Una nuova vita, un nuovo amore

di Nadine_Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una vita da sopravvissuta ***
Capitolo 2: *** Dal buio alla luce - Prima parte - ***
Capitolo 3: *** Dal buio alla luce - Seconda parte - ***
Capitolo 4: *** Il chiarore delle stelle, il mormorio del vento e il profumo della tua pelle ***
Capitolo 5: *** Quando il passato bussa alla porta ***
Capitolo 6: *** Ritorno a Ravensbrück ***
Capitolo 7: *** La verità è svelata ***
Capitolo 8: *** La verità ha i tuoi occhi ***
Capitolo 9: *** Delirio d'amore ***
Capitolo 10: *** Verità negata - Prima parte - ***
Capitolo 11: *** Verità negata - Seconda parte - ***
Capitolo 12: *** Paure, bugie e fiori d’arancio ***
Capitolo 13: *** Ciò che resta di noi ***
Capitolo 14: *** Di nuovo insieme ***
Capitolo 15: *** Soltanto un incubo ***
Capitolo 16: *** La realtà di un incubo - Prima parte - ***
Capitolo 17: *** La realtà di un incubo - Seconda parte - ***
Capitolo 18: *** Un amore ferito ***
Capitolo 19: *** Prigioniera di te ***
Capitolo 20: *** Nelle catene dell’amore ***
Capitolo 21: *** Nell’abbraccio del tuo amore ***
Capitolo 22: *** La scelta di amare - Prima parte - ***
Capitolo 23: *** La scelta di amare - Seconda parte - ***
Capitolo 24: *** Ricominciare ***
Capitolo 25: *** Come un’unica famiglia ***
Capitolo 26: *** L’ora della verità ***
Capitolo 27: *** Il frutto della verità - Prima parte - ***
Capitolo 28: *** Il frutto della verità - Seconda parte - ***
Capitolo 29: *** Padre, madre ***
Capitolo 30: *** Tra sorrisi accesi e lacrime asciutte ***
Capitolo 31: *** Le colpe dei padri non ricadano sui figli ***
Capitolo 32: *** Vivere è amare, amare è vivere ***
Capitolo 33: *** Il dono della vita ***



Capitolo 1
*** Una vita da sopravvissuta ***


Capitolo 1

 

Una vita da sopravvissuta

 

Berlino ovest, ottobre 1950

 

Nadine era particolarmente contenta quella sera: suo marito era tornato dall’ospedale nel pomeriggio, avendo fatto il turno di mattina e adesso i due stavano sulla pista da ballo di una balera a ballare, o meglio a cercare di ballare, il moderno boogie-woogie. Nadine rideva nel suo vestito nero a pois bianchi mentre alcune ciocche di capelli sfuggivano ribelli dal suo elegante chignon.

Nadine ballava, mano nella mano di suo marito, rideva ed era viva. Dieci anni prima, infatti, dai rubinetti di quella fredda stanza non era fuoriuscito gas ma acqua. La morte atroce del giovane Kurt e le ultime parole d’amore scambiate fra lui e Nadine avevano tanto commosso la kapò da risvegliare in lei il senso d’umanità e spingerla a non eseguire l’ordine del capitano di Ravensbrück. La donna fece passare Nadine – la prigioniera che aveva tentato di fuggire dal campo – per un’altra prigioniera morta quella stessa sera per inedia vicino a una baracca; mise alla sventurata il vestito beige di Käthe e lo scambio fu fatto; poi portò Nadine alle docce per farle togliere il sangue di dosso ed evitare così qualsiasi sospetto. Nadine fu l’unica donna che riuscì a sopravvivere nell’inferno di Ravensbrück per cinque lunghissimi anni.

“ Werner! Ti prego, fermiamoci! ” esclamò Nadine esausta ma senza spegnere il suo sorriso. “ Certo! … ” rispose il marito e la prese sotto braccio “ … Andiamo a sederci! ” Sedettero a un tavolino lontano dalla pista da ballo e, intanto, il boogie-woogie fu sostituito da uno scatenatissimo rock’n’roll. La guerra sembrava ormai lontana. I due giovani sposi si guardarono in faccia ed esplosero in una fragorosa risata. “ No! Questo sarebbe troppo! ” fece Nadine. Nei balli, nelle canzoni, nell’aria si percepiva la voglia delle persone di divertirsi e dimenticare. Per alcune dimenticare ciò che erano state durante gli anni bui del nazismo, per altre dimenticare ciò che avevano subito.

Nel locale cominciò a fare caldo e Nadine tirò indietro i capelli, aggiustando alla meglio l’acconciatura. “ Amore, stai sudando, togliti la giacchettina. ” le consigliò Werner con apprensione. Il volto di Nadine divenne improvvisamente triste e, con un fil di voce, disse: “ No, amore, si vedrebbe. ” Nadine si riferiva al tatuaggio, marchio indelebile, ricordo di un terribile passato. Il marito le strinse la mano per rassicurarla e la donna, come in un flash, rivisse sulla propria pelle tutto ciò che aveva subito nell’inferno di Ravensbrück: il dolore dell’ago bagnato di un liquido bollente che s’introduceva ripetutamente nel suo braccio; il bruciore della disinfestazione sulle parti del corpo ferite dalla violenta depilazione; l’umiliazione della svestizione e della visita; la fatica dell’inutile e interminabile lavoro al laghetto; le fitte alle mani che si spaccavano e sanguinavano trascinando la carriola stracolma di sabbia; poi le botte, il freddo, la fame, la sete; il suo aspetto e la sua dignità di persona e di donna oltraggiati; la paura della morte; la rassegnazione al proprio destino; l’angoscia e la disperazione della solitudine … Nadine chiuse per un istante gli occhi e un brivido gelido le percorse lungo la schiena. “ Amore, adesso ci sono qui io. ” Suo marito tentò di rassicurarla e, come sempre, ci riuscì. La donna riaprì gli occhi e sulle sue labbra sbocciò un sorriso.

Nadine e Werner si erano uniti in matrimonio in un tiepido pomeriggio di metà settembre del ’46 con rito cattolico. Con il cuore palpitante d’amore e di gioia, Nadine era entrata in chiesa vestita di bianco e con il velo sulle note dell’Ave Maria di Schubert. Quello era stato davvero il giorno più felice della sua vita. Al loro matrimonio, c’erano poche persone: qualche amico e collega di Werner e la cugina di Nadine, unica sopravvissuta della sua famiglia al genocidio degli ebrei. Poco tempo dopo, i due sposi andarono ad abitare in una casetta dal tetto rosso con fuori un piccolo giardino, in una zona tranquilla della città dove la devastazione della guerra miracolosamente non era giunta. Il sogno di Nadine si era avverato insieme a Werner. L’anno successivo, arrivò un figlio. I due giovani sposi adottarono un bambino di due anni orfano di guerra: Nadine non poteva avere figli poiché durante l’ultimo anno di prigionia a Ravensbrück le fu asportato l’utero per un esperimento medico. Entrambi avevano desiderato un figlio tutto loro, che fosse frutto e senso del loro amore. Per Nadine, che sin da ragazza sentiva forte il desiderio di maternità, era stata una gran sofferenza rinunciare alla trepidazione dell’attesa e dei preparativi e a quella gioia che segue immediatamente il dolore del parto. Dopo un po’, insieme a suo marito, Nadine decise di mettere da parte ogni sentimento egoistico e di adottare un bambino, anche lui vittima dell’insensata furia della guerra. Il bambino si chiamava Andrej ed era di origine polacca. Nadine e Werner riversarono su quel bambino – dagli occhi azzurri e dai capelli biondi – tutte le loro cure e tutto il loro amore. Con la sua genitorialità, Nadine aveva realizzato appieno il sogno di tutta una vita. Il poter donare amore ad Andrej e a suo marito e riceverlo in cambio l’avevano finalmente resa una donna completa e felice anche se la vita da sopravvissuta non era facile. Spesso, Nadine provava un senso di colpa e di vergogna per essere scampata alla morte nel campo femminile di Ravensbrück e si domandava perché proprio lei fosse sopravvissuta a migliaia di donne e bambini innocenti. Del suo tragico passato aveva ormai smesso di parlare poiché, al suo racconto, le persone domandavano: Cosa hai fatto per sopravvivere? Loro non credevano al miracolo e pensavano che la donna avesse venduto se stessa ai nazisti in cambio della vita. Questa rappresentava un’ulteriore umiliazione per Nadine che rispondeva con un silenzio di tristezza e di rabbia. L’unica persona in grado di capirla era Werner. Con lui, che l’aiutava a portare il suo pesante bagaglio di incubi e ricordi, Nadine aveva ritrovato fiducia e speranza e soprattutto dignità e autostima che nel lager erano andate perdute.

Nadine accarezzò il viso di suo marito: era stato lui a cambiare la sua vita, salvandogliela in tutti i sensi ed era nel verde dei suoi occhi che tutto ciò che aveva subito in passato – violenze, offese, privazioni – sprofondava. Werner la guardò negli occhi, come i suoi, lucidi per l’emozione e si perse nel ricordo del loro primo incontro.

 

Mi son svegliato solo

poi ho incontrato te

l’esistenza un volo diventò per me.

E la stagione nuova

dietro il vetro che appannava fiorì

tra le tue braccia calde

anche l’ultima paura morì.

 

Lucio Battisti, Vento nel vento

 

 

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Capitolo 2
*** Dal buio alla luce - Prima parte - ***


Capitolo 2

 

Dal buio alla luce

 

- Prima parte -

 

“ L'amore non si vede in un luogo e non si cerca con gli occhi del corpo. Non si odono le sue parole e quando viene a te non si odono i suoi passi ”.

Sant’Agostino

 

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Le rose di Ravensbrück

 

Campo di concentramento di Ravensbrück, 5 maggio 1945

 

Il soldato russo spinse Werner nella baracca e, con tono sprezzante, gli intimò: “ Muoviti, dottore! ” Il giovane coprì subito il naso e la bocca con un fazzoletto bianco per evitare di respirare quel terribile odore mentre il soldato continuò a dirgli: “ A te spetta questa baracca! ” Werner si guardò attorno: nella baracca c’erano tanti letti, se così potevano essere definiti (altro non erano che tavoli di legno posti gli uni sopra gli altri), ma poche persone vi giacevano. In un primo momento, il giovane non riuscì a capire se quelle persone fossero uomini o donne né tantomeno se fossero vive o morte: questa era stata la conseguenza dell’ideologia che sin da bambino gli avevano inculcato, che da sempre aveva ritenuto giusta e che come medico aveva anche appoggiato. Ma adesso, davanti allo scempio dell’umanità, tutto era crollato, i suoi occhi si erano aperti e aveva incominciato a provare angoscia e rimorso. Werner si chinò davanti a un letto e sentì il polso a due ragazze – una delle quali era poco più di una bambina – ma per loro non c’era più niente da fare come per le altre tre donne sdraiate sul letto di sopra. Nella baracca sembrava non esserci più nessuno ma Werner per precauzione fece un altro giro, prestando maggior attenzione ai letti dell’ultimo piano. Ed ecco che si accorse della presenza di un’altra donna, sdraiata su un fianco, con la schiena rivolta verso il muro. Non appena la vide, nonostante l’aspetto emaciato e l’espressione sofferente, ebbe la sensazione che fosse ancora viva. Non le sentì nemmeno il polso che subito la sollevò delicatamente dal suo letto, prendendola in braccio e facendola sdraiare su quello di mezzo. Un lieve gemito di dolore che uscì dalle labbra della giovane confermò la sensazione di Werner. La donna era viva ma non lucida: il suo stato di denutrizione era troppo avanzato e molto probabilmente aveva contratto più di una malattia. Non ne ebbe paura e senza alcuna protezione medica, tipo guanti e mascherina, le si avvicinò per controllarne l’attività respiratoria e cardiaca. Entrambe erano nella norma, considerata la situazione. Fu contento per lei e, accennando un lieve sorriso, le disse: “ Non preoccuparti, ce la farai. ” Werner si meravigliò delle sue stesse parole e di quella strana sensazione che stava provando. La ragazza, intanto, emise un profondo respiro e Werner immaginò che anche lei stesse tremando. E aveva ragione. Confuso, uscì di corsa dalla baracca per avvisare i sovietici delle condizioni di salute dell’unica sopravvissuta. “ L’infermeria è piena. ” rispose freddamente uno dei due soldati. “ Ho bisogno urgentemente di una flebo … e una coperta. ” continuò Werner, assumendo un tono più autorevole. Il soldato fece un cenno al suo commilitone che, senza alcuna fretta, si allontanò mentre Werner ritornò nella baracca. Sedette accanto alla ragazza e all’improvviso, mentre aspettava con impazienza ciò che aveva chiesto, apparve alla porta un suo collega tutto trafelato. “ Werner! ” iniziò a dire “ Tra poco i sovietici bruceranno parte del campo per evitare contaminazioni. Questo è il momento giusto per scappare, per metterci in salvo! ” Il giovane Werner si sollevò quasi di scatto mentre il suo collega continuò a esortarlo: “ Forza, andiamo! ” Ma Werner guardò la ragazza e, determinato, rispose: “ Non posso. ” “ Su via, Werner, ci penseranno i sovietici a lei! ” ribatté il collega con un pizzico di sarcasmo. Il giovane Werner non diede retta al suo collega e prese in braccio la ragazza, pronto a raggiungere la gip aggirandosi velocemente tra le baracche del campo in fiamme.

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Capitolo 3
*** Dal buio alla luce - Seconda parte - ***


Capitolo 3

 

Dal buio alla luce

 

- Seconda parte -

 

“ Chi sei tu, dolce luce, che mi riempie e rischiara l'oscurità del mio cuore?
Tu mi guidi con mano materna, e se mi abbandonassi, non saprei fare più nessun passo.
Tu sei lo spazio che circonda il mio essere e lo racchiude in sé.
Da te lasciato, cadrebbe nell'abisso del nulla, dal quale tu l'hai elevato alla luce ”.

Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce)

 

Città di Fürstenberg/Havel, 23 maggio 1945

Nadine respirò profondamente e subito fu invasa da un gradevole profumo di lavanda. Erano anni che non lo sentiva. Un intenso calore avvolse il suo corpo e capì allora di trovarsi in un letto, in un vero letto, ben coperta da lenzuola calde e pulite. L’odore e il freddo della baracca erano scomparsi, così come quel dolore che prima avvertiva in tutto il corpo e, confusa, si domandava dove fosse. Forse in un sogno, si disse ma quella sensazione era troppo reale per esserlo. Aprì lentamente gli occhi e una forte luce l’abbagliò: anche il buio era scomparso. Poi, pian piano, quel bagliore andò diminuendo e vide il volto di un angelo chinato su di lei. Per un istante, quella visione celestiale fece credere a Nadine di essere passata a miglior vita. “ Buongiorno! ” udì a un tratto e capì che chi aveva di fronte non era una visione ma un uomo in carne e ossa. Ne colse subito la dolcezza della voce, la bellezza del sorriso, la perfezione dei lineamenti. “ Come ti senti? ” le domandò ma Nadine rispose con un’altra domanda: “ Dove mi trovo? ” “ Questa è la mia casa … Io sono un medico, mi chiamo Werner … Il campo di Ravensbrück è stato liberato, la guerra è finita … ” A queste parole il cuore di Nadine fece un sussulto di gioia: dopo cinque anni di prigionia era finalmente libera. “ … e adesso sei stata affidata alle mie cure … Sai dirmi qual è il tuo nome? ” Nadine ci mise un po’ di tempo per ricordarlo: per troppo tempo, infatti, il suo nome era stato un numero di matricola. “ Mi chiamo Nadine. ” rispose in seguito e gli tese la mano, mostrando un lieve sorriso. “ Piacere, Werner. ” Quel sorriso appena accennato, di calma e fiducia, rasserenò il giovane: dopo due settimane, la ragazza si era risvegliata dal coma e nel vederlo non si era spaventata. Il suo cuore si riempì di un qualcosa mai provato prima, di una gioia che andava ben oltre la soddisfazione per averla salvata dal tifo contratto nel lager, di una pace che stranamente lo allontanava dalle preoccupazioni del dopoguerra. D’altra parte, Nadine si domandava perché si fosse fidata subito di quell’uomo – che in fondo era uno sconosciuto e di sicuro un tedesco – e perché il suo cuore stesse battendo così forte guardando il verde dei suoi occhi. Era come se lo conoscesse da sempre e la sua vicinanza la faceva sentire al sicuro.

Nadine cominciò pian piano a riprendersi e a non aver più bisogno dell’alimentazione artificiale. Il suo corpo e il suo aspetto ritornavano a essere quelli di una donna e, dentro di lei, la speranza e la voglia di libertà si erano ridestate. Nadine stava pian piano rinascendo e il merito era di Werner. Non erano soltanto le sue cure a farla stare bene ma anche le sue attenzioni, il suo comportamento gentile e rispettoso, la sua delicatezza nel domandarle del suo stato d’animo e di salute, il suo trattarla da essere umano. Le prime volte la giovane se n’era addirittura meravigliata, essendo abituata al disprezzo e all’umiliazione. Contemporaneamente, anche la vita di Werner stava cambiando. Il suo prendersi cura di Nadine, il suo starle vicino, vederla rifiorire e sorridere dopo tutto quello che aveva passato nel lager, guardarla negli occhi e capire che in lei c’era qualcosa di diverso, qualcosa di speciale, una luce che non aveva mai visto in nessun altro sguardo, lo facevano sentire ogni giorno meglio e il suo cuore si apriva sempre di più. Werner si stava innamorando di Nadine.

“ Oggi ho il turno di notte … ” disse Werner, affacciandosi alla porta “ … Torno a casa alle sei. ” A queste parole, il cuore di Nadine fu invaso da una strana tristezza. Avrebbe voluto dirgli di restare con lei, di non andare via, di non lasciarla da sola ma non tentò nemmeno di farglielo capire, con una parola o un gesto. E così Werner andò via mentre Nadine cominciò a domandarsi cosa stesse succedendo al suo cuore, il perché di quel suo turbamento, perché ogni volta che il giovane si allontanava da lei ne sentisse la mancanza. Ben presto, girandosi e rigirandosi nel letto, Nadine riuscì a dare una risposta alle sue domande e trovò nel suo cuore quella verità che a se stessa stava nascondendo. Ciò che provava nei confronti di Werner andava oltre la gratitudine e la riconoscenza, la stima e l’affetto: era in realtà amore. La giovane non riusciva ad accettare questa verità e si diceva di non poter permettersi – proprio adesso che il suo corpo e il suo spirito cominciavano a riprendersi – di ricadere nella disperazione per un amore non corrisposto e di ritrovarsi a un passo dalla morte … interiore. Il suo cuore già martoriato dalla terribile esperienza di Ravensbrück non avrebbe mai sopportato un’altra delusione e stavolta per lei sarebbe stata davvero finita. Non poteva confondere le cure mediche di Werner e la sua umana sensibilità per un sentimento più profondo, i suoi ampi sorrisi e i suoi sguardi lucenti per dei segnali d’amore, non poteva crearsi l’amara illusione di essere contraccambiata. Ma, ogni giorno che passava, Werner non faceva altro che confermare la sua sensazione e il suo cuore cominciava a scalpitare, desideroso di aprirsi nuovamente all’amore. Il suo cuore era pronto ma la sua mente era ancora frenata dai ricordi del lager e delle persone che in quegli anni le avevano fatto del male. Nel frattempo, anche Werner pensava che ciò che provava Nadine fosse soltanto riconoscenza per averla portata via dal campo e ospitata nella sua casa e non voleva illudersi di un amore che in realtà era a senso unico.

Seduta alla finestra della sua camera, Nadine scrutava la strada: un cumulo di macerie faceva da tappeto alla città e nell’aria aleggiavano ancora polvere e detriti. Di fronte, un palazzo sventrato dai bombardamenti sembrava reggersi in piedi a malapena: forse sarebbe bastata una semplice pioggia per farlo cadere e ridurre in mille pezzi. La ragazza guardò per l’ennesima volta il tatuaggio inciso sul suo braccio, il numero 950 e pensò che il suo cuore fosse proprio come quel palazzo che aveva dinanzi agli occhi. Distrutto e, se anche Werner l’avesse abbandonata, non sarebbe rimasto più niente. Quell’amore che provava le riempiva il cuore e la incoraggiava a riprendersi e ad andare avanti dopo Ravensbrück ma, allo stesso tempo, le faceva paura. Nadine temeva, infatti, che tutto ciò che stava vivendo fosse un sogno e che Werner fosse un’illusione. Temeva di risvegliarsi da un momento all’altro e di ritrovarsi sola nel fango del lager, sporca di disprezzo e disperazione. Temeva di essere ingannata come nel suo arrivo a Ravensbrück quando, percorrendo quel bellissimo viale fiorito di gerani colorati, aveva creduto che fosse un posto migliore oppure come aveva fatto Kurt promettendole di salvarla dal campo. Nadine aveva paura ma sentiva di potersi fidare di Werner, perché lui era diverso da tutti gli altri e non le avrebbe mai fatto del male. Intanto, anche il giovane si domandava se Nadine fosse soltanto un’illusione, un miraggio nel deserto della sua vita e temeva che presto sarebbe svanito e lui risprofondato nella solitudine e nel buio dell’antisemitismo. Ma ben presto le loro paure caddero e, in un tiepido pomeriggio d’inizio estate, i due trovarono il coraggio di dirsi i loro sentimenti.

Poi la mano di Werner si posò su quella di Nadine mentre i loro visi si fecero sempre più vicini. Gli occhi negli occhi, i respiri all’unisono e le loro labbra finalmente vicine per potersi sfiorare. 

 

Tu, non sarai mica tu

una saponetta che

scivolando non c’è.

Dimmi che da un’ora tu

hai bisogno di me

che di ossigeno di più.

Dimmi che non sei tu

un miraggio, ma sei tu.

 

Umberto Tozzi, Tu

 

 

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Capitolo 4
*** Il chiarore delle stelle, il mormorio del vento e il profumo della tua pelle ***


Capitolo 4

 

Il chiarore delle stelle,

il mormorio del vento e

il profumo della tua pelle

                                                                                                              

“ Io andavo lungo il sentiero, tu venivi,
il mio amore cadde tra le tue braccia, il tuo amore tremò nelle mie.
Da allora il mio cielo di notte ebbe stelle
e per raccoglierle la tua vita si fece fiume ”.
Pablo Neruda

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Tramonto a Schlachtensee (1895), Walter Leistikow

Lago di Schlachtensee[i], 24 giugno 1945

 

Werner strinse più forte la mano di Nadine mentre il terreno, procedendo verso il lago, si faceva sempre più in discesa. La luce del sole quasi al tramonto, la natura tutta in fiore e la silenziosa tranquillità della foresta, offrivano già ai due innamorati l’atmosfera perfetta. Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra, avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due contavano ancora i loro inverni. Come dimenticare il dolore di Ravensbrück, la furia dei soldati, il fumo nero che ogni giorno ininterrottamente saliva al cielo e i volti delle persone a cui la vita non aveva dato una possibilità di salvezza? Come dimenticare se le ferite del corpo non erano ancora cicatrizzate? E Werner come poteva cancellare dalla mente la sua iscrizione al partito nazista, le sue tesi mediche redatte a favore della teoria razzista, l’eutanasia e gli esperimenti praticati dai suoi colleghi e il suo silenzio che diventava loro complice? Come allontanare il rimorso se la donna che amava ne era stata vittima e sotto le macerie s’intravedevano ancora corpi senza vita? Per entrambi la risposta aveva un nome, un volto, degli occhi nei quali ritrovare una parte di se stessi, assopita durante gli anni della guerra e delle braccia nelle quali rifugiarsi e soffocare le ombre del passato. Sulla sponda di quel lago, saldamente abbracciati l’un l’altra quasi da sembrare un sol corpo, i due capirono che non tutto era stato vano. Solo a causa del suo orientamento politico e della sua professione, infatti, Werner era stato catturato dai russi e condotto a Nadine. E anche per lei Ravensbrück non era stato inutile perché le aveva poi donato Werner. Allora la sua sofferenza acquistò un senso e benedisse quei cinque anni di prigionia. Nadine alzò gli occhi al cielo e finalmente riuscì a scorgere il chiarore delle stelle. Il fumo nero del forno crematorio e le scie degli aerei militari non offuscavano più il firmamento. E, in quel preciso istante, Nadine riacquistò i suoi venticinque anni e quella giovinezza che nel campo era stata spenta. Il tempo della guerra, del nazismo e dell’odio lasciava adesso spazio a quello dell’amore. Tutto stava cambiando, dentro e fuori di loro. Adesso non c’era il frastuono della guerra, il rumore degli spari e le urla disperate a impedire l’ascolto del mormorio del vento, del fruscio degli alberi e del suono rilassante dell’acqua che accarezzava le rive del lago. “ è tutto finito, amore. Adesso ci sono qui io. ” le disse teneramente Werner stringendola di più a sé.

Il sole era già da un bel po’ giunto al suo tramonto, segnando la fine del giorno e della loro tristezza e con un bacio cominciò una nuova vita, l’inizio di un futuro migliore e di un’eternità felice insieme. Con quel bacio, gli anni di dolore vissuti da Nadine svanirono e il velo di paura che ricopriva i suoi occhi cadde. I terribili ricordi e gli incubi del lager si dispersero tra il profumo di Werner e le sue carezze. Poi un “ ti amo ” esplose dai loro cuori, finalmente liberati dalle catene del passato. 

Il buio cadde prepotentemente sulla città di Berlino che sembrava tanto lontana da loro con la sua devastazione e le sue rovine mentre la luce della luna e delle stelle illuminò quel paesaggio reso incantato dall’amore. I due innamorati avevano lasciato l’albero e adesso erano in piedi, a un passo dal lago, a scambiarsi un bacio appassionato. Poi il vento si fece più forte e il foulard di Nadine volò via.

 

Ora alza gli occhi al cielo

e dimmi quando mancherà al tramonto.

Ci vuol buio a questo punto,

voglio farti tenerezza.

La tristezza si dissolve con il fumo.

Resta solo il tuo profumo,

il profumo della pelle,

lo sfondo delle stelle

e un vago senso di dolore che scompare col respiro,

col respiro del tuo amore. 

 

Lucio Battisti, Dove arriva quel cespuglio

 

 

 

 

 

 



[i] Lago situato nella Foresta di Grunewald (detta anche “ foresta verde ”) all’interno della città di Berlino.  

 

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Capitolo 5
*** Quando il passato bussa alla porta ***


Capitolo 5

 

Quando il passato bussa alla porta

 

“ Non raccontavo mai del mio passato, né davo informazioni personali …

Quei ricordi erano soltanto miei e avevo imparato che certe cose è meglio tenerle segrete ”.

Nicholas Sparks

 

Berlino ovest, ottobre 1950

 

Un tenue raggio di sole entrò lentamente dalle persiane della finestra posandosi sui capelli di Nadine che stava ancora dormendo. Werner stropicciò gli occhi, sollevando ancora un po’ la testa dal cuscino: il vestito a pois, tolto in tutta fretta, giaceva arrotolato sulla sedia davanti al letto; la porta della camera era ancora socchiusa, a dimostrazione che anche sua moglie non si era alzata quella notte. In un istante, mille e mille pensieri affollarono la mente di Werner e lo condussero a domandarsi come sarebbero stati i suoi trentacinque anni senza l’amore di Nadine, come avrebbe reagito di fronte allo sfascio del dopoguerra senza il suo sostegno, come avrebbe affrontato quel passare ogni giorno da Berlino ovest a Berlino est e gli umilianti controlli dei militari sovietici per recarsi all’ospedale senza il sorriso che lo attendeva la sera.

Era cambiato in quegli anni: il ragazzo Werner, all’apparenza insensibile e menefreghista, schiavo del conformismo ideologico, medico senza cuore che non considerava i suoi pazienti come persone, era scomparso per lasciar posto all’uomo gentile e rispettoso, combattivo nell’affermare il valore e la dignità di ogni singola vita umana.

Decise poi di frenare i suoi pensieri, di mettere da parte il suo passato e ciò che era stato e di godersi quella tiepida domenica autunnale con la sua famiglia: una passeggiata al lago, come promesso a Nadine; poi di nuovo a casa per il pranzo e infine Messa alla Cattedrale di Sant’Edvige[i] e quattro passi in città. Ma all’improvviso Werner sentì bussare alla porta e vide sua moglie scuotersi dal sonno. “ Chi può essere a quest’ora? ” fece il dottor Hofmann rivolgendosi più che altro a se stesso mentre quel bussare diventava sempre più prepotente. “ Nadine! … Nadine! ” A quella voce familiare, Nadine balzò dal letto, afferrò la vestaglia dalla poltrona e, in tutta fretta, la indossò correndo lungo il corridoio. Quando Werner giunse all’ingresso, Nadine aveva già aperto la porta a sua cugina Edith, l’unica della famiglia sopravvissuta alla Shoah. La ventenne, dall’espressione stravolta e il respiro affannoso, aveva in mano un quotidiano. “ Nadine, c’è una cosa che dovresti vedere. ” disse con voce tremante e le porse il giornale. Di colpo, Nadine divenne pallida come un fantasma e Werner si avvicinò poggiandole una mano sulla spalla. “ Nadine. ” sussurrò atterrito. Il nome del giornale era, infatti, “Der Hochmann” e su tutta la prima pagina era stampata una foto: quella di Nadine nel campo di concentramento scattata da Kurt nel 1939. Sotto la foto c’erano scritte due date: 1 luglio 1920 e 16 giugno 1940. La prima era la data di nascita di Nadine e la seconda la data di morte di Kurt. Entrambe le date erano attribuite alla ragazza della foto. Sopra la foto, un titolo a caratteri cubitali: “Un volto per non dimenticare”. “ Dove l’hai trovato? ” fece Nadine sconvolta, rivolgendosi alla cugina. La donna credeva, infatti, che il “Der Hochmann” non fosse stato più pubblicato dopo la caduta del nazismo e che le sue foto fossero state distrutte dal padre di Kurt tempo addietro. “ Sono passata vicino all’edicola sotto casa mia e l’ho trovato. ” rispose Edith con voce più calma. Nadine iniziò a sfogliare freneticamente il giornale e i tre insieme videro tutte le foto scattate dal giovane Kurt nell’inverno del ’39: l’entrata del campo di concentramento di Ravensbrück, la recinzione, le baracche, l’appello delle prigioniere, il lavoro sulle rive del lago di Schwedt, il forno crematorio e, infine, Nadine. Nadine ragazza, così minuta da sembrare una bambina, seduta sul terreno fangoso del lager, intenta a coprirsi il volto con le mani e, ancora, Nadine in ginocchio con il braccio sinistro scoperto per mostrare il tatuaggio inciso sulla sua pelle. Allora Nadine cominciò a ricordarne i momenti, a sentire nella sua testa il rumore degli scatti della macchina fotografica di Kurt e il suono della sua voce …

“Mettiti in ginocchio … Scopriti il braccio sinistro in modo che si veda bene il tatuaggio”.

“Così va bene?”

“Sì, va bene … Inclina il capo a destra e guarda fisso a terra … Non muoverti, mi raccomando … Fatto! … Adesso siediti … Togliti il fazzoletto … Ecco, abbiamo quasi finito! … Avvicinati che voglio fotografare solo il tatuaggio”.

Werner si girò nel letto e allungò il braccio, sicuro di trovare ancora sua moglie ma lei non c’era. La trovò in cucina vestita in tailleur blu, intenta a sistemare il giornale nella valigia che aveva poggiato sul tavolo. “ Che stai facendo? ” le domandò preoccupato. Nadine si voltò solo dopo alcuni secondi: gli occhi erano gonfi a causa della notte insonne e i capelli raccolti nello chignon, questa volta con poca accuratezza. “ Ho deciso di partire, Werner. ” rispose con tono fermo e continuò: “ Devo scoprire chi è l’autore di quell’articolo, come ha fatto a conoscermi e … se è il padre di Kurt, devo dirgli che io sono viva e che suo figlio è morto. ” “ Non andare via, Nadine! ” esclamò Werner, prendendole il polso con delicatezza. “ Perché?! Io ho bisogno di conoscere la verità! ” ribatté la donna, troppo convinta per cambiare idea. Allora, il dottor Hofmann tirò in ballo il loro figlioletto e disse: “ Come farò con Andrej? ” “ Ho parlato già con Edith, verrà lei ad aiutarvi. ” rispose Nadine e, intanto, dalla strada si udì un clacson. “ è arrivato il taxi. ” fece la donna, svincolandosi dalla presa di suo marito per poi correre alla finestra. “ Ti avrei accompagnato io. ” affermò Werner deluso. Ma Nadine prese la valigia dal tavolo e gli disse: “ Abbi cura di Andrej … Io tornerò presto. ” I due si guardarono profondamente negli occhi: in entrambi traspariva un velo di malinconia. Si abbracciarono. “ Nadine … ” Per un attimo, Werner pensò davvero di farcela. “ Dimmi, Werner. ” lo incoraggiò Nadine. Ma l’uomo scelse di dire ciò che era più facile: “ … Ti amo. ” “ Anch’io ti amo, amore mio. ” rispose sua moglie. Werner la abbracciò più forte come se in quella stretta volesse chiederle un qualche perdono. “ Torna presto. ” le disse trattenendo a stento le lacrime. “ Te l’ho già detto, Werner: tornerò presto. ” ribatté Nadine con dolcezza e per la prima volta i due si divisero. Dai vetri della finestra inumiditi dalla pioggerellina notturna, Werner vide la sua sposa salire sul taxi bianco e un senso di vuoto lo invase. Poi dentro di lui si fece spazio la paura di non rivedere più Nadine o di rivederla cambiata. Avrebbe voluto uscire di casa, correre in pigiama e pantofole verso di lei, trattenerla ma ormai il taxi era partito e Nadine già lontana.

 

Motore danza, sento già che il dolore avanza.
Respirerò lacrime e aria che mi sbronza.
Danza, non potrei vivere abbastanza senza di lei.
Non potrei senza una speranza.

 

Umberto Tozzi, Notte rosa

 



[i] Cattedrale cattolica dell’arcidiocesi di Berlino. In tedesco “Sankt-Hedwigs-Kathedrale”. Si trova in Bebelplatz a Berlino, nel quartiere Mitte.

 

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Capitolo 6
*** Ritorno a Ravensbrück ***


Capitolo 6

 

Ritorno a Ravensbrück

 

- Viaggio tra passato e presente -

 

“Ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest'offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.

Primo Levi, Se questo è un uomo


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Il binario morto di Ravensbrück, foto di Ambra Laurenzi

 

Il vagone era pieno di gente: donne di ogni età, anziane, ragazze e bambine e madri con i loro figlioletti in braccio. Tutte erano in piedi, attaccate le une alle altre tanto da non potersi neanche muovere e in un fortissimo stato di shock. Nessuna di loro, infatti, si aspettava di vivere una situazione del genere e così presto. Ad aggravare il tutto c’era il caldo, un caldo opprimente, mai provato prima di allora in una città tanto fredda come Berlino. Era il 2 luglio e il giorno prima Nadine aveva compiuto diciannove anni. Le donne cominciarono a piangere e urlare e lo stesso fecero i bambini. Il caldo, le urla, lo spazio ristretto, la puzza poiché quello in cui si trovava doveva essere un treno per il trasporto del bestiame: Nadine si sentiva impazzire. Portò le mani alle tempie e iniziò ad ansimare per il panico.

 

“Signora, si sente bene?” Nadine si risvegliò dall’incubo che in realtà era un ricordo del suo passato e guardò l’uomo che gentilmente le aveva posato la mano sulla spalla. Era il controllore. In fretta, Nadine aprì la pochette e gli porse il biglietto. “Signora, si sente bene? …” ripeté l’uomo. Nadine, infatti, era molto provata. “… Se vuole le porto un po’ d’acqua.” aggiunse il controllore con apprensione. “No, grazie. Sto bene, non si preoccupi.” affermò Nadine calmandosi e l’uomo timbrò il biglietto. “Mi scusi, come potrei raggiungere Ravensbrück?” Nadine era pronta a ritornare nei luoghi della sua persecuzione, per guardare da vicino il suo passato e ciò che aveva dovuto affrontare da donna libera e per lasciare un fiore su quella che era stata la tomba di Kurt. “Deve scendere alla stazione di Fürstenberg, prendere un taxi e in un quarto d’ora è già arrivata.” rispose il controllore con fare professionale. “La ringrazio.” Nadine abbozzò un sorriso e volse lo sguardo al finestrino. La sua espressione era estremamente malinconica. Presto il treno si sarebbe fermato e lei avrebbe fatto i conti con il suo passato. Un po’ ne aveva paura. 

 

Il treno si fermò quasi di colpo e la marea di donne poté finalmente uscire da quella trappola. Un soldato delle SS afferrò Nadine per un polso e la catapultò fuori dal vagone facendola cadere bruscamente a terra. Le diede un calcio e iniziò a inveire contro le donne ebree. Tutti i soldati imprecavano mentre le donne singhiozzavano per la paura. C’erano anche delle donne soldato che a gran voce davano ordine alle donne ebree di mettersi in fila. La confusione era pazzesca: le urla dei soldati, l’abbaiare dei loro grossi cani e i lamenti delle donne che come Nadine erano sgomente per l’ignoto futuro che le attendeva. La giovane Nadine era in fila tra le centinaia di donne in una triste marcia avvolta da un’illusoria speranza. Lo splendido viale fiorito e le caratteristiche casette tirolesi fecero sperare a Nadine che il lager non fosse poi così male. E invece si sbagliava.   

 

Nadine era a un passo dal cancello di Ravensbrück e, per un attimo, ritornò diciannovenne; in quel vestito blu a campana regalatole da sua madre il giorno del suo compleanno, con i capelli lunghi e spettinati, confusa, spaventata. Si avvicinò ancora di più fino a toccare con le punte delle dita il freddo cancello del lager. Quello che era conosciuto come “l’inferno delle donne” non era molto cambiato ma, a differenza di un tempo, regnava il silenzio. C’erano ancora numerose baracche, il forno crematorio, l’infermeria e il famigerato ufficio.

 

Dopo un’interminabile notte insonne trascorsa nell’umidissimo locale delle docce, Nadine insieme a tutte le altre donne fu costretta a spogliarsi e a uscire in quel modo nel campo. Tanto fu l’imbarazzo per una ragazza riservata come lei. Il sole splendeva alto nel cielo ma il suo calore non bastava per fermare il tremore di Nadine che freneticamente stringeva tra le mani il vestito e i suoi effetti personali. La lunghissima fila di donne nude si fermò davanti ad una piccola baracca e lì Nadine rimase in piedi per ore e ore prima di entrarvi.

 

Nadine rivisse sulla propria pelle ciò che aveva provato in quei momenti di estenuante attesa: il caldo che la faceva sudare, la sabbia e le pietruzze che le pizzicavo i piedi, l’umiliazione nel ritrovarsi nuda davanti agli occhi dei soldati che si scambiavano battute volgari sulle deportate. Le ricordò tutte. Ma ancora di più ricordò la paura, quella paura tremenda per l’ignoto che la attendeva dietro quella porta. In quel doloroso momento, Nadine avrebbe voluto l’abbraccio di suo marito e ricordò che neanche a lui aveva raccontato ciò che accadeva nell’ufficio.

 

La stanza era tremendamente buia, considerando che fuori era pieno giorno e spoglia. L’unico mobile presente in quell’ufficio era una lunga scrivania dietro la quale sedeva un ufficiale delle SS, forse un tenente. Grasso, senza espressione, che scriveva lentamente su un registro di colore nero. “Nome?” fece l’ufficiale con voce atona. La ragazza aprì lievemente le labbra impastate per la sete e sussurrò il suo nome: “Nadine Hoffen.” “Età?” continuò il tenente senza alzare lo sguardo dal grande registro. “Diciannove.” rispose Nadine terrorizzata. Poi una donna soldato le strappò di mano i suoi effetti personali e, dopo averli gettati sulla scrivania, ne fece un minuzioso elenco: “Vestito blu a maniche corte, borsetta beige con tracolla lunga, scarpe marroni con tacco basso, catenina in argento con ciondolo a forma di cuore; contenuto della borsa: specchietto quadrato in astuccio di pelle color marrone, fazzoletto di stoffa bianco.” La donna dall’espressione altera mise il tutto in una busta di cartone che Nadine non rivide mai più e la poggiò a terra in mezzo a tante altre. “Bene, procedere con la perquisizione.” esclamò il tenente. Panico: cosa significava in quel contesto la parola “perquisizione”? Un’altra donna soldato si avvicinò alla giovane Nadine e la sua intimità fu violata, morì la sua dignità e a breve anche la sua identità avrebbe fatto la stessa fine. “Pulita.” affermò la donna che l’aveva perquisita e l’ufficiale pronunciò dei numeri: “9,5,0.” Solo poche ore dopo Nadine capì il loro significato.

 

Come in un tragico film, Nadine si rivide mentre le tatuavano sul braccio sinistro quel numero e le rasavano i suoi bei capelli neri. Come allora, una lacrima le rigò il viso e un singhiozzo uscì dalle sue labbra. No, Nadine non aveva dimenticato il suo passato, si era soltanto illusa di averlo fatto. Ciò che le era successo in quel campo era stato orrendo: per cinque lunghissimi anni, le avevano strappato la libertà, la dignità e la stessa umanità. In quell’inferno, lei diciannovenne era morta. No, Nadine non poteva dimenticare e forse non era nemmeno giusto farlo. Strinse più forte il fiore che aveva portato per Kurt e lo lanciò oltre la rete di filo spinato in ricordo di tutte le persone che come lui avevano perso la vita a Ravensbrück: il piccolo Petru, la coraggiosa Grâce, le tante donne e bambini che aveva conosciuto nel suo blocco. In un secondo ne rivide i volti, emaciati, impauriti, senza speranza, spenti. E non tralasciò la sua stessa morte, la morte di quell’aspettativa di vita normale e magari felice che si ha all’età di vent’anni, quella morte che era poi divenuta rinascita grazie al suo Werner.

 

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare

 a vivere senza ammazzare e il vento si poserà.

 

Nomadi, La canzone del bambino nel vento (Auschwitz)

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Capitolo 7
*** La verità è svelata ***


Capitolo 7

 

La verità è svelata

 

“Bisogna che si sia in due per scoprire la verità:

che vi sia uno che la esprima e un altro che la comprenda”. Kahlil Gibran 

 

Nadine scese celermente dal taxi e alzò gli occhi: la grande insegna “Der Hochmann” sovrastava quello che tutto sommato era un piccolo edificio. Con tre piani, due porte d’ingresso, tante finestre e verniciata di color ocra così si presentava la sede dello storico giornale di Fürstenberg/Havel, un tempo di propaganda nazista. La donna entrò dalla porta alla sua destra, ritrovandosi davanti a una lunga scrivania dietro la quale sedevano tante persone occupatissime a scrivere a macchina e a parlare a telefono. Si avvicinò a una ragazza bionda con grossi occhiali da vista neri e una lunga coda di cavallo. “Mi scusi …” le disse “… è possibile parlare con il signor Hochmann?” “Ha un appuntamento?” fece la giovane con tono quasi annoiato. “No, ma è importante!” rispose Nadine sicura. “Mi dispiace, signora, ma non è possibile. Se vuole, le fisso subito un appuntamento per la prossima settimana.” Le parole della ragazza non scoraggiarono Nadine che però si vide costretta a uscire dalla sede del “Der Hochmann”. Subito, una ventata di aria fredda le sferzò il viso e, facendo una smorfia, chiuse gli occhi per proteggerli dalla polvere. “Ragazze, ma ci rendiamo conto che questa è la seconda volta che facciamo tardi?! Il signor Hochmann ci licenzierà tutte, ne sono sicura!” Nadine aprì gli occhi all’udire questa giovane voce dal tono disperato. “Non agitarti troppo, Gabriela. Questa volta entreremo dal retro e, se saremo fortunate, nessuno si accorgerà del nostro ritardo.” All’udire ciò, Nadine ebbe un’idea e si girò di scatto verso il gruppetto di ragazze. Ne erano sei, tutte vestite in tailleur scuri e tutte con i capelli raccolti in chignon, alcune indossavano occhiali da vista. Le seguì nella loro corsa verso il retro, si confuse fra loro e con loro entrò di nascosto nella sede del giornale attraverso una porta stretta di colore rosso sopra la quale c’era scritto un divieto d’accesso. Un po’ si vergognò del suo comportamento ma questo era l’unico modo per conoscere e per far conoscere la verità. Lei e il padre di Kurt ne avevano pieno diritto! Mentre percorreva i lunghissimi corridoi del primo piano dalle pareti verniciate di un bel verde acqua, Nadine ripeteva nella sua testa le parole da dire al signor Hochmann e si domandava quale sarebbe stata la sua reazione. Forse l’avrebbe incolpata dell’orribile morte di suo figlio, avrebbe urlato contro di lei la sua rabbia, l’avrebbe cacciata via e di questo Nadine aveva paura.  Ma non gli avrebbe dato torto. Adesso che anche lei era madre poteva capire pienamente il dolore, la rabbia, l’angoscia, il vuoto che si prova per la perdita di un figlio. Al solo pensiero di poter perdere il suo piccolo Andrej, Nadine rabbrividiva. Alla fine del lungo corridoio, la donna trovò finalmente l’indicazione che cercava su una targa bianca posta in alto alla parete: l’ufficio della direzione era al terzo piano, alla stanza numero venticinque. La porta dell’ufficio era semiaperta e Nadine, prima di bussarvi, sbirciò all’interno della stanza. Davanti alla finestra c’era un uomo in piedi e di spalle, con una mano poggiata su un mobiletto pieno zeppo di giornali e l’altra che reggeva una sigaretta. Curvo e immobile, immerso nella luce fioca della stanza e probabilmente nella tristezza dei suoi pensieri, l’uomo sembrava il protagonista di un quadro del più disperato tra i pittori. Nadine capì subito che quell’uomo non era il padre di Kurt. I suoi capelli non erano bianchi, le sue mani non erano segnate dal tempo e la sua corporatura non era quella di un sessantenne. Nadine pensò che quell’uomo fosse un collaboratore del signor Hochmann o un dirigente del giornale. Nonostante ciò, dovette farsi ugualmente coraggio per bussare alla porta. “Lydia, lascia quei documenti sulla scrivania e, quando esci, chiudi la porta per favore.” esclamò l’uomo con voce autorevole senza voltarsi e Nadine bussò di nuovo alla porta. “Buongiorno …” disse con fare sicuro “… Dovrei parlare urgentemente con il signor Friedrich Hochmann.” A quelle parole, l’uomo si voltò e tutto accadde in meno di un secondo. I due si scambiarono uno sguardo, Nadine sbiancò di colpo, l’uomo sconvolto lasciò scivolare la sigaretta a terra. Nadine non aveva esitato neppure per un istante a riconoscerlo, aveva subito capito chi si nascondeva dietro quel volto sfigurato da innumerevoli cicatrici, ma non voleva crederci e pensò che le ore d’insonnia e di viaggio le avessero giocato uno strano scherzo. “Nadine?” “Kurt?” E tutto divenne improvvisamente buio.

 

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Capitolo 8
*** La verità ha i tuoi occhi ***


Capitolo 8

                                                                       

La verità ha i tuoi occhi


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Quando Nadine riprese i sensi, si ritrovò sdraiata su un divano con la camicetta un po’ sbottonata e due ragazze che la osservavano preoccupate. “Sta riaprendo gli occhi! Sta riaprendo gli occhi!” esclamò una delle due con tono molto agitato.  Pian piano, Nadine si mise a sedere - sentiva la testa come schiacciata da un grosso macigno - mentre l’altra ragazza le porse un bicchiere d’acqua che però non prese. Nadine era troppo sconvolta e frastornata per quella verità che aveva dinanzi. Quell’uomo, Kurt, era lì, immobile, di fronte a lei, col volto ferito … vivo. Sì, Kurt era vivo e adesso la guardava con apprensione e meraviglia. Dopo alcuni istanti di esitazione, l’uomo s’incamminò verso di lei zoppicando. Si accovacciò e la guardò profondamente negli occhi, in quegli occhi nocciola, gli unici in grado di confermare chi lei fosse. Kurt già sapeva che dietro quell’immagine di donna, dal viso lievemente truccato, dai capelli raccolti in uno chignon spettinato, dalle forme del corpo armoniose, si nascondeva la ragazza conosciuta a Ravensbrück ma le chiese ugualmente: “Tu sei davvero Nadine?” Lei distolse per un attimo lo sguardo e, trattenendo a stento lacrime convulse, rispose con un’altra domanda: “Tu eri morto! … Sei morto tra le mie braccia! … Non può essere vero! … Cos’è successo?!” E la memoria di Kurt andò a quel giorno …

 

16 giugno 1940, campo di concentramento di Ravensbrück

 

Kurt iniziò ad avvertire dolori lancinanti in tutto il corpo, in particolare gli bruciava la faccia e, a ogni respiro, provava una fitta al naso. Tentò di aprire gli occhi ma gli fu impossibile: il dolore era troppo forte. Il giovane era fisicamente distrutto e mentalmente confuso. Immaginava di essere morto e si domandava il perché di quel male. Pensò di essere capitato in un girone dell’inferno e ne ebbe la conferma quando capì di essere completamente nudo e sporco di fango. Non era riuscito a salvare Nadine dal lager e quella sarebbe stata la sua eterna punizione. Dietro di lui c’erano alcuni cadaveri di donna ma questo Kurt lo avrebbe appreso più in là. Con sforzo disumano, riuscì lentamente a sedersi e, all’improvviso, udì una voce in lontananza: “Ehi, tu … Stai fermo … Vengo a prenderti.” Il giovane era sempre più confuso. Fu sollevato e sorretto da quell’uomo che, con espressione angosciata, disse: “Povero ragazzo … Guarda come l’hanno conciato … Povero figliolo.”

Quell’uomo si chiamava Franz, aveva cinquant’anni e apparteneva alla Widerstand[i]. Fratello di un gesuita, sin dal 1933, si era opposto al nazismo e, con l’inizio delle deportazioni, si aggirava per la Germania in cerca di qualche anima da salvare. Grazie al coraggio e alla generosità di quell’uomo - che lo accolse nella sua casa, lo fece curare e lo tenne con sé come un figlio -, Kurt ebbe la possibilità di salvarsi e di riprendersi, dopo la guerra, la sua vita.

 

“Dopo la guerra ti ho cercato, Nadine …” esordì Kurt, dopo averle raccontato di quel giorno “… Sono ritornato a Ravensbrück per sapere se ce l’avessi fatta ma senza risultato. Per anni ho vissuto col senso di colpa per non averti portato via da quel posto.” Entrambi erano seduti sul divano e bevevano una tazza di camomilla. “Ma come hai fatto a sopravvivere, Nadine?” continuò l’uomo ancora meravigliato. La signora Hofmann si alzò e, dandogli le spalle, disse: “Sono stati anni molto duri. Ogni giorno pensavo che sarebbe stato l’ultimo della mia vita. Ho subito enormi crudeltà … Beh, io lo considero un miracolo … E tu come hai passato gli anni della guerra?” “Con la famiglia di Franz passavamo di casa in casa, di città in città e nell’ultimo periodo ci nascondevamo nei boschi per fuggire ai nazisti …” rispose Kurt e aggiunse: “… Franz era già morto. Era stato scoperto da un soldato delle SS mentre tentava di salvare una bimba da un rastrellamento. Per me era come un padre.” Poi Nadine gli chiese dei suoi genitori e di Käthe

 

I coniugi Hochmann si separarono nell’inverno del 1942. Friedrich e Ingrid s’incolpavano a vicenda della scomparsa del figlio, le loro liti erano sempre più violente e per il bene di Käthe avevano deciso di lasciarsi. Ma, nel frattempo, la ragazza - trascurata dai genitori perché chiusi nel guscio del loro dolore e sprofondati nell’abisso dei sensi di colpa, attratta dallo strano fascino della divisa e soggiogata dall’ideologia che dominava la Germania - perse la testa per un capitano delle SS di dieci anni più grande di lei. Da subito, quell’uomo si era rivelato un violento arrivando persino ad alzare le mani sul suo futuro suocero per una piccola divergenza di opinioni. Plagiata dal nazista, la giovane Käthe abbandonò gli studi e i suoi sogni e si sposò dopo pochi mesi di fidanzamento.

 

“Mia sorella ha vissuto quattro anni d’inferno. Quell’essere, che non merita nemmeno di essere chiamato per nome, la rinchiudeva in casa, la picchiava, la violentava. La picchiava anche in gravidanza quel bastardo!” il tono di Kurt divenne arrabbiato “Grazie a Dio, il processo di Norimberga ha posto fine alla sua orrenda prigionia … Lo arrestarono e, prima di essere giudicato, si tolse la vita con del veleno.” “Povera Käthe.” affermò Nadine con le lacrime agli occhi e Kurt continuò dicendo: “Käthe adesso sta bene. Vive da sola con suo figlio e, pian piano, sta rimettendo insieme i pezzi della sua vita per ricominciare tutto daccapo.”  

 

Dopo la separazione da sua moglie, Friedrich si mise alla ricerca del figlio partendo dalle fotografie di Ravensbrück. Si recò al lager e lì i suoi occhi iniziarono ad aprirsi. Capì che cos’era in realtà il “campo di rieducazione” femminile e da dove proveniva quella cenere che ogni mattina trovava sulla sua macchina. La sera stessa, ritornando a casa, assisté all’uccisione di un bambino autistico durante un rastrellamento e, a questa scena, fu il suo cuore ad aprirsi. In meno di un secondo, Friedrich ritornò uomo, ritornò padre e, da un giorno all’altro, fece del “Der Hochmann” un giornale di opposizione al nazismo. Era l’autunno del 1943.

 

“Mio padre fu abbandonato da tutti i suoi dipendenti. Rimase da solo a scrivere e denunciare gli abusi dei nazisti …” affermò Kurt, mostrando un certo orgoglio “… E, poco tempo dopo, le SS fecero irruzione nel suo ufficio, in quest’ufficio. Lo trascinarono in strada e, senza un processo, senza una sentenza, lo impiccarono a quel palo della luce.” Glielo indicò dalla finestra e, con voce angosciata, continuò il suo racconto: “Mia madre fu arrestata nello stesso giorno e portata a Dachau perché moglie di un traditore. Da lì non ha fatto più ritorno.” Nadine e Kurt si scambiarono uno sguardo. Nei loro occhi si leggevano la stessa malinconia, la stessa resa a quel passato brutale, la stessa voglia di un futuro migliore. I loro erano gli occhi di due sopravvissuti.

“Kurt, sono molto stanca. Sapresti indicarmi un albergo?” domandò Nadine e Kurt, abbozzando un sorriso, rispose: “Vieni a casa mia. Ti farò conoscere la mia famiglia.”

 

Quante sere ho consumato a tempestarmi di domande,

quanta gente ho conosciuto per sapere di più

e ferite più profonde che ora tu non guarirai,

però i tagli ricevuti non mi fermeranno mai.

 

Enrico Ruggeri, La canzone della verità

 



[i]Resistenza, in tedesco

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Capitolo 9
*** Delirio d'amore ***


Capitolo 9

 

Delirio d’amore

 

“L’amore si paga solo con l’amore e le piaghe dell’amore si guariscono solo con l’amore”.

Santa Teresa di Lisieux

 

Città di Berlino, settembre 1940

 

“Otto, dimmi: come sta il ragazzo?” Il signor Franz balzò dalla poltrona del salotto non appena il dottore, suo carissimo amico e sostenitore della sua “missione”, uscì dalla stanza dopo aver visitato Kurt. “Pian piano, sta riprendendo le forze ma avrebbe bisogno di qualche operazione chirurgica al viso. Io non posso operarlo, Franz, perché non è mia competenza.” rispose il medico estremamente dispiaciuto e, mettendogli una mano sulla spalla, continuò: “Ma se devo essere sincero, in questo momento, mi preoccupa di più il suo stato di salute mentale.”

Kurt era, infatti, ossessionato dal ricordo di Nadine. La sua immagine appariva in ogni angolo della stanza e, continuamente, il suo fantasma sedeva ai piedi del letto sul quale era immobilizzato a causa delle innumerevoli fratture. In questo delirio, Nadine implorava il suo aiuto e lo incolpava di non averla portata via dall’inferno di Ravensbrück. E Kurt, senza sosta, urlava il nome della sua amata e invocava il suo perdono.

Incurante del dolore, il giovane tentò di alzarsi dal letto precipitando inevitabilmente a terra. “Perché?!... Non doveva andare così!... Perche?!!... Lei doveva vivere, non io!... Nadine, perdonami!... Perdonami!!... Adesso tornerò da te!” urlava e, piangendo in maniera convulsa, iniziò a strisciare verso la porta della stanza. Le sue strazianti urla richiamarono l’attenzione del signor Franz e del dottor Otto che si precipitarono nella stanza per aiutarlo. Ogni tentativo fu vano. Kurt si dimenava violentemente, batteva i pugni sul pavimento, continuava a piangere e urlare e, per evitare che si facesse del male, il medico gli iniettò un tranquillante. “è più grave di quanto pensassi.” affermò il dottore …   

 

Berlino ovest, 9 ottobre 1950

 

Quel giorno, Werner decise di non andare in ospedale: i troppi pensieri che affollavano la sua mente gli avrebbero impedito di lavorare in pace. Gli mancava Nadine; gli mancava quasi da togliergli il respiro; gli mancava perché temeva di perderla. Il dottor Hofmann rimase quindi a casa con suo figlio e, mentre lo guardava giocare, ripensava a tutti i suoi sbagli, a uno in particolare. Ripensò agli anni vissuti da medico antisemita, ai malati che aveva visto uccidere senza far nulla, alle terribili e false teorie descritte nelle sue tesi. Sì, le sue tesi. Le stesse che Nadine aveva scoperto dopo il loro matrimonio. La giovane sposa conosceva già l’oscuro passato di suo marito ma leggere quei documenti era stato ugualmente sconvolgente per lei e ancora di più l’aveva delusa quella mancanza di fiducia nei confronti suoi e del suo amore. Ci volle un po’ di tempo per sanare la frattura e, solo dopo l’arrivo del piccolo Andrej, Werner ricevette da sua moglie il sospirato perdono. Ma questa volta sarebbe stato diverso. Era certo che la sua Nadine, davanti ad una nuova e più sconvolgente verità, non l’avrebbe perdonato come allora e sarebbe scappata via portando con sé anche il loro bambino. Werner non riuscì più a contenersi e, allontanatosi da Andrej, in un’altra stanza, scoppiò in un pianto sommesso.

 

Città di Berlino, febbraio 1941

 

Come ogni mattina, Engel mise la colazione sul comodino e aprì le tende della finestra. Engel era la più piccola delle tre figlie di Franz, aveva diciannove anni ed era l’unica rimasta a casa con suo padre, vedovo da ben oltre dieci anni. Era lei che si prendeva cura di Kurt. Dal carattere forte e tenace, la ragazza seguiva coraggiosamente suo padre nella Resistenza ed era con lui quando Kurt fu ritrovato agonizzante fuori al campo di concentramento di Ravensbrück. Il giovane, intanto, iniziava a metabolizzare il dolore per la perdita della sua amata. Aveva smesso di piangere e dibattersi ma ancora non aveva trovato la forza di reagire e rialzarsi da quel letto. Viveva in una sorta d’incoscienza.

“Per quanto tempo ancora pensi di vivere in questo modo?” iniziò a dire Engel “Devi reagire!... Coraggio, parlami un po’ di te!” Kurt non rispose e la guardò. La ragazza portava sempre i pantaloni e i capelli legati in una coda di cavallo. “Io conosco il tuo dolore, so benissimo cosa significa perdere una persona cara.” Engel riprese a parlare e sedette sul letto, accanto a lui “Ma prova a trasformare il tuo dolore in rabbia, una sana rabbia che a sua volta deve trasformarsi in desiderio di giustizia. Vieni con noi, Kurt!” la ragazza gli mise una mano sul braccio e, guardandolo profondamente negli occhi, continuò: “Aiutaci a salvare quelle persone innocenti!... Innocenti, come lo era Nadine.” Kurt ricambiò lo sguardo e, inaspettatamente, iniziò a raccontarle di lui, di Nadine e del loro amore. Engel lo ascoltava con attenzione, poi con trasporto, finché non accadde l’inevitabile: in lei si accese un sentimento mai provato prima. Engel s’innamorò di Kurt e del suo modo di amare. S’innamorò di quell’amore fatto coraggio spingendosi oltre fino al sacrificio, di quell’amore che gli era bruciato dentro fino a diventare cicatrici sulla sua pelle. Qualche tempo dopo, il giovane se ne accorse e anche in lui cominciò a muoversi qualcosa.

 

Città di Berlino, marzo 1941

 

Engel apparve sull’uscio della stanza in un vestito beige chiarissimo, i capelli biondi sciolti e un’espressione dolce sul viso. Quella sera, la ragazza sembrava davvero un angelo. “Engel, vieni qui.” Kurt la chiamò “Ho freddo.” e la ragazza s’infilò nel suo letto …

 

E da allora solo oggi non farnetico più.

A guarirmi chi fu?

Ho paura a dirti che sei tu.

Ora noi siamo già più vicini.

Io vorrei … non vorrei … ma se vuoi …

 

Lucio Battisti, Io vorrei … non vorrei … ma se vuoi …

 

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Capitolo 10
*** Verità negata - Prima parte - ***


Capitolo 10

Verità negata

- Prima parte -

“La verità deve cadere come un fulmine, altrimenti non ha alcuna efficacia”.

Elias Canetti


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Foto Lucia Bosè

 

Città di Fürstenberg/Havel, 9 ottobre 1950

 

“Non mi sembra ancora vero che tu sia qui, Nadine.” Kurt distolse per un attimo lo sguardo dalla strada e lo rivolse a lei che guardava fuori dal finestrino. Nadine ricambiò lo sguardo e, con espressione serena, disse: “Anch’io ti guardo e non mi sembra ancora vero.” La donna osservava le strade deserte della città, i grandi palazzi sorti dalle ceneri della guerra, le boutique eleganti chiuse a quell’ora del pomeriggio e rifletteva sugli eventi da poco accaduti. Era partita credendo di consegnare la verità a un padre disperato, aveva rivissuto il suo tragico passato a Ravensbrück e adesso era in macchina e parlava con un uomo che dieci anni prima aveva esalato l’ultimo respiro della vita tra le sue braccia, l’uomo che aveva amato prima di Werner: Kurt, un fantasma, un uomo in carne ed ossa. Quella realtà le sembrava così irreale. Presto avrebbe conosciuto la famiglia dell’uomo incontrato dietro la rete di filo spinato, amato sul letto di una squallida infermeria, poi odiato e infine dimenticato tra il dolore e le fatiche del lager. Ma adesso non provava né odio né rabbia verso Kurt che, come lei, era miracolosamente scampato alla morte ed era riuscito a costruirsi una nuova vita. La realtà serbava tante sorprese. I loro sguardi s’incrociarono di nuovo e, in un rapidissimo istante, entrambi rividero tutte le immagini della loro breve e travagliata storia d’amore. In quel ricordo, svanirono i sensi di colpa di Kurt e l’impercettibile rancore di Nadine si dissolse.

La casa di Kurt non distava molto dalla sede del giornale e si trovava all’ultimo piano di un palazzo d’epoca. Parlando con respiro affannoso, i due giunsero sul pianerottolo e, subito, una donna – dai capelli biondi e gli occhi verdi da cerbiatta – aprì la porta. Guardò Nadine con meraviglia, poi rivolse uno sguardo interrogativo all’uomo che le disse: “Engel, lei è Nadine.” “Nadine?!” fece la donna scioccata e Kurt continuò: “Sì, è davvero incredibile … Nadine, lei è Engel, mia moglie.” Le due donne si strinsero la mano e, non appena entrarono in casa, una bambina dall’espressione felice corse verso di loro. “Papà!” urlò, aggrappandosi alla gamba di Kurt. Quest’ultimo la prese in braccio e, sorridendo, si rivolse di nuovo a Nadine: “E lei è mia figlia Brigit.” La donna accarezzò la guancia della piccola e disse: “Sì, è tale e quale a te.” E, improvvisamente, il sorriso di Kurt si spense …

“Ho adottato Brigit nell’estate del 1945, subito dopo la fine della guerra. Aveva soltanto tre mesi. I suoi genitori erano due ragazzini. Suo padre aveva diciotto anni, era un disertore, sua madre era una nipote di Franz e aveva soltanto sedici anni. Facevano parte della Resistenza, combattevano insieme a noi e persero la vita durante gli ultimi giorni del conflitto.” le raccontò Kurt. Lui e Nadine erano da soli nello studio davanti a una tazza di caffè. “Anche il mio Andrej è nato prima della fine della guerra ma dei suoi genitori so ben poco. So soltanto che erano di origine polacca, nient’altro.” ribatté la donna con gli occhi velati dalla commozione. I due parlavano con molta naturalezza e confidenza come se quei lunghissimi dieci anni fra loro non fossero mai passati. Non ancora trentenni e ancor prima di sposarsi, entrambi avevano capito di poter generare alla vita anche senza concepire: Kurt nelle persone – uomini, donne e bambini – che salvava insieme al signor Franz e Nadine nelle donne e nei bambini che aiutava a Ravensbrück. “L’anno successivo sposai Engel ma non abbiamo avuto più figli.” aggiunse il signor Hochmann e la donna iniziò a raccontargli dell’esperimento medico subito. “Dopo la perdita dell’utero, contrassi una grave infezione e subito dopo il tifo ma grazie a Dio la guerra finì, il campo fu liberato e un medico mi salvò la vita …” Anche gli occhi di Kurt si velarono di lacrime e, mentre accendeva una sigaretta, Nadine continuò: “… Si chiamava Werner, l’uomo che poi è diventato mio marito.” “Werner?” domandò Kurt con aria stranamente stupita. “Sì, si chiama Werner.” rispose Nadine, alquanto sorpresa per l’espressione dell’uomo e poi, di scatto, si alzò dalla poltrona chiedendogli di fare una telefonata.

La signora Hofmann si recò nel corridoio, dov’era il telefono e chiamò suo marito. “Werner, tesoro, non ci crederai ma … ma Kurt è … è ancora vivo.” gli disse con voce agitata “Adesso sono a casa sua e …” “Nadine …” Werner la interruppe “Io già sapevo che Kurt era vivo.”

 

Un giorno il cielo si aprirà

e mi racconterà che tu,

tu sei un’altra illusione.

 

Patty Pravo, Il vento e le rose

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Capitolo 11
*** Verità negata - Seconda parte - ***


Capitolo 11

 

Verità negata

 

- Seconda parte -

 

“La verità è come il cauterio del chirurgo: brucia, ma risana”.

Riccardo Bacchelli

 


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Foto Jesse Gordon Spencer

 

Città di Fürstenberg/Havel, 28 agosto 1946

 

La giornata in ospedale si prospettava molto lunga e impegnativa per il dottor Hofmann, o meglio per il “dottorino”, perché così era soprannominato Werner da colleghi e pazienti per la sua giovane età. A soli venticinque anni, infatti, aveva iniziato a lavorare come medico chirurgo e il merito non era soltanto della sua eccezionale bravura con il bisturi. Suo padre era il primario del reparto di chirurgia dell’ospedale di Berlino e, durante la guerra, aveva partecipato all’Aktion T4[1]. Ma, a differenza di Werner, lui non viveva nel rimorso. Anzi, per amore di quella spregevole ideologia ormai sconfitta, aveva addirittura disconosciuto il suo unico figlio maschio dopo aver saputo della sua relazione con Nadine: un’ebrea, una sopravvissuta, un obbrobrio per il buon nome della famiglia. Hofmann, infatti, non era il vero cognome di Werner. Con Nadine, aveva perso tutto – la sua famiglia, il suo nome, il suo lavoro nella capitale, la sua eredità –, guadagnando l’immenso che solo l’amore può donare. Del suo passato aveva chiesto perdono a Dio ma ciò non gli era bastato e adesso, per redimersi, curava le vittime della guerra spesso senza chiedere alcuna ricompensa. In quel caldo pomeriggio di fine agosto, il giovane dottore aveva già operato ben quattro bambini dal volto sfigurato per lo scoppio di una bomba. Era sconvolgente il fatto che creature innocenti fossero state le maggiori vittime di quell’assurda guerra.

Werner sciacquò il viso impregnato di sudore e, subito dopo essersi asciugato, aprì la porta dello studio per far entrare un altro paziente. “Il prossimo?!” disse, affacciandosi sull’uscio. Tra le tante persone che, sedute, attendevano il proprio turno, un giovane si alzò. Aveva il volto completamente devastato da cicatrici, il setto nasale deviato e un labbro spaccato e, in più, era claudicante. “Si accomodi …” fece Werner, indicandogli la poltrona e continuò: “Allora … Mi dica!” Il giovane sorrise in maniera quasi ironica e rispose: “Penso che la mia situazione clinica sia abbastanza evidente, dottore. In più, ci vedo poco dall’occhio sinistro e quasi mi manca l’udito dall’orecchio destro.” “Cercherò di fare il possibile per lei.” ribatté Werner con espressione seria e decisa e, alzandosi dalla poltrona, gli disse: “Io comincerei dal naso.” Il dottore si avvicinò al paziente e, con un pennarello nero, iniziò a tracciargli dei segni per un’eventuale settoplastica[2]. “Posso chiederle com’è successo?” domandò Werner e il giovane, dopo un lunghissimo sospiro, rispose: “Durante la guerra, facevo parte della Resistenza. Un giorno, un gruppo di SS mi catturò e mi ridusse in questo stato. Sono vivo solo per miracolo.” “Mi dispiace.” affermò il dottore. Con Nadine, Werner aveva anche imparato a immedesimarsi nei dolori e nelle gioie degli altri. “Beh, il peggio è passato …” fece il giovane paziente “… Adesso voglio soltanto ricominciare, migliorare il mio aspetto e riprendere la mia vita, il mio lavoro e la mia dignità!” “Allora … Facciamo presto!” il dottor Hofmann accennò un sorriso “Compiliamo la scheda.” Prese una biro e iniziò a fare le solite domande.

“Nome?”                                         

“Kurt.”

Di Kurt ce n’erano a migliaia in Germania ma Werner non poté fare a meno di pensare al passato della sua futura sposa.

“Cognome?”

“Hochmann.”

Questa risposta fu come un pugno nello stomaco per il giovane dottore che, a stento, riuscì a mantenere la calma.

“Data di nascita?”

29 aprile 1917.”

“Luogo di nascita?”

Fürstenberg/Havel.”

“Professione?”

“Fotografo. E presto dirigerò il giornale di mio padre.”

Werner sbiancò, tutto coincideva: quel giovane era Kurt, il primo amore di Nadine …

 

Il tempo è pieno di sorprese

e qualche volta ci assomiglia,

si sogna e si sbaglia

e ci si spegne sempre un po’.

 

Pooh, Cercando di te

 

 



[1] Programma nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva l’uccisione di persone affette da malattie genetiche inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. Le vittime dell’Aktion T4 furono circa 200.000 persone.

 

[2] Intervento chirurgico che si esegue in anestesia generale per raddrizzare il setto nasale. 

 

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Capitolo 12
*** Paure, bugie e fiori d’arancio ***


Capitolo 12

 

Paure,

bugie e

fiori d’arancio

 

“L’amore deve tutto osare quando ha tutto da temere”.

Kahlil Gibran


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Kurt, il primo amore di Nadine, era vivo. Non era più il fantasma di un tragico passato da dimenticare, ma un uomo in carne ed ossa; un uomo ferito, dall’aspetto martoriato, ma ancora vivo. Werner era sconvolto. Tentando di nascondere il suo stato d’animo, gli diede appuntamento per il giorno successivo e lo accompagnò alla porta. Werner non riusciva ancora a crederci. Quel giovane era Kurt, colui che aveva lottato con tutte le sue forze e messo a repentaglio la propria vita pur di difendere Nadine e liberarla dalle catene di Ravensbrück. Werner cominciò a sentirsi male e chiese a un suo collega di sostituirlo. Kurt, l’eroe morto cinque anni prima per la sua amata, adesso risorgeva dalle sue ceneri. Il giovane dottore non poté più resistere e, toltosi il camice, vomitò. Per un istante, si sentì svuotato dell’amore di Nadine ed ebbe paura. Provò una sensazione di vulnerabilità, la stessa di quando le bombe si abbattevano sulla città e lui cercava un riparo sicuro tra i reparti dell’ospedale oppure di quando i russi lo braccavano e lui invano scappava. Come allora, era stato violentemente catturato, sorpreso da un passato che adesso non poteva far altro che torturarlo. La paura di perdere la sua futura sposa cominciò ad assalire il giovane Werner, a stringergli le viscere, a tormentarlo nell’anima. Ormai, era stato gettato nel buio di un tunnel profondo dove l’unica via d’uscita era altrettanto buia: nascondere a Nadine la verità e quindi mentirle, una seconda volta. Era certo che, se lei avesse saputo di Kurt, avrebbe perso il suo equilibrio ancora troppo precario e, sconvolta, avrebbe spostato la data del loro matrimonio o addirittura lo avrebbe annullato. Werner non voleva perdere la sua Nadine e il loro sogno d’amore che presto sarebbe diventato realtà, sigillato con il sacro vincolo del matrimonio. Per lei era stato disprezzato dai suoi cari e sradicato dalle sue sicurezze e adesso non temeva di sentirsi vigliacco, incrociando lo sguardo della sua amata e bugiardo, pronunciando quel sì dinanzi a Dio. Il giovane dottore era uscito dalla sua tempesta interiore attraccando all’unico porto sicuro: il silenzio. Tornato a casa, non avrebbe raccontato a Nadine del suo incontro con Kurt. Forse, pensò per darsi un’ulteriore giustificazione, anche lui aveva una persona accanto e stava per rifarsi una vita e non era giusto sconvolgergliela. E, qualche giorno dopo, prima di operarlo, ne ebbe la conferma.

Werner tornò a casa e trovò Nadine seduta al tavolo della cucina che confezionava le bomboniere del loro matrimonio. La bellezza della sua futura sposa era sbocciata come un fiore in pieno inverno, il suo corpo iniziava a guarire dalle ferite di Ravensbrück, la sua anima finalmente gioiva di speranza e in ogni suo sguardo, in ogni sua parola, in ogni suo gesto traspariva l’emozione per il grande giorno. Il giovane si avvicinò e le diede un bacio sonoro sulla guancia. Poi si fermò a guardarla e Nadine, dietro quel suo sguardo incantato d’amore, riuscì a scorgere in lui qualcosa che non andava. “Che c’è, amore? …” gli chiese preoccupata “… Hai l’aria di uno che ha visto un fantasma!” Senza volerlo, Nadine aveva centrato il problema. “Ho visto la sofferenza, tanta.” rispose, celando il vero motivo del suo stato d’animo e la ragazza continuò: “Ancora bambini, vero?” Werner annuì con la testa e poi subito cambiò discorso. “Ho pensato che potremmo trasferirci a Berlino, lì avrei più possibilità di trovare un lavoro migliore.” disse, temendo un possibile incontro tra Kurt e Nadine. Lei non sembrò molto contenta di questa proposta: Berlino era la città della sua infanzia e delle sue speranze infrante ed era una delle città più tormentate della Germania del dopoguerra. Preferiva restare a Fürstenberg/Havel e ricominciare lì la sua vita. Ma Werner non si arrese e tirò fuori il suo asso nella manica. Aprì la ventiquattrore e, con un sorriso larghissimo, le porse un giornale. “Guarda, amore …” le disse raggiante “… La casa dei tuoi sogni, con il tetto rosso e un piccolo giardino e il prezzo non è nemmeno eccessivo, possiamo permettercela!” Nadine iniziò a illuminarsi e Werner aggiunse: “Poi a Berlino c’è tua cugina Edith, è sola e potrà darci una mano quando arriverà il nostro bambino.” La ragazza si commosse e, piangendo di gioia, abbracciò fortemente il suo futuro marito. Werner l’aveva convinta e, due settimane dopo, era ai piedi dell’altare ad aspettare impaziente l’arrivo della sua amata vestita di bianco. Fu un’emozione grandissima quando l’organista intonò l’Ave Maria di Schubert mentre Nadine varcava il sagrato della chiesa e quasi gli mancò il fiato quando, sollevandole il velo, vide il suo viso dolcissimo perfettamente incorniciato dal taglio di capelli alla garçonne[i]. Perdendosi negli occhi lucidi della sua futura sposa, Werner dimenticò l’incontro con Kurt, tralasciò l’assenza e il disprezzo dei suoi genitori e si spogliò del suo terribile passato. Al momento del sì, fu lui a piangere per la commozione.

 

È quando tutti i giuramenti

fatti a te saranno inganni

alla vita che, stupita, sbanderà.

Amarsi è prima di capire,

è rimbambire la ragione in noi.

Non è la verità, che più la dici

e meno baci avrai.

È l’illusione mia che è vera.

 

Amedeo Minghi, Cantare è d’amore



[i] Taglio di capelli molto corto, alla maschietta.

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Capitolo 13
*** Ciò che resta di noi ***


Capitolo 13

 

Ciò che resta di noi

 

“Non ci può essere profonda delusione dove non c’è un amore profondo”.

Martin Luther King


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Città di Fürstenberg/Havel, 9 ottobre 1950

 

“La verità è che non hai mai creduto nel mio amore!” ribatté Nadine, alzando il tono della voce senza nemmeno accorgersene. “Lascia che ti spieghi meglio, amore …” continuò Werner inutilmente. “Quale amore?! …” lo interruppe la donna ancora più arrabbiata “… è finita!” e gli attaccò il telefono in faccia. Nadine era davvero su tutte le furie. Si sentiva tradita da suo marito, ingannata, usata, trattata come una bambolina immeritevole di conoscere la verità e farne ciò che riteneva più giusto. Avrebbe sposato ugualmente Werner, pur sapendo di Kurt e non avrebbe trascorso altri cinque anni tormentata dai sensi di colpa per la sua presunta morte. Werner non aveva mai avuto fiducia nel suo amore, si disse Nadine con il cuore a pezzi e non era mai entrato veramente, completamente in intimità con lei, nascondendole la verità. Di quell’amore così grande che le riscaldava il cuore, adesso, non restava altro che il freddo di un’amara delusione; il suo castello di sogni era improvvisamente crollato riducendosi a un cumulo di macerie; quell’invidiabile quadretto di famiglia perfetta si era ridotto in tanti piccoli frammenti d’illusione e, pian piano, i ricordi felici della vita trascorsa con il suo Werner scomparivano nella tristezza e nella rabbia. Nadine non si sentiva più amata e in lei cominciava a riaffiorare quella lacerante e pietrificante sensazione di solitudine. “Nadine!” la voce preoccupata di Kurt, apparso nel corridoio, la scosse e la fece voltare. Il viso di Nadine era bagnato di lacrime …

“E così il dottor Hofmann è tuo marito?” domandò Kurt, porgendole una seconda volta la scatola dei fazzoletti. Nadine sussurrò un debole sì e, asciugandosi di nuovo le lacrime, disse: “Scusami per lo sfogo ma è come se stessi vivendo un incubo da cui non riesco a svegliarmi. Mai avrei pensato che Werner potesse ingannarmi così e per tanti anni.” “Figurati, Nadine, ti capisco …” ribatté Kurt “… Ma forse lui ha agito così per una sua insicurezza personale e non per mancanza di fiducia verso di te. Vedrai che un suo chiarimento sistemerà tutto.” E gli venne naturale darle una carezza sul viso. Nadine lo guardò un po’ stupita e, in quegli occhi bagnati di lacrime, Kurt ritrovò la ragazza di Ravensbrück. La sua mente tornò indietro di dieci anni, alla rete di filo spinato, alle emozioni che quella terribile situazione rendeva più grandi e i ricordi del suo primo amore, dei momenti di tenerezza vissuti con Nadine vibrarono nel suo cuore e lo scossero. Per un attimo, dimenticò la sua vita presente, Engel, la piccola Brigit, il suo lavoro e ritornò nei panni del giovane fotografo ansioso d’amore. Desiderò baciarla ma, proprio in quel momento, sull’uscio del salotto apparve sua moglie. “Kurt, non dovresti essere già a lavoro a quest’ora?” chiese Engel con voce cupa e, qualche istante dopo, era al posto di suo marito a parlare con Nadine.

“In realtà, Kurt non ti ha mai dimenticata.” Nadine non ribatté ma, sconvolta, continuò a fissare il nulla. Ancora non aveva metabolizzato il fatto che Kurt fosse miracolosamente sopravvissuto a Ravensbrück e che suo marito lo sapesse già da tempo che adesso le stava per piombare addosso un’altra inaspettata verità pronta a confonderla. “Prima che ci sposassimo …” continuò Engel, trattenendo le lacrime “… si mise freneticamente alla tua ricerca. Si sentiva in colpa e non voleva fare questo passo a tua insaputa, se tu fossi stata ancora viva. Mi lasciò sola con i preparativi del matrimonio e sono certa che, se ti avesse trovata, avrebbe mandato tutto all’aria.” Nadine non sapeva cosa dire e nemmeno cosa pensare. La sua mente era annebbiata, impossibilitata nel mettere insieme un qualsiasi ragionamento logico. Poi Engel si alzò dal divano e, volgendole bruscamente le spalle, con tono deciso, affermò: “Non credere che per me sia facile dirti queste cose, io sono una donna e per me è umiliante, ma è giusto che tu sappia …” prese un bel respiro “… Spesso, quando stiamo in intimità, pronuncia il tuo nome e non se ne rende neppure conto.” Nadine rimase pietrificata …

Tutto era finito. Il suo matrimonio, l’amore di Nadine erano finiti. La sua vita era finita. Come quando si perde una persona cara, Werner si era chiuso in un profondo silenzio. Davanti ai suoi occhi velati di lacrime scorrevano rapidamente le immagini dei momenti felici vissuti con la sua amata: il primo bacio sulle rive del lago, il giorno del loro matrimonio, l’arrivo del piccolo Andrej e quei momenti della loro vita quotidiana di coppia e di famiglia. Tutto era finito, distrutto, svanito e la colpa era sua. “Papà!” la voce di Andrej lo scosse dai suoi malinconici pensieri “Posso dormire con te stanotte?” domandò, stringendo a sé il suo orsacchiotto. Werner tentò di nascondere il suo stato d’animo, sorrise e aprì le braccia per accoglierlo. “Vieni, vieni, vieni da papà!” lo invitò e il piccolo si tuffò felice nel lettone e nell’abbraccio di suo padre. “Dove è andata la mamma? … Quando torna? … Mi manca.” Andrej era diventato improvvisamente triste. “è andata a trovare un vecchio amico … Torna presto … Non preoccuparti.” Con queste parole, Werner provò a confortare anche se stesso ma inutilmente.

 

Perché ad un tratto è arrivato il maledetto freddo

che col suo ghiaccio ha coperto ciò che abbiamo fatto e detto

e col suo viaggio si è portato il nostro caldo.

Con te vivevo un sogno ma ora sono sveglio.

 

Gemelli Diversi, Un attimo ancora

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Capitolo 14
*** Di nuovo insieme ***


Capitolo 14

 

Di nuovo insieme

 

- Eternamente tua, eternamente mio -

 

“Lasciami libere le mani e il cuore, lasciami libero! Lascia che le mie dita scorrano per le strade del tuo corpo”.

Pablo Neruda

 


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Massimo Girotti e Lucia Bosé

 

Engel era davvero su tutte le furie. Con uno scatto, voltò le spalle a suo marito e si avvicinò ai fornelli per preparare la cena. “Sai benissimo che non è così. Nadine fa parte del mio passato.” ribatté Kurt e, sorridendo ironicamente, continuò: “Sono passati dieci anni, Engel. La tua gelosia è assurda.” “Ma certo! Adesso sarei io la pazza! La moglie isterica che vede le amanti del marito dappertutto!” urlò la donna, fuori di sé. “Ti rendi conto delle stupidaggini che stai dicendo?” fece Kurt irritato “E non urlare che potrebbe sentirti.” “Non m’interessa!” rispose Engel in modo altero. E, in quel preciso momento, squillò il telefono. Andò a rispondere Engel e, quando ritornò in cucina, aveva sul viso un’espressione stravolta. Mise le mani fra i capelli e, dopo un lungo sospiro, disse: “Ci mancava solo questo … Mia zia … Zia Klara sta molto male e devo andare subito da lei.” Poi abbracciò suo marito con un’improvvisa dolcezza e gli sussurrò all’orecchio: “Scusami se a volte mi comporto come una stupida … è che ti amo troppo e non voglio perderti.” Kurt sorrise e l’abbracciò più forte. “Anch’io ti amo tanto, Engel.” rispose e la baciò con passione …

Engel era scappata ad assistere la zia gravemente ammalata, la piccola Brigit dormiva già da tempo e Kurt era rimasto da solo a casa con Nadine. Tante cose aveva ancora da raccontarle e tante altre desiderava ascoltare dalla sua bocca. Il nostalgico ricordo del loro ritrovarsi alla rete di filo spinato gli attraversò il cuore e, senza indugio, bussò alla camera degli ospiti. Nadine era in piedi davanti al comò in un vestito a campana nero a pois bianchi che metteva in risalto la pienezza armoniosa del suo corpo; dai suoi lunghi capelli neri che, sciolti posavano morbidi e ondulati sulla schiena, s’intravedevano dei bellissimi riflessi rossi e Kurt si fermò ad ammirare la sua immagine riflessa nello specchio dal quale lei stessa si guardava. Nadine indossava una collana e un bracciale di perle e sul braccio sinistro nudo si vedeva chiaramente il marchio indelebile della sua prigionia a Ravensbrück; il suo viso era truccato ma non la faceva sembrare volgare, al contrario, quel rosso che le colorava le labbra esaltava la sua eleganza, la sua bellezza … la sua sensualità. Aveva davanti l’immagine di una donna raffinata e affascinante, l’esatto opposto di Engel troppo spesso trasandata e vestita da maschiaccio. “Hai chiarito con tuo marito?” le domandò, interrompendo i propri pensieri che altrimenti sarebbero andati troppo oltre. “No, non ancora. Non ce l’ho fatta a richiamare. Ho bisogno di un po’ di tempo. Sono troppo confusa, troppo delusa.” rispose, voltandosi lentamente e poggiando le mani sul comò. Poi fece un lungo sospiro e, all’improvviso, scoppiò in lacrime. Kurt la strinse in un abbraccio consolatorio e Nadine si lasciò abbracciare, ricambiando. Ma l’uomo iniziò ad accarezzarla dove e come non avrebbe dovuto e lei lo respinse bruscamente. “Ti faccio così ribrezzo?!” reagì Kurt per farsi commiserare e per farla sentire in colpa. “No … non è questo.” ribatté Nadine mortificata. “Tuo marito non ha fatto un buon lavoro.” “Ha fatto sicuramente quel che poteva.” “Perché ti ostini a difenderlo?! Dopo tutto quello che ti ha fatto! Dopo che ti ha trattato come uno straccio vecchio! Non vedi come ti ha ridotto?!” affermò l’uomo fuori di sé. Nadine non rispose e, con espressione sfinita, sedette sul letto. Dopo alcuni secondi, Kurt si pose in ginocchio davanti a lei e, addolcendo il tono di voce, continuò: “Ti sei mai chiesta come sarebbe stata la nostra vita insieme, se quella notte fosse andato tutto bene?” Ma la donna perseverò nel suo silenzio. “Nadine, ascoltami bene. Adesso abbiamo la possibilità di ricominciare tutto daccapo, di rivivere quella notte che non abbiamo mai vissuto. Andiamo via, Nadine. Scappiamo insieme, come decidemmo dieci anni fa. è inutile che fingi, io lo so che non mi hai mai dimenticato.” Nadine ruppe il suo silenzio e, confusa, disse: “E tua figlia? … E mio figlio?” “Suvvia, Nadine! Non sono neanche carne della nostra carne, sopravvivranno senza di noi.” E, prima che potesse controbattere da buona madre di famiglia qual era, Nadine si ritrovò tra le braccia di Kurt travolta da un improvviso e violento vortice di passione. “Vedrai che insieme saremo felici … Fidati di me.” le promise, baciandole ripetutamente il collo e inebriandosi del profumo dei suoi capelli. I due erano di nuovo insieme, stretti l’uno all’altra, uniti da un amore che dopo dieci lunghissimi anni ritornava prepotente alla luce, rivendicando tutte le promesse di eternità e facendo battere i loro cuori e fremere i loro corpi. E, improvvisamente, i due si ritrovarono giovani sulla brandina dell’infermeria di Ravensbrück. Nadine era ritornata nel suo camicione a righe da prigioniera, esile, pallida, senza trucco, senza capelli e le cicatrici che deturpavano il volto di Kurt erano scomparse. “Prendimi … E portami via.” sussurrò la ragazza e si sdraiò, attirando l’amato su di sé. Intanto, dalla finestra di quella che era diventata la baracca dell’infermeria del lager, giungeva in lontananza “Habanera”, la loro canzone. “Te lo prometto …” ribatté Kurt “… Tu sei mia.” E la fede nuziale scivolò dal dito di Nadine, cadendo rovinosamente sul pavimento …

 

Questo è il tempo di vivere te,

fino all’ultima parte di me.

Perché il mondo ha deluso anche te,

ora devi fidarti di me.

 

Michele Zarrillo, L’alfabeto degli amanti 

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Capitolo 15
*** Soltanto un incubo ***


Capitolo 15

 

Soltanto un incubo

 

“L’unica cosa che non riceviamo mai abbastanza è l’amore; l’unica cosa che non doniamo mai abbastanza è l’amore”.

Henry Miller


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Nicole Kidman

 

Nadine fremeva di passione, scossa dai baci irruenti di Kurt e dalle sue energiche carezze. Il desiderio avvolgeva i loro corpi che presto sarebbero diventati una sola carne, profanando il sacro vincolo del matrimonio. “Per tanti anni ho desiderato questo momento …” disse Kurt, guardandola profondamente negli occhi “… Io ti amo, Nadine. Ti amo come la prima volta.” “Anch’io ti amo, Kurt.” rispose Nadine e, prendendogli la faccia, lo baciò con estrema passione. I due avevano ormai dimenticato le loro responsabilità, i loro coniugi, le loro famiglie, le loro case, i loro figli e il loro obbligo di fedeltà giaceva nei vestiti lanciati sul pavimento in tutta fretta. Le loro mani s’intrecciarono, così come i loro respiri che diventavano sempre più affannosi e poi anche la sottoveste nera di Nadine volò via. Le loro labbra si unirono in baci rapidi e intensi mentre i loro corpi si accarezzavano mossi da violenti brividi. E, dopo ben dieci anni, i due si ritrovarono intimamente donandosi al ricordo del loro amore e tradendo i loro valori. Ma, ad un tratto, una voce li interruppe e tutto divenne buio …

“Papà! Papà!” urlò il piccolo Andrej con voce disperata, spaventato dai lamenti di suo padre e Werner si risvegliò di colpo dall’incubo, affannato, confuso, sudato. Sì, era stato soltanto un brutto sogno. Grazie a Dio, Nadine e Kurt non erano mai stati insieme.

Le mani di Engel stringevano tremanti la tazza di tè e, dopo averne assaggiato un sorso, la donna riprese a parlare con espressione malinconica: “Kurt è un ottimo marito, un padre eccezionale ma è un uomo diviso a metà. Dentro di lui c’è ancora quel ragazzo follemente innamorato di te, o meglio, della ragazza che eri tu, prigioniera a Ravensbrück …” bevve un altro sorso “… Nella mia vita ho sempre dovuto combattere. Ho combattuto contro la malattia di mia madre, ho combattuto contro il nazismo, ho combattuto per sopravvivere e ho combattuto per essere amata e per amarlo nonostante tutto, nonostante il suo cuore fosse ancora tuo …” gli occhi di Engel si velarono di lacrime “… E adesso temo che il tuo ritorno possa allontanarlo di nuovo da me ed io sono stanca di combattere. Non ho neanche trent’anni ma mi sembra di averne sessanta.” Nadine aveva davanti una donna sfinita, insoddisfatta, provata dalla vita, distrutta da un amore poco corrisposto e ne provava compassione. Il loro matrimonio, apparentemente felice, era in realtà segnato da profonde crepe, conseguenze di un passato mai dimenticato e forse lo era anche il suo a causa delle paure di Werner. “Ma io sono una donna sposata!” reagì Nadine, assumendo un atteggiamento auto-difensivo. In fondo, la colpa di quel matrimonio infelice era principalmente sua. “Sapevo che avresti risposto così.” affermò Engel e, poggiando una mano sotto il mento, distolse lo sguardo per poi fissare il vuoto.

Kurt era nel suo ufficio. Seduto immobile sulla poltrona, con lo sguardo fisso nel vuoto, pensava e ripensava a Nadine, ai suoi occhi bagnati di lacrime, alla loro conversazione, alla carezza che le aveva dato, a quel bacio mancato e si sentiva strano. Confuso, stordito, oppresso da un peso interiore, il signor Hochmann non aveva la forza di lavorare. Un pensiero gli attraversò la mente e, di colpo, si alzò come per fermarlo. Forse provava ancora qualcosa per Nadine. Disperato, mise le mani fra i capelli e, voltandosi, scorse dai vetri della finestra il suo volto sfigurato. Ripensò a quei momenti, i più brutti della sua vita: le botte, il dolore, la paura, il sapore del sangue, il buio della morte, il distacco dalla sua amata. Non aveva mai amato sua moglie tanto intensamente quanto Nadine e non poteva più negare a se stesso questa triste verità. Di Engel si era innamorato lentamente. Perché era lei che, insieme a suo padre, gli aveva salvato la vita e che, giorno dopo giorno, gli stava vicino curando le sue ferite e sopportando i suoi momenti di follia ed era lei che, con dolcezza e determinazione, aveva perseverato nel trasmettergli la forza di rialzarsi e il coraggio di ricominciare. Con Engel si sentiva al sicuro, si sentiva più forte e sapeva di essere guardato al di là del suo aspetto, ormai devastato. Capì allora che era questo uno dei motivi per cui aveva deciso di sposarla: la furia delle SS lo aveva reso un mostro e nessun’altra donna lo avrebbe voluto al proprio fianco. Poi c’era il suo sentirsi in debito verso il signor Franz, padre di Engel, e responsabile nei confronti di quella povera bambina rimasta orfana, Brigit, bisognosa di una famiglia. Kurt si sfiorò il viso e i suoi occhi si velarono di lacrime.

Il suo matrimonio rischiava di diventare un fallimento. Era stato soltanto un incubo ma Werner non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Nadine e Kurt insieme, i loro corpi nudi che dolcemente si accarezzavano, i loro baci appassionati, i loro profondi sospiri e ne era ossessionato. Temeva che quel brutto sogno potesse avverarsi e diventare una tragica realtà, la fine per lui. Concitatamente, iniziò a preparare la valigia: il mattino seguente sarebbe partito per riprendersi sua moglie, chiederle perdono e risanare il loro rapporto.  

 

Non è la vita che avrei voluto mai desiderato vivere.

Non è quel sogno che sognavamo insieme.

Fa piangere.

Eppure io non credo questa sia l’unica via per noi.

 

Riccardo Cocciante, Se stiamo insieme

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Capitolo 16
*** La realtà di un incubo - Prima parte - ***


Capitolo 16

 

La realtà di un incubo

 

- Prima parte -

 

“Un vecchio amore è come un granello di sabbia, in un occhio, che ci tormenta sempre”.

Voltaire


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Massimo Girotti e Lucia Bosè

 

Kurt non era più nel suo ufficio. Quel peso tremendo, che iniziava a logorargli l’anima e il corpo, lo aveva spinto a uscire dalla sede del giornale nella mera speranza di liberarsene. Ma fu inutile e, addirittura, peggio perché il camminare da solo nel buio e nel silenzio della città lo costrinse ben presto a guardare nelle profondità della sua anima e a farle violenza, spogliandola della maschera che si era costruito in quei dieci anni. E vide che il suo matrimonio non era fondato su un grande amore ma su delle enormi fragilità – le sue paure e le sue insicurezze – e che, nonostante possedesse tutto – una moglie splendida, una figlia sana e intelligente, una casa e un lavoro invidiabili –, non era un uomo felice perché ancora vincolato al suo passato … il suo passato con Nadine. Quel peso divenne un macigno e la sua tristezza mutò improvvisamente in un lucido delirio. Iniziò a tormentarsi pensando che Nadine avesse ricominciato una nuova vita con il bel “dottorino” biondo col nasino alla francese e, in lui, crebbe sempre di più quest’assurda gelosia. Werner aveva usurpato il suo posto e, di sicuro, viveva una vita felice con accanto una donna bella, raffinata, dolce, sensibile, forte come Nadine, la vita che spettava a lui se solo quella maledetta notte fosse andata diversamente. Il macigno lasciò una voragine nelle cui profondità Kurt smarrì l’amore di Engel e il calore della famiglia e ritrovò la sua antica e distruttiva ossessione per Nadine. Poi ebbe un attimo di lucidità e capì che i suoi pensieri ferivano Engel, il loro matrimonio e la stessa Nadine.

“Allora è meglio che me ne vada!” esclamò Nadine e si alzò di scatto, travolta da un vortice di sentimenti. Era scioccata, impietrita, imbarazzata, sconvolta, impaurita all’idea che Kurt fosse ancora innamorato di lei. Avrebbe voluto nascondersi nel posto più buio e isolato della terra e urlare con tutte le sue forze. “No! …” Engel la fermò disperata “… Tu sei l’unica persona che può aiutarlo a dimenticarti!” Nadine la guardò con espressione interrogativa e occhi gonfi di lacrime trattenute. Poi sedette di nuovo e, fissando lo strazio impresso sul suo volto, si mise in attesa di una più esaustiva spiegazione. Ma, prima che Engel potesse aprir bocca, Kurt ritornò a casa. “Il lavoro era poco e sono tornato prima.” disse e, guardando meglio le due donne, si accorse della loro espressione stravolta, dei loro occhi arrossati e del loro aspetto scarmigliato. “Cos’è successo?” chiese, preoccupato. “Nadine mi stava raccontando di Ravensbrück.” esordì Engel, dopo un lunghissimo istante di silenzio e Nadine confermò: “Sì, sono stati anni terribili.” Era una bugia. Kurt lo capì subito perché entrambe, a differenza sua, non erano mai state brave a mentire. “Adesso è tutto passato.” disse ugualmente, chiedendosi di che cosa avessero parlato le due donne. Nadine gli rivolse lo sguardo ed esalò un profondo sospiro. “Già.” proferì, con voce flebile e afflitta per poi abbassare gli occhi e fissare il vuoto.

Gli occhi di Nadine continuavano a fissare il vuoto mentre la sua mente e il suo corpo, tesi all’estremo, cercavano un po’ di distensione nell’acqua calda della vasca. Con profondi sospiri, la donna provava inutilmente a buttar fuori tutto lo stress accumulato in quel giorno che sembrava non finire mai. Guardò il numero inciso per sempre sulla sua pelle e nella sua anima e poi, lentamente, portò le mani all’addome coprendo l’enorme e indelebile cicatrice. Scoppiò in lacrime: la sua vita era continuamente provata dalla sofferenza. Nadine aveva vissuto cinque anni d’inferno a Ravensbrück soffrendo il freddo, il caldo, la fame, la sete, la fatica di un lavoro inutile e durissimo, le botte, gli insulti, il ricordo della morte atroce del suo primo amore, il dolore degli esperimenti medici con i quali i nazisti le avevano tolto l’utero e strappato anche l’ultima dignità. Dopo la guerra aveva combattuto contro la malattia, i sensi di colpa per essere sopravvissuta a sei milioni di ebrei, le accuse di chi l’additava come una venduta alle SS e, adesso, doveva far fronte alla delusione di suo marito. No, non c’era mai fine alla sua sofferenza. Con Werner, pensava di aver raggiunto quella felicità tanto desiderata ma, in meno di un secondo, tutto era sprofondato nella tristezza del suo inganno: il loro matrimonio, la loro famiglia, il loro amore, le loro promesse, i loro momenti di tenerezza. Tutto era come ricoperto da un enorme velo scuro, persino la gioia di essere genitore insieme ad una persona che adesso non riconosceva più come l’uomo sincero che aveva sposato e che amava oltre ogni misura. Le lacrime scivolavano veloci sul suo viso pallido e stanco, cadendo e mescolandosi nell’acqua, ormai fredda, della vasca: Nadine aveva perso il suo Werner e, con lui, tutte le certezze sulle quali aveva ricominciato la propria vita dopo l’inferno di Ravensbrück. In ultimo, Kurt le aveva chiesto di ritornare con lui al campo il pomeriggio successivo e lei, convinta da Engel, aveva accettato dandosi l’obiettivo di approfittare di quest’occasione per mettere ordine alla confusione dell’uomo e salvare un matrimonio sull’orlo del precipizio. Non sapeva come e nemmeno se ne avrebbe avuto la forza perché tramortita dal tradimento di Werner che aveva ribaltato e scosso violentemente la sua vita, la sua anima e anche il suo corpo. Nadine si sentiva troppo fragile.

Engel si mise sotto le coperte e, con infinita dolcezza e desiderio ardente di un gesto di tenerezza, cercò la mano di suo marito. Ma Kurt le volse bruscamente le spalle e la donna, enormemente risentita, fece altrettanto per poi esplodere in un pianto sommesso. Engel aveva perso suo marito.

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Capitolo 17
*** La realtà di un incubo - Seconda parte - ***


Capitolo 17

 

La realtà di un incubo

 

- Seconda parte -

 


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Massimo Girotti e Lucia Bosè

 

Berlino ovest, 10 ottobre 1950

 

Werner mise in moto la macchina con rabbia e paura. Era certo che Nadine non l’avrebbe mai perdonato e sentiva ormai lontano il suo amore. “Sono un idiota! Un idiota! Un idiota sono!” si sfogò, battendo ripetutamente i pugni sul volante. Poi mise la testa tra le mani: sembrava quasi esplodergli mentre il nodo dei sensi di colpa gli stringeva fortemente la gola. Tentò di calmarsi, esalando un profondo e tremante sospiro e partì, con il cuore ferito da un enorme e incolmabile vuoto.

 

Città di Fürstenberg/Havel

 

Kurt uscì di casa per primo, lasciandosi alle spalle una forte scia di profumo e un incrocio di sguardi attoniti. Nadine ed Engel condividevano lo stesso stupore nel vedere l’uomo preparato come per un appuntamento importante e la stessa stanchezza per una notte trascorsa insonne e in lacrime. Entrambe immaginavano la vera intenzione di Kurt. “Voglio che tu sappia che non ho niente contro di te …” esordì Engel, spostandosi nervosamente un riccio biondo dietro l’orecchio “… Che non ti porto nessun rancore.” Nadine la guardò e, in quell’istante, abbandonò il proprio dolore per entrare nel dramma della donna. Nei suoi occhi verdi, ormai spenti, vide un’anima ferita da un amore a metà. L’uomo che aveva sposato non l’amava come lei avrebbe voluto essere amata e questo dramma, struggente e mortificante per Engel e tante altre donne, era cominciato anche nella sua vita. “Ravensbrück non cambierà nulla, anzi …” Nadine le prese una mano “… farò il possibile per aiutarti.” Engel le strinse anche l’altra mano e disse: “Grazie, Nadine. Spero di rivederti, magari in un’occasione più serena.” Le due donne tentarono di sorridersi ma invano poiché la fortissima commozione, che attanagliava entrambe, non diede loro questa libertà. Il risultato fu quasi una smorfia. Qualche istante dopo, Nadine era sotto casa ed Engel alla finestra ad osservare Kurt intento ad aprire lo sportello della macchina alla donna. Per sua moglie, invece, era ormai da tempo che aveva smesso di farlo. Engel si volse di scatto e, poggiando le spalle alla parete, scoppiò in un pianto disperato per poi lasciarsi lentamente scivolare sul pavimento. Non avrebbe mai dovuto sposarlo e si diede della stupida superba per aver pensato di poterlo cambiare. Kurt amava ancora Nadine.

“Grazie, Kurt.” sussurrò Nadine, accennandogli un debole sorriso. L’uomo rispose ricambiando il sorriso ma nel suo traspariva un inopportuno entusiasmo dato che a breve sarebbero ritornati a Ravensbrück, un campo di concentramento, “l’inferno delle donne”, luogo d’immani torture. Il comportamento di Kurt confermò la sensazione di Nadine che aspettava il momento giusto per intervenire e farlo ragionare e porre fine a quella situazione per lei imbarazzante. E il momento giusto non tardò ad arrivare. Kurt distolse lo sguardo dalla strada per rivolgerlo a Nadine che fissava il vuoto. Era triste Nadine, triste e bella, bella come non mai e, in un secondo di lucida follia, colse in lei indifferenza e disprezzo. “Per quanto tempo ancora pensi di andare avanti così?” esordì, improvvisamente nervoso. La donna sobbalzò e, quasi urlando, rispose: “Così come?!” “Negando a me e a te stessa …” “Cosa?!” Nadine lo interruppe bruscamente e, con tono autorevole, disse: “Ferma la macchina, per favore. Dobbiamo parlare.” Sedettero a un tavolino all’aperto di un caffè, deserto a quell’ora del pomeriggio. L’aria era piacevolmente fresca e un debole vento muoveva appena le foglie di un albero lì vicino. Per qualche istante, i due si guardarono in silenzio mentre un raggio di sole li avvolse con il suo tenue calore facendo socchiudere gli occhi di Kurt e illuminare di riflessi rossi i capelli lunghi e ondulati di Nadine. Le ginocchia tremavano e i cuori battevano più forte. Poi la donna prese un bel respiro e iniziò a parlare: “Quando i nazisti ti portarono via da me, sentii un dolore lacerante come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto. Mi sentivo morire e volevo morire ma nella mia testa risuonavano sempre e forti le tue parole che mi esortavano a lottare e vivere. Mi feci forza e andai avanti perché non volevo che il tuo sacrificio fosse stato vano. Il tuo amore mi aveva salvato. Ma un giorno iniziai a provare rabbia verso di te e il mio amore scomparve lentamente, bruciando nell’inferno di Ravensbrück. La vita del campo era sempre più dura, il giorno sembrava non finire mai, i nazisti diventavano sempre più crudeli ed io ero sempre più stanca e affamata. Mi stavano riducendo a un niente e dentro di me non c’era più spazio per l’amore. In quell’inferno, non riuscivo più ad amarti …” Kurt la interruppe e, in lacrime, disse: “Perdonami, Nadine.” “No, non dirlo, Kurt. Io ti ringrazio perché il tuo amore è stato come una luce nel buio per me, come un faro nella tempesta, è stato una speranza nella mia disperazione. Io ti ho amato tanto, Kurt, davvero tanto. Ma poi è tutto finito come finisce un bel sogno …” la voce di Nadine si ruppe per la commozione “… Conserverò sempre nel mio cuore un bel ricordo del nostro amore e anche tu dovresti, se davvero mi hai amato. Ed è in nome di quell’amore che non puoi continuare a tormentarti e far soffrire tua moglie.” Kurt si sentì guardato dentro, toccato nelle profondità dell’anima e, ormai arreso, confessò: “Non riuscirò mai ad amarla come ho amato te.” “Devi scegliere di amarla …” ribatté Nadine, con tono fermo “… Lei lo ha fatto nonostante tutto.” “Pensi che saremmo stati felici insieme, Nadine?” chiese l’uomo, mentre grosse lacrime continuavano a bagnargli il viso. “Non lo so. So soltanto che adesso la mia felicità è nelle mani di mio marito e negli occhi di mio figlio.” rispose e anche lei scoppiò in lacrime.

Werner salì di corsa le scale e bussò fortemente alla porta di Kurt, trovandosi di fronte la moglie. Tentò di regolare il respiro, troppo affannoso per poter subito spiegarsi ma Engel, che aveva già capito, lo anticipò e disse: “Sono andati a Ravensbrück.” La sua voce fioca, spezzata e i suoi occhi tristi, velati di lacrime confermarono e incrementarono la paura di Werner.

 

Ravensbrück, campo di concentramento

 

Nadine si strinse nel cappotto, incrociando le braccia per proteggersi da un’improvvisa ventata d’aria fredda mentre Kurt, completamente immerso nel dolore e nell’angoscia dei ricordi, si avvicinò di più alla rete di filo spinato. Era lì, in quel luogo – teatro della ferocia umana –, adesso avvolto da un tetro silenzio, che aveva perso una parte di se stesso. La donna esalò un profondo sospiro e, molto lentamente, lo seguì. Il sole era quasi giunto al tramonto ma i suoi colori non bastavano a coprire il grigiore del campo. Anche Nadine iniziò a ricordare e, di colpo, il macigno delle atrocità viste e subite a Ravensbrück le piombò rovinosamente addosso. Si aggrappò con una mano al filo spinato e, soffocando uno straziante urlo di dolore, cadde in ginocchio sul terreno fangoso. “Nadine!” esclamò Kurt, preoccupato mentre la donna scoppiò in un pianto convulso e disperato, al limite di una crisi isterica. La sollevò da dietro e, staccandole la mano che iniziava a sanguinare dalla rete di filo spinato, la strinse a sé per calmarla. Ma proprio in quel momento arrivò Werner che da lontano e nel buio fraintese ogni cosa. “Nadine, ti prego, calmati.” supplicò Kurt, trattenendo atterrito le lacrime. Poi la voltò e, prendendole il viso tra le mani, insisté: “Ti prego!” In quel gesto, Werner vide un bacio e fece del suo incubo una realtà.

 

Un uomo ma chi è?

Non dire che assomiglia a me.

Le mani non le ha oppure sì.

E poi cos’ha?

Io muoio, io se lascio te son solo.

Ma insieme a te io vedo che un fantasma c’è.

 

Bruno Lauzi, Amore caro amore bello

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Capitolo 18
*** Un amore ferito ***


Capitolo 18

 

Un amore ferito

 

“La grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la metafisica più ingegnosa non giustifica l’uomo che ha lacerato il cuore che l’amava”.
Frédéric Beigbeder

 


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Nicole Kidman e Aaron Eckhart

Nadine si rifugiò tra le braccia di Kurt e, afferrandogli le spalle della giacca, tentò di soffocare le lacrime nel suo petto. E Werner li vide stretti l’uno all’altra, malinconici e felici, nell’abbraccio di un amore mai tramontato. Sentì il cuore fermarsi e il respiro venir meno mentre assisteva impotente al fallimento del suo matrimonio. “Perché? … Perché? … Perché?” sussurrò con disperazione Nadine, ormai intrappolata nella dolorosa morsa dei ricordi. Non poteva esserci alcuna risposta al suo grido sommesso, a quella lacerante domanda che continuava a tormentare l’umanità rimasta umana nel tempo dell’odio e Kurt si limitò ad accarezzarle i capelli nell’ennesimo tentativo di calmarla. “Sss.” le disse e, stringendola di più a sé, abbracciò in lei anche il proprio dolore e quello di tante altre persone vittime della ferocia nazista. In quell’abbraccio strinse sua madre e suo padre, il signor Franz, Anja e Karl – i genitori naturali della sua bambina –, Hans – il suo carissimo amico morto in guerra – e una lacrima gli rigò il viso mentre il perché risuonò potente anche nella sua mente. Nadine era tra le braccia di un altro uomo e Werner, alla vista delle loro effusioni di tenerezza, avrebbe voluto correrle incontro e prendere Kurt di petto, spaccargli la faccia che lui stesso aveva rimesso a posto e spezzargli le ossa, sfogare la sua rabbia. Ma preferì scappare via, lontano dalla scena di quell’abbraccio che segnava lo sgretolamento delle sue certezze, la sua sconfitta come uomo, la fine di un amore e l’inizio dell’oblio.

 

Berlino ovest

 

“Scusami per prima, Kurt. Non sono riuscita proprio a trattenermi.” esordì Nadine, alla fine di un viaggio trascorso nel completo silenzio di entrambi. “Non devi scusarti, Nadine. Anche per me è stato difficile ritornare a Ravensbrück.” rispose Kurt, parcheggiando la macchina. La donna indugiò alcuni istanti con la testa china e lo sguardo perso nel vuoto, già ferita e vinta da ciò che sarebbe accaduto una volta varcato l’uscio di casa. Nessuna spiegazione avrebbe potuto giustificare la falsità di suo marito e lei stessa temeva la propria reazione. “Vedrai che tutto si sistemerà, coraggio!” affermò Kurt, abbozzando un sorriso di ostentata serenità. Ma Nadine si era già fatta coraggio e, con determinazione, scese dalla macchina.

Il rumore delle chiavi nella serratura frenò di colpo l’ossessivo incedere avanti e indietro di Werner e fece sussultare di gioia il piccolo Andrej. “Mamma!” urlò e, saltellando, corse verso la porta d’ingresso seguito dalla giovane Edith. “Amore mio!” esclamò Nadine e prese in braccio suo figlio, stringendolo forte a sé “Quanto mi sei mancato!” Per un attimo, la donna sembrò dimenticare l’imminente dramma. “Com’è andata?” le domandò sua cugina, con tono preoccupato e, subito, il volto di Nadine ritornò cupo e il sorriso scomparve dalle sue labbra. “Poi ti racconto.” rispose e la giovane Edith, abbassando la voce, riprese a parlare: “Werner si sta comportando in maniera molto strana.” E, in quel preciso momento, nel silenzio e nel buio del salotto, l’uomo iniziò un lungo e lento applauso sarcastico che suscitò l’improvvisa meraviglia di entrambe. “Forza, Nadine, racconta!” disse, con una punta di ironia e di amarezza “Racconta a tua cugina come ti sei sollazzata con il tuo amico Kurt!” Edith la guardò profondamente scioccata mentre una lama trafisse il cuore già ferito di Nadine. “Ti ho vista al campo, sai?!” continuò Werner e la donna, lasciato il suo bambino, lo raggiunse nel salotto. “Mi hai seguita?!” fece Nadine, invasa da un fortissimo ed esplosivo senso di rabbia e delusione. “Sì, va bene?! E vi ho visti! Vi ho visti mentre vi abbracciavate, mentre vi baciavate! Che vergogna!” La donna rimase per alcuni istanti senza parole, sconvolta, pietrificata: suo marito la stava accusando di un qualcosa che non aveva mai fatto. “Ah, certo! …” ribatté, fuori di sé “… Ho capito la tua intenzione! … Vorresti farmi passare dalla ragione al torto per non affrontare il vero problema!” Edith capì la situazione e, prendendo il piccolo Andrej per mano, gli disse: “Adesso la zia ti porta a mangiare un bel gelato, contento?” “Sì!!!” urlò il bimbo, felicissimo, nella sua ingenuità. “E quale sarebbe il vero problema?!” domandò Werner, con un atteggiamento che parve a Nadine arrogante e presuntuoso e la donna, stringendo i pugni, emise un incomprensibile verso di nervosismo. Con uno scatto, corse nella camera e iniziò a prendere dall’armadio i vestiti di suo marito e a gettarli sul letto. “Ma che stai facendo?! Sei impazzita?!” Nadine gli rivolse lo sguardo ma senza fermarsi. “Hai il coraggio di chiedermi qual è il problema?! … Tu sei il problema! … La tua falsità è il vero problema! … Mi hai mentito per cinque anni!” “Perché?! Cosa sarebbe cambiato?!” Werner non abbandonò quel suo tono sicuro. “Che saresti stato sincero con me!” “E saresti ritornata da lui!” “Se è questo quello che pensi, puoi anche andare via!” affermò la donna, lanciandogli in faccia un maglione. Il rancore fremeva nei loro occhi velati di tristezza, nelle loro parole studiate a tavolino, nei loro cuori palpitanti di rabbia e non più d’amore e l’atmosfera tra i due diventava sempre più tesa. “E così butteresti all’aria il nostro matrimonio?!” fece Werner e iniziò a rinfacciare “Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto quello che ho rinunciato per te!” “A cosa hai rinunciato?! Alla tua famiglia nazista?! Va’ pure, ritorna da loro e di’ a tuo padre che non stai più con la sporca ebrea – come mi definì lui!” Nadine e Werner non erano più gli stessi. Le loro labbra non si aprivano più a parole d’amore e sospiri di piacere, a baci appassionati e promesse d’eternità che accarezzavano il cuore ma adesso erano spalancate ad urla di rabbia e predominazione che ferivano il cuore, lo sballottavano, lo picchiavano a sangue, lo laceravano, lo rendevano a brandelli. Le loro mani non si cercavano più per accarezzarsi e intrecciarsi ma adesso gesticolavano di nervosismo e puntavano il dito, accusandosi l’un l’altra. “Ho rinunciato ad essere padre! Io che avevo tutte le carte in regola!” Werner capì subito di aver esagerato e di averla ferita a morte. Per Nadine, infatti, fu una vera e propria pugnalata al cuore. “Allora per te Andrej non significa niente? … Io non significo niente? …” affermò delusa per poi continuare con espressione arrabbiata “… Dov’eri?! Dov’eri tu mentre nel lager mi aprivano in due?! … Ma certo! Eri comodamente seduto sulla poltrona di tuo padre a giocare ad essere Dio e decidere chi lasciar vivere o morire!” “Perdonami, Nadine, non volevo ferirti.” L’uomo era ritornato in sé ma sua moglie lo ignorò e disse: “Sai cosa ti dico?! … Vado via io! …” Nadine afferrò dall’armadio due tailleur e li lanciò nella valigia, schiacciandoli “… Perché la colpa è mia! … Sono stata io una stupida a crederti, a credere che tu fossi diverso, che tu fossi diventato un uomo migliore, che tu amassi me e nostro figlio veramente!” “Ti prego, Nadine.” implorò Werner ma fu ancora una volta ignorato. Poi la donna chiuse con violenza la valigia e, guardandolo con espressione seria e sprezzante, affermò: “Addio, dottor Günther.” Günther era il vero cognome di suo marito. Nadine aveva vinto sferrando il colpo più forte, rinfacciandogli – chiamandolo con il suo vero nome – le colpe del suo passato da medico nazista. Il velo di compassione era scivolato via dagli occhi della donna e si era spenta la luce dell’amore. Werner rimase immobile, schiacciato dal peso dei ricordi e dei sensi di colpa, vinto, ferito dalle parole di sua moglie e non tentò nemmeno di fermarla. Nadine andò via.

 

Città di Fürstenberg/Havel

 

Engel era seduta sul divano con le mani giunte, la testa china e i capelli spettinati che le coprivano il viso. Kurt lanciò le chiavi nello svuotatasche ma neppure quel rumore riuscì a scuotere la donna, troppo immersa nel suo dolore. Le sedette accanto e tentò di abbracciarla ma Engel, con uno scatto, si alzò dal divano. Gli rivolse uno sguardo accusatorio, severo e sprezzante, più eloquente e distruttivo di mille parole, per poi allontanarsi e andare in un’altra stanza. Kurt rimase da solo.

 

Non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole, 
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell’amore. 
Dopo l’amore così sicure a rifugiarsi nei “sempre”, 
nell’ipocrisia dei “mai”.
Non sono riuscito a cambiarti, 
non mi hai cambiato lo sai. 

 

Fabrizio De André

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Capitolo 19
*** Prigioniera di te ***


Capitolo 19

 

Prigioniera di te

 

“Aspettava e la sua piccola mente impazzita d’amore andava alla deriva come una barca senza remi. Fantasie insensate e verità sconcertanti i flutti che la sbatacchiavano nella nebbia della sprovvedutezza e contro gli scogli della disperazione”.

Oriana Fallaci


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Lucia Bosè

 

Berlino ovest, 9 novembre 1950

 

Nadine sedeva sul letto, con le braccia incrociate sulle ginocchia avvolte dalle coperte e lo sguardo fisso nel vuoto della solitudine e dell’incertezza. Le dita della mano sinistra giocherellavano con la fede nuziale e la sua mente andava alla ricerca di ricordi per ritrovare l’uomo che aveva sposato. Quel Werner che aveva lasciato, incattivito e sprezzante, non era lo stesso che, commosso e innamorato, le aveva giurato amore eterno dinanzi a Dio; quel Werner che le aveva rinfacciato, in modo crudele e mortificante, la sua rinuncia ad essere biologicamente padre non era lo stesso che, pieno di entusiasmo e trepidazione, aveva firmato i documenti per l’adozione. La luce del sole che entrava prepotentemente dalle persiane della finestra la esortava ad alzarsi ma il suo corpo si rifiutava, schiacciato dal peso della malinconia. Le mancava la sua casa, il suo letto, il tepore di un corpo che le dormiva accanto, la protezione di due braccia che la stringevano nelle notti di paura quando gli incubi del suo passato ritornavano a tormentarla bruciando nelle cicatrici della sua pelle … le mancava suo marito, i suoi baci, le sue carezze, ciò che lui era sempre stato prima dell’irreparabile dramma della verità. Nadine amava ancora l’uomo che aveva sposato, quel marito perfetto e padre esemplare con cui aveva condiviso gli anni più belli della sua vita, l’uomo dolce, sincero, forte, sensibile, amorevole che l’aveva salvata e che ogni giorno tentava di proteggerla dai fantasmi di Ravensbrück e si sentiva legata, imprigionata ad un malinconico ricordo che altro non era che un crudele inganno di Werner. Quel Werner che lei continuava ad amare, in realtà, non esisteva e mai era esistito.

“Buongiorno, Nadine!” esclamò Edith, con in volto un’espressione radiosa e una tazzina fumante tra le mani “Ti ho portato un buon caffè!” “Sei sempre tanto cara, Edith ma adesso non ne ho voglia.” rispose Nadine e sospirò tristemente, poggiando il mento sulle braccia. “Cosa?! Cosa?! Nadine che rifiuta il caffè?! …” la giovane mise la tazzina sul comodino e continuò con fare scherzoso “… Esci, esci da questo corpo! Tu non sei la mia cugina! Nadine non rifiuterebbe mai e poi mai un caffè!” Edith riuscì a strapparle un sorriso che però subito svanì. Anche la ragazza tornò seria e, sospirando profondamente, sedette sulla sedia accanto a lei. “Per quanto tempo ancora durerà questa tortura? … È già passato un mese … Non sei stanca del male che stai facendo a te stessa e a tuo figlio? … Quel piccolino piange sempre perché gli manca il suo papà.” Nadine non rispose e la guardò con un’aria di sufficienza che indispettì Edith. “Io invece sono stanca e non voglio più appoggiarti in questa pazzia!” “Dimmi, dimmi allora cosa dovrei fare adesso?!” la donna alzò la voce in un atteggiamento auto-difensivo “Chiudere gli occhi e far finta che non sia successo niente?!” “No, al contrario … Devi permettere a Werner d’incontrarti e chiarire la vostra situazione … Fallo almeno per il tuo bambino.” Parlava la giovane Edith con la maturità e la forza di chi era stata costretta a crescere e diventare donna prima del tempo, madre di se stessa, suo unico appoggio e riferimento, ma la sua determinazione non convinse Nadine che ribatté: “Ma non hai ancora capito?! Per Werner non siamo altro che un peso! L’ha detto lui stesso!” “E tu invece? … Cos’hai detto nella rabbia? … Non pensi che anche lui abbia sofferto? … Io sono tua cugina ma in questo caso non posso stare dalla tua parte, mi dispiace!” Nadine capì di essere sola, sola con il proprio dolore, sola con un cuore ferito e diviso a metà: da una parte l’amore che, con la sua incoscienza, la spingeva verso un perdono e dall’altra il rancore che, forte e inflessibile, la condannava alla tristezza e alla disperazione di una netta separazione. Nessuno avrebbe potuto aiutarla, consolarla, rialzarla da quel letto bagnato di lacrime, speranze infrante e certezze svanite. “Io sto dalla parte di Andrej e non accetto che tu l’abbia separato da suo padre!” aggiunse la ragazza e Nadine esplose in un pianto convulso. “Rivoglio il mio Werner …” sussurrò tra i frenetici singhiozzi, aggrappandosi alle spalle di Edith “… Voglio tornare ad amarlo come una volta … Rivoglio la mia famiglia.” “Sì, Nadine … Ritorna all’amore … Metti da parte l’orgoglio e dagli un’altra possibilità … Entrambi avete già sofferto abbastanza nella vita.” affermò la giovane con le lacrime agli occhi, stringendola in un fortissimo abbraccio. Ma Nadine non frenò il suo pianto e disse: “No, non ce la faccio … Sono troppo disperata, Edith … Come devo fare?” “Ferma il ricordo più bello del vostro amore e ricomincia da lì.”

 

Città di Fürstenberg/Havel

 

Lo specchio rifletteva ciò che era rimasto di lei: il viso pallido e dimagrito di una donna ormai allo stremo, tormentata da un amore crudele dal quale non riusciva a liberarsi. I segni del viso rispecchiavano le ferite dell’anima. Era stanca Engel, stanca di combattere, stanca di soffrire, stanca di essere sempre la seconda scelta di suo marito ma non riusciva a lasciarlo. Kurt era tornato da lei dopo il rifiuto di Nadine. Engel amava ancora suo marito, lo aveva sempre amato nonostante vedesse nei suoi occhi l’ombra di un’altra donna, da lui tanto desiderata e mai dimenticata e si tormentava domandandosi perché avesse scelto di vivere questa dolorosa umiliazione. Per Kurt aveva rinunciato alla sua dignità di donna. Da un mese aveva smesso di parlargli, di dormire insieme a lui, di cedere alle sue ingannevoli carezze per chiudersi in un silenzio forzato, carico d’inquietudine. La vita di Engel era stata un susseguirsi di lotte e abbandoni che aveva sempre affrontato indossando una corazza di forza e coraggio, adesso scivolata via. Lo specchio rifletteva tutta la sua fragilità di donna, tutte le sue paure e le sue insicurezze. Engel si sentiva sola, non amata, delusa da un uomo che avrebbe dovuto essere per lei un rifugio, la realizzazione dei suoi sogni, il compimento della sua felicità. Ma quanto più Kurt la faceva soffrire, tanto più Engel non riusciva a separarsi da lui e si ostinava ad amarlo. Lo specchio rifletteva l’immagine della donna che non avrebbe mai voluto essere, sottomessa ad un rapporto che le impediva di vivere da sposa desiderata e da madre serena. E un dubbio iniziava a tormentare la sua mente, ormai troppo ingarbugliata: continuava ad amare suo marito per amore o soltanto per tenersi assicurata quella vana sicurezza affettiva che lui poteva offrirle?

 

Lago di Schlachtensee, 10  novembre 1950

 

La strada dei ricordi, lunga cinque anni, l’aveva condotta sulla riva del lago Schlachtensee, lì dove la sua nuova vita era cominciata. Nadine si strinse nel suo cappotto rosso e incrociò le braccia per ripararsi dall’aria fredda e pungente del mattino. Una morsa le attanagliò lo stomaco, il cuore, la gola mentre i suoi occhi, stanchi e gonfi per l’ennesima notte trascorsa insonne e in lacrime, si fermarono a guardare un’alta conifera. Nadine si rivide venticinquenne, seduta all’ombra di quell’albero, tra le braccia calde e forti di Werner, con il cuore traboccante di gioia e speranze, di sogni e libertà … con il cuore traboccante d’amore. Quel tempo era ormai passato e non sarebbe mai più tornato. Le lacrime scivolarono veloci sul suo viso, poi da dietro due braccia la strinsero e un sussulto uscì dalle sue labbra.

 

Eppure c’è stato un tempo in cui le stelle

si potevano vedere

un tempo ingenuo in cui

guardando l’orizzonte

oltre il nero della notte

si poteva ancora sognare

di vedere la speranza volare

e specchiarsi nei pozzi e non avere più sete.

 

Fiorella Mannoia

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Capitolo 20
*** Nelle catene dell’amore ***


Capitolo 20

 

Nelle catene dell’amore

 

“Oh carne, carne mia, donna che amai e persi,

te, in quest’ora umida, evoco e canto.

Come una coppa albergasti l’infinita tenerezza,

e l’infinito oblio t’infranse come una coppa.

Era la nera, nera solitudine delle isole,

e lì, donna d’amore, mi accolsero le tue braccia.

Era la sete e la fame, e tu fosti la frutta.

Erano il dolore e le rovine, e tu fosti il miracolo.

Ah donna, non so come hai potuto contenermi

nella terra della tua anima, nella croce delle tue braccia!”

Pablo Neruda

 


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Berlino ovest, 9 novembre 1950

 

La casa era un completo disastro. Ad accogliere il ritorno di Werner dal lavoro non erano più il bacio di sua moglie e l’abbraccio di suo figlio ma, ormai da un mese, era la gigantesca e angosciante confusione di piatti e vestiti sporchi da lavare. Lo scompiglio della casa rispecchiava perfettamente quello dei suoi pensieri. Werner si fece un po’ di spazio tra il mucchio di fogli e indumenti sparsi sul divano e vi si accasciò, esalando un profondo sospiro. Strofinò gli occhi umidi, arrossati, stanchi per la notte di lavoro in ospedale e le tante altre notti trascorse insonni a piangere le ceneri del suo matrimonio. Pensava a Nadine, ai suoi occhi gonfi di rabbia e delusione, alle sue parole infuocate e alle proprie ancor più crudeli, al suo brutale distacco. Non riusciva a rassegnarsi all’idea che cinque anni d’amore fossero stati distrutti in un attimo di follia e che lui per primo ne fosse il carnefice. Conosceva benissimo la fedeltà di sua moglie ma l’aveva ugualmente incolpata di tradimento, accecato dal buio della paura – la stessa che gli aveva impedito di raccontarle la verità su Kurt. Werner era sempre stato geloso di Kurt. A differenza sua, lui non aveva permesso all’ombra del nazismo di trascinarlo con sé nel buio dell’ingiustizia ma l’aveva combattuta, sacrificando la propria vita per amore di Nadine. Non aveva speso gli anni della propria giovinezza per la rovina degli altri né tantomeno aveva fatto carriera, arricchendosi sempre di più con il loro sangue. Ma si era schierato dalla parte dell’umanità assurdamente e atrocemente perseguitata, rinunciando a tutto ciò che era e che aveva. A differenza del suo, quello di Kurt non era certo un passato orribile di cui vergognarsi, un passato da nascondere ai propri figli, un passato da dimenticare. Le parole di Nadine avevano aperto nel suo cuore un’enorme voragine nelle cui profondità Werner era crollato, schiantandosi nella verità del suo passato. Era stato colpito, trafitto, distrutto senza pietà dalla stessa donna che un tempo con dolcezza lo aveva salvato dall’incubo “Günther”. Quella donna, quella dolcezza, quella compassione erano scomparse e, lontano dall’amore che Nadine gli aveva strappato portandosi via anche suo figlio, i fantasmi del suo passato ritornavano a tormentarlo ricordandogli chi era stato e cosa aveva fatto lui, il dottor Werner Günther, negli anni del nazismo. La sua sposa, la donna che amava, colei che gli aveva cambiato la vita lo aveva anche rigettato nell’inferno dei sensi di colpa, nel buio della solitudine e della tristezza, nel fango della disperazione. Werner esalò un altro profondo sospiro e iniziò a sudare freddo. Il suo cuore ferito non aveva smesso di sanguinare. Allentò il nodo della cravatta e, tremando spasmodicamente, sbottonò il colletto della camicia. Il laccio delle sue paure gli stringeva la gola come una morsa di ferro. Si sfilò la giacca e si sdraiò sulla confusione del divano. La sua mente ingarbugliata cercava riposo nei ricordi di un amore bello, immenso, forte che aveva vinto i postumi della guerra superando gli ostacoli della malattia, delle rovine, della fame, dei pregiudizi e aprendosi al miracolo dell’adozione. Chiuse gli occhi e smise di tremare. I suoi pensieri si erano fermati all’attimo eterno di quel bacio nel rosso del tramonto, tra le carezze del vento, sulla riva del lago, con la speranza e i sogni nel cuore traboccante d’amore. E, ad un tratto, qualcosa simile ad un sorriso apparve sulle labbra di Werner.

 

Città di Fürstenberg/Havel

 

Un gemito di dolore accompagnò il risveglio di Kurt: con un crack la sua schiena si ribellava alle troppe notti trascorse a dormire, o meglio, a cercare di dormire sul divano, scomodo, freddo. Kurt si svegliò già stanco e la colpa non era soltanto della posizione sbagliata. Una battaglia interiore, infatti, lo tormentava riducendolo ogni notte allo stremo. Si mise a sedere e, stiracchiandosi un po’, rivolse lo sguardo alla porta d’ingresso. Quante volte avrebbe voluto aprirla, buttare tutto all’aria, lasciarsi alle spalle la brutale indifferenza di sua moglie ma ogni volta, puntualmente, si trovava ad incrociare gli occhi amorevoli della sua bambina e il coraggio andava via. Era ormai da un mese che Engel aveva smesso di parlargli – le uniche parole che gli rivolgeva riguardavano la piccola Brigit –, di dormire insieme a lui, di farsi toccare da lui. E così lo puniva per un qualcosa che con Nadine non aveva mai fatto ma che, se scavava in profondità nelle sue viscere, avrebbe voluto. Il silenzio di sua moglie lo costringeva a guardare dentro di sé e a combattere le proprie contraddizioni. Il ricordo di Nadine occupava un posto importante nella sua vita e si sentiva attratto dalla donna che aveva ritrovato dopo dieci anni. Ma, allo stesso tempo, desiderava fortemente la sua Engel e si sentiva legato a tutto ciò che il loro amore aveva costruito in quegli anni. Mai avrebbe potuto scappare dalle sue responsabilità, tradire la promessa fatta al signor Franz, abbandonare sua figlia, fare del male a sua moglie e si tormentava pensando a quanto fosse poco l’amore che riusciva a darle. Per quanto potesse sforzare il suo cuore, Kurt non riusciva ad amare in pienezza Engel, colei che – prima di essere sua moglie – era stata il miracolo sulla sua morte, la cura per le sue ferite, la forza nella sua disperazione, la speranza che asciugava le sue lacrime, la pace sulla sua guerra, il suo tutto in un mondo che non aveva più niente da offrirgli. La testa diventava sempre più pesante e le gambe, come paralizzate, gli impedivano di rialzarsi. Di nuovo, si abbandonò sul divano e s’infilò sotto la coperta mettendosi in posizione fetale. Era di nuovo solo Kurt. Solo tra le braccia della sua tristezza, a contare i lividi dei suoi errori, a raccogliere le lacrime dei suoi fallimenti, a soffocare i fantasmi dei suoi limiti e delle sue debolezze. Perché non c’era mai fine al tormento della sua sofferenza?

 

Lago di Schlachtensee, 10 novembre 1950

 

In cinque anni, tante cose erano cambiate: le strade, i negozi, le case, i parchi … lui stesso era cambiato, eccetto quello squarcio di mondo immerso nella natura. Il lago Schlachtensee rimaneva sempre lo stesso, teatro e spettatore dell’esplosione di un amore che pure era cambiato perdendo la bellezza della sua speranza e della sua spensieratezza nelle ferite dell’inganno e dell’amarezza. Senza farsi troppe domande, Werner si era fidato della voce del suo cuore che lo guidava nel silenzio della foresta in una fredda mattina di autunno. I suoi occhi, umidi di lacrime e di stanchezza, videro da lontano una figura di donna con indosso un cappotto rosso e una corda del suo cuore vibrò. Un palpito di gioia risvegliò il suo cuore e lo squarciò d’amore: quella donna di spalle, che osservava immobile le rive del lago, era proprio la sua Nadine. Si avvicinò lentamente e da dietro la strinse in un abbraccio, accogliendo il suo sussulto.

 

Quel respiro leggero che hai

l’onda del petto che scende e che sale

e mentre sogno ti penso e fa male

un’altra vita eravamo oramai

adesso sì che sto imparando

a stare nel mondo

ancora qui per noi.

 

Amedeo Minghi

 

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Capitolo 21
*** Nell’abbraccio del tuo amore ***


Capitolo 21

 

Nell’abbraccio del tuo amore

 

- Ricomincio da te -

 

“Farò della mia anima uno scrigno per la tua anima,

del mio cuore una dimora per la tua bellezza,

del mio petto un sepolcro per le tue pene”.

Kahlil Gibran, Il Lago di Fuoco


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Lago di Schlachtensee, 10 novembre 1950

 

Nadine non avrebbe mai potuto sbagliarsi: le braccia forti, calde, rassicuranti che la stringevano da dietro erano di suo marito. Il cuore iniziò a batterle più forte e Werner ne accarezzò i palpiti con le dita, mentre il tempo si fermò per perdersi nell’infinito dei loro sospiri. Entrambi chiusero gli occhi pieni di lacrime da trattenere e si lasciarono avvolgere dal calore dei loro corpi e dal ritmo dei loro cuori. Il dolce fruscio delle onde, il lento agitarsi dei rami e l’armonioso cinguettio degli uccelli facevano da sottofondo ai loro respiri. Nadine si volse e sprofondò nel petto di Werner, esplodendo in un forte pianto. Solo tra le sue braccia, quelle braccia che l’avevano salvata dall’inferno di Ravensbrück, poteva nascondere le sue paure e assaporare la vera felicità; solo tra le pieghe del suo cuore, quel cuore che l’aveva accolta e guarita dopo le atrocità della guerra, poteva ritrovare se stessa e sentirsi amata e protetta … sentirsi donna. Sul suo viso pallido e stanco scorrevano veloci lacrime di gioia e di dolore, di amore e di rancore, di speranza e di delusione. Nadine non riusciva ancora a perdonare suo marito. Anche Werner iniziò a piangere e, mettendole una mano dietro la nuca, la strinse di più a sé. Tra le sue braccia era racchiusa l’essenza della vita, la bellezza del vero amore, la ragione per cui poteva essere veramente felice, la donna che non avrebbe mai dovuto ferire. Le prese il viso tra le mani e, con voce rotta dai singhiozzi, le disse: “Mi dispiace, amore mio, perdonami.” Ma Nadine non rispose né gli rivolse lo sguardo e continuò a piangere disperata. Una parte del suo cuore faceva ancora fatica a credergli. Werner si abbassò un poco e, piangendo più forte, avvicinò la guancia alla sua. Le loro lacrime si unirono e le loro labbra tremanti ne assaggiarono l’amaro di un amore ferito che, pur volendo, stentava a rinascere. “Io ti amo, ti amo, ti amo …” insisté Werner ancor più disperato “… Tu sei il mio respiro, la mia vita, il mio tutto.” Le prese di nuovo il viso, costringendola a guardarlo negli occhi e continuò: “Senza i tuoi occhi non riesco più a guardarmi allo specchio. Senza di te non so più chi sono. Ho bisogno di te, dei tuoi occhi, dei tuoi bellissimi occhi per sentirmi un uomo migliore. Ti prego, credimi, amore mio. Io ti amo. Ricominciamo tutto daccapo.” Nadine smise di singhiozzare e, poggiando le mani fredde sulle sue calde, lo guardò profondamente negli occhi. Emise un debole sospiro. Quegli occhi verdi, belli, pieni di lacrime erano sinceri e supplicavano una risposta. Qualcosa si sciolse nel suo cuore. Werner era davvero pentito, l’amava oltre ogni misura e non le avrebbe mai più fatto del male. Meritava un’altra occasione. Con un cenno della testa, la donna annuì – più che altro per convincere ulteriormente se stessa – e, con un fil di voce, disse: “Sì, ricominciamo, amore mio.” Sorrise con tenerezza e il volto di Werner s’illuminò di gioia. La strinse in un abbraccio fortissimo quasi da toglierle il fiato, la sollevò un po’ da terra e le riempì il viso con una raffica di baci. Entrambi piangevano e ridevano allo stesso tempo. Poi le loro labbra casualmente si sfiorarono, le loro lacrime e le loro risate scomparvero di colpo e il tempo sembrò di nuovo fermarsi. Nel silenzio, spezzato soltanto dal fruscio del vento tra gli alberi e sulle onde del lago, con gli occhi chiusi e i cuori più aperti, i due si guardarono dentro l’un l’altra e ritrovarono il loro amore. “Nadine, amore mio, promettimi che non mi lascerai mai più.” sussurrò Werner, accarezzandole la guancia con la punta delle dita. La donna gli prese la mano e, guidandola lentamente sul proprio cuore, ribatté: “E tu promettimi che riuscirai a guarirmi di nuovo, dottor Hofmann.” Le loro labbra si aprirono in un largo sorriso e, ormai troppo vicine, si unirono in un bacio appassionato che sigillò le loro promesse. “Io ti amo tanto, Werner.” disse Nadine, finalmente libera e l’uomo, estremamente commosso, rispose: “Anch’io ti amo tanto, Nadine … Torniamo dal nostro bambino.” “Sì, andiamo …” Nadine era radiosa. Prese Werner per mano e, intrecciando le dita con le sue, aggiunse: “… Andrej non vede l’ora di riabbracciare il suo papà.”

 

E allora porta via questa malinconia

devi convincermi che non sei mai andato via.

E adesso scaldami in tutti gli angoli

con la tua pelle ed i tuoi baci e poi guariscimi.

Fammi sentire tutta quella voglia che hai di vivermi

e poi cancella dentro me l’incertezza e la paura che ho di perderti.

 

Bianca Atzei, La paura che ho di perderti

 

 

 

 

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Capitolo 22
*** La scelta di amare - Prima parte - ***


Capitolo 22

 

La scelta di amare

 

- Prima parte -

 

“Nelle bufere più tormentose, io ho scelto te.

Nell’arsura più arida, io ho scelto te.

Nella buona e nella cattiva sorte, io ho scelto te.

Nella gioia e nel dolore, io ho scelto te.

Nel cuore del mio cuore, io ho scelto te”.

S. Lawrence, Ho scelto te

 


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- Ricordare per ricominciare ad amare -

 

Foresta di Grunewald[1], 20 aprile 1945[2]

 

I cannoni sovietici tuonavano senza tregua e i palazzi in città crollavano come castelli di carta. Un rumore infernale di mitragliate e di aerei, pronti a lanciare le loro bombe, echeggiava nel cuore silenzioso della foresta e faceva tremare le ginocchia di chi, tra la vegetazione e nei fossati, un rifugio aveva trovato. Kurt ed Engel erano nascosti tra i poveri resti di una casetta sventrata e, rannicchiati l’uno di fronte all’altra vicino a quello che un tempo era stato un muro, cercavano di proteggere la piccola Brigit, un tenero fagottino di appena due settimane di vita. Quanto era stata crudele la vita con loro! Per anni avevano combattuto il nazismo – tra rinunce e stenti, con fatica e sofferenza –, salvando molte persone e perdendo tutti i loro cari e, adesso, le bombe sovietiche – sorde e cieche – non avrebbero risparmiato il loro coraggio, la loro innocenza. Senza pietà, avrebbero colpito anche loro condannandoli alla stessa sorte dei colpevoli. Kurt ed Engel si guardavano con espressione disperata: i loro occhi erano pieni di lacrime che non riuscivano più a versare e le loro labbra screpolate non potevano far altro che chiudersi nel silenzio; i loro volti e le loro mani erano sporchi di polvere e di terreno e i loro vestiti erano sempre più logori; le loro gole erano riarse per la sete e i loro stomaci brontolavano per la fame. Nello zaino avevano soltanto un po’ di latte per la bimba e delle scatolette di carne rubate ad un soldato delle SS morto in città. Kurt allungò il braccio, poggiando la mano sul fianco di Engel e, aprendo pian piano la bocca impastata, iniziò a parlare con voce tremante: “Superato questo inferno, sarà tutto finito. Teniamo duro. Ancora qualche giorno e la guerra sarà finita, vedrai.” La ragazza dissentì scuotendo freneticamente la testa e il fragore di una bomba esplosa nelle vicinanze incrementò in loro la paura di morire. Si sentivano indifesi, vulnerabili, deboli, impotenti dinanzi ad un qualcosa che non avrebbero mai potuto fermare e dal quale sarebbe stato impossibile scappare. I due erano in una trappola mortale. Entrambi ripensarono alle loro madri, alla tenerezza dei loro sorrisi, al calore dei loro abbracci, alla spensieratezza della loro infanzia, al tepore delle loro case e desiderarono rivivere anche solo per un attimo quel piacevole senso di protezione e di sicurezza provato da bambini. Sentivano la morte sempre più vicina e desideravano l’abbraccio della mamma. Il pensiero di Kurt andò anche a sua sorella Käthe – ai loro giochi e alle loro zuffe, ai loro litigi e al loro affiatamento, a quel rapporto di “amore e odio” che li teneva sempre uniti – e a suo padre – alle parole non dette e a quelle che avrebbero dovuto evitare, agli abbracci mancati, al tempo sprecato, a quello schiaffo ricevuto per le foto scattate a Ravensbrück, a quei soldi rubati per fuggire con Nadine. E inevitabilmente il suo cuore corse a lei – al ricordo di un amore così lontano, eppure tanto vicino da riaprirne le cicatrici e bruciargli nelle viscere, nelle ossa, nelle profondità dell’anima. Ma poi fissò lo sguardo di Engel e, in uno slancio d’amore, vide in lei la donna della sua vita, le sue speranze, i suoi sogni, il suo futuro, la sua sposa, la madre dei suoi figli … se mai sarebbe sopravvissuto. Kurt era sempre stato innamorato di Engel, tante volte in quei quattro anni avevano dormito insieme, si erano lasciati e poi ripresi, ma mai aveva trovato il coraggio di ricominciare ad amare, di fare una scelta di vita importante, di iniziare a concretizzare la promessa fatta al signor Franz di prendersi cura di lei regolarizzando il loro rapporto. Mai come in quel momento – forse inopportuno perché contrassegnato dal rumore di cannonate e mitragliate –, in quel luogo – non proprio adatto perché teatro di follia e disperazione, bagnato dal sangue delle vittime e dei carnefici di un’insensata guerra contro l’umanità –, aveva provato un sentimento così forte, improvviso, profondo, esplosivo verso di lei. Era un sentimento, una forza capace di spezzare le catene delle sue paure, di infondergli sicurezza in se stesso fino a spingerlo a dire: “Engel, io ho preso una decisione …” il cuore gli batteva forte e la voce era rotta per l’emozione “… Io voglio sposarti. Dopo la guerra, riconoscerò la bambina come mia figlia e ti sposerò!” Il tempo e i rumori sembrarono fermarsi e loro non essere più lì. Engel sgranò gli occhi, verdi, da cerbiatta, belli, velati di lacrime e, con un fil di voce, confusa, sussurrò: “Perché?” “Perché …” Kurt inumidì le labbra con la lingua “… Io ti amo.” A queste parole dolci e tremanti, la ragazza ebbe un tuffo al cuore e quasi le mancò il respiro: per ben quattro anni le aveva sperate, desiderate, sognate, attese tra fiducia e angoscia, tra pazienza e tormento, e adesso non riusciva a credere alle proprie orecchie. Avrebbe voluto piangere per la commozione, urlare per quell’improvviso senso di liberazione che aveva provato, ma riuscì soltanto a balbettare una parola, un nome, la causa dei suoi dubbi e delle sue paure: “Nadine.” Subito, gli occhi di Kurt si bagnarono di lacrime e, con voce grave, rispose: “Nadine è morta.” “Non per te.” Engel aveva ragione. E un’altra bomba cadde nelle vicinanze. “Ma io ho scelto te …” fece il giovane estremamente commosso, accarezzandole la guancia “… è con te che voglio trascorrere il resto della mia vita. E tu vuoi restare con me per sempre?” Engel annuì con la testa. Lo amava troppo. Accennò un sorriso e, con il cuore in gola, gli rispose: “Anch’io ti amo.” Gli prese la mano, intrecciando dolcemente le dita con le sue e fu colta da un incontenibile desiderio di incontrare le sue labbra. Anche Kurt sorrise ma poi, all’improvviso, ci fu uno scoppio tremendo. Il cielo si accese, la terra tremò e, all’urlo straziante di Engel, la loro casetta scomparve in una nube di fumo nero.

 



[1] La Foresta di Grunewald (detta anche “foresta verde”) si estende lungo la riva orientale dell’Havel, nella zona occidentale di Berlino.

 

[2] Quinto giorno della Battaglia di Berlino (16 aprile 1945 - 2 maggio 1945). L’Armata Rossa sferra il grande attacco per distruggere le forze tedesche e, dopo scontri molto aspri e dure perdite per entrambe le parti, i sovietici conquistano la capitale. L’8 maggio 1945, sei giorni dopo la fine della battaglia, il Terzo Reich si arrende ufficialmente.

 

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Capitolo 23
*** La scelta di amare - Seconda parte - ***


Capitolo 23

 

La scelta di amare

 

- Seconda parte -

 


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- Ricominciare ad amare per crescere nell’amore - 

 

Città di Fürstenberg/Havel, 26 settembre 1946

 

La sorella di Kurt era andata via, portando con sé il suo pesante bagaglio di ricordi di donna ferita che nessuna parola avrebbe mai potuto alleggerire, e aveva lasciato Engel in uno stato di profonda tristezza. Anche lei si sentiva ferita. Come un automa, prese dal tavolo le patate da pelare e si avvicinò alla cucina per preparare la cena. Era in quei momenti, alla sera, quando la piccola Brigit faceva il suo pisolino e Kurt era ancora al lavoro, che Engel si spogliava della sua corazza e, sola con se stessa, contava le sue ferite. Lasciò cadere nel lavandino il coltello e la patata e, piegandosi un po’, esplose in un pianto sommesso. Era in quei momenti, nel silenzio di una casa di cui a volte si sentiva soltanto la domestica, quasi un’estranea, che Engel non aveva bisogno di essere forte e poteva cedere alle lacrime. Pensava alla guerra: il fragore delle bombe riecheggiava nella sua testa, i brividi di paura ripercorrevano la sua schiena e il dolore per la perdita di suo padre e delle sue sorelle squarciava ancora il suo cuore. Si aggrappò con forza al bordo del lavandino fino a farsi male le dita tremanti e violacee e iniziò a piangere più forte. Pensava alla sua vita: un senso di solitudine e d’insoddisfazione le stringeva la gola e lo stomaco come una morsa. No, non era quella la vita che aveva sempre desiderato. Engel era rimasta da sola e non aveva più nessun altro al di fuori di Kurt ed era proprio lui la causa principale della sua frustrazione. Subito dopo la guerra, aveva riconosciuto la bambina ma non aveva più parlato di matrimonio e lei aspettava sempre nell’illusione che prima o poi avrebbe mantenuto la promessa. Quella di Engel non era altro che un’attesa inutile fatta da un susseguirsi di vane convinzioni che, puntualmente smentite dalla realtà dei fatti, la spingevano ogni volta, sempre di più, verso il baratro dell’autodistruzione. Dopo aver ritrovato sua sorella Käthe e dopo aver superato il lutto per la perdita dei suoi genitori, Kurt non le aveva chiesto di sposarlo come lei credeva né, tantomeno, dopo aver riottenuto la sede del giornale e dopo aver superato senza troppe difficoltà il delicato intervento chirurgico al viso. E, adesso, Engel che cosa avrebbe dovuto aspettare ancora? Aspettare che Kurt dimenticasse per sempre Nadine, che smettesse di piangere di nascosto per lei e di pronunciare senza accorgersene il suo nome durante i loro momenti di intimità sarebbe stata un’assurda follia e questo Engel sapeva benissimo di non poterlo nemmeno lontanamente sperare. Allora perché continuare a torturarsi, a farsi calpestare la propria dignità di donna, a precludersi una felicità che magari era altrove, lontano, fuori da quella prigione di illusioni? Lo amava, lo amava con tutta se stessa ma non poteva più continuare a vivere nel tormento di un amore mal corrisposto: Kurt non sarebbe mai guarito dalla sua ossessione per Nadine. Tra le lacrime convulse di un dolore troppo grande che il suo cuore non riusciva più a trattenere, Engel prese la decisione di porre fine alla loro relazione e lo avrebbe fatto quella sera stessa. Un senso di rimorso subito la invase per non esser stata capace di dare una famiglia a Brigit, così piccola e già tanto provata dalla vita, ma lasciare Kurt sarebbe stata la cosa più giusta da fare anche e soprattutto per lei. Come una spugna, infatti, la bimba assorbiva tutta l’infelicità della mamma. Sobbalzò all’udire il rumore delle chiavi nella serratura e, velocemente, asciugò le lacrime con il dorso della mano per poi iniziare a tagliare la cipolla. “Amore, sono a casa!” esordì Kurt dal corridoio e, gettate la ventiquattrore e la giacca sul divano, entrò in cucina. Engel finse di non averlo sentito ma poi fu difficile per lei restargli indifferente quando le sue braccia, calde e forti, la strinsero da dietro, avvolgendola del suo dolce profumo di muschio. “Cosa c’è per cena?” domandò, dandole un bacio sonoro sulla guancia. Senza aspettare la risposta, sbirciò nel lavandino e, con fare scherzoso, disse: “Ancora patate e cipolle? … No!” Engel si divincolò dall’abbraccio e, contrariata, aprì il rubinetto per sciacquarsi le mani. “Scusami, amore.” fece Kurt, mortificato, ignorando il vero motivo del malessere della donna. Era stato capace di rovinare uno dei momenti più belli della sua vita. Engel si volse e, asciugandosi freneticamente le mani con il grembiule che poi gettò sul tavolo, gli disse: “Dobbiamo parlare.” Il cuore le batteva forte mentre gli occhi della sua mente sfogliavano veloci le immagini belle di un amore troppo spesso travagliato dai fantasmi di un passato difficile da dimenticare. Una parte di se stessa non voleva perderlo. Kurt la guardò e, da quegli occhi velati di tristezza, intuì la sua imminente decisione. “Sì, ma lascia parlare prima me.” ribatté, prendendola per le braccia e facendola sedere sulla sedia. Le sedette di fronte, attaccando le ginocchia alle sue, e le strinse fortemente le mani, fredde e tremanti. Emise un profondo sospiro e iniziò a parlare: “Vorrei trovare le parole giuste per dirti quello che provo per te …” sospirò più profondamente “… Engel, tu sei stata un miracolo nella mia vita. Mi hai strappato dalla morte di Ravensbrück, insieme a tuo padre che ringrazierò fino al mio ultimo respiro. Ti sei presa cura di me e, senza provare ribrezzo come qualsiasi altra ragazza …” entrambi abbozzarono un lieve sorriso “ … hai fasciato ogni giorno le mie ferite.” Engel si domandò dove volesse arrivare Kurt e, intanto, quest’ultimo continuò: “Poi hai curato il mio cuore. La dolcezza del tuo amore disinteressato, generoso, forte, coraggioso ha permesso al mio cuore di ricominciare ad amare quando tutto sembrava ormai finito senza alcuna speranza. Insieme abbiamo vissuto momenti belli pur vivendo in un tragico contesto a causa della guerra. Grazie a Dio siamo sopravvissuti, siamo diventati genitori e abbiamo superato momenti difficili. So che di tanti la colpa è mia perché non sono ancora riuscito a superare tutto il mio passato e ti chiedo di perdonarmi, di continuare ad aiutarmi, di capirmi. Io voglio crescere con te, voglio costruire il mio futuro con te, voglio che tu e Brigit siate la mia famiglia e voglio che tu sia la mia sposa.” Di colpo, s’inginocchiò e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una scatolina di velluto colore blu notte mentre la ragazza si tappò la bocca con entrambe le mani per trattenere l’emozione. Kurt aprì la scatolina e, mostrandole l’anello di fidanzamento, con la voce rotta dall’emozione, le chiese: “Engel, amore mio, vuoi sposarmi?”

 

10 novembre 1950

 

Engel ripose il coperchio sulla pentola e spense il fornello: la cena era pronta. Si mise a sedere e la sua mente iniziò a perdersi in pensieri di angoscia mentre le sue dita giocherellavano nervosamente con la fede nuziale. Non avrebbe mai dovuto sposare Kurt – pensava, tormentata dai sensi di colpa per aver scelto una vita d’insoddisfazione – ma non riusciva a separarsi da lui. Si sentiva sempre più sola, smarrita, svuotata. Il rumore delle chiavi nella serratura non la scosse e continuò a far girare e rigirare l’anello tra le dita fino a quando Kurt non apparve sull’uscio della cucina. Alzò lentamente il capo e gli rivolse lo sguardo: i capelli scompigliati le coprivano gli occhi arrossati dalle lacrime. Engel abbassò di nuovo la testa e, con uno scatto, si tolse la fede dal dito e la pose sul tavolo. Un gesto lungo un attimo e tutto era finito. Dopo qualche istante di orgogliosa esitazione, Kurt le si avvicinò e s’inginocchiò davanti a lei stringendole fortemente le mani. Non voleva perderla. Appoggiò la fronte sulle sue ginocchia e scoppiò in un pianto disperato, in lacrime di rimorso, di richiesta di aiuto, di dolore, in lacrime d’amore che sciolsero il cuore di Engel. Anche lei scoppiò in lacrime e, prendendogli il viso tra le mani, fra i singhiozzi, gli disse: “Io … io non posso lasciarti.”

 

Ho scelto te amore mio.

Se ti capita fa che sia tutto diverso …

Fa che sia tutto diverso.

C’è un uomo perso sul treno che precipita …

Che un cielo terso accendi il blu.

Se tu …

 

Zucchero, Hai scelto me

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Capitolo 24
*** Ricominciare ***


Capitolo 24

 

Ricominciare

 

“Rimani! Riposati accanto a me. Non te ne andare.

Io ti veglierò. Io ti proteggerò.

Ti pentirai di tutto fuorché d’essere venuta a me, liberamente, fieramente.

Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;

non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te.

Lo sai. Non vedo nella mia vita altra compagna, non vedo altra gioia.

Rimani. Riposati.

Non temere di nulla. Dormi stanotte sul mio cuore …”

Gabriele D’Annunzio, Rimani


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George Peppard e Sophia Loren

 

Città di Fürstenberg/Havel, 10 novembre 1950

 

Kurt abbassò lo sguardo: non aveva il coraggio di guardare Engel negli occhi. Nonostante i suoi tanti errori, le sue contraddizioni, le sue brutture, nonostante il suo poco amore, lei continuava ad amarlo ed era pronta a ricominciare. Pensava di non meritare un’altra possibilità, pur desiderandola con tutto se stesso. Appoggiò di nuovo la fronte sulle sue ginocchia e rimase lì per terra, in ginocchio, a piangere stretto a lei. Anche Engel piangeva a dirotto. All’improvviso, Kurt si sentì tirare la giacca e si volse di scatto: era la sua piccola Brigit che lo fissava con occhi sgranati di innocente stupore. La bimba aveva un’espressione interrogativa stampata sul visetto pallido e un ditino poggiato sulle labbra come indecisa su cosa dovesse dire. Poi i suoi occhioni marroni si riempirono di lacrime e, con voce sottilissima, quasi sussurrando, disse: “Papà, mamma, vi prego, fate la pace.” Nonostante i suoi cinque anni, Brigit aveva capito dal principio e sofferto nel silenzio l’attrito tra i suoi genitori. Davanti all’espressione triste e un po’ corrucciata della sua bambina, Kurt si sentì l’uomo peggiore del mondo e capì quanto fosse stato stupido a smarrire le sue priorità, la sua famiglia, per rincorrere un fantasma del suo passato, un ricordo idealizzato della ragazza che un tempo aveva amato. Nadine non era più quella ragazza. Quelle lacrime, pronte a bagnare il faccino della sua bambina, lo avevano improvvisamente guarito dalla sua ossessione. Engel si alzò di scatto dalla sedia e prese in braccio la piccola Brigit per rassicurarla e per evitare che iniziasse a piangere. “Shh, tesoro mio … La mamma e il papà hanno già fatto la pace.” le disse, con voce spezzata e tentando un sorriso. Anche Kurt si alzò e, trattenendo un pianto di commozione, strinse sua moglie e sua figlia in un abbraccio fortissimo. I tre erano di nuovo una famiglia.

 

Berlino ovest

 

Edith aprì la porta e, non appena vide sua cugina mano nella mano con Werner e le loro dita intrecciate, il suo viso s’illuminò subito di gioia. “Andrej, vieni qui! C’è una sorpresa per te!” disse la ragazza entusiasta mentre Nadine le ricambiò il sorriso. Alle parole di Edith, seguirono immediatamente il tonfo di un salto giù dal letto e il rumore di due piedini che, scalzi, correvano spediti verso il salotto. “Papà!” urlò felice il piccolo Andrej, tuffandosi nelle braccia aperte di Werner. Quest’ultimo si acquattò a terra e lo abbracciò fortemente, baciandolo sulla fronte. “Quanto mi sei mancato, piccolo mio.” gli disse, trattenendo a stento lacrime di commozione, mentre il bimbo non riuscì a resistere ed esplose in un pianto sommesso. “Papà, non ci lasciare mai più.” sussurrò, fra piccoli singhiozzi. “Mai più, te lo prometto.” rispose Werner e, alzatosi, lo sollevò in aria per farlo sorridere. Guardando i bellissimi occhi azzurri del suo bambino pieni di lacrime, Nadine capì quanto dolore avesse causato il proprio orgoglio e quanto fosse stato crudele separare suo figlio dal padre, dividere la propria famiglia. Una lacrima le rigò il viso mentre tentava d’ingoiare un singhiozzo, poi avanzò lentamente nel centro della stanza per unirsi a quell’abbraccio e volse uno sguardo a sua cugina. La giovane Edith annuì con un cenno della testa e le sorrise compiaciuta. “Io vado a preparare la valigia di Andrej.” disse e Nadine, ricambiandole il sorriso, esplose in un pianto di gioia. Tra risa e lacrime, la donna si strinse più forte a suo marito e al suo bambino: la famiglia era finalmente riunita.

 

Città di Fürstenberg/Havel

 

Engel rimboccò le coperte alla sua bambina e, andando verso il salotto, indugiò sull’uscio ad osservare l’ombra di suo marito nel bagliore del camino acceso. Kurt era seduto sul tappeto e fissava la lenta e rilassante danza delle fiamme, con una mano poggiata su un cuscino e l’altra che teneva un bicchiere con del vino rosso, e con quell’aria che lo faceva sembrare sempre triste e inquieto. Quanti pensieri tormentavano la sua mente di uomo provato dalla vita e lei questo molto spesso lo dimenticava troppo concentrata sul proprio dolore e sul proprio desiderio di voler essere felice a tutti i costi. Troppo spesso aveva occhi solo per se stessa e chiudeva il cuore a suo marito. Lentamente entrò nella stanza e, senza fare rumore, con movenza impercettibile, prese dal tavolino il bicchiere che in precedenza Kurt le aveva riempito. Gli si avvicinò e, inginocchiatasi dietro di lui, lo avvolse con un braccio provocando un suo sussulto. “Engel!” esclamò, poggiandole di colpo una mano sul braccio mentre lei lo baciò sonoramente sulla guancia. Riuscirono a sorridere dopo tanto tempo e tante lacrime versate. La donna sedette e, subito, le sue pallide guance arrossirono, accarezzate dal calore del fuoco. Alzò il bicchiere verso Kurt e disse: “Brindiamo?” “A cosa?” fece l’altro ostentando curiosità. Sapeva già a cosa avrebbero dovuto brindare. “Al nostro nuovo inizio.” rispose Engel con un tenero sorriso. Per quanto tempo gli aveva negato quello sguardo di dolcezza. I suoi occhi brillavano di emozione contenuta ma non era uno sguardo di vera felicità e non lo era mai stato. Improvvisamente, Kurt divenne serio e, accarezzandole la guancia, le disse: “Engel, amore mio, io non voglio più farti soffrire perché io ti amo.” Una grossa lacrima le rigò la guancia. Da troppo tempo non udiva quelle parole e adesso stentava a crederci. Nel profondo di se stessa sentiva di non essere amata. “Ti prego, credimi. Io ti amo e voglio che tu sia felice, Engel.” continuò Kurt, sfiorandole le labbra e facendosi sempre più vicino fino ad avvicinare il viso al suo. “Credimi, amore mio …” aggiunse l’uomo, quasi in un sussurro di preghiera “… non ci sei che tu nella mia vita.” La stanza diventava sempre più calda e le loro labbra erano sempre più vicine, mentre i battiti dei loro cuori si rincorrevano all’impazzata e i loro respiri si univano affannati in un sol sospiro di tremore. Engel rabbrividì al lieve bacio di Kurt: quasi ne aveva dimenticato il sapore. “Non aver paura, fidati di me.” Forse fu la dolcezza di queste parole appena sussurrate oppure il tocco caldo di quel bacio a labbra socchiuse e tremanti a risvegliare in lei il desiderio di ricominciare per davvero e di abbandonarsi di nuovo tra le braccia di suo marito. Le loro labbra si unirono finalmente in un bacio appassionato e le loro mani ripresero ad accarezzare dopo un tempo che era sembrato un’eternità. I bicchieri si rovesciarono e il vino disegnò una grossa macchia sul tappeto, nell’indifferente frenesia di due corpi desiderosi di rincontrarsi.

 

Berlino ovest

 

Nadine si tolse il cappotto rosso e, guardandosi attorno con espressione sempre più allibita, lo mise sulla sedia dove giaceva ancora il suo vestito a pois, ricordo dell’ultima notte insieme. Si sfilò le scarpe ed emise un lieve sospiro di stanchezza. “Questa casa è un completo disastro.” disse, stiracchiandosi un po’ mentre Werner poggiò la valigia sul letto. “Lo so ma senza di te avevo perso ogni cognizione. Domani penserò io a mettere tutto a posto.” ribatté l’altro e la donna, sorridendo in modo quasi ironico, sedette ai piedi del letto. “Non basterebbe un’impresa di pulizie.” scherzò Nadine per sdrammatizzare quella strana sensazione di disagio che stava provando. C’era un qualcosa che le impediva di sentirsi finalmente a casa e quel qualcosa non era di certo il disordine che aveva reso la casa irriconoscibile. Il pensiero che suo marito non si fidasse di lei continuava ad opprimerla e a tenerla legata a un forte dolore. Sobbalzò quando Werner, senza preavviso, aprì la bottiglia di spumante. “Nessun’ombra del passato dovrà più oscurare la luce del nostro amore.” disse, porgendole il bicchiere. Ma gli occhi di Nadine erano ancora velati di una tristezza che celava quel desiderio di ricominciare. Le prese il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, quegli occhi tanto accesi di determinazione, e poi avvicinò la fronte alla sua. Il “ti amo” di Werner fu un sussurro veloce che si perse tra le labbra socchiuse di Nadine e scivolò dritto nel suo cuore. A quel “ti amo”, appena sussurrato ma fermamente deciso, la donna rispose abbandonandosi in un bacio appassionato. Si ritrovò sdraiata sul letto, con il corpo a pochi centimetri da quello di suo marito e, con un fil di voce, disse: “Ricominciamo.” “Da dove eravamo rimasti?” fece Werner, alludendo all’ultima notte insieme. “No, da qui …” ribatté Nadine “… Perché il tempo che abbiamo vissuto lontani l’uno dall’altra non può essere stato vano e deve averci insegnato qualcosa …” gli prese il viso e lo guardò profondamente “… Devi fidarti di me.” “E tu?” “Devo imparare ad essere meno impulsiva.” “Non da adesso spero.” concluse l’uomo con tono ironico e i loro sorrisi si unirono in un lento e interminabile bacio appassionato.

 

Vivere ed amarsi

Vivere e lasciarsi vivere

Riconquistarsi come l’ultima volta

In questa vita che ha fretta

Riapriamo ancora una porta

E raddrizziamo la rotta

Per vivere che giorno è

 

Marco Masini, Che giorno è

 

 

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Capitolo 25
*** Come un’unica famiglia ***


Capitolo 25

 

Come un’unica famiglia

 

“Pensa a tutta la bellezza ancora intorno a te e sii felice”.

Anna Frank

 


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Immagine dal film “L’incredibile vita di Timothy Green”

 

Città di Fürstenberg/Havel, 29 giugno 1955

 

Le dieci candeline dell’enorme torta che avanzava lentamente lungo il corridoio illuminavano il volto sorridente di Nadine, pronta ad intonare la canzoncina di buon compleanno per il suo Andrej. Il lungo applauso degli invitati accompagnò il forte soffio del bambino sulle candeline mentre l’abbagliante flash della macchina fotografica di zio Kurt immortalava quel momento felice. Le luci della sala da pranzo furono riaccese, rivelando larghi sorrisi e sguardi luminosi e i colori sgargianti dei vestiti delle signore. Seguì un altro fragoroso applauso quando Werner stappò la bottiglia di spumante e un altro ancora quando Andrej, guidato dalla mano di sua madre, iniziò a tagliare la torta. La prima fetta, quella più grande, fu per zia Edith e la seconda per suo marito Yonathan. Due anni prima, la cugina di Nadine aveva conosciuto e, subito dopo, sposato un bellissimo ragazzo dai capelli fulvi e gli occhi verdi, anche lui miracolosamente sopravvissuto all’orrore della Shoah. La loro storia d’amore era nata tra le testimonianze ad un convegno organizzato per contrastare quello che qualche anno dopo sarebbe stato chiamato Negazionismo[1] e stava per essere coronata dalla nascita di una bambina … rossa come suo padre, sperava Edith. Un lieto fine che non era ancora toccato a zia Käthe e a suo figlio Radolf, adesso dodicenne. L’anno precedente, la sorella di Kurt aveva incontrato un uomo dolce, gentile, sensibile che sapeva bene come farla sentire importante, protetta, amata e al quale veniva naturale comportarsi da padre verso il ragazzino. Ma l’epilogo di questa favola non era stato “E vissero felici e contenti” perché, come la prima volta, il principe azzurro si era trasformato nell’orco cattivo e il sogno era diventato un incubo dal quale doversi svegliare prima che fosse troppo tardi. Al secondo schiaffo, memore delle cicatrici del suo passato che ancora le bruciavano nell’anima, Käthe seppe dire basta e scappare da quell’amore sbagliato. Adesso non era più sola, aveva l’affetto di una famiglia che le dava la forza di volersi bene e aspirare al meglio per la propria vita e, questa volta, fu più facile per lei ricominciare a sorridere. Con un sorriso a trentadue denti, prese il bicchiere di spumante che le aveva offerto Werner. La vita dell’uomo procedeva abbastanza serena e appagata nei suoi quarant’anni da un matrimonio che andava a gonfie vele e un lavoro che lo gratificava e permetteva alla sua famiglia un certo benessere economico. Nel ’52, mentre tantissime persone abbandonavano la Germania dell’Est per fuggire a Berlino Ovest in cerca di libertà nella Germania Federale[2], lui e Nadine decisero di fare ritorno nella città di Fürstenberg/Havel. Tra i due non c’erano più state grandi incomprensioni e, con il passare degli anni, il loro amore si era consolidato maturando sempre di più. Werner era cresciuto nella fiducia in se stesso vincendo le sue paure e, senza fare troppe storie, aveva condiviso la scelta di sua moglie di accettare la proposta di lavoro di Kurt. Quest’ultimo non rappresentava più un rivale ma adesso era diventato un amico, quasi il fratello che non aveva mai avuto. A lui non nascose le lacrime quando la vita gli presentò un altro dolore e riaprì crudelmente una ferita che mai si sarebbe rimarginata. Suo padre, il dottor Günther, fu processato per crimini di guerra e condannato a morte per aver partecipato al programma nazista di eutanasia[3]. Prima che la pena venisse commutata in ergastolo, credendo che quelli fossero gli ultimi giorni di vita di suo padre, Werner tentò un riavvicinamento. Anche se l’aveva disconosciuto come figlio, anche se durante la guerra si era macchiato di crimini contro l’umanità più debole e indifesa, quell’uomo rimaneva sempre e comunque suo padre e pensarlo vicino alla morte gli lacerava ugualmente il cuore. Sostenuto dalla comprensione di Nadine, andò a trovarlo in carcere ma suo padre non era cambiato: nessun segno di ravvedimento traspariva dai suoi occhi per i quali Werner continuava ad essere un estraneo. Il loro incontro durò meno di un minuto, il tempo necessario per infliggere altro dolore a un figlio che il dottor Günther non considerava più come tale. Lo rinnegò di nuovo ma furono le parole che seguirono a fargli ancora più male; parole di rabbia scandite lentamente, a pugni stretti per esprimere fermezza, guardandolo negli occhi affinché potessero penetrare bene nella sua mente e ferirlo per punire la sua scelta di cambiamento: “So benissimo perché sei qui ma non posso darti quello che cerchi. Se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto e mille volte ancora.” disse suo padre. E quegli occhi verdi, così infuocati di odio ma tanto uguali ai suoi, ricordavano a Werner chi era stato durante la guerra; la complicità del suo silenzio, la codardia del suo conformismo, il suo assistere ad esperimenti e mutilazioni di una medicina che avrebbe dovuto curare anziché portare alla morte, le migliaia di persone passate cadaveri davanti all’indifferenza dei suoi occhi, ciechi a quel tempo. Dopo lo smarrimento iniziale, seppe rialzarsi prima che i sensi di colpa lo facessero sprofondare di nuovo nell’abisso della disperazione e allontanare dalla sua vita presente: lui non era più quel ragazzo, inconscio del male, succube di suo padre e dell’ideologia nazista e adesso aveva una famiglia, una moglie, un figlio ancora piccolo che aveva bisogno della sua protezione e della sua serenità. Per Andrej dovette farsi forza e tornare a sorridere anche dopo l’ennesimo dolore. Werner rivide sua madre soltanto una volta, prima che il cancro la portasse via, ma in lei si era ormai spenta quella luce che un tempo brillava nei suoi occhi e traspariva dal suo sorriso. In lei l’abbraccio e le lacrime di suo figlio non riuscirono a risvegliare quell’amore materno, scomparso nelle pieghe di un cuore troppo accartocciato dal risentimento. Neanche in punto di morte la signora Günther volle conoscere il suo nipotino. “Ma è bellissimo! Grazie zio Kurt!” esclamò Andrej carico di entusiasmo, dopo aver scartato il regalo di Kurt: uno dei primissimi modelli di macchinina telecomandata a filo. Il ragazzino corse felice verso l’uomo e si tuffò in un abbraccio riconoscente. In quegli anni, la vita di Kurt aveva finalmente trovato il suo equilibrio, superando pian piano le ferite del passato e maturando nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Alla direzione del giornale e dalla responsabilità che ne derivava, l’uomo – alla soglia dei quarant’anni – aveva iniziato a comprendere suo padre e il suo essere spesso di cattivo umore e, dai suoi errori, aveva imparato a lasciare il lavoro fuori alla porta di casa. Nel ’53, decise di tentare altre operazioni facciali ma, nonostante gli sforzi di Werner, i risultati non furono quelli che aveva sperato. Dovette allora intraprendere un percorso interiore per arrivare ad accettarsi per ciò che era diventato e ci riuscì, fino a portare con orgoglio quelle cicatrici, per se stesso e per tutti coloro che avevano lottato contro l’odio razziale e vinto … e per Nadine. Rimessi in ordine i pezzi della sua vita e i suoi affetti, Kurt ritrovò in lei un’amica e con Werner acquisì un fratello, fu risanato completamente il suo rapporto con Engel e cominciò a vivere appieno la sua paternità. Adesso poteva essere felice. Andrej, incoraggiato da Nadine, corse a ringraziare con un bacio anche zia Engel e Brigit, che arrossì; poi tornò da sua madre per mostrarle con fervore quel giocattolo speciale e, insieme a lei, scoprirne le funzioni. Rideva Nadine, ritornando bambina insieme a suo figlio. Rideva di gusto, con la spensieratezza di una gioventù riconquistata. Rideva, per un amore consolidato e sempre in crescente e per quella famiglia unita e felice che tutti insieme avevano costruito. Rideva di vera gioia, mentre la guerra e i suoi orrori sembravano un ricordo lontano. Nadine era riuscita a dimenticare. Un dimenticare che non significava cancellare dalla memoria l’incubo di Ravensbrück ma ricordare senza permettergli di farle ancora del male. Un dimenticare che non le impediva di raccontare nella pagina del giornale di Kurt a lei affidata la verità dei soprusi inflitti a migliaia di donne e bambini. Un dimenticare che però non aveva ancora il significato del perdono: a questo Nadine ci sarebbe arrivata più tardi. Adesso indossava disinvolta un vestito con stampa floreale a maniche corte, mostrando senza più vergogna il numero inciso sul suo braccio, da marchio di schiavitù a distintivo di forza. Lei aveva resistito, combattuto e vinto, ricevendo come premio una nuova vita e non poteva che esserne fiera. Abbracciò suo figlio e si rivolse verso Kurt, pronto a scattare un’altra fotografia. La vita era un dono meraviglioso e lei aveva imparato a sorriderne di ogni attimo. Il flash si accese, immortalando la tenerezza dell’abbraccio tra madre e figlio mentre Nadine continuava a ridere, godendo di quel momento di vera felicità.

 

Può stupirci ancora tante volte

questa vita è forte

trova le risposte.

E tanto dimentico tutto

dimentico tutti

i luoghi che ho visto, le cose che ho detto,

i sogni distrutti.

La storia non è la memoria ma la parola

non vedi che cosa rifletti

sopra un mare di specchi si vola.

 

Emma, Dimentico tutto



[1]Il Negazionismo è una teoria che nega la realtà storica degli avvenimenti legati al nazismo secondo la quale l’Olocausto sarebbe un’enorme finzione per screditare la Germania e avvantaggiare lo Stato d’Israele.

 

[2]Nel 1952 il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso e l’attrazione dei settori occidentali di Berlino per i cittadini della Germania Democratica iniziò ad aumentare. Tra il 1949 e il 1961 fuggirono circa due milioni e mezzo di persone e i dirigenti della Germania dell’Est trovarono un rimedio nella costruzione del Muro di Berlino (13 agosto 1961-9 novembre 1989), simbolo di una nazione divisa in un mondo ancora oppresso.

 

[3]Riferito all’Aktion T4 che, sotto responsabilità medica, prevedeva l’uccisione sistematica di persone affette da malattie genetiche inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. Le vittime furono circa duecentomila persone.

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Capitolo 26
*** L’ora della verità ***


Capitolo 26

 

L’ora della verità

 

- I figli e le ferite del passato -

 

“I figli non conoscono la vita dei loro genitori. Quando sono giovani, non ci pensano perché il mondo è cominciato con loro. I loro genitori non hanno storia e hanno la brutta abitudine di parlare ai figli soltanto del futuro, mai del passato. È un grave errore. Non parlare del passato li rende simili a dei buchi spalancati”.

Jean Michel Guenassia

 


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Immagine dal film “Rudderless”

 

Città di Fürstenberg/Havel, 30 giugno 1962

 

Nadine rimase seduta sul divano, inerme e sconvolta, a fissare con le lacrime agli occhi il tavolino ribaltato e i cocci di vetro sparsi sul pavimento, conseguenza di un’improvvisa verità: Andrej, diciassettenne, aveva scoperto per puro caso di essere stato adottato. Rovistando in soffitta alla ricerca spensierata della sua prima macchinina telecomandata, si era tragicamente imbattuto nella scatola in cui erano nascosti i documenti dell’adozione. Dopo lo shock e l’incredulità iniziali, la prima reazione fu di rabbia. “Avete fatto della mia vita un’intera bugia!” aveva urlato ai suoi genitori, prima di lanciare tutto in aria e andare via sbattendo la porta. Un gesto improvviso, violento, inaspettato da parte di un ragazzo tranquillo e gentile come Andrej. Un colpo al cuore per Nadine che, come un peso morto, si lasciò cadere sul divano mentre Werner gli corse dietro, pregandolo di fermarsi e ascoltare le loro motivazioni ma inutilmente. Con gli occhi pieni di lacrime e la testa come se volesse esplodere, sordo alle parole supplichevoli e sempre più ansimanti di suo padre, il ragazzo accelerò la sua corsa e Werner dovette arrendersi. A testa bassa e senza più fiato, frastornato da quella situazione imprevista che aveva reciso il loro equilibrio familiare, l’uomo tornò a casa da sua moglie e la trovò ancora lì, seduta immobile sul divano, con lo sguardo perso nel vuoto dell’angoscia. Quante volte avevano tentato di raccontare ad Andrej la verità delle sue origini e del loro passato ma il coraggio era mancato. Quante volte avevano provato quel discorso alla ricerca delle parole migliori da dire e dei possibili atteggiamenti da assumere ma il momento non era mai quello giusto. Era sempre troppo presto ed Andrej non abbastanza grande per comprendere la sua e la loro storia e portare il peso degli sbagli di un’intera umanità. Volevano proteggerlo dal dolore che la scoperta della verità nei suoi tragici dettagli gli avrebbe procurato. Ma forse questa era soltanto una giustificazione per proteggere se stessi dai fantasmi del passato e dalla paura di perdere il loro bambino, la propria genitorialità. E adesso il senso di colpa per aver sbagliato tutto li aveva colpiti come un pugno allo stomaco. Si scambiarono un rapido e intenso sguardo atterrito, rassegnato, carico di rimorso per poi piangere di nascosto l’uno dall’altra il proprio dolore. Arrabbiato con se stesso, Werner si chiuse nella camera da letto sbattendo la porta mentre Nadine rimase sul divano, con la testa china e le braccia incrociate sul ventre, svuotata, strappata dell’amore di un figlio tanto desiderato. Entrambi consapevoli che l’uno non avrebbe capito il dolore dell’altra, così diverso e così uguale.

 

Werner uscì dalla stanza e, con le braccia conserte e lo sguardo cupo di preoccupazione, osservò le dita di Nadine indugiare sulla cornetta del telefono prima di sollevarla e comporre tremanti il numero di Kurt: era da lui che Andrej era solito rifugiarsi dopo un litigio con i genitori o un problema a scuola, nella certezza mai delusa di ricevere dal suo zio preferito una parola giusta di conforto e incoraggiamento. Almeno fino a quel momento. Era bastata una sola e semplice parola di Kurt, un “pronto” appena sussurrato con voce flebile e spezzata di lacrime trattenute a far capire subito a Nadine che qualcosa non era andata per il verso giusto. Questa volta il caro zio non era riuscito a consolare Andrej ma in compenso aveva ferito un altro giovane cuore, quello di sua figlia, il cuore di Brigit. Alla rabbia del ragazzo contro i suoi genitori, Kurt aveva risposto rivelando a sua figlia che anche lei era stata adottata. Una verità scagliata veloce come una freccia, quasi per sbaglio, ma subito sospesa a mezz’aria perché alle domande di Brigit rispose il silenzio di un padre paralizzato dai ricordi di un passato troppo difficile da raccontare, doloroso da rivivere. “Adesso non so più chi sono.” aveva biascicato la ragazza fra le lacrime tormentandosi le mani e la freccia scavava i cuori di entrambi unendoli nello stesso, seppur diverso, dolore. Kurt non riuscì a riempire quei buchi che lui stesso aveva spalancato e lasciò che la persona più importante della sua vita scappasse via, confusa e tradita. Solo Engel tentò di persuadere i due giovani ma inutilmente. Brigit ed Andrej fuggirono insieme portandosi dietro i loro bagagli di rabbia e delusione. “Mi dispiace, Nadine.” disse Kurt e non poté più trattenere le lacrime. Pianse con lei, quell’amica che aveva sempre capito e condiviso i suoi dolori. E ora più che mai.

 

Spreewald[1], 3 luglio 1962

 

“Proviamo a ragionare un attimo …” ribatté Brigit gesticolando nevroticamente, seduta a gambe incrociate su una vecchia poltrona “… Siamo rinchiusi da due giorni in questa topaia. Non sappiamo dove andare. Non abbiamo un soldo. Per quanto tempo ancora riusciremo a scappare dalla nostra vita?” Andrej rimase di spalle con le mani poggiate sui fianchi e, con un ghigno sarcastico, disse: “Sì, una vita costruita sulle bugie.” I due giovani avevano trovato rifugio in una baracca abbandonata vicino alla palude e iniziavano a mettere in discussione la loro scelta, Brigit palesemente mentre Andrej non ammetteva nemmeno a se stesso il suo ripensamento. “A me manca quella vita e manca la mia famiglia. Loro sono la mia famiglia e mi fa stare male pensarli in angoscia per me …” riprese la ragazza con voce sempre più spezzata ma sicura “… Ho deciso di tornare a casa perché non posso continuare a nascondermi da una verità che neanche conosco, non posso dimenticare tutto l’amore che mi è stato dato per diciassette anni. Ho bisogno di avere delle risposte ai miei tanti perché, ho bisogno di conoscere le mie radici e togliermi dal petto questa terribile sensazione di vuoto.” Le parole di Brigit erano un fiume in piena che spingeva sugli argini del risentimento nel cuore di Andrej, che restava immobile ma con le braccia lungo i fianchi di una decisione ormai compromessa. “Tu fai quel che vuoi ma io torno a casa.” concluse la ragazza, prima di alzarsi con uno scatto e uscire di corsa. “Brigit!” urlò Andrej.

 

Città di Fürstenberg/Havel

 

Nadine accompagnò i poliziotti alla porta e, per l’ennesima volta, li ringraziò scusandosi per il disturbo. “È il nostro dovere.” rispose uno dei due agenti con voce ferma e lasciarono prontamente l’uscio. Con estrema lentezza, la donna chiuse la porta: era stanchissima. Tutto il suo corpo tremava, ancora scosso dalle ore di preoccupazione e angoscia; le gambe non la reggevano più in piedi per i chilometri percorsi alla ricerca di suo figlio e di Brigit e l’incedere avanti e indietro per la casa; i suoi occhi bruciavano di sonno perso e lacrime versate e la testa sembrava esploderle per quel rincorrersi frenetico di pensieri e quel groviglio di ricordi che, a breve, avrebbe dovuto districare. Raccontare ad Andrej la verità le faceva paura. E lui era lì, seduto sul divano del soggiorno, con le gambe accavallate “a quattro” e le braccia incrociate, lo sguardo risentito e ostile come quello di Brigit che gli sedeva accanto ma con gli occhi coperti anche da un velo di lacrime. I due ragazzi avevano deciso di condividere il momento più drammatico e significativo della loro vita, insieme come se già sapessero di essere i protagonisti di una verità che accomunava e univa la vita dei loro genitori adottivi. Nadine non aveva dubitato nemmeno per un istante che ad interrompere quel silenzio, alternato ai deboli sospiri di Engel e ai vani tentativi di Kurt e Werner, sarebbe stata proprio lei. Anche questa volta le toccava essere forte, vestire la maschera del coraggio e prendere in mano una situazione che nessuno avrebbe smosso. Quanto le costava strapparsi quel peso dal petto, vincere quel nodo che le stringeva la gola, vincere se stessa per addossare il fardello del suo passato sulle spalle di due giovani figli, ferire e ferirsi. Ma quel dolore era necessario per risanare gli affetti e ricucire un equilibrio strappato dalla scoperta di verità taciute o dette a metà. Quelle parole avrebbero distrutto e ricostruito allo stesso tempo. “Andrej, ti ho sempre raccontato di essere stata a Ravensbrück soltanto durante l’ultimo anno di guerra ma ti ho mentito. Sono stata a Ravensbrück per ben cinque anni. Era il 2 luglio del ’39 e avevo appena compiuto diciannove anni …”

 

Tra di noi

non ci sono più ingannevoli parole

ma il mormorio degli anni

come onde che si infrangono nel sole.

 

Tiromancino, Tra di noi

 



[1]La Foresta della Sprea è una regione paludosa situata a sud-est di Berlino e attraversata dal fiume Sprea. È caratterizzata da canali, fiumi, paludi e foreste.

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Capitolo 27
*** Il frutto della verità - Prima parte - ***


Capitolo 27

 

Il frutto della verità

 

- Prima parte -

 

“Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi”.

Massimo Gramellini


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Immagine dal film “Padre e figlio”

 

Sarebbe stato molto meglio non sapere e andare avanti restando nell’oblio, piuttosto che fare i conti con un passato così doloroso, disperato, devastante, quasi surreale nella sua crudezza. Una delle pagine più buie della storia dell’umanità non era più muto inchiostro sui libri di scuola ma adesso aveva voci e mani tremanti, volti inquieti e occhi velati di lacrime. Le immagini sfocate viste alla televisione diventavano carne e respiro attraverso le parole di coloro che fino a qualche giorno prima erano i loro genitori. Parole che nei loro giovani cuori alimentavano sentimenti opposti di compassione e risentimento. Il tragico racconto del loro vissuto, dal quale non riuscirono neanche a cogliere il sottile filo di speranza che lo attraversava, non fu sufficiente a spazzare via la rabbia e la delusione per le tante bugie dette e le verità taciute per troppo tempo. Verità al cui ascolto i due giovani avrebbero voluto tapparsi le orecchie, urlare, sparire. Ma per Andrej la verità più difficile da metabolizzare, il boccone più amaro da ingerire fu la scoperta del passato nazista di suo padre. Werner, che fino a due giorni prima credeva suo padre, il suo eroe, il dottore buono che aiutava i pazienti più bisognosi, era in realtà un medico della morte e il suo vero nome sapeva di paura e angoscia, di prigionia e ingiustizia, di vite crudelmente spezzate. Günther era un sinonimo di Aktion T4, di programma nazista di eutanasia, di duecentomila vittime tra le persone più deboli e indifese. La maschera si era sciolta al calore di una verità che bruciava, rivelando che quell’uomo non era suo padre e soprattutto non era la persona che conosceva. Anzi faceva parte della foltissima schiera di criminali che molto probabilmente lo avevano reso orfano. A quest’ultimo pensiero, Andrej non riuscì più a trattenere il senso di nausea che gli aveva attanagliato la gola, lo stomaco, le viscere in quegli interminabili e strazianti minuti. Corse in bagno. Le sue certezze non erano altro che bugie mascherate, i suoi genitori dei perfetti sconosciuti che avevano recitato in modo impeccabile una parte lunga diciassette anni e lui non sapeva più chi fosse. Intanto, Brigit sollevò le ginocchia sul divano e vi nascose il viso scoppiando in un pianto dirotto, disperato, inconsolabile. Mai come in quel momento si era sentita così sola e smarrita, privata della più piccola, scontata e fondamentale certezza: essere figlia di un padre e una madre di cui fidarsi, in cui credere, a cui appoggiarsi e da qui, dalle sue stabili radici, avere la consapevolezza di se stessa. Tutto era perso, lei si era persa.

 

Brigit adagiò il mazzo di fiori sul marmo grigio. Chinandosi, un ginocchio ne sfiorò il freddo e una lacrima fuggitiva vi trovò riposo. I pensieri rallentarono la loro corsa, lì dove il tempo si ferma per continuare nell’eternità. Lì dove sua madre e suo padre, Anja e Karl, sarebbero stati per sempre quei due ragazzi di sedici e diciotto anni, coraggiosi e testardi, generosi e imprudenti, sognatori ribelli con la speranza e la pretesa di poter cambiare il mondo. Ragazzi, come lo era anche lei con i suoi diciassette anni, ma con una maturità diversa, con ragionamenti, espressioni, atteggiamenti, gesti diversi, ben lontani dalla spensieratezza e i capricci di una vita le cui maggiori preoccupazioni erano prendere bei voti e indossare bei vestiti. Il velo di lacrime divenne più spesso, impedendole di fissare in modo nitido i nomi e le date incisi sulle targhette bianche, scurite dal tempo e, in uno scatto veloce, cercò le mani dei due angeli che la affiancavano, Engel e Kurt, i suoi genitori. Una richiesta di conforto, uno slancio di affetto, di riconoscimento, di rimorso verso coloro che l’avevano cresciuta, guidata, supportata dandole il meglio e anche il superfluo. Le lacrime scivolarono veloci sul suo viso stanco e, lì dove tutto sembra finire inesorabile e senza speranze, un abbraccio infinito, che sapeva di riconciliazione e consapevolezze rinnovate, diede vita ad un nuovo inizio.

 

I nazisti erano tutti scomparsi, dissolti nel nulla. Gli 8,5 milioni di iscritti al Partito nazista si nascondevano alle coscienze, complice la collettiva ed euforica speranza nella democrazia, nella ricostruzione, nel boom economico, in un divertimento che era solo di facciata. Presi dal presente e protesi verso il futuro, nessuno si poneva domande sul passato, nessuno ricordava. D’altra parte, anche lui non si era mai posto domande sul passato di Werner, convinto della sua estraneità ai crimini nazisti. Per Andrej suo padre era sempre stato un cittadino inconsapevole, un medico innocente, o tutt’al più un oppositore travestito da conformista. La scelta di sposare una ragazza ebrea sopravvissuta a un campo di concentramento non aveva fatto altro che confermarlo nella sua convinzione. E i suoi pensieri andarono a lei, a Nadine: come aveva potuto accettare di trascorrere il resto della propria vita accanto ad un nazista, pentito ma pur sempre colpevole, donarsi a mani complici delle crudeltà subite e degli affetti strappati? Come poteva l’amore andare oltre i ricordi, le sofferenze, il rancore, le brutture dell’altro, le proprie origini … oltre se stessa? Questi interrogativi riavvicinarono Andrej a sua madre adottiva e capì che la risposta era racchiusa nella domanda stessa, nell’inesplorabile mistero dell’amore. Sfogliare tra le pagine del cuore di Nadine, pur non comprendendo appieno, entrare nell’intimità dei suoi sentimenti, fu la prima toppa su un legame strappato e gli permise di aprirsi di nuovo con lei. “Ho deciso di mettermi alla ricerca dei miei genitori. Tu, Kurt, Edith, Yonathan e tanti altri ce l’avete fatta e posso ancora sperare di trovarli in vita e conoscerli …” le confidò ma Nadine non ne rimase sorpresa, aspettandosi da giorni questo colpo “… Mi aiuterai?” Aiutarlo significava rischiare di perderlo e il suo cuore di madre piangeva di tristezza. “Non posso farlo da sola.” rispose e, proprio in quel momento, Werner si affacciò alla porta della stanza. Andrej gli rivolse uno sguardo più rabbonito: aveva bisogno anche di lui.

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Capitolo 28
*** Il frutto della verità - Seconda parte - ***


Capitolo 28

 

Il frutto della verità

 

- Seconda parte -

 


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Immagine dal film “Padre e figlio”

 

Lago di Schlachtensee, 1 settembre 1962

 

L’acqua del lago brillava al sole, ancora alto e caldo nel cielo limpido di un pomeriggio di inizio settembre. Le ore che preferiva. Il silenzioso fruscio degli alberi, il flebile cinguettio degli uccelli, il melodioso e ritmico sussurro delle onde che accarezzavano le sponde facevano da cornice ai suoi pensieri. Nadine si sentiva sola e ricercava la solitudine nella quiete del suo rifugio. Era uscita di casa senza lasciare neanche un biglietto ma Werner sapeva bene dove avrebbe potuto trovarla. Davanti ai suoi occhi socchiusi dal vento leggero era fissa l’immagine di una valigia aperta sul letto e nel suo cuore si annidava la rassegnazione per l’imminente e definitiva separazione. Il giorno seguente, Andrej sarebbe partito alla volta di Cracovia per conoscere il suo padre biologico, un ebreo polacco sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, lì dove invece sua madre si era spenta alcuni giorni dopo averlo dato alla luce e affidato al generoso coraggio di un’infermiera. Werner lo avrebbe accompagnato in questo viaggio. Tra lui e Nadine si era innalzato un muro di silenzio per la mancata comprensione e condivisione del dolore che li attanagliava. Per Nadine erano incomprensibili, quasi irritanti la calma, la pazienza, la forza, la determinazione di suo marito nella ricerca dei genitori naturali di Andrej, confondendo questo atteggiamento con un sentimento di distacco mentre Werner non riusciva a capire la passività di sua moglie, scambiandola per una forma di egoismo verso il loro figlio. Al dolore aggiungevano altro dolore. Il vento soffiava un po’ più forte sul lago e tra i suoi capelli mentre il tempo scorreva, avvicinando inesorabilmente il momento del distacco. Diciassette anni prima per amore aveva accolto Andrej nella sua vita, ricercando inizialmente la propria felicità nella realizzazione di sé come madre e adesso per amore avrebbe dovuto lasciarlo andare via, desiderando soltanto il suo bene e la sua felicità. “Nadine!” Una voce familiare la raggiunse come un sussurro lontano. Non si volse e si limitò ad ascoltare il suono dei passi che si avvicinavano schiacciando rami secchi, ciottoli e foglie cadute. “Werner!” Quando fu troppo vicino dovette alzare lo sguardo e abbozzare un lieve sorriso. “Sapevo che ti avrei trovato qui.” Seppur pacata, dalla voce di Werner si percepiva un tono di rimprovero. Nadine rispose con un debole sospiro mentre suo marito le sedette accanto. “Non ti sei presentata a lavoro e sei sparita senza lasciare neanche un biglietto. Anche Kurt era in pensiero per te.” Il rimprovero si palesò nella voce più decisa. Nadine sbuffò, alzando gli occhi al cielo e provocando la reazione di Werner. “Credi di essere l’unica a soffrire per questa situazione?” disse spazientito, costringendo i loro sguardi ad incrociarsi. Da troppo tempo la donna non rifletteva il volto di suo marito: la luce del sole rivelava tanti altri fili d’argento fra i suoi capelli biondi; nuove, piccole rughe sottolineavano gli angoli dei suoi occhi verdi, tristi e stanchi di lacrime più amare. Lo guardò con uno sguardo diverso, quello di un tempo, capace di entrare nei suoi sentimenti e provarli sulla propria pelle e capì che forse proprio lui avrebbe avuto la parte peggiore in quella situazione. Gli aprì di nuovo il cuore e si spogliò di quell’inconfessato egoismo. Nadine non era più sulla difensiva e, sotto il velo di lacrime che le copriva gli occhi, Werner riuscì a scorgere la sua paura e il suo smarrimento. Lasciò che la tenerezza gli accarezzasse il cuore e, con uno slancio improvviso, strinse fortemente a sé la donna amata, persa e ritrovata. Entrambi scoppiarono in un pianto più eloquente di mille parole e in quell’abbraccio, così forte quasi da togliere il respiro, svanì ogni ombra di rancore. Tra le braccia l’uno dell’altra ritrovarono la cura al loro dolore e, tra le note dei loro cuori che di nuovo vicini battevano all’unisono, la forza per affrontarlo. Il muro era stato abbattuto.

 

Cracovia, 2 settembre 1962

 

Il viaggio durò una vita intera. Guidava Werner, tenendo gli occhi fissi sulla strada e il cuore rivolto ai momenti trascorsi con suo figlio Andrej: i giochi, le passeggiate in bicicletta, le feste comandate, i pomeriggi al lago nel buffo tentativo di pescare, le risate, le sgridate, i primi conflitti, i silenzi, le giornate da raccontarsi a tavola … la quotidianità di una famiglia come tante. Negli ultimi mesi si era fatto in quattro, sacrificando tempo e denaro, per strappare alla propria vita il bene più grande. Diventare padre lo aveva fatto crescere come uomo. Il pensiero di dover essere forte e superare le ferite del passato per un altro, più fragile e bisognoso di cure, lo aveva realmente rafforzato e guarito. Lo aveva cambiato. Nadine ne era stato il motivo mentre Andrej il fine. Con l’animo in preda a sentimenti contrastanti, Werner non sapeva se augurargli un incontro deludente o un riavvicinamento positivo con tanto di lacrime e abbracci. Non voleva perderlo ma nemmeno vederlo soffrire e un po’ temeva per ciò che avrebbe potuto trovare dietro quella porta dal momento che, in diciassette anni, quell’uomo non aveva neanche provato a cercarlo. Anche se teso, Andrej sembrava ottimista. “Ecco, siamo arrivati.” fece Werner con voce strozzata, parcheggiando l’automobile davanti a un palazzo di nuova costruzione. Lo guardò di sottecchi: Andrej indugiava ad uscire, tormentandosi le mani a testa bassa. Dopo qualche secondo, ricambiò lo sguardo e ruppe un silenzio lungo due mesi. “Grazie per tutto quello che hai fatto per me in questi mesi. So che non è stato facile. E per tutto ciò che mi hai dato in questi anni. Dopotutto sei stato un buon padre.” disse, con un’aria quasi di sufficienza. Ma Werner non si aspettava così tanto e ne fu commosso. Riuscì a biascicare solo un “grazie”, trattenendo con un sorriso le lacrime, mentre Andrej apriva lo sportello e lo guardò sparire velocemente nella penombra del portone.

 

Al primo gradino Andrej si fermò: si era reso conto di non aver preparato nessun discorso. Sentì il cuore battere un po’ più forte e la sicurezza sulla sua capacità di improvvisare al momento venir meno. Fermò ancora il suo incedere lento e volse lo sguardo all’ultima rampa di scale. I gradini sembravano altissimi e non avere mai fine, grosse gocce di sudore gli grondavano dalla fronte aggrottata per la tensione e diede il nome di paura a quel brivido freddo che gli percorreva la schiena. Era la paura di un rifiuto, di una porta chiusa in faccia e al tempo stesso di un ricongiungimento, di un cambiamento improvviso nella sua vita. Ma si fece forza e, trascinando i piedi pesanti, continuò a salire. Il desiderio di conoscere il suo vero padre e il bisogno di riconoscere in lui la propria identità erano troppo forti. Esitando per qualche secondo, bussò alla porta con mano come addormentata e la persona che cercava gli fu subito davanti. Era lui, era suo padre quell’uomo sulla quarantina dalla corporatura esile e l’altezza regolare, con gli occhi azzurri e i capelli castani e l’espressione stravolta di chi ha visto un fantasma. Sembrava averlo riconosciuto. “Hai sbagliato a venire fin qui.” disse con voce autorevole ma Andrej non capì. “Sai chi sono? Mi hai riconosciuto?” domandò confuso, portando le mani al petto. “È meglio che vai via.” ribatté l’altro più ostile, tentando di chiudere la porta che il giovane prontamente bloccò. “Perché non ritorni dalla tua bella famiglia nazista?” infierì l’uomo con sarcasmo mentre Andrej picchiò i palmi delle mani contro la porta. “No! Adesso ho bisogno di spiegazioni! Perché mi hai cercato?! Perché non mi hai ripreso con te se non volevi che crescessi con loro?!” “Non farti illusioni. Ti ho cercato soltanto per assicurarmi che il sacrificio della mia povera moglie non fosse stato vano e poi tu non fai più parte della mia vita.” rispose con tono più rabbonito e intanto dall’interno della casa si udì una voce di donna. “Caro, chi era alla porta?! Dovresti venire a darmi una mano a fare il bagnetto ad Andrej!” Quei secondi di silenzio sembrarono eterni. “E allora perché l’hai chiamato come me?” esordì il giovane atterrito e negli occhi dell’uomo si accese un luccichio di commozione che subito scomparve. “Vai via o chiamo la polizia.” concluse ed Andrej gli permise di sbattergli la porta in faccia.

 

Avrai avrai avrai

il tuo tempo per andar lontano,

camminerai dimenticando, ti fermerai sognando.

Avrai avrai avrai

la stessa mia triste speranza

e sentirai di non avere amato mai abbastanza.

Se amore amore amore avrai.

 

Claudio Baglioni, Avrai

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Capitolo 29
*** Padre, madre ***


Capitolo 29

 

Padre, madre

 

“Ogni genitore è in un determinato momento il padre del figliol prodigo, senza nulla da fare che non tenere la sua casa aperta alla speranza”.

John Ciardi

 


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Andrej rimase a fissare la porta chiusa, inerme, sconvolto, incapace di comprendere l’accaduto. Per un attimo pensò di essersi addormentato durante il viaggio e di aver fatto soltanto un brutto sogno. Perché non poteva essere vero che suo padre lo avesse rifiutato, cacciato via, ferito, ignorando la voce del sangue. Ma quello non era suo padre, quella non era la sua famiglia, quella non era la sua casa, quello non era il suo posto. Il cuore accelerò di delusione e rabbia, in primis contro se stesso e la propria ingenuità e, di corsa, scese le scale.

Werner distolse lo sguardo dal suo punto fisso: Andrej gli era passato accanto come una freccia, con la testa bassa, le braccia stese lungo i fianchi, i pugni stretti, rigido, arrabbiato. Qualcosa era andato storto. Il malessere di suo figlio lo attraversò dentro come una scarica elettrica e, balzato dalla macchina, gli corse dietro. Più volte urlò il suo nome e lo pregò di fermarsi, ricreando così una scena già vissuta.

Andrej non aveva il coraggio di fermarsi, di voltarsi indietro e guardare in faccia Werner dopo il suo atteggiamento di disprezzo e le sue parole di addio, colto dal pensiero che anche lui lo avrebbe rifiutato e che niente sarebbe stato più come prima. Non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi, di farsi perdonare e perdonare il suo passato nazista e le sue reticenze, di raccontargli della sua aspettativa delusa e ammettere, prima di tutto a se stesso, che si sbagliava e che c’era una voce più forte di quella del sangue. Quell’uomo che lo seguiva e lo chiamava disperato, che lo aveva cresciuto e amato incondizionatamente, quell’uomo con la coscienza in debito verso l’umanità e un bagaglio di cose non dette a tempo opportuno, era suo padre, il suo vero padre e a suggerirglielo era la voce del cuore.

Poi di colpo Andrej fermò il suo incedere spasmodico e si voltò, gli andò incontro e gli si gettò tra le braccia, esplodendo in un pianto dirotto. In diciassette anni Werner non lo aveva mai sentito piangere in quel modo, così disperato e straziante, come quando si perde una persona cara. Le lacrime gli cadevano a fiotti sulla giacca e gli penetravano il cuore, ferendolo. Rivoleva suo figlio ma non a quel prezzo. Abbracciare il dolore di Andrej lo faceva sentire impotente, un po’ come quando da piccolo stava male e lui non poteva farci niente, se non aspettare che la medicina facesse effetto. Essere un dottore non lo esonerava dal provare apprensione per suo figlio. In quel momento desiderò avere accanto Nadine: lei sì che avrebbe avuto le parole giuste per rassicurarlo, la medicina per il suo cuore ferito. “Lui … lui non … non …” balbettò Andrej fra i singhiozzi. “Shh … Non è necessario. Sta’ calmo …” Werner lo interruppe con tenerezza e pronunciò quelle tre brevi parole, troppe volte negli ultimi anni taciute per pudore e rimaste in bilico sulla punta del cuore, antidoto efficace e vera manifestazione del suo affetto “… Ti voglio bene.” Ma Andrej si aggrappò alle sue spalle e pianse più forte.

 

Nadine si ritrovò davanti un Andrej diverso, provato, stanco. Il suo portamento era dimesso, il suo viso pallido di tristezza e dai suoi occhi gonfi di lacrime traspariva uno sguardo perso nel vuoto. Werner gli assomigliava ed entrambi sembravano fantasmi. Capì subito. Sollevò la mano verso la spalla di suo figlio per tentare un gesto consolatorio, per introdurre una parola di conforto ma Andrej le volse le spalle e si diresse verso la sua stanza. Lo sguardo di resa di Werner incrementò la sua angoscia.

 

Nadine era sempre più angosciata: Andrej non usciva dalla sua stanza da ben due giorni, neanche per mangiare. Desiderava varcare quella porta, parlargli, rassicurarlo, infondergli coraggio, aiutarlo ad uscire da quello stato di isolamento ma temeva di ottenere l’effetto contrario invadendo il suo dolore e, allo stesso tempo, di sembrarne indifferente. Si sentiva confusa, smarrita, non sapeva come né quando agire e, insieme a Werner, si diede un altro giorno di tempo.

Ma al terzo giorno Andrej uscì dalla sua stanza per fare colazione, mangiò l’impossibile davanti allo sguardo stupito di Nadine e Werner e, addentando famelicamente una fetta biscottata, ruppe il suo silenzio. “Prima che finisca l’estate organizziamo una giornata al lago con lo zio Kurt?” domandò, come se nulla fosse accaduto. Nadine e Werner si guardarono con aria interrogativa e gli risposero con un “sì” corale e perplesso.

In quei tre giorni vissuti da solo con se stesso, Andrej aveva ripercorso i suoi diciassette anni, riscoprendo l’insostituibile presenza di Nadine e Werner in ogni tappa della sua vita, bella o brutta, significativa o ordinaria, una presenza discreta e mai soffocante, fatta di calore e sostegno. Curato e amato, non gli avevano mai addossato il peso del loro passato e si era sempre sentito figlio. Nadine e Werner erano i suoi genitori, sua madre e suo padre, nonostante gli errori passati e le mancate verità, al di là del legame biologico. Pur non avendo lo stesso sangue, in loro si riconosceva nel modo di pensare, nelle espressioni, negli atteggiamenti e, curiosamente, anche in alcune caratteristiche fisiche. Perché era l’amore il legame che li univa, che li rendeva simili e faceva di loro una famiglia. Per amore Nadine e Werner avevano scelto di accoglierlo nella loro vita e adesso per amore era Andrej a scegliere loro.

 

Assomiglieremo come gocce, 
sarò presente la tua notte. 
Io padre tu mio figlio, 
diventerò più grande insieme a te. 
Divideremo il bene dal male, 
terrò distanti le tue paure. 

 

Biagio Antonacci, Assomigliami

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Capitolo 30
*** Tra sorrisi accesi e lacrime asciutte ***


Capitolo 30

 

Tra sorrisi accesi e lacrime asciutte

 

“Forse la vita è come un fiume che va al mare. Non è andata dove intendeva andare, ma è finita dove aveva bisogno di essere”.

Fabrizio Caramagna

 


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Città di Fürstenberg/Havel, 1 luglio 1968

 

Dopo una lunga giornata di lavoro, Nadine tornò a casa. Ad accoglierla il buio e il silenzio, binomio perfetto per concludere un malinconico compleanno. Questa volta, per qualche strano motivo, nessuna delle persone a lei più care lo aveva ricordato, nemmeno suo marito e suo figlio. Si appoggiò con una mano alla parete e, dolorante, sfilò dai piedi le décolleté, tirando un sospiro di sollievo. Nel giorno del suo compleanno era sempre difficile non richiamare alla mente Ravensbrück, coincidendo infatti con il suo ultimo giorno di libertà prima della deportazione, e da lì, fare un bilancio della propria vita intervallato da tanti se e perché. In momenti come quelli, si domandava come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate diversamente, se non fosse mai stata deportata a Ravensbrück oppure se fosse riuscita a scappare prima con Kurt. A tal proposito, non provava rimpianti perché di sicuro non sarebbe diventata la donna che era, non avrebbe mai incontrato Werner e suo figlio non sarebbe stato Andrej. Senza le ferite di Ravensbrück sarebbe stata una donna un po’ più fragile e, conoscendolo meglio, con Kurt non avrebbe avuto una vita felice. Ma in fondo anche il suo essere era stato condizionato dagli eventi passati e da ciò che aveva vissuto, dall’orrore nazista visto e provato sulla propria pelle. Grazie all’aiuto di Kurt, era riuscita a realizzare il suo sogno di raccogliere fondi a favore dei sopravvissuti che, a differenza sua, attendevano ancora un riscatto dalla vita, mediante cene di beneficenza e serate di ballo. Un sogno scaturito non soltanto dal suo desiderio di fare del bene ma anche da un nascosto senso di colpa: quello di non aver fatto nulla per gli altri a tempo opportuno, di non essersi ribellata davanti alle scene di crudeltà nel lager, di essere sopravvissuta. Aiutare gli altri era una delle risposte al perché della sua sopravvivenza a Ravensbrück ed anche un modo per espiare il suo debito con la vita. Tolse la giacca, restando con la camicetta di seta bianca e liberò dallo chignon i capelli, adesso un po’ più corti e scuri, che ne uscirono arruffati. Casualmente, volse lo sguardo verso lo specchio sulla parete e incrociò la malinconia della sua immagine riflessa. Quarantotto anni e nella sua vita la felicità era sempre stata un qualcosa per cui combattere, da rincorrere e, una volta afferrata, facile da sfuggirle ancora; a volte di cui vergognarsi e da nascondere ai fantasmi di chi aveva lasciato fra i tormenti di Ravensbrück. Nonostante i sogni realizzati, i sorrisi accesi, l’affetto delle persone che la circondavano e l’amore dei suoi cari, per quanto potesse sforzarsi, non riusciva ad essere pienamente felice e spesso si ritrovava a piangere lacrime asciutte, come in quel momento. Ventitré anni dalla fine della seconda guerra mondiale, del nazismo e il mondo, pur cambiando nella cultura, nelle mode, nella politica, negli stili di vita, nella società, era rimasto sempre uguale a se stesso, un po’ come lei. All’odio verso gli altri avevano dato nomi diversi, le persecuzioni erano più sottili e silenziose, le guerre e le rivolte continuavano ad esplodere e lei restava sempre lì, inerme, senza poter fare nulla di concreto per cambiare le cose. Del passato nessuno sembrava aver fatto un buon maestro di vita. Nel giorno del suo compleanno, questa volta, a distoglierla dai suoi malinconici pensieri non vi erano stati la vicinanza e l’affetto dei suoi cari, le attenzioni e la colazione a letto di suo marito, le sorprese di suo figlio, la telefonata di primo mattino di sua cugina Edith, il pranzo a lavoro con Kurt, le chiacchierate e le risate con Engel e Käthe davanti ad un’enorme fetta di torta. Attraversando il corridoio, iniziò a sbottonare la camicetta, quando all’improvviso sentì il rumore sordo di qualcosa che cadeva a terra seguito da un brusio di voci e, intimorita, si diresse lentamente verso il salotto. Con mano tremante, accese la luce e un botto le fece chiudere gli occhi, emettendo un urlo. “Sorpresa!” dissero tutti in coro e lei rimase impietrita, ricoperta di coriandoli. Ritrovandosi davanti i volti sorridenti dei suoi cari, di suo marito e di suo figlio, di Edith, di Kurt e delle loro famiglie, riuscì a trattenere per poco la commozione e, tuffandosi tra le braccia di Werner che le porgeva un enorme mazzo di fiori, scoppiò in lacrime. Il suo non era soltanto un pianto di gioia ma anche liberatorio: era amata, non era sola e si diede della stupida per averlo pensato, anche se solo per qualche istante. Le persone che aveva davanti non meritavano i suoi dubbi. “Scusatemi, devo essere impresentabile.” disse, asciugandosi le lacrime e abbozzando un sorriso. “Non è vero, sei bellissima.” rispose Werner e lei sorrise ancora. Poi volse lo sguardo verso suo figlio e, fingendo un tono di rimprovero, aggiunse: “Vorrei tanto sapere di chi è stata questa idea.” “Della stessa persona che ha rischiato di rovinare tutto.” replicò Brigit e anche lei volse ad Andrej uno sguardo canzonatorio. Il giovane alzò le braccia, ostentando un segno di resa mentre Kurt, chinandosi ad accendere la prima delle tante candeline di una torta grandissima, disse ironico: “Caro Andrej, adesso toccherà a te solo prendere la colpa per aver urtato la permalosità di tua madre.” Il sorriso di Nadine divenne una smorfia. La tristezza aveva ceduto già il posto all’allegria. “Zia Nadine, non dargli retta. Vieni a spegnere le candeline.” intervenne la figlia di Edith con affettuosa determinazione, prendendole la mano per farla avvicinare al tavolo. Guardando alla tenerezza di quella ragazzina, dai capelli rossi e gli occhi verdi e i tratti simili a quelli delle fate descritte nelle fiabe, ritrovò la speranza per quel presente costruito sulle ceneri di un terribile passato e il coraggio di ricacciare i fantasmi delle sue paure per vivere pienamente e godere degli affetti e di tutto ciò che la vita le aveva donato. Un palpito di gioia scaturì dal suo cuore, mentre la fiamma danzante delle candeline arrossiva le sue gote. Sentì di dover essere felice per amare liberamente, pienamente coloro che le stavano accanto e affinché il sacrificio di quanti l’avevano aiutata negli anni bui del nazismo non diventasse vano. Il suo volto si distese in un ampio sorriso e, soffiando sulle candeline, promise a se stessa di non perdere mai più, neanche per un istante, la gioia di vivere, di sperare, di amare.

 

E nonostante le bombe alla televisione,

malgrado le mine,

la penna sputò parole nere di vita:

“La guerra è finita,

per sempre è finita,

almeno per me”.

 

Baustelle, La guerra è finita

 

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Capitolo 31
*** Le colpe dei padri non ricadano sui figli ***


Capitolo 31

 

Le colpe dei padri non ricadano sui figli

 

“Arriva un momento in cui i figli ti si staccano dalle mani, come sull’altalena, quando li spingi per un pezzo e poi li lasci andare. Mentre salgono più in alto di te, non puoi fare altro che aspettare, e sperare che si reggano saldi alle corde. L’oscillazione te li restituisce, prima o poi, ma diversi e mai più tuoi”.

Paolo Giordano

 


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Città di Fürstenberg/Havel, 2 agosto 1969

 

Käthe si lasciò cadere lentamente davanti all’armadio spalancato e rimase lì, confusa e impaurita, a guardare in faccia una verità che in cuor suo intuiva già da tempo ma che non poteva accettare: suo figlio era un neonazista. A decretare la sua sconfitta di madre erano quei cimeli, bandiere con i simboli della svastica e dell’aquila, spille e medaglie, piastrine e uniformi appese con estrema cura, un busto del führer e una fotografia del suo defunto marito che, con quel ghigno nascosto sotto il berretto da ufficiale, sembrava deriderla vittorioso. Anche da morto continuava a farle del male, a distruggerla, prendendosi un altro pezzo di lei, il più importante, ragione del suo esistere, sostegno nei naufragi della sua vita. La scoperta del ruolo di suo padre durante il regime nazista non aveva provocato nel giovane Radolf un senso di rifiuto, di vergogna o di dispiacere, bensì un pericoloso atteggiamento di emulazione che ormai era giunto al limite. Si accasciò sul pavimento, chiedendosi disperata dove avesse sbagliato e nella testa rimbombava la voce di suo marito che, come in passato, le ripeteva quanto fosse una buona a nulla. Esplose in lacrime, mentre quel ghigno diventava sempre più una risata sarcastica e irrisoria. “Käthe!” Quella voce preoccupata arrivò alle sue orecchie come un suono ovattato e non riuscì a riportarla alla realtà presente. Solo il tocco di due mani, che dapprima la fecero sussultare impaurita nel tentativo di sollevarla, ne fu capace. Erano le mani del suo vero amore quelle che ricercavano un abbraccio nel desiderio di confortarla, di afferrare il suo dolore per condividerne il peso, che le accarezzavano il viso per raccogliere le sue lacrime, che pazientarono aperte nell’attesa che lei vi poggiasse il cuore. “Dov’è che ho sbagliato?!” La domanda di Käthe fuoriuscì come un urlo disperato, soffocato dai singhiozzi, segnando la fine di una felicità appena faticosamente conquistata. “Non è colpa tua.” rispose l’uomo, stringendola fortemente a sé e guardando con apprensione l’interno dell’armadio. “Vedrai che tutto si sistemerà.” aggiunse ma lei non ci credette e pianse più forte.

 

A nulla erano valse le lacrime supplichevoli di sua madre e le ostinate paternali di suo zio, Radolf aveva già scelto di continuare per la strada sbagliata. “Guardami! …” gli aveva urlato Kurt, prendendolo di petto “… Guarda come mi hanno ridotto i tuoi eroi!” “È stata un’ebrea a ridurti così.” ribatté il giovane, sfoderando un’aria di strafottente incoscienza e prendendosi uno schiaffo che non lo scalfì minimamente. Per Radolf non c’era niente da fare, nessuno avrebbe potuto salvarlo dal baratro in cui stava volontariamente precipitando. “Sappi che ti farai del male.” aggiunse Kurt, puntandogli un dito contro e cercando nei suoi occhi un accenno di ripensamento che non comparve affatto. Gli occhi di Radolf non rimandavano più al ragazzo sensibile e solare che era stato fino a qualche mese prima. Plagiato dagli ideali di un padre che non aveva nemmeno conosciuto, era diventato improvvisamente cupo e arrogante, proprio come lui. Kurt aprì le braccia in segno di resa e, volgendosi a sua sorella che sull’uscio della camera soffocava i singhiozzi in un fazzoletto, disse: “Perdonami, Käthe, ma io non so più che fare.” Suo fratello l’aveva abbandonata. Käthe si sentì sprofondare nel più profondo abisso della solitudine e ricercò le braccia del suo compagno di vita mentre Kurt andava via a testa bassa, rassegnato e arrabbiato.

Dopo mesi trascorsi a piangere, cercando una risposta ai suoi perché, Käthe si ritrovò davanti ad un bivio. Seduta nella penombra della cucina, accompagnata dallo sguardo empatico di Nadine, fissava, girava e rigirava tra le dita il pezzo di carta sul quale erano scritti un indirizzo e una data. Il suo istinto di madre non poteva sbagliarsi: il giorno seguente Radolf e i suoi amici avrebbero preso d’assalto l’abitazione di un noto avvocato ebreo della città di Zehdenick. Käthe si trovava quindi davanti ad una scelta difficile: proteggere suo figlio per paura di perderlo, facendo finta di niente e divenendo sua complice in un atto di violenza oppure denunciarlo, perdendolo forse per sempre nel tentativo di salvarlo dal male dell’ideologia nazista. “Cosa faresti al posto mio, Nadine?” chiese la donna in un sussurro disperato. “Farei di tutto perché non gli accadesse qualcosa di più grave. Potresti perderlo sul serio, Käthe.” rispose e gli occhi di entrambe si velarono di grosse lacrime. Le parole di Nadine, cariche di determinata apprensione, risvegliarono in lei la forza di alzarsi e fare ciò che in cuor suo aveva già deciso, ancor prima di sfogarsi con la sua amica, per il bene di suo figlio. Prese allora la cornetta del telefono e compose un numero. Nell’attesa di risposta, regolò il respiro e il battito del cuore, poi emise un sospiro tremante. “Pronto, polizia? …”

All’alba del mattino seguente, Radolf e i suoi amici neonazisti fecero irruzione nell’appartamento dell’avvocato ma non vi trovarono una famiglia indifesa, bensì manette e pistole puntate contro.

 

Figlio, chi ti ha tolto il sentimento?

Non so di che parli, non lo sento.

Cosa sta passando per la tua mente?

Che non credo a niente.

Figlio, figlio, figlio,

disperato giglio, giglio, giglio,

luce di purissimo smeriglio,

corro nel tuo cuore e non ti piglio,

dimmi dove ti assomiglio

figlio, figlio, figlio.

 

Roberto Vecchioni, Figlio, figlio, figlio

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Capitolo 32
*** Vivere è amare, amare è vivere ***


Capitolo 32

 

Vivere è amare, amare è vivere

 

“Ci sono volte in cui vivere la vita è come entrare a mani tese in un cespuglio spinoso di fiori. Dopo ti senti tremendamente graffiato ma pieno di luce”.

Fabrizio Caramagna


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Käthe indugiò davanti alla stanza di suo figlio. I suoi occhi erano stanchi di troppe notti insonni e lacrime versate, le sue mani reggevano mollemente due grosse scatole di cartone e il suo cuore sembrava non battere più come prima. Si sentiva svuotata Käthe, vuota, proprio come quelle scatole che aveva posato con fiacchezza sul letto per riempirle dei cimeli nazisti collezionati da suo figlio. Radolf era stato processato e condannato per violazione di domicilio, detenzione abusiva di armi e apologia del nazismo e, dal carcere, rifiutava ogni contatto con sua madre. Ma per Käthe era ora di farsi forza. Energicamente, legò i capelli in una coda spettinata e si rimboccò le maniche del maglioncino per poi avvicinarsi con decisione all’armadio. Sospirò e, raccogliendo dall’armadio i primi cimeli, iniziò a fare un bilancio della propria vita, contandone le sofferenze. Ai tempi del regime, nella sua ingenua incoscienza, aveva sposato un ufficiale delle SS, violento, senza cuore; aveva perso suo padre e sua madre, che si erano opposti alla persecuzione razziale e, dopo la guerra, aveva ritrovato un fratello, irriconoscibile, a causa della violenza nazista che lo aveva quasi ucciso. Il nazismo l’aveva resa orfana e poi vedova, dopo anni di umiliazioni e maltrattamenti, e adesso la condannava ancora una volta alla tristezza e alla solitudine, prendendosi anche suo figlio. Come un male contagioso, continuava a mietere vittime nella sua famiglia. Käthe ripose nella scatola anche la fotografia del suo defunto marito e, fissandola, capì di dover riprendere in mano la propria vita, impedendo al passato di continuare a farle del male. Il dolore nel pensare suo figlio in carcere non poteva certamente sparire ma, al suo ritorno – qualora fosse ritornato –, Radolf avrebbe ritrovato una madre più forte, una donna libera, viva. Proprio in quel momento, apparve sull’uscio il suo compagno. “Fritz!” esclamò in un sussurro rauco e, per alcuni istanti, i due rimasero a guardarsi in un loquace silenzio. Il primo passo per ritornare a vivere era quello di lasciarsi alle spalle i soprusi di suo marito, ricominciando ad aprire il cuore, senza più paure. Con gli occhi velati di lacrime e la voce rotta dalla commozione, disse: “Fritz, la risposta alla tua domanda è sì.” Dopo quasi un anno, Käthe aveva accettato di sposarlo.

 

Lago di Schlachtensee, agosto 1970

 

Nell’aria aleggiava ancora il tepore di un’estate ormai agli sgoccioli; la lieve brezza, che di tanto in tanto soffiava sul lago, spruzzava sui loro visi ambrati gradevoli goccioline d’acqua mentre l’ombra delle foglie ricercava i loro corpi distesi, desiderosi ancora di sole. Era un sabato pomeriggio, uno di quelli che ti lascia ricordare le attese deluse e, allo stesso tempo, guardare alla vita con nuove speranze, che dà alla tua spensieratezza dei tratti malinconici di una gioventù diventata ormai adulta. Andrej e Brigit erano lì, con i loro venticinque anni e un bagaglio di sogni e ferite che come amici di una vita intera avevano da sempre condiviso, all’inizio di un decennio che il mondo avrebbe ricordato per il desiderio di libertà e progresso, per le lotte politiche e sociali, per la trasgressione e la musica rock, per i pantaloni a zampa e i fiori tra i capelli. Come tanti giovani, anche Andrej e Brigit sognavano un mondo migliore, ma a modo loro, lontani da una mentalità divorzista e abortista, estranei alla banalizzazione dell’odio come dell’amore, convinti che solo la memoria e la parola avrebbero abbattuto i muri e accorciato le distanze. A tal proposito, dopo l’arresto di Radolf, decisero coraggiosamente di organizzare degli incontri tra i figli delle vittime e dei carnefici della Shoah, promossi e mediati dai loro genitori. Kurt, Engel, Nadine e Werner raccontarono le loro storie di vita e quest’ultimo non ebbe paura nel presentarsi come carnefice e vittima al tempo stesso, figlio del dottor Günther. Nonostante la riluttanza e le critiche di molti, i due giovani, grazie all’indispensabile e prezioso supporto dei loro genitori, riuscirono ad aiutare un cospicuo numero di persone a riconciliarsi con il proprio passato e, per la sempre più vicinanza l’uno dell’altra, Andrej e Brigit spinsero la loro amicizia verso un sentimento più grande. L’amore vissuto in gioventù da Nadine e Kurt era destinato a rivivere nei cuori dei loro figli, in un tempo diverso, con modalità diverse, accolto ed espresso con maggiore libertà e sicurezza. Dall’alba del loro giovane amore, scaturì un lungo bacio al tramonto che ne riempì i cuori di una felicità mai provata prima, una di quelle che ti fa inumidire gli occhi di pianto e risa. Prendendosi per mano, Andrej e Brigit lasciarono l’asciugamano e la spiaggia ormai deserta per correre sulla riva. Tra risate e giochi, acchiapparella e solletico, grida di allegria e abbracci, si ritrovarono nelle acque del lago con le mani intrecciate e le labbra di nuovo vicine.

 

Sulla spiaggia si allungavano le ombre,

guardando l’uva mi dicesti è già settembre.

Metti su la mia camicia e via il costume,

m’innamorai di quel pulcino senza piume.

 

Il Giardino dei Semplici, M’innamorai

 

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Capitolo 33
*** Il dono della vita ***


Capitolo 33

 

Il dono della vita

 

“Ho capito che nella vita ci sono tante vite, per quante volte in vita abbiamo amato”.

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

 


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Due mesi dopo

 

“Brr, che freddo!” Anche Kurt era arrivato. Nadine lo accolse alla porta e gli prese il soprabito bagnato della prima pioggia autunnale. “Di cosa vorranno parlarci i ragazzi?” chiese con una punta di apprensione, stringendosi nelle spalle, ancora infreddolito. “Non lo so …” rispose la donna con voce serena, sorridendo “… Ma posso immaginarlo.” Nadine aveva capito già da tempo che tra suo figlio e Brigit era maturato un sentimento più profondo, che andava oltre alla loro storica amicizia, che si palesava nella tenerezza dei loro sguardi complici e dei loro gesti premurosi. “Sei sempre un passo avanti tu, eh?” disse Kurt per prenderla un po’ in giro. “Tu invece sei sempre in ritardo. Sbrighiamoci che sono già tutti qui.” ribatté, fingendosi indispettita e insieme raggiunsero il salotto. Kurt sedette di sbieco sul bracciolo della poltroncina accanto a sua moglie e lo stesso fece Nadine mettendosi vicino a Werner, entrambe le coppie di fronte ai loro figli seduti sul divano. “Allora? Di cosa volevate parlarci di così importante?” fece Nadine, con l’aria di chi ha già capito tutto. I due ragazzi sembravano nervosi ed esitanti. Brigit abbassò lo sguardo sul tavolino, guardando la teiera che aveva smesso di fumare mentre Andrej alzò gli occhi al soffitto. Poi fu lui a prendere la parola: “Io e Brigit non sappiamo quando né come è successo, ma abbiamo scoperto di amarci.” “Ma è meraviglioso!” esclamò Engel, scambiandosi con Nadine un sorriso sgargiante mentre i due giovani innamorati ricercavano la mano l’uno dell’altra. “Ma c’è dell’altro.” continuò Andrej più serio. Brigit si morse un labbro e, con voce tremante, disse: “Sono incinta.” In quel pomeriggio al lago, coperti soltanto della luce rossa del tramonto, le carezze del vento fresco di fine estate non avevano portato loro solo un brutto raffreddore, ma anche qualcosa di inaspettato, che faceva paura e sorridere allo stesso tempo: un figlio. Nel salotto piombò un silenzio imbarazzante. Anche i respiri sembravano più sommessi. Nadine non sapeva cosa fare né cosa dire, se esprimere parole di rimprovero o di rallegrata comprensione mentre Werner si alzò quasi di scatto facendola traballare dalla sua scomoda posizione. “è inammissibile, Andrej! …” disse, portando le mani sui fianchi “… E adesso cos’hai intenzione di fare?!” “Voglio sposarla.” rispose il ragazzo sicuro e, al tempo stesso, con voce tremante mentre Engel si mosse dalla poltroncina per andare a stringere la mano di sua figlia. “Adesso dovete prendervi le vostre responsabilità, rimboccarvi le maniche per questa creatura e, se siete davvero sicuri di amarvi, iniziare una nuova vita insieme.” intervenne Kurt molto più pacato di Werner. “Siete davvero pronti per fare questo passo così importante?” continuò Engel, rivolgendosi con tenerezza a Brigit la quale rispose con un flebile ma determinato sì. Solo Nadine era rimasta inerme, impigliata ad un vortice di sentimenti diversi e contrastanti che non riusciva ad esprimere. Infine ruppe il silenzio, nascondendo in parole di apprensione la sua vecchia, malinconica paura di lasciar andare Andrej. “Decidete per amore e non per aggiustare le cose.” disse e il ragazzo ribadì: “Abbiamo già deciso.” Suo figlio era cresciuto e ormai pronto per spiccare il volo.

 

“La mamma dello sposo sarà la donna più bella.” fece Werner compiaciuto, guardandola nel suo lungo vestito blu notte. Nadine ricambiò lo sguardo attraverso lo specchio e, sorridendo, indossò anche l’altro orecchino. Ma nei suoi occhi traspariva un velo di tristezza e nel suo sorriso, che assomigliava più ad un ghigno, si delineava una curva di inquietudine. Werner se ne accorse subito. Le si avvicinò e, prendendola per le mani, la indusse a guardarlo in faccia. “Cosa ti turba, Nadine?” le domandò con estrema apprensione e lei per un attimo abbassò con aria sofferente lo sguardo. Poi sospirò debolmente. I suoi occhi brillavano di lacrime trattenute, sfidando il luccichio degli orecchini. “Credi che Andrej sia davvero pronto?” domandò e Werner rispose con un’altra domanda: “E tu sei pronta?” Aveva centrato in pieno la vera causa del suo malessere. Nadine abbassò di nuovo lo sguardo per poi dissentire, scuotendo lievemente il capo. “Ho paura che non sia pronto per affrontare le difficoltà che verranno.” disse e Werner, accarezzandole la guancia, ribatté con dolcezza: “E noi lo eravamo? Quante difficoltà ci hanno messo alla prova! E noi eravamo soli, non potevamo contare su nessuno. Andrej e Brigit sono due ragazzi in gamba e poi saprebbero a chi chiedere aiuto.” Concluse con uno sguardo profondo e un sorriso rassicurante mentre la testa di Nadine si affollava di ricordi belli e brutti della loro vita insieme: il dopoguerra e la rinascita, le lacrime delle incomprensioni e le risate dei momenti felici, la trepidante attesa dell’arrivo di Andrej, la gioia e la fatica di essere genitori adottivi, le aspettative deluse e l’accettazione dei limiti dell’altro, il loro amarsi all’immenso e litigare per nulla, quel loro perdersi, ricercarsi e amarsi ancora … “Hai ragione.” fece Nadine e, sorridendo, strofinò un po’ la palpebra inferiore per impedire ad una lacrima di sfuggire. “Conserva le lacrime per il matrimonio.” le disse Werner con espressione serena e lei sorrise più gioiosa.

 

I fiori d’arancio che profumavano la chiesa, la commozione che scintillava gli occhi, lo scambio delle fedi nuziali e le promesse di gioventù tra Nadine e Kurt si realizzavano nei loro figli. Poi il lancio del riso sugli sposi, lo scambio di auguri, il volo delle bianche colombe e per la vita della ragazza sopravvissuta a Ravensbrück iniziava un nuovo capitolo. Cinque mesi dopo, il senso e l’essenza di una vita intera erano racchiusi tra le sue braccia, in quei due occhietti grigi che sembravano fissarla, riconoscerla e in quella manina un po’ violacea che le stringeva forte il dito. Nadine ebbe la sensazione di aver già vissuto quel momento. Forse era il ricordo di un sogno o un augurio di speranza, una scena creata dalla sua mente per sopravvivere alla disperazione di Ravensbrück. Sorrise e una lacrima le rigò il viso: cullare tra le braccia il suo nipotino, che adesso dormiva beatamente, valeva ogni attimo vissuto, le gioie e i dolori di una vita intera, tutte le lotte per continuare a sopravvivere e poi vivere a pieno la propria vita. La vita che stringeva tra le braccia era il dono più grande che Dio potesse farle e nel suo lieve respiro era l’anelito di un futuro di felicità, la melodia appena percettibile che sovrastava i rumori del passato. E ricordò: quella che stava vivendo era una scena che spesso aveva immaginato a Ravensbrück per aggrapparsi alla vita, l’eco di una voce amica che nel fango dell’umanità negata la incoraggiava a sperare ancora. Avrai una splendida famiglia. Stringerai tra le braccia i figli dei tuoi figli. Sarai felice. E lo era per davvero. Porse ad Andrej il suo bambino e, stringendo la mano di Werner che era poggiata sulla sua spalla, pianse di gioia, grata alla vita per averle donato un altro e il più prezioso frammento di felicità.

 

E ridere guardando il mondo

con la felicità di quando

il cielo è immenso.

E mai dimenticare

quel che ci ha fatto vivere.

 

Patty Pravo, Cieli immensi

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