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di lady lina 77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatre ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Isabella-Rose Poldark, chiamata affettuosamente Bella dai fratellini, aveva compiuto un anno poche settimane prima e ora si apprestava a trascorrere la sera della Vigilia di Natale nel lettone.

Ross aveva preso l'abitudine, ogni sera, di giocare coi suoi figli nel suo letto, in attesa che Demelza li raggiungesse per la notte. I loro giochi erano abbastanza spericolati e spesso terminavano in battaglie con cuscini o lotte furibonde che rendevano il letto simile a un campo di battaglia.

Jeremy, che ormai aveva nove anni, cercava in Ross il suo alleato fedele per combattere il potere delle due sorelline di sei e un anno che sapevano soggiogare e ammaliare il padre con un semplice battito di ciglia.

Ross si accasciò sul cuscino, dopo l'ennesima battaglia fra i due figli più grandi. Era una Vigilia di Natale serena, fuori nevicava e all'interno della casa c'erano calore e affetto. I bambini, assieme a Demelza, avevano addobbato tutta la casa e ora Nampara ed era un tripudio di colori e fiocchi color porpora. Nella camera da pranzo avevano decorato un grosso abete e durante la notte lui e Demelza vi avrebbero posto i doni per i figli.

Sua moglie era al piano di sotto con Prudie, a preparare un non ben precisato dolce di Natale per il giorno successivo e le sentiva ridere divertite. In realtà aveva avvertito Demelza che sarebbe stata una missione suicida tentare di far cucinare Prudie ma sua moglie, testarda come sempre, aveva deciso di coinvolgere la loro serva nella preparazione del pranzo di Natale e dubitava fortemente del risultato.

La piccola Bella, gattonando, si arrampicò sul suo petto, abbracciandolo e dandogli un bacio umido sulla guancia. "Pa-pààà" – esclamò, ridendo.

Ross sorrise, accarezzandole i ricciolini mori che le ricadevano sulla guancia. Bella era la figlia che gli somigliava di più, coi suoi capelli scuri e pieni di boccoli, le guance rosse e piene e l'espressione perennemente attenta e vivace. Era una bimba con l'argento vivo addosso, sempre contenta, sempre sorridente e curiosa, che seguiva senza sosta, gattonando, ogni movimento dei fratelli. Ancora non camminava, se non tenuta per le manine, ma era velocissima a gattonare ed arrivava praticamente dappertutto. Spesso gli si avvicinava di soppiatto, si aggrappava ai suoi pantaloni, rideva e poi si arrampicava sulle sue gambe per essere presa in braccio. E allora lui la prendeva, la lanciava per aria e lei scoppiava in una fragorosa risata, mentre Demelza gli lanciava dietro una serie di rimproveri per la sua avventatezza nel maneggiare la bambina. Beh, visto che sua moglie ancora non era in camera da letto, comunque... Prese Bella, la guardò, le fece la linguaccia e poi la lanciò in aria, prendendola al volo. La bimba scoppiò a ridere divertita, muovendo eccitata le gambine. Sentire Bella ridere lo faceva sentire di buon umore, aveva una risata contagiosa. Anche Jeremy, accanto a lui, rise. Clowance invece si imbronciò, guardò storto la sorellina e poi, con un balzo, si sedette sul suo stomaco.

Ross trattenne il fiato... La sua piccola principessina cominciava a diventare pesante e il suo stomaco, assieme alla cena, rischiavano seriamente di uscirgli dalla bocca, se avesse provato di nuovo a saltargli addosso. "Cosa c'è tesoro?".

Clowance tentò di spingere giù Bella. "Anche io voglio che mi lanci in aria".

"Certo, lo farò. Ma devo alzarmi in piedi per farlo con te, sei pesante, così coricato non riuscirei a farlo".

Clowance, a quelle parole, si mise a frignare. "Non sono grassa! Bella è grassa, guardala bene!".

Ahhh, se Clowance piangeva per qualcosa che lui aveva detto, immediatamente si sentiva in colpa. Si mise a sedere, mettendo la figlia più piccola fra le braccia di un perplesso Jeremy. "Ma no, non sei grassa tesoro! Sei semplicemente più grande!". Si alzò in piedi, la prese in braccio e la lanciò in aria, talmente in alto che per poco non le fece picchiare la testa contro il soffitto. "Contenta?".

Clowance lo guardò un po' stranita, fissando prima lui e poi il soffitto. "Sì... Credo...".

"Ross!".

La voce di Demelza, comparsa dal nulla sull'uscio della porta, fece girare marito e figli. Ross deglutì, il suo sguardo prometteva tempesta. "Tesoro...".

Demelza, con le braccia incrociate, lo fulminò con lo sguardo. "Tesoro un accidenti! Quante volte ti ho detto di non lanciare i bimbi per aria? Se perdessi la presa, se ti scivolassero, se...".

Ross mise a terra Clowance, le si avvicinò e con un bacio sulle labbra, lungo ed appassionato, interruppe il suo discorso. Era il modo migliore per farla stare zitta, quello, e il fatto che ci fossero i bambini non era un problema per lui, per loro. Spesso si erano scambiati gesti d'affetto e d'amore davanti ai bimbi, carezze, baci, abbracci, era un qualcosa che volevano insegnar loro, l'assoluta naturalezza con cui vivere i sentimenti, senza vergogna o imbarazzo, in modo assolutamente naturale. "Come vedi, sono tutti e tre vivi, sani e vegeti. Tu invece, sei sopravvissuta alla sessione di cucina con Prudie?".

Demelza, mascherando un sorriso, lo spinse indietro di alcuni passi. "Sì, più o meno. Anche se non so garantirti sul risultato. E' abbastanza probabile che il dolce sia immangiabile". Guardò il letto, le coperte erano tutte stropicciate e in disordine, i cuscini per terra e in quella stanza sembrava appena passato un uragano. "Che è successo qui?".

"Abbiamo fatto la lotta" – rispose Jeremy. "Io e papà contro Clowance e Bella! Abbiamo vinto noi maschi".

Demelza sospirò, avvicinandosi al letto e sedendosi accanto al figlio. "Che scoperta, due maschioni grandi e grossi contro due innocenti e piccole bimbe". Prese Bella in braccio, attirando a se anche Clowance. "Domani sera vi aiuterò io a vincere, piccole! Non lasceremo loro scampo!".

"Siiii" – esclamò Clowance, abbracciandola.

Ross si sedette sul letto con loro, godendosi la ritrovata pace giunta con l'arrivo di Demelza. Era la Vigilia quella, un anniversario importante per loro. In una Vigilia di Natale lontana, si era accorto di amare Demelza... In un'altra Vigilia, a Londra, l'aveva ritrovata per non lasciarla mai più. Essere in quella stanza, su quel letto con la sua famiglia, era il più bel dono per lui, un dono che, ora lo sapeva, non avrebbe mai più dato per scontato. Accarezzò i capelli rossi della moglie, dandole un tenero bacio sulla tempia. "E allora, signora Poldark, che cosa vuoi per Natale?".

"Un marito meno scavezzacollo" – rispose lei, a tono.

Ross rise, scuotendo la testa. "Vorresti un marito noioso?".

Demelza fece per rispondere ma poi scosse la testa, scoppiò a ridere, prese un cuscino e glielo tirò in faccia.

Clowance si mise fra loro, attirando l'attenzione su di se. "Mamma, sai che vorrebbe Bella per Natale?".

"Cosa?".

"Un cane nuovo" – rispose la bimba.

"Vero, Clowance ha ragione" – aggiunse Jeremy, sedendosi accanto alla sorella. Prese la piccola in braccio, la mise sul materasso e la costrinse a mettersi a gattoni. "Bella, dì a mamma del cagnolino! Fagli vedere che lo vuoi! Come fa il cane che vuoi per Natale?".

Bella guardò lui e poi Clowance e poi, ridendo, si mise a gattonare fra loro, facendo il verso del cane. "Bau, bauuuu" – esclamò, con la sua vocina squillante.

Ross fece del suo meglio per non scoppiare a ridere. Quei piccoli fetenti dei suoi figli avevano usato la sorellina, insegnandogli a fare il cagnolino, per ottenere un cucciolo. Mossa astuta, dovette riconoscere, forse davanti a Bella e al suo modo buffo di imitare il cane, Demelza non avrebbe detto di no. Alzò gli occhi su sua moglie per scrutarne la reazione. Lo sguardo di Demelza, a differenza sua, si era oscurato e ogni traccia di divertimento era come scomparsa. Sapeva che quella era una faccenda delicata per lei e sinceramente non aveva insistito per prendere un cane dopo il suo primo, netto rifiuto di alcuni mesi prima. Garrick era morto in estate ed era stato per tutti un grande dolore. Era un cane ormai anzianissimo, amato e coccolato da tutti, pieno di acciacchi e sapevano che sarebbe successo, prima o poi... Per i bimbi era stato il primo lutto da elaborare, per lui un dolore sordo e allo stesso tempo acuto ma per Demelza... Garrick era stato il suo unico amico per tanto tempo quando, da ragazzina, lo aveva incontrato per caso, cucciolo sporco e spaurito come era lei a quel tempo. Ricordava ancora il loro primo incontro, la lotta fra cani dove lui era intevenuto per salvare quella ragazzina malconcia e il suo cucciolo e la testardaggine di Demelza che, quel giorno, si era rifiutata di seguirlo per vivere una vita forse faticosa ma di certo migliore, lontana da Illugan, se non avesse potuto portare il suo amico con se. Garrick era stato colui che gli aveva permesso di conoscere Demelza e con essa il vero amore. Era stato il fedele compagno della loro vita insieme, aveva visto sbocciare il loro rapporto, nascere i loro figli, era stato accanto a Demelza durante gli anni in cui era vissuta a Londra e anche con Bella, benché vecchio e malandato, aveva passato ore accucciato sotto la culla, a vegliare la piccola.

Era stato lui a trovarlo morto, una mattina assolata dell'estate precedente. Si era alzato all'alba per andare alla miniera e Garrick se ne stava lì, accucciato davanti al camino, come addormentato. E quando non gli era andato incontro come al solito, in lui era sorto il terrore che l'inevitabile fosse successo. I bambini avevano pianto quel giorno, tantissimo. Demelza no, si era rinchiusa in un ostinato mutismo durato giorni e solo una sera, una settimana dopo, l'aveva trovata con gli occhi rossi, in camera, a piangere col viso affondato nel cuscino. L'aveva abbracciata, stretta a se e coccolata, senza dirle nulla. Nessuna frase, nessuna parola poteva consolarla, solo il tempo avrebbe sanato quella ferita, consentendo al dolore di diventare un dolce ricordo pieno di nostalgia.

Demelza guardò i figli, scosse la testa e sospirò. "Ne abbiamo già parlato e vi ho detto di no! Non voglio altri cani, lo avete visto anche voi come si sta male quando muoiono".

Il tono di voce di Demelza era freddo, sembrava risentita da quella improvvisata dei bambini. Ross prese Clowance in braccio, baciandola sulla nuca. "Su, avrete tanti regali domani e alla fine vi piaceranno come vi sarebbe piaciuto il cucciolo".

"Ma papà..." - protestò la bimba.

"Andate a letto, è tardi!" - la rimbeccò.

Jeremy sospirò e poi, rendendosi conto di quanto Demelza fosse turbata, la abbracciò. "Fa niente, tanto abbiamo i vitellini nella stalla" – disse, affondando il viso nel suo ventre.

Ross osservò suo figlio. Jeremy era il più sensibile dei tre e aveva un'empatia unica con Demelza. C'era amarezza nella sua voce ma nonostante questo si sentiva in dovere di consolare la mamma. Era notevole per un bambino di soli nove anni, un comportamento che denotava una grande nobiltà d'animo e una maturità non comune, sviluppata probabilmente negli anni in cui lui non c'era, a Londra, quando Jeremy era stato l'ometto di casa.

Il bimbo saltò giù dal letto e poi prese Clowance per mano, costringendola a fare altrettanto. "Andiamo a letto, se no domani non avremo regali".

Clowance si imbronciò nuovamente, fissando Bella con aria di sfida. "Perché io nella mia cameretta e lei qui con voi?".

Demelza, con un sospiro, si alzò dal letto. Prese la piccolina di casa fra le braccia e la mise nella culla, ponendo fine a ogni discussione. "Lei è ancora piccola per dormire in stanza con voi, ma come potete vedere, starà nel suo lettino".

"Su, a nanna adesso!" - aggiunse Ross. "O niente regali, domani".

Con un sospiro, Clowance si arrese all'evidenza. Prese la mano di Jeremy e dopo averli salutati, se ne andò con lui nella loro cameretta.

Demelza sorrise, si chinò ad accarezzare il pancino di Bella per farla addormentare e poi tornò a letto.

Ross la abbracciò, attirandola a se. "I bambini non volevano renderti triste, lo sai?".

"Lo so. Ma non voglio parlar di cani, non ne voglio altri!".

"Va bene, non ne parleremo più. Anche se, personalmente, sarei più tranquillo se ci fosse un cane a guardia vostra e della casa, quando non ci sono".

Demelza sbuffò. "Ci sono Jud e Prudie, siamo al sicuro".

Ross alzò gli occhi al cielo. Prudie e Jud guardiani della casa e della sua famiglia? Demelza e i bimbi sarebbero stati più sicuri con un vitello a far da guardia... Però era il caso di lasciar cadere il discorso, non aveva voglia di rovinare la Vigilia a sua moglie con ricordi tristi... La attirò a se e la baciò, facendole intendere che aveva ben altri progetti per passare la serata e che non aveva affatto voglia di parlar di cani. "Sai che far l'amore la notte di Natale è di buon auspicio?".

Demelza lo guardò negli occhi e poi scoppiò a ridere. "E chi lo dice?".

"Io! E sono un uomo molto saggio".

"E avventato...".

"Ma soprattutto saggio" – la corresse lui, divertito. La baciò sulle labbra, facendo scivolare le mani sotto la sua camicia da notte. Le sfiorò i fianchi nudi, la pelle liscia come avorio, il seno, baciandola prima sulle labbra e poi sul collo. Improvvisamente però dovettero fermarsi...

L'uscio si aprì e Clowance, di soppiatto, comparve davanti a loro.

La piccola li osservò, con le mani sui fianchi. "Papà, ma stavi ancora baciando la mamma?" - chiese, un po' scocciata.

Ross e Demelza si allontanarono di colpo, rossi in viso. "Tesoro, che ci fai ancora qui?".

Clowance si avvicinò, saltò sul letto e si mise fra di loro. "Ho pensato una cosa e dovevo dirtela, papà!".

"Cosa?".

"Sono la tua figlia preferita, sai? Ora l'ho capito".

Ross guardò Demelza negli occhi e poi la figlia. "Perché?".

Clowance scosse la testa, stupita che non capisse una cosa così ovvia. "Perché Jeremy e Bella non somigliano a mamma! Io sì e siccome tu ami la mamma e la baci sempre e io sono come lei, allora io sono la tua preferita. Bella puo' arrampicarsi sulla tua pancia quanto vuole, ma tanto non ha speranze!".

Beh... Doveva ammettere che il ragionamento non faceva una piega... Sorrise, scompigliandole quei capelli rossi che sì, in effetti erano identici a quelli della madre. "Va a letto, ne riparleremo un altra volta".

Demelza le pizzicò gentilmente una guancia. "Papà vuole bene a tutti e tre allo stesso modo".

"Ma...".

Ross la prese fra le braccia e la sollevò, proprio come aveva fatto con Bella un paio di ore prima. "Ti dico un segreto Clowance, ma deve restare fra noi! Sei davvero la mia preferita, sai?" - le sussurrò, baciandola sulla fronte ed ignorando le occhiataccie di sua moglie. Poi la mise a terra, strizzandole l'occhio. "E ora su, a nanna! E' tardi".

Soddisfatta, Clowance annuì. "Certo, ora vado!". Fece due passi, ma poi si voltò. "Ricordatelo sempre papà! Sono la tua preferita!" - lo ammonì, puntando l'indice contro di lui.

Ross mascherò un sorriso. Era adorabile, bellissima, la luce dei suoi occhi. "Me lo ricorderò, sta tranquilla".

Clowance sorrise, corse via e chiuse la porta dietro di se. Una volta rimasti soli, Ross si voltò verso Demelza per proseguire quanto iniziato poco prima. Peccato che lo sguardo della moglie, in quel momento, fosse tutt'altro che accomodante. "Che c'è?".

"Non avresti dovuto dirle una cosa simile! E non dovresti avere figli preferiti".

Ross le accarezzò la guancia. "Volevo solo tranquillizzarla e farla dormire serena, è così gelosa di Bella. E poi, non so, ma con Clowance mi sento sempre in debito... Io non c'ero quando è nata, non c'ero quando ha fatto i primi passi o detto la prima parola. E lei è la figlia che mi cerca di più, mi guarda ed è come se fossi il suo eroe... Io amo tutti i miei figli con la stessa intensità e allo stesso tempo in modo diverso l'uno dall'altro, ma con Clowance ho indubbiamente un'affinità diversa rispetto a Jeremy e Bella".

Lo sguardo di Demelza si addolcì a quelle parole. Gli accarezzò la guancia, lentamente, baciandolo sulle labbra. "Ross, tu sei un ottimo padre e anche se ti sei perso due anni con Clowance, hai annullato ogni debito morale nei suoi confronti. Non hai nulla da dimostrarle e lei ti adora perché sei un papà meraviglioso che la ama alla follia e la segue in tutto quello che fa. Credo di capire cosa vuoi dire, si tratta di affinità. E sì, con lei ne hai avuta tanta, da subito, più che con tutti gli altri. So che ami tutti i nostri figli, sta tranquillo".

"Certo che li amo, sono la mia vita!".

Demelza sorrise, accarezzandogli il mento e il collo con l'indice, in modo seducente. "Che dicevi prima, circa quanto sia di buon auspicio fare l'amore la notte di Natale?".

Ross sorrise con fare furbo. "Credo che sia più facile se te ne dessi una dimostrazione pratica..." - sussurrò al suo orecchio. Poi soffiò sulla candela, la luce si spense e attesero la mezzanotte amandosi senza riserve.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Organizzarono la cena dell'ultimo dell'anno a Nampara, insieme a Dwight, Caroline e alla loro bimba, la biondissima Sarah che aveva qualche mese più di Bella. Avevano invitato anche Martin e sua moglie Diane che però, a causa delle ingenti nevicate che avevano paralizzato Londra, non erano riusciti a lasciare la capitale.

Per Demelza e Caroline era stata una serata piacevole, dal sapore di tempi antichi. Ross guardava sua moglie chiacchierare accanto all'amica che l'aveva aiutata e sostenuta nei tre anni di separazione, cercando di immaginare quanto avessero potuto fare quelle due, da sole, a Londra. Sapeva che avevano presenziato a molte feste importanti ed esclusive, del loro vasto giro di conoscenze, delle serate passate coi Devrille a parlare di affari importanti dove giravano quantità di denaro che lui faticava persino ad immaginare, ma molte cose ancora gli erano oscure e non aveva mai chiesto più di tanto. Gli faceva ancora male pensare a quei tempi.

Osservò le due donne. Erano bellissime, entrambe. Ai suoi occhi nessuna sarebbe mai stata all'altezza di sua moglie, affascinante e desiderabile quanto lei, però doveva ammettere che anche Caroline aveva in se un lato che sapeva attrarlo. Era intelligente, arguta, dotata di una sottile e perversa ironia e sicuramente ben consapevole della sua rara bellezza. Certo, quella che provava per lei sarebbe rimasta sempre e solo ammirazione o una vaga attrazione, ma mai avrebbe oltrepassato quel limite, sia per amore di Demelza, sia per rispetto a Dwight, che considerava il suo più grande amico.

Osservò i bimbi. Jeremy, dopo cena, si era messo in testa di costruire un castello con le carte da gioco ed era forse al suo cinquatesimo tentativo. Appena riusciva ad arrivare al terzo piano, arrivava Clowance e ci soffiava sopra, fingendo indifferenza. Litigavano, si spintonavano e poi lui ricominciava da capo il suo lavoro.

Le piccole invece se ne stavano sedute su un tappeto davanti al camino. Bella, come suo solito, gattonava senza sosta per la stanza, sorridendo a chiunque incontrasse. La piccola Sarah invece se ne stava ferma e tranquilla ad osservare l'ambiente circostante.

Ross fissò la bambina. Era di una bellezza disarmante, aveva preso il meglio sia dalla sua biondissima e bellissima madre che dal padre che, come la moglie, aveva fascino da vendere. Sarah aveva i capelli biondissimi, lisci come seta, tenuti a bada da un nastrino rosso, come il vestitino che indossava. Aveva due stupendi occhi blu, l'espressione vagamente malinconica e la carnagione chiara. Aveva un carattere pacato, tranquillo, era diversissima da quell'uragano che era sua figlia Bella che, di contro, non riusciva a stare ferma nemmeno nella culla quando dormiva. "Tua figlia è davvero un angelo, Dwight. Sia d'aspetto che di carattere" – esclamò all'amico, appoggiato accanto a lui al davanzale della finestra. Era incredibile quanto quella bimba fosse tranquilla e buona, silenziosa e aggraziata. Sicuramente aveva preso da Dwight perché da quel poco che la conosceva, Caroline non era così. Sapeva, dai racconti dell'amico, quanto per lei, abituata a feste e vita mondana, fosse stato difficile accettare la gravidanza e la maternità. Era stata isterica per tutti i nove mesi di gestazione e ci aveva messo un po' ad affezionarsi davvero alla piccola e a prendersene cura. Sapeva che non era per cattiveria ma perché, di fatto, non ci era abituata. Caroline aveva sempre avuto attorno gente pronta a soddisfare ogni suo capriccio o ogni suo desiderio e le era risultato difficile avere accanto una bimba che dipendeva interamente da lei.

Dwight osservò la figlia, intenta a giocare con un pupazzo a forma di coniglio. "Quando la guardo, ancora non riesco a credere che sia mia".

Ross sorrise, sorseggiando un bicchiere di Porto. "Succede, coi primi figli. Anche per me era così, con Julia. Me la prendevo, la portavo sulla scogliera ad osservare il panorama, la guardavo e mi chiedevo come fosse possibile che quella bimba fosse mia, che uno scavezzacollo come me fosse stato capace di mettere al mondo qualcosa di così buono e puro".

"Julia...". Dwight diede una veloce occhiata a Caroline, intenta a chiacchierare con Demelza sul divano. Ridevano e scherzavano fra loro, incuranti di loro due. "Ross, come siete riusciti a sopravvivere alla morte della vostra bambina? Come l'avete superata?".

Lo guardò, stupito da quella domanda. Che gli veniva in mente, a Dwight? Certo, lui c'era quella notte, aveva lottato come un pazzo per salvare sia Demelza che Julia, gli era stato accanto durante il funerale della piccola ma da allora non ne avevano più riparlato. Perché farlo proprio quella sera, durante una festa serena e tranquilla? "Non l'abbiamo superata, abbiamo imparato a conviverci. Non c'è molto altro che possiamo fare, se non gioire di quello che è venuto dopo". Che altro poteva dirgli? Era ancora difficile per lui pensare a Julia. Avrebbe avuto quasi dodici anni, se fosse stata viva, un'età in cui probabilmente avrebbe iniziato a far dannare lui e Demelza e soprattutto, un'età in cui sarebbe stata pericolosamente vicina ad innamorarsi per la prima volta. Fugacemente si chiese come avrebbe reagito, cosa avrebbe provato... "Alla morte di un figlio non ci si rassegna mai e tante cose brutte accadute a me e Demelza dopo la morte di nostra figlia, forse sono nate dalla mia incapacità di superare un dolore simile. Ma per fortuna, grazie a te e tua moglie, ora siamo qui e siamo felici. E lo sono anche i figli venuti dopo di lei". Gli mise una mano sulla spalla, amichevolmente. "Ma perché me lo chiedi? E' capodanno, una serata di festa. E hai accanto una moglie e una figlia bellissime, dovresti solo pensare a cose belle".

Dwight lo scrutò in viso, serio. Poi gli fece cenno di uscire con lui in cortile per fare due passi.

Lo seguì, perplesso, e rimasti soli, nel buio della notte, Ross si appoggiò alla staccionata del giardino. "Che ti prende, Dwight?". Lo conosceva da tanto, lo conosceva bene. E sapeva che c'era qualcosa che lo tormentava.

Gli occhi del dottore si inumidirono. "Si tratta di Sarah".

"Sarah?".

"Già. Lo vedi quanto è tranquilla?".

Ross sorrise. "Oh, lo vedo eccome. Abituato al casino che fanno i miei figli, lei mi sembra quasi angelica".

Dwight scosse la testa, guardando distrattamente il cielo. "Non è così tranquilla per carattere, sai? E' che se si agita troppo, poi si sente male, le manca il respiro. E allora, benché abbia solo un anno e mezzo, ha capito che deve stare ferma".

Ross si accigliò, non riusciva a capire il senso di quel discorso. Che diavolo stava dicendo? "Dwight, che cosa...".

"E' malata, Ross. Ha una malformazione molto grave al cuore, me ne sono accorto subito, fin dal giorno in cui è venuta al mondo. Respira a fatica, va subito in affanno e il suo cuore è in sofferenza costante. Sono un medico, oltre che suo padre...".

Ross spalancò gli occhi, preso letteralmente alla sprovvista. Non se l'era immaginato nemmeno lontanamente. "E... è grave? Voglio dire, sei un dottore, no? Puoi curarla?".

A quella domanda, Dwight scosse la testa, chinò il capo e una lacrima volò giù dalla sua guancia, posandosi a terra. "No, non posso. Non c'è niente che io possa fare".

A Ross sembrò mancare il fiato. Guardò verso la casa, pensando a quel bellissimo angelo biondo. Non poteva essere, non era giusto! La morte di nessun bambino era giusta. "E... quindi... Sarà sempre stanca e affannata, per tutta la vita?".

Dwight sorrise tristemente. "Non avrebbe dovuto arrivare nemmeno al suo primo compleanno, Ross. Non vivrà a lungo e io temo che da un giorno all'altro, da un momento all'altro...". Strinse i pugni, rabbioso e sofferente allo stesso momento. "Smetterà di respirare, così, semplicemente... Arriverà il giorno, la mattina, in cui andrò alla sua culla per prenderla e farle fare colazione e lei sarà così, immobile, come addormentata".

Ross rimase senza parole, stordito da quello che aveva appena sentito. Guardò Dwight, una delle persone più buone e solari che avesse mai conosciuto. Non se lo meritava, né lui, né Caroline, né soprattutto la piccola Sarah. Sapeva cosa li aspettava, conosceva bene quel tipo di dolore così forte, lacerante e corrosivo, che ti distrugge cuore e anima. "Caroline lo sa?".

"No. Non so come dirglielo, come posso spiegarle una cosa del genere?".

"Non puoi, infatti. Ma credo che dovrebbe sapere, non puoi tenerla all'oscuro o sarà doppiamente devastante per lei, altrimenti. Ed è un segreto che, una volta venuto allo scoperto, finirebbe per creare una frattura fra voi. Succede, quando muore un figlio. E se le basi non sono preparate più che bene, si finisce per farsi del male". Non sapeva cosa dirgli, se non quello. La sua vita e le sue esperienze dolorose lo avevano reso stranamente saggio, a riguardo. Gli prese il polso, lo strinse. "Se avrai bisogno di me, io ci sarò".

Dwight annuì. "Grazie Ross. Ti prego, dì a Demelza, quando succederà, di stare accanto a Caroline. Sono amiche, sembrano quasi sorelle quando sono insieme e avrà bisogno di lei".

Ross sorrise. "Certo che lo farà".

"Papà!". La porta si aprì di scatto e Jeremy corse loro incontro. Lo prese per mano, eccitato, allegro. "Vieni, dobbiamo fare un gioco".

Ross guardò Dwight negli occhi, confuso. Poi, senza chiedere spiegazioni, seguirono entrambi il bambino.

Tornati in casa, Demelza sorrise loro, stendendo sul tavolo una specie di pergamena. "Avete finito con le vostre chiacchiere da uomini?".

Ross sorrise. Diede una veloce occhiata a Sarah, sentendo una fitta al petto, poi fingendo serenità si avvicinò a sua moglie, abbracciandola. "Che hai in mente?".

Demelza gli indicò la pergamena. "Io e Caroline, insieme ai Devrille, lo facevano a Londra, a Capodanno. Scrivevamo su un foglio la nostra lista di desideri per l'anno nuovo e poi, il 31 dicembre dell'anno successivo, facevamo un bilancio".

"E che desideravate a Londra, voi e i Devrille?".

Caroline scoppiò a ridere. "Ah, erano così noiosi, Ross! Parlavano sempre di affari, i loro desideri riguardavano ovviamente soldi e azioni finanziarie".

Ross, mascherando un sorriso, scosse la testa. Poi prese la penna, la intinse nell'inchiostro e scrisse. "Per il nuovo anno, voglio una moglie sempre appassionata come è ora".

Demelza rise, dandogli una leggera pacca sulla testa. Poi, gli dettò il suo desiderio. "Per il nuovo anno, voglio un marito meno scavezzacollo, che sarà capace di stare lontano dai guai".

"Per il nuovo anno, voglio un diamante nuovo e un marito che ogni tanto alzi la voce con la servitù!" - disse Caroline, divertita.

"Io voglio un cavallo vero! Ormai sono grande per i pony" – aggiunse Jeremy, mettendosi fra i genitori.

Clowance gli si affiancò, appoggiò i gomiti al tavolo e ci pensò su. "Io non dico cosa voglio ma cosa NON voglio".

Demelza rise. "E cosa non vorresti?".

La bimba si voltò verso di lei, seria. "Basta fratellini e sorelline! Bella è fin troppo, non fatene più".

Caroline e Demelza scoppiarono a ridere, a quella richiesta. Poi l'ereditiera si avvicinò al marito, cingendogli la vita con le braccia. "Amore mio, Bella e Sarah son troppo piccole per esprimere un desiderio, quindi manchi solo tu. Cosa vorresti per il nuovo anno?".

Dwight guardò Ross negli occhi, in una muta richiesta di aiuto. "Essere un medico capace di curare tutte le malattie. Essere in grado di salvare tutti, di guarire tutti. Soprattutto i più indifesi e deboli".

Ross deglutì, abbassò lo sguardo e non seppe cosa dire. Se per Demelza e Caroline quello poteva apparire come un banale desiderio di un medico che desiderava essere il migliore, lui aveva ben compreso quanto dolore e frustrazione ci fossero dietro quelle parole. Guardò la piccola Sarah, con un senso di sopraffazione nel petto. E poi Caroline, chiedendosi quanto l'avrebbe devastata e cambiata la morte della sua bambina.


...


Mezzanotte era ormai passata da un pezzo. Gli Enys erano tornati a casa loro in carrozza, Demelza si stava preparando per la notte nella loro camera e lui aveva messo a letto Jeremy e Clowance. I bimbi già dormivano, Jeremy a pancia in su e Clowance rannicchiata. Non riusciva a smettere di osservarli. Bella dormiva fra le sue braccia e sentiva i ricciolini che gli solleticavano il braccio. Erano, tutti e tre, l'immagine della salute e della serenità. Li amava più della sua stessa vita e quanto dettogli da Dwight aveva risvegliato in lui antiche paure. Cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe provato se avesse perso uno dei tre? Con Julia era stato devastante e con loro, più grandi e con cui aveva costruito un rapporto unico, come avrebbe potuto sopravvivere a una eventuale perdita?

Tentò di mettersi nei panni di Dwight, nella sua paura, nel suo dolore. Ma non ci riuscì. Era troppo spaventoso cercare di immedesimarsi in qualcosa del genere. Anche lui e Demelza avevano perso una figlia, ma era accaduto tutto così in fretta che quasi non avevano avuto il tempo di realizzarlo, sul momento. Ma Dwight aveva accanto quella bimba da un anno e mezzo e la guardava crescere con la consapevolezza che da un giorno all'altro l'avrebbe persa. Dwight non aveva speranze, lui sapeva che Sarah non sarebbe mai diventata grande e non riusciva a credere che non fosse ancora impazzito davanti a una consapevolezza del genere.

Baciò Bella sulla fronte e poi accarezzò i capelli di Jeremy e Clowance. "Diventate grandi, fate mille errori, tutti quelli che volete, ma vivete... Fate in modo di essere voi a seppellire me, vi prego" – sussurrò, rivolto ai figli.

La mano di Demelza gli sfiorò la spalla, dolcemente. Si voltò e se la trovò alle spalle, con la camicia da notte addosso. "Ross, che ci fai ancora qui? Ormai dormono, vieni a letto".

"Li guardavo. E pensavo che siamo davvero fortunati ad avere tre bimbi così belli e sani".

Demelza sorrise, baciandolo sulla nuca. "Lo so". Lo scrutò in viso, cingendogli le spalle. "Cosa c'è? Sei diventato così taciturno stasera, tutto d'un botto. Eppure è stata una bella serata".

Ross finì di rimboccare le coperte a Jeremy e poi le fece cenno di seguirlo nel corridoio.

Rimasti soli, liberi di parlare, con Bella fra le braccia, Ross trovò il coraggio di raccontarle quanto gli aveva rivelato Dwight.

Demelza impallidì, tremò e si appoggiò al muro. "Sarah? Non è possibile, Caroline non mi ha detto niente e sembra così tranquilla...".

"Caroline non lo sa, Dwight non trova il coraggio per dirglielo".

Sua moglie deglutì e i suoi occhi si fecero lucidi. "Santo cielo, è una tragedia. Caroline e Dwight... E' la loro bambina. La loro prima bambina! E come la nostra...". Strinse i pugni, ricordando essa stessa Julia e tutto il dolore che la sua perdita aveva portato nelle loro vite. Lo abbracciò, stringendo a se la piccola Bella.

E Ross capì che anche lei, come lui, poteva ben immaginare a cosa sarebbero andati incontro i loro due amici. "Demelza, sta vicino a Caroline, quando succederà".

"E tu a Dwight. Avranno bisogno di noi". Demelza gli accarezzò la guancia, dolcemente. "Ross, stai bene?".

Scosse la testa. "Penso ai nostri figli e ho paura... Come ne avevo quando mi dicesti che aspettavi Jeremy. Amarli così tanto puo' portare a un prezzo molto alto da pagare".

"E' vero" – assentì lei. "Ma ne vale la pena. Cosa sarebbe la tua vita senza Jeremy, Clowance e Bella? Come sarebbe vuota la nostra anima senza i bei ricordi che loro ci hanno donato, venendo al mondo...?".

"Già, la nostra anima sarebbe vuota senza loro, senza i ricordi...". La baciò sulle labbra, cercando in lei la serenità che solo sua moglie sapeva donargli. "Hai ragione sai? Ne vale la pena. Anche se fa paura amare così tanto, certe volte".

Demelza annuì. "Lo so. Eppure non ci rinuncerei".

"Nemmeno io". La baciò di nuovo, affondando il viso nei suoi lunghi capelli rossi. "Buon anno, amore mio. Che sia felice, almeno per noi".




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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Si svegliò che ancora era buio e fuori nevicava incessantemente. L'alba era ancora lontana e sarebbe stata presumibilmente una giornata di gennaio freddissima e scura, con poca luce.

Ross si stiracchiò, attento a non svegliare Demelza. Quella mattina doveva recarsi alla miniera prestissimo, era una giornata importante e i suoi uomini più fidati probabilmente lo stavano già aspettando sul posto.

Avevano scoperto un nuovo filone di rame nelle parti più profonde della Wheal Grace e per raggiungerlo dovevano far saltare con la dinamite un pezzo di parete al terzo livello di profondità. Non era la prima volta che facevano qualcosa del genere ma mai così in basso. Il pericolo di crolli o incidenti era dietro l'angolo ma il gioco valeva la candela. Quel filone, unito allo stagno, avrebbe aumentato gli introiti della Wheal Grace e con essi, gli stipendi dei suoi minatori.

Si voltò verso Demelza, dandole un leggero bacio sulla fronte. La sera prima avevano discusso, sua moglie non era per niente contenta del fatto che lui andasse di persona a seguire i lavori, era in ansia e lo riteneva un irresponsabile a mettersi sempre in prima fila davanti al pericolo. Ma lui l'aveva baciata, le aveva garantito che si sarebbe svolto tutto nella massima sicurezza e aveva affermato che si sarebbe divertito come un pazzo. Aveva un po' bleffato, lo sapeva, in realtà era ben cosciente che sua moglie aveva ragione e che avrebbe dovuto fare più attenzione, ma da sempre era stato attratto dalle emozioni forti, dall'accarezzare il pericolo, dall'essere accanto ai suoi uomini che lavoravano per lui. Questo non sarebbe mai cambiato, avrebbe sempre fatto parte del suo essere e in fondo lo sapeva, Demelza lo amava anche per questo. Certo, ora era un marito e un padre, doveva ponderare i pericoli molto più di un tempo quando era solo, ma non sarebbe mai diventato una persona tranquilla e sonnecchiosa e sicuramente sua moglie non lo avrebbe nemmeno desiderato o preteso.

Attento a non fare rumore, le rimboccò le coperte, si alzò, si diede una lavata al catino e si vestì. La stanza era avvolta dalla semi oscurità ed era illuminata solo dal bagliore del camino che scoppiettava allegramente.

"Stai già uscendo?".

Preso alla sprovvista dalla voce di sua moglie, sussultò. "Scusa, non volevo svegliarti".

Demelza, assonnata, si mise a sedere sul materasso, stringendosi nella coperta. "Ho il sonno leggero stanotte. Sono in ansia".

"Per cosa?".

Sua moglie gli lanciò un'occhiataccia che finse di ignorare. "Resta a casa, Ross. Ho un brutto presentimento, lascia perdere la vena di rame. Esistono i picconi, potrete raggiungerla anche così".

"Ci metteremmo anni".

"Ma ci arrivereste VIVI".

Ross sorrise, si avvicinò al letto e si sedette accanto a lei, baciandola sulle labbra. "Andrà tutto bene, lo abbiamo fatto un sacco di volte, no?".

"E se ti dicessi che mi sentirei sola, se uscissi adesso?".

Le diede un altro bacio sulle labbra. "Mi farò perdonare la prossima notte".

Demelza lo guardò storto, buttandosi sul cuscino. "Mi farai venire i capelli bianchi prima del tempo".

Gli sorrise, stropicciandole i riccioli rossi sparsi sul cuscino. "Su, dormi. E' prestissimo e non hai motivo per stare sveglia". Si alzò dal letto e si avvicinò alla culla di Bella, stupendosi di trovarla sveglia e sgambettante. Probabilmente era stata svegliata dal suo colloquio con Demelza e ora se ne stava con gli occhi spalancati, tutta scoperta e felice di vederlo. La piccola gli fece un enorme sorriso a cui non seppe resistere. La prese in braccio, la baciò sulla fronte e la mise nel lettone, accanto a Demelza. "Su, tieni compagnia a mamma che si sente sola" – disse, scherzando.

La bimba rise, allungando la manina verso il suo mento. "Pa-pààà".

L'espressione di Ross si addolcì. "Ride sempre, non è mai scontenta" – osservò, guardandola con occhi innamorati.

Demelza abbracciò la figlia, stringendola al suo petto sotto le coperte. "E' una bimba felice".

Ross annuì. "E tu, sei felice?".

Demelza lo guardò negli occhi, seria. "Ne riparleremo stasera, quando tornerai a casa vivo, sano e salvo".

"Sembra una minaccia" – osservò lui.

"Lo è!".

Con un sospiro, Ross si tirò su dal letto. Le diede un altro bacio sulle labbra, le sorrise e, dopo averla salutata, uscì dalla stanza.

Nampara era avvolta dal buio e dal silenzio della notte e anche fuori i rumori erano attutiti dalla neve.

Di soppiatto andò nella camera dei figli più grandi. Entrambi dormivano profondamente, rannicchiati sotto le coperte. Diede loro un bacio sulla fronte, affranto dal fatto che sarebbe tornato a casa in tarda serata e per quella giornata non li avrebbe praticamente visti, poi scese al piano di sotto per fare colazione con del pane e marmellata che Demelza gli aveva preparato la sera prima.

Mangiò in silenzio e alla fine, pronto per uscire, si avvicinò alla cassapanca per prendere il suo tricorno. E a quel punto si accorse di non essere solo.

Sulle scale, davanti a lui, vestita con una camicina da notte bianca, comparve Clowance. Era assonnata e i lunghissimi capelli rossi le ricadevano disordinati sulle spalle e sulla fronte. Sembrava una bambolina spettinata ed era semplicemente adorabile. "E tu che ci fai qui?" - le chiese, stupito.

"Andavi via senza salutarmi?" - si lamentò la bimba.

Ross fece qualche scalino, si sedette e le fece segno di avvicinarsi. "Stavi dormendo, non volevo svegliarti".

Clowance non parve molto convinta della sua risposta. "Ma io voglio che mi saluti quando esci. Mamma ieri sera non era tanto contenta del lavoro che devi fare oggi".

"Mamma è un po' ansiosa. Ma lo sai, se oggi andrà tutto bene, in fondo alla Wheal Grace troveremo...".

"Un tesoro?" - chiese la bimba.

Ross scosse la testa, mascherando un sorriso. "No, semplicemente del rame. I miei tesori sono altri".

Clowance fece un sorrisetto furbo. "La mamma! La chiami sempre 'Amore mio', quindi è lei il tuo tesoro".

Le sorrise, dolcemente. Sua figlia era una grande osservatrice del mondo che la circondava, delle persone, e sapeva interpretare a volte meglio degli adulti i sentimenti altrui. "Certo, la mamma è il mio tesoro, è la donna che ho sposato e che amo, è la mia migliore amica, la mia compagna e la mamma dei miei bambini".

Soddisfatta da quella risposta, Clowance annuì. "Stai attento oggi o il tuo 'tesoro' stanotte ti manda a letto senza cena come fa con noi quando siamo cattivi".

"Lo prometto" – le rispose, lottando per non ridere.

"Papà, ma stasera quando torni, mi aiuti a imparare a scrivere il mio nome?".

Ross le accarezzò i capelli, la prese fra le braccia e se la mise sulle ginocchia. La casa era avvolta dal silenzio dell'alba, dormivano ancora tutti, anche Demelza doveva essersi riaddormentata ormai. "Oggi dovremo far saltare un tunnel con la dinamite alla miniera e tornerò davvero tardi, tu sarai già a letto. Ma domani starò a casa tutto il giorno e ti insegnerò".

Clowance sospirò. "Si ma... la maestra vuole che imparo! A me non piace la scuola, è difficile e mi annoio. Jeremy invece è contento di andarci e sa già scrivere il suo nome in corsivo. E io non ho voglia di imparare a scriverlo nemmeno in stampatello. A che mi serve scrivere?".

A Ross venne da ridere. Clowance odiava la scuola con la stessa intensità con cui Jeremy l'amava. In effetti suo figlio era uno scolaro modello mentre la sua principessa faceva molta fatica ad abituarsi a quella nuova avventura iniziata in autunno. "Ma tu non vuoi essere più brava in tutto? Se ti eserciti, presto diventerai brava a scrivere quanto Jeremy".

"Ma papà!" - sbottò lei. "Io sono già più brava di Jeremy in tante cose, fa niente se mi batte almeno nella scrittura! Mica posso essere perfetta!".

Ross la guardò e trovò che era fantastica. Arguta, intelligente, furba e con una notevole faccia tosta. Era sicura di se stessa, sapeva come far girare le cose a suo favore e sapeva stare al mondo sicuramente meglio di quanto sapesse fare lui. "Facciamo così, domani staremo tutto il giorno insieme e scriverò con te. Vedrai, ci divertiremo e impareremo insieme a scrivere meglio".

"Davvero?".

"Davvero".

Clowance annuì. "Anche perché tu papà, ne hai bisogno. Non scrivi mica bene come la mamma".

Ross rise. "Hai ragione! Allora a domani, va bene?". La mise a terra e si alzò in piedi, stava diventando tardi. "E ora dai, torna a letto o prenderai freddo".

Clowance sospirò e poi fece uno scalino. Infine si voltò verso di lui. "Anche se torni tardi stasera e io sto già dormendo, vieni a salutarmi lo stesso?".

"Anche se dormirai e dovrò svegliarti?".

"Si".

"Va bene".

Clowance sorrise, gli si avvicinò, gli prese la mano e la strinse. Poi gli saltò fra le braccia, dandogli un bacio sulla guancia. "Ti voglio bene papà! E ti aspetto".

La guardò correre su per le scale, verso camera sua. Era incredibile quanto adorasse quella bambina, quanto sapesse renderlo sereno e tranquillo quando gli era vicina e quanto si sentisse legato a lei, forse più che con gli altri suoi figli. Erano anime affini lui e Clowance, stesso carattere, stessa testa dura, stesso modo di fare orgoglioso. Ed era bellissima, somigliava a Demelza in maniera incredibile e ci avrebbe scommesso tutti i suoi soldi: sua moglie, da bambina, doveva essere identica a lei d'aspetto, anche se di certo Clowance era più pulita, curata e raffinata di quanto non fosse stata Demelza a quell'epoca.

Con un sospiro, rammaricandosi di lasciare il tepore domestico, uscì di casa, salì sul suo cavallo e si avviò verso la Wheal Grace.

Nevicava forte, incessantemente. Le zampe del suo cavallo affondavano nella neve e i fiocchi gelidi gli ferivano il viso e gli occhi.

Quando arrivò alla miniera, i suoi dieci compagni d'avventura erano già la.

"Capitano!" - disse Zachy, avvicinandosi per prendere il cavallo – "Ben arrivato! Cominciavamo a temere che Demelza ti avesse legato al letto per impedirti di venire".

Ross rise. "Credo le sia anche passato per la testa, sai?".

Zachy annuì. "Ah, lo so! La signora è una che sa quel che vuole, dicono che quando è a Londra conclude affari con la stessa facilità con cui noi leghiamo fascine di fieno".

"Si, è molto brava, ci sa fare con gli affari". Ross lasciò all'amico il cavallo e con gli altri minatori entrò in miniera, aprendo la botola per scendere ai piani sottostanti. "Avete preparato le cariche?" - chiese, scendendo gli scalini.

Paul, dietro di lui, annuì. "Certo, ieri sera, come ci avevate chiesto".

"Ottimo".

Ross scese nei tunnel più profondi, facendosi luce con una torcia. Toccò la parete, osservandola con sguardo clinico per trovarne i punti più deboli e friabili. Poi andò in fondo alla parte di tunnel già scavato, fermandosi in fondo. Una volta fatta saltare la parete laterale con la dinamite, da quella posizione avrebbe raggiunto agevolmente il punto venuto allo scoperto dopo l'esplosione. "Ok Paul!" - urlò all'amico dall'altra parte del corridoio – "Chiama Zachy e Sven e dì loro di procedere con la dinamite".

"Certo! Ma non è rischioso per te rimanere lì?".

Ross alzò le spalle. "Ma no! Al massimo mangerò un po' di polvere, ci sono abituato".

"D'accordo! Allora procediamo immediatamente" – rispose il minatore, sparendo sulla scaletta che portava al piano superiore.

Rimasto solo, Ross si aggrappò alla parete, in attesa che la dinamite facesse il suo lavoro.

Improvvisamente, tutto tremò attorno a lui. Fumo, detriti e una forte detonazione che gli ferì le orecchie, lo investirono in pieno. Chiuse gli occhi trattenne il fiato ed aspettò che gli effetti dell'esplosione, arrivata improvvisa e violenta come solo la dinamite sapeva fare, cessassero.

Sentì le braccia e il viso bruciargli per la polvere e i sassi che lo colpivano con violenza, si chinò e si rannicchiò per salvarsi il viso e per riuscire a respirare, chiuse gli occhi e attese, mentre le orecchie gli fischiavano per il frastuono generato dall'esplosione.

Improvvisamente, la parete contro cui si era rifugiato scricchiolò. Aprì gli occhi, sentendola improvvisamente crollare davanti a lui e non trovando più in essa un punto di appoggio e di riparo, perse l'equilibrio. Imprecò, maledicendosi per quel malcalcolato effetto collaterale. La parete, in quel punto, avrebbe dovuto rimanere integra...

Ma non fece in tempo a pensare a come ritrovare l'equilibrio per non cadere. Una voragine si aprì davanti a lui e cadde nel vuoto. All'ultimo riuscì ad aggrapparsi a uno spuntone di roccia ma sotto di se aveva il vuoto, la polvere lo avvolgeva e non c'era nessuno abbastanza vicino per aiutarlo.

Guardò sotto di se, con le gambe penzoloni nel nulla. Era buio, scuro, non si vedeva il fondo... Tentò di tirarsi su, di riguadagnare il tunnel ma la roccia a cui era aggrappato gli stava ferendo la mano e i postumi dell'esplosione lo avevano stordito.

Per un attimo pensò a Francis e a quello che doveva aver provato quando, nel buio di quella stessa miniera, solo, aveva trovato la morte. E poi pensò a Jeremy a cui aveva promesso di insegnare a cavalcare un vero cavallo, alla vocina di Bella che lo chiamava 'pa-pààà', al suo colloquio di poco prima con Clowance, la sua bellissima principessina. Se fosse precipitato non avrebbe potuto mantenere la parola data con nessuno di loro, non li avrebbe visti crescere, non avrebbe visto Jeremy farsi uomo e non avrebbe difeso le sue bimbe dalla fila di corteggiatori che sicuramente avrebbero avuto di lì a qualche anno.

Non voleva morire, non ora che era tanto felice, non in maniera tanto stupida. Non era per se, ma per il dolore che avrebbe procurato a chi amava. Non poteva essere, non poteva permetterlo. Tentò di tirarsi su, di risollevarsi, ma la roccia del tunnel prese a sbriciolarsi.

Improvvisamente, sentì che stava perdendo la presa sullo spuntone. Tentò di urlare, di chiedere aiuto, ma dalle sue labbra uscirono solo flebili suoni coperti dalla tosse causata dalla polvere.

Le dita persero la presa sulla roccia, cadde giù per quelli che gli sembrarono istanti infiniti, abbracciato solo dal vuoto.

Il suo ultimo pensiero razionale fu per lei, Demelza, il suo amore, la sua stella, la vera luce della sua vita. Ancora una volta non l'aveva ascoltata, ancora una volta aveva avuto ragione lei... Lo avrebbe odiato, lo avrebbe maledetto a vita e sì, ne avrebbe avuto mille ragioni... Non l'avrebbe più vista, abbracciata, baciata, amata... L'avrebbe lasciata sola con tre figli da crescere... "Perdonami, amore mio" – pensò. Poi impattò contro qualcosa di molto duro e fu come rompersi in mille pezzi.

E infine anche l'ultima immagine di Demelza, dolce e rassicurante, sparì dalla sua mente. E tutto si fece buio e immobile, lontano... Perso per sempre, come se una cortina di nebbia e oscurità fosse calata fra lui e il mondo circostante.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Quella mattina aveva lasciato Bella, ancora addormentata, alle cure di Prudie e Jud e aveva accompagnato di persona Jeremy e Clowance a scuola.

Il cielo era plumbeo, faceva freddo e sembrava che dovesse iniziare a nevicare da un momento all'altro. Il vento gelido sferzava i loro visi e Demelza strinse a se i due bambini, coperti da pesanti mantelline.

"Era meglio se oggi non ci portavi a scuola, mamma! Sai che potrei ammalarmi tantissimo?" - sbottò Clowance, che si stava facendo trascinare, come al solito per niente felice di sedersi dietro a un banco.

Jeremy ridacchiò. "Dice così perché non sa ancora scrivere il suo nome, mamma! E' una somara".

"STA ZITTO!" - urlò la bimba, liberandosi dall'abbraccio della madre per correre a picchiare il fratello.

"Ora basta!". La voce di Demelza, acuta e perentoria, pose fine a ogni discussione. "Clowance, se non vai a scuola, non imparerai mai niente!" - disse, rivolta alla figlia, prima di voltarsi verso Jeremy. "E tu smettila di prendere in giro tua sorella! E' ancora piccola e ha tutto il tempo per diventare una bravissima scolara".

Clowance sbuffò. "Ma io non voglio diventare una brava scolara, io voglio stare a casa con te e con Bella! Perché lei non va a scuola?".

Jeremy le fece la linguaccia. "Vedi che sei una somara e non capisci le cose? Lei ha un anno, come fa ad andare a scuola?".

Demelza si morse il labbro. Quella mattina la sua pazienza sembrava svanita chissà dove e il suo umore era pessimo. Odiava il lavoro che Ross avrebbe svolto alla miniera quel giorno, era preoccupata e allo stesso tempo arrabbiata con lui e con la sua imprudenza. Era un lato del carattere di suo marito che non sarebbe cambiato mai. Per quanto la amasse, per quanto venerasse i suoi figli, aveva comunque bisogno di vivere esperienze forti e oltre il limite del pericolo. Non importava quanto lei si preoccupasse, quanto rischiasse di perdere se qualcosa non fosse andato per il verso giusto, da quel punto di vista Ross non sarebbe cambiato mai. Certo, non lo voleva pantofolaio e statico a casa, però avrebbe voluto che ogni tanto, per amor suo, si frenasse un po' dal lanciarsi in attività così pericolose.

Fu proprio mentre era persa in quei pensieri così foschi, che vide Zachy venirle incontro, a cavallo. Sentì contorcersi lo stomaco alla sua vista e risvegliarsi in lei le sue più profonde paure? Che ci faceva lì uno dei minatori più valenti della Wheal Grace? Perché non era in miniera con Ross, a terminare il lavoro che avevano iniziato quella mattina all'alba? Perchè non era al suo posto di lavoro, accanto a suo marito?

"Signora Poldark!" - disse l'uomo appena le fu davanti, fermando il cavallo – "Stavo giusto venendo a Nampara".

Demelza lo guardò. Era coperto di fango e polvere fino alla punta dei capelli, il suo sguardo era stanco e sconvolto nonostante fosse solo mattina e no, non era affatto normale che stesse venendo a casa sua. "A Nampara? Perché?" - chiese, stringendo a se i figli in un gesto istintivo.

Zachy deglutì, abbassando il viso, in evidente difficoltà. "Ecco...".

"Cosa? Zachy, che è successo?" - chiese Demelza, sbottando e alzando il tono di voce.

L'uomo abbassò lo sguardo. "Signora, c'è stato un grave incidente e il signor Poldark... Ross...".

Sentì il fiato venirle meno, strinse a se le manine dei suoi due bambini che la guardavano smarriti e spaventati e poi non lo lasciò nemmeno finire di parlare. Corse come una pazza, trascinandosi dietro i suoi figli, diretta alla Wheal Grace, con lo stesso terrore nel cuore di quattro anni prima quando aveva rivisto Ross privo di sensi, in una trafficata strada di Londra, dopo il suo incidente a cavallo.

Non poteva essere, non di nuovo! Pregò Dio, pregò tutti gli angeli del cielo, pregò lo spirito di sua madre e quelli di Joshua e Grace, i genitori di Ross, che non si fosse fatto nulla di grave, che niente glielo avrebbe strappato di nuovo. Non avrebbe potuto sopportarlo, non ora che erano tanto felici insieme, che avevano ricostruito la loro famiglia e spazzato via ogni fantasma del passato, non ora che aveva tre figli che lo adoravano e idolatravano...

Non ora che lui era felice e sereno e aveva trovato il suo posto nel mondo e il suo posto nel mondo erano lei e i bambini...

Non sapeva cosa si fosse fatto, non ne aveva idea. Sapeva solo che doveva correre alla miniera, subito! E anche se si stava comportando irrazionalmente, anche se sapeva di spaventare i suoi figli, non poteva fare altro che precipitarsi da lui per scoprire cosa gli fosse successo.

Quando giunse alla Wheal Grace, un capannello di minatori coperti di fango era radunato davanti all'ingresso della miniera.

Appena la vide, il capitano Henshawe le corse incontro. Il suo sguardo era grave, colmo di preoccupazione e dolore e Demelza sentì le viscere rivoltarglisi dentro. "Cos'è successo?" - chiese, avventandosi contro di lui e prendendolo per il bavero. "Dov'è Ross? Dov'è???".

Henshawe le prese le mani, stringendole delicatamente fra le sue. "Signora Poldark, c'è stato un incidente durante l'esplosione della carica di dinamite. Uno di quegli effetti collaterali non calcolati che possono capitare, nel nostro lavoro".

Dinamite, effetti collaterali... Non ci capiva niente, non voleva capire niente!!! La vista le si oscurò e i suoi occhi si inumidirono, mentre sentiva la presa delle mani dei suoi due bambini farsi più forte, sulla sua gonna. "Dov'è Ross?" - chiese ancora, con un filo di voce.

Henshawe guardò verso l'imbocco della miniera con fare sconfitto. "Laggiù, da qualche parte. Lo stiamo cercando... Una parete è crollata e lui è caduto in un cunicolo sottostante, insieme a massi e calcinacci. Non sarebbe dovuto succedere...".

"Voglio andare da lui!" - disse Demelza, disperata, quasi straparlando.

Zachy, giunto alle sue spalle, la prese per il braccio. "Signora Poldark, ci sono già uomini valenti e vigorosi laggiù, che lo stanno cercando. E' meglio che stiate qui, al sicuro. Ross non vorrebbe che voi...".

"E' MIO MARITO!" - urlò. Che ne sapevano loro? Era suo marito quello intrappolato laggiù, probabilmente ferito o forse... Beh, non voleva pensarci! Sapeva solo che doveva andare da lui, cercarlo, salvarlo e picchiarlo per la sua avventatezza. O piangerlo... Cosa ne sapevano quegli uomini di cosa stesse provando in quel momento? Cosa ne sapevano dell'amore che la legava a lui? Cosa ne sapevano di come il suo cuore si spezzasse all'idea che poteva averlo perso per sempre? Quel suo uomo così testardo, a volte scorbutico, appassionato, dolce e sensibile... Come potevano fermarla? "Io vado da lui!" - gridò, cercando nuovamente di svincolarsi dalla stretta di Zachy. Conosceva quelle miniere, sapeva com'erano i cunicoli, una notte d'estate di alcuni anni prima in cui non riuscivano a dormire per il caldo, lei e Ross ci erano stati durante una cavalcata notturna.


"E' sempre così buio quaggiù?"

Ross rise. "Usiamo torce e lanterne, di solito".

Rispose al suo sorriso. "Sai, siamo nel cuore della terra, soli, lontani da tutto. Ma con te credo di non aver paura da nessuna parte, nemmeno qui, nel buco di una miniera".


Pianse a quel ricordo così dolce, intimo, solo loro. Rivoleva Ross, voleva sapere come stava, se era vivo o ferito, se aveva bisogno di lei. "Per favore..." - implorò.

Zachy ed Henshawe scossero la testa. "Signora Poldark, fatelo per i vostri bambini, se non volete farlo per voi stessa" – le disse infine il capitano, indicandole i due bimbi accanto a lei, pallidi e spaventati.

Demelza si morse il labbro. Odiava il senso di quella frase e l'aveva inteso benissimo. Non le stavano chiedendo di non andare per tranquillizzare Clowance e Jeremy, la stavano implorando di non rischiare di renderli orfani anche della loro madre. Davano Ross per morto! Quegli uomini conoscevano la miniera, ne sapevano calcolare costi, benefici e rischi e se dicevano che Ross... No, non poteva essere! Lui era forte, intelligente e sapeva sempre schivare all'ultimo il pericolo, si sbagliavano, DOVEVANO sbagliarsi!

Dwight arrivò in quel momento, trafelato, chiamato a casa da un minatore. "Demelza, mi sono precipitato subito qui, appena ho saputo...".

Era bello e in un certo senso tranquillizzante vedere il volto amico di Dwight, avrebbe voluto dirgli mille cose, ma non riuscì a fare nulla. Voleva solo piangere e rimanere da sola per un po' per sfogarsi e pregare, mentre quegli uomini si battevano per salvare suo marito. Si sentiva spersa, inutile, disperata e sola come non le capitava da anni, quando era arrivata a Londra dopo aver lasciato Nampara.

Si liberò dalla presa dei bambini, superò quegli uomini che la attorniavano ed entrò nell'ufficio di Ross. Era deserto, era sola davanti a quella botola aperta da cui, in profondità, sentiva arrivare le voci dei minatori.

Si sedette alla scrivania, accarezzò le carte scritte da suo marito, aprì il cassetto e rimase ad osservare la conchiglia portafortuna che Clowance gli aveva regalato anni prima e che lui aveva orgogliosamente tenuto con se, dicendole che l'avrebbe conservata per quando fosse stata grande e avrebbe preferito un altro uomo a lui... Ross la amava sopra ogni altra cosa, lei e i loro tre bambini... Non poteva essere morto, non avrebbe mai potuto abbandonarli...

Una manina si posò sulla sua. Sussultò, trovandosi accanto i suoi due figli.

Jeremy la abbracciò, come per farle coraggio. "Mamma, vedrai che sta bene! Papà è forte, non pensarla come quegli uomini. E' vivo e quando lo rivedrai, potrai sgridarlo perché non ti ha ascoltata".

Clowance annuì, salendole sulle ginocchia e rannicchiandosi fra le sue braccia. "Lui mi ha promesso che mi insegnava a scrivere il mio nome e papà mantiene sempre le sue promesse. Non è morto, vedrai".

"No, non è morto, avete ragione" – sussurrò, stringendoli a se. Avrebbe voluto che tutto fosse facile, semplice, come dicevano loro...

In quel momento delle urla fortissime provennero dalla botola. Demelza e i bambini alzarono lo sguardo, raggiunti subito da Zachy, Dwight e Henshawe. Un uomo coperto di fango comparve davanti a loro, salendo dai cunicoli. "Lo abbiamo trovato, lo stiamo portando su. Abbiamo bisogno di un dottore e con la massima urgenza".

Demelza, seguita da Dwight, si avventò su di lui. "Come sta?".

L'uomo, col fiato corto, annuì. "E' piuttosto malconcio, privo di sensi e sporco di polvere fino alla punta dei capelli. Ma è vivo!

Demelza si lasciò cadere a terra. Le gambe le tremavano e le sembrava che il mondo le vorticasse attorno. Era vivo... Solo questo era importante, il resto si sarebbe sistemato da solo, col tempo. Ferite, lesioni, tutto... Ci erano già passati una volta e potevano farlo ancora. Rilasciò il respiro, tenuto per tutti quegli interminabili minuti, da quando aveva saputo...

"Te lo avevo detto, mamma!" - esclamò Clowance, correndole accanto.

Le strinse la manina, baciandogliela. "Già".

Dwight guardò tutti i presenti. "Uscite da qui, se è ferito, avrò bisogno di spazio per prestargli le prime cure e non voglio troppa gente attorno. Ha bisogno di ossigeno e di aria".

"Io resto!" - disse Demelza, perentoria.

Dwight annuì. "Sì, tu resta".

A malincuore, Demelza costrinse i bambini a uscire con Zachy e Henshawe e poi rimase in attesa che portassero Ross fuori da quella trappola mortale.

Passarono cinque minuti che le parvero interminabili e infine sentì delle voci provenire dalla botola, sempre più vicine. Due uomini comparvero davanti a lei, col viso distrutto dalla fatica. Uno reggeva Ross sulle spalle e l'altro, dietro di lui, gli teneva le gambe. Quando furono nell'ufficio, lo adagiarono a terra e Demelza si precipitò al suo fianco. Era coperto di fango, privo di sensi, sporco come non mai, pieno di ferite ed escoriazioni dappertutto. I suoi abiti erano stracciati e macchiati di sangue, era pieno di ematomi e sanguinava dalla testa. "Ross" – lo chiamò, accarezzandogli la guancia e prendendogli la mano, senza avere risposta.

Dwight si inginocchiò al suo fianco, sfiorando il polso di suo marito. "E' debole, ma il cuore batte". Gli tastò il petto e il torace, accigliandosi. E poi diede un occhio alla ferita che aveva in testa. "Ha delle costole inclinate e dovrà stare a letto per un bel po', però nonostante tutto, come al solito, gli è andata di lusso, a prima vista".

"E allora cosa c'è che non va?" - chiese Demelza, colpita dal tono grave usato dall'amico, nonostante quelle che sembravano essere buone notizie.

"Ha una ferita in testa nell'esatto punto in cui si era ferito a Londra quattro anni fa. Spero non ci siano conseguenze".

Demelza deglutì. "Quali conseguenze?".

Dwight scosse la testa. "Potrebbero non essercene. O chissà... Difficile dirlo, finché non si sveglia non potremo sapere nulla. Ora dobbiamo portarlo a casa, qui non posso fare molto".

Demelza si alzò in piedi e si diresse verso la porta dove notò i suoi due bambini che, sfuggiti alle cure dei minatori, erano corsi a sbirciare le condizioni del padre. Gli sorrise, sforzandosi di apparire positiva. "Coraggio, avete sentito, no? Andiamo a cercare una carrozza, portiamo papà a casa".

Clowance e Jeremy annuirono.

"Visto? Lui è più forte dei massi" – esclamò Jeremy.

"E mi insegnerà a scrivere il mio nome, appena si sveglia" – aggiunse la bimba, convinta delle sue parole, spinta dall'assoluta fiducia che riponeva nel suo papà.


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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Avevano adagiato Ross, ancora privo di sensi, nella loro camera da letto e Dwight si era chiuso dentro per una lunghissima ora a visitarlo e curarlo.

Demelza, seduta davanti al camino con Bella in braccio e i due figli più grandi vicini, aspettava di sapere delle notizie.

Era nervosa, preoccupata, disperata. Continuava a picchiettare il piede contro il pavimento, si mordeva le labbra e rispondeva con fare assente alle incessanti domande di Jeremy e Clowance che volevano essere rassicurati.

Prudie cercò di attirare l'attenzione dei bambini proponendo loro uno spuntino, ma i due piccoli Poldark non ne avevano voluto sapere di allontanarsi dalla mamma.

"Secondo te quando si sveglia papà, mamma?" - chiese Jeremy, sfiorandole la spalla.

"Non lo so".

Clowance le prese la mano, stringendola convulsamente. "Ma tu sai tutto, devi saperlo! Lo dice anche papà che ne sai più di lui!".

A quelle parole, Demelza digrignò i denti con rabbia. Era furente, oltre che preoccupata, con lui. "E allora, se sapeva che ho sempre ragione, perché diavolo non mi ha ascoltata stamattina, quando gli ho chiesto di non andare in miniera?".

Il suo tono risultò iroso e di rimprovero, tanto che la piccola Clowance sussultò e indietreggiò spaventata. E a quella reazione, Demelza si sentì impotente e in colpa. Non ce l'aveva certo con sua figlia e lo sapeva, i bambini avevano solo bisogno di quelle risposte che a sua volta voleva disperatamente pure lei. Si sentiva importente a stare lì, ferma, ad aspettare che Dwight emettesse il suo verdetto. "Mi dispiace Clowance, non volevo alzare la voce. Sono solo molto preoccupata e finché Dwight non finisce di visitare papà, non posso sapere niente nemmeno io".

I passi di Dwight, che in quel momento scendeva le scale, la fecero sospirare di sollievo e allo stesso tempo la terrorizzarono. Poteva portare cattive notizie, le sue parole avrebbero potuto cambiare la sua vita e quella dei suoi figli per sempre. Si alzò di scatto dalla sedia, andandogli incontro, stringendo a se la piccola Bella che, come se capisse la gravità della situazione, stava ferma e buona. "E allora?".

I bimbi, Prudie e Jud si avvicinarono a loro due e il dottore fece segno a Demelza che preferiva parlarle quando fosse stata sola.

Fu Jeremy a intromettersi fra i due, contrario a questa ipotesi. "Io voglio restare qui e sapere cos'ha papà! Sono grande ormai per essere mandato nell'altra stanza".

"Anche io voglio rimanere" – rimarcò Clowance, stringendosi alla gonna della madre.

Jud emise un gemito strozzato. "Se restano le due mezze tacche, restiamo anche noi. Vogliamo sapere come sta il padrone".

Dwight sospirò. "Ross... Il vostro papà... Ecco, come temevo ha due costole inclinate che lo costringeranno a letto per un po' e quindi dovrete fare attenzione che non faccia di testa sua. Va tenuto a riposo finché lo dirò io, quindi tutti voi dovrete impegnarvi per impedirgli di alzarsi dal letto".

Demelza, sentendo quelle parole, sospirò dal sollievo. Se quelle erano le preoccupazioni di Dwight, non c'era in fondo da preoccuparsi troppo, no?

Clowance si avvicinò al medico, tirandolo per i pantaloni. "Ma se sta a letto, poi guarisce?".

"Certo piccola, sta tranquilla, le costole si sistemano".

"Si è svegliato?" - chiese Demelza. Le costole potevano essere aggiustate, Dwight aveva ragione, ma la ferita alla testa? Era preoccupata per quello che lui le aveva detto alla miniera, le aveva aperto una possibilità di incognite ignote... "La ferita alla testa?".

Dwight osservò i bambini e i servi. "Dorme ancora profondamente e non so dirvi quando si sveglierà. Non è una situazione di coma profondo come a Londra, quindi i tempi di ripresa saranno più brevi, ma...".

Demelza deglutì. "Ma?".

Dwight le fece cenno di seguirla in camera, da Ross. Da soli! Demelza diede Bella a Prudie e ordinò ai bambini di rimanere buoni in salotto ad attenderla. "Avete sentito, no? Papà si riprenderà ma ora devo parlare bene e da sola con Dwight, deve spiegarmi come prendermi cura di lui mentre dorme. E' inutile che veniate, siete troppo piccoli per aiutarmi e preferisco che restiate qui".

"Io non sono piccolo!" - protestò Jeremy. "E posso aiutarti! Non è che non mi vuoi perché Dwight ti deve dire cose brutte su papà?".

Demelza rimase colpita ancora una volta dalla sensibilità e dall'intelligenza di suo figlio. "No, sta tranquillo, non ti nasconderò niente".

Jeremy scosse la testa, per nulla rinfrancato. "Va bene" – disse, poco convinto.

Demelza, a malincuore, seguì Dwight fino alla sua camera.

Ross era nel loro letto, immobile, sotto a pesanti coperte. Era stato ripulito e cambiato e aveva una fasciatura attorno alla testa. Dwight le fece cenno di avvicinarsi al marito e Demelza, ubbidendo, si sedette sul letto accanto a lui, baciandolo sulla fronte e prendendogli la mano. "E allora? Che dovevi dirmi?".

Dwight scosse la testa. "Il discorso che ti ho fatto alla miniera, ovviamente è ancora valido. Dobbiamo aspettare che si risvegli per verificare se ci sono stati danni".

"Che tipo di danni?".

"Puo' essere qualsiasi cosa. Difficoltà a muoversi, parlare, incapacità di usare la logica, problemi di memoria... O anche nulla, se è fortunato".

Demelza sentì una lacrime bagnarle la guancia. "E questi danni... possono essere guariti?".

"A volte sì, a volte no".

Si sentì morire. Un'uomo vitale come Ross, forte, coraggioso, indomito e incapace di stare fermo, poteva essere condannato a vivere la sua esistenza in quel letto, nel peggiore dei casi. Si chiese come avrebbe potuto aiutarlo a sopportarlo, se fosse successo, come avrebbe potuto sopportarlo lei... "Non doveva andare in miniera Dwight, lo avevo impolorato di restare a casa, me lo sentivo che sarebbe successo qualcosa".

Dwight sorrise tristemente. "E' testardo come un mulo, lo sai". Le si avvicinò, poggiandole delicatamente una mano sulla spalla. "Devi essere forte Demelza, so che è difficile ma tu e lui, insieme, potete affrontare ogni guerra che la vita vi costringe a combattere. Lo avete già dimostrato, no?".

Demelza scosse la testa, piangendo sommessamente. "Io devo essere sempre forte ma sai, comincio a essere stanca... Non sono indistruttibile, non posso sempre reggere, vorrei che per una volta fosse lui a dover essere forte per me, vorrei essere io quella che ha bisogno".

"Lo so".

Demelza si accasciò contro di lui, piangendo sul suo petto e Dwight la abbracciò, accarezzandole i lunghi capelli rossi. "Demelza, piangi se vuoi, ti farà bene".

"Perché Dwight? Perché fa sempre queste cose così pericolose e non pensa a noi, a come potremmo soffrire se gli succedesse qualcosa? Perché, a volte, sembra che per lui valiamo così poco?".

"No!". Dwight le sfiorò il viso, costringendola a guardarlo in viso. "Demelza, lui ti ama sopra ogni altra cosa. Tu e i bambini siete il suo mondo e siete la sua priorità. Io lo ricordo Ross quando eravate lontani, era disperato, distrutto, senza scopi nella vita. Anche in guerra si lanciava in missioni assurde e pericolose ma allora era diverso, era come se volesse punirsi, come se volesse morire, come se in un gesto eroico potesse riacquistare un po' di quel rispetto verso se stesso che aveva perso la notte che ti aveva tradita. Ma ora è diverso, ora è felice e vuole che lo siano anche le persone che ha accanto e a cui vuole bene. I minatori sono la sua gente e si sente responsabile nei loro confronti, è come se per lui essere in prima linea sia una missione di vita. E soprattutto, vuole che tu sia orgogliosa di lui".

Nonostante tutto, Demelza sorrise. Osservò Ross accanto a loro, accarezzandogli dolcemente la mano mollemente appoggiata sulle coperte. "Ma non ha bisogno di farlo rischiando la vita. Io sono già orgogliosa di lui, del marito e del padre che è".

Dwight le accarezzò nuovamente la guancia. "Ce la farete, voi due insieme lottate come leoni e niente puo' abbattervi. Sposarti è stata la più grande fortuna della sua vita, ha trovato il vero amore in te, un tipo di amore raro e che per lui è prezioso più di qualsiasi altra cosa esista al mondo".

Demelza rimase colpita da quelle parole che la riportavano a quei giorni lontani e a quel matrimonio organizzato in fretta e furia senza che né lei né Ross sapessero dargli un significato preciso. "Non ci siamo sposati per amore... Credo ci abbia messo un bel po' ad amarmi e che la scelta di sposarmi sia stata dettata da necessità, rabbia verso coloro che avevano appena condannato Jim Carter alla prigione, sprezzo delle regole di una società aristocratica che lui odiava. Sposando me, era come dire no a quel mondo di cui faceva parte per nascita ma che non sentiva suo. Mi voleva bene, ero una buona domestica per lui, a volte la sua confidente e con me è sempre stato gentile dopo il matrimonio, ma... di certo all'inizio non mi amava. Ero una benda contro la solitudine e la rabbia per aver perso Elizabeth, un diversivo, un intrattenimento per la notte..." - concluse, arrossendo leggermente. "Certo, poi le cose sono cambiate ma per tanto tempo ho dovuto condividere, nel suo cuore, il posto con Elizabeth".

Dwight abbassò il viso, forse in imbarazzo per quella confessione così intima. "Ha sposato la donna giusta per lui, non pensare ad altro. Ti ama sopra ogni altra cosa, come non avrebbe mai potuto amare Elizabeth. E i vostri figli sono un pezzo del suo cuore, morirebbe senza di voi. Stagli vicino ora, Demelza, anche se sei arrabbiata! Quando starà meglio, ti autorizzerò a picchiarlo per la sua avventatezza".

Demelza si morse il labbro. "Spero di reggere e che questa prova non sia così dura. Ora che sta così, dovrò occuparmi da sola di Nampara, dei conti della miniera, dei bambini e degli animali. E dei miei affari a Londra...". Cercò la mano di Dwight, stringendola nella sua. "Spero che non starà così male per sempre, che si riprenda e che torni ad essere il mio Ross. Ho bisogno di lui e ne hanno anche i nostri bimbi".

Dwight sospirò. "Cerca di riposare e lascia da parte le faccende meno importanti, occupati solo di lui e dei vostri figli finché le cose stanno così. Se tu crollassi, sarebbe un grosso guaio. Sei la roccia di questa casa e di questa famiglia e Ross non se lo perdonerebbe mai. Vorrei poterti mandare qui Caroline per una parola di conforto, ma in questi giorni non si sente troppo bene nemmeno lei".

Demelza lo guardò, accigliata e preoccupata. Caroline era la sua migliore amica e negli ultimi tempi si erano viste pochissimo. Era cambiato tutto dai tempi di Londra, ora lei era una donna sposata e aveva una figlia che aveva faticato tantissimo ad accettare, durante la gravidanza, ma che ora amava con tutto il cuore. "Cos'ha?".

Dwight, sconfitto, scosse la testa. "La scorsa settimana, di notte, Sarah ha avuto una piccola crisi respiratoria e... anche se ho risolto la cosa, ho dovuto dirle la verità, come mi aveva consigliato di fare Ross a Capodanno".

"Dwight...". Gli occhi di Demelza si inumidirono ancora e lo abbracciò senza dire nulla. In fondo, cosa c'era da dire? Conosceva quel dolore terribile e lancinante che si prova quando si perde un figlio e poteva immaginare l'inferno che stavano attraversando i suoi due amici nel vedere la loro splendida e biondissima figlia indebolirsi sempre più, sapendo di non poter far nulla per salvarla. Lo abbracciò forte, Dwight aveva bisogno di sostegno e conforto proprio come ne aveva lei in quel momento. Erano due anime perse del tutto simili, si rese conto, bisognose di un appiglio per non affondare e con davanti il baratro nero rappresentato dalla possibilità di perdere una persona amata. "Io sono qui Dwight, per ogni cosa di cui possiate avere bisogno".

"Demelza, tu hai già fin troppi problemi per pensare anche ai nostri".

La donna scosse la testa, sorridendo sommessamente. "Ross mi ha chiesto di aiutarvi e io voglio farlo. Mi hai detto di pensare alle cose importanti e di lasciare da parte quelle superflue, no? E tu e Caroline siete importanti perché se non fosse per voi, io non sarei stata così felice in questi quattro anni, non sarei qui nella mia casa, i miei bambini non avrebbero avuto un padre e Bella nemmeno esisterebbe. Tu sei importante per noi e Ross, al mio posto, ti direbbe le stesse cose. E' un momento difficile in cui restare a galla puo' risultare quasi impossibile per ognuno di noi e mi chiedo come abbia potuto cambiare tutto quanto da Capodanno quando, in questa stessa casa, festeggiavamo il nuovo anno felici e spensierati. Aiutiamoci, è l'unica cosa che possiamo fare per non sentirci soli nel dolore e non affondare".

Dwight sorrise, baciandole la fronte. "Credo di capire perché Ross ti ama così tanto" – le sussurrò, fra i capelli.

Demelza non disse nulla, cullata dalla presenza di Dwight di cui aveva bisogno più di ogni altra cosa. E le sue parole erano quanto di più prezioso possedesse in quel momento e ne avrebbe fatto la sua ragione di lotta per riportare Ross da lei.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Lui dormiva, come a Londra, lontano da ogni cosa, da ogni persona... Sembrava tutto così simile a quattro anni prima ma in realtà non era così, era tutto diverso. Erano a Nampara ora, nella casa dove si erano conosciuti e amati, dove avevano riso e sofferto, litigato e fatto pace, dove erano nati quasi tutti i loro figli e dove desideravano passare il resto della loro esistenza. Era diverso da Londra, lei era diversa. Quattro anni prima lo aveva rivisto in un frangente della sua vita dove erano distanti, quasi estranei ormai. O almeno ne era convinta anche se poi rivederlo, lottare per la sua vita e prendersene cura, le avevano fatto riscoprire un sentimento tutt'altro che morto. Ma ora era diverso, erano felici, si amavano e non c'erano più ombre fra loro.

Gli passò un panno umido sul petto, chiedendosi quando si sarebbe svegliato, desiderosa di rivedere i suoi occhi ma allo stesso tempo terrorizzata di scoprire quali conseguenze avesse lasciato su di lui l'incidente alla miniera.

La porta della stanza si aprì e i suoi tre figli entrarono. Jeremy teneva in braccio Bella e per mano Clowance e si rese conto che suo figlio, in quel momento, sentiva su di se il dovere di essere l'uomo di casa.

"Ma-mmmmaaaa".

Bella allungò le braccia verso di lei e Demelza la abbracciò, mettendosela sulla ginocchia. In quel momento si sentiva sola e allo sbaraglio, terrorizzata da mille incognite e schiacciata dalla paura e i suoi tre bambini erano l'unica cosa positiva della sua vita, la sua unica forza. "Su, venite" – sussurrò loro, abbracciandoli.

"Come sta papà? Dorme da due giorni, quando si sveglia?" - chiese Jeremy.

"Nessuno puo' dirlo" – rispose Demelza, con sincerità. Ross sembrava più reattivo agli stimoli rispetto a quattro anni prima, però ancora non si era svegliato da quel sonno infido e profondo. "Bisogna solo aspettare".

Clowance si divincoltò dal suo abbraccio, avvicinandosi al viso di Ross e dandogli un bacio sulla guancia. "Papà, ma quando ti svegli? Ti ricordo che devi insegnarmi a scrivere il mio nome, me lo hai promesso e sei già in ritardo di due giorni. Io ti aspetto, ma tu non tardare troppo".

Demelza sorrise a quelle parole tanto ingenue e tanto tipiche di Clowance. Anche Ross ne sarebbe stato divertito, se fosse stato sveglio, lui che stravedeva per la loro figlia maggiore. "Tesoro, credo che papà per un po' non potrà aiutarti, deve stare a letto e dovrà farlo anche quando si sarà svegliato, per un po'. Se vuoi ti insegno io a scrivere".

"Ma mamma!" - protestò la bimba – "Gli porto qua il quaderno e mi insegna dal letto. Io voglio scrivere con lui".

Demelza scosse la testa ma decise di non contrariarla. Clowance voleva il suo papà e la scrittura era un modo come un altro in cui lei cercava un contatto con lui. "Va bene, allora dovrai solo aver pazienza".

Jeremy le prese la mano, stringendogliela. "Mamma, come possiamo aiutare papà a svegliarsi?".

Gli accarezzò i capelli, Jeremy era davvero sensibile, un ometto in miniatura. "Stargli vicino, venire qui e parlargli, fargli sentire che siamo qui accanto a lui".

Jeremy annuì. "Va bene. Nel frattempo che lui dorme, ci penso io a te e alle mie sorelle".

Clowance lo guardò storto. "Siamo a posto..." - borbottò sconsolata, prima di tornare a guardare suo padre. "Sentito? Meglio che ti sbrighi a svegliarti o qui va tutto a rotoli".

Demelza sorrise, nonostante tutto. Riattirò a se la figlia e la strinse fra le braccia, assieme agli altri due bambini. "Coraggio, è tardi! Andate a letto".

"Voglio restare qui con te" – protestò Jeremy.

"Devi dormire".

Il bambino divenne serio, mise le mani sui fianchi e si parò davanti a lei, viso a viso. "Anche tu! Sono due notti che non dormi! E se non lo fai tu, perché dobbiamo farlo noi? Resto qui, ti tengo compagnia".

"Anche io!" - aggiunse Clowance. "Io voglio stare col papà, così se sto con lui si sveglia prima, ricordi o no che sono la sua preferita?".

Demelza fece per protestare ma alla fine cedette. Niente avrebbe fatto cambiare idea a quei due e in fondo, forse, non sarebbe stato male averli vicini. Erano il suo mondo, il suo tesoro, il combustibile che le dava la forza di lottare e di non cedere alla disperazione. "Va bene, restiamo qui tutti insieme" – disse, con un filo di voce.

Fece portare il divanetto che stava in salotto da Jud, lo fece mettere vicino al letto e si sedette sopra, coi bambini attorno a lei. Li coprì con pesanti coperte, ravvivò il fuoco nel camino e poi si accomodò nuovamente coi suoi figli, pronta a passare l'ennesima notte in bianco. Prese Bella, che non aveva voglia di dormire, sulla ginocchia e poi strinse a se, uno da un lato e una dall'altro, Jeremy e Clowance. E nonostante la situazione non fosse delle più felici, era strano ma si sentiva bene a pensare di essere lì tutti insieme, lei, Ross e i bambini, quei figli che avevano generato proprio lì, in quella stanza, su quel letto. "Volete che vi racconti una fiaba?".

Clowance scosse la testa. "No, canta una canzone! A papà piace, magari se lo fai ti sente e si sveglia".

Lo sguardo di Demelza si addolcì a quella richiesta. Abbracciò forte Clowance, baciandole quella testolina rossa tanto simile alla sua. "Ti manca papà, vero?".

"Sì, tanto" – ammise la bimba. "Ma non solo perché deve insegnarmi a scrivere ma perché... perché... lui è qui ma dorme ed è come se non c'è! E io non voglio stare in un posto dove lui non c'è".

"Nemmeno io. Mi piaceva di sera giocare alla lotta sul letto con lui" – disse Jeremy, sospirando. Alzò lo sguardo sulla madre, preoccupato, ponendo una domanda che, dal tono di voce, doveva terrorizzarlo molto. "E se non si sveglia più?".

"Non dirlo nemmeno per scherzo" – rispose Demelza, in tono forse più duro di quello che avrebbe voluto. Sospirando, cercò di riprendere possesso di se stessa. "Jeremy, conosco papà da tanto e ti assicuro che lui si è sempre rialzato da qualsiasi battaglia abbia combattuto. E' forte, niente puo' distruggerlo. Certo, forse ci vorrà tempo prima che torni quello di prima e noi lo dovremo aiutare a guarire, ma vedrai che ce la farà". Lo disse a Jeremy ma era come se avesse bisogno di sentire quelle parole anche lei. Aveva bisogno di crederci, di sperare, di immaginare un domani ancora sereno e felice. Dovevano avere fiducia in Ross, come sempre! Allungò la mano ad accarezzare la guancia di suo marito, dolcemente. "Torna presto, hai capito? Abbiamo bisogno di te, ci manchi".

Clowance si rannicchiò fra le sue braccia, silenziosa e malinconica. "Fai presto...".

"Pa-pàààà". Bella allungò le braccia verso Ross e Demelza la mise sul materasso, accanto al padre. La piccola gattonò sulle coperte, osservando suo padre che dormiva senza svegliarsi, forse chiedendosi perché non aprisse gli occhi per giocare con lei come al solito. Raggiunse il suo viso, picchiettò con le manine sulla sua fronte e poi gli diede un bacio sul mento, continuando a chiamarlo. Demelza la lasciò fare, sperando che la vicinanza della piccola riuscisse a scuoterlo, ma non successe nulla. Accarezzò le teste dei figli più grandi, invitandoli a imitare la sorellina. "Andate anche voi a dare un bacio a papà, gli farà bene".

Jeremy ubbidì, avvicinandosi a Ross e dandogli un leggero bacio sulla guancia. Clowance invece rimase per un attimo in silenzio, persa in chissà quali pensieri.

"Tesoro, tu non vai?".

La bimba scosse la testa. "Di solito è lui che mi da il bacio della buona notte". I suoi occhi si inumidirono e si rannicchiò su se stessa, singhiozzando. "Io rivoglio il mio papà, subito!".

"Oh Clowance". Demelza la abbracciò forte, baciandole la fronte. "Anche io lo vorrei ma ci vuole pazienza".

"Io ho sei anni e non ho pazienza!" - sbottò la bimba, rabbiosa, prima di piangere ancora più forte. Si rifugiò fra le sue braccia e Demelza non poté fare a meno di abbracciarla e coccolarla. Era vero, aveva solo sei anni, non capiva e non se ne faceva una ragione. Voleva suo padre, un papà che la adorava, che la vezzeggiava, che le sapeva stare accanto probabilmente meglio di quanto ci riuscisse lei. Erano inseparabili Clowance e Ross e in un certo senso era vero ciò che lui le aveva detto la notte di Natale, quando aveva affermato che era la sua preferita. Non che non amasse gli altri figli con la stessa intensità, ma con Clowance c'era un'affinità caratteriale incredibile. Lui ne era conquistato e non si affannava a nasconderlo e lei lo sapeva ammaliare e lo adorava, era il suo eroe. "Clowance, pensi che a me non manchi? Prova a pensarci, lo conosco da molto più tempo di te, è mio marito, l'uomo che amo e il papà dei miei bambini. Mi manca tutto di lui e sai perché?".

"Perché gli vuoi bene, lui è il tuo tesoro come tu sei il suo. Me lo ha detto lui l'altra notte" – rispose la bimba, mentre anche Jeremy si avvicinava, preoccupato per la sorellina.

Quella piccola confessione le scaldò il cuore. Se Ross fosse stato sveglio, lo avrebbe baciato sulle labbra a lungo, per quelle parole così tenere con cui aveva descritto alla loro bambina il loro rapporto. "Esatto, perché gli voglio bene. Ed è proprio in momenti così che gielo posso dimostrare, standogli sempre vicino e facendogli sentire che sono qui. Lo vuoi fare con me? Vuoi aiutarmi ad aiutarlo?".

"Certo". Clowance si asciugò le lacrime con la mano e poi, tentennando, si avvicinò a Ross e gli baciò la fronte, prima di abbassarsi e abbracciarlo. "Torna prima che puoi, papà". Poi corse di nuovo dalla madre, si rannicchiò sul divano e Demelza, dopo aver recuperato Bella dal letto, invitò Jeremy a fare altrettanto.

Si misero comodi, sotto le coperte, mentre il camino scoppiettava nella stanza. Cantò una canzone che si sforzò di far apparire allegra, e addormentò i bambini. E poi, sola coi suoi pensieri, rimase a fissare Ross nella penombra, finché il sonno la ebbe vinta anche su di lei. Si addormentò più serena rispetto alle notti precedenti, però. Non sapeva se fosse per la vicinanza dei bambini o per il modo dolce in cui Ross l'aveva definita, in quel colloquio notturno di pochi giorni prima con Clowance. Era bello sapere che per lui era un tesoro, il SUO tesoro, che era quanto di più prezioso lui possedesse. Era una sensazione meravigliosa saperlo, dopo che per tanto tempo si era sentita una seconda scelta... Ora sapeva che non era vero, che si era sbagliata! E in un momento come quello che stava vivendo, era una sorta di consolazione che le impediva di sprofondare nel baratro della disperazione.

Il mattino arrivò presto. Fuori nevicava nuovamente, furiosamente, e il vento sbatteva impetuoso contro le finestre. Demelza si svegliò di soprassalto, sentendo un'imposta sbattere contro la parete. Aveva dormito coi tre figli addosso e ora aveva un incredibile mal di schiena.

Ross dormiva ancora ed era ora che si mettesse all'opera, che gli medicasse la ferita e gli cambiasse la camicia da notte. Svegliò i bimbi, diede loro un bacio e li invitò ad andare da Prudie per la colazione.

Poi si alzò, si mise accanto a Ross e gli accarezzò dolcemente il petto e il viso, dandogli un lieve bacio sulle labbra. "Amore mio..." - gli sussurrò, contro la sua bocca – "Ho bisogno di te, di sentire la tua voce, di un tuo abbraccio. E hai promesso a Jeremy di insegnargli a cavalcare, a Clowance di insegnarle a scrivere e Bella vuole giocare con te. Torna da noi, com'eri prima". Tentò di frenare le lacrime ma si sentiva debole e inerme, completamente in balìa del destino. Sarebbe stato bello, come nelle favole che raccontava ai suoi figli, se tutto si fosse potuto superare con l'amore, ma stavolta aveva paura che non sarebbe stato così.

L'imposta sbatté nuovamente contro la parete e Ross, nella sua immobilità, mugugnò. Per poi, con somma sorpresa di Demelza, riaprire a fatica quei suoi occhi scuri che lei amava con tutta se stessa.

Demelza sentì il fiato mancarle. Era sveglio! E la stava guardando! Un misto di sollievo, unito a paura, stanchezza e disperazione, presero possesso di lei. "Ross..." - lo chiamò, con voce spezzata.

Lui voltò il viso verso di lei. I suoi occhi erano sempre gli stessi, neri e profondi, dolci e allo stesso tempo selvaggi. Ma sembravano spersi, annebbiati, senza luce... "Ross?". .

"Amore mio...". Le aveva parlato, poteva comunicare! Forse davvero quel testone ne sarebbe uscito indenne anche questa volta, come sempre, come aveva promesso ai bambini!

Lui la guardò, un po' interdetto a quelle parole. "E tu chi sei?".

Demelza spalancò gli occhi mentre sentiva il sangue congelarsi nelle vene. Ricordò le parole di Dwight, il ventaglio di possibilità nefaste circa le conseguenze che quell'incidente avrebbe potuto generare. E la perdita di memoria era una di quelle, ora che ci pensava... Non poteva essere! Non poteva essersi dimenticato di lei, di loro, del loro amore! Ma se era davvero così, ora per Ross lei era un'estranea. Cosa avrebbe fatto adesso? Come avrebbero reagito i suoi bambini, come avrebbe potuto spiegargli che per il loro padre erano dei perfetti sconosciuti? E soprattutto, come avrebbe fatto a farlo accettare a Clowance?




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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


"Amnesia".

Quella parola, pronunciata da Dwight, era una condanna senza appello. Ross non si ricordava nulla né di se stesso, né di lei e dei loro figli, né della sua vita passata. Era come se sulla sua mente fosse passata una spugna e avesse lavato via ogni cosa, ogni ricordo, ogni emozione vissuta insieme.

Era un'estranea per lui. E lo erano anche Dwight, che si era affrettata a chiamare subito dopo il risveglio del marito, i suoi figli, Jud e Prudie e tutti i minatori che avevano lavorato fianco a fianco con lui per anni.

Era Ross in quella stanza ma in un certo senso era come se non fosse lui. Non esistevano più i suoi genitori, il fratellino morto piccolo, Elizabeth, Francis, Verity, il loro matrimonio e i loro quattro bambini... Era ancora vivo, ma in un certo senso era come averlo perso. "Non ci posso credere! E ora che faccio?".

Dwight le strinse gentilmente le spalle per farle coraggio. Era stato per quasi due ore chiuso in quella camera con Ross, a rassicurarlo, visistarlo, a cercare di capire l'entità dei danni subiti, e ora spettava a lui farle capire come muoversi, comportarsi e agire. "Demelza, per ora soffermiamoci sulle cose positive".

"Che c'è di positivo?" - sbottò, disperata.

"Non ha riportato danni agli occhi, all'udito e alla parola. E nemmeno al movimento! Quando le costole saranno guarite, fisicamente tornerà ad essere quello di prima. Per quanto riguarda l'amnesia...".

Demelza deglutì, frustrata e spaventata. Si sentiva sola, spersa e senza la sua roccia, il suo Ross, a cui aggrapparsi nei momenti difficili. Era come essere tornata ai tempi di Londra, quando era sola contro tutto e tutti a combattere per pensare al futuro dei suoi figli. "Come devo comportarmi? E cosa devo fare per aiutarlo a ritrovare i suoi ricordi? Sempre che sia possibile farlo...".

Dwight sospirò, terribilmente in difficoltà, scostandosi i capelli dalla fronte. "Demelza, è difficile dirlo con certezza! Questi casi variano da persona a persona e a volte è sufficiente del riposo e qualche giorno di tranquillità perché i ricordi tornino, pian piano. Altre volte, certe persone, son guarite picchiando casualmente di nuovo la testa nel medesimo punto in cui avevano sbattuto quando avevano perso la memoria. Altre volte puo' essere grazie a un trauma o a una emozione forte. Altre volte i ricordi non tornano più e restano come intrappolati nella mente, in qualche luogo inaccessibile. Il problema di Ross è che ha battuto la testa esattamente dove l'aveva picchiata quattro anni fa a Londra e probabilmente questo nuovo incidente è andato a smuovere una situazione di apparente stallo ma già compromessa di suo. Ora, la cosa fondamentale è che lui riposi e riprenda le forze. Stagli vicino, prenditi cura di lui ma non forzarlo a ricordare perché otterresti l'effetto opposto, ossia che si possa chiudere in se stesso. Ricorda che per lui, ora, sei un'estranea. Se si sentisse sotto esame o sotto pressione, circondato da gente che per lui non è nessuno, potrebbe estraniarsi dalla realtà e rifiutare il contatto con voi. Avvicinati pian piano, ottieni la sua fiducia e solo allora, quando si sentirà a suo agio con te, inizia a parlargli di voi, di quello che avete vissuto e dell'amore che vi unisce. Non importi, aspetta i suoi tempi. Io gli ho spiegato chi è e cosa rappresenta questa casa per lui, assieme alle persone che vi vivono e che incontrerà, ma devi essere tu a farglielo accettare, gradualmente".

Demelza si morse il labbro, lottando contro se stessa per non scoppiare a piangere davanti a lui. Era difficile sentire parlare di Ross in quei termini, sentirsi dire che era un'estranea per l'uomo che amava, che poteva addirittura vederla come una nemica se avesse sbagliato atteggiamento con lui... Era suo marito quello, che la prendeva in giro, con cui passava ore a scherzare e chiacchierare, che le scompigliava i capelli quando voleva farla arrabbiare o quando, semplicemente, si avvicinava per scambiarsi dei gesti d'affetto, era l'uomo che, quando la baciava, sapeva farle mancare il fiato nonostante fossero passati ormai diversi anni dal loro matrimonio, era colui che sapeva farla sentire in paradiso quando facevano l'amore, era il padre dei suoi figli... E ora non si ricordava più nulla, era come dover ricominciare da zero senza avere la certezza di arrivare vincitori al traguardo. "Vorrei poter riportare indietro il tempo all'altra mattina per poterlo legare a questo dannato letto e impedirgli di uscire".

"Lo so" – rispose Dwight, con sincerità.

Demelza scosse la testa. "Come faccio? Come posso dirlo, come posso spiegarlo ai bambini? Bella è piccola e quindi quella che mi preoccupa meno, ma Jeremy... E Clowance! Oh Dwight, Clowance adora Ross, lei è la sua cocca, è convinta di essere la sua preferita e non accetterà mai che suo padre non si ricordi di lei. Forse Jeremy capirà e mi aiuterà, ma Clowance...". Si accorse con sgomento che si sbagliava, non era come a Londra! Era molto peggio ora, perché i suoi figli erano più grandi e Ross faceva parte delle loro vite, non poteva raccontar loro favole o menzogne, doveva essere sincera, raccontare la verità con la consapevolezza che non avrebbero probabilmente capito e che per loro sarebbe stata una terribile perdita da digerire. Avrebbe avuto sulle sue spalle la malattia di Ross, i suoi affari a Londra, i problemi dei suoi figli e ora anche le sorti della miniera e della tenuta di Nampara. Si chiese come avrebbe retto da sola, di nuovo, senza avere suo marito accanto.

Dwight la abbracciò, accarezzandole la schiena. "So che non sarà facile e ti prego, lascia da parte le cose meno importanti e focalizzati solo sulla tua famiglia. Sei un'ottima madre, saprai di certo come gestire i bambini in questo frangente, ne sono sicuro. E Ross... non potrebbe avere accanto donna migliore di te... Guarirà, TU lo aiuterai a farlo, ne sono sicuro".

Demelza non disse nulla. Si sporse in avanti, affondando il viso nel suo collo, scoppiando a piangere. "Dite tutti che sono forte ma... Io non mi sento così ora! A tutto c'è un limite e io... Non si ricorda di me, è come se non mi amasse più, è come se mi avesse abbandonata un'altra volta, come quella notte in cui corse da Elizabeth".

"Non è vero che non ti ama più! L'amore che prova per te c'è ancora, nascosto in qualche angolo remoto della sua mente. Sta a te aiutarlo a cercare la strada per uscirne, per tornare da te".

Demelza scosse la testa. "E io come posso aiutarlo? Come posso farcela?".

"Tu...". Dwight le sollevò il mento, costringendola a guardarlo in viso – "Tu lotterai come sempre per l'uomo che ami. Lo riavrai Demelza, entrambi conosciamo Ross e sappiamo quanto sia testardo e dannatamente fortunato a tirarsi fuori da situazioni difficili. E ora la sua fortuna sei tu, saprai stargli vicino e guarirlo. Lui non si arrenderebbe mai alla perdita di ciò che vi ha unito, dei vostri ricordi e quindi fidati di te stessa e fidati di lui, ne uscirete. Come sempre!".

Demelza annuì, cercando la forza per credergli. Non aveva alternative, Dwight aveva ragione, non poteva fare altro che rialzarsi, asciugarsi le lacrime e lottare per quell'incosciente di suo marito. Lo amava, più di qualsiasi altra cosa. E non avrebbe permesso che i loro ricordi insieme svanissero nel nulla in lui. Lo rivoleva indietro, come prima, per lei e per i loro bambini che avevano bisogno di lui. "Mi aiuterai a spiegarlo a Jeremy e Clowance?".

"Certo. Dove sono ora?".

Demelza inspirò profondamente, per riguadagnare un po' di calma. "Sono con Prudie, nella loro camera. Sta cercando di intrattenerli ma credo che a breve potrebbero correre qui, se non gli portiamo notizie".

Dwight le prese la mano. "Su allora, andiamo da loro".

Il fatto che Dwight la accompagnasse in quel compito ingrato, le infondeva un po' di coraggio. Lui era un medico ed era una persona dolce e competente, avrebbe saputo trovare le parole giuste per spiegare a Jeremy e Clowance quella nuova realtà.

Aveva paura della reazione dei bambini, soprattutto di Clowance. E avere Dwight vicino era un aiuto caduto dal cielo, in un momento buio come quello.


...


"Impossibile!".

Demelza sentì venirle la pelle d'oca davanti alla reazione di sua figlia. Clowance e Jeremy avevano ascoltato in silenzio la spiegazione di Dwight, assieme a Jud e Prudie che si occupavano di tener buona la piccola Bella.

I due servi si erano guardati in faccia in silenzio, accigliati ed evidentemente colpiti e preoccupati da quella nuova realtà e da quel nuovo Ross con cui avrebbero avuto a che fare. I bambini avevano reagito invece in maniera diversa: Jeremy aveva fatto poche e stentate domande, spaventato ed evidentemente conscio della gravità della situazione, pur non capendola a fondo. Clowance era invece apparsa sorpresa da quella diagnosi, incredula, dimostrando di non capire appieno l'entità della malattia del padre.

La bimba si parò davanti a Dwight, con le mani sui fianchi. "Senti, io non ci credo che non si ricorda di noi! Magari di Jeremy e Bella, ma di me e della mamma no! Per me tu ti sbagli! Oppure papà sta scherzando".

Dwight sospirò, lanciando un'occhiata a Demelza per essere aiutato. "Ascolta, lo so che per te è difficile da capire e che vuoi tanto bene al tuo papà, però ora le cose stanno così. Ma se farai la brava e farai quello che ti ho detto e spiegato, vedrai che presto lui starà meglio e magari pian piano inizierà a ricordarsi di te. Ha bisogno di riposo, di non essere assillato e tu devi essere paziente e non insistere troppo affinché si ricordi di tutti voi prima del tempo. Nelle malattie ci vuole sempre tanto tempo per guarire".

Demelza, inginocchiatasi accanto a Dwight, davanti alla figlia, annuì. Allungò una mano, ad accarezzarle i lunghi capelli rossi, poi la attirò a se. "Clowance, so che sei una brava bambina e so che potrai aiutarci nel modo in cui ha detto Dwight".

La bimba si imbronciò, oscurandosi in viso. "Ma io non capisco! Come fa a essersi dimenticato di me e di tutte le cose che fa? E' impossibile".

Jeremy alzò le spalle, teso e preoccupato. "Se Dwight dice che è così, allora è vero. Dobbiamo aiutare mamma a farlo stare meglio" – disse, rivolgendosi alla sorella.

La bimba si allontanò da tutti, con uno strattone, liberandosi dalla presa della madre. "Io lo so cosa puo' farlo stare meglio, gli basta vedermi e guarisce! Mi ha promesso che mi aiutava a imparare a scrivere e lui mantiene sempre le promesse". E detto questo, senza che nessuno riuscisse a fermarla, di corsa uscì dalla stanza.

Demelza si alzò di scatto, andandole dietro. Sapeva dove stava andando e non voleva che affrontasse quella situazione da sola. E Ross non era in grado di far fronte alla reazione della bambina... Clowance era testarda e insistente quando voleva e suo marito, nel pieno delle sue forze, era capacissimo di darle retta e farsi ascoltare. Ma ora...

Come pensava sua madre, Clowance corse nella camera dei genitori, inseguita da Demelza.

La piccola entrò, osservando il letto a baldacchino dove riposava Ross. "Papà..." - lo chiamò, avvicinandosi al letto.

Al suono della sua voce Ross aprì gli occhi, a fatica, girandosi verso di lei. E Clowance gli prese la mano, saltando sul letto accanto a lui. "Dicono che non ti ricordi niente ma io non gli credo".

"Clowance!". Demelza giunse alle sue spalle, fissando padre e figlia con preoccupazione.

Ross guardò la bambina e poi lei, con aria smarrita. "Papà?".

Demelza si mise seduta accanto alla figlia, attirandola a se in un abbraccio. "Si, lei è una dei tuoi figli. Te ne ha parlato Dwight poco fa. Siamo la tua famiglia. Io sono tua moglie e lei è Clowance, la nostra secondogenita".

Ross, senza apparenti emozioni, le osservò per un attimo. "Dwight?".

"Il dottore che ti ha visitato. E' un tuo caro amico" – puntualizzò Demelza.

"Oh". Ross si massaggiò a fatica la fronte, cercando di mettere a fuoco la realtà che lo circondava. "Quindi tu saresti mia moglie e lei mia figlia, giusto...?".

"Giusto" – annuì Demelza, col cuore a pezzi, senza aggiungere altro per non affaticarlo. Era terribile vederlo così stanco, confuso e debole e non poterlo abbracciare. Aveva perso il suo confidente, il suo migliore amico, colui che sapeva farle apparire tutto roseo con poche, semplici parole. E ora si sentiva smarrita e sola.

"Ma papà!" - sbottò Clowance – "Sei impazzito?! Sono io, come puoi dimenticare che sono tua figlia" – disse la bimba, scuotendogli il braccio con violenza. "Non ti ricordi? Mi hai insegnato ad andare sul pony e dobbiamo esercitarci insieme a scrivere! Me lo hai promesso".

Ross digrignò i denti dal dolore. Aveva delle costole rotte e di certo il comportamento di Clowance non lo stava aiutando... "BASTA!" - urlò infatti, dopo alcuni istanti, rabbioso e dolorante, liberandosi con uno strattone dalla presa della bambina.

"No, non basta!" - urlò anche la bimba, di rimando. "Sei il mio papà, vedi di ricordartelo subito".

Ross la osservò con sguardo freddo, come se stesse osservando una nemica. "Non ti ho mai vista in vita mia! Smettila di urlare". Poi osservò Demelza, con la stessa aria guardinga con cui aveva osservato la figlia. "Portala via" – digrignò, fra i denti.

Demelza deglutì, sentendosi fra due fuochi. Ross non glielo stava chiedendo, glielo stava ordinando! Voleva che Clowance se ne andasse e come poteva capire lui e i sentimenti confusi che si agitavano nella sua mente, così poteva capire lo sgomento di sua figlia, di soli sei anni, che aveva sempre guardato al padre come un eroe e che ora non accettava quella nuova, difficile realtà.

Suo malgrado dovette staccare Clowance, che si era aggrappata nuovamente a lui, dal braccio di Ross, cercando di riportare la calma. "Su, non dobbiamo farlo stancare, andiamo Clowance".

"Noooo" – urlò la bimba, scoppiando a piangere.

In quel momento, alle loro spalle, arrivò Jeremy con in braccio Bella.

Il bimbo osservò il padre senza avvicinarsi, senza dire nulla, incredulo ma comunque deciso a seguire i consigli di Dwight. Ma era confuso e Demelza poteva vedere nel suo sguardo lo stesso sgomento e la stessa paura che erano anche suoi.

Demelza si morse il labbro, frustrata e confusa dalle urla di Clowance. Avrebbe voluto chiedere a Ross di essere accondiscendente, di cercare di capirla e di rassicurarla, ma sapeva che non avrebbe avuto aiuti da lui per quel giorno. Non poteva pretenderlo, lui non ne era in grado e tutti loro erano estranei ai suoi occhi. Prese la piccola in braccio, di forza, mettendo fine alla discussione, e poi si avvicinò agli altri due bambini, intimando a Jeremy di seguirla. "Su, papà deve riposare e tutto questo baccano non gli fa bene" – disse, lasciando che il figlio si accodasse a lei.

Li portò al piano di sotto, col cuore a pezzi e la mente in tumulto. Il suo mondo era crollato e non sapeva da che parte girarsi per cominciare a ricostruirlo. Non poteva permettere che Ross si stancasse o si sentisse sotto pressione ma allo stesso tempo aveva tre figli da gestire, che gli chiedevano conto del padre e che lo cercavano.

Lasciò Clowance, Jeremy e Bella alle cure di Dwight e dei suoi due servi e poi uscì fuori nel cortile, per prendere una boccata d'aria. Si sentiva scoppiare, voleva urlare, prendere a pugni il muro, piangere tutte le sue lacrime e poi dormire e allontanarsi da quella realtà a cui sentiva di non essere in grado di fare fronte.

Chiuse la porta dietro di se, si appoggiò alla parete e, mentre con sguardo assente osservava l'aia, il bucato steso e le galline che passeggiavano nell'erba, le lacrime presero a scorrerle lungo il viso. Avrebbe pianto da sola, Ross non sarebbe arrivato a consolarla... Avrebbe dovuto contare unicamente sulle sue forze da quel momento in poi, accantonando se stessa e i suoi bisogni in favore di quelli di suo marito e dei suoi figli. Avrebbe dovuto annullarsi per loro, ma non aveva altra scelta se non combattere, come sempre, per le persone che amava. Le gambe le cedettero, si lasciò cadere a terra e poi, singhiozzando, piegò le ginocchia e vi nascose il viso.

In quel momento avrebbe voluto avere almeno Garrick accanto a se, avrebbe voluto sentire la sua lingua umida bagnarle la guancia e il suo pelo morbido da accarezzare. Ma anche lui se n'era andato, era sola. E se tanto le dava tanto, lo sarebbe stata a lungo.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


C'era uno strano silenzio a Nampara, anche quando in casa c'erano tutti i bambini, sembrava che nessuno osasse fare rumore.

Da quando Ross si era risvegliato, la casa sembrava come sospesa, come in attesa di qualcosa che non arrivava mai, lasciando tutto in uno strano stato di torpore e immobilità.

Prudie e Jud si occupavano dei bambini, li portavano a scuola e li andavano a prendere e durante la giornata non perdevano mai di vista la piccola Bella che gattonava per casa come sempre ma che sembrava smarrita come tutti gli altri.

Demelza aveva dovuto delegare i suoi due servi alla cura dei figli, suo malgrado. La sua giornata si divideva nelle cure che prestava a Ross, che non perdeva mai di vista, la tenuta delle carte contabili della miniera e dei suoi affari a Londra. Aveva dovuto chiedere ai Devrille di sostituirla in alcune riunioni importanti a cui avrebbe dovuto presiedere nella capitale perché non se la sentiva di allontanarsi dalla Cornovaglia e nonostante questo suo domandare aiuto, non aveva un attimo di tregua. C'era tutto da seguire e tutto era sulle sue spalle, benché apprezzasse la buona volontà che ci stavano mettendo Jud e Prudie nel darle una mano.

Ross, dal canto suo, sembrava apatico e assente. Rispetto al suo solito era meno reattivo e meno propenso a fare di testa sua e se ne stava a letto, seguendo scrupolosamente i consigli di Dwight che veniva tutti i giorni a visitarlo.

Demelza gli era molto grata, sia per l'assistenza che prestava a Ross, sia per la sua amicizia costante che lo portava sempre ad aiutarla in quel momento difficile, nonostante a casa sua le cose non andassero per niente bene: la piccola Sarah era peggiorata nelle ultime settimane e spesso lui e Caroline avevano temuto per la sua vita anche se poi le crisi si erano risolte, lasciando però la bimba sempre più debole.

Avere Dwight vicino era il suo momento di pace in quelle giornate immobili e allo stesso tempo frenetiche che stava vivendo. Era la sua spalla su cui piangere e un amico su cui appoggiarsi, nei brevi istanti in cui si tratteneva a Nampara, un qualcuno che riusciva a capire appieno i sentimenti e il dolore che si agitavano in lei. Solo lui ci riusciva del tutto perché in quel momento erano accomunati da dolori simili che stavano vivendo e li stavano divorando pian piano.

Avrebbe voluto avere Ross vicino, sentire le sue braccia che la stringevano e le sue labbra che le sfioravano la fronte, dandole coraggio. Avrebbe voluto sentirlo scherzare e minimizzare sui problemi, vederlo ridere e giocare coi bambini sul loro letto, fino a renderlo simile a un campo di battaglia. Avrebbe voluto qualsiasi cosa ed invece era circondata dal nulla. Era come averlo perso, di nuovo! Con la sola differenza che ora era lì, davanti a lei. Ed era come se fosse morto e al suo posto ci fosse qualcuno con le medesime sembianze ma con un'animo profondamente diverso. Ross non rideva più, parlava raramente e in maniera distante e stentata. Era educato e cordiale, ma non c'era calore in lui quando le rivolgeva la parola o quando la guardava. Non c'era amore! Era un'estranea ed era evidente che lui si sentisse in imbarazzo quando doveva parlare con lei. Dwight gli aveva spiegato che erano sposati e immaginava che per Ross fosse difficilissimo avere a che fare con una donna all'apparenza sconosciuta ma che si è scelta come compagna di vita.

Coi bambini era anche peggio. Jeremy faceva capolino ogni tanto, silenzioso, sedendosi composto su una sedia accanto al letto, per raccontargli cosa aveva imparato a scuola. Suo figlio si era attenuto ai consigli di Dwight, non sforzava il padre a ricordare e parlava lentamente, con pazienza, senza rimarcare nulla del passato. Ross sembrava dargli retta ma non l'aveva mai visto rivolgere al figlio un sorriso o un gesto o una parola gentili.

Clowance era invece la sua spina nel fianco. Lei voleva suo padre, ne sentiva la mancanza e non accettava la situazione! Era capricciosa, rispondeva male e disubbidiva molto spesso. Al mattino cercava sempre mille scuse per non andare a scuola e per correre nella loro camera e a nulla sembravano valere rimbrotti e castighi. Assillava Ross, continuava a richiedere le sue attenzioni e suo marito, benché non si fosse ancora lamentato per la presenza della bambina, la guardava come si guarda ad un nemico o a qualcosa di estremamente molesto. Con o senza memoria, Demelza conosceva quel suo sguardo e prima o poi lui sarebbe esploso e avrebbe allontanato in malo modo la piccola. E a quel punto, non osava immaginare a cosa avrebbe portato tutto ciò! Per Clowance, Ross era il sole, la luce, lo adorava! Si sentiva tradita, messa da parte e non accettata e non sapeva come farle digerire la cosa. Ci voleva pazienza, fede e speranza ma sua figlia sembrava non possedere nessuna di quelle virtù.

Bella era quella che le dava meno problemi. Demelza la portava in camera la sera tardi, per metterla a letto, e Ross la guardava incuriosito e forse divertito dal suo modo di muoversi goffo e dalle mille facce buffe che faceva quando rideva. Ogni tanto le sfiorava la manina, anche se non si era mai spinto oltre... Non chiedeva nulla dei bambini, delle loro abitudini, dei loro caratteri, di come rapportarsi con loro. Li studiava in silenzio, esattamente come faceva con lei.

Certe volte aveva provato l'impulso di chiedergli cosa pensasse di loro ma si era sempre frenata, mordendosi la lingua per paura di stressarlo e soprattutto, per paura delle risposte che avrebbe potuto ottenere. Aveva paura del suo giudizio, di non essere gradita, di essere anche lasciata prima o poi, da questo nuovo Ross tutto da scoprire...

Quella sera avevano cenato presto ed era riuscita a convincere i bambini ad andare a dormire senza disturbare il loro papà. Dopo aver aiutato Prudie a sistemare la cucina, era salita al piano di sopra per aiutare Ross a cambiarsi e a darsi una rinfrescata.

Con delicatezza gli aveva tolto la camicia da notte e gli aveva passato un panno bagnato sul petto. Dove aveva rotto le costole, ormai troneggiava un grosso livido che pian piano andava riassorbendosi. Erano passati quasi venti giorni dall'incidente e ormai i dolori e le difficoltà a muoversi stavano passando, benché ancora non riuscisse a stare in piedi. "Dwight dice che fra una decina di giorni potrai alzarti e iniziare a fare qualche passo nella stanza" – disse, giusto per intavolare una conversazione.

"Bene".

Demelza sospirò, davanti a quel tono di voce così piatto. "Almeno potrai pranzare con noi e non qui, tutto solo".

Ross alzò gli occhi su di lei. "Con te e con quei tre bambini?".

"Si! Ti ricordi i loro nomi ormai, vero?".

"Certo. Jeremy è il maschietto e Isabella-Rose... Bella... la piccola. E l'altra, quella che mi urla sempre nell'orecchio, è Clowance".

A Demelza non sfuggì la nota stonata nel tono di voce di Ross, mentre pronunciava il nome di Clowance... Era preoccupata dal fatto che un rapporto idilliaco come il loro potesse difentare infernale e non sapeva come impedirlo. "Lei ti urla sempre nell'orecchio perché pensa che così potrai ricordarti prima del tuo passato. Sei il suo eroe, ti adora e vorrebbe che tu guarissi presto".

Ross scosse la testa. "A me sembra semplicemente una bambina molto viziata che dipende troppo da chi la circonda".

Demelza sospirò. "E' vero, è viziata, ha un animo molto aristocratico e nobile. A te piaceva così e ti piacerà ancora".

"Se smettesse di assillarmi, forse..." - obiettò lui.

"Ross!" - sbottò Demelza – "Ha solo sei anni".

"E pretende troppo, per avere SOLO sei anni" – rispose lui, a tono.

"Cerca di essere comprensivo" – lo implorò.

Ross annuì con fare assente. Si lasciò lavare e rivestire e poi si mise sotto le coperte, deciso a dormire. Dal giorno dell'incidente, Demelza gli aveva lasciato il letto, limitandosi a dormire in una brandina accanto a lui per non disturbarlo. Si chiese per quanto sarebbero andate così le cose...

Ross la osservò cambiarsi d'abito, mettersi la camicia da notte e farsi una lunga treccia. "Da quanto siamo sposati?" - chiese infine.

Demelza spalancò gli occhi. Era la prima volta che gli chiedeva qualcosa su loro due e aveva paura di rispondergli e di sbagliare qualcosa. Ma allo stesso tempo quella domanda le faceva piacere. "Da tredici anni. Io avevo diciassette anni e tu ventisette".

"Eri giovane" – rispose lui, pensieroso. "Dove ti ho conosciuta? A un ballo, una festa?".

Demelza sorrise, quasi divertita nel ricordare quel giorno. "A una fiera di paese. Mi hai salvato da un pestaggio".

Questa volta fu Ross ad essere sorpreso. "Ad una fiera? Pestaggio? Perché ti stavano picchiando?".

Deglutì, mentre i ricordi di Garrick tornavano a tormentarla. "Dei ragazzi avevano preso il mio cane e volevano farlo combattere. Mi sono opposta e mi sono lanciata fra la folla e quelle persone hanno preso a spintonarmi e a darmi calci. E poi sei arrivato tu, a portare via me e il mio cucciolo".

Ross osservò il soffitto, pensieroso, quasi a voler cercare qualche appiglio per ricordare. "E mi sono innamorato di te a prima vista, giusto?".

"Certo che no, avevo solo tredici anni allora, ero una bambina sporca, spettinata e vestita con gli abiti stracciati di suo fratello. Mi hai semplicemente portata in una locanda, mi hai fatta mangiare e poi, mentre mi riaccompagnavi a casa, mi hai chiesto se volevo essere la tua sguattera. Accettai, non volevo tornare a casa mia da un padre violento, ma ti diedi una condizione".

"Quale?".

"Sarei venuta a lavorare per te solo se avessi potuto portarmi il mio cane".

"Suppongo di aver accettato, se sei qui, giusto?" - chiese Ross.

"Giusto" – rispose lei, dolcemente, ricordando quel momento, su quella strada sterrata, che le aveva cambiato la vita.

"E il cane dov'è ora?".

Ecco la domanda che temeva... Demelza si oscurò, abbassando lo sguardo. Lui le mancava così tanto, ancora, tanto da chiedersi se le sarebbe mai passata. "E' morto di vecchiaia la scorsa estate, sei stato tu a trovarlo senza vita, una mattina, mentre ti preparavi per andare alla miniera". Il suo sguardo si addolcì mentre parlava di quel cane che aveva amato come pochi e che aveva sempre ritenuto il suo migliore amico. "Si chiamava Garrick e col tempo gli hai voluto bene pure tu. Ci è stato accanto fedelmente per anni, ha visto nascere tutti i nostri figli e si è preso cura di loro assieme a noi".

"Capisco". Ross abbassò lo sguardo, quasi in difficoltà, forse rendendosi conto di aver aperto una ferita ancora dolorosa. "E dimmi, com'è che da domestica, ti sei trovata a diventare mia moglie?".

"Quattro anni dopo..." - si bloccò per un attimo, in difficoltà – "Beh... Ero diventata la tua confidente, chiacchieravamo spesso insieme e ormai sapevo tutto di te, come servirti e come essere la domestica che ti aspettavi che io fossi. E una sera, al termine di una giornata per te difficile... Beh... Tu... Io...".

"Oh...". Deglutendo, Ross arrossì, capendo come si erano svolte le cose. "Beh, poi ti ho sposata e son nati i bambini, giusto?" – concluse, frettolosamente.

"Già... E pian piano ti sei innamorato di me. Giorno dopo giorno ho smesso di essere una benda contro la solitudine e un dovere che ti eri accollato dopo la notte passata insieme e ho iniziato ad essere la donna che amavi. E sì, son nati i bambini". Decise di non dire nulla per ora di Elizabeth, dell'inferno che avevano passato e della morte di Julia. Erano cose ancora difficili da digerire persino per lei e di certo lui non le avrebbe comprese e avrebbe finito per confonderlo ancora di più.

Ross non chiese altro. Si rannicchiò sotto la coperta, forse per immagazzinare quanto gli aveva raccontato, e lei spense le candele, rintanandosi sulla brandina, sotto le coperte. Aveva come la sensazione che una piccola crepa si fosse aperta in quel muro di silenzio che si era creato fra loro dopo l'incidente ed era stato strano e allo stesso tempo piacevole tornare a parlare con lui. Anche se la situazione era assurda e senza senso, Ross pian piano stava cercando di ottenere qualche risposta. E questa era già di per se una buona notizia che poteva, per una notte, farle dormire sonni sereni.


...


Lei ormai dormiva ma lui, per la prima volta, non riusciva a prendere sonno. Nella penombra vedeva la figura addormentata di quella che gli avevano presentato come moglie, riusciva a distinguerne il corpo snello e i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia e non capiva che sentimenti provasse verso quella donna gentile, che si prendeva cura di lui con amore e devozione ma che gli appariva come una perfetta estranea.

Eppure, quando l'aveva vicina, si sentiva attratto dalla sua presenza e dai suoi gesti che, nonostante tutto, gli apparivano famigliari e piacevoli.

Si chiese cosa li avesse uniti in passato, come stessero insieme, cosa si dicessero... Chiederle del loro incontro era stato frutto di un impulso incontrollato, dettato da una curiosità che era cresciuta in lui giorno dopo giorno. Sembrava una persona dolce, gentile e tenera, Demelza. Ed era bella, indubbiamente. Non faticava a credere di averla amata e di esserne stato innamorato e si chiese se, per caso, non avesse potuto innamorarsi di lei nuovamente.

Tutto gli era estraneo in quella casa, sia gli oggetti che le persone. Era difficile per lui avere a che fare con qualsiasi cosa, soprattutto nell'immobilità a cui era costretto. I primi giorni avrebbe voluto solo scappare, poi si era come rassegnato a dover rimanere. E li aveva iniziato a chiedersi del suo passato. Si sentiva in trappola perché non solo gli altri gli erano estranei ma si sentiva esso stesso un estraneo. Chi era lui? Che persona era stata? Cosa aveva amato e cosa aveva odiato? Cosa aveva fatto nella vita? Che marito e padre era stato?

Era tutto difficile e sperava che, una volta rimessosi in sesto, tutto gli sarebbe apparso meno annebbiato. Per ora sapeva di avere una moglie che considerava bella e desiderabile e che aveva salvato da un pestaggio quando era ragazzina, di aver avuto un cane e che era padre di tre figli, fra cui una che al momento mal sopportava.

Lo attendevano sfide difficili e non capiva come avrebbe trovato forza, coraggio e voglia per affrontarle. A quei pensieri chiuse gli occhi e si impose di dormire, per ora non poteva fare altro.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Muovere i primi passi, dopo un mese a letto, fu un'impresa dolorosa e titanica per lui. L'immobilità e i postumi delle fratture gli procuravano dolori lancinanti, le gambe non gli tenevano e se non fosse stato per Jud che lo sorreggeva, sarebbe caduto a terra molte volte.

Anche Demelza aveva cercato di aiutarlo ma era troppo esile per riuscire a sorreggerlo da sola e quindi aveva dovuto ripiegare sui due servi di casa.

Jeremy e Bella, due dei suoi figli, nel vederlo camminare a quel modo erano scoppiati a ridere. La figlia di mezzo, quella che sopportava a mala pena, lo guardava perplessa e in silenzio. Quella bambina dai capelli rossi, molto somigliante a sua madre, lo metteva a disagio e non ne capiva il motivo. Lo scrutava e studiava con quei suoi occhi azzurro-verdi, sembrava volergli scandagliare l'animo e davanti a lei, che cercava di attirare sempre la sua attenzione, si sentiva in difficoltà. Non vedeva l'ora che andasse a scuola o da qualche parte coi due servitori per tirare il fiato e non averla attorno. Non aveva ricordi di lei e, anche se era una cosa orribile da dire di una figlia, non riusciva a tollerarne la presenza.

Con gli altri due bambini era diverso, erano meno invadenti, più pazienti e la piccolina di casa simpatica e sempre allegra, lo metteva di buon umore e gli faceva apparire tutto più roseo e facile. Quando lo vedeva in difficoltà a camminare, gli si metteva di lato e rideva, poi gattonando sembrava indicarle di fare altrettanto. Somigliava a lui la piccola Bella, era indubbiamente sua figlia e sicuramente l'aveva adorata prima dell'incidente. Demelza gli aveva detto che aveva un rapporto speciale soprattutto con Clowance ma onestamente faticava a crederle. La figlia più grande era una bambina viziata, supponente e capricciosa, sempre intenta a cercare di catapultare l'attenzione su di se e si chiedeva come avesse potuto sopportare una bambina del genere, tanto diversa dal fratello più grande, pacato e gentile, e dalla figlia più piccola, sempre allegra e solare. Spesso la sentiva piangere per niente e fare scenate terribili a tavola, a cui né Demelza né i servitori sapevano far fronte e non poteva fare a meno di chiedersi perché non la castigassero. Sapeva ancora molto poco di quella casa e delle sue abitudini ma contava, ora che era in piedi, di scoprirle.

Tutto era un grosso punto interrogativo per lui. Sua moglie, i suoi figli, i suoi servi e il suo passato erano un grosso enigma e lui non sapeva cosa dire, cosa fare e come comportarsi con loro.

Demelza era dolce, molto comprensiva e paziente ma non era questo il punto. Che rapporto avevano lui e lei, prima? Passionale? O formale, come accadeva nelle famiglie nobili? Si amavano o il sentimento fra loro, con gli anni, si era raffreddato? Cosa si dicevano, cosa facevano insieme?

Lei gli aveva raccontato del loro primo incontro e in modo molto sommario come si erano sposati ma aveva come l'impressione che avesse omesso molte cose. Beh, ora era in piedi e aveva una casa da esplorare e forse, da solo, rovistando qua e la, avrebbe trovato alcune delle risposte che cercava.

Stringendo i denti scese le scale da solo, arrivando alla cucina e sedendosi sulla sedia col fiato corto. Faceva talmente tanta fatica a camminare, da sentirsi un vecchio di cent'anni. I due servitori stavano cucinando e Bella era seduta in terra, su una coperta, intenta a giocare con dei pupazzetti di stoffa. Degli altri, nessuna traccia.

Appena lo vide, la piccola gattonò verso di lui, arrampicandosi sulle sue gambe. "Pa-pàààà" – disse Bella.

Nonostante il dolore al costato si chinò, prendendola in braccio e mettendosela sulle ginocchia. Era una bambolina dall'aspetto irresistibile, Bella. Poi guardò Prudie. "Dov'è mia moglie?".

"E' uscita a prendere i bambini" – rispose la serva.

Ross si accigliò. "Sono ormai grandi, soprattutto Jeremy. Non sanno tornare da soli?".

"Certo che sanno farlo. Ma ha iniziato a piovere e la signora gli ha portato la mantellina".

Ross non fu entusiasta di quella risposta. Avevano due servi, Demelza non poteva mandare loro a prendere pioggia in testa e figli? "Come mai è andata lei?".

Prudie, intimorita dal tono di voce accusatorio di Ross, indietreggiò. "La signora ama prendersi cura di persona dei vostri figli e poi... per i bambini è importante, per loro è un momento difficile".

Ross abbassò lo sguardo. Già, era un momento difficile e non era complicato immaginare che lui ne fosse la causa. Non disse nulla, concentrandosi sulla piccola Bella che lo guardava, in attesa che la facesse giocare.

In quel momento si aprì la porta e sua moglie e i suoi figli, avvolti in mantelle grondanti acqua da tutte le parti, entrarono in casa.

Demelza si stupì di trovarlo alzato. Era la prima volta che scendeva al piano di sotto da quando aveva rimesso i piedi giù dal letto e fino a quel momento si era limitato solo a pochi passi in camera. "Ross, sei sceso da solo?".

"Sì. A fatica, ma volevo cominciare a vedere com'era casa mia. Chissà che non mi torni in mente qualcosa".

"Non stancarti troppo, Dwight ha detto di evitare sforzi che possono provocarti emicranie" – lo ammonì, togliendosi il mantello e andando vicino al camino acceso.

Jeremy gli corse vicino, mettendo sul tavolo un disegno che teneva arrotolato in mano. "Guarda! Ho disegnato una miniera e ho colorato senza andar fuori dai bordi! Il maestro mi ha dato 10".

Ross sorrise, accarezzandogli i capelli. "Bravo! Scommetto che sei il primo della classe".

Jeremy arrossì. "Quasi il primo! Arthur Doran è un po' più bravo di me".

Ross gli strizzò l'occhio. "Scommetto che presto sarai più bravo di questo Arthur Doran, sei un artista" – disse, guardando il disegno di Jeremy che davvero, sembrava fatto da un ragazzo decisamente più grande di lui.

Demelza sorrise, guardando di sbieco Clowance che, toltasi il mantello, si era accucciata tutta imbronciata davanti al camino. "Se lei fosse diligente solo la metà di suo fratello con lo studio, sarei una donna molto felice".

"MAMMA!" - sbottò la bambina.

Ross, che fino a quel momento aveva ignorato Clowance, osservò Demelza. "E' successo qualcosa?".

La donna alzò le spalle, sospirando. "Mi ha fermato il maestro oggi, dicendomi che disturba molto in classe, che è sempre disattenta e che ancora, nonostante mesi di scuola, non ha imparato a scrivere correttamente il suo nome".

Ross guardò di sbieco la figlia. Che doveva fare? Ammonirla, sgridarla o altro? Che cosa avrebbe fatto il vecchio se stesso? Non si conosceva e non conosceva a sufficienza le abitudini della famiglia ma di certo quanto detto dal maestro era abbastanza grave, soprattutto per quel che riguardava il comportamento di Clowance che, aveva appurato esso stesso, era tutt'altro che educato ed accomodante. "Quindi che si fa?" - chiese, a Demelza.

Sua moglie guardò prima lui e poi la figlia che, in un ostinato mutismo, continuava a guardare le fiamme nel camino. "Questo sabato e questa domenica mi ci metterò io con lei, cercando di insegnarle a scrivere quanto meno le parole più semplici e il suo nome".

Ross guardò sua moglie. Sembrava così pallida e stanca, doveva avere sulle spalle molte preoccupazioni e non ci voleva di certo che Clowance contribuisse a peggiorare le cose.

Come leggendogli nel pensiero, Demelza si alzò, stiracchiandosi e dirigendosi verso la libreria. "Quindi, visto che nel fine settimana avrò da fare, andrò a finire di compilare alcuni registri contabili sulla Northern Bank che servono a Londra a Martin. E tanto che ci sono, compilerò i registri della Wheal Grace".

Gli spiaceva che fosse lei a dover far tutto ma si sentiva come un libro bianco su cui ancora doveva essere scritta ogni cosa e non sapeva come aiutarla. La sua irritazione verso Clowance e il suo modo di fare crebbero. Era suo padre, giusto? E un padre educa!

Si alzò in piedi a fatica e, dopo che Jeremy se ne fu andato per mettere via il suo disegno, porse a Prudie la piccola Bella e si avvicinò al camino dove, ancora muta e imbronciata, c'era Clowance. "Non ti vergogni?" - le chiese, senza mezzi termini.

La bimba alzò lo sguardo su di lui. "Di cosa?" - chiese, con fare altezzoso.

Irritazione... Ogni volta che gli rivolgeva la parola, provava l'istinto di prenderla a schiaffi per la sua supponenza. "Per il tuo comportamento e per il fatto che a scuola sei un disastro! Ci puo' stare che tu faccia fatica ad imparare ma che tu sia anche maleducata e che disturbi le lezioni, non lo tollero".

"Non mi piace andare a scuola e mamma lo sa! E lo sapevi anche tu, una volta".

Aveva solo sei anni e rispondeva a tono come se ne avesse avuti diciotto. Come poteva essere tanto diversa dai suoi fratelli? "Beh, suppongo che tutti siano costretti a fare cose che non gli piacciono, è la vita. E quindi ti ci dovrai rassegnare. Non vedi quanto è stanca e preoccupata tua madre?".

"E' stanca e preoccupata per colpa tua!" - rispose la bambina.

Quell'accusa risvegliò in lui dei sensi di colpa cocenti verso Demelza. Ma non avrebbe permesso comunque a Clowance di avere l'ultima parola. "Io non ho fatto apposta a farmi male".

"E' colpa tua di tutto! Anche se vado male a scuola, è colpa tua".

"Che vuoi dire?" - chiese, freddamente.

A quella domanda, Clowance finalmente si alzò e si scagliò contro di lui, provocandogli un'intensa fitta al costato che per un attimo gli mozzò il fiato. "Dannazione!" - sbiascicò fra i denti, cercando con la mano un appiglio per non cadere.

"E' colpa tua!" - urlò Clowance – "Tua! TUA! TUAAAA! Mi avevi promesso che mi insegnavi a scrivere, me lo avevi giurato! E mi avevi detto che ero la tua preferita e invece ti sei dimenticato anche di me! E io sono arrabbiata, ecco".

"ORA BASTA!". Questa volta fu lui ad urlare, tanto forte da far sobbalzare Prudie e Bella che, impotenti, assistevano alla scena. "La mia preferita? Ne dubito fortemente, piccola maleducata". Si chinò su di lei, prendendola per le spalle e scuotendola leggermente per avere la sua attenzione. "Hai sei anni e la lingua lunga, giusto? Sei tu che devi imparare a fare le cose da sola, non devi aspettare che siano gli altri ad agevolarti in quello che è un tuo dovere! Scrivere il proprio nome è il minimo che tu possa fare e hai un maestro che, se tu lo ascoltassi, te lo insegnerebbe volentieri!".

Spaventata da quella reazione che evidentemente non si aspettava, Clowance spalancò gli occhi. Poi riprese il suo consueto cipiglio. "E' colpa tua" – ripeté.

E a quel punto, fu più forte di lui. Nonostante i dolori, alzò la mano e la colpì in viso con uno schiaffo. "Sei insopportabile, una bambina maleducata ed impossibile. Da oggi farai il tuo dovere e imparerai a leggere e a scrivere DA SOLA. Se non lo farai e il maestro si lamenterà ancora di te, dovrò iniziare a punirti, visto che gli altri non lo fanno. Imparerai l'educazione... E magari ad essere piacevole e simpatica come tuo fratello e tua sorella. E ora, vattene in camera tua, non voglio vederti per un bel po'".

Clowance si toccò la guancia dove l'aveva colpita, arrossata e dolorante. Poi lo guardò, con le lacrime che le solcavano il viso. Non urlava e strepitava come al suo solito, il suo era più un pianto silenzioso. "Avevi detto che ero la tua preferita..." - ripeté, singhiozzando.

Ross la guardò, gelido. Era ora che la smettesse di sentirsi migliore degli altri e che imparasse un po' di educazione e umiltà. "Beh, non lo sei" – rispose. L'aveva ferita ma non gli importava! Sarebbe stata una lezione di vita quella, per lei, che di certo le avrebbe fatto bene e le sarebbe stata utile per il futuro.

Clowance non disse più niente. Continuando a piangere, in silenzio, corse nella sua camera e Ross annuì, soddisfatto. Aveva interpretato ottimamente il suo ruolo di padre con la figlia più problematica e l'aveva avuta vinta, era orgoglioso di se stesso!

"Cosa è successo?" - chiese Demelza, riapparsa dietro di lui dalla biblioteca, evidentemente richiamata dalle urla di poco prima.

Ross le sorrise. "Ho fatto due chiacchiere con Clowance circa il suo comportamento, tutto qui. Credo che ora abbia capito come deve comportarsi, qui e a scuola".

Demelza, accigliandosi, guardò Prudie che scosse la testa. "L'hai rimproverata?".

"Certo! Ne aveva bisogno e credo che dovresti farlo pure tu, di tanto in tanto".

"Oh Ross". Demelza si mise una mano fra i capelli, preoccupata. "Per Clowance è tutto molto difficile e dobbiamo avere pazienza con lei. Non la conosci, non più. Se sei troppo duro, ottieni l'effetto contrario a quello desiderato, con lei".

Ross annuì. "Credo di capire cosa vuoi dire, ma lei fa così perché glielo si è sempre permesso. Jeremy e Bella sono adorabili e lei la figlia da raddrizzare. Non ricordo nulla del mio passato ma è quello che più mi salta all'occhio in questo mio strano presente. Sono sicuro che se si comporterà meglio, sarà un bene anche per te".

Demelza gli si avvicinò, sfiorandogli il braccio. "Clowance non è cattiva, te lo assicuro. E' una bambina forse un po' aristocratica nei modi di fare ma è d'animo buono, è furba e molto intelligente. E ti adora, soffre nel vederti così e non ha altro modo che il capriccio per manifestare il suo dolore. Ha solo sei anni...".

Ross non rispose, non era d'accordo con lei ed era ciecamente convinto di aver agito per il meglio. Anche se, e se ne rese conto solo in quel momento, essere padre era un lavoro molto difficile. E Clowance, ma probabilmente anche Bella e Jeremy, prima o poi lo avrebbero messo a dura prova. E forse anche Demelza. C'era un mondo fuori da quella porta, di cui aveva fatto parte ma che gli era sconosciuto. E si sentiva confuso e sperso in ogni cosa che faceva.

A cosa avrebbero portato le sue azioni? Si muoveva alla cieca spinto da buone motivazioni ma non conosceva nessuno, non conosceva nemmeno se stesso e quindi avrebbe potuto far bene così come sbagliare in tutto.

In quel momento si rese conto di avere paura. Di se stesso e soprattutto dell'ignoto che lo circondava.

Gli avevano detto che si chiamava Ross Poldark. Ma Ross Poldark e la sua vita gli erano completamente sconosciuti.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


Clowance, in sei anni di vita, non era mai stata picchiata da nessuno e fino al giorno prima nemmeno immaginava che potesse succederle. E soprattutto, mai avrebbe creduto che sarebbe stato suo padre a farlo.

Non era tanto lo schiaffo in se ad averle fatto male, era stato abbastanza forte ma non quel tanto da farla scoppiare a piangere a dirotto come suo solito, era stato il gesto, il SUO gesto a ferirla.

Il suo papà...

Lui, che la prendeva sempre in braccio e la portava a cercare conchiglie in spiaggia mentre chiacchieravano di tutto per ore...

Lui, che le sorrideva sempre anche quando faceva i capricci e che la difendeva dalle sgridate della mamma se combinava qualcosa di sbagliato...

Lui, che la abbracciava una volta, facendole passare ogni paura...

Lui, che le diceva sempre sì anche se si accorgeva che non era del tutto sincera a volte...

Lui, che le aveva promesso di aiutarla ad imparare a scrivere...

Lui, che le aveva detto che era la sua preferita...

Clowance dondolò le gambe giù dal letto, pensierosa e giù di morale. Il suo papà era cambiato, e con lui tutto il suo mondo. La mamma le aveva spiegato che era per l'incidente, che aveva perso la memoria e non ricordava niente e nessuno, che ci voleva tempo e che non doveva tormentarlo troppo ma Clowance non capiva come avesse fatto anche a dimenticare che le voleva bene. Come facesse a non sentirlo più... I ricordi stanno in testa, i sentimenti nel cuore. E se la testa era malata, non poteva essere che lo fosse anche il cuore, era impossibile. E quindi non capiva, sapeva solo che il suo papà non voleva più averla attorno e che le avrebbe dato un altro schiaffo se non avesse imparato a scrivere da sola.

Osservò il foglio sulla scrivania, lasciato lì tutto scarabocchiato un'ora prima. Ci aveva provato a scrivere il suo nome e cognome ma non le veniva proprio in mente l'ordine delle lettere e a furia di cancellare i tratti della matita, aveva finito per bucare il foglio.

Fino al mese prima avrebbe pianto, sarebbe corsa dal suo papà, lui l'avrebbe presa sulle ginocchia e le avrebbe stretto la mano, guidandola a scrivere su un altro foglio nuovo. Ora, se gli avesse fatto vedere cosa aveva combinato a furia di cancellare, si sarebbe presa un altro rimprovero.

Per la prima volta in vita sua voleva essere come Bella o Jeremy. I suoi fratelli erano ben accetti dal loro padre, a lui piaceva prendersi in braccio quella marmocchia che non sapeva nemmeno camminare e parlare e Jeremy, che invece sapeva fare tutto. Adesso erano loro i preferiti, assieme alla mamma. Anche se pure con lei era un po' cambiato, non capiva in cosa ma li vedeva diversi quando erano insieme. Gli occhi del suo papà non brillavano più al vederla e la sua mamma sembrava tanto stanca e debole adesso. E non rideva più da tanto. Tutto il suo mondo era cambiato, la sua famiglia non era più tanto bella e unita come prima dell'incidente e nessuno sembrava volerla più.

Eppure era bella, lo sapeva. E, come diceva zia Caroline, raffinata come una principessa. Ma non serviva a nulla essere così perfetta, il suo papà non la voleva lo stesso.

La porta della stanza si aprì dietro di lei e Jeremy le andò vicino, chiudendo piano l'uscio. La guardò sul letto e poi fissò accigliato il foglio di carta tutto strappato sulla scrivania. "Non hai fatto niente! Oh Clowance, papà si arrabbia!".

"Ci ho provato, guarda quanto ho cancellato! Si è strappato anche il foglio e io mi sono stancata! Non sono capace".

"Dai, se ti tiri su ti aiuto io. Se no succede come ieri che ti prendi uno schiaffo e a me non piace se papà si arrabbia e tu le prendi".

Clowance si voltò dall'altra parte, volgendogli le spalle. "No, non voglio che mi aiuti TU!".

"Ma...".

"TI HO DETTO DI NO!". Alzò la voce, urlò dalla rabbia. Non sapeva perché fosse così furiosa ma lo era e Jeremy, anche se era gentile, doveva andar via e lasciarla sola. Non voleva imparare a scrivere con suo fratello...

Al suo urlo, la porta si aprì nuovamente. E Clowance, deglutendo, capì che c'erano guai in vista. Jud e Prudie erano nei campi, sua madre era alla miniera a portare dei registri e ora, se suo padre si fosse arrabbiato, non sarebbe arrivato nessuno a difenderla.

Suo padre entrò nella stanza con Bella in braccio. Aveva il consueto sguardo assente e distante che avevano imparato a conoscere ormai da oltre un mese e sembrava anche seccato. "Perché stavate urlando?".

Jeremy si mise davanti alla scrivania, cercando di nascondere il foglio strappato col suo corpo. "Niente, ho solo picchiato contro lo spigolo della sedia e mi è scappato un urlo".

Beh, Clowance realizzò che Jeremy non era convicente per niente a dire bugie. Suo padre lo fece spostare dalla scrivania dandogli una leggera spinta e poi prese il foglio fra le mani. "Clowance!".

"Ci ho provato un sacco ma non mi riesce" – sbottò la bimba.

"Ci hai provato o hai fatto finta, sperando che poi facesse tutto tuo fratello?".

Il tono sospettoso di suo padre la fece arrabbiare ancora di più. Una volta le credeva sempre, anche quando diceva bugie. E ora che diceva la verità, non si fidava più. "Io gli ho detto che non voglio aiuto, a mio fratello".

"E' vero!" - intervenne Jeremy, con urgenza.

Clowance vide il padre scuotere la testa, quasi gli facesse male. "Bene, prendi un altro foglio e ritenta finché non riesci".

"Ma fra un po' si cena!" - lo interruppe, mentre lo stomaco le gorgogliava.

"Cenerai quando avrai scritto il tuo nome e cognome correttamente".

"E se non riesco?".

Suo padre alzò le spalle, guardandola severamente. "Allora andrai a dormire a stomaco vuoto. E sono sicuro che ti servirà da lezione e che domani saprai scrivere meglio".

Lei? A letto senza cena? LEI? "Sei cattivo" – disse. Voleva urlargli che le sarebbero bastati cinque minuti con lui ad insegnarle, per imparare. Ma non glielo avrebbe chiesto nemmeno morta, quello non era più il suo papà. E lei non era più la figlia preferita. Più lo guardava e più si convinceva che lui non la volesse lì assieme a suo fratello e a sua sorella, che lei ormai gli dava fastidio. Se no l'avrebbe aiutata e non l'avrebbe mandata a letto senza mangiare.

Decise! Le spiaceva per la mamma e anche per Jeremy che le voleva bene, ma in quella casa dove non era più voluta, non ci sarebbe rimasta. C'erano nonno Martin e nonna Diane a Londra, loro le volevano davvero bene e le stavano vicino in tutto. E se a casa sua non c'era più posto – e cibo – per lei, sarebbe scappata e andata da loro. L'avrebbero adottata e lei avrebbe avuto ancora qualcuno che le voleva bene.

Alzò lo sguardo, guardando suo padre con aria di sfida, ormai convinta della sua scelta. "Io non sto qui fino a notte a scrivere!".

"E allora, preparati a digiunare! E non aspettarti che cambi idea, lo impedirò anche a tua madre".

Clowance alzò le spalle. "Non so se ci riesci, di solito vince lei".

"Non questa volta, te lo assicuro!" - rispose lui, prendendo Jeremy per mano. "Sei sempre più odiosa e insopportabile, starò bene a non averti sotto gli occhi a cena" – disse, chiudendole la porta in faccia.

Una volta sola, Clowance rilasciò la tensione accumulata, buttandosi sul letto. Rimase ferma e zitta piangendo per lunghi minuti quel suo papà ora tanto freddo e distante, prima di alzarsi e iniziare a prepararsi per il suo piano. Frignare non sarebbe servito a niente, scappare avrebbe risolto ogni suo problema!

Prese un vecchio zaino di stoffa dall'armadio e ci ficcò dentro alla rinfusa i suoi vestiti preferiti. Prese la sua bambola Ginevra, chiamata così in onore di re Artù che era della Cornovaglia come lei e la cui storia le aveva raccontato suo padre, e infine una vecchia coperta. In fondo faceva freddo e il viaggio fino a Londra sarebbe stato lungo.

Mentre si preparava sentiva le risate di Bella in salotto e Jud e Prudie che litigavano per qualcosa... E sentì anche la sua mamma e il suo papà che litigavano per qualcosa, forse per lei. Andarono avanti a discutere a lungo e Clowance per un attimo sperò che la sua mamma venisse da lei per dirle che poteva cenare e che il papà si era sbagliato. Ma non venne e a un certo punto nella casa calò un silenzio pesante. Finì di preparare lo zaino, fuori c'era ancora luce ed era l'ideale per andarsene e quindi, anche se aveva un po' paura, le sarebbe bastato aprire la finestra, scavalcare e poi correre veloce verso i campi e il bosco.

Fece per uscire, quando si ricordò di qualcosa a cui teneva tanto quanto la bambola Ginevra. Si avvicinò alla scrivania dove ancora c'era quel dannato foglio strappato, aprì il cassetto e prese uno dei draghi di carta che suo padre le aveva fatto mesi prima per giocare assieme. Quello era un drago speciale e il suo papà si era esercitato a farglielo per una notte intera.


"Voglio un drago con due teste! Così quando giochiamo a fare la guerra io ti batto perché sputa fuori il doppio del fuoco".

"Ma Clowance, non sono capace".

"Ma se ti impegni e impari papà, poi ci riesci!".

Sorrise il suo papà, scompigliandole i capelli. "Sai, credo che stanotte non dormirò e troverò un modo per fartelo, questo drago a due teste".


Aveva mantenuto la promessa il suo papà, quella volta. Al mattino le aveva fatto trovare il drago di fianco al cuscino ed era stata la prima cosa che aveva visto in quella giornata, appena aperti gli occhi.

Ora tutto aveva un sapore diverso però, ora il suo papà non le avrebbe più costruito nemmeno un drago con una sola testa. E non le avrebbe più accarezzato nemmeno i capelli. E nemmeno l'avrebbe presa in braccio.

Osservò quel drago di carta che aveva tenuto ordinatamente al sicuro per tanti mesi in un cassetto. Rappresentava un papà che non c'era più. Era bellissimo quel drago di carta, ma ora non lo riusciva più a guardare come un tempo, ora le faceva male averlo fra le mani. Inspirò, prese coraggio e lo accartocciò fra le mani, prima di strapparlo e ridurlo in coriandoli che poi gettò nel camino, con le lacrime che le rigavano il viso. Ecco, aveva deciso! Se lui non la voleva più, nemmeno lei lo voleva più. Non lo avrebbe più cercato, non gli avrebbe mai più chiesto niente. Se ne sarebbe stata sempre lontana e lui avrebbe perso la figlia migliore del mondo! E magari un giorno avrebbe pianto per riaverla ma lei sarebbe stata la figlia-principessa di nonno Martin e nonna Diane e non lo avrebbe degnato di uno sguardo. I draghi ora, se voleva, li poteva costruire per quella sorellina che nemmeno sapeva camminare ancora e che non sarebbe stata capace di giocarci!

Si mise una mantellina sulle spalle, spalancò la finestra, scavalcò il davanzale e uscì fuori, col suo zaino pieno di oggetti e ricordi. Non si voltò nemmeno una volta a guardare casa sua, non voleva vedere più niente. Le sarebbe mancata solo la mamma. E forse Jeremy... E forse forse pure Bella... Magari anche Jud e Prudie ogni tanto... Ma il suo papà per lei non esisteva più!

Corse come una forsennata, faceva freddo e l'erba era ghiacciata, le solleticava le gambe e la faceva rabbrividire, aveva fame e avrebbe voluto cenare ma per fortuna questo non era un problema per lei: anche rimanendo a casa avrebbe digiunato lo stesso e quindi tanto valeva correre via da quel posto dove non era più voluta.

Si addentrò nel bosco, evitando il sentiero principale per non rischiare di incontrare i minatori che tornavano a casa dal lavoro. E solo quando fu senza fiato rallentò, camminando a zig zag fra prati e piante.

Conosceva quel tratto di strada, lo faceva ogni tanto con la mamma quando andavano a trovare sua sorella Julia al cimitero. Era infinitamente incuriosita da una grossa villa che superavano sempre camminando velocemente perché alla mamma quel posto evidentemente non piaceva. A lei invece affascinava tanto, era una villa come quella delle fiabe, lo pensava ogni volta che ci passavano.

Beh, tanto valeva darci un occhio, visto che ora poteva decidere da sola cosa fare. Si avvicinò pian piano al sentiero che conduceva all'ingresso e poi si fermò davanti al cancello che per qualche strano motivo era socchiuso. Non si era mai avvicinata tanto e ora voleva dare un'occhiata.

Si guardò attorno guardinga, constatando che non c'era nessuno, poi entrò.

I prati erano curatissimi, l'erba era meravigliosa e morbida e la casa, vista da vicino, era ancora più grande e maestosa.

Attenta a non farsi vedere, sfilò a gattoni sotto le finestre, sbucando poi sul retro dove, a sorpresa, giocava un bambino che poteva avere circa la sua età.

Era lì da solo, vestito come un principino, a giocare con una palla di stoffa. Era stupita, non credeva che lì ci vivessero dei bambini, non ne aveva mai visti. Saltò su dal suo nascondiglio, avvicinandosi a lui. Non lo aveva mai incontrato in giro, nemmeno alla scuola per i figli dei minatori che frequentava con Jeremy. Era un po' pallido, magrolino e coi capelli ricci e nerissimi, sembravano quelli del suo papà, pensò fugacemente. "Ciao!" - disse, tutto sommato felice di essere a contatto con un altro bambino.

Lui si voltò verso di lei, spalancando gli occhi stupito. Si guardò attorno, quasi spaventato dalla sua presenza lì, prima di tornare a guardarla di nuovo. "E tu chi sei? Come hai fatto ad entrare?".

"C'era il cancello aperto!".

"Si perché papà deve uscire a cavallo coi suoi uomini per del lavoro".

"Oh...". La parola 'papà' la irritava ultimamente. "Senti, io sto scappando di casa ma magari posso fermarmi un po' a giocare con te se non vai col tuo papà a cavallo".

Il bimbo la guardò incuriosito. "Scappi di casa? Perché?".

Clowance alzò le spalle. "Così, per i soliti motivi per cui si scappa di casa di solito! Mio papà è diventato un po' stupido e non mi vuole più bene e ho deciso di andare a Londra dai miei nonni per farmi adottare".

Al bambino scappò una risata e si mise una mano sulla bocca. "I papà non vogliono mai troppo bene ai figli, il mio non mi parla ad esempio, ma mica scappo. Anche se non mi porta a cavallo con lui io resto qui e se vuoi stare un po' a giocare puoi farlo, tanto la governante arriverà fra un'ora a chiamarmi per la cena". Le si avvicinò, guardandola con attenzione. "Come mai hai lo zaino?".

Clowance lo guardò storto. Era un po' strano e stupido quel bambino. "Per portare via le mie cose! Scusa, tu scapperesti da casa senza niente?".

"Boh, non ci ho mai pensato!" - rispose lui, guardandola pensieroso.

Scosse la testa. "Sei proprio stupido! Più della mia sorellina piccola".

"Anche io ho una sorellina piccola!" - esclamò lui – "Si chiama Ursula! E ho anche un fratello più grande che però non vedo mai perché studia lontano e che si chiama Geoffrey Charles".

Clowance spalancò gli occhi. "Siamo uguali! Pure io ho un fratello più grande e una sorella più piccola, si chiamano Jeremy e Isabella-Rose. E tu come ti chiami?".

"Valentin Warleggan!" - rispose lui, in tono solenne.

"Io Clowance Poldark".

Valentin le sorrise. "Siamo uguali davvero anche per i papà. Nemmeno il mio mi vuole bene, mi sa! Non mi parla mai, sembra che gli do fastidio. Gli piace più mia sorella piccola ma io proprio no".

Clowance scosse la testa sospirando. "Guarda, ti capisco...". Poi le balenò un'idea in testa, un'idea eccezionale. "Senti, scappa con me e vieni a Londra! Se tuo papà non ti vuole e non piangi troppo senza mamma, puoi venire con me e farti adottare dai miei nonni! Loro saranno contenti, pensa che non hanno mai avuto bambini".

Valentin spalancò gli occhi con un filo di terrore nel volto, ma poi parve considerare l'idea. Fece rimbalzare la palla a terra un paio di volte, come per concentrarsi a prendere una decisione. "Ma sei sicura che adottano anche me, se vengo? In due magari gli costiamo troppo da mantenere".

"Guarda che sono ricchi, mica gli costa darci da mangiare".

"E allora vengo con te" – disse lui, deciso.

Clowance sorrise, sarebbe stato bello avere un compagno di viaggio. "Non frignerai senza mamma, vero? Mi sembri uno che frigna...".

Lui scosse la testa. "La mia mamma è morta quando è nata mia sorella Ursula, due anni fa. Ci sono abituato a essere solo e senza di lei".

Clowance abbassò lo sguardo, un po' in imbarazzo davanti a quella confessione, rendendosi conto che gli spiaceva per lui. Non avrebbe mai immaginato che al mondo esistessero bambini senza mamma e si chiese come poteva essere vivere così, senza averla vicino, con pure un papà nei paraggi che non ti parla. Pensò alla sua di mamma, rendendosi conto che le mancava già... "E allora ci conviene correre prima che ci scoprano" – disse, per darsi coraggio e scacciare la nostalgia.

"C'è un problema!" - disse lui.

"Quale?".

"Lo zaino! Io come faccio a farmelo senza essere scoperto?".

Clowance alzò le spalle. "Dai fa niente, a Londra i nonni ci compreranno abiti e giocattoli nuovi, non ti serve in fondo".

"Sai la strada per Londra?".

"Certo, ho fatto in carrozza la strada un sacco di volte assieme alla mia famiglia. Ci andiamo spesso, mia mamma lì è importante, lei ha una banca e tante cose da gestire, è una donna famosa e potente la".

Valentin era sempre più sorpreso. "Siamo davvero uguali allora, anche il mio papà ha una banca a Londra! Ed è un importante uomo d'affari! E qui ha tante miniere".

"Pure il mio di papà ha una miniera anche se adesso non ci va!". Clowance sorrise, prendendogli la mano. "E allora, Valentin, dobbiamo proprio scappare insieme! Siamo ugualissimi. Dobbiamo correre ed essere veloci però, se no ci riprendono subito".

"Io non sono tanto bravo a correre".

Clowance intrecciò le dita con le sue. "Beh, imparerai". Lo tirò dietro, prese a correre e lo costrinse a fare altrettanto. E insieme scomparvero nei boschi della Cornovaglia.







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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


"Mi fa male il fianco, proprio quì, a sinistra".

Clowance si bloccò, alzando gli occhi al cielo. Poi si voltò verso il suo improvvisato compagno di viaggio che camminava più lento di una lumaca e si lamentava da interminabili minuti. "Senti, il male al fianco a me viene solo quando corro tanto e ora non stiamo correndo! Come fai ad averlo? Stiamo solo camminando".

"Beh, a me fa male lo stesso! Mica sono abituato a camminare, io. E ho anche fame, è ora di cena".

Scosse la testa, esasperata. Non avevano fatto chissà quale camminata, forse era un'ora scarsa che si erano allontanati dalla casa di Valentin ed era impossibile che fosse già così stanco. Però in effetti aveva fame pure lei... "Senti, se ci sbrighiamo, riusciamo ad arrivare alla spiaggia e possiamo riposarci e nasconderci in qualche grotta. Per la fame non possiamo farci molto, non ho niente con me. Ma vicino al mare potremo riposarci".

Valentin si appoggiò a un ramo, ansimando. "Si ma sai, io prima ero rachitico e non camminavo mai! E' la prima volta e non so se resisto a camminare fino al mare".

Spalancò gli occhi, sorpresa da quella strana parola che lui aveva appena pronunciato e che lei non aveva mai sentito. "Cosa? Ratic... Rachisico? Che vuol dire?".

"Si dice RACHITICO! Vuol dire che non ho le ossa forti e che mi stanco! Ora però sono guarito, ma mi stanco lo stesso".

Clowance sbuffò, stanca di sentire le sue frottole. Gli si avvicinò, lo prese per il polso e gli diede uno spintone, costringendolo a riprendere il cammino. "Per me non hai niente, sei solo una lagna e un pigro! Vedrai che se ti abitui a camminare, ti passa tutto".

"Mi fa male il fianco" – si lamentò lui, costretto a seguirla, nonostante tutto.

"Ohhh, sta zitto!". Clowance si isolò da lui, finse di non sentirlo lamentarsi e proseguì a spron battuto, trascinandoselo dietro.

Quando giunsero al mare, Valentin aveva le guance rosse come pomodori, il fiato corto e uno sguardo omicida che le rivolgeva non troppo velatamente. "Morirò per colpa tua!".

Clowance ridacchiò, indicandogli la spiaggia. "Ma almeno morirai davanti al mare! Guarda che bello!".

Valentin si voltò, rimanendo a bocca aperta. Le onde del mare in tempesta si infrangevano con violenza sul bagnasciuga e sullo sfondo il sole che calava sembrava gettarsi nell'acqua, rilasciando in essa bagliori dorati. "Oh, è bellissimo!" - mormorò estasiato, guardando la spiaggia completamente deserta davanti a loro.

Clowance sorrise. Aveva ragione, non era malato, era bastato portarlo al mare e farlo pensare ad altro, per fargli dimenticare il dolore al fianco. "Sai, ci venivo una volta qui, a giocare nel mare, con mamma e papà. E con mio fratello e mia sorella".

Valentin spalancò gli occhi. "Tu venivi qui a giocare con la tua famiglia? E che facevate?".

"Beh, mamma si metteva un vestito leggero e provava a leggere e papà per scherzo la prendeva in braccio e la buttava in acqua. E poi..." - gli occhi di Clowance si riempirono di nostalgia a quei ricordi – "E poi faceva lo stesso con me e Jeremy. Non con Bella però, lei è piccola! E poi facevamo tanti castelli di sabbia e papà ci inseguiva di corsa dove si infrangono le onde! Cercavamo i granchi e a volte pescavamo. Cose così, insomma!".

Valentin, a bocca aperta, era rimasto ad ascoltarla in silenzio. "Allora mi hai detto una bugia! I tuoi genitori non sono persone importanti, le persone importanti non giocano in spiaggia e non fanno il bagno nel mare".

"Perché?" - chiese Clowance, piccata.

Valentin alzò le spalle. "Beh, non lo so perché! E' così e basta, non si fa, non è da buone maniere! Le persone importanti studiano col precettore, giocano a scacchi e vanno a caccia a cavallo. E comandano tutto e tutti, come fa mio padre coi suoi minatori".

"E chi lo dice?" - sbottò Clowance, dandogli una spinta.

"Mio padre!".

"Tuo padre è stupido! Mio papà non comanda nessuno, nemmeno i suoi minatori! Mio papà lavora con loro ed è per questo si è fatto male".

Valentin si imbronciò. "Beh, il tuo papà è un popolano se fa queste cose!".

Clowance fece un sorrisetto maligno, sapeva come colpirlo e affondarlo. "Beh, meglio un papà popolano che uno come il tuo, che nemmeno ti parla mai". Certo, pensò, nemmeno suo padre giocava più con lei e nemmeno le parlava. Però una volta le aveva voluto bene...

Valentin sospirò, giocando distrattamente con un piedino a smuovere la sabbia. "Forse hai ragione, magari è divertente fare quello che fai tu con la tua famiglia. Ma io non ho mai giocato in spiaggia, di solito sto in giardino a giocare da solo. O al massimo vado con Ursula e la sua tata a fare una passeggiata nel bosco".

"Che vita noiosa, Valentin" – concluse lei, ormai dimentica della lite di poco prima. Gli faceva un po' pena quando diceva quelle cose della sua vita.

Valentin si avvicinò a una siepe dentro cui, spontanei, crescevano degli strani e grossi fiori rossi. Ne strappò alcuni, porgendoglieli. "I gentiluomini regalano fiori alle signore! Toh!".

A quel gesto, Clowance arrossì, anche se non ne capiva il motivo. "Grazie" – disse, osservandoli fra le sue mani. Li rigirò fra le dita, poi ridendo se li mise nei capelli. "Ora sembro quasi una signora di città".

Valentin rise. "Mica tanto, ma sei migliorata! E per quanto riguarda la fame, ho in tasca del cioccolato e delle caramelle, se vuoi dopo li dividiamo e ce li mangiamo. Londra è lontana, giusto? E dobbiamo essere in forze per raggiungerla".

A quelle parole, la speranza prese possesso di nuovo di lei. Caramelle? Cioccolata? In fondo aveva fatto bene a portarselo dietro. "Ohhh Valentin!" - esclamò, abbracciandolo – "Sei fantastico anche se ti lamenti! Tu mi dai da mangiare, io da coprirti! Ho nello zaino una coperta per la notte".

Il bimbo rise. "Sei fantastica pure tu! Mi insegni a giocare in spiaggia adesso?".

"Anche se non è da signori?".

"Si!".

Clowance annuì, lo prese per mano e corsero giù, verso il mare. Appena arrivati sulla riva, la bimba si tolse le scarpe e le calze, invitando Valentin a fare altrettanto.

Il bambino ci pensò un attimo su. "Ma non avremo freddo?" - chiese, togliendosi in modo titubante i suoi stivaletti di cuoio.

"No se corriamo forte!". Clowance lo prese di nuovo per mano e lo trascinò sul bagnasciuga, dove si infrangevano le onde. Presero a correre come forsennati, dimenticando fame e stanchezza, mentre l'acqua fredda solleticava loro i piedi e le gambe. Non importava molto però, iniziarono a ridere e pure Valentin, dopo un inizio un po' timoroso, lasciò la sua mano e prese a correre più forte di lei.

Saltarono nell'acqua, ci corsero e si tirarono addosso schizzi e sabbia, fregandosene del fatto che era inverno e il mare gelido. In fondo, a sei anni, questo era di scarsa importanza.

Valentin, preso da quel gioco che non aveva mai fatto, si rotolò nella sabbia che, bagnato com'era, gli si appicciò a pelle e vestiti.

Clowance scoppiò a ridere ancora più forte, rendendosi conto che era da tanto che non si divertiva così. "Ahah Valentin, questo è proprio poco da signori! E un po' da stupidi".

"Perché?" - chiese lui, mettendosi seduto nella sabbia, sporco dalla radice dei capelli alla punta dei piedi.

"Perché tu non hai abiti di cambio, io si!".

"Mica è un problema!". Valentin si tirò su, immerse le gambe nude nell'acqua e si lavò. Poi si scosse i vestiti e i capelli, lasciando cadere un po' di sabbia. "L'altra verrà via quando sarà asciutta" – disse, con semplicità.

Clowance annuì. In fondo era davvero simpatico e per niente male. Certo, ci sarebbe voluto del tempo per farlo diventare meno imbranato ma lì, su quella spiaggia, si era resa conto che poteva anche diventare un buon compagno di giochi. Il suo stomaco brontolò, mentre formulava quei pensieri, ricordandosi che aveva fame. Era ormai quasi buio e l'ora di cena doveva essere passata. "Senti, ma quelle caramelle e quella cioccolata di cui parlavi prima?".

"Li ho in tasca! Si saranno bagnati un po', però".

Clowance gli indicò col dito a nord, in fondo alla spiaggia dove si ergevano alte rocce. "La in fondo c'è una grotta. Possiamo andare ad asciugarci lì, così potremo anche mangiare. Fa niente se la cioccolata sarà un po' salata, anche se magari potevi pensarci prima a togliertela dalla tasca. Una volta mangiato, dovremo cercare della legna per accendere un fuoco, se no moriremo di freddo stanotte. E domani mattina riprenderemo la strada per Londra".

"E se rimanessimo a vivere qui al mare? Sarebbe divertente" – propose lui, mentre si dirigevano verso la grotta.

"Vero, ma siamo troppo vicini a casa e ci troverebbero. Mamma conosce questa spiaggia, ci siamo venuti spesso, te l'ho detto".

Valentin sospirò, sconsolato. "Allora giocheremo sulle rive del Tamigi".

"Oh, mica è la stessa cosa!".

"No, non lo è, hai ragione Clowance".

Arrivarono alla grotta. Si sedettero dietro una roccia per essere riparati dal vento e divorarono tutta la tavoletta di cioccolata che Valentin aveva con se. Clowance propose di tenere le caramelle per la mattinata successiva e il bimbo fu costretto ad arrendersi a quell'ordine, anche se aveva ancora fame. "Senti, ma se tu e la tua famiglia facevate cose tanto divertenti, perché sei scappata?".

"Te l'ho detto, mio padre ha avuto un incidente ed è diventato un po' strano e stupido. Non mi vuole più bene. Vuole anche che imparo a scrivere da sola, non mi aiuta più".

Valentin alzò le spalle. "Beh, è normale che devi imparare a scrivere. Anche mio padre vuole la stessa cosa".

"Si, ma mio papà prima mi aiutava a fare le cose che non riuscivo a fare da sola".

Valentin si buttò a terra, pensandoci su. "Boh, i papà sono strani a volte. E la tua mamma com'è?".

Clowance sorrise dolcemente a quella domanda. Le mancava la sua mamma, tantissimo, tanto che sentì gli occhi che le pungevano al suo ricordo. "Lei è bellissima e sa fare tante cose. E' buona e gentile, ma ultimamente è davvero stanca e triste da quando papà si è fatto male. Lei mi canta tante canzoni e mi consola se cado e mi sbuccio un ginocchio, cucina cose buonissime e mi aiuta a farmi il bagno. E la sera mi da un bacio sulla fronte e io so che dormirò benissimo per questo. Quando litiga col papà, alla fine vince sempre lei. Mi fa ridere quando fanno così, quando urlano e poi fanno la pace e alla fine si fa come diceva lei all'inizio. Il mio papà diceva che la mamma era il suo tesoro più grande e secondo me ha ragione".

"Dev'essere bello avere una mamma" – commentò laconicamente Valentin.

"E dev'essere brutto non averla" – rispose Clowance, guardandolo furtivamente.

Valentin sospirò, mettendosi le mani dietro la nuca. "Sai, mia mamma non la ricordo tanto, però ecco... Mi ricordo che era sempre molto elegante e che non faceva le cose che fa la tua, lei non correva in spiaggia e non giocava con l'acqua del mare col papà. Loro non parlavano molto, mi pare... Suonava l'arpa e a volte si metteva con me alla scrivania a fare un disegno. Però il bacio della buona notte me lo dava anche lei".

"Beh, forse quello lo danno tutte le mamme del mondo" – concluse Clowance, intrecciando le braccia al petto. Iniziava a fare freddo.

"Stai tremando" – commentò Valentin, osservandola.

"Sì, dobbiamo accendere un fuoco".

Il bimbo balzò in piedi. Era già diversissimo da com'era poche ore prima, pallido e stanco. Aveva le guance rosse e un aspetto molto più in salute rispetto a quando lo aveva visto giocare nel giardino di casa. "Vado a cercare della legna".

"Vengo con te".

"No, faccio da solo. Sai, le buone maniere... Le donne non devono lavorare".

Clowance ridacchiò. In fondo queste buone maniere da ricconi non erano tutte poi così male. "Oh va bene, ti aspetto qui".

Valentin scomparve e Clowance rimase sola. Il buio invadeva prepotentemente ogni cosa e in quel momento, nel silenzio, con solo il fragore delle onde che si abbattevano a riva, si accorse di avere paura. Era la prima volta che dormiva lontana da casa, dalla sua mamma e dal suo papà... E da Jeremy e Bella... Deglutì, rendendosi conto che le mancava la sua casa e che ora che era scappata, non avrebbe più potuto tornarci. Tirò su col naso, asciugandosi le lacrime con la manica del suo vestito. Se Valentin fosse tornato e l'avesse vista piangere, le avrebbe dato della frignona e non lo avrebbe sopportato. Secondo i suoi piani, il frignone doveva essere lui, non lei!

Valentin tornò circa mezz'ora dopo, senza nemmeno un legnetto con se. Ma fra le braccia, con suo sommo stupore, notò che teneva qualcos'altro. "Che cos'è?" - disse, osservando una massa di pelo che si muoveva fra le braccia del suo amico.

Valentin ridacchiò e, dopo aver allungato le braccia verso di lei, gli mostrò ciò che aveva raccolto chissà dove. "E' un cucciolo, l'ho trovato fra le rocce, vicino alla sua mamma morta. Non so perché è morta ma lui piangeva come un pazzo e così l'ho sentito e sono andato a prenderlo".

Clowance spalancò gli occhi sorpresa, incredula ed eccitata, dimenticando il freddo. Corse verso di lui e prese il cagnolino fra le braccia, stringendolo a se. Era piccolissimo di età, poteva avere al massimo un mese o poco più, i suoi occhi dovevano essersi aperti da poco, il pelo era lungo e sporchissimo ma doveva essere bianco in origine. Piangeva spaventato e lei lo abbracciò, accarezzandogli la testolina come tante volte aveva fatto con Garrick. "E' bellissimo! Ma poverino, come farà senza la mamma?".

"Possiamo tenerlo! Se ti piace tanto, te lo regalo e ce lo portiamo insieme a Londra dai tuoi nonni".

"Davvero me lo regali? Sai, io fino a poco fa avevo un cane ma è morto".

Valentin annuì. "Si, te lo regalo, a me i cani fanno un po' paura. Quelli di papà abbaiano sempre tanto quando li porta fuori a caccia. Mordono!".

"Ma questo è un cucciolo, i cuccioli giocano, mica mordono" – gli rispose Clowance, cercando di tranquillizzare la bestiola.

"Si ma poi cresce!" - rispose Valentin, con ovvietà. Le si avvicinò di alcuni passi, osservando il cagnolino. "Per essere nato da poco, è bello grosso, da grande sarà un gigante" – disse, guardandolo attentamente. "E' un maschio, ho guardato e ha il pisellino".

A quelle parole, Clowance ridacchiò. Era strano parlare di cose così con Valentin, di solito era con Jeremy che andava a sbirciare se i vitellini appena nati fossero maschi o femmine... "Bene, come Garrick!".

"E questo come lo chiamerai?".

Clowance fece alcuni passi, camminando avanti e indietro pensierosa. Poi si fermò, illuminandosi in viso. "Sarà il mio cane e sai, il mio papà diceva sempre che sono una principessa. E una principessa deve avere un cane con un nome importante e io so qual'è quello giusto per lui".

"E qual'è?".

Clowance si sedette per terra, tutta soddisfatta, lasciando che il cucciolo le leccasse il viso. "Artù! Come re Artù che è nato qui in Cornovaglia tanti anni fa. Mio papà mi ha raccontato la sua storia, quella di Lancillotto, Ginevra e dei Cavalieri della tavola rotonda. Erano tutti forti e coraggiosi, anche Morgana che era cattiva. Ma Artù era il re ed era il più forte di tutti".

Valentin rise. "Artù! Mi piace".

"Anche a me". Clowance prese il cucciolo fra le braccia, sollevandolo per guardarlo meglio. Aveva un muso tenerissimo, un nasino nero nero e il pancino ancora rosa. Era piuttosto pesante, segno che la madre doveva averlo nutrito bene fino a poco prima. L'unico neo era che era incredibilmente sporco. "Domani ti faccio un bagno in mare, hai un nome da re e devi essere pulito come un re" – commentò.

Valentin le andò vicino, ricordandosi che aveva qualcosa da fare, che aveva dimenticato quando aveva visto il cucciolo. "La legna! Ora torno indietro e vado a cercarla".

Clowance annuì. Era strano, non era più stanco, sembrava solo contento ed eccitato da quella loro avventura. Era stupita, pensava avrebbe pianto ma evidentemente, a differenza sua, non sentiva nostalgia di casa. "Va bene, io e Artù ti aspettiamo qui".

Lo guardò correre via. Era incredibile, non pensava che si sarebbe trovata tanto bene con lui. Non aveva mai avuto un amico vero e non si era mai trovata particolarmente bene coi bambini della scuola che frequentava. Aveva sempre giocato con Jeremy e trovava piacevole la compagnia della piccola e delicata Sarah, la figlia di Dwight e Caroline, ma mai aveva avuto un compagno di giochi che fosse solo suo. Se non fosse stato che era veramente lento a camminare, che in certe cose le sembrava più stupido di Bella e che non si era portato dietro nessun abito di cambio, Valentin non era così male. Certo, non sapeva arrampicarsi sulle staccionate come lei e non era capace di apprezzare del tutto la vita all'aperto, ma le aveva regalato quei fiori che si era messa nei capelli, le uddidiva e in fondo era simpatico e per nulla piagnucolone. Correre con lui sul bagnasciuga del mare e giocare nell'acqua era stato divertente poi, anche se era rimasta stupita che non l'avesse mai fatto prima. E poi aveva trovato Artù. E lei, grazie a lui, aveva di nuovo un cane.

C'era solo un problema, le mancava la sua mamma... E avrebbe voluto che il suo papà corresse a cercarla. Non li avrebbe più rivisti e la nostalgia la invase. Strinse a se Artù, si stese a terra ed aspettò che Valentin tornasse con la legna.



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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


Demelza cavalcava come una forsennata, da sola, nel buio della sera della Cornovaglia. Era un misto di sentimenti fortissimi e contrastanti, un fascio di nervi e preda di una terribile sensazione di pericolo incombente e paura.

Era preoccupata, spaventata, disperata e incredibilmente arrabbiata. Con Clowance, certo. Lo sapeva da sempre, dal suo primo vagito, che sarebbe stata la figlia che l'avrebbe fatta dannare più di tutti. Testarda, fiera e orgogliosa come suo padre, vanitosa, vivacissima e allo stesso tempo aggraziata come una piccola principessa che non accetta compromessi e vuole tutto e subito. Un mix del genere non avrebbe potuto far altro che procurarle guai... Ma soprattutto, era arrabbiata con se stessa per non essere intervenuta prima e con fermezza nella disputa fra padre e figlia che si era creata dopo l'incidente in miniera. E poi c'era Ross ed era furente anche con lui. Sapeva che ce la stava mettendo tutta per rendersi utile ma pure nella malattia e preda dell'amnesia, pareva poco propenso ad accettare consigli e assolutamente caparbio nel fare di testa sua.

Quando era tornata dalla Wheal Grace e aveva scoperto che l'aveva messa in castigo e minacciata di farle saltare la cena, si era arrabbiata ma si era pure morsa le labbra ed era stata zitta per non sminuire la figura di Ross agli occhi di Clowance. Ma quando Jeremy, entrando nella cameretta, non aveva più trovato la sorella e aveva notato la finestra aperta, l'ansia e la rabbia si erano impossessati di lei, assieme alla paura. Clowance non c'era da nessuna parte. E nemmeno la sua bambola preferita! Non ci voleva un genio per capire che fosse scappata e il pensiero della sua piccola bimba da sola, al buio e al freddo della notte, l'avevano terrorizzata all'istante. Si sarebbe presa a schiaffi da sola per aver permesso che succedesse una cosa simile, per aver fatto sentire la sua bambina talmente poco amata da spingerla a scappare. Per Clowance era difficile avere a che fare con un padre tanto diverso da prima e Ross sembrava non capire quanto la figlia si sentisse spersa e alla sua incessante ricerca. Aveva sei anni e cercava di attirare l'attenzione con gli unici modi che poteva conoscere: capricci e dispetti.

E lei... Lei non era intervenuta, troppo stanca, troppo preoccupata e presa da mille cose, troppo intenta a piangersi addosso per quanto successo a Ross.

Gli si era scagliata contro, appena scoperto l'accaduto, mentre Prudie e Jud si preparavano ad uscire per cercare la bimba.


"Come hai potuto permettere che succedesse una cosa del genere? Cosa pensavi di ottenere facendo il padre duro e rigido? Tu gli sei sempre stato vicino, l'hai sempre spronata con dolcezza a fare le cose e l'hai sempre aiutata dove non riusciva da sola! Questo eri tu, per lei!".

Ross si oscurò. "Credevo di fare del bene. Mi dispiace, non pensavo che sarebbe scappata".

A quelle parole, la tentazione di urlare fu più forte di tutto, per lei. "Non potevi saperlo perché non la conosci, ORA! Non ricordi chi sei, non ricordi chi siamo noi e se solo mi avessi ascoltato, nostra figlia adesso sarebbe al caldo e al sicuro, in casa. Non in fuga chissà dove, perché pensa che non gli vuoi più bene".

Ross abbassò il viso. "Esco a cercarla".

Demelza avrebbe voluto essere felice di quella sua iniziativa, sapeva che si sentiva in colpa e che era confuso e preoccupato, ma non avrebbe permesso a un ulteriore guaio di angustiarla, per quella sera. "Non ricordi nulla di questi posti, rischieresti di perderti anche tu! Esco io, a cavallo, conosco i posti che lei conosce e farò prima, da sola. Tu ti perderesti e mi rallenteresti, mi dispiace ma devi rimanere. Sta tranquillo, la troverò e la riperterò a casa e d'ora in poi sarò io a pensare a lei e alla sua educazione. Questo finché non avrai imparato a conoscerla, di nuovo".

"Ma...".

Demelza guardò Jud, decisa a porre fine alla conversazione con suo marito. Il servo indossava il mantello e aveva già pronta una lanterna in mano. "Andrai con lui, se proprio te la senti di uscire, Ross. Controllate a piedi i dintorni, mentre io mi allontano a cavallo". Poi guardò Prudie, desiderosa anch'essa di intraprendere le ricerche. "Tu resterai a casa, ad occuparti di Jeremy e Bella. Ti prego Prudie, ne ho bisogno".

La serva annuì. "Sì signora".

Jeremy le andò vicino, mentre si metteva il mantello per andare a cavallo. Ci si aggrappò, strattonandolo. "Mamma, riporta a casa Clowance, ti prego! E' mia sorella e se non sa fare i compiti, l'aiuto io".

"Certo, tesoro" – disse, baciandolo sulla fronte.


Non aveva lasciato a Ross il tempo di controbattere. Tutto era sulle sue spalle dall'incidente e non aveva tempo da perdere. Voleva solo ritrovare la sua bambina, abbracciarla, sgridarla, tranquillizzarla e riportarla a casa. Pregò Dio, pregò sua madre e pregò anche la sua piccola Julia affinché Clowance stesse bene. Solo questo contava in quel momento per lei!

Cavalcò costeggiando le scogliere, a lungo, incurante del freddo e del buio. Qualcuno avrebbe potuto dire che non era il comportamento adatto ad una signora, ma in quel momento – e forse, in generale, sempre – le importava davvero poco.

Sulla strada vide altri uomini a cavallo che galoppavano come pazzi e le parve di riconoscere alcuni degli scagnozzi di George Warleggan. Si chiese brevemente cosa stessero cercando, ma fu solo un attimo. Aveva cose più importanti da fare, che pensare a George.

Fece mente locale sui luoghi che Clowance conosceva e frequentava e in cui avrebbe potuto nascondersi. La miniera? No, non la amava particolarmente, troppo sporca per i suoi gusti e soprattutto troppo vicina alla sua scuola. Il villaggio dove andavano a fare compere era troppo lontano perché lo avesse raggiunto a piedi, Clowance sapeva che non avrebbe fatto in tempo prima che arrivasse buio e sua figlia era piccola ma non certo stupida. C'era però un posto dove avrebbe potuto trovarla, un posto che amava, non particolarmente lontano, di cui conosceva ogni angolo o anfratto: la spiaggia dove, in estate, Ross portava tutti loro a giocare al mare era il luogo perfetto per Clowance, dove passare la notte. Lì doveva cercare, per prima cosa. E poi man mano spostarsi altrove, nel caso non l'avesse trovata. Non aveva idea di cosa si fosse messa in testa ma sapeva che Clowance era abbastanza furba da saper scegliersi un nascondiglio sicuro, per la notte. Anche in questo era come suo padre, piena di risorse davanti ad ogni evenienza.

Giunse alla spiaggia dopo una cavalcata forsennata e nervosa. Tutto era avvolto da calma e silenzio, così in contrapposizione coi suoi sentimenti. Si guardò attorno, camminando nella sabbia fredda, con le redini in mano.

Il mare era tornato alla calma, dopo un pomeriggio intero in cui era stato mosso e in tempesta, e le onde si infrangevano tranquille sulla battigia.

Demelza camminò lentamente, quasi desiderosa di fondersi con quell'atmosfera di pace e tranquillità. Ne aveva bisogno, disperatamente. Avrebbe voluto piangere ed urlare, lasciarsi andare alla disperazione e all'angoscia, sprofondare nella sabbia ed aspettare che qualcuno arrivasse ad asciugare le sue lacrime e a consolarla. Ma sapeva che non sarebbe arrivato nessuno e sapeva anche che non poteva permettersi nemmeno il lusso di sperarlo. Lei era la moglie di Ross, un uomo che in quel momento era malato e bisognoso di cure e attenzioni. Ed era la madre di Jeremy, Clowance e Isabella-Rose. Venivano prima di tutto, anche di se stessa. E se per prendersi cura della sua famiglia doveva annullarsi, lo avrebbe fatto finché ne avrebbe avuto le forze fisiche e mentali. Non era tempo di piangere e non lo sarebbe stato a lungo...

Improvvisamente, la sua attenzione fu catturata da un rivolo di fumo che fuoriusciva da una grotta in fondo alla spiaggia. Il suo cuore perse un colpo mentre la speranza aumentava in lei. Chi poteva esserci a quell'ora, in spiaggia? Certo, potevano benissimo essere contrabbandieri... Ma magari...

Lasciò le redini e si mise a correre come una forsennata, dimenticando prudenza e paure. Se laggiù c'era la sua bimba, lei doveva raggiungerla subito.

Ma appena fu davanti a quel piccolo fuoco improvvisato, non fu la sua bimba che vide. Ma un piccoletto circa della stessa età, intento a gettare legnetti nella brace. Era magrolino, coi capelli pieni di riccioli scuri, vestito con abiti eleganti e dai modi di fare piuttosto aggraziati. Si bloccò, chiedendosi che cosa ci facesse un bambino del genere lì, da solo, in spiaggia e di notte.

Il piccolo si voltò verso di lei, accigliato. "Oh, e tu chi sei?" - chiese, guardingo, guardandosi attorno.

Demelza sospirò. Se tanto gli dava tanto, sua figlia non era l'unica ad essere scappata di casa, quel giorno. Ci mancava solo questa! "Chi sei tu? E che ci fai qui?".

"Accendo il fuoco per non morire di freddo!" - rispose lui, sicuro.

Demelza alzò gli occhi al cielo. Beh, non intendeva essere sfrontato, questo era chiaro, però lei non aveva tempo da perdere. Stava per dire qualcosa quando una vocina, dalla grotta, la raggiunse.

"Con chi stai parlando?".

Demelza si voltò, mentre il cuore le batteva forte. Era la SUA vocina, quella della sua bambina. Dimentica del piccolo fuochista, corse all'interno della grotta, chiamando il nome di sua figlia con disperazione.

Corse, e finalmente la vide. Se ne stava seduta contro una roccia, rannicchiata e avvolta in una logora coperta. "Clowance!" - sussurrò, quasi stentando a credere di averla trovata. Voleva abbracciarla, scuoterla, picchiarla, baciarla e poi abbracciarla di nuovo. Era talmente felice e allo stesso tempo furente con lei, che non sapeva come avrebbe reagito una volta che l'avesse avuta sotto mano.

La bimba restò a fissarla con gli occhi spalancati, stupiti e attoniti. Rimase sulle sue solo pochi istanti però. Si morse il labbro, gli occhi le diventarono lucidi e poi si alzò di scatto, correndole incontro e saltandole al collo. "Mamma!" - esclamò, stringendosi a lei.

"Clowance!". Demelza la abbracciò, stringendola a se con la stessa disperazione e forza con cui l'aveva stretta fra le braccia il giorno in cui era nata. Solo questo poteva fare, per ora. Si sentiva come quel giorno di più di sei anni prima a Londra, si rese conto, spersa, impaurita e senza appigli, piena di incognite per il futuro e senza certezze. Ma ora aveva la sua bimba accanto a se, ora poteva tirare un sospiro di sollievo almento per quello. Pianse, in silenzio, accarezzando i lunghi capelli rossi della sua bambina. Poi la guardò, asciugandole le lacrime che, anche a lei, rigavano il viso. Era scappata di casa, certo. E il tempo del castigo e della sgridata sarebbe arrivato presto per questo, ma non era il momento ora. Avvertiva quanto fosse spaventata e allo stesso tempo sollevata di essere stata ritrovata. "Non hai idea della paura che mi hai fatto prendere".

"Mi dispiace, mamma. Io non volevo spaventarti, ma però... Papà... Lui..." - disse la piccola, con foga.

"Lo so!" - le rispose con fermezza, cercando di rassicurarla. "Ora andrà tutto bene, ci penserò io. Ma tu non fare mai più una cosa del genere, non hai idea della paura che abbiamo avuto".

Clowance spalancò gli occhi, asciugandosi le lacrime con la mano. "Anche papà?".

"Anche papà, certo". Demelza le scostò i capelli dalla fronte, baciandola. "Cosa ci fai qui? Cosa volevi fare, dove volevi andare?".

"Da nonno Martin e nonna Diane a Londra. Volevo che mi adottavano, visto che papà non mi vuole più".

Demelza sorrise tristemente, a quelle parole, leggendovi in esse tanto dolore e tanta disperazione. "Certo che ti vuole. Sai, lui ora è malato ma l'amore per te non è scomparso. Ha semplicemente perso un po' la strada che dal suo cuore porta alla sua testa. E sta a noi aiutarlo a tornare come prima".

"Ma però" – obiettò la bimba – "A Jeremy e Bella vuole ancora bene".

Demelza scosse la testa, cercando le parole per aiutarla a tranquillizzarsi. "Ne vuole anche a te, sta tranquilla".

"Come fai a saperlo?".

"L'ho sposato!".

In quel momento la coperta con cui Clowance si era riparata dal freddo fino a poco prima, si mosse. E da essa, come per magia, uscì un cucciolo bianco e piuttosto sporco che, guaendo, sembrava cercare di attirare attenzioni su di se. Camminava in maniera sgraziata, doveva essere molto piccolo di età, i movimenti erano ancora scoordinati e i lamenti erano da cucciolo nato da poco. Per un attimo lo fissò e basta, ricordando il giorno in cui aveva trovato Garrick tanti anni prima. Quel cucciolo un po' glielo ricordava, in maniera dolorosa.

"Lui è Artù!" - disse Clowance, quasi leggendole nel pensiero.

Bene, ora doveva essere arrabbiata anche per questo! "Clowance, lo sai cosa penso dei cani!".

La bimba abbassò lo sguardo. "La sua mamma è morta e lui piangeva. Lo ha trovato il mio amico la fuori, che sta accendendo il fuoco. E me lo ha regalato. L'ho chiamato Artù, come il re".

In quel momento, a quelle parole, il cane passò in secondo piano per Demelza. Il bambino del fuoco, già, se n'era dimenticata! "Chi è quel bambino?" - chiese con urgenza alla figlia.

"Mi chiamo Valentin Warleggan".

La vocina del bambino giunse alle sue spalle a sorpresa e, assieme a quel nome pronunciato a mezza voce, le fece venire la pelle d'oca. Era arrivato senza che se ne accorgesse, mentre era presa ad abbracciare e a tranquillizzare sua figlia. Si voltò verso di lui, fissandolo meglio, mentre i ricordi lontani di un passato che ancora sapeva farle male, tornavano a galla.

Lo guardò, così magro, così ricciolino, così simile a... Le venne in mente Elizabeth, la notte terribile in cui Ross era andato da lei cedendo a quell'antico amore, il dolore che aveva provato, i tre anni a Londra da sola coi suoi bambini, l'incontro di quattro anni prima nel bosco, con la sua antica rivale che teneva per mano quello stesso bambino che ora aveva davanti. Il figlio di George... O il figlio di Ross...

Elizabeth era morta ormai da due anni ma era come se il suo fantasma aleggiasse sempre sulla sua testa. Non per Ross, lui la sua scelta l'aveva fatta ed era certa che ne fosse felice. Ma era lei che, ogni tanto, si fermava a chiedersi per quanto tempo ancora quella notte orribile avrebbe continuato a condizionare la sua vita. Ora, guardando quel bambino, si rese conto che quella condizione sarebbe durata per sempre. Lui esisteva e la sua mente non riusciva ad ignorarlo! Non riusciva ad essere razionale come suo marito, concentrata solo su coloro che considerava i veri affetti della sua vita, la sua mente vagava anche oltre e in un certo senso il ricordo di quella notte, nonostante il matrimonio felice con Ross, avrebbe continuato a tormentarla. Soprattutto in un momento della sua vita come quello.

E ora averlo davanti, inaspettatamente, peggiorava le cose. Provava una specie di repulsione verso di lui, al solo pensarlo. E ora che ce l'aveva davanti, anche se si sentiva in colpa per questo, la cosa non cambiava chissà che. Era orribile pensare una cosa del genere di un bambino che non aveva colpe, ma non riusciva a farne a meno. Avrebbe voluto prendersi in braccio la sua Clowance, correre con lei verso il suo cavallo e lasciarselo alle spalle. Ma di certo non poteva farlo, lo sapeva. Era l'unica adulta in quella spiaggia e la responsabilità di quel bambino dipendeva da lei. "Valentin Warleggan di Trenwith House?" - chiese, sentendosi stupida perché sapeva già la risposta.

Il bimbo annuì. "Sì. Voi siete la mamma di Clowance?".

"Si" – rispose Demelza, freddamente. "Cosa ci fai qui?".

Clowance intervenne, incuriosita da quella strana atmosfera. "L'ho conosciuto oggi pomeriggio per caso e gli ho chiesto se voleva scappare di casa con me. Mi ha detto di sì, ha un papà che non gli parla mai e che vuole bene solo a sua sorella piccola".

Demelza alzò gli occhi al cielo, avendo finalmente chiaro il quadro della situazione. Non solo aveva a che fare con QUEL bambino che mai avrebbe voluto incontrare, ora avrebbe dovuto anche accompagnarlo a casa e sorbirsi le urla di George Warleggan che gli avrebbe rinfacciato quanto la sua bimba avesse messo in pericolo il suo piccolo erede. Scosse la testa, immaginando già il proseguio della serata. "Devo riportarvi a casa, tutti e due" – disse, risoluta.

"Io non voglio tornare a casa, sto bene qui" – rispose Valentin, sicuro.

Clowance abbassò lo sguardo, sbadigliando. "Io forse un po' di voglia ce l'ho, ma...". Fissò Artù che, insistentemente, cercava di arrampicarsi sulle sue gambe.

Demelza capì subito cosa volesse dire, fermandola fermamente. "No, il cane non viene, sai come la penso!".

"Ma mamma, morirà qui da solo!".

"Non voglio cani, fine del discorso" – ribadì Demelza, cercando di ignorare il visino di quel grazioso cucciolo. Sapeva che da solo non sarebbe sopravvissuto, ma non se la sentiva di riprovarci di nuovo, dopo il dolore per la morte di Garrick.

Clowance si imbronciò, si mise le mani sui fianchi ed indietreggiò. "E allora, mi sa che resto qui pure io con Valentin. Non torno a casa se lui non puo' venire con me. Io non abbandono un mio amico".

A quelle parole così uguali a quelle che lei stessa aveva pronunciato a Ross tanti anni prima, il giorno in cui si erano conosciuti, Demelza sussultò. In lei rivedeva la se stessa bambina, senza appigli, con un cane come unico amico. Capiva come si sentisse Clowance, il senso di protezione e il sentimento di affetto che la legava a quel cane. Quel giorno, Ross aveva ceduto. E lei non poteva fare diversamente. Inspirò profondamente, cercò in se il coraggio per aprirsi a un nuovo affetto e alla fine annuì. "Va bene, ma dovrai prendertene cura tu. Sarà il TUO cane e ne sarai responsabile".

"Mamma!!!" - esclamò Clowance, abbracciandola felice.

"Andiamo a casa, ora?" - chiese Demelza.

Clowance, prendendo in braccio Artù, annuì. "Sì, a casa".

Valentin abbassò lo sguardo e non disse nulla. Si vedeva che era in difficoltà, impaurito e per nulla entusiasta davanti alla prospettiva di tornare a Trenwith, ma Demelza non poteva fare altrimenti. Capiva come si sentiva e poteva immaginare che vivere con un padre come George Warleggan non fosse il massimo del divertimento. Ma non c'erano alternative o meglio, non ce n'erano che lei potesse accettare...

Inspirando nuovamente, si avvicinò a lui, cercando di apparire gentile e credibile. "Vieni, andiamo. Parlerò io con tuo padre, lo conosco e sono sicura che riuscirò a convincerlo a non essere troppo severo" – disse, porgendogli la mano.

Valentin annuì, poco convinto. Poi, con titubanza, guardandola in viso, le prese la mano e la strinse.

Demelza, a quel contatto, sentì le viscere rivoltarsi nel suo ventre, ma cercò di ignorare quella sensazione sgradevole. Era un bambino, solo un bambino... "Andiamo" – disse, prendendo Clowance con l'altra mano.

Valentin continuò a guardarla con uno sguardo strano e insistente. Poi osservò Clowance. "Beh, hai una mamma coraggiosa! Chissà se anche mia mamma sarebbe uscita di notte, da sola e a cavallo, a cercarmi".

Demelza sorrise sarcasticamente. Elizabeth di notte, da sola e a cavallo era un'eresia! No, lei era una damina che aspettava davanti alla finestra e diceva e non diceva e faceva in modo che gli altri agissero per lei.

"Mamma, sai che la mamma di Valentin è morta? Non ho mai conosciuto nessuno senza mamma" – esclamò Clowance.

"Si, lo so".

"La conoscevate?" - chiese Valentin, incuriosito.

"Sì, la conoscevo".

"Com'era?" - chiese il bambino.

"Una mamma, uguale a tutte le altre mamme" – rispose. Era il meglio che potesse dire e fare. Non voleva parlar male di Elizabeth anzi, non voleva parlarne affatto, faceva parte del suo passato e non era lì a controbattere a ciò che lei avrebbe potuto dire. Provava un sentimento di umana pietà per il fatto che non avesse potuto vivere la maternità e i suoi figli, ma finiva tutto lì. Le aveva fatto troppo male ed erano due donne troppo diverse per avere qualcosa in comune.

Giunsero al cavallo e Demelza, prendendoli in braccio, li mise in sella. E lentamente, mentre Artù trotterellava dietro di loro, si diresse verso Trenwith.

Quando vi giunsero, un drappello di uomini correva avanti e indietro con delle torce, guardati a vista da George Warleggan che dava ordini a destra e a manca.

Quando li vide arrivare, il suo socio in affari spalancò gli occhi nel vedere il suo bambino a cavallo, con la figlia di Ross accanto a lui.

Demelza gli si avvicinò, cercando di mantenere la calma. "Tutto questo baccano suppongo che sia a causa sua" – disse, indicando Valentin che, dalla sella, guardava il padre con terrore.

George la guardò con furore negli occhi, la sorpassò senza dire nulla e raggiunse il figlio, tirandolo giù dal cavallo con uno strattone, prima di dargli un violento schiaffo in viso. "Questa me la paghi" – disse, come se parlasse al suo peggior nemico e non al figlio di sei anni che, quasi senza fiato, lo guardava con occhi sgranati dal terrore.

A quel gesto, Demelza fu punta sul vivo. Anche se Valentin le risvegliava sensazioni negative, odiava veder maltrattare un bambino. "George, trattenetevi, è solo un bambino ed è fuggito di casa spinto da mia figlia. Me ne assumo ogni responsabilità. Ma non siate violento con lui, per favore".

George si voltò verso di lei, osservandola nello stesso modo spiacevole in cui la guardava alle riunioni del consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank. "Voi e i vostri figli selvaggi, avete messo in pericolo mio figlio. E per quanto riguarda lo schiaffo, meglio un padre violento che uno assente, se mi spiego...".

Ignorò il senso di quella frecciatina rivolta ovviamente a Ross e deglutì, cercando un modo per fargli sbollire la rabbia in maniera costruttiva. Fece scendere dal cavallo Clowance, la obbligò a scusarsi e poi incitò George a mandare i bambini in giardino per salutarsi e permettere loro di parlare in privato.

Stranamente, George acconsentì.

"Signora Poldark, capite la gravità di quanto successo? Valentin non si è mai allontanato da Trenwith da solo, è cagionevole di salute e ancora inadatto alla vita fuori casa".

Demelza annuì, non poteva dargli torto. "Lo so e mi dispiace, non immaginavo che mia figlia avrebbe fatto una cosa simile e di certo non avrei mai creduto possibile che conoscesse Valentin" – concluse, osservando i due bambini che, in lontananza, giocavano col cucciolo.

George le si avvicinò, prendendole improvvisamente il polso ed attirandola a se. La guardò negli occhi in un modo penetrante e che le era sconosciuto, con una strana serietà nello sguardo. "Voi capite che questa cosa è deleteria, vero? Capite che i bambini non dovranno più vedersi, giusto? E capite anche il perché, potrei scommetterci!".

Sospirò, lo capiva ed era d'accordo. Valentin e Clowance non avrebbero avuto per sempre sei anni e non voleva assolutamente rischiare che, crescendo, quella amicizia potesse eventualmente trasformarsi in qualcosa d'altro. Era un'eventualità che la faceva inorridire e che avrebbe cercato in ogni modo di non fare accadere. Non sapeva se George si riferisse a questo o se i suoi trascorsi con Ross fossero la causa delle sue parole, ma per una volta era d'accordo con lui. "I bambini si saluteranno questa sera e non si vedranno mai più".

"Bene". George le lasciò il braccio, allontanandosi di alcuni passi. "Io e voi... Noi due Demelza, dobbiamo convivere con gli errori di Ross e con le conseguenze che hanno portato... Mi capite, vero?".

Deglutì, capendo bene a cosa si riferisse, senza che fosse stato esplicito. "Si". Era sorpresa che ne parlasse, seppur non in modo diretto. Credeva che non avesse certezze, anche se la somiglianza di Valentin e Ross era evidente. Ma in realtà lui sapeva, quanto lei. E in questa cosa erano in un certo senso 'alleati', anche se odiava ammetterlo. Vivevano sulla loro pelle le conseguenze di quella notte terribile di sette anni prima, non c'era bisogno di dirselo esplicitamente ma era così. Si trovò a pensare che era davvero strano condividere qualcosa con George ed essere dallo stesso lato della barricata. Strano e per nulla piacevole...

"Io lo so Demelza, l'ho sempre saputo che non eravate a Londra per affari e che la separazione da vostro marito fosse dovuta a ben altri motivi. Sospetti, ma che col tempo e guardando attentamente fatti e persone... e bambini... sono diventati quasi realtà... Capite ancora, vero?".

"Si".

"Bene, allora prendete quella selvaggia di vostra figlia e portatela via da qui. E fate in modo che questa conversazione di questa sera fra noi, resti SOLO fra noi per sempre".

Demelza ubbidì, senza replicare per una volta. Voleva andarsene da lì, lasciare George e dimenticarsi dell'esistenza di Valentin. Richiamò Clowance e la intimò di salutare Valentin. La piccola salutò con la manina, convinta che lo avrebbe rivisto presto. La prese in braccio, le diede Artù e poi montò anch'essa a cavallo, lasciandosi Trenwith alle spalle. "Sei in castigo" – le disse, appena furono da sole.

"Mamma...".

Demelza odiava essere dura perché sapeva quanto fosse difficile per lei quella situazione, ma non poteva lasciar correre quanto successo. "Hai messo in pericolo te stessa e tutti noi che ti siamo venuti a cercare e hai fatto una cosa brutta e grave. Hai guadagnato un cucciolo, ma avrai anche un castigo. Da domani terrai pulita la stalla e ti occuperai degli animali per due settimane".

"Ma la stalla puzza! Ed è sporca".

Demelza alzò le spalle, divertita nonostante tutto. "Beh, ti farai un bagno, di sera".

Clowance sospirò. "Quando potrò tornare a giocare con Valentin?".

"Mai più". Lo disse senza mezzi giri di parole, non c'era troppo da dire, nonostante tutto.

"Perché? E' mio amico".

"Lo so, ma non lo vedrai più lo stesso. I motivi sono tanti e sei troppo piccola per capirli. Farai come dirò io e basta!".

Clowance si mise a piangere, ma Demelza non si fece intenerire. Era per il suo bene, per quello della famiglia e anche per Valentin. Non dovevano vedersi, presto si sarebbe dimenticata di lui e l'avventura di quella giornata sarebbe diventata uno sbiadito ricordo d'infanzia, ne era certa.

Quando giunsero a Nampara, Ross e Jud erano rientrati. Prudie e i bambini erano ancora svegli e, appena la videro, le corsero incontro per abbracciare Clowance.

Jud sospirò sollevato e Ross la squadrò, prima lei e poi la bambina. "Sta bene?" - chiese.

"Bene. E ho già stabilito il suo castigo".

Suo marito non disse nulla, non si avvicinò e non parlò con la bimba, le diede una veloce occhiata fredda e poi salì le scale, diretto verso la sua camera. Era arrabbiato, preoccupato e ora anche sollevato dal fatto che la avesse ritrovata, lo capiva. E allo stesso tempo era spaventato dal non sapere come rapportarsi alla bimba, preferendo il silenzio al rischio di fare ulteriori danni. Certo, Clowance avrebbe voluto una sua reazione, ma per il momento Demelza stabilì che era meglio così.

La piccola abbracciò il fratello e la sorellina, guardando sconsolata la scala dove era scomparso il padre. Poi prese Artù, facendolo vedere a Jeremy e Bella.

I suoi figli si illuminarono in viso, felici ed eccitati.

"Abbiamo un cane?" - gli chiese, Jeremy.

Demelza annuì. "Un cane sporco, da lavare e che mordicchierà ogni cosa come tutti i cuccioli. Dovrete averne cura, mi raccomando. E dovrete anche fargli il bagno, domani".

Jeremy e Clowance si guardarono con sguardo complice, molto simile a quello di un tempo, quando vivevano soli a Londra.

Demelza sorrise, incitandoli però ad andare a letto. Per fortuna era finito tutto per il meglio.


...


Jeremy era arrabbiato nonostante il cucciolo che, tranquillamente, era saltato sul suo letto alla ricerca di coccole. "Dovevi dirmi che scappavi di casa, ti avrei seguita".

"Tu non hai motivi per scappare".

"Si, ma dove volevi andare?".

Clowance si stese sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca. Gli raccontò della sua giornata, di Valentin, dei loro giochi in spiaggia, della strana famiglia del suo amico e di come avessero trovato Artù. Poi gli confidò che la destinazione era Londra, da nonno Martin e nonna Diane.

Jeremy sbuffò. "Ecco, vedi? Dovevi dirmelo, soprattutto se volevi andare a Londra".

"Perché?".

Il bimbo si sedette accanto a lei, prendendole la mano. "Londra era casa nostra, lo ricordi? Eravamo solo tu ed io, mamma stava sempre fuori a lavorare. E se ci vai e ci vuoi vivere, io vengo con te come una volta. Curavamo la casa e le nostre cose insieme e se ci andavi, io dovevo esserci".

"Già, scusa". Clowance si rannicchiò sopra le coperte, pensierosa. Mentre sua madre parlava col padre di Valentin, aveva captato pezzi della loro conversazione che non aveva capito e che magari suo fratello avrebbe potuto spiegarle. Stava ancora male per la decisione di non vedere più Valentin, oltre per il fatto che suo padre l'aveva ignorata anche quando era tornata dopo la fuga, e aveva mille domande in testa. "Jeremy, tu sai perché quando vivevamo a Londra, papà non c'è stato per tanto?".

Jeremy scosse la testa. "No, mamma diceva solo che aveva tanto da fare. Perché me lo chiedi?".

Clowance alzò le spalle, sospirando. "Prima, quando abbiamo riaccompagnato a casa Valentin, il suo papà ha detto a mamma una cosa sul nostro papà di quando eravamo a Londra. Non ha detto che cosa, ma mamma ha capito lo stesso. E io ho sentito, anche se ero un po' lontana".

"E cosa ha detto?" - chiese Jeremy.

"Ha detto a mamma che lui e lei devono riparare all'errore di papà e alle sue conseguenze e non so che errore è perché non lo hanno detto ma mamma ha capito. Lui ha detto... che in fondo lo sapeva che quando era a Londra era per quello che aveva fatto papà ".

Jeremy restò per un attimo in silenzio. "Non so cosa voleva dire, Clowance. La mamma diceva solo che papà non poteva vivere con noi perché era impegnato lontano".

"E tu gli credi?".

Jeremy scosse la testa. "No, non ci ho mai creduto. Forse dovremmo chiederlo alla mamma".

Clowance abbracciò il cuscino, pensierosa, mentre Artù la raggiungeva e si rannicchiava sul suo petto. "Meglio di no" – disse, accarezzandolo.

"Perché?".

La bimba scosse la testa. "Non lo so perché, ma credo che non mi piacerebbe saperlo".

Jeremy sospirò, dandole ragione. "Va bene. Ma mi giuri che se hai dei problemi, invece che scappare, vieni da me. Ti aiuto io al posto di papà, come quando eravamo a Londra".

Clowance sorrise, lo abbracciò e gli diede un bacio sulla guancia. "Va bene, te lo prometto". Si rese conto che Jeremy non era male come fratello e che averlo vicino, a Londra, era stato bello. E si accorse di essere felice che ci fosse e che le volesse bene.






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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


Le spiaceva aver dovuto dare quella punizione a Clowance ma di certo non poteva lasciar correre che fosse scappata di casa. Doveva fare in modo che non le venisse più in mente di fare nulla del genere e obbligarla a tener pulita la stalla e l'aia era un buon modo per aiutare sua figlia a ricordare la lezione.

Certo, immaginava perfettamente quanto sua figlia odiasse quel lavoro. Clowance era nata per essere coccolata, per fare la signorina per bene, per essere ammirata, per essere sempre al centro dell'attenzione e riverita.

E ora era in cortile, coi suoi lunghissimi e lucidi capelli rossi legati in una coda di cavallo, con vestitini modesti, che accatastava i ciocchi della legna che Jud aveva spaccato quella mattina.

Riusciva, dalla finestra della sua camera, a percepirne lo sguardo imbronciato e offeso. Però, notò con stupore, stava lavorando con lena, senza risparmiarsi nel fare quello che lei aveva stabilito fosse il suo compito per il pomeriggio. Prendeva uno ad uno i ciocchi, li portava sotto la veranda e li accatastava ordinatamente.

Aveva accato a se i fratelli e lei aveva fatto finta di non accorgersene. Sapeva che Jeremy voleva aiutare la sorella e sapeva anche quanto suo figlio fosse diventato un punto di riferimento per Clowance, dopo l'incidente di Ross. Per questo l'aveva lasciato fare, senza intervenire affinché facesse tutto da sola. Jeremy la stava aiutando e parevano divertirsi molto insieme, mentre lavoravano. Ridacchiavano e scherzavano insieme e in questo rivedeva molto il legame che avevano una volta, a Londra, quando Ross non c'era. Jeremy allora era molto protettivo con la sorellina e lei lo guardava come si guarda a un eroe. Suo figlio era molto sensibile e capiva forse meglio dello stesso Ross lo stato d'animo della sorella e si prendeva cura di lei in maniera impeccabile, facendo di tutto affinché fosse serena. La inteneriva il comportamento di Jeremy, così maturo, così dolce e attento, nonostante avesse solo nove anni. Era fiera di lui e grata che stesse accanto a Clowance a quel modo, lei ne aveva bisogno e lui pure, probabilmente, in un momento del genere.

Accanto a loro c'era Bella che un po' gattonava e un po' cercava di tirarsi su nell'aia. Era piena di terra dalla testa ai piedi e pronta per un bagno nella tinozza, ma instancabilmente seguiva i due fratelli in tutti i loro movimenti, ridendo divertita assieme a loro.

Artù, il cucciolo trovato da Clowance tre giorni prima, durante la sua fuga, si era subito ambientato alla sua nuova casa e ora seguiva i bambini in tutti i loro giochi, come in quel momento, dove non mollava Bella nemmeno per un attimo e camminava accanto a lei che gattonava e ogni tanto lo guardava e rideva, tirandogli le orecchie o il pelo del petto. Lui, come tutti i cuccioli, non se ne lamentava ma prendeva tutto come fosse un gioco, reagendo alle attenzioni della bimba in modo festoso.

La notte dormiva in una cesta nella camera dei bambini e non si svegliava che di mattina, quando si alzavano per andare a scuola.

Era un cucciolo molto buono, dolce e a suo modo educato, non sporcava in casa e si faceva fare di tutto, persino il bagno, senza protestare.

"ARTU'!!!".

La voce di Clowance la fece sussultare. Aveva urlato talmente forte da far tremare i vetri della stanza. Si affacciò e scoppiò a ridere vedendo il cucciolo che, quatto quatto, ogni volta che Jeremy e Clowance si voltavano, andava alla pigna di legna accatastata e, ciocco dopo ciocco, ributtava tutto in giro, convinto di giocare.

Demelza si mise la mano davanti alla bocca per non scoppiare a ridere troppo fragorosamente e non essere sentita. Clowance e Jeremy, come dei pazzi, correvano dietro al cagnolino che sguazzava felice per il prato con un pezzo di legno in bocca e Bella, seduta, rideva e batteva le manine divertita.

Demelza si perse a guardarli, rendendosi conto che era da tanto che non si sentiva serena e che non rideva di gusto. La paura per la fuga di Clowance non l'aveva ancora abbandonata e la situazione con Ross era difficile da gestire. Erano lontani, distanti. E lei era stanca e si sentiva persa senza di lui e senza l'amore e la complicità che da sempre li univa.

Rivoleva il suo uomo, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, amava ogni cosa di lui, anche i lati che la facevano arrabbiare da morire. Era testardo, a volte scontroso, incosciente e scapestrato. Ma aveva un cuore d'oro, una nobiltà d'animo rara, era dolce ma non sdolcinato, era tenero quel giusto che riusciva ancora, dopo tanti anni di matrimonio, a scaldarle il cuore e a sorprenderla nei momenti in cui meno se lo aspettava. Le mancavano le loro lunghe chiacchierate la sera, i suoi baci, il contatto fisico con lui, la passione, la complicità, le risate e gli scherzi camerateschi che li univano ogni volta che si trovavano faccia a faccia.

E se tutte queste cose fossero andate perse per sempre? Era Ross che aveva ancora davanti ma non lo riconosceva nella sua freddezza, nel suo modo di fare distaccato e scostante, sia con lei che con i bambini.

Quasi intuendo di essere al centro dei suoi pensieri, Ross entrò nella stanza. Era a petto nudo, aveva appena fatto un bagno e stava cercando una camicia che, dai suoi movimenti goffi davanti all'armadio, evidentemente non trovava.

"Lascia stare, te la prendo io". Demelza gli si avvicinò, rovistando fra la biancheria piegata.

"Non devi disturbarti".

Demelza deglutì davanti a quel tono freddo e distaccato. Era dalla sera in cui Clowance era scappata, che era così. Freddo, assente, quasi infastidito dalla loro presenza. "Non mi disturbi affatto, sono tua moglie dopo tutto".

Le urla e le risate dei bambini li raggiunsero e Ross fece un sorrisetto sarcastico. "Sembra una cosa molto divertente, questa punizione che le hai dato" – commentò in modo polemico, riferendosi a Clowance.

Demelza avrebbe voluto rispondere a tono ma si trattenne. Era ancora turbata ed arrabbiata con lui per la fuga della loro bambina e il ricordo di Valentin la rendeva piuttosto di cattivo umore, quando ci pensava. "I bambini riescono a trovare il modo di divertirsi in ogni situazione".

Ross alzò le spalle. "Se ti va bene così, fa pure. In fondo quella esperta in casa, in fatto di educazione, sei tu".

A quella frase sibillina, non riuscì a trattenersi. Perché faceva così? Perché cercava di provocarla? "Io non sono esperta, semplicemente li conosco meglio di te, allo stato attuale dei fatti! Una volta ci occupavamo insieme, di loro. Ora invece non è più possibile e non lo sarà finché non sarai guarito. O finché comincerai ad usare il cuore nel rapportarti con loro. Non ho intenzione di uscire di notte, di nuovo, alla ricerca di qualche nostro figlio scomparso". E così dicendo, gli lanciò con fare rabbioso la camicia che aveva tirato fuori dal cassetto.

Ross, con un gesto secco, si rimise la camicia nervosamente. "Perché ti arrabbi? Me ne sto zitto come dici tu, non intervengo in quello che fai o dici ai bambini e rispetto ogni tua decisione in rigoroso silenzio".

"Lo fai per il loro bene, Ross, ho perché ti diverti a fare il sostenuto e l'offeso con me?". Odiava discutere con lui, odiava sentirlo tanto lontano ed era come se fossero tornati a tanti anni prima, a quando c'era Elizabeth e loro due non riuscivano più a capirsi.

Ross si morse il labbro, sedendosi sul letto. "Credi che per me sia facile?" - disse, sospirando, in tono più conciliante rispetto a poco prima. "Io mi sono svegliato in questa casa non sapendo nemmeno chi ero e c'eri tu, c'erano i bambini e io non avevo idea di chi foste. Certo, siamo sposati e loro sono i miei figli ma per me siete estranei. Questa casa mi è estranea! Così come i modi di fare e le abitudini di tutti voi, il vostro modo di stare insieme e tutto quello che pretendete da me. Ci ho ho provato a rendermi utile, ad avvicinarmi, ma non vi conosco! Mi dici che eravamo felici ed innamorati e con te avverto solo tensione. Mi dici che ero un padre innamorato dei miei bambini e che loro lo erano di me ma quando mi rapporto con loro sono solo problemi. Non so come muovermi, non so cosa dire, non so cosa aspettarmi da voi e non so cosa voi vi aspettate da me".

Demelza lo aveva ascoltato in silenzio, mentre la rabbia lasciava posto alla tristezza e alla preoccupazione per lui. Era uno sfogo quello di Ross e lo conosceva abbastanza bene per capire quanto si sentisse frustrato a non sapere cosa fare. Anche senza memoria, era un uomo che voleva arrivare dappertutto e in quel momento non aveva i mezzi per farlo.

Provò pena per lui. E la voglia di abbracciarlo e di sostenerlo come sempre. Non aveva voglia di litigare, dopo tutto, non ne aveva avuta nemmeno durante il loro battibecco di poco prima. Voleva solo che stesse bene, che fosse sereno e che avvertisse la loro presenza come qualcosa di piacevole con cui convivere e non come qualcosa da cui scappare. Da quando si era risvegliato, non avevano ancora avuto un momento di intimità loro e forse questo avrebbe aiutato entrambi, forse lo avrebbe fatto ricordare o forse, semplicemente, avrebbe riacceso un po' quello che era il loro rapporto.

Gli si avvicinò, lo fronteggiò viso a viso e gli accarezzò la guancia e la mandibola, sfiorandolo piano con l'indice. Poi si sedette sulle sue gambe e lo sentì irrigidirsi, ma non si fece scoraggiare. Lo baciò sul mento, per poi salire fino alle labbra. Ma in quel momento lui la fermò, prendendole il polso che stava risalendo sulla sua spalla ed allontanando il viso da lei. "No..." - sussurrò, col fiato corto.

Demelza sussultò davanti a quel rifiuto. Non era mai successo che la respingesse, mai! Nemmeno quando aveva in mente solo Elizabeth... "Ross, ti prego! Sono io, siamo noi! E ho bisogno di te".

Di tutta risposta, suo marito si alzò in piedi, costringendola a fare altrettanto. "Demelza...".

"Cosa?" - chiese quasi con disperazione, notando quanto fosse titubante in quel momento. Cosa aveva? Paura? O semplicemente, non era più attratto da lei?

Ross scosse la testa. "Non prendertela ma non posso, non è giusto. Io ti trovo bellissima, desiderabile e affascinante, lo vedo che sei in gamba e forte e sicuramente sei il sogno di ogni uomo. Ed eri il mio sogno. Ma ora...".

"Ora cosa?".

"Demelza, io non so com'ero prima ma non me la sento di fare l'amore con una donna semplicemente perché ne sono attratto. Certo, sei mia moglie ma come ti ho detto prima, per me sei una sconosciuta. E sicuramente il vero me stesso ti ama alla follia ma io, ora...".

Demelza sentì gli occhi pungerle. Sapeva che stava per dirle qualcosa di spiacevole e terribile, qualcosa che avrebbe spezzato quel poco di forza che aveva. "Ora cosa? Non mi ami più? E' questo che vuoi dire, giusto? Non puoi fare l'amore con una donna che non ami".

Ross annuì. "Sì. E' giusto così per me. E soprattutto verso di te". Guardò il letto, la camera, tutto ciò che una volta era stato il loro mondo. "Credo che dovrei dormire in un'altra stanza, è un po' che ci penso. Sto bene ora, le ferite sono guarite e tu sarai più comoda e meno a disagio con la camera tutta per te. Per ora... Poi magari, più avanti...".

Demelza gli voltò le spalle, sentendosi improvvisamente fredda e svuotata, senza nulla per cui combattere. Non la amava più e anche se non era il vero Ross a dirglielo, era comunque terribile sentirselo dire. Era sola, dannatamente sola! Come quando era a Londra, ma allora era stato per scelta. Ora invece era lui che prendeva le distanze, che la allontanava, che la rifiutava. Sentì che non aveva la forza di combattere, di riprovarci, di tentare un nuovo approccio. Sentì semplicemente il desiderio di chiudersi in se stessa per non soffrire più. "Va bene, dì a Prudie di prepararti un letto in libreria, se è questo quello che vuoi".

"Mi dispiace" – provò ad argomentare lui, sentendosi in colpa.

Demelza lo guardò brevemente, poi abbassò lo sguardo ed uscì dalla stanza. "Non devi chiedermi scusa, come hai detto tu, è meglio così".

Lo lasciò solo, comprendendo i motivi che lo spingevano a comportarsi così ma allo stesso tempo non riuscendo ad accettarli. C'era una frattura enorme fra di loro, adesso. E nemmeno tutto il suo amore poteva sanarla, non c'era niente che potesse fare se Ross non faceva il primo passo.

Quasi in tranche, raggiunse l'aia. I bambini ridevano e sghignazzavano nella stalla assime a Jud e nel cortile era rimasto solo Artù che mordicchiava uno dei ciocchi di legno che aveva rubato.

Si rese conto che le lacrime le rigavano il viso e che aveva bisogno di stringere a se qualcosa. Non aveva voluto un altro cane ma ora era felice che ci fosse quel piccolo cucciolo nella loro vita.

Si avvicinò, lo prese in braccio e Artù le leccò il viso e le lacrime. Era strano, era come se capisse. Anche Garrick era così, ora che ci pensava. Quando era triste arrivava da lei come in cerca di coccole e alla fine era lui che coccolava lei, come se quel suo bisogno di attenzioni fosse solo una scusa per starle vicino.

Col cucciolo fra le braccia, tornò in casa e sorpassò Ross che, in cucina, parlava con Prudie della sistemazione della notte. Non disse nulla, non ne aveva la forza, lo ignorò e basta.

Salì al piano di sopra e tornò nella sua stanza, ora deserta. Si mise sul letto, lasciando che il cucciolo si muovesse sul materasso. Era piccolo e curioso come tutti i cuccioli di due mesi, annusava e toccava con il muso e le zampe ogni cosa e poi le lanciava degli sguardi furtivi e curiosi, scodinzolando e cercando la sua attenzione e un contatto con lei.
Demelza, mani nelle mani, lo guardava rapita, invidiando il suo mondo fatto di giochi e ingenuità. Era bellissimo, sarebbe diventato un cane grande e maestoso proprio come il re di cui portava il nome.
Allungò la mano ad accarezzarlo, aveva il pelo morbido e fine e profumava di sapone dopo il bagno che gli avevano fatto i suoi bambini.
Si sentì in colpa per il fatto di desiderare un contatto, per il desiderio di affezionarsi e volergli bene. Le sembrava di tradire Garrick ma poi capì che non era così. L'amore per Garrick non sarebbe mai finito e il suo cuore era grande abbastanza per un nuovo amore che non cancellasse il ricordo del vecchio. Lo abbraccio' e lo bacio' sulla testolina e Artù la lecco' tutto felice sulla guancia. Dopo la terribile giornata con Ross e quanto si erano detti, quello di Artù era il primo gesto d'affetto della giornata.

Lo strinse a se, cullandosi con lui nel silenzio. Si chiese cosa avrebbe fatto, come sarebbe riuscita ad andare avanti, come avrebbe spiegato ai bambini il fatto che il loro papà non dormisse più con lei. "Perché proprio a noi?" - si chiese, guardando il soffitto, mentre Artù le si accucciava sul ventre.

Rimase così, persa nel nulla, per lunghi minuti. Poi un bussare violento la fece sobbalzare assieme al cucciolo.

"Signora!" - urlò Prudie, da dietro l'uscio.

Demelza si mise a sedere, sistemandosi i capelli dietro le spalle. "Prudie, entra! Cosa c'è?".

La serva entrò, consegnandole una lettera. "E' arrivato un paggio dalla casa di Miss Penvenen e del dottor Enys. Mi ha detto di consegnarvi questo messaggio".

Demelza prese la lettera, stranita da quel fatto. Perché Dwight e Caroline gli scrivevano un messaggio? Non lo avevano mai fatto e le occasioni di incontrarsi erano sempre molte, per loro. Una strana ansia e uno strano sesto senso la colsero, facendola rabbrividire. Aprì la busta, lentamente, mentre Artù la guardava incuriosito.

E appena lesse, le si mozzò il fiato.


"Con immenso dolore, vi comunichiamo che stanotte la nostra piccola Sarah ci ha lasciati per sempre.

Caroline e Dwight".

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


Galoppava come una pazza forsennata, costeggiando a gran velocità le costiere battute dal vento della Cornovaglia.

Appena letto quel dannato biglietto, era uscita di casa di corsa, aveva farfugliato qualche frase sconnessa a Jud e Prudie circa quella sua uscita frettolosa e poi si era diretta alla stalla per prendere il suo cavallo.

Aveva evitato Ross. Pur nel marasma delle sue emozioni per quanto accaduto a Dwight e Caroline, non se l'era sentita di renderlo partecipe di quanto successo. Nelle condizioni in cui era, lui non sarebbe stato di nessuna utilità alla tenuta dei Penvenen. Non era più il Ross di una volta, il migliore amico di Dwight, quello che pochi mesi prima, a Capodanno, le aveva rivelato quasi in lacrime la terribile malattia della bambina dei loro amici. E inoltre quanto successo con lui nella giornata faceva ancora talmente male che desiderava vederlo il meno possibile. Lo aveva voluto vicino, quel pomeriggio. E ora desiderava solo che stesse il più lontano possibile da lei.

Ma in quel momento non importava. Tutto quello che aveva in mente era il visino dolce e perfetto della piccola Sarah, i suoi capelli biondi e lisci come seta, il suo sorriso dolce, i suoi modi di fare delicati cancellati per sempre dalla morte. E poi Dwight, l'uomo più gentile e onesto che avesse mai conosciuto, buono come il pane e sempre pronto a mettersi a disposizione degli altri. E Caroline, la sua migliore amica, colei che l'aveva generosamente aiutata e salvata a Londra anni prima, aprendole le porte per un futuro brillante. Lei, così frivola, civettuola, ammiccante e allo stesso tempo dolce ed altruista, come avrebbe fatto a sopportare quella perdita? E come ci sarebbe riuscito Dwight?

Demelza, mentre galoppava verso casa loro, non riusciva a non chiedersi cosa ne sarebbe stato dei suoi due amici, come avrebbero superato quella tempesta terribile e come avrebbero fatto a non perdere se stessi. Conosceva quel dolore, sapeva quanto aveva lacerato lei e Ross e sperava di poter dare loro conforto, anche se serviva a poco, e insieme qualche utile consiglio, se loro ne avessero voluti.

Quando arrivò alla dimora dei Penvenen, dove Dwight e Caroline si erano trasferiti dopo il matrimonio, il sole stava iniziando a calare. Bussò alla porta e un servitore venne subito ad aprile.

Demelza entrò in quella casa dove spesso era stata invitata assieme a Ross e ai bambini per un pranzo o una cena fra amici e ricordava le risate, le chiacchiere, le corse forsennate di Jeremy e Clowance nel grande giardino della villa con Horace. Ora era tutto desolatamente cupo e silenzioso. La casa era sempre quella ma era come se al suo interno fosse stata spenta la luce.

Un via vai incessante di persone saliva e scendeva le scale. Gente arrivata da ogni dove e di ogni estrazione sociale erano lì, a dare il loro conforto a Caroline e Dwight. C'erano proprio tutti, dai minatori che Dwight generosamente curava, ai nobili e all'alta società della zona e di Londra. Molti li conosceva, aveva trattato affari con loro, aveva discusso e aveva trovato accordi economici vantaggiosi quando, ogni volta che tornava nella capitale, si trasformava nella scaltra donna d'affari che era stata nei tre anni di separazione da Ross.

La salutarono tutti, con un cenno rispettoso del capo o con un inchino e Demelza rispose con cortesia. Poi salì le scale, ma prima di arrivare all'ultimo gradino fu travolta da un abbraccio convulso, che quasi le fece mancare il fiato.

Caroline, informata del suo arrivo da un servitore, le era venuta incontro. Indossava un abito nero, i suoi bellissimi capelli biondi erano pettinati e perfetti come sempre, raccolti in una crocchia, e a prima vista sembrava perfetta ed eterea come sempre. Ma bastava uno sguardo più attento per capire che non era così. Grosse occhiaie ne deturpavano il viso che era ridotto a una maschera di dolore, il suo colorito era pallido e gli occhi arrossati e completamente asciutti. Demelza non disse nulla, non c'erano parole da dire o conforti da dare, c'era solo da stare in silenzio e farle sentire che era lì accanto a lei. La capiva, lei più di tutte comprendeva fin troppo bene il suo dolore, un dolore forte, lacerante e allo stesso tempo sordo che toglieva il fiato e che non ti permetteva nemmeno di piangere. Anche lei, quando aveva perso Julia, aveva pianto pochissimo e solo molti giorni dopo che la sua bimba se n'era andata. Le lacrime sono un qualcosa di liberatorio e la morte di un figlio non ha proprio nulla di liberatorio, ci vogliono giorni, mesi o anche anni per far uscire allo scoperto quel dolore che si è sedimentato dentro di te.

La abbracciò, le accarezzò la schiena e sentì che era lei che aveva voglia di piangere. Non era giusto che Sarah se ne fosse andata. Non era giusto come non lo era la morte di nessun bambino...

"Si era addormentata come le altre sere..." - singhiozzò Caroline. "Ero riuscita pure a farle mangiare tutto lo stufato di carne con le patate, a lei che di solito avanzava sempre qualcosa e non aveva mai fame. Forse non dovevo sforzarla, forse avrei dovuto farla mangiare meno, forse avrei dovuto coprirla di più... O Demelza, cosa ho sbagliato?" - disse Caroline, quasi gridando, lei che era sempre stata controllata e attenta alle buone maniere.

Demelza le accarezzò la guancia, scuotendo il capo. "Era malata Caroline, tu non hai sbagliato niente. Potevi fare mille cose diverse ma sarebbe successo...".

"Io la rivoglio! Rivoglio la mia bambina, come faccio a riaverla indietro?".

Le sorrise, tristemente. "Non si puo', puoi solo portarla sempre con te, nel tuo cuore".

Caroline si aggrappo' nuovamente a lei, come cercando un appiglio per non cadere. "Non lasciarmi sola".

"Non lo farò".

"Sai Demelza, cosa vorrei?".

"Cosa?".

"Tornare indietro nel tempo, quando noi due vivevamo felici e spensierate a Londra e io non piangevo la morte di un figlio, non ero una donna sposata e il mio unico cruccio era scegliermi l'abito per andare a un ballo".

Demelza annuì, era umano che desiderasse una fuga di quel genere. "Quello che hai avuto qui, con Dwight, vale più di tutto. E so che non ci rinunceresti mai, anche sapendo l'epilogo. A Londra eri felice, ma non conoscevi Sarah".

"Certo, ma... ma... partiamo un po', solo noi, come una volta".

Scosse la testa, non poteva farlo, aveva troppi macelli da sistemare a Nampara e Caroline doveva rimanere a casa. "Dwight ha bisogno di te, non puoi abbandonarlo. Vivete insieme questo dolore, non rintanatevi ognuno nel vostro cantuccio, non fate lo stesso errore mio e di Ross. Parlate, urlate, piangete insieme, litigate se questo puo' farvi sfogare. Ma resta qui con lui".

Caroline accennò un sorriso. "L'ho sempre detto che sei più saggia di me".

Demelza le strizzò l'occhio. "E allora dammi retta".

"Vuoi vederla?".

A quella domanda, Demelza deglutì. Voleva vedere la piccola Sarah? Com'è un bambino morto? La ferita per la morte di Julia era sempre lacerante, pur non avendola vista senza vita. Per Ross era stato diverso, lui sapeva com'era, sapeva cosa si prova a stringere fra le braccia un bambino senza vita, ma a lei quello strazio era stato risparmiato dalla malattia. Non averla potuta vedere per dirle addio era il suo più grande rammarico, ma allo stesso tempo l'aveva salvata dal dolore di ricordarla morta, quel dolore che Ross si portava dietro da allora. Avrebbe voluto averlo vicino in quel momento, affrontare quel lutto con lui, con tutti i ricordi che risvegliava in lei. Ma Ross non c'era, stavolta era lui quello risparmiato grazie a una malattia ed era il suo turno di affrontare da sola quell'inferno, per il bene di Caroline. Aveva paura, certo, perché vedere Sarah avrebbe significato un po' rivedere Julia. Strinse i pungi, abbracciò l'amica e cercò di farle e di farsi coraggio. "Certo".

Caroline annuì, la prese per mano e la condusse su per gli ultimi scalini. Percorsero in silenzio il corridoio fino alla stanza di Sarah, una cameretta dalle tinte pastello, elegante e allo stesso tempo rassicurante per un bambino, con una culla che sarebbe rimasta vuota, tanti giochi, tante bambole, tutto il mondo di quella piccola innocente.

Dwight era lì, riverso sulla culla, a fissare ciò che era stata la sua fiducia per il futuro, il suo sogno d'amore, il frutto del suo rapporto con Caroline. Era ammutolito, senza parole, con un volto quasi trasfigurato.

Demelza deglutì, si avvicinò e lo abbracciò in silenzio, senza dire nulla. Glielo aveva promesso, gli aveva giurato che ci sarebbe stata quando, con calore e affetto, l'aveva sorretta durante i giorni terribili dell'incidente di Ross. Dwight non l'aveva mai abbandonata e non le aveva mai fatto mancare la sua vicinanza, nonostante il dolore che stava vivendo. E lei non l'avrebbe lasciato solo. "Mi dispiace".

Dwight sprofondò la mano nei suoi lunghi capelli rossi, accarezzandole la nuca. "Grazie per essere qui".

"Non c'è altro posto al mondo dove dovrei essere, in questo momento". E poi lo fece. Si allontanò da lui e si mise accanto alla culla.

Sarah era lì, come se ancora dormisse e aspettasse che la sua mamma arrivasse per svegliarla. Era lì, col suo viso perfetto come quello di Caroline e Dwight, coi capelli biondi perfettamente pettinati e decorati con un nastrino rosa come l'abitino di pizzo che indossava. Sembrava un angelo addormentato, una di quelle statue d'avorio che nei musei ti fermi ad ammirare. Il suo colorito era marmoreo, pallido. Ma sembrava così in pace col mondo, così serena in quel suo sonno eterno. Era bella, la bellezza di una bambola. Si chiese se anche Julia fosse stata così... Si portò una mano al petto, realizzando che stava guardando qualcosa di molto simile a quanto le era stato celato dal fato e dalla malattia. Stessa innocenza, stessi sogni spezzati, stesso immenso dolore per qualcuno che non sarebbe mai diventato grande. Guardò Sarah e fu come aver saldato il suo debito col destino perché si sentì come se stesse guardando, con undici anni di ritardo, la sua piccola Julia.

E poi, sopraffatta dall'emozione, ricordò il capodanno di alcuni mesi prima, che sembrava lontano secoli, il modo tranquillo di giocare di Sarah, i desideri che tutti loro avevano espresso dopo la mezzanotte. Era andato tutto male, da allora. Ogni cosa...

Scosse la testa, distrutta dalla perdita di quella bambina, dal dolore di Dwight e da quanto stava accadendo a casa sua. "Scusate, devo andare!" - disse, correndo fuori dalla porta, senza dar loro il tempo di controbattere.

Percorse alcuni passi nel corridoio e poi si appoggiò alla parete, cercando di riprendere fiato. Caroline e Dwight, distrutti dal dolore, non l'avevano seguita e per alcuni minuti poté rimanere sola. Sentiva al piano di sotto il mormorìo della servitù e dei visitatori che si accomiatavano dalla visita alla bambina, il vento che faceva vibrare le finestre e il battito incessante del suo cuore che le martellava in petto.

"Vi sentite bene, signora?".

A quella domanda, sobbalzò. Non si era accorta che era arrivato qualcuno. Si voltò, trovandosi davanti un giovane che le era pressocché sconosciuto, più giovane di lei forse di una manciata d'anni, dai capelli mossi di color castano chiaro, con un viso raffinato e affascinante, vestito con abiti eleganti. "Non molto" – ammise. "Ma ora mi passa, state tranquillo".

"Volete che vi faccia portare un bicchiere d'acqua? Capisco il vostro tormento, vedere una bambina morta non è mai una bella cosa".

Nonostante tutto, Demelza sorrise. Gli faceva piacere quella gentilezza da uno sconosciuto, soprattutto in un momento del genere. "Vi ringrazio ma non è necessario" – sussurrò, rendendosi conto che, stranamente, trovava piacevole la compagnia di quello sconosciuto. Lo guardò meglio e appena lo fece, fu come colta da una strana scarica elettrica. Non sapeva perché, ma si sentì attratta da lui, dai suoi bei modi, dal suo aspetto così fine e delicato. Era la prima volta che le succedeva. Anzi, la seconda. Le era capitato anche la prima volta che aveva visto Ross, ora che ci pensava. Era una sensazione piacevole e spiacevole allo stesso tempo. Piacevole per quello che risvegliava in lei e che le faceva provare. Spiacevole perché lei non avrebbe dovuto sentire quel tipo di sensazioni...

Il giovane le sorrise. "Come vi chiamate? Siete un'amica di famiglia?".

"Il mio nome è Demelza Poldark e sì, sono amica da anni sia di Caroline che di Dwight".

A quelle parole, il giovane spalancò gli occhi. "Poldark? Moglie del capitano Ross Poldark?".

Si stupì. Come faceva a conoscere Ross? "Sì, ma come fate a...?".

Il ragazzo le si avvicinò, facendo un breve inchino per prenderle la mano e baciarla. "Piacere di conoscervi, il mio nome è Hugh Armitage e sono stato compagno d'arme di vostro marito in Francia, alcuni anni fa. E lì che ho conosciuto anche Dwight, con cui ho stretto amicizia. Soffro di alcuni problemi di salute che mi danno noia alla testa e agli occhi e dopo la guerra mi sono affidato alle sue cure, in guerra ha conquistato la mia più piena fiducia". E così dicendo, le baciò la mano.

Sentì di nuovo, ancora più potente, quella scossa. Le aveva risposto, ma non aveva sentito molto di quello che le aveva detto. Si sentì stranita da quel fatto, dal trovarlo così piacevole e attraente. Non le era mai successo con nessuno eccetto suo marito, nemmeno a Londra quando per tre anni era stata da sola ed era entrata in contatto con uomini che la adoravano. E ora, perché? Perché era vulnerabile e ferita per il comportamento di poco prima di Ross? Perché era devastata da ciò che la piccola Sarah aveva risvegliato in lei? Perché si sentiva sola e senza appigli? Perché era il primo che le dedicava attenzioni e gesti gentili, da tanto? "Francia? Oh, mio marito ci ha combattuto quasi un anno" – disse, non sapendo bene come intavolare una discussione che acquietasse il suo cuore.

"Vostro marito era un eroe per me, un mito. Indomito, forte, coraggioso, non si fermava davanti a niente. Era la parte romantica della guerra, in un certo senso".

Demelza scosse la testa, ricordando quanto fosse stata arrabbiata quando aveva scoperto che era partito per il fronte. "Mio marito sfuggiva da tante cose, in quel momento. Probabilmente anche da se stesso". Sorrise a Hugh, quasi d'istinto, a quelle parole. "E voi, che ci facevate laggiù? I giovani aristocratici dalle belle maniere, non vanno in guerra".

Hugh arrossì impercettibilmente, a quella domanda. "Sono un letterato, uno scrittore. Amo scrivere poesie ed ero attirato appunto dal lato romantico della guerra. Sapete, quelle storie patriottiche e romantiche di eroi che diventano miti, le cui gesta si raccontano nelle leggende e nei libri".

"La guerra non ha lati romantici!" - rispose subito Demelza, a tono.

Hugh sorrise di nuovo. "Mio malgrado, l'ho capito sulla mia pelle. Se non fosse stato per vostro marito, io sarei morto ora. Sono caduto in un'imboscata e lui mi ha salvato la pelle. A proposito, ho saputo che non sta bene. Mi spiace".

"Già". Abbassò lo sguardo, non sapendo cosa dire. La conversazione con lui era stata piacevole, finché il discorso non era caduto su Ross... "E così, scrivete poesie? Di che genere?" - chiese, per cambiare argomento.

"Poesie dedicate a persone speciali".

"Ammiratrici?".

"Ammiratrici... O amanti".

"Lo immaginavo" – rispose, civettuola. Demelza gli sorrise per un attimo, ma poi si irrigidì. Stava flirtando con lui... E lo trovava piacevole... Deglutendo, fece un passo indietro, spaventata più da se stessa che da Hugh. "Io... Io forse dovrei andare" – balbettò.

Hugh le si avvicinò di nuovo, sorridendole in modo amabile. "Siete qui sola?".

"A cavallo".

"Permettete che vi accompagni almeno alle stalle".

Avrebbe voluto dirgli di no, ma inspiegabilmente disse di sì. "Se vi fa piacere...".

"Ovviamente mi fa piacere. Siete davvero una splendida creatura, Demelza Poldark, trovo strano che vostro marito non abbia mai decantato le vostre lodi al fronte".

Adorava il modo in cui parlava, in cui parlava di LEI. Sarebbe rimasta ad ascoltarlo per ore, rasserenava il suo spirito e la sua anima da tutto il dolore che si portava dietro. "Mio marito non è di molte parole".

Hugh annuì, mentre insieme si avviavano verso l'uscita. "Potrei venire a trovarlo, uno di questi giorni? Non vivo lontano da qui".

"Certamente, ma non ricorda nulla del suo passato".

Hugh sorrise, scuotendo la testa. "Beh, se non altro sarà una scusa per fare un saluto a voi. Potrei portarvi una mia poesia?".

"Cosa?".

"Una poesia che scriverò appositamente per voi. Un dono! I visitatori devono sempre portare doni".

"Non credo sia il caso" – rispose Demelza con poca convinzione.

"Permettetemi di insistere, non c'è niente di male in ogni forma d'arte".

Demelza sospirò. Era strano essere oggetto di tante attenzioni da parte di un uomo così raffinato, affascinante e colto, un uomo così diverso da Ross... Si sentiva sola e forse avere un nuovo amico le avrebbe fatto bene. Forse... Mentiva a se stessa, un po' lo sapeva. Gli piaceva quell'uomo, il suo modo di fare e ciò che risvegliava in lei. Lo voleva rivedere e voleva sentirsi piacevole ai suoi occhi. "Avete ragione, non c'è niente di male. Aspetto voi e la vostra poesia a Nampara".

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


"Amavo andare a cavallo?".

La domanda di Ross ruppe il silenzio che accompagnava quel pranzo domenicale. Demelza alzò il viso dal piatto, guardandolo di sottecchi. Erano giorni strani quelli, tutto era strano. Ross che se ne stava defilato, lei che sembrava aver perso l'entusiasmo di stare a cercarlo, i bambini che se ne stavano nel loro mondo e il dolore di Caroline e Dwight, che andava a trovare ogni mattina, erano le sue costanti.

Ognuno sembrava essersi rintanato in un suo mondo, lontano da tutto e da tutti e se un tempo avrebbe lottato per rimettere a posto i cocci, ora si sentiva senza forze, spossata e vinta dal destino. "Sì, amavi cavalcare" – rispose fiaccamente.

"Vorrei fare un giro a cavallo allora. Sono stanco di stare chiuso in casa e ho bisogno d'aria".

Avrebbe dovuto ricordargli che doveva fare attenzione, che era convalescente e che ancora non conosceva abbastanza i luoghi attorno a Nampara, ma non disse nulla. Si limitò ad alzare le spalle e a riprendere a sorseggiare il brodo che aveva nel piatto. "Fa come preferisci". Non riusciva a guardarlo in faccia, a parlargli, a confrontarsi con lui dal giorno in cui l'aveva rifiutata e aveva deciso di dormire separato da lei. Era come avere a che fare con un estraneo, quello non era più il suo Ross. E anche lei si sentiva diversa.

"Papà, posso venire con te?" - chiese Jeremy improvvisamente.

Ross annuì, sorridendogli. "Sai cavalcare?".

Il bimbo annuì. "Certo, me lo hai insegnato tu".

Demelza sospirò rinfrancata. Bene, quanto meno con Jeremy a fianco, non si sarebbe perso. "Beh, a questo punto Jeremy potrebbe montare sul suo pony, così Clowance potrebbe venire con voi col suo".

A quella proposta, Ross non parve troppo entusiasta. "Beh, ma coi pony rallenterei la mia andatura a cavallo".

"Ma renderesti felici entrambi i tuoi figli" – rispose lei, a tono. Lo irritava il suo modo di fare, quel suo lasciare da parte sempre Clowance.

"Lascia stare!". Clowance si alzò dal tavolo, col piatto ancora pieno. Era silenziosa in quei giorni, sfuggente e stranamente tranquilla. "Fa niente mamma, non ho voglia di montare i pony".

"Ti è sempre piaciuto andare sul pony con papà" – ribatté Demelza.

Clowance scosse la testa, abbassando lo sguardo. "Sì, ma non ne ho voglia ora. Magari un'altra volta. Va pure a cavallo con Jeremy, papà".

Ross si asciugò le labbra col tovagliolo. "Bene, visto che non ci sono problemi, domani usciremo io e te a cavallo, Jeremy".

Il bambino annuì, guardando preoccupato la sorella. Era decisamente meno entusiasta rispetto a pochi minuti prima... "Va bene..." - sussurrò col tono di chi si sente in colpa, osservando la sorellina.

Demelza si sentì furiosa. Come faceva Ross a non accorgersi di quanto la loro bambina fosse ferita? Di quanto si fosse allontanata da lui? Di come non cercasse più attenzioni da nessuno? "Fate come vi pare..." - disse con rabbia, guardando negli occhi suo marito.

"Posso alzarmi e andare in camera mia?" - chiese Clowance.

Demelza osservò il piatto ancora pieno e poi lei. Era preoccupata, sua figlia si comportava in modo strano ed era sempre più sfuggente. "Non hai ancora finito di mangiare".

"Sì ma non ho fame. Mi fa male la testa".

A quelle parole, Demelza le si avvicinò, mettendole una mano sulla fronte. "Non hai la febbre, sei fresca".

"Ma la testa mi fa male lo stesso".

Le annuì, capendo quanto in realtà fosse il suo stato d'animo a soffrire. "Va bene, vai a stenderti un po'. Ma ricorda che oggi pomeriggio abbiamo un ospite che mi piacerebbe presentarti".

"Si lo so, il signore che hai incontrato a casa di Caroline e Dwight" – disse la bimba, scendendo dalla sedia e dirigendosi in camera sua.

Demelza la guardò chiudere la porta, poi tornò a sedersi lanciando occhiatacce al marito e finendo di mangiare nervosamente. Non aprì bocca e probabilmente sia Ross che Jeremy e Bella avevano capito che era il caso di lasciarla in pace. Pure Artù, timidamente, si era rannicchiato nel suo cesto a mangiucchiare un osso.

Se non fosse stato per la visita di Hugh Armitage nel pomeriggio, probabilmente avrebbe preso il cavallo e sarebbe uscita per una lunga passeggiata. Aveva voglia di galoppare uno dei suoi purosangue, di sentirsi per un momento il vento freddo sul viso e la sensazione di libertà che sapeva donare, voleva allontanarsi da quella casa che amava ma che non era più un rifugio sicuro ma un ricettacolo di problemi, arrabbiature ed ansie. Voleva fuggire da quel marito che amava ma che non comprendeva più e da cui si era allontanata molto... Voleva essere forse un'altra persona, con un'altra vita, con un altro destino...

Pensò a Hugh, mentre silenziosamente ordinava con Prudie la cucina, al termine del pranzo. Quel giovane dai modi gentili e delicati, galante e romantico, aveva come toccato la sua anima ferita. Era stato un incontro di pochi minuti il loro, dettato da un fortuito caso del destino, ma era stato capace di metterla di buon umore in una giornata che per lei era stata terribile. Era come essere stata rapita dal suo mondo fatto di ansie e problemi ed essere stata trasporta verso un luogo utopistico e perfetto dove si era sentita una principessa.

In realtà non era molto fiera di se stessa, di come si era rapportata a lui. Era la donna sposata di un uomo che amava, aveva tre figli piccoli e di certo non era il tipo di donna che cercava le attenzioni di un uomo.

Sicuramente, durante la visita del pomeriggio, avrebbe avuto un contegno diverso e più signorile con Hugh. Aveva detto a Ross che sarebbe arrivato a trovarlo un suo vecchio compagno d'arme che aveva incontrato per caso da Dwight e Caroline e aveva cercato di apparire il più neutra possibile per non far trasparire le sue emozioni. Ross aveva annuito con fare assente, per lui non era che un estraneo, però aveva detto che andava bene.

E andava bene anche per lei, era felice di vederlo di nuovo... La faceva stare bene e ancora, come al loro primo incontro, aveva bisogno di qualcuno che sapesse farla sorridere.

Finì di sistemare la casa e dopo che Prudie si fu ritirata nella sua camera, andò nella stanza dei bambini. Mancava poco all'arrivo di Hugh ed era ora di andare a svegliare Clowance.

Quando entrò, la bimba era stesa sul letto, rannicchiata contro la parete. Era sola, Jeremy giocava nell'aia e Bella dormiva nella camera matrimoniale, nella sua culla. Si sedette vicino, accarezzandole i lunghi capelli rossi. Capiva sua figlia, in quel momento i loro sentimenti erano simili in tutto e per tutto. "Come ti senti?".

"Così così".

"Hai davvero mal di testa?".

Clowance annuì. "Sì, un po'. Ora però mi è quasi passato".

Demelza sorrise tristemente. Era così cambiata, così diversa dalla bambina che era stata fino a pochi mesi prima, dalla sua principessina che voleva sempre essere al centro dell'attenzione. Ora invece era come se cercasse di essere invisibile, di sfuggire a ciò che la faceva soffrire rintanandosi nel suo mondo... E lei non sapeva cosa fare, sentendosi incredibilmente impotente. "Clowance, lo sai che ti vogliamo bene, vero?".

"Sì, certo" – rispose la bimba con poca convinzione. "Tu sì. E anche Jeremy e Artù...".

"Anche Bella e papà".

Clowance, a quella frase, si voltò verso di lei. "Certamente..." – rispose, con un tono di voce di chi finge per far piacere al suo interlocutore.

La abbracciò, non sapeva che altro fare se non farle sentire che lei c'era e che non l'avrebbe mai lasciata sola. Poi la aiutò ad alzarsi, a pettinarsi e a mettersi uno di quei suoi vestitini da principessina che amava tanto.

"Grazie mamma".

"Di nulla, mi piace fare le cose con te".

Clowance sorrise, poi le saltò in braccio. Se ne stupì, era una cosa che non faceva da tantissimo tempo. "Ti voglio bene mamma".

"Anche io. Vuoi stare in braccio?".

"Sì".

Non obiettò, anche se era pesante. Tornò nel salotto, si sedette su una sedia con Clowance sulle ginocchia, dondolandola leggermente, restando a cullarla mentre le cantava una canzone sotto voce. Giunsero anche Ross e Jeremy che, parlottando fra loro, organizzavano la cavalcata per il giorno successivo. Jeremy sembrava a disagio a discuterne davanti alla sorella, mentre Ross era assolutamente tranquillo. Era furiosa con lui e con la sua indifferenza verso Clowance e verso le ferite che le infieriva. Cosa passava nella testa di suo marito? Possibile che non amasse davvero più la sua bambina e che per lui averci a che fare fosse un peso? Se solo gli avesse parlato, se solo si fosse aperto con lei, forse discutendone avrebbero comunque potuto risolvere molte cose, ma Ross era testardo anche nella malattia. Si teneva tutto dentro, come tante volte gli aveva visto fare in passato, e diventava imperscrutabile. Strinse a se la sua bambina, baciandola sulla nuca. E in quel momento qualcuno bussò alla porta.

Jud corse ad aprire e Hugh Armitage comparve davanti ai suoi occhi, puntuale come un orologio svizzero. Era curato ed elegante come la volta precedente, con un soprabito di velluto verde scuro, pantaloni che nel risaltavano la figura slanciata e col consueto sguardo gentile. "Ben arrivato" – gli sussurrò.

Appena la vide, il ragazzo fece un inchino. E poi si avvicinò a Ross per stringergli la mano. "Per me è un piacere essere qui e rivedervi, capitano Poldark".

Ross annuì, confuso. "Purtroppo, a causa di un incidente, la mia memoria mi crea problemi. Ma è comunque un piacere anche per me la vostra visita, signor Armitage". La indicò, sorridendogli timidamente. "Conoscete già mia moglie, da quello che so".

Hugh si avvicinò, annuendo. "Certamente" – disse, inchinandosi a baciarle la mano. "E' un piacere rivedervi, signora Poldark".

"Anche per me" – rispose, sentendosi emozionata come se fosse stata una ragazzina. "Questa è mia figlia Clowance".

Hugh sorrise alla bambina. "Bellissima, come la madre".

Clowance lo guardò storto, annuendo timidamente per poi rifugiarsi col viso contro il suo petto.

Demelza rimase stupita da quel comportamento ma non disse nulla, presentando a Hugh anche Jeremy che, compostamente, si era seduto accanto a suo padre. "Ho anche una figlia più piccola che ora dorme nella sua culla".

"Scommetto che è affascinante anche lei come sua madre" – disse Hugh, mentre Ross, a quell'ennesimo commento, gli lanciava occhiate furtive.

Lei arrossì. Era bello essere adulata, vezzeggiata a ammirata. Non le era mai capitato, neppure con Ross che l'amava.

Hugh si intrattenne un'ora abbondante, raccontando le avventure occorse in guerra, del cibo scadente dato alle truppe, delle serate passate a giocare a carte e del coraggio con cui Ross aveva salvato lui e Dwight che erano stati presi prigionieri assieme ad altri compagni di reggimento.

Demelza rimase in silenzio ad ascoltare. Ross le aveva raccontato molto poco di quel periodo passato al fronte mentre erano separati e per lei era tutto nuovo, era come scoprire un lato di suo marito che le era sconosciuto. Doveva essere stato coraggioso, immaginava. E assieme al coraggio doveva averci messo una buona dose di avventatezza e spavalderia. Tipico suo! E questo la rendeva orgogliosa, certo, ma anche vagamente arrabbiata con lui per il modo in cui più volte aveva messo a repentaglio la sua vita. Ross le aveva solo detto che quando era partito, dopo che lei l'aveva lasciato, per lui non aveva avuto molta importanza se vivere o morire, che non gli interessava di nulla e che tutto quello che cercava erano emozioni forti che gli facessero dimenticare la miseria che era diventata la sua vita.

Pure Jeremy sembrava colpito da quel racconto che doveva apparirgli come estremamente affascinante e avventuroso, mentre Clowance non si era mossa dalle sue braccia, rannicchiata in un ostinato mutismo.

Mentre parlava, osservava Hugh. Aveva una voce calda e allo stesso tempo gentile. Parlava con Ross ma non le erano sfuggite le occhiate che continuava a lanciare a lei che la facevano arrossire senza motivo. Era come se quel racconto fosse per lei, era come se Ross fosse stata una scusa per rivederla di nuovo. Non sapeva perché, ma se lo sentiva... Hugh parlava e in certi momenti, quando la guardava, era come se le altre persone nella stanza scomparissero e fossero solo loro due.

Queste sensazioni la turbavano e la confondevano. Non voleva provarle ma le avvertiva e nell'avvertirle provava piacere. Hugh la guardava come Ross non faceva da tanto, con dolcezza e allo stesso tempo con una strana passione nello sguardo. Era come se la mangiasse con gli occhi, era come se fra loro ci fosse un gioco di seduzione nascosto fatto di sguardi e sorrisi appena accennati. Era come se fra loro scorresse una strana e indecifrabile energia...

A un certo punto però, qualcosa cambiò nella strana atmosfera che si era creata.

Ross si alzò di scatto dal tavolo, in un modo talmente frettoloso che per un attimo temette che stesse male. La guardò con uno strano sguardo cupo che poi riservò a Hugh... Di tutta risposta, senza che avesse fatto qualcosa di male, si sentì in imbarazzo e abbassò gli occhi a guardare il pavimento.

Ross si scostò dalla sedia, ogni traccia di rilassatezza sparita dal suo viso. "Credo che mi stia venendo un forte mal di testa, ho bisogno di riposare".

"Ma...". Rimase allibita da quel comportamento. Poteva benissimo essere che stesse male, ma non era da Ross comportarsi a quel modo con un ospite venuto a trovarlo.

Hugh annuì, quasi fosse sollevato da quell'interruzione. "Capitano, nelle vostre condizioni è normale. Mi sono comunque intrattenuto troppo e andrò via fra qualche istante".

Ross lanciò a Demelza uno sguardo freddo. "Bene, vi lascio allora alla compagnia di mia moglie che, da quel che vedo, saprà intrattenervi più che bene durante il vostro commiato. Buona giornata signor Armitage". E così dicendo, si diresse senza aggiungere altro, verso la libreria.

Rimase interdetta, gelata. Non credeva che se ne fosse accorto ma evidentemente Ross aveva captato lo strano gioco di sguardi fra lei e Hugh. Si sentì imbarazzata ed irritata. Perché suo marito aveva reagito così? Non stava facendo niente di male e Hugh non era altro che un giovane ospite che si stava dimostrando gentile con lei, cosa che Ross non faceva da molto. Era suo compagno d'arme, dopo tutto, era venuto lì per trovare lui e non lei che era praticamente una sconosciuta per il giovane! Deglutì, immaginando che a breve avrebbe avuto un'altra discussione con suo marito e che non sarebbe stata per niente piacevole. "Mi dispiace, a volte è un po' brusco e per lui è un momento difficile" – disse, arrossendo.

Hugh sorrise, per nulla turbato dal fatto che Ross se ne fosse andato. "Non importa, stavo comunque andando".

Demelza annuì, alzandosi dalla sedia e costringendo Clowance a fare altrettanto. "Vi accompagno al vostro cavallo, visto che mio marito mi ha lasciato questa incombenza". Arrossì, di nuovo. Stare vicino a Hugh la confondeva e la emozionava come se fosse stata una bambina.

"Sarà un piacere rimanere ancora qualche istante in vostra compagnia, allora" – rispose Hugh.

"Pure per me". Dannazione a lei, aveva usato di nuovo lo stesso tono civettuolo del loro primo incontro e si era ripromessa di non farlo! D'un tratto si sentì osservata e, abbassando lo sguardo, si trovò puntati contro gli occhi dei suoi due figli che la scrutavano, indagatori.

Finse di ignorarli, facendo segno a Hugh di seguirla verso l'uscita.

Fuori, il sole di primavera dava un tiepido calore a ogni cosa. Camminò accanto a Hugh con i figli vicino a lei che non la perdevano di vista un attimo, ignorando le loro occhiatacce e i loro musi lunghi. Voleva salutarlo da sola, voleva che si allontanassero due istanti per dirgli addio. O forse, per dirgli che gli avrebbe fatto piacere rivederlo... Ma sentiva che doveva allontanare Clowance e Jeremy che, come il padre, parevano contrariati dalla presenza del giovane. Beh, per una volta decise di essere egoista, di pensare a se stessa. Era sola, piena di problemi, disperata e senza appigli, stanca e bisognosa di una parola buona. Che male c'era a essere amica di Hugh Armitage? Che male c'era avere un piccolo angolo di mondo dove era ammirata e dove non c'erano problemi e tutto era pulito e semplice? "Bambini, mi andreste a raccogliere un po' di fiori per il vaso della mia stanza?". Per la prima volta in vita sua, si rese conto che non voleva avere vicini i suoi figli... Ed era terribile, si sentiva sporca e cattiva a desiderarlo ma in quel momento non riusciva ad essere la madre di sempre, non con Hugh accanto.

Jeremy e Clowance annuirono poco convinti, continuando a studiare lei e Hugh. "Va bene, ma stiamo qui vicini" – disse Jeremy, guardingo.

I bimbi corsero, allontanandosi di una decina di metri. Hugh ne approfittò per rovistare nella tasca dei suoi pantaloni, tirandone fuori un foglio di carta piegato. Poi con un gesto veloce le prese la mano, la strinse fra le sue e glielo diede. "Per voi, ve lo avevo promesso".

"Cosa?" - domandò, mentre il cuore le balzava nel petto per quel contatto che le faceva come bruciare la mano.

"La poesia. Una donna come voi non puo' che essere una musa per un poeta".

Arrossì, di nuovo. Nessuno aveva mai scritto una poesia per lei... Lei, la figlia di un minatore, una donna di estrazione sociale bassissima... E Hugh, un giovane e romantico aristocratico che scriveva per donne bellissime i suoi pezzi. E ora ne aveva scritto uno anche per lei... "Grazie!".

"Sono io che devo ringraziare voi per il bene che la vostra persona fa alla mia creatività poetica".

"Mi piacerebbe rivedervi" – sussurrò Demelza, stupendosi della sua sfacciataggine. Voleva rivederlo, non voleva che quello fosse un addio. La faceva stare bene e lei ne aveva bisogno!

A quelle parole, il volto di Hugh si illuminò. "Anche io. Dove? Quando?".

Demelza osservò i suoi bambini, sentendosi vagamente in colpa verso di loro, di nuovo. "Non qui, non con Ross e i miei figli presenti".

"Solo noi?".

Annuì. "Solo noi. Vi scriverò un biglietto e ve lo farò recapitare... Al mattino i bimbi sono a scuola e Ross non presta molta attenzione a quello che faccio... In fondo una cavalcata o una passeggiata lontano da Nampara non mi farà male".

Hugh sorrise, baciandole la mano, indugiando sulle sue dita, sfiorandole una ad una con le labbra mentre lei lo lasciava fare, completamente rapita dalla sua figura. "Aspetto il vostro messaggio, allora. E spero che la poesia vi possa piacere".

"Mi piacerà, ne sono sicura. La leggerò stasera e ne parleremo quando ci vedremo".

"Non vedo l'ora, Demelza".

"Anche io".

Hugh montò a cavallo e lei rimase ad osservarlo sparire all'orizzonte mentre sentiva che le mancava già. Furtivamente mise il foglietto in tasca, stupendosi del fatto che, di nascosto, era come se si fossero dati un appuntamento. Era solo un nuovo amico, giusto? Non c'era niente di male, non doveva sentirsi tanto turbata...

Una forte pacca alla mano, la risvegliò dal suo mondo dei sogni. "Clowance, mi hai fatto male!" - sbottò contro la figlia, tornata al suo fianco.

"Non mi piace!" - urlò la bimba, calciando la sabbia dell'aia.

"Neanche a me!" - aggiunse Jeremy.

"Cosa?". Era sconcertata dal comportamento dei suoi figli... "Parlate di Hugh?".

"Anche!" - rispose Clowance. "Ma soprattutto non mi piace come fai tu con lui".

"E come faccio con lui, io?".

La bimba la guardò furente. "Fai la stupida!" - gridò, correndo poi verso la porta di casa.

Rimase attonita per un momento, chiedendosi cosa volesse dire. E al tempo stesso contenta per il fatto che avrebbe visto Hugh lontana da tutto e tutti...

Beh, forse era vero, stava facendo la stupida. Ma questo la faceva sentire incredibilmente bene.


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Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Si mise il mantello e si avviò verso la porta. Da alcune settimane a quella parte, l'uscita a cavallo con Hugh Armitage del giovedì mattina era diventata una piacevole abitudine per lei, un qualcosa che aspettava con ansia e impazienza. Si sentiva libera, serena, come se vivesse in un altro mondo senza problemi da affrontare, tanto che le era capitato di desiderare di diventare un'altra persona e di entrare a far parte per sempre di quel mondo.

Il giovedì mattina si alzava presto, sistemava i bambini per la scuola e li faceva accompagnare da Jud, dava la colazione a Bella, la affidava a Prudie e poi, senza dire niente, usciva, prendeva il suo cavallo e correva via lontano. In fondo non c'era niente di male, pensava, anche se i due servi e i suoi figli la guardavano in cagnesco. Beh, erano una manciata di ore solo per se stessa, in una settimana fatta di impegni e di duro lavoro per la casa e per la famiglia. Si occupava della contabilità della miniera, dei suoi affari a Londra, di Nampara, di Jud e Prudie, faceva in modo che ai suoi figli non mancasse nulla e quindi... E quindi aveva diritto a un momento che fosse solo suo!

Hugh era sempre gentile, galante, delicato. Ogni volta che si vedevano, le donava una nuova poesia che la faceva apparire come una dea, come qualcosa di perfetto e bello, quasi irraggiungibile. Non aveva mai avuto bisogno di nulla del genere e Ross dal canto suo non era mai stato molto portato al romanticismo e al corteggiamento, però non poteva dire che non le facesse piacere. Si era sentita per anni seconda in tutto e per tutto ad Elizabeth ed ora era così strano pensare che qualcuno di raffinato e nobile vedesse in lei quello che Ross vedeva nel suo primo amore.

Non facevano niente di male lei e Hugh, cavalcavano, scherzavano, chiacchieravano e ridevano come se non ci fosse nient'altro che loro, mentre erano insieme. Ogni tanto si lanciavano degli sguardi complici e lei sentiva quella scossa e quella strana attrazione verso di lui che aveva avvertito fin dall'inizio. Non sapeva cosa fosse, lo immaginava e le faceva paura, però non abbastanza dal farla desistere ad incontrarlo.

"Dove stai andando?".

La voce di Ross la raggiunse che era sull'uscio. Non le aveva mai domandato nulla e le sembrava strano che quella mattina si interessasse a quello che faceva. "Faccio un giro a cavallo".

"Lo fai tutti i giovedì mattina" – commentò lui, freddamente.

"Il giovedì mattina è un buon giorno per cavalcare" – rispose, a tono, stupendosi del fatto che se ne fosse accorto.

Ross le si avvicinò con sguardo indagatore. "Vengo con te".

"No!". Era irritata! Che diavolo voleva Ross? Non la degnava di uno sguardo e ora voleva seguirla per turbare quelle due ore di libertà e pace che si era riuscita a ritagliare? Non glielo avrebbe permesso. Lui era la causa del suo malessere, lui e la sua dannata testa dura che aveva provocato quell'incidente in miniera, lui e la sua freddezza, il suo respingerla... No, non lo voleva! Voleva stare da sola con Hugh e dimenticarsi per un po' che lui esisteva e che la stava facendo soffrire.

"Perché no?" - chiese lui, irritato.

Sorrise, freddamente. "Perché voglio uscire da sola esattamente come tu vuoi dormire da solo. E siccome tu puoi scegliere, posso farlo anche io!". Era strano parlare così con lui. Era l'uomo che amava, l'uomo che avrebbe voluto avere accanto in ogni momento della sua vita... Ed ora era l'uomo che la faceva soffrire e da cui voleva fuggire, di nuovo.

Davanti alla sua risposta, Ross non insistette. Si morse il labbro, le voltò le spalle e tornò in biblioteca, chiudendo furiosamente la porta dietro di se.

Sospirò, decisa a non cedere e desiderosa di lasciare quanto prima Nampara. Non andò nemmeno in cucina a dare un bacio a Bella che ancora stava mangiando con Prudie, aveva troppa fretta di allontanarsi. E sua figlia sarebbe stata benissimo anche così...

Galoppò come una forsennata, arrivando ad una piccola baracca posta sul sentiero che costeggiava il mare che aveva scelto assieme a Hugh come luogo di incontro. Quando vi giunse, lui era già la. "Sono in ritardo, scusate" – gli disse.

Hugh sorrise gentilmente. "Non importa, sono arrivato da poco anche io. Tutto bene?".

Demelza scese da cavallo, avviandosi con lui a piedi lungo il sentiero che portava al bosco. "Più o meno... Ho avuto una piccola discussione con Ross prima di venire qui. Niente di grave comunque".

"Vostro marito forse... forse non è molto felice dei nostri incontri del giovedì".

Demelza alzò le spalle. "Dubito che lo sappia, non gliene ho mai parlato".

"Perché?".

"Perché ultimamente, dall'incidente, i nostri rapporti sono molto tesi ed è difficile per me avere a che fare con lui. A dire il vero, è tutto difficile a casa mia, da allora. E' difficile lui, sono complicati i bambini, sono sull'orlo di crollare io... Forse l'unico sano è il cane di mia figlia Clowance".

Hugh annuì, prendendola sotto braccio senza che lei ponesse alcuna resistenza. "Vostro marito è una persona valorosa e intelligente. Ma è anche un folle a non adorarvi. Una moglie come voi va mostrata con orgoglio e idolatrata ad ogni ora del giorno".

Demelza sorrise dolcemente, a quelle parole, ricordando i momenti d'oro con Ross. "Mio marito è molto diverso da voi, Hugh, e non lo cambierei per niente al mondo. Certo, non è tipo da poesie o serenate, lui è... è semplicemente Ross... Sa... Sapeva... farmi sciogliere con un solo sguardo, farmi sentire sicura con un abbraccio e farmi ridere fino a farmi mancare il fiato, quando scherzavamo insieme. Non mi ha mai dedicato poemi ma so che mi amava con tutto se stesso, aveva solo altri modi per dimostrarlo. Prima dell'incidente, Ross era il mio tutto: il mio migliore amico, mio marito, il mio amante, il padre dei miei figli e la mia ragione di vita... E ora è cambiato tutto, mi sento persa e sola e lo rivoglio! Perché assieme alla sua memoria, è come se mi fossi persa anche io".

Hugh abbassò lo sguardo a quelle parole. "Voi siete una bellissima persona, Demelza. E non so come eravate prima, ma mi sembrate assolutamente perfetta così come siete in questo momento". Le prese la mano, la strinse nella sua e la attirò a se. "E io non so essere certamente, ai vostri occhi, speciale come Ross, ma spero che possiate ugualmente accettare la mia amicizia, le mie poesie e i miei sentimenti sinceri per voi".

Sussultò a quelle parole e alla vicinanza dei loro corpi. I loro volti erano a pochi centimetri, gli occhi di Hugh parevano specchiarsi nei suoi e la attiravano come una calamita. Se avesse provato a baciarla, non sarebbe riuscita a sottrarsi. E forse non avrebbe avuto nemmeno il desiderio di farlo, si rese conto con terrore... "La vostra compagnia mi fa piacere. E anche le vostre poesie. Altrimenti non sarei qui" – disse, tentennando. E detto questo, si allontanò di alcuni passi, sciogliendo la presa sulla sua mano. Era bello essere adulata e ammirata, ma stava provando qualcosa di pericoloso per se stessa e per il suo matrimonio. Quella con Hugh era una bella amicizia, forse lui avrebbe desiderato qualcosa di più, ma doveva essere retta e forte e non oltrepassare il limite. Ross non l'avrebbe mai perdonata. E soprattutto, lei non avrebbe mai perdonato se stessa...

Un rumore di voci dalla spiaggia, la tolse dall'imbarazzo. Assieme a Hugh si avvicinò allo strapiombo, notando un'imbarcazione a riva. Una piccola barca, nulla più di una scialuppa, con tre uomini che salivano e scendevano portando a terra delle casse di legno.

Demelza si irrigidì. Quella era la spiaggia di Ross, loro proprietà. E se tanto le dava tanto, ricordano i trascorsi di suo marito di alcuni anni prima, quelli erano contrabbandieri che nascondevano merce rubata nella grotta che si trovava sotto il costone dove si trovava lei.

Le mancò il fiato, pensando alle conseguenze se qualcuno li avesse scoperti e ricondotti a Ross. Suo marito sarebbe stato di nuovo processato, stavolta però totalmente estraneo ai fatti.

Su quella spiaggia ci veniva spesso con suo marito e i suoi bambini, quando in estate uscivano per far divertire i piccoli e farli giocare, ma erano mesi che non ci mettevano piede dopo l'incidente di Ross. E quelle persone, non vedendo mai nessuno, ne avevano evidentemente approfittato... Sospirò, le ci mancava solo quello a complicarle la vita!

Hugh le toccò il braccio per farla indietreggiare. "Credo siano contrabbandieri, brutta gente! Andiamocene!".

Demelza scosse la testa, per nulla d'accordo. "Quella spiaggia appartiene alla mia famiglia e non ho intenzione di finire nei guai per tre brutti ceffi che l'hanno scelta per le loro attività illegali!". E così dicendo, senza che Hugh potesse fare nulla, corse lungo il sentiero che portava alla grotta.

"Cosa fate?" - urlò ai tre uomini, appena gli fu davanti, col fiato corto per la corsa.

I tre, di mezza età e col viso da avanzi di galera, la squadrarono. "Scusate?".

"Scusate un corno! Questa spiaggia appartiene alla mia famiglia e non siete autorizzati né ad attraccare né a trasportare a terra merce proveniente da chissà dove".

Uno dei tre, coi capelli grigi, lunghi ed ispidi, grasso e vestito con abiti logori e sporchi, dal viso butterato, le si avvicinò. "Madame, è solo per qualche ora... Siate buona con chi lavora duramente per mare. E' solo commercio!".

"E' contrabbando!" - rispose Demelza, a tono.

"Ma no, è solo uno sgranchirci le gambe su questa bella spiaggia. Complimenti, bel posto signora" – disse l'uomo, con tono da presa in giro.

"Prendete la vostra roba e andatevene, o chiamo le guardie!" - intimò loro Demelza, furente.

Gli altri due guardarono il loro interlocutore. Doveva essere il capo della combricola. "Guardie? Non vi conviene, diremmo che siete stata voi a darci il permesso. Su, fate la brava, lasciateci lavorare due orette e poi spariremo con la nostra merce e non ci vedrete mai più. E saremo tutti contenti questa sera".

"Due ore! Parola d'onore?".

La voce di Hugh, col fiato corto, la raggiunse alle spalle. Era grata che fosse lì e di non essere sola. Anche se le sembrava strano che non ci fosse Ross...

Alla vista di Hugh, i tre si fecero meno spavaldi. Evidentemente la presenza di un uomo poteva fare da deterrente. "Due ore, parola di marinai".

Hugh scosse la testa, mascherando un sorrisetto sarcastico. "La parola dei marinai vale poco".

"Fatevela bastare!" - rispose l'uomo butterato.

Indecisa se rimanere per accertarsi che rispettassero i patti, Demelza sentì la presa gentile della mano di Hugh sul suo polso. "Su, andiamo, non resteranno a lungo e per noi è più sicuro allontanarci. Se passassero per caso delle guardie e ci vedessero qui, potrebbero fraintendere e crederci complici".

"Succederebbe ugualmente perché chiunque sa che questa spiaggia appartiene a Ross".

Hugh aumentò la presa sul suo polso. "Sì, certo. Ma è meglio andare comunque".

Uno dei tre contrabbandieri assentì. "Ha ragione bellezza, ascolta il tuo amico e sparisci. Facci lavorare e ti lasceremo quanto prima la spiaggia linda e pulita".

E a malincuore, Demelza cedette. Anche se, silenziosamente, decise che avrebbe vigilato nei giorni successivi... Con Hugh si incamminò di nuovo lungo il sentiero che portava alla strada principale dove avevano lasciato i loro cavalli, nervosa e allo stesso tempo turbata da quel nuovo problema. "Grazie Hugh, mi sei stato di grande aiuto" – sussurrò, mentre facevano la salita.

Hugh fece per rispondere ma tutto d'un tratto impallidì, accasciandosi a terra preda di un violento attacco di tosse. Il suo viso divenne bianco come un cencio, gli occhi parvero andargli fuori dalle orbite e crollò a terra tenendosi il viso fra le mani.

"Hugh!". Demelza gli fu vicina in un attimo, tentando di sorreggerlo. Che gli prendeva?

"Sto... Sto bene, tranquilla. Ora passa! E' solo la salita".

Demelza non parve tranquillizzarsi però, a quelle parole. "Non mi pare che voi stiate bene. Che succede?".

Hugh si sedette a terra, erano a metà della salita e i contrabbandieri ormai rimanevano fuori dalla loro visuale. Si appoggiò con la schiena a una roccia e lottò per riprendere una respirazione normale. "A volte mi capita" – le disse, invitandola a sedersi accanto a lui. "E' per questo che sono in cura da Dwight".

"Per la tosse?".

Hugh scosse la testa, guardandola intensamente. "Tosse, occhi, testa... C'è tutto che non va, in me. Credevo fossero gli effetti della guerra, ma Dwight non crede sia così".

Il cuore le rallentò. Che cercava di dirle? "Siete malato?".

Hugh alzò il viso al cielo, guardandolo malinconicamente. "Malato di qualche strana e terribile malattia che a breve mi toglierà la vista, che mi fa tossire come se stessi soffocando e che mi provoca dolori atroci alla testa. Presto non potrò più vedere la luce del sole, il cielo, l'immensità del mare e le belle persone come voi che abitano su questo mondo. Non potrò più scrivere le mie poesie, non potrò fare più niente".

Sarebbe diventato... cieco... Le si strinse il cuore per lui, provando un'infinita pena. Era un giovane generoso, gentile e buono, non poteva essere. "E Dwight? Lui è un ottimo medico, saprà curarvi. Dicono faccia miracoli".

Hugh le prese la mano, la strinse e la baciò dolcemente. "No, non puo' farlo, ho un destino segnato".

"Ma...".

La abbracciò, prendendola di sorpresa. "Demelza, mi promettete una cosa?".

"Cosa?" - chiese, stringendolo a sua volta, cercando di dargli calore e cercandone a sua volta in lui. Erano due anime perse, in quel momento, ognuna schiacciata da un destino avverso che però li aveva fatti incontrare.

"Siate mia amica, permettetemi di starvi vicino e di ammirarvi, finché potrò farlo. Ho conosciuto e amato tante donne, ma nessuna è mai stata come voi. Siete fiera, forte, indomita e bellissima, avete il coraggio di affrontare, da sola, persino tre contrabbandieri. Volervi bene, amarvi... è un onore. Come avervi conosciuta".

Deglutì. Aveva usato la parola amore ed era il suo più grande terrore. Per lei l'amore, pur fra mille problemi, era Ross. Ma Hugh... Hugh, con le sue parole, la sua dolcezza, la sua tenerezza e le sue attenzioni, la attirava. Non era amore, ma lo desiderava vicino. Era confusa, lui la confondeva! "Certo che sarò vostra amica. Sono qui, sono con voi, ora".

"Siete l'unica, oltre a Dwight che mi cura, a sapere della mia malattia. Non ditelo in giro, non voglio che si sappia finché non sarà evidente".

Demelza sorrise, accarezzandogli la guancia e baciandolo sulla fronte, in un gesto che le venne talmente naturale da stupirsene. "Lo farò". Si sentiva onorata, pur in mezzo a tutto quel dolore, che la avesse scelta come confidente, oltre che come musa per le sue poesie.

Lo aiutò a rialzarsi, a camminare e a raggiungere i cavalli, pian piano, vicino, fianco a fianco.

E quando furono in alto, lui la abbracciò di nuovo, osservando il mare. "Avete detto che è la vostra spiaggia, giusto?".

"Giusto".

"Avete una barca?".

"Certo, la usavo per pescare quando ero incinta di Jeremy" – rispose, ricordando che quasi aveva partorito, su quella barca, facendo infuriare Ross.

Hugh rise. "Verreste con me, in barca, a una gita la settimana prossima?".

"Dove volete andare?".

Hugh le indicò l'orizzonte. "C'è una piccola insenatura nascosta, non molto lontano da qui. Dicono che sia una spiaggia deliziosa e che vi bivacchino le foche. Non ci sono mai andato ma vorrei vederle dal vivo prima che...".

Demelza gli prese la mano, bloccandolo. "Va bene, verrò con voi".




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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


Aveva atteso quel giorno con una strana impazienza. Non era tanto la gita in barca con Hugh ad eccitarla, ci era stata molte volte sia da sola che con Ross dopo tutto, era la condivisione del segreto del ragazzo che l'aveva scelta come confidente che la stordiva e in un certo senso ubriacava, facendola sentire importante.

Poteva dire di conoscerlo bene? Certo che no!

Poteva dire che lui conoscesse lei e la sua storia? Anche questo, no!

Eppure si erano trovati e nonostante non si fossero visti che poche volte, era come se fra loro ci fosse una sorta di attrazione e voglia di cercarsi per stare insieme. Erano due sconosciuti eppure ognuno di loro aveva toccato cuore e anima dell'altro e Hugh l'aveva scelta per raccontarle il suo dramma. Fiducia? Non ne era certa. Sicuramente però, come lei, lui avvertiva la strana alchimia che si era creata da subito fra loro. Era solo bisogno di compagnia il suo e di Hugh? No, non era solo questo, sapeva di esserne attratta per qualche strano motivo e sapeva anche che Hugh provava le stesse cose. La vedeva come una dea, ogni sua poesia ne era la testimonianza, eppure sapeva anche che nei suoi confronti aveva desideri decisamente carnali e davvero poco utopistici. La cosa che però la terrorizzava, era avvertire pure in se quel desiderio di essere sua. Che le prendeva? Aveva avuto molti spasimanti a Londra, eppure aveva sempre e solo desiderato essere di Ross. Invece ora, quell'uomo aveva catturato forse non il suo cuore ma di certo i suoi sensi...

Era la mancanza di Ross che la spingeva a sentire quel tipo di desiderio? O la mancanza di amore e pace che la spingeva a cercare altrove, lontana da Nampara?

Certo, poteva pure essere che il condividere con Hugh il segreto della sua malattia, un segreto doloroso e sicuramente fonte di preoccupazione e disperazione, l'avesse ulteriormente avvicinata a lui. Perché era bello, pur nella sua tragicità, che lui avesse scelto LEI.

Mentre la barca scivolava lentamente al largo e Hugh remava non staccandole gli occhi di dosso, si appoggiò col viso al bordo, osservando il blu del mare. Immerse la mano, avvertendo il tocco gelido dell'oceano, bagnandosi il polsino dell'abito verde che aveva scelto di indossare quel giorno. Un abito che metteva raramente, molto aderente sul corpo e soprattutto generosamente scollato. Ross non le aveva chiesto nulla quella mattina su dove andasse e anzi, dalla settimana prima, a malapena le rivolgeva la parola. La guardava e basta, distante, forse insofferente a quella vita con lei, forse semplicemente disinteressato ad ogni cosa che riguardava la sua famiglia. Giocava con Bella e amava prendersi cura dei cavalli con Jeremy, certo, ma con lei e Clowance era freddo e distante e questo la feriva terribilmente. Sapeva che era malato, ma le faceva male lo stesso, la feriva e la rendeva fragile e insicura, quella dannata situazione... Voleva l'amore di Ross, era l'unica cosa che avesse mai desiderato dalla vita. E invece aveva affetto e attenzioni, come se fosse stata una dea, da un giovane romantico e gentile che le scriveva poesie e la adorava e che lottava contro il tempo per cogliere ogni bagliore di vita, prima che il buio piombasse su di lui.

"Siete molto silenziosa oggi".

Demelza alzò gli occhi su di lui, sospirando. "Scusate, stavo solo pensando a un po' di cose. Ma non è nulla di importante".

"Sembrate così assorta".

"Già, e vi chiedo di nuovo scusa...". Si tirò su, mettendosi composta con la schiena contro il parapetto della barca. "E' che non è un buon momento per me". Si rese conto che Hugh le aveva raccontato particolari intimi e segreti della sua vita ma lei, sulla sua, aveva mantenuto uno strano riserbo.

Hugh si accigliò. "Con vostro marito, nelle sue condizioni, deve essere dura".

Demelza si stupì che sapesse capire tanto bene la sua situazione, senza che gliela avesse spiegata. "Ross è spesso complicato da gestire ed è ancora più complicato essere sua moglie... Ma fa parte del suo fascino".

Hugh smise di remare, osservandola intensamente. "Voi siete molto bella, meritereste una vita serena e felice, senza intoppi".

"Non esistono vite così, Hugh".

L'uomo abbassò il capo, pensieroso. Poi lo rialzò, per incatenare i suoi occhi al suo viso. "Se io fossi vostro marito, l'unico mio pensiero sarebbe lusingarvi e farvi sentire amata e unica. Non mi importerebbe altro, solo amarvi e adorarvi...".

Demelza gli sorrise dolcemente. La imbarazzava e allo stesso tempo la inteneriva quel suo comportamento così ardito e passionale verso di lei. "Ma Ross lo fa, per lui la mia felicità è importante ed è la sua priorità. L'incidente alla miniera ha sconvolto le nostre vite, ma lui mi ama. E ama i nostri bambini, con tutto se stesso. Vedete, voi avete una visione del matrimonio molto romantica, tenera e dolce, ma quando si è sposati non c'è solo questo, non ci sono solo poesie o canzoni d'amore, ci sono i problemi da affrontare insieme, i figli da crescere e seguire, gli inconvenienti a cui far fronte. E sapete, forse è questo il bello dell'amore, non tanto il momento romantico in se ma il sapere di avere vicino qualcuno su cui fare affidamento nei momenti difficili, qualcuno che sa prenderti per mano e lottare con te, uscendone più forti e uniti di prima. E' questo che mi manca di Ross, è questo che mi fa sentire così insicura e sola... Combatto senza il mio compagno per far quadrare ogni cosa e lui non c'è, non mi vede, non mi sente e non capisce quanto io abbia bisogno di lui. Io e Ross, insieme, abbiamo combattuto mille battaglie. E ora lui non c'è e io sono sola". Solo pronunciando quelle parole dal sapore di uno sfogo, si rese conto di quanto suo marito le mancasse. Le mancava ogni cosa di lui, anche la sua testa dura e la sua avventatezza. Le venne da piangere, ma coraggiosamente ricacciò indietro le lacrime. Era una gita in barca quella e avrebbe fatto di tutto perché fosse piacevole per Hugh.

L'uomo rimase in silenzio per un attimo, forse percependo il suo smarrimento. Poi scosse la testa. "Mi dispiace per quello che state passando e mi dispiace anche di non pensarla proprio come voi, a riguardo, sul matrimonio. Per me è amore, solo amore. Non puo' esserci spazio per altro, fra un uomo e una donna".

Demelza sorrise, in un certo senso gli faceva tenerezza, era un ragazzo ancora molto giovane e idealista e questo gli piaceva. "Voi pensate al matrimonio e all'amore per una donna con la stessa idea romantica e utopistica che avevate per l'esperienza della guerra. Il matrimonio è amore, certo, ne è la base. Ma è anche pazienza, intermediazione, stanchezza, risate, giochi e scherzi coi propri figli, momenti belli alternati a momenti brutti e anche discussioni o crisi, se capita".

"Continuo a non essere d'accordo con voi, ma accetto il vostro punto di vista, se mi permetterete di mantenere il mio e di continuare ad adularvi come la splendida fanciulla che siete".

Demelza arrossì, sorridendo con fare ammiccante. "Credo che possiate farlo e che mi faccia anche piacere". C'era una grande battaglia in corso in lei, si rese conto, fra la donna sposata e piena di problemi che era e la donna ideale e venerata da Hugh. Sapeva che quel tipo di rapporti e sentimenti che lui inseguiva non esisteva e non sarebbero mai potuti durare in una lunga relazione, ma le piaceva, per una volta, essere lei la donna idealizzata e venerata da qualcuno. Hugh la guardava come Ross, una volta, guardava Elizabeth...

Hugh riprese a remare, giungendo finalmente davanti ad una insenatura arricchita da una piccola e graziosa spiaggetta sormontata da imponenti rocce e strapiombi. "Mia signora, siamo arrivati".

Demelza si guardò attorno, erano lontani da tutto e tutti, isolati dal mondo. Sentì una strana ansia in se, unita a un misto di timore ed emozione dal trovarsi lì, da sola, con lui. Si chiese cosa ci facesse in un posto del genere, un posto che poteva andar bene per coppiette in cerca di privacy e intimità, invece che essere a casa sua con Bella e Prudie a preparare il pranzo per i suoi bambini più grandi.

Hugh portò la barca a riva, si tolse gli stivali e scese sul bagnasciuga, trascinando l'imbarcazione all'asciutto. Demelza rimase stupita dalla sua forza, sembrava tanto mingherlino e fragile e invece doveva essere fornito di muscoli ben torniti per riuscire a fare quel che aveva appena fatto. Per un attimo si chiese come fosse il suo corpo ed arrossì a quel pensiero e al fatto che, di nuovo, stesse scivolando verso pensieri che non doveva e non poteva permettersi di provare.

Hugh le si avvicinò, tendendole la mano. "Su, scendete".

"Non vedo foche" – ribatté lei, guardandosi attorno. Se non c'erano le foche, che cosa avrebbero fatto lì, da soli, per tutta la mattina? Poi allungò la mano, strinse quella di Hugh e lasciò che la portasse delicatamente a terra.

E quando i suoi piedi furono sulla sabbia morbida, Hugh non la lasciò andare. Spostò la presa dalla sua mano, cingendole la vita per attirarla a se. "Siete bellissima e il sole di oggi rende i riflessi dei vostri capelli caldi come fiammelle di fuoco".

Deglutì per quel contatto così ravvicinato e per le sue parole così gentili e calde. "Hugh...".

Lui fece finta di non notare il rossore sul suo viso e la sua espressione smarrita e confusa, avvicinandosi ancora di più a lei. "Come vi ho detto, Demelza, io ho conosciuto molte donne ma mai nessuna mi ha colpito come voi. Siete bellissima, forte e intelligente, avete un animo forte e battagliero e mi sono sentito attratto da voi fin dal primo momento in cui vi ho vista. E so che per voi è la stessa cosa, lo sento...".

Demelza cercò di riprendere possesso di se stessa, tentando di allontanarsi da lui per mantenere una distanza di sicurezza. Non era sicura di cosa avrebbe fatto Hugh ma soprattutto, non era così certa che lo avrebbe respinto. "Qualsiasi cosa io senta, questa cosa non ha il diritto di esistere e devo ignorarla. VOGLIO ignorarla...".

"Siete qui con me e non state facendo nulla di male a vostro marito, lui sta bene" – rispose Hugh, riattirandola a se. Alzò la mano ad accarezzarle i capelli, avvicinando il viso al suo. "Vi voglio, voi non immaginate quanto io desideri fare l'amore con voi qui, su questa spiaggia".

Le sembrò che le si fermasse il cuore a quelle parole che aveva temuto di sentire e in un certo senso anche desiderato. E ora? E ORA? "Hugh, sono una donna sposata, amo mio marito e...".

"E continuereste ad amarlo indipendentemente da questo".

Le sue parole la confondevano, non sapeva più che fare o dire e nemmeno sapeva più chi fosse, da tanto era turbata e alla stesso tempo attratta dalla presenza di Hugh. Pensò fugacemente a quanto aveva sofferto quando era stato Ross a tradirla, ai tre anni di separazione e a quanto avesse ritenuto spregevole quel gesto. E ora, era pronta a fare altrettanto? Era attratta da Hugh, se avesse assecondato i suoi desideri fisici, gli si sarebbe concessa senza pensarci due volte, lo sapeva. E sapeva anche che i suoi modi di fare e il suo modo di corteggiarla la lusingavano e intenerivano, così come la sua malattia. Ma era sufficente questo, per un passo simile di cui si sarebbe pentita per tutta la vita?

Hugh si avvicinò ancora di più a lei. "Siete l'ultimo bagliore di vita e di luce che mi resta, lo sapete... Rendetemi felice... Almeno un bacio, solo uno...".

Un bacio? Sarebbe stato così grave concederglielo? In fondo non sarebbe stato nulla di che, lui sarebbe stato felice e lei forse avrebbe acquietato la sua anima e i suoi desideri... Un bacio, uno soltanto in una vita intera in cui era e sarebbe stata sempre e solo di Ross... Un attimo solo suo in cui assecondare un desiderio represso in un momento della sua vita dove c'era spazio per tutto fuorché per l'amore. Lo guardò negli occhi e non disse nulla perché non c'era bisogno di parole. Lasciò che Hugh la attirasse a se, chiuse gli occhi e lasciò che le loro labbra si incontrassero. Sussultò lievemente quando le loro bocche si toccarono, avvertendo un sapore diverso da quello di Ross, ma poi si rilassò, lasciando che il bacio diventasse più profondo e appassionato. Baciava in un modo diverso da quello a cui era abituata, più lento e delicato e non riusciva a capire se gli piacesse o se si sentisse un pesce fuor d'acqua.

Si sentì strana... Quando Ross la baciava, riusciva ad azzittire ogni pensiero e ogni tensione, era come fondersi con lui con quel semplice contatto. Con Hugh non era così, la sua mente rimaneva vigile e attiva e nonostante fosse piacevole, non avvertì quel senso di appartenenza che sentiva con suo marito.

Suo marito... Che lei non aveva tradito nemmeno quando pensava di aver perso per sempre, durante i tre lunghi anni che aveva trascorso lontana da lui a Londra...

E ora stava baciando un altro uomo, in una spiaggia isolata lontana dal mondo...

Sentì le mani di Hugh sprofondare nei suoi capelli, accarezzarli e giocare coi suoi riccioli, per poi scendere brevemente al suo collo, sfiorarlo e poi scendere ancora più giù al suo vestito. Si muoveva, la toccava senza smettere di baciarla e Demelza si sentiva bruciare. Ma non era passione, non solo. Era rabbia, impotenza, sopraffazione. Non era per Hugh e nemmeno per il bacio. Era lei che era sbagliata, era la situazione che era totalmente sfuggita al controllo della sua mente e la stava spingendo a fare qualcosa che non si sarebbe mai perdonata perché sapeva che, se non lo avesse fermato, non sarebbe stato solo un bacio... Stava concedendosi a Hugh perché cercava affetto e amore, ma stava sbagliando persona a cui chiederlo. E se ne rese conto solo in quel momento... Era da Ross che voleva quelle attenzioni, quella vicinanza, quell'amore e quei baci che le mancavano da morire. Erano le labbra e il corpo di Ross che lei conosceva meglio di se stessa e con cui si sentiva a proprio agio. Non le poesie, non l'amore perfetto e idealizzato di un uomo che la vedeva come una dea e che forse avrebbe smesso di prestarle attenzioni appena ottenuto quel che voleva. No! Non era questo che desiderava, lei voleva solo quel suo marito testardo e imperfetto, scavezzacollo ma dal cuore d'oro con cui rideva, scherzava, faceva l'amore e litigava e poi riamava senza riserva. Ross, che di certo non sapeva scrivere poemi e poesie e mai avrebbe imparato a farlo, ma che per lei si sarebbe buttato nel fuoco e avrebbe affrontato da solo interi eserciti per difenderla. Ross era la sua vita, la sua casa, la ragione della sua esistenza, il padre dei suoi figli e colui che l'aveva resa ciò che era, quel qualcosa che Hugh vedeva come la perfezione.

Improvvisamente Hugh allontanò le labbra dalle sue, la guardò in viso e dopo averle dato una carezza sulla guancia, fece scivolare le mani sulla sua schiena, prendendo a slacciarle i bottoni del vestito.

Si sentì mancare, quella situazione era assurda. Era stanca, disperata e in Hugh aveva trovato un buon amico e confidente... Ne era attratta fisicamente e intellettualmente, ma non poteva. Era vicinissima e un pericoloso punto di rottura, quasi pronta a spezzarsi, ma non poteva farlo, non poteva tradire Ross, i suoi figli e soprattutto se stessa. "No..." - disse, flebilmente. Era stanca, era vero. Ma in quel momento si rese conto che non importava, che anche lei sarebbe andata nel fuoco per ritrovare suo marito e riportarlo da lei e anche se era distrutta avrebbe trovato la forza per farlo senza cercare scappatoie. Era sempre stata forte, una guerriera. E ne era fiera! E non avrebbe permesso che l'errore e la debolezza di un momento le impedissero per sempre di guardare in faccia i suoi figli e suo marito.

"Demelza, vi prego... TI prego" – sussurrò Hugh, catturando ancora le sue labbra.

Ma fu solo un attimo perché stavolta trovò la forza di respingerlo per davvero. Non poteva funzionare, erano diversi, troppo. E lei amava suo marito, un amore vero e non un semplice esercizio stilistico di un rapporto idealizzato e che esisteva solo nella mente di quel giovane e romantico poeta. Non poteva distruggere il suo matrimonio e se stessa per un sentimento così effimero e vago, non voleva perdere coloro che erano la sua vera ragione di vita. "Ho detto di no, mi dispiace". Si voltò, nascondendo il viso fra le mani per fermare le lacrime che le sgorgavano dagli occhi. "Portatemi a casa, per favore". Si sentiva sporca, sbagliata e confusa. Le spiaceva far del male a Hugh ma ancor più le spiaceva avergli concesso quel piccolo spiraglio, quando invece si era ripromessa di non farlo. Certo, non era infallibile, lo sapeva, ma non avrebbe mai più permesso a nessuno di avvicinarsi tanto a lei. Doveva tornare a casa dai suoi bambini e da suo marito, era tutto quello che voleva. Basta gite del giovedì a cavallo, basta gite in barca e incontri segreti! Era sempre stata la fiera moglie di Ross Poldark e voleva tornare ad esserlo!

"Demelza". Hugh tentò ancora di avvicinarsi e di approcciarsi a lei, ma per la seconda volta fu respinto.

"Vi ho detto di riportarmi a casa".


...


Camminava sulla scogliera che costeggiava la spiaggia, sola e senza quasi il senso dell'orientamento. Era spersa e anche se conosceva quei luoghi a memoria, non avrebbe potuto giurare di riuscire a non perdersi. Avvertiva tutto come ovattato, attorno a lei...

Aveva salutato Hugh frettolosamente, con la mente assente e lontana, svuotata da ogni sentimento che l'aveva attratta di lui. Era sempre il giovane romantico e gentile che aveva conosciuto, ma quel bacio l'aveva come svegliata da un sonno letargico e pericoloso e ora sapeva cosa voleva e per chi doveva lottare. Con Hugh era un addio, lo sapevano entrambi senza dirselo, le dispiaceva ma non poteva fare altrimenti, erano altre le sue priorità, anche se gli augurava ogni bene e il miracolo di una guarigione. Ma era Ross il suo primo pensiero... Non importava quanto ci avrebbe messo, quante lacrime avrebbe ingoiato e quanta sofferenza avrebbe affrontato. Lei rivoleva suo marito e lo avrebbe riavuto!

Certo, ora si sentiva spersa e infinitamente stanca, bisognosa di staccare la spina da tutto e tutti, allontanarsi dalla Cornovaglia e ritrovare se stessa e la forza e la grinta che da sempre la contraddistinguevano. Ma non si sarebbe più persa, avrebbe ritrovato l'amore dall'unico uomo che desiderava.

Quando vide Nampara stagliarsi davanti a lei, nel riverbero del tramonto, gli occhi le si inondarono di lacrime al pensiero di quel tradimento che era stata tanto vicina a commettere...

Camminò velocemente verso l'ingresso, incespicò sui suoi passi, entrò come una furia rischiando di travolgere Jud che stava fumando la sua pipa. Udì i bambini che chiacchieravano con Prudie in cucina e non se la sentì di affrontarli, voleva solo raggiungere la sua camera, chiudercisi dentro e piangere finché non avesse avuto più lacrime.

Si nascose il viso stravolto fra le mani, corse verso le scale ma dovette fermarsi. Non poteva evitarlo, Ross era lì che usciva dalla biblioteca e lei non aveva il coraggio di guardarlo in viso, pensò con una nota di panico. Cercò di sorpassarlo, quasi lo travolse, ma lui la bloccò, prendendole il polso.

"Demelza?".

"Lasciami andare" – singhiozzò, non riusciendo a nascondere il suo pianto.

Ross la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo. "Cosa c'è? Stai piangendo! Non ti senti bene? Ti è successo qualcosa di male?".

C'erano preoccupazione e ansia nella sua voce e questo la intenerì. Era tanto che non si preoccupava per lei. "Sto bene, voglio solo andare in camera mia".

Ross scosse la testa. "Demelza, sei stata via tutto il giorno non so dove e torni in lacrime. Mi hai detto e intimato di farmi gli affari miei e io l'ho fatto, ma se torni a casa in questo stato, io voglio sapere che ti è successo".

"Oh Ross". Crollò poco onorevolmente fra le sue braccia, lo abbracciò come se fosse stata una bambina e pianse disperatamente col viso affondato nel suo petto. Pianse per il dolore, per le preoccupazioni, per la stanchezza e per tutto quello che l'aveva travolta nelle ultime settimane, pianse per il senso di colpa di aver ceduto a Hugh, anche se era stato solo un bacio, pianse per tutto. Pianse perché lo rivoleva indietro. Lui, suo marito, il padre dei suoi figli...

Ross non disse più nulla. La abbracciò forte però, in quel modo in cui spesso in passato l'aveva abbracciata quando aveva avuto bisogno di lui. Era strano come il cuore non dimenticasse mai certi gesti, pensò fugacemente.

Rimasero abbracciati a lungo in corridoio, mentre in cucina i bambini e Prudie continuavano a chiacchierare e a ridere, all'oscuro di tutto.

Demelza alzò il viso su di lui. Era bello, affascinante come sempre. Il suo uomo, l'unico che volesse... Doveva ritrovare le forze e anche se sapeva che Ross ne avrebbe sofferto, era consapevole di farlo anche per il suo bene. Doveva ritrovare le forze e tornare ad essere la vecchia Demelza e poteva farlo solo allontanandosi un po' da lì per cambiare aria. "Ho bisogno di partire per un po'. Prenderò i bambini e starò qualche settimana a Londra per lavorare".

Ross spalancò gli occhi e parve smarrito da quelle parole. "Londra? Partirai?".

"Sì, partirò, ne ho bisogno... Starò bene e starai bene anche tu quì, tranquillo e senza bambini che ti assillano".

"Loro non mi assillano" – provò ad argomentare lui.

Demelza scosse la testa. Le spiaceva, sapeva che anche lui era confuso, malato e terrorizzato da quel presente che li circondava, ma non poteva fare diversamente. "Ross, DEVO andare... Ti prego, non rendermi le cose difficili, non ce la faccio più...".

"E' per colpa mia?".

"No, sta tranquillo. Sono io a sentirmi inadeguata e inadatta, ora. Lasciami andare, starò di nuovo bene e poi tornerò da te".

Ross annuì, arrendendosi.

E Demelza sorrise. Sapeva che aveva capito e che riusciva a leggerle dentro ancora come una volta, che l'amnesia non aveva cancellato lo strano stato di simbiosi che da sempre li aveva uniti e che permetteva ad entrambi di leggere nel cuore dell'altro. Ross aveva capito che era a pezzi e pericolosamente vicina a spezzarsi e che se diceva che aveva bisogno di andarsene per un po', era vero... Sentì una fitta al cuore ricordando quando, ormai sette anni prima, aveva preso la medesima decisione e se n'era andata da Nampara verso Londra, sola con Jeremy e Garrick, sicura che Ross amasse un'altra e che il suo matrimonio fosse finito. Ma ora era diverso, lo sapeva, non stava partendo per non ritornare, stava partendo per ritrovare le forze per combattere per la sua famiglia e tornare più forte di prima.

Sarebbe partita, si sarebbe portata dietro i suoi bimbi che aveva trascurato a lungo nelle ultime settimane e li avrebbe ritrovati, avrebbe ritrovato il suo ruolo di madre e poi quello di moglie. E avrebbe ritrovato la forza per lottare per Ross.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Sette anni prima era stata una fuga, ora era il primo passo per un nuovo inizio.

La carrozza procedeva placidamente, nel chiarore rossastro del primo mattino, verso Londra, dopo aver lasciato poche ore prima Nampara avvolta dal silenzio e dal buio della notte.

Demelza aveva portato i bambini più piccoli ancora addormentati alla carrozza, in braccio, mentre Jeremy l'aveva aiutata coi bagagli e con Artù che Clowance aveva voluto portare assolutamente con loro.

Ross li aveva visti andare senza dire una parola ma il suo sguardo non tradiva più indifferenza, a dispetto dei giorni precedenti, ma una strana ansia e paura che però non aveva manifestato a parole.

Le spiaceva andarsene così, lasciarlo in un momento tanto difficile per lui e non l'avrebbe fatto se essa stessa non fosse nel bel mezzo di un momento ancora più difficile e pericoloso per la stabilità della loro famiglia. Se partiva, lo faceva anche e soprattutto per lui, per i loro figli e per l'amore che da sempre li aveva uniti. Erano state settimane complicate per lei, dove aveva rischiato di perdere non solo se stessa ma coloro che amava davvero, trascinata da stanchezza, solitudine e disperazione fra le braccia di un uomo gentile e dolce ma che la stava portando su una strada pericolosa che lei non voleva percorrere. Le spiaceva per Hugh e per la decisione di non rivedersi più perché l'attrazione provata per lui era reale ma non era la follia di un momento che lei voleva, tutto ciò che desiderava era l'amore che sarebbe durato una vita e le attenzioni e il calore che le aveva dato il giovane poeta non erano che un surrogato di ciò che aveva sempre avuto da Ross e che rivoleva indietro.

Saputo che partiva, Caroline aveva insistito per andare con loro e Dwight, forse capendo quanto avesse bisogno di cambiare aria dopo la morte di Sarah, le aveva chiesto di portarla con lei per riprendersi, mentre lui sarebbe rimasto a casa a leccarsi le ferite e a tenere d'occhio Ross.

Le spiaceva per la sua amica, la sua migliore amica, le spiaceva per quello che le era successo e anche per il fatto di non essere abbastanza in forze da esserle vicino come meritava.

Ora Caroline sonnecchiava chiusa in un mutismo che non le era mai appartenuto e persa in pensieri foschi e disperati che poteva ben immaginare, avvolta nella sua coperta, così come Bella e Clowance che dormivano rannicchiate sul sedile, abbracciate ad Artù che di tanto in tanto si svegliava e le leccava sulle guance.

Solo lei e Jeremy erano svegli. Suo figlio, a differenza di Clowance, non era stato felice della partenza per Londra e questo l'aveva stupita perché ci era sempre andato volentieri, ogni volta che erano partiti per lavoro. Stavolta invece aveva piantato un muso lungo un miglio e si era chiuso in un ostinato silenzio, come se fosse arrabbiato con lei. "Tesoro, cosa c'è?" - gli bisbigliò, sotto voce.

"Niente" – rispose il bimbo, guardando dal finestrino della carrozza.

Attenta a non fare rumore, Demelza si alzò, sedendosi vicino a lui e prendendolo sulle sue ginocchia. "Non è vero che non c'è niente, ti conosco".

Jeremy alzò le spalle. "Tanto anche se te lo dico, tu mi racconteresti una bugia e allora sto zitto".

A quelle parole piene di rabbia, Demelza si accigliò. Che diavolo stava dicendo? "Cosa intendi? Perché ti dovrei raccontare bugie?".

"Perché me ne hai dette tante, mamma".

"E quando lo avrei fatto?".

Jeremy la guardò negli occhi con sguardo di sfida e con una serietà capace di metterla in soggezione. Gli occhi di suo figlio erano scuri e profondi come quelli di Ross e sembravano perforarle l'anima. Non sapeva di cosa parlasse e a cosa si riferisse, ma aveva lo stesso paura di quella conversazione con lui. Parlava di Hugh? Si era accorto di qualcosa, nonostante le sue precauzioni nel vedere il poeta? O parlava di altro?

"E allora, Jeremy?".

"Perché siamo partiti senza papà?" - chiese il bimbo.

Si morse il labbro, indecisa su come rispondergli. Accanto a loro dormivano tutti profondamente e nessuno sembrava far caso a quella conversazione. "Siamo partiti perché io ho del lavoro da sbrigare a Londra. Non è la prima volta che ci veniamo, no?".

"Si, ma papà è sempre venuto con noi. Non siamo mai partiti da soli".

Demelza sospirò. Era vero, avrebbe dovuto mentirgli e le dispiaceva, ma era tutto troppo complicato da spiegare ad un bambino. "Papà non sta bene e rimanere a casa, tranquillo, è tutto ciò che gli serve per migliorare. Io lavorerò, voi vi godrete nonno Martin e nonna Diane e poi torneremo a casa da lui".

Jeremy la guardò storto. "Davvero torneremo a casa?".

"Certo!".

"E tu tornerai da papà?".

Demelza era confusa e non capiva appieno le paure e le ansie del figlio. E soprattutto, non capiva il senso di quel discorso. "Si, ovvio! Cosa dovrei fare?".

Il bambino sospirò, guardandola nuovamente negli occhi. "Magari lo lasci e vai a vivere con quel poeta che ti piace tanto".

Le parve che le si fermasse il cuore. La stava provocando? O Jeremy, per qualche strano motivo, aveva captato qualcosa? "Jeremy, no... Io non lascerei mai tuo padre e Hugh... Il poeta... E' solo un amico gentile che...".

"Ci uscivi di nascosto, lo so!" - la interruppe il bambino – "Me lo ha detto il mio amico Benjamin Carter che lo ha sentito dalla sua mamma. Ha detto che vai di nascosto a cavallo con lui, lontano, da sola".

Impallidì. Cosa poteva dirgli per giustificarsi e per tranquillizzarlo? Doveva aspettarsela una cosa del genere, che qualcuno notasse quelle cavalcate a due, ma stupidamente non ci aveva mai pensato. Cosa aveva fatto? Quanto male aveva rischiato di arrecare ai suoi bambini, con Hugh? Cosa sarebbe successo se non avesse avuto la forza di dire no? Decise di essere sincera e di spiegargli le cose con quanto più tatto possibile... Jeremy aveva nove anni e non era più così piccolo da essere condito via con due storielle. "E' vero, sono uscita spesso a cavallo con Hugh, ma non ho fatto niente di male, ho solo passato del tempo con un amico che mi faceva stare bene. Lo vedi anche tu quanto è difficile a casa, con papà malato, quanto sono stanca e disperata a volte... Hugh mi è stato amico e mi è stato un po' vicino, ma tutto finisce lì. Non lascerò papà per Hugh, non ci penso nemmeno e mai ci ho pensato".

Jeremy le scandagliò il viso con sguardo indagatore. "Davvero non lasceresti papà? Eppure lo hai fatto?".

"Quando?".

"Quando vivevamo a Londra e lui non c'era".

Ancora una volta, Jeremy la sorprese. Era incredibile come i bambini sapessero captare la realtà che gli veniva celata e quanto grande fosse la loro sensibilità. "Jeremy" – balbettò – "Papà non viveva con noi perché aveva tante cose da fare, te l'ho raccontato tante volte".

"Sì, ma non ci credo! Papà ci voleva bene, non sarebbe rimasto così tanto tempo lontano da noi".

D'istinto alzò la mano ad accarezzare i capelli del figlio. Cosa poteva fare se non raccontargli nuovamente la verità anche su quello? Lo avrebbe tranquillizzato? O ne avrebbe aumentato le preoccupazioni e i pensieri? Beh, indipendentemente da tutto non poteva più mentirgli e trattarlo come un bambino piccolo... "Hai ragione, quando vivevamo a Londra da soli, io, te e Clowance, papà non era con noi perché... perché...".

"Vi eravate lasciati" – concluse il bimbo, per lei.

Annuì. "Sì. Avevamo molti problemi allora e io me n'ero andata da Nampara con te, Garrick e Clowance nella pancia. E per tanto non ho saputo più niente di lui, finché per una serie di circonstanze non ci siamo rincontrati".

"Quali problemi avevate?" - chiese Jeremy.

Scosse la testa, questo non poteva spiegarglielo perché non avrebbe capito, era troppo piccolo ancora e soprattutto era un qualcosa fra lei e Ross di talmente intimo e personale che voleva rimanesse solo fra loro. Anche se suo marito, prima dell'incidente, una volta le aveva confidato che avrebbe voluto raccontare ai suoi figli, una volta cresciuti, i suoi errori e come erano riusciti a superarli insieme. Non era molto d'accordo su questa scelta di Ross, non la riteneva né utile né necessaria, ma ammirava il fatto che volesse apparire ai suoi figli come una persona imperfetta e non come un papà impeccabile come pensavano loro... "Jeremy, ci sono cose fra me e papà che sono solo nostre e che non credo sia giusto che tu sappia. A te deve bastare di sapere che insieme abbiamo superato tanti problemi e tante tempeste e che l'amore fra me e papà è cresciuto negli anni e che non potremmo mai lasciarci. Siamo a Londra perché ho bisogno di riposo e di riprendere un po' il fiato, ma torneremo a casa da lui più rilassati e più forti di prima. E lo aiuteremo a guarire. Il tuo papà, insieme a voi, è la persona più importante della mia vita, l'uomo che mi ha resa quel che sono e che amo con tutta me stessa e morirei senza di lui. Tu non hai idea di quanto sia difficile per me non averlo vicino come prima... Lotterò per riprendermi tuo padre, te lo giuro!". Gli accarezzò i capelli, baciandolo sulla fronte. "Volevi una risposta sincera e io te l'ho data, come è giusto fare con un ometto. Ora ti senti più tranquillo?".

Jeremy sorrise, finalmente. E poi la abbracciò talmente forte da soffocarla quasi. "Sì, ora sì. Ti voglio bene mamma e finché papà non guarisce, ci sono io con te".


...


Giunsero a Londra nel tardo pomeriggio, giusto in tempo per prendere parte alla cerimonia del te che i Devrille avevano organizzato per il loro arrivo.

Martin e Diane erano felici di riabbracciare i bambini che non rivedevano dall'estate precedente e, anche se erano preoccupati per le condizioni di Ross, erano assolutamente entusiasti di riaverli lì, tanto da organizzare una grande merenda piena di biscotti e dolciumi per loro.

Caroline, dopo aver bevuto il te e sbocconcellato un solo biscotto, si era ritirata nella sua camera adducendo un mal di testa, isolandosi da tutto e da tutti, compresi i bambini che lei aveva sempre adorato ma che ora sembrava voler allontanare da lei.

Demelza aveva insistito perché soggiornasse con lei e i figli a casa loro, non voleva saperla sola con la servitù nella sua villa e l'amica, dopo molte sue insistenze, aveva accettato. Demelza sapeva che ci voleva tempo, che la ferita di Caroline era profonda e dolorosa e avrebbe sempre tormentato il suo cuore, però contava di aiutarla ad uscire dallo stato di apatìa e spossatezza in cui era caduta dopo la morte di Sarah. Conosceva quel tipo di dolore che era anche suo da anni, ogni volta che il suo cuore tornava a ricordare Julia, e voleva aiutarla, non avrebbe permesso che affrontasse quel lutto così terribile da sola, isolandosi dalle persone che la amavano e allontanandosi da Dwight.

Dopo il te rientrò anche lei in casa sua coi bambini. Caroline dormiva, non c'era traccia del suo passaggio in casa e la servitù le aveva comunicato che si era chiusa in camera sua subito dopo il suo arrivo.

Prese i suoi figli e Artù che annusava incuriosito ogni cosa, dirigendosi verso la sua stanza in silenzio per non svegliare l'amica.

Bella e Jeremy sembravano un po' smarriti dal trovarsi lì senza Ross mentre Clowance era incredibilmente allegra, di un'allegria che non le vedeva addosso da molto.

La piccola saltò sul suo grande letto matrimoniale, eccitata di trovarsi a Londra. Aveva sempre adorato la capitale che per lei era l'ambiente ideale dove sfoggiare il suo comportamento un po' nobile e principesco, ma stavolta sembrava ancora più contenta.

"Che ti prende amore?" - le chiese, mentre Bella gattonava per la stanza seguita passo passo da Artù e Jeremy correva nella sua camera a sistemare i suoi vestiti.

"Mi piace qui!" - rispose la bimba.

"Non ti manca Nampara?".

Clowance alzò le spalle. "Qui è più bello, più grande e più elegante".

Demelza le si sedette vicino sul letto. Era preoccupata per Clowance e aveva la sensazione che tutta quella sua allegria derivasse dal fatto di essere lontana da Ross e da tutto quello che c'era stato di negativo fra di loro. "Ma Nampara è casa nostra ed è il mio posto preferito nel mondo. Qui ci veniamo per il mio lavoro, lo sai".

"Si, lo so. Ma spero ci rimarremo tanto".

Demelza si accigliò, pronta ad affrontare il secondo discorso importante della giornata. Era ora di intervenire in quella diatriba fra padre e figlia prima che fosse troppo tardi. "E papà? Come farà da solo, a Nampara?".

"Ci sono Prudie e Jud" – rispose subito a tono la bimba.

"Non ti manca papà?".

A quella domanda, l'allegria di Clowance sparì e lei tornò ad essere la bambina smarrita che era stata a Nampara negli ultimi mesi. "No" – disse infine, abbassando il capo.

"Non ti credo, tu adori papà".

"No, non è vero".

Demelza la abbracciò, stringendola forte a se. "Clowance, papà ti adora. E' malato adesso e ha bisogno di te, credimi, io lo so perché lo conosco".

Clowance scosse la testa a quelle parole. "No, non è vero, non ha bisogno di me. Anzi, sta benissimo quando sto lontana".

"Non è vero!". Non lo diceva solo per consolare sua figlia, lo diceva perché ne era convinta. Ross, il vero Ross, senza la sua principessa sarebbe morto. Aveva bisogno di lei e di ritrovare quella complicità profonda e quell'affetto disinteressato che da sempre li aveva uniti. "Clowance, sai qual'è il mio più grande orgoglio?".

La bimba alzò lo sguardo su di lei, incuriosita."Quale?".

Demelza sorrise dolcemente. "Aver dato ai miei figli un padre come lui, il miglior papà che esista al mondo. Sai, io non sono stata così fortunata da piccola... Il mio papà... vostro nonno... non era buono con me".

"Perché?".

"Non giocava con me, non mi consolava, non mi prendeva in braccio e tutto quello che ho imparato, l'ho imparato da sola, lui beveva e basta e poi mi picchiava con la cinghia sulla schiena. Quando ho conosciuto il vostro papà, ero piena di cicatrici a causa delle sue botte".

Clowance spalancò gli occhi inorridita. "Ti picchiava? A te?".

Demelza annuì, ricordando la miseria che era stata la sua infanzia e come Ross non solo l'avesse salvata da botte e miseria, ma di come le avesse fatto conoscere il vero amore, la tenerezza e la dolcezza dello stare insieme, tutte cose che le erano sconosciute o che appartenevano a ricordi confusi di momenti lontani in cui era ancora viva sua madre. Non avrebbe mai voluto nessun altro uomo come padre dei suoi figli, lui era unico e speciale, dolce, interessato a loro e attento ad ogni cosa che riguardasse le loro vite. "Si, vostro nonno mi picchiava e io ero sola e spaventata. E il vostro papà mi ha insegnato che esiste un mondo senza botte, mi ha insegnato che si puo' amare senza alzare le mani e che volersi bene è una cosa bellissima". La strinse a se, sentendola tremare alle sue parole. "Clowance, il bene vero, il VERO amore per una persona lo si dimostra nei momenti difficili. Troppo facile farlo quando va tutto bene, è ora che devi dimostrare a papà quanto lo ami e quanto tieni a lui. Lo dobbiamo fare tutti, ha bisogno di noi perché siamo la sua famiglia e ci ama davvero".

La piccola scosse la testa, piangendo silenziosamente lacrime che le rigavano il viso. "Ma lui non mi vuole. Non mi vuole più".

Demelza la abbracciò. Il cuore di Clowance era spezzato e si chiese se esistesse una medicina in grado di curarlo e di farlo tornare come prima.

Forse quella medicina esisteva, pensò. Ma non erano le sue parole quelle di cui Clowance aveva bisogno, l'unica medicina per guarirla era nelle mani di Ross e solo lui avrebbe potuto usarla, quando si fosse sentito pronto.



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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


"Partirò e starò via per qualche settimana. Ho degli affari da sbrigare a Londra e porterò con me i bambini per lasciarti tranquillo".

Era bastata questa semplice frase a gettarlo nel panico e nello sconforto e non capiva il perché...

Ross si aggirava per la casa deserta, rimuginando su se stesso e sui suoi sentimenti tanto confusi e contradditori da stordirlo. Erano partiti, tutti, da tre giorni e ancora non si era abituato alla loro assenza.

Jud e Prudie lo servivano come meglio potevano, anche se non gli sembravano granché come lavoranti, ma per la maggior parte del tempo era solo. Non c'erano il vociare allegro dei bambini, le urla e le risate di Bella o il tono dolce della voce di Demelza a ravvivare la casa. C'era silenzio... E gli metteva angoscia.

Ma non era questo a metterlo così tanto in agitazione e in soggezione...

No...

Era il fatto che lei fosse partita e il fatto che la sua destinazione fosse Londra... Perché era tanto terrorizzato per questa cosa? Che cosa c'era di male in un viaggio di lavoro di sua moglie nella capitale? Era una cosa che, gli avevano spiegato, Demelza faceva spesso. Era una donna importante a Londra, gestiva giri d'affari immensi e spesso era partita per motivi di lavoro. O almeno, così gli era stato spiegato sia da lei che dai due servi.

Eppure, che LEI fosse a Londra lo terrorizzava. Perché?

Si era risvegliato in quella casa sconosciuta mesi prima, senza memoria né di se stesso né del suo passato. Si sentiva come un libro bianco su cui doveva essere scritta nuovamente una storia, in balìa degli eventi e costretto a fidarsi di persone che non conosceva ma che erano la sua famiglia.

Aveva trovato una donna bellissima dai lunghi capelli rossi che lo affascinava e lo lasciava senza fiato, una donna che aveva sposato in quel suo passato tanto oscuro e di cui non serbava ricordi e con cui aveva sempre avuto un matrimonio felice e appassionato. O almeno, così gli aveva raccontato Demelza.

E poi c'erano i tre bambini che gli erano stati presentati come suoi figli: Jeremy, dolce sensibile e giudizioso come la madre, la piccola ribelle Clowance, dai capelli rossi come Demelza, con cui non riusciva a legare e a capirsi e infine Bella, un folletto dai capelli neri e ricci come i suoi che gattonava incessantemente per tutta la casa col sorriso perennamente sulle labbra, seguita passo passo dal cucciolo di famiglia che non la lasciava un attimo.

Erano la sua famiglia e nessuno avrebbe potuto negare che erano una bella famiglia, sicuramente invidiata e ammirata. Una famiglia perfetta e armoniosa in passato, composta da una donna bellissima e da tre meravigliosi bambini, una famiglia che lui stesso aveva costruito e di cui cercava costantemente frammenti di quel passato tanto felice che aveva scordato a causa dell'incidente in quella che, sempre a detta degli altri, era la sua miniera.

La sua vita e i suoi ricordi passati li rivedeva attraverso di loro e attraverso i loro racconti... Era come se la sua persona fosse raccontata da altri e lui fosse uno spettatore inerme di un passato che gli apparteneva ma che non riusciva ad afferrare. Era come non essere più una persona ma un oggetto costruito attraverso i ricordi altrui ed era una sensazione orribile che non riusciva a gestire e che lo spingeva ad isolarsi da tutto e tutti.

Ross si guardò allo specchio, confuso e con un gran mal di testa. Si fissò intensamente, cercando di imprimersi in testa le sue fattezze. Chi era lui? Cosa faceva prima dell'incidente? Quali erano state le sue passioni e i suoi interessi? Cosa faceva con la sua famiglia, cosa aveva reso il suo matrimonio tanto speciale? Perché non riusciva più a capire Clowance che, a detta di sua moglie, era la sua pupilla e che invece ora aveva fatto scappare di casa, tanto da decidere di prendere le distanze da lei per evitare altri incidenti? Quanto aveva amato quelle persone? Com'era con Demelza nell'intimità, cosa provava quando la baciava o quando faceva l'amore con lei?

Si toccò la tempia che pulsava dolorosamente. Voleva guarire e voleva ricordare! Voleva tornare ad essere l'uomo che era stato, il Ross Poldark fiero e scavezzacollo di cui tutti gli parlavano, voleva tornare a provare sentimenti veri per le persone che aveva accanto e non voleva più sentirsi l'involucro vuoto che era diventato dal suo risveglio dall'incidente.

Sapeva di essere stato un peso e un pessimo elemento, dal giorno del crollo alla miniera. Aveva vagato per quella casa per mesi senza uno scopo preciso, osservando senza quasi mai intervenire, se non con scarsi risultati, la gestione della vita famigliare, studiando le persone che vivevano accanto a lui, cercando di capire chi fossero ma di fatto senza sforzarsi di conoscerle veramente.

Eppure, anche senza ricordi, sorpattutto accanto a Demelza, riaffioravano di tanto in tanto sensazioni forti che lo stordivano. Era affascinato da lei, dalla sua bellezza, dalla sua dolcezza e dalla sua incredibile forza e non faticava a credere di averla amata furiosamente. Era un'attrazione fisica fortissima che sentiva per lei, unita a una sorta di rispetto profondo che gli aveva impedito di possederla intimamente quando ne aveva avuto l'occasione. La desiderava ma i sentimenti che provava per lei erano ancora molto confusi e per impostazione di carattere non se l'era sentita di farci l'amore per soddisfare un semplice bisogno fisico. Eppure, da quel giorno, aveva provato nostalgia nel non averla accanto alla notte, era stato geloso di quell'uomo che la corteggiava davanti ai suoi occhi senza ritegno, aveva sofferto nel vederla uscire da sola per delle passeggiate a cavallo dove non era gradito e che sospettava fossero in compagnia di quel dannato poeta che gli aveva fatto saltare i gangheri e che, gli avevano detto, aveva salvato durante la guerra in Francia. E ora si sentiva sperso senza di lei. Era la luce di quella casa, la SUA luce. Era strano, ma quando pensava a lei era questo che gli veniva in mente, la luce... E ora era a Londra... Londra! Era partita stanca, sfinita. Era da settimane che non la vedeva più ridere nemmeno coi loro figli, sempre tirata e sempre nervosa, sempre pronta a scattare per un nonnulla, lontana e sfuggente soprattutto con lui.

Ed ora era lontana, davvero. Londra... Di nuovo, pensare a quella città gli contorse lo stomaco.

Perché il fatto che lei fosse lì lo terrorizzava così tanto?

C'era qualcosa, lo sentiva, lo sapeva! Qualcosa che gli sfuggiva e che gli era stato celato e che riguardava Demelza e quella città. Ma cosa?

Aveva sempre avuto la sensazione che i racconti circa il suo matrimonio fossero molto edulcorati e probabilmente Demelza gli aveva raccontato solo cose belle di loro per non turbarlo e perché lo riteneva troppo fragile a causa dell'incidente. Era difficile pensare a un matrimonio tanto idilliaco come quello che lei gli aveva raccontato, dove non c'erano mai state tensioni o liti... Sicuramente il loro era un grande amore ma altrettanto sicuramente avevano avuto alti e bassi come tutti.

D'istinto, guidato da quei pensieri, salì le scale fino a giungere a quella che era stata la sua camera matrimoniale. Era da settimane che non ci andava, da quando aveva deciso di dormire separato da Demelza.

Quella stanza doveva essere stato il loro mondo, il loro luogo magico dove si erano amati, dove avevano riso e scherzato insieme, dove avevano concepito i loro figli e dove lei li aveva messi al mondo. Doveva essere piena di ricordi per lui, prima dell'incidente. E forse, rovistando in armadi e scaffali, avrebbe trovato un appiglio per ricordare chi era e ciò che lo legava a Demelza.

Era strano, per la prima volta si sentiva spinto a cercare e non era soffocato dall'apatìa. Lo faceva per se stesso, certo. Ma, si rese conto, soprattutto lo voleva fare per lei. Voleva ritrovare ciò che erano perché si sentiva che era importante e che aveva oziato fin troppo, lasciando che la situazione gli sfuggisse di mano e logorasse il rapporto con sua moglie.

Entrò nella stanza, trovando tutto in ordine e pulito. Si sedette sul letto, accarezzò le coperte ed i cuscini, si guardò attorno alla ricerca di chissà cosa. Era una stanza modesta, niente di troppo elegante o ricercato, ma aveva in sé qualcosa di dolce, famigliare e rassicurante. Era stato felice fra quelle quattro pareti, se lo sentiva. Si chiese come si fosse sentito quando erano nati i suoi figli o la prima volta che lui e Demelza si erano amati e si sentì stupido a non aver mai voluto chiedere niente a sua moglie. L'aveva trascurata e allontanata, si era chiuso in se stesso senza riuscire più a vedere quanto lei soffrisse e solo ora che Demelza non c'era si stava rendendo conto di quanto fosse fragile e stanca.

Aveva pianto fra le sue braccia pochi giorni prima, per chissà quale motivo che non gli aveva voluto rivelare. L'aveva stretta a se, sentendola tremare, aveva toccato quei suoi lunghi capelli rossi che lo inebriavano e aveva lasciato che si sfogasse in silenzio, senza forzarla a dire cose che evidentemente non voleva raccontare ma che la facevano stare male, sperando dentro di se che la causa non fosse qualcosa di troppo grave.

Si alzò dal letto, aprendo i cassetti dell'armadio. Gli abiti di Demelza erano piegati ordinatamente, profumavano di sapone e tutto era piegato con cura e attenzione. Aveva abiti modesti, ma sapeva anche che ne aveva di più eleganti nell'armadio a parete, abiti che probabilmente usava quando partiva per lavoro verso Londra.

Aprì gli altri cassetti, trovando anche i suoi abiti. Anche quelli erano piegati in ordine e messi via con cura e questo lo fece sorridere. Era davvero uno stupido a non notare quanto lei facesse per lui per farlo stare bene...

Rovistò, trovando sul fondo del cassetto alcune mappe della miniera piegate, dei piccoli pezzi di rame e delle scartoffie legali che probabilmente riguardavano vecchi affari conclusi. Poi, con suo sommo stupore, fra le sue cose trovò un nastrino per capelli da bambina perfettamente piegato e legato con un filo di seta. Lo osservò, chiedendosi che cosa ci facesse lì. Probabilmente era finito fra le sue cose per sbaglio, pensò, e apparteneva a Clowance. Lo osservò accarezzandolo, sentendo una fitta al cuore.

Era davvero fra le sue cose per sbaglio? O aveva qualche significato particolare per lui? Pensò a Clowance, a quanto gli risultasse difficile avere a che fare con lei e ai racconti di Demelza su quello che era stato il loro rapporto prima dell'incidente. Era una bambina difficile, complicata e viziata, eppure era stata la sua prediletta. Perché? E perché quel nastrino sembrava raccontargli una storia che sfuggiva alla sua mente?

Scosse la testa, rimettendolo al suo posto. Poi continuò a rovistare fra le carte sul fondo del cassetto, finché non venne catturato da un foglio anonimo e piegato in maniera frettolosa, messo sotto tutti gli altri documenti. La carta sembrava spiegazzata e logora, come se fosse stato letto e riletto molte volte. Incuriosito lo prese e lo lesse... E dopo poche righe si accorse che no, c'era un lato del suo matrimonio non certo idilliaco e che Demelza doveva avergli nascosto molte cose. Sentì come il cuore fermarsi e perdere qualche colpo, mentre leggeva quella lettera che in un passato a lui imprecisato Demelza doveva avergli scritto.


"Ross, ti scrivo questa lettera per informarti che sto partendo con Jeremy. Non ha importanza né dove andrò, né quello che farò ma ti rassicuro che farò di tutto perché nostro figlio stia bene, su questo puoi dormire sonni tranquilli. Sono la figlia di un minatore dopo tutto, una donna del popolo. E le donne del popolo sanno cavarsela anche senza avere un uomo accanto, sanno lavorare ed arrangiarsi da sole. Le donne del popolo non hanno bisogno né di aiuto né di attenzioni, come giustamente avevi detto ad Elizabeth durante una vostra vecchia conversazione che avevo ascoltato per errore, a Trenwith.

Non cercarmi, sarebbe una inutile perdita di tempo perché non tornerò. Non hai responsabilità verso di me, sentiti libero di vivere come vuoi, accanto alla donna che hai sempre desiderato. In fondo ho sempre saputo che sarebbe successo, che era lei che volevi, che ero solo una seconda scelta. Non è una bella sensazione vedere, giorno dopo giorno, che l'uomo che ami non ti considera abbastanza per lui. E non voglio che mio figlio provi quello che provo io crescendo, vedendo suo padre che sogna una vita e una famiglia altrove. Lo so, l'ho sempre saputo che era Elizabeth che volevi, che né io, né Julia, né Jeremy saremmo mai stati alla sua altezza, che quella perfetta per te era lei. Non me ne vado per il tradimento di una notte ma per tutti quelli avvenuti prima, ogni volta che diventavamo invisibili e tu correvi da lei, senza curarti del fatto che ne potessimo soffrire. Mi hai tradita in mille modi Ross e forse l'ultimo non è nemmeno stato il peggiore.

Ora non avrai più bisogno di accampare scuse, ora potrai vivere con lei alla luce del sole. Tu ed Elizabeth.

Il vostro amore supererà ogni ostacolo, come non è riuscito a fare il nostro. Siete perfetti e fatti per stare insieme, come le avevi detto sempre in quella famosa conversazione che ho sentito, mio malgrado.

Ora potrete farlo, potrete vivere il vostro amore, mi faccio da parte e me ne vado. Ti auguro di essere felice con lei, sul serio. L'unica cosa che ti chiedo, per me e per Jeremy, è di non cercarci più. Vivi la tua vita e permetti a noi di vivere la nostra, serenamente, senza sentire il peso del confronto con altre persone. Non sentirti in obbligo, mai, non ne abbiamo bisogno.

Demelza


Si sentì cedere le gambe. Che significava? CHE SIGNIFICAVA? Cosa aveva fatto, cosa le aveva fatto soffrire? E perché aveva tenuto quella lettera tanto terribile e tanto piena di dolore? Per fare ammenda? Per ricordarsi per sempre dei suoi errori?

Si sentì la testa girargli, si sentì in colpa per quel qualcosa che non ricordava ma di cui quella lettera era stata testimone. Che uomo era stato davvero, lui? Le parole di Demelza, messe nero su bianco, erano eloquenti... Era stato un marito che aveva tradito, che aveva trascurato la moglie e suo figlio e che aveva avuto un'amante per la quale aveva messo da parte la sua famiglia. Cosa significava quella lettera? Demelza aveva avuto intenzione di andarsene e lasciarlo? E poi che era successo? Aveva cambiato idea ed era rimasta?

Scosse la testa, sedendosi di nuovo sul letto. Aveva tradito... Aveva tradito LEI, quella donna che vedeva come la sua luce e che lo affascinava in ogni cosa che faceva. Come aveva potuto?

E chi era Elizabeth? Che fine aveva fatto? Non gli sembrava che nessuno l'avesse mai nominata in sua presenza...

Rilesse la lettera e più la leggeva, meno ci capiva. Eccetto che le cose che gli aveva raccontato Demelza su loro due erano solo finzioni probabilmente dette nel tentativo di non turbarlo, viste le sue condizioni. Non era vero niente! Non erano stati una coppia felice, non era stato un matrimonio sereno il loro...

Lui le aveva fatto del male, tanto male da spingerla ad andarsene di casa. Rilesse ancora, intuendo che quella lettera probabilmente risaliva a prima della nascita di Clowance, visto che la bimba non era nemmeno citata nello scritto e che Demelza parlava solo di Jeremy. E Julia.

Chi era Julia? Sentì la testa dolergli ancora più forte davanti a quei nomi...

Elizabeth, Julia... Tradimento...

Che uomo pessimo era stato? Quanto dolore aveva portato Demelza sulle sue spalle a causa sua?

Crollò sul cuscino, rimanendo per ore a fissare il soffitto senza pensieri e senza forze, con la lettera fra le mani.

Improvvisamente però, dopo quel lungo silenzio, la porta si aprì.

"Giuda! Signore, mi stavo preoccupando, non vedendovi! E' ora di cena!" - tuonò Prudie, entrando nella stanza come una furia.

Ross si alzò, guardandola con gli occhi che sentiva arrossati. "Prudie, da quanto lavori qui?".

La domestica si accigliò, asciugandosi il sudore dalla fronte. "Da quando eravate poco più che un poppante che succhiava il latte dal seno della madre".

"Quindi, hai assistito a tutta la storia fra me e Demelza?".

"Altro che! L'ho cresciuta io, quella ragazzina! Io e Jud l'abbiamo resa la donna di cui poi vi siete innamorato" – rispose, con un pizzico di orgoglio nel tono di voce.

Ross la guardò storto, faticando molto a crederle. "Beh... Ecco, questo non è importante ma è un'altra la cosa che dovrei chiederti".

"Cosa?".

Ross la guardò negli occhi, serio. "Chi sono Elizabeth e Julia?".

All'udire quei nomi, Prudie spalancò gli occhi con terrore, indietreggiando. E Ross capì di aver aperto un capitolo rovente della sua vita. "E allora?" - insistette, mostrandogli la lettera di Demelza.

Prudie scosse la testa. "Queste sono cose che dovete chiedere a vostra moglie. Solo lei conosce il modo giusto per rispondervi" – disse, sparendo dietro l'uscio.




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Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


Erano stati giorni frenetici e veloci, quelli trascorsi a Londra. Demelza aveva corso da un lato all’altro della città per presenziare a riunioni e assemblee, portare avanti i suoi affari e tenere la contabilità della sua locanda.

I Devrille si erano prestati più che volentieri a tenerle i bambini e lei aveva potuto portare a termine una mole enorme di lavoro arretrato. Era stanca fisicamente, ma tutto questo correre senza mai fermarsi le permetteva di non pensare a nulla. Sapeva di sfuggire ai problemi, all’angoscia e al dolore, ma non si sentiva abbastanza forte per sfogarsi, guardarsi dentro e combattere i demoni che le avvelenavano la vita. C’era tanto a cui pensare, lo sapeva… Un matrimonio in bilico dovuto a una malattia che forse non si sarebbe mai risolta e che la avrebbe privata per sempre di un marito e del padre dei suoi figli, il suo momento di debolezza con Hugh che l’aveva quasi portata a tradire essa stessa… Era tutto così difficile e tumultuoso e si sentiva come una barca spersa in mezzo al mare in tempesta. E ora Ross, il suo porto sicuro, non c’era più ad attenderla, confortarla e sorreggerla, era sola con tre bimbi ancora piccoli e un futuro terribilmente incerto.

E in più, era preoccupata per Caroline. La sua amica, a Londra, si era isolata dal mondo e passava le giornate rintanata nella sua stanza a crogiolarsi nel dolore che Demelza sapeva essere lancinante ma che Caroline doveva trovare la forza di combattere. Per se stessa e per Dwight, per il suo matrimonio e per il grande amore che li univa. La morte di una figlia poteva distruggere un matrimonio e lei lo sapeva bene. E per questo doveva fare in modo di darle la spinta per ripartire, con Sarah sempre nel cuore. Sapeva che Caroline poteva farcela, che era forte, intelligente, sagace e piena di risorse. Doveva solo aiutarla a ritrovare tutto ciò in se stessa.

Piombò in camera sua che era pomeriggio inoltrato. Fuori c’era ancora il sole e la primavera avanzata regalava un tiepido tepore all’aria, le gemme delle piante si stavano schiudendo e tutto richiamava a nuova vita che nasceva. Si era liberata di tutti i suoi impegni della giornata, aveva chiesto a Martin e Diane di tenerle i bambini per la notte e aveva deciso che era ora di aiutare anche Caroline. Visto che non era di nessun aiuto a se stessa, essendoci passata sperava di poter essere utile almeno a lei. “Stasera usciamo!” – esclamò entrando nella stanza dove Caroline dormicchiava sul letto, tutta raggomitolata su se stessa.

La donna spalancò gli occhi, si sollevò e i suoi lunghi capelli biondi le ricaddero disordinati e spettinati sulle spalle. “Usciamo? Per andare dove?” – chiese, guardandola come se fosse stata pazza.

Demelza alzò le spalle, ricordando le osterie di quart’ordine che suo padre frequentava quando era bambina. “Non lo so, in una birreria, in una locanda, in qualsiasi posto dove ci sia divertimento”.

Caroline si ributtò sul letto. “Tu sei pazza!”.

"E tu depressa!" - sbottò Demelza. Si sedette sul letto accanto a lei, accarezzandole i capelli. "So cosa provi, ci sono passata tanto tempo fa e non voglio che sprofondi nel buio perché poi rischieresti di perdere di vista chi è rimasto e ti ama davvero. Dwight ha bisogno di te e Sarah non vorrebbe mai vedervi separati".

"Sarah è morta" – rispose Caroline, con una freddezza nel tono di voce che non le era mai appartenuta.

Demelza annuì, accarezzandole la mano. "Ma resti e resterai sempre la sua mamma. Comportati come se fosse qui e ti guardasse, fiera della madre che ha".

Caroline la guardò storto. "E sarebbe fiera di sapermi in giro per locali di notte?".

Demelza rise. "Per una volta possiamo anche permettercelo, lasciarci per qualche ora tutto alle spalle e non pensare a niente".

"Demelza, sei una donna sposata e sei madre di tre bambini!".

A quell'affermazione, si morse il labbro. Uscire a bere un bicchiere di vino o una birra non sarebbe stato poi così scandaloso, almeno non paragonato a quello che aveva condiviso con Hugh. Cosa avrebbe pensato Caroline di lei, se glielo avesse raccontato? L'avrebbe scandalizzata? L'avrebbe biasimata o rimproverata? Era la sua migliore amica e avrebbe davvero voluto parlarle di quanto successo con Hugh Armitage, però temeva le sue reazioni e soprattutto temeva di perdere la sua stima. Era stata pessima, si sentiva una moglie e una madre orribile per aver permesso a quel giovane uomo di avvicinarsi tanto a lei, per averlo desiderato, per averlo baciato... "Dai, usciamo" – la implorò, rendendosi conto che ne aveva bisogno anche lei, forse più di Caroline.

La ragazza sospirò, forse capendo il suo stato d'animo come aveva fatto molte volte in passato, del resto. "Usciamo! Ma torneremo presto e sappi che ti sto odiando per questo!".

Demelza le sorrise. "Credo di meritarmelo...".

"Assolutamente sì!" - rispose Caroline con sguardo truce.


...


Si erano messe degli abiti eleganti dal corpetto attillato e con una scollatura più pronunciata del solito, anche se non volgare, Demelza vestita di verde e Caroline di blu, avevano passato una serata a chiacchierare davanti ad infiniti bicchieri di Porto in una locanda del centro frequentata da uomini d'affari e magistrati, avevano riso come ragazzine, trascinate dai fumi dell'alcol, affogando in esso dolori e dispiaceri, avevano danzato fino allo sfinimento accompagnate dal suono dei violini e delle fisarmoniche e chiacchierato di mille cose con perfetti sconosciuti.

Demelza si sentiva strana, brilla o forse del tutto ubriaca. Spesso le avevano detto che il vino tira fuori le verità più nascoste ma stranamente né lei né Caroline avevano aperto capitoli dolorosi di se stesse e si limitavano a parlare di perfette sciocchezze, come se avessero avuto dieci anni e nessun problema al mondo.

Gli altri uomini le guardavano chi con curiosità, chi con avidità e chi con malcelato disprezzo. Erano le uniche donne della locanda, erano incuranti di esserlo e parevano perfettamente a loro agio pur non avendo un uomo accanto.

Uscirono dopo la mezzanotte, passeggiando a braccetto in una Londra buia e deserta, costeggiando il Tamigi che scorreva placido nel suo letto.

"Sai che non ti ho mai vista ridere così?" - le chiese Caroline, forse più ubriaca di lei.

"Merito del Porto!".

"Se lo sapesse Ross... Se lo sapesse Dwight..."

Demelza scoppiò a ridere. "Ah, magari lo sapessero e venissero qui a rimproverarci per questa serata da pessime mogli".

Caroline ammiccò, appoggiandosi alla staccionata che delimitava il fiume. "Tu una pessima moglie? Sei l'emblema della perfezione...".

Demelza scosse la testa, sedendosi sulla staccionata, accanto a lei. "No, non sono perfetta, anzi... Ultimamente sono stata davvero una moglie orribile".

Lo aveva detto in tono forzatamente scherzoso, ma Caroline la guardò con sguardo indagatore e incuriosito. "E che avresti fatto? Non ho mai visto una donna con la tua forza d'animo nel seguire un marito con tutti i problemi di Ross. Hai sempre energie, arrivi a tutto e non ti arrendi mai. E lo ami da morire, siete appassionati come se foste sposati da un mese".

A quelle parole, il sorriso morì sul viso di Demelza. Magari fosse stata davvero così, magari avesse avuto un comportamento tanto perfetto... "Non mi sento così forte come dici tu e... e...".

"Cosa?".

Demelza inspirò profondamente, cercando il coraggio per confessargli quel peso che sentiva sul cuore e che doveva scaricare per non scoppiare e non arrivare a detestarsi. "Sono andata molto vicina dal tradire Ross".

L'aria festaiola e gioviale che aveva accompagnato la serata, sparì all'istante. Caroline spalancò gli occhi e le si parò davanti, prendendola per le spalle. "Cosa? Con chi? Come?".

Abbassò lo sguardo, vergognandosi come una ladra. "Lo conosci anche tu... Hugh Armitage... L'ho incontrato quando sono venuta da voi per...". Si bloccò, timorosa di pronunciare il nome della figlia della sua amica.

Ma Caroline capì lo stesso... "Sarah? Hai conosciuto Hugh quando sei venuta da noi il giorno in cui è morta?".

"Sì. E non so, è scattato qualcosa ed ero così felice quando mi ha detto che sarebbe venuto a Nampara per fare visita a Ross. Mi piaceva, ero attratta da lui e dai suoi modi gentili, da come mi vedeva e corteggiava, dalle poesie che mi scriveva... Sono uscita da sola spesso, a cavallo, con lui... E in una di queste volte ho permesso che si avvicinasse tanto a me da baciarmi... E Dio solo sa dove abbia trovato la forza di respingerlo e non andare oltre perché dannazione, io lo desideravo!".

Caroline la scrutò in viso. "E ti senti in colpa per questo? Solo per questo ti senti pessima?".

"Caroline" – sbottò – "Hai capito cosa ho detto?".

"Si, ho capito! Hai detto che hai ceduto alle attenzioni di un uomo gentile che ti faceva star bene. E sai una cosa? Noi esseri umani è questo che cerchiamo, star bene!".

Demelza la guardava senza capire cosa stesse blaterando, quasi sicura che fosse irrimediabilmente ubriaca. "Vorresti dire che dovrei tradire Ross?".

Caroline sorrise dolcemente. "No, sciocchina! Sto dicendo che hai attraversato l'inferno e che sei umana, capita di cadere, incespicare e perdere la strada. Succede quando si è vulnerabili, si cerca il modo di stare meglio. Non sei pessima, sei solo fatta di carne e ossa come tutti e dovresti iniziare tu stessa a non sentirti sempre indistruttubile. Chiedi aiuto quando non ce la fai oppure capiterà ancora che arrivi uno dal bel faccino dolce come Hugh che cercherà di attirarti a se. Sei bellissima Demelza, il sogno di ogni uomo... Ma ami Ross e di questo non devi dubitare mai".

"L'ho quasi tradito, Ross" – obiettò Demelza, colpita dalle sue parole.

Caroline le diede un pizzicotto sulla guacia. "Ma non l'hai fatto e sei tornata da lui, giusto?".

Sorrise, non riuscì a farne a meno. "Si, son tornata da lui perché è lui che voglio. Ross e nessun altro! Lo rivoglio".

"E lo riavrai!".

"Come fai ad esserne certa?".

"Perché Ross non ti lascerebbe mai da sola. Testardo com'è, troverà la strada per tornare da te. E quando lo farà, ricordati di piangere se vorrai farlo. E fa in modo che veda la tua stanchezza e il tuo dolore e se ne prenda cura. Urla e chiedi aiuto quando ti serve, non fare l'eroina perché poi saresti tu quella che si spezza e che gli altri giudicheranno per una singola colpa in un'intera vita esemplare. Ross ti ama, Ross si preoccupa per te. Parlagli, quando potrai farlo e lui saprà ascoltarti".

Quelle parole le scaldarono il cuore. Caroline sapeva sempre cosa dirle per farla sentire bene, come darle coraggio e forza e come farle vedere le cose che la angosciavano da altre angolazioni. Ed era ormai come una sorella per lei. "Grazie" sussurrò commossa, abbracciandola.

"Grazie a te della serata" – rispose Caroline di rimando. "Avevo bisogno di uscire".

Demelza la abbracciò ancora. "Devi essere forte anche tu però, lei non tornerà anche se passassi la vita a letto a piangerla. Vivi per chi è rimasto e per te stessa...".

Gli occhi di Caroline si inumidirono. "Nemmeno la volevo all'inizio, Sarah... E poi quando le ho voluto bene, se n'è andata".

Demelza sospirò perché sapeva bene cosa si fosse agitato nel cuore di Caroline, quando era rimasta incinta di Sarah. La sua amica era molto simile a Ross e al modo in cui si era sentito quando era rimasta incinta di Jeremy: in trappola. Era così che l'aveva vissuta all'inizio, Caroline, anche se i motivi erano molto diversi da quelli che avevano mosso Ross. Ma entrambi avevano paura a donarsi a qualcun altro per non soffrire, paura d'amare e Caroline di perdere la sua indipendenza. Ma poi l'amore materno era scoppiato, com'era giusto che fosse... E perdere Sarah era stato devastante. "Lo supererai, ne sono sicura".

"Non voglio dimenticarla e sostituirla con un altro figlio!".

Demelza la abbracciò. "Caroline, né Jeremy, né Clowance, né Bella hanno sostituito Julia. Hanno scaldato il nostro cuore e alleviato il dolore della sua perdita, ma Julia sarà sempre Julia, la nostra prima bambina. E spesso mi fermo a chiedermi come sarebbe stata. Sai, ora avrebbe dodici anni e sono sicura che sarebbe in gamba e bellissima e che Ross sarebbe follemente geloso di lei".

Caroline si accarezzò il ventre, un gesto veloce e quasi impercettibile. "Quindi... non è fare un torto a Sarah, averne altri secondo te?".

Demelza si accigliò, la guardò in viso e poi le osservò il ventre. "Caroline...?".

"Si Demelza...".

Per un attimo si sentì lucida, l'ubriachezza passò e fu semplicemente felice. La abbracciò di nuovo, forte. "Sei incinta?".

Caroline annuì, sospirando. "Incinta, ubriaca e depressa. Che cosa seccante".

"E' una cosa bellissima!" - urlò quasi Demelza, eccitata come se quella in attesa fosse lei. "Però accidenti, non avresti dovuto bere".

"Si che dovevo farlo! Sto così bene ora".

"Sei incinta" – ripeté Demelza.

Caroline le sorrise tristemente. "Preferisco non affezionarmi troppo all'idea. Voglio accertarmi che il marmocchio sia sano, prima di volergli bene".

Demelza ridacchiò. "Credo che sarà impossibile aspettare tanto. Rischia il tuo cuore, ne vale la pena. Il bambino starà bene, me lo sento".

"E anche Ross starà bene" – rispose Caroline, rispondendo al suo abbraccio. "E te lo dico perché anche io me lo sento".

"Caroline, torniamo a casa?".

"Quale casa?".

"La nostra vera casa. Dwight e Ross ci aspettano" – rispose Demelza. Si sentiva più forte dopo quella conversazione, meno in colpa e pronta a ricominciare. Aveva ragione Caroline, Ross sarebbe tornato per lei. Di tutte le incertezze della vita, quella era la sua unica certezza vera.




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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno ***


Erano quasi giunti a Nampara. Era una giornata di pioggia battente e fresca e il buio della sera incombeva sulla carrozza che procedeva placidamente sulle strade sterrate della Cornovaglia.

Dopo aver lasciato Caroline a casa sua, Demelza era ripartita coi bimbi. Jeremy non vedeva l'ora di riabbracciare suo padre, Bella non faceva che saltellarle contenta sulle gambe mentre Clowance pareva semplicemente silenziosa e disinteressata. Demelza sapeva che non era felice del ritorno a casa, che avrebbe preferito rimanere a Londra dove era più serena e che i problemi fra lei e Ross erano ben lontani dal risolversi. Era cambiata molto la sua bambina, nel giro di quei pochi mesi. Non si metteva più in mostra, non cercava più di primeggiare ma anzi, pareva preferire starsene in disparte, non vista e non notata. Non chiacchierava più con quel suo fare da maestrina saggia, non sorrideva più e soprattutto, non cercava più un contatto con suo padre. Aveva rinunciato all'idea, forse... E sicuramente era anche molto arrabbiata. Era una situazione difficile e Demelza non sapeva come intervenire in modo costruttivo. "Bambini, appena entriamo in casa, correte a salutare papà" – disse, sospirando. Ricominciava la sua battaglia per tenere unita la famiglia, si sentiva in forze e rigenerata e non avrebbe mollato la presa finché Ross non fosse guarito. Non sapeva ancora come aiutarlo e in che modo sarebbe avvenuto, però lui sarebbe tornato da lei.

"Pappppaaaaaa! Juiiiiiiii e Puuudiiiiii" – urlò contenta Bella, agitando le manine e battendosele sulle gambe.

Demelza sorrise, stava bene con loro. Anche Bella era cambiata molto in quei mesi e anche se era pigra da morire, stava iniziando ad impegnarsi seriamente a rimanere in piedi e a camminare, anche se durava solo pochi passi. E anche il suo vocabolario era cresciuto un po'. "Si, hai ragione, vedremo anche Jud e Prudie" – sussurrò, baciandola sulla tempia.

Quando la carrozza si fermò davanti a Nampara, il cocchiere la aiutò a scendere, riparandola dalla pioggia assieme ai bambini. Strinse a se Bella e nascose sotto il suo mantello Clowance e Jeremy, poi corsero fino all'uscio di casa. Pioveva a dirotto, sempre più forte, e in lontananza si sentivano sommessi tuoni.

Dalla cucina proveniva il bagliore delle candele e del fuoco e questo la rincuorò. Sapeva di casa...

Jud le andò incontro borbottando. "Non è gentile, non è umano e non è appropriato arrivare a quest'ora e interrompere un pover'uomo che si sta bevendo il suo meritato bicchiere di Porto dopo una giornata passata a faticare come un asino" – disse, correndo fuori per prendere i suoi bagagli.

Demelza rise, era proprio a casa!

Prudie le corse incontro abbracciando lei e i bambini. "Ragazza mia, non vi aspettavamo fino a domani e ho già sistemato tutto visto che il padrone ha già cenato. Ma se volete mangiare, mi arrangierò a prepararvi qualcosa".

"Abbiamo mangiato per strada" – rispose Demelza togliendosi il mantello. "Siamo a posto così, grazie Prudie". Si guardò attorno, di Ross non c'era traccia. "Lui dov'è?".

"In libreria a rimuginare su qualcosa" – rispose la serva.

Demelza guardò i bimbi, forse delusa dal fatto che lui non gli fosse andato incontro. "Su, avete sentito? Correte a salutare papà".

Jeremy corse nella libreria e Bella lo seguì gattonando come una matta. Clowance, sospirando, andò loro dietro a piccoli passi.

Sentì chiacchiere e risate di Jeremy e Bella provenire dalla biblioteca e un timido 'ciao' detto da Clowance e poi Ross arrivò nel salone coi tre bambini.

Demelza deglutì. Era strano ma si sentiva emozionata nel vederlo. Era emozionata come quando era la sua serva e lui si dimostrava gentile con lei, emozionata come durante il loro primo bacio e la loro prima volta insieme, quando Ross l'aveva fatta diventare una donna... Emozionata come quando le aveva detto di amarla per la prima volta, dopo che l'aveva sposata.

Ross invece era come sempre, scuro e con sguardo indagatore disegnato sul volto. La osservò per un lungo istante e poi con un cenno del capo, senza un abbraccio, la salutò. "Bentornata" – disse semplicemente.

Demelza si morse il labbro. Beh, in fondo che si aspettava? Un abbraccio? Un bacio? "Grazie" – disse rassegnata, avvicinandosi e prendendogli Bella dalle braccia.

Clowance corse senza dire nulla nella sua stanza mentre Jeremy ruppe quel momento di tensione raccontando delle mille cose che aveva fatto a Londra.

Ross lo ascoltò con attenzione mentre lei svuotava, aiutata da Prudie, i bagagli. Nulla era cambiato dalla sua partenza, eccetto una cosa... Ross la osservava insistentemente e sentiva i suoi occhi indugiare su di lei senza mollare la presa, tanto che si chiese se gli fosse mancata.

Improvvisamente le si avvicinò, prendendole le cose di mano. "Ti aiuto a portare tutto di sopra".

Lo lasciò fare, senza parole, seguendolo silenziosamente sulle scale e lasciando i bambini alle cure di Prudie.

"Ti appoggio gli abiti sul letto?" - le chiese, appena furono in stanza.

"Si". Era allibita e forse piacevolmente sorpresa che la stesse aiutando, nonostante il suo tono freddo. "Grazie" – mormorò.

"Sono tuo marito, no? E' mio dovere". Ross indugiò un attimo nella stanza, come rimuginando su qualcosa. "Senti, devo chiederti scusa" – disse infine, velocemente, come se fosse imbarazzato.

Demelza si accigliò. "Scusa per cosa?".

Ross si guardò attorno, finendo per osservare la cassettiera. "Mentre non c'eri, sono entrato in questa stanza".

Questo la fece sorridere e le fece tenerezza. "Non mi devi chiedere scusa per questo, è anche la tua stanza" – disse, sedendosi sul letto.

Ross fece passare il dito sulla cassettiera. "Sai, cercavo qualcosa che mi aiutasse a ricordare e pensavo che qui, fra le mie cose...".

"Non devi giustificarti, Ross. Hai fatto bene! Hai trovato qualcosa che ti ha aiutato?".

Ross le si avvicinò, sedendosi accanto a lei sul letto. Abbassò il viso, pensieroso, come cercando le parole adatte per parlarle. "Ho trovato una tua lettera, nel cassetto". Si rovistò nelle tasche, porgendole un foglietto spiegazzato.

Demelza lo prese, aprendolo incuriosita, non sapendo assolutamente che cosa fosse. Ma le bastò leggere poche righe per rendersi conto che... Ritornò alla mente a tanti anni prima, quando aveva preso Jeremy e Garrick e, disperata, se n'era andata da Nampara senza un soldo in tasca, convinta che il suo matrimonio fosse finito e che Ross non l'avesse mai amata. Era sbalordita dal fatto che suo marito, anche dopo la riappacificazione, l'avesse tenuta... Alzò il viso ed incontrò gli occhi scuri di Ross che la fissavano, indagatori ed in attesa di una spiegazione. Deglutì, rendendosi conto che gli aveva raccontato tante mezze verità su di loro, dall'incidente, e che sarebbe stato difficile e doloroso aprire quel capitolo. Sia per lei che per lui, che non aveva idea di come l'avrebbe presa.

Ross le prese la mano, stringendola nella sua. Un gesto famigliare una volta, che ora invece le faceva venire la pelle d'oca. "Dimmi la verità, per favore. Se vuoi aiutarmi a guarire, dimmi com'eravamo davvero".

Demelza osservò quella lettera, ricordando le lacrime e l'amarezza che l'avevano accompagnata mentre la scriveva. Era stata arrabbiata a quel tempo, con Ross, era stata infelice e soprattutto devastata dal dolore di doversene andare perché convinta che quell'uomo che venerava e che amava più di ogni altra cosa, fosse di un'altra. "Dopo l'incidente, Dwight ha detto che non dovevo turbarti... Come avrei potuto parlarti di questo?" - concluse, alzando il pugno dove teneva la lettera.

"Fallo ora! Sono abbastanza in forze per affrontare la verità".

Annuì, chiudendo gli occhi, era inevitabile, ormai doveva riaprire quella ferita. "Piangevo, mentre ti scrivevo questa lettera. Avevo il baratro davanti, il nulla, non avevo denaro, certezze e nemmeno avrei avuto una casa, una volta che me ne fossi andata. Sarei stata solo io, con Jeremy e il nostro cane, in balìa del nulla e dell'incerto. Ma non potevo restare comunque...".

Ross scosse la testa. "Il nostro non era un matrimonio felice, vero?".

"Lo è stato, negli ultimi quattro anni. E anche appena sposati, anche se sapevo che nel tuo cuore c'era anche un'altra donna".

"Elizabeth?" - chiese Ross.

Annuì. "Sì, lei. Il tuo primo amore giovanile, la ragazza che volevi sposare quando fossi tornato dalla guerra. Ma quando sei tornato, lei era promessa sposa a tuo cugino Francis e non l'hai mai superata del tutto. Era come un tarlo, sempre lì nella tua testa, era un qualcosa che avevi sognato e che non avevi mai avuto, un eterno dubbio su come sarebbe stato averla e vivere con lei la tua vita. Elizabeth era bellissima, nobile, dalle maniere eleganti, sempre perfetta... E poi sono arrivata io e quello che ti ho detto sui nostri inizi era vero, sono stata prima la tua domestica e poi tua moglie. Ci siamo sposati ma non c'era amore nel tuo cuore, per me. Poi è arrivato, pian piano. E io ero così felice e mi sentivo la donna più fortunata del mondo a pensare che un uomo come te avesse scelto me come compagna. Ma Elizabeth era sempre lì e scavava, scavava nel tuo cuore e nella tua mente. Finché, dopo la morte di tuo cugino, lei è tornata ad essere per te quel sogno che poteva essere realizzato ora che non c'erano ostacoli".

"Ma c'erano ostacoli, c'eri tu!" - la interruppe Ross. "Io ero sposato con te, giusto?".

"Dopo la morte di Francis, sono diventata invisibile ai tuoi occhi. Io e Jeremy eravamo diventati un impedimento per te, un peso... Correvi sempre da Elizabeth trovando mille scuse per aiutarla e starle vicino e trovandone altrettante per non occuparti di noi. E poi, quando hai saputo che lei avrebbe sposato in seconde nozze il tuo acerrimo nemico George Warleggan, sei esploso. E' esplosa la rabbia repressa e quel desiderio che mai hai potuto appagare". Sentì gli occhi inumidirsi, al ricordo di quella notte terribile. "E così è successo, mi hai tradita con lei... E tutto è andato definitivamente a rotoli. Credevo che niente ti avrebbe potuto separare da colei che amavi e che finalmente avevi e così ti scrissi quella lettera, presi Jeremy e me ne andai". Alzò il viso, notando che Ross aveva gli occhi spalancati e... lucidi?

"Mi dispiace..." - disse lui, solamente.

"Lo so". Stava parlando con il vecchio Ross in quel momento. Perché era una delle sue certezze più grandi. Si era odiato, si era maledetto e aveva scontato e purgato ogni suo errore e con dolore aveva vissuto tre anni in completa solitudine, pensando a lei. "E' passato tanto tempo da allora e come vedi, siamo qui insieme adesso".

Ross osservò il vuoto, perplesso e pensieroso. "Ti ho tradita... Come diavolo ho potuto?".

"E' successo e basta. Ma forse serviva a farci capire quanto fossimo importanti noi due, l'uno per l'altra".

"Ma non avrei dovuto farlo comunque". Strinse i pugni, teso. "Sei una donna bellissima, riesci ad incantarmi in ogni cosa che fai, non c'è nulla che non riusciresti a portare a termine e sei una madre stupenda. Che diavolo avevo nella testa? Come ho potuto essere così stupido e insensibile, tanto da spingerti ad andartene?".

Per un attimo rimase muta, interdetta. Le aveva detto che era bella, che era incantato da lei... Glielo aveva detto ORA che non ricordava nulla di loro! Le si scaldò il cuore a quelle parole. "Ross, credo che tu ti sia posto da solo, in passato, queste domande. E che abbia trovato le tue risposte".

"Che è successo dopo che hai scritto quella lettera e te ne sei andata?".

Strinse la mano di Ross che ancora teneva la sua. "Sono andata a Londra e non è stato facile all'inizio. Non avevo denaro, ero sola con un bambino e aspettavo Clowance. Mi accorsi di essere incinta appena arrivata nella capitale ed ero terrorizzata. Poi ho incontrato per caso Caroline Penvenen e da allora, tutto ha iniziato ad andarmi bene. Ho aperto una locanda e poi per una serie di casi fortunati, sono entrata in finanza e nel giro di poco sono diventata ricchissima. Avevo tutto, denaro, una grande villa, amici e soprattutto i miei due splendidi bambini. Ma ero sola, mi sentivo sola, sai? Non c'eri tu, non eri lì con me a costruire tutto ciò che avevo... Eravamo lontani, non avevi idea di dove fossi finita e non sapevi nemmeno dell'esistenza di Clowance. E io non sapevo nulla della tua vita. Non ci siamo visti per tre anni e poi, per caso e grazie a Caroline e Dwight, le nostre strade si sono rincrociate".

Ross la fissava negli occhi, come catturato in una rete da quel racconto. "E poi?".

Demelza gli sorrise, alzando una mano ad accarezzargli la guancia. "Eravamo due persone molto diverse, quando ci siamo rivisti. Tu ERI cambiato. Mi amavi e io non avevo mai smesso di amare te, nonostante tutto. Ritrovarci, riscoprirci e ricomiciare è stato inevitabile e da allora siamo diventati davvero una cosa sola, felici, innamorati, non esisteva più niente a parte noi due e i nostri figli. Siamo tornati a Nampara e dopo alcuni anni è nata Bella. Eravamo felici fino al giorno del tuo incidente... Mi piaceva come facevi, mi piaceva che al mattino il tuo primo pensiero fosse darmi un bacio, così come facevi la sera prima di dormire. Mi piaceva il modo in cui mi guardavi, mi parlavi, come scherzavamo e come ridevamo insieme di tutto, come se ci riscoprissimo da capo ogni giorno. Giocavi coi bambini e avevi un rapporto unico con Clowance. Era la figlia che non avevi visto nascere, ti sentivi in colpa per questo e per non averla seguita per i primi due anni della sua vita. E lei ti ammagliava col suo carattere, siete sempre stati anime affini voi due".

Ross abbassò lo sguardo, pieno di sensi di colpa. Clowance era stata la figlia che più aveva cercato di allontanare e ora poteva capire cosa avesse generato in lei il suo comportamento. "C'è un suo nastrino nel mio cassetto, credo ci sia finito dentro per caso".

Lo sguardo di Demelza si addolcì a quelle parole. "No, non è lì per caso. E' un ricordo importante per te. Clowance te lo regalò la prima volta che vi siete incontrati tu e lei, a casa di Caroline a Londra. Aveva un anno e mezzo allora e tu non avevi idea che fosse tua figlia. Da quel giorno, lo hai sempre tenuto con te".

Ross abbassò lo sguardo. "Mi dispiace, con Clowance ho combinato solo disastri e quando è scappata, avrebbe potuto succederle di tutto a causa mia. E tutto perché non ho voluto ascoltare i tuoi consigli".

Demelza sorrise. "Tu sei testardo, difficilmente ascolti i miei consigli quando ti incaponisci su qualcosa. Eri così anche prima dell'incidente, ad essere onesta".

Il clima sembrò distendersi per un attimo alle parole scherzose di Demelza. Ross le accarezzò la mano, le dita, facendole scorrere brividi lungo la schiena. "Che ne è stato di Elizabeth?".

Demelza deglutì. Ancora, dopo tanti anni, parlare di lei le faceva male. Il vecchio Ross non la nominava più e anche se probabilmente poteva essere capitato che l'avesse pensata, non gliene aveva mai fatto parola. "E' morta di parto due anni fa". Non entrò nei particolari, non ne aveva voglia. Non aveva la forza di raccontargli tutto e non voleva nemmeno pensare alla paternità di Valentin e di come lui avrebbe potuto prenderla.

E Ross dovette capirlo perché su quell'argomento non chiese altro. Ma... "E Julia? In quella lettera parli di una certa Julia, chi è?".

Julia... Le si inumidirono gli occhi, quella ferita si riapriva ogni volta che sentiva quel nome. "Era la nostra prima figlia" – sussurrò, trattenendo l'emozione.

"Era?".

"Era...".

Ross la abbracciò e lei sentì che aveva capito anche senza spiegazioni ulteriori. Non ce n'era bisogno...

"Ne abbiamo passate tante, noi due, a quanto vedo" – sussurrò Ross, fra i suoi capelli.

"Sì".

"Eppure siamo qui, siamo insieme. Questo non è sorprendente?".

Demelza fu colpita da quelle parole perché in esse c'era il succo del loro rapporto. Già, era sorprendente che non si fossero mai persi ma che invece attraverso le prove che la vita aveva riservato ad entrambi, avessero saputo crescere insieme, fondersi e diventare un amore vero e indissolubile. La maggior parte delle coppie non ce l'avrebbe fatta a sopportare quello che avevano sopportato loro due. Rispose al suo abbraccio, aveva bisogno di lui. Non l'aveva mai stretta a quel modo, da quando si era fatto male. L'aveva abbracciata quando era tornata in lacrime dalla gita in barca con Hugh ma non a quel modo, non con quell'intensità.

Ross le accarezzò i capelli, desideroso anche lui di non rompere quel contatto. "Sai, io non riesco a ricordare niente di quello che mi hai raccontato ma so che è vero tutto quello che mi hai detto. Io sento di appartenere a questo posto, a questa casa ed è una cosa come radicata in me... Non so spiegarlo ma è come se emozioni e mente viaggiassero in maniera differente. Tu sei mia moglie e io so che lo sei, non ricordo il nostro matrimonio, non ricordo niente di niente di quando son nati i nostri figli ma so che c'ero e che ero emozionato quando li ho presi in braccio la prima volta. Io ti guardo, mi affascini e ti trovo assolutamente bellissima e penso spesso che probabilmente sono stato una persona molto lungimirante e intelligente a sposarti. So che ti amavo, so che ti veneravo perché sarebbe stato impossibile non farlo. Mi sei mancata quando sei partita per Londra, sentire il nome di quella città mi terrorizzava e ora so perché. Era la città che per tre anni ci aveva diviso, giusto?".

"Giusto".

Ross sospirò. "E probabilmente quella paura di perderti di nuovo mi ha accompagnato sempre, anche dopo che sei tornata qui. Non è un ricordo, è una consapevolezza che esiste in me. Io devo avere avuto paura, negli anni, che tu te ne andassi di nuovo. E so che per tre anni io sono stato da cani senza di te. Lo so perché lo sento. Così come mi sentivo geloso di quell'uomo che ci è venuto a trovare, Hugh, giusto?".

Demelza spalancò gli occhi, il cuore le accelerò. Ross le aveva detto cose bellissime che le avevano scaldato il cuore... Ma aveva anche citato Hugh e questo la riempiva di sensi di colpa e paura. A Ross non sfuggiva mai niente, era da sempre così e anche quel giorno aveva notato lo strano gioco di seduzione fra lei e il poeta. "Lui... lo hai visto solo una volta, dopo tutto" – balbettò.

Ross la guardò in viso, scrutandola con quei suoi occhi neri e profondi che sapevano leggerle nell'anima. E sapeva che riusciva a farlo anche in quel momento... "E tu, lo hai visto solo una volta?" - le chiese, sibillino.

"No". Fu sincera, non voleva mentirgli. "L'ho visto altre volte lontano da qui". Strinse con la mano la coperta, prese a tremare e lottò per non scoppiare a piangere. Ma alla fine le lacrime ebbero la meglio su di lei, sul suo dolore e su tutti i sentimenti che stava provando. "Mi sentivo sola, disperata... E lui mi faceva stare meglio! Era come vivere isolata dalla realtà, lontana da tutti i problemi. C'era lui ed era gentile, dolce, mi guardava come si guarda a una dea. E poi c'eri tu che non volevi nemmeno toccarmi e che mi voltavi le spalle, che non sapevi più parlarmi, stare coi nostri figli, stare con me... Lo so, non è una giustificazione, ma era così che mi sentivo. Sola! Finché ho capito che non poteva esserci nient'altro che te, per me, che eri tu tutto ciò che volevo e che ti avrei ritrovato, in un modo o nell'altro. E per fortuna l'ho capito in tempo".

Ross chiuse gli occhi, forse arrabbiato, forse ferito o forse deluso. O probabilmente tutte queste cose. Poi per lunghi istanti non disse nulla, non si mosse e restò a fissare il vuoto. E alla fine... "Mi dispiace che tu ti sia sentita così e mi dispiace di non averlo capito o non aver saputo ascoltarti".

Spalancò gli occhi, sorpresa. Sapeva che la questione non sarebbe finita lì, sapeva che una volta guarito – perché sarebbe guarito – avrebbe affrontato la cosa e chiesto spiegazioni, ma ora sembrava semplicemente ferito per averle fatto del male e averla quasi spinta fra le braccia di un altro. Non era giusto, pensò, non era colpa di Ross, quanto successo con Hugh era solo colpa sua. Scoppiò a piangere, non riuscì a impedirlo. Si nascose il viso fra le mani, singhiozzò come una bambina e Ross la riabbracciò. "Sta tranquilla, non fare così" – le sussurrò, affondando il viso nel suo collo. "Va tutto bene".

Scosse la testa. "No Ross, non va tutto bene! Io ti rivoglio, rivoglio noi! Rivoglio mio marito, rivoglio le tue carezze, i tuoi baci, i tuoi abbracci, rivoglio fare l'amore con te, averti vicino come marito, amico, amante, voglio tutto quello che ci univa e che mi manca, mi manca come l'aria".

Le prese il volto fra le mani, appoggiò la fronte alla sua. "Lo riavremo, io VOGLIO riaverlo! E se davvero sono testardo come dici tu, allora succederà, tornerò da te come prima. Ma ti prego, non piangere, non lo sopporto. Dammi solo del tempo".

"Giuramelo!".

"Te lo giuro, Demelza. Perché quello che vuoi tu, lo voglio anche io. Cosa pensi, che non ti desideri? Santo cielo, mi fai mancare il fiato in ogni cosa che fai e vorrei viverti come prima. Sai, mi chiedo spesso com'era stare con te, cosa provavo quando ti baciavo, quando facevo l'amore con te, quando eravamo una cosa sola...".

Demelza arrossì. Davvero sentiva quelle cose, davvero la desiderava? "E allora, perché mi hai respinta? Perché non mi parlavi, perché mi allontanavi?".

"Perché era difficile per me, tutto quanto. Rapportarmi a voi, significava rapportarsi a quel passato che voi conoscete e che mi è sconosciuto, nonostante mi riguardi. E per quanto riguarda noi due...".

"Cosa?".

"Io non voglio solo piacere fisico, voglio tutto il resto di te, voglio la tua anima e il tuo cuore, oltre al tuo corpo. Non volevo approfittarmi di te, ti desideravo ma mi eri ancora estranea e sentivo che non potevo farlo".

Questo la intenerì, era Ross, era tipico di lui essere così fiero e corretto. "Vuoi sapere come ci sentivamo quando facevamo l'amore?".

"Si".

"Semplicemente, il resto del mondo smetteva di esistere in quei momenti. Eravamo l'unica cosa che contava".

Ross le sorrise, la strinse a se e poi si stesero sul letto. Non la lasciò nemmeno per un istante, continuando ad accarezzarle la schiena e i capelli. "Abbi pazienza..." - le ripeté.

"Va bene". Affondò il viso contro il suo petto, inspirando il profumo della sua pelle e imprimendo in se il calore delle sue mani che la sfioravano. "I bambini... Non posso rimanere qui, sotto ci sono i nostri figli da soli" – disse sommessamente, tornando brevemente alla realtà.

Ross le baciò la fronte, non allentando la presa su di lei. "Non sono soli, Prudie e Jud si occuperanno di loro. Restiamo qui, così, insieme. Ho bisogno di te".

Annuì, arrendendosi al fatto che anche lei aveva bisogno di lui. "Va bene".

"Ce la faremo, come sempre" – sussurrò al suo orecchio Ross.

Demelza, nella semi oscurità sorrise. Si sentiva al sicuro fra le sue braccia e sapeva che se Ross prometteva, poi manteneva. "Sì, come sempre" – ripeté, appoggiando la fronte alla sua spalla.




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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


Erano passate due settimane dal ritorno di Demelza a Nampara. La primavera si era fatta calda, i giorni di pioggia erano diminuiti e il vento che sferzava le scogliere era meno impetuoso.

Anche la situazione in casa sembrava migliorata, meno tesa, più serena, ancora piena di silenzi ma anche di piccoli momenti di condivisione.

Ross aprì gli occhi, stiracchiandosi, mentre la luce del mattino faceva capolino dalle finestre. Era tornato a dormire con Demelza, la notte. E anche se fra loro non c'era ancora stata intimità vera e propria, sentiva che voleva avere vicino. Parlavano la sera, del loro passato e del più e del meno, non era importante l'argomento trattato. L'importante era parlare e non rintanarsi più ognuno nel proprio mondo.

La trovava bellissima con la camicia da notte bianca, coi lunghi capelli sciolti sparsi sul cuscino e con l'espressione tranquilla e quasi fanciullesca che assumeva quando si addormentava. Avrebbe passato ore a guardarla dormire e non escludeva di averlo fatto prima dell'incidente. Certe volte allungava la nano e le sfiorava piano quei boccoli color fuoco, le guance e le labbra, talmente delicato che lei non se ne accorgeva nemmeno.

Era stupenda, ne era incredibilmente attratto... E assieme a questo, ormai, sentiva di aver raggiunto un tipo di sentimenti talmente intensi verso di lei, da ritenerli molto simili a quelli che l'avevano legato a sua moglie prima dell'incidente. Ne era innamorato, non riusciva a definire in altro modo quel miscuglio di sentimenti dolci, teneri, appassionati e selvaggi che provava quando pensava a lei o quando l'aveva accanto. Voglia di averla, di proteggerla, di lottare per un suo sorriso, di confortarla, di amarla...

Cercò con la mano il braccio di Demelza e solo in quel momento si accorse che non era più a letto. Aprì gli occhi di scatto e si mise a sedere, rendendosi conto che forse era tardi ed aveva dormito più del solito.

Si lavò e si vestì in fretta, scendendo al piano di sotto a cercarla. Non la trovò però.

A tavola c'erano Jeremy e Clowance che facevano colazione, Prudie stava sistemando delle stoviglie nella credenza e Jud era intento ad andare e venire dal cortile portando fuori grossi sacchi vuoti.

"Dov'è Demelza?".

Prudie, sbuffando, prese la tazza di latte vuota che Jeremy aveva appena finito di svuotare. "La piccola Bella stamattina faceva i capricci, frignava e per non svegliare tutti, la signora l'ha presa e l'ha portata in spiaggia a giocare un po'. Ora io e Jud finiamo di sistemare le cose, prendiamo i bambini e li accompagnamo a scuola e poi andiamo col carro al villaggio a fare provviste. Avete bisogno di qualcosa, signore?".

"No, di nulla, grazie". Tirò un sospiro di sollievo. Demelza era con Bella, non era sparita da sola chissà dove...

Jeremy gli diede un bacio sulla guancia, lo salutò e corse in camera a prendere il suo libro. Ross sorrise. Suo figlio era entusiasta del fatto che dormisse di nuovo con sua madre, con lui chiacchierava spesso e avevano un rapporto sereno. Spesso gli chiedeva cosa faccessero insieme prima dell'incidente e Jeremy era sempre entusiasta di raccontarglielo. Con Bella era tutto divertente e facile, aveva l'argento vivo addosso e rideva sempre. Riusciva a metterlo di buon umore, la piccolina di casa, sempre contenta, sempre buffa e goffa nel muoversi per casa e sempre in compagnia di Artù che la seguiva in ogni cosa che faceva. Anche se era ancora un cucciolo, benché raddoppiato di dimensioni rispetto a quando era arrivato, era come se Artù si fosse autoproclamato guardia del corpo della piccola.

Era con Clowance che era ancora bloccato. Ci aveva provato ad avvicinarsi, ma la piccola aveva frapposto un muro fra loro. Gli voltava le spalle, lo liquidava con poche parole e poi spariva in camera sua, quando tentava degli approcci con lei. In quei giorni l'aveva osservata attentamente, stupendosi del fatto che, fino a quel momento, non avesse mai notato la grande somiglianza con Demelza. Stessi capelli, stesso sguardo, stessi lineamenti. Era bellissima come sua madre e sarebbe diventata una donna stupenda, nel giro di pochi anni. Era la sua figlia prediletta...

La guardò mentre si tagliava una pagnotta per spalmarvi del burro e della marmellata. "Vuoi che ti aiuti?" - le chiese, avvicinandosi.

Clowance sussultò, si voltò perplessa verso di lui e poi tornò a fissare il tavolo. "No, grazie, sono capace di farlo da sola".

Decise di insistere. "Lo so che sei capace, ma mi piacerebbe aiutarti".

"No" – rispose la bimba, senza nemmeno voltarsi, proseguendo imperterrita nel suo lavoro.

Si mise a sedere sulla panca accanto a lei, erano soli e forse era il momento buono per parlarle con serenità. "Senti" – disse, mettendole una mano sulla spalla – "Ho bisogno del tuo aiuto".

Clowance lo guardò incuriosita. "Per cosa?".

Ross si grattò la guancia, vagamente in imbarazzo. "Beh, una volta io ero un bravo papà per te, mi dicono. Mi aiuteresti a tornare ad esserlo? Mi spiegheresti come si fa?".

Clowance rimase in silenzio alcuni istanti, poi sospirò e tornò a tagliare la pagnotta che aveva fra le mani. "Lascia perdere".

"Ma vorrei imparare". Lo voleva, davvero. E voleva che lei gli credesse. "Perché non vuoi aiutarmi?".

Clowance, con un gesto secco, lasciò cadere il pane sul tavolo. Poi si alzò, decisa a seguire Jeremy in camera per prendere le sue cose per la scuola. "Il mio papà sapeva essere il mio papà da solo, senza nessuno ad insegnargli come fare. Se non sei più capace, non vale che te lo dico io!".

La guardò sparire in camera, senza parole. C'era rabbia nel tono di voce di Clowance, poteva scorgervi delusione e soprattutto, un allontanamento enorme fra loro. In quei mesi aveva fatto di tutto per mantenere le distanze da lei, senza rendersi conto dei danni che stava causando fra loro. E ora la rivoleva ma sua figlia aveva ragione, non doveva essere lei a indicargli come fare, doveva essere lui a trovare il modo di riparare ai suoi errori. Avrebbe potuto seguirla in camera, insistere, ma sapeva che non sarebbe servito a niente. Rimase fermo, a osservare i bambini andare via con Jud e Prudie, rimanendo poi solo in casa.

Tutto fu avvolto dal silenzio. I suoi figli più grandi e i servitori sarebbero tornati solo nel tardo pomeriggio e Demelza era in spiaggia con Bella e sarebbe rientrata chissà quando. E se fino a poche settimane prima essere solo gli dava serenità, ora gli pesava.

Sospirando, decise di fare una cosa che non aveva mai fatto da quando si era risvegliato dall'incidente: andare da Demelza e vivere la giornata con lei e con la loro figlia più piccola. Solo loro tre e nessun altro! Perché se con Demelza le cose si erano sistemate a livello di rapporto a due, la vita famigliare in tutte le sue sfaccettature era ancora qualcosa che sentiva estraneo a se. E finalmente sentiva il desiderio di riappropriarsene.

Uscì, percorse a lunghe falcate il sentiero che costeggiava il mare e poi scivolò lungo la stradina che portava alla spiaggia, camminando poi sulla sabbia, diretto a quella che gli avevano detto essere la sua miniera.

Il mare era calmo e di un azzurro limpido e trasparente, la giornata era piuttosto calda e volendo, si poteva anche azzardare un bagno.

Camminò per una decina di minuti, finché la vide.

Demelza era seduta sulla riva, con Bella che le gattonava attorno toccando ogni cosa le capitasse sotto mano.

Le guardò e gli mancò il fiato... Erano bellissime... Sua moglie aveva i capelli sciolti e i suoi lunghi riccioli rossi, ribelli come lei, si muovevano dolcemente alla brezza del vento. Indossava una semplice sottoveste azzurra, come i suoi occhi, che le ricadeva morbida su quel corpo perfetto, evidenziandone ogni curva. Ne era attratto, non solo fisicamente ma attratto in maniera totale, attratto in tutti i modi in cui un uomo puo' sentirsi nei confronti di una donna...

Bella indossava un abitino sbracciato rosso che le arrivava a malapena alle ginocchia, legato in vita da un nastrino color porpora. Demelza la lasciava libera di spaziare e di esplorare e la bimba, a carponi, si avvicinava pure al bagnasciuga dove immergeva manine e ginocchia nell'acqua.

Ross si accorse che voleva stare con loro, che quello era il suo posto nel mondo. Con quella donna selvaggia, bellissima e dalla risposta sempre pronta e coi loro tre bambini. Lo sentiva come un bisogno fisico ed era certo che fosse così anche per il vecchio se stesso.

Demelza si voltò e lo vide. Il suo volto si illuminò, gli sorrise e gli corse incontro. "Ross!" - esclamò, abbracciandolo.

La strinse fra le braccia, accarezzandole i capelli. "Mi sentivo un po' solo a casa e ho pensato di raggiungervi".

Demelza lo prese per mano. "Hai fatto bene! Bella stamattina si è svegliata presto e non riuscivo a tenerla buona, così ho pensato di portarla in spiaggia. Magari sulla sabbia, è la volta buona che si decide a camminare, i suoi fratelli alla sua età sapevano già correre".

Sentendo parlare di lei, Bella tirò su il visino, smettendo di giocare con le conchiglie. Fece un enorme sorriso, batté le manine e a gattoni andò verso di loro. "Papaaaaaa''.

Ross si chinò e la prese in braccio, facendola volare. "E allora, piccola pigrona, che ne dici se impariamo a camminare, oggi?".

Bella lo guardò, poi gli cinse il collo con le braccia. "Tiii".

Demelza rise. "Prendilo per un sì".

La guardò negli occhi con uno sguardo di intesa, la prese per mano e con la bimba si avvicinarono al bagnasciuga. Mise Bella sulla sabbia e poi si allontanò di alcuni passi, lasciando la bimba accanto alla madre. Si tolse gli stivali ed entrò in acqua fino alle caviglie, guardando la piccola che lo fissava incuriosita. "Coraggio Bella, vieni qui" – le intimò. "Corri!".

Bella guardò Demelza, poi lui. Infine si mise il pollice in bocca, pensierosa. Si mise a gattoni, ma sua madre la tirò su, prendendola per le manine. "Dai tesoro, papà ti aspetta ma vuole che tu vada da lui camminando. Su, se sei capace, poi ti farà giocare con l'acqua".

Ross le sorrise, tendendo le mani verso di lei. "Coraggio, vieni".

Bella si fece seria e poi, dopo un attimo di indecisione, sulle gambe ancora malferme, azzardò qualche passo attaccata alle mani di Demelza. Infine prese coraggio, si staccò da lei e fece cinque eroici passi che la portarono fra le braccia del padre.

Ross la abbracciò, la prese in braccio e le diede un bacio sulla guancia. "BRAVA!". La fece volare in alto, facendola ridere, poi le immerse i piedini nell'acqua del mare. La piccola rise ancora più forte, agitando le gambe fra le onde.

Ross si voltò verso Demelza che li guardava divertita. Sorrideva e si accorse che da che ricordava, non l'aveva mai vista tanto serena. Allungò una mano verso di lei per incitarla ad avvicinarsi e quando fu a pochi passi, con un gesto veloce, le schizzò addosso dell'acqua. "Sei l'unica ad essere asciutta, mia cara" – esclamò, mentre anche Bella rideva.

Demelza lo guardò accigliata per alcuni istanti, poi sorrise furba e rispose all'attacco, schizzando con le mani l'acqua verso di lui.

Ne uscì una battaglia marina colossale al termine della quale, tutti e tre erano felicemente bagnati fradici. Ross scoppiò a ridere, allungò la mano e, prendendola per la vita, strinse a se la moglie. Si sentiva felice in quel momento, una felicità perfetta...

Ecco, era questa la famiglia e l'intimità che aveva perso con quel dannato incidente, era questa la sua vita fino a quel giorno. Ora non erano più solo racconti, ora era una realtà che poteva toccare con mano. "Sei completamente bagnata e quell'abito è quasi diventato trasparente" – osservò, divertito.

Demelza si guardò, poi alzò le spalle. "Oh, fa niente. Questa è la nostra spiaggia, non ci vede nessuno".

"Non è da signora" – ribatté Ross, mascherando un sorriso, ben consapevole che a Demelza non importasse molto.

Sua moglie, di tutta risposta, gli schizzò altra acqua in viso. "Nemmeno questo è da signora" – disse, facendogli la linguaccia.

"E questo non è da gentiluomo!" - rispose Ross, spingendola con la testa sott'acqua.

Piccata, bagnata fradica e decisa a vendicarsi, Demelza lo investì di una nuova cascata d'acqua, mentre Bella li guardava divertita, muovendosi sulle gambette accanto a loro, eccitata da questa nuova avventura di camminare.

Quando ormai erano entrambi completamente e poco onorevolmente bagnati, decisero che era ora di uscire dall'acqua e issarono bandiera bianca a quella loro disputa marina. Presero Bella e la fecero giocare sulla sabbia, facendola camminare per lunghi tratti, tenendola entrambi per le manine. E alla fine, esausta, la bimba sbadigliò e fece loro capire che non ce la faceva più.

Dolcemente, Demelza la prese in braccio. Bella appoggiò la testa alla sua spalla, si mise in bocca il pollice e chiuse subito gli occhi, soddisfatta e pronta a dormire. "Sei stanca, amore?".

"Ti".

"Su dormi, allora". Demelza la cullò per lunghi istanti, accarezzandole la schiena. Ross le cinse le spalle, attirando entrambe a se, mentre si incamminavano verso casa.

Il sole era alto in cielo, doveva essere ormai mezzogiorno e le ore parevano essere volate quella mattina.

Ross guardò sua moglie. I riccioli bagnati rilasciavano goccioline lungo il suo collo, il viso era arrossato e l'espressione era serena e tranquilla. E Bella era una bambolina, coi suoi ricciolini neri tanto simili a quelli del suo papà, le guance piene e il vestitino rosso che le stava d'incanto. Le diede una lieve carezza sulla nuca, prima di fare altrettanto con sua moglie. "Sei davvero bellissima" – le sussurrò.

Demelza alzò gli occhi su di lui, stupita. "Ross...".

Non le diede tempo di dire altro, fu più forte di lui. Su quella spiaggia ogni suo indugio si ruppe, era troppo bella per resisterle, troppo perfetta. Era sua, la sentiva sua per davvero, ora... Si chinò e la baciò sulle labbra, a lungo, stringendola a se con la piccola Bella fra loro.

Non c'era nessun altro, solo lui, lei, la loro bimba e il suono del mare... Sentì la dolcezza della labbra di Demelza, la loro morbidezza e quel tocco fra loro così unico, intenso, che non avrebbe potuto trovare con nessun'altra. Quando le loro labbra si separarono, appoggiò la fronte alla sua. "Era da tanto che mi chiedevo come fosse baciarti" – le disse emozionato, accarezzandole dolcemente una guancia.

Gli occhi azzurro-verdi di Demelza si specchiarono nei suoi. "E ora che mi hai baciata, ti sei dato una risposta?".

Ross le sorrise, baciandola nuovamente, non riusciendo a farne a meno. "So che ti appartengo, a te soltanto. Che ti sono sempre appartenuto e che sarà così per sempre. E che se anche perdessi per mille volte la memoria, per mille volte mi innamorerei di te ancora e ancora".

Gli occhi di Demelza si inumidirono, si rifugiò fra le sue braccia e Ross la strinse a se forte. Voleva solo averla vicina, amarla, ne era follemente innamorato e sì, si era preso i suoi tempi, ma ora era certo di cosa rappresentasse per lui. "Voglio fare l'amore con te" – sussurrò, fra i suoi capelli.

Demelza alzò lo sguardo su di lui, sorridendo. "Quì? Adesso?".

Ross annuì, arrossendo mentre guardava Bella. "Beh, magari sarebbe meglio tornare a casa e metterla a letto, prima".

Lei non disse nulla, indietreggiò di alcuni passi e poi lo prese per mano. "Torniamo a casa" – sussurrò.

Camminarono mano nella mano senza dire altro, in un silenzio d'attesa, colmo d'emozione e aspettative.

Nampara era deserta, non volava una mosca, non c'era nessuno a parte loro.

Rientrarono, misero Bella nella sua culla e la piccola si rannicchiò esausta su un fianco, continuando a dormire profondamente col pollice in bocca.

Demelza si appoggiò al lettino, accarezzandole dolcemente i ricciolini scuri, finché Ross le sfiorò il polso, costringendola ad allontanarsi dalla piccola.

La condusse per mano fino al loro letto, le sfiorò il viso e poi la baciò di nuovo con passione e a lungo. "Sai, sono un po' nervoso" – sussurrò con voce calda all'orecchio della moglie, prima di baciarle il collo.

"Anche io" – rispose Demelza, col fiato corto. "Ma sono felice, oggi dopo tanto tempo sono felice".

"Anche se non ho riacquistato la memoria?".

Demelza scosse la testa. "Non importa per ora! Sei tu, sei il mio Ross e solo questo conta, adesso".

Ross le sorrise, accarezzandole le labbra. Si baciarono di nuovo, a lungo, mentre i loro indumenti scivolavano via dai loro corpi. La paura passò presto perché era come conoscerla da sempre, la sua amnesia non aveva cancellato i ricordi e le sensazioni di ciò che erano.

Ross si rese conto che sapeva come toccarla, come baciarla, come trovare il modo giusto di stare con lei nell'intimità. Era qualcosa di profondo, come scolpito dentro di se.

Fecero l'amore con una passione di cui non si credeva capace, con una complicità che credeva di avere perso e negli occhi chiari di sua moglie, mentre si rifletteva in essi, capì che avrebbe ritrovato sempre la strada per tornare, finché l'avesse avuta accanto. Era la sua vita, era il suo amore, era l'unica capace di dargli quel tipo di piacere fisico talmente intenso da stordirlo, era la madre dei suoi figli e non ne avrebbe mai voluto un'altra...

Demelza era il suo tutto e ora lo sapeva con certezza.

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Capitolo 23
*** Capitolo ventitre ***


"Sono contento!".

Clowance, dopo quel commento, alzò incuriosita lo sguardo sul fratello. "Contento di cosa?" - chiese, mentre camminavano insieme sulla spiaggia, di ritorno da scuola. Il tempo era ormai bello e avevano ottenuto dalla madre il permesso di tornare da soli a fine lezione, visto che ormai Jeremy aveva quasi dieci anni ed era sufficientemente grande per non essere accompagnato e per curare sua sorella.

"Che mamma e papà vanno d'accordo e non sono più tristi".

"Oh...". Clowance abbassò lo sguardo, dando un calcio a un sassolino. Beh, si era accorta che il clima in casa era migliorato ed era contenta di vedere la mamma serena e rilassata, ma per quanto la riguardava, nulla era cambiato... Il suo papà l'aveva tradita, abbandonata e allontanata e ora non le importava che provasse a fare pace con lei, non era più il papà a cui aveva voluto bene e che le voleva bene. La faccia, la voce e il corpo erano i suoi ma tutto il resto era diverso e non le piaceva. Una volta le aveva detto che era la sua preferita e che non se ne sarebbe dimenticato e invece alla fine era diventata la figlia che non voleva più. Non lo avrebbe mai perdonato, poteva benissimo stare senza papà per sempre, senza rivolgergli mai più la parola. Non le importava, non le importava per niente! Diede un altro calcio, stavolta rabbioso, al sassolino che aveva fra i piedi. "Sono contenta anche io per mamma".

"E per papà?" - chiese Jeremy.

Clowance alzò le spalle. "Non mi interessa niente di papà".

"Non è vero!".

"Si che è vero! A te che importa poi, di cosa penso?".

Jeremy le si parò davanti. "Mi importa invece, perché sei proprio antipatica quando fai così".

Clowance fece la faccia arrabbiata, mettendosi le mani sui fianchi. "Anche papà ha fatto l'antipatico con me. Ed è stato cattivo. Portava sempre te a fare un giro a cavallo e non voleva mai stare con me sul pony, ad esempio".

"Tu non volevi venire a cavallo con noi" – obiettò Jeremy.

Clowance abbassò lo sguardo, osservando il mare. Non era vero che non ci voleva andare con loro, ma cosa doveva fare? Conosceva il suo papà e sapeva di non essere desiderata. "A volte dico delle bugie, che non voglio fare qualcosa ma in realtà quella cosa la vorrei. Come per il cavallo o il pony".

"Ma perché?" - insistette Jeremy.

"Perchè sì, non ho voglia di spiegarlo".

Clowance accelerò il passo e il fratello le corse dietro, accodandosi a lei. "Sai, io credo che se tu stessi con lui, guarirebbe prima. Mica eri la sua preferita?".

La bimba abbassò lo sguardo, sorridendo con freddezza. "Erano solo bugie, non sono la preferita di nessuno". Si tolse gli stivaletti, entrando in acqua fino alle ginocchia. "E comunque, adesso non ho proprio voglia di parlare di papà con te. Siete tu e Bella i suoi preferiti, aiutatelo voi a guarire e lasciatemi in pace. Io sono arrabbiata e non voglio stare con lui. Vorrei invece giocare col mio amico Valentin ma mamma non vuole che lo riveda e non so il perché. Tu sai perché?".

Jeremy scosse la testa. "No, nemmeno so chi è questo Valentin".

"Abita a Trenwith, nella grande casa dopo la nostra".

Il fratellino alzò le spalle. "Non l'ho mai visto in giro. Ma se mamma non vuole che lo vedi, dovresti fare come dice lei e basta".

Clowance sospirò, scalciando col piede l'acqua. "Lo so, non ho scelta, mamma mi rimette in castigo a pulire la stalla, se le disubbidisco. Però mi dispiace, lui mi ha regalato Artù ed è mio amico".

Jeremy sospirò, deciso a cambiare argomento. "Senti, andiamo a giocare nella nostra grotta prima di tornare a casa?".

Clowance si voltò, sorridendogli. "Siii". Era un'ottima idea quella! La loro grotta era bellissima e piena di segreti, un posto magico dove lei, spesso, aveva giocato col suo papà.

Corsero come matti, saltando sul bagnasciuga e ridendo spensierati. Clowance guardò Jeremy di sfuggita e le venne il pensiero che era davvero un bel fratello, dopo tutto. E ora che non aveva più il suo papà, era fortunata che ci fosse Jeremy a preoccuparsi per lei. Certo, il papà era il papà, ma ormai era perso e non sarebbe tornato quello di prima...

Raggiunsero la grotta e rallentarono il passo, guardandosi attorno incuriositi. Era da tanti mesi che non ci mettevano piede, dallo scorso autunno quando con i genitori e Bella ci erano venuti per una scampagnata di fine stagione. Clowance pensò alle risate fra i suoi genitori, al modo in cui suo padre aveva preso la mamma in braccio e l'aveva lanciata in acqua, a come avevano combattuto fra le onde e al bacio che si erano dati. Si era sentita una bambina fortunata, in quel momento, pensò mentre sfiorava il muro di roccia e con Jeremy si addentrava nell'oscurità. Fortunata perché nessuno dei bambini che conosceva aveva una mamma e un papà che si volevano così bene e che ridevano tanto, insieme. Aveva sempre amato tanto il modo di stare insieme dei suoi genitori e in cuor suo, fin da quando era piccolissima, aveva pregato di essere felice come la sua mamma, quando fosse diventata grande e si fosse sposata.

Suo fratello d'un tratto si fermò. "Guarda! Cosa sono quelli?" - le chiese, indicandole dei grossi sacchi e delle casse di legno che riposavano contro la parete, semi coperti da una logora coperta nera.

Clowance si accigliò, grattandosi la testa. "Non so". Era confusa, chi poteva averceli portati lì? Era la loro grotta quella, la loro spiaggia.

Jeremy si avvicinò, curiosando fra i sacchi. "Dici che ce li hanno messi mamma e papà?".

La bimba scosse la testa. Che idee stupide che aveva ogni tanto, Jeremy! "No, perché dovrebbero portare qualcosa qui?".

"Non so Clowance. Lo diciamo a mamma quando torniamo?".

"Si, certo. Lei saprà cosa sono queste cose e cosa fare".

Si scambiarono un tacito accordo a non dire a nessuno quanto visto, eccetto che alla loro madre. E poi corsero a casa, avvertendo in loro l'esigenza di allontanarsi da quel posto.


...


Demelza finì di piantare i semi nell’orto, osservando di sottecchi Ross che riparava il tetto. Era strano svolgere assieme a lui quei lavori un tempo tanto abituali per loro e ora divenuti una nuova, piacevole consuetudine.

Certo, desiderava con tutta se stessa che Ross guarisse e ricordasse ogni cosa di loro, tutto ciò che li aveva uniti, tutto ciò che li aveva divisi, ogni lacrima e ogni risata insieme, ma già averlo lì accanto a lei, sentirlo vicino e avvertire la dolcezza dei suoi baci e delle sue carezze erano di per se un buon motivo per ringraziare Dio. C’era e anche se di fatto mancava quel piccolo passettino a ritrovare tutto ciò che era andato perso, lui era lì con lei, accanto a lei… Non erano più due estranei ma erano tornati ad essere un marito e una moglie che si amavano pur in mezzo a difficoltà e divergenze.

Lo osservò scendere dalla scala a grosse falcate, avvertendo un brivido freddo davanti alla sua spericolatezza a muoversi in bilico nel vuoto. “Attento o cadrai di nuovo!”.

Ross rise, prendendo in braccio Bella che giocava con dei sassolini. “Ah, nessun problema! Al massimo, se cado, ripicchio la testa e guarisco dall’amnesia” – esclamò, avvicinandosi e baciandola a sorpresa sulle labbra.

Bella rise, Demelza rise un po’ meno. Gli diede un pizzicotto sulla guancia e lo guardò con aria di sfida. “Prova a cadere e a farti ancora male e ti massacrerò di botte io stessa. Abbi cura di tua moglie e della sua serenità”.

Ma io ho cura di mia moglie!” – rispose lui, divertito, prima di baciarla di nuovo. "E ho a cuore anche la sua serenità" – concluse, strizzandole l'occhio. Poi mise a terra Bella che si aggrappò ai suoi pantaloni. “Andiamo a prendere altra legna nella stalla?” – disse alla bimba.

Ti”.

Ross le sorrise. Prese a camminare con la piccola aggrappata ai suoi pantaloni come un koala e in breve sparì alla vista della moglie.

Demelza sospirò, divertita, richinandosi per continuare il suo lavoro. Era stanca e faceva caldo, ma si sentiva rilassata e serena. Andava tutto bene e presto, ne era certa, anche le cose fra Clowance e Ross si sarebbero sistemate.

Mamma!”.

Alzò la testa, vedendo i figli più grandi aprire la staccionata e correrle incontro. “Siete stati al mare di ritorno da scuola, è?” – chiese loro, notando i vestiti bagnati.

Clowance la abbracciò. “Sì, abbiamo giocato sulla spiaggia e poi siamo andati alla nostra grotta prima di tornare”.

Demelza accarezzò le loro testoline, notando quanto stessero crescendo in fretta e diventando indipendenti. “Avete fatto bene, fa caldo”.

Jeremy annuì. “C’è una cosa strana nella grotta però”.

Cosa?”.

Clowance le prese la mano, stringendola. “Dentro alla grotta, qualcuno ha messo delle casse di legno piene di roba e dei sacchi. Uffa però, non devono farlo, quella è la nostra grotta mamma”.

Demelza si oscurò a quelle parole. La prima cosa che le venne in mente erano i tre contrabbandieri che aveva incontrato con Hugh qualche mese prima, che nascondevano merce proprio su quella spiaggia. Erano tre brutti ceffi che di certo non sarebbero mai stati di parola, questo lo sapeva e doveva aspettarselo. Tuttavia quella notizia riuscì a lasciarla pensierosa e incredula. “Contrabbandieri, di nuovo…” – borbottò, vaga.

Cosa?”. Jeremy la guardò negli occhi, preoccupato.

Demelza si chinò davanti ai suoi due bambini, parlando sotto voce perché Ross non sentisse. Se suo marito avesse saputo una cosa del genere, per difendere lei e i bambini, si sarebbe cacciato nei guai. Anche malato era irruento e istintivo, avrebbe agito d’impulso e si sarebbe cacciato nei guai. Era il suo Ross, certo, ma non era ancora in grado di muoversi da solo in certe situazioni e Demelza sentiva di doverlo proteggere. “Bambini, non dite nulla a papà o si preoccuperà. Stasera, con la scusa di portare Artù a fare un giro, andrò a dare un’occhiata”.

Jeremy spalancò gli occhi. “Ma mamma, da sola e al buio?”.

Demelza gli sorrise, accarezzandogli le guance. Era così protettivo con lei, suo figlio… “Non mi succederà niente, non sarò sola, c’è Artù. Voi mi dovrete aiutare però con papà, tenendolo occupato e mantenendo il segreto. D’accordo soci?” – chiese loro, usando quel tono di condivisione e quel termine che aveva fatto di loro tre una squadra quando vivevano a Londra senza Ross.

Jeremy annuì, non troppo convinto. Clowance scosse la testa. “No, io non ci sto a casa con papà, voglio venire con te”.

Oh, Clowance…”.

Se non mi porti, faccio la spia con papà” – ribadì la bimba con decisione.

Demelza alzò gli occhi al cielo. Eccola la sua piccola, fiera rappresentante del caratteraccio dei Poldark. “D’accordo, hai vinto! Ma mi studierò un castigo se continuerai a ricattarmi” – concluse, strizzandole l’occhio.

Jeremy sospirò. “E io e Bella terremo occupato papà”.

La conversazione finì così perché in quel momento Ross ricomparve alla loro vista, carico di assi di legno, e Demelza fece loro cenno di fare silenzio.

La donna finse tranquillità durante tutto il pomeriggio e la serata, comportandosi con naturalezza e pacatezza, nonostante la preoccupazione che la attanagliava. Possibile che non ci fosse mai da stare tranquilli? Il bracconaggio era un reato punito molto severamente e non voleva problemi di alcun tipo, soprattutto in virtù del fatto che stavolta nessun membro della sua famiglia ne era coinvolto.

Più difficile fu aggirare le resistenze di Ross del dopo cena. Suo marito non aveva piacere che uscisse da sola con Artù e Clowance al buio, di sera, ma Demelza, grazie a Bella che dormicchiava e a Prudie che lamentava mal di schiena, lo convinse a rimanere a casa e a lasciarla andare da sola per una passeggiata atta a far sgranchire le zampe al cane.

Torneremo presto, giocheremo un po' con Artù e poi quando saremo stanche verremo a casa!”.

E con quella frase pronunciata in maniera civettuola, era uscita con cane e figlia, lasciando suo marito pensieroso e perplesso sull'uscio della porta.

Mi piace passeggiare con te” – esclamò Clowance, prendendola per mano.

Demelza strinse la presa su di lei, in preda a una strana ansia. “Non è una passeggiata tesoro. Mi raccomando, deve rimanere un segreto”.

Giuro mamma, son brava a mantenere i segreti. Mi piace avere un segreto con te”.

Demelza, che avrebbe voluto condividere con lei il suo entusiasmo ma non le riusciva in alcun modo, alzò gli occhi al cielo, non troppo convinta né della parola della figlia né della sua decisione di portarla con se.

Camminarono a passo spedito nella sabbia, mentre Artù trotterellava felice davanti a loro, e in una decina di minuti raggiunsero la grotta.

Clowance corse a mostrarle dove era nascosta la merce e Demelza si morse il labbro. Era merce di contrabbando, non c’erano dubbi! Quei sacchi contenevano sale e le casse di legno vini e liquori. E quei tre brutti ceffi che aveva incontrato in quello stesso posto assieme a Hugh, non erano persone di parola.

Prese un sacco, se lo mise in spalla, decisa sul da farsi. “Buttiamo tutto in mare” – disse, risoluta.

Ma mamma, non sono cose nostre” – obiettò Clowance.

Esatto. E quindi non devono stare qui. Aiutami, faremo più in fretta”.

Con la figlia trascinò le casse fuori dalla grotta, ogni sacco, ogni cosa nascosta in quel luogo che apparteneva alla sua famiglia e che era fonte di bellissimi ricordi per ognuno di loro. Non avrebbe permesso a dei contrabbandieri di sporcarlo, mai!

Gettarono tutto fra le onde, dispersero il contenuto dei sacchi nel mare e alla fine, stanche e sudate, osservarono la loro grotta tornata intatta e pulita, senza la macchia del contrabbando ad inquinarla.

Siamo state brave mamma?”.

Demelza le sorrise, mentre il cuore le balzava nel petto. “Si, brave!”. Ma lo sapeva, era una vittoria temporanea. Quei brutti ceffi sarebbero tornati di sicuro, ne era certa.

I guai, si sentiva, erano appena cominciati. E non avrebbe permesso per nulla al mondo che riguardassero il suo Ross.




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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


"Che silenzio...".

Demelza, coperta da un lenzuolo che ne celeva la nudità, si rannicchiò contro Ross sbadigliando. "E' molto presto, Prudie e Jud dormono ancora e pure i nostri bambini".

Ross le accarezzò piano i capelli, affondando il viso in quella massa color fuoco. "Eppure c'è tanta luce".

"E' quasi estate, è normale".

"E cosa facevamo in estate?".

Demelza si stiracchiò, chiudendo gli occhi assonnata. "Mh, tu a quest'ora spesso eri già in miniera. A volte di pomeriggio tornavi presto ed andavamo coi bambini a giocare in spiaggia".

Ross la strinse forte, tornando ad accarezzarala. "Potremmo ricominciare a fare tutte queste cose. E anzi, a proposito della miniera...".

A quelle parole, Demelza riaprì di scatto gli occhi. Sapeva dove voleva andare a parare col suo discorso e non era per niente d'accordo. "Ross, no! So che sei desideroso di tornare a fare qualcosa di interessante e di riprovare a fare il tuo lavoro, ma non me la sento di farti tornare in quel posto. Non sei ancora guarito, non sai valutare i rischi e i pericoli di quello che fai e i tuoi uomini di fiducia ti stanno sostituendo egregiamente. Resta a casa, almeno ancora un po'".

"Mi sento un invalido a starmene qui così, con le mani in mano. Voglio dire, tu hai i tuoi affari a Londra, i bambini la scuola e persino i nostri due domestici – che tanto portati per il lavoro non sono – si rendono più utili di me. Sto bene, starò attento, te lo giuro".

Voleva credergli, poteva farlo perché sapeva che sarebbe stato di parola questa volta, ma non ce la faceva. Demelza spesso, nei suoi incubi, riviveva quella mattinata terribile dell'incidente quando tutti la guardavano con la pietà con cui si guarda a una vedova giovane e con tre bambini piccoli. Ross lo aveva creduto morto per davvero quella volta e solo un fortunato caso del destino aveva evitato che lo perdesse per sempre. Aveva sofferto molto da quel giorno, lei e i suoi figli. E anche Ross! "Per favore, almeno per un altro po', resta a casa".

Ross la guardò negli occhi. La sua espressione era ferma e tenace, ma poi si addolcì. La baciò sulle labbra e poi sulla fronte, stringendola a se. "Va bene, se questo ti fa stare tranquilla, resterò a poltrire ancora un po' a casa".

"Sei sicuro che la cosa non ti pesi?".

Ross le sorrise dolcemente, sfiorandole col dito la punta del naso. "No, non mi pesa. Non eccessivamente almeno... Il mio compito di marito non dovrebbe essere quello di lusingare e far felice il mio tesoro?".

Le accelerò il cuore... Dal giorno dell'incidente non l'aveva mai chiamata con quel nomignolo che un tempo invece usava spesso. "Stai davvero tornando da me" – sussurrò, con una punta di commozione nel tono di voce.

Ross ridacchiò. "Da cosa lo capisci?".

Lo abbracciò, sprofondando il viso contro il suo collo. "Una volta mi chiamavi sempre 'tesoro'. O 'amore mio'. La mattina dell'incidente, prima di uscire, hai detto a Clowance che io ero il tuo tesoro più grande e lei me lo ha raccontato quando ti hanno riportato qui più vivo che morto. Quelle parole mi hanno dato la forza di lottare e non arrendermi".

Lo sguardo di Ross si fece serio, le sfiorò il mento e la costrinse a guardarlo in viso. "Quelle parole che ho detto a Clowance, erano vere. Ora lo so".

Demelza arrossì, felice di sentire quelle parole che tanto le erano mancate e che nessuna delle mille poesie che gli avrebbe potuto scrivere Hugh avrebbe potuto eguagliare. Però allo stesso tempo si sentì in colpa verso di lui e vagamente egoista nel volerlo tenere a casa. Ma sentiva di volerlo proteggere e tenere al sicuro a Nampara. Se fosse tornato alla vita attiva, col problema dei contrabbandieri sulla loro spiaggia, gente come George Warleggan avrebbe potuto, con qualche abile giochetto, collegarlo a quel reato che si perpetrava ancora sulle loro terre.

"Cosa c'è amore?".

Demelza si morse il labbro per essersi lasciata andare ad un'espressione preoccupata. Scosse la testa, decisa a risolvere il problema dei contrabbandieri da sola. Era abituata ad avere a che fare coi falchi della finanza e quei tre idioti della spiaggia, senza arte né parte, li avrebbe cacciati una volta per tutte senza fatica. "Non ho niente, stavo solo pensando" – commentò sotto voce.

"A cosa?".

Demelza gli sfiorò le labbra con l'indice, poi lo baciò con passione mentre con le mani gli sfiorava il petto facendolo rabbrividire. "Che Jud e Prudie dormono, che i bambini dormono, che il cane dorme... E noi no...".

Ross la attirò a se, i loro corpi si toccarono. "No, noi no... E io ti amo e sarei perso senza di te".

"Ma non ti perderai mai perché io sarò sempre qui con te". Lo baciò di nuovo, chiudendo ogni discorso fra loro. Aveva un po' barato, seducendolo per non continuare il discorso iniziato poco prima, lo sapeva e si sentiva in colpa. Ma era anche vero che lo amava da morire, che gli era mancato e che fare l'amore con lui era l'unico suo desiderio in quel momento.

...


La giornata era proseguita serena. Ross era rimasto a casa come promesso ma si era messo in testa di sistemare le assi sconnesse del tetto della stalla ed era dalla mattina presto che lavorava come un mulo. Demelza lo aveva lasciato fare, passando la giornata a cucinare e ad occuparsi dei bambini.

Era ormai estate, le lezioni alla scuola accanto alla miniera erano finite e i suoi tre figli, insieme ad Artù, riuscivano a combinare ogni tipo di disastro a causa della loro vivacità. Non riuscivano a stare fermi, correvano da una parte all'altra urlando, litigando, giocando e poi litigando di nuovo. Artù, con una pazienza che forse possedevano solo i santi, li seguiva ovunque facendosi tirare pelo ed orecchie da Bella senza un lamento.

"Mamma, andiamo in spiaggia a raccogliere le conchiglie?" - le chiese Jeremy, correndo nella cucina dove stava cercando di arrangiare la cena.

Demelza guardò fuori dalla finestra. Il sole era ancora alto, mancavano diverse ore alla cena e in fondo portare i bambini alla spiaggia poteva essere utile a far scaricare loro un po' dell'energia che gli scorreva in corpo. "D'accordo, ma papà? E' ancora impegnato coi lavori nella stalla".

"Andiamo solo noi, solo un'oretta mamma!" - la implorò Clowance.

Sbuffando, Demelza considerò che non era proprio un'idea malvagia. Ross era coperto di polvere dalla testa ai piedi e non voleva allontanarsi dal lavoro finché non fosse stato finito, non sarebbe comunque venuto con loro e lei invece aveva voglia di prendere aria. E soprattutto, di andare a controllare se i contrabbandieri avessero portato altra merce nella grotta. "Vado a dire a papà che usciamo un'oretta, aspettatemi fuori in cortile tutti e tre".

"Attùùùù" – gridò Bella, picchiettando sulla testa del cane.

Demelza rise. "Sì, viene anche Artù".

La donna corse alla stalla dove trovò Ross sudato, sporco e completamente spettinato. Rise di nuovo vedendolo in quello stato, anche se dovette ammettere a se stessa che era molto attraente anche così... Anzi, SOPRATTUTTO così, con la camicia aperta e i riccioli neri che gli ricadevano sulla fronte e sulle guance. "Ti da fastidio se ti lascio solo e porto i bimbi in spiaggia a giocare un po'? E' presto ancora per cenare".

Ross le si avvicinò col martello in mano. "Andate pure, io non mi muovo da qui, voglio finire questo lavoro prima di sera".

Demelza guardò il tetto, ormai quasi del tutto sistemato. "Hai fatto molto oggi, vedi di non stancarti".

"Oh, tranquilla, mi sento forte come un toro". Tentò di baciarla ma Demelza, ridendo, sgusciò via dal suo abbraccio. "Ohhh, scordati di toccarmi mentre sei così sporco" – disse divertita, con aria di sfida.

Ross rispose al suo sguardo, anche lui divertito da quella situazione e da quell'intimità che sempre si creava fra loro, quando erano insieme. "Mi rifarò stanotte allora, dopo il bagno, la cena e la messa a letto dei bimbi...".

"Se farai il bagno, vedremo..." – sussurrò lei, mordendosi sensualmente il labbro inferiore.

"MAMMAAAAA".

La voce dei bimbi che la richiamavano all'ordine, mise fine a quel suo gioco sottile di seduzione. "Devo andare, ci rivediamo dopo".

"A dopo, amore".

La voce di Ross, dolce e gentile, la raggiunse mentre usciva dalla stalla. Inspirò profondamente, guardò il cielo e si rese conto di essere infinitamente felice.

Andò dai tre bimbi e dal cane e tutti insieme si diressero alla spiaggia.

Appena arrivati sulla sabbia, i bimbi si tolsero le scarpe e corsero in acqua, schizzandosi e ridendo divertiti. Pure Bella, dal passo ancora incerto, li seguì. Era ormai abbastanza grande da unirsi ai loro giochi ed era un piacere stare a guardarli...

Demelza per un attimo si perse ad osservarli, catturata dalle loro corse e dalle loro risate... Erano il suo mondo, loro tre e Ross. E quella giornata tanto serena, forse uguale a tante altre del passato, aveva in se un sapore un po' particolare. Era quasi miracoloso essere di nuovo così, uniti e felici. Aveva un marito che la amava infinitamente, tre bambini stupendi, un cane buono e maestoso e pensò che c'era un tempo in cui non sapeva immaginare cosa ci fosse fuori dalla porta di casa, dove era convinta che la sua vita sarebbe passata attraverso le botte prima di suo padre e poi del marito ubriacone che le sarebbe stato affibiato. Ross le aveva cambiato la vita, l'aveva resa una persona migliore che sa parlare e andare ai balli, che sa leggere e suonare la spinetta e sa indossare abiti eleganti senza inciampare. Si erano forgiati a vicenda, lei e suo marito, crescendo attraverso i loro errori e il loro amore, fino a diventare una cosa sola. Un amore nato come pietra grezza ma poi levigato con fatica, fino a diventare un diamante splendente e prezioso.

Pensò che certe volte le persone vivono vite lunghissime e vuote e lei invece, in pochi anni, aveva avuto più di quello che tanti sognano in una intera esistenza... Fugacemente, pensò che non poteva chiedere altro. Che se anche, per qualche motivo, la sua vita fosse finita presto, non si sarebbe lasciata dietro nessun rimpianto.

Jeremy le tirò addosso dell'acqua, ridendo. "Mamma vieni!" - la chiamò.

Gli mostrò i muscoli. "Mi vuoi sfidare?".

Bella rise, lasciandosi cadere nell'acqua, mentre Clowance assunse un'espressione attenta che studiava ogni sua mossa.

A passi lenti, Demelza si avvicinò a loro. E poi, chinandosi velocemente e prendendoli di sorpresa, con le mani prese a bagnarli, finendo nell'acqua fino alle ginocchia.

Lottarono ridendo per lunghi minuti, nello stesso modo in cui aveva giocato con Ross alcuni giorni prima in quella stessa spiaggia. Poi, stanca e col fiato corto, decise che era arrivato il momento per le cose serie. "Bambini" – disse, strizzandosi la lunga treccia rossa ormai fradicia – "Andiamo a dare un occhio alla grotta? Voglio vedere se qualcuno ci ha messo ancora qualcosa".

Jeremy si fece serio. "I contrabbandieri?".

"Si, i contrabbandieri" – rispose, uscendo a grandi falcate dall'acqua. Poi si voltò verso di loro, mettendosi il dito indice davanti alle labbra. "Ricordate però, papà non deve saperne niente".

"Si, è il nostro segreto" – disse Clowance, correndole accanto e prendendola per mano.

Camminarono sulla spiaggia con la tranquillità con cui si fa una passeggiata. Demelza teneva per mano i figli più grandi mentre Bella, sulle sue spalle, si guardava attorno incuriosita.

Artù, davanti a loro, trotterellava contento. Era diventato ormai un cane molto grosso, dal lungo pelo bianco come la neve, ed era la bontà fatta animale. Per questo Demelza si stupì quando, a pochi passi dalla loro grotta, lo vide fermarsi, alzare il pelo sulla collottola e ringhiare.

La donna si guardò attorno, notando una barca noleggiata a riva, contenente grosse casse di legno. Si morse il labbro, il suo umore divenne di colpo cupo e prese a tremare dalla rabbia. Erano di nuovo lì, i contrabbandieri! E li aveva colti sul fatto!

Avrebbe voluto intervenire, ma c'erano i figli con lei e non voleva esporli a qualche pericolo. Suo malgrado doveva tornare a casa, allontanarsi e pensare al da farsi una volta messi al sicuro i bambini. "Andiamocene" – disse con urgenza.

"Ma mamma..." - obiettò Jeremy.

Una voce maschile gracchiante e non più giovane, li raggiunse alle spalle. "Mamma non va da nessuna parte, non preoccuparti, piccolo...".

Demelza si voltò, trovandosi davanti uno dei contrabbandieri che aveva già visto con Hugh Armitage. Era l'uomo dal viso butterato, grasso e dai capelli grigi e crespi, il capo-banda probabilmente. Altri tre uomini uscirono dalla grotta e in un attimo si sentì circondata. Strinse a se i bambini, rendendosi conto che quegli uomini, a differenza della prima volta, erano armati.

"E allora, signorina" – disse il contrabbandiere-capo – "Infine ci rivediamo".

"Esatto! E mi pareva che mi aveste giurato che non ci saremmo più incontrati" – rispose Demelza, a tono.

L'uomo ridacchiò sotto i baffi con fare maligno. "Il commercio prospera e noi poveri commercianti siamo costretti a trovarci porti d'appoggio".

"Commercianti? Contrabbandieri, vorrete dire".

L'uomo scosse la testa, avvicinandosi e tenendo la pistola puntata contro di lei. "Parlate troppo, signora, mi state ferendo le orecchie. Entrate dentro" – le intimò, indicandole con un cenno del capo la grotta.

Demelza si sentì morire, in trappola. Bella si mise a piangere e Clowance e Jeremy si strinsero più forte a lei, tremando spaventati. "Vi prego, ci sono dei bambini, lasciateci andare".

I contrabbandieri scoppiarono a ridere. "Lasciarvi andare? Per farvi chiamare le guardie?".

L'uomo butterato le si avvicinò, la prese per i capelli e, spingendola, la allontanò dai figli e la spinse a terra. Le diede un calcio nello stomaco facendola stramazzare nella sabbia e poi le afferrò i capelli, costringendola ad alzarsi, mentre i bambini piangevano terrorizzati. "Hai capito che non te lo sto chiedendo? Ubbidisci ed entra nella grotta coi bambini o ti pianto una pallottola nel petto, bellezza".

Col fiato corto, soffocata quasi dal dolore allo stomaco dovuto al calcio, Demelza boccheggiò. L'uomo la spinse dai bambini, le puntò la pistola alla nuca e con un gesto del capo, le indicò la grotta.

E a quel punto Artù ringhiò forte, lanciandosi contro l'uomo e mordendolo sulla coscia. Il contrabbandiere urlò e poi gli diede un calcio talmente violento da farlo volare per alcuni metri. Il cane guaì e l'uomo sparò in aria per terrorizzarlo.

"SCAPPA ARTU'" – urlò Clowance, in lacrime, cercando di salvare il suo amico.

Il cane fece per attaccare di nuovo ma il contrabbandiere sparò un altro colpo che lo spaventò ancora di più. E alla fine, scappò, guaendo disperato.

Clowance si aggrappò alla gonna della mamma e piangendo si strinse a lei cercando conforto.

Demelza avrebbe voluto confortarla, dirle che andava tutto bene, abbracciarla e rassicurarla come sempre. Ma i colpi e le botte subite facevano dolere ogni arto del suo corpo e con orrore pensò che non ci era più abituata. Da piccola era avvezza a questo tipo di trattamenti, li sopportava quasi con noncuranza, ma ora facevano male, infinitamente... Da quando aveva conosciuto Ross, nessuno l'aveva più sfiorata nemmeno con un dito...

"DENTROOOO".

L'urlo dei contrabbandieri la spinse, zoppicando, ad entrare nella grotta, sorretta da Jeremy mentre Clowance, con in braccio Bella, non si staccava dalla sua gonna.

I contrabbandieri li costrinsero ad addentrarsi in profondità, fino a uno stretto cunicolo sotterraneo tanto simile a quelli della Wheal Grace, la miniera di Ross. Poi, dopo aver intimato loro di non muoversi, proseguirono col loro lavoro, lasciando un uomo di guardia affinché non scappassero.

Demelza si sedette contro la roccia, stringendo a se i figli ed implorando di lasciare andare i bambini, purtroppo senza esito. Li cullò, cercò con tutte le sue forze il coraggio di cantar loro una canzone, ma non le uscì che un lamento stonato. Voleva Ross, lui avrebbe saputo cosa fare. Si maledì per essersi addentrata fin lì da sola coi bambini e di essere incorsa in quel rischio così grande senza dire a nessuno dove fosse diretta.

Gli uomini finirono di nascondere le casse e poi il tizio butterato tornò da lei con l'immancabile pistola fra le mani. "Allora bellezza, che faccio con te, ora? Ti porto sulla mia nave e faccio di te la mia schiava..." - propose, leccandosi le labbra in maniera viscida – "O ti tengo qui prigioniera a curarmi la merce?".

"Lasciate andare i miei bambini e fate di me quel che volete" – lo implorò, di nuovo.

"No no, da qui non va via nessuno" – rispose l'uomo.

"Per favore".

Di tutta risposta, il contrabbandiere le si scagliò contro, dandole un nuovo schiaffo in pieno viso che la fece stramazzare a terra. "Zitta, odio sentire la gente che implora inutilmente".

Le girò la testa per un lungo istante a causa del colpo, finché non sentì Jeremy alzarsi di scatto e, presa dal panico, cercò di ricomporsi e di riacciuffarlo prima che facesse delle sciocchezze.

"LASCIA STARE LA MIA MAMMA!!!" - urlò il bambino, lanciandosi contro l'uomo.

"JEREMY, NOOOO". Con la forza della disperazione, Demelza si alzò e riprese il figlio, allontanandolo dalle grinfie di quel criminale prima che succedesse l'irreparabile.

Il contrabbandiere, preso alla sprovvista inizialmente, sputò a terra e prese la mira... "Mi hai stancato donna, tu e questi tuoi marmocchi".

Demelza spinse i bimbi dietro di lei e si parò loro davanti, per difenderli col suo corpo da qualsiasi cosa avesse in mente quell'uomo. Poi fu un attimo, un colpo secco, la pistola che fumava e un dolore fortissimo che le tolse definitivamente il fiato, nel costato, vicinissimo al cuore.

Stramazzò al suolo, avvertendo solo che i suoi vestiti si stavano bagnando di una sostanza calda e oleosa...

Le urla di Clowance, Jeremy e Bella sembravano lontane, così come la risata di quell'uomo orribile che li teneva prigionieri. In un attimo il dolore sparì, sparì tutto quanto quasi miracolosamente. Fugacemente ricordò la sua infanzia, il viso sbiandito dal passare del tempo di sua madre, le botte di suo padre, la sua nidiata di fratellini a cui badare, la fame costante che aveva accompagnato tutti i suoi primi tredici anni, il giorno in cui la sua vita era cambiata, il primo sguardo a Ross, l'ammirazione per lui, Garrick, il lavoro accanto a Jud e Prudie, la miniera, il vestito azzurro della madre di Ross, la sua prima notte d'amore con lui, il matrimonio, i loro bimbi, il dolore del tradimento, della lontananza e della solitudine, l'amore, le carezze, le risate e gli abbracci, Londra, i suoi amici, i balli, tutta la sua vita gli passò avanti in un attimo...

Poche ore prima aveva fugacemente pensato che non avrebbe avuto rimpianti, che aveva avuto tutto...

Non avrebbe mai immaginato che quei pensieri vaghi sarebbero stati una sorta di testamento silenzioso di ciò che era stata...

Il mondo divenne buio, tutto perse consistenza e forma... E fu come sprofondare lentamente in un sonno eterno...



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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


Mamma, mamma!”.

Era avvolta dall’oscurità, si sentiva leggera e inconsistente e la voce dei suoi figli pareva provenire da lontano. Avrebbe voluto ignorarla, lasciarsi andare all’oblio perché sapeva che se avesse riaperto gli occhi, avrebbe provato dolore. Ma era anche consapevole che, finché un alito di vita fosse stato presente in lei, avrebbe risposto alla loro chiamata.

Aprì gli occhi, a fatica, travolta da un dolore fortissimo e schiacciata dalla difficoltà di respirare, trovandosi accanto i suoi tre bambini in lacrime. Si guardò attorno, erano ancora nella grotta e le voci dei contrabbandieri apparivano lontane, anche se ancora presenti. Sentiva il sangue defluire velocemente fuori dal suo corpo e solo in quel momento si accorse della mano di Jeremy, premuta sul suo costato, nel disperato tentativo di fermare il sangue. Era stato Ross ad insegnarglielo, pensò fugacemente… E a quel ricordo le venne da sorridere. Era un bravo papà e lo sarebbe sempre stato anche in futuro, qualsiasi cosa fosse successa…

Mamma”. Clowance le si gettò addosso, aggrappandosi alle sue spalle. Debolmente portò una mano ai capelli rossi della figlia, accarezzandoli piano. “Shhh, non aver paura… Andranno via”.

Mammmaaa”. Bella le batté con la manina sul braccio. E a Demelza vennero le lacrime agli occhi. Non li avrebbe visti crescere, diventare adulti, sposarsi e realizzarsi nella vita… La sua unica consolazione era che li lasciava in buone mani e che Ross avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per loro, perché fossero felici…

Pensò a Ross, a tutto il tempo sprecato che avevano trascorso lontani, a tutto il tempo perso a litigare e all’amore indissolubile che li univa… Non lo avrebbe più rivisto, non lo avrebbe potuto salutare, dargli un bacio d’addio, non avrebbe avuto occasione di dirgli quanto lo amava, quanto si era sempre sentita fortunata per essere diventata sua moglie, non lo avrebbe visto guarire… Perché lui sarebbe guarito, ne era certa. Strinse la mano di Jeremy, la allontanò dalla sua ferita e lo guardò negli occhi. Era il suo ometto e doveva dirgli cosa fare e come muoversi per portare in salvo lui e le sue due sorelle. Era orgogliosa e fiera di Jeremy, era un bambino accorto, intelligente e buono, sarebbe diventato un grande uomo. E poi c’era Clowance, tanto bella quanto raffinata. Sarebbe diventata una lady ammirata e corteggiata da tutti, ne era certa. Infine la piccola e buffa Bella, che rideva e strillava talmente forte che non faticava ad immaginare un futuro da cantante per lei. Non li avrebbe visti crescere ma, era strano, era come se potesse già vedere il loro futuro. Che si augurava felice, sereno e con la loro famiglia sempre unita. “Jeremy… Quegli uomini torneranno alla loro barca, non staranno qui troppo a lungo…”. Deglutì, faticava a parlare, a respirare, a fare qualsiasi cosa. Ma doveva farlo! “Quando saranno lontani, quando non sentirai più le loro voci, prendi Bella e Clowance e scappate, correte a casa da papà, al sicuro! Capito? Devi correre forte, non fermarti e non voltarti indietro finché non sarete a Nampara. Promettimelo!”.

Jeremy scosse la testa, mentre Clowance iniziò a piangere più forte. “Ma mamma, no! E tu che farai?”.

Io resto qui… E voi andrete via! Ti prego, dimmi che lo farai” – chiese, quasi implorandolo. Stava morendo, sentiva le forze venir meno e l’oscurità da cui era appena uscita che la stava risucchiando di nuovo. Voleva andarsene sapendoli sani e salvi, col loro papà.

Jeremy capì, annuendo, mentre le lacrime continuavano a rigargli il viso. “Va bene mamma, lo farò. E poi torno con papà a prenderti”.

Certo tesoro, ti aspetterò qui” – gli rispose, sapendo bene che anche Jeremy aveva capito che era una bugia.

Si voltò verso Clowance che, accanto a loro, le stringeva assieme a Bella il braccio. “Devi fare la brava, soprattutto con papà. Promettimi che farai pace con lui. E’ l’unica cosa che vorrei davvero”.

Ma…” – obiettò la bimba.

Promettimelo. E’ importante, lui ti vuole bene e tu ne vuoi a lui. Stagli vicino, avrà bisogno di te. Parla, gioca con lui, fate le cose insieme come una volta, fa la brava e ascoltalo e sarai contenta di nuovo. Aiutalo con Bella, è la tua sorellina e sarai tu a darle l’esempio per aiutarla a diventare grande”.

Clowance scosse la testa e pianse più forte, capendo appieno il significato di quelle parole. “Ti prometto… che ci provo. Ma mi devi aiutare tu”.

Avrebbe voluto risponderle e dirle che le sarebbe sempre stata vicina in qualche modo, ma sapeva che per Clowance sarebbero state solo parole vuote. Eppure ci credeva… Sarebbe rimasta in ognuno dei suoi figli, negli insegnamenti e nei ricordi e forse, crescendo, in qualcosa, in qualche scelta, si sarebbero ispirati a lei. “Ti voglio bene, vi voglio bene” – sussurrò. Il buio la avvolse di nuovo, mentre si sentiva sempre più inconsistente e leggera. Il dolore scomparve, tutto scomparve e anche il pianto dei suoi bambini, sempre più lontano, divenne intangibile. Li stava lasciando per sempre. E stava per riabbracciare l’altra sua figlia, Julia. Sarebbe tornata ad essere la sua mamma e questa cosa, in un qualche modo, rasserenò la sua discesa verso il nulla.

Non è corretto, non è educato, non è appropriato e non è gentile!” – sbottò Prudie, girando lo stufato nel pentolone. “La cena è pronta e la signora è in ritardo”.

Ascoltando quei borbottii, Ross guardò fuori dalla finestra. Era quasi buio e in effetti Demelza stava ritardando. “Strano, non è da lei”.

Ci dobbiamo preoccupare?” – chiese Jud, seduto al tavolo a lucidare la sua pipa.

Ross scosse la testa, pensieroso. “Sono andati alla spiaggia, una cosa tranquilla. Non credo ci sia da preoccuparsi, ma magari faccio un salto laggiù per chiamarli”.

In quel momento, l’abbaiare furioso di Artù spezzò la calma. Il cane si avventò sulla porta d’ingresso, guaendo ed abbaiando in un modo quasi feroce che non gli era mai appartenuto.

Il volto di Ross si oscurò e di scattò andò ad aprire la porta. Artù gli si avventò contro, prendendolo per i pantaloni e tirandolo verso di se. L’uomo si chinò, stranito dal fatto che il cane si comportasse a quel modo. Gli accarezzò la testa cercando di calmarlo, lo strinse a se e solo in quel momento si accorse della ferita che aveva al costato. Sfiorandolo, il cane guaì dal dolore, accucciandosi e leccandosi il pelo. Ross sentì il fiato mancargli. Che cos’era successo? Dov’era sua moglie? E dov’erano i suoi bambini? “Artù, cosa stai cercando di dirmi?” – sussurrò al cucciolo.

Artù, a quella domanda, parve capire. Si alzò di nuovo, addentò la stoffa dei suoi pantaloni e tirò, invitandolo a seguirlo. Ross annuì. “Jud, vieni! Credo sia successo qualcosa. Tu Prudie, aspettaci qui”. E detto questo, col servo alle calcagna, corse fuori da Nampara, diretto alla loro spiaggia.

Corsero come forsennati e nonostante Jud faticasse a stargli dietro, sentiva l’esigenza di essere veloce. Il suo istinto gli gridava di fare presto, che era una corsa contro il tempo. Improvvisamente, forse a causa della tensione, sentì una fitta fortissima alla testa, tanto simile a quelle che lo avevano tormentato nei giorni seguenti al suo incidente. Si accasciò a terra sfiorandosi le tempie, mentre per un attimo si sentì mancare e strane immagini gli balzavano nella mente senza un oggettivo senso logico.

Jud gli fu subito vicino. “Signore?”.

Ross scosse la testa, tirandosi su. “Non è niente, seguiamo il cane”. Dwight gli aveva detto che un colpo in testa o un trauma emotivo forte, potevano aiutarlo nella sua condizione. E per un attimo, mentre correva, immagini sfuocate di un passato che poteva sfiorare ma non ancora toccare, gli passarono davanti agli occhi. Ma non era il momento di pensarci, doveva correre, trovare i suoi bimbi e sua moglie e vedere cos’era successo. Il resto aveva poca importanza.

Artù corse lungo la spiaggia, velocemente, incurante della sua ferita. Ross lo seguì, arrivando fino alla grotta che delimitava la loro proprietà. In lontananza vide una barca carica di casse di legno allontanarsi e subito entrò in allerta. Chi erano quelle persone? E cosa ci facevano lì? E dov’erano i suoi figli e sua moglie?

Jud, quasi leggendogli nel pensiero, gli rispose. “Contrabbandieri! Dannazione, sono fra le peggiori canaglie”.

Ross scosse la testa, in quel momento quella faccenda era di secondaria importanza.

Artù abbaiò, facendogli segno di seguirlo nella grotta. E Ross corse, seguito da Jud, addentrandosi nell’oscurità. “DEMELZA!” – urlò – “AMORE, SEI QUI’?”,

PAPAAAA’”.

La voce di Jeremy giunse dal fondo della grotta, disperata. E Ross corse di nuovo, col cuore in gola. “Jeremy, dove sei? Dove siete?”.

Papà, papà!”.

Alla voce di Jeremy si aggiunsero anche quelle di Clowance e Bella e Ross si precipitò nella direzione da cui provenivano.

E quando li ebbe davanti, sentì il cuore fermarsi. I suoi bambini erano il lacrime e Demelza… la sua Demelza… era in un lago di sangue. Sentì le gambe tremare, rimase senza fiato e la testa tornò a dolergli con un’intensità ancora maggiore. “Cos’è successo?”.

Jud, accanto a lui, lo guardò con l’orrore negli occhi. “Signore, è… lei è…?”.

No!”. Se Jud voleva chiedergli se era morta, la risposta era NO! Razionalmente non avrebbe potuto affrontare una verità diversa.

Jeremy corse da lui, lo abbracciò. Le sue mani erano sporche di sangue, piangeva ed era terrorizzato. “Quei signori hanno sparato alla mamma! Papà, si è addormentata, non si sveglia più” – singhiozzò il bimbo.

Ross gli accarezzò i capelli e poi lo affidò a Jud. Infine si avvicinò col terrore nel cuore che fosse morta e che lui non le era accanto per difenderla. Era pallida, piena di sangue, immobile. Lei, il suo amore, lei, sempre piena di vita…

Si inginocchiò, strinse a se le bimbe e stavolta Clowance non oppose resistenza. “Andate da Jud, così potrò aiutare la mamma”.

Clowance annuì senza dire nulla. Prese Bella in braccio, diede un’occhiata a sua madre e poi corse a rifugiarsi fra le braccia del servo.

Ross sfiorò la fronte di Demelza, fredda e marmorea. Poi le toccò il polso, cercando in esso un alito di vita. Lo trovò, il battito era debole e irregolare ma c’era. Demelza sembrava lontana ed irraggiungibile ma era ancora con loro e lui l’avrebbe salvata. La prese fra le braccia, intuendo cosa avesse provato lei quel giorno, quando lui era quasi morto nella miniera. Le baciò la fronte, sentendosi in colpa per il dolore che le aveva arrecato allora e provandolo anche lui sulla sua pelle, per la prima volta. Pregò che non se ne andasse, pregò che trovasse la forza di resistere e che tornasse da lui e dai loro figli. Senza di lei, nulla avrebbe avuto più senso, pensò, con un tormento nel cuore. “Amore mio, ti riporto a casa, resisti. Fallo per me, ti prego”.

Demelza non rispose, come era ovvio. Ross la sollevò, la strinse delicatamente a se e guardò Jud e i bambini. Aveva di nuovo la testa che gli faceva un male terribile, le vertigini e flash che gli annientavano la mente con immagini sfuocate. Immagini che riguardavano lei, loro! Immagini che voleva far sue di nuovo, non tanto per se stesso ma per tornare ad essere davvero una famiglia. Lui con lei, coi loro figli, il loro cane e i loro servi. “Corriamo, dobbiamo fare in fretta!” – disse a Jud.

Non c’era tempo da perdere, ogni attimo poteva essere fatale per Demelza.


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Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


"Ross, dobbiamo parlare".

La voce di Dwight, che aveva mandato a chiamare in fretta e furia da Jud, era grave e preoccupata. Era rimasto a lungo in camera a visitare Demelza che, debolissima, non aveva mai ripreso conoscenza, ed ora era il momento del verdetto.

A Ross sembrava di impazzire, avrebbe voluto uccidere gli uomini che avevano osato farle del male, sbatterli al muro e riempirli di pugni, avrebbe voluto curarla e farla star bene solo con la sua vicinanza, avrebbe voluto essere al suo posto. E invece non poteva fare nulla e si sentiva completamente inutile. La testa gli doleva da morire, davanti ai suoi occhi balenavano improvvise immagini di cose che per lui non avevano senso e se non fosse stato tanto preoccupato per Demelza, avrebbe chiesto a Dwight una visita per se stesso. "Dimmi" – rispose al medico, stringendosi la tempia fra le dita e pregando che portasse buone notizie.

Dwight sospirò, poggiandogli una mano sulla spalla. "Ross, è viva, ha una tempra forte ed è giovane".

"Ma...?" - chiese, perché lo avvertiva chiaramente che c'era un 'ma'.

"Ross, devo estrarle il proiettile e suturare la ferita".

"D'accordo, fa quel che devi!" - rispose, con urgenza. Perché stava perdendo tempo con lui, invece che curare Demelza?

Dwight scosse la testa, sospirando. "Ha perso molto sangue, è troppo debole. L'intervento di per se potrebbe non essere troppo complicato, ma Demelza potrebbe non riuscire comunque a superarlo. Il suo cuore potrebbe cedere... Sei tu che devi decidere se vale la pena tentare o se preferisci lasciarla andare in pace, senza torturarla".

A Ross parve mancare il fiato ed ebbe un nuovo giramento di testa che lo costrinse ad appoggiarsi al muro per non cadere. Non poteva essere, NON POTEVA ESSERE! Dwight stava dicendo che sua moglie... la sua bellissima moglie... stava morendo... E gli stava chiedendo di decidere come... Era un incubo, era peggio di un incubo. Pensò a come sarebbe stato perderla, al dolore dei loro bambini, a come quella casa avrebbe smesso di essere una casa senza di lei che ne era l'anima.

"Ross, stai bene?" - chiese Dwight, afferrandolo per il braccio ed aiutandolo a sorreggersi.

"Mi gira la testa, da morire, da oggi pomeriggio, da quando sono corso fuori per cercare mia moglie e i miei bambini. Ma non è niente di grave, non ha importanza".

Dwight lo studiò in viso, accigliato. "Un forte stress, nelle tue condizioni, potrebbe aiutarti a guarire dall'amnesia, lo sai?".

Ross gli diede uno strattone, allontanandolo da lui. Che importava? Delle sue condizioni di salute e della sua amnesia, a Ross non importava nulla! Era solo di Demelza che voleva parlare, solo di lei! "Demelza, dobbiamo pensare a lei, non a me".

"Cosa faccio?" - chiese Dwight.

Ross sorrise tristemente, mentre nella sua mente si formulava la risposta più ovvia da dargli. Demelza era forte, una combattente. Non lo avrebbe lasciato e non avrebbe lasciato i suoi bambin, avrebbe lottato come una leonessa. "Toglile quel proiettile, fa in fretta e fa in modo che non soffra. E riportala da me".

Dwight annuì. "Farò del mio meglio. Vuoi entrare per salutarla?".

"Posso farlo?".

"Sì, puoi. Una cosa breve, mentre preparo i ferri".

"Posso portare i bambini da lei? Li ho lasciati giù in salone con Prudie".

A quel punto il medico scosse la testa. "No, non è il caso. La vedranno quando starà meglio".

"Starà meglio? Tu ci credi, vero Dwight? Credi in lei?".

Dwight sorrise. "Sì, credo in lei". Gli diede una pacca sulla spalla in tono amichevole per dargli coraggio. "Va da tua moglie Ross, anche se è priva di coscienza, sono sicuro che percepirà che sei accanto a lei".

Ross annuì. E poi entrò in camera dalla moglie.

Lei sembrava addormentata. I suoi lunghi capelli rossi erano sparsi sul cuscino e il suo viso era pallido e sofferente. Le si avvicinò, sedendosi accanto a lei e prendendole la mano. Gliela baciò, portandosela alle labbra. "Mi fido di te, so che sei forte. Ne uscirai, ne usciremo come sempre. Mi hai raccontato che insieme abbiamo combattuto mille battaglie, questa è solo una delle tante". Si chinò, dandole un lieve bacio stavolta sulle labbra. E in quel momento, come un flash, nella sua mente apparve un'immagine di Demelza vestita con un abito rosso, seguita da un'altra in cui era in quello stesso letto, pallida e sofferente come la vedeva in quel momento. Ross si tirò su di scatto, turbato. Cos'erano quelle immagini che, da quel pomeriggio, gli ferivano occhi e mente? Era il suo passato che cercava di tornare? O fantasie malate di un uomo terribilmente preoccupato per la moglie?

Dwight in quel momento rientrò, poggiando la sua borsa sul comodino. "Ross, ora devi andare, penserò io a lei".

Annuì, baciandola di nuovo ed appoggiando la fronte sulla sua. Aveva paura, per lei, per lui, per i loro bambini. Ma doveva avere fiducia, era tutto quello che poteva fare. "Torna da me" – sussurrò, quasi implorandola. Poi si alzò, poggiando famigliarmente una mano sulla spalla di Dwight. "Te la affido, è tutto quello che ho. Salvala e riportala da noi".

Dwight annuì e, a malincuore, Ross uscì dalla stanza. Si allontanò, non voleva sentire né immaginare nulla di quello che sarebbe successo lì dentro.

Scese al piano di sotto dove Prudie cercava di intrattenere i suoi figli. I suoi bambini erano ancora molto scossi e non sapeva cosa fare. La piccola Bella frignava in braccio alla loro serva e d'istinto la prese, stringendola a se ed avvicinandosi agli altri due bambini che, seduti alla panca del tavolo, se ne stavano in silenzio, ammutoliti. "La mamma starà bene, vedrete".

Jeremy abbassò lo sguardo. "Sei sicuro? Era come morta".

Ross scosse la testa. Era inutile mentire per tranquillizzarli, i suoi figli avevano vissuto l'agonìa della madre in prima persona e avrebbero captato subito una bugia. "Non è morta, però sta molto male. Dwight l'aiuterà a stare meglio e pian piano guarirà".

Clowance non disse nulla. Lo guardò storto, si alzò e andò a rannicchiarsi davanti al camino, chiusa in un ostinato silenzio.

Ross la guardò, sentendosi impotente. Clowance era la figlia con cui gli era più difficile rapportarsi e con la quale aveva parecchi problemi irrisolti. Ma in quel momento andavano messi da parte, ne era consapevole. La sua bambina era spaventata e confusa e toccava a lui fare il primo passo. Le si avvicinò, inginocchiandosi accanto a lei e mettendole Bella vicino. "Vuoi venire un po' in braccio? Magari ti tranquillizzi e riesci a dormire un po'".

"No, non voglio venire in braccio. Voglio solo stare quì e aspettare la mamma".

"Ci vorrà molto".

"Fa niente, resto quì lo stesso".

Ross fece per accarezzarle i capelli, ma la piccola si scostò bruscamente. E in quel momento si chiese se sarebbe mai riuscito a recuperare il rapporto con lei. Aveva bisogno di Demelza, di averla vicino... Lei avrebbe saputo cosa fare... "Clowance, per favore...".

La bimba si voltò verso di lui, osservandolo con occhi velati di lacrime. E per la seconda volta, un'immagine sconosciuta apparve agli occhi di Ross. Una Clowance più piccola, con la testolina piena di boccoli rossi e un albero di Natale tutto rosa... Fu colto da una vertigine fortissima e dovette appoggiarsi al tavolo per non cadere.

"Papà". Jeremy gli corse vicino, spaventato.

Ross gli accarezzò la guancia. "Sto bene, mi fa solo un po' male la testa".

Anche Clowance lo fissò, non riuscendo a mascherare la preoccupazione. E a quel punto si fece coraggio, si inchinò e la prese in braccio, assieme a Bella. "Sto bene, state tranquilli. E' la mamma che ha bisogno di Dwight, non io".

Prudie lo osservò senza dire una parola ed uscì con Jud fuori dalla porta a prendere un po' d'aria. Ross, con le due bambine fra le braccia, si sedette sulla panca con Jeremy accanto, aspettando notizie da Dwight.

Clowance non fece obiezioni, rimase in silenzio rannicchiata contro il suo petto e pure Bella, di solito vivace e pestifera, rimase ferma.

Calò il silenzio e Ross, coi suoi figli vicino, parve perdere la cognizione del tempo. La testa gli girava da morire ma avere i bambini vicino era come avere un appiglio per non cadere. Immagini veloci e confuse gli danzavano davanti agli occhi e non sapeva dar loro né forma né collocazione spazio temporale, si sentiva confuso e inerme e non aveva idea di come bloccare quello stato di ansia in cui era caduto. "Un albero di Natale rosa... Lo abbiamo mai avuto?" - chiese improvvisamente, quasi più a se stesso che ai suoi figli.

Jeremy lo guardò, sbuffando. "Sì, a Londra. Era di Clowance, quando era piccola lei voleva tutto rosa. Ti ricordi?".

Clowance scosse la testa, non troppo desiderosa di parlare. "No, non mi ricordo".

"Ma io sì" – sussurrò Ross, fra i capelli rossi della figlia. Il suo passato stava tornando e forse, come gli aveva detto Dwight, era il trauma per quanto successo a Demelza che stava smuovendo qualcosa in lui. Forse doveva esserne felice, ma non era così. Avrebbe preferito continuare a non ricordare nulla, se il prezzo da pagare lo stava scontando Demelza...

Pregò silenziosamente per lei... Che non soffrisse, che Dwight sistemasse le cose e che guarisse in fretta.

I minuti sembravano dilatarsi in ore, la casa pareva immersa in un silenzio surreale e dalle scale e dalla camera dove Dwight stava cercando di salvare la vita di sua moglie, non proveniva alcun suono.

I bimbi erano chiusi in un ostinato mutismo, Bella era sprofondata in un sonno agitato e persino Artù si era rintanato nella sua cesta e non si muoveva. Di tanto in tanto Jud e Prudie facevano capolino in cerca di notizie ma poi finivano per uscire di nuovo fuori a testa bassa.

Non seppe dire quante ore fossero passate, due o forse tre... Ore passate a chiedersi quanto diavolo ci volesse per estrarre un proiettile.

E quando alla fine Dwight, sudato e stravolto, comparve dalle scale, a Ross parve fermarsi il cuore. "E allora?" - chiese, con timore.

"E allora è molto debole, ma quanto meno sono riuscito ad estrarre il proiettile e a medicarle la ferita. Potrebbe avere la febbre molto alta nelle prossime ore e avrà bisogno di assistenza costante, non deve essere lasciata sola".

Ross deglutì, annuendo. "Quindi... andrà tutto bene?".

Dwight scosse la testa. "Vorrei potertelo assicurare ma la verità è che siamo nelle mani di Dio e che dobbiamo confidare nella forza di Demelza. Io ho fatto tutto quello che potevo, ora dipende da lei".

Ross si alzò in piedi, affidando Bella alle cure di Jeremy e mettendo Clowance in terra. "Posso andare da lei?".

"Devi andare da lei" – rispose Dwight, con ovvietà. "I bambini però, finché non si sarà risvegliata, è meglio che restino fuori dalla stanza. Ha bisogno di riposo".

Clowance e Jeremy abbassarono lo sguardo e Ross carezzò loro la testa. "Su, abbiate un po' di pazienza, è per il bene della mamma. Starò io con lei e farò in modo che guarisca in fretta".

"Tu come stai Ross? Hai ancora dolori alla testa?" - gli chiese Dwight, studiandolo in viso.

"Si, ma non ha importanza". Non ne aveva, per niente. Voleva solo andare da Demelza in quel momento, il resto non contava.

Lasciò i bambini alle cure di Prudie e corse al piano di sopra, entrando nella stanza in punta di piedi.

Demelza pareva dormire un sonno profondo, il suo viso era di poggiato di lato sul cuscino e i riccioli rossi le coprivano parzialmente una guancia. Era pallidissima e il suo volto era stanco e sofferente, ma era viva. Solo questo importava!

Si sedette accanto a lei, prendendole la mano nelle sue ed accarezzandole il palmo. "Sei stata bravissima, sono orgoglioso di te".

E poi Ross non disse più nulla e calò il silenzio. Le rimase accanto per ore, mettendole pezze bagnate sulla fronte, sistemandole i capelli che le scivolavano sul viso e accarezzandole la mano. Prudie arrivò a portargli la cena ma non spizzicò che un po' di pane, gli pareva di avere lo stomaco chiuso.

Calò il buio, accese le candele nella stanza per poter continuare a vegliare il suo sonno e quando ormai la mezzanotte era passata da molto, sentì la porta cigolare. Artù, di soppiatto, entrò, accucciandosi ai piedi del letto, al suo fianco.

Ross osservò il cane. Se non fosse stato per lui che li aveva guidati fino alla grotta, forse non sarebbe arrivato in tempo per salvarla. Lo chiamò a se, accarezzandogli poi la testolina. Aveva il pelo morbido come seta, bianco come la neve e due occhietti neri e vivaci. "Ti devo ringraziare". Improvvisamente, di nuovo, sentì la testa girargli e nella sua mente apparvero altre immagini. Ma stavolta non semplici e veloci flash... Vide una fiera, vide se stesso molto più giovane e un cane dal pelo chiaro come Artù ma che non era Artù. E un ragazzino vestito di stracci... no, una ragazzina... la padroncina del cane... "Demelza... Garrick...". Ross spalancò gli occhi, la stanza gli prese a girare attorno sempre più forte... Vide altre immagini, il viso di una giovane donna dai lunghi capelli scuri, una miniera, il visino di una bimba persa nel tempo e strappata dal destino ai suoi genitori, la nascita di Jeremy, i suoi giochi con Clowance e Bella...

Per un attimo la testa gli girò talmente forte che cadde a terra, stringendosi le tempie con le mani, mentre Artù gli leccava preoccupato la guancia. Durò lunghi istanti e poi, di colpo, tutto smise di girare e la testa smise di pulsare. Aprì gli occhi e si trovò davanti il muso del cane che, accigliato, lo guardava come se fosse stato pazzo. E in quel momento si rese conto di qualcosa che, in situazioni normali, l'avrebbe fatto ridere come un pazzo. Ricordava! Tutto! "E pensare che quella testona di mia moglie nemmeno ti voleva" – sussurrò quasi commosso, accarezzandolo e stringendolo a se.

Guardò la stanza, la sua stanza. Non aveva idea di come e perché fose successo ma era tornato, ora era davvero tornato a casa! Si tirò in piedi, osservando Demelza spersa in un sonno senza sogni, ricordando ogni cosa di lei, di loro e degli ultimi momenti che avevano trascorso insieme prima del suo incidente in miniera. Gli si strinse il cuore nel pensare a quel momento. "Perdonami..." - disse, sotto voce, tornandole accanto e prendendole la mano. "Scusa se ti ho fatto preoccupare e ti ho lasciata sola. Ma ora sono quì...". Ricordava tutto, ogni cosa accaduta prima e dopo il suo incidente. L'unico dono che quella giornata infernale aveva regalato alla sua vita, la guarigione...

Sapeva chi era, adesso. Era il marito innamorato e orgoglioso di Demelza, il padre di tre splendidi bambini, il proprietario di una miniera, un uomo che aveva sbagliato tantissimo e aveva rischiato di perdere ciò che davvero contava. Un uomo che aveva amato in passato un'altra donna che mai avrebbe potuto renderlo felice e che aveva trovato la sua ragione di vita in una ragazzina vestita di stracci che aveva incontrato per caso a una fiera tanti anni prima, mentre era intenta a difendere il suo cane.

Si chinò su di lei, baciandola lievemente sulle labbra. "Sono tornato, sono guarito... Ora fai altrettanto e torna da noi, ti prego". Era difficile vederla star male, percepire su di se il dolore che doveva aver provato anche lei quando era stato lui a tornare a casa quasi morto. E provarlo lui stesso era un qualcosa che gliela faceva sentire più vicina. "Torna, torna da me, torna da noi, ti aspettiamo".

Demelza non si mosse, apparentemente troppo lontana per sentire le sue suppliche. Ma Ross avvertì che la mano che stringeva, rispondeva debolmente al suo tocco.



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Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


"La mamma sta dormendo troppo".

Quella semplice osservazione di Jeremy, a cui aveva permesso di entrare in camera, aumentò la sua frustrazione. Ross guardò sua moglie che, dal giorno prima, era riversa in quel letto priva di sensi. Il suo respiro era talmente debole da essere quasi impercettibile e il suo volto aveva il colore dell'avorio. Sembrava così fragile e lontana, lei che di solito era tanto forte e combattiva...

Ross accarezzò la testolina del figlio, non sapendo bene cosa dire. Dal giorno prima ricordava ogni cosa e Dwight, arrivato quella mattina per visitare Demelza, era apparso felice della cosa, decretando la sua guarigione. Colpa del trauma e dello stress che stava vivendo, gli aveva detto... In realtà a Ross in quel momento interessava poco sapere il perché della sua guarigione ed essere tornato pienamente padrone dei suoi ricordi non aveva fatto altro che aumentare la sua frustrazione. Ora ricordava tutto e quindi sapeva pienamente quanto fosse importante per lui Demelza. Certo, lo sapeva anche prima e nelle ultime settimane lui e sua moglie erano stati molto vicini, ma ora era padrone di ogni momento trascorso con lei. Ricordava il loro primo incontro, i momenti belli intervallati a quelli bui, le risate, le lacrime, il lavoro svolto fianco a fianco. Quella donna che lottava contro la morte era il suo mondo e perderla avrebbe significato sprofondare per sempre nell'oscurità. La verità era che non voleva nulla, che nulla avrebbe avuto senso se lei se ne fosse andata. E lui senza di lei non ci voleva stare! "Jeremy, dobbiamo solo essere pazienti".

"Ma se siamo pazienti, lei poi guarisce?" - chiese il bimbo.

Ross avrebbe voluto dirgli che sua madre aveva combattuto un'altra volta con la morte e che era talmente forte da esserne uscita vincitrice, che lui ora ricordava che grande lottatrice fosse, ma in realtà non aveva ancora affrontato coi suoi figli il discorso sulla sua guarigione. Da quando Dwight aveva operato Demelza, aveva visto pochissimo i bambini e sapeva che c'era molto da discutere anche con loro, soprattutto con Clowance. Ma non poteva farlo ora, non con sua moglie in quelle condizioni. "Vedremo..." - disse, vagamente.

Jeremy lo guardò negli occhi, serio. "Posso darle un bacino?".

"Credo di sì".

Il bimbo si avvicinò al viso di Demelza, dandole un leggero bacio sulla guancia. "Mi manca la mamma".

"Anche a me. Ma ora vai, deve riposare. Scendi al piano di sotto, è ora di cena e Prudie avrà già apparecchiato in tavola".

Jeremy ubbidì e Ross rimase di nuovo solo. Sentiva il vociare dei suoi figli, più sommesso del solito, e sperò lo udisse anche Demelza. Le si sedette accanto, scostandole i capelli dalla fronte sudata. "Hai ancora la febbre, dormi di un sonno così profondo da essere diventata irraggiungibile e sei così pallida... Demelza, ti prego, torna da me. Ho paura, mi stai facendo paura". Le prese la mano nella sua, accarezzandole le dita e il palmo, lentamente, con gesti delicati e leggeri. "Sai, spesso io sono stato scavezzacollo e avventato e forse non mi sono mai davvero fermato a pensare all'ansia che potevo provocare a te e ai nostri bambini col mio comportamento sconsiderato. Stupidamente, mi sono sempre creduto invincibile e non ho mai voluto ascoltare i suggerimenti di chi mi consigliava di stare attento. Eppure nell'ultimo anno ho imparato che anche io posso essere vulnerabile e che non posso pensare solo a me stesso ma soprattutto a chi mi ama e mi aspetta a casa. Ecco Demelza, ora sono io che aspetto te a casa... Io sono tornato, ora fai altrettanto. Ho bisogno di te e ne hanno i bambini. Dwight, Caroline e tutti i nostri amici sono preoccupati e io vorrei solo dir loro che stai di nuovo bene. Apri gli occhi e riprendiamoci la nostra vita, superiamo tutto quello che ci è successo dal mio incidente in poi e torniamo ad essere felici". C'erano stati momenti bui fra lui e Demelza, a causa della sua amnesia, e ora che aveva recuperato la memoria ne capiva l'immensa portata e le possibili conseguenze. Sapeva di dover ricucire lo strappo terribile creato con Clowance, la sua piccola principessa che aveva lasciato quella mattina sulle scale con la promessa di aiutarla a scrivere la sera... Ed era consapevole pure di quanto Demelza avesse sopportato e sofferto in quei mesi e dello sbandamento per Armitage di cui certo, gli aveva parlato, ma che fino a quel momento non aveva ancora analizzato a fondo. Sentì rabbia scorrergli dentro, al pensiero di quel suo compagno d'arme che si era insinuato nel cuore della sua famiglia e di sua moglie e benché fosse sicuro che quanto confessato da Demelza corrispondesse a verità e che non c'era altro di celato, aveva una gran voglia di parlarne con sua moglie, una volta guarita. E con Hugh Armitage, ovunque lui fosse!

Certo, il tutto a tempo debito, quando finalmente Demelza sarebbe stata meglio...

Deglutì, pensando a come avrebbe potuto essere la sua vita se lei non ce l'avesse fatta. Demelza era il collante della sua famiglia, colei che sapeva tenerla unita e in armonia. Ci era riuscita persino nei loro tre anni di separazione quando viveva da sola a Londra con Jeremy e Clowance. Pur con mille difficoltà aveva reso la vita sua e dei suoi figli piacevole e serena. E la loro casa una vera casa e loro tre una vera famiglia, tanto che quando si erano rincontrati, ricordava perfettamente quanto si fosse inizialmente sentito un'intruso nella loro quotidianità.

Anche una volta tornati a Nampara, era sempre lei a tenere le redini della casa e della famiglia. Lui amava da morire sua moglie e i suoi figli ma non era certo bravo come lei a tenere uniti tutti loro, sempre preso a correre dietro a mille cose da portare a termine e mille battaglie da combattere.

Se lei se ne fosse andata, sarebbe riuscito a tenere unito ciò che rimaneva della sua famiglia? Sarebbe stato capace, da solo coi suoi figli, di crescerli nella serenità come era stata capace di fare Demelza a Londra? O pian piano tutto si sarebbe sfasciato e ognuno di loro avrebbe preso strade diverse...?

Scosse la testa, spaventato da quei pensieri. Accarezzò la guancia di Demelza, baciandola sulla fronte, pregando che combattesse come sapeva fare lei per il loro bene. Non doveva, non poteva andarsene! Non lei, così giovane e piena di vita... "Ti prego, apri gli occhi" – le chiese, quasi implorandola...

Improvvisamente, sentì la porta aprirsi. Si voltò, pensando di vedere Prudie e invece era Clowance, con in braccio Bella che piangeva sommessamente. "Mamma...".

Si alzò per prendere in braccio la figlia più piccola ma Clowance la strinse a se, indietreggiando. "No, faccio io! Vuole andare a letto".

Lo sguardo gelido che Clowance gli riservava, ogni volta che i loro sguardi si incrociavano, gli gelava il sangue. Lei, la sua piccola lady che lo adorava come nessun altro dei suoi figli... Era come se fossero improvvisamente diventati due estranei e Ross sapeva che era per colpa sua e per il comportamento terribile che aveva avuto con lei nei primi tempi dopo il suo incidente, quando era riuscito persino a farla scappare di casa. Si sentiva terribilmente in colpa e sperso, gli mancava il rapporto che aveva con lei e immaginava come dovesse essersi sentita Clowance quando era stato lui a rifiutarla. "Clowance, ci penso io a Bella, sta tranquilla" – le sussurrò, inginocchiandosi davanti a lei.

Fece per accarezzarle la guancia ma la piccola si ritrasse. "No, l'ho promesso alla mamma quando eravamo nella grotta e quei signori le avevano sparato" – disse, seria.

"Cosa le hai promesso?".

"Che curavo Bella perché sono la sorella maggiore. La curo io finché mamma non guarisce". E detto questo, andò alla culla, mettendo la piccola a letto.

Bella si agitò, piagnucolò chiamando ancora la mamma e Clowance cercò inutilmente di tranquillizzarla tenendole la manina.

Ross, con la morte nel cuore per il significato di quella richiesta disperata di Demelza in punto di morte a Clowance, la lasciò fare finché la piccolina non scoppiò a piangere. E a quel punto si avvicinò alle figlie, prendendo Bella fra le braccia. "So che sei brava a prenderti cura di lei, ma la mamma ha bisogno di stare tranquilla e forse è meglio che la tenga in braccio io, che ne dici?".

Clowance sospirò, arrendendosi all'idea che non poteva fare molto. Guardò sua madre e gli occhi le divennero lucidi. Ross avrebbe voluto chinarsi ed abbracciarla, ma sapeva che avrebbe ricevuto un netto rifiuto da sua figlia. "Clowance, ascolta..." - forse dirle che era guarito, che ricordava, poteva aiutare entrambi. Se Clowance avesse saputo che era tornato, magari...

Ma la piccola lo stoppò subito. "Non voglio ascoltarti!" - disse, gelandolo sul posto.

"Devo dirti una cosa importante".

"Non la voglio sentire, voglio solo la mamma". E detto questo, si voltò e prese la porta.

Ross si sentì ferito da quel comportamento che però era assolutamente comprensibile. Clowance era come lui, testarda ed orgogliosa. Si chiese con terrore se, a causa dei suoi errori, non l'avesse persa per sempre. E provò lo stesso terrore che provava quando guardava Demelza su quel letto, chiedendosi come avrebbe vissuto senza di lei.

Bella continuava a singhiozzare e Ross le accarezzò i ricciolini neri. "Mamma, mammaaaa" – sussurrò la bimba contro la sua spalla, succhiandosi il ditino della mano.

Ross la portò al letto, facendole vedere la mamma. "Guarda, è quì, visto?".

"Mammaaa". Bella allungò le mani, desiderosa che lei la prendesse in braccio. Ma nemmeno davanti alla voce della figlia, Demelza ebbe cenni di vita.

Gli occhi di Ross si inumidirono. Se nemmeno al richiamo dei suoi figli c'erano segni di miglioramento, le speranze si assottigliavano.

Mise la piccola sul letto, seduta accanto a Demelza. Sapeva che Dwight non voleva che i bambini la disturbassero, ma decise di fare di testa sua. Se Demelza doveva andarsene, lo avrebbe fatto coi suoi figli accanto. Sapeva che era tutto quello che lei voleva, tutto ciò che avrebbe desiderato...

Bella allungò la manina, sfiorando la mano di Demelza con le sue ditina. "Mamma, mammaaaa".

"Su, chiamala" – sussurrò Ross, fra i suoi capelli. Voleva che insistesse, che continuasse a chiamarla, voleva che Bella raggiungesse la coscienza di Demelza e che la riportasse da loro.

"Mamma".

Demelza non si svegliò, ma Ross vide la sua mano stringere impercettibilmente quella di Bella. Coprì le loro mani con la sua, stringengendole, pregando di vedere gli splendidi occhi verde-azzurro di sua moglie aprirsi su di lui. "Demelza, ti prego... Svegliati".

Non fu esaudito. L'oscurità pian piano invase la stanza, Bella si addormentò e dopo averla messa nel suo lettino, accese le candele per prepararsi a fronteggiare l'ennesima notte di veglia. Era stravolto e stanco ma non avrebbe tolto gli occhi di dosso a Demelza.

Attimi di ottimismo si alternavano ad atti di terrore. Lei aveva sentito Bella, le aveva stretto la mano. Eppure non si svegliava...

Si sedette accanto a lei di nuovo, sopraffatto da quell'immobilità forzata. Quello, una volta, era il momento preferito della sua giornata, quello dove giocava coi suoi figli sul letto fino all'arrivo di sua moglie. Ridevano e scherzavano insieme, i loro bimbi erano felici e tutto era perfetto. E poi, messi a letto i loro figli, quella stanza diventava il loro mondo dove scherzare, confidarsi, parlare e amarsi con la stessa passione della loro prima volta insieme.

Si chinò su di lei, spinto dall'idea più idiota che avesse mai avuto: baciarla sulle labbra come facevano i principi delle fiabe per svegliare le loro principesse dai sonni maledetti in cui cadevano a causa della strega cattiva. Nelle fiabe il bacio funzionava sempre...

Le baciò le labbra, lentamente, sentendosi idiota ma sperandoci. E poi la guardò, stringendole la mano. "Torna da me amore mio. Torna, ti prego".

E quasi gli si mozzò il fiato quando Demelza mosse leggermente le palpebre ed aprì gli occhi. "Demelza!" - la chiamò, quasi incredulo. Se l'avesse raccontato in giro, nessuno gli avrebbe creduto...

Sua moglie lo guardò intontita, respirando a fatica. Si guardò attorno e poi guardò lui, stringendo convulsamente la sua mano, mentre una smorfia di dolore le feriva il viso. "Ross..." - sussurrò.

Ross si chinò su di lei, stringendola a se commosso, felice, quasi ubriaco dalla gioia. La abbracciò, attento a non farle ancora più male di quello che già lei sentiva. "Shhh, non sforzarti... Sei qui, sono qui. Va tutto bene amore mio".

"I bambini... I nostri bambini...? Dove sono?".

Ross le sorrise, baciandola sulla fronte. "Bella sta dormendo nella sua culla e gli altri due nella loro stanza. Sta tranquilla, stanno bene e tu hai salvato loro la vita".

Demelza chiuse gli occhi, abbandonandosi sul cuscino. "Ross" – disse, di nuovo.

Si stese accanto a lei, prendendola fra le braccia. Forse quell'incubo era finito, lei era lì, gli stava parlando. Era reale! "Sono qui. Sono qui per davvero, sta tranquilla" – le ripeté nuovamente.

Demelza annuì. E arrendendosi all'idea di non avere la forza di fare o dire altro, si rannicchiò fra le sue braccia in cerca di riparo dal dolore e da tutte le paure che le tormentavano corpo e mente.

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Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


"Come posso essere ancora viva?".

La voce di Demelza era flebile come un alito di vento, sofferente e stanca. Ross le accarezzò la fronte, scostandole una ciocca di capelli rossi. "Hai un'ottima tempra mia cara. Dwight disperava di salvarti ma io sapevo che ce l'avresti fatta, so quanto sei forte".

Demelza appoggiò la testa contro la sua spalla, chiudendo gli occhi. "Come facevi a saperlo?".

"Sei mia moglie, ti conosco meglio di chiunque altro".

A dispetto di tutto, lei sorrise. "In pratica però, mi conosci da pochi mesi".

Ross ridacchiò fra se e se. Beh, questo non era proprio esatto... "So che da sola hai la forza di arare un intero campo, che sei sopravvissuta alla gola putrida, che hai tenuto a bada una barca in mezzo al mare mentre eri in travaglio e che da sola gestivi una locanda a Londra, due figli e i tuoi lavoranti".

Demelza lo guardò pensierosa, studiandolo in volto. "Chi ti ha raccontato che ero in barca mentre ero in travaglio per Jeremy? Io non te l'ho detto".

"Non me lo ha raccontato nessuno".

"Ross...". Demelza spalancò gli occhi, gli afferrò la mano ed incrociò le dita con le sue. "Ross, tu...?".

Le sorrise, si chinò e le diede un delicato bacio a fior di labbra. "Credo di essere guarito".

"Ross..." - ripeté lei, aggrappandosi alle sue spalle ed abbracciandolo con una forza che non pensava di avere.

La sentì singhiozzare contro il suo collo, come a voler rilasciare una tensione accumulata troppo a lungo. "Credo sia colpa tua..." - sussurrò in tono scherzoso, stringendola a se. Era commosso, felice di essersi ripreso la sua vita e i suoi ricordi e di stringerla a se con la consapevolezza piena di quanto fosse importante per lui.

Demelza alzò gli occhi su di lui. "Cosa?".

Ross alzò le spalle. "Dwight dice che è stato il trauma per quanto ti è successo a farmi tornare la memoria". Le sollevò il mento ed appoggiò la fronte contro quella della moglie. "Ho avuto davvero paura, sai? Credevo di perderti davvero per sempre, questa volta".

"Lo so che hai avuto paura, ne hai avuta quanta ne ho avuta io quando hai avuto l'incidente in miniera" – rispose lei.

Si sentì il colpa a quell'affermazione, fermandosi a pensare a quante preoccupazioni, negli anni, gli avesse inferto. "Mi dispiace, spesso agisco prima di pensare. Ma speravo che tu non seguissi il mio esempio. Avresti dovuto dirmi di quei contrabbandieri e non avresti dovuto affrontarli da sola". Non voleva essere un rimprovero nei suoi confronti, voleva solo che lei capisse quanto aveva rischiato, coi bambini.

Demelza annuì, stringendosi a lui.

Ross la fece coricare, mettendosi accanto a lei e stringendola a se. Le accarezzò i capelli, la nuca, giocò con le ciocche rosse dei suoi capelli. "Dovevi dirmelo" – le ripeté.

"Ma ti saresti cacciato nuovamente nei guai e io non volevo che ti succedesse ancora qualcosa di male. Avevi perso la memoria e non ero certa che saresti stato in grado di fronteggiare quelle persone. La prima volta che li ho visti, i contrabbandieri, ero con Hug...".

Demelza si bloccò di colpo, quasi intuendo che era meglio fermarsi, e Ross si morse il labbro nel sentir pronunciare quel nome. Quante cose erano successe durante la sua amnesia? Quante cosa non aveva voluto notare o vedere? Avrebbe voluto farle mille domande, soprattutto su Hugh Armitage, ma sua moglie era ancora troppo debole per affrontare quell'argomento. E decise quindi di chiudere il discorso. "Le guardie stanno cercando quelle persone, i bambini ci hanno fornito un'accurata descrizione e presto verranno arrestati" – concluse frettolosamente.

Demelza lo guardò, capendo appieno il suo nervosismo e i suoi sentimenti. "Ross...".

"Va tutto bene, sto bene, sono guarito e presto lo sarai anche tu" – le rispose, cercando di tranquillizzarla e di non farla sforzare.

Demelza gli strinse la mano. "Ti ricordi davvero tutto?" - gli chiese.

Ross sospirò. "Tutto. Sono guarito, te l'ho detto. E non ti ho ancora ringraziato per quanto hai fatto per me in questi mesi, per la tua pazienza e per le tue cure. E non ti ho ancora nemmeno chiesto scusa per tutti i guai che ti ho procurato".

Un sorriso dolce comparve sul viso di sua moglie. "Chissà come saranno contenti i bimbi...".

"Non lo sanno ancora. Tu stavi talmente male che ho passato ogni momento quì, con te. Volevo dirglielo quando fossi stata al mio fianco, con loro più tranquilli. Hanno... abbiamo avuto davvero paura di perderti, Demelza" – le ripeté.

"Ross...". Lei cercò la sua mano, la strinse e se la portò alle labbra per baciarla. Anche Demelza lo sapeva, ci erano andati davvero vicini a perdersi. "Voglio vedere i bambini" – implorò.

"Certo, più tardi li vedrai. Ma ora riposa". Si stese accanto a lei e rimase a cullarla fra le braccia a lungo, accarezzandole la schiena per tranquillizzarla ed aiutarla a dormire. Aveva bisogno di sonno, di tranquillità e di pace. E nonostante Ross sentisse a pelle il suo desiderio di riabbracciare i loro bimbi, non fece obiezioni e si rannicchiò contro di lui, arrendendosi al fatto che era davvero troppo debole per fare ogni cosa e che aveva davvero bisogno di riposare.

Lentamente Demelza scivolò fra le braccia di Morfeo, col viso affondato nel suo collo. Rimase a guardarla a lungo, trovandola bellissima anche così, coi capelli in disordine, il viso pallido e la camicia da notte. In quel momento gli pareva talmente simile a quando l'aveva vista dopo i parti di Julia, Jeremy e Bella, che per un attimo si aspettò di sentire il pianto di un neonato. E pensò a quanto fosse bello avere di nuovo i suoi ricordi, ogni cosa fatta e detta con lei e coi suoi figli, ogni scivolone e ogni attimo di gioia scolpito nella sua mente. Quei ricordi facevano di lui e dell'uomo che era diventato e ora comprendeva il motivo per cui, senza di essi, si sentiva così sperso. Era stata Demelza il suo appiglio per non affogare, la sua luce nel buio ed era solo grazie a lei che non aveva smesso di lottare e di stargli accanto, che non si era perso.

Eppure ora lo sapeva, c'era stato un attimo di buio fra loro. Osservò Demelza ormai addormentata, ricordando quando aveva conosciuto il tenente Armitage mentre era in guerra e sua moglie viveva a Londra. Lo ricordava bene quel giovane, così raffinato, sognatore, romantico e ben educato. Un ragazzo affascinante, curato nell'aspetto e nei modi di fare, che si dilettava a scrivere poesie d'amore per le donne che catturavano il suo cuore... Anche Demelza era caduta nella sua rete? Anche Demelza aveva vacillato? Non sapeva esattamente fin dove si fosse spinta con lui, poteva capirne le motivazioni, pur con dolore, e presto avrebbe affrontato il discorso con lei per chiarirsi e ripartire insieme, ma prima avrebbe chiarito le cose con Armitage.

Diede un bacio sulla fronte a sua moglie ormai addormentata, le rimboccò le coperte e scese al piano di sotto, annunciando a Prudie che sarebbe uscito a cavallo. I bambini giocavano nella loro stanza e tutto sembrava tranquillo.

"Ma la padrona? Vado a vegliarla?" - chiese la serva.

Ross le sorrise. "Sta dormendo, lasciala tranquilla".

Prudie spalancò gli occhi. "Ma... ma...?".

Con una pacca amichevole sulla spalla, Ross le annuì. "Si è svegliata, abbiamo parlato... Starà bene".

Gli occhi di Prudie si inumidirono dalla commozione. "Si è svegliata? La signora...?".

Ross annuì. "Bada che i bambini non la disturbino. Quando tornerò, li porterò io da lei".

"Ma dove andate?".

Ross si mise il tricorno in testa. "Devo fare visita a una persona" – disse vago, uscendo dalla porta.

Si avviò alle stalle, prese il suo cavallo e partì al galoppo, destinazione Tregothnan: la dimora di Hugh Armitage.

Galoppò come un forsennato, con un miscuglio di sentimenti contrastanti che si agitavano dentro di se: rabbia, rancore, furore... Ma anche curiosità... Lo aveva visto solo una volta dopo la guerra, a casa loro mentre era senza memoria. Non lo aveva osservato bene in quel momento, eccetto quando si era accorto delle sue attenzioni a Demelza. Ma ora che era padrone si se stesso, avrebbe messo in chiaro le cose con lui.

Quando arrivò, bussò energicamente alla porta finché una cameriera non venne ad aprirgli.

Era una casa lussuosa quella, un'enorme villa di campagna che assomigliava più a un castello che a una semplice residenza di signori della brughiera. Anche se in effetti quella famiglia era composta da persone molto influenti nella politica londinese e inglese e fra di loro c'erano dei componenti della camera dei Lords. Si guardò attorno spaesato mentre la cameriera lo faceva accomodare nell'atrio.

"Chi devo annunciare?".

"Capitano Ross Poldark. Sono venuto a far visita al tenente Hugh Armitage, eravamo compagni di battaglione durante la guerra in Francia cinque anni fa".

La cameriera lo guardò di sbieco, studiandolo in volto. "Oggi non aspettavamo nessuno e la signora è fuori per delle faccende da sbrigare".

Ross sospirò. Che c'entrava la madre di Hugh Armitage? "Va bene, ma non sono qui per la signora. Sono qui per far visita a suo figlio e, anche se il mio arrivo non era annunciato, spero comunque di essere ricevuto. Alcuni mesi fa è venuto a farmi visita a casa mia perché non stavo bene e volevo ringraziarlo". Beh, sperava di essere stato mellifluo e convincente con quell'evidente bugia... Altro che visita di cortesia, avrebbe voluto prenderlo a pugni!

La cameriera scosse la testa. "Il tenente Armitage non si sente bene ed è a letto".

"Oh...". Ross si grattò la guancia, pensieroso. Questa non se l'aspettava! "Potreste dirgli che mi trovo qui? E' una cosa di pochi minuti".

La donna sospirò, annuì e sparì per le scale, lasciandolo solo. Nell'attesa, Ross giocherellò nervosamente coi piedi, domandandosi cosa avrebbe detto e fatto appena lo avesse avuto davanti. Pugni? Maleparole? Urla? O un comportamento pacato ed educato ma incisivo?

La cameriera tornò dopo pochi minuti, esibendosi in un nuovo inchino. "Potete salire, il signorino acconsente a vedervi".

Ross fece un sorrisetto sarcastico... Il signorino... Lo avrebbe preso a sberle, quel signorino...

Eppure, dopo aver salito le scale, percorso il corridoio coperto di morbidi tappeti di fattura persiana, quando entrò nella stanza, si fermò di scatto.

Hugh Armitage stava a letto, bianco come un cencio, gli occhi spersi, i capelli rasati e una manciata di sanguisughe a coprirgli il petto. Del giovane affascinante e curato dei suoi ricordi, non rimaneva nulla. Sembrava, a prima vista, un uomo molto malato. Pur non sapendo cosa avesse, avrebbe potuto giorne e pensare che se lo meritava, ma non ci riuscì. Era un ragazzo giovane Hugh, più giovane di Demelza... E pareva stesse morendo...

Si avvicinò di soppiatto, serio in viso. "Sono venuto a rendervi il favore della vostra visita".

Hugh, a fatica, tentò di tirarsi su dal cuscino. "Rendermi quale favore, precisamente? Se siete qui, immagino che siate guarito" - chiese, con una specie di sorrisetto irriverente sul viso sconvolto dalla malattia.

Ross gli si avvicinò ancora, indeciso se prenderlo a pugni, nonostante tutto. Hugh sapeva benissimo perché lui si trovava lì e quindi, perché tanti preamboli? Allungò la mano, prendendolo per il bavero. "Avrei desiderato prendervi a pugni ma accanirmi su un moribondo sarebbe poco onorevole. E io non voglio essere poco onorevole...".

"E cosa volete, capitano Poldark?".

Ross lo guardò negli occhi. "Dirvi solo una cosa: ho sempre amato condividere quello che ho con le persone a cui voglio bene. Ma mia moglie... la mia famiglia, i miei bambini... Sono MIEI! E Demelza non la dividerò mai con nessuno né lei permetterebbe che questo accada. Messaggio chiaro?".

Hugh sostenne il suo sguardo. "E infatti non l'avete divisa con nessuno, capitano Poldark. Avete una moglie meravigliosa che vi ama infinitamente, non scordatelo mai, veneratela come merita, coccolate il vostro amore o arriverà prima o poi per davvero qualcuno che tenterà di portarvela via".

Ross non rispose, non ce n'era bisogno. Sapeva che quelle parole erano comunque saggie e che avrebbe dovuto prestarvi attenzione per sempre, lo aveva imparato a sue spese durante i tre anni di separazione e aveva imparato la lezione. Ma questo non significava che doveva condividere tutto ciò con Hugh Armitage, né che era obbligato ad ascoltare i suoi consigli. Lasciò la presa, lasciandolo ricadere sul cuscino, poi girò sui tacchi. Una volta, da giovane, se ne sarebbe fregato delle sue condizioni di salute e lo avrebbe gonfiato di pugni. Ma ora era un uomo diverso, migliore soprattutto grazie a Demelza e sapeva che ogni altro tipo di confronto fra lui e Hugh l'avrebbe delusa. "Buona fortuna" – disse, vago. Non c'era bisogno di dire altro. Non gli augurava di morire, ma sperava di non vederlo mai più dalle parti di casa sua. Avrebbe potuto chiedergli mille altre cose su di lui e su sua moglie, ma in quel momento decise che ciò che gli aveva raccontato Demelza alcuni mesi prima, quando era tornata dal viaggio d'affari a Londra con Caroline, gli bastava.

Uscì da quella dimora a passo spedito, riprese il suo cavallo e galoppò fino a Nampara.

Arrivò a casa che era quasi buio e appena entrò, le sue narici furono invase da un ottimo profumo di stufato. "Prudie! Dopo ANNI sai davvero cucinare decentemente" – le disse allegramente. Si sentiva stranamente leggero, dopo l'incontro con Armitage... E soprattutto, si sentiva fiero di se stesso. "Dove sono i bambini?" - chiese, non vedendoli in giro.

Prudie ridacchiò. "E' stato impossibile tenerli lontani dalla loro mamma, appena hanno saputo che si era svegliata. Sono di sopra, con Demelza".

"PRUDIE!". Ross sentì il nervoso che prendeva possesso dei suoi nervi, ma la cameriera lo bloccò subito.

"Provateci voi a fermare quei tre piccoli, testardi di Poldark! E poi la signora era tanto contenta quando li ho portati da lei".

Mascherando un sorriso, Ross annuì. "Testardi come tutti i Poldark, è?" - disse, vago, mentre saliva per le scale.

Quando fu fuori dalla porta, sentì la risata di Bella, le chiacchiere di Clowance e Jeremy e i guaiti felici di Artù. Entrò di soppiatto e si sentì bene come non gli capitava da tanto, da prima del suo incidente. Era da tanto che non erano tutti insieme, insieme per davvero. La sua famiglia...

Demelza se ne stava seduta, appoggiata ai cuscini, con i suoi tre figli accanto a lei sul letto. Appena lo vide, gli sorrise dolcemente, allungando una mano verso di lui. "Sei tornato finalmente! Dove sei stato?".

Ross si avvicinò, sedendosi accanto a loro e prendendo in braccio Bella. "Te lo dirò dopo! Avevo una cosa da fare".

"Papà, ciao! Visto che mamma è guarita?" - esclamò Jeremy, allegro.

Ross gli scompigliò i capelli scherzosamente. "Non è ancora guarita del tutto e avrebbe dovuto riposare! Che ci fate qui?".

"Ma papà, mica la facciamo lavorare, mamma! Siamo qui a tenerle compagnia" – ribatté il figlio.

Ross sorrise, dandogli un pizzicotto sulla guancia. "Si, certo...".

Clowance non disse nulla, rannicchiandosi contro Demelza. E ancora una volta, si trovò in impaccio con lei... Era cambiato tutto fra loro e Ross si chiese con terrore se il loro rapporto sarebbe mai tornato come prima.

"Anche papà deve dirvi una cosa, sapete?" - disse improvvisamente Demelza.

"Io?". Ross la guardò pensieroso. Che doveva dire, lui?

Sua moglie lo guardò storto. "Ross... Non sono l'unica a star meglio, no? Te lo ricordi che stavi male pure tu...?".

"Ohhh". Si sentì vagamente stupido in quel momento ma in effetti, con tutte le cose a cui aveva dovuto pensare, se l'era scordato.

Jeremy e Clowance lo osservarono incuriositi e anche Demelza lo sembrava. "E allora papà?" - chiese infine Jeremy.

Ross sorrise al figlio. "E allora, ho smesso di dimenticare le cose e ora ricordo tutto".

Jeremy si illuminò. "Hai recuperato la memoria?".

"Sì".

Il bimbo non disse nulla ma si lanciò verso di lui, abbracciandolo forte.

Ross lo strinse a se, ricordando quanto fosse sensibile e assennato. Poi guardò la sua famiglia. La SUA famiglia! Quella da cui era stato lontano con la mente a lungo... Erano il suo mondo, la sua ragione di vita! E in quel momento si rese conto che non importava più né Hugh, né il suo incidente né i contrabbandieri. Erano insieme, erano sopravvissuti a tutto. Di nuovo! E quello che c'era ancora da sistemare, sarebbe andato a posto.


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Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


Demelza si sentiva strana. Si sentiva strana dalla notte appena passata, a causa dello strano colloquio-scontro appassionato avuto con Ross.

Sospirando, si appoggiò al cuscino. Era ancora molto debole e non le era consentito di alzarsi e stava passando la giornata a guardare dalla finestra il caldo sole estivo che baciava tutta la sua amata Cornovaglia. Suo marito stava lavorando in miniera, Jeremy aveva ottenuto di andare con lui e lei se ne stava in silenzio, con le sue due bambine nel letto accanto a lei.

Bella dormiva alla sua sinistra, succhiandosi il pollice. Clowance le stava mostrando un libro illustrato che le aveva dato il maestro, ma sembrava decisamente annoiata. I libri non erano proprio la sua passione e prima o poi lei e Ross avrebbero dovuto arrendersi alla cosa...

"Mamma" – le sussurrò Clowance, sfiorandole il polso – "sai che cosa penso?".

"Cosa?".

"Che adesso che sei guarita, ti meriti un regalo! E io so cosa regalarti e so anche come fare".

A Demelza venne da sorridere, davanti all'espressione seria di sua figlia. "Che cosa hai in mente?".

Clowance sospirò. "Ecco, anche se mi dispiace, dovrei smettere di leggere per oggi pomeriggio, altrimenti non posso farti il regalo. Posso smettere, vero?".

"Oh Clowance...". Sbuffando, Demelza decise di assecondarla. "D'accordo, cosa vorresti fare per me?".

Le dita di Clowance le sfiorarono il polso. "Voglio farti un bracciale con le conchigliette che trovo sulla spiaggia. Posso andare a cercarle? Non hai nemmeno un bracciale".

"A dire il vero ho un sacco di gioielli che mi avevano regalato quando vivevamo a Londra, ma non vedo la necessità di metterli qui in campagna. Soprattutto ora che sono piantonata a letto, debole e senza forze".

Clowance scosse la testa. "Ma mamma, però nessuno di quei gioielli è stato fatto da me. Io farei un bracciale bellissimo, ma posso andare in spiaggia?".

"Prudie e Jud sono al mercato, tesoro, non possono accompagnarti. E io non posso muovermi dal letto".

"Ma io voglio andarci da sola! Ho quasi sette anni, sono grande!" - protestò la bimba. "Jeremy alla mia età, ce lo mandavate da solo, in spiaggia".

Beh, era vero, non poteva dirle di no. E in fondo Clowance aveva ragione, era ormai grande abbastanza per uscire da sola nelle vicinanze. "D'accordo, ma sta attenta! E appena vedi che fa buio, torna subito a casa".

"Grazie mamma!". Lanciando il libro sul letto, Clowance le saltò fra le braccia, stringendosi a lei.

Demelza tentò di rimandere seria. "Clowance, però quando torni a casa, riprendi in mano il libro".

"Giuro!" - disse la piccola, saltando giù dal letto.

"Clowance!".

"Cosa?".

"Portati dietro Artù".

La bambina annuì, chiamò il cane e in un attimo si volatilizzò, come se non avesse aspettato altro.

Demelza la guardò correre fuori dalla porta, rendendosi conto che stava crescendo incredibilmente in fretta. Soprattutto dall'incidente di Ross, Clowance era diventata sorprendentemente indipendente, a volte sfuggente e sempre più intraprendente. Aveva mantenuto la sua faccia tosta e la sua furbizia, doti che suo padre amava alla follia in lei, sapeva essere ruffiana e ammaliante, ma era anche maturata e in alcuni momenti le sembrava distante e malinconica, soprattutto quando Ross era in casa.

Ross...

Demelza, rimasta sola con Bella addormentata, deglutì, lasciandosi cadere sulle coperte.

La sera prima era stato taciturno, dopo essere tornato dalla sua misteriosa commissione, e gli era parso talmente cupo che non aveva trovato il coraggio di chiedere spiegazioni al suo comportamento fino a sera tardi, quando erano rimasti soli nella loro camera.


"Dove sei stato?".

Ross, finendo di togliersi la camicia, si era voltato a fissarla. "A trovare un vecchio amico".

"Lo conosco?" - aveva chiesto, col sopracciglio alzato, piuttosto confusa davanti al tono freddo di suo marito.

"Direi di sì".

"E allora...?".

Ross si era avvicinato al letto, si era seduto accanto a lei e l'aveva scrutata in viso. "Sono stato a casa di Hugh Armitage... Lo conosci bene, giusto?".

Aveva spalancato gli occhi nel sentir pronunciare quel nome. Hugh Armitage era finito nei meandri dei suoi ricordi e da settimane, mesi, non pensava a lui. Non aveva avuto tempo, certo, ma era anche e soprattutto la sua mente che si era rifiutata di pensarlo. Hugh rappresentava un suo momento di smarrimento e debolezza, dove dolore e solitudine erano stati i suoi unici compagni. Hugh era stato un grande pericolo per il suo matrimonio e lo sapeva benissimo che se avesse ceduto, non avrebbe fatto altro che seguire un suo desiderio dettato dall'istinto. Ma alla fine, e ringraziava il cielo per questo, aveva prevalso l'amore vero, complicato ma indissolubile per Ross e per la sua famiglia. Ed era riuscita a dire no, prima di commettere il più grande errore della sua vita. Ross non l'avrebbe perdonata con facilità se fosse successo e soprattutto, lei non avrebbe mai perdonato se stessa.

Sapeva che il confronto con Ross su quanto accaduto con Armitage sarebbe arrivato, una volta che suo marito fosse guarito, ma restava il fatto che questo era un momento che aveva sempre temuto. E il momento era arrivato. "Perché sei andato da lui? Ti ho raccontato tutto quello che è successo, non mi credi?". Beh, in realtà gli aveva raccontato quasi tutto... C'erano quei baci però, di cui Ross non sapeva niente... E che ora pesavano sulla sua coscienza come un macigno.

"Io ti credo e ti crederò sempre! Ma ora che sono in me e ora che ti conosco DAVVERO, voglio sapere la verità".

Si era alzata in piedi a quelle parole, lo aveva fronteggiato e nella sua mente, in quel momento, erano scorsi i momenti di paura, disperazione e solitudine dopo l'incidente alla miniera, la stanchezza infinita di tenere insieme i cocci della sua famiglia, il dolore di sentirsi rifiutata dall'uomo che amava. E la rabbia prese il posto dell'angoscia. Avvicinò le mani al suo petto e gli diede una leggera spinta. "La verità Ross, è che stavo male! E ora la conosci anche tu, perché l'hai vissuta attraverso di me, la sensazione di impotenza che si prova quando vedi chi ami morire lentamente. Tu fai tante cose, corri mille pericoli perché ami farlo e perché hai la dannata convinzione che a te andrà sempre tutto bene! E non ti fermi mai a pensare a cosa succederebbe se invece non ce la facessi... Non pensi a noi, non pensi a me in quel momento. Amo tutto di te, persino i tuoi lati più egoistici... Ma permettimi di sentirmi smarrita e di perdermi, se ti succede qualcosa di male... Se sbagli tu, posso sbagliare anche io".

Ross parve smarrito davanti a quel suo sfogo. "So come ti sei sentita e so anche che eri disperata... Ma voglio sapere come, QUANTO hai sbagliato con Hugh. Questo me lo devi, credo...".

Senza forze, si era accasciata sul letto. "Avrei potuto sbagliare molto, lui mi piaceva, ne ero attratta. Non era amore, non era assolutamente niente di paragonabile a ciò che provo e sempre proverò per te. Ma mi faceva sentire bene, era come vedere in lui una luce in mezzo al buio. Era tutto difficile, tu eri difficile, Clowance era scappata di casa con Valentine Warleggan, c'era la casa da seguire, gli affari, la miniera e non c'era nulla che potesse consolarmi. E lui era gentile, mi venerava come una dea... E cedere sarebbe stata la cosa più facile del mondo. Ma non l'ho fatto perché ho capito che, per quanto faticoso fosse, io era per te che volevo lottare. Ci sono stati alcuni baci, questo sì. E poi gli ho detto addio e a lui non ho più pensato. Volevi la verità ed è questa".

Ross, per lunghi istanti, era rimasto in silenzio. I suoi occhi neri l'avevano scrutata a lungo e lei mai, nemmeno per un istante, aveva abbassato lo sguardo. Era difficile capire se fosse deluso, arrabbiato o sollevato... La guardava e basta. "L'hai baciato?" - chiese infine, con voce rotta.

"Sì".

"E... e... ti è piaciuto?".

Sentì stringersi il cuore davanti al timore che leggeva in quella domanda di Ross. E scosse la testa. "Un bacio è un bacio... Sono le sensazioni che sa regalare, che lo rendono speciale. E io non ho sentito nulla se non una gran voglia di tornare da te. Hugh era solo un sogno, un'isola felice ma immaginaria. Il mio presente, la mia vita vera siete tu e i bambini".

Ross non disse nulla, la abbracciò e la baciò sulla fronte e stettero in silenzio, per lunghi istanti, l'una fra le braccia dell'altro.

"Sei arrabbiato?" - riuscì infine a chiedere.

Ross sospirò fra i suoi capelli. "Forse un po'... Ma credo mi passerà prima di sera".

Lo aveva guardato in viso e ora sembrava più tranquillo. "Se lo fossi, se lo fossi a lungo, ne avresti mille ottime ragioni".

"E' vero. Ma io una volta ho fatto ben di peggio e quell'esperienza mi ha insegnato che a volte si sbaglia, che è umano. Io che ti ho fatto tanto male da costringerti ad andartene di casa, non posso giudicare te, soprattutto visto quello che ti ho fatto passare. E' umano sbagliare ed è umano trovare un appiglio, un qualcosa di bello per non affondare, quando va tutto male".

Aveva sorriso, annuendo. "Io non ho mai amato che te".

"Lo so. E mi dispiace di averti fatta soffrire, è l'ultima cosa che potrei desiderare". Ross aveva guardato distrattamente fuori dalla finestra, accarezzandole i capelli. "Hugh sta male e credo che stia morendo".

A quelle parole, sentì una fitta al cuore e un profondo dispiacere. "Lo so, lo sapevo che era malato, me lo disse l'ultima volta che ci siamo visti".

"Quando vi siete baciati?".

"Quando ci siamo baciati...".

Ross scosse la testa. "Ha tentato di averti, giocando la carta della pietà?".

"Ross...".

"Beh, avrebbe potuto essere una buona tattica, no?".

Ross lo disse sorridendo, in tono leggero, stemperando la tensione creatasi fra loro. Demelza lo guardò, sospettosa. "Non lo hai preso a pugni, vero?".

"No, sarebbe stato poco onorevole gonfiare di botte un moribondo. Ma mi sarebbe piaciuto".

Lo baciò affettuosamente sulla guancia, sprofondando il viso nel suo collo. "Sono fiera di te, Ross".

"Cosa provi, nel sapere che sta così male?".

Decise di essere sincera. "Pena, pietà, dispiacere. E' un ragazzo così giovane e con un futuro così splendente davanti...".

"Solo questo?".

"Solo questo, Ross".


La conversazione era finita così e non avevano più menzionato Hugh durante la serata e la notte. Eppure era ansiosa... Lei e Ross discutevano spesso ma era la prima volta che un uomo si intrometteva fra di loro.

Accarezzò i ricciolini di Bella e si appisolò esausta, aspettando che suo marito o i suoi servi o i suoi figli più grandi facessero ritorno.

Fu svegliata dopo un tempo indefinito, dal tocco gentile di Ross. Era arrivato in camera senza che se ne accorgesse e si era avvicinato a lei con passo felpato, tanto che nemmeno Bella si era svegliata. "Ross?". Si guardò attorno, era ancora chiaro e non doveva aver dormito molto. "E' ancora presto, è un onore averti a casa a quest'ora".

Ross si sedette accanto a lei, baciandola sulla fronte. "Finché non sarai guarita del tutto, credo che mi vedrai spesso in giro per casa".

"Sto bene, ci sono Prudie e Jud che si occupano di me".

"Ma un marito sa farlo meglio". Le strizzò l'occhio, baciandola questa volta sulle labbra.

Demelza sorrise. Sembrava sereno e per nulla turbato. "Beh, sono contenta che tu sia qui".

"Anche io".

"E Jeremy?".

"Ha voluto rimanere alla miniera a giocare con gli altri ragazzini". Ross si guardò attorno guardingo. "E Clowance?".

"E' andata in spiaggia a raccogliere delle conchiglie. Vuole farmi un bracciale".

Ross spalancò gli occhi, impallidendo. "In spiaggia? DA SOLA?".

Demelza sorrise a quella reazione. Ross non avrebbe mai smesso di essere iper-protettivo verso la sua principessina, soprattutto ora che aveva recuperato la memoria. Anche se il loro rapporto era ancora lontano da ciò che era un tempo... "Da sola, sì! Ho pensato che fosse abbastanza grande per allontanarsi senza guardie del corpo".

Ross la guardò storto, molto più storto di quando la sera prima gli aveva parlato dei baci con Hugh. "Sei matta?".

Le venne da ridere ma si trattenne, per non svegliare Bella. "Ross, ma non eri tu che mi raccontavi che a cinque anni passavi i pomeriggi in spiaggia a giocare con Francis?".

"Che c'entra?".

Demelza sospirò. "Si è portata dietro Artù, sta tranquillo. Anzi no, se sei così in ansia, perché non la raggiungi?".

A quell'invito, Ross si incupì. "Perché non ha piacere a stare da sola con me e lo sai benissimo".

Sospirando, Demelza scosse la testa. "Clowance ti adora ed ha bisogno di te. E' testarda come tutti i Poldark, orgogliosa e con la testa dura. Ma sa anche amare come i Poldark, in maniera intensa e profonda. Sei tu l'adulto e sei tu che la conosci meglio di tutti. Devi farlo tu il primo passo, Ross. Va da lei, non stare a pensarci troppo, lasciati guidare dal tuo cuore e la ritroverai, la tua bambina".

Ross sorrise, un sorriso quasi timido. "Mi era meno complicato andare da Hugh Armitage".

Demelza rispose al sorriso. "Lo so, Clowance è un osso più duro". Usò un tono leggero, era felice che Ross sapesse scherzare su Hugh...

"E allora... vado?".

"Vai!" - lo incitò.

E Ross la ascoltò. Le diede un altro bacio sulle labbra e poi lentamente si avviò verso la spiaggia.



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Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


La nascita di Julia aveva portato la spensieratezza e la gioia delle favole, dove si pensa e crede che tutto andrà sempre bene.

La nascita di Jeremy, capitata in un momento della sua vita e del suo matrimonio difficilissimo, aveva portato angoscia e paura di amare e di soffrire.

La nascita di Isabella-Rose rappresentava la consapevolezza del suo ruolo di marito e padre e la felicità di aver di nuovo accanto la donna che amava e con cui voleva e poteva costruire ogni cosa desiderata.

La nascita di Clowance era diversa per lui, rappresentava un buco nero che mai avrebbe potuto colmare. Non si puo' tornare indietro nel tempo, non si puo' permettere al se stesso più giovane di non commettere quell'errore che gli aveva fatto perdere tutto, compresa la nascita della sua bambina. Si era rassegnato che mai, nonostante i racconti di Demelza, avrebbe saputo com'era sua figlia quando aveva abbozzato il primo vagito, com'era guardarla dormire nella culla da neonata, com'era quando ha detto la prima parola o fatto i primi passi. Per lui Clowance era nata in una giornata estiva londinese, a casa di Caroline Penvenen, ed aveva le fattezze di una bimba di due anni dai capelli rossi e pieni di boccoli tenuti bada da un nastrino che malsopportava e che già sapeva correre e parlare, anche se stentatamente.

Aveva sentito da subito un forte legame con quella piccola, testarda e vivace bambina che già sembrava sapere cosa volesse dalla vita. Anime affini, simili, nonostante ancora non sapesse che era sua figlia.

Poi aveva ritrovato Demelza e aveva scoperto la verità e da quel giorno Clowance era stata 'la sua figlia preferita'. Non per togliere qualcosa agli altri, ma perché era la figlia che aveva avuto di meno da lui. Era un qualcosa che lo aveva sempre fatto sentire in colpa, unito alla strana sintonia di carattere fra lui e la bambina. Erano simili lui e Clowance, stessa testa dura, stesso caratteraccio, stesso orgoglio che muoveva ogni loro passo. Ma Clowance era anche molto altro e di quel 'molto altro' lui era innamorato perso come solo un padre puo' essere. Clowance era la più Poldark fra i Poldark. Aveva in se il carattere, che aveva preso decisamente da lui, unito alla nobiltà e alla fierezza dei Poldark di vecchia generazione, quei Poldark nobili e raffinati che un secolo prima avevano costruito Trenwith. Clowance era elegante e nobile nel modo di porsi e di parlare, era bellissima e conscia di esserlo e spesso ti guardava con quell'espressione di chi ti sta concedendo l'onore di respirare la sua stessa aria e questo era un tratto del suo carattere che lo faceva impazzire. Non lo avrebbe tollerato in nessun altro, ma in sua figlia aveva un sapore diverso, dolce e deciso insieme ma mai altezzoso. E poi l'aspetto fisico, così simile a Demelza, così bella e selvaggia come lei. Adorava Clowance quando rideva, ma era soprattutto quando teneva il broncio che la trovava irresistibile. Esattamente come sua madre...

A passo spedito si avvicinò alla spiaggia, pensando a com'era sempre stato il rapporto con sua figlia e a come potesse essersi sentita tradita e messa da parte durante la sua malattia. Odiava se stesso per il modo in cui l'aveva trattata e sentiva sulla sua pelle la delusione e l'angoscia che doveva aver provato nell'essere messa da parte da quel padre che per lei aveva sempre straveduto.

Finalmente, la vide. Era fra l'erba alte delle dune che portavano al mare, in compagnia di Artù. Aveva i capelli sciolti e indossava un abitino semplice, di un colore viola pallido. La vide andare verso il bagnasciuga col cane, inginocchiarsi a terra e smuovere la sabbia alla ricerca di conchiglie e si ricordò che era un qualcosa che spesso, lui e lei, avevano fatto insieme prima del suo incidente alla miniera.

Ross deglutì. Non era mai stato molto bravo a parole e soprattutto a chiedere scusa. Ma con Clowance doveva sforzarsi di essere perfetto! Non voleva, non poteva perdere la sua bambina! E la situazione di stallo fra loro era durata pure troppo.

Si avvicinò a passo felpato, il suo arrivo attutito dal rumore delle onde che si infrangevano sulla battigia. Clowance si accorse del suo arrivo solo quando fu alle sue spalle. Sussultò, alzò la testa e rimase perfettamente immobile. Una volta gli sarebbe saltata al collo felice ma quei tempi erano finiti e forse non sarebbero più tornati, pensò tristemente. "Posso aiutarti?".

"No".

"Perché? Sono bravo a cercare conchiglie, sai?".

Clowance sbuffò. "Sono brava anche io e non ho bisogno che mi aiuti".

Ross si inginocchiò per essere alla sua altezza e guardarla negli occhi, poi le sfiorò il mento. "Lo so che sei capace ma vorrei aiutarti lo stesso. Come una volta, ricordi?".

Clowance rimase seria, lo guardò in viso e poi scosse la testa. "Mi hai detto che dovevo imparare a fare le cose da sola e l'ho fatto. Ora non mi serve più che nessuno venga ad aiutarmi. Sto bene qui da sola, con Artù".

Si sentì in colpa al sentire quelle parole. Era vero, era stato severo ed inflessibile con Clowance durante la sua malattia e aveva preteso che facesse tutto da sola, senza rendersi conto che sua figlia, cercando il suo aiuto, non faceva che cercare il contatto con lui. Contatto che lui le aveva negato. "Mi dispiace di averti detto quelle cose, ero malato e non sapevo chi ero. E non sapevo nemmeno chi eri tu e cosa facevamo assieme. Ma non ho mai smesso di volerti bene e mi dispiace di esserti sembrato cattivo, non lo ero, stavo semplicemente male. So che ti ho detto che devi imparare a fare le cose da sola e lo penso ancora, ti servirà quando sarai grande, ma questo non significa che non potremo fare tante cose insieme, come una volta. Per quanto tu possa crescere e diventare adulta, io sarò sempre tuo padre e non ci sarà MAI nulla che non mi piacerà fare con te. E non ci sarà mai una volta in cui mi chiederai aiuto e io ti dirò di no".

"Sei un bugiardo!".

La voce di Clowance era fredda e piena di risentimento e lo fece sussultare. La guardò, aveva solo sei anni e mezzo eppure gli sembrava molto più grande della sua età, non tanto nell'aspetto – era esile e minuta – quanto nei modi di fare e nell'atteggiamento. Non stava facendo capricci o sbraitando ma stava, al contrario, gestendo quella situazione con la freddezza di un adulto. "Non ti ho mai mentito".

"Si invece! Anche adesso! Non è vero che mi dici sempre di si quando ho bisogno di aiuto, quando non riuscivo a imparare a scrivere mi hai sgridata e volevi lasciarmi senza mangiare. E mi hai detto che dovevo fare da sola!".

"Clowance!". Non c'era niente che potesse dirle per farle cambiare idea, c'era solo una cosa che poteva fare per farle sentire quanto la amava. Le prese le mani, la attirò a se e la abbracciò. La piccola tentò di ribellarsi, ma poi si arrese al fatto che lui era più forte di lei. La sentì tremare e poi singhiozzare, rilasciando una tensione che probabilmente aveva accumulato in tutti quei mesi. "Mi dispiace, i papà a volte sbagliano e io l'ho fatto. Senza volerlo e senza accorgermene, te lo giuro. Ma non ho mai e poi mai smesso di volerti bene, credimi. Ora sono guarito, sono di nuovo quello di prima e so che sei arrabbiata, ma credi di poter riuscire a fare la pace con me un giorno?".

"Mi avevi detto che ero la tua preferita" – singhiozzò la bimba, fra le sue braccia.

"E lo sei. Ti voglio bene come ne voglio a tuo fratello e a tua sorella, ma per me tu sei speciale per tanti motivi che ti spiegherò quando sarai più grande".

Clowance alzò lo sguardo su di lui, lo studiò in viso e poi si asciugò le lacrime con la mano. "Mi vuoi bene anche se ti dico che sono stata cattiva?".

"Non sei mai stata cattiva!".

"Sì invece. Rispondi! Mi vuoi bene anche se ti dico che ho fatto una cosa brutta?".

Ross sbuffò. Non capiva quel discorso e trovava stupefacente che sua figlia, così piccola, sapesse già metterlo alla prova. "Certo, ti vorrò bene anche più di quando sarai brava, quando sbaglierai. Sono tuo padre, non dimenticarlo".

Clowance abbassò lo sguardo, giocò con la sabbia smuovendola con un piede e poi sospirò, come se quello che stava per dire pesasse come un macigno sulla sua coscienza. "Sai quel drago con due teste, quello che ci avevi messo tutta la notte a farmi?".

Ross annuì. Era bello ricordare, finalmente... "Certo".

Clowance sbuffò. "Quando sono scappata di casa, ero così arrabbiata che l'ho distrutto e buttato nel fuoco del camino".

Ross espirò. Si aspettava una catastrofe, da com'era iniziata quella discussione e invece era solo un drago di carta... Le sorrise, accarezzandole i capelli. "Avevi ragione ad essere arrabbiata con me e quello che hai fatto non ti rende cattiva. Io avevo tradito la tua fiducia e tu ti sentivi abbandonata ed eri arrabbiata e triste. Per questo l'hai fatto".

"Si ma... Ci avevi messo tanto per farlo".

Ross la guardò. Percepiva quanto si sentisse in colpa per quel drago e tutto quello che lui desiderava era rassicurarla. "Non fa niente, era solo un drago di carta, ne faremo altri. Magari, se ci esercitiamo insieme, con tre teste. Che ne dici? Ci proviamo?".

Clowance vacillò per un attimo, quasi timorosa ed indecisa se accettare e tornare a fidarsi di lui o rimanere chiusa nelle sue posizioni. Ma poi, timidamente, allungò la mano prendendo quella di suo padre e stringendola. E sorrise. "Sei tornato davvero, papà".

"Davvero!". La strinse a se, la abbracciò forte e le baciò la testolina rossa.

"Papà?".

"Sì?".

"Va bene, puoi aiutarmi a cercare le conchiglie per il braccialetto di mamma".

Ross sorrise. "E allora vieni con me, conosco un posto dove ne troveremo di bellissime".

"Dove?" - chiese la bimba, dandogli la mano.

Presero a camminare sul bagnasciuga, seguiti da Artù che giocava fra le onde. "In una grotta qui vicino".

A quelle parole, Clowance si bloccò. "No, non voglio venire in una grotta, ho paura delle grotte. L'ultima volta, mamma è quasi morta".

Ross strinse la sua mano, si chinò e la prese in braccio, mettendosela sulle spalle. "Nessuno ti farà del male e nessuno ne farà mai più alla mamma. Puoi starne certa! Ti fidi di me?".

"Si".

"E allora andiamo nella grotta?".

Clowance sospirò. "Va bene, andiamo nella grotta".

Ross la rimise a terra e le ridiede la mano, cercando di infonderle coraggio e la bimba, dopo un'iniziale titubanza, lo seguì a passo più spedito. Lo guardò di sottecchi, studiandolo ancora, poi timidamente gli raccontò cosa aveva fatto negli ultimi mesi, come se lui non ci fosse stato e fosse appena tornato da un viaggio. Infine... "Papà, posso chiederti una cosa?".

"Certo!".

"Perché mamma non vuole farmi essere amica di Valentin Warleggan? Sai che Artù me lo ha regalato lui?".

Ross a quella domanda si irrigidì. Valentin Warleggan... Quel nome riportava indietro tanti, troppi ricordi dolorosi. La sua gioventù, Elizabeth, la guerra, il tradimento ai danni di Demelza, l'espiazione delle sue colpe. Aveva avuto quattro figli nella sua vita e forse ce n'era un quinto, Valentin. Ma non riusciva a considerarlo tale, per lui i suoi figli erano coloro che stava crescendo e che portavano il suo cognome. Valentin forse aveva il suo stesso sangue ma era un Warleggan cresciuto ed educato da George. Non era suo figlio, non lo conosceva e forse non l'avrebbe mai conosciuto, nulla li avrebbe mai uniti in qualcosa. Ma quell'ipotetico legame di sangue restava e capiva il perché Demelza avesse deciso di recidere i rapporti fra Clowance e il bambino. "Un giorno te lo dirò, quando sarai grande. E' una storia un po' complicata da capire per una bambina ma quando sarai capace di comprenderla, ti prometto che te la racconterò".

Clowance sospirò. "Siete così misteriosi voi adulti! Ma Valentin è cattivo? Per questo non volete che sia mia amico?".

"No, non è cattivo! Ma è meglio che tu gli stia lontana".

"Tu lo conosci, papà?".

Ross scosse la testa. No, non lo conosceva, l'aveva visto di sfuggita solo una volta, quando era corso a Trenwith dopo aver saputo della morte di Elizabeth e da allora aveva cercato di rimuovere l'immagine di quel bambino dalla sua mente. Ma da allora aveva deciso che, una volta cresciuti, ai suoi figli avrebbe detto la verità circa la sua vita e i suoi errori. Demelza non era d'accordo su questo ma lui lo desiderava. Non voleva né segreti né ombre nel suo rapporto coi suoi figli e anche se non sapeva come l'avrebbero presa, voleva essere sincero, una volta cresciuti. "L'ho visto solo una volta" – disse, fugacemente.

Clowance non disse altro, capendo che era meglio non proseguire a chiedere. E anche questo era tipico di lei e del loro vecchio rapporto, il capirsi senza bisogno di parole. Il rapporto con sua figlia sarebbe stato diverso da com'era prima dell'incidente, lo sapeva. Ma sapeva anche che era talmente forte da essere indistruttibile e che ciò che li univa si sarebbe modificato con gli anni ma non sarebbe mai finito. Sarebbero cresciuti insieme lui e Clowance, ognuno in modo diverso. Ma le loro strade non si sarebbero mai divise davvero, anche se la vita avrebbe potuto portarli fisicamente lontani. "Siamo arrivati, la grotta è questa" – disse, indicando l'ingresso roccioso alla piccola.

"Sicuro?".

"Sicuro! Vedrai, ci sono conchiglie di mille colori, trasporate dalla marea di notte".

Clowance sorrise. "Mamma sarà contenta del bracciale".

Ross le strizzò l'occhio. "Mamma sarà contenta di sapere che abbiamo fatto pace, che ne dici?".

La bimba ricambiò il suo sguardo complice, come una volta. "Sì, anche per quello" – esclamò finalmente allegra, correndo senza più esitazioni nella grotta.


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Capitolo 31
*** Capitolo trentuno ***


Dieci anni dopo


"Ci siamo persi Bella, ferma il cavallo Jeremy!".

Suo fratello, davanti a lei di alcuni metri, tirò le redini e Clowance fece altrettanto col suo cavallo.

Si guardarono in giro, attorniati dai colori forti della piena estate del bosco, cercando il terzo cavallo che portava la sorellina undicenne.

Suo fratello, alto più di lei di una testa, che aveva ormai diciannove anni e pensava di sapere tutto della vita, la guardò corrucciato. "Come persa? Clowance, ma non era accanto a te? Perché non ci sei stata attenta?".

La ragazza alzò gli occhi al cielo. Beh, Jeremy poteva pure essere il fratello maggiore, ma lei aveva ormai sedici anni e le paternali non le andava più di sentirle! "La stavo controllando! Più o meno... E' solo una passeggiata a cavallo nel bosco, mica devo farle da guardiana! E poi è colpa tua, sarà morta di noia da qualche parte! Sono DUE ore, da quando abbiamo lasciato casa, che la tormenti con la storia della flora della Cornovaglia!".

"Non la sto tormentando!" - rispose a tono suo fratello – "la stavo aiutando con la sua ricerca per la scuola che deve portare per settimana prossima. Se no rischia di diventare una somara come te".

"Cosa? Somara?". Clowance lo guardò storto, facendo finta di non sentirlo. "Parla, parla pure Jeremy... Tanto il fratello maggiore sei tu e quindi la colpa è solo tua di TUTTO". E detto questo, con un movimento lento del capo, si scostò i lunghi capelli rossi dal viso e si addentrò nel bosco.

"Clowance, dove vai? Vieni qui!".

Ai richiami di Jeremy, sbuffò. Non lo sopportava più! Da quando suo fratello era così stramaledettamente protettivo? Certo, era carino e molto paziente, difendeva lei e Bella pure quando non ce n'era bisogno, tipo quando qualche giovane le guardava e sorrideva più del dovuto, però... era noioso! "Invece di urlare come un'aquila, seguimi! Dobbiamo trovare Bella!".

Improvvisamente, un cespuglio dietro di loro si mosse e dopo alcuni istanti Bella comparve davanti a loro a piedi, tenendo il cavallo per le redini. I lunghi capelli neri le cadevano disordinati sul viso e sulle spalle, gli occhi azzurri risplendevano come il cielo, le sue guance erano arrossate e la sua espressione era furba e maliziosa come al solito.

"Dove diavolo sei stata?" - le gridò Jeremy.

La ragazzina indicò il bosco, in direzione del laghetto. "Di la!".

"Ti stavo spiegando le nozioni sulla flora locale, piante e alberi della Cornovaglia! Per la tua ricerca, ricordi? E sei sparita".

Bella guardò Clowance, alzò gli occhi al cielo, sbuffò e poi tornò a degnare della sua attenzione il fratello. "La flora, la flora della Cornovaglia... Che noia! La fauna invece è più interessante" – concluse, ridacchiando e strizzando l'occhio a sua sorella.

Clowance la fissò senza capire. Ma intuendo... La sua dolce e innocente sorellina di undici anni, di cui una volta era gelosa marcia quando era piccola, era sveglia, ironica e molto attenta a ciò che la circondava. Soprattutto al genere maschile... "Chi hai incontrato?".

Bella alzò le spalle. "Non so il suo nome. Ma nel laghetto c'è un tizio molto carino che sta facendo il bagno. Deve avere la tua età, Clowance".

Jeremy divenne rosso in viso. "Un tipo che sta facendo il bagno? Nudo?".

Bella lo fissò con aria fintamente innocente. "Aveva il petto nudo, sotto non so. Stava nuotando, non ho visto! Volevi che rimanessi lì a vedere?".

"NOOOO!".

Alla reazione di Jeremy, Clowance e Bella si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere. Clowance si trovò a pensare a quanto lei e Bella, fino all'anno prima, fossero distanti. Sua sorella era ancora troppo piccola per avere cose in comune con lei e lei era ancora troppo gelosa e accentrata su se stessa per tollerarla più di tanto. Ma da un anno a quella parte, le cose erano cambiate e spesso lei e Bella bisbigliavano fra loro i propri segreti, ridacchiavano e si erano ritagliate un loro intimo mondo di sorelle in cui escludevano gli altri. E quindi... "Andiamo a vedere chi è?" - propose alla sorellina.

"Ci sto!".

"No!" - li interruppe Jeremy.

"Dai!" - protestò Clowance – "Un ragazzo della nostra età da queste parti quando ci capita? A parte i tuoi amici d'infanzia, siamo sempre soli noi tre!".

"Siamo soli perché tu fai troppo la principessa per abbassarti ad essere amica dei miei amici" – ribatté il fratello.

"Beh, a me piace conoscere gente nuova! E io torno al laghetto" – tagliò corto Bella, lasciando il suo cavallo e correndo fra gli alberi.

Clowance decise di seguire il suo esempio. Scese di sella, legò il suo cavallo a un tronco e corse dietro alla sorella. E Jeremy fu costretto, contro voglia, a seguire entrambe.

Le ragazze corsero fino al laghetto e videro il giovane che, appena uscito dall'acqua, era a petto nudo ed indossava solo i pantaloni.

Clowance lo osservò. Come aveva detto Bella, aveva circa la sua età, i suoi capelli erano neri e ricci e gli arrivavano alle spalle, e nel complesso era piuttosto carino e aveva un non so che di famigliare.

Il giovane le notò e sorrise loro, apparentemente per nulla imbarazzato dal trovarsi mezzo nudo davanti a due ragazze. "Buongiorno" – disse loro.

"Buongiorno!" - rispose Bella tranquillamente, mentre Jeremy giungeva alle loro spalle trafelato.

Il giovane sconosciuto si avvicinò loro, sorridendo e non togliendo gli occhi di dosso da Clowance. "Con chi ho il piacere di parlare?".

"Jeremy Poldark, piacere di conoscervi" – rispose Jeremy – "E loro sono le mie due sorelle impiccione, Bella e...".

"Clowance?". Il giovane sconosciuto finì la frase per lui, con enorme stupore di tutti.

La ragazza lo guardò accigliata. "Ci conosciamo?".

Il ragazzo sorrise. "Direi di sì, anche se forse vi siete dimenticata di me".

Clowance guardò Jeremy e Bella che, dagli sguardi, sembravano capirne meno di lei. "E chi siete?".

Il ragazzo, continuando a mangiarsela con lo sguardo, sorrise mellifluamente di nuovo. "Una volta ci davamo pure del tu. E se avete un cane, è grazie a me. Come sta Artù?".

Clowance spalancò gli occhi dalla sorpresa, mentre immagini lontane della sua infanzia le tornavano alla mente. Ricordò una fuga da casa con un bambino ricciolino, malaticcio e debole, che lei comandava a bacchetta e che le ubbidiva in tutto. Ricordò che quel bambino aveva trovato Artù ancora cucciolo, che glielo aveva regalato e che, per tanto, aveva voluto rivederlo ma che per qualche strano motivo i suoi genitori glielo avevano impedito. Poi, crescendo, come spesso accade, lui era diventato un ricordo nascosto in un angolo della sua memoria. Ed ora era qui, cresciuto, meno imbranato che da piccolo e con uno sguardo penentrante che sembrava spogliarla e che la metteva in soggezione. Apparentemente era gentile ed educato, ma si sentiva a disagio, come se quel ragazzo nascondesse un animo diverso e meno cristallino sotto la scorza di buone maniere che esibiva. "Valentin Warleggan..." - sussurrò.

"Vi ricordate di me, vedo" – rispose lui, sempre in tono gentile.

"Sì, se ho un cane è davvero grazie a voi. Artù sta bene, anche se ormai comincia ad essere un po' avanti con l'età è ancora un cane grande e maestoso, bello ed elegante".

Valentin le si avvicinò, le prese la mano e a sorpresa la baciò. "Come la padrona".

E a quel punto Jeremy, fattosi scuro in volto, intervenne. "Andiamo, si sta facendo tardi".

"Ma io voglio restare ancora un po'" – protestò Bella.

Clowance osservò Jeremy, rendendosi conto immediatamente del suo cambiamento d'umore. Appena aveva sentito il nome di Valentin, era diventato cupo in modo diverso rispetto al solito, quando i ragazzi le facevano gli occhi dolci e si limitava a spazientirsi. Sembrava rabbioso ed era una cosa inusuale per Jeremy. E per una volta decise di fare come diceva lui senza protestare anche perché Valentin la metteva decisamente a disagio. Da bambina lo avrebbe voluto come amico ma ora riaverlo davanti, le dava una pessima sensazione di pericolo. Poggiò una mano sulla spalla di Bella e la attirò a se. "Su, andiamo, si sta facendo davvero tardi". Poi sorrise stentatamente a Valentin. "E' stato un piacere rivedervi ma mio fratello ha ragione, dobbiamo davvero andare".

"Spero di rivedervi Clowance! Senza cani da guardia magari" – disse Valentin, guardando con aria di sfida Jeremy.

Suo fratello scosse la testa. "Dubito succederà. Da quel che so, fra mio padre e vostro padre non corre buon sangue ed è meglio che ognuno resti a casa sua".

Clowance sussultò. Ora che ci pensava, due anni prima, c'era stato un periodo di tensione fra il loro papà e Jeremy proprio a proposito di una qualche faccenda riguardante la famiglia Warleggan. A lei e a Bella nessuno aveva spiegato nulla ma per una settimana buona, Jeremy era stato arrabbiato col padre e non gli aveva rivolto la parola. Era stata la loro mamma a rimettere pace, in quella situazione di tensione tanto inusuale per la loro famiglia. Non aveva mai saputo cosa fosse successo e né Jeremy né suo padre, con cui parlava di tutto, le avevano spiegato nulla. Ma ora era ben decisa ad andare in fondo alla situazione e magari a scoprire perché, dieci anni prima, le avevano impedito l'amicizia con Valentin. Cosa c'era sotto di tanto grosso, da osteggiare persino l'amicizia fra due bambini? "Arrivederci Valentin" – disse infine, trascinandosi dietro Bella.

Raggiunsero il cavallo in un silenzio di tomba e Clowance, lascianta la sorellina a borbottare da sola, si affiancò a Jeremy. "Che ti prende?".

"Sta lontana da quel tizio e non farti mettere le mani addosso".

Clowance lo guardò storto. "Io non mi sono fatta mettere le mani addosso".

"Ma a lui sarebbe piaciuto molto, te lo assicuro" – ribatté Jeremy, secco.

E stavolta la ragazza non riuscì a controbattere perché lei stessa aveva avuto la medesima sensazione. Lo prese sottobraccio, dandogli un bacio sulla guancia. "Non è piaciuto molto nemmeno a me, comunque, stare a parlare con lui. Da piccolo era più simpatico".

"Meglio così" – rispose Jeremy, vago.

Tornarono ai loro cavalli, montarono in sella e tornarono a casa, attenti stavolta a non perdere Bella per strada.

Quando giunsero a Nampara era quasi ora di cena e dalla porta fuoriusciva un invitante profumo di stufato.

"Avrà cucinato mamma, il profumo è troppo buono per essere opera di Prudie" – commentò Bella, laconica.

Jeremy, a dispetto di tutto, rise, scompigliando i capelli alla sorellina. "Suppondo di sì, poi son giorni che Prudie ha mal di schiena, sarà a letto e saremo noi a dover servire lei".

"O Jud" – ribadì Clowance, ridacchiando. "Il problema è che ora è abbastanza anziana per essere credibile quando ha qualche malanno e dice che non puo' lavorare".

I tre si guardarono in faccia e risero, la tensione di poco prima ormai dimenticata.

Quando entrarono, trovarono il padre seduto sulla poltrona, con lo sguardo torvo e pensieroso. "Finalmente siete a casa!" - disse, con fare distratto.

Bella esibì il suo miglior sorriso, gli si avvicinò e gli saltò sulle gambe. "Colpa di Clowance e Jeremy se siamo in ritardo, mi hanno persa per strada!".

Ross alzò gli occhi sui due figli maggiori, squadrandoli col viso. "Come potremo fidarci di voi per... per quello che aspetta?" - sbottò.

Clowance si accigliò. "Quello che ci aspetta? Che è successo?".

"Io e la mamma dobbiamo dirvi qualcosa".

Dalla cucina, giunse Demelza. Aveva i capelli raccolti in una crocchia e sembrava decisamente più radiosa di Ross. "Già, una notizia grandiosa".

I ragazzi guardarono i genitori senza capire. E alla fine Jeremy sbottò, chiedendo che diavolo stesse succedendo. "Cosa dovete dirci?".

Ross e Demelza si guardarono in viso, arrossendo lievemente, imbarazzati. E alla fine lui la attirò a se, cingendole la vita. "Sta per arrivare un fratellino. O una sorellina... E non ce lo aspettavamo proprio".

"Ma ne siamo felici e spero lo siate anche voi" – disse Demelza, chiudendo la frase del marito.

Clowance, Jeremy e Bella si guardarono negli occhi con sorpresa e poi dopo alcuni istanti, scoppiarono a ridere. "Un bambino? E non ve lo aspettavate?" - disse Jeremy, più che altro divertito.

"Che c'è da ridere?" - borbottò Ross.

Il ragazzo gli si avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla. "Oh papà, l'unico modo che avevate per non correre il rischio, era dormire separati. E dovreste farlo, se non volete altre sorprese del genere in futuro".

Ross arrossì vistosamente cercando, con lo sguardo, aiuto in Demelza che però sembrava divertita quanto suo figlio.

Bella lo guardò, ridacchiò pure lei e poi lo abbracciò. "Papà, mamma, però anche se siete quasi vecchi, è una cosa bella. Sono contenta".

"Ti ringrazio per aver detto che sono vecchio, Bella, sei carina come sempre...". Ross sospirò, accarezzando i capelli neri della figlia. "Io aspetto di vedere che tutto vada bene, comunque, per esserne contento. Non sono sconsiderato come voi e vostra madre".

"Sì che lo sei, hai messo incinta la mamma anche se ha più di quarant'anni!" - ribatté Clowance, non smettendo di ridere. Era divertita dalla reazione del padre, gli faceva tenerezza quel modo di fare burbero che nascondeva una grande preoccupazione per sua moglie. "Andrà tutto bene" – disse infine, abbracciando i genitori.

Demelza, soddisfatta, diede un bacio a Ross sulla nuca. "Visto che sono contenti? E ora torno in cucina, mi aiutate a preparare la cena? Vostro padre pensa che sia troppo moribonda per farlo da sola...".

Bella annuì, poco entusiasta. "E Prudie dove sta?".

"A letto con il mal di schiena" – ribatté Demelza.

Bella guardò Jeremy, sospirando. "Vado a prendere l'acqua fuori al pozzo, mi aiuti? Se lo chiedo a Clowance e poi lei si spezza un unghia, succede una tragedia come l'ultima volta".

Jeremy annuì e con Bella corse fuori, mentre Demelza, sorridendo, tornò in cucina.

Rimasta da sola con suo padre, salva dall'incubo lavori-domestici, Clowance si avvicinò alla poltrona dov'era seduto, sedendosi sulla spalliera. "Papà, fidati della mamma, se è tranquilla è perché sa di poterlo essere".

Ross sospirò. "Ma io sono preoccupato lo stesso. E' diverso dalle altre volte, non è più così giovane come quando siete nati voi".

Clowance alzò le spalle. "Ma è abbastanza giovane, ancora, per avere un bambino". La ragazza gli sfiorò le spalle. Suo padre era sempre stato il suo idolo, fin da quando era piccolissima. Con lui si era sempre confidata su tutto, con lui aveva riso, scherzato, giocato e condiviso ogni cosa. E crescendo, negli anni, anche lui aveva imparato a confidarsi con lei su tante cose, rendendola partecipe del suo mondo. Bella era ancora troppo piccola per certi discorsi, Jeremy aveva un carattere troppo diverso da quello del padre ma lei e lui... loro, da sempre, si erano trovati in sintonia, anime affini e simili che si cercavano in continuazione e sapevano capirsi con uno sguardo.

Ross la guardò, alzando un sopracciglio. "Non sarai gelosa come quando è nata Bella?".

"No, figurati! Ormai sono grande per essere gelosa, anzi... Almeno farò pratica".

Ross spalancò gli occhi, girandosi di scatto verso di lei. "Pratica per cosa?".

"Per quando sarò mamma! Voglio dire, prima o poi capiterà".

Ross la guardò storto, scuotendo la testa. "Non pensarci, non succederà troppo presto, sei giovane ancora per queste cose".

Clowance ricambiò il suo sguardo. "Ho sedici anni, quanti anni aveva mamma quando l'hai sposata?".

"Non è paragonabile la cosa, erano altri tempi" – ribatté lui, secco.

Clowance sospirò, arrendendosi al fatto che per suo padre sarebbe rimasta sempre una bambina. "Sta tranquillo, non ho mica intenzione di sposarmi domani. Non ho nemmeno un fidanzato e apprezzo il fatto che tu e la mamma non ne vogliate trovare uno per me e mi lasciate libera di scegliere chi voglio".

Ross ridacchiò, prendendole le mano. "Tu non sei libera di scegliere chi vuoi, tu non devi scegliere proprio nessuno per ora".

La ragazza sorrise, adorava mettere suo padre in imbarazzo parlando di ipotetici fidanzati. Però, ripensando alla giornata appena trascorsa, c'era un qualcosa che doveva chiedergli su un ragazzo. "Papà, ti ricordi quando ero piccola e mi avevi promesso che mi avresti parlato di Valentin Warleggan quando fossi diventata grande?".

Al sentire quel nome, Ross si voltò di scatto verso di lei. "Sì, lo ricordo" – disse, serio. "Che c'entra ora?".

"Lo abbiamo rivisto oggi, nel bosco, per caso. E' un tipo strano, da piccola mi piaceva ma oggi... beh, mi guardava insistentemente e lo trovavo inquietante. E' strano... E una volta mi avevi promesso che...".

Ross sospirò, le strinse la mano e la accarezzò, piano. "Non è una storia piacevole da sentire".

"Jeremy la sa però, vero?".

"Sì, la sa. Ed è rimasto arrabbiato con me per giorni".

Clowance scosse la testa. "Io non sono Jeremy, io riesco sempre a capirti meglio di lui e ora voglio davvero sapere perché non ho potuto più vederlo. E perché temi che mi arrabbi con te".

Gli occhi di Ross divennero cupi, scuri, quasi assenti. "Diciamo che lui, Valentin, potrebbe essere tuo fratello. Fratellastro intendo...".

A quella rivelazione totalmente inaspettata, a Clowance parve mancare il fiato. Spalancò gli occhi, quasi incredula davanti all'entità di quella rivelazione. Se Valentin era suo fratello... e ora che ci pensava, somigliava a... a... "Papà, cosa stai cercando di dire?" - chiese, quasi timorosa.

"E' giusto che tu sappia...". Ross chiuse gli occhi, quasi intimorito dal guardarla in viso. E lentamente, con dolore, le raccontò di Elizabeth, della sua ossessione per lei, del tradimento ai danni di Demelza e del perché fosse nata a Londra e lui non c'era. E di Valentin, quel bambino che, a conti fatti, anche se non c'erano prove, poteva essere suo.

Clowance, impietrita, era rimata a lungo in silenzio, con gli occhi lucidi. Non sapeva come fare, cosa dire, cosa pensare... Suo padre, il suo perfetto e forte papà aveva tradito sua madre. Le sembrava incredibile che proprio lui, loro... Così innamorati come il primo giorno... Si amavano così tanto, erano inseparabili. Ma c'era stato un tempo in cui lui era stato diviso dall'amore per due donne e questo lo metteva in una luce diversa ai suoi occhi. Non più imbattibile e infallibile ma umano, con pregi e difetti. Avrebbe voluto odiarlo, avrebbe potuto farlo visto quello che gli aveva appena detto, invece desiderava solo abbracciarlo perché percepiva in lui il dolore e i sensi di colpa per quello che aveva fatto e che mai si era perdonato. Quando lei era nata a Londra, lui aveva perso tutto e conoscendolo, poteva ben immaginare quanto avesse sofferto. E sua madre... Ora capiva cosa potesse aver provato nell'avere a che fare con Valentin e il perché delle sue decisioni. "Papà...?".

"Dimmi... Sei arrabbiata, vero?" - le chiese, con un filo di voce.

"Mamma ti ha perdonato?".

"Sì".

Clowance rilasciò il respiro a lungo trattenuto. E sorrise. "E allora non vedo perché non debba farlo io".

Ross si voltò verso di lei stupito, l'attirò a se e l'abbracciò. "Clowance, tu SEI mia figlia. Tu, Jeremy e Bella. Valentin, indipendentemente da chi sia davvero, non l'ho mai sentito mio. I miei figli sono quelli che mi ha dato tua madre: Julia, Jeremy, Clowance e Bella".

Clowance alzò lo sguardo su di lui, sorridendo. "Scervellati un po', presto dovrai trovare un altro nome per un altro figlio. Ti stai dimenticando della gravidanza di mamma".

Ross sospirò, apparentemente più rilassato. "Non ricordarmelo".

"Certo che te lo ricordo! E' colpa tua... Dovresti davvero prendere in considerazione il consiglio di Jeremy e trovarti un'altra stanza dove dormire..." - disse, stemperando la tensione. Poi gli diede un bacio sulla fronte e raggiunse sua madre in cucina. E in quel momento si sentì come se una nebbia invisibile che conservava un segreto, fosse svanita.



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Capitolo 32
*** Capitolo trentadue ***


"I ragazzi l'hanno presa bene".

Demelza, intenta a mettersi la camicia e a prepararsi per la notte, annuì. "Sicuramente meglio di come l'hai presa tu" – disse scherzosamente al marito, intento ad accendere il camino.

Ross sospirò, scuotendo la testa e smuovendo la cenere. "Non dovresti prenderla con tutta questa leggerezza, è una questione seria".

"E' una questione bella! Avremo un bambino, non è un lutto, Ross!"

Suo marito sospirò, alzandosi dalla posizione accovacciata e sedendosi su letto, accanto a lei. "Demelza, è diverso dalle altre volte!".

"Ross Vennor Poldark, stai dicendo che sono vecchia?" - chiese lei, con gli occhi che promettevano scintille.

Ross alzò le spalle. "Sicuramente lo sei più che le altre volte e questo è inequivocabilmente un dato di fatto!".

"Sto bene e ho tutta l'intenzione di stare bene pure in futuro!" - ribatté lei. "Di cos'è che hai così paura?".

Ross la fissò con quei suoi occhi scuri e penetranti, serio. "Una volta, tanti anni fa, ho visto una donna morta di parto... E se penso che puo' succedere... che potrebbe... che tu...".

Demelza gli prese le mani. Tremavano... Aveva ben capito di chi lui stesse parlando e di cosa aveva paura. Quel timore di Ross espresso così, a parole, fece venire la pelle d'oca pure a lei. Ma soprattutto... "Non voglio parlare di Elizabeth!" - disse, secca.

"Non ho detto il suo nome!" - ribatté lui, piccato.

"Ma era a lei che ti riferivi! La mia, la nostra è un'altra storia e tu lo sai. Non è morta di parto e io non voglio parlare di Elizabeth".

"Non era mia intenzione farlo, sei tu che hai tirato in ballo l'argomento e hai pronunciato quel nome".

Demelza si morse il labbro. Ross era teso e nervoso e quando era così, spesso finivano col discutere. Ma era una cosa di cui non aveva voglia, non quella sera, non nel giorno in cui aveva scoperto la nuova imminente maternità. In realtà pure lei, benché cercasse di mascherarlo, aveva mille paure e i nervi a fior di pelle ma Ross rischiava di peggiorare la situazione, facendo così. "Pensi ancora a lei?".

Davanti alla serietà del suo tono di voce, Ross deglutì. "Penso a lei come si puo' pensare ad un antico affetto. Penso a lei con la tristezza con cui si pensa a una donna morta giovane".

Beh, come risposta poteva andarle pure bene, ma lo sguardo di Ross era ancora indispettito e teso. "Che c'è?".

Suo marito la guardò con sospetto. "E tu... Pensi ancora ogni tanto, a Hugh Armitage?".

Spalancò gli occhi, una domanda del genere non se l'aspettava minimamente. Come poteva paragonare ciò che l'aveva legata a Hugh più di dieci anni prima, con quello che lui aveva vissuto con Elizabeth. "Cosa? Ross, sei impazzito?".

"Rispondi!".

"No, non penso a lui" – disse, guardandolo negli occhi.

"Mai fatto?" - insistette Ross.

Demelza sospirò, suo marito aveva voglia di litigare a quanto sembrava. "Si, l'ho fatto. Ho pensato a lui a volte, con la stessa pietà che tu usi nel pensare ad Elizabeth, con la pietà che si prova nei confronti di una persona morta giovane. E comunque le due cose non sono paragonabili".

Ross fece per ribattere a tono ma alla fine abbassò lo sguardo, si gettò sul cuscino e chiuse gli occhi. "Hai ragione, scusa! Sono solo nervoso...".

Demelza scosse la testa, prese il suo cuscino e glielo tirò in faccia. "Sei detestabilmente insopportabile quando ti ci metti, sai?".

"Me lo dicono in molti" – rispose lui, laconico.

A Demelza scappò un sorriso. Allungò la mano, prese quella del marito e la strinse. "Ross, anche io ho paura per il bambino. Ma so che andrà bene, che lui sarà in salute e che lo sarò pure io. E' la mia ultima gravidanza questa, dubito ce ne saranno delle altre e...".

"Puoi scommetterci che sarà l'ultima" – la interruppe lui.

Demelza finse di non sentirlo. "E... Vorrei vivermela felicemente e senza troppi pensieri, dall'inizio alla fine, con te. Stammi vicino, pensiamo alle cose belle e releghiamo le preoccupazioni a quando arriveranno dei problemi, SE arriveranno. Ho bisogno di te, stavolta più di tutte le altre volte".

Ross sospirò, sconfitto, lasciandosi andare sul cuscino. Le sfiorò la vita e la trascinò a se, stringendola e costringendola a poggiare la testa sul suo petto. Le accarezzò i capelli, piano, poi le baciò la fronte. "Hai ragione, è una cosa bella questa. Ma mi conosci, di carattere tendo sempre a pensare anche alle mille cose negative che una novità comporta".

Demelza annuì. "Lo so bene. E nonostante questo, da quando ti conosco ti ho visto sfidare con coraggio anche le imprese più improbabili ed avventurose. Io non sono così diversa da te e questa sarà la mia avventura. Ma vorrei che fosse anche tua...".

"Sarà anche mia, sta tranquilla. Spero solo di poter essere un padre attento e presente come lo sono stato per gli altri".

Demelza alzò il viso e lo guardò. "Perché non dovresti esserlo?".

"Perché non sono giovane come lo ero con gli altri".

Demelza sorrise e si sporse a baciarlo sulle labbra. "Hai più energia tu, di tanti ventenni che bighellonano attorno alla tua miniera".

Ross alzò un sopracciglio. "I ventenni che non tolgono gli occhi di dosso dalla mia bambina prediletta?".

Demelza scoppiò a ridere. "La tua bambina prediletta ha sedici anni. Io alla sua età ero già innamorata di te, ti ho sposato che avevo un anno solo più di quelli che ha ora Clowance e sono rimasta incinta di Julia subito dopo".

"Non è la stessa cosa" – obiettò Ross. "I tuoi sedici anni erano diversi dai suoi, sono altri tempi adesso e Clowance è ancora piccola per OGNI cosa".

Alla fine fu costretta a sospirare. "Erano tempi diversi perché non ero tua figlia?".

"Erano tempi diversi e basta! Fine del discorso. A proposito, sai che mi ha detto TUA figlia, poco fa? Che è contenta per l'arrivo del fratellino, così farà pratica per quando sarà lei a diventare madre".

Ok, era decisamente divertita da quella conversazione con Ross e la tensione di poco prima era ormai archiviata. "Beh, come darle torto?".

"Demelza...".

Lo abbracciò, affondando il viso nel suo collo. "Guarda il lato positivo, di bambini piccoli ne hai ancora due: quello che deve nascere e Bella. In fondo lei è ancora una ragazzina".

Ross la guardò storto. "Bella è pure peggio di Clowance, ha l'occhio troppo lungo coi ragazzi e ha solo undici anni. Mi farà venire i capelli bianchi... Sai che vuole prendere lezioni di canto?".

"Sì, me lo ha detto! Dal fratello maggiore della sua amica Josephine, che studia al conservatorio. Mi sembra una buona idea".

Ross scosse la testa, guardandola come fosse un'aliena che non comprende l'ovvio. "Le ho detto che se vuole lezioni di canto, andrà da Miss Antoinette, l'organista della Chiesa di San Sawle. Non è necessario rivolgersi a un ragazzo del conservatorio".

"Sei perfido!" - rispose, divertita.

"Ho l'occhio lungo...".

Demelza ridacchiò. Calò un silenzio sereno, tranquillo, interrotto solo dallo scrosciare rilassante della pioggia. Rimasero abbracciati per un po', lei appoggiata al petto del marito e Ross che le accarezzava la schiena.

Fu Ross a interrompere quel momento. "Devo dirti un'altra cosa di Clowance e forse non ti piacerà".

"Cosa?".

"Prima, mentre parlavo con lei, mi ha raccontato che oggi, a cavallo, hanno incontrato Valentin Warleggan nel bosco".

Demelza spalancò gli occhi a quelle parole, mentre nella mente si formava l'immagine di quel bimbo dai ricci neri, magro e malaticcio, che aveva conosciuto dieci anni prima in spiaggia, durante la sua fuga da casa con Clowance. Per molto sua figlia aveva insistito per vederlo e lei era stata categorica a rifiutare, pur senza darle spiegazioni. Valentin Warleggan, il bimbo nato in una notte di luna nera, il figlio di Elizabeth e forse di quella notte maledetta con Ross. "E allora...?" - chiese, con timore.

Ross deglutì. "Le ho raccontato la verità. Me l'ha chiesta e ho pensato che fosse abbastanza grande per saperla".

Demelza rabbrividì. Alcuni anni prima, Ross ne aveva parlato con Jeremy e suo figlio l'aveva presa malissimo, tanto che per settimane non aveva voluto rivolgere la parola a suo padre. Poi, con tanta pazienza, una lunga chiacchierata e un faccia a faccia doloroso ma necessario, i suoi due uomini avevano fatto pace e Jeremy si era riappacificato con lui. Ma Clowance... "Come l'ha presa?".

"Era sbigottita, quasi spaventata. Non se l'aspettava. Mi ha sempre visto come un padre super-eroe e improvvisamente ha scoperto che sono stato tutt'altro che perfetto".

Demelza si alzò, mettendosi a sedere. "Ross, proprio per questo non avresti dovuto dirle nulla. Non era necessario e tu sai che non ero d'accordo".

"Io non volevo mentirle" – rispose lui, laconico.

"E' arrabbiata?".

"No. Mi ha chiesto se tu mi hai perdonato e le ho detto di sì e per lei questo basta. Per il resto, rimango il padre che ha sempre conosciuto, sa che ti amo e sa che amo i miei figli".

Questo la rasserenava, sapeva quanto Ross e Clowance riuscissero a leggersi nel pensiero e sicuramente sua figlia ci avrebbe rimuginato su per giorni, prima di riempire entrambi di domande, ma l'avrebbe superata meglio di suo fratello. Era un altro, l'aspetto che la preoccupava. "E con Valentin?".

Ross scosse la testa. "Gli ha fatto una brutta impressiome, ha detto che era un tipo strano e si è sentita a disagio. Non lo frequenterà e questo è un bene perché ormai non potremmo più impedirglielo. E' troppo grande per i no categorici, senza spiegazioni".

"Già". Demelza allungò la mano e strinse quella del marito. "Come stai, quando pensi a Valentin?".

"Io non penso mai a Valentin e per me vale il discorso che ti ho fatto anni fa. E' figlio di George, indipendentemente dal sangue che scorre nelle sue vene. Un perfetto prodotto di quel mondo che io detesto".

Demelza sospirò. "Sai, prima ero nervosa per il tuo discorso su Elizabeth, ma a volte ci penso a lei. Da madre, non posso non pensare al fatto che non abbia potuto crescere i suoi figli. Geoffrey Charles la adorava, Valentin l'ha persa che era piccolissimo e Ursula non l'ha mai nemmeno conosciuta. Mia madre è morta quando ero piccola e so come ci si sente, lo so...".

Strinse le coperte fra le mani, tremando. E Ross la strinse nuovamente a se. "E' bello che tu riesca a pensare a lei in questi termini, sei davvero straordinaria. Però... Sta tranquilla e non pensare a nulla di brutto o che ti incute tristezza o stress. Ricordi cosa mi hai chiesto poco fa?".

Demelza sorrise dolcemente. "Sì, lo ricordo. Allora, sarai al mio fianco in questa avventura?".

"Certo mia cara! Ma devi promettermi che non farai sforzi, che ti farai servire in tutto e che non mi farai morire di preoccupazione".

"Hai intenzione di tenermi segregata in questa camera, legata al letto, fino alla data del parto?" - chiese lei, divertita.

Ross esibì il suo miglior sorriso da perfetta canaglia. "Potrebbe essere un'idea...".

E ridendo, Demelza gli lanciò nuovamente il cuscino in faccia.

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Capitolo 33
*** Capitolo trentatre ***


Preveggenza? Sesto senso?

Quando, otto mesi prima, Demelza gli aveva comunicato di essere nuovamente incinta, la preoccupazione era stata il primo vero sentimento che aveva provato, unito al terrore. Lei gli aveva assicurato che tutto sarebbe andato bene e in effetti la gravidanza era proceduta tranquilla, senza scossoni, monitorata da Dwight. Demelza era stata tutto sommato bene, eccetto per l'infinita stanchezza che l'aveva accompagnata, tanto inusuale per una donna instancabile come lei. Spesso dormiva per ore il pomeriggio e anche la sera si addormentava presto, ma a parte questo non c'erano stati altri problemi. Solo che lui, nel vederla sempre così esausta, non poteva non essere preoccupato. Gli anni erano passati anche per Demelza e quest'ultima gravidanza era molto più faticosa e dura rispetto alle precedenti.

Il travaglio era iniziato dodici ore prima, in piena notte, e ancora non era finito. Ricordava le nascite di Julia e di Jeremy, dei veri e propri parti-lampo, così come gli avevano detto essere stato quello di Clowance, a Londra. Bella era stata più impegnativa, ma alla fine era andato tutto bene.

Ora invece la situazione sembrava bloccata e sentiva solo, dalle scale, i lamenti sempre più disperati di Demelza e la voce pacata di Dwight che cercava di tranquillizzarla.

Ross passeggiò nuovamente nel salotto, avanti e indietro. Prudie e Jud, in un angolo, sfogavano la preoccupazione sorseggiando Porto, Jeremy se ne stava silenzioso alla finestra, Clowance era accovacciata in un angolo, abbracciata ad Artù, e Bella ogni tanto faceva capolino, gli cingeva la vita e cercava conforto in lui. La piccola di casa era la più spaventata e Ross non sapeva come consolarla perché era ancora più spaventato di lei.

In mattinata era arrivata Caroline per avere notizie ed ora, insieme a tutti loro, attendeva la fine di quel parto infinito. Aveva portato con se le sue due bambine, nate dopo la sfortunata Sarah, e ora le bimbe parlottavano fra loro o con Bella, la più vicina per età, cercando di ingannare il tempo.

Le figlie di Dwight e Caroline erano due bambine dalla bellezza raffinata ed elegante, come la loro madre. Biondissime, dal viso e dai lineamenti perfetti, sempre vestite con pizzi e merletti, sembravano due bambole. Sophie aveva quasi dieci anni, aveva dei lunghissimi capelli color miele, lisci come seta, e si muoveva per casa con pacatezza e timidezza. Sua sorella Meliora, di sette anni, era più vivace. Aveva anche lei i capelli chiari, pieni di boccoli tenuti a bada da un fiocco, non stava ferma un attimo ed aveva la lingua lunga e tagliente come sua madre.

Un urlo di Demelza li fece sussultare tutti e Ross alzò lo sguardo verso le scale, sudando freddo.

Caroline gli si avvicinò, poggiando gentilmente una mano sulla sua spalla. "Ross, ascolta, credo sia meglio portare fuori i ragazzi. Esco con loro a fare due passi, almeno si distrarranno un po'".

Ross annuì, con fare assente. "Sì, è meglio".

Caroline richiamò a se le figlie e, dopo una lunga trattativa, convinse Jeremy, Clowance e Bella a seguirla. "Su ragazzi, qui non potete fare nulla e rischiate di impazzire! Vostra madre è forte, ha solo bisogno di più tempo".

Jeremy lo guardò. "Papà?".

"Vai, porta fuori per un po' le tue sorelle per favore" – gli rispose, quasi in una supplica.

Il ragazzo annuì, prese Bella per mano e assieme a Clowance si accodarono a Caroline e alle sue due bambine.

Rimasto solo con Jud e Prudie, Ross riprese a fare avanti e indietro nella sala. L'idea che Demelza stesse soffrendo e che potesse essere in pericolo, lo terrorizzava. Amava i suoi figli, avrebbe amato anche questo nuovo bambino o bambina, ma niente valeva quanto sua moglie. Non voleva, non poteva perderla!

"Ross!". Dwight, giunto precipitosamente dalle scale, lo chiamò.

"E' nato?" - gli chiese, ansioso e speranzoso.

"No. Ho bisogno del tuo aiuto Ross, te la sentiresti di venire di sopra?".

Ross deglutì. Di sopra? Ad assistere al parto? Non si era mai sentito nulla di simile, era una cosa inusuale e lo terrorizzava... Non era tanto il parto in se, era vedere Demelza star male che... che... "Dwight, che sta succedendo?".

"Ross, è sfinita, non ha più forze e ho bisogno che tu salga per darle coraggio. Manca ancora molto e non c'è strada di ritorno, DEVE partorire o saranno guai sia per lei che per il bambino. Solo tu puoi aiutarla, adesso".

Annuì. Per Demelza avrebbe scalato a mani nude ogni montagna del mondo. Avrebbe assistito alla nascita del suo bambino e questo lo spaventava ma allo stesso tempo inorgogliva. In fondo, un giorno, lui e Demelza ne avrebbero riso di questa cosa. "Vengo subito!".

Corse su per le scale, si fiondò in camera e in un attimo fu al fianco di Demelza. Era distrutta, i lunghi capelli rossi erano senza luce, opachi e sparsi per il cuscino, era sudata, stanca, senza forze. Il viso era pallido, non l'aveva mai vista così fragile e indifesa. "Amore mio..." - le sussurrò, sedendosi sul letto accanto a lei. Le prese la mano, la strinse nelle sue e la baciò. "Sono qui, sta tranquilla, presto sarà tutto finito".

"Ross...". Demelza si voltò verso di lui e nonostante tutto, azzardò un sorriso stupito. "Che ci fai qui? Torna subito da dove sei venuto...".

Dwight intervenne nella loro discussione. "Temo di aver bisogno di lui Demelza e quindi dovrai sopportare la sua presenza".

Sua moglie non sembrava troppo d'accordo. "Non voglio... Non voglio che mi veda così".

Ross le accarezzò il viso, la baciò sulla fronte e le disse la medesima frase di tanti anni prima, pronunciata una notte di Natale. "Non ti libererai di me, amore mio".

Demelza dovette ricordarsi di quel frangente ormai lontano e si arrese, sorridendo. Si lasciò abbracciare, Ross le cinse la vita e la aiutò a poggiare la schiena contro il suo petto. "Su tesoro, è ora di far nascere questo bambino".

"Sono stanca".

Dwight la visitò nuovamente e Ross guardò altrove. Era tutto molto difficile per lui, era una situazione nuova ed imbarazzante e non sapeva come gestirla. Cercava di apparire calmo per Demelza ma si sentiva impotente, un pesce fuor d'acqua e sentire sua moglie lamentarsi, piangere, vedere l'espressione preoccupata di Dwight e non potere fare niente... Gli sembrava di impazzire.

"Demelza, coraggio, devi far nascere il bambino! Spingi!" - ordinò Dwight, perentorio, dopo mezz'ora di inutili tentativi.

Demelza provò a fare quello che lui le chiedeva ma era troppo stanca per riuscirci. Il suo respiro si fece corto, gli occhi si riempirono di lacrime e si arrese, lasciandosi andare contro il corpo del marito. "Non ce la faccio" – sussurrò.

La strinse a se, le baciò la fronte e le sollevò il viso perché lo guardasse negli occhi. "Ricorda cosa mi hai promesso Demelza! Avevi detto che sarebbe andato tutto bene e ora non puoi farci... FARMI... questo". La sua voce voleva essere ferma, voleva costringerla a stringere i denti e lottare, ma le sue parole avevano il sapore di una supplica. Dopo tanti anni, aveva di nuovo paura di perderla, come fu quando lei e Julia si ammalarono. "Ti prego".

Sua moglie lo guardò senza forze, senza trovare fiato per rispondergli. Poi il suo sguardo si fece improvvisamente deciso, strinse la sua mano, quasi gliela stritolò. E fece quello che lui e Dwight le chiedevano. Spinse, con tutta la forza che aveva ancora in corpo, con disperazione e senza risparmiarsi.

"Ottimo, continua così" – la incitò il loro amico dottore.

Ross la tenne stretta a se e alla fine, dopo infiniti minuti in cui temevano che la situazione si bloccasse nuovamente, il bimbo nacque.

Demelza urlò, poi si accasciò esausta fra le braccia di Ross, senza avere più nemmeno il fiato per respirare. Chiuse gli occhi, affondò il viso sudato contro il suo petto e scoppiò a piangere. Se per sollievo, stanchezza o senso di liberazione, era difficile dirlo...

Ross si impose di essere forte e di non piangere, non era ancora il momento per commuoversi. La strinse a se, mentre nelle sue orecchie rimbombava il pianto vigoroso del neonato. Dwight si stava occupando di lui... O lei... Non si era ancora accertato di nulla del bambino, ogni suo pensiero era rivolto a Demelza. Mai l'aveva vista tanto fragile e spaventata come in quel momento, così vicina ad arrendersi, ad un passo dal lasciarlo. "Ce l'hai fatta" – sussurrò fra i suoi capelli, accorgendosi di quanto fosse rotta la sua voce.

Dwight annuì, avvolgendo il neonato in una coperta. "Sì ce l'hai fatta. E' un maschietto in perfetta salute, grande e forte".

Ross sentì a malapena le sue parole e forse anche Demelza. Sentì che lo abbracciava più forte, continuando a piangere, senza trovare la forza o la voglia di voltarsi per vedere il bambino. Non poteva darle torto, aveva appena passato l'inferno a causa sua, pensò fugacemente. La coccolò fra le sue braccia per lunghi istanti come se fosse stata essa stessa una bambina, mentre Dwight ripuliva il piccolo, le accarezzò i capelli, le baciò la fronte ed asciugò le lacrime dal suo viso. "Sta tranquilla, è tutto finito".

Demelza annuì, mentre Ross la aiutava a poggiarsi sul cuscino. "Ross" – sussurrò – "Se tu non fossi stato qui...".

"Ma c'ero, non pensarci!" - le rispose, baciandola sulle labbra. "E in fondo non ho fatto nulla, hai fatto tutto da sola. Ce l'avresti fatta anche se fossi rimasto di sotto, in salotto, come ogni buon padre che si rispetti" – concluse, strizzandole l'occhio. "Ora però, promettimi che BASTA BAMBINI".

A dispetto di tutto, Demelza sorrise. "Sì, basta bambini" – sussurrò stancamente, scambiando con lui uno di quei loro segreti sguardi d'intesa che gli sarebbe mancato come l'aria, se lei non ce l'avesse fatta.

Dwight si avvicinò loro, poggiando il bimbo sul petto di Demelza. "Qui c'è qualcuno che vorrebbe fare la vostra conoscenza" – disse, lasciando loro il bimbo.

Demelza lo strinse a se e il bimbo si rannicchiò contro di lei, prendendole un dito fra le manine. Lo guardò. Era bello grosso, con le guance piene, il nasino all'insù e con un ciuffetto di capelli rossi in mezzo alla testolina quasi pelata. E con due occhi neri e profondi che la scrutavano insistentemente, tanto simili a quelli di suo padre.

Appena fu fra le braccia di sua madre, il piccolo smise di piangere. Si lasciò cullare tranquillamente e per lunghi istanti Ross, in assoluto silenzio, rimase in contemplazione di sua moglie e di suo figlio, di quel bimbo che fino a pochi minuti prima era una fantasia che faceva quasi paura ma ora era lì, reale e vero. Strinse a se Demelza, quasi incurante che nella stanza ci fosse Dwight che finiva di prendersi cura di sua moglie. La osservò. Era stanchissima e sofferente, molto pallida e sicuramente distrutta. Quasi stentava a credere che per cinque volte lei avesse affrontato quel calvario per permettergli di essere padre. Veder nascere un figlio era la cosa più straordinaria, potente e allo stesso tempo terrificante che avesse mai visto. Si era sempre creduto forte ma vedere una donna partorire aveva ridimensionato molto il suo orgoglio maschile, arrivando alla conclusione che lui al suo posto probabilmente sarebbe morto.

Gli occhi del piccolo si posarono su di lui e Ross allungò la mano ad accarezzarlo. E in quel momento si sentì di amarlo come gli altri e che senza di lui la sua vita non sarebbe stata perfetta come immaginava. "E' bellissimo Demelza" – sussurrò fra i capelli della moglie.

"Ne è valsa la pena, vero?" - rispose lei, con un filo di voce.

Non sapeva risponderle a dire il vero, sapeva solo di essere incredibilmente felice. "Lui è qui e anche tu. Questo mi basta...".

Demelza annuì. "Vuoi tenerlo in braccio?".

"Sì, certo". Ross lo prese fra le braccia e il bimbo non accennò alla minima protesta. "Henry Vennor Poldark..." - disse, chiamandolo col nome che avevano scelto dopo mesi di lunghe trattative coi figli. Jeremy aveva proposto Napoleon, affascinato da quanto succedeva in Francia, Clowance desiderava un nome aristocratico tipo Gustav mentre Bella aveva proposto il nome di un compositore austriaco morto alcuni anni prima, un certo Wolfang Amadeus. Alla fine però, lui e Demelza avevano optato per un nome semplice come quello dei fratelli e la scelta era caduta su Henry, che aveva trovato piuttosto d'accordo tutti. "Sai Demelza, io mi sbagliavo, non era vero che la nostra famiglia era al completo e ora che l'ho in braccio, so che mancava lui". Baciò il suo bimbo, ottimista sul fatto che tutto sarebbe andato bene, dopo nove mesi di angoscia.

Demelza sorrise dolcemente, accarezzandogli una guancia e prendendo il bimbo con se. "Io lo sapevo che mancava lui. E ora hai ragione, la nostra famiglia è davvero completa". Lo guardò negli occhi e tremò, ricordando quanto patito poco prima. E poi poggiò la testa contro la sua spalla, singhiozzando sommessamente. "Dicevo davvero Ross, se non ci fossi stato tu al mio fianco, sarei morta".

"Non dirlo nemmeno per scherzo".

"Sono seria".

Ross scosse la testa. "Non ho fatto niente, ho solo cercato di aiutarti a tirar fuori tutta la tua forza".

Demelza raggiunse le sue labbra, baciandolo, mentre dietro di loro Dwight usciva dalla porta per lasciarli soli. "Eri qui, era qui per me, Ross. Ed è l'unica cosa di cui avevo bisogno, l'unica che ho sempre voluto".

"Sono sempre qui per te, non solo ora".

Demelza sorrise dolcemente, cullando Henry fra le braccia. "Non è sempre stato così... E ringrazio Dio per averci cambiati tanto, per averci fatto crescere e fatti diventare quel che siamo".

Ross si sentì in colpa per quelle parole e per il pessimo marito che era stato nei primi anni di matrimonio. Tanti errori avrebbe potuto evitarli ma forse, col senno di poi, erano serviti a renderlo un uomo migliore. "Io ti amo, amo te, i nostri figli, la nostra famiglia e questa casa. Amo Artù e Garrick prima di lui e amo anche i nostri servi fannulloni. Non avrei voluto niente di diverso e nient'altro avrebbe reso la mia vita tanto felice come è stata con voi".

"Lo so... Adesso lo so" – rispose Demelza, in un sorriso.

Lo sguardo di Ross si addolcì. "Ora riposa, Dwight è andato a chiamare Prudie per aiutarti a pulirti e a cambiarti. Devi dormire e rimanere a letto a lungo per riprenderti".

Annuì, ubbidendo senza fare obiezioni. Sapeva anche lei di averne bisogno. "Ross" – disse, poggiando la testa sul cuscino.

"Cosa?".

"Una volta odiavo Elizabeth perché guardavi lei in un modo in cui, credevo, non avresti mai guardato me".

"E ora?".

Demelza strinse a se Henry. "Non la odio più da tanto perché adesso è me che guardi in quel modo".

Ross le strinse la mano. "In realtà credo che ti sbagli. Io non potrò mai guardarti come guardavo Elizabeth. Lei era il primo amore, quello perfetto e alla fine irreale che si vive da ragazzini. Tu sei altro, sei molto di più di lei... Sei mia moglie, la mia amante, la mia migliore amica, la mia compagna e la madre dei miei figli. Al mondo non esiste nessuna donna che ai miei occhi possa essere paragonata a te e il modo in cui ti guardo non è ripetibile con nessun'altra, né Elizabeth né la più grande lady che potrebbe passare da qui".

Demelza, con gli occhi lucidi, non disse nulla sulle prime. Serenamente si appoggiò sul cuscino e chiuse gli occhi, con l'espressione di chi è in pace col mondo. "Ross... Sai perché andiamo tanto d'accordo, fra le altre cose?".

"Perché?".

"Perché siamo uguali, entrambi dei veri e propri anticonformisti. Da sempre! Si è mai sentito di un padre che assiste alla nascita di un figlio?".

Ross ci pensò su, poi rise, le strizzò l'occhio e la baciò sulla fronte. "Forse un giorno andrà di moda".

Quando Prudie arrivò, Ross lasciò la stanza col bimbo in braccio. Mentre la serva aiutava sua moglie a lavarsi e cambiarsi e a sistemare il letto, con l'aiuto di Dwight fece il bagno ad Henry, stupendosi di non aver perso la mano a maneggiare un neonato. "Sarà stranissimo avere a che fare con un bimbo piccolo dopo tanto tempo" – disse, sorridendo.

"Ti riabituerai".

Ross lo guardò in viso, con lo sguardo pieno di gratitudine. "Ti ringrazio, le hai salvato la vita".

"E' stato un parto duro ma lei è forte. Non ringraziarmi Ross, è il mio lavoro e Demelza una paziente speciale".

Ross sorrise, riprendendo Henry ormai pulito in braccio, avvolgendolo in una coperta di lana. "Ha i capelli rossi come Clowance, lo adorerò".

"Altro figlio preferito?" - disse Dwight, ridendo.

Anche Ross rise. "Non lo dire a Clowance o tornerà gelosa come quando aveva cinque anni".

In quel momento i ragazzi rientrarono con Caroline e le sue bambine, correndo subito da lui. I loro occhi si illuminarono quando videro il fagottino fra le braccia del padre e gli andarono vicino.

"E' nato? O è nata?" - chiese Bella.

Ross mostrò loro il fratellino. "Vi presento vostro fratello Henry".

Clowance lo guardò, preoccupata. "Come sta la mamma?".

Fu Dwight a rispondere, per lui. "Bene, ma ha bisogno di molto riposo, è stata dura".

Jeremy sospirò, rasserenato. "Dovremo legarla al letto allora, lei a riposo non ci sta mai".

"La murerò in camera, se non starà ferma" – disse Ross, risoluto.

Bella gli tirò la giacca, mentre Artù lo annusava e guardava incuriosito il nuovo arrivato. "Posso prenderlo in braccio?".

Jeremy scosse la testa. "No, sono io il più grande e quindi tocca a me farlo per primo".

"No, tocca alla figlia maggiore, io!" - si intromise Clowance.

Bella sospirò, arrendendosi al fatto che era la terzogenita e che non aveva diritto a niente. "Papà, tu e mamma dovevate fare tre gemelli" – sbottò, incrociando le braccia.

Ross impallidì a quelle parole. "Non dirlo nemmeno per scherzo". Ridacchiò, poi si avviò verso le scale. "Mamma riposa e pure Henry deve dormire. Lo terrete in braccio domani".

"Voglio vedere la mamma!" - implorò Jeremy.

"Domani". Ross sapeva che i figli desideravano abbracciarla, ma voleva non si agitasse troppo. Demelza era troppo spossata per tutte quelle emozioni e l'unica cosa di cui aveva bisogno era il riposo, col suo bimbo fra le braccia.

Caroline ridacchiò. "Ragazzi, non insistete, non capite che i due piccioncini vogliono stare da soli?".

Ross le diede un'occhiataccia, arrossendo. "Buona serata, miss Enys. E grazie dei servigi resi".

"Di nulla" – rispose a tono l'ereditiera – "E congratulazioni, capitano".

Ross annuì e poi salì le scale. In fondo Caroline aveva ragione, tutto quello che voleva era rimanere accanto a Demelza, loro due ed Henry, da soli, per quella prima notte.

Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo da domani...




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