Always and forever us di lady lina 77 (/viewuser.php?uid=18117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatre ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Isabella-Rose
Poldark, chiamata affettuosamente Bella dai fratellini, aveva
compiuto un anno poche settimane prima e ora si apprestava a
trascorrere la sera della Vigilia di Natale nel lettone.
Ross
aveva preso l'abitudine, ogni sera, di giocare coi suoi figli nel suo
letto, in attesa che Demelza li raggiungesse per la notte. I loro
giochi erano abbastanza spericolati e spesso terminavano in battaglie
con cuscini o lotte furibonde che rendevano il letto simile a un
campo di battaglia.
Jeremy,
che ormai aveva nove anni, cercava in Ross il suo alleato fedele per
combattere il potere delle due sorelline di sei e un anno che
sapevano soggiogare e ammaliare il padre con un semplice battito di
ciglia.
Ross
si accasciò sul cuscino, dopo l'ennesima battaglia fra i due
figli
più grandi. Era una Vigilia di Natale serena, fuori nevicava
e
all'interno della casa c'erano calore e affetto. I bambini, assieme a
Demelza, avevano addobbato tutta la casa e ora Nampara ed era un
tripudio di colori e fiocchi color porpora. Nella camera da pranzo
avevano decorato un grosso abete e durante la notte lui e Demelza vi
avrebbero posto i doni per i figli.
Sua
moglie era al piano di sotto con Prudie, a preparare un non ben
precisato dolce di Natale per il giorno successivo e le sentiva
ridere divertite. In realtà aveva avvertito Demelza che
sarebbe
stata una missione suicida tentare di far cucinare Prudie ma sua
moglie, testarda come sempre, aveva deciso di coinvolgere la loro
serva nella preparazione del pranzo di Natale e dubitava fortemente
del risultato.
La
piccola Bella, gattonando, si arrampicò sul suo petto,
abbracciandolo e dandogli un bacio umido sulla guancia.
"Pa-pààà"
– esclamò, ridendo.
Ross
sorrise, accarezzandole i ricciolini mori che le ricadevano sulla
guancia. Bella era la figlia che gli somigliava di più, coi
suoi
capelli scuri e pieni di boccoli, le guance rosse e piene e
l'espressione perennemente attenta e vivace. Era una bimba con
l'argento vivo addosso, sempre contenta, sempre sorridente e curiosa,
che seguiva senza sosta, gattonando, ogni movimento dei fratelli.
Ancora non camminava, se non tenuta per le manine, ma era velocissima
a gattonare ed arrivava praticamente dappertutto. Spesso gli si
avvicinava di soppiatto, si aggrappava ai suoi pantaloni, rideva e
poi si arrampicava sulle sue gambe per essere presa in braccio. E
allora lui la prendeva, la lanciava per aria e lei scoppiava in una
fragorosa risata, mentre Demelza gli lanciava dietro una serie di
rimproveri per la sua avventatezza nel maneggiare la bambina. Beh,
visto che sua moglie ancora non era in camera da letto, comunque...
Prese Bella, la guardò, le fece la linguaccia e poi la
lanciò in
aria, prendendola al volo. La bimba scoppiò a ridere
divertita,
muovendo eccitata le gambine. Sentire Bella ridere lo faceva sentire
di buon umore, aveva una risata contagiosa. Anche Jeremy, accanto a
lui, rise. Clowance invece si imbronciò, guardò
storto la sorellina
e poi, con un balzo, si sedette sul suo stomaco.
Ross
trattenne il fiato... La sua piccola principessina cominciava a
diventare pesante e il suo stomaco, assieme alla cena, rischiavano
seriamente di uscirgli dalla bocca, se avesse provato di nuovo a
saltargli addosso. "Cosa c'è tesoro?".
Clowance
tentò di spingere giù Bella. "Anche io voglio che
mi lanci in
aria".
"Certo,
lo farò. Ma devo alzarmi in piedi per farlo con te, sei
pesante,
così coricato non riuscirei a farlo".
Clowance,
a quelle parole, si mise a frignare. "Non sono grassa! Bella
è
grassa, guardala bene!".
Ahhh,
se Clowance piangeva per qualcosa che lui aveva detto, immediatamente
si sentiva in colpa. Si mise a sedere, mettendo la figlia
più
piccola fra le braccia di un perplesso Jeremy. "Ma no, non sei
grassa tesoro! Sei semplicemente più grande!". Si
alzò in
piedi, la prese in braccio e la lanciò in aria, talmente in
alto che
per poco non le fece picchiare la testa contro il soffitto.
"Contenta?".
Clowance
lo guardò un po' stranita, fissando prima lui e poi il
soffitto.
"Sì... Credo...".
"Ross!".
La
voce di Demelza, comparsa dal nulla sull'uscio della porta, fece
girare marito e figli. Ross deglutì, il suo sguardo
prometteva
tempesta. "Tesoro...".
Demelza,
con le braccia incrociate, lo fulminò con lo sguardo.
"Tesoro
un accidenti! Quante volte ti ho detto di non lanciare i bimbi per
aria? Se perdessi la presa, se ti scivolassero, se...".
Ross
mise a terra Clowance, le si avvicinò e con un bacio sulle
labbra,
lungo ed appassionato, interruppe il suo discorso. Era il modo
migliore per farla stare zitta, quello, e il fatto che ci fossero i
bambini non era un problema per lui, per loro. Spesso si erano
scambiati gesti d'affetto e d'amore davanti ai bimbi, carezze, baci,
abbracci, era un qualcosa che volevano insegnar loro, l'assoluta
naturalezza con cui vivere i sentimenti, senza vergogna o imbarazzo,
in modo assolutamente naturale. "Come vedi, sono tutti e tre
vivi, sani e vegeti. Tu invece, sei sopravvissuta alla sessione di
cucina con Prudie?".
Demelza,
mascherando un sorriso, lo spinse indietro di alcuni passi.
"Sì,
più o meno. Anche se non so garantirti sul risultato. E'
abbastanza
probabile che il dolce sia immangiabile". Guardò il letto,
le
coperte erano tutte stropicciate e in disordine, i cuscini per terra
e in quella stanza sembrava appena passato un uragano. "Che
è
successo qui?".
"Abbiamo
fatto la lotta" – rispose Jeremy. "Io e papà
contro
Clowance e Bella! Abbiamo vinto noi maschi".
Demelza
sospirò, avvicinandosi al letto e sedendosi accanto al
figlio. "Che
scoperta, due maschioni grandi e grossi contro due innocenti e
piccole bimbe". Prese Bella in braccio, attirando a se anche
Clowance. "Domani sera vi aiuterò io a vincere, piccole! Non
lasceremo loro scampo!".
"Siiii"
– esclamò Clowance, abbracciandola.
Ross
si sedette sul letto con loro, godendosi la ritrovata pace giunta con
l'arrivo di Demelza. Era la Vigilia quella, un anniversario
importante per loro. In una Vigilia di Natale lontana, si era accorto
di amare Demelza... In un'altra Vigilia, a Londra, l'aveva ritrovata
per non lasciarla mai più. Essere in quella stanza, su quel
letto
con la sua famiglia, era il più bel dono per lui, un dono
che, ora
lo sapeva, non avrebbe mai più dato per scontato.
Accarezzò i
capelli rossi della moglie, dandole un tenero bacio sulla tempia. "E
allora, signora Poldark, che cosa vuoi per Natale?".
"Un
marito meno scavezzacollo" – rispose lei, a tono.
Ross
rise, scuotendo la testa. "Vorresti un marito noioso?".
Demelza
fece per rispondere ma poi scosse la testa, scoppiò a
ridere, prese
un cuscino e glielo tirò in faccia.
Clowance
si mise fra loro, attirando l'attenzione su di se. "Mamma, sai
che vorrebbe Bella per Natale?".
"Cosa?".
"Un
cane nuovo" – rispose la bimba.
"Vero,
Clowance ha ragione" – aggiunse Jeremy, sedendosi accanto
alla
sorella. Prese la piccola in braccio, la mise sul materasso e la
costrinse a mettersi a gattoni. "Bella, dì a mamma del
cagnolino! Fagli vedere che lo vuoi! Come fa il cane che vuoi per
Natale?".
Bella
guardò lui e poi Clowance e poi, ridendo, si mise a
gattonare fra
loro, facendo il verso del cane. "Bau, bauuuu" –
esclamò,
con la sua vocina squillante.
Ross
fece del suo meglio per non scoppiare a ridere. Quei piccoli fetenti
dei suoi figli avevano usato la sorellina, insegnandogli a fare il
cagnolino, per ottenere un cucciolo. Mossa astuta, dovette
riconoscere, forse davanti a Bella e al suo modo buffo di imitare il
cane, Demelza non avrebbe detto di no. Alzò gli occhi su sua
moglie
per scrutarne la reazione. Lo sguardo di Demelza, a differenza sua,
si era oscurato e ogni traccia di divertimento era come scomparsa.
Sapeva che quella era una faccenda delicata per lei e sinceramente
non aveva insistito per prendere un cane dopo il suo primo, netto
rifiuto di alcuni mesi prima. Garrick era morto in estate ed era
stato per tutti un grande dolore. Era un cane ormai anzianissimo,
amato e coccolato da tutti, pieno di acciacchi e sapevano che sarebbe
successo, prima o poi... Per i bimbi era stato il primo lutto da
elaborare, per lui un dolore sordo e allo stesso tempo acuto ma per
Demelza... Garrick era stato il suo unico amico per tanto tempo
quando, da ragazzina, lo aveva incontrato per caso, cucciolo sporco e
spaurito come era lei a quel tempo. Ricordava ancora il loro primo
incontro, la lotta fra cani dove lui era intevenuto per salvare
quella ragazzina malconcia e il suo cucciolo e la testardaggine di
Demelza che, quel giorno, si era rifiutata di seguirlo per vivere una
vita forse faticosa ma di certo migliore, lontana da Illugan, se non
avesse potuto portare il suo amico con se. Garrick era stato colui
che gli aveva permesso di conoscere Demelza e con essa il vero amore.
Era stato il fedele compagno della loro vita insieme, aveva visto
sbocciare il loro rapporto, nascere i loro figli, era stato accanto a
Demelza durante gli anni in cui era vissuta a Londra e anche con
Bella, benché vecchio e malandato, aveva passato ore
accucciato
sotto la culla, a vegliare la piccola.
Era
stato lui a trovarlo morto, una mattina assolata dell'estate
precedente. Si era alzato all'alba per andare alla miniera e Garrick
se ne stava lì, accucciato davanti al camino, come
addormentato. E
quando non gli era andato incontro come al solito, in lui era sorto
il terrore che l'inevitabile fosse successo. I bambini avevano pianto
quel giorno, tantissimo. Demelza no, si era rinchiusa in un ostinato
mutismo durato giorni e solo una sera, una settimana dopo, l'aveva
trovata con gli occhi rossi, in camera, a piangere col viso
affondato nel cuscino. L'aveva abbracciata, stretta a se e coccolata,
senza dirle nulla. Nessuna frase, nessuna parola poteva consolarla,
solo il tempo avrebbe sanato quella ferita, consentendo al dolore di
diventare un dolce ricordo pieno di nostalgia.
Demelza
guardò i figli, scosse la testa e sospirò. "Ne
abbiamo già
parlato e vi ho detto di no! Non voglio altri cani, lo avete visto
anche voi come si sta male quando muoiono".
Il
tono di voce di Demelza era freddo, sembrava risentita da quella
improvvisata dei bambini. Ross prese Clowance in braccio, baciandola
sulla nuca. "Su, avrete tanti regali domani e alla fine vi
piaceranno come vi sarebbe piaciuto il cucciolo".
"Ma
papà..." - protestò la bimba.
"Andate
a letto, è tardi!" - la rimbeccò.
Jeremy
sospirò e poi, rendendosi conto di quanto Demelza fosse
turbata, la
abbracciò. "Fa niente, tanto abbiamo i vitellini nella
stalla"
– disse, affondando il viso nel suo ventre.
Ross
osservò suo figlio. Jeremy era il più sensibile
dei tre e aveva
un'empatia unica con Demelza. C'era amarezza nella sua voce ma
nonostante questo si sentiva in dovere di consolare la mamma. Era
notevole per un bambino di soli nove anni, un comportamento che
denotava una grande nobiltà d'animo e una
maturità non comune,
sviluppata probabilmente negli anni in cui lui non c'era, a Londra,
quando Jeremy era stato l'ometto di casa.
Il
bimbo saltò giù dal letto e poi prese Clowance
per mano,
costringendola a fare altrettanto. "Andiamo a letto, se no
domani non avremo regali".
Clowance
si imbronciò nuovamente, fissando Bella con aria di sfida.
"Perché
io nella mia cameretta e lei qui con voi?".
Demelza,
con un sospiro, si alzò dal letto. Prese la piccolina di
casa fra le
braccia e la mise nella culla, ponendo fine a ogni discussione. "Lei
è ancora piccola per dormire in stanza con voi, ma come
potete
vedere, starà nel suo lettino".
"Su,
a nanna adesso!" - aggiunse Ross. "O niente regali,
domani".
Con
un sospiro, Clowance si arrese all'evidenza. Prese la mano di Jeremy
e dopo averli salutati, se ne andò con lui nella loro
cameretta.
Demelza
sorrise, si chinò ad accarezzare il pancino di Bella per
farla
addormentare e poi tornò a letto.
Ross
la abbracciò, attirandola a se. "I bambini non volevano
renderti triste, lo sai?".
"Lo
so. Ma non voglio parlar di cani, non ne voglio altri!".
"Va
bene, non ne parleremo più. Anche se, personalmente, sarei
più
tranquillo se ci fosse un cane a guardia vostra e della casa, quando
non ci sono".
Demelza
sbuffò. "Ci sono Jud e Prudie, siamo al sicuro".
Ross
alzò gli occhi al cielo. Prudie e Jud guardiani della casa e
della
sua famiglia? Demelza e i bimbi sarebbero stati più sicuri
con un
vitello a far da guardia... Però era il caso di lasciar
cadere il
discorso, non aveva voglia di rovinare la Vigilia a sua moglie con
ricordi tristi... La attirò a se e la baciò,
facendole intendere
che aveva ben altri progetti per passare la serata e che non aveva
affatto voglia di parlar di cani. "Sai che far l'amore la notte
di Natale è di buon auspicio?".
Demelza
lo guardò negli occhi e poi scoppiò a ridere. "E
chi lo
dice?".
"Io!
E sono un uomo molto saggio".
"E
avventato...".
"Ma
soprattutto saggio" – la corresse lui, divertito. La
baciò
sulle labbra, facendo scivolare le mani sotto la sua camicia da
notte. Le sfiorò i fianchi nudi, la pelle liscia come
avorio, il
seno, baciandola prima sulle labbra e poi sul collo. Improvvisamente
però dovettero fermarsi...
L'uscio
si aprì e Clowance, di soppiatto, comparve davanti a loro.
La
piccola li osservò, con le mani sui fianchi.
"Papà, ma stavi
ancora baciando la mamma?" - chiese, un po' scocciata.
Ross
e Demelza si allontanarono di colpo, rossi in viso. "Tesoro, che
ci fai ancora qui?".
Clowance
si avvicinò, saltò sul letto e si mise fra di
loro. "Ho
pensato una cosa e dovevo dirtela, papà!".
"Cosa?".
"Sono
la tua figlia preferita, sai? Ora l'ho capito".
Ross
guardò Demelza negli occhi e poi la figlia.
"Perché?".
Clowance
scosse la testa, stupita che non capisse una cosa così
ovvia.
"Perché Jeremy e Bella non somigliano a mamma! Io
sì e siccome
tu ami la mamma e la baci sempre e io sono come lei, allora io sono
la tua preferita. Bella puo' arrampicarsi sulla tua pancia quanto
vuole, ma tanto non ha speranze!".
Beh...
Doveva ammettere che il ragionamento non faceva una piega... Sorrise,
scompigliandole quei capelli rossi che sì, in effetti erano
identici
a quelli della madre. "Va a letto, ne riparleremo un altra
volta".
Demelza
le pizzicò gentilmente una guancia. "Papà vuole
bene a tutti e
tre allo stesso modo".
"Ma...".
Ross
la prese fra le braccia e la sollevò, proprio come aveva
fatto con
Bella un paio di ore prima. "Ti dico un segreto Clowance, ma
deve restare fra noi! Sei davvero la mia preferita, sai?" - le
sussurrò, baciandola sulla fronte ed ignorando le
occhiataccie di
sua moglie. Poi la mise a terra, strizzandole l'occhio. "E ora
su, a nanna! E' tardi".
Soddisfatta,
Clowance annuì. "Certo, ora vado!". Fece due passi, ma poi
si voltò. "Ricordatelo sempre papà! Sono la tua
preferita!"
- lo ammonì, puntando l'indice contro di lui.
Ross
mascherò un sorriso. Era adorabile, bellissima, la luce dei
suoi
occhi. "Me lo ricorderò, sta tranquilla".
Clowance
sorrise, corse via e chiuse la porta dietro di se. Una volta rimasti
soli, Ross si voltò verso Demelza per proseguire quanto
iniziato
poco prima. Peccato che lo sguardo della moglie, in quel momento,
fosse tutt'altro che accomodante. "Che c'è?".
"Non
avresti dovuto dirle una cosa simile! E non dovresti avere figli
preferiti".
Ross
le accarezzò la guancia. "Volevo solo tranquillizzarla e
farla
dormire serena, è così gelosa di Bella. E poi,
non so, ma con
Clowance mi sento sempre in debito... Io non c'ero quando è
nata,
non c'ero quando ha fatto i primi passi o detto la prima parola. E
lei è la figlia che mi cerca di più, mi guarda ed
è come se fossi
il suo eroe... Io amo tutti i miei figli con la stessa
intensità e
allo stesso tempo in modo diverso l'uno dall'altro, ma con Clowance
ho indubbiamente un'affinità diversa rispetto a Jeremy e
Bella".
Lo
sguardo di Demelza si addolcì a quelle parole. Gli
accarezzò la
guancia, lentamente, baciandolo sulle labbra. "Ross, tu sei un
ottimo padre e anche se ti sei perso due anni con Clowance, hai
annullato ogni debito morale nei suoi confronti. Non hai nulla da
dimostrarle e lei ti adora perché sei un papà
meraviglioso che la
ama alla follia e la segue in tutto quello che fa. Credo di capire
cosa vuoi dire, si tratta di affinità. E sì, con
lei ne hai avuta
tanta, da subito, più che con tutti gli altri. So che ami
tutti i
nostri figli, sta tranquillo".
"Certo
che li amo, sono la mia vita!".
Demelza
sorrise, accarezzandogli il mento e il collo con l'indice, in modo
seducente. "Che dicevi prima, circa quanto sia di buon auspicio
fare l'amore la notte di Natale?".
Ross
sorrise con fare furbo. "Credo che sia più facile se te ne dessi una dimostrazione pratica..." - sussurrò al suo orecchio.
Poi
soffiò sulla candela, la luce si spense e attesero la
mezzanotte
amandosi senza riserve.
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Organizzarono
la cena dell'ultimo dell'anno a Nampara, insieme a Dwight, Caroline e
alla loro bimba, la biondissima Sarah che aveva qualche mese
più di
Bella. Avevano invitato anche Martin e sua moglie Diane che
però, a
causa delle ingenti nevicate che avevano paralizzato Londra, non
erano riusciti a lasciare la capitale.
Per
Demelza e Caroline era stata una serata piacevole, dal sapore di
tempi antichi. Ross guardava sua moglie chiacchierare accanto
all'amica che l'aveva aiutata e sostenuta nei tre anni di
separazione, cercando di immaginare quanto avessero potuto fare
quelle due, da sole, a Londra. Sapeva che avevano presenziato a molte
feste importanti ed esclusive, del loro vasto giro di conoscenze,
delle serate passate coi Devrille a parlare di affari importanti dove
giravano quantità di denaro che lui faticava persino ad
immaginare,
ma molte cose ancora gli erano oscure e non aveva mai chiesto
più di
tanto. Gli faceva ancora male pensare a quei tempi.
Osservò
le due donne. Erano bellissime, entrambe. Ai suoi occhi nessuna
sarebbe mai stata all'altezza di sua moglie, affascinante e
desiderabile quanto lei, però doveva ammettere che anche
Caroline
aveva in se un lato che sapeva attrarlo. Era intelligente, arguta,
dotata di una sottile e perversa ironia e sicuramente ben consapevole
della sua rara bellezza. Certo, quella che provava per lei sarebbe
rimasta sempre e solo ammirazione o una vaga attrazione, ma mai
avrebbe oltrepassato quel limite, sia per amore di Demelza, sia per
rispetto a Dwight, che considerava il suo più grande amico.
Osservò
i bimbi. Jeremy, dopo cena, si era messo in testa di costruire un
castello con le carte da gioco ed era forse al suo cinquatesimo
tentativo. Appena riusciva ad arrivare al terzo piano, arrivava
Clowance e ci soffiava sopra, fingendo indifferenza. Litigavano, si
spintonavano e poi lui ricominciava da capo il suo lavoro.
Le
piccole invece se ne stavano sedute su un tappeto davanti al camino.
Bella, come suo solito, gattonava senza sosta per la stanza,
sorridendo a chiunque incontrasse. La piccola Sarah invece se ne
stava ferma e tranquilla ad osservare l'ambiente circostante.
Ross
fissò la bambina. Era di una bellezza disarmante, aveva
preso il
meglio sia dalla sua biondissima e bellissima madre che dal padre
che, come la moglie, aveva fascino da vendere. Sarah aveva i capelli
biondissimi, lisci come seta, tenuti a bada da un nastrino rosso,
come il vestitino che indossava. Aveva due stupendi occhi blu,
l'espressione vagamente malinconica e la carnagione chiara. Aveva un
carattere pacato, tranquillo, era diversissima da quell'uragano che
era sua figlia Bella che, di contro, non riusciva a stare ferma
nemmeno nella culla quando dormiva. "Tua figlia è davvero un
angelo, Dwight. Sia d'aspetto che di carattere" –
esclamò
all'amico, appoggiato accanto a lui al davanzale della finestra. Era
incredibile quanto quella bimba fosse tranquilla e buona, silenziosa
e aggraziata. Sicuramente aveva preso da Dwight perché da
quel poco
che la conosceva, Caroline non era così. Sapeva, dai
racconti
dell'amico, quanto per lei, abituata a feste e vita mondana, fosse
stato difficile accettare la gravidanza e la maternità. Era
stata
isterica per tutti i nove mesi di gestazione e ci aveva messo un po'
ad affezionarsi davvero alla piccola e a prendersene cura. Sapeva che
non era per cattiveria ma perché, di fatto, non ci era
abituata.
Caroline aveva sempre avuto attorno gente pronta a soddisfare ogni
suo capriccio o ogni suo desiderio e le era risultato difficile avere
accanto una bimba che dipendeva interamente da lei.
Dwight
osservò la figlia, intenta a giocare con un pupazzo a forma
di
coniglio. "Quando la guardo, ancora non riesco a credere che sia
mia".
Ross
sorrise, sorseggiando un bicchiere di Porto. "Succede, coi primi
figli. Anche per me era così, con Julia. Me la prendevo, la
portavo
sulla scogliera ad osservare il panorama, la guardavo e mi chiedevo
come fosse possibile che quella bimba fosse mia, che uno
scavezzacollo come me fosse stato capace di mettere al mondo qualcosa
di così buono e puro".
"Julia...".
Dwight diede una veloce occhiata a Caroline, intenta a chiacchierare
con Demelza sul divano. Ridevano e scherzavano fra loro, incuranti di
loro due. "Ross, come siete riusciti a sopravvivere alla morte
della vostra bambina? Come l'avete superata?".
Lo
guardò, stupito da quella domanda. Che gli veniva in mente,
a
Dwight? Certo, lui c'era quella notte, aveva lottato come un pazzo
per salvare sia Demelza che Julia, gli era stato accanto durante il
funerale della piccola ma da allora non ne avevano più
riparlato.
Perché farlo proprio quella sera, durante una festa serena e
tranquilla? "Non l'abbiamo superata, abbiamo imparato a
conviverci. Non c'è molto altro che possiamo fare, se non
gioire di
quello che è venuto dopo". Che altro poteva dirgli? Era
ancora
difficile per lui pensare a Julia. Avrebbe avuto quasi dodici anni,
se fosse stata viva, un'età in cui probabilmente avrebbe
iniziato a
far dannare lui e Demelza e soprattutto, un'età in cui
sarebbe stata
pericolosamente vicina ad innamorarsi per la prima volta. Fugacemente
si chiese come avrebbe reagito, cosa avrebbe provato... "Alla
morte di un figlio non ci si rassegna mai e tante cose brutte
accadute a me e Demelza dopo la morte di nostra figlia, forse sono
nate dalla mia incapacità di superare un dolore simile. Ma
per
fortuna, grazie a te e tua moglie, ora siamo qui e siamo felici. E lo
sono anche i figli venuti dopo di lei". Gli mise una mano sulla
spalla, amichevolmente. "Ma perché me lo chiedi? E'
capodanno,
una serata di festa. E hai accanto una moglie e una figlia
bellissime, dovresti solo pensare a cose belle".
Dwight
lo scrutò in viso, serio. Poi gli fece cenno di uscire con
lui in
cortile per fare due passi.
Lo
seguì, perplesso, e rimasti soli, nel buio della notte, Ross
si
appoggiò alla staccionata del giardino. "Che ti prende,
Dwight?". Lo conosceva da tanto, lo conosceva bene. E sapeva che
c'era qualcosa che lo tormentava.
Gli
occhi del dottore si inumidirono. "Si tratta di Sarah".
"Sarah?".
"Già.
Lo vedi quanto è tranquilla?".
Ross
sorrise. "Oh, lo vedo eccome. Abituato al casino che fanno i
miei figli, lei mi sembra quasi angelica".
Dwight
scosse la testa, guardando distrattamente il cielo. "Non è
così
tranquilla per carattere, sai? E' che se si agita troppo, poi si
sente male, le manca il respiro. E allora, benché abbia solo
un anno
e mezzo, ha capito che deve stare ferma".
Ross
si accigliò, non riusciva a capire il senso di quel
discorso. Che
diavolo stava dicendo? "Dwight, che cosa...".
"E'
malata, Ross. Ha una malformazione molto grave al cuore, me ne sono
accorto subito, fin dal giorno in cui è venuta al mondo.
Respira a
fatica, va subito in affanno e il suo cuore è in sofferenza
costante. Sono un medico, oltre che suo padre...".
Ross
spalancò gli occhi, preso letteralmente alla sprovvista. Non
se
l'era immaginato nemmeno lontanamente. "E... è grave? Voglio
dire, sei un dottore, no? Puoi curarla?".
A
quella domanda, Dwight scosse la testa, chinò il capo e una
lacrima
volò giù dalla sua guancia, posandosi a terra.
"No, non posso.
Non c'è niente che io possa fare".
A
Ross sembrò mancare il fiato. Guardò verso la
casa, pensando a quel
bellissimo angelo biondo. Non poteva essere, non era giusto! La morte
di nessun bambino era giusta. "E... quindi... Sarà sempre
stanca e affannata, per tutta la vita?".
Dwight
sorrise tristemente. "Non avrebbe dovuto arrivare nemmeno al suo
primo compleanno, Ross. Non vivrà a lungo e io temo che da
un giorno
all'altro, da un momento all'altro...". Strinse i pugni,
rabbioso e sofferente allo stesso momento. "Smetterà di
respirare, così, semplicemente... Arriverà il
giorno, la mattina,
in cui andrò alla sua culla per prenderla e farle fare
colazione e
lei sarà così, immobile, come addormentata".
Ross
rimase senza parole, stordito da quello che aveva appena sentito.
Guardò Dwight, una delle persone più buone e
solari che avesse mai
conosciuto. Non se lo meritava, né lui, né
Caroline, né
soprattutto la piccola Sarah. Sapeva cosa li aspettava, conosceva
bene quel tipo di dolore così forte, lacerante e corrosivo,
che ti
distrugge cuore e anima. "Caroline lo sa?".
"No.
Non so come dirglielo, come posso spiegarle una cosa del genere?".
"Non
puoi, infatti. Ma credo che dovrebbe sapere, non puoi tenerla
all'oscuro o sarà doppiamente devastante per lei,
altrimenti. Ed è
un segreto che, una volta venuto allo scoperto, finirebbe per creare
una frattura fra voi. Succede, quando muore un figlio. E se le basi
non sono preparate più che bene, si finisce per farsi del
male".
Non sapeva cosa dirgli, se non quello. La sua vita e le sue
esperienze dolorose lo avevano reso stranamente saggio, a riguardo.
Gli prese il polso, lo strinse. "Se avrai bisogno di me, io ci
sarò".
Dwight
annuì. "Grazie Ross. Ti prego, dì a Demelza,
quando succederà,
di stare accanto a Caroline. Sono amiche, sembrano quasi sorelle
quando sono insieme e avrà bisogno di lei".
Ross
sorrise. "Certo che lo farà".
"Papà!".
La porta si aprì di scatto e Jeremy corse loro incontro. Lo
prese
per mano, eccitato, allegro. "Vieni, dobbiamo fare un gioco".
Ross
guardò Dwight negli occhi, confuso. Poi, senza chiedere
spiegazioni,
seguirono entrambi il bambino.
Tornati
in casa, Demelza sorrise loro, stendendo sul tavolo una specie di
pergamena. "Avete finito con le vostre chiacchiere da uomini?".
Ross
sorrise. Diede una veloce occhiata a Sarah, sentendo una fitta al
petto, poi fingendo serenità si avvicinò a sua
moglie,
abbracciandola. "Che hai in mente?".
Demelza
gli indicò la pergamena. "Io e Caroline, insieme ai
Devrille,
lo facevano a Londra, a Capodanno. Scrivevamo su un foglio la nostra
lista di desideri per l'anno nuovo e poi, il 31 dicembre dell'anno
successivo, facevamo un bilancio".
"E
che desideravate a Londra, voi e i Devrille?".
Caroline
scoppiò a ridere. "Ah, erano così noiosi, Ross!
Parlavano
sempre di affari, i loro desideri riguardavano ovviamente soldi e
azioni finanziarie".
Ross,
mascherando un sorriso, scosse la testa. Poi prese la penna, la
intinse nell'inchiostro e scrisse. "Per il nuovo anno, voglio
una moglie sempre appassionata come è ora".
Demelza
rise, dandogli una leggera pacca sulla testa. Poi, gli dettò
il suo
desiderio. "Per il nuovo anno, voglio un marito meno
scavezzacollo, che sarà capace di stare lontano dai guai".
"Per
il nuovo anno, voglio un diamante nuovo e un marito che ogni tanto
alzi la voce con la servitù!" - disse Caroline, divertita.
"Io
voglio un cavallo vero! Ormai sono grande per i pony" –
aggiunse Jeremy, mettendosi fra i genitori.
Clowance
gli si affiancò, appoggiò i gomiti al tavolo e ci
pensò su. "Io
non dico cosa voglio ma cosa NON voglio".
Demelza
rise. "E cosa non vorresti?".
La
bimba si voltò verso di lei, seria. "Basta fratellini e
sorelline! Bella è fin troppo, non fatene più".
Caroline
e Demelza scoppiarono a ridere, a quella richiesta. Poi l'ereditiera
si avvicinò al marito, cingendogli la vita con le braccia.
"Amore
mio, Bella e Sarah son troppo piccole per esprimere un desiderio,
quindi manchi solo tu. Cosa vorresti per il nuovo anno?".
Dwight
guardò Ross negli occhi, in una muta richiesta di aiuto.
"Essere
un medico capace di curare tutte le malattie. Essere in grado di
salvare tutti, di guarire tutti. Soprattutto i più indifesi
e
deboli".
Ross
deglutì, abbassò lo sguardo e non seppe cosa
dire. Se per Demelza e
Caroline quello poteva apparire come un banale desiderio di un medico
che desiderava essere il migliore, lui aveva ben compreso quanto
dolore e frustrazione ci fossero dietro quelle parole.
Guardò la
piccola Sarah, con un senso di sopraffazione nel petto. E poi
Caroline, chiedendosi quanto l'avrebbe devastata e cambiata la morte
della sua bambina.
...
Mezzanotte
era ormai passata da un pezzo. Gli Enys erano tornati a casa loro in
carrozza, Demelza si stava preparando per la notte nella loro camera
e lui aveva messo a letto Jeremy e Clowance. I bimbi già
dormivano,
Jeremy a pancia in su e Clowance rannicchiata. Non riusciva a
smettere di osservarli. Bella dormiva fra le sue braccia e sentiva i
ricciolini che gli solleticavano il braccio. Erano, tutti e tre,
l'immagine della salute e della serenità. Li amava
più della sua
stessa vita e quanto dettogli da Dwight aveva risvegliato in lui
antiche paure. Cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe provato se avesse
perso uno dei tre? Con Julia era stato devastante e con loro,
più
grandi e con cui aveva costruito un rapporto unico, come avrebbe
potuto sopravvivere a una eventuale perdita?
Tentò
di mettersi nei panni di Dwight, nella sua paura, nel suo dolore. Ma
non ci riuscì. Era troppo spaventoso cercare di
immedesimarsi in
qualcosa del genere. Anche lui e Demelza avevano perso una figlia, ma
era accaduto tutto così in fretta che quasi non avevano
avuto il
tempo di realizzarlo, sul momento. Ma Dwight aveva accanto quella
bimba da un anno e mezzo e la guardava crescere con la consapevolezza
che da un giorno all'altro l'avrebbe persa. Dwight non aveva
speranze, lui sapeva che Sarah non sarebbe mai diventata grande e non
riusciva a credere che non fosse ancora impazzito davanti a una
consapevolezza del genere.
Baciò
Bella sulla fronte e poi accarezzò i capelli di Jeremy e
Clowance.
"Diventate grandi, fate mille errori, tutti quelli che volete,
ma vivete... Fate in modo di essere voi a seppellire me, vi prego"
– sussurrò, rivolto ai figli.
La
mano di Demelza gli sfiorò la spalla, dolcemente. Si
voltò e se la
trovò alle spalle, con la camicia da notte addosso. "Ross,
che
ci fai ancora qui? Ormai dormono, vieni a letto".
"Li
guardavo. E pensavo che siamo davvero fortunati ad avere tre bimbi
così belli e sani".
Demelza
sorrise, baciandolo sulla nuca. "Lo so". Lo scrutò in
viso, cingendogli le spalle. "Cosa c'è? Sei diventato
così
taciturno stasera, tutto d'un botto. Eppure è stata una
bella
serata".
Ross
finì di rimboccare le coperte a Jeremy e poi le fece cenno
di
seguirlo nel corridoio.
Rimasti
soli, liberi di parlare, con Bella fra le braccia, Ross
trovò il
coraggio di raccontarle quanto gli aveva rivelato Dwight.
Demelza
impallidì, tremò e si appoggiò al
muro. "Sarah? Non è
possibile, Caroline non mi ha detto niente e sembra così
tranquilla...".
"Caroline
non lo sa, Dwight non trova il coraggio per dirglielo".
Sua
moglie deglutì e i suoi occhi si fecero lucidi. "Santo
cielo, è
una tragedia. Caroline e Dwight... E' la loro bambina. La loro prima
bambina! E come la nostra...". Strinse i pugni, ricordando essa
stessa Julia e tutto il dolore che la sua perdita aveva portato nelle
loro vite. Lo abbracciò, stringendo a se la piccola Bella.
E
Ross capì che anche lei, come lui, poteva ben immaginare a
cosa
sarebbero andati incontro i loro due amici. "Demelza, sta vicino
a Caroline, quando succederà".
"E
tu a Dwight. Avranno bisogno di noi". Demelza gli accarezzò
la
guancia, dolcemente. "Ross, stai bene?".
Scosse
la testa. "Penso ai nostri figli e ho paura... Come ne avevo
quando mi dicesti che aspettavi Jeremy. Amarli così tanto
puo'
portare a un prezzo molto alto da pagare".
"E'
vero" – assentì lei. "Ma ne vale la pena. Cosa
sarebbe
la tua vita senza Jeremy, Clowance e Bella? Come sarebbe vuota la
nostra anima senza i bei ricordi che loro ci hanno donato, venendo al
mondo...?".
"Già,
la nostra anima sarebbe vuota senza loro, senza i ricordi...".
La baciò sulle labbra, cercando in lei la
serenità che solo sua
moglie sapeva donargli. "Hai ragione sai? Ne vale la pena. Anche
se fa paura amare così tanto, certe volte".
Demelza
annuì. "Lo so. Eppure non ci rinuncerei".
"Nemmeno
io". La baciò di nuovo, affondando il viso nei suoi lunghi
capelli rossi. "Buon anno, amore mio. Che sia felice, almeno per
noi".
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Si
svegliò che ancora era buio e fuori nevicava
incessantemente. L'alba
era ancora lontana e sarebbe stata presumibilmente una giornata di
gennaio freddissima e scura, con poca luce.
Ross
si stiracchiò, attento a non svegliare Demelza. Quella
mattina
doveva recarsi alla miniera prestissimo, era una giornata importante
e i suoi uomini più fidati probabilmente lo stavano
già aspettando
sul posto.
Avevano
scoperto un nuovo filone di rame nelle parti più profonde
della
Wheal Grace e per raggiungerlo dovevano far saltare con la dinamite
un pezzo di parete al terzo livello di profondità. Non era
la prima
volta che facevano qualcosa del genere ma mai così in basso.
Il
pericolo di crolli o incidenti era dietro l'angolo ma il gioco valeva
la candela. Quel filone, unito allo stagno, avrebbe aumentato gli
introiti della Wheal Grace e con essi, gli stipendi dei suoi
minatori.
Si
voltò verso Demelza, dandole un leggero bacio sulla fronte.
La sera
prima avevano discusso, sua moglie non era per niente contenta del
fatto che lui andasse di persona a seguire i lavori, era in ansia e
lo riteneva un irresponsabile a mettersi sempre in prima fila davanti
al pericolo. Ma lui l'aveva baciata, le aveva garantito che si
sarebbe svolto tutto nella massima sicurezza e aveva affermato che si
sarebbe divertito come un pazzo. Aveva un po' bleffato, lo sapeva, in
realtà era ben cosciente che sua moglie aveva ragione e che
avrebbe
dovuto fare più attenzione, ma da sempre era stato attratto
dalle
emozioni forti, dall'accarezzare il pericolo, dall'essere accanto ai
suoi uomini che lavoravano per lui. Questo non sarebbe mai cambiato,
avrebbe sempre fatto parte del suo essere e in fondo lo sapeva,
Demelza lo amava anche per questo. Certo, ora era un marito e un
padre, doveva ponderare i pericoli molto più di un tempo
quando era
solo, ma non sarebbe mai diventato una persona tranquilla e
sonnecchiosa e sicuramente sua moglie non lo avrebbe nemmeno
desiderato o preteso.
Attento
a non fare rumore, le rimboccò le coperte, si
alzò, si diede una
lavata al catino e si vestì. La stanza era avvolta dalla
semi
oscurità ed era illuminata solo dal bagliore del camino che
scoppiettava allegramente.
"Stai
già uscendo?".
Preso
alla sprovvista dalla voce di sua moglie, sussultò. "Scusa,
non
volevo svegliarti".
Demelza,
assonnata, si mise a sedere sul materasso, stringendosi nella
coperta. "Ho il sonno leggero stanotte. Sono in ansia".
"Per
cosa?".
Sua
moglie gli lanciò un'occhiataccia che finse di ignorare.
"Resta
a casa, Ross. Ho un brutto presentimento, lascia perdere la vena di
rame. Esistono i picconi, potrete raggiungerla anche così".
"Ci
metteremmo anni".
"Ma
ci arrivereste VIVI".
Ross
sorrise, si avvicinò al letto e si sedette accanto a lei,
baciandola
sulle labbra. "Andrà tutto bene, lo abbiamo fatto un sacco
di
volte, no?".
"E
se ti dicessi che mi sentirei sola, se uscissi adesso?".
Le
diede un altro bacio sulle labbra. "Mi farò perdonare la
prossima notte".
Demelza
lo guardò storto, buttandosi sul cuscino. "Mi farai venire i
capelli bianchi prima del tempo".
Gli
sorrise, stropicciandole i riccioli rossi sparsi sul cuscino. "Su,
dormi. E' prestissimo e non hai motivo per stare sveglia". Si
alzò dal letto e si avvicinò alla culla di Bella,
stupendosi di
trovarla sveglia e sgambettante. Probabilmente era stata svegliata
dal suo colloquio con Demelza e ora se ne stava con gli occhi
spalancati, tutta scoperta e felice di vederlo. La piccola gli fece
un enorme sorriso a cui non seppe resistere. La prese in braccio, la
baciò sulla fronte e la mise nel lettone, accanto a Demelza.
"Su,
tieni compagnia a mamma che si sente sola" – disse,
scherzando.
La
bimba rise, allungando la manina verso il suo mento.
"Pa-pààà".
L'espressione
di Ross si addolcì. "Ride sempre, non è mai
scontenta" –
osservò, guardandola con occhi innamorati.
Demelza
abbracciò la figlia, stringendola al suo petto sotto le
coperte. "E'
una bimba felice".
Ross
annuì. "E tu, sei felice?".
Demelza
lo guardò negli occhi, seria. "Ne riparleremo stasera,
quando
tornerai a casa vivo, sano e salvo".
"Sembra
una minaccia" – osservò lui.
"Lo
è!".
Con
un sospiro, Ross si tirò su dal letto. Le diede un altro
bacio sulle
labbra, le sorrise e, dopo averla salutata, uscì dalla
stanza.
Nampara
era avvolta dal buio e dal silenzio della notte e anche fuori i
rumori erano attutiti dalla neve.
Di
soppiatto andò nella camera dei figli più grandi.
Entrambi
dormivano profondamente, rannicchiati sotto le coperte. Diede loro un
bacio sulla fronte, affranto dal fatto che sarebbe tornato a casa in
tarda serata e per quella giornata non li avrebbe praticamente visti,
poi scese al piano di sotto per fare colazione con del pane e
marmellata che Demelza gli aveva preparato la sera prima.
Mangiò
in silenzio e alla fine, pronto per uscire, si avvicinò alla
cassapanca per prendere il suo tricorno. E a quel punto si accorse di
non essere solo.
Sulle
scale, davanti a lui, vestita con una camicina da notte bianca,
comparve Clowance. Era assonnata e i lunghissimi capelli rossi le
ricadevano disordinati sulle spalle e sulla fronte. Sembrava una
bambolina spettinata ed era semplicemente adorabile. "E tu che
ci fai qui?" - le chiese, stupito.
"Andavi
via senza salutarmi?" - si lamentò la bimba.
Ross
fece qualche scalino, si sedette e le fece segno di avvicinarsi.
"Stavi dormendo, non volevo svegliarti".
Clowance
non parve molto convinta della sua risposta. "Ma io voglio che
mi saluti quando esci. Mamma ieri sera non era tanto contenta del
lavoro che devi fare oggi".
"Mamma
è un po' ansiosa. Ma lo sai, se oggi andrà tutto
bene, in fondo
alla Wheal Grace troveremo...".
"Un
tesoro?" - chiese la bimba.
Ross
scosse la testa, mascherando un sorriso. "No, semplicemente del
rame. I miei tesori sono altri".
Clowance
fece un sorrisetto furbo. "La mamma! La chiami sempre 'Amore
mio', quindi è lei il tuo tesoro".
Le
sorrise, dolcemente. Sua figlia era una grande osservatrice del mondo
che la circondava, delle persone, e sapeva interpretare a volte
meglio degli adulti i sentimenti altrui. "Certo, la mamma è
il
mio tesoro, è la donna che ho sposato e che amo,
è la mia migliore
amica, la mia compagna e la mamma dei miei bambini".
Soddisfatta
da quella risposta, Clowance annuì. "Stai attento oggi o il
tuo
'tesoro' stanotte ti manda a letto senza cena come fa con noi quando
siamo cattivi".
"Lo
prometto" – le rispose, lottando per non ridere.
"Papà,
ma stasera quando torni, mi aiuti a imparare a scrivere il mio
nome?".
Ross
le accarezzò i capelli, la prese fra le braccia e se la mise
sulle
ginocchia. La casa era avvolta dal silenzio dell'alba, dormivano
ancora tutti, anche Demelza doveva essersi riaddormentata ormai.
"Oggi dovremo far saltare un tunnel con la dinamite alla miniera
e tornerò davvero tardi, tu sarai già a letto. Ma
domani starò a
casa tutto il giorno e ti insegnerò".
Clowance
sospirò. "Si ma... la maestra vuole che imparo! A me non
piace
la scuola, è difficile e mi annoio. Jeremy invece
è contento di
andarci e sa già scrivere il suo nome in corsivo. E io non
ho voglia
di imparare a scriverlo nemmeno in stampatello. A che mi serve
scrivere?".
A
Ross venne da ridere. Clowance odiava la scuola con la stessa
intensità con cui Jeremy l'amava. In effetti suo figlio era
uno
scolaro modello mentre la sua principessa faceva molta fatica ad
abituarsi a quella nuova avventura iniziata in autunno. "Ma tu
non vuoi essere più brava in tutto? Se ti eserciti, presto
diventerai brava a scrivere quanto Jeremy".
"Ma
papà!" - sbottò lei. "Io sono già
più brava di Jeremy
in tante cose, fa niente se mi batte almeno nella scrittura! Mica
posso essere perfetta!".
Ross
la guardò e trovò che era fantastica. Arguta,
intelligente, furba e
con una notevole faccia tosta. Era sicura di se stessa, sapeva come
far girare le cose a suo favore e sapeva stare al mondo sicuramente
meglio di quanto sapesse fare lui. "Facciamo così, domani
staremo tutto il giorno insieme e scriverò con te. Vedrai,
ci
divertiremo e impareremo insieme a scrivere meglio".
"Davvero?".
"Davvero".
Clowance
annuì. "Anche perché tu papà, ne hai
bisogno. Non scrivi mica
bene come la mamma".
Ross
rise. "Hai ragione! Allora a domani, va bene?". La mise a
terra e si alzò in piedi, stava diventando tardi. "E ora
dai,
torna a letto o prenderai freddo".
Clowance
sospirò e poi fece uno scalino. Infine si voltò
verso di lui.
"Anche se torni tardi stasera e io sto già dormendo, vieni a
salutarmi lo stesso?".
"Anche
se dormirai e dovrò svegliarti?".
"Si".
"Va
bene".
Clowance
sorrise, gli si avvicinò, gli prese la mano e la strinse.
Poi gli
saltò fra le braccia, dandogli un bacio sulla guancia. "Ti
voglio bene papà! E ti aspetto".
La
guardò correre su per le scale, verso camera sua. Era
incredibile
quanto adorasse quella bambina, quanto sapesse renderlo sereno e
tranquillo quando gli era vicina e quanto si sentisse legato a lei,
forse più che con gli altri suoi figli. Erano anime affini
lui e
Clowance, stesso carattere, stessa testa dura, stesso modo di fare
orgoglioso. Ed era bellissima, somigliava a Demelza in maniera
incredibile e ci avrebbe scommesso tutti i suoi soldi: sua moglie, da
bambina, doveva essere identica a lei d'aspetto, anche se di certo
Clowance era più pulita, curata e raffinata di quanto non
fosse
stata Demelza a quell'epoca.
Con
un sospiro, rammaricandosi di lasciare il tepore domestico,
uscì di
casa, salì sul suo cavallo e si avviò verso la
Wheal Grace.
Nevicava
forte, incessantemente. Le zampe del suo cavallo affondavano nella
neve e i fiocchi gelidi gli ferivano il viso e gli occhi.
Quando
arrivò alla miniera, i suoi dieci compagni d'avventura erano
già
la.
"Capitano!"
- disse Zachy, avvicinandosi per prendere il cavallo – "Ben
arrivato! Cominciavamo a temere che Demelza ti avesse legato al letto
per impedirti di venire".
Ross
rise. "Credo le sia anche passato per la testa, sai?".
Zachy
annuì. "Ah, lo so! La signora è una che sa quel
che vuole,
dicono che quando è a Londra conclude affari con la stessa
facilità
con cui noi leghiamo fascine di fieno".
"Si,
è molto brava, ci sa fare con gli affari". Ross
lasciò
all'amico il cavallo e con gli altri minatori entrò in
miniera,
aprendo la botola per scendere ai piani sottostanti. "Avete
preparato le cariche?" - chiese, scendendo gli scalini.
Paul,
dietro di lui, annuì. "Certo, ieri sera, come ci avevate
chiesto".
"Ottimo".
Ross
scese nei tunnel più profondi, facendosi luce con una
torcia. Toccò
la parete, osservandola con sguardo clinico per trovarne i punti
più
deboli e friabili. Poi andò in fondo alla parte di tunnel
già
scavato, fermandosi in fondo. Una volta fatta saltare la parete
laterale con la dinamite, da quella posizione avrebbe raggiunto
agevolmente il punto venuto allo scoperto dopo l'esplosione. "Ok
Paul!" - urlò all'amico dall'altra parte del corridoio
–
"Chiama Zachy e Sven e dì loro di procedere con la dinamite".
"Certo!
Ma non è rischioso per te rimanere lì?".
Ross
alzò le spalle. "Ma no! Al massimo mangerò un po'
di polvere,
ci sono abituato".
"D'accordo!
Allora procediamo immediatamente" – rispose il minatore,
sparendo sulla scaletta che portava al piano superiore.
Rimasto
solo, Ross si aggrappò alla parete, in attesa che la
dinamite
facesse il suo lavoro.
Improvvisamente,
tutto tremò attorno a lui. Fumo, detriti e una forte
detonazione che
gli ferì le orecchie, lo investirono in pieno. Chiuse gli
occhi
trattenne il fiato ed aspettò che gli effetti
dell'esplosione,
arrivata improvvisa e violenta come solo la dinamite sapeva fare,
cessassero.
Sentì
le braccia e il viso bruciargli per la polvere e i sassi che lo
colpivano con violenza, si chinò e si rannicchiò
per salvarsi il
viso e per riuscire a respirare, chiuse gli occhi e attese, mentre le
orecchie gli fischiavano per il frastuono generato dall'esplosione.
Improvvisamente,
la parete contro cui si era rifugiato scricchiolò.
Aprì gli occhi,
sentendola improvvisamente crollare davanti a lui e non trovando
più
in essa un punto di appoggio e di riparo, perse l'equilibrio.
Imprecò, maledicendosi per quel malcalcolato effetto
collaterale. La
parete, in quel punto, avrebbe dovuto rimanere integra...
Ma
non fece in tempo a pensare a come ritrovare l'equilibrio per non
cadere. Una voragine si aprì davanti a lui e cadde nel
vuoto.
All'ultimo riuscì ad aggrapparsi a uno spuntone di roccia ma
sotto
di se aveva il vuoto, la polvere lo avvolgeva e non c'era nessuno
abbastanza vicino per aiutarlo.
Guardò
sotto di se, con le gambe penzoloni nel nulla. Era buio, scuro, non
si vedeva il fondo... Tentò di tirarsi su, di riguadagnare
il tunnel
ma la roccia a cui era aggrappato gli stava ferendo la mano e i
postumi dell'esplosione lo avevano stordito.
Per
un attimo pensò a Francis e a quello che doveva aver provato
quando,
nel buio di quella stessa miniera, solo, aveva trovato la morte. E
poi pensò a Jeremy a cui aveva promesso di insegnare a
cavalcare un
vero cavallo, alla vocina di Bella che lo chiamava
'pa-pààà', al
suo colloquio di poco prima con Clowance, la sua bellissima
principessina. Se fosse precipitato non avrebbe potuto mantenere la
parola data con nessuno di loro, non li avrebbe visti crescere, non
avrebbe visto Jeremy farsi uomo e non avrebbe difeso le sue bimbe
dalla fila di corteggiatori che sicuramente avrebbero avuto di
lì a
qualche anno.
Non
voleva morire, non ora che era tanto felice, non in maniera tanto
stupida. Non era per se, ma per il dolore che avrebbe procurato a chi
amava. Non poteva essere, non poteva permetterlo. Tentò di
tirarsi
su, di risollevarsi, ma la roccia del tunnel prese a sbriciolarsi.
Improvvisamente,
sentì che stava perdendo la presa sullo spuntone.
Tentò di urlare,
di chiedere aiuto, ma dalle sue labbra uscirono solo flebili suoni
coperti dalla tosse causata dalla polvere.
Le
dita persero la presa sulla roccia, cadde giù per quelli che
gli
sembrarono istanti infiniti, abbracciato solo dal vuoto.
Il
suo ultimo pensiero razionale fu per lei, Demelza, il suo amore, la
sua stella, la vera luce della sua vita. Ancora una volta non l'aveva
ascoltata, ancora una volta aveva avuto ragione lei... Lo avrebbe
odiato, lo avrebbe maledetto a vita e sì, ne avrebbe avuto
mille
ragioni... Non l'avrebbe più vista, abbracciata, baciata,
amata...
L'avrebbe lasciata sola con tre figli da crescere... "Perdonami,
amore mio" – pensò. Poi impattò contro
qualcosa di molto
duro e fu come rompersi in mille pezzi.
E
infine anche l'ultima immagine di Demelza, dolce e rassicurante,
sparì dalla sua mente. E tutto si fece buio e immobile,
lontano...
Perso per sempre, come se una cortina di nebbia e oscurità
fosse
calata fra lui e il mondo circostante.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Quella
mattina aveva lasciato Bella, ancora addormentata, alle cure di
Prudie e Jud e aveva accompagnato di persona Jeremy e Clowance a
scuola.
Il
cielo era plumbeo, faceva freddo e sembrava che dovesse iniziare a
nevicare da un momento all'altro. Il vento gelido sferzava i loro
visi e Demelza strinse a se i due bambini, coperti da pesanti
mantelline.
"Era
meglio se oggi non ci portavi a scuola, mamma! Sai che potrei
ammalarmi tantissimo?" - sbottò Clowance, che si stava
facendo
trascinare, come al solito per niente felice di sedersi dietro a un
banco.
Jeremy
ridacchiò. "Dice così perché non sa
ancora scrivere il suo
nome, mamma! E' una somara".
"STA
ZITTO!" - urlò la bimba, liberandosi dall'abbraccio della
madre
per correre a picchiare il fratello.
"Ora
basta!". La voce di Demelza, acuta e perentoria, pose fine a
ogni discussione. "Clowance, se non vai a scuola, non imparerai
mai niente!" - disse, rivolta alla figlia, prima di voltarsi
verso Jeremy. "E tu smettila di prendere in giro tua sorella! E'
ancora piccola e ha tutto il tempo per diventare una bravissima
scolara".
Clowance
sbuffò. "Ma io non voglio diventare una brava scolara, io
voglio stare a casa con te e con Bella! Perché lei non va a
scuola?".
Jeremy
le fece la linguaccia. "Vedi che sei una somara e non capisci le
cose? Lei ha un anno, come fa ad andare a scuola?".
Demelza
si morse il labbro. Quella mattina la sua pazienza sembrava svanita
chissà dove e il suo umore era pessimo. Odiava il lavoro che
Ross
avrebbe svolto alla miniera quel giorno, era preoccupata e allo
stesso tempo arrabbiata con lui e con la sua imprudenza. Era un lato
del carattere di suo marito che non sarebbe cambiato mai. Per quanto
la amasse, per quanto venerasse i suoi figli, aveva comunque bisogno
di vivere esperienze forti e oltre il limite del pericolo. Non
importava quanto lei si preoccupasse, quanto rischiasse di perdere se
qualcosa non fosse andato per il verso giusto, da quel punto di vista
Ross non sarebbe cambiato mai. Certo, non lo voleva pantofolaio e
statico a casa, però avrebbe voluto che ogni tanto, per amor
suo, si
frenasse un po' dal lanciarsi in attività così
pericolose.
Fu
proprio mentre era persa in quei pensieri così foschi, che
vide
Zachy venirle incontro, a cavallo. Sentì contorcersi lo
stomaco alla
sua vista e risvegliarsi in lei le sue più profonde paure?
Che ci
faceva lì uno dei minatori più valenti della
Wheal Grace? Perché
non era in miniera con Ross, a terminare il lavoro che avevano
iniziato quella mattina all'alba? Perchè non era al suo
posto di
lavoro, accanto a suo marito?
"Signora
Poldark!" - disse l'uomo appena le fu davanti, fermando il
cavallo – "Stavo giusto venendo a Nampara".
Demelza
lo guardò. Era coperto di fango e polvere fino alla punta
dei
capelli, il suo sguardo era stanco e sconvolto nonostante fosse solo
mattina e no, non era affatto normale che stesse venendo a casa sua.
"A Nampara? Perché?" - chiese, stringendo a se i figli in
un gesto istintivo.
Zachy
deglutì, abbassando il viso, in evidente
difficoltà. "Ecco...".
"Cosa?
Zachy, che è successo?" - chiese Demelza, sbottando e
alzando
il tono di voce.
L'uomo
abbassò lo sguardo. "Signora, c'è stato un grave
incidente e
il signor Poldark... Ross...".
Sentì
il fiato venirle meno, strinse a se le manine dei suoi due bambini
che la guardavano smarriti e spaventati e poi non lo lasciò
nemmeno
finire di parlare. Corse come una pazza, trascinandosi dietro i suoi
figli, diretta alla Wheal Grace, con lo stesso terrore nel cuore di
quattro anni prima quando aveva rivisto Ross privo di sensi, in una
trafficata strada di Londra, dopo il suo incidente a cavallo.
Non
poteva essere, non di nuovo! Pregò Dio, pregò
tutti gli angeli del
cielo, pregò lo spirito di sua madre e quelli di Joshua e
Grace, i
genitori di Ross, che non si fosse fatto nulla di grave, che niente
glielo avrebbe strappato di nuovo. Non avrebbe potuto sopportarlo,
non ora che erano tanto felici insieme, che avevano ricostruito la
loro famiglia e spazzato via ogni fantasma del passato, non ora che
aveva tre figli che lo adoravano e idolatravano...
Non
ora che lui era felice e sereno e aveva trovato il suo posto nel
mondo e il suo posto nel mondo erano lei e i bambini...
Non
sapeva cosa si fosse fatto, non ne aveva idea. Sapeva solo che doveva
correre alla miniera, subito! E anche se si stava comportando
irrazionalmente, anche se sapeva di spaventare i suoi figli, non
poteva fare altro che precipitarsi da lui per scoprire cosa gli fosse
successo.
Quando
giunse alla Wheal Grace, un capannello di minatori coperti di fango
era radunato davanti all'ingresso della miniera.
Appena
la vide, il capitano Henshawe le corse incontro. Il suo sguardo era
grave, colmo di preoccupazione e dolore e Demelza sentì le
viscere
rivoltarglisi dentro. "Cos'è successo?" - chiese,
avventandosi contro di lui e prendendolo per il bavero.
"Dov'è
Ross? Dov'è???".
Henshawe
le prese le mani, stringendole delicatamente fra le sue. "Signora
Poldark, c'è stato un incidente durante l'esplosione della
carica di
dinamite. Uno di quegli effetti collaterali non calcolati che possono
capitare, nel nostro lavoro".
Dinamite,
effetti collaterali... Non ci capiva niente, non voleva capire
niente!!! La vista le si oscurò e i suoi occhi si
inumidirono,
mentre sentiva la presa delle mani dei suoi due bambini farsi
più
forte, sulla sua gonna. "Dov'è Ross?" - chiese ancora, con
un filo di voce.
Henshawe
guardò verso l'imbocco della miniera con fare sconfitto.
"Laggiù,
da qualche parte. Lo stiamo cercando... Una parete è
crollata e lui
è caduto in un cunicolo sottostante, insieme a massi e
calcinacci.
Non sarebbe dovuto succedere...".
"Voglio
andare da lui!" - disse Demelza, disperata, quasi straparlando.
Zachy,
giunto alle sue spalle, la prese per il braccio. "Signora
Poldark, ci sono già uomini valenti e vigorosi
laggiù, che lo
stanno cercando. E' meglio che stiate qui, al sicuro. Ross non
vorrebbe che voi...".
"E'
MIO MARITO!" - urlò. Che ne sapevano loro? Era suo marito
quello intrappolato laggiù, probabilmente ferito o forse...
Beh, non
voleva pensarci! Sapeva solo che doveva andare da lui, cercarlo,
salvarlo e picchiarlo per la sua avventatezza. O piangerlo... Cosa ne
sapevano quegli uomini di cosa stesse provando in quel momento? Cosa
ne sapevano dell'amore che la legava a lui? Cosa ne sapevano di come
il suo cuore si spezzasse all'idea che poteva averlo perso per
sempre? Quel suo uomo così testardo, a volte scorbutico,
appassionato, dolce e sensibile... Come potevano fermarla? "Io
vado da lui!" - gridò, cercando nuovamente di svincolarsi
dalla
stretta di Zachy. Conosceva quelle miniere, sapeva com'erano i
cunicoli, una notte d'estate di alcuni anni prima in cui non
riuscivano a dormire per il caldo, lei e Ross ci erano stati durante
una cavalcata notturna.
"E'
sempre così buio quaggiù?"
Ross
rise. "Usiamo torce e lanterne, di solito".
Rispose
al suo sorriso. "Sai, siamo nel cuore della terra, soli, lontani
da tutto. Ma con te credo di non aver paura da nessuna parte, nemmeno
qui, nel buco di una miniera".
Pianse a
quel ricordo così
dolce, intimo, solo loro. Rivoleva Ross, voleva sapere come stava, se
era vivo o ferito, se aveva bisogno di lei. "Per favore..."
- implorò.
Zachy ed
Henshawe scossero la
testa. "Signora Poldark, fatelo per i vostri bambini, se non
volete farlo per voi stessa" – le disse infine il capitano,
indicandole i due bimbi accanto a lei, pallidi e spaventati.
Demelza si
morse il labbro.
Odiava il senso di quella frase e l'aveva inteso benissimo. Non le
stavano chiedendo di non andare per tranquillizzare Clowance e
Jeremy, la stavano implorando di non rischiare di renderli orfani
anche della loro madre. Davano Ross per morto! Quegli uomini
conoscevano la miniera, ne sapevano calcolare costi, benefici e
rischi e se dicevano che Ross... No, non poteva essere! Lui era
forte, intelligente e sapeva sempre schivare all'ultimo il pericolo,
si sbagliavano, DOVEVANO sbagliarsi!
Dwight
arrivò in quel
momento, trafelato, chiamato a casa da un minatore. "Demelza, mi
sono precipitato subito qui, appena ho saputo...".
Era bello e
in un certo senso
tranquillizzante vedere il volto amico di Dwight, avrebbe voluto
dirgli mille cose, ma non riuscì a fare nulla. Voleva solo
piangere
e rimanere da sola per un po' per sfogarsi e pregare, mentre quegli
uomini si battevano per salvare suo marito. Si sentiva spersa,
inutile, disperata e sola come non le capitava da anni, quando era
arrivata a Londra dopo aver lasciato Nampara.
Si
liberò dalla presa dei
bambini, superò quegli uomini che la attorniavano ed
entrò
nell'ufficio di Ross. Era deserto, era sola davanti a quella botola
aperta da cui, in profondità, sentiva arrivare le voci dei
minatori.
Si sedette
alla scrivania,
accarezzò le carte scritte da suo marito, aprì il
cassetto e rimase
ad osservare la conchiglia portafortuna che Clowance gli aveva
regalato anni prima e che lui aveva orgogliosamente tenuto con se,
dicendole che l'avrebbe conservata per quando fosse stata grande e
avrebbe preferito un altro uomo a lui... Ross la amava sopra ogni
altra cosa, lei e i loro tre bambini... Non poteva essere morto, non
avrebbe mai potuto abbandonarli...
Una manina
si posò sulla sua.
Sussultò, trovandosi accanto i suoi due figli.
Jeremy la
abbracciò, come per
farle coraggio. "Mamma, vedrai che sta bene! Papà
è forte, non
pensarla come quegli uomini. E' vivo e quando lo rivedrai, potrai
sgridarlo perché non ti ha ascoltata".
Clowance
annuì, salendole
sulle ginocchia e rannicchiandosi fra le sue braccia. "Lui mi ha
promesso che mi insegnava a scrivere il mio nome e papà
mantiene
sempre le sue promesse. Non è morto, vedrai".
"No, non
è morto, avete
ragione" – sussurrò, stringendoli a se. Avrebbe
voluto che
tutto fosse facile, semplice, come dicevano loro...
In quel
momento delle urla
fortissime provennero dalla botola. Demelza e i bambini alzarono lo
sguardo, raggiunti subito da Zachy, Dwight e Henshawe. Un uomo
coperto di fango comparve davanti a loro, salendo dai cunicoli. "Lo
abbiamo trovato, lo stiamo portando su. Abbiamo bisogno di un dottore
e con la massima urgenza".
Demelza,
seguita da Dwight, si
avventò su di lui. "Come sta?".
L'uomo, col
fiato corto,
annuì. "E' piuttosto malconcio, privo di sensi e sporco di
polvere fino alla punta dei capelli. Ma è vivo!
Demelza si
lasciò cadere a
terra. Le gambe le tremavano e le sembrava che il mondo le vorticasse
attorno. Era vivo... Solo questo era importante, il resto si sarebbe
sistemato da solo, col tempo. Ferite, lesioni, tutto... Ci erano
già
passati una volta e potevano farlo ancora. Rilasciò il
respiro,
tenuto per tutti quegli interminabili minuti, da quando aveva
saputo...
"Te lo
avevo detto,
mamma!" - esclamò Clowance, correndole accanto.
Le strinse
la manina,
baciandogliela. "Già".
Dwight
guardò tutti i
presenti. "Uscite da qui, se è ferito, avrò
bisogno di spazio
per prestargli le prime cure e non voglio troppa gente attorno. Ha
bisogno di ossigeno e di aria".
"Io resto!"
- disse
Demelza, perentoria.
Dwight
annuì. "Sì, tu
resta".
A
malincuore, Demelza
costrinse i bambini a uscire con Zachy e Henshawe e poi rimase in
attesa che portassero Ross fuori da quella trappola mortale.
Passarono
cinque minuti che le
parvero interminabili e infine sentì delle voci provenire
dalla
botola, sempre più vicine. Due uomini comparvero davanti a
lei, col
viso distrutto dalla fatica. Uno reggeva Ross sulle spalle e l'altro,
dietro di lui, gli teneva le gambe. Quando furono nell'ufficio, lo
adagiarono a terra e Demelza si precipitò al suo fianco. Era
coperto
di fango, privo di sensi, sporco come non mai, pieno di ferite ed
escoriazioni dappertutto. I suoi abiti erano stracciati e macchiati
di sangue, era pieno di ematomi e sanguinava dalla testa. "Ross"
– lo chiamò, accarezzandogli la guancia e
prendendogli la mano,
senza avere risposta.
Dwight si
inginocchiò al suo
fianco, sfiorando il polso di suo marito. "E' debole, ma il
cuore batte". Gli tastò il petto e il torace, accigliandosi.
E
poi diede un occhio alla ferita che aveva in testa. "Ha delle
costole inclinate e dovrà stare a letto per un bel po',
però
nonostante tutto, come al solito, gli è andata di lusso, a
prima
vista".
"E allora
cosa c'è che
non va?" - chiese Demelza, colpita dal tono grave usato
dall'amico, nonostante quelle che sembravano essere buone notizie.
"Ha una
ferita in testa
nell'esatto punto in cui si era ferito a Londra quattro anni fa.
Spero non ci siano conseguenze".
Demelza
deglutì. "Quali
conseguenze?".
Dwight
scosse la testa.
"Potrebbero non essercene. O chissà... Difficile dirlo,
finché
non si sveglia non potremo sapere nulla. Ora dobbiamo portarlo a
casa, qui non posso fare molto".
Demelza si
alzò in piedi e si
diresse verso la porta dove notò i suoi due bambini che,
sfuggiti
alle cure dei minatori, erano corsi a sbirciare le condizioni del
padre. Gli sorrise, sforzandosi di apparire positiva. "Coraggio,
avete sentito, no? Andiamo a cercare una carrozza, portiamo
papà a
casa".
Clowance e
Jeremy annuirono.
"Visto? Lui
è più forte
dei massi" – esclamò Jeremy.
"E mi
insegnerà a
scrivere il mio nome, appena si sveglia" – aggiunse la bimba,
convinta delle sue parole, spinta dall'assoluta fiducia che riponeva
nel suo papà.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
Avevano
adagiato Ross, ancora privo di sensi, nella loro camera da letto e
Dwight si era chiuso dentro per una lunghissima ora a visitarlo e
curarlo.
Demelza,
seduta davanti al camino con Bella in braccio e i due figli
più
grandi vicini, aspettava di sapere delle notizie.
Era
nervosa, preoccupata, disperata. Continuava a picchiettare il piede
contro il pavimento, si mordeva le labbra e rispondeva con fare
assente alle incessanti domande di Jeremy e Clowance che volevano
essere rassicurati.
Prudie
cercò di attirare l'attenzione dei bambini proponendo loro
uno
spuntino, ma i due piccoli Poldark non ne avevano voluto sapere di
allontanarsi dalla mamma.
"Secondo
te quando si sveglia papà, mamma?" - chiese Jeremy,
sfiorandole
la spalla.
"Non
lo so".
Clowance
le prese la mano, stringendola convulsamente. "Ma tu sai tutto,
devi saperlo! Lo dice anche papà che ne sai più
di lui!".
A
quelle parole, Demelza digrignò i denti con rabbia. Era
furente,
oltre che preoccupata, con lui. "E allora, se sapeva che ho
sempre ragione, perché diavolo non mi ha ascoltata
stamattina,
quando gli ho chiesto di non andare in miniera?".
Il
suo tono risultò iroso e di rimprovero, tanto che la piccola
Clowance sussultò e indietreggiò spaventata. E a
quella reazione,
Demelza si sentì impotente e in colpa. Non ce l'aveva certo
con sua
figlia e lo sapeva, i bambini avevano solo bisogno di quelle risposte
che a sua volta voleva disperatamente pure lei. Si sentiva importente
a stare lì, ferma, ad aspettare che Dwight emettesse il suo
verdetto. "Mi dispiace Clowance, non volevo alzare la voce. Sono
solo molto preoccupata e finché Dwight non finisce di
visitare papà,
non posso sapere niente nemmeno io".
I
passi di Dwight, che in quel momento scendeva le scale, la fecero
sospirare di sollievo e allo stesso tempo la terrorizzarono. Poteva
portare cattive notizie, le sue parole avrebbero potuto cambiare la
sua vita e quella dei suoi figli per sempre. Si alzò di
scatto dalla
sedia, andandogli incontro, stringendo a se la piccola Bella che,
come se capisse la gravità della situazione, stava ferma e
buona. "E
allora?".
I
bimbi, Prudie e Jud si avvicinarono a loro due e il dottore fece
segno a Demelza che preferiva parlarle quando fosse stata sola.
Fu
Jeremy a intromettersi fra i due, contrario a questa ipotesi. "Io
voglio restare qui e sapere cos'ha papà! Sono grande ormai
per
essere mandato nell'altra stanza".
"Anche
io voglio rimanere" – rimarcò Clowance,
stringendosi alla
gonna della madre.
Jud
emise un gemito strozzato. "Se restano le due mezze tacche,
restiamo anche noi. Vogliamo sapere come sta il padrone".
Dwight
sospirò. "Ross... Il vostro papà... Ecco, come
temevo ha due
costole inclinate che lo costringeranno a letto per un po' e quindi
dovrete fare attenzione che non faccia di testa sua. Va tenuto a
riposo finché lo dirò io, quindi tutti voi
dovrete impegnarvi per
impedirgli di alzarsi dal letto".
Demelza,
sentendo quelle parole, sospirò dal sollievo. Se quelle
erano le
preoccupazioni di Dwight, non c'era in fondo da preoccuparsi troppo,
no?
Clowance
si avvicinò al medico, tirandolo per i pantaloni. "Ma se sta
a
letto, poi guarisce?".
"Certo
piccola, sta tranquilla, le costole si sistemano".
"Si
è svegliato?" - chiese Demelza. Le costole potevano essere
aggiustate, Dwight aveva ragione, ma la ferita alla testa? Era
preoccupata per quello che lui le aveva detto alla miniera, le aveva
aperto una possibilità di incognite ignote... "La ferita
alla
testa?".
Dwight
osservò i bambini e i servi. "Dorme ancora profondamente e
non
so dirvi quando si sveglierà. Non è una
situazione di coma profondo
come a Londra, quindi i tempi di ripresa saranno più brevi,
ma...".
Demelza
deglutì. "Ma?".
Dwight
le fece cenno di seguirla in camera, da Ross. Da soli! Demelza diede
Bella a Prudie e ordinò ai bambini di rimanere buoni in
salotto ad
attenderla. "Avete sentito, no? Papà si
riprenderà ma ora devo
parlare bene e da sola con Dwight, deve spiegarmi come prendermi cura
di lui mentre dorme. E' inutile che veniate, siete troppo piccoli per
aiutarmi e preferisco che restiate qui".
"Io
non sono piccolo!" - protestò Jeremy. "E posso aiutarti!
Non è che non mi vuoi perché Dwight ti deve dire
cose brutte su
papà?".
Demelza
rimase colpita ancora una volta dalla sensibilità e
dall'intelligenza di suo figlio. "No, sta tranquillo, non ti
nasconderò niente".
Jeremy
scosse la testa, per nulla rinfrancato. "Va bene" –
disse, poco convinto.
Demelza,
a malincuore, seguì Dwight fino alla sua camera.
Ross
era nel loro letto, immobile, sotto a pesanti coperte. Era stato
ripulito e cambiato e aveva una fasciatura attorno alla testa. Dwight
le fece cenno di avvicinarsi al marito e Demelza, ubbidendo, si
sedette sul letto accanto a lui, baciandolo sulla fronte e
prendendogli la mano. "E allora? Che dovevi dirmi?".
Dwight
scosse la testa. "Il discorso che ti ho fatto alla miniera,
ovviamente è ancora valido. Dobbiamo aspettare che si
risvegli per
verificare se ci sono stati danni".
"Che
tipo di danni?".
"Puo'
essere qualsiasi cosa. Difficoltà a muoversi, parlare,
incapacità
di usare la logica, problemi di memoria... O anche nulla, se
è
fortunato".
Demelza
sentì una lacrime bagnarle la guancia. "E questi danni...
possono essere guariti?".
"A
volte sì, a volte no".
Si
sentì morire. Un'uomo vitale come Ross, forte, coraggioso,
indomito
e incapace di stare fermo, poteva essere condannato a vivere la sua
esistenza in quel letto, nel peggiore dei casi. Si chiese come
avrebbe potuto aiutarlo a sopportarlo, se fosse successo, come
avrebbe potuto sopportarlo lei... "Non doveva andare in miniera
Dwight, lo avevo impolorato di restare a casa, me lo sentivo che
sarebbe successo qualcosa".
Dwight
sorrise tristemente. "E' testardo come un mulo, lo sai". Le
si avvicinò, poggiandole delicatamente una mano sulla
spalla. "Devi
essere forte Demelza, so che è difficile ma tu e lui,
insieme,
potete affrontare ogni guerra che la vita vi costringe a combattere.
Lo avete già dimostrato, no?".
Demelza
scosse la testa, piangendo sommessamente. "Io devo essere sempre
forte ma sai, comincio a essere stanca... Non sono indistruttibile,
non posso sempre reggere, vorrei che per una volta fosse lui a dover
essere forte per me, vorrei essere io quella che ha bisogno".
"Lo
so".
Demelza
si accasciò contro di lui, piangendo sul suo petto e Dwight
la
abbracciò, accarezzandole i lunghi capelli rossi. "Demelza,
piangi se vuoi, ti farà bene".
"Perché
Dwight? Perché fa sempre queste cose così
pericolose e non pensa a
noi, a come potremmo soffrire se gli succedesse qualcosa?
Perché, a
volte, sembra che per lui valiamo così poco?".
"No!".
Dwight le sfiorò il viso, costringendola a guardarlo in
viso.
"Demelza, lui ti ama sopra ogni altra cosa. Tu e i bambini siete
il suo mondo e siete la sua priorità. Io lo ricordo Ross
quando
eravate lontani, era disperato, distrutto, senza scopi nella vita.
Anche in guerra si lanciava in missioni assurde e pericolose ma
allora era diverso, era come se volesse punirsi, come se volesse
morire, come se in un gesto eroico potesse riacquistare un po' di
quel rispetto verso se stesso che aveva perso la notte che ti aveva
tradita. Ma ora è diverso, ora è felice e vuole
che lo siano anche
le persone che ha accanto e a cui vuole bene. I minatori sono la sua
gente e si sente responsabile nei loro confronti, è come se
per lui
essere in prima linea sia una missione di vita. E soprattutto, vuole
che tu sia orgogliosa di lui".
Nonostante
tutto, Demelza sorrise. Osservò Ross accanto a loro,
accarezzandogli
dolcemente la mano mollemente appoggiata sulle coperte. "Ma non
ha bisogno di farlo rischiando la vita. Io sono già
orgogliosa di
lui, del marito e del padre che è".
Dwight
le accarezzò nuovamente la guancia. "Ce la farete, voi due
insieme lottate come leoni e niente puo' abbattervi. Sposarti
è
stata la più grande fortuna della sua vita, ha trovato il
vero amore
in te, un tipo di amore raro e che per lui è prezioso
più di
qualsiasi altra cosa esista al mondo".
Demelza
rimase colpita da quelle parole che la riportavano a quei giorni
lontani e a quel matrimonio organizzato in fretta e furia senza che
né lei né Ross sapessero dargli un significato
preciso. "Non
ci siamo sposati per amore... Credo ci abbia messo un bel po' ad
amarmi e che la scelta di sposarmi sia stata dettata da
necessità,
rabbia verso coloro che avevano appena condannato Jim Carter alla
prigione, sprezzo delle regole di una società aristocratica
che lui
odiava. Sposando me, era come dire no a quel mondo di cui faceva
parte per nascita ma che non sentiva suo. Mi voleva bene, ero una
buona domestica per lui, a volte la sua confidente e con me
è sempre
stato gentile dopo il matrimonio, ma... di certo all'inizio non mi
amava. Ero una benda contro la solitudine e la rabbia per aver perso
Elizabeth, un diversivo, un intrattenimento per la notte..." -
concluse, arrossendo leggermente. "Certo, poi le cose sono
cambiate ma per tanto tempo ho dovuto condividere, nel suo cuore, il
posto con Elizabeth".
Dwight
abbassò il viso, forse in imbarazzo per quella confessione
così
intima. "Ha sposato la donna giusta per lui, non pensare ad
altro. Ti ama sopra ogni altra cosa, come non avrebbe mai potuto
amare Elizabeth. E i vostri figli sono un pezzo del suo cuore,
morirebbe senza di voi. Stagli vicino ora, Demelza, anche se sei
arrabbiata! Quando starà meglio, ti autorizzerò a
picchiarlo per la
sua avventatezza".
Demelza
si morse il labbro. "Spero di reggere e che questa prova non sia
così dura. Ora che sta così, dovrò
occuparmi da sola di Nampara,
dei conti della miniera, dei bambini e degli animali. E dei miei
affari a Londra...". Cercò la mano di Dwight, stringendola
nella sua. "Spero che non starà così male per
sempre, che si
riprenda e che torni ad essere il mio Ross. Ho bisogno di lui e ne
hanno anche i nostri bimbi".
Dwight
sospirò. "Cerca di riposare e lascia da parte le faccende
meno
importanti, occupati solo di lui e dei vostri figli finché
le cose
stanno così. Se tu crollassi, sarebbe un grosso guaio. Sei
la roccia
di questa casa e di questa famiglia e Ross non se lo perdonerebbe
mai. Vorrei poterti mandare qui Caroline per una parola di conforto,
ma in questi giorni non si sente troppo bene nemmeno lei".
Demelza
lo guardò, accigliata e preoccupata. Caroline era la sua
migliore
amica e negli ultimi tempi si erano viste pochissimo. Era cambiato
tutto dai tempi di Londra, ora lei era una donna sposata e aveva una
figlia che aveva faticato tantissimo ad accettare, durante la
gravidanza, ma che ora amava con tutto il cuore. "Cos'ha?".
Dwight,
sconfitto, scosse la testa. "La scorsa settimana, di notte,
Sarah ha avuto una piccola crisi respiratoria e... anche se ho
risolto la cosa, ho dovuto dirle la verità, come mi aveva
consigliato di fare Ross a Capodanno".
"Dwight...".
Gli occhi di Demelza si inumidirono ancora e lo abbracciò
senza dire
nulla. In fondo, cosa c'era da dire? Conosceva quel dolore terribile
e lancinante che si prova quando si perde un figlio e poteva
immaginare l'inferno che stavano attraversando i suoi due amici nel
vedere la loro splendida e biondissima figlia indebolirsi sempre
più,
sapendo di non poter far nulla per salvarla. Lo abbracciò
forte,
Dwight aveva bisogno di sostegno e conforto proprio come ne aveva lei
in quel momento. Erano due anime perse del tutto simili, si rese
conto, bisognose di un appiglio per non affondare e con davanti il
baratro nero rappresentato dalla possibilità di perdere una
persona
amata. "Io sono qui Dwight, per ogni cosa di cui possiate avere
bisogno".
"Demelza,
tu hai già fin troppi problemi per pensare anche ai nostri".
La
donna scosse la testa, sorridendo sommessamente. "Ross mi ha
chiesto di aiutarvi e io voglio farlo. Mi hai detto di pensare alle
cose importanti e di lasciare da parte quelle superflue, no? E tu e
Caroline siete importanti perché se non fosse per voi, io
non sarei
stata così felice in questi quattro anni, non sarei qui
nella mia
casa, i miei bambini non avrebbero avuto un padre e Bella nemmeno
esisterebbe. Tu sei importante per noi e Ross, al mio posto, ti
direbbe le stesse cose. E' un momento difficile in cui restare a
galla puo' risultare quasi impossibile per ognuno di noi e mi chiedo
come abbia potuto cambiare tutto quanto da Capodanno quando, in
questa stessa casa, festeggiavamo il nuovo anno felici e
spensierati. Aiutiamoci, è l'unica cosa che possiamo fare
per non
sentirci soli nel dolore e non affondare".
Dwight
sorrise, baciandole la fronte. "Credo di capire perché Ross
ti
ama così tanto" – le sussurrò, fra i
capelli.
Demelza
non disse nulla, cullata dalla presenza di Dwight di cui aveva
bisogno più di ogni altra cosa. E le sue parole erano quanto
di più
prezioso possedesse in quel momento e ne avrebbe fatto la sua ragione
di lotta per riportare Ross da lei.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Lui
dormiva, come a Londra, lontano da ogni cosa, da ogni persona...
Sembrava tutto così simile a quattro anni prima ma in
realtà non
era così, era tutto diverso. Erano a Nampara ora, nella casa
dove si
erano conosciuti e amati, dove avevano riso e sofferto, litigato e
fatto pace, dove erano nati quasi tutti i loro figli e dove
desideravano passare il resto della loro esistenza. Era diverso da
Londra, lei era diversa. Quattro anni prima lo aveva rivisto in un
frangente della sua vita dove erano distanti, quasi estranei ormai. O
almeno ne era convinta anche se poi rivederlo, lottare per la sua
vita e prendersene cura, le avevano fatto riscoprire un sentimento
tutt'altro che morto. Ma ora era diverso, erano felici, si amavano e
non c'erano più ombre fra loro.
Gli
passò un panno umido sul petto, chiedendosi quando si
sarebbe
svegliato, desiderosa di rivedere i suoi occhi ma allo stesso tempo
terrorizzata di scoprire quali conseguenze avesse lasciato su di lui
l'incidente alla miniera.
La
porta della stanza si aprì e i suoi tre figli entrarono.
Jeremy
teneva in braccio Bella e per mano Clowance e si rese conto che suo
figlio, in quel momento, sentiva su di se il dovere di essere l'uomo
di casa.
"Ma-mmmmaaaa".
Bella
allungò le braccia verso di lei e Demelza la
abbracciò,
mettendosela sulla ginocchia. In quel momento si sentiva sola e allo
sbaraglio, terrorizzata da mille incognite e schiacciata dalla paura
e i suoi tre bambini erano l'unica cosa positiva della sua vita, la
sua unica forza. "Su, venite" – sussurrò loro,
abbracciandoli.
"Come
sta papà? Dorme da due giorni, quando si sveglia?" - chiese
Jeremy.
"Nessuno
puo' dirlo" – rispose Demelza, con sincerità. Ross
sembrava
più reattivo agli stimoli rispetto a quattro anni prima,
però
ancora non si era svegliato da quel sonno infido e profondo. "Bisogna
solo aspettare".
Clowance
si divincoltò dal suo abbraccio, avvicinandosi al viso di
Ross e
dandogli un bacio sulla guancia. "Papà, ma quando ti svegli?
Ti
ricordo che devi insegnarmi a scrivere il mio nome, me lo hai
promesso e sei già in ritardo di due giorni. Io ti aspetto,
ma tu
non tardare troppo".
Demelza
sorrise a quelle parole tanto ingenue e tanto tipiche di Clowance.
Anche Ross ne sarebbe stato divertito, se fosse stato sveglio, lui
che stravedeva per la loro figlia maggiore. "Tesoro, credo che
papà per un po' non potrà aiutarti, deve stare a
letto e dovrà
farlo anche quando si sarà svegliato, per un po'. Se vuoi ti
insegno
io a scrivere".
"Ma
mamma!" - protestò la bimba – "Gli porto qua il
quaderno
e mi insegna dal letto. Io voglio scrivere con lui".
Demelza
scosse la testa ma decise di non contrariarla. Clowance voleva il suo
papà e la scrittura era un modo come un altro in cui lei
cercava un
contatto con lui. "Va bene, allora dovrai solo aver pazienza".
Jeremy
le prese la mano, stringendogliela. "Mamma, come possiamo
aiutare papà a svegliarsi?".
Gli
accarezzò i capelli, Jeremy era davvero sensibile, un ometto
in
miniatura. "Stargli vicino, venire qui e parlargli, fargli
sentire che siamo qui accanto a lui".
Jeremy
annuì. "Va bene. Nel frattempo che lui dorme, ci penso io a
te
e alle mie sorelle".
Clowance
lo guardò storto. "Siamo a posto..." - borbottò
sconsolata, prima di tornare a guardare suo padre. "Sentito?
Meglio che ti sbrighi a svegliarti o qui va tutto a rotoli".
Demelza
sorrise, nonostante tutto. Riattirò a se la figlia e la
strinse fra
le braccia, assieme agli altri due bambini. "Coraggio, è
tardi!
Andate a letto".
"Voglio
restare qui con te" – protestò Jeremy.
"Devi
dormire".
Il
bambino divenne serio, mise le mani sui fianchi e si parò
davanti a
lei, viso a viso. "Anche tu! Sono due notti che non dormi! E se
non lo fai tu, perché dobbiamo farlo noi? Resto qui, ti
tengo
compagnia".
"Anche
io!" - aggiunse Clowance. "Io voglio stare col papà,
così
se sto con lui si sveglia prima, ricordi o no che sono la sua
preferita?".
Demelza
fece per protestare ma alla fine cedette. Niente avrebbe fatto
cambiare idea a quei due e in fondo, forse, non sarebbe stato male
averli vicini. Erano il suo mondo, il suo tesoro, il combustibile che
le dava la forza di lottare e di non cedere alla disperazione. "Va
bene, restiamo qui tutti insieme" – disse, con un filo di
voce.
Fece
portare il divanetto che stava in salotto da Jud, lo fece mettere
vicino al letto e si sedette sopra, coi bambini attorno a lei. Li
coprì con pesanti coperte, ravvivò il fuoco nel
camino e poi si
accomodò nuovamente coi suoi figli, pronta a passare
l'ennesima
notte in bianco. Prese Bella, che non aveva voglia di dormire, sulla
ginocchia e poi strinse a se, uno da un lato e una dall'altro, Jeremy
e Clowance. E nonostante la situazione non fosse delle più
felici,
era strano ma si sentiva bene a pensare di essere lì tutti
insieme,
lei, Ross e i bambini, quei figli che avevano generato proprio
lì,
in quella stanza, su quel letto. "Volete che vi racconti una
fiaba?".
Clowance
scosse la testa. "No, canta una canzone! A papà piace,
magari
se lo fai ti sente e si sveglia".
Lo
sguardo di Demelza si addolcì a quella richiesta.
Abbracciò forte
Clowance, baciandole quella testolina rossa tanto simile alla sua.
"Ti manca papà, vero?".
"Sì,
tanto" – ammise la bimba. "Ma non solo perché deve
insegnarmi a scrivere ma perché... perché... lui
è qui ma dorme ed
è come se non c'è! E io non voglio stare in un
posto dove lui non
c'è".
"Nemmeno
io. Mi piaceva di sera giocare alla lotta sul letto con lui"
–
disse Jeremy, sospirando. Alzò lo sguardo sulla madre,
preoccupato,
ponendo una domanda che, dal tono di voce, doveva terrorizzarlo
molto. "E se non si sveglia più?".
"Non
dirlo nemmeno per scherzo" – rispose Demelza, in tono forse
più duro di quello che avrebbe voluto. Sospirando,
cercò di
riprendere possesso di se stessa. "Jeremy, conosco papà da
tanto e ti assicuro che lui si è sempre rialzato da
qualsiasi
battaglia abbia combattuto. E' forte, niente puo' distruggerlo.
Certo, forse ci vorrà tempo prima che torni quello di prima
e noi lo
dovremo aiutare a guarire, ma vedrai che ce la farà". Lo
disse
a Jeremy ma era come se avesse bisogno di sentire quelle parole anche
lei. Aveva bisogno di crederci, di sperare, di immaginare un domani
ancora sereno e felice. Dovevano avere fiducia in Ross, come sempre!
Allungò la mano ad accarezzare la guancia di suo marito,
dolcemente.
"Torna presto, hai capito? Abbiamo bisogno di te, ci manchi".
Clowance
si rannicchiò fra le sue braccia, silenziosa e malinconica.
"Fai
presto...".
"Pa-pàààà".
Bella allungò le braccia verso Ross e Demelza la mise sul
materasso,
accanto al padre. La piccola gattonò sulle coperte,
osservando suo
padre che dormiva senza svegliarsi, forse chiedendosi perché
non
aprisse gli occhi per giocare con lei come al solito. Raggiunse il
suo viso, picchiettò con le manine sulla sua fronte e poi
gli diede
un bacio sul mento, continuando a chiamarlo. Demelza la
lasciò fare,
sperando che la vicinanza della piccola riuscisse a scuoterlo, ma non
successe nulla. Accarezzò le teste dei figli più
grandi,
invitandoli a imitare la sorellina. "Andate anche voi a dare un
bacio a papà, gli farà bene".
Jeremy
ubbidì, avvicinandosi a Ross e dandogli un leggero bacio
sulla
guancia. Clowance invece rimase per un attimo in silenzio, persa in
chissà quali pensieri.
"Tesoro,
tu non vai?".
La
bimba scosse la testa. "Di solito è lui che mi da il bacio
della buona notte". I suoi occhi si inumidirono e si
rannicchiò
su se stessa, singhiozzando. "Io rivoglio il mio papà,
subito!".
"Oh
Clowance". Demelza la abbracciò forte, baciandole la fronte.
"Anche io lo vorrei ma ci vuole pazienza".
"Io
ho sei anni e non ho pazienza!" - sbottò la bimba, rabbiosa,
prima di piangere ancora più forte. Si rifugiò
fra le sue braccia e
Demelza non poté fare a meno di abbracciarla e coccolarla.
Era vero,
aveva solo sei anni, non capiva e non se ne faceva una ragione.
Voleva suo padre, un papà che la adorava, che la
vezzeggiava, che le
sapeva stare accanto probabilmente meglio di quanto ci riuscisse lei.
Erano inseparabili Clowance e Ross e in un certo senso era vero
ciò
che lui le aveva detto la notte di Natale, quando aveva affermato che
era la sua preferita. Non che non amasse gli altri figli con la
stessa intensità, ma con Clowance c'era
un'affinità caratteriale
incredibile. Lui ne era conquistato e non si affannava a nasconderlo
e lei lo sapeva ammaliare e lo adorava, era il suo eroe. "Clowance,
pensi che a me non manchi? Prova a pensarci, lo conosco da molto
più
tempo di te, è mio marito, l'uomo che amo e il
papà dei miei
bambini. Mi manca tutto di lui e sai perché?".
"Perché
gli vuoi bene, lui è il tuo tesoro come tu sei il suo. Me lo
ha
detto lui l'altra notte" – rispose la bimba, mentre anche
Jeremy si avvicinava, preoccupato per la sorellina.
Quella
piccola confessione le scaldò il cuore. Se Ross fosse stato
sveglio,
lo avrebbe baciato sulle labbra a lungo, per quelle parole
così
tenere con cui aveva descritto alla loro bambina il loro rapporto.
"Esatto, perché gli voglio bene. Ed è proprio in
momenti così
che gielo posso dimostrare, standogli sempre vicino e facendogli
sentire che sono qui. Lo vuoi fare con me? Vuoi aiutarmi ad
aiutarlo?".
"Certo".
Clowance si asciugò le lacrime con la mano e poi,
tentennando, si
avvicinò a Ross e gli baciò la fronte, prima di
abbassarsi e
abbracciarlo. "Torna prima che puoi, papà". Poi corse di
nuovo dalla madre, si rannicchiò sul divano e Demelza, dopo
aver
recuperato Bella dal letto, invitò Jeremy a fare altrettanto.
Si
misero comodi, sotto le coperte, mentre il camino scoppiettava nella
stanza. Cantò una canzone che si sforzò di far
apparire allegra, e
addormentò i bambini. E poi, sola coi suoi pensieri, rimase
a
fissare Ross nella penombra, finché il sonno la ebbe vinta
anche su
di lei. Si addormentò più serena rispetto alle
notti precedenti,
però. Non sapeva se fosse per la vicinanza dei bambini o per
il modo
dolce in cui Ross l'aveva definita, in quel colloquio notturno di
pochi giorni prima con Clowance. Era bello sapere che per lui era un
tesoro, il SUO tesoro, che era quanto di più prezioso lui
possedesse. Era una sensazione meravigliosa saperlo, dopo che per
tanto tempo si era sentita una seconda scelta... Ora sapeva che non
era vero, che si era sbagliata! E in un momento come quello che stava
vivendo, era una sorta di consolazione che le impediva di sprofondare
nel baratro della disperazione.
Il
mattino arrivò presto. Fuori nevicava nuovamente,
furiosamente, e il
vento sbatteva impetuoso contro le finestre. Demelza si
svegliò di
soprassalto, sentendo un'imposta sbattere contro la parete. Aveva
dormito coi tre figli addosso e ora aveva un incredibile mal di
schiena.
Ross
dormiva ancora ed era ora che si mettesse all'opera, che gli
medicasse la ferita e gli cambiasse la camicia da notte.
Svegliò i
bimbi, diede loro un bacio e li invitò ad andare da Prudie
per la
colazione.
Poi
si alzò, si mise accanto a Ross e gli accarezzò
dolcemente il petto
e il viso, dandogli un lieve bacio sulle labbra. "Amore mio..."
- gli sussurrò, contro la sua bocca – "Ho bisogno
di te, di
sentire la tua voce, di un tuo abbraccio. E hai promesso a Jeremy di
insegnargli a cavalcare, a Clowance di insegnarle a scrivere e Bella
vuole giocare con te. Torna da noi, com'eri prima". Tentò di
frenare le lacrime ma si sentiva debole e inerme, completamente in
balìa del destino. Sarebbe stato bello, come nelle favole
che
raccontava ai suoi figli, se tutto si fosse potuto superare con
l'amore, ma stavolta aveva paura che non sarebbe stato così.
L'imposta
sbatté nuovamente contro la parete e Ross, nella sua
immobilità,
mugugnò. Per poi, con somma sorpresa di Demelza, riaprire a
fatica
quei suoi occhi scuri che lei amava con tutta se stessa.
Demelza
sentì il fiato mancarle. Era sveglio! E la stava guardando!
Un misto
di sollievo, unito a paura, stanchezza e disperazione, presero
possesso di lei. "Ross..." - lo chiamò, con voce spezzata.
Lui
voltò il viso verso di lei. I suoi occhi erano sempre gli
stessi,
neri e profondi, dolci e allo stesso tempo selvaggi. Ma sembravano
spersi, annebbiati, senza luce... "Ross?". .
"Amore mio...". Le aveva parlato, poteva
comunicare! Forse davvero quel testone ne sarebbe uscito indenne
anche questa volta, come sempre, come aveva promesso ai bambini!
Lui
la guardò, un po' interdetto a quelle parole. "E tu chi
sei?".
Demelza
spalancò gli occhi mentre sentiva il sangue congelarsi nelle
vene.
Ricordò le parole di Dwight, il ventaglio di
possibilità nefaste
circa le conseguenze che quell'incidente avrebbe potuto generare. E
la perdita di memoria era una di quelle, ora che ci pensava... Non
poteva essere! Non poteva essersi dimenticato di lei, di loro, del
loro amore! Ma se era davvero così, ora per Ross lei era
un'estranea. Cosa avrebbe fatto adesso? Come avrebbero reagito i suoi
bambini, come avrebbe potuto spiegargli che per il loro padre erano
dei perfetti sconosciuti? E soprattutto, come avrebbe fatto a farlo
accettare a Clowance?
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
"Amnesia".
Quella
parola, pronunciata da Dwight, era una condanna senza appello. Ross
non si ricordava nulla né di se stesso, né di lei
e dei loro figli,
né della sua vita passata. Era come se sulla sua mente fosse
passata
una spugna e avesse lavato via ogni cosa, ogni ricordo, ogni emozione
vissuta insieme.
Era
un'estranea per lui. E lo erano anche Dwight, che si era affrettata a
chiamare subito dopo il risveglio del marito, i suoi figli, Jud e
Prudie e tutti i minatori che avevano lavorato fianco a fianco con
lui per anni.
Era
Ross in quella stanza ma in un certo senso era come se non fosse lui.
Non esistevano più i suoi genitori, il fratellino morto
piccolo,
Elizabeth, Francis, Verity, il loro matrimonio e i loro quattro
bambini... Era ancora vivo, ma in un certo senso era come averlo
perso. "Non ci posso credere! E ora che faccio?".
Dwight
le strinse gentilmente le spalle per farle coraggio. Era stato per
quasi due ore chiuso in quella camera con Ross, a rassicurarlo,
visistarlo, a cercare di capire l'entità dei danni subiti, e
ora
spettava a lui farle capire come muoversi, comportarsi e agire.
"Demelza, per ora soffermiamoci sulle cose positive".
"Che
c'è di positivo?" - sbottò, disperata.
"Non
ha riportato danni agli occhi, all'udito e alla parola. E nemmeno al
movimento! Quando le costole saranno guarite, fisicamente
tornerà ad
essere quello di prima. Per quanto riguarda l'amnesia...".
Demelza
deglutì, frustrata e spaventata. Si sentiva sola, spersa e
senza la
sua roccia, il suo Ross, a cui aggrapparsi nei momenti difficili. Era
come essere tornata ai tempi di Londra, quando era sola contro tutto
e tutti a combattere per pensare al futuro dei suoi figli. "Come
devo comportarmi? E cosa devo fare per aiutarlo a ritrovare i suoi
ricordi? Sempre che sia possibile farlo...".
Dwight
sospirò, terribilmente in difficoltà, scostandosi
i capelli dalla
fronte. "Demelza, è difficile dirlo con certezza! Questi
casi
variano da persona a persona e a volte è sufficiente del
riposo e
qualche giorno di tranquillità perché i ricordi
tornino, pian
piano. Altre volte, certe persone, son guarite picchiando casualmente
di nuovo la testa nel medesimo punto in cui avevano sbattuto quando
avevano perso la memoria. Altre volte puo' essere grazie a un trauma
o a una emozione forte. Altre volte i ricordi non tornano
più e
restano come intrappolati nella mente, in qualche luogo
inaccessibile. Il problema di Ross è che ha battuto la testa
esattamente dove l'aveva picchiata quattro anni fa a Londra e
probabilmente questo nuovo incidente è andato a smuovere una
situazione di apparente stallo ma già compromessa di suo.
Ora, la
cosa fondamentale è che lui riposi e riprenda le forze.
Stagli
vicino, prenditi cura di lui ma non forzarlo a ricordare
perché
otterresti l'effetto opposto, ossia che si possa chiudere in se
stesso. Ricorda che per lui, ora, sei un'estranea. Se si sentisse
sotto esame o sotto pressione, circondato da gente che per lui non
è
nessuno, potrebbe estraniarsi dalla realtà e rifiutare il
contatto
con voi. Avvicinati pian piano, ottieni la sua fiducia e solo allora,
quando si sentirà a suo agio con te, inizia a parlargli di
voi, di
quello che avete vissuto e dell'amore che vi unisce. Non importi,
aspetta i suoi tempi. Io gli ho spiegato chi è e cosa
rappresenta
questa casa per lui, assieme alle persone che vi vivono e che
incontrerà, ma devi essere tu a farglielo accettare,
gradualmente".
Demelza
si morse il labbro, lottando contro se stessa per non scoppiare a
piangere davanti a lui. Era difficile sentire parlare di Ross in quei
termini, sentirsi dire che era un'estranea per l'uomo che amava, che
poteva addirittura vederla come una nemica se avesse sbagliato
atteggiamento con lui... Era suo marito quello, che la prendeva in
giro, con cui passava ore a scherzare e chiacchierare, che le
scompigliava i capelli quando voleva farla arrabbiare o quando,
semplicemente, si avvicinava per scambiarsi dei gesti d'affetto, era
l'uomo che, quando la baciava, sapeva farle mancare il fiato
nonostante fossero passati ormai diversi anni dal loro matrimonio,
era colui che sapeva farla sentire in paradiso quando facevano
l'amore, era il padre dei suoi figli... E ora non si ricordava
più
nulla, era come dover ricominciare da zero senza avere la certezza di
arrivare vincitori al traguardo. "Vorrei poter riportare
indietro il tempo all'altra mattina per poterlo legare a questo
dannato letto e impedirgli di uscire".
"Lo
so" – rispose Dwight, con sincerità.
Demelza
scosse la testa. "Come faccio? Come posso dirlo, come posso
spiegarlo ai bambini? Bella è piccola e quindi quella che mi
preoccupa meno, ma Jeremy... E Clowance! Oh Dwight, Clowance adora
Ross, lei è la sua cocca, è convinta di essere la
sua preferita e
non accetterà mai che suo padre non si ricordi di lei. Forse
Jeremy
capirà e mi aiuterà, ma Clowance...". Si accorse
con sgomento
che si sbagliava, non era come a Londra! Era molto peggio ora,
perché
i suoi figli erano più grandi e Ross faceva parte delle loro
vite,
non poteva raccontar loro favole o menzogne, doveva essere sincera,
raccontare la verità con la consapevolezza che non avrebbero
probabilmente capito e che per loro sarebbe stata una terribile
perdita da digerire. Avrebbe avuto sulle sue spalle la malattia di
Ross, i suoi affari a Londra, i problemi dei suoi figli e ora anche
le sorti della miniera e della tenuta di Nampara. Si chiese come
avrebbe retto da sola, di nuovo, senza avere suo marito accanto.
Dwight
la abbracciò, accarezzandole la schiena. "So che non
sarà
facile e ti prego, lascia da parte le cose meno importanti e
focalizzati solo sulla tua famiglia. Sei un'ottima madre, saprai di
certo come gestire i bambini in questo frangente, ne sono sicuro. E
Ross... non potrebbe avere accanto donna migliore di te...
Guarirà,
TU lo aiuterai a farlo, ne sono sicuro".
Demelza
non disse nulla. Si sporse in avanti, affondando il viso nel suo
collo, scoppiando a piangere. "Dite tutti che sono forte ma...
Io non mi sento così ora! A tutto c'è un limite e
io... Non si
ricorda di me, è come se non mi amasse più,
è come se mi avesse
abbandonata un'altra volta, come quella notte in cui corse da
Elizabeth".
"Non
è vero che non ti ama più! L'amore che prova per
te c'è ancora,
nascosto in qualche angolo remoto della sua mente. Sta a te aiutarlo
a cercare la strada per uscirne, per tornare da te".
Demelza
scosse la testa. "E io come posso aiutarlo? Come posso
farcela?".
"Tu...".
Dwight le sollevò il mento, costringendola a guardarlo in
viso –
"Tu lotterai come sempre per l'uomo che ami. Lo riavrai Demelza,
entrambi conosciamo Ross e sappiamo quanto sia testardo e
dannatamente fortunato a tirarsi fuori da situazioni difficili. E ora
la sua fortuna sei tu, saprai stargli vicino e guarirlo. Lui non si
arrenderebbe mai alla perdita di ciò che vi ha unito, dei
vostri
ricordi e quindi fidati di te stessa e fidati di lui, ne uscirete.
Come sempre!".
Demelza
annuì, cercando la forza per credergli. Non aveva
alternative,
Dwight aveva ragione, non poteva fare altro che rialzarsi, asciugarsi
le lacrime e lottare per quell'incosciente di suo marito. Lo amava,
più di qualsiasi altra cosa. E non avrebbe permesso che i
loro
ricordi insieme svanissero nel nulla in lui. Lo rivoleva indietro,
come prima, per lei e per i loro bambini che avevano bisogno di lui.
"Mi aiuterai a spiegarlo a Jeremy e Clowance?".
"Certo.
Dove sono ora?".
Demelza
inspirò profondamente, per riguadagnare un po' di calma.
"Sono
con Prudie, nella loro camera. Sta cercando di intrattenerli ma credo
che a breve potrebbero correre qui, se non gli portiamo notizie".
Dwight
le prese la mano. "Su allora, andiamo da loro".
Il
fatto che Dwight la accompagnasse in quel compito ingrato, le
infondeva un po' di coraggio. Lui era un medico ed era una persona
dolce e competente, avrebbe saputo trovare le parole giuste per
spiegare a Jeremy e Clowance quella nuova realtà.
Aveva
paura della reazione dei bambini, soprattutto di Clowance. E avere
Dwight vicino era un aiuto caduto dal cielo, in un momento buio come
quello.
...
"Impossibile!".
Demelza
sentì venirle la pelle d'oca davanti alla reazione di sua
figlia.
Clowance e Jeremy avevano ascoltato in silenzio la spiegazione di
Dwight, assieme a Jud e Prudie che si occupavano di tener buona la
piccola Bella.
I
due servi si erano guardati in faccia in silenzio, accigliati ed
evidentemente colpiti e preoccupati da quella nuova realtà e
da quel
nuovo Ross con cui avrebbero avuto a che fare. I bambini avevano
reagito invece in maniera diversa: Jeremy aveva fatto poche e
stentate domande, spaventato ed evidentemente conscio della
gravità
della situazione, pur non capendola a fondo. Clowance era invece
apparsa sorpresa da quella diagnosi, incredula, dimostrando di non
capire appieno l'entità della malattia del padre.
La
bimba si parò davanti a Dwight, con le mani sui fianchi.
"Senti,
io non ci credo che non si ricorda di noi! Magari di Jeremy e Bella,
ma di me e della mamma no! Per me tu ti sbagli! Oppure papà
sta
scherzando".
Dwight
sospirò, lanciando un'occhiata a Demelza per essere aiutato.
"Ascolta, lo so che per te è difficile da capire e che vuoi
tanto bene al tuo papà, però ora le cose stanno
così. Ma se farai
la brava e farai quello che ti ho detto e spiegato, vedrai che presto
lui starà meglio e magari pian piano inizierà a
ricordarsi di te.
Ha bisogno di riposo, di non essere assillato e tu devi essere
paziente e non insistere troppo affinché si ricordi di tutti
voi
prima del tempo. Nelle malattie ci vuole sempre tanto tempo per
guarire".
Demelza,
inginocchiatasi accanto a Dwight, davanti alla figlia,
annuì.
Allungò una mano, ad accarezzarle i lunghi capelli rossi,
poi la
attirò a se. "Clowance, so che sei una brava bambina e so
che
potrai aiutarci nel modo in cui ha detto Dwight".
La
bimba si imbronciò, oscurandosi in viso. "Ma io non capisco!
Come fa a essersi dimenticato di me e di tutte le cose che fa? E'
impossibile".
Jeremy
alzò le spalle, teso e preoccupato. "Se Dwight dice che
è
così, allora è vero. Dobbiamo aiutare mamma a
farlo stare meglio"
– disse, rivolgendosi alla sorella.
La
bimba si allontanò da tutti, con uno strattone, liberandosi
dalla
presa della madre. "Io lo so cosa puo' farlo stare meglio, gli
basta vedermi e guarisce! Mi ha promesso che mi aiutava a imparare a
scrivere e lui mantiene sempre le promesse". E detto questo,
senza che nessuno riuscisse a fermarla, di corsa uscì dalla
stanza.
Demelza
si alzò di scatto, andandole dietro. Sapeva dove stava
andando e non
voleva che affrontasse quella situazione da sola. E Ross non era in
grado di far fronte alla reazione della bambina... Clowance era
testarda e insistente quando voleva e suo marito, nel pieno delle sue
forze, era capacissimo di darle retta e farsi ascoltare. Ma ora...
Come
pensava sua madre, Clowance corse nella camera dei genitori,
inseguita da Demelza.
La
piccola entrò, osservando il letto a baldacchino dove
riposava Ross.
"Papà..." - lo chiamò, avvicinandosi al letto.
Al
suono della sua voce Ross aprì gli occhi, a fatica,
girandosi verso
di lei. E Clowance gli prese la mano, saltando sul letto accanto a
lui. "Dicono che non ti ricordi niente ma io non gli credo".
"Clowance!".
Demelza giunse alle sue spalle, fissando padre e figlia con
preoccupazione.
Ross
guardò la bambina e poi lei, con aria smarrita.
"Papà?".
Demelza
si mise seduta accanto alla figlia, attirandola a se in un abbraccio.
"Si, lei è una dei tuoi figli. Te ne ha parlato Dwight poco
fa.
Siamo la tua famiglia. Io sono tua moglie e lei è Clowance,
la
nostra secondogenita".
Ross,
senza apparenti emozioni, le osservò per un attimo.
"Dwight?".
"Il
dottore che ti ha visitato. E' un tuo caro amico" –
puntualizzò Demelza.
"Oh".
Ross si massaggiò a fatica la fronte, cercando di mettere a
fuoco la
realtà che lo circondava. "Quindi tu saresti mia moglie e
lei
mia figlia, giusto...?".
"Giusto"
– annuì Demelza, col cuore a pezzi, senza
aggiungere altro per non
affaticarlo. Era terribile vederlo così stanco, confuso e
debole e
non poterlo abbracciare. Aveva perso il suo confidente, il suo
migliore amico, colui che sapeva farle apparire tutto roseo con
poche, semplici parole. E ora si sentiva smarrita e sola.
"Ma
papà!" - sbottò Clowance – "Sei
impazzito?! Sono io,
come puoi dimenticare che sono tua figlia" – disse la bimba,
scuotendogli il braccio con violenza. "Non ti ricordi? Mi hai
insegnato ad andare sul pony e dobbiamo esercitarci insieme a
scrivere! Me lo hai promesso".
Ross
digrignò i denti dal dolore. Aveva delle costole rotte e di
certo il
comportamento di Clowance non lo stava aiutando... "BASTA!"
- urlò infatti, dopo alcuni istanti, rabbioso e dolorante,
liberandosi con uno strattone dalla presa della bambina.
"No,
non basta!" - urlò anche la bimba, di rimando. "Sei il mio
papà, vedi di ricordartelo subito".
Ross
la osservò con sguardo freddo, come se stesse osservando una
nemica.
"Non ti ho mai vista in vita mia! Smettila di urlare". Poi
osservò Demelza, con la stessa aria guardinga con cui aveva
osservato la figlia. "Portala via" – digrignò, fra
i
denti.
Demelza
deglutì, sentendosi fra due fuochi. Ross non glielo stava
chiedendo,
glielo stava ordinando! Voleva che Clowance se ne andasse e come
poteva capire lui e i sentimenti confusi che si agitavano nella sua
mente, così poteva capire lo sgomento di sua figlia, di soli
sei
anni, che aveva sempre guardato al padre come un eroe e che ora non
accettava quella nuova, difficile realtà.
Suo
malgrado dovette staccare Clowance, che si era aggrappata nuovamente
a lui, dal braccio di Ross, cercando di riportare la calma. "Su,
non dobbiamo farlo stancare, andiamo Clowance".
"Noooo"
– urlò la bimba, scoppiando a piangere.
In
quel momento, alle loro spalle, arrivò Jeremy con in braccio
Bella.
Il
bimbo osservò il padre senza avvicinarsi, senza dire nulla,
incredulo ma comunque deciso a seguire i consigli di Dwight. Ma era
confuso e Demelza poteva vedere nel suo sguardo lo stesso sgomento e
la stessa paura che erano anche suoi.
Demelza
si morse il labbro, frustrata e confusa dalle urla di Clowance.
Avrebbe voluto chiedere a Ross di essere accondiscendente, di cercare
di capirla e di rassicurarla, ma sapeva che non avrebbe avuto aiuti
da lui per quel giorno. Non poteva pretenderlo, lui non ne era in
grado e tutti loro erano estranei ai suoi occhi. Prese la piccola in
braccio, di forza, mettendo fine alla discussione, e poi si
avvicinò
agli altri due bambini, intimando a Jeremy di seguirla. "Su,
papà deve riposare e tutto questo baccano non gli fa bene"
–
disse, lasciando che il figlio si accodasse a lei.
Li
portò al piano di sotto, col cuore a pezzi e la mente in
tumulto. Il
suo mondo era crollato e non sapeva da che parte girarsi per
cominciare a ricostruirlo. Non poteva permettere che Ross si
stancasse o si sentisse sotto pressione ma allo stesso tempo aveva
tre figli da gestire, che gli chiedevano conto del padre e che lo
cercavano.
Lasciò
Clowance, Jeremy e Bella alle cure di Dwight e dei suoi due servi e
poi uscì fuori nel cortile, per prendere una boccata d'aria.
Si
sentiva scoppiare, voleva urlare, prendere a pugni il muro, piangere
tutte le sue lacrime e poi dormire e allontanarsi da quella
realtà a
cui sentiva di non essere in grado di fare fronte.
Chiuse
la porta dietro di se, si appoggiò alla parete e, mentre con
sguardo
assente osservava l'aia, il bucato steso e le galline che
passeggiavano nell'erba, le lacrime presero a scorrerle lungo il
viso. Avrebbe pianto da sola, Ross non sarebbe arrivato a
consolarla... Avrebbe dovuto contare unicamente sulle sue forze da
quel momento in poi, accantonando se stessa e i suoi bisogni in
favore di quelli di suo marito e dei suoi figli. Avrebbe dovuto
annullarsi per loro, ma non aveva altra scelta se non combattere,
come sempre, per le persone che amava. Le gambe le cedettero, si
lasciò cadere a terra e poi, singhiozzando, piegò
le ginocchia e vi
nascose il viso.
In
quel momento avrebbe voluto avere almeno Garrick accanto a se,
avrebbe voluto sentire la sua lingua umida bagnarle la guancia e il
suo pelo morbido da accarezzare. Ma anche lui se n'era andato, era
sola. E se tanto le dava tanto, lo sarebbe stata a lungo.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
C'era
uno strano silenzio a Nampara, anche quando in casa c'erano tutti i
bambini, sembrava che nessuno osasse fare rumore.
Da
quando Ross si era risvegliato, la casa sembrava come sospesa, come
in attesa di qualcosa che non arrivava mai, lasciando tutto in uno
strano stato di torpore e immobilità.
Prudie
e Jud si occupavano dei bambini, li portavano a scuola e li andavano
a prendere e durante la giornata non perdevano mai di vista la
piccola Bella che gattonava per casa come sempre ma che sembrava
smarrita come tutti gli altri.
Demelza
aveva dovuto delegare i suoi due servi alla cura dei figli, suo
malgrado. La sua giornata si divideva nelle cure che prestava a Ross,
che non perdeva mai di vista, la tenuta delle carte contabili della
miniera e dei suoi affari a Londra. Aveva dovuto chiedere ai Devrille
di sostituirla in alcune riunioni importanti a cui avrebbe dovuto
presiedere nella capitale perché non se la sentiva di
allontanarsi
dalla Cornovaglia e nonostante questo suo domandare aiuto, non aveva
un attimo di tregua. C'era tutto da seguire e tutto era sulle sue
spalle, benché apprezzasse la buona volontà che
ci stavano mettendo
Jud e Prudie nel darle una mano.
Ross,
dal canto suo, sembrava apatico e assente. Rispetto al suo solito era
meno reattivo e meno propenso a fare di testa sua e se ne stava a
letto, seguendo scrupolosamente i consigli di Dwight che veniva tutti
i giorni a visitarlo.
Demelza
gli era molto grata, sia per l'assistenza che prestava a Ross, sia
per la sua amicizia costante che lo portava sempre ad aiutarla in
quel momento difficile, nonostante a casa sua le cose non andassero
per niente bene: la piccola Sarah era peggiorata nelle ultime
settimane e spesso lui e Caroline avevano temuto per la sua vita
anche se poi le crisi si erano risolte, lasciando però la
bimba
sempre più debole.
Avere
Dwight vicino era il suo momento di pace in quelle giornate immobili
e allo stesso tempo frenetiche che stava vivendo. Era la sua spalla
su cui piangere e un amico su cui appoggiarsi, nei brevi istanti in
cui si tratteneva a Nampara, un qualcuno che riusciva a capire
appieno i sentimenti e il dolore che si agitavano in lei. Solo lui ci
riusciva del tutto perché in quel momento erano accomunati
da dolori
simili che stavano vivendo e li stavano divorando pian piano.
Avrebbe
voluto avere Ross vicino, sentire le sue braccia che la stringevano e
le sue labbra che le sfioravano la fronte, dandole coraggio. Avrebbe
voluto sentirlo scherzare e minimizzare sui problemi, vederlo ridere
e giocare coi bambini sul loro letto, fino a renderlo simile a un
campo di battaglia. Avrebbe voluto qualsiasi cosa ed invece era
circondata dal nulla. Era come averlo perso, di nuovo! Con la sola
differenza che ora era lì, davanti a lei. Ed era come se
fosse morto
e al suo posto ci fosse qualcuno con le medesime sembianze ma con
un'animo profondamente diverso. Ross non rideva più, parlava
raramente e in maniera distante e stentata. Era educato e cordiale,
ma non c'era calore in lui quando le rivolgeva la parola o quando la
guardava. Non c'era amore! Era un'estranea ed era evidente che lui si
sentisse in imbarazzo quando doveva parlare con lei. Dwight gli aveva
spiegato che erano sposati e immaginava che per Ross fosse
difficilissimo avere a che fare con una donna all'apparenza
sconosciuta ma che si è scelta come compagna di vita.
Coi
bambini era anche peggio. Jeremy faceva capolino ogni tanto,
silenzioso, sedendosi composto su una sedia accanto al letto, per
raccontargli cosa aveva imparato a scuola. Suo figlio si era attenuto
ai consigli di Dwight, non sforzava il padre a ricordare e parlava
lentamente, con pazienza, senza rimarcare nulla del passato. Ross
sembrava dargli retta ma non l'aveva mai visto rivolgere al figlio un
sorriso o un gesto o una parola gentili.
Clowance
era invece la sua spina nel fianco. Lei voleva suo padre, ne sentiva
la mancanza e non accettava la situazione! Era capricciosa,
rispondeva male e disubbidiva molto spesso. Al mattino cercava sempre
mille scuse per non andare a scuola e per correre nella loro camera e
a nulla sembravano valere rimbrotti e castighi. Assillava Ross,
continuava a richiedere le sue attenzioni e suo marito,
benché non
si fosse ancora lamentato per la presenza della bambina, la guardava
come si guarda ad un nemico o a qualcosa di estremamente molesto. Con
o senza memoria, Demelza conosceva quel suo sguardo e prima o poi lui
sarebbe esploso e avrebbe allontanato in malo modo la piccola. E a
quel punto, non osava immaginare a cosa avrebbe portato tutto
ciò!
Per Clowance, Ross era il sole, la luce, lo adorava! Si sentiva
tradita, messa da parte e non accettata e non sapeva come farle
digerire la cosa. Ci voleva pazienza, fede e speranza ma sua figlia
sembrava non possedere nessuna di quelle virtù.
Bella
era quella che le dava meno problemi. Demelza la portava in camera la
sera tardi, per metterla a letto, e Ross la guardava incuriosito e
forse divertito dal suo modo di muoversi goffo e dalle mille facce
buffe che faceva quando rideva. Ogni tanto le sfiorava la manina,
anche se non si era mai spinto oltre... Non chiedeva nulla dei
bambini, delle loro abitudini, dei loro caratteri, di come
rapportarsi con loro. Li studiava in silenzio, esattamente come
faceva con lei.
Certe
volte aveva provato l'impulso di chiedergli cosa pensasse di loro ma
si era sempre frenata, mordendosi la lingua per paura di stressarlo e
soprattutto, per paura delle risposte che avrebbe potuto ottenere.
Aveva paura del suo giudizio, di non essere gradita, di essere anche
lasciata prima o poi, da questo nuovo Ross tutto da scoprire...
Quella
sera avevano cenato presto ed era riuscita a convincere i bambini ad
andare a dormire senza disturbare il loro papà. Dopo aver
aiutato
Prudie a sistemare la cucina, era salita al piano di sopra per
aiutare Ross a cambiarsi e a darsi una rinfrescata.
Con
delicatezza gli aveva tolto la camicia da notte e gli aveva passato
un panno bagnato sul petto. Dove aveva rotto le costole, ormai
troneggiava un grosso livido che pian piano andava riassorbendosi.
Erano passati quasi venti giorni dall'incidente e ormai i dolori e le
difficoltà a muoversi stavano passando, benché
ancora non riuscisse
a stare in piedi. "Dwight dice che fra una decina di giorni
potrai alzarti e iniziare a fare qualche passo nella stanza"
–
disse, giusto per intavolare una conversazione.
"Bene".
Demelza
sospirò, davanti a quel tono di voce così piatto.
"Almeno
potrai pranzare con noi e non qui, tutto solo".
Ross
alzò gli occhi su di lei. "Con te e con quei tre bambini?".
"Si!
Ti ricordi i loro nomi ormai, vero?".
"Certo.
Jeremy è il maschietto e Isabella-Rose... Bella... la
piccola. E
l'altra, quella che mi urla sempre nell'orecchio, è
Clowance".
A
Demelza non sfuggì la nota stonata nel tono di voce di Ross,
mentre
pronunciava il nome di Clowance... Era preoccupata dal fatto che un
rapporto idilliaco come il loro potesse difentare infernale e non
sapeva come impedirlo. "Lei ti urla sempre nell'orecchio
perché
pensa che così potrai ricordarti prima del tuo passato. Sei
il suo
eroe, ti adora e vorrebbe che tu guarissi presto".
Ross
scosse la testa. "A me sembra semplicemente una bambina molto
viziata che dipende troppo da chi la circonda".
Demelza
sospirò. "E' vero, è viziata, ha un animo molto
aristocratico
e nobile. A te piaceva così e ti piacerà ancora".
"Se
smettesse di assillarmi, forse..." - obiettò lui.
"Ross!"
- sbottò Demelza – "Ha solo sei anni".
"E
pretende troppo, per avere SOLO sei anni" – rispose lui, a
tono.
"Cerca
di essere comprensivo" – lo implorò.
Ross
annuì con fare assente. Si lasciò lavare e
rivestire e poi si mise
sotto le coperte, deciso a dormire. Dal giorno dell'incidente,
Demelza gli aveva lasciato il letto, limitandosi a dormire in una
brandina accanto a lui per non disturbarlo. Si chiese per quanto
sarebbero andate così le cose...
Ross
la osservò cambiarsi d'abito, mettersi la camicia da notte e
farsi
una lunga treccia. "Da quanto siamo sposati?" - chiese
infine.
Demelza
spalancò gli occhi. Era la prima volta che gli chiedeva
qualcosa su
loro due e aveva paura di rispondergli e di sbagliare qualcosa. Ma
allo stesso tempo quella domanda le faceva piacere. "Da tredici
anni. Io avevo diciassette anni e tu ventisette".
"Eri
giovane" – rispose lui, pensieroso. "Dove ti ho
conosciuta? A un ballo, una festa?".
Demelza
sorrise, quasi divertita nel ricordare quel giorno. "A una fiera
di paese. Mi hai salvato da un pestaggio".
Questa
volta fu Ross ad essere sorpreso. "Ad una fiera? Pestaggio?
Perché ti stavano picchiando?".
Deglutì,
mentre i ricordi di Garrick tornavano a tormentarla. "Dei
ragazzi avevano preso il mio cane e volevano farlo combattere. Mi
sono opposta e mi sono lanciata fra la folla e quelle persone hanno
preso a spintonarmi e a darmi calci. E poi sei arrivato tu, a portare
via me e il mio cucciolo".
Ross
osservò il soffitto, pensieroso, quasi a voler cercare
qualche
appiglio per ricordare. "E mi sono innamorato di te a prima
vista, giusto?".
"Certo
che no, avevo solo tredici anni allora, ero una bambina sporca,
spettinata e vestita con gli abiti stracciati di suo fratello. Mi hai
semplicemente portata in una locanda, mi hai fatta mangiare e poi,
mentre mi riaccompagnavi a casa, mi hai chiesto se volevo essere la
tua sguattera. Accettai, non volevo tornare a casa mia da un padre
violento, ma ti diedi una condizione".
"Quale?".
"Sarei
venuta a lavorare per te solo se avessi potuto portarmi il mio cane".
"Suppongo
di aver accettato, se sei qui, giusto?" - chiese Ross.
"Giusto"
– rispose lei, dolcemente, ricordando quel momento, su quella
strada sterrata, che le aveva cambiato la vita.
"E
il cane dov'è ora?".
Ecco
la domanda che temeva... Demelza si oscurò, abbassando lo
sguardo.
Lui le mancava così tanto, ancora, tanto da chiedersi se le
sarebbe
mai passata. "E' morto di vecchiaia la scorsa estate, sei stato
tu a trovarlo senza vita, una mattina, mentre ti preparavi per andare
alla miniera". Il suo sguardo si addolcì mentre parlava di
quel
cane che aveva amato come pochi e che aveva sempre ritenuto il suo
migliore amico. "Si chiamava Garrick e col tempo gli hai voluto
bene pure tu. Ci è stato accanto fedelmente per anni, ha
visto
nascere tutti i nostri figli e si è preso cura di loro
assieme a
noi".
"Capisco".
Ross abbassò lo sguardo, quasi in difficoltà,
forse rendendosi
conto di aver aperto una ferita ancora dolorosa. "E dimmi,
com'è
che da domestica, ti sei trovata a diventare mia moglie?".
"Quattro
anni dopo..." - si bloccò per un attimo, in
difficoltà –
"Beh... Ero diventata la tua confidente, chiacchieravamo spesso
insieme e ormai sapevo tutto di te, come servirti e come essere la
domestica che ti aspettavi che io fossi. E una sera, al termine di
una giornata per te difficile... Beh... Tu... Io...".
"Oh...".
Deglutendo, Ross arrossì, capendo come si erano svolte le
cose.
"Beh, poi ti ho sposata e son nati i bambini, giusto?" –
concluse, frettolosamente.
"Già...
E pian piano ti sei innamorato di me. Giorno dopo giorno ho smesso di
essere una benda contro la solitudine e un dovere che ti eri
accollato dopo la notte passata insieme e ho iniziato ad essere la
donna che amavi. E sì, son nati i bambini". Decise di non
dire
nulla per ora di Elizabeth, dell'inferno che avevano passato e della
morte di Julia. Erano cose ancora difficili da digerire persino per
lei e di certo lui non le avrebbe comprese e avrebbe finito per
confonderlo ancora di più.
Ross
non chiese altro. Si rannicchiò sotto la coperta, forse per
immagazzinare quanto gli aveva raccontato, e lei spense le candele,
rintanandosi sulla brandina, sotto le coperte. Aveva come la
sensazione che una piccola crepa si fosse aperta in quel muro di
silenzio che si era creato fra loro dopo l'incidente ed era stato
strano e allo stesso tempo piacevole tornare a parlare con lui. Anche
se la situazione era assurda e senza senso, Ross pian piano stava
cercando di ottenere qualche risposta. E questa era già di
per se
una buona notizia che poteva, per una notte, farle dormire sonni
sereni.
...
Lei
ormai dormiva ma lui, per la prima volta, non riusciva a prendere
sonno. Nella penombra vedeva la figura addormentata di quella che gli
avevano presentato come moglie, riusciva a distinguerne il corpo
snello e i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia e non capiva
che sentimenti provasse verso quella donna gentile, che si prendeva
cura di lui con amore e devozione ma che gli appariva come una
perfetta estranea.
Eppure,
quando l'aveva vicina, si sentiva attratto dalla sua presenza e dai
suoi gesti che, nonostante tutto, gli apparivano famigliari e
piacevoli.
Si
chiese cosa li avesse uniti in passato, come stessero insieme, cosa
si dicessero... Chiederle del loro incontro era stato frutto di un
impulso incontrollato, dettato da una curiosità che era
cresciuta in
lui giorno dopo giorno. Sembrava una persona dolce, gentile e tenera,
Demelza. Ed era bella, indubbiamente. Non faticava a credere di
averla amata e di esserne stato innamorato e si chiese se, per caso,
non avesse potuto innamorarsi di lei nuovamente.
Tutto
gli era estraneo in quella casa, sia gli oggetti che le persone. Era
difficile per lui avere a che fare con qualsiasi cosa, soprattutto
nell'immobilità a cui era costretto. I primi giorni avrebbe
voluto
solo scappare, poi si era come rassegnato a dover rimanere. E li
aveva iniziato a chiedersi del suo passato. Si sentiva in trappola
perché non solo gli altri gli erano estranei ma si sentiva
esso
stesso un estraneo. Chi era lui? Che persona era stata? Cosa aveva
amato e cosa aveva odiato? Cosa aveva fatto nella vita? Che marito e
padre era stato?
Era
tutto difficile e sperava che, una volta rimessosi in sesto, tutto
gli sarebbe apparso meno annebbiato. Per ora sapeva di avere una
moglie che considerava bella e desiderabile e che aveva salvato da un
pestaggio quando era ragazzina, di aver avuto un cane e che era padre
di tre figli, fra cui una che al momento mal sopportava.
Lo
attendevano sfide difficili e non capiva come avrebbe trovato forza,
coraggio e voglia per affrontarle. A quei pensieri chiuse gli occhi e
si impose di dormire, per ora non poteva fare altro.
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Muovere
i primi passi, dopo un mese a letto, fu un'impresa dolorosa e
titanica per lui. L'immobilità e i postumi delle fratture
gli
procuravano dolori lancinanti, le gambe non gli tenevano e se non
fosse stato per Jud che lo sorreggeva, sarebbe caduto a terra molte
volte.
Anche
Demelza aveva cercato di aiutarlo ma era troppo esile per riuscire a
sorreggerlo da sola e quindi aveva dovuto ripiegare sui due servi di
casa.
Jeremy
e Bella, due dei suoi figli, nel vederlo camminare a quel modo erano
scoppiati a ridere. La figlia di mezzo, quella che sopportava a mala
pena, lo guardava perplessa e in silenzio. Quella bambina dai capelli
rossi, molto somigliante a sua madre, lo metteva a disagio e non ne
capiva il motivo. Lo scrutava e studiava con quei suoi occhi
azzurro-verdi, sembrava volergli scandagliare l'animo e davanti a
lei, che cercava di attirare sempre la sua attenzione, si sentiva in
difficoltà. Non vedeva l'ora che andasse a scuola o da
qualche parte
coi due servitori per tirare il fiato e non averla attorno. Non aveva
ricordi di lei e, anche se era una cosa orribile da dire di una
figlia, non riusciva a tollerarne la presenza.
Con
gli altri due bambini era diverso, erano meno invadenti, più
pazienti e la piccolina di casa simpatica e sempre allegra, lo
metteva di buon umore e gli faceva apparire tutto più roseo
e
facile. Quando lo vedeva in difficoltà a camminare, gli si
metteva
di lato e rideva, poi gattonando sembrava indicarle di fare
altrettanto. Somigliava a lui la piccola Bella, era indubbiamente sua
figlia e sicuramente l'aveva adorata prima dell'incidente. Demelza
gli aveva detto che aveva un rapporto speciale soprattutto con
Clowance ma onestamente faticava a crederle. La figlia più
grande
era una bambina viziata, supponente e capricciosa, sempre intenta a
cercare di catapultare l'attenzione su di se e si chiedeva come
avesse potuto sopportare una bambina del genere, tanto diversa dal
fratello più grande, pacato e gentile, e dalla figlia
più piccola,
sempre allegra e solare. Spesso la sentiva piangere per niente e fare
scenate terribili a tavola, a cui né Demelza né i
servitori
sapevano far fronte e non poteva fare a meno di chiedersi
perché non
la castigassero. Sapeva ancora molto poco di quella casa e delle sue
abitudini ma contava, ora che era in piedi, di scoprirle.
Tutto
era un grosso punto interrogativo per lui. Sua moglie, i suoi figli,
i suoi servi e il suo passato erano un grosso enigma e lui non sapeva
cosa dire, cosa fare e come comportarsi con loro.
Demelza
era dolce, molto comprensiva e paziente ma non era questo il punto.
Che rapporto avevano lui e lei, prima? Passionale? O formale, come
accadeva nelle famiglie nobili? Si amavano o il sentimento fra loro,
con gli anni, si era raffreddato? Cosa si dicevano, cosa facevano
insieme?
Lei
gli aveva raccontato del loro primo incontro e in modo molto sommario
come si erano sposati ma aveva come l'impressione che avesse omesso
molte cose. Beh, ora era in piedi e aveva una casa da esplorare e
forse, da solo, rovistando qua e la, avrebbe trovato alcune delle
risposte che cercava.
Stringendo
i denti scese le scale da solo, arrivando alla cucina e sedendosi
sulla sedia col fiato corto. Faceva talmente tanta fatica a
camminare, da sentirsi un vecchio di cent'anni. I due servitori
stavano cucinando e Bella era seduta in terra, su una coperta,
intenta a giocare con dei pupazzetti di stoffa. Degli altri, nessuna
traccia.
Appena
lo vide, la piccola gattonò verso di lui, arrampicandosi
sulle sue
gambe. "Pa-pàààà"
– disse Bella.
Nonostante
il dolore al costato si chinò, prendendola in braccio e
mettendosela
sulle ginocchia. Era una bambolina dall'aspetto irresistibile, Bella.
Poi guardò Prudie. "Dov'è mia moglie?".
"E'
uscita a prendere i bambini" – rispose la serva.
Ross
si accigliò. "Sono ormai grandi, soprattutto Jeremy. Non
sanno
tornare da soli?".
"Certo
che sanno farlo. Ma ha iniziato a piovere e la signora gli ha portato
la mantellina".
Ross
non fu entusiasta di quella risposta. Avevano due servi, Demelza non
poteva mandare loro a prendere pioggia in testa e figli? "Come
mai è andata lei?".
Prudie,
intimorita dal tono di voce accusatorio di Ross,
indietreggiò. "La
signora ama prendersi cura di persona dei vostri figli e poi... per i
bambini è importante, per loro è un momento
difficile".
Ross
abbassò lo sguardo. Già, era un momento difficile
e non era
complicato immaginare che lui ne fosse la causa. Non disse nulla,
concentrandosi sulla piccola Bella che lo guardava, in attesa che la
facesse giocare.
In
quel momento si aprì la porta e sua moglie e i suoi figli,
avvolti
in mantelle grondanti acqua da tutte le parti, entrarono in casa.
Demelza
si stupì di trovarlo alzato. Era la prima volta che scendeva
al
piano di sotto da quando aveva rimesso i piedi giù dal letto
e fino
a quel momento si era limitato solo a pochi passi in camera. "Ross,
sei sceso da solo?".
"Sì.
A fatica, ma volevo cominciare a vedere com'era casa mia.
Chissà che
non mi torni in mente qualcosa".
"Non
stancarti troppo, Dwight ha detto di evitare sforzi che possono
provocarti emicranie" – lo ammonì, togliendosi il
mantello e
andando vicino al camino acceso.
Jeremy
gli corse vicino, mettendo sul tavolo un disegno che teneva
arrotolato in mano. "Guarda! Ho disegnato una miniera e ho
colorato senza andar fuori dai bordi! Il maestro mi ha dato 10".
Ross
sorrise, accarezzandogli i capelli. "Bravo! Scommetto che sei il
primo della classe".
Jeremy
arrossì. "Quasi il primo! Arthur Doran è un po'
più bravo di
me".
Ross
gli strizzò l'occhio. "Scommetto che presto sarai
più bravo di
questo Arthur Doran, sei un artista" – disse, guardando il
disegno di Jeremy che davvero, sembrava fatto da un ragazzo
decisamente più grande di lui.
Demelza
sorrise, guardando di sbieco Clowance che, toltasi il mantello, si
era accucciata tutta imbronciata davanti al camino. "Se lei
fosse diligente solo la metà di suo fratello con lo studio,
sarei
una donna molto felice".
"MAMMA!"
- sbottò la bambina.
Ross,
che fino a quel momento aveva ignorato Clowance, osservò
Demelza.
"E' successo qualcosa?".
La
donna alzò le spalle, sospirando. "Mi ha fermato il maestro
oggi, dicendomi che disturba molto in classe, che è sempre
disattenta e che ancora, nonostante mesi di scuola, non ha imparato a
scrivere correttamente il suo nome".
Ross
guardò di sbieco la figlia. Che doveva fare? Ammonirla,
sgridarla o
altro? Che cosa avrebbe fatto il vecchio se stesso? Non si conosceva
e non conosceva a sufficienza le abitudini della famiglia ma di certo
quanto detto dal maestro era abbastanza grave, soprattutto per quel
che riguardava il comportamento di Clowance che, aveva appurato esso
stesso, era tutt'altro che educato ed accomodante. "Quindi che
si fa?" - chiese, a Demelza.
Sua
moglie guardò prima lui e poi la figlia che, in un ostinato
mutismo,
continuava a guardare le fiamme nel camino. "Questo sabato e
questa domenica mi ci metterò io con lei, cercando di
insegnarle a
scrivere quanto meno le parole più semplici e il suo nome".
Ross
guardò sua moglie. Sembrava così pallida e
stanca, doveva avere
sulle spalle molte preoccupazioni e non ci voleva di certo che
Clowance contribuisse a peggiorare le cose.
Come
leggendogli nel pensiero, Demelza si alzò, stiracchiandosi e
dirigendosi verso la libreria. "Quindi, visto che nel fine
settimana avrò da fare, andrò a finire di
compilare alcuni registri
contabili sulla Northern Bank che servono a Londra a Martin. E tanto
che ci sono, compilerò i registri della Wheal Grace".
Gli
spiaceva che fosse lei a dover far tutto ma si sentiva come un libro
bianco su cui ancora doveva essere scritta ogni cosa e non sapeva
come aiutarla. La sua irritazione verso Clowance e il suo modo di
fare crebbero. Era suo padre, giusto? E un padre educa!
Si
alzò in piedi a fatica e, dopo che Jeremy se ne fu andato
per
mettere via il suo disegno, porse a Prudie la piccola Bella e si
avvicinò al camino dove, ancora muta e imbronciata, c'era
Clowance.
"Non ti vergogni?" - le chiese, senza mezzi termini.
La
bimba alzò lo sguardo su di lui. "Di cosa?" - chiese, con
fare altezzoso.
Irritazione...
Ogni volta che gli rivolgeva la parola, provava l'istinto di
prenderla a schiaffi per la sua supponenza. "Per il tuo
comportamento e per il fatto che a scuola sei un disastro! Ci puo'
stare che tu faccia fatica ad imparare ma che tu sia anche maleducata
e che disturbi le lezioni, non lo tollero".
"Non
mi piace andare a scuola e mamma lo sa! E lo sapevi anche tu, una
volta".
Aveva
solo sei anni e rispondeva a tono come se ne avesse avuti diciotto.
Come poteva essere tanto diversa dai suoi fratelli? "Beh,
suppongo che tutti siano costretti a fare cose che non gli piacciono,
è la vita. E quindi ti ci dovrai rassegnare. Non vedi quanto
è
stanca e preoccupata tua madre?".
"E'
stanca e preoccupata per colpa tua!" - rispose la bambina.
Quell'accusa
risvegliò in lui dei sensi di colpa cocenti verso Demelza.
Ma non
avrebbe permesso comunque a Clowance di avere l'ultima parola. "Io
non ho fatto apposta a farmi male".
"E'
colpa tua di tutto! Anche se vado male a scuola, è colpa
tua".
"Che
vuoi dire?" - chiese, freddamente.
A
quella domanda, Clowance finalmente si alzò e si
scagliò contro di
lui, provocandogli un'intensa fitta al costato che per un attimo gli
mozzò il fiato. "Dannazione!" - sbiascicò fra i
denti,
cercando con la mano un appiglio per non cadere.
"E'
colpa tua!" - urlò Clowance – "Tua! TUA! TUAAAA!
Mi
avevi promesso che mi insegnavi a scrivere, me lo avevi giurato! E mi
avevi detto che ero la tua preferita e invece ti sei dimenticato
anche di me! E io sono arrabbiata, ecco".
"ORA
BASTA!". Questa volta fu lui ad urlare, tanto forte da far
sobbalzare Prudie e Bella che, impotenti, assistevano alla scena. "La
mia preferita? Ne dubito fortemente, piccola maleducata". Si
chinò su di lei, prendendola per le spalle e scuotendola
leggermente
per avere la sua attenzione. "Hai sei anni e la lingua lunga,
giusto? Sei tu che devi imparare a fare le cose da sola, non devi
aspettare che siano gli altri ad agevolarti in quello che è
un tuo
dovere! Scrivere il proprio nome è il minimo che tu possa
fare e hai
un maestro che, se tu lo ascoltassi, te lo insegnerebbe volentieri!".
Spaventata
da quella reazione che evidentemente non si aspettava, Clowance
spalancò gli occhi. Poi riprese il suo consueto cipiglio.
"E'
colpa tua" – ripeté.
E
a quel punto, fu più forte di lui. Nonostante i dolori,
alzò la
mano e la colpì in viso con uno schiaffo. "Sei
insopportabile,
una bambina maleducata ed impossibile. Da oggi farai il tuo dovere e
imparerai a leggere e a scrivere DA SOLA. Se non lo farai e il
maestro si lamenterà ancora di te, dovrò iniziare
a punirti, visto
che gli altri non lo fanno. Imparerai l'educazione... E magari ad
essere piacevole e simpatica come tuo fratello e tua sorella. E ora,
vattene in camera tua, non voglio vederti per un bel po'".
Clowance
si toccò la guancia dove l'aveva colpita, arrossata e
dolorante. Poi
lo guardò, con le lacrime che le solcavano il viso. Non
urlava e
strepitava come al suo solito, il suo era più un pianto
silenzioso.
"Avevi detto che ero la tua preferita..." - ripeté,
singhiozzando.
Ross
la guardò, gelido. Era ora che la smettesse di sentirsi
migliore
degli altri e che imparasse un po' di educazione e umiltà.
"Beh,
non lo sei" – rispose. L'aveva ferita ma non gli importava!
Sarebbe stata una lezione di vita quella, per lei, che di certo le
avrebbe fatto bene e le sarebbe stata utile per il futuro.
Clowance
non disse più niente. Continuando a piangere, in silenzio,
corse
nella sua camera e Ross annuì, soddisfatto. Aveva
interpretato
ottimamente il suo ruolo di padre con la figlia più
problematica e
l'aveva avuta vinta, era orgoglioso di se stesso!
"Cosa
è successo?" - chiese Demelza, riapparsa dietro di lui dalla
biblioteca, evidentemente richiamata dalle urla di poco prima.
Ross
le sorrise. "Ho fatto due chiacchiere con Clowance circa il suo
comportamento, tutto qui. Credo che ora abbia capito come deve
comportarsi, qui e a scuola".
Demelza,
accigliandosi, guardò Prudie che scosse la testa. "L'hai
rimproverata?".
"Certo!
Ne aveva bisogno e credo che dovresti farlo pure tu, di tanto in
tanto".
"Oh
Ross". Demelza si mise una mano fra i capelli, preoccupata. "Per
Clowance è tutto molto difficile e dobbiamo avere pazienza
con lei.
Non la conosci, non più. Se sei troppo duro, ottieni
l'effetto
contrario a quello desiderato, con lei".
Ross
annuì. "Credo di capire cosa vuoi dire, ma lei fa
così perché
glielo si è sempre permesso. Jeremy e Bella sono adorabili e
lei la
figlia da raddrizzare. Non ricordo nulla del mio passato ma
è quello
che più mi salta all'occhio in questo mio strano presente.
Sono
sicuro che se si comporterà meglio, sarà un bene
anche per te".
Demelza
gli si avvicinò, sfiorandogli il braccio. "Clowance non
è
cattiva, te lo assicuro. E' una bambina forse un po' aristocratica
nei modi di fare ma è d'animo buono, è furba e
molto intelligente.
E ti adora, soffre nel vederti così e non ha altro modo che
il
capriccio per manifestare il suo dolore. Ha solo sei anni...".
Ross
non rispose, non era d'accordo con lei ed era ciecamente convinto di
aver agito per il meglio. Anche se, e se ne rese conto solo in quel
momento, essere padre era un lavoro molto difficile. E Clowance, ma
probabilmente anche Bella e Jeremy, prima o poi lo avrebbero messo a
dura prova. E forse anche Demelza. C'era un mondo fuori da quella
porta, di cui aveva fatto parte ma che gli era sconosciuto. E si
sentiva confuso e sperso in ogni cosa che faceva.
A
cosa avrebbero portato le sue azioni? Si muoveva alla cieca spinto da
buone motivazioni ma non conosceva nessuno, non conosceva nemmeno se
stesso e quindi avrebbe potuto far bene così come sbagliare
in
tutto.
In
quel momento si rese conto di avere paura. Di se stesso e soprattutto
dell'ignoto che lo circondava.
Gli
avevano detto che si chiamava Ross Poldark. Ma Ross Poldark e la sua
vita gli erano completamente sconosciuti.
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Clowance,
in sei anni di vita, non era mai stata picchiata da nessuno e fino al
giorno prima nemmeno immaginava che potesse succederle. E
soprattutto, mai avrebbe creduto che sarebbe stato suo padre a farlo.
Non
era tanto lo schiaffo in se ad averle fatto male, era stato
abbastanza forte ma non quel tanto da farla scoppiare a piangere a
dirotto come suo solito, era stato il gesto, il SUO gesto a ferirla.
Il
suo papà...
Lui,
che la prendeva sempre in braccio e la portava a cercare conchiglie
in spiaggia mentre chiacchieravano di tutto per ore...
Lui,
che le sorrideva sempre anche quando faceva i capricci e che la
difendeva dalle sgridate della mamma se combinava qualcosa di
sbagliato...
Lui,
che la abbracciava una volta, facendole passare ogni paura...
Lui,
che le diceva sempre sì anche se si accorgeva che non era
del tutto
sincera a volte...
Lui,
che le aveva promesso di aiutarla ad imparare a scrivere...
Lui,
che le aveva detto che era la sua preferita...
Clowance
dondolò le gambe giù dal letto, pensierosa e
giù di morale. Il suo
papà era cambiato, e con lui tutto il suo mondo. La mamma le
aveva
spiegato che era per l'incidente, che aveva perso la memoria e non
ricordava niente e nessuno, che ci voleva tempo e che non doveva
tormentarlo troppo ma Clowance non capiva come avesse fatto anche a
dimenticare che le voleva bene. Come facesse a non sentirlo
più... I
ricordi stanno in testa, i sentimenti nel cuore. E se la testa era
malata, non poteva essere che lo fosse anche il cuore, era
impossibile. E quindi non capiva, sapeva solo che il suo
papà non
voleva più averla attorno e che le avrebbe dato un altro
schiaffo se
non avesse imparato a scrivere da sola.
Osservò
il foglio sulla scrivania, lasciato lì tutto scarabocchiato
un'ora
prima. Ci aveva provato a scrivere il suo nome e cognome ma non le
veniva proprio in mente l'ordine delle lettere e a furia di
cancellare i tratti della matita, aveva finito per bucare il foglio.
Fino
al mese prima avrebbe pianto, sarebbe corsa dal suo papà,
lui
l'avrebbe presa sulle ginocchia e le avrebbe stretto la mano,
guidandola a scrivere su un altro foglio nuovo. Ora, se gli avesse
fatto vedere cosa aveva combinato a furia di cancellare, si sarebbe
presa un altro rimprovero.
Per
la prima volta in vita sua voleva essere come Bella o Jeremy. I suoi
fratelli erano ben accetti dal loro padre, a lui piaceva prendersi in
braccio quella marmocchia che non sapeva nemmeno camminare e parlare
e Jeremy, che invece sapeva fare tutto. Adesso erano loro i
preferiti, assieme alla mamma. Anche se pure con lei era un po'
cambiato, non capiva in cosa ma li vedeva diversi quando erano
insieme. Gli occhi del suo papà non brillavano
più al vederla e la
sua mamma sembrava tanto stanca e debole adesso. E non rideva
più da
tanto. Tutto il suo mondo era cambiato, la sua famiglia non era
più
tanto bella e unita come prima dell'incidente e nessuno sembrava
volerla più.
Eppure
era bella, lo sapeva. E, come diceva zia Caroline, raffinata come una
principessa. Ma non serviva a nulla essere così perfetta, il
suo
papà non la voleva lo stesso.
La
porta della stanza si aprì dietro di lei e Jeremy le
andò vicino,
chiudendo piano l'uscio. La guardò sul letto e poi
fissò accigliato
il foglio di carta tutto strappato sulla scrivania. "Non hai
fatto niente! Oh Clowance, papà si arrabbia!".
"Ci
ho provato, guarda quanto ho cancellato! Si è strappato
anche il
foglio e io mi sono stancata! Non sono capace".
"Dai,
se ti tiri su ti aiuto io. Se no succede come ieri che ti prendi uno
schiaffo e a me non piace se papà si arrabbia e tu le
prendi".
Clowance
si voltò dall'altra parte, volgendogli le spalle. "No, non
voglio che mi aiuti TU!".
"Ma...".
"TI
HO DETTO DI NO!". Alzò la voce, urlò dalla
rabbia. Non sapeva
perché fosse così furiosa ma lo era e Jeremy,
anche se era gentile,
doveva andar via e lasciarla sola. Non voleva imparare a scrivere con
suo fratello...
Al
suo urlo, la porta si aprì nuovamente. E Clowance,
deglutendo, capì
che c'erano guai in vista. Jud e Prudie erano nei campi, sua madre
era alla miniera a portare dei registri e ora, se suo padre si fosse
arrabbiato, non sarebbe arrivato nessuno a difenderla.
Suo
padre entrò nella stanza con Bella in braccio. Aveva il
consueto
sguardo assente e distante che avevano imparato a conoscere ormai da
oltre un mese e sembrava anche seccato. "Perché stavate
urlando?".
Jeremy
si mise davanti alla scrivania, cercando di nascondere il foglio
strappato col suo corpo. "Niente, ho solo picchiato contro lo
spigolo della sedia e mi è scappato un urlo".
Beh,
Clowance realizzò che Jeremy non era convicente per niente a
dire
bugie. Suo padre lo fece spostare dalla scrivania dandogli una
leggera spinta e poi prese il foglio fra le mani. "Clowance!".
"Ci
ho provato un sacco ma non mi riesce" – sbottò la
bimba.
"Ci
hai provato o hai fatto finta, sperando che poi facesse tutto tuo
fratello?".
Il
tono sospettoso di suo padre la fece arrabbiare ancora di
più. Una
volta le credeva sempre, anche quando diceva bugie. E ora che diceva
la verità, non si fidava più. "Io gli ho detto
che non voglio
aiuto, a mio fratello".
"E'
vero!" - intervenne Jeremy, con urgenza.
Clowance
vide il padre scuotere la testa, quasi gli facesse male. "Bene,
prendi un altro foglio e ritenta finché non riesci".
"Ma
fra un po' si cena!" - lo interruppe, mentre lo stomaco le
gorgogliava.
"Cenerai
quando avrai scritto il tuo nome e cognome correttamente".
"E
se non riesco?".
Suo
padre alzò le spalle, guardandola severamente. "Allora
andrai a
dormire a stomaco vuoto. E sono sicuro che ti servirà da
lezione e
che domani saprai scrivere meglio".
Lei?
A letto senza cena? LEI? "Sei cattivo" – disse. Voleva
urlargli che le sarebbero bastati cinque minuti con lui ad
insegnarle, per imparare. Ma non glielo avrebbe chiesto nemmeno
morta, quello non era più il suo papà. E lei non
era più la figlia
preferita. Più lo guardava e più si convinceva
che lui non la
volesse lì assieme a suo fratello e a sua sorella, che lei
ormai gli
dava fastidio. Se no l'avrebbe aiutata e non l'avrebbe mandata a
letto senza mangiare.
Decise!
Le spiaceva per la mamma e anche per Jeremy che le voleva bene, ma in
quella casa dove non era più voluta, non ci sarebbe rimasta.
C'erano
nonno Martin e nonna Diane a Londra, loro le volevano davvero bene e
le stavano vicino in tutto. E se a casa sua non c'era più
posto –
e cibo – per lei, sarebbe scappata e andata da loro.
L'avrebbero
adottata e lei avrebbe avuto ancora qualcuno che le voleva bene.
Alzò
lo sguardo, guardando suo padre con aria di sfida, ormai convinta
della sua scelta. "Io non sto qui fino a notte a scrivere!".
"E
allora, preparati a digiunare! E non aspettarti che cambi idea, lo
impedirò anche a tua madre".
Clowance
alzò le spalle. "Non so se ci riesci, di solito vince lei".
"Non
questa volta, te lo assicuro!" - rispose lui, prendendo Jeremy
per mano. "Sei sempre più odiosa e insopportabile,
starò bene
a non averti sotto gli occhi a cena" – disse, chiudendole la
porta in faccia.
Una
volta sola, Clowance rilasciò la tensione accumulata,
buttandosi sul
letto. Rimase ferma e zitta piangendo per lunghi minuti quel suo
papà ora tanto freddo e distante, prima di alzarsi e
iniziare a
prepararsi per il suo piano. Frignare non sarebbe servito a niente,
scappare avrebbe risolto ogni suo problema!
Prese
un vecchio zaino di stoffa dall'armadio e ci ficcò dentro
alla
rinfusa i suoi vestiti preferiti. Prese la sua bambola Ginevra,
chiamata così in onore di re Artù che era della
Cornovaglia come
lei e la cui storia le aveva raccontato suo padre, e infine una
vecchia coperta. In fondo faceva freddo e il viaggio fino a Londra
sarebbe stato lungo.
Mentre
si preparava sentiva le risate di Bella in salotto e Jud e Prudie che
litigavano per qualcosa... E sentì anche la sua mamma e il
suo papà
che litigavano per qualcosa, forse per lei. Andarono avanti a
discutere a lungo e Clowance per un attimo sperò che la sua
mamma
venisse da lei per dirle che poteva cenare e che il papà si
era
sbagliato. Ma non venne e a un certo punto nella casa calò
un
silenzio pesante. Finì di preparare lo zaino, fuori c'era
ancora
luce ed era l'ideale per andarsene e quindi, anche se aveva un po'
paura, le sarebbe bastato aprire la finestra, scavalcare e poi
correre veloce verso i campi e il bosco.
Fece
per uscire, quando si ricordò di qualcosa a cui teneva tanto
quanto
la bambola Ginevra. Si avvicinò alla scrivania dove ancora
c'era
quel dannato foglio strappato, aprì il cassetto e prese uno
dei
draghi di carta che suo padre le aveva fatto mesi prima per giocare
assieme. Quello era un drago speciale e il suo papà si era
esercitato a farglielo per una notte intera.
"Voglio
un drago con due teste! Così quando giochiamo a fare la
guerra io ti
batto perché sputa fuori il doppio del fuoco".
"Ma
Clowance, non sono capace".
"Ma
se ti impegni e impari papà, poi ci riesci!".
Sorrise
il suo papà, scompigliandole i capelli. "Sai, credo che
stanotte non dormirò e troverò un modo per
fartelo, questo drago a
due teste".
Aveva
mantenuto la promessa il
suo papà, quella volta. Al mattino le aveva fatto trovare il
drago
di fianco al cuscino ed era stata la prima cosa che aveva visto in
quella giornata, appena aperti gli occhi.
Ora tutto
aveva un sapore
diverso però, ora il suo papà non le avrebbe
più costruito nemmeno
un drago con una sola testa. E non le avrebbe più
accarezzato
nemmeno i capelli. E nemmeno l'avrebbe presa in braccio.
Osservò
quel drago di carta
che aveva tenuto ordinatamente al sicuro per tanti mesi in un
cassetto. Rappresentava un papà che non c'era
più. Era bellissimo
quel drago di carta, ma ora non lo riusciva più a guardare
come un
tempo, ora le faceva male averlo fra le mani. Inspirò, prese
coraggio e lo accartocciò fra le mani, prima di strapparlo e
ridurlo
in coriandoli che poi gettò nel camino, con le lacrime che
le
rigavano il viso. Ecco, aveva deciso! Se lui non la voleva
più,
nemmeno lei lo voleva più. Non lo avrebbe più
cercato, non gli
avrebbe mai più chiesto niente. Se ne sarebbe stata sempre
lontana e
lui avrebbe perso la figlia migliore del mondo! E magari un giorno
avrebbe pianto per riaverla ma lei sarebbe stata la
figlia-principessa di nonno Martin e nonna Diane e non lo avrebbe
degnato di uno sguardo. I draghi ora, se voleva, li poteva costruire
per quella sorellina che nemmeno sapeva camminare ancora e che non
sarebbe stata capace di giocarci!
Si mise una
mantellina sulle
spalle, spalancò la finestra, scavalcò il
davanzale e uscì fuori,
col suo zaino pieno di oggetti e ricordi. Non si voltò
nemmeno una
volta a guardare casa sua, non voleva vedere più niente. Le
sarebbe
mancata solo la mamma. E forse Jeremy... E forse forse pure Bella...
Magari anche Jud e Prudie ogni tanto... Ma il suo papà per
lei non
esisteva più!
Corse come
una forsennata,
faceva freddo e l'erba era ghiacciata, le solleticava le gambe e la
faceva rabbrividire, aveva fame e avrebbe voluto cenare ma per
fortuna questo non era un problema per lei: anche rimanendo a casa
avrebbe digiunato lo stesso e quindi tanto valeva correre via da quel
posto dove non era più voluta.
Si
addentrò nel bosco,
evitando il sentiero principale per non rischiare di incontrare i
minatori che tornavano a casa dal lavoro. E solo quando fu senza
fiato rallentò, camminando a zig zag fra prati e piante.
Conosceva
quel tratto di
strada, lo faceva ogni tanto con la mamma quando andavano a trovare
sua sorella Julia al cimitero. Era infinitamente incuriosita da una
grossa villa che superavano sempre camminando velocemente
perché
alla mamma quel posto evidentemente non piaceva. A lei invece
affascinava tanto, era una villa come quella delle fiabe, lo pensava
ogni volta che ci passavano.
Beh, tanto
valeva darci un
occhio, visto che ora poteva decidere da sola cosa fare. Si
avvicinò
pian piano al sentiero che conduceva all'ingresso e poi si
fermò
davanti al cancello che per qualche strano motivo era socchiuso. Non
si era mai avvicinata tanto e ora voleva dare un'occhiata.
Si
guardò attorno guardinga,
constatando che non c'era nessuno, poi entrò.
I prati
erano curatissimi,
l'erba era meravigliosa e morbida e la casa, vista da vicino, era
ancora più grande e maestosa.
Attenta a
non farsi vedere,
sfilò a gattoni sotto le finestre, sbucando poi sul retro
dove, a
sorpresa, giocava un bambino che poteva avere circa la sua
età.
Era
lì da solo, vestito come
un principino, a giocare con una palla di stoffa. Era stupita, non
credeva che lì ci vivessero dei bambini, non ne aveva mai
visti.
Saltò su dal suo nascondiglio, avvicinandosi a lui. Non lo
aveva mai
incontrato in giro, nemmeno alla scuola per i figli dei minatori che
frequentava con Jeremy. Era un po' pallido, magrolino e coi capelli
ricci e nerissimi, sembravano quelli del suo papà,
pensò
fugacemente. "Ciao!" - disse, tutto sommato felice di
essere a contatto con un altro bambino.
Lui si
voltò verso di lei,
spalancando gli occhi stupito. Si guardò attorno, quasi
spaventato
dalla sua presenza lì, prima di tornare a guardarla di
nuovo. "E
tu chi sei? Come hai fatto ad entrare?".
"C'era il
cancello
aperto!".
"Si
perché papà deve
uscire a cavallo coi suoi uomini per del lavoro".
"Oh...". La
parola
'papà' la irritava ultimamente. "Senti, io sto scappando di
casa ma magari posso fermarmi un po' a giocare con te se non vai col
tuo papà a cavallo".
Il bimbo la
guardò
incuriosito. "Scappi di casa? Perché?".
Clowance
alzò le spalle.
"Così, per i soliti motivi per cui si scappa di casa di
solito!
Mio papà è diventato un po' stupido e non mi
vuole più bene e ho
deciso di andare a Londra dai miei nonni per farmi adottare".
Al bambino
scappò una risata
e si mise una mano sulla bocca. "I papà non vogliono mai
troppo
bene ai figli, il mio non mi parla ad esempio, ma mica scappo. Anche
se non mi porta a cavallo con lui io resto qui e se vuoi stare un po'
a giocare puoi farlo, tanto la governante arriverà fra
un'ora a
chiamarmi per la cena". Le si avvicinò, guardandola con
attenzione. "Come mai hai lo zaino?".
Clowance lo
guardò storto.
Era un po' strano e stupido quel bambino. "Per portare via le
mie cose! Scusa, tu scapperesti da casa senza niente?".
"Boh, non
ci ho mai
pensato!" - rispose lui, guardandola pensieroso.
Scosse la
testa. "Sei
proprio stupido! Più della mia sorellina piccola".
"Anche io
ho una
sorellina piccola!" - esclamò lui – "Si chiama
Ursula! E
ho anche un fratello più grande che però non vedo
mai perché
studia lontano e che si chiama Geoffrey Charles".
Clowance
spalancò gli occhi.
"Siamo uguali! Pure io ho un fratello più grande e una
sorella
più piccola, si chiamano Jeremy e Isabella-Rose. E tu come
ti
chiami?".
"Valentin
Warleggan!"
- rispose lui, in tono solenne.
"Io
Clowance Poldark".
Valentin le
sorrise. "Siamo
uguali davvero anche per i papà. Nemmeno il mio mi vuole
bene, mi
sa! Non mi parla mai, sembra che gli do fastidio. Gli piace
più mia
sorella piccola ma io proprio no".
Clowance
scosse la testa
sospirando. "Guarda, ti capisco...". Poi le balenò un'idea
in testa, un'idea eccezionale. "Senti, scappa con me e vieni a
Londra! Se tuo papà non ti vuole e non piangi troppo senza
mamma,
puoi venire con me e farti adottare dai miei nonni! Loro saranno
contenti, pensa che non hanno mai avuto bambini".
Valentin
spalancò gli occhi
con un filo di terrore nel volto, ma poi parve considerare l'idea.
Fece rimbalzare la palla a terra un paio di volte, come per
concentrarsi a prendere una decisione. "Ma sei sicura che
adottano anche me, se vengo? In due magari gli costiamo troppo da
mantenere".
"Guarda che
sono ricchi,
mica gli costa darci da mangiare".
"E allora
vengo con te"
– disse lui, deciso.
Clowance
sorrise, sarebbe
stato bello avere un compagno di viaggio. "Non frignerai senza
mamma, vero? Mi sembri uno che frigna...".
Lui scosse
la testa. "La
mia mamma è morta quando è nata mia sorella
Ursula, due anni fa. Ci
sono abituato a essere solo e senza di lei".
Clowance
abbassò lo sguardo,
un po' in imbarazzo davanti a quella confessione, rendendosi conto
che gli spiaceva per lui. Non avrebbe mai immaginato che al mondo
esistessero bambini senza mamma e si chiese come poteva essere vivere
così, senza averla vicino, con pure un papà nei paraggi che non ti
parla. Pensò alla sua di mamma, rendendosi conto che le
mancava
già... "E allora ci conviene correre prima che ci scoprano"
– disse, per darsi coraggio e scacciare la nostalgia.
"C'è
un problema!"
- disse lui.
"Quale?".
"Lo zaino!
Io come faccio
a farmelo senza essere scoperto?".
Clowance
alzò le spalle. "Dai
fa niente, a Londra i nonni ci compreranno abiti e giocattoli nuovi,
non ti serve in fondo".
"Sai la
strada per
Londra?".
"Certo, ho
fatto in
carrozza la strada un sacco di volte assieme alla mia famiglia. Ci
andiamo spesso, mia mamma lì è importante, lei ha
una banca e tante
cose da gestire, è una donna famosa e potente la".
Valentin
era sempre più
sorpreso. "Siamo davvero uguali allora, anche il mio papà ha
una banca a Londra! Ed è un importante uomo d'affari! E qui
ha tante
miniere".
"Pure il
mio di papà ha
una miniera anche se adesso non ci va!". Clowance sorrise,
prendendogli la mano. "E allora, Valentin, dobbiamo proprio
scappare insieme! Siamo ugualissimi. Dobbiamo correre ed essere
veloci però, se no ci riprendono subito".
"Io non
sono tanto bravo
a correre".
Clowance
intrecciò le dita
con le sue. "Beh, imparerai". Lo tirò dietro, prese a
correre e lo costrinse a fare altrettanto. E insieme scomparvero nei
boschi della Cornovaglia.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
"Mi
fa male il fianco, proprio quì, a sinistra".
Clowance
si bloccò, alzando gli occhi al cielo. Poi si
voltò verso il suo
improvvisato compagno di viaggio che camminava più lento di
una
lumaca e si lamentava da interminabili minuti. "Senti, il male
al fianco a me viene solo quando corro tanto e ora non stiamo
correndo! Come fai ad averlo? Stiamo solo camminando".
"Beh,
a me fa male lo stesso! Mica sono abituato a camminare, io. E ho
anche fame, è ora di cena".
Scosse
la testa, esasperata. Non avevano fatto chissà quale
camminata,
forse era un'ora scarsa che si erano allontanati dalla casa di
Valentin ed era impossibile che fosse già così
stanco. Però in
effetti aveva fame pure lei... "Senti, se ci sbrighiamo,
riusciamo ad arrivare alla spiaggia e possiamo riposarci e
nasconderci in qualche grotta. Per la fame non possiamo farci molto,
non ho niente con me. Ma vicino al mare potremo riposarci".
Valentin
si appoggiò a un ramo, ansimando. "Si ma sai, io prima ero
rachitico e non camminavo mai! E' la prima volta e non so se resisto
a camminare fino al mare".
Spalancò
gli occhi, sorpresa da quella strana parola che lui aveva appena
pronunciato e che lei non aveva mai sentito. "Cosa? Ratic...
Rachisico? Che vuol dire?".
"Si
dice RACHITICO! Vuol dire che non ho le ossa forti e che mi stanco!
Ora però sono guarito, ma mi stanco lo stesso".
Clowance
sbuffò, stanca di sentire le sue frottole. Gli si
avvicinò, lo
prese per il polso e gli diede uno spintone, costringendolo a
riprendere il cammino. "Per me non hai niente, sei solo una
lagna e un pigro! Vedrai che se ti abitui a camminare, ti passa
tutto".
"Mi
fa male il fianco" – si lamentò lui, costretto a
seguirla,
nonostante tutto.
"Ohhh,
sta zitto!". Clowance si isolò da lui, finse di non sentirlo
lamentarsi e proseguì a spron battuto, trascinandoselo
dietro.
Quando
giunsero al mare, Valentin aveva le guance rosse come pomodori, il
fiato corto e uno sguardo omicida che le rivolgeva non troppo
velatamente. "Morirò per colpa tua!".
Clowance
ridacchiò, indicandogli la spiaggia. "Ma almeno morirai
davanti
al mare! Guarda che bello!".
Valentin
si voltò, rimanendo a bocca aperta. Le onde del mare in
tempesta si
infrangevano con violenza sul bagnasciuga e sullo sfondo il sole che
calava sembrava gettarsi nell'acqua, rilasciando in essa bagliori
dorati. "Oh, è bellissimo!" - mormorò estasiato,
guardando la spiaggia completamente deserta davanti a loro.
Clowance
sorrise. Aveva ragione, non era malato, era bastato portarlo al mare
e farlo pensare ad altro, per fargli dimenticare il dolore al fianco.
"Sai, ci venivo una volta qui, a giocare nel mare, con mamma e
papà. E con mio fratello e mia sorella".
Valentin
spalancò gli occhi. "Tu venivi qui a giocare con la tua
famiglia? E che facevate?".
"Beh,
mamma si metteva un vestito leggero e provava a leggere e
papà per
scherzo la prendeva in braccio e la buttava in acqua. E poi..."
- gli occhi di Clowance si riempirono di nostalgia a quei ricordi
–
"E poi faceva lo stesso con me e Jeremy. Non con Bella però,
lei è piccola! E poi facevamo tanti castelli di sabbia e
papà ci
inseguiva di corsa dove si infrangono le onde! Cercavamo i granchi e
a volte pescavamo. Cose così, insomma!".
Valentin,
a bocca aperta, era rimasto ad ascoltarla in silenzio. "Allora
mi hai detto una bugia! I tuoi genitori non sono persone importanti,
le persone importanti non giocano in spiaggia e non fanno il bagno
nel mare".
"Perché?"
- chiese Clowance, piccata.
Valentin
alzò le spalle. "Beh, non lo so perché! E'
così e basta, non
si fa, non è da buone maniere! Le persone importanti
studiano col
precettore, giocano a scacchi e vanno a caccia a cavallo. E comandano
tutto e tutti, come fa mio padre coi suoi minatori".
"E
chi lo dice?" - sbottò Clowance, dandogli una spinta.
"Mio
padre!".
"Tuo
padre è stupido! Mio papà non comanda nessuno,
nemmeno i suoi
minatori! Mio papà lavora con loro ed è per
questo si è fatto
male".
Valentin
si imbronciò. "Beh, il tuo papà è un
popolano se fa queste
cose!".
Clowance
fece un sorrisetto maligno, sapeva come colpirlo e affondarlo. "Beh,
meglio un papà popolano che uno come il tuo, che nemmeno ti
parla
mai". Certo, pensò, nemmeno suo padre giocava più
con lei e
nemmeno le parlava. Però una volta le aveva voluto bene...
Valentin
sospirò, giocando distrattamente con un piedino a smuovere
la
sabbia. "Forse hai ragione, magari è divertente fare quello
che
fai tu con la tua famiglia. Ma io non ho mai giocato in spiaggia, di
solito sto in giardino a giocare da solo. O al massimo vado con
Ursula e la sua tata a fare una passeggiata nel bosco".
"Che
vita noiosa, Valentin" – concluse lei, ormai dimentica della
lite di poco prima. Gli faceva un po' pena quando diceva quelle cose
della sua vita.
Valentin
si avvicinò a una siepe dentro cui, spontanei, crescevano
degli
strani e grossi fiori rossi. Ne strappò alcuni,
porgendoglieli. "I
gentiluomini regalano fiori alle signore! Toh!".
A
quel gesto, Clowance arrossì, anche se non ne capiva il
motivo.
"Grazie" – disse, osservandoli fra le sue mani. Li
rigirò
fra le dita, poi ridendo se li mise nei capelli. "Ora sembro
quasi una signora di città".
Valentin
rise. "Mica tanto, ma sei migliorata! E per quanto riguarda la
fame, ho in tasca del cioccolato e delle caramelle, se vuoi dopo li
dividiamo e ce li mangiamo. Londra è lontana, giusto? E
dobbiamo
essere in forze per raggiungerla".
A
quelle parole, la speranza prese possesso di nuovo di lei. Caramelle?
Cioccolata? In fondo aveva fatto bene a portarselo dietro. "Ohhh
Valentin!" - esclamò, abbracciandolo – "Sei
fantastico
anche se ti lamenti! Tu mi dai da mangiare, io da coprirti! Ho nello
zaino una coperta per la notte".
Il
bimbo rise. "Sei fantastica pure tu! Mi insegni a giocare in
spiaggia adesso?".
"Anche
se non è da signori?".
"Si!".
Clowance
annuì, lo prese per mano e corsero giù, verso il
mare. Appena
arrivati sulla riva, la bimba si tolse le scarpe e le calze,
invitando Valentin a fare altrettanto.
Il
bambino ci pensò un attimo su. "Ma non avremo freddo?" -
chiese, togliendosi in modo titubante i suoi stivaletti di cuoio.
"No
se corriamo forte!". Clowance lo prese di nuovo per mano e lo
trascinò sul bagnasciuga, dove si infrangevano le onde.
Presero a
correre come forsennati, dimenticando fame e stanchezza, mentre
l'acqua fredda solleticava loro i piedi e le gambe. Non importava
molto però, iniziarono a ridere e pure Valentin, dopo un
inizio un
po' timoroso, lasciò la sua mano e prese a correre
più forte di
lei.
Saltarono
nell'acqua, ci corsero e si tirarono addosso schizzi e sabbia,
fregandosene del fatto che era inverno e il mare gelido. In fondo, a
sei anni, questo era di scarsa importanza.
Valentin,
preso da quel gioco che non aveva mai fatto, si rotolò nella
sabbia
che, bagnato com'era, gli si appicciò a pelle e vestiti.
Clowance
scoppiò a ridere ancora più forte, rendendosi
conto che era da
tanto che non si divertiva così. "Ahah Valentin, questo
è
proprio poco da signori! E un po' da stupidi".
"Perché?"
- chiese lui, mettendosi seduto nella sabbia, sporco dalla radice dei
capelli alla punta dei piedi.
"Perché
tu non hai abiti di cambio, io si!".
"Mica
è un problema!". Valentin si tirò su, immerse le
gambe nude
nell'acqua e si lavò. Poi si scosse i vestiti e i capelli,
lasciando
cadere un po' di sabbia. "L'altra verrà via quando
sarà
asciutta" – disse, con semplicità.
Clowance
annuì. In fondo era davvero simpatico e per niente male.
Certo, ci
sarebbe voluto del tempo per farlo diventare meno imbranato ma
lì,
su quella spiaggia, si era resa conto che poteva anche diventare un
buon compagno di giochi. Il suo stomaco brontolò, mentre
formulava
quei pensieri, ricordandosi che aveva fame. Era ormai quasi buio e
l'ora di cena doveva essere passata. "Senti, ma quelle caramelle
e quella cioccolata di cui parlavi prima?".
"Li
ho in tasca! Si saranno bagnati un po', però".
Clowance
gli indicò col dito a nord, in fondo alla spiaggia dove si
ergevano
alte rocce. "La in fondo c'è una grotta. Possiamo andare ad
asciugarci lì, così potremo anche mangiare. Fa
niente se la
cioccolata sarà un po' salata, anche se magari potevi
pensarci prima
a togliertela dalla tasca. Una volta mangiato, dovremo cercare della
legna per accendere un fuoco, se no moriremo di freddo stanotte. E
domani mattina riprenderemo la strada per Londra".
"E
se rimanessimo a vivere qui al mare? Sarebbe divertente" –
propose lui, mentre si dirigevano verso la grotta.
"Vero,
ma siamo troppo vicini a casa e ci troverebbero. Mamma conosce questa
spiaggia, ci siamo venuti spesso, te l'ho detto".
Valentin
sospirò, sconsolato. "Allora giocheremo sulle rive del
Tamigi".
"Oh,
mica è la stessa cosa!".
"No,
non lo è, hai ragione Clowance".
Arrivarono
alla grotta. Si sedettero dietro una roccia per essere riparati dal
vento e divorarono tutta la tavoletta di cioccolata che Valentin
aveva con se. Clowance propose di tenere le caramelle per la
mattinata successiva e il bimbo fu costretto ad arrendersi a
quell'ordine, anche se aveva ancora fame. "Senti, ma se tu e la
tua famiglia facevate cose tanto divertenti, perché sei
scappata?".
"Te
l'ho detto, mio padre ha avuto un incidente ed è diventato
un po'
strano e stupido. Non mi vuole più bene. Vuole anche che
imparo a
scrivere da sola, non mi aiuta più".
Valentin
alzò le spalle. "Beh, è normale che devi imparare
a scrivere.
Anche mio padre vuole la stessa cosa".
"Si,
ma mio papà prima mi aiutava a fare le cose che non riuscivo
a fare
da sola".
Valentin
si buttò a terra, pensandoci su. "Boh, i papà
sono strani a
volte. E la tua mamma com'è?".
Clowance
sorrise dolcemente a quella domanda. Le mancava la sua mamma,
tantissimo, tanto che sentì gli occhi che le pungevano al
suo
ricordo. "Lei è bellissima e sa fare tante cose. E' buona e
gentile, ma ultimamente è davvero stanca e triste da quando
papà si
è fatto male. Lei mi canta tante canzoni e mi consola se
cado e mi
sbuccio un ginocchio, cucina cose buonissime e mi aiuta a farmi il
bagno. E la sera mi da un bacio sulla fronte e io so che
dormirò
benissimo per questo. Quando litiga col papà, alla fine
vince sempre
lei. Mi fa ridere quando fanno così, quando urlano e poi
fanno la
pace e alla fine si fa come diceva lei all'inizio. Il mio
papà
diceva che la mamma era il suo tesoro più grande e secondo
me ha
ragione".
"Dev'essere
bello avere una mamma" – commentò laconicamente
Valentin.
"E
dev'essere brutto non averla" – rispose Clowance, guardandolo
furtivamente.
Valentin
sospirò, mettendosi le mani dietro la nuca. "Sai, mia mamma
non
la ricordo tanto, però ecco... Mi ricordo che era sempre
molto
elegante e che non faceva le cose che fa la tua, lei non correva in
spiaggia e non giocava con l'acqua del mare col papà. Loro
non
parlavano molto, mi pare... Suonava l'arpa e a volte si metteva con
me alla scrivania a fare un disegno. Però il bacio della
buona notte
me lo dava anche lei".
"Beh,
forse quello lo danno tutte le mamme del mondo" – concluse
Clowance, intrecciando le braccia al petto. Iniziava a fare freddo.
"Stai
tremando" – commentò Valentin, osservandola.
"Sì,
dobbiamo accendere un fuoco".
Il
bimbo balzò in piedi. Era già diversissimo da
com'era poche ore
prima, pallido e stanco. Aveva le guance rosse e un aspetto molto
più
in salute rispetto a quando lo aveva visto giocare nel giardino di
casa. "Vado a cercare della legna".
"Vengo
con te".
"No,
faccio da solo. Sai, le buone maniere... Le donne non devono
lavorare".
Clowance
ridacchiò. In fondo queste buone maniere da ricconi non
erano tutte
poi così male. "Oh va bene, ti aspetto qui".
Valentin
scomparve e Clowance rimase sola. Il buio invadeva prepotentemente
ogni cosa e in quel momento, nel silenzio, con solo il fragore delle
onde che si abbattevano a riva, si accorse di avere paura. Era la
prima volta che dormiva lontana da casa, dalla sua mamma e dal suo
papà... E da Jeremy e Bella... Deglutì,
rendendosi conto che le
mancava la sua casa e che ora che era scappata, non avrebbe
più
potuto tornarci. Tirò su col naso, asciugandosi le lacrime
con la
manica del suo vestito. Se Valentin fosse tornato e l'avesse vista
piangere, le avrebbe dato della frignona e non lo avrebbe sopportato.
Secondo i suoi piani, il frignone doveva essere lui, non lei!
Valentin
tornò circa mezz'ora dopo, senza nemmeno un legnetto con se.
Ma fra
le braccia, con suo sommo stupore, notò che teneva
qualcos'altro.
"Che cos'è?" - disse, osservando una massa di pelo che si
muoveva fra le braccia del suo amico.
Valentin
ridacchiò e, dopo aver allungato le braccia verso di lei,
gli mostrò
ciò che aveva raccolto chissà dove. "E' un
cucciolo, l'ho
trovato fra le rocce, vicino alla sua mamma morta. Non so
perché è
morta ma lui piangeva come un pazzo e così l'ho sentito e
sono
andato a prenderlo".
Clowance
spalancò gli occhi sorpresa, incredula ed eccitata,
dimenticando il
freddo. Corse verso di lui e prese il cagnolino fra le braccia,
stringendolo a se. Era piccolissimo di età, poteva avere al
massimo
un mese o poco più, i suoi occhi dovevano essersi aperti da
poco, il
pelo era lungo e sporchissimo ma doveva essere bianco in origine.
Piangeva spaventato e lei lo abbracciò, accarezzandogli la
testolina
come tante volte aveva fatto con Garrick. "E' bellissimo! Ma
poverino, come farà senza la mamma?".
"Possiamo
tenerlo! Se ti piace tanto, te lo regalo e ce lo portiamo insieme a
Londra dai tuoi nonni".
"Davvero
me lo regali? Sai, io fino a poco fa avevo un cane ma è
morto".
Valentin
annuì. "Si, te lo regalo, a me i cani fanno un po' paura.
Quelli di papà abbaiano sempre tanto quando li porta fuori a
caccia.
Mordono!".
"Ma
questo è un cucciolo, i cuccioli giocano, mica mordono"
– gli
rispose Clowance, cercando di tranquillizzare la bestiola.
"Si
ma poi cresce!" - rispose Valentin, con ovvietà. Le si
avvicinò
di alcuni passi, osservando il cagnolino. "Per essere nato da
poco, è bello grosso, da grande sarà un gigante"
– disse,
guardandolo attentamente. "E' un maschio, ho guardato e ha il
pisellino".
A
quelle parole, Clowance ridacchiò. Era strano parlare di
cose così
con Valentin, di solito era con Jeremy che andava a sbirciare se i
vitellini appena nati fossero maschi o femmine... "Bene, come
Garrick!".
"E
questo come lo chiamerai?".
Clowance
fece alcuni passi, camminando avanti e indietro pensierosa. Poi si
fermò, illuminandosi in viso. "Sarà il mio cane e
sai, il mio
papà diceva sempre che sono una principessa. E una
principessa deve
avere un cane con un nome importante e io so qual'è quello
giusto
per lui".
"E
qual'è?".
Clowance
si sedette per terra, tutta soddisfatta, lasciando che il cucciolo le
leccasse il viso. "Artù! Come re Artù che
è nato qui in
Cornovaglia tanti anni fa. Mio papà mi ha raccontato la sua
storia,
quella di Lancillotto, Ginevra e dei Cavalieri della tavola rotonda.
Erano tutti forti e coraggiosi, anche Morgana che era cattiva. Ma
Artù era il re ed era il più forte di tutti".
Valentin
rise. "Artù! Mi piace".
"Anche
a me". Clowance prese il cucciolo fra le braccia, sollevandolo
per guardarlo meglio. Aveva un muso tenerissimo, un nasino nero nero
e il pancino ancora rosa. Era piuttosto pesante, segno che la madre
doveva averlo nutrito bene fino a poco prima. L'unico neo era che era
incredibilmente sporco. "Domani ti faccio un bagno in mare, hai
un nome da re e devi essere pulito come un re" –
commentò.
Valentin
le andò vicino, ricordandosi che aveva qualcosa da fare, che
aveva
dimenticato quando aveva visto il cucciolo. "La legna! Ora torno
indietro e vado a cercarla".
Clowance
annuì. Era strano, non era più stanco, sembrava
solo contento ed
eccitato da quella loro avventura. Era stupita, pensava avrebbe
pianto ma evidentemente, a differenza sua, non sentiva nostalgia di
casa. "Va bene, io e Artù ti aspettiamo qui".
Lo
guardò correre via. Era incredibile,
non pensava che si sarebbe trovata tanto bene con lui. Non aveva mai
avuto un amico vero e non si era mai trovata particolarmente bene coi
bambini della scuola che frequentava. Aveva sempre giocato con Jeremy
e trovava piacevole la compagnia della piccola e delicata Sarah, la
figlia di Dwight e Caroline, ma mai aveva avuto un compagno di giochi
che fosse solo suo. Se
non fosse stato che era veramente lento a camminare, che in certe
cose le sembrava più stupido di Bella e che non si era
portato
dietro nessun abito di cambio, Valentin non era così male.
Certo,
non sapeva arrampicarsi sulle staccionate come lei e non era capace
di apprezzare del tutto la vita all'aperto, ma
le aveva regalato quei fiori che si era messa nei capelli, le
uddidiva e in fondo era simpatico e per nulla piagnucolone. Correre
con lui sul bagnasciuga del mare e
giocare nell'acqua era
stato divertente poi, anche se era rimasta stupita che non l'avesse
mai fatto prima. E poi aveva trovato Artù. E lei, grazie a
lui,
aveva di nuovo un cane.
C'era
solo un problema, le mancava la sua mamma... E avrebbe voluto che il
suo papà corresse a cercarla. Non li
avrebbe più rivisti e la nostalgia la invase. Strinse a se
Artù, si
stese a terra ed aspettò che Valentin tornasse con la legna.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
Demelza
cavalcava come una forsennata, da sola, nel buio della sera della
Cornovaglia. Era un misto di sentimenti fortissimi e contrastanti, un
fascio di nervi e preda di una terribile sensazione di pericolo
incombente e paura.
Era
preoccupata, spaventata, disperata e incredibilmente arrabbiata. Con
Clowance, certo. Lo sapeva da sempre, dal suo primo vagito, che
sarebbe stata la figlia che l'avrebbe fatta dannare più di
tutti.
Testarda, fiera e orgogliosa come suo padre, vanitosa, vivacissima e
allo stesso tempo aggraziata come una piccola principessa che non
accetta compromessi e vuole tutto e subito. Un mix del genere non
avrebbe potuto far altro che procurarle guai... Ma soprattutto, era
arrabbiata con se stessa per non essere intervenuta prima e con
fermezza nella disputa fra padre e figlia che si era creata dopo
l'incidente in miniera. E poi c'era Ross ed era furente anche con
lui. Sapeva che ce la stava mettendo tutta per rendersi utile ma pure
nella malattia e preda dell'amnesia, pareva poco propenso ad
accettare consigli e assolutamente caparbio nel fare di testa sua.
Quando
era tornata dalla Wheal Grace e aveva scoperto che l'aveva messa in
castigo e minacciata di farle saltare la cena, si era arrabbiata ma
si era pure morsa le labbra ed era stata zitta per non sminuire la
figura di Ross agli occhi di Clowance. Ma quando Jeremy, entrando
nella cameretta, non aveva più trovato la sorella e aveva
notato la
finestra aperta, l'ansia e la rabbia si erano impossessati di lei,
assieme alla paura. Clowance non c'era da nessuna parte. E nemmeno la
sua bambola preferita! Non ci voleva un genio per capire che fosse
scappata e il pensiero della sua piccola bimba da sola, al buio e al
freddo della notte, l'avevano terrorizzata all'istante. Si sarebbe
presa a schiaffi da sola per aver permesso che succedesse una cosa
simile, per aver fatto sentire la sua bambina talmente poco amata da
spingerla a scappare. Per Clowance era difficile avere a che fare con
un padre tanto diverso da prima e Ross sembrava non capire quanto la
figlia si sentisse spersa e alla sua incessante ricerca. Aveva sei
anni e cercava di attirare l'attenzione con gli unici modi che poteva
conoscere: capricci e dispetti.
E
lei... Lei non era intervenuta, troppo stanca, troppo preoccupata e
presa da mille cose, troppo intenta a piangersi addosso per quanto
successo a Ross.
Gli
si era scagliata contro, appena scoperto l'accaduto, mentre Prudie e
Jud si preparavano ad uscire per cercare la bimba.
"Come
hai potuto permettere che succedesse una cosa del genere? Cosa
pensavi di ottenere facendo il padre duro e rigido? Tu gli sei sempre
stato vicino, l'hai sempre spronata con dolcezza a fare le cose e
l'hai sempre aiutata dove non riusciva da sola! Questo eri tu, per
lei!".
Ross
si oscurò. "Credevo di fare del bene. Mi dispiace, non
pensavo
che sarebbe scappata".
A
quelle parole, la tentazione di urlare fu più forte di
tutto, per
lei. "Non potevi saperlo perché non la conosci, ORA! Non
ricordi chi sei, non ricordi chi siamo noi e se solo mi avessi
ascoltato, nostra figlia adesso sarebbe al caldo e al sicuro, in
casa. Non in fuga chissà dove, perché pensa che
non gli vuoi più
bene".
Ross
abbassò il viso. "Esco a cercarla".
Demelza
avrebbe voluto essere felice di quella sua iniziativa, sapeva che si
sentiva in colpa e che era confuso e preoccupato, ma non avrebbe
permesso a un ulteriore guaio di angustiarla, per quella sera. "Non
ricordi nulla di questi posti, rischieresti di perderti anche tu!
Esco io, a cavallo, conosco i posti che lei conosce e farò
prima, da
sola. Tu ti perderesti e mi rallenteresti, mi dispiace ma devi
rimanere. Sta tranquillo, la troverò e la
riperterò a casa e d'ora
in poi sarò io a pensare a lei e alla sua educazione. Questo
finché
non avrai imparato a conoscerla, di nuovo".
"Ma...".
Demelza
guardò Jud, decisa a porre fine alla conversazione con suo
marito.
Il servo indossava il mantello e aveva già pronta una
lanterna in
mano. "Andrai con lui, se proprio te la senti di uscire, Ross.
Controllate a piedi i dintorni, mentre io mi allontano a cavallo".
Poi guardò Prudie, desiderosa anch'essa di intraprendere le
ricerche. "Tu resterai a casa, ad occuparti di Jeremy e Bella.
Ti prego Prudie, ne ho bisogno".
La
serva annuì. "Sì signora".
Jeremy
le andò vicino, mentre si metteva il mantello per andare a
cavallo.
Ci si aggrappò, strattonandolo. "Mamma, riporta a casa
Clowance, ti prego! E' mia sorella e se non sa fare i compiti,
l'aiuto io".
"Certo,
tesoro" – disse, baciandolo sulla fronte.
Non aveva
lasciato a Ross il
tempo di controbattere. Tutto era sulle sue spalle dall'incidente e
non aveva tempo da perdere. Voleva solo ritrovare la sua bambina,
abbracciarla, sgridarla, tranquillizzarla e riportarla a casa.
Pregò
Dio, pregò sua madre e pregò anche la sua piccola
Julia affinché
Clowance stesse bene. Solo questo contava in quel momento per lei!
Cavalcò
costeggiando le
scogliere, a lungo, incurante del freddo e del buio. Qualcuno avrebbe
potuto dire che non era il comportamento adatto ad una signora, ma in
quel momento – e forse, in generale, sempre – le
importava
davvero poco.
Sulla
strada vide altri uomini
a cavallo che galoppavano come pazzi e le parve di riconoscere alcuni
degli scagnozzi di George Warleggan. Si chiese brevemente cosa
stessero cercando, ma fu solo un attimo. Aveva cose più
importanti
da fare, che pensare a George.
Fece mente
locale sui luoghi
che Clowance conosceva e frequentava e in cui avrebbe potuto
nascondersi. La miniera? No, non la amava particolarmente, troppo
sporca per i suoi gusti e soprattutto troppo vicina alla sua scuola.
Il villaggio dove andavano a fare compere era troppo lontano
perché
lo avesse raggiunto a piedi, Clowance sapeva che non avrebbe fatto in
tempo prima che arrivasse buio e sua figlia era piccola ma non certo
stupida. C'era però un posto dove avrebbe potuto trovarla,
un posto
che amava, non particolarmente lontano, di cui conosceva ogni angolo
o anfratto: la spiaggia dove, in estate, Ross portava tutti loro a
giocare al mare era il luogo perfetto per Clowance, dove passare la
notte. Lì doveva cercare, per prima cosa. E poi man mano
spostarsi
altrove, nel caso non l'avesse trovata. Non aveva idea di cosa si
fosse messa in testa ma sapeva che Clowance era abbastanza furba da
saper scegliersi un nascondiglio sicuro, per la notte. Anche in
questo era come suo padre, piena di risorse davanti ad ogni
evenienza.
Giunse alla
spiaggia dopo una
cavalcata forsennata e nervosa. Tutto era avvolto da calma e
silenzio, così in contrapposizione coi suoi sentimenti. Si
guardò
attorno, camminando nella sabbia fredda, con le redini in mano.
Il mare era
tornato alla
calma, dopo un pomeriggio intero in cui era stato mosso e in
tempesta, e le onde si infrangevano tranquille sulla battigia.
Demelza
camminò lentamente,
quasi desiderosa di fondersi con quell'atmosfera di pace e
tranquillità. Ne aveva bisogno, disperatamente. Avrebbe
voluto
piangere ed urlare, lasciarsi andare alla disperazione e
all'angoscia, sprofondare nella sabbia ed aspettare che qualcuno
arrivasse ad asciugare le sue lacrime e a consolarla. Ma sapeva che
non sarebbe arrivato nessuno e sapeva anche che non poteva
permettersi nemmeno il lusso di sperarlo. Lei era la moglie di Ross,
un uomo che in quel momento era malato e bisognoso di cure e
attenzioni. Ed era la madre di Jeremy, Clowance e Isabella-Rose.
Venivano prima di tutto, anche di se stessa. E se per prendersi cura
della sua famiglia doveva annullarsi, lo avrebbe fatto
finché ne
avrebbe avuto le forze fisiche e mentali. Non era tempo di piangere e
non lo sarebbe stato a lungo...
Improvvisamente,
la sua
attenzione fu catturata da un rivolo di fumo che fuoriusciva da una
grotta in fondo alla spiaggia. Il suo cuore perse un colpo mentre la
speranza aumentava in lei. Chi poteva esserci a quell'ora, in
spiaggia? Certo, potevano benissimo essere contrabbandieri... Ma
magari...
Lasciò
le redini e si mise a
correre come una forsennata, dimenticando prudenza e paure. Se
laggiù
c'era la sua bimba, lei doveva raggiungerla subito.
Ma appena
fu davanti a quel
piccolo fuoco improvvisato, non fu la sua bimba che vide. Ma un
piccoletto circa della stessa età, intento a gettare
legnetti nella
brace. Era magrolino, coi capelli pieni di riccioli scuri, vestito
con abiti eleganti e dai modi di fare piuttosto aggraziati. Si
bloccò, chiedendosi che cosa ci facesse un bambino del
genere lì,
da solo, in spiaggia e di notte.
Il piccolo
si voltò verso di
lei, accigliato. "Oh, e tu chi sei?" - chiese, guardingo,
guardandosi attorno.
Demelza
sospirò. Se tanto gli
dava tanto, sua figlia non era l'unica ad essere scappata di casa,
quel giorno. Ci mancava solo questa! "Chi sei tu? E che ci fai
qui?".
"Accendo il
fuoco per non
morire di freddo!" - rispose lui, sicuro.
Demelza
alzò gli occhi al
cielo. Beh, non intendeva essere sfrontato, questo era chiaro,
però
lei non aveva tempo da perdere. Stava per dire qualcosa quando una
vocina, dalla grotta, la raggiunse.
"Con chi
stai parlando?".
Demelza si
voltò, mentre il
cuore le batteva forte. Era la SUA vocina, quella della sua bambina.
Dimentica del piccolo fuochista, corse all'interno della grotta,
chiamando il nome di sua figlia con disperazione.
Corse, e
finalmente la vide.
Se ne stava seduta contro una roccia, rannicchiata e avvolta in una
logora coperta. "Clowance!" - sussurrò, quasi stentando a
credere di averla trovata. Voleva abbracciarla, scuoterla,
picchiarla, baciarla e poi abbracciarla di nuovo. Era talmente felice
e allo stesso tempo furente con lei, che non sapeva come avrebbe
reagito una volta che l'avesse avuta sotto mano.
La bimba
restò a fissarla con
gli occhi spalancati, stupiti e attoniti. Rimase sulle sue solo pochi
istanti però. Si morse il labbro, gli occhi le diventarono
lucidi e
poi si alzò di scatto, correndole incontro e saltandole al
collo.
"Mamma!" - esclamò, stringendosi a lei.
"Clowance!".
Demelza
la abbracciò, stringendola a se con la stessa disperazione e
forza
con cui l'aveva stretta fra le braccia il giorno in cui era nata.
Solo questo poteva fare, per ora. Si sentiva come quel giorno di
più
di sei anni prima a Londra, si rese conto, spersa, impaurita e senza
appigli, piena di incognite per il futuro e senza certezze. Ma ora
aveva la sua bimba accanto a se, ora poteva tirare un sospiro di
sollievo almento per quello. Pianse, in silenzio, accarezzando i
lunghi capelli rossi della sua bambina. Poi la guardò,
asciugandole
le lacrime che, anche a lei, rigavano il viso. Era scappata di casa,
certo. E il tempo del castigo e della sgridata sarebbe arrivato
presto per questo, ma non era il momento ora. Avvertiva quanto fosse
spaventata e allo stesso tempo sollevata di essere stata ritrovata.
"Non hai idea della paura che mi hai fatto prendere".
"Mi
dispiace, mamma. Io
non volevo spaventarti, ma però... Papà...
Lui..." - disse la
piccola, con foga.
"Lo so!" -
le
rispose con fermezza, cercando di rassicurarla. "Ora andrà
tutto bene, ci penserò io. Ma tu non fare mai più
una cosa del
genere, non hai idea della paura che abbiamo avuto".
Clowance
spalancò gli occhi,
asciugandosi le lacrime con la mano. "Anche papà?".
"Anche
papà, certo".
Demelza le scostò i capelli dalla fronte, baciandola. "Cosa
ci
fai qui? Cosa volevi fare, dove volevi andare?".
"Da nonno
Martin e nonna
Diane a Londra. Volevo che mi adottavano, visto che papà non
mi
vuole più".
Demelza
sorrise tristemente, a
quelle parole, leggendovi in esse tanto dolore e tanta disperazione.
"Certo che ti vuole. Sai, lui ora è malato ma l'amore per te
non è scomparso. Ha semplicemente perso un po' la strada che
dal suo
cuore porta alla sua testa. E sta a noi aiutarlo a tornare come
prima".
"Ma
però" –
obiettò la bimba – "A Jeremy e Bella vuole ancora
bene".
Demelza
scosse la testa,
cercando le parole per aiutarla a tranquillizzarsi. "Ne vuole
anche a te, sta tranquilla".
"Come fai a
saperlo?".
"L'ho
sposato!".
In quel
momento la coperta con
cui Clowance si era riparata dal freddo fino a poco prima, si mosse.
E da essa, come per magia, uscì un cucciolo bianco e
piuttosto
sporco che, guaendo, sembrava cercare di attirare attenzioni su di
se. Camminava in maniera sgraziata, doveva essere molto piccolo di
età, i movimenti erano ancora scoordinati e i lamenti erano
da
cucciolo nato da poco. Per un attimo lo fissò e basta,
ricordando il
giorno in cui aveva trovato Garrick tanti anni prima. Quel cucciolo
un po' glielo ricordava, in maniera dolorosa.
"Lui
è Artù!" -
disse Clowance, quasi leggendole nel pensiero.
Bene, ora
doveva essere
arrabbiata anche per questo! "Clowance, lo sai cosa penso dei
cani!".
La bimba
abbassò lo sguardo.
"La sua mamma è morta e lui piangeva. Lo ha trovato il mio
amico la fuori, che sta accendendo il fuoco. E me lo ha regalato.
L'ho chiamato Artù, come il re".
In quel
momento, a quelle
parole, il cane passò in secondo piano per Demelza. Il
bambino del
fuoco, già, se n'era dimenticata! "Chi è quel
bambino?" -
chiese con urgenza alla figlia.
"Mi chiamo
Valentin
Warleggan".
La vocina
del bambino giunse
alle sue spalle a sorpresa e, assieme a quel nome pronunciato a mezza
voce, le fece venire la pelle d'oca. Era arrivato senza che se ne
accorgesse, mentre era presa ad abbracciare e a tranquillizzare sua
figlia. Si voltò verso di lui, fissandolo meglio, mentre i
ricordi
lontani di un passato che ancora sapeva farle male, tornavano a
galla.
Lo
guardò, così magro, così
ricciolino, così simile a... Le venne in mente Elizabeth, la
notte
terribile in cui Ross era andato da lei cedendo a quell'antico amore,
il dolore che aveva provato, i tre anni a Londra da sola coi suoi
bambini, l'incontro di quattro anni prima nel bosco, con la sua
antica rivale che teneva per mano quello stesso bambino che ora aveva
davanti. Il figlio di George... O il figlio di Ross...
Elizabeth
era morta ormai da
due anni ma era come se il suo fantasma aleggiasse sempre sulla sua
testa. Non per Ross, lui la sua scelta l'aveva fatta ed era certa che
ne fosse felice. Ma era lei che, ogni tanto, si fermava a chiedersi
per quanto tempo ancora quella notte orribile avrebbe continuato a
condizionare la sua vita. Ora, guardando quel bambino, si rese conto
che quella condizione sarebbe durata per sempre. Lui esisteva e la
sua mente non riusciva ad ignorarlo! Non riusciva ad essere razionale
come suo marito, concentrata solo su coloro che considerava i veri
affetti della sua vita, la sua mente vagava anche oltre e in un certo
senso il ricordo di quella notte, nonostante il matrimonio felice con
Ross, avrebbe continuato a tormentarla. Soprattutto in un momento
della sua vita come quello.
E ora
averlo davanti,
inaspettatamente, peggiorava le cose. Provava una specie di
repulsione verso di lui, al solo pensarlo. E ora che ce l'aveva
davanti, anche se si sentiva in colpa per questo, la cosa non
cambiava chissà che. Era orribile pensare una cosa del
genere di un
bambino che non aveva colpe, ma non riusciva a farne a meno. Avrebbe
voluto prendersi in braccio la sua Clowance, correre con lei verso il
suo cavallo e lasciarselo alle spalle. Ma di certo non poteva farlo,
lo sapeva. Era l'unica adulta in quella spiaggia e la
responsabilità
di quel bambino dipendeva da lei. "Valentin Warleggan di
Trenwith House?" - chiese, sentendosi stupida perché sapeva
già
la risposta.
Il bimbo
annuì. "Sì.
Voi siete la mamma di Clowance?".
"Si"
– rispose
Demelza, freddamente. "Cosa ci fai qui?".
Clowance
intervenne,
incuriosita da quella strana atmosfera. "L'ho conosciuto oggi
pomeriggio per caso e gli ho chiesto se voleva scappare di casa con
me. Mi ha detto di sì, ha un papà che non gli
parla mai e che vuole
bene solo a sua sorella piccola".
Demelza
alzò gli occhi al
cielo, avendo finalmente chiaro il quadro della situazione. Non solo
aveva a che fare con QUEL bambino che mai avrebbe voluto incontrare,
ora avrebbe dovuto anche accompagnarlo a casa e sorbirsi le urla di
George Warleggan che gli avrebbe rinfacciato quanto la sua bimba
avesse messo in pericolo il suo piccolo erede. Scosse la testa,
immaginando già il proseguio della serata. "Devo riportarvi
a
casa, tutti e due" – disse, risoluta.
"Io non
voglio tornare a
casa, sto bene qui" – rispose Valentin, sicuro.
Clowance
abbassò lo sguardo,
sbadigliando. "Io forse un po' di voglia ce l'ho, ma...".
Fissò Artù che, insistentemente, cercava di
arrampicarsi sulle sue
gambe.
Demelza
capì subito cosa
volesse dire, fermandola fermamente. "No, il cane non viene, sai
come la penso!".
"Ma mamma,
morirà qui da
solo!".
"Non voglio
cani, fine
del discorso" – ribadì Demelza, cercando di
ignorare il
visino di quel grazioso cucciolo. Sapeva che da solo non sarebbe
sopravvissuto, ma non se la sentiva di riprovarci di nuovo, dopo il
dolore per la morte di Garrick.
Clowance si
imbronciò, si
mise le mani sui fianchi ed indietreggiò. "E allora, mi sa
che
resto qui pure io con Valentin. Non torno a casa se lui non puo'
venire con me. Io non abbandono un mio amico".
A quelle
parole così uguali a
quelle che lei stessa aveva pronunciato a Ross tanti anni prima, il
giorno in cui si erano conosciuti, Demelza sussultò. In lei
rivedeva
la se stessa bambina, senza appigli, con un cane come unico amico.
Capiva come si sentisse Clowance, il senso di protezione e il
sentimento di affetto che la legava a quel cane. Quel giorno, Ross
aveva ceduto. E lei non poteva fare diversamente. Inspirò
profondamente, cercò in se il coraggio per aprirsi a un
nuovo
affetto e alla fine annuì. "Va bene, ma dovrai prendertene
cura
tu. Sarà il TUO cane e ne sarai responsabile".
"Mamma!!!"
- esclamò
Clowance, abbracciandola felice.
"Andiamo a
casa, ora?"
- chiese Demelza.
Clowance,
prendendo in braccio
Artù, annuì. "Sì, a casa".
Valentin
abbassò lo sguardo e
non disse nulla. Si vedeva che era in difficoltà, impaurito
e per
nulla entusiasta davanti alla prospettiva di tornare a Trenwith, ma
Demelza non poteva fare altrimenti. Capiva come si sentiva e poteva
immaginare che vivere con un padre come George Warleggan non fosse il
massimo del divertimento. Ma non c'erano alternative o meglio, non ce
n'erano che lei potesse accettare...
Inspirando
nuovamente, si
avvicinò a lui, cercando di apparire gentile e credibile.
"Vieni,
andiamo. Parlerò io con tuo padre, lo conosco e sono sicura
che
riuscirò a convincerlo a non essere troppo severo"
– disse,
porgendogli la mano.
Valentin
annuì, poco
convinto. Poi, con titubanza, guardandola in viso, le prese la mano e
la strinse.
Demelza, a
quel contatto,
sentì le viscere rivoltarsi nel suo ventre, ma
cercò di ignorare
quella sensazione sgradevole. Era un bambino, solo un bambino...
"Andiamo" – disse, prendendo Clowance con l'altra mano.
Valentin
continuò a guardarla
con uno sguardo strano e insistente. Poi osservò Clowance.
"Beh,
hai una mamma coraggiosa! Chissà se anche mia mamma sarebbe
uscita
di notte, da sola e a cavallo, a cercarmi".
Demelza
sorrise
sarcasticamente. Elizabeth di notte, da sola e a cavallo era
un'eresia! No, lei era una damina che aspettava davanti alla finestra
e diceva e non diceva e faceva in modo che gli altri agissero per
lei.
"Mamma, sai
che la mamma
di Valentin è morta? Non ho mai conosciuto nessuno senza
mamma"
– esclamò Clowance.
"Si, lo so".
"La
conoscevate?" -
chiese Valentin, incuriosito.
"Sì,
la conoscevo".
"Com'era?"
- chiese
il bambino.
"Una mamma,
uguale a
tutte le altre mamme" – rispose. Era il meglio che potesse
dire e fare. Non voleva parlar male di Elizabeth anzi, non voleva
parlarne affatto, faceva parte del suo passato e non era lì
a
controbattere a ciò che lei avrebbe potuto dire. Provava un
sentimento di umana pietà per il fatto che non avesse potuto
vivere
la maternità e i suoi figli, ma finiva tutto lì.
Le aveva fatto
troppo male ed erano due donne troppo diverse per avere qualcosa in
comune.
Giunsero al
cavallo e Demelza,
prendendoli in braccio, li mise in sella. E lentamente, mentre
Artù
trotterellava dietro di loro, si diresse verso Trenwith.
Quando vi
giunsero, un
drappello di uomini correva avanti e indietro con delle torce,
guardati a vista da George Warleggan che dava ordini a destra e a
manca.
Quando li
vide arrivare, il
suo socio in affari spalancò gli occhi nel vedere il suo
bambino a
cavallo, con la figlia di Ross accanto a lui.
Demelza gli
si avvicinò,
cercando di mantenere la calma. "Tutto questo baccano suppongo
che sia a causa sua" – disse, indicando Valentin che, dalla
sella, guardava il padre con terrore.
George la
guardò con furore
negli occhi, la sorpassò senza dire nulla e raggiunse il
figlio,
tirandolo giù dal cavallo con uno strattone, prima di dargli
un
violento schiaffo in viso. "Questa me la paghi" – disse,
come se parlasse al suo peggior nemico e non al figlio di sei anni
che, quasi senza fiato, lo guardava con occhi sgranati dal terrore.
A quel
gesto, Demelza fu punta
sul vivo. Anche se Valentin le risvegliava sensazioni negative,
odiava veder maltrattare un bambino. "George, trattenetevi,
è
solo un bambino ed è fuggito di casa spinto da mia figlia.
Me ne
assumo ogni responsabilità. Ma non siate violento con lui,
per
favore".
George si
voltò verso di lei,
osservandola nello stesso modo spiacevole in cui la guardava alle
riunioni del consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank. "Voi
e i vostri figli selvaggi, avete messo in pericolo mio figlio. E per
quanto riguarda lo schiaffo, meglio un padre violento che uno
assente, se mi spiego...".
Ignorò
il senso di quella
frecciatina rivolta ovviamente a Ross e deglutì, cercando un
modo
per fargli sbollire la rabbia in maniera costruttiva. Fece scendere
dal cavallo Clowance, la obbligò a scusarsi e poi
incitò George a
mandare i bambini in giardino per salutarsi e permettere loro di
parlare in privato.
Stranamente,
George
acconsentì.
"Signora
Poldark, capite
la gravità di quanto successo? Valentin non si è
mai allontanato da
Trenwith da solo, è cagionevole di salute e ancora inadatto
alla
vita fuori casa".
Demelza
annuì, non poteva
dargli torto. "Lo so e mi dispiace, non immaginavo che mia
figlia avrebbe fatto una cosa simile e di certo non avrei mai creduto
possibile che conoscesse Valentin" – concluse, osservando i
due bambini che, in lontananza, giocavano col cucciolo.
George le
si avvicinò,
prendendole improvvisamente il polso ed attirandola a se. La
guardò
negli occhi in un modo penetrante e che le era sconosciuto, con una
strana serietà nello sguardo. "Voi capite che questa cosa
è
deleteria, vero? Capite che i bambini non dovranno più
vedersi,
giusto? E capite anche il perché, potrei scommetterci!".
Sospirò,
lo capiva ed era
d'accordo. Valentin e Clowance non avrebbero avuto per sempre sei
anni e non voleva assolutamente rischiare che, crescendo, quella
amicizia potesse eventualmente trasformarsi in qualcosa d'altro. Era
un'eventualità che la faceva inorridire e che avrebbe
cercato in
ogni modo di non fare accadere. Non sapeva se George si riferisse a
questo o se i suoi trascorsi con Ross fossero la causa delle sue
parole, ma per una volta era d'accordo con lui. "I bambini si
saluteranno questa sera e non si vedranno mai più".
"Bene".
George le
lasciò il braccio, allontanandosi di alcuni passi. "Io e
voi...
Noi due Demelza, dobbiamo convivere con gli errori di Ross e con le
conseguenze che hanno portato... Mi capite, vero?".
Deglutì,
capendo bene a cosa
si riferisse, senza che fosse stato esplicito. "Si". Era
sorpresa che ne parlasse, seppur non in modo diretto. Credeva che non
avesse certezze, anche se la somiglianza di Valentin e Ross era
evidente. Ma in realtà lui sapeva, quanto lei. E in questa
cosa
erano in un certo senso 'alleati', anche se odiava ammetterlo.
Vivevano sulla loro pelle le conseguenze di quella notte terribile di
sette anni prima, non c'era bisogno di dirselo esplicitamente ma era
così. Si trovò a pensare che era davvero strano
condividere
qualcosa con George ed essere dallo stesso lato della barricata.
Strano e per nulla piacevole...
"Io lo so
Demelza, l'ho
sempre saputo che non eravate a Londra per affari e che la
separazione da vostro marito fosse dovuta a ben altri motivi.
Sospetti, ma che col tempo e guardando attentamente fatti e
persone... e bambini... sono diventati quasi realtà...
Capite
ancora, vero?".
"Si".
"Bene,
allora prendete
quella selvaggia di vostra figlia e portatela via da qui. E fate in
modo che questa conversazione di questa sera fra noi, resti SOLO fra
noi per sempre".
Demelza
ubbidì, senza
replicare per una volta. Voleva andarsene da lì, lasciare
George e
dimenticarsi dell'esistenza di Valentin. Richiamò Clowance e
la
intimò di salutare Valentin. La piccola salutò
con la manina,
convinta che lo avrebbe rivisto presto. La prese in braccio, le diede
Artù e poi montò anch'essa a cavallo, lasciandosi
Trenwith alle
spalle. "Sei in castigo" – le disse, appena furono da
sole.
"Mamma...".
Demelza
odiava essere dura
perché sapeva quanto fosse difficile per lei quella
situazione, ma
non poteva lasciar correre quanto successo. "Hai messo in pericolo te
stessa e tutti noi che ti siamo venuti a cercare e hai
fatto una cosa brutta e grave. Hai guadagnato un cucciolo, ma avrai
anche un castigo. Da domani terrai pulita la stalla e ti occuperai
degli animali per due settimane".
"Ma la
stalla puzza! Ed è
sporca".
Demelza
alzò le spalle,
divertita nonostante tutto. "Beh, ti farai un bagno, di sera".
Clowance
sospirò. "Quando
potrò tornare a giocare con Valentin?".
"Mai
più". Lo disse
senza mezzi giri di parole, non c'era troppo da dire, nonostante
tutto.
"Perché?
E' mio amico".
"Lo so, ma
non lo vedrai
più lo stesso. I motivi sono tanti e sei troppo piccola per
capirli.
Farai come dirò io e basta!".
Clowance si
mise a piangere,
ma Demelza non si fece intenerire. Era per il suo bene, per quello
della famiglia e anche per Valentin. Non dovevano vedersi, presto si
sarebbe dimenticata di lui e l'avventura di quella giornata sarebbe
diventata uno sbiadito ricordo d'infanzia, ne era certa.
Quando
giunsero a Nampara,
Ross e Jud erano rientrati. Prudie e i bambini erano ancora svegli e,
appena la videro, le corsero incontro per abbracciare Clowance.
Jud
sospirò sollevato e Ross
la squadrò, prima lei e poi la bambina. "Sta bene?" -
chiese.
"Bene. E ho
già
stabilito il suo castigo".
Suo marito
non disse nulla,
non si avvicinò e non parlò con la bimba, le
diede una veloce
occhiata fredda e poi salì le scale, diretto verso la sua
camera.
Era arrabbiato, preoccupato e ora anche sollevato dal fatto che la
avesse ritrovata, lo capiva. E allo stesso tempo era spaventato dal
non sapere come rapportarsi alla bimba, preferendo il silenzio al
rischio di fare ulteriori danni. Certo, Clowance avrebbe voluto una
sua reazione, ma per il momento Demelza stabilì che era
meglio così.
La piccola
abbracciò il
fratello e la sorellina, guardando sconsolata la scala dove era
scomparso il padre. Poi prese Artù, facendolo vedere a
Jeremy e
Bella.
I suoi
figli si illuminarono
in viso, felici ed eccitati.
"Abbiamo un
cane?" -
gli chiese, Jeremy.
Demelza
annuì. "Un cane
sporco, da lavare e che mordicchierà ogni cosa come tutti i
cuccioli. Dovrete averne cura, mi raccomando. E dovrete anche fargli
il bagno, domani".
Jeremy e
Clowance si
guardarono con sguardo complice, molto simile a quello di un tempo,
quando vivevano soli a Londra.
Demelza
sorrise, incitandoli
però ad andare a letto. Per fortuna era finito tutto per il
meglio.
...
Jeremy era
arrabbiato
nonostante il cucciolo che, tranquillamente, era saltato sul suo
letto alla ricerca di coccole. "Dovevi dirmi che scappavi di
casa, ti avrei seguita".
"Tu non hai
motivi per
scappare".
"Si, ma
dove volevi
andare?".
Clowance si
stese sul letto,
incrociando le braccia dietro la nuca. Gli raccontò della
sua
giornata, di Valentin, dei loro giochi in spiaggia, della strana
famiglia del suo amico e di come avessero trovato Artù. Poi
gli
confidò che la destinazione era Londra, da nonno Martin e
nonna
Diane.
Jeremy
sbuffò. "Ecco,
vedi? Dovevi dirmelo, soprattutto se volevi andare a Londra".
"Perché?".
Il bimbo si
sedette accanto a
lei, prendendole la mano. "Londra era casa nostra, lo ricordi?
Eravamo solo tu ed io, mamma stava sempre fuori a lavorare. E se ci
vai e ci vuoi vivere, io vengo con te come una volta. Curavamo la
casa e le nostre cose insieme e se ci andavi, io dovevo esserci".
"Già,
scusa".
Clowance si rannicchiò sopra le coperte, pensierosa. Mentre
sua
madre parlava col padre di Valentin, aveva captato pezzi della loro
conversazione che non aveva capito e che magari suo fratello avrebbe
potuto spiegarle. Stava ancora male per la decisione di non vedere
più Valentin, oltre per il fatto che suo padre l'aveva
ignorata
anche quando era tornata dopo la fuga, e aveva mille domande in
testa. "Jeremy, tu sai perché quando vivevamo a Londra,
papà
non c'è stato per tanto?".
Jeremy
scosse la testa. "No,
mamma diceva solo che aveva tanto da fare. Perché me lo
chiedi?".
Clowance
alzò le spalle,
sospirando. "Prima, quando abbiamo riaccompagnato a casa
Valentin, il suo papà ha detto a mamma una cosa sul nostro
papà di
quando eravamo a Londra. Non ha detto che cosa, ma mamma ha capito lo
stesso. E io ho sentito, anche se ero un po' lontana".
"E cosa ha
detto?" -
chiese Jeremy.
"Ha detto a
mamma che lui
e lei devono riparare all'errore di papà e alle sue
conseguenze e
non so che errore è perché non lo hanno detto ma
mamma ha capito.
Lui ha detto... che in fondo lo sapeva che quando era a Londra era
per quello che aveva fatto papà ".
Jeremy
restò per un attimo in
silenzio. "Non so cosa voleva dire, Clowance. La mamma diceva
solo che papà non poteva vivere con noi perché
era impegnato
lontano".
"E tu gli
credi?".
Jeremy
scosse la testa. "No,
non ci ho mai creduto. Forse dovremmo chiederlo alla mamma".
Clowance
abbracciò il
cuscino, pensierosa, mentre Artù la raggiungeva e si
rannicchiava
sul suo petto. "Meglio di no" – disse, accarezzandolo.
"Perché?".
La bimba
scosse la testa. "Non
lo so perché, ma credo che non mi piacerebbe saperlo".
Jeremy
sospirò, dandole
ragione. "Va bene. Ma mi giuri che se hai dei problemi, invece
che scappare, vieni da me. Ti aiuto io al posto di papà,
come quando
eravamo a Londra".
Clowance
sorrise, lo abbracciò
e gli diede un bacio sulla guancia. "Va bene, te lo prometto".
Si rese conto che Jeremy non era male come fratello e che averlo
vicino, a Londra, era stato bello. E si accorse di essere felice che
ci fosse e che le volesse bene.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
Le
spiaceva aver dovuto dare quella punizione a Clowance ma di certo non
poteva lasciar correre che fosse scappata di casa. Doveva fare in
modo che non le venisse più in mente di fare nulla del
genere e
obbligarla a tener pulita la stalla e l'aia era un buon modo per
aiutare sua figlia a ricordare la lezione.
Certo,
immaginava perfettamente quanto sua figlia odiasse quel lavoro.
Clowance era nata per essere coccolata, per fare la signorina per
bene, per essere ammirata, per essere sempre al centro
dell'attenzione e riverita.
E
ora era in cortile, coi suoi lunghissimi e lucidi capelli rossi
legati in una coda di cavallo, con vestitini modesti, che accatastava
i ciocchi della legna che Jud aveva spaccato quella mattina.
Riusciva,
dalla finestra della sua camera, a percepirne lo sguardo imbronciato
e offeso. Però, notò con stupore, stava lavorando
con lena, senza
risparmiarsi nel fare quello che lei aveva stabilito fosse il suo
compito per il pomeriggio. Prendeva uno ad uno i ciocchi, li portava
sotto la veranda e li accatastava ordinatamente.
Aveva
accato a se i fratelli e lei aveva fatto finta di non accorgersene.
Sapeva che Jeremy voleva aiutare la sorella e sapeva anche quanto suo
figlio fosse diventato un punto di riferimento per Clowance, dopo
l'incidente di Ross. Per questo l'aveva lasciato fare, senza
intervenire affinché facesse tutto da sola. Jeremy la stava
aiutando
e parevano divertirsi molto insieme, mentre lavoravano. Ridacchiavano
e scherzavano insieme e in questo rivedeva molto il legame che
avevano una volta, a Londra, quando Ross non c'era. Jeremy allora era
molto protettivo con la sorellina e lei lo guardava come si guarda a
un eroe. Suo figlio era molto sensibile e capiva forse meglio dello
stesso Ross lo stato d'animo della sorella e si prendeva cura di lei
in maniera impeccabile, facendo di tutto affinché fosse
serena. La
inteneriva il comportamento di Jeremy, così maturo,
così dolce e
attento, nonostante avesse solo nove anni. Era fiera di lui e grata
che stesse accanto a Clowance a quel modo, lei ne aveva bisogno e lui
pure, probabilmente, in un momento del genere.
Accanto
a loro c'era Bella che un po' gattonava e un po' cercava di tirarsi
su nell'aia. Era piena di terra dalla testa ai piedi e pronta per un
bagno nella tinozza, ma instancabilmente seguiva i due fratelli in
tutti i loro movimenti, ridendo divertita assieme a loro.
Artù,
il cucciolo trovato da Clowance tre giorni prima, durante la sua
fuga, si era subito ambientato alla sua nuova casa e ora seguiva i
bambini in tutti i loro giochi, come in quel momento, dove non
mollava Bella nemmeno per un attimo e camminava accanto a lei che
gattonava e ogni tanto lo guardava e rideva, tirandogli le orecchie o
il pelo del petto. Lui, come tutti i cuccioli, non se ne lamentava ma
prendeva tutto come fosse un gioco, reagendo alle attenzioni della
bimba in modo festoso.
La
notte dormiva in una cesta nella camera dei bambini e non si
svegliava che di mattina, quando si alzavano per andare a scuola.
Era
un cucciolo molto buono, dolce e a suo modo educato, non sporcava in
casa e si faceva fare di tutto, persino il bagno, senza protestare.
"ARTU'!!!".
La
voce di Clowance la fece sussultare. Aveva urlato talmente forte da
far tremare i vetri della stanza. Si affacciò e
scoppiò a ridere
vedendo il cucciolo che, quatto quatto, ogni volta che Jeremy e
Clowance si voltavano, andava alla pigna di legna accatastata e,
ciocco dopo ciocco, ributtava tutto in giro, convinto di giocare.
Demelza
si mise la mano davanti alla bocca per non scoppiare a ridere troppo
fragorosamente e non essere sentita. Clowance e Jeremy, come dei
pazzi, correvano dietro al cagnolino che sguazzava felice per il
prato con un pezzo di legno in bocca e Bella, seduta, rideva e
batteva le manine divertita.
Demelza
si perse a guardarli, rendendosi conto che era da tanto che non si
sentiva serena e che non rideva di gusto. La paura per la fuga di
Clowance non l'aveva ancora abbandonata e la situazione con Ross era
difficile da gestire. Erano lontani, distanti. E lei era stanca e si
sentiva persa senza di lui e senza l'amore e la complicità
che da
sempre li univa.
Rivoleva
il suo uomo, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, amava
ogni cosa di lui, anche i lati che la facevano arrabbiare da morire.
Era testardo, a volte scontroso, incosciente e scapestrato. Ma aveva
un cuore d'oro, una nobiltà d'animo rara, era dolce ma non
sdolcinato, era tenero quel giusto che riusciva ancora, dopo tanti
anni di matrimonio, a scaldarle il cuore e a sorprenderla nei momenti
in cui meno se lo aspettava. Le mancavano le loro lunghe
chiacchierate la sera, i suoi baci, il contatto fisico con lui, la
passione, la complicità, le risate e gli scherzi
camerateschi che li
univano ogni volta che si trovavano faccia a faccia.
E
se tutte queste cose fossero andate perse per sempre? Era Ross che
aveva ancora davanti ma non lo riconosceva nella sua freddezza, nel
suo modo di fare distaccato e scostante, sia con lei che con i
bambini.
Quasi
intuendo di essere al centro dei suoi pensieri, Ross entrò
nella
stanza. Era a petto nudo, aveva appena fatto un bagno e stava
cercando una camicia che, dai suoi movimenti goffi davanti
all'armadio, evidentemente non trovava.
"Lascia
stare, te la prendo io". Demelza gli si avvicinò, rovistando
fra la biancheria piegata.
"Non
devi disturbarti".
Demelza
deglutì davanti a quel tono freddo e distaccato. Era dalla
sera in
cui Clowance era scappata, che era così. Freddo, assente,
quasi
infastidito dalla loro presenza. "Non mi disturbi affatto, sono
tua moglie dopo tutto".
Le
urla e le risate dei bambini li raggiunsero e Ross fece un sorrisetto
sarcastico. "Sembra una cosa molto divertente, questa punizione
che le hai dato" – commentò in modo polemico,
riferendosi a
Clowance.
Demelza
avrebbe voluto rispondere a tono ma si trattenne. Era ancora turbata
ed arrabbiata con lui per la fuga della loro bambina e il ricordo di
Valentin la rendeva piuttosto di cattivo umore, quando ci pensava. "I
bambini riescono a trovare il modo di divertirsi in ogni situazione".
Ross
alzò le spalle. "Se ti va bene così, fa pure. In
fondo quella
esperta in casa, in fatto di educazione, sei tu".
A
quella frase sibillina, non riuscì a trattenersi.
Perché faceva
così? Perché cercava di provocarla? "Io non sono
esperta,
semplicemente li conosco meglio di te, allo stato attuale dei fatti!
Una volta ci occupavamo insieme, di loro. Ora invece non è
più
possibile e non lo sarà finché non sarai guarito.
O finché
comincerai ad usare il cuore nel rapportarti con loro. Non ho
intenzione di uscire di notte, di nuovo, alla ricerca di qualche
nostro figlio scomparso". E così dicendo, gli
lanciò con fare
rabbioso la camicia che aveva tirato fuori dal cassetto.
Ross,
con un gesto secco, si rimise la camicia nervosamente.
"Perché
ti arrabbi? Me ne sto zitto come dici tu, non intervengo in quello
che fai o dici ai bambini e rispetto ogni tua decisione in rigoroso
silenzio".
"Lo
fai per il loro bene, Ross, ho perché ti diverti a fare il
sostenuto
e l'offeso con me?". Odiava discutere con lui, odiava sentirlo
tanto lontano ed era come se fossero tornati a tanti anni prima, a
quando c'era Elizabeth e loro due non riuscivano più a
capirsi.
Ross
si morse il labbro, sedendosi sul letto. "Credi che per me sia
facile?" - disse, sospirando, in tono più conciliante
rispetto
a poco prima. "Io mi sono svegliato in questa casa non sapendo
nemmeno chi ero e c'eri tu, c'erano i bambini e io non avevo idea di
chi foste. Certo, siamo sposati e loro sono i miei figli ma per me
siete estranei. Questa casa mi è estranea! Così
come i modi di fare
e le abitudini di tutti voi, il vostro modo di stare insieme e tutto
quello che pretendete da me. Ci ho ho provato a rendermi utile, ad
avvicinarmi, ma non vi conosco! Mi dici che eravamo felici ed
innamorati e con te avverto solo tensione. Mi dici che ero un padre
innamorato dei miei bambini e che loro lo erano di me ma quando mi
rapporto con loro sono solo problemi. Non so come muovermi, non so
cosa dire, non so cosa aspettarmi da voi e non so cosa voi vi
aspettate da me".
Demelza
lo aveva ascoltato in silenzio, mentre la rabbia lasciava posto alla
tristezza e alla preoccupazione per lui. Era uno sfogo quello di Ross
e lo conosceva abbastanza bene per capire quanto si sentisse
frustrato a non sapere cosa fare. Anche senza memoria, era un uomo
che voleva arrivare dappertutto e in quel momento non aveva i mezzi
per farlo.
Provò
pena per lui. E la voglia di abbracciarlo e di sostenerlo come
sempre. Non aveva voglia di litigare, dopo tutto, non ne aveva avuta
nemmeno durante il loro battibecco di poco prima. Voleva solo che
stesse bene, che fosse sereno e che avvertisse la loro presenza come
qualcosa di piacevole con cui convivere e non come qualcosa da cui
scappare. Da quando si era risvegliato, non avevano ancora avuto un
momento di intimità loro e forse questo avrebbe aiutato
entrambi,
forse lo avrebbe fatto ricordare o forse, semplicemente, avrebbe
riacceso un po' quello che era il loro rapporto.
Gli
si avvicinò, lo fronteggiò viso a viso e gli
accarezzò la guancia
e la mandibola, sfiorandolo piano con l'indice. Poi si sedette sulle
sue gambe e lo sentì irrigidirsi, ma non si fece
scoraggiare. Lo
baciò sul mento, per poi salire fino alle labbra. Ma in quel
momento
lui la fermò, prendendole il polso che stava risalendo sulla
sua
spalla ed allontanando il viso da lei. "No..." - sussurrò,
col fiato corto.
Demelza
sussultò davanti a quel rifiuto. Non era mai successo che la
respingesse, mai! Nemmeno quando aveva in mente solo Elizabeth...
"Ross, ti prego! Sono io, siamo noi! E ho bisogno di te".
Di
tutta risposta, suo marito si alzò in piedi, costringendola
a fare
altrettanto. "Demelza...".
"Cosa?"
- chiese quasi con disperazione, notando quanto fosse titubante in
quel momento. Cosa aveva? Paura? O semplicemente, non era
più
attratto da lei?
Ross
scosse la testa. "Non prendertela ma non posso, non è
giusto.
Io ti trovo bellissima, desiderabile e affascinante, lo vedo che sei
in gamba e forte e sicuramente sei il sogno di ogni uomo. Ed eri il
mio sogno. Ma ora...".
"Ora
cosa?".
"Demelza,
io non so com'ero prima ma non me la sento di fare l'amore con una
donna semplicemente perché ne sono attratto. Certo, sei mia
moglie
ma come ti ho detto prima, per me sei una sconosciuta. E sicuramente
il vero me stesso ti ama alla follia ma io, ora...".
Demelza
sentì gli occhi pungerle. Sapeva che stava per dirle
qualcosa di
spiacevole e terribile, qualcosa che avrebbe spezzato quel poco di
forza che aveva. "Ora cosa? Non mi ami più? E' questo che
vuoi
dire, giusto? Non puoi fare l'amore con una donna che non ami".
Ross
annuì. "Sì. E' giusto così per me. E
soprattutto verso di
te". Guardò il letto, la camera, tutto ciò che
una volta era
stato il loro mondo. "Credo che dovrei dormire in un'altra
stanza, è un po' che ci penso. Sto bene ora, le ferite sono
guarite
e tu sarai più comoda e meno a disagio con la camera tutta
per te.
Per ora... Poi magari, più avanti...".
Demelza
gli voltò le spalle, sentendosi improvvisamente fredda e
svuotata,
senza nulla per cui combattere. Non la amava più e anche se
non era
il vero Ross a dirglielo, era comunque terribile sentirselo dire. Era
sola, dannatamente sola! Come quando era a Londra, ma allora era
stato per scelta. Ora invece era lui che prendeva le distanze, che la
allontanava, che la rifiutava. Sentì che non aveva la forza
di
combattere, di riprovarci, di tentare un nuovo approccio.
Sentì
semplicemente il desiderio di chiudersi in se stessa per non soffrire
più. "Va bene, dì a Prudie di prepararti un letto
in libreria,
se è questo quello che vuoi".
"Mi
dispiace" – provò ad argomentare lui, sentendosi
in colpa.
Demelza
lo guardò brevemente, poi abbassò lo sguardo ed
uscì dalla stanza.
"Non devi chiedermi scusa, come hai detto tu, è meglio
così".
Lo
lasciò solo, comprendendo i motivi che lo spingevano a
comportarsi
così ma allo stesso tempo non riuscendo ad accettarli. C'era
una
frattura enorme fra di loro, adesso. E nemmeno tutto il suo amore
poteva sanarla, non c'era niente che potesse fare se Ross non faceva
il primo passo.
Quasi
in tranche, raggiunse l'aia. I bambini ridevano e sghignazzavano
nella stalla assime a Jud e nel cortile era rimasto solo
Artù che
mordicchiava uno dei ciocchi di legno che aveva rubato.
Si
rese conto che le lacrime le rigavano il viso e che aveva bisogno di
stringere a se qualcosa. Non aveva voluto un altro cane ma ora era
felice che ci fosse quel piccolo cucciolo nella loro vita.
Si
avvicinò, lo prese in braccio e Artù le
leccò il viso e le
lacrime. Era strano, era come se capisse. Anche Garrick era
così,
ora che ci pensava. Quando era triste arrivava da lei come in cerca
di coccole e alla fine era lui che coccolava lei, come se quel suo
bisogno di attenzioni fosse solo una scusa per starle vicino.
Col
cucciolo fra le braccia, tornò in casa e sorpassò
Ross che, in
cucina, parlava con Prudie della sistemazione della notte. Non disse
nulla, non ne aveva la forza, lo ignorò e basta.
Salì
al piano di sopra e tornò nella sua stanza, ora deserta. Si
mise sul letto, lasciando che il cucciolo si muovesse sul materasso.
Era piccolo e curioso come tutti i cuccioli di due mesi, annusava e
toccava con il muso e le zampe ogni cosa e poi le lanciava degli
sguardi furtivi e curiosi, scodinzolando e cercando la sua attenzione
e un contatto con lei.
Demelza, mani nelle mani, lo guardava
rapita, invidiando il suo mondo fatto di giochi e ingenuità.
Era
bellissimo, sarebbe diventato un cane grande e maestoso proprio come
il re di cui portava il nome.
Allungò la mano ad accarezzarlo,
aveva il pelo morbido e fine e profumava di sapone dopo il bagno che
gli avevano fatto i suoi bambini.
Si sentì in colpa per il fatto
di desiderare un contatto, per il desiderio di affezionarsi e
volergli bene. Le sembrava di tradire Garrick ma poi capì
che non
era così. L'amore per Garrick non sarebbe mai finito e il
suo cuore
era grande abbastanza per un nuovo amore che non cancellasse il
ricordo del vecchio. Lo abbraccio' e lo bacio' sulla testolina e
Artù
la lecco' tutto felice sulla guancia. Dopo la terribile giornata con
Ross e quanto si erano detti, quello di Artù era il primo
gesto
d'affetto della giornata.
Lo
strinse a se, cullandosi con lui nel silenzio. Si chiese cosa avrebbe
fatto, come sarebbe riuscita ad andare avanti, come avrebbe spiegato
ai bambini il fatto che il loro papà non dormisse
più con lei.
"Perché proprio a noi?" - si chiese, guardando il
soffitto, mentre Artù le si accucciava sul ventre.
Rimase
così, persa nel nulla, per lunghi minuti. Poi un bussare
violento la
fece sobbalzare assieme al cucciolo.
"Signora!"
- urlò Prudie, da dietro l'uscio.
Demelza
si mise a sedere, sistemandosi i capelli dietro le spalle. "Prudie,
entra! Cosa c'è?".
La
serva entrò, consegnandole una lettera. "E' arrivato un
paggio
dalla casa di Miss Penvenen e del dottor Enys. Mi ha detto di
consegnarvi questo messaggio".
Demelza
prese la lettera, stranita da quel fatto. Perché Dwight e
Caroline
gli scrivevano un messaggio? Non lo avevano mai fatto e le occasioni
di incontrarsi erano sempre molte, per loro. Una strana ansia e uno
strano sesto senso la colsero, facendola rabbrividire. Aprì
la
busta, lentamente, mentre Artù la guardava incuriosito.
E
appena lesse, le si mozzò il fiato.
"Con
immenso dolore, vi comunichiamo che stanotte la nostra piccola Sarah
ci ha lasciati per sempre.
Caroline
e Dwight".
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
Galoppava
come una pazza forsennata, costeggiando a gran velocità le
costiere
battute dal vento della Cornovaglia.
Appena
letto quel dannato biglietto, era uscita di casa di corsa, aveva
farfugliato qualche frase sconnessa a Jud e Prudie circa quella sua
uscita frettolosa e poi si era diretta alla stalla per prendere il
suo cavallo.
Aveva
evitato Ross. Pur nel marasma delle sue emozioni per quanto accaduto
a Dwight e Caroline, non se l'era sentita di renderlo partecipe di
quanto successo. Nelle condizioni in cui era, lui non sarebbe stato
di nessuna utilità alla tenuta dei Penvenen. Non era
più il Ross di
una volta, il migliore amico di Dwight, quello che pochi mesi prima,
a Capodanno, le aveva rivelato quasi in lacrime la terribile malattia
della bambina dei loro amici. E inoltre quanto successo con lui nella
giornata faceva ancora talmente male che desiderava vederlo il meno
possibile. Lo aveva voluto vicino, quel pomeriggio. E ora desiderava
solo che stesse il più lontano possibile da lei.
Ma
in quel momento non importava. Tutto quello che aveva in mente era il
visino dolce e perfetto della piccola Sarah, i suoi capelli biondi e
lisci come seta, il suo sorriso dolce, i suoi modi di fare delicati
cancellati per sempre dalla morte. E poi Dwight, l'uomo più
gentile
e onesto che avesse mai conosciuto, buono come il pane e sempre
pronto a mettersi a disposizione degli altri. E Caroline, la sua
migliore amica, colei che l'aveva generosamente aiutata e salvata a
Londra anni prima, aprendole le porte per un futuro brillante. Lei,
così frivola, civettuola, ammiccante e allo stesso tempo
dolce ed
altruista, come avrebbe fatto a sopportare quella perdita? E come ci
sarebbe riuscito Dwight?
Demelza,
mentre galoppava verso casa loro, non riusciva a non chiedersi cosa
ne sarebbe stato dei suoi due amici, come avrebbero superato quella
tempesta terribile e come avrebbero fatto a non perdere se stessi.
Conosceva quel dolore, sapeva quanto aveva lacerato lei e Ross e
sperava di poter dare loro conforto, anche se serviva a poco, e
insieme qualche utile consiglio, se loro ne avessero voluti.
Quando
arrivò alla dimora dei Penvenen, dove Dwight e Caroline si
erano
trasferiti dopo il matrimonio, il sole stava iniziando a calare.
Bussò alla porta e un servitore venne subito ad aprile.
Demelza
entrò in quella casa dove spesso era stata invitata assieme
a Ross e
ai bambini per un pranzo o una cena fra amici e ricordava le risate,
le chiacchiere, le corse forsennate di Jeremy e Clowance nel grande
giardino della villa con Horace. Ora era tutto desolatamente cupo e
silenzioso. La casa era sempre quella ma era come se al suo interno
fosse stata spenta la luce.
Un
via vai incessante di persone saliva e scendeva le scale. Gente
arrivata da ogni dove e di ogni estrazione sociale erano lì,
a dare
il loro conforto a Caroline e Dwight. C'erano proprio tutti, dai
minatori che Dwight generosamente curava, ai nobili e all'alta
società della zona e di Londra. Molti li conosceva, aveva
trattato
affari con loro, aveva discusso e aveva trovato accordi economici
vantaggiosi quando, ogni volta che tornava nella capitale, si
trasformava nella scaltra donna d'affari che era stata nei tre anni
di separazione da Ross.
La
salutarono tutti, con un cenno rispettoso del capo o con un inchino e
Demelza rispose con cortesia. Poi salì le scale, ma prima di
arrivare all'ultimo gradino fu travolta da un abbraccio convulso, che
quasi le fece mancare il fiato.
Caroline,
informata del suo arrivo da un servitore, le era venuta incontro.
Indossava un abito nero, i suoi bellissimi capelli biondi erano
pettinati e perfetti come sempre, raccolti in una crocchia, e a prima
vista sembrava perfetta ed eterea come sempre. Ma bastava uno sguardo
più attento per capire che non era così. Grosse
occhiaie ne
deturpavano il viso che era ridotto a una maschera di dolore, il suo
colorito era pallido e gli occhi arrossati e completamente asciutti.
Demelza non disse nulla, non c'erano parole da dire o conforti da
dare, c'era solo da stare in silenzio e farle sentire che era
lì
accanto a lei. La capiva, lei più di tutte comprendeva fin
troppo
bene il suo dolore, un dolore forte, lacerante e allo stesso tempo
sordo che toglieva il fiato e che non ti permetteva nemmeno di
piangere. Anche lei, quando aveva perso Julia, aveva pianto
pochissimo e solo molti giorni dopo che la sua bimba se n'era andata.
Le lacrime sono un qualcosa di liberatorio e la morte di un figlio
non ha proprio nulla di liberatorio, ci vogliono giorni, mesi o anche
anni per far uscire allo scoperto quel dolore che si è
sedimentato
dentro di te.
La
abbracciò, le accarezzò la schiena e
sentì che era lei che aveva
voglia di piangere. Non era giusto che Sarah se ne fosse andata. Non
era giusto come non lo era la morte di nessun bambino...
"Si
era addormentata come le altre sere..." - singhiozzò
Caroline.
"Ero riuscita pure a farle mangiare tutto lo stufato di carne
con le patate, a lei che di solito avanzava sempre qualcosa e non
aveva mai fame. Forse non dovevo sforzarla, forse avrei dovuto farla
mangiare meno, forse avrei dovuto coprirla di più... O
Demelza, cosa
ho sbagliato?" - disse Caroline, quasi gridando, lei che era
sempre stata controllata e attenta alle buone maniere.
Demelza
le accarezzò la guancia, scuotendo il capo. "Era malata
Caroline, tu non hai sbagliato niente. Potevi fare mille cose diverse
ma sarebbe successo...".
"Io
la rivoglio! Rivoglio la mia bambina, come faccio a riaverla
indietro?".
Le
sorrise, tristemente. "Non si puo', puoi solo portarla sempre
con te, nel tuo cuore".
Caroline
si aggrappo' nuovamente a lei, come cercando un appiglio per non
cadere. "Non lasciarmi sola".
"Non
lo farò".
"Sai
Demelza, cosa vorrei?".
"Cosa?".
"Tornare
indietro nel tempo, quando noi due vivevamo felici e spensierate a
Londra e io non piangevo la morte di un figlio, non ero una donna
sposata e il mio unico cruccio era scegliermi l'abito per andare a un
ballo".
Demelza
annuì, era umano che desiderasse una fuga di quel genere.
"Quello
che hai avuto qui, con Dwight, vale più di tutto. E so che
non ci
rinunceresti mai, anche sapendo l'epilogo. A Londra eri felice, ma
non conoscevi Sarah".
"Certo,
ma... ma... partiamo un po', solo noi, come una volta".
Scosse
la testa, non poteva farlo, aveva troppi macelli da sistemare a
Nampara e Caroline doveva rimanere a casa. "Dwight ha bisogno di
te, non puoi abbandonarlo. Vivete insieme questo dolore, non
rintanatevi ognuno nel vostro cantuccio, non fate lo stesso errore
mio e di Ross. Parlate, urlate, piangete insieme, litigate se questo
puo' farvi sfogare. Ma resta qui con lui".
Caroline
accennò un sorriso. "L'ho sempre detto che sei
più saggia di
me".
Demelza
le strizzò l'occhio. "E allora dammi retta".
"Vuoi
vederla?".
A
quella domanda, Demelza deglutì. Voleva vedere la piccola
Sarah?
Com'è un bambino morto? La ferita per la morte di Julia era
sempre
lacerante, pur non avendola vista senza vita. Per Ross era stato
diverso, lui sapeva com'era, sapeva cosa si prova a stringere fra le
braccia un bambino senza vita, ma a lei quello strazio era stato
risparmiato dalla malattia. Non averla potuta vedere per dirle addio
era il suo più grande rammarico, ma allo stesso tempo
l'aveva
salvata dal dolore di ricordarla morta, quel dolore che Ross si
portava dietro da allora. Avrebbe voluto averlo vicino in quel
momento, affrontare quel lutto con lui, con tutti i ricordi che
risvegliava in lei. Ma Ross non c'era, stavolta era lui quello
risparmiato grazie a una malattia ed era il suo turno di affrontare
da sola quell'inferno, per il bene di Caroline. Aveva paura, certo,
perché vedere Sarah avrebbe significato un po' rivedere
Julia.
Strinse i pungi, abbracciò l'amica e cercò di
farle e di farsi
coraggio. "Certo".
Caroline
annuì, la prese per mano e la condusse su per gli ultimi
scalini.
Percorsero in silenzio il corridoio fino alla stanza di Sarah, una
cameretta dalle tinte pastello, elegante e allo stesso tempo
rassicurante per un bambino, con una culla che sarebbe rimasta vuota,
tanti giochi, tante bambole, tutto il mondo di quella piccola
innocente.
Dwight
era lì, riverso sulla culla, a fissare ciò che
era stata la sua
fiducia per il futuro, il suo sogno d'amore, il frutto del suo
rapporto con Caroline. Era ammutolito, senza parole, con un volto
quasi trasfigurato.
Demelza
deglutì, si avvicinò e lo abbracciò in
silenzio, senza dire nulla.
Glielo aveva promesso, gli aveva giurato che ci sarebbe stata quando,
con calore e affetto, l'aveva sorretta durante i giorni terribili
dell'incidente di Ross. Dwight non l'aveva mai abbandonata e non le
aveva mai fatto mancare la sua vicinanza, nonostante il dolore che
stava vivendo. E lei non l'avrebbe lasciato solo. "Mi dispiace".
Dwight
sprofondò la mano nei suoi lunghi capelli rossi,
accarezzandole la
nuca. "Grazie per essere qui".
"Non
c'è altro posto al mondo dove dovrei essere, in questo
momento".
E poi lo fece. Si allontanò da lui e si mise accanto alla
culla.
Sarah
era lì, come se ancora dormisse e aspettasse che la sua
mamma
arrivasse per svegliarla. Era lì, col suo viso perfetto come
quello
di Caroline e Dwight, coi capelli biondi perfettamente pettinati e
decorati con un nastrino rosa come l'abitino di pizzo che indossava.
Sembrava un angelo addormentato, una di quelle statue d'avorio che
nei musei ti fermi ad ammirare. Il suo colorito era marmoreo,
pallido. Ma sembrava così in pace col mondo, così
serena in quel
suo sonno eterno. Era bella, la bellezza di una bambola. Si chiese se
anche Julia fosse stata così... Si portò una mano
al petto,
realizzando che stava guardando qualcosa di molto simile a quanto le
era stato celato dal fato e dalla malattia. Stessa innocenza, stessi
sogni spezzati, stesso immenso dolore per qualcuno che non sarebbe
mai diventato grande. Guardò Sarah e fu come aver saldato il
suo
debito col destino perché si sentì come se stesse
guardando, con
undici anni di ritardo, la sua piccola Julia.
E
poi, sopraffatta dall'emozione, ricordò il capodanno di
alcuni mesi
prima, che sembrava lontano secoli, il modo tranquillo di giocare di
Sarah, i desideri che tutti loro avevano espresso dopo la mezzanotte.
Era andato tutto male, da allora. Ogni cosa...
Scosse
la testa, distrutta dalla perdita di quella bambina, dal dolore di
Dwight e da quanto stava accadendo a casa sua. "Scusate, devo
andare!" - disse, correndo fuori dalla porta, senza dar loro il
tempo di controbattere.
Percorse
alcuni passi nel corridoio e poi si appoggiò alla parete,
cercando
di riprendere fiato. Caroline e Dwight, distrutti dal dolore, non
l'avevano seguita e per alcuni minuti poté rimanere sola.
Sentiva al
piano di sotto il mormorìo della servitù e dei
visitatori che si
accomiatavano dalla visita alla bambina, il vento che faceva vibrare
le finestre e il battito incessante del suo cuore che le martellava
in petto.
"Vi
sentite bene, signora?".
A
quella domanda, sobbalzò. Non si era accorta che era
arrivato
qualcuno. Si voltò, trovandosi davanti un giovane che le era
pressocché sconosciuto, più giovane di lei forse
di una manciata
d'anni, dai capelli mossi di color castano chiaro, con un viso
raffinato e affascinante, vestito con abiti eleganti. "Non
molto" – ammise. "Ma ora mi passa, state tranquillo".
"Volete
che vi faccia portare un bicchiere d'acqua? Capisco il vostro
tormento, vedere una bambina morta non è mai una bella cosa".
Nonostante
tutto, Demelza sorrise. Gli faceva piacere quella gentilezza da uno
sconosciuto, soprattutto in un momento del genere. "Vi ringrazio
ma non è necessario" – sussurrò,
rendendosi conto che,
stranamente, trovava piacevole la compagnia di quello sconosciuto. Lo
guardò meglio e appena lo fece, fu come colta da una strana
scarica
elettrica. Non sapeva perché, ma si sentì
attratta da lui, dai suoi
bei modi, dal suo aspetto così fine e delicato. Era la prima
volta
che le succedeva. Anzi, la seconda. Le era capitato anche la prima
volta che aveva visto Ross, ora che ci pensava. Era una sensazione
piacevole e spiacevole allo stesso tempo. Piacevole per quello che
risvegliava in lei e che le faceva provare. Spiacevole
perché lei
non avrebbe dovuto sentire quel tipo di sensazioni...
Il
giovane le sorrise. "Come vi chiamate? Siete un'amica di
famiglia?".
"Il
mio nome è Demelza Poldark e sì, sono amica da
anni sia di Caroline
che di Dwight".
A
quelle parole, il giovane spalancò gli occhi. "Poldark?
Moglie
del capitano Ross Poldark?".
Si
stupì. Come faceva a conoscere Ross? "Sì, ma come
fate a...?".
Il
ragazzo le si avvicinò, facendo un breve inchino per
prenderle la
mano e baciarla. "Piacere di conoscervi, il mio nome è Hugh
Armitage e sono stato compagno d'arme di vostro marito in Francia,
alcuni anni fa. E lì che ho conosciuto anche Dwight, con cui
ho
stretto amicizia. Soffro di alcuni problemi di salute che mi danno
noia alla testa e agli occhi e dopo la guerra mi sono affidato alle
sue cure, in guerra ha conquistato la mia più piena
fiducia". E
così dicendo, le baciò la mano.
Sentì
di nuovo, ancora più potente, quella scossa. Le aveva
risposto, ma
non aveva sentito molto di quello che le aveva detto. Si
sentì
stranita da quel fatto, dal trovarlo così piacevole e
attraente. Non
le era mai successo con nessuno eccetto suo marito, nemmeno a Londra
quando per tre anni era stata da sola ed era entrata in contatto con
uomini che la adoravano. E ora, perché? Perché
era vulnerabile e
ferita per il comportamento di poco prima di Ross? Perché
era
devastata da ciò che la piccola Sarah aveva risvegliato in
lei?
Perché si sentiva sola e senza appigli? Perché
era il primo che le
dedicava attenzioni e gesti gentili, da tanto? "Francia? Oh, mio
marito ci ha combattuto quasi un anno" – disse, non sapendo
bene come intavolare una discussione che acquietasse il suo cuore.
"Vostro
marito era un eroe per me, un mito. Indomito, forte, coraggioso, non
si fermava davanti a niente. Era la parte romantica della guerra, in
un certo senso".
Demelza
scosse la testa, ricordando quanto fosse stata arrabbiata quando
aveva scoperto che era partito per il fronte. "Mio marito
sfuggiva da tante cose, in quel momento. Probabilmente anche da se
stesso". Sorrise a Hugh, quasi d'istinto, a quelle parole. "E
voi, che ci facevate laggiù? I giovani aristocratici dalle
belle
maniere, non vanno in guerra".
Hugh
arrossì impercettibilmente, a quella domanda. "Sono un
letterato, uno scrittore. Amo scrivere poesie ed ero attirato appunto
dal lato romantico della guerra. Sapete, quelle storie patriottiche e
romantiche di eroi che diventano miti, le cui gesta si raccontano
nelle leggende e nei libri".
"La
guerra non ha lati romantici!" - rispose subito Demelza, a tono.
Hugh
sorrise di nuovo. "Mio malgrado, l'ho capito sulla mia pelle. Se
non fosse stato per vostro marito, io sarei morto ora. Sono caduto in
un'imboscata e lui mi ha salvato la pelle. A proposito, ho saputo che
non sta bene. Mi spiace".
"Già".
Abbassò lo sguardo, non sapendo cosa dire. La conversazione
con lui
era stata piacevole, finché il discorso non era caduto su
Ross... "E
così, scrivete poesie? Di che genere?" - chiese, per
cambiare
argomento.
"Poesie
dedicate a persone speciali".
"Ammiratrici?".
"Ammiratrici...
O amanti".
"Lo
immaginavo" – rispose, civettuola. Demelza gli sorrise per un
attimo, ma poi si irrigidì. Stava flirtando con lui... E lo
trovava
piacevole... Deglutendo, fece un passo indietro, spaventata
più da
se stessa che da Hugh. "Io... Io forse dovrei andare" –
balbettò.
Hugh
le si avvicinò di nuovo, sorridendole in modo amabile.
"Siete
qui sola?".
"A
cavallo".
"Permettete
che vi accompagni almeno alle stalle".
Avrebbe
voluto dirgli di no, ma inspiegabilmente disse di sì. "Se vi
fa
piacere...".
"Ovviamente
mi fa piacere. Siete davvero una splendida creatura, Demelza Poldark,
trovo strano che vostro marito non abbia mai decantato le vostre lodi
al fronte".
Adorava
il modo in cui parlava, in cui parlava di LEI. Sarebbe rimasta ad
ascoltarlo per ore, rasserenava il suo spirito e la sua anima da
tutto il dolore che si portava dietro. "Mio marito non è di
molte parole".
Hugh
annuì, mentre insieme si avviavano verso l'uscita. "Potrei
venire a trovarlo, uno di questi giorni? Non vivo lontano da qui".
"Certamente,
ma non ricorda nulla del suo passato".
Hugh
sorrise, scuotendo la testa. "Beh, se non altro sarà una
scusa
per fare un saluto a voi. Potrei portarvi una mia poesia?".
"Cosa?".
"Una
poesia che scriverò appositamente per voi. Un dono! I
visitatori
devono sempre portare doni".
"Non
credo sia il caso" – rispose Demelza con poca convinzione.
"Permettetemi
di insistere, non c'è niente di male in ogni forma d'arte".
Demelza
sospirò. Era strano essere oggetto di tante attenzioni da
parte di
un uomo così raffinato, affascinante e colto, un uomo
così diverso
da Ross... Si sentiva sola e forse avere un nuovo amico le avrebbe
fatto bene. Forse... Mentiva a se stessa, un po' lo sapeva. Gli
piaceva quell'uomo, il suo modo di fare e ciò che
risvegliava in
lei. Lo voleva rivedere e voleva sentirsi piacevole ai suoi occhi.
"Avete ragione, non c'è niente di male. Aspetto voi e la
vostra
poesia a Nampara".
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
"Amavo
andare a cavallo?".
La
domanda di Ross ruppe il silenzio che accompagnava quel pranzo
domenicale. Demelza alzò il viso dal piatto, guardandolo di
sottecchi. Erano giorni strani quelli, tutto era strano. Ross che se
ne stava defilato, lei che sembrava aver perso l'entusiasmo di stare
a cercarlo, i bambini che se ne stavano nel loro mondo e il dolore di
Caroline e Dwight, che andava a trovare ogni mattina, erano le sue
costanti.
Ognuno
sembrava essersi rintanato in un suo mondo, lontano da tutto e da
tutti e se un tempo avrebbe lottato per rimettere a posto i cocci,
ora si sentiva senza forze, spossata e vinta dal destino.
"Sì,
amavi cavalcare" – rispose fiaccamente.
"Vorrei
fare un giro a cavallo allora. Sono stanco di stare chiuso in casa e
ho bisogno d'aria".
Avrebbe
dovuto ricordargli che doveva fare attenzione, che era convalescente
e che ancora non conosceva abbastanza i luoghi attorno a Nampara, ma
non disse nulla. Si limitò ad alzare le spalle e a
riprendere a
sorseggiare il brodo che aveva nel piatto. "Fa come preferisci".
Non riusciva a guardarlo in faccia, a parlargli, a confrontarsi con
lui dal giorno in cui l'aveva rifiutata e aveva deciso di dormire
separato da lei. Era come avere a che fare con un estraneo, quello
non era più il suo Ross. E anche lei si sentiva diversa.
"Papà,
posso venire con te?" - chiese Jeremy improvvisamente.
Ross
annuì, sorridendogli. "Sai cavalcare?".
Il
bimbo annuì. "Certo, me lo hai insegnato tu".
Demelza
sospirò rinfrancata. Bene, quanto meno con Jeremy a fianco,
non si
sarebbe perso. "Beh, a questo punto Jeremy potrebbe montare sul
suo pony, così Clowance potrebbe venire con voi col suo".
A
quella proposta, Ross non parve troppo entusiasta. "Beh, ma coi
pony rallenterei la mia andatura a cavallo".
"Ma
renderesti felici entrambi i tuoi figli" – rispose lei, a
tono. Lo irritava il suo modo di fare, quel suo lasciare da parte
sempre Clowance.
"Lascia
stare!". Clowance si alzò dal tavolo, col piatto ancora
pieno.
Era silenziosa in quei giorni, sfuggente e stranamente tranquilla.
"Fa niente mamma, non ho voglia di montare i pony".
"Ti
è sempre piaciuto andare sul pony con papà"
– ribatté
Demelza.
Clowance
scosse la testa, abbassando lo sguardo. "Sì, ma non ne ho
voglia ora. Magari un'altra volta. Va pure a cavallo con Jeremy,
papà".
Ross
si asciugò le labbra col tovagliolo. "Bene, visto che non ci
sono problemi, domani usciremo io e te a cavallo, Jeremy".
Il
bambino annuì, guardando preoccupato la sorella. Era
decisamente
meno entusiasta rispetto a pochi minuti prima... "Va bene..."
- sussurrò col tono di chi si sente in colpa, osservando la
sorellina.
Demelza
si sentì furiosa. Come faceva Ross a non accorgersi di
quanto la
loro bambina fosse ferita? Di quanto si fosse allontanata da lui? Di
come non cercasse più attenzioni da nessuno? "Fate come vi
pare..." - disse con rabbia, guardando negli occhi suo marito.
"Posso
alzarmi e andare in camera mia?" - chiese Clowance.
Demelza
osservò il piatto ancora pieno e poi lei. Era preoccupata,
sua
figlia si comportava in modo strano ed era sempre più
sfuggente.
"Non hai ancora finito di mangiare".
"Sì
ma non ho fame. Mi fa male la testa".
A
quelle parole, Demelza le si avvicinò, mettendole una mano
sulla
fronte. "Non hai la febbre, sei fresca".
"Ma
la testa mi fa male lo stesso".
Le
annuì, capendo quanto in realtà fosse il suo
stato d'animo a
soffrire. "Va bene, vai a stenderti un po'. Ma ricorda che oggi
pomeriggio abbiamo un ospite che mi piacerebbe presentarti".
"Si
lo so, il signore che hai incontrato a casa di Caroline e Dwight"
– disse la bimba, scendendo dalla sedia e dirigendosi in
camera
sua.
Demelza
la guardò chiudere la porta, poi tornò a sedersi
lanciando
occhiatacce al marito e finendo di mangiare nervosamente. Non
aprì
bocca e probabilmente sia Ross che Jeremy e Bella avevano capito che
era il caso di lasciarla in pace. Pure Artù, timidamente, si
era
rannicchiato nel suo cesto a mangiucchiare un osso.
Se
non fosse stato per la visita di Hugh Armitage nel pomeriggio,
probabilmente avrebbe preso il cavallo e sarebbe uscita per una lunga
passeggiata. Aveva voglia di galoppare uno dei suoi purosangue, di
sentirsi per un momento il vento freddo sul viso e la sensazione di
libertà che sapeva donare, voleva allontanarsi da quella
casa che
amava ma che non era più un rifugio sicuro ma un ricettacolo
di
problemi, arrabbiature ed ansie. Voleva fuggire da quel marito che
amava ma che non comprendeva più e da cui si era allontanata
molto... Voleva essere forse un'altra persona, con un'altra vita, con
un altro destino...
Pensò
a Hugh, mentre silenziosamente ordinava con Prudie la cucina, al
termine del pranzo. Quel giovane dai modi gentili e delicati, galante
e romantico, aveva come toccato la sua anima ferita. Era stato un
incontro di pochi minuti il loro, dettato da un fortuito caso del
destino, ma era stato capace di metterla di buon umore in una
giornata che per lei era stata terribile. Era come essere stata
rapita dal suo mondo fatto di ansie e problemi ed essere stata
trasporta verso un luogo utopistico e perfetto dove si era sentita
una principessa.
In
realtà non era molto fiera di se stessa, di come si era
rapportata a
lui. Era la donna sposata di un uomo che amava, aveva tre figli
piccoli e di certo non era il tipo di donna che cercava le attenzioni
di un uomo.
Sicuramente,
durante la visita del pomeriggio, avrebbe avuto un contegno diverso e
più signorile con Hugh. Aveva detto a Ross che sarebbe
arrivato a
trovarlo un suo vecchio compagno d'arme che aveva incontrato per caso
da Dwight e Caroline e aveva cercato di apparire il più
neutra
possibile per non far trasparire le sue emozioni. Ross aveva annuito
con fare assente, per lui non era che un estraneo, però
aveva detto
che andava bene.
E
andava bene anche per lei, era felice di vederlo di nuovo... La
faceva stare bene e ancora, come al loro primo incontro, aveva
bisogno di qualcuno che sapesse farla sorridere.
Finì
di sistemare la casa e dopo che Prudie si fu ritirata nella sua
camera, andò nella stanza dei bambini. Mancava poco
all'arrivo di
Hugh ed era ora di andare a svegliare Clowance.
Quando
entrò, la bimba era stesa sul letto, rannicchiata contro la
parete.
Era sola, Jeremy giocava nell'aia e Bella dormiva nella camera
matrimoniale, nella sua culla. Si sedette vicino, accarezzandole i
lunghi capelli rossi. Capiva sua figlia, in quel momento i loro
sentimenti erano simili in tutto e per tutto. "Come ti senti?".
"Così
così".
"Hai
davvero mal di testa?".
Clowance
annuì. "Sì, un po'. Ora però mi
è quasi passato".
Demelza
sorrise tristemente. Era così cambiata, così
diversa dalla bambina
che era stata fino a pochi mesi prima, dalla sua principessina che
voleva sempre essere al centro dell'attenzione. Ora invece era come
se cercasse di essere invisibile, di sfuggire a ciò che la
faceva
soffrire rintanandosi nel suo mondo... E lei non sapeva cosa fare,
sentendosi incredibilmente impotente. "Clowance, lo sai che ti
vogliamo bene, vero?".
"Sì,
certo" – rispose la bimba con poca convinzione. "Tu
sì.
E anche Jeremy e Artù...".
"Anche
Bella e papà".
Clowance,
a quella frase, si voltò verso di lei. "Certamente..."
–
rispose, con un tono di voce di chi finge per far piacere al suo
interlocutore.
La
abbracciò, non sapeva che altro fare se non farle sentire
che lei
c'era e che non l'avrebbe mai lasciata sola. Poi la aiutò ad
alzarsi, a pettinarsi e a mettersi uno di quei suoi vestitini da
principessina che amava tanto.
"Grazie
mamma".
"Di
nulla, mi piace fare le cose con te".
Clowance
sorrise, poi le saltò in braccio. Se ne stupì,
era una cosa che non
faceva da tantissimo tempo. "Ti voglio bene mamma".
"Anche
io. Vuoi stare in braccio?".
"Sì".
Non
obiettò, anche se era pesante. Tornò nel salotto,
si sedette su una
sedia con Clowance sulle ginocchia, dondolandola leggermente,
restando a cullarla mentre le cantava una canzone sotto voce.
Giunsero anche Ross e Jeremy che, parlottando fra loro, organizzavano
la cavalcata per il giorno successivo. Jeremy sembrava a disagio a
discuterne davanti alla sorella, mentre Ross era assolutamente
tranquillo. Era furiosa con lui e con la sua indifferenza verso
Clowance e verso le ferite che le infieriva. Cosa passava nella testa
di suo marito? Possibile che non amasse davvero più la sua
bambina e
che per lui averci a che fare fosse un peso? Se solo gli avesse
parlato, se solo si fosse aperto con lei, forse discutendone
avrebbero comunque potuto risolvere molte cose, ma Ross era testardo
anche nella malattia. Si teneva tutto dentro, come tante volte gli
aveva visto fare in passato, e diventava imperscrutabile. Strinse a
se la sua bambina, baciandola sulla nuca. E in quel momento qualcuno
bussò alla porta.
Jud
corse ad aprire e Hugh Armitage comparve davanti ai suoi occhi,
puntuale come un orologio svizzero. Era curato ed elegante come la
volta precedente, con un soprabito di velluto verde scuro, pantaloni
che nel risaltavano la figura slanciata e col consueto sguardo
gentile. "Ben arrivato" – gli sussurrò.
Appena
la vide, il ragazzo fece un inchino. E poi si avvicinò a
Ross per
stringergli la mano. "Per me è un piacere essere qui e
rivedervi, capitano Poldark".
Ross
annuì, confuso. "Purtroppo, a causa di un incidente, la mia
memoria mi crea problemi. Ma è comunque un piacere anche per
me la
vostra visita, signor Armitage". La indicò, sorridendogli
timidamente. "Conoscete già mia moglie, da quello che so".
Hugh
si avvicinò, annuendo. "Certamente" – disse,
inchinandosi a baciarle la mano. "E' un piacere rivedervi,
signora Poldark".
"Anche
per me" – rispose, sentendosi emozionata come se fosse stata
una ragazzina. "Questa è mia figlia Clowance".
Hugh
sorrise alla bambina. "Bellissima, come la madre".
Clowance
lo guardò storto, annuendo timidamente per poi rifugiarsi
col viso
contro il suo petto.
Demelza
rimase stupita da quel comportamento ma non disse nulla, presentando
a Hugh anche Jeremy che, compostamente, si era seduto accanto a suo
padre. "Ho anche una figlia più piccola che ora dorme nella
sua
culla".
"Scommetto
che è affascinante anche lei come sua madre" –
disse Hugh,
mentre Ross, a quell'ennesimo commento, gli lanciava occhiate
furtive.
Lei
arrossì. Era bello essere adulata, vezzeggiata a ammirata.
Non le
era mai capitato, neppure con Ross che l'amava.
Hugh
si intrattenne un'ora abbondante, raccontando le avventure occorse in
guerra, del cibo scadente dato alle truppe, delle serate passate a
giocare a carte e del coraggio con cui Ross aveva salvato lui e
Dwight che erano stati presi prigionieri assieme ad altri compagni di
reggimento.
Demelza
rimase in silenzio ad ascoltare. Ross le aveva raccontato molto poco
di quel periodo passato al fronte mentre erano separati e per lei era
tutto nuovo, era come scoprire un lato di suo marito che le era
sconosciuto. Doveva essere stato coraggioso, immaginava. E assieme al
coraggio doveva averci messo una buona dose di avventatezza e
spavalderia. Tipico suo! E questo la rendeva orgogliosa, certo, ma
anche vagamente arrabbiata con lui per il modo in cui più
volte
aveva messo a repentaglio la sua vita. Ross le aveva solo detto che
quando era partito, dopo che lei l'aveva lasciato, per lui non aveva
avuto molta importanza se vivere o morire, che non gli interessava di
nulla e che tutto quello che cercava erano emozioni forti che gli
facessero dimenticare la miseria che era diventata la sua vita.
Pure
Jeremy sembrava colpito da quel racconto che doveva apparirgli come
estremamente affascinante e avventuroso, mentre Clowance non si era
mossa dalle sue braccia, rannicchiata in un ostinato mutismo.
Mentre
parlava, osservava Hugh. Aveva una voce calda e allo stesso tempo
gentile. Parlava con Ross ma non le erano sfuggite le occhiate che
continuava a lanciare a lei che la facevano arrossire senza motivo.
Era come se quel racconto fosse per lei, era come se Ross fosse stata
una scusa per rivederla di nuovo. Non sapeva perché, ma se
lo
sentiva... Hugh parlava e in certi momenti, quando la guardava, era
come se le altre persone nella stanza scomparissero e fossero solo
loro due.
Queste
sensazioni la turbavano e la confondevano. Non voleva provarle ma le
avvertiva e nell'avvertirle provava piacere. Hugh la guardava come
Ross non faceva da tanto, con dolcezza e allo stesso tempo con una
strana passione nello sguardo. Era come se la mangiasse con gli
occhi, era come se fra loro ci fosse un gioco di seduzione nascosto
fatto di sguardi e sorrisi appena accennati. Era come se fra loro
scorresse una strana e indecifrabile energia...
A
un certo punto però, qualcosa cambiò nella strana
atmosfera che si
era creata.
Ross
si alzò di scatto dal tavolo, in un modo talmente frettoloso
che per
un attimo temette che stesse male. La guardò con uno strano
sguardo
cupo che poi riservò a Hugh... Di tutta risposta, senza che
avesse
fatto qualcosa di male, si sentì in imbarazzo e
abbassò gli occhi a
guardare il pavimento.
Ross
si scostò dalla sedia, ogni traccia di rilassatezza sparita
dal suo
viso. "Credo che mi stia venendo un forte mal di testa, ho
bisogno di riposare".
"Ma...".
Rimase allibita da quel comportamento. Poteva benissimo essere che
stesse male, ma non era da Ross comportarsi a quel modo con un ospite
venuto a trovarlo.
Hugh
annuì, quasi fosse sollevato da quell'interruzione.
"Capitano,
nelle vostre condizioni è normale. Mi sono comunque
intrattenuto
troppo e andrò via fra qualche istante".
Ross
lanciò a Demelza uno sguardo freddo. "Bene, vi lascio allora
alla compagnia di mia moglie che, da quel che vedo, saprà
intrattenervi più che bene durante il vostro commiato. Buona
giornata signor Armitage". E così dicendo, si diresse senza
aggiungere altro, verso la libreria.
Rimase
interdetta, gelata. Non credeva che se ne fosse accorto ma
evidentemente Ross aveva captato lo strano gioco di sguardi fra lei e
Hugh. Si sentì imbarazzata ed irritata. Perché
suo marito aveva
reagito così? Non stava facendo niente di male e Hugh non
era altro
che un giovane ospite che si stava dimostrando gentile con lei, cosa
che Ross non faceva da molto. Era suo compagno d'arme, dopo tutto,
era venuto lì per trovare lui e non lei che era praticamente
una
sconosciuta per il giovane! Deglutì, immaginando che a breve
avrebbe
avuto un'altra discussione con suo marito e che non sarebbe stata per
niente piacevole. "Mi dispiace, a volte è un po' brusco e
per
lui è un momento difficile" – disse, arrossendo.
Hugh
sorrise, per nulla turbato dal fatto che Ross se ne fosse andato.
"Non importa, stavo comunque andando".
Demelza
annuì, alzandosi dalla sedia e costringendo Clowance a fare
altrettanto. "Vi accompagno al vostro cavallo, visto che mio
marito mi ha lasciato questa incombenza". Arrossì, di nuovo.
Stare vicino a Hugh la confondeva e la emozionava come se fosse stata
una bambina.
"Sarà
un piacere rimanere ancora qualche istante in vostra compagnia,
allora" – rispose Hugh.
"Pure
per me". Dannazione a lei, aveva usato di nuovo lo stesso tono
civettuolo del loro primo incontro e si era ripromessa di non farlo!
D'un tratto si sentì osservata e, abbassando lo sguardo, si
trovò
puntati contro gli occhi dei suoi due figli che la scrutavano,
indagatori.
Finse
di ignorarli, facendo segno a Hugh di seguirla verso l'uscita.
Fuori,
il sole di primavera dava un tiepido calore a ogni cosa.
Camminò
accanto a Hugh con i figli vicino a lei che non la perdevano di vista
un attimo, ignorando le loro occhiatacce e i loro musi lunghi. Voleva
salutarlo da sola, voleva che si allontanassero due istanti per
dirgli addio. O forse, per dirgli che gli avrebbe fatto piacere
rivederlo... Ma sentiva che doveva allontanare Clowance e Jeremy che,
come il padre, parevano contrariati dalla presenza del giovane. Beh,
per una volta decise di essere egoista, di pensare a se stessa. Era
sola, piena di problemi, disperata e senza appigli, stanca e
bisognosa di una parola buona. Che male c'era a essere amica di Hugh
Armitage? Che male c'era avere un piccolo angolo di mondo dove era
ammirata e dove non c'erano problemi e tutto era pulito e semplice?
"Bambini, mi andreste a raccogliere un po' di fiori per il vaso
della mia stanza?". Per la prima volta in vita sua, si rese
conto che non voleva avere vicini i suoi figli... Ed era terribile,
si sentiva sporca e cattiva a desiderarlo ma in quel momento non
riusciva ad essere la madre di sempre, non con Hugh accanto.
Jeremy
e Clowance annuirono poco convinti, continuando a studiare lei e
Hugh. "Va bene, ma stiamo qui vicini" – disse Jeremy,
guardingo.
I
bimbi corsero, allontanandosi di una decina di metri. Hugh ne
approfittò per rovistare nella tasca dei suoi pantaloni,
tirandone
fuori un foglio di carta piegato. Poi con un gesto veloce le prese la
mano, la strinse fra le sue e glielo diede. "Per voi, ve lo
avevo promesso".
"Cosa?"
- domandò, mentre il cuore le balzava nel petto per quel
contatto
che le faceva come bruciare la mano.
"La
poesia. Una donna come voi non puo' che essere una musa per un
poeta".
Arrossì,
di nuovo. Nessuno aveva mai scritto una poesia per lei... Lei, la
figlia di un minatore, una donna di estrazione sociale bassissima...
E Hugh, un giovane e romantico aristocratico che scriveva per donne
bellissime i suoi pezzi. E ora ne aveva scritto uno anche per lei...
"Grazie!".
"Sono
io che devo ringraziare voi per il bene che la vostra persona fa alla
mia creatività poetica".
"Mi
piacerebbe rivedervi" – sussurrò Demelza,
stupendosi della
sua sfacciataggine. Voleva rivederlo, non voleva che quello fosse un
addio. La faceva stare bene e lei ne aveva bisogno!
A
quelle parole, il volto di Hugh si illuminò. "Anche io.
Dove?
Quando?".
Demelza
osservò i suoi bambini, sentendosi vagamente in colpa verso
di loro,
di nuovo. "Non qui, non con Ross e i miei figli presenti".
"Solo
noi?".
Annuì.
"Solo noi. Vi scriverò un biglietto e ve lo farò
recapitare...
Al mattino i bimbi sono a scuola e Ross non presta molta attenzione a
quello che faccio... In fondo una cavalcata o una passeggiata lontano
da Nampara non mi farà male".
Hugh
sorrise, baciandole la mano, indugiando sulle sue dita, sfiorandole
una ad una con le labbra mentre lei lo lasciava fare, completamente
rapita dalla sua figura. "Aspetto il vostro messaggio, allora. E
spero che la poesia vi possa piacere".
"Mi
piacerà, ne sono sicura. La leggerò stasera e ne
parleremo quando
ci vedremo".
"Non
vedo l'ora, Demelza".
"Anche
io".
Hugh
montò a cavallo e lei rimase ad osservarlo sparire
all'orizzonte
mentre sentiva che le mancava già. Furtivamente mise il
foglietto in
tasca, stupendosi del fatto che, di nascosto, era come se si fossero
dati un appuntamento. Era solo un nuovo amico, giusto? Non c'era
niente di male, non doveva sentirsi tanto turbata...
Una
forte pacca alla mano, la risvegliò dal suo mondo dei sogni.
"Clowance, mi hai fatto male!" - sbottò contro la figlia,
tornata al suo fianco.
"Non
mi piace!" - urlò la bimba, calciando la sabbia dell'aia.
"Neanche
a me!" - aggiunse Jeremy.
"Cosa?".
Era sconcertata dal comportamento dei suoi figli... "Parlate di
Hugh?".
"Anche!"
- rispose Clowance. "Ma soprattutto non mi piace come fai tu con
lui".
"E
come faccio con lui, io?".
La
bimba la guardò furente. "Fai la stupida!" -
gridò,
correndo poi verso la porta di casa.
Rimase
attonita per un momento, chiedendosi cosa volesse dire. E al tempo
stesso contenta per il fatto che avrebbe visto Hugh lontana da tutto
e tutti...
Beh,
forse era vero, stava facendo la stupida. Ma questo la faceva sentire
incredibilmente bene.
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici ***
Si
mise il mantello e si avviò verso la porta. Da alcune
settimane a
quella parte, l'uscita a cavallo con Hugh Armitage del
giovedì
mattina era diventata una piacevole abitudine per lei, un qualcosa
che aspettava con ansia e impazienza. Si sentiva libera, serena, come
se vivesse in un altro mondo senza problemi da affrontare, tanto che
le era capitato di desiderare di diventare un'altra persona e di
entrare a far parte per sempre di quel mondo.
Il
giovedì mattina si alzava presto, sistemava i bambini per la
scuola
e li faceva accompagnare da Jud, dava la colazione a Bella, la
affidava a Prudie e poi, senza dire niente, usciva, prendeva il suo
cavallo e correva via lontano. In fondo non c'era niente di male,
pensava, anche se i due servi e i suoi figli la guardavano in
cagnesco. Beh, erano una manciata di ore solo per se stessa, in una
settimana fatta di impegni e di duro lavoro per la casa e per la
famiglia. Si occupava della contabilità della miniera, dei
suoi
affari a Londra, di Nampara, di Jud e Prudie, faceva in modo che ai
suoi figli non mancasse nulla e quindi... E quindi aveva diritto a un
momento che fosse solo suo!
Hugh
era sempre gentile, galante, delicato. Ogni volta che si vedevano, le
donava una nuova poesia che la faceva apparire come una dea, come
qualcosa di perfetto e bello, quasi irraggiungibile. Non aveva mai
avuto bisogno di nulla del genere e Ross dal canto suo non era mai
stato molto portato al romanticismo e al corteggiamento,
però non
poteva dire che non le facesse piacere. Si era sentita per anni
seconda in tutto e per tutto ad Elizabeth ed ora era così
strano
pensare che qualcuno di raffinato e nobile vedesse in lei quello che
Ross vedeva nel suo primo amore.
Non
facevano niente di male lei e Hugh, cavalcavano, scherzavano,
chiacchieravano e ridevano come se non ci fosse nient'altro che loro,
mentre erano insieme. Ogni tanto si lanciavano degli sguardi complici
e lei sentiva quella scossa e quella strana attrazione verso di lui
che aveva avvertito fin dall'inizio. Non sapeva cosa fosse, lo
immaginava e le faceva paura, però non abbastanza dal farla
desistere ad incontrarlo.
"Dove
stai andando?".
La
voce di Ross la raggiunse che era sull'uscio. Non le aveva mai
domandato nulla e le sembrava strano che quella mattina si
interessasse a quello che faceva. "Faccio un giro a cavallo".
"Lo
fai tutti i giovedì mattina" – commentò
lui, freddamente.
"Il
giovedì mattina è un buon giorno per cavalcare"
– rispose, a
tono, stupendosi del fatto che se ne fosse accorto.
Ross
le si avvicinò con sguardo indagatore. "Vengo con te".
"No!".
Era irritata! Che diavolo voleva Ross? Non la degnava di uno sguardo
e ora voleva seguirla per turbare quelle due ore di libertà
e pace
che si era riuscita a ritagliare? Non glielo avrebbe permesso. Lui
era la causa del suo malessere, lui e la sua dannata testa dura che
aveva provocato quell'incidente in miniera, lui e la sua freddezza,
il suo respingerla... No, non lo voleva! Voleva stare da sola con
Hugh e dimenticarsi per un po' che lui esisteva e che la stava
facendo soffrire.
"Perché
no?" - chiese lui, irritato.
Sorrise,
freddamente. "Perché voglio uscire da sola esattamente come
tu
vuoi dormire da solo. E siccome tu puoi scegliere, posso farlo anche
io!". Era strano parlare così con lui. Era l'uomo che amava,
l'uomo che avrebbe voluto avere accanto in ogni momento della sua
vita... Ed ora era l'uomo che la faceva soffrire e da cui voleva
fuggire, di nuovo.
Davanti
alla sua risposta, Ross non insistette. Si morse il labbro, le
voltò
le spalle e tornò in biblioteca, chiudendo furiosamente la
porta
dietro di se.
Sospirò,
decisa a non cedere e desiderosa di lasciare quanto prima Nampara.
Non andò nemmeno in cucina a dare un bacio a Bella che
ancora stava
mangiando con Prudie, aveva troppa fretta di allontanarsi. E sua
figlia sarebbe stata benissimo anche così...
Galoppò
come una forsennata, arrivando ad una piccola baracca posta sul
sentiero che costeggiava il mare che aveva scelto assieme a Hugh come
luogo di incontro. Quando vi giunse, lui era già la. "Sono
in
ritardo, scusate" – gli disse.
Hugh
sorrise gentilmente. "Non importa, sono arrivato da poco anche
io. Tutto bene?".
Demelza
scese da cavallo, avviandosi con lui a piedi lungo il sentiero che
portava al bosco. "Più o meno... Ho avuto una piccola
discussione con Ross prima di venire qui. Niente di grave comunque".
"Vostro
marito forse... forse non è molto felice dei nostri incontri
del
giovedì".
Demelza
alzò le spalle. "Dubito che lo sappia, non gliene ho mai
parlato".
"Perché?".
"Perché
ultimamente, dall'incidente, i nostri rapporti sono molto tesi ed
è
difficile per me avere a che fare con lui. A dire il vero, è
tutto
difficile a casa mia, da allora. E' difficile lui, sono complicati i
bambini, sono sull'orlo di crollare io... Forse l'unico sano
è il
cane di mia figlia Clowance".
Hugh
annuì, prendendola sotto braccio senza che lei ponesse
alcuna
resistenza. "Vostro marito è una persona valorosa e
intelligente. Ma è anche un folle a non adorarvi. Una moglie
come
voi va mostrata con orgoglio e idolatrata ad ogni ora del giorno".
Demelza
sorrise dolcemente, a quelle parole, ricordando i momenti d'oro con
Ross. "Mio marito è molto diverso da voi, Hugh, e non lo
cambierei per niente al mondo. Certo, non è tipo da poesie o
serenate, lui è... è semplicemente Ross... Sa...
Sapeva... farmi
sciogliere con un solo sguardo, farmi sentire sicura con un abbraccio
e farmi ridere fino a farmi mancare il fiato, quando scherzavamo
insieme. Non mi ha mai dedicato poemi ma so che mi amava con tutto se
stesso, aveva solo altri modi per dimostrarlo. Prima dell'incidente,
Ross era il mio tutto: il mio migliore amico, mio marito, il mio
amante, il padre dei miei figli e la mia ragione di vita... E ora
è
cambiato tutto, mi sento persa e sola e lo rivoglio! Perché
assieme
alla sua memoria, è come se mi fossi persa anche io".
Hugh
abbassò lo sguardo a quelle parole. "Voi siete una
bellissima
persona, Demelza. E non so come eravate prima, ma mi sembrate
assolutamente perfetta così come siete in questo momento".
Le
prese la mano, la strinse nella sua e la attirò a se. "E io
non
so essere certamente, ai vostri occhi, speciale come Ross, ma spero
che possiate ugualmente accettare la mia amicizia, le mie poesie e i
miei sentimenti sinceri per voi".
Sussultò
a quelle parole e alla vicinanza dei loro corpi. I loro volti erano a
pochi centimetri, gli occhi di Hugh parevano specchiarsi nei suoi e
la attiravano come una calamita. Se avesse provato a baciarla, non
sarebbe riuscita a sottrarsi. E forse non avrebbe avuto nemmeno il
desiderio di farlo, si rese conto con terrore... "La vostra
compagnia mi fa piacere. E anche le vostre poesie. Altrimenti non
sarei qui" – disse, tentennando. E detto questo, si
allontanò
di alcuni passi, sciogliendo la presa sulla sua mano. Era bello
essere adulata e ammirata, ma stava provando qualcosa di pericoloso
per se stessa e per il suo matrimonio. Quella con Hugh era una bella
amicizia, forse lui avrebbe desiderato qualcosa di più, ma
doveva
essere retta e forte e non oltrepassare il limite. Ross non l'avrebbe
mai perdonata. E soprattutto, lei non avrebbe mai perdonato se
stessa...
Un
rumore di voci dalla spiaggia, la tolse dall'imbarazzo. Assieme a
Hugh si avvicinò allo strapiombo, notando un'imbarcazione a
riva.
Una piccola barca, nulla più di una scialuppa, con tre
uomini che
salivano e scendevano portando a terra delle casse di legno.
Demelza
si irrigidì. Quella era la spiaggia di Ross, loro
proprietà. E se
tanto le dava tanto, ricordano i trascorsi di suo marito di alcuni
anni prima, quelli erano contrabbandieri che nascondevano merce
rubata nella grotta che si trovava sotto il costone dove si trovava
lei.
Le
mancò il fiato, pensando alle conseguenze se qualcuno li
avesse
scoperti e ricondotti a Ross. Suo marito sarebbe stato di nuovo
processato, stavolta però totalmente estraneo ai fatti.
Su
quella spiaggia ci veniva spesso con suo marito e i suoi bambini,
quando in estate uscivano per far divertire i piccoli e farli
giocare, ma erano mesi che non ci mettevano piede dopo l'incidente di
Ross. E quelle persone, non vedendo mai nessuno, ne avevano
evidentemente approfittato... Sospirò, le ci mancava solo
quello a
complicarle la vita!
Hugh
le toccò il braccio per farla indietreggiare. "Credo siano
contrabbandieri, brutta gente! Andiamocene!".
Demelza
scosse la testa, per nulla d'accordo. "Quella spiaggia
appartiene alla mia famiglia e non ho intenzione di finire nei guai
per tre brutti ceffi che l'hanno scelta per le loro attività
illegali!". E così dicendo, senza che Hugh potesse fare
nulla,
corse lungo il sentiero che portava alla grotta.
"Cosa
fate?" - urlò ai tre uomini, appena gli fu davanti, col
fiato
corto per la corsa.
I
tre, di mezza età e col viso da avanzi di galera, la
squadrarono.
"Scusate?".
"Scusate
un corno! Questa spiaggia appartiene alla mia famiglia e non siete
autorizzati né ad attraccare né a trasportare a
terra merce
proveniente da chissà dove".
Uno
dei tre, coi capelli grigi, lunghi ed ispidi, grasso e vestito con
abiti logori e sporchi, dal viso butterato, le si avvicinò.
"Madame,
è solo per qualche ora... Siate buona con chi lavora
duramente per
mare. E' solo commercio!".
"E'
contrabbando!" - rispose Demelza, a tono.
"Ma
no, è solo uno sgranchirci le gambe su questa bella
spiaggia.
Complimenti, bel posto signora" – disse l'uomo, con tono da
presa in giro.
"Prendete
la vostra roba e andatevene, o chiamo le guardie!" - intimò
loro Demelza, furente.
Gli
altri due guardarono il loro interlocutore. Doveva essere il capo
della combricola. "Guardie? Non vi conviene, diremmo che siete
stata voi a darci il permesso. Su, fate la brava, lasciateci lavorare
due orette e poi spariremo con la nostra merce e non ci vedrete mai
più. E saremo tutti contenti questa sera".
"Due
ore! Parola d'onore?".
La
voce di Hugh, col fiato corto, la raggiunse alle spalle. Era grata
che fosse lì e di non essere sola. Anche se le sembrava
strano che
non ci fosse Ross...
Alla
vista di Hugh, i tre si fecero meno spavaldi. Evidentemente la
presenza di un uomo poteva fare da deterrente. "Due ore, parola
di marinai".
Hugh
scosse la testa, mascherando un sorrisetto sarcastico. "La
parola dei marinai vale poco".
"Fatevela
bastare!" - rispose l'uomo butterato.
Indecisa
se rimanere per accertarsi che rispettassero i patti, Demelza
sentì
la presa gentile della mano di Hugh sul suo polso. "Su, andiamo,
non resteranno a lungo e per noi è più sicuro
allontanarci. Se
passassero per caso delle guardie e ci vedessero qui, potrebbero
fraintendere e crederci complici".
"Succederebbe
ugualmente perché chiunque sa che questa spiaggia appartiene
a
Ross".
Hugh
aumentò la presa sul suo polso. "Sì, certo. Ma
è meglio
andare comunque".
Uno
dei tre contrabbandieri assentì. "Ha ragione bellezza,
ascolta
il tuo amico e sparisci. Facci lavorare e ti lasceremo quanto prima
la spiaggia linda e pulita".
E
a malincuore, Demelza cedette. Anche se, silenziosamente, decise che
avrebbe vigilato nei giorni successivi... Con Hugh si
incamminò di
nuovo lungo il sentiero che portava alla strada principale dove
avevano lasciato i loro cavalli, nervosa e allo stesso tempo turbata
da quel nuovo problema. "Grazie Hugh, mi sei stato di grande
aiuto" – sussurrò, mentre facevano la salita.
Hugh
fece per rispondere ma tutto d'un tratto impallidì,
accasciandosi a
terra preda di un violento attacco di tosse. Il suo viso divenne
bianco come un cencio, gli occhi parvero andargli fuori dalle orbite
e crollò a terra tenendosi il viso fra le mani.
"Hugh!".
Demelza gli fu vicina in un attimo, tentando di sorreggerlo. Che gli
prendeva?
"Sto...
Sto bene, tranquilla. Ora passa! E' solo la salita".
Demelza
non parve tranquillizzarsi però, a quelle parole. "Non mi
pare
che voi stiate bene. Che succede?".
Hugh
si sedette a terra, erano a metà della salita e i
contrabbandieri
ormai rimanevano fuori dalla loro visuale. Si appoggiò con
la
schiena a una roccia e lottò per riprendere una respirazione
normale. "A volte mi capita" – le disse, invitandola a
sedersi accanto a lui. "E' per questo che sono in cura da
Dwight".
"Per
la tosse?".
Hugh
scosse la testa, guardandola intensamente. "Tosse, occhi,
testa... C'è tutto che non va, in me. Credevo fossero gli
effetti
della guerra, ma Dwight non crede sia così".
Il
cuore le rallentò. Che cercava di dirle? "Siete malato?".
Hugh
alzò il viso al cielo, guardandolo malinconicamente. "Malato
di
qualche strana e terribile malattia che a breve mi toglierà
la
vista, che mi fa tossire come se stessi soffocando e che mi provoca
dolori atroci alla testa. Presto non potrò più
vedere la luce del
sole, il cielo, l'immensità del mare e le belle persone come
voi che
abitano su questo mondo. Non potrò più scrivere
le mie poesie, non
potrò fare più niente".
Sarebbe
diventato... cieco... Le si strinse il cuore per lui, provando
un'infinita pena. Era un giovane generoso, gentile e buono, non
poteva essere. "E Dwight? Lui è un ottimo medico,
saprà
curarvi. Dicono faccia miracoli".
Hugh
le prese la mano, la strinse e la baciò dolcemente. "No, non
puo' farlo, ho un destino segnato".
"Ma...".
La
abbracciò, prendendola di sorpresa. "Demelza, mi promettete
una
cosa?".
"Cosa?"
- chiese, stringendolo a sua volta, cercando di dargli calore e
cercandone a sua volta in lui. Erano due anime perse, in quel
momento, ognuna schiacciata da un destino avverso che però
li aveva
fatti incontrare.
"Siate
mia amica, permettetemi di starvi vicino e di ammirarvi,
finché
potrò farlo. Ho conosciuto e amato tante donne, ma nessuna
è mai
stata come voi. Siete fiera, forte, indomita e bellissima, avete il
coraggio di affrontare, da sola, persino tre contrabbandieri. Volervi
bene, amarvi... è un onore. Come avervi conosciuta".
Deglutì.
Aveva usato la parola amore ed era il suo più grande
terrore. Per
lei l'amore, pur fra mille problemi, era Ross. Ma Hugh... Hugh, con
le sue parole, la sua dolcezza, la sua tenerezza e le sue attenzioni,
la attirava. Non era amore, ma lo desiderava vicino. Era confusa, lui
la confondeva! "Certo che sarò vostra amica. Sono qui, sono
con
voi, ora".
"Siete
l'unica, oltre a Dwight che mi cura, a sapere della mia malattia. Non
ditelo in giro, non voglio che si sappia finché non
sarà evidente".
Demelza
sorrise, accarezzandogli la guancia e baciandolo sulla fronte, in un
gesto che le venne talmente naturale da stupirsene. "Lo
farò".
Si sentiva onorata, pur in mezzo a tutto quel dolore, che la avesse
scelta come confidente, oltre che come musa per le sue poesie.
Lo
aiutò a rialzarsi, a camminare e a raggiungere i cavalli,
pian
piano, vicino, fianco a fianco.
E
quando furono in alto, lui la abbracciò di nuovo, osservando
il
mare. "Avete detto che è la vostra spiaggia, giusto?".
"Giusto".
"Avete
una barca?".
"Certo,
la usavo per pescare quando ero incinta di Jeremy" – rispose,
ricordando che quasi aveva partorito, su quella barca, facendo
infuriare Ross.
Hugh
rise. "Verreste con me, in barca, a una gita la settimana
prossima?".
"Dove
volete andare?".
Hugh
le indicò l'orizzonte. "C'è una piccola
insenatura nascosta,
non molto lontano da qui. Dicono che sia una spiaggia deliziosa e che
vi bivacchino le foche. Non ci sono mai andato ma vorrei vederle dal
vivo prima che...".
Demelza
gli prese la mano, bloccandolo. "Va bene, verrò con voi".
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette ***
Aveva
atteso quel giorno con una strana impazienza. Non era tanto la gita
in barca con Hugh ad eccitarla, ci era stata molte volte sia da sola
che con Ross dopo tutto, era la condivisione del segreto del ragazzo
che l'aveva scelta come confidente che la stordiva e in un certo
senso ubriacava, facendola sentire importante.
Poteva
dire di conoscerlo bene? Certo che no!
Poteva
dire che lui conoscesse lei e la sua storia? Anche questo, no!
Eppure
si erano trovati e nonostante non si fossero visti che poche volte,
era come se fra loro ci fosse una sorta di attrazione e voglia di
cercarsi per stare insieme. Erano due sconosciuti eppure ognuno di
loro aveva toccato cuore e anima dell'altro e Hugh l'aveva scelta per
raccontarle il suo dramma. Fiducia? Non ne era certa. Sicuramente
però, come lei, lui avvertiva la strana alchimia che si era
creata
da subito fra loro. Era solo bisogno di compagnia il suo e di Hugh?
No, non era solo questo, sapeva di esserne attratta per qualche
strano motivo e sapeva anche che Hugh provava le stesse cose. La
vedeva come una dea, ogni sua poesia ne era la testimonianza, eppure
sapeva anche che nei suoi confronti aveva desideri decisamente
carnali e davvero poco utopistici. La cosa che però la
terrorizzava,
era avvertire pure in se quel desiderio di essere sua. Che le
prendeva? Aveva avuto molti spasimanti a Londra, eppure aveva sempre
e solo desiderato essere di Ross. Invece ora, quell'uomo aveva
catturato forse non il suo cuore ma di certo i suoi sensi...
Era
la mancanza di Ross che la spingeva a sentire quel tipo di desiderio?
O la mancanza di amore e pace che la spingeva a cercare altrove,
lontana da Nampara?
Certo,
poteva pure essere che il condividere con Hugh il segreto della sua
malattia, un segreto doloroso e sicuramente fonte di preoccupazione e
disperazione, l'avesse ulteriormente avvicinata a lui.
Perché era
bello, pur nella sua tragicità, che lui avesse scelto LEI.
Mentre
la barca scivolava lentamente al largo e Hugh remava non staccandole
gli occhi di dosso, si appoggiò col viso al bordo,
osservando il blu
del mare. Immerse la mano, avvertendo il tocco gelido dell'oceano,
bagnandosi il polsino dell'abito verde che aveva scelto di indossare
quel giorno. Un abito che metteva raramente, molto aderente sul corpo
e soprattutto generosamente scollato. Ross non le aveva chiesto nulla
quella mattina su dove andasse e anzi, dalla settimana prima, a
malapena le rivolgeva la parola. La guardava e basta, distante, forse
insofferente a quella vita con lei, forse semplicemente
disinteressato ad ogni cosa che riguardava la sua famiglia. Giocava
con Bella e amava prendersi cura dei cavalli con Jeremy, certo, ma
con lei e Clowance era freddo e distante e questo la feriva
terribilmente. Sapeva che era malato, ma le faceva male lo stesso, la
feriva e la rendeva fragile e insicura, quella dannata situazione...
Voleva l'amore di Ross, era l'unica cosa che avesse mai desiderato
dalla vita. E invece aveva affetto e attenzioni, come se fosse stata
una dea, da un giovane romantico e gentile che le scriveva poesie e
la adorava e che lottava contro il tempo per cogliere ogni bagliore
di vita, prima che il buio piombasse su di lui.
"Siete
molto silenziosa oggi".
Demelza
alzò gli occhi su di lui, sospirando. "Scusate, stavo solo
pensando a un po' di cose. Ma non è nulla di importante".
"Sembrate
così assorta".
"Già,
e vi chiedo di nuovo scusa...". Si tirò su, mettendosi
composta
con la schiena contro il parapetto della barca. "E' che non
è
un buon momento per me". Si rese conto che Hugh le aveva
raccontato particolari intimi e segreti della sua vita ma lei, sulla
sua, aveva mantenuto uno strano riserbo.
Hugh
si accigliò. "Con vostro marito, nelle sue condizioni, deve
essere dura".
Demelza
si stupì che sapesse capire tanto bene la sua situazione,
senza che
gliela avesse spiegata. "Ross è spesso complicato da gestire
ed
è ancora più complicato essere sua moglie... Ma
fa parte del suo
fascino".
Hugh
smise di remare, osservandola intensamente. "Voi siete molto
bella, meritereste una vita serena e felice, senza intoppi".
"Non
esistono vite così, Hugh".
L'uomo
abbassò il capo, pensieroso. Poi lo rialzò, per
incatenare i suoi
occhi al suo viso. "Se io fossi vostro marito, l'unico mio
pensiero sarebbe lusingarvi e farvi sentire amata e unica. Non mi
importerebbe altro, solo amarvi e adorarvi...".
Demelza
gli sorrise dolcemente. La imbarazzava e allo stesso tempo la
inteneriva quel suo comportamento così ardito e passionale
verso di
lei. "Ma Ross lo fa, per lui la mia felicità è
importante ed è
la sua priorità. L'incidente alla miniera ha sconvolto le
nostre
vite, ma lui mi ama. E ama i nostri bambini, con tutto se stesso.
Vedete, voi avete una visione del matrimonio molto romantica, tenera
e dolce, ma quando si è sposati non c'è solo
questo, non ci sono
solo poesie o canzoni d'amore, ci sono i problemi da affrontare
insieme, i figli da crescere e seguire, gli inconvenienti a cui far
fronte. E sapete, forse è questo il bello dell'amore, non
tanto il
momento romantico in se ma il sapere di avere vicino qualcuno su cui
fare affidamento nei momenti difficili, qualcuno che sa prenderti per
mano e lottare con te, uscendone più forti e uniti di prima.
E'
questo che mi manca di Ross, è questo che mi fa sentire
così
insicura e sola... Combatto senza il mio compagno per far quadrare
ogni cosa e lui non c'è, non mi vede, non mi sente e non
capisce
quanto io abbia bisogno di lui. Io e Ross, insieme, abbiamo
combattuto mille battaglie. E ora lui non c'è e io sono
sola".
Solo pronunciando quelle parole dal sapore di uno sfogo, si rese
conto di quanto suo marito le mancasse. Le mancava ogni cosa di lui,
anche la sua testa dura e la sua avventatezza. Le venne da piangere,
ma coraggiosamente ricacciò indietro le lacrime. Era una
gita in
barca quella e avrebbe fatto di tutto perché fosse piacevole
per
Hugh.
L'uomo
rimase in silenzio per un attimo, forse percependo il suo
smarrimento. Poi scosse la testa. "Mi dispiace per quello che
state passando e mi dispiace anche di non pensarla proprio come voi,
a riguardo, sul matrimonio. Per me è amore, solo amore. Non
puo'
esserci spazio per altro, fra un uomo e una donna".
Demelza
sorrise, in un certo senso gli faceva tenerezza, era un ragazzo
ancora molto giovane e idealista e questo gli piaceva. "Voi
pensate al matrimonio e all'amore per una donna con la stessa idea
romantica e utopistica che avevate per l'esperienza della guerra. Il
matrimonio è amore, certo, ne è la base. Ma
è anche pazienza,
intermediazione, stanchezza, risate, giochi e scherzi coi propri
figli, momenti belli alternati a momenti brutti e anche discussioni o
crisi, se capita".
"Continuo
a non essere d'accordo con voi, ma accetto il vostro punto di vista,
se mi permetterete di mantenere il mio e di continuare ad adularvi
come la splendida fanciulla che siete".
Demelza
arrossì, sorridendo con fare ammiccante. "Credo che possiate
farlo e che mi faccia anche piacere". C'era una grande battaglia
in corso in lei, si rese conto, fra la donna sposata e piena di
problemi che era e la donna ideale e venerata da Hugh. Sapeva che
quel tipo di rapporti e sentimenti che lui inseguiva non esisteva e
non sarebbero mai potuti durare in una lunga relazione, ma le
piaceva, per una volta, essere lei la donna idealizzata e venerata da
qualcuno. Hugh la guardava come Ross, una volta, guardava
Elizabeth...
Hugh
riprese a remare, giungendo finalmente davanti ad una insenatura
arricchita da una piccola e graziosa spiaggetta sormontata da
imponenti rocce e strapiombi. "Mia signora, siamo arrivati".
Demelza
si guardò attorno, erano lontani da tutto e tutti, isolati
dal
mondo. Sentì una strana ansia in se, unita a un misto di
timore ed
emozione dal trovarsi lì, da sola, con lui. Si chiese cosa
ci
facesse in un posto del genere, un posto che poteva andar bene per
coppiette in cerca di privacy e intimità, invece che essere
a casa
sua con Bella e Prudie a preparare il pranzo per i suoi bambini
più
grandi.
Hugh
portò la barca a riva, si tolse gli stivali e scese sul
bagnasciuga,
trascinando l'imbarcazione all'asciutto. Demelza rimase stupita dalla
sua forza, sembrava tanto mingherlino e fragile e invece doveva
essere fornito di muscoli ben torniti per riuscire a fare quel che
aveva appena fatto. Per un attimo si chiese come fosse il suo corpo
ed arrossì a quel pensiero e al fatto che, di nuovo, stesse
scivolando verso pensieri che non doveva e non poteva permettersi di
provare.
Hugh
le si avvicinò, tendendole la mano. "Su, scendete".
"Non
vedo foche" – ribatté lei, guardandosi attorno. Se
non
c'erano le foche, che cosa avrebbero fatto lì, da soli, per
tutta la
mattina? Poi allungò la mano, strinse quella di Hugh e
lasciò che
la portasse delicatamente a terra.
E
quando i suoi piedi furono sulla sabbia morbida, Hugh non la
lasciò
andare. Spostò la presa dalla sua mano, cingendole la vita
per
attirarla a se. "Siete bellissima e il sole di oggi rende i
riflessi dei vostri capelli caldi come fiammelle di fuoco".
Deglutì
per quel contatto così ravvicinato e per le sue parole
così gentili
e calde. "Hugh...".
Lui
fece finta di non notare il rossore sul suo viso e la sua espressione
smarrita e confusa, avvicinandosi ancora di più a lei. "Come
vi
ho detto, Demelza, io ho conosciuto molte donne ma mai nessuna mi ha
colpito come voi. Siete bellissima, forte e intelligente, avete un
animo forte e battagliero e mi sono sentito attratto da voi fin dal
primo momento in cui vi ho vista. E so che per voi è la
stessa cosa,
lo sento...".
Demelza
cercò di riprendere possesso di se stessa, tentando di
allontanarsi
da lui per mantenere una distanza di sicurezza. Non era sicura di
cosa avrebbe fatto Hugh ma soprattutto, non era così certa
che lo
avrebbe respinto. "Qualsiasi cosa io senta, questa cosa non ha
il diritto di esistere e devo ignorarla. VOGLIO ignorarla...".
"Siete
qui con me e non state facendo nulla di male a vostro marito, lui sta
bene" – rispose Hugh, riattirandola a se. Alzò la
mano ad
accarezzarle i capelli, avvicinando il viso al suo. "Vi voglio,
voi non immaginate quanto io desideri fare l'amore con voi qui, su
questa spiaggia".
Le
sembrò che le si fermasse il cuore a quelle parole che aveva
temuto
di sentire e in un certo senso anche desiderato. E ora? E ORA? "Hugh,
sono una donna sposata, amo mio marito e...".
"E
continuereste ad amarlo indipendentemente da questo".
Le
sue parole la confondevano, non sapeva più che fare o dire e
nemmeno
sapeva più chi fosse, da tanto era turbata e alla stesso
tempo
attratta dalla presenza di Hugh. Pensò fugacemente a quanto
aveva
sofferto quando era stato Ross a tradirla, ai tre anni di separazione
e a quanto avesse ritenuto spregevole quel gesto. E ora, era pronta a
fare altrettanto? Era attratta da Hugh, se avesse assecondato i suoi
desideri fisici, gli si sarebbe concessa senza pensarci due volte, lo
sapeva. E sapeva anche che i suoi modi di fare e il suo modo di
corteggiarla la lusingavano e intenerivano, così come la sua
malattia. Ma era sufficente questo, per un passo simile di cui si
sarebbe pentita per tutta la vita?
Hugh
si avvicinò ancora di più a lei. "Siete l'ultimo
bagliore di
vita e di luce che mi resta, lo sapete... Rendetemi felice... Almeno
un bacio, solo uno...".
Un
bacio? Sarebbe stato così grave concederglielo? In fondo non
sarebbe
stato nulla di che, lui sarebbe stato felice e lei forse avrebbe
acquietato la sua anima e i suoi desideri... Un bacio, uno soltanto
in una vita intera in cui era e sarebbe stata sempre e solo di
Ross... Un attimo solo suo in cui assecondare un desiderio represso
in un momento della sua vita dove c'era spazio per tutto
fuorché per
l'amore. Lo guardò negli occhi e non disse nulla
perché non c'era
bisogno di parole. Lasciò che Hugh la attirasse a se, chiuse
gli
occhi e lasciò che le loro labbra si incontrassero.
Sussultò
lievemente quando le loro bocche si toccarono, avvertendo un sapore
diverso da quello di Ross, ma poi si rilassò, lasciando che
il bacio
diventasse più profondo e appassionato. Baciava in un modo
diverso
da quello a cui era abituata, più lento e delicato e non
riusciva a
capire se gli piacesse o se si sentisse un pesce fuor d'acqua.
Si
sentì strana... Quando Ross la baciava, riusciva ad
azzittire ogni
pensiero e ogni tensione, era come fondersi con lui con quel semplice
contatto. Con Hugh non era così, la sua mente rimaneva
vigile e
attiva e nonostante fosse piacevole, non avvertì quel senso
di
appartenenza che sentiva con suo marito.
Suo
marito... Che lei non aveva tradito nemmeno quando pensava di aver
perso per sempre, durante i tre lunghi anni che aveva trascorso
lontana da lui a Londra...
E
ora stava baciando un altro uomo, in una spiaggia isolata lontana dal
mondo...
Sentì
le mani di Hugh sprofondare nei suoi capelli, accarezzarli e giocare
coi suoi riccioli, per poi scendere brevemente al suo collo,
sfiorarlo e poi scendere ancora più giù al suo
vestito. Si muoveva,
la toccava senza smettere di baciarla e Demelza si sentiva bruciare.
Ma non era passione, non solo. Era rabbia, impotenza, sopraffazione.
Non era per Hugh e nemmeno per il bacio. Era lei che era sbagliata,
era la situazione che era totalmente sfuggita al controllo della sua
mente e la stava spingendo a fare qualcosa che non si sarebbe mai
perdonata perché sapeva che, se non lo avesse fermato, non
sarebbe
stato solo un bacio... Stava concedendosi a Hugh perché
cercava
affetto e amore, ma stava sbagliando persona a cui chiederlo. E se ne
rese conto solo in quel momento... Era da Ross che voleva quelle
attenzioni, quella vicinanza, quell'amore e quei baci che le
mancavano da morire. Erano le labbra e il corpo di Ross che lei
conosceva meglio di se stessa e con cui si sentiva a proprio agio.
Non le poesie, non l'amore perfetto e idealizzato di un uomo che la
vedeva come una dea e che forse avrebbe smesso di prestarle
attenzioni appena ottenuto quel che voleva. No! Non era questo che
desiderava, lei voleva solo quel suo marito testardo e imperfetto,
scavezzacollo ma dal cuore d'oro con cui rideva, scherzava, faceva
l'amore e litigava e poi riamava senza riserva. Ross, che di certo
non sapeva scrivere poemi e poesie e mai avrebbe imparato a farlo,
ma che per lei si sarebbe buttato nel fuoco e avrebbe affrontato da
solo interi eserciti per difenderla. Ross era la sua vita, la sua
casa, la ragione della sua esistenza, il padre dei suoi figli e colui
che l'aveva resa ciò che era, quel qualcosa che Hugh vedeva
come la
perfezione.
Improvvisamente
Hugh allontanò le labbra dalle sue, la guardò in
viso e dopo averle
dato una carezza sulla guancia, fece scivolare le mani sulla sua
schiena, prendendo a slacciarle i bottoni del vestito.
Si
sentì mancare, quella situazione era assurda. Era stanca,
disperata
e in Hugh aveva trovato un buon amico e confidente... Ne era attratta
fisicamente e intellettualmente, ma non poteva. Era vicinissima e un
pericoloso punto di rottura, quasi pronta a spezzarsi, ma non poteva
farlo, non poteva tradire Ross, i suoi figli e soprattutto se stessa.
"No..." - disse, flebilmente. Era stanca, era vero. Ma in
quel momento si rese conto che non importava, che anche lei sarebbe
andata nel fuoco per ritrovare suo marito e riportarlo da lei e anche
se era distrutta avrebbe trovato la forza per farlo senza cercare
scappatoie. Era sempre stata forte, una guerriera. E ne era fiera! E
non avrebbe permesso che l'errore e la debolezza di un momento le
impedissero per sempre di guardare in faccia i suoi figli e suo
marito.
"Demelza,
vi prego... TI prego" – sussurrò Hugh, catturando
ancora le
sue labbra.
Ma
fu solo un attimo perché stavolta trovò la forza
di respingerlo per davvero. Non poteva funzionare, erano diversi,
troppo. E lei amava
suo marito, un amore vero e non un semplice esercizio stilistico di
un rapporto idealizzato e che esisteva solo nella mente di quel
giovane e romantico poeta. Non poteva distruggere il suo matrimonio e
se stessa per un sentimento così effimero e vago, non voleva
perdere
coloro che erano la sua vera ragione di vita. "Ho detto di no,
mi dispiace". Si voltò, nascondendo il viso fra le mani per
fermare le lacrime che le sgorgavano dagli occhi. "Portatemi a
casa, per favore". Si sentiva sporca, sbagliata e confusa. Le
spiaceva far del male a Hugh ma ancor più le spiaceva
avergli
concesso quel piccolo spiraglio, quando invece si era ripromessa di
non farlo. Certo, non era infallibile, lo sapeva, ma non avrebbe mai
più permesso a nessuno di avvicinarsi tanto a lei. Doveva
tornare a
casa dai suoi bambini e da suo marito, era tutto quello che voleva.
Basta gite del giovedì a cavallo, basta gite in barca e
incontri
segreti! Era sempre stata la fiera moglie di Ross Poldark e voleva
tornare ad esserlo!
"Demelza".
Hugh tentò ancora di avvicinarsi e di approcciarsi a lei, ma
per la
seconda volta fu respinto.
"Vi
ho detto di riportarmi a casa".
...
Camminava
sulla scogliera che costeggiava la spiaggia, sola e senza quasi il
senso dell'orientamento. Era spersa e anche se conosceva quei luoghi
a memoria, non avrebbe potuto giurare di riuscire a non perdersi.
Avvertiva tutto come ovattato, attorno a lei...
Aveva
salutato Hugh frettolosamente, con la mente assente e lontana,
svuotata da ogni sentimento che l'aveva attratta di lui. Era sempre
il giovane romantico e gentile che aveva conosciuto, ma quel bacio
l'aveva come svegliata da un sonno letargico e pericoloso e ora
sapeva cosa voleva e per chi doveva lottare. Con Hugh era un addio,
lo sapevano entrambi senza dirselo, le dispiaceva ma non poteva fare
altrimenti, erano altre le sue priorità, anche se gli
augurava ogni
bene e il miracolo di una guarigione. Ma era Ross il suo primo
pensiero... Non importava quanto ci avrebbe messo, quante lacrime
avrebbe ingoiato e quanta sofferenza avrebbe affrontato. Lei rivoleva
suo marito e lo avrebbe riavuto!
Certo,
ora si sentiva spersa e infinitamente stanca, bisognosa di staccare
la spina da tutto e tutti, allontanarsi dalla Cornovaglia e ritrovare
se stessa e la forza e la grinta che da sempre la
contraddistinguevano. Ma non si sarebbe più persa, avrebbe
ritrovato
l'amore dall'unico uomo che desiderava.
Quando
vide Nampara stagliarsi davanti a lei, nel riverbero del tramonto,
gli occhi le si inondarono di lacrime al pensiero di quel tradimento
che era stata tanto vicina a commettere...
Camminò
velocemente verso l'ingresso, incespicò sui suoi passi,
entrò come
una furia rischiando di travolgere Jud che stava fumando la sua pipa.
Udì i bambini che chiacchieravano con Prudie in cucina e non
se la
sentì di affrontarli, voleva solo raggiungere la sua camera,
chiudercisi dentro e piangere finché non avesse avuto
più lacrime.
Si
nascose il viso stravolto fra le mani, corse verso le scale ma
dovette fermarsi. Non poteva evitarlo, Ross era lì che
usciva dalla
biblioteca e lei non aveva il coraggio di guardarlo in viso,
pensò
con una nota di panico. Cercò di sorpassarlo, quasi lo
travolse, ma
lui la bloccò, prendendole il polso.
"Demelza?".
"Lasciami
andare" – singhiozzò, non riusciendo a nascondere
il suo
pianto.
Ross
la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo. "Cosa
c'è?
Stai piangendo! Non ti senti bene? Ti è successo qualcosa di
male?".
C'erano
preoccupazione e ansia nella sua voce e questo la intenerì.
Era
tanto che non si preoccupava per lei. "Sto bene, voglio solo
andare in camera mia".
Ross
scosse la testa. "Demelza, sei stata via tutto il giorno non so
dove e torni in lacrime. Mi hai detto e intimato di farmi gli affari
miei e io l'ho fatto, ma se torni a casa in questo stato, io voglio
sapere che ti è successo".
"Oh
Ross". Crollò poco onorevolmente fra le sue braccia, lo
abbracciò come se fosse stata una bambina e pianse
disperatamente
col viso affondato nel suo petto. Pianse per il dolore, per le
preoccupazioni, per la stanchezza e per tutto quello che l'aveva
travolta nelle ultime settimane, pianse per il senso di colpa di aver
ceduto a Hugh, anche se era stato solo un bacio, pianse per tutto.
Pianse perché lo rivoleva indietro. Lui, suo marito, il
padre dei
suoi figli...
Ross
non disse più nulla. La abbracciò forte
però, in quel modo in cui
spesso in passato l'aveva abbracciata quando aveva avuto bisogno di
lui. Era strano come il cuore non dimenticasse mai certi gesti,
pensò
fugacemente.
Rimasero
abbracciati a lungo in corridoio, mentre in cucina i bambini e Prudie
continuavano a chiacchierare e a ridere, all'oscuro di tutto.
Demelza
alzò il viso su di lui. Era bello, affascinante come sempre.
Il suo
uomo, l'unico che volesse... Doveva ritrovare le forze e anche se
sapeva che Ross ne avrebbe sofferto, era consapevole di farlo anche
per il suo bene. Doveva ritrovare le forze e tornare ad essere la
vecchia Demelza e poteva farlo solo allontanandosi un po' da
lì per
cambiare aria. "Ho bisogno di partire per un po'. Prenderò i
bambini e starò qualche settimana a Londra per lavorare".
Ross
spalancò gli occhi e parve smarrito da quelle parole.
"Londra?
Partirai?".
"Sì,
partirò, ne ho bisogno... Starò bene e starai
bene anche tu quì,
tranquillo e senza bambini che ti assillano".
"Loro
non mi assillano" – provò ad argomentare lui.
Demelza
scosse la testa. Le spiaceva, sapeva che anche lui era confuso,
malato e terrorizzato da quel presente che li circondava, ma non
poteva fare diversamente. "Ross, DEVO andare... Ti prego, non
rendermi le cose difficili, non ce la faccio più...".
"E'
per colpa mia?".
"No,
sta tranquillo. Sono io a sentirmi inadeguata e inadatta, ora.
Lasciami andare, starò di nuovo bene e poi
tornerò da te".
Ross
annuì, arrendendosi.
E
Demelza sorrise. Sapeva che aveva capito e che riusciva a leggerle
dentro ancora come una volta, che l'amnesia non aveva cancellato lo
strano stato di simbiosi che da sempre li aveva uniti e che
permetteva ad entrambi di leggere nel cuore dell'altro. Ross aveva
capito che era a pezzi e pericolosamente vicina a spezzarsi e che se
diceva che aveva bisogno di andarsene per un po', era vero...
Sentì
una fitta al cuore ricordando quando, ormai sette anni prima, aveva
preso la medesima decisione e se n'era andata da Nampara verso
Londra, sola con Jeremy e Garrick, sicura che Ross amasse un'altra e
che il suo matrimonio fosse finito. Ma ora era diverso, lo sapeva,
non stava partendo per non ritornare, stava partendo per ritrovare le
forze per combattere per la sua famiglia e tornare più forte
di
prima.
Sarebbe
partita, si sarebbe portata dietro i suoi bimbi che aveva trascurato
a lungo nelle ultime settimane e li avrebbe ritrovati, avrebbe
ritrovato il suo ruolo di madre e poi quello di moglie. E avrebbe
ritrovato la forza per lottare per Ross.
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Capitolo 18 *** Capitolo diciotto ***
Sette
anni prima era stata una fuga, ora era il primo passo per un nuovo
inizio.
La
carrozza procedeva placidamente, nel chiarore rossastro del primo
mattino, verso Londra, dopo aver lasciato poche ore prima Nampara
avvolta dal silenzio e dal buio della notte.
Demelza
aveva portato i bambini più piccoli ancora addormentati alla
carrozza, in braccio, mentre Jeremy l'aveva aiutata coi bagagli e con
Artù che Clowance aveva voluto portare assolutamente con
loro.
Ross
li aveva visti andare senza dire una parola ma il suo sguardo non
tradiva più indifferenza, a dispetto dei giorni precedenti,
ma una
strana ansia e paura che però non aveva manifestato a parole.
Le
spiaceva andarsene così, lasciarlo in un momento tanto
difficile per
lui e non l'avrebbe fatto se essa stessa non fosse nel bel mezzo di
un momento ancora più difficile e pericoloso per la
stabilità della
loro famiglia. Se partiva, lo faceva anche e soprattutto per lui, per
i loro figli e per l'amore che da sempre li aveva uniti. Erano state
settimane complicate per lei, dove aveva rischiato di perdere non
solo se stessa ma coloro che amava davvero, trascinata da stanchezza,
solitudine e disperazione fra le braccia di un uomo gentile e dolce
ma che la stava portando su una strada pericolosa che lei non voleva
percorrere. Le spiaceva per Hugh e per la decisione di non rivedersi
più perché l'attrazione provata per lui era reale
ma non era la
follia di un momento che lei voleva, tutto ciò che
desiderava era
l'amore che sarebbe durato una vita e le attenzioni e il calore che
le aveva dato il giovane poeta non erano che un surrogato di
ciò che
aveva sempre avuto da Ross e che rivoleva indietro.
Saputo
che partiva, Caroline aveva insistito per andare con loro e Dwight,
forse capendo quanto avesse bisogno di cambiare aria dopo la morte di
Sarah, le aveva chiesto di portarla con lei per riprendersi, mentre
lui sarebbe rimasto a casa a leccarsi le ferite e a tenere d'occhio
Ross.
Le
spiaceva per la sua amica, la sua migliore amica, le spiaceva per
quello che le era successo e anche per il fatto di non essere
abbastanza in forze da esserle vicino come meritava.
Ora
Caroline sonnecchiava chiusa in un mutismo che non le era mai
appartenuto e persa in pensieri foschi e disperati che poteva ben
immaginare, avvolta nella sua coperta, così come Bella e
Clowance
che dormivano rannicchiate sul sedile, abbracciate ad Artù
che di
tanto in tanto si svegliava e le leccava sulle guance.
Solo
lei e Jeremy erano svegli. Suo figlio, a differenza di Clowance, non
era stato felice della partenza per Londra e questo l'aveva stupita
perché ci era sempre andato volentieri, ogni volta che erano
partiti
per lavoro. Stavolta invece aveva piantato un muso lungo un miglio e
si era chiuso in un ostinato silenzio, come se fosse arrabbiato con
lei. "Tesoro, cosa c'è?" - gli bisbigliò, sotto
voce.
"Niente"
– rispose il bimbo, guardando dal finestrino della carrozza.
Attenta
a non fare rumore, Demelza si alzò, sedendosi vicino a lui e
prendendolo sulle sue ginocchia. "Non è vero che non
c'è
niente, ti conosco".
Jeremy
alzò le spalle. "Tanto anche se te lo dico, tu mi
racconteresti
una bugia e allora sto zitto".
A
quelle parole piene di rabbia, Demelza si accigliò. Che
diavolo
stava dicendo? "Cosa intendi? Perché ti dovrei raccontare
bugie?".
"Perché
me ne hai dette tante, mamma".
"E
quando lo avrei fatto?".
Jeremy
la guardò negli occhi con sguardo di sfida e con una
serietà capace
di metterla in soggezione. Gli occhi di suo figlio erano scuri e
profondi come quelli di Ross e sembravano perforarle l'anima. Non
sapeva di cosa parlasse e a cosa si riferisse, ma aveva lo stesso
paura di quella conversazione con lui. Parlava di Hugh? Si era
accorto di qualcosa, nonostante le sue precauzioni nel vedere il
poeta? O parlava di altro?
"E
allora, Jeremy?".
"Perché
siamo partiti senza papà?" - chiese il bimbo.
Si
morse il labbro, indecisa su come rispondergli. Accanto a loro
dormivano tutti profondamente e nessuno sembrava far caso a quella
conversazione. "Siamo partiti perché io ho del lavoro da
sbrigare a Londra. Non è la prima volta che ci veniamo, no?".
"Si,
ma papà è sempre venuto con noi. Non siamo mai
partiti da soli".
Demelza
sospirò. Era vero, avrebbe dovuto mentirgli e le dispiaceva,
ma era
tutto troppo complicato da spiegare ad un bambino. "Papà non
sta bene e rimanere a casa, tranquillo, è tutto
ciò che gli serve
per migliorare. Io lavorerò, voi vi godrete nonno Martin e
nonna
Diane e poi torneremo a casa da lui".
Jeremy
la guardò storto. "Davvero torneremo a casa?".
"Certo!".
"E
tu tornerai da papà?".
Demelza
era confusa e non capiva appieno le paure e le ansie del figlio. E
soprattutto, non capiva il senso di quel discorso. "Si, ovvio!
Cosa dovrei fare?".
Il
bambino sospirò, guardandola nuovamente negli occhi. "Magari
lo
lasci e vai a vivere con quel poeta che ti piace tanto".
Le
parve che le si fermasse il cuore. La stava provocando? O Jeremy, per
qualche strano motivo, aveva captato qualcosa? "Jeremy, no... Io
non lascerei mai tuo padre e Hugh... Il poeta... E' solo un amico
gentile che...".
"Ci
uscivi di nascosto, lo so!" - la interruppe il bambino – "Me
lo ha detto il mio amico Benjamin Carter che lo ha sentito dalla sua
mamma. Ha detto che vai di nascosto a cavallo con lui, lontano, da
sola".
Impallidì.
Cosa poteva dirgli per giustificarsi e per tranquillizzarlo? Doveva
aspettarsela una cosa del genere, che qualcuno notasse quelle
cavalcate a due, ma stupidamente non ci aveva mai pensato. Cosa aveva
fatto? Quanto male aveva rischiato di arrecare ai suoi bambini, con
Hugh? Cosa sarebbe successo se non avesse avuto la forza di dire no?
Decise di essere sincera e di spiegargli le cose con quanto
più
tatto possibile... Jeremy aveva nove anni e non era più
così
piccolo da essere condito via con due storielle. "E' vero, sono
uscita spesso a cavallo con Hugh, ma non ho fatto niente di male, ho
solo passato del tempo con un amico che mi faceva stare bene. Lo vedi
anche tu quanto è difficile a casa, con papà
malato, quanto sono
stanca e disperata a volte... Hugh mi è stato amico e mi
è stato un
po' vicino, ma tutto finisce lì. Non lascerò
papà per Hugh, non ci
penso nemmeno e mai ci ho pensato".
Jeremy
le scandagliò il viso con sguardo indagatore. "Davvero non
lasceresti papà? Eppure lo hai fatto?".
"Quando?".
"Quando
vivevamo a Londra e lui non c'era".
Ancora
una volta, Jeremy la sorprese. Era incredibile come i bambini
sapessero captare la realtà che gli veniva celata e quanto
grande
fosse la loro sensibilità. "Jeremy" –
balbettò –
"Papà non viveva con noi perché aveva tante cose
da fare, te
l'ho raccontato tante volte".
"Sì,
ma non ci credo! Papà ci voleva bene, non sarebbe rimasto
così
tanto tempo lontano da noi".
D'istinto
alzò la mano ad accarezzare i capelli del figlio. Cosa
poteva fare
se non raccontargli nuovamente la verità anche su quello? Lo
avrebbe
tranquillizzato? O ne avrebbe aumentato le preoccupazioni e i
pensieri? Beh, indipendentemente da tutto non poteva più
mentirgli e
trattarlo come un bambino piccolo... "Hai ragione, quando
vivevamo a Londra da soli, io, te e Clowance, papà non era
con noi
perché... perché...".
"Vi
eravate lasciati" – concluse il bimbo, per lei.
Annuì.
"Sì. Avevamo molti problemi allora e io me n'ero andata da
Nampara con te, Garrick e Clowance nella pancia. E per tanto non ho
saputo più niente di lui, finché per una serie di
circonstanze non
ci siamo rincontrati".
"Quali
problemi avevate?" - chiese Jeremy.
Scosse
la testa, questo non poteva spiegarglielo perché non avrebbe
capito,
era troppo piccolo ancora e soprattutto era un qualcosa fra lei e
Ross di talmente intimo e personale che voleva rimanesse solo fra
loro. Anche se suo marito, prima dell'incidente, una volta le aveva
confidato che avrebbe voluto raccontare ai suoi figli, una volta
cresciuti, i suoi errori e come erano riusciti a superarli insieme.
Non era molto d'accordo su questa scelta di Ross, non la riteneva
né
utile né necessaria, ma ammirava il fatto che volesse
apparire ai
suoi figli come una persona imperfetta e non come un papà
impeccabile come pensavano loro... "Jeremy, ci sono cose fra me
e papà che sono solo nostre e che non credo sia giusto che
tu
sappia. A te deve bastare di sapere che insieme abbiamo superato
tanti problemi e tante tempeste e che l'amore fra me e papà
è
cresciuto negli anni e che non potremmo mai lasciarci. Siamo a Londra
perché ho bisogno di riposo e di riprendere un po' il fiato,
ma
torneremo a casa da lui più rilassati e più forti
di prima. E lo
aiuteremo a guarire. Il tuo papà, insieme a voi,
è la persona più
importante della mia vita, l'uomo che mi ha resa quel che sono e che
amo con tutta me stessa e morirei senza di lui. Tu non hai idea di
quanto sia difficile per me non averlo vicino come prima...
Lotterò
per riprendermi tuo padre, te lo giuro!". Gli accarezzò i
capelli, baciandolo sulla fronte. "Volevi una risposta sincera e
io te l'ho data, come è giusto fare con un ometto. Ora ti
senti più
tranquillo?".
Jeremy
sorrise, finalmente. E poi la abbracciò talmente forte da
soffocarla
quasi. "Sì, ora sì. Ti voglio bene mamma e
finché papà non
guarisce, ci sono io con te".
...
Giunsero
a Londra nel tardo pomeriggio, giusto in tempo per prendere parte
alla cerimonia del te che i Devrille avevano organizzato per il loro
arrivo.
Martin
e Diane erano felici di riabbracciare i bambini che non rivedevano
dall'estate precedente e, anche se erano preoccupati per le
condizioni di Ross, erano assolutamente entusiasti di riaverli
lì,
tanto da organizzare una grande merenda piena di biscotti e dolciumi
per loro.
Caroline,
dopo aver bevuto il te e sbocconcellato un solo biscotto, si era
ritirata nella sua camera adducendo un mal di testa, isolandosi da
tutto e da tutti, compresi i bambini che lei aveva sempre adorato ma
che ora sembrava voler allontanare da lei.
Demelza
aveva insistito perché soggiornasse con lei e i figli a casa
loro,
non voleva saperla sola con la servitù nella sua villa e
l'amica,
dopo molte sue insistenze, aveva accettato. Demelza sapeva che ci
voleva tempo, che la ferita di Caroline era profonda e dolorosa e
avrebbe sempre tormentato il suo cuore, però contava di
aiutarla ad
uscire dallo stato di apatìa e spossatezza in cui era caduta
dopo la
morte di Sarah. Conosceva quel tipo di dolore che era anche suo da
anni, ogni volta che il suo cuore tornava a ricordare Julia, e voleva
aiutarla, non avrebbe permesso che affrontasse quel lutto
così
terribile da sola, isolandosi dalle persone che la amavano e
allontanandosi da Dwight.
Dopo
il te rientrò anche lei in casa sua coi bambini. Caroline
dormiva,
non c'era traccia del suo passaggio in casa e la servitù le
aveva
comunicato che si era chiusa in camera sua subito dopo il suo arrivo.
Prese
i suoi figli e Artù che annusava incuriosito ogni cosa,
dirigendosi
verso la sua stanza in silenzio per non svegliare l'amica.
Bella
e Jeremy sembravano un po' smarriti dal trovarsi lì senza
Ross
mentre Clowance era incredibilmente allegra, di un'allegria che non
le vedeva addosso da molto.
La
piccola saltò sul suo grande letto matrimoniale, eccitata di
trovarsi a Londra. Aveva sempre adorato la capitale che per lei era
l'ambiente ideale dove sfoggiare il suo comportamento un po' nobile e
principesco, ma stavolta sembrava ancora più contenta.
"Che
ti prende amore?" - le chiese, mentre Bella gattonava per la
stanza seguita passo passo da Artù e Jeremy correva nella
sua camera
a sistemare i suoi vestiti.
"Mi
piace qui!" - rispose la bimba.
"Non
ti manca Nampara?".
Clowance
alzò le spalle. "Qui è più bello,
più grande e più
elegante".
Demelza
le si sedette vicino sul letto. Era preoccupata per Clowance e aveva
la sensazione che tutta quella sua allegria derivasse dal fatto di
essere lontana da Ross e da tutto quello che c'era stato di negativo
fra di loro. "Ma Nampara è casa nostra ed è il
mio posto
preferito nel mondo. Qui ci veniamo per il mio lavoro, lo sai".
"Si,
lo so. Ma spero ci rimarremo tanto".
Demelza
si accigliò, pronta ad affrontare il secondo discorso
importante
della giornata. Era ora di intervenire in quella diatriba fra padre e
figlia prima che fosse troppo tardi. "E papà? Come
farà da
solo, a Nampara?".
"Ci
sono Prudie e Jud" – rispose subito a tono la bimba.
"Non
ti manca papà?".
A
quella domanda, l'allegria di Clowance sparì e lei
tornò ad essere
la bambina smarrita che era stata a Nampara negli ultimi mesi. "No"
– disse infine, abbassando il capo.
"Non
ti credo, tu adori papà".
"No,
non è vero".
Demelza
la abbracciò, stringendola forte a se. "Clowance,
papà ti
adora. E' malato adesso e ha bisogno di te, credimi, io lo so
perché
lo conosco".
Clowance
scosse la testa a quelle parole. "No, non è vero, non ha
bisogno di me. Anzi, sta benissimo quando sto lontana".
"Non
è vero!". Non lo diceva solo per consolare sua figlia, lo
diceva perché ne era convinta. Ross, il vero Ross, senza la
sua
principessa sarebbe morto. Aveva bisogno di lei e di ritrovare quella
complicità profonda e quell'affetto disinteressato che da
sempre li
aveva uniti. "Clowance, sai qual'è il mio più
grande
orgoglio?".
La
bimba alzò lo sguardo su di lei, incuriosita."Quale?".
Demelza
sorrise dolcemente. "Aver dato ai miei figli un padre come lui,
il miglior papà che esista al mondo. Sai, io non sono stata
così
fortunata da piccola... Il mio papà... vostro nonno... non
era buono
con me".
"Perché?".
"Non
giocava con me, non mi consolava, non mi prendeva in braccio e tutto
quello che ho imparato, l'ho imparato da sola, lui beveva e basta e
poi mi picchiava con la cinghia sulla schiena. Quando ho conosciuto
il vostro papà, ero piena di cicatrici a causa delle sue
botte".
Clowance
spalancò gli occhi inorridita. "Ti picchiava? A te?".
Demelza
annuì, ricordando la miseria che era stata la sua infanzia e
come
Ross non solo l'avesse salvata da botte e miseria, ma di come le
avesse fatto conoscere il vero amore, la tenerezza e la dolcezza
dello stare insieme, tutte cose che le erano sconosciute o che
appartenevano a ricordi confusi di momenti lontani in cui era ancora
viva sua madre. Non avrebbe mai voluto nessun altro uomo come padre
dei suoi figli, lui era unico e speciale, dolce, interessato a loro e
attento ad ogni cosa che riguardasse le loro vite. "Si, vostro
nonno mi picchiava e io ero sola e spaventata. E il vostro
papà mi
ha insegnato che esiste un mondo senza botte, mi ha insegnato che si
puo' amare senza alzare le mani e che volersi bene è una
cosa
bellissima". La strinse a se, sentendola tremare alle sue
parole. "Clowance, il bene vero, il VERO amore per una persona
lo si dimostra nei momenti difficili. Troppo facile farlo quando va
tutto bene, è ora che devi dimostrare a papà
quanto lo ami e quanto
tieni a lui. Lo dobbiamo fare tutti, ha bisogno di noi
perché siamo
la sua famiglia e ci ama davvero".
La
piccola scosse la testa, piangendo silenziosamente lacrime che le
rigavano il viso. "Ma lui non mi vuole. Non mi vuole più".
Demelza
la abbracciò. Il cuore di Clowance era spezzato e si chiese
se
esistesse una medicina in grado di curarlo e di farlo tornare come
prima.
Forse
quella medicina esisteva, pensò. Ma non erano le sue parole
quelle
di cui Clowance aveva bisogno, l'unica medicina per guarirla era nelle
mani di Ross e solo lui avrebbe potuto usarla, quando si fosse
sentito pronto.
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannove ***
"Partirò
e starò via per qualche settimana. Ho degli affari da
sbrigare a
Londra e porterò con me i bambini per lasciarti tranquillo".
Era bastata
questa semplice
frase a gettarlo nel panico e nello sconforto e non capiva il
perché...
Ross si
aggirava per la casa
deserta, rimuginando su se stesso e sui suoi sentimenti tanto confusi
e contradditori da stordirlo. Erano partiti, tutti, da tre giorni e
ancora non si era abituato alla loro assenza.
Jud e
Prudie lo servivano come
meglio potevano, anche se non gli sembravano granché come
lavoranti,
ma per la maggior parte del tempo era solo. Non c'erano il vociare
allegro dei bambini, le urla e le risate di Bella o il tono dolce
della voce di Demelza a ravvivare la casa. C'era silenzio... E gli
metteva angoscia.
Ma non era
questo a metterlo
così tanto in agitazione e in soggezione...
No...
Era il
fatto che lei fosse
partita e il fatto che la sua destinazione fosse Londra...
Perché
era tanto terrorizzato per questa cosa? Che cosa c'era di male in un
viaggio di lavoro di sua moglie nella capitale? Era una cosa che, gli
avevano spiegato, Demelza faceva spesso. Era una donna importante a
Londra, gestiva giri d'affari immensi e spesso era partita per motivi
di lavoro. O almeno, così gli era stato spiegato sia da lei
che dai
due servi.
Eppure, che
LEI fosse a Londra
lo terrorizzava. Perché?
Si era
risvegliato in quella
casa sconosciuta mesi prima, senza memoria né di se stesso
né del
suo passato. Si sentiva come un libro bianco su cui doveva essere
scritta nuovamente una storia, in balìa degli eventi e
costretto a
fidarsi di persone che non conosceva ma che erano la sua famiglia.
Aveva
trovato una donna
bellissima dai lunghi capelli rossi che lo affascinava e lo lasciava
senza fiato, una donna che aveva sposato in quel suo passato tanto
oscuro e di cui non serbava ricordi e con cui aveva sempre avuto un
matrimonio felice e appassionato. O almeno, così gli aveva
raccontato Demelza.
E poi
c'erano i tre bambini
che gli erano stati presentati come suoi figli: Jeremy, dolce
sensibile e giudizioso come la madre, la piccola ribelle Clowance,
dai capelli rossi come Demelza, con cui non riusciva a legare e a
capirsi e infine Bella, un folletto dai capelli neri e ricci come i
suoi che gattonava incessantemente per tutta la casa col sorriso
perennamente sulle labbra, seguita passo passo dal cucciolo di
famiglia che non la lasciava un attimo.
Erano la
sua famiglia e
nessuno avrebbe potuto negare che erano una bella famiglia,
sicuramente invidiata e ammirata. Una famiglia perfetta e armoniosa
in passato, composta da una donna bellissima e da tre meravigliosi
bambini, una famiglia che lui stesso aveva costruito e di cui cercava
costantemente frammenti di quel passato tanto felice che aveva
scordato a causa dell'incidente in quella che, sempre a detta degli
altri, era la sua miniera.
La sua vita
e i suoi ricordi
passati li rivedeva attraverso di loro e attraverso i loro
racconti... Era come se la sua persona fosse raccontata da altri e
lui fosse uno spettatore inerme di un passato che gli apparteneva ma
che non riusciva ad afferrare. Era come non essere più una
persona
ma un oggetto costruito attraverso i ricordi altrui ed era una
sensazione orribile che non riusciva a gestire e che lo spingeva ad
isolarsi da tutto e tutti.
Ross si
guardò allo specchio,
confuso e con un gran mal di testa. Si fissò intensamente,
cercando
di imprimersi in testa le sue fattezze. Chi era lui? Cosa faceva
prima dell'incidente? Quali erano state le sue passioni e i suoi
interessi? Cosa faceva con la sua famiglia, cosa aveva reso il suo
matrimonio tanto speciale? Perché non riusciva
più a capire
Clowance che, a detta di sua moglie, era la sua pupilla e che invece
ora aveva fatto scappare di casa, tanto da decidere di prendere le
distanze da lei per evitare altri incidenti? Quanto aveva amato
quelle persone? Com'era con Demelza nell'intimità, cosa
provava
quando la baciava o quando faceva l'amore con lei?
Si
toccò la tempia che
pulsava dolorosamente. Voleva guarire e voleva ricordare! Voleva
tornare ad essere l'uomo che era stato, il Ross Poldark fiero e
scavezzacollo di cui tutti gli parlavano, voleva tornare a provare
sentimenti veri per le persone che aveva accanto e non voleva
più
sentirsi l'involucro vuoto che era diventato dal suo risveglio
dall'incidente.
Sapeva di
essere stato un peso
e un pessimo elemento, dal giorno del crollo alla miniera. Aveva
vagato per quella casa per mesi senza uno scopo preciso, osservando
senza quasi mai intervenire, se non con scarsi risultati, la gestione
della vita famigliare, studiando le persone che vivevano accanto a
lui, cercando di capire chi fossero ma di fatto senza sforzarsi di
conoscerle veramente.
Eppure,
anche senza ricordi,
sorpattutto accanto a Demelza, riaffioravano di tanto in tanto
sensazioni forti che lo stordivano. Era affascinato da lei, dalla sua
bellezza, dalla sua dolcezza e dalla sua incredibile forza e non
faticava a credere di averla amata furiosamente. Era un'attrazione
fisica fortissima che sentiva per lei, unita a una sorta di rispetto
profondo che gli aveva impedito di possederla intimamente quando ne
aveva avuto l'occasione. La desiderava ma i sentimenti che provava
per lei erano ancora molto confusi e per impostazione di carattere
non se l'era sentita di farci l'amore per soddisfare un semplice
bisogno fisico. Eppure, da quel giorno, aveva provato nostalgia nel
non averla accanto alla notte, era stato geloso di quell'uomo che la
corteggiava davanti ai suoi occhi senza ritegno, aveva sofferto nel
vederla uscire da sola per delle passeggiate a cavallo dove non era
gradito e che sospettava fossero in compagnia di quel dannato poeta
che gli aveva fatto saltare i gangheri e che, gli avevano detto,
aveva salvato durante la guerra in Francia. E ora si sentiva sperso
senza di lei. Era la luce di quella casa, la SUA luce. Era strano, ma
quando pensava a lei era questo che gli veniva in mente, la luce... E
ora era a Londra... Londra! Era partita stanca, sfinita. Era da
settimane che non la vedeva più ridere nemmeno coi loro
figli,
sempre tirata e sempre nervosa, sempre pronta a scattare per un
nonnulla, lontana e sfuggente soprattutto con lui.
Ed ora era
lontana, davvero.
Londra... Di nuovo, pensare a quella città gli contorse lo
stomaco.
Perché
il fatto che lei fosse
lì lo terrorizzava così tanto?
C'era
qualcosa, lo sentiva, lo
sapeva! Qualcosa che gli sfuggiva e che gli era stato celato e che
riguardava Demelza e quella città. Ma cosa?
Aveva
sempre avuto la
sensazione che i racconti circa il suo matrimonio fossero molto
edulcorati e probabilmente Demelza gli aveva raccontato solo cose
belle di loro per non turbarlo e perché lo riteneva troppo
fragile a
causa dell'incidente. Era difficile pensare a un matrimonio tanto
idilliaco come quello che lei gli aveva raccontato, dove non c'erano
mai state tensioni o liti... Sicuramente il loro era un grande amore
ma altrettanto sicuramente avevano avuto alti e bassi come tutti.
D'istinto,
guidato da quei
pensieri, salì le scale fino a giungere a quella che era
stata la
sua camera matrimoniale. Era da settimane che non ci andava, da
quando aveva deciso di dormire separato da Demelza.
Quella
stanza doveva essere
stato il loro mondo, il loro luogo magico dove si erano amati, dove
avevano riso e scherzato insieme, dove avevano concepito i loro figli
e dove lei li aveva messi al mondo. Doveva essere piena di ricordi
per lui, prima dell'incidente. E forse, rovistando in armadi e
scaffali, avrebbe trovato un appiglio per ricordare chi era e
ciò
che lo legava a Demelza.
Era strano,
per la prima volta
si sentiva spinto a cercare e non era soffocato dall'apatìa.
Lo
faceva per se stesso, certo. Ma, si rese conto, soprattutto lo voleva
fare per lei. Voleva ritrovare ciò che erano
perché si sentiva che
era importante e che aveva oziato fin troppo, lasciando che la
situazione gli sfuggisse di mano e logorasse il rapporto con sua
moglie.
Entrò
nella stanza, trovando
tutto in ordine e pulito. Si sedette sul letto, accarezzò le
coperte
ed i cuscini, si guardò attorno alla ricerca di
chissà cosa. Era
una stanza modesta, niente di troppo elegante o ricercato, ma aveva
in sé qualcosa di dolce, famigliare e rassicurante. Era
stato felice
fra quelle quattro pareti, se lo sentiva. Si chiese come si fosse
sentito quando erano nati i suoi figli o la prima volta che lui e
Demelza si erano amati e si sentì stupido a non aver mai
voluto
chiedere niente a sua moglie. L'aveva trascurata e allontanata, si
era chiuso in se stesso senza riuscire più a vedere quanto
lei
soffrisse e solo ora che Demelza non c'era si stava rendendo conto di
quanto fosse fragile e stanca.
Aveva
pianto fra le sue
braccia pochi giorni prima, per chissà quale motivo che non
gli
aveva voluto rivelare. L'aveva stretta a se, sentendola tremare,
aveva toccato quei suoi lunghi capelli rossi che lo inebriavano e
aveva lasciato che si sfogasse in silenzio, senza forzarla a dire
cose che evidentemente non voleva raccontare ma che la facevano stare
male, sperando dentro di se che la causa non fosse qualcosa di
troppo grave.
Si
alzò dal letto, aprendo i
cassetti dell'armadio. Gli abiti di Demelza erano piegati
ordinatamente, profumavano di sapone e tutto era piegato con cura e
attenzione. Aveva abiti modesti, ma sapeva anche che ne aveva di
più
eleganti nell'armadio a parete, abiti che probabilmente usava quando
partiva per lavoro verso Londra.
Aprì
gli altri cassetti,
trovando anche i suoi abiti. Anche quelli erano piegati in ordine e
messi via con cura e questo lo fece sorridere. Era davvero uno
stupido a non notare quanto lei facesse per lui per farlo stare
bene...
Rovistò,
trovando sul fondo
del cassetto alcune mappe della miniera piegate, dei piccoli pezzi di
rame e delle scartoffie legali che probabilmente riguardavano vecchi
affari conclusi. Poi, con suo sommo stupore, fra le sue cose
trovò
un nastrino per capelli da bambina perfettamente piegato e legato con
un filo di seta. Lo osservò, chiedendosi che cosa ci facesse
lì.
Probabilmente era finito fra le sue cose per sbaglio, pensò,
e
apparteneva a Clowance. Lo osservò accarezzandolo, sentendo
una
fitta al cuore.
Era davvero
fra le sue cose
per sbaglio? O aveva qualche significato particolare per lui?
Pensò
a Clowance, a quanto gli risultasse difficile avere a che fare con
lei e ai racconti di Demelza su quello che era stato il loro rapporto
prima dell'incidente. Era una bambina difficile, complicata e
viziata, eppure era stata la sua prediletta. Perché? E
perché quel
nastrino sembrava raccontargli una storia che sfuggiva alla sua
mente?
Scosse la
testa, rimettendolo
al suo posto. Poi continuò a rovistare fra le carte sul
fondo del
cassetto, finché non venne catturato da un foglio anonimo e
piegato
in maniera frettolosa, messo sotto tutti gli altri documenti. La
carta sembrava spiegazzata e logora, come se fosse stato letto e
riletto molte volte. Incuriosito lo prese e lo lesse... E dopo poche
righe si accorse che no, c'era un lato del suo matrimonio non certo
idilliaco e che Demelza doveva avergli nascosto molte cose.
Sentì
come il cuore fermarsi e perdere qualche colpo, mentre leggeva quella
lettera che in un passato a lui imprecisato Demelza doveva avergli
scritto.
"Ross,
ti scrivo questa lettera per informarti che sto partendo con Jeremy.
Non ha importanza né dove andrò, né
quello che farò ma ti
rassicuro che farò di tutto perché nostro figlio
stia bene, su
questo puoi dormire sonni tranquilli. Sono la figlia di un minatore
dopo tutto, una donna del popolo. E le donne del popolo sanno
cavarsela anche senza avere un uomo accanto, sanno lavorare ed
arrangiarsi da sole. Le donne del popolo non hanno bisogno
né di
aiuto né di attenzioni, come giustamente avevi detto ad
Elizabeth
durante una vostra vecchia conversazione che avevo ascoltato per
errore, a Trenwith.
Non
cercarmi, sarebbe una inutile perdita di tempo perché non
tornerò.
Non hai responsabilità verso di me, sentiti libero di vivere
come
vuoi, accanto alla donna che hai sempre desiderato. In fondo ho
sempre saputo che sarebbe successo, che era lei che volevi, che ero
solo una seconda scelta. Non è una bella sensazione vedere,
giorno
dopo giorno, che l'uomo che ami non ti considera abbastanza per lui.
E non voglio che mio figlio provi quello che provo io crescendo,
vedendo suo padre che sogna una vita e una famiglia altrove. Lo so,
l'ho sempre saputo che era Elizabeth che volevi, che né io,
né
Julia, né Jeremy saremmo mai stati alla sua altezza, che
quella
perfetta per te era lei. Non me ne vado per il tradimento di una
notte ma per tutti quelli avvenuti prima, ogni volta che diventavamo
invisibili e tu correvi da lei, senza curarti del fatto che ne
potessimo soffrire. Mi hai tradita in mille modi Ross e forse
l'ultimo non è nemmeno stato il peggiore.
Ora
non avrai più bisogno di accampare scuse, ora potrai vivere
con lei
alla luce del sole. Tu ed Elizabeth.
Il
vostro amore supererà ogni ostacolo, come non è
riuscito a fare il
nostro. Siete perfetti e fatti per stare insieme, come le avevi
detto sempre in quella famosa conversazione che ho sentito, mio
malgrado.
Ora
potrete farlo, potrete vivere il vostro amore, mi faccio da parte e
me ne vado. Ti auguro di essere felice con lei, sul serio. L'unica
cosa che ti chiedo, per me e per Jeremy, è di non cercarci
più.
Vivi la tua vita e permetti a noi di vivere la nostra, serenamente,
senza sentire il peso del confronto con altre persone. Non sentirti
in obbligo, mai, non ne abbiamo bisogno.
Demelza
Si
sentì cedere le gambe. Che
significava? CHE SIGNIFICAVA? Cosa aveva fatto, cosa le aveva fatto
soffrire? E perché aveva tenuto quella lettera tanto
terribile e
tanto piena di dolore? Per fare ammenda? Per ricordarsi per sempre
dei suoi errori?
Si
sentì la testa girargli,
si sentì in colpa per quel qualcosa che non ricordava ma di
cui
quella lettera era stata testimone. Che uomo era stato davvero, lui?
Le parole di Demelza, messe nero su bianco, erano eloquenti... Era
stato un marito che aveva tradito, che aveva trascurato la moglie e
suo figlio e che aveva avuto un'amante per la quale aveva messo da
parte la sua famiglia. Cosa significava quella lettera? Demelza aveva
avuto intenzione di andarsene e lasciarlo? E poi che era successo?
Aveva cambiato idea ed era rimasta?
Scosse la
testa, sedendosi di
nuovo sul letto. Aveva tradito... Aveva tradito LEI, quella donna che
vedeva come la sua luce e che lo affascinava in ogni cosa che faceva.
Come aveva potuto?
E chi era
Elizabeth? Che fine
aveva fatto? Non gli sembrava che nessuno l'avesse mai nominata in
sua presenza...
Rilesse la
lettera e più la
leggeva, meno ci capiva. Eccetto che le cose che gli aveva raccontato
Demelza su loro due erano solo finzioni probabilmente dette nel
tentativo di non turbarlo, viste le sue condizioni. Non era vero
niente! Non erano stati una coppia felice, non era stato un
matrimonio sereno il loro...
Lui le
aveva fatto del male,
tanto male da spingerla ad andarsene di casa. Rilesse ancora,
intuendo che quella lettera probabilmente risaliva a prima della
nascita di Clowance, visto che la bimba non era nemmeno citata nello
scritto e che Demelza parlava solo di Jeremy. E Julia.
Chi era
Julia? Sentì la testa
dolergli ancora più forte davanti a quei nomi...
Elizabeth,
Julia...
Tradimento...
Che uomo
pessimo era stato?
Quanto dolore aveva portato Demelza sulle sue spalle a causa sua?
Crollò
sul cuscino, rimanendo
per ore a fissare il soffitto senza pensieri e senza forze, con la
lettera fra le mani.
Improvvisamente
però, dopo
quel lungo silenzio, la porta si aprì.
"Giuda!
Signore, mi stavo
preoccupando, non vedendovi! E' ora di cena!" - tuonò
Prudie,
entrando nella stanza come una furia.
Ross si
alzò, guardandola con
gli occhi che sentiva arrossati. "Prudie, da quanto lavori
qui?".
La
domestica si accigliò,
asciugandosi il sudore dalla fronte. "Da quando eravate poco
più
che un poppante che succhiava il latte dal seno della madre".
"Quindi,
hai assistito a
tutta la storia fra me e Demelza?".
"Altro che!
L'ho
cresciuta io, quella ragazzina! Io e Jud l'abbiamo resa la donna di
cui poi vi siete innamorato" – rispose, con un pizzico di
orgoglio nel tono di voce.
Ross la
guardò storto,
faticando molto a crederle. "Beh... Ecco, questo non è
importante ma è un'altra la cosa che dovrei chiederti".
"Cosa?".
Ross la
guardò negli occhi,
serio. "Chi sono Elizabeth e Julia?".
All'udire
quei nomi, Prudie
spalancò gli occhi con terrore, indietreggiando. E Ross
capì di
aver aperto un capitolo rovente della sua vita. "E allora?"
- insistette, mostrandogli la lettera di Demelza.
Prudie
scosse la testa.
"Queste sono cose che dovete chiedere a vostra moglie. Solo lei
conosce il modo giusto per rispondervi" – disse, sparendo
dietro l'uscio.
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Capitolo 20 *** Capitolo venti ***
Erano stati
giorni frenetici e
veloci, quelli trascorsi a Londra. Demelza aveva corso da un lato
all’altro della città per presenziare a riunioni e
assemblee,
portare avanti i suoi affari e tenere la contabilità della
sua
locanda.
I Devrille
si erano prestati
più che volentieri a tenerle i bambini e lei aveva potuto
portare a
termine una mole enorme di lavoro arretrato. Era stanca fisicamente,
ma tutto questo correre senza mai fermarsi le permetteva di non
pensare a nulla. Sapeva di sfuggire ai problemi, all’angoscia
e al
dolore, ma non si sentiva abbastanza forte per sfogarsi, guardarsi
dentro e combattere i demoni che le avvelenavano la vita.
C’era
tanto a cui pensare, lo sapeva… Un matrimonio in bilico
dovuto a
una malattia che forse non si sarebbe mai risolta e che la avrebbe
privata per sempre di un marito e del padre dei suoi figli, il suo
momento di debolezza con Hugh che l’aveva quasi portata a
tradire
essa stessa… Era tutto così difficile e
tumultuoso e si sentiva
come una barca spersa in mezzo al mare in tempesta. E ora Ross, il
suo porto sicuro, non c’era più ad attenderla,
confortarla e
sorreggerla, era sola con tre bimbi ancora piccoli e un futuro
terribilmente incerto.
E in
più, era preoccupata per
Caroline. La sua amica, a Londra, si era isolata dal mondo e passava
le giornate rintanata nella sua stanza a crogiolarsi nel dolore che
Demelza sapeva essere lancinante ma che Caroline doveva trovare la
forza di combattere. Per se stessa e per Dwight, per il suo
matrimonio e per il grande amore che li univa. La morte di una figlia
poteva distruggere un matrimonio e lei lo sapeva bene. E per questo
doveva fare in modo di darle la spinta per ripartire, con Sarah
sempre nel cuore. Sapeva che Caroline poteva farcela, che era forte,
intelligente, sagace e piena di risorse. Doveva solo aiutarla a
ritrovare tutto ciò in se stessa.
Piombò
in camera sua che era
pomeriggio inoltrato. Fuori c’era ancora il sole e la
primavera
avanzata regalava un tiepido tepore all’aria, le gemme delle
piante
si stavano schiudendo e tutto richiamava a nuova vita che nasceva. Si
era liberata di tutti i suoi impegni della giornata, aveva chiesto a
Martin e Diane di tenerle i bambini per la notte e aveva deciso che
era ora di aiutare anche Caroline. Visto che non era di nessun aiuto
a se stessa, essendoci passata sperava di poter essere utile almeno a
lei. “Stasera usciamo!” –
esclamò entrando nella stanza dove
Caroline dormicchiava sul letto, tutta raggomitolata su se stessa.
La
donna spalancò gli occhi, si sollevò e i suoi
lunghi capelli biondi
le ricaddero disordinati e spettinati sulle spalle. “Usciamo?
Per
andare dove?” – chiese, guardandola come se fosse
stata pazza.
Demelza
alzò le spalle,
ricordando le osterie di quart’ordine che suo padre
frequentava
quando era bambina. “Non lo so, in una birreria, in una
locanda, in
qualsiasi posto dove ci sia divertimento”.
Caroline si
ributtò sul
letto. “Tu sei pazza!”.
"E
tu depressa!" - sbottò Demelza. Si sedette sul letto accanto
a
lei, accarezzandole i capelli. "So cosa provi, ci sono passata
tanto tempo fa e non voglio che sprofondi nel buio perché
poi
rischieresti di perdere di vista chi è rimasto e ti ama
davvero.
Dwight ha bisogno di te e Sarah non vorrebbe mai vedervi separati".
"Sarah
è morta" – rispose Caroline, con una freddezza nel
tono di
voce che non le era mai appartenuta.
Demelza
annuì, accarezzandole la mano. "Ma resti e resterai sempre
la
sua mamma. Comportati come se fosse qui e ti guardasse, fiera della
madre che ha".
Caroline
la guardò storto. "E sarebbe fiera di sapermi in giro per
locali di notte?".
Demelza
rise. "Per una volta possiamo anche permettercelo, lasciarci per
qualche ora tutto alle spalle e non pensare a niente".
"Demelza,
sei una donna sposata e sei madre di tre bambini!".
A
quell'affermazione, si morse il labbro. Uscire a bere un bicchiere di
vino o una birra non sarebbe stato poi così scandaloso,
almeno non
paragonato a quello che aveva condiviso con Hugh. Cosa avrebbe
pensato Caroline di lei, se glielo avesse raccontato? L'avrebbe
scandalizzata? L'avrebbe biasimata o rimproverata? Era la sua
migliore amica e avrebbe davvero voluto parlarle di quanto successo
con Hugh Armitage, però temeva le sue reazioni e soprattutto
temeva
di perdere la sua stima. Era stata pessima, si sentiva una moglie e
una madre orribile per aver permesso a quel giovane uomo di
avvicinarsi tanto a lei, per averlo desiderato, per averlo baciato...
"Dai, usciamo" – la implorò, rendendosi conto che
ne
aveva bisogno anche lei, forse più di Caroline.
La
ragazza sospirò, forse capendo il suo stato d'animo come
aveva fatto
molte volte in passato, del resto. "Usciamo! Ma torneremo presto
e sappi che ti sto odiando per questo!".
Demelza
le sorrise. "Credo di meritarmelo...".
"Assolutamente
sì!" - rispose Caroline con sguardo truce.
...
Si
erano messe degli abiti eleganti dal corpetto attillato e con una
scollatura più pronunciata del solito, anche se non volgare,
Demelza
vestita di verde e Caroline di blu, avevano passato una serata a
chiacchierare davanti ad infiniti bicchieri di Porto in una locanda
del centro frequentata da uomini d'affari e magistrati, avevano riso
come ragazzine, trascinate dai fumi dell'alcol, affogando in esso
dolori e dispiaceri, avevano danzato fino allo sfinimento
accompagnate dal suono dei violini e delle fisarmoniche e
chiacchierato di mille cose con perfetti sconosciuti.
Demelza
si sentiva strana, brilla o forse del tutto ubriaca. Spesso le
avevano detto che il vino tira fuori le verità
più nascoste ma
stranamente né lei né Caroline avevano aperto
capitoli dolorosi di
se stesse e si limitavano a parlare di perfette sciocchezze, come se
avessero avuto dieci anni e nessun problema al mondo.
Gli
altri uomini le guardavano chi con curiosità, chi con
avidità e chi
con malcelato disprezzo. Erano le uniche donne della locanda, erano
incuranti di esserlo e parevano perfettamente a loro agio pur non
avendo un uomo accanto.
Uscirono
dopo la mezzanotte, passeggiando a braccetto in una Londra buia e
deserta, costeggiando il Tamigi che scorreva placido nel suo letto.
"Sai
che non ti ho mai vista ridere così?" - le chiese Caroline,
forse più ubriaca di lei.
"Merito
del Porto!".
"Se
lo sapesse Ross... Se lo sapesse Dwight..."
Demelza
scoppiò a ridere. "Ah, magari lo sapessero e venissero qui a
rimproverarci per questa serata da pessime mogli".
Caroline
ammiccò, appoggiandosi alla staccionata che delimitava il
fiume. "Tu
una pessima moglie? Sei l'emblema della perfezione...".
Demelza
scosse la testa, sedendosi sulla staccionata, accanto a lei. "No,
non sono perfetta, anzi... Ultimamente sono stata davvero una moglie
orribile".
Lo
aveva detto in tono forzatamente scherzoso, ma Caroline la
guardò
con sguardo indagatore e incuriosito. "E che avresti fatto? Non
ho mai visto una donna con la tua forza d'animo nel seguire un marito
con tutti i problemi di Ross. Hai sempre energie, arrivi a tutto e
non ti arrendi mai. E lo ami da morire, siete appassionati come se
foste sposati da un mese".
A
quelle parole, il sorriso morì sul viso di Demelza. Magari
fosse
stata davvero così, magari avesse avuto un comportamento
tanto
perfetto... "Non mi sento così forte come dici tu e... e...".
"Cosa?".
Demelza
inspirò profondamente, cercando il coraggio per confessargli
quel
peso che sentiva sul cuore e che doveva scaricare per non scoppiare e
non arrivare a detestarsi. "Sono andata molto vicina dal tradire
Ross".
L'aria
festaiola e gioviale che aveva accompagnato la serata, sparì
all'istante. Caroline spalancò gli occhi e le si
parò davanti,
prendendola per le spalle. "Cosa? Con chi? Come?".
Abbassò
lo sguardo, vergognandosi come una ladra. "Lo conosci anche
tu... Hugh Armitage... L'ho incontrato quando sono venuta da voi
per...". Si bloccò, timorosa di pronunciare il nome della
figlia della sua amica.
Ma
Caroline capì lo stesso... "Sarah? Hai conosciuto Hugh
quando
sei venuta da noi il giorno in cui è morta?".
"Sì.
E non so, è scattato qualcosa ed ero così felice
quando mi ha detto
che sarebbe venuto a Nampara per fare visita a Ross. Mi piaceva, ero
attratta da lui e dai suoi modi gentili, da come mi vedeva e
corteggiava, dalle poesie che mi scriveva... Sono uscita da sola
spesso, a cavallo, con lui... E in una di queste volte ho permesso
che si avvicinasse tanto a me da baciarmi... E Dio solo sa dove abbia
trovato la forza di respingerlo e non andare oltre perché
dannazione, io lo desideravo!".
Caroline
la scrutò in viso. "E ti senti in colpa per questo? Solo per
questo ti senti pessima?".
"Caroline"
– sbottò – "Hai capito cosa ho detto?".
"Si,
ho capito! Hai detto che hai ceduto alle attenzioni di un uomo
gentile che ti faceva star bene. E sai una cosa? Noi esseri umani
è
questo che cerchiamo, star bene!".
Demelza
la guardava senza capire cosa stesse blaterando, quasi sicura che
fosse irrimediabilmente ubriaca. "Vorresti dire che dovrei
tradire Ross?".
Caroline
sorrise dolcemente. "No, sciocchina! Sto dicendo che hai
attraversato l'inferno e che sei umana, capita di cadere, incespicare
e perdere la strada. Succede quando si è vulnerabili, si
cerca il
modo di stare meglio. Non sei pessima, sei solo fatta di carne e ossa
come tutti e dovresti iniziare tu stessa a non sentirti sempre
indistruttubile. Chiedi aiuto quando non ce la fai oppure
capiterà
ancora che arrivi uno dal bel faccino dolce come Hugh che
cercherà
di attirarti a se. Sei bellissima Demelza, il sogno di ogni uomo...
Ma ami Ross e di questo non devi dubitare mai".
"L'ho
quasi tradito, Ross" – obiettò Demelza, colpita
dalle sue
parole.
Caroline
le diede un pizzicotto sulla guacia. "Ma non l'hai fatto e sei
tornata da lui, giusto?".
Sorrise,
non riuscì a farne a meno. "Si, son tornata da lui
perché è
lui che voglio. Ross e nessun altro! Lo rivoglio".
"E
lo riavrai!".
"Come
fai ad esserne certa?".
"Perché
Ross non ti lascerebbe mai da sola. Testardo com'è,
troverà la
strada per tornare da te. E quando lo farà, ricordati di
piangere se
vorrai farlo. E fa in modo che veda la tua stanchezza e il tuo dolore
e se ne prenda cura. Urla e chiedi aiuto quando ti serve, non fare
l'eroina perché poi saresti tu quella che si spezza e che
gli altri
giudicheranno per una singola colpa in un'intera vita esemplare. Ross
ti ama, Ross si preoccupa per te. Parlagli, quando potrai farlo e lui
saprà ascoltarti".
Quelle
parole le scaldarono il cuore. Caroline sapeva sempre cosa dirle per
farla sentire bene, come darle coraggio e forza e come farle vedere
le cose che la angosciavano da altre angolazioni. Ed era ormai come
una sorella per lei. "Grazie" sussurrò commossa,
abbracciandola.
"Grazie
a te della serata" – rispose Caroline di rimando. "Avevo
bisogno di uscire".
Demelza
la abbracciò ancora. "Devi essere forte anche tu
però, lei non
tornerà anche se passassi la vita a letto a piangerla. Vivi
per chi
è rimasto e per te stessa...".
Gli
occhi di Caroline si inumidirono. "Nemmeno la volevo all'inizio,
Sarah... E poi quando le ho voluto bene, se n'è andata".
Demelza
sospirò perché sapeva bene cosa si fosse agitato
nel cuore di
Caroline, quando era rimasta incinta di Sarah. La sua amica era molto
simile a Ross e al modo in cui si era sentito quando era rimasta
incinta di Jeremy: in trappola. Era così che l'aveva vissuta
all'inizio, Caroline, anche se i motivi erano molto diversi da quelli
che avevano mosso Ross. Ma entrambi avevano paura a donarsi a qualcun
altro per non soffrire, paura d'amare e Caroline di perdere la sua
indipendenza. Ma poi l'amore materno era scoppiato, com'era giusto
che fosse... E perdere Sarah era stato devastante. "Lo
supererai, ne sono sicura".
"Non
voglio dimenticarla e sostituirla con un altro figlio!".
Demelza
la abbracciò. "Caroline, né Jeremy, né
Clowance, né Bella
hanno sostituito Julia. Hanno scaldato il nostro cuore e alleviato il
dolore della sua perdita, ma Julia sarà sempre Julia, la
nostra
prima bambina. E spesso mi fermo a chiedermi come sarebbe stata. Sai,
ora avrebbe dodici anni e sono sicura che sarebbe in gamba e
bellissima e che Ross sarebbe follemente geloso di lei".
Caroline
si accarezzò il ventre, un gesto veloce e quasi
impercettibile.
"Quindi... non è fare un torto a Sarah, averne altri secondo
te?".
Demelza
si accigliò, la guardò in viso e poi le
osservò il ventre.
"Caroline...?".
"Si
Demelza...".
Per
un attimo si sentì lucida, l'ubriachezza passò e
fu semplicemente
felice. La abbracciò di nuovo, forte. "Sei incinta?".
Caroline
annuì, sospirando. "Incinta, ubriaca e depressa. Che cosa
seccante".
"E'
una cosa bellissima!" - urlò quasi Demelza, eccitata come se
quella in attesa fosse lei. "Però accidenti, non avresti
dovuto
bere".
"Si
che dovevo farlo! Sto così bene ora".
"Sei
incinta" – ripeté Demelza.
Caroline
le sorrise tristemente. "Preferisco non affezionarmi troppo
all'idea. Voglio accertarmi che il marmocchio sia sano, prima di
volergli bene".
Demelza
ridacchiò. "Credo che sarà impossibile aspettare
tanto.
Rischia il tuo cuore, ne vale la pena. Il bambino starà
bene, me lo
sento".
"E
anche Ross starà bene" – rispose Caroline,
rispondendo al suo
abbraccio. "E te lo dico perché anche io me lo sento".
"Caroline,
torniamo a casa?".
"Quale
casa?".
"La
nostra vera casa. Dwight e Ross ci aspettano" – rispose
Demelza. Si sentiva più forte dopo quella conversazione,
meno in
colpa e pronta a ricominciare. Aveva ragione Caroline, Ross sarebbe
tornato per lei. Di tutte le incertezze della vita, quella era la sua
unica certezza vera.
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Capitolo 21 *** Capitolo ventuno ***
Erano
quasi giunti a Nampara. Era una giornata di pioggia battente e fresca
e il buio della sera incombeva sulla carrozza che procedeva
placidamente sulle strade sterrate della Cornovaglia.
Dopo
aver lasciato Caroline a casa sua, Demelza era ripartita coi bimbi.
Jeremy non vedeva l'ora di riabbracciare suo padre, Bella non faceva
che saltellarle contenta sulle gambe mentre Clowance pareva
semplicemente silenziosa e disinteressata. Demelza sapeva che non era
felice del ritorno a casa, che avrebbe preferito rimanere a Londra
dove era più serena e che i problemi fra lei e Ross erano
ben
lontani dal risolversi. Era cambiata molto la sua bambina, nel giro
di quei pochi mesi. Non si metteva più in mostra, non
cercava più
di primeggiare ma anzi, pareva preferire starsene in disparte, non
vista e non notata. Non chiacchierava più con quel suo fare
da
maestrina saggia, non sorrideva più e soprattutto, non
cercava più
un contatto con suo padre. Aveva rinunciato all'idea, forse... E
sicuramente era anche molto arrabbiata. Era una situazione difficile
e Demelza non sapeva come intervenire in modo costruttivo. "Bambini,
appena entriamo in casa, correte a salutare papà"
– disse,
sospirando. Ricominciava la sua battaglia per tenere unita la
famiglia, si sentiva in forze e rigenerata e non avrebbe mollato la
presa finché Ross non fosse guarito. Non sapeva ancora come
aiutarlo
e in che modo sarebbe avvenuto, però lui sarebbe tornato da
lei.
"Pappppaaaaaa!
Juiiiiiiii e Puuudiiiiii" – urlò contenta Bella,
agitando le
manine e battendosele sulle gambe.
Demelza
sorrise, stava bene con loro. Anche Bella era cambiata molto in quei
mesi e anche se era pigra da morire, stava iniziando ad impegnarsi
seriamente a rimanere in piedi e a camminare, anche se durava solo
pochi passi. E anche il suo vocabolario era cresciuto un po'. "Si,
hai ragione, vedremo anche Jud e Prudie" –
sussurrò,
baciandola sulla tempia.
Quando
la carrozza si fermò davanti a Nampara, il cocchiere la
aiutò a
scendere, riparandola dalla pioggia assieme ai bambini. Strinse a se
Bella e nascose sotto il suo mantello Clowance e Jeremy, poi corsero
fino all'uscio di casa. Pioveva a dirotto, sempre più forte,
e in
lontananza si sentivano sommessi tuoni.
Dalla
cucina proveniva il bagliore delle candele e del fuoco e questo la
rincuorò. Sapeva di casa...
Jud
le andò incontro borbottando. "Non è gentile, non
è umano e
non è appropriato arrivare a quest'ora e interrompere un
pover'uomo
che si sta bevendo il suo meritato bicchiere di Porto dopo una
giornata passata a faticare come un asino" – disse, correndo
fuori per prendere i suoi bagagli.
Demelza
rise, era proprio a casa!
Prudie
le corse incontro abbracciando lei e i bambini. "Ragazza mia,
non vi aspettavamo fino a domani e ho già sistemato tutto
visto che
il padrone ha già cenato. Ma se volete mangiare, mi
arrangierò a
prepararvi qualcosa".
"Abbiamo
mangiato per strada" – rispose Demelza togliendosi il
mantello. "Siamo a posto così, grazie Prudie". Si
guardò
attorno, di Ross non c'era traccia. "Lui dov'è?".
"In
libreria a rimuginare su qualcosa" – rispose la serva.
Demelza
guardò i bimbi, forse delusa dal fatto che lui non gli fosse
andato
incontro. "Su, avete sentito? Correte a salutare papà".
Jeremy
corse nella libreria e Bella lo seguì gattonando come una
matta.
Clowance, sospirando, andò loro dietro a piccoli passi.
Sentì
chiacchiere e risate di Jeremy e Bella provenire dalla biblioteca e
un timido 'ciao' detto da Clowance e poi Ross arrivò nel
salone coi
tre bambini.
Demelza
deglutì. Era strano ma si sentiva emozionata nel vederlo.
Era
emozionata come quando era la sua serva e lui si dimostrava gentile
con lei, emozionata come durante il loro primo bacio e la loro prima
volta insieme, quando Ross l'aveva fatta diventare una donna...
Emozionata come quando le aveva detto di amarla per la prima volta,
dopo che l'aveva sposata.
Ross
invece era come sempre, scuro e con sguardo indagatore disegnato sul
volto. La osservò per un lungo istante e poi con un cenno
del capo,
senza un abbraccio, la salutò. "Bentornata" –
disse
semplicemente.
Demelza
si morse il labbro. Beh, in fondo che si aspettava? Un abbraccio? Un
bacio? "Grazie" – disse rassegnata, avvicinandosi e
prendendogli Bella dalle braccia.
Clowance
corse senza dire nulla nella sua stanza mentre Jeremy ruppe quel
momento di tensione raccontando delle mille cose che aveva fatto a
Londra.
Ross
lo ascoltò con attenzione mentre lei svuotava, aiutata da
Prudie, i
bagagli. Nulla era cambiato dalla sua partenza, eccetto una cosa...
Ross la osservava insistentemente e sentiva i suoi occhi indugiare su
di lei senza mollare la presa, tanto che si chiese se gli fosse
mancata.
Improvvisamente
le si avvicinò, prendendole le cose di mano. "Ti aiuto a
portare tutto di sopra".
Lo
lasciò fare, senza parole, seguendolo silenziosamente sulle
scale e
lasciando i bambini alle cure di Prudie.
"Ti
appoggio gli abiti sul letto?" - le chiese, appena furono in
stanza.
"Si".
Era allibita e forse piacevolmente sorpresa che la stesse aiutando,
nonostante il suo tono freddo. "Grazie" – mormorò.
"Sono
tuo marito, no? E' mio dovere". Ross indugiò un attimo nella
stanza, come rimuginando su qualcosa. "Senti, devo chiederti
scusa" – disse infine, velocemente, come se fosse imbarazzato.
Demelza
si accigliò. "Scusa per cosa?".
Ross
si guardò attorno, finendo per osservare la cassettiera.
"Mentre
non c'eri, sono entrato in questa stanza".
Questo
la fece sorridere e le fece tenerezza. "Non mi devi chiedere
scusa per questo, è anche la tua stanza" – disse,
sedendosi
sul letto.
Ross
fece passare il dito sulla cassettiera. "Sai, cercavo qualcosa
che mi aiutasse a ricordare e pensavo che qui, fra le mie cose...".
"Non
devi giustificarti, Ross. Hai fatto bene! Hai trovato qualcosa che ti
ha aiutato?".
Ross
le si avvicinò, sedendosi accanto a lei sul letto.
Abbassò il viso,
pensieroso, come cercando le parole adatte per parlarle. "Ho
trovato una tua lettera, nel cassetto". Si rovistò nelle
tasche, porgendole un foglietto spiegazzato.
Demelza
lo prese, aprendolo incuriosita, non sapendo assolutamente che cosa
fosse. Ma le bastò leggere poche righe per rendersi conto
che...
Ritornò alla mente a tanti anni prima, quando aveva preso
Jeremy e
Garrick e, disperata, se n'era andata da Nampara senza un soldo in
tasca, convinta che il suo matrimonio fosse finito e che Ross non
l'avesse mai amata. Era sbalordita dal fatto che suo marito, anche
dopo la riappacificazione, l'avesse tenuta... Alzò il viso
ed
incontrò gli occhi scuri di Ross che la fissavano,
indagatori ed in
attesa di una spiegazione. Deglutì, rendendosi conto che gli
aveva
raccontato tante mezze verità su di loro, dall'incidente, e
che
sarebbe stato difficile e doloroso aprire quel capitolo. Sia per lei
che per lui, che non aveva idea di come l'avrebbe presa.
Ross
le prese la mano, stringendola nella sua. Un gesto famigliare una
volta, che ora invece le faceva venire la pelle d'oca. "Dimmi la
verità, per favore. Se vuoi aiutarmi a guarire, dimmi
com'eravamo
davvero".
Demelza
osservò quella lettera, ricordando le lacrime e l'amarezza
che
l'avevano accompagnata mentre la scriveva. Era stata arrabbiata a
quel tempo, con Ross, era stata infelice e soprattutto devastata dal
dolore di doversene andare perché convinta che quell'uomo
che
venerava e che amava più di ogni altra cosa, fosse di
un'altra.
"Dopo l'incidente, Dwight ha detto che non dovevo turbarti...
Come avrei potuto parlarti di questo?" - concluse, alzando il
pugno dove teneva la lettera.
"Fallo
ora! Sono abbastanza in forze per affrontare la verità".
Annuì,
chiudendo gli occhi, era inevitabile, ormai doveva riaprire quella
ferita. "Piangevo, mentre ti scrivevo questa lettera. Avevo il
baratro davanti, il nulla, non avevo denaro, certezze e nemmeno avrei
avuto una casa, una volta che me ne fossi andata. Sarei stata solo
io, con Jeremy e il nostro cane, in balìa del nulla e
dell'incerto.
Ma non potevo restare comunque...".
Ross
scosse la testa. "Il nostro non era un matrimonio felice,
vero?".
"Lo
è stato, negli ultimi quattro anni. E anche appena sposati,
anche se
sapevo che nel tuo cuore c'era anche un'altra donna".
"Elizabeth?"
- chiese Ross.
Annuì.
"Sì, lei. Il tuo primo amore giovanile, la ragazza che
volevi
sposare quando fossi tornato dalla guerra. Ma quando sei tornato, lei
era promessa sposa a tuo cugino Francis e non l'hai mai superata del
tutto. Era come un tarlo, sempre lì nella tua testa, era un
qualcosa
che avevi sognato e che non avevi mai avuto, un eterno dubbio su come
sarebbe stato averla e vivere con lei la tua vita. Elizabeth era
bellissima, nobile, dalle maniere eleganti, sempre perfetta... E poi
sono arrivata io e quello che ti ho detto sui nostri inizi era vero,
sono stata prima la tua domestica e poi tua moglie. Ci siamo sposati
ma non c'era amore nel tuo cuore, per me. Poi è arrivato,
pian
piano. E io ero così felice e mi sentivo la donna
più fortunata del
mondo a pensare che un uomo come te avesse scelto me come compagna.
Ma Elizabeth era sempre lì e scavava, scavava nel tuo cuore
e nella
tua mente. Finché, dopo la morte di tuo cugino, lei
è tornata ad
essere per te quel sogno che poteva essere realizzato ora che non
c'erano ostacoli".
"Ma
c'erano ostacoli, c'eri tu!" - la interruppe Ross. "Io ero
sposato con te, giusto?".
"Dopo
la morte di Francis, sono diventata invisibile ai tuoi occhi. Io e
Jeremy eravamo diventati un impedimento per te, un peso... Correvi
sempre da Elizabeth trovando mille scuse per aiutarla e starle vicino
e trovandone altrettante per non occuparti di noi. E poi, quando hai
saputo che lei avrebbe sposato in seconde nozze il tuo acerrimo
nemico George Warleggan, sei esploso. E' esplosa la rabbia repressa e
quel desiderio che mai hai potuto appagare". Sentì gli occhi
inumidirsi, al ricordo di quella notte terribile. "E così
è
successo, mi hai tradita con lei... E tutto è andato
definitivamente
a rotoli. Credevo che niente ti avrebbe potuto separare da colei che
amavi e che finalmente avevi e così ti scrissi quella
lettera, presi
Jeremy e me ne andai". Alzò il viso, notando che Ross aveva
gli
occhi spalancati e... lucidi?
"Mi
dispiace..." - disse lui, solamente.
"Lo
so". Stava parlando con il vecchio Ross in quel momento. Perché
era una delle sue certezze più grandi. Si era odiato, si era
maledetto e aveva scontato e purgato ogni suo errore e con dolore
aveva vissuto tre anni in completa solitudine, pensando a lei. "E'
passato tanto tempo da allora e come vedi, siamo qui insieme adesso".
Ross
osservò il vuoto, perplesso e pensieroso. "Ti ho tradita...
Come diavolo ho potuto?".
"E'
successo e basta. Ma forse serviva a farci capire quanto fossimo
importanti noi due, l'uno per l'altra".
"Ma
non avrei dovuto farlo comunque". Strinse i pugni, teso. "Sei
una donna bellissima, riesci ad incantarmi in ogni cosa che fai, non
c'è nulla che non riusciresti a portare a termine e sei una
madre
stupenda. Che diavolo avevo nella testa? Come ho potuto essere
così
stupido e insensibile, tanto da spingerti ad andartene?".
Per
un attimo rimase muta, interdetta. Le aveva detto che era bella, che
era incantato da lei... Glielo aveva detto ORA che non ricordava
nulla di loro! Le si scaldò il cuore a quelle parole. "Ross,
credo che tu ti sia posto da solo, in passato, queste domande. E che
abbia trovato le tue risposte".
"Che
è successo dopo che hai scritto quella lettera e te ne sei
andata?".
Strinse
la mano di Ross che ancora teneva la sua. "Sono andata a Londra
e non è stato facile all'inizio. Non avevo denaro, ero sola
con un
bambino e aspettavo Clowance. Mi accorsi di essere incinta appena
arrivata nella capitale ed ero terrorizzata. Poi ho incontrato per
caso Caroline Penvenen e da allora, tutto ha iniziato ad andarmi
bene. Ho aperto una locanda e poi per una serie di casi fortunati,
sono entrata in finanza e nel giro di poco sono diventata
ricchissima. Avevo tutto, denaro, una grande villa, amici e
soprattutto i miei due splendidi bambini. Ma ero sola, mi sentivo
sola, sai? Non c'eri tu, non eri lì con me a costruire tutto
ciò
che avevo... Eravamo lontani, non avevi idea di dove fossi finita e
non sapevi nemmeno dell'esistenza di Clowance. E io non sapevo nulla
della tua vita. Non ci siamo visti per tre anni e poi, per caso e
grazie a Caroline e Dwight, le nostre strade si sono rincrociate".
Ross
la fissava negli occhi, come catturato in una rete da quel racconto.
"E poi?".
Demelza
gli sorrise, alzando una mano ad accarezzargli la guancia. "Eravamo
due persone molto diverse, quando ci siamo rivisti. Tu ERI cambiato.
Mi amavi e io non avevo mai smesso di amare te, nonostante tutto.
Ritrovarci, riscoprirci e ricomiciare è stato inevitabile e
da
allora siamo diventati davvero una cosa sola, felici, innamorati, non
esisteva più niente a parte noi due e i nostri figli. Siamo
tornati
a Nampara e dopo alcuni anni è nata Bella. Eravamo felici
fino al
giorno del tuo incidente... Mi piaceva come facevi, mi piaceva che al
mattino il tuo primo pensiero fosse darmi un bacio, così
come facevi
la sera prima di dormire. Mi piaceva il modo in cui mi guardavi, mi
parlavi, come scherzavamo e come ridevamo insieme di tutto, come se
ci riscoprissimo da capo ogni giorno. Giocavi coi bambini e avevi un
rapporto unico con Clowance. Era la figlia che non avevi visto
nascere, ti sentivi in colpa per questo e per non averla seguita per
i primi due anni della sua vita. E lei ti ammagliava col suo
carattere, siete sempre stati anime affini voi due".
Ross
abbassò lo sguardo, pieno di sensi di colpa. Clowance era
stata la
figlia che più aveva cercato di allontanare e ora poteva
capire cosa
avesse generato in lei il suo comportamento. "C'è un suo
nastrino nel mio cassetto, credo ci sia finito dentro per caso".
Lo
sguardo di Demelza si addolcì a quelle parole. "No, non
è lì
per caso. E' un ricordo importante per te. Clowance te lo
regalò la
prima volta che vi siete incontrati tu e lei, a casa di Caroline a
Londra. Aveva un anno e mezzo allora e tu non avevi idea che fosse
tua figlia. Da quel giorno, lo hai sempre tenuto con te".
Ross
abbassò lo sguardo. "Mi dispiace, con Clowance ho combinato
solo disastri e quando è scappata, avrebbe potuto succederle
di
tutto a causa mia. E tutto perché non ho voluto ascoltare i
tuoi
consigli".
Demelza
sorrise. "Tu sei testardo, difficilmente ascolti i miei consigli
quando ti incaponisci su qualcosa. Eri così anche prima
dell'incidente, ad essere onesta".
Il
clima sembrò distendersi per un attimo alle parole scherzose
di
Demelza. Ross le accarezzò la mano, le dita, facendole
scorrere
brividi lungo la schiena. "Che ne è stato di Elizabeth?".
Demelza
deglutì. Ancora, dopo tanti anni, parlare di lei le faceva
male. Il
vecchio Ross non la nominava più e anche se probabilmente
poteva
essere capitato che l'avesse pensata, non gliene aveva mai fatto
parola. "E' morta di parto due anni fa". Non entrò nei
particolari, non ne aveva voglia. Non aveva la forza di raccontargli
tutto e non voleva nemmeno pensare alla paternità di
Valentin e di
come lui avrebbe potuto prenderla.
E
Ross dovette capirlo perché su quell'argomento non chiese
altro.
Ma... "E Julia? In quella lettera parli di una certa Julia, chi
è?".
Julia...
Le si inumidirono gli occhi, quella ferita si riapriva ogni volta che
sentiva quel nome. "Era la nostra prima figlia" –
sussurrò, trattenendo l'emozione.
"Era?".
"Era...".
Ross
la abbracciò e lei sentì che aveva capito anche
senza spiegazioni
ulteriori. Non ce n'era bisogno...
"Ne
abbiamo passate tante, noi due, a quanto vedo" –
sussurrò
Ross, fra i suoi capelli.
"Sì".
"Eppure
siamo qui, siamo insieme. Questo non è sorprendente?".
Demelza
fu colpita da quelle parole perché in esse c'era il succo
del loro
rapporto. Già, era sorprendente che non si fossero mai persi
ma che
invece attraverso le prove che la vita aveva riservato ad entrambi,
avessero saputo crescere insieme, fondersi e diventare un amore vero
e indissolubile. La maggior parte delle coppie non ce l'avrebbe fatta
a sopportare quello che avevano sopportato loro due. Rispose al suo
abbraccio, aveva bisogno di lui. Non l'aveva mai stretta a quel modo,
da quando si era fatto male. L'aveva abbracciata quando era tornata
in lacrime dalla gita in barca con Hugh ma non a quel modo, non con
quell'intensità.
Ross
le accarezzò i capelli, desideroso anche lui di non rompere
quel
contatto. "Sai, io non riesco a ricordare niente di quello che
mi hai raccontato ma so che è vero tutto quello che mi hai
detto. Io
sento di appartenere a questo posto, a questa casa ed è una
cosa
come radicata in me... Non so spiegarlo ma è come se
emozioni e
mente viaggiassero in maniera differente. Tu sei mia moglie e io so
che lo sei, non ricordo il nostro matrimonio, non ricordo niente di
niente di quando son nati i nostri figli ma so che c'ero e che ero
emozionato quando li ho presi in braccio la prima volta. Io ti
guardo, mi affascini e ti trovo assolutamente bellissima e penso
spesso che probabilmente sono stato una persona molto lungimirante e
intelligente a sposarti. So che ti amavo, so che ti veneravo
perché
sarebbe stato impossibile non farlo. Mi sei mancata quando sei
partita per Londra, sentire il nome di quella città mi
terrorizzava
e ora so perché. Era la città che per tre anni ci
aveva diviso,
giusto?".
"Giusto".
Ross
sospirò. "E probabilmente quella paura di perderti di nuovo
mi
ha accompagnato sempre, anche dopo che sei tornata qui. Non
è un
ricordo, è una consapevolezza che esiste in me. Io devo
avere avuto
paura, negli anni, che tu te ne andassi di nuovo. E so che per tre
anni io sono stato da cani senza di te. Lo so perché lo
sento. Così
come mi sentivo geloso di quell'uomo che ci è venuto a
trovare,
Hugh, giusto?".
Demelza
spalancò gli occhi, il cuore le accelerò. Ross le
aveva detto cose
bellissime che le avevano scaldato il cuore... Ma aveva anche citato
Hugh e questo la riempiva di sensi di colpa e paura. A Ross non
sfuggiva mai niente, era da sempre così e anche quel giorno
aveva
notato lo strano gioco di seduzione fra lei e il poeta. "Lui...
lo hai visto solo una volta, dopo tutto" –
balbettò.
Ross
la guardò in viso, scrutandola con quei suoi occhi neri e
profondi
che sapevano leggerle nell'anima. E sapeva che riusciva a farlo anche
in quel momento... "E tu, lo hai visto solo una volta?" -
le chiese, sibillino.
"No".
Fu sincera, non voleva mentirgli. "L'ho visto altre volte
lontano da qui". Strinse con la mano la coperta, prese a tremare
e lottò per non scoppiare a piangere. Ma alla fine le
lacrime ebbero
la meglio su di lei, sul suo dolore e su tutti i sentimenti che stava
provando. "Mi sentivo sola, disperata... E lui mi faceva stare
meglio! Era come vivere isolata dalla realtà, lontana da
tutti i
problemi. C'era lui ed era gentile, dolce, mi guardava come si guarda
a una dea. E poi c'eri tu che non volevi nemmeno toccarmi e che mi
voltavi le spalle, che non sapevi più parlarmi, stare coi
nostri
figli, stare con me... Lo so, non è una giustificazione, ma
era così
che mi sentivo. Sola! Finché ho capito che non poteva
esserci
nient'altro che te, per me, che eri tu tutto ciò che volevo
e che ti
avrei ritrovato, in un modo o nell'altro. E per fortuna l'ho capito
in tempo".
Ross
chiuse gli occhi, forse arrabbiato, forse ferito o forse deluso. O
probabilmente tutte queste cose. Poi per lunghi istanti non disse
nulla, non si mosse e restò a fissare il vuoto. E alla
fine... "Mi
dispiace che tu ti sia sentita così e mi dispiace di non
averlo
capito o non aver saputo ascoltarti".
Spalancò
gli occhi, sorpresa. Sapeva che la questione non sarebbe finita
lì,
sapeva che una volta guarito – perché sarebbe
guarito – avrebbe
affrontato la cosa e chiesto spiegazioni, ma ora sembrava
semplicemente ferito per averle fatto del male e averla quasi spinta
fra le braccia di un altro. Non era giusto, pensò, non era
colpa di
Ross, quanto successo con Hugh era solo colpa sua. Scoppiò a
piangere, non riuscì a impedirlo. Si nascose il viso fra le
mani,
singhiozzò come una bambina e Ross la
riabbracciò. "Sta
tranquilla, non fare così" – le
sussurrò, affondando il viso
nel suo collo. "Va tutto bene".
Scosse
la testa. "No Ross, non va tutto bene! Io ti rivoglio, rivoglio
noi! Rivoglio mio marito, rivoglio le tue carezze, i tuoi baci, i
tuoi abbracci, rivoglio fare l'amore con te, averti vicino come
marito, amico, amante, voglio tutto quello che ci univa e che mi
manca, mi manca come l'aria".
Le
prese il volto fra le mani, appoggiò la fronte alla sua. "Lo
riavremo, io VOGLIO riaverlo! E se davvero sono testardo come dici
tu, allora succederà, tornerò da te come prima.
Ma ti prego, non
piangere, non lo sopporto. Dammi solo del tempo".
"Giuramelo!".
"Te
lo giuro, Demelza. Perché quello che vuoi tu, lo voglio
anche io.
Cosa pensi, che non ti desideri? Santo cielo, mi fai mancare il fiato
in ogni cosa che fai e vorrei viverti come
prima. Sai, mi chiedo spesso com'era stare con te, cosa provavo
quando ti baciavo, quando facevo l'amore con te, quando eravamo una
cosa sola...".
Demelza
arrossì. Davvero sentiva quelle cose, davvero la desiderava?
"E
allora, perché mi hai respinta? Perché
non mi parlavi, perché mi allontanavi?".
"Perché
era difficile per me, tutto quanto. Rapportarmi a voi, significava
rapportarsi a quel passato che voi conoscete e che mi è
sconosciuto,
nonostante mi riguardi. E per quanto riguarda noi due...".
"Cosa?".
"Io
non voglio solo piacere fisico, voglio tutto il resto di
te, voglio la tua anima e il tuo cuore, oltre al tuo corpo.
Non volevo approfittarmi di te, ti desideravo ma mi eri ancora
estranea e
sentivo che non
potevo farlo".
Questo
la intenerì, era Ross, era tipico di lui essere
così fiero e corretto. "Vuoi
sapere come ci sentivamo quando facevamo l'amore?".
"Si".
"Semplicemente,
il resto del mondo smetteva di esistere in quei momenti. Eravamo
l'unica cosa che contava".
Ross
le sorrise,
la
strinse a se e poi si stesero sul letto. Non la lasciò
nemmeno per
un istante, continuando ad accarezzarle la schiena e i capelli. "Abbi
pazienza..." - le ripeté.
"Va
bene". Affondò il viso contro il suo petto, inspirando il
profumo della sua pelle e imprimendo in se il calore delle sue mani
che la sfioravano. "I bambini... Non posso rimanere qui, sotto
ci sono i nostri figli da soli" – disse
sommessamente, tornando brevemente alla realtà.
Ross
le baciò la fronte, non
allentando la presa su di lei. "Non sono soli, Prudie e Jud si
occuperanno di loro. Restiamo qui, così, insieme. Ho bisogno
di te".
Annuì,
arrendendosi al fatto che anche lei aveva bisogno di lui. "Va
bene".
"Ce
la faremo, come sempre" – sussurrò al suo orecchio
Ross.
Demelza,
nella semi oscurità sorrise. Si sentiva al sicuro fra le sue
braccia
e sapeva che se Ross prometteva, poi manteneva. "Sì, come
sempre" – ripeté,
appoggiando la fronte alla sua spalla.
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Capitolo 22 *** Capitolo ventidue ***
Erano
passate due settimane dal ritorno di Demelza a Nampara. La primavera
si era fatta calda, i giorni di pioggia erano diminuiti e il vento
che sferzava le scogliere era meno impetuoso.
Anche
la situazione in casa sembrava migliorata, meno tesa, più
serena,
ancora piena di silenzi ma anche di piccoli momenti di condivisione.
Ross
aprì gli occhi, stiracchiandosi, mentre la luce del mattino
faceva
capolino dalle finestre. Era tornato a dormire con Demelza, la notte.
E anche se fra loro non c'era ancora stata intimità vera e
propria,
sentiva che voleva avere vicino. Parlavano la sera, del loro passato
e del più e del meno, non era importante l'argomento
trattato.
L'importante era parlare e non rintanarsi più ognuno nel
proprio
mondo.
La
trovava bellissima con la camicia da notte bianca, coi lunghi capelli
sciolti sparsi sul cuscino e con l'espressione tranquilla e quasi
fanciullesca che assumeva quando si addormentava. Avrebbe passato ore
a guardarla dormire e non escludeva di averlo fatto prima
dell'incidente. Certe volte allungava la nano e le sfiorava piano
quei boccoli color fuoco, le guance e le labbra, talmente delicato
che lei non se ne accorgeva nemmeno.
Era
stupenda, ne era incredibilmente attratto... E assieme a questo,
ormai, sentiva di aver raggiunto un tipo di sentimenti talmente
intensi verso di lei, da ritenerli molto simili a quelli che
l'avevano legato a sua moglie prima dell'incidente. Ne era
innamorato, non riusciva a definire in altro modo quel miscuglio di
sentimenti dolci, teneri, appassionati e selvaggi che provava quando
pensava a lei o quando l'aveva accanto. Voglia di averla, di
proteggerla, di lottare per un suo sorriso, di confortarla, di
amarla...
Cercò
con la mano il braccio di Demelza e solo in quel momento si accorse
che non era più a letto. Aprì gli occhi di scatto
e si mise a
sedere, rendendosi conto che forse era tardi ed aveva dormito
più
del solito.
Si
lavò e si vestì in fretta, scendendo al piano di
sotto a cercarla.
Non la trovò però.
A
tavola c'erano Jeremy e Clowance che facevano colazione, Prudie stava
sistemando delle stoviglie nella credenza e Jud era intento ad andare
e venire dal cortile portando fuori grossi sacchi vuoti.
"Dov'è
Demelza?".
Prudie,
sbuffando, prese la tazza di latte vuota che Jeremy aveva appena
finito di svuotare. "La piccola Bella stamattina faceva i
capricci, frignava e per non svegliare tutti, la signora l'ha presa e
l'ha portata in spiaggia a giocare un po'. Ora io e Jud finiamo di
sistemare le cose, prendiamo i bambini e li accompagnamo a scuola e
poi andiamo col carro al villaggio a fare provviste. Avete bisogno di
qualcosa, signore?".
"No,
di nulla, grazie". Tirò un sospiro di sollievo. Demelza era
con
Bella, non era sparita da sola chissà dove...
Jeremy
gli diede un bacio sulla guancia, lo salutò e corse in
camera a
prendere il suo libro. Ross sorrise. Suo figlio era entusiasta del
fatto che dormisse di nuovo con sua madre, con lui chiacchierava
spesso e avevano un rapporto sereno. Spesso gli chiedeva cosa
faccessero insieme prima dell'incidente e Jeremy era sempre
entusiasta di raccontarglielo. Con Bella era tutto divertente e
facile, aveva l'argento vivo addosso e rideva sempre. Riusciva a
metterlo di buon umore, la piccolina di casa, sempre contenta, sempre
buffa e goffa nel muoversi per casa e sempre in compagnia di
Artù
che la seguiva in ogni cosa che faceva. Anche se era ancora un
cucciolo, benché raddoppiato di dimensioni rispetto a quando
era
arrivato, era come se Artù si fosse autoproclamato guardia
del corpo
della piccola.
Era
con Clowance che era ancora bloccato. Ci aveva provato ad
avvicinarsi, ma la piccola aveva frapposto un muro fra loro. Gli
voltava le spalle, lo liquidava con poche parole e poi spariva in
camera sua, quando tentava degli approcci con lei. In quei giorni
l'aveva osservata attentamente, stupendosi del fatto che, fino a quel
momento, non avesse mai notato la grande somiglianza con Demelza.
Stessi capelli, stesso sguardo, stessi lineamenti. Era bellissima
come sua madre e sarebbe diventata una donna stupenda, nel giro di
pochi anni. Era la sua figlia prediletta...
La
guardò mentre si tagliava una pagnotta per spalmarvi del
burro e
della marmellata. "Vuoi che ti aiuti?" - le chiese,
avvicinandosi.
Clowance
sussultò, si voltò perplessa verso di lui e poi
tornò a fissare il
tavolo. "No, grazie, sono capace di farlo da sola".
Decise
di insistere. "Lo so che sei capace, ma mi piacerebbe aiutarti".
"No"
– rispose la bimba, senza nemmeno voltarsi, proseguendo
imperterrita nel suo lavoro.
Si
mise a sedere sulla panca accanto a lei, erano soli e forse era il
momento buono per parlarle con serenità. "Senti" –
disse, mettendole una mano sulla spalla – "Ho bisogno del tuo
aiuto".
Clowance
lo guardò incuriosita. "Per cosa?".
Ross
si grattò la guancia, vagamente in imbarazzo. "Beh, una
volta
io ero un bravo papà per te, mi dicono. Mi aiuteresti a
tornare ad
esserlo? Mi spiegheresti come si fa?".
Clowance
rimase in silenzio alcuni istanti, poi sospirò e
tornò a tagliare
la pagnotta che aveva fra le mani. "Lascia perdere".
"Ma
vorrei imparare". Lo voleva, davvero. E voleva che lei gli
credesse. "Perché non vuoi aiutarmi?".
Clowance,
con un gesto secco, lasciò cadere il pane sul tavolo. Poi si
alzò,
decisa a seguire Jeremy in camera per prendere le sue cose per la
scuola. "Il mio papà sapeva essere il mio papà da
solo, senza
nessuno ad insegnargli come fare. Se non sei più capace, non
vale
che te lo dico io!".
La
guardò sparire in camera, senza parole. C'era rabbia nel
tono di
voce di Clowance, poteva scorgervi delusione e soprattutto, un
allontanamento enorme fra loro. In quei mesi aveva fatto di tutto per
mantenere le distanze da lei, senza rendersi conto dei danni che
stava causando fra loro. E ora la rivoleva ma sua figlia aveva
ragione, non doveva essere lei a indicargli come fare, doveva essere
lui a trovare il modo di riparare ai suoi errori. Avrebbe potuto
seguirla in camera, insistere, ma sapeva che non sarebbe servito a
niente. Rimase fermo, a osservare i bambini andare via con Jud e
Prudie, rimanendo poi solo in casa.
Tutto
fu avvolto dal silenzio. I suoi figli più grandi e i
servitori
sarebbero tornati solo nel tardo pomeriggio e Demelza era in spiaggia
con Bella e sarebbe rientrata chissà quando. E se fino a
poche
settimane prima essere solo gli dava serenità, ora gli
pesava.
Sospirando,
decise di fare una cosa che non aveva mai fatto da quando si era
risvegliato dall'incidente: andare da Demelza e vivere la giornata
con lei e con la loro figlia più piccola. Solo loro tre e
nessun
altro! Perché se con Demelza le cose si erano sistemate a
livello di
rapporto a due, la vita famigliare in tutte le sue sfaccettature era
ancora qualcosa che sentiva estraneo a se. E finalmente sentiva il
desiderio di riappropriarsene.
Uscì,
percorse a lunghe falcate il sentiero che costeggiava il mare e poi
scivolò lungo la stradina che portava alla spiaggia,
camminando poi
sulla sabbia, diretto a quella che gli avevano detto essere la sua
miniera.
Il
mare era calmo e di un azzurro limpido e trasparente, la giornata era
piuttosto calda e volendo, si poteva anche azzardare un bagno.
Camminò
per una decina di minuti, finché la vide.
Demelza
era seduta sulla riva, con Bella che le gattonava attorno toccando
ogni cosa le capitasse sotto mano.
Le
guardò e gli mancò il fiato... Erano
bellissime... Sua moglie aveva
i capelli sciolti e i suoi lunghi riccioli rossi, ribelli come lei,
si muovevano dolcemente alla brezza del vento. Indossava una semplice
sottoveste azzurra, come i suoi occhi, che le ricadeva morbida su
quel corpo perfetto, evidenziandone ogni curva. Ne era attratto, non
solo fisicamente ma attratto in maniera totale, attratto in tutti i
modi in cui un uomo puo' sentirsi nei confronti di una donna...
Bella
indossava un abitino sbracciato rosso che le arrivava a malapena alle
ginocchia, legato in vita da un nastrino color porpora. Demelza la
lasciava libera di spaziare e di esplorare e la bimba, a carponi, si
avvicinava pure al bagnasciuga dove immergeva manine e ginocchia
nell'acqua.
Ross
si accorse che voleva stare con loro, che quello era il suo posto nel
mondo. Con quella donna selvaggia, bellissima e dalla risposta sempre
pronta e coi loro tre bambini. Lo sentiva come un bisogno fisico ed
era certo che fosse così anche per il vecchio se stesso.
Demelza
si voltò e lo vide. Il suo volto si illuminò, gli
sorrise e gli
corse incontro. "Ross!" - esclamò, abbracciandolo.
La
strinse fra le braccia, accarezzandole i capelli. "Mi sentivo un
po' solo a casa e ho pensato di raggiungervi".
Demelza
lo prese per mano. "Hai fatto bene! Bella stamattina si è
svegliata presto e non riuscivo a tenerla buona, così ho
pensato di
portarla in spiaggia. Magari sulla sabbia, è la volta buona
che si
decide a camminare, i suoi fratelli alla sua età sapevano
già
correre".
Sentendo
parlare di lei, Bella tirò su il visino, smettendo di
giocare con le
conchiglie. Fece un enorme sorriso, batté le manine e a
gattoni andò
verso di loro. "Papaaaaaa''.
Ross
si chinò e la prese in braccio, facendola volare. "E allora,
piccola pigrona, che ne dici se impariamo a camminare, oggi?".
Bella
lo guardò, poi gli cinse il collo con le braccia. "Tiii".
Demelza
rise. "Prendilo per un sì".
La
guardò negli occhi con uno sguardo di intesa, la prese per
mano e
con la bimba si avvicinarono al bagnasciuga. Mise Bella sulla sabbia
e poi si allontanò di alcuni passi, lasciando la bimba
accanto alla
madre. Si tolse gli stivali ed entrò in acqua fino alle
caviglie,
guardando la piccola che lo fissava incuriosita. "Coraggio
Bella, vieni qui" – le intimò. "Corri!".
Bella
guardò Demelza, poi lui. Infine si mise il pollice in bocca,
pensierosa. Si mise a gattoni, ma sua madre la tirò su,
prendendola
per le manine. "Dai tesoro, papà ti aspetta ma vuole che tu
vada da lui camminando. Su, se sei capace, poi ti farà
giocare con
l'acqua".
Ross
le sorrise, tendendo le mani verso di lei. "Coraggio, vieni".
Bella
si fece seria e poi, dopo un attimo di indecisione, sulle gambe
ancora malferme, azzardò qualche passo attaccata alle mani
di
Demelza. Infine prese coraggio, si staccò da lei e fece
cinque
eroici passi che la portarono fra le braccia del padre.
Ross
la abbracciò, la prese in braccio e le diede un bacio sulla
guancia.
"BRAVA!". La fece volare in alto, facendola ridere, poi le
immerse i piedini nell'acqua del mare. La piccola rise ancora
più
forte, agitando le gambe fra le onde.
Ross
si voltò verso Demelza che li guardava divertita. Sorrideva
e si
accorse che da che ricordava, non l'aveva mai vista tanto serena.
Allungò una mano verso di lei per incitarla ad avvicinarsi e
quando
fu a pochi passi, con un gesto veloce, le schizzò addosso
dell'acqua. "Sei l'unica ad essere asciutta, mia cara" –
esclamò, mentre anche Bella rideva.
Demelza
lo guardò accigliata per alcuni istanti, poi sorrise furba e
rispose
all'attacco, schizzando con le mani l'acqua verso di lui.
Ne
uscì una battaglia marina colossale al termine della quale,
tutti e
tre erano felicemente bagnati fradici. Ross scoppiò a
ridere,
allungò la mano e, prendendola per la vita, strinse a se la
moglie.
Si sentiva felice in quel momento, una felicità perfetta...
Ecco,
era questa la famiglia e l'intimità che aveva perso con quel
dannato
incidente, era questa la sua vita fino a quel giorno. Ora non erano
più solo racconti, ora era una realtà che poteva
toccare con mano.
"Sei completamente bagnata e quell'abito è quasi diventato
trasparente" – osservò, divertito.
Demelza
si guardò, poi alzò le spalle. "Oh, fa niente.
Questa è la
nostra spiaggia, non ci vede nessuno".
"Non
è da signora" – ribatté Ross,
mascherando un sorriso, ben
consapevole che a Demelza non importasse molto.
Sua
moglie, di tutta risposta, gli schizzò altra acqua in viso.
"Nemmeno
questo è da signora" – disse, facendogli la
linguaccia.
"E
questo non è da gentiluomo!" - rispose Ross, spingendola con
la
testa sott'acqua.
Piccata,
bagnata fradica e decisa a vendicarsi, Demelza lo investì di
una
nuova cascata d'acqua, mentre Bella li guardava divertita, muovendosi
sulle gambette accanto a loro, eccitata da questa nuova avventura di
camminare.
Quando
ormai erano entrambi completamente e poco onorevolmente bagnati,
decisero che era ora di uscire dall'acqua e issarono bandiera bianca
a quella loro disputa marina. Presero Bella e la fecero giocare sulla
sabbia, facendola camminare per lunghi tratti, tenendola entrambi per
le manine. E alla fine, esausta, la bimba sbadigliò e fece
loro
capire che non ce la faceva più.
Dolcemente,
Demelza la prese in braccio. Bella appoggiò la testa alla
sua
spalla, si mise in bocca il pollice e chiuse subito gli occhi,
soddisfatta e pronta a dormire. "Sei stanca, amore?".
"Ti".
"Su
dormi, allora". Demelza la cullò per lunghi istanti,
accarezzandole la schiena. Ross le cinse le spalle, attirando
entrambe a se, mentre si incamminavano verso casa.
Il
sole era alto in cielo, doveva essere ormai mezzogiorno e le ore
parevano essere volate quella mattina.
Ross
guardò sua moglie. I riccioli bagnati rilasciavano
goccioline lungo
il suo collo, il viso era arrossato e l'espressione era serena e
tranquilla. E Bella era una bambolina, coi suoi ricciolini neri tanto
simili a quelli del suo papà, le guance piene e il vestitino
rosso
che le stava d'incanto. Le diede una lieve carezza sulla nuca, prima
di fare altrettanto con sua moglie. "Sei davvero bellissima"
– le sussurrò.
Demelza
alzò gli occhi su di lui, stupita. "Ross...".
Non
le diede tempo di dire altro, fu più forte di lui. Su quella
spiaggia ogni suo indugio si ruppe, era troppo bella per resisterle,
troppo perfetta. Era sua, la sentiva sua per davvero, ora... Si
chinò
e la baciò sulle labbra, a lungo, stringendola a se con la
piccola
Bella fra loro.
Non
c'era nessun altro, solo lui, lei, la loro bimba e il suono del
mare... Sentì la dolcezza della labbra di Demelza, la loro
morbidezza e quel tocco fra loro così unico, intenso, che
non
avrebbe potuto trovare con nessun'altra. Quando le loro labbra si
separarono, appoggiò la fronte alla sua. "Era da tanto che
mi
chiedevo come fosse baciarti" – le disse emozionato,
accarezzandole dolcemente una guancia.
Gli
occhi azzurro-verdi di Demelza si specchiarono nei suoi. "E ora
che mi hai baciata, ti sei dato una risposta?".
Ross
le sorrise, baciandola nuovamente, non riusciendo a farne a meno. "So
che ti appartengo, a te soltanto. Che ti sono sempre appartenuto e
che sarà così per sempre. E che se anche perdessi
per mille volte
la memoria, per mille volte mi innamorerei di te ancora e ancora".
Gli
occhi di Demelza si inumidirono, si rifugiò fra le sue
braccia e
Ross la strinse a se forte. Voleva solo averla vicina, amarla, ne era
follemente innamorato e sì, si era preso i suoi tempi, ma
ora era
certo di cosa rappresentasse per lui. "Voglio fare l'amore con
te" – sussurrò, fra i suoi capelli.
Demelza
alzò lo sguardo su di lui, sorridendo. "Quì?
Adesso?".
Ross
annuì, arrossendo mentre guardava Bella. "Beh, magari
sarebbe
meglio tornare a casa e metterla a letto, prima".
Lei
non disse nulla, indietreggiò di alcuni passi e poi lo prese
per
mano. "Torniamo a casa" – sussurrò.
Camminarono
mano nella mano senza dire altro, in un silenzio d'attesa, colmo
d'emozione e aspettative.
Nampara
era deserta, non volava una mosca, non c'era nessuno a parte loro.
Rientrarono,
misero Bella nella sua culla e la piccola si rannicchiò
esausta su
un fianco, continuando a dormire profondamente col pollice in bocca.
Demelza
si appoggiò al lettino, accarezzandole dolcemente i
ricciolini
scuri, finché Ross le sfiorò il polso,
costringendola ad
allontanarsi dalla piccola.
La
condusse per mano fino al loro letto, le sfiorò il viso e
poi la
baciò di nuovo con passione e a lungo. "Sai, sono un po'
nervoso" – sussurrò con voce calda all'orecchio
della moglie,
prima di baciarle il collo.
"Anche
io" – rispose Demelza, col fiato corto. "Ma sono felice,
oggi dopo tanto tempo sono felice".
"Anche
se non ho riacquistato la memoria?".
Demelza
scosse la testa. "Non importa per ora! Sei tu, sei il mio Ross e
solo questo conta, adesso".
Ross
le sorrise, accarezzandole le labbra. Si baciarono di nuovo, a lungo,
mentre i loro indumenti scivolavano via dai loro corpi. La paura
passò presto perché era come conoscerla da
sempre, la sua amnesia
non aveva cancellato i ricordi e le sensazioni di ciò che
erano.
Ross
si rese conto che sapeva come toccarla, come baciarla, come trovare
il modo giusto di stare con lei nell'intimità. Era qualcosa
di
profondo, come scolpito dentro di se.
Fecero
l'amore con una passione di cui non si credeva capace, con una
complicità che credeva di avere perso e negli occhi chiari
di sua
moglie, mentre si rifletteva in essi, capì che avrebbe
ritrovato
sempre la strada per tornare, finché l'avesse avuta accanto.
Era la
sua vita, era il suo amore, era l'unica capace di dargli quel tipo di
piacere fisico talmente intenso da stordirlo, era la madre dei suoi
figli e non ne avrebbe mai voluto un'altra...
Demelza
era il suo tutto e ora lo sapeva con certezza.
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Capitolo 23 *** Capitolo ventitre ***
"Sono
contento!".
Clowance,
dopo quel commento, alzò incuriosita lo sguardo sul
fratello.
"Contento di cosa?" - chiese, mentre camminavano insieme
sulla spiaggia, di ritorno da scuola. Il tempo era ormai bello e
avevano ottenuto dalla madre il permesso di tornare da soli a fine
lezione, visto che ormai Jeremy aveva quasi dieci anni ed era
sufficientemente grande per non essere accompagnato e per curare sua
sorella.
"Che
mamma e papà vanno d'accordo e non sono più
tristi".
"Oh...".
Clowance abbassò lo sguardo, dando un calcio a un sassolino.
Beh, si
era accorta che il clima in casa era migliorato ed era contenta di
vedere la mamma serena e rilassata, ma per quanto la riguardava,
nulla era cambiato... Il suo papà l'aveva tradita,
abbandonata e
allontanata e ora non le importava che provasse a fare pace con lei,
non era più il papà a cui aveva voluto bene e che
le voleva bene.
La faccia, la voce e il corpo erano i suoi ma tutto il resto era
diverso e non le piaceva. Una volta le aveva detto che era la sua
preferita e che non se ne sarebbe dimenticato e invece alla fine era
diventata la figlia che non voleva più. Non lo avrebbe mai
perdonato, poteva benissimo stare senza papà per sempre,
senza
rivolgergli mai più la parola. Non le importava, non le
importava
per niente! Diede un altro calcio, stavolta rabbioso, al sassolino
che aveva fra i piedi. "Sono contenta anche io per mamma".
"E
per papà?" - chiese Jeremy.
Clowance
alzò le spalle. "Non mi interessa niente di papà".
"Non
è vero!".
"Si
che è vero! A te che importa poi, di cosa penso?".
Jeremy
le si parò davanti. "Mi importa invece, perché
sei proprio
antipatica quando fai così".
Clowance
fece la faccia arrabbiata, mettendosi le mani sui fianchi. "Anche
papà ha fatto l'antipatico con me. Ed è stato
cattivo. Portava
sempre te a fare un giro a cavallo e non voleva mai stare con me sul
pony, ad esempio".
"Tu
non volevi venire a cavallo con noi" – obiettò
Jeremy.
Clowance
abbassò lo sguardo, osservando il mare. Non era vero che non
ci
voleva andare con loro, ma cosa doveva fare? Conosceva il suo
papà e
sapeva di non essere desiderata. "A volte dico delle bugie, che
non voglio fare qualcosa ma in realtà quella cosa la vorrei.
Come
per il cavallo o il pony".
"Ma
perché?" - insistette Jeremy.
"Perchè
sì, non ho voglia di spiegarlo".
Clowance
accelerò il passo e il fratello le corse dietro, accodandosi
a lei.
"Sai, io credo che se tu stessi con lui, guarirebbe prima. Mica
eri la sua preferita?".
La
bimba abbassò lo sguardo, sorridendo con freddezza. "Erano
solo
bugie, non sono la preferita di nessuno". Si tolse gli
stivaletti, entrando in acqua fino alle ginocchia. "E comunque,
adesso non ho proprio voglia di parlare di papà con te.
Siete tu e
Bella i suoi preferiti, aiutatelo voi a guarire e lasciatemi in pace.
Io sono arrabbiata e non voglio stare con lui. Vorrei invece giocare
col mio amico Valentin ma mamma non vuole che lo riveda e non so il
perché. Tu sai perché?".
Jeremy
scosse la testa. "No, nemmeno so chi è questo Valentin".
"Abita
a Trenwith, nella grande casa dopo la nostra".
Il
fratellino alzò le spalle. "Non l'ho mai visto in giro. Ma
se
mamma non vuole che lo vedi, dovresti fare come dice lei e basta".
Clowance
sospirò, scalciando col piede l'acqua. "Lo so, non ho
scelta,
mamma mi rimette in castigo a pulire la stalla, se le disubbidisco.
Però mi dispiace, lui mi ha regalato Artù ed
è mio amico".
Jeremy
sospirò, deciso a cambiare argomento. "Senti, andiamo a
giocare
nella nostra grotta prima di tornare a casa?".
Clowance
si voltò, sorridendogli. "Siii". Era un'ottima idea
quella! La loro grotta era bellissima e piena di segreti, un posto
magico dove lei, spesso, aveva giocato col suo papà.
Corsero
come matti, saltando sul bagnasciuga e ridendo spensierati. Clowance
guardò Jeremy di sfuggita e le venne il pensiero che era
davvero un
bel fratello, dopo tutto. E ora che non aveva più il suo
papà, era
fortunata che ci fosse Jeremy a preoccuparsi per lei. Certo, il
papà
era il papà, ma ormai era perso e non sarebbe tornato quello
di
prima...
Raggiunsero
la grotta e rallentarono il passo, guardandosi attorno incuriositi.
Era da tanti mesi che non ci mettevano piede, dallo scorso autunno
quando con i genitori e Bella ci erano venuti per una scampagnata di
fine stagione. Clowance pensò alle risate fra i suoi
genitori, al
modo in cui suo padre aveva preso la mamma in braccio e l'aveva
lanciata in acqua, a come avevano combattuto fra le onde e al bacio
che si erano dati. Si era sentita una bambina fortunata, in quel
momento, pensò mentre sfiorava il muro di roccia e con
Jeremy si
addentrava nell'oscurità. Fortunata perché
nessuno dei bambini che
conosceva aveva una mamma e un papà che si volevano
così bene e che
ridevano tanto, insieme. Aveva sempre amato tanto il modo di stare
insieme dei suoi genitori e in cuor suo, fin da quando era
piccolissima, aveva pregato di essere felice come la sua mamma,
quando fosse diventata grande e si fosse sposata.
Suo
fratello d'un tratto si fermò. "Guarda! Cosa sono quelli?"
- le chiese, indicandole dei grossi sacchi e delle casse di legno che
riposavano contro la parete, semi coperti da una logora coperta nera.
Clowance
si accigliò, grattandosi la testa. "Non so". Era confusa,
chi poteva averceli portati lì? Era la loro grotta quella,
la loro
spiaggia.
Jeremy
si avvicinò, curiosando fra i sacchi. "Dici che ce li hanno
messi mamma e papà?".
La
bimba scosse la testa. Che idee stupide che aveva ogni tanto, Jeremy!
"No, perché dovrebbero portare qualcosa qui?".
"Non
so Clowance. Lo diciamo a mamma quando torniamo?".
"Si,
certo. Lei saprà cosa sono queste cose e cosa fare".
Si
scambiarono un tacito accordo a non dire a nessuno quanto visto,
eccetto che alla loro madre. E poi corsero a casa, avvertendo in loro
l'esigenza di allontanarsi da quel posto.
...
Demelza
finì di piantare i semi nell’orto, osservando di
sottecchi Ross
che riparava il tetto. Era strano svolgere assieme a lui quei lavori
un tempo tanto abituali per loro e ora divenuti una nuova, piacevole
consuetudine.
Certo,
desiderava con tutta se stessa che Ross guarisse e ricordasse ogni
cosa di loro, tutto ciò che li aveva uniti, tutto
ciò che li aveva
divisi, ogni lacrima e ogni risata insieme, ma già averlo
lì
accanto a lei, sentirlo vicino e avvertire la dolcezza dei suoi baci
e delle sue carezze erano di per se un buon motivo per ringraziare
Dio. C’era e anche se di fatto mancava quel piccolo
passettino a
ritrovare tutto ciò che era andato perso, lui era
lì con lei,
accanto a lei… Non erano più due estranei ma
erano tornati ad
essere un marito e una moglie che si amavano pur in mezzo a
difficoltà e divergenze.
Lo
osservò scendere dalla scala a grosse falcate, avvertendo un
brivido
freddo davanti alla sua spericolatezza a muoversi in bilico nel
vuoto. “Attento o cadrai di nuovo!”.
Ross
rise, prendendo in braccio Bella che giocava con dei sassolini.
“Ah,
nessun problema! Al massimo, se cado, ripicchio la testa e guarisco
dall’amnesia” – esclamò,
avvicinandosi e baciandola a sorpresa
sulle labbra.
Bella
rise, Demelza rise un po’ meno. Gli diede un pizzicotto sulla
guancia e lo guardò con aria di sfida. “Prova a
cadere e a farti
ancora male e ti massacrerò di botte io stessa. Abbi cura di
tua
moglie e della sua serenità”.
“Ma
io ho cura di mia moglie!” – rispose lui,
divertito, prima di
baciarla di nuovo. "E
ho a cuore anche la sua serenità" – concluse,
strizzandole
l'occhio. Poi
mise a terra Bella che si aggrappò ai suoi pantaloni.
“Andiamo a
prendere altra legna nella stalla?” – disse alla
bimba.
“Ti”.
Ross
le sorrise. Prese a camminare con la piccola aggrappata ai suoi
pantaloni come un koala e in breve sparì alla vista della
moglie.
Demelza
sospirò, divertita, richinandosi per continuare il suo
lavoro. Era
stanca e faceva caldo, ma si sentiva rilassata e serena. Andava tutto
bene e presto, ne era certa, anche le cose fra Clowance e Ross si
sarebbero sistemate.
“Mamma!”.
Alzò
la testa, vedendo i figli più grandi aprire la staccionata e
correrle incontro. “Siete stati al mare di ritorno da scuola,
è?”
– chiese loro, notando i vestiti bagnati.
Clowance
la abbracciò. “Sì, abbiamo giocato
sulla spiaggia e poi siamo
andati alla nostra grotta prima di tornare”.
Demelza
accarezzò le loro testoline, notando quanto stessero
crescendo in
fretta e diventando indipendenti. “Avete fatto bene, fa
caldo”.
Jeremy
annuì. “C’è una cosa strana
nella grotta però”.
“Cosa?”.
Clowance
le prese la mano, stringendola. “Dentro alla grotta, qualcuno
ha
messo delle casse di legno piene di roba e dei sacchi. Uffa
però,
non devono farlo, quella è la nostra grotta mamma”.
Demelza
si oscurò a quelle parole. La prima cosa che le venne in
mente erano
i tre contrabbandieri che aveva incontrato con Hugh qualche mese
prima, che nascondevano merce proprio su quella spiaggia. Erano tre
brutti ceffi che di certo non sarebbero mai stati di parola, questo
lo sapeva e doveva aspettarselo. Tuttavia quella notizia
riuscì a
lasciarla pensierosa e incredula. “Contrabbandieri, di
nuovo…”
– borbottò, vaga.
“Cosa?”.
Jeremy la guardò negli occhi, preoccupato.
Demelza
si chinò davanti ai suoi due bambini, parlando sotto voce
perché
Ross non sentisse. Se suo marito avesse saputo una cosa del genere,
per difendere lei e i bambini, si sarebbe cacciato nei guai. Anche
malato era irruento e istintivo, avrebbe agito d’impulso e si
sarebbe cacciato nei guai. Era il suo Ross, certo, ma non era ancora
in grado di muoversi da solo in certe situazioni e Demelza sentiva di
doverlo proteggere. “Bambini, non dite nulla a
papà o si
preoccuperà. Stasera, con la scusa di portare
Artù a fare un giro,
andrò a dare un’occhiata”.
Jeremy
spalancò gli occhi. “Ma mamma, da sola e al
buio?”.
Demelza
gli sorrise, accarezzandogli le guance. Era così protettivo
con lei,
suo figlio… “Non mi succederà niente,
non sarò sola, c’è
Artù. Voi mi dovrete aiutare però con
papà, tenendolo occupato e
mantenendo il segreto. D’accordo soci?” –
chiese loro, usando
quel tono di condivisione e quel termine che aveva fatto di loro tre
una squadra quando vivevano a Londra senza Ross.
Jeremy
annuì, non troppo convinto. Clowance scosse la testa.
“No, io non
ci sto a casa con papà, voglio venire con te”.
“Oh,
Clowance…”.
“Se
non mi porti, faccio la spia con papà” –
ribadì la bimba con
decisione.
Demelza
alzò gli occhi al cielo. Eccola la sua piccola, fiera
rappresentante
del caratteraccio dei Poldark. “D’accordo, hai
vinto! Ma mi
studierò un castigo se continuerai a ricattarmi”
– concluse,
strizzandole l’occhio.
Jeremy
sospirò. “E io e Bella terremo occupato
papà”.
La
conversazione finì così perché in quel
momento Ross ricomparve
alla loro vista, carico di assi di legno, e Demelza fece loro cenno
di fare silenzio.
La
donna finse tranquillità durante tutto il pomeriggio e la
serata,
comportandosi con naturalezza e pacatezza, nonostante la
preoccupazione che la attanagliava. Possibile che non ci fosse mai da
stare tranquilli? Il bracconaggio era un reato punito molto
severamente e non voleva problemi di alcun tipo, soprattutto in
virtù
del fatto che stavolta nessun membro della sua famiglia ne era
coinvolto.
Più
difficile fu aggirare le resistenze di Ross del dopo cena. Suo marito
non aveva piacere che uscisse da sola con Artù e Clowance al
buio,
di sera, ma Demelza, grazie a Bella che dormicchiava e a Prudie che
lamentava mal di schiena, lo convinse a rimanere a casa e a lasciarla
andare da sola per una passeggiata atta a far sgranchire le zampe al
cane.
“Torneremo
presto,
giocheremo un po' con Artù e poi quando saremo stanche
verremo a
casa!”.
E
con quella frase pronunciata in maniera civettuola, era uscita con
cane e figlia, lasciando suo marito pensieroso e perplesso sull'uscio
della porta.
“Mi
piace passeggiare con te” – esclamò
Clowance, prendendola per
mano.
Demelza
strinse la presa su di lei, in preda a una strana ansia. “Non
è
una passeggiata tesoro. Mi raccomando, deve rimanere un
segreto”.
“Giuro
mamma, son brava a mantenere i segreti. Mi
piace avere un segreto con te”.
Demelza,
che avrebbe voluto condividere con lei il suo entusiasmo ma non le
riusciva in alcun modo, alzò gli occhi al cielo, non troppo
convinta
né della parola della figlia né della sua
decisione di portarla con
se.
Camminarono
a passo spedito nella sabbia, mentre Artù trotterellava
felice
davanti a loro, e in una decina di minuti raggiunsero la grotta.
Clowance
corse a mostrarle dove era nascosta la merce e Demelza si morse il
labbro. Era merce di contrabbando, non c’erano dubbi! Quei
sacchi
contenevano sale e le casse di legno vini e liquori. E quei tre
brutti ceffi che aveva incontrato in quello stesso posto assieme a
Hugh, non erano persone di parola.
Prese
un sacco, se lo mise in spalla, decisa sul da farsi.
“Buttiamo
tutto in mare” – disse, risoluta.
“Ma
mamma, non sono cose nostre” – obiettò
Clowance.
“Esatto.
E quindi non devono stare qui. Aiutami, faremo più in
fretta”.
Con
la figlia trascinò le casse fuori dalla grotta, ogni sacco,
ogni
cosa nascosta in quel luogo che apparteneva alla sua famiglia e che
era fonte di bellissimi ricordi per ognuno di loro. Non avrebbe
permesso a dei contrabbandieri di sporcarlo, mai!
Gettarono
tutto fra le onde, dispersero il contenuto dei sacchi nel mare e alla
fine, stanche e sudate, osservarono la loro grotta tornata intatta e
pulita, senza la macchia del contrabbando ad inquinarla.
“Siamo
state brave mamma?”.
Demelza
le sorrise, mentre il cuore le balzava nel petto. “Si,
brave!”.
Ma lo sapeva, era una vittoria temporanea. Quei brutti ceffi
sarebbero tornati di sicuro, ne era certa.
I
guai, si sentiva, erano appena cominciati. E non avrebbe permesso per
nulla al mondo che riguardassero il suo Ross.
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Capitolo 24 *** Capitolo ventiquattro ***
"Che
silenzio...".
Demelza,
coperta da un lenzuolo che ne celeva la nudità, si
rannicchiò
contro Ross sbadigliando. "E' molto presto, Prudie e Jud dormono
ancora e pure i nostri bambini".
Ross
le accarezzò piano i capelli, affondando il viso in quella
massa
color fuoco. "Eppure c'è tanta luce".
"E'
quasi estate, è normale".
"E
cosa facevamo in estate?".
Demelza
si stiracchiò, chiudendo gli occhi assonnata. "Mh, tu a
quest'ora spesso eri già in miniera. A volte di pomeriggio
tornavi
presto ed andavamo coi bambini a giocare in spiaggia".
Ross
la strinse forte, tornando ad accarezzarala. "Potremmo
ricominciare a fare tutte queste cose. E anzi, a proposito della
miniera...".
A
quelle parole, Demelza riaprì di scatto gli occhi. Sapeva
dove
voleva andare a parare col suo discorso e non era per niente
d'accordo. "Ross, no! So che sei desideroso di tornare a fare
qualcosa di interessante e di riprovare a fare il tuo lavoro, ma non
me la sento di farti tornare in quel posto. Non sei ancora guarito,
non sai valutare i rischi e i pericoli di quello che fai e i tuoi
uomini di fiducia ti stanno sostituendo egregiamente. Resta a casa,
almeno ancora un po'".
"Mi
sento un invalido a starmene qui così, con le mani in mano.
Voglio
dire, tu hai i tuoi affari a Londra, i bambini la scuola e persino i
nostri due domestici – che tanto portati per il lavoro non
sono –
si rendono più utili di me. Sto bene, starò
attento, te lo giuro".
Voleva
credergli, poteva farlo perché sapeva che sarebbe stato di
parola
questa volta, ma non ce la faceva. Demelza spesso, nei suoi incubi,
riviveva quella mattinata terribile dell'incidente quando tutti la
guardavano con la pietà con cui si guarda a una vedova
giovane e con
tre bambini piccoli. Ross lo aveva creduto morto per davvero quella
volta e solo un fortunato caso del destino aveva evitato che lo
perdesse per sempre. Aveva sofferto molto da quel giorno, lei e i
suoi figli. E anche Ross! "Per favore, almeno per un altro po',
resta a casa".
Ross
la guardò negli occhi. La sua espressione era ferma e
tenace, ma poi
si addolcì. La baciò sulle labbra e poi sulla
fronte, stringendola
a se. "Va bene, se questo ti fa stare tranquilla, resterò a
poltrire ancora un po' a casa".
"Sei
sicuro che la cosa non ti pesi?".
Ross
le sorrise dolcemente, sfiorandole col dito la punta del naso. "No,
non mi pesa. Non eccessivamente almeno... Il mio compito di marito
non dovrebbe essere quello di lusingare e far felice il mio tesoro?".
Le
accelerò il cuore... Dal giorno dell'incidente non l'aveva
mai
chiamata con quel nomignolo che un tempo invece usava spesso. "Stai
davvero tornando da me" – sussurrò, con una punta
di
commozione nel tono di voce.
Ross
ridacchiò. "Da cosa lo capisci?".
Lo
abbracciò, sprofondando il viso contro il suo collo. "Una
volta
mi chiamavi sempre 'tesoro'. O 'amore mio'. La mattina
dell'incidente, prima di uscire, hai detto a Clowance che io ero il
tuo tesoro più grande e lei me lo ha raccontato quando ti
hanno
riportato qui più vivo che morto. Quelle parole mi hanno
dato la
forza di lottare e non arrendermi".
Lo
sguardo di Ross si fece serio, le sfiorò il mento e la
costrinse a
guardarlo in viso. "Quelle parole che ho detto a Clowance, erano
vere. Ora lo so".
Demelza
arrossì, felice di sentire quelle parole che tanto le erano
mancate
e che nessuna delle mille poesie che gli avrebbe potuto scrivere Hugh
avrebbe potuto eguagliare. Però allo stesso tempo si
sentì in colpa
verso di lui e vagamente egoista nel volerlo tenere a casa. Ma
sentiva di volerlo proteggere e tenere al sicuro a Nampara. Se fosse
tornato alla vita attiva, col problema dei contrabbandieri sulla loro
spiaggia, gente come George Warleggan avrebbe potuto, con qualche
abile giochetto, collegarlo a quel reato che si perpetrava ancora
sulle loro terre.
"Cosa
c'è amore?".
Demelza
si morse il labbro per essersi lasciata andare ad un'espressione
preoccupata. Scosse la testa, decisa a risolvere il problema dei
contrabbandieri da sola. Era abituata ad avere a che fare coi falchi
della finanza e quei tre idioti della spiaggia, senza arte
né parte,
li avrebbe cacciati una volta per tutte senza fatica. "Non ho
niente, stavo solo pensando" – commentò sotto voce.
"A
cosa?".
Demelza
gli sfiorò le labbra con l'indice, poi lo baciò
con passione mentre
con le mani gli sfiorava il petto facendolo rabbrividire. "Che
Jud e Prudie dormono, che i bambini dormono, che il cane dorme... E
noi no...".
Ross
la attirò a se, i loro corpi si toccarono. "No, noi no... E
io
ti amo e sarei perso senza di te".
"Ma
non ti perderai mai perché io sarò sempre qui con
te". Lo
baciò di nuovo, chiudendo ogni discorso fra loro. Aveva un
po'
barato, seducendolo per non continuare il discorso iniziato poco
prima, lo sapeva e si sentiva in colpa. Ma era anche vero che lo
amava da morire, che gli era mancato e che fare l'amore con lui era
l'unico suo desiderio in quel momento.
...
La
giornata era proseguita serena. Ross era rimasto a casa come promesso
ma si era messo in testa di sistemare le assi sconnesse del tetto
della stalla ed era dalla mattina presto che lavorava come un mulo.
Demelza lo aveva lasciato fare, passando la giornata a cucinare e ad
occuparsi dei bambini.
Era
ormai estate, le lezioni alla scuola accanto alla miniera erano
finite e i suoi tre figli, insieme ad Artù, riuscivano a
combinare
ogni tipo di disastro a causa della loro vivacità. Non
riuscivano a
stare fermi, correvano da una parte all'altra urlando, litigando,
giocando e poi litigando di nuovo. Artù, con una pazienza
che forse
possedevano solo i santi, li seguiva ovunque facendosi tirare pelo ed
orecchie da Bella senza un lamento.
"Mamma,
andiamo in spiaggia a raccogliere le conchiglie?" - le chiese
Jeremy, correndo nella cucina dove stava cercando di arrangiare la
cena.
Demelza
guardò fuori dalla finestra. Il sole era ancora alto,
mancavano
diverse ore alla cena e in fondo portare i bambini alla spiaggia
poteva essere utile a far scaricare loro un po' dell'energia che gli
scorreva in corpo. "D'accordo, ma papà? E' ancora impegnato
coi lavori nella stalla".
"Andiamo
solo noi, solo un'oretta mamma!" - la implorò Clowance.
Sbuffando,
Demelza considerò che non era proprio un'idea malvagia. Ross
era
coperto di polvere dalla testa ai piedi e non voleva allontanarsi dal
lavoro finché non fosse stato finito, non sarebbe comunque
venuto
con loro e lei invece aveva voglia di prendere aria. E soprattutto,
di andare a controllare se i contrabbandieri avessero portato altra
merce nella grotta. "Vado a dire a papà che usciamo
un'oretta,
aspettatemi fuori in cortile tutti e tre".
"Attùùùù"
– gridò Bella, picchiettando sulla testa del cane.
Demelza
rise. "Sì, viene anche Artù".
La
donna corse alla stalla dove trovò Ross sudato, sporco e
completamente spettinato. Rise di nuovo vedendolo in quello stato,
anche se dovette ammettere a se stessa che era molto attraente anche
così... Anzi, SOPRATTUTTO così, con la camicia
aperta e i riccioli
neri che gli ricadevano sulla fronte e sulle guance. "Ti da
fastidio se ti lascio solo e porto i bimbi in spiaggia a giocare un
po'? E' presto ancora per cenare".
Ross
le si avvicinò col martello in mano. "Andate pure, io non mi
muovo da qui, voglio finire questo lavoro prima di sera".
Demelza
guardò il tetto, ormai quasi del tutto sistemato. "Hai fatto
molto oggi, vedi di non stancarti".
"Oh,
tranquilla, mi sento forte come un toro". Tentò di baciarla
ma
Demelza, ridendo, sgusciò via dal suo abbraccio. "Ohhh,
scordati di toccarmi mentre sei così sporco" –
disse
divertita, con aria di sfida.
Ross
rispose al suo sguardo, anche lui divertito da quella situazione e da
quell'intimità che sempre si creava fra loro, quando erano
insieme.
"Mi rifarò stanotte allora, dopo il bagno, la cena e la
messa a
letto dei bimbi...".
"Se
farai il bagno, vedremo..." – sussurrò lei,
mordendosi
sensualmente il labbro inferiore.
"MAMMAAAAA".
La
voce dei bimbi che la richiamavano all'ordine, mise fine a quel suo
gioco sottile di seduzione. "Devo andare, ci rivediamo dopo".
"A
dopo, amore".
La
voce di Ross, dolce e gentile, la raggiunse mentre usciva dalla
stalla. Inspirò profondamente, guardò il cielo e
si rese conto di
essere infinitamente felice.
Andò
dai tre bimbi e dal cane e tutti insieme si diressero alla spiaggia.
Appena
arrivati sulla sabbia, i bimbi si tolsero le scarpe e corsero in
acqua, schizzandosi e ridendo divertiti. Pure Bella, dal passo ancora
incerto, li seguì. Era ormai abbastanza grande da unirsi ai
loro
giochi ed era un piacere stare a guardarli...
Demelza
per un attimo si perse ad osservarli, catturata dalle loro corse e
dalle loro risate... Erano il suo mondo, loro tre e Ross. E quella
giornata tanto serena, forse uguale a tante altre del passato, aveva
in se un sapore un po' particolare. Era quasi miracoloso essere di
nuovo così, uniti e felici. Aveva un marito che la amava
infinitamente, tre bambini stupendi, un cane buono e maestoso e
pensò
che c'era un tempo in cui non sapeva immaginare cosa ci fosse fuori
dalla porta di casa, dove era convinta che la sua vita sarebbe
passata attraverso le botte prima di suo padre e poi del marito
ubriacone che le sarebbe stato affibiato. Ross le aveva cambiato la
vita, l'aveva resa una persona migliore che sa parlare e andare ai
balli, che sa leggere e suonare la spinetta e sa indossare abiti
eleganti senza inciampare. Si erano forgiati a vicenda, lei e suo
marito, crescendo attraverso i loro errori e il loro amore, fino a
diventare una cosa sola. Un amore nato come pietra grezza ma poi
levigato con fatica, fino a diventare un diamante splendente e
prezioso.
Pensò
che certe volte le persone vivono vite lunghissime e vuote e lei
invece, in pochi anni, aveva avuto più di quello che tanti
sognano
in una intera esistenza... Fugacemente, pensò che non poteva
chiedere altro. Che se anche, per qualche motivo, la sua vita fosse
finita presto, non si sarebbe lasciata dietro nessun rimpianto.
Jeremy
le tirò addosso dell'acqua, ridendo. "Mamma vieni!" - la
chiamò.
Gli
mostrò i muscoli. "Mi vuoi sfidare?".
Bella
rise, lasciandosi cadere nell'acqua, mentre Clowance assunse
un'espressione attenta che studiava ogni sua mossa.
A
passi lenti, Demelza si avvicinò a loro. E poi, chinandosi
velocemente e prendendoli di sorpresa, con le mani prese a bagnarli,
finendo nell'acqua fino alle ginocchia.
Lottarono
ridendo per lunghi minuti, nello stesso modo in cui aveva giocato con
Ross alcuni giorni prima in quella stessa spiaggia. Poi, stanca e col
fiato corto, decise che era arrivato il momento per le cose serie.
"Bambini" – disse, strizzandosi la lunga treccia rossa
ormai fradicia – "Andiamo a dare un occhio alla grotta?
Voglio
vedere se qualcuno ci ha messo ancora qualcosa".
Jeremy
si fece serio. "I contrabbandieri?".
"Si,
i contrabbandieri" – rispose, uscendo a grandi falcate
dall'acqua. Poi si voltò verso di loro, mettendosi il dito
indice
davanti alle labbra. "Ricordate però, papà non
deve saperne
niente".
"Si,
è il nostro segreto" – disse Clowance, correndole
accanto e
prendendola per mano.
Camminarono
sulla spiaggia con la tranquillità con cui si fa una
passeggiata.
Demelza teneva per mano i figli più grandi mentre Bella,
sulle sue
spalle, si guardava attorno incuriosita.
Artù,
davanti a loro, trotterellava contento. Era diventato ormai un cane
molto grosso, dal lungo pelo bianco come la neve, ed era la
bontà
fatta animale. Per questo Demelza si stupì quando, a pochi
passi
dalla loro grotta, lo vide fermarsi, alzare il pelo sulla collottola
e ringhiare.
La
donna si guardò attorno, notando una barca noleggiata a
riva,
contenente grosse casse di legno. Si morse il labbro, il suo umore
divenne di colpo cupo e prese a tremare dalla rabbia. Erano di nuovo
lì, i contrabbandieri! E li aveva colti sul fatto!
Avrebbe
voluto intervenire, ma c'erano i figli con lei e non voleva esporli a
qualche pericolo. Suo malgrado doveva tornare a casa, allontanarsi e
pensare al da farsi una volta messi al sicuro i bambini.
"Andiamocene" – disse con urgenza.
"Ma
mamma..." - obiettò Jeremy.
Una
voce maschile gracchiante e non più giovane, li raggiunse
alle
spalle. "Mamma non va da nessuna parte, non preoccuparti,
piccolo...".
Demelza
si voltò, trovandosi davanti uno dei contrabbandieri che
aveva già
visto con Hugh Armitage. Era l'uomo dal viso butterato, grasso e dai
capelli grigi e crespi, il capo-banda probabilmente. Altri tre uomini
uscirono dalla grotta e in un attimo si sentì circondata.
Strinse a
se i bambini, rendendosi conto che quegli uomini, a differenza della
prima volta, erano armati.
"E
allora, signorina" – disse il contrabbandiere-capo
– "Infine
ci rivediamo".
"Esatto!
E mi pareva che mi aveste giurato che non ci saremmo più
incontrati"
– rispose Demelza, a tono.
L'uomo
ridacchiò sotto i baffi con fare maligno. "Il commercio
prospera e noi poveri commercianti siamo costretti a trovarci porti
d'appoggio".
"Commercianti?
Contrabbandieri, vorrete dire".
L'uomo
scosse la testa, avvicinandosi e tenendo la pistola puntata contro di
lei. "Parlate troppo, signora, mi state ferendo le orecchie.
Entrate dentro" – le intimò, indicandole con un
cenno del
capo la grotta.
Demelza
si sentì morire, in trappola. Bella si mise a piangere e
Clowance e
Jeremy si strinsero più forte a lei, tremando spaventati.
"Vi
prego, ci sono dei bambini, lasciateci andare".
I
contrabbandieri scoppiarono a ridere. "Lasciarvi andare? Per
farvi chiamare le guardie?".
L'uomo
butterato le si avvicinò, la prese per i capelli e,
spingendola, la
allontanò dai figli e la spinse a terra. Le diede un calcio
nello
stomaco facendola stramazzare nella sabbia e poi le afferrò
i
capelli, costringendola ad alzarsi, mentre i bambini piangevano
terrorizzati. "Hai capito che non te lo sto chiedendo? Ubbidisci
ed entra nella grotta coi bambini o ti pianto una pallottola nel
petto, bellezza".
Col
fiato corto, soffocata quasi dal dolore allo stomaco dovuto al
calcio, Demelza boccheggiò. L'uomo la spinse dai bambini, le
puntò
la pistola alla nuca e con un gesto del capo, le indicò la
grotta.
E
a quel punto Artù ringhiò forte, lanciandosi
contro l'uomo e
mordendolo sulla coscia. Il contrabbandiere urlò e poi gli
diede un
calcio talmente violento da farlo volare per alcuni metri. Il cane
guaì e l'uomo sparò in aria per terrorizzarlo.
"SCAPPA
ARTU'" – urlò Clowance, in lacrime, cercando di
salvare il
suo amico.
Il
cane fece per attaccare di nuovo ma il contrabbandiere sparò
un
altro colpo che lo spaventò ancora di più. E alla
fine, scappò,
guaendo disperato.
Clowance
si aggrappò alla gonna della mamma e piangendo si strinse a
lei
cercando conforto.
Demelza
avrebbe voluto confortarla, dirle che andava tutto bene, abbracciarla
e rassicurarla come sempre. Ma i colpi e le botte subite facevano
dolere ogni arto del suo corpo e con orrore pensò che non ci
era più
abituata. Da piccola era avvezza a questo tipo di trattamenti, li
sopportava quasi con noncuranza, ma ora facevano male,
infinitamente... Da quando aveva conosciuto Ross, nessuno l'aveva
più
sfiorata nemmeno con un dito...
"DENTROOOO".
L'urlo
dei contrabbandieri la spinse, zoppicando, ad entrare nella grotta,
sorretta da Jeremy mentre Clowance, con in braccio Bella, non si
staccava dalla sua gonna.
I
contrabbandieri li costrinsero ad addentrarsi in profondità,
fino a
uno stretto cunicolo sotterraneo tanto simile a quelli della Wheal
Grace, la miniera di Ross. Poi, dopo aver intimato loro di non
muoversi, proseguirono col loro lavoro, lasciando un uomo di guardia
affinché non scappassero.
Demelza
si sedette contro la roccia, stringendo a se i figli ed implorando di
lasciare andare i bambini, purtroppo senza esito. Li cullò,
cercò
con tutte le sue forze il coraggio di cantar loro una canzone, ma non
le uscì che un lamento stonato. Voleva Ross, lui avrebbe
saputo cosa
fare. Si maledì per essersi addentrata fin lì da
sola coi bambini e
di essere incorsa in quel rischio così grande senza dire a
nessuno
dove fosse diretta.
Gli
uomini finirono di nascondere le casse e poi il tizio butterato
tornò
da lei con l'immancabile pistola fra le mani. "Allora bellezza,
che faccio con te, ora? Ti porto sulla mia nave e faccio di te la mia
schiava..." - propose, leccandosi le labbra in maniera viscida
–
"O ti tengo qui prigioniera a curarmi la merce?".
"Lasciate
andare i miei bambini e fate di me quel che volete" – lo
implorò, di nuovo.
"No
no, da qui non va via nessuno" – rispose l'uomo.
"Per
favore".
Di
tutta risposta, il contrabbandiere le si scagliò contro,
dandole un
nuovo schiaffo in pieno viso che la fece stramazzare a terra. "Zitta,
odio sentire la gente che implora inutilmente".
Le
girò la testa per un lungo istante a causa del colpo,
finché non
sentì Jeremy alzarsi di scatto e, presa dal panico,
cercò di
ricomporsi e di riacciuffarlo prima che facesse delle sciocchezze.
"LASCIA
STARE LA MIA MAMMA!!!" - urlò il bambino, lanciandosi contro
l'uomo.
"JEREMY,
NOOOO". Con la forza della disperazione, Demelza si alzò e
riprese il figlio, allontanandolo dalle grinfie di quel criminale
prima che succedesse l'irreparabile.
Il
contrabbandiere, preso alla sprovvista inizialmente, sputò a
terra e
prese la mira... "Mi hai stancato donna, tu e questi tuoi
marmocchi".
Demelza
spinse i bimbi dietro di lei e si parò loro davanti, per
difenderli
col suo corpo da qualsiasi cosa avesse in mente quell'uomo. Poi fu un
attimo, un colpo secco, la pistola che fumava e un dolore fortissimo
che le tolse definitivamente il fiato, nel costato, vicinissimo al
cuore.
Stramazzò
al suolo, avvertendo solo che i suoi vestiti si stavano bagnando di
una sostanza calda e oleosa...
Le
urla di Clowance, Jeremy e Bella sembravano lontane, così
come la
risata di quell'uomo orribile che li teneva prigionieri. In un attimo
il dolore sparì, sparì tutto quanto quasi
miracolosamente.
Fugacemente ricordò la sua infanzia, il viso sbiandito dal
passare
del tempo di sua madre, le botte di suo padre, la sua nidiata di
fratellini a cui badare, la fame costante che aveva accompagnato
tutti i suoi primi tredici anni, il giorno in cui la sua vita era
cambiata, il primo sguardo a Ross, l'ammirazione per lui, Garrick, il
lavoro accanto a Jud e Prudie, la miniera, il vestito azzurro della
madre di Ross, la sua prima notte d'amore con lui, il matrimonio, i
loro bimbi, il dolore del tradimento, della lontananza e della
solitudine, l'amore, le carezze, le risate e gli abbracci, Londra, i
suoi amici, i balli, tutta la sua vita gli passò avanti in
un
attimo...
Poche
ore prima aveva fugacemente pensato che non avrebbe avuto rimpianti,
che aveva avuto tutto...
Non
avrebbe mai immaginato che quei pensieri vaghi sarebbero stati una
sorta di testamento silenzioso di ciò che era stata...
Il
mondo divenne buio, tutto perse consistenza e forma... E fu come
sprofondare lentamente in un sonno eterno...
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Capitolo 25 *** Capitolo venticinque ***
“Mamma,
mamma!”.
Era
avvolta dall’oscurità, si sentiva leggera e
inconsistente e la
voce dei suoi figli pareva provenire da lontano. Avrebbe voluto
ignorarla, lasciarsi andare all’oblio perché
sapeva che se avesse
riaperto gli occhi, avrebbe provato dolore. Ma era anche consapevole
che, finché un alito di vita fosse stato presente in lei,
avrebbe
risposto alla loro chiamata.
Aprì
gli occhi, a fatica, travolta da un dolore fortissimo e schiacciata
dalla difficoltà di respirare, trovandosi accanto i suoi tre
bambini
in lacrime. Si guardò attorno, erano ancora nella grotta e
le voci
dei contrabbandieri apparivano lontane, anche se ancora presenti.
Sentiva il sangue defluire velocemente fuori dal suo corpo e solo in
quel momento si accorse della mano di Jeremy, premuta sul suo
costato, nel disperato tentativo di fermare il sangue. Era stato Ross
ad insegnarglielo, pensò fugacemente… E a quel
ricordo le venne da
sorridere. Era un bravo papà e lo sarebbe sempre stato anche
in
futuro, qualsiasi cosa fosse successa…
“Mamma”.
Clowance le si gettò addosso, aggrappandosi alle sue spalle.
Debolmente portò una mano ai capelli rossi della figlia,
accarezzandoli piano. “Shhh, non aver paura…
Andranno via”.
“Mammmaaa”.
Bella le batté con la manina sul braccio. E a Demelza
vennero le
lacrime agli occhi. Non li avrebbe visti crescere, diventare adulti,
sposarsi e realizzarsi nella vita… La sua unica consolazione
era
che li lasciava in buone mani e che Ross avrebbe fatto tutto quello
che era in suo potere per loro, perché fossero
felici…
Pensò
a Ross, a tutto il tempo sprecato che avevano trascorso lontani, a
tutto il tempo perso a litigare e all’amore indissolubile che
li
univa… Non lo avrebbe più rivisto, non lo avrebbe
potuto salutare,
dargli un bacio d’addio, non avrebbe avuto occasione di
dirgli
quanto lo amava, quanto si era sempre sentita fortunata per essere
diventata sua moglie, non lo avrebbe visto guarire…
Perché lui
sarebbe guarito, ne era certa. Strinse la mano di Jeremy, la
allontanò dalla sua ferita e lo guardò negli
occhi. Era il suo
ometto e doveva dirgli cosa fare e come muoversi per portare in salvo
lui e le sue due sorelle. Era orgogliosa e fiera di Jeremy, era un
bambino accorto, intelligente e buono, sarebbe diventato un grande
uomo. E poi c’era Clowance, tanto bella quanto raffinata.
Sarebbe
diventata una lady ammirata e corteggiata da tutti, ne era certa.
Infine la piccola e buffa Bella, che rideva e strillava talmente
forte che non faticava ad immaginare un futuro da cantante per lei.
Non li avrebbe visti crescere ma, era strano, era come se potesse
già
vedere il loro futuro. Che si augurava felice, sereno e con la loro
famiglia sempre unita. “Jeremy… Quegli uomini
torneranno alla
loro barca, non staranno qui troppo a lungo…”.
Deglutì, faticava
a parlare, a respirare, a fare qualsiasi cosa. Ma doveva farlo!
“Quando saranno lontani, quando non sentirai più
le loro voci,
prendi Bella e Clowance e scappate, correte a casa da papà,
al
sicuro! Capito? Devi correre forte, non fermarti e non voltarti
indietro finché non sarete a Nampara.
Promettimelo!”.
Jeremy
scosse la testa, mentre Clowance iniziò a piangere
più forte. “Ma
mamma, no! E tu che farai?”.
“Io
resto qui… E voi andrete via! Ti prego, dimmi che lo
farai” –
chiese, quasi implorandolo. Stava morendo, sentiva le forze venir
meno e l’oscurità da cui era appena uscita che la
stava
risucchiando di nuovo. Voleva andarsene sapendoli sani e salvi, col
loro papà.
Jeremy
capì, annuendo, mentre le lacrime continuavano a rigargli il
viso.
“Va bene mamma, lo farò. E poi torno con
papà a prenderti”.
“Certo
tesoro, ti aspetterò qui” – gli rispose,
sapendo bene che anche
Jeremy aveva capito che era una bugia.
Si
voltò verso Clowance che, accanto a loro, le stringeva
assieme a
Bella il braccio. “Devi fare la brava, soprattutto con
papà.
Promettimi che farai pace con lui. E’ l’unica cosa
che vorrei
davvero”.
“Ma…”
– obiettò la bimba.
“Promettimelo.
E’ importante, lui ti vuole bene e tu ne vuoi a lui. Stagli
vicino,
avrà bisogno di te. Parla, gioca con lui, fate le cose
insieme come
una volta, fa la brava e ascoltalo e sarai contenta di nuovo. Aiutalo
con Bella, è la tua sorellina e sarai tu a darle
l’esempio per
aiutarla a diventare grande”.
Clowance
scosse la testa e pianse più forte, capendo appieno il
significato
di quelle parole. “Ti prometto… che ci provo. Ma
mi devi aiutare
tu”.
Avrebbe
voluto risponderle e dirle che le sarebbe sempre stata vicina in
qualche modo, ma sapeva che per Clowance sarebbero state solo parole
vuote. Eppure ci credeva… Sarebbe rimasta in ognuno dei suoi
figli,
negli insegnamenti e nei ricordi e forse, crescendo, in qualcosa, in
qualche scelta, si sarebbero ispirati a lei. “Ti voglio bene,
vi
voglio bene” – sussurrò. Il buio la
avvolse di nuovo, mentre si
sentiva sempre più inconsistente e leggera. Il dolore
scomparve,
tutto scomparve e anche il pianto dei suoi bambini, sempre
più
lontano, divenne intangibile. Li stava lasciando per sempre. E stava
per riabbracciare l’altra sua figlia, Julia. Sarebbe tornata
ad
essere la sua mamma e questa cosa, in un qualche modo,
rasserenò la
sua discesa verso il nulla.
…
“Non
è corretto, non è educato, non è
appropriato e non è gentile!”
– sbottò Prudie, girando lo stufato nel pentolone.
“La cena è
pronta e la signora è in ritardo”.
Ascoltando
quei borbottii, Ross guardò fuori dalla finestra. Era quasi
buio e
in effetti Demelza stava ritardando. “Strano, non
è da lei”.
“Ci
dobbiamo preoccupare?” – chiese Jud, seduto al
tavolo a lucidare
la sua pipa.
Ross
scosse la testa, pensieroso. “Sono andati alla spiaggia, una
cosa
tranquilla. Non credo ci sia da preoccuparsi, ma magari faccio un
salto laggiù per chiamarli”.
In
quel momento, l’abbaiare furioso di Artù
spezzò la calma. Il cane
si avventò sulla porta d’ingresso, guaendo ed
abbaiando in un modo
quasi feroce che non gli era mai appartenuto.
Il
volto di Ross si oscurò e di scattò
andò ad aprire la porta. Artù
gli si avventò contro, prendendolo per i pantaloni e
tirandolo verso
di se. L’uomo si chinò, stranito dal fatto che il
cane si
comportasse a quel modo. Gli accarezzò la testa cercando di
calmarlo, lo strinse a se e solo in quel momento si accorse della
ferita che aveva al costato. Sfiorandolo, il cane guaì dal
dolore,
accucciandosi e leccandosi il pelo. Ross sentì il fiato
mancargli.
Che cos’era successo? Dov’era sua moglie? E
dov’erano i suoi
bambini? “Artù, cosa stai cercando di
dirmi?” – sussurrò al
cucciolo.
Artù,
a quella domanda, parve capire. Si alzò di nuovo,
addentò la stoffa
dei suoi pantaloni e tirò, invitandolo a seguirlo. Ross
annuì.
“Jud, vieni! Credo sia successo qualcosa. Tu Prudie,
aspettaci
qui”. E detto questo, col servo alle calcagna, corse fuori da
Nampara, diretto alla loro spiaggia.
Corsero
come forsennati e nonostante Jud faticasse a stargli dietro, sentiva
l’esigenza di essere veloce. Il suo istinto gli gridava di
fare
presto, che era una corsa contro il tempo. Improvvisamente, forse a
causa della tensione, sentì una fitta fortissima alla testa,
tanto
simile a quelle che lo avevano tormentato nei giorni seguenti al suo
incidente. Si accasciò a terra sfiorandosi le tempie, mentre
per un
attimo si sentì mancare e strane immagini gli balzavano
nella mente
senza un oggettivo senso logico.
Jud
gli fu subito vicino. “Signore?”.
Ross
scosse la testa, tirandosi su. “Non è niente,
seguiamo il cane”.
Dwight gli aveva detto che un colpo in testa o un trauma emotivo
forte, potevano aiutarlo nella sua condizione. E per un attimo,
mentre correva, immagini sfuocate di un passato che poteva sfiorare
ma non ancora toccare, gli passarono davanti agli occhi. Ma non era
il momento di pensarci, doveva correre, trovare i suoi bimbi e sua
moglie e vedere cos’era successo. Il resto aveva poca
importanza.
Artù
corse lungo la spiaggia, velocemente, incurante della sua ferita.
Ross lo seguì, arrivando fino alla grotta che delimitava la
loro
proprietà. In lontananza vide una barca carica di casse di
legno
allontanarsi e subito entrò in allerta. Chi erano quelle
persone? E
cosa ci facevano lì? E dov’erano i suoi figli e
sua moglie?
Jud,
quasi leggendogli nel pensiero, gli rispose.
“Contrabbandieri!
Dannazione, sono fra le peggiori canaglie”.
Ross
scosse la testa, in quel momento quella faccenda era di secondaria
importanza.
Artù
abbaiò, facendogli segno di seguirlo nella grotta. E Ross
corse,
seguito da Jud, addentrandosi nell’oscurità.
“DEMELZA!” –
urlò – “AMORE, SEI
QUI’?”,
“PAPAAAA’”.
La
voce di Jeremy giunse dal fondo della grotta, disperata. E Ross corse
di nuovo, col cuore in gola. “Jeremy, dove sei? Dove
siete?”.
“Papà,
papà!”.
Alla
voce di Jeremy si aggiunsero anche quelle di Clowance e Bella e Ross
si precipitò nella direzione da cui provenivano.
E
quando li ebbe davanti, sentì il cuore fermarsi. I suoi
bambini
erano il lacrime e Demelza… la sua Demelza… era
in un lago di
sangue. Sentì le gambe tremare, rimase senza fiato e la
testa tornò
a dolergli con un’intensità ancora maggiore.
“Cos’è
successo?”.
Jud,
accanto a lui, lo guardò con l’orrore negli occhi.
“Signore, è…
lei è…?”.
“No!”.
Se Jud voleva chiedergli se era morta, la risposta era NO!
Razionalmente non avrebbe potuto affrontare una verità
diversa.
Jeremy
corse da lui, lo abbracciò. Le sue mani erano sporche di
sangue,
piangeva ed era terrorizzato. “Quei signori hanno sparato
alla
mamma! Papà, si è addormentata, non si sveglia
più” –
singhiozzò il bimbo.
Ross
gli accarezzò i capelli e poi lo affidò a Jud.
Infine si avvicinò
col terrore nel cuore che fosse morta e che lui non le era accanto
per difenderla. Era pallida, piena di sangue, immobile. Lei, il suo
amore, lei, sempre piena di vita…
Si
inginocchiò, strinse a se le bimbe e stavolta Clowance non
oppose
resistenza. “Andate da Jud, così potrò
aiutare la mamma”.
Clowance
annuì senza dire nulla. Prese Bella in braccio, diede
un’occhiata
a sua madre e poi corse a rifugiarsi fra le braccia del servo.
Ross
sfiorò la fronte di Demelza, fredda e marmorea. Poi le
toccò il
polso, cercando in esso un alito di vita. Lo trovò, il
battito era
debole e irregolare ma c’era. Demelza sembrava lontana ed
irraggiungibile ma era ancora con loro e lui l’avrebbe
salvata. La
prese fra le braccia, intuendo cosa avesse provato lei quel giorno,
quando lui era quasi morto nella miniera. Le baciò la
fronte,
sentendosi in colpa per il dolore che le aveva arrecato allora e
provandolo anche lui sulla sua pelle, per la prima volta.
Pregò che
non se ne andasse, pregò che trovasse la forza di resistere
e che
tornasse da lui e dai loro figli. Senza di lei, nulla avrebbe avuto
più senso, pensò, con un tormento nel cuore.
“Amore mio, ti
riporto a casa, resisti. Fallo per me, ti prego”.
Demelza
non rispose, come era ovvio. Ross la sollevò, la strinse
delicatamente a se e guardò Jud e i bambini. Aveva di nuovo
la testa
che gli faceva un male terribile, le vertigini e flash che gli
annientavano la mente con immagini sfuocate. Immagini che
riguardavano lei, loro! Immagini che voleva far sue di nuovo, non
tanto per se stesso ma per tornare ad essere davvero una famiglia.
Lui con lei, coi loro figli, il loro cane e i loro servi.
“Corriamo,
dobbiamo fare in fretta!” – disse a Jud.
Non
c’era tempo da perdere, ogni attimo poteva essere fatale per
Demelza.
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Capitolo 26 *** Capitolo ventisei ***
"Ross,
dobbiamo parlare".
La
voce di Dwight, che aveva mandato a chiamare in fretta e furia da
Jud, era grave e preoccupata. Era rimasto a lungo in camera a
visitare Demelza che, debolissima, non aveva mai ripreso conoscenza,
ed ora era il momento del verdetto.
A
Ross sembrava di impazzire, avrebbe voluto uccidere gli uomini che
avevano osato farle del male, sbatterli al muro e riempirli di pugni,
avrebbe voluto curarla e farla star bene solo con la sua vicinanza,
avrebbe voluto essere al suo posto. E invece non poteva fare nulla e
si sentiva completamente inutile. La testa gli doleva da morire,
davanti ai suoi occhi balenavano improvvise immagini di cose che per
lui non avevano senso e se non fosse stato tanto preoccupato per
Demelza, avrebbe chiesto a Dwight una visita per se stesso. "Dimmi"
– rispose al medico, stringendosi la tempia fra le dita e
pregando
che portasse buone notizie.
Dwight
sospirò, poggiandogli una mano sulla spalla. "Ross,
è viva, ha
una tempra forte ed è giovane".
"Ma...?"
- chiese, perché lo avvertiva chiaramente che c'era un 'ma'.
"Ross,
devo estrarle il proiettile e suturare la ferita".
"D'accordo,
fa quel che devi!" - rispose, con urgenza. Perché stava
perdendo tempo con lui, invece che curare Demelza?
Dwight
scosse la testa, sospirando. "Ha perso molto sangue, è
troppo
debole. L'intervento di per se potrebbe non essere troppo complicato,
ma Demelza potrebbe non riuscire comunque a superarlo. Il suo cuore
potrebbe cedere... Sei tu che devi decidere se vale la pena tentare o
se preferisci lasciarla andare in pace, senza torturarla".
A
Ross parve mancare il fiato ed ebbe un nuovo giramento di testa che
lo costrinse ad appoggiarsi al muro per non cadere. Non poteva
essere, NON POTEVA ESSERE! Dwight stava dicendo che sua moglie... la
sua bellissima moglie... stava morendo... E gli stava chiedendo di
decidere come... Era un incubo, era peggio di un incubo.
Pensò a
come sarebbe stato perderla, al dolore dei loro bambini, a come
quella casa avrebbe smesso di essere una casa senza di lei che ne era
l'anima.
"Ross,
stai bene?" - chiese Dwight, afferrandolo per il braccio ed
aiutandolo a sorreggersi.
"Mi
gira la testa, da morire, da oggi pomeriggio, da quando sono corso
fuori per cercare mia moglie e i miei bambini. Ma non è
niente di
grave, non ha importanza".
Dwight
lo studiò in viso, accigliato. "Un forte stress, nelle tue
condizioni, potrebbe aiutarti a guarire dall'amnesia, lo sai?".
Ross
gli diede uno strattone, allontanandolo da lui. Che importava? Delle
sue condizioni di salute e della sua amnesia, a Ross non importava
nulla! Era solo di Demelza che voleva parlare, solo di lei! "Demelza,
dobbiamo pensare a lei, non a me".
"Cosa
faccio?" - chiese Dwight.
Ross
sorrise tristemente, mentre nella sua mente si formulava la risposta
più ovvia da dargli. Demelza era forte, una combattente. Non
lo
avrebbe lasciato e non avrebbe lasciato i suoi bambin, avrebbe
lottato come una leonessa. "Toglile quel proiettile, fa in
fretta e fa in modo che non soffra. E riportala da me".
Dwight
annuì. "Farò del mio meglio. Vuoi entrare per
salutarla?".
"Posso
farlo?".
"Sì,
puoi. Una cosa breve, mentre preparo i ferri".
"Posso
portare i bambini da lei? Li ho lasciati giù in salone con
Prudie".
A
quel punto il medico scosse la testa. "No, non è il caso. La
vedranno quando starà meglio".
"Starà
meglio? Tu ci credi, vero Dwight? Credi in lei?".
Dwight
sorrise. "Sì, credo in lei". Gli diede una pacca sulla
spalla in tono amichevole per dargli coraggio. "Va da tua moglie
Ross, anche se è priva di coscienza, sono sicuro che
percepirà che
sei accanto a lei".
Ross
annuì. E poi entrò in camera dalla moglie.
Lei
sembrava addormentata. I suoi lunghi capelli rossi erano sparsi sul
cuscino e il suo viso era pallido e sofferente. Le si
avvicinò,
sedendosi accanto a lei e prendendole la mano. Gliela baciò,
portandosela alle labbra. "Mi fido di te, so che sei forte. Ne
uscirai, ne usciremo come sempre. Mi hai raccontato che insieme
abbiamo combattuto mille battaglie, questa è solo una delle
tante".
Si chinò, dandole un lieve bacio stavolta sulle labbra. E in
quel
momento, come un flash, nella sua mente apparve un'immagine di
Demelza vestita con un abito rosso, seguita da un'altra in cui era in
quello stesso letto, pallida e sofferente come la vedeva in quel
momento. Ross si tirò su di scatto, turbato. Cos'erano
quelle
immagini che, da quel pomeriggio, gli ferivano occhi e mente? Era il
suo passato che cercava di tornare? O fantasie malate di un uomo
terribilmente preoccupato per la moglie?
Dwight
in quel momento rientrò, poggiando la sua borsa sul
comodino. "Ross,
ora devi andare, penserò io a lei".
Annuì,
baciandola di nuovo ed appoggiando la fronte sulla sua. Aveva paura,
per lei, per lui, per i loro bambini. Ma doveva avere fiducia, era
tutto quello che poteva fare. "Torna da me" –
sussurrò,
quasi implorandola. Poi si alzò, poggiando famigliarmente
una mano
sulla spalla di Dwight. "Te la affido, è tutto quello che
ho.
Salvala e riportala da noi".
Dwight
annuì e, a malincuore, Ross uscì dalla stanza. Si
allontanò, non
voleva sentire né immaginare nulla di quello che sarebbe
successo lì
dentro.
Scese
al piano di sotto dove Prudie cercava di intrattenere i suoi figli. I
suoi bambini erano ancora molto scossi e non sapeva cosa fare. La
piccola Bella frignava in braccio alla loro serva e d'istinto la
prese, stringendola a se ed avvicinandosi agli altri due bambini che,
seduti alla panca del tavolo, se ne stavano in silenzio, ammutoliti.
"La mamma starà bene, vedrete".
Jeremy
abbassò lo sguardo. "Sei sicuro? Era come morta".
Ross
scosse la testa. Era inutile mentire per tranquillizzarli, i suoi
figli avevano vissuto l'agonìa della madre in prima persona
e
avrebbero captato subito una bugia. "Non è morta,
però sta
molto male. Dwight l'aiuterà a stare meglio e pian piano
guarirà".
Clowance
non disse nulla. Lo guardò storto, si alzò e
andò a rannicchiarsi
davanti al camino, chiusa in un ostinato silenzio.
Ross
la guardò, sentendosi impotente. Clowance era la figlia con
cui gli
era più difficile rapportarsi e con la quale aveva parecchi
problemi
irrisolti. Ma in quel momento andavano messi da parte, ne era
consapevole. La sua bambina era spaventata e confusa e toccava a lui
fare il primo passo. Le si avvicinò, inginocchiandosi
accanto a lei
e mettendole Bella vicino. "Vuoi venire un po' in braccio?
Magari ti tranquillizzi e riesci a dormire un po'".
"No,
non voglio venire in braccio. Voglio solo stare quì e
aspettare la
mamma".
"Ci
vorrà molto".
"Fa
niente, resto quì lo stesso".
Ross
fece per accarezzarle i capelli, ma la piccola si scostò
bruscamente. E in quel momento si chiese se sarebbe mai riuscito a
recuperare il rapporto con lei. Aveva bisogno di Demelza, di averla
vicino... Lei avrebbe saputo cosa fare... "Clowance, per
favore...".
La
bimba si voltò verso di lui, osservandolo con occhi velati
di
lacrime. E per la seconda volta, un'immagine sconosciuta apparve agli
occhi di Ross. Una Clowance più piccola, con la testolina
piena di
boccoli rossi e un albero di Natale tutto rosa... Fu colto da una
vertigine fortissima e dovette appoggiarsi al tavolo per non cadere.
"Papà".
Jeremy gli corse vicino, spaventato.
Ross
gli accarezzò la guancia. "Sto bene, mi fa solo un po' male
la
testa".
Anche
Clowance lo fissò, non riuscendo a mascherare la
preoccupazione. E a
quel punto si fece coraggio, si inchinò e la prese in
braccio,
assieme a Bella. "Sto bene, state tranquilli. E' la mamma che ha
bisogno di Dwight, non io".
Prudie
lo osservò senza dire una parola ed uscì con Jud
fuori dalla porta
a prendere un po' d'aria. Ross, con le due bambine fra le braccia, si
sedette sulla panca con Jeremy accanto, aspettando notizie da Dwight.
Clowance
non fece obiezioni, rimase in silenzio rannicchiata contro il suo
petto e pure Bella, di solito vivace e pestifera, rimase ferma.
Calò
il silenzio e Ross, coi suoi figli vicino, parve perdere la
cognizione del tempo. La testa gli girava da morire ma avere i
bambini vicino era come avere un appiglio per non cadere. Immagini
veloci e confuse gli danzavano davanti agli occhi e non sapeva dar
loro né forma né collocazione spazio temporale,
si sentiva confuso
e inerme e non aveva idea di come bloccare quello stato di ansia in
cui era caduto. "Un albero di Natale rosa... Lo abbiamo mai
avuto?" - chiese improvvisamente, quasi più a se stesso che
ai
suoi figli.
Jeremy
lo guardò, sbuffando. "Sì, a Londra. Era di
Clowance, quando
era piccola lei voleva tutto rosa. Ti ricordi?".
Clowance
scosse la testa, non troppo desiderosa di parlare. "No, non mi
ricordo".
"Ma
io sì" – sussurrò Ross, fra i capelli
rossi della figlia. Il
suo passato stava tornando e forse, come gli aveva detto Dwight, era
il trauma per quanto successo a Demelza che stava smuovendo qualcosa
in lui. Forse doveva esserne felice, ma non era così.
Avrebbe
preferito continuare a non ricordare nulla, se il prezzo da pagare lo
stava scontando Demelza...
Pregò
silenziosamente per lei... Che non soffrisse, che Dwight sistemasse
le cose e che guarisse in fretta.
I
minuti sembravano dilatarsi in ore, la casa pareva immersa in un
silenzio surreale e dalle scale e dalla camera dove Dwight stava
cercando di salvare la vita di sua moglie, non proveniva alcun suono.
I
bimbi erano chiusi in un ostinato mutismo, Bella era sprofondata in
un sonno agitato e persino Artù si era rintanato nella sua
cesta e
non si muoveva. Di tanto in tanto Jud e Prudie facevano capolino in
cerca di notizie ma poi finivano per uscire di nuovo fuori a testa
bassa.
Non
seppe dire quante ore fossero passate, due o forse tre... Ore passate
a chiedersi quanto diavolo ci volesse per estrarre un proiettile.
E
quando alla fine Dwight, sudato e stravolto, comparve dalle scale, a
Ross parve fermarsi il cuore. "E allora?" - chiese, con
timore.
"E
allora è molto debole, ma quanto meno sono riuscito ad
estrarre il
proiettile e a medicarle la ferita. Potrebbe avere la febbre molto
alta nelle prossime ore e avrà bisogno di assistenza
costante, non
deve essere lasciata sola".
Ross
deglutì, annuendo. "Quindi... andrà tutto bene?".
Dwight
scosse la testa. "Vorrei potertelo assicurare ma la verità
è
che siamo nelle mani di Dio e che dobbiamo confidare nella forza di
Demelza. Io ho fatto tutto quello che potevo, ora dipende da lei".
Ross
si alzò in piedi, affidando Bella alle cure di Jeremy e
mettendo
Clowance in terra. "Posso andare da lei?".
"Devi
andare da lei" – rispose Dwight, con ovvietà. "I
bambini
però, finché non si sarà risvegliata,
è meglio che restino fuori
dalla stanza. Ha bisogno di riposo".
Clowance
e Jeremy abbassarono lo sguardo e Ross carezzò loro la
testa. "Su,
abbiate un po' di pazienza, è per il bene della mamma.
Starò io con
lei e farò in modo che guarisca in fretta".
"Tu
come stai Ross? Hai ancora dolori alla testa?" - gli chiese
Dwight, studiandolo in viso.
"Si,
ma non ha importanza". Non ne aveva, per niente. Voleva solo
andare da Demelza in quel momento, il resto non contava.
Lasciò
i bambini alle cure di Prudie e corse al piano di sopra, entrando
nella stanza in punta di piedi.
Demelza
pareva dormire un sonno profondo, il suo viso era di poggiato di lato
sul cuscino e i riccioli rossi le coprivano parzialmente una guancia.
Era pallidissima e il suo volto era stanco e sofferente, ma era viva.
Solo questo importava!
Si
sedette accanto a lei, prendendole la mano nelle sue ed
accarezzandole il palmo. "Sei stata bravissima, sono orgoglioso
di te".
E
poi Ross non disse più nulla e calò il silenzio.
Le rimase accanto
per ore, mettendole pezze bagnate sulla fronte, sistemandole i
capelli che le scivolavano sul viso e accarezzandole la mano. Prudie
arrivò a portargli la cena ma non spizzicò che un
po' di pane, gli
pareva di avere lo stomaco chiuso.
Calò
il buio, accese le candele nella stanza per poter continuare a
vegliare il suo sonno e quando ormai la mezzanotte era passata da
molto, sentì la porta cigolare. Artù, di
soppiatto, entrò,
accucciandosi ai piedi del letto, al suo fianco.
Ross
osservò il cane. Se non fosse stato per lui che li aveva
guidati
fino alla grotta, forse non sarebbe arrivato in tempo per salvarla.
Lo chiamò a se, accarezzandogli poi la testolina. Aveva il
pelo
morbido come seta, bianco come la neve e due occhietti neri e vivaci.
"Ti devo ringraziare". Improvvisamente, di nuovo, sentì la
testa girargli e nella sua mente apparvero altre immagini. Ma
stavolta non semplici e veloci flash... Vide una fiera, vide se
stesso molto più giovane e un cane dal pelo chiaro come
Artù ma che
non era Artù. E un ragazzino vestito di stracci... no, una
ragazzina... la padroncina del cane... "Demelza... Garrick...".
Ross spalancò gli occhi, la stanza gli prese a girare
attorno sempre
più forte... Vide altre immagini, il viso di una giovane
donna dai
lunghi capelli scuri, una miniera, il visino di una bimba persa nel
tempo e strappata dal destino ai suoi genitori, la nascita di Jeremy,
i suoi giochi con Clowance e Bella...
Per
un attimo la testa gli girò talmente forte che cadde a
terra,
stringendosi le tempie con le mani, mentre Artù gli leccava
preoccupato la guancia. Durò lunghi istanti e poi, di colpo,
tutto
smise di girare e la testa smise di pulsare. Aprì gli occhi
e si
trovò davanti il muso del cane che, accigliato, lo guardava
come se
fosse stato pazzo. E in quel momento si rese conto di qualcosa che,
in situazioni normali, l'avrebbe fatto ridere come un pazzo.
Ricordava! Tutto! "E pensare che quella testona di mia moglie
nemmeno ti voleva" – sussurrò quasi commosso,
accarezzandolo
e stringendolo a se.
Guardò
la stanza, la sua stanza. Non aveva idea di come e perché
fose
successo ma era tornato, ora era davvero tornato a casa! Si
tirò in
piedi, osservando Demelza spersa in un sonno senza sogni, ricordando
ogni cosa di lei, di loro e degli ultimi momenti che avevano
trascorso insieme prima del suo incidente in miniera. Gli si strinse
il cuore nel pensare a quel momento. "Perdonami..." -
disse, sotto voce, tornandole accanto e prendendole la mano. "Scusa
se ti ho fatto preoccupare e ti ho lasciata sola. Ma ora sono
quì...". Ricordava tutto, ogni cosa accaduta prima e dopo il
suo incidente. L'unico dono che quella giornata infernale aveva
regalato alla sua vita, la guarigione...
Sapeva
chi era, adesso. Era il marito innamorato e orgoglioso di Demelza, il
padre di tre splendidi bambini, il proprietario di una miniera, un
uomo che aveva sbagliato tantissimo e aveva rischiato di perdere
ciò
che davvero contava. Un uomo che aveva amato in passato un'altra
donna che mai avrebbe potuto renderlo felice e che aveva trovato la
sua ragione di vita in una ragazzina vestita di stracci che aveva
incontrato per caso a una fiera tanti anni prima, mentre era intenta
a difendere il suo cane.
Si
chinò su di lei, baciandola lievemente sulle labbra. "Sono
tornato, sono guarito... Ora fai altrettanto e torna da noi, ti
prego". Era difficile vederla star male, percepire su di se il
dolore che doveva aver provato anche lei quando era stato lui a
tornare a casa quasi morto. E provarlo lui stesso era un qualcosa che
gliela faceva sentire più vicina. "Torna, torna da me, torna
da
noi, ti aspettiamo".
Demelza
non si mosse, apparentemente troppo lontana per sentire le sue
suppliche. Ma Ross avvertì che la mano che stringeva,
rispondeva
debolmente al suo tocco.
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Capitolo 27 *** Capitolo ventisette ***
"La
mamma sta dormendo troppo".
Quella
semplice osservazione di Jeremy, a cui aveva permesso di entrare in
camera, aumentò la sua frustrazione. Ross guardò
sua moglie che,
dal giorno prima, era riversa in quel letto priva di sensi. Il suo
respiro era talmente debole da essere quasi impercettibile e il suo
volto aveva il colore dell'avorio. Sembrava così fragile e
lontana,
lei che di solito era tanto forte e combattiva...
Ross
accarezzò la testolina del figlio, non sapendo bene cosa
dire. Dal
giorno prima ricordava ogni cosa e Dwight, arrivato quella mattina
per visitare Demelza, era apparso felice della cosa, decretando la
sua guarigione. Colpa del trauma e dello stress che stava vivendo,
gli aveva detto... In realtà a Ross in quel momento
interessava poco
sapere il perché della sua guarigione ed essere tornato
pienamente
padrone dei suoi ricordi non aveva fatto altro che aumentare la sua
frustrazione. Ora ricordava tutto e quindi sapeva pienamente quanto
fosse importante per lui Demelza. Certo, lo sapeva anche prima e
nelle ultime settimane lui e sua moglie erano stati molto vicini, ma
ora era padrone di ogni momento trascorso con lei. Ricordava il loro
primo incontro, i momenti belli intervallati a quelli bui, le risate,
le lacrime, il lavoro svolto fianco a fianco. Quella donna che
lottava contro la morte era il suo mondo e perderla avrebbe
significato sprofondare per sempre nell'oscurità. La
verità era che
non voleva nulla, che nulla avrebbe avuto senso se lei se ne fosse
andata. E lui senza di lei non ci voleva stare! "Jeremy,
dobbiamo solo essere pazienti".
"Ma
se siamo pazienti, lei poi guarisce?" - chiese il bimbo.
Ross
avrebbe voluto dirgli che sua madre aveva combattuto un'altra volta
con la morte e che era talmente forte da esserne uscita vincitrice,
che lui ora ricordava che grande lottatrice fosse, ma in
realtà non
aveva ancora affrontato coi suoi figli il discorso sulla sua
guarigione. Da quando Dwight aveva operato Demelza, aveva visto
pochissimo i bambini e sapeva che c'era molto da discutere anche con
loro, soprattutto con Clowance. Ma non poteva farlo ora, non con sua
moglie in quelle condizioni. "Vedremo..." - disse,
vagamente.
Jeremy
lo guardò negli occhi, serio. "Posso darle un bacino?".
"Credo
di sì".
Il
bimbo si avvicinò al viso di Demelza, dandole un leggero
bacio sulla
guancia. "Mi manca la mamma".
"Anche
a me. Ma ora vai, deve riposare. Scendi al piano di sotto, è
ora di
cena e Prudie avrà già apparecchiato in tavola".
Jeremy
ubbidì e Ross rimase di nuovo solo. Sentiva il vociare dei
suoi
figli, più sommesso del solito, e sperò lo udisse
anche Demelza. Le
si sedette accanto, scostandole i capelli dalla fronte sudata. "Hai
ancora la febbre, dormi di un sonno così profondo da essere
diventata irraggiungibile e sei così pallida... Demelza, ti
prego,
torna da me. Ho paura, mi stai facendo paura". Le prese la mano
nella sua, accarezzandole le dita e il palmo, lentamente, con gesti
delicati e leggeri. "Sai, spesso io sono stato scavezzacollo e
avventato e forse non mi sono mai davvero fermato a pensare all'ansia
che potevo provocare a te e ai nostri bambini col mio comportamento
sconsiderato. Stupidamente, mi sono sempre creduto invincibile e non
ho mai voluto ascoltare i suggerimenti di chi mi consigliava di stare
attento. Eppure nell'ultimo anno ho imparato che anche io posso
essere vulnerabile e che non posso pensare solo a me stesso ma
soprattutto a chi mi ama e mi aspetta a casa. Ecco Demelza, ora sono
io che aspetto te a casa... Io sono tornato, ora fai altrettanto. Ho
bisogno di te e ne hanno i bambini. Dwight, Caroline e tutti i nostri
amici sono preoccupati e io vorrei solo dir loro che stai di nuovo
bene. Apri gli occhi e riprendiamoci la nostra vita, superiamo tutto
quello che ci è successo dal mio incidente in poi e torniamo
ad
essere felici". C'erano stati momenti bui fra lui e Demelza, a
causa della sua amnesia, e ora che aveva recuperato la memoria ne
capiva l'immensa portata e le possibili conseguenze. Sapeva di dover
ricucire lo strappo terribile creato con Clowance, la sua piccola
principessa che aveva lasciato quella mattina sulle scale con la
promessa di aiutarla a scrivere la sera... Ed era consapevole pure di
quanto Demelza avesse sopportato e sofferto in quei mesi e dello
sbandamento per Armitage di cui certo, gli aveva parlato, ma che fino
a quel momento non aveva ancora analizzato a fondo. Sentì
rabbia
scorrergli dentro, al pensiero di quel suo compagno d'arme che si era
insinuato nel cuore della sua famiglia e di sua moglie e
benché
fosse sicuro che quanto confessato da Demelza corrispondesse a
verità
e che non c'era altro di celato, aveva una gran voglia di parlarne
con sua moglie, una volta guarita. E con Hugh Armitage, ovunque lui
fosse!
Certo,
il tutto a tempo debito, quando finalmente Demelza sarebbe stata
meglio...
Deglutì,
pensando a come avrebbe potuto essere la sua vita se lei non ce
l'avesse fatta. Demelza era il collante della sua famiglia, colei che
sapeva tenerla unita e in armonia. Ci era riuscita persino nei loro
tre anni di separazione quando viveva da sola a Londra con Jeremy e
Clowance. Pur con mille difficoltà aveva reso la vita sua e
dei suoi
figli piacevole e serena. E la loro casa una vera casa e loro tre una
vera famiglia, tanto che quando si erano rincontrati, ricordava
perfettamente quanto si fosse inizialmente sentito un'intruso nella
loro quotidianità.
Anche
una volta tornati a Nampara, era sempre lei a tenere le redini della
casa e della famiglia. Lui amava da morire sua moglie e i suoi figli
ma non era certo bravo come lei a tenere uniti tutti loro, sempre
preso a correre dietro a mille cose da portare a termine e mille
battaglie da combattere.
Se
lei se ne fosse andata, sarebbe riuscito a tenere unito ciò
che
rimaneva della sua famiglia? Sarebbe stato capace, da solo coi suoi
figli, di crescerli nella serenità come era stata capace di
fare
Demelza a Londra? O pian piano tutto si sarebbe sfasciato e ognuno di
loro avrebbe preso strade diverse...?
Scosse
la testa, spaventato da quei pensieri. Accarezzò la guancia
di
Demelza, baciandola sulla fronte, pregando che combattesse come
sapeva fare lei per il loro bene. Non doveva, non poteva andarsene!
Non lei, così giovane e piena di vita... "Ti prego, apri gli
occhi" – le chiese, quasi implorandola...
Improvvisamente,
sentì la porta aprirsi. Si voltò, pensando di
vedere Prudie e
invece era Clowance, con in braccio Bella che piangeva sommessamente.
"Mamma...".
Si
alzò per prendere in braccio la figlia più
piccola ma Clowance la
strinse a se, indietreggiando. "No, faccio io! Vuole andare a
letto".
Lo
sguardo gelido che Clowance gli riservava, ogni volta che i loro
sguardi si incrociavano, gli gelava il sangue. Lei, la sua piccola
lady che lo adorava come nessun altro dei suoi figli... Era come se
fossero improvvisamente diventati due estranei e Ross sapeva che era
per colpa sua e per il comportamento terribile che aveva avuto con
lei nei primi tempi dopo il suo incidente, quando era riuscito
persino a farla scappare di casa. Si sentiva terribilmente in colpa e
sperso, gli mancava il rapporto che aveva con lei e immaginava come
dovesse essersi sentita Clowance quando era stato lui a rifiutarla.
"Clowance, ci penso io a Bella, sta tranquilla" – le
sussurrò, inginocchiandosi davanti a lei.
Fece
per accarezzarle la guancia ma la piccola si ritrasse. "No, l'ho
promesso alla mamma quando eravamo nella grotta e quei signori le
avevano sparato" – disse, seria.
"Cosa
le hai promesso?".
"Che
curavo Bella perché sono la sorella maggiore. La curo io
finché
mamma non guarisce". E detto questo, andò alla culla,
mettendo
la piccola a letto.
Bella
si agitò, piagnucolò chiamando ancora la mamma e
Clowance cercò
inutilmente di tranquillizzarla tenendole la manina.
Ross,
con la morte nel cuore per il significato di quella richiesta
disperata di Demelza in punto di morte a Clowance, la lasciò
fare
finché la piccolina non scoppiò a piangere. E a
quel punto si
avvicinò alle figlie, prendendo Bella fra le braccia. "So
che
sei brava a prenderti cura di lei, ma la mamma ha bisogno di stare
tranquilla e forse è meglio che la tenga in braccio io, che
ne
dici?".
Clowance
sospirò, arrendendosi all'idea che non poteva fare molto.
Guardò
sua madre e gli occhi le divennero lucidi. Ross avrebbe voluto
chinarsi ed abbracciarla, ma sapeva che avrebbe ricevuto un netto
rifiuto da sua figlia. "Clowance, ascolta..." - forse dirle
che era guarito, che ricordava, poteva aiutare entrambi. Se Clowance
avesse saputo che era tornato, magari...
Ma
la piccola lo stoppò subito. "Non voglio ascoltarti!" -
disse, gelandolo sul posto.
"Devo
dirti una cosa importante".
"Non
la voglio sentire, voglio solo la mamma". E detto questo, si
voltò e prese la porta.
Ross
si sentì ferito da quel comportamento che però
era assolutamente
comprensibile. Clowance era come lui, testarda ed orgogliosa. Si
chiese con terrore se, a causa dei suoi errori, non l'avesse persa
per sempre. E provò lo stesso terrore che provava quando
guardava
Demelza su quel letto, chiedendosi come avrebbe vissuto senza di lei.
Bella
continuava a singhiozzare e Ross le accarezzò i ricciolini
neri.
"Mamma, mammaaaa" – sussurrò la bimba contro la
sua
spalla, succhiandosi il ditino della mano.
Ross
la portò al letto, facendole vedere la mamma. "Guarda,
è quì,
visto?".
"Mammaaa".
Bella allungò le mani, desiderosa che lei la prendesse in
braccio.
Ma nemmeno davanti alla voce della figlia, Demelza ebbe cenni di
vita.
Gli
occhi di Ross si inumidirono. Se nemmeno al richiamo dei suoi figli
c'erano segni di miglioramento, le speranze si assottigliavano.
Mise
la piccola sul letto, seduta accanto a Demelza. Sapeva che Dwight non
voleva che i bambini la disturbassero, ma decise di fare di testa
sua. Se Demelza doveva andarsene, lo avrebbe fatto coi suoi figli
accanto. Sapeva che era tutto quello che lei voleva, tutto
ciò che
avrebbe desiderato...
Bella
allungò la manina, sfiorando la mano di Demelza con le sue
ditina.
"Mamma, mammaaaa".
"Su,
chiamala" – sussurrò Ross, fra i suoi capelli.
Voleva che
insistesse, che continuasse a chiamarla, voleva che Bella
raggiungesse la coscienza di Demelza e che la riportasse da loro.
"Mamma".
Demelza
non si svegliò, ma Ross vide la sua mano stringere
impercettibilmente quella di Bella. Coprì le loro mani con
la sua,
stringengendole, pregando di vedere gli splendidi occhi verde-azzurro
di sua moglie aprirsi su di lui. "Demelza, ti prego...
Svegliati".
Non
fu esaudito. L'oscurità pian piano invase la stanza, Bella
si
addormentò e dopo averla messa nel suo lettino, accese le
candele
per prepararsi a fronteggiare l'ennesima notte di veglia. Era
stravolto e stanco ma non avrebbe tolto gli occhi di dosso a Demelza.
Attimi
di ottimismo si alternavano ad atti di terrore. Lei aveva sentito
Bella, le aveva stretto la mano. Eppure non si svegliava...
Si
sedette accanto a lei di nuovo, sopraffatto da
quell'immobilità
forzata. Quello, una volta, era il momento preferito della sua
giornata, quello dove giocava coi suoi figli sul letto fino
all'arrivo di sua moglie. Ridevano e scherzavano insieme, i loro
bimbi erano felici e tutto era perfetto. E poi, messi a letto i loro
figli, quella stanza diventava il loro mondo dove scherzare,
confidarsi, parlare e amarsi con la stessa passione della loro prima
volta insieme.
Si
chinò su di lei, spinto dall'idea più idiota che
avesse mai avuto:
baciarla sulle labbra come facevano i principi delle fiabe per
svegliare le loro principesse dai sonni maledetti in cui cadevano a
causa della strega cattiva. Nelle fiabe il bacio funzionava sempre...
Le
baciò le labbra, lentamente, sentendosi idiota ma
sperandoci. E poi
la guardò, stringendole la mano. "Torna da me amore mio.
Torna,
ti prego".
E
quasi gli si mozzò il fiato quando Demelza mosse leggermente
le
palpebre ed aprì gli occhi. "Demelza!" - la
chiamò, quasi
incredulo. Se l'avesse raccontato in giro, nessuno gli avrebbe
creduto...
Sua
moglie lo guardò intontita, respirando a fatica. Si
guardò attorno
e poi guardò lui, stringendo convulsamente la sua mano,
mentre una
smorfia di dolore le feriva il viso. "Ross..." - sussurrò.
Ross
si chinò su di lei, stringendola a se commosso, felice,
quasi
ubriaco dalla gioia. La abbracciò, attento a non farle
ancora più
male di quello che già lei sentiva. "Shhh, non sforzarti...
Sei
qui, sono qui. Va tutto bene amore mio".
"I
bambini... I nostri bambini...? Dove sono?".
Ross
le sorrise, baciandola sulla fronte. "Bella sta dormendo nella
sua culla e gli altri due nella loro stanza. Sta tranquilla, stanno
bene e tu hai salvato loro la vita".
Demelza
chiuse gli occhi, abbandonandosi sul cuscino. "Ross" –
disse, di nuovo.
Si
stese accanto a lei, prendendola fra le braccia. Forse quell'incubo
era finito, lei era lì, gli stava parlando. Era reale! "Sono
qui. Sono qui per davvero, sta tranquilla" – le
ripeté
nuovamente.
Demelza
annuì. E arrendendosi all'idea di non avere la forza di fare
o dire
altro, si rannicchiò fra le sue braccia in cerca di riparo
dal
dolore e da tutte le paure che le tormentavano corpo e mente.
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Capitolo 28 *** Capitolo ventotto ***
"Come
posso essere ancora viva?".
La
voce di Demelza era flebile come un alito di vento, sofferente e
stanca. Ross le accarezzò la fronte, scostandole una ciocca
di
capelli rossi. "Hai un'ottima tempra mia cara. Dwight disperava
di salvarti ma io sapevo che ce l'avresti fatta, so quanto sei
forte".
Demelza
appoggiò la testa contro la sua spalla, chiudendo gli occhi.
"Come
facevi a saperlo?".
"Sei
mia moglie, ti conosco meglio di chiunque altro".
A
dispetto di tutto, lei sorrise. "In pratica però, mi conosci
da
pochi mesi".
Ross
ridacchiò fra se e se. Beh, questo non era proprio esatto...
"So
che da sola hai la forza di arare un intero campo, che sei
sopravvissuta alla gola putrida, che hai tenuto a bada una barca in
mezzo al mare mentre eri in travaglio e che da sola gestivi una
locanda a Londra, due figli e i tuoi lavoranti".
Demelza
lo guardò pensierosa, studiandolo in volto. "Chi ti ha
raccontato che ero in barca mentre ero in travaglio per Jeremy? Io
non te l'ho detto".
"Non
me lo ha raccontato nessuno".
"Ross...".
Demelza spalancò gli occhi, gli afferrò la mano
ed incrociò le
dita con le sue. "Ross, tu...?".
Le
sorrise, si chinò e le diede un delicato bacio a fior di
labbra.
"Credo di essere guarito".
"Ross..."
- ripeté lei, aggrappandosi alle sue spalle ed
abbracciandolo con
una forza che non pensava di avere.
La
sentì singhiozzare contro il suo collo, come a voler
rilasciare una
tensione accumulata troppo a lungo. "Credo sia colpa tua..."
- sussurrò in tono scherzoso, stringendola a se. Era
commosso,
felice di essersi ripreso la sua vita e i suoi ricordi e di
stringerla a se con la consapevolezza piena di quanto fosse
importante per lui.
Demelza
alzò gli occhi su di lui. "Cosa?".
Ross
alzò le spalle. "Dwight dice che è stato il
trauma per quanto
ti è successo a farmi tornare la memoria". Le
sollevò il mento
ed appoggiò la fronte contro quella della moglie. "Ho avuto
davvero paura, sai? Credevo di perderti davvero per sempre, questa
volta".
"Lo
so che hai avuto paura, ne hai avuta quanta ne ho avuta io quando hai
avuto l'incidente in miniera" – rispose lei.
Si
sentì il colpa a quell'affermazione, fermandosi a pensare a
quante
preoccupazioni, negli anni, gli avesse inferto. "Mi dispiace,
spesso agisco prima di pensare. Ma speravo che tu non seguissi il mio
esempio. Avresti dovuto dirmi di quei contrabbandieri e non avresti
dovuto affrontarli da sola". Non voleva essere un rimprovero nei
suoi confronti, voleva solo che lei capisse quanto aveva rischiato,
coi bambini.
Demelza
annuì, stringendosi a lui.
Ross
la fece coricare, mettendosi accanto a lei e stringendola a se. Le
accarezzò i capelli, la nuca, giocò con le
ciocche rosse dei suoi
capelli. "Dovevi dirmelo" – le ripeté.
"Ma
ti saresti cacciato nuovamente nei guai e io non volevo che ti
succedesse ancora qualcosa di male. Avevi perso la memoria e non ero
certa che saresti stato in grado di fronteggiare quelle persone. La
prima volta che li ho visti, i contrabbandieri, ero con Hug...".
Demelza
si bloccò di colpo, quasi intuendo che era meglio fermarsi,
e Ross
si morse il labbro nel sentir pronunciare quel nome. Quante cose
erano successe durante la sua amnesia? Quante cosa non aveva voluto
notare o vedere? Avrebbe voluto farle mille domande, soprattutto su
Hugh Armitage, ma sua moglie era ancora troppo debole per affrontare
quell'argomento. E decise quindi di chiudere il discorso. "Le
guardie stanno cercando quelle persone, i bambini ci hanno fornito
un'accurata descrizione e presto verranno arrestati" –
concluse frettolosamente.
Demelza
lo guardò, capendo appieno il suo nervosismo e i suoi
sentimenti.
"Ross...".
"Va
tutto bene, sto bene, sono guarito e presto lo sarai anche tu"
–
le rispose, cercando di tranquillizzarla e di non farla sforzare.
Demelza
gli strinse la mano. "Ti ricordi davvero tutto?" - gli
chiese.
Ross
sospirò. "Tutto. Sono guarito, te l'ho detto. E non ti ho
ancora ringraziato per quanto hai fatto per me in questi mesi, per la
tua pazienza e per le tue cure. E non ti ho ancora nemmeno chiesto
scusa per tutti i guai che ti ho procurato".
Un
sorriso dolce comparve sul viso di sua moglie. "Chissà come
saranno contenti i bimbi...".
"Non
lo sanno ancora. Tu stavi talmente male che ho passato ogni momento
quì, con te. Volevo dirglielo quando fossi stata al mio
fianco, con
loro più tranquilli. Hanno... abbiamo avuto davvero paura di
perderti, Demelza" – le ripeté.
"Ross...".
Lei cercò la sua mano, la strinse e se la portò
alle labbra per
baciarla. Anche Demelza lo sapeva, ci erano andati davvero vicini a
perdersi. "Voglio vedere i bambini" – implorò.
"Certo,
più tardi li vedrai. Ma ora riposa". Si stese accanto a lei
e
rimase a cullarla fra le braccia a lungo, accarezzandole la schiena
per tranquillizzarla ed aiutarla a dormire. Aveva bisogno di sonno,
di tranquillità e di pace. E nonostante Ross sentisse a
pelle il suo
desiderio di riabbracciare i loro bimbi, non fece obiezioni e si
rannicchiò contro di lui, arrendendosi al fatto che era
davvero
troppo debole per fare ogni cosa e che aveva davvero bisogno di
riposare.
Lentamente
Demelza scivolò fra le braccia di Morfeo, col viso affondato
nel suo
collo. Rimase a guardarla a lungo, trovandola bellissima anche
così,
coi capelli in disordine, il viso pallido e la camicia da notte. In
quel momento gli pareva talmente simile a quando l'aveva vista dopo i
parti di Julia, Jeremy e Bella, che per un attimo si aspettò
di
sentire il pianto di un neonato. E pensò a quanto fosse
bello avere
di nuovo i suoi ricordi, ogni cosa fatta e detta con lei e coi suoi
figli, ogni scivolone e ogni attimo di gioia scolpito nella sua
mente. Quei ricordi facevano di lui e dell'uomo che era diventato e
ora comprendeva il motivo per cui, senza di essi, si sentiva
così
sperso. Era stata Demelza il suo appiglio per non affogare, la sua
luce nel buio ed era solo grazie a lei che non aveva smesso di
lottare e di stargli accanto, che non si era perso.
Eppure
ora lo sapeva, c'era stato un attimo di buio fra loro.
Osservò
Demelza ormai addormentata, ricordando quando aveva conosciuto il
tenente Armitage mentre era in guerra e sua moglie viveva a Londra.
Lo ricordava bene quel giovane, così raffinato, sognatore,
romantico
e ben educato. Un ragazzo affascinante, curato nell'aspetto e nei
modi di fare, che si dilettava a scrivere poesie d'amore per le donne
che catturavano il suo cuore... Anche Demelza era caduta nella sua
rete? Anche Demelza aveva vacillato? Non sapeva esattamente fin dove
si fosse spinta con lui, poteva capirne le motivazioni, pur con
dolore, e presto avrebbe affrontato il discorso con lei per chiarirsi
e ripartire insieme, ma prima avrebbe chiarito le cose con Armitage.
Diede
un bacio sulla fronte a sua moglie ormai addormentata, le
rimboccò
le coperte e scese al piano di sotto, annunciando a Prudie che
sarebbe uscito a cavallo. I bambini giocavano nella loro stanza e
tutto sembrava tranquillo.
"Ma
la padrona? Vado a vegliarla?" - chiese la serva.
Ross
le sorrise. "Sta dormendo, lasciala tranquilla".
Prudie
spalancò gli occhi. "Ma... ma...?".
Con
una pacca amichevole sulla spalla, Ross le annuì. "Si
è
svegliata, abbiamo parlato... Starà bene".
Gli
occhi di Prudie si inumidirono dalla commozione. "Si è
svegliata? La signora...?".
Ross
annuì. "Bada che i bambini non la disturbino. Quando
tornerò,
li porterò io da lei".
"Ma
dove andate?".
Ross
si mise il tricorno in testa. "Devo fare visita a una persona"
– disse vago, uscendo dalla porta.
Si
avviò alle stalle, prese il suo cavallo e partì
al galoppo,
destinazione Tregothnan: la dimora di Hugh Armitage.
Galoppò
come un forsennato, con un miscuglio di sentimenti contrastanti che
si agitavano dentro di se: rabbia, rancore, furore... Ma anche
curiosità... Lo aveva visto solo una volta dopo la guerra, a
casa
loro mentre era senza memoria. Non lo aveva osservato bene in quel
momento, eccetto quando si era accorto delle sue attenzioni a
Demelza. Ma ora che era padrone si se stesso, avrebbe messo in chiaro
le cose con lui.
Quando
arrivò, bussò energicamente alla porta
finché una cameriera non
venne ad aprirgli.
Era
una casa lussuosa quella, un'enorme villa di campagna che
assomigliava più a un castello che a una semplice residenza
di
signori della brughiera. Anche se in effetti quella famiglia era
composta da persone molto influenti nella politica londinese e
inglese e fra di loro c'erano dei componenti della camera dei Lords.
Si guardò attorno spaesato mentre la cameriera lo faceva
accomodare
nell'atrio.
"Chi
devo annunciare?".
"Capitano
Ross Poldark. Sono venuto a far visita al tenente Hugh Armitage,
eravamo compagni di battaglione durante la guerra in Francia cinque
anni fa".
La
cameriera lo guardò di sbieco, studiandolo in volto. "Oggi
non
aspettavamo nessuno e la signora è fuori per delle faccende
da
sbrigare".
Ross
sospirò. Che c'entrava la madre di Hugh Armitage? "Va bene,
ma
non sono qui per la signora. Sono qui per far visita a suo figlio e,
anche se il mio arrivo non era annunciato, spero comunque di essere
ricevuto. Alcuni mesi fa è venuto a farmi visita a casa mia
perché
non stavo bene e volevo ringraziarlo". Beh, sperava di essere
stato mellifluo e convincente con quell'evidente bugia... Altro che
visita di cortesia, avrebbe voluto prenderlo a pugni!
La
cameriera scosse la testa. "Il tenente Armitage non si sente
bene ed è a letto".
"Oh...".
Ross si grattò la guancia, pensieroso. Questa non se
l'aspettava!
"Potreste dirgli che mi trovo qui? E' una cosa di pochi minuti".
La
donna sospirò, annuì e sparì per le
scale, lasciandolo solo.
Nell'attesa, Ross giocherellò nervosamente coi piedi,
domandandosi
cosa avrebbe detto e fatto appena lo avesse avuto davanti. Pugni?
Maleparole? Urla? O un comportamento pacato ed educato ma incisivo?
La
cameriera tornò dopo pochi minuti, esibendosi in un nuovo
inchino.
"Potete salire, il signorino acconsente a vedervi".
Ross
fece un sorrisetto sarcastico... Il signorino... Lo
avrebbe
preso a sberle, quel signorino...
Eppure,
dopo aver salito le scale, percorso il corridoio coperto di morbidi
tappeti di fattura persiana, quando entrò nella stanza, si
fermò di
scatto.
Hugh
Armitage stava a letto, bianco come un cencio, gli occhi spersi, i
capelli rasati e una manciata di sanguisughe a coprirgli il petto.
Del giovane affascinante e curato dei suoi ricordi, non rimaneva
nulla. Sembrava, a prima vista, un uomo molto malato. Pur non sapendo
cosa avesse, avrebbe potuto giorne e pensare che se lo meritava, ma
non ci riuscì. Era un ragazzo giovane Hugh, più
giovane di
Demelza... E pareva stesse morendo...
Si
avvicinò di soppiatto, serio in viso. "Sono venuto a
rendervi
il favore della vostra visita".
Hugh,
a fatica, tentò di tirarsi su dal cuscino. "Rendermi quale
favore, precisamente? Se siete qui, immagino che siate guarito"
- chiese, con una specie di sorrisetto irriverente sul viso sconvolto
dalla malattia.
Ross
gli si avvicinò ancora, indeciso se prenderlo a pugni,
nonostante
tutto. Hugh sapeva benissimo perché lui si trovava
lì e quindi,
perché tanti preamboli? Allungò la mano,
prendendolo per il bavero.
"Avrei desiderato prendervi a pugni ma accanirmi su un moribondo
sarebbe poco onorevole. E io non voglio essere poco onorevole...".
"E
cosa volete, capitano Poldark?".
Ross
lo guardò negli occhi. "Dirvi solo una cosa: ho sempre amato
condividere quello che ho con le persone a cui voglio bene. Ma mia
moglie... la mia famiglia, i miei bambini... Sono MIEI! E Demelza non
la dividerò mai con nessuno né lei permetterebbe
che questo accada.
Messaggio chiaro?".
Hugh
sostenne il suo sguardo. "E infatti non l'avete divisa con
nessuno, capitano Poldark. Avete una moglie meravigliosa che vi ama
infinitamente, non scordatelo mai, veneratela come merita, coccolate
il vostro amore o arriverà prima o poi per davvero qualcuno
che
tenterà di portarvela via".
Ross
non rispose, non ce n'era bisogno. Sapeva che quelle parole erano
comunque saggie e che avrebbe dovuto prestarvi attenzione per sempre,
lo aveva imparato a sue spese durante i tre anni di separazione e
aveva imparato la lezione. Ma questo non significava che doveva
condividere tutto ciò con Hugh Armitage, né che
era obbligato ad
ascoltare i suoi consigli. Lasciò la presa, lasciandolo
ricadere sul
cuscino, poi girò sui tacchi. Una volta, da giovane, se ne
sarebbe
fregato delle sue condizioni di salute e lo avrebbe gonfiato di
pugni. Ma ora era un uomo diverso, migliore soprattutto grazie a
Demelza e sapeva che ogni altro tipo di confronto fra lui e Hugh
l'avrebbe delusa. "Buona fortuna" – disse, vago. Non
c'era bisogno di dire altro. Non gli augurava di morire, ma sperava
di non vederlo mai più dalle parti di casa sua. Avrebbe
potuto
chiedergli mille altre cose su di lui e su sua moglie, ma in quel
momento decise che ciò che gli aveva raccontato Demelza
alcuni mesi
prima, quando era tornata dal viaggio d'affari a Londra con Caroline,
gli bastava.
Uscì
da quella dimora a passo spedito, riprese il suo cavallo e
galoppò
fino a Nampara.
Arrivò
a casa che era quasi buio e appena entrò, le sue narici
furono
invase da un ottimo profumo di stufato. "Prudie! Dopo ANNI sai
davvero cucinare decentemente" – le disse allegramente. Si
sentiva stranamente leggero, dopo l'incontro con Armitage... E
soprattutto, si sentiva fiero di se stesso. "Dove sono i
bambini?" - chiese, non vedendoli in giro.
Prudie
ridacchiò. "E' stato impossibile tenerli lontani dalla loro
mamma, appena hanno saputo che si era svegliata. Sono di sopra, con
Demelza".
"PRUDIE!".
Ross sentì il nervoso che prendeva possesso dei suoi nervi,
ma la
cameriera lo bloccò subito.
"Provateci
voi a fermare quei tre piccoli, testardi di Poldark! E poi la signora
era tanto contenta quando li ho portati da lei".
Mascherando
un sorriso, Ross annuì. "Testardi come tutti i Poldark,
è?"
- disse, vago, mentre saliva per le scale.
Quando
fu fuori dalla porta, sentì la risata di Bella, le
chiacchiere di
Clowance e Jeremy e i guaiti felici di Artù.
Entrò di soppiatto e
si sentì bene come non gli capitava da tanto, da prima del
suo
incidente. Era da tanto che non erano tutti insieme, insieme per
davvero. La sua famiglia...
Demelza
se ne stava seduta, appoggiata ai cuscini, con i suoi tre figli
accanto a lei sul letto. Appena lo vide, gli sorrise dolcemente,
allungando una mano verso di lui. "Sei tornato finalmente! Dove
sei stato?".
Ross
si avvicinò, sedendosi accanto a loro e prendendo in braccio
Bella.
"Te lo dirò dopo! Avevo una cosa da fare".
"Papà,
ciao! Visto che mamma è guarita?" - esclamò
Jeremy, allegro.
Ross
gli scompigliò i capelli scherzosamente. "Non è
ancora guarita
del tutto e avrebbe dovuto riposare! Che ci fate qui?".
"Ma
papà, mica la facciamo lavorare, mamma! Siamo qui a tenerle
compagnia" – ribatté il figlio.
Ross
sorrise, dandogli un pizzicotto sulla guancia. "Si, certo...".
Clowance
non disse nulla, rannicchiandosi contro Demelza. E ancora una volta,
si trovò in impaccio con lei... Era cambiato tutto fra loro
e Ross
si chiese con terrore se il loro rapporto sarebbe mai tornato come
prima.
"Anche
papà deve dirvi una cosa, sapete?" - disse improvvisamente
Demelza.
"Io?".
Ross la guardò pensieroso. Che doveva dire, lui?
Sua
moglie lo guardò storto. "Ross... Non sono l'unica a star
meglio, no? Te lo ricordi che stavi male pure tu...?".
"Ohhh".
Si sentì vagamente stupido in quel momento ma in effetti,
con tutte
le cose a cui aveva dovuto pensare, se l'era scordato.
Jeremy
e Clowance lo osservarono incuriositi e anche Demelza lo sembrava. "E
allora papà?" - chiese infine Jeremy.
Ross
sorrise al figlio. "E allora, ho smesso di dimenticare le cose e
ora ricordo tutto".
Jeremy
si illuminò. "Hai recuperato la memoria?".
"Sì".
Il
bimbo non disse nulla ma si lanciò verso di lui,
abbracciandolo
forte.
Ross
lo strinse a se, ricordando quanto fosse sensibile e assennato. Poi
guardò la sua famiglia. La SUA famiglia! Quella da cui era
stato
lontano con la mente a lungo... Erano il suo mondo, la sua ragione di
vita! E in quel momento si rese conto che non importava più
né
Hugh, né il suo incidente né i contrabbandieri.
Erano insieme,
erano sopravvissuti a tutto. Di nuovo! E quello che c'era ancora da
sistemare, sarebbe andato a posto.
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Capitolo 29 *** Capitolo ventinove ***
Demelza
si sentiva strana. Si sentiva strana dalla notte appena passata, a
causa dello strano colloquio-scontro appassionato avuto con Ross.
Sospirando,
si appoggiò al cuscino. Era ancora molto debole e non le era
consentito di alzarsi e stava passando la giornata a guardare dalla
finestra il caldo sole estivo che baciava tutta la sua amata
Cornovaglia. Suo marito stava lavorando in miniera, Jeremy aveva
ottenuto di andare con lui e lei se ne stava in silenzio, con le sue
due bambine nel letto accanto a lei.
Bella
dormiva alla sua sinistra, succhiandosi il pollice. Clowance le stava
mostrando un libro illustrato che le aveva dato il maestro, ma
sembrava decisamente annoiata. I libri non erano proprio la sua
passione e prima o poi lei e Ross avrebbero dovuto arrendersi alla
cosa...
"Mamma"
– le sussurrò Clowance, sfiorandole il polso
– "sai che
cosa penso?".
"Cosa?".
"Che
adesso che sei guarita, ti meriti un regalo! E io so cosa regalarti e
so anche come fare".
A
Demelza venne da sorridere, davanti all'espressione seria di sua
figlia. "Che cosa hai in mente?".
Clowance
sospirò. "Ecco, anche se mi dispiace, dovrei smettere di
leggere per oggi pomeriggio, altrimenti non posso farti il regalo.
Posso smettere, vero?".
"Oh
Clowance...". Sbuffando, Demelza decise di assecondarla.
"D'accordo, cosa vorresti fare per me?".
Le
dita di Clowance le sfiorarono il polso. "Voglio farti un
bracciale con le conchigliette che trovo sulla spiaggia. Posso andare
a cercarle? Non hai nemmeno un bracciale".
"A
dire il vero ho un sacco di gioielli che mi avevano regalato quando
vivevamo a Londra, ma non vedo la necessità di metterli qui
in
campagna. Soprattutto ora che sono piantonata a letto, debole e senza
forze".
Clowance
scosse la testa. "Ma mamma, però nessuno di quei gioielli
è
stato fatto da me. Io farei un bracciale bellissimo, ma posso andare
in spiaggia?".
"Prudie
e Jud sono al mercato, tesoro, non possono accompagnarti. E io non
posso muovermi dal letto".
"Ma
io voglio andarci da sola! Ho quasi sette anni, sono grande!" -
protestò la bimba. "Jeremy alla mia età, ce lo
mandavate da
solo, in spiaggia".
Beh,
era vero, non poteva dirle di no. E in fondo Clowance aveva ragione,
era ormai grande abbastanza per uscire da sola nelle vicinanze.
"D'accordo, ma sta attenta! E appena vedi che fa buio, torna
subito a casa".
"Grazie
mamma!". Lanciando il libro sul letto, Clowance le saltò fra
le
braccia, stringendosi a lei.
Demelza
tentò di rimandere seria. "Clowance, però quando
torni a casa,
riprendi in mano il libro".
"Giuro!"
- disse la piccola, saltando giù dal letto.
"Clowance!".
"Cosa?".
"Portati
dietro Artù".
La
bambina annuì, chiamò il cane e in un attimo si
volatilizzò, come
se non avesse aspettato altro.
Demelza
la guardò correre fuori dalla porta, rendendosi conto che
stava
crescendo incredibilmente in fretta. Soprattutto dall'incidente di
Ross, Clowance era diventata sorprendentemente indipendente, a volte
sfuggente e sempre più intraprendente. Aveva mantenuto la
sua faccia
tosta e la sua furbizia, doti che suo padre amava alla follia in lei,
sapeva essere ruffiana e ammaliante, ma era anche maturata e in
alcuni momenti le sembrava distante e malinconica, soprattutto quando
Ross era in casa.
Ross...
Demelza,
rimasta sola con Bella addormentata, deglutì, lasciandosi
cadere
sulle coperte.
La
sera prima era stato taciturno, dopo essere tornato dalla sua
misteriosa commissione, e gli era parso talmente cupo che non aveva
trovato il coraggio di chiedere spiegazioni al suo comportamento fino
a sera tardi, quando erano rimasti soli nella loro camera.
"Dove
sei stato?".
Ross,
finendo di togliersi la camicia, si era voltato a fissarla. "A
trovare un vecchio amico".
"Lo
conosco?" - aveva chiesto, col sopracciglio alzato, piuttosto
confusa davanti al tono freddo di suo marito.
"Direi
di sì".
"E
allora...?".
Ross
si era avvicinato al letto, si era seduto accanto a lei e l'aveva
scrutata in viso. "Sono stato a casa di Hugh Armitage... Lo
conosci bene, giusto?".
Aveva
spalancato gli occhi nel sentir pronunciare quel nome. Hugh Armitage
era finito nei meandri dei suoi ricordi e da settimane, mesi, non
pensava a lui. Non aveva avuto tempo, certo, ma era anche e
soprattutto la sua mente che si era rifiutata di pensarlo. Hugh
rappresentava un suo momento di smarrimento e debolezza, dove dolore
e solitudine erano stati i suoi unici compagni. Hugh era stato un
grande pericolo per il suo matrimonio e lo sapeva benissimo che se
avesse ceduto, non avrebbe fatto altro che seguire un suo desiderio
dettato dall'istinto. Ma alla fine, e ringraziava il cielo per
questo, aveva prevalso l'amore vero, complicato ma indissolubile per
Ross e per la sua famiglia. Ed era riuscita a dire no, prima di
commettere il più grande errore della sua vita. Ross non
l'avrebbe
perdonata con facilità se fosse successo e soprattutto, lei
non
avrebbe mai perdonato se stessa.
Sapeva
che il confronto con Ross su quanto accaduto con Armitage sarebbe
arrivato, una volta che suo marito fosse guarito, ma restava il fatto
che questo era un momento che aveva sempre temuto. E il momento era
arrivato. "Perché sei andato da lui? Ti ho raccontato tutto
quello che è successo, non mi credi?". Beh, in
realtà gli
aveva raccontato quasi tutto... C'erano quei baci però, di
cui Ross
non sapeva niente... E che ora pesavano sulla sua coscienza come un
macigno.
"Io
ti credo e ti crederò sempre! Ma ora che sono in me e ora
che ti
conosco DAVVERO, voglio sapere la verità".
Si
era alzata in piedi a quelle parole, lo aveva fronteggiato e nella
sua mente, in quel momento, erano scorsi i momenti di paura,
disperazione e solitudine dopo l'incidente alla miniera, la
stanchezza infinita di tenere insieme i cocci della sua famiglia, il
dolore di sentirsi rifiutata dall'uomo che amava. E la rabbia prese
il posto dell'angoscia. Avvicinò le mani al suo petto e gli
diede
una leggera spinta. "La verità Ross, è che stavo
male! E ora
la conosci anche tu, perché l'hai vissuta attraverso di me,
la
sensazione di impotenza che si prova quando vedi chi ami morire
lentamente. Tu fai tante cose, corri mille pericoli perché
ami farlo
e perché hai la dannata convinzione che a te
andrà sempre tutto
bene! E non ti fermi mai a pensare a cosa succederebbe se invece non
ce la facessi... Non pensi a noi, non pensi a me in quel momento. Amo
tutto di te, persino i tuoi lati più egoistici... Ma
permettimi di
sentirmi smarrita e di perdermi, se ti succede qualcosa di male... Se
sbagli tu, posso sbagliare anche io".
Ross
parve smarrito davanti a quel suo sfogo. "So come ti sei sentita
e so anche che eri disperata... Ma voglio sapere come, QUANTO hai
sbagliato con Hugh. Questo me lo devi, credo...".
Senza
forze, si era accasciata sul letto. "Avrei potuto sbagliare
molto, lui mi piaceva, ne ero attratta. Non era amore, non era
assolutamente niente di paragonabile a ciò che provo e
sempre
proverò per te. Ma mi faceva sentire bene, era come vedere
in lui
una luce in mezzo al buio. Era tutto difficile, tu eri difficile,
Clowance era scappata di casa con Valentine Warleggan, c'era la casa
da seguire, gli affari, la miniera e non c'era nulla che potesse
consolarmi. E lui era gentile, mi venerava come una dea... E cedere
sarebbe stata la cosa più facile del mondo. Ma non l'ho
fatto perché
ho capito che, per quanto faticoso fosse, io era per te che volevo
lottare. Ci sono stati alcuni baci, questo sì. E poi gli ho
detto
addio e a lui non ho più pensato. Volevi la
verità ed è questa".
Ross,
per lunghi istanti, era rimasto in silenzio. I suoi occhi neri
l'avevano scrutata a lungo e lei mai, nemmeno per un istante, aveva
abbassato lo sguardo. Era difficile capire se fosse deluso,
arrabbiato o sollevato... La guardava e basta. "L'hai baciato?"
- chiese infine, con voce rotta.
"Sì".
"E...
e... ti è piaciuto?".
Sentì
stringersi il cuore davanti al timore che leggeva in quella domanda
di Ross. E scosse la testa. "Un bacio è un bacio... Sono le
sensazioni che sa regalare, che lo rendono speciale. E io non ho
sentito nulla se non una gran voglia di tornare da te. Hugh era solo
un sogno, un'isola felice ma immaginaria. Il mio presente, la mia
vita vera siete tu e i bambini".
Ross
non disse nulla, la abbracciò e la baciò sulla
fronte e stettero in
silenzio, per lunghi istanti, l'una fra le braccia dell'altro.
"Sei
arrabbiato?" - riuscì infine a chiedere.
Ross
sospirò fra i suoi capelli. "Forse un po'... Ma credo mi
passerà prima di sera".
Lo
aveva guardato in viso e ora sembrava più tranquillo. "Se lo
fossi, se lo fossi a lungo, ne avresti mille ottime ragioni".
"E'
vero. Ma io una volta ho fatto ben di peggio e quell'esperienza mi ha
insegnato che a volte si sbaglia, che è umano. Io che ti ho
fatto
tanto male da costringerti ad andartene di casa, non posso giudicare
te, soprattutto visto quello che ti ho fatto passare. E' umano
sbagliare ed è umano trovare un appiglio, un qualcosa di
bello per
non affondare, quando va tutto male".
Aveva
sorriso, annuendo. "Io non ho mai amato che te".
"Lo
so. E mi dispiace di averti fatta soffrire, è l'ultima cosa
che
potrei desiderare". Ross aveva guardato distrattamente fuori
dalla finestra, accarezzandole i capelli. "Hugh sta male e credo
che stia morendo".
A
quelle parole, sentì una fitta al cuore e un profondo
dispiacere.
"Lo so, lo sapevo che era malato, me lo disse l'ultima volta che
ci siamo visti".
"Quando
vi siete baciati?".
"Quando
ci siamo baciati...".
Ross
scosse la testa. "Ha tentato di averti, giocando la carta della
pietà?".
"Ross...".
"Beh,
avrebbe potuto essere una buona tattica, no?".
Ross
lo disse sorridendo, in tono leggero, stemperando la tensione
creatasi fra loro. Demelza lo guardò, sospettosa. "Non lo
hai
preso a pugni, vero?".
"No,
sarebbe stato poco onorevole gonfiare di botte un moribondo. Ma mi
sarebbe piaciuto".
Lo
baciò affettuosamente sulla guancia, sprofondando il viso
nel suo
collo. "Sono fiera di te, Ross".
"Cosa
provi, nel sapere che sta così male?".
Decise
di essere sincera. "Pena, pietà, dispiacere. E' un ragazzo
così
giovane e con un futuro così splendente davanti...".
"Solo
questo?".
"Solo
questo, Ross".
La
conversazione era finita
così e non avevano più menzionato Hugh durante la
serata e la
notte. Eppure era ansiosa... Lei e Ross discutevano spesso ma era la
prima volta che un uomo si intrometteva fra di loro.
Accarezzò
i ricciolini di
Bella e si appisolò esausta, aspettando che suo marito o i
suoi
servi o i suoi figli più grandi facessero ritorno.
Fu
svegliata dopo un tempo
indefinito, dal tocco gentile di Ross. Era arrivato in camera senza
che se ne accorgesse e si era avvicinato a lei con passo felpato,
tanto che nemmeno Bella si era svegliata. "Ross?". Si
guardò attorno, era ancora chiaro e non doveva aver dormito
molto.
"E' ancora presto, è un onore averti a casa a quest'ora".
Ross si
sedette accanto a lei,
baciandola sulla fronte. "Finché non sarai guarita del
tutto,
credo che mi vedrai spesso in giro per casa".
"Sto bene,
ci sono Prudie
e Jud che si occupano di me".
"Ma un
marito sa farlo
meglio". Le strizzò l'occhio, baciandola questa volta sulle
labbra.
Demelza
sorrise. Sembrava
sereno e per nulla turbato. "Beh, sono contenta che tu sia qui".
"Anche io".
"E Jeremy?".
"Ha voluto
rimanere alla
miniera a giocare con gli altri ragazzini". Ross si guardò
attorno guardingo. "E Clowance?".
"E' andata
in spiaggia a
raccogliere delle conchiglie. Vuole farmi un bracciale".
Ross
spalancò gli occhi,
impallidendo. "In spiaggia? DA SOLA?".
Demelza
sorrise a quella
reazione. Ross non avrebbe mai smesso di essere iper-protettivo verso
la sua principessina, soprattutto ora che aveva recuperato la
memoria. Anche se il loro rapporto era ancora lontano da ciò
che era
un tempo... "Da sola, sì! Ho pensato che fosse abbastanza
grande per allontanarsi senza guardie del corpo".
Ross la
guardò storto, molto
più storto di quando la sera prima gli aveva parlato dei
baci con
Hugh. "Sei matta?".
Le venne da
ridere ma si
trattenne, per non svegliare Bella. "Ross, ma non eri tu che mi
raccontavi che a cinque anni passavi i pomeriggi in spiaggia a
giocare con Francis?".
"Che
c'entra?".
Demelza
sospirò. "Si è
portata dietro Artù, sta tranquillo. Anzi no, se sei
così in ansia,
perché non la raggiungi?".
A
quell'invito, Ross si
incupì. "Perché non ha piacere a stare da sola
con me e lo sai
benissimo".
Sospirando,
Demelza scosse la
testa. "Clowance ti adora ed ha bisogno di te. E' testarda come
tutti i Poldark, orgogliosa e con la testa dura. Ma sa anche amare
come i Poldark, in maniera intensa e profonda. Sei tu l'adulto e sei
tu che la conosci meglio di tutti. Devi farlo tu il primo passo,
Ross. Va da lei, non stare a pensarci troppo, lasciati guidare dal
tuo cuore e la ritroverai, la tua bambina".
Ross
sorrise, un sorriso quasi
timido. "Mi era meno complicato andare da Hugh Armitage".
Demelza
rispose al sorriso.
"Lo so, Clowance è un osso più duro".
Usò un tono
leggero, era felice che Ross sapesse scherzare su Hugh...
"E
allora... vado?".
"Vai!" - lo
incitò.
E Ross la
ascoltò. Le diede
un altro bacio sulle labbra e poi lentamente si avviò verso
la
spiaggia.
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Capitolo 30 *** Capitolo trenta ***
La
nascita di Julia aveva portato la spensieratezza e la gioia delle
favole, dove si pensa e crede che tutto andrà sempre bene.
La
nascita di Jeremy, capitata in un momento della sua vita e del suo
matrimonio difficilissimo, aveva portato angoscia e paura di amare e
di soffrire.
La
nascita di Isabella-Rose rappresentava la consapevolezza del suo
ruolo di marito e padre e la felicità di aver di nuovo
accanto la
donna che amava e con cui voleva e poteva costruire ogni cosa
desiderata.
La
nascita di Clowance era diversa per lui, rappresentava un buco nero
che mai avrebbe potuto colmare. Non si puo' tornare indietro nel
tempo, non si puo' permettere al se stesso più giovane di
non
commettere quell'errore che gli aveva fatto perdere tutto, compresa
la nascita della sua bambina. Si era rassegnato che mai, nonostante i
racconti di Demelza, avrebbe saputo com'era sua figlia quando aveva
abbozzato il primo vagito, com'era guardarla dormire nella culla da
neonata, com'era quando ha detto la prima parola o fatto i primi
passi. Per lui Clowance era nata in una giornata estiva londinese, a
casa di Caroline Penvenen, ed aveva le fattezze di una bimba di due
anni dai capelli rossi e pieni di boccoli tenuti bada da un nastrino
che malsopportava e che già sapeva correre e parlare, anche
se
stentatamente.
Aveva
sentito da subito un forte legame con quella piccola, testarda e
vivace bambina che già sembrava sapere cosa volesse dalla
vita.
Anime affini, simili, nonostante ancora non sapesse che era sua
figlia.
Poi
aveva ritrovato Demelza e aveva scoperto la verità e da quel
giorno
Clowance era stata 'la sua figlia preferita'. Non per togliere
qualcosa agli altri, ma perché era la figlia che aveva avuto
di meno
da lui. Era un qualcosa che lo aveva sempre fatto sentire in colpa,
unito alla strana sintonia di carattere fra lui e la bambina. Erano
simili lui e Clowance, stessa testa dura, stesso caratteraccio,
stesso orgoglio che muoveva ogni loro passo. Ma Clowance era anche
molto altro e di quel 'molto altro' lui era innamorato perso come
solo un padre puo' essere. Clowance era la più Poldark fra i
Poldark. Aveva in se il carattere, che aveva preso decisamente da
lui, unito alla nobiltà e alla fierezza dei Poldark di
vecchia
generazione, quei Poldark nobili e raffinati che un secolo prima
avevano costruito Trenwith. Clowance era elegante e nobile nel modo
di porsi e di parlare, era bellissima e conscia di esserlo e spesso
ti guardava con quell'espressione di chi ti sta concedendo l'onore di
respirare la sua stessa aria e questo era un tratto del suo carattere
che lo faceva impazzire. Non lo avrebbe tollerato in nessun altro, ma
in sua figlia aveva un sapore diverso, dolce e deciso insieme ma mai
altezzoso. E poi l'aspetto fisico, così simile a Demelza,
così
bella e selvaggia come lei. Adorava Clowance quando rideva, ma era
soprattutto quando teneva il broncio che la trovava irresistibile.
Esattamente come sua madre...
A
passo spedito si avvicinò alla spiaggia, pensando a com'era
sempre
stato il rapporto con sua figlia e a come potesse essersi sentita
tradita e messa da parte durante la sua malattia. Odiava se stesso
per il modo in cui l'aveva trattata e sentiva sulla sua pelle la
delusione e l'angoscia che doveva aver provato nell'essere messa da
parte da quel padre che per lei aveva sempre straveduto.
Finalmente,
la vide. Era fra l'erba alte delle dune che portavano al mare, in
compagnia di Artù. Aveva i capelli sciolti e indossava un
abitino
semplice, di un colore viola pallido. La vide andare verso il
bagnasciuga col cane, inginocchiarsi a terra e smuovere la sabbia
alla ricerca di conchiglie e si ricordò che era un qualcosa
che
spesso, lui e lei, avevano fatto insieme prima del suo incidente alla
miniera.
Ross
deglutì. Non era mai stato molto bravo a parole e
soprattutto a
chiedere scusa. Ma con Clowance doveva sforzarsi di essere perfetto!
Non voleva, non poteva perdere la sua bambina! E la situazione di
stallo fra loro era durata pure troppo.
Si
avvicinò a passo felpato, il suo arrivo attutito dal rumore
delle
onde che si infrangevano sulla battigia. Clowance si accorse del suo
arrivo solo quando fu alle sue spalle. Sussultò,
alzò la testa e
rimase perfettamente immobile. Una volta gli sarebbe saltata al collo
felice ma quei tempi erano finiti e forse non sarebbero più
tornati,
pensò tristemente. "Posso aiutarti?".
"No".
"Perché?
Sono bravo a cercare conchiglie, sai?".
Clowance
sbuffò. "Sono brava anche io e non ho bisogno che mi aiuti".
Ross
si inginocchiò per essere alla sua altezza e guardarla negli
occhi,
poi le sfiorò il mento. "Lo so che sei capace ma vorrei
aiutarti lo stesso. Come una volta, ricordi?".
Clowance
rimase seria, lo guardò in viso e poi scosse la testa. "Mi
hai
detto che dovevo imparare a fare le cose da sola e l'ho fatto. Ora
non mi serve più che nessuno venga ad aiutarmi. Sto bene qui
da
sola, con Artù".
Si
sentì in colpa al sentire quelle parole. Era vero, era stato
severo
ed inflessibile con Clowance durante la sua malattia e aveva preteso
che facesse tutto da sola, senza rendersi conto che sua figlia,
cercando il suo aiuto, non faceva che cercare il contatto con lui.
Contatto che lui le aveva negato. "Mi dispiace di averti detto
quelle cose, ero malato e non sapevo chi ero. E non sapevo nemmeno
chi eri tu e cosa facevamo assieme. Ma non ho mai smesso di volerti
bene e mi dispiace di esserti sembrato cattivo, non lo ero, stavo
semplicemente male. So che ti ho detto che devi imparare a fare le
cose da sola e lo penso ancora, ti servirà quando sarai
grande, ma
questo non significa che non potremo fare tante cose insieme, come
una volta. Per quanto tu possa crescere e diventare adulta, io
sarò
sempre tuo padre e non ci sarà MAI nulla che non mi
piacerà fare
con te. E non ci sarà mai una volta in cui mi chiederai
aiuto e io
ti dirò di no".
"Sei
un bugiardo!".
La
voce di Clowance era fredda e piena di risentimento e lo fece
sussultare. La guardò, aveva solo sei anni e mezzo eppure
gli
sembrava molto più grande della sua età, non
tanto nell'aspetto –
era esile e minuta – quanto nei modi di fare e
nell'atteggiamento.
Non stava facendo capricci o sbraitando ma stava, al contrario,
gestendo quella situazione con la freddezza di un adulto. "Non
ti ho mai mentito".
"Si
invece! Anche adesso! Non è vero che mi dici sempre di si
quando ho
bisogno di aiuto, quando non riuscivo a imparare a scrivere mi hai
sgridata e volevi lasciarmi senza mangiare. E mi hai detto che dovevo
fare da sola!".
"Clowance!".
Non c'era niente che potesse dirle per farle cambiare idea, c'era
solo una cosa che poteva fare per farle sentire quanto la amava. Le
prese le mani, la attirò a se e la abbracciò. La
piccola tentò di
ribellarsi, ma poi si arrese al fatto che lui era più forte
di lei.
La sentì tremare e poi singhiozzare, rilasciando una
tensione che
probabilmente aveva accumulato in tutti quei mesi. "Mi dispiace,
i papà a volte sbagliano e io l'ho fatto. Senza volerlo e
senza
accorgermene, te lo giuro. Ma non ho mai e poi mai smesso di volerti
bene, credimi. Ora sono guarito, sono di nuovo quello di prima e so
che sei arrabbiata, ma credi di poter riuscire a fare la pace con me
un giorno?".
"Mi
avevi detto che ero la tua preferita" – singhiozzò
la bimba,
fra le sue braccia.
"E
lo sei. Ti voglio bene come ne voglio a tuo fratello e a tua sorella,
ma per me tu sei speciale per tanti motivi che ti spiegherò
quando
sarai più grande".
Clowance
alzò lo sguardo su di lui, lo studiò in viso e
poi si asciugò le
lacrime con la mano. "Mi vuoi bene anche se ti dico che sono
stata cattiva?".
"Non
sei mai stata cattiva!".
"Sì
invece. Rispondi! Mi vuoi bene anche se ti dico che ho fatto una cosa
brutta?".
Ross
sbuffò. Non capiva quel discorso e trovava stupefacente che
sua
figlia, così piccola, sapesse già metterlo alla
prova. "Certo,
ti vorrò bene anche più di quando sarai brava,
quando sbaglierai.
Sono tuo padre, non dimenticarlo".
Clowance
abbassò lo sguardo, giocò con la sabbia
smuovendola con un piede e
poi sospirò, come se quello che stava per dire pesasse come
un
macigno sulla sua coscienza. "Sai quel drago con due teste,
quello che ci avevi messo tutta la notte a farmi?".
Ross
annuì. Era bello ricordare, finalmente... "Certo".
Clowance
sbuffò. "Quando sono scappata di casa, ero così
arrabbiata che
l'ho distrutto e buttato nel fuoco del camino".
Ross
espirò. Si aspettava una catastrofe, da com'era iniziata
quella
discussione e invece era solo un drago di carta... Le sorrise,
accarezzandole i capelli. "Avevi ragione ad essere arrabbiata
con me e quello che hai fatto non ti rende cattiva. Io avevo tradito
la tua fiducia e tu ti sentivi abbandonata ed eri arrabbiata e
triste. Per questo l'hai fatto".
"Si
ma... Ci avevi messo tanto per farlo".
Ross
la guardò. Percepiva quanto si sentisse in colpa per quel
drago e
tutto quello che lui desiderava era rassicurarla. "Non fa
niente, era solo un drago di carta, ne faremo altri. Magari, se ci
esercitiamo insieme, con tre teste. Che ne dici? Ci proviamo?".
Clowance
vacillò per un attimo, quasi timorosa ed indecisa se
accettare e
tornare a fidarsi di lui o rimanere chiusa nelle sue posizioni. Ma
poi, timidamente, allungò la mano prendendo quella di suo
padre e
stringendola. E sorrise. "Sei tornato davvero, papà".
"Davvero!".
La strinse a se, la abbracciò forte e le baciò la
testolina rossa.
"Papà?".
"Sì?".
"Va
bene, puoi aiutarmi a cercare le conchiglie per il braccialetto di
mamma".
Ross
sorrise. "E allora vieni con me, conosco un posto dove ne
troveremo di bellissime".
"Dove?"
- chiese la bimba, dandogli la mano.
Presero
a camminare sul bagnasciuga, seguiti da Artù che giocava fra
le
onde. "In una grotta qui vicino".
A
quelle parole, Clowance si bloccò. "No, non voglio venire in
una grotta, ho paura delle grotte. L'ultima volta, mamma è
quasi
morta".
Ross
strinse la sua mano, si chinò e la prese in braccio,
mettendosela
sulle spalle. "Nessuno ti farà del male e nessuno ne
farà mai
più alla mamma. Puoi starne certa! Ti fidi di me?".
"Si".
"E
allora andiamo nella grotta?".
Clowance
sospirò. "Va bene, andiamo nella grotta".
Ross
la rimise a terra e le ridiede la mano, cercando di infonderle
coraggio e la bimba, dopo un'iniziale titubanza, lo seguì a
passo
più spedito. Lo guardò di sottecchi, studiandolo
ancora, poi
timidamente gli raccontò cosa aveva fatto negli ultimi mesi,
come se
lui non ci fosse stato e fosse appena tornato da un viaggio.
Infine... "Papà, posso chiederti una cosa?".
"Certo!".
"Perché
mamma non vuole farmi essere amica di Valentin Warleggan? Sai che
Artù me lo ha regalato lui?".
Ross
a quella domanda si irrigidì. Valentin Warleggan... Quel
nome
riportava indietro tanti, troppi ricordi dolorosi. La sua
gioventù,
Elizabeth, la guerra, il tradimento ai danni di Demelza, l'espiazione
delle sue colpe. Aveva avuto quattro figli nella sua vita e forse ce
n'era un quinto, Valentin. Ma non riusciva a considerarlo tale, per
lui i suoi figli erano coloro che stava crescendo e che portavano il
suo cognome. Valentin forse aveva il suo stesso sangue ma era un
Warleggan cresciuto ed educato da George. Non era suo figlio, non lo
conosceva e forse non l'avrebbe mai conosciuto, nulla li avrebbe mai
uniti in qualcosa. Ma quell'ipotetico legame di sangue restava e
capiva il perché Demelza avesse deciso di recidere i
rapporti fra
Clowance e il bambino. "Un giorno te lo dirò, quando sarai
grande. E' una storia un po' complicata da capire per una bambina ma
quando sarai capace di comprenderla, ti prometto che te la
racconterò".
Clowance
sospirò. "Siete così misteriosi voi adulti! Ma
Valentin è
cattivo? Per questo non volete che sia mia amico?".
"No,
non è cattivo! Ma è meglio che tu gli stia
lontana".
"Tu
lo conosci, papà?".
Ross
scosse la testa. No, non lo conosceva, l'aveva visto di sfuggita solo
una volta, quando era corso a Trenwith dopo aver saputo della morte
di Elizabeth e da allora aveva cercato di rimuovere l'immagine di
quel bambino dalla sua mente. Ma da allora aveva deciso che, una
volta cresciuti, ai suoi figli avrebbe detto la verità circa
la sua
vita e i suoi errori. Demelza non era d'accordo su questo ma lui lo
desiderava. Non voleva né segreti né ombre nel
suo rapporto coi
suoi figli e anche se non sapeva come l'avrebbero presa, voleva
essere sincero, una volta cresciuti. "L'ho visto solo una volta"
– disse, fugacemente.
Clowance
non disse altro, capendo che era meglio non proseguire a chiedere. E
anche questo era tipico di lei e del loro vecchio rapporto, il
capirsi senza bisogno di parole. Il rapporto con sua figlia sarebbe
stato diverso da com'era prima dell'incidente, lo sapeva. Ma sapeva
anche che era talmente forte da essere indistruttibile e che
ciò che
li univa si sarebbe modificato con gli anni ma non sarebbe mai
finito. Sarebbero cresciuti insieme lui e Clowance, ognuno in modo
diverso. Ma le loro strade non si sarebbero mai divise davvero, anche
se la vita avrebbe potuto portarli fisicamente lontani. "Siamo
arrivati, la grotta è questa" – disse, indicando
l'ingresso
roccioso alla piccola.
"Sicuro?".
"Sicuro!
Vedrai, ci sono conchiglie di mille colori, trasporate dalla marea di
notte".
Clowance
sorrise. "Mamma sarà contenta del bracciale".
Ross
le strizzò l'occhio. "Mamma sarà contenta di
sapere che
abbiamo fatto pace, che ne dici?".
La
bimba ricambiò il suo sguardo complice, come una volta.
"Sì,
anche per quello" – esclamò finalmente allegra,
correndo
senza più esitazioni nella grotta.
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Capitolo 31 *** Capitolo trentuno ***
Dieci
anni dopo
"Ci siamo
persi Bella,
ferma il cavallo Jeremy!".
Suo
fratello, davanti a lei di
alcuni metri, tirò le redini e Clowance fece altrettanto col
suo
cavallo.
Si
guardarono in giro,
attorniati dai colori forti della piena estate del bosco, cercando il
terzo cavallo che portava la sorellina undicenne.
Suo
fratello, alto più di lei di una testa, che aveva ormai
diciannove
anni e pensava di sapere tutto della vita, la guardò
corrucciato.
"Come persa? Clowance, ma non era accanto a te? Perché non
ci
sei stata attenta?".
La
ragazza alzò gli occhi al cielo. Beh, Jeremy poteva pure
essere il
fratello maggiore, ma lei aveva ormai sedici anni e le paternali non
le andava più di sentirle! "La stavo controllando!
Più o
meno... E' solo una passeggiata a cavallo nel bosco, mica devo farle
da guardiana! E poi è colpa tua, sarà morta di
noia da qualche
parte! Sono DUE ore, da quando abbiamo lasciato casa, che la tormenti
con la storia della flora della Cornovaglia!".
"Non
la sto tormentando!" - rispose a tono suo fratello – "la
stavo aiutando con la sua ricerca per la scuola che deve portare per
settimana prossima. Se no rischia di diventare una somara come te".
"Cosa?
Somara?". Clowance lo guardò storto, facendo finta di non
sentirlo. "Parla, parla pure Jeremy... Tanto il fratello
maggiore sei tu e quindi la colpa è solo tua di TUTTO". E
detto
questo, con un movimento lento del capo, si scostò i lunghi
capelli
rossi dal viso e si addentrò nel bosco.
"Clowance,
dove vai? Vieni qui!".
Ai
richiami di Jeremy, sbuffò. Non lo sopportava
più! Da quando suo
fratello era così stramaledettamente protettivo? Certo, era
carino e
molto paziente, difendeva lei e Bella pure quando non ce n'era
bisogno, tipo quando qualche giovane le guardava e sorrideva
più del
dovuto, però... era noioso! "Invece di urlare come
un'aquila,
seguimi! Dobbiamo trovare Bella!".
Improvvisamente,
un cespuglio dietro di loro si mosse e dopo alcuni istanti Bella
comparve davanti a loro a piedi, tenendo il cavallo per le redini. I
lunghi capelli neri le cadevano disordinati sul viso e sulle spalle,
gli occhi azzurri risplendevano come il cielo, le sue guance erano
arrossate e la sua espressione era furba e maliziosa come al solito.
"Dove
diavolo sei stata?" - le gridò Jeremy.
La
ragazzina indicò il bosco, in direzione del laghetto. "Di
la!".
"Ti
stavo spiegando le nozioni sulla flora locale, piante e alberi della
Cornovaglia! Per la tua ricerca, ricordi? E sei sparita".
Bella
guardò Clowance, alzò gli occhi al cielo,
sbuffò e poi tornò a
degnare della sua attenzione il fratello. "La flora, la flora
della Cornovaglia... Che noia! La fauna invece è
più interessante"
– concluse, ridacchiando e strizzando l'occhio a sua sorella.
Clowance
la fissò senza capire. Ma intuendo... La sua dolce e
innocente
sorellina di undici anni, di cui una volta era gelosa marcia quando
era piccola, era sveglia, ironica e molto attenta a ciò che
la
circondava. Soprattutto al genere maschile... "Chi hai
incontrato?".
Bella
alzò le spalle. "Non so il suo nome. Ma nel laghetto
c'è un
tizio molto carino che sta facendo il bagno. Deve avere la tua
età,
Clowance".
Jeremy
divenne rosso in viso. "Un tipo che sta facendo il bagno?
Nudo?".
Bella
lo fissò con aria fintamente innocente. "Aveva il petto
nudo,
sotto non so. Stava nuotando, non ho visto! Volevi che rimanessi
lì
a vedere?".
"NOOOO!".
Alla
reazione di Jeremy, Clowance e Bella si guardarono negli occhi e
scoppiarono a ridere. Clowance si trovò a pensare a quanto
lei e
Bella, fino all'anno prima, fossero distanti. Sua sorella era ancora
troppo piccola per avere cose in comune con lei e lei era ancora
troppo gelosa e accentrata su se stessa per tollerarla più
di tanto.
Ma da un anno a quella parte, le cose erano cambiate e spesso lei e
Bella bisbigliavano fra loro i propri segreti, ridacchiavano e si
erano ritagliate un loro intimo mondo di sorelle in cui escludevano
gli altri. E quindi... "Andiamo a vedere chi è?" - propose
alla sorellina.
"Ci
sto!".
"No!"
- li interruppe Jeremy.
"Dai!"
- protestò Clowance – "Un ragazzo della nostra
età da queste
parti quando ci capita? A parte i tuoi amici d'infanzia, siamo sempre
soli noi tre!".
"Siamo
soli perché tu fai troppo la principessa per abbassarti ad
essere
amica dei miei amici" – ribatté il fratello.
"Beh,
a me piace conoscere gente nuova! E io torno al laghetto" –
tagliò corto Bella, lasciando il suo cavallo e correndo fra
gli
alberi.
Clowance
decise di seguire il suo esempio. Scese di sella, legò il
suo
cavallo a un tronco e corse dietro alla sorella. E Jeremy fu
costretto, contro voglia, a seguire entrambe.
Le
ragazze corsero fino al laghetto e videro il giovane che, appena
uscito dall'acqua, era a petto nudo ed indossava solo i pantaloni.
Clowance
lo osservò. Come aveva detto Bella, aveva circa la sua
età, i suoi capelli erano neri e ricci e gli arrivavano alle
spalle, e nel
complesso era piuttosto carino e aveva un non so che di famigliare.
Il
giovane le notò e sorrise loro, apparentemente per nulla
imbarazzato
dal trovarsi mezzo nudo davanti a due ragazze. "Buongiorno"
– disse loro.
"Buongiorno!"
- rispose Bella tranquillamente, mentre Jeremy giungeva alle loro
spalle trafelato.
Il
giovane sconosciuto si avvicinò loro, sorridendo e non
togliendo gli
occhi di dosso da Clowance. "Con chi ho il piacere di parlare?".
"Jeremy
Poldark, piacere di conoscervi" – rispose Jeremy –
"E
loro sono le mie due sorelle impiccione, Bella e...".
"Clowance?".
Il giovane sconosciuto finì la frase per lui, con enorme
stupore di
tutti.
La
ragazza lo guardò accigliata. "Ci conosciamo?".
Il
ragazzo sorrise. "Direi di sì, anche se forse vi siete
dimenticata di me".
Clowance
guardò Jeremy e Bella che, dagli sguardi, sembravano capirne
meno di
lei. "E chi siete?".
Il
ragazzo, continuando a mangiarsela con lo sguardo, sorrise
mellifluamente di nuovo. "Una volta ci davamo pure del tu. E se
avete un cane, è grazie a me. Come sta Artù?".
Clowance
spalancò gli occhi dalla sorpresa, mentre immagini lontane
della sua
infanzia le tornavano alla mente. Ricordò una fuga da casa
con un
bambino ricciolino, malaticcio e debole, che lei comandava a
bacchetta e che le ubbidiva in tutto. Ricordò che quel
bambino aveva
trovato Artù ancora cucciolo, che glielo aveva regalato e
che, per
tanto, aveva voluto rivederlo ma che per qualche strano motivo i suoi
genitori glielo avevano impedito. Poi, crescendo, come spesso accade,
lui era diventato un ricordo nascosto in un angolo della sua memoria.
Ed ora era qui, cresciuto, meno imbranato che da piccolo e con uno
sguardo penentrante che sembrava spogliarla e che la metteva in
soggezione. Apparentemente era gentile ed educato, ma si sentiva a
disagio, come se quel ragazzo nascondesse un animo diverso e meno
cristallino sotto la scorza di buone maniere che esibiva. "Valentin
Warleggan..." - sussurrò.
"Vi
ricordate di me, vedo" – rispose lui, sempre in tono gentile.
"Sì,
se ho un cane è davvero grazie a voi. Artù sta
bene, anche se ormai
comincia ad essere un po' avanti con l'età è
ancora un cane grande
e maestoso, bello ed elegante".
Valentin
le si avvicinò, le prese la mano e a sorpresa la
baciò. "Come
la padrona".
E
a quel punto Jeremy, fattosi scuro in volto, intervenne. "Andiamo,
si sta facendo tardi".
"Ma
io voglio restare ancora un po'" – protestò Bella.
Clowance
osservò Jeremy, rendendosi conto immediatamente del suo
cambiamento
d'umore. Appena aveva sentito il nome di Valentin, era diventato cupo
in modo diverso rispetto al solito, quando i ragazzi le facevano gli
occhi dolci e si limitava a spazientirsi. Sembrava rabbioso ed era
una cosa inusuale per Jeremy. E per una volta decise di fare come
diceva lui senza protestare anche perché Valentin la metteva
decisamente a disagio. Da bambina lo avrebbe voluto come amico ma ora
riaverlo davanti, le dava una pessima sensazione di pericolo.
Poggiò
una mano sulla spalla di Bella e la attirò a se. "Su,
andiamo,
si sta facendo davvero tardi". Poi sorrise stentatamente a
Valentin. "E' stato un piacere rivedervi ma mio fratello ha
ragione, dobbiamo davvero andare".
"Spero
di rivedervi Clowance! Senza cani da guardia magari" – disse
Valentin, guardando con aria di sfida Jeremy.
Suo
fratello scosse la testa. "Dubito succederà. Da quel che so,
fra mio padre e vostro padre non corre buon sangue ed è
meglio che
ognuno resti a casa sua".
Clowance
sussultò. Ora che ci pensava, due anni prima, c'era stato un
periodo
di tensione fra il loro papà e Jeremy proprio a proposito di
una
qualche faccenda riguardante la famiglia Warleggan. A lei e a Bella
nessuno aveva spiegato nulla ma per una settimana buona, Jeremy era
stato arrabbiato col padre e non gli aveva rivolto la parola. Era
stata la loro mamma a rimettere pace, in quella situazione di
tensione tanto inusuale per la loro famiglia. Non aveva mai saputo
cosa fosse successo e né Jeremy né suo padre, con
cui parlava di
tutto, le avevano spiegato nulla. Ma ora era ben decisa ad andare in
fondo alla situazione e magari a scoprire perché, dieci anni
prima,
le avevano impedito l'amicizia con Valentin. Cosa c'era sotto di
tanto grosso, da osteggiare persino l'amicizia fra due bambini?
"Arrivederci Valentin" – disse infine, trascinandosi
dietro Bella.
Raggiunsero
il cavallo in un silenzio di tomba e Clowance, lascianta la sorellina
a borbottare da sola, si affiancò a Jeremy. "Che ti prende?".
"Sta
lontana da quel tizio e non farti mettere le mani addosso".
Clowance
lo guardò storto. "Io non mi sono fatta mettere le mani
addosso".
"Ma
a lui sarebbe piaciuto molto, te lo assicuro" –
ribatté
Jeremy, secco.
E
stavolta la ragazza non riuscì a controbattere
perché lei stessa
aveva avuto la medesima sensazione. Lo prese sottobraccio, dandogli
un bacio sulla guancia. "Non è piaciuto molto nemmeno a me,
comunque, stare a parlare con lui. Da piccolo era più
simpatico".
"Meglio
così" – rispose Jeremy, vago.
Tornarono
ai loro cavalli, montarono in sella e tornarono a casa, attenti
stavolta a non perdere Bella per strada.
Quando
giunsero a Nampara era quasi ora di cena e dalla porta fuoriusciva un
invitante profumo di stufato.
"Avrà
cucinato mamma, il profumo è troppo buono per essere opera
di
Prudie" – commentò Bella, laconica.
Jeremy,
a dispetto di tutto, rise, scompigliando i capelli alla sorellina.
"Suppondo di sì, poi son giorni che Prudie ha mal di
schiena,
sarà a letto e saremo noi a dover servire lei".
"O
Jud" – ribadì Clowance, ridacchiando. "Il problema
è
che ora è abbastanza anziana per essere credibile quando ha
qualche
malanno e dice che non puo' lavorare".
I
tre si guardarono in faccia e risero, la tensione di poco prima ormai
dimenticata.
Quando
entrarono, trovarono il padre seduto sulla poltrona, con lo sguardo
torvo e pensieroso. "Finalmente siete a casa!" - disse, con
fare distratto.
Bella
esibì il suo miglior sorriso, gli si avvicinò e
gli saltò sulle
gambe. "Colpa di Clowance e Jeremy se siamo in ritardo, mi hanno
persa per strada!".
Ross
alzò gli occhi sui due figli maggiori, squadrandoli col
viso. "Come
potremo fidarci di voi per... per quello che aspetta?" -
sbottò.
Clowance
si accigliò. "Quello che ci aspetta? Che è
successo?".
"Io
e la mamma dobbiamo dirvi qualcosa".
Dalla
cucina, giunse Demelza. Aveva i capelli raccolti in una crocchia e
sembrava decisamente più radiosa di Ross. "Già,
una notizia
grandiosa".
I
ragazzi guardarono i genitori senza capire. E alla fine Jeremy
sbottò, chiedendo che diavolo stesse succedendo. "Cosa
dovete
dirci?".
Ross
e Demelza si guardarono in viso, arrossendo lievemente, imbarazzati.
E alla fine lui la attirò a se, cingendole la vita. "Sta per
arrivare un fratellino. O una sorellina... E non ce lo aspettavamo
proprio".
"Ma
ne siamo felici e spero lo siate anche voi" – disse Demelza,
chiudendo la frase del marito.
Clowance,
Jeremy e Bella si guardarono negli occhi con sorpresa e poi dopo
alcuni istanti, scoppiarono a ridere. "Un bambino? E non ve lo
aspettavate?" - disse Jeremy, più che altro divertito.
"Che
c'è da ridere?" - borbottò Ross.
Il
ragazzo gli si avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla.
"Oh
papà, l'unico modo che avevate per non correre il rischio,
era
dormire separati. E dovreste farlo, se non volete altre sorprese del
genere in futuro".
Ross
arrossì vistosamente cercando, con lo sguardo, aiuto in
Demelza che
però sembrava divertita quanto suo figlio.
Bella
lo guardò, ridacchiò pure lei e poi lo
abbracciò. "Papà,
mamma, però anche se siete quasi vecchi, è una
cosa bella. Sono
contenta".
"Ti
ringrazio per aver detto che sono vecchio, Bella, sei carina come
sempre...". Ross sospirò, accarezzando i capelli neri della
figlia. "Io aspetto di vedere che tutto vada bene, comunque, per
esserne contento. Non sono sconsiderato come voi e vostra madre".
"Sì
che lo sei, hai messo incinta la mamma anche se ha più di
quarant'anni!" - ribatté Clowance, non smettendo di ridere.
Era
divertita dalla reazione del padre, gli faceva tenerezza quel modo di
fare burbero che nascondeva una grande preoccupazione per sua moglie.
"Andrà tutto bene" – disse infine, abbracciando i
genitori.
Demelza,
soddisfatta, diede un bacio a Ross sulla nuca. "Visto che sono
contenti? E ora torno in cucina, mi aiutate a preparare la cena?
Vostro padre pensa che sia troppo moribonda per farlo da sola...".
Bella
annuì, poco entusiasta. "E Prudie dove sta?".
"A
letto con il mal di schiena" – ribatté Demelza.
Bella
guardò Jeremy, sospirando. "Vado a prendere l'acqua fuori al
pozzo, mi aiuti? Se lo chiedo a Clowance e poi lei si spezza un
unghia, succede una tragedia come l'ultima volta".
Jeremy
annuì e con Bella corse fuori, mentre Demelza, sorridendo,
tornò in
cucina.
Rimasta
da sola con suo padre, salva dall'incubo lavori-domestici, Clowance
si avvicinò alla poltrona dov'era seduto, sedendosi sulla
spalliera.
"Papà, fidati della mamma, se è tranquilla
è perché sa di
poterlo essere".
Ross
sospirò. "Ma io sono preoccupato lo stesso. E' diverso dalle
altre volte, non è più così giovane
come quando siete nati voi".
Clowance
alzò le spalle. "Ma è abbastanza giovane, ancora,
per avere un
bambino". La ragazza gli sfiorò le spalle. Suo padre era
sempre
stato il suo idolo, fin da quando era piccolissima. Con lui si era
sempre confidata su tutto, con lui aveva riso, scherzato, giocato e
condiviso ogni cosa. E crescendo, negli anni, anche lui aveva
imparato a confidarsi con lei su tante cose, rendendola partecipe del
suo mondo. Bella era ancora troppo piccola per certi discorsi, Jeremy
aveva un carattere troppo diverso da quello del padre ma lei e lui...
loro, da sempre, si erano trovati in sintonia, anime affini e simili
che si cercavano in continuazione e sapevano capirsi con uno sguardo.
Ross
la guardò, alzando un sopracciglio. "Non sarai gelosa come
quando è nata Bella?".
"No,
figurati! Ormai sono grande per essere gelosa, anzi... Almeno
farò
pratica".
Ross
spalancò gli occhi, girandosi di scatto verso di lei.
"Pratica
per cosa?".
"Per
quando sarò mamma! Voglio dire, prima o poi
capiterà".
Ross
la guardò storto, scuotendo la testa. "Non pensarci, non
succederà troppo presto, sei giovane ancora per queste cose".
Clowance
ricambiò il suo sguardo. "Ho sedici anni, quanti anni aveva
mamma quando l'hai sposata?".
"Non
è paragonabile la cosa, erano altri tempi" –
ribatté lui,
secco.
Clowance
sospirò, arrendendosi al fatto che per suo padre sarebbe
rimasta
sempre una bambina. "Sta tranquillo, non ho mica intenzione di
sposarmi domani. Non ho nemmeno un fidanzato e apprezzo il fatto che
tu e la mamma non ne vogliate trovare uno per me e mi lasciate libera
di scegliere chi voglio".
Ross
ridacchiò, prendendole le mano. "Tu non sei libera di
scegliere
chi vuoi, tu non devi scegliere proprio nessuno per ora".
La
ragazza sorrise, adorava mettere suo padre in imbarazzo parlando di
ipotetici fidanzati. Però, ripensando alla giornata appena
trascorsa, c'era un qualcosa che doveva chiedergli su un ragazzo.
"Papà, ti ricordi quando ero piccola e mi avevi promesso che
mi
avresti parlato di Valentin Warleggan quando fossi diventata
grande?".
Al
sentire quel nome, Ross si voltò di scatto verso di lei.
"Sì,
lo ricordo" – disse, serio. "Che c'entra ora?".
"Lo
abbiamo rivisto oggi, nel bosco, per caso. E' un tipo strano, da
piccola mi piaceva ma oggi... beh, mi guardava insistentemente e lo
trovavo inquietante. E' strano... E una volta mi avevi promesso
che...".
Ross
sospirò, le strinse la mano e la accarezzò,
piano. "Non è una
storia piacevole da sentire".
"Jeremy
la sa però, vero?".
"Sì,
la sa. Ed è rimasto arrabbiato con me per giorni".
Clowance
scosse la testa. "Io non sono Jeremy, io riesco sempre a capirti
meglio di lui e ora voglio davvero sapere perché non ho
potuto più
vederlo. E perché temi che mi arrabbi con te".
Gli
occhi di Ross divennero cupi, scuri, quasi assenti. "Diciamo che
lui, Valentin, potrebbe essere tuo fratello. Fratellastro
intendo...".
A
quella rivelazione totalmente inaspettata, a Clowance parve mancare
il fiato. Spalancò gli occhi, quasi incredula davanti
all'entità di
quella rivelazione. Se Valentin era suo fratello... e ora che ci
pensava, somigliava a... a... "Papà, cosa stai cercando di
dire?" - chiese, quasi timorosa.
"E'
giusto che tu sappia...". Ross chiuse gli occhi, quasi
intimorito dal guardarla in viso. E lentamente, con dolore, le
raccontò di Elizabeth, della sua ossessione per lei, del
tradimento
ai danni di Demelza e del perché fosse nata a Londra e lui
non
c'era. E di Valentin, quel bambino che, a conti fatti, anche se non
c'erano prove, poteva essere suo.
Clowance,
impietrita, era rimata a lungo in silenzio, con gli occhi lucidi. Non
sapeva come fare, cosa dire, cosa pensare... Suo padre, il suo
perfetto e forte papà aveva tradito sua madre. Le sembrava
incredibile che proprio lui, loro... Così innamorati come il
primo
giorno... Si amavano così tanto, erano inseparabili. Ma
c'era stato
un tempo in cui lui era stato diviso dall'amore per due donne e
questo lo metteva in una luce diversa ai suoi occhi. Non più
imbattibile e infallibile ma umano, con pregi e difetti. Avrebbe
voluto odiarlo, avrebbe potuto farlo visto quello che gli aveva
appena detto, invece desiderava solo abbracciarlo perché
percepiva
in lui il dolore e i sensi di colpa per quello che aveva fatto e che
mai si era perdonato. Quando lei era nata a Londra, lui aveva perso
tutto e conoscendolo, poteva ben immaginare quanto avesse sofferto. E
sua madre... Ora capiva cosa potesse aver provato nell'avere a che
fare con Valentin e il perché delle sue decisioni.
"Papà...?".
"Dimmi...
Sei arrabbiata, vero?" - le chiese, con un filo di voce.
"Mamma
ti ha perdonato?".
"Sì".
Clowance
rilasciò il respiro a lungo trattenuto. E sorrise. "E allora
non vedo perché non debba farlo io".
Ross
si voltò verso di lei stupito, l'attirò a se e
l'abbracciò.
"Clowance, tu SEI mia figlia. Tu, Jeremy e Bella. Valentin,
indipendentemente da chi sia davvero, non l'ho mai sentito mio. I
miei figli sono quelli che mi ha dato tua madre: Julia, Jeremy,
Clowance e Bella".
Clowance
alzò lo sguardo su di lui, sorridendo. "Scervellati un po',
presto dovrai trovare un altro nome per un altro figlio. Ti stai
dimenticando della gravidanza di mamma".
Ross
sospirò, apparentemente più rilassato. "Non
ricordarmelo".
"Certo
che te lo ricordo! E' colpa tua... Dovresti davvero prendere in
considerazione il consiglio di Jeremy e trovarti un'altra stanza dove
dormire..." - disse, stemperando la tensione. Poi gli diede un
bacio sulla fronte e raggiunse sua madre in cucina. E in quel momento
si sentì come se una nebbia invisibile che conservava un
segreto,
fosse svanita.
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Capitolo 32 *** Capitolo trentadue ***
"I
ragazzi l'hanno presa bene".
Demelza,
intenta a mettersi la camicia e a prepararsi per la notte,
annuì.
"Sicuramente meglio di come l'hai presa tu" – disse
scherzosamente al marito, intento ad accendere il camino.
Ross
sospirò, scuotendo la testa e smuovendo la cenere. "Non
dovresti prenderla con tutta questa leggerezza, è una
questione
seria".
"E'
una questione bella! Avremo un bambino, non è un lutto,
Ross!"
Suo
marito sospirò, alzandosi dalla posizione accovacciata e
sedendosi
su letto, accanto a lei. "Demelza, è diverso dalle altre
volte!".
"Ross
Vennor Poldark, stai dicendo che sono vecchia?" - chiese lei,
con gli occhi che promettevano scintille.
Ross
alzò le spalle. "Sicuramente lo sei più che le
altre volte e
questo è inequivocabilmente un dato di fatto!".
"Sto
bene e ho tutta l'intenzione di stare bene pure in futuro!" -
ribatté lei. "Di cos'è che hai così
paura?".
Ross
la fissò con quei suoi occhi scuri e penetranti, serio. "Una
volta, tanti anni fa, ho visto una donna morta di parto... E se penso
che puo' succedere... che potrebbe... che tu...".
Demelza
gli prese le mani. Tremavano... Aveva ben capito di chi lui stesse
parlando e di cosa aveva paura. Quel timore di Ross espresso
così, a
parole, fece venire la pelle d'oca pure a lei. Ma soprattutto... "Non
voglio parlare di Elizabeth!" - disse, secca.
"Non
ho detto il suo nome!" - ribatté lui, piccato.
"Ma
era a lei che ti riferivi! La mia, la nostra è un'altra
storia e tu
lo sai. Non è morta di parto e io non voglio parlare di
Elizabeth".
"Non
era mia intenzione farlo, sei tu che hai tirato in ballo l'argomento
e hai pronunciato quel nome".
Demelza
si morse il labbro. Ross era teso e nervoso e quando era
così,
spesso finivano col discutere. Ma era una cosa di cui non aveva
voglia, non quella sera, non nel giorno in cui aveva scoperto la
nuova imminente maternità. In realtà pure lei,
benché cercasse di
mascherarlo, aveva mille paure e i nervi a fior di pelle ma Ross
rischiava di peggiorare la situazione, facendo così. "Pensi
ancora a lei?".
Davanti
alla serietà del suo tono di voce, Ross deglutì.
"Penso a lei
come si puo' pensare ad un antico affetto. Penso a lei con la
tristezza con cui si pensa a una donna morta giovane".
Beh,
come risposta poteva andarle pure bene, ma lo sguardo di Ross era
ancora indispettito e teso. "Che c'è?".
Suo
marito la guardò con sospetto. "E tu... Pensi ancora ogni
tanto, a Hugh Armitage?".
Spalancò
gli occhi, una domanda del genere non se l'aspettava minimamente.
Come poteva paragonare ciò che l'aveva legata a Hugh
più di dieci
anni prima, con quello che lui aveva vissuto con Elizabeth. "Cosa?
Ross, sei impazzito?".
"Rispondi!".
"No,
non penso a lui" – disse, guardandolo negli occhi.
"Mai
fatto?" - insistette Ross.
Demelza
sospirò, suo marito aveva voglia di litigare a quanto
sembrava. "Si,
l'ho fatto. Ho pensato a lui a volte, con la stessa pietà
che tu usi
nel pensare ad Elizabeth, con la pietà che si prova nei
confronti di
una persona morta giovane. E comunque le due cose non sono
paragonabili".
Ross
fece per ribattere a tono ma alla fine abbassò lo sguardo,
si gettò
sul cuscino e chiuse gli occhi. "Hai ragione, scusa! Sono solo
nervoso...".
Demelza
scosse la testa, prese il suo cuscino e glielo tirò in
faccia. "Sei
detestabilmente insopportabile quando ti ci metti, sai?".
"Me
lo dicono in molti" – rispose lui, laconico.
A
Demelza scappò un sorriso. Allungò la mano, prese
quella del marito
e la strinse. "Ross, anche io ho paura per il bambino. Ma so che
andrà bene, che lui sarà in salute e che lo
sarò pure io. E' la
mia ultima gravidanza questa, dubito ce ne saranno delle altre e...".
"Puoi
scommetterci che sarà l'ultima" – la interruppe
lui.
Demelza
finse di non sentirlo. "E... Vorrei vivermela felicemente e
senza troppi pensieri, dall'inizio alla fine, con te. Stammi vicino,
pensiamo alle cose belle e releghiamo le preoccupazioni a quando
arriveranno dei problemi, SE arriveranno. Ho bisogno di te, stavolta
più di tutte le altre volte".
Ross
sospirò, sconfitto, lasciandosi andare sul cuscino. Le
sfiorò la
vita e la trascinò a se, stringendola e costringendola a
poggiare la
testa sul suo petto. Le accarezzò i capelli, piano, poi le
baciò la
fronte. "Hai ragione, è una cosa bella questa. Ma mi
conosci,
di carattere tendo sempre a pensare anche alle mille cose negative
che una novità comporta".
Demelza
annuì. "Lo so bene. E nonostante questo, da quando ti
conosco
ti ho visto sfidare con coraggio anche le imprese più
improbabili ed
avventurose. Io non sono così diversa da te e questa
sarà la mia
avventura. Ma vorrei che fosse anche tua...".
"Sarà
anche mia, sta tranquilla. Spero solo di poter essere un padre
attento e presente come lo sono stato per gli altri".
Demelza
alzò il viso e lo guardò. "Perché non
dovresti esserlo?".
"Perché
non sono giovane come lo ero con gli altri".
Demelza
sorrise e si sporse a baciarlo sulle labbra. "Hai più
energia
tu, di tanti ventenni che bighellonano attorno alla tua miniera".
Ross
alzò un sopracciglio. "I ventenni che non tolgono gli occhi
di
dosso dalla mia bambina prediletta?".
Demelza
scoppiò a ridere. "La tua bambina prediletta ha sedici anni.
Io
alla sua età ero già innamorata di te, ti ho
sposato che avevo un
anno solo più di quelli che ha ora Clowance e sono rimasta
incinta
di Julia subito dopo".
"Non
è la stessa cosa" – obiettò Ross. "I
tuoi sedici anni
erano diversi dai suoi, sono altri tempi adesso e Clowance è
ancora
piccola per OGNI cosa".
Alla
fine fu costretta a sospirare. "Erano tempi diversi perché
non
ero tua figlia?".
"Erano
tempi diversi e basta! Fine del discorso. A proposito, sai che mi ha
detto TUA figlia, poco fa? Che è contenta per l'arrivo del
fratellino, così farà pratica per quando
sarà lei a diventare
madre".
Ok,
era decisamente divertita da quella conversazione con Ross e la
tensione di poco prima era ormai archiviata. "Beh, come darle
torto?".
"Demelza...".
Lo
abbracciò, affondando il viso nel suo collo. "Guarda il lato
positivo, di bambini piccoli ne hai ancora due: quello che deve
nascere e Bella. In fondo lei è ancora una ragazzina".
Ross
la guardò storto. "Bella è pure peggio di
Clowance, ha
l'occhio troppo lungo coi ragazzi e ha solo undici anni. Mi
farà
venire i capelli bianchi... Sai che vuole prendere lezioni di
canto?".
"Sì,
me lo ha detto! Dal fratello maggiore della sua amica Josephine, che
studia al conservatorio. Mi sembra una buona idea".
Ross
scosse la testa, guardandola come fosse un'aliena che non comprende
l'ovvio. "Le ho detto che se vuole lezioni di canto, andrà
da
Miss Antoinette, l'organista della Chiesa di San Sawle. Non
è
necessario rivolgersi a un ragazzo del conservatorio".
"Sei
perfido!" - rispose, divertita.
"Ho
l'occhio lungo...".
Demelza
ridacchiò. Calò un silenzio sereno, tranquillo,
interrotto solo
dallo scrosciare rilassante della pioggia. Rimasero abbracciati per
un po', lei appoggiata al petto del marito e Ross che le accarezzava
la schiena.
Fu
Ross a interrompere quel momento. "Devo dirti un'altra cosa di
Clowance e forse non ti piacerà".
"Cosa?".
"Prima,
mentre parlavo con lei, mi ha raccontato che oggi, a cavallo, hanno
incontrato Valentin Warleggan nel bosco".
Demelza
spalancò gli occhi a quelle parole, mentre nella mente si
formava
l'immagine di quel bimbo dai ricci neri, magro e malaticcio, che
aveva conosciuto dieci anni prima in spiaggia, durante la sua fuga da
casa con Clowance. Per molto sua figlia aveva insistito per vederlo e
lei era stata categorica a rifiutare, pur senza darle spiegazioni.
Valentin Warleggan, il bimbo nato in una notte di luna nera, il
figlio di Elizabeth e forse di quella notte maledetta con Ross. "E
allora...?" - chiese, con timore.
Ross
deglutì. "Le ho raccontato la verità. Me l'ha
chiesta e ho
pensato che fosse abbastanza grande per saperla".
Demelza
rabbrividì. Alcuni anni prima, Ross ne aveva parlato con
Jeremy e
suo figlio l'aveva presa malissimo, tanto che per settimane non aveva
voluto rivolgere la parola a suo padre. Poi, con tanta pazienza, una
lunga chiacchierata e un faccia a faccia doloroso ma necessario, i
suoi due uomini avevano fatto pace e Jeremy si era riappacificato con
lui. Ma Clowance... "Come l'ha presa?".
"Era
sbigottita, quasi spaventata. Non se l'aspettava. Mi ha sempre visto
come un padre super-eroe e improvvisamente ha scoperto che sono stato
tutt'altro che perfetto".
Demelza
si alzò, mettendosi a sedere. "Ross, proprio per questo non
avresti dovuto dirle nulla. Non era necessario e tu sai che non ero
d'accordo".
"Io
non volevo mentirle" – rispose lui, laconico.
"E'
arrabbiata?".
"No.
Mi ha chiesto se tu mi hai perdonato e le ho detto di sì e
per lei
questo basta. Per il resto, rimango il padre che ha sempre
conosciuto, sa che ti amo e sa che amo i miei figli".
Questo
la rasserenava, sapeva quanto Ross e Clowance riuscissero a leggersi
nel pensiero e sicuramente sua figlia ci avrebbe rimuginato su per
giorni, prima di riempire entrambi di domande, ma l'avrebbe superata
meglio di suo fratello. Era un altro, l'aspetto che la preoccupava.
"E con Valentin?".
Ross
scosse la testa. "Gli ha fatto una brutta impressiome, ha detto
che era un tipo strano e si è sentita a disagio. Non lo
frequenterà
e questo è un bene perché ormai non potremmo
più impedirglielo. E'
troppo grande per i no categorici, senza spiegazioni".
"Già".
Demelza allungò la mano e strinse quella del marito. "Come
stai, quando pensi a Valentin?".
"Io
non penso mai a Valentin e per me vale il discorso che ti ho fatto
anni fa. E' figlio di George, indipendentemente dal sangue che scorre
nelle sue vene. Un perfetto prodotto di quel mondo che io detesto".
Demelza
sospirò. "Sai, prima ero nervosa per il tuo discorso su
Elizabeth, ma a volte ci penso a lei. Da madre, non posso non pensare
al fatto che non abbia potuto crescere i suoi figli. Geoffrey Charles
la adorava, Valentin l'ha persa che era piccolissimo e Ursula non
l'ha mai nemmeno conosciuta. Mia madre è morta quando ero
piccola e
so come ci si sente, lo so...".
Strinse
le coperte fra le mani, tremando. E Ross la strinse nuovamente a se.
"E' bello che tu riesca a pensare a lei in questi termini, sei
davvero straordinaria. Però... Sta tranquilla e non pensare
a nulla
di brutto o che ti incute tristezza o stress. Ricordi cosa mi hai
chiesto poco fa?".
Demelza
sorrise dolcemente. "Sì, lo ricordo. Allora, sarai al mio
fianco in questa avventura?".
"Certo
mia cara! Ma devi promettermi che non farai sforzi, che ti farai
servire in tutto e che non mi farai morire di preoccupazione".
"Hai
intenzione di tenermi segregata in questa camera, legata al letto,
fino alla data del parto?" - chiese lei, divertita.
Ross
esibì il suo miglior sorriso da perfetta canaglia. "Potrebbe
essere un'idea...".
E
ridendo, Demelza gli lanciò nuovamente il cuscino in faccia.
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Capitolo 33 *** Capitolo trentatre ***
Preveggenza?
Sesto senso?
Quando,
otto mesi prima, Demelza gli aveva comunicato di essere nuovamente
incinta, la preoccupazione era stata il primo vero sentimento che
aveva provato, unito al terrore. Lei gli aveva assicurato che tutto
sarebbe andato bene e in effetti la gravidanza era proceduta
tranquilla, senza scossoni, monitorata da Dwight. Demelza era stata
tutto sommato bene, eccetto per l'infinita stanchezza che l'aveva
accompagnata, tanto inusuale per una donna instancabile come lei.
Spesso dormiva per ore il pomeriggio e anche la sera si addormentava
presto, ma a parte questo non c'erano stati altri problemi. Solo che
lui, nel vederla sempre così esausta, non poteva non essere
preoccupato. Gli anni erano passati anche per Demelza e quest'ultima
gravidanza era molto più faticosa e dura rispetto alle
precedenti.
Il
travaglio era iniziato dodici ore prima, in piena notte, e ancora non
era finito. Ricordava le nascite di Julia e di Jeremy, dei veri e
propri parti-lampo, così come gli avevano detto essere stato
quello
di Clowance, a Londra. Bella era stata più impegnativa, ma
alla fine
era andato tutto bene.
Ora
invece la situazione sembrava bloccata e sentiva solo, dalle scale, i
lamenti sempre più disperati di Demelza e la voce pacata di
Dwight
che cercava di tranquillizzarla.
Ross
passeggiò nuovamente nel salotto, avanti e indietro. Prudie
e Jud,
in un angolo, sfogavano la preoccupazione sorseggiando Porto, Jeremy
se ne stava silenzioso alla finestra, Clowance era accovacciata in un
angolo, abbracciata ad Artù, e Bella ogni tanto faceva
capolino, gli
cingeva la vita e cercava conforto in lui. La piccola di casa era la
più spaventata e Ross non sapeva come consolarla
perché era ancora
più spaventato di lei.
In
mattinata era arrivata Caroline per avere notizie ed ora, insieme a
tutti loro, attendeva la fine di quel parto infinito. Aveva portato
con se le sue due bambine, nate dopo la sfortunata Sarah, e ora le
bimbe parlottavano fra loro o con Bella, la più vicina per
età,
cercando di ingannare il tempo.
Le
figlie di Dwight e Caroline erano due bambine dalla bellezza
raffinata ed elegante, come la loro madre. Biondissime, dal viso e
dai lineamenti perfetti, sempre vestite con pizzi e merletti,
sembravano due bambole. Sophie aveva quasi dieci anni, aveva dei
lunghissimi capelli color miele, lisci come seta, e si muoveva per
casa con pacatezza e timidezza. Sua sorella Meliora, di sette anni,
era più vivace. Aveva anche lei i capelli chiari, pieni di
boccoli
tenuti a bada da un fiocco, non stava ferma un attimo ed aveva la
lingua lunga e tagliente come sua madre.
Un
urlo di Demelza li fece sussultare tutti e Ross alzò lo
sguardo
verso le scale, sudando freddo.
Caroline
gli si avvicinò, poggiando gentilmente una mano sulla sua
spalla.
"Ross, ascolta, credo sia meglio portare fuori i ragazzi. Esco
con loro a fare due passi, almeno si distrarranno un po'".
Ross
annuì, con fare assente. "Sì, è
meglio".
Caroline
richiamò a se le figlie e, dopo una lunga trattativa,
convinse
Jeremy, Clowance e Bella a seguirla. "Su ragazzi, qui non potete
fare nulla e rischiate di impazzire! Vostra madre è forte,
ha solo
bisogno di più tempo".
Jeremy
lo guardò. "Papà?".
"Vai,
porta fuori per un po' le tue sorelle per favore" – gli
rispose, quasi in una supplica.
Il
ragazzo annuì, prese Bella per mano e assieme a Clowance si
accodarono a Caroline e alle sue due bambine.
Rimasto
solo con Jud e Prudie, Ross riprese a fare avanti e indietro nella
sala. L'idea che Demelza stesse soffrendo e che potesse essere in
pericolo, lo terrorizzava. Amava i suoi figli, avrebbe amato anche
questo nuovo bambino o bambina, ma niente valeva quanto sua moglie.
Non voleva, non poteva perderla!
"Ross!".
Dwight, giunto precipitosamente dalle scale, lo chiamò.
"E'
nato?" - gli chiese, ansioso e speranzoso.
"No.
Ho bisogno del tuo aiuto Ross, te la sentiresti di venire di sopra?".
Ross
deglutì. Di sopra? Ad assistere al parto? Non si era mai
sentito
nulla di simile, era una cosa inusuale e lo terrorizzava... Non era
tanto il parto in se, era vedere Demelza star male che... che...
"Dwight, che sta succedendo?".
"Ross,
è sfinita, non ha più forze e ho bisogno che tu
salga per darle
coraggio. Manca ancora molto e non c'è strada di ritorno,
DEVE
partorire o saranno guai sia per lei che per il bambino. Solo tu puoi
aiutarla, adesso".
Annuì.
Per Demelza avrebbe scalato a mani nude ogni montagna del mondo.
Avrebbe assistito alla nascita del suo bambino e questo lo spaventava
ma allo stesso tempo inorgogliva. In fondo, un giorno, lui e Demelza
ne avrebbero riso di questa cosa. "Vengo subito!".
Corse
su per le scale, si fiondò in camera e in un attimo fu al
fianco di
Demelza. Era distrutta, i lunghi capelli rossi erano senza luce,
opachi e sparsi per il cuscino, era sudata, stanca, senza forze. Il
viso era pallido, non l'aveva mai vista così fragile e
indifesa.
"Amore mio..." - le sussurrò, sedendosi sul letto accanto
a lei. Le prese la mano, la strinse nelle sue e la baciò.
"Sono
qui, sta tranquilla, presto sarà tutto finito".
"Ross...".
Demelza si voltò verso di lui e nonostante tutto,
azzardò un
sorriso stupito. "Che ci fai qui? Torna subito da dove sei
venuto...".
Dwight
intervenne nella loro discussione. "Temo di aver bisogno di lui
Demelza e quindi dovrai sopportare la sua presenza".
Sua
moglie non sembrava troppo d'accordo. "Non voglio... Non voglio
che mi veda così".
Ross
le accarezzò il viso, la baciò sulla fronte e le
disse la medesima
frase di tanti anni prima, pronunciata una notte di Natale. "Non
ti libererai di me, amore mio".
Demelza
dovette ricordarsi di quel frangente ormai lontano e si arrese,
sorridendo. Si lasciò abbracciare, Ross le cinse la vita e
la aiutò
a poggiare la schiena contro il suo petto. "Su tesoro, è ora
di
far nascere questo bambino".
"Sono
stanca".
Dwight
la visitò nuovamente e Ross guardò altrove. Era
tutto molto
difficile per lui, era una situazione nuova ed imbarazzante e non
sapeva come gestirla. Cercava di apparire calmo per Demelza ma si
sentiva impotente, un pesce fuor d'acqua e sentire sua moglie
lamentarsi, piangere, vedere l'espressione preoccupata di Dwight e
non potere fare niente... Gli sembrava di impazzire.
"Demelza,
coraggio, devi far nascere il bambino! Spingi!" - ordinò
Dwight, perentorio, dopo mezz'ora di inutili tentativi.
Demelza
provò a fare quello che lui le chiedeva ma era troppo stanca
per
riuscirci. Il suo respiro si fece corto, gli occhi si riempirono di
lacrime e si arrese, lasciandosi andare contro il corpo del marito.
"Non ce la faccio" – sussurrò.
La
strinse a se, le baciò la fronte e le sollevò il
viso perché lo
guardasse negli occhi. "Ricorda cosa mi hai promesso Demelza!
Avevi detto che sarebbe andato tutto bene e ora non puoi farci...
FARMI... questo". La sua voce voleva essere ferma, voleva
costringerla a stringere i denti e lottare, ma le sue parole avevano
il sapore di una supplica. Dopo tanti anni, aveva di nuovo paura di
perderla, come fu quando lei e Julia si ammalarono. "Ti prego".
Sua
moglie lo guardò senza forze, senza trovare fiato per
rispondergli.
Poi il suo sguardo si fece improvvisamente deciso, strinse la sua
mano, quasi gliela stritolò. E fece quello che lui e Dwight
le
chiedevano. Spinse, con tutta la forza che aveva ancora in corpo, con
disperazione e senza risparmiarsi.
"Ottimo,
continua così" – la incitò il loro
amico dottore.
Ross
la tenne stretta a se e alla fine, dopo infiniti minuti in cui
temevano che la situazione si bloccasse nuovamente, il bimbo nacque.
Demelza
urlò, poi si accasciò esausta fra le braccia di
Ross, senza avere
più nemmeno il fiato per respirare. Chiuse gli occhi,
affondò il
viso sudato contro il suo petto e scoppiò a piangere. Se per
sollievo, stanchezza o senso di liberazione, era difficile dirlo...
Ross
si impose di essere forte e di non piangere, non era ancora il
momento per commuoversi. La strinse a se, mentre nelle sue orecchie
rimbombava il pianto vigoroso del neonato. Dwight si stava occupando
di lui... O lei... Non si era ancora accertato di nulla del bambino,
ogni suo pensiero era rivolto a Demelza. Mai l'aveva vista tanto
fragile e spaventata come in quel momento, così vicina ad
arrendersi, ad un passo dal lasciarlo. "Ce l'hai fatta" –
sussurrò fra i suoi capelli, accorgendosi di quanto fosse
rotta la
sua voce.
Dwight
annuì, avvolgendo il neonato in una coperta. "Sì
ce l'hai
fatta. E' un maschietto in perfetta salute, grande e forte".
Ross
sentì a malapena le sue parole e forse anche Demelza.
Sentì che lo
abbracciava più forte, continuando a piangere, senza trovare
la
forza o la voglia di voltarsi per vedere il bambino. Non poteva darle
torto, aveva appena passato l'inferno a causa sua, pensò
fugacemente. La coccolò fra le sue braccia per lunghi
istanti come
se fosse stata essa stessa una bambina, mentre Dwight ripuliva il
piccolo, le accarezzò i capelli, le baciò la
fronte ed asciugò le
lacrime dal suo viso. "Sta tranquilla, è tutto finito".
Demelza
annuì, mentre Ross la aiutava a poggiarsi sul cuscino.
"Ross"
– sussurrò – "Se tu non fossi stato
qui...".
"Ma
c'ero, non pensarci!" - le rispose, baciandola sulle labbra. "E
in fondo non ho fatto nulla, hai fatto tutto da sola. Ce l'avresti
fatta anche se fossi rimasto di sotto, in salotto, come ogni buon
padre che si rispetti" – concluse, strizzandole l'occhio.
"Ora
però, promettimi che BASTA BAMBINI".
A
dispetto di tutto, Demelza sorrise. "Sì, basta bambini"
–
sussurrò stancamente, scambiando con lui uno di quei loro
segreti
sguardi d'intesa che gli sarebbe mancato come l'aria, se lei non ce
l'avesse fatta.
Dwight
si avvicinò loro, poggiando il bimbo sul petto di Demelza.
"Qui
c'è qualcuno che vorrebbe fare la vostra conoscenza"
– disse,
lasciando loro il bimbo.
Demelza
lo strinse a se e il bimbo si rannicchiò contro di lei,
prendendole
un dito fra le manine. Lo guardò. Era bello grosso, con le
guance
piene, il nasino all'insù e con un ciuffetto di capelli
rossi in
mezzo alla testolina quasi pelata. E con due occhi neri e profondi
che la scrutavano insistentemente, tanto simili a quelli di suo
padre.
Appena
fu fra le braccia di sua madre, il piccolo smise di piangere. Si
lasciò cullare tranquillamente e per lunghi istanti Ross, in
assoluto silenzio, rimase in contemplazione di sua moglie e di suo
figlio, di quel bimbo che fino a pochi minuti prima era una fantasia
che faceva quasi paura ma ora era lì, reale e vero. Strinse
a se
Demelza, quasi incurante che nella stanza ci fosse Dwight che finiva
di prendersi cura di sua moglie. La osservò. Era
stanchissima e
sofferente, molto pallida e sicuramente distrutta. Quasi stentava a
credere che per cinque volte lei avesse affrontato quel calvario per
permettergli di essere padre. Veder nascere un figlio era la cosa
più
straordinaria, potente e allo stesso tempo terrificante che avesse
mai visto. Si era sempre creduto forte ma vedere una donna partorire
aveva ridimensionato molto il suo orgoglio maschile, arrivando alla
conclusione che lui al suo posto probabilmente sarebbe morto.
Gli
occhi del piccolo si posarono su di lui e Ross allungò la
mano ad
accarezzarlo. E in quel momento si sentì di amarlo come gli
altri e
che senza di lui la sua vita non sarebbe stata perfetta come
immaginava. "E' bellissimo Demelza" – sussurrò fra
i
capelli della moglie.
"Ne
è valsa la pena, vero?" - rispose lei, con un filo di voce.
Non
sapeva risponderle a dire il vero, sapeva solo di essere
incredibilmente felice. "Lui è qui e anche tu. Questo mi
basta...".
Demelza
annuì. "Vuoi tenerlo in braccio?".
"Sì,
certo". Ross lo prese fra le braccia e il bimbo non accennò
alla minima protesta. "Henry Vennor Poldark..." - disse,
chiamandolo col nome che avevano scelto dopo mesi di lunghe
trattative coi figli. Jeremy aveva proposto Napoleon, affascinato da
quanto succedeva in Francia, Clowance desiderava un nome
aristocratico tipo Gustav mentre Bella aveva proposto il nome di un
compositore austriaco morto alcuni anni prima, un certo Wolfang
Amadeus. Alla fine però, lui e Demelza avevano optato per un
nome
semplice come quello dei fratelli e la scelta era caduta su Henry,
che aveva trovato piuttosto d'accordo tutti. "Sai Demelza, io mi
sbagliavo, non era vero che la nostra famiglia era al completo e ora
che l'ho in braccio, so che mancava lui". Baciò il suo
bimbo,
ottimista sul fatto che tutto sarebbe andato bene, dopo nove mesi di
angoscia.
Demelza
sorrise dolcemente, accarezzandogli una guancia e prendendo il bimbo
con se. "Io lo sapevo che mancava lui. E ora hai ragione, la
nostra famiglia è davvero completa". Lo guardò
negli occhi e
tremò, ricordando quanto patito poco prima. E poi
poggiò la testa
contro la sua spalla, singhiozzando sommessamente. "Dicevo
davvero Ross, se non ci fossi stato tu al mio fianco, sarei morta".
"Non
dirlo nemmeno per scherzo".
"Sono
seria".
Ross
scosse la testa. "Non ho fatto niente, ho solo cercato di
aiutarti a tirar fuori tutta la tua forza".
Demelza
raggiunse le sue labbra, baciandolo, mentre dietro di loro Dwight
usciva dalla porta per lasciarli soli. "Eri qui, era qui per me,
Ross. Ed è l'unica cosa di cui avevo bisogno, l'unica che ho
sempre
voluto".
"Sono
sempre qui per te, non solo ora".
Demelza
sorrise dolcemente, cullando Henry fra le braccia. "Non è
sempre stato così... E ringrazio Dio per averci cambiati
tanto, per
averci fatto crescere e fatti diventare quel che siamo".
Ross
si sentì in colpa per quelle parole e per il pessimo marito
che era
stato nei primi anni di matrimonio. Tanti errori avrebbe potuto
evitarli ma forse, col senno di poi, erano serviti a renderlo un uomo
migliore. "Io ti amo, amo te, i nostri figli, la nostra famiglia
e questa casa. Amo Artù e Garrick prima di lui e amo anche i
nostri
servi fannulloni. Non avrei voluto niente di diverso e nient'altro
avrebbe reso la mia vita tanto felice come è stata con voi".
"Lo
so... Adesso lo so" – rispose Demelza, in un sorriso.
Lo
sguardo di Ross si addolcì. "Ora riposa, Dwight è
andato a
chiamare Prudie per aiutarti a pulirti e a cambiarti. Devi dormire e
rimanere a letto a lungo per riprenderti".
Annuì,
ubbidendo senza fare obiezioni. Sapeva anche lei di averne bisogno.
"Ross" – disse, poggiando la testa sul cuscino.
"Cosa?".
"Una
volta odiavo Elizabeth perché guardavi lei in un modo in
cui,
credevo, non avresti mai guardato me".
"E
ora?".
Demelza
strinse a se Henry. "Non la odio più da tanto
perché adesso è
me che guardi in quel modo".
Ross
le strinse la mano. "In realtà credo che ti sbagli. Io non
potrò mai guardarti come guardavo Elizabeth. Lei era il
primo amore,
quello perfetto e alla fine irreale che si vive da ragazzini. Tu sei
altro, sei molto di più di lei... Sei mia moglie, la mia
amante, la
mia migliore amica, la mia compagna e la madre dei miei figli. Al
mondo non esiste nessuna donna che ai miei occhi possa essere
paragonata a te e il modo in cui ti guardo non è ripetibile
con
nessun'altra, né Elizabeth né la più
grande lady che potrebbe
passare da qui".
Demelza,
con gli occhi lucidi, non disse nulla sulle prime. Serenamente si
appoggiò sul cuscino e chiuse gli occhi, con l'espressione
di chi è
in pace col mondo. "Ross... Sai perché andiamo tanto
d'accordo,
fra le altre cose?".
"Perché?".
"Perché
siamo uguali, entrambi dei veri e propri anticonformisti. Da sempre!
Si è mai sentito di un padre che assiste alla nascita di un
figlio?".
Ross
ci pensò su, poi rise, le strizzò l'occhio e la
baciò sulla
fronte. "Forse un giorno andrà di moda".
Quando
Prudie arrivò, Ross lasciò la stanza col bimbo in
braccio. Mentre
la serva aiutava sua moglie a lavarsi e cambiarsi e a sistemare il
letto, con l'aiuto di Dwight fece il bagno ad Henry, stupendosi di
non aver perso la mano a maneggiare un neonato. "Sarà
stranissimo avere a che fare con un bimbo piccolo dopo tanto tempo"
– disse, sorridendo.
"Ti
riabituerai".
Ross
lo guardò in viso, con lo sguardo pieno di gratitudine. "Ti
ringrazio, le hai salvato la vita".
"E'
stato un parto duro ma lei è forte. Non ringraziarmi Ross,
è il mio
lavoro e Demelza una paziente speciale".
Ross
sorrise, riprendendo Henry ormai pulito in braccio, avvolgendolo in
una coperta di lana. "Ha i capelli rossi come Clowance, lo
adorerò".
"Altro
figlio preferito?" - disse Dwight, ridendo.
Anche
Ross rise. "Non lo dire a Clowance o tornerà gelosa come
quando
aveva cinque anni".
In
quel momento i ragazzi rientrarono con Caroline e le sue bambine,
correndo subito da lui. I loro occhi si illuminarono quando videro il
fagottino fra le braccia del padre e gli andarono vicino.
"E'
nato? O è nata?" - chiese Bella.
Ross
mostrò loro il fratellino. "Vi presento vostro fratello
Henry".
Clowance
lo guardò, preoccupata. "Come sta la mamma?".
Fu
Dwight a rispondere, per lui. "Bene, ma ha bisogno di molto
riposo, è stata dura".
Jeremy
sospirò, rasserenato. "Dovremo legarla al letto allora, lei
a
riposo non ci sta mai".
"La
murerò in camera, se non starà ferma" –
disse Ross,
risoluto.
Bella
gli tirò la giacca, mentre Artù lo annusava e
guardava incuriosito
il nuovo arrivato. "Posso prenderlo in braccio?".
Jeremy
scosse la testa. "No, sono io il più grande e quindi tocca a
me
farlo per primo".
"No,
tocca alla figlia maggiore, io!" - si intromise Clowance.
Bella
sospirò, arrendendosi al fatto che era la terzogenita e che
non
aveva diritto a niente. "Papà, tu e mamma dovevate fare tre
gemelli" – sbottò, incrociando le braccia.
Ross
impallidì a quelle parole. "Non dirlo nemmeno per scherzo".
Ridacchiò, poi si avviò verso le scale. "Mamma
riposa e pure
Henry deve dormire. Lo terrete in braccio domani".
"Voglio
vedere la mamma!" - implorò Jeremy.
"Domani".
Ross sapeva che i figli desideravano abbracciarla, ma voleva non si
agitasse troppo. Demelza era troppo spossata per tutte quelle
emozioni e l'unica cosa di cui aveva bisogno era il riposo, col suo
bimbo fra le braccia.
Caroline
ridacchiò. "Ragazzi, non insistete, non capite che i due
piccioncini vogliono stare da soli?".
Ross
le diede un'occhiataccia, arrossendo. "Buona serata, miss Enys.
E grazie dei servigi resi".
"Di
nulla" – rispose a tono l'ereditiera – "E
congratulazioni, capitano".
Ross
annuì e poi salì le scale. In fondo Caroline
aveva ragione, tutto
quello che voleva era rimanere accanto a Demelza, loro due ed Henry,
da soli, per quella prima notte.
Per
tutto il resto ci sarebbe stato tempo da domani...
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