Darling

di BrokenSmileSmoke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


«No.. non ci voglio credere.» gli dissi passandogli quel piccolo oggetto che mi aveva dato conferma che la mia vita stava avendo una svolta.
Ero ancora seduta sul gabinetto, e ridevo nervosamente con le lacrime agli occhi.
Lui lì, davanti a me, con il test in mano.
Mi alzai ed andai a sedermi sul divano, con le lacrime che mi scendevano copiosamente e fissando il vuoto.
Ma cosa avevamo combinato?
Cosa avremmo potuto fare adesso?
Rimasi lì, seduta, fredda, impassibile.
Senza resistere mi accesi una sigaretta e andai a sedermi sul bancone della cucina, fissando fuori dalla finestra.
Erano quasi le otto del mattino di inizio ottobre, non si vedevano ancora macchine che passavano.. ma questo forse perché eravamo andati a vivere in un luogo abbastanza tranquillo.
Lui era rimasto nel bagno, con il test poggiato sul ripiano della finestra.
Qualche secondo dopo venne verso di me, sorridendo e dicendomi «Ora che dovrei fare? Pubblicarlo su Facebook?»
Io sorrisi tenendo lo sguardo basso.
Poi mi sentì privata della mia sigaretta.
«Ora tu smetti di fumare, di sederti in modi che ti stringano la pancia e di indossare i jeans stretti»
Gli feci di sì con la testa.
Nonostante la situazione lui era riuscito a rendermi felice.
Non mi aveva detto di risolvere da sola la faccenda, ne aveva dato cenno di andarsene.
Era lì davanti a me, a rimproverarmi per la sigaretta.
Lo abbracciai, scoppiando a piangere, mentre lui mi accarezzava i capelli.
Ero felice, triste, non lo sapevo nemmeno io.
L'idea di aspettare un bambino mi aveva reso la persona più felice al mondo.
Il non sapere cosa avremmo fatto.. Mi buttava a terra.
Ma comunque tu eri lì accanto a me, non mi avevi lasciata sola.

Qualche minuto dopo sentì suonare il cellulare di lui, istintivamente mi ero già fatta prendere un attacco di gelosia e di fastidio, chi diavolo era a quell'ora? Come si era permesso di irrompere in un momento come quello?
Poi aspettai un po', non chiesi nulla, rimasi per la mia mettendomi sul divano, con la testa del mio cane poggiata sulle gambe, a sentire la conversazione.
Ero nervosa e, di nuovo, non seppi resistere.
Mi accesi un'altra sigaretta.
Lo giuro, avrei smesso.
Lo avrei fatto per quelle doppie linee.
Lui passeggiava avanti e indietro nel salotto, parlando al telefono.
Era mio suocero, lui gli aveva già raccontato tutto.
Mi passai una mano sul basso ventre, lo facevo anche da un paio di giorni, ma questa volta era diverso.
Prima immaginavo solamente, ora ne avevo la certezza.
Non mi servivano visite per confermare l'esito del test, mi bastavo io.
Fino alla sera precedente ero un po' titubante.
Il ciclo aveva ritardato di 4 giorni, ma non avevo avuto nemmeno le nausee. Io mi sentivo normale, ma era stato il mio ragazzo a rendersi conto che c'era qualcosa di diverso.
Certo, forse mi faceva male il seno, forse mangiavo un po' di più, forse un po' di meno, forse avevo anche notevoli sbalzi d'umore.
Ma potevano anche essere sintomi del ciclo.
Poi vabbè, tuo suocero chiama due sere prima chiedendo al tuo ragazzo se il bambino si muove. Giusto una battutina per far ridere.
E dalla battutina ti vengono i dubbi.
Aspetti ancora un giorno.
Poi compri il test.
Il giorno dopo ancora lo fai.
E ti appaiono due linee.

«Gli ho detto di non dirlo a nessuno visto che non sappiamo ancora cosa fare» mi disse poggiando il telefono sul tavolino.
Io continuavo a guardare il vuoto, la sigaretta era finita da tempo ed il mio cane era andato a dormire sul letto.
«Io non so cosa fare» dissi con le lacrime agli occhi.
«Lui ha detto che forse riesce a trovarmi un lavoro, mi richiamerà in giornata»
«Come l'ha presa?»
«Gli dispiaceva per la situazione.. ma comunque ha detto che vedrà cosa di può fare, altrimenti l'alternativa è..»
Lo interruppi.
«Non lo dire.»
Si sedette sul divano vicino a me, ma nessuno dei due parlò. Cosa dovevamo dirci in fin dei conti?

Tempo due giorni e venne a farci visita mia suocera, a quanto pare il "non dirlo a nessuno" non era stato capito a pieno.
In quei due giorni eravamo rimasti chiusi in casa a cercare qualcosa.
Chiamate varie per sapere se qualcuno offriva lavoro, ricerche per sapere se lo Stato italiano poteva darci delle agevolazioni in qualche modo, ma nulla.
L'unica cosa che ci potevano dare era l'asilo nido gratuito. Si beh, era una buona cosa.
Se il nostro problema fosse solo quello di non poter pagare l'asilo.
In quei due giorni avevamo anche scoperto dei possibili problemi dati dalla gravidanza.
Io ero anemica.
Avrei dovuto iniziare una cura ancor prima di rimanere incinta.
Beh, se la gravidanza era pianificata l'avrei iniziata sicuramente mesi prima.
E avrei dovuto smettere di fumare, insieme a vari integratori che avrei dovuto prendere.
Altrimenti, c'era il rischio che al termine io sarei rimasta senza un bambino, o che il mio ragazzo sarebbe rimasto con il bambino ma senza di me. O magari senza entrambi.
Era una cosa da non sottovalutare, da non prendere alla leggera. In fin dei conti era già successo a un conoscente o a due.

Mia suocera si presentò nel nostro appartamento con l'intenzione, io la vedo così, di rompere le palle.
Non c'era soluzione.
Dovevo abortire.
Perché sennò avrei rovinato la vita al suo amato figlio, o magari era tutto per farmi capire che non dovevo portarglielo via.
Quindi beh, poco importava se trovavamo lavoro o meno.
Avevamo 19 anni, quindi dovevo abortire a prescindere.
Magari mi farà la stessa proposta quando sarò incinta fra qualche anno, perché probabilmente il problema è che lei non vuole che suo figlio si allontani da lei più di quanto abbia già fatto.
In quel caso vi farò sapere.

Passammo tutta la notte (letteralmente) a conversare.
Ovvero, lui le chiedeva se poteva aiutarlo a trovare lavoro, lei continuava a controbattere che doveva farmi abortire, ed io stavo lì ad ascoltarli fissando il vuoto.
Dopo quel momento non ne parlammo più con lei, e non voglio nemmeno sapere cosa pensasse veramente sotto tutti quei "falla abortire"
Era senza dubbio la cosa più brutta che mi sarebbe successa nella vita.
Voler infinitamente qualcosa, ma non poterci fare nulla. Volerla con tutta l'anima, ma con la consapevolezza che non dipendeva da me.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Passammo quasi un mese a cercare lavoro o comunque un modo per andare avanti, nonostante ci fosse mia suocera che sembrava starci col fiato sul collo.
"Falla abortire"
"Avete ancora poco tempo per farlo"
"Ti stai rovinando la vita"
Forse l'ultima frase è stata quella che mi ha colpito di più.
Nonostante il tempo che ci eravamo prefissati, non si era trovato nulla.
Nessun miracolo, nessuno che richiamasse per dire che aveva disponibile un posto di lavoro.
Io a quel punto avevo ricominciato a fumare, al diavolo la buona volontà di smettere.
Stavo per farmi portar via mio figlio, un esserino più piccolo di un fagiolo.
Quella mattina eravamo passati in consultorio per confermare la nostra scelta.. e dall'ecografia interna lo avevamo visto.
Io non riuscivo a vedere nulla, lo schermo era girato.
Ma guardavo lui.
Guardavo il mio ragazzo che non distaccava lo sguardo dal monitor.
Poi ebbi tra le mani l'ecografia.
Non si vedeva benissimo, ma mi bastava.
Era solo una macchiolina in quello che mi sembrò il profondo di un oceano.
Più piccolo di un centimetro.. forse più che fagiolo era una lenticchia.
Avevo nella pancia una splendida lenticchia.
Passammo a parlare con la psicologa, senza il suo consenso non potevamo avere la possibilità di andare in ospedale e finirla lì.
E quella fu la cosa che più mi ferí.
Raccontammo tutto, e la psicologa ci disse che avevamo fatto bene a intraprendere quella scelta, perché non era saggio continuare una gravidanza senza sapere come, o dove, avresti fatto vivere tuo figlio.
Lei ci dava ragione.
E da quel momento smisi di credere in un miracolo.
Tornammo a casa in silenzio, a piedi.
Nonostante quello fosse solo l'inizio già mi sentivo mancare qualcosa.

In quella settimana era passata a trovarci mia madre, e fino all'ultimo momento ero in dubbio tra il dirgli del bambino o fare finta di nulla.
Il mio ragazzo non c'era quel pomeriggio, proprio per questo motivo. Non era capace di prevedere la reazione di mia madre, così andò a raccontare tutto ad un suo amico.
Credo di non aver mai avuto così tanta voglia di prenderlo a schiaffi.
Avevamo deciso di non dirlo a nessuno, e il era il secondo a non rispettare questa decisione.
Il primo era stato mio suo padre.
Beh, tale padre tale figlio.
Forse era di famiglia.

La accompagnai alla macchina e, dopo aver salutato lei ed il mio cane, che dopo meno di un mese tornava da loro, ritornai in casa, presi il telefono ed iniziai a chiamare lui.
Nel frattempo pensai se avevo fatto bene a non dirlo o no.
Perché si, mi mancò il coraggio di dire a mia madre che fossi incinta.
Non volevo dare preoccupazioni, o magari ero troppo timorosa in caso mi avesse detto che avevamo combinato un grosso casino.
Ma comunque forse era meglio così, la decisione era già stata presa e non volevo coinvolgere altre persone.

Dal giorno in cui ero andata al consultorio era passata di nuovo mia suocera.
Tutta quella tranquillità mi destabilizzava.
Tranquillamente ci aveva chiesto quando avrei fatto gli esami del sangue, giusto per sapere quando ci avrebbe portati in ospedale.
Ed io non potevo che stare in silenzio.
In quel momento mi chiesi se era davvero così insensibile o se lo faceva per non arrecare altro dolore.
Faceva come se nulla fosse successo.
Come se dovevo andarmi a fare una visita normale per poi dover donare il sangue, o curare un'influenza.
Era tutto così assurdo.
Le chiamate giornaliere di mio suocero stavano diminuendo, se prima chiamava ogni tre ore per aggiornare il mio ragazzo sulla situazione lavorativa e chiedere come stessimo, ora lo faceva per dire che non riusciva a trovare nulla.
Era tutto così pesante.

Quella mattina in cui capì che stavo per commettere uno sbaglio arrivò presto.
Alle 6 e 30 io e lui ci svegliammo per salire in ospedale per fare quei dannati esami del sangue, ed oltre alla mia sofferenza psicologica si aggiungeva quella fisica.
Stavo morendo di fame ma non potevo mangiare.
Ed io sono una che a colazione si mangia pure il cane del vicino.

Mentre mi estraeva il sangue, dopo avermi fatto giustamente esplodere una vena o due, l'infermiera mi precisó che se il giorno del ricovero io non mi fossi presentata, o che comunque avevo cambiato idea, avrei dovuto pagare gli esami del sangue.
In quell'istante mi venne da ridere, ma mi trattenni.
Ma lei pensava davvero che io avrei cambiato idea?
Certo, l'avevo fatto sin da subito.
Ma a causa della situazione economica non potevo di certo tirarmi indietro.

Un altro medico mi fece distendere sul lettino e mi divaricó le gambe.
Un'altra ecografia interna.
Questa volta lo schermo era girato verso di me, perciò ero riuscita a vederlo.
Era così piccolo, ma era già formato. Riuscivo a distinguerli la testa.
Istintivamente mi girai verso il mio ragazzo, come se quello fosse stato un momento felice in cui io gli sorridevo e lui, vedendo il nostro ometto sul monitor, mi sorrideva di rimando.
Ma non andò proprio così.
Mi voltai verso di lui, ma lui osservava un punto indefinito della stanza.
E fu come se il mondo mi cadesse di nuovo addosso.
«7 settimane e un giorno» mi disse il ginecologo, per poi farmi alzare e comunicarmi la data del ricovero.
Volevo sprofondare, buttarmi sul letto aspettando che tutto questo finisse o che non fosse mai iniziato.

Durante il tragitto verso casa non dissi nulla, e lui nemmeno.
Quella situazione sarebbe finita a giorni.
Arrivata a casa andai direttamente in camera e mi buttai sul letto, addormentandomi con la mano sulla pancia.
Non volevo ne sentire ne vedere nessuno.
Volevo rimanere da sola con mio figlio, volevo godermi i nostri ultimi giorni insieme.
Al mio risveglio trovai altre braccia che mi tenevano strette.
Lui era lì, sempre accanto a me.
Mi girai verso di lui ed iniziai a piangere sommessamente, poggiando la mia testa sul suo petto.
Fra non molto saremmo di nuovo stati solo io e lui.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Gli ultimi giorni prima del ricovero li passammo come giornate normali.
Niente chiacchiere su un ipotetico futuro che avremmo potuto dargli, niente di niente.
Forse era meglio così, raddolciva la pillola.
In fin dei conti appena saputo, anzi, confermato che aspettavamo un bambino avevamo pianificato come fare, e dove stare, se il mio ragazzo fosse riuscito a trovare un lavoro che ci permettesse di poter mantenere la famiglia che ci stavamo creando.
Io non potevo lavorare, ovviamente.
Non perché mi piaceva fare la donna mantenuta, ma piuttosto perché già era difficile trovare anche un lavoretto che fosse poco retribuito, e poi chi avrebbe mai voluto assumere a tempo indeterminato una ragazza che già sapeva di essere incinta, sapendo che dopo un mese o due avrebbe dovuto dargli gli assegni di maternità senza che lei si presentasse al lavoro?
E così, nella speranza di qualcuno che avesse un posto di lavoro vacante, pensavamo a dove stare.
Di sicuro non nell'appartamento in cui eravamo andati a convivere dopo nemmeno 5 mesi di relazione. Lì ci potevamo stare da settembre ai primi di giugno, poi i proprietari lo riaffittavano per i vacanzieri a prezzi che andavano dai trecento euro in su a settimana.
Così avevamo optato di andare a vivere in un condominio dove lui viveva da piccolo, il quale apparteneva alla sua famiglia.
Certo, era un po' lontano dall'ospedale, in fin dei conti era in un paesino di montagna a 30 minuti di macchina dal mare, ma comunque non avremmo dovuto pagare l'affitto e comprare il mobilio per noi. Era già arredato.
A questo però si aggiungeva il non avere ne macchina ne patente per spostarsi, ma non era questo il problema in sé.
Nel mentre io pensavo a come fosse stato possibile che io non avessi avuto nausee o altri sintomi tipici, a eccetto la sonnolenza eccessiva.
Ma quella era tipica di me, certe volte mi sentivo perennemente stanca anche senza essermi alzata dal letto.

Una bella mattinata, lo dico per dire perché erano le cinque del pomeriggio, mi risvegliai talmente bene che persino il suono del mio cellulare mi fece imbestialire.
Forse per quel giorno dovevo rinchiudermi in camera senza parlare con nessuno.
Mi girai alla mia sinistra dove il mio ragazzo dormiva tranquillo, il quale per sbaglio aveva osato abbracciarmi in quel momento.
Mi allontanai immediatamente non prima di guardarlo male.
Facevamo quasi gli stessi cicli di sonno e, nel caso non lo fosse già, si sarebbe svegliato nel giro di qualche minuto.
Mi alzai dal letto senza dire nulla e mi diressi in cucina a scaldarmi un po' di latte.
Come sempre, stavo morendo di fame.
Il tempo di mangiare, andare in bagno e lavarmi tornai in camera, e lui era lì, che giocava al telefono.
Brutta mossa.
Quel suo gesto, che comunque faceva ogni mattina, quella volta mi fece imbestialire.
Come osava stare al telefono mentre io ero incazzata nera?
Certo, non gli avevo detto nulla, ma ciò non perdonava il fatto che proprio quella mattina aveva seguito la sua routine.
Decisi di non dirgli nulla, e continuai a fare quello che stavo facendo fingendo che lui non esistesse.
«Alzati» gli dissi in tono freddo e incazzato mentre stavo aggiustando il letto, lui era ancora lì, sotto le coperte.
«Ma non puoi farlo dopo?» mi domandò tranquillo.
«Certo, rimandiamo tutto. Perché devo sistemare la casa adesso quando posso farlo dopo? Perché cucinare a pranzo se possiamo farlo a cena? Perché mi avresti dovuta mettermi incinta adesso se avevamo tutta una vita per farlo?»
In quel momento capì di aver detto una cazzata, ma ero troppo orgogliosa per ammetterlo e comunque era troppo tardi, avevo già parlato.
Lui non si fece problemi a rispondermi, e probabilmente aveva le sue buone ragioni, ma io, credendo di essere nel giusto e facendomi l'offesa, me ne uscì di casa senza più rivolgergli la parola.
Era quello il nostro problema, eravamo entrambi orgogliosi e avevamo dei caratteri quasi uguali.
Ma lui solitamente cedeva prima di me.
Eppure quella volta non lo fece.
Forse avevo davvero esagerato.

Mentre attendevo che lui venisse da me per fare pace, io ero seduta ad uno scalino vicino la porta di casa, con una maglia di lui ed una tuta.
Faceva un po' freddo, e da ragazza astuta qual'ero mi ero dimenticata di prendere la chiave di casa.
Mi ero auto sbattuta fuori di casa senza telefono, con una maglia più grande di me e senza scarpe, ed il mio orgoglio era troppo grande per suonare il campanello e farmi aprire.
Così aspettai.
Non so descrivere quanto tempo passò prima che lui uscisse fuori, ma so che mentre io mi ero autoreclusa, lui stava pulendo la casa al posto mio, lo sentivo dalla scopa e dallo straccio per pavimenti che sbatteva ai battiscopa.

Dopo un bel po' di tempo che io ero fuori sentì salire le scale che conducevano alla porta.
Era mia suocera e il suo compagno che venivano a cenare da noi, ed io non ne sapevo nulla.
Mi chiese cosa facessi lì fuori, ed io gli risposi semplicemente che suo figlio mi aveva sbattuto fuori di casa.
Era così, in un certo senso.
Dopo che io gli avevo fatto la battutina sulla gravidanza, lui mi disse che se pensavo veramente quelle cose ero libera di andarmene, e così avevo fatto.
Ma comunque lei, una volta entrata in casa e lasciato socchiusa la porta, non aveva chiesto spiegazioni al figlio.
Minchia. Chissà cosa farà se un giorno succede a lei ed io riciclo il suo comportamento.
Per un altro po' di tempo nessuno si fece vivo per chiamarmi dentro, e nel frattempo aveva iniziato a piovviginare.
Lui uscì fuori con la scusa di fumarsi una sigaretta, cosa che solitamente non faceva visto che fumavamo in casa, offrendomi un tiro e magari fare in modo che io gli chiedessi scusa.
Ma rifiutai, lui aspettó ancora un po' e poi tornò dentro.
Ritornò altre due volte circa, ottenendo la stessa risposta.
Poi alla quarta qualcosa cambiò.
Lui venne da me, offrendomi come al solito un tiro di sigaretta, ma quella volta accettai senza nemmeno guardarlo o parlargli.
«Ascolta lo so che ho sbagliato, ma anche tu hai detto delle cose pesanti, non credi?»
Feci spallucce, consapevole che se avrei continuato a fare in quel modo davvero lo avrei fatto spazientire, e poi me la sarei dovuta realmente cavare da sola.
Si abbassò alla mia altezza, o forse è meglio dire bassezza visto che lui è alto giusto un metro e settanta mentre io arrivo scarsa al metro e cinquantasette.
«Senti, chiediamoci scusa a vicenda e finiamola qui, ti va bene?» mi chiese guardandomi negli occhi.
E forse, o perché era buio ed eravamo solo illuminati dalla luce della luna e lo trovavo così romantico, o perché ero pentita veramente, fu quello sguardo così profondo che mi fece rimpiangere tutto ciò che avevo fatto di sbagliato in quel giorno.
Ci chiesimo scusa a vicenda, nello stesso momento.
Poi lo guardai negli occhi e gli sorrisi, abbracciandolo.
«Ti amo» gli sussurrai nell'orecchio.
«Anche io» mi disse di rimando, e mi bació.
Forse quello che stavamo per fare era difficile da sopportare e superare, ma se lui mi fosse rimasto accanto ce l'avrei fatta.

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