New Town: Il Mondo di Sotto

di mirkovilla7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0 - PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 ***



Capitolo 1
*** 0 - PROLOGO ***


La Sala del Consiglio cadde in un silenzio cupo creato dalle ultime parole del Governatore Barber.
La stanza era grande e per la maggior parte vuota. Sulle pareti grigie l’unica decorazione consisteva nei quadri raffiguranti i Governatori successi prima di quello attuale. Su un lato una porta di vetro scorrevole con di guardia due uomini lasciava intravedere un lungo corridoio che terminava con una porta identica. Tre sedie completavano l’arredamento con un tavolo ovale posto al centro della Sala. Sulle sedie, con aria stanca di chi discuteva da ore, c’erano due uomini ed una donna.
L’uomo seduto alla destra del Governatore fu il primo a riprendere parola: «Ci deve pur essere un’altra soluzione!».
Il Consigliere Florence Robinson, seduta di fronte, scosse il capo con rassegnazione: «Abbiamo scavato nella nostra mente a lungo in cerca della soluzione, ma c’è qualcosa che ci sfugge. Qualcosa che gli indigeni hanno e che non ci permette di vincere. Qualcosa che ha annientato le nostre squadre di militari.»
Tuttavia, le parole della donna non convinsero il vice-Governatore Davis, che venne interrotto da Barber ancora prima di parlare: «Zachary abbiamo bisogno di conquistare quei villaggi e abbiamo sacrificato almeno trenta dei nostri migliori militari per questa battaglia senza ottenere risultati concreti. Se riuscissimo a penetrare all’interno dei villaggi potremmo ricevere informazioni più dettagliate e vincere.»
Zachary Davis rispose a tono: «E non pensi a quei poveri ragazzi mandati a combattere una crociata senza possibilità di successo e senza il benché minimo addestramento. Li uccideranno non appena metteranno piede nel loro territorio e tu lo sai. E se fosse tuo figlio?»
A quelle parole, il Governatore si alterò e batté forte il pugno sul tavolo: «Mio figlio non è un criminale!»
«Nemmeno loro. Sono solo ragazzi e anche se hanno sbagliato non vuol dire che debbano essere puniti così severamente. E poi voglio essere sicuro che sia proprio necessario conquistare quel villaggio. Cosa potrebbero mai farci degli indigeni? Non hanno tecnologia sufficiente e nemmeno armi da fuoco.»
La donna seduta di fronte affermò con aria pensierosa: «Magari stanno elaborando un piano segretamente e hanno nascoste armi inimmaginabili. Può essere tutto e noi perdiamo sempre contatto con i nostri militari dal momento in cui iniziano uno scontro. Perciò non sappiamo cosa possiedono in realtà e nemmeno che sono sottosviluppati rispetto a noi.»
«E perché dovrebbero venire a combattere contro di noi?» chiese il vice-Governatore «Dopotutto loro hanno vissuto lì sotto per più di mille anni dal Disastro e non ci hanno mai attaccato. Non vedo perché dovrebbero iniziare proprio ora.»
Il Governatore rispose con voce calma e stanca: «Basta discutere.» Poi prese un tono più formale: «Si vota per l’attuazione del piano Delta di una durata di due mesi. Se, alla scadenza di questo tempo saranno state raccolte sufficienti informazioni, si procederà all’attacco. Quanti a favore?» Alzò la mano.
Davis lo guardò con aria torva e tenne saldamente il braccio sul tavolo con aria di sfida.
Lo sguardo di entrambi si rivolse a Robinson. Con titubanza, il consigliere Robinson alzò la mano.
«Bene, con due voti a uno, do ufficialmente il via al piano Delta.» confermò il Governatore «Florence, per cortesia, vai a chiamare i signori Flemling e Walsh e di loro che hanno un lavoro da svolgere a partire da domani» Infine, si rivolse con sguardo colmo di vittoria al vice-Governatore «La seduta del Consiglio è aggiornata.»
Il Governatore si alzò e andò verso la porta a vetri, sparendoci dietro alla sua apertura.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***


Al milleenovecentosessantaseiesimo giorno della mia permanenza nel carcere minorile di New Town, finalmente, accadde qualcosa di nuovo.
La giornata iniziò nel più normale dei giorni: suona la sirena, mi alzo, mi arriva la colazione, mangio la colazione, mi faccio la doccia guardando attraverso le pareti lucide del bagno i miei occhi azzurri e i miei capelli rigorosamente corti fino alle orecchie e leggo.
Proprio nel mio milleenovecentosessantaseiesimo momento di sacra lettura, sentii una voce da fuori la cella: «Soggetto numero 1122. Patrick Harper. Si sistemi contro la parete. Ci sono visite per lei.»
Obbedii agli ordini, come un cagnolino addestrato.
Dopotutto, avevo già provato a disobbedire, in passato, ma venni colpito da una scarica elettrica che mi costrinse a letto per due giorni.
Una visita era una cosa che non potei ignorare, in quanto da quando mi trasferirono nel reparto “Soggetti pericolosi”, nemmeno i miei genitori ebbero il permesso di venirmi a trovare.
Il crimine che commisi quando venni portato nella zona “Soggetti normali”, all’inizio del mio eterno soggiorno qui, non poteva essere definito tale.
Bisogna capire che a New Town chi non rispetta le regole viene punito. Inutile discutere. Inutile metterla sul piano dell’età. Le regole sono regole.
Quando, più di mille anni fa una catastrofe nucleare distrusse il “Mondo di Sotto” i nostri antenati si rifugiarono, grazie a dei sistemi di propulsione, su una città volante chiamata New Town.
Successivamente si scoprì che la maggior parte delle persone che avessero scoperto armi di distruzione di massa erano secondogeniti. Quindi, il governo creò una legge che impose di chiedere il consenso per procreare figli.
I miei genitori fecero l’errore di non chiedere di poter concepire il mio fratellino. Quando ebbi 12 anni e mio fratello Bruce 10, il Governo ebbe una soffiata sull’esistenza di mio fratello e vennero a prenderselo. Io lottai e uccisi un poliziotto, finendo arrestato.
Scoprii più avanti, durante una visita dei miei genitori, che Bruce venne ucciso pubblicamente in piazza, come simbolo per chi non rispetta la legge.
Io venni trasferito nella sezione “Soggetti pericolosi” quando, il giorno dopo che seppi la notizia, cercai di fuggire.
La visita annunciata fu di un signore anziano che non avevo mai visto.
Entrò guardandosi intorno nella mia cella, scrutando con attenzione le monotone lisce pareti grigie e l’essenziale arredamento: un letto, una scrivania e uno sgabello.
Infine, posò lo sguardo su di me.
I suoi occhi verde acqua celavano una determinazione che nessuno avrebbe mai dato ad un uomo che mi arrivava a metà petto e che aveva quei capelli bianchi.
Nonostante sembrasse una persona di una certa età, i movimenti erano fluidi e graziosi, quasi calcolati e non spontanei.
Prima che cominciassi la conversazione con qualche mia battuta sarcastica, comparve dietro di lui l’ultima persona che mi aspettassi di vedere: il Consigliere del Governo Florence Robinson.
Fu lei a parlare per prima: «Buongiorno signorino Harper. Questo è Oscar Flemling» indicò l’anziano «ex generale dell’esercito»
Nonostante i numerosi commenti e la risata sarcastica che mi crebbe nel corpo, stetti zitto.
«Oscar ha scelto lei come suo allievo. Inutile dirle che è l’opportunità che ha sempre desiderato per abbandonare questo posto.» Proseguì la donna «Per il momento è tutto quello che possiamo dirle. Se accetterà le verranno aggiunti ulteriori dettagli in seguito. Se rifiuterà, quando tra pochi mesi compirà 18 anni e verrà giudicato per i reati commessi, rischierà di essere condannato a morte. Deve scegliere subito»
Non avevo la più pallida idea di ciò che stesse dicendo e nemmeno sapevo se potevo fidarmi o meno, ma in quel momento il pensiero che mi fece decidere fu che quella era un’opportunità d’oro. Inoltre ero più che sicuro che se fossi arrivato davanti al giudice tra tre mesi mi avrebbero condannato e giustiziato all’istante.
«Va bene, accetto» dissi cercando di infondere determinazione nella mia voce ma l’unico risultato che ottenni fu quello di farla sembrare ancora più agitata.
Il Consigliere e il signor Flemling si scambiarono un’occhiata trionfante, poi la donna parlò di nuovo: «Sono lieta che lei abbia accettato. Si ricordi solamente che non sarà una passeggiata. Tra pochi minuti le guardie la scorteranno fino al luogo nel quale riceverà il resto delle informazioni. Intanto, le consiglio di salutare la sua cella perché potrebbe non rivederla più»
Mi parve di cogliere una nota divertita nella sua voce. Tuttavia, non capii se quella frase fosse una tacita condanna a morte o una grazia.
 
 
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Più si avvicinava il momento della mia liberazione e più mi agitai.
Avevo agito di impulso accettando qualcosa di cui non sapevo nulla e le probabilità che alla fine di tutto ciò a cui mi avrebbero messo di fronte io potessi sopravvivere erano pari a zero.
Al posto che sentirmi intrappolato in un vicolo cieco, però, sentii in me che stavo per trovare l’uscita da quel labirinto di anni di prigione.
Dopo quelle che mi parvero ore, quattro guardie fecero capolino nella mia stanza e, dopo aver completato la classica routine del prigioniero contro la parete opposta, mi fecero uscire.
Attraversammo numerosi corridoi, tutti uguali: pareti monotone come quelle della mia cella, porte sui lati inserite con geometrica precisione e, soprattutto, un silenzio che mi mise i brividi.
La sensazione che mi colpì fu quella che tutti i miei compagni di carcere, o forse solo quelli della sezione di massima sicurezza, sapessero già di essere condannati a morte e, quindi, che fosse inutile emettere anche solo il minimo rumore.
Mi accorsi anche che io mi ero comportato allo stesso modo nella mia permanenza nella sezione “Soggetti pericolosi” e pensai che anche io mi ero sentito già condannato prima di quel momento.
Decisi che avrei escogitato qualcosa, qualsiasi cosa pur di non rimettere piede in quel posto. Né in quella sezione né in quella degli “angioletti”.
Venni scortato fino ad una porta che ci condusse ad cortile interno piccolo come uno spazio utile solo per tenerci i bidoni dell’immondizia. Da qui proseguimmo attraverso delle lugubri scale rimaste nella penombra del cortile e, infine, dentro una stanza.
Questa stanza aveva sei sedie, tutte occupate tranne quella all’estrema sinistra. Di fronte alle persone sedute, un piccolo palchetto sul quale torreggiavano, in piedi, il Consigliere Robinson, il signor Fletcher, il vice-Governatore Zachary Davis e un uomo che non avevo mai visto.
Mi accorsi che nessun occupante delle sedie sembrava essere più grande di me.
Il Consigliere Robinson fece un cenno verso la sedia come per dirmi si prendere posto. Appena lo feci, il signor Davis, che fino a quel momento aveva mostrato un viso impaziente di iniziare a parlare, disse: «Benvenuti ragazzi. Oggi vi diamo l’opportunità di riscattare le vostre colpe. Oggi vi diamo la possibilità di rimediare ai vostri errori dando una mano al Governo. Oggi…»
Non riuscì a terminare la frase perché una ragazza, seduta due posti dopo di me, si sovrappose «Per quale motivo il governo vorrebbe l’aiuto di alcuni ragazzi?»
La faccia dell’uomo si contorse in una smorfia, come se si stesse trattenendo.
«Signorina Holmes la prego di non interrompermi mentre parlo e i metodi che usa il Governo, o le persone con le quali li attua, non sono di sua competenza» poi, riprese il suo discorso «Voi ragazzi verrete addestrati da questi due ex generali e vostri maestri: il signor Oscar Fletcher e il signor Wayne Walsh. Nel prossimo mese loro vi diranno cosa dovrete fare e voi obbedirete. Chi non lo farà» e sottolineò queste parole guardandomi negli occhi «verrà giustiziato»
Il ragazzo seduto accanto a me alzò la mano e parlò quando il Consigliere Robinson alzò un sopracciglio: «E cosa succederà tra un mese?»
Il primo a rispondere, anche se con aria scocciata, fu Walsh «Tra un mese verrete mandati nel Mondo di Sotto per una missione segreta. Durante l’addestramento i noi, oltre a fornirvi nozioni pratiche e teoriche sui combattimenti vi illustreremo, grazie ad alcune immagini prelevate dall’esercito del Governo, alcune tecniche di sopravvivenza per il Mondo di Sotto» fece una pausa, «Ricordate che questo è un addestramento per una missione, non una vacanza»
Con queste ultime parole Walsh si avviò verso l’uscita, seguito dagli altri.
Due ragazzi tentarono di colpire il Consigliere Robinson ma le guardi si misero davanti bloccando il passaggio.
Quando gli individui del Governo furono usciti, le guardie trasportarono a gruppi da tre i ragazzi fuori.
Io finii con la ragazza che era stata chiamata Holmes e il ragazzo seduto accanto a me.
Ci scortarono per numerose scale e corridoi fino a quando non ci ritrovammo sul tetto della prigione.
Qui, due elicotteri erano in funzione e pronti a partire. Ci fecero salire su uno dei due e, quando mi fui seduto, guardai fuori dal finestrino, giusto in tempo per vedere gli altri tre ragazzi salire sull’altro.
Mi stavo per preparare a godere il panorama quando una scienziata poco più grande di me salì sul mezzo. La guardai mentre si avvicinava verso di noi: aveva un viso contratto in un’espressione determinata, come se stesse facendo del suo meglio per completare il suo lavoro. Attorno al viso una cascata di capelli corvini le scendeva fin sotto le spalle. Dietro ad un paio di occhiali che si potrebbero definire “da nerd”, gli occhi sembravano anch’essi tendenti al nero, tanto che quasi e non si vedeva la pupilla. Era vestita con un camice bianco da dottore e in una mano teneva una valigetta, mentre nell’altra una cartelletta.
La dottoressa posò la valigetta sul pavimento dell’elicottero, l’aprì con il coperchio rivolto verso di noi aperto in maniera da occultarmi la vista del contenuto. Trafficò un po’ dietro la valigetta e ne uscì avendo tra le mani una siringa. La avvicinò al braccio di Holmes e gliela infilò all’altezza della spalla.
In pochi istanti la ragazza si addormentò profondamente.
Mi chiesi come mai non aveva provato a resisterle, poi mi accorsi che le mie braccia, come quelle dei miei compagni di elicottero, erano legate al sedile.
La dottoressa addormentò anche l’altro ragazzo, poi si avvicinò a me e, sussurrandomi nell’orecchio qualcosa che non riuscii ad elaborare, mi infilò l’ago nel braccio.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 ***


Mi svegliai al grido di una ragazza, che poi scoprii essere Holmes, e la vidi in piedi sul letto con le coperte davanti a lei che lasciavano vedere solamente la testa.
«Non posso stare un mese in una stanza piena di ragazzi! Puzzano» urlò tutta d’un fiato. Gli altri ragazzi ridevano e uno tra questi le disse: «Calmati Joanne, nessuno ti farà niente qui. Ognuno ha i suoi interessi per non mettere gli ormoni davanti a tutto e rischiare di finire i suoi giorni di nuovo in cella. Rilassati e goditi questo primo giorno di libertà.»
Intanto, io scesi dal letto e mi avvicinai ai piedi di esso, dove vi era un baule.
Prima di arrivare alla mia meta, però, venni fermato da un ragazzo alto che mi porse la mano: «Io sono Sam Reyes. Sono stato dentro per essere entrato nel cortile della proprietà di un ricco signore per recuperare un pallone con il quale stavo giocando. Te, invece, devi essere quello che ha nascosto il fratellino. E che poi si è ribellato alle guardie del carcere, vero?» non aspettò nemmeno che rispondessi prima di aggiungere: «Piacere di conoscerti»
Mi prese la mano e me la strinse con forza. Joanna Holmes, intanto, si era calmata e prendeva dei vestiti da un baule al bordo del suo letto identico al mio. Poi, si avviò verso il bagno situato in fondo alla stanza, guardando in cagnesco chiunque le capitasse a tiro.
Mi soffermai un momento ad osservare la stanza nella quale mi trovavo: si poteva tagliare perfettamente per lungo e metterla davanti ad uno specchio e il risultato sarebbe stato lo stesso.
Sulle pareti lunghe appoggiavano le testiere di tre letti per lato, tutti con ai piedi un baule e rimboccati delle stesse coperte. In alto su entrambe le pareti, una finestrella con le sbarre tipiche di una cella dava su un cielo grigio pieno di nuvole cariche di pioggia. Su un lato corto della stanza, una porta di legno permetteva l’accesso al bagno, chiaramente distinto dal foglio attaccato alla porta con scritto: “WC”. Opposta al bagno, una porta scorrevole di vetro mostrava al proprio esterno uno stretto corridoio grigio.
Passai accanto a Sam Reyes e aprii il mio baule. All’interno c’era una tuta elastica nera con alcuni inserti blu. La tuta era identica a quelle di Sam e Joanna, ma diversa da quelle degli altri tre ragazzi per il colore degli inserti, che erano, invece, rossi.
L’altra ragazza presente nella stanza obbligò Sam ed un altro ragazzo, uno basso e magro come uno stecchino, a tenere una delle coperte del suo letto a mo’ di tenda per permetterle di cambiarsi senza essere vista e con la promessa che, se soltanto uno dei due ragazzi avesse osato sbirciare, l’avrebbe letteralmente disintegrato.
Pensai che fosse una situazione potenzialmente verificabile, in quanto la ragazza possedeva una stazza possente e robusta, composta da braccia grandi e muscolose quanto quelle di un lottatore di sumo. I capelli erano tagliati in una cresta castana da maschio e negli occhi le si leggeva una determinazione mai vista in nessun altro. Decisi di non mettermi mai contro a quella ragazza.
Due letti più in là, seduto sul letto, c’era un altro ragazzo, quello seduto accanto a me nella sala in cui ci avevano spiegato la nostra missione.
Aveva i tipici lineamenti associati ad un afro-americano, due occhi neri e i capelli con treccine lunghe fino alle spalle. Dalla tuta con gli inserti rossi, che aveva già indossato, scorsi un accenno di muscoli sulle braccia.
Mi chiesi se anche a me la tuta sarebbe stata così attillata una volta indossata e sperai che non sarebbe stato così, in quanto non avevo molti muscoli, nonostante dall’inizio della mia permanenza in cella avevo iniziato a frequentare la palestra del carcere minorile e, dal mio isolamento, avevo continuato ad esercitarmi per mantenermi in forma. Sinceramente, nemmeno io sapevo per quale motivo, dopotutto non sarei mai dovuto uscire da quel posto. Tuttavia, mi congratulai con me stesso per avere mantenuto costante il mio allenamento e sperai che in questa missione mi sarebbe servito a qualcosa.
Joanna uscì dal bagno con la sua tuta nera-blu addosso. Le calzava alla perfezione, risaltando le sue curve e rendendola davvero sexy.
Non volevo pensare a queste cose in questo momento, in quanto il mio unico pensiero sarebbe dovuto essere quello di completare la missione.
Quando mi passò accanto, fece crollare tutti i miei tentativi di dissuadermi dal pensare a lei con un semplice occhiolino. Seppi di essere diventato rosso pochi secondi dopo quando, dopo averla seguita con lo sguardo, intravidi con la coda dell’occhio Sam che mi guardava con un sorrisetto malizioso. Mi si parò davanti e mi disse: «Rassegnati stallone, se ci provi con quella come minimo finisci nell’angolino a piangere con una guancia tutta rossa.» rise di gusto «Lei era dentro perché ha ucciso il suo stupratore e da quel momento qualsiasi uomo cha abbia mai provato ad avvicinarsi le ha prese» rise nuovamente.
Decisi di lasciare, almeno per il momento, gli ormoni da parte e di usare la testa.
Proprio in quell’istante, una sirena assordante rimbombò nella stanza. Mi misi subito le mani sulle orecchie, cercando di attutire il suono penetrante. Dopo quella che mi parve un’eternità, smise di urlare.
In pochi secondi notai la fonte del rumore: due altoparlanti piazzati negli angoli alti della stanza, sulla parete della porta che dava al corridoio.
Una voce esplose dagli altoparlanti: «Buongiorno ragazzi. Tra poco inizierà il vostro addestramento. Tre di voi hanno una tuta nera e blu, mentre gli altri tre una nera e rossa. Quelli con gli inserti blu verranno addestrati, per le prime due settimane, dal maestro Flemling, mentre per lo stesso lasso di tempo gli altri avranno l’onore di imparare dal maestro Walsh. Ricordo anche che verrete costantemente monitorati, sia in palestra che nel dormitorio. Le guardie arriveranno tra cinque minuti quindi, fatevi trovare pronti»
Appena la voce smise di parlare, mi vestii in fretta per non rischiare di rimanere indietro.
Solo al termine del mio cambio di abiti mi resi conto di essermi spogliato e rivestito di fronte a tutti. Non feci in tempo, però, a pensare troppo alle conseguenze del mio gesto, perché entrò una dozzina di guardie, tutte armate di mitra.
Seguendo ciò che fecero gli altri, misi le mani dietro la nuca e mi feci scortare da due guardie.
Percorremmo una lunga serie di corridoi e scale fino a raggiungere una doppia porta che aveva l’aria di non poter essere sfondata nemmeno con un camion.
Sei guardie, quelle che scortavano i ragazzi con gli inserti rossi, si fermarono davanti alla porta con i propri custoditi.
Io, Sam e Joanna venimmo, invece, trascinati lungo altri corridoi e altre scale, uscimmo all’esterno della struttura e rientrammo in un altro edificio. Qui, prendemmo un ascensore con un'unica altra meta. Salimmo per diversi minuti, poi l’ascensore si fermò e le guardie ci ordinarono di andare avanti.
Avanzammo. La sala in cui eravamo entrati era circolare e aveva un pavimento fatto di vetro. Dal vetro si vedeva solamente uno strato di ferro. Al centro della stanza c’erano tre cilindri trasparenti aperti. Di fronte ad essi, una scrivania di legno grezzo che stonava nettamente con l’aspetto moderno del resto della stanza. Non si poteva intravedere la superficie della scrivania, in quanto ogni centimetro era tappezzato da fogli, libri o appunti scarabocchiati in una scrittura illeggibile. Seduto a scrivere di fronte alla scrivania, c’era Oscar Flemling. Alzò appena lo sguardo quando entrammo e ci ordinò di metterci su delle “X” che prima non avevo notato, rivolti verso la scrivania.
Fu allora che il maestro iniziò il suo discorso: «Ragazzi, grazie di essere qui. È un grande onore potervi istruire per conto del Governo. E per voi è un grande onore lavorare per il Governo.» mi vennero in mente un sacco di risposte sarcastiche, ma stetti zitto. «Il mio addestramento, al quale prenderete parte nelle prossime due settimane, si basa sulla sopravvivenza.» Si mise di fronte a noi.
«Distendete il braccio per favore» ci ordinò e tutti e tre obbedimmo.
Non capii come mai ma da quando mi avevano messo quell’ago nel braccio sull’elicottero mi sentivo un cagnolino docile e pronto a fare qualunque cosa mi ordinassero.
Pure gli altri ragazzi sembravano messi come me.
Flemling tornò dietro alla scrivania, aprì il cassetto e prese tre siringhe. Le poggiò sulla scrivania e ne riempì una con del liquido prelevato da una boccetta anch’essa nascosta nel cassetto.
Io mi trovavo nel mezzo, quindi avevo la possibilità di sapere che effetto aveva il liquido che ci stava per iniettare.
Il maestro infilò l’ago nel braccio di Sam, poi spinse lo stantuffo fino in fondo.
La reazione del ragazzo fu immediata: prima si piegò su se stesso, poi gli cedettero le gambe e riuscì a mantenersi sulle ginocchia. Infine, vomitò del liquido di un colore misto tra giallo, marrone e verde.
Flemling sembrò soddisfatto e si spostò adagio verso di me.
Ero talmente disperato da finire ad accusare tutto il mio corpo di ammutinamento nei confronti del mio cervello. Comandai le braccia ma non ottenni nessuna risposta e fu lo stesso con le gambe.
Si avvicinò e, quando fu a pochi centimetri da me, mi sussurrò nell’orecchio «Un giorno mi ringrazierai».
Mi ricordo poco di quello che accadde in seguito. Pensai che il mio comportamento fosse lo stesso di quello di Sam e mi costrinsi a lasciarmi andare, facendo esattamente quello che il ragazzo aveva compiuto prima di me.
Non pensai a Joanna che, accanto a me, rimaneva immobile proprio come avevo fatto io prima e con il mio stesso problema.
Pensai ai miei genitori, che probabilmente pensavano ancora che io fossi in una cella a passare gli ultimi giorni in attesa del processo.
Pensai a mio fratello, ma senza fargli colpe per ciò che mi è accaduto, ma ricordando il suo sorriso, e sperando di rivederlo prima che mi facessero altre torture.
Infine, quando ormai il mio unico desiderio fu quello di svenire, ripresi velocemente conoscenza.
 
 
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Quando riuscii a rialzarmi in piedi, la scena che mi si presentò davanti fu stranissima: Joanna giaceva distesa al suolo, probabilmente nella fase in cui si pensa solamente a svenire oppure priva di conoscenza. Accanto alla scrivania, invece, Flemling teneva una siringa puntata sul collo di Sam.
«Vi voglio aiutare, credetemi» disse il maestro. Io non ne ero tanto convinto, ma per il bene di Sam e di Joanna che, come me, avevano subito le stesse torture, risposi: «Come facciamo a fidarci di te? Ci hai infilato un ago nel braccio e adesso tieni in ostaggio una persona che dovrebbe fidarsi di te!»
«Posso spiegarvi tutto una volta fuori di qui, se me lo permetterete. Per il momento, però, sarebbe meglio scappare prima che si accorgano» rispose Flemling.
L’ultima cosa che volevo fare era seguire quell’uomo che lavorava per il Governo, ma le circostanze non mi lasciarono altra scelta.
Annuii, presi Joanna per un braccio e me la caricai di peso sulle spalle. Persino quella ragazza tutte curve non era leggera, oppure erano ancora i residui del liquido della siringa.
Barcollando, andammo verso l’ascensore ma, giunti in prossimità delle porte, queste si spalancarono, riversando nella sala numerose guardie armate.
Flemling urlò sopra le voci concitate delle guardie «Seguimi»
Lo seguii fino al centro della stanza. Si mise dietro la scrivania e premette un pulsante nascosto. Poi, si avvicinò e mi spinse all’interno di uno dei cilindri trasparenti.
Cercai di stare in equilibrio, ma il peso della ragazza sulle mie spalle mi trascinò con se.
In men che non si dica mi ritrovai all’interno del cilindro con la porta che stava scendendo bloccandomi all’interno.
Mi guardai intorno, sperando in un ultimo aiuto da parte di Flemling. Lo vidi in uno degli altri due cilindri che agitava le mani per dirmi qualcosa che io non riuscii a comprendere.
Con stupore, vidi Sam nel terzo cilindro, sbalordito quanto me.
In pochi secondi successe l’inevitabile: un colpo di mitra rimbalzò sul vetro antiproiettile del cilindro di Flemling e lo colpì nella pancia. La forza del colpo, però lo scaraventò all’indietro e colpì con la nuca la parete del cilindro. Vidi lentamente la vita abbandonarlo.
Poi, le porte dei cilindri scesero fino in fondo e il cilindro venne scaraventato con forza verso il basso.
Non capivo quello che stavo vedendo vista la elevata velocità del mio bizzarro mezzo di trasporto.
Il cilindro prese velocità e venni scaraventato contro il soffitto. Vidi avvicinarsi il suolo e sperai di rallentare. Capii che la mia speranza fu vana quando iniziai a contare le formiche sulla superficie. Dopodiché, svenni di nuovo.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 ***


Fu la puzza di fumo la prima cosa che sentii al mio risveglio. Prima di aprire gli occhi, però, mi resi conto di alcune informazioni fondamentali: la prima era che mi trovavo appoggiato su una superficie liscia, la seconda che il fumo stava iniziando a inebriarmi i sensi e, la terza e più importante, che avevo un fortissimo dolore alla gamba sinistra.
Considerai, quindi, l’opzione di aprire gli occhi e la scena che mi balzò alla vista, dopo che l’accecamento da luce del sole fu svanito, era composta da un cratere con come centro il mio cilindro, come se l’impatto avesse provocato un simile danno.
Da sdraiato, vedevo un mio debole riflesso sulla parete del cilindro, e mi venne da vomitare. La mia faccia aveva più tagli e sangue che pelle pulita e priva di escoriazioni. Il danno più grave era una scheggia di vetro conficcata appena sopra il sopracciglio destro. Da questa ferita intravedevo del sangue fuoriuscire con ritmo copioso. Dalle dimensioni approssimative, che avevo calcolato dal riflesso, della scheggia presunsi che doveva essere penetrata nella mia faccia per almeno tre centimetri.
La parte superiore della fronte non se la passava molto meglio in quanto un livido di un brutto color violaceo torreggiava sul colore naturale della pelle.
Il labbro inferiore aveva un taglio verticale non profondo, ma esteticamente evidente.
Alzai lo sguardo al di sopra della mia testa, dove Joanna giaceva immobile ma apparentemente senza gravi danni.
Decisi che era il momento di tentare di alzarmi.
Fu una delle scelte più necessarie e allo stesso tempo peggiori che io avessi mai fatto. La gamba pulsava come se fosse il cuore e, in contemporanea, un acuto mal di testa non faceva che peggiorare la situazione.
Tenendomi appoggiato al vetro scheggiato, mi misi in piedi nella miglior posizione possibile, date le circostanze.
Per prima cosa, decisi di controllare lo stato di Joanna, considerando che era l’unica persona che avrebbe potuto darmi una mano.
Era distante solo pochi centimetri, ma ci impiegai comunque un sacco di tempo per arrivare da lei.
Giunto alla mia destinazione, mi abbassai con delicatezza, cercando di caricare il meno possibile sulla gamba sinistra.
Le punzecchiai la pancia, cercando di non compiere movimenti bruschi.
Ci vollero diversi colpetti ma, alla fine, tossì sangue direttamente sulla mia faccia e si svegliò.
«Grazie» mi disse con voce roca smorzata dai residui della tosse. Nonostante questo, non vi trovai le tracce di risentimento che avevo notato nel dormitorio quella mattina.
Mi ricomposi e mi scostai un po’ da lei. Poi, mi rimisi in piedi e le diedi una mano a rialzarsi. Sembrava abbastanza stabile, forse addirittura meglio di me.
«Cosa è successo?» mi chiese.
Ci pensai un attimo prima di risponderle, perché anche io non avevo ancora metabolizzato gli avvenimenti accaduti.
Le raccontai tutto, dal mio risveglio dopo la puntura di Flemling all’impatto con il suolo e al successivo risveglio.
Joanna mi ascoltò attentamente e mi guardò negli occhi per tutto il racconto, mettendomi in evidente imbarazzo. Io non la guardai molto, in quanto riuscivo meglio a parlare guardando il terreno marrone scuro di terra bagnata o i resti di ferro del cilindro. Mi accorsi, però, del suo sopracciglio alzato quando le dissi che l’avevo sollevata di peso e trasportata sulle spalle.
Al termine del racconto, aspettò attimi che parvero interminabili prima che lei rispondesse: «Ok, quindi presumo che qui vicino ci siano anche Flemling e l’altro ragazzo che era con noi.»
Sembrava vivace e pronta all’azione.
Io, invece, avevo intuito solamente una cosa e sarei stato pronto a scommetterci la vita che, in qualche modo, eravamo lontani da New Town e, la natura selvaggia ed incontaminata vicino a noi era proprio il Mondo di Sotto.
 
 
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Dopo che ci fummo sistemati il meglio possibile e puliti da sporco, schegge e fuliggine, uscimmo dal cratere.
A pochi passi da noi, uno strapiombo alto più di cento metri dava su un bosco vastissimo, che si stendeva a perdita d’occhio.
Dietro, alti alberi ci annunciavano che il bosco proseguiva anche in quella direzione.
Un rivolo di fumo partiva dal cratere ai nostri piedi e si innalzava fino a sparire nel cielo limpido.
Dalla posizione del sole intuii che fosse pomeriggio inoltrato.
Guardammo al di sopra del bosco e notammo che da qualche parte, in mezzo agli alberi, un altro rivolo di fumo compariva e si innalzava.
«Là» disse Joanna indicando in quella direzione e anticipandomi per un secondo.
Annuii e risposi: «Sì, dovrebbero essere caduti in quella direzione. Andiamo»
Joanna partì di corsa ma si fermò pochi passi più avanti, quando notò che io non avevo la possibilità di correre.
Imprecò, ma mi aspettò e camminò con me appena le arrivai abbastanza vicino.
Dal cratere non sembrava, ma ci volle più di un’ora per arrivare alla fonte del fumo che, come avevamo intuito era una capsula come la nostra.
Anch’essa era rotta ma, all’interno, non c’era nessuno.
Joanna scese di corsa all’interno di quel cratere, questa volta senza aspettarmi.
Arrivata in fondo, osservò la scena, poi si rivolse a me: «C’è una pista di sangue che parte dalla capsula e risale verso di là» e indicò un punto dalla parte opposta del buco nel terreno, «io dico di seguirla»
Feci segno di aver capito e mi incamminai costeggiando il bordo del cratere per non sforzare la gamba che, nel frattempo, non era migliorata.
Seguimmo la striscia di sangue fino a quando, in una pozza di liquido denso rosso, non trovammo Sam.
La scheggia piantata nella mia faccia che sembrava tanto brutta non era nulla in confronto al pezzo di vetro di una quindicina di centimetri che sporgeva dalla spalla di Sam. Il ragazzo sembrava incosciente e profondamente addormentato, anche se intuivo che fosse svenuto.
Mentre lo fissai imbambolato, Joanna si abbassò per osservarlo meglio da vicino. Cercai di seguire il suo esempio ma, appena provai a piegare la gamba, un dolore lancinante mi prese tutto il corpo, costringendomi a raddrizzarmi nuovamente.
«Ha una forte emorragia alla spalla e penso che l’altra sia lussata» mi disse Joanna mentre torreggiava sul corpo di Sam.
Pensai che fosse meglio svegliarlo prima di provare qualsiasi intervento: «Non sarebbe meglio aspettare che si svegli?»
Joanna mi guardò in cagnesco e mi chiesi come mai avesse questi sbalzi d’umore continui: «Se non lo curiamo ora perderà troppo sangue»
«Togliti la maglietta» mi disse con fare autoritario. Memore dell’esperienza di quella mattina nel dormitorio, non avevo intenzione di spogliarmi nuovamente in pubblico.
«Per quale motivo non lo fai tu?» chiesi a Joanna, intuendo la sua intenzione di utilizzare la maglietta come fasciatura per fermare l’emorragia di Sam.
Nonostante la situazione, mi scoprii divertito per averla stuzzicata e un po’ imbarazzato per la richiesta inopportuna.
Solamente il suo sguardo irritato e del tipo “fallo altrimenti ti ammazzo” mi fece pentire di averle risposto a tono.
«Girati» le dissi e, vedendo nuovamente la sua espressione aggiunsi: «per favore»
Me lo concesse e mi sfilai la maglietta. La mia eccessiva magrezza aveva preso piede da quando mi avevano arrestato, quindi l’accenno di tartaruga che si vedeva in corrispondenza degli addominali non era dovuto all’allenamento ma solamente alla mancanza di grasso. Ringraziai comunque i pochi esercizi che avevo fatto nella mia cella di isolamento, che mettevano in risalto qualche accenno di bicipiti.
Nonostante ormai avessi dovuto averne, nessun pelo faceva capolino sul mio petto.
Non notai che Joanna si era già voltata fino a quando non la sentii fare un verso di scherno. Aveva un’espressione divertita senza qualsiasi traccia corrucciata che aveva pochi minuti prima.
Nonostante l’aria non fosse particolarmente calda, mi chiesi come mai la temperatura si fosse alzata così bruscamente.
«Idiota» le dissi mentre le tiravo la maglietta. Lei la prese e ne strappò uno dei pezzi più integri che c’erano.
Mi chiesi come mai, nonostante la caduta che avevamo subito, la maglietta non si fosse strappata tutta.
Dopo aver rimosso il pezzo di ferro e finito di medicare Sam, Joanna iniziò a chiamarlo a gran voce per svegliarlo.
Ci vollero diversi minuti prima che ciò accadesse e, quando ci riuscì, Sam non sembrava in grado di sostenere una conversazione per via di un labbro veramente gonfio che non avevo notato prima.
«Devo sistemarti l’altra spalla» gli disse con una gentilezza che non fece altro che domandarmi di nuovo come mai aveva questi sbalzi di umore continui.
Sam annuì nonostante la consapevolezza del dolore e si mise il resto della mia maglietta strappata in bocca per morderlo al momento del dolore.
Il dolore arrivò nel momento in cui Joanna gli spostò con decisione il braccio, rimettendogli la spalla nella posizione naturale. L’urlo di Sam squarciò il cielo limpido che si stava avvicinando al colore arancione del tramonto che avevo letto in una descrizione dei tramonti di un vecchio libro risalente al periodo in cui non c’era il Mondo di Sopra.
Nel Mondo di Sopra non c’erano tramonti arancioni o albe colorate, in quanto si era talmente in alto che il sole tramontava presto e sorgeva tardi.
Conoscevo solamente certi colori dai libri che leggevo prima e durante la mia prigionia.
Abbassai lo sguardo nuovamente sui miei due nuovi amici e notai che Sam era svenuto di nuovo per il dolore, mentre Joanna stava provvedendo ad effettuare un’altra fasciatura sulla spalla appena sistemata (ovviamente con la mia maglietta).
«Forse è meglio se ci fermiamo qui a dormire stanotte. Domani andremo a cercare Flemling» mi disse. Non capii come facesse a stare così calma e indifferente nella situazione surreale e, forse, fu proprio la sua calma e determinazione che mi bloccò quando le stavo per rivelare che Flemling fosse morto.
«Va bene» le risposi, «Vado a cercare un po’ di legna per fare un fuoco. Ho letto su un libro come si accende». Sperai che ciò che avessi letto sarebbe funzionato quella notte.
 
---
 
Feci ritorno al nostro accampamento provvisorio con le braccia piene di legno da ardere e mi misi di impegno con Joanna ad accendere un fuoco, dopo averle riferito cosa avevo letto.
Non era stato complicato trovare legna, considerando che eravamo in un bosco vastissimo. Inoltre, nella mia passeggiata ero anche riuscito a cogliere qualche mela da alcuni alberi.
Dopo quasi un’ora di tentativi riuscimmo ad ottenere un fuocherello scoppiettante che ci permise di mangiare una cena con mele con buccia, mele con buccia sputata e mele scottate.
Sam riuscì a mangiare solamente pochi morsi di mela prima di riaddormentarsi per la stanchezza.
La notte prese in fretta il posto del giorno e una vivida luna piena fece capolino nel cielo senza stelle. Io e Joanna non parlammo molto né durante la cena né dopo, fino a quando Joanna annunciò che si sarebbe stesa per dormire.
Per fortuna la notte non comportò un calo drastico della temperatura, nonostante una lieve brezza fresca si inoltrò intorno a noi.
Cercai di restare sveglio ancora per un po’, anche perché avevo intenzione di montare la guardia fino a quando non fossi stato troppo stanco da chiedere il cambio a Joanna. Il mio tentativo di restare sveglio durò poco e ben presto mi ritrovai steso anche io con le labbra pesanti.
Non feci in tempo a chiamare la mia compagna di avventura prima di addormentarmi.
 
---
 
La prima volta che mi svegliai fu per un fastidio che sentivo alle costole. Abbassai lo sguardo e notai un piccolo rigonfiamento scuro che si muoveva con fare sospetto sul mio corpo. Il chiarore della luna non mi permetteva di vedere di più. Con un rapido movimento colpii l’animaletto, che morì sotto alla mia mano.
Il rumore, però, svegliò Joanna che, dopo vari insulti per la mia indecenza nel muovermi, si alzò in piedi. La vidi nella penombra spostarsi e andare a sedersi a bordo dello strapiombo che dava sul bosco sottostante.
Fui indeciso se rimettermi a dormire o andare a vedere come mai quest’improvviso allontanarsi e stavo pensando su cosa scegliere quando dal l’ombra in corrispondenza di Sam si udì: «Vai, ti conviene».
Mi dissi mentalmente di ringraziare Sam per il consiglio e mi alzai con la minor goffaggine possibile concessa dalla gamba ancora dolorante, anche se dovetti ammettere che era migliorata dopo il corto riposo di poco prima.
Andai verso Joanna e mi sedetti accanto a lei, con le gambe che penzolavano in aria verso il bosco sotto.
«Vattene» mi disse lei mentre appoggiavo le natiche a terra, ma il suono della sua voce lasciava trapelare che l’affermazione non era veramente lo specchio di ciò che voleva.
Mi sedetti lo stesso e ignorai il suo sguardo corrucciato. Per una decina di minuti rimanemmo seduti a guardare il bosco fino all’orizzonte, dove si intravedeva la base di una montagna.
Decisi di spezzare il silenzio: «Cos’hai?»
«Niente che ti riguardi» rispose. Odiavo quando faceva così. Per quel poco che la conoscevo eravamo insieme nella stessa situazione, quindi non c’era bisogno di fare così. Stavolta fu il mio turno di essere arrabbiato: «Quando ti deciderai a ricevere aiuto, sai dove trovarmi» e mi alzai.
Fui bloccato nel tentativo di allontanarmi da lei che, prendendomi per un braccio, sussurrò «Resta, per favore»
Adesso si vedeva la ragazza fragile che per poco avevo scorto dietro la richiesta di andare via di quando mi ero seduto.
«Non guardarmi, altrimenti non ti dico nulla» mi disse, facendomi rendere conto che ero imbambolato a osservarla. Distolsi lo sguardo controvoglia e mi costrinsi a guardarmi i palmi delle mani ruvidi e sporchi. Mi resi conto che non avevamo bevuto nulla da un giorno e che il succo delle mele non ci avrebbe fatto resistere ancora a lungo.
«Tu lo sai come mai ero dentro, vero?» esordì. Annuii. «Ero solo una delle tante che aveva stuprato quell’uomo. Ma io, tra tutte, l’ho cercato. C’è voluto un po’ di tempo per trovarlo, perché non agiva mai nello stesso posto due volte. Tutto era premeditato. Sceglieva le ragazzine da un vecchio sito web che scansiona i profili dei social network e li filtra. Lui aveva perennemente impostato il filtro dei tredici anni. Non serve un genio in psicologia, però, per capire che una ragazza con i miei problemi famigliari non è mentalmente stabile» Vide il mio sguardo interrogativo e aggiunse, come se fosse una frase che si sente tutti i giorni o, magari, lei era abituata a dirla tutti i giorni: «Mio padre ha ucciso mia madre davanti ai miei occhi solamente perché quella sera “non ne aveva voglia”.
«Io avevo sei anni, tanta paura di lui ed ero troppo sconvolta per dire la verità alla polizia, che prese per vero il fatto che mia madre fosse caduta dalle scale, come gli disse mio padre. La paura mi fece crescere troppo in fretta per la mia età e finii in giri poco raccomandabili con ragazzi che avevano vent’anni quando io ne avevo dodici. Poi, la settimana dopo che ebbi compiuto tredici anni, mentre aspettavo quello che era il mio ragazzo in un vicolo vicino casa, arrivò quell’uomo. Mi chiese se avessi bisogno di qualcosa e io gli dissi di no e che stavo aspettando il mio ragazzo. Insisteva e si avvicinava. Provai a chiamare al telefono il mio ragazzo ma il telefono era spento. L’uomo mi raggiunse e cercò di toccarmi. Cercai di scansagli la mano e mi disse che preferiva le ragazze che opponevano resistenza. Era molto corpulento e forte e riuscì a bloccarmi e…»
Vidi che il viso di Joanna era rigato dalle lacrime. Colmai la distanza che c’era tra noi e le appoggiai, titubante, un braccio attorno al collo. Non mi disse si spostarmi. Vidi che stava per proseguire il racconto e cercai di fermarla: «Non sei obbligata a dirmelo» le dissi.
«Tranquillo, mi fa bene parlarne con qualcuno che non mi giudica per come ero o per quello che facevo» rispose. Proseguì: «Quando si fu stancato di abusare di me mi lasciò distesa a terra nel vicolo. Mi trovò mio padre dopo ore, mentre io aspettavo ancora il mio ragazzo che aveva pensato bene di darmi buca proprio quel giorno.
«Non accettai l’aiuto di mio padre, mi alzai con le mie gambe tremanti e me ne andai a casa barcollando, da sola. Presi qualche cambio di vestiti e me ne andai sul primo pullman diretto a New Town.
«Vissi per tre anni per strada, ma nessun uomo mi si avvicinava più se io non lo volevo. E l’unico che lasciavo avvicinare era il padrone della pizzeria che mi ha nutrito per tre anni, fino al giorno che ho deciso di tornare indietro.
«Scoprii che mio padre si era suicidato lasciando un messaggio dove ammetteva l’omicidio di mia madre e dove si scusava per il suo comportamento con me. Mi fu indifferente. Presi la pistola che sapevo nascondesse nel cassetto della biancheria e uscii. Dopo pochi minuti di strada a piedi trovai il bastardo seduto in un bar con moglie e due gemelli di pochi mesi. Accanto a lui sedeva il suo migliore amico: il ragazzo che mi aveva dato buca quel giorno. Entrai nel locale e andai con passo deciso verso il bastardo. Notai che non mi riconobbe fino a quando non gli fui a pochi passi. Presi la pistola e gli sparai al cuore. Poi spostai la mira di pochi centimetri e sparai al mio ex. Non scappai. Non sapevo nemmeno dove andare. Aspettai le manette che non tardarono ad arrivare. Scoprii più tardi che il mio ex ragazzo non era morto ma solamente ferito ad una spalla.»
Restammo in silenzio per quella che parve un’ora, poi le dissi «mi dispiace»
«Non dispiacerti», rispose, «Io mi meritavo di essere arrestata. Mi merito di essere qui. Tu no. Non è mai stato rivelato il nome del fratello del bambino giustiziato ma ho capito subito che fossi tu. Tu non meriti di essere qui»
Si alzò, mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò a dormire.
Ebbi l’impressione che mi avesse sussurrato un «Grazie» mentre mi dava il bacio.
 
---
 
Il mio secondo risveglio fu quello traumatico. A liberarmi dal morso del sonno fu un urlo di Joanna. Mi svegliai e cercai di mettere a fuoco il mondo alla luce del sole mattutino, ma quando riuscii a farlo vidi solamente due paia di gambe nude dalla metà coscia in giù che mi sovrastavano. Poi, solamente il buio più totale che mi fece capire che mi avevano messo qualcosa in testa. Venni immobilizzato alle braccia e alle gambe, con i conseguenti dolori alla gamba dolorante. Poi, venni sollevato di peso e portato come un sacco di patate.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 4 ***


Il dondolio dei movimenti e il continuo sbattere del mio stomaco contro la
spalla del mio trasportatore mi fecero quasi vomitare la cena a base di mele
della sera precedente.
«Lasciami and…» provai a urlargli, ma ricevetti solamente un colpo in faccia.
Non riuscivo nemmeno a capire dove stessimo andando, in quanto la posizione
distesa sulla spalla di una persona ed il conseguente dondolio non ti
permettono di capire le svolte effettuate.
Sentivo gli urli di Sam come se venissero da un altro pianeta e mi chiesi come
fossero messi lui e Joanna. Ripensai a lei.
Mi era piaciuto ascoltarla mentre raccontava del suo passato. Mi aveva fatto
sentire parte di lei.
Avevo il sospetto che non fossero tante le persone con le quali si fosse aperta
così tanto, forse nessuna a parte me.
Avevo anche un altro sospetto che riguardava me stesso, ma mi dissi che non
fosse il caso di pensarci in quel momento.
Avevo altro a cui pensare.
Per esempio, sospettai che il mio trasportatore non sarebbe stato troppo
contento di avere il mio vomito di mela sulla spalla.
Passò un’altra buona mezz’ora prima che ci fermammo. Venni sbattuto per
terra e, poi, trascinato fino a quello che supposi fosse un albero. Sentii che mi
legavano le braccia e, di seguito, mi tolsero il cappuccio che avevo in testa.
Mi trovai davanti un uomo di una decina di anni più grande di me, di
carnagione mulatta e con delle braccia possenti.
Indossava solamente uno straccio che copriva a malapena il sedere e il davanti
e mostrava troppo per i miei gusti.
Il suo corpo era pieno di tatuaggi di un colore azzurro che risaltava di una bella
sfumatura sulla carnagione più scura rispetto alla mia.
Dopo pochi minuti arrivò un uomo simile al primo con Joanna su una spalla e la
legò al mio stesso albero, così vicini che sarei riuscito a toccarle la spalla con la
mia. Sentii il suo respiro affannoso.
«Joanna…» cercai di dirle, ma venni fermato nuovamente dal mio trasportatore
con un colpo in faccia. «Stai zitto o ti faccio fuori» mi disse.
Dopo quell’episodio aspettammo.
Aspettammo per quelle che parvero ore mentre una serie di passi risuonavano
alle mie spalle, dietro l’albero.
Supposi che dietro stesse succedendo qualcosa di importante a sentire i
rumori, ma mi avevano escluso la vista da ciò che accadeva nel momento in
cui mi avevano legato rivolto verso il bosco.
Passarono i minuti in una quiete che mi parve anormale, considerando il
disastro degli ultimi due giorni.
Fino a meno di una settimana prima mi ritrovavo in un’altra quiete, quella della
mia cella dove nessuno mi disturbava e il mondo mi aveva dimenticato.
Adesso mi ritrovavo nella quiete di un destino che nemmeno conoscevo.
Condannato a vagare nel Mondo di Sotto per conto di persone che mi avevano
segregato in una cella di isolamento per anni e anni.
Dopo un sacco di tempo, tanto che il sole era alto in cielo e il mio stomaco
brontolava più del dovuto per la fame, vennero a prenderci.
Feci un disperato tentativo di liberarmi, ma servì solamente a prendermi un
altro colpo allo stomaco. Se l’avessi preso prima avrei vomitato la cena, ma il
mio stomaco, ormai, era vuoto.
Questa volta mi legarono le mani e mi dissero «Cammini da solo» prima di
farmi alzare con la forza. Sentii che altri uomini discutevano su chi avesse
dovuto trascinare Joanna, in quanto svenuta.
Appena mi girai, notai il villaggio.
Non era difficile da notare, considerando che vedevo capanne davanti a me e
sia a destra che a sinistra.
Mi balzò all’occhio subito il fatto che non ci fossero recinzioni a delimitare il
luogo, perciò intuii che non dovessero subire attacchi di nessun genere da
anni.
Un secondo sguardo, un po’ più accurato, mi fece capire dove mi stavano
portando: un edificio di gran lunga più grande delle capanne.
Il colore grigio anonimo si distingueva nettamente dal marrone scuro del legno
utilizzato per le capanne.
Un uomo alto e di corporatura robusta, con un copricapo sgargiante di color
giallo e verde in testa e con un gonnellino un po’ meno svolazzante
dell’indumento indossato dall’uomo che mi aveva trasportato fino a qui, ci
attendeva all’ingresso dell’edificio grigio.
Quando arrivammo ci fece cenno di entrare.
Dopo aver varcato la soglia mi ritrovai in una stanza molto simile ad una sala
di attesa di un ospedale.
Sulla sinistra vi era un’altra stanza delimitata da un vetro sporco. Su un
cartello nero al muro si intravedeva una scritta “RECEPTION” con le lettere (un
tempo probabilmente bianche, ma adesso sporche) su uno sfondo nero.
Alla mia destra vi era una sala con delle sedie ammucchiate in un angolo.
Di fronte a me un corridoio che iniziammo a percorrere.
Prendemmo la seconda porta del corridoio e mi rassicurò il fatto che, rispetto
alla stanza dietro la prima porta aperta, in questa non vi erano armi di nessun
tipo.
Mi fecero sedere su un lettino medico, mentre Joanna venne distesa su un
altro.
Una donna, piena di tatuaggi azzurri, entrò.
«Devo curarti» esordì.
Capii che era inutile opporre resistenza, perciò le feci cenno di procedere.
Mi curò i tagli e le contusioni poco gravi, poi il taglio in faccia e, infine, iniziò a
lavorare sulla gamba.
Trattenni un urlo al dolore lancinante che mi penetrò ma resistetti. Dopo un
attimo la gamba diventò insensibile.
Continuò a lavorare sulla mia gamba per una buona mezz’ora, poi mi mise una
fasciatura stretta.
«Dovrai tenere la fasciatura e non sforzare troppo la gamba per qualche
giorno. Se avessi la vecchia tecnologia ce la caveremmo con un gesso e una
settimana.» mi disse.
Si alzò e chiese a una delle persone che ci avevano scortato di andare a
prendere le stampelle. Dopodiché, andò verso Joanna e si mise a curare lei.
Al termine delle cure ricevute la fece rinvenire e, dopo un breve stordimento
iniziale, la fece alzare a sedere.
Supposi che Joanna avesse capito di restare tranquilla perché non fece nessun
gesto violento nei confronti del medico.
«Aspettate un attimo qui» ci disse la donna, poi uscì insieme alla nostra scorta
e chiuse a chiave la porta.
Feci per alzarmi dal lettino ed andare verso Joanna ma non feci in tempo ad
alzarmi che il medico rientrò, accompagnata dall’uomo con il copricapo in
testa.
«Quando la tua gamba guarisce ve ne andate da qui» esordì l’uomo.
Mi stupì questo suo inizio, in quanto l’accoglienza delle altre persone mi aveva
fatto credere in un altro atteggiamento di questo gruppo.
«Chi siete e perché siete qui?» proseguì l’uomo, rivolto a me.
Ci misi un attimo a rispondere, in quanto nemmeno io sapevo cosa dire
esattamente. Sarebbe risultato credibile se gli avessi detto che venivamo dal
mondo di sopra ed eravamo stati paracadutati lì sotto contro la nostra volontà?
L’uomo aspettò la mia risposta, ma non per lungo, poi proseguì da solo: «Io
sono Clyde Brady, il capo della tribù Ridash.»
Pensai fosse meglio dire la verità: «Io sono Patrick Harper, lei è Johanna
Mason, mentre il ragazzo che era con noi è Sam Reyes. Siamo stati spediti qui
contro la nostra volontà da…»
Mi bloccai vedendo la mano dell’uomo alzarsi in segno di STOP.
«Stai dicendo la verità» mi disse, «Verrete ospitati nel nostro villaggio fino a
quando la tua gamba guarisce e lavorerete per guadagnarvi da vivere. Quando
sarà il momento, ve ne andrete e non farete più ritorno né in questo villaggio,
né in tutti gli altri villaggi della tribù Ridash, altrimenti vi uccideremo.»
La mia risposta suonò stupita: «Quanti villaggi avete e quanti siete nella vostra
tribù?»
«Abbiamo 17 villaggi e un totale di circa 5000 unità. Eravamo più di 7000
prima che il vostro popolo non venisse a combatterci.»
Si alzò e se ne andò. Alzai lo sguardo su Johanna e la vidi visibilmente stupita
e scossa dalle informazioni appena udite mentre guardava nel vuoto.
Dopo alcuni istanti, entrò la donna che mi aveva curato la spalla con un paio di
stampelle in mano e me le porse: «Vi accompagniamo alla vostra capanna,
domani mattina discuteremo sui vostri incarichi»
Annuimmo e si girò, senza aspettare che la seguissimo.
Non mi erfa mai capitatao di camminare con un paio di stampelle, perciò ci
misi un attimo per capire come fare per bilanciare in maniera corretta il peso.
Mi ritenni fortunato che almeno l’altra gamba era apposto e mi permetteva un
appoggio mentre imparavo ad usare i supporti.
Venimmo accompagnati fuori dall’edificio e, poi, fino ad un sentiero laterale che
si scorgeva tra due capanne sulla destra, circa a metà del villaggio.
Percorremmo il sentiero che continuava in una piccola discesa ghiaiosa fino a
raggiungere un set di capanne disposte a cerchio. Al centro, un pozzo di pietra
faceva da vertice per il cerchio di capanne, che in totale erano 15. Sopra al
tettuccio del pozzo, una piccola statua di un uomo con un arco puntava la sua
arma verso una capanna ornata in maniera un po’ più appariscente, con degli
stendardi blu ai lati della porta di legno.
Da qui, uscì una donna prosperosa, vestita con un gonnellino ed un reggiseno
blu e si diresse verso di noi.
«Io sono Laurine, del villaggio Militridash, della tribù dei Ridash. Voi abiterete
in quella capanna» e indicò la capanna più fatiscente delle 15, poi continuò:
«Appena ristabilito completamente il vostro amico vi raggiungerà. Da domani
lavorerete per me, adesso riposatevi.»
Se ne andò e noi venimmo scortati davanti alla nostra capanna, dove la nostra
scorta ci lasciò e tutti tornarono alle loro mansioni.
Entrammo e ci ritrovammo di fronte ad una capanna poco più grande di una
stanza di un motel scadente, con un piccolo letto matrimoniale e un letto
singolo sul quale qualsiasi adolescente medio non riuscirebbe a star sdraiato
disteso.
«Tu dormi per terra» mi disse Johanna, accennando un mezzo sorriso.
Dopotutto, non sembrava così male avere di nuovo un tetto sulla testa, per
quanto fosse fortuito.



Venni messo a tagliare la legna, in quanto impossibilitato ai movimenti.
Johanna venne aggiunta ad un gruppo che andava a lavare i vestiti degli
abitanti del villaggio. La gente del villaggio, tuttavia, non ci amava molto. Tanti
ci squadravano da capo a piedi quando ci incrociavano. La peggiore di tutti era
Laurine, che ci parlava solamente per darci ordini. Ai pasti dovevamo mangiare
da soli per il pranzo, in quanto Johanna restava al fiume fino a sera, e insieme,
ma sempre in disparte dal resto del gruppo, a cena.
Sam si aggregò a noi al quarto giorno, visibilmente dolorante e con l’ordine di
restare a letto almeno per una settimana.
La nostra permanenza lì, perciò, venne prolungata fino a quando Sam non si
fosse ripreso del tutto.
La mia gamba si rimise in moto prima che Sam riuscisse ad alzarsi
completamente dal letto.
Insieme a Johanna, imparai anche a combattere con spade, lance, coltelli e
persino a tirare con l’arco, anche se in questo campo la mia compagna era di
gran lunga peggiore di me.
Qualche abitante iniziò a starci simpatico, tanto che iniziammo a mangiare con
l’intero gruppo del villaggio e ci vennero raccontate storie su vari attacchi del
Mondo di Sopra al villaggio che ci fecero capire il motivo di tanta diffidenza nei
nostri confronti.
Ci raccontarono delle loro battaglie e delle loro perdite e di come avevano
sconfitto gli eserciti di New Town sfruttando il territorio nel quale erano nati e
cresciuti.
Ci insegnarono persino a sopravvivere nella foresta, per quando saremmo
dovuti andare via.
Fu proprio quando ci stavamo abituando alla nostra nuova vita che, una sera,
ci annunciarono che avremmo dovuto partire il giorno seguente.
Venne direttamente Laurine ad avvisarci, donandoci armi e provviste e
ringraziandoci in maniera palesemente forzata dell’aiuto che avevamo dato al
villaggio.
Quella sera venne indetta una festa in nostro onore da parte degli abitanti del
villagguio e alla quale Laurine non partecipò.
A notte fonda, quando fummo svegli solo noi tre, riuscimmo a parlare dei
nostri progetti per i giorni seguenti.
«Torniamo su e ammazziamoli tutti» fu la proposta di Johanna.
«Io dico di costruirci un villaggio nostro e vivere da soli fino alla fine dei nostri
giorni» propose Sam.
La realtà era che, nonostante le battute, nessuno aveva la più pallida idea di
come andare avanti.
Tuttavia, dovetti ammettere che l’idea di Johanna attirava anche me, in quanto
anche io ero una vittima del nostro ex Governo.
Con questi pensieri per la testa, e con la promessa che ne avremmo parlato il
giorno seguente a mente lucida, ci addormentammo.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 5 ***


Eravamo partiti da circa mezz’ora quando sentimmo il primo scoppio provenire dal villaggio di Ridash.
Istintivamente, ci nascondemmo dietro un albero per proteggerci, anche se di fatto niente lasciava intravedere una possibile minaccia per noi.
Nonostante non fossimo direttamente coinvolti nell’esplosione, tutti e tre decidemmo che fosse cortese andare a vedere quale fosse il problema e vedere se fosse necessaria una mano.
Non ci fu bisogno di parlare, ma bastò uno scambio di sguardi con Johanna e Sam per capirci e girarci per correre verso Ridash.
Eravamo partiti all’alba, portandoci dietro cibo per qualche giorno e con la speranza di trovare un rifugio sicuro e con risorse da sfruttare, almeno per il momento. Poi, con calma, avremmo pensato al futuro.
Avendo, quindi, pochi viveri, corremmo indietro a perdifiato verso il villaggio che ci aveva ospitato.
Durante la corsa notammo rivoli di fumo provenire dal villaggio conditi da numerose grida di puro terrore.
Arrivammo a Ridash e, appena mettemmo piede nel villaggio, mi salì un conato di vomito.
C’era gente sfregiata in faccia, c’erano persone senza arti, c’erano bambini pieni di sangue e adulti di cui non si riconosceva nemmeno il volto tumefatto.
Poche persone si erano abbastanza riprese da riuscire a dare una mano ai feriti come meglio riuscivano.
«Tu vai di là» mi disse Johanna indicando un gruppo di capanne davanti a noi.
Mi piaceva che avesse preso in mano lei la situazione, anche perché io non avrei avuto la minima idea di cosa fare.
Johanna sbraitò ordini anche a Sam e, di seguito, si incamminò verso alcune persone che vagavano zoppicando nel villaggio. Le prese e le aiutò a spostarsi fuori dal villaggio, dove uno spiazzo d’erba tra gli alberi era stato allestito alla bell’è meglio come infermeria.
Seguii il suo esempio e, in poco più di un’ora, riuscimmo a trasportare tutte le persone ancora vive nella zona.
Non fu raro di tentare di prendere un corpo per poi accorgersi che era privo di vita e ogni volta un crampo allo stomaco mi colpiva come se stessi per vomitare.
Al termine della processione di feriti verso l’infermeria temporanea ci dissero che ci sarebbe stata una riunione per parlare dell’accaduto e che avremmo partecipato anche noi, anche se non sapevamo ancora cosa fosse successo realmente.
Prima della riunione ci occupammo di trasportare i medicinali dall’edificio grigio mezzo distrutto alla nuova infermeria.
Non si poteva fare a meno di notare, passando tra i feriti, la paura sul volto di quelle persone e mi chiesi se, una volta capito cosa realmente fosse successo, avremmo potuto fare qualcosa per vendicare ciò che era accaduto loro.
 
---
 
Al termine del trasporto di medicinali ci ritrovammo, lontani dai feriti, per la riunione.
A capo di questo incontro vi era Laurine, che esordì con un «Silenzio!» detto ad alta voce al fine di zittire le numerose voci che continuavano a discutere per tutto quell’appezzamento di bosco.
«Quello che è successo stamattina ha segnato tutti, e tutti lo abbiamo subito.» continuò la donna.
Alzai la mano come a scuola e, senza attendere che mi diedero il permesso di parlare, chiesi: «Cosa è successo esattamente?»
«New Town ha sparato qualcosa contro il nostro villaggio. Sembrerebbe un coso di metallo simile a quello che nell’antichità veniva chiamato missile.» rispose Laurine, fulminandomi con lo sguardo.
«Chiaramente New Town si è alleata con la tribù Eradash per colpirci, firmando una netta dichiarazione di guerra!» continuò la donna.
Sembrava che si fosse studiata il discorso prima di partecipare all’incontro, ma quasi tutti i partecipanti (poco più di dieci, se il mio conto era giusto) pendevano dalle sua labbra.
La donna riprese parola: «Purtroppo devo informarvi che il nostro capo tribù non ce l’ha fatta ed è morto salvando la vita a suo figlio». Mentre disse queste parole, si girò verso un ragazzo poco più che quindicenne, che si sentiva palesemente fuori luogo ed in imbarazzo, con lacrime che gli scivolavano per il viso.
«Quindi, in qualità di vice-capo della tribù, assumerò io il comando in attesa che venga eletto il nuovo capo tribù.» e lo disse gonfiando il petto, «Adesso abbiamo due opzioni secondo me: o cercare una maniera di andare avanti e lasciare che a loro fili tutto liscio o andare…»
Laurine venne interrotta da un sibilo proveniente dal cielo. Alzammo lo sguardo in tempo per vedere, con nostra incredulità, un altro missile piovere da New Town.
Come se fosse a rallentatore, seguimmo con lo sguardo il missile, impotenti e immobili, e lo vedemmo schiantarsi sopra all’infermeria temporanea.
Il botto fu fragoroso ed alcune schegge colpirono alcune persone della riunione.
Il figlio di Clyde venne colpito in un punto accanto all’occhio, ma quasi non se ne accorse.
Ebbi un tuffo al cuore e, in men che non si dica, ci stavamo precipitando per la seconda volta nella stessa giornata al luogo di un genocidio.
 
---
 
Arrivammo in pochi secondi, ma stavolta non c’era bisogno di alcun soccorso.
Tutti i feriti erano diventati cadaveri, così come le due persone che erano rimaste lì a curarli al posto che partecipare alla riunione.
Johanna, una delle persone più forti che avevo mai conosciuto, stava piangendo tra le braccia di Sam, anch’esso in lacrime.
Anche io ero arrivato sull’orlo di trattenere i singhiozzi.
L’unica persona che non sembrava affatto scossa dell’accaduto era Laurine.
«Andiamo ad una grotta ai piedi della montagna qui vicino e lì decideremo cosa fare» disse con autorità.
Tutti troppo scossi per poter pensare ad altro, ci incamminammo verso la grotta.
 
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Il viaggio fu breve e ci ritrovammo in un’ampia grotta abbastanza grande da ospitare un centinaio di persone.
Laurine raccontò che la grotta avrebbe dovuto essere utilizzata solamente in caso di emergenza e per questo motivo nessuno tranne il capo-tribù e il suo vice ne era a conoscenza.
Ci sistemammo e, sotto ordine della donna, cercammo qualcosa di commestibile.
Non trovammo praticamente nulla e, quindi, quella sera rimanemmo a secco di cibo.
La nostra unica consolazione fu che nella grotta scorreva un rivolo di acqua fresca e potabile che potevamo bere per dissetarci.
La notte scese rapida e, nonostante la stanchezza della giornata, non riuscii ad addormentarmi.
Decisi di fare un giro al villaggio distrutto.
Camminai per molto, osservando le capanne distrutte e cercando di evitare i corpi.
Mi fermai davanti alla capanna che supposi fosse quella del capo-tribù, stranamente intatta.
Entrai, e la scena che mi si parò davanti fu terribile.
Il corpo di Clyde Brady giaceva immobile a terra, con le mani piene di piccoli taglietti e la congestione già in fase di avanzamento. Pozze di sangue invadevano il pavimento tutto intorno al cadavere, come se stesse nuotando in una vasca di passata di pomodoro.
Nonostante il mal di stomaco dovuto al cadavere, mi avvicinai e lo misi in posizione supina e fu lì che notai un dettaglio che non quadrava: uno squarcio alla gola che, a mio parere, non poteva essere un segno casuale.
 
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Dovevo dirlo a qualcuno e, ovviamente, i primi due nomi che mi vennero in mente furono Johanna e Sam. Corsi verso la grotta e rallentai quando la vidi comparire nel mio sguardo. Entrai, infine, quatto, cercando di non svegliare i superstiti che dormivano.
Arrivai nel punto dove i miei compagni di avventura dormivano e mi stupii nel trovare solamente i loro zaini. Mi prese il panico e iniziai a respirare affannosamente.
Come mai i miei amici non erano dove li avevo lasciati?
Mentre mi arrovellavo per trovare una soluzione a quell’enigma, qualcuno mi strinse un braccio attorno al collo e mi mise una mano sulla bocca. Poi, mi prese e mi trascinò fuori dalla grotta.
Mi dimenai, ma la forza di quella persona non mi permetteva di liberarmi dalla sua presa.
Mi spostò per diversi minuti, prima di liberarmi. Mi girai di scatto, pronto a combattere in caso di necessità, ma la persona che mi trovai di fronte non era altri che il figlio del vecchio capo tribù. Pensai di affrontarlo, ma mi fermò il suo sguardo, che non era di sfida, ma colpevole.
«Non colpirmi, ti prego» mi chiese, quasi piagnucolando.
Non avevo molta voglia di ascoltarlo e la mia pazienza, dopo la giornata appena passata, si stava esaurendo. Quindi, gli chiesi semplicemente: «Perché?»
La sua risposta fu pronta: «Ti devo spiegare cosa sta succedendo. Innanzitutto, io sono Joseph Brady, figlio di Clyde Brady e diretto erede a capo-tribù della tribù di Ridash, e ho bisogno di aiuto»
La mia replica fu ancora breve: «Spiegati meglio»
Iniziò un racconto: «Era da parecchi giorni prima che arrivaste voi che avevo notato che qualcosa non andava. La gente si muoveva con fare sospetto, borbottava tra di sé, era più restia a prendere decisioni e un malumore stava iniziando ad aleggiare nell’aria.
«Poi siete comparsi voi, vi abbiamo catturato e abbiamo indetto una seduta per decidere cosa fare di voi. Papà è stato inamovibile e, nonostante le pressioni di Laurine, ha deciso di non uccidervi ma di curarvi.
«Lì sono ricominciati i malumori. Non di tutta la tribù, sia chiaro, ma di alcuni pezzi grossi amici di Laurine. Una sera, all’incirca una settimana fa, non riuscivo a dormire e, mentre facevo una passeggiata, ho intravisto Laurine che parlava con qualcuno.
«Sembrava che si stesse mettendo d’accordo su un compenso. Ho provato a raccontare a papà l’accaduto, ma è stato inamovibile e mi ha detto che mi stavo inventando tutto.
«Poi, c’è stato il missile mentre ero in casa con papà. L’esplosione è stata forte, ma non ha colpito casa nostra. Allora, papà mi ha fatto nascondere sotto al letto ed è partito per cercare di dare una mano, ma non ho sentito la porta di casa chiudersi e, dopo un attimo, papà implorava a qualcuno di smetterla e di lasciarlo in pace.
«Ho sentito uno schianto a terra e, poco dopo, qualcuno che mi portava fuori da sotto il letto. Mi sono ritrovato faccia a faccia con Laurine che mi ha intimato di non raccontare a nessuno dell’accaduto e di andarmene in infermeria.»
Lo interruppi con le mani alzate, facendogli capire che il resto della storia lo conoscevo già. Gli chiesi cosa ne fosse stato dei miei amici e mi disse che Sam era stato preso dagli uomini di Laurine, mentre lui aveva aiutato Johanna a fuggire ed a nascondersi in un luogo chiamato “Promontorio” a qualche chilometro da lì.
«Andiamo da Johanna», gli dissi, «poi penseremo a cosa fare.»
 
---
 
Il viaggio durò tutta la notte e, nonostante Joseph volesse fermarsi e riposare per qualche ora, non lo feci fermare e procedemmo spediti.
All’alba, raggiungemmo un ponte artificiale che, a detta di Joseph, era un cimelio dei tempi in cui la terra era ancora abitata dalla popolazione mondiale e non solamente da tribù.
Feci per uscire dalla boscaglia e attraversare il ponte quando il ragazzo mi mise una mano sul petto, bloccandomi.
«Aspetta, il ponte è controllato dalla tribù di Eradash. Se ci vedono ci uccidono.»
«Come facciamo a passare?» Gli chiesi.
«Non dobbiamo. “Promontorio” si trova dopo il bosco dall’altra parte della strada.» mi rispose «Adesso riposiamo. Quando il sole è più in alto, una pattuglia di Eradash dà il cambio ad un’altra. Quello è il momento di passare.»
Ci sedemmo e Joseph estrasse un frutto simile ad una mela. Me lo offrì e, malgrado non mi fidassi ancora ciecamente del ragazzo, dovetti cedere alle richieste sofferte del mio stomaco e accettai.
Aspettammo diverso tempo, nel quale il ragazzo mi insegnò a leggere l’ora in base alla posizione del sole ed all’ombra di un bastone trovato nel bosco.
Quando il sole fu alto nel cielo, sentimmo alcuni rumori, passi rapidi e voci concitate. Joseph mi fece restare quatto in una posizione che dall’esterno era impossibile da scorgere, con i nostri pochi averi in spalla, pronti allo scatto.
Li vedemmo, quattro uomini di stazza robusta, vestiti tutti uguali con una tuta mimetica, pistole alla cintura, anfibi ai piedi e taglio militare. Non ci notarono e procedettero nella loro marcia verso la loro tribù.
Quando scomparvero dalla nostra vista, contammo a bassa voce tre minuti, in quanto sulla base delle informazioni di Joseph, una nuova truppa di quattro uomini sarebbe passata a distanza di sei minuti da quella precedente.
Dopo i tre minuti, corremmo a perdifiato, tenendoci il ponte sulla destra.
Arrivammo dall’altra parte, scavalcammo una piccola staccionata e ci addentrammo nuovamente in un bosco.
Joseph sapeva la strada e, dopo pochi minuti, capii di essere vicino al mare.
Non c’era bisogno di aver già sentito l’odore del mare, perché quel profumo stava ad indicare solamente una parola: mare.
 
Uscimmo dal bosco, percorremmo un breve tratto di sabbia e scalammo alcune rocce fino a trovarci su un pezzetto di roccia sul quale ci stava a malapena un piede. Procedemmo con le spalle al muro sulla roccia, arrivando fino ad una grotta. Joseph entrò e io lo seguii.
Gli sbattei contro appena entrato. Era bloccato di fronte a me, pietrificato.
Seguii il suo sguardo e vidi il motivo del suo stop improvviso: Johanna si trovava cinta da una donna all’incirca della nostra età. Il particolare più spaventoso, tuttavia, era che la donna puntava un coltello alla gola della mia amica.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 6 ***


Ero veramente stanco di quel posto. Mi aveva sempre affascinato pensare a come potesse essere bello vivere nel Mondo di Sotto, da solo, in mezzo alla vegetazione fitta, boschi inesplorati, montagne da scalare e mari da solcare.
Durante la mia prigionia, molte volte mi ero immaginato di andare a vivere dove i miei antenati vivevano e molte volte avevo fantasticato su quei momenti.
Tuttavia, dopo pochi giorni nel Mondo di Sotto, ne avevo già abbastanza.
Maledissi me stesso per non aver esitato nello scegliere di partecipare a quella campagna suicida di missili, tribù e dolore. Maledissi me stesso per non aver scelto di rimanere nella mia umile cella da criminale dello stato. Potevo maledire tutti e tutto ciò che c’era al mondo, sia Sopra che Sotto, ma un pensiero era lì che mi assillava in quel momento: dovevo salvare Johanna.
Ma non fui io a farlo. Ci riuscì benissimo da sola.
Prima, però, per un lungo momento pensai che fosse spacciata: la donna che l’avvolgeva non sembrava intenzionata a lasciarla andare e quando la mia amica deglutì, un rivolo di sangue partì dalla giugulare e scese fino al petto.
Poi, Johanna morse.
La mano della nostra ospite (o forse eravamo noi suoi ospiti) mollò la presa sul coltello e Johanna spinse con tutte le sue forze dietro di sé, facendo sbattere la propria aguzzina contro la parete della grotta.
E fu allora che la ragazza prese una pistola e ce la puntò addosso.
«Fermi o sparo a ciascuno di voi» ci minacciò.
La distanza che ci separava era troppa per permettere a chiunque di noi di placcarla senza che facesse in tempo a far partire almeno un colpo e, inoltre, sembrava molto più addestrata di noi.
«Parliamo» proposi.
La sua richiesta fu diretta: «Cosa ci fate nel nostro territorio?»
Il sangue freddo scoprii che era una delle caratteristiche principali del nostro Joseph che riuscì ad ottenere di sedersi e discuterne con calma.
Per questa volta, almeno, fu lui a spiegare a grandi linee quello che avevamo passato e come mai ci trovavamo in quella grotta. Io, condii la storia quando mi sembrava scarna di dettagli e confermai le versioni dei fatti quando la ragazza sembrava intenzionata a chiedere conferme.
Johanna, invece, rimase in disparte ed in silenzio e attese il termine della storia.
Quando il nostro amico terminò, la ragazza si presentò come Jennifer Austin, figlia del capo-tribù di Eradash. Lo stupore fu generale e crebbe quando rivelò che, sulla base del nostro racconto, aveva intenzione di fermare lo scontro tra le due tribù.
Noi ci mostrammo d’accordo e ben intenzionati a dare una mano e, grazie a questa nostra disposizione, si propose di portarci cibo ed acqua per il tempo della nostra permanenza nella grotta.
Inoltre, Jennifer promise che avrebbe cercato di ottenere un incontro con suo padre.
 
«La tribù è cambiata, però» ci disse, «non comanda più lui. Adesso comanda il circolo».
Ci spiegò che al comando vi erano sette tra i capi-famiglia delle più importanti famiglie della tribù e che, da qualche mese, prendevano ordini da un uomo misterioso che, un giorno, era arrivato alla tribù annunciato dai sette capi-famiglia come nuovo capo-tribù.
Di più non sapeva.
 
Dopo le spiegazioni, Jennifer ci strinse le mani e tornò alla tribù.
Il sole era ormai in fase calante e noi decidemmo di concederci un po’ di riposo, in attesa del ritorno della ragazza.
Scegliemmo la porzione di terreno ad occhio meno scomoda e ci sdraiammo.
Cercai di dormire, ma i continui singhiozzi di Johanna fecero compagnia alla mia insonnia.
Non pensavo ci si potesse affezionare a delle persone in così poco tempo, ma mi sentivo in colpa per aver permesso a Laurine di rapire Sam e, per quel fatto, che Johanna stesse così male.
Joseph, invece, dormì come un sasso, con la testa appoggiata ad una mano e il corpo rannicchiato su sé stesso, come per auto proteggersi.
 
Sembrava passata un’eternità quando, finalmente, Jennifer fece ritorno alla grotta.
Con sé la ragazza aveva pezzi di pane, qualche animale cotto, qualche frutto di bosco di un rosso acceso e un cesto pieno d’acqua.
Ci abbuffammo come non mai.
Mentre mangiavamo, Jennifer prese parola: «Papà ha un piano, ma dobbiamo essere cauti» ci disse.
La spiegazione del piano richiese il resto della sera.
L’obiettivo del signor Austin era quello di usare la diplomazia e mostrare ai cittadini delle tribù che si poteva cooperare. Per farlo, voleva mostrare che anche i figli dei capi-tribù andavano d’accordo.
Il problema più grande sorse nel momento in cui Jennifer ci disse che suo padre era in cella.
«Non si può fare allora» disse Johanna, prendendo in disparte me e Joseph.
«Oppure, potremmo trovare il modo di farlo scappare» ribattei, irritato per la scarsa collaborazione dimostrata dalla ragazza.
Joseph, dal canto suo, ci osservava e annuiva a qualsiasi affermazione provenisse dalla nostra bocca, che fossero in accordo o disaccordo.
Johanna scosse vigorosamente il capo: «Non mi fido di quella» mi disse e io mi sentii due enormi pesi dentro il petto.
Da un lato, volevo dare ragione a Johanna, perché avevo imparato a fidarmi di lei e avevamo instaurato un rapporto di rispetto reciproco, ma dall’altro lato pensavo che avesse torto e che, nonostante il coltello alla gola delle ore precedenti, Jennifer sapeva il fatto suo e non mentiva.
«Mi dispiace Johanna, è la nostra unica occasione» le risposi.
«Mettiamola ai voti» propose Joseph, con la sua solita diplomazia, probabilmente perché aveva visto che entrambi iniziavamo a scaldarci.
Decidemmo di fare per alzata di mano e, con mia sorpresa, Joseph si schierò dalla mia parte.
Era deciso, avremmo salvato il padre di Jennifer e messo fine alle lotte tra le due tribù.
 
---
 
Per i giorni seguenti, ci accampammo nella grotta stabilmente.
Jennifer portò carte e penne e studiammo un piano ben elaborato. Sempre grazie alla ragazza, a turno, spiammo la tribù di Eradash, carpimmo informazioni sui turni di guardia, sui movimenti degli abitanti e su tutto ciò che potesse essere utile al nostro piano.
Johanna rimase un po’ in disparte i primi due giorni, poi si fece prendere dall’entusiasmo che mostravamo io e Joseph, anche se continuò con i suoi soliti atteggiamenti sarcastici e strafottenti, rispondendo molte volte malamente a Jennifer.
Alla mattina presto io e la ragazza di Eradash ci nascondevamo ai pressi dell’entrata di una montagna che fungeva da prigione. Sulla via del ritorno, nel primo pomeriggio, lei faceva scorribande a rubare cibo e viveri e io, nel frattempo, cercavo di cacciare qualcosa. Riuscimmo anche a procurarci delle armi: un arco per me, un coltello per Johanna e una fionda per Joseph.
A pomeriggio inoltrato, toccava a Johanna perlustrare il territorio con la ragazza, mentre alla sera Joseph andava da solo, mentre Jennifer dormiva.
Ci spiegò che capitava spesso che lei dormisse fuori dalla tribù e che, quindi, non si stupiva nessuno della sua assenza.
Dopo circa una settimana di perlustrazioni e preparazioni, decretammo che tutto era pronto e che, l’indomani, avremmo agito.
 
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Quella sera, la tensione era palpabile.
Jennifer insegnava a Johanna alcune tecniche con il coltello e come difendersi da eventuali offensive dei guerrieri della tribù, che lei conosceva bene. Joseph dormiva beatamente, mente io feci del mio meglio per testare l’arco che mi era stato procurato, ma il nervosismo mi fece vergognare della mia mira.
Decidemmo che Jennifer avrebbe montato la guardia, essendo la più abituata a restare sveglia.
Il mattino seguente, smantellammo il nostro accampamento e, con i viveri e altri oggetti in spalla, ci spostammo nel bosco fino al delimitare del confine di Eradash, da dove con Jennifer avevamo trovato una porzione di rete arrugginita e ben nascosta che era una via d’accesso perfetta per il villaggio. Joseph e Johanna si spostarono poco più a nord, dove dietro una roccia avevamo stabilito di depositare i vari oggetti non necessari per la nostra missione.
Intanto, armati di un paio di cesoie rubate dal fabbro del villaggio e di un coltello, io e Jennifer creammo uno squarcio nella rete abbastanza largo da far passare più elementi insieme, in caso il padre di Jennifer fosse ferito e necessitasse di un aiuto nel camminare.
Quando tornarono i nostri amici, mancavano solamente quattro serie di fili di ferro.
Completata l’opera, demmo il via alla missione.
Jennifer conduceva il gruppetto, in quanto se si fosse imbattuta in qualcuno di sua conoscenza, avrebbe cercato di abbindolarlo. Johanna la seguiva a ruota, mente io e Joseph ci appostavamo in maniera da coprire eventuali comparse laterali. Tuttavia, nessuno ci intralciò la strada.
Avevamo dato quasi per scontato che qualcuno ci potesse vedere nonostante il piano orchestrato, per cui ci parve molto strano.
Jennifer aprì l’accesso alle celle ed entrò con Johanna. Dietro, Joseph mi precedette e, dopo un’ultima veloce perlustrazione dell’esterno, li seguii.
L’odore di urina mi colpì come un pugno sul naso, costringendomi a trattenere il respiro il più a lungo possibile.
Il lungo corridoio era coronato da entrambi i lati da celle, tutte aperte.
In fondo, una lugubre parete grigia chiudeva la stanza.
«Papà» chiamò con un filo di voce Jennifer.
Un flebile ma distinguibile mugolio rispose da una cella sulla destra, a circa metà sala. Ci precipitammo alla cella e trovammo un uomo calvo sulla cinquantina, con indosso vestiti grigi stracciati e lo sguardo spento.
Gli occhi, incavati nella faccia divenuta scarna, ebbero un lieve sussulto alla vista della figlia, poi crebbero di terrore quando si spostarono sul resto del gruppo.
«Papà, ciao» fece la ragazza, ed andò di corsa ad abbracciare il padre.
«N-non dovevi venire!» le disse con lieve voce l’uomo «Non mi r-resta molto t-tempo, loro s-sono qui. Vi p-prenderanno. Andate!» ci intimò.
Io e Joseph ci guardammo intorno, non scorgendo alcun apparente motivo di allarme.
«Papà non lasciarmi» pregò Jennifer, con il volto che iniziava a rigarsi di lacrime «ti prego»
«Addio p-piccolina mia. V-vado a s-salutare tua m-madre» tossì «M-mi dispiace t-tanto. N-non date l-loro nulla!» ci ammonì e, con la stessa rapidità con la quale gli occhi gli si erano illuminati alla vista della figlia, si spensero per l’ultima volta.
 
---
 
Lasciammo a Jennifer qualche minuto per metabolizzare la morte del padre e, nel frattempo, noi tre perlustrammo le celle sorpassate in precedenza.
Tutte sembravano abitate, come se gli inquilini stessero usufruendo dell’ora di aria giornaliera. Alcuni letti erano sfatti, mentre su altri poggiavano libri girati ancora aperti. Una mi colpì per le linee sul muro, classiche per contare i giorni, suddivise in gruppi da quattro verticali più una diagonale. Mi misi a contarle. Mi fermai a trecentoventisette, quando Johanna mi chiamò dalla cella del padre di Jennifer, con voce preoccupata: «Patrick, vieni qui!»
Mi precipitai di corsa verso la cella e, al mio arrivo, mi si gelò il sangue.
«L’ho appoggiato a terra per metterlo comodo e quell’interruttore stava scattando, allora l’ho premuto nuovamente con la mano e.. e…» Jennifer interruppe il suo racconto perché non aveva più niente da dire. Il continuo della frase era chiaro a tutti: ci avevano teso una trappola e noi eravamo abboccati appieno.
«Jen, preparati.» presi in mano la situazione, nonostante l’ansia crescente, «Appena lasci l’interruttore corriamo ed usciamo da qui» conclusi.
Lei guardò con rammarico il corpo senza vita del padre e annuì, poi prese il coltello in una mano e si mise in posizione di scatto.
«tre… due… uno…» contò Joseph «VIA!» urlò e ci precipitammo verso l’uscita della prigione.
Il nostro scatto durò una decina di metri prima che energumeni con mitra spianati piombassero da sopra, dall’ingresso della prigione e pure dalle celle dopo quella dove giaceva il padre di Jennifer, che non eravamo ancora riusciti a perlustrare.
C’era un divario di sei uomini a uno, quindi non ci restò altro da fare che deporre le armi e alzare le mani in segno di resa.
«Capo, ce li abbiamo sotto tiro» dichiarò ad un walkie talkie un tizio di fronte a noi.
Dall’ingresso della prigione, un uomo dall’aria tirata che dimostrava una sessantina d’anni entrò con aria trionfante e battendo le mani in segno di scherno.
«Complimenti, complimenti» esordì, «pensavate davvero di passare inosservati mentre rubavate scorte di cibo e armi dal nostro villaggio e, soprattutto, mentre entravate a liberare un nostro detenuto?» si avvicinò a Jennifer, che lo guardò ferita «Puttanella ho capito subito che avresti cercato un modo per salvare il tuo paparino e ne ho approfittato» fece una carezza a Jennifer «Ah, mi dispiace per la sua prematura dipartita» aggiunse, ridendo.
Johanna, accanto a Jennifer, non si trattenne e sputò in faccia all’uomo colpendolo in un occhio.
Questo, esplose un violento manrovescio che mise in ginocchio la mia amica. Feci per andare contro l’uomo, ma enormi mani, guidate da enormi braccia e coperte da enormi e potenti muscoli mi trattennero.
«Bene, bene, bene, chi abbiamo qui?» prosegui l’uomo. Scrutò una ferita Johanna, mentre gli energumeni obbligarono anche gli altri del gruppo a mettersi in ginocchio. «Una mai vista, che sia di qualche altra tribù da stanare?» chiese tra se e se. «Anche il ragazzo lì in fondo sembra nuovo» e indicò me, che digrignai i denti in segno di sfida.
Rise ancora di scherno e mi disse «A cuccia! Poi ti diamo l’osso», creando ilari risate da tutti gli energumeni.
Di seguito, rivolse le sue attenzioni su Joseph: «Ah, ecco la star del momento, il ragazzo che ha acquisito da poco un enorme potere» aggiunse con un altro ghigno, «peccato solamente che la mia amica Laurine ti abbia preso il posto e, comunque, mi ha molto infastidito il fatto che tu sia scappato».
Mentre pronunciava queste ultime parole, estrasse una pistola e sparò in testa al ragazzo.
 
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Tutti e tre rimanemmo scioccati dalla freddezza con cui quell’uomo aveva sparato al nostro amico.
Il suo corpo si accasciò in terra in una posizione del tutto innaturale. Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo cadavere.
L’uomo si fece improvvisamente serio e si rivolse all’energumeno che lo aveva chiamato via radio precedentemente: «Togliete questa feccia» e diede un calcio al corpo di Joseph, «rinchiudeteli nella cella del paparino e riportate i prigionieri nelle loro celle» si rivolse nuovamente a me e ai miei amici: «Ah, Benjamin Norris, piacere di aver fatto la vostra conoscenza». Rise nuovamente e se ne andò.
Mentre ci scortarono in cella, ripensai che quel nome suonava familiare.

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 7 ***


La voce robotica che segnalava le informazioni aveva appena annunciato che mancava un minuto al termine del countdown, poi sarebbe iniziata la trasmissione. La sua fidata assistente Georgia, forse, o forse Gretel, gli stava sistemando la cravatta e dando dei piccoli colpetti alla giacca elegante al fine di sistemare le ultime pieghe rimaste sull’indumento.
Lei non sapeva.
Solo lui, il suo fidato braccio destro, Cesar, e la maggioranza dei membri del Consiglio sapevano.
Il piano era studiato alla perfezione.
L’assistente si stava allontanando e la voce di Cesar, dall’auricolare, confermava la preparazione di tutto: «Capo, ho appena posizionato il dispositivo sul Palazzo del Consiglio»
Il countdown stava terminando e, l’uomo, saliva la scaletta a bordo del palco provvisorio, allestito con due leggii per il dibattito. Sulla facciata del Palazzo del Consiglio, due bandiere verticali con il simbolo di New Town percorrevano la parete dall’alto al basso. L’edificio percorreva completamente un lato della piazza. Dal lato opposto partiva un enorme viale che portava fino all’ingresso della città.
Sui lati rimanenti, diramazioni di case strette e attaccate tra di loro e stradine che portavano alla periferia della città si estendevano per chilometri e chilometri.
La piazza era il punto di riferimento e il cuore della città. D’altronde, l’intera comunità aveva costruito le case mattone per mattone partendo proprio da quella piazza.
Adesso, lo spiazzo di fronte al palco era gremito di persone agitate, la maggior parte vestite con colori blu, bianco e rosso, rappresentativi del partito preferito dalla popolazione. Il resto del pubblico era vestito del nero tipico del suo partito, i tradizionalisti.
Il signor Norris prese posto al leggio più vicino tra i versi di scherno della popolazione di New Town, si sistemò la cravatta e elargì uno dei suoi migliori sorrisi. Da alcuni maxischermi posti più avanti, si vide riflesso e rimase soddisfatto del suo sorriso perfetto.
Dopo pochi istanti, la voce fuori campo della presentatrice annunciò l’arrivo del candidato del partito avversario, Brandon Cubik.
Come da piano, si avvicinò all’avversario e gli strinse la mano. Poi, con stupore generale, lo abbracciò.
“Bene”, pensò, quel fannullone del consiglio – un tale Thomas Deeney – aveva convinto Brandon che un abbraccio era un buon modo per iniziare il dibattito e mostrare alla popolazione che, nonostante le divergenze, il candidato così amato aveva a cuore anche l’interesse e i piani dei tradizionalisti.
Mentre ritornava al leggio, come prestabilito, fece finta di tossire, lanciando così il segnale a Cesar.
«Bersaglio confermato!», sentì attraverso l’auricolare.
Si rimise al leggio, mentre la presentatrice poneva la prima domanda: «Signor Cubik, come giudica l’affetto che New Town le sta…» si interruppe, contemporaneamente con il «Fuoco!» annunciato dal suo braccio destro.
Il suo avversario si accasciò al suolo appena la nano-macchina colpì il punto sul braccio dove il signor Norris aveva appiccicato il micro-bersaglio durante l’abbraccio.
Della schiuma fuoriuscì dalla bocca di Cubik mentre i medici accorrevano a soccorrerlo. Il signor Norris si finse alquanto sorpreso di quella svolta “inaspettata”, il pubblico urlava e fuggiva, terrorizzato da un possibile attacco terroristico.
Se solo avessero saputo.
Alcune guardie lo scortarono per tenerlo al sicuro in una stanza del Palazzo del Consiglio.
Mentre entrava si accorse che l’unica altra persona nella stanza era Cesar.
Si guardarono e si misero entrambi a ridere di gusto.
Il signor Norris aveva vinto le elezioni.
 
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La stessa piazza che, una settimana prima, aveva assistito alla morte di Cubik era di nuovo gremita di gente. Era da poco finito il funerale del candidato preferito dalla popolazione e il Consiglio era pronto ad annunciare la decisione presa in merito alle elezioni del Governatore.
Tutto era proceduto secondo i piani: era stata svolta una perizia sul cadavere di Cubik e annunciato alla stampa che il decesso era stato causato da un infarto. Il Consiglio aveva effettuato una seduta di emergenza durata tre giorni per decidere come proseguire, ma la maggior parte dei Consiglieri si era messa d’accordo precedentemente per proporre direttamente come nuovo Governatore il signor Norris. Il voto era avvenuto poco prima del funerale e, con la maggioranza già d’accordo, la mozione era stata accettata.
Ora era il momento dell’annuncio ufficiale.
Il portavoce del Consiglio si fece avanti. Nella folla scese un silenzio nervoso.
D’altronde, quelle erano state le elezioni più in bilico della storia fino a quando, poco tempo prima, un giornalista aveva indagato e scovato una storia di corruzione che portava al signor Norris.
Adesso il corpo del giornalista era stato spedito nel Mondo di Sotto, ma la voce che avesse qualcosa di grosso da mostrare aveva fatto perdere punti preziosi al candidato tradizionalista.
Quindi, si era iniziato a complottare con i membri più anziani del Consiglio, per i quali Cubik era scomodo e troppo innovativo, con i suoi concetti di libertà e uguaglianza.
«Signore e signori, sono lieto di annunciare che il Consiglio ha preso una decisione in merito alle elezioni del Governatore di New Town»
Si schiarì la voce e, con calma, lesse il comunicato: «A seguito della morte del candidato Governatore Cubik e, data l’impossibilità di mantenere una città chiave per il Mondo di Sopra come New Town senza un vero capo di Governo, il Consiglio ha approvato che al candidato Governatore Norris venga automaticamente nominato come Governatore, in carica da oggi, con la convinzione che il nuovo Governatore rispetti, comunque, le idee del signor Cubik»
Qualche mormorio si diffuse tra la folla che, tuttavia, la prese meglio di quanto avesse preventivato Norris.
Il portavoce chiese silenzio abbassando le mani più volte.
«A seguito di quanto appena appreso, diamo un caloroso benvenuto al nuovo Governatore Norris, che effettuerà a breve il solenne giuramento»
Era il suo momento. Fece un sospiro, si diede mentalmente la carica e salì sul palco dove, una settimana prima, aveva contribuito alla morte del rivale.
La folla lo acclamò con uno scroscio di applausi. Ci fu anche qualche fischio isolato, ma nulla paragonabile al calore e l’affetto che il pubblico sembrava stesse dimostrando.
La piazza sembrava più gremita dell’ultima volta, quasi non si vedeva dove la popolazione terminava.
Su un lato delle abitazioni, stavolta, giacevano due piccole tavolate, che si stavano riempiendo.
Da una parte, i nove Consiglieri prendevano posto, mentre dall’altra, a sedersi era il gruppo dei tre rappresentanti delle tre religioni più osservate nella città.
Di fronte alle due tavolate, un leggio presentava il simbolo di New Town e, sopra di esso, poggiava un antico testo, la Costituzione della città, aperto alla pagina del Giuramento del Governatore.
Mentre si spostava verso il leggio, incrociò il portavoce del Consiglio, che gli strinse la mano vigorosamente e gli fece i complimenti per il successo.
Si posizionò di fronte alle tavolate, con lo sguardo fermo verso i suoi interlocutori.
Alla sua sinistra, il suono del pubblico sembrò farsi più ovattato, quasi come se qualcuno avesse abbassato il volume.
Guardare negli occhi i Consiglieri era un modo per far capire anche a quelli che non avevano preso parte al complotto che lui era convinto di quello che stesse facendo.
«Io, Benjamin Norris, accetto la carica di Governatore della città di New Town.
«Prometto di esercitare il mio mandato con onestà e rispetto della nostra città e dei suoi abitanti.
«Accetto l’uguaglianza, abbatto le ingiustizie e mi dissocio dall’ignoranza dell’odio e di chi lo provoca»
Terminato il giuramento, il signor Barber, uno dei più anziani e rispettati membri del Consiglio, si alzò.
Si avvicinò a Norris e lo fece spostare al centro del palco.
Il Consigliere lo guardò mentre si inginocchiava di fronte ad esso, con il capo abbassato.
«Il Consiglio, in qualità di esercitatore del potere Politico di New Town nomina Benjamin Norris come Governatore della città fino alla sua dipartita o fino a nuova decisione del Consiglio»
Norris si alzò e strinse la mano a Barber.
New Town aveva un nuovo Governatore.
 
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Cesar entrò dalla porta dell’ufficio del Governatore.
La stanza era spaziosa e decorata in un vecchio stile del Mondo di Sotto, quando era ancora vivibile, chiamato stile gotico.
Al centro della stanza spiccava una grande scrivania in mogano. Sopra di essa, al centro, una cartina di New Town era scarabocchiata con enormi cerchi di colore rosso e blu, mentre da cornice alla cartina alti plichi di scartoffie.
Alla destra della scrivania, un tavolo da biliardo con biglie sparse per tutta la superficie.
Dalla parte opposta, un tavolino in vetro proveniente da un’antica città Italiana era contornato da quattro poltrone.
Sopra al tavolino, una bottiglia di whiskey e quattro bicchieri erano posizionati con estremo ordine.
Dietro la scrivania sedeva un uomo, intento a leggere alcune scartoffie riguardo ad un problema sulle tubature che affliggeva uno dei quartieri più poveri della città.
Il suo fidato braccio destro, Cesar, si stravaccò su una poltrona, attendendo che Norris si alzasse dalla scrivania per sedersi vicino.
«Notizie di estrema urgenza, signore» annunciò.
Il Governatore si alzò e si posizionò nella poltrona di fronte a Cesar: «Parla!» ordinò.
«I nostri insetti-spia hanno rilevato qualcosa, forse degli umani»
«Altri ribelli? Stanali»
«No, signore, non nella periferia» Cesar si stava facendo più funereo e impaziente di dare la notizia, attendendo la reazione del suo capo.
«E dove allora? Smettila di tirarla per le lunghe e dimmi dove»
«Nel Mondo di Sotto, signore»
Il volto di Norris si illuminò. Dopo aver ricevuto la nomina di Governatore aveva iniziato la sua campagna dittatoriale: i Consiglieri del complotto si erano dimessi ed erano stati assegnati come semplici impiegati all’ufficio del Governatore, a capo di innumerevoli squadre e, quindi, con stipendi alti e lussi sfrenati senza muovere un dito.
Il Consiglio, come da legge, era stato sciolto per mancanza di uomini. Avvalendosi di numerosi cavilli, il Governatore poteva continuare a rimandare la formazione di un nuovo Consiglio e prendere ad interim le decisioni per lui.
Utilizzando le tecnologie prodotte dal reparto di ricerca e sviluppo della sua azienda, come il dispositivo che aveva assassinato Cubik, aveva stanato numerosi gruppi di ribelli che si stavano formando nella periferia della città e nei quartieri più poveri, scontenti della linea che il nuovo Governo di New Town seguiva.
Intanto, Norris aveva ordinato di mandare alcuni insetti-spia, altra tecnologia della sua azienda, per controllare la vivibilità del Mondo di Sotto. Se fosse stato vivibile, il prossimo passo sarebbe stato quello di mandare prigionieri come schiavi per estrarre risorse per New Town.
Qualsiasi risorsa sarebbe andata bene, ma in particolare c’era bisogno di carbonio per costruire armi e nuove tecnologie armamentari.
L’obiettivo del Governatore era semplice: espandersi nel Mondo di Sopra.
Benjamin Norris versò del whiskey in due bicchieri e ne porse uno a Cesar.
«Brindiamo a questo mio ordine: sterminate gli indigeni»
 
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Il signor Norris si trovava in una delle sue stanze private, quando ci fu il primo scoppio. Tremò tutto, persino il pesante mobile che si trovava di fronte a lui.
Si affacciò alla finestra per sbirciare attraverso le tende e, nel frattempo, chiamò con l’auricolare Cesar.
Al terzo squillo, ci fu risposta.
«Mi dica capo» disse il suo braccio destro.
«Cosa succede nel quartiere ispanico?» chiese il Governatore. Poteva intravedere del fumo nero innalzarsi dal quartiere ispanico.
«Non saprei, capo, mi stavo divertendo con Amanda» rispose Cesar in tono lievemente imbarazzato.
Cesar era solito frequentare i bordelli della zona più “in” di New Town, dove le cortigiane se le potevano permettere solamente i ricchi.
Il Governatore si irritò: «Smettila di giocare con le tue stupide puttanelle e verifica cosa succede!»
Cesar confermò di aver compreso l’ordine: «Le faccio sapere tra poco» e chiuse la conversazione.
 
Durante l’attesa, altri scoppi si udirono in lontananza. Il quartiere ispanico distava qualche chilometro, troppi per impensierire il Governatore.
Tuttavia, i suoi sospetti sul motivo degli scoppi gli furono confermati quando Cesar arrivò nel suo studio con la risposta: «Sono iniziate le rivolte!»
 
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Lo vennero a prendere nel cuore della notte, mentre stava dormendo beato.
Gli scopi della loro missione erano due: ferire il Governatore e catturarlo. Solamente, non avevano fatto i conti con la sua paranoia.
Quattro rivoltosi con i volti coperti e muniti di spranghe sfondarono la porta e fecero irruzione nella stanza del Governatore.
La stanza si presentava spoglia, ad eccezione di una brandina, un armadio di legno di bassa qualità e del fucile appoggiato con noncuranza al muro accanto al letto.
Sulla brandina, disteso supino, giaceva nel morso del sonno un uomo, ricoperto fino alla faccia dalle lenzuola in cotone.
I rivoltosi non ci pensarono due volte e, mentre uno prese il fucile incustodito, gli altri tre iniziarono a colpire l’uomo addormentato con le spranghe.
L’uomo si mise ad urlare e cercò di divincolarsi dalle percosse e dalle lenzuola, mentre le lenzuola si imbrattavano del suo sangue.
Fu solo quando le lenzuola scivolarono dalla testa dell’uomo che si vide chiaro e tondo che gli assalitori avevano sbagliato stanza e stavano colpendo Cesar.
 
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Il signor Norris procedette per i corridoi bui.
Si era appena chiuso la porta segreta alle spalle e aveva appena premuto il pulsante per fare in modo che la libreria del suo studio tornasse al proprio posto.
La sua mossa era stata quella di rifilare alle guardie informazioni sbagliate su dove avrebbe dormito, in maniera tale che, in caso fossero state interrogate e costrette a rivelare ai rivoltosi dove si trovasse, avrebbero indicato la stanza di Cesar.
Questa volta, nemmeno il suo braccio destro era stato messo al corrente del piano, in quanto lui era l’esca per i rivoltosi.
Il corridoio, stretto poco più di un metro, aveva il soffitto che costringeva il Governatore a camminare chino sulla schiena. Fece parecchi metri ancora, guidato dalla flebile luce di una torcia a pile, fino a quando si ritrovò in cima ad una scala che procedeva curva.
Procedette un piolo alla volta, contandoli tutti per distrarsi.
Arrivò ai piedi della scala, dove un ricambio di abiti anonimi lo attendeva.
Si cambiò e si infilò attraverso la porta che si trovava di fronte.
Un apparecchio, grande poco più di due uomini robusti, si trovava nella stanza della quale aveva appena varcato la soglia.
Dei binari grandi pochi centimetri procedevano per qualche metro da dove si trovava l’aggeggio e culminavano in un’increspatura nel pavimento.
Il Governatore si avvicinò al termine dei binari, rivelando con la luce della torcia una botola chiusa con un lucchetto. Si abbassò e inserì nella serratura la chiave che aveva precedentemente nascosto negli abiti appena indossati. Udì lo scatto del lucchetto, lo sfilò e si mise sul bordo della botola. Poi, con un calcio, spalancò le ante verso il vuoto sottostante.
Prese un borsone situato alle spalle dell’apparecchio, ne controllò il contenuto e lo ripose all’interno della sua cabina di trasporto.
Poi, si infilò anche lui all’interno.
Premette alcuni comandi e la cabina emise un suono di attività.
Impostò le coordinate di atterraggio e chiuse l’apparecchio.
Questo iniziò a muoversi sui binari fino a cadere direttamente nella botola.
I rivoltosi non lo avrebbero mai trovato, ma il Mondo di Sotto lo avrebbe presto conosciuto.

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