Rain vol. 1 - In un battito d'ali

di StormButterfly
(/viewuser.php?uid=1036720)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + Collisione ***
Capitolo 2: *** Sentirsi a casa ***
Capitolo 3: *** Dove abitano le nostre paure ***
Capitolo 4: *** Messaggio Importante ***



Capitolo 1
*** Prologo + Collisione ***


Prologo

 
 
 
Casa dolce casa.
Per alcuni è l’odore dell’arrosto del pranzo domenicale, per altri le coccole del cane o le fusa del gatto quando ci si chiude la porta d’ingresso alle spalle.
Per me era l’odore dei biscotti allo zenzero di mia madre e il sorriso di mio padre.
Ma non mi è mai sembrata una frase tanto inappropriata come in questo momento.
Casa mia non ha nulla di dolce, non somiglia per niente a un nido accogliente in cui rifugiarsi durante un temporale. Nella mia famiglia le tempeste nascono in un battito d’ali, e la facciata di perfezione e benessere che ostentiamo non è altro che una gelida maschera di vetro dall’anima incrinata, uno specchio che riflette solo immagini distorte.
Ma non è sempre stato così. Un tempo anche io avevo una famiglia, una vera, non il patetico surrogato con cui convivo ora, ed ero felice come può esserlo qualsiasi persona normale con una vita normale. Un tempo che ora mi appare così lontano e sbiadito che a volte mi chiedo se c’è stato realmente o se me lo sono soltanto immaginato.
«Falling like the rain. Falling like the rain» anticipo di qualche secondo la cantante dei Birthday Massacre che mi tiene compagnia dagli auricolari dell’mp3. Canticchio il ritornello a bassa voce, anche se non mi sentirebbe nessuno nemmeno se urlassi a squarciagola. Ma non si sa mai.
Volto la pagina del libro che ho in mano, impaziente di arrivare alla fine. So che tra poco il casino che proviene dal piano di sotto si interromperà con il tonfo della porta d’ingresso, e a quel punto non potrò più nascondermi qui dentro sperando che, per una volta, si dimentichino di me. Come ogni sera scenderò silenziosamente le scale e mi infilerò in cucina per riordinare i resti della loro cena, stando attenta a non attirare la loro attenzione. Se sarò fortunata, riuscirò a tornare in camera prima che qualche bicchiere venga scaraventato a terra. O che qualche bottiglia mi colpisca. Se tutto andrà come al solito, sarò sopravvissuta all’ennesima, faticosa giornata, e potrò segnare sul calendario un giorno in meno che mi separa dal mio obiettivo.
Alzo la testa e i miei occhi incontrano quattro facce di sconosciuti che ho imparato a memoria. Mi sorridono inconsapevoli dalla brochure dell’università del Galles che ho attaccato con dello scotch al muro di fronte a me. La mia stanza è talmente piccola che solo mezzo passo separa il letto su cui sono distesa a pancia in giù dalla sedia della scrivania. Così ogni mattina, quando riapro gli occhi, quel piccolo rettangolo di cartoncino plastificato mi dà il buongiorno con la sua promessa scritta a grandi caratteri neri: “Il tuo futuro è qui”. E ogni notte, prima di spegnere la luce, è lì per ricordarmi che l’inutile e vuota giornata che sta per concludersi mi ha avvicinata di un altro passo alla possibilità di ricominciare.
Quattro colpi violenti alla mia porta mi avvisano che è arrivato il momento di scendere. Tolgo le cuffie e salto giù dal letto, prendendo il libro con me. Leggerò le ultime pagine mentre entro in cucina, così potrò tenere gli occhi bassi ed eviterò di incontrare i loro. Questa è la prima regola che ho imparato per proteggere me stessa: evita qualsiasi contatto. Sparisci. Se per gli altri non esisti, nessuno ti farà del male. La seconda è: tieni gli altri lontani da te e non ci sarà nessuno che potrai ferire.
Mettere a tacere il dolore è facile, basta seguire le regole e fare le scelte giuste, anche a costo di sacrificare qualcosa di importante.
Rimetto velocemente le Converse che ho scelto per questa serata, sono rosse come il vestito che ho addosso. Lei mi ha imposto di mettere qualcosa di elegante, nel caso qualcuno dei loro amici avesse chiesto di me. Questa è una delle loro regole: fingere di essere una famiglia felice.
Prima di uscire dalla mia camera, do una veloce occhiata al cellulare che ho lasciato sopra la scrivania, accanto al portatile. Nessun messaggio. Venerdì 1 ottobre. Mezzanotte meno tre minuti. Otto gradi. Pioggia.
Tre colpi alla porta.
Meglio sbrigarmi, prima che diventino due. Non sono mai arrivata a uno, e non voglio scoprire cosa mi aspetta proprio stanotte. Non negli ultimi minuti del giorno del mio compleanno.
Abbasso la maniglia con un colpo secco. Prendo un respiro e lancio un’occhiata al cassetto del comodino col suo contenuto rassicurante. Se le cose dovessero andare storte, dovrò semplicemente correre sino alla mia camera e aggrapparmi all’unica via di fuga che conosco.
Stringo il libro al petto ed esco, richiudendo la porta lentamente per non fare rumore. Ma quando mi giro, incontro due occhi che mi fissano con disapprovazione. Ho appena infranto la prima regola. E una nuova si aggiunge alle altre, mentre le conseguenze della mia piccola scelta sbagliata di oggi si preparano a investirmi.  
 

 
 

 

1. Collisione

 

Corri.

Muovi le gambe e concentrati solo su questo.

Non voltarti indietro e soprattutto non pensare.

Non pensare a quello che è successo stanotte. Soffoca la rabbia e il dolore. Concentrati sui muscoli tesi sino allo spasmo e sui polmoni che bruciano, sul vestito freddo che ti si è incollato addosso e sulla tela fradicia delle tue Converse sporche di fango.

Non pensare a quello che hai chiuso dietro la porta di casa, al vuoto che la riempie, all’uragano che stanotte si è abbattuto su di te lasciandoti senza fiato. Sul serio.

Non respiro.

Qualcuno mi aiuti.

Perché le mie stupide gambe continuano a muoversi?

Non ho un posto dove andare, e quando mi fermerò non ci saranno dei vestiti asciutti e un letto caldo ad attendermi, ma solo le strade buie del mio paese che profumano di mare e dell’erica che cresce sulla costa.

Devio lungo il sentiero che porta alla collina, attraversando il fitto bosco avvolto dall’oscurità. Qui non ci sono urla che mi feriscono le orecchie, solo il suono cadenzato dei rami secchi che si spezzano sotto i miei passi violenti, posso respirare gli odori della terra bagnata in cui le mie scarpe affondano e del muschio che accarezza viscido la corteccia degli alberi. Qui mi sento al sicuro, ma devo continuare a muovermi, perché se mi fermo comincerò a pensare. Comincerò a sentire. E io non voglio sentire più nulla.

Esco dal sentiero e mi ritrovo sulla strada in cui si fermano gli autobus diretti a Dublino.

Le case tutt’attorno sono silenziose e illuminate solo da qualche tenue luce, a eccezione di una da cui provengono musica e risate.

Improvvisamente vengo attraversata dal pensiero dell’ultima volta in cui sono stata davvero felice. Quel giorno, indossavo questo stesso vestito.

Scaccio il pensiero prima che possa farsi troppo doloroso e stringo i pugni. Chiudo gli occhi e porto una mano sul petto, dove sento il metallo della catenina col ciondolo a forma di mezza mela premere contro la pelle, nascosto sotto la scollatura. Ed è esattamente così che mi sento da tanto, troppo tempo, spezzata a metà, incompleta e terribilmente sola.

Il cuore batte frenetico sotto la mia mano e rimbomba nella mia testa, lo sento pulsare nelle vene al ritmo con cui risuonano i bassi della canzone che mi raggiunge dall’altra parte della strada. Il respiro accelerato mi fa ingoiare enormi quantità di aria gelida, troppa per rifornire di ossigeno i miei polmoni, e ho la sensazione che ogni muscolo del mio corpo possa strapparsi da un momento all’altro. Per questo rallento, trascinandomi sino al cartello che segna gli orari degli autobus.

Mi appoggio esausta alla superficie bagnata e fredda, tentando di riportare il respiro a un ritmo regolare. Sento che le mie gambe stanno per cedere. Sto crollando.

Ma se lo faccio, loro avranno vinto. Se lascio che le emozioni dentro di me esplodano come un sovraccarico di energia, non potrò più rialzarmi.

Mando giù il groppo che mi serra la gola e con il dorso della mano scaccio le lacrime che mi pizzicano gli occhi. Non voglio sentire il loro calore sulle guance, ma solo le gocce di pioggia che mi trafiggono la pelle, una miriade di minuscoli aghi ghiacciati che la rende insensibile.

Muovo incerta un passo, poi un altro, avanzando meccanicamente oltre il bordo del marciapiede. La suola delle mie Converse entra in contatto con l’asfalto scivoloso della strada. Rumore di pioggia. Musica. Freddo. Vuoto. Finalmente, la mia mente è anestetizzata. Non sento più nulla.

«Ehi, vuoi farti mettere sotto?»

Una voce si insinua nel silenzio, costringendomi a riaprire gli occhi e voltarmi di scatto. Vedo una figura in lontananza, ma non riesco a metterla a fuoco subito. Le lacrime mi offuscano la vista e c’è troppo buio.

Avanza verso di me e mi irrigidisco, pronta a reagire se dovesse rivelarsi un malintenzionato, carica di un’energia che mi fa bruciare lo stomaco e tremare le mani. Si ferma a pochi passi da me e si appoggia al palo. È un ragazzo e non deve essere molto sobrio, in mano ha una bottiglia di birra che porta alle labbra per bere un sorso. Chiude gli occhi e reclina indietro la testa, lasciando che la pioggia gli bagni il viso illuminato dal bagliore fioco di un lampione.

Lo sto ancora fissando quando li riapre e si gira verso di me.

«Andiamo, non ne vale la pena. Sono sicuro che ti abbia tradita perché era un insensibile.» Sgrano gli occhi e lo fisso sgomenta, intuendo ciò che sta pensando.

«Cosa? No, io non…»

Un clacson attira la mia attenzione, e quando mi volto i miei occhi vengono accecati da un bagliore giallognolo.

Non ho il tempo di capire quello che sta succedendo, perché mi sento tirare per un braccio e in un secondo mi ritrovo sul marciapiede, premuta contro il petto di questo sconosciuto, mentre la macchina che mi ha quasi messa sotto ci supera con una serie di imprecazioni.

Con uno strattone mi allontano dal ragazzo che mi ha appena salvato la vita, e lo vedo fissarmi sgomento.

Ora che è davanti a me riesco a vedere chiaramente il suo viso. I suoi occhi sono neri come questa notte senza stelle e le labbra carnose sono dischiuse in un’espressione sorpresa. Ha un’aria da bravo ragazzo, ma arretro di un altro passo tenendomi pronta a scappare se dovessi essermi sbagliata nel giudicarlo.

Ci scrutiamo in silenzio, con il respiro accelerato. La sua espressione è spaventata, mentre io mi lascio andare a una risata isterica.

«Sei impazzita? Non c’è nulla da ridere!» esclama mentre cerco di riprendere il controllo. «Sì. Sei decisamente pazza» afferma, senza però riuscire a trattenere un sorriso.

«Scusami, io…» Tento di calmarmi, prima che la tensione e lo spavento trasformino la mia risata in un pianto incontrollabile.

«Che diavolo ci facevi in mezzo alla strada?» chiede, ma a questa domanda non voglio dare una risposta. Non una risposta sincera, almeno.

«Io volevo solo...» Prendo un respiro profondo. «Ero a una festa, sto aspettando un’amica per rientrare a casa e mi è sembrato di vederla arrivare.» Mi stringo nelle spalle e mi volto verso la strada. Sicuramente adesso vorrà delle spiegazioni che non sono pronta a dargli.

«Hai dimenticato l’ombrello?» domanda invece. Torno a guardarlo.

Indossa una felpa nera sui jeans dello stesso colore, e non ha nemmeno messo il cappuccio per evitare di bagnarsi i capelli, che ora gli ricadono sul viso in disordinate ciocche scure.

«Non sono l’unica, mi sembra.» Lui ignora il mio commento e mi porge la sua birra.

«Vuoi?»

Fisso la bottiglia quasi vuota in silenzio, non sono intenzionata a portare avanti la conversazione, tantomeno a diventare la sua compagna di bevute.

Lui interpreta il mio silenzio come un rifiuto e se la porta alle labbra per bere l’ultimo sorso, quindi la lancia nel cestino.

Per essere sbronzo ha un’ottima mira.

Si siede a bordo strada, mentre io resto in piedi indecisa se chiedergli il cellulare. Non saprei chi chiamare, tuttavia non mi va di stare qui da sola con questo tipo che, ne sono certa, mi sta fissando, perché sento i suoi occhi puntati sulla schiena.

Devo trovare in fretta una soluzione e l’unica che mi viene in mente è anche l’ultima che avrei mai immaginato di scegliere.

«Hai una sigaretta?» chiede all’improvviso, distogliendomi dai miei pensieri.

Fingo di non aver sentito e continuo a fissare la strada. Lui si porta nuovamente al mio fianco, irrequieto come un animale in gabbia.

«Ehi, hai una sigaretta?» Alzo gli occhi al cielo. Mai incontrato prima un tipo così pedante. Stavolta mi giro per rispondere.

«No, non ce l’ho. Non ho neanche tasche in cui tenere un pacchetto.» Idiota, aggiungo mentalmente.

«Non bevi, non fumi... Sei una brava ragazza?»

«E tu, invece, saresti un cattivo ragazzo?»

«Credi che lo sia?» mi chiede con un sorriso. Non sopporto questo genere di discorsi, ho imparato a mie spese che non esistono brave e cattive persone, ma solo delle sfumature che oscillano da una parte all’altra a seconda degli eventi che la vita ci pone davanti.

«Dimmelo tu. Lo sei?».

Lui inarca un sopracciglio e tace, ha capito il mio gioco e si riappoggia al palo. Mi rilasso un pochino, sinceramente soddisfatta di averlo messo a tacere. Ma il silenzio dura troppo poco.

«Non hai freddo?» mi domanda, accennando al fatto che indosso solo questo vestito a maniche corte che mi copre sino a metà coscia e sono completamente fradicia. «Ci saranno quanto, cinque gradi al massimo?»

A quanto pare è una di quelle persone a cui l’alcol scioglie la lingua.

«Otto. E non ho freddo.» Mento, consapevole del fatto che sto tremando.

Lui si allontana dal palo e mi viene vicino, poi appoggia una mano sul mio braccio nudo. È calda.

«Stai congelando.» Lo vedo aprire la zip della felpa, sfilarsela di dosso e porgermela, sorprendendomi per la seconda volta. «Prendila, a me non serve.» Aspetta che io la afferri, mentre me ne sto a braccia incrociate cercando di scaldarmi.

«Così congelerai anche tu» gli faccio notare con una certa diffidenza. Quante persone resterebbero in t-shirt per aiutare una sconosciuta?

Dato che non accenno a muovermi, lui si fa più vicino e mi poggia l’indumento sulle spalle. Inspiro l’odore della sua maglietta che ora è vicinissima al mio viso, sa di sigarette e legna che brucia nel camino. È un odore confortante, mi riporta in un luogo sicuro della mia infanzia. Ma lui si scosta troppo presto e il ricordo scivola via.

Infilo la felpa, che è decisamente troppo grande per me, e mi calo il cappuccio sulla testa. Chiudo la zip, portando poi le mani alla bocca per scaldarle. Non sento più le dita.

«Grazie» mormoro, confusa e imbarazzata, mentre il mio respiro si condensa in piccole nuvole di vapore evanescente. Lui se ne sta in piedi davanti a me, fissandomi in silenzio, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e le braccia strette nella maglietta nera a maniche corte che mette in risalto il suo fisico asciutto. Una parte di me è innegabilmente attratta dal suo aspetto, così resto a guardarlo riconoscente e affascinata.

Ci scrutiamo in silenzio un po’ troppo a lungo, quindi decido di spezzare il momento prima che diventi imbarazzante.

«Sei sicuro di non volerla tenere? Perché nel caso...»

«Ti ho già detto che non ne ho bisogno. Ho bevuto parecchio e non sento freddo» dice indicando con un cenno della testa la casa davanti a noi. «O almeno, non lo sentirò sino a che non passerà l’effetto dell’alcol» aggiunge con una risata che io non ricambio. L’idea che abbia bevuto mi fa tornare in mente cose spiacevoli che voglio dimenticare. «Ad ogni modo…» La sua voce si fa più bassa mentre avvicina il suo viso al mio, e quando sollevo il mento per poterlo guardare negli occhi li vedo farsi più seri. «Non ti hanno insegnato che la notte si possono fare brutti incontri passando nel bosco?»

Sgrano gli occhi e mi irrigidisco, mentre il cuore riprende a battere furioso. Non può avermi vista uscire dal sentiero, quindi o sta facendo un’allusione inquietante o mi ha seguita a distanza, il che è decisamente peggio. Mi allontano di un passo.

«Mi hai seguita?»

Mi guarda perplesso e si passa una mano tra i capelli umidi. «Di cosa stai parlando?»

«Come fai a sapere che sono arrivata dal sentiero nel bosco?»

«Hai delle foglie tra i capelli, e le tue Converse sono in pessimo stato» spiega agitando un dito in direzione delle mie scarpe. In effetti hanno visto giorni migliori, ma mai come ora ringrazio la mia avversione per i tacchi e la mia testardaggine nella scelta del mio abbigliamento, anche quando questo può causarmi dei guai. Guardo il mio polso destro nascosto sotto la manica nera della felpa e ripenso a quello che è successo questa sera.

«Ehi, Cappuccetto, va tutto bene?» il suo tono si è addolcito e ora percepisco una nota di preoccupazione. Questo ragazzo mi confonde con i suoi cambi repentini di atteggiamento, ma al tempo stesso accende in me qualcosa di molto simile alla curiosità.

«A meraviglia» borbotto, passandomi una mano sotto il cappuccio per togliere i pezzetti di foglie bagnate che si erano attaccate ai miei capelli, e la mia bocca si piega in un sorriso che cerco invano di trattenere al pensiero di come mi ha chiamata. «Quindi Sherlock, fammi capire» riprendo, togliendo un rametto che si era impigliato nella gonna «era una minaccia la tua, o un consiglio?»

«Cambierebbe qualcosa?»

«Per le tue parti basse direi di sì.»
Lui distoglie lo sguardo fissando un punto impreciso nella boscaglia, e posso giurare che si stia sforzando di non ridere. Poi incontra di nuovo i miei occhi.

«Dico sul serio, faresti meglio a tornartene a casa. Io non posso passare tutta la notte a farti da balia, e sarebbe meglio se…»

«Stai dicendo che mi lascerai qui da sola?»

« Dimentichi la tua amica.»

«Quale amica?» lo guardo come se avesse fatto una battuta di cui mi sfugge la parte divertente.

Scuote la testa e mi rivolge un’occhiata che non riesco a decifrare. Mi rendo conto di aver appena fatto la figura dell’idiota e sospiro. Probabilmente aveva già capito che era una bugia, ha solo voluto che lo ammettessi.

«E va bene, non c’è nessuna amica. Ho inventato una scusa perché volevo che mi lasciassi in pace.»

«Come vuoi, allora tra poco ti accontenterò.» Guarda alla mia destra e istintivamente mi volto seguendo il suo sguardo. Vedo arrivare un autobus e mi sento invadere dall’ansia. Lui si sposta per avvicinarsi al bordo del marciapiede, e io agisco di impulso afferrandogli un braccio, spinta dal panico che ricomincia ad assalirmi a ondate.

«Hai davvero intenzione di lasciarmi qui così?»

«Credimi, non sono una buona compagnia» dice serio, e a quelle parole lo lascio andare.

Annuisco debolmente e una ciocca bagnata mi finisce sugli occhi. Lui allunga una mano e la scosta gentilmente con le dita, indietreggiando poi di nuovo.

L’autobus alle sue spalle sta aprendo le portiere.

«Ci vediamo, Cappuccetto» dice prima di voltarsi per salire. Sto per rassegnarmi all’idea che lo vedrò andare via nel giro di pochi attimi, quando mi ricordo che assieme a lui se ne sta andando la mia occasione di fare una telefonata, quindi, prima che possa mettere i soldi per pagare la corsa, richiamo la sua attenzione costringendolo a voltarsi verso di me.

«Ehi, aspetta! Hai un cellulare?» Su una cosa devo dargli ragione: non posso stare qui tutta la notte, e se voglio dormire con un tetto sopra la testa devo chiamare una persona. E sperare che non mi chiuda il telefono in faccia.

Lui borbotta qualcosa all’autista e le portiere si chiudono davanti al mio naso. Mi volto delusa, cominciando a camminare in direzione delle scogliere e calciando un sasso con stizza. Non so più cosa fare. Qualsiasi ragazza in giro per Howth a tarda notte farebbe meglio a tornarsene a casa, ma non io.

Sto già pensando a come procurarmi un cellulare quando mi sento toccare una spalla.

Sobbalzo e mi giro di scatto, ritrovandomi di fronte due occhi color notte.

«Ti hanno mai detto che sei una gran seccatura?» chiede porgendomi uno smartphone.

«No, tu sei il primo.» Gli sorrido grata e afferro il telefono dalla sua mano, poi digito il numero incrociando mentalmente le dita nella speranza che mi risponda una voce familiare. Per quanto ne so, la persona che sto chiamando potrebbe anche avere cambiato numero. O città. O pianeta.
Mentre il telefono squilla mi allontano un po’ in cerca di privacy. Non so cosa potrei lasciarmi sfuggire e non voglio che Sherlock tragga un’altra delle sue brillanti conclusioni.

“Pronto?”

Di nuovo, il mio cuore comincia a battere furioso nel petto. Rilascio il fiato e pronuncio il suo nome in un soffio.

«Duncan?»

“Rain?”

Quando mi chiama per nome, vengo invasa da una marea di ricordi ed è come se non fossimo stati lontani per tutto questo tempo.

«Sì. Sono io.»

Sorrido, finalmente rilassata, ma il suo tono cambia bruscamente, passando dallo stupore iniziale a una freddezza che non promette niente di buono.

“Che succede?”

La sua voce è piatta e dolorosamente distante. Mi faccio coraggio e decido di mostrarmi distaccata vuotando il sacco.

«Non posso tornare a casa e non so dove andare, così mi chiedevo se...»

“Dove ti trovi?” mi interrompe. So che ha capito la situazione anche se non mi ha dato il tempo di spiegare. Tra noi non c’è mai stato bisogno di parole.

«Sono alla fermata degli autobus dopo il Summit Inn.»

“Ok, aspettami lì.” Chiude la chiamata senza lasciarmi nemmeno il tempo di ringraziarlo.

Restituisco il telefono al proprietario che ora mi guarda con aria interrogativa.

«Grazie, senza di te avrei passato la notte qui al gelo.»

Abbozza un sorrisetto furbo e mi guarda con una luce maliziosa negli occhi.

«Se mi avessi detto subito che cercavi un posto per la notte, te lo avrei offerto io. E credimi, avrei saputo come tenerti al caldo.»

Alzo gli occhi al cielo perché con questa frase ha appena perso metà della mia stima.

«Che galante.» Lo prendo in giro, e mi accorgo che comincio a prenderci gusto.

Quasi mi spiace che presto arriverà Duncan, sia perché non so se sono pronta a rivederlo, sia perché, per quanto mi costi ammetterlo, questo ragazzo mi diverte e mi sorprende continuamente. Ma proprio per questo dovrei essere sollevata all’idea di allontanarmi da lui.

«Sono già in debito per la felpa e il cellulare, non potrei approfittare oltre di te.»

«Direi che, considerando che mi hai fatto perdere l’ultimo autobus, devi almeno lasciare che sia io a deciderlo.»

Non mi lascia il tempo di ribattere perché mi afferra una mano e mi attira contro di sé. In una frazione di secondo mi ritrovo tra le sue braccia forti e istintivamente tento di tirarmi indietro.

«Che cosa stai facendo?» chiedo, ma lui non mi lascia andare, continuando a tenermi premuta contro di sé come se fossi una farfalla pronta a volare via.

«Ti tengo stretta, così non sentirai freddo.»

«Ma io non sento freddo.»

«Allora ti sto tenendo stretta e basta.»

Mi avvolge i fianchi, e per la prima volta in questa notte mi sento davvero al sicuro. Per la prima volta dopo tanto tempo, decido che posso abbassare le mie difese. E inaspettatamente, non desidero più staccarmi da lui.

Chiudo gli occhi godendomi la sensazione, e mi accorgo che si sta muovendo lentamente a destra e a sinistra. Stiamo ballando seguendo il ritmo di una canzone che proviene dalla casa di fronte.

Lui sposta una mano dal mio fianco e mi abbassa il cappuccio, poi la posa sulla mia spalla.

Ha smesso di piovere.

Lo sento appoggiare una guancia sulla mia nuca e canticchiare sottovoce.

Gli circondo le spalle con le braccia e sorrido con il naso affondato nel suo petto, dimenticandomi persino di questa brutta serata.

«Hai uno strano modo di provarci, sai?»

Si allontana un po’ da me e mi fa fare una giravolta.

«Oh-oh, qualcuna qui è un po’ presuntuosa.»

Mi tira nuovamente a sé, cingendomi la vita.

«Se questo non è un tentativo di conquistarmi, allora come lo chiami?»

«Ballare» risponde senza esitare, con la sua logica esasperante. I suoi occhi brillano di una luce divertita mentre la bocca ha una piega rilassata che gli addolcisce i lineamenti. «Credimi, se voglio portarmi a letto una ragazza, glielo dico e basta. Non perdo tempo con inutili corteggiamenti.»

Lo guardo perplessa, per nulla convinta.

«Oh-oh, qualcuno qui è un bel po’ sicuro di sé» gli faccio il verso, cercando di imitare la sua voce bassa e profonda.

Finalmente, un sorriso sincero lo illumina.

«Non penso che il tuo ragazzo apprezzerebbe un mio approccio, non credi?»

Non capisco di cosa stia parlando, poi realizzo che si sta riferendo a Duncan. A quel pensiero mi allontano bruscamente da lui e mi ritrovo a fissare il nero dei suoi occhi. Ha uno sguardo serio e profondo che mi turba, mentre sento la sua mano risalire dalla mia spalla sino a sfiorarmi il collo. Mi accarezza la guancia col pollice.

«Da cosa stai scappando, Cappuccetto?»

Ho un sussulto e lui se ne accorge, perché mi stringe ancora più forte. «Va tutto bene, va tutto bene. Qualunque cosa fosse, ora è lontana.»

La sua voce è quasi un sussurro e mi tranquillizza. Quando mi ha rivolto la parola la prima volta, desideravo solo che mi lasciasse in pace, ma ora, anche se non so nulla di lui se non che è imprevedibile e un gran rompiscatole, sono grata per aver incrociato la mia strada con la sua.

«Grazie» mormoro. «Per essere tornato indietro. Se avessi ignorato la mia richiesta, ora saresti su quel bus di ritorno a casa.»

«Ma tu non saresti qui, con me.»

Annuisco in silenzio e lui prosegue: «Beh, allora direi che ho fatto bene, no?»

«Non lo so. Qualcuno mi ha detto che non sei una buona compagnia.»

«Quel qualcuno a volte parla troppo.» Sposta il viso e sfiora i miei capelli con le labbra.
A quel contatto così intimo mi irrigidisco.

«Scusami» mormora, e dopo qualche istante torno a rilassarmi.

Continuiamo a ballare in silenzio, anche quando la musica finisce e nella strada tutto tace, a parte il battito dei nostri cuori. Lo sento tremare lievemente, si è bagnato dalla testa ai piedi proprio come avevo previsto.

«Non avresti dovuto darmi la tua felpa. Ti prenderai un malanno.»

«Non se ti stringi un po’ di più a me.»

Sto per ribattere quando veniamo distratti dal motore di una moto che si accosta accanto a noi.
Riconosco il modello e anche il pilota, nonostante indossi il casco.

Quando se lo toglie e scende dalla Kawasaki per venire verso di noi, Duncan ha un’espressione dura e gli occhi verdi sono accesi di rabbia.

«Tieni giù le mani da mia sorella!» esclama scagliandosi contro il ragazzo di fronte a me.

Lui lo guarda disorientato, in effetti io e Duncan non ci assomigliamo affatto. È logico, dato che non siamo figli degli stessi genitori.

«Dun, calmati, mi stava solo tenendo compagnia. È stato lui a permettermi di chiamarti e...»

Lui non sembra intenzionato ad ascoltarmi, e continua a fissare minaccioso l’altro che gli sorride sfrontato.

«Amico, ti assicuro che non hai nulla da temere. Ho fatto la guardia a tua sorella sino al tuo arrivo.»

«Sarà meglio per te» ribatte Duncan ostile.

«Dun, per favore. Mi ha solo tenuto compagnia.»

Vedo la sua mascella rilassarsi e il suo sopracciglio destro, su cui brilla un piccolo piercing, distendersi.

«Se le cose stanno così, ti ringrazio» dice con freddezza rivolto al suo interlocutore, che ricambia con un cenno della testa. Poi, senza mai guardarmi negli occhi, si rimette il casco e si dirige verso la moto. Mentre ne prende un altro per me e accende il motore, io inizio a tirare giù la cerniera della felpa che indosso, ma il ragazzo che mi sta di fronte, di cui realizzo solo ora di non sapere il nome, mi ferma.

«Tienila tu» dice, chiudendo la sua mano sulla mia.

Restiamo a fissarci per qualche istante, poi sento il rombo della Kawasaki Ninja di Duncan e la sua voce che cerca di sovrastarlo.

«Rain, muoviti o ti lascio qui!» urla in tono secco.

Lo sconosciuto lascia andare la mia mano, e sento la mancanza di quel tocco farsi prepotente.
Mi volto e afferro il casco che Duncan mi porge, fissandolo bene sulla testa, poi salto su e mi stringo al suo giubbotto di pelle.

Mi giro per guardare un’ultima volta il ragazzo senza nome e mi sembra di vederlo sussurrare “buonanotte Rain” prima che ci allontaniamo, sfrecciando per le strade di Dublino diretti a casa del mio fratellastro.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Sentirsi a casa ***


Percorriamo il tragitto sino a casa di Duncan in un silenzio che pesa come un macigno.

Quando scendiamo dalla moto, lo seguo tenendomi a distanza sino a un appartamento al piano interrato di una palazzina. Scendiamo le scale che dal marciapiede conducono alla porta, e non appena Duncan la apre un Golden Retriever dal pelo castano gli si lancia addosso per fargli le feste. Lui gli fa una carezza energica sulla testa mentre quello ricambia scodinzolando e passandogli il muso sui jeans scoloriti, poi si sposta permettendoci di entrare.

Quando gli passo vicino, l’animale mi guarda con i grandi occhi color cioccolato, in attesa di una carezza, ma sono talmente sopraffatta dalle emozioni da non riuscire a muovere un muscolo. L’ultima volta che l’ho visto era ancora un cucciolo, ed è stato prima che Duncan andasse via da casa dei nostri genitori, la stessa da cui oggi sto fuggendo io.

L’appartamento è un ex scantinato piuttosto piccolo e buio ma pulito e confortevole. Non ero mai stata qui prima e improvvisamente mi sento un’intrusa che sta violando il piccolo mondo privato di Duncan, ma non posso fare a meno di guardarmi attorno, ferma sulla soglia, mentre lui si toglie la giacca e la lancia su un divano a due posti che sta di fronte alla tv, sul lato destro dell’ingresso che è anche soggiorno e camera da letto. Incastrato tra il muro e un piccolo armadio c’è un letto a una piazza e mezzo, con un comodino a dividerli. Di fronte a me c’è una porta che presumo sia quella del bagno. La luce gialla della lampada a muro illumina l’ambiente silenzioso, in cui risuona solo il ticchettio di un orologio da parete.

«Puoi farti una doccia se vuoi, ti presterò dei vestiti asciutti» mi urla dalla cucina. «La porta è quella di fianco al letto. Ci sono degli asciugamani puliti nel mobile sotto il lavandino.»

Capisco che l’offerta è anche un modo per non avermi tra i piedi per qualche minuto, e una doccia è decisamente ciò che mi serve ora, quindi accetto senza pensarci troppo e mi dirigo verso il bagno.

Passo vicino a un cavalletto coperto da un telo, sistemato al centro del salotto. L’odore della pittura è ancora forte e ne deduco che deve aver dipinto sino al momento in cui è passato a prendermi. Sono tentata di sollevare il telo e dare una sbirciatina alla nuova opera di Duncan, ma mi sento abbastanza a disagio e non mi sembra il caso di farmi beccare mentre ficco il naso nella sua vita. Conosco Duncan e so quanto della sua interiorità metta nei suoi dipinti, quindi mi tengo la curiosità e decido di andare dritta in bagno, ma prima che io possa avvicinarmi alla porta questa si apre e vedo uscire una ragazza.

Quando mi vede, si blocca e sgrana gli occhi, poi mi squadra e storce il naso alla vista delle mie scarpe sporche. Non posso darle torto, devo essere un pessimo spettacolo, mentre lei è impeccabile, con gli stivali al ginocchio dal tacco vertiginoso, la mini di pelle nera e una maglia monospalla dello stesso colore. È truccata in modo che l’eyeliner le metta in risalto gli occhi da gatta di un azzurro quasi trasparente, e ha lunghi capelli perfettamente lisci, di un rosso che ricorda molto il colore dei miei, almeno prima che li tingessi.

«Che ci fai ancora qui?»

La voce di Duncan alle mie spalle mi distoglie dalla valutazione di questa specie di modella che ho davanti, e mi toglie dall’imbarazzo di sentirmi sotto esame, un esame che sicuramente non ho passato a pieni voti.

«Che ci fa...» la vedo alzare un sopracciglio perfetto in cerca di un epiteto, probabilmente valutando se lasciarsi andare a una definizione non proprio gentile «…questa ragazza, qui a quest’ora?»

Alla fine ha scelto la strada più sicura, forse pensando che Duncan non avrebbe gradito un’offesa rivolta a una sua ospite, per quanto io abbia tutto l’aspetto di un’accattona.

«È mia sorella, e mi pareva di averti detto di tornare a casa, se non ricordo male.» Il suo tono è gelido. Sembra non esserci più traccia del ragazzo gentile a cui ho dovuto dire addio cinque mesi fa.

Si dirige verso l’armadio dal quale toglie fuori un cappotto e lo porge alla ragazza che lo fissa incredula.

«Che c’è?» le domanda brusco.

«Come sarebbe a dire che c’è? Ti sembra il modo di trattarmi? Mi molli qui mentre sono ancora mezza nuda e poi torni con un’altra ragazza come se niente fosse e mi dici che non mi vuoi tra i piedi. E poi come ci torno a casa secondo te?»

Cerco di non dare peso al fatto che abbia appena detto di essere stata lasciata qui mezza nuda da Duncan, sia perché non voglio immaginarla a letto con lui, sia perché non mi va di pensare che forse parte del malumore del mio fratellastro è dovuta al fatto che ho interrotto qualcosa.

«Non so come altro spiegartelo, Kayla. È mia sorella.» Fa un sospiro stanco, come se pronunciare quella parola lo sfiancasse. «E se non vuoi rientrare a piedi, posso chiamarti un taxi. Ora, per favore, prendi questo dannato cappotto, sono piuttosto stanco.»

«Me ne frego se sei stanco, Donovan! Avevi detto che mi avresti riaccompagnata a casa, e ora mi lasci rientrare da sola?» Alza la voce, rivelando un forte accento del nord che prima riusciva a nascondere.

«Non posso certo lasciare lei qui da sola. Combinerebbe qualche guaio, imbranata com’è.» Lui non si scompone, mantenendo una calma che fa andare la stangona su tutte le furie. Qualcosa mi dice che, oltre a essere una scusa bella e buona, era una frecciatina neanche tanto velata nei miei confronti, giusto per infastidirmi. Forse ho davvero interrotto qualcosa e ora vuole farmela pagare.

«E tu speri che io ci creda? Mi hai presa per una stupida? Sarà anche sporca e sciatta, ma mi sembra più che in grado di badare a se stessa!»

«Ehi!» esclamo irritata. Vorrei vedere miss perfezione dopo essere scappata di casa.

«Come definiresti una che esce in piena notte senza curarsi di prendere nemmeno un cellulare per chiamare aiuto? Credimi, rischierei di trovare il cane morto al mio rientro, o l’appartamento in fiamme.»

La ragazza capisce l’antifona e gli strappa il cappotto di mano, poi se lo infila con rabbia, ma prima di andarsene gli lancia un’occhiata di fuoco.

«Passa una buona notte con questa stracciona, brutto stronzo, e cercati un’altra modella per il tuo stupido quadro!»
Poi si rivolge a me, fulminandomi con gli occhi gelidi.

«Devi essere proprio messa male se sei arrivata al punto di affidarti a questo bastardo. Mi fai pena.»

Ci supera sbattendo i tacchi sul parquet, ma prima di poter aprire la porta viene bloccata dal cane che le ringhia contro sbarrandole la strada.

«Brown!» lo chiamo, ma non si muove e per un attimo spero che le azzanni una gamba.

«Doge, vieni qui!» lo richiama Duncan, e quello gli obbedisce permettendo all’arpia di uscire sbattendo la porta.

«Doge?» domando girandomi verso Duncan. «Non lo avevamo chiamato Brown?»

«Quello era il nome che avevo scelto insieme a te, quando credevo che sarebbe stato il nostro cane. Ora si chiama Doge.» Si abbassa per grattarlo sotto il muso e l’animale abbaia felice in risposta.

«Mi dispiace di averti incasinato la serata, Dun, e se posso fare qualcosa per aiutarti a finire il quadro...»

«Perché sei andata via di casa?» mi interrompe sollevando lo sguardo dal cane e cercando i miei occhi. Non posso rispondere a una domanda del genere perdendomi nel verde dei suoi, quindi fisso il piercing che ha sul sopracciglio destro.

«Le torte di tua madre non sono più buone come una volta» rispondo con un sorrisetto ironico, ma lui non coglie la provocazione e insiste.

«Non fare finta di non avere capito, Rain, lo sai che è una cosa che mi manda in bestia.»

Certo che lo so, lo faccio apposta per vendicarmi delle frecciatine infantili di poco fa.

«Intendo dire... perché non sei venuta via con me, cinque mesi fa? Cosa ti ha costretta a fuggire, stanotte?»

Sapevo che la conversazione ci avrebbe portati su questo punto, ma non posso rispondergli, quindi opto per una mezza verità.

«Cinque mesi fa la situazione era diversa, Dun. E io ero...»

«Stupida e ostinata.»

Fingo di non aver sentito e proseguo. «Ero impegnata con lo studio, e trasferirmi avrebbe incasinato tutto. Ora sono più libera e...»

«Altrettanto stupida e ostinata» conclude lui per me.

 Lo guardo negli occhi con l’espressione più dura di cui sono capace. «Stavo per dire che non sarò costretta a passare le mie giornate insieme a te.»

Lui si alza e mi si avvicina, sovrastandomi con la sua altezza.

«Eppure sei qui con me, ora» sussurra continuando a guardarmi.

Distolgo lo sguardo fissando un punto impreciso nella stanza. È troppo vicino e il suo odore così familiare.

«Allora devo essere proprio messa male come ha detto la tua ragazza.»

«Kayla non è la mia ragazza, è... Qualunque cosa sia, ormai è andata.»

«Cosa hai fatto ai capelli?» domanda, prendendo una mia ciocca. Torno a guardarlo, ha un’espressione malinconica mentre osserva la ciocca nera e se la rigira tra le dita.

«Li ho tinti» rispondo laconica.

Lui punta i suoi occhi nei miei. «Lo vedo. Intendevo... Cristo, Rain, prima ci bastava uno sguardo per capirci. Che cosa ci è successo?»

«Sai benissimo cosa ci è successo. Io ti ho detto che non mi importava nulla di te né del tuo stupido cane e che sarei stata più felice se mio padre non avesse mai sposato tua madre, perché non ti avrei mai conosciuto.»

«Non ho mai creduto a una sola delle stronzate che mi hai propinato quella sera, sei una pessima bugiarda.»

Nei suoi occhi leggo una tristezza che mi spezza il cuore. «Però te ne sei andato lo stesso» sussurro abbassando lo sguardo.

«L’ho fatto perché ho capito che era quello che volevi, e io rispetto le tue scelte, anche quando non le condivido.»

«Beh, qualche volta dovresti rispettarmi un po’ meno.»

Lascia andare la mia ciocca e si allontana. «Mi dispiace Rain, ma questa è l’unica cosa in cui non ti accontenterò mai.»

Lo squillo del suo cellulare ci distrae dalla lotta silenziosa che intercorre tra i nostri sguardi.

Prende il telefono dalla tasca e osserva lo schermo in silenzio, poi inizia a digitare qualcosa.

«Mia madre.»

Ho un sussulto. Non voglio che Riona venga a riprendermi, la sola idea mi fa venire la nausea.

«Le sto scrivendo che resterai da me e che domani passeremo a prendere la tua roba» prosegue, continuando a muovere veloce le dita sullo schermo.

«E se io non fossi d’accordo?»

Lui solleva la testa dal cellulare e mi trafigge con i suoi occhi color quadrifoglio.

«Non hai detto che devo iniziare a fregarmene delle tue scelte?» sorride in un modo odioso che mi ricorda il ragazzo della fermata.

«Sì ma non intendevo... oh, al diavolo!» sbotto, stanca di dover ribattere a ogni cosa, non ho fatto altro per tutta la sera e ora sono davvero sfinita. «Vado a farmi questa maledetta doccia, sempre se non sei contrario anche a questa mia decisione!»

Si sposta e mi indica la strada con un gesto teatrale della mano.

«Prego, sua irascibilità, si accomodi nel mio umile bagno.» Lo guardo per qualche secondo, poi scoppio a ridere, seguita a ruota da lui che sorride sia con la bocca che con gli occhi. Non sono mai riuscita a restare arrabbiata con Duncan troppo a lungo.

«Cretino» bisbiglio, mentre gli passo accanto diretta verso la tanto desiderata doccia. «E comunque domani ci andrò da sola a prendermi la roba, chiaro?»

Mi chiudo la porta alle spalle e mi ci appoggio lasciando andare il fiato.

Questa convivenza sarà tutt’altro che facile. Siamo cresciuti insieme, ma ci sono delle cose che ho dovuto tenergli nascoste e non voglio che le scopra proprio adesso.

Duncan ha sempre messo me prima di tutto, per questo ho dovuto mentirgli su quello che succedeva a casa nostra quando non era presente, ed è lo stesso motivo per cui non posso rivelargli la ragione della mia fuga.

Dovrò stare attenta a non infrangere la regola più importante, e ricordarmi che avere qualcuno a cui si tiene equivale ad avere qualcuno da perdere e per cui soffrire.

Con un sospiro stanco, decido che è arrivato il momento di buttarmi sotto il getto dell’acqua calda e comincio a svestirmi. Sfilando la felpa, ripenso per un attimo allo strano incontro di questa notte. Se quel ragazzo non fosse intervenuto, non so cosa avrei fatto. Non so nemmeno se sarei ancora viva.

Tolgo le scarpe e le calze e le spingo rabbiosamente in un angolo con il piede, vicino al termosifone, nella speranza che asciughino entro domani, poi tolgo il vestito e, quando porto le mani al collo per slacciare la catenina, mi accorgo con sgomento che non c’è più. Non capisco come sia potuto succedere, ricordo di averla avuta a contatto con la pelle per tutto il tempo.

Immediatamente, comincio a frugare tra gli indumenti che ho tolto, controllandoli freneticamente mentre il panico comincia ad assalirmi. Quando ho finito di ispezionare anche l’ultimo centimetro della felpa, mi accascio contro il muro freddo, sconfitta. Non c’è. Potrebbe essersi sganciata mentre ero in moto, ma spero che non sia così perché significherebbe che è andata persa per sempre. Oppure...

Tiro indietro i capelli con una mano, mentre realizzo di essere stata una stupida. Una stupida che ha infranto quasi tutte le regole fidandosi di uno sconosciuto. Forse Sherlock non è dotato solo di una mente brillante e contorta, ma anche di una mano leggera e piuttosto lesta. Sfioro il punto in cui mi ha accarezzata mentre ballavamo, e mi domando se in quel momento sia riuscito a portarmi via il gioiello, che per me ha soprattutto un valore affettivo.

Respiro a fondo per calmarmi. Farmi prendere dall’agitazione e dallo sconforto non servirà a nulla, senza contare che non ho le mie medicine con me, e dubito che Duncan abbia degli ansiolitici in casa. Non può nemmeno immaginare che ho ricominciato a prenderli.

Ammucchio i miei indumenti a terra, a eccezione della biancheria che dovrò indossare di nuovo, e mi infilo sotto la doccia. Sfrego bene la pelle per togliere il fango e la sensazione delle mani che stanotte si sono serrate sul mio polso, costringendomi contro il muro. Il dolore si diffonde lungo il braccio e i graffi che ho sulle gambe e vicino al gomito destro bruciano sotto l’acqua calda. Lavo i capelli energicamente per cancellare ogni traccia di questa serata, ma mentre tengo gli occhi chiusi per risciacquare lo shampoo, la rivivo in continuazione nella mia testa, ogni volta con un finale diverso.

Quando finisco, mi avvolgo in un asciugamano e prendo il fon per asciugarmi i capelli. Sullo specchio appannato dal vapore della doccia traccio due linee verticali e un arco. Osservo la faccia stilizzata svanire lentamente, e quando passo la mano per togliere la condensa mi ritrovo davanti un’altra faccia, più reale e triste della precedente. I miei occhi sono arrossati, le labbra si sono spaccate per il freddo e le lentiggini che mi puntellano il viso sembrano essersi nascoste sotto la pelle.

Dopo aver asciugato svogliatamente i capelli , li lego in una treccia come faccio sempre prima di andare a letto. Almeno questo, stanotte, non cambierà.

Uscendo dal bagno trovo una maglietta e un pantalone della tuta adagiati sul letto, ma non vedo Duncan da nessuna parte. Sento dei rumori provenire dalle scale che conducono al piano rialzato e lo vedo rientrare in casa con una cesta vuota.

«Ho messo la tua roba a lavare mentre eri sotto la doccia e ora è nell’asciugatrice, così domani dovrebbe essere a posto.»

Deve essere entrato in bagno mentre mi lavavo per raccogliere i miei vestiti, ero talmente presa dai miei pensieri da non essermi accorta di nulla. Mi volto per raccogliere gli indumenti puliti dal letto e sgattaiolare di nuovo in bagno.

«Grazie» gli dico velocemente prima di richiudere la porta.

Mi rendo conto che dovrò indossare dei vestiti di Duncan senza avere nulla sotto e l’idea mi fa sentire terribilmente a disagio, mentre realizzo un’altra cosa: questo appartamento ha un solo letto e il divano è troppo piccolo per dormirci. Quasi quasi chiamo Riona per farmi riportare a casa.

Dopo essermi vestita, prendo un bel respiro e torno in camera. Di nuovo, Duncan sembra essersi volatilizzato.

«Dun?» lo chiamo, e sento un mugolio assonnato provenire in risposta dal divano. «Non starai dormendo lì?» chiedo incredula.

Vedo la sua testa bionda emergere dalla spalliera.

«Secondo te?»

Apro la bocca per ribattere ma lui mi blocca. «Non se ne parla, tu dormirai sul letto e io su questo divano.»

A quanto pare abbiamo ricominciato a capirci con uno sguardo.

Obbedisco e mi butto sul letto sfinita.

«Dun?»

«Mh?»

«Spegni la luce.»

Lo sento grugnire, probabilmente trattenendo un’imprecazione.

Una volta calata l’oscurità, mi abbandono alla stanchezza, ma sono ancora talmente scossa che non riesco a prendere sonno. Mi giro nel letto senza trovare riposo, e vorrei chiedere a Duncan di venirmi vicino come faceva quando eravamo piccoli, a tenermi compagnia finché non mi addormento, ma so che non posso permettermi di cedere.

Sento un movimento nella stanza e il materasso alla mia destra affondare. Riconosco immediatamente l’odore di sapone e colori a olio, l’odore dell’unico posto in cui mi sono sempre sentita veramente a casa e che da troppo tempo appartiene solo ai miei ricordi. Duncan mi abbraccia e io mi lascio andare a un pianto silenzioso, mentre con un dito lui asciuga le lacrime che mi bagnano le guance.

A quanto pare riusciamo ancora a capirci senza bisogno di parole.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Dove abitano le nostre paure ***


Dopo ieri sera, credevo non avrei mai più rimesso piede in questo posto.
E invece mi trovo qui, ferma sulla soglia a osservare la stanza che è stata il mio rifugio per tutti questi anni. L’unico posto in cui ho sempre potuto essere me stessa. La luce fredda del giorno si insinua come un ospite timido tra le tende, rischiarando appena l’ambiente immerso nella penombra.
Rabbrividisco. Indosso lo stesso vestito di ieri sotto la felpa, Duncan me lo ha fatto trovare sul letto insieme alla mia biancheria e a un bigliettino in cui mi chiedeva se non sia troppo grande per usare completini a fiorellini. Sorrido sbuffando e scivolo lentamente verso la finestra socchiusa, dalla quale entra un filo di vento gelido che riempie la stanza del profumo salmastro del mare. Da qui posso vederlo, e anche se adesso mi spaventa, in passato mi sono spesso soffermata ad ammirarne la danza selvaggia, desiderando essere come queste acque grigie e infuriate, capace di riversare fuori quello che si agita dentro di me. Ma le mie gambe sono fatte per scappare, non per danzare.
Allontano il viso dal vetro e mi avvicino al letto su cui ho lasciato l’mp3. Lo accendo e lascio che gli Skunk Anansie riempiano il silenzio, chiudendo gli occhi e cominciando a muovere la testa a destra e sinistra seguendo il ritmo della batteria. Mi lascio trascinare dalla chitarra e dalla voce arrabbiata della cantante mentre riapro gli occhi e faccio scorrere lo sguardo su ciò che mi circonda. I poster, le foto, la brochure del college e i disegni di Duncan appesi alla parete, scarabocchiati con i gessetti dalla sua manina paffuta di bambino o tracciati con la china dalla sua mano di adolescente. La stessa mano che ha più volte asciugato le mie lacrime e si è serrata in un pugno, pronta ad alzarsi in mia difesa contro chi, a scuola, si prendeva gioco di me. Ma che ha sempre tenuto abbassata quando nei miei occhi scorgeva una supplica silenziosa.
Mi soffermo sul disegno di una farfalla. L’ho preso dalla sua camera dopo che lui se n’è andato via di casa. Le ali maestose sono spiegate in un’armonia di nero e blu, fragili e magnifiche. Immediatamente, il mio sguardo si sposta su una foto che ci ritrae alla festa del suo diploma. Io indosso questo stesso vestito e ho ancora i capelli ramati, mentre lui non è molto diverso da ora, se non per l’assenza del piercing al sopracciglio. Ci è stata scattata mentre ballavamo, e lui doveva aver appena detto una stupidaggine perché io sto ridendo a crepapelle. È l’unico ricordo che mi rimane di quella sera di luglio di un anno fa, la stessa in cui ho perso mio padre e dimenticato dieci mesi della mia vita.
È bastata un’unica scelta sbagliata per mandare il mio mondo in pezzi. E sono stata io a farla.
 Ma per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare il perché. Perché ho chiesto a papà di venirmi a prendere prima, perché non sono rientrata con Duncan.
Continuo a fissare la foto, in cerca di una risposta che non sono sicura di voler trovare. L’espressione serena che abbiamo mi appare lontana anni luce, appartenuta a un altro Duncan e un’altra Rain. Non so se un giorno ritroveremo quella complicità che ci permetteva di essere felici nonostante tutto. So che, dopo quella sera,  qualcosa tra di noi si è spezzato e non è possibile riunire i pezzi.
Ogni scelta che facciamo ha delle conseguenze, e dopo non si può tornare indietro.
Spengo il lettore e sollevo la testa. Sulla mensola, tra le sfere di vetro con la neve che papà mi portava dai suoi viaggi, ce n’è una con una profonda filatura. Con un nodo alla gola, osservo la crepa che si dirama nel cielo di vetro in cui è racchiusa una piccola Tour Eiffel, poi distolgo lo sguardo e lo porto su una foto dei miei genitori. Papà stringe la mamma che lo guarda con un’espressione colma di amore, la stessa espressione che mi rivolgeva quando mi impiastricciavo le mani e i vestiti nel goffo tentativo di aiutarla a fare i biscotti.
Un disegno raffigurante la mia famiglia così com’era quando avevo dieci anni mi ricorda che per un po’ sono stata felice anche dopo la sua morte. Ho disegnato mio padre con indosso un buffo maglione, di quelli con i ponpon che amava portare nel periodo di Natale. In una mano stringe la mia, che somiglio a uno dei folletti che popolavano i disegni infantili di Duncan. Accanto a me c’è lui e al suo fianco Riona, così come la vedevano i miei occhi di bambina: bella, con il grembiule e una corona in testa, perché il suo nome significa regina. Tutti e quattro sembriamo felici, per quanto possano sembrarlo quattro scarabocchi. Osservo l’immagine della mia matrigna, e stento a credere che sia stata una buona madre anche per me, una che a Natale e per il mio compleanno faceva i biscotti allo zenzero per non farmi sentire troppo la mancanza della mamma.
Mi chiedo come sarebbe ora se mio padre fosse ancora vivo, o se Harry, il suo nuovo compagno, fosse un uomo migliore.
Con un profondo respiro mi dirigo all’armadio, da cui tiro fuori un borsone abbastanza capiente che poggio sul letto.
Sfilo le cuffie e butto l’mp3 sul fondo, poi faccio lo stesso con la felpa che indosso. Prendo dei maglioni, dei jeans e un beauty case, e stipo tutto in modo che ci sia spazio anche per delle scarpe.
Chiudo la borsa ed esco dalla stanza, diretta al bagno, ma quando mi avvicino alla porta sento la voce di Riona strozzata da un singulto violento.
Non è la prima volta che la sento vomitare dopo essersi ubriacata, e non mi è difficile immaginare come sia andata avanti la serata di ieri dopo la mia fuga.
Torno velocemente indietro, ripetendomi che questa sarà l’ultima volta e che da oggi potrò lasciarmi tutto questo alle spalle.
Rientrata in camera, mi avvicino alla scrivania sulla quale ho lasciato il portatile e il cellulare. Nessun messaggio di auguri nemmeno oggi. Prendo la tracolla appesa alla sedia, con dentro le chiavi e il portafogli, e ci seppellisco il telefono. Mentre stacco la brochure dal muro, la mia attenzione viene catturata da una candela che profuma di marshmallow. La sposto e tiro fuori il libro che avevo nascosto tra i volumi dell’enciclopedia. Dopo che papà è morto, Riona ha buttato tutte le sue cose. Ho salvato solo questo, perché era nella mia borsa quando mi sono risvegliata in ospedale. Un’infermiera mi disse che era passato un ragazzo a riportarmela. Non ho mai saputo chi fosse, probabilmente uno degli amici di Duncan che erano alla festa, forse Michael Walsh o Rob Sullivan, un idiota che giocava nella squadra di rugby della scuola. Non siamo mai andati d’accordo, ma forse in quei mesi che ho dimenticato le cose tra noi erano cambiate, non lo so. La mia memoria si è bloccata e ogni volta che cerco di riportare a galla un pezzetto di quei dieci mesi sto male.
Afferro il libro. La copertina nera è resa opaca dalla polvere che si è accumulata. Lo apro e inizio a sfogliarne lentamente le pagine sottili, fermandomi quando arrivo a una pagina su cui è adagiato un fiore di melo essiccato. Non ricordo dove l’ho preso, né quando ce l’ho messo, ma sento che il ricordo è celato tra le pieghe della mia memoria, pronto a riaffiorare. Ne osservo la consistenza e il colore, un tempo doveva essere liscio e di un bianco rosato, mentre ora appare ruvido e scolorito come una foto ingiallita.
Una morsa dolorosa mi stringe la testa.
«Hai già finito di fare i bagagli?»
La voce di Duncan alle mie spalle interrompe il filo dei miei pensieri.
Mi volto e lo vedo sulla soglia, con le braccia incrociate sul petto, stretto in un paio di jeans e in un maglione grigio a collo alto. Mi sta osservando con un’espressione dubbiosa.
Chiudo velocemente il libro, in mezzo al quale ho riposto il fiore, e lo sistemo nella tasca posteriore del borsone.
«Ci hai messo più di quanto immaginassi» ironizzo richiudendo la cerniera.
«Te l’avevo detto che saremmo venuti a prendere la tua roba.»
Sorrido rassegnata. È inutile ribattere. Quando si mette in testa una cosa non c’è modo di fargli cambiare idea. Mi volto verso di lui che se ne sta ancora appoggiato allo stipite, e mi scruta con aria inquisitoria. So che sta cercando di capire se ho ricevuto il bentornato da sua madre, ma fortunatamente quando mi ha aperto la porta Riona si è limitata a farmi entrare ed è sparita, probabilmente per chiudersi in bagno.
«Credevo fossi andato a lezione» dico a Duncan. Stamattina, quando ho riaperto gli occhi, era già uscito, ed ero pronta a scommettere che non l’avrei rivisto sino a stasera, magari in compagnia di un’altra modella.
Frugo dentro l’armadio in cerca di qualcosa di comodo da mettermi, sia perché non sopporto più questo vestito, sia perché l’anta mi offre un riparo sicuro dallo sguardo di Duncan, e tiro fuori un jeans e un maglione nero. Mentre richiudo, lui si avvicina al letto e si carica il mio borsone su una spalla.
«Non frequento più il college» dice semplicemente. «Ti aspetto fuori.» Poi se ne va lasciandomi in piedi accanto all’armadio come un’ebete, con il jeans e il maglioncino ancora in mano.
Mentre mi cambio, penso a quello che mi ha detto e non riesco a trovare una spiegazione. L’anno scorso si è iscritto al corso di arte del Dublin College, il suo sogno da quando eravamo bambini. Per quale motivo ci ha rinunciato?
Afferro la borsa col portatile e prendo la brochure e la foto dei miei genitori, per metterle nella tasca della tracolla, poi mi carico le due borse sulla spalla. Esito quando il mio sguardo si posa sul comodino. Nel cassetto, nascosto tra la biancheria, c’è il flaconcino delle mie medicine. Sono tentata di lasciarlo lì, ma alla fine decido di prenderlo.
Mi guardo intorno un’ultima volta. Non so se e quando metterò nuovamente piede qui dentro, non è facile allontanarmi da questo posto intriso di ricordi, anche se è qui che abitano le mie paure, e quando mi chiudo la porta alle spalle mi sento svuotata.
Scendo velocemente le scale che portano all’ingresso. A metà, l’occhio mi cade sul libro di Tolstoj che stavo leggendo ieri sera, aperto a faccia in giù sul gradino. Mentre lo raccolgo e lo metto in borsa, il pensiero di quello che è successo mi investe, costringendomi a chiudere gli occhi e a respirare a fondo per contrastare la nausea.
«Sei ancora qui?» la voce fredda di Riona mi riscuote come uno schiaffo e per la prima volta le sono grata per avermi rivolto la parola.
Attraverso l’ingresso fingendo di non averla sentita, ma lei mi sbarra la strada incombendo minacciosa su di me, gli occhi segnati da profonde occhiaie rese ancora più evidenti dalle tracce del trucco che portava ieri, i capelli biondi raccolti in modo disordinato. Deve avere dormito poco, e dall’odore di alcol che ha addosso ho la conferma di come abbia passato la notte.
«Stavo giusto per andare» rispondo sbrigativa.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Messaggio Importante ***


Quella che avete letto è un'anteprima del libro, per poter leggere il libro completo dovrete aspettare la pubblicazione a marzo 2018 con Libromania DeAgostini. Su WattPad è in corso la pubblicazione del volume 2, Dieci battiti al secondo (prequel). Mi trovate come RiD_author. Potete seguirmi su Facebook sulla pagina Rain - Trilogia dei battiti d'ali e su Instagram come RobertaGatto_readerinthedark. Appena possibile lascerò i link per l'acquisto di questo primo volume, qualora foste interessati. Grazie a chi ha letto questo estratto. StormButterfly

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3698508