Fragments of a Silent Heart

di Snow_Elk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuori Piove ***
Capitolo 2: *** Nelle strade, sotto gli ombrelli. ***
Capitolo 3: *** Una lunga pausa caffé ***
Capitolo 4: *** Parole senza voce ***
Capitolo 5: *** Era solo un venerdì ***
Capitolo 6: *** Il silenzio di una sigaretta. ***
Capitolo 7: *** Quanto è lungo un attimo? ***
Capitolo 8: *** Gli echi di un abbraccio ***



Capitolo 1
*** Fuori Piove ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento I - Fuori Piove


Fuori piove. Continua da ore ormai, non riesco a capire se è notte o giorno, non che me ne freghi più di tanto.
Mi giro dall’altra parte, perché il cuscino è così scomodo?
Ho un terribile mal di testa, devo aver bevuto troppo ieri sera. Di nuovo.
Non so neanche come sono riuscito ad arrivare nel letto, ma una cosa me la ricordo: l’ho vista, l’ho vista di nuovo, ma era veramente lei?
Cerco di ricordare, ma è tutto confuso, non avevo detto che avrei smesso con l’alcool? Stronzate, riesco ancora a sentirne il sapore in bocca, è amaro, come se lo avessi appena bevuto. Quanti bicchieri? Non so, non ha importanza.
La sveglia suona, riconosco la canzone, si perde nelle ombre della camera.
Fuori continua a piovere, cerco il cellulare con la mano, lo colpisco, cade a terra e il suono della sveglia scompare nel nulla, inghiottito dal silenzio. Fanculo.
Non ricordavo di aver messo la sveglia, non ricordo nemmeno che giorno è. Iniziamo bene.
Apro gli occhi, sento il tintinnio delle gocce contro la finestra: la stanza è immersa nella penombra, la luce entra timida dal vetro, superando la tenda, perdendosi nei vestiti buttati a terra, nel caos che c’è sulla scrivania. Tra le pieghe delle coperte. E’ mattina.
Dov’è Phil? Il suo letto è in ordine, la scrivania è vuota, probabilmente non è ancora tornato, credo.
“Era davvero lei?” Non capisco perché continuo a chiedermelo, non posso rispondere. Non conosco la risposta. E poi che cosa cambierebbe?
Mi tiro giù dal letto, ho bisogno di un’aspirina, e l’intera camera sembra girare intorno a me, ma non mi importa.
La cerco nel cassetto, eccola, prendo la bottiglia dell’acqua abbandonata sul comodino accanto ai libri da leggere: la lascio sciogliere direttamente nella bottiglia, sento lo sfrigolio della pillola, è fastidioso. Non ricordavo che avesse un sapore così orribile, ma è sempre meglio dell’alcool. Devo assolutamente prepararmi o farò di nuovo tardi a lezione. Che giorno è? Mercoledì?
Qualcuno bussa alla porta della camera, è chiusa. Perché l’ho chiusa?
- Ehi, Alan. Alan! Avanti, lo so che sei sveglio, ti ho sentito! – è Phil, non pensavo sarebbe tornato così presto.
- Arrivo! – gli urlo, per farmi sentire, prima che ricominci a bussare.
Mi avvicino barcollando alla porta, l’aspirina non ha ancora fatto effetto, giro la chiave nella serratura, la maniglia si abbassa e lui entra: i suoi occhi chiari mi squadrano come se fosse la prima volta che mi vede. È sempre stato così biondo?
- Cazzo! Post sbornia, eh? -  sorride beffardo mentre trascina il trolley blu in camera.
- Già, devo aver esagerato ieri sera – gli rispondo, lasciandomi andare sulla sedia accanto sulla scrivania. La testa continua a girare, ho bisogno ancora di qualche minuto.
- Quante volte ti ho detto che non devi bere senza di me? Finisci sempre così – continua a sorridere, sembra che ci prenda gusto a vedermi ridotto in questo stato. Philip è il mio compagno di stanza, il mio coinquilino, ma ormai è diventato un vero e proprio amico, qualcuno con cui chiacchierare la sera tardi finché il bicchiere di vino non è vuoto.
- Sì mamma – cerco di ironizzare, ma non con il tono che vorrei. Phil scoppia a ridere, abbandonando il trolley accanto al letto e voltandosi verso di me. Vedo i miei occhi castani riflettersi nei suoi.
- Sei messo davvero male – dice, annuendo alla sua stessa osservazione.
- Dici? – gli chiedo, conoscendo già la risposta.
- Già, dovresti darti una sistemata. Hai lezione? – ha smesso di fissarmi, si è poggiato sul bordo della scrivania, guarda fuori dalla finestra. Dal giubbotto nero scivolano alcune gocce d’acqua.
- Credo di sì – mi basterebbe guardare il piccolo foglio attaccato al muro per averne conferma, ma non ne ho voglia, osservo la pioggia. Mi rilassa.
- Di certo non puoi andarci con quella faccia, vado a preparare il caffè – mi dà una pacca sulla spalla e si dirige in cucina, canticchiando un motivetto familiare.
Ha ragione, dovrei proprio darmi una sistemata.
Una doccia veloce, jeans e t-shirt, i capelli neri lasciati umidi, non ho voglia di stare davanti allo specchio col phon. Prendo una felpa grigia, fa più freddo di quanto immaginavo.
Phil è ancora in cucina a canticchiare, un giorno capirò come fa ad essere così euforico la mattina, io mi sento ancora uno zombie.
La stanza è illuminata nonostante la pioggia e stranamente in ordine: non c’è nulla sul tavolo, le sedie sono tutte in ordine e il lavello è vuoto. Ieri sera devo aver puntato direttamente alla camera da letto senza fare danni. Guardo oltre il piccolo muro che divide la cucina dal soggiorno, anche lì sembra tutto normale. Meglio così.
L’aspirina ha fatto effetto, la doccia mi ha rimesso al mondo e il caffè bollente farà il resto.
- Oh bene, adesso ti riconosco! – esclama, alzando i pollici in segno di approvazione.
- Sei un’idiota – sibilo, sedendomi al tavolo, l’aroma del caffè sta invadendo l’intera stanza. Mi è sempre piaciuto, trasmette tranquillità. Prendo una delle tazzine ferme accanto alla moka.
- Mai quanto te, è la terza volta che fai questa fine in due settimane – sa sempre dove colpire: incasso il colpo e inizio a sorseggiare il caffè.
Finalmente il sapore dell’alcool è svanito. Rimango in silenzio, sinceramente non so cosa dire.
- Si può sapere che hai? Sembra che ti ha investito un tir – non sono mai stato bravo a nascondere le cose, tanto quanto Phil è bravo a scoprirle.
- L’ho vista, di nuovo – poggio la tazzina vuoto sul tavolo e lo guardo negli occhi – Ieri sera, vicino al pub sul lungofiume – Phil mi fissa perplesso.
- Ancora? Quanto tempo è passato da… beh… da quando è finita? –
- Tre mesi o giù di lì – in realtà mi sembra sia passata una vita. Dicono che ognuno ha la sua concezione del tempo. Io non ho ancora trovato la mia.
- Avete parlato? – Phil sfila una sigaretta dal pacchetto che tiene sempre nella tasca dei pantaloni e me ne allunga un’altra.
- No, non hai capito, mi è successa di nuovo… quella cosa – afferro la sigaretta, la accendo non appena mi passa lo “zippo” e faccio un lungo tiro: il sapore aspro del tabacco si mescola a quello aromatizzato del caffè. Espiro, la nuvoletta di fumo si perde nell’aria, nel tintinnio della pioggia.
- Sei serio? Ancora? – Phil espira lentamente, osserva il fumo e ticchetta sul filtro della sigaretta: lo fa sempre quando è pensieroso.
- Ti sembra che abbia voglia di scherzare? – faccio un altro tiro – Ero lì con alcuni colleghi a bere, niente di particolare, poi l’ho vista passare fuori, di sfuggita, mi sono precipitato all’uscita. Era vicino al lungo fiume e c’era qualcun altro con lei… -
- Chi? – Phil sembra molto preso dal mio racconto, la sigaretta gli si sta consumando tra le dita. Vado avanti.
- Io -
- Cosa?! Aspetta, era così anche le altre volte? – lascia cadere la cenere nella tazzina ormai vuota e riprende a fumare.
- Sì, mi sono ritrovato a rivivere uno dei tanti momenti che avevamo passato insieme, ma da spettatore. Che cazzo mi sta succedendo, Phil? – spero davvero che possa darmi una risposta, non voglio pensare che sto impazzendo. Era tutto così reale.
- Non lo so, nessuno oltre a te ha visto tutto ciò? -  scuoto la testa, Phil torna a ticchettare il filtro più pensieroso di prima.
- È strano, molto strano, ma c’è sempre una spiegazione, anche a questo genere di cose, ne sono sicuro – non riesco a capire se sta parlando con me o con sé stesso. Rimango in silenzio, ad ascoltare la pioggia. Guardo l’orologio appeso al muro: le 7.42, ho ancora tempo.
- Penso che tu debba parlare con lei – mi guarda, spegne la sigaretta nella tazzina e continua a fissarmi.
- E questo dovrebbe risolvere la cosa? –
- Non saprei, ma è comunque un inizio, no? -  mentre lo dice si alza, continua a parlare tra sé e punta alla camera, lasciandomi da solo.
Parlare con lei. Sono mesi che non parliamo, da quel giorno. Forse Phil ha ragione: quelle visioni continueranno finché non parlerò con lei. Mi accendo un’altra sigaretta e mi avvicino alla finestra, pensando a quelle scene, ai miei ricordi. Fuori piove.

 

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Capitolo 2
*** Nelle strade, sotto gli ombrelli. ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento II – Nelle strade, sotto gli ombrelli.


- Phil io esco, ci si vede a pranzo! – urlo sull’uscio della porta. Nessuna risposta.
- Phil! – riprovo, è la sua ultima chance.
- Sì, sì, ho sentito. A dopo! – sto per chiudere la porta ma lo sento urlare di nuovo -Ah, dimenticavo, comprami le sigarette, io oggi resto a casa a studiare –
- D’accordo – non è la prima volta che me lo chiede e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima, ma visto che le fumo anch’io mi sembra un buon compromesso.
Zaino in spalla, ombrello in mano, cuffiette per rimanere nel mondo senza i suoi rumori.
Mi piacerebbe ascoltare la pioggia, ma il caos del traffico andrebbe a rovinare tutto.
Sono davvero passati solo tre mesi? Scendo le scale con calma.
Quando pioveva scattava automaticamente la giornata “film”: divano, patatine, qualcosa da bere e un film, non serviva altro, o forse qualche sigaretta giusto per spezzare. Erano giornate che passavano lentamente, ma con lei sembravano volare via.
Perché l’ha fatto? Perché ha dovuto mandare tutto a puttane? Continuo a chiedermelo ogni santo giorno, senza trovare una risposta, come qualsiasi altra cosa che la riguarda.
Cazzo, ormai sembra che stia cercando di parlare di un estraneo e non della mia ragazza, beh, ex ragazza. Come siamo arrivati a questo?
Il dannato portone continua a non aprirsi al primo colpo, ci riprovo tre volte e finalmente mi lascia passare, spero di non perdere il bus, non voglio rimanere sotto la pioggia ad aspettare il prossimo.
Forse dovrei davvero ascoltare il consiglio di Phil: chiamarla, invitarla a vederci da qualche parte e parlare. Già, parlare, come se fosse facile.
Da quel giorno abbiamo smesso di sentirci, niente chiamate, niente messaggi, neanche un “Ciao” e da una parte sono felice che sia andata così: era un modo come un altro per non pensarci, per lasciare che il tempo facesse la sua parte.
Andava tutto bene, finché non sono iniziate le visioni.
C’è parecchio movimento in strada oggi, un fiume di ombrelli e gambe che si muove senza sosta sul marciapiede e poco più in là un mostro di metallo e vetro.
Continua a piovere, lo vedo soltanto, sotto l’ombrello sono immerso nella musica, tutto ciò che va oltre è semplicemente silenzioso. Meglio così.
È da due settimane circa che mi capita, ogni volta che mi ritrovo in un luogo o in locale dove avevo passato del tempo insieme a lei eccola che spunta dal nulla, talvolta da sola, talvolta insieme a me: mi sembra di tornare nel passato, di rivivere un ricordo, oppure la scena di un futuro che non c’è più, ma non appena mi avvicino scompare tutto come se niente fosse.
Sono l’unico che vede queste “cose”, l’unica volta che ho provato a chiedere a Mark, un mio collega, mi ha riso in faccia per un quarto d’ora buono, dicendo che non avevo bevuto abbastanza e che stavo dando i numeri più del solito.
C’è ancora gente in attesa alla fermata, sono in tempo per prendere il bus. Mi avvicino, cercando di non urtare gli ombrelli altrui e osservo un po' i volti che sembrano nascondersi sotto quei tetti di tessuto: sono tutti presi dai loro problemi, sembrano ignorarsi a vicenda, negli occhi aleggia quasi la paura che l’altro possa avvicinarsi e attaccare bottone.
In parte li capisco, neanch’io oggi ho molta voglia di parlare e per certi versi la pioggia in questo senso non aiuta. Siamo tutti lì fermi ad aspettare il bus, dopodiché ognuno tornerà alla propria vita non appena sentirà la sua fermata.
C’è chi guarda la strada, impaziente di scovare la sagoma del bus in mezzo a quell’oceano di macchine che si mescolano nella pioggia, chi invece ha lo sguardo fisso sul proprio smartphone e se ne frega di ciò che lo circonda e poi ci sono io.
Ho sempre passato il tempo necessario ad arrivare a lezione ascoltando la musica e osservando le persone, i loro atteggiamenti, i loro gesti. Gli sguardi.
Perché è negli occhi che si nascondono le persone, ciò che sono, quel che vogliono dire.
I suoi erano grandi e scuri, rischiavi di caderci dentro se li fissavi troppo a lungo. Erano comprensivi, trasmettevano felicità e leggerezza, finché non sono diventati freddi e distanti. Quando? Quando è iniziato a precipitare tutto?
Il bus appare all’orizzonte, la gente inizia ad accalcarsi sul bordo del marciapiede, vogliono tutti un posto, ma tutti sanno che finiranno per ritrovarsi in piedi, ben stretti ad uno dei tanti “ganci” per non volare via non appena il bus frena.
Rimango fermo mentre la folla si riversa nel mezzo, non mi interessa il posto a sedere, le fermate prima della facoltà sono poche, qualche passo in avanti e mi lascio le porte automatiche che si chiudono alle mie spalle.
Per alcuni è una posizione scomoda, io invece la trovo comoda: ogni volta che qualcuno scende, o sale, le porte si aprono e puoi respirare. Aria fresca.
Oggi l’aria ha il profumo della pioggia, un motivo in più per prendere quella posizione.
Quante volte ho viaggiato su questi bus insieme a lei? Quante volte mi sono seduto in silenzio aspettando di arrivare vicino casa sua? Troppe.
Il mezzo riprende la sua corsa, i passeggeri sono di nuovo immersi in quel mormorio di discorsi e frasi lasciate a metà. Cambio canzone, ci vuole qualcosa che mi tenga sveglio, mentre il caffè fa ancora fatica a fare effetto.
Dovrei smettere di pensare a lei e a tutto ciò che la riguarda, ma non ci riesco, anzi ogni volta che sembra fatta ecco che rispunta questo o quel ricordo ed è come ricominciare da capo. Fanculo, mi chiedo da che parte sta il mio cervello.
Tiro fuori lo smartphone, cerco il suo numero, mi basterebbe premere il pulsante verde e togliermi questo peso di dosso, ma c’è qualcosa che mi blocca.
No, non è il caso di chiamarla adesso, non mentre sono in bus, non con tutta questa gente che fa finta di essere persa nei propri pensieri ma che recupera tutta l’attenzione non appena sente qualcuno parlare al telefono.
Sotto sotto siamo tutti ficcanasi, vogliamo sempre sapere cosa sta succedendo, non importa a chi, basta saperlo.
Il bus frena, un tipo borbotta contro l’autista, altri ridono perché qualcuno è inciampato. Le porte si aprono per far scendere un piccolo gruppo, una boccata d’aria fresca, prima di ripartire.
Forse potrei mandarle semplicemente un messaggio, veloce e diretto.
No, Phil avrà anche ragione, ma prima di contattarla voglio vedere se mi capiterà di nuovo, se avrò un’altra di quelle visioni. Se accadrà le scriverò. Ho deciso.
Il bus si ferma, cazzo, quasi non mi accorgo che è la mia fermata.
Mi affretto a scendere, apro l’ombrello mentre le porte si chiudono, mi guardo intorno, non c’è nessuno che conosco, i miei colleghi saranno già in aula. Dopotutto sono io sempre il ritardatario, devo ammetterlo.
Sento la tasca vibrare, mi fermo e tiro fuori lo smartphone: è un messaggio di Mark.
“Ehi, si può sapere dove sei? Ti ho tenuto un posto, muovi il culo!” sorrido, quel maledetto riesce sempre a strapparmi un sorriso con le sue risposte del cazzo.
Mi incammino a passo spedito verso la facoltà, ho ancora qualche minuto prima che la lezione inizi, inviando un semplice “Arrivo!” per tranquillizzare Mark, prima che inizi a tartassarmi di chiamate solo per farmi perdere la pazienza, ormai è diventato uno dei suoi passatempi preferiti.
Ci sono molti altri studenti come me che corrono verso la facoltà, con gli ombrelli che oscillano sopra le loro teste, anche loro in ritardo come me, chi per un motivo chi per un altro.
Mi fermo davanti all’entrata, chiudo l’ombrello e lascio che la pioggia mi dia il colpo di grazia per risvegliarmi, giusto qualche goccia. Mi guardo alle spalle, verso il viale senza fissare niente in particolare.
Spero di non avere altre visioni, spero che questa faccenda finisca nel dimenticatoio insieme a tutto ciò che la riguarda. Voglio solo andare avanti.
- Ehi Al! – qualcuno mi afferra per un braccio e inizia a trascinarmi dentro.
- Stai ancora dormendo? Muoviamoci, ci aspetta l’ennesima lezione noiosa – Jane mi lancia un mezzo sorriso, senza neanche aspettare una mia risposta e continua a trascinarmi verso l’aula.
Sta parlando di qualcosa ma non la sto ascoltando: per un attimo, in mezzo agli studenti che si avvicinavano alla facoltà, mi è sembrata di vederla.
Lasciami in pace, Christie.
 

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Capitolo 3
*** Una lunga pausa caffé ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento III – Una lunga pausa caffè.

Note dell'autore: Uhm, mi ero dimenticato di specificare una piccola cosa a riguardo di questa storia. E' tutta improvvisata, nel senso che a differenza degli altri racconti questo è scritto sul momento, si evolve nel preciso istante in cui lo scrivo. Spero vi piaccia e che continuerete a seguirla. Grazie a tutti e buona lettura!

- L’hai vista anche... – sto per chiedere a Jane se l’ha vista anche lei, ma qualcosa mi trattiene, conosco già la risposta.
- Come scusa? – si gira verso di me, fermandosi in mezzo alle scale e mi osserva con i suoi occhi verdi.
- No, niente, lascia perdere – mi fissa perplessa – Muoviamoci o perderemo i posti e Mark si incazzerà come al solito suo – mi sembra quasi di balbettare quella risposta.
- Hai ragione, andiamo! – continua a trascinarmi per il braccio, per poco l’ombrello non mi vola via mentre tento di chiuderlo sotto lo sguardo incredulo degli altri studenti.
Mi viene quasi da ridere: in facoltà ne succede una diversa ogni giorno, c’è sempre qualcosa di nuovo e mi sta bene così, mi aiuta a non pensare, a svagare.
Il corridoio al primo piano è semivuoto, c’è solo qualche ritardatario che si guarda intorno sconfortato o ancora assonato e i classici “che faccio, entro?” che fanno avanti e indietro alla porta dell’aula. Due volte su tre tornano a casa, vai a capire perché.
Jane si ferma davanti alla porta della nostra aula, la sette, e guarda dentro per cercare gli altri mentre io rimango alle sue spalle in attesa, mi fermo un attimo a guardare la pioggia fuori dalle grandi finestre. E’ ipnotica.
- Al – Jane mi guarda, è ancora sul ciglio della porta.
- Non dovremmo entrare? – le chiedo, distogliendo lo sguardo da quella scena che si ripete all’infinito, secondo per secondo.
- Come stai? Ti vedo un po'… assente, ecco – la sua preoccupazione è sincera, lei è sempre stata l’infermiera del gruppo, quella che si preoccupa per tutti.
- Sto bene, ho solo bisogno di un altro caffè, sto ancora dormendo – accenno un mezzo sorriso e qualcosa di vagamente simile ad uno sbadiglio.
Jane continua a fissarmi, forse non si è bevuta la storia del sonno, ma poi mi sorride a sua volta e mi fa cenno di entrare in aula, ormai le nove sono passate da un pezzo, ma del professore non c’è traccia.
Ironico che alla fine sia stato proprio lui a fare ritardo. L’aula è piena, non c’è un solo posto libero, fatta eccezione per i due che Mark ci ha tenuto al sicuro con tanta premura.
C’è un frastuono assordante, un brusio di voci che si accavallano una sull’altra, ognuno ha qualcosa da raccontare, ognuno vuole essere ascoltato, ma con quel casino ben pochi capiscono davvero chi sta dicendo cosa.
Superiamo le prime file e raggiungiamo la metà dell’uomo, dove il gruppo e il buon Mark si sono accampati come sempre, di questo passo mi aspetto che ci dedicheranno le targhette ufficiali con i nomi, o ce le faremo noi da soli per andare sul sicuro.
- Buongiorno! – esclama Jane lanciandosi contro Steve ed Helen.
- Giorno! – mi accodo anch’io, apparendo alle sue spalle, salutando tutti.
Ci sediamo, lasciando i giubbotti appesi e gli ombrelli ancora gocciolanti accanto, in mezzo alla selva creata dagli altri studenti. Guardo i ragazzi del gruppo, nonostante la giornata “grigia” a causa della pioggia sembrano tutti felici, riesco quasi a percepire quella sensazione, forse dovrei lasciarmi andare e farmi catturare anch’io.
- Ehi cazzone, alla fine ce l’hai fatta – Mark mi dà un mezzo spintone e sfoggia il suo sorriso migliore, quello da “faccia da schiaffi” che si tira dietro ogni volta.
- Avevi dubbi? – ricambio lo spintone – Ci ha pensato Phil a tirarmi giù dal letto. Ho sempre un asso nella manica – inizio a tirar fuori il classico quaderno degli appunti, scarabocchiato e consumato da un utilizzo indiscriminato, ma ormai mi ci sono affezionato.
- Non posso sempre tenerti il posto, principessa, di questo passo ti chiederò di pagarmi – osserva Mark, sfilando il suo fidato taccuino e la penna mordicchiata.
­- Continua a sperarci – i suoi occhi chiari mi fulminano trasmettendo un diretto “Fottiti” senza mezzi termini e in quel momento il professore entra.
Il brusio diminuisce, ognuno prende il suo posto e qualcuno inizia già a sospirare, consapevole che quelle due ore non passeranno mai.
Helen e Steve sono tornati a confabulare tra di loro, sembrano davvero una coppia, ma continuano a negare categoricamente di stare insieme o anche solo di piacersi. Che idioti.
Jane si sta stiracchiando accanto a me, ignorando tutto ciò che la circonda, finché non torna di colpo a calcolarmi: - Sei pronto per le due ore più pallose della settimana? – annuisco, scoppiando a ridere insieme a lei, con Mark che ci osserva come se fossimo dei pazzi. Sono questi i momenti che ti fanno davvero spegnere il cervello e li adoro, non riuscirei a farne a meno.
La lezione prosegue, sembra infinita, saranno passati neanche 45 minuti e già non ne posso più, non riesco a concentrarmi per prendere appunti, la mia mente sta viaggiando altrove, mentre gli altri sembrano riuscirci, tutti tranne Mark: lui è passato dal prendere appunti al mordicchiare il tappo della penna fissando fuori. Starà viaggiando anche lui, proprio come me, e probabilmente è per questo che è il mio migliore amico. E per molti altri motivi.
- Pausa caffè? – sussurra Mark abbassando la testa per sfuggire allo sguardo da sentinella del professore.
- Pausa caffè – confermo io e a ruota anche gli altri rispondono al suo appello.
Cerchiamo di sgattaiolare via dall’aula senza dare troppo nell’occhio, uno alla volta, così da non destare sospetti e ci ritroviamo tutti davanti alla macchinetta del caffè al piano terra, il nostro piccolo rifugio: una posizione tattica, accanto ad una delle uscite che conduce nell’immenso cortile in parte coperto dalle tettoie.
- Stavo iniziando a preoccuparmi, Mark, pensavo che oggi non avresti proposto la pausa caffè – esordisce Steve, ordinando il suo amato cappuccino con chili e chili di zucchero. Tutti ci chiediamo come faccia a non avere già il diabete.
- Ce la saremmo presi lo stesso, non è che deve per forza proporla lui – risponde Helen sorseggiando il suo espresso. I suoi occhi scuri viaggiano da un volto all’altro.
- Io questo corso davvero non lo reggo, mi uccide i neuroni – osservo mentre ordino un caffè macchiato.
- Non che ci voglia molto per ucciderli – Jane mi lancia una frecciatina e gli altri scoppiano a ridere.
- Vale lo stesso per te – contrattacco e le risate si intensificano. Sono battute stupide, alcune riciclate all’inverosimile, ma riescono sempre a strapparci un sorriso e una risata.
Ognuno finisce la propria bevanda, chiacchierando del più e del meno, sotto la tettoia del cortile, per il momento ha smesso di piovere ma le nuvole sembrano sussurrare che presto il tintinnio riprenderà.
Come al solito ci fumeremo una sigaretta e torneremo in aula, cercando di seguire, o almeno provarci, nessuno vuole ammettere che veniamo a questo corso più per vederci che per seguirlo. “Andrà meglio col prossimo, ormai il semestre è finito” ci ripetiamo ogni volta.
- Che cosa vogliamo fare stasera? Bowling? Cinema? - chiede Steve, con già la sigaretta accesa che gli si consuma tra le labbra.
- Bowling, bowling! E’ da troppo tempo che non ci andiamo – risponde Helen quasi euforica.
- Ma se andassimo a farci una birra a quel nuovo pub che hanno inaugurato settimana scorsa? Sembra carino – propone Jane mentre cerca l’accendino.
Sto per dire la mia a riguardo quando Mark si avvicina:
- Stai ancora pensando a lei, vero? – con i capelli castani chiari increspati dall’umidità sembra quasi uscito da una pubblicità per lo shampoo e sto per scoppiare a ridere, ma il suo sguardo è serio.
- Ogni tanto – faccio un tiro e rimango in silenzio.
- Sii sincero, non dire cazzate –
- Spesso, più di quanto vorrei, e quelle cazzo di visioni continuano a perseguitarmi –
- Un bel casino – osserva Mark lasciando scivolare la cenere a terra, gli altri non ci stanno calcolando, troppo presi a decidere i piani per la serata.
- Già, un bel casino. Ne ho parlato anche con Phil e secondo lui dovrei chiamarla, insomma parlarci, magari faccia a faccia.  Secondo lui così le visioni finiranno –
- Ascolta – Mark si avvicina e mi prende sotto braccio – Fa passare la giornata, stasera andiamo a divertirci come si deve e domani penseremo al da farsi, che ne dici? –
- D’accordo – mi limito a rispondere, non è una cattiva idea e quando Mark si mette in testa qualcosa è difficile smuoverlo.
- Avanti ragazzi rientriamo, o rischiamo di passare l’intera lezione qui – propone Jane incamminandosi verso le scale e gli altri la seguono. Non ho neanche capito se hanno deciso o meno cosa fare stasera, pazienza.
- Finisco di fumare e vi raggiungo – rispondo e sento un flebile “va bene” da parte di Mark mentre raggiunge gli altri che sono tornati a discutere animatamente in mezzo alle scale. Mi ritrovo da solo a riflettere sulle parole di Phil, sulla proposta di Mark, su cosa penso io stesso. “È un bel casino”
Un ultimo tiro e mi lascio alle spalle il cortile bagnato e il mozzicone a terra che si spegne lentamente. Penso rimarrò altri cinque minuti fuori, meno ascolto quel professore e meglio è.
Sono fermo davanti alle scale quando qualcuno mi urta alle spalle e sento cadere dei libri. Per poco non cadevo anche io.
- Ehi, guarda dove cammini, mi hai fatto male! – esclamo, leggermente nervoso, chiedendomi come sia possibile che non mi abbia visto.
A terra c’è una ragazza: cappelli corvini, occhi dello stesso colore del caffè. Mi fissa e non dice nulla. Sospiro, massaggiandomi un attimo la schiena nel punto in cui mi ha colpito e mi piego per aiutarla a raccogliere i libri sparsi sul pavimento.
- Tutto bene? – le chiedo, ma non ottengo alcuna risposta. La vedo scarabocchiare qualcosa su un foglio per poi passarmelo.
“Scusami” c’è scritto “Ero di fretta e non ti ho visto”
- Ma perché… - la fisso perplesso e prima ancora che possa finire la frase mi passa un altro foglietto con una frase scritta a matita.
“Mi dispiace, non posso sentirti… sono sorda”.

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Capitolo 4
*** Parole senza voce ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento IV- Parole senza voce

"Scusami, sono stato davvero uno stupido” scarabocchio sul foglio, cercando malamente di scusarmi per la figura di merda che ho appena fatto.
“Tranquillo, mi succede spesso. Io sono Lizbeth, scusami se ti ho urtato, ero di fretta” ha una bella grafia, leggera.
“Io sono Alan, piacere. Scuse accettate, direi che siamo pari” parlare tramite quel foglio e la matita, in mezzo all’atrio della facoltà è davvero strano, ma lei lo fa sembrare quasi normale.
Legge la mia ultima risposta, mi sorride, raccoglie i suoi libri. Mi rialzo e la osservo per qualche secondo senza dire nulla, anche perché sarebbe inutile.
Mi sorride, muove due dita a forma di “V” lungo il braccio e poi si allontana come se niente fosse. Che ragazza strana. Lizbeth, ha detto di chiamarsi Lizbeth.
Ritorno in aula a seguire la lezione, aspettando che si concluda per quel poco che rimane e il resto della mattinata sembra scivolare via come le gocce di pioggia sulle foglie degli alberi nel cortile.
Continuo a non capire lo scorrere del tempo, mi viene da pensare che faccia seriamente di testa sua, infischiandosene degli altri e di tutto il resto. Quasi lo invidio, dovrei farmi dare qualche dritta a riguardo.
Saluto gli altri, dopo aver chiacchierato ancora un po' sul da farsi per la serata, guardando l’orologio che segna le 13:10. Se non mi sbrigo a tornare a casa Phil me ne dirà di tutti i colori, affermando per l’ennesima volta che faccio volontariamente ritardo per evitare di dover cucinare. Forse ha ragione, ma non gli darò mai la soddisfazione di saperlo.
- Ci vediamo stasera alle 9, nella piazza dell’orologio! – mi urla Mark agitando le braccia da sotto l’ombrello mentre mi allontano.
- D’accordo, alle 9 in piazza! – esclamo di rimando per dare conferma che ho ricevuto il messaggio. Alla fine, nello scontro delle proposte, ha vinto Helen e il bowling.
Mi incammino verso la fermata del bus, sotto la cupola del mio piccolo ombrello, perché continua a piovere, non ha mai smesso di piovere.
Sono di nuovo perso nei pensieri, ripenso al fatto che ho visto Christie davanti la facoltà, non ci sono dubbi che fosse lei, alla serata che mi aspetta insieme agli altri, a Phil che starà fissando l’orologio preparando gli insulti da lanciarmi addosso e quello strano incontro.
Davanti alla pensilina c’è una piccola folla di persone, più del solito, mentre le macchine sfrecciano da una parte all’altra mi avvicino per capire cosa sta succedendo.
Alcuni stanno discutendo sotto la tettoia in acciaio, altri si muovono nervosamente da una parte all’altra del marciapiede. La risposta viene da sé non appena riesco ad intravedere lo schermo degli orari. Il bus è in ritardo di quindici minuti.
Fantastico, ma c’era da aspettarselo, probabilmente la pioggia e il traffico saranno i principali colpevoli.
Sospiro, armandomi di pazienza, ignorando la signora accanto a me che sta cercando di spiegare in tutti i modi al figlio che non riuscirà a tornare a casa in tempo per preparare il pranzo. Sorrido, pensando che non sono l’unico in questa posizione.
Sfilo lo smartphone dalla tasca, mentre la musica inizia a serpeggiare nelle cuffiette, e mando un messaggio a Phil per avvisarlo del mio ritardo, questa volta giustificato in piena regola.
Ho la tentazione di accendermi un’altra sigaretta nell’attesa, ma mi trattengo, ultimamente sto fumando troppo e per quanto mi aiuti a rilassarmi dovrei darmi una regolata. Mi farò bastare la musica, andrà più che bene.
Ad un tratto sento qualcuno tirarmi la manica del giubbotto, mi volto cercando di non urtare le altre persone che stanno aspettando con impazienza il bus e la vedo. E’ di nuovo lei, la ragazza sorda. Lizbeth.
Tira fuori di nuovo quel suo piccolo sorriso dopo avermi visto, forse non pensava che fossi io.
- Ehi ciao – la saluto, ma poi mi accordo che non può sentirmi. Che idiota.
 Estrae un taccuino dalla tasca laterale dello zaino e si mette a scrivere:
“Scusa se prima sono andata via di corsa, ma ero in ritardo per una lezione”
Scoppio in una piccola risata: oggi sembra che sia la giornata dei ritardatari e tutto ciò mi fa sentire a mio agio, quanto vorrei che ci fosse Mark per mostrargli che non sono l’unico che ha qualche problema con l’essere puntuale. In tutto.
Sto per afferrare il taccuino per risponderle, ma lei continua a scrivere con una penna minuscola.
“Volevo ringraziarti”
Non riuscirei mai a scrivere con tanta facilità su quel taccuino, sotto la pioggia, in mezzo a tutta quella gente, così tiro fuori lo smartphone e digito la mia risposta nel blocco note. E’ sempre meglio di niente.
“E per cosa?” le chiedo.
“Mi hai risposto. Di solito le persone quando mi vedono scrivere invece di parlare mi reputano strana, non sanno cose comportarsi nei miei confronti. Provano imbarazzo e se ne vanno. Tu sei rimasto”
Leggo quel messaggio quasi con stupore, accorgendomi di quanto quella discussione in silenzio sia così surreale, lei è davanti a me eppure nessuno dei due apre bocca.
“Non mi sembra di aver fatto chissà cosa, comunque non c’è di che”
In lontananza, nel serpente metallico che invade la strada, riesco ad intravedere le luci del bus, i vetri rigati dalla pioggia. Non so cos’altro scrivere: non è così facile scrivere ciò che si vorrebbe dire a voce. E’ strano.
“Che gesto era quello che hai fatto prima di andartene?” le chiedo per pura curiosità.
Lei legge il messaggio, rimane un attimo a riflettere e poi mi guarda e riproduce il gesto, lentamente, allontanando la “V” dal braccio nel momento finale, poi riprende il taccuino.
“E’ il linguaggio dei segni, significa -ci vediamo- o -alla prossima-“
Il linguaggio dei segni, sto ancora provando a riprodurre quel gesto che il bus frena alle mie spalle e la gente inizia ad avvicinarsi con insistenza verso le porte.
 “E’ il mio bus, devo andare, è stato bello incontrarti, Lizbeth” le faccio leggere il messaggio, lei annuisce e prima che me ne accorga sto riproducendo quel gesto a V, “ci vediamo”. Lei sorride nel vederlo, un sorriso da “Bravo, l’hai fatto bene”.
La calca dei pendolari e dei ritardatari mi trascina verso l’entrata del bus, ma prima che le porte si chiudano lasciando fuori la pioggia riesco a vederla: le dita  “V” lungo il braccio, dopodiché afferra il taccuino e me lo mostra, c’è sopra una frase scritta più grande del solito.
“Puoi chiamarmi Liz”
Il bus riparte nella sua eterna corsa, lei e gli altri rimasti accanto alla pensilina diventano sagome sempre più piccole che ben presto si perdono nella pioggia come ogni altra cosa.
La strada scorre oltre i finestrini, le fermate si susseguono una dietro l’altra, mentre rimango immerso nella musica e in nuovi pensieri. Dopotutto sembrava simpatica, Liz, con quel suo taccuino e il linguaggio dei segni.
Mi accordo di sorridere mentre tento di riprodurre di nuovo il gesto del “ci vediamo” beccandomi qualche sguardo curioso da alcuni passeggeri, ma mi blocco:
non provavo una sensazione simile quando ho conosciuto Christie tanto tempo fa? Una sensazione di leggerezza, di tranquillità.
Mi mordo le labbra: finisco sempre per ricollegare ciò che faccio o ciò che vivo a lei, lo faccio involontariamente e non appena me ne accorgo vorrei prendermi a pugni da solo.
Che cos’è l’amore? Come può qualcosa di così bello lasciarti addosso uno schifo del genere? Ho perso il conto di quante volte ho discusso di tutto ciò con Phil, Mark e gli altri, ma non siamo mai arrivati ad una conclusione logica. Probabilmente perché non esiste. Dicono che ci penso troppo.
Mentre il bus si avvicina alla mia fermata scuoto la testa: alla fine l’ho vista di nuovo, Christie, quindi come avevo promesso dovrò contattarla senza trovare altre scuse.
Voglio mettere la parola fine a questa storia, tornare a vivere senza dovermi ritrovare davanti ogni volta il mio passato. Inizia ad essere frustrante.
                                                       
                                                         […]
 
Alla fine Phil non mi ha lanciato addosso tutti gli insulti che mi aspettavo, si è limitato a fare un discorso contro i bus, il tempo di merda e le botte di culo che mi becco ogni volta che tocca cucinare a me.
Abbiamo pranzato con calma, chiacchierando del più e del meno, di come siamo messi con la preparazione degli esami e dei suoi continui flirt che ogni volta lo trascinano in qualche storia assurda.
Siamo ritornati anche sulla questione delle visioni, di Christie e dal fatto che ho finalmente deciso di contattarla, per fissare un incontro, per poter parlare faccia a faccia dopo tutto questo tempo.
- Beh io vado a studiare, i piatti toccano a te, è il minimo dopo l’ennesimo ritardo – Phil si congeda sghignazzando. Sembra quasi che abbia sporcato più cose del solito solo per farmi un torto. Che stronzo.
- Ci stai prendendo troppo gusto nel farmi fare il lavapiatti! – lo sento ridere dal corridoio e quella risata vale più di qualsiasi risposta.
Senza pensarci troppo mi metto all’opera e con un po' di musica di sottofondo il tempo passa velocemente e la mia avventura da “casalinga” si conclude.
Dovrei studiare anch’io, ma dopo la mattinata di oggi non ho proprio la testa per mettermi sui libri. Rimango seduto sul divano a fissare il nulla, per rilassarmi un po',  finché non mi decido a prendere il cellulare per scriverle.
C’è ancora il blocco note con i messaggi scritti per Liz, lo chiudo, devo essere concentrato. Cerco il numero di Christie, premo il tasto verde e sospiro.
Squilla, una, due, tre volte, alla fine risponde:
- Pronto? - risentire la sua voce mi fa uno strano effetto, fa risalire tante cose che avevo spedito nelle profondità dei ricordi.
- Ehi Christie -
- Ciao Al – dal suo tono di voce capisco che è stupita e forse anche un po' preoccupata.
- Come stai? – le chiedo, prima di passare al dunque.
- Bene, sono molto impegnata ultimamente, ma sto bene. Tu? –
- Solite cose, lezioni, esami, cose del…-
- Al – mi interrompe, il suo tono è cambiato – Perché mi hai chiamato? -

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Capitolo 5
*** Era solo un venerdì ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento V - Era solo un venerdì




- Dobbiamo parlare –  
- Di cosa? – mi chiede e rimango un attimo in silenzio.
- Di noi –
- Non c’è più un “Noi” Al – mi risponde e quella frase riecheggia nella mia testa più e più volte.
- Lo so – mi affretto a dire – Lo so… voglio solo chiarire alcune cose, tutto qui –
- Non possiamo farlo ora? – guardo fuori dalla finestra, ha smesso di piovere, per ora.
- No, preferisco parlare di persona, faccia a faccia –
- Ne sei sicuro? Avevamo detto che…-
- So cosa avevamo detto e sì, sono sicuro. Un solo incontro, non ci vorrà molto – mi stupisco della freddezza con cui sto affrontando la conversazione, meglio così.
- D’accordo, come vuoi – c’è freddezza anche da parte sua, è ironico pensare a cosa eravamo prima, a come parlavamo. Di colpo siamo tornati ad essere due estranei.
- Quando sei libera? –
- Venerdì, dovrei esserci venerdì pomeriggio. Va bene? –
- Sì, vada per venerdì pomeriggio. Ci vediamo al solito posto, alle tre –
- Okay – cos’è quella sensazione che sento nella sua voce? Non riesco a definirla, a capirla.
- Ciao Christie – chiudo la chiamata prima che lei possa rispondere, prima che io possa aggiungere altro. Mi abbandono sul divano, lasciando scivolare il cellulare in mezzo ai cuscini. Avrei potuto dirle tante cose, tirando fuori il male che mi porto dentro, eppure non l’ho fatto e probabilmente è stato un bene.
Venerdì pomeriggio, alle tre, nel piccolo parco dove tutto è iniziato e dove spero di far finire quelle dannate visioni. Ironico che mi ritroverò davanti quella reale dopo tutti questi giorni.
Cerco il pacchetto delle sigarette in tasca, ne sfilo una e me l’accendo, fissando il soffitto della stanza faccio un tiro: ho ottenuto ciò che volevo, un incontro faccia a faccia, ma alla fine so cosa dovrò dire? Da una parte penso di sì, dall’altra mi sento come uno studente che sta tentando di dare un esame senza aver mai aperto il libro.
Non posso certo parlarle delle visioni, mi prenderebbe per pazzo, direbbe che è stata solo una scusa per rivederci o qualcosa del genere.
No, meglio di no.
Chiarire, le ho chiesto di poter parlare per poter chiarire cosa è successo tre mesi fa, dopotutto Phil dice che le visioni sono causate dal fatto che non riesco ad accettare che sia finita, senza che abbia potuto fare nulla per cambiare le cose.
Faccio un altro tiro e mi alzo a malincuore dal divano: non posso perdere l’intera giornata dietro a questa storia, ho molte altre cose da fare, ma prima ho bisogno di una boccata d’aria.
Poso la sigaretta ancora accesa nel posacenere e mi infilo la felpa: fuori avrà anche smesso di piovere, ma non si sa mai.
Recupero la sigaretta e aspiro:
- Ehi Phil! Io sto uscendo a fare due passi, vuoi venire? –
La porta della camera si apre e sento un secco – Arrivo! – seguito dal suono di libri chiusi e penne che volano a terra.
 
                                                        […]
 
Venerdì, è già venerdì. Gli ultimi due giorni sono volati via e non me ne sono nemmeno accorto. La serata al bowling, i corsi pomeridiani, la cena a casa col gruppo in cui Phil ha dato spettacolo delle sue “doti da chef mancato”.
Sembra che tutto ciò sia successo un mese fa e invece è stato soltanto ieri.  Sarà che devo vedermi con lei, ma non riesco a capire come mi sento, cioè, voglio solo che anche questa giornata passi per poter riprendere la mia vita di sempre, con un peso in meno.
- Dev’essere davvero interessante – Mark sghignazza.
- Cosa? – chiedo, senza voltarmi.
- Quello che stai fissando fuori dalla finestra da circa un quarto d’ora – il resto del gruppo scoppia a ridere cercando di trattenersi per non farsi notare dal professore che sta spiegando l’ennesima slide.
- Già, è la tua laurea che se ne vola via, visto che non riuscirai mai a prenderne una – mi volto verso di lui con un sorriso a trentadue denti.
- Ti ha fregato – esordisce Jane posando una mano sulla spalla di Mark che mi fissa beffardo.
- Ti ricordo che ti ho pagato da bere l’altra sera, ti sembra il modo? – sfoggia la classica espressione da nobildonna offesa e torna a scarabocchiare sul quaderno mentre gli altri riprendono a seguire la lezione dopo quel piccolo siparietto ironico.
- Mi scusi madame, la prossima volta sarà mia premura allietare la sua sete per ripagare la sua gentilezza – sussurro e Mark scuote la testa ridendo.
- Ora si che ci capiamo, e davvero Al, smettila di fissare il vuoto, rischi di farti beccare da quella sottospecie di sergente –
- Non preoccuparti, torno a seguire – cerco di rassicurarlo.
- E’ per l’incontro di oggi pomeriggio, non è così? – e come al solito eccolo che colpisce sempre nel punto giusto.
- Già, mi ero perso a pensare che cosa dirò – ammetto, senza girarci intorno.
- E’ inutile, qualsiasi discorso è perfetto finché non lo devi mettere in pratica. Ascolta me, lascia perdere e dì quello che ti viene sul momento –
Annuisco, come dargli torto, e per un attimo torno a guardare fuori dalla finestra: il cielo è nuvoloso, ma oggi non pioverà. Non deve piovere.
Non riesco a stare in aula, non riesco a concentrarmi, così mi alzo:
- Dove stai andando? – mi chiede Jane velocemente.
- In bagno – rispondo, facendo cenno agli altri che li avrei aspettati fuori per la pausa.
 
Esco dall’aula e attraverso con calma il lungo corridoio: ci sono poche persone sedute ai tavoli esterni, qualcuno sta disegnando, un altro è circondato da fogli e fogli di appunti, un’altra sta chiacchierando con un’amica,
Passo oltre, entro nel bagno e mi do una rinfrescata: l’acqua è gelida ma almeno mi ha fatto tornare con i piedi a terra.
Decido di fermarmi ad una delle macchinette per prendere un caffè: quello preso a colazione non ha fatto alcun effetto e non ho voglia di aspettare gli altri, quando arriveranno per la pausa prenderò qualcosa da mettere sotto i denti che valga come “pranzo” vista la poca fame che ho.
Scendo le scale per poter andare alla zona “relax” del pianterreno e la vedo ferma davanti ad una delle macchinette. Jeans scuri stretti, t-shirt bianca e sopra una camicia a quadri blu. E’ Lizbeth.
Non mi sarei mai aspettato di ritrovarla qui, tantomeno di rincontrarla.
Questa volta evito di fare di nuovo la figura dell’idiota, mi avvicino finché non mi nota e la saluto con un cenno della mano.
Sorride e sembra muovere le mani per dire qualcosa con il linguaggio dei segni ma si blocca, probabilmente si è ricordata che io non lo conosco, così tira fuori il classico taccuino:
“Ehi Alan!”
A mia volta tiro fuori lo smartphone e apro il blocco note.
“Ciao Liz, come stai?”
Lei mi fa cenno di aspettare un attimo, torna a fissare la macchinetta e qualche secondo dopo seleziona un tè caldo al limone.
“Bene, sono scappata fuori dall’aula perché avevo voglia di qualcosa di caldo. Tu?” è incredibile la velocità con cui riesce a scrivere su quel taccuino.
“Abbastanza bene, anche io non ne potevo più di stare in aula, avevo bisogno di un po' d’aria e di un caffè, non ricordo con quale ordine” ride leggendo l’ultima parte del mio messaggio mentre recupera il bicchiere di plastica fumante, cedendomi il posto davanti alla macchinetta.
Ordino il mio amato caffè macchiato e vedo Liz continuare a scrivere, mi avvicino per poter vedere cosa dice aspettando che la macchinetta faccia la sua parte.
“Dopo mercoledì non pensavo di rivederti, la facoltà è grande e non sapevo neanche come contattarti” quel suo messaggio mi strappa un piccolo sorriso, non me l’aspettavo.
“Neanche io pensavo di rivederti e invece eccoci, davanti alla macchinetta del caffè, entrambi fuggitivi dalle lezioni ahahahah” simulare una risata in un messaggio davanti ad una persona mi fa davvero strano eppure lei sembra aver colto appieno e ride a sua volta.
Non mi sono ancora abituato al non parlare con lei, a non aprire la bocca se non per ridere, gli unici suoni che ci circondano sono quelli che provengono dalle aule e dai corridoi della facoltà, piccole voci della vita universitaria.
Prendo il caffè macchiato e lo poggio sul tavolino dove si è accomodata Liz.
“Vieni spesso qui?”
“Ogni volta che posso, non sarà il posto più accogliente della facoltà, ma è comunque molto tranquillo e riesco a rilassarmi. Tu?” rispondo, girando la piccola palettina nel bicchiere per mescolare bene lo zucchero.
“Non molto, non mi sono ancora abituata completamente a questa facoltà” quella sua risposta mi lascia un po' perplesso, incrocio il suo sguardo, è davvero profondo.
“In che senso?”
“Prima studiavo in un’altra città, ma per alcuni problemi ho dovuto traslocare e sono qui da circa sei mesi” la penna scivola leggera sul taccuino, quasi come se non lo toccasse.
“Questo spiega perché non ti ho mai vista prima” osservo, un’osservazione abbastanza ovvia, non so nemmeno perché l’ho scritto.
“Già, ho perso molto tempo nel trasloco e nell’abituarmi a tutte queste cose nuove. Sono distante un paio d’ore dalla mia vecchia casa, ma mi sembra di essere in un altro mondo” un piccolo sospiro e mi passa il taccuino.
Leggo, ma prima di risponderle mi fermo a fissare gli alberi mossi dal vento nel cortile accanto, quante ore mancano?
“A cosa pensi?” mi scrive, fissandomi con i suoi occhi scuri. Leggo la domanda, la rileggo e poi sospiro sfilando la penna dalle sue dita e scrivendo direttamente sul foglio.
“Devo incontrare una persona, oggi pomeriggio, una persona che era molto importante per me” 


 

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Capitolo 6
*** Il silenzio di una sigaretta. ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento VI – Il silenzio di una sigaretta.



“Una persona importante?” ecco che arriva la fatidica domanda e mi ritrovo a pensare se risponderle o meno. Dovrei, dopotutto lei è sempre stata gentile fino ad ora e sono stato io a tirare fuori l’argomento.
“Già, hai mai amato qualcuno?” rispondere ad una domanda con un’altra domanda, sono sempre il solito.
“Sì, perché?” sembra perplessa, la capisco.
“Ed è mai finita male senza che te l’aspettassi? Perdendo tutto senza poter fare nulla?” mi fissa e rimane in silenzio.
Mi sento un’idiota ad averle fatto quella domanda, mi sono lasciato prendere troppo dal discorso, ma all’improvviso annuisce, abbassando per un attimo lo sguardo.
“Bene allora sai come mi sento a riguardo di questa persona e scusami se ti ho fatto una domanda del genere” non so neanche perché le sto parlando di questa cosa.
“Non preoccuparti, mi fa piacere che ti sia aperto con me. Mi dispiace per la tua ex”
La mia ex, mi fa quasi strano sentirla chiamare così, ma effettivamente è il termine esatto, Christie non fa più parte della mia vita, non deve più far parte della mia vita.
Non è forse per questo che ho organizzato l’incontro?
“Non volevo annoiarti con queste cose da ragazzo depresso, sono davvero pessimo ahahahaha” cerco di abbozzare un mezzo sorriso e di scacciare tutti i pensieri collegati a Christie, al passato, perché i ricordi tornano a galla ogni volta che ne hanno l’occasione infischiandosene di ciò che pensi. Anarchici e tumultuosi li definiva uno scrittore di cui però mi sfugge il nome.
“Ma smettila, penso sia normale stare così, quando ami qualcuno non è mai facile smettere di farlo o tornare alla vita di tutti i giorni. E’ come leggere un libro, adorarlo e non poterlo finire perché l’hai perso e non riesci più a ritrovarlo” osservo i suoi occhi scivolare sulla carta come l’inchiostro della penna, lettera dopo lettera, parola per parola, sembra che seduti a quel tavolino il tempo si sia dimenticato di noi.
“E’ davvero una bella metafora, non l’avevo mai vista in questo modo. Ti piace leggere?” le chiedo, sorseggiando un po' il caffè prima che si freddi.
“Un sacco, non potendo ascoltare ciò che si dice nei film, leggere è il modo migliore che ho per poter immaginare bene una storia. Mia madre dice che leggo troppo, io le rispondo che lei non legge abbastanza” sorride dopo quell’affermazione, un sorriso sincero, seguito da un sorso di tè. Sono felice che siamo riusciti a cambiare argomento, non mi sembrava il caso di continuare su quel frangente.
“Anche a me piace molto, sai l’ultimo libro che ho…” sto ancora digitando la frase quando mi arriva un messaggio da parte di Jane:
“Ci sei caduto in bagno? Dove sei finito?” mi ero completamente dimenticato degli altri. Incrocio lo sguardo di Lizbeth, mi guarda come per dire “C’è qualcosa che non va?”
“Scusami, mi sono appena ricordato che devo raggiungere gli altri per la pausa pranzo, avevo perso la cognizione del tempo” digito velocemente nel blocco note e glielo mostro, tempo due secondi e mi ha già risposto.
“Non preoccuparti, vai pure, anch’io dovrei rientrare in aula prima che mi diano per dispersa” scoppiamo entrambi a ridere per qualche secondo, finisco velocemente il caffè e la saluto.
“Grazie per la chiacchierata, Liz”
“Alla prossima Al” accanto all’ultimo messaggio scritto ci sono alcuni numeri e per un attimo rimango perplesso, realizzando subito dopo che è il suo numero.
Non mi da neanche il tempo di scriverle per chiedere spiegazioni, mi saluta con un cenno della mano e va via come se niente fosse.
Liz è davvero una ragazza strana, però è simpatica, su questo non ci piove.
Mi fermo a guardare fuori dalla finestra, tenendo stretto il fogliettino del blocco note: fuori è ancora nuvoloso e solo qua e là qualche timido raggio di sole ha abbastanza coraggio da superare quel mare intoccabile che lo divide dalla terra.
Anche quel giorno era nuvoloso, prometteva pioggia, la gente si muoveva velocemente sui marciapiedi della città, i mezzi correvano sull’asfalto tra i mille colori delle carrozzerie. Sembrava un giorno qualunque.
Osservo di nuovo il fogliettino stropicciato, la sua grafia mi piace davvero tanto, segno velocemente il numero nella rubrica dello smartphone e conservo entrambi nella tasca dei jeans.
Meglio muoversi, o sarà la volta buona che gli altri mi lasceranno a pranzare da solo giusto per ripicca, come “punizione” per il mio ennesimo ritardo.
Perché alla fine si finisce sempre a parlare di ritardi? Me lo chiedo mentre attraverso i corridoi della facoltà invasi dagli studenti che scappano dalle aule alla ricerca della tanto acclamata “pausa pranzo”, mentre salgo le scale assediate da chi vuole arrivare per primo in mensa e prendere un buon posto.
Ogni volta che finisco a navigare in tutti i pensieri che mi passano per la testa, soprattutto quelli legati a Christie e agli ultimi tre mesi, mi ritrovo a sentirmi fuori dal mondo, come se non facessi parte di tutto ciò che mi circonda. E’ una sensazione davvero sgradevole.
Raggiungo l’aula e li trovo lì fuori a chiacchierare, non appena mi notano tutti mi lancio un’occhiataccia, seguita da battute di ogni genere e svariate domande sulla mia sparizione.
- Scusate ragazzi, mi ero perso a chiacchierare con un’amica – mi giustifico velocemente dopo aver recuperato lo zaino dalle mani di Steve.
- Un’amica, eh? Solo “amica”?- si intromette subito Jane.
- Sei il solito idiota Al – aggiunge Nora, i suoi occhi scuri mi squadrano dalla testa ai piedi come se non mi vedesse da mesi.
- E’ il tuo modo di dirmi “ciao”? – le chiedo e tutti scoppiano a ridere.
- La signorina è arrivata in ritardo per la lezione, ma in perfetto orario per il pranzo, chissà come – osserva Mark, altra risata, e si ritorna a discutere su dove pranzare in un tumulto variopinto di proposte e controproposte.
- E’ dopo pranzo, vero? – mi fa Mark col suo solito atteggiamento da ninja quando deve chiedere qualcosa di personale.
- Sì – gli rispondo sinteticamente.
- Mi raccomando –
- Non preoccuparti – lo tranquillizzo, ma come posso dire a lui di non preoccuparsi se sono il primo a farlo? Dopo pranzo, alle tre, al solito parco.
 
                                                              […]
 
Il parco inizia a mostrare i primi segni dell’autunno, un piccolo letto di foglie a terra, i classici colori che dipingono quelle ancora ben strette ai rami, ma per il resto è rimasto identico a come me lo ricordavo. Era da tanto che non venivo e se non fosse stato per questo incontro probabilmente non ci sarei ritornato per molto tempo.
Mi siedo su una delle panchine sotto il gazebo, lo stesso gazebo che si affaccia sul piccolo ruscello che attraversa il parco, la stessa panchina dove abbiamo passato ore insieme fin da quella prima volta.
Non c’è nessuno, guardo l’orologio, segna le 14:57, poco male, ho tempo di fumarmi una sigaretta per distendere i nervi in silenzio.
La sfilo dal pacchetto, la piccola fiamma dello zippo consuma velocemente la punta, aspiro con estrema lentezza e butto fuori il fumo osservandolo mentre si allontana da me.
- Avevi detto che avresti smesso – una voce familiare, alla fine è arrivata.
- Non diciamo tutti cosi? Ciao Christie – mi volto per guardarmi alle spalle e la vedo: jeans strappati, felpa leggera, i capelli scuri leggermente mossi e quegli occhi profondi che ti assalgono senza darti il tempo di reagire.
Rimaniamo per un attimo immobili a fissarci, come se fosse la prima volta che ci vediamo, dopodiché si avvicina e si siede accanto a me.
- Ne vuoi una? – le chiedo, fa davvero strano avere davanti l’originale dopo tutte le illusioni che mi sono beccato, sono quasi tentato di sfiorarla con le dita per averne conferma ma evito.
- Sì, grazie – le allungo una sigaretta e inizia a fumare anche lei. Rimaniamo in silenzio, gli unici suoni sono il canto del ruscello e il movimento delle foglie smosse dal vento, nessuno dei due sa cosa dire di preciso, come rompere quel momento.
- Allora di cosa volevi parlare? – mi chiede, infrangendo il silenzio.
-  Lo sai bene di cosa voglio parlare, Chris –
- Non chiamarmi in quel modo, lo facevi quando… - fa un tiro, distoglie lo sguardo, sospira.
- Quando stavamo insieme? Quando eravamo felici senza chissà quali pretese? Cristo… sono mesi che continuo a chiedermi come sia potuto succedere –
- Non avevamo certezze, Al, la vita può cambiare da un giorno all’altro, non pensare che io non abbia sofferto in… - il suo profumo mi annebbia i pensieri, ma devo restare lucido.
- Non è questo che intendo, Christie. Non mi hai mai voluto dare una spiegazione completa, non mi hai mai fatto capire perché tra di noi è finita. Hai tirato fuori solo tante storie, tanti discorsi che non hanno fatto altro che confondermi di più e cazzo, sono stanco di tutto ciò – era da quel giorno a casa sua che non usavo questo tono di voce con lei, per un attimo regge il mio sguardo, ma poco dopo lo distoglie di nuovo, sembra irrequieta. Devo aver colpito dove volevo.
- Non volevo che finisse a quel modo, credimi, mi dispiace, è solo che…non puoi capire, nemmeno io riuscivo a capire. Le emozioni sono una cosa strana – ride, una piccola risata amara che si perde tra i fumi delle sigarette e il sibilo del vento.
- Basta stronzate, Chris – le poggio una mano sulla gamba e si volta a guardarmi, questa volta senza scappare dai miei occhi, riesco quasi a sentire il suo respiro.
- Io ti ho amato, probabilmente provo ancora qualcosa per te anche se non vorrei, ma questo tu lo sai, non è così? – sta per rispondermi, ma la interrompo.
- So che anche tu provavi qualcosa di simile, voglio solo sapere che cosa ti ha spinto ad allontanarti da me, a mandare in frantumi tutto ciò che si era creato tra di noi. Rispondimi e me ne andrò, non sentirai più parlare di me – a chi sto facendo quella promessa? A lei o piuttosto a me stesso?
Christie non apre bocca, sembra sia sul punto di parlare, ma si trattiene e torna a fumare, mentre il suo sguardo oscilla tra me e il ruscello come un pendolo.
- Al… io ci tenevo davvero tanto a te, ho provato qualcosa di forte nei tuoi confronti. Ti ho amato, d’accordo? Proprio come tu hai amato me, è solo che… negli ultimi mesi io sentivo che mi mancava qualcosa, e quel qualcosa non riuscivo a vederlo in te. Mi sentivo confusa, incazzata e non capivo cosa …-
- Christie! – un’altra voce alle mie spalle la interrompe.
- Ti avevo detto di lasciar perdere, perché sei venuta? – continua quella voce, una voce familiare. Mi volto di scatto.
- Harry… -  è proprio lui, Harry, un mio collega, uno dei ragazzi del gruppo all’università. I suoi occhi verdi cadono su Christie e lei abbassa lo sguardo, sembra quasi che voglia scomparire, dopodiché torna a fissare me.
- Harry, che diavolo ci fai qui? – in testa la risposta a quella domanda già rimbomba violentemente come l’eco di un’esplosione.
- Mi spiace Alan, non volevo che lo scoprissi così, ma tra di voi è finita tanto tempo fa -  sento il sangue che mi ribolle nelle vene nel sentire quelle parole e mi mordo le labbra.
- Ti prego Al, avrei voluto dirtelo ma non sapevo…- la voce di Christie sembra un sussurro
- Non sapevi cosa?! – mi alzo di colpo dalla panchina e fisso Harry stringendo i pugni: - Maledetto bastardo…-

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Capitolo 7
*** Quanto è lungo un attimo? ***


Fragments of a Silent Heart



Frammento VII- Quanto è lungo un attimo?




- Ti prego Al non fare cazzate – Christie cerca di tranquillizzarmi, ma è tutto inutile: come potrei calmarmi in una situazione del genere?
- Sta zitta! – senza staccare gli occhi da Harry che a sua volta continua a fissarmi in attesa della prima mossa.
- Alan non c’è bisogno di urlare – commenta guardandosi intorno, ma non c’è nessuno a parte noi tre.
- Mi fai schifo…- sibilo, cercando di non essere sopraffatto dal caos di emozioni che mi ha invaso.
- Come scusa? – chiede Harry mentre Christie rimane in silenzio.
- Mi… fai… schifo! Ti ho raccontato come mi sentivo, mi sei stato accanto per tirarmi su. Hai visto come stavo, sapevi cosa provavo per lei e ora questo?! -rimanere immobile senza fare nulla mi sta facendo impazzire.
- Non eri l’unico a provare qualcosa per lei – tenta di giustificarsi Harry e quella frase mi fa solo innervosire di più. Non è quello il punto.
- Mi prendi per il culo? Potevi dirmelo, col tempo l’avrei accettato, ci avrei provato, cazzo! -è sempre la stessa storia, certe cose sembrano non cambiare mai.
Stringo i pugni, abbasso lo sguardo, vorrei urlare a squarciagola.
- Non dire stronzate, sappiamo entrambi che non è così. Tutti sanno che tu provi ancora qualcosa per lei, che non riesci ad andare avanti. Non cambi mai Al…- mi fulmina con lo sguardo, uno sguardo carico di rabbia, incomprensione, delusione.
 
Senza pensarci avanzo verso Harry, ma Christie mi si para davanti.
- Non farlo Al, non deve finire così… per favore – il cielo si è rannuvolato, sta ricominciando a piovere. Per un attimo quello sguardo riesce a bloccarmi, quasi a tranquillizzarmi, proprio come faceva in passato. Quasi.
- Sei un emotivo del cazzo, Al, col passare del tempo avresti fatto soffrire entrambi inutilmente. E’ finita, fattene una ragione – quelle parole sono la goccia che fa traboccare il vaso.
Evito Christie, mentre le prime gocce di pioggia si infrangono a terra, e mi lancio contro Harry con un gancio destro dritto sulla sua guancia.
- Non mi faccio fare la paternale da uno stronzo doppiogiochista come te! – esclamo mentre lui stramazza a terra.
Christie osserva la scena incredula mentre la pioggia sembra voler nascondere il tutto agli occhi degli altri.
- Sei proprio un cazzone! -Harry si rialza velocemente e si scaglia contro di me con violenza: riesco ad evitare il primo pugno, ma il secondo mi arriva dritto nello stomaco e mi mozza il fiato. Fa male, ma non gliela darò vinta.
Mi tiro su riprendendo fiato e schivando il suo ennesimo pugno gli do una ginocchiata che gli fa perdere l’equilibrio, ma nonostante ciò riesce ad afferrarmi da una manica e a trascinarmi a terra con sé.
- Smettetela, vi prego, smettetela! – le parole di Christie si perdono nel ritmo incessante della pioggia, io ed Harry abbiamo iniziato ad azzuffarci e nessuno dei due sembra voler cedere.
Continuiamo ad attaccare e a difenderci, in un caos di pugni e calci, ignorando la pioggia, il dolore, le urla di Christie.
Sento il sapore metallico del sangue in bocca, ma non mi importa, quello che è successo equivale ad essere pugnalati alle spalle.
Rotoliamo a terra, in mezzo alle pozzanghere, cercando di prevalere l’uno sull’altro.
- Apri gli occhi, dannazione, devi andare avanti! – mi urla Harry prima di colpirmi con un altro pugno che non riesco a schivare – Perché vuoi continuare a soffrire in questo modo? –
- Tu non sai un cazzo della mia sofferenza! -rispondo, rotolando ancora una volta e sbattendolo con le spalle a terra, pronto a ricambiare l’ultimo pugno, ma Christie si frappone di nuovo tra me e lui:
si è lanciata in ginocchio accanto a lui e sembra quasi che voglia fargli da scudo col proprio corpo come se fossi io il “cattivo” della situazione.
Nonostante stia piovendo riesco a vedere che ha gli occhi lucidi, due occhi pieni di paura e compassione.
- Smettetela – ripete – vi prego, basta – rimango immobile con il pugno a mezz’aria, Harry che riprende fiato, Christie che poggia la mano sulla sua per sincerarsi delle sue condizioni.
- Ha iniziato lui…- tenta di difendersi Harry pulendosi il sangue dal labbro gonfio.
- Non importa chi ha iniziato, non potete andare avanti così – Christie è sul punto di piangere, come se d’un tratto avesse realizzato tutto quello che è successo.
Abbasso il pugno e anche lo sguardo, sento ancora la rabbia scorrermi nelle vene come un fiume in piena, ma con Christie in mezzo non posso fare nulla, non sono così pazzo, né tantomeno violento.
- Calmatevi, possiamo risolvere la cosa parlando e… - Christie sta cercando di far calmare le acque al meglio delle sue possibilità, ma viene interrotta da Harry.
- Mi dispiace, non volevo – sussurra lui e lei lo abbraccia, non ho bisogno di vedere altro.
- Tsk… io me ne vado – senza aggiungere altro mi rimetto in piedi e inizio ad incamminarmi per uscire dal parco. Voglio solo allontanarmi da quei due il più possibile.
- Al, aspetta! – Christie mi chiama, ma la ignoro. Voglio solo andar via.
- Alan, Alan! – anche Harry ha iniziato a chiamarmi: che cosa vogliono? Non è già abbastanza? Inizio a correre ho bisogno di stare da solo, devono lasciarmi in pace.
Sono stato uno stupido: cosa pensavo di ottenere con quell’incontro? Cosa speravo di risolvere? Alla fine non so nemmeno se le visioni svaniranno, mi sono ritrovato solo ad incazzarmi di più, come se già quello che ho passato negli ultimi tre mesi non fosse bastato.
La pioggia continua a cadere, più forte e insistente di prima, ma non mi importa, continuo a correre senza badare troppo al resto.
Lancio uno sguardo alle mie spalle: mi stanno inseguendo, entrambi, sembra quasi che si sentano in colpa e vogliano scusarsi. Non ho bisogno delle loro scuse, non ho bisogno dei loro discorsi del cazzo, ho visto abbastanza, ho sentito abbastanza.
- Al, aspettami, ti prego, non può finire in questo modo! -  scuoto la testa, non posso farmi fregare da frasi del genere, lei ha fatto la sua scelta, lui pure, non ho più niente da dover dividere con entrambi. Continuo a correre.
Sento i vestiti inzupparsi d’acqua, i capelli che si appiccicano alla faccia, il cuore che batte a mille per lo sforzo e tutte quelle emozioni che non riesce neanche a distinguere perché intrecciate tra di loro.
Sembra che il mondo intorno a me sia scomparso, sento solo il mio respiro affannato, la pioggia che si infrange nelle pozzanghere tutt’intorno, i passi di Christie e Harry alle mie spalle, la sua voce. Tutto il resto è scomparso, come inghiottito dal silenzio e dall’oscurità, con la pioggia che si è trasformata in una nebbia che cade senza tregua scivolando dovunque.
- Io ti ho amato, davvero – quella frase è come una freccia che mi trafigge da parte a parte, fa più male di tutti i pugni che mi sono beccato da Harry. Ironicamente, nonostante il caos della pioggia e del resto sono riuscita a sentirla in modo nitido.
Rallento fino a fermarmi e mi volto verso di lei:
- Non pensi che sia troppo tardi per dirmi qualcosa del genere? – cerco di tirar fuori qualcosa simile ad un sorriso ma non ci riesco, la rabbia e il risentimento continuano ad avere il sopravvento.
- Vorrei solo che tu capissi che…- mi perdo un’ultima volta nei suoi occhi, anche se non dovrei.
- Non c’è più niente da capire, Christie, è questo il punto. Hai preso la tua decisione, hai tagliato quell’ultimo filo che ci legava quindi che senso ha continuare a parlare? –
Vedo Harry avvicinarsi in lontananza, non è mai stato bravo a correre visto il poco fiato che ha, ma ci sta raggiungendo e non ho alcuna intenzione di ritrovarmelo davanti o finiremo di nuovo a darcele di santa ragione.
- Possiamo ancora…- lei cerca di avvicinarsi ma le faccio cenno di fermarsi
- Lo ami, vero? – pronuncio lentamente la domanda affinché la capisca.
- Io… sì – ignorando il mio gesto si avvicina e cerca di abbracciarmi, una parte di me vorrebbe cedere, ma resisto e la allontano quel tanto che basta – Al ascolta -
- Alan, non puoi scappare in questo modo! – sento Harry urlare alle spalle di Christie, non posso fermarmi, riprendo a correre.
Fermarsi è stato un errore, ha solo acuito il dolore, la rabbia, tutto. Non dovevo fermarmi, dovevo semplicemente continuare a correre e sarebbe tutto finito.
- Sono proprio uno stupido, avrei… - un bagliore, no, due luci.
- Fermati Al! Cazzo, fermati! – Harry urla alle mie spalle insieme a Christie, sembrano disperati.
Due luci, immerse nella pioggia, piccoli bagliori che crescono sempre di più, perché non li ho visti prima?
Il tempo rallenta, mi sembra quasi di vedere le gocce d’acqua sospese in aria cadere lentamente verso il basso, tutti i suoni intorno a me sono ovattati, come se fossero più distanti di quanto lo siano davvero.
Le due luci si fanno distinte, due fari nel caos del temporale, davanti a me, così vicini.
Quanto può durare un attimo? Rumori di freni, gomma contro l’asfalto.
- Alan! – riesco a sentire la voce di Christie, sembra un sussurro, ma so che sta urlando. Per un solo secondo in mezzo al velo della pioggia la vedo distinta: un’automobile.
Un dolore lancinante, la pioggia che cade, il mondo che si capovolge come scosso da un tremendo terremoto, tutto sembra perdere il proprio colore.
- Alan! Oh Dio, Alan! -  l’asfalto è ruvido, un lampo illumina il cielo seguito dal rombo del tuono. Fa freddo, sta piovendo, allora perché sento caldo?
Chi è che mi chiama?

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Capitolo 8
*** Gli echi di un abbraccio ***


 
 

Fragments of a Silent Heart



Frammento VIII – Gli echi di un abbraccio

 

Note dell'Autore: Ed eccomi qui, non pensavo sarei mai arrivato all'8° episodio eppure ci siamo. Questa storia era nata come un'esperimento, qualcosa di inconcreto, ma episodio dopo episodio è cresciuta, intrecciando legami tra i vari personaggi, creando situazioni e scene che all'inizio neanche io avevo immaginato. Era da tanto che non scrivevo fragments e questo episodio era particolarmente ostico, soprattutto dopo il finale del settimo. Spero vi piaccia e grazie di cuore a tutti voi che continuate a leggermi. Enjoy.
 
Snowstorm
 
Continuo a camminare seguendo un sentiero che sembra infinito: non so dove mi trovo, sembra una foresta o qualcosa di molto simile, ma non riesco a vedere oltre la luce dei lampioni che costeggiano il sentiero.
È notte fonda, il buio che mi circonda viene contrastato dal bagliore candido della luna, eppure l’ultima volta non era ancora notte, ricordo di un pomeriggio, sì, doveva essere pomeriggio. Pioveva.
Continuo ad avanzare, passo dopo passo mi sembra di essere più vicino a qualcosa: ogni tanto gli alberi finiscono per essere inghiottiti dalle ombre e in quella sorta di sipario oscuro vedo scene, no, ricordi, parti della mia vita messe lì a caso come se qualcuno si stesse divertendo mettendo a soqquadro la mia povera memoria.
Perché? Che sta succedendo?
Non riesco a capire da quanto tempo mi trovo in questa foresta, né fino a che punto sia vera o una semplice illusione. È tutto molto strano, ma al tempo stesso familiare.
Il sentiero prosegue coraggioso in mezzo all’oscurità, scortato dai lampioni e dalle torce che si ergono come guardie di metallo, prosegue verso uno spazio ampio che si spinge oltre le chiome degli alberi. Una piazza?
La pietra si allunga vorace in ogni direzione, bloccata solo da alcuni edifici anch’essi in pietra e dai tetti spioventi: le porte sono tutte serrate, ma dalle finestre coperte dalle tende si intravedono luci e sagome. C’è qualcuno, non sono solo.
Mi avvicino con calma all’edificio che si affaccia accanto alla fine del sentiero, poco prima che la piazza inizi a reclamare i suoi spazi, ma in quel momento le luci all’interno delle case si spengono, una dopo l’altra, e solo il lampione accanto a me rimane acceso a difendermi dall’oscurità.
Che diavolo sta succedendo? Vedo alcune figure sbucare dal manto del buio, immerse in una sorta di penombra lunare. Le riconosco, sono tutte persone che conosco: c’è Phil, Mark, tutta la mia famiglia, alcuni miei amici d’infanzia, intravedo anche il mio gruppo dell’università, sono fermi lì che mi fissano, in silenzio.
C’è anche Harry e come gli altri mi fissa senza aprire bocca.
Continuo a guardarmi intorno incredulo e incontro lo sguardo di Christie: c’è anche lei, ma perché stupirsi? Dopo tutte quelle visioni ormai sembra che ci stia facendo l’abitudine a vederla dovunque, ma ciò che mi colpisce è la persona accanto a lei: capelli corvini, occhi dello stesso colore del caffè. Lizbeth.
Tutti mi guardano come se stessero aspettando una risposta da me, qualcosa, qualunque cosa, ma non riesco a fare niente, a dire niente. Perché mi sento così?
Cerco di avvicinarmi a loro, a Mark, a Lizbeth, ma tutti si allontanano, inizio a correre, ad inseguirli, ma per ogni mio passo loro sembrano farne tre.
Non riesco a raggiungerli, per quanto mi sforzo continuano ad allontanarsi, lontani dalla piazza, di nuovo immersi nella foresta in cui mi aggiravo prima.
Non so come ma riesco ad avvicinarmi a Mark, lui mi guarda con uno sguardo colmo di paura e confusione.
- Mark? Che cazzo sta succedendo?! – non mi risponde, sembra quasi che mi stia ignorando. Gli altri interrompono la loro corsa, e rimanendo a debita distanza tornano a fissarmi.
- Mark, Mark rispondimi! – lo afferro dalle spalle e lo scuoto, ma non ottengo alcun risultato. Una goccia d’acqua mi scivola lungo la guancia, sta iniziando a piovere.
- Mark dannazione…-
- Fermati Alan, fermati – mormora lui fissando un punto imprecisato alle mie spalle.
Lo osservo, sconvolto, senza riuscire a capire quale sia il senso di quella frase.
Lui continua a fissare il vuoto alle mie spalle, così come tutti gli altri, così mi volto anch’io e le vedo: due luci distinte, una accanto all’altra, che si fanno più grandi, sempre più luminose. La pioggia si intensifica.
Ho già visto questa scena, l’ho già vissuta: ricordo la pioggia, le due luci, qualcuno che urla il mio nome, mi dice di fermarmi, la paura e infine il calore.
Quelle non sono due semplici luci, sono due fanali, riesco ad intravedere la sagoma scintillante dell’automobile in mezzo alla pioggia, mentre tutte le persone intorno a me scompaiono nel nulla, lasciandomi solo.
Non riesco a muovermi, sono pietrificato dalla paura, la macchina è sempre più vicina, i due fanali mi accecano e tutto diventa bianco, indistinto.
Rumori di freni, gomma contro l’asfalto.
Apro gli occhi, ho il fiato corto, mi sembra quasi di ansimare, come se qualcuno avesse tentato di soffocarmi. Mi guardo intorno: la foresta, la piazza, l’auto, è sparito tutto quanto, sostituito da una semplice stanza dalle pareti bianche e arredata con pochi semplici mobili.
Ho ancora la vista offuscata, mi sento addosso lo stesso schifo che si prova dopo essersi sbronzati, con la sola differenza che sta svanendo più velocemente della sua contro parte.
C’è qualcosa attaccato al mio braccio sinistro, dei tubi. Flebo? Le vedo spuntare anche dal braccio destro e tutte finiscono appese ad una sorta di asta. Sono in ospedale? Come ci sono finito qui?
Cerco di ricordare, ma è tutto annebbiato, la testa mi fa ancora male. Osservo lo spazio che mi circonda: è la classica stanza d’ospedale, con due sole differenze, una finestra più grande del solito e una sfilza di oggetti ammucchiati sul comodino e su un piccolo tavolo lì accanto.
Fiori, libri e altri oggetti che non riesco bene a distinguere, sono tutti incartati per bene, sembrano dei regali. Per me? Perché? Cosa ci faccio in ospedale?
La sensazione di sbornia assoluta sta scemando, ma continuo a sentirmi confuso, frastornato, vorrei scendere dal letto, ma sento le gambe intorpidite, come se fossero ferme da mesi.
Qualcuno apre la porta e spingo il mio sguardo verso quel punto della stanza per capire chi è entrato: i miei occhi incontrano quelli sgranati di Lizbeth.
- Liz…beth – balbetto, provando ad alzare il braccio invaso dalle flebo per salutarla.
Lei rimane ferma sull’uscio della porta, immobile, prima di scoppiare in lacrime e lanciarsi contro di me.
Mi abbraccia, piangendo silenziosamente, riesco a sentire il suo profumo, il calore di della sua pelle. Ora che ci penso, non mi aveva mai abbracciato.
- Così mi fai male… - le sussurro e lei si allontana dolcemente, con il volto rigato dalle lacrime. Sta sorridendo, mentre cerca di asciugarsi le guance.
- Che cos…. – cerco di chiederle cosa ci faccio lì, ma lei scuote la testa, facendomi segno di non parlare.
Si avvicina al tavolo, rimedia carta e penna e inizia a scrivere, proprio come ha fatto il giorno che ci siamo conosciuti. Parola dopo parola si forma un vero e proprio racconto che mi consegna con ancora gli occhi lucidi:
“E’ così bello vedere che ti sei svegliato, Al.
Quando ho saputo che avevi avuto un incidente non volevo crederci, pensavo fosse uno scherzo. Ma poi ho incontrato uno dei tuoi colleghi, Mark, e lui ha confermato ciò che si diceva in giro: una macchina ti aveva investito ed eri finito in coma”
- Coma?! – chiedo, incrociando il suo sguardo e lei annuisce, consigliandomi con le dita di continuare a leggere. Sono davvero stato in coma?
“Ho chiesto ai tuoi amici se potevo venire con loro a trovarti e hanno accettato, siamo venuti qui e tu eri nel letto, immobile, con tutte quelle flebo, sembrava che stessi dormendo, ma sapevamo tutti che non era così. E’ stato orribile, il giorno prima stavamo parlando e il giorno dopo eri quasi morto. I medici non ci hanno voluto dire se ti saresti risvegliato o meno, non sapevamo cosa pensare.
Sono passati due mesi da allora e finalmente ti sei risvegliato.
Sono davvero felice che tu ora stia bene, per un attimo ho temuto il peggio”
Finisco di leggere e torno a guardare Liz, che nel frattempo ha abbassato lo sguardo, come imbarazzata per quello che ha scritto.
- Sono davvero stato in coma per due mesi? – le chiedo guardando fuori dalla finestra: prima non ci avevo fatto caso, ma il paesaggio è tutto innevato.
Lei annuisce di nuovo, continuando a sorridere.
In coma, stento a crederci, eppure tutto inizia ad avere un senso: la chiacchierata con Lizbeth, l’incontro con Christie, lo scontro con Harry e infine i due fanali in mezzo alla pioggia. Mi sembra quasi di riuscire ancora a sentire il rumore dei freni e le urla di Christie, il dolore lancinante e poi il vuoto.
- Cazzo, sono stato davvero investito… mio Dio -mi sento come se tutte le sensazioni di quel momento, tutte le emozioni di quei pochi attimi, fossero riemerse in un colpo solo. Scuoto la testa, incredulo, guardandomi le mani sulle quali si vedono ancora le cicatrici di quel pomeriggio, tornando poi a guardare Liz che si è rimessa di nuovo a scarabocchiare sul foglio.
“Sono venuti tutti a trovarti: i tuoi amici dell’uni, il tuo coinquilino (è davvero simpatico) altre persone che non conoscevo e anche la tua famiglia. Ognuno di loro ti è stato accanto e ha lasciato un ricordo in attesa che ti risvegliassi. Ognuno di noi a turno ti ha tenuto compagnia, non sei mai rimasto solo.
Eravamo tutti in pensiero per te” quelle parole sono più profonde di quanto mi aspettassi, mi lasciano stupito. È proprio vero che finisci per apprezzare qualcosa solo quando stai per perderla. Sento gli occhi inumidirsi e lascio che le lacrime scivolino via, senza opporre resistenza. Liz mi lascia il foglio prima di alzarsi e puntare alla porta.
“Devo avvisare i medici che ti sei risvegliato, dovranno sicuramente farti dei controlli, e devo avvisare anche tutti gli altri, saranno felici di sapere che sei sveglio”
La osservo ferma lì sull’uscio della porta, proprio come quando è entrata, abbozza un mezzo sorriso e mima lentamente una parola con le labbra.
“Bentornato”.

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