoro l’odore della paura, il tuo in particolare è inebriante. Mi temi.»
Tirò forte su col naso, cercando un po’ di coraggio. «Come non potrei? Tu rapisci la gente in quella topaia che chiami hotel.»
«Sei scortese. – la guardò famelico, passando la lingua sulle labbra. – Ti hanno riempito di menzogne. Io non rapisco nessuno. Sono loro che vengono nel mio albergo e poi non se ne vogliono più andare. Vuoi venire a vedere con i tuoi occhi?»
Phoebe scosse forte la testa, e riprese a camminare. Sentì il rombo del motore della Porsche che si accendeva. Ingoiò un groppo, accelerò il passo.
La seguiva lentamente, con la macchina. Le andava dietro a passo d’uomo.
«Lasciami in pace!» gli urlò, senza voltarsi.
Arrivò davanti al cancello della parrocchia. Fece per aprirlo. Bane fu più veloce, non avrebbe saputo dire come se lo ritrovò davanti, alla velocità della luce. Le tirò i capelli e la costrinse a tirare indietro la testa, esponendo il collo sottile.
Le annusò la pelle, strofinandoci il naso.
«Ah, mia dolce Phoebe. Ora tutti sanno chi sei, in città. Tutti ti bramano. Quelli come te… si nascondono. Ci controllano. Ma sono le prede più prelibate, e capisci che quando uno di voi si espone come hai fatto tu l’altra sera, per noi è festa. Voi Nostradamus Solitari, poi, siete così adorabili quando siete convinti di essere schizofrenici.»
Phoebe tentò di divincolarsi. «Ma di che cazzo stai parlando? Nostradamus? Solitari? Ma ti senti?» ma l’unica cosa che ottenne fu uno strattone più forte che le lanciò fitte lancinante alla cute.
«Quindi non sai proprio niente? Notizia flash, tesoro: non sei schizofrenica. – le labbra si avvicinarono al suo orecchio. ─ È tutto reale. Mi hai dato bei grattacapi: non capivo se ci eri o se ci facevi. Quella maledetta clozapina vi nasconde completamente. Un farmaco odioso, di cui vi imbottite e ci rendete la caccia più difficile. Il problema di voi Nostradamus Solitari è che agite tutti nello stesso modo: vi credete schizofrenici, vi imbottite di clozapina, e cadete puntualmente nelle trappole di chi vi cerca. Basta togliervi le pastiglie per mandarvi in tilt, spingervi ad uscire per comprarne altre, ed entrate nelle fauci del lupo.»
Le leccò il collo: la lingua, le labbra, la saliva, era gelido come un pezzo di marmo. Phoebe ebbe un fremito per il disgusto e il freddo ma non riuscì a muovere un muscolo. Si sentiva paralizzata, aveva una paura irrazionale per quell’uomo. Nella sua testa, i campanelli d’allarme sembravano impazziti.
Sentì le zanne affilate di Bane sfiorarle la pelle. Mugolò per la paura mentre stringeva gli occhi e scacciava le lacrime, lui cercava di rabbonirla con un flebile sussurro.
«Il vostro sangue… è delizioso.» sibilò al suo orecchio.
«Fermo, polizia!» urlò una voce, puntandogli contro una torcia e una pistola.
Phoebe ringraziò tutto ciò che era divino per quell’intervento.
Bane si allontanò da Phoebe di un passo, alzando le mani. «Qualcosa non va, agente?»
La ragazza non riusciva a vederlo in viso, ma dietro di lui c’erano due auto della polizia con le luci rosse e blu lampeggianti sul tettino.
«Documenti.»
Bane gli passò la carta d’identità con riluttanza. Non degnò di uno sguardo Phoebe, nonostante lei non smettesse di fissarlo allibita.
È un fottuto vampiro e si arrende così! Maledizione, sarà mica imparentato con Edward Cullen?
L’agente controllò, dopodiché fece un segno a due dei suoi e sganciò le manette dalla cintura.
«Michael Bane, eh? Dovrà rispondere ad un bel po’ di domande.»
Gli strinse le manette sui polsi, fermandole dietro la schiena, e lo affidò ai suoi colleghi.
Quando spense la torcia e si avvicinò a Phoebe, lei notò che era l’agente della S.W.A.T. che aveva conosciuto alla centrale di polizia due settimane prima. Beh, conosciuto era una parola grossa. Non sapeva il suo nome. Ancora.
Notò che non era in servizio, era vestito con abiti comodi: jeans, anfibi, una t-shirt attillata, polsini di cuoio e un bracciale fatto in piccole sfere di legno.
Il prete corse fuori dalla parrocchia, allarmato dalle auto della polizia.
«Phoebe! Che è successo?»
Lei non si voltò a guardarlo. I suoi occhi si sollevarono fino ad incontrare quelli neri dell’agente, incastrati sotto sopracciglia folte ed espressive.
Le rivolse un piccolo sorriso. «Abbiamo una lunga chiacchierata da farci, io e te, Phoebe.»




ANGOLO AUTRICE
Buonsalve e ben trovati! Tutto sarà spiegato meglio nel prossimo capitolo, e alcune cose verranno specificate o riassunte più avanti, in modo da rendere più chiaro questo mondo strano (?)
Volevo specificare, se ci sono fan di Twilight, di non prendersela, non ho niente contro Edward Cullen. La saga piaceva anche a me quand'ero più piccola, anche se io ero team Jacob SKUZATE detesto i vampiri HAHAH
BTW fino a qui... Che ne pensate? Presto scopriremo ROBE, conosceremo PERSONE e tutto il resto(?)
Poi che io sono bastarda e vi tronco il capitolo prima delle spiegazioni.. è un altro discorso. PERO' EHI, almeno Bane ha parlato ;^) vi svelo un segreto: Michael Bane non è l'unico Bane di questa storia HEHEHE

Se ci sono errori di impaginazione oppure ripetizione che sono sfuggiti ai miei controlli, sappiate che cercherò di correggere ma purtroppo ho un problema con la tecnologia. Non so perché, ma quando apro efp mi si impalla tutto e pubblicare i capitoli diventa un travaglio. 
Voi comunque fatemi notare tutto ciò che vedete, così io me lo appunto e quando il pc deciderà di collaborare sistemerò!

Grazie a chiunque decida di seguire questa storia e chiunque mi scriverà, mi fa sempre piacere sapere cosa ne pensate!
Alla prossima ♥

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Capitolo 5
*** 04 - Cattedrale dell'Angelo Custode ***


Capitolo quarto
Cattedrale dell'Angelo Custode


«Posso sapere almeno il tuo nome?» domandò Phoebe, seguendolo.
«Damon. – la guardò di sottecchi, mentre le teneva aperta la porta della parrocchia. – Darden.»
«Damon Darden. D’accordo. Parliamo.» annuì, incerta, prendendo un respiro.
Lui abbozzò un sorrisetto divertito distogliendo lo sguardo dai suoi occhioni smarriti.
Il poliziotto si aggirò nella chiesa come un bambino al parco giochi, toccando tutti gli affreschi e le statuette nelle nicchie, divertendosi persino a spegnere un paio di candele con le dita.
Phoebe lo seguì con un sospiro, lui si voltava a guardarla di tanto in tanto.

«Non sei schizofrenica. – esordì, distrattamente. – Anzi. La tua testa non ha proprio niente che non va, ragazzina.»
«Me l’ha detto anche Bane. E allora come spiegate ciò che vedo? – Phoebe frugò nella sua borsa i disegni dei mostri che aveva fatto. – Guarda, maledizione.»
«Li vedo anche io, identici. Eppure non sono schizofrenico. – le strizzò l’occhio. – Bel posto ti sei scelta per venire a lavorare. Las Vegas brulica dei cosiddetti mostri. Hanno molti nomi generici per essere definiti: creature sovrannaturali è troppo lungo. In gergo, di solito diciamo Hanga e Skrìmsli, l’uno significa “creature” e l’altro “mostri”, e bada perché sono due cose un tantino diverse.» le spiegò assottigliando lo sguardo torbido.
«Perché diverse? Perché non ti attaccano se sei come me? Perché questo posto è pieno di queste creature? E perché parli al plurale, usando il “noi”?» parlò a raffica e avrebbe continuato con le domande.
Damon le tappò la bocca con la mano, senza particolare attenzione, e inarcò le sopracciglia.
«Stai zitta un secondo e lasciami spiegare. Una cosa per volta, ragazzina! – allontanò la mano. – Las Vegas pullula di Hanga perché è la città del peccato, capisci? A loro piacciono queste stronzate, soprattutto ai demoni e ai vampiri. Sono così mondani, attivi partecipanti di rave e frequentatori di galà, casinò, discoteche.»

Adam li osservava da lontano, martoriandosi le dita per le parole di quell’uomo.
Era bello. Lo sguardo suadente e fanciullesco, il sorriso tenero e malizioso al tempo stesso. La voce magnetica, persuasiva, ipnotica, eppure così limpida e giovanile.

«Vedi, ragazzina. – riprese a parlare. – A volte nasce un individuo speciale. Persone diverse, con doti molto particolari, e sono tenute a portare avanti una missione che prosegue dall’alba dei tempi. Mi spiego?»
«No. Parla chiaro, per “dono” intendi la schizofrenia? Quel Bane ha cominciato a dire cose strane. Nostradamus, Solitari, ha detto che ci comportiamo sempre allo stesso modo con la clozapina e…» cominciò a parlare veloce, come quando era nervosa, a gesticolare e camminare avanti e indietro.
Damon le tappò la bocca di nuovo. «Non c’è un tasto per spegnerti? – gli occhi brillavano di divertimento. ─ Non è schizofrenia. Si chiama settimo senso. Viene erroneamente confuso per il cosiddetto sesto senso, che in realtà è l’istinto. – le spiegò alzando l’indice come un bravo studente. – Io e te siamo chiaroveggenti, vediamo le cose nascoste, celate, e per questo veniamo chiamati Nostradamus: quel tipo era come me e te. Hanno cominciato a chiamarci così per sfottere, ma poi è diventata usanza comune. Ma ci sono diverse manifestazioni della percezione extrasensoriale, oltre alla chiaroveggenza. Ci chiamano in molti modi. Sensitivi, medium, maghi… Il nome corretto è Esper. Siamo una branca della razza umana, siamo quelli con il DNA ancora primordiale.»
«Primordiale? Se sappiamo usare certi sensi non dovrebbe essere evoluto? Non ha senso.»
«Non mi va di farti una lezione di storia. Vedila così: i nostri antenati primitivi dovevano difendersi dai pericoli non visibili in qualche modo. Mentre qualcuno inventava la lancia, gli altri cosa hanno fatto? Hanno sviluppato l’ESP, la percezione extrasensoriale. Mentre qualcuno ideava una difesa concreta, gli Esper dicevano loro da chi e da cosa dovevano difendersi grazie alle loro facoltà mentali. Diciamo che un tempo quasi tutti eravamo Esper, al contrario di adesso erano rari i casi in cui non si sviluppava l’ESP. Ma con l’evoluzione queste cose sono andate perse. – si strinse nelle spalle. – Non in tutti. Siamo il tre percento della popolazione mondiale.»
«Tu sapevi la verità su di me, su quei mostri e le aggressioni. Perché non me l’hai detto da subito quel giorno in centrale?»
Damon la guardò con intensità tale che lei fu costretta ad abbassare lo sguardo. Si passò una mano sul viso, riflettendo. «Ho pensato di tenerti d’occhio prima. In effetti sei stata un po’ difficile da tampinare, visto che di notte prendi vita e durante il giorno vai praticamente in coma sul letto.»
«Aspetta cosa… Mi hai seguito e spiato?!»
«Per forza. Ah, e il tipo che si aggirava fuori casa tua era Michael Bane. Ma i vampiri non possono entrare nelle case se non sono invitati, perciò si teneva fuori. Poi tu hai souvenir scaramantici che tengono lontane anche bestiacce come fantasmi e spriggan, perciò casa tua non poteva essere violata.»

La osservò con la testa inclinata da un lato, gli occhi ridotti a due fessure. Le diede tutto il tempo per assimilare quelle informazioni. Per lui era quella la realtà, ormai neanche ci faceva più caso. Ma per quella ragazzina era tutto diverso. Aveva creduto per tutta la vita di essere schizofrenica, si era im
bottita di pastiglie per allucinazioni e aveva vissuto nell’ansia e nella paura, invece ora si scopriva una Esper. Quella testolina doveva essere più che confusa.
«Phoebe, noi Esper dobbiamo nasconderci. – le disse piano. – Dagli Hanga e gli Skrìmsli, intendo. Il nostro sangue per i vampiri, la nostra carne per licantropi e fantasmi, la nostra anima per i demoni… Siamo le migliori prede per loro, capisci? Non possiamo permetterci di perdere altri fratelli. Quelli come Bane sono bracconieri, vanno a caccia di Esper Solitari, che sono i più vulnerabili perché non sanno chi sono e non sono protetti da noi. Ci nascondiamo ma al contempo siamo in mezzo a loro. Abbiamo un Odore, noi Esper, ed è molto forte. La tattica che usiamo per mascherarlo, mantenendo le nostre facoltà, viene chiamata Carnevale e questo… - estrasse un amuleto dalla t-shirt. – È la Maschera. Uno strumento magico che sprigiona un profumo qualsiasi abbastanza potente da celare il nostro Odore. Ecco perché non mi hanno attaccato. E gli Hanga non ci tengono ad attaccare così apertamente un “Menomato”.»
Phoebe si sedette vicino a lui, sfiorò l’amuleto con le dita. Era un’agata viola limata per sembrare un dente ricurvo, con una placca d’oro sulla sommità che si legava ad un laccio di cuoio nero.
Come faceva quell’affare a emanare un odore? Aggrottò le sopracciglia, studiandolo e rigirandoselo tra le dita.
Damon glielo sfilò di mano con gentilezza, e lo infilò di nuovo sotto la maglia.
«Magia.» ammiccò con le sopracciglia, il sorriso furbastro.
«Fatine e folletti?»
«Quasi.» arricciò il naso con un sorriso.
«Posso averne uno anche io? Credo che quei mostri, gli… Hanga, mi farebbero meno paura se non mi aggredissero.»
Damon frugò nella tasca dei jeans, ne estrasse una catenina sottile d’oro a cui era agganciato una pietra di giada intagliata, con la punta rivolta verso il basso. Le chiese se volesse una mano a indossarla, ma Phoebe rispose di no, che l’avrebbe agganciata da sola.
La accarezzò con la punta delle dita, l’oro fresco sulla pelle del collo.
«Ho pensato che me l’avresti chiesta. – le disse Damon. – Perciò te ne ho portata una. Potrai averne quante vorrai, ognuna ha un odore diverso, naturale o chimico che va a ricreare i profumi… sai tipo Calvin Klein, Ugo Boss, quelli lì. Ecco la tua prima Maschera.»
«Grazie. – mormorò, seriamente riconoscente. – È stato gentile da parte tua.»
Lui fece un cenno col capo e abbozzò un sorriso. «Profuma di menta. – strofinò le mani. – Bando alle ciance, ragazzina: a casa non puoi tornare e qui dentro non puoi restare. Ora sai chi sei, perciò puoi venire con me. Raccogli le tue cose, ti porto nella tua nuova casa.»
 
 
 

Lungo il tragitto a piedi, Damon le aveva detto che le persone rapite da Bane non potevano essere recuperate perché erano ormai divenute vampiri oppure morti. La notizia non poteva essere diffusa per diversi motivi legati alle due realtà in cui era diviso il mondo. Tra l’altro, quello era periodo di caccia per i vampiri: durante l’anno vivevano come persone normali e non si nutrivano di sangue umano né potevano creare nuovi succhiasangue, ma era stato concesso loro un periodo di tre mesi in cui potevano farlo – anche se venivano comunque sorvegliati, non potevano fare stragi.
Le disse poi che lei era una Solitaria, come le aveva già detto Michael Bane.
I Solitari non avevano vita lunga: gli Esper erano portati a cercare un “branco” ma non potevano trovarlo perché erano troppo diversi dal resto della gente e, oltretutto, di solito venivano scambiati per schizofrenici. Soprattutto i chiaroveggenti. E i cosiddetti bracconieri, come Bane, cacciavano i Solitari anche fuori il periodo di caccia concesso dall’Ordine. Chi non trovava il branco, moriva.
Le disse che i non-Esper venivano chiamati Menomati, ma non con cattiveria. Solo per indicare che avevano qualcosa in meno nella sfera sensoriale. In realtà erano fondamentali: se gli Esper erano portati per spiritualità e istinto primordiale, i Menomati erano puntanti al progresso e le innovazioni tecnologiche di cui usufruiva l’Ordine degli Esper erano una loro invenzione. Loro avevano inventato la lancia, gli Esper avevano indicato loro da chi difendersi.
Infine aggiunse che qualsiasi informazione avesse voluto approfondire per capire meglio quel mondo, l’avrebbe trovato nella libreria del quartier generale del presidio dell’Ordine in Nevada.
Il concetto di “casa” di Damon Darden era la Cattedrale dell’Angelo Custode, lì a Las Vegas. Aveva una forma triangolare, il tetto nero, l’enorme dipinto di Cristo e gli apostoli sulla facciata, proprio sopra la porta.

Lui, vedendo la faccia di lei, le disse che la scelta di una chiesa cristiana era dovuta alla religione comune del posto in cui si trovavano, che nei Paesi islamici, ebraici, induisti e quant’altro, i quartier generale si trovavano nei rispettivi luoghi di culto. All’Ordine non importava molto della religione, nonostante fosse subordinata al Vaticano, ma quelle strutture erano gli unici posti sicuri perché erano territori consacrati.
Damon si piazzò di fronte la cattedrale, allargò le braccia.
«Ostensum est in oculis meis.» e le indicò la struttura.
Phoebe seguì con lo sguardo la direzione che indicava con il dito. Come per magia, come se fosse stato scoperto da un mantello dell’invisibilità in perfetto stile Harry Potter, un castello di piccole dimensioni con guglie, balconi e merletti, comparve come arroccato sul tetto della cattedrale.
La ragazza guardò quell’apparizione con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Poi emise un basso gridolino di sorpresa e scoppiò a ridere.
Tirò Damon per la manica, eccitata.
«Sei un mago. Sei un fottuto mago! Insegnami!»
Lui scoppiò a ridere, in una risatina che Phoebe trovò simpatica. «Collaboriamo con le Lamia, le streghe. Sono loro che ci hanno fornito le Maschere e tanti altri trucchetti, come questo. – indicò il castello. – È una formula che possiamo pronunciare solo noi Esper. Agli altri si brucia la lingua.» se la indicò come a voler marcare il concetto.
«Sono in un film.»
«Ti piacerebbe, ragazzina. Entriamo, vieni.»
«Tu vivi qui?»
«No. Qui ci sono solo i Saggi, i ricercatori Menomati e i novellini come te che devono essere addestrati. È il quartier generale però. È un punto di ritrovo e luogo fondamentale nelle nostre vite. Ti troverai bene, vedrai.»
Appoggiò entrambi le mani sulle porte della cattedrale e le aprì con una leggera spinta, spalancando le braccia nella sua entrata trionfale. Camminò lungo la navata.

Le finestre lungo le pareti ai lati erano triangolo e c’erano mosaici di vetro colorato; l’ambiente era così grande che c’entravano quattro file di panche. Il pavimento in lucido marmo bianco con piccoli rombi neri. Sulla parete in fondo c’era l’enorme statua di Gesù crocifisso con dietro affreschi di angeli che sembravano dipinti da Picasso, sotto c’era l’altare con una grossa Bibbia scritta in latino aperta su un tavolo con il merletto, e ai lati due statue di angeli con le ali spiegate.
Era una perfetta chiesa in stile Las Vegas, d’altronde.
Damon proseguì indisturbato lungo la navata, camminando con il suo passo rilassato e le braccia leggermente larghe a causa dei muscoli – che non era un palestrato, ma si vedeva che si allenava, ma a parte quello Phoebe pensò che camminasse così per fare un po’ di scena. Alzò gli occhi al cielo.
Damon spostò il pianoforte, posto nella parete in fondo in un angolo dove non si notava, e rivelò una porticina. Aprì anche quella e si ritrovarono in un breve corridoio, il budello che separava la chiesa dal castello.
Si voltò e le fece un cenno col capo. Phoebe si guardò indietro un’ultima volta.
L’ultima occhiata al suo passato, alla sua vita. Niente sarebbe più stato come prima, ormai. Aveva visto troppo, sapeva troppo.
Percorse il budello buio dietro Damon, che aprì l’ennesima porta.
Si affacciarono su una sala quadrata di medie dimensioni, il pavimento di marmo color bianco sporco e un tappeto rosso cremisi che guidava verso una rampa di scale proprio di fronte a loro. Ai lati della rampa ce n’erano altre due piccole che scendevano appena verso il basso e conducevano rispettivamente a due arcate strette.
C’erano lampadari eleganti ed elaborati, piccole applique alle pareti che imitavano le candele. Phoebe sollevò un sopracciglio quando vide che si trattava di lampadine.

Damon le indicò la prima arcata, quella a sinistra.
«Da lì, si arriva alla zona di allenamento: l’armeria, la palestra e il poligono da tiro interno.»
«Vi trattate bene.»
«Da di là, invece, si arriva ai laboratori di ricerca, alla zona computer, ai laboratori e si scende ancora fino alle Celle, dove conteniamo gli SCP in attesa di trasferirli nei centri specializzati. – le scoccò un’occhiata. – Domani ti farò fare un giro completo, soprattutto in palestra e in armeria.»

Le fece un cenno col capo, invitandola a seguirlo verso le scale che ad un certo punto si dividevano a destra e sinistra, al centro la statua di un angelo. Phoebe aggrottò le sopracciglia: c’erano tutte doppie scelte in quel castello.
Damon le spiegò che a sinistra si raggiungevano le zone comuni: il salotto, la sala da pranzo, la biblioteca, anche il giardino interno; invece a destra c’erano tutte le camere e altri bivi di scale.
Non andarono nella parte sinistra del castello, ma solo verso gli alloggi.
Le disse di fare attenzione al percorso fino alla sua camera, in quel labirinto da scale, corridoi e porte chiuse. Sembrava un albergo. Nel piano inferiore della sezione riservata alle camerate c’erano gli alloggi dei Menomati che lavoravano lì dentro: gente normale proveniente da tutto il Nevada che era data per morta in passato ma che invece era stata salvata dall’Ordine per le loro qualità intellettuali ed erano state condotte al quartier generale. Poi c’era il secondo piano, dedicato agli alloggi delle nuove reclute, esattamente come Phoebe, ma anche agli Esper veterani che – per qualche motivo – non potevano fare ritorno alla loro dimora e venivano nascosti lì a tempo indeterminato. Non c’erano molte reclute, acciuffate nel Nevada, erano una decina di ragazzi circa ed era un numero davvero minuscolo se si considera che lo Stato vantava un’altissima densità di popolazione, soprattutto giovanile.
Al terzo piano c’erano gli alloggi dei Saggi, coloro che tenevano le redini di ogni zona di presidio dell’Ordine, coloro che controllavano gli Esper del Nevada. Erano sempre quattro, uno per ogni tipo di ESP e prendevano decisioni solo dopo essersi consultati.

Damon si piazzò di fronte alla porta bianca, intagliata e decorata, di una camera lungo il corridoio.
Estrasse dalla tasca una piccola chiave che girò due volte nella serratura. Con un cenno della mano e un’alzata di sopracciglia, le indicò l’interno.
«La tua nuova casa. – abbozzò un sorriso. – Domani facciamo un giro turistico, anche per presentarti gli altri. Ma dopodomani cominciamo l’addestramento.»
«Va bene, vecchio.»
«Non sono vecchio.» borbottò.
«E io non sono una ragazzina.» replicò lei, piccata, con le braccia incrociate al petto.
«Uno a zero per la ragazzina.» le fece un mezzo sorriso, lo sguardo assottigliato che la sfidava.
«Che allenamento faremo?»
«Fisico. Un’anima forte, risiede in un corpo forte e in una mente forte. Perciò ci concentreremo sul corpo per il momento. Ti allenerò seguendo gli addestramenti generici della S.W.A.T., ci sono delle cose che devi saper fare e che posso insegnarti, come a sparare ad esempio. Quando migliorerai, imparerai ad usare al meglio la tua chiaroveggenza, e anche in questo ti guiderò io.»
«Ci sarà un’occasione in cui non ti avrò tra i piedi, Damon Darden?» lo provocò con un sorrisetto furbo.
Lui si morse un labbro. «Una ce n’è. Nella difesa contro i telepatici ti seguirà un’altra Esper, Brianna. Mente forte. – si tamburellò la tempia con l’indice. – Viviamo in un mondo molto più pericoloso di quel che sembra, Phoebe. La nostra anima è continuamente messa alla prova e in pericolo, anche se spesso non ce ne accorgiamo neppure. Per questo è importante avere un’anima forte, e per ottenerla bisogna prima lavorare sul corpo e la mente.»
«Devo dire la preghierina prima di dormire?»
Sbuffò una risatina. «Un paio di Padre Nostro e sei espiata da tutti i tuoi peccati.»
«Grazie, prete
«Buonanotte, simpaticona.» 



ANGOLO AUTRICE
Capitolo molto discorsivo, ho lasciato che fosse Damon a spiegare - a grandi linee - la situazione a Phoebe. Andando avanti, però, inserirò alla fine dei capitoli una parte dedicata alle "scoperte della protagonista che pensavo di chiamare appunto "Diario di Phoebe", in modo da rendere più chiara e riassuntiva la situazione, senza la distrazione dei dialoghi.
Btw... TADAN, oggi abbiamo conosciuto Damon, un altro protagonista! Il prossimo lo conosceremo nel prossimo (?) capitolo, e gli altri man mano, per un totale di sei personaggi principali!
Che ne pensate? È troppo confusionario o vagamente comprensibile? Lasciatemi un appunto se volete! 
Grazie a tutti, alla prossima ♥

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Capitolo 6
*** 05 - Professor Xavier ***


Capitolo quinto.
Professor Xavier


 
Il giorno dopo il suo arrivo, Damon le fece fare un giro completo per la struttura, presentandole i pochi Esper presenti al momento. Le spiegò che, siccome non vivevano lì, capitava spesso di non trovarli – nonostante fosse un punto di ritrovo. Spesso qualcuno non si faceva vedere per mesi.
Inoltre la informò che, al contrario di quanto ci si potesse aspettare, i Saggi non volevano conoscere i nuovi arrivati per evitare di avere premonizioni su di loro od offuscare il loro giudizio. Ma le disse anche che, dopo il completamento degli allenamenti, si sarebbero tenute tre prove d’esame per verificare il lavoro svolto e una missione per consolidare la loro presenza come Esper nell’Ordine e farsi conoscere dagli altri. In questo modo sarebbe stato possibile trovare un “partner” di lavoro, o più di uno. Farsi pubblicità, insomma. Anche se succedeva quasi sempre che si sceglievano come partner i compagni d’addestramento. Di solito i chiaroveggenti si accompagnavano ai telepati, ma non era una regola e inoltre era a questi ultimi che serviva la presenza di un partner, non ai chiaroveggenti – che potevano stare anche soli. Come Damon.
Damon collaborava sporadicamente con qualcuno dell’Ordine, essendo un chiaroveggente ben addestrato, era un indipendente.
La accompagnò a recuperare le sue cose da casa e insistette per entrare, non fidandosi.
 
E infine arrivò il giorno dell’addestramento.
Damon le aveva dato appuntamento alle sei e trenta del mattino al giardino interno. In realtà era un’enorme balconata con il tappeto d’erba sintetica, muretti, torrette, merlettature e qualche attrezzo di legno per l’allenamento.
Il cielo era ancora grigio, l’aria calda sulla pelle.
Phoebe si era lavata, aveva messo pantacollant grigi e una canotta nera due volte la sua taglia, aveva fatto colazione con fette biscottate e miele e spremuta d’arancia. Non male. Aveva ancora l’impressione di stare in un hotel, un bed and breakfast. Se non addirittura in un film o un reality show a sua totale insaputa. Non era normale tutta quella situazione.

Nello spiazzo c’era già un ragazzo. All’incirca doveva avere la stessa età di Phoebe. Era alto, probabilmente raggiungeva il metro e novanta, i capelli castani ordinati. Fumava una sigaretta e non sembrava essersi accorto della presenza di Phoebe. Aveva occhi grandi, di un blu torbido simile al mare in tempesta, il naso all’insù e la bocca carnosa. Aveva un fascino cupo, quasi pericoloso, anche se il suo sguardo attento e curioso cozzava con quella sua aria da cattivo ragazzo.
«Anche tu qui per l’allenamento, eh.» se ne uscì, facendola sussultare. Le scoccò un’occhiata indecifrabile, ma Phoebe colse una sfumatura di divertimento.
«A quanto pare.»
«Dunque sei tu quella che si fa la doccia alle due di notte e puntualmente mette musica orribile mentre si lava.»
La ragazza spalancò la bocca. «E tu come…»
«Non è una cosa che so perché sono un Esper, ma perché la parete della mia camera e quella del tuo bagno… è la stessa. Ed è una tragedia.»
«Fantastico, anche il vicino di casa stronzo.» borbottò, incrociando le braccia al petto.
Lui sorrise appena, ispirando un’ultima boccata dalla sigaretta e spegnendola contro una parete. Poi lanciò il mozzicone giù dalla balconata.
«Mi chiamo Bill.» le disse, senza trasporto.
«Io sono Phoebe.»
«Lo so. – abbozzò un ghigno. – Sono un telepate.»
«Praticamente sai già tutto di me.»
«No. Mi arrivano pensieri e sensazioni frammentate, non sono mica allenato.»
«È da poco che sei qui.» constatò Phoebe, lanciando un’occhiata all’orologio da polso del ragazzo per controllare l’ora. Damon stava tardando.
«Sì, diciamo di sì. Mio padre lavora qui. Di sotto, al centro di ricerca. Lui è un Menomato, sai. I giornali lo diedero per morto cinque anni fa, invece era qui. È un biologo molecolare. Anche io pensavo fosse morto, poi la telepatia si è scatenata e mi hanno trovato.»
«Perché me lo stai dicendo?»
«Per parlare, sembri un pesce fuor d’acqua. E poi è vero che parlare con gli sconosciuti è più facile. – rispose semplicemente. – Tu non sei di queste parti. Quindi da dove vieni?»
«Indovina, professor Xavier.»
Bill sfarfallò le ciglia, languidamente. «Dal Paradiso.»
Phoebe scoppiò a ridere, facendolo sorridere. «Oh, ma dai! Sono sicura che puoi fare meglio di così!»
«Di solito non ne ho bisogno.»
«Sento vibrazioni vagamente sessuali, ragazzi, finitela.» esclamò Damon scoppiando a ridere.
I due si voltarono nella direzione da cui lui stava arrivando, entrambi con le sopracciglia aggrottate.
Nessun tipo di imbarazzo. Stranamente.
Anche Bill scoppiò a ridere, Phoebe notò che aveva le fossette e sembrava un bambino quando sorrideva.
«Sei inopportuno! E poi l’hai vista? Sembra un elfo.»
«Ehi! Io non--»
Damon le piantò una mano sulla testa facendole emettere un grugnito di disapprovazione.
«In quanto istruttore, ho la libertà di scegliere chi seguire per l’allenamento fisico. – cominciò a spiegare. – Io ho scelto voi due. Tu, spilungone, perché da te posso cavare un bel ragno dal buco, con il fisico che ti ritrovi. E tu, bambina, perché hai bisogno davvero di qualcuno come me che ti insegni qualcosa e ti alleni a dovere.»
Phoebe boccheggiò, la sua vena maliziosa fece il resto. I pensieri corsero in antri oscuri, l’immaginazione galoppò verso scene piuttosto spinte.
Damon sembrò incalzarla con lo sguardo, inarcando le sopracciglia: la ragazzina era stranamente rimasta senza parole. La sua lingua tagliente messa a tacere.
Bill, al contrario, fece scattare la testa verso di lei per guardarla con una strana smorfia di stupore sul viso.
Il cacciatore tolse la mano dalla testa di Phoebe. «Oggi addestramento all’aria aperta. Ma non vi ci abituate. Stacchiamo all’ora di pranzo, un’ora e mezza di riposa dopo il pasto, e poi andiamo a sparare.»
 
 

Damon fece sudare loro anche le lacrime di disperazione per quell’allenamento sfiancante.
Il riscaldamento, corsa lungo il perimetro del balcone, salto della corda, arrampicata sulle pareti. Non si sarebbe fermato con loro per il pranzo, sarebbe tornato solo nel pomeriggio. Anche lui voleva riposare, aveva detto loro che quella notte avrebbe avuto il turno di lavoro.
La sala da pranzo non era grande come Phoebe si aspettava. Era stretta e lunga, con dieci tavoli da sei persone. Ai lati della sala, sotto i finestroni di vetro colorato, c’erano lunghi tavoli imbanditi a buffet. Dal soffitto scendevano tre grossi candelabri in argento e cristallo.
Bill e Phoebe avevano stretto il tacito accordo di restare insieme. Si sedettero vicini durante il pranzo e mangiarono in silenzio la loro frittata con le zucchine. Ma si vedeva che il ragazzo aveva qualcosa che doveva assolutamente dirle.
«Cos’era quella roba di prima?» se ne uscì a bassa voce.
«A cosa ti riferisci di preciso? Se devi sfottermi per le mie prestazioni atletiche, astieniti.»
«Lo sai a cosa mi riferisco. Quella fiera del porno nella tua testa mentre Damon diceva che ti avrebbe addestrato a dovere.»
Stranamente non si sentì affatto in imbarazzo. Per un qualche motivo, sentiva che con Bill non si sarebbe dovuta vergognare di niente. Avevano subito preso confidenza e si erano presi bene. E poi non aveva senso avere segreti con lui, era un telepate. Gli piaceva quella schiettezza, quello scambio di battute senza esclusioni di colpi.
Bill non era allenato, non poteva leggere la mente delle persone di continuo: gli arrivavano pensieri, immagini e sensazioni frammentate, soprattutto quando risuonavano forte e chiaro nella mente del suo interlocutore. Non c’era da stupirsi se certe immagini gli fossero arrivate come se le stesse guardando dal vivo
«Così impari a infilarti nella mia testa. Te lo sei goduto?»
Bill sbuffò un sorriso. «Erano porno scadenti. Non farebbero alzare l’asta nemmeno ad uno che non fotte da anni.»
«E tu cosa sei, una specie di giudice dell’Accademy che assegna Oscar al miglior porno dell’anno?»
I suoi occhi blu brillarono di divertimento, le parvero quasi elettrici. «Ti immagini una cosa del genere? Le nomination, il miglior attore, la miglior sceneggiatura…»
Phoebe scoppiò a ridere, lui restò a guardarla per un momento mordendosi l’interno della guancia.
«Senti un po’, Nostradamus. – la incalzò. – Hai altri porno da girare oppure non hai niente da fare?»
Lei gli scoccò un’occhiata diffidente. «Che vuoi?»
«Non farti idee strane, non sei il mio tipo neanche lontanamente. Ma abbiamo un’ora e mezza, e la biblioteca a disposizione. Non so tu, ma io non ci sto capendo un cazzo di questo posto, ti va se andiamo a fare un paio d’indagini su vecchi tomi impolverati?»
 
* * * * 
 
Diario di Phoebe M.
Appunti importanti sugli Esper – raccolti nella biblioteca.


Gli Esper (i sensitivi) sono una specie dell'Umanità uguale al resto del mondo per aspetto. Tuttavia si discostano dal resto della popolazione umana per le loro capacità mentali e per la diversa struttura del loro DNA.
Nel corso del tempo, dall’australopiteco all’homo sapiens, il DNA ha subìto il corso dell'evoluzione. Gli Esper sono gli unici ad aver mantenuto alcune facoltà cognitive primordiali, mai evolute: maggiore utilizzo del cervello (norma: 10%; Esper: 30%), sviluppo delle percezioni extrasensoriali (settimo senso), sviluppo dell'istinto (sesto senso). L'uomo primitivo riconosceva i cosiddetti mostri, aveva una percezione molto più concreta dei diversi strati di realtà. Caratteristiche che nel corso dell'evoluzione sono andate perse e poi completamente annullate dalla tecnologia che, invece, ha reso l'umanità sempre più cinica e indifferente, sempre più priva di empatia ed emozioni.
Gli Esper andarono a diminuire col corso dell'evoluzione: se prima era l'intera specie umana, ora sono solo il 3% della popolazione. Da sempre sono organizzati in modo da proteggere i più deboli, e con l'aiuto di chi si evolveva sviluppavano armi e tecnologie all'avanguardia per combattere i mostri.
Gli Esper sono portati per la spiritualità e lo sviluppo dei sensi ancestrali; i "Menomati" per la razionalità e la tecnologia. Le due specie collaborano attivamente.
 
CAPACITA’ E PREGI DEGLI ESPER
- Percezione extra-sensoriale (ESP)
- Istinto sviluppato
- Profonda spiritualità ed empatia
- Accesso più semplice alle dinamiche dell'inconscio
Con interventi e allenamenti:
- Abilità fisiche sovrumane
- Amplificazione dei cinque sensi
 
DIFETTI DEGLI ESPER
- Se non opportunamente guidati, possono autoconvincersi di essere schizofrenici
- Incapacità a interagire con la tecnologia
- Poco innovativi
- Poco razionali
- Istintivi e irrequieti
- Incapaci di non formare un "branco"
 
CATEGORIE
Gli Esper si dividono in diverse categorie a seconda della percezione extra-sensoriale (ESP) sviluppata.
Tuttavia, nessun Esper ha più di un ESP sviluppato. Un preveggente non potrà essere come un chiaroveggente e così via.

1.Preveggenti (precognizione): coloro che hanno una visione del futuro a breve o a lungo termine. Può manifestarsi in modi diversi:
- Indovinare tutti i cammini del futuro possibili
- Vedere le conseguenze delle decisioni delle persone nel momento in cui esse le prendono
Si sviluppa negli individui particolarmente sensibili. Comincia a manifestarsi con sogni premonitori e frequenti deja-vu.
I preveggenti vengono usati come campanelli d'allarme ma possono essere dei buoni combattenti. Tuttavia non Cacciatori: al contrario dei fratelli chiaroveggenti, non vedono il reale aspetto dei mostri e non riescono ad individuarli. Se vogliono combattere, devono essere accompagnati da un chiaroveggente.
 
2. Paragnosti (retrocognizione): coloro che possono vedere eventi, persone, luoghi, lontani nello spazio e nel tempo, attingendo alla memoria collettiva (o universale) del Mondo collegandosi attraverso canali di trasmissione sconosciuti. Può essere attivata solo toccando un oggetto, recandosi in un ambiente, guardando o ascoltando qualcosa di particolare.
Non si sa in quali individui si sviluppi, si ipotizza nei rari casi di reincarnazione.
I paragnosti vengono usati per conoscere le reali dinamiche dietro eventi controversi del passato ma soprattutto per ritrovare persone scomparse: in questi casi il paragnosta, toccando un oggetto di proprietà della persona (oppure ascoltando o guardando suoi video ecc), accede alla quarta dimensione e segue la "linea mondiale" dell'oggetto induttore fino ad arrivare al punto del passato in cui tale persona ha posseduto quell'oggetto, indicando con precisione quanto tempo è passato. Per scoprire poi la sua posizione attuale, il paragnosta ha bisogno dell'aiuto di un chiaroveggente.
 
3. Chiaroveggenti (chiaroveggenza): coloro che vedono cose non visibili naturalmente.  La chiaroveggenza può manifestarsi in diversi modi:
- Vedere il reale aspetto delle cose, e cose nascoste
- Capacità di conoscere eventi, luoghi e oggetti lontani nello spazio
Si sviluppa negli individui con una spiccata arguzia, curiosità, capaci di cercare e vedere "oltre" ogni persona, ogni gesto, ogni situazione.
I chiaroveggenti sono ottimi Cacciatori e combattenti, di solito sono quelli più inclini a sottoporsi ad estenuanti allenamenti fisici e interventi chirurgici per amplificare i propri sensi. Vengono spesso mandati in prima linea per combattere e sono stati coloro più studiati dai "Menomati" scettici (alla Società per la Ricerca Psichica).
Vengono soprannominati Nostradamus.
 
4. Telepati (telepatia): coloro che comunicano con la mente senza utilizzare altri sensi oppure strumenti.
Di solito i telepati cominciano ad entrare nella mente di chi desiderano attraverso il contatto visivo, ma man mano che prendono dimestichezza con questa percezione non ne avranno bisogno. Se un telepate è abbastanza potente, può persino riuscire a manipolare sogni, ricordi e percezioni di un individuo.
La telepatia si sviluppa negli individui con una spiccata empatia e abili ad interagire e comprendere le persone, infatti di solito sono stati grandi conoscitori del linguaggio del corpo e ottimi interpreti di sguardi, prima dello sviluppo dell’ESP.
I telepati sono ottimi combattenti e Cercatori, ma possono andare in missione e combattere solo se accompagnati da un chiaroveggente in quanto non posseggono il dono della Vista.
Per contrastare il potere di un telepate e schermare la propria mente, è necessario un massiccio allenamento che prende il nome tecnico di "abscondam" (nascondere in latino) oppure, in gergo, Nascondino in quanto si tratta di nascondere la propria mente. Bisogna innanzitutto riconoscere quando un telepate invade i confini, poi saperlo rinchiudere e tenere lontano da pensieri e ricordi, è necessario anche saper - di tanto in tanto - controllare che il proprio inconscio non sia stato violato, attraverso la meditazione. Nonostante gli allenamenti, i più abili telepati riusciranno ad eludere ogni nascondiglio.
 
I SOLITARI
I Solitari sono gli Esper che non fanno parte dell'Ordine. Solitamente perché non riconoscono ancora i loro poteri e vengono scambiati per schizofrenici. Ogni mese i più potenti chiaroveggenti si applicano per rintracciare gli Esper Solitari e in difficoltà della loro zona di presidio.
I Solitari che rimangono tali non hanno vita lunga: il DNA primordiale degli Esper impedisce loro di sopravvivere da soli troppo a lungo, andranno sempre in cerca di un gruppo a cui appartenere.
A causa della loro vulnerabilità sono prede facili per i Mostri e Bracconieri (come Michael Bane).
 
Post Scriptum:
Sto ancora cercando di capire i vari ruoli: Cacciatore, Cercatore, ecc.
Oggi con Bill ci siamo limitati, a causa del poco tempo e la mole di libri in biblioteca, a cercare qualcosa su noi Esper e cavare un ragno dal buco.
Che in questo posto nessuno ti spiega un cazzo.


 
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ANGOLO AUTRICE
Ed eccolo, il new capitolino! Di fatto è molto molto breve, ma mi serviva per introdurre Bill e il Diario di Phoebe.

Allora, che ne dite? La questione Esper è chiara? Più avanti spiegherò anche dell'Ordine, dei mostri, e di qualsiasi altra cosa sarà necessario parlare per fare chiarezza!
Scrivetemi se vi va, e grazie a tutti che seguite questa mirabolante storiella (?) e sopportate i deliri di una povera autrice hahahah
Avviso che d'ora in avanti gli aggiornamenti saranno irregolari. Fino ad ora ho sempre aggiornato una volta alla settimana, di lunedì, ma questo non mi farà più possibile perciò aggiornerò quando potrò, mi spiace ç_ç
Nel frattempi vi faccio spam, e vi invito a sbirciare sul mio profilo le altre due storie, di genere Storico. Ovviamente se vi va e vi piace il genere, questo è chiaro! Qualsiasi cosa potete mandarmi un messaggio privato, tanto la leggerò la posta, oppure seguirmi su Wattpad - se volete ♥
Alla prossima ♥♥

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