ITS - Vecchia versione di Red Owl (/viewuser.php?uid=31841)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Un fulmine a ciel sereno ***
Capitolo 3: *** 2. Addio ***
Capitolo 4: *** 3. Punti di vista ***
Capitolo 5: *** 4. Al primo sguardo ***
Capitolo 6: *** 5. Il prezzo di una figlia ***
Capitolo 7: *** 6. La Sacerdotessa ***
Capitolo 8: *** 7. La fine e l'inizio ***
Capitolo 9: *** 8. Promesse ***
Capitolo 10: *** 9. Nella notte ***
Capitolo 11: *** 10. Punto e a capo ***
Capitolo 12: *** 12. Prove di cucina ***
Capitolo 13: *** 11. Malintesi ***
Capitolo 14: *** 13. Offerte ***
Capitolo 15: *** 14. Il suono ***
Capitolo 16: *** 15. Lettere ***
Capitolo 17: *** 16. Una cena in famiglia ***
Capitolo 18: *** 17. Alla luce del giorno ***
Capitolo 19: *** 18. I pascoli estivi ***
Capitolo 20: *** 19. L'Aquila ***
Capitolo 21: *** 20. Storie di soldati ***
Capitolo 22: *** 21. La via del ritorno ***
Capitolo 23: *** 22. Tito ***
Capitolo 24: *** 23. L'Ospite ***
Capitolo 25: *** 24. La legge degli Dèi ***
Capitolo 26: *** 25. Segreti ***
Capitolo 27: *** 26. Faccia a faccia ***
Capitolo 28: *** 27. Sangue ***
Capitolo 29: *** 28. Un rifugio sicuro ***
Capitolo 30: *** 29. La soglia ***
Capitolo 31: *** 30. Incontri inaspettati ***
Capitolo 32: *** 31. Verso casa ***
Capitolo 33: *** 32. Ferite ***
Capitolo 34: *** 33. Giallo ***
Capitolo 35: *** 34. In volo ***
Capitolo 36: *** 35. Senza traccia ***
Capitolo 37: *** 36. Un salto nel buio ***
Capitolo 38: *** 37. Dal cielo ***
Capitolo 1 *** 0. Prologo ***
Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 15 Febbraio
Quel
ragazzo non poteva avere più
di vent’anni - con ogni probabilità ne aveva
qualcuno in meno. Helfried si
fermò per qualche istante davanti alla barella sulla quale
era adagiato il
giovane ferito, poi si rivolse al guerriero fermo a pochi passi di
distanza.
«Quanti morti?»
L’uomo
spinse fieramente in
avanti il mento, ma quel gesto non poté celare il dolore e
lo shock che
l’anziano capo riuscì a leggere nei suoi occhi.
«Una decina» rispose con voce
ferma. «Ne abbiamo contati altrettanti tra i romani,
però. E a breve a quel
numero dovranno anche aggiungere qualche ferito che non
supererà la notte, se
ho giudicato bene quello che ho visto.»
«Non
dare per scontato che i
nostri siano tutti salvi» mormorò Helfried,
scuotendo il capo con amarezza. Il
vecchio abbassò lo sguardo sul ragazzo che si lamentava
flebilmente, sospeso in
uno stato di semi incoscienza, e poi percorse con una rapida occhiata
la radura
tra gli abeti nella quale si erano accampati i suoi uomini.
L’inverno non aveva
ancora sciolto la sua morsa e il terreno era duro di brina e talmente
umido che
i piccoli fuochi accesi qua e là faticavano ad attecchire e
a riscaldare i
feriti che vi erano stati sistemati attorno.
Il
vecchio lasciò che l’aria che
aveva trattenuto nei polmoni defluisse in un sibilo lento e si
condensasse in
una nuvoletta di vapore davanti ai suoi occhi. D’un tratto,
sentì che le forze
erano sul punto di abbandonarlo.
Troppe battaglie. Troppi morti.
«Inizio
a essere stanco, Lothar.»
Gli
occhi scuri del guerriero si
fecero più attenti. «Sono giorni
difficili», esordì, in un borbottio sordo,
«ma
non abbiamo scelta: non possiamo arrenderci. Se oggi lasciamo che Roma
conquisti il lago, domani i legionari si faranno più audaci
e pretenderanno di
avere sempre di più. Non possiamo permettere che ci caccino
sulle montagne,
come bestie.»
«No,
ma non possiamo nemmeno
continuare a perdere uomini per difendere steppe e paludi.»
Con
la coda dell’occhio, Helfried
vide Lothar irrigidire la mascella nel tentativo di combattere la
frustrazione.
Era il suo guerriero migliore e lo sapeva: a volte quella
consapevolezza gli
faceva dimenticare la sua posizione e l’obbedienza che doveva
a lui, il capo
villaggio. «Con tutto il rispetto, ma non vedo molte
alternative» mormorò
Lothar, dopo qualche secondo di silenzio.
Il
vecchio sospirò di nuovo. «Fa’
che inviino un messaggio al Legato. Digli che voglio incontrarlo per
discutere
la proposta del loro Imperatore.»
Il
guerriero trattenne il respiro
per una frazione di secondo. «Tuo figlio non sarà
felice di saperlo.»
«Otmar
se ne farà una ragione»,
ringhiò il capo villaggio, «e i suoi compari con
lui. In ogni caso, era solo
una questione di tempo: non avremmo potuto ignorare ancora a lungo le
richieste
del Sacro Concilio.»
«Da
questa cosa non ne verrà
nulla di buono» borbottò Lothar, scuotendo il capo.
«Vedremo»
replicò il vecchio, con
lo sguardo perso tra gli abeti scuri. «Vedremo.»
***
Rieccomi con la versione riveduta e corretta di
questa storia,
pubblicata per la prima volta più di un anno fa sul mio
vecchio profilo. Nella
prima parte non cambierà un gran che, a dire il
vero… spero solo di essere
riuscita a correggere un po’ di sviste, errori e incoerenze.
Matilde
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Capitolo 2 *** 1. Un fulmine a ciel sereno ***
Lidia
Aurelia Prisca soffocò nel
cuscino un urlo di frustrazione, mentre lacrime di rabbia le scendevano
dagli
occhi e bagnavano la federa di cotone violetto. Perché il
Fato sembrava
avercela tanto con lei? Perché, proprio quando la sua vita
sembrava aver
raggiunto una certa stabilità, il destino avverso si
scagliava contro di lei,
costringendola a ricominciare tutto da capo?
Essere
la figlia di un Senatore
avrebbe dovuto avere dei vantaggi, eppure lei, di vantaggio, non ne
aveva mai
visto nemmeno uno. Sì, aveva una casa grande e bella, ma
quel fatto non poteva
essere considerato una rarità tra la cerchia dei suoi
conoscenti, così come non
erano una rarità i numerosi servitori che
l’aiutavano nella vita di tutti i
giorni. Anche la possibilità di accedere a tutti gli eventi
esclusivi offerti
dalla grande metropoli le sembrava ormai una cosa di ben poco conto.
Singhiozzando
e asciugandosi
stizzosamente gli occhi, Lidia raggiunse la finestra e vi si
affacciò: il
meraviglioso giardino della sua villa, ricco di fontane e siepi in
fiore, si
estendeva davanti a lei, splendido nel tiepido sole di fine aprile. La
casa, i
servi, la vita di mondo, persino il suo giardino… erano
tutte cose che aveva
sempre dato per scontate. Erano tutte cose che presto, prestissimo, le
sarebbero state strappate. Per sempre.
La
notizia era arrivata come un
fulmine a ciel sereno. Anche se aveva già compiuto
diciannove anni, Lidia non
si era mai interessata un gran che di politica: del resto, era una
donna; e si
sapeva che le donne dovevano cercare la loro strada in altri campi.
L’arte, lo
studio della filosofia e, perché no, persino la medicina, ma
la politica era un
affare viscido e subdolo, un affare da uomini. Qualche voce era
arrivata anche
a lei, in verità, sapeva che nella Nova Germanica le cose
non andavano proprio
benissimo, aveva sentito parlare di un paio di scaramucce tra legionari
e
guerrieri barbari, ma non aveva dato troppo peso alla vicenda. Di
notizie del
genere se ne sentivano in continuazione, e quei nuovi battibecchi erano
tutto
fuorché un fatto eccezionale.
Quello
che la ragazza non sapeva
era che quegli scontri erano parte di un conflitto latente molto
più esteso che
aveva spinto i politici della capitale a cercare una soluzione che
consentisse
di preservare la pace nella regione della Germanica Inferiore, evitando
così di
perdere l’accesso a dei territori tanto importanti per
posizione e risorse
naturali. La scelta era ricaduta su un metodo che, seppur non brillava
per
originalità, in passato si era già dimostrato
piuttosto efficace, in occasioni
del genere: si era deciso di combinare dei matrimoni tra giovani romani
e
giovani barbari.
La
proposta era dunque partita da
Roma ed era stata accolta di buon grado non solo dagli Alti Sacerdoti
germanici, ma anche dai capi delle tribù locali, che avevano
visto nelle unioni
tra i propri figli e i rampolli delle più importanti
famiglie romane una
possibilità per infiltrarsi nella politica
dell’Impero. Ai rampolli in
questione, però, non era stato chiesto nulla: o, perlomeno,
nessuno aveva
chiesto nulla a Lidia, che quella mattina era stata convocata nello
studio di
suo padre da un servo che si era rifiutato di darle spiegazioni.
Il
Senatore Lucio Aurelio Prisco
era un uomo più giovane di quanto la sua chioma bianca
facesse presagire,
appesantito dagli anni passati a trascinarsi mollemente dal triclinio
allo
scranno del senato, ma aveva un carattere di ferro e poco incline a
compromessi
e discussioni. «Figlia mia», le aveva detto,
«ho una notizia da darti.
Siediti.»
Con
un pessimo presentimento nel
cuore – suo padre le dedicava raramente attenzione e, quando
lo faceva, di
solito per lei erano guai – Lidia si era seduta sulla
poltrona di pelle nera e
aveva incrociato nervosamente le gambe, senza riuscire a trovare il
coraggio di
chiedere spiegazioni. «So che la cosa non ti farà
piacere, ma, in quanto figlia
di Roma, hai il dovere di sacrificarti per la Patria.»
La
fanciulla aveva tremato. «Certo,
padre» aveva però detto, tenendo gli occhi bassi.
«Tra
circa due settimane ti
sposerai» le aveva comunicato suo padre, guadagnandosi
un’occhiata confusa. «Due
settimane?» aveva balbettato la ragazza, colta di sorpresa,
mentre il pensiero
correva al suo fidanzato. «Due settimane sono troppo poche.
Non riusciremo mai
a organizzare tutto per tempo. Tito vuole…»
Suo
padre l’aveva fatta tacere
con un cenno della mano. «Scordati Tito» le aveva
detto, in tono di sufficienza.
«Tu sposerai il figlio di un capo tribù germanico,
così come ha deciso il
nostro Imperatore.»
Lidia
era sbiancata e aveva
avvertito un capogiro che aveva rischiato di mandarla a terra.
«Un germanico?»
aveva chiesto, in preda allo stordimento, cercando di dare un senso a
quelle
parole. «Sì» aveva replicato suo padre.
«Settimana prossima partiremo alla
volta di Erding per conoscerlo.»
«Padre,
io… io non capisco» aveva
balbettato di nuovo la ragazza, mentre l’angoscia le montava
nel petto.
«L’Imperatore… l’ha deciso
l’Imperatore? Ha detto che io
devo sposare…»
«Per
ora non è necessario che tu
capisca» aveva tagliato corto il senatore, volgendo
già la sua attenzione
altrove. «Capirai più avanti. Adesso devi solo
ubbidire.» Lidia l’aveva
guardato, incredula e con le lacrime agli occhi. Non era possibile. La
liquidava così? Improvvisamente, aveva sentito la rabbia
esplodere dentro di lei.
«No!» aveva gridato, balzando in piedi e stupendo
persino se stessa.
«Lidia!»
aveva però abbaiato suo
padre. «Tu lo farai, parola mia! Non hai scelta!»
«Sì,
che ce l’ho» aveva
protestato, picchiando un piede per terra. «Non voglio
lasciare Tito! Non
voglio sposare un germanico!»
La
ragazza aveva spalancato la porta, intenzionata a fuggire nelle sue
stanze, ma
al cenno di suo padre i due servitori che l’attendevano
all’ingresso l’avevano
bloccata. «Tu lo farai», aveva ripetuto
l’uomo, «o giuro che ti farò processare
come traditrice della Patria.»
In
quel momento la fanciulla non era
stata in grado di dire se quelle di suo padre fossero minacce vane o se
davvero
avrebbe fatto sbattere in prigione la sua stessa figlia, ma la sua voce
controllata e i suoi gelidi occhi grigi le avevano fatto capire di non
avere
scelta. Era in trappola; se n’era resa conto mentre i
contorni del mondo si
facevano grigi e sfumati e le forze la abbandonavano tutto
d’un tratto. «Sì,
signore» aveva sussurrato allora, chinando il capo in preda
ai singhiozzi.
Appena
aveva pronunciato quelle
parole i due servitori avevano allentato la presa e lei era stata
libera di
andare a piangere la propria sorte nel privato della sua camera.
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Capitolo 3 *** 2. Addio ***
Tac-tac-tac…
Il tacco dei
sandaletti che portava ai piedi risuonava secco
sul selciato, un rumore che la teneva ancorata alla realtà e
che riusciva a
penetrare il velo di incoscienza che premeva sui suoi sensi dal giorno
prima.
Dopo lo shock iniziale, Lidia era caduta in preda a una sorta di senso
di straniamento
dalla realtà. Le sembrava di aver abbandonato il proprio
corpo e di osservare
gli eventi dalla prospettiva di una spettatrice esterna, la stessa che
avrebbe
avuto standosene seduta a teatro, soffrendo per le sfortunate vicende
della
protagonista di un’animazione
drammatica.
Il guaio era che
invece era tutto vero, come non mancava di
segnalarle la fitta di panico che l’assaliva ogni volta che
provava a
riscuotersi. La cosa peggiore era la consapevolezza di essere del tutto
impotente di fronte a quella decisione impostale dall’alto:
dal momento che era
stato l’Imperatore a decidere di mandarla in sposa a un
barbaro germanico, non
c’era nulla che lei potesse fare per sottrarsi a
quell’imposizione. Se l’idea
fosse nata da suo padre, forse… ma così, no.
Doveva accettare in silenzio la volontà
del Divo Cesare.
L’aver
scoperto di non essere l’unica fanciulla a dover
sottostare a quell’ingiustizia, ma di condividere il destino
con decine di
altri giovani patrizi, non rendeva la realtà meno
drammatica. Forse un giorno
si sarebbe rassegnata all’idea di doversi sacrificare per un
bene superiore, ma
quel tempo era ancora lontano e l’attesa di non conoscere
ogni dettaglio del suo
destino l’angosciava: per assurdo, Lidia desiderava che i
giorni che la
separavano dalla partenza passassero il più in fretta
possibile, perché quel lento
addio a tutte le cose che amava la stava logorando. Avrebbe voluto
andarsene
subito, farla finita con quella vita e gettarsi in pasto al leone
–
metaforicamente parlando.
Però
con lui non
poteva far finta di niente: a lui,
un
saluto lo doveva. Lui era, ovviamente, Tito Fabio Fusco, il suo
promesso sposo
– o, meglio, il suo ex-promesso
sposo. Anche se erano ormai passati alcuni anni dal giorno in cui aveva
conosciuto il ragazzo, Lidia ricordava perfettamente il pomeriggio in
cui suo
padre l’aveva chiamata nel suo studio – certe
notizie le venivano sempre date
lì – e le aveva comunicato di averle trovato un
marito. All’epoca aveva quattordici
anni appena compiuti e la notizia l’aveva riempita di
meraviglia, dal momento
che Donna Giulia, sua madre, le aveva sempre detto che per gli uomini
c’era
tempo, che lei era ancora una bambina e che non doveva pensare a quelle
cose.
Evidentemente
suo padre era stato di diverso avviso e, come
sempre accadeva in casa, si era fatto quello che voleva lui. Lidia
ricordava
con perfetta chiarezza il timore, ma anche la curiosità, che
aveva provato
mentre scendeva le grandi scale di marmo della sua villa per incontrare
per la
prima volta l’uomo con cui era stata destinata a condividere
la vita. Sarebbe
stato bello? Sarebbe stato forte?
La risposta era
stata un sonoro “no”. A quattordici anni,
Tito era un ragazzino rinsecchito e anche un po’ gobbo, con
dei capelli troppo
lunghi e un incarnato troppo pallido. I suoi occhi neri, grandi e
lucenti, non
erano bastati per farglielo rivalutare.
Per un
po’ di tempo l’aveva odiato. Aveva pianto, si era
chiusa in camera, aveva anche inscenato uno sciopero della fame nel
vano
tentativo di costringere suo padre a riconsiderare le sue posizioni.
Tutto era
stato inutile e, giorno dopo giorno, Lidia si era trovata a dover
dividere
sempre più tempo con Tito, parlando con lui, passeggiando
nei giardini o per le
vie del centro, andando a teatro e qualche volta anche in discoteca – di pomeriggio,
ovviamente, e sempre con una servetta
attaccata alle calcagna. All’inizio Tito parlava poco, si
limitava a guardarla
con quei suoi enormi occhi neri, come se avesse paura di lei, poi aveva
iniziato a buttar lì qualche frase casuale e, poco alla
volta, si era sciolto.
Lidia, che nel frattempo aveva compiuto quindici anni, si era stupita
nel
scoprirlo intelligente e spiritoso. Era sempre gentile con lei,
sopportava i
suoi malumori e li stemperava con una risata. Continuava a rimanere
bruttino,
questo sì, ed era addirittura più basso di lei.
Fino ai
diciassette anni. Poi si era trasformato. Si era
alzato di colpo, le sue braccia esili si erano rinforzate, il suo viso
si era
fatto meno sfuggente. Addirittura la sua pelle aveva assunto un
colorito meno
malsano e, con i capelli corti, pareva un uomo fatto.
Una sera Lidia
l’aveva guardato e si era accorta di essere
innamorata di lui. Ed era stata una gioia, perché non a
tutti capita di
innamorarsi del proprio migliore amico.
Era stata
così contenta di sposarlo… e adesso avrebbe
dovuto
dire addio a quel sogno. A quel sogno, e a una delle persone che
più le stavano
a cuore. Chissà se aveva già ricevuto la notizia?
Immersa in quei
pensieri cupi, Lidia percorse le strade della
capitale, quelle strade che aveva conosciuto per tutta la sua vita,
sfilando
quasi senza rendersene conto attraverso la bizzarra costellazione di
negozi di
lusso e osterie tipiche, forni fragranti di pane e palazzi
istituzionali. Infine,
i suoi piedi la condussero davanti alla casa, ben nota, di Tito.
Appoggiandosi
con una mano alla recinzione di metallo scuro, la fanciulla si
lasciò sfuggire
un sospiro tremulo. Con quale coraggio sarebbe entrata e avrebbe
affrontato il
ragazzo?
Mentre cercava
di trovare la forza di suonare al campanello,
la porta d’ingresso si spalancò e Tito corse
fuori, avvertito forse da qualche
servitore che l’aveva scorta indugiare in strada. Quando
scorse il suo sguardo
sconvolto, Lidia non ebbe più alcun dubbio: il giovane sapeva. Qualcuno gli aveva già
dato la notizia.
Nella notte che
aveva passato insonne, rotolandosi senza pace
tra le coperte, la ragazza aveva studiato un discorso estremamente
dignitoso
con il quale accomiatarsi da Tito, ma quando lui le fu davanti, in
carne e
ossa, si ritrovò a piangere piano, incapace di nascondergli
il suo sconforto. Tito
la raggiunse e, senza dire una parola,
l’abbracciò, tenendola stretta e
nascondendo il volto tra i suoi capelli bruni.
«Verrò
a prenderti» le disse, con voce fremente, premendole e
labbra contro la tempia.
Lidia
alzò su di lui lo sguardo appannato dalle lacrime.
«C-cosa?»
chiese, senza poter evitare che la voce le tremasse.
«Verrò
in Germanica o ovunque ti spediranno», ripeté il
giovane, sul volto l’espressione più dura che gli
avesse mai visto, «e ti
porterò via con me. Non ti lascerò a marcire tra
le mani di un selvaggio!»
Lidia scosse il
capo, asciugandosi gli occhi con il dorso
della mano. «N-non puoi» disse, tristemente.
«L’Imperatore…»
«Che
si fotta l’Imperatore!» sbottò lui.
«Non possono
decidere così delle nostre vite! Non possono!»
La ragazza si
strinse più forte al suo petto, respirando il
suo profumo famigliare. «Anche tu
dovrai…»
«No.»
Tito scosse il capo, troncando la domanda della
fanciulla. «Ma è possibile che prima o poi
chiedano anche a me di sposare una
di loro.»
Posando il capo
sulla sua spalla, Lidia chiuse gli occhi,
cercando di credere alle parole del giovane, senza però
riuscirci. «E dove
andremo?» gli chiese, scoraggiata. Il ragazzo scosse le
spalle, come se la meta
non fosse importante. «Non lo so. Via. Non a Roma. Forse in
Oriente. Tu ami il
caldo…»
Era vero, ma la
ragazza non riusciva ad avere fiducia il quel
progetto. Avvertendo la sua esitazione, Tito le posò le mani
sulle spalle e la
staccò da sé. «Ti fidi di
me?» le chiese, guardandola negli occhi.
Non
lo so, fu la risposta
che, immediatamente,
si affacciò alla mente di Lidia: si fidava delle sue buone
intenzioni e della
sua determinazione, ma non della sua capacità di portare a
termine un’impresa
tanto difficile da sembrare disperata.
«Sì» sussurrò invece,
cercando di
rivolgergli un pallido sorriso.
«Quanto
tempo abbiamo?» chiese il giovane, stringendo più
forte le spalle della compagna.
«Partirò
settimana prossima» mormorò lei. «Non so
esattamente
quando, però.»
Tito
annuì. «D’accordo. Ti hanno detto dove
andrai?»
La giovane
cercò di ricordare le parole del padre, poi
corrugò la fronte, maledicendo le sue scarse conoscenze
geografiche. «Esiste un
posto che si chiama Erding?» chiese, mentre un leggero
rossore le colorava le
guance. Tito si illuminò. «Certo che
esiste!» esclamò. «Ed è anche
perfetto! Ho
diversi amici di stanza proprio lì. Portarti via non
sarà difficile.»
Con un sorriso
trionfante, il ragazzo si chinò su di lei e la
baciò, stringendola come se intendesse fonderla col proprio
corpo. Anche se non
riusciva affatto a condividere il suo ottimismo, Lidia si
lasciò cullare dalle
sue braccia e dal suo calore famigliare e, per qualche minuto,
l’angoscia della
partenza imminente fu mitigata dall’amore di quel giovane
uomo testardo e
coraggioso.
***
Aggiornamento
anticipato
al giovedì, visto che nel WE sarò senza
internet…
|
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Capitolo 4 *** 3. Punti di vista ***
Nelle due ore
che trascorsero insieme, Tito tentò di
illustrare a Lidia i confusi dettagli del piano che gli si stava
disegnando
nella mente, ma la ragazza non era dell’umore giusto per
ascoltare quelle
congetture. Rannicchiata contro il suo petto, la giovane cercava di
trarre
conforto dalla sua presenza e dal suo calore, più che dalle
cose che andava
dicendo – anche perché, man mano che Tito
acquisiva sicurezza nelle sue idee,
la fanciulla ne perdeva. Malgrado l’enfasi crescente che il
ragazzo metteva
nelle sue parole, infatti, Lidia non riusciva a credere che i progetti
di fuga elaborati
da Tito potessero funzionare nella realtà.
Sembrerebbero
ridicoli
persino in un libro,
pensava, sconsolata. Noi non siamo i tipi
da mollare tutto e scappare via, da soli, magari inseguiti da dei
malintenzionati. Ci riacciufferebbero dopo qualche ora.
Quando, nel
tardo pomeriggio, Lidia lasciò la casa di Tito,
non poté fare a meno di sentirsi più sperduta e
confusa di quando vi era
entrata. Se da un lato le faceva piacere sapere che il giovane
l’amava al punto
da essere disposto a lasciare tutto quello che aveva a Roma per fuggire
con
lei, dall’altro la consapevolezza di quanto fosse pericoloso
anche solo discutere di quei
progetti le faceva
tremare le mani. La sua mente, abituata a cercare sempre il lato
negativo di
ogni situazione, le illustrò con una certa dovizia di
particolari tutto quello
che sarebbe potuto andare storto. In primis, il viaggio da Roma alla
Germanica:
con quale scusa Tito si sarebbe allontanato dalla casa paterna? Avrebbe
viaggiato da solo? E poi, naturalmente, vi era la fuga in
sé. Ci prenderanno,
pensava. Ci ammazzeranno di sicuro. I
germanici non
apprezzeranno un mio tentativo di fuga. E nemmeno
l’Imperatore lo apprezzerà,
in effetti. Ci farà cercare dall’esercito, ci
arresterà, ci condannerà a… e se
anche riuscissimo a farla franca, moriremmo comunque di fame. Non
sappiamo fare
niente, noi. Dove prenderemmo i soldi? Di certo papà non
sarà disposto a
passarmi una paghetta mensile…
Senza nemmeno
rendersene conto, Lidia prese a girovagare per
le strade di Roma e fu solo quando si trovò di fronte a una domus famigliare che si riscosse dalla
sorta di trance nella quale era caduta. Era la casa di Lucilla,
un’altra
persona che le sarebbe mancata da morire, su nelle fredde foreste
germaniche.
Senza esitare,
Lidia premette con forza un dito sul
campanello di bronzo che scintillava nella luce calda
dell’ora che precede il
tramonto e attese che qualcuno venisse a riceverla. «Donna
Lidia» l’accolse,
dopo qualche minuto, un’anziana serva. «Posso fare
qualcosa per te?»
«Lucilla
è in casa?» chiese, allungando il collo per spiare
oltre il cancello. «Tra qualche giorno lascerò
Roma e vorrei salutarla.» La
donna la lasciò entrare: «Naturalmente; vado
subito a chiamarla. Vuoi
accomodarti in casa?»
La giovane
scosse il capo. «No, grazie. Aspetterò in
giardino.» Mentre la serva si allontanava con un cenno
d’assenso, Lidia si
lasciò scivolare sulla panca di granito posizionata
all’ombra del grande leccio
che svettava nel centro del giardino della casa dell’amica. Ho sempre amato questa pianta,
pensò,
inclinandosi all’indietro fino a quando la schiena
incontrò la corteccia
ruvida. Un tempo a uno dei rami più bassi era appesa
un’altalena e lei e
Lucilla avevano passato dei pomeriggi memorabili a dondolarsi
nell’ombra fresca
e a fingere di prendere il volo.
Abbiamo
anche fatto litigate memorabili, qui sotto, ricordò,
con un sorriso carico di
nostalgia. Litigate che si risolvevano nel giro di pochi minuti,
però, perché
Lucilla era così: le bastava un istante per passare
dall’allegria più sfrenata alla
rabbia più esplosiva… e viceversa. Lidia la
invidiava.
Chissà
se in Germanica
crescono i lecci,
pensò la ragazza, alzando gli occhi sulle foglie che
fremevano, scosse da una
brezza leggera. Non ne aveva idea, ma nella sua fantasia le foreste del
nord erano
popolate da enormi abeti neri e vecchi alberi lugubri e scuri,
ricoperti di
muschio ed erbe limacciose. La fanciulla tremò dal disgusto
al solo pensiero di
sfiorare uno di quegli alberi; poi
una voce proveniente dalla sua sinistra la distrasse. «Eccoti
qui! Cosa ci fai qui
fuori? Potevi entrare in casa!»
Lidia si
voltò verso l’amica, sulle labbra un sorriso
pallido. «Sono un po’ troppo nervosa per starmene
seduta al chiuso… preferisco
restare all’aperto, almeno non mi manca
l’aria» confessò. Lucilla
sbatté
rapidamente gli occhi, elaborando le parole della ragazza bruna, poi
ridacchiò.
«Aaah, ho capito: tu dove vai?» le chiese,
guardandola con fare eloquente.
«A
Erding, o da quelle parti» replicò Lidia,
sorpresa. «Parti
anche tu?»
Lucilla
annuì. «Sì» disse, con aria
svagata. «Però io vado
più a nord. Afen, Asen, qualcosa del genere. Nel bel mezzo
delle montagne,
comunque. Mi sono informata e mi hanno detto che, da quelle parti,
d’inverno
nevica un sacco: spero che non mi si ghiaccino le dita dei
piedi!»
Lidia non
poté fare a meno di percepire una nota stonata.
«Non
mi sembra che la cosa ti disturbi più di tanto»
fece, incerta, osservando con
attenzione il volto luminoso di Lucilla.
L’altra
fanciulla rise, quasi trovasse la sua perplessità
estremamente divertente. «No, infatti!»
L’amica
la guardò con tanto d’occhi: come poteva prenderla
così alla leggera? «M-ma…»
balbettò. «Ma non hai paura? Dover sposare un
germanico…»
Lucilla
sventolò una mano con aria di sufficienza. «E che
vuoi che sia?» sbuffò. «Tanto gli uomini
sono tutti uguali. Prendilo romano o
prendilo germanico poco cambia, solo una cosa vogliono!»
Lidia arrossì,
intuendo il significato non detto. «Se non altro»,
sorrise Lucilla, «su
dovrebbero esserci un po’ meno formalità! O
così mi hanno detto, almeno.»
La ragazza
scosse il capo: Lucilla riusciva a trovare un
risvolto positivo praticamente in tutto. A
volte si chiedeva se al mondo esistesse qualcosa in grado di
abbatterla. «E non
ti dispiace lasciare Roma?» indagò.
«Un
po’», ammise l’amica, facendo le
spallucce, «però in
Germanica ci sono tante cose interessanti…»
«La
nebbia» sospirò Lidia.
«Gli
orsi neri!» controbatté la seconda ragazza.
«Pioggia
tutto l’anno» gemette Lidia.
«I
lupi striati!» esclamò Lucilla.
«Ma
queste non sono cose positive!»
«Come
no! Sarà un’avventura!»
Lidia si
passò una mano sul volto, trovandosi a sorridere suo
malgrado. A volte si stupiva di come lei e Lucilla avessero potuto
diventare
tanto amiche: la loro diversità non si limitava
all’aspetto fisico – Lucilla
era bionda, paffuta e con dei grandi occhi azzurri, mentre Lidia era
scura e
minuta – ma interessava soprattutto i loro caratteri. Se
Lidia bramava la
tranquillità e la sicurezza, gli occhi di Lucilla si
illuminavano di fronte
alla prospettiva dell’avventura e del pericolo.
Non che si fosse
mai realmente trovata in una situazione di
pericolo, comunque.
«E
Tito come l’ha presa?» chiese la bionda, facendosi
seria.
Lidia si
guardò attorno per assicurarsi che nessuno la
sentisse, poi sussurrò, avvicinandosi all’orecchio
dell’amica: «Dice che verrà
a prendermi. Ha degli amici di stanza a Erding e secondo lui portarmi
via da lì
sarà piuttosto semplice.»
Lucilla la
guardò con aria critica. «Lidia… a me
non sembra
una grande idea. Se anche ci riuscisse… dove
andreste?»
Lidia
strusciò la punta del piede a terra, afflitta. «Lo
so»
sospirò. «Nemmeno a me convince, il suo piano.
Però lui è così
deciso…»
La sua amica
scosse il capo. «Finirà col farsi
ammazzare» borbottò,
rivolta più a se stessa che a Lidia.
«Ho
cercato di fargli cambiare idea, ma lui… l-lui è
così
determinato. Ho paura che faccia qualche idiozia…»
la ragazza sentì le lacrime
bruciare agli angoli degli occhi. Avvertendo che l’umore
dell’amica era in
caduta libera, Lucilla corse ai ripari. «Su, vedrai che
cambierà idea. Deve
solo abituarsi alla tua partenza. E chissà, magari ti
troverai bene con il tuo
nuovo marito. Io spero di trovarmi bene con il mio», si
interruppe di colpo,
poi sorrise, «per quanto non so come farò a non
scoppiare a ridere ogni volta
che pronuncerò il suo nome. Si chiama Ekbert. Che razza di
nome è Ekbert?! Sembra
uno starnuto! Vorrei
tanto che avesse un nome normale, come… non so…
per esempio, il tuo come si
chiama?»
Travolta dal
fiume di parole di Lucilla, Lidia ci mise qualche
attimo a capire che la ragazza le aveva rivolto una domanda.
«Eh… io… io non lo
so» disse, quasi stupita.
La giovane
bionda la guardò con gli occhi sgranati. «Non lo sai? Ti sposi tra meno di un mese
e non sai nemmeno come si chiama il tuo uomo?»
«Non
me lo sono certo scelta io» ribatté Lidia, un
po’
piccata.
«D’accordo,
ma non sei curiosa?»
La ragazza bruna
si strinse nelle spalle, abbassando lo
sguardo. «No» ammise. «Preferisco non
pensarci, a dire il vero. Se non ci penso,
mi sembra che non sia vero niente.»
Lucilla scosse
il capo, guardando l’amica con un’espressione
preoccupata. «Fare così non ti aiuterà,
Lidia» le fece notare, con delicatezza.
«Al di là delle battute, ho preso
anch’io un colpo, quando l’ho scoperto.
Però,
poi, riflettendoci bene, ho pensato che, forse, anche da questa cosa
potrà
venire qualcosa di buono. Anzi, sono certa che sarà
così.»
La giovane
annuì. «Sì, lo so»,
sospirò, «ma per te è più
facile. Io invece ho Tito.»
«Avevi Tito…»
«So
anche questo!» scattò Lidia, facendola sobbalzare.
«Non c’è
bisogno che tu me lo ripeta!»
Sorpresa dal
tono dell’amica, anche Lucilla alzò la voce.
«Lo
ripeterò finché non smetterai di far finta che
questa sia solo una situazione
momentanea! Perché ho come l’impressione che tu ci
creda veramente, al progetto
di Tito… quindi te lo ripeto: è una pazzia. Voi
non potete scappare insieme!»
«So
come stanno le cose», fece Lidia, balzando in piedi e
iniziando
a camminare nervosamente avanti e indietro, «ma io voglio
crederci! Voglio
credere di avere una via d’uscita!» In due passi
Lucilla la raggiunse e la
afferrò per le spalle. «E per far cosa? Per stare
ancora peggio quando non
succederà e dovrai ammettere di esserti illusa
inutilmente?»
Lidia
soppesò le parole della ragazza. «Dovrei fare come
fai
tu, allora? Rassegnarmi già in partenza?»
Lucilla scosse
la testa. «Ma non vedi che io non sono rassegnata?
Io voglio impegnarmi per
essere felice. Qui, in Germanica… non mi interessa, non
permetterò a nessuno di
rovinarmi la vita.»
«Facile
dirlo adesso» mormorò Lidia, lanciandole
un’occhiata
storta. «Vallo a spiegare a quel selvaggio
di tuo marito, quando ti farà diventare la sua schiava e ti
costringerà a
sfornare un figlio all’anno.»
Lucilla la
soppesò con lo sguardo. «Non ti sembra di essere
un po’ troppo melodrammatica, adesso?»
«In
che senso?»
«Non
mi pare che le donne germaniche siano tutte delle serve
dei loro uomini.»
Lidia la
guardò con aria critica. «Ne hai incontrate
molte?»
«Qualcuna»
rispose Lucilla, con una smorfietta.
«E
comunque noi siamo romane» insistette la ragazza bruna.
«Quelli
ci odiano e di certo non ci renderanno la vita facile.»
La bionda si
strinse nelle spalle. «Forse», concesse,
«e
forse no. Io non li odio, magari nemmeno mio marito odierà
me. E comunque non
sarà certo immune al mio fascino femminile.»
Lidia si
ritrovò a sorridere di fronte all’atteggiamento da
donna navigata assunto dall’amica, mentre
l’irritazione di un istante prima
iniziava a sfumare. «E comunque non è solo
quello» disse, dopo alcuni minuti in
cui le due ragazze osservarono in silenzio il giardino, ognuna persa
nei propri
pensieri. «Ho paura che mi mancherà Roma, la vita
qui, i miei amici…»
«…
i tuoi genitori?» le suggerì Lucilla.
«Mia
madre, se non altro» borbottò lei.
«Be’,
penso che sia normale», disse pensierosa la ragazza bionda,
«ma è per questo che io intendo cercare di
ambientarmi subito. Del resto siamo
donne, l’abbiamo sempre saputo che un giorno o
l’altro avremmo dovuto farci una
nuova famiglia, no?»
Lidia dovette
ammettere che, in un certo senso, Lucilla non
aveva tutti i torti. Anche se, fino al giorno prima, lei era stata
convinta che
la sua nuova famiglia sarebbe stata a Roma, poco distante dalla casa
dove era
nata e cresciuta. «Forse hai ragione»
sospirò, cercando vanamente di
convincersi che c’era una certa dose di verità,
nelle parole di Lucilla.
«Ma
certo che ho ragione!» esclamò la sua amica,
passandole
un braccio attorno alle spalle. «Ma adesso basta parlare di
queste cose. Ci
restano solo un paio di giorni qui a Roma: godiamocela!»
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Capitolo 5 *** 4. Al primo sguardo ***
Colle di
Hudwill - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 30 Aprile
«Ecco, Lidia, questo è il
confine»
sussurrò Donna Giulia, posando una mano sulla spalla della
figlia e
scrollandola piano.
«Mh» grugnì la
ragazza, lanciando uno
sguardo apatico fuori dal finestrino del carro automatico sul quale
stavano
viaggiando. Non c’era praticamente nulla, lì: solo
un ammasso di casupole che
si perdevano nell’atmosfera grigia e umida di quella che, in
teoria, avrebbe
dovuto essere una giornata primaverile. Il solo pensiero di abbandonare
il
tepore del carro le faceva venire il mal di stomaco.
«Sei sicura di non volerti fermare a
prendere qualcosa?» insistette la donna più
anziana, con una nota di
preoccupazione nella voce. «Non voglio niente»
bofonchiò compostamente Lidia,
senza nemmeno girarsi verso la madre. Donna Giulia esitò
qualche istante, poi
si lasciò ricadere sul proprio sedile con un sospiro
preoccupato.
Lidia ci aveva provato, a seguire il
consiglio di Lucilla. Ci aveva provato, a vivere con uno spirito
più positivo
quella nuova fase della sua vita, ma proprio non ci riusciva. Man mano
che il
carro proseguiva verso nord, si sentiva sopraffare sempre
più da un’angoscia
difficile da contrastare. Erano in viaggio da un giorno intero e il
paesaggio
fuori dai finestrini non aveva più nulla di simile alle
verdi, dolci colline e
ai campi di grano che aveva lasciato lontano, in quella che avrebbe per
sempre
chiamato casa. Forse era anche
colpa
del tempo: da un paio di ore aveva infatti iniziato a piovere. Non una
pioggia
forte, tipo temporale, ma una pioggerellina insistente e sottilissima,
accompagnata
da una nebbia persistente che rendeva il paesaggio uniforme e ben poco
attraente.
A
Roma non c’era mai questo nebbione, pensò Lidia, afflitta. Non era vero,
naturalmente, ma quel clima tutt’altro che primaverile, in
netto contrasto con
il sole splendente che aveva lasciato nella grande metropoli, le pareva
di
pessimo auspicio.
Appoggiando la fronte al finestrino
freddo, la ragazza lasciò scorrere uno sguardo assente sul
paesaggio che
sfilava davanti ai suoi occhi, senza badare alla nuvoletta di condensa
che il
suo fiato aveva disegnato sul vetro. Campi bagnati, prati costellati di
pozzanghere, strade di terra nera, alberi scuri, contadini avvolti nei
loro
pesanti pastrani, orti ancora desolatamente spogli e…
«Madre!» esclamò
Lidia, rianimandosi
tutta d’un tratto. «Guarda! Quel carro è
trainato da dei cavalli!» La fanciulla
sapeva che non ovunque si usavano i carri automatici che erano tanto
diffusi a
Roma, ma quella era la prima volta che vedeva con i propri occhi un
mezzo di
trasporto che non sfruttava l’energia del sole, ma quella
degli animali. Donna
Giulia si sporse per guardare le bestie indicatele dalla figlia.
«Già»
confermò. «Non se ne vedono tanti giù
dalle nostre parti…»
«In compenso qui non ho visto carri
automatici» notò con preoccupazione la ragazza.
«Dici che non li usano?» Sua
madre si strinse nelle spalle, incerta. «Non lo so, piccola,
forse qui non c’è
abbastanza sole per alimentarli e quindi questa gente è
costretta a ricorrere
ai cavalli…»
«Ma no, stupide!»
sbottò il senatore Prisco,
sollevando il naso dai comunicati che stava studiando. «I
carri automatici sono
poco adatti per muoversi sulle strade di montagna: sono troppo strette.
Un
carro automatico sarebbe solo una spesa inutile, da queste parti. Il
sole non
c’entra niente.»
Il rimprovero del padre soffocò lo
sprazzo di curiosità di Lidia, che tornò a
rinchiudersi nel suo mutismo e a
scrutare torva il paesaggio.
Erding - Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 1 Maggio
L’alba che stava sorgendo su Erding
era umida di rugiada e di pioggia cessata da poco. Lidia
poggiò esitante un
piede fuori dal carro e fu grata di avere indossato degli abiti
più pesanti di
quelli che portava di solito. Faceva freddo, molto più
freddo di quanto si sarebbe
aspettata e, anche se l’aria era tersa e piena del cinguettio
dei primi
uccelli, la fanciulla non poté fare a meno di osservare
preoccupata le montagne
che si ergevano tutt’intorno alla stretta valle. Sapeva che
non erano le più
alte della regione, ma a lei, abituata alle dolci colline romane,
parvero dei
giganti neri che la scrutavano con occhi malevoli.
Non
essere melodrammatica! La
voce di Lucilla risuonò chiara nelle sue
orecchie e la ragazza ebbe l’assurdo impulso di guardarsi
attorno per
sincerarsi che l’amica non fosse effettivamente lì
con lei. La notte insonne
passata sul sedile del carro le aveva irrigidito tutti i muscoli e la
giovane
si stiracchiò, discretamente, nel tentativo di sciogliere i
nodi dolorosi alla
schiena e al collo. Immediatamente, un refolo d’aria fredda
le si infilò sotto
la mantella che le cingeva le spalle e lei se la strinse addosso,
tremando
violentemente. In cerca di protezione dalla brezza gelida – e
forse,
inconsciamente, dal destino che stava per compiersi – Lidia
si avvicinò al fianco
della madre, guardandola da sotto in su e cercando di spiare una
qualche
reazione sul suo volto. Donna Giulia se ne stava rigidamente in piedi
di fianco
al carro, aspettando che suo marito facesse ritorno in compagnia del
Legato
Quinto Anicio Libo, davanti alla cui domus
si trovavano al momento.
«Madre?» Lidia andò
in cerca di una
parola di conforto, ma negli occhi scuri della madre – quegli
occhi che
assomigliavano tanto ai suoi – non lesse altro che un affetto
triste. La
ragazza sapeva che la donna non poteva fare nulla per cambiare la sua
sorte,
tuttavia avrebbe apprezzato un piccolo incoraggiamento.
Era una donna quieta, Giulia, e Lidia
le assomigliava molto. La fanciulla si chiese se anche sua madre
provasse di
tanto in tanto quel senso di ribellione e quella rabbia che le facevano
venir
voglia di urlare fino a farsi bruciare i polmoni; e se, soprattutto,
fosse
altrettanto brava a soffocare quegli impulsi e a relegarli
nell’angolo più
remoto del suo essere, sepolti sotto strati di cortesia e timidezza.
Glielo
avrebbe chiesto, forse, consapevole che quella era una delle ultime
occasioni
che aveva per parlare a quattr’occhi con Donna Giulia.
L’arrivo di suo padre e
del Legato, tuttavia, la costrinse a desistere.
Quinto Anicio Libo non era un uomo
particolarmente giovane, con ogni probabilità andava ormai
per i cinquanta, ma
era alto e asciutto e aveva un viso dall’espressione gentile,
con due occhi
buoni che rincuorarono un poco Lidia. Nel vederlo, la fanciulla
pensò di aver forse
trovato un volto amico anche in quel villaggio buio e umido.
«Donna Giulia, Lidia», disse il
Legato,
allargando le braccia per accogliere le due donne, «benvenute
a Erding. Siete
arrivate giusto in tempo: negli ultimi giorni ha piovuto molto, ma ora
il tempo
dovrebbe volgere al meglio… o così mi
dicono.» Donna Giulia gli rivolse un
sorriso cordiale e Lidia la imitò, cercando di evitare che
il suo nervosismo si
manifestasse nel sorriso che rivolse all’uomo. I suoi
tentativi non ebbero
successo, perché Quinto si rivolse a lei, divertito:
«Sei nervosa?»
La fanciulla annuì. «Un
po’» sussurrò,
con gli occhi bassi.
«Solo un po’, eh?» Il
sorriso sul
volto del Legato si allargò, ma non era un sorriso di
scherno e Lidia riuscì a
ricambiarlo un’altra volta. «È
normale», cercò di rassicurarla l’uomo,
«ma
vedrai che la paura passerà una volta che ti sarai
ambientata un pochino e avrai
visto che non c’è nulla da temere, qui.»
La ragazza lo guardò con due occhi
enormi. «No?»
«No» confermò
Quinto. «E comunque c’è
un manipolo di legionari di stanza alle porte della città,
per cui la pace è
garantita.» Lidia avrebbe voluto chiedere perché
ci fosse bisogno di così tanti
soldati, se la situazione era davvero così tranquilla, ma
non disse nulla: del
resto, la sua unica, remotissima possibilità di fuga era
legata proprio a quei
militari, quindi non l’avrebbero certo sentita lamentarsi
della loro presenza. «Bene»
disse il Legato, battendo le mani e indicando ai servitori di scaricare
i
bagagli. «Volete riposarvi un po’ o preferite
visitare il paese?»
«Visitiamo il paese!» rispose
subito
Lidia, che voleva conoscere il prima possibile il luogo in cui avrebbe
passato
il resto della vita, ponendo così fine alla logorante attesa
che durava ormai
da più di una settimana.
Annuendo, Quinto li condusse fuori
dalla sua proprietà e attraverso le strade sconnesse di
Erding. Definirla città,
scoprì Lidia, era assolutamente
troppo lusinghiero. Si trattava piuttosto di un grosso villaggio, con
case in
legno e pietra, tutte uguali, tutte scure, con le travi annerite
dall’esposizione al sole e il muschio che si arrampicava su
dal terreno a causa
dell’umidità eccessiva. Nel giro di una decina di
minuti, il sole fece capolino
da dietro le creste e l’atmosfera si sarebbe anche potuta
definire
relativamente piacevole, se non fosse stato per il disagio che la
fanciulla
provava per la calma surreale che regnava in quel luogo. Le strade
erano
completamente deserte e, fino a quel momento, non avevano incontrato
anima
viva. «Ma non ci abita nessuno, qui?» chiese, ad un
certo punto.
Quinto ridacchiò. «Certo che
ci abita
qualcuno… in questo momento però se ne stanno
tutti in casa, a spiarti da
dietro le finestre e a spettegolare su di te.»
Lidia sbiancò. «E
perché dovrebbero
fare una cosa del genere?»
Il Legato la guardò con un sorriso.
«Non
sai molto della vita di paese, vero?» La ragazza storse
appena il naso davanti alla
canzonatura non troppo velata dell’uomo, ma fu felice di
notare che il sapersi
spiato non fece piacere nemmeno a suo padre, che improvvisamente prese
a
lanciare occhiate feroci tutt’attorno a sé.
Il gruppetto giunse in una piccola
piazza circolare, dove, finalmente, ebbero modo di incrociare i primi
abitanti
del luogo. Si trattava soprattutto di donne e Lidia guardò
stupita le loro
semplici vesti di lana e i loro lunghi capelli, che portavano sciolti,
in
un’acconciatura che la giovane non aveva mai visto sfoggiare
a nessuna donna di
buona famiglia. Sebbene provasse una certa curiosità nei
confronti di quelle
persone, che già al primo sguardo le parvero terribilmente
diverse da quelle
con cui era solita avere a che fare, Lidia distolse lo sguardo in preda
all’imbarazzo quando sentì su di sé i
loro occhi: tra la piccola folla radunata
nella piazza, c’era chi pareva condividere la sua stessa
curiosità, ma alcuni
di loro – soprattutto una manciata di uomini –
sembravano guardarla quasi con
ostilità. Nel tentativo di sfuggire a
quelle attenzioni,
la ragazza si finse interessata alla statua che dominava il centro
della
piazza. «Chi è quello?» chiese,
indicando la raffigurazione di un giovane da
capelli ricci e con uno strano elmo in testa, immortalato
nell’atto di levare
al cielo una spada.
«Quello è Arminio, il
più grande degli
Dèi germanici» le spiegò Quinto,
seguendo la direzione del suo sguardo. «Stai
attenta a non parlarne male: sono piuttosto suscettibili, quando si
tratta di
religione.» Lidia annuì, prendendo nota di quanto
le aveva detto il Legato, e
poi si affrettò a seguire i suoi genitori, che si stavano
già allontanando
dalla statua del giovane guerriero.
Il resto della mattinata passò
più
rapidamente di quanto si sarebbe aspettata. Erding era piccolo, ma
Quinto
riuscì comunque a scovare diversi luoghi
d’interesse da mostrarle: la piazza in
cui, un giorno alla settimana, si teneva il mercato, il macellaio con
la carne
migliore, la bottega alla quale rivolgersi per ottenere dei tessuti di
qualità.
La fanciulla faceva segno di sì con il capo e sorrideva in
silenzio, cercando
di nascondere il proprio disagio e l’imbarazzante
realtà che lei non la sapeva
nemmeno cucinare, la carne.
Man mano che le ore passavano e il
sole si alzava nel cielo, accorciando le ombre, Lidia sentiva crescere
in sé
l’inquietudine. Sapeva che avrebbe dovuto conoscere il suo
futuro sposo, quel
giorno, ma il fatto di non essere a conoscenza dell’orario in
cui ciò sarebbe
avvenuto la riempiva d’angoscia. Quando giunse
l’ora di pranzo, la giovane
aveva lo stomaco talmente chiuso che dovette farsi violenza per
mangiare, per
educazione, i manicaretti che Quinto fece servire loro. Quando, poco
dopo, due
ancelle vennero a chiamarla, stringendo tra le mani un pettine e delle
vesti
pulite, Lidia si sentì sul punto di svenire. Qualcosa, nel
profondo del suo
petto, le imponeva di ribellarsi, di rifiutare quello che le pareva un
sopruso,
ma le sue gambe si mossero in automatico, permettendo così
alle due giovani di
scortarla in un’altra stanza.
Le ragazze la lavarono e la vestirono;
quando però le pettinarono i capelli e le proposero di
lasciarli sciolti, alla
moda delle donne germaniche, la fanciulla si oppose. No, li avrebbe
raccolti,
così com’era sempre stata abituata a fare. Senza
le trecce arrotolate sul capo
si sentiva quasi nuda, vulnerabile: in quel momento, non era disposta a
rinunciare anche a quel misero conforto. Dopo quella piccola presa di
posizione, però, Lidia fu colta da una sorta di senso di
ineluttabilità e rinunciò
a opporsi agli eventi. Seguì allora i suoi genitori e il
Legato camminando per
le strade di Erding quasi in trance, senza riuscire a concentrarsi su
qualcosa
che non fosse il battito del suo cuore e il suo respiro affannato.
Dalla
direzione che avevano preso era convinta che la stessero portando nella
piazza
con la statua; Quinto, tuttavia, deviò improvvisamente e si
infilò in una via
laterale, leggermente in salita, prima di fermarsi davanti a una casa
che non
aveva nulla di diverso da tutte le altre.
Il Legato bussò deciso alla porta di
legno e immediatamente una vecchia donna venne ad aprirla. Aveva i
capelli scarmigliati
e bianchissimi e i suoi occhi azzurri, appannati
dall’età, trapassarono Lidia
da parte a parte. Non sembra
particolarmente felice di vedermi, comprese la ragazza, con
un brivido.
«Buongiorno, Donna Edda» la
salutò
Quinto. «Questa è la futura sposa, possiamo
entrare?»
La donna annuì secca e si fece da
parte brontolando a bassa voce. Lidia tese le orecchie per decifrare il
senso
delle sue parole, ma la vecchia parlava un dialetto germanico che alla
ragazza
non parve altro che un ringhio sordo.
«Sul retro» disse
improvvisamente la padrona
di casa, passando al latino: la sua voce era fragile, ma
sorprendentemente
tagliente. Attraversando la stanza senza nemmeno vedere quello che le
stava
attorno, quasi come se qualcuno le avesse stretto il volto in una
coppia di
paraocchi, Lidia si ritrovò in una sorta di giardino
protetto da un alto muro
di sasso. Lì, si accorse con un tremito, era riunita quella
che con ogni
probabilità era la famiglia del suo futuro sposo. La sua nuova famiglia.
Erano ancora peggio di quello che si
era aspettata. Gli uomini le parvero tutti eccezionalmente alti e
insolitamente
robusti – sebbene, le fece notare la sua mente, era
probabilmente colpa degli
abiti pesanti che indossavano – e, cosa che la
impressionò, portavano tutti una
barba più o meno abbondante e capelli lunghi fino alle
spalle.
Quando i quattro romani fecero il loro
ingresso nello spazio recintato, tutti si voltarono a guardarli, ma
Lidia si
rese conto che c’era qualcuno che la fissava con
più insistenza degli altri: si
trattava di un uomo dall’età indefinibile, dai
capelli grigi e gli occhi
chiari. Anche se era seduto a parecchi metri di distanza da lei, la
fanciulla
riuscì a vedere la deformità della sua gamba
destra, forse la traccia di un
antico incidente che lo costringeva seduto sull’alta sedia di
legno.
Non
sarà mica lui mio marito, vero? In preda a un panico improvviso, la
ragazza retrocedette di un passo e si scontrò contro il
petto di Quinto, che
esalò bruscamente. Da qualche parte alla sua destra giunse
una risata sommessa
e voltandosi in quella direzione Lidia incontrò gli occhi
glaciali di una
giovane donna dai capelli così chiari da sembrare bianchi.
La giovane la
guardava con un ghigno tutt’altro che amichevole e,
fissandola dritta in viso,
disse qualcosa ai due uomini che le stavano accanto. I due annuirono e
la
fissarono a loro volta, uno con un’espressione di scherno sul
volto, l’altro
con palese disprezzo. Lidia rabbrividì e arrossì,
distogliendo lo sguardo e pregando
che nemmeno uno di loro fosse la
persona che era obbligata a sposare. Voltandosi dall’altra
parte incrociò lo
sguardo curioso di un uomo bruno, che subito alzò gli occhi
su Quinto con
un’espressione interrogativa. Alle sue spalle il Legato
scosse le spalle, come
per dire che non importava, e poi fece un passo avanti, rivolgendosi
direttamente all’uomo sulla sedia. «Gefrid, siamo
qui per presentare a te e
alla tua famiglia questa fanciulla, Lidia Aurelia Prisca, promessa
sposa di tuo
figlio Ulf.»
L’uomo annuì e, malgrado
tutto, Lidia
tirò un sospiro di sollievo. Meglio
suocero che marito, pensò. Il Legato si
voltò poi verso la fanciulla e le prese
le mani nelle sue. «Lidia, ti presento tuo marito, Ulf. Forse
potrai pensare
che…» l’uomo si interruppe e si
guardò attorno, confuso.
«Ehm…»
In quel momento la porta alle loro
spalle si aprì e un ragazzo fece il suo ingresso,
precipitandosi nel giardino e
piegandosi a metà come per riprendersi da una corsa.
«Scusate» boccheggiò.
«Oh, eccoti qui!»
esclamò Quinto, con
un sorriso. «Mi stavo appunto chiedendo dove fossi finito.
Bene, come stavo
dicendo…»
Quinto riprese le mani di Lidia e
ricominciò a parlare, ma la ragazza non lo ascoltava
più. Quello era Ulf?
Era giovane, all’incirca della sua età, e bello,
con due grandi occhi verdi come l’acqua e un ciuffo di
capelli scuri e scompigliati.
Quando si accorse della sua attenzione le fece un sorriso che gli fece
comparire due adorabili fossette sulle guance. Forse
non sarà così dura come pensavo, si
disse la giovane, mentre
un sollievo caldo e liquido le colava nello stomaco.
«Lidia, se vuoi andare a stringere la
mano al tuo fidanzato…» le disse gentilmente il
Legato. Nell’udire
quell’invito, la fanciulla si riscosse. «Oh,
sì certo» disse, muovendo un passo
verso il ragazzo dai capelli scuri. La mano di Quinto la
fermò. «Cosa…?»
l’uomo
si interruppe, illuminandosi in volto. «Ah, no, scusa per il
malinteso!»
Lidia lo guardò, cercando di afferrare
la situazione. «Eh?»
«Quello è Hermann, il fratello
minore
di Ulf» le disse l’uomo, prendendola delicatamente
per le spalle e facendola
girare. «Tuo marito è lui.»
Seguendo
la direzione indicata dal cenno di Quinto e arrossendo mortificata,
Lidia
incrociò lo sguardo del suo vero marito
e si sentì morire.
Or
dunque, facciamoci due conti. Prologo: 174 visualizzazioni; 1 commento.
Primo
capitolo: 89 visualizzazioni; 0 commenti. Secondo capitolo: 91
visualizzazioni;
1 commento. Terzo capitolo: 47 visualizzazioni; 0 commenti.
Io
non sono una che venderebbe un rene per una recensione: del resto,
questa
storia è quasi del tutto scritta ed è pianificata
nel dettaglio fino all’epilogo,
motivo per cui non mi serve avere il supporto di chi legge per sentirmi
motivata a scrivere. Però qualche domanda me la faccio lo
stesso. Se un buon
numero di gente legge quello che scrivo e non trova comunque un
accidente di
niente da dire, questo è sicuramente indicativo di un certo
disinteresse. E se
una cosa non interessa, se annoia, vuol sicuramente dire che
c’è qualcosa che
non va… purtroppo, però, io non sono in grado di
identificarlo con chiarezza,
quel qualcosa. Per migliorare e sistemare i dettagli (e non solo
quelli) mi
serve necessariamente un feedback di qualche tipo: qualcuno sarebbe
così carino
da darmelo?
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Capitolo 6 *** 5. Il prezzo di una figlia ***
Lidia non era mai stata una persona
particolarmente religiosa e già da qualche anno si chiedeva
se ci fossero
davvero degli Dèi, nascosti negli angoli dei templi e nelle
profondità dei
boschi. In quel momento, quando si trovò ad abbassare il
capo sotto lo sguardo
del suo futuro marito, i suoi dubbi scomparvero definitivamente: gli
Dèi non
erano altro che una favola, altrimenti avrebbero ascoltato almeno in
parte le
sue preghiere e non l’avrebbero gettata in pasto a quello.
Se fino a un attimo prima gli occhi
dell’uomo esprimevano disprezzo, ora il suo volto era carico
di semplice,
desolante e inequivocabile schifo.
La
donna accanto a lui, la stessa che l’aveva osservata con
tanta insistenza, si
stava mordendo con forza le labbra in un disperato tentativo di non
scoppiare
di nuovo a ridere, ora che l’attenzione di tutti era
incentrata sulla persona al
suo fianco. Osservando il colore di capelli e occhi, Lidia
capì con un tremito
che lei e il suo futuro sposo non erano semplici conoscenti.
A
quanto pare mio marito mi odia già e mia cognata sembra una
pessima persona, pensò
la
fanciulla, inorridita. Peggio di
così non
poteva andare.
La sua buona educazione le stava intimando
di obbedire all’invito di Quinto e di andare a stringere la
mano a quello, ma le sue gambe si
rifiutarono
di eseguire quell’ordine e la ragazza rimase inchiodata al
terreno, attirando
su di sé le occhiate scettiche dei presenti. Notando la sua
reticenza e la
tensione che iniziava a crescere tra gli astanti, il Legato le
posò una mano
sulla schiena e, con gentilezza, la sospinse verso il suo futuro
marito. Lidia
sobbalzò e quasi incespicò, ma poi si costrinse a
riscuotersi.
Stai
solo facendo la figura dell’idiota, si disse, mentre un velo di lacrime
minacciava di appannarle gli occhi. Stringendo con forza le palpebre
per
dissiparlo, la fanciulla deglutì e poi, a piccoli passi,
quasi strisciando i
piedi sul terreno, coprì i pochi metri che la separavano da Ulf. Non riuscì a trovare il
coraggio di
alzare la testa e di guardarlo negli occhi; e così
procedette quasi alla cieca,
fermandosi solo quando una maglia di lana scura e un’alta
cintura di pelle
entrarono nel suo campo visivo. Eccoci,
pensò. Il cuore le batteva talmente forte che la giovane era
certa di essere
sull’orlo dell’infarto.
Sapendo di non poter fare nulla di
diverso, Lidia strinse i denti, desiderosa di concludere al
più presto
quell’esperienza così sgradevole, e sporse una
mano, in attesa che l’uomo la
stringesse. Quasi si aspettava che il suo fidanzato la rifiutasse, che
si
allontanasse ridendo di lei, ma dopo un attimo di indecisione la mano
dell’uomo
si strinse piano attorno alle sue dita sudate, come se anche lui
desiderasse
adempiere a quella formalità nel modo più rapido
e indolore possibile. Quando
il palmo caldo e ruvido del germanico sfiorò la sua pelle,
Lidia si accorse di
avere le mani gelate e, in un riflesso spontaneo, alzò lo
sguardo fino a
incrociare quello di Ulf: nei suoi occhi pallidi credette di leggere
ostilità,
ma anche qualcos’altro.
Compassione?
Davanti a quello sconosciuto così
alto, così diverso dagli uomini che era solita frequentare,
completamente
alieno con i suoi capelli chiari e con la barba che, sebbene
più corta di
quella di altri uomini riuniti attorno a lei, celava parte del suo
volto, Lidia
si sentì piccola e impotente come una bambina e, colta da
una nuova fitta di
paura, ritirò la mano e se la strinse al petto, come per
proteggerla. Quel
gesto suscitò l’ilarità della donna
bionda e del suo compagno dai capelli scuri
e quelle risate sommesse ferirono la fanciulla come colpi di frusta.
Ma
cosa ci faccio, io, qui?
In preda allo sconforto e a un panico
crescente, Lidia si guardò attorno, passando in rassegna a
quella gente con cui
non aveva nulla in comune. Si soffermò sul volto impassibile
di suo padre e su
quello angosciato di sua madre, poi tornò a quello del suo
fidanzato, che si
era ritratto di un passo e aveva di nuovo assunto
un’espressione fredda, e a
quello della donna bionda, i cui occhi brillavano di una luce selvaggia.
Tentando di scacciare le lacrime che
si erano di nuovo fatte avanti, Lidia si portò una mano alla
bocca. Che cosa ci faccio qui? Si
chiese una
seconda volta.
Stringendo i denti, la giovane si
impose di non piangere: in quella circostanza lei rappresentava Roma e
l’Imperatore e, sebbene in quel momento provasse ben poca
simpatia per il Divino Cesare, non
avrebbe disonorato se
stessa e la sua città scoppiando in lacrime come una bambina
impaurita. Non si
sarebbe mostrata debole davanti a tutta quella gente che, ne era
convinta,
stava solo aspettando il momento più opportuno per
approfittare della sua
fragilità.
Nonostante i suoi buoni propositi,
però, la fanciulla sentì gli occhi inumidirsi e
stava per perdere la sua
personale battaglia contro le lacrime quando una voce superò
la barriera di
angoscia e paura che la stava avvolgendo in spire sempre più
strette.
«È adeguata», disse
il vecchio sulla
sedia, parlando con uno strano accento metallico, «ma
è evidente che è provata
dal viaggio. Discuteremo in privato dei dettagli del
matrimonio.»
Lidia si voltò a guardarlo, mentre
un’ondata di gratitudine le scaldava il petto e le faceva
rotolare due grosse
lacrime giù per le guance. Grazie,
gli
avrebbe detto, se ne avesse avuto il coraggio. Non sentendosi in grado
di
compiere un gesto tanto eclatante, si limitò a rivolgergli
un debole sorriso,
che il vecchio ricambiò con un piccolo cenno del capo.
«Credo che sia una buona idea,
Gefrid»
concordò Quinto. «Donna Lidia è appena
arrivata a Erding e sono certo che
apprezzerebbe un po’ più di
tranquillità.»
Il vecchio – Gefrid,
si corresse Lidia, cercando di ricordare il nome del suo
inaspettato alleato – si alzò in piedi e subito il
più giovane dei suoi figli
corse al suo fianco, sostenendolo con discrezione. Nel far
ciò, il ragazzo
lanciò un’occhiata curiosa alla fanciulla e lei si
trovò nuovamente a
desiderare che fosse lui, l’uomo che avrebbe dovuto sposare.
«Lidia.»
La voce di Quinto la richiamò e la
ragazza raggiunse il Legato all’ombra di un albero un
po’ in disparte rispetto
al resto della gente. «Com’è
andata?» le chiese gentilmente l’uomo. La
fanciulla scosse mestamente il capo. «Male» ammise,
stringendosi nelle braccia.
«Legato, io… io non voglio sposarlo.»
Lidia sapeva che la sua era una
richiesta vana, dal momento che nessuno aveva il potere di opporsi a
una
decisione imperiale, tuttavia desiderava esprimere la propria
insoddisfazione
in tutti i modi possibili. Quinto parve sorpreso da
quell’affermazione così
diretta. «Come mai?» le chiese infatti.
Per
mille ragioni,
pensò la fanciulla, cercando di fare ordine nella sua testa.
«È
vecchio» esordì. Non era certo il motivo
principale, ma era un punto di
partenza. Quinto ridacchiò. «Non è
vecchio, ha appena compiuto venticinque anni»
le fece notare.
Quell’informazione la colse di
sorpresa, a una prima occhiata gliene avrebbe dati dieci di
più, ma la giovane
non si lasciò scoraggiare. «Mi odia, ho visto come
mi guarda» ribatté,
rabbrividendo al ricordo dello sguardo apertamente ostile che le aveva
rivolto
l’uomo.
Il Legato sospirò. «Cosa
dovrebbe dire
di te, invece? Tremavi come di fronte a un mostro. Di certo non si
sarà sentito
particolarmente lusingato.»
Lidia provò un po’ di
vergogna, ma la
sua opinione non cambiò: per lei quell’uomo era
un mostro, o per lo meno una persona con cui non voleva avere
nulla a che
fare. «Mi fa paura» confessò allora,
cercando di spiegare il terrore che l’aveva
colta qualche minuto prima. «Ho cercato di controllarmi, ma
è così. Non posso
resistere in questo posto, in questa situazione…»
La sua voce si stava di nuovo
incrinando e il Legato le posò le mani sulle spalle. Per un
attimo Lidia pensò
che l’avrebbe abbracciata, dimostrandole un affetto superiore
a quello mai
dimostratole da suo padre, ma Quinto si limitò a stringere
brevemente le dita.
«Devi essere forte, Lidia» le
disse
serio, piegandosi un po’ per guardarla negli occhi.
«Tu sei romana, so che hai
in te tutta l’energia che ti serve per affrontare questa
situazione. Non
conosco molto Ulf, è vero, ma conosco suo padre: Gefrid
è un uomo giusto. Se
sarai leale nei suoi confronti, avrai in lui un ottimo
alleato.»
Lidia annuì, stringendo i pugni e
cercando di trovare in sé quella forza che Quinto sembrava
riconoscerle e di
cui lei non aveva mai visto traccia. C’era però
una cosa che la turbava, forse
più di tutte le altre.
«E cerca di non badare troppo a
Unna»
continuò il Legato, leggendole nel pensiero.
«Unna?» chiese Lidia, senza
capire.
«La sorella di Ulf, quella ragazza
bionda che stava accanto a lui. Non ho mai avuto veramente a che fare
con lei,
ma mi è giunta voce che, effettivamente, ha un
caratteraccio. Ma tu non devi
preoccupartene.» Notando il turbamento della fanciulla,
Quinto strinse un po’
di più la presa. «Lei e Ulf sono gemelli e sono
molto legati, ma anche lei
sottostà al volere di suo padre. Fattelo amico e non avrai
problemi nemmeno da
lei.»
Quella notizia, che nelle intenzioni
del Legato avrebbe evidentemente dovuto rassicurarla, non fece altro
che
aumentare l’inquietudine di Lidia: per un breve istante,
prima di conoscere la
famiglia del suo promesso, si era illusa di poter trovare nelle donne
di casa
delle compagne in grado di alleviare la sua solitudine. Ora che aveva
visto
Unna, quella speranza era evaporata come neve al sole. Le era infatti
bastato
poco per capire che non sarebbero mai state amiche; e ora Quinto le
stava
facendo intendere che, se non fosse stata attenta, la donna avrebbe
anche
potuto essere una sua nemica dichiarata.
«Forza, Lidia» riprese ancora
il Legato.
«Non è in gioco solo il tuo futuro, lo
sai.»
La fanciulla avrebbe voluto ribattere
che no, non sapeva nulla perché suo padre non le aveva mai
rivelato i dettagli
delle circostanze che l’avevano condotta in quel villaggio
freddo e umido,
tuttavia l’attenzione di Quinto si spostò
improvvisamente su un uomo che si
stava avvicinando a loro di buon passo. «Romano»,
esordì il germanico, un uomo
con i lunghi capelli bianchi e il ventre prominente, «Gefrid
vuole parlare con
la donna e con suo padre. Adesso.»
«Li accompagno subito da lui»
si offrì
Quinto, ma il germanico scosse il capo.
«Solo la donna e suo padre»
sottolineò,
perentorio. Il Legato alzò le mani in segno di resa e fece
cenno a Lidia di
seguire lo sconosciuto con i capelli bianchi. A malincuore, la giovane
obbedì e
si incamminò alle spalle del suo accompagnatore, che
attraversò rapido il
giardino e si avvicinò al padre della fanciulla.
«Senatore» esordì il
germanico, utilizzando il titolo di cui suo padre andava tanto fiero,
ma riuscendo
in qualche modo a pronunciarlo in un tono che lo fece sembrare tutto
fuorché un
titolo onorifico. «Gefrid desidera discutere con te i termini
del matrimonio.»
Il romano annuì, facendo cenno alla
moglie di restare lì seduta ad aspettarlo.
«Bene», sbuffò, «questa
sceneggiata
è durata fin troppo.»
«E tu», disse poi, rivolgendosi
alla
figlia, «cerca di comportarti come se in quella tua testa ci
fosse qualcosa di
diverso dalla segatura. Prima sei stata patetica.» Lidia
chinò il capo,
incassando in silenzio l’offesa, e per la prima volta si
ritrovò a pensare che,
forse, essere lontana dagli insulti di suo padre non sarebbe stato poi
un
grosso svantaggio.
Il barbaro li condusse di nuovo in
casa e, questa volta, la ragazza si guardò attorno, cercando
di trovare
qualcosa di piacevole in quell’ambiente tanto diverso dalla domus che aveva lasciato a Roma. Il
bianco con cui erano dipinte le pareti non era sufficiente per far
sembrare più
grande l’unica stanza angusta, dal soffitto basso, arredata
da semplici mobili
di legno scuro e illuminata da finestre un po’ troppo
piccole. Lidia notò come
il muro accanto al camino acceso fosse nero di fuliggine e non
riuscì a
impedirsi di storcere il naso. Erano tutti così sciatti, da
quelle parti?
«Di sopra» disse il loro
accompagnatore, accennando con il capo alla ripida scala di legno che
conduceva
al piano superiore.
Il senatore Prisco non se lo fece
ripetere e subito iniziò ad arrampicarsi su per i gradini,
seguito da Lidia che,
sebbene non avesse gradito l’insulto che l’uomo le
aveva rivolto poco prima,
non aveva intenzione di rimanere da sola in un ambiente potenzialmente
ostile.
La stanza in cui sbucarono era
sorprendentemente luminosa, la luce lattea del cielo nuovamente
ingombro di
nubi dipingeva tutto di bianco e ammorbidiva i lineamenti duri
dell’uomo seduto
sulla poltrona in pelle scura. Distrattamente, Lidia si chiese come
avesse
fatto a salire fin lassù con una gamba in quelle condizioni,
ma poi
l’attenzione della giovane venne inevitabilmente attratta dal
secondo uomo, che
sedeva accanto alla finestra, su una sorta di panca ricoperta da un
cuscino
rosso.
Trovarsi quasi a tu per tu con Ulf la
mise in un imbarazzo ancora peggiore di quello provato giù
in giardino.
«Prego, sedetevi» disse
Gefried,
accennando con una mano ai due posti liberi sulla stessa panca dove
sedeva suo
figlio.
Muovendosi con una rapidità
insospettabile,
il senatore si accomodò all’estremità
opposta rispetto a quella in cui sedeva
il suo futuro genero, non lasciando a Lidia altra
possibilità che sedersi tra
loro due. Avvampando, la ragazza cercò di farsi piccola
piccola e di non toccare
con nessuna parte del corpo il germanico.
«Tremila sesterzi»
esordì a bruciapelo
Gefrid.
Prisco lo fissò, sporgendosi in avanti
come sempre faceva quando si concentrava nel suo lavoro. «Di
dote?» chiese. «Sono
troppi. Il Legato mi aveva parlato di milleottocento sesterzi, duemila
al
massimo.»
Il germanico non cedette. «La ragazza
è completamente spaesata» disse, osservando
brevemente Lidia. Sentendosi
addosso il peso di quello sguardo indagatore, la giovane
cercò di scomparire
nel muro. «Avrà bisogno di assistenza continua,
durante i primi tempi.»
Il senatore scosse il capo. «Mia
figlia è abituata ad arrangiarsi»,
mentì, «non ci metterà molto ad
ambientarsi.»
«È in grado di svolgere le
faccende di
casa?» insistette Gefrid. «Mio figlio lavora tutto
il giorno, non ha il tempo
di occuparsi di una moglie inesperta.»
«Sa fare il necessario» lo
rassicurò
il romano. «Il resto lo imparerà; e anche in
fretta. Duemila sesterzi saranno
più che sufficienti per lei, di più sarebbero un
furto.»
Lidia assistette con orrore crescente
alla contrattazione tra i due uomini che, per quanto legittima, la
faceva
sentire come una manzetta al mercato del bestiame. Sapendo di non aver
alcuna
voce in capitolo, la fanciulla cercò di estraniarsi da
quella situazione, ma
così facendo divenne lentamente consapevole di essere
osservata.
Non avrebbe voluto voltarsi, ma
ignorare quella sensazione che le faceva formicolare le orecchie
divenne presto
impossibile. Lentamente, quasi con circospezione, la fanciulla
ruotò il capo
fino a incontrare lo sguardo azzurro di Ulf. Vedendolo da vicino, la
ragazza si
accorse del proprio errore. L’uomo era chiaramente
più giovane di quanto non le
fosse sembrato a una prima occhiata furtiva, tuttavia non lo trovava
meno
inquietante, né la prospettiva di sposarlo le pareva
più gradevole.
Il germanico la osservò con calma,
passando in rassegna al suo viso, ma senza scendere con gli occhi sul
suo
corpo, cosa che, in un certo senso, glielo fece apprezzare un pochino.
Sempre
che non abbia già guardato prima, ovviamente, pensò, con un cinismo che non si
riconosceva.
In quella strana bolla fatta di
occhiate scambiate all’oscuro dei rispettivi padri, Lidia si
sentì libera di
studiarlo a sua volta. Anche se a lei erano sempre piaciuti gli occhi
scuri,
dovette ammettere che aveva dei begli occhi, azzurri come il cielo del
mattino
e più scuri all’esterno e, se guardava bene,
poteva scorgere delle lentiggini
sul naso e sulle guance. Quel particolare la fece quasi sorridere: era
abituata
ad accostare le lentiggini ai volti dei bambini e ritrovarle su quelle
di un
uomo adulto le pareva una cosa singolare. Non era oggettivamente brutto, dovette riconoscere, ma non era
nemmeno il genere di uomo che avrebbe scelto. Non era Tito
e, soprattutto, non era romano.
E tanto bastava a non farglielo piacere. Senza contare che quei capelli
così
chiari e così lunghi le sembravano assolutamente fuori posto.
I
capelli di Tito erano belli da accarezzare. I suoi sono troppo lunghi,
mi
parrebbe di accarezzare Lucilla! Quel pensiero sbucato da chissà dove
la fece avvampare e la cosa non sfuggì a Ulf, che
corrugò leggermente le
sopracciglia, evidentemente confuso dalla causa del rossore improvviso
della
fanciulla. Il germanico inclinò leggermente il capo, come
per studiare un
enigma, e Lidia non trovò di meglio da fare che fissarlo con
gli occhi
spalancati, pregando che non le chiedesse nulla. Aveva appena trovato
il
coraggio di guardarlo, parlare con lui sarebbe stato decisamente troppo!
La voce di Gefrid la riscosse e fece
esplodere quello strano momento di tranquillità.
«Duemila e trecento sesterzi,
senatore!» sbottò il vecchio. «Se tutti
i romani fossero avari come te, il tuo
glorioso impero non avrebbe certo tutti i debiti che ha
adesso!»
«È un prezzo più
che adeguato per la
ragazza», sostenne il romano, «e non si
può dire che tu sia stato generoso con
le forniture di pelli, germanico, per cui ritieniti
soddisfatto!»
Lidia non aveva seguito la
conversazione, ma evidentemente il suo prezzo era stato fissato.
Duemila e
trecento sesterzi. Suo padre aveva falconi da caccia che valevano di
più.
La dote non era però l’unica
cosa che
era stata fissata. «Tra tre giorni, allora» disse
infatti Gefrid, mentre il
senatore e Ulf si alzavano in piedi. «Chiedi al Legato di
condurre la ragazza
dalla sacerdotessa, voglio che sia pronta e che non ci siano
sorprese.»
Che
sorprese? Si chiese
Lidia, sentendo il panico tornare ad assalirla. E poi,
tre giorni? Mi sposo tra tre giorni?
La data le sembrava improvvisamente troppo
vicina. La fanciulla alzò gli occhi su Ulf, ma
l’uomo non incontrò il suo
sguardo e il suo volto pareva essersi incupito nell’udire le
parole dei due
uomini. Improvvisamente Lidia capì quello che avrebbe dovuto
esserle evidente
già da tempo: nemmeno lui voleva sposarla.
Quella rivelazione non fece altro che
accrescere il suo sconforto: un marito insoddisfatto sin
dall’inizio sarebbe
stato certo peggiore di uno che accettava di sposarla di buon grado, e,
forse
anche più difficile da tenere a bada in attesa che
arrivassero i rinforzi da
Roma. «Certamente» disse il senatore, rispondendo
al germanico. «Mi atterrò al
nostro accordo. Lidia, muoviti.»
Ignorando il pallore della figlia,
l’uomo sparì giù per le scale e, dopo
aver incontrato per un’ultima volta lo
sguardo assorto di Gefrid, la ragazza lo seguì, rischiando
di inciampare sul
primo gradino a causa della nebbia che le aveva improvvisamente
riempito la
mente e gli occhi.
***
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Capitolo 7 *** 6. La Sacerdotessa ***
Erding - Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 3 Maggio
Dal momento che il primo impatto con
il paese e i suoi abitanti non era stato dei migliori, Lidia era ormai
abituata
ad aspettarsi il peggio da quel luogo e non aveva motivo di credere che
la
dimora della sacerdotessa avrebbe fatto eccezione. Trovandosi di fronte
a una
casetta sorprendentemente curata, la fanciulla faticò dunque
a trattenere
un’esclamazione di sorpresa – a maggior ragione
perché quel poco che sapeva dei
sacerdoti germanici l’aveva portata a considerarli poco
più che stregoni dediti
alla preparazione di intrugli velenosi, alla pratica di strani rituali
con gli
animali e, si mormorava, persino di sacrifici umani. Un personaggio del
genere
avrebbe dovuto vivere in un antro oscuro o in una capanna buia e umida,
se non
addirittura in una grotta, e invece la casa della sacerdotessa era la
più bella
e luminosa di tutto il paese. A
differenza delle altre abitazioni che Lidia aveva avuto modo di vedere,
infatti, essa aveva i muri intonacati di bianco e i balconi erano
abbelliti da
un gran numero di fiori coltivati con cura: sembrava quasi che, per
qualche
strano motivo, in quel luogo la primavera avesse deciso di dare il
meglio di sé,
trascurando in parte il resto del villaggio.
In altre circostanze, la giovane
avrebbe forse permesso all’ambiente piacevole di farla
rilassare un po’, ma in
quel momento anche quel particolare le parve un inganno, alimentando
così le
sue paure e la sua diffidenza. Donna Giulia, nervosa quanto la figlia,
le strinse
la mano, indirizzandole un sorriso tremulo, mentre Quinto bussava
educatamente
alla porta di legno.
La donna che venne ad aprire non
pareva affatto la megera che Lidia si era immaginata. Di mezza
età - doveva
aver da poco passato i quarant’anni - sembrava ancora in
perfetta forma, alta e
sottile, con i lunghi ricci ramati appena toccati dal grigio del tempo
e
un’espressione intelligente che brillava negli occhi verdi.
Era sorprendentemente
pulita e il sorriso che rivolse loro
sembrava sincero e per nulla sinistro.
Non sembrava una germanica.
Non
sembra nemmeno romana, però, pensò la fanciulla, scrutandola di
sottecchi
e cercando di inquadrare correttamente quella donna che di
lì a poco l’avrebbe
sottoposta a chissà quale esame.
«Legato Libo! Benvenuto»
sorrise la
sacerdotessa, porgendo una mano a Quinto. «E benvenute anche
a voi, signore. Tu
devi essere Lidia.» Sentendosi chiamata in causa, la ragazza
annuì, arrossendo.
«Molto bene» continuò la donna, facendo
loro cenno di entrare in casa. «Accomodatevi
pure.»
L’interno dell’abitazione era
estremamente
luminoso e il bianco legno di betulla sostituiva il nero del cupo legno
di
castagno, che sembrava essere presente un po’ ovunque,
all’interno del
villaggio. Lidia si chiese se il colore bianco, che la donna sembrava
prediligere anche negli abiti che indossava, fosse in un qualche modo
legato al
suo essere una figura religiosa.
«Allora», esordì la
sacerdotessa, dopo
che i tre romani ebbero preso posto su una panca davanti al camino,
«io sono
Erin e il mio compito è assicurarmi che questo matrimonio
parta sotto i
migliori auspici.»
Lidia deglutì nervosamente, avvertendo
confusamente che dietro alle parole della donna si celava un pericolo.
«È quello che desideriamo
tutti» la
rassicurò Quinto.
«Naturalmente»
replicò la
sacerdotessa, con un sorriso cordiale. «Tuttavia vorrei fare
una chiacchierata
con Lidia, così da chiarire i suoi dubbi e aiutarla a
partire con il piede
giusto in questa avventura. Sei d’accordo, Lidia?»
La ragazza scambiò un’occhiata
confusa
con sua madre. L’atteggiamento di quella donna la confondeva:
parlava in maniera
insolita, non vi era traccia di accento germanico nel modo in cui
pronunciava
le parole e persino la sua gestualità le era del tutto
estranea. Tuttavia,
riconobbe la fanciulla, non poteva certo opporsi a quella chiacchierata; non ultimo
perché le era stata imposta dal padre e
dal futuro suocero. «Certamente, Donna Erin»
rispose dunque, rispettosa.
La donna le sorrise di nuovo e le
porse una mano. Stringendosi per un istante il labbro tra i denti,
Lidia si
alzò e le si vi avvicinò. Quando Donna Giulia
fece per alzarsi a sua volta, la
sacerdotessa la bloccò con un gesto perentorio.
«Solo Lidia, per il momento. Voi
potrete entrare più tardi, se lo desiderate.»
Lanciando un’ultima occhiata a sua
madre e al Legato, la giovane seguì la sacerdotessa in un
altro locale, dove,
oltre a un secondo camino acceso, erano posizionate due poltrone di
pelle
bianca e un tappeto rosso decorato con degli intricati motivi floreali.
La
donna sedette su una delle due poltrone e invitò Lidia a
fare altrettanto,
sorridendo appena quando notò che la ragazza si
accomodò all’estremità del
cuscino, come se fosse pronta a scattar via al minimo segnale di
pericolo. «Non
c’è bisogno di essere così nervosa,
Lidia» cercò di tranquillizzarla. «Siamo
qui solo per parlare.»
La fanciulla avvampò e si
sistemò
meglio sulla poltrona, appoggiandosi allo schienale e senza trovare il
coraggio
di dire che era proprio quello, a
spaventarla. Il fatto di non sapere di cosa avrebbe dovuto parlare le
dava
l’impressione di essere in procinto di addentrarsi in un
territorio sconosciuto
e, con ogni probabilità, pericoloso.
Quando la giovane incrociò
compostamente le mani in grembo, la sacerdotessa sorrise. «Va
bene», disse, con
un cenno del capo, «iniziamo. Sei vergine,
Lidia?»Le guance della giovane si
fecero ancora più rosse e Lidia chinò il capo,
sussurrando un “sì” quasi
impercettibile.
Aveva immaginato che in un modo o nell’altro la conversazione
sarebbe andata a
parare lì, ma questo non rendeva la domanda meno
imbarazzante.
«Oh, molto bene!»
annuì Donna Erin,
soddisfatta. «Come ti trovi qui a Erding?»
Lidia la fissò a bocca aperta,
stupefatta dal repentino cambio di rotta. Tutto lì? Si
fidava della sua parola?
Notando il suo stupore, la sacerdotessa sbuffò divertita e
spinse una ciocca
ramata dietro all’orecchio. «Non preoccuparti, non
intendo esaminarti per
vedere se dici la verità: si vede lontano un miglio che sei
sincera!»
Il rossore della fanciulla si fece
ancora più pronunciato: come faceva quella donna a parlare
con tanta
disinvoltura di certi argomenti? E,
soprattutto, si disse la ragazza, con una punta di fastidio, com’è che la cosa la diverte?
Mi sta
prendendo in giro?
«Quindi», continuò
la donna, ignorando
la smorfia della sua giovane interlocutrice, «ripeto la
domanda: come ti trovi
qui?» Quell’insistenza mise sul chi va
là Lidia, che si strinse nelle spalle.
«Bene»
mormorò, senza guardare la sacerdotessa. Questa volta la
donna scosse il capo. «Ecco,
vedi? Adesso invece stai mentendo.»
La fanciulla abbassò lo sguardo,
colpevole. Donna Erin sospirò e, alzatasi dalla poltrona, si
accovacciò davanti
alla ragazza. «Lidia», la richiamò,
prendendole il mento tra le dita e sollevandole
dolcemente il volto, «è importantissimo che tu sia
sincera con me. Io sono qui
per aiutarti, capisci? Però tu devi aiutare me. So che non
è facile fare quello
che ti viene chiesto, ma io posso semplificarti le cose, se deciderai
di
fidarti di me.»
Lidia sollevò lo sguardo e si
specchiò
nei grandi occhi di smeraldo della donna. Ancora una volta le parvero
incredibilmente limpidi e sinceri e quando non scorse alcuna traccia di
malizia
sul suo viso pallido decise di abbassare un po’ le difese che
negli ultimi
tempi aveva innalzato attorno a sé. «Va
bene» mormorò, offrendo alla donna un
sorriso timido.
«Allora, dimmi: perché non ti
piace
stare qui?»
La giovane sollevò appena le spalle.
«Non
lo so, sono appena arrivata» disse, piano. «Non ho
visto ancora molto del paese
e della gente.»
«Però quello che hai visto non
ti
piace» affermò, più che domandare, la
sacerdotessa.
Lidia annuì. «Avrei voluto
restare a
Roma» confermò, con voce pacata.
«Avevi un ragazzo, a Roma?»
La fanciulla sussultò: come faceva a
saperlo?
«Sì», ammise, temendo che la donna
potesse riconoscere un’eventuale menzogna, «Tito.
Mio padre l’aveva scelto per me quando avevamo quattordici
anni e io… io gli
volevo bene.»
«Capisco» sospirò
Donna Erin,
allungando una mano per accarezzare i capelli bruni di Lidia.
«E non pensi di
poter voler bene anche a Ulf, un giorno?»
No, pensò la
ragazza. «Non lo so» disse, invece, mordendosi un
labbro e iniziando a tormentarsi
la gonna con una mano. «Lui mi fa paura. È
così strano, diverso dalle persone
che conosco… e poi ho visto come mi guardava,
l’altro giorno: nemmeno lui vuole
sposarmi. Anzi… credo proprio di fargli un po’
schifo. Aveva una faccia… per
non parlare poi di sua sorella. Sembra… non so, sembra cattiva. Io non ci voglio vivere, in una
famiglia così. Nemmeno mi
conoscono e già mi odiano: come faccio ad adattarmi a una
cosa del genere?» Lidia
si interruppe di colpo, portandosi una mano alla bocca come per
rimangiarsi
quello sfogo che era sfuggito dalle sue labbra quasi senza il suo
permesso.
«Va bene», disse la
sacerdotessa,
rialzandosi e, quasi di rimbalzo, piombando di nuovo sulla poltrona,
«va bene,
una cosa alla volta. Prima di tutto, qui nessuno ti odia.»
«No?» La fanciulla non
riuscì a
nascondere lo scetticismo.
«No» confermò la
donna. «Sanno che non
hai chiesto tu di venire a Erding, ma sanno altrettanto bene che la tua
presenza qui è estremamente importante. Sono certa che, se
gliene darai il
tempo, ti vedranno esattamente per quello che sei: una ragazza
coraggiosa che
fa il suo dovere per aiutare a evitare una guerra.»
Per una frazione di secondo, Lidia
rimase come abbagliata dalle parole di Donna Erin. Per quanto si fosse
sforzata
di comprendere le vere ragioni che l’avevano costretta a
lasciare la sua casa e
la sua famiglia, non era ancora riuscita a capire come la sua presenza
in quel
luogo potesse giovare a qualcuno. Con un improvviso barlume di spirito
d’iniziativa, la giovane decise di prendere la palla al
balzo. «Io non sono
ancora riuscita a capire cosa devo fare: nessuno me l’ha
spiegato per bene» borbottò,
leggermente contrariata.
«No?» La sacerdotessa parve
sorpresa.
«Be’, in realtà è piuttosto
semplice. Da circa un anno, i rapporti tra Roma e
la Nova Germanica sono tesi. Più tesi del solito, intendo.
Ti potrà sembrare
un’idea abbastanza stupida, ma il tuo Imperatore ha pensato
che, stringendo dei
legami tra la gente di Roma e quella che vive qui, le cose sarebbero
migliorate.»
«Questo lo so»
mormorò la fanciulla.
Anche se si trattenne dal dirlo ad alta voce, l’espressione
del suo volto
lasciava chiaramente intendere che sì, la riteneva davvero
una trovata stupida.
«D’accordo, ma capisci cosa
vuole
dire?» insistette Donna Erin, sporgendosi verso di lei.
«Sposando Ulf, farai sì
che i vostri figli ereditino parte del patrimonio di tuo padre; e
così sarà per
tutte le altre ragazze – o tutti gli altri ragazzi
– che si creeranno una nuova famiglia qui. È un
modo incruento per portare in
Germanica un po’ delle ricchezze di Roma: in sostanza, Roma
si prende le
materie prime che si trovano in Germanica, ma in cambio lascia oro e,
indirettamente, terre.»
«Roma porta via delle materie
prime?»
chiese Lidia, stupita. In tutta risposta la sacerdotessa
scoppiò a ridere:
«Certo! Cosa credevi, che i vostri coloni si fossero
stabiliti qui per la
bellezza del paesaggio?»
Leggermente imbarazzata, la fanciulla
si strinse nelle spalle. «In ogni caso, non credo che la cosa
funzionerà»
sospirò, abbassando lo sguardo sulle unghie corte e un
po’ mangiucchiate. «Il
patrimonio di mio padre andrà a mio fratello e ai suoi
figli. Marco ha già tre bambini,
tutti maschi…»
La sacerdotessa sorrise di nuovo. «No.
È parte dell’accordo» spiegò.
«Oltre alla dote che è stata già
pagata, ai tuoi
figli spetteranno esattamente la metà delle ricchezze di tuo
padre.»
Ah,
ecco perché è così arrabbiato, pensò Lidia mentre, con una punta di
soddisfazione, ripensava al malumore del Senatore. E
chissà Marco come l’avrà presa!
Lidia e il fratello non erano mai
stati molto legati e i rapporti tra i due si erano ulteriormente
raffreddati
quando l’uomo aveva preso moglie e si era creato una nuova
famiglia. «Ah»
commentò, annuendo.
«Però è
fondamentale che il tuo
matrimonio funzioni» continuò Erin, tornando a
scivolare verso lo schienale
della poltrona. «Niente divorzio; e non solo
perché è immorale: se tu e tuo
marito doveste separarvi, l’accordo sarebbe nullo e la sua
famiglia non
riceverebbe nulla in cambio.»
Lentamente, Lidia iniziò a rendersi
conto
della vera entità della situazione in cui si trovava.
Cionondimeno, provò
ancora a protestare debolmente: «D’accordo, ma se
io divorzio e le altre coppie
restano unite…»
Donna Erin scosse immediatamente il
capo. «No. Parliamoci chiaro: nessuno è felice di
essere costretto a sposare un
perfetto sconosciuto. Proprio per questo, però, non possiamo
fare alcuna
eccezione: per nessuno.»
C’era un qualcosa di sottilmente
inquietante, nel modo in cui la voce della sacerdotessa
sottolineò le ultime
parole e la fanciulla si ritrovò ad annuire meccanicamente.
«Credo che a questo punto ti sia
chiaro che, se il piano del tuo Imperatore fallisse, la guerra sarebbe
praticamente certa. Vero?» La donna socchiuse gli occhi,
fissando la giovane
romana, che, di nuovo, annuì. «Questo sarebbe un
grosso problema: non solo per
la guerra in sé, ma anche perché gli
Dèi, che predicano la pace, non sarebbero
felici di sapere che i loro figli disobbediscono ai loro
comandamenti.»
Lidia, stupita dal riferimento
religioso, abbassò in fretta il capo, cercando di nascondere
la sua
perplessità. Quali Dèi?
Si chiese. I miei o i tuoi? Dal
momento però che
quella non era una domanda che si poteva rivolgere a una sacerdotessa,
la
ragazza si limitò a fare un piccolo sorriso di circostanza.
«Capisco.»
«No, cara, io non credo che tu capisca
fino in fondo» sospirò la donna, scuotendo il
capo. «Scontentare gli Dèi è
pericoloso. Quando si scontentano gli Dèi, ci si tira
addosso una punizione.»
«Quale punizione?» Sebbene non
fosse
stata sua intenzione fare quella domanda, Lidia non riuscì a
evitarlo. Era
certa di avere intravisto una minaccia, dietro alle parole della donna,
ma non
sapeva ancora di cosa si trattasse.
«Una dura
punizione» si limitò a rispondere la sacerdotessa.
«Quale, non
lo so nemmeno io, ma gli Dèi mi hanno donato la
capacità di entrare in contatto
con Loro. Una cosa è certa: se ci sarà una
guerra, ci sarà anche una reazione
celeste.» La donna pronunciò quelle parole con una
tale convinzione che,
malgrado il suo scetticismo, la fanciulla si ritrovò a
crederle.
«Ho capito» mormorò,
sconfitta. Pur
accantonando per un istante il lato più spirituale e
intangibile della cosa, lo
spauracchio della guerra era sufficiente per farle riconsiderare i suoi
vaghi
progetti di fuga.
«Ma non preoccuparti», disse
poi Donna
Erin, cambiando completamente tono e atteggiamento, «vedrai
che le cose non
saranno poi così terribili, qui, per te. La gente non ti
odia; e non devi
preoccuparti di Unna: è una donna passionale, odia e ama con
un’intensità
notevole, ma i suoi umori sono come il temporale… arrivano
in fretta, fanno un
gran rumore e spariscono nel giro di poco. Tu vola basso e non avrai
problemi.»
Facile
dirlo… pensò
la giovane, mentre una fitta di disperazione le trafiggeva
lo stomaco. A sentire quello che dice
lei, quella tizia sembrerebbe quasi come Lucilla. Peccato che, con ogni
probabilità, l’unica cosa che hanno in comune
è che sono bionde.
«L’altro giorno sembrava
avercela con
me senza motivo» obiettò allora, guardando di
sottecchi la sua interlocutrice.
La sacerdotessa scoppiò a ridere.
«Senza
motivo?» chiese, ironica. «Le stai per portare via
il fratello con cui è nata e
cresciuta, mi pare un motivo più che sufficiente per
avercela con te!»
«Ma io nemmeno lo voglio, suo
fratello!» sbottò Lidia, sentendo
l’irritazione far capolino tra la tristezza e
lo smarrimento.
La donna le fece un gran sorriso. «Ah,
ma allora c’è un po’ di carattere,
lì sotto!» Immediatamente, Lidia
arrossì. «In
ogni caso, Lidia, spero che tu capisca che è normale avere
bisogno di un po’ di
tempo per adattarsi a una novità del genere. Certo
che… domani tu e Ulf vi
sposerete. Forse sarebbe il caso di scambiarsi due parole, prima di
allora, non
credi?»
La ragazza si strinse nelle spalle.
«Non saprei cosa dirgli» mormorò.
«E poi non ne ho avuto l’occasione.»
«A questo rimediamo subito»
sorrise la
donna. «Sai che facciamo? Lo mando a chiamare e poi vi lascio
un po’ qui da
soli a chiacchierare.»
«No, non ce n’è
bisogno» si precipitò
a dire la fanciulla, terrorizzata dalla prospettiva di trovarsi
improvvisamente
a tu per tu con il suo futuro marito.
«Oh, sì che ce
n’è bisogno» sogghignò
invece la sacerdotessa, come se trovasse estremamente divertente il
disagio della
giovane.
***
Una decina di minuti più tardi, Lidia
rispondeva distrattamente alle domande che la donna le stava ponendo
– malattie
avute, incidenti, parenti in vita e quelli morti - mentre con un occhio
cercava
nervosamente di tenere sotto controllo la porzione di strada che le era
possibile scorgere, seduta sulla poltrona bianca. Le sembrava passata
un’eternità da quando uno dei servi della
sacerdotessa era andato a chiamare il
suo futuro marito; e ancora nessuno aveva fatto ritorno. Forse
non l’ha trovato, pensò la fanciulla,
con un fremito di
speranza.
Quasi le avesse letto nel pensiero, Donna
Erin sorrise. «Non preoccuparti: saranno qui a
breve.»
Se non fosse stata tanto beneducata,
Lidia le avrebbe sbuffato in faccia: era impossibile che la donna non
fosse in
grado di comprendere il suo stato d’animo. Qualche istante
dopo, quasi a
conferma delle parole della sacerdotessa, qualcuno bussò
alla porta e il servo
che era stato mandato a casa di Gefrid entrò nella stanza,
torcendosi le mani
come se fosse a disagio. Alle sue spalle c’era Ulf che, a
giudicare
dall’espressione contrariata, non pareva affatto felice di
essere stato
convocato.
«Oh, Ulf» lo accolse gioviale
la
sacerdotessa, mostrando una sorpresa che certo non provava.
«Stavo appunto
scambiando due parole con la tua fidanzata: sarà davvero una
brava moglie, non
credi?»
Lidia lanciò un’occhiata
incerta
all’uomo, imbarazzata, e fu sorpresa di notare
l’aperta ostilità con cui il
germanico fissava la sacerdotessa. «Immagino di
sì» rispose, gelido. La
fanciulla si rese conto che quella era la prima volta che lo sentiva
parlare –
nelle sue parole ritrovò lo stesso accento tagliente che
aveva colto nella voce
di suo padre – e dovette riconoscere che effettivamente era
un po’ strano
sposare qualcuno di cui non si era mai nemmeno sentita la voce.
«Non mi sembri molto convinto»
fece Donna
Erin, studiandolo con attenzione. Lui aprì la bocca come per
dire qualcosa, ma
poi rinunciò e si limitò a scrollare le spalle,
fissando la donna con un’aria
di sfida. «Molto bene» sospirò lei,
alzandosi in piedi. «Facciamo così: adesso
io vi lascio soli. Resterete in questa stanza finché non
avrete almeno provato
a parlarvi un po’… e non provate nemmeno a pensare
di barare, perché me ne accorgerò.
Chiaro?» Il tono della sacerdotessa era
giocoso, simile a quello che si sarebbe usato per minacciare due
bambini
capricciosi, ma la sua espressione era così determinata che
Lidia era certa che
li avrebbe davvero lasciati chiusi lì dentro
finché non si fossero parlati.
«Sì, Donna Erin» si
affrettò a
rassicurarla, mentre Ulf si limitò ad annuire seccamente.
Lanciando loro un ultimo sguardo di
avvertimento, la sacerdotessa girò sui tacchi e si diresse
verso il locale in
cui Donna Giulia e il Legato erano in attesa di sviluppi. Non appena la
porta
si fu richiusa alle sue spalle, Lidia si rannicchiò sulla
poltrona, portandosi
una mano all’altezza della gola. Improvvisamente ebbe la
sensazione che la
stanza avesse dimezzato le proprie dimensioni. Le pareti incombevano su
di lei
e la temperatura le sembrava essersi alzata di almeno una decina di
gradi: la
presenza del germanico era troppo ingombrante, le pareva che
l’uomo
risucchiasse tutta l’aria, costringendola ad annaspare come
un pesce fuor
d’acqua. Sudando profusamente, la fanciulla
inspirò a fondo, cercando di
calmare un poco il proprio cuore e aspettando che fosse il suo promesso
sposo a
fare la prima mossa.
Diversamente da quanto si sarebbe
aspettata, però, Ulf non si sedette sulla poltrona
antistante a quella occupata
da lei, ma raggiunse la finestra e, voltando le spalle alla giovane
romana,
prese a guardar fuori, come se la stradicciola deserta fosse
estremamente
interessante.
Dopo alcuni minuti di silenzio, il
senso di ansia che attanagliava lo stomaco della ragazza raggiunse
livelli tali
che Lidia iniziò a provare il bisogno di ripiegarsi su se
stessa per attenuare
i crampi. Perché non parlava? Aveva davvero intenzione di
ignorarla per tutto
il tempo? La sacerdotessa era stata chiara: non avrebbe accettato
alcuna forma
di disobbedienza; e lei, di certo, non si sentiva in grado di
ingannarla.
Non
si aspetterà che prenda io l’iniziativa, spero! Pensò, con
il cuore in gola, consapevole che non avrebbe mai trovato il coraggio
di fare
una cosa del genere. Un sospiro tremulo le sfuggì dalle
labbra e, quasi
inconsciamente, la giovane si raggomitolò ancor di
più sulla poltrona,
abbracciandosi le ginocchia in un desiderio di protezione.
«Smettila di agitarti così
tanto.»
La voce di Ulf la fece sussultare e
automaticamente la giovane si voltò per fronteggiarlo. Il
germanico si era
finalmente girato verso di lei e la stava fissando con quei suoi occhi
che la
facevano pensare all’inverno – stagione che aveva
sempre odiato. Lidia
cercò di dire qualcosa in sua difesa, ma scoprì
con
raccapriccio che le parole sembravano essersi seccate nella sua gola.
Il germanico fece una smorfia di
scherno. «Cosa dovrei farci, io, con te?» le chiese
secco. In che senso? Avrebbe
voluto chiedere Lidia, tuttavia non riuscì a
far altro che abbassare lo sguardo, mentre l’uomo si
avvicinava a lei. «Non
parli, quando cammini tremi, non riesci nemmeno a guardare la gente
negli occhi»
ogni parola dell’uomo era come una stilettata nel suo
già fragile orgoglio e Lidia
sentì la gola chiudersi in una morsa dolorosa.
«Non sembri nemmeno una persona
normale, posso solo immaginare che razza di moglie sarai!»
Il disprezzo con cui l’uomo aveva
pronunciato quelle ultime parole toccò un nervo scoperto.
«… per te» disse la
fanciulla, con un filo di voce.
Ulf sembrò sorpreso.
«Come?» chiese. «Se
non dovessi sposare te, sarei una moglie migliore»
ripeté Lidia, appena un po’
più forte.
Lui la guardò, come se non fosse certo
di aver sentito bene. «Sarebbe colpa mia, adesso?»
ringhiò. «Tu non vuoi
sposarmi e non hai nessuna intenzione di fare il minimo sforzo per far
funzionare le cose.»
Lidia deglutì. Per un istante fu
tentata di negare, di dire che lei stava facendo del suo meglio, ma la
bugia le
morì in gola. E perché
dovrei sforzarmi,
in ogni caso? Pensò, stringendo le mani in un
pugno. Perché dovrei far finta che
vada tutto bene?
Quando vide che la ragazza non
sembrava intenzionata a ribattere, l’uomo scosse il capo.
«Non credere che a me
stia bene il fatto di dover sposare una romana.
Ma non ci sono alternative, per mia sfortuna.»
«Per tua sfortuna?»
ripeté Lidia, riuscendo a infilare appena un po’
di
sdegno nella voce: tra i due lui era certamente quello che ne usciva
meglio:
non aveva dovuto lasciare la sua casa e il suo paese e, del resto, si
sapeva
che in un matrimonio la donna era sempre la parte più debole.
«Ovviamente! Guardati, sembri un
topolino impaurito!» sibilò il germanico,
scuotendo il capo. «E bada che non è
un complimento. Non so come ti abbiano abituata a Roma, ma qui le
persone come
te sono solo un peso!» Con due passi la raggiunse e, prima
che Lidia potesse
evitarlo, le prese il mento tra le dita. Non appena la
sfiorò, la fanciulla gemette
terrorizzata e, guidata dall’istinto, balzò in
piedi, inciampando nel bracciolo
della poltrona e cadendo scompostamente a terra. Mortificata, la
ragazza sentì
la vergogna investirla e le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi.
Perché
doveva sempre mostrarsi così debole davanti a lui? Perché?
Ulf, in piedi a un metro da lei, la
studiò
con un’espressione indecifrabile. Poi improvvisamente la sua
postura si rilassò
e l’uomo si passò una mano sul volto.
«Alzati», sospirò, «e
ascoltami.» Esitante,
Lidia si rimise in piedi, stringendosi al petto il polso dolorante a
causa
della caduta e guardandolo di sottecchi. «Domani ci
sposeremo, come vogliono il
tuo Imperatore e quella maledetta donna» riprese il
germanico. «Questo però non
cambierà niente: io non voglio avere nulla a che fare con
te. Non intendo
toccarti, né avere nulla da te: l’unica cosa che
dovrai fare è far credere alla
sacerdotessa che sia tutto a posto. Chiaro?»
Stupefatta da quelle parole, la
fanciulla annuì, cercando di non fare caso alla strana
sensazione che avvertiva
all’altezza del petto: quella svolta inaspettata era
certamente a suo favore,
non avere doveri nei confronti del germanico non poteva che essere una
cosa
positiva.
«Va bene» disse piano, senza
incontrare i suoi occhi. Per una frazione di secondo, il dubbio che
dietro a
quella proposta si celasse un secondo fine attraversò la sua
mente, ma la
fanciulla scacciò quel pensiero. Qualunque fosse la ragione
che aveva spinto il
germanico a prendere quella decisione, essa non la riguardava che di
striscio.
L’unica cosa veramente importante era che l’uomo
l’avrebbe lasciata in pace,
senza importunarla in alcun modo. E poi… e
poi c’è sempre Tito. Perché,
prima di lasciare Roma, non era stata in grado
di dissuadere il ragazzo: quel piano, che in un primo momento le era
parso una
follia, le appariva adesso come una flebile fiammella di speranza.
Ulf la stava guardando e dalla sua
espressione Lidia comprese che l’uomo la considerava una
nullità. Stringendo
tra le mani il tessuto della gonna, la fanciulla si costrinse a
ignorare il
sottile senso di delusione che la attraversò il petto. Non
aveva senso sentirsi
ferita nell’orgoglio: cercare di dimostrargli il suo valore
sarebbe stato
inutile, se non addirittura controproducente. No, avrebbe volato basso, come le era stato
consigliato dalla sacerdotessa, si
sarebbe attenuta alle regole dettate dal germanico e, se proprio le
cose si
fossero messe male, avrebbe aspettato l’aiuto del suo
fidanzato. Quello vero,
però, che viveva a Roma e l’amava
per quella che era.
Il pensiero di Tito e del suo viso
gentile la confortò e la fece sentire meno sola e indifesa
e, improvvisamente,
Lidia si sentì un po’ più capace di
affrontare gli ostacoli a cui il destino
l’aveva posta davanti. Sollevando il capo, la fanciulla
riuscì a incrociare per
un istante gli occhi del suo promesso sposo. «Va
bene», ripeté, «mi sembra una
buona idea.»
Lanciandole un’ultima occhiata per
d’avvertimento,
Ulf bussò alla porta.
***
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Capitolo 8 *** 7. La fine e l'inizio ***
Erding -
Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 4
Maggio
La donna la punse con uno spillo e
Lidia trasalì. «Ahi!» si
lamentò, prima di riuscire a controllarsi.
«Scusa» disse per
l’ennesima volta la
vecchietta. Sulle prime, la ragazza aveva pensato che la donnina lo
facesse
apposta, ma osservandola attentamente si era resa conto che la
poveretta aveva davvero
dei problemi di vista e che le mani tremanti a causa
dell’età non le rendevano
certo semplice il compito di aggiustarle il vestito. Lidia le sorrise
come per
dirle che non importava, poi tornò a fissare la parete
bianca, cercando di
estraniarsi dalla situazione e, nel contempo, di non agitarsi, rendendo
più
difficile il lavoro dell’esile sarta.
Mancavano poche ore al suo matrimonio
e il vestito non era ancora del tutto pronto: chiunque
l’avesse scelto per lei
non aveva fatto i conti con le sue misure, perché le
risultava decisamente
troppo abbondante sul seno e attorno alla vita. Questo
è quello che ci si aspetta dalle donne germaniche? Pensò,
con una punta d’invidia, tendendo con una mano la stoffa in
eccesso sulla
scollatura.
«Sta ferma, cara» le chiese con
voce
sottile la vecchietta.
Lidia riabbassò immediatamente le
mani. «Certo, chiedo scusa» sospirò,
costringendosi a non rendere il lavoro
della sarta più difficile di quanto già fosse. La
verità era che, sebbene una
cosa tangibile come la prova
dell’abito l’aiutasse ad allontanare un poco dai
suoi pensieri la cerimonia
imminente, il suo corpo fremeva irrequieto, quasi non aspettasse altro
che il
suo permesso per scattare e portarla via, lontano da quel posto e da
quella
gente.
Seduta su una panca poco distante,
Donna Giulia osservava la scena con espressione corrucciata. Lidia
sapeva che
sua madre non approvava la scelta del vestito: la tradizione romana
avrebbe
richiesto un abito bianco, un mantello color zafferano e, in caso di
cerimonie
particolarmente tradizionali, persino un velo rosso. Lì
però non erano a Roma e
così la tunica indossata da Lidia era di un pallido azzurro
con delle
decorazioni verdi e avorio. Non v’era traccia di mantello
né di velo; e questo
a Donna Giulia non piaceva.
La ragazza non condivideva il
turbamento di sua madre: per quanto la riguardava, il vestito era
sufficientemente grazioso da permetterle di non fare una pessima figura
davanti
ai parenti di suo marito; il resto non aveva importanza. Quando ancora
era a
Roma, per gioco, era andata in giro per negozi in compagnia di Lucilla,
immaginando quale abito avrebbe indossato il giorno in cui avrebbe
sposato
Tito. Ne aveva trovato uno incantevole, dal taglio raffinato e di una
sfumatura
di bianco che esaltava la sua carnagione rosea, ma in quel momento non
rimpiangeva di non poterlo indossare. Quell’abito apparteneva
a un’altra vita –
quella che avrebbe dovuto condividere con il giovane romano –
che ormai non
esisteva più: nel momento in cui avrebbe sposato Ulf, non
avrebbe rinunciato
solo a un abito bianco e a Tito, ma anche a Roma, alla sua famiglia
– che sì,
non era delle migliori, ma era comunque sua
– a un modo di vivere e persino alla sua identità.
Un bussare deciso la distolse da quei
pensieri cupi. Lidia e sua madre si scambiarono un’occhiata
sorpresa. «Avanti!»
esclamò Donna Giulia.
Hermann, il fratello minore di Ulf,
entrò reggendo tra le mani un piccolo pacco, ma quando
notò l’abbigliamento di
Lidia si affrettò a voltarle le spalle.
«Oops» ridacchiò. «Chiedo
perdono,
Donna Lidia!»
La fanciulla lo guardò a bocca aperta.
«Cosa… cosa ci fai qui?»
balbettò, afferrando lo scialle che la sarta le stava
porgendo e utilizzandolo per coprirsi il petto un po’ troppo
scoperto.
Il ragazzo si girò appena un
po’ nella
sua direzione e Lidia vide che stava tenendo gli occhi comicamente
serrati. «Sono
vestita» sbuffò la giovane, trovandosi quasi a
sorridere per la prima volta
dopo molti giorni. «Puoi aprire gli occhi.»
«Sì?» chiese
Hermann, aprendone uno a
scopo perlustrativo. «Oh, bene!»
«Quindi?» insistette la
ragazza,
inclinando lateralmente il capo e cercando di indovinare il motivo
della sua
visita.
«Sono venuto a portarti
questi.» Il
ragazzo si avvicinò a lei e le porse il piccolo involucro di
stoffa che aveva
tra le mani.
Lidia avrebbe voluto ostentare
indifferenza, ma in verità aveva sempre amato i regali e
anche quella volta la
curiosità ebbe la meglio sugli altri sentimenti. Scostando
con cautela i lembi
del pesante tessuto verde, la fanciulla si trovò tra le mani
una collana d’oro
alla quale erano appesi dei piccoli dischi di metallo e vetro colorato
e una
spilla circolare decorata con un motivo simile.
«I gioielli con cui si è
sposata mia
madre» spiegò il ragazzo. «In teoria
avrebbe dovuto portarteli una donna di
famiglia, ma mamma è morta diversi anni fa e nonna Edda
avrebbe fatto fatica ad
arrivare fino a qui… e mio padre ha pensato che mandare Unna
non fosse una
buona idea.» Il ragazzo pronunciò quelle ultime
parole inarcando comicamente le
sopracciglia e di nuovo Lidia si scoprì a sorridere, prima
di rabbuiarsi di
nuovo. «Mi dispiace per tua madre» disse, sincera.
Hermann accettò quelle parole con un
cenno del capo e la giovane soppesò pensierosa i gioielli.
Per qualche motivo,
il fatto che fossero appartenuti alla madre del ragazzo la commosse.
«Grazie»
disse, richiudendo con cura il pacchettino e porgendolo alla sarta.
«Sono molto
belli.»
Il ragazzo le sorrise e fece per
andarsene, ma Lidia vide che era combattuto. «Ti sta bene
sposare mio
fratello?» le chiese infatti, a bruciapelo. Lidia
sussultò, impreparata, e
cercò una risposta diplomatica a quella domanda. Avrei preferito sposare te.
No, quello naturalmente non si poteva
dire. E non le pareva nemmeno il caso di dire che avrebbe preferito
sposare il
suo vero fidanzato: Hermann le era
quasi
simpatico, ma non era affatto certa di potersi fidare di lui.
«È una decisione
che mi è stata imposta» mormorò dunque,
dopo un attimo. «Non è facile
accettarla.»
Lui annuì, come se condividesse il suo
pensiero. «Non è cattivo, sai?» fece
piano, guardandola di sfuggita negli occhi.
«Ti sarebbero potuti capitare uomini peggiori.»
Lidia scosse il capo. «Lo so, ma non
è
comunque facile. E mi mette anche un po’ in
soggezione» confessò, arrossendo.
Hermann sorrise, apparentemente sorpreso.
«Ulf? Immagino che possa fare quell’effetto, con
quella faccia che ha
ultimamente. Ma non è sempre così, eh! Di solito
è una persona normale.»
«Se lo dici tu»
mormorò la ragazza,
scettica.
«Fidati, fidati»
ridacchiò il giovane
germanico. «E nemmeno Unna è un mostro. Di solito.
Anche se a volte un po’
stronza lo è, in effetti.» Donna Giulia
sussultò nell’udire il linguaggio del ragazzo
e la sarta gli lanciò un’occhiata micidiale.
«Va bene, tolgo il disturbo» disse
lui, retrocedendo verso la porta. «Ci vediamo più
tardi, sorella. E coraggio! Un bel
sorriso e vedrai che andrà tutto bene!»
«Facile dirlo»
sbuffò sottovoce Lidia,
anche se ormai Hermann non era più in grado di sentirla.
«Lidia?» la richiamò
Donna Giulia,
pensierosa. «Forse quel ragazzo ha ragione. Non stai
affrontando questa
faccenda con lo spirito giusto.» La fanciulla si strinse
stizzosamente nelle
spalle, improvvisamente irritata dalle parole della madre.
«Sto affrontando questa faccenda
come meglio posso, madre»
ribatté. «Vorrei vedere te, al mio
posto!»
Di fronte all’inaspettato spirito
combattivo della figlia, Donna Giulia decise di alzare bandiera bianca
e tornò
a osservare in silenzio il lavoro della vecchia sarta.
***
Alle tre del pomeriggio – orario che,
per un qualche motivo, le sembrava particolarmente infausto
– Lidia, accompagnata da suo padre, lasciò la domus del Legato per raggiungere il
luogo in cui si sarebbe tenuta la cerimonia. Non si trattava di un
tempio, come
si era ingenuamente aspettata, ma di una semplice radura ai margini
della
foresta; un luogo che, le aveva spiegato Libo, i germanici
consideravano sacro.
Malgrado il sole si fosse finalmente deciso a splendere in pianta
stabile nel
cielo e nell’aria ci fosse un gradevole profumo di fiori, la
fanciulla non
riusciva a smettere di tremare.
L’inquietudine e la preoccupazione che
l’avevano accompagnata fin da quando suo padre le aveva
comunicato quello che
la aspettava erano cresciute in maniera spaventosa nelle ultime ore ed
erano
infine esplose in una sorta di malessere che la ragazza non riusciva a
comprendere fino in fondo, ma che la scuoteva da capo a piedi. Quello
che era
iniziato come un tremolio appena accennato si era poi trasformato in
una
violenta serie di brividi che le facevano tremare le mani e battere i
denti.
«Vuoi finirla?» le
sibilò il Senatore,
artigliandole un braccio.
«N-non ci r-riesco»
balbettò lei,
guardandolo sperduta – ed era vero: per quanto si sforzasse
di controllarsi, il
suo corpo sembrava rifiutarsi di obbedirle, contraendosi in spasmi e
tremiti. «M-mi
gira la t-testa» gemette ancora la fanciulla, in preda a un
capogiro
improvviso. «Papà, non…» Con
un sibilo strozzato, Lidia si portò
improvvisamente una mano alla gola, faticando a respirare, mentre il
suo campo
visivo si restringeva improvvisamente.
«Lidia!» questa volta il tono
di suo
padre era preoccupato; e mentre le forze parevano abbandonarla, la
giovane
sentì le braccia dell’uomo stringersi attorno a
lei, sostenendola come non
succedeva da moltissimo tempo. «Lidia!» la
chiamò di nuovo il Senatore,
passandole una mano sulla fronte e facendola appoggiare a
sé. «Che cosa
succede?»
«Non respiro!» stridette lei,
in preda
all’angoscia e a i brividi. «Non riesco a
re-respirare!» Il terreno sotto ai
suoi piedi parve farsi molle e instabile e, senza nemmeno rendersene
conto, la
ragazza artigliò la tunica di suo padre, cercando in lui
qualcosa che
l’aiutasse a mantenere una parvenza di equilibrio.
Improvvisamente, quasi fosse sbucata
dal nulla, la sacerdotessa con cui aveva parlato il giorno precedente
le
comparve davanti. Nel suo stato di confusione crescente, la giovane
romana non
fece in tempo a stupirsi di quella comparsa così improvvisa,
perché la donna le
afferrò subito le mani sudate. «No, no,
Lidia» la richiamò dolcemente. «Hai
solo un attacco di panico, calmati!»
La fanciulla la guardò con gli occhi
sbarrati, senza capire, e la sacerdotessa le rigirò le mani
verso l’alto e
premette i pollici in corrispondenza del centro dei palmi della
ragazza, così
forte che Lidia sentì le unghie pizzicarle la pelle.
«Adesso passa» sussurrò
Donna Erin. «Respira. Fa’ dei bei respiri
profondi.»
La giovane, ancora sostenuta da suo
padre, annuì debolmente e, fissando terrorizzata il volto
sfocato della donna,
provò a fare quello che le era stato detto. Dopo alcuni
interminabili minuti,
le dita fresche della sacerdotessa si fecero largo attraverso la paura
bollente
che le attanagliava lo stomaco e i polmoni e, come per magia,
iniziarono
lentamente a dissolverla. Un respiro dopo l’altro, la
fanciulla sentì il suo
mondo tornare quasi alla normalità. Anche quando il cuore
smise di rimbombarle
nelle orecchie e la vista si fece di nuovo nitida, però,
Lidia sentì di avere
le gambe come di gelatina e di essere completamente madida di sudore.
«Va meglio?» le chiese dopo un
altro
po’ Donna Erin. Spossata, la ragazza fece un cenno
d’assenso con il capo,
continuando a respirare a fondo e lasciando che la brezza fresca e il
sole che
le sfioravano la pelle dissolvessero gli ultimi brandelli del terribile
mantello di terrore e irrazionalità che l’aveva
avvolta. «Non ti era mai
capitato?» indagò ancora la sacerdotessa. Sentendo
di avere la gola troppo
asciutta per parlare, Lidia si limitò a scuotere la testa.
«Che cosa le è
successo?» si intromise
il Senatore Prisco, rivolgendosi alla donna con un tono secco, quasi
come se il
malessere della figlia fosse imputabile a lei.
«Un attacco di panico»
ripeté Donna Erin;
e pur nel suo stato di stordimento Lidia si stupì della
freddezza della sua
voce. «Probabilmente è dovuto alla situazione di
stress: quello del matrimonio
non è mai un giorno facile; e per Lidia le cose sono ancora
più difficili del
solito.»
L’uomo fece un grugnito
d’assenso, ma,
notando la piega rigida delle sue labbra, Lidia comprese che non aveva
affatto
gradito il tono in cui la donna si era rivolta a lui. «Ma
starà bene?» insistette
il Senatore, abbassando lo sguardo sulla figlia. Nei suoi occhi Lidia
scorse
un’espressione che non vedeva da molti anni:
l’espressione che suo padre era
solito dedicarle quand’era bambina, piccola e bisognosa di
tutto il suo
sostegno. Anziché confortarla, quel fatto le
lasciò in bocca un retrogusto
amaro: i tempi in cui l’uomo non si faceva problemi a
dimostrarle apertamente
il proprio affetto erano ormai lontani.
«Starà bene»
confermò Donna Erin. «Questi
attacchi sono brutti e fanno paura, ma non sono pericolosi. E di certo
nel caso
di Lidia si è trattato di un evento sporadico.» Il
senatore la guardò
strizzando gli occhi, senza capire. «Vuol dire che
probabilmente non ne avrà
altri» parafrasò la donna.
Sentendo di essersi ripresa a
sufficienza, Lidia si schiarì un paio di volte la voce,
cercando di disperdere
la tensione che ancora le stringeva la gola. «Sono tutta
sudata» mormorò, senza
nemmeno trovare la forza per vergognarsi di
quell’affermazione così poco
elegante. Passandosi una mano sul vestito, la ragazza
soffocò un brivido di
disgusto nel sentirlo appiccicarsi alle gambe.
«Non fa niente, cara» la
rassicurò la
sacerdotessa che, ora che si rivolgeva a lei, aveva di nuovo adottato
il
consueto tono dolce e accomodante. «Facciamo in tempo a darti
una sciacquata: vedrai
che una volta sbrigata questa formalità la strada
sarà tutta in discesa.»
Pur conservando dei seri dubbi circa
il fatto che il matrimonio con un barbaro potesse considerarsi una formalità, Lidia
annuì, grata, e permise
a Donna Erin di riaccompagnarla a casa, seguite a poca distanza da un
Senatore
decisamente silenzioso.
***
Poco meno di mezz’ora più
tardi, Lidia
era di nuovo in strada e stava ripercorrendo la via che
l’avrebbe condotta
all’altare – metaforicamente parlando. Le mani
premurose di Donna Erin e di sua
madre avevano lavato via il sudore che imperlava il corpo della
ragazza, ma non
la paura che ancora le faceva contrarre i muscoli a intervalli regolari.
Tuttavia, mentre camminava per le
strade sterrate del paese, Lidia si obbligò a tenere la
testa alta e a non
permettere al suo corpo di prendere il sopravvento come aveva fatto
prima.
Aveva già dato fin troppo spettacolo: non aveva modo di
sapere se qualche
germanico avesse assistito alla sua crisi,
ma, di certo, non aveva alcuna intenzione di fornire alla gente del
posto un
ulteriore motivo per prendersi gioco di lei.
Ammesso
che a qualcuno gliene freghi qualcosa di me, in effetti,
considerò la ragazza, lanciando di tanto in tanto qualche
occhiata a ciò che
avveniva attorno a lei. A quell’ora il villaggio sembrava
poco frequentato: la
maggior parte delle persone che incrociava sul suo cammino si limitava
a guardarla
con blanda curiosità, senza però interrompere
quello che stavano facendo; e solo
qualche donna le aveva lanciato un grido d’incoraggiamento.
Malgrado tutto, la
giovane trovava rassicurante quella mancanza di attenzione per il suo
matrimonio: meno gente davanti alla quale fare brutte figure, si
diceva.
Un’altra buona notizia era che sarebbe
stata Donna Erin stessa a ufficiare il rito: anche se la donna a volte
la
confondeva un po’, Lidia era portata a considerarla
un’amica, qualcuno di cui
fidarsi.
Mentre camminavano quasi come una
piccola processione, accompagnati questa volta anche da Quinto e Donna
Giulia,
Lidia pensò che ci fosse una certa ironia nel fatto che suo
padre si fosse
deciso di mostrare un po’ di premura nei suoi confronti
proprio nell’istante in
cui si sarebbe separato per sempre da lei. Il Senatore, che solitamente
pareva
considerarla praticamente invisibile, continuava infatti a lanciarle
occhiate
che, per quanto cercasse di nasconderlo, tradivano chiaramente la
preoccupazione.
Improvvisamente il legato si fermò.
«Eccoci»
disse, voltandosi verso Lidia. «Sei pronta?»
Nemmeno
un po’, pensò
la ragazza, ma annuì comunque, con il cuore in gola.
La radura aveva un aspetto così
innocuo che la fanciulla quasi storse il naso davanti alla fragile erba
primaverile e alle api che, esaltate dai primi raggi di sole,
iniziavano a
ronzare insistenti. Si sarebbe aspettata un po’
più di partecipazione da parte
della natura; il paesaggio verde e amichevole non rispecchiava
minimamente il
tumulto che si sentiva nell’animo. Persino la grande quercia
che si stagliava
sul fondo del prato esibiva delle tenere foglioline pallide che la
facevano
apparire molto meno imponente di quello che era.
In piedi davanti al vecchio tronco
ricoperto di muschio c’era Donna Erin. In qualche modo, la
sacerdotessa era
riuscita a precederli nella radura e a indossare una veste bianca
diversa da
quella che aveva sfoggiato poco prima, quando aveva soccorso Lidia.
Tutt’attorno a lei c’era una piccola folla di
persone: lasciando scorrere su di
loro una rapida occhiata, la giovane romana scorse qualche volto noto
– gente
che aveva già intravisto a casa di Gefrid – ma la
maggior parte di loro erano
dei perfetti sconosciuti. Con un sussulto di sorpresa, la ragazza si
rese conto
che tra loro vi erano persino alcuni legionari. Perché
sono qui? Si chiese, voltandosi verso Libo in cerca di
spiegazioni. Il Legato, tuttavia, pareva stupito quanto lei e qualcosa,
sul suo
volto, fece contrarre sgradevolmente lo stomaco della fanciulla.
Prima che avesse il tempo o la
prontezza di spirito per indagare, però, i presenti si
accorsero del loro
arrivo e si voltarono tutti verso di lei. Fu in quell’istante
che Lidia si rese
conto che il tempo di pensare e di indugiare era finito e che il punto
di non
ritorno era ormai stato superato. Le sue gambe si mossero da sole e la
ragazza
si trovò ad avanzare fino a giungere davanti alla
sacerdotessa, lasciandosi
alle spalle il legato e i genitori. Gli occhi di tutti i presenti erano
puntati
su di lei e Lidia aveva l’impressione che le stessero
bruciando la schiena,
trapassando la protezione della veste troppo leggera, ma Donna Erin si
chinò
leggermente in avanti e incontrò il suo sguardo,
sorridendole incoraggiante. Negli
occhi verdi della donna Lidia trovò un po’ di
sicurezza e la forza di fare un
cenno d’assenso quasi impercettibile.
«Bene, credo che possiamo
cominciare» sorrise
la sacerdotessa, prima di schiarirsi la voce, facendosi seria.
«Oggi, davanti
agli uomini e davanti agli Dèi, celebriamo
l’unione tra Ulf, figlio della
Germanica, e Lidia, figlia di Roma. Che possano la luce e la
benevolenza degli
Dèi splendere su questo giorno e sulla vita di questi
giovani.» La sacerdotessa
alzò brevemente le mani al cielo e poi si volse verso
destra, facendo un cenno
con una mano. «Vieni avanti, Ulf, figlio di Gefrid.»
Quasi in apnea, Lidia si girò verso il
germanico, notando con una fitta allo stomaco la sua mascella contratta
e lo
sguardo rigidamente puntato davanti a sé. Quando
l’uomo si fermò al suo fianco,
sempre senza guardarla, la ragazza notò che stringeva
talmente tanto i pugni
che le nocche gli stavano diventando bianche.
Con un sospiro tremulo e una preghiera
silenziosa agli Dèi, romani o germanici che fossero, Lidia
chiuse gli occhi e
si preparò a subire il suo destino.
***
Come
avrete notato, oggi non è giovedì,
bensì martedì. Visto che me ne vado via per
un paio di giorni, ho pensato di anticipare l’aggiornamento
(anche perché
questo capitolo è cortino…).
Pubblicherò
il successivo lunedì e quello dopo ancora
giovedì, così da non sballare troppo
il ritmo degli aggiornamenti.
Matilde
***
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Capitolo 9 *** 8. Promesse ***
Donna Erin parlava ormai da più di
mezz’ora e, sebbene Lidia facesse del proprio meglio per
seguire quello che
stava dicendo, non riusciva a mettere a tacere quella vocina che le
diceva che
le chiacchiere della sacerdotessa erano per l’appunto quello,
semplici chiacchiere. Era come se
le sue parole
non avessero alcun significato reale, ma fossero solo parte di un
rituale vuoto,
teso più a rispettare le aspettative dei presenti, che non a
creare un patto
duraturo tra i due sposi.
Che poi, a voler ben vedere, tra loro
due un patto esisteva già, pensò la fanciulla,
lanciando delle occhiate furtive
verso il volto di Ulf, che però ancora si ostinava a tener
lo sguardo fisso
davanti a sé. Chissà se
è nervoso anche
lui, si chiese la ragazza. O
è
nervoso… o è arrabbiato. Molto arrabbiato.
Improvvisamente la sacerdotessa tacque
e Lidia si rese conto, imbarazzata, di essersi persa dietro ai propri
pensieri
e di non avere la minima idea di quello che la donna aveva detto. Non mi avrà mica fatto una domanda, vero?
Si chiese, angosciata. La sacerdotessa si limitò
però a richiamare
discretamente la sua attenzione con un cenno della mano, prima di fare
lo
stesso con Ulf. Con una punta d’orgoglio, la fanciulla
notò di essersi ripresa
più velocemente dell’uomo.
Riconquistata l’attenzione dei due
giovani, la donna riprese a parlare in tono solenne e, pensò
Lidia, anche
leggermente pomposo. «In questo giorno, voi vi impegnate a
restare uniti nei
tempi di pace e in quelli di guerra, a onorare le tradizioni dei vostri
padri e
respingere il male, impegnandovi a perseguire il bene con tutte le
vostre forze.
Lo giurate?» Erin si voltò verso Ulf,
evidentemente in attesa di una risposta.
«Lo giuro» pronunciò
l’uomo, con voce
atona.
La donna si voltò poi verso Lidia.
«Lo
giuro» esalò la fanciulla, cercando di imitare il
tono di Ulf, ma non riuscendo
a impedire che la sua voce suonasse un po’ tremula. Che cosa
stava giurando,
esattamente?
Quando ebbero pronunciato quelle
parole, la sacerdotessa si allontanò di un passo.
«Con questo bacio», disse,
scandendo attentamente le parole, «vi riconoscete come marito
e moglie, da oggi
fino alla fine dei vostri giorni.»
Ulf si voltò rigidamente verso di lei
e Lidia si sentì vacillare. Certo, aveva immaginato che
avrebbe dovuto farlo,
ma non si aspettava… Prima che il panico
l’assalisse e annullasse i suoi
pensieri, l’uomo la fulminò con
un’occhiata. La fanciulla non era mai stata
particolarmente brava a cogliere i messaggi non verbali, ma quello
scritto negli
occhi del germanico era chiarissimo: mi
raccomando, le stava dicendo, e Lidia annuì,
memore di quello che si erano
detti a casa della sacerdotessa.
Senza indugiare, Ulf si chinò su di
lei e, senza toccarla se non per lo stretto indispensabile,
posò le labbra
sulle sue, una lieve pressione calda e asciutta contro la sua bocca
chiusa.
Durò solo qualche secondo, il tempo necessario
affinché tutti vedessero, poi si
ritrasse e Lidia, con le guance in fiamme, si affrettò a
voltarsi di nuovo
verso Donna Erin. Lo sguardo della donna era scettico, come se non
avesse
apprezzato quel “bacio”, ma non
commentò, mentre una ragazzina dai capelli
scuri le si avvicinava, tenendo tra le mani due nastri rossi.
«Con queste
stringhe», proseguì la sacerdotessa,
«legate il vostro destino e vi legate alle
promesse che avete pronunciato oggi.»
La bambina bruna – non poteva avere
più di dieci anni – porse loro i nastri con le
mani giunte. Lidia li fissò
senza capire a cosa servissero, ma Ulf ne prese uno e la
guardò, come se si aspettasse
che lei facesse qualcosa. Quando non si mosse, l’uomo le
afferrò un braccio e
legò la stringa attorno al suo polso destro. Poi le porse il
suo.
Oh,
pensò
la ragazza, sentendosi sciocca. Raccolse il secondo nastro dalle mani
della
piccola e lo fece passare attorno al polso di Ulf, ma il tessuto era
più rigido
di quanto si aspettasse – è
nylon? –
e, malgrado svariati tentativi, la giovane non fu in grado di ottenere
un nodo
saldo.
Questo
sì che è di ottimo auspicio, le fece notare quella vocina sarcastica che negli
ultimi tempi la tormentava sempre più spesso.
«Dall’altra parte» le
sibilò Ulf. Lidia
alzò su di lui uno sguardo perso. «Eh?»
chiese, intelligentemente.
«Quel lembo»,
sussurrò ancora lui, con
una nota di impazienza, «lo devi far passare sotto a
quell’altro, poi stringi.»
Seguendo le sue istruzioni con mani
tremanti, la ragazza fu finalmente in grado di ottenere un nodo
decente. Quando
l’uomo riabbassò il braccio, la folla radunata
davanti alla quercia esplose in
manifestazioni di giubilo e fischi festanti.
Oh,
mamma, pensò
Lidia, sentendosi morire di imbarazzo e non osando alzare lo
sguardo su quello che ora era a tutti gli effetti suo marito.
«Bene, complimenti!» disse Erin
con un
gran sorriso, posando le mani sulle spalle dei due giovani. Poi si
chinò
sull’orecchio di Lidia. «Visto che non era poi
così terribile?» le chiese,
quasi divertita.
Eh,
insomma, avrebbe
voluto rispondere la ragazza, ma si limitò a fare un
sorriso di circostanza, troppo provata per protestare. Istintivamente,
si
guardò attorno alla ricerca dei suoi genitori e li
trovò accanto al Legato, che
applaudiva con aria soddisfatta. Donna Giulia cercava di nascondere le
lacrime,
invano, mentre suo padre se ne stava immobile, con
un’espressione a metà strada
tra il sollievo e il rimpianto. Sentendosi per la prima volta in dovere
di
rassicurarli, Lidia riuscì a fare un sorriso nella loro
direzione. Lanciando
un’occhiata tutt’intorno a sé, la
fanciulla si sentì leggermente rassicurata
dall’atmosfera allegra. L’occhio le cadde su suo
suocero, che, sebbene
sembrasse intento ad avere un dialogo silenzioso con Ulf, sentendosi
osservato
alzò lo sguardo su di lei e col capo le rivolse un cenno
d’approvazione che,
per quanto piccolo, le scaldò il cuore.
Finalmente, dopo giorni di tensione,
Lidia sentì la paura allentare un po’ la morsa
attorno al suo stomaco: la sua
situazione era ancora estremamente delicata,
naturalmente, ma, se non altro, fino a quel punto non era accaduto
nulla di
disastroso.
Poco alla volta la gente si avvicinò
per congratularsi con la coppia – con Ulf,
a dire il vero, perché tutti, nessuno escluso, si
rivolgevano a loro in quel
dialetto germanico che a Lidia risultava del tutto incomprensibile. La
fanciulla, sebbene stordita dagli eventi, provò una punta di
irritazione:
sapeva che lì tutti erano in grado di parlare la sua lingua
e il fatto che si
rifiutassero di farlo le sembrava un chiaro segno di maleducazione.
Però,
malgrado tutto, la maggior parte degli ospiti le rivolgevano dei
sorrisi
calorosi, per cui la ragazza decise di soprassedere sul quel
particolare.
Nel buonumore generale, Lidia non poté
fare a meno di notare un piccolo drappello di uomini che, fermi a una
decina di
metri da lei, sembravano condividere il suo stesso umore cupo. Per un
qualche
motivo, la cosa la indispettì: che motivo avevano, loro, di
esibire quelle
facce scure? Erano forse loro, quelli che erano stati costretti a
sposarsi
contro la loro volontà?
Un uomo in particolare attirò la sua
attenzione: le dava le spalle e l’unica cosa che poteva
vedere di lui era la
statura imponente e i lunghi capelli scuri, ma il modo quasi eccessivo
in cui
gesticolava attirò la sua attenzione. Di punto in bianco,
uno dei suoi compagni
si accorse dello sguardo di Lidia e gli tirò una gomitata
nelle costole,
spingendolo a girarsi.
Vedendosi scoperta, la fanciulla
abbassò il capo, con le guance in fiamme, ma
l’uomo scoppiò a ridere e si
diresse a grandi passi nella sua direzione. Diversamente da quanto si
sarebbe
aspettata, però, il germanico la ignorò e
batté invece con entusiasmo una mano
sulla spalla di Ulf, strappandogli quella che a Lidia parve una risata
sincera.
Poi gli occhi grigi del nuovo arrivato si posarono su di lei e la
giovane
rabbrividì, sentendosi a disagio sotto
quell’osservazione così minuziosa.
Notando il suo turbamento, l’uomo disse qualcosa a suo
marito, che però si
limitò a scuotere le spalle con indifferenza. Visto da
vicino, il volto del
germanico le era vagamente famigliare: non si trattava forse della
stessa
persona che aveva riso con Ulf e sua sorella, il giorno in cui li aveva
incontrati per la prima volta?
Lidia non fece in tempo a meditare
troppo su quel particolare, perché dopo qualche minuto
l’uomo si allontanò di
nuovo e subito Hermann prese il suo posto. Il ragazzo tirò
un pugno scherzoso
addosso al fratello, che sbuffò, parandolo, e poi si
girò verso la giovane
romana, abbracciandola di slancio. «Auguri!»
esclamò, dopo aver lasciato
un’allibita Lidia. «Sono contento per
voi!» Istintivamente, Lidia e Ulf si
girarono per scambiarsi un’occhiata e la fanciulla si
domandò se Hermann stesse
scherzando o se davvero credesse che ci fosse motivo per essere
contenti.
«Buona fortuna» disse una voce
alle
loro spalle. Lidia si voltò e si trovò davanti
Unna: i suoi occhi gelidi erano
in netto contrasto con la voce sorprendentemente dolce con cui aveva
pronunciato quelle parole. «Grazie?» rispose,
titubante. Non avrebbe voluto
farla sembrare una domanda, ma non era certa che l’augurio di
buona fortuna fosse il migliore da
farsi
a un matrimonio.
Un angolo della bocca della donna
germanica si sollevò in un ghigno storto, ma prima che
avesse tempo di dire
qualcosa Hermann si frappose tra lei e Lidia. «Non
incominciamo, eh!» fece,
rivolto alla sorella, prima di prenderla a braccetto e cercare di
trascinarla
via. Lei per tutta risposta gli mollò uno scappellotto e
ringhiò qualcosa nella
sua lingua, poi tornò a rivolgersi alla coppia.
«Spero di aver tempo di parlare
un po’ con voi, durante il pomeriggio»
cinguettò, e anche se le sue parole
erano oggettivamente innocue, Lidia sentì un brivido freddo
correrle giù per la
schiena.
Gli ospiti – amici
e parenti? Si chiese la ragazza, un po’
frastornata –
continuarono a congratularsi con loro e a stringere loro le mani fino a
quando,
nella confusione generale, la fanciulla si trovò separata da
Ulf. Guardandosi
attorno nel tentativo di ritrovarlo, vide che era circondato da un
gruppo di
uomini che ridevano e gesticolavano.
Io
lì non ci vado,
decise subito, deglutendo. Già stava facendo una fatica immensa per abituarsi alla presenza di un germanico, ritrovarsi nel bel mezzo
di una dozzina di uomini sconosciuti sarebbe stato decisamente troppo.
«Lidia», le disse il Legato,
avvicinandosi insieme ai suoi genitori, «sei stata
bravissima.» Donna Giulia
l’abbracciò talmente stretta che la ragazza ebbe
l’impressione di sentire le
vertebre scricchiolare, mentre suo padre le sfiorava le spalle con una
mano.
Non era molto, ma per i suoi standard quella era una manifestazione
d’affetto
da non sottovalutare.
Due uomini si avvicinarono e Lidia si
sottrasse dall’abbraccio dalla madre. «Oh,
giusto!» esclamò Libo, voltandosi
per accogliere i nuovi arrivati. «Lasciate che vi presenti il
Prefetto Caleno e
Terzo Marzio Opilio, ufficiale…»
«Nulla di importante, Legato, non
preoccuparti» rise l’uomo, togliendo con un cenno
della mano il Legato
dall’imbarazzo di ricordare un grado dimenticato.
«Piacere di conoscerti, Donna
Lidia»
commentò il Prefetto, sorridendole affabile.
«Il piacere è mio»
replicò educatamente
lei, apprezzando la possibilità di parlare con gente
dall’aspetto famigliare.
«Sei una donna molto coraggiosa,
Lidia» disse ancora l’uomo. «Vivere qui
non è facile per noi che l’abbiamo
scelto: posso solo immaginare come possa essere per una giovane nata e
cresciuta a Roma, ma sono certo che tu te la caverai
benissimo.»
«Grazie» mormorò la
fanciulla,
arrossendo davanti a quel complimento inaspettato, ma comunque gradito.
«Tuttavia», proseguì
il militare,
abbassando un po’ la voce, «se in qualsiasi momento
dovessi aver voglia di
cambiare un po’ ambiente… vieni a trovarci.
L’accampamento è solo a mezz’ora di
cammino da qui, verso nord.»
Lidia lo guardò, stupita. «Eh,
grazie»,
balbettò, «anche se non so
se…»
«Mia cugina verrà a trovarmi a
metà
luglio» si intromise l’altro soldato. «Si
chiama Flavia, so che siete molto
amiche. Non ti piacerebbe rivederla?» Lidia
aggrottò la fronte, senza capire. «Flavia?
Non conosco nessuno che…»
«Sì, Flavia»
insistette il soldato, sottolineando il nome e guardandola
negli occhi. «So che ne avete parlato poco prima della tua
partenza e che lei
ti aveva promesso di venire a trovarti.»
Accanto a loro, il Prefetto ridacchiò
e, improvvisamente, Lidia capì. «Oh…
oh, Flavia, certo!» disse, annuendo con forza.
«Certo, mi farebbe piacere
vederla!»
«Non avevo dubbi» sorrise
l’uomo.
Tito!
Dunque
il ragazzo non solo non aveva cambiato idea, ma non aveva nemmeno perso
tempo e
aveva già allertato gli amici di cui le aveva parlato.
Guardandosi attorno, la
fanciulla fu presa dall’angoscia: adesso che si trovava in
Germanica, l’idea le
pareva più pericolosa che mai.
«Aspetta!» esclamò, affrettandosi a
raggiungere
l’ufficiale, che già si stava allontanando da lei.
«Ho cambiato idea: dille che
non è il caso che si scomodi. Il viaggio è lungo
e di certo avrà molte cose da
fare. Sapere che mi pensa è già una consolazione
sufficiente.»
Il soldato scosse il capo. «Ti vuole
molto bene, Donna Lidia, e ha deciso di venirti a trovare. È
testarda, non
potrò certo farle cambiare idea.»
Lei annuì, per nulla sorpresa dalle
parole del militare. «Capisco» mormorò.
«Ma, ti prego: dille di stare attenta.»
«Lo farò», le
promise lui, «e ricorda:
sei hai bisogno di parlare con me o con il Prefetto, vieni al
campo… Sarai la
benvenuta.»
Quando i due uomini si furono
allontanati, Lidia si guardò attorno e vide che Ulf la stava
fissando.
Arrossendo e pregando ardentemente di non avere un’aria
colpevole, la fanciulla
si affrettò a raggiungerlo. Quando gli fu accanto vide che
nello sguardo
dell’uomo vi era una domanda alla quale decise di non
rispondere, sentendo di
non essere tenuta a fornirgli alcuna spiegazione.
Ulf la scrutò ancora per qualche
istante, poi scrollò le spalle. «Possiamo
andare?» La ragazza non aveva motivo
per volersi trattenere in quella radura, quindi annuì. Senza
una parola, il
germanico girò sui tacchi e si avviò lungo la
strada che l’aveva condotta lì.
Confusa, Lidia si lanciò un’occhiata alle spalle e
notò che le persone che
ancora si attardavano nel prato li seguivano a una certa distanza.
Ulf camminava spedito e lei,
intralciata dalla veste lunga, faticava a tenere il suo passo. Si
sarebbe
aspettata di raggiungere la casa nella quale si erano incontrati la
prima volta,
ma l’uomo imboccò una stradina secondaria che la
giovane non aveva mai
percorso. «Dove stiamo andando?» chiese la
fanciulla, incapace di trattenere
oltre la curiosità e la confusione.
«A casa» replicò
lui, come se fosse la
cosa più naturale del mondo. Lidia boccheggiò per
un istante, presa in
contropiede. Forse si divertiva, a farla sentire stupida?
«Ma… casa tua non
era…»
«Non stiamo andando a casa mia»,
spiegò secco Ulf, «ma a casa nostra.
Che è in fondo a questa strada.»
A bocca aperta, Lidia per un attimo
non riuscì a replicare. Nessuno le aveva detto che avrebbe
avuto una casa tutta
sua e quel pensiero, anziché confortarla, la
terrorizzò: lei non aveva nessuna
idea di come si tenesse in ordine una casa, di come si cucinasse, di
come ci si
prendesse cura di un uomo. A Roma erano stati i servi a occuparsi di
quei compiti:
lei non era neppure in grado di fare una lavatrice, come avrebbe potuto
svolgere da sola le mille incombenze che l’attendevano al
varco?
Dal momento che dubitava che Ulf
potesse esserle di alcun aiuto, la giovane decise di non esternare
quelle paure.
«Perché ci seguono?» chiese, invece,
indicando le persone alle loro spalle.
«Sono invitati al banchetto»
spiegò
lui.
«A casa nostra?» Lidia si
rigirò in
bocca quelle parole, stupendosi di come dei termini così
famigliari potessero
sembrarle totalmente privi di senso, in quel contesto.
Ulf annuì. «Non preoccuparti,
hanno
preparato tutto le donne» la informò, con un
sogghigno. «Tu non dovrai fare
niente. Per ora.»
La fanciulla lo guardò,
quasi…
oltraggiata. Come si permetteva di mettere in dubbio le sue doti di
padrona di
casa? Dal momento che l’uomo non la conosceva, i suoi erano
dei semplici
pregiudizi privi di fondamento. La ragazza gonfiò il petto
e, per una frazione
di secondo, fu tentata di fargli sapere che cosa ne pensava,
esattamente, dei
suoi preconcetti, ma poi il coraggio le mancò e lei fu
costretta a incassare in
silenzio quell’insulto velato.
Per
questa volta, si
ripromise, stringendo i denti.
***
Lidia incrociò le mani in grembo,
reclinandosi sulla sedia e osservando le ombre della sera che si
allungavano
sul prato antistante a quella casa che non aveva ancora avuto modo di
guardare
per bene. Il banchetto non era stato poi così
male… almeno dal punto di vista
del cibo. Anche se non era mai stata una grande consumatrice di carne,
Lidia
aveva mangiucchiato, assaggiando diverse specialità locali e
apprezzando in
silenzio il modo in cui erano stati cucinati i vari piatti. Le portate
erano
molto meno numerose di quelle che sarebbero state servite in occasione
di un
matrimonio a Roma, ma non aveva comunque nulla da recriminare al cuoco
– o alla
cuoca – che aveva cucinato al posto suo. Chissà
se io imparerò mai a cucinare in questo modo, si
chiese la ragazza,
sentendosi quasi svagata.
Esattamente come durante la cerimonia
vera e propria, gli invitati al banchetto erano solo poche decine,
tuttavia
erano piuttosto rumorosi – anche per colpa della birra che si
ostinavano a
bere, sospettava la fanciulla – e sembravano molti di
più: a causa di quella
confusione, Lidia aveva faticato non poco per capire quello che sua
madre,
seduta accanto a lei, le stava dicendo. Donna Giulia aveva parlato
animatamente
per l’intera durata del banchetto, cercando di fornire alla
figlia tutte le
nozioni sulla vita di coppia che non le aveva dato durante i diciannove
anni
che avevano passato insieme. Lidia aveva pregato gli Dèi
affinché la donna non
scendesse in particolari delicati e
per una volta le divinità sembravano averle dato ascolto,
dal momento che gli
insegnamenti impartitile all’ultimo minuto da Donna Giulia
vertevano più che
altro sull’economia domestica e sul funzionamento dei diversi
elettrodomestici.
Sempre a causa del chiacchiericcio
costante, Lidia aveva temuto di non riuscire a non sentire quello che
Ulf le
avrebbe detto, tuttavia quelle preoccupazioni si erano rivelate
infondate, dal
momento che l’uomo non le aveva rivolto la parola,
ignorandola completamente. Be’,
meglio così, aveva pensato la
ragazza, provando un rinnovato moto di antipatia nei confronti del
marito. Tanto neanch’io ho niente
da dirgli.
Dopo quella che le era parsa
un’eternità, il sole era tramontato e il dolce era
stato servito: alcuni
ospiti, compresi i due legionari e le persone più anziane,
se n’erano andati e rabbrividendo
nella brezza del crepuscolo la fanciulla si stava chiedendo quanto a
lungo
ancora sarebbe stata costretta a restare all’aperto, quando
dai tavoli
iniziarono a levarsi le grida degli uomini. La ragazza
sollevò lo sguardo dalla
coppetta vuota del dolce e si guardò attorno cercando di
capire cosa stesse
succedendo. Anche se non riuscì a scorgere la causa di
quell’agitazione
improvvisa, notò che accanto a lei Ulf sembrava essersi
irrigidito.
Uno degli uomini si alzò e
gridò
qualcosa in direzione di Ulf, che alzò le mani e si
schernì. Immediatamente,
però, un altro uomo imitò il primo; e a quel
secondo uomo ne seguirono un altro
e poi un altro ancora. Lidia spostò lo sguardo
dall’uno all’altro, confusa. D’un
tratto Ulf si alzò in piedi e disse qualcosa che
scatenò l’ilarità degli altri
germanici, prima di fare un cenno con due dita. Cinque o sei donne si
alzarono
e Ulf si chinò verso la giovane romana.
«Va’ in casa e mettiti a letto» le
disse piano.
Lei lo guardò, sperduta.
«C-cosa?» balbettò,
mentre le donne si avvicinavano. Tra di loro, notò con
raccapriccio, c’era
anche Unna. «Fa’ come ti dico!» le
ingiunse Ulf, sottovoce, prima di sorridere
alla sorella che l’aveva ormai raggiunto.
La fanciulla si vide costretta ad
obbedire e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo a sua madre,
lasciò che le
germaniche la conducessero via. Le donne, tutte giovani che
dimostravano
suppergiù la sua età, la presero sottobraccio e
con una serie di risolini la
portarono in casa e poi su per una rampa di scale. Forse
vogliono farmi vedere dov’è la camera,
cercò di ragionare la
fanciulla, sebbene il suo inconscio le suggerisse che non fosse affatto
così.
Una volta che le giovani giunsero
nella camera da letto, infatti, le donne chiusero la porta e
afferrarono le
vesti di Lidia, iniziando a tirarle. La ragazza sbiancò e
cercò di
contrastarle, stringendosi al petto la tunica e indietreggiando verso
il muro,
ma loro erano in quattro e lei era sola e non aveva
possibilità di resistere. «Ferme!»
gridò. «Lasciatemi!»
In un ultimo, disperato tentativo di
evitare quell’umiliazione, la fanciulla si voltò
verso Unna. La giovane se ne
stava un po’ in disparte, osservando la scena con
un’espressione indecifrabile,
ma quando si rese conto di essere osservata scoppiò a ridere
e disse qualcosa
alle compagne. Come ubbidendo a un comando, una donna dai capelli rossi
si
chinò e afferrò l’orlo della tunica di
Lidia. «Sta ferma», disse Unna, rivolta
alla giovane cognata, «o te li strapperanno di dosso, invece
di sfilarteli e
basta.»
Lidia si immobilizzò e, con le lacrime
agli occhi, ricambiò lo sguardo della donna. «Ma
Ulf ha detto che…»
«Oh, so benissimo cosa ti ha detto mio
fratello», sorrise la germanica, «ma non crederai
davvero che dicesse la
verità. Era solo un modo per farti stare buona.»
Mortificata e confusa, Lidia abbassò
le braccia e lasciò che le donne le sfilassero la tunica e
la biancheria che
indossava al di sotto di essa. Unna scrutò con aria critica
il suo corpo nudo. «Insomma»,
sospirò, piegando la testa di lato, «si potrebbe
fare di meglio. Per lo meno
cerca di non frignare troppo, sorellina.
A Ulf non piacciono le donne lagnose.»
Lidia abbassò il capo, mentre lacrime
di rabbia e vergogna le colavano lungo le gote. Una delle altre donne,
una
ragazza con due grosse trecce ramate, si avvicinò il letto e
scostò le coperte.
Rapida, Lidia scivolò sul materasso e si coprì
con la trapunta, frapponendola
come uno scudo tra sé e il mondo esterno.
Soddisfatta, Unna disse qualcosa alle altre
donne e si diresse verso la porta. «Buonanotte, per
adesso» ghignò. «Ci vediamo
domani. Mi racconterai com’è andata, sorella.»
Rimasta sola, la fanciulla scoppiò a
piangere. Che stupida, che era stata: fidarsi di Ulf era ovviamente
stato un errore. Le era sembrato strano, in effetti, che
l’uomo le proponesse un patto tanto bizzarro, ma era stata
così desiderosa di
trovare un po’ di conforto che non si era accorta della sua
menzogna.
Certamente il suo destino non sarebbe cambiato un granché,
se anche avesse
saputo in anticipo quello che l’attendeva, ma per lo meno
avrebbe avuto il
tempo di abituarsi almeno un po’ all’idea. Invece,
così…
La fanciulla nascose il volto tra le
mani e singhiozzò, soffrendo per l’impotenza
ancora più che per quello che
avrebbe dovuto subire di lì a poco.
Un refolo d’aria improvviso
spalancò
la finestra e le portò le risate degli uomini che ancora
riempivano l’aria
della notte. Più lontano, un gufo lanciò il suo
lugubre richiamo e Lidia
desiderò di poter essere là fuori insieme a lui,
o, meglio ancora, di essere come lui:
un mucchio di piume senza
coscienza né consapevolezza, libero di librarsi nella luce
della luna e poi
scomparire nel buio della foresta…
Improvvisamente, un’idea tanto folle
quanto geniale la scosse. La ragazza si alzò dal letto e
raggiunse la finestra,
sentendosi come rinvigorita dall’aria fresca che le sfiorava
la pelle nuda. La foresta.
La stanza nella quale l’avevano
portata si trovava al secondo piano, era vero, però
lì davanti cresceva un
vecchio melo. Sporgendosi appena, la fanciulla calcolò che
il primo ramo
abbastanza robusto per sostenerla dovesse essere a circa un metro e
mezzo di
distanza. Forse troppo lontano per essere raggiunto con un balzo; e
certamente
troppo distante dal terreno per sperare in un atterraggio indolore, nel
caso in
cui avesse mancato la presa. Però…
L’accampamento
è solo a mezz’ora di cammino da qui…
Le parole dell’ufficiale le
risuonarono chiare nella testa. Rapida, sapendo di avere i minuti
contati,
Lidia si infilò di nuovo gli abiti che le donne le avevano
appena tolto,
maledicendo mentalmente i sandaletti che aveva stupidamente deciso di
indossare. Quella era la sua unica possibilità di fuga, non
c’erano dubbi.
Con cautela, la giovane si issò sulla
finestra, cercando di mantenersi in equilibrio. Ondeggiando un
po’ per prendere
lo slancio, guardò in basso, verso l’erba nera, e
venne colta da un capogiro.
Quel ramo era così lontano, pensare di farcela era pura
utopia.
Il vento le portò di nuovo delle voci,
stavolta più forti, forse dei saluti… di certo
non mancava più molto.
Mezz’ora
di cammino.
Inspirando profondamente, Lidia saltò.
***
Prossimo aggiornamento
giovedì, poi ritorno al ritmo normale di un capitolo alla
settimana... altrimenti rischio di esaurire i capitoli già
pronti!
***
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Capitolo 10 *** 9. Nella notte ***
Il
suo ginocchio sbatté
violentemente contro la corteccia, ma la suola liscia dei sandali non
riuscì a
trovare nulla su cui far presa. La ragazza crollò malamente
a cavalcioni del
ramo, scivolando con lo sterno e il mento contro la superficie ruvida e
sbilanciandosi pericolosamente, rischiando di precipitare a terra.
Sentendosi
cadere, Lidia serrò con forza le gambe e le braccia,
abbarbicandosi
disperatamente alla porzione di ramo su cui era atterrata e riuscendo
così a
mantenersi in equilibrio. Chiudendo per un attimo gli occhi per
riprendersi, la
ragazza strisciò con cautela verso il tronco del melo e poi,
quando trovò un
buon appiglio, si tirò in piedi.
E questa è fatta,
pensò, guardando verso il basso. Ora doveva
riuscire a scendere. Erano passati almeno dodici anni
dall’ultima volta in cui
si era arrampicata su un albero; e nemmeno da bambina era stata
particolarmente
brava a farlo. Se avesse avuto scelta, non avrebbe mai fatto una cosa
del
genere - e per di più al buio - ma in quel frangente non
aveva alternative.
Aggrappandosi
ai rami con le mani
e allungando i piedi alla cieca, la fanciulla riuscì a
scendere per poco più di
un metro, ma poi i rami terminarono e la ragazza si
appollaiò contro il tronco,
cercando di determinare la distanza da terra. Da quel poco che riusciva
a
vedere, il terreno era ancora più lontano di quanto
sperasse, ma la libertà era
lì, a pochi metri di distanza, e la giovane non
esitò a saltare.
Atterrò
male: le sue gambe cedettero
e lei cadde su un fianco, sbucciandosi una mano. Dopo pochi istanti,
però, era di
nuovo in piedi, un po’ zoppicante, e correva verso gli alberi
poco distanti,
senza nemmeno avvertire il dolore delle botte e delle escoriazioni che
si era
appena procurata. Una volta raggiunta la protezione
dell’ombra fitta della
foresta, Lidia non si fermò, ma continuò a
correre tra la vegetazione bassa,
scivolando sul fango e lacerandosi la veste nei rovi che infestavano il
sottobosco. Lanciandosi a rotta di collo lungo il sentiero a malapena
riconoscibile tra la vegetazione, la fanciulla fuggì via,
dirigendosi verso un
luogo che non conosceva, ma che di certo sarebbe stato preferibile alla
camera
dalla quale era appena fuggita.
Dopo
un tempo che non sarebbe
stata in grado di quantificare, la gola iniziò a bruciarle e
il cuore sembrò
scoppiarle nel petto. La fanciulla allora si fermò,
appoggiando la schiena a un
albero e cercando di riprendere fiato. Nel giro di pochi minuti, il suo
respiro
tornò alla normalità e la scarica di adrenalina
che l’aveva supportata durante
la fuga si esaurì: fu solo allora che Lidia si
guardò attorno e si rese conto
di essere circondata da alberi alti e scuri, dei giganti senza volto
che non le
offrivano alcun punto di riferimento.
Nell’oscurità che ormai era quasi totale,
la giovane riusciva a distinguere a malapena la traccia che
l’aveva portata fin
lì; e allora rabbrividì, rendendosi conto di non
avere la minima idea di dove
si trovasse.
Forse
correre in quella maniera
non era stata una grande idea, dopotutto. Forse avrebbe fatto meglio a
prendersi cinque minuti per decidere almeno la direzione nella quale
dirigersi.
Lidia
si guardò lentamente
attorno, mentre una sorta di sudore freddo le imperlava la schiena:
presto
l’inquietudine tornò a montare, in lei, ma si
trattava di un’angoscia molto
diversa da quella che aveva provato fino a quel momento. Era una
sensazione che
non aveva nulla a che fare con il destino avverso e con le scelte che
le erano
state imposte dall’alto, ma che evocava piuttosto cose che
scricchiolavano e
sussurravano nell’oscurità del bosco, creature
dagli occhi lucenti e il passo
felpato che scivolavano, non viste, tra le felci e i castagni. Una
paura antica
le face rizzare i peli delle braccia e la fanciulla tese le orecchie
nel
silenzio della notte, alla ricerca di un suono senza nome.
Le
gambe iniziarono a tremarle, e
non era per via dello sforzo della corsa, ma Lidia si
obbligò a riscuotersi:
non aveva corso quei rischi per farsi prendere dal panico e finire col
farsi
mangiare da qualche belva.
Chissà se ci sono lupi, da
queste parti, si domandò, deglutendo nervosamente.
No, si rispose dopo un attimo, non
ho mai sentito ululare. Questo vuol dire che di certo non ci sono lupi.
E gli orsi? Si intromise quella vocina
che stava imparando a
odiare. Quelli non ululano. Magari ce
n’è
uno proprio lì, da qualche parte alle tue spalle, che ti sta
guardando. Guidata
da un presentimento, la ragazza si voltò lentamente e
cercò di penetrare con
gli occhi il buio della notte. Non
c’è
niente, lì, si disse. E forse era vero; il
sottobosco era perfettamente
silente, se si escludevano gli scricchiolii delle foglie secche,
prodotti da
qualcosa di decisamente più piccolo di un orso.
Cercando
di fare mente locale, la
ragazza si accucciò sui talloni, respirando a fondo per
calmarsi e passandosi
una mano tra le ciocche spettinate che, durante la sua fuga, erano
sfuggite
alla crocchia nella quale erano state raccolte. Avrebbe voluto che ci
fosse
Lucilla, lì con lei: lei avrebbe saputo cosa
fare… o forse no, ma per lo meno
le avrebbe dato coraggio. Trovarsi nel bel mezzo di
un’avventura del genere era
sempre stato il sogno della sua amica e di certo lei non si sarebbe
fatta
prendere dal panico.
Lei non sarebbe nemmeno scappata, però,
rifletté Lidia, mordendosi
nervosamente le labbra. No, Lucilla, eterna ottimista, avrebbe dato
sfoggio del
suo carattere brillante e spigliato e con ogni probabilità
sarebbe anche
riuscita a far colpo su Ulf, facendolo innamorare di sé. Invece io sono riuscita a farmi odiare, da lui,
pensò, con una
smorfia preoccupata. E non voglio nemmeno
pensare a quello che mi farebbe, se riuscisse a mettermi le mani
addosso!
Alle
sue spalle un ramo
scricchiolò e si spezzò, facendole balzare il
cuore in gola, ma subito dopo la foresta
tornò silenziosa e Lidia tornò a rilassarsi ai
piedi del vecchio castagno.
E comunque a me non interessa farlo innamorare di me:
sarebbe come tradire Tito. Automaticamente,
le tornò in mente il bacio che Ulf le aveva dato quel
pomeriggio e la giuvane arrossì,
affondando convulsamente le unghie nel terriccio umido del sottobosco.
Bastava
il ricordo perché il suo stomaco si contorcesse in preda ai
sensi di colpa: non
tanto per il bacio in sé, giacché esso era stato
inevitabile, ma per il fatto
che quel contatto così intimo con il germanico non
l’aveva riempita di
disgusto. Non che le fosse piaciuto, ma era stato… normale.
È stato normale, si
ripeté Lidia, scuotendo il capo in preda allo
sconcerto. Comunque non importa,
perché
da lui non ci torno più.
La
ragazza si ripulì
stizzosamente le mani su ciò che rimaneva
dell’orlo del suo vestito, mentre il
ricordo del motivo esatto che l’aveva portata nel cuore del
bosco – e per di
più in piena notte – la colpiva in pieno,
causandole uno spasmo di rabbia che
la giovane domò respirando a fondo. Non c’era
motivo di perdere la testa. Se la
menzogna dell’uomo l’aveva ferita più
profondamente di quanto si sarebbe aspettata,
essa le aveva dato una buona lezione: fidarsi di una persona
sconosciuta era
sempre e soltanto un errore. Anche se Unna le aveva detto quelle cose
con
l’intenzione di farle male, in un certo senso doveva
ringraziarla: se non fosse
stato per lei, sarebbe caduta dritta nella trappola di Ulf.
A meno che non sia stata Unna a mentire, ovviamente.
Lidia soffocò
quel pensiero: quella era un’ipotesi che si rifiutava di
considerare, perché,
se fosse stato così, allora… Allora…
allora sarei io quella che ha tradito e infranto un patto. Il
pensiero le
causò un capogiro e una strana sensazione alla bocca dello
stomaco, ma la
ragazza strinse i denti, risoluta. Era inutile preoccuparsi di quelle
cose: la
sua fedeltà andava a Tito, non a Ulf. E
il fatto che mi abbiano fatta sposare con lui non significa
assolutamente nulla.
Quando
era partita per la
Germanica, la fanciulla aveva fatto del proprio meglio per lasciarsi
alle
spalle la storia con Tito, convinta che quella fosse la soluzione
migliore per
entrambi. Del resto, si diceva, non aveva alcun senso rimanere
aggrappati a
un’illusione che non aveva alcun futuro. Gli ultimi sviluppi
avevano però
cambiato le carte in tavola: se da un lato la determinazione di Tito
aveva
rinnovato la forza dei suoi sentimenti per il giovane romano,
dall’altro la sua
fuga improvvisata aveva cancellato ogni possibilità di
convivenza civile con il
germanico, convincendola che la sua strada dovesse per forza di cose
essere
altrove.
A
Roma, per la precisione – o,
quantomeno, in compagnia di Tito, ovunque lui ritenesse opportuno
andare.
Il
loro non era un amore
travolgente come quello narrato nei romanzi che Lucilla era solita
passarle di
nascosto, né una forza in grado di fermare il tempo e
sconvolgere il mondo, ma
alla fanciulla andava bene così, anche perché non
credeva nell’esistenza di un
sentimento del genere. Nel corso del tempo, ciò che provava
per Tito era
cresciuto giorno per giorno, poco alla volta, e aveva radici salde
nell’amicizia che li legava da ormai cinque anni. Guardando
sua madre e suo
padre, la ragazza era consapevole che prima o poi l’amore era
destinato a
dissolversi nell’abitudine, ma sapeva che lo stesso non
valeva per l’amicizia.
Di una cosa era dunque certa: se anche un giorno
l’innamoramento fosse passato,
lei e Tito sarebbero stati per sempre legati da un’amicizia
vera e profonda.
E,
comunque, quei pensieri erano
del tutto prematuri, perché lei amava
Tito.
Amava i suoi occhi caldi, amava il sorriso che gli illuminava tutto il
volto,
amava le sue mani dalle dita affusolate, amava la dolcezza con cui la
trattava,
amava il modo in cui rideva delle sue battute – quelle stesse
battute che
Lucilla diceva che “non facevano ridere proprio
nessuno” - amava il modo in cui
la guardava, quasi a dirle che era lei l’unica cosa davvero
importante.
A differenza di Ulf, che, ancor prima di
conoscermi, ha deciso che non
sono nemmeno lontanamente alla sua altezza.
Se
suo marito – il germanico!
– si fosse limitato a
trovarla antipatica, Lidia non l’avrebbe biasimato: del resto
nemmeno lui aveva
chiesto di trovarsi in quella situazione. Ulf però
l’aveva fin da subito
guardata con disprezzo e le aveva mentito, motivo per cui non meritava
nemmeno
un grammo di comprensione, da parte sua. E, naturalmente, non poteva
nemmeno
prendere in considerazione l’ipotesi di rivelargli
l’esistenza di Tito: da
quello che le aveva detto a casa della sacerdotessa, l’uomo
era determinato a
salvare le apparenze e, con ogni probabilità, non avrebbe
certo accolto a
braccia aperte il giovane romano, quando questi si sarebbe presentato
per
riprendersi Lidia.
Per cui mi conviene darmi una mossa e raggiungere
il campo, si
disse la fanciulla, costringendosi ad alzarsi in piedi e a ignorare i
crampi
nelle gambe. Magari potremmo incontrarci
proprio
lì, pensò, chiedendosi se i legionari
che erano venuti a farle visita
fossero veramente intenzionati a favorire la sua fuga. L’idea
continuava a
sembrarle assurda come la prima volta in cui l’aveva sentita,
ma confidava nel
fatto che Tito e i suoi amici avessero un piano.
A nord, ha detto quell’ufficiale, rifletté
la ragazza, cercando di
orientarsi nel bosco ormai immerso nell’oscurità.
Doveva aver passato parecchio
tempo ai piedi dell’albero e di certo ormai Ulf doveva
essersi accorto della
sua fuga. Ho perso fin troppo tempo! Pensò,
mentre l’ansia tornava ad assalirla. Ma
da che parte è il nord?
Ricordava
quando, da bambina, un amichetto le aveva detto che sugli alberi il
muschio
cresceva sempre verso nord, ma, anche ammesso che fosse vero, gli
alberi che la
circondavano in quel momento erano completamente ricoperti
di muschio. Tastando quasi alla cieca il tronco del
tiglio più vicino, la giovane pensò di aver
individuato un lato su cui il
morbido tappeto umido cresceva più rigoglioso. Questo è il nord?
Fortunatamente,
l’abbozzo di sentiero proseguiva proprio in quella
direzione… o, almeno, così le
pareva. Per un istante, Lidia si chiese se non sarebbe stato meglio
abbandonare
il sentiero, ma subito scartò quell’idea: se
avesse abbandonato anche quell’esile
traccia, si sarebbe sicuramente persa nel cuore della foresta.
Ammesso che io non mi sia già persa!
Lentamente,
facendo attenzione a dove metteva i piedi, la fanciulla si mise di
nuovo in
cammino, ma dopo qualche minuto un suono terrificante le
ghiacciò il sangue
nelle vene: un verso roco e al contempo stridulo, a metà tra
il latrare di un
cane e il gracchiare di un corvo enorme. Il suono si levò da
un punto
imprecisato alle sue spalle e rimbombò
nell’oscurità della notte. Lidia non
ebbe dubbi: non poteva che essere il grido dell’orso nero, la
terrificante
fiera di cui aveva sentito tanto parlare. La ragazza si
portò una mano alle
labbra, ricordando i terribili racconti di viaggiatori solitari fatti a
pezzi e
divorati con una ferocia senza pari.
Spaventata
a
morte, incurante dei rovi e delle ortiche, la fanciulla si
catapultò in avanti,
correndo, ne era certa, per salvarsi la vita. Non sapeva a quale
velocità
potessero muoversi gli orsi – e di certo non intendeva
scoprirlo. Mentre
correva a perdifiato nel tentativo di sfuggire alla bestia che
continuava a
lanciare quelle grida spettrali, un altro richiamo, del tutto simile a
quelli
emessi dalla belva alle sue spalle, giunse da una macchia di alberi
davanti a
lei. Con un gemito terrorizzato, la ragazza scartò di lato,
nascondendosi tra
un folto groviglio di felci: un nascondiglio assolutamente misero, ma
era
meglio di niente.
Lidia
rimase
acquattata per un paio di muniti, tremando e tendendo le orecchie: se
il primo
animale continuava a essere estremamente rumoroso, il secondo si era
zittito –
ma doveva per forza di cose essere ancora lì, da qualche
parte, dato che non
l’aveva sentito allontanarsi.
La ragazza
si
schiacciò a terra, facendo del proprio meglio per respirare
in maniera regolare
e per non lasciarsi sopraffare dal sentore pungente delle felci e del
terriccio
marcio sul quale si era distesa. Dopo alcuni minuti, quando tutto nella
foresta
sembrava essere tornato alla normalità, Lidia si convinse a
rimettersi in piedi
e a dare un’occhiata in giro, ma, proprio quando si stava
issando sulle
ginocchia, dalla sua destra giunse un fruscio e dal sottobosco
sbucò una sagoma
confusa. Con un grido di puro terrore, la giovane fece in tempo a
scorgere un
muso triangolare, un sottogola chiaro, due enormi occhi neri e un
piccolo paio
di corna diritte, poi scattò via, allontanandosi
dall’animale e incespicando
nei propri piedi. Il capriolo, evidentemente terrorizzato almeno quanto
lei, si
allontanò a grandi balzi, dando alla ragazza una chiara
visione della sua coda
bianca.
Tremante,
Lidia
si accasciò sul sentiero. Non era
un
orso, si disse, cercando di calmarsi, non
era un orso.
I caprioli
erano del tutto innocui, lo sapeva bene; quell’incontro
l’aveva tuttavia scossa
e la giovane romana ci mise qualche istante a riprendersi dalla
tremarella che
l’aveva colta. Quando sentì di essersi calmata a
sufficienza, Lidia si raccolse
nuovamente i capelli in una crocchia, cercando di fare ordine nella
propria
mente. Doveva calmarsi. C’erano fin troppi pericoli reali, in
quel posto, non
aveva assolutamente bisogno di farsi spaventare anche dai mostri
inventati
dalla sua mente. Del resto, quando il Legato le aveva presentato il
villaggio,
non aveva fatto alcuna menzione delle belve che si nascondevano nei
boschi, no?
Con ogni probabilità, non c’era proprio nessun
orso, in quella regione.
Un
po’
rassicurata, la fanciulla si rimise in piedi e, per sicurezza, rimase
immobile
per qualche istante, ascoltando e catalogando mentalmente i rumori
della
foresta. Fu allora che sentì, in lontananza, un fruscio di
foglie calpestate.
Si trattava forse dell’altro capriolo, attratto dai richiami
di quello che lei
stessa aveva messo in fuga?
Ma no, i caprioli saltano e questa cosa…
questa cosa sta correndo!
Malgrado
le
sue migliori intenzioni, Lidia sentì il panico tornare ad
assalirla. Tremante,
la fanciulla cercò disperatamente di capire quanto
lontano fosse l’essere che stava producendo quei rumori, ma
si rese conto di
non averne la minima idea.
Si sta avvicinando, questo è certo!
Pensò, sbiancando. Non era il galoppo regolare di un cavallo
e non era nemmeno
un passo umano; era piuttosto uno scalpiccio erratico, disordinato, di
qualcosa
che non procedeva in linea retta, ma vagava e frugava senza sosta. Era
il
passo… è il passo di un
lupo! Non che
avesse mai visto o sentito un lupo,
ma Lidia sentì che c’era qualcosa –
forse il suo istinto – che le gridava a
gran voce che la verità fosse proprio quella. I lupi
vivevano in branchi, lo
sapeva, ma di certo esistevano esemplari solitari…
Senza
fermarsi
a riflettere oltre, ignorando il freddo e la fatica che iniziavano a
morderle
le ossa, la fanciulla si costrinse a rimettersi in movimento,
accennando
addirittura una sorta di corsetta stremata. L’animale
sconosciuto, però, si
muoveva troppo rapidamente e ben presto Lidia si rese conto che non
aveva
alcuna possibilità di sfuggirgli. Sperando di passare
inosservata, la fanciulla
abbandonò di nuovo il sentiero e si nascose tra gli alberi. Forse passerà oltre,
pensò, chiudendo
gli occhi.
Il
tramestio
si fece sempre più vicino e poco tempo dopo la ragazza fu
addirittura in grado
di distinguere il respiro pesante della bestia. Doveva essersi fermata
e, a
giudicare dai sibili che emetteva, stava annusando freneticamente
qualcosa. Le
sue tracce, con ogni probabilità. Quando l’animale
raspò il terreno con una
zampa e mosse qualche passo nella sua direzione, Lidia non
riuscì a fare a meno
di sporgersi dal suo nascondiglio, cercando di scorgere la creatura che
le
stava dando la caccia.
Forse è una volpe, si disse,
speranzosa.
Forse è solo… ma
no. Era un lupo. Un
lupo enorme, dal pelo grigio, ispido, sorprendentemente alto sulle
zampe – era
effettivamente molto più grande di quanto si fosse aspettata
– dotato di una
lunga coda che portava alta sul dorso.
Lidia non
riuscì a trattenere un gemito e, non appena udì
quel suono, l’animale alzò il
muso dal terreno, piantandole addosso i suoi occhi scuri e avanzando
nella sua
direzione con un passo straordinariamente felpato. Lentamente, guidata
da un
istinto sconosciuto, la fanciulla indietreggiò fino a
raggiungere il sentiero.
Il lupo la seguì, senza perderla d’occhio, ma
senza nemmeno attaccare. Quando
si rese conto di essere su un terreno meno accidentato, Lidia
tentò il tutto per
tutto e provò a scappare, ma in due balzi
l’animale si portò davanti a lei e
prese ad abbaiarle contro.
Con un
breve
grido, la ragazza indietreggiò di nuovo, ma questa volta il
lupo continuò ad
abbaiare, ancora e ancora, spingendola indietro, verso i suoi compagni,
forse,
verso un albero, verso una pietra… In preda al terrore,
Lidia pensò che volesse
metterla con le spalle al muro, tagliandole ogni via di fuga prima di
balzarle
alla gola. Forse abbaiava per confonderla, forse per attirare il resto
del
branco, forse…
I lupi non abbaiano.
Quel
pensiero
le attraversò la mente con straordinaria chiarezza, ma non
appena l’ebbe
formulato Lidia si sentì afferrare per un polso e tirare
contro qualcosa che
non era certo un albero o un masso. Istintivamente la fanciulla
gridò e si
divincolò, ma un braccio le circondò le spalle e
il petto, immobilizzandola,
mentre una mano le calò sulla bocca per impedirle di urlare
di nuovo. Quasi
inconsciamente, la ragazza aprì la bocca e la richiuse con
forza su quella
mano, mordendo finché il sapore del sangue non le invase la
bocca.
L’uomo
che
l’aveva aggredita sussultò, allentando un
po’ la presa. Alzando lo sguardo Lidia
poté constatarne l’identità: Ulf.
Prima che
potesse dire o pensare qualsiasi cosa, l’uomo
tornò a premerle il polso sulla
bocca e la ragazza, visti i risultati, morse anche quello. Questa volta
il
germanico era però preparato e, liberandole le braccia, la
afferrò per i
capelli, tirandoli con forza e strappandole un grido di dolore che la
costrinse
a mollare la presa. Approfittando di quel momento, l’uomo la
spinse
violentemente contro un masso coperto di muschio, facendole sbattere la
nuca
contro la roccia. La ragazza fece scattare in avanti le mani e
provò a
graffiarlo, ma lui fu più veloce e riuscì a
bloccarle i polsi prima che potesse
andare a segno.
«Perché
cazzo sei
scappata?» le ringhiò in faccia. Tra le ombre del
bosco, Lidia riusciva a
vedere la rabbia sul suo volto; eppure, la voce dell’uomo
rimase bassa, come se
non volesse farsi sentire da qualcuno.
«Bastardo»
le
scappò detto, prima di riuscire a controllarsi.
Per nulla
turbato dall’insulto, Ulf la scrollò, tenendola
per le spalle, e ripeté la
domanda. «Perché sei scappata? Posso sapere che
cazzo ti passa per la testa? Ti
dico di andare a letto e tu scappi! Perché?»
Respirando
affannosamente, lei lo guardò in faccia: era spaventata, ma
per una volta la
rabbia stava avendo la meglio sulla paura, permettendole di
affrontarlo. «Lo
sai benissimo, il perché!» sibilò,
accusatoria.
Lui fece
un
suono a metà tra l’incredulo e lo scocciato.
«Unna» sbottò. «Hai creduto a
quello che ti ha detto Unna. Sapevo che eri stupida, ma non pensavo
fino a
questo punto.»
Lidia
avvampò,
punta nell’orgoglio. «E perché non avrei
dovuto?» urlò. «Non so nulla di te e
probabilmente…»
Ulf le
tappò
immediatamente la bocca con una mano. «Non urlare!»
le intimò. «Vuoi farti
sentire da tutto il paese? Tu non hai idea… tu non hai idea
di come funzionino
le cose, qui, quindi chiudi quella bocca e fa’ quello che ti
dico io!»
La ragazza
ansimò come un animale in trappola, ma si zittì,
mentre Ulf stringeva di più la
presa sulle sue braccia, arrivando a farle male. «Te lo
ripeto un’altra volta:
vediamo se ti entra in testa» disse lui, tenendola inchiodata
al sasso umido.
«Io non voglio avere nulla a che fare con te. Sei patetica,
immatura e con ogni
probabilità completamente cretina. Il solo pensiero di
toccarti mi fa orrore,
chiaro?» L’uomo la scrutò con aria
critica, poi rincarò la dose. «E sei pure
bruttina, quindi non hai proprio nulla da temere, da me. Non in quel
senso,
almeno.»
Lidia lo
guardò, boccheggiando a vuoto. I vaghissimi sensi di colpa
che la sua coscienza
aveva iniziato a provare per il fatto di aver creduto a sua sorella,
anziché a
lui, vennero immediatamente spazzati via dalle sue parole.
«Perfetto» sbottò, riprendendosi.
«Perfetto! La cosa è reciproca: mi fai schifo pure
tu!»
Ulf
annuì,
secco. «Bene.»
Lidia
sospirò
e si divincolò finché l’uomo non si
staccò da lei. «Stando così le
cose», disse,
sistemandosi per l’ennesima volta i capelli spettinati,
«puoi anche lasciarmi
andare. Raggiungo l’accampamento romano e sparisco,
così siamo contenti tutti e
due.»
«Ma
lo vedi,
che sei proprio stupida?» sbottò lui.
«Tu non vai proprio da nessuna parte: noi
due dobbiamo restare insieme, dobbiamo fingere che questa cosa funzioni a meraviglia e non dare a
nessuno motivo di credere
che non sia così. Non te l’ha spiegato, la
sacerdotessa?»
«Me
l’ha
spiegato, sì» ammise Lidia, prima di aggiungere,
mentalmente: ma non me ne frega niente. Perché,
se ci
pensava bene, il fatto che in Germanica potesse scoppiare una guerra
non le
faceva né caldo né freddo: a lei bastava trovarsi
lontano da lì, quando sarebbe
successo.
«E
allora?»
sibilò ancora Ulf, incrociando nervosamente le braccia
davanti al petto.
«Continuo
a
non capirne il senso» protestò Lidia.
«Se io odio te e tu odi me, chi potrebbe
mai pensare che così, magicamente, le cose si
risolvano?»
«Nessuno
lo
pensa», sbuffò l’uomo, «ma
tutti hanno ben chiaro qual è la cosa più
importante:
la pace. Beh, tutti a parte te, a
quanto pare.»
La
fanciulla
indietreggiò di un passo, offesa.
«Ma…»
«Cosa
credi?»
riprese Ulf, con una nota tagliente nella voce. «Pensi forse
di essere l’unica
a dover fare dei sacrifici? Tu non hai
assolutamente idea di come funzioni il mondo,
credimi!»
«Non
sono così
stupida come credi» lo contraddisse Lidia, sentendo di
doversi difendere dal
disprezzo dell’uomo.
«A
me non pare
proprio» ribatté lui. «Del resto, quale
persona dotata di cervello se ne
andrebbe in giro da sola, di notte? E per di più in un bosco
che nemmeno
conosce?»
La giovane
si
strinse nelle spalle, fingendo indifferenza.
«Perché, avevi paura che potesse
mangiarmi un orso?» Malgrado fosse intenzionata a mantenere
un tono distaccato,
la fanciulla non riuscì a evitare che nelle sue parole si
infiltrasse una
leggera nota tremula.
«Ma
magari!»
sbottò il germanico. «No, non ci sono orsi, qui:
in compenso ci sono un sacco
di persone che sarebbero ben felici di levarsi di torno una romana. Non ti consiglio di andartene in
giro da sola, di questi tempi: né di notte né di
giorno.»
Nell’udire
quelle parole, Lidia sbiancò. Cosa intendeva, quando diceva
“levarsi di torno”?
E quali persone? E perché?
«Li
hai visti,
quei soldati, no?» riprese Ulf. «Cosa credi, che
siano qui in villeggiatura?
Pensi che a tutti stia bene avere quei legionari a casa
nostra?»
Lidia fece
per
replicare, ma improvvisamente la sua gola si fece secca,
così la giovane si
limitò a scuotere il capo, tenendo gli occhi bassi e
cercando di elaborare
quello che l’uomo le aveva appena detto.
«Perciò»,
continuò ancora il germanico, «non devi
più azzardarti a provare a scappare: è
chiaro?»
«Mh.»
Lidia
annuì, un gesto talmente vago che avrebbe potuto dire tutto
o niente.
Evidentemente
infastidito dal suo atteggiamento, Ulf le afferrò il mento
tra due dita e la
costrinse a guardarlo. «A me non interessa nulla di te. Se
dipendesse da me,
saresti libera di andartene adesso, in questo preciso istante. Vuoi
andare a
farti ammazzare? Prego, fai pure! Ma, sfortunatamente, le cose sono un
pochino
più complicate di così»
mormorò, abbassando la voce e stringendo ulteriormente
la presa sulla mascella della ragazza. «Se tu te ne vai e
altri seguono il tuo
esempio, succede un casino. Se tu te ne vai e la sacerdotessa pensa che
io non
abbia fatto del mio meglio per trattenerti, succede un casino. Hai
afferrato il
concetto?»
Senza
fiato,
Lidia esalò un “sì” quasi
impercettibile. Continuando a fissarla negli occhi,
Ulf la attirò a sé. «Se questa storia
si venisse a sapere, Donna Erin ci
terrebbe d’occhio a vista. Ci obbligherebbe
a fare le cose come dice lei e la cosa non sarebbe piacevole
per nessuno
dei due.» Vedendo forse la paura nei suoi occhi,
l’uomo allentò la presa e
lasciò che la sua mano scendesse sulla spalla della ragazza,
posandovisi sopra,
ma senza stringerla. «Io ti capisco, davvero»,
fece, con voce più calma, «stare
qui non ti piace e hai paura. Per questo ho cercato di essere gentile
con te,
pensavo di lasciarti più libertà possibile e di
non sconvolgere troppo la tua
vita. Però, evidentemente, di te non ci si può
fidare.»
Il cuore
di
Lidia ebbe un sussulto e la ragazza chinò il capo, mentre la
sua mente si
riempiva di vecchie eco. «Ti do ancora una
possibilità, l’ultima»
continuò
l’uomo, lasciando scivolare via la mano.
«Dopodiché, se per farti collaborare
ci sarà bisogno di metterti sotto chiave e trattarti come ti
aspetti di essere
trattata, lo farò. Mi sono spiegato?»
Perfettamente, pensò Lidia,
annuendo piano.
Soddisfatto, Ulf le afferrò un braccio. «Forza,
torniamo a casa» disse,
trascinandola con sé.
La
fanciulla
lo seguì docilmente, troppo turbata per opporre resistenza.
“Di te non ci si
può fidare”, le aveva detto. Di te non ci si
può fidare. Perché sei una buona a
nulla. Perché non riesci mai a capire quello che devi fare.
Perché hai la testa
per aria. Quante volte suo padre le aveva detto quelle cose? E adesso
Ulf
glielo aveva ripetuto: se due uomini tanto diversi tra loro la
pensavano allo
stesso modo, forse, allora, un fondo di verità
c’era?
Con gli
occhi
improvvisamente offuscati dalle lacrime, la giovane inciampò
in una radice e
rischiò di finire a terra. Fu solo la mano di Ulf stretta
attorno al suo
braccio a impedirglielo e quella consapevolezza le strappò
un singhiozzo: non
era quella, la mano che voleva sul suo corpo.
Tito! Pensò, disperata. Che
cosa aveva
ottenuto con quella bravata? Solo di mettere sul chi va là
il germanico,
rendendo ancora più difficile un’impresa che si
era fin da subito presentata
come terribilmente complicata. Perché era così
imbranata? Non era nemmeno
riuscita a far perdere le sue tracce in mezzo a un bosco!
Oh, ma tutto stava andando così bene,
prima
che arrivasse quella maledetta bestia! Stringendo
rabbiosamente i denti, Lidia
lanciò un’occhiata carica di rancore alla vaporosa
coda grigia che appariva e
spariva attraverso gli alberi.
«E
così
credevi che ci fossero gli orsi, qui.»
Dopo
alcuni
minuti di silenzio, la giovane sussultò quasi, nel sentire
la voce di Ulf. In
tutta risposta, la ragazza si limitò a sollevare
stizzosamente una spalla. Cosa
accidenti ne doveva sapere, lei, della fauna locale?
«È
per quello che hai urlato, poco prima che ti trovassi? Pensavi di
essere
inseguita da un orso?»
«…
credevo»
mugugnò, allungando il passo e incassando il collo nelle
spalle, la voce ancora
impastata a causa delle lacrime.
Davanti a
quella risposta, l’uomo emise un suono che assomigliava in
maniera sospetta a
una risata soffocata. «Era un capriolo, vero?»
sghignazzò.
Oltraggiata,
Lidia strappò il braccio dalla presa del germanico, che,
colto di sorpresa, la
lasciò andare. «Ma va’
all’Inferno!» sibilò lei, allontanandosi
a grandi passi
lungo il sentiero. La risata bassa dell’uomo la
inseguì e la ragazza sentì
nuovamente la rabbia bruciarle lo stomaco.
Oh, quanto avrebbe
pagato per veder arrivare veramente
un orso, in quel momento. Giusto per vedere la faccia di quello
là: era certa che non avrebbe più
riso tanto, allora. Se se lo mangiasse,
poi, sarebbe perfetto!
Con uno
sbuffo
sdegnoso, Lidia marciò verso la casa dalla quale era
scappata, mettendo quanti
più metri possibili fra se stessa e quell’uomo
orribile che si divertiva a
prendersi gioco di lei.
***
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Capitolo 11 *** 10. Punto e a capo ***
Quando
giunsero davanti alla casa, Lidia sentì il vuoto che
avvertiva all’altezza
dello stomaco trasformarsi in una voragine. Rieccomi
al punto di partenza, pensò, abbattuta. Non
pensavo proprio di rivederlo così presto, ‘sto
posto.
«Tu
aspetta qui» le disse Ulf, indicando il melo da cui si era
calata per scappare.
Il grosso segugio grigio – che, dopotutto, non era affatto un
lupo, ma il cane
più brutto che Lidia avesse mai visto – si sedette
compostamente al fianco
della ragazza e le colpì amichevolmente la mano con il naso.
Ah, adesso ti sono simpatica, eh?
Pensò
lei, guardandolo di sbieco. «Su, forza»
mormorò il germanico, afferrando
l’animale per il collare di cuoio e trascinandolo con
sé. Vedendoli
allontanarsi, nella mente della fanciulla balenò un
pensiero. Forse potrei…
«Non. Ci.
Pensare. Nemmeno.» sibilò l’uomo,
intuendo le sue intenzioni. Lidia
si affrettò ad alzare le mani in segno
di resa, prima di appoggiarsi all’albero. Fuggire non era
più un’opzione,
purtroppo. Dopo i fatti di quella notte, sapeva di doversi muovere con
cautela,
senza suscitare ulteriormente i sospetti di suo marito.
Doveva trovare comunque una buona scusa per contattare il
Prefetto, questo sì, ma doveva farlo con molta
più discrezione di quanta ne
avesse messa in conto. Ulf non doveva subodorare assolutamente nulla; e
lo
stesso valeva, naturalmente, anche per la sacerdotessa.
Tra l’altro,
Ulf sembra non sopportarla
affatto,
rifletté Lidia, ricordando la freddezza con cui
l’uomo era
solito parlare di Donna Erin. Chissà
perché,
poi? Scommetto che è perché l’ha
costretto a sposarmi. Alzando lo sguardo
verso le foglie immerse nell’oscurità, la giovane
fu sfiorata da un pensiero: e
se Ulf si fosse veramente trovato
nella
sua stessa situazione? Lidia aggrottò la fronte, pensierosa:
era stata talmente
presa dai suoi sentimenti che non si era mai interrogata su quelli
dell’uomo.
Prima che quella maledetta decisione imperiale scombussolasse i suoi
piani, lei
aveva sognato di sposare Tito e di costruire una vita insieme a lui. E
se anche
nella vita di suo marito ci fosse stata un’altra donna? Ulf
aveva sognato di
sposare una fanciulla germanica? Magari una ragazza del villaggio? È per questo che è
così prevenuto nei miei
confronti? Perché sono io e
non…
qualcun altro? Quel pensiero le fece inaspettatamente
provare una vaga
irritazione. Ma per favore,
pensò,
alzando gli occhi al cielo. Di certo non
sono gelosa!
No, non
era gelosa: di Ulf non le interessava nulla, anzi, sarebbe stata ben
felice di
cederlo a qualcun’altra… ma solo in cambio della
propria libertà o, ancor
meglio, di una vita con Tito. Se lei era condannata a una vita di
infelicità e
rimpianto, allora lo stesso doveva valere anche per suo marito: non
avrebbe
accettato alcun compromesso, da quel punto di vista.
Sull’onda di quei
pensieri, la sua mente le presentò un quadretto
assolutamente detestabile: lei, chiusa in cucina a spignattare,
triste e senza futuro, e lui, in
giro a spassarsela con qualche
stangona bionda. Lidia piantò rabbiosamente le unghie nella
corteccia del melo,
sfogando il suo malumore sull’albero. Erano quelli,
i progetti del germanico? Era per quello
che aveva insistito tanto per riportarla a casa? Gli serviva qualcuno
che lo
coprisse?
Quando Ulf
ricomparve da dietro l’angolo della casa, Lidia si era
talmente convinta che
nella sua vita ci fosse un’altra donna che lo accolse con
un’occhiata
assolutamente furiosa. «Cosa
c’è?» la interrogò
l’uomo, perplesso. «Hai ancora
intenzione di scappare?»
«No!» sputò
lei, voltandogli decisa la schiena. Ulf rimase immobile per qualche
istante,
visibilmente spiazzato dalla rabbia che la giovane era riuscita a
esprimere con
quella semplice sillaba, ma poi scrollò le spalle, tornando
ad avvicinarsi al
melo. «Meglio così» disse.
«Avanti, torniamo dentro.» Per una frazione di
secondo, Lidia fu tentata di affrontarlo e di chiedergli conferma dei
suoi
sospetti, ma poi la sua naturale timidezza e il timore che
l’uomo ancora le
incuteva le impedirono di interrogarlo. Riderebbe
di me, questo è poco, ma sicuro, pensò,
con una smorfia. O, peggio, penserebbe che io
sia gelosa.
Meglio lasciar perdere. Non è poi così
importante, dopotutto.
Ignaro dei
suoi pensieri, Ulf si guardò attorno, vagamente spaesato.
«Ma come accidenti
hai fatto a scappare?» le chiese, in un sussurro. Lidia
inspirò a fondo,
cercando di scacciare l’irritazione e di non fare nulla che
potesse farlo
arrabbiare. «Sono uscita dalla finestra» rispose,
stringendosi nelle spalle e
indicando il ramo sul quale era balzata.
Ulf alzò
lo sguardo e misurò con gli occhi la distanza tra il
davanzale e il ramo. «Ma…»
l’uomo esitò, aggrottando la fronte. «Ho
saltato» venne in suo soccorso Lidia,
sentendosi stranamente fiera di sé. Lui scosse il capo,
incredulo. «Hai preferito
rischiare di romperti l’osso del collo, piuttosto che fidarti
di me. Ma non ti
è venuto in mente che mia sorella volesse semplicemente
spaventarti?»
Lidia
fissò dritta davanti a sé, stringendo
testardamente i denti. Se si aspettava
che gli chiedesse scusa, si sbagliava di grosso. «E
perché avrei dovuto?» gli
chiese di rimando, con tutta la freddezza di cui era capace.
«Va bene»
sospirò lui, lasciando cadere l’argomento.
«Vediamo di risalire.» Lidia annuì,
controvoglia, e si avviò verso la porta
d’ingresso. Prima che potesse fare più
di tre passi, però, Ulf la bloccò, afferrandola
per un braccio. «Saliamo da lì»
sussurrò, indicando l’albero con un
cenno del capo.
Questa
volta fu Lidia a restare senza parole. «Cosa?»
mormorò, confusa. «Ma non
possiamo entrare dalla porta?» Lui scosse il capo.
«No. La tua amica
sacerdotessa è rimasta a dormire al piano terra,
probabilmente proprio per
evitare che qualcosa andasse storto. Se rientrassimo da lì,
se ne accorgerebbe
subito.»
Lidia
deglutì. Tutto sommato, iniziava a sospettare che
l’antipatia provata da Ulf
per la sacerdotessa non fosse poi così incomprensibile. Che
motivo aveva quella
donna di controllarli tanto da vicino? «E tu come hai fatto a
uscire senza
farti scoprire?» chiese, esaminando rapidamente la facciata
dell’edificio, alla
ricerca di uscite secondarie.
«I miei
fratelli l’hanno distratta quel tanto che bastava per
permettermi di uscire di
nascosto. Il che è abbastanza imbarazzante, data la mia
età.»
La
fanciulla chiuse gli occhi per qualche istante. Perfetto,
pensò, sarcastica. «Quindi lo sanno tutti, che ho
cercato
di scappare?» chiese, con una nota di panico della voce. La
sua fuga
improvvisata iniziava a non sembrarle più una grande idea e
il pensiero che
l’intero villaggio venisse a sapere della sua disavventura la
faceva morire di
vergogna.
Ulf quasi sorrise.
«No, non tutti, solo i miei fratelli»
ripeté. Poi si voltò a guardarla,
inclinando il capo di lato. «Anche se ti meriteresti che la
cosa diventasse di
dominio pubblico.» Lidia storse il naso. «Ma tu non
lo dirai a nessuno, vero?»
si informò, cauta. Il germanico la fissò con un
sopracciglio ironicamente
alzato. «Oh, adesso hai deciso di fidarti di me?»
le chiese, beffardo.
Lidia
arrossì e abbassò lo sguardo sui propri piedi.
No, non si fidava di lui:
sperava solo di aver interpretato correttamente la situazione. Davanti
al suo
silenzio, l’uomo sospirò. «Non lo
dirò a nessuno, ovviamente.
E nemmeno tu lo farai: questa storia ce la
dimentichiamo stasera, d’accordo?»
«D’accordo»
bofonchiò la ragazza, sentendosi quasi come una bambina
rimproverata da un
genitore – una sensazione della quale aveva sperato di
essersi liberata, una
volta emancipatasi dall’autorità di suo padre.
«Bene» annuì Ulf, sospingendola
fino al melo e avvicinandola al tronco con un’ultima
spintarella. «Sali prima
tu.»
La ragazza
posò le mani sul tronco e guardò in alto,
provando a posare un sandalo sulla
corteccia ruvida. Immediatamente, il suo piede scivolò di
nuovo a terra,
atterrando con un piccolo tonfo sull’erba umida di rugiada.
«Non ci riesco»
dichiarò, voltandosi verso l’uomo. Lui
sbuffò, poi fece un cenno verso i suoi
piedi. «Togliti i sandali» le ordinò.
«Avrai una presa migliore.»
Pur
nutrendo alcuni dubbi sull’efficacia della tecnica che le era
stata
consigliata, la ragazza si liberò delle sue calzature e
appoggiò nuovamente un
piede sul legno. Non appena vi caricò sopra il proprio peso,
però, l’alluce si
piegò dolorosamente verso l’alto e Lidia
ripiombò a terra. «Ahi!» si
lamentò,
abbandonando subito l’impresa e prendendosi tra le mani il
piede dolorante. «Non
funziona!»
Sono bloccata qui! Pensò,
mentre il panico iniziava ad assalirla. Dovrò
passare la notte all’aperto e domani mattina si accorgeranno
che sono qui
fuori. La ragazza si voltò verso Ulf, cercando
inconsciamente il suo aiuto,
ma lui sbuffò, passandosi rapidamente una mano sul volto.
«Devi saltare» sibilò,
chinandosi su di lei. «Devi aggrapparti a quel
ramo!»
Il ramo in
questione era più di un metro sopra la sua testa e subito
Lidia scosse il capo.
«Non ci arriverò mai!»
sussurrò, con il cuore in gola. Ulf chiuse gli occhi per
qualche secondo, evidentemente frustrato dalle sue doti di
arrampicatrice. «Non
sai fare veramente niente, non è così?»
le chiese, con voce stanca. «Dai, vieni
qui, che ti sollevo io.» Senza lasciarle il tempo di
protestare, l’uomo
l’afferrò per la vita e la sollevò fin
sopra alla propria testa. Stupita dal
movimento improvviso e dal contatto inaspettato, Lidia restò
un attimo con le
mani in mano. «Muoviti, che pesi!» la voce di Ulf
la riscosse e subito la
ragazza cercò di afferrare il ramo che l’uomo le
aveva indicato. Mancavano
ancora dieci centimetri. «Non ci arrivo»
sussurrò, con la voce distorta dallo
sforzo di allungarsi il più possibile. «Alzami
ancora un po’!»
L’uomo si
affannò per qualche secondo alla ricerca di un appiglio che
gli permettesse di
spingerla più in alto, poi si risolse a posarle una mano sul
sedere, riuscendo
così a guadagnare pochi, preziosi centimetri. Lidia
avvampò. «Ehi!» esclamò,
oltraggiata. «Sta’ zitta!» le
sibilò lui, di rimando. «E datti una mossa,
altrimenti ti lascio cadere!»
Con le
guance paonazze a causa dell’imbarazzo, la ragazza
guardò verso l’alto e si
rese conto di essere ormai all’altezza giusta. Velocemente,
si aggrappò con
entrambe le mani al ramo, cercando di tirarsi su e scoprendo subito di
non
avere abbastanza forza nelle braccia. Mi
serve qualcosa su cui appoggiare i piedi… Ulf
stava poco alla volta
smettendo di sostenere il suo peso e istintivamente lei
gettò all’indietro le
gambe, posando i piedi sulle spalle dell’uomo e… Ops. In faccia.
«Sono su!»
esclamò in un sussurro trionfante, alzandosi in piedi e
reggendosi ai rami più
in alto. Ulf non commentò, ma le lanciò
un’occhiata omicida. Subito si chinò a
raccogliere i sandali che la giovane aveva lasciato a terra e li
lanciò nella
sua direzione. Lidia riuscì ad afferrarli al volo, prima di
voltarsi dall’altra
parte, incapace di nascondere un sorriso. Speravi
di prendermi in testa, eh?
Con un
balzo, l’uomo raggiunse il ramo e si issò di
fianco alla giovane moglie.
«Avanti» sbuffò, indicando
l’ombra nera della finestra e togliendole i sandali
di mano. Con cautela, la ragazza raggiunse il ramo sul quale era
saltata
durante la sua fuga; e subito si rese conto di una cosa: se passare dal
davanzale al ramo era stato un azzardo, compiere il percorso inverso
era un
vero e proprio suicidio. «Non ce la farò
mai» mormorò, rivolta a se stessa
prima ancora che al germanico.
Ulf, che
era alle sue spalle, la sospinse piano verso
l’estremità del ramo. «Non
ricominciamo» sospirò. Lidia scosse il capo.
«No, Ulf, dico davvero» ribatté
lei, seria. «È troppo lontano.»
Forse
colpito dal sentirla pronunciare il suo nome, forse per via della sua
voce
ferma, l’uomo la osservò per qualche secondo,
prima di annuire. «Aspetta»,
mormorò, «vado prima io.»
Così dicendo, si portò verso la biforcazione
sulla
quale Lidia si era lanciata qualche ora prima e, calcolata la distanza,
saltò
sul davanzale. Atterrò sulle ginocchia, abbassandosi appena
in tempo per evitare
di sbattere la testa contro il telaio della finestra. Lidia
deglutì: non
sarebbe mai riuscita a fare una cosa del genere. Una volta entrato in
camera,
Ulf si sporse verso di lei. «Va bene» le disse.
«Vieni più vicina e salta.»
Lidia
sbiancò, scuotendo il capo. «No. Te l’ho
detto: non ci riesco. Cado di sicuro» sussurrò,
arretrando.
«Lidia!»
la richiamò lui. «Non fare la bambina, vieni
avanti! Devi solo arrivare alla
finestra, poi ti prendo io.»
Mi prende lui? Come
accidenti fa, a prendermi
lui? Lidia si
avvicinò di qualche passo, incerta. «Peso
troppo» disse,
preoccupata. «Se anche riuscissi ad arrivare alla finestra,
non riusciresti
comunque a tirarmi su.»
«Non pesi
troppo» sospirò lui. «Devi saltare:
l’alternativa è farti beccare da Donna Erin
e, credimi, non è un’alternativa piacevole. Il
perché te l’ho già spiegato
prima.» La fanciulla strinse convulsamente le mani attorno a
un giovane ramo
dalla corteccia liscia, cercando disperatamente una soluzione diversa.
«Non
puoi… non puoi chiedere a Hermann di distrarre ancora la
sacerdotessa?»
«Hermann è
tornato a casa con mio padre» ribatté
l’uomo. «Ti ho detto che ti prendo io:
fidati.»
Fidati.
La
fanciulla deglutì. Già una volta non si era
fidata di lui e, a quanto pareva, si
era sbagliata. Lidia chiuse gli occhi, inspirando profondamente. Non
sapeva se
ci si potesse veramente fidare di quell’uomo, ma una cosa era
certa: se si
fosse rifiutata di farlo per la seconda volta in una serata, ogni
possibilità
di avere con lui un rapporto civile sarebbe sfumata.
E, in ogni caso, non
credo che sia nel suo
interesse farmi spiaccicare a terra.
Sporgendosi
lievemente in avanti, la giovane guardò in basso e fu colta
da un capogiro. È così
importante avere un rapporto civile? Si
chiese. A luglio arriverà Tito e
allora
tutto questo non avrà più nessuna importanza.
Ma a luglio mancano
ancora due mesi, le
fece
notare un’altra parte della sua mente.
Due mesi sono lunghi.
Che fare? Alzando lo sguardo verso la finestra,
Lidia vide che Ulf le stava porgendo una mano. Anche
nell’ombra della notte la
ragazza riusciva a vedere la sua espressione impaziente; eppure,
l’uomo stava
aspettando che si decidesse a saltare, senza metterle fretta.
E va bene, pensò Lidia, con un sospiro
rassegnato. «Mi prendi?» gli chiese ancora,
bilanciandosi sul ramo. «Ti ho
detto di sì» replicò seccamente lui.
Con un
ultimo respiro, la giovane spostò il proprio peso
all’indietro, prendendo la
rincorsa; poi, con due rapidi passi, si lanciò nel vuoto.
Anche se la direzione
era grossomodo giusta, Lidia non riuscì a far presa sul
granito del davanzale,
ma Ulf, fedele alla sua promessa, le afferrò con una mano un
braccio e con
l’altra il tessuto dell’abito, sulla schiena.
Questo non impedì alla ragazza di
sbattere violentemente lo stomaco contro il davanzale di pietra,
né di urtare
il muro con i piedi nudi. «Oof»
proclamò, mentre l’impatto violento le mozzava
il fiato. «Forza» la incitò
l’uomo. «Cerca di tirarti su!»
Annaspando
a vuoto per qualche istante, Lidia tentò di piantare un
ginocchio sul ripiano
di granito, mentre l’uomo riusciva in un qualche modo a
trascinarla all’interno
della stanza. Con un gemito strozzato, la giovane ricadde di faccia sul
pavimento, riuscendo a malapena a proteggersi il volto con le braccia. Viva! Pensò, sollevata,
rotolando sulla
schiena e riprendendo fiato a occhi chiusi. Quando li
riaprì, vide che Ulf aveva
acceso una lampada ed era fermo sopra di lei, osservandola
dall’alto in basso
con aria critica. Imbarazzata, Lidia si mise a sedere, ma molteplici
fitte in
diverse parti del corpo le strapparono un gemito. Che
male…
Ulf
sogghignò, notando la sua smorfia di dolore.
«Almeno la prossima volta ci
penserai due volte prima di scappare, disgraziata!»
sbottò, voltandole le
spalle.
Dolorante,
la ragazza rinunciò a ribattere. Rialzatasi in piedi, si
guardò attorno, mentre
un senso di angoscia l’assaliva. E
così
sono davvero punto e a capo… Anche se ormai era
abbastanza sicura che Ulf
non fosse interessato a lei in quel modo
– anzi, che non fosse interessato a lei in alcun modo, a dire
il vero – Lidia
non riusciva a fare a meno di sentirsi in trappola in quella stanza,
prigioniera di una situazione dalla quale diventava sempre
più difficile
fuggire. Fuori all’aperto, nel bosco e ai piedi del vecchio
melo, quando
c’erano cose più urgenti a cui pensare, stare
accanto a Ulf le era sembrato
quasi naturale; ma adesso, nel privato di quella camera, Lidia
sentì un po’ del
vecchio imbarazzo fare di nuovo capolino. Era un sentimento che la
schiacciava
a terra, simile a un peso troppo pesante da portare, e la ragazza si
rese conto
di volersene liberare a tutti i costi. Forse
potrei… la fanciulla cercò di dare
forma ai pensieri confusi che si stavano
affollando nella sua mente. Magari…
se…
Ulf si voltò
a guardarla con una strana espressione sul suo volto, quasi fosse a
disagio
anche lui, e Lidia si obbligò a riscuotersi. «E
adesso che facciamo?» chiese,
lasciandosi cadere sul letto e torcendosi nervosamente le mani.
L’uomo si
strinse nelle spalle, quasi divertito. «Adesso
dormiamo» rispose, sedendosi sul
lato opposto e ruotando la manovella per spegnere la luce.
«Non manca molto
all’alba e francamente vorrei anche riposarmi un
po’.» Così dicendo, Ulf si
distese sulle coperte, stiracchiandosi e sospirando. «Domani
sarà un incubo»
mormorò poi, dando forse inconsciamente voce a un pensiero
che avrebbe voluto
tenere per se stesso.
La
fanciulla si adagiò su un fianco, arrossendo
nell’avvertire la vicinanza con
l’uomo. «Perché?» chiese.
Parlare nel buio immobile della casa le sembrava
strano e la metteva un po’ a disagio, ma il silenzio sarebbe
stato ancora più
difficile da affrontare.
«I miei
amici vorranno un resoconto dettagliato, temo»
ringhiò lui, portandosi un
braccio sopra la testa. Lidia aggrottò la fronte.
«Un resoconto?» ripeté,
confusa. «Ma avevi detto che non avresti detto a nessuno che
sono scappata…»
Ulf le
lanciò un’occhiata piatta, fissandola senza
commentare. Poi sollevò un
sopracciglio. «Parlavo di un altro tipo di
resoconto.» Lidia sbatté un paio di
volte gli occhi, senza capire. Oh. Pensò,
poi, avvampando nell’istante in cui comprese il significato
delle parole
dell’uomo. Oh.
«Già» commentò
serafico Ulf, chiudendo gli occhi.
D’un
tratto, a Lidia venne in mente un dettaglio a cui non aveva pensato, ma
che
forse avrebbe attirato l’attenzione di un osservatore
più attento. «A proposito»
mormorò, con il volto in fiamme. «Potrebbe esserci
un piccolo problema.»
Il giovane
riaprì gli occhi, controvoglia. «Cosa
c’è, ancora?» chiese, sospirando.
«Il
vestito» rispose lei, con un filo di voce. Lui la
guardò, senza capire. «Be’,
toglilo, se stai scomoda» disse, stringendosi nelle spalle.
«Chiudo gli occhi,
se spogliarti davanti a me ti imbarazza: l’articolo non mi
interessa, te l’ho
detto.»
Certo che mi imbarazza! Pensò la fanciulla,
avvampando. Ma non era quello il problema. «No,
intendo… è tutto rovinato»
disse, sollevando un lembo della veste. «Si è
tutto strappato nei rovi ed è
pieno di fango. E se qualcuno si accorgesse che l’ho usato
per… fare altro?»
Ulf
osservò l’indumento, improvvisamente
più interessato alla questione. «Ah»
mormorò. Rimase un attimo immobile, riflettendo, poi scosse
il capo.
«Toglietelo» le ordinò, secco.
Lidia
esitò. Alzando gli occhi al cielo, l’uomo
ruotò su se stesso e le diede le
spalle. Rapida, non vedendo alternative, la ragazza si
liberò della veste e si
infilò sotto le coperte, tirandosi il lenzuolo fin sotto al
mento. Avvertendo
il movimento, Ulf si girò verso di lei, scuotendo il capo
quando vide la
posizione in cui si era rintanata. «Da’
qua» le disse, allungando una mano in
direzione del vestito che giaceva abbandonato a terra.
Con
cautela, facendo ben attenzione a non scoprirsi, la fanciulla lo
raccolse con
due dita e lo passò all’uomo, che lo
esaminò con aria critica. «Cosa mi tocca
fare» sibilò, con una smorfia. Afferrando con due
mani la scollatura, il
giovane tirò con forza, strappando il sottile tessuto
azzurro e rendendo
inutilizzabile l’abito. Lidia lo fissò a bocca
aperta, allibita. «Ma cosa fai?»
Lui si
strinse nelle spalle, prima di lanciare la veste rovinata verso i piedi
del
letto. «Be’, possiamo sempre far finta che nella
fretta le cose ci siano un
po’… scappate di mano»
commentò, storcendo il naso. «Un’idea
schifosa, ma, se
tu ne hai una migliore, sono tutt’orecchie.» Con un
gridolino imbarazzato,
Lidia si affrettò a nascondere il viso nel cuscino, sentendo
le guance andare a
fuoco. Questa conversazione finisce qui,
decise, mentre un risolino incredulo le scappava dalle labbra. Ecco, si disse, questa
è una buona posizione per dormire. Adesso me ne resto qui,
al
buio, e vedo di riposare per un paio d’ore. Magari posso
anche far finta di
essere sola, tanto non vedo e non sento niente…
Appena
ebbe concluso quel pensiero, la mano di Ulf calò sulla sua
spalla e la scosse
brevemente. Con un pessimo presentimento, la ragazza voltò
appena la testa,
spiando l’uomo da dietro una cortina di capelli.
«Mh?» chiese, la bocca ancora
premuta contro il guanciale.
«In realtà»,
disse Ulf, accendendo nuovamente la lampada, «ci sarebbe
anche un altro
problema.»
Lidia
scostò i capelli scuri dal volto, guardandolo con aria
interrogativa. «Cioè?» L’uomo
deglutì, a disagio. «Tu…»
disse, prima di interrompersi e riprovare. «Ehm…
hai
mai…» Lidia chinò il capo di lato,
cercando di capire dove volesse andare a
parare. Ulf chiuse gli occhi e sospirò. «Insomma,
sei vergine?» chiese, tutto
d’un fiato.
La
fanciulla lo guardò per un lunghissimo istante, a bocca
aperta, poi il cuore le
balzò in gola e il volto assunse una sfumatura violacea.
«Io…», boccheggiò,
«tu…
non vedo perché…» Immediatamente il
giovane la bloccò, alzando una mano nella
sua direzione. «Aspetta», sbottò,
«ho cambiato idea. Non mi interessa. Anzi,
non voglio proprio saperlo.» Lidia chiuse la bocca e
deglutì. «Il fatto è»,
continuò
Ulf, senza guardarla, «che loro
si
aspettano che tu lo sia.»
«Lo so»
ammise la fanciulla, quando fu di nuovo in grado di parlare quasi
normalmente.
«E di
conseguenza si aspettano anche di trovare qualcosa che
indichi… insomma, hai
capito.»
Oh, merda, fu il primo pensiero della ragazza,
che aveva capito benissimo quello che il germanico intendeva. Finiranno mai tutti questi problemi? Prima
Unna, poi l’albero, poi le spine, poi il cane, poi questo
tizio che decide di inseguirmi,
poi di nuovo l’albero, poi…
Ulf, che
aveva mal interpretato il suo silenzio, interruppe la sua filippica
mentale.
«Dèi, non dirmi che non sai nemmeno che una donna
sanguina, quando…»
«Lo so!»
lo aggredì Lidia, con i nervi a fior di pelle.
«Non sono così
stupida!» L’uomo si ritrasse, sorpreso dalla sua
reazione
violenta. «Va bene, va bene, meglio» si
affrettò a rassicurarla, alzando le
mani per placarla. «Comunque il concetto non cambia. Qui di
sangue non ce n’è
nemmeno l’ombra.»
Be’, questo
è poi da dimostrare, pensò la
giovane, alzando il polso per esaminare una ferita che si era procurata
in una
delle sue numerose cadute. Il taglio iniziava appena a richiudersi, ma
la linea
scarlatta era ancora ben visibile sulla sua pelle chiara. Ulf
seguì con lo
sguardo il suo movimento e subito si illuminò.
«Giusto!» esclamò, afferrandole
senza troppi complimenti il braccio. «Fatti in
là!»
Così
dicendo, buttò indietro le coperte e Lidia dovette
aggrapparsi al lenzuolo per
evitare che quel gesto la scoprisse completamente. Senza perdere tempo
– e
senza darle il tempo di capire cosa stesse succedendo –
l’uomo le strofinò con
forza la ferita sul materasso, lacerando la pelle che si era appena
richiusa e
facendone sgorgare di nuovo il sangue. Un dolore acuto e sottile le
trapassò il
braccio e Lidia non riuscì a trattenere un gemito strozzato.
Quando Ulf la
lasciò libera, la fanciulla si portò il polso al
petto in un movimento
protettivo e lo fissò con astio. «Quindi, se
avessi fatto come dicevi tu e
fossi rimasta qui, mi avresti ferita di proposito?» lo
accusò, retrocedendo
verso il bordo del letto.
Per nulla
toccato dal suo tono d’accusa, l’uomo
tornò a posare il capo sul suo cuscino,
facendo ripiombare la stanza nel buio. «No, probabilmente
avrei usato un po’
del mio sangue. Anche perché, se mi fossi avvicinato a te
con un coltello,
saresti svenuta o qualcosa del genere.»
Lidia
sbuffò dal naso, oltraggiata. «E non potevi farlo
anche adesso?» sibilò. Il
giovane fece schioccare la lingua. «Questa notte ho
già fatto fin troppo, per
te. E adesso smettila di seccarmi, che voglio dormire.»
Così dicendo, Ulf si
avvoltolò nelle coperte e nel farlo ne rubò un
po’ a Lidia, che provò a
riprendersele tirando, ma senza successo. «Sei
odioso» borbottò, ma il cuscino
soffocò quelle parole e, se l’uomo le
udì, finse di non sentirle.
Premendo
di nuovo il volto nel guanciale, la giovane romana cercò di
rilassarsi, ma le
botte e i graffi che si era procurata quella notte, nonché
lo stress emotivo
che aveva contraddistinto quel giorno, le impedirono di prendere sonno.
Mi fa male dappertutto, pensò
cupamente,
e con questa storia non ho fatto altro
che far insospettire questo… questo… lui. Domani
dovrò affrontare tutti gli
altri. Mamma e papà se ne andranno via. E a luglio mancano
ancora due mesi.
Con un
sospiro depresso, Lidia premette ancor di più il volto nel
cuscino, aspettando
le lacrime, certa che sarebbero arrivate da un momento
all’altro. Tuttavia, un
movimento avventato le fece pulsare il ginocchio che per primo aveva
urtato
contro l’albero e quel dolore le ricordò il salto
nel buio e tutto ciò che ne
era seguito. La nottata era stata decisamente diversa da come se
l’era immaginata
qualche ora prima, quando Unna e le sue compagne l’avevano
abbandonata, sola e
spaventata, in quella stessa camera.
Quando,
dieci minuti più tardi, la fanciulla scivolò tra
le braccia del sonno, i suoi
occhi erano ancora perfettamente asciutti.
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Capitolo 12 *** 12. Prove di cucina ***
Erding - Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 6 Maggio
Ferma davanti alla porta di casa,
Lidia seguì con lo
sguardo il carro automatico che si allontanava sobbalzando in maniera
irregolare lungo la strada sterrata, portando con sé i suoi
genitori. E così se
ne andavano, pensò, chiudendo brevemente gli occhi per
cacciare indietro le
lacrime che minacciavano di colarle lungo le guance. Si erano
trattenuti un
giorno in più del previsto, ma, alla fine, avevano deciso di
lasciarla in
Germanica e di tornare a Roma senza di lei. Chissà
se la rivedrò mai, Roma, pensò la
fanciulla, soffocando un gemito afflitto.
Chissà se rivedrò mai la
mamma e il papà…
Quella di non rivedere mai
più la propria patria era
probabilmente una paura comune alla maggior parte delle giovani spose
che si
trasferivano lontane da casa, ma Lidia scosse tristemente la testa,
ricordando
che, tra lei e tante sue coetanee nella sua stessa situazione,
c’era una
differenza fondamentale. Se le altre ragazze potevano sperare di
tornare a
Roma, se non altro per una breve vacanza, lei, scappando con Tito, si
sarebbe
preclusa quella possibilità. Lasciando la Germanica,
infatti, sarebbe andata
contro la volontà dell’Imperatore – e,
indirettamente, di suo padre: era certa
che, una volta fuggita, a casa sua non sarebbe più stata
bene accetta. “Giuro
che ti farò processare come traditrice della
Patria” le aveva detto il Senatore,
qualche tempo prima e, nonostante le piccole dimostrazioni di affetto
degli
ultimi giorni, la giovane non era ancora certa che quelle fossero
semplicemente
delle parole dettate dalla rabbia del momento.
Suo padre non era certo
l’uomo migliore che
conoscesse, tuttavia, quando il carro sparì dietro una curva
della strada, la
fanciulla provò un dolore quasi fisico, mentre la solitudine
e lo sconforto
calavano su di lei, simili a un manto vischioso e pesantissimo. Era
fatta. Da
quel momento in poi sarebbe stata davvero sola con se stessa: almeno
fino a
luglio, non avrebbe potuto fare altro che contare sulle proprie forze
per
sopravvivere in quel paese sconosciuto e, forse, ostile.
Inaspettatamente, una mano
calò sulla sua spalla e
Lidia sobbalzò, voltandosi fino a incontrare gli occhi
chiari di Donna Edda.
L’anziana germanica era uscita con lei per salutare
– in silenzio, s’intende –
i suoi genitori, ma era rimasta a qualche metro di distanza, garantendo
a Lidia
un minimo di riservatezza. Avvertendo forse la tristezza della
fanciulla, però,
la vecchia si era avvicinata, offrendole il modesto conforto della sua
presenza. Commossa, Lidia le rivolse un sorriso piccolo, ma sincero. Forse non sono proprio del tutto sola,
pensò, inspirando a fondo e sentendosi un po’
più sicura di sé.
Se gli eventi del giorno precedente
erano
un’indicazione, l’amicizia di Donna Edda le sarebbe
risultata estremamente preziosa. Il
suo primo giorno da donna
sposata le aveva infatti chiarito una cosa: finché sarebbe
rimasta a Erding, il
suo peggiore nemico sarebbe stata la solitudine. Con una smorfia
infastidita,
Lidia ripensò al pranzo del giorno prima. Quando Gefrid e i
suoi genitori erano
tornati in sala da pranzo, la fanciulla era decisa a cercare di calmare
gli
animi e per questo aveva preso a distribuire sorrisi cordiali,
ingoiando il
proprio nervosismo e cercando addirittura di fare conversazione.
Malgrado la
prospettiva di tornare a Roma con i propri genitori fosse in un certo
senso
allettante, infatti, la ragazza avvertiva che il Senatore non avrebbe
mai avuto
il potere di andare contro gli ordini della sacerdotessa e
dell’Imperatore:
alimentare delle paure infondate sarebbe dunque stato inutile e, forse,
anche
controproducente. Durante il pranzo, Lidia aveva cercato più
volte lo sguardo
di Ulf, tentando di coinvolgerlo nella conversazione, ma il giovane
aveva
tenuto gli occhi fissi sul tavolo, trangugiando con una
velocità allarmante
tutto ciò che Donna Edda aveva cucinato e abbandonando il
locale quasi senza
aspettare che gli altri finissero a loro volta di mangiare.
Anche se comprendeva il suo
desiderio di sottrarsi a
quell’atmosfera pesante, Lidia aveva storto il naso davanti a
quella fuga
frettolosa: con quell’atteggiamento sfuggente, Ulf non faceva
altro che
alimentare i sospetti dei loro genitori. Ad ogni modo, quando
l’uomo non era
più ricomparso per tutto il pomeriggio, la fanciulla non
aveva dato troppo peso
alla cosa, e ne aveva invece approfittato per passare qualche ora in
compagnia
di sua madre, facendo del proprio meglio per mostrarsi tranquilla e
allontanare
così le preoccupazioni della donna. La mancanza di Ulf aveva
iniziato a
insospettirla solo quando, all’ora di cena, l’uomo
non aveva ancora fatto
ritorno: il posto vuoto a tavola attirava la sua attenzione in modo
fastidioso
e la fanciulla non poteva fare a meno di interrogarsi su dove fosse
finito. Da amici o da qualcun altro?
Si
chiedeva, piantando inconsciamente le unghie nella tovaglia a
quadretti.
Possibile che suo marito fosse così sfacciato da andare a
trovare una sua
ipotetica amica proprio quando
tutti
gli occhi erano puntati su di lui?
Quel che era peggio, era che Lidia
riusciva a leggere
un’ombra di sospetto negli occhi di Donna Giulia, ma la
prudenza e l’orgoglio
le impedivano di esprimere ad alta voce i propri dubbi, di chiedere
delucidazioni a chi, forse, ne sapeva più di lei.
Quando giunse l’ora di
ritirarsi nelle sue stanze,
l’umore della giovane era ormai virato verso un nero cupo:
dunque sarebbe
veramente stata così, la sua vita? Ulf aveva davvero
intenzione di piantarla a
casa e disinteressarsi completamente a lei? Quegli interrogativi non
facevano altro
che innervosirla ancora di più: cosa accidenti le importava
di quello che
faceva il germanico? Non era forse
un
bene che lui la evitasse il più possibile? Non era forse
quello che aveva
sperato? Quando, a notte fonda, Ulf era scivolato in camera, quasi di
soppiatto, Lidia non aveva nemmeno sollevato la testa dal cuscino,
fingendo di
dormire e avvolgendosi in un silenzio offeso. All’alba,
l’uomo era sparito di
nuovo e non si era più palesato per tutta la mattina
– il che era piuttosto maleducato
da parte sua, visto che, così
facendo, non aveva nemmeno salutato i genitori di Lidia.
Scuotendo la testa come per
scacciare quei pensieri,
la ragazza sospirò e si voltò verso Donna Edda,
aspettando le sue indicazioni e
chiedendosi come avrebbe potuto interagire decentemente con una donna
così
anziana e che, oltretutto, pareva avere una conoscenza della sua lingua
piuttosto superficiale. Mi
toccherà
imparare il loro dialetto, si disse Lidia, arricciando le
labbra, poco
attratta da quella prospettiva.
Notando di avere
l’attenzione della giovane, la
vecchia fece un cenno nella sua direzione. «Chum»
le disse. «Vieni. Prepariamo
il pranzo.» Un po’ spaesata, Lidia la
seguì all’interno dell’abitazione.
«Ma tu
abiterai qui con noi?» le chiese, sperando di non sembrare
scortese.
La donna scosse il capo con un
verso di diniego. «No,
ti aiuto solo un po’» la informò; e la
fanciulla provò un fremito di
gratitudine nei suoi confronti. Nonostante le indicazioni di sua madre,
infatti, non aveva ancora capito esattamente cosa ci si aspettasse da
lei e il
fatto di avere una guida era sicuramente un vantaggio.
Una volta giunte in cucina, la
vecchia estrasse un
sacco di tela spessa da un armadio a muro e lo porse a Lidia. «Mettili a
bagno» ordinò, indicando i cereali
– o erano legumi? – contenuti al suo interno.
Davanti allo sguardo perplesso
della ragazza, la donna emise un brontolio sordo e afferrò
una grossa ciotola
dalla credenza, appoggiandogliela poi sotto al naso.
«Così» ringhiò,
mostrandole con gesti rapidi e secchi quello che avrebbe dovuto fare.
Per le ore seguenti, Lidia
cercò di imitare le azioni
di Donna Edda, sentendosi estremamente inadeguata – per non
dire incapace – e
rimediando tre dita tagliate. Mentre le avvolgeva una pezza pulita
attorno
all’ultima ferita, la donna le lanciò uno sguardo
severo. «Non aiuti tua mamma
a Roma?» Lidia arrossì, scuotendo il capo.
«No, noi… avevamo dei servitori.
Facevano tutto loro» ammise.
«Questa è una
signora di città, nonna. Non devi
aspettarti troppo da lei.» La voce di Ulf fece sobbalzare
entrambe e Lidia si
voltò per lanciare uno sguardo velenoso in direzione
dell’uomo.
«Och,
blaascht!»
sbottò Donna Edda. Qualsiasi cosa volesse dire, la ragazza
pensò che avesse un
suono adeguato. «Dove sei stato?» gli chiese
allora, in tono vagamente accusatorio,
mentre l’irritazione della mattina tornava a farsi sentire.
Ulf, che si era
seduto al tavolo, si strinse nelle spalle. «Sono andato a
lavorare.»
Lidia lo squadrò con
più attenzione, socchiudendo gli
occhi. «E ieri, invece?» indagò, poco
soddisfatta di quella spiegazione. Lui
ricambiò il suo sguardo, con aria di sfida. «Ho
pensato che fosse meglio
girarti alla larga per un po’, visto come si stavano mettendo
le cose» fece,
per poi aggiungere, con un sorrisetto: «Di’ un
po’, adesso non avrai mica
intenzione di diventare una di quelle mogli apprensive e ficcanaso,
vero?»
La ragazza sbuffò,
sdegnosa. «Certo che no. Ero solo
curiosa, per me puoi fare quello che ti pare. Non me ne importa
niente.» Ulf la
osservò per qualche istante, reclinando il capo sulla
spalla, poi disse: «Ad
ogni modo, sono andato da mia sorella: mi era permesso
farlo?»
Afferrando una delle ciotole che
Donna Edda aveva
riempito con la zuppa che avevano preparato, Lidia la posò
con malagrazia sul
tavolo, davanti all’uomo, facendone strabordare un
po’. «Fa’ quello che ti
pare» ripeté asciutta. «Non mi
interessa.»
La vecchia germanica, che aveva
seguito lo scambio in
silenzio, prese la pentola ricolma di zuppa e la appoggiò
sul tavolo, poi
raccolse lo scialle con il quale era solita coprirsi le spalle e si
diresse
verso la porta. «Tu non resti, nonna?» le chiese
Ulf. «Näi» replicò lei,
scuotendo il capo e rivolgendo loro un brusco cenno di saluto.
Quando se ne fu andata, Lidia si
chinò sul piatto,
iniziando a mangiare in silenzio e cercando di ignorare la tensione che
improvvisamente aveva riempito l’aria. Era sorprendente
quanto fosse diverso
restare sola con Ulf in una situazione di emergenza e condividere con
lui un
momento di quotidianità come il pranzo: c’era un
che di intimo, in quella seconda
circostanza, e la cosa la metteva a
disagio. Imbarazzata, la fanciulla rimestò la zuppa,
cercando qualcosa da dire,
ma si trovò penosamente a corto di argomenti di
conversazione.
«Ti hanno già
fatto visitare il villaggio?» Lidia
accolse entusiasticamente la domanda di Ulf e si affrettò ad
annuire. «Solo in
parte» disse, ingoiando rapidamente la zuppa densa e
saporita. «Il Legato mi ha
fatto vedere la piazza e qualche bottega, ma pensavo di fare un altro
giro,
questo pomeriggio: se non altro, per ambientarmi un po’
meglio.»
Il giovane annuì.
«Va bene, ma non da sola» le
raccomandò, incontrando i suoi occhi al di sopra del piatto
ancora fumante.
Confusa, Lidia aggrottò la fronte. «Non da sola? E
perché?»
Per una frazione di secondo, Ulf
parve quasi
imbarazzato. «Te l’ho detto: non è
sicuro.» Davanti a quella risposta, la
ragazza posò il cucchiaio sul tavolo e si prese qualche
secondo, prima di
parlare. «Nemmeno di giorno, è sicuro?»
chiese, mentre una sensazione
sgradevole le stringeva lo stomaco.
«Perché… cosa… cosa potrebbe
succedermi,
esattamente?»
«Ma no, niente di
che» mormorò il giovane, ma la sua
voce suonò un po’ incerta e Lidia strinse i pugni
sul tavolo, scoprendoli
sudati. Accorgendosi del suo nervosismo, Ulf si sporse leggermente
verso di
lei. «Non è mai successo niente», la
rassicurò, «e, con ogni probabilità,
non
succederà mai niente.
Però è stupido
andare a cercarsi i guai: la gente deve imparare a conoscerti e,
finché sei
ancora nuova, è meglio
che tu non te
ne vada in giro da sola. Tra qualche giorno tutti inizieranno a non
vederti più
come una romana, ma come una di noi, e allora non avrai più
niente da temere…
nemmeno da quelle persone che non vedono di buon occhio la tua
gente.»
Quella risposta che, in teoria,
avrebbe dovuto
rassicurarla, fece provare a Lidia uno spasmo di repulsione. Io sarò sempre
romana, si disse, irrigidendo la mascella. In
quell’istante, la
fanciulla provò un lampo di fierezza e di orgoglio per le
proprie origini; e il
fatto di perdere la propria identità le parve una
prospettiva intollerabile.
Spostando lo sguardo su Ulf, la giovane si accorse che l’uomo
la guardava con
più attenzione – forse si era accorto della sua
tensione improvvisa – e così si
impose di rilassarsi. Un paio di mesi,
ricordò. Un paio di mesi e mi
lascerò
questo posto alle spalle.
«Bene», disse,
poi, cercando di sviare da sé
l’attenzione di suo marito, «allora forse potreste
accompagnarmi tu o tua
nonna? Erding è così diverso da Roma, tutto mi
sembra così strano…»
Il germanico ridacchiò.
«Non lo metto in dubbio: io a
Roma non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che a voi piace fare le
cose in
grande.» Sebbene fosse indubbiamente vero, Lidia credette di
scorgere una
sottile nota ironica nelle parole dell’uomo e, per qualche
motivo, la cosa la
fece arrossire. «In un certo senso è
così» riconobbe. «Da noi tutto
è più
grande e pieno di cose… tutto è diverso. Prendi
la piazza, per esempio: le
nostre piazze sono piene di gente, di fontane, di statue degli
Dèi…» Ulf fece
un vago suono d’assenso e Lidia ne approfittò per
togliersi un dubbio che la
tormentava da qualche giorno. «Nella vostra, di piazza, ho
visto però la statua
di un solo Dio: come mai? Non ne adorate altri?»
L’uomo sbuffò,
beffardo. «Oh, ce ne sono altri, sì. Ma
Arminio è il più grande, a quanto
pare.»
Alla ragazza non sfuggì
il suo tono scettico. «A quanto pare?»
ripeté. Ulf scrollò le
spalle. «Tu li hai mai visti, gli Dèi?»
Lei lo fissò, stupita dalla domanda. «No,
certo che no. Nessuno li ha mai visti, ma questo non vuol dire che non
esistano.»
Il germanico storse la bocca e
sembrò sul punto di dire
qualcosa, ma poi rinunciò. «Cosa?»
insistette Lidia. C’era qualcosa,
nell’atteggiamento di suo marito, che aveva attirato la sua
attenzione e la spingeva
a indagare più a fondo: anche lei provava un cauto
scetticismo verso
l’esistenza degli Dèi, ma più passavano
i giorni e più le pareva di avvertire,
nel modo di fare di Ulf, un’aperta ostilità verso
tutto ciò che era religione.
Lui la squadrò con
attenzione, fissandola poi negli
occhi. «Non credo proprio di fidarmi di te a sufficienza per
parlarti di questa
cosa» mormorò, soppesando le parole. Lidia si
reclinò sullo schienale della
sedia, presa in contropiede.
«Cos’è?» chiese, con una punta
di ironia. «Un
segreto?»
«In un certo
senso» confermò Ulf, prima di aggiungere,
con un sorriso storto: «Il tipo di segreto che si confida
solo alle persone
affidabili» sottintendendo chiaramente che lei non
risultava appartenere a tale categoria.
Lidia alzò gli occhi al
cielo con una smorfia offesa e
incrociò le braccia, ma l’uomo le spinse il piatto
sotto il naso. «Dai, finisci
di mangiare» la incitò. «Ho un
po’ di tempo prima di ritornare al lavoro. Posso
portarti a fare un altro giro in paese: ci sono anche altri posti che
dovresti
conoscere.»
***
Un quarto d’ora
più tardi, i due sfilavano tra i
banchetti del mercato. Era decisamente più piccolo di quello
che di tanto in
tanto aveva frequentato a Roma, ma non per questo Lidia si sentiva meno
a
disagio. «Mi guardano tutti» sussurrò a
Ulf, avvicinandosi inconsciamente al
suo fianco.
«Per forza»,
disse piano suo marito, «sei nuova. E
comunque guardano anche me, se la cosa ti fa piacere.» Il
livido che si era
procurata durante il suo tentativo di fuga era ancora lontano dal
riassorbirsi
e, malgrado la ragazza avesse cercato di nasconderlo con un
po’ di trucco, l’ematoma
era ancora ben visibile. «Le voci girano in fretta,
qui» le sussurrò ancora
Ulf.
«Ho notato»
disse Lidia, deglutendo nervosamente. «Non
possiamo andare in un luogo meno affollato?» Annuendo, Ulf le
porse la mano e
si infilò in un passaggio particolarmente stretto, tra una
bancarella e l’altra.
Istintivamente, la fanciulla la afferrò e si
lasciò guidare tra la folla,
stando ben attenta a non perdere la presa, grata di
quell’appiglio che,
dopotutto, le dava coraggio.
Quando si furono allontanati dalla
ressa, Ulf le
lasciò la mano e indicò un punto davanti a
sé. «Quello invece è il bosco
sacro,» disse. «Quello?» chiese Lidia,
osservando quello che a lei non pareva
altro che un normale boschetto di faggi.
«Possiamo avvicinarci un
po’», propose l’uomo, «ma
l’ingresso è vietato.»
Poco prima di raggiungere i margini
del bosco, i due
incrociarono tre uomini che rivolsero un cenno di saluto a Ulf. Lidia
li
guardò, impressionata. Due di loro erano piuttosto giovani e
dimostravano
approssimativamente l’età di suo marito, mentre il
terzo era decisamente più
anziano: tutti e tre, però, erano ricoperti da uno strato di
sottilissima
polvere grigio-verde. Portavano sulle spalle dei picconi e, quando uno
di loro
la guardò in faccia, la ragazza vide che i suoi occhi erano
rossi e
lacrimavano.
«Chi sono?»
chiese, quando si furono allontanati.
«Minatori» rispose tra i denti Ulf.
«Lavorano nella miniera d’argento al
confine sud del paese. Ci sei passata davanti, quando sei arrivata a
Erding.»
Lidia cercò di
ricordare, ma il giorno del suo arrivo
era talmente presa dai suoi pensieri che non aveva prestato molta
attenzione al
paesaggio. «Non me la ricordo» disse, scuotendo il
capo. Poi aggiunse, con un
filo di apprensione: «Tu non lavori lì,
vero?»
L’uomo fece un cenno di
diniego. «No, fortunatamente
no. Io sono un falegname, ho ereditato la bottega in cui mio padre
lavorava
prima di restare ferito in battaglia.»
«E questo è un
bene, immagino» commentò la giovane.
«Certo
che lo è» confermò lui, amaramente.
«I minatori hanno vita breve. Karl,
sfortunatamente, lavora là sotto.»
«Chi è
Karl?» chiese Lidia, confusa, non ricordando di
aver mai sentito quel nome. «Il marito di mia
sorella» rispose Ulf, guardandola
di sottecchi.
«Oh.» Sentire
nominare Unna non le aveva certo fatto
piacere, ma la ragazza cercò comunque di mostrarsi
partecipe. «È l’uomo che era
con voi quando…» Quando
ci siamo
incontrati per la prima volta e mi avete riso in faccia tutti quanti,
avrebbe voluto dire, ma non si sentiva ancora abbastanza coraggiosa per
toccare
quell’argomento. Fu Ulf ad affrontarlo per lei.
«Sì, è lui»
confermò. «Alto,
con i capelli scuri. Quello che fa praticamente tutto ciò
che dice Unna, per
intenderci.» Le parole erano critiche; e tuttavia a Lidia non
sfuggì il tono
vagamente affettuoso con cui le pronunciò.
«Ho capito chi
è» disse, a denti stretti. Sentendo su
di sé lo sguardo dell’uomo, Lidia
incrociò per un secondo i suoi occhi, ma poi
li riabbassò a terra. Parlare con Ulf si stava rivelando
più semplice del
previsto, ma la giovane non aveva dimenticato il suo comportamento
durante quel
primo incontro, il suo sguardo freddo – disgustato
– il suo disprezzo, la sua espressione di scherno. Non sono cose facili da ignorare,
pensò, stringendo inconsciamente
i pugni.
Accanto a lei, Ulf
sospirò. «Devo dire che la realtà
è
forse un po’ migliore della prima impressione.»
Lidia alzò di nuovo lo sguardo
su di lui, sorpresa. «Cosa vorrebbe dire?»
«La prima volta che ti ho
vista», spiegò il giovane, «sembravi
una bambina terrorizzata. Eri pallidissima, tremavi come una foglia e
sembrava
che stessi per scoppiare a piangere. Non mi hai fatto una gran bella
impressione.»
Lidia storse la bocca. «Ero spaventata»
sottolineò. «Non è facile cambiare
tutto, così…»
«Lo so»
sospirò Ulf. «Ma nemmeno per me lo è. E
pensavo che, oltretutto, mi sarebbe pure toccato badare a una persona
incapace
di funzionare autonomamente, che avrebbe passato il tempo a piangere e
a
lamentarsi.»
«E invece?»
chiese Lidia, benché non fosse certa di
voler sapere quello che Ulf pensava veramente di lei. «E
invece sei saltata
dalla finestra» disse lui, con un sorriso. «Certo,
la cosa mi fa dubitare della
tua intelligenza, ma quantomeno hai dimostrato di avere un minimo di
spina
dorsale.»
Lidia scosse la testa, non sapendo
cosa pensare. Un insulto e un complimento in
poco più di
dieci parole. Notevole. L’uomo la stava ancora
fissando e lei si sentì in
dovere di commentare. «D’accordo»
sospirò. «Forse anch’io ti ho giudicato
un
po’ male. Mi dispiace essermi fidata di Unna e non di
te.»
Ulf annuì, secco.
«Unna è… a volte Unna è una
persona
un po’ difficile. Non ama molto i romani.» Lidia lo
guardò, sorpresa. «Perché?»
«Ha i suoi
motivi», mormorò l’uomo, «ma
non ti dirò
altro. Sono affari suoi e, se sei curiosa, devi chiedere a lei di
raccontarti
tutta la storia.» La fanciulla gli lanciò
un’occhiata scettica, ma Ulf parlò di
nuovo, impedendole di protestare. «Siamo arrivati»
disse, indicando i primi
alberi del bosco che avevano scorto in lontananza. «Non
è possibile andare
oltre.»
Lidia annuì, osservando
il filo spinato che correva
tutt’attorno alla vegetazione, formando una barriera
invalicabile alta almeno
tre metri. «Che cosa c’è, lì
dentro?» Automaticamente, la sua mente corse a
quello che aveva letto sui libri di scuola, allo strano legame che i
Germanici
parevano avere con gli alberi, ai sacrifici che avevano luogo sui
grandi altari
di pietra nel cuore della foresta. O
quelli erano i Galli? Si chiese la fanciulla, cercando di
ricordare.
«Il luogo in cui si
portano le offerte per gli Dèi» spiegò
Ulf, interrompendo i suoi pensieri. Lidia deglutì.
«Che tipo di offerte?»
«Oh, un po’ di
tutto» rispose lui. «Pellame, pietre
preziose, oggetti di valore… gli Dèi sembrano
essere piuttosto veniali, in
queste cose. Il rito ha luogo ogni mese; e ogni mese dobbiamo lasciare
qui
almeno due carri d’argento.»
«Che cosa succede alle
cose che lasciate qui?» chiese
la fanciulla, confusa. L’uomo si strinse nelle spalle.
«Spariscono.»
«Spariscono?»
ripeté Lidia, stupita. «Ma allora questo
significa che gli Dèi esistono! Altrimenti dove andrebbero a
finire tutte
quelle cose?»
Ulf scoppiò in una
risata amara. «Non so a te, ma a me
vengono in mente un paio di altre opzioni. Ogni mese costruiamo una
sorta di
enorme forno con il materiale di scarto della miniera, ogni mese ci
mettiamo
sopra le offerte per gli Dèi,
ogni
mese ci accendiamo sotto un fuoco… dopodiché
dobbiamo abbandonare la foresta e
lasciare la tua amica sacerdotessa sola con tutte quelle cose. Chi
può dire che
fine fanno le nostre offerte?»
Lidia gli lanciò
un’occhiata scettica. «Di certo non
penserai che Donna Erin possa portarsi via tutto da sola.»
Ulf scosse il capo. «Da
sola no, però…»
«Pensi che ci sia
qualcuno che l’aiuti? E per quale
scopo?» il tono di Lidia era chiaramente dubbioso e Ulf se ne
accorse. «Non lo
so: dico solo che mi sembra un po’ strano
che gli Dèi vengano a chiederci cose tanto preziose. Magari
mi sbaglio, ma a me
sembra un ottimo modo per far fessi un branco di polli e arricchirsi
alle loro
spalle.»
«Stai parlando del tuo
intero villaggio?» insistette
la ragazza, inarcando le sopracciglia, scettica. Per nulla turbato
dalla sua
domanda, Ulf scrollò le spalle. «Aspetta, prima di
giudicare: la prossima volta
assisterai anche tu alla cerimonia e poi mi dirai cosa ne
pensi.»
Anche se poco convinta, la
fanciulla non ribatté.
***
La fiamma divampò
violenta e Lidia balzò all’indietro
con un gridolino, agitando la spatola in direzione della padella.
Qualcosa non
stava andando per il verso giusto.
Con un pessimo presentimento, la
ragazza pigiò di
nuovo il bottone, sperando di abbassare la potenza della fiamma, ma
sbagliò
tasto e il fornello acquistò potenza, anziché
perderne. Premendo convulsamente
un altro paio di pulsanti, la fanciulla riuscì a domare il
fuoco fino a
spegnerlo completamente e poi, a denti stretti, si avvicinò
ai ritagli pressati
di patate che Donna Edda aveva preparato con lei, quella mattina.
Sollevandoli
cautamente con la spatola – e facendone cadere una buona
parte sul piano di
cottura – Lidia ebbe la conferma di ciò che
l’odore di bruciato già le aveva
fatto sospettare: erano completamente carbonizzati.
E
adesso che
faccio?
Desolata, la fanciulla raggiunse il
tavolo e si lasciò
cadere sulla panca, appoggiando la spatola sul ripiano di legno e
nascondendo
il volto fra le mani. Improvvisamente apprezzava molto di
più il lavoro che la
servitù aveva svolto ogni giorno nella sua domus
romana, in maniera così efficiente e silenziosa
che lei quasi non si era
nemmeno accorta dell’impegno necessario per mandare avanti
una casa.
Poco dopo averle mostrato il bosco
sacro, Ulf l’aveva
riaccompagnata a casa e poi aveva fatto di nuovo ritorno alla sua
bottega. Una
volta rimasta sola, Lidia aveva deciso di rimboccarsi le maniche e
familiarizzare un po’ con quello che sarebbe stato il suo
regno. La prima
sorpresa – tutt’altro che gradita – era
stata la totale assenza dei mille
meravigliosi elettrodomestici di cui Donna Giulia le aveva parlato.
Forse era
stata un po’ ingenua a pensare che attrezzi rari e costosi
come le scope
elettriche o le lavatrici potessero esistere in quella regione
arretrata, ma
Lidia si era comunque stupita quando si era trovata davanti a una scopa
– non
ne aveva nemmeno mai toccata una! – o quando
l’occhio le era caduto sul pezzo
di sapone grezzo e sulla spazzola da bucato posata accanto a esso.
Aveva curiosato un po’ in
giro, aveva rifatto il letto
– più facile a dirsi, che a farsi, con tutte
quelle coperte che scappavano da
tutte le parti e non volevano saperne di restare al loro posto
– aveva buttato
un occhio nella dispensa e annusato i cibi che non aveva mai visto
prima,
dopodiché si era resa conto che il sole era ormai basso
sull’orizzonte e aveva
deciso che era giunta l’ora di cucinare qualcosa per cena.
Quella mattina,
Donna Edda le aveva spiegato la preparazione di un piatto a sua detta
semplicissimo – rösti,
l’aveva
chiamato - e Lidia aveva ingenuamente creduto che l’impresa
fosse alla sua
portata.
Grave errore. Il risultato era
stato mezzo chilo di
patate da buttare e un gran odore di bruciato in tutta la casa. Mentre,
controvoglia, si accingeva a scrostare la padella dai rimasugli
carbonizzati
delle patate, la porta si aprì e Ulf entrò in
casa, annusando l’aria e facendo
una smorfia. «Che cos’è questo
odore?» chiese, senza nemmeno salutarla e
correndo a spalancare una finestra.
Lidia arrossì,
continuando a dargli le spalle e senza sollevare
la testa dal lavello. «Mi è bruciata la
cena.» Con un sospiro, Ulf si portò
alle sue spalle e spiò quello che stava facendo.
«Cosa accidenti era quella
roba?»
La ragazza lasciò cadere
la padella e la spugnetta e
si girò a fronteggiarlo, indietreggiando istintivamente
contro il lavello quando
se lo trovò così vicino. «Erano
patate… arrosto.
Arrosti. Qualcosa del genere» spiegò.
«Ho fatto quello che mi ha detto tua
nonna, ma sono bruciate lo stesso. Forse la fiamma era troppo
alta…»
Ulf si sporse oltre di lei e prese
in mano la padella,
tastandone con un dito l’interno. «Ci hai messo il
burro?» chiese, amabile.
Lidia aprì la bocca per
ribattere, ma le parole le
morirono in gola. Oh. Il burro.
Notando
la sua espressione, Ulf scoppiò a ridere. «Lo
sanno tutti, che devi ungere la
pentola! Lo sapevo pure io!» Prima di riuscire a
controllarsi, la ragazza lo
colpì sul petto, cercando di allontanarlo e ottenendo solo
di farlo ridere più
forte. «Se sei tanto bravo, perché non cucini
tu?» gli chiese, offesa.
Sorridendo, evidentemente divertito
dalla situazione,
l’uomo si chinò su di lei, avvicinando il proprio
volto a quello della ragazza.
«Vuoi per caso fare cambio? Io sto in cucina e tu prendi in
mano la pialla?»
Non so
nemmeno cos’è, una pialla, pensò Lidia,
fulminandolo con lo sguardo. «Oh, finiscila!»
sbottò, cercando di allontanarlo
con una spallata. Lui resistette per un attimo, poi si
scostò, lasciandola
passare. La giovane marciò di nuovo verso il tavolo e Ulf la
seguì con lo
sguardo. «Allora?» le chiese, appoggiandosi al
lavello. «Cosa mangiamo?»
Lidia scosse le spalle, fissando il
pavimento. «Mi è
passata la fame» mugugnò, consapevole di avere
assunto un comportamento
infantile e non dando alcun peso alla cosa.
Ulf sospirò di nuovo e
raggiunse la dispensa. «Ecco
qua» disse, posandole qualcosa sotto il naso.
«Pane, formaggio e pomodori.
Grazie per la cena, moglie, davvero deliziosa.» La ragazza,
che nonostante
quello che aveva detto, era affamata, mise in bocca un pomodorino e lo
stritolò
rabbiosamente sotto ai denti. «Certo che è una
vera fortuna, averti sposato»
continuò Ulf, con aria svagata, guardandola attraverso il
tavolo. «Com’è che
aveva detto tuo padre, l’altro giorno? Che sai fare di tutto
e che impari in
fretta? Tutto vero, non c’è che dire.»
Lidia posò sul tavolo il
panino e lo fissò negli
occhi, sentendosi insolitamente coraggiosa – e stanca.
«Perché mi prendi sempre
in giro?» gli chiese, seria. L’uomo si strinse
nelle spalle. «Mi sembra che sia
il modo migliore per farti reagire» rispose, altrettanto
serio. «Meglio
arrabbiata, che in lacrime, per quanto mi riguarda.»
Lidia scosse rabbiosamente la
testa. «Potresti anche
cercare di essere un po’ più gentile»
mormorò, infilandosi una manciata di
pomodorini nel grembiule e alzandosi dal tavolo. Stava per lasciare la
stanza
quando la mano di Ulf, che la afferrò per il braccio, la
costrinse a fermarsi. «Lidia»
le disse, senza lasciare la presa. «Io non so che cosa ti
aspetti da me.»
Quelle parole la colsero di
sorpresa e la ragazza alzò
lo sguardo fino a incrociare quello azzurro dell’uomo. Che
cosa si aspettava da
lui? Non si era mai posta quella domanda. «Non lo
so» ammise, spostando lo
sguardo sulla mano dell’uomo, che, nel frattempo, era scesa a
circondarle
leggermente il polso. «Forse solo un po’ di
comprensione.»
«Che cosa vuol dire comprensione?» le chiese lui,
continuando a fissarla.
«Comprensione vuol
dire…» istintivamente, la mano
della giovane volò al polsino della camicia di Ulf,
allacciato male, e lo
sistemò. «Comprensione vuol dire avere solo un
po’ più di pazienza. Mi serve
tempo per adattarmi a tutta questa situazione.»
Ulf inspirò a fondo,
prendendo le mani della ragazza
nelle sue. «Io posso anche avere pazienza», disse,
dopo un attimo, «ma tu devi
cercare di aiutarmi. Non pretenderò mai niente da te, te
l’ho detto. Non mi
interessa averti come un uomo ha la propria moglie, ma ho bisogno di
sapere che
tu qui puoi resistere. Posso lasciarti tutto il tempo che ti serve, ma
devo
sapere che alla fine ti adatterai a questa
situazione, come dici tu.»
«Per sempre»
sospirò Lidia, senza riuscire a
trattenere quelle parole, né a celare lo sconforto che esse
le provocavano.
«Per sempre», confermò Ulf, con una
smorfia amara, «o, per lo meno, per
parecchio tempo. Non dico che le cose non cambieranno, un giorno, ma
non posso
farti alcuna promessa, in questo senso… per questo ho
bisogno di sapere che ce
la farai e che ti impegnerai per fare funzionare le cose.»
Tito. Il ragazzo e la promessa che le
aveva fatto,
l’impegno che aveva preso, le tornarono subito in mente, ma
la fanciulla si
sforzò di sorridere, alzando gli occhi sul volto di Ulf.
«Cercherò di non
bruciare più la cena» promise. L’uomo
parve considerarla una risposta
sufficiente e con un sorriso le sfiorò una guancia,
spostando una ciocca di capelli
castani che erano scesi sul suo viso. Per un qualche motivo la ragazza
sentì
gli occhi inumidirsi a quel tocco leggero, ma, sentendosi stupida,
ricacciò
ferocemente indietro le lacrime e, liberatasi dalla presa di Ulf, si
avvicinò
di nuovo al lavello.
Colpa
della
tensione,
pensò, passando gli occhi
sulla superficie smaltata. «E adesso cosa fai?» le
chiese Ulf, avvicinandosi
nuovamente a lei. Lidia
sollevò la
padella incrostata e, sospirando per scacciare quella strana
malinconia, la
sventolò debolmente in aria. «Credo
che
sia il caso di pulire questa» disse, rimboccandosi le maniche.
***
Più tardi, quando si
ritrovò sola sotto le coperte,
Lidia si rigirò per l’ennesima volta, incapace di
prendere sonno. Ulf era
andato a trovare con alcuni amici e, sebbene l’avesse
invitata ad accompagnarlo,
Lidia aveva preferito andare a letto, tremando al pensiero di trovarsi
in
compagnia di tanti uomini sconosciuti.
Anche se normalmente non amava la
solitudine, in
quella particolare occasione la ragazza era grata della
possibilità di
riflettere nella tranquillità della propria stanza. La
domanda di Ulf le era
rimasta impressa nella mente.
Che
cosa mi
aspetto da lui?
Si chiese di nuovo la
fanciulla. “Niente” era la risposta più
sincera. Lidia si trovava nella scomoda
posizione di dover riconoscere di essere partita troppo prevenuta nei
confronti
di suo marito; e non solo: doveva anche prendere atto del fatto che
Lucilla
aveva avuto ragione, quando le aveva detto che, rifiutandosi di pensare
al suo
imminente matrimonio con il germanico, non avrebbe fatto altro che
peggiorare
le cose. Certo, la sua amica l’aveva forse intesa in maniera
un po’ diversa, ma
Lidia era stata così convinta di andare in pasto a un mostro
che, quando invece
si era trovata di fronte a un uomo – strano, ma comunque un
uomo – non aveva
saputo come reagire.
Scivolando sulla schiena, Lidia si
domandò cosa
avrebbe fatto, se invece di Ulf avesse trovato qualcuno come Tito: si
sarebbe
trovata altrettanto spaesata? Ma Tito e
Ulf sono troppo diversi, rifletté, non
posso fare un paragone. Ed era vero. Tito era sempre stato
molto più
accomodante, nei suoi confronti, molto più dolce.
Prendiamo
quello che è successo questa sera, per esempio: Tito mi
avrebbe messo a mio
agio, mi avrebbe detto che non importava… magari mi avrebbe
anche aiutata a
preparare qualcos’altro. No! Meglio! Avremmo ordinato
qualcosa e ci saremmo
fatti portare qualcosa di buono da fuori… Per un istante Lidia sorrise,
perdendosi in quel pensiero allettante. Non
come quel… quel… Ulf. Si trovava in
difficoltà anche solo per trovare un insulto adeguato. Anche
se, doveva
ammetterlo, anche Ulf era stato quasi dolce, a modo suo, quando le
aveva
promesso di concederle tutto il tempo di cui avrebbe avuto bisogno.
Non
come
Tito, però.
Non come Tito, no, però
la ragazza era sempre più
consapevole dei vaghi sensi di colpa che la coglievano al pensiero
della fuga
che aveva in programma per luglio, quando il giovane romano sarebbe
venuto a
prenderla. Non gli devo niente,
però… però
aveva la sensazione di tradire, se non lui, quantomeno la sua fiducia. Ma che alternative ho?
L’alternativa, lo sapeva,
era una sola: restare a
Erding e continuare la farsa, così come desiderava Ulf. La
fanciulla storse la
bocca a quel pensiero: l’idea di vivere una vita di menzogne
non l’allettava
nemmeno un po’. Prendendo il coraggio a due mani, si spinse a
esaminare un’idea
che aveva sfiorato la sua mente un paio di volte, negli ultimi giorni:
e se
fosse diventata davvero la moglie
di
Ulf? Subito scartò l’ipotesi: non solo
perché l’esistenza di Tito e dei
sentimenti che provava per lui rendevano impraticabile quella via, ma
anche
perché il germanico aveva espresso più volte e
chiaramente il suo disinteresse
per lei. Molto chiaramente,
ricordò
la ragazza, con un sospiro irritato. Ha
anche detto che sono “bruttina”.
Per l’ennesima volta, la
fanciulla si chiese se l’uomo
avesse un’altra donna, da qualche parte; e per
l’ennesima volta il pensiero le
provocò una fastidiosa fitta allo stomaco. Gli
conviene non avere nessun’altra: sarebbe troppo comoda,
così! Pensò,
battagliera, prima di rigirarsi sulla pancia e affondare il volto nel
cuscino. No,
la cosa migliore era attenersi al piano e tagliare la corda al momento
opportuno. Sì, è la
cosa migliore. Non
c’è altra via, davvero, decise la
giovane, chiudendo gli occhi risoluta e
cercando di allontanare i dubbi e le incertezze.
Quando, diverse ore dopo, Ulf fece
ritorno e lei si
ritrovò a fingere di dormire, la ragazza non ebbe
però alcun dubbio: a tenerla
sveglia non era la paura di vivere un nuovo giorno in una terra
sconosciuta, ma
la sua coscienza sporca.
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Capitolo 13 *** 11. Malintesi ***
Quando aprì gli occhi,
Lidia si rese conto di essere
sola. Il sole filtrava dalla finestra, centrandola in piena faccia. Con
una
smorfia di fastidio, la ragazza si portò istintivamente una
mano al volto per
strofinarsi gli occhi come faceva ogni mattina, ma quel movimento la
fece
sussultare. Male.
Nell’immobilità
del sonno, il dolore legato alle
abrasioni e alle contusioni che aveva rimediato durante la sua
avventura
notturna sembrava essersi acuito, anziché indebolito, e con
un gemito soffocato
la ragazza si girò sulla schiena, piegando leggermente le
gambe per verificare
la funzionalità delle ginocchia.
Sembra
tutto
a posto.
Tirandosi a sedere e
portandosi le ginocchia al petto, la giovane romana si
guardò attorno, cercando
di determinare l’ora. Il lembo di cielo che riusciva a
scorgere al di là della
finestra spalancata era del colore grigio e lattiginoso
dell’alba e anche il
cinguettio indaffarato degli uccelli che affollavano il melo indicava
che il
sole doveva essere sorto da poco. Con un gemito assonnato, Lidia
lasciò
scorrere lo sguardo tutt’attorno a sé: che fine
aveva fatto Ulf? Nella stanza
tutto sembrava nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato
la notte prima. Solo
il vestito strappato era stato raccolto da terra e riposto sullo
schienale di
una sedia.
Oh,
Dèi.
La semplice visione di quell’insignificante pezzo di
stoffa chiara le fece contrarre sgradevolmente lo stomaco. Non si
sentiva
assolutamente in grado di affrontare il nuovo giorno e tutte le
incognite che
esso portava con sé, tantomeno da sola. Anche se la presenza
di Ulf non le
risultava particolarmente gradevole, Lidia si scoprì a
desiderare che l’uomo
fosse lì con lei, se non altro per dirle cosa fare e per
toglierla
dall’imbarazzo di un’attesa che non sapeva come
riempire.
A disagio, la ragazza si
scrocchiò lentamente le dita,
cercando di decidere sul da farsi. Doveva forse alzarsi e scendere al
piano
inferiore? E se, una volta arrivata di sotto, non ci fosse stato
nessuno? O se,
peggio ancora, vi avesse trovato tutti i parenti di Ulf? E
poi, cosa accidenti dovrei indossare? Di certo non il vestito di
ieri, visto lo stato in cui è ridotto.
Con una smorfia, Lidia si rese
conto di essere
bloccata in quella camera. Forse potrei
rimettermi a dormire, considerò, lanciando
un’occhiata al cuscino
stropicciato. Prima o poi qualcuno
verrà
a cercarmi. Quasi fossero stati evocati dal suo pensiero,
dei passi
risuonarono improvvisamente su per le scale e si fermarono proprio
davanti alla
stanza. Come per un riflesso spontaneo, la ragazza si lasciò
ricadere sul
cuscino e si tirò la coperta fino al mento,
appallottolandosi su un fianco e
sforzandosi di adottare un respiro regolare, nella speranza di
ingannare
chiunque si trovasse dall’altro lato della porta. Non aveva
alcuna voglia di
parlare con nessuno. Non si sentiva in grado di rispondere ad alcuna
domanda.
La persona in corridoio
bussò un paio di colpi appena
accennati, poi la porta di legno si aprì e dei passi leggeri
risuonarono sul
pavimento. Una donna,
pensò Lidia,
senza aprire gli occhi, ma non la mamma.
I passi si avvicinarono al lato del letto sul quale era distesa e una
mano
leggera le sfiorò la fronte. «Lidia»
disse una voce gentile. «Lo so, che sei
sveglia.»
Arrossendo leggermente, e seppur di
malavoglia, la
fanciulla aprì gli occhi e si ritrovò a fissare
il volto pallido di Donna Erin.
«Buongiorno, mia cara» la salutò la
sacerdotessa, sorridendo.
Consapevole di essere una pessima
bugiarda, Lidia si
limitò a fissarla con gli occhi sgranati, incapace di
ricambiare il sorriso
cordiale della donna. Perché era lì da lei, a
quell’ora di mattina? Intendeva
forse chiederle qualcosa a proposito della notte precedente? Aveva
forse
subodorato qualcosa? Se così fosse stato, la fanciulla era
praticamente certa di
non essere assolutamente in grado di ingannarla.
Davanti al silenzio della giovane,
la sacerdotessa la
osservò con maggiore attenzione e il suo sorriso si spense
un po’. «Come va?»
le chiese piano. Stringendo i denti per contrastare le proteste del suo
corpo
indolenzito, Lidia si sistemò meglio sul cuscino.
«Bene» rispose, con un filo
di voce, cercando di sbilanciarsi il meno possibile.
Donna Erin si sporse verso di lei
e, posatale una mano
su uno zigomo, le fece voltare delicatamente il viso nella sua
direzione,
spingendole i capelli dietro alle orecchie.
«Sicura?» insistette, osservandola
con un’espressione vagamente preoccupata.
Perché
insiste tanto? Si
chiese Lidia,
mentre l’ansia iniziava a lambirle lo stomaco. Non aveva
alcuna idea di cosa
volesse sentirsi rispondere e la cosa la innervosiva.
«Io… un po’…» A
corto di
parole, Lidia arrossì e fece per mettersi seduta. Non appena
mise il peso sulle
gambe, però, il pulsare sordo del ginocchio destro la
convinse a desistere e ad
adagiarsi di nuovo sul guanciale con una smorfia di dolore. Nel vedere
la sua
espressione, la sacerdotessa sospirò.
«Capisco» mormorò, prima di sfiorarle il
mento con la punta delle dita. Quando le dita morbide della donna
toccarono la
sua pelle, la fanciulla avvertì una fitta bruciante che la
fece sussultare. Confusa,
Lidia si portò una mano al volto e si stupì nel
sentirlo caldo e tumefatto.
Ma
cosa…
Ignorando – o forse
interpretando male – la sua
espressione perplessa, Erin le accarezzò i capelli.
«Mi dispiace davvero tanto,
Lidia» mormorò, triste. «A volte gli
uomini sono delle vere bestie. Non conosco
bene tuo marito, ma non avrei mai pensato che… arrivasse a
tanto. Gli parlerò
io, non preoccuparti.»
Lidia aggrottò le
sopracciglia, confusa dalle parole
della donna. A cosa si stava riferendo, esattamente? Seguendo lo
sguardo verde
della sacerdotessa, la giovane si toccò di nuovo il mento e,
improvvisamente,
comprese l’equivoco. Doveva esserci un livido, lì,
che faceva bella mostra di
sé sul suo volto. Facendo rapidamente mente locale, Lidia
ricordò la
circostanza in cui se l’era procurato: doveva essere stato
durante la sua fuga,
quando era atterrata maldestramente sul ramo, sbucciandosi le mani, il
ginocchio e, evidentemente, anche il mento. Ma
lei questo non lo sa e, a quanto pare, crede che me l’abbia
fatto Ulf.
Istintivamente, la ragazza si
coprì con le mani il
punto offeso, guardando la sacerdotessa in silenzio. Non poteva
spiegarle la
verità, ovviamente, ma, allo stesso tempo, sentiva che era
un errore lasciarle
credere che il germanico le avesse volontariamente fatto del male. Troppe bugie, si disse, mentre un
brivido freddo le scivolava lungo la schiena. Troppe
bugie, le cose rischiano di sfuggirmi di mano... Cercando di
tamponare in qualche modo la situazione, la ragazza
balbettò: «N-no, è stata
colpa mia.»
Donna Erin scosse la testa con
decisione. «Non dire
mai una cosa del genere!» la redarguì. «È stato lui
a
farti questo. È stato lui
a sbagliare
– e, credimi, adesso glielo faccio io, un discorsetto. Ci
penserà due volte,
prima di…»
«No, no, un
attimo!» Nel tentativo di correre ai
ripari, Lidia protese entrambe le braccia in direzione della
sacerdotessa, come
per placarla e farla desistere dai suoi intenti.
«Non… come dire... È stato un
incidente, non ha fatto apposta… poi le cose sono andate
meglio.»
La sacerdotessa scosse il capo,
palesemente poco
convinta dalle parole della ragazza, e la fissò con una tale
aria di
compatimento che Lidia sentì un briciolo di irritazione far
capolino tra il
nervosismo e lo smarrimento. Perché nessuno sembrava
intenzionato a rispettare
la sua opinione? Inspirando profondamente, la giovane sostenne lo
sguardo della
donna e, dopo pochi, lunghissimi istanti, Erin chinò il
capo, piegando le
labbra in un sorriso un po’ malinconico. «Dici
davvero?» Lidia annuì, irrigidendo
inconsciamente la mascella e rispecchiando così
l’espressione che aveva visto
tante volte sul volto di suo padre. «Allora credi di poter
sopravvivere a
questa convivenza?»
«Andando avanti, le cose
andranno meglio» rispose la
ragazza. La sua voce suonò meno ferma di quanto le sarebbe
piaciuto, ma Lidia
non abbassò lo sguardo, cercando di dimostrare una sicurezza
che non provava
affatto. Se non altro,
pensò,
cercando di farsi coraggio, perché
questa
“convivenza” durerà meno di quello che
credi tu, “mia cara”.
La sacerdotessa la
studiò ancora per una manciata di
secondi, poi il suo sorriso si allargò e le sue spalle si
rilassarono. «Non ti
nascondo che è un sollievo sentirtelo dire» le
confidò. «Perché, per quanto non
sopporti gli uomini che alzano le mani sulle proprie donne, non avrei
avuto
l’autorità per scogliere questo matrimonio
così rapidamente e, quindi, avrei
potuto fare ben poco per te.»
Vedendo il pericolo allontanarsi,
la fanciulla si
sforzò di rivolgerle un sorriso grato. «Non ce ne
sarà bisogno» mormorò.
La donna annuì.
«Lo sapevo, che eri più forte di
quello che sembravi» le disse, con tono
d’approvazione. Alzandosi in piedi, la
sacerdotessa rivolse un piccolo cenno del capo in direzione della
ragazza.
«Beh! Ero passata solo per vedere come stavi. È
ancora presto, ti lascio
riposare ancora un po’: tra non molto, Donna Edda dovrebbe
salire per aiutarti
a prepararti. Noi due ci vedremo più tardi.»
Così dicendo, la
sacerdotessa uscì dalla stanza e
Lidia si chiese se la donna avesse veramente a cuore il suo benessere o
se,
invece, stesse semplicemente seguendo una scaletta determinata in
precedenza.
Non era la prima volta che aveva l’impressione che Donna Erin
recitasse un
ruolo, tenendo ben nascosti i suoi veri pensieri. È
davvero una persona strana, si disse la fanciulla, spostando
lo
sguardo fuori dalla finestra. Per quanto ci provasse, sentiva di non
riuscire a
inquadrarla: c’erano dei momenti in cui avvertiva di potersi
fidare di lei, ma,
più in generale, non riusciva a scacciare la sensazione che
nella sacerdotessa
ci fosse qualcosa di decisamente anomalo.
Lidia non aveva pensato di potersi
addormentare di
nuovo, dopo la visita di Donna Erin, ma, quando la porta si
spalancò di nuovo,
riscuotendola dal dormiveglia nel quale era piombata, la luce del sole
aveva
assunto una tonalità decisamente più calda.
Sbattendo più volte gli occhi per
liberarli dall’appannamento dovuto al sonno, Lidia si
trovò a fissare il volto
di Donna Edda, l’anziana nonna di suo marito.
«Grüezi» proclamò la vecchia,
con
voce raspante, avvicinandosi a lei con un passo un po’
traballante. Lidia la
guardò con una punta di sospetto: anche se di fatto non era
molto più alta di
lei, c’era un qualcosa di arcigno e imponente in quella donna
che vestiva
completamente di nero e si aggirava nella stanza come se ne fosse la
padrona.
Quando la giovane romana non
reagì al suo saluto, la
donna la osservò con gli stessi occhi di ghiaccio che aveva
lasciato in eredità
a due dei suoi tre nipoti e poi, barcollando leggermente, si
avvicinò al letto,
posandovi sopra degli abiti accuratamente piegati.
«Mettili» disse, indicando i
vestiti.
Almeno
sa il
latino,
pensò la fanciulla,
soppesando con lo sguardo il fagottino di abiti dai colori cupi. Non
osando
disobbedire a quella donna dal modo di fare così perentorio,
Lidia scivolò
fuori dal letto e mosse qualche passo in direzione dei vestiti che le
erano
stati indicati, prima di avvedersi del proprio errore. Quando era
andata a
dormire, la sera prima, si era liberata della veste rovinata, ma non
della
biancheria intima – cosa piuttosto insolita, se si
considerava che, in teoria,
quella appena trascorsa avrebbe dovuto essere la sua prima notte di
nozze.
Donna Edda scrutò con sospetto il suo abbigliamento, poi
passò accuratamente in
rassegna i lividi e le escoriazioni che costellavano il corpo della
ragazza.
Merda, pensò Lidia, provando
per una frazione di secondo il
comico impulso di coprirsi. È
inutile,
realizzò, con una fitta di preoccupazione. Ormai
il guaio è fatto.
Con una voragine
all’altezza dello stomaco, la
fanciulla cercò gli occhi della germanica e, per quella che
le parve
un’eternità, la vecchia sostenne il suo sguardo.
«Dä Trottel» borbottò poi,
scuotendo il capo. Anche se Lidia non riuscì a decifrare
quelle parole, il tono
era piuttosto inequivocabile. Dopo qualche istante di
immobilità, Lidia iniziò
a sentirsi stupida e così si infilò di tutta
fretta la veste che Donna Edda le
aveva portato, notando con un certo stupore che era più
corta di quelle che era
solita portare e che era corredata da un grembiule.
Non va
bene,
notò Lidia, con il cuore in gola. La veste le copriva
a malapena le ginocchia e i lividi che segnavano la sua pelle erano
perfettamente visibili. Donna Edda dovette giungere alla stessa
conclusione
perché, inaspettatamente, alzò una mano nella
direzione della ragazza. «Resta»
le disse, prima di infilare la porta e sparire.
E
adesso
dov’è andata? Non a chiamare qualcuno, spero! Pensò nervosamente la
giovane, mordendosi un labbro.
L’inquietudine non fece
in tempo ad assalirla che,
dopo pochi minuti, Donna Edda tornò nella stanza, reggendo
tra le mani un paio
di spesse calze grigie. «Per te» le disse,
porgendogliele. Leggermente
esitante, ma comunque grata per la possibilità di celare
quei segni rivelatori,
la fanciulla si infilò gli spessi calzettoni di lana,
storcendo la bocca quando
il tessuto ruvido le fece pizzicare ferocemente la pelle delicata delle
gambe. Quando
fu completamente vestita, Lidia notò con una certa sorpresa
di assomigliare a
una versione più giovane – e solo leggermente
più variopinta – della vecchia
Edda: l’anziana donna la squadrò con attenzione,
prima di fare un breve cenno
d’assenso, soddisfatta.
In quel mentre, qualcuno
bussò alla porta e irruppe
nella stanza prima che le due donne facessero in tempo a dargli il
permesso. «Disturbo?»
chiese Hermann, chiudendosi la porta alle spalle. Lidia
restò a fissarlo,
stupita, mentre Donna Edda si riprese rapidamente dalla sorpresa e gli
riversò
contro un fiume di parole di cui la giovane romana non comprese
assolutamente
nulla. Il ragazzo sollevò le mani, come per difendersi
dall’aggressione verbale
della nonna, che infine puntò un dito contro Lidia e
fissò il nipote con tutta
l’aria di qualcuno che si aspetta una risposta.
La risposta – che anche
la ragazza capì essere
malamente abbozzata – di Hermann non dovette piacerle
più di tanto, però,
perché l’anziana donna lo afferrò per
la camicia e gli scandì in faccia
qualcosa che lo fece annuire freneticamente. Lidia non fece in tempo a
stupirsi
dell’insospettabile forza della vecchietta, che quella
lasciò la presa e infilò
la porta.
«Uff»
sbuffò Hermann, lasciandosi ricadere sulla sedia
su cui era ancora riposta la veste che Lidia aveva indossato il giorno
prima. «Quella
donna è un mastino, quando ci si mette!»
La ragazza lo guardò di
sottecchi. «Cos’ha detto?»
Lui sorrise, vagamente imbarazzato.
«Si chiedeva quali
attività ti avessero
lasciato con ancora
le mutande addosso e una serie di strane
ferite su braccia e gambe. Ha detto che più che una novella
sposa sembri un
monello di sette anni che è andato a costruire capanne tra i
rovi…»
Lidia deglutì,
abbassando gli occhi; e il ragazzo
ridacchiò. «A proposito, cosa cavolo hai fatto in
faccia?»
La giovane si tastò con
delicatezza il mento, poi
sollevò le spalle. «Non lo so» rispose.
«Non mi sono ancora vista.»
«No?»
sghignazzò Hermann. «Ecco qui!»
Così dicendo,
estrasse uno specchietto dal cassetto dello scrittoio e lo
lanciò a Lidia. Prendendolo
al volo, la ragazza vi si specchiò. «Oh,
cavolo…» mormorò, inclinando
leggermente il capo per vedere meglio l’entità del
danno.
«Una bella botta,
eh?» commentò il ragazzo. Lei annuì.
«Devo essermela fatta quando ho sbattuto la faccia contro il
ramo» rifletté,
posando lo specchio sul letto.
Hermann scosse il capo, con un
sorriso un po’ triste. «Adesso
capisco perché la nostra sacerdotessa se ne va in giro a
insultare Ulf…» sospirò,
storcendo la bocca.
Lidia si portò le mani
al volto, sospirando,
abbattuta. «Mi dispiace» mormorò.
«Non volevo fare tutto ‘sto casino. Pensavo
di essere riuscita a dissuaderla, ma, a quanto pare, mi
sbagliavo.»
«Devi esserle
particolarmente simpatica» sospirò Hermann,
alzando gli occhi al cielo. «In effetti, sembra essersi presa
particolarmente a
cuore tutta questa faccenda… ti lascio immaginare
l’umore di mio fratello. Tra
l’altro: lo sai che Ulf ha litigato con Unna?»
Lidia si voltò verso di
lui, guardandolo con un
sopracciglio sollevato: la notizia la lasciava completamente
indifferente. «E
allora? Se lei non mi avesse detto quelle cose…»
Il ragazzo la interruppe.
«No, Ulf ha litigato con
Unna» scandì. «Loro due non
litigano mai.
Saranno passati almeno quindici anni dall’ultima volta che si
sono urlati
contro.»
«Stai dicendo che hanno
litigato per causa mia?» chiese
la fanciulla, beffarda. «Dovrei per caso sentirmi
onorata?»
Hermann sbuffò.
«No, sto solo dicendo che potresti
almeno cercare di apprezzare un po’ di più mio
fratello. Non so perché, ma ho
come l’impressione che tu lo odi: non se lo merita,
credimi.»
«Apprezzarlo,
dici?» lo provocò Lidia, più sprezzante
di quanto avrebbe voluto. «Apprezzarlo sarà
davvero difficile, data la
situazione in cui mi trovo. Però non lo odio»
ammise, dopo una breve pausa.
«Non mi piace, mi è antipatico e, se qualcuno mi
offrisse un modo per
tornarmene a casa mia, senza di lui, lo accetterei al volo…
però, forse, è
possibile che io l’abbia giudicato un po’ male. Se
potessi tornare indietro,
non scapperei più, credo.»
Il ragazzo la guardò
come se non si fosse aspettato
quell’ammissione. «Be’, è
già qualcosa. Vuoi dire che potreste almeno cercare
amici?»
«Vuol dire che
cercherò di vivere civilmente con lui e
di dargli un po’ più di fiducia» si
affrettò a correggerlo lei. «Nei limiti del
possibile, si intende.»
Il viso di Hermann si
accigliò. «Non potresti
sforzarti un po’ di più?»
Lidia ricambiò lo
sguardo con la stessa intensità. «Mi
sto già sforzando abbastanza, credimi»
ribatté, dura. «Del resto vorrei vedere
te. Presto potrebbe capitare anche a te di dover sposare una donna che
non ami
e non conosci.»
«Oh,
c’è tempo» la informò
allegramente il ragazzo,
ritrovando un tono più leggero. «Sono ancora
troppo giovane per sposarmi, io!»
Lei lo soppesò con
un’occhiata critica. «Perché,
quanti anni hai?» Era già più alto di
lei, aveva le spalle squadrate e il corpo
agile di un uomo nel pieno delle forze: anche se era chiaro che era
più giovane
di Ulf, non poteva essere poi così
giovane
da ritenersi al sicuro da un matrimonio forzato.
«Quindici»
replicò prontamente Hermann, alzando le
spalle.
Lidia non riuscì a
nascondere la sua sorpresa e il
ragazzo scoppiò a ridere. «Perché, me
ne davi di più?»
«Sì»
ammise lei, sbattendo più volte gli occhi,
stupita. Improvvisamente si sentì un po’ stupida
per essersi quasi invaghita di
un ragazzo tanto più giovane di lei. Quindici
anni, si disse, scuotendo la testa, non
sono proprio brava a giudicare l’età degli uomini.
«È che noi
germanici siamo uomini veri!» si pavoneggiò
il giovane, ignaro dei suoi pensieri. «Non come i vostri ragazzini giù a Sud.»
La ragazza sbuffò,
divertita. «Oh, non preoccuparti»,
lo prese in giro, senza riuscire a nascondere un sorriso, «ho
solo preso un
abbaglio. Adesso che ti sento parlare, vedo chiaramente che sei
praticamente un
bambino.»
Hermann avvampò, punto
nell’orgoglio. «Ehi!» si
lamentò. «Non sono un bambino!»
Lidia fece schioccare la lingua,
ironica. «Se lo dici
tu…»
Il ragazzo la osservò,
inclinando la testa di lato. «Comunque
sono contento di vedere che il tuo umore è migliore del
previsto» disse, con un
sorriso. «Viste le premesse, quasi mi aspettavo di trovarti
in lacrime, magari
sotto shock.»
Bastò quella
considerazione a privare Lidia del buon
umore che la conversazione con Hermann le aveva procurato.
«Già» mormorò,
atona. «In realtà mi sto sforzando di concentrarmi
sul presente, ma non è
facile… e il non sapere quello che mi aspetterà
quando i miei genitori faranno
ritorno a Roma non fa che peggiorare la situazione.»
«Non
preoccuparti» la rassicurò Hermann. «So
che
probabilmente non ti sarà di grande aiuto sentirtelo dire,
ma vedrai che andrà
tutto bene: basterà fare un passo alla volta e non
preoccuparsi troppo del
futuro.» Lidia gli offrì un debole sorriso di
circostanza e il ragazzo si portò
una mano alla fronte, come se si fosse improvvisamente ricordato di
qualcosa di
importante. «Ah, che scemo, che sono! Mi stavo dimenticando
di dirti che è ora
di scendere di sotto. Il pranzo è quasi pronto e devi presenziare.»
Lidia deglutì,
improvvisamente a disagio. «Niente
colazione?» chiese.
«No, oggi no»
spiegò Hermann. «Ormai è quasi
mezzogiorno.» Sorpresa, Lidia guardò fuori dalla
finestra, rendendosi conto con
stupore che il sole era effettivamente alto nel cielo. Il
tempo è volato, pensò. «Qui
serve un orologio» borbottò. Aveva
dormito praticamente tutta la mattina: non era il modo migliore per
affacciarsi
alla sua nuova vita.
Hermann scosse la testa, deciso.
«È di pessimo gusto
mettere un orologio in camera da letto» la
informò, con il tono di chi esprime
una banalità. Lei lo fissò, senza capire: non ci
vedeva niente di sbagliato nel
desiderio di avere sempre sotto controllo lo scorrere del tempo.
«E come si fa
a sapere quand’è ora di alzarsi, senza
sveglie?» obbiettò.
«Mai sentito parlare del
canto del gallo?» la
punzecchiò il germanico. All’alba,
pensò desolata Lidia, che odiava alzarsi la mattina presto. Un’altra abitudine che dovrò
cambiare,
immagino.
«Dài,
forza!» la spronò Hermann, balzando in piedi e
porgendole una mano. «Non è educato far aspettare
i propri ospiti.»
***
La sala da pranzo era,
fortunatamente, poco affollata.
Quando Lidia fece il suo ingresso, le uniche persone presenti erano la
vecchia
Edda, che si affaccendava attorno ai fornelli, e Ulf, seduto al tavolo.
«Oggi siediti»
le disse l’anziana germanica,
indicandole il tavolo con un attrezzo da cucina di cui Lidia non
conosceva il
nome. È una spatola? La
ragazza si
lasciò scivolare sulla panca accanto a Ulf, chiedendosi se
in quel posto
avessero qualcosa contro le sedie tradizionali
e osservando con la coda dell’occhio suo marito. Quando si
era seduta al suo
fianco, l’uomo le aveva dato un’occhiata distratta,
ma improvvisamente si girò
verso di lei per osservarla meglio. Nei suoi occhi Lidia lesse
chiaramente una
domanda e Ulf aprì e chiuse la bocca un paio di volte,
alzando la mano come per
sfiorarle il viso. Poi le lanciò un’occhiata
storta.
Lidia abbozzò un
sorrisetto di scuse e istintivamente
si coprì il livido con una mano, mentre Donna Edda li
osservava con aria critica.
Ulf passò più volte lo sguardo tra le due donne e
forse avrebbe detto qualcosa,
se sua nonna non l’avesse preceduto. Ancora una volta, la
ragazza non comprese
il significato di quelle parole e fu quasi sul punto di chiedere a Edda
di
usare una lingua che anche lei potesse capire, ma la situazione le
pareva già
abbastanza delicata così com’era.
La
vecchia sa,
si disse, con una smorfia. Su questo non ci
sono dubbi. Poteva essere in là con
l’età e avere
dei problemi a muoversi, ma la fanciulla sospettava che la mente della
germanica fosse ancora perfettamente funzionante. Quando la donna
abbandonò
momentaneamente la stanza per andare a prendere qualcosa, Ulf non perse
tempo. «Come
fa a sapere che non abbiamo…» chiese, chinandosi
su Lidia e lasciando sfumare
la frase.
La ragazza arrossì
appena alla domanda, ma non c’era
tempo per l’imbarazzo. «Non ho potuto
evitarlo» si giustificò. «Mi ha fatto
alzare e ha visto che ero vestita e che ero piena di lividi e di
graffi... avrà
fatto due più due, immagino.»
«Perfetto»
ringhiò Ulf, abbassando lo sguardo sul
tavolo.
«Credi che lo
dirà in giro?» chiese con un filo di
voce la ragazza. Lui scosse il capo. «Non credo,
no» mormorò. La sua
espressione non piacque a Lidia: malgrado le sue parole,
l’uomo non pareva del
tutto sicuro di ciò che aveva detto. «Non penso
che mi metterebbe nei guai solo
per il gusto di farlo» continuò il germanico.
«Però devi stare più attenta, da
adesso in poi.»
Lidia annuì.
«Se tengo tutto coperto, nessuno vedrà
niente» ragionò, credendo di chiudere
così il discorso. L’uomo però
continuò a
fissarla. «Che c’è?»
sussurrò lei, cercando di sostenere il suo sguardo di
ghiaccio. «Grazie per questo» sibilò
lui, di rimando, puntandole un dito sul
mento. Lidia non trattenne un sibilo di dolore. «Non ho fatto
apposta!» si
lamentò, lanciandogli un’occhiata velenosa.
«Pensano tutti che ti
abbia picchiata!»
Nell’udire quelle parole,
Lidia provò una strana
sensazione allo stomaco. «Tutti
chi?»
chiese. «Tutti quelli a cui quella stronza
di una sacerdotessa è andata a dirlo.» La ragazza
lo fissò, soppesando le sue
parole. «Perché la odi così
tanto?» indagò, trovando finalmente il coraggio
per
risolvere quel dubbio che la tormentava ormai da qualche giorno. Ulf
scosse il
capo, serrando con forza la bocca.
Non
vuole rispondere,
comprese Lidia. Quella scoperta solleticò
ancora di più la sua curiosità e diede nuova
linfa ai suoi sospetti circa
l’esistenza di un’altra donna, tuttavia il ritorno
di Donna Edda le impedì
ancora una volta di approfondire la questione. Con una punta di
sgomento, la
ragazza si accorse che la vecchia non era sola: c’erano i
suoi genitori, con
lei, e anche il padre di Ulf. Dopo qualche istante comparve anche
Hermann, che le
rivolse un sorriso di incoraggiamento. Manca
solo la strega, notò Lidia, con una punta di
nervosismo.
«Padre, madre!»
li accolse Lidia, alzandosi in piedi
com’era solita fare. «E… ehm…
signore?» Non aveva idea di quale fosse il titolo
esatto con il quale rivolgersi a suo suocero, un dubbio che avrebbe
dovuto
risolvere in fretta.
«Lidia!»
esclamò Donna Giulia, precipitandosi al suo
fianco e abbracciandola sopra al tavolo. «Oh, Dèi,
che cosa ti è successo?» le
chiese, l’angoscia evidente nella sua voce.
E
adesso come
me la cavo?
Si chiese nervosamente Lidia,
alzando lo sguardo su Ulf, in cerca di aiuto. L’uomo stava
però valutando la
reazione di suo padre e non gliene fornì alcuno. La
fanciulla spostò allora lo
sguardo sul Senatore Prisco e vide che stava guardando Ulf con
un’espressione
che non gli aveva mai visto in viso. Merda,
merda, merda… non era fine, ma era
l’unico – inutile – pensiero che la
ragazza riuscì a formulare in quella situazione tanto
delicata.
«No, madre»
disse, cercando di riscuotersi e
afferrando le mani di sua madre, che stavano toccandole convulsamente
il viso.
«Non è niente.» Si trattava di una
spiegazione troppo scarna per rassicurare
Donna Giulia. «Come sarebbe a dire che non
è niente!» ribatté la
matrona, con la voce leggermente tremante. «Guarda
qui!»
Ma
porca
vacca! Si
disperò Lidia. Possibile che siano
tutti così cretini da
non rendersi conto che è un’abrasione, non una
botta? Non che potesse
andare a raccontare ai quattro venti quello che era successo, ma era
piuttosto
assurdo che la vecchia Edda fosse stata l’unica a indovinare
la verità.
Stringendo più forte le mani di sua madre, Lidia
cercò i suoi occhi. «Mamma!»
sibilò, abbassando la voce e
usando un termine meno formale. «Non è niente.
Davvero!»
Donna Giulia smise un attimo di
percorrerle il volto
con le mani, prima di sfiorarle il livido sul mento.
«Ma…» mormorò, confusa. Lidia
scosse il capo, guardando sua madre negli occhi.
«Fidati» sussurrò, cercando di
non farsi sentire da suo padre e, soprattutto, dal suocero.
«Non ti devi
preoccupare. È tutto a posto.»
O quasi, aggiunse mentalmente, ma
non
era il caso di far preoccupare ulteriormente sua madre.
Donna Giulia spostò
allora lo sguardo su Ulf, che
chiuse per un secondo gli occhi e scosse appena il capo, con aria
stanca. La
donna si rialzò dalla sua posizione semi distesa e, con lo
sguardo di qualcuno
che non capisce qualcosa di importante, retrocedette verso suo marito.
L’uomo
fece per partire a sua volta all’attacco, ma lei lo
bloccò dolcemente,
posandogli una mano sul braccio. Il Senatore si voltò con
uno sguardo feroce
verso la donna, ma Giulia scosse appena il capo. Allora,
l’uomo fece passare lo
sguardo tra Ulf e Lidia, improvvisamente sospettoso.
«Per
favore» disse
silenziosamente Lidia, sperando che suo padre cogliesse la sua
preghiera e
lasciasse cadere l’argomento. Il Senatore si
accigliò e si ritrasse,
lanciandole uno sguardo che alla ragazza parve quasi arrabbiato. Che gran novità, considerò
la ragazza,
amaramente.
Quando stava iniziando a pensare
che la situazione
fosse stata tamponata in modo relativamente soddisfacente, la voce
secca di
Gefrid la fece voltare di scatto verso il germanico, che fino a quel
momento
era rimasto in silenzio. Parlò nel suo dialetto natio, per
cui, ancora una
volta, Lidia fu esclusa dalla conversazione, ma quello che disse fece
sussultare Hermann e stringere rabbiosamente i denti a Ulf, mentre
Donna Edda
puntava il suo sguardo freddo sull’uomo più
anziano, senza però dire nulla.
La voce di Gefrid si fece
più dura, mentre faceva un
passo verso Ulf, che chinò il capo e non replicò.
In tutto quel discorso, Lidia
credette di cogliere soltanto il nome di Unna,
ma non occorreva parlare quella lingua o essere un genio per capire che
lo
stava rimproverando; e anche in modo piuttosto deciso.
Quando ebbe finito il suo
discorsetto, l’uomo
imbracciò due stampelle e si avviò fuori dalla
porta, seguito a ruota da
Hermann, che durante il discorso del padre si era torto nervosamente le
mani
per tutto il tempo. Quando i due scomparvero dalla loro vista, Donna
Giulia e
il Senatore si scambiarono uno sguardo, evidentemente indecisi sul da
farsi.
Dopo un attimo di indecisione, l’uomo fece un cenno a sua
moglie e, rivolgendo
un’ultima occhiata alla figlia, anche i due romani lasciarono
la stanza. Lidia
li udì parlottare in corridoio, ma le loro voci erano troppo
basse affinché lei
potesse afferrarne le parole.
Forse
hanno
deciso che lasciarmi qui non è una buona idea? La ragazza tremò, in
preda a sentimenti contrastanti.
Se da un lato desiderava disperatamente lasciare quel villaggio freddo
e umido
e tornarsene a casa sua, dall’altro sentiva che non era
quello il modo in cui
avrebbe voluto andarsene. Certo, tornare a Roma con il consenso dei
suoi
genitori sarebbe stato infinitamente più semplice, invece di
scappare via di
nascosto mettendo in pericolo se stessa e Tito, ma Lidia non poteva
fare a meno
di pensare di avere involontariamente fatto un torto a Ulf e, sebbene
avrebbe
voluto restare indifferente alla cosa, non poté fare a meno
di sentirsi
terribilmente in colpa nei confronti di suo marito.
Chissà
cosa
gli ha detto?
Si chiese, ripensando
all’espressione dura del suocero e a quella indecifrabile di
Ulf. In qualche
modo, sospettava che non si trattasse di una normale ramanzina, che
tutto
sommato non avrebbe dovuto toccare più di tanto una persona
con la coscienza
pulita. No, dev’esserci sotto
dell’altro.
Non appena ebbe formulato quel pensiero, Lidia
sentì qualcosa stringerle
fastidiosamente lo stomaco: anche se non era affatto sicura di volere
veramente
approfondire quella faccenda, si sentiva quasi in dovere
di farlo. Esitando appena, la giovane si voltò verso
l’uomo,
decisa a indagare, ma la sua espressione la fece rapidamente desistere.
Ulf
fissava ancora il tavolo, lo sguardo immobile e la mascella contratta,
i pugni talmente
stretti che le nocche gli stavano diventando bianche.
Il braccio di Lidia si mosse da
solo e, quasi inconsapevolmente,
la ragazza appoggiò la propria mano su quella rigida di Ulf.
Sorpreso da quel
contatto, l’uomo spostò lo sguardo su di lei e
Lidia strinse un po’ la presa,
prima di offrirgli un sorriso triste. «Scusa»
mormorò, sincera. Lui non rispose
e tornò a fissare la superficie del tavolo, ma poco alla
volta la sua mano si
rilassò e qualche secondo dopo sfiorò con il
pollice la punta delle dita della
ragazza. Sentendo quella specie di carezza lieve, Lidia si
rilassò. Non si era
nemmeno accorta di essersi irrigidita, ma era come se, sfiorandola, Ulf
avesse
accettato le sue scuse; e tanto bastò per farla sentire
più leggera.
Una volta messe in chiaro le cose,
Lidia si sarebbe
aspettata che Ulf ritraesse la mano, ma l’uomo non sembrava
intenzionato a
farlo e lei, in preda a un capriccio che la spinse a non cedere per
prima,
prese a giocherellare distrattamente con le sue dita, mentre la sua
mente
tornava rapidamente ai dilemmi di poco prima.
Cosa
succederà adesso? Dovrò tornare a casa? Potrò
tornare a casa? Oppure resterò
comunque
qui? Non so se loro possono decidere qualcosa o… Persa
nei suoi pensieri,
senza nemmeno rendersene conto, Lidia prese a picchiettare con
l’indice contro
le nocche dell’uomo, che a un certo punto allargò
le dita e poi le richiuse di
scatto attorno a quelle della ragazza. Sentendosi bloccare, Lidia
alzò lo
sguardo e incrociò quello di Ulf, che guardandola negli
occhi con un sorrisetto
storto strinse la presa sulle sue dita.
Beh? Con una smorfia di disappunto, la
ragazza strappò la
propria mano da quella dell’uomo, rivolgendogli uno sguardo
offeso che lo fece
sorridere più apertamente. Non
sapendo come interpretare la mossa del germanico – stava
forse giocando con
lei? – ma sentendosi comunque vagamente presa in giro, Lidia
sbuffò
rumorosamente e piazzò platealmente le mani giunte davanti a
sé, sul tavolo,
come a sfidare il giovane a toccarla di nuovo.
«Chende…»
La ruvida voce di Donna Edda la
fece sobbalzare,
mentre Ulf sospirava divertito e si lasciava ricadere contro lo
schienale della
panca. Lidia alzò lo sguardo sull’anziana donna e
vide che li guardava
scuotendo il capo: l’espressione era accigliata, ma alla
ragazza parve di
leggere nei suoi occhi chiari una sorta di affettuoso divertimento che
la
spinse a sorriderle.
La vecchia Edda era burbera e
anziana, ma, pensò
Lidia, averla come amica non le sarebbe dispiaciuto poi tanto.
***
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Capitolo 14 *** 13. Offerte ***
I giorni
successivi passarono in modo relativamente tranquillo, per Lidia. Anche
se entrambi
si rifiutavano di ammetterlo, la fanciulla era convinta che Ulf fosse
corso a
spifferare a Donna Edda della sua scarsa performance culinaria,
perché
l’anziana donna si era stabilita da loro quasi in pianta
stabile, tornandosene
a casa solo una volta che la cena era stata servita.
Contrariamente
alle sue aspettative, nelle due settimane successive alla partenza dei
suoi
genitori la ragazza non ebbe molte occasioni di passare del tempo con
suo
marito: il giovane, infatti, non aveva minimamente modificato la sua
routine
quotidiana e così usciva di casa la mattina presto,
facendovi ritorno solo
quando era ormai ora di cena. Lidia non sapeva bene cosa pensarne, di
quel
fatto: se da un lato la presenza di Ulf non aveva smesso di
innervosirla e
irritarla, dall’altro la ragazza non poteva negare di provare
una certa
curiosità nei suoi confronti.
Nonostante
i
pochi contatti avuti con il marito, però, Lidia non ebbe il
tempo per sentirsi
sola, perché Donna Edda la tenne ben impegnata in mille
incombenze domestiche.
Un giorno,
quando il sole aveva appena fatto capolino dalle creste nere,
l’anziana
germanica l’aveva trascinata fuori di casa e
l’aveva portata davanti a un
grande lavatoio di pietra, piazzandole in mano una tinozza piena di
panni
sporchi. La donna le aveva mostrato come immergerli
nell’acqua gelida,
strofinandoli poi sulla ruvida tavola di legno che correva
tutt’intorno ai
bordi della vasca inferiore, e sciacquandoli infine nella limpida vasca
superiore. Lidia aveva sempre amato l’acqua e, in un primo
momento,
l’incombenza non le era sembrata troppo pesante, ma, dopo
un’ora con le mani
tenute in ammollo, la ragazza aveva completamente perso la
sensibilità nelle
dita. Mentre lei era al lavoro, Donna Edda le era rimasta costantemente
accanto,
osservandola con la stessa acuta attenzione con cui un maestro osserva
un
alunno indisciplinato. Di tanto in tanto, scambiava qualche parola con
le
comari di passaggio, additandola al pari di una bestiola rara e
affascinante. Sotto
a quell’esame scrupoloso e sfacciato, Lidia si era sentita
terribilmente a
disagio, almeno fino a quando una bambina decisamente goffa –
aveva lasciato
cadere il sapone sul fondo della vasca per ben tre volte –
era arrivata e aveva
catturato l’attenzione del gruppetto di spettatrici.
Un altro
giorno, Donna Edda l’aveva portata in una grande stalla in
cui erano radunate
almeno una cinquantina di capre e, dopo averla presentata ai due
ragazzetti che
gironzolavano nei paraggi, le aveva mostrato come mungere le bestie:
impresa
tutt’altro che semplice, dal momento che gli animali
scalpitavano sotto alle
sue mani inesperte e, in alcuni casi, avevano addirittura deciso di
utilizzare come
gabinetto il secchio destinato a contenere il latte. Quando Lidia era
riemersa
dalla stalla, respirando a fondo per riaversi dall’odore
pungente al quale non
era abituata, Donna Edda non le aveva dato tregua e l’aveva
fatta entrare
nell’edificio nel quale erano ricoverate le mucche, che a
Lidia parvero gigantesche
e pericolose, con le loro corna acuminate e le loro zampe possenti.
Nemmeno la
vista dei vitelli appena nati, con i loro occhi enormi e pieni di
meraviglia,
era stata sufficiente a rinfrancare la fanciulla, che si era
categoricamente
rifiutata di avvicinarsi alle vacche. L’espressione di
disappunto con la quale
Donna Edda aveva accolto quella presa di posizione aveva fatto capire a
Lidia
che l’anziana germanica era abituata a essere obbedita in
tutto e per tutto.
«Domani ancora» le aveva infatti detto, minacciosa,
decisa a far superare a
Lidia quella che considerava una paura sciocca.
Le cose da
fare non mancavano nemmeno in casa e in giardino, naturalmente: la
ragazza si
era spezzata le unghie strappando le erbacce dall’orto, si
era punta i
polpastrelli rammendando gli abiti, si era distrutta le braccia nel
vano
tentativo di pulire i vetri dell’intera casa e aveva passato
un’intera giornata
spazzando il pollaio sotto allo sguardo scettico dei polli che vi
risiedevano.
L’attività che, in assoluto, dava più
grattacapi a Lidia, rimaneva però la
cucina. «Non
è normale» aveva decretato
Donna Edda di fronte all’ennesima pentola di verdure
bruciate. Lidia si era
chiesta se la donna volesse dire che non era normale che le verdure
bruciassero
così rapidamente, o che fosse lei, Lidia, a non essere
normale… qualcosa le
faceva presagire che la seconda ipotesi fosse la più
corretta.
Anche se
le
giornate passate in compagnia dell’indomita vecchina erano
assolutamente
spossanti – talmente spossanti che, arrivata a sera, Lidia
non sognava altro
che infilarsi sotto le coperte e dormire – esse avevano
comunque un risvolto
positivo: non le lasciavano alcun tempo di pensare a ciò che
aveva lasciato a
Roma. Ogni volta che il pensiero dei suoi genitori o di Tito si
insinuava nella
sua mente, infatti, la fanciulla si distraeva quel tanto che bastava
per
commettere un errore che l’avrebbe costretta a ricominciare
da capo,
raddoppiando così il suo carico di lavoro.
Ciononostante,
c’era comunque un pensiero che si affacciava alla sua mente
con una certa
frequenza: Lucilla. Chissà come se
la
cava lei, pensava la fanciulla, rincorrendo le galline o
muovendosi con
circospezione alle spalle delle mucche. Per qualche motivo, era
convinta che la
vita coniugale di Lucilla fosse ben diversa della sua. Ovviamente:
lei è sempre stata più brava di me, in queste
cose.
Anche se era perfettamente soddisfatta di come andavano le cose tra lei
e Ulf, la
ragazza non poteva fare a meno di sentirsi sconfitta,
nell’immaginario
confronto con l’amica. A differenza di Lidia, lei non era mai
stata promessa ad
alcun giovane e questo le aveva permesso di flirtare con un buon numero
di
ragazzi e di diventare molto più esperta
dell’amica, nel campo della seduzione.
Accanto a lei, Lidia si era sempre sentita un po’ una bambina
e sapere che
nemmeno trasferirsi in un altro paese era servito per cancellare quella
sensazione di inferiorità era un po’ deprimente.
Ma non importa, pensava la ragazza,
riscuotendosi. Non era con Ulf, che doveva dimostrarsi pari a Lucilla:
quando
sarebbe fuggita con Tito e avrebbe finalmente preso in mano la sua
vita, si
sarebbe pienamente riscattata per tutti gli anni trascorsi
all’ombra
dell’amica.
***
Erding - Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 20 Maggio
Quando,
quella
mattina, Donna Edda non fece la sua comparsa, Lidia quasi si
preoccupò. Che le sia successo
qualcosa? Si chiese,
prima di ricordare vagamente quello che Ulf le aveva detto a cena, la
sera
prima. Oggi è il giorno in cui
fanno la
cerimonia delle offerte agli Dèi,
rammentò la ragazza, accigliandosi.
Suo marito
le
aveva spiegato che anche lei era tenuta a prendervi parte, ma non aveva
detto
nulla che giustificasse l’assenza della vecchia Edda.
Riflettendo per qualche
istante, Lidia ricordò poi che gli anziani del villaggio
erano tenuti a
presenziare all’intera cerimonia; e non solo alla parte
pubblica alla quale
erano invitati anche gli altri abitanti. Questo
significa che dovrò andarci da sola? Si chiese
nervosamente la fanciulla.
Quella mattina, Ulf si era recato in bottega come suo solito, senza
specificare
a che ora si sarebbe tenuta la cerimonia. Mi
ha detto che sarà di pomeriggio, ma il pomeriggio
è lungo…
Per tutta
la
mattina, Lidia cercò di occuparsi al meglio della casa e
degli animali da
cortile, ma la sua mente era altrove, le orecchie tese alla ricerca di
un
qualche rumore che le indicasse che la cerimonia stava per iniziare.
Spesso si
recava all’imbocco della strada che portava a casa sua,
cercando di scorgere
qualche movimento sospetto, ma la gente andava e veniva come al solito,
impegnata
nei compiti quotidiani, e sembrava che non ci fosse nulla di diverso
dagli
altri giorni.
Appena
dopo
l’ora di pranzo, il chiocciare sommesso delle galline la
allertò della presenza
di un ospite. Lidia, che stava sciacquando il piatto nel quale aveva
mangiato,
si asciugò in fretta le mani e uscì
nell’aia, sbiancando quando si trovò di
fronte Unna.
«Sei
ancora
così?» le chiese la donna, senza nemmeno
salutarla. «Va’ a metterti qualcosa di
pulito, la cerimonia inizia tra mezz’ora.»
La ragazza
si
passò addosso le mani, in preda all’agitazione.
«Sì, non mi sono preparata
perché Ulf non mi ha detto a che ora …»
«Muoviti!»
la
esortò secca Unna. «Non voglio arrivare in ritardo
per colpa tua!» Strega! Pensò
Lidia a denti stretti,
prima di girare sui tacchi e correre in casa. La ragazza si
sbatté la porta
alle spalle e si guardò bene dall’invitare la
cognata a entrare, lasciandola
invece ad aspettare sotto il sole. Quando ebbe indossato una veste che
aveva
portato con sé da Roma, Lidia scese di nuovo in cortile,
decisa a non lasciarsi
intimorire da Unna e dall’aperta ostilità che si
ostinava a dimostrarle. E perché,
poi? Si interrogò,
innervosita. E, in ogni caso, se stare
con me le pesa tanto, avrebbe tranquillamente potuto andare alla
cerimonia da
sola! Io mi sarei arrangiata! Si disse, dimentica dei
pensieri di poco
prima.
Quando
Lidia
la raggiunse, Unna sbuffò rumorosamente.
«Finalmente!» sbottò, prima di
lanciare uno sguardo scettico alla veste della giovane romana. Senza
staccarle
gli occhi di dosso, la germanica stirò le labbra in un
sorriso beffardo, poi
voltò le spalle alla cognata e si avviò lungo la
strada, lasciando a Lidia il
compito di seguirla. Mentre camminavano a passo spedito verso il bosco
che Ulf
le aveva mostrato qualche giorno prima, Lidia si rese conto che Unna
continuava
a lanciarle delle occhiate di soppiatto. Sulle prime cercò
di ignorarla, ma
dopo un po’ non riuscì a contenersi.
«Cosa c’è?» sbottò,
stupendosi del tono
deciso della sua voce.
Unna si
strinse appena nelle spalle e le rivolse di nuovo quel suo sorriso
storto che a
Lidia sembrava sempre un po’ derisorio. «E
così sei saltata dalla finestra» le
disse, in un tono che, se non fosse stato impossibile, la ragazza
avrebbe
creduto tradisse un minimo di ammirazione. «Più o
meno» replicò, senza
guardarla. «Mi sono anche fatta male. Per colpa tua, tra
l’altro.»
«Oh,
povera
cara» ribatté sarcastica la germanica.
Lidia le
lanciò un’occhiata carica di astio, ma dovette
abbassare lo sguardo davanti
agli occhi gelidi di Unna. «Perché mi hai detto
quelle cose?» le chiese, quasi
sussurrando.
La donna
esitò
per un breve momento. «Perché speravo che mio
fratello avesse abbastanza
cervello per fare le cose per bene e non correre rischi
inutili» ringhiò, prima
di aggiungere: «Non credevo fosse talmente idiota da fidarsi
di una romana.»
Unna non ama molto i romani. Le parole
di Ulf le tornarono in mente e, malgrado l’antipatia che
provava per la cognata,
Lidia fu attraversata da un brivido di curiosità.
«Perché non ti piacciono i
romani?»
Inaspettatamente,
la germanica si voltò a fissarla con ferocia. «Chi
te l’ha detto?» sibilò. Sbiancando,
la fanciulla si rese conto di aver commesso un errore e, in affanno,
cercò di
rimediare. «Nessuno», balbettò,
«è solo un’impressione che ho
avuto…»
Unna
storse le
labbra e, per una frazione di secondo, nei suoi occhi passò
un’ombra che la
ragazza non riuscì a riconoscere. Poi la germanica
arricciò le labbra in una
smorfia e il suo sguardo si fece più duro.
«Be’, in ogni caso non sono affari
tuoi, quindi evita di impicciarti» le ordinò, con
il tono di chi non intende
discutere oltre di un certo argomento.
«Va
bene»
disse Lidia, allontanandosi leggermente da lei e sollevando una mano,
sconfitta. Anche se la ragazza aveva deciso di non sfidare
ulteriormente Unna e
di lasciare cadere la questione, la reazione della germanica
l’aveva turbata.
Pur mantenendosi a una distanza di sicurezza da lei, Lidia la
osservò di
soppiatto, chiedendosi, non senza un certo turbamento, se in passato
fosse
accaduto qualcosa che avesse spinto la giovane donna a odiare
così tanto il suo
popolo. Anche se cercò di non pensarci, alla sua mente si
affacciarono delle
nozioni che aveva sempre cercato di ignorare, voci che parlavano di
quello che
facevano a volte i legionari nelle terre in cui si trovavano a
combattere, del
modo in cui trattavano le donne… con un moto di orrore,
Lidia accantonò quel
pensiero.
No, doveva
trattarsi di qualcos’altro. Anche se il passato del villaggio
in cui viveva
restava per lei piuttosto nebuloso, Lidia era ragionevolmente certa
che, in
quella regione, non si combattesse seriamente da molti anni –
se si
escludevano, naturalmente, le scaramucce che l’avevano
condotta lì. Il Legato
Libo le aveva assicurato che la situazione in paese era tutto sommato
tranquilla, il che significava che nessuno poteva considerarsi al di
sopra
delle leggi locali, nemmeno i soldati di Roma. Del resto, se qualcuno
avesse
davvero fatto quello a Unna, Lidia
dubitava che Gefrid sarebbe stato disposto ad accogliere una romana
nella
propria famiglia… e lo stesso discorso valeva anche per Ulf,
naturalmente: se
il legame che c’era tra lui e sua sorella era davvero
così forte come sosteneva
Hermann, il germanico non sarebbe certo stato così
comprensivo nei confronti di
Lidia, se la sua presenza gli avesse ricordato qualcosa di tanto
orribile.
E allora di cosa si tratta?
Lidia
dovette
conservare quell’interrogativo per un’altra volta,
perché erano ormai arrivate
al bosco sacro. L’area era delimitata da una recinzione di
filo spinato e i
cancelli che permettevano di accedervi non erano ancora stati aperti.
Al loro
esterno era radunata una discreta folla e, leggermente in disparte,
Lidia
scorse Ulf, che, a giudicare dai capelli spettinati e la camicia
spiegazzata,
doveva essersi lavato e rivestito di tutta fretta. Quando
l’ebbe individuato,
Unna si diresse verso di lui e, posata rapidamente una mano tra le
scapole di
Lidia, la sospinse bruscamente nella direzione del fratello, rischiando
di
farla inciampare. «È tutta tua» gli
disse, asciutta.
«Grazie»
borbottò
lui. La tensione tra i due era evidente e Lidia, che si era voltata per
lanciare un’occhiata velenosa alla cognata, si
immobilizzò, prendendosi qualche
istante per analizzare la situazione. Unna però non aggiunse
altro e,
stringendosi brevemente nelle spalle, si allontanò da loro.
Ulf emise un sibilo
basso, lasciando che il fiato gli fischiasse tra i denti, poi si
rivolse alla
moglie. «Allora?» le chiese, abbassando lo sguardo
su di lei. «Tutto a posto?»
Lei si
strinse
nelle spalle. «Immagino di sì»,
sospirò, «anche se ho provato a chiedere a tua
sorella perché non le piace la mia gente. Non l’ha
presa bene.» Ulf scosse il
capo, abbassando gli occhi a terra, e per una frazione di secondo la
fanciulla
fu tentata di insistere per ottenere da lui le risposte alle sue
domande, ma poi
desistette. Sospettava infatti che l’argomento fosse
delicato, qualcosa di cui,
con ogni probabilità, non si poteva parlare sulla pubblica
piazza, lì dove
chiunque avrebbe potuto sentirli. Inoltre, la freddezza di Unna e la
reticenza
di Ulf le provocavano una sgradevole sensazione allo stomaco, come
l’impressione di un’ombra, il presagio di un
pericolo, e la ragazza non era del
tutto convinta di volere veramente conoscere la verità.
Una
manciata
di minuti più tardi, i cancelli si aprirono e la gente
radunata all’esterno
iniziò a scorrere verso l’interno del bosco, con
l’andatura lenta, ma
inarrestabile, di un fiume placido. Gli abitanti di Erding non erano
molti, ma
il varco nella recinzione era stretto e per passare le persone erano
costrette
ad accalcarsi le une sulle altre. Senza una parola, Ulf
cercò la mano di Lidia
e la tenne stretta, impedendo alla giovane di venire risucchiata dalla
folla e
separata da lui.
La
fanciulla
si stupì della naturalezza di quel gesto e
ripensò alla paura che non molto
tempo prima l’aveva scossa al solo pensiero di sfiorarla,
quella mano: forse,
pensò con un sorriso, qualche progresso l’avevano
fatto. Forse aveva ragione
Hermann… forse, prima o poi, potremmo anche essere
amici. Quel pensiero le fece provare una curiosa sensazione
di calore
all’altezza dello stomaco e, senza pensarci, la ragazza
strinse ancora di più
la mano dell’uomo.
Il bosco
di
faggi non era molto grande e dovettero camminare solo una decina di
minuti per
arrivare a una radura tra gli alberi. Malgrado lo spazio fosse
piuttosto ampio,
la gente si accalcava lungo i margini: Lidia, che era rimasta un
po’ nelle
retrovie, si alzò sulla punta dei piedi, nel vano tentativo
di scorgere qualcosa.
Sfiorandole le costole con un gomito per attirare la sua attenzione,
Ulf la
condusse verso un modesto rialzamento del terreno, allontanandola dalla
calca,
poi le passò un braccio attorno alla vita per aiutarla a
restare in equilibrio
sul terreno scosceso. «Ci vedi?» le chiese,
chinandosi sul suo orecchio.
Lidia
annuì
distrattamente, l’attenzione tutta rivolta a quello che stava
accadendo al
centro della radura. Alcuni uomini stavano ultimando la costruzione di
un
piccolo edificio realizzato accatastando l’una
sull’altra delle strane pietre
verdognole. Incuriosita, la giovane ipotizzò che si
trattasse del forno di cui
le aveva parlato Ulf. «Che roccia è,
quella?» chiese Lidia che, sebbene non
fosse certo un’esperta di minerali, non aveva mai visto dei
sassi di quel
colore.
«Olivite»
spiegò lui. «Viene estratta insieme
all’argento, ma è fragile e non vale
niente. Non possiamo usarla nemmeno per costruire un capanno per gli
animali, è
così friabile che si sgretolerebbe subito.»
La
fanciulla
annuì, tornando a osservare la scena. Lentamente, quasi al
rallentatore, la
folla dall’altra parte della radura si aprì e
Donna Erin fece la sua comparsa,
seguita da due carri trainati da alcune coppie di robusti cavalli da
tiro. I
carri erano colmi di quella che a prima vista parve a Lidia semplice
roccia
grigia ed erano accompagnati da quattro uomini che li fermarono di
fronte alla
fragile costruzione di pietra verde. Gli uomini manovrarono allora
alcune leve
e la parte posteriore del primo carro si inclinò e si
aprì, scaricando il
contenuto all’interno di una specie di recinzione adiacente
al piccolo
edificio, nel quale, a giudicare dalla legna che vi era stata
ammucchiata,
sarebbe stato acceso il fuoco. Gli uomini ripeterono
l’operazione anche con il
secondo carro, poi condussero via i cavalli, che, per quanto grandi e
forti,
parvero felici di essersi liberati dal loro pesante fardello.
Quando i
carri
si furono allontanati, Lidia alzò il capo verso Ulf.
«E quello invece è…?»
chiese, indicando con un dito il materiale che era stato appena
depositato.
«Argento» spiegò l’uomo.
«Non puro, ovviamente.»
Nel
frattempo,
un gran numero di donne e bambini si stavano avvicinando al forno come
in
processione, aggiungendo il loro piccolo contributo al materiale che vi
era
appena stato collocato davanti: c’era chi offriva alcune
pellicce, chi degli
oggetti d’artigianato, chi dei monili e chi, semplicemente,
del denaro. Quel
particolare soprese Lidia: agli
Dèi
servono i soldi degli uomini? Si chiese, inarcando le
sopracciglia. Sebbene
si fosse ripromessa di affrontare quella faccenda con mente aperta e
libera dai
pregiudizi, quella scena le faceva pensare che, forse, lo scetticismo
di suo
marito non era del tutto immotivato.
Quando
anche
l’ultima offerta fu posata nel mucchio, Donna Erin, che fino
a quel momento era
rimasta un po’ in disparte, si portò davanti alla
bocca del forno e alzò le
braccia davanti a sé, facendo tacere il cicaleccio che aveva
riempito l’aria
fino a un istante prima. Fu allora che la vera cerimonia ebbe inizio e
Lidia
seguì con attenzione il discorso della Sacerdotessa,
cercando di cogliervi
qualcosa che giustificasse l’atteggiamento ostile di Ulf. Per
quanto si
sforzasse, però, nelle parole della donna non
trovò nulla di sospetto: anche
se, fino a quel momento, gli Dèi germanici erano stati degli
sconosciuti, per
lei, il modo in cui la Sacerdotessa li dipingeva glieli faceva sembrare
piuttosto
simili a quelli, più famigliari, venerati a Roma.
Erano
ormai
diverse decine di minuti che Donna Erin stava lodando l’opera
dei suoi Dèi,
esortando il popolo a essere grato e riconoscente per i doni che aveva
ricevuto
da loro, per la sapienza e la capacità di costruire tutte le
cose belle e
meravigliose che distinguevano l’essere umano dalla bestia.
In tutto ciò, Lidia
non ci vedeva nulla di strano: quello che faceva la donna, infatti, non
era né
più né meno di quello che facevano tutti i
sacerdoti che aveva incontrato fino
a quel momento. Se proprio avesse dovuto cercare una stranezza
nell’atteggiamento di Donna Erin, questa sarebbe stata
l’insistenza con cui ella
tornava sulla punizione divina che sarebbe caduta su coloro che non
avessero seguito
le leggi celesti. Lidia trovò particolarmente fantasiose le
descrizioni dei
poteri degli Dèi: la potenza del tuono, la pioggia di fuoco,
un vento talmente
forte da distruggere le città… immagini ad
effetto, indubbiamente, ma, ne era
abbastanza certa, null’altro che licenze poetiche.
Non era,
tra
l’altro, la prima volta che la fanciulla sentiva cose del
genere: ricordava
quando, poco più che bambina, aveva ascoltato la predica di
un vecchio
sacerdote con un occhio solo, un esaltato che aveva predetto
l’imminente fine
del mondo e l’avvento del regno degli Inferi sulla terra. Le
immagini forti,
molto simili a quelle evocate da Donna Erin, l’avevano
impressionata, ma il
tempo aveva ridimensionato le sue paure e le aveva insegnato a non
credere a
tutto quello che usciva dalla bocca dei sacerdoti. Anche se molti di
loro pensavano
di essere nel giusto, erano anch’essi esseri umani, ognuno
con la propria
fissazione. Era stato lo stesso Senatore Prisco, per sua natura un uomo
concreto e poco incline a credere a quello che non poteva toccare con
mano, a
esortarla a non prendere alla lettera l’insegnamento dei
sacerdoti.
Quando
Donna
Erin finì di parlare, Lidia si sentiva piuttosto perplessa,
dal momento che
nulla, di ciò che aveva sentito, le pareva in grado di
giustificare l’odio che
suo marito nutriva nei confronti della Sacerdotessa e, forse, della
religione
in generale.
Nel
silenzio
che seguì il suo discorso, però, la ragazza
avvertì l’avvisaglia di un
mutamento: quasi senza rendersene conto, durante la cerimonia Lidia era
scivolata con la schiena contro il petto di Ulf e l’uomo le
aveva cinto la vita
con un braccio. Quando Donna Erin si voltò verso il forno e
fece un cenno in
direzione dei due uomini che attendevano immobili ai lati della
costruzione,
Ulf si irrigidì e la presa attorno al corpo della giovane si
fece più salda.
Quando i due uomini accesero un paio di torce e si chinarono sulla
legna
raccolta all’interno del forno, la pressione del braccio del
germanico sul suo
stomaco si fece quasi fastidiosa e, stupita da quella reazione, Lidia
alzò lo
sguardo sull’uomo, in cerca di una spiegazione. Ulf
però la ignorò, tenendo gli
occhi fissi sulle fiamme che divamparono rapide, avvolgendo dapprima
gli
oggetti più piccoli e arrivando poi a lambire il grande
mucchio di argento. Con
un sibilo di dolore, la ragazza si dimenò e le sue mani
volarono al braccio di
Ulf, che subito allentò la presa, ma senza rilassarsi.
Che cosa gli prende? Si chiese, confusa.
Poteva capire che gli dispiacesse vedere andare in fumo quelli oggetti
– anche
se la reazione le pareva comunque esagerata – ma non era
forse quello che
accadeva ogni volta che si sacrificava qualcosa agli Dèi?
Date le
premesse, Lidia si aspettava che a quel passaggio ne seguisse un altro,
magari
più delicato e controverso, ma dopo qualche istante Donna
Erin batté le mani e
comunicò agli astanti, con un gran sorriso, che la cerimonia
era finita e che
erano liberi di tornare a casa. Delusa, Lidia tornò a
voltarsi verso Ulf, rigirandosi
nella sua presa fino a fronteggiarlo, ma lui stava ancora osservando la
Sacerdotessa,
che si era inginocchiata davanti le fiamme, con gli occhi chiusi e le
mani
compostamente posate sulle ginocchia.
«Ma
è tutto
qui?» gli chiese, sperando di attirare così la sua
attenzione. Quando l’uomo
non si riscosse, la fanciulla gli posò una mano sul petto.
«Ulf!»
L’uomo
abbassò
gli occhi, come se non si aspettasse di trovarsela davanti, poi
annuì. «Sì, è
tutto qui. Andiamo» disse, secco, staccandosi da lei.
Lidia lo
seguì
brevemente con gli occhi, presa in contropiede da
quell’atteggiamento così
brusco, poi, prima di rendersene conto, si ritrovò a
rincorrerlo e a infilare
un braccio sotto il suo, aggrappandosi a lui. L’uomo le
lanciò un’occhiata
sorpresa, ma non commentò, continuando a camminare.
«Che cosa ti prende?» gli
chiese la ragazza, cercando di tenere il passo.
«Dopo» disse lui, a bassa voce,
senza rallentare.
Non ci
misero
molto a uscire dal bosco e, mentre facevano per avviarsi verso casa, la
fanciulla
sentì una voce chiamarla. «Donna Lidia!»
Voltando
la
testa in direzione di quel richiamo, la ragazza scorse il Legato Libo
avvicinarsi a grandi passi. Non l’aveva più visto
dal giorno del suo matrimonio
e le venne istintivo sorridergli, lasciando il braccio di Ulf e
raggiungendo il
romano, a qualche metro di distanza. «Legato» lo
salutò. «È un piacere
rivederti.»
«Il
piacere è
mio, Donna Lidia.»
Nel
sentirsi
apostrofare in modo così rispettoso, la giovane sorrise di
nuovo. «L’ultima
volta che ci siamo visti mi chiamavi semplicemente Lidia» gli
fece notare.
L’uomo
annuì,
ricambiando il sorriso. «È vero, ma ora sei una
donna sposata, meriti più
rispetto.» Quinto la guardò con attenzione,
soffermandosi appena sull’ombra del
livido che era ancora un po’ visibile sul suo volto.
«Devo dire che ti trovo
bene» disse, dopo qualche istante. «Ti stai
abituando alla vita qui a Erding?»
La
fanciulla
chinò il capo, annuendo appena. «Non è
Roma, ma sì, mi sto abituando a vivere
qui. Poco alla volta, s’intende» disse, prima di
aggiungere, alzando di nuovo
lo sguardo sull’uomo: «A proposito, non ti ho mai
ringraziato per la tua
ospitalità e l’accoglienza che mi hai
riservato.»
Il Legato
si
schernì. «Spero di averti aiutata a sentirti un
po’ meno lontana da casa, Donna
Lidia.»
Lei
annuì. «Lo
hai fatto» lo rassicurò. «Mi
è di grande aiuto sapere di poter contare su di
te… forse un giorno riuscirò a pensare a questo
posto come a casa mia, se gli Dèi
lo vorranno, ma sono e resterò sempre romana.»
Quinto
annuì.
«So cosa intendi» mormorò, con un
sorriso un po’ triste. Poi si riscosse e i
suoi occhi scuri si accesero di una luce curiosa. «A
proposito di Dèi: cosa ne
pensi della cerimonia pagana?»
La
fanciulla
si strinse nelle spalle. «Non mi è sembrata molto
diversa da quelle romane, a
dire il vero. Devo dire che mi aspettavo qualcosa di
più… speciale.» Non appena
ebbe pronunciato quelle parole, Lidia si morse le labbra, chiedendosi
se avesse
forse detto troppo, ma Libo non parve badarvi.
Rivolgendole
un sorriso complice, il Legato ridacchiò. «La
nostra Sacerdotessa è molto
fervente, non trovi?» Lidia esalò lentamente,
incerta se parlare all’uomo dell’antipatia
che Ulf sembrava provare per la donna, ma la voce di suo marito la
richiamò. «Lidia!»
Sorpresa
dal
tono secco dell’uomo, la ragazza si voltò, notando
sul volto del germanico la
stessa espressione irritata che sembrava indossare permanentemente
durante i
primi giorni in cui l’aveva conosciuto. Mi
sa che oggi è di cattivo umore… pensò,
aggrottando la fronte. Voltandosi di
nuovo verso il romano, la fanciulla gli rivolse un sorriso di scusa.
«Devo
andare» mormorò. L’uomo alzò
le mani, come per dire che non intendeva
trattenerla, e dopo averlo salutato Lidia si affrettò a
raggiungere Ulf, che
subito riprese a camminare verso casa.
La ragazza
avrebbe voluto parlargli per capire quale fosse il problema, ma se
ormai si
sentiva a proprio agio a discutere con l’uomo quando era di
buon umore – o
anche quando si prendeva gioco di lei – Lidia aveva ancora
qualche remora ad
affrontarlo quando era palesemente arrabbiato. Non
so come prenderlo, dovette riconoscere con una smorfia,
mentre
in silenzio varcavano la porta di casa.
Ulf si
lasciò
cadere sulla panca accanto al tavolo e, anche se era ancora presto,
Lidia uscì
a cogliere un cespo di lattuga e, riempito una bacinella
d’acqua, iniziò a
pulirlo. Se vuole iniziare un discorso,
che lo faccia lui, pensò, senza alzare lo sguardo
dalle foglie verdi. Sono stanca di
rincorrerlo.
«Allora,
come
ti è sembrata la cerimonia?»
Oh, finalmente!
La
fanciulla
si strinse nelle spalle. «Noiosa» disse, fingendosi
disinteressata alla
questione. Ulf sbuffò, evidentemente poco soddisfatto dalla
sua risposta
stringata. «Non hai notato niente di strano?»
Posando
l’insalata sul tavolo, la ragazza incontrò il suo
sguardo. «No, sinceramente
no.» L’uomo si sporse verso di lei, guardandola
negli occhi. «Secondo te,
perché gli Dèi richiedono quelle
offerte?»
Lidia
esitò,
soppesando la risposta. «Non lo so» ammise.
«Immagino che sia una cosa
simbolica.»
Ulf storse
la
bocca. «Due carri carichi d’argento sono una cosa
simbolica?» la provocò. Di
nuovo, Lidia scrollò nuovamente le spalle. «Che
cosa stai insinuando?»
Invece di
rispondere, l’uomo si sporse verso di lei, guardandola negli
occhi. «Tu ci
credi, agli Dèi?» le chiese, piano. Colta alla
sprovvista, Lidia arrossì.
«Io…»
balbettò, incerta sulla risposta. «Io non lo so,
non sono mai stata molto
religiosa, ma credo che… credo che qualcosa ci sia. O
qualcuno, non lo so.»
La bocca
del
giovane si stirò in una smorfia scettica e la fanciulla
assottigliò gli occhi,
sospettosa. «E tu?» gli chiese. «Ci
credi, tu?»
Dopo un
istante, Ulf scosse il capo. «No» rispose, con
semplicità. Anche se già da
tempo Lidia sospettava che quella fosse la verità, una
risposta così diretta la
colse di sorpresa e la lasciò senza parole per qualche
istante. Davanti al suo
silenzio, Ulf si alzò in piedi e le si avvicinò,
piantando le mani sul tavolo e
incombendo su di lei. «Io credo che tutta questa storia delle
offerte non sia
altro che un modo per derubarci senza destare i nostri
sospetti» ringhiò, cupo.
Lidia lo
guardò sbattendo lentamente gli occhi e sentendosi un
po’ stupida. «Ma se danno
fuoco a tutto!» protestò, non riuscendo a vedere
la logica dietro alle
affermazioni di Ulf.
«Non
a tutto»
la contraddisse lui, con una smorfia. «L’argento
non brucia.»
La
fanciulla
non riuscì a nascondere l’espressione scettica che
le si disegnò sul volto. «Credi
che sia un modo per rubare l’argento, quindi?»
chiese. Quando l’uomo fece un
cenno d’assenso, Lidia sospirò. «Due
carri d’argento sono tanti, ma immagino
che dalla miniera ne estraiate molti di più»
ragionò, guardandolo con la fronte
aggrottata. «Perché non chiedere un tributo
più alto, se lo scopo della
cerimonia è di arricchirsi alle vostre spalle? Non ha senso
limitarsi alle
briciole, quando si potrebbe avere tanto di
più…»
Ulf scosse
il
capo, interrompendola bruscamente. «Non possono prendere troppo: se lo facessero, la cosa sarebbe
troppo sospetta. Meglio prendere
poco alla volta e garantirsi una
certa continuità nel tempo.»
«Al
villaggio
c’è un’unica Sacerdotessa: di certo non
crederai che lei si porti via tutta
quella roba da sola» insistette Lidia. «E, anche
ammesso che abbia degli
aiutanti, finirebbero comunque per dare nell’occhio. E le
pietre? Spariscono
anche quelle?»
«L’olivite
è
friabile» ribatté prontamente il giovane.
«Può essere frantumata facilmente.»
«D’accordo,
ma
non sarebbe più comodo lasciarla lì
dov’è?» borbottò lei,
scuotendo il capo.
«Perché mai qualcuno dovrebbe prendersi il
disturbo di sbriciolarla? A mano,
poi! E senza fare rumore… no, non ha senso.»
Ulf le
rivolse
uno sguardo strano e Lidia lo sostenne, sentendo in sé una
sicurezza che
raramente aveva avuto. Devo essere
più
simile a papà di quanto credessi, pensò
con un sorriso amaro, stupendosi
del proprio scetticismo. La teoria di Ulf le pareva troppo inverosimile
e piena
di buchi per essere considerata valida; e le sembrava strano che
l’uomo basasse
tutti i suoi sospetti e tutto il rancore che provava per Donna Erin su
quella storia
strampalata. A meno che ci sia qualcosa
che non mi ha detto, pensò, improvvisamente
sospettosa. Il segreto a cui
aveva fatto cenno qualche tempo prima e di cui si rifiutava di parlare
aveva
forse a che fare con quella faccenda?
«Potrebbero
usare… delle macchine. Sono d’accordo, non ha
alcun senso portare via o
sbriciolare l’olivite, ma credo che, così facendo,
il tutto acquisti
credibilità. Gli Dèi si prendono tutto, rocce
comprese» mormorò Ulf, con fare
circospetto, rispondendo alla domanda che la ragazza gli aveva posto
qualche
istante prima.
«Delle
macchine?» ripeté lei. «Che tipo di
macchine? Qui non avete nemmeno i carri
automatici, non vedo davvero come possiate avere accesso a qualcosa di
più evoluto...»
Ulf la
guardò
negli occhi e qualcosa nel suo sguardo cambiò.
«Giusto: ma nulla vieterebbe a
Erin e a i suoi eventuali complici di appoggiarsi a qualcuno che viene
da
fuori, a qualcuno che ha accesso a mezzi che noi non abbiamo.»
«Ma
perché?»
insistette la fanciulla, che iniziava a sentirsi a disagio. Anche se,
tutto
sommato, i dubbi di Ulf erano piuttosto innocui, c’era
qualcosa di vagamente
inquietante, in tutto quel discorso. «Ulf, onestamente non
capisco perché una Sacerdotessa
germanica dovrebbe allestire tutto questo teatrino per ingannare e
derubare la
sua gente. Al di là delle difficoltà tecniche:
perché dovrebbe farlo?» Davanti
a quella domanda, l’uomo le rivolse un sorriso storto e
freddo e Lidia deglutì,
intuendo improvvisamente dove volesse andare a parare. «Credi
che… lei non sia parte
della vostra gente?»
«Be’,
di certo
non è nata qui. Probabilmente non è nemmeno
germanica» fece l’uomo, stringendosi
nelle spalle con tutta l’aria di chi enuncia un dato di fatto.
«Di
certo non
crederai che sia romana!» sbottò Lidia,
guardandolo con gli occhi sgranati.
«Non sembra affatto romana!»
«Voi
romani
siete ovunque, ormai» ribatté l’uomo,
con un’amarezza che fece contrarre
sgradevolmente lo stomaco della fanciulla. «Non mi stupirei
se fosse fedele a
Roma, pur non essendovi nata e non avendovi forse nemmeno mai
vissuto.»
Lentamente,
Lidia sbatté gli occhi, cercando di collegare tutti i punti.
«Ma i matrimoni…
scusami, ma sei stato tu a dirmi che Donna Erin ha tanto insistito
perché il
nostro matrimonio funzionasse alla perfezione. Questi accordi
sono tutti a vostro vantaggio, perché avrebbe dovuto
incoraggiarli, se non avesse a cuore il benessere della
Germanica?»
«Non
sono
tutti a nostro vantaggio» la contraddisse Ulf.
«Anche Roma ci guadagna
qualcosa: il permesso di restare nella nostra terra senza dover
combattere una
guerra, per esempio.»
È vero, comprese Lidia,
ricordando le
vaghe spiegazioni che suo padre le aveva fornito prima di caricarla su
un carro
e partire con lei alla volta di Erding. «Quindi secondo te
questi matrimoni
servirebbero non per portare i nostri soldi in Germanica,
ma…»
«…
per portare
le nostre ricchezze da voi» concluse per lei Ulf.
Lidia lo
guardò, allibita. «Ma non ha senso!»
esclamò. «Lasciamo per un attimo da parte
la posizione di Donna Erin: la vostra gente ha accettato la proposta
del Divino
Cesare, non è stata una decisione che vi è stata
imposta!»
«I
nostri sacerdoti hanno accettato la
proposta»
la corresse Ulf. «E nemmeno tutti. Personalmente, non sono
molto propenso a
fidarmi dell’Alto Consiglio dei
Sacerdoti…»
La
fanciulla
scosse il capo. «E avrebbero architettato una cosa
così complicata per… per…»
«Lo
ripeto: per
favorire Roma senza scatenare una guerra» suggerì
l’uomo.
Lidia si
appoggiò al tavolo, cercando di riordinare i pensieri. Sono solo sue teorie, si disse. Teorie
che, però, improvvisamente
le parevano meno assurde. «Tutto per favorire Roma»
mormorò, sovrappensiero,
ripetendo le conclusioni a cui era giunto suo marito. «Allora
è per questo che
non volevi sposarmi. È per questo che non mi hai mai
toccata.» Appena quelle
parole uscirono dalle sue labbra, Lidia avvampò, rendendosi
conto di quello che
aveva detto. Stupida, stupida, stupida!
Ulf la
guardò,
stupito. «No» disse, lentamente. «Non ti
ho mai toccata perché pensavo che ti
facesse piacere…»
«E
infatti mi
fa piacere!» si affrettò ad assicurare Lidia,
più rossa che mai, sventolando
convulsamente una mano. «Mi fa molto
piacere, davvero!»
L’uomo
la
guardò con un sorrisetto. «Sicura?» Lei
lo fissò, senza parole. Cosa sta
insinuando? «Sicurissima!»
affermò, con la voce leggermente incrinata.
«Davvero, Ulf, va benissimo così!
Io non voglio altro! Va bene anche a te, vero?»
Il giovane
rimase in silenzio per dei secondi che a Lidia parvero interminabili,
poi
sollevò una mano e le sfiorò uno zigomo in una
carezza leggera. «Be’, diciamo
che, quando mi hanno detto che mi sarei sposato, pensavo che avrei
avuto certi privilegi»
mormorò, tracciando con due
dita la linea invisibile che dalla guancia scendeva fino al mento della
ragazza, mentre Lidia lo fissava con gli occhi sbarrati e il cuore in
gola.
«Tuttavia», continuò, salendo verso le
sue labbra e accarezzandole piano, prima
di toccarle leggero la punta del naso, «tuttavia non saprei
che farmene di un
topolino come te, quindi smettila di guardarmi così e
sta’ pure tranquilla!» Così
dicendo le premette con forza un dito sulla punta del naso e
scoppiò a ridere
quando Lidia ricadde sulla sedia con un gridolino oltraggiato.
«Ma
quanto sei
scemo!» ringhiò la ragazza, sentendosi sollevata e
decidendo di sorvolare
sull’appellativo topolino
che l’uomo
si ostinava a rifilarle e che, ne era piuttosto certa, non era un
complimento. L’uomo
si limitò a guardarla sorridendo, anche se il suo sorriso si
spense lentamente
quando la conversazione di poco prima tornò al centro dei
suoi pensieri.
Lidia, la
cui
mente era tornata a pensieri simili, lo guardò,
improvvisamente triste. «Ma se
sospettavi questa cosa», chiese, riagganciandosi al discorso
di poco prima, «perché
hai comunque accettato di sposarmi? Voglio dire, se sapevi che era
tutto un
imbroglio ai danni della tua gente e della tua terra, perché
non ti sei
rifiutato di farlo?»
Ulf
ricambiò
lo sguardo e i suoi occhi azzurri le parvero un po’
più scuri del solito. «Avevo
scelta?»
Lidia
scosse
la testa: no, naturalmente no. Anche se Ulf era un uomo e, in generale,
la sua
posizione era migliore della sua, non era così stupida da
pensare che il
giovane potesse sottrarsi alla volontà di suo padre e della
Sacerdotessa.
Mordendosi le labbra, la ragazza si chiese se Gefrid condividesse i
sospetti
del figlio e avesse anch’egli deciso di sottostare comunque
alla volontà di
Donna Erin e, indirettamente, del Divino Cesare.
Mentre
osservava il volto cupo di Ulf, Lidia afferrò il coraggio a
due mani e gli
rivolse la domanda che avrebbe voluto fargli da tempo.
«Avevi… avevi una
ragazza, prima di me?» Quando ebbe pronunciato quelle parole,
la fanciulla
arrossì, sentendosi stupida: la loro vita privata era ben
poca cosa rispetto
alle questioni di cui avevano discusso fino a quel momento;
cionondimeno Lidia
avvertiva che la risposta a quella domanda sarebbe stata importante, un
punto
fermo su cui costruire la loro vita futura.
O, se non altro, la nostra vita per i
prossimi due mesi, si corresse, mentre una piccola fitta
d’ansia le attraversava
la gola.
Ulf parve
sorpreso da quella domanda, ma subito scosse il capo.
«No» rispose,
stringendosi nelle spalle. «C’era qualcuno, una
volta, ma si è sposata l’anno
scorso.»
Lidia
distolse
lo sguardo, mentre un’inopportuna ondata di sollievo la
travolgeva. «Mi
dispiace» mormorò.
«Sì?»
chiese
lui, con una nota aspra nella voce. «A me no. Sono cose che
capitano; lei è una
brava donna e ha fatto la volontà di suo padre. E comunque
sarebbe stato peggio
doverla lasciare per sposare te, non credi?» La ragazza
deglutì, trattenendo un
sorriso amaro davanti all’ironia della situazione. Già. Ulf dovette leggere
qualcosa sul suo volto, perché, inclinando
appena il capo, le chiese: «E tu? Avevi qualcuno a
Roma?»
Lidia
annuì:
l’idea di parlare di Tito a Ulf non le piaceva nemmeno un
po’, ma sentiva di
non avere scelta. «Sì. Si chiamava… si
chiama Tito», mormorò, con un improvviso
groppo in gola, «e mio padre l’aveva scelto per me
quando avevamo entrambi
quattordici anni.»
L’uomo
la
fissò con più attenzione. «Gli volevi
bene?»
«Sì»
rispose
lei, con un filo di voce; e Ulf sospirò: «Mi
dispiace.» Erano le stesse parole
che lei stessa aveva pronunciato pochi attimi prima, ma nella voce
dell’uomo le
parve di avvertire una sfumatura diversa. Incerta, Lidia
alzò lo sguardo su di
lui, ma non riuscì a interpretare la sua espressione.
«Non… non è facile per
nessuno» sussurrò, sentendosi in dovere di dire
qualcosa.
«No,
non lo è»
concordò lui. Con un cenno del capo, l’uomo si
allontanò da lei e, lanciata
un’occhiata fuori dalla finestra e resosi conto che il sole
era ormai
tramontato, uscì in cortile con la scusa di doversi
assicurare che le galline
fossero al sicuro per la notte. Quando rientrò, Lidia smise
di sciacquare
l’insalata e si voltò verso di lui, insoddisfatta
del modo in cui si era
conclusa la conversazione.
«Non
è facile»,
riprese, quasi senza avere il coraggio di guardarlo, «ma
avrebbe anche potuto
essere peggio.»
Non sapeva
se
quelle parole le avesse dette per tranquillizzare l’uomo o
per allontanare i
suoi pensieri da Tito, ma quando Ulf le rivolse un sorriso che lo fece
sembrare
molto più giovane, Lidia provò lo strano impulso
di abbracciarlo.
***
È da un po’ che non ringrazio
le mie
fedelissime commentatrici, ovvero Fioremargherita e Controcorrente:
meno male
che ci siete voi, signore! E grazie anche a Wadowice, che non commenta
pubblicamente, ma si fa comunque sentire via messaggio privato,
chiedendo
delucidazioni là dove il testo è effettivamente
poco chiaro. Le vostre
osservazioni sono preziose, mi aiutano anche ad aggiustare dei passaggi
nei
capitoli che sto revisionando e modificando in questi giorni.
Ai 277 lettori che sono passati
dall’ultimo
capitolo (o anche ai 150 lettori, se qualcuno è passato
più di una volta) senza
lasciare la minima traccia di sé: magari una parolina, una
volta ogni tanto?
Non dico di lasciare un papiro, ma avere un feedback di tanto in tanto
non è
che mi farebbe proprio schifo, sapete?
|
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Capitolo 15 *** 14. Il suono ***
Lidia
sognava
di correre insieme a Lucilla lungo i viali lastricati della sua domus a Roma, quando qualcosa
superò il
velo dell’incoscienza e pungolò i suoi sensi fino
a svegliarla. Spalancando gli
occhi nel buio della notte, la fanciulla rimase in ascolto, cercando di
capire
cosa fosse stato a strapparla dal piacevole abbraccio del sogno.
«Cosa
c’è?»
chiese in un sussurro, notando che Ulf era in piedi accanto alla
finestra,
perfettamente immobile all’ombra del melo. Lui non rispose,
ma con una mano le
fece cenno di raggiungerlo.
Stringendo
i
denti quando toccò il pavimento freddo con la punta dei
piedi nudi, la ragazza
coprì i pochi metri che la separavano dall’uomo e
si appoggiò con le mani alla
finestra, sporgendosi appena per osservare il giardino scuro. La notte
era
quieta e una brezza leggera scuoteva lieve le foglie
dell’albero, facendole
agitare nella luce della luna e disegnando ombre cangianti
all’interno della
stanza. Lidia non era in grado di stabilire che ore fossero, ma ovunque
regnava
un silenzio rotto appena dal sibilo gentile del vento.
Non
comprendendo cosa avesse attirato l’attenzione di suo marito,
la ragazza alzò
su di lui uno sguardo confuso. «Cosa succede?» gli
chiese, senza osare parlare
ad alta voce.
Lui
distolse
gli occhi dal paesaggio buio, voltandosi verso di lei, e la fanciulla
notò come
alla luce lunare i suoi capelli sembrassero fatti d’argento.
«Ascolta» le
disse, semplicemente, indicando un punto imprecisato con un cenno del
capo.
Di nuovo,
la
giovane tese al massimo le orecchie, trattenendo quasi il fiato
affinché il
ritmo del respiro non creasse alcuna interferenza. Dopo qualche
istante, però,
Lidia aggrottò la fronte: le sue orecchie non coglievano
altro che il fruscio
del vento e, più lontano, il frinire dei grilli.
«Sento solo il vento e i
grilli» mormorò, consapevole che quella risposta
non sarebbe piaciuta a Ulf.
L’uomo,
quasi
adeguandosi alle sue previsioni, scosse il capo. «Ma non
senti?» insistette,
una nota d’impazienza ben chiara nella voce. Lidia si strinse
nelle spalle,
impotente. «Cosa dovrei sentire?»
«Questo
sibilo»
rispose Ulf. La giovane si mise ancora in ascolto per qualche secondo.
«È solo
il vento» decretò, senza capire. Di nuovo,
l’uomo fece un cenno di diniego.
«No, oltre il vento» mormorò.
«C’è anche un altro rumore,
più lontano.»
Lanciandogli
un’occhiata scettica, Lidia provò ad ascoltare
meglio, aspettandosi di non
udire nulla di strano, quando all’improvviso lo sentì: un sibilo – o un
fischio? – quasi impercettibile, talmente lieve da
venir quasi nascosto
dalla voce del vento, ma cionondimeno presente, fisso e costante. Era
talmente confuso
che più che un suono vero e proprio pareva quasi una
vibrazione dell’aria,
eppure, adesso che le sue orecchie l’avevano colto, alla
fanciulla pareva
impossibile non averlo udito prima.
«Che
cos’è?»
chiese, in un sussurro.
Ulf
esalò
lentamente dal naso, prima di rispondere. «Cosa sia
esattamente, non lo so»
ammise, lanciando uno sguardo torvo fuori dalla finestra.
«Però, ogni volta che
offriamo qualcosa agli Dèi, di notte vi… di notte
si sente questo suono.»
«Non
l’hai mai
notato, in altre occasioni? Quando non c’è alcuna
cerimonia, intendo» gli
chiese Lidia, con un filo di voce, soprassedendo sulla breve esitazione
che
aveva scorto nella voce dell’uomo. Lui scosse il capo e la
fanciulla pensò che,
effettivamente, era davvero difficile che si trattasse di una
coincidenza. Colta
da un fascino strano, la giovane romana si sporse un po’ di
più dalla finestra,
muovendo il capo a destra e a sinistra per cercare di determinare la
direzione
esatta da cui proveniva il sibilo.
«Sta
indietro»
le disse Ulf, prendendola per le spalle e costringendola a tornare al
riparo
dell’ombra della stanza. La fanciulla si voltò
verso di lui, senza capire. «Perché?»
chiese, confusa. «Hai paura che mi veda qualcuno?»
Lui si
strinse
nelle spalle. «Non si può mai sapere. Meglio
evitare di essere visti.»
«Se
anche
qualcuno mi vedesse, che problema ci sarebbe? Non sto facendo niente di
male»
si difese Lidia, ma Ulf non lasciò la presa sulle sue
braccia. «Lo so» disse,
con una smorfia. «Ma non credo proprio che chi produce quel
rumore voglia
essere notato. Meglio fingere di non esserci accorti di
nulla.»
La ragazza
scosse il capo e si mordicchiò nervosamente
un’unghia, contagiata suo malgrado
dalle teorie di complotto di suo marito. C’è
davvero qualcuno che non dovrebbe esserci, là fuori? Forse
qualcuno che viene
da Roma, come crede Ulf? Non poteva fare a meno di avvertire
una fitta
bollente di delusione, a quel pensiero, ma improvvisamente il vento
cambiò e il
sibilo divenne leggermente più distinto. Ora che poteva
sentirlo meglio, Lidia
si accorse che non era così monotono come le era sembrato in
un primo momento,
ma sembrava animato da delle onde ritmiche, delle lievi alterazioni di
potenza
e di tono.
Ma cosa potrebbe produrre un suono simile?
La maggior parte delle macchine che aveva visto nella sua
città natale erano
piccoli congegni rumorosi che tossivano e sputavano e scoppiettavano,
nulla di
paragonabile a quel suono sottile, quasi impalpabile, che
più lo ascoltava e
più le ricordava il soffio di un serpente, elegante e
letale. Improvvisamente,
l’atmosfera attorno a lei parve farsi pesante, vischiosa e
fredda e la
fanciulla ebbe l’impressione di osservare la scena da un
punto di vista
esterno, mentre una consapevolezza senza nome iniziava a premere sui
suoi
sensi. Tutto d’un tratto Lidia ebbe paura e
rabbrividì, passandosi le mani
sudate sulle braccia nude.
Ulf si
accorse
del suo tremore e si voltò a guardarla, squadrando con
occhio critico il suo
abbigliamento. «Torniamo a letto» disse.
«Qui non c’è niente che possiamo fare,
non ha senso prendere freddo.»
La giovane
annuì in silenzio e tornò rapida al letto,
infilandosi sotto le coperte e, dopo
un momento di esitazione, tirandosele sopra alla testa, nel vano
tentativo di
tagliar fuori quel suono che, nella sua testa, si faceva sempre
più
inquietante. Come spesso le accadeva quando cercava di ignorare una
cosa, però,
i suoi sensi si ostinarono a ricercare il sibilo nel silenzio della
notte,
rendendole di fatto impossibile tagliarlo fuori. Era fastidioso, era
insistente
ed era troppo strano per essere ignorato. Premendosi le mani sulle
orecchie,
Lidia fu scossa da un brivido, poi da un altro e un altro ancora. Basta, si disse, risoluta, è
solo un suono. Basta tremare.
Come
già le
era accaduto il giorno del suo matrimonio, però, il suo
corpo sembrò rifiutarsi
di obbedirle e continuò a tremare sotto l’impulso
di spasmi violenti, anche se,
sorprendentemente, la sua mente rimase relativamente lucida. Perché sto tremando? Si
chiese, confusa,
e ben presto l’incapacità di dominarsi
iniziò a farle più paura del suono
misterioso che aveva scatenato il suo nervosismo.
Basta, rilassati, pensò,
sentendosi
scivolare sempre più velocemente in una disperata impotenza.
Incapace di
rimanere ancora ferma in quella posizione rannicchiata, Lidia si
rigirò di
scatto sulla schiena, distendendo gli arti e cercando di controllarne
il
tremore. Disturbato dal suo movimento improvviso, Ulf si
sollevò su un gomito. «Perché
tremi? Hai ancora freddo?»
La
fanciulla
scosse il capo, umiliata di mostrarsi ancora una volta così
fragile davanti a
lui. «N-no» balbettò. «N-non
lo so p-perché t-t-tremo.»
Sollevandosi
ancora un po’, l’uomo la osservò con
attenzione, anche se, nel buio della
stanza, Lidia non era in grado di vedere i suoi occhi. «Cosa
vuol dire che non
lo sai?» Non sembrava irritato, ma piuttosto confuso.
«N-non
lo so,
f-forse il s-suono…» La ragazza avrebbe voluto
aggiungere altro, spiegarsi
meglio, ma improvvisamente formulare delle parole comprensibili le
parve uno
sforzo sovraumano. Fortunatamente, Ulf riuscì comunque a
intuire quello che
aveva cercato di dire. «Il suono?»
ripeté. «Ti sei spaventata?»
«Nh»
Lidia non
riuscì a rispondere, limitandosi a fare un cenno che non era
né d’assenso né di
diniego. Non era una paura razionale, quella che provava, ma qualcosa
di freddo
e tagliente che le strisciava nelle viscere e le stringeva la gola.
«Non
c’è
bisogno di avere paura», cercò di rassicurarla
l’uomo, «qui non…» Si
interruppe
di colpo, come se avesse improvvisamente cambiato idea e avesse deciso
di non
terminare la frase. Facendo un ulteriore sforzo, la fanciulla si
costrinse a
parlare, guardandolo con gli occhi spalancati. «Q-qui
non c-cosa?»
Ulf
esitò un
attimo, poi sospirò e sollevò un braccio,
portando con sé le coperte. «Dai,
vieni qui» mormorò. Sulle prime Lidia non si
mosse, comprendendo la natura
dell’offerta dell’uomo, ma esitando ad accettarla.
Dopo qualche istante, però, si
sentì troppo stanca per continuare ad opporsi e si mosse
fino a ritrovarsi tra
le braccia del germanico. Ulf la attirò a sé,
stringendola e facendole posare
il capo sul suo petto, mentre la fanciulla continuava a tremare senza
sosta,
incapace di trovare una posizione confortevole o un posto su cui
appoggiare le
mani. Improvvisamente, però, le mani di Ulf presero a
percorrerle la schiena in
un movimento lento, rassicurante, e fu come se il corpo della giovane
perdesse,
poco alla volta, un po’ della tensione che lo faceva fremere.
Sollevata oltre
ogni dire, Lidia sospirò e chiuse gli occhi, premendo la
fronte contro il petto
dell’uomo, scordandosi d’un tratto
dell’imbarazzo e delle remore che l’avevano
fatta esitare poco prima. Dopo diversi minuti, il tremore
cessò del tutto e,
finalmente, Lidia sentì il proprio corpo rilassarsi
completamente, scivolando
meglio contro quello di Ulf. Non aveva previsto di permettere a suo
marito di
avvicinarsi tanto a lei, ma al momento la cosa sembrava aver perso ogni
importanza.
Anche
quando i
brividi smisero di scuoterla, Ulf non si fermò, ma
continuò ad accarezzarle la
schiena, lasciando trascorrere alcuni minuti di silenzio, prima di
decidersi a
parlare. «Ti capita spesso?» le chiese, con una
voce stranamente quieta. Senza
alzare la testa dal suo petto, Lidia scosse il capo.
«No» mormorò. «Solo una
volta, il giorno in cui ci siamo sposati. Allora era stata Donna Erin
ad
aiutarmi…»
La
fanciulla
si sentiva stranamente assonnata e si accorse una frazione di secondo
troppo
tardi che probabilmente non era stata una grande idea nominare la
sacerdotessa
in quel frangente, ma, per una volta, Ulf parve non reagire al nome
della donna
che detestava tanto. «Mi spiace averti spaventato»
mormorò, infatti, salendo
con una mano fino all’attaccatura dei suoi capelli, prima di
scendere di nuovo.
«Non
mi hai
spaventato. Sono solo un po’ nervosa»
ribatté lei, con la voce impastata,
muovendo appena le gambe per sistemarsi meglio addosso a lui. Una parte
della
sua mente le fece notare che la posizione in cui si trovava al momento
era estremamente sconveniente, che
non era
quello che voleva, che solo Tito avrebbe potuto permettersi di toccarla
così,
ma un’altra parte del suo essere, quella che si sentiva
così incredibilmente
rilassata e al sicuro e che non
aveva
nessuna intenzione di allontanarsi dal corpo caldo di Ulf, la mise
subito a
tacere. «Ulf?» sussurrò Lidia,
sollevando appena il capo.
«Mh?»
«Che
cosa
stavi per dire, prima?»
La giovane
sentì il corpo dell’uomo contrarsi, ma lei fece
scivolare una mano attorno alla
sua vita e tornò a posare la guancia sul suo petto e,
lentamente, lo sentì
rilassarsi di nuovo. «Posso fidarmi di te?» le
chiese.
Dalla
posizione in cui si trovava, la voce dell’uomo le giunse
simile a un rombo
basso. Non lo so, pensò
la fanciulla,
mordendosi le labbra, mentre il volto deciso di Tito e le parole che il
giovane
le aveva rivolto le tornavano alla mente. Poi, però, si rese
conto che Ulf non
le stava chiedendo se poteva fidarsi di lei in
generale, bensì se poteva fidarsi di lei in quel
singolo frangente: Lidia
non aveva dubbi, al riguardo. «Sì»
disse, sicura, accompagnando le parole con
un cenno del capo.
Inspirando
profondamente, Ulf salì a giocherellare per qualche istante
con i suoi capelli,
prima di rispondere. «C’è un gioco che
facciamo qui in paese» disse, con voce
grave. «È una cosa stupida, in effetti, una cosa
da ragazzini: ci sfidiamo a
entrare di notte nel bosco sacro e a rimanerci fino all’alba,
senza farci
scoprire e senza scappare via per paura degli spiriti che si dice
vivano là.
Quando ero più giovane partecipavo anch’io,
naturalmente, e circa una decina di
anni fa Karl, che già allora era mio amico, venne a
chiamarmi per propormi una
variante: voleva intrufolarsi nella foresta la notte in cui gli
Dèi sarebbero
scesi sulla terra per raccogliere le offerte. Il suo scopo era
tutt’altro che
nobile, a dire il vero: voleva far colpo su una ragazza.»
Lidia
sorrise
leggermente. «Unna?»
Ulf rise
piano, scuotendo il capo e facendo scivolare Lidia più
vicino a sé con un
movimento della spalla. «No, non Unna. Astrid, si chiamava, e
in effetti era
davvero molto carina… non per niente non ci pensai due
volte, ad accettare:
anch’io ero interessato a fare una bella figura con lei. Sai,
il piano era di
rubare qualcosa dal mucchio delle offerte e portarglielo.»
La
fanciulla
strofinò appena la guancia sulla stoffa grezza della maglia
dell’uomo,
immaginandoselo ragazzino e intento a contendersi con l’amico
l’attenzione di
una ragazza.
«In
ogni caso,
entrammo nella foresta piuttosto tranquilli»
continuò Ulf, riprendendo il suo
racconto. «L’avevamo fatto già molte
volte e sapevamo che non c’era nulla da
temere, di certo non dagli spiriti, e nemmeno dal vecchio sacerdote che
avevamo
al tempo, un uomo che passava la metà del tempo addormentato
e l’altra metà
ubriaco. Non aveva il rispetto degli uomini; e infatti entrare nella
foresta era
davvero un gioco da ragazzi: era molto più semplice di
quanto non sia oggi,
tant’è vero che non c’era nemmeno la
recinzione di filo spinato... quella è
stata voluta tempo fa da Erin. Be’, sulle prime
andò tutto bene, non vedemmo
niente di diverso da tutte le altre notti. Le offerte erano ancora
tutte lì, un
po’ bruciacchiate, come ci si poteva aspettare, ma sembrava
che non fosse stato
toccato nulla. Ricordo che prendemmo subito alcuni gioielli, ma poi
decidemmo
di non tornare subito a casa, ma di aspettare l’alba, come
facevamo di solito…
cosicché la prova fosse completa,
capisci? Ricordo anche che ci addormentammo, devo essere sincero, ma a
un certo
punto della notte udimmo questo sibilo e…»
L’uomo si interruppe di nuovo,
visibilmente riluttante a rivelare quello che aveva visto quella notte.
«…
e cosa?» Determinata
a scoprire la verità – o almeno quella che suo
marito credeva essere la verità
– Lidia si mosse d’istinto e, lentamente,
allungò una mano fino a sfiorargli il
volto, soffermandosi sulla guancia ruvida e poi su uno zigomo, prima di
far
scorrere il braccio attorno al suo collo, arrivando poi ad
accarezzargli i
capelli – che, dopotutto, non erano
proprio
come quelli di Lucilla. Ulf le strinse brevemente i fianchi, prima di
scivolare
di nuovo sulla sua schiena e riprendere a parlare.
«Arrivò una macchina. Non
una macchina come quelle che circolano qualche volta a seguito dei
legionari,
ma una macchina volante. Era un affare strano, quasi invisibile nel
buio e
incredibilmente silenzioso: forse non ci saremmo accorti della sua
presenza, se
non fosse stato per il sibilo e per alcune piccole luci intermittenti.
Ovviamente ci spaventammo moltissimo e cercammo di fuggire, ma avevamo
paura di
venire scoperti, anche perché a un certo punto accesero una
specie di piccolo
faro, così ci nascondemmo tra gli alberi e aspettammo che se
ne andassero.»
Benché
stupita
da quella descrizione, Lidia cercò di sospendere il proprio
giudizio,
preoccupandosi piuttosto di capire come fossero andate le cose e in che
modo
quelli eventi si ripercuotessero sul presente. «Pensi che
qualcuno vi abbia
visti?» chiese.
L’uomo
scosse
il capo. «No, ma noi vedemmo loro.»
La
fanciulla
si tirò a sedere di scatto, in preda
all’agitazione. «Loro
chi? Gli Dèi?»
Ulf fece
un
suono a metà tra uno sbuffo e una risata. «Non
erano Dèi, erano uomini.»
Appena un
po’
rinfrancata, la giovane riprese il suo posto sul petto
dell’uomo, senza nemmeno
prendere in considerazione l’ipotesi di trovarsi
un’altra sistemazione. «Come
fai a saperlo?» chiese, con una punta di turbamento. Lui
sollevò un po’ le
spalle, facendola sobbalzare lievemente. «Non li abbiamo
visti bene, erano in
controluce e noi eravamo nascosti tra gli alberi, ma il modo in cui si
muovevano, il loro aspetto… erano in tutto e per tutto
simili a dei
normalissimi esseri umani. Naturalmente non ci siamo fermati a
indagare, appena
hanno spento il faro siamo scappati, ma nessuno mi
convincerà mai che quelle persone
erano Dèi.»
Lidia
esitò un
attimo, incerta se presentare le sue obiezioni o accettare la
spiegazione
dell’uomo. «Come fai a sapere che gli
Dèi non assomiglino a noi?»
«È
la stessa
cosa che disse Karl all’epoca», ammise Ulf,
«e per un po’ di tempo me lo sono
chiesto anch’io. Del resto, non avevo mai visto una macchina
del genere, non ne
avevo mai nemmeno sentito parlare… fino a quando, qualche
anno fa, un mercante
berbero si fermò per qualche mese in paese. Raccontava di
aver vissuto in Nuvia,
durante la guerra, e di aver visto tutta la potenza di Roma, in
quell’occasione. Un giorno, per caso, l’ho sentito
parlare di un cargo aereo in grado
di trasportare
grandi quantità di uomini e materiali per lunghe distanze,
muovendosi più
rapidamente di qualsiasi carro che percorresse le vie di terra.
Ovviamente, non
ho potuto fare a meno di pensare a quella notte e lui mi ha mostrato
alcuni
disegni di quella che lui definiva “meraviglia
volante”.» Lidia sollevò lo
sguardo sul suo volto, indovinando già la
conclusione di quel racconto. «Be’, se non era la
stessa macchina che ho visto
quella notte, di sicuro ci assomigliava in maniera
impressionante» fece infatti
il giovane. «E, come mi ha confermato anche quel mercante,
c’è una sola potenza
in grado di creare e possedere una cosa del
genere…»
«Roma»
concluse
per lui la fanciulla. «Già»
confermò Ulf, con un cenno del capo. Inconsciamente,
Lidia strinse tra i pugni la maglia dell’uomo, meditando su
quanto le aveva
detto, e lui riprese a sfiorarle la schiena, quasi temesse che il
discorso
l’avesse turbata più del dovuto e che lei si
rimettesse a tremare. Tuttavia,
non era paura quella che Lidia provava in quel momento, ma piuttosto
tristezza,
delusione e, forse, anche un po’ di rabbia: il pensiero che
Roma si stesse
prendendo gioco in quel modo di un suo alleato la riempì
comunque di vergogna. Tuttavia, le
fece notare la parte più
scettica della sua mente, non è
detto che
le cose stiano proprio così. Questa storia mi sembra un
po’ strana.
«E
gli altri
che cosa ne pensano?» chiese, appiattendo la mano sul suo
torace e avvertendo
il modo in cui i muscoli dell’uomo si contrassero al
movimento della sua testa.
«Gli altri? Chi?» chiese Ulf, incerto.
Lidia
inspirò
a fondo, corrugando la fronte e raccogliendo i pensieri. «Hai
detto che quella
di intrufolarsi nel bosco sacro di notte è un po’
una tradizione dei ragazzi
del villaggio, no? Mi sembra impossibile che nessun altro abbia mai
visto
quella macchina, se davvero arriva ogni volta che sacrificate qualcosa
agli
Dèi. Non ne hai mai parlato con nessuno?»
Il giovane
sospirò, prima di spostare lo sguardo fuori dalla finestra.
«Non è esattamente
una cosa di cui posso parlare liberamente, sai? Un po’
perché, in teoria,
entrare nel bosco è vietato. Donna Erin l’ha
circondato di filo spinato, lo fa
addirittura sorvegliare da dei soldati… non ci tengo a farle
sapere che, da
ragazzino, ci andavo a fare scorribande. Ne ho parlato con la mia
famiglia,
naturalmente, con alcune persone fidate… ma nessuno ha mai
visto niente. E,
come ti dicevo, non è un argomento che si può
discutere durante il Consiglio
degli anziani del villaggio.»
«Quindi
nessuno ne sa niente?» insistette Lidia, un po’
perplessa. Ulf esitò
nuovamente, prima di rispondere. «Io credo… io
credo che i minatori ne
discutano, tra loro. Karl mi ha accennato qualcosa, ma quello della
miniera è
un ambiente molto chiuso. Nemmeno Unna sa cosa si dicano, durante le
loro
assemblee e, se anche lo sapesse, si guarda bene dal riferirlo a
me.»
Lidia
annuì,
riflettendo in silenzio su quello che il marito le aveva detto.
«Senti», disse,
dopo qualche minuto, «e… se fossero veramente gli
Dèi, quelli che hai visto?»
La domanda suonò sciocca alle sue stesse orecchie e Ulf la
accolse con uno
sbuffo sarcastico. «Degli Dèi che si muovono a
bordo di una macchina che usano
anche i tuoi conterranei? Sì, effettivamente ha
senso.»
Davanti a
quella risposta ironica, la fanciulla abbassò il mento
contro il proprio petto,
serrando per un istante la mano in un pugno. «Hai
ragione» sospirò. «Be’, mi
dispiace.»
Le mani di
Ulf
ripresero a sfiorarle la schiena, mentre l’uomo tornava a
cercare il suo volto
nella camera buia. «Per cosa?» La giovane si
strinse nelle spalle. «Per quello
che Roma sta facendo, se la tua teoria è giusta.»
«Non
è certo
colpa tua» mormorò lui, sfiorandole la base del
collo.
«Lo
so, ma mi
sento comunque in colpa.»
Ulf
soffocò
una risata. «Sciocchezze; e, comunque, non
c’è nulla che tu possa fare» disse,
il sorriso evidente nella sua voce. «So che tuo padre
è una persona piuttosto
in vista, a Roma, e che pertanto il tuo imperatore dovrebbe tenere in
grande
considerazione il tuo parere, ma temo che in questo caso si sia avvalso
di ben
altri consiglieri… anche se proprio non mi spiego il
perché.» Così dicendo le
tirò scherzosamente una ciocca di capelli e la ragazza lo
colpì debolmente con
un pugno. «A parte tutto», riprese
l’uomo, dopo un attimo di silenzio, «ti
senti meglio?»
Lidia
annuì,
arrossendo leggermente al ricordo del tremore che l’aveva
colta. «Sì, va molto
meglio, grazie.»
Ulf
annuì,
soddisfatto. «Credi che potremmo dormire un po’,
adesso? Se domani sono troppo
stanco rischio di tagliarmi via un dito…»
«Non
sia mai»
commentò la giovane, soffocando uno sbadiglio e sollevando
una mano per
strofinarsi stancamente il viso. L’uomo lasciò
scivolare via le braccia,
liberando la fanciulla dalla sua presa, ma, improvvisamente, alla
prospettiva
di separarsi da lui e dal suo calore inaspettatamente rassicurante,
Lidia fu
presa da una leggera ansia. E se,
allontanandomi, ricominciasse tutto da capo?
Dopotutto
il
sibilo era ancora ben udibile ed era stato Ulf ad aiutarla a riprendere
il
controllo sul proprio corpo. Io quasi
quasi rimango qui, pensò, arrossendo. Vincendo il
senso d’imbarazzo che
l’aveva colta al pensiero di fare quello che, in un certo
senso, avrebbe potuto
essere visto come una sorta di primo passo, la ragazza si
accoccolò meglio
accanto all’uomo e gli posò di nuovo il capo sul
petto, chiudendo gli occhi
come per prepararsi a dormire. Dopotutto
lo faccio per un motivo puramente medico, si disse, e lui mi ha detto un sacco di volte che non gli
interesso, quindi non
si farà certo strane idee.
Sentendola
sistemarsi di nuovo addosso a lui, anziché allontanarsi come
si era aspettato,
Ulf si era come congelato dalla sorpresa; e Lidia pregò
affinché non
commentasse la sua scelta. Dopo un minuto, però,
l’uomo tornò di nuovo a
circondarla con le braccia e a rilassarsi sotto di lei.
Stranamente
calda e in pace con se stessa, la ragazza si concentrò sul
respiro dell’uomo e
sul battito regolare del suo cuore, scivolando presto in un sonno
quieto e
senza sogni.
***
Quando la
mattina dopo si svegliò, come sempre, da sola, Lidia ci mise
qualche minuto a
ricordare gli eventi della notte precedente. Nel momento in cui si
accorse di
trovarsi nella metà sbagliata del letto, però, le
tornò tutto in mente – quello
strano suono, i tremori
incontrollati, Ulf che la prendeva tra le sue braccia e le parlava di
quello
che aveva visto, lei che sceglieva
di
restare tra le braccia di Ulf…
Avvampando,
la
fanciulla si nascose il volto tra le mani. Ma
a cosa cavolo stavo pensando? Si chiese, con un gemito
soffocato. Forse Ulf
non era attratto da lei, ma di certo le strane
idee se le sarebbe fatte lo stesso… Oh,
Dèi, che vergogna! Adesso penserà che io non
riesca nemmeno a tenere le mani a
posto!
Il che,
tra
l’altro, non era neppure vero: se aveva scelto di stare
così vicina a lui, era
solo perché aveva paura di affrontare da sola la strana
crisi che l’aveva colta
poco prima, non certo perché trovava piacevole la sua
vicinanza!
Anche se un po’ piacevoli le sue carezze
lo
erano, no? Le fece notare la sua coscienza, sottolineando un
particolare
decisamente scomodo. Scuotendo il capo, la fanciulla si
affrettò a scacciare
quel pensiero, mentre i sensi di colpa iniziavano già a
farsi sentire. La sua
determinazione e la sua lealtà erano davvero così
deboli, se già dopo poche
settimane iniziava a scordare quello che aveva lasciato a Roma? Si era
forse
dimenticata di Tito?
No, si rispose, irrigidendo il volto.
Anche se non pensava a lui costantemente, il giovane romano continuava
a essere
quanto di più importante aveva al mondo – o quasi.
Aggrappandosi a quella
consapevolezza, Lidia ripensò alle mani del ragazzo che le
sfioravano il volto,
alle sue labbra sulle sue, al suo profumo, alla sua risata contagiosa,
al modo
disperato in cui l’aveva abbracciata durante il loro ultimo
incontro. Bastò
quel ricordo per farla vergognare di essersi trovata tanto a suo agio
tra le
braccia di Ulf, l’uomo che, anche se non per suo volere,
aveva usurpato il
posto che avrebbe dovuto essere di Tito. Un attimo dopo,
però, si ritrovò a
pensare al modo in cui il germanico l’aveva abbracciata e
confortata,
aiutandola con una dolcezza insospettabile a combattere contro quella
paura
senza nome, senza nemmeno pretendere nulla in cambio, e subito si vergognò di essersi vergognata di
essersi
sentita a proprio agio con lui.
Avvertendo
chiaramente di essere finita in un vicolo cieco, Lidia decise che era
troppo
presto per affrontare quei pensieri scomodi e con la mente corse a un
altro
argomento.
La macchina, il cargo e Roma.
A mente
fredda, lontano dalle ombre suggestive della notte, la giovane non
poté fare a
meno di sentirsi un po’ delusa dal grande
segreto di Ulf: viste tutte le premesse e la riluttanza che
l’uomo aveva
dimostrato a parlarne, si era aspettata qualcosa di più
interessante di una
grossa macchina. Una macchina eccezionale, certo, ma pur sempre una
macchina,
ovvero qualcosa che, in un modo o nell’altro, poteva essere
costruito
dall’uomo. Ma forse era proprio quello il punto: qualcosa di
ordinario, forse
anche banale, celato da una coltre di mito e sacralità per
trarre in inganno
gli uomini e approfittare della loro buona fede. E forse lei, Lidia,
aspettandosi qualcosa di straordinario, se non soprannaturale, non
faceva altro
che fare il gioco di chiunque avesse ordito quell’inganno.
Ma ci sarà davvero Roma, dietro a tutto
questo?
Tornò a chiedersi, mordendosi pensosamente un labbro. Le
conclusioni tratte da
Ulf non le parevano del tutto soddisfacenti: sebbene fosse vero che
Roma era
l’unica potenza al mondo in grado di disporre di un discreto
numero di macchine
del genere, l’intera faccenda le sembrava un po’
troppo contorta e arzigogolata
per essere verosimile. E poi,
rifletté, non è mica
detto che quella macchina
compaia solo quando si fanno le offerte. Magari Ulf non se
n’è mai accorto, ma
quell’affare gira spesso, da queste parti…
Sospirando,
la
ragazza affondò il viso nel cuscino. Quella linea di
pensieri, anche se meno
controversa della prima, richiedeva comunque una capacità di
ragionamento che
Lidia sentiva di non avere a quell’ora di mattina e
così, un po’ controvoglia,
la ragazza scivolò fuori dal letto, quasi desiderando che
Donna Edda facesse
irruzione nella stanza con una lunga lista di incombenze da sbrigare.
Del resto,
aveva scoperto che svolgere dei compiti fisicamente impegnativi era il
modo
migliore per non indugiare troppo in pensieri complicati.
Anche quel
giorno, però, dell’anziana donna non vi era alcuna
traccia e, mentre
sbocconcellava del pane cosparso di marmellata, Lidia si chiese se per
caso
fosse ancora impegnata in qualcosa di relativo alla cerimonia del
giorno prima.
Mentre sciacquava il pentolino nel quale aveva scaldato il latte,
strofinandolo
energicamente con una spugnetta di metallo e chiedendosi come fosse
possibile
riuscire a bruciare anche il latte,
qualcuno bussò alla porta.
Confusa
–
Donna Edda non avrebbe di certo bussato; e lo stesso valeva per Hermann
– Lidia
si asciugò le mani e andò ad aprire, non
riuscendo a nascondere la propria
sorpresa quando si trovò di fronte una bambina. Aveva una
pelle luminosa, quasi
dorata, cosparsa da un’infinità di lentiggini,
brillanti occhi castani e lunghi
capelli del colore delle nocciole mature. Osservandola
dall’alto in basso,
Lidia si chiese dove potesse averla già vista, ma in un
baleno se ne ricordò:
era la stessa ragazzina che aveva portato i nastri il giorno del suo
matrimonio. Inconsciamente, la mano della fanciulla corse alla stringa
rossa
che le cingeva il polso destro. «Ciao» la
salutò, leggermente a disagio,
sorpresa da quella visita decisamente inaspettata.
La bambina
sorrise, mettendo in mostra un paio di denti mancanti. «Ciao!
Donna Erin ha
detto se vuoi venire a trovarci un attimo.»
Lidia
deglutì,
improvvisamente nervosa. «Come mai?» chiese.
La
ragazzina
si strinse nelle spalle. «Ha detto che vuole chiederti come
va.»
Quell’invito
inaspettato la colse di sorpresa e Lidia esitò. Sebbene
fosse in realtà
piuttosto comprensibile che, dopo qualche tempo, la sacerdotessa
volesse un
resoconto su come stessero procedendo la sua permanenza a Erding e la
sua vita
con Ulf, la fanciulla si sarebbe aspettata un poco di preavviso.
Prendendo
tempo, Lidia abbassò lo sguardo sulla ragazzina sorridente.
«Sei venuta da
sola?» indagò.
Quella
sgranò
gli occhi, mentre sul suo visino grazioso si disegnava
un’espressione
perplessa. «Sì, perché?»
«Non
è
pericoloso?» chiese la giovane, inclinando il capo.
La piccola
scoppiò in una risatina soddisfatta. «Ma
no» la rassicurò. «Non
c’è niente di
pericoloso, qui al villaggio!»
Se lo dici tu, pensò Lidia,
abbassando
uno sguardo scettico sulla testolina bruna della bambina. Nella sua
mente
risuonarono le raccomandazioni di Ulf: anche se ormai la ragazza
risiedeva a
Erding da diverse settimane, l’uomo non le permetteva ancora
di vagare per il villaggio
da sola, sostenendo che la gente non la conoscesse ancora abbastanza
per
considerarla una di loro.
È una questione che dobbiamo affrontare,
questa, si disse Lidia, perdendosi per un istante dietro ai
propri
pensieri.
«Allora?
Vieni o no?»
La
voce della bambina la riscosse e la fanciulla deglutì
nervosamente, cercando
disperatamente un pretesto per rifiutare l’invito. Se fosse
stata più
previdente – o più
intelligente! – si
sarebbe preparata un discorsetto da rifilare alla sacerdotessa: dal
momento che
non l’aveva fatto, però, avrebbe dovuto
improvvisare, con il rischio che la
sacerdotessa si accorgesse di come stavano veramente le cose tra lei e
suo
marito.
Dal
momento che la ragazzina continuava a fissarla e a dondolare
impazientemente da
un piede all’altro, Lidia chinò il capo.
«Va bene» mormorò, cercando di
prendere tempo. «Quando vuole vedermi?»
«Adesso»
replicò la bambina.
Perfetto.
«D’accordo,
arrivo subito» Indugiare non aveva senso, Donna Erin si
sarebbe certamente
insospettita se avesse rifiutato il suo invito o se avesse posticipato
l’incontro con una scusa poco credibile. Sospirando, Lidia si
tolse il
grembiule che indossava sopra alla gonna e si chiuse la porta alle
spalle,
apprestandosi a seguire la bimba.
«Ti
chiami
Lidia, vero?»
Evidentemente
la piccola aveva voglia di fare conversazione e la fanciulla non
poté fare a
meno di accontentarla. «Esatto. Tu invece chi sei?»
«Io
mi chiamo
Susi.»
Osservandola
dall’alto in basso, Lidia si chiese chi fosse quella bambina.
Aveva una pelle
luminosa, quasi dorata, cosparsa da un’infinità di
lentiggini, brillanti occhi
castani e lunghi capelli del colore delle nocciole mature.
«Sei la figlia di
Donna Erin?» chiese, anche se la somiglianza tra la bambina e
la sacerdotessa
era assolutamente nulla.
Susi
scoppiò
in una risata cristallina. «No, lei è
un’amica della mamma» spiegò.
Improvvisamente,
Lidia si rese conto che quella bambina poteva essere un mezzo per
scoprire qualcosa
di più a proposito di Donna Erin, per cui
accantonò le remore morali che avrebbe
potuto avere e decise di approfondire l’argomento.
«E la tua mamma è qui con
te?»
La piccola
scosse il capo. «No, lei è andata lontano, verso
sud, dove c’è il deserto»
disse, in tono allegro, come se la distanza dalla madre non le pesasse
affatto.
«Però torna a trovarmi, ogni tanto.»
Verso sud, dove c’è il
deserto… la Nuvia? Si
chiese la giovane romana, ricordando ciò che Ulf le aveva
confidato la notte
prima.
«E
non ti
manca?»
Susi
sollevò
le spalle. «Un pochino, ma Donna Erin è simpatica
e io le voglio bene.»
Nell’udire
quelle parole, la fanciulla storse le labbra, scettica, e poi subito
aggrottò
la fronte, accorgendosi, non senza un certo stupore, che i suoi
sentimenti nei
confronti della sacerdotessa erano cambiati. Non avrebbe saputo dire
quando fosse
avvenuto il mutamento, ma, poco alla volta, il senso di fiducia che
Erin aveva
suscitato in lei quando l’aveva incontrata per la prima volta
era andato
scemando, lasciando il posto alla diffidenza e al sospetto.
Colpa di Ulf, sicuramente! Pensò
Lidia,
quasi indispettita.
«Siamo
arrivati!» proclamò d’un tratto la
bambina, fermandosi di fronte alla casa
della sacerdotessa. Immersa com’era nei suoi pensieri, la
ragazza aveva
camminato quasi senza rendersi conto del percorso che stava compiendo;
e la
vista della linda casetta bianca la colse quasi impreparata.
«Grazie,
Susi»
disse Lidia, sorridendole. «Sei stata molto gentile ad
accompagnarmi.»
La piccola
sorrise, felice di aver ricevuto un complimento, prima di correre a
bussare
alla porta e di spalancarla senza nemmeno aspettare una risposta.
«Sono
tornata!» gridò, fiondandosi dentro.
Lidia
rimase
sull’uscio, incerta se entrare o meno, ma l’arrivo
di Donna Erin risolse i suoi
dubbi. «Oh, Lidia, benvenuta!» l’accolse,
rivolgendole il suo solito sorriso
luminoso.
Mentre
rispondeva al saluto, la giovane si trovò a osservare il suo
viso, cercando di
trovarvi un segno che indicasse la sua malafede ma, come già
era accaduto in
passato, non ne trovò alcuno. Il modo in cui sorrideva le
sembrava del tutto
naturale e nei suoi occhi verdi non scorse altro che una gentile
sincerità.
Possibile che quella donna fosse alla base dell’elaborato
inganno sospettato da
Ulf?
«Scusami
per
lo scarso preavviso, ma purtroppo questo è un periodo molto
impegnato, per me,
e ho dovuto infilarti nel primo buco disponibile… non ti
dispiace, vero?»
Lidia
scosse
il capo, abbassando lo sguardo e sorridendo. «Non
c’è nessun problema, Donna
Erin, non stavo facendo nulla di importante.»
«Oh,
davvero?
Credevo che la vita di una casalinga fosse piena
d’impegni…»
La
fanciulla
alzò il capo, mortificata, credendo che la donna la stesse
rimproverando, ma
quando incontrò i suoi occhi si rese conto che la
sacerdotessa stava solo
scherzando. «Oh, ehm, già»
farfugliò, arrossendo.
«Scusa,
non
volevo prenderti in giro!» rise Donna Erin, senza cattiveria.
La ragazza si
limitò a fissarla, a corto di parole, e la sacerdotessa le
posò una mano sulla
spalla, facendosi seria. «Ti ho chiamata perché
volevo sentire un po’ come sta
andando con Ulf e la sua famiglia… sai, l’ultima
volta che ti ho vista mi hai
fatta un po’ preoccupare.»
Oh, quello, pensò arrossendo
la
fanciulla, ricordando il malinteso di cui si era resa protagonista
qualche
tempo prima.
«Non
subito, però»
proseguì Donna Erin. «Prima
c’è una persona che pensavo ti avrebbe fatto
piacere incontrare. Vieni, ci sta aspettando dentro.»
Per un
qualche
motivo quelle parole le fecero balzare il cuore in gola, ma non
c’era nulla che
potesse fare per opporsi: con un pessimo presentimento, Lidia
annuì e seguì la
sacerdotessa all’interno dell’edificio.
***
Colgo l’occasione per ringraziare, oltre
a
Controcorrente e Fioremargherita, anche Mazie, EnMilly e Wasabi, che si
sono
fermate/i per scrivere due parole (anche più di due parole,
in effetti!) e a darmi
alcuni consigli utili!
|
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Capitolo 16 *** 15. Lettere ***
Nel giro
di
una manciata di istanti, i pensieri di Lidia vorticarono impazziti,
mentre
Lidia cercava di indovinare chi fosse la persona che la stava
attendendo nel
salotto della sacerdotessa. Un altro
sacerdote? Si interrogò la fanciulla, per poi
passare a prendere in
considerazione ipotesi ben più inverosimili: suo padre,
forse? Tito?
La
verità, però, era molto più
deludente: seduto davanti al camino spento non vi era altri che Caleno,
il Prefetto
con cui Lidia aveva parlato brevemente nel giorno del suo matrimonio.
«Prefetto»
mormorò, prima di schiarirsi la voce, cercando di mascherare
la delusione che
le stringeva la gola. «È un piacere incontrarti di
nuovo.»
Voltandosi
verso di lei, l’uomo scoppiò a ridere,
evidentemente divertito. «Ne sei sicura?
A dire il vero, non mi sembri molto felice di
rivedermi…» Davanti a quella
blanda presa in giro, la fanciulla arrossì. «No...
cioè, sì» balbettò,
inciampando sulle parole. Chiudendo gli occhi per un istante, Lidia
inspirò a
fondo, ricomponendosi. «Mi fa piacere vederti, naturalmente,
è solo che mi
aspettavo di trovare qualcun altro.»
«Davvero?»
si
intromise Donna Erin, inclinando il capo sulla spalla e puntando su di
lei uno
sguardo curioso. «E chi ti aspettavi di trovare?»
«Mio
padre»
mentì Lidia, stupendosi della naturalezza con cui la bugia
lasciò le sue
labbra. «Mi aveva detto che sarebbe tornato per vedere come
andavano le cose e…
be’, credevo che fosse già qui.»
Il
Prefetto si accomodò meglio
sul divano, allungando le gambe davanti a sé e allargando le
braccia con aria
di scusa. «Mi dispiace averti delusa, Donna Lidia. Sono certo
che tuo padre
verrà a trovarti quanto prima.» Il soldato
sorrise, guardandola negli occhi. «Spero
che, nel frattempo, l’esserti trovata di fronte la mia brutta
faccia non sia
stato per te uno shock troppo forte.»
Lidia
piegò le labbra in un
sorriso tirato che non riuscì a mascherare completamente
l’espressione critica
che le si era dipinta sul volto, nell’udire quelle parole. Il
Prefetto era
ancora giovane e aveva dei penetranti occhi verdi: non poteva certo
dirsi
brutto, per cui quella considerazione sul suo aspetto fisico le
sembrava un po’
troppo forzata per essere casuale. Incuriosita da
quell’atteggiamento sornione,
la giovane lo fissò per un istante più a lungo di
quanto fosse appropriato e,
accanto a loro, la sacerdotessa si appoggiò con entrambe le
mani allo schienale
di una poltrona, spostando lo sguardo dall’una
all’altro. «Quindi voi due vi
conoscete?»
Il
Prefetto fu più rapido di
Lidia e rispose ancor prima che lei avesse il tempo di aprir bocca.
«Abbiamo
scambiato due parole quando si è sposata: il Legato Libo me
l’ha presentata» replicò,
pronto. Davanti a quella spiegazione, Donna Erin rise, scuotendo il
capo. «E io
che pensavo di farle una sorpresa, facendole conoscere un altro
cittadino di
Roma!»
Leggermente
imbarazzata, la
fanciulla si sentì in dovere di dire qualcosa.
«Parlare con qualcuno che
condivide la mia cultura mi fa sempre piacere, Donna Erin.»
La
sacerdotessa annuì. «Bene» fece,
con l’ombra della risata ancora presente sul suo volto.
«A dire il vero, ho
anche un’altra sorpresa per te… e questa credo che
sia davvero inaspettata.» Lidia
la guardò, senza capire, mentre Erin si alzava e, raggiunto
il mobile alle sue
spalle, apriva un cassetto e ne estraeva qualcosa. «Questa
è per te» disse,
porgendole una semplice busta bianca. Notando che lo sguardo della
giovane si
soffermava sul sigillo spezzato, chiaro indicatore che la lettera era
stata
aperta, la donna si strinse nelle spalle. «Scusami se
l’ho aperta, ma per legge
sono tenuta a farlo. Devo assicurarmi che nella corrispondenza che
ricevi non
vi sia nulla di sovversivo»
si
giustificò.
Quando
l’espressione di Lidia non
cambiò, Donna Erin si spiegò meglio.
«Ti sorprenderebbe sapere quante giovani
spose mantengono i rapporti con amici e parenti lasciati a Roma,
pianificando
la fuga e quindi la rottura del patto matrimoniale. Pensa che in un
paio di
casi ho scoperto che le ragazze progettavano di scappare via con i loro
amanti…»
«Ah»
commentò Lidia, sforzandosi
di mantenere un’espressione neutra e pregando gli
Dèi – o chiunque fosse
disposto ad ascoltarla – che la sacerdotessa non si
accorgesse del sussulto
colpevole provocatole dalle sue parole.
«Comunque
tu non hai nulla di cui
preoccuparti» concluse la donna, tornando a sedersi.
«Nella tua lettera non c’è
nulla di tutto ciò.»
La
fanciulla si affrettò ad
aprire la busta: se si fosse immersa nella lettura, non avrebbe dovuto
incrociare
lo sguardo di Donna Erin e la sacerdotessa avrebbe avuto meno
possibilità di
accorgersi del suo disagio. Non appena la inclinò, dalla
busta piovvero quattro
o cinque fogli. Incuriosita, la fanciulla raccolse il primo e subito
sorrise:
Lucilla riusciva a essere logorroica anche quando scriveva.
«Buone
notizie?» chiese il Prefetto,
notando il suo sorriso. Lidia ripiegò i fogli, prima di
rispondere. «Non saprei
dirlo» ammise. «Credo che leggere tutte queste
pagine mi richiederà un bel po’
di tempo. Questa mia amica ha molte qualità, ma il dono
della sintesi non
rientra tra esse.»
«Sembra
una ragazza simpatica»
commentò la sacerdotessa. La giovane annuì,
cercando di nascondere il fastidio
che l’intromissione della donna le provocava: qualsiasi
segreto Lucilla avesse
consegnato a quelle pagine, ormai esso era noto anche a Erin. Dopo
qualche
istante, la sacerdotessa scrollò le spalle.
«Be’, spero che la sua lettera
possa rendere più piacevole la tua giornata»
sospirò, cercando gli occhi della
giovane romana. «Dimmi un po’, Lidia: come
va?»
Lei
la guardò, cauta. «Con Ulf,
intendi?»
La
donna annuì. «Con Ulf, sì, ma
anche con la sua famiglia.»
Inspirando
profondamente, la
ragazza abbassò lo sguardo sulle proprie mani.
«Donna Edda mi è stata di grande
aiuto, in questi giorni» ammise, con un piccolo sorriso.
La
sacerdotessa inclinò
leggermente in capo. «So che è una donna dal
carattere piuttosto burbero…»
Lidia
non riuscì a evitare che il
sorriso comparso sul suo volto si allargasse. «È
vero», concordò, «ma senza di
lei sarei persa. Resta con me praticamente tutto il giorno, mi fa
vedere quello
che c’è da fare in casa e fuori, con gli animali.
A volte perde la pazienza, è
vero, ma non è cattiva… anche se credo che non
sia affatto soddisfatta del modo
in cui cucino.»
Donna
Erin sorrise, prima di
spronarla a continuare. «E di Unna e Gefrid che mi
dici?»
Lidia
esitò, sentendo
improvvisamente su di sé lo sguardo di Caleno.
«Gefrid non l’ho quasi mai
visto; e le poche volte che è venuto a trovarmi era sempre
in compagnia di Ulf.
È gentile, con me, ma sembra tenere le distanze.»
Da me e da suo figlio,
considerò la giovane, in silenzio: anche se
erano passate alcune settimane dal malinteso che l’aveva
portato a rimproverare
Ulf, suo suocero sembrava riluttante a immischiarsi nei loro affari e
Lidia non
aveva mancato di notare la freddezza con cui trattava suo marito. La
cosa la
lasciava sempre più perplessa: da quel poco che conosceva
Ulf, l’uomo non le
aveva dato l’impressione di uno che potesse alzare le mani
sulle donne… possibile
che suo padre credesse
davvero che le avesse fatto del male?
Preferendo
non addentrarsi troppo
nei dettagli della sua vita con Ulf, Lidia decise di non riferire alla
sacerdotessa quei pensieri. «Per quanto riguarda Unna,
invece… be’, credo di
non piacerle proprio» ammise, demoralizzata. «Non
so neanche perché, ma è
sempre fredda, sarcastica… persino maleducata, direi. Per
fortuna con lei ho
poco a che fare.»
Donna
Erin scosse il capo. «Sì,
so che Unna non ha un carattere facile… però ti
consiglio comunque di cercare
di appianare le vostre divergenze e di fartela amica» disse,
guardandola negli
occhi. «Non dico di farlo oggi stesso, ma non lasciar passare
troppo tempo: è
tua cognata e un giorno potresti aver bisogno di lei e del suo
aiuto.»
«Ci
proverò» mormorò Lidia, poco
convinta. Come per rinforzare le sue perplessità, la sua
mente le ripresentò il
ricordo degli occhi gelidi della germanica e della sua espressione
sprezzante e
la fanciulla si chiese, quasi distrattamente, quale fosse il modo
migliore per
avvicinarsi a Unna. Sempre che esista, un
modo migliore per farlo, pensò, con una smorfia.
Persa in quei pensieri, la
ragazza non si accorse dello sguardo penetrante che Donna Erin le stava
rivolgendo; e così la sua voce la fece sussultare.
«E con Ulf, invec0,e come
va?»
La
giovane si morse le labbra,
soppesando la risposta. «Bene, immagino. Noi…
stiamo iniziando a conoscerci,
credo.» La sacerdotessa scrutò con attenzione il
suo volto, come se fosse alla
ricerca di un segno che contraddicesse le sue parole. «Non ti
ha più picchiata,
quindi?»
Lidia
sussultò e avvampò, colta
alla sprovvista da una domanda tanto diretta e dallo sguardo
improvvisamente
allarmato di Caleno. «No, certo che no!»
esclamò, prima di potersi trattenere.
«Si è trattato solo di un malinteso, te
l’ho già detto: lui non intendeva farmi
male.» La fanciulla era consapevole che la sua risposta era
troppo vaga e
sfuggente per essere soddisfacente; e dunque non si sorprese quando la
sacerdotessa sbuffò, sporgendosi verso di lei.
«Lidia, ho visto chiaramente i
segni sul tuo volto, quella mattina. Com’è
possibile che te li abbia fatti
senza l’intenzione di farti del male?»
La
giovane romana la guardò con
gli occhi sbarrati, cercando disperatamente una spiegazione e non
trovandone
alcuna. Lidia sentì il panico montare rapidamente dentro di
lei, mentre, in
preda allo sconforto, si chiedeva perché fosse stata
così stupida da non aver
pensato a una giustificazione plausibile per i lividi che la sua
avventura
notturna aveva lasciato sul suo corpo. Boccheggiando come un pesce fuor
d’acqua, la ragazza cercò di correre ai ripari,
mentre le sue guance assumevano
una sfumatura scarlatta. «Ehm, no»,
balbettò, «in realtà noi
stavamo… ecco,
come dire…» Le parole le morirono in gola e Lidia
si portò automaticamente una
mano alle labbra, sentendosi piccola e stupida, fin quando il Prefetto
non venne
miracolosamente in suo aiuto.
«Erin,
credo che la ragazza sia a
disagio a parlare di certi argomenti» mormorò,
quieto, soppesando Lidia con lo
sguardo. «Del resto, quello che accade tra un uomo e una
donna in camera da
letto dovrebbe riguardare soltanto loro, non credi?»
Intuendo
vagamente quello che
l’uomo stava insinuando, Lidia sgranò gli occhi,
troppo mortificata per
correggerlo, ma la replica di Donna Erin la tolse prontamente
dall’imbarazzo. «Non
se lui le fa del male!» sbottò la sacerdotessa,
perdendo il contegno tranquillo
che l’aveva sempre contraddistinta.
Il
Prefetto la ignorò e tornò a
rivolgersi a Lidia. «Le cose tra te e tuo marito vanno
bene?»
La
giovane annuì. «Sì»
confermò,
con un filo di voce, troppo a disagio per incontrare lo sguardo
dell’uomo. Con
un piccolo sorriso, il romano si volse verso Donna Erin.
«Vedi? Credo che per
ora dovremmo crederle, a meno di segnali evidenti che ci diano ragione
di
sospettare il contrario.»
La
sacerdotessa parve sul punto
di protestare, ma poi annuì, secca; e Lidia, sorpresa,
passò lo sguardo
dall’una all’altro. Perché
improvvisamente la donna sembrava essersi fatta così
arrendevole? Ogni volta che aveva avuto a che fare con lei, le era
parso che Donna
Erin avesse il controllo totale della situazione: lei diceva cosa fare
e gli
altri eseguivano. Perché adesso dava ascolto alle parole di
quell’uomo?
Non un uomo qualsiasi, le fece notare il
suo inconscio, ma un romano.
Vagamente, Lidia si rese
conto che uno dei motivi per cui era stata così restia a
credere alle teorie di
Ulf era l’assenza di una qualsivoglia prova che indicasse che
la sacerdotessa
fosse legata – o comunque parteggiasse – per Roma:
ora che la vedeva interagire
con il Prefetto, Lidia credeva di scorgere una qualche segnale in quel
senso.
«Spero
che questa conversazione
non ti abbia messa a disagio, Lidia» continuò
Caleno, all’oscuro dei sospetti
che stavano attraversando la mente della giovane. «A volte
Erin si lascia un
po’ prendere la mano con queste cose: non era certo sua
intenzione essere
invadente… non è vero?» Quelle ultime
parole erano state rivolte, con un
ammiccamento, alla sacerdotessa, che alzò gli occhi al cielo
e scosse il capo. Lidia
registrò quell’atteggiamento –
nonché il modo in cui il Prefetto ometteva
sistematicamente l’appellativo Donna
nel rivolgersi alla sacerdotessa - e una domanda le si
affacciò spontanea alla
mente: c’era forse qualcosa, tra quei due?
Erin
parve accorgersi dello
sguardo sospettoso di Lidia e improvvisamente si alzò in
piedi, mettendo
bruscamente fine a quella conversazione. «Spero che le cose
stiano davvero come
dici tu, mia cara» disse, avvicinandosi alla giovane romana e
porgendole una
mano per aiutarla ad alzarsi. «In ogni caso, mi raccomando:
se dovessero
esserci problemi, adesso o in futuro, non esitare a venire da
me.»
«Ti
ringrazio, Donna Erin» fece
Lidia, ringraziandola con un piccolo cenno del capo. Quando la
sacerdotessa non
aggiunse altro, la fanciulla si rese conto di essere stata congedata e,
con un
brivido di sollievo, si avviò verso l’uscita, non
prima di aver chiesto alla
padrona di casa di porgere i suoi saluti alla piccola Susi. Mentre
stava per
varcare la soglia, con la coda dell’occhio vide che il
Prefetto fece per
seguirla, ma venne bloccato dalla sacerdotessa, che gli posò
una mano sul
braccio, invitandolo a fermarsi.
Strano, pensò la ragazza,
corrugando la fronte. Quando si trovò di
nuovo all’aperto, con la lettera di Lucilla stretta tra le
mani, Lidia provò la
tentazione di andare subito da Ulf e farlo partecipe delle sue
osservazioni, ma
si trattenne, decidendo di rifletterci un po’ sopra in
autonomia, così da non
farsi influenzare troppo dalle opinioni di suo marito.
«Donna
Lidia!»
Sentendosi
chiamare, la ragazza
si voltò di scatto e vide il Prefetto Caleno correre nella
sua direzione. Malgrado
fosse un suo concittadino, la giovane non era certa di gradire la
compagnia del
soldato e aveva dunque sperato di poterlo evitare, almeno per qualche
tempo:
nel vederlo avvicinarsi con tanta urgenza, Lidia sentì un
filo di
preoccupazione serpeggiarle nello stomaco.
Quando
la raggiunse, l’uomo le
sorrise, piegandosi verso di lei, e Lidia vide che nei suoi occhi verdi
brillavano delle pagliuzze dorate. «Scusa per
l’interrogatorio di poco fa» le
disse, rivolgendole un sorriso d’intesa. «Erin ci
tiene molto, a certe cose.»
«Perché
la chiami Erin?» chiese
lei, senza riuscire a contenersi.
L’uomo
sorrise di nuovo,
passandosi una mano tra i capelli scuri. «So che
può sembrare strano, ma io e lei
siamo amici da molti anni e tra noi certe formalità non
esistono più.» Nell’udire
quelle parole, Lidia provò un tuffo al cuore e, intuendo la
natura del suo
turbamento, l’uomo le posò una mano sulla spalla.
«Sono amico di Erin, è vero,
ma la mia lealtà va a Roma» la
rassicurò.
La
giovane avvampò, disturbata
dal fatto che fosse così facile leggere i suoi pensieri. Anche se, a dire il vero, non è la tua
lealtà, a essere è in
discussione, pensò, affondando nervosamente i
denti nella carne morbida del
labbro. Quando la fanciulla alzò su di lui uno sguardo
incerto, il Prefetto le
si avvicinò ancora di più. «A
proposito», mormorò, con voce così
bassa che
Lidia dovette sforzarsi, per udirlo, «ho qui con me
un’altra lettera da darti.
Scusami se ho aspettato tanto, ma dovevo trovare il momento opportuno
per
farlo.» Così dicendo, l’uomo le
consegnò una piccola busta marrone, una di
quelle che i legionari usavano per la loro corrispondenza privata.
«Immagino
che non ci sia bisogno di dirti chi l’ha
scritta…» aggiunse, guardandola negli
occhi.
Con
il cuore che,
improvvisamente, aveva preso a martellarle in gola, Lidia scosse il
capo,
stringendosi al petto la lettera. «Cosa dice?»
sussurrò, con la voce che
tremava un poco.
L’uomo
si strinse nelle spalle. «A
differenza di Erin, io non ho l’abitudine di leggere le
lettere che non sono
indirizzate a me.»
La
fanciulla annuì, provando
nonostante tutto un senso di gratitudine nei confronti del soldato che
le aveva
consegnato quel piccolo tesoro. «E… se volessi
rispondere?» balbettò,
accorgendosi di non avere alcuna idea precisa di come avesse fatto,
quella
lettera, ad arrivare nelle mani di Caleno.
Il
Prefetto rimase in silenzio
per qualche istante, pensieroso. «Immagino che, in quel caso,
potresti
consegnare la lettera a me, la prossima volta che ci vediamo. Tra poco
più di una
settimana, in paese ci sarà una festa in occasione del primo
di giugno: la
gente celebra l’inizio dell’estate e cose del
genere. Solitamente io non vi
partecipo mai, ma potrei fare un’eccezione,
quest’anno: potremmo incontrarci
allora, così, se avrai scritto qualcosa, sarò io
a far avere la risposta a…
Flavia.»
«Sarebbe
perfetto» annuì lei,
rigirandosi in testa la proposta dell’uomo.
«Però»,
continuò lui, annuendo
appena, «spero che tu ti renda conto che nessuno deve sapere
dell’esistenza di
questa lettera. Se qualcuno ci mettesse sopra le mani saremmo tutti nei
guai:
tu, io, Terzo e anche Flavia. Quindi fai molta attenzione, nessuno deve
vedere
nulla…»
Di
nuovo, Lidia annuì con foga.
«Naturalmente.»
«E
sta anche attenta a non fare
insospettire tuo marito: chissà come potrebbe
reagire» concluse il Prefetto,
cercando il suo sguardo. Davanti a quell’insinuazione, la
fanciulla si sentì
per qualche motivo in dovere di difendere Ulf.
«Starò attenta, Prefetto. Mio
marito però non è cattivo, sai?» disse,
piano.
Il
romano le lanciò una lunga
occhiata. «Mi fa piacere saperlo»
commentò, fissandola intensamente. Dopo un
attimo di silenzio, aggiunse: «Sei ancora convinta di voler
andare a… trovare
Flavia?»
Sorpresa
da quella domanda, Lidia
esitò per un istante, poi annuì.
«Assolutamente. Anche se le cose qui sono meno
terribili di quello che pensavo, questo posto non è comunque
casa mia e queste
persone non sono la mia famiglia» mormorò,
sentendo una strana tristezza
improvvisa scendere su di lei.
«Perfetto»
fece l’uomo, annuendo.
«Se le cose stanno così, vedrò di farti
avere altre lettere, allora.»
Lidia
annuì, rivolgendogli un
piccolo sorriso e affondando le dita nella carta ruvida delle buste che
stringeva tra le mani, cercando in quel materiale le forze che
d’un tratto
sembravano mancarle. «Posso… posso leggerle
adesso?» chiese, rivolta a Caleno,
sollevando appena le lettere.
«Naturalmente»
acconsentì lui. «Prima
permettimi però di accompagnarti a casa: non so a cosa
stesse pensando Erin, quando
ti ha permesso di attraversare il villaggio con la sola compagnia di
quella
ragazzina…»
«Quindi
è davvero pericoloso per
me, qui?» indagò la fanciulla, gettando intorno a
sé uno sguardo circospetto.
«Anche mio marito mi raccomanda sempre di non andarmene in
giro da sola, ma,
sinceramente, non ho mai visto nulla di sospetto, da queste parti: mi
sembra un
villaggio come tutti gli altri.»
«Non
lo so» sospirò Caleno,
scuotendo il capo. «Personalmente, ritengo che nessun
cittadino romano debba
andarsene in giro senza scorta, quando si trova in terra straniera. So
che le
cose possono sembrare tranquille, ma questa è gente che non
manifesta
apertamente i propri sentimenti. Abbiamo combattuto, diversi anni fa:
è passato
parecchio tempo, è vero, ma gli abitanti di queste terre
covano ancora un certo
rancore di fondo, nei nostri confronti, e di certo basterà
una sola scintilla
per far scoppiare di nuovo l’incendio. Dunque…
meglio non rischiare.»
«Meglio
non rischiare, no»
concordò Lidia, sorridendo appena nel notare come le parole
del Prefetto
fossero un’eco quasi esatta di quelle che Ulf le aveva
rivolto poco tempo prima.
«Lo
sai perché ti sto aiutando,
Lidia?» chiese d’un tratto il soldato, fermandosi
per guardarla negli occhi.
«Non è solo perché ho un cuore tenero e
penso che non sia giusto separare due
persone che si amano, ma anche perché credo che tutta questa
storia dei
matrimoni combinati sia una follia. Tu sei una cittadina di Roma, non
un
animale sacrificale, né una merce di scambio. Se in questa
regione c’è un
problema, esso va affrontato e risolto in modo incisivo, non ricorrendo
a
mezzucci da quattro soldi e trucchetti che non fanno altro che mettere
in
pericolo i nostri ragazzi…» Quelle ultime parole
furono pronunciate a bassa
voce, quasi come se Caleno stesse pensando ad alta voce. Non sapendo
bene cosa
rispondere a quelle considerazione – non sapendo nemmeno se
l’uomo si
aspettasse una risposta – la ragazza si limitò ad
annuire, emettendo un suono
neutro.
Quando,
poco più tardi, si fu
accomiatata da lui, Lidia accantonò momentaneamente i
pensieri che la
confessione fattale da Caleno aveva suscitato in lei, estraendo invece
le
lettere dalla tasca del grembiule. La giovane si guardò
attorno, osservando i
panni sporchi ammonticchiati in un angolo della stanza e il pavimento
da
spazzare, ma decise che quelle faccende potevano essere rimandate,
almeno per
un po’: lasciandosi scivolare sulla panca accanto al tavolo
della cucina, Lidia
decise che, prima, avrebbe letto le lettere che le sue amiche
le avevano spedito. Con un pensiero di scusa rivolto a
Lucilla, Lidia aprì per prima quella di Tito.
Mia adorata Lidia, esordiva; e la
fanciulla provò un brivido di
piacere nel sentirsi chiamare così, per
prima cosa voglio chiederti scusa per aver aspettato così
tanto a scriverti e,
soprattutto, per non essere stato in grado di portarti via prima che tu
fossi
obbligata a sposare quel germanico. Spero che la presenza di Terzo e
degli
altri ragazzi possa aiutarti a vivere più serenamente questa
situazione
difficile.
Ti giuro che, se potessi seguire il mio cuore e
fare quello che mi
dice, partirei oggi stesso da Roma e verrei a prenderti, a portarti via
da quei
barbari… ma purtroppo non posso farlo. Ho degli obblighi,
qui a Roma, e una
partenza improvvisa desterebbe troppi sospetti. Per cui ti chiedo di
avere
pazienza e di fidarti di me: se vuoi avere mie notizie, chiedi pure a
Terzo o
al suo amico Prefetto, comunicare con loro è molto
più facile che comunicare
direttamente con te.
Scusa se questa lettera ti sembrerà un
po’ confusa, ma ci sono così
tante cose che vorrei dirti; e così poco spazio per farlo!
In realtà, vorrei solo
sapere che stai bene, nonostante tutto, e che non ti sei dimenticata di
me (io
di certo non mi sono dimenticato di te!). Tra l’altro, so che
il clima su in
Germanica è decisamente più freddo che qui a Roma
(almeno stando a quello che
mi dice Terzo), ma non temere: se tutto va secondo i miei piani, tra un
paio di
mesi potrai crogiolarti al caldo sole del sud e non dovrai
più preoccuparti di
non farti congelare le dita dei piedi, in inverno (ti ricordi?).
Per adesso preferisco non dirti altro: voglio darti
notizie certe e non
illusioni, per cui scusami se la lettera ti sembrerà un
po’ troppo corta,
cercherò di rifarmi con la prossima.
Stammi bene; e ricordati che ti amo.
Un bacio, Amore mio
Tito
Ps. Ho visto tua madre, l’altro giorno:
mi sembrava preoccupata. Se quel
tipo che ti hanno rifilato ti ha fatto del male, giuro che lo ammazzo!
Pps. Dimenticavo: dopo che l’hai letta,
ti conviene bruciare questa
lettera. La prudenza non è mai troppa…
Lidia
lesse e rilesse il
messaggio di Tito, rammaricandosi del fatto che fosse così
corto. Anche se
alcuni passaggi l’avevano leggermente disturbata –
alcuni termini che aveva
utilizzato, la velata allusione al fatto che lei avesse bisogno di
qualcuno che
andasse a salvarla – leggendola le era parso di udire la voce
del ragazzo, di
vederselo lì davanti, pronto a sostenerla e a incoraggiarla
come aveva sempre
fatto.
La
ragazza sorrise, soffermandosi
sul passaggio in cui Tito menzionava il fatto dei piedi congelati:
ricordava
perfettamente l’episodio a cui faceva riferimento il ragazzo.
L’inverno
precedente, durante una gita in montagna, lei e Lucilla avevano deciso
di
emulare i loro amici maschi e di lanciarsi su una lastra di ghiaccio,
slittandovi sopra e cercando di restare in piedi, senza cadere. Se
Lucilla era
uscita incolume dall’esperienza, il ghiaccio, più
sottile del previsto, aveva
deciso di spezzarsi proprio al passaggio di Lidia. Per sua fortuna il
laghetto
era alto solo poche decine di centimetri, in quel punto, ma mentre
facevano
ritorno di gran fretta verso il carro, la ragazza aveva i piedi
così freddi che
aveva temuto che le si staccassero le dita. Anche in
quell’occasione, Tito si
era dimostrato dolcissimo, prendendole i piedi nudi e piazzandoseli
sulla
pancia, per aiutarla a scaldarli.
Tito, pensò, mentre la
nostalgia le stringeva il petto. Mi manchi,
sai? E non ti ho certo
dimenticato… come potrei?
Eppure,
le fece notare la solita
vocina molesta, non pensava più così spesso a lui
come nei primi giorni del suo
matrimonio. È normale,
si disse, la vita va avanti e Tito non
può essere un
pensiero fisso. Però non è cambiato niente, lo
amo come prima.
Facendo
scorrere di nuovo gli
occhi sulla grafia spigolosa del giovane, Lidia sfiorò la
lettera con una mano,
sospirando. Da quello che scriveva, era chiaro che Tito fosse molto in
pensiero
per lei. Voglio rassicurarlo,
decise,
guardandosi rapidamente attorno alla ricerca di qualcosa a cui affidare
il
proprio messaggio. Non aveva carta da lettere, ma un foglio qualsiasi
– anche
uno di quelli un po’ sporchi che Donna Edda usava per
scriverci la lista della
spesa – sarebbe andato bene.
Lidia
respirò a fondo, fissando
intensamente la superficie bianca. Amore
mio, esordì, scrivendo automaticamente le parole
con cui si rivolgeva
solitamente al ragazzo, ho ricevuto solo
oggi la tua lettera, che naturalmente mi ha reso molto felice.
Tuttavia,
desidero rassicurarti, perché mio marito…
La
ragazza si bloccò, prima di
cancellare con un deciso tratto di penna la dicitura “mio
marito”: non era il
caso di mettere l’accento sul legame che esisteva tra lei e
Ulf.
Ecco, scriviamo
“Ulf”…
Quando
l’ebbe scritto, però, la
fanciulla esitò di nuovo. Ma lui
non sa
nemmeno chi sia, Ulf. E poi potrebbe forse sembrargli un po’
troppo famigliare.
Lidia mordicchiò il retro della penna, cercando
un’espressione più
adeguata. Tuttavia, desidero
rassicurarti, perché il germanico mi tratta con riguardo
e…
No, no! Pensò con una smorfia,
cancellando l’intera frase e
gettando la penna sul tavolo. Ulf non
è
solo “il germanico”!
Ma per Tito lo è, le fece
notare una parte della sua coscienza. Nascondendo
il volto tra le mani, Lidia si arrese all’evidenza. Per Tito lo è, ma per me no. Era
inutile continuare a negarlo: in
un modo o nell’altro aveva finito con
l’affezionarsi a Ulf, almeno un pochino,
e non le andava di definirlo semplicemente
“germanico”.
Facendo
a pezzi il foglio e
gettandolo nella spazzatura, Lidia si rosicchiò nervosamente
un’unghia,
pensando che, prima di scrivere a Tito, avrebbe fatto bene a capire
quello che
provava per Ulf. Ecco, adesso mi
servirebbe veramente Lucilla. Si disse, con un sospiro
afflitto. Lei è sempre stata brava
a destreggiarsi
nelle faccende di cuore.
A
quel pensiero, Lidia si
riscosse. Ma io non sono innamorata di
Ulf, su questo non ci sono dubbi. E non ce n’erano
veramente, di dubbi: quello
che provava per suo marito era troppo diverso da quello che provava per
Tito
per essere parte dello stesso sentimento. Però…
forse un po’ a lui ci tengo? Come si tiene a un amico
o… a un fratello?
La
fanciulla emise un sibilo
basso, sarcastica, alzandosi automaticamente dalla sedia e raggiungendo
la
finestra poco distante. L’unico fratello con cui poteva fare
il paragone era
Marco; e lui di certo non era un fulgido esempio di amore fraterno.
Improvvisamente,
un flashback le lampeggiò nella testa. Aveva dodici anni e
Lucilla era seduta
accanto a lei in giardino e intrecciava un bracciale di margherite. L’ho letto sul giornale, stava
dicendo
la sua amica. Per capire se un ragazzo ti
piace veramente, devi pensare di baciarlo. Se ti fa schifo, vuol dire
che non
ti piace. Se invece ti fa pizzicare lo stomaco, vuol dire che ti piace.
Funziona. Se penso a Massimo mi viene caldo, se penso a tuo fratello,
invece,
mi viene da vomitare.
Lidia
sorrise, persa nel ricordo.
Se penso di baciare Tito, sento caldo
attorno al cuore. Se penso di baciare Ulf… La
fanciulla si fermò,
avvampando. Se penso di baciare
Ulf…
Allontanandosi
di scatto dalla
finestra, Lidia afferrò la lettera di Lucilla, lacerandone
l’involucro. NON penso di baciare
Ulf. Non ci penso
affatto! Si impose, con le guance in fiamme e una strana
tensione nel petto.
Con le gambe che le tremavano un poco, la ragazza tornò a
sedersi al tavolo,
prendendosi per un istante il capo tra le mani. La
situazione potrebbe essere leggermente più complicata del
previsto,
riconobbe, con il cuore in gola. Chiudendo gli occhi per qualche
istante, Lidia
si tuffò nella lettera di Lucilla, sperando che le parole
dell’amica la
distraessero dalla sorprendente mezza scoperta che aveva appena fatto.
Dopo
più di mezz’ora, la giovane
posò di nuovo la lettera sul tavolo, con un gran sorriso
stampato sul volto.
Come previsto, il messaggio dell’amica l’aveva
distratta e notevolmente
rasserenata. Lucilla aveva un vero talento per la scrittura, riusciva a
rendere
interessanti e avventurose anche le cose più banali e aveva
raccontato del suo
arrivo ad Afen, del suo matrimonio e della convivenza con suo marito in
un modo
così coinvolgente che a Lidia era parso di leggere un
romanzo.
Un romanzo umoristico, naturalmente. Il
povero Ekbert doveva essere
stato travolto da un ciclone biondo che, per nulla intimorito dal nuovo
ambiente in cui si trovava, aveva preso a riordinare la sua vita
secondo la sua
personalissima visione del mondo, lasciando ben poco spazio per le
opinioni
altrui.
Però sembra che stiano bene, insieme.
Lucilla, infatti, non si
lamentava di suo marito e, anche se sembrava non considerarlo
particolarmente
intelligente, diceva che era un uomo buono e paziente – per forza, altrimenti come farebbe a sopportarla
giorno e notte? –
e che, tutto sommato, era un buon marito. La sua unica pecca era quella
di
essere un pastore e di fondare il suo relativo benessere economico
sugli
introiti legati all’enorme gregge di capre di cui era
l’unico padrone. Enorme
gregge del quale Lucilla, sua legittima consorte, doveva occuparsi
tanto quanto
lui.
Almeno non sono l’unica a dover fare
certe cose, pensò Lidia,
sogghignando.
«Perché
ridi, Meidli?»
Lidia
sobbalzò, portandosi
automaticamente una mano al cuore e raccogliendo con l’altra
i fogli sparsi sul
tavolo, avendo cura di nascondere la lettera di Tito, ancora in bella
vista,
tra le pagine di quella di Lucilla. «Donna Edda!»
esalò, voltandosi a
fronteggiarla. «Mi hai spaventata. Non ti ho sentita
arrivare.»
La
donna non replicò, ma il suo
sguardo si fermò sui fogli che la giovane teneva tra le
mani. «Mi ha scritto
una mia amica» le spiegò Lidia. «Si
è sposata e ora sta ad Afen: mi ha
raccontato un po’ della sua vita.»
«Mh»
commentò Donna Edda, chiaramente
colpita da
quell’informazione. «Hai pulito la
stalla?»
Il
sorriso di Lidia si smorzò e
la giovane si infilò le lettere nella tasca del grembiule.
«No, Donna Edda»
sbuffò. «Lo faccio subito.»
«Schnäll,
Meidli!» abbaiò la
vecchia germanica.
Afferrando
la scopa di saggina,
la ragazza marciò verso il retro della casa. Ma
sì, forse è meglio pensare al letame, invece che
a certe cose: puzza
un po’, ma dà meno preoccupazioni.
***
Quella
sera, a cena, Lidia notò
che Ulf sembrava osservarla con una certa insistenza. La sua coscienza
sporca
le fece immediatamente pensare che, forse, Donna Edda gli avesse detto
qualcosa
delle lettere e che lui si fosse insospettito per un qualche motivo. Meglio affrontare subito l’argomento,
decise. «Sai», disse allora, posando il cucchiaio
nel piatto, «oggi mi ha
scritto una mia amica.»
Lui
la guardò, leggermente
sorpreso. «Ti ha scritto qui? Aveva
l’indirizzo?»
Lidia
scosse il capo, leggermente
amareggiata. «No, la lettera l’ha ricevuta Donna
Erin. L’ha anche letta, se è
solo per questo.» Ulf fece fischiare l’aria tra i
denti, sarcastico, senza però
mostrarsi particolarmente stupito da quell’informazione.
«Comunque», continuò
la giovane, «pare che si trovi bene, su ad Afen. Anche se, da
quello che dice,
la sua vita sembra decisamente avventurosa.»
L’uomo
la osservò in silenzio per
qualche istante, prima di sorridere. «Ti manca, non
è vero?»
Lidia
gli rivolse un sorriso
triste. «Sì, molto. Ci conosciamo da quando siamo
bambine e lei… be’, lei è la
mia migliore amica. Mi manca da morire» mormorò.
Ulf parve soppesare le sue
parole. «Afen, dici» disse, a mezza voce. Quando
Lidia annuì, l’uomo proseguì
«Stavo pensando… a settembre dovremmo avere un
po’ di tempo libero. Forse
potremmo andare a trovarla, se ti fa piacere.»
La
ragazza si illuminò. «Dici sul
serio?» Ulf annuì, sorridendo davanti al suo
entusiasmo. Andare a trovare Lucilla! Sarebbe
magnifico, non vedo l’ora di sentire dalle
sue labbra tutto quello che… Improvvisamente, il
sorriso di Lidia si
spense. Già. Peccato che a
settembre io
non sarò più qui.
L’uomo,
accorgendosi del suo
brusco cambio d’umore, si affrettò a correggere il
tiro. «Solo se ti va,
naturalmente» disse, ignaro del motivo
dell’improvviso sconforto della giovane.
«Non devi sentirti obbligata.»
Lidia
si sforzò di tornare a
sorridere, anche se tutto d’un tratto sentiva di avere la
gola chiusa. «No,
sarebbe bellissimo, davvero. È solo che sono un
po’ triste perché settembre è
lontano.»
Ulf
si strinse nelle spalle. «Lo
so, ma purtroppo non è proprio possibile partire prima di
allora. D’estate ci
sono sempre un sacco di lavori da fare.»
La
fanciulla annuì. «Lo capisco.
Va benissimo così, davvero.» Da
quando le
bugie ti vengono così naturali, Lidia? Si chiese,
con una smorfia. Stare a
Erding l’aveva cambiata; e non era certa che il cambiamento
fosse stato per il
meglio. Prima non mentivo in questo modo,
rifletté.
Prima piangevi anche più spesso,
però, le fece notare la solita
vocina.
«Sei
sicura?» insistette Ulf, squadrandola
con aria critica. «Perché se
c’è qualcosa che…»
La
ragazza scosse la testa,
allungandosi sopra il tavolo e stringendogli brevemente la mano
– anche
toccarlo era diventato molto più facile, ultimamente.
«Non c’è nessuno
problema, dico sul serio.» Improvvisamente la giovane si
ricordò di qualcosa
che forse avrebbe sviato l’attenzione di Ulf dalla sua
tristezza. «Però c’è una
cosa che vorrei chiederti.» L’uomo
sollevò le sopracciglia, sorpreso dal
cambiamento nella voce della giovane, ma non commentò.
«Che tu sappia, c’è un
qualche legame tra Donna Erin e il Prefetto Caleno?»
Ulf
scosse il capo, senza capire.
«No, che io sappia no. Perché me lo
chiedi?»
«Oggi
Donna Erin mi ha invitata a
casa sua per consegnarmi la lettera di Lucilla, la mia amica.
C’era anche lui e
devo dire che mi sono sembrati piuttosto… intimi.»
La
notizia parve sorprendere il
germanico. «Sei sicura di non avere interpretato male la
situazione? Ai sacerdoti
è vietato avere legami sentimentali, pena la perdita del
loro rango.»
Lidia
si strinse nelle spalle. «Non
lo so, forse hai ragione. Il Prefetto del resto sostiene di essere
semplicemente un suo vecchio amico…»
Lo
sguardo di Ulf si concentrò su
di lei. «Gli hai parlato?» Lidia
arrossì, rendendosi improvvisamente conto di
non avere una scusa plausibile per giustificare il fatto di aver
parlato a
quattr’occhi con il romano.
«Sì» ammise. «Voleva sapere
come mi trovo qui in
Germanica.»
L’uomo
annuì, senza indagare
oltre. «E la Sacerdotessa? Ti ha invitata a casa sua
semplicemente per darti
quella lettera?»
La
fanciulla sospirò. «No. In
effetti… in effetti voleva sapere se mi avevi ancora picchiata.»
Ulf
sbuffò, allontanando la sedia
dal tavolo e alzandosi bruscamente in piedi. «Mi
libererò mai di questa
storia?» sbottò, rivolto più a se
stesso che a sua moglie. La giovane si morse
le labbra, nervosa, prima di alzarsi e raggiungerlo. «Sono
sicura che prima o
poi la gente si dimenticherà di questa faccenda»
mormorò. «Del resto, non si
vede nemmeno più il livido.»
Ulf
le si avvicinò e, posatale
una mano sul mento, le sollevò il viso per esaminarlo
meglio. «Vero» confermò. Quando
le dita dell’uomo si posarono sulla sua pelle, la fanciulla
avvampò, con il
cuore in gola. Ulf si accorse del suo rossore e la guardò,
stranito. «Stai
bene? Ti vedo un po’ strana.»
Lidia
deglutì. «Sto bene, sto
bene» lo rassicurò. «Mi gira solo un
po’ la testa. Forse mi sono alzata un po’
troppo in fretta.»
«Hm…»
commentò l’uomo, prima di
lanciarsi in un discorso sul perché, da un certo punto di
vista, odiasse vivere
in un paese così piccolo, dove tutti sapevano tutto di
tutti. Lidia, però, non
lo stava più ascoltando, persa nei suoi pensieri confusi. Non è possibile, si disse, a
denti stretti, stanotte ho dormito addosso a
lui come se nulla fosse; e adesso arrossisco
come una cretina solo perché lui mi tocca la faccia. Non va
bene, non va bene
per niente!
No,
non andava bene: se voleva
vivere serenamente i mesi che la separavano dall’arrivo di
Tito, doveva
certamente imparare a controllarsi. Non poteva iniziare ad avere strane
– e stupide! –
reazioni davanti a Ulf. Non è
cambiato niente, si disse, non deve cambiare niente. Non doveva dimenticare
il modo in cui era nata
quella storia, quella decisione che le era stata imposta
dall’alto e che
l’aveva tanto fatta soffrire: anche se al momento le cose
andavano
indubbiamente meglio, non doveva dimenticare se stessa e quella che era
stata.
Era, tra le altre cose, una questione d’orgoglio, una
questione d’onore.
E
per lei, romana per nascita e
nello spirito, l’onore era tutto.
***
Anche questa settimana, ci tengo a ringraziare
alcune persone. I nuovi
lettori – Fioremargherita e Controcorrente (che non perdono
un colpo), Wasabi
(che ha l’occhio lungo XD), Mazie (che ha scritto un papiro e
ha inquadrato
davvero bene Lidia) e Okapi7 (una parola di conforto
sull’ambientazione, che è
il mio cruccio, fa sempre piacere!).
Un grazie speciale anche ad Arda: è
davvero bello sapere che c’è
qualche lettore “vecchio”, che ha seguito la prima
versione della storia, che
trova la voglia e il tempo di leggere anche questo secondo tentativo
(definitivo, promesso!)
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Capitolo 17 *** 16. Una cena in famiglia ***
Erding -
Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 28
Maggio
Anche
se Lidia le aveva in un
certo senso relegate nel suo inconscio, le parole di avvertimento
rivoltele da
Caleno la resero più consapevole del modo in cui la gente la
guardava. Quando,
la mattina, si recava al mercato accompagnata da Donna Edda, la
fanciulla
lanciava tutt’attorno a sé occhiate circospette,
cercando di valutare il modo
in cui gli abitanti di Erding reagivano alla sua presenza. Anche se la
maggior
parte di essi le sfilavano accanto senza nemmeno notarla,
c’era ancora chi si
soffermava a osservarla con curiosità e, così le
pareva, una scintilla di
malizia nello sguardo. Ciò che più la disturbava,
però, era quello che, di
tanto in tanto, le pareva di notare negli occhi di certi uomini:
un’ombra
torva, cupa, anche malevola, al tempo stesso fredda e bollente.
È tutta suggestione, si diceva
la ragazza, senza trovare il
coraggio di farne parola con la sua accompagnatrice che, un giorno di
fine
maggio, le ingiunse di andare a portare il pranzo a Ulf nella sua
bottega. Da
sola. Lidia non sapeva quale fosse la posizione di suo marito al
riguardo –
anche se sospettava che non avrebbe approvato – ma, quando la
vecchia germanica
glielo propose, lei non osò contraddirla.
Quando
era a Roma, la giovane era
abituata a muoversi da sola – o al massimo in compagnia di
una servetta – nella
più totale autonomia, con la massima libertà di
decidere dove andare: le
settimane passate in compagnia di Donna Edda le avevano quasi fatto
dimenticare
quanto fosse bello poter vagare per le strade senza
l’ingombrante presenza
dell’anziana donna costantemente attaccata alle calcagna.
Tuttavia, quando si
trovò sola nelle vie di Erding, la ragazza si accorse come
la severa figura
della vecchia Edda l’avesse anche in un certo senso schermata
dalle occhiate
dei presenti: quella mattina, Lidia si sentì seguita da
mille occhi, sguardi
penetranti e pungenti come tanti piccoli spilli.
Stingendosi
al petto il fagotto
che Donna Edda le aveva consegnato, Lida allungò il passo,
cercando di
sottrarsi in fretta a quelle attenzioni che la facevano tanto sentire
fuori
posto: anche se non era più bassa di buona parte delle donne
germaniche e i
suoi capelli di un castano slavato erano più chiari di
quelli di molti abitanti
del paese, la giovane romana non riusciva a fare a meno di sentirsi
piccola e
scura, in netto contrasto con il resto della popolazione locale.
Camminando
a testa bassa,
evitando di incrociare lo sguardo di chi le stava accanto, la fanciulla
sfilò
rapida attraverso le vie del villaggio, lasciandosi presto alle spalle
le vie
più trafficate. La bottega di Ulf, nella quale era
già stata un paio di volte,
in compagnia di Donna Edda, si trovava verso i margini del piccolo
paese e, man
mano che si allontanava dal centro di Erding, Lidia sentiva il peso
degli occhi
della gente scivolarle via dalle spalle. Respirando a pieni polmoni, la
ragazza
si ricordò di quanto amasse il mese di maggio, con il suo
profumo di fiori e
con il sole che, pur essendo piacevolmente caldo, non bruciava ancora
la pelle
e gli occhi come quello infuocato dell’estate inoltrata.
Forse dovrei iniziare a passare un po’
più di tempo fuori casa, si
disse, respirando a pieni polmoni l’aria del tardo mattino.
Sì, ma con chi?
Anche se ormai era in Germanica da parecchie settimane, la giovane
romana non
era riuscita a farsi alcuna amica – a meno che non si volesse
ottimisticamente
definire così Donna Edda – e, tra le sue
conoscenze, la donna che era più
vicina a lei per età e per legami famigliari era Unna, una
persona che certo
non l’avrebbe accompagnata in lunghe e spensierate
passeggiate bucoliche.
Quando,
poco dopo, giunse di
fronte alla bottega, la fanciulla la esaminò con
un’occhiata veloce: non vi era
segno di presenza umana e dall’interno non giungeva alcun
rumore. Con un
sospiro rasserenato, Lidia dedusse che suo marito dovesse essere solo
e, rassicurata,
abbassò la maniglia con un gomito. Con un colpo di spalla,
la ragazza socchiuse
l’uscio, certa che all’interno
dell’edificio avrebbe trovato solamente Ulf. «Ti
ho portato da mangiare» annunciò ad alta voce,
guardandosi attorno alla ricerca
del marito.
Gli
occhi azzurri che comparvero
dalla porta aperta che conduceva al locale più interno,
però, non appartenevano
a Ulf, bensì a Unna. Il disappunto che provò
dovette mostrarsi chiaramente
nella sua espressione, perché la germanica
ridacchiò. «A me?» la prese in giro.
Lidia
strinse i denti e sostenne
il suo sguardo freddo. «No, a Ulf, a dire il vero»
ribatté, cercando di non
farsi innervosire dall’indisponente cognata.
La
donna bionda si strinse nelle
spalle. «Be’, meglio così, dopotutto. Mi
sono arrivate certe voci, a proposito
della tua cucina…»
Crepa, pensò Lidia, esalando
lentamente e cercando di non
risponderle malamente: Unna la intimidiva e confondeva, ma la fanciulla
si sentiva
molto vicina a esplodere e dirle una volta per tutte quello che pensava
di lei.
E comunque, pensò ancora,
stizzita, quel traditore doveva proprio andare a sbandierare ai quattro
venti quel piccolo
incidente di percorso?
Respirando
a fondo, Lidia scrollò
le spalle. «Già. Comunque questi sono gli
involtini di Donna Edda, non li ho preparati
io.»
Per
una frazione di secondo,
l’espressione di Unna mutò e il suo sguardo si
appuntò sul fagotto che la
ragazza teneva tra le mani. «Ah»
commentò, in un tono neutro che non riuscì a
celare
il lampo di desiderio che era passato nei suoi occhi chiari.
La
giovane romana non si dette
pena di nascondere il sorrisetto trionfante che le increspò
le labbra: la
vecchia Edda le aveva raccomandato di imparare a cucinare quel piatto
– senza dar fuoco alla cucina, per
grazia
degli Dèi! – perché a Ulf
piaceva tanto e si meritava di mangiare qualcosa
di buono, ogni tanto. A quanto pare questi cosi piacciono a
entrambi i gemelli, non solo a Ulf, considerò
Lidia, studiando il volto
della cognata. Prima di avere però il tempo di formulare una
battuta sagace – e
di trovare il coraggio di pronunciarla – Lidia venne
distratta dalla comparsa
di suo marito.
«Lidia?»
fece Ulf, in tono
vagamente sorpreso. «Mi era sembrato di averti
sentita.»
Distogliendo
lo sguardo da Unna,
la fanciulla si volse verso l’uomo. «Sì,
ti ho portato il pranzo!» esclamò,
avvicinandosi a lui e sorridendo come se vederlo l’avesse
resa incredibilmente
felice. La reazione era certamente un po’ spropositata,
tuttavia la giovane si
sentiva per qualche motivo in dovere di dimostrare qualcosa alla
cognata.
Ulf
le lanciò uno sguardo
stranito, ma accettò il fagotto che gli stava porgendo,
posandolo poi sul
tavolo alle sue spalle prima di aprirlo e sorridere scorgendone il
contenuto.
«Li ha fatti tua nonna» lo rassicurò, e
lui le lanciò un sorriso divertito che
fece sbuffare Unna.
L’uomo
passò rapidamente lo
sguardo tra le due giovani, prima di lasciarsi scivolare su una sedia.
«Voi due
avete già pranzato?» chiese, con il tono di chi
intavola una discussione tra
vecchi amici.
«No,
e a dire il vero ho anche un
po’ fame» rispose Lidia, sovrapponendosi alla voce
di Unna, che invece lo
informava di non avere nemmeno un po’ di languore. Bugiarda, pensò la giovane
romana, memore dello sguardo che la
donna le aveva rivolto poco prima quando aveva scoperto il contenuto
del
fagottino.
Sentendo
di avere l’occasione di
rifarsi almeno in parte della scortesia che Unna le aveva sempre
dimostrato, la
fanciulla si sedette accanto al marito e afferrò con due
dita un involtino,
infilandoselo in bocca. Masticando lentamente, si voltò
appena per osservare di
soppiatto la cognata, che, a sua volta, la guardò schifata.
«Che eleganza»
commentò, sarcastica.
Ulf,
che aveva seguito con
sguardo critico lo scambio silenzioso, scosse il capo, sospirando.
«Non potete
proprio cercare di andare d’accordo?»
Lidia
arrossì leggermente,
sentendosi vagamente sciocca per il comportamento adottato, ma si
strinse nelle
spalle, rifiutandosi di ammetterlo ad alta voce, mentre Unna sibilava
qualcosa
in dialetto. Ulf lanciò alla sorella un’occhiata
secca e Lidia provò un piccolo
brivido di trionfo, ma subito dopo l’uomo spostò
lo stesso sguardo su di lei,
trasformando la sua soddisfazione in irritazione. Ciononostante, un
filo di
vergogna le imporporò ancora di più le guance.
Ha iniziato lei, avrebbe voluto dire,
un’affermazione forse un po’
infantile, ma tuttavia veritiera. Poi, però, Unna
parlò di nuovo, catturando
tutta l’attenzione di Ulf. Anche se non comprese le sue
parole, la giovane
romana avvertì chiaramente l’istante in cui
l’atmosfera cambiò, facendosi d’un
tratto più cupa e colma di una tensione diversa da quella di
un momento prima. I
gemelli si fissarono negli occhi per un istante che alla ragazza parve
lunghissimo, poi Ulf annuì, secco, distogliendo lo sguardo
da quello della
sorella. «Jo» mormorò, così
piano che Lidia dovette tendere le orecchie per
sentirlo.
“Sì” cosa? Si chiese, con
un pessimo presentimento. Senza aspettare una risposta più
articolata, né
rivolgere loro alcun saluto, Unna girò sui tacchi e
uscì dalla bottega,
lasciando Lidia sola con suo marito. «Cos’ha
detto?» chiese la fanciulla, dopo
qualche istante.
Ulf
masticò lentamente un
boccone, prima di darle una risposta che a Lidia parve un po’
troppo vaga per
essere accurata. «Questa sera siamo invitati a cena da mio
padre. Vuole
parlarci di alcune importanti novità.»
Il
fatto che Gefrid desiderasse
passare del tempo con loro era già di per sé una novità e Lidia non
poté fare a meno di insospettirsi davanti a
quell’invito inaspettato. «Quali
novità?»
L’uomo
scosse il capo. «Non ne ho
idea, Unna non me l’ha detto. Immagino che non lo sappia
nemmeno lei.»
«Questa
sera ci sarà anche lei?»
chiese la giovane, cauta. Il cenno di assenso di Ulf la
gettò nello sconforto.
Alzando lo sguardo sull’uomo, però, si rese conto
che anche lui pareva
tutt’altro che rilassato e la fanciulla intuì che
doveva sapere di più di
quello che era disposto a rivelarle in quel momento. «Questa novità riguarda noi o riguarda
tutto il
villaggio?» indagò la ragazza, colta da un
presentimento.
Ulf
fece schioccare la lingua,
lanciandole uno sguardo storto. «Te l’ho detto, non
ne ho proprio idea. Se si
trattasse di una nuova trovata della nostra amatissima
sacerdotessa, però, non me ne stupirei: tutto questo ha un
che di già visto, in
effetti.»
«In
che senso?» insistette Lidia,
avvicinandosi a lui e sedendosi sul tavolo, guardandolo, per una volta,
dall’alto in basso. L’uomo scrollò
appena le spalle. «Mio ha padre ha fatto un
annuncio del genere, il giorno in cui mi ha detto che avrei dovuto
sposarti.»
La giovane aggrottò la fronte, turbata. «Credi che
sia una cosa del genere?»
chiese.
Ulf
piegò le labbra in una
smorfia. «Non lo so, però ho sentito certe
voci… niente di sicuro, solo alcune
cose che mi ha riportato Karl, il marito di Unna, a proposito di alcune
concessioni che si vorrebbero fare a Roma.» Lidia
inclinò la testa, confusa, ma
il giovane scosse il capo. «Per ora è inutile fare
troppe congetture, però: del
resto, tra qualche ora mio padre ci dirà tutto, stanne pur
certa. È solo
questione di portare pazienza fino a questa sera.»
La
fanciulla annuì, poco
convinta, e si portò alla bocca un altro involtino.
C’era qualcosa, in quella
faccenda, qualcosa che aveva respirato in giro per strada e scorto nei
lineamenti tirati di Unna, che la intimoriva. Avrebbe desiderato
parlarne
ancora, magari per sentire Ulf pronunciare qualche parola rassicurante,
tuttavia avvertiva chiaramente che l’uomo non desiderava
discuterne
ulteriormente, almeno per il momento, e così
cercò un argomento di
conversazione che fosse in grado di spezzare il silenzio nervoso che
era calato
nella stanza. «Come va con il lavoro?» chiese,
aggrappandosi al primo pensiero
che le attraversò la mente.
Ulf
sorrise, mentre le sue spalle
si rilassavano in maniera visibile. «Bene, direi. Il mobile a
cui sto lavorando
dovrebbe essere finito in un paio di giorni, se non ci sono
imprevisti.» Così
dicendo, si alzò dal tavolo e raggiunse una cassettiera di
legno chiaro
appoggiata alla parete poco distante. I cassetti non erano nei loro
vani e,
avvicinandosi per osservarli più da vicino, Lidia
notò che due di essi erano
finemente decorati con motivi regolari, eppure sorprendentemente
morbidi e armoniosi.
«Li hai fatti tu?» chiese, ammirata, pur conoscendo
già la risposta. Ulf annuì,
evidentemente fiero del proprio lavoro, e sorrise di nuovo.
«Sei davvero bravo»
commentò la ragazza, sincera, seguendo con la punta del dito
la linea degli
intarsi. «Ti piace il tuo lavoro, non è
vero?» aggiunse, alzando gli occhi
scuri sull’uomo.
«Molto»,
confermò lui, «ma mi
piacerebbe avere qualcuno con cui lavorare. Se solo riuscissi a
convincere
Hermann…»
Quel
commento fatto a mezza voce
attirò l’attenzione di Lidia.
«Perché, tuo fratello non vuole venire a lavorare
qui?»
Ulf
scosse la testa, mentre
un’espressione cupa gli si dipingeva sul volto.
«No» sospirò. «E dire che
sarebbe anche bravo, molto più di me, soprattutto con le
decorazioni. Ma lui
dice di voler fare qualcosa che gli permetta di stare
all’aria aperta…»
Lidia
si strinse nelle spalle. «Be’,
immagino che non lo si possa costringere a fare qualcosa che non vuole
fare…»
L’uomo
abbassò gli occhi,
pensieroso. «Probabilmente no, ma se non si
troverà un lavoro stabile a breve
finirà col diventare un minatore.» Alla fanciulla
non sfuggì la preoccupazione
nella sua voce e le sue labbra si piegarono in un’espressione
inquieta quando
ricordò i minatori che aveva incrociato qualche giorno
prima. I minatori vivono poco,
aveva detto Ulf,
e la fanciulla non stentava a crederlo, ricordando i loro occhi rossi e
la loro
pelle ricoperta di polvere d’argento e roccia.
Mentre
era immersa in quei
pensieri cupi, la voce di Ulf la riscosse. «E tu? Che cosa ti
sarebbe piaciuto
fare?»
La
domanda la sorprese, perché,
in realtà, Lidia non aveva mai avuto dei progetti precisi
per il proprio
futuro. Da bambina aveva sognato di diventare un medico, ma con il
passare del
tempo il suo scarso amore per lo studio l’aveva costretta ad
abbandonare quel
progetto. Da quando si era scoperta innamorata di Tito, poi, si era
convinta
che la sua vita sarebbe stata quella di una moglie e di una madre:
l’idea le
era sembrata piacevole, rassicurante, e lei l’aveva sposata
di buon grado. Del
resto, se fosse diventata la moglie di Tito, non avrebbe certo avuto
bisogno di
lavorare per sopravvivere. Da quando era giunta in Germanica,
però, la
fanciulla si era abituata a vivere alla giornata e non si era
più preoccupata
di pensare a quello che avrebbe dovuto fare per guadagnarsi da vivere.
Immaginava che, da un certo punto di vista, il suo progetto di vita
avrebbe potuto
rimanere valido anche lì: Ulf non era certo ricco come Tito,
ma il fatto di
avere una bottega tutta sua gli permetteva di poter vivere con un certo
agio.
Non tutto sarebbe stato uguale, naturalmente: lì non ci
sarebbero stati
bambini, per lei, e anche il fatto di essere
“moglie” non era che una
copertura, un inganno. Accorgendosi che Ulf stava aspettando una
risposta, la
ragazza deglutì. «Non lo so»
improvvisò. «Credo che mi sarebbe piaciuto
diventare una maestra d’asilo…»
L’uomo
la guardò, corrugando
leggermente la fronte. «Asilo?»
«Sì»
spiegò Lidia. «Un asilo è un
luogo in cui si accolgono i bambini piccoli, quelli che non hanno
ancora l’età per
andare a scuola. Si fanno dei giochi, delle attività, delle
gite… non esistono,
qui?»
Il
germanico scosse il capo. «No.
Però ne ho sentito parlare, ora che ci penso.»
«Ah»
commentò la fanciulla, con
una punta di delusione, accorgendosi di come, improvvisamente,
quell’idea le
sembrasse affascinante. «Be’, questo è
quello che mi sarebbe piaciuto fare. Mi
piacciono i bambini.»
«Sì?»
fece Ulf, distratto, mentre
si voltava per tornare a esaminare un cassetto appoggiato sul piano di
lavoro. Lidia
inarcò un sopracciglio, leggermente sorpresa da quella
repentina perdita di
interesse per la loro conversazione, ma preferì non
insistere oltre e non
chiedersi se a Ulf piacessero, i bambini, e se nelle sue parole
l’uomo avesse
letto qualcosa di più personale di quello che lei aveva
inteso.
***
Lidia
fissò nervosamente la
propria immagine riflessa nello specchio appeso alla parete del bagno.
A denti
stretti, la fanciulla cercò per l’ennesima volta
di costringere dietro a un
orecchio una ciocca ribelle che, ostinata, continuava a ricaderle sulla
fronte.
Abbassando con un sospiro le mani sudate e cercando di asciugarsele nel
cotone
leggero della gonna, la giovane si osservò con occhio
critico, scoprendo mille
piccoli difetti.
La
verità era che non riusciva
proprio a sentirsi a suo agio, con i capelli sciolti. Nel pomeriggio
Donna Edda
era passata da lei e le aveva proibito di raccoglierli nella sua solita
crocchia: solo le vedove portavano i capelli raccolti, le aveva detto
la
vecchia germanica, poiché nella loro società
quella pettinatura era vista come
un segno di lutto. Presentarsi con i capelli raccolti a una cena di
famiglia
sarebbe stato a dir poco irrispettoso. Lidia si era allora rassegnata a
lasciarli sciolti, ma non riusciva a fare a meno di sentirsi nuda,
quasi
indifesa: il fatto di non sentire la famigliare tensione alla base
della nuca
le dava l’impressione di aver dimenticato qualcosa, qualcosa
di importante.
«Lidia!
A che punto sei?»
La
voce di Ulf la fece sussultare
e la ragazza strinse convulsamente le mani sulla ceramica del
lavandino.
«Arrivo» fece, di rimando, lanciando
un’ultima occhiata alla propria immagine
riflessa e stupendosi di quanto spaventati sembrassero i suoi occhi.
Con un
sospiro, la giovane spalancò la porta e si trovò
di fronte il marito, che la
aspettava con le braccia conserte e un’espressione vagamente
annoiata. «Alla
buon’ora» brontolò l’uomo.
«Ti ci vuole sempre mezz’ora, per prepararti ad
andare a cena?»
«Ma
no», si difese lei, «è solo
che non riuscivo a sistemarmi i capelli. Vedi?»
borbottò, portandosi una mano
sul capo e strattonando nervosamente il ciuffo che proprio non voleva
saperne,
di stare al suo posto. «Sono tutta spettinata e…
non volevo fare brutta figura,
con tuo padre.»
Ulf
inclinò leggermente il capo,
osservandola attentamente. «Sei nervosa?» le
chiese, in tono sorpreso.
Lidia
avvampò. «Be’… forse un
pochino?» Davanti allo sguardo scettico del giovane, la
ragazza ridacchiò,
imbarazzata. «Forse un po’ più di un
pochino?»
L’uomo
aggrottò la fronte,
palesemente confuso. «Ma perché? Si tratta solo di
mangiare qualcosa con la mia
famiglia: è tutta gente che conosci, tra
l’altro.»
«Lo
so, lo so» sospirò lei. «Ma
io non sono mai stata a mio agio in mezzo a tanta gente, sai?»
«In
tutto saremo in sette: sette
persone sono tanta gente?»
Lidia
fece un piccolo cenno
d’assenso. «Per me sì» ammise.
Inaspettatamente, Ulf sorrise. «Cosa
c’è?»
indagò lei, confusa da quella reazione. L’uomo si
strinse nelle spalle. «Da
come me le avevano descritte, mi aspettavo che le romane amassero stare
in
società e detestassero la solitudine. Invece tu sei
più selvatica di una
volpe.»
La
fanciulla sospirò. «Non è che
a me piaccia stare da sola, a dire il vero. Quando ero a Roma adoravo
stare in
compagnia, avevo molti amici… ma qui non è la
stessa cosa. Io… come dire, io mi
sento costantemente fuori posto. Prendi la tua famiglia, per esempio:
io non ho
nulla in comune con loro, nemmeno la lingua.»
Un
istante dopo aver pronunciato
quelle parole, Lidia fu sul punto di pentirsene:
quell’affermazione avrebbe
potuto sembrare offensiva, anche se, di fatto, non era quella, la sua
intenzione. La giovane, però, rinunciò a
rettificare quello che aveva detto,
dal momento che esso corrispondeva alla verità. Ulf non
parve prendersela,
però, e scosse appena il capo. «Non è
esattamente vero che non hai niente in
comune con loro: hai me, no?»
Per
qualche motivo, quelle parole
la fecero arrossire e Lidia rivolse al marito una smorfia a
metà tra il
divertito e l’imbarazzato. «Sì, va
be’…» borbottò, guardandolo
di sbieco per un
istante, prima di volgergli le spalle e scendere lentamente le scale di
legno,
sentendosi quasi come un condannato che si incamminava verso il
patibolo.
Dopo
qualche secondo, Ulf la
seguì e la raggiunse, posandole una mano sulla spalla.
«Coraggio, vedrai che
non sarà poi così terribile: è solo
una cena, te l’ho detto. Saremo di ritorno
tra un’ora o poco più.»
«Lo
so» sospirò la giovane
romana, rivolgendogli un sorriso tirato. Per qualche istante, Lidia si
chiese
se fosse il caso di dirgli che non era soltanto la presenza della sua
famiglia,
a metterla a disagio, ma anche e soprattutto l’argomento di
cui si sarebbe
discusso: non aveva dimenticato l’espressione esibita da Unna
quel pomeriggio,
nella bottega di suo marito. Poi, però, la ragazza
chinò il capo e distolse lo
sguardo, pensando che parlarne in quel momento non sarebbe servito ad
altro che
a far perdere loro del tempo e a rischiare di arrivare in ritardo alla
cena.
Ulf
la osservò attentamente e
parve a sua volta sul punto di dire qualcosa, ma poi scosse il capo.
«Vogliamo
andare?» chiese invece, mettendo a tacere qualsiasi pensiero
avesse
attraversato la sua mente un istante prima. Con il cuore in gola e una
sgradevole sensazione all’altezza dello stomaco, Lidia
annuì e lo precedette
fuori dalla porta.
***
Una
decina di minuti più tardi, i
due giovani giunsero in vista della casa di Gefrid e subito vennero
accolti dai
latrati del segugio grigio che aveva dato la caccia a Lidia la sera che
aveva
tentato di raggiungere l’accampamento romano. Quando
riconobbe Ulf, il cane
abbandonò l’atteggiamento guardingo e si
avvicinò, scodinzolando
amichevolmente.
«Ehilà»
mormorò Lidia, allungando
una mano per sfiorare il pelo ruvido che ricopriva il capo
dell’animale. In
cambio ne ricevette una generosa leccata sulle dita e quel tocco ruvido
e
umidiccio riuscì quasi a confortarla.
Un’istante
dopo, la porta
d’ingresso si spalancò e Donna Edda fece capolino
sull’uscio. «Siete in
ritardo» ringhiò la vecchia germanica, posando su
di loro uno sguardo di gelida
disapprovazione.
Apparentemente
poco colpito dal
rimprovero della nonna, Ulf si strinse nelle spalle. «Lo so,
scusa. Sono
tornato a casa tardi e mi sono dovuto preparare in tutta
fretta.» Udendo quella
spiegazione, Lidia gli rivolse un piccolo sorriso riconoscente,
ringraziandolo
in silenzio per non aver detto le cose come stavano e non averle
rivelato che,
se erano in ritardo, era per colpa del tempo che lei
aveva passato chiusa in bagno.
Seguendo
i suoi due
accompagnatori in sala sa pranzo, Lidia deglutì
nervosamente, vedendo che il
resto della famiglia era già seduto al tavolo. Se Hermann le
rivolse un sorriso
radioso, Unna le riservò il consueto sguardo sprezzante,
squadrandola da capo a
piedi con un’irritante aria di superiorità.
«Scusate
il ritardo» esordì Ulf,
prendendo posto di fronte a suo padre e facendo cenno a Lidia di
sedersi al suo
fianco. «Ho davvero un sacco da fare, in questo
periodo.»
«Hai
degli ordini importanti?» la
voce di Gefrid era bassa, ma alla giovane romana parve che il suo tono
fosse un
poco più morbido di quello che l’uomo aveva usato
per rivolgersi al suo
primogenito, negli ultimi tempi.
Ulf
parve sorpreso dalla domanda
del padre, ma sorrise, palesemente sollevato, e rispose di buon grado,
illustrando lo stato del suo lavoro e trovandosi presto impegnato in
una
conversazione sui vantaggi e gli svantaggi del legno d’abete
che Lidia aveva
ben poco interesse a seguire. Anziché prestare attenzione
alle parole, allora,
la fanciulla badò piuttosto al modo in cui venivano
pronunciate e notò con un
certo sollievo che la tensione che in principio regnava tra i due
uomini andava
via via scemando, mentre padre e figlio parevano intenzionati a
lasciarsi alle
spalle le incomprensioni che Lidia stessa aveva causato. Tuttavia, la
ragazza
divenne poco alla volta consapevole di un altro tipo di nervosismo,
qualcosa
che portava Hermann a scoccare occhiate ansiose ai presenti e
costringeva Karl a
un immobilismo elettrico e forzato.
Ma certo, pensò Lidia, quasi
con rassegnazione. Per quanto
piacevoli, i discorsi di Ulf e di suo padre non facevano altro che
rimandare il
motivo per cui la famiglia si era riunita, quella sera: quali che
fossero le novità che
Gefrid intendeva comunicare
loro, era piuttosto evidente che l’opinione comune era che
esse non sarebbero
state particolarmente gradevoli.
Poco
alla volta, Lidia sentì la
tensione montare nuovamente dentro di sé, una sensazione che
culminò nel
momento in cui, dopo un tempo che alla ragazza parve infinito, Gefrid
posò
rumorosamente il bicchiere sul tavolo e si schiarì la voce.
«Veniamo subito al
punto» esordì l’uomo, attirando
immediatamente su di sé gli sguardi dei
presenti. «Vi ho chiesto di venire qui questa sera
perché ci sono delle novità
di cui devo informarvi. Preferisco che le veniate a sapere da me,
piuttosto che
da altri.»
Quelle
parole parvero avere un
effetto immediato su Karl, che spinse indietro la sedia e
posò i gomiti sul
tavolo, posando sul suocero un’occhiata quasi feroce. Al suo
fianco, Unna si
schiarì la voce e irrigidì la schiena, un
movimento che a Lidia ricordò quello
di un gatto che si prepara a balzare sulla preda.
«Senza
girarci troppo attorno»,
continuò Gefrid, senza degnare Karl di uno sguardo,
«vi informo che due giorni
fa mi è arrivata una comunicazione firmata dal Prefetto di
Nemska e dal
generale Leuthar. Forse avrete già sentito delle voci, ma
ora la notizia è
ufficiale: la parte sud della miniera è stata data in
concessione a Roma.
Questo significa che…»
La
violenta esclamazione di Karl
fece sobbalzare Lidia e impedì a Gefrid di terminare la
frase. Immediatamente,
questi si voltò verso il genero, fulminandolo con lo
sguardo. «In latino,
Karl!» abbaiò, guadagnandosi la riconoscenza di
Lidia. Sebbene in quel momento
la ragazza non vedesse cosa ci fosse di tanto importante nella cessione
di un
pezzo di montagna, la fanciulla viveva a Erding da un tempo
sufficientemente
lungo per capire che buona parte dell’economia del villaggio
ruotava attorno
all’argento che veniva estratto dalla miniera.
Karl
strinse i denti e sostenne
ferocemente lo sguardo del suocero, fissandolo in silenzio. Lidia si
rese conto
di non averlo mai sentito parlare in latino e, con una certa sorpresa,
si
ritrovò a chiedersi se il giovane non conoscesse la sua
lingua. Dopo qualche
secondo, però, egli abbassò il capo, facendo
sibilare il fiato tra i denti.
«Quindi dovremo fare spazio ad altri minatori?»
chiese, con un accento talmente
duro e tagliente che la fanciulla sospettò quasi che Karl
esagerasse
appositamente la propria inflessione germanica.
Senza
battere ciglio, Gefrid
scosse il capo. «No, sarete voi a estrarre
l’argento e a versarlo a Roma»
disse, lentamente, valutando la reazione dell’uomo. Con
un’esclamazione di
incredulità, Karl scosse il capo. «Non
lavorerò mai per Roma» sibilò.
«No?»
lo sfidò Gefrid, piantando
i suoi occhi verdi, tanto simili a quelli di Hermann, in quelli del
genero.
«Non lavorare, allora, e fatti licenziare. Sei libero di
farlo, nessuno ti
obbliga: cerca però di non dimenticare le condizioni a cui
ti ho permesso di
sposare mia figlia.»
«Non
è il caso» ringhiò Unna, con
la voce simile alla lama di un coltello. A Lidia parve di vedere
un’ombra scura
attraversare il volto di Gefrid e, per una frazione di secondo, la
giovane
credette di avvertire un cambiamento nell’aria.
L’istante fu però
immediatamente spezzato dalla voce di Karl che, apparentemente poco
turbato
dalla velata minaccia del suocero, tornò
all’attacco. «Perché dovremmo
accettare una cosa del genere? Cosa ci guadagniamo?»
Davanti
a quella provocazione,
Gefrid parve esitare. «Non è una questione di cosa
potete guadagnare, ma di cosa
potete evitare di perdere. Come stavo
cercando di dirvi prima, questa è una situazione in cui
occorre essere
estremamente pazienti: non
è
certamente una situazione ideale, ma nessuno di noi può fare
nulla per
cambiarla, quindi tanto vale cercare di sfruttarla al meglio.»
Karl
commentò quelle parole con
una risata beffarda e Hermann si sentì in dovere di
intervenire. «Forse
costruiranno delle strade» disse, con il tono di chi cerca di
trovare un
aspetto positivo in una vicenda che ne ha ben pochi.
«Potrebbero anche riparare
il ponte che…»
«Questo
è poi da vedere» ringhiò
Karl, interrompendo anche Hermann.
«Che
cosa c’è, da vedere?» chiese
il ragazzo, confuso. «Se ripareranno il ponte?»
L’uomo
gli rivolse un’occhiata
gelida. «Se non c’è davvero nulla da
fare, come dice tuo padre» fece, parlando
quasi come se Gefrid non fosse lì, seduto a poco
più di un metro da lui. Il
capofamiglia inspirò profondamente, preparandosi a
ribattere, ma Hermann fu più
rapido. «Sei un idiota!» sputò, rivolto
al cognato.
Karl
emise un suono di gola, poi
si voltò di scatto verso Ulf, parlando in dialetto.
Immediatamente, l’uomo si
irrigidì, piantando gli occhi in quelli
dell’amico. «No, non ho niente da dire,
in proposito» scandì, in latino, rispondendo
evidentemente alla domanda che
l’altro gli aveva posto. «L’unica cosa
che mi interessa è capire cosa
significherà per me, tutta questa storia.»
Sentendosi
improvvisamente
chiamata in causa, Lidia alzò su di lui uno sguardo incerto.
Tutto d’un tratto,
si chiese se, dietro alle occhiate che la gente le rivolgeva per
strada, non ci
fosse forse quella storia. Ma no, si disse, cercando di rassicurarsi:
lei era
romana, era vero, ma, di certo, nessuno poteva ritenerla responsabile
per
quella decisione presa da altri. Sentendosi
osservata, la giovane alzò gli
occhi fino a incrociare quelli grigi di Karl e tremò,
trovandoli pieni di rabbia.
L’uomo ringhiò nuovamente qualcosa in dialetto e
Ulf gli rispose, nella stessa
lingua e nello stesso tono, guadagnandosi un’altra risposta
da parte
dell’amico, che si alzò in piedi, minaccioso.
Lidia non fu in grado di capire
quello che aveva detto, ma, inaspettatamente, Unna artigliò
il braccio del
marito, costringendolo a tornare a sedersi e sibilandogli qualcosa con
voce
tagliente. Di fronte all’espressione bellicosa della moglie,
Karl parve perdere
un po’ di slancio e posò il mento sui pugni,
lanciando un’occhiata torva a Ulf,
ma astenendosi dall’aggiungere altro.
Accanto
a lei, Lidia sentì Ulf
rilassarsi impercettibilmente, ma non poté fare a meno di
notare la sua aria tesa.
Donna Edda, che aveva seguito lo scambio con espressione distaccata,
spinse
indietro la sedia e si alzò in piedi. «Unna,
Lidia», disse, «aiutatemi a
portare di là i piatti.»
Anche
se sorpresa dal brusco
cambio di argomento, la fanciulla si affrettò a imitare la
cognata, afferrando
qualche piatto vuoto e seguendo l’anziana germanica verso
un’altra stanza. Pur
dubitando che Donna Edda avesse veramente bisogno d’aiuto,
capiva che si
trattava di un semplice pretesto per dare la possibilità
agli uomini di parlare
da soli.
Mentre
posavano i piatti nel
lavello, Lidia azzardò un’occhiata verso Unna.
«Grazie» le disse, tra i denti,
riferendosi al modo in cui aveva ricondotto all’ordine suo
marito: anche se non
ne aveva la certezza, sospettava che l’ira di Karl fosse
rivolta contro di lei.
Unna si limitò a rispondere con un secco cenno del capo e,
senza incrociare il
suo sguardo, si allontanò da lei, lasciandola a fissare la
sua schiena che si
allontanava fino a sparire dietro a un’altra porta.
Leggermente delusa
dall’evidente impossibilità di avviare un dialogo
con la cognata, Lidia scosse
la testa, impilando distrattamente i piatti sporchi.
«Sono
tutti un po’ nervosi.»
Voltandosi,
Lidia incontrò gli
occhi di Donna Edda che, seduta su uno sgabello, la osservava con
sguardo
attento. La fanciulla annuì, asciugandosi le mani bagnate
nella gonna. «L’ho
notato», mormorò, «ma non so cosa fare
per migliorare la situazione.»
L’anziana
germanica emise un
suono sibilante che aveva solo una vaga somiglianza con una risata.
«Niente»
disse. «Non puoi fare niente, ma forse sarà meglio
quando nascerà un bambino.»
Lidia
sbiancò, prima di
avvampare. Cos’è tutto
questo parlare di
bambini, oggi? «Speriamo» disse, quasi
sottovoce, cercando un modo per
sviare la conversazione. La vecchia Edda però non si
lasciò distrarre e
continuò a fissarla con i suoi occhi sorprendentemente
penetranti. «Perché
nascerà un bambino, vero?»
Pur
comprendendo perfettamente il
significato non detto di quella domanda, Lidia finse di ignorarlo.
«Se gli Dèi
lo vorranno…»
Donna
Edda schioccò la lingua, un
suono che ormai la fanciulla aveva capito essere un modo per esprimere
il
proprio scetticismo. «Non devono essere solo gli
Dèi, a volerlo.»
Non
vedendo alcuna via di fuga,
Lidia abbassò lo sguardo sulle proprie mani, terribilmente a
disagio. «Lo so»
mormorò. Lanciando una rapida occhiata alle proprie spalle,
Donna Edda lasciò
lo sgabello e si avvicinò alla ragazza. «A che
punto siamo?» le chiese,
sottovoce.
Lidia
chiuse gli occhi,
arrossendo mortificata. Non voglio avere
questa conversazione, mi rifiuto! Non ricevendo alcuna
risposta, la
germanica insistette. «Dovete darvi da fare, se passa troppo
tempo la gente
mormora!»
La
fanciulla strinse ancora di
più gli occhi e fu seriamente tentata di tapparsi le
orecchie, pur di non
sentire altro. Donna Edda sbuffò, spazientita.
«Devo parlarne con Gefrid?»
Davanti
a quella minaccia, la
giovane spalancò gli occhi. «No, no!»
esclamò, con urgenza. «Ne parlerò con
Ulf»
promise, prima di aggiungere, silenziosamente: per
vedere se a lui viene qualche idea geniale per toglierci da questo
pasticcio.
«Spero»
borbottò ancora la germanica.
«Altrimenti vi faccio io un discorsetto.»
Tremando
d’orrore a quella
prospettiva, Lidia deglutì. «Non ce ne
sarà bisogno» la rassicurò.
***
Quando
le tre donne fecero
ritorno in cucina, i toni della conversazione sembravano essersi
ammorbiditi:
Ulf e suo padre parlottavano tra di loro in quella lingua che a Lidia
risultava
ancora quasi del tutto incomprensibile, mentre Karl, seduto rigidamente
contro
lo schienale della sedia, rispondeva a monosillabi. Quando, dopo una
decina di
minuti, Lidia e Ulf si avviarono verso casa, l’uomo si
rinchiuse in un silenzio
che la fanciulla non ebbe il coraggio di spezzare. Sebbene fosse
impaziente di
confrontarsi con lui, la ragazza si avvide che il giovane sembrava
immerso nei
propri pensieri e decise di non disturbarlo, almeno per il momento,
rimandando
la conversazione di qualche minuto. Quando si furono chiusi alle spalle
la
porta di casa, però, Lidia si voltò
immediatamente verso il marito. «Allora?
Credi che questa cosa sarà un problema?» lo
interrogò.
L’uomo
parve sorpreso dalla
domanda; e la guardò senza capire. «Quale
cosa?»
«Il
fatto della miniera»
chiarificò Lidia, aggrottando la fronte. Ulf le pareva
assente, quasi che i
suoi pensieri fossero lontani mille miglia da lei e dal suo tentativo
di fare
conversazione.
«Ah.»
Con un sospiro, l’uomo si
lasciò cadere sulla panca, nascondendo il volto tra le mani.
«Sì, immagino…
immagino che potrebbe essere un problema. Non tanto per la concessione
in sé,
ma per il modo in cui la gente potrebbe prenderla.»
Lidia
annuì, ricordando la rabbia
del marito di Unna. «Mi pare che Karl l’abbia presa
decisamente male.»
«E
non sarà certo l’unico»
considerò Ulf, con una smorfia preoccupata. «Lui
sa dell’esistenza della
macchina di cui ti ho parlato l’altra sera. Era con me,
l’ha vista. E quasi
certamente anche gli altri minatori sanno che fine fanno le offerte. Se
avessero capito a chi vanno le offerte e se anche loro sospettassero
che la
Sacerdotessa collabora con Roma…» L’uomo
lasciò sfumare la frase e la fanciulla
inspirò profondamente, prima di parlare. «Questa
cosa della miniera però non
c’entra niente con Donna Erin: tuo padre ha detto che
l’ordine è arrivato da un
qualche generale, se non ho capito male. È una faccenda di
economia, non di
religione.»
L’uomo
le rivolse un’occhiata
scettica. «Non sarei tanto convinto che le due cose siano
realmente distinte, a
dire il vero.»
«Ah,
già» ricordò Lidia, con un
sorriso storto. «Tu non ci credi, agli Dèi. Pensi
che i sacerdoti siano tutti
degli impostori?»
«Non
tutti» la corresse Ulf. Non tutti,
ma la maggior parte sì,
concluse per lui la fanciulla, interpretando il tono in cui il giovane
aveva
pronunciato quelle parole. Per l’ennesima volta, Lidia
cercò di farsi una
propria idea su quella vicenda: sebbene, presi singolarmente, i singoli
sospetti di suo marito le parevano piuttosto condivisibili, il modo in
cui
l’uomo le aveva presentato il quadro generale continuava a
sembrarle un po’
troppo fantasioso e inverosimile. «Mi dispiace che tu abbia
litigato con Karl»
disse allora, dopo qualche istante, cambiando argomento.
Ulf
scrollò le spalle. «Non fa
niente» sospirò, a voce bassa. Tuttavia alla
ragazza non sfuggì la sua
espressione cupa, né il rammarico che, nonostante avesse
cercato di
mascherarlo, era emerso dalle sue parole. Sentendosi improvvisamente
inadeguata, Lidia gli si avvicinò, cercando di trovare delle
parole per
confortarlo un po’. «Capita di litigare, tra
amici», mormorò, sperando di non risultare
stupida o scontata, «ma alla fine le cose tornano a posto,
no?»
Alzando
appena lo sguardo su di
lei, Ulf annuì. «Immagino di
sì…»
La
fanciulla lo guardò,
mordendosi le labbra. «Ma…?»
abbozzò, sentendo che, dietro alla mezza frase del
giovane, c’erano un’infinità di
significati non detti. Lui si strofinò
stancamente gli occhi. «Ma mi sembra di essermi fatto terra
bruciata attorno»
ammise, amaramente. «Unna, Karl, mio padre, gli altri miei
amici… tutti odiano
Roma e io mi sento tirato in mezzo. Ci sono giorni in cui non so
più nemmeno io
da che parte stare. A volte ho l’impressione di essermi
inavvertitamente
schierato dalla parte del nemico e questa cosa mi fa
impazzire!»
Lidia
sgranò gli occhi, stupita.
«Di esserti schierato dalla parte
del
nemico?» ripeté, esterrefatta.
«E cosa ti darebbe questa impressione,
esattamente?» Ulf non disse niente, ma la sua espressione
diede a Lidia la
risposta che stava cercando. «Io
sarei il nemico?» sibilò, indietreggiando di un
passo.
Ulf
abbassò la mano che gli
copriva il volto e la fissò per qualche istante, sorpreso.
«No» replicò,
alzandosi e avvicinandosi a lei.
«No?»
lo sfidò la ragazza,
sentendosi ferita dalle sue parole. Capiva perfettamente quello che Ulf
aveva
voluto intendere, eppure sentirlo parlare in quel modo le aveva causato
una
sgradevole sensazione allo stomaco. Quasi senza rendersene conto, la
giovane
mosse un passo verso le scale che portavano al piano superiore, ma Ulf
le
afferrò le mani, arrestando la sua fuga. «Non tu,
Lidia, al massimo Roma!»
sbottò, con una vena di irritazione nella voce.
«Ma
io sono romana! Io sono
Roma!» esclamò lei, piccata, quasi senza
accorgersi di avere alzato la voce.
L’uomo
non parve particolarmente
impressionato dal suo sfogo. «Addirittura? Tu
sei Roma? Se fossi in te, non avrei una così alta
opinione della tua città,
sai? Mi pare che Roma non ci abbia pensato due volte a usarti come
merce di
scambio.»
Rifiutandosi
di perdere quel
confronto, Lidia fece un passo avanti, risoluta. «Nemmeno la
tua gente ci ha
pensato molto, prima di costringerti a sposarmi!»
ribatté, fissandolo negli
occhi.
Ulf
scosse la testa. «Non è la
stessa cosa.»
La
fanciulla sbuffò. «Pensala
come vuoi», ringhiò, «ma io sono e
sarò sempre romana, che ti piaccia o meno!
Se la mia città è un tuo nemico, allora lo sono
pure io!» Immediatamente si
pentì di quell’affermazione azzardata, eppure non
riuscì a rinnegarne la verità
di fondo.
L’uomo
chiuse brevemente gli
occhi, come per cercare di controllarsi. «Lo so, che sei
romana: è difficile
scordarselo, purtroppo. Ma non sei solo
romana: adesso vivi qui, qualcosa vorrà pur dire!»
«E
tu?» lo provocò Lidia,
ignorando le sue parole. «Sei solo germanico, tu? Stai con
me, sarai pure un
po’ romano, no?»
Ulf
la guardò come se l’avesse
insultato. «No!»
«No?
Solo no?»
sibilò la giovane, mentre la rabbia le faceva pulsare le
tempie. «Io devo adattarmi e cambiare, ma tu no?»
Qualcosa nella sua testa le sussurrò che non era quello il
punto, che era sbagliato insistere in quella discussione, ma il rancore
e la
frustrazione che aveva tenuto dentro di sé per tutto quel
tempo le incendiarono
il petto, impedendole di ritornare sui propri passi.
«Mi
pare inevitabile: sei tu che
vivi a casa mia, non viceversa!» le fece notare Ulf, senza
mai lasciare la
presa dalle sue braccia.
L’ingiustizia
di
quell’affermazione la fece avvampare.
«Be’, mi sembra un po’ troppo comoda,
così! Non ho chiesto io di venire qui, non vedo
perché dovrei essere l’unica a
fare dei sacrifici» ringhiò, dimenandosi nel
tentativo di sottrarsi alla presa
dell’uomo.
«Credi
davvero che io non abbia
fatto dei sacrifici? Credi che la mia sia una posizione comoda?»
chiese Ulf, con il tono di chi è esasperato da i capricci
di un ragazzino petulante. «Sono rimasto praticamente solo,
ho litigato con
tutte le persone a cui tengo, non mi pare che tu sia l’unica
a potersi
lamentare!»
«E
cosa dovrei dire io, allora? Io
invece sono davvero sola! Sono
lontana migliaia di chilometri da casa e la mia unica compagnia sei tu!»
L’uomo
fece sibilare l’aria tra i
denti. «Mi dispiace per te» disse, sarcastico.
Lidia
annuì, scostandosi i
capelli dagli occhi con un gesto secco del capo.
«Vorrà dire che meno avrò a
che fare con te e meglio sarà!» sbottò.
L’affermazione suonò infantile alle sue
stesse orecchie, ma la ragazza spinse testardamente il mento in avanti
e
sostenne lo sguardo del giovane.
«Fai
come credi!» commentò lui,
gelido.
Tra
i due calò il silenzio e, con
i polsi ancora intrappolati tra le mani di Ulf, Lidia si
sentì improvvisamente
sola e sperduta. Ricacciando indietro la rabbia e la stanchezza, la
fanciulla
sorrise amaramente, mentre, tutto d’un tratto, i suoi occhi
rividero il volto
di Donna Edda. «E farai meglio a parlare con tua nonna,
perché si aspetta di
vedere un bambino in tempi rapidi.»
La
voce le si spezzò e la ragazza
sentì con orrore lacrime di frustrazione offuscarle la
vista. Lidia inspirò a
fondo, cercando di riprendere il controllo su di sé, ma la
tensione della
giornata, il litigio con Ulf, le cose che non avrebbe voluto dire
– ma che in
una certa misura pensava veramente – le pesavano sulle spalle
e la giovane
sentiva come un peso immenso schiacciarla a terra.
Improvvisamente
Ulf la tirò
contro di sé e, senza una parola,
l’abbracciò. Con un sospiro che suonava quasi
come un singhiozzo, Lidia si avvinghiò a lui, passandogli le
braccia attorno
alla vita e stringendolo più che poteva, nascondendo il viso
nel suo petto. «Non
è stata una serata facile» mormorò
l’uomo, accarezzandole i capelli. Nell’udire
la sua voce, la giovane si chiese se si sentisse stanco tanto quanto
lei.
Lidia
non rispose, ma respirò
l’aroma del legno d’abete che ancora gli era
rimasto addosso e quel profumo la
confortò un poco. Con delicatezza, Ulf la scostò
da sé e, posandole due dita
sotto il mento, le alzò la testa fino a incrociare i suoi
occhi arrossati. Vergognandosi
della propria debolezza, Lidia voltò il capo di lato,
appoggiando la guancia
contro la mano di Ulf.
«Hai
davvero litigato con tutti a
causa mia? Se è così, mi dispiace»
sussurrò, con gli occhi chiusi. L’uomo le
accarezzò la guancia e la attirò di nuovo a
sé. «Non è colpa tua,
naturalmente»
mormorò, accarezzandole la schiena.
In
silenzio, con la fronte
appoggiata al suo sterno, Lidia ascoltò le sue carezze, il
calore del suo corpo
e sentì la rabbia e lo sconforto scivolare via, lasciando al
loro posto una
strana tensione. Con te mi sento meno
sola, pensò, ma non osò dirlo.
«Mi
dispiace che tu sia così
sola» fece il giovane, dopo qualche istante, quasi le avesse
letto nel
pensiero. «E mi dispiace che tu abbia dovuto lasciare il
mondo che hai sempre conosciuto.»
Aprendo
gli occhi e alzando il
capo, Lidia osservò il suo volto, leggendovi preoccupazione
e forse anche
qualcos’altro e, quasi inconsciamente, fece scivolare le mani
sul suo petto,
su, fino ad arrivare a cingergli il collo. L’uomo
seguì in silenzio i suoi
movimenti e, quando incrociò i suoi occhi chiari, Lidia non
si sentì nervosa,
né a disagio, ma provò solo un senso di quieto
tremore.
In
quell’istante le sembrò giusto
essere lì e, senza pensare a niente, si alzò
sulla punta dei piedi e posò le
labbra sulle sue. Immediatamente sentì i muscoli di Ulf
tendersi per la
sorpresa, ma la ragazza intrecciò le dita ai suoi capelli e
schiuse leggermente
la bocca, accarezzando le labbra dell’uomo con le proprie.
Quando lui continuò
a rimanere immobile, senza allontanarla, ma senza nemmeno ricambiare il
bacio,
la fanciulla lo sfiorò appena con i denti, rabbrividendo
quando sentì la presa
che l’uomo aveva sui suoi fianchi farsi più salda.
Fu solo un istante, poi una
mano di Ulf corse fino alla sua nuca e, affondando tra i suoi capelli,
le fece
inclinare il capo, approfondendo il bacio e insinuandosi nella sua
bocca. Lidia
tremò, aggrappandosi a lui con il cuore in gola e quando la
sua mano scivolò
lungo la sua schiena, lasciando dietro di sé una scia che le
parve infuocata,
desiderò che andasse oltre. Dopo qualche istante
però Ulf si staccò da lei,
appoggiando la fronte su quella della ragazza, col respiro leggermente
affannato.
Il
distacco schiarì le idee a
Lidia, che avvampò. Cosa…
cos’è successo?
Prima
di riuscire a formulare un
pensiero coerente, si allontanò di qualche centimetro
dall’uomo e, incrociando
il suo sguardo, vide che pareva confuso tanto quanto lei. La
consapevolezza di
non essere la sola a essere spaesata da quello che era appena accaduto
la calmò
un poco e Lidia deglutì, sentendo il bisogno di dire
qualcosa, di spiegare, ma
senza trovare le parole per farlo.
«Io»,
provò, «non è che…
è solo
che…» Si interruppe, in affanno, e Ulf le
posò un dito sulle labbra, facendole
socchiudere per un istante gli occhi. «Forse non è
il caso di parlarne adesso…»
sussurrò deglutendo.
Ottima idea! Esclamò una
vocetta nella mente della ragazza, mentre
la sua coscienza l’accusava di vigliaccheria. Accantonando
quei pensieri, la
fanciulla annuì, posando nuovamente le mani sul petto
dell’uomo. Mentre i suoi
occhi si chiudevano, Lidia si lasciò cullare dal respiro del
giovane, cercando
di scacciare i dubbi e i sensi di colpa che già si
affacciavano alle porte
della sua mente e di ignorare quegli strani brividi di
felicità che le
correvano su per la schiena, fermandosi, caldi e liquidi, nel centro
del suo
petto.
***
Oggi sono a casa, quindi anticipo di qualche ora la
pubblicazione del
capitolo.
Ormai sono in ritardo per gli auguri di Natale,
però ne approfitto per
augurare a tutti buon Anno!
|
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Capitolo 18 *** 17. Alla luce del giorno ***
L’aveva
baciata. Non riusciva
davvero a credere che, dopo aver giurato e spergiurato di non essere
minimamente interessato a lei, si fosse arreso e l’avesse
baciata. Che poi, a
voler bene vedere, era stata lei a
baciare lui, e non viceversa: ogni
volta che ripensava a come Lidia avesse inaspettatamente preso
l’iniziativa, il
giovane avvertiva un sussulto che era a metà tra lo stupito
e l’indispettito.
Perché
l’aveva fatto? E perché,
soprattutto, lui non l’aveva fermata?
Domanda retorica, lo
rimproverò la sua coscienza. Se voleva sperare
di far chiarezza nei i suoi pensieri e nelle sue emozioni, doveva per
forza di
cose essere onesto, se non altro con se stesso.
Voltando
lo sguardo verso destra,
Ulf sfiorò con una mano il fianco di Lidia, sollevato dal
fatto che, dopo avere
a lungo finto di dormire, la ragazza avesse veramente ceduto al sonno e
si
fosse addormentata tra le sue braccia. Certo, gli dava la schiena, ma,
se il
contatto con il suo corpo non l’aveva fatta scappare a gambe
levate, allora
forse gli avvenimenti di quella sera non avevano distrutto il fragile
equilibrio sul quale si reggeva il loro rapporto. O
almeno lo spero, considerò il giovane,
rimpiangendo di non essere
in grado di valutare con più sicurezza le reazioni della
moglie.
La
verità era che quella donna lo
confondeva. Era da quando era arrivata a Erding che la stava studiando
e, dopo
diverse settimane passate insieme, Ulf sentiva di non averla ancora
compresa in
pieno. Sulle prime gli era parsa fragile e inutile,
irritante nel suo continuo abbattimento, ma poi l’aveva vista
impuntarsi,
tenergli testa, prendere decisioni inaspettate e, sebbene ci fosse
indubbiamente una fragilità di fondo in lei,
l’uomo aveva pian piano dovuto
ricredersi sul suo conto. Lidia, ne era convinto, era più
forte di quello che
sembrava, probabilmente più forte anche di quello che lei
stessa credeva di
essere. Il problema era che sembrava non voler rendersene conto,
lasciando che
le sue potenzialità andassero sprecate.
Sospirando
piano, l’uomo si
lasciò scivolare un po’ più vicino a
lei, appoggiando il petto alla sua
schiena. O forse sono solo io che mi
illudo che sia così, e questa poveretta davvero non ce la fa
ad andare oltre…
Improvvisamente,
Lidia tremò nel
sonno e Ulf la guardò, allarmato. Non
si
rimetterà mica a tremare, vero? Non avrebbe
saputo dire quando avesse
incominciato a preoccuparsi per lei, a desiderare che stesse bene.
Sulle prime
si era preoccupato soltanto di garantirle una vita dignitosa, badando
soprattutto a incontrarla il meno possibile: per non disturbarla
imponendole la
sua presenza, sì, ma anche per non essere a sua volta
disturbato da lei. Poco
alla volta, però, le cose erano cambiate e lui aveva
iniziato a sentire il
desiderio di coinvolgerla nella sua quotidianità, di
confrontarsi con lei, di
mostrarle come fosse possibile anche per lei trovare un proprio posto
lontana
da Roma. Aveva iniziato a sperare che fosse soddisfatta della vita che
aveva,
poi aveva iniziato a chiedersi se fosse possibile che
quell’ipotetica
soddisfazione si trasformasse in felicità.
A
ripensarci, doveva ammettere
che si era probabilmente trattato di un processo graduale –
un processo nel
quale una parte importante era stata svolta da quei suoi maledetti
occhi neri.
Lei lo guardava con quegli occhi spalancati e lui sentiva il bisogno fisico di fare qualcosa per lei, di
difenderla e di rassicurarla, quasi avesse a che fare con un cucciolo
bisognoso
di protezione. Che poi fosse calda e morbida e che le sue mani che si
aggrappavano
a lui lo facessero rabbrividire non era che un piccolo dettaglio.
Ma
Lidia non era un cucciolo,
bensì una donna, il che rendeva infinitamente più
complicata l’intera faccenda.
Perché, se da un lato Ulf doveva riconoscere di avere a
cuore il suo benessere
e di essere in un certo modo interessato
a lei, almeno dal punto di vista fisico, il fatto che Lidia fosse una persona e, per la precisione, una
persona straniera, era un problema.
Anche se i toni erano stati un po’ troppo accesi, le cose che
si erano detti
durante la discussione che avevano avuto quella sera non erano del
tutto false:
Lidia era romana e, sebbene la cosa
non gli piacesse nemmeno un po’, con ogni
probabilità lo sarebbe sempre stata.
Avvicinandosi
ulteriormente alla
ragazza, Ulf respirò il profumo dei suoi capelli, sapone e
qualcosa di dolce
che non riusciva a identificare. La tangibilità della sua
presenza lo portò a
pensare, quasi automaticamente, alle circostanze che
l’avevano condotta da lui.
Non
aveva mai voluto sposarla,
eppure, allo stesso tempo, non si era mai veramente opposto alla
decisione di
suo padre. Quando Gefrid gli aveva detto di avergli trovato una sposa
romana,
Ulf aveva borbottato, ma senza troppa convinzione: sapeva infatti che
le sue
obiezioni non sarebbero valse a nulla. Il giovane era consapevole che,
se si
trovava in quella situazione, non era certo per volontà di
suo padre, ma
piuttosto per un’imposizione degli Alti Sacerdoti che, per
motivi che
trascendevano la sua comprensione, avevano stretto un accordo con
l’Imperatore
di Roma. Quando Donna Erin si era recata da lui per raccogliere le sue
impressioni sull’intera faccenda, Ulf aveva appreso due cose:
in primo luogo,
aveva scoperto che lo scopo di quelle unioni era di garantire pace e
prosperità
alle loro terre e, in secondo luogo, aveva intuito che qualsiasi
risposta poco
meno che entusiastica sarebbe stata non
gradita e avrebbe potuto avere ripercussioni negative sulla
sua famiglia.
C’era
qualcosa di sottilmente
inquietante, in Donna Erin. Ulf l’aveva guardata con sospetto
sin da quando,
più di nove anni prima, aveva fatto la sua comparsa al
villaggio: come tutti,
nemmeno lui aveva potuto fare a meno di trovare curioso
il fatto che la donna e il manipolo di legionari che si
erano stabiliti alle porte del villaggio fossero arrivati quasi in
contemporanea. Negli anni successivi, alcuni atteggiamenti e alcune
decisioni
della Sacerdotessa gliel’avevano resa ancora più
invisa e, poco alla volta, Ulf
si era convinto che di lei fosse meglio non fidarsi.
Al
di là di quelle che potevano
essere considerate antipatie soggettive, comunque, una cosa era certa:
Donna
Erin aveva dei legami molto forti con gli Alti Sacerdoti e dunque
contraddirla
– o, peggio ancora, sfidarla – non era
consigliabile. Per questo motivo,
davanti a lei Ulf aveva fatto buon viso a cattivo gioco e, pur senza
manifestare un entusiasmo eccessivo, aveva accettato di sposare quella
che per
lui non era altro che una sconosciuta.
Stringendo
tra le dita una ciocca
dei capelli di Lidia, il giovane ripensò a quello che Unna e
Karl gli avevano
detto, quando lui si era rivolto a loro in cerca di uno sfogo e di
comprensione. Sin dal principio, Karl era stato profondamente convinto
di una
cosa: gli sforzi dei sacerdoti per mantenere la pace erano
inevitabilmente
destinati a fallire. Possono fare quello
che vogliono, diceva, possono
costringerci a sposare chi meglio credono, ma non cambierà
niente: la guerra
scoppierà comunque. E lo diceva in tono di
trionfo, quasi che la battaglia
fosse un traguardo a cui mirare e non qualcosa dal quale guardarsi
attentamente.
Ulf non gliene aveva mai fatto una colpa e, anzi, all’epoca
comprendeva appieno
le sue motivazioni: per quanto terribile sarebbe stata una guerra, essa
appariva comunque preferibile a una dominazione straniera.
Non preoccuparti, gli diceva dunque Karl, dovrai solo portare un po’ di pazienza.
Non sarebbe servito
sfidare apertamente Donna Erin, perché, quando si sarebbe
iniziato a
combattere, le leggi ordinarie sarebbero venute meno e lui sarebbe
stato libero
di allontanare quella moglie indesiderata. Avrebbe potuto mandarla via,
liberarsi
di lei una volta per tutte: un’idea che in principio Ulf
aveva trovato
profondamente invitante.
Ma non sappiamo quando questo accadrà,
aveva aggiunto Unna, quasi
sottovoce, perciò, se le cose
dovessero
andare per le lunghe, ti converrebbe farle fare un figlio.
Così, per evitare di
fare insospettire quella là.
Ah. Un figlio. Al solo pensiero, Ulf
tremò dall’orrore. No, non
voleva un figlio da Lidia, né allora né mai. Il
bambino sarebbe stato mezzo
romano, una prospettiva che lo disturbava oltre ogni dire. Ma mandarla
via?
Poteva davvero mandare via quella ragazza che, in un modo o
nell’altro, era
ormai parte della sua vita? Voleva
davvero mandarla via? Non poteva certo dirsi innamorato di lei, ma,
cionondimeno, sentiva di volerla tenere vicino a sé
– fisicamente e idealmente
– e il pensiero di rimandarla a Roma gli causava una
pressione dolorosa al
torace, un senso di angoscia che gli stringeva la gola e gli mozzava il
respiro.
Istintivamente,
Ulf inspirò a
fondo, cercando di scacciare la sensazione sgradevole che gli gravava
sul
petto. Più ci pensava e più credeva che Karl
avesse ragione: la pace non
sarebbe durata in eterno. I segnali erano presenti già da
tempo, occorreva
soltanto avere la sensibilità necessaria per coglierli, e la
vicenda della
miniera non avrebbe fatto altro che accelerare le cose. Quando la
guerra
sarebbe scoppiata, sarebbe stato giusto chiedere a Lidia di rimanere
con lui?
Avrebbe avuto senso farlo? Perché, se era arrivato a un
punto in cui non poteva
più negare che Lidia non gli era esattamente indifferente,
era altrettanto
innegabile che tra di loro esisteva un problema di fondo: loro due, in
comune,
non avevano nulla. Come potevano sperare di andare da qualche parte, se
a
unirli non c’erano valori condivisi né progetti in
comune, ma solo
un’imposizione calata dall’alto?
I progetti potremmo farli adesso, insieme,
rifletté il giovane, facendo
scivolare delicatamente un braccio attorno alla vita della ragazza. E
forse era
vero, ma doveva riconoscere che non sarebbe stato facile e che, per
farlo,
entrambi avrebbero dovuto impegnarsi a fondo. Non solo: avrebbero anche
dovuto
mettere da parte le loro differenze, per quanto possibile. Ma Lidia era
ancora
ferocemente attaccata a Roma e lui, dal canto su, sentiva di non potere
andare
oltre al suo odio per l’Impero. Voleva Lidia, ma non la
romana.
Ma le due cose sono imprescindibili.
Se,
istintivamente, Ulf sentiva
di volere la fanciulla per sé, la sua mente si ribellava a
quella prospettiva e
gli ricordava ogni più piccolo dettaglio, ogni sfumatura
dell’odio bollente e
della disperazione che aveva provato un pomeriggio di tanti anni prima,
quando
la vita l’aveva messo di fronte a una scelta che non avrebbe
mai voluto
prendere. Quando ripensava a quel giorno, Ulf sentiva di non riuscire
ad andare
oltre alla barriera del suo nome, delle sue origini e delle differenze
che esistevano
tra loro.
E
poi, naturalmente, c’era la
questione di cosa volesse lei. Del
resto era Lidia quella che aveva tentato di scappare, cercando con ogni
probabilità di raggiungere l’accampamento dei
soldati e, forse, di tornare a
casa sua, a Roma.
Chissà se ha cambiato idea, o se sta
solo aspettando il momento
migliore per filarsela di nuovo. Le sue labbra si tesero in
un sorriso
amaro. Sai che ridere, se anche lei ha in
programma di piantarmi in asso… io mi faccio tutti questi
problemi, ma magari
una cosa in comune ce l’abbiamo.
Certo,
il desiderio di cercare
una via di fuga da quell’accordo non desiderato non era la
base migliore su cui
costruire un matrimonio duraturo, ma era forse… un punto
d’intesa?
Non che abbia veramente importanza,
perché io non lo so, se ho voglia
di lasciarla andare.
Ma
se lei avesse voluto andare,
sarebbe stato giusto trattenerla? Se non aveva giudicato male la
situazione, la
fanciulla sembrava fidarsi maggiormente di lui, non era più
così nervosa in sua
compagnia e non sembrava più odiarlo come ai primi tempi. Ah! Se proprio le facessi schifo, non mi avrebbe
baciato, no? Subito,
Ulf si corresse. A meno che non
l’abbia
fatto perché avevamo litigato e voleva…
voleva… boh, chi lo sa cosa voleva! Poi,
un altro pensiero, che lo incupì ulteriormente. E, naturalmente, chissà se mi avrebbe
baciato comunque se avesse saputo
di quel giorno.
Non
che intendesse parlarle mai
di quel giorno, a dire il vero:
quella era una faccenda tra lui e Unna, qualcosa che non riguardava
nessun
altro, se non forse Karl. Era un’altra vita, un altro mondo,
un microcosmo di
cui la sua giovane sposa non avrebbe mai potuto fare veramente parte,
indipendentemente da quello che sarebbe stato il loro futuro. Lidia non
avrebbe
mai avuto il diritto di giudicare le sue azioni, tuttavia Ulf non
poteva fare a
meno di pensare di averle fatto un torto nel scegliere di celarle quel
particolare, sebbene l’occasione di parlarne si fosse
presentata più volte. Mi dispiace,
sai? Pensò, stringendo un
po’ di più la presa attorno alla vita della
fanciulla. Ma non posso scegliere tra te e
Unna.
Avrebbe
voluto che le due donne
imparassero ad andare d’accordo, anche se sapeva che
difficilmente il suo
desiderio si sarebbe avverato: l’avversione di Unna per tutto
ciò che aveva a
che fare con Roma sarebbe stata troppo difficile da abbattere.
«Che
cosa devo farci, con te?» chiese,
in un sussurro impercettibile, avvicinando il volto alla nuca della
fanciulla.
Era una domanda che le aveva fatto molte volte, ma quella volta era
rivolta più
a se stesso, che a lei. Era abituato, nella vita e sul lavoro, ad avere
una
visione d’insieme che gli permettesse di avere uno schema
preciso secondo il
quale procedere: sebbene si sforzasse di avere sotto controllo ogni
particolare, però, con Lidia non riusciva ad avere quel
quadro completo che gli
sarebbe piaciuto avere; e la cosa lo innervosiva.
Forse dovrei procedere per gradi,
pensò. Prima di tutto doveva
assicurarsi che Lidia non corresse alcun pericolo: le stesse tensioni
che un
tempo aveva guardato con favore, perché sarebbero state la
possibilità di
liberarsi di una moglie sgradita, adesso lo innervosivano,
perché sapeva che
costituivano un elemento di pericolo per Lidia… e forse
anche per lui, se
quello che aveva sibilato Karl a cena aveva un fondamento.
In
secondo luogo… in secondo luogo
devo capire quello che le
passa per la testa. «Mh?»
sussurrò, accarezzandole una guancia. «Tu ci vuoi
restare, con me, o no?»
Domani, si ripromise. Domani
vedremo di capirci qualcosa. Perché, sospettava,
la pace relativa in cui
avevano vissuto in quelle ultime settimane sarebbe presto giunta al
termine.
***
Non
fu la luce del sole a
svegliarla, ma l’eco di un sogno già dimenticato
che le fece battere il cuore e
rizzare i capelli sulla nuca. Che ore
sono? Si chiese confusamente, girandosi verso la finestra
nel tentativo di
determinare l’orario. Con un gemito, Lidia si
lasciò ricadere sul cuscino. È
solo l’alba e…
Il
pensiero si interruppe a metà
quando lo sguardo le cadde sulla figura che riposava accanto a lei. Perché è ancora a letto?
Non
solo Ulf era ancora a letto,
ma era anche profondamente addormentato e Lidia ne
approfittò per osservarlo,
una cosa che raramente osava fare quando l’uomo era sveglio. Sembra così giovane, adesso…
Con
il viso avvolto dal sonno e
appena ombreggiato dalla barba, i suoi lineamenti sembravano morbidi,
quasi
delicati. Inconsciamente, lo sguardo della fanciulla corse alle sue
labbra e
Lidia avvampò. Le azioni avventate della sera prima
l’avevano quasi condannata
a una notte insonne ma, malgrado tutto il suo pensare, la giovane non
era
riuscita a giungere a una conclusione definitiva. Baciarlo era stato un
errore,
naturalmente, un colpo di testa che non era nemmeno stata in grado di
spiegarsi,
se non come una sorta di disperata ricerca di conforto. In quel momento
le era
venuto istintivo stringersi a lui, alzarsi sulla punta dei piedi
e… il rossore
delle sue guance si fece più intenso e Lidia
provò uno strano brivido interno
ripensando alla sensazione delle labbra dell’uomo sulle sue,
al gioco della sua
lingua, alle mani che le percorrevano la schiena, incendiandole la
pelle.
Basta! Si disse, imponendosi di pensare
ad altro. Disobbediente, la
sua mente si rifiutò di allontanarsi
dall’argomento. Baciare Tito era stato
così? Be’,
sì, si rispose la ragazza.
Il
ricordo dei baci di Tito era
un po’ sfumato e si confondeva con quello, più
recente, del bacio che aveva
dato a Ulf, ma Lidia era assolutamente certa che essi erano stati
altrettanto
gradevoli. Anzi, erano anche
meglio…
senza contare che, con Tito, non ci siamo limitati a due bacetti.
In
verità, Lidia non aveva mai fatto nulla di eccessivamente
scandaloso: Tito era
sempre stato molto attento a non esagerare. Sì,
ma, volendo essere precisi… prima di perdersi nei
ricordi, Lidia si
riscosse. Era inutile fare confronti: quello che era successo era stato
una
mancanza di rispetto per Tito e non avrebbe dovuto più
ripetersi. Mai più, assolutamente!
Si disse Lidia, stringendo
testardamente i denti.
Ma Ulf è mio marito,
replicò risentita una vocina nella sua testa, ho
il diritto di baciare mio marito, se mi
va!
La
ragazza sbuffò, esasperata,
rotolando sulla pancia e sollevandosi sui gomiti. «Tu non sei
veramente mio
marito» sibilò, puntando un dito nel petto di Ulf.
«Capito? Non lo sei!»
«Ah,
no?»
La
ragazza lanciò un gridolino,
ripiombando sul materasso. Era sveglio? L’uomo
la seguì, assumendo una posizione simile a quella che la
fanciulla aveva avuto
poco prima. «E se non sono tuo marito, chi sono?»
La
ragazza lo guardò,
boccheggiando come un pesce fuor d’acqua, senza riuscire a
rispondere. Nella
penombra, Ulf la guardò negli occhi, sfiorandole la guancia
con le dita. Quando
lei voltò il viso di lato, l’uomo sorrise.
«Adesso sei di nuovo timida?» la
provocò.
Immediatamente,
Lidia tornò a
fissarlo: ricordava perfettamente lo spaesamento e la sorpresa che lui
aveva mostrato
la sera prima e di certo non gli avrebbe permesso di prenderla in giro
anche in
quel frangente. «No, ma mi vergogno di aver fatto un errore
del genere» disse,
a denti stretti.
Se
sperava di farlo allontanare
con quelle parole mezze ringhiate, Lidia si sbagliava,
perché Ulf non si spostò
di un centimetro. «Un errore, dici»
mormorò. «Mi sembra che errori
del genere stiano diventando
piuttosto frequenti, ultimamente.»
La
ragazza aggrottò la fronte,
senza capire. «Cosa stai dicendo?»
L’uomo
esitò per un istante
soltanto. «Non scappi più come fai una
volta», disse, piano, «mi abbracci, ti
lasci toccare, mi dormi addosso… e ieri sera,
naturalmente…»
«Zitto!»
sbottò Lidia,
imbarazzata dall’elenco sciorinato dall’uomo. Ulf
obbedì, ma continuò a
fissarla intensamente. «Si può sapere cosa ti
prende?» gemette la fanciulla,
confusa dall’insolito atteggiamento del giovane.
Lui
distolse brevemente lo
sguardo, ma non smise di incombere su di lei. «Ma tu vuoi
stare con me o no?»
le chiese, cercando i suoi occhi.
La
fanciulla si sentì avvampare,
nella penombra della stanza. «Eh?» fu tutto
ciò che riuscì a dire; e l’uomo
sembrò non riuscire a trattenere un sospiro frustrato.
«Fino
ad adesso ci è andata bene»,
disse Ulf, dopo qualche istante, «ma ora hai sentito
cos’è successo alla
miniera: non credere che la gente accetti tutta ‘sta storia
senza battere
ciglio. Non sarà così facile andare avanti e io
voglio sapere se ne varrà la
pena oppure no.»
La
fanciulla deglutì, voltando il
capo di lato. «In che senso?»
«Vale
la pena di mettermi contro
tutti per difendere te?»
Nell’udire
quelle parole, Lidia
sbiancò, sentendo improvvisamente un nodo alla gola.
«Cosa stai cercando di
dire?» balbettò allarmata, mentre una vaga
angoscia le strisciava nel petto. «Che
cosa vorresti fare?»
Accorgendosi
del suo turbamento,
l’uomo si allontanò leggermente da lei, scuotendo
il capo. «Niente, Lidia!»
esclamò. «È solo
che…» Ulf si interruppe, quasi fosse incerto su
come
proseguire, e improvvisamente un dubbio si affacciò alla
mente della ragazza. «Perché
mi chiedi queste cose?» indagò, cauta.
«Tu vuoi stare con me?»
Ulf
inspirò e rispose alla
domanda con un’altra domanda. «Perché mi
ha dato quel bacio, ieri sera?»
«Non
hai risposto» insistette la
ragazza, senza lasciarsi distrarre.
«Prima
dimmi perché» ribatté lui,
altrettanto determinato.
In
difficoltà, la giovane si
morse le labbra, cercando di formulare una risposta plausibile.
«Non lo so» le
scappò detto. «Ero confusa e stanca e…
mi sentivo sola.» Quando ebbe
pronunciato quelle parole, la fanciulla si rese conto di aver detto la
verità…
anche se forse non tutta la
verità.
«Tutto
qui?»
Dal
tono della sua voce, Lidia
non fu in grado di capire a cosa stesse pensando, ma decise comunque di
passare
al contrattacco. «Sì» disse,
telegrafica, sperando che la sua voce suonasse
sufficientemente decisa. «Perché non mi hai
allontanata? Mi hai sempre detto
che non ti interessavo, eppure non mi hai mandata
via…»
L’uomo
parve preso in contropiede
da quell’osservazione così diretta e Lidia stessa
si stupì della facilità con
cui parlava di quello che era accaduto la sera prima: era come se,
nell’istante
infinito e immobile che precedeva il sorgere del sole, ella riuscisse a
trovare
delle risorse che le erano sconosciute durante il giorno. Poi, Ulf si
riscosse.
«Era solo un esperimento.»
La
fanciulla si voltò verso di
lui, sbattendo lentamente gli occhi. «Un
esperimento?»
Ulf
annuì. «Be’, sì, volevo
vedere quello che sai fare, topolino.»
Nell’udire
l’odiato soprannome,
Lidia si incupì, con la vaga sensazione di essere appena
stata insultata. «E…?»
sentì la sua voce chiedere, senza che il suono fosse
processato dal suo
cervello.
«Eh,
insomma…» Ulf sorrideva, ma
la fanciulla sgranò comunque gli occhi, oltraggiata. Prima
di rendersi conto di
quello che stava succedendo, Lidia si sentì spingere sul
materasso, mentre
l’uomo si portava sopra di lei.
«Riproviamo?»
Troppo
sorpresa per profferir
motto e in preda a una strana immobilità che le fece
socchiudere la bocca e
aumentare i battiti del cuore, Lidia lo fissò con gli occhi
spalancati, senza
reagire quando l’uomo si avvicinò a lei,
sfiorandole il naso con il suo.
Quando
vide che la ragazza non
sembrava intenzionata a respingerlo, Ulf posò le labbra su
quelle della
fanciulla, accarezzandole piano prima di mordicchiarle. Quella
sensazione fece
sobbalzare Lidia, che portò le mani sulle sue spalle con
l’intenzione di
allontanarlo da sé, ma la mano di Ulf salì a
intrecciarsi ai suoi capelli e
quel contatto caldo contro la nuca le fece chiudere gli occhi,
sospirando
contro la sua bocca. Sentendola rilassarsi sotto di sé,
l’uomo lasciò che la
sua mano scivolasse via dai suoi capelli e scendesse ad accarezzarle un
braccio
nudo e poi i fianchi, prima di risalire fino al suo volto e farle
inclinare
leggermente il capo.
Non è poi così male,
pensò confusamente Lidia, stringendo
inconsciamente la maglia dell’uomo tra i pugni. Non è affatto male,
si
corresse poi, quando Ulf approfondì il bacio. Perché
lo sto lasciando fare? Si chiese la fanciulla, senza
però
trovare la forza di volontà per respingerlo. Quasi
distrattamente, avvertì una
parte del suo essere vibrare soddisfatta, godendo
dell’interesse dell’uomo.
Avvertendo
la sua passività, Ulf
si fece più insistente, reclamando la sua attenzione, e
Lidia si riscosse,
circondandogli il collo con le braccia e rispondendo al suo bacio con
un
entusiasmo che sorprese persino lei. All’Inferno,
è solo un bacio!
Quando
la ragazza iniziò a
sentirsi in affanno per la mancanza di fiato, l’uomo
abbandonò le sue labbra e
scese sul suo collo, esplorando la pelle appena sotto
all’orecchio.
Immediatamente Lidia si inarcò, inspirando bruscamente e
affondando le dita nei
capelli di suo marito.
Oh.
Quello
era sempre un suo punto
debole e Ulf sorrise contro la sua pelle, evidentemente soddisfatto
dalla sua
reazione. Quando le mani dell’uomo si strinsero sui suoi
fianchi e i suoi denti
le scivolarono sulla pelle delicata della gola, Lidia
rabbrividì e, senza quasi
rendersene conto, allargò un poco le gambe, permettendo al
corpo dell’uomo di
sistemarsi meglio contro al suo. Lui fece scivolare una mano sulla sua
coscia,
e poi, forse intralciato dalla gonna, si scostò dal suo
collo, osservandola.
Sentendo su di sé il peso del suo sguardo, Lidia
aprì gli occhi, incontrando
quelli chiari dell’uomo e venendo bruscamente riportata alla
realtà illuminata
dalla luce del sole nascente. A disagio, vergognandosi per aver perso
il
controllo in quel modo, la ragazza avvampò.
La cosa mi è un po’ sfuggita
di mano, pensò fugacemente, mordendosi
le labbra e distogliendo lo sguardo. Ulf si sollevò un
po’ da lei e con il
pollice le sfiorò il labbro inferiore, liberandolo dalla
presa dei suoi denti.
«Meglio» commentò dopo qualche istante;
e a Lidia non sfuggì la voce
leggermente alterata con cui pronunciò quella parola.
«Meglio?»
ripeté, timidamente: se
una parte di lei voleva scappare via e sottrarsi a quel contatto e alle
emozioni che esso suscitava in lei, un’altra parte
– piuttosto battagliera –
non aveva nessuna voglia di porre fine a quel momento.
«Mh-mh»
confermò Ulf,
accarezzandole di nuovo le labbra con il polpastrello.
La
ragazza sorrise appena e,
prima di potersi fermare, gli mordicchiò la punta del dito.
Lui rise piano e
improvvisamente la fanciulla provò una fitta
all’altezza dello sterno, così
intensa che le fece quasi venire voglia di piangere. Ti
prego, pensò, non
chiedermi se voglio stare con te. Rispondergli avrebbe
significato mentire,
perché di rinunciare ai suoi piani con Tito non se la
sentiva. O forse sì? Si
chiese, confusa. Io amo Tito, ma…
Ulf
le scostò un ciuffo di
capelli che le ricadeva sugli occhi e la guardò,
così concentrato che Lidia si
chiese cosa vedesse in lei, in quel momento.
… ma mi sa che potrebbe esserci qualcosa
anche con Ulf, concluse.
Baciava bene e ormai stava diventando difficile negare il modo in cui
il suo
corpo reagiva al suo tocco, ma la fanciulla avrebbe anche potuto
ignorare –
sebbene a malincuore – quelle cose, se non fosse stato per le
reazioni che
l’uomo stava incominciando a suscitare anche nel suo cuore.
È solo colpa della solitudine,
rifletté, cercando i suoi occhi
chiari. Se non fossi qui, sola, lontana
da casa e da Tito, non proverei queste cose. Oppure le proverei lo
stesso?
Sconfitta, Lidia sospirò. Oh,
Dèi, che
gran casino…
Notando
la sua espressione
angosciata, Ulf si accigliò. «Tutto
bene?»
Sebbene
si sentisse gli occhi
umidi, Lidia annuì. «Sì, è
solo che ho paura» mormorò.
Ed
era vero, aveva paura…
solo, non di quello che credeva suo marito, che
infatti sospirò, posandole un bacio sulla fronte.
«Non devi averne, vedrai che
andrà tutto bene.»
«Dici?»
sussurrò lei, odiando il
suono fragile della propria voce. L’uomo annuì,
sorridendo, ma si trattava di
un sorriso tirato e, con una smorfia preoccupata, Lidia si chiese se
non ci
fosse veramente da avere paura anche della situazione politica, oltre
che del
dramma personale che la vedeva protagonista.
Dopo
alcuni istanti di silenzio,
Ulf sospirò di nuovo e rotolò via da lei,
scivolando direttamente fuori dal
letto. «È tardissimo» disse, passandosi
una mano sugli occhi e stiracchiandosi.
«Se vuoi, però, possiamo continuare il discorso
più tardi.»
Che discorso? Si chiese Lidia, arrossendo
mentre la sua mente
veniva in suo soccorso fornendole alcune immagini di come
avrebbero potuto proseguire la conversazione. «Va
bene» disse,
voltandosi per seguirlo con gli occhi. «Vengo da
te?»
L’uomo
annuì. «A mezzogiorno»
confermò; e la ragazza fece un cenno d’assenso,
sprofondando di nuovo sotto le
coperte. Quando sentì la porta della camera aprirsi e
richiudersi, la fanciulla
respirò a fondo: prima di mezzogiorno, avrebbe fatto bene a
chiarirsi le idee e
a capire quello che stava succedendo… doveva prendere in
mano la situazione,
perché sospettava che, se avesse continuato a farsi
trascinare dagli eventi, le
conseguenze sarebbero state tutt’altro che piacevoli.
***
Malgrado
ci avesse riflettuto per
tutta la mattina, Lidia non era riuscita a venire a capo dei suoi
pensieri – e
dei suoi sentimenti – come avrebbe voluto. L’unica
conclusione a cui era giunta
era che, evidentemente, amare Tito non le aveva impedito di sviluppare qualcosa nei confronti di Ulf.
La
fanciulla aveva tentato di
illudersi dicendosi che era normale, che l’uomo era
l’unica persona che le
fosse sempre stata vicina e che quindi quello che provava per lui era inevitabile, ma l’affermazione
suonava
falsa persino alle sue orecchie: tra lei e Ulf c’era qualcosa
di più, ma la
giovane non riusciva ancora a dare un nome a quel sentimento. Non era amore, c’era troppa poca
fiducia tra
loro per chiamarlo così, troppe cose non dette, ma non era
nemmeno semplice affetto…
era qualcosa di diverso, un
sentimento ibrido che le faceva venir voglia di prendere a testate un
muro pur
di non doversi più arrovellare per cercare di definirlo.
Forse mi converrebbe vivere alla giornata, se non
fosse che luglio è
sempre più vicino. Quando Tito arriverà,
dovrò per forza prendere una
decisione. Che poi, anche ammesso che la decisione fosse di non partire
con lui,
ma restare con Ulf… chi mi dice che Tito la prenderebbe
bene? E se si mettesse
a fare una scenata? E se Ulf scoprisse tutto?
Certo,
la soluzione migliore
sarebbe stata parlarne con suo marito, ma così si sarebbe
preclusa la
possibilità di andarsene: un lusso che non poteva
permettersi, dal momento che
era perfettamente verosimile che, a mente fredda, si sarebbe resa conto
che,
dopotutto, la Germanica e Ulf non facevano per lei.
Scuotendo
mestamente il capo,
Lidia attraversò di fretta la piazza principale del
villaggio. La
pavimentazione irregolare e le pareti modeste delle case che la
circondavano la
colpirono allo stomaco come un pugno. Era tutto così diverso
da ciò che aveva
conosciuto a Roma: si sarebbe mai abituata a vivere in un paese
così piccolo? Si
sarebbe mai abituata alle occhiate della gente? Malgrado le parole di
incoraggiamento di Ulf e di Donna Edda, Lidia iniziava a intuire che,
per gli
abitanti di Erding, lei sarebbe sempre stata una straniera, qualcuno da
additare con curiosità, se non proprio con sospetto.
Avrebbe
voluto avere un carattere
diverso – l’allegria sfrontata di Lucilla, forse,
oppure la feroce scontrosità
di Unna – e sostenere così gli sguardi che i suoi
nuovi concittadini scoccavano
nella sua direzione: non essendo in possesso di quelle doti,
però, non poteva
fare altro che arrossire e chinare il capo, resistendo appena alla
tentazione
di schiacciarsi contro i muri e sgattaiolare via come un topolino
qualsiasi.
A
passo rapido, la giovane schivò
tre uomini fermi a un lato della piazza e svoltò in un
vicoletto secondario,
grata della protezione fornita dalle pareti ricoperte di muschio che si
ergevano tutt’attorno a lei. Quando ebbe percorso poco meno
di una decina di
metri, un fischio proveniente dalle sue spalle la fece sobbalzare.
Voltandosi
di scatto, la ragazza
vide tre figure camminare pigramente a qualche metro di distanza da
lei: erano
gli stessi uomini che aveva superato appena qualche istante prima. Con
una
rapida occhiata, Lidia cercò di fare il punto della
situazione: erano ancora
piuttosto giovani – trent’anni, forse meno
– e, sebbene fossero apparentemente intenti
a parlottare tra loro, i loro occhi erano fissi su di lei. Con un
brivido di
inquietudine, la ragazza allungò il passo, ma, dopo pochi
secondi, fu raggiunta
da un secondo fischio. Cosa accidenti
vogliono? Si chiese, mentre il suo stomaco si torceva in una
stretta
nervosa.
Resistendo
alla tentazione di
voltarsi di nuovo, la fanciulla svoltò dietro
l’angolo, sperando che gli
sconosciuti imboccassero il viottolo che proseguiva nella direzione
opposta.
Come a contraddire le sue speranze, però, quelli la
seguirono e, anzi, si
avvicinarono ancora di più a lei. La giovane
provò l’impulso di mettersi a
correre, ma la consapevolezza di non avere alcuna
possibilità di sfuggire ai tre
individui la frenò.
Ma ce l’hanno davvero con me?
«Ehi,
romana!» Se ancora non
fosse stata certa di essere proprio lei l’obiettivo dei tre
germanici, quel
richiamo secco fugò ogni dubbio. Non c’erano altre
romane, nei paraggi, e,
anche se controvoglia, Lidia si fermò e ruotò sul
posto, fronteggiando gli
uomini. «S-sì?» balbettò,
facendo correre nervosamente lo sguardo dall’uno
all’altro.
Uno
dei tre, un uomo alto che
indossava una maglia rossa, tirò una gomitata a uno dei suoi
compari. «Tu e i
tuoi modi!» sbottò. «Non vedi che
l’hai spaventata?»
Il
secondo uomo, più basso e con
il volto segnato da una cicatrice chiara, scoppiò a ridere.
«Perdonami, Donna
Lidia» disse, con un piccolo inchino. «Non sono
abituato a trattare con le
signore per bene, io.»
La
fanciulla si ritrasse
istintivamente: lo loro parole, apparentemente rassicuranti, erano in
pieno
contrasto con il tono di scherno in cui erano state pronunciate e anche
la
gestualità dei due uomini sembrava rispondere a un teatrino
montato apposta per
prendersi gioco di lei. «Che cosa volete?» chiese,
con il cuore in gola.
Il
più alto dei tre si schiarì la
voce. «Ma niente, Donna Lidia» disse, suadente,
indicando con un cenno del capo
il terzo uomo che, fino a quel momento, era rimasto in silenzio.
«Il nostro
amico, qui, viene da un villaggio un po’ più a
sud. Dalle sue parti non si sono
ancora viste ragazzine romane; e così era
curioso… vorrebbe fare due chiacchiere con te, se la cosa
non ti scoccia.»
Guardandosi
attorno alla ricerca
di una via di fuga, Lidia mosse qualche passo verso sinistra, sperando
di
riuscire a lasciare l’angolo in cui i tre l’avevano
costretta senza che lei se
ne avvedesse. «Io…» la fanciulla
deglutì, cercando di mantenere la calma. «Io
ho fretta, non ho tempo per parlare con voi.»
L’uomo
sfregiato fece schioccare
la lingua, aggrottando la fronte. «Eh, insomma, un
po’ di educazione: ti
rubiamo solo cinque minuti!»
Sentendosi
in trappola, la
giovane si addossò al muro più vicino, seguendo
un istinto che però non fece
altro che farle perdere la sua unica possibilità di
allontanarsi da lì:
approfittando della sua esitazione, i tre germanici la costrinsero a
indietreggiare finché la fanciulla non si ritrovò
stretta in un passaggio fra
due case, con ogni via di fuga bloccata dagli sconosciuti.
Il
terzo uomo le si avvicinò
tanto che la fanciulla riuscì a sentire l’odore
speziato del suo alito. Aveva
dei riccioli chiari e i lineamenti delicati di un bambino, ma
c’era un che di
amaro nella piega delle sue labbra e nel taglio sottile dei suoi occhi.
«Ti
spiego anche perché voglio parlare un po’ con
te» le disse, piegandosi ancor di
più verso il suo volto. «Forse tu riuscirai a
darmi le spiegazioni che mio
padre non è stato in grado di fornirmi: Sören
mi ha detto che il padre
di tuo marito è il capo villaggio…. Non
è così?» Senza una parola, Lidia
girò
il volto di lato e mosse appena il mento in un cenno di assenso.
«Molto bene»
proseguì l’uomo, che parlava un latino quasi privo
d’accento. «Senza tanti giri
di parole: perché sei qui?»
Lidia
sussultò: non tanto per la
domanda diretta, quanto piuttosto per la rabbia che, di punto in
bianco, l’uomo
le sputò in faccia. «Mi ci hanno
mandata» si difese, dando voce al primo
pensiero che le attraversò la testa. «Io non avrei
voluto venire, ma Donna Erin
dice che serve per mantenere la pace e…»
«Queste
storie le conosco bene»
la interruppe l’uomo, con una voce tagliente come
l’espressione dei suoi occhi.
«Sono le stesse stronzate che mi ha raccontato mio padre. Non
ho nessuna
intenzione di berle, naturalmente… nessuno ha intenzione di
farlo.»
La
fanciulla lo guardò con gli
occhi sgranati, sentendosi persa. Chi era quell’uomo?
Qualcuno che, come Ulf,
avrebbe presto dovuto sposare una ragazza romana? Per una frazione di
secondo,
Lidia fu tentata di riferir loro i discorsi che aveva sentito fare da
suo
marito, le mezze voci che aveva sentito a cena la sera prima, ma subito
represse quell’impulso. Chiunque fossero quei tizi, non era
certo il caso di
dar loro corda. «Io… non capisco» disse
allora, cercando di sgattaiolare via di
lato.
Notando
i suoi movimenti, l’uomo
con la cicatrice la affiancò, sbarrandole la strada.
«Dove pensi di andare?»
sibilò. «Rispondi al mio amico.»
«Cosa
volete sentirvi dire?»
replicò la ragazza, cercando disperatamente di evitare che
la sua voce tremasse
in maniera eccessiva, tradendo la paura che provava in quel momento.
«Se anche…
se anche ci fosse sotto qualcosa, io non ne so niente.»
L’uomo
la afferrò per un braccio
e se la tirò contro, allontanandola dall’uomo con
gli occhi sottili. «Non ti
conviene prenderci per il culo, bella. Ci è giunta voce dei
tuoi incontri con
la strega: non negare!»
Un
gridolino di terrore le sfuggì
dalla gola e Lidia si dibatté, senza riuscire
però a sottrarsi alla presa del
germanico. «Qua-quale strega?» balbettò,
cercando di dare un senso alle parole
dell’uomo.
«La
Sacerdotessa» si intromise
seccamente l’uomo più alto. Dopo
l’approccio iniziale, questi sembrava aver
scelto di rimanere in disparte e Lidia lo guardò con gli
occhi sgranati,
sorpresa dal suo intervento. Quando non fu rapida a riscuotersi,
l’uomo basso
la strattonò di nuovo, riportando l’attenzione
della giovane su di sé.
«Donna
Erin è una Sacerdotessa
piuttosto anomala, non trovi?» fece il terzo uomo, lo
straniero. «Io non la
conosco bene, l’ho vista solo un paio di volte, ma mi dicono
che è solita
frequentare il campo militare installato appena fuori dai confini del
villaggio. Singolare, no?»
Già, pensò a suo
malgrado la giovane romana, senza però alzare lo
sguardo da terra.
«Te
lo dico io: sì, è decisamente
singolare. Di solito
sacerdoti e legionari hanno un rapporto piuttosto conflittuale,
diciamo, ma Erin no: a lei piacciono, i soldati. Non
è così?» quando Lidia non rispose a
quella che era comunque una domanda
retorica, l’uomo continuò. «E anche tu
sei una romana piuttosto singolare:
non sei una patrizia
qualsiasi, ma la figlia di un Senatore. È un caso?»
Quella
considerazione stupì
sinceramente Lidia, che non riuscì a scorgere alcuna
correlazione tra lo status
di suo padre e tutte le altre osservazioni fatte dal germanico.
«È
un caso?» ripeté lui, con maggiore insistenza.
La
fanciulla boccheggiò come un
pesce fuor d’acqua, poi scosse il capo, sentendo di aver
perso il filo del
discorso. «Io… n-non lo so»
sussurrò. Quella risposta non piacque all’uomo con
la cicatrice, che strinse ancor di più la presa sul suo
braccio, facendole
piegare le labbra in una smorfia di dolore. «Non
lo so?» sibilò, rifacendole il verso.
«Non lo so? Solo questo,
sai dire? Che non lo sai?»
«Lasciatela
andare!»
Prima
che Lidia potesse avere il
tempo di provare ad abbozzare una difesa, dalle loro spalle giunse un
ordine
secco che li fece girare di scatto. Con un tuffo al cuore, la ragazza
si rese
conto dell’identità del proprio salvatore:
Hermann, più giovane e minuto dei
suoi due assalitori, ma non per questo meno minaccioso, se ne stava a
gambe
larghe a pochi metri di distanza, un’espressione rabbiosa sul
volto dai tratti
regolari.
I
tre uomini non parvero però
turbati dal suo arrivo inaspettato e quello che teneva prigioniera
Lidia
scoppiò a ridere. «Cos’è? Ne
vuoi un po’ anche tu, bellezza?»
La
battuta – l’insulto?
– non fece altro che aumentare la rabbia di
Hermann, che
fece un paio di passi avanti, scansando l’uomo più
alto e tenendo gli occhi
fissi su quello con il volto segnato dalla cicatrice.
«Ripeto: lasciala
andare.»
Pur
nella sua paura, Lidia guardò
meravigliata il ragazzo, stupendosi della fredda determinazione della
sua voce:
quello non era affatto l’Hermann che conosceva, quello che
scherzava e la
faceva sentire a suo agio in un mondo ostile. Qualcosa nella voce del
ragazzo
dovette mettere in allarme anche il suo assalitore, che
cambiò postura, come
per prepararsi a uno scontro. Quando, rapido come un gatto, il giovane
estrasse
un coltello, l’uomo lasciò Lidia, spingendola a
terra, e alzò le braccia per
difendersi.
«Ecco,
bravo» sorrise Hermann,
abbassando l’arma e muovendo ingenuamente un passo verso
Lidia. Notando il suo
movimento, la fanciulla si trattenne a stento dal coprirsi gli occhi
con le
mani: per quanto coraggioso, il ragazzo non aveva alcuna
possibilità di
spuntarla contro tre uomini grossi il doppio di lui.
«Vieni
qui, ragazzino!» L’uomo
sfregiato si lanciò sul giovane, che riuscì ad
alzare il coltello, ma non fece
in tempo a preparare il colpo, finendo col ferire solo marginalmente il
braccio
del suo aggressore. Quest’ultimo, evidentemente abituato alle
zuffe, si abbassò
con una velocità insospettabile e sferrò un pugno
allo stomaco di Hermann, che
si chinò nel tentativo di riprendere fiato: l’uomo
ne approfittò per fargli
volare via il coltello e poi lo colpì con un pugno sulla
mascella che lo fece
vacillare. Il ragazzo però non cadde, ma rispose al colpo,
facendo
indietreggiare il suo avversario.
Riscuotendosi
dal suo torpore,
Lidia si guardò attorno alla ricerca del coltello
– se non per passarlo a Hermann,
quantomeno per evitare che l’altro uomo se ne impossessasse
– e trasalì quando
lo vide schiacciato sotto il piede dell’uomo più
alto. Muovendosi quasi al
rallentatore, la fanciulla alzò gli occhi fino a incrociare
quelli d’ambra
dello sconosciuto. Lui la fissò per alcuni lunghissimi
istanti, poi sorrise.
«Meglio andare» disse improvvisamente, rivolto al
suo compagno. Al suo fianco,
l’uomo con i capelli chiari ridacchiò, quasi
trovasse la situazione particolarmente
divertente.
L’uomo
con la cicatrice si voltò
verso gli altri due, sorpreso quanto Lidia da quelle parole: per un
attimo
parve intenzionato a obiettare, ma poi fece sibilare il fiato tra i
denti e si
allontanò da Hermann che, muovendosi a ritroso, raggiunse
Lidia, aiutandola ad
alzarsi.
Mentre
i suoi due compagni si
allontanavano in silenzio, l’uomo che veniva da un altro
villaggio si voltò
nuovamente verso di loro, scoccando un’occhiata
imperscrutabile nella loro
direzione. «Alla prossima, Donna Lidia. Cerca di pensare a
quello chi ti ho
chiesto: mi piacerebbe davvero avere una risposta un po’
più articolata, la
prossima volta che ci vediamo.»
***
«Così
non va bene» sibilò Ulf,
stringendo Lidia tra le braccia.
«Non
so cosa volessero» sbottò suo
fratello, camminando nervosamente avanti e indietro e misurando il
pavimento
tra il tavolo e la porta della bottega. «Per fortuna che
papà mi aveva chiesto
di tenerla d’occhio: se non l’avessi seguita, non
so proprio cosa sarebbe
successo…»
Con
il volto nascosto nella
maglia di suo marito, Lidia non riuscì a trattenere una
smorfia di rabbia:
Hermann aveva ragione, naturalmente, ma sentire dalla sua voce della
propria
debolezza non le faceva affatto piacere. «Ma chi erano,
poi?» borbottò,
cercando di dare un nome ai suoi misteriosi assalitori.
«Un
branco di idioti!» ringhiò
Hermann. «Quello basso e stupido si chiama Arnold e fa il
minatore. Ci ho avuto
a che fare un paio di volte ed è un vero somaro. Quello alto
con gli occhi
strani è Sören.
È un mercante e si crede un grand’uomo solo
perché è riuscito a mettere da
parte un po’ di quattrini e l’altro…
boh, l’altro è un suo amico. È solo di
passaggio, spero, si chiama Otmar e non so cosa faccia, esattamente. Tu
ne sai
qualcosa?»
Davanti
a quella domanda, Ulf
scosse il capo. «No, ma sarà il caso di chiedere
più informazioni a nostro
padre…»
«…
o al Prefetto Caleno» suggerì
Hermann, osservando attentamente la reazione del fratello.
«Nostro
padre sarà più che
sufficiente» tagliò corto Ulf. «Lui
è sicuramente al corrente di chi entra e
esce dal villaggio. In ogni caso, una cosa è chiara: Karl
aveva ragione.»
Lidia
inspirò a fondo e Hermann
scosse la testa. «Non possiamo saperlo» disse
piano. «Magari si è trattato solo
di un gesto isolato.»
«Forse»,
concesse Ulf, stringendo
accarezzando la schiena di Lidia, «ma non è
comunque il caso di correre rischi.
Fortunatamente, credo di avere una soluzione.»
***
Oggi mi è successa una cosa divertente:
sono stata accusata di plagio
della mia stessa “opera”. XD
A parte tutto, però, mi è
venuto un dubbio: sono stata abbastanza
chiara, quando ho scritto che questa è la riscrittura di una
storia già
pubblicata in precedenza, oppure devo specificarlo meglio?
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Capitolo 19 *** 18. I pascoli estivi ***
Erding -
Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 30 Maggio
Unna
non approvava minimamente la
scelta del fratello e, per capirlo, non occorreva aspettare che aprisse
bocca:
l’espressione corrucciata e la piega severa delle labbra
già esprimevano
perfettamente il suo pensiero. «Non mi sembra proprio il
caso» sbottò, quando
Ulf ebbe finito il suo discorso.
Hermann
sospirò e, con un sorriso
di circostanza, passò un’altra sacca a Lidia,
aiutandola a posarla su quelle
che aveva caricato pochi istanti prima. Dall’alto del carro
sul quale era stata
fatta salire – un carro alla vecchia
maniera, di quelli trainati da una coppia di cavalli
– la ragazza non poté
fare a meno di sentirsi un po’ stupida e decisamente fuori
luogo. A pochi metri
da lei, i gemelli si lanciavano occhiate torve, senza che nessuno dei
due
sembrasse intenzionato a cedere di un centimetro.
«Secondo
me stai esagerando: non
è davvero il caso di reagire così»
ripeté per l’ennesima volta Unna, cercando
di convincere il fratello. «È vero, quei tizi sono
dei cretini, ma questo non
significa che siano veramente pericolosi!»
Ulf
sbuffò e piantò gli occhi in
quelli della sorella. «Questo vale forse per Arnold, ma con
Sören è tutto un
altro discorso… e tu lo sai. E non c’è
da fidarsi nemmeno dello straniero, se
quello che ha detto papà è vero. Ci
sarà un motivo, se i suoi l’hanno cacciato
dal suo villaggio.»
Unna
scosse stizzosamente il
capo, ma non ribatté, quasi come se fosse a corto di
argomentazioni valide.
Anziché essere compiaciuta dall’improvviso
silenzio della cognata, Lidia provò
un brivido di inquietudine. Anche se aveva provato a chiedere ulteriori
delucidazioni circa l’identità dei suoi
aggressori, non aveva ottenuto altro
che mezze risposte che non avevano aggiunto nulla a ciò che
già sapeva. Dopo
più di ventiquattr’ore, la fanciulla ancora non
sapeva perché Ulf e Hermann
fossero tanto allarmati dal fatto che Sören
si fosse avvicinato a lei in quel
modo, né aveva scoperto cosa avesse fatto Otmar per essere
allontanato dal suo
villaggio natale. Lidia trovava che, oltretutto, la reazione di suo
marito
gettasse un’ombra particolarmente inquietante
sull’intera vicenda: non appena
aveva scoperto quello che era successo, Ulf aveva deciso che Lidia
avrebbe
dovuto sparire dalla circolazione, almeno per qualche tempo, in attesa
che le
acque si calmassero e la situazione si facesse più chiara.
Per sua somma
sfortuna, il metodo più semplice e immediato per farle
cambiare aria era spedirla
in montagna al seguito di Unna, la quale, come ogni anno, si apprestava
a
raggiungere gli alti pascoli estivi dove, da giugno ad agosto, si
sarebbe presa
cura del bestiame.
Per
nulla soddisfatta dalla piega
presa dagli eventi, Lidia sbuffò: l’unico
vantaggio di quella soluzione era
che, lasciando il paese, difficilmente avrebbe corso il rischio di
subire
ulteriori aggressioni. Del resto, chi mai
potrebbe aggredirmi in mezzo a un prato a duemila metri? Una capra?
Anche
se riconosceva e, in un
certo senso, apprezzava quel vantaggio, le pareva che gli aspetti
negativi
superassero di gran lunga quelli positivi. In primo luogo vi era la
convivenza
forzata con Unna. Anche se non ne aveva la certezza, Lidia sospettava
che lei e
la cognata avrebbero dovuto condividere gli stessi spazi, lavorando
– e forse
anche dormendo – gomito a gomito: una prospettiva che la
gettava nello
sconforto più profondo. Il fatto di dover passare tanto
tempo in alta montagna,
poi, non faceva altro che farle apparire ancora più
sgradevole l’intera
situazione. Lidia non aveva mai amato le montagne e, anzi, aveva sempre
guardato con sospetto anche le modeste alture che circondavano la sua
città
natale. Unna, ne era certa, si sarebbe mossa meravigliosamente bene in
un
ambiente che a lei sarebbe invece sembrato ostile e alieno: la natura
stessa
avrebbe cospirato contro di lei, aumentando il divario che
già le sembrava
esistere naturalmente tra lei e la cognata.
E
poi, naturalmente, c’erano quei
tre mesi: non era forse proprio il
tempo, il problema più grande? Mancavano solo due giorni al
primo di giugno e
lei non avrebbe potuto partecipare alla festa che si sarebbe tenuta in
paese.
Di conseguenza, non avrebbe potuto consegnare la lettera per Tito
– lettera che
non aveva nemmeno mai scritto, tra
l’altro
– al Prefetto Caleno, né avrebbe potuto incontrare
il giovane romano quando, in
capo a un mese, si sarebbe presentato a Erding con
l’intenzione di portarla
via.
Poteva
solo sperare che il
Prefetto fosse al corrente dei suoi spostamenti e tenesse aggiornato
Tito. Un pensiero le
attraversò la mente e
la fanciulla non riuscì a nascondere una smorfia: aveva
sperato di avere un po’
più di tempo a disposizione per far chiarezza sui suoi
sentimenti, ma quella
partenza improvvisa aveva scombussolato i suoi piani. Cosa sarebbe
successo se,
entro luglio, avesse deciso di rinunciare ai suoi progetti di fuga?
Vigliaccamente, Lidia aveva cullato il vago proposito di affidare a una
lettera
quella notizia, evitando così il confronto diretto con Tito,
ma ora vedeva
chiaramente che ciò non sarebbe stato possibile: avrebbe
dovuto affrontarlo a
faccia a faccia.
«E
va bene!» la voce di Unna la
strappò ai suoi pensieri, facendola sussultare. «Ma mi aspetto che
si renda utile, chiaro? Non
intendo servirla o lasciarla poltrire mentre io lavoro,
capito?» Ulf
indietreggiò di un passo davanti alla furia della sorella e
Lidia avrebbe fatto
lo stesso, se non fosse stata seduta contro il bordo del carro,
così si
affrettò ad annuire, sperando di acquietare la bionda
germanica.
Raccogliendosi
le gonne con una
mano, Unna balzò a bordo, lanciando un’occhiata
micidiale alla giovane cognata,
che deglutì nervosamente, per nulla desiderosa di passare
del tempo da sola con
lei. Meno male che c’è
anche lui,
pensò Lidia, guardando con gratitudine l’anziano
contadino che, apparentemente
sordo alla discussione nata alle sue spalle, sistemava i finimenti dei
due
robusti cavalli morelli attaccati al carro.
Mentre
osservava le code degli
animali frustare l’aria nel vano tentativo di tenere lontane
le mosche, Lidia
sentì la mano di Ulf posarsi sul suo braccio, appena sopra
al polso. «Mi
raccomando», le disse il giovane, quando lei
incrociò il suo sguardo, «cerca di
non cacciarti nei guai e di non fare arrabbiare troppo Unna.»
Con
un gemito demoralizzato,
Lidia scosse il capo. «È proprio necessario che io
vada con lei?» chiese, quasi
sperando che l’uomo cambiasse idea all’ultimo
istante e non la costringesse più
a partire.
Lui
però non si lasciò commuovere
dal suo sguardo pietoso e annuì. «Sì,
ne abbiamo già parlato.»
«Non
è che mi hai lasciato molto
spazio per ribattere» fece la ragazza, in un sussurro cupo,
abbassando lo
sguardo a terra. Ulf accennò appena un sorriso, poi le
sollevò il volto,
incoraggiandola a guardarlo. «Non sarà poi
così terribile» cercò di
rassicurarla.
«Se
lo dici tu» commentò scettica
Lidia, con una smorfia. Prima che l’uomo potesse aggiungere
altro, però, il
contadino, che aveva finito di sistemare i cavalli, li interruppe.
«Possiamo
partire?»
«Sì,
certo» rispose risoluto Ulf,
frantumando le ultime speranze di Lidia. «Ci vediamo
presto» aggiunse poi,
rivolto alla fanciulla, prima di attirarla verso di sé e
posarle un bacio
leggero sulle labbra. La giovane sentì un’ondata
di tristezza centrarla in
pieno: quando si sarebbero rivisti Tito sarebbe stato in Germanica e le
cose
sarebbero state molto diverse. Accorgendosi della sua espressione
affranta, Ulf
le scompigliò i capelli. «Non fare
così, guarda che ogni tanto dovrò venire su
anch’io… credo di salire tra un paio di settimane:
pensi di poter resistere
fino ad allora?»
Davanti
all’evidente presa in
giro, Lidia sbuffò, ma poi sorrise, sollevata:
l’addio – se a Ulf o a Tito era
ancora tutta da vedere – poteva essere rimandato ancora per
un po’. D’impulso
si chinò verso suo marito e lo baciò,
soffermandosi un po’ troppo a lungo per
quello che avrebbe dovuto essere un semplice bacio di commiato. Ulf
fece per
dire qualcosa, ma lei lo precedette, fidandosi poco
dell’espressione che l’uomo
aveva sul volto. «Resisterò»
dichiarò, ignorando il leggero rossore che sapeva
averle colorato le guance. Lui sogghignò, ma non aggiunse
altro, passando a
salutare sua sorella, prima di ritrarsi di qualche metro e raggiungere
Hermann,
che stava urlando raccomandazioni alle due donne.
Non
volendo passare per la
sposina che si tormentava al pensiero di doversi separare dal marito,
non
appena il carro si mise in moto Lidia distolse lo sguardo da Ulf e lo
spostò su
Unna, incontrando i suoi occhi di ghiaccio. La donna le rivolse uno
sguardo
quasi incuriosito. «Quindi le cose vanno meglio, tra di
voi?»
Sorpresa
per quella domanda così
diretta, la ragazza esitò un istante, prima di rispondere.
«Direi di sì» ammise,
con una punta di imbarazzo. Unna annuì; e per una volta non
parve disapprovare le
sue parole. «Quindi non hai più cercato di
scappare?»
La
domanda riportò alla mente di
Lidia la prima volta in cui aveva veramente avuto a che fare con la
germanica e
la fanciulla si accigliò: non aveva dimenticato la freddezza
con cui Unna l’aveva
costretta a spogliarsi, spaventandola a morte e facendole dubitare
delle
intenzioni di Ulf. «Non credo sia il caso di parlare di
queste cose» fece,
piano, indicando il cocchiere, decisa a non ripensare alla paura e allo
smarrimento che avevano contraddistinto i suoi primi giorni a Erding.
Unna
seguì la direzione del suo
dito e scoppiò a ridere. «Il vecchio è
sordo come una campana» proclamò. «Non
sente niente!»
In
effetti l’uomo parve non
reagire a quelle parole di scherno, ma Lidia scrollò le
spalle. «Una volta ho
conosciuto un tizio che faceva finta di essere sordo, mentre in
realtà sentiva
tutto.» Un tizio a caso, vero,
papà? Aggiunse
silenziosamente. Più di una volta, Lidia aveva visto il
Senatore Prisco
all’opera, intento a ingannare gli stranieri sprovveduti che
pensavano di poter
approfittare della sua forma fisica non proprio smagliante.
Unna
le lanciò un’occhiata
indagatrice, ma poi abbassò la voce.
«Quindi?» insistette. «Hai ancora
intenzione di scappare o no?»
Facendo
attenzione a evitare i
suoi occhi e fingendosi interessata all’orlo decorato della
sua gonna, la
fanciulla scosse il capo. «No» disse, prima di
rialzare gli occhi. «Voglio bene
a Ulf.»
La
donna annuì, soddisfatta, e
Lidia si trattenne dall’esprimere il suo pensiero, evitando
di dire che, se le
cose tra lei e Ulf andavano meglio, non era certo grazie
all’intervento di
Unna. Dopo quel breve scambio di battute, la germanica parve perdere
ogni
interesse per la conversazione e Lidia le voltò le spalle,
girandosi a
osservare il paesaggio circostante.
La
valle di Erding, già piuttosto
stretta in corrispondenza del paese, si faceva sempre più
angusta man mano che
la mulattiera che andavano percorrendo si allontanava dal centro
abitato,
inerpicandosi su per il fianco della montagna. «Cosa
c’è alla fine della
valle?» le scappò detto, quando notò
che il torrente d’acqua biancastra che
bagnava il villaggio non scendeva dalle pendici dei monti, come si era
aspettata, ma restava sempre nel fondovalle.
Unna
si scrollò le spalle,
indifferente. «Un ghiacciaio.» Il tono della
germanica era annoiato, ma Lidia
spalancò gli occhi, sporgendosi oltre il fianco del carro
nella speranza di
vedere la neve. Non ho mai visto un
ghiacciaio, pensò, incuriosita.
La
valle era però troppo stretta
e, una decina di chilometri più avanti, virava decisa verso
sinistra, cosicché
la giovane non vide altro che abeti e rocce scure. Ben presto la strada
sterrata prese ad arrampicarsi su per il pendio e Lidia
iniziò, quasi
inconsciamente, a scivolare verso il lato opposto del carro,
ritrovandosi a
fianco di Unna. «Non appoggiarti, che rischi di
cadere» commentò la donna,
senza guardarla.
Sorpresa
dall’avvertimento, Lidia
si staccò un po’ dal portellone posteriore,
abbracciandosi le ginocchia per
mantenersi in equilibrio e lanciando un’occhiata di soppiatto
alla cognata: probabilmente non ha voglia di
dover saltar
giù per recuperarmi, pensò, con una
punta di cinismo. Unna, però, sembrava
più rilassata del solito: il suo volto era liscio, privo di
rughe o
increspature, e le labbra pallide erano piegate in un sorriso quasi
impercettibile. Guardava dritta davanti a sé, ma Lidia aveva
l’impressione che
gli occhi non vedessero veramente la schiena dell’uomo che
guidava il carro e
che la sua mente fosse lontana. Non
sembra turbata dai problemi che ci sono giù in paese,
pensò, perplessa, o forse
è solo contenta di allontanarsene
per un po’ di tempo.
La giovane romana avrebbe tanto voluto
condividere un po’
del buonumore di Unna, ma più salivano e più si
sentiva isolata, lontana dalle
poche persone che le davano sicurezza: circondata da una natura
sconosciuta e
accompagnata solo dalla presenza ostile della cognata, Lidia si sentiva
completamente allo sbaraglio.
Con
un sospiro, la ragazza chiuse
gli occhi per qualche istante, respirando il profumo dei larici e degli
abeti.
Spero solo che vada tutto bene.
***
Seduta
sul copriletto a
quadretti, Lidia si sentì decisamente sciocca.
Era naturale che non potessimo fare tutto Unna e io…
Quando
la mulattiera che le aveva
condotte in quota era giunta al termine, le due giovani e il loro
accompagnatore erano sbucati in un ampio prato scosceso, dominato da un
paio di
stalle e da una singola baita di pietra. Era proprio da
quest’ultima che era
spuntata una robusta donna bruna che aveva rivolto loro un gran
sorriso,
salutandole con un braccio e tenendo stretto al petto un bimbetto di
circa un
anno con l’altro. Subito dopo, la stessa donna aveva
afferrato per la
collottola un altro ragazzino e, con atteggiamento marziale,
l’aveva spedito a
radunare le capre: Lidia l’aveva trovata immediatamente
simpatica e, a
giudicare dalle fossette che si dipingevano sul volto della germanica
ogni volta
che la guardava, il sentimento doveva essere reciproco.
Sbrigati
i convenevoli, la donna
– di nome Linda – le aveva condotte
all’interno della cascina. Nonostante il
leggero odore di fumo che aleggiava nel locale principale, la baita era
molto
più accogliente di quello che Lidia si era aspettata: il
tavolo era ampio e
pulito e il pane, il formaggio e il miele che la padrona di casa le
aveva
servito le erano parsi particolarmente saporiti.
Linda
aveva diffidato lei e Unna
dall’alzare un dito: è il
primo giorno,
dovete riposarvi, aveva detto, prima di introdurle al resto
della famiglia
– il marito Gislin, decisamente sottomesso al volere
dell’imponente consorte;
Sven, il ragazzino spedito a badare le capre; il bebè Ingo e
la bambina dai capelli
rossi, dal nome talmente impronunciabile che, per quieto vivere,
rispondeva al
nomignolo di Bibi.
Sarebbe
stata una sistemazione
quasi perfetta, se non fosse stato per un piccolo particolare.
«Io
dormo sopra.»
Riportata
alla realtà dalla voce
di Unna, Lidia annuì e si lasciò ricadere sul
materasso, mentre la cognata
lanciava un paio di maglioni verso l’alto, accaparrandosi il
piano superiore
del letto a castello.
Che fa, marca il territorio?
Pensò la giovane romana, con un
sogghigno. Sì, sarebbe stato quasi perfetto, se non avesse
dovuto dividere la
camera con Unna.
Una
volta chiarita la questione
dei letti, Unna raggiunse il piccolo armadio sul lato opposto della
stanzetta e
lo spalancò, osservandolo da tutti i lati prima di appendere
due gonne – e un paio di pantaloni!
– nella metà di
destra. Poi si chinò di nuovo e, dalla sacca che si era
portata appresso,
estrasse anche un paio di stivali, che sistemò sul fondo
dell’armadio. Lidia
storse il naso. «Sono puliti, quelli?» chiese,
sollevandosi sui gomiti.
«Naturalmente»
rispose Unna,
altezzosa, prima di infilare la porta senza degnare di
un’occhiata la compagna
di stanza.
E va be’, pazienza, pensò
la fanciulla, liberandosi con un calcio
degli stivaletti che ancora portava ai piedi. Ci
farò l’abitudine, immagino.
E,
in effetti, con il passare dei
giorni fece davvero l’abitudine alla presenza di Unna,
arrivando addirittura a
stipulare con lei un tacito accordo di non belligeranza: non andavano
d’accordo, ma, semplicemente, si ignoravano, svolgendo
ciascuna i propri
compiti, senza aiutarsi, ma senza nemmeno intralciarsi a vicenda.
Se
Linda era stupita dalla
freddezza che regnava tra le due giovani, non lo dava a vedere. Lidia
immaginava che fosse perché la donna conosceva bene il
carattere irritabile di
Unna: quando questa perdeva la pazienza, infatti, la lasciava sbollire
in pace,
lanciando di tanto in tanto delle occhiate divertite a Lidia. Anche se
la
fanciulla non trovava nulla di divertente nelle sfuriate di Unna,
quando Linda
la guardava così non ridere diventava difficile.
Grazie
a Linda e alla sua
famiglia, quell’esperienza in alta quota si stava rivelando
meno sgradevole del
previsto, ma c’era una cosa a cui Lidia proprio non riusciva
ad abituarsi:
l’ambiente in cui si trovava. In quel mondo sperduto,
così isolato e diverso da
tutto ciò che aveva sempre conosciuto, la giovane si sentiva
a disagio. C’erano
dei momenti in cui, allontanandosi dagli altri abitanti del luogo, la
fanciulla
si sentiva terribilmente sola e, in quella solitudine, tenere a bada i
pensieri
scomodi diventava difficile. Se quando era in compagnia di altra gente
la sua
mente doveva stare concentrata sul compito che le veniva assegnato o su
una
conversazione che la vedeva coinvolta, nel silenzio del bosco e dei
pascoli
erbosi essa era libera di vagare, avviandosi su sentieri che la giovane
non
avrebbe voluto percorrere. Pensava a Ulf, allora, e a Tito, al suo
futuro e al
suo presente incerto.
In
generale, in montagna Lidia si
sentiva come un pesce fuor d’acqua e quella sensazione di
inadeguatezza era
resa ancora peggiore dalla naturalezza con cui Unna si muoveva tra
pascoli,
rocce e pendii. Capitava, a volte, di dover inseguire una vitella
indisciplinata su per il ripido prato che dalla cascina conduceva verso
la base
delle pareti di roccia, cinquecento metri più in alto: dopo
poche decine di minuti
di cammino in salita, Lidia già ansimava e sbuffava, col
volto rosso e una
fitta alle costole, mentre Unna pareva danzare su per il sentiero, i
capelli
quasi bianchi perfetti e senza nemmeno una goccia di sudore sul viso
pallido.
Il
vento freddo e il sole troppo
forte arrossavano e seccavano la pelle di Lidia, ma, giunte a sera,
quella di
Unna risultava solo graziosamente rosata in alcuni punti strategici.
Quando
attraversavano il bosco per raggiungere gli alpeggi vicini, Lidia
incespicava
nelle radici e scivolava sui sassi coperti di muschio, mentre il passo
di Unna
era sicuro e privo di ogni esitazione. Unna trovava le bacche
commestibili per
le marmellate di Linda; Lidia riusciva a raccogliere solo le insipide
bacche
blu che assomigliavano tanto ai mirtilli, ma che non sapevano di
niente. Unna
riusciva a farsi obbedire dai cani con un fischio; Lidia, che non
sapeva
fischiare, doveva urlare e sbracciarsi per ottenere una corsetta
svogliata:
dove Lidia falliva, Unna riusciva alla perfezione, e la fanciulla era
abbastanza certa di odiarla. E, quel che era peggio, era che Unna lo
sapeva ed
era deliziata dal suo odio, ben
conscia della propria superiorità.
Oh, ma sbaglierai anche tu, qualche volta,
pensava velenosamente la
giovane romana, rosa dalla gelosia e dal senso di
inferiorità. Sebbene la
osservasse con un’attenzione quasi maniacale,
però, Lidia doveva riconoscere
che Unna dedicava talmente tanta cura a quello che faceva che
difficilmente
commetteva gravi errori. Vi erano piccole sviste, sì,
imperfezioni di poco
conto, ma mai nulla di goffo o sciatto.
Fu
proprio per questo motivo che la
ragazza sobbalzò quando, circa due settimane dopo il loro
arrivo, Unna rovesciò
un secchio pieno di latte. «Merda!»
sbottò la donna, tirando un calcio al
secchio ormai vuoto e facendolo rotolare per un paio di metri.
«Tutto
bene?» chiese Lidia a
mezza bocca, senza pensarci.
La
giovane bionda annuì, secca.
«Sì, è stato solo un
capogiro.» Vedendola un poco instabile sulle gambe, la
fanciulla fece per avvicinarsi, ma Unna la bloccò con un
gesto della mano. «Forse
ti sei alzata un po’ troppo in fretta»
commentò allora Lidia, riprendendo a
spazzare l’ingresso della stalla.
«Può
essere» rispose la donna,
alzando una spalla e senza dare troppa importanza alla cosa.
Nei
giorni seguenti, Lidia notò
qualcosa di insolito nel comportamento di Unna, delle piccole
incertezze, delle
strane pause senza motivo che sembravano sbucare dal nulla, delle ombre
scure
sotto i suoi occhi che non aveva mai notato prima.
Che non stia bene?
Non
che le importasse veramente,
la sua era più che altro una curiosità distratta:
in altre circostanze avrebbe
forse provato un minimo di preoccupazione per la cognata, ma
l’umore di
quest’ultima sembrava essersi incupito ed era sempre
più facile incappare nei
suoi scatti d’ira. Si trattava di un atteggiamento
generalizzato, Sven si era
già preso qualche scappellotto e la piccola Bibi era
più volte scoppiata a
piangere di fronte alle risposte secche di Unna, ma Lidia rimaneva
comunque la
vittima prediletta del malumore della germanica. Dèi,
quanto la odio, si diceva, stringendo rabbiosamente i denti:
poco
alla volta, quasi senza rendersene conto, iniziò a rendere
pan per focaccia a
Unna, facendo del suo meglio per renderle la vita il più
difficile possibile.
Fu
in quell’atmosfera che, in una
sera di metà giugno stranamente fresca e piovosa, Lidia
entrò in camera,
corrucciata, e trovò Unna già rannicchiata sotto
le coperte. Dorme già? Bene!
Mentre
si toglieva gli abiti che
aveva indossato durante il giorno e si infilava la camicia da notte,
però, un
fruscio proveniente dal letto a castello le suggerì che la
sua sgradita
compagna di stanza non era affatto addormentata. «Passami la
coperta, che ho
freddo.»
Sbuffando,
Lidia sfiorò con le
dita la trapunta di lana ripiegata sulla sedia. «Prenditela
da sola» sibilò,
raggiungendo il proprio letto e sdraiandovisi senza alcun rimpianto. Da
sopra
la sua testa, Unna ringhiò qualcosa – un insulto o
una maledizione – nel suo
dialetto, prima di calarsi cautamente fino a terra, distendendosi in
tutta la
sua altezza per evitare di dover saltare. Strisciando contro il
materasso, la
maglia di Unna si sollevò e fu allora che, nella luce fioca
della stanza, Lidia
lo vide: un groviglio di cicatrici argentee che coprivano entrambi i
fianchi
della ragazza, incurvandosi in modo curiosamente simmetrico verso il
ventre e
la schiena. Fu solo un secondo, poi Unna si riabbassò
rabbiosamente la maglia,
celando la pelle scoperta. Subito dopo fissò Lidia,
sfidandola a dire qualcosa:
la ferocia nei suoi occhi era tale che la fanciulla si
ritrovò a indietreggiare
verso il lato opposto del materasso. Dopo qualche istante, Unna le
voltò le
spalle e agguantò la coperta, prima di tornare a letto,
trattenendo con una
mano la maglietta per assicurarsi che non risalisse ancora.
Che cosa le è successo? Si
chiese Lidia, quando la donna ebbe
spento la luce e la camera fu immersa nelle ombre della notte.
C’era qualcosa
di spaventoso in quelle cicatrici, un disegno troppo regolare, troppo metodico per essere frutto del caso: non se le è fatte in un incidente,
pensò, e, automaticamente, come per un collegamento logico,
la sua mente corse
alle parole di Ulf, alla sua reticenza a parlare del passato della
sorella,
all’odio che Unna nutriva per Roma.
Subito
dopo, però, scosse la
testa. Lavori troppo di fantasia,
si
disse. Vi erano mille modi in cui la donna poteva essersi procurata
quelle
ferite, mille circostanze più logiche per giustificare quei
segni che sfregiavano
la pelle della germanica. Perché
Roma
dovrebbe aver fatto questo a una ragazza? Perché dovrebbero
averla… Lidia
esitò, incerta su cosa avrebbe potuto causare quelle
cicatrici: delle frustate,
forse? Delle ferite di guerra? Ma quanto
tempo fa è successo? Quanti anni aveva Unna?
Di
nuovo, la fanciulla
rabbrividì: linee dritte, precise, scintillanti. Cosa procura delle ferite del genere? C’era
una verità che si
affacciava alla sua mente, una spiegazione che però Lidia si
rifiutò di
analizzare, relegandola nell’inconscio perché
troppo assurda e troppo… no,
dev’esserci un’altra spiegazione.
Quella
notte la fanciulla dormì
male e l’indomani, quando si svegliò, si
ritrovò sola nella stanzetta dalle
pareti di legno. La freddezza di Unna e il suo palese desiderio di
evitarla
fecero sfumare le esili intenzioni di confronto nutrite da Lidia, e
così la
giovane accantonò momentaneamente quello che aveva visto e
il turbamento che
quei segni argentei avevano suscitato in lei. Con il passare dei giorni
la vita
tornò a scorrere relativamente placida nella quiete
dell’alpeggio, ma la
fanciulla iniziò, inconsciamente, a osservare Unna con occhi
un po’ diversi, prestando
più attenzione ai suoi movimenti e alle espressioni del suo
volto. Così, dopo
qualche tempo, Lidia si convinse definitivamente che ci fosse qualcosa
che non
andava: cosa fosse esattamente quel qualcosa
le divenne chiaro quando, qualche giorno più tardi, si
ritrovò sola a
confezionare marmellate in compagnia di Linda.
Le
due donne si trovavano in
cucina a setacciare i lamponi e a metterli poi a bollire sul fuoco,
riempiendo
il locale adibito a cucina dell’aroma denso e penetrante dei
piccoli frutti,
quando Unna entrò nella stanza, portando con sé
un recipiente ricolmo di
bacche. La giovane fece appena in tempo ad appoggiarlo sul tavolo, che
subito
corse alla finestra, spalancandola e lasciando che una ventata
d’aria fredda
entrasse all’interno della cucina.
«Unna!»
protestò Linda. «Che fai?
Vuoi farci congelare?» La pioggia cadeva incessantemente da
un paio di giorni e
le calde giornate di giugno avevano presto mutato aspetto, divenendo in
tutto e
per tutto simili agli uggiosi pomeriggi d’ottobre che Lidia
aveva vissuto a
Roma: a farla da padrone erano ormai il freddo,
l’umidità e i banchi di nebbia
che correvano rapidi lungo la costa della montagna.
Davanti
al richiamo della padrona
di casa, Unna storse il naso. «Questo odore mi dà
il voltastomaco» mormorò, secca,
respirando a pieni polmoni l’aria umida di pioggia. Linda
appoggiò il mestolo
che aveva in mano al bordo della pentola e fece scorrere uno sguardo
attento
lungo la figura di Unna. «Sarai mica incinta?» le
chiese, a bruciapelo.
A
quelle parole, Lidia sussultò e
Unna si irrigidì, senza però negare.
«Possibile» mugugnò poi, controvoglia.
Posandosi
le mani sui fianchi larghi, Linda si rifiutò di lasciar
cadere l’argomento. «Possibile?»
ripeté, inclinando il capo di lato e fissando Unna con i
suoi grandi occhi blu.
«Lo saprai bene se sei incinta o no, spero.»
Sotto
quello sguardo così
attento, Unna sollevò una spalla in un gesto elaborato, poi
annuì. «Credo di sì»
ammise infine, arrossendo leggermente. Linda lanciò
un’esclamazione di giubilo
e attraversò a grandi passi la cucina, raggiungendo la
giovane e
abbracciandola, complimentandosi con lei. Unna si schernì,
ma la sua maschera
di indifferenza non resistette a lungo e presto il suo volto si
aprì in un
sorriso dapprima timido, poi sempre più largo.
È la prima volta che la vedo sorridere,
pensò Lidia. O, meglio:
è la prima volta che la vedo fare
un sorriso che non sembri più che altro un ghigno. Mentre
Linda e Unna si
scambiavano qualche battuta nel loro dialetto, la giovane romana si
dondolò
nervosamente sui piedi, e non solo perché, improvvisamente,
in quella stanza si
sentiva quasi di troppo. Anche se non riusciva a capire bene il
perché, la
notizia della gravidanza di Unna aveva suscitato in lei mille emozioni
diverse:
spaesamento, curiosità, stupore, ansia e, soprattutto, fastidio.
Mentre
cercava di captare qualche
parola in quel discorso di cui non capiva nulla, Lidia non smise mai di
mescolare la marmellata, concentrandosi sul movimento regolare del
liquido
denso e profumato. Si sentiva esclusa, messa da parte, e si chiese cosa
avesse
da spartire con quelle donne, di cui una era già madre e
l’altra lo sarebbe
presto divenuta, lei, che non aveva nemmeno mai fatto l’amore
con un uomo.
Quasi
avvertendo i suoi pensieri,
Linda liberò Unna dal suo abbraccio e si voltò
verso Lidia. «Non è una
bellissima notizia?» le chiese, sorridendo.
La
fanciulla annuì, simulando
un’allegria che non provava affatto.
«Sì, lo è» convenne. Se
pensava che le
circostanze tutto sommato felici ammorbidissero Unna, Lidia si
sbagliava:
quando avvertì su di sé lo sguardo della
fanciulla, la germanica le lanciò
un’occhiata fredda, scoraggiando qualsiasi tipo di approccio
amichevole.
Be’, se vuoi continuare a fare
così, fai pure. Sai cosa me ne importa! Pensò,
stizzita, tornando a concentrarsi sulla marmellata che, nelle sue mani
sapienti, stava già iniziando ad attaccarsi sinistramente ai
bordi della
pentola.
Accorgendosi
di quello che stava
accadendo, Linda si affrettò a riprendere in mano il
cucchiaio di legno. «Comunque»,
continuò la donna, rivolta a Unna, «se
l’anno prossimo verrai ancora qui, sarà
bellissimo avere un altro neonato in casa. Ingo sarà
già grandicello; e io sono
stata chiara con Gislin: un altro figlio non lo faccio più,
sto diventando
troppo vecchia per queste cose!»
Unna
ridacchiò, appoggiata alla
finestra. «Be’, ma guarda che nemmeno io avevo
intenzione di fare questo…»
«Eh,
cara mia», ribatté Linda,
con un gran sorriso, «queste cose capitano, quando si
è giovani come te e tuo
marito.» Unna arrossì e alzò gli occhi
al cielo, sbuffando. «E poi», continuò
la padrona di casa, divertita dall’imbarazzo di Lidia,
«chissà che l’estate
prossima anche la nostra Lidia non ci porti un bel bambino,
eh?»
Sentendosi
chiamata in causa,
Lidia avvampò e fece per schernirsi, ma la risatina
sarcastica di Unna le fece
morire le parole in gola. «Chissà»,
rispose allora, ostentando sicurezza, «potrebbe
anche essere.»
«Cerca
di non farlo troppo
romano, però!» commentò ilare Linda.
Lidia
si strinse nelle spalle e,
afferrando il colino con un mormorio confuso, raggiunse il tavolo,
voltando le
spalle a Unna e ignorando lo sguardo penetrante che sembrava volerle
trapassare
la schiena.
***
Malgrado
le sue iniziali
intenzioni di non cambiare minimamente atteggiamento nei confronti di
Unna,
Lidia fu ben presto contagiata dalle attenzioni che Linda riservava
alla donna
e iniziò a sua volta a cercare di agevolarle i compiti
più gravosi. Unna si
lamentava e protestava, sostenendo di non aver bisogno di aiuto, ma
Lidia non
si lasciava scoraggiare né dalle sue parole, né
dalla sua maleducazione: se non
per effettivo riguardo nei confronti della cognata e del suo futuro
nipote,
quantomeno per dimostrare a Linda e alla sua famiglia di essere adulta,
responsabile e all’altezza della situazione.
Fu
così che, una mattina in cui
il sole si era finalmente deciso a mostrarsi nel cielo estivo, Lidia si
offrì
di accompagnare Unna alla ricerca di alcune manze che, giovani e
intraprendenti, si erano allontanate dalla sicurezza dei pascoli,
inerpicandosi
su per il fianco della montagna e sparendo chissà dove.
«Dovete
trovarle prima che venga
sera», aveva detto loro Gislin. «Ogni tanto da
queste parti gira anche qualche
orso.» Lidia aveva deglutito nervosamente alla prospettiva
dell’incontro con
una belva simile, ma si era fatta coraggio, non volendo essere da meno
di Unna
– che, oltretutto, era anche
incinta!
Così,
di buon’ora, quando i raggi
obliqui del sole scavalcavano appena le creste sull’altro
lato della valle, le
due giovani si guardavano attorno, cercando di individuare gli animali
ribelli.
«Là!» esclamò Unna, indicando
un gruppetto di mucche a qualche centinaia di
metri di distanza. Mentre si affrettavano a raggiungerle, Lidia
notò che,
quella mattina, la germanica sembrava particolarmente di buonumore.
«Come mai
così allegra, stamattina?» chiese, sfidando la
sorte.
Unna
si strinse nelle spalle. «Linda
non te l’ha detto? Domani arriva Karl.»
La
fanciulla la guardò, sorpresa.
«Non lo sapevo» mormorò. «Ci
sarà anche Ulf?»
La
donna annuì. «Sì, certo.»
Malgrado
tutto, Lidia sorrise:
anche se fino a qualche tempo prima non l’avrebbe mai creduto
possibile, ora
che gli era lontana si accorgeva di sentire la sua mancanza. Cioè, posso sopravvivere anche senza di
lui,
si rassicurò,
però non sarebbe male
rivederlo per qualche giorno. Così, prima che… La
fanciulla si costrinse a
interrompere quel pensiero: quello non era
il momento per pensare a Tito.
Non
ci misero molto a raggiungere
le vitelle e, dopo averle contate, Unna si accigliò.
«Sono solo cinque: dov’è
la sesta?»
Allontanandosi
di qualche passo
da lei, Lidia osservò il pendio sottostante, strizzando gli
occhi per vedere
meglio. «Non la vedo», disse, dopo qualche istante,
«ma non può essere andata
lontano, di solito si muovono tutte insieme.»
«È
appunto questa la cosa strana»
mormorò Unna, con un’espressione preoccupata.
Il
vento cambiò e improvvisamente
il suono di un campanaccio raggiunse le orecchie delle due giovani.
«È…»
cominciò Lidia, rivolgendosi verso delle placche lucide
d’acqua alla sua
destra.
«…
là sopra» concluse per lei
Unna, prima di guardarsi attorno, facendo il punto della situazione.
«Io
riporto queste giù all’alpeggio» disse
poi, voltandosi verso Lidia. «Tu sali a
recuperare quella che manca.»
La
fanciulla guardò verso l’alto,
preoccupata: già aveva difficoltà a camminare sui
sentieri, quelle rocce lisce
e infide le parevano un ostacolo insuperabile. Deglutendo nervosamente,
Lidia
incrociò lo sguardo di Unna. «Non potresti andarci
tu?» chiese, senza
riflettere. «Lo sai che io non sono brava a camminare in
salita…»
L’esitazione
della giovane fu
sufficiente a frantumare il buonumore di Unna, che si
rabbuiò, lanciandole
un’occhiata sprezzante.
«Cos’è, la signora non vuole prendersi
il disturbo?»
l’aggredì, sibilando.
La
fanciulla sbiancò davanti a
quella reazione imprevista ed esitò per qualche istante,
prima di difendersi. «Ma
no» disse, inciampando nelle parole. «È
che io non ci riesco, ad arrivare
lassù.»
Unna
la fissò in silenzio,
scuotendo il capo. «Ma certo, che stupida: pensavo che
camminare su di un prato
fosse un compito alla tua portata, ma evidentemente mi
sbagliavo.» Quelle
parole furono pronunciate con un disgusto tale, che Lidia si
sentì arrossire. Senza
lasciarle il tempo di replicare, Unna le passò il sacchetto
contenente il sale
che avrebbe dovuto convincere le mucche a seguirla. «Tieni,
ci vado io, che
faccio prima!»
Con
un guizzo d’orgoglio, Lidia
glielo restituì. «No, no, lascia perdere, ci vado
io!» La donna la guardò con
un’espressione scettica, identica a quella sfoderata tante
volte da Ulf. «Anche
perché non credo di riuscire a portar giù le
mucche, da sola» aggiunse la
ragazza, facendo scorrere lo sguardo sui cinque animali che brucavano
affianco
a loro.
Unna
annuì, lentamente e, dopo
essersi chinata per stringersi di più gli scarponcini, Lidia
si voltò a
fronteggiare la montagna, cercando di farsi coraggio. Senza esitare
oltre, la
fanciulla si avviò su per il pendio, facendo attenzione a
dove appoggiava i
piedi e ignorando lo sguardo di Unna appuntato sulla sua schiena. Viste
da
vicino, le rocce erano meno scivolose di quello che si sarebbe
aspettata e le
suole delle sue scarpe aderivano con facilità al granito,
permettendole di
salire più velocemente del previsto.
Quando
ebbe coperto circa la metà
della distanza che la separava dal pianoro sul quale, in teoria,
avrebbe dovuto
trovarsi la mucca, Lidia venne raggiunta dalla voce di Unna.
«Io scendo!» gridò
la germanica. «Se la vitella non è su
lì, scendi anche tu, che mandiamo Gislin
e Sven, a cercarla!»
Voltandosi
verso di lei, Lidia
fece un cenno d’assenso con una mano, poi riprese la salita,
determinata a
riuscire nel suo compito e a dimostrare a Unna che non era
così inutile come
credeva lei. Si tratta solo di trovare
una stupida vacca, non può essere difficile.
Quando,
dopo una decina di
minuti, superò il tratto roccioso e arrivò su un
grande prato obliquo ai piedi
della ripida salita che portava alla vetta, la giovane si
guardò attorno,
abbattuta: dell’animale fuggitivo non c’era
traccia. Eppure il suono veniva da
quassù, pensò, confusa, non
può essere sparita nel nulla!
Unna,
forse in preda a un piccolo
ripensamento, le aveva raccomandato di scendere, qualora non avesse
trovato la
vitella, ma Lidia decise di non darsi per vinta e di impegnarsi un
po’ di più in
quello che le era stato chiesto. Verso destra il paesaggio era aperto
e, anche
dalla sua posizione attuale, poteva vedere che l’animale non
si era avviato in
quella direzione, ma a sinistra la montagna faceva una curva decisa e
lo sguardo
della ragazza poteva spaziare solo per un centinaio di metri.
Che sia lì dietro?
Con
un’occhiata cauta alle sue
spalle, cercando di memorizzare la via dalla quale era salita e quella,
a
destra, dalla quale avrebbe dovuto scendere per ricongiungersi al
sentiero,
molto più in basso, Lidia si avviò di nuovo in
salita, gli occhi fissi sul
punto dove il prato si univa alla roccia. Quando l’ebbe
raggiunto, la giovane
trasalì: il prato regolare si interrompeva di colpo,
lasciando spazio a un
pendio talmente ripido da sembrare quasi un precipizio, privo di alberi
per
diverse centinaia di metri. Davanti a lei, la valle si apriva, ma era
invasa da
delle nuvole basse che impedivano alla giovane di ammirarne il
paesaggio.
Di
nuovo, uno scampanellio giunse
alle sue orecchie e, voltandosi nella direzione del suono, la fanciulla
individuò finalmente la sagoma brunastra
dell’animale. «Eccoti lì»
mormorò,
trionfante. La mucca era più lontana di quanto le sarebbe
piaciuto, tuttavia
Lidia si rimboccò le maniche e si avviò di buon
passo verso la bestia. Non guardare in basso,
si disse,
terribilmente consapevole dell’abisso che si apriva al suo
fianco. Se non guardi in basso, puoi anche far
finta
di essere nel giardino di casa.
La
fanciulla era talmente presa a
badare a dove metteva i piedi, che non si accorse di quello che stava
accadendo
qualche centinaia di metri sopra la sua testa. Come spesso accade in
montagna, dall’aspra
cresta rocciosa che si stagliava contro il cielo si affacciò
un’ombra grigia,
dapprima simile a un filo di fumo, poi a un muro compatto, eppure
evanescente.
Simile a un liquido che trabocca da un bicchiere troppo pieno, la
nebbia
scavalcò le creste e, con una velocità
sorprendente per una materia tanto
impalpabile, scivolò giù lungo il fianco della
montagna, silenziosa e
inesorabile. Lidia avvertì solo un alito freddo e umido e
poi, improvvisamente,
il mondo assolato nel quale si era trovata fino a un istante prima
venne
avvolto da un mare grigio, uniforme eppure cangiante. Con
un’esclamazione
stupita, la fanciulla si immobilizzò, guardandosi attorno:
ovunque volgesse lo
sguardo, non vedeva nulla che non fosse ingannevole fumo grigio,
un’atmosfera
densa che si faceva sempre più impenetrabile, avvolgendola
in spire sempre più
strette. Lo scampanellio della mucca si fece distante, ovattato e,
abbassando
gli occhi ai propri piedi, Lidia gemette, accorgendosi che
l’esile traccia che
aveva percorso per giungere fino a quel punto ero divenuta
completamente
invisibile.
***
Un ringraziamento a Fioremargherita per il suo
immancabile supporto! Ce
ne fossero, di lettori come te! Purtroppo sto cambiando un
po’ di cose nella
mia vita e finisco sempre per uscire di casa alle 7 di mattina e per
tornarci
alle 7 di sera… ho già un po’ di
capitoli pronti, ma il tempo per scriverne di
nuovi è sempre meno. Spero di riuscire a trovare presto
degli incentivi per
scrivere di più, dopo cena!
|
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Capitolo 20 *** 19. L'Aquila ***
Va bene, si disse Lidia, cercando di
controllare il ritmo del proprio
respiro e di non farsi prendere dal panico. Se
non mi vedono tornare, verranno sicuramente a cercarmi.
L’importante
è non muoversi da qui.
Il
pendio sotto ai suoi piedi le
pareva d’un tratto molto più ripido e scivoloso di
quanto non le fosse sembrato
pochi istanti prima. Con cautela, la ragazza si sedette
sull’erba fredda,
abbracciandosi le ginocchia e stringendosi la gonna contro le gambe,
cercando al
contempo di proteggere il più possibile le braccia nude.
Respirando a fondo nel
tentativo di calmarsi, Lidia si guardò attorno, abbagliata
dal paesaggio
spettrale che la circondava: il suo mondo finiva a pochi metri di
distanza dal
luogo in cui sedeva ed era un universo dai contorni sfumati, delle
sagome
grigie che apparivano e sparivano nell’atmosfera umida. Non
si era mai fermata
a osservare da vicino la nebbia e, adesso che vi era immersa, si
accorgeva che,
diversamente da quello che aveva sempre immaginato, non si trattava di
un muro
compatto e uniforme, ma piuttosto di un’infinità
di sottili volute di fumo che,
impalpabili ed eteree, viaggiavano sospinte da una brezza invisibile,
danzando
sospese nell’aria. Per un breve istante, a Lidia parve di
trovarsi in un altro
luogo e in un altro tempo, sospesa in un istante infinito nel quale non
era più
se stessa, ma una creatura dai mille volti e dalle mille
possibilità, libera
dai vincoli terreni e dagli obblighi che gli uomini le avevano imposto.
Le
parve quasi di poter levitare, di poter oscillare sulle punte, leggera,
e poi
scivolare via in quell’atmosfera surreale come avrebbe fatto
nelle acque di un
mare placido.
Poi,
però, un capogiro la colse e
la fanciulla si riscosse dalla specie di trance nella quale era caduta,
rabbrividendo. Fa freddo,
pensò.
La
miriade di microscopiche
goccioline che formavano la nebbia le imperlavano la pelle e i capelli,
inumidendole gli abiti e facendola tremare, intirizzita. Quando le sue
dita
iniziarono a diventare bianche e insensibili, la fanciulla si rese
conto di
aver completamente perso la cognizione del tempo e di non avere alcuna
idea di
quanto a lungo fosse restata lì, seduta su un prato che si
faceva sempre più
scomodo, in attesa che qualcuno si decidesse a venirla a cercare.
Alzando
lo sguardo verso l’alto,
là dove un tempo c’era stato il cielo, la ragazza
non si stupì di non riuscire
a scorgere nemmeno il più piccolo baluginio che le indicasse
la posizione del
sole: quello che la confuse fu invece la fioca luce crepuscolare che
pareva
avvolgerla. Non può essere
già sera, rifletté.
Quando sono salita non era ancora
mezzogiorno!
Tendendo
al massimo le orecchie,
Lidia cercò di identificare qualche rumore che annunciasse
l’arrivo di
qualcuno, ma la nebbia non le restituì altro che il rimbombo
del suo cuore e il
cinguettio di qualche uccello che sfrecciava via veloce, prima di
sparire tra
le volute grigie.
La
paura tornò a impossessarsi di
lei, lentamente, quasi senza fretta, fino a che la fanciulla non fu
più in
grado di restare seduta e ferma, aspettando un aiuto che non sapeva
quando
sarebbe arrivato. Va bene, si
disse, posso tornare a casa da sola: il
sentiero
non era troppo distante.
Sempre ammesso che tu riesca a vederlo, il sentiero,
commentò la
parte del suo animo che voleva rannicchiarsi a terra e piangere
finché il sonno
o qualcos’altro non l’avesse sopraffatta.
Rifiutandosi di dare ascolto a quella
voce, Lidia si obbligò ad alzarsi in piedi e poi, con le
gambe leggermente
tremolanti a causa del freddo e dell’immobilità
prolungata, si avviò verso la
direzione dalla quale era venuta. A
destra, pensò. Devo
andare a destra.
Memore
della scarpata che si
apriva a pochi metri di distanza, la giovane procedette con cautela,
mettendo
un piede di fronte all’altro con estrema attenzione. Non dovrebbe mancare molto alle rocce; prima
avrò camminato sì e no una
decina di minuti. Quando era salita per cercare la mucca,
Lidia aveva
camminato con un passo molto più spedito rispetto a quello
che stava tenendo al
momento. Tuttavia, ad un tratto, la giovane si fermò
scoraggiata. Adesso però sto
camminando da molto più
tempo, calcolò. Dove sono
le rocce?
Non le ho viste? Oppure… oppure ho sbagliato strada? Avrei
dovuto andare
dall’altra parte?
Con
il cuore in gola, la
fanciulla girò su se stessa, cercando di orientarsi. Tornare
indietro era fuori
discussione, avrebbe solo rischiato di stancarsi troppo percorrendo e
ripercorrendo i propri passi. Premendosi un pugno sulle labbra, Lidia
cercò di
pensare. Era piuttosto certa di essersi incamminata nella direzione
corretta,
del resto il prato sul quale si era fermata era in leggera pendenza e
lei aveva
camminato in discesa, così come avrebbe dovuto fare. Ma
allora perché non aveva
trovato la via dalla quale era salita? Possibile che ci fosse passata
accanto
senza accorgersene? Possibile, si
disse. Del resto, con questa nebbia non
si vede a due metri di distanza.
Inspirando
risoluta, la giovane
prese una decisione. Va bene, io scendo.
Durante
la salita, prima di
svoltare dietro al fianco della montagna, aveva osservato con
attenzione il
paesaggio e ricordava di non aver visto passaggi particolarmente
pericolosi: il
prato era un po’ troppo ripido per i suoi gusti e le rocce
avrebbero potuto
essere scivolose a causa dell’umidità, ma
probabilmente sarebbe riuscita a
tornare alla baita senza rompersi l’osso del collo. Al massimo mi farò qualche
livido… niente di nuovo sotto il sole,
comunque.
Rinfrancata
dalla propria
decisione, Lidia iniziò a scendere verso destra, dove,
secondo i suoi calcoli,
avrebbe dovuto trovarsi il pendio che l’avrebbe riportata al
sentiero. Dopo una
decina di metri, però, la fanciulla vide che la pendenza
aumentava
improvvisamente, rendendo il terreno impraticabile. Ma
cosa… possibile che io sia ancora troppo indietro?
Camminando
sul bordo della
scarpata, Lidia cercò di leggere al meglio il terreno, ma
presto fu costretta a
fermarsi di nuovo. Nemmeno di qui si
scende! Pensò, mentre il panico iniziava ad
assalirla. Calma, sta calma! Si
disse, passandosi le mani sulle braccia e
sentendole sempre più sudate. No,
no,
niente panico!
Inspirando
profondamente, la
giovane si premette il pollice al centro di un palmo, memore di quello
che
aveva fatto Donna Erin il giorno del suo matrimonio. Ulf…
il collegamento fu istantaneo e, con le lacrime agli occhi, quasi
senza la consapevolezza di farlo, la fanciulla pensò a suo
marito e desiderò averlo
accanto a sé. Avrebbe tanto voluto poterlo abbracciare,
lasciandosi stringere e
rassicurare da lui.
Chissà
cosa avrebbe pensato Ulf
quando, l’indomani, sarebbe arrivato alla cascina e non
l’avrebbe trovata.
Chissà se si sarebbe preoccupato per lei; chissà
se gli sarebbe dispiaciuto
quando l’avrebbero trovata morta congelata, oppure
spiaccicata al suolo dopo un
volo di qualche centinaia di metri… La sua mente
vagò brevemente per scenari
sempre più tragici che, per quanto differenziati, si
concludevano sempre con la
sua dipartita e con le diverse reazioni delle persone che
l’avevano conosciuta.
Ulf, nelle sue fantasie, era sempre triste, mentre Unna aveva
immancabilmente
un’aria vagamente soddisfatta.
Mentre
lacrime di commozione e
dispiacere per la propria sorte iniziavano a scivolarle già
per le guance,
Lidia si riscosse. Eh, insomma! Basta!
Sei patetica! Tirando su con il naso e stirando le braccia
lungo i fianchi,
la fanciulla si fece coraggio. Da quello che riusciva a capire, doveva
trovarsi
su una specie di terrazzino erboso. Era arrivata da sinistra; a destra
e
davanti a sé non aveva altro che vuoto. Questo significava
che non aveva che
due possibilità: tornare indietro oppure inerpicarsi su per
il pendio, in
salita. Salgo, decise, su due
piedi. Magari più in alto la
nebbia si dirada e
riesco a capire dove sono.
No,
non sarebbe rimasta lì su
quella sporgenza, a due passi dall’abisso, ad aspettare di
morire di freddo o
di paura. Ormai le era abbastanza chiaro che nessuno sarebbe venuto a
cercarla
nell’immediato – del resto la nebbia era troppo
fitta anche per Gislin o Sven –
quindi tanto valeva cercare di trovare da sola la strada di casa.
In
affanno nonostante la volontà
di non farsi prendere ulteriormente da panico, Lidia iniziò
a salire,
scivolando e incespicando nella gonna troppo lunga. Quando raggiunse
delle
rocce, la ragazza vi si infilò in mezzo, spingendosi in alto
con i piedi e
cercando degli appigli che le permettessero di issarsi con le braccia.
Anche se
la nebbia l’aveva resa più sdrucciolevole del
consueto, la ruvida roccia
granitica offriva un’ottima presa alle suole dei suoi
scarponcini e le sue
dita, ancorché delicate e poco avvezze a uno sforzo simile,
riuscivano ad
ancorarsi con un certo agio alla miriade di sporgenze offerte dalla
montagna. Prima
di quanto si fosse aspettata, la giovane raggiunse una zona in cui era
possibile tornare a camminare normalmente. Poco alla volta, il freddo
sparì,
sostituito dal calore generato dall’esercizio fisico, ma la
fanciulla non si
fermò. La nebbia persistente le aveva fatto perdere ogni
riferimento, non solo
spaziale, ma anche temporale: quando però avvertì
i primi crampi allo stomaco,
capì che l’ora di pranzo doveva essere passata da
un bel po’.
Basta, non ce la faccio più. Lasciandosi
scivolare su di un masso
di granito, Lidia chiuse gli occhi. Anche se il suo spirito la esortava
a
proseguire, a non abbandonarsi allo sconforto, il suo fisico era
semplicemente
troppo stanco per accontentare quelle richieste. Più della
fame, si accorse,
era la sete a tormentarla: la sua gola era riarsa e ora che si era
fermata il
sudore che le inumidiva ancora la pelle non faceva altro che aumentare
la
sensazione di freddo legata alla nebbia e all’alta quota. In
più, da qualche
minuto si era alzata una brezza fredda; un filo di vento che faceva
vorticare e
correre le volute di nebbia, un alito sottile e sinistro che, data la
situazione, alla fanciulla parve portatore di presagi nefasti. Morirò qui? Si chiese.
Sebbene
razionalmente sapesse che
quella possibilità era in realtà del tutto
remota, in quelle circostanze la
giovane si sentiva più pessimista del solito: non sarebbe
morta di fame, certo,
e probabilmente nemmeno di sete, ma il freddo era un pericolo da non
sottovalutare. Inoltre, ora che lo slancio di iniziativa che
l’aveva spinta ad
arrampicarsi in alto si era esaurito, la fanciulla riconosceva di
essere stata
fortunata a non mettere un piede in fallo e a non precipitare nel
vuoto: era
possibile che, se si fosse mossa da lì, non le sarebbe
andata altrettanto bene.
Senza contare gli orsi. Se riescono a
mangiarsi una mucca, figuriamoci se non riescono a mangiare me.
Lidia
si nascose il volto tra le
mani, cercando di non pensare a quelle cose. A
parte tutto, però: se mi succedesse qualcosa,
chissà se mancherei a
qualcuno?
Un
tempo aveva creduto che i suoi
genitori avrebbero sentito la sua mancanza, se lei se ne fosse andata,
ma
adesso quelli stessi genitori l’avevano spedita via, lontano
da casa. Sì, forse
sua madre avrebbe pianto, si sarebbe dispiaciuta, ma chissà
se le sarebbe
davvero mancata? A proposito di suo padre, la ragazza preferiva non
interrogarsi, anche se nel suo subconscio già conosceva la
risposta. E, per assurdo, ci sono dei momenti
in cui
tu mi manchi, papà.
I
suoi amici a Roma, ne era
abbastanza certa, l’avevano data per persa nel momento in cui
aveva lasciato la
città e, probabilmente, avrebbero accolto la notizia della
sua dipartita con un
mormorio di circostanza e un’alzata di spalle. A
parte Lucilla: lei non è come gli altri. Anche
quel pensiero,
però, non le recò alcun conforto: la ragazza
aveva ormai una sua vita, lontano,
a nord, e di certo non avrebbe avuto troppo tempo per piangere una
vecchia
conoscenza, per quanto cara.
Tito! A lui mancherei sicuramente. So che si
dispererebbe, forse piangerebbe
anche, per me. Sarebbe così triste che…
… però anche Ulf. Forse un
po’ mancherei anche a lui, credo. Se morisse
lui, a me mancherebbe.
Lidia
si bloccò, arrestando i
movimenti automatici con i quali stava cercando di scaldarsi, folgorata
da
quella rivelazione. Già, mi
mancherebbe.
Se non lo vedessi più, mi mancherebbe. Se me ne andassi via,
mi mancherebbe. La
fanciulla deglutì, a disagio.
E perché, poi?
Le
tornarono in mente i piccoli
gesti che quotidianamente Ulf faceva per lei, la proposta di andare a
trovare
Lucilla, i suoi occhi, il modo strano in cui sorrideva, come se non
riuscisse a
evitare di farlo, la sicurezza che riusciva a comunicarle quando la
abbracciava,
persino le frecciatine con cui la faceva arrabbiare così
spesso…
Però anche Tito mi manca, si
disse, quasi disperata.
Sì, ma chi ti mancherebbe di
più? Lidia ammutolì, davanti a quello
scomodo quesito che la sua coscienza le aveva posto. Potrei
vivere senza Tito? Si chiese. La risposta arrivò
quasi
immediata: ovviamente, sì – del resto, lo stava
già facendo, e, malgrado quello
che aveva pensato prima di raggiungere la Nova Germanica, stava vivendo, non sopravvivendo.
E potrei vivere senza Ulf? Sì,
si rispose di nuovo, dopo un attimo
di esitazione. Sì, sarebbe stata in grado di vivere senza di
lui,
indubbiamente. Se avesse voluto farlo, però, era una
questione da analizzare in
un altro momento. L’idea di non rivedere mai più
Tito – o di vederlo solamente
per dirgli addio - le
causava ancora una
stretta allo stomaco, ma la fanciulla non poteva fare a meno di
chiedersi se
quella sensazione fosse dettata veramente dal dolore o se, piuttosto,
non fosse
causata dai primi sensi di colpa che, subdoli, erano strisciati nel suo
inconscio. Oh, ma non importa! Pensò,
mentre un brivido violento la scosse. Se
va avanti così, non rivedrò più
né l’uno né l’altro. Non
rivedrò più nessuno!
Da
qualche tempo a quella parte
le sue dita avevano ripreso a farsi fredde e bianche. In quel momento
erano
così insensibili che la fanciulla aveva la sensazione di
averle perse:
avvertiva il loro tocco sulle labbra, quando se le portava alla bocca
per
scaldarle, ma i suoi polpastrelli le segnalavano solo la vaga
impressione di un
contatto. La testa prese a girarle e Lidia gemette, incapace di
determinare se
il capogiro fosse causato dal freddo e dal fisico indebolito o se fosse
solo
un’ingannevole sensazione generata dalla sua psiche turbata.
Oh, Dèi, pensò,
nuovamente sull’orlo delle lacrime. Come in
risposta alle sue preghiere, la brezza che aveva spirato fino ad allora
si
trasformò in un vento gelido che le trapassò la
schiena, sorpassando la fragile
protezione della camicia leggera con raffiche affilate come lame di un
coltello. La giovane si ripiegò su se stessa, incassando il
capo tra le
ginocchia, mentre il suo stomaco si contraeva dolorosamente.
Poi,
improvvisamente, la ragazza
si accorse di riuscire a vedere a diversi metri di distanza. La nebbia
densa
come ovatta si trasformò in una bruma più rada,
il grigio plumbeo che l’aveva
circondata fino a pochi istanti prima virò verso sfumature
argentee e lì, in
quell’atmosfera d’un tratto fatata, Lidia si rese
conto di non essere sola. Era
più grossa di quanto pensasse, anch’ella
accovacciata su di un masso simile a
quello sul quale riposava lei, le piume brune un po’
arruffate, ma cionondimeno
incredibilmente dignitosa. Trattenendo il fiato, Lidia si chiese se
fosse
possibile che l’aquila non si fosse accorta della sua
presenza, forse come lei
confusa dalla nebbia, ma in quell’istante il rapace
voltò il capo nella sua
direzione e la fissò. La
fanciulla si
sarebbe aspettata che l’animale volasse via, vedendosi
scoperto, ma l’aquila
sostenne il suo sguardo e la ragazza si perse nei suoi occhi
d’ambra, al
contempo folli e pieni di consapevolezza. Nello sguardo insistente del
rapace,
nel suo becco acuminato, la giovane lesse qualcosa che la
colpì nel profondo,
risuonando in una parte del suo essere di cui aveva sempre ignorato
l’esistenza.
Prima che la fanciulla fosse in grado di formulare un pensiero
coerente, però,
l’animale spalancò le ali immense e, con un
saltello che in altre circostanze
l’avrebbe forse fatta sorridere, ma che in quel frangente le
parve
assolutamente maestoso,
volò via,
sollevandosi nell’aria evanescente quasi senza sforzo. Subito
il vento freddo
la ghermì e, senza muovere una sola piuma,
l’aquila scomparve alle spalle di
Lidia. La fanciulla si voltò in fretta, cercando di seguirne
il volo con gli
occhi, e subito il rapace passò nuovamente sopra alla sua
testa, prima di
lasciare l’altopiano sul quale si era posato e lanciarsi nel
cielo sopra alla
valle, disegnando ampi cerchi che lo portarono sempre più in
alto.
Distogliendo
a fatica gli occhi
dall’aquila, Lidia si rese conto che il vento, che ora
soffiava forte e
regolare, aveva definitivamente disperso la nebbia: alla vista del
panorama che
si apriva davanti ai suoi occhi, la ragazza rimase quasi senza fiato.
Doveva
essere passato più tempo di quello che pensava,
perché la luce dorata del tardo
pomeriggio illuminava ormai la valle. La foschia residua che ancora
permaneva
nell’aria le impediva di scorgere i dettagli del paesaggio
sottostante, che le
appariva come attraverso un vetro leggermente opaco, ma là,
oltre alla lieve
cortina biancastra, Lidia poteva vedere il ghiacciaio in tutto il suo
splendore, creste bianche e sorprendentemente morbide, dove le nevi di
innumerevoli inverni si erano depositate, celando i ghiacci eterni che
solo di
tanto in tanto emergevano azzurrini dalla coltre bianca. Il sole, che
ormai si
stava avviando verso la linea dell’orizzonte, gettava una
luce calda sul candore
della neve e la ragazza inspirò, sentendo una strana pace
scendere su di lei.
Si accorse di non avere più paura e di essere stranamente
felice di trovarsi
lì.
Quando
il vento che le sferzava
il volto si fece troppo insistente, la giovane volse le spalle a quel
paesaggio
e si guardò attorno, cercando di determinare la propria
posizione. Era salita
più di quanto avesse immaginato, e, nella cecità
causata dalla nebbia, aveva
preso la via più difficile, arrampicandosi su per le ripide
placche di roccia
grigia, ignorando il prato che si estendeva alla loro destra.
Bene, almeno posso scendere da lì,
pensò. Non subito,
però. Scivolando verso l’altro lato del
sasso sul quale
era seduta, la fanciulla trovò una posizione al riparo dal
vento gelido e,
appoggiando la schiena alla roccia, permise ai raggi del sole di
riscaldarla.
Poco alla volta, il tepore scacciò
l’umidità della nebbia e della paura e la
luce dorata del tardo pomeriggio illuminò le tenebre che si
erano raccolte
anche dentro di lei. Pigramente, Lidia cercò con gli occhi
l’aquila, seguendola
fino a quando l’animale, con un paio di potenti colpi
d’ali – o così le parve,
data la distanza – non scomparve dalla sua vista. Solo allora
la giovane si
alzò e, stiracchiandosi per sciogliere i muscoli
intorpiditi, iniziò la
discesa, sentendosi stranamente di buon umore. Ce
l’ho fatta da sola, pensò. Non era
ancora giunta alla baita, era
vero, ma era convinta che il peggio fosse ormai passato.
Stava camminando da un
po’, quando il vento le
portò un richiamo. Fermandosi per ascoltare meglio, Lidia
guardò a destra e a
sinistra, cercando di capire da dove venisse quella voce.
«Lidia!»
Sven? Si chiese sorpresa la fanciulla. Allora qualcuno è venuto a cercarmi!
La
voce del ragazzo era ancora
distante e la ragazza valutò se rispondere al suo richiamo,
ma poi pensò che il
vento, che soffiava in direzione contraria a quella in cui si trovava
Sven,
avrebbe portato via le sue parole. Meglio
avvicinarsi ancora un po’, decise. In
fretta, però, prima che vada via!
Ritrovandosi
quasi a correre
verso il ragazzino – che non riusciva a vedere, ma la cui
voce si faceva sempre
più vicina – la fanciulla ripercorse rapidamente
il tragitto che, immersa nella
nebbia, aveva coperto in un tempo decisamente maggiore.
«Lidia!»
Fermandosi
così bruscamente che
quasi inciampò nei propri piedi, la giovane
guardò meravigliata l’uomo fermo
davanti a lei: se lui non l’avesse chiamata, lei gli sarebbe
probabilmente
sfrecciata davanti senza nemmeno vederlo, tanta era la sua fretta di
raggiungere Sven. «Cosa ci fai qui?» chiese, con
gli occhi sgranati.
Ulf
le si avvicinò a grandi passi
e Lidia notò che sembrava stupito, sollevato e… arrabbiato? «Dov’eri
finita?» l’apostrofò l’uomo
per tutta
risposta, afferrandola per le spalle.
Costringendosi
a chiudere la
bocca, che per lo stupore di vederselo davanti, era rimasta leggermente
aperta,
Lidia si riscosse. «Io… mi ero persa. Ma cosa ci
fai qui?» ripeté. «Unna aveva
detto che sareste arrivati domani.»
Il
giovane sospirò, chiudendo
brevemente gli occhi. «Ci siamo liberati prima del previsto e
abbiamo deciso di
anticipare di un giorno» spiegò, sbrigativo.
«Cosa significa che “ti eri
persa”?»
Il
suo tono brusco irritò la
ragazza, che arricciò il naso, contrariata. Non era quello
il modo in cui aveva
segretamente sperato di incontrarlo di nuovo. «Significa che
è arrivato un gran
nebbione e che non vedevo a un metro dal mio naso! Avrei voluto vedere
te, a
trovare la strada di casa in quelle condizioni: non c’era
nemmeno il sentiero!»
Poi, facendosi sospettosa, aggiunse:
«Cos’è, credevi che fossi scappata di
nuovo?»
Forse
Ulf non si aspettava di
trovarla così bellicosa, perché la presa che
aveva sulle sue spalle si allentò
per un istante, ma l’uomo non si lasciò
scoraggiare. «No, penso che nemmeno a
te verrebbe in mente di tentare la fuga in alta montagna… da
sola, poi» disse,
con una smorfia. «Ma Unna ci ha detto che ti aveva mandato a
recuperare una
mucca cinquanta metri più in alto, una cosa da dieci
minuti… cosa avrei dovuto
pensare, sentendomi dire che eri sparita da ore?»
Lidia
scrollò le spalle, senza
però riuscire a liberarsi dalla presa di Ulf. «Non
l’ho trovata subito» spiegò,
a mezza bocca. «Mi sono dovuta allontanare più del
previsto e, quando l’ho
trovata, la nebbia è scesa all’improvviso e non
sono più riuscita a tornare
indietro.»
L’uomo
la scrutò, indagatore. «Quindi
Unna non ti ha detto di non allontanarti?»
Arrossendo
leggermente, la
fanciulla abbassò il capo. «In realtà
l’ha fatto, ma volevo dimostrarle che non
sono del tutto inutile» mormorò.
Invece
di placarlo,
quell’ammissione sembrò far arrabbiare ancora di
più Ulf, che la scosse
leggermente. «Non ti avevo raccomandato di fare quello che ti
diceva Unna?» la
rimproverò, avvicinandosi al suo volto per guardarla negli
occhi. «Tu non conosci
queste zone, come ti viene in mente di fare di testa tua? È
pericoloso!»
«Ma
cosa dovevo saperne, io?» lo
attaccò di rimando Lidia, che malgrado tutto si sentiva in
dovere di difendere
la decisione presa. «Anche tua sorella mi ha detto che era
una cosa alla mia
portata. E comunque non potevo certo sapere che sarebbe cambiato il
tempo!
Come… come facevo a saperlo?»
Le
sue parole si spensero
tristemente quando la fanciulla si rese conto di non avere a
disposizione molti
argomenti che potessero sostenere la sua scelta avventata,
così abbassò
cupamente lo sguardo, stringendo i denti in un silenzio ostinato. Ulf
sospirò e
se la tirò un po’ più vicina, mentre le
sue mani si spostavano dalle sue spalle
alle sue braccia. «Va bene» disse a voce bassa,
cercando evidentemente di
allontanare l’irritazione. «Va bene.
Però la nebbia si è dissolta più di
un’ora
fa: cos’hai fatto fino ad adesso?»
Alzando
lo sguardo su volto
dell’uomo, Lidia esitò. «Tra una cosa e
l’altra, sono salita parecchio in alto.
Quando è uscito di nuovo il sole, mi sono fermata un
po’ per riposarmi e per
riscaldarmi» mormorò. «E poi
c’era un’aquila e…»
Nell’udire
quelle parole, Ulf
sussultò. «Un’aquila?»
ripeté.
La
fanciulla annuì, confusa dalla
sua reazione. «Sì, perché? È
pericolosa?» Quando il giovane scosse la testa,
senza però rilassare i tratti del volto, improvvisamente
contratti, Lidia si
affrettò a spiegare meglio la situazione. «Era
lì, a pochi metri da me»
continuò. «Forse anche lei stava aspettando che la
nebbia se ne andasse. Probabilmente
era anche un po’ spaesata: si è girata a
guardarmi, ma non è volata via subito.
E anche dopo, non si è allontanata, ma è rimasta
lì a volteggiarmi attorno per
un bel po’. È stato strano…»
«Tutto
qui?» chiese il giovane,
con una strana tensione nella voce.
Perplessa
dal suo atteggiamento,
Lidia si strinse nelle spalle. «Sì. Be’,
e poi sono rimasta un po’ a guardare
il panorama» disse, chiedendosi distrattamente se suo marito
avesse qualcosa
contro le aquile.
Quelle
parole sembrarono
riscuotere Ulf, che abbassò su di lei uno sguardo incredulo.
«Noi ti stavamo
cercando e tu guardavi il panorama?» Lidia
arrossì, improvvisamente consapevole
del fatto che forse quella non era
stata la scelta migliore, e Ulf sospirò esasperato.
«Posso sapere che cosa ti
passa per la testa?» le chiese, mordendo le parole in un modo
che fece
risaltare ancora di più il suo accento.
«Scusa»,
cercò di giustificarsi
lei, «è che proprio non ci ho pensato. Non lo so,
il sole, l’aquila, il
sollievo di essere fuori dalla nebbia…»
… quello che stavo pensando di te e di
Tito…
L’uomo
la guardò in silenzio, poi
distolse lo sguardo, irrigidendo la mascella ed espirando lentamente
dal naso. La
fanciulla sentì i sensi di colpa assalirla e le dispiacque
di averlo fatto
stare in pensiero inutilmente. «Scusa»
ripeté, alzando le mani sul suo petto e
spingendole fino alle sue spalle: improvvisamente si sentiva in dovere
di
consolarlo e di rassicurarlo e la cosa la confuse.
Sotto
le sue mani Ulf si rilassò un
poco e dopo qualche attimo tornò a incontrare il suo
sguardo. «Mi hai fatto
preoccupare» ammise, quasi sottovoce, posandole le mani sui
fianchi e
attirandola a sé. «Pensavo che ti fosse successo
qualcosa. Che fossi caduta, o che
so io… è facile perdersi, qui, e la notte
è fredda. Senza contare che, quando
ci sei di mezzo tu, non si può mai sapere.»
Malgrado
la mezza battuta finale,
nei suoi occhi chiari Lidia lesse tutta la sua preoccupazione e quella
consapevolezza le provocò una fitta allo stomaco. Oh, Ulf, pensò, stringendosi a
lui senza pensarci due volte.
Sospirando,
l’uomo nascose il
viso nei suoi capelli. «Hai questo pessimo vizio»,
mormorò, «di sparire nel
nulla, rischiando di fare una brutta fine.»
La
ragazza capì che si stava
riferendo anche al suo primo – e unico – tentativo
di fuga e si morse un
labbro, arrossendo un po’.
«Cercherò… cercherò di
evitarlo, in futuro» promise,
storcendo il naso quando si rese conto che le sue parole non suonavano
particolarmente rassicuranti.
«Voglio
sperarlo» commentò il
giovane, sorridendo appena. «Perché altrimenti
vivere con te diventerebbe
decisamente più stressante del previsto.»
Così dicendo, Ulf le posò un bacio
sulla fronte e Lidia gli passò le braccia attorno al collo,
restia a
interrompere quel contatto.
Sei ancora arrabbiato? Gli chiese in
silenzio, incontrando i suoi
occhi con un’espressione di cauta speranza. Scuotendo appena
il capo in
risposta a qualche suo pensiero, Ulf le posò una mano alla
base della nuca e si
chinò per baciarla. Sollevata, Lidia intrecciò le
dita tra i suoi capelli e lo
attirò a sé, ricacciando indietro un sorriso di
sollievo e abbandonandosi al
suo bacio.
Lontana
dalla casa e
dall’ambiente che, anche se inconsciamente, continuava ad
associare alla paura
provata nei suoi primi giorni a Erding, la fanciulla si
sentì libera e più
sicura di sé. Sentendosi particolarmente coraggiosa, Lidia
si alzò sulle punte
dei piedi, spingendo il proprio corpo contro quello dell’uomo
e tremando di
piacere quando sentì le sue mani percorrerle il corpo con
più forza di quanto
avessero fatto in passato. Avvertendo come il bisogno di averlo
più vicino, la
fanciulla approfondì il bacio e, per un istante,
l’uomo sorrise contro la sua
pelle.
Senza
che se ne rendesse conto,
un gemito lieve sfuggì dalle labbra della ragazza e Ulf le
prese il volto tra
le mani, esplorando la sua bocca in un modo che la fece fremere, mentre
un
calore sconosciuto si impossessava del suo corpo e della sua mente. Non voglio andare via, pensò,
confusamente,
stringendosi a lui.
Quando
l’uomo si staccò da lei,
la presa di Lidia si fece più salda, impedendogli di
allontanarsi. Con il fiato
corto, la fanciulla lo guardò negli occhi, sentendosi
stranamente viva, quasi
come se la sua pelle fosse improvvisamente diventata troppo stretta e
formicolasse nello sforzo di contenere le sue emozioni e i suoi
sentimenti.
Nella sua mente, un solo pensiero: non
voglio lasciarlo.
Come
per un riflesso
condizionato, il pensiero di Tito si presentò alla sua
mente, ma, diversamente
da quanto era accaduto in passato, non sortì alcun effetto
sulla fanciulla. Con
un blando senso di sorpresa, la giovane si rese conto di non provare
nulla: non
dolore, non angoscia, non dispiacere, non amore, solo un piccolo colpo
sordo
alla bocca dello stomaco, che però impallidì
davanti a tutto quello che stava
provando al momento.
Senza
una parola, Lidia si
sollevò di nuovo sulle punte e catturò nuovamente
le labbra dell’uomo, che la
strinse come se volesse fondersi con lei. Deliziata, la ragazza
assaporò il
calore della sua pelle e la saldezza dei suoi muscoli e, con un guizzo
di
intraprendenza che non riuscì a stupirla, si chiese come
sarebbe stato
stringersi a lui senza l’intralcio dei vestiti. La mano del
giovane, che vagava
sulla parte bassa della sua schiena, doveva avere pensieri simili,
perché
raggiunse l’orlo della sua camicia e vi si infilò
sotto, accarezzando la pelle
morbida della fanciulla. Sorpresa da quel contatto improvviso, che le
parve
così caldo da bruciarle
la pelle,
Lidia sussultò e la sua bocca si aprì in
un’esclamazione muta. Allontanando il
volto da quello del giovane, la ragazza scese sul suo collo e vi
posò alcuni
baci, incoraggiando il suo compagno a esplorarla più a
fondo, spingendosi più
in su con la mano e posando l’altra sulla pelle scoperta
della sua vita.
«Ma
io vi ammazzo!»
Quell’esclamazione
rabbiosa fece
sussultare i due giovani, che si allontanarono leggermente
l’uno dall’altra e
si voltarono a fissare l’intruso: Sven, con
un’espressione assolutamente furiosa
sul volto arrossato, era fermo a
qualche metro da loro, gli occhi neri scintillanti e i capelli
arruffati.
Malgrado l’imbarazzo, Lidia alzò lo sguardo su Ulf
e sogghignò notando che non
sembrava aver preso particolarmente bene l’interruzione: a
giudicare dalla sua
espressione, sembrava stesse valutando
chi dovesse uccidere chi.
Il
ragazzino, però, non parve per
nulla intimidito dallo sguardo torvo dell’uomo e, anzi,
marciò verso di loro,
guardandoli inferocito. «Io sono qui che vado avanti e
indietro da un’ora e voi
siete qui a fare schifezze!»
ululò.
Il
tono con cui pronunciò
quell’ultima parola era talmente oltraggiato che, malgrado i
suoi tentativi di evitarlo,
Lidia sentì un sibilo divertito sfuggirle dalle labbra. Un
secondo dopo scoppiò
a ridere e Ulf, contagiato dalla sua risata, si rilassò e la
guardò con un
sorriso che andava da un orecchio all’altro, apparentemente
deciso a ignorare
la presenza del ragazzo.
Sven
sbuffò, ancora più irritato,
ma strinse la mascella e girò sui tacchi, sibilando un idioti a mezza voce, ma non troppo, senza
preoccuparsi di essere
sentito. «Io torno a casa» urlò poi,
prima di sparire giù dal pendio dal quale
era salito. «Non intendo saltare la cena. Ma se voi volete
restare qui,
restateci pure. Sapete cosa me ne frega, a me!»
Sorridendo,
Lidia si voltò verso
Ulf. «Forse faremmo meglio ad andare anche noi?»
gli chiese.
L’uomo
annuì. «Sì» convenne,
sogghignando. «Non voglio nemmeno pensare al resoconto che
potrebbe fare a Unna
e agli altri…»
La
fanciulla ridacchiò,
arrossendo leggermente, e si avviò per la stessa via presa
dal ragazzino,
quando un pensiero attraversò la sua mente. «A
proposito di Unna», disse,
voltandosi verso Ulf, «che cosa ne pensi?»
Lui
la guardò, senza capire. «In
che senso, cosa ne penso?»
«Be’,
voglio dire, immagino che…»
Improvvisamente Lidia si bloccò. «Ehm…
non ti ha detto niente?»
L’espressione
dell’uomo si fece
ancora più confusa. «Non so neppure di cosa stai
parlando. Devo preoccuparmi?»
Istintivamente,
la fanciulla si
portò una mano sulla bocca. Ops,
stavo
per fare una gaffe. Non aveva dubbi che la donna avrebbe
voluto comunicare
personalmente la lieta novella al fratello: se avesse scoperto che le
aveva
rovinato l’effetto sorpresa, non glielo avrebbe mai
perdonato, non c’erano
dubbi.
«No,
no, lascia perdere» si
affrettò a dire, allungando il passo. Senza rimanere
indietro, Ulf la afferrò
per un braccio, cercando di convincerla a fermarsi. «Lidia,
c’è qualcosa che
dovrei sapere?»
La
ragazza rise e si liberò dalla
presa dell’uomo. «Smettila, non ti dirò
una parola!»
«Si
può sapere cosa…» provò ad
insistere lui, sorridendo, ma la giovane scosse il capo.
«Non
saprai niente, da me!»
esclamò, divertita. «Zitto e cammina, che prima
arriviamo e prima saprai!»
Sorridendo
verso il cielo che
iniziava ad assumere i colori della sera, Lidia accennò a un
saltello,
sentendosi incredibilmente leggera e libera.
Non sapeva se sarebbe stata la scelta migliore, ma era la sua scelta e, pertanto, doveva essere
quella giusta: amava
Tito,
l’aveva sempre amato e l’avrebbe amato per sempre,
ma ora si accorgeva che
l’amore non era unico, ma multiforme e dotato di mille
sfaccettature. Quello
che provava per il giovane romano era saldo e consolidato, ma era
diverso da
quello che provava per Ulf, adesso se ne rendeva conto. Anche se il
sentimento
che nutriva per suo marito non era ancora completamente formato, anche
se
necessitava ancora di un po’ di lavoro per diventare autonomo
e reggersi con le
proprie gambe, Lidia avvertiva chiaramente che aveva il potenziale di
diventare
quello che l’amore che provava per Tito non avrebbe mai
potuto essere. C’era un
po’ di tristezza in quella scoperta, ma era una tristezza
buona, che costruiva,
anziché distruggere; una malinconia che dipingeva di colori
dolci il passato e
illuminava con luce chiara il futuro.
Certo, ci sarà poi da vedere se Tito
sarà dello stesso avviso, le
ricordò la vocina sarcastica nella sua testa, mettendo freno
a quei pensieri
gloriosi, ma Lidia si rifiutò di farsi abbattere. Non
sarebbe stato facile, ne
era consapevole, ma conosceva Tito quasi come conosceva se stessa e
sapeva che
era un ragazzo buono e ragionevole. Forse non sarebbe stato felice di
apprendere la novità, ma avrebbe compreso il suo punto di
vista e avrebbe
rispettato la sua decisione… che, a conti fatti, sarebbe
anche stata la
migliore per tutti. Se fosse rimasta con Ulf non avrebbe dovuto vivere
una vita
clandestina, non avrebbe dovuto tagliare i ponti con il passato
– né con il
presente – avrebbe potuto rivedere Lucilla e i propri
genitori e Tito non
avrebbe dovuto abbandonare una famiglia a cui era molto legato.
Il
tragitto per raggiungere la
cascina le parve decisamente breve e Lidia deglutì, a
disagio, quando giunsero
in vista della baita e videro che Sven stava ragguagliando Linda circa
gli
ultimi sviluppi, gesticolando nella loro direzione. Vedendoli arrivare,
la
donna sorrise, posando – non troppo gentilmente –
una mano sul capo del figlio
e voltandosi verso di loro. «Lo sapevo che non ti era
successo niente!»
annunciò, trionfante, avvicinandosi per abbracciare Lidia.
«Ah»
ammise la ragazza,
lievemente imbarazzata. «Io qualche dubbio ce l’ho
avuto.» Un movimento a
qualche metro di distanza attirò la sua attenzione e la
giovane spostò lo
sguardo sulla vitella che pascolava placida nei pressi della stalla.
Lidia
strizzò gli occhi, sospettosa. «Quella
è…»
«È
tornata a casa praticamente subito,
quando è calata la nebbia» commentò
serafica la donna.
La vacca è stata più furba di
me, pensò la fanciulla, sentendosi
quasi offesa dal confronto con l’animale.
«Eh,
finalmente!»
Voltandosi
nella direzione della
voce, Lidia vide Unna, appoggiata di traverso allo stipite della porta,
con
Karl alle sue spalle. L’espressione della giovane era
annoiata, ma nei suoi occhi
la ragazza vide la scintilla combattiva che spesso preludeva a una
battuta poco
gentile nei suoi confronti. Unna parve infatti intenzionata a dire
qualcosa, ma
Ulf passò un braccio attorno alla vita di Lidia e quel gesto
sembrò far
cambiare idea a sua sorella, che scrollò le spalle e
lanciò un’occhiata dietro
di sè, incrociando gli occhi di suo marito. L’uomo
osservava la scena senza
manifestare alcuna emozione particolare e la fanciulla si chiese se
Unna non
gli avesse ancora detto nulla.
Incuriosita,
Lidia guardò la
cognata, inclinando leggermente il capo, la domanda evidente sul suo
volto.
Sorprendentemente, Unna parve cogliere quell’interrogativo
muto e si strinse
nelle spalle, facendo un piccolo cenno con la testa. Dopo,
voleva dire quel gesto; e Lidia sorrise: anche se Karl non le
era particolarmente simpatico – anzi!
– era curiosa di vedere il modo in cui avrebbe reagito una
volta scoperto che
sarebbe diventato presto padre.
Interrompendo
il silenzio, Linda
si avviò verso casa, portando con sé il figlio.
«Bene» disse. «Io torno in
cucina. Credo che dopo questa giornata ci meritiamo tutti un pasto
sostanzioso.»
***
Seduta
al tavolo, Lidia mangiava
lentamente, assaporando ogni boccone e dividendo la sua attenzione tra
il
cicaleccio sconclusionato di Bibi e i discorsi degli altri commensali.
Né
Ulf, né Karl sembravano
particolarmente desiderosi di discutere delle tensioni che ancora
permanevano
in paese: rispondevano alle domande di Linda e Gislin, ma in modo
talmente vago
e sintetico che presto i due lasciarono cadere il discorso, spostandosi
su
altri argomenti.
Di
tanto in tanto, Lidia
osservava Unna, notando che la giovane mangiava poco, giocando con il
cibo,
piuttosto che portarlo alla bocca, e teneva lo sguardo fisso sul
piatto,
tormentandosi nervosamente le labbra con i denti. E
su, coraggio! La incitò mentalmente, comprendendo
il nervosismo
della cognata, ma iniziando a stancarsi dell’attesa.
Di
punto in bianco, Unna inspirò
profondamente e posò le posate sul tavolo, prima di voltarsi
verso suo marito. «Vieni
di là un attimo?» gli chiese.
Lidia
si stupì di quanto la sua
voce suonasse controllata e nascose un sorriso davanti
all’espressione sorpresa
di Karl. Nonostante lo stupore, l’uomo si alzò
senza ribattere, seguendo la
moglie nell’altra stanza. A differenza della giovane romana,
Linda non si
preoccupò di nascondere la propria allegria, dando vita a un
giro di risatine e
sorrisi che lasciarono confuso Ulf, l’unico a essere ancora
all’oscuro di
tutto. L’uomo si guardò attorno, senza capire,
evidentemente alla ricerca di
qualche spiegazione, sebbene qualcosa nella sua espressione
suggerì a Lidia che
stesse iniziando a sospettare il perché di tanti segreti.
Ulf
si voltò verso di lei. «Ma
Unna…» lasciò sfumare la frase, come se
non volesse sbilanciarsi, ma Lidia si
tuffò nel bicchiere, evitando di rispondere e limitandosi a
sorridere con gli
occhi.
Dopo
un tempo che le parve
infinito, Unna e Karl tornarono nella sala da pranzo e Linda
scoppiò a ridere
davanti alla gioia palese dell’uomo, che abbracciava la
compagna, impedendole
di allontanarsi da lui. Unna, con il volto arrossato, ma sorridente,
sbuffò e
colpì con il gomito il petto del marito, convincendolo a
lasciarla allontanare
di qualche centimetro, senza però riuscire a fargli mollare
del tutto la presa.
Ma che carini, pensò
sarcastica Lidia, sprofondando nella sedia e
osservando la coppia con lo stesso distaccato entusiasmo con cui
avrebbe
assistito a una scena romantica di un’animazione.
«Va
bene» esclamò Ulf, incrociando
le braccia sul tavolo. «Posso sapere cosa sta
succedendo?»
Karl
sorrise, con gli occhi che
scintillavano. «Diglielo!» disse, stringendo la
mano di Unna.
Con
un sospiro melodrammatico, la
donna si voltò verso il fratello, allargando le braccia.
«Diciamo che, prima
che si avveri la vaga e remota possibilità che tu e il pesce
lesso al tuo
fianco riusciate a mettere al mondo una creatura tutta vostra, potrei
permetterti di fare un po’ di pratica con la mia.»
Ulf
sbatté lentamente gli occhi,
prima di sorridere. «Avrete un bambino?» chiese
cauto.
«Sì!»
esclamò Karl, con la voce
un po’ incrinata dalla gioia e dall’emozione.
Mentre
Ulf si precipitava a
congratularsi con la sorella e con l’amico, Lidia emise un
sibilo a metà strada
tra uno sbuffo e una risata: l’insulto che, con grande
nonchalance, Unna era
riuscita a inserire nel suo annuncio le faceva storcere il naso, ma, in
un
certo senso, la divertiva anche un po’.
Senza
nemmeno pensarci, quando
incontrò gli occhi azzurri della donna, Lidia le rivolse una
smorfia e le
mostrò la lingua: da sopra alla spalla del fratello, Unna
sorrise, e per una
volta era un sorriso vero, anche se dispettoso.
Ma sì, pensò la
giovane romana, appoggiando il mento sul palmo di
una mano, dopotutto poteva anche andarmi
peggio.
***
Per rispondere a quello che alcuni di voi mi hanno
chiesto dopo l’ultimo
capitolo: no, non ho in programma di abbandonare di nuovo questa
storia. Ho i
capitoli pronti per i prossimi due mesi e ho scritto lo
“scheletro” di quelli
restanti.
Quando ho ripreso in mano ‘sta roba,
l’ho fatto con l’intento di
finirla in tempi rapidi. Quello che non avevo messo in conto era di
trovare un
lavoro che mi facesse arrivare a casa praticamente all’ora di
cena, il che
significa che il tempo per scrivere va dalle nove alle undici di
sera…
ovviamente, quando non esco con gli amici, quando non guardo un film,
quando ho
semplicemente voglia di cazzeggiare su internet o quando non sono
così stanca
da fare una doccia e andare a letto.
Il vostro supporto, il fatto di sapere di scrivere
per qualcuno e non
solo per me stessa mi aiuta a essere un po’ più
produttiva, ma quello che
voglio dire è questo: i capitoli arriveranno, sì,
ma, una volta finita la “scorta”,
è probabile che gli aggiornamenti saranno un po’
più radi.
Sorry.
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Capitolo 21 *** 20. Storie di soldati ***
«E
quindi il fatto che ti abbiano
sbattuta fuori dalla tua camera non ti infastidisce nemmeno un
po’?»
Davanti
alla domanda di Ulf, Lidia
si strinse nelle spalle, cercando di trovare una posizione comoda sulla
paglia
che le faceva da materasso. «Ma no, ma no»
cantilenò, soffiando via i miseri
resti di un trifoglio secco e schiacciato. «Spero solo che
Karl non dorma nel
mio letto: quello effettivamente mi farebbe un po’
schifo.»
Ulf
rise. «E perché mai? Sono
abbastanza certo che Unna lo costringa a lavarsi, di tanto in
tanto.»
La
ragazza storse il naso. «Non
lo metto in dubbio, ma è comunque un estraneo. Non mi va di
dormire dove ha
dormito lui.»
«Mh,
come sei schizzinosa…» la
prese in giro il giovane.
«Oh,
finiscila!» rise Lidia,
colpendo il marito con il dorso della mano. Afferrandole il polso, Ulf
se la
tirò contro, facendole posare il capo sulla propria spalla.
La fanciulla
sospirò e si rilassò, sistemandosi meglio addosso
a lui.
Anche
se non l’avrebbe mai
ammesso ad alta voce, Lidia trovava ben poco cavalleresco il fatto che
Karl si
fosse preso il suo letto, costringendola a dormire nel fienile insieme
a Ulf.
Anche se capiva benissimo il desiderio di Unna e di suo marito di
passare del
tempo insieme, la ragazza non poteva negare di essere vagamente
infastidita dal
fatto di aver dovuto rinunciare al suo materasso morbido: se aveva
fatto buon
viso a cattivo gioco, era soltanto per evitare di passare per una
signora di
città, viziata e petulante. Almeno
qui
c’è un buon profumo, si
consolò, respirando la fragranza dell’erba secca.
Accanto
a lei, Ulf era silenzioso
e, a giudicare dal modo distratto in cui le sfiorava i capelli, pareva
decisamente rilassato, perso in pensieri piacevoli. Anche se le
dispiaceva turbare
la sua tranquillità, Lidia pensò che quella fosse
l’occasione ideale per scoprire
qualcosa di più a proposito di ciò che
l’avrebbe accolta quando avrebbe fatto
ritorno a Erding. Per qualche motivo, infatti, quando era solo con lei
l’uomo
pareva più propenso ad aprirsi e a discutere di argomenti
che di solito evitava
con cura, e Lidia intendeva approfittarne: le informazioni che era
riuscita a
carpire durante il suo isolamento in alta quota erano infatti troppo
scarne per
soddisfare il suo bisogno di conoscenza.
Con
un sospiro leggero, la
giovane romana rotolò sulla pancia e si mosse nella penombra
solcata dal canto
dei grilli. «Allora», esordì,
sollevandosi sui gomiti e guardandolo dall’alto
in basso, «come vanno le cose, giù in
paese?»
Come
previsto, Ulf si irrigidì e
sospirò, spostando lo sguardo di lato.
«Vanno» rispose, evasivo. «Credo,
però,
che per qualche mese sia meglio che tu stia alla larga da Erding. A
settembre
Gislin e Linda torneranno a valle: se per allora le cose non si saranno
ancora
calmate, cercheremo di trovarti una sistemazione alternativa.»
Quelle
parole misero
immediatamente in allarme Lidia, che si tirò bruscamente a
sedere. «A
settembre?» chiese, con voce leggermente strozzata.
«Hai intenzione di farmi
restare lontana da casa fino a settembre?
E forse anche oltre?»
La
sua esclamazione violenta fece
quasi trasalire Ulf, ma il giovane si mise a sedere a sua volta,
fronteggiando
la ragazza con le mani sollevate, come nel tentativo di ammansirla.
«Capisco
che per te non sia il massimo viaggiare da un posto all’altro
in questo modo,
ma, almeno al momento, Erding non è un luogo sicuro, per
te.»
«E
per te, invece?» ribatté la
fanciulla. «Se è pericoloso per me,
sarà certamente pericoloso anche per te,
no?»
Il
germanico scosse il capo. «Non
particolarmente» la contraddisse. «Innanzitutto
perché sono un uomo e, fino a
prova contraria, sono in grado di difendermi meglio di te. E,
soprattutto, io non sono romano; e,
credimi, al momento
questo particolare fa tutta la differenza del mondo.»
Lidia,
che era già pronta a
ribattere, davanti a quelle parole rimase in silenzio per qualche
istante.
«Quindi il problema è che sono romana?»
chiese. «Perché? È per la storia della
miniera?» indagò, ricordando la rabbia
di Karl la sera in cui Gefrid aveva comunicato loro la
novità riguardante la
concessione fatta a Roma.
Ulf
esitò e abbassò lo sguardo
sulla coperta ruvida sulla quale erano seduti.
«Anche», ammise, «ma non solo.
Il problema è più… il problema, temo,
è che la gente inizia a essere stanca di
farsi sfruttare da Roma.»
Nonostante
tutto, quella
spiegazione toccò un nervo scoperto e la giovane romana
lanciò al marito
un’occhiata tagliente. «Ancora con questa storia?
Scusami tanto, ma francamente
non vedo in che modo Roma stia sfruttando la vostra terra.»
Ulf
scosse il capo. «Ti ho parlato…»
«… delle offerte, sì» lo
interruppe Lidia, sentendosi particolarmente
infervorata. «Ma si tratta solo di supposizioni tue e di
Karl, non ci sono
prove che le vostre teorie siano vere.»
«A
dire il vero, le teorie non
sono proprio solo mie e di Karl» replicò Ulf, a
bassa voce. «Parlando un po’
con diverse persone, ho scoperto che non sono l’unico a
trovare strana la
natura delle offerte che ci chiedono di fare agli Dèi.
Il punto non è questo, comunque: hai presente
Caleno?»
Lidia
aggrottò la fronte. «Certo
che ce l’ho presente: è il Prefetto. Ho parlato
con lui in diverse occasioni.»
«Bene.
Un paio di settimane fa ha
comunicato a mio padre di aver fatto richiesta perché Roma
inviasse a Erding un
altro centinaio di soldati, che sarebbero andati a sommarsi ai quasi
duecento
che sono già di stanza alle porte del villaggio.»
Lidia fece per parlare e
chiedere spiegazioni, ma Ulf sollevò una mano, facendole
cenno di aspettare.
«Me lo spieghi a cosa servono, così tanti
soldati?»
La
giovane romana aprì e chiuse
la bocca un paio di volte, poi si schiarì la voce.
«Speravo me lo dicessi tu, a
cosa servono così tanti soldati. Vi avrà pur dato
qualche spiegazione…»
«Oh,
certo che ce le ha date»
sogghignò l’uomo, amaramente. «Sostiene
che nella nostra regione ci siano sempre
più attacchi ai danni dei cittadini di Roma e che quindi,
per garantire
l’ordine, gli servono più uomini. Ora, se
consideriamo che a Erding i civili
romani si contano sulle dita di una mano, mi pare chiaro che i soldati
servono
solo a garantire la sicurezza dell’esercito stesso. O
forse… ad attaccare?»
«Ad
attaccare?» gli fece eco
Lidia, che non riusciva a credere alle sue orecchie. «Ad
attaccare chi? E per
cosa? Io credevo che Roma fosse interessata a mantenere la pace: non
è questo,
il motivo per cui ci hanno fatto sposare?»
Ulf
parve preso in contropiede da
quell’osservazione, e si accigliò.
«Sì, ufficialmente è così,
ma… non è detto
che tutti condividano la decisione del vostro Imperatore. Forse anche
tra i
romani c’è qualcuno che aveva sperato in qualcosa
di diverso?» Dopo una
breve pausa, l’uomo riprese: «Io non so come
stiano veramente le cose, però cerca di vedere la situazione
nel suo complesso:
Roma e la Germanica non sono mai state amiche e, poco più di
trent’anni fa, da
queste parti ci sono stati degli scontri anche piuttosto
violenti.»
«Sì,
lo so» annuì
la ragazza. «Caleno me ne ha accennato.»
Se
fu sorpreso dal fatto che il
Prefetto avesse istruito sua moglie circa la storia della regione, Ulf
non lo
diede a vedere. «Non è che, una volta che si smise
di combattere, le ragioni che
avevano generato il conflitto siano scomparse, sai? Anche
perché la ragione principale
era che Roma voleva annettere le nostre terre all’Impero,
così da poterne
sfruttare le ricchezze naturali.» Mentre pronunciava quelle
parole, il tono del
giovane era talmente amareggiato che Lidia, che pure non aveva
oggettivamente
nulla a che vedere con quelle vicende, sentì le sue guance
imporporarsi:
conosceva benissimo la politica estera di Roma e ne aveva
più volte apprezzato
i vantaggi che essa apportava nella sua vita, ma non si era mai fermata
a
considerare seriamente l’altro lato della medaglia.
«Mio padre e tutti gli
uomini della sua generazione hanno combattuto per difendere il nostro
territorio. In molti sono morti, molti altri sono tornati con ferite
che non
sono mai guarite. E adesso… adesso bastano due firme e la
stessa terra per cui
loro hanno lottato viene ceduta a Roma, pezzo dopo pezzo. Qui da noi
è una
sezione di miniera – per ora – altrove sono cave,
terre coltivabili, porti.
Capisci che non è una cosa facile da accettare.»
«Lo
capisco» mormorò Lidia,
aggrottando la fronte. C’era qualcosa che non le tornava, in
tutto quel
discorso, ma non era certa di sapere cosa.
«Capisco», ripeté poi, più
decisa,
«però, se c’è un accordo,
significa che qualcuno l’ha firmato, qui in
Germanica. Tuo padre non aveva parlato di un
generale…?»
Il
giovane annuì. «Chi si ritrova
in posizioni di potere riceve molte pressioni per accettare questo
genere di
accordi, a quanto pare» commentò, laconico.
«Sì?
E da parte di chi?» la
ragazza non ebbe bisogno che Ulf le rispondesse a parole: la sua
espressione fu
sufficientemente eloquente. «Da parte dei
Sacerdoti?» chiese, confusa.
«Già»
confermò l’uomo. «Quindi,
fai un po’ tu i conti. Stiamo parlando di un intero popolo
che già mal
sopportava Roma e che si vede attaccato su più fronti. Ci
sono dei trattati ufficiali che
legittimano il furto delle
nostre ricchezze, dei sacerdoti che forse non sono esattamente fedeli
alla
Germanica che sottraggono altre materie preziose con la scusa di
offrirle agli
Dèi e, non ultimo, un numero allarmante di soldati che,
senza che nessuno possa
fermarli, si ammassano davanti alle nostre case… capirai che
la situazione non
è esattamente ottimale, per te.»
Lidia
chinò il capo, pensierosa.
Anche se c’erano ancora aspetti di quella storia che non la
convincevano fino
in fondo – non ultima l’intera faccenda delle
offerte – la ragazza iniziava a
rendersi conto di quanto la sua presenza fosse verosimilmente poco gradita al villaggio. «Ho
capito»
disse, poi, con voce un po’ tremula. «Ma io cosa
c’entro? Io non ho fatto
niente e non posso nemmeno fare niente per fermare quello che sta
succedendo.
Anzi, non l’ho nemmeno chiesto io, di venire qui:
perché la gente dovrebbe
prendermi di mira?»
Ulf
sospirò e, sporgendosi verso
di lei, le carezzò i capelli. «Per nessun motivo
valido, immagino. Ma se
qualcuno volesse, diciamo, far passare un messaggio, attaccare te
sarebbe molto
più semplice ed efficace che attaccare un soldato
qualsiasi.»
«Cosa
vuoi dire?» insistette la
ragazza, confusa da quella risposta.
«Voglio
dire che sei la figlia di
un Senatore: se qualcuno – Sören,
per esempio, o Otmar, o qualcun
altro come loro – volessero fare capire al Prefetto che
l’aria sta cambiando,
potrebbero scegliere di concentrarsi su di te. La cosa attirerebbe di
certo la
sua attenzione e, in un certo senso, sarebbe anche un insulto alla sua
autorità
e a tutti i suoi soldati.»
Lidia
storse le labbra, dubbiosa.
«L’ultima volta che abbiamo parlato, il Prefetto mi
ha detto che in questa
regione ci sono dei problemi irrisolti. Mi aveva lasciato
un’impressione strana
e, con il senno di poi, ho come il sospetto che Caleno non aspetti
altro che
una buona occasione per… non so, per passare alle vie di
fatto? Per usare le maniere forti?»
Ulf le
rivolse un’occhiata obliqua e la fanciulla si
voltò verso di lui, sfiorandogli
distrattamente la manica della camicia. «Non so se a lui
dispiacerebbe poi
tanto, se quelli là mi facessero del male: probabilmente lo
vedrebbe come un
pretesto per attaccarli a sua volta e magari prendersi più
di quello che ha
adesso? Magari è per quello che ha portato a Erding tutti
quei soldati?»
L’uomo
la guardò per qualche
istante, silenzioso, poi scosse il capo. «È
possibile», concesse, «ma non
è proprio così facile. Caleno deve sottostare
all’autorità di Libo, e il Legato
è senza dubbio un uomo più pacato del Prefetto:
lui ci penserebbe due volte,
prima di far scoppiare un conflitto. E, inoltre, Caleno non
può scavalcare
completamente il Sacro Consiglio.» Dopo una breve pausa, Ulf
aggiunse:
«Rappresentato da Donna Erin, per la precisione.»
«A
proposito di Donna Erin»
esclamò Lidia, colta da un’illuminazione
improvvisa. «Perché Otmar, o come si
chiama, insisteva tanto a chiedermi di lei? Voleva sapere cosa avesse
in mente,
o qualcosa del genere.»
«Probabilmente
crede che sia in
combutta con Roma» fu la pronta risposta di Ulf, e la giovane
non riuscì a
nascondere un sorriso amaro. E non
è
l’unico, si disse, guardando di soppiatto il
marito. «O se anche non lo
crede», riprese l’uomo, «vuole farlo
credere agli altri.»
«Agli
altri chi?» chiese Lidia.
«Alla gente del villaggio? E a che pro?»
«Per
metterglieli contro,
naturalmente» replicò Ulf, stringendosi nelle
spalle. «Io credo che Sören,
Otmar e chi la pensa come loro vogliano prendere il potere a Erding,
ma, per
farlo, devono togliere quello stesso potere a Erin.»
«A
Donna Erin?» ripeté la
giovane romana. «Donna Erin è solo una
Sacerdotessa: non è tuo padre, il capo
villaggio? Non è lui, quello che ha in mano il
potere?»
L’uomo
emise uno sbuffo quasi
divertito e scosse il capo. «Un tempo, forse: ora,
l’unica vera autorità
riconosciuta nelle nostre terre è quella religiosa. Il ruolo
di mio padre è più
che altro simbolico; lui e gli altri anziani del villaggio non hanno
praticamente alcun potere decisionale… non nelle cose che
contano, almeno. Ti
sarai accorta che è Donna Erin a decidere su
tutto.»
Sebbene
sulle prime quelle parole
la sorpresero un poco, Lidia ripensò rapidamente a quello
che aveva visto
durante il suo soggiorno al villaggio, e dovette riconoscere che, in
effetti,
quello che diceva Ulf era probabilmente vero.
«D’accordo», riprese, allora,
«però Donna Erin è una Sacerdotessa: Sören o Otmar non possono
prendere il
suo posto, non sono Sacerdoti.»
«Ovviamente
no» rispose Ulf,
asciutto, «ma questo non significa che non possano
eliminarla. Anzi, immagino
che sia proprio quello che intendono fare.»
«E
non possono… non possono ucciderla
e basta? È una donna come
tutte, non è certo immortale o invulnerabile»
ribatté la fanciulla, ingoiando a
fatica lo strano sapore che quelle parole lasciarono nella sua bocca.
«Io
non credo che abbiano
intenzione di ucciderla: non personalmente, almeno. Quella donna ha
degli
agganci importanti» fece lentamente il giovane.
«Mandarla via sarebbe difficile
e ucciderla sarebbe troppo pericoloso. Penso però che
Sören e Otmar vogliano
fomentare la rivolta, così che sia tutto il popolo a
cacciarla, e non solo una
manciata di uomini con poca simpatia per Roma.»
Lidia
rimase in silenzio per alcuni
istanti, riflettendo su quello che il germanico aveva detto. Poi
sospirò: «Ma
perché dovrebbero voler prendere il potere a Erding? Voglio
dire, perché
proprio Erding? Cos’ha di
tanto
particolare, quel villaggio?»
«Non
ha proprio niente di particolare»
rispose Ulf, con la stessa
asciuttezza di poco prima. «Sören
e Otmar sono amici, a quanto pare,
ed è per questo che quel tipo si trova nel nostro villaggio.
Sai, è probabile
che loro pensino anche di essere nel giusto: vogliono cacciare Roma
dalle
nostre terre perché credono che sia giusto
così.» Dal tono in cui pronunciò quelle
parole, Lidia si chiese se suo marito
condividesse, almeno in una certa misura, quel pensiero. Ma poi, il
giovane
continuò: «Però si deve essere
veramente stupidi
per non capire che, da un approccio del genere, non possono venire che
problemi. Ho scoperto che è proprio per questo che Otmar
è stato cacciato da
casa sua, sai? Suo padre è capo villaggio e continuavano a
scontrarsi a proposito
del modo più giusto per rapportarsi con Roma: alla fine
è stato Otmar ad avere
la peggio e a venire allontanato dal suo villaggio. È
possibile che abbia anche
voglia di rifarsi, o
chissà. In ogni
caso, è meglio che tu stia alla larga da Erding almeno per
un po’.»
Anche
se controvoglia, Lidia
annuì, stringendosi a lui. Ora che aveva più
chiara la reale situazione in cui
si trovava, iniziava a credere che tornare al villaggio non fosse
veramente la
cosa più intelligente da fare. «Forse hai
ragione» ammise, con un sospiro
sconsolato. «Ma se le cose non dovessero sistemarsi? Se
riuscissero a mandare
via Donna Erin?»
L’uomo
esitò un attimo, prima di
rispondere. «Io credo che, alla fine di tutta questa storia,
Donna Erin ne
uscirà vincitrice. Se così non fosse,
però, vedremo di trovare un’altra
soluzione.»
La
ragazza giocherellò brevemente
con l’allacciatura della sua maglia.
«D’accordo» si arrese. «Ma cosa
ti fa
pensare di essere davvero al sicuro, tu? Mi hai sposata, immagino che
nemmeno
tu sia in una gran bella posizione, no?»
Ulf
sorrise. «Io so badare a me
stesso» disse, sicuro di sé. Lidia scosse il capo,
divertita nonostante la
preoccupazione. «Come no…»
Il
giovane doveva essere
desideroso quanto lei di spezzare l’atmosfera sgradevolmente
tesa che si era
creata durante la loro conversazione, perché raccolse
immediatamente la sua
provocazione. Afferrandola per le braccia e facendola rotolare sulla
schiena,
si portò sopra di lei. «Stai forse mettendo in
dubbio la mia abilità nel
combattimento?» le chiese, minaccioso.
«Non
saprei, non ti ho mai visto
combattere» rise lei, divincolandosi. Ulf la
guardò, altezzoso. «Una brava
moglie crederebbe il proprio marito sulla parola e non si sognerebbe
mai di
mettere in discussione la sua abilità… in
qualsiasi campo.»
Lidia
arrossì leggermente,
credendo di indovinare un doppio senso nelle parole
dell’uomo, e si agitò
brevemente, ritrovandosi così fuori dalla coperta sulla
quale erano distesi. I
suoi movimenti le avevano fatto sollevare un poco la camicia e la
paglia punse
la sua pelle scoperta. «Pizzica!»
esclamò la ragazza, ridendo. Con un movimento
repentino, Lidia riuscì a cogliere di sorpresa il compagno,
ribaltando nuovamente
la loro posizione. Quello scambio così scherzoso le
ricordò i momenti
spensierati passati con Tito, a Roma, tanto tempo prima e, senza
pensarci,
Lidia si mise a cavalcioni su di lui, sentendo le ossa del suo bacino
premere
contro la pelle morbida delle cosce. Il sorriso della fanciulla si
spense
leggermente quando, pur nella luce fioca della tarda sera, vide lo
sguardo che
l’uomo le lanciò.
«Addirittura?» sogghignò Ulf.
«Non pensavo che fossi tipa
da...»
«Zitto!»
esclamò Lidia,
gettandosi in avanti e piazzandogli una mano sulla bocca.
«Stai zitto!» La
ragazza sentì l’uomo sorridere contro il suo palmo
e, lentamente, tornò nella
sua posizione seduta e lo scrutò con attenzione, sentendosi
presa in
contropiede. Durante i suoi giochi con Tito, quella posizione era
semplicemente
un modo – forse un po’ malizioso - per affermare
scherzosamente il proprio
potere, per sentirsi forte, anche fisicamente, in grado per un istante
di
tenere testa a un uomo. Ed era esattamente così che
l’aveva intesa anche in
quel frangente, con Ulf: solo la sua battuta le aveva fatto capire
quanto essa
potesse effettivamente risultare equivoca. Bah,
tanto mi sta solo prendendo in giro, pensò,
notando lo scintillio divertito
nei suoi occhi. Arricciando il naso, Lidia decise di non cedere il
terreno
conquistato, e così restò a fissare solennemente
il marito. Notando la sua
immobilità, Ulf la guardò, incuriosito.
«Beh?» chiese, picchiettando
leggermente con le dita contro le sue ginocchia.
Persa
nei suoi pensieri, la
fanciulla ricambiò il suo sguardo, soppesando
l’idea che le era strisciata in
testa. Chissà cosa direbbe, se
provassi
a… fare qualcosa? Le spiegazioni su quello che
occorreva fare in
determinate circostanze – informazioni molto
dettagliate e riccamente illustrate, contenute nei giornaletti che, di
tanto in
tanto, aveva sfogliato con Lucilla – le tornarono in mente,
facendola arrossire
anche a mesi di distanza. Posando a mo’ di tentativo una mano
sotto all’orlo
della maglia di Ulf, toccando la sua pelle calda con la punta delle
dita, Lidia
avvampò, battendo rapidamente in ritirata. No,
no, non sono capace!
Dèi, che vergogna!
Pensò subito dopo, notando che gli occhi del
compagno vagavano sul suo viso, soffermandosi sul suo rossore e sul
labbro
stretto tra i denti. «Cosa stai facendo?» le chiese
Ulf, con una nota di
incertezza nella voce.
«Ah…
niente» sospirò la
fanciulla, spostandosi da lui e sistemando bruscamente la coperta,
prima di
tornare a sdraiarvisi sopra, volgendo le spalle all’uomo. Lui
rimase in
silenzio, fermo nella posizione in cui l’aveva lasciato; e
Lidia inspirò
profondamente, sentendosi vagamente mortificata per il suo approccio
fallito. La
sua incapacità di prendere l’iniziativa la
frustrava e quello strano sentimento
la confondeva: solo il giorno prima era ancora decisa a scappare con
Tito, e
adesso, improvvisamente, voleva qualcosa di più dal suo
rapporto con Ulf. Siamo sposati da un mese e
mezzo! Si
disse, sentendosi quasi in dovere di giustificarsi con se stessa.
Era
stata fidanzata con Tito per
molto più tempo; eppure con il giovane romano aveva sempre
accettato
relativamente di buon grado il fatto di non poter vivere fino in fondo
la sua
relazione con lui… Perché con Ulf era diverso? La
ragazza si mordicchiò le
dita, inquieta: era perché erano sposati e quindi non
esistevano dei veri
motivi per mantenere le distanze, adesso che aveva preso la decisione
di
restare con lui? Oppure c’era anche qualcos’altro? Cosa importa? pensò,
imbronciata. Tanto io non ce la
farò mai a fare la prima mossa! E lui…
Improvvisamente
si bloccò,
colpita da un pensiero. Una volta diceva
che l’idea di toccarmi gli faceva orrore: adesso
però non la penserà più
così,
no? Non mi pare di fargli proprio così tanto
schifo… la fanciulla deglutì,
nervosa, senza riuscire a convincersi del tutto.
Sospirando,
abbattuta e confusa,
Lidia si rannicchiò, portandosi le gambe al petto e
rimuginando su quello che
Ulf provava – o non provava
– per
lei. Improvvisamente, il braccio dell’uomo le
scivolò attorno alla vita e le
sue labbra le si posarono sul collo nudo, facendola trasalire.
«Perché
sei così timida? Non
avrai ancora paura di me, vero?» mormorò il
giovane, a contatto con la sua
pelle, mentre le sue mani le stringevano la vita, scivolando con
naturalezza
sotto alla camicia leggermente sollevata.
Lidia
si sentì avvampare,
terribilmente consapevole di quel contatto inaspettato che le fece
morire le
parole in gola. Non so il perché, avrebbe
voluto rispondere, forse perché
non so
come comportarmi, con te. Ulf, però, non pareva
veramente interessato alla
sua risposta, perché, quando vide che la fanciulla non
accennava a sciogliere
la sua postura contratta, la attirò a sé,
facendole scivolare una mano sulla
pelle tesa dello stomaco e baciandole il collo, salendo fino
all’attaccatura
dei capelli per poi scendere fino a dove la curva del collo scompariva
sotto
alla stoffa bianca. Quando insistette su un punto alla base della gola,
stringendo brevemente la sua pelle tra i denti, Lidia
inspirò bruscamente,
mentre le sue braccia venivano percorse da brividi sottili.
Automaticamente,
le sue gambe si
rilassarono e la giovane si allungò, in preda a uno strano
languore. Uhm. «Cosa…
cosa stai facendo?»
balbettò, dopo qualche istante.
Ulf
le infilò il naso tra i
capelli, mentre con la mano le disegnava dei cerchi sullo stomaco,
lasciando
dietro di sé una scia bruciante. «Cosa ti sembra
che stia facendo?» la provocò,
avvicinandosi al suo orecchio.
«No,
intendo…»
I
denti dell’uomo si strinsero
sul suo lobo; la sua lingua le percorse il profilo
dell’orecchio e Lidia
rinunciò a parlare, rifugiandosi in un sospiro tremulo. No, intendo: perché lo stai facendo?
Lidia
rinunciò però a
quell’interrogativo: si sentiva al contempo scossa e
rilassata, le pareva che
il suo corpo si tendesse e che tutta la sua attenzione si concentrasse
sul
lembo di pelle che Ulf stava baciando. Confusamente, la giovane
pensò che le
sarebbe piaciuto fare qualcosa e,
quasi inconsciamente, serrò i pugni, come se in quella
situazione tutto sommato
nuova le sue mani desiderassero non essere solo delle spettatrici
passive. Prima
che la fanciulla potesse controllarsi abbastanza per agire,
però, il palmo di
Ulf scivolò verso l’alto e si posò
inaspettatamente sul suo seno, esitando
appena mentre l’uomo studiava la sua reazione. Lidia
sobbalzò e si sentì come
attraversata da una scossa di elettricità che dal petto
scendeva verso il
ventre. Sorpresa, la ragazza spalancò gli occhi davanti alla
forza della
reazione del suo corpo: non aveva mai capito perché altre
donne lo
considerassero una parte tanto interessante, quando si parlava di
rapporti con
l’altro sesso, ma adesso…
Poi,
la mano dell’uomo si mosse
con più insistenza la giovane chiuse istintivamente gli
occhi, inarcandosi
contro di lui, mentre il suo pollice la accarezzava in un modo che non
aveva
mai nemmeno sognato.
Questo è… Non
sentendosi abbastanza coraggiosa da elaborare una
descrizione esatta di ciò che stava provando in quel
momento, Lidia mosse
appena il capo e si avvicinò a Ulf. Chiudendo gli occhi, la
ragazza gli baciò
il collo, mentre le sue dita si stringevano in un pugno attorno alla
sua
maglia, come se volessero impedirgli di scappare.
Non credo proprio che abbia intenzione di scappare,
sogghignò sarcastica
quella parte di lei che notava sempre i particolari più sconvenienti e che, anche in
quell’occasione, pressata com’era
contro di lui, aveva preso nota della prova evidente che Ulf,
dopotutto, la
desiderava davvero.
A
quel pensiero Lidia sorrise, stranamente
soddisfatta, ma il sorriso le si spense sulle labbra quando le dita
dell’uomo
si strinsero sul suo seno, strappandole un gemito. Ansimando, la
ragazza
rovesciò bruscamente il capo all’indietro,
colpendo accidentalmente il naso del
compagno, che si ritrasse di qualche centimetro, ridendo.
«Calma» le disse, in
un mormorio divertito.
«Mh.»
Troppo presa dal momento
per dar peso a quel piccolo incidente, Lidia si sistemò
meglio contro al corpo
dell’uomo. Mentre Ulf la teneva stretta e continuava ad
accarezzarla, Lidia
sentì la tensione crescerle tra le gambe e, in preda
all’impazienza, strinse le
cosce nel tentativo di alleviare quella sensazione. Già in
passato le era
capitato di provare qualcosa di simile, seppure con
un’intensità minore,
durante alcuni momenti passati con Tito, ma le circostanze erano state
diverse.
Chissà se anche la conclusione
sarà diversa, si chiese la giovane.
Il pensiero la allarmò leggermente: anche se il suo corpo le
stava suggerendo
molto chiaramente la direzione da prendere, la sua mente, ancora un
po’
frastornata dagli avvenimenti recenti, esitava.
Un
po’ nervosa, Lidia si irrigidì
per un istante, combattuta tra il desiderio e l’incertezza,
ma poi il tocco di
Ulf, delicato e insistente, tornò a impossessarsi dei suoi
sensi e lei pensò
che non voleva allontanarsi da lui. Voleva anzi che continuasse a
toccarla, al
sicuro tra le ombre profumate di paglia del fienile.
Quasi
come se avesse avvertito il
suo desiderio, l’altra mano dell’uomo
scivolò giù, oltre l’ombelico, e si
insinuò sotto all’orlo della sua gonna, prima di
fermarsi. Le dita premettero
sulla sua pelle liscia, ma non andarono oltre.
Beh? Aggrottando appena la fronte, la
fanciulla si mosse impazientemente
contro di lui, cercando di comunicargli il suo desiderio. Ulf sorrise,
mordicchiandole un orecchio. «Cosa
c’è?»
Momentaneamente
distratta, Lidia
sbuffò, sarcastica. Non crederai
davvero
che ti dica… Senza lasciarle il tempo di finire
il pensiero, le dita
dell’uomo coprirono l’ultimo tratto che le separava
dall’intimità della
fanciulla e la sfiorarono piano, dando vita a una scintilla di piacere
che le
si irradiò nel ventre.
«Ah…» senza riuscire
a trattenere un’esclamazione, con il cuore in
gola, Lidia aprì inconsapevolmente le gambe, permettendo al
compagno di
toccarla con più facilità. Mentre le sue dita
scivolavano su di lei, sicure e
attente, la ragazza chiuse gli occhi e, senza rendersene conto, si
morse un
labbro. Si sentiva stretta tra le mani dell’uomo, che
prendevano possesso di
tutti i suoi punti più sensibili, accarezzando, stringendo,
esercitando una
pressione deliziosa. Lidia
ansimò,
completamente immersa in quelle sensazioni nuove e meravigliose; e
quando Ulf
scese più in basso e scivolò dentro di lei con la
punta di un dito, la fanciulla
sentì il piacere e l’eccitazione crescere
esponenzialmente.
La
ragazza avvertì il bisogno di
averlo vicino, ancora più vicino
e,
senza che lui potesse fermarla, si voltò un poco nella sua
direzione e trovò le
sue labbra. Ulf la baciò con forza, affondando nella sua
bocca, mentre le dita
della fanciulla affondavano nei suoi capelli, attirandolo a
sé con una
decisione che non si riconosceva, mordendolo e andandogli incontro con
un
entusiasmo nuovo. Facendola scivolare sulla schiena, l’uomo
si spinse un po’ più
in profondità dentro di lei e con il pollice raggiunse
ancora il punto che più
di tutti sembrava capace di farla tremare per le sensazioni che
provocavano in
lei. Lidia esalò bruscamente, mentre, quasi a tradimento, il
piacere
raggiungeva il suo apice e il suo corpo esplodeva improvvisamente in
mille
brividi profondi.
Le
ci volle qualche istante per
riuscire a calmarsi e Lidia respirò a bocca aperta, cercando
di riprendere
fiato e, nello stesso tempo, di prendere coscienza della presenza
dell’uomo al
suo fianco. Ulf le baciò il naso e la fronte, prima di
allontanare la mano dal
suo corpo – impigliandosi per un secondo nella gonna
– e di attirarla di nuovo
a sé.
Oh, pensò eloquentemente
Lidia, premendo il viso contro la maglia
di Ulf e ascoltando il battito accelerato del suo cuore, chiedendosi se
avrebbe
dovuto vergognarsi per quello che era successo e non riuscendo a
trovare alcun vero
motivo per farlo. Mentre il suo respiro tornava normale e le sue
pulsazioni
diminuivano, la fanciulla si sentì soddisfatta, felice e rilassata malgrado il piccolo brivido di
eccitazione e meraviglia
che ancora le stringeva lo stomaco. Stava bene, tra le braccia di Ulf,
avvolta
dal suo calore e cullata dalle sue carezze; così bene che,
poco alla volta,
sentì gli occhi farsi pesanti e la sua mente scivolare verso
il sonno. L’unica
cosa che la disturbava era la posizione di Ulf, un po’ troppo
laterale perché
lei potesse prendere a sonnecchiare sul suo petto come avrebbe voluto
fare,
così la ragazza lo circondò con un braccio e mise
una gamba a cavalcioni delle
sue, nella speranza a indurlo a cambiare posizione. Non appena si
accomodò su
di lui, però, l’uomo inalò bruscamente
e, confusa, Lidia sollevò un poco il
capo, costringendosi ad aprire gli occhi.
Che fa, non dorme? Si chiese. Non
è stanco? Improvvisamente la fanciulla
avvampò, rendendosi conto tutta d’un
tratto che, in effetti, era probabile che l’uomo non
condividesse la sua stessa
piacevole spossatezza, dal momento che lui non aveva… lei
non aveva… Deglutendo
imbarazzata, a disagio per quella che ora le sembrava una grossa maleducazione da parte sua, Lidia
alzò
lo sguardo su suo marito, incontrando i suoi occhi attenti. Doveva
forse
ringraziarlo?
La
giovane si sentì un po’ stupida
e tremendamente sprovveduta: temeva che, se avesse cercato di esprimere
i suoi
sentimenti a parole, sarebbe apparsa ridicola. Lidia scelse allora di
restare
in silenzio e gettò le braccia al collo al marito,
posandogli un bacio sulle
labbra sulle labbra, a mo’ di ringraziamento, e poi subito un
altro, rapido,
per cercare di dissolvere la tensione che sentiva nel petto.
Ulf
sorrise, sfiorandole la
guancia con le dita. «Pensavo ti fossi
addormentata.»
«Quasi»
ammise lei, grata
all’oscurità che impediva all’uomo di
vedere quanto fosse arrossita. «Scusa»
aggiunse, poi, guardandolo di sottecchi.
Ulf
rise, un suono basso che,
sebbene si sentisse ancora piuttosto assonnata, le fece formicolare
piacevolmente lo stomaco. «E di cosa vorresti
scusarti?» Sembrava divertito, e
Lidia si strinse nelle spalle, incerta. Ulf le alzò il viso
e la baciò,
indugiando più a lungo di quanto avesse fatto lei poco prima
e la giovane si
chiese se magari volesse qualcosa da lei. Sarebbe
solo giusto, ragionò la fanciulla: il pensiero di
toccarlo in un modo
diverso da quello che aveva fatto fino ad allora la innervosiva, ma non
poteva
negare di provare anche una certa curiosità…
Dopo
qualche secondo Ulf si
staccò da lei e aprì la bocca per dire qualcosa,
ma Lidia lo bloccò, posandogli
le dita sulle labbra. Esitante, la sua mano si abbassò sul
suo petto, come per
toccare un terreno più conosciuto, prima di abbassarsi fino
a sfiorare la vita
dei suoi pantaloni. Malgrado fosse buio, la fanciulla
avvertì chiaramente
l’intensità con cui l’uomo la stava
osservando e avvampò, ma si rifiutò di
tirarsi indietro per la seconda volta nell’arco di
così poco tempo: trattenendo
il fiato, Lidia spinse più in giù la propria mano
e, stranamente affascinata
nonostante le orecchie in fiamme, disegnò con le dita i
confini del corpo
dell’uomo, teso sotto la stoffa ruvida. Ulf chiuse gli occhi,
esalando
lentamente, e Lidia ripeté la sua carezza, rendendosi conto
con apprensione di
non sapere bene come procedere.
Poi,
all’improvviso, Ulf le
afferrò la mano e la allontanò da sé.
«Lidia… non iniziare qualcosa che non hai
intenzione di finire» le disse, a denti stretti.
La
fanciulla lo guardò,
corrucciata e un po’ piccata da quelle parole. «Io
non voglio fermarmi»
ribatté. Malgrado le sue buone intenzioni, però,
la sua voce suonò flebile e
incerta alle sue stesse orecchie.
Ulf
le strinse un po’ di più la
mano. «No? E cosa vorresti fare, esattamente?»
Avvampando, Lidia abbassò gli
occhi. «Non lo so» ammise, controvoglia.
Nel
sentire la sua risposta, Ulf
sospirò e la tirò a sé, senza
però liberarle il polso dalla presa della sua
mano. «Ecco, appunto.»
La
ragazza storse il naso davanti
al suo tono vagamente accondiscendente e si dimenò nel vano
tentativo di
liberarsi dalla sua presa. «Ma io
voglio…»
Con
un sibilo sarcastico, l’uomo
la interruppe. «Anch’io vorrei, fidati, ma mi
sembra che l’idea di farlo ti
terrorizzi, quindi…» Quell’osservazione
la punse nell’orgoglio: con uno
strattone deciso, la giovane riuscì a liberare la propria
mano dalla presa del
marito e la usò per sferrargli un pugno
all’altezza dello stomaco. «Non mi
terrorizza affatto!» sibilò, mentendo
spudoratamente.
«No?»
la sfidò Ulf, guardandola
con un sopracciglio sollevato.
«No!»
Dopo
averla studiata per qualche
secondo ancora, l’uomo si girò sulla schiena e si
portò le braccia piegate
dietro alla testa. «Va bene, allora. Continua pure.»
Lidia
lo guardò a bocca aperta,
incredula. «Cosa… cosa?»
balbettò, prima
di sibilare, infuriata: «Adesso non mi va più!
Arrangiati!» Accorgendosi un
secondo troppo tardi che l’ultima parte di ciò che
aveva detto avrebbe potuto
suonare come un invito, Lidia si rigirò bruscamente su un
fianco. «E va’
all’Inferno» aggiunse, stizzita.
Dopo
qualche istante di silenzio,
la giovane sentì dei movimenti alle sue spalle, poi la mano
di Ulf le si posò
sul braccio con una breve carezza. «Dai, non fare
così… non volevo offenderti.»
Lidia
sbuffò rumorosamente. Non volevi,
ma ci sei riuscito benissimo! Perché
dovevano esserci sempre così tanti alti e bassi, con Ulf? Con Tito le cose erano più semplici!
La
mano calda dell’uomo continuò
a rimanere sul suo braccio, sfiorando con il pollice il muscolo teso, e
poco
alla volta la ragazza sentì un po’ di irritazione
scivolare via da lei. Quando
la sentì rilassarsi leggermente, Ulf parlò di
nuovo. «Però, dài», disse,
nel
chiaro tentativo di suonare ragionevole, «non mi dirai che
non eri nemmeno un
po’ nervosa…»
Lida
sollevò bruscamente una
spalla. «Certo che lo ero, ma è perfettamente
normale» ribatté.
«Può
essere», concordò l’uomo dopo
qualche istante, «ma non c’è nessuna
fretta.»
La
fanciulla sospirò, voltandosi
a guardarlo. «Lo so, però siamo sposati e non
abbiamo mai nemmeno…»
Lui
scosse il capo, con un
sorriso storto. «Il fatto che siamo sposati non conta
praticamente niente» dichiarò.
«Ci siamo conosciuti da poco, fino a poco tempo fa eravamo
praticamente
estranei.»
È vero, ammise Lidia,
ricordando la nascita relativamente recente
della loro effettiva relazione. Sempre
che così si possa chiamare. Annuendo
impercettibilmente, la fanciulla
incontrò gli occhi dell’uomo, con un sorriso
appena accennato.
«Diciamo
che… mi serve tempo?»
continuò allora Ulf, sorridendo apertamente e invitandola ad
avvicinarsi a lui.
Lidia gli permise di prenderla tra le braccia, chiedendosi se il
giovane fosse
serio o se si stesse invece prendendo gioco di lei. «E poi ti
ricordo che siamo
in un fienile: hai idea di dove ti troveresti la paglia?»
continuò lui.
«Oh,
taci!» sorrise Lidia,
dandogli un colpetto sul braccio. Chiudendo gli occhi e avvertendo le
vibrazioni della sua risata contro l’orecchio, Lidia si
rilassò, lasciando che
il respiro di Ulf la facesse nuovamente scivolare verso il sonno.
***
Luglio
arrivò ed esplose in tutto
il suo splendore, portando con sé giornate calde e luminose,
senza traccia di
pioggia o nebbia. Il tempo soleggiato influenzò
positivamente l’umore di Lidia,
che riuscì a tenere a bada in modo piuttosto efficiente
l’ansia per l’arrivo
ormai imminente di Tito e la paura di quello che avrebbe potuto dire e
pensare
Ulf, scoprendo la presenza del giovane.
Decisa
a dimostrare a chi le
stava attorno che la sua disavventura nella nebbia non
l’aveva turbata, la
fanciulla si avventurò un paio di volte da sola su per
l’altura e in qualche
occasione scorse anche l’aquila che si era appollaiata poco
distante da lei, in
quello strano pomeriggio. Naturalmente non aveva modo di dimostrare che
si
trattasse dello stesso animale, ma l’idea che lo fosse le
piacque molto e Lidia
decise che doveva trattarsi di una femmina, una vecchia matriarca che
vegliava,
attenta e maestosa, sull’intera valle.
Il
sole splendente non sortì lo
stesso effetto positivo su Unna che, con il passare del tempo e con
l’avanzare
della gravidanza pareva farsi sempre più cupa e scontrosa. È lunatica, pensava Lidia:
c’erano momenti in cui la donna si
dimostrava quasi amichevole con lei, aiutandola nel lavoro e
suggerendole come
svolgerlo al meglio, e altri momenti in cui invece la guardava come se
la
ritenesse estremamente stupida e fastidiosa.
Anche
se le sarebbe piaciuto liquidare
i malumori della cognata come semplici effetti del suo cattivo
carattere, più
tempo trascorreva con lei e più imparava a leggere e a
interpretare i suoi
atteggiamenti e le sue espressioni: ben presto, le fu chiaro che
c’era qualcosa
che la turbava.
Sulle
prime, la ragazza cercò di
ignorare l’inquietudine di Unna, ma quando, una sera,
rientrò in camera e la
trovò seduta sul suo
letto con un
maglione arrotolato tra le mani, Lidia decise di affrontarla.
«Cosa stai
facendo?»
La
germanica scrollò le spalle. «Niente»
replicò secca; un chiaro invito a non farle altre domande.
Lidia
non si lasciò dissuadere e,
quando lo sguardo le cadde sullo zaino posato ai piedi del letto, il
piano di
Unna le fu subito chiaro. «Vuoi scappare!» Era
un’accusa, più che una domanda,
e alla giovane non sfuggì l’ironia della
situazione: con tutte le volte che la
donna l’aveva provocata e punzecchiata, rinfacciandole il suo
tentativo di
fuga, la ragazza trovava quasi comico che adesso le parti si fossero
invertite.
Nell’udire
quelle parole, Unna
puntò gli occhi glaciali in quelli scuri della cognata.
«Voglio andarmene»
ribatté, in tono di sfida.
«Va
bene, ma non c’è bisogno di
farlo di nascosto» le fece notare Lidia, avvicinandosi al
letto.
Unna
si strinse nelle spalle. «Non
ho detto che intendo farlo di nascosto.»
«Però
non hai nemmeno negato.»
Lidia
si stupì nel notare che, da
qualche tempo, parlare con la donna era diventato più
facile. Cionondimeno, si
sarebbe aspettata una reazione verbale violenta, e invece Unna
sospirò. In quel
momento, la somiglianza tra lei e Ulf fu così forte che la
giovane provò una
stretta al cuore.
«Non
sono una prigioniera e posso
andarmene quando voglio, da qui» disse la giovane germanica.
«Però so già che,
se domani mattina dicessi a Linda e agli altri che voglio tornare a
Erding, ci
sarebbero discussioni a non finire.»
«E
a ragione!» sbottò Lidia,
sostenendo lo sguardo azzurro della donna. «Tornare al
villaggio adesso potrebbe essere
pericoloso anche
per te!»
La
germanica la guardò,
leggermente stupita. «Come fai a saperlo?»
Lidia
scrollò le spalle. «Ulf mi
ha accennato qualcosa, quando lui e Karl sono venuti a
trovarci.»
«Mh»
prendendo tempo, Unna si
chinò e ripose il maglione nello zaino. «A quanto
pare, adesso la situazione è
ancora peggiore.»
Allarmata,
Lidia si sedette
accanto a lei, ignorando il lampo sorpreso che passò sul
viso della giovane. «In
che senso?»
Abbassando
per un secondo lo
sguardo sulle proprie mani, Unna tirò con due dita una
cuticola che si
sollevava accanto un un’unghia. «Hai presente Kati,
quella mia amica che è
passata a salutarmi qualche giorno fa?»
«Sì,
quella bionda.» Lidia
ricordava benissimo quella ragazza dall’aspetto timido e
delicato: si era
sorpresa nell’apprendere che era un’amica di Unna,
talmente le due parevano
diverse.
«Lei
è rimasta a Erding per tutta
l’estate, ma ora la sua famiglia l’ha costretta ad
allontanarsi. Sembra che
restare in paese stia diventando pericoloso un po’ per tutti:
è anche morta
della gente.»
Nell’udire
quelle parole, Lidia
provò un vago capogiro. «Chi?» chiese.
Malgrado non si aspettasse di conoscere
le sfortunate vittime, si sentiva comunque in dovere di porre quella
domanda.
«Due
minatori» rispose Unna, a
denti stretti. «Hanno detto che i soldati li hanno uccisi per
difendersi, ma, a
quanto si dice, sono stati loro ad attaccarli.»
La
giovane romana sgranò gli
occhi. «Così?» chiese, incredula.
«Senza che avessero fatto niente?»
Unna
fece per replicare, ma poi
parve ripensarci. Forse colta da un dubbio, la donna si strinse nelle
spalle. «Non
lo so» ammise, sprezzante. «Francamente non mi
interessa nemmeno saperlo, però:
immagino che ci stiamo avvicinando a una guerra e sicuramente basta un
pretesto
qualsiasi, per farsi ammazzare.»
Lidia
aggrottò la fronte,
leggermente turbata dalla freddezza con cui Unna parlava di
quell’argomento.
«Se è come dici, perché vuoi scendere a
valle? È una follia… e nelle tue
condizioni, poi!»
La
germanica piegò la bocca in
una smorfia e, dopo averne controllato il contenuto, richiuse lo zaino
con dei
gesti decisi. «Karl è là»
disse, pronunciando con forza le parole. «Ed è un
minatore.»
Lidia
la guardò inclinando
leggermente la testa, cercando di capire il ragionamento della donna.
«E allora?
Se non farà idiozie, non gli capiterà niente, no?
Non credo che Caleno, o chi
per esso, possa o voglia sterminare tutti i minatori.»
Unna
le rivolse un’occhiata di
sbieco, poi distolse lo sguardo. «Questa è tutta
da vedere» replicò, a denti
stretti. «E comunque tu non conosci Karl. Io
sì.»
«Non
ti fidi di lui?» chiese
Lidia, prima di riuscire a mordersi la lingua. Sul volto della giovane
bionda
passò qualcosa di troppo rapido perché la ragazza
riuscisse a identificarlo,
poi Unna scosse il capo, quasi impercettibilmente.
«No» ammise. «In questo caso
no.»
Avvertendo
che fosse meglio
cambiare discorso, Lidia tornò a concentrarsi sulla cognata.
«Be’, se non ho
capito male, è stato lui a chiedere che tu restassi qui pur
essendo incinta.
Cosa ti fa credere che ti permetterebbe di rimanere a Erding?»
Lo
sguardo di Unna tornò a farsi
più acceso. «Oh, ma io non voglio restare al
villaggio» disse, in tono più
leggero. «Voglio convincerlo a lasciare il paese. E ce la
farò, vedrai, dovessi
portarlo via di peso.»
Lo
disse con una sicurezza tale
che la ragazza sorrise, pensando che, indubbiamente, Unna sarebbe
riuscita a
ottenere quello che si era proposta. «E dove pensereste di
andare?» la
interrogò, soppesando le sue parole.
«Qui,
per adesso» rispose senza
esitazione Unna, indicando con una mano la stanzetta di legno nella
quale erano
sedute. «E
poi via, da qualsiasi parte.
A nord, forse, lontano dal fronte.»
Quelle
parole risvegliarono
un’eco scomoda nei ricordi di Lidia, che si accorse quanto
esse fossero simili a
quelle che Tito le aveva rivolto in un pomeriggio di Aprile, a Roma.
Scacciando
quel pensiero, la ragazza incrociò le braccia davanti al
petto, riflettendo su
quello che aveva detto la donna. «Va bene» disse
poi, battendosi con
risolutezza le mani sulle cosce. «Vengo
anch’io!»
Unna
la fissò per un attimo con
gli occhi sgranati, prima di ricomporsi e assumere la solita aria
scocciata. «Ma
nemmeno per sogno!» ribatté. «Cosa
verresti a fare? Non mi servono palle al
piede!»
Lidia
sbuffò, ma non si lasciò
turbare dal tono bellicoso della cognata. «Ti ricordo che a
Erding c’è anche il
mio, di marito»
sbottò, voltandosi a
fronteggiarla con i pugni sui fianchi. «A questo punto tanto
vale portare via
anche lui!»
Unna
rise, sorprendendola. «E
credi davvero di riuscire a farti obbedire da Ulf?»
La
fanciulla si strinse nelle
spalle. «Non lo so,» ammise, «ma in ogni
caso penso di poter contare su di te,
no? Capisco che di me non ti importi niente, ma Ulf è tuo
fratello e so che gli
vuoi bene.»
La
germanica la soppesò con lo
sguardo e Lidia si aspettava quasi che rifiutasse di portarla con
sé a Erding,
ma, dopo alcuni istanti infiniti, Unna annuì.
«D’accordo,» concesse, fissandola
negli occhi, «ma vedi di non ostacolarmi.»
Lidia
sorrise, suo malgrado, e
alzò le mani in aria, come a mostrarle le sue buone
intenzioni. «Promesso!»
Unna
sospirò, come se stesse già
avendo dei ripensamenti sulla sua decisione, ma poi estrasse un secondo
zaino
dal fondo dell’armadio e glielo lanciò.
«Mettici qualcosa di caldo e una maglia
di ricambio» le ordinò. «Poi vai a
letto. Partiremo prima dell’alba, per
evitare fastidi.»
Dopo
aver fatto quello che Unna
le aveva detto, Lidia si infilò a letto, strofinandosi le
mani, nervosa ed
eccitata. Per quanto avesse fatto fatica ad adattarvisi,
l’alpeggio era stato
per lei una sorta di rifugio sicuro: tornando a Erding avrebbe dovuto
rinunciare a quella sicurezza e affrontare l’incertezza di
una situazione
potenzialmente pericolosa - la guerra
e Tito -
ma la ragazza non poteva fare a meno di
sentirsi come se, per la prima volta, avesse preso una decisione
importante di
testa sua, senza adeguarsi a quello che gli altri si aspettavano da lei.
Con
quel pensiero, Lidia chiuse
gli occhi e cercò di addormentarsi.
***
E con questo, signore, siamo a metà
storia - dal punto di vista
concettuale e, più o meno, anche da quello dei capitoli. La
seconda metà è
molto più incasinata e più difficile da scrivere
per me: per questo motivo, sto
andando un po’ a rilento con la stesura dei capitoli.
Essendo a metà strada, è
tempo di bilanci. Mi piacerebbe poter dire che
la mia esperienza su questo sito è stata positiva, ma non
sarebbe del tutto
vero. Ci sono alcune persone fantastiche, che mi hanno anche aiutata a
vedere
quello che scrivo con un occhio esterno, ma, in generale, devo dire che
ho
notato un certo disinteresse generalizzato. Probabilmente è
colpa anche mia,
possibilissimo che quello che scrivo non sia particolarmente
interessante, ma,
notando una certa discrepanza tra letture e commenti (303 letture per
l’ultimo
capitolo, 1 commento), mi è venuta una mezza idea su come
gestire gli
aggiornamenti futuri.
Più info nel prossimo capitolo!
|
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Capitolo 22 *** 21. La via del ritorno ***
Valle di Erding, 342 AuC, 12 Luglio
«Possiamo
fermarci, adesso?»
Anche
se si era ripromessa di non
essere assolutamente un peso per Unna, verso mezzogiorno Lidia dovette
riconoscere che, anche se incinta, la cognata era molto più
resistente di lei
allo sforzo fisico.
Sin
da quando avevano lasciato di
soppiatto l’alpeggio, la germanica l’aveva
preceduta di almeno dieci metri,
percorrendo il sentiero con passo leggero, perfettamente a suo agio
anche
nell’atmosfera grigia che precedeva il sorgere del sole. Dopo
alcune ore di
cammino, la giovane romana si sentiva indolenzita, con le spalle e la
schiena
irrigidite a causa della poca abitudine a portare uno zaino,
ancorché leggero.
La paura di mettere un piede in fallo e di rimediare una storta le
faceva
tenere una postura talmente contratta che il collo iniziava a dolerle,
mentre
un fastidioso formicolio le percorreva le braccia. Da qualche tempo a
quella
parte, poi, il suo stomaco aveva iniziato a lamentarsi, per nulla
soddisfatto
della misera colazione che Unna le aveva concesso di consumare
– senza mai
smettere di camminare, naturalmente.
Udendo
la sua richiesta, la donna
si voltò verso di lei, prima di annuire seccamente.
«Va bene»
concesse. «Ma non ci fermeremo a
lungo, voglio arrivare a Erding prima di notte.»
«Certo»,
convenne la ragazza, «è meglio
non passare la notte all’aperto.»
Senza
rispondere, Unna sedette a
terra, posando la schiena contro il tronco di un larice. Osservandola
con la
coda dell’occhio, Lidia notò la curva appena
accennata del ventre. Mentre
staccava un morso dal panino al formaggio che aveva portato con
sé, la ragazza
si chiese se non fosse giunto il momento di cercare di lasciarsi alle
spalle
almeno parte delle incomprensioni del passato, se non altro per fare
fronte
comune contro Ulf e Karl. Più ci pensava, infatti, e meno
era convinta che i
due uomini le avrebbero seguite senza fare storie: non sarebbe forse
stato
meglio presentarsi da loro unite e con una linea d’azione
condivisa?
Decisa
a fare conversazione,
Lidia si schiarì la voce. «Hai già
deciso come chiamarlo?» chiese, indicando
con una mano la pancia della donna. Quella abbassò lo
sguardo sulla stoffa
verde della maglietta e scrollò le spalle. «No.
Non so nemmeno se sia un
maschio o una femmina, come faccio a scegliere un nome?»
Malgrado
la risposta secca, Unna
sembrava relativamente disposta a parlare della propria gravidanza, per
cui la
fanciulla osò spingersi oltre. «Cosa speri che
sia?»
Di
nuovo, la germanica ostentò
indifferenza. «Per me è uguale.» Lidia
storse la bocca, leggermente frustrata
dall’atteggiamento della donna. «Be’, ma
avrai pure una preferenza…» ipotizzò.
Unna
parve rifletterci sopra. «Preferirei che fosse
maschio» decise, poi. «Un
maschio ti da meno problemi. E corre meno rischi.»
La
giovane romana le lanciò
un’occhiata scettica. «Dici?» chiese,
inclinando di lato la testa. «Secondo me
è esattamente il contrario: pensa, per esempio, che sono gli
uomini ad andare
in guerra, non le donne.»
La
giovane bionda le lanciò
un’occhiata beffarda. «Già. Loro fanno
la guerra e noi la subiamo. Un bel
vantaggio, sicuramente.» Cogliendo l’amarezza nelle
sue parole, Lidia la fissò,
leggermente intrigata. «Preferiresti andare anche tu sul
campo di battaglia?»
Unna
esitò un istante, prima di
ribattere. «Non necessariamente, però vorrei che
qualcuno mi avesse insegnato
come difendermi, in caso di necessità. Quando eravamo
bambini, mio padre ha
insegnato a Ulf come maneggiare una spada, anche se, di fatto, lui non
se n’è
mai fatto un gran che, di quegli insegnamenti. A me, invece, non ha mai
fatto
vedere nemmeno come si usa una fionda: l’ho dovuto imparare
da sola, e a modo
mio.»
«Davvero
sai usare una fionda?»
le chiese Lidia, senza riuscire a evitare di provare una punta di
rispetto per
la donna. «È difficile?» Persa nei suoi
pensieri, la germanica non rispose a
quella domanda. «E, soprattutto, spero che sia un maschio
perché così, una
volta cresciuto, non dovrebbe sottostare alla volontà di
nessuno…»
«…
solo a quella dei sacerdoti,
del capo villaggio e dei suoi superiori in generale» concluse
asciutta Lidia,
ricordando le lamentele a cui si abbandonava talvolta suo padre,
rientrando a
casa dopo un’intensa giornata in Senato. Nell’udire
quel commento non
richiesto, Unna le scoccò un’occhiata tagliente.
Prima che avesse la
possibilità di replicare, però, la fanciulla
alzò le mani in segno di resa.
«Ma, in ogni caso, ho capito cosa intendi. E hai ragione,
immagino: a casa mia,
la parola di mio padre era legge. Nessuno poteva sognarsi di
disobbedirgli.»
Unna
rimase immobile per qualche
secondo, forse stupita dal fatto che Lidia le avesse dato ragione. Poi
allungò
le gambe davanti a sé, sistemandosi meglio contro il tronco
dell’albero.
«Allora adesso ti troverai sicuramente meglio: Ulf
è più ragionevole… almeno
sotto questo aspetto.»
Lidia
annuì. «Sì, è
vero»
riconobbe.
«Eppure
non sei contenta di
averlo sposato.» Quella di Unna non era una domanda, ma
un’affermazione e,
anche se la giovane continuava a mantenere un contegno distaccato, come
se
stessero conversando del più e del meno per vincere la noia,
Lidia avvertì che
l’argomento le stava a cuore. Prima di rispondere, la ragazza
si prese qualche
secondo per riflettere. «Il discorso è
complicato» spiegò. «Adesso sono
contenta di stare con lui: come ti ho già detto, gli voglio
bene. Però non mi
piace il fatto che mi abbiano obbligata a sposarlo. Mi hanno portata
via dal
mio mondo senza nemmeno darmi il tempo di abituarmi all’idea
e questa cosa… non
so, è come se mi impedisse di sentirmi completamente serena.» Mentre pronunciava
quelle parole, Lidia si accorse di
quanto fossero vere: anche se ormai sapeva di provare qualcosa per Ulf
e di non
volere vivere lontana da lui, nella sua mente c’era sempre
una nota di fondo
stonata, come un’ombra scura ai lati del campo visivo. Ora
che la paura per il
matrimonio e la vita coniugale si era dissolta, la giovane si accorgeva
di
provare rancore per il modo in cui delle altre persone avevano preso il
controllo della sua vita, senza darle la possibilità di dire
una sola parola in
merito. Unna l’ascoltò in silenzio e Lidia si
chiese se riuscisse a capire il
suo discorso. «Per te è diverso» riprese
ancora la giovane romana. «Se non ho
capito male, sei stata tu a scegliere di sposare Karl. Nessuno ti ha
obbligata
a farlo, no?»
La
donna esitò. «Esatto» disse,
ma nella sua voce Lidia colse una piccola incertezza e
corrugò la fronte,
confusa. «Non è così?»
chiese. Unna si irrigidì e parve essere sul punto di
darle una risposta scortese, ma poi Lidia la vide abbassare le spalle
come se,
improvvisamente, avesse perso il desiderio o la forza di litigare con
lei. «Sì,
è così» esalò. «Ma
non è quello che avevo sperato da bambina.»
Per
un’istante, la ragazza fu
tentata di chiederle cosa avesse sperato, esattamente,
quand’era bambina, ma
l’espressione di Unna, improvvisamente guardinga, le
suggerì di non insistere.
Cionondimeno, nella sua mente si formò il sospetto che
quella mezza frase fosse
in un qualche modo legata alle cicatrici che aveva intravisto sul corpo
della
cognata. Il pensiero le fece correre un brivido freddo lungo la
schiena, e la
fanciulla si affrettò ad allontanarsi da quel discorso.
«Ma con lui mi sembri
comunque felice» osservò. La germanica fece quel
piccolo sorriso che le aveva
visto fare poche volte. «Lo sono» disse, piano, e
Lidia sorrise a sua volta,
sentendo però dentro di sé una sorta di tristezza
che non riuscì a spiegarsi.
***
Quello
strano umore non durò
molto: quando ebbero finito di mangiare, Unna tornò a darle
ordini secchi e,
rendendosi forse conto di aver perso più tempo di quanto le
sarebbe piaciuto,
prese a esortarla a fare in fretta che, di quel passo, sarebbero
arrivate a
Erding in cinque giorni,
anziché in
cinque ore.
Sbuffando
e ansimando, Lidia la
seguì giù per i ripidi sentieri che
attraversavano dapprima scure foreste di
larici e abeti e poi luminosi boschi di noccioli e frassini. Man mano
che si
avvicinavano al fondovalle, Unna iniziò a farsi
più prudente, muovendosi con
circospezione, quasi si aspettasse di trovare un nemico invisibile
appostato
dietro a ogni angolo. «Credo sia meglio non prendere la
strada sul fondovalle»
disse, a un certo punto, fermandosi di fronte a un bivio.
Lidia,
che aveva pregustato il
momento in cui avrebbe potuto camminare su un fondo meno sconnesso,
dovette
nascondere un piccolo moto di disappunto.
«Perché?» chiese. «Credi che
qualcuno
ci stia cercando?» La germanica scosse il capo.
«No, ma siamo comunque due
donne che viaggiano da sole: meglio evitare brutti incontri.»
La
ragazza annuì e deglutì
nervosamente, intuendo quello che la cognata aveva inteso con quelle
parole.
«Come preferisci» annuì. «Da
che parte andiamo?»
«Di
qui» replicò Unna, indicando
il sentiero che, anziché continuare a scendere, si inoltrava
nel bosco davanti
a loro, procedendo stretto e pianeggiante. «Daremo molto meno
nell’occhio, in
questo modo e, oltretutto, riusciremo anche a evitare
l’accampamento romano.
Non voglio vederlo neanche da lontano, quel posto.»
Il
sentiero scelto dalla donna
era decisamente meno battuto di quello che avevano percorso fino ad
allora e
Lidia guardò con antipatia i rovi che lo incorniciavano.
Lentamente,
raccogliendo la gonna in una mano nel tentativo di proteggerla almeno
un poco dalle
spine acuminate delle more selvatiche, la ragazza seguì
Unna, cercando di
tenere il suo passo. Ben presto, la vegetazione acquistò
vigore: quando le due
giovani giunsero in prossimità dei margini della foresta, le
erbacce che
crescevano ai bordi del tracciato erano talmente rigogliose che
sfioravano i
due metri di altezza, arrivando a intrecciarsi ai rami bassi degli
alberi e
degli arbusti. Quasi senza rendersene conto, Lidia si
ritrovò in una sorta di galleria
verde e dorata, profumata di erba e di terra. Con gli occhi spalancati
per lo
stupore, la giovane romana si mosse con cautela, pregando di non
mettere un
piede su un serpente o su un nido di vespe di terra. Faceva caldo,
molto più
caldo di quanto si sarebbe aspettata, e la ragazza dovette fermarsi
più volte
per asciugare il sudore che le colava giù per la fronte,
facendole bruciare gli
occhi.
Quando
finalmente sbucarono dalla
vegetazione fitta e Unna rallentò visibilmente il passo,
Lidia pensò che la
cognata volesse semplicemente riprendersi un poco dalla fatica e, sulle
prime,
non badò a quello che aveva realmente spinto la germanica a
rallentare. Ignara,
la raggiunse e fece per aprire bocca per chiedere indicazioni su come
procedere, ma, quando volse gli occhi nella stessa direzione in cui
stava guardando
la donna, le parole le morirono in gola.
«Muoviamoci»
mormorò Unna,
vedendosi raggiunta, ma la ragazza quasi non la udì. Un
centinaio di metri più
in basso, dove la valle si allargava, formando un’ampia piana
tra il fiume e la
costa della montagna, c’era l’accampamento romano
che aveva sperato di
raggiungere in una lontana notte di aprile. Lidia percorse con gli
occhi il
fossato e il vallum difensivo, le
vie
regolari, le tende dei soldati e quelle degli ufficiali e si sorprese
nel
notare che fosse così grande.
Quanta gente c’è, qui?
Si chiese, cercando di calcolare rapidamente
il numero di legionari presenti nell’accampamento. Ulf le
aveva detto che i
soldati romani presenti alle porte del villaggio erano aumentati, negli
ultimi
tempi, ma non si era aspettata che la presenza militare di Roma fosse
così
massiccia.
«Ti
vuoi dare una mossa?» la
riprese bruscamente Unna, incamminandosi di nuovo lungo il sentiero.
Lanciando
un’ultima occhiata all’accampamento, Lidia si
affrettò a seguirla, senza però
riuscire a scacciare l’interrogativo che si era
spontaneamente affacciato tra i
suoi pensieri. Chissà se Tito
è laggiù? Il
pensiero le strinse lo stomaco come in una morsa e, con il cuore in
gola, la
fanciulla si accorse di aver perso la misura del tempo, nel periodo in
cui era
rimasta presso la cascina di Linda. «Che giorno è,
oggi?» chiese a Unna,
parlando quasi inconsciamente sottovoce.
La
germanica si voltò a
guardarla, gli occhi chiari sospettosi. «Il dodici di luglio.
Perché?» Lidia si
strinse nelle spalle. «Stavo cercando di capire quanto tempo
è passato dal
giorno in cui siamo salite all’alpeggio»
improvvisò. «Non siamo state via
molto, eppure, sembra che qui le cose siano cambiate. Ulf mi aveva
avvertita,
ma non mi aspettavo di trovare così tanti soldati.»
Unna
strinse le labbra pallide in
un’espressione a metà tra la preoccupazione e la
rabbia. «E ho paura che non
siano tutti lì, nell’accampamento. Temo che questi
boschi siano meno sicuri di
quanto fossero un tempo.»
Lidia
inclinò appena il capo. «Ma
sono davvero così pericolosi, questi soldati?»
chiese, dubbiosa. «Io un po’ ne
ho conosciuti, quando ero ancora a Roma, ed erano quasi tutti persone
normalissime…»
La
germanica sibilò, sarcastica. «A
casa loro, forse», concesse, «ma ti assicuro che,
una volta arrivati qui, cambiano.
E adesso togliamoci da qui, siamo troppo vicine
all’accampamento: non vorrei
trovarmi di fronte qualche romano che ha deciso di fare una passeggiata
nel
bosco.» Così dicendo, Unna riprese a camminare con
passo veloce, obbligando la
giovane a fare altrettanto. Lidia rimuginò sulle parole
della cognata, senza
però riuscire a convincersi che, da quelle parti, il
pericolo maggiore fossero
davvero i legionari romani.
Quando
Unna, evidentemente
soddisfatta della distanza messa tra se stessa e
l’accampamento militare,
rallentò il passo, la fanciulla la affrontò.
«Comunque», esordì, «da quello
che
ho avuto modo di vedere io, non mi pare che avere a che fare con i tuoi
concittadini
sia molto più piacevole… anzi! In un certo senso,
è anche colpa loro, se il
Prefetto ha chiesto all’Imperatore di avere più
soldati.»
Voltandosi
bruscamente verso di
lei, la germanica la inchiodò con un’occhiata
velenosa. «E che colpa avrebbero,
secondo te? Quella di voler difendere la propria patria e allontanare
chi
vorrebbe invaderla? Sarebbe una colpa, questa?»
La
giovane romana esitò, poi
scosse con forza il capo. «Messa così, no, non lo
è: ma attaccare ragazze
indifese non è certo un atto lodevole» si
lamentò, arrossendo leggermente nel
vedersi costretta a definirsi una ragazza
indifesa. Unna sollevò un sopracciglio chiaro.
«Ti stai per caso riferendo
a Sören
e al suo compare? Ma se quei due non ti hanno fatto niente!»
La
fanciulla ricambiò il suo
sguardo freddo, irritata dalla noncuranza con cui la cognata liquidava
il suo
incidente. «A parte il fatto che erano in tre e non in due», precisò,
«ma sì, mi sto riferendo proprio a quello: se non
mi
hanno fatto niente, è solo perché è
intervenuto Hermann. Se lui non fosse stato
lì, chissà cosa mi sarebbe successo!»
«…
sì, perché mio fratello è un
tipo estremamente minaccioso» la prese in giro la donna.
«Hermann è solo un
ragazzino: se quei tipi avessero veramente voluto farti del male,
l’avrebbero
fatto comunque, con o senza Hermann.»
«Quindi,
secondo te, mi sto
preoccupando per niente?» la provocò la fanciulla.
«Ulf non la pensava così – e
non lo pensa tutt’ora, lo so per certo.»
La
donna bionda sospirò. «Mio
fratello vede il pericolo in ogni cosa. A volte esagera.» Una
lieve indecisione
nella sua voce rivelò però a Lidia che Unna stava
ribattendo più per spirito di
contraddizione, che per reale convinzione, quindi insistette:
«Se non c’è
motivo di preoccuparsi, perché vuoi lasciare il villaggio,
allora?»
Presa
in contropiede, la giovane
esitò. «Perché non voglio correre
rischi inutili. Forse per ora nessuno di noi
è veramente in pericolo, ma le cose potrebbero precipitare
dall’oggi al domani.
E io non ho alcuna intenzione di trovarmi lì, quando questo
accadrà.»
Lidia
fu sul punto di aggiungere
dell’altro, ma Unna, che camminava al suo fianco, si
bloccò di colpo. Per una
frazione di secondo, la ragazza la credette sul punto di afferrarle un
polso,
ma la germanica strinse le mani in un pugno e si
immobilizzò. «Cosa
c’è?» le
chiese Lidia, in un soffio. Unna piegò le labbra pallide,
mentre i suoi occhi
guizzavano irrequieti. «Mi è sembrato di aver
visto un movimento, lì davanti»
sussurrò, indicando la curva del sentiero con un cenno del
mento.
Facendole
segno di non muoversi,
la donna fece alcuni passi cauti, poi Lidia la sentì
imprecare tra i denti.
«C’è un soldato, lì
davanti» le riferì Unna, tornando rapidamente
verso di lei.
«Romano?» chiese Lidia, guadagnandosi
un’occhiata tagliente dalla cognata.
«Ovviamente sì» replicò
quella. «Temo che controllino tutti i sentieri che
potrebbero condurre all’accampamento» aggiunse poi,
quasi tra sé e sé. «Peccato
che questo specifico sentiero fosse proprio quello che avevo sperato di
percorrere per raggiungere il paese.»
Lidia
incassò la notizia con un
senso di smarrimento. «E adesso cosa facciamo?»
chiese, sentendosi quasi come
una bambina che cercava conforto dalla propria madre. «Adesso
saliamo» replicò
Unna, pratica. «E facciamo il giro dalla miniera.»
Senza aspettare una
risposta, la germanica prese a inerpicarsi su per il pendio che saliva
a
sinistra del sentiero. La vegetazione selvaggia di poco prima si era
fortunatamente fatta più rada e aveva lasciato il posto a un
prato ripido e
irregolare, ricoperto da un tappeto di erba smeraldina, lucente come
una lama e
altrettanto affilata. Quando Lidia ne afferrò un ciuffo,
cercando di non
scivolare, ne ottenne un paio di taglietti sottili, ma cionondimeno
piuttosto
fastidiosi. Dovremo salire molto?
Si
chiese, con una punta di apprensione. Il fondo su cui si trovava a
camminare
era infido, la vegetazione nascondeva i resti di un’antica
frana e più di una
volta la giovane corse il rischio di infilare un piede in un buco tra
due massi
celati dall’erba. Unna però non accennava a
rallentare e, prima di rendersene
conto, Lidia si trovò ad arrampicarsi di nuovo tra mirtilli
e rododendri,
mentre il cielo iniziava a macchiarsi del viola del tramonto.
«Che
ore saranno?» chiese, senza
fiato, mentre il sudore le colava dalla fronte e le finiva negli occhi,
facendoglieli bruciare.
«Non
lo so, saranno quasi le sette,
immagino» replicò Unna, voltandosi a guardarla.
Dopo qualche istante, sul suo
volto passò un’ombra. «Ce la fai a
camminare oppure preferisci fermarti un
attimo?»
Stupita
da quella premura, la
giovane romana fissò la cognata con una punta di sospetto.
«Perché me lo
chiedi?» indagò, sperando di non risultare
scortese. Unna si strinse nelle
spalle. «Siamo quasi arrivate alla miniera e, una volta
lì, dovremo fare
attenzione. È un posto abbastanza pericoloso e non vorrei
passare dei guai
perché tu sei troppo stanca per badare a dove metti i
piedi.»
La
fanciulla sgranò gli occhi,
subito preoccupata. «Pericoloso? Perché dici che
è pericoloso? È per via dei
minatori?»
«No,
i minatori non c’entrano
niente» la corresse Unna. «È proprio
l’ambiente a essere pericoloso. La discesa
non è molto agevole, ma non c’è altra
via.»
Lidia
si prese qualche istante
per stirare la schiena indolenzita e per respirare a pieni polmoni.
«Ho capito.
Comunque, no, non sono troppo stanca: andiamo pure.» Subito
dopo aggiunse, tra
sé e sé: se ce la fai
tu, che ti porti in
giro anche quella zavorra nella pancia, non vedo perché non
dovrei farcela io.
Unna la fissò ancora per qualche secondo, come se si
aspettasse di vederla
stramazzare a terra da un momento all’altro, poi
annuì. «Come vuoi.»
Dopo
una decina di minuti, le due
giovani giunsero in prossimità di un costone erboso, che
aggirarono sulla
sinistra. Pochi metri più in là, il tappeto
erboso si interrompeva
improvvisamente, lasciando il posto a un panorama spettrale che
lasciò Lidia
quasi senza fiato. Davanti a lei, sotto di
lei, accarezzato dalle ombre lunghe della sera, si estendeva un
paesaggio
ferito e alieno, dove il lavoro di innumerevoli generazioni di uomini
aveva
scavato e spaccato e raschiato, esponendo il ventre verdastro della
terra alla
luce viola del tramonto. Gli occhi della fanciulla corsero su quel
luogo aspro
e deserto, dove le rocce mutilate assumevano forme curiose, quasi di
animale, e
venne colta da una sensazione antica, a metà tra la
nostalgia e il presagio. «È
la miniera, questa?» chiese, sentendo la bizzarra
necessità di parlare quasi
sottovoce.
Unna
scosse il capo. «Non
esattamente» la corresse. «Questa è una
cava in disuso, la miniera è sotto i
nostri piedi.» Nell’udire
quell’informazione, Lidia venne colta per un istante
da un’irrazionale paura del vuoto che la riscosse dal suo
improvviso umore
contemplativo. La terra è piena di
cunicoli, sale e gallerie, qui sotto. Speriamo che non crolli tutto!
Cercando
di nascondere il proprio
turbamento alla cognata, la ragazza si guardò di nuovo
attorno. «Che strana
roccia verde» commentò, notando le rocce dal
colore insolito che inframezzavano
il granito. «È quella che usate per costruire i
forni per le offerte?»
«Sì,
è olivite» confermo Unna,
chinandosi per raccoglierne una scheggia. «Porcheria
inutile.» La germanica
fece per lasciare cadere sdegnosamente a terra il frammento, ma Lidia
glielo
tolse di mano, avvicinandoselo agli occhi ed esaminandone la superficie
ruvida.
Era attraversato da mille solchi sottili e regolari, quasi qualcuno
avesse
preso dei fili di sasso e li avesse fusi insieme.
«È strano, però. Non l’ho mai
vista da nessun’altra parte.»
«Karl
dice che si trova solo
associata all’argento» commentò Unna,
distrattamente. «Probabilmente è per
questo che non è molto diffusa. Meglio così,
comunque: va giusto bene per
essere sbriciolata, nulla più.»
Quel
commento attirò l’attenzione
della giovane romana. «Sbriciolata durante la cerimonia delle
offerte, dici?»
La donna annuì. «Be’, sì: se
usassimo il granito, dopo ogni sacrificio dovremmo
portare via tutto quello che resta dei forni… diversamente,
verremmo sommersi
dai detriti. Gli Dèi vogliono avere un forno nuovo ogni
volta, a quanto pare,
ma l’ordine non è il loro forte.»
L’improvvisa
loquacità di Unna la
stupì non poco, ma Lidia non si lasciò sfuggire
l’occasione di sentire anche un
altro parere a proposito di ciò che accadeva veramente nei
recessi segreti del
Bosco Sacro. Del resto, se doveva essere completamente onesta con se
stessa, la
ricostruzione di Ulf non l’aveva mai convinta del tutto.
Senza incontrare lo
sguardo della cognata, la ragazza inspirò a fondo.
«Ma secondo te… secondo te,
chi se le prende, le offerte?»
«Eh?»
la donna la guardò con la
fronte corrugata e una sorta di confusione guardinga; e Lidia si
schiarì la
voce. «Voglio dire… tempo fa, Ulf mi ha detto che,
secondo lui, le offerte
venivano portate via dai romani e che, sempre secondo lui, Donna Erin
collaborerebbe con Roma. Tu la pensi così? La pensate tutti
così, qui?»
«Le
offerte si sono sempre fatte»
rispose la donna, dopo qualche istante di silenzio. «Fin da
prima che Roma
mettesse piede nei nostri territori: non sono stati i tuoi
concittadini, a
inventare il rito del sacrificio.»
«Quindi
tu credi che vadano
veramente agli Dèi?» la interrogò
nuovamente Lidia, che non si era aspettata
quella risposta. Unna scosse il capo. «Non ho detto
questo» precisò. «Io credo
che solo un idiota possa credere che gli Dèi, se anche
esistessero, siano
interessati alle cianfrusaglie degli uomini.»
Lidia
corrugò la fronte, confusa
da quella spiegazione. «Quindi…»
«Quindi»,
riprese Unna, «io penso
che, all’inizio, la cerimonia delle offerte fosse stata una
trovata dei
Sacerdoti per racimolare un po’ di fondi. Non escludo che,
ora, si spartiscano
le offerte con Roma, per tenersela buona e per mantenere una sorta di
pace
nella regione… ma, ripeto: non si tratta di un piano
sviluppato dai tuoi
concittadini.»
«E
i tuoi, di concittadini, sono
d’accordo con te?» indagò la ragazza.
«Non lo so» ammise la giovane bionda.
«Alcuni sì, immagino, altri continueranno
a illudersi che ci siano veramente gli Dèi, dietro alla
cerimonia… la maggior
parte, comunque, trova più comodo credere che sia tutta
colpa dei romani, da
quanto ne so io. Gli piace avere un nemico con cui prendersela,
immagino.»
«Anche
a Ulf?» le venne spontaneo
chiedere. A quella domanda, però, il viso di Unna si
adombrò. «Ulf non ha
bisogno di pretesti, per avercela con i romani»
mormorò. Qualcosa, nella sua
voce, fece correre un brivido ghiacciato lungo la schiena della giovane
romana
e Lidia deglutì, cercando di scacciare il sapore amaro che
le aveva
improvvisamente invaso la bocca. «Capisco»
sussurrò, anche se, in realtà, non
capiva affatto.
«Fa’
attenzione, adesso.»
Il
repentino cambio di argomento
la stupì e Lidia si voltò appena in tempo per
vedere la cognata muovere qualche
passo cauto giù per il ripido sentierino che si snodava tra
i grossi massi di
pietra grigia. Non volendo restare indietro, la ragazza
accantonò il pensiero
delle offerte e la imitò, accorgendosi con una punta di
ansia che il tracciato
era estremamente sdrucciolevole a causa della ghiaia sottile da cui era
composto il fondo.
Poche
decine di metri più in
basso, il granito e il terriccio, prevalenti in cima al pendio,
lasciavano
spazio a una concentrazione sempre maggiore di olivite.
«Evita di mettere i
piedi sulle rocce verdi» le disse Unna, spostandosi con
cautela su uno dei
pochi blocchi di granito che ancora affioravano dal terreno.
Lidia
annuì, cercando di
appuntare dietro alle orecchie le ciocche di capelli castani che le
ricadevano
sugli occhi, impedendole di vedere chiaramente il tracciato confuso
lungo cui la
germanica la stava conducendo. Malgrado la cautela con cui si stava
muovendo,
però, pochi istanti dopo la ragazza poté toccare
con mano la tanto decantata
fragilità dell’olivite: quando Unna,
più alta di lei di diversi centimetri,
scavalcò con un balzo una valletta, Lidia cercò
di imitarla, ma si trovò a fare
letteralmente il passo più lungo della gamba. Per evitare di
rovinare a valle,
la giovane posò un piede su un blocco di roccia verde, ma,
non appena vi caricò
il proprio peso, quella cedette di schianto, facendola rotolare per
qualche
metro lungo il sentiero ghiaioso.
Con
un sibilo di dolore, Lidia si
portò le mani al petto, senza sorprendersi quando le
trovò sanguinanti ed
escoriate. «Te l’avevo detto, di non salirci
sopra» commentò poco empaticamente
Unna, guardandola con il capo un po’ inclinato.
La
ragazza sbuffò, senza degnarla
di una risposta, e poi si soffiò delicatamente sui palmi
doloranti, sfiorandoli
con la punta delle dita nel tentativo di togliere i sassolini che le
erano
rimasti attaccati alla pelle. «Potrai lavarle alla prima
fontana» le disse la
cognata, superandola. «Adesso dobbiamo muoverci. Se viene
buio, sarà ancora più
difficile arrivare a Erding sane e salve.»
Anche
se le sarebbe piaciuto
avere qualche minuto per riprendersi dalla caduta, Lidia si rimise in
piedi
senza lamentarsi e riprese a scendere verso valle.
***
Arrivarono
a Erding dopo quella
che alla fanciulla parve un’eternità: il paese era
ormai immerso nelle tenebre
e, esattamente come la prima volta che vi aveva messo piede, le sue vie
erano
deserte, dando l’illusione che il villaggio fosse
completamente disabitato. Se non altro,
sembra che non ci siano in
giro soldati, pensò, con una punta di sollievo. Le
strade vuote la
mettevano a disagio e, senza rendersene conto, la ragazza si
ritrovò a
camminare quasi in punta di piedi, cercando di fare meno rumore
possibile. Le
finestre delle case, notò, erano buie, e quel particolare le
sembrò decisamente
fuori luogo. «Ma è normale che non ci sia in giro
nessuno?» chiese, sottovoce,
pur conoscendo già la risposta.
Accanto
a lei, Unna scosse
silenziosamente il capo. «No» sussurrò.
«C’è qualcosa di strano.» La
donna non
aggiunse altro e Lidia non fece altro domande, ma si
avvicinò un altro poco al
muro della casa più vicina, muovendosi entro i confini
dell’ombra proiettata
dal tetto e cercando di evitare la luce fioca proiettata dal quarto di
luna che
aveva da poco fatto capolino dalle creste delle montagne. Non stiamo facendo niente di male, si
disse, cercando di
allontanare l’irrequietezza che iniziava ad avvertire. Ulf non sarà felice di vedermi qui in
paese, probabilmente, ma non è
certo la fine del mondo. Non stiamo facendo niente di illegale.
Quando
le due giovani giunsero a
un bivio famigliare, Lidia si voltò verso la compagna,
preparandosi ad
accommiatarsi da lei: la sua casa era sulla destra, quella di Unna no.
Prima
che potesse dire alcun che, però, la germanica
svoltò decisa in direzione
dell’abitazione che la ragazza condivideva con Ulf. Mi accompagna addirittura a casa? Si
chiese, non sapendo se
apprezzare o meno quel gesto.
«Eccoci
qui» sussurrò Unna, una
volta giunte davanti alla porta di casa. «Vorrei poter dire
che mio fratello
sarà deliziato dall’averti qui,
ma…» La giovane lasciò sfumare la frase
e Lidia
si torse nervosamente le mani. È
troppo
tardi per avere ripensamenti, si disse, gonfiando il petto
per darsi
coraggio. E, in ogni caso, ho fatto la
cosa giusta.
Con
un respiro profondo, Lidia
afferrò la maniglia e l’abbassò con
forza, ma la porta non si mosse. Confusa,
provò di nuovo, ottenendo lo stesso risultato.
«Uh… è chiusa»
commentò,
sentendosi improvvisamente piuttosto stupida.
«Non
ce le hai, le chiavi?» le
chiese Unna, col tono con cui avrebbe potuto rivolgersi a un bambino
non
particolarmente intelligente.
«Ehm…
no.» Lidia si sentì
arrossire e Unna alzò gli occhi al cielo. «E se lo
chiamassimo?» propose la
giovane romana, alzando lo sguardo per vedere se qualche luce fosse
accesa,
indice che Ulf era in casa ed era sveglio.
«No!»
la bloccò la germanica. «Se
ci mettiamo a urlare per strada, sveglieremo tutti i vicini.
È una cosa che
vorrei evitare, se non ti dispiace… soprattutto alla luce
del fatto che non
sappiamo bene cosa stia succedendo, qui.»
Lidia
alzò le mani. «Va bene, va
bene: era solo un’idea» si difese. Dopo qualche
istante di silenzio, Unna tornò
a rivolgersi a lei. «Quella notte in cui hai cercato di
scappare… come avete
fatto a rientrare?» Al ricordo del suo tentativo di fuga,
Lidia non riuscì a
trattenere un gemito. «Siamo passati dal retro»
sospirò, incamminandosi verso
il vecchio melo che le aveva fatto da supporto.
Quando
giunsero ai piedi
dell’albero, Unna lo studiò attentamente,
vagamente impressionata. «E tu»,
mormorò,
osservandone il tronco liscio, «sei riuscita a salire da qui?
Non l’avrei mai
detto.» La ragazza arrossì di nuovo. «A
dirla tutta, Ulf mi ha aiutato un po’.»
Davanti a sopracciglio sollevato della donna, si sentì in
dovere di spiegarsi
meglio. «Mi ha sollevata fino a farmi raggiungere quel
ramo.»
Unna
sbuffò, passandosi una mano
tra i capelli chiari. «Io non ho proprio nessuna intenzione
di sollevarti!»
sbottò, battagliera. Malgrado la situazione scomoda in cui
si trovavano, Lidia
non nascose un sorriso. «Non avevo dubbi.
Oltretutto», continuò poi, strizzando
gli occhi per vedere meglio nel buio della notte, «la
finestra è chiusa. Non
riuscirei mai a entrare.»
«Va
bene» disse Unna, con una
voce talmente bassa che Lidia pensò che non si stesse
affatto rivolgendo a lei,
ma stesse piuttosto ragionando ad alta voce. Vedendola allontanarsi di
qualche
passo e chinarsi per raccogliere qualcosa da terra, la ragazza si
allarmò. «Che
cosa stai facendo?» chiese, in un sussurro urgente.
La
donna la guardò, stranita. «Lancio
qualche sassolino: altrimenti come pensi di fare ad attirare
l’attenzione di
mio fratello?»
«Non
rompendo il vetro!»
Unna
sogghignò. «Ma non sai
proprio niente! Si può sapere che razza di infanzia hai
avuto?» La ragazza
storse il naso, leggermente offesa dal tono di scherno della cognata. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, in una
casa bellissima e in un giardino ancora più bello, con un
sacco di giocattoli
che scommetto che tu non hai nemmeno mai visto! Pensò,
stizzita.
Dal
momento che Lidia si guardò
bene dall’esternare quel pensiero, Unna prese la mira e
lanciò tre sassolini in
rapida successione: contrariamente alle aspettative di Lidia, questi
non
ruppero il vetro, ma vi rimbalzarono contro, perdendosi poi da qualche
parte
nel prato sotto alla finestra. Quando il primo tentativo non
sortì alcun
risultato, Unna ripeté altre due volte
l’operazione, finché la finestra non si
aprì, lasciando intravvedere la sagoma di Ulf.
«Hey, Brüeder!» lo salutò a
bassa voce, sventolando una mano, come se la loro presenza
lì, nel cuore della
notte, fosse tutt’altro che inaspettata.
«Was…»
La
finestra si richiuse e Lidia
si voltò verso la germanica, vagamente ammirata dalla sua
faccia tosta. Prima
che potesse fare qualche commento al riguardo, però, il
fratello in questione
sbucò da dietro l’angolo della casa e, anche se
non mancò di notare che il
giovane non sembrava affatto felice di vederle, Lidia
avvertì lo stomaco fare
una capriola di felicità. «Cosa ci fate voi due
qui?» le apostrofò però Ulf,
senza nemmeno salutarle.
«Io
ho degli affari da sbrigare con
Karl», disse Unna, sbrigativa, «e lei ha deciso di
seguirmi. Ha la testa più
dura del previsto.»
Lidia
si voltò di scatto verso
Unna, con la bocca aperta. Traditrice!
«Dovevi
restare in montagna!»
ringhiò Ulf, piantando gli occhi in quelli della moglie, che
deglutì, presa
alla sprovvista.
«Sì,
ma…»
Senza
lasciarla finire, Ulf si
voltò verso la sorella. «E qualsiasi cosa tu
dovessi fare con Karl, di certo
poteva aspettare! Qui c’è il coprifuoco! Non
potete andarvene in giro così,
come se niente fosse, nel cuore della notte! Hai idea di cosa sarebbe
successo,
se qualcuno vi avesse trovate?»
«Il
coprifuoco?» chiese Lidia,
spaesata, ma Unna si infilò con forza nella conversazione.
«Ah, c’è pure il
coprifuoco, eh?» ripeté. «Ovviamente,
nessuno si è preso il disturbo di farcelo
sapere. Avete ancora intenzione di sostenere che va tutto bene, tu e
Karl?»
Ulf
la fulminò con lo sguardo,
avanzando di un passo verso di lei e ignorando completamente Lidia.
«Non è
questo il punto» ringhiò. «Il punto
è che, come sempre, tu devi fare di testa
tua. E no, non provare a dare la colpa a Lidia. So benissimo che
è stata
un’idea tua!»
Quell’affermazione
toccò un nervo
scoperto e Lidia afferrò il braccio del marito, cercando di
frapporsi tra i
gemelli. «Ehi! Non mi ha mica costretta! Ho scelto io di
venire qui. Il
villaggio non è sicuro, dobbiamo andare via.»
Di
nuovo, però, le sue parole
vennero ignorate. «Faccio di testa mia?»
ripeté Unna, con voce tagliente. «Come
al solito, dici? Be’, se non ricordo male, non è
perché ho fatto di testa mia
che…» la voce della giovane
calò di colpo, come se qualcuno le avesse stretto la gola, e
Unna abbassò
rabbiosamente un pugno, spostando lo sguardo di lato. Quel movimento
parve
avere un effetto diretto sul fratello, che si irrigidì come
se, invece che
colpire l’aria, la sorella avesse colpito lui.
«Cosa…?»
Lidia socchiuse gli
occhi, confusa, spostando lo sguardo dall’uno
all’altra, senza riuscire a
capire cosa stesse succedendo.
«Niente»
mormorò Ulf,
riprendendosi e lanciando uno sguardo carico di qualcosa
– rancore, colpa, delusione – a Unna. «Il
concetto non
cambia, comunque» riprese, con voce più salda.
«Non avreste dovuto tornare al
villaggio. Ormai è tardi, ma domani non voglio sentire
storie: tornerete
all’alpeggio.»
Unna
sbuffò, sdegnosa. «Non
provarci nemmeno, a dirmi cosa devo fare: puoi comandare a bacchetta
lei, se ti
fa piacere, ma su di me non ha proprio nessun potere. Io da qui non me
ne vado:
non senza mio marito, quantomeno.»
«Me
non mi comanda a bacchetta
proprio nessuno» si lamentò Lidia, stringendo i
denti come una bambina
capricciosa. Ulf inspirò e fece per dire qualcosa, ma lei
scosse il capo. «Unna
ha ragione: stare qui è pericoloso. Dobbiamo andare via
tutti, almeno per un
po’. Poi, se le cose miglioreranno, torneremo qui.»
«E
se le cose non dovessero
migliorare?» chiese Ulf e Lidia pensò che la sua
voce sembrasse stanca, tutto
ad un tratto. La giovane scambiò uno sguardo veloce con la
cognata, poi si
avvicinò al marito. «Se le cose non dovessero
migliorare, ci penseremo: immagino
che potremmo trovare un altro posto dove vivere…»
Ulf
le rivolse un sorriso amaro.
«Non è così facile»
mormorò. «Non posso lasciare tutto
così, da un giorno
all’altro. E di certo non posso lasciare qui il resto della
mia famiglia.
Nostro padre ha un ruolo importante, dei compiti da svolgere, non
può fuggire
dal villaggio così, da un giorno
all’altro.»
«E
allora ci prenderemo il tempo
che serve!» ribatté Lidia, infervorata.
«Noi, però, nel frattempo resteremo
qui, perché in queste situazioni è meglio restare
tutti uniti e…»
«No,
in queste situazioni è
meglio che, chi può mettersi al sicuro, lo faccia. E senza
fare storie.» La
giovane aggrottò la fronte, contrariata
dall’atteggiamento dell’uomo.
«Ma…»
«Cosa
state facendo?»
Una
voce brusca li fece
sobbalzare e Lidia si voltò appena in tempo per scorgere
un’ombra sbucare da
una stradicciola laterale. Quando il nuovo arrivato entrò
nell’alone di luce
che giungeva dall’interno della casa, vide che era un giovane
biondo che vestiva
l’uniforme dei legionari. Prima che avesse modo di scorgere
altri particolari,
Ulf si frappose tra di lei e il soldato, schermandole la visuale.
«Stiamo
parlando» rispose freddamente.
«A
quest’ora di notte?»
insistette il soldato, con tono vagamente insinuante. «Lo
sapete, vero, che è
vietato andare per le strade dopo il calare del sole?»
«Certo,
che lo sappiamo» ribatté
il germanico, senza scomporsi. «Ma noi non siamo per strada: siamo sulla porta di casa,
non mi risulta che questo
sia vietato.»
«Mh,
non lo è» confermò il
romano, con voce annoiata. «Abitate tutti qui, voi? Siete
parenti, amici…»
Lidia lo avvertì avvicinarsi e poi parlare ancora, senza
aspettare una
risposta. «Tu sei il figlio del vecchio Gefrid,
vero?»
«Sì»
fece Ulf, sintetico.
«E
voi due chi sareste?»
Sentendosi
chiamata in causa,
Lidia mosse un passo di lato, mostrandosi al soldato. Ma
tu guarda che idiota arrogante, si scoprì a
pensare, osservando
il modo impettito con cui il ragazzo si ergeva davanti a loro. Scommetto che non vale niente, ma qui si
sente un grand’uomo. Papà lo schiaccerebbe, un
tipo così. Con un sorriso
amaro, Lidia si rese conto che quella era una delle poche volte nella
vita in
cui si era augurata che suo padre fosse lì con lei.
Unna,
che si era nel frattempo
portata al fianco del fratello, inspirò bruscamente e
strinse con forza in
pugni, ma, prima che potesse rispondere, Ulf le posò una
mano su un braccio,
parlando al posto suo. «Non vedo perché la cosa
dovrebbe interessarti, ma, in
ogni caso, sono mia moglie e mia sorella.»
«Mh» commentò il
romano, facendo scorrere lo sguardo da Unna a Lidia
e rivolgendosi poi alla seconda, «tu sei la moglie, immagino.
Da quale famiglia
vieni?» Davanti alla tracotanza del giovane soldato e alla
menzione della
propria famiglia d’origine, la fanciulla provò un
moto d’orgoglio. «Non vengo
da questo villaggio. Io sono Lidia Aurelia Prisca»
declamò, a testa alta. «Sono
la figlia del Senatore Lucio Aurelio Prisco.»
Nell’udire
quelle parole, gli
occhi del soldato si spalancarono. «Oh!
Oh…»
balbettò per qualche istante, come se improvvisamente avesse
compreso un
particolare che fino a quel momento gli era sfuggito. «Donna
Lidia! Chiedo
scusa!»
Davanti
a quel repentino cambio
di atteggiamento, la ragazza lo guardò sospettosa:
improvvisamente il
legionario le parve decisamente più giovane di quanto non le
fosse sembrato in
un primo momento, doveva avere suppergiù
l’età di… I pensieri di Lidia si
bloccarono di colpo; il suo sguardo si fece cauto e incrociò
quello del romano.
Ulf,
che non aveva notato quello
scambio di sguardi – o che forse l’aveva notato fin
troppo e non l’aveva
apprezzato – si intromise nel discorso.
«Bene», disse, brusco, «adesso che
abbiamo fatto le presentazioni, noi avremmo da fare.»
Il
soldato si riscosse in fretta.
«No, un attimo. Donna Lidia deve venire con me.»
«Cosa?»
chiesero all’unisono Ulf
e Lidia.
Il
giovane romano raddrizzò le
spalle, facendo del proprio meglio per mostrarsi nuovamente sicuro di
sé e
nascondere la sorpresa di poco prima. «Ordini del Prefetto
Caleno» disse. «Data
la situazione attuale, tutti i cittadini di Roma devono venire al campo
per
ricevere alcune raccomandazioni.»
«Per ricevere alcune raccomandazioni»
ripeté sarcastico Ulf,
evidentemente poco convinto dalla scusa accampata dal ragazzo.
«Sì» confermò
quello. «Il Prefetto desidera inoltre assicurarsi che i
cittadini romani stiano
bene e che le loro condizioni attuali consentano loro di vivere in
sicurezza.»
Gli
occhi di Ulf si ridussero a
due fessure. «E deve farlo a quest’ora di
notte?» Il soldato scosse le spalle. «Sono
solo le nove di sera, non è propriamente notte. E comunque,
sì. desidera
parlare con i Romani il prima possibile e nei giorni scorsi Donna Lidia
non è
stata reperibile.»
Credendo
di intravvedere una
critica, Lidia irrigidì la schiena. «Ero in
montagna» si difese, cercando di
imitare il tono autoritario di suo padre. «Avevo del lavoro
da fare.» Il romano
si rivolse direttamente a lei, guardandola negli occhi.
«Capisco. Però, Donna
Lidia, è davvero importante che tu venga con me, questa
sera. È da molto che il
Prefetto desidera parlarti… ha aspettato a lungo.»
Gli occhi del ragazzo
cercavano di comunicarle un messaggio silenzioso che, sebbene non
l’avesse dato
a vedere, la fanciulla aveva colto immediatamente. Tito.
«Con
chi… con chi sto parlando?»
chiese, cercando di prendere tempo. «Il mio nome è
Lucio Terenzio Rufo» rispose
il soldato, con un sorriso. «Capisco la tua diffidenza, ma ti
prometto che ti
puoi fidare di me. Ti riaccompagnerò a casa di persona,
domani mattina.»
A
quelle parole, Ulf si intromise
nuovamente tra loro. «Non se ne parla nemmeno!»
sbottò, svettando sul ragazzo
che, per quanto robusto, era più basso di lui di tutta una
testa. «Non lascerò
che mia moglie passi una notte da sola, in mezzo a dei soldati.»
Il
legionario fece per ribattere,
ma Lidia si mise tra di loro. «Aspetta!» disse,
cercando di evitare il litigio.
«Verrò con te solo se mi assicurerai che
sarò a casa prima di mezzanotte.»
Il
giovane romano si mostrò
sorpreso, ma Lidia sostenne il suo sguardo. Non
insistere, gli chiese, silenziosa, sperando che il ragazzo
cogliesse il suo
messaggio. Dopo qualche istante, lui annuì. «Va
bene» sospirò.
Ulf
era però di altro avviso. «Va
bene solo se posso venire anch’io.»
«No»
si oppose il romano, deciso.
«Il Prefetto vuole vedere solo Donna Lidia, per essere certo
che lei possa
parlare in piena libertà.»
«In
questo caso, dovrà aspettare
fino a domani» ribatté Ulf, altrettanto categorico.
Lidia
si premette con forza due
dita alla base del naso, cercando di riprendere il controllo sulla
situazione.
Anche se si sentiva in ansia per quello che sarebbe accaduto quella
sera, non
desiderava rimandare ancora l’inevitabile. Tolto
il dente, tolto il dolore. «Ulf»,
mormorò allora, posando una mano sul
braccio del marito, «lascia che io vada con lui. Non mi
succederà niente.»
«Come
fai a saperlo?» le chiese,
a bassa voce. Lidia si guardò attorno alla ricerca di un
appiglio che le
permettesse di rassicurare il giovane, senza svelargli però
l’esistenza di Tito
e il fatto che il ragazzo l’aspettasse con ogni
probabilità all’accampamento
militare. Trovò soltanto gli occhi freddi di Unna che, come
la loro silenziosa
proprietaria, non le furono di alcun aiuto. «Mio padre
è un Senatore,» disse,
dopo qualche istante, «e loro sono soldati di Roma: sono al
sicuro. Fidati, per
una volta.»
Ulf
sostenne per diversi secondi
il suo sguardo, poi annuì, sconfitto.
«D’accordo» mormorò,
stringendole
brevemente le braccia. «D’accordo.»
Improvvisamente,
Lidia provò una
stretta al cuore: anche se era assolutamente certa della scelta fatta
qualche
settimana prima, non poteva fare a meno di provare la sensazione di
tradire la
fiducia di Ulf, incontrando di nascosto Tito. Inoltre, c’era
il piccolo
particolare che, se dire addio a Tito nella sua testa era stato
più facile del
previsto, farlo nella realtà, trovandoselo di fronte,
avrebbe potuto essere ben
più arduo.
La
ragazza si voltò di scatto
verso il giovane legionario. «Va bene» disse,
ingoiando il nodo che le si era formato
in gola. «Andiamo. Voglio tornare a casa quanto
prima.»
Il
ragazzo annuì e le offrì un
braccio. Dalla sua espressione, Lidia comprese che il giovane aveva
frainteso
quello che lei aveva voluto dire con l’espressione tornare a casa. Chiudendo gli occhi per
un istante, la fanciulla
provò un capogiro. Non sono pronta,
pensò. Non sono assolutamente
pronta.
Stringendosi
inconsciamente al
braccio del legionario e sentendo gli occhi di Ulf fissi sulla sua
schiena,
Lidia si incamminò verso il campo militare.
***
Dunque, in occasione dell’ultimo
capitolo, diverse persone mi hanno
scritto dicendo che, anche se non commentano mai, apprezzano la mia
storia. La cosa
mi fa piacere, ma vorrei dire qualcosina a questo proposito.
La questione è un po’ questa:
a me scrivere piace, ovviamente, ma
questo non cambia il fatto che farlo di tarda sera, dopo una giornata
di
lavoro, è abbastanza stancante. Se scrivessi solo per me
stessa (cosa che,
comunque, non sono mai stata brava a fare), me la prenderei
più con comodo. Se
scrivessi solo per me stessa, è probabile che, durante le
settimane
particolarmente intense, non scriverei una singola sillaba, preferendo
svaccarmi sul divano a guardare la tv. Dal momento che presumo
però che c’è
gente che mi segue, mi siedo alla scrivania e accendo il computer,
anche se
magari sono scazzata, stanca o con l’ispirazione sotto i
piedi. In altre
parole: mi impegno in quello che faccio. Quindi, quando leggo di
qualcuno che
mi segue volentieri, ma non ha voglia di commentare, o non ama farlo,
ecco…
resto un po’ così, perché mi pare che
il mio impegno non venga minimamente
ripagato. Non so se mi spiego.
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Capitolo 23 *** 22. Tito ***
Appena si furono allontanati a
sufficienza da Ulf e
Unna, l’atteggiamento di Lucio cambiò ancora. Il
ragazzo prese a sorridere,
voltandosi di tanto in tanto per lanciare a Lidia occhiate cariche di
aspettativa: camminava di fretta, ma con passo leggero, con
l’aria di chi non
vede l’ora di raggiungere un luogo desiderato. Notando il
mutismo della
giovane, allungò un braccio verso di lei e le strinse
brevemente una mano. «Allora?
Sei agitata?» Lei gli rivolse un debole sorriso.
«Abbastanza» ammise,
accorgendosi di avere le mani sudate. Non
per il motivo che pensi tu, però, aggiunse
mentalmente, con un sospiro
afflitto.
Il soldato rise, come se trovasse
divertente il
nervosismo della fanciulla. «Mi pare comprensibile»
disse, in tono svagato. «Ma
non preoccuparti, il tuo fidanzato non vede l’ora di
riabbracciarti! In questi
giorni ha parlato continuamente di te, ci ha detto talmente tante cose
che
praticamente è come se tutto l’accampamento ti
conoscesse… quel ragazzo ti
adora, davvero!»
Lidia si sentì tremare
le ginocchia e dovette mordersi
le labbra per reprimere un gemito demoralizzato: le parole del
legionario non
la rassicuravano affatto, anzi, non facevano altro che aumentare i
sensi di
colpa che già provava nei confronti di Tito. Negli ultimi
giorni aveva pensato
e ripensato a come avrebbe potuto comunicare al giovane romano la
decisione di
rimanere in Germanica con Ulf, ma, nelle sue fantasie, si era sempre
concentrata solo su se stessa, senza prendere davvero in considerazione
il modo
in cui Tito avrebbe potuto reagire, né i suoi sentimenti.
Anche se aveva ormai
compreso di non essere più innamorata di lui, di non amarlo
abbastanza per
decidere di portare a termine il piano concepito dal ragazzo e scappare
con lui,
la fanciulla sapeva con assoluta certezza di volergli bene e di non
avere
nessun desiderio di spezzargli il cuore. Ma
ho paura che questo sia inevitabile, se davvero le cose stanno come
dice Lucio…
C’era forse un modo per
indorargli la pillola? Lidia passò
confusamente in rassegna alle diverse possibilità a sua
disposizione, ma subito
scosse il capo, sconfitta. Un addio era un addio, in qualsiasi modo la
si
mettesse.
La strada che si snodava lungo il
fondovalle era
completamente deserta – fatta eccezione per poche coppie di
legionari,
apparentemente lasciati di guardia lungo la via – e,
percorrendola, i due
giunsero all’accampamento molto più rapidamente di
quanto avessero fatto Lidia
e Unna quel pomeriggio, passando attraverso la cava. Ben presto la
ragazza
avvistò il vallum e la
sommità delle
tende dietro a esso. L’impulso di girare sui tacchi e
scappare via la investì,
prepotente, ma la fanciulla si aggrappò al braccio del
soldato, pregando che il
giovane non si accorgesse delle sue mani sudate. Smettila
di comportarti come una codarda e affronta la situazione! La
spronò la sua coscienza.
Oh, ma non si era mai trovata in
una posizione tanto
scomoda! In un certo senso, le pareva di essere in una situazione
peggiore di
quella in cui si era trovata il giorno in cui si era sposata. Infatti,
se allora
era stata in preda al panico, obbligata a sottostare a qualcosa su cui
non
aveva alcun controllo, ora erano i sensi di colpa ad attanagliarla,
uniti alla
consapevolezza di non avere altri da incolpare, se non se stessa. Non posso controllare i miei sentimenti, cercò
di consolarsi, e ignorarli non sarebbe
giusto per nessuno. Però forse avrei potuto gestire le cose
in maniera diversa.
Avrei dovuto avere il coraggio di scrivere prima a Tito, evitandogli di
farsi
un viaggio tanto lungo e pericoloso per niente.
Notando il loro arrivo, i soldati
a guardia di una
delle porte si erano messi sul chi va là. Quando riconobbero
Lucio, però, si
rilassarono e li lasciarono passare, lanciando a Lidia degli sguardi
curiosi e,
in alcuni casi, rivolgendole un sorriso cordiale, indovinando forse la
sua
identità.
Anche se quella era la prima
volta che metteva piede in
un campo militare, la ragazza lo trovò più
famigliare di qualsiasi altra cosa
avesse incontrato in Germanica. C’era qualcosa di
innegabilmente romano nel modo in
cui le cose erano
disposte e organizzate e, mentre il suo accompagnatore la conduceva
verso una
meta che le era ancora sconosciuta, Lidia si sentì come
divisa tra il sollievo
di essere tornata a casa e lo sconforto di scoprire lontano
ciò che un tempo
era stato normale e amato.
Improvvisamente, Lucio si
fermò di fronte a una tenda più
grande delle altre. «Eccoci arrivati» sorrise,
scostando un lembo di stoffa
pesante con una mano e invitando la ragazza a entrare con
l’altra. Con il cuore
che batteva a una velocità allarmante, Lidia fece due passi
e si ritrovò
all’interno della tenda, avvolta dalla luce gialla delle
lampade. Davanti a
lei, seduto a una sorta di scrivania, c’era il Prefetto
Caleno. Vedendola
entrare, l’uomo posò la coppa di vino che aveva in
mano e si alzò per
accoglierla, un’espressione stupita disegnata sul bel volto.
Distrattamente, la
ragazza notò che alla sua destra c’era Quinto, il
Legato che per primo l’aveva aiutata
al suo arrivo a Erding, ma gli occhi della fanciulla corsero
inevitabilmente al
giovane fermo alla sinistra del Prefetto. «Tito»
mimò con le labbra, senza
riuscire a trovare la voce per pronunciare quel nome.
Era come se, nei mesi passati
lontana da lui, la sua
immagine si fosse un po’ sfumata, nella sua mente - o forse,
semplicemente,
durante la sua assenza il ragazzo era cresciuto: le sembrava diventato
più
alto, con le spalle più larghe, con i tratti del volto
più definiti. Eppure,
quando la vide, nei suoi occhi scuri si accesero la stessa luce e la
stessa
emozione che Lidia vi aveva sempre scorto.
L’etichetta avrebbe
previsto che fosse il Prefetto ad
accogliere l’ospite, ma Tito si mosse prima che Caleno
facesse in tempo ad
aggirare la scrivania che lo separava dalla fanciulla e, con tre lunghe
falcate,
raggiunse la fanciulla e la strinse a sé. Il suo profumo
famigliare la investì
e, malgrado le sue migliori intenzioni, Lidia sentì
un’ondata di nostalgia
colpirla in pieno petto, togliendole le forze e costringendola ad
abbandonarsi
tra le braccia del giovane. «Lidia»
sussurrò lui, affondandole il naso tra i
capelli.
Stretta nel suo abbraccio, Lidia
sentì gli occhi
inumidirsi. Un paio di lacrime le scivolarono lungo le guance e
bagnarono la
maglia di Tito. Stringendo i denti risoluta, però, la
ragazza si controllò:
sentì di non avere il diritto di piangere, di auto
commiserarsi, di pensare a
se stessa come a una vittima. Cionondimeno, quando il giovane la
scostò da sé e
la guardò in volto, vide che aveva gli occhi lucidi e subito
si allarmò. «Va
tutto bene?» le chiese, sfiorandole il volto con dolcezza.
«È solo
emozionata» interloquì Lucio, evidentemente
fiero di essere stato lui ad aver fatto ricongiungere la coppia che il
destino
aveva separato. Per un qualche motivo, quell’intervento fuori
luogo aiutò Lidia
a sottrarsi dallo spaesamento causato dall’emozione e a
vedere con più
chiarezza tutti i dettagli di quella situazione surreale. Posando le
mani sul
petto di Tito e allontanandolo leggermente da sé, la ragazza
annuì, chiudendo
per un secondo gli occhi, nel tentativo di riordinare le idee.
«Sì» disse. «Sì,
va tutto bene.» La sua voce suonò ferma e
stranamente piatta e la fanciulla se
ne stupì. Tito però parve non accorgersene e
annuì, sollevato. «Bene» sorrise. I
due rimasero a guardarsi, mentre i secondi scorrevano inesorabili e
Lidia
iniziò a sentirsi a disagio sotto agli sguardi di quei
quattro uomini che
sembravano osservarla come se si aspettassero da lei chissà
quale reazione.
Notando la situazione di stallo,
il Prefetto Caleno
intervenne. «Donna Lidia», fece, avvicinandosi alla
coppia, «devo ammettere che
il tuo arrivo è stato piuttosto… inaspettato.»
La giovane si voltò verso di lui, corrugando la fronte,
confusa. Inaspettato? Si chiese,
alzando gli
occhi per incontrare quelli verdi dell’uomo. Non erano forse
stati lui e il suo
commilitone a proporle di incontrare Tito, il giorno stesso in cui si
era
sposata? Non le aveva forse offerto asilo nell’accampamento,
qualora si fosse sentita
sola e spaesata? Perché si dichiarava stupito, allora?
«Eh…»
abbozzò, a corto di parole. «Io…
è stato il tuo soldato
a portarmi qui, pensavo di essere attesa.» Volgendo lo
sguardo verso Lucio, la
fanciulla vide che sul viso aveva un’espressione confusa che,
con ogni
probabilità, era lo specchio della sua. Il soldato fece
saettare lo sguardo tra
il suo superiore e la ragazza, ma Quinto lo tolse
dall’imbarazzo di trovare un
commento adeguato. «Immagino che tu non ne sapessi
assolutamente niente, vero,
Prefetto?»
I lineamenti di Caleno si
indurirono e il soldato si
voltò per fronteggiare il Legato.
«Prego?»
Quinto sorrise, ma, in quella
circostanza, il suo
sorriso parve a Lidia meno caldo di quanto non fosse solitamente.
«Dico:
naturalmente è una coincidenza, se Lidia e questo ragazzo si
trovano entrambi
qui nella tua tenda, questa sera.» Accanto a lei, Lidia
sentì Tito irrigidirsi
e, per la prima volta, realizzò che, con ogni
probabilità, Quinto non
condivideva minimamente il piano di farla ricongiungere al giovane
romano.
«È una
coincidenza, sì» ribatté Caleno.
«Come ti ho
spiegato, il ragazzo è qui perché voleva
accertarsi che Lidia stesse bene. Tiene
molto a lei: non vedo cosa ci sia di male.»
Nell’udire quelle parole, la
fanciulla lanciò una rapida occhiata a Tito, che le rivolse
un cenno del capo,
come per confermare ciò che il Prefetto aveva detto.
«Non aveva alcuna
intenzione, però, di convocare qui Lidia senza prima
parlartene: Lucio deve
averla incontrata per caso e deve aver deciso di portarla qui, dico
bene?»
Nel sentirsi interpellato, il
soldato avvampò. «Sì…
è
esatto» confermò, incerto. Caleno si rivolse a
Quinto, stringendosi nelle
spalle con un mezzo sorriso. «Visto, Legato? Non
c’era nulla di premeditato. Ma
se vuoi, posso far riaccompagnare a casa Lidia e rimandare a Roma il
ragazzo.
Devo fare così?»
Tito fece per protestare, ma si
trattenne, rivolgendo
però uno sguardo carico di nervosismo al Legato. Quinto lo
osservò per qualche
istante, silenzioso, poi incrociò gli occhi di Lidia.
Sentendosi sotto esame,
in preda alla sensazione di aver deluso e tradito il Legato, la
fanciulla
arrossì e quella reazione parve confortare Quinto.
«Non ce ne sarà bisogno»
disse infatti l’uomo, con voce un poco più morbida
rispetto a poco prima.
«Ormai i ragazzi sono qui, lasciamo che si parlino.»
Davanti a quella concessione, la
giovane sentì le
guance farsi ancora più rosse e uno strano senso di
mortificazione calare su di
lei. Quinto ha capito come stanno le cose,
comprese: non sapeva come il Legato potesse essere a conoscenza dei
suoi
sentimenti e delle sue intenzioni – forse si trattava di
semplice intuito,
forse di qualcosa di più complesso – ma Lidia ebbe
la certezza che l’uomo si
fosse accorto della sua intenzione di rimanere con Ulf. Se, da un lato,
quella
consapevolezza le dava quasi coraggio, dall’altra Lidia
sentiva di dover
dimostrare qualcosa – non solo a se stessa, ma anche a Libo.
Caleno annuì, tornando
a sorridere come se le parole
del Legato avessero spazzato via la tensione di qualche istante prima.
«Perfetto,
allora. Credo che abbiate molte cose da dirvi»,
disse, rivolgendosi ai due giovani, «e capisco che siate a
disagio a discuterne
qui, davanti a tutti. Un accampamento militare non garantisce molta
privacy,
ma, se volete, posso concedervi di usare la mia stanza privata per un
po’.»
Davanti a quelle parole che, con
un poco di malizia,
avrebbero potuto essere interpretate in modo decisamente non
opportuno, Lidia non riuscì a trattenere una
smorfia, mentre il
giovane soldato che l’aveva accompagnata al campo soffocava
un risolino.
Notando l’espressione cupa della fanciulla, Tito le
passò un braccio attorno
alle spalle. «Lascialo perdere» le
sussurrò, sorridendo appena.
Così dicendo, rivolse
al Prefetto un cenno di
ringraziamento e, con gentilezza, sospinse la giovane verso il
tendaggio
indicato da Caleno. Quasi in cerca di una via d’uscita, Lidia
lanciò un’ultima
occhiata intorno a sé, incrociando prima lo sguardo
incoraggiante del Prefetto
e poi quello teso di Quinto. Quando
i
loro occhi si incontrarono, il Legato le rivolse quello che avrebbe
forse voluto
essere un sorriso, ma che alla giovane parve soltanto un rigido
stirarsi di
labbra che non riuscì a dissolvere l’ombra cupa
che occupava i suoi occhi. Per
una frazione di secondo, la fanciulla provò
l’irrazionale tentazione di
chiedergli aiuto, di pregarlo di intercedere per lei, ma subito
serrò la
mascella, preparandosi a prendersi le proprie
responsabilità.
Un istante più tardi,
il drappo che separava le stanze
private di Caleno dal resto della tenda calò di nuovo e
Lidia si trovò
improvvisamente da sola con Tito. Un senso di nausea
l’assalì, ma, prima che
potesse fare qualcosa per contrastarlo, il ragazzo le si
avvicinò. «Allora!» disse,
con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
«Finalmente posso parlarti
di tutto quello che ho organizzato: l’avrei fatto quando ti
ho scritto, ma non
volevo correre il rischio di essere scoperto. Ma
prima…» Senza lasciarle il
tempo di capire le sue intenzioni, Tito le prese il volto fra le mani
e,
chinatosi su di lei, la baciò, premendo le labbra calde
contro quelle della
ragazza. Troppo di stucco per reagire, Lidia lo lasciò fare,
perdendosi nel
sapore famigliare della sua bocca e dimenticandosi per un attimo delle
circostanze che l’avevano condotta lì. Dopo
qualche secondo, però, una
sensazione di estraneità la colpì e uno strano
distacco le fece vedere la scena
con occhi nuovi e inaspettati.
No, pensò. Non solo e
non
tanto perché era moralmente
sbagliato,
ma perché non aveva senso. Non
aveva senso
baciare Tito, non più: passata la sorpresa iniziale, svanito
il conforto
dell’abitudine, Lidia si rese conto di non riconoscere
più il tocco delle sue
labbra, di avvertire come estraneo il tocco dei polpastrelli che le
sfioravano
le gote e la nuca – persino il suo respiro le pareva stonato,
fuori posto.
Basta
così. Posandogli le mani sul
petto, la ragazza spinse, inducendolo a interrompere il bacio e ad
allontanarsi
da lei. Per una frazione di secondo, un’espressione confusa
si dipinse sul
volto del ragazzo, ma fu subito rimpiazzata da un sorriso.
«Lidia…»
«Tito…»
I due parlarono insieme e subito
si interruppero,
sorpresi dalla voce dall’altro. «Tito»,
riprovò lei, quando vide che il giovane
intendeva cederle la parola, «io non… non
posso… scusami, ma…» La ragazza si
portò una mano alla gola, sentendola come chiusa in una
stretta che le impediva
di parlare e di pronunciare le parole che aveva ripetuto migliaia di
volte,
nella sua testa.
Notando la sua
difficoltà, il giovane sorrise di nuovo
e le posò una mano su una spalla, comprensivo.
«No, scusami tu» le disse,
piano. «Non avrei dovuto baciarti. Ho sbagliato. So che le
cose non possono
essere come prima, naturalmente.»
Lidia lo guardò, con
gli occhi sgranati. Lo sapeva? Lo
sapeva veramente? Si era preoccupata per niente?
E
allora cosa
ci fa qui in Germanica?
«Davvero?»
chiese, quasi senza osare sperare di potere
uscire così facilmente da quella situazione scomoda. Tito
annuì. «Certo, sei
una donna sposata, adesso. Ti conosco fin troppo bene, so che senti di
avere
degli obblighi verso il germanico…»
sospirò, prima di sorridere. «Ma non per
molto. Presto ce ne andremo e tu non dovrai più preoccuparti
di lui. Ho pensato
a tutto, vedrai!»
Lidia sbiancò e, di
fronte all’entusiasmo del ragazzo,
trattenne a stento un gemito. Ah, ecco.
Mi sembrava troppo bello, per essere vero…
Interpretando male lo sguardo
perso della ragazza, il
giovane cercò di rassicurarla. «So che
può fare un po’ paura», disse,
chinandosi appena per guardarla negli occhi, «ma, davvero,
andrà tutto bene. Ho
già preso accordi, naturalmente ti spiegherò
tutto, ma, per ora…»
«Aspetta.» La
parola le sfuggì dalle labbra quasi
senza il suo permesso e Tito si ritrasse un poco, leggermente sorpreso.
Inspirando
profondamente, Lidia cercò il coraggio per guardarlo negli
occhi, senza però
riuscire a trovarlo. «Non posso venire con te»
sputò allora, con lo sguardo
vigliaccamente fisso sulla punta degli scarponcini che ancora indossava.
Per alcuni lunghissimi secondi,
il giovane rimase in
silenzio. «Cosa?» chiese poi, come se pensasse di
non aver sentito bene. «Mi
dispiace», ripeté la fanciulla, cercando di
mettere una forza maggiore nella
propria voce, «ma non posso venire via con te.» Non voglio
farlo, più che
altro, avrebbe voluto dire, ma sentiva di non essere in grado
di usare quella
parola che avrebbe fatto ricadere su di lei tutta la
responsabilità di quella
decisione.
«E perché
mai?» chiese di nuovo Tito, mentre il suo
volto si contraeva in un’espressione al contempo spaesata,
afflitta e
contrariata.
Lidia esitò per un
istante, pensando che, forse,
sarebbe stato meglio trovare una motivazione che non lo toccasse troppo
da
vicino, che non lo ferisse come avrebbe fatto la notizia che la sua
fidanzata –
ex fidanzata! – preferiva
un
germanico a lui. «È troppo pericoloso»
disse, quando ne ebbe trovata una che le
parve sufficientemente convincente. «Quando sono partita non
lo sapevo, ma i
matrimoni tra noi e i germanici servono per fare avere a questa gente
un po’
della nostra ricchezza: non ci lasceranno andare via così
facilmente!»
Lo sguardo di Tito si fece
determinato. «Già, ti
vogliono per i tuoi soldi: un motivo in più per andarsene da
qui il prima
possibile!»
La fanciulla scosse la testa,
capendo di aver scelto
la motivazione sbagliata e di essere a un passo
dall’infilarsi in un vicolo
cieco. «E la famiglia di mio… di mio
marito?» chiese ancora, sforzandosi di non
alzare la voce per il nervosismo. «Se scappo via, per loro ci
saranno
conseguenze! La sacerdotessa, Donna Erin… ha legami
importanti con gli Alti
Sacerdoti, contrariarla potrebbe essere pericoloso!» Lidia
sgranò gli occhi e
si torse le mani, cercando di trasmettere a Tito tutta la sua
preoccupazione.
Non le parve il caso di specificare che, a conti fatti, era solo Ulf a
sostenere che Donna Erin fosse una persona pericolosa.
Il giovane la guardò
con gli occhi leggermente
socchiusi, come colpito da un’idea improvvisa. «Ti
interessa di loro?»
Lidia alzò la testa di
scatto, colpita dalle sue
parole. Davvero aveva un’opinione così bassa di
lei da credere che fosse in
grado di passare dei mesi a stretto contatto con delle persone e di non
sviluppare con loro il minimo legame? «Certo che mi interessa
di loro!»
ribatté, con una voce più dura di quanto si
sarebbe aspettata. «Sono delle
brave persone, non voglio che finiscano nei guai per causa
mia!»
Tito scosse impercettibilmente il
capo, come se non
riuscisse a capire la logica di ciò che la ragazza stava
dicendo, ma poi fece
un cenno d’assenso. «Va bene. Non è un
problema» disse, con un sospiro secco.
«Faremo in modo che sia assolutamente palese che sei scappata
di nascosto e che
loro non ne sapevano niente: faremo fare loro la figura delle vittime,
non dei
complici. Nessuno li potrà accusare di nulla.»
Lidia incrociò le
braccia e strinse spasmodicamente le
dita sui propri avambracci. Perché
deve
essere così insistente? Si chiese, con una punta
di disperazione. Tito
aveva pensato proprio a ogni evenienza, evidentemente. La cosa non
avrebbe
dovuto sorprenderla – era sempre stato un ragazzo
intelligente, pieno di
risorse – ma non mancò di causarle comunque un
fremito di fastidio
indispettito. Non c’era un modo efficace per ribattere alla
sua proposta, si
rese conto, e allora sospirò: «Non posso comunque
andare via… Mi dispiace.»
Mentre lo diceva, non riuscì nemmeno a incontrare i suoi
occhi, temendo di
leggervi rabbia, delusione o qualche altro sentimento che non si
sentiva in
grado di affrontare.
Tito sbuffò e mosse un
passo verso di lei,
evidentemente turbato dalla sua titubanza. «Ma
cosa…» Improvvisamente, il
ragazzo si bloccò e la sua voce si fece più dura.
«Ti sei innamorata di lui?»
Colta di sorpresa da quella
domanda così diretta,
Lidia sgranò gli occhi. «Cosa?»
Tito avvicinò il volto
al suo, fermandosi a una decina
di centimetri da lei. «È per tuo marito, vero? Per
questo non vuoi venire via
con me? Ti sei innamorata di lui?» A ogni domanda, la rabbia
riempiva sempre
più le sue parole. «Lo ami?»
Lidia avvampò,
indietreggiando di un passo. La
guardava come se la stesse accusando di qualcosa di terribile.
«Tito, io non…»
Il ragazzo la seguì,
impedendole di sottrarsi alle sue
domande. «Lo ami?» le chiese ancora, guardandola
con insistenza. Quando la
fanciulla non rispose e distolse lo sguardo, il ragazzo la
afferrò per le
spalle, scuotendola debolmente. Improvvisamente, Lidia sentì
la rabbia montarle
nello stomaco. Facendo un passo indietro, la giovane si
liberò dalla sua presa.
«E se anche fosse?» sibilò, puntando gli
occhi in quelli di lui e irrigidendo
stizzosamente le spalle. Lidia strinse irosamente i denti, senza
riuscire a
capire se la disturbasse di più l’atteggiamento
supponente di Tito o il fatto
che lui fosse riuscito a scorgere le sue vere motivazioni con tanta
semplicità
Davanti allo sguardo duro e
scintillante della
giovane, Tito indietreggiò di un passo. «E anche
se fosse?» ripeté, ironico,
con un’amarezza che a Lidia parve più tagliente
della rabbia di poco prima. «Non
so, forse avresti potuto dirmelo prima? Hai idea di quello che ho
passato per
organizzare tutto, per venire qui? Di quanto sia stato difficile
lasciare Roma
all’insaputa della mia famiglia?»
I sensi di colpa le trafissero il
petto, ma la
fanciulla inspirò profondamente, mettendoli a tacere
– almeno per il momento. «E
come avrei potuto comunicartelo?» ribatté.
«E, comunque, ti ricordo che io non
sono mai stata d’accordo con il tuo piano di fuga.»
Tito la guardò,
incredulo, poi scosse di nuovo il
capo. «Quindi lo ami veramente?» chiese; e a Lidia
parve di leggere una
sfumatura di disprezzo nella sua voce. Davanti
all’espressione inorridita del
ragazzo, fu tentata di negare, d’istinto, ma poi la ragione
la fermò. Che
diritto aveva Tito di chieder conto dei suoi sentimenti? No, non di
chiederne
conto – quello sarebbe stato anche accettabile: di giudicarli. «Scusami tanto, ma,
come dicevo, non devo renderne
conto a te: la cosa non ti riguarda.» ribatté
allora, infastidita.
«Permettimi di
dissentire» sibilò Tito, guardandola
come non l’aveva mai guardata, prima di quel giorno.
«Mi stai scaricando per
lui, quindi mi pare proprio che la cosa mi riguardi, eccome!»
La fanciulla fece per negare di
nuovo, ma poi si rese
conto che, forse, il giovane non aveva tutti i torti. Quel pensiero
portò via
un poco d’indignazione e Lidia sospirò, rilassando
le spalle e sentendosi
simile a un palloncino sgonfio. «Non lo so, se lo
amo» mormorò, passandosi
stancamente una mano sul volto. «Però gli voglio
bene… ci tengo, a lui, e non
lo voglio lasciare.»
Anche se, fino a qualche istante
prima, Tito si era
mostrato sicuro di sé, quasi aggressivo,
l’espressione smarrita con cui accolse
quell’ammissione le fece capire che, in cuor suo, il giovane
aveva cullato la
speranza che i suoi sentimenti non fossero cambiati – non del
tutto, almeno – e
che quelle parole l’avevano ferito. Lidia provò un
moto di tenerezza nei suoi
confronti e desiderò poter fare qualcosa per consolarlo, ma,
non senza un certo
sforzo di volontà, si costrinse a non cedere e a portare a
termine quella
sgradevole conversazione quanto prima. Prima che potesse aggiungere
dell’atro,
però, Tito alzò su di lei uno sguardo turbato.
«Non ci hai messo molto, a
dimenticarti di me» commentò e, di nuovo, Lidia
dovette dargli atto di avere,
almeno in parte e da un certo punto di vista, ragione.
Le
cose non
stanno del tutto così, però.
«Non mi sono
dimenticata di te» protestò, pacatamente.
«Ti ho pensato ogni giorno, all’inizio, non
aspettavo altro che di avere tue
notizie, di poterti rivedere. Poi,
però…» «Poi
però cosa?» la incalzò Tito.
La rabbia nella sua voce aveva per lo più
lasciato posto alla tristezza, ma non per questo Lidia trovava
più facile
affrontarlo. «Cos’è successo,
poi?»
«Poi… non lo
so, forse mi sono accorta di non poter
sempre e solo guardare indietro» sospirò.
«Non è stata una mia scelta, è una
cosa che è venuta praticamente da sé. Ho iniziato
ad abituarmi a vivere qui e
ho cominciato a vedere che Ulf… che mio marito non era poi
così male e… lui mi
fa arrabbiare, però è anche gentile, con me, mi
fa sentire al sicuro…»
«E ti
capisce?» la interrogò Tito, fissandola in volto
come se volesse scorgere il minimo indizio di menzogna. «Si
sforza di farlo»
ammise Lidia. «Non è sempre tutto semplice, ma
come potrebbe esserlo? Veniamo
da due mondi così diversi… però lui ci
prova, e io ci provo. E questo è quello
che conta.»
Il giovane romano storse le
labbra in un’espressione
dubbiosa, ma non commentò. «E ti fa
ridere?» chiese, invece. «Ti diverti,
quando stai con lui?»
«Non ci sono molti
motivi per essere allegri,
ultimamente» gli fece notare la ragazza, asciutta.
«Però, sì: sa anche farmi
ridere.»
Tito sospirò.
«Ho capito» disse, a mezza voce. Poi, il
suo tono si fece di nuovo più tagliente. «E ho
capito anche un’altra cosa: tu
non ci hai mai creduto, al mio piano. Quando sei venuta qui, io sono
diventato
automaticamente il passato. Non
è così?»
Per una frazione di secondo, Lidia fu tentata di negare, poi
rinunciò, non
vedendone l’utilità. «È vero.
Ma, ammettilo: il tuo piano non stava in piedi. Era
troppo pericoloso.»
Tito le lanciò
un’occhiata penetrante. «Eppure, eccomi
qui» scandì, allargando le braccia.
Improvvisamente, Lidia sbiancò, deglutendo.
Già. Eccolo qui, si
disse, sgomenta.
L’aveva sempre sottovalutato, l’aveva sempre
considerato un ragazzino con un
mucchio di idee, ma con scarsa capacità di metterle in
pratica. Evidentemente si
era sempre sbagliata, sul suo conto, e c’era un che di
inquietante nel fatto
che se ne fosse accorta solo in quel momento. Possibile
che non lo conosca affatto? Tutti gli anni passati insieme
non sono serviti a niente?
La fanciulla socchiuse le labbra,
cercando una
risposta adeguata, ma Tito scosse il capo. «Almeno mi hai mai
amato?» la
interrogò. «Oppure stavi con me solo
perché tuo padre ti aveva imposto di
farlo?» Bastò quell’insinuazione per
scuotere Lidia dal suo stupore. «Certo che
ti ho amato!» ribatté, piccata. «Forse
io ho sbagliato a giudicare te, ma anche
tu ti stai sbagliando sul mio conto, se credi che io sia capace di
fingere per
tutto questo tempo. Ti ho voluto bene, ti ho amato»,
aggiunse, con voce più
pacata, «ma le cose cambiano, è normale. Io ci
tengo ancora moltissimo, a te,
ma non voglio più sposarti. Perché sono
già sposata e con mio marito ci sto
bene. Non è la strada che avrei scelto, se avessi potuto
scegliere, ma le cose
sono andate così… e io non posso, né
voglio, cambiarle.»
Tito la osservò in
silenzio per qualche istante, poi
sospirò, distogliendo lo sguardo. «Sei
cambiata.» La fanciulla si strinse nelle
spalle, non sapendo che cosa farsene, di quell’osservazione,
e sentendo di non
avere altro da aggiungere. Dopo qualche secondo, Tito parlò
di nuovo. «Va bene.
Però questo non cambia la realtà dei fatti:
restare in questo posto è un
rischio, se si è romani.»
«Lo so»,
ribatté Lidia, cercando di riordinare in
fretta le idee per affrontare quella nuova argomentazione,
«ma è rischioso per
tutti, non solo per i romani.» Il giovane la fissò
con gli occhi socchiusi e la
fanciulla fu sfiorata dal dubbio che ci fosse qualcosa di cui lei non
era a
conoscenza. «O no? È successo qualcosa?»
«Lo sai, vero, che sono
stati uccisi dei soldati?» le
chiese lui, lentamente. La notizia le provocò un sussulto
allarmato e Lidia
corrugò la fronte, cercando di ricordare se qualcuno le
avesse mai riferito
qualcosa di simile, negli ultimi tempi.
«Com’è successo?
C’è stato uno
scontro?» indagò, cercando di impedire che la voce
le tremasse.
«No, nessuno
scontro» rispose Tito, sprezzante. «Li
hanno uccisi di notte, all’uscita di una locanda, quando non
si aspettavano un
attacco. Nessuno ha visto nulla, naturalmente.»
«Ma… ma
perché…» Lidia balbettò,
cercando di trovare
un motivo che giustificasse quell’aggressione. Si trattava
forse di una
vendetta per il fatto riferitale da Unna, per i minatori uccisi dai
legionari?
«Perché li hanno uccisi?» fece il
ragazzo, al posto suo. «Per nessun motivo che
non fosse la volontà di uccidere dei cittadini
romani» decretò, tagliente.
«È
per questo che dico che non è sicuro per te restare qui.
Devi venire via.
Ammesso che tu ti consideri ancora cittadina romana,
ovviamente.»
«Certo che mi considero
romana!» ribatté prontamente
Lidia, punta nell’orgoglio. «E ne vado anche fiera!
Non avevo idea che dei
nostri soldati fossero stati attaccati in questo modo: fino a questa
mattina
ero al sicuro, in montagna, e non ne avevo avuto notizia. Non
c’è bisogno che
tu mi convinca ad andare via da Erding, comunque: sono scesa con
l’intenzione
precisa di convincere mio marito a venire via con me.
Potremmo… potremmo
tornare in montagna o magari andare in un villaggio vicino, dove le
cose sono
più tranquille.»
«Non è
abbastanza» ribatté il giovane. «Non
è che il
problema è confinato al villaggio: è una cosa
diffusa a tutta la regione. Anzi,
da quanto ho sentito, più a sud le cose vanno anche
peggio.»
Per una frazione di secondo,
Lidia fu tentata di
raccontargli del suo incontro con Sören e Otmar – che, se
non
ricordava male, veniva proprio da uno dei villaggi più
meridionali – ma scartò
in fretta quell’idea che sarebbe servita soltanto a mettere
ancora più in
allarme il ragazzo. «Be’, vorrà dire che
andremo ancora più a nord» ribatté.
«Magari da Lucilla…»
«L’unico
posto sicuro è Roma» la interruppe Tito,
categorico.
«Lo sai benissimo anche tu.»
«Roma?»
ripeté lei, con gli occhi sgranati. «Stai
scherzando? Ulf non accetterebbe mai di venire a Roma, la odia! Hai
idea di
quanto tempo mi ci vorrebbe, per convincerlo?»
«Troppo,
indubbiamente» replicò il ragazzo, pronto.
«Infatti sto dicendo che tu
dovresti
venire a Roma, non che devi portare con te tutta la tua… famiglia.»
Quell’ultima parola la pronunciò come se il suono
stesso
gli risultasse estremamente innaturale, ma Lidia sorvolò su
quel dettaglio. «Mi
stai dicendo che dovrei lasciarli qui?» chiese, invece,
sfidandolo a darle una
risposta affermativa.
Tito sembrò sul punto
di confermare quell’ipotesi, ma
poi si trattenne. «Non per forza qui» fece, con
voce un poco incerta. «Però
potrebbero rimanere in Germanica. Non sarebbe pericoloso, per
loro.» Lidia
scosse il capo, incredula. «Tito… io non voglio
separarmi da mio marito. Ti ho
appena spiegato che…»
«… che vuoi
stare con lui e non con me. Sì, ti ho
sentita» la interruppe il ragazzo. «E, infatti, non
sto dicendo che dovresti
lasciarlo. Sei stata abbastanza chiara: le cose non sono più
come prima.
Questo, però, non significa che tutti i problemi siano
magicamente risolti. Ti
chiedo solo di ragionare con la tua testa: chiunque vedrebbe che,
arrivati a
questo punto, la cosa più logica da fare sarebbe separarvi
per qualche tempo.
Basterà aspettare che le acque si calmino e poi potrete
riunirvi una volta che
non vi sarà più pericolo, se è davvero
quello che vuoi.»
«La cosa più
logica?» ripeté la fanciulla.
«Perché non
potremmo andare da qualche parte tutti insieme? Non ci sono solo Roma e
la
Germanica: c’è la Gallia, ci sono le terre su al
Nord, ci sono i deserti a
Oriente e a Sud… qual era il tuo piano iniziale? Dove
pensavi di portarmi?»
«A questo punto non ha
più importanza» sbuffò il
giovane. «Era un piano congegnato per una persona sola: avevo
trovato un
passaggio per Alessandria, ma non c’è tempo
– né modo – per riorganizzare il
tutto e portare là… quante persone?»
Lidia contò
rapidamente, nella sua testa. C’erano lei
e Ulf, naturalmente, e poi Hermann, e la vecchia Edda, non potevano
certa
lasciarla lì. E Gefrid, e sì, anche Unna e
Karl… «Sette persone in totale»
dichiarò. Otto con il bambino.
Tito
sbuffò, sarcastico. «Appunto! No, non è
fattibile. Dovete dividervi, è l’unico
modo per evitare di correre dei rischi inutili.»
Il giovane pareva estremamente
convinto di ciò che
diceva e Lidia lo guardò con una punta di sospetto.
«È solo per questo che mi
chiedi di tornare a Roma? Non hai doppi fini?» Tito
sospirò, allargando le braccia
in un gesto di resa. «Lidia, ho appena scoperto che, mentre
io mi facevo in
quattro per trovare un modo per riportarti a casa, tu vivevi felice e
contenta
– e innamorata
– con un uomo che
pensavo che odiassi: è ovvio
che la
cosa non mi faccia fare i salti di gioia.» La ragazza fece
per dire qualcosa,
ma lui levò una mano, chiedendole di aspettare.
«Io ti amo ancora e, temo, ti
amerò per parecchio tempo. Vorrei che non fosse
così, a questo punto, ma, come
hai detto tu, non sono esattamente cose che possiamo controllare,
no?» Così
dicendo, le rivolse un pallido sorriso che la ragazza
ricambiò con una punta di
imbarazzo. «Però mi è chiaro che hai
fatto la tua scelta: non mi sta bene, non
mi piace, ma ne prendo atto. Rispetto la tua volontà, non
posso fare
altrimenti. Tu, però, non puoi chiedermi di disinteressarmi
completamente di te:
io voglio saperti al sicuro. Anche senza di me, anche con lui, alla fine, ma comunque al sicuro.
Quindi no, non ho doppi
fini… ed è per questo che ti chiedo di ascoltarmi
e di tornare a Roma.»
Lidia abbassò lo
sguardo, pensierosa. Quel discorsetto
l’aveva messa leggermente a disagio e, soprattutto,
l’aveva fatta sentire una pessima
persona – Tito non si meritava
davvero di essere trattato in quel modo. Tuttavia…
«Ho bisogno di un po’ di
tempo per pensarci. Non è una cosa che posso decidere
così, su due piedi.» La
fanciulla deglutì è, per qualche secondo, non
osò incontrare lo sguardo del
giovane romano, temendo che lui potesse leggerle la verità
negli occhi: perché
lei, nonostante potesse intravvedere la logica nella proposta del
ragazzo, non
aveva alcuno intenzione di separarsi nuovamente da Ulf, senza peraltro
avere la
certezza della data di ritorno.
«Non abbiamo molto
tempo» disse Tito, con una nota di
urgenza nella voce.
«Eh?» Lidia
lo guardò, aspettando che elaborasse
maggiormente quello che aveva detto, e lui si avvicinò fino
a sfiorarle
nuovamente le mani con le sue. «Pesaci, non dico di
no», la incalzò,
allacciando le dita con quelle della ragazza, «ma fallo in
fretta. La situazione
potrebbe partecipare da un giorno all’altro: prenditi due,
tre giorni, non di
più.»
Tito le strinse le mani e Lidia
non poté fare a meno
di apprezzarne la forza asciutta, calda, così in contrasto
con le sue dita
fredde e umide di sudore nervoso. Poi però si sottrasse alla
sua presa e
incrociò le braccia davanti al petto, erigendo una sorta di
barriera
inconsapevole tra sé e il ragazzo. La conversazione era
giunta a un punto
morto, lo avvertiva chiaramente, e ogni minuto in più era un
minuto che Tito
avrebbe potuto usare per minare le sue convinzioni e convincerla a fare
quello
che voleva lui. Ti fidi così poco
della
tua volontà e dei tuoi sentimenti? La
punzecchiò la sua coscienza.
«Ci
penserò» ripeté la giovane, rapida,
alzando gli
occhi sul volto del compagno e cercando di trasmettergli sicurezza.
«Dimmi solo
una cosa: perché Roma e non Alessandria?» chiese,
pronunciando con una punta di
rimpianto il nome di quella città mitica ed esotica che
avrebbe da sempre
voluto visitare.
Tito scrollò le
spalle. «Non c’è più alcun
bisogno di
fare le cose di nascosto, ormai. Tornare a Roma sarà molto
più semplice e
veloce, soprattutto se, come pare, potremo contare sull’aiuto
del Prefetto
Caleno.» La menzione dell’ufficiale diede a Lidia
l’occasione di aggrapparsi a
qualcosa che le permettesse di interrompere quella conversazione e di
potervi
riflettere sopra con calma, nella pace della sua camera da letto.
«Il Prefetto
forse ci aiuterebbe, ma che mi dici di Quinto? Voglio dire, del Legato
Libo?
Lui non mi sembra così propenso a lasciarmi andare
via.»
Alla menzione di Libo, Tito non
nascose una smorfia.
«Caleno dice che quell’uomo non vale niente: io non
mi preoccuperei troppo di
lui.» Accorgendosi forse dell’espressione
infastidita di Lidia – che, a conti
fatti, provava più simpatia per il Legato, che non per il
Prefetto – il ragazzo
si affrettò a rettificare. «Non che io lo conosca,
eh. Mi limito a riferire
quello che dice Caleno.»
Lidia annuì.
«Sì, be’… in ogni caso, credo
che ci
siano detti tutto. Devo pensarci un po’, eventualmente
preparare un po’ di
cose. Ti
farò avere una risposta in un
paio di giorni. Ora è meglio che vada, non so quanto tempo
è passato, da quando
sono partita da casa, ma, sicuramente, non poco.»
Così dicendo, la ragazza fece
per dirigersi verso la tenda che separava la camera di Caleno dallo
spazio in
cui la stavano attendendo gli altri tre uomini, ma Tito la trattenne,
afferrandola per un polso. «Lidia…
aspetta.»
La fanciulla si voltò
verso di lui, divisa tra
sorpresa e inquietudine. «Sì?» Le mani
di Tito si strinsero delicatamente
attorno a quella della ragazza e il giovane ne sfiorò
leggermente il dorso con
la punta del pollice. «Volevo solo dirti che mi dispiace. Per
tutto. Io ti
voglio ancora bene e so che forse ti sto causando dei problemi
e… e, niente, mi
dispiace. Però sono comunque contento di averti vista
un’altra volta, e di
vedere che stai bene, nonostante tutto. Perché ti voglio
bene. Davvero, Lidia.»
Inaspettatamente, la fanciulla
sentì le lacrime
pizzicarle gli angoli degli occhi e, quasi inconsciamente, si
lanciò verso il
giovane, gettandogli le braccia al collo e premendo il viso contro la
spalla.
«Anch’io ti voglio bene e anch’io sono
felice di vederti… anche se forse non
sembra, dall’accoglienza che ti ho riservato.»
Tito la strinse e sorrise contro
il suo orecchio,
prima di posarle un bacio sulla tempia. Poi
l’allontanò leggermente da sé e
cercò il suo sguardo. «Sarà meglio che
ti lasci andare a casa, adesso» mormorò.
Lidia annuì, sentendo in sé una tristezza che non
sapeva spiegarsi fino in
fondo. Sul volto di Tito passò un’ombra di
incertezza. «Dirai… dirai a tuo
marito che ci siamo incontrati?»
Lidia esitò un
istante, mordicchiandosi un labbro,
pensierosa. L’avrebbe detto a Ulf? Suo marito aveva tanti
pregi, ma aveva anche
la tendenza a saltare a conclusioni affrettate: e se avesse
interpretato male
la presenza di Tito? E se avesse insistito per incontrarlo? E se lo dicesse a Karl? Si chiese
improvvisamente, ricordando la rabbia e l’odio con cui il
cognato parlava di Roma
e dei romani. No, forse, per il momento, sarebbe stato più
prudente tenere
segreta la presenza di Tito a Erding – se non altro, per
evitare di causare
problemi al ragazzo.
«Glielo
dirò», annuì Lidia, «ma non
subito. Non oggi.»
Tito parve rinfrancato da quella
decisione e, con un
cenno del capo, si diresse verso il tendaggio. «Qui abbiamo
finito» disse,
rivolto agli uomini in attesa dall’altra parte. Spiando al di
sopra della sua
spalla, Lidia riuscì a scorgere i volti cupi di Caleno e
Libo e quello imbarazzato
di Lucio, sintomo che quando lei e Tito si erano appartati, la
discussione
iniziata in loro presenza era proseguita e, con ogni
probabilità, non era stata
piacevole.
Vedendo i due ragazzi, il
Prefetto rilassò i
lineamenti del viso, riuscendo anche a piegare le labbra in un sorriso.
«Tutto
a posto?» chiese loro. Lidia esitò, colta alla
sprovvista da quella domanda
così semplice. Avrebbe voluto rispondere di sì
– una risposta convenzionale,
anche se non del tutto sincera – ma la consapevolezza di aver
fatto credere a
Tito di avere intenzione di tornare a Roma con lui, quando invece i
suoi
progetti erano ben altri, le soffocò in gola quella sillaba.
«Tutto a
posto» rispose però per lei il ragazzo.
«Lidia ha solo bisogno di un po’ di tempo per
riordinare un po’ le idee.» La
fanciulla gli lanciò un’occhiata in tralice: non
era certa che
quell’affermazione riassumesse alla perfezione ciò
che si erano detti. Prima
che potesse fare una qualsiasi precisazione, però, il
Prefetto le si avvicinò
di qualche passo. «Non abbiamo molto tempo a disposizione,
Donna Lidia.»
La ragazza voltò il
capo di lato, cercando di
sottrarsi allo sguardo insistente dell’uomo. «Tito
mi ha detto quello che è
successo» mormorò. «Però devo
valutare cosa sia meglio fare. Mi serve qualche
giorno per capire come…»
«La cosa migliore da
fare è lasciare il villaggio non
più tardi di domani» la interruppe Caleno. Prima
che la fanciulla potesse
replicare, però, Quinto si intromise nel discorso.
«Se permetti, Prefetto,
questa è una valutazione che spetta a me. La tutela della
sicurezza dei nostri
cittadini è affidata ancora a me, se non mi
sbaglio.» Nell’udire quelle parole,
il soldato gli rivolse uno sguardo decisamente infastidito.
«Lo so bene.
Tuttavia, la mia posizione mi consente di avere una visione
più accurata di quello
che succede in queste terre. Se c’è un pericolo,
io lo individuo prima di te:
forse faresti bene ad ascoltarmi, anziché continuare a
ostacolarmi per inutili
questioni gerarchiche.»
Malgrado il tono tagliente con
cui l’uomo aveva
pronunciato quelle parole, Libo sostenne il suo sguardo, impassibile.
«Le
questioni gerarchiche, come le chiami tu, sono le uniche in grado di
garantire
l’ordine e la sicurezza in un momento in cui, forse, qualcuno
potrebbe avere
interesse a sovvertirle.»
Caleno lo fissò per
qualche istante, poi scosse il
capo, un sorriso ironico disegnato sul volto. «Lo
vedi?» commentò, con una nota
di disprezzo nella voce. «Tu non sei in grado di interpretare
la situazione.
Vedi i nemici sbagliati e, così facendo, ignori quelli
reali. Non è forse un
atteggiamento pericoloso, questo?»
Libo si irrigidì e
sostenne lo sguardo del Prefetto,
le labbra stirate in una linea dura. «Ne discuteremo in un
altro momento»
disse, poi. Il sorriso del soldato si allargò, segno che
quella velata minaccia
non aveva sortito l’effetto sperato. Ignorando quella
reazione, il Legato si
voltò verso Lidia. «Adesso, però,
è tempo di riaccompagnare Donna Lidia a casa.
L’abbiamo trattenuta fin troppo.»
La ragazza si sarebbe aspettata
che Caleno
protestasse, ma l’uomo rivolse loro un cenno
d’assenso, prima di girare sui
tacchi e tornare a sedersi dietro alla sua scrivania. «Bene.
Però ricordati di
quello che ti ho detto, Lidia: non abbiamo molto tempo. Aspetta un
giorno di
troppo, e potresti pentirtene.» Al suo fianco, la fanciulla
sentì Tito
inspirare profondamente e, lanciando un’occhiata al suo
volto, vide, dalla sua
espressione ansiosa, che il ragazzo condivideva le preoccupazioni del
Prefetto.
Quella consapevolezza le provocò un fremito di fastidio:
più conosceva Caleno e
meno le piaceva il suo atteggiamento. Perché invece Tito
sembrava pendere dalle
sue labbra in quel modo? «Ci penserò»
disse, stupendosi quasi del tono
distaccato con cui aveva pronunciato quelle parole.
Quasi inconsciamente, Lidia
incrociò lo sguardo di Quinto,
che le rivolse un minuscolo cenno di assenso. «Molto
bene» fece l’uomo. «Ti
accompagno a casa.»
«Vengo
anch’io» fece subito Tito, ma il Legato
levò
una mano, fermandolo prima ancora che il giovane potesse muovere un
passo. «Non
credo che sia una buona idea farsi vedere troppo vicini a casa sua,
visti i
tempi che corrono. Rischieresti di metterti in pericolo, ragazzo, e io
non
posso permetterlo.»
Lidia non poté fare a
meno di rivolgergli un’occhiata
colma di gratitudine – il suo cuore aveva avuto un sussulto
all’idea che Ulf si
trovasse a tu per tu con Tito così, senza che lei avesse
prima la possibilità
di annunciargli la presenza del ragazzo.
Il giovane romano parve sul punto di protestare, ma Caleno
scosse il capo,
facendogli capire che, in quel momento, era inutile insistere.
«Lucio», disse,
rivolto al soldato biondo che aveva condotto Lidia al campo,
«li
riaccompagnerai a casa tu.»
«Sissignore»
annuì subito il ragazzo. «Posso
salutarti?» chiese invece Tito, rivolgendosi direttamente a
Lidia. Non vedendo
alcun motivo per rifiutare, lei annuì. C’era
qualcosa di diverso, ora, negli
occhi del giovane, una luce determinata che non aveva scorto, prima,
quando
avevano discusso nella segretezza della stanza privata del Prefetto.
Cingendole
le spalle con le braccia, Tito l’attirò a
sé in un abbraccio che, per quanto
affettuoso, rimaneva comunque rispettoso dei ruoli e delle distanze.
«Possiamo
incontrarci ancora, tra qualche giorno?» chiese, dopo qualche
istante,
allontanandosi leggermente da lei. «Così mi dirai
quello che hai deciso.»
Conscia di aver già
preso una decisione – una
decisione che sarebbe risultata sgradita a Tito, per la precisione
– Lidia
resistette a malapena alla tentazione di abbassare lo sguardo, poi
rivolse un
debole sorriso al ragazzo. «Naturalmente»
mormorò. «Perfetto» sorrise lui,
abbracciandola di nuovo. Con un movimento quasi impercettibile, Tito
avvicinò
le labbra all’orecchio della fanciulla. «Io non mi
arrendo, sai?» sussurrò, con
tono talmente basso che solo lei poté sentirlo. Lidia
sgranò gli occhi,
allontanandosi da lui quel tanto che bastava per guardarlo in volto e
chiedergli silenziosamente una spiegazione. Il giovane si
limitò però a
rivolgerle un sorriso placido e, senza aggiungere una parola,
retrocedette fino
a sfiorare la scrivania alle sue spalle. Sentendosi al centro
dell’attenzione e
avvertendo gli sguardi dei presenti puntati su di lei, Lidia
deglutì a vuoto ed
evitò di fare domande – almeno ad alta voce. Cosa voleva dire? Si chiese,
però, inquieta. In
che senso “non si arrende”?
Vuole che io lasci Erding oppure vuole che io lasci… Ulf?
In cuor suo, la
ragazza conosceva già la risposta, ma si rifiutò
di credere che, dopo quello
che si erano detti pochi minuti prima, Tito avesse scelto di ritornare
comunque
sulle sue posizioni iniziali, eliminando con un singolo colpo di spugna
tutto
ciò che lei aveva cercato di fargli capire.
«A presto,
Lidia.» La voce del Prefetto la fece quasi
sussultare e la ragazza di riscosse, incontrando per un istante gli
occhi verdi
del soldato. «Sì… a presto»
mormorò. Libo le posò una mano sulla spalla e,
quasi senza lasciarle il tempo di scoccare un’ultima occhiata
a Tito, la guidò
fuori dalla tenda. Nonostante la confusione che le ultime parole del
ragazzo
avevano suscitato in lei, la fanciulla non poté fare a meno
di notare che il
legato sembrava avere una gran fretta di lasciare il campo. «Figlio di puttana»
ringhiò
improvvisamente l’uomo, sottovoce, facendola sobbalzare con
quell’imprecazione
inaspettata.
Quando ebbero oltrepassato il vallum, Quinto si voltò verso
Lucio, che li seguiva a pochi passi
di distanza. «Devo parlare con Donna Lidia» disse,
con voce asciutta. «In
privato.» Il soldato si rabbuiò. «Il
Prefetto mi ha chiesto di riaccompagnarvi a casa…»
obiettò, ma Libo non gli
lasciò terminare la frase. «E lo farai»,
disse, «ma a qualche metro di distanza.»
Lucio aggrottò la
fronte, visibilmente contrariato, ma
non si oppose all’ordine di quello che, in fin dei conti, era
pur sempre un suo
superiore. Quando fu certo di essere fuori dalla portata delle orecchie
del
giovane, l’uomo si avvicinò un altro po’
alla ragazza. «Non fidarti di Caleno,
Lidia» le sussurrò.
«Perché?» indagò lei,
desiderosa di scoprire cosa si
celasse dietro l’evidente antipatia che aveva percepito tra i
due uomini.
«Quello che dice non
coincide mai con quello che pensa
veramente» fece il Legato, cupamente. «Anche se non
ho mai trovato il modo di
dimostrarlo, sono sempre stato convinto che il concetto di
lealtà gli sia del
tutto estraneo. Tradirebbe qualsiasi ideale e qualsiasi amico, se la
cosa gli
sembrasse vantaggiosa.»
Lidia aggrottò la
fronte, credendo di indovinare dove
volesse andare a parare. «Anche Roma?» chiese. Libo
esitò per un istante
soltanto. «Non posso dimostrarlo»,
ripeté, «ma sì, sono convinto che
tradirebbe
anche Roma.»
La ragazza rimase in silenzio per
qualche secondo,
cercando di ricordare se avesse mai percepito qualcosa che potesse dare
valore
alle parole di Quinto. Strano,
pensò,
non ho mai avuto l’impressione che
Caleno
non fosse fedele a Roma... anzi. «Perché
mi stai dicendo queste cose?» chiese allora, alzando lo
sguardo sul suo
accompagnatore.
Libo la osservò con la
coda dell’occhio. «Perché credi
che ti stia aiutando a scappare con quel ragazzo?»
A quella domanda, la fanciulla
avvampò. «Non voglio
scappare con lui!» si difese, prima di rendersi conto di aver
parlato con voce
un po’ troppo alta. «All’inizio
pensavo… pensavo di andare via, ma adesso non
più» spiegò allora, più
piano. «Sto bene, qui.»
Quinto sospirò.
«Lidia, non devi giustificarti con me.
O, meglio: teoricamente sì, dovresti farlo,
ma…» La ragazza lo interruppe. «No,
Legato, dico sul serio. Io non ho più nessuna intenzione di
andare via. Solo…
solo, non ho avuto il coraggio di dirlo a Tito. Non così
brutalmente, almeno.
Temo di avergli lasciato qualche speranza di troppo.»
L’uomo le rivolse
un’occhiata di commiserazione, poi
sorrise. «Be’, se hai deciso di rimanere con tuo
marito, la cosa non può che
farmi piacere. Questi matrimoni non fanno miracoli, ma sono comunque
meglio di
niente. Non hai risposto alla mia domanda, però.»
Lidia, che già si era dimenticata
cosa le avesse chiesto l’uomo, lo guardò smarrita.
«Eh?»
«Ti chiedevo
perché, secondo te, Caleno vuole che tu
scappi con quel ragazzo» ripeté, prima di
rispondersi da solo: «Spera di
destabilizzare un po’ la situazione. Spera che la voce si
diffonda e che altri
ragazzi e altre ragazze nella tua stessa situazione prendano esempio da
te. Sai
che, la scorsa settimana, un’altra giovane avrebbe dovuto
venire qui a Erding?»
La notizia la sorprese.
«Davvero?»
Il Legato annuì.
«Sì. Ma Caleno ha convinto il padre a
non lasciarla partire. Non so come abbia fatto, ma è palese
che sta remando contro. Vuole che
queste
tensioni si trasformino in guerra, in scontro aperto, perché
così… bah,
immagino che creda di poter approfittare del rimescolamento che ne
seguirebbe
per avere un avanzamento di carriera. E scommetto che ci riuscirebbe
anche: non
sarebbe la prima volta, del resto.»
Quell’osservazione
colpì la
ragazza. «In che senso?» chiese, ma Libo
scrollò le spalle. «È una storia
vecchia, non vale la pena di rivangarla. È solo per farti
capire con che tipo
di persona hai a che fare.»
Assurdamente, Lidia
provò
l’istinto di proteggere il Prefetto.
«Però», azzardò, sperando di
non offendere
Quinto, «non si può dire che, se la situazione sta
degenerando, la colpa è tutta
di Caleno… no? Ho sentito che è stata uccisa
della gente, e non mi risulta che
l’abbia uccisa lui…»
«No, hai ragione:
sfortunatamente, anche i germanici ce ne stanno mettendo del
loro.»
Improvvisamente, come per un
collegamento di idee, Lidia vide la possibilità di far luce
su un dettaglio che
aveva attirato la sua attenzione tempo prima. «Legato? Cosa
mi dici di Donna
Erin?» Apparentemente sorpreso da quella domanda,
l’uomo rallentò il passo.
«Cosa vorresti sapere?»
Rendendosi conto di aver
fatto una domanda troppo vaga, Lidia si affrettò a
riformulare. «Ho visto…
tempo fa, quando sono stata a casa di Donna Erin per ritirare una
lettera
indirizzata a me, vi ho trovato il Prefetto. Lui e la sacerdotessa mi
sembravano amici…»
Inaspettatamente, Quinto
scoppiò
a ridere, senza nemmeno preoccuparsi di non farsi sentire da Lucio.
«Amici? Una
definizione interessante, senza dubbio!» Arrossendo, la
fanciulla si mordicchiò
le labbra. «Be’, amici o…
altro» concesse. «Ecco… io mi chiedevo
se fosse
normale che una sacerdotessa germanica e un prefetto di Roma fossero in
rapporti tanto intimi.»
Quando vide
che Libo si limitava a fissarla in silenzio, Lidia provò a
spiegarsi meglio.
«Tu dici che Caleno non è fedele a Roma, ma se
invece fosse Donna Erin, a non
essere fedele alla Germanica? C’è chi dice che le
offerte…»
«… finiscano
nelle tasche
dell’Imperatore» concluse per lei Quinto, con voce
stanca. «Be’, non è così. O,
se è così, è una cosa talmente segreta
che pure io ne sono all’oscuro.»
La fanciulla chinò il
capo,
non sapendo se credere fino in fondo alle parole del Prefetto: del
resto,
quante probabilità c’erano che Quinto le
confidasse un segreto tanto delicato?
«Ma non credi che Donna Erin possa collaborare in qualche
modo con Roma?»
insistette, cercando di capire se vi fosse un fondo di
verità nelle teorie che
Ulf le aveva esposto qualche tempo prima.
L’uomo scosse la testa.
«La
colpa di Donna Erin è di essersi innamorata
dell’uomo sbagliato» disse,
mestamente. «Già il fatto che si sia innamorata
è piuttosto negativo, data la sua posizione, ma questa
storia con Caleno – che
va avanti da anni, per inciso
– non
le porterà nulla di buono. Forse al momento al Prefetto fa
comodo averla
accanto a sé, ma non si farà problemi a tradirla
e a gettarla via, quando e se
riterrà conveniente farlo.»
Lidia alzò su di lui
uno
sguardo dubbioso. «Non mi sembra che la cosa ti interesse
più di tanto»
commentò, sperando di non risultare maleducata. Lui si
strinse nelle spalle.
«Io nutro una certa stima per la nostra sacerdotessa, la
ritengo una donna
intelligente e profondamente votata alla sua causa… ma non
è di lei, che mi
devo preoccupare. Io devo curarmi di te e di tutti i nostri
concittadini: i
germanici non sono affar mio. Non dico che di loro non mi interessi
niente, ma
non sono la mia priorità… è Donna Erin
è adulta: dovrebbe essere in grado di
badare a se stessa.»
La ragazza annuì in
silenzio, cercando di riordinare le idee. A meno che Quinto non le
stesse
mentendo spudoratamente – ma perché avrebbe dovuto
farlo? – l’unico
collegamento tra la Sacerdotessa e Roma era costituito da Caleno:
questo
significava che la donna non era la doppiogiochista che Ulf si
immaginava. Ma allora chi se le prende, le
offerte?
Davvero i sacerdoti, come sostiene Unna? Ricordando la
conversazione che
aveva avuto qualche tempo prima con suo marito, Lidia fu tentata, per
un
brevissimo istante, di chiedere a Libo se avesse mai visto o sentito
parlare
della macchina misteriosa che, a detta di Ulf, prelevava le offerte.
Dopo
qualche istante, però, la giovane scosse il capo, come per
allontanare quei
pensieri. Cosa importava, dopotutto? Qualunque fosse la
verità, restava il
fatto che ormai le cose erano andate troppo avanti e che, per evitare
di
venirne travolti, lei, Ulf e gli altri non potevano fare altro che
allontanarsi
il prima possibile da Erding, raggiungendo un posto sicuro.
Mentre era immersa in quei
pensieri, Lidia si accorse
con sorpresa che lei e i suoi due accompagnatori giunsero davanti alla
porta di
casa. Voltandosi verso i due romani, sorrise appena. «Vi
ringrazio per avermi
riaccompagnata a casa» disse, rivolgendo loro un cenno del
capo.
«Buonanotte, Donna
Lidia» mormorò Quinto. «Cerca di
riposare, stanotte.»
La fanciulla chinò il
capo in un ringraziamento
silenzioso, poi volse loro le spalle, affrettandosi a rientrare in
casa. Quando
l’uscio si richiuse alle sue spalle, Lidia tirò un
sospiro di sollievo, per poi
sussultare scorgendo la figura seduta al tavolo.
«Ulf!» esclamò, portandosi
automaticamente una mano al petto. «Non ti avevo
visto!»
Avvolto nella penombra
rischiarata solo dalla luce di
una candela, l’uomo si alzò. «Ho
preferito aspettarti, prima di andare a letto.
Hai fatto in fretta.»
Lidia non riuscì a
nascondere una smorfia dispiaciuta
nel notare che la sua voce suonava più fredda del solito.
«Sì» confermò
cautamente. «Unna?»
Ulf sospirò.
«L’ho accompagnata a casa.»
L’uomo si
appoggiò al bordo del tavolo, fissandola con le braccia
conserte; e Lidia copiò
la sua posizione, appoggiandosi alla credenza.
«Allora?» gli chiese, impaziente
di sapere se Unna gli avesse parlato del motivo della loro presenza in
paese.
«Allora?» le
fece eco lui. «Dimmelo tu.» Lidia
represse un sospiro stanco, sentendo di non avere la forza di
affrontare una
discussione con lui, non dopo quella appena avuta con Tito.
«Unna ti ha detto
perché siamo tornate qui?»
Ulf sbuffò,
sarcastico. «Certo: vorreste che io e Karl
mollassimo tutto e scappassimo via. Un piano davvero geniale.»
Lidia strinse i denti, irritata
dal suo tono beffardo.
«Non sarà un piano geniale, ma restare qui
è ancora più stupido. È troppo
pericoloso!» sbottò.
«Ed è per
questo che tu e Unna non sareste dovute
tornare!»
«E voi?»
ringhiò Lidia, avvicinandosi fino a trovarsi
a una decina di centimetri da lui.
Ulf fece per rispondere, ma poi
sospirò e si passò una
mano sul volto, visibilmente stanco. «Lidia, per
favore» mormorò, abbassando lo
sguardo su di lei. «Ho passato l’ultima ora e mezza
a litigare con mia sorella:
non potremmo rimandare questo discorso a domani?»
La ragazza scosse il capo.
«No, io voglio…» Notando lo
sguardo esausto di Ulf, però, la fanciulla si interruppe,
prima di inspirare
profondamente. «E va bene», concesse poi,
«però domani ne parliamo.»
«Certo» le
promise il giovane, alzando una mano per
sfiorarle una guancia. «Credi che per stanotte possiamo
lasciar da parte le
discussioni e riposarci un po’?»
Inclinando un po’ il
capo
verso la sua mano, Lidia fece un suono d’assenso.
«Mi pare una buona idea.» Inclinando
la testa all’indietro per osservarlo meglio, la giovane
passò in rassegna ai
suoi capelli spettinati, al suo viso teso e ai suoi abiti in disordine
e sentì
una profonda ondata d’affetto investirla. Chiudendo la
distanza tra di loro,
gli passò le braccia attorno alla vita e lo
abbracciò, affondando il naso contro
la sua maglia e respirando a fondo. È
la
scelta giusta, si disse, confortata, è
la scelta giusta.
Dopo qualche istante, le mani
dell’uomo le percorsero
la schiena, fermandosi infine su suoi fianchi. «Cosa ti hanno
detto? Perché il
Prefetto ha voluto vederti?»
Senza allontanarsi da lui, Lidia
alzò le spalle.
«Dicono che, se le cose continuano così, potrebbe
addirittura esserci una
guerra civile» mormorò, inventandosi una risposta
non troppo dissimile dalla
realtà. «Secondo loro, queste zone presto
diventeranno troppo pericolose per i
romani. Dicono che forse dovranno farmi andare via.»
«Dicono?» le
fece eco Ulf, scostandosi da lei solo di
qualche centimetro.
«C’era anche
Libo, all’accampamento. Lui non era molto
d’accordo con la ricostruzione del Prefetto, a dire il vero.
Secondo lui,
Caleno sta esagerando.»
Pressata com’era contro
il suo corpo, la giovane sentì
i muscoli dell’uomo guizzare nervosamente.
«Però è Caleno il soldato, forse lui
è più affidabile di Libo…»
«Può essere.
Io però non vado da nessuna parte» disse,
come per affermare un dato di fatto. Ulf le sorrise e poi
tornò a stringerla.
«Vedremo» mormorò.
«Vedremo»
ripeté lei, chiudendo gli occhi.
***
Posto
un po’
più tardi del solito, ma i miei orari si fanno sempre
più allucinanti e questo
è sempre stato uno dei capitoli più problematici.
Pur avendone riscritta una
buona metà, mi sono accorta in extremis che
c’erano ancora un sacco di cose che
non andavano… anche adesso c’è ancora
qualche “pezza” messa lì in qualche
modo,
ma dovrebbero essere più che altro dei dettagli che
vedrò di sistemare più in
là.
|
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Capitolo 24 *** 23. L'Ospite ***
Quando si svegliò, a mattina ormai
inoltrata,
Lidia si accorse di essere completamente sola, nel letto e nella
camera. Quando
fece per mettersi seduta, la fanciulla gemette, avvertendo una
pressione
dolorosa sopra all’occhio destro, simile alla puntura di uno
spillone
incandescente. Ho mal di testa, pensò,
lasciandosi ricadere sul cuscino e cercando di dare una parvenza di
coerenza ai
suoi pensieri. Ho dormito poco e male. E
si può sapere che fine ha fatto Ulf? Avremmo dovuto
parlare…
Premendo il volto contro la stoffa
ruvida nel tentativo di proteggersi dalla luce bianca che entrava dalla
finestra, peggiorando la sua emicrania, Lidia mosse il collo a destra e
a
sinistra, cercando di sciogliere i muscoli che si erano contratti
durante la
notte. Non potrà evitarmi per
tutto il
giorno…
Malgrado la promessa che aveva fatto
al marito quando era rientrata in casa, la sera prima, una volta che si
era
trovata con lui sotto alle coperte la ragazza era stata tentata di non
aspettare la mattina seguente e di discutere immediatamente dei suoi
piani di
fuga da Erding. Tuttavia, prima che la fanciulla riuscisse a trovare un
modo
per introdurre l’argomento, l’uomo si era
addormentato e lei aveva dovuto
desistere. L’aveva osservato, mentre dormiva, e non aveva
potuto fare a meno di
fare un confronto tra lui e Tito. Erano così diversi:
fisicamente, sì, ma anche
caratterialmente. Anche se c’erano dei tratti del carattere
di Ulf che ancora
le sfuggivano, Lidia era abbastanza certa che in lui non avrebbe mai
trovato la
dolce pazienza con cui Tito le veniva in aiuto nei momenti di
sconforto, né
l’impulsività sconsiderata, ma coraggiosa, che il
giovane romano aveva
dimostrato nel momento in cui aveva deciso di portarla via dalla
Germanica,
andando contro alla volontà delle autorità e
delle loro stesse famiglie.
Tuttavia, Ulf aveva indubbiamente altre qualità: se non
aveva interpretato male
certi suoi atteggiamenti, l’uomo sembrava riconoscerle
più capacità di quanto
non avesse mai fatto Tito e, anche se talvolta le era capitato di
pensare che
suo marito mancasse un po’ di spensieratezza e di
volontà di farsi trasportare
dalla fantasia, Lidia apprezzava la sua capacità di
analizzare la realtà e il
suo essere con i piedi per terra. A parte
quando si parla di Donna Erin, si disse poi, con
l’accenno di un sorriso.
Lì si che viaggia con la fantasia… Ammesso
che non avesse ragione, ovviamente.
Più di tutto, però, Lidia si
rendeva
conto con una chiarezza nuova delle differenze nel modo in cui lei reagiva – e aveva reagito
in passato
– quando si trovava in compagnia dei due uomini, o quando
comunque pensava a
loro. Aveva creduto di amare Tito, ma, alla luce del nuovo sentimento
che
provava per Ulf, si avvedeva che quella che aveva provato per il
ragazzo era,
con ogni probabilità, una semplice infatuazione. E amicizia. L’amicizia era vera. Sarebbe
ancora vera, se lui me lo
permettesse e non si ostinasse a chiedermi qualcosa che non posso
più dargli.
Ricordava con un sorriso i momenti
vissuti insieme, le risate e gli scherzi e i pomeriggi in discoteca,
gli
sberleffi alle spalle dei genitori e le scappatelle indegne di una
signorina
per bene. Con Ulf non ho mai vissuto
delle esperienze del genere, rifletté, arrossendo
appena. Ma c’era tempo,
naturalmente. Si conoscevano ancora da poco, e poi… E poi il resto è così
diverso. Mi sento come se… come se…
Questo
è amore?
Si era chiesta, titubante, quasi sperando che non lo fosse,
perché, se lo fosse stato, ci sarebbero state troppe ombre e
troppe incertezze
su quel sentimento che tutti le avevano sempre descritto come luminoso
e indomito.
Per come gliene avevano parlato, Lidia si era convinta che
l’amore fosse
un’emozione indomabile, un qualcosa che non conosceva limiti
né ostacoli.
Eppure, quello che provava per Ulf non era sufficiente per farle
dimenticare il
timore per una guerra forse imminente, né per distogliere la
sua mente dalle
tante cose poco chiare che la circondavano. Allo stesso modo, non aveva
cancellato del tutto l’amarezza che provava ogni volta che
ripensava al modo in
cui Ulf aveva detto che lui non sarebbe mai stato romano, nemmeno in
minima
parte. E, soprattutto, non le aveva fatto pensare che forse – forse – avrebbe potuto
rinunciare alle
proprie radici e sentirsi, un giorno, germanica.
Se quello era amore, non era il
sentimento che aveva sognato da sola nel suo letto, nelle ore
più buie della
notte. Eppure, nonostante l’incertezza e gli inizi
burrascosi, decisamente non
propizi alla nascita di un rapporto stabile, Lidia sentiva che con Ulf
aveva la
possibilità di costruire qualcosa di vero e di duraturo,
qualcosa che con Tito
non avrebbe mai potuto creare. Avevano solo bisogno di tempo.
Le
cose sono già migliorate molto, rispetto ai primi tempi. Poi era
arrossita, vergognandosi persino con se stessa. E
poi mi piace. Eh, sì… Guardando la
figura addormentata dell’uomo,
Lidia aveva provato un irriverente senso di soddisfazione. Ed è tutto mio!
Sì, più ci pensava e
più era convinta
che le cose tra lei e Ulf sarebbero potute andare bene, non solo
nell’immediato, ma anche negli anni a venire. Per costruire
una vita insieme,
però, Lidia sentiva che lei e il marito dovevano imparare a
parlare e discutere
con più facilità, ad essere più
sinceri, anche a fidarsi di più l’uno
dell’altra. Per fare questo,
però,
abbiamo appunto bisogno di tempo. E se il Prefetto e Tito hanno
ragione,
restando qui potremmo non averne a sufficienza.
In realtà, malgrado gli avvertimenti
ricevuti da più parti e le cupe previsioni fatte da entrambe
le fazioni, Lidia
non riusciva a prendere sul serio l’ipotesi di una guerra.
Certo, comprendeva
la gravità degli eventi recenti e si rendeva conto
dell’atmosfera tesa che
regnava in paese tra Romani e Germanici: in un certo senso
l’aveva anche
sperimentata sulla propria pelle con la mezza aggressione di cui era
stata
vittima tempo prima. Eppure, quello che agli altri sembrava un
conflitto
imminente, a lei pareva solo una prospettiva vaga e remota, qualcosa
che, se
anche si fosse verificato, non l’avrebbe toccata di persona.
Cionondimeno, la
fanciulla non intendeva correre rischi.
Gettando indietro le coperte, la
giovane si schermò gli occhi per evitare che la luce del
sole peggiorasse il
suo mal di testa e, dopo essere velocemente passata dal bagno,
indossò una
veste pulita, apprezzando la sensazione del cotone leggero a contatto
con la
pelle. Poi uscì dalla camera, decisa ad andare a cercare suo
marito. Sarà andato in bottega,
rifletté,
rendendosi conto di aver dormito più di quanto avrebbe
voluto.
Quando raggiunse la cucina, però, la
fanciulla sussultò, in preda alla sensazione di essere
tornata indietro nel
tempo. «Donna Edda!» L'anziana germanica si
voltò a fronteggiarla, posando lo
straccio nel lavello, e Lidia indietreggiò davanti al suo
sguardo aggressivo. «Dormi
troppo!» la apostrofò, fissandola con i suoi occhi
di ghiaccio.
La ragazza annuì, imbarazzata.
«Ero
stanca» Si giustificò, prima di guardarsi attorno.
«Perché sei qui? Dov'è Ulf?»
«Da suo padre» rispose la
donna,
sbrigativa. «Siedi e mangia, veloce. Che poi devi
lavorare.»
Senza riuscire ad opporsi alla volontà
di Donna Edda, la fanciulla si lasciò scivolare sulla panca,
accettando la
brocca di latte che la germanica le stava porgendo. «A casa
di suo padre?»
chiese, sorpresa. «Come mai?»
«Questa notte hanno rubato l'argento
per la prossima offerta.» Il biscotto che Lidia stava
intingendo nel latte si
inzuppò così tanto che si spezzò e
cadde nella tazza, ma la ragazza non vi
badò. «Rubato? Chi? E come si fa a rubare tutta
quella roba?»
Donna Edda stirò le labbra, frustata.
«No,
non rubato. Im Beschlag gnoh...
Preso
in soc… sec...»
La donna si
interruppe, alla ricerca di una parola che non ricordava
più. Vedendola in
difficoltà, Lidia provò ad andare in suo aiuto.
«Sequestro? L'hanno
sequestrato?»
«Jo»,
confermò l'anziana germanica, annuendo energicamente,
«minatori e artigiani.»
«Sören?» Chiese la
fanciulla,
ricordando l'uomo dagli occhi d'ambra.
«Sì, anche lui.»
«E Karl?»
Questa volta Donna Edda scosse il
capo. «No, lui no.»
Lidia si concesse un breve sospiro di
sollievo, ma subito l'inquietudine tornò a impossessarsi di
lei. «Ma perché
l'hanno fatto? Donna Erin non la prenderà bene...»
«Loro vogliono tenere
l’argento. Non
vogliono che qualcuno lo porti via. Ma sono stati stupidi e Gefrid
è molto... Nervoso.»
Mormorò l'anziana germanica,
soppesando le parole. «E Ulf anche, immagino»
sussurrò la giovane, parlando
quasi tra sé e sé.
«Sì» confermò Donna Edda,
prima di lanciarle un'altra
occhiataccia. «Non dovevi venire. Testa dura, come
Unna.» Lidia le rivolse uno
sguardo carico di scetticismo: si potevano dire molte cose di Unna e
lei, ma
che fossero simili non era certo una di queste.
Rinunciando a ribattere e tornando a
dedicarsi alla sua colazione, la ragazza sospirò, sentendosi
in colpa. Era
tornata a Erding carica di buone intenzioni, ma, dopo una sola nottata
trascorsa in città, iniziava a rendersi conto che seguire
Unna e abbandonare la
sicurezza dell'alpeggio non era stata una grande idea. Ma
ormai quello che è fatto, è fatto, si
disse. Non resta che cercare di non
peggiorare la
situazione. Osservando cupamente il liquido bianco rimasto
nella tazza di
ceramica, Lidia sospirò. Spero
solo che
questo non significhi dovermene andare da qui senza Ulf.
Risoluta, la fanciulla ingoiò il resto
della sua colazione. Devo andare da Unna.
In altre circostanze non si sarebbe mai sognata di andare
spontaneamente a
far visita alla cognata, ma in quel momento sentiva il bisogno di
confrontarsi
con lei, di raccogliere le sue impressioni e di sentire se per caso lei
avesse
avuto più fortuna, con Karl.
Dopo aver lasciato la tazza nel
lavello, la ragazza afferrò gli scarponcini e se li
infilò rapidamente ai
piedi. Stava per infilare la porta, quando la voce di Donna Edda la
fermò. «Dove
vai?» Sussultando, la giovane si voltò verso di
lei, cercando di mostrarsi
determinata. «Ho bisogno di parlare con Unna.»
L’anziana germanica però
scosse il
capo, marciando verso di lei e afferrandola per un polso.
«No», scandì,
guardandola negli occhi, «è pericoloso, fuori, per
te. Ulf ha detto che devi
rimanere in casa. E c’è anche tanto lavoro da
fare.» Per una frazione di
secondo, Lidia fu tentata di obiettare e di lottare per difendere la
propria
volontà, ma si rese ben presto conto che sarebbe stata
fatica sprecata.
Chinando il capo con un sospiro, prese una spugnetta e
iniziò a pulire il
tavolo.
E
va bene, si disse, diamoci alle
faccende domestiche. Tanto Ulf deve pur rientrare, prima o poi!
***
E Ulf rientrò, sì, ma non
prima delle
tre di pomeriggio. Lidia avrebbe voluto interrogarlo subito, chiedergli
ogni
particolare di quello che era accaduto durante la notte, ma
l’espressione
tirata sul viso dell’uomo la frenò. Entrando in
cucina, il giovane rivolse
appena un cenno di saluto alle due donne e poi sparì di
sopra. Lidia e Donna
Edda si scambiarono un’occhiata, sconcertate. «Dici
che mi convenga seguirlo?»
chiese la fanciulla, smarrita. Normalmente non avrebbe avuto dubbi, ma
quando
suo marito era di cattivo umore finivano sempre per litigare; e una
discussione
con lei non l’avrebbe di certo aiutato, in quel momento.
Donna Edda rimase per un attimo in
silenzio, gli occhi offuscati dall’età puntati sul
punto in cui il nipote era
sparito, poi annuì. «Vai» disse, una
parola che alle orecchie della giovane
suonò, più che come un incoraggiamento, come un
ordine.
I dodici gradini che separavano la
cucina dal piano superiore le parvero molto più ripidi di
quanto fossero
solitamente e, quando poggiò il piede sul pavimento
scricchiolante del
corridoio, Lidia sentiva il cuore battere all’impazzata. Adesso non dire niente che possa irritarlo,
le raccomandò la vocina
che di tanto in tanto si manifestava ancora nella sua testa.
La fanciulla si fermò di fronte alla
porta della camera da letto, chiedendosi se fosse il caso di bussare,
poi,
inspirando risoluta – è
anche camera mia!
– sospinse il pannello di legno, socchiudendo
l’uscio. «Posso?» chiese,
cercando di mantenere un tono neutro, né troppo timido,
né troppo aggressivo. Il
giovane non le rispose e Lidia vide che era seduto alla piccola
scrivania che
non gli aveva mai visto usare nemmeno una volta. «Che cosa
stai facendo?» gli chiese,
aggrottando la fronte. «Mi serve
dell’inchiostro» mormorò lui, spingendo
la
mano più a fondo in uno dei cassetti. «Ma questi
barattoli sono tutti secchi»
aggiunse, alzando nella sua direzione una boccetta di vetro nella quale
si era
raggrumato un poco di materiale nerastro.
Storcendo il naso di fronte a quella
risposta, Lidia si allontanò dalla porta e, quasi in punta
di piedi, raggiunse
il letto, lasciandosi scivolare sulla trapunta. «A chi devi
scrivere?» indagò,
mentre i suoi occhi danzavano sui fogli sparsi disordinatamente sulla
scrivania, alla ricerca di un indizio.
«A un paio di persone nei villaggi qui
attorno» fece Ulf, a mezza voce. Quando vide che la giovane
romana non smetteva
di guardarlo, l’uomo sospirò a fondo e ripose la
boccetta vuota, girandosi per
fronteggiare la ragazza. «Donna Erin vuole che io scriva ai
capi dei villaggi
vicini per raccontargli quanto sia meravigliosa la vita con una donna
romana e
quanto i matrimoni come il nostro siano fondamentali per la
felicità e il
benessere di tutti.»
Alla fanciulla non sfuggì il tono
sarcastico con cui l’uomo aveva pronunciato quelle parole,
né l’amarezza celata
in esse, e la cosa le fece contrarre sgradevolmente lo stomaco. Ulf
dovette
leggere qualcosa sul suo volto, perché sospirò di
nuovo e allungò una mano per
sfiorarle uno zigomo con le nocche. «Lidia, non prenderla sul
personale. Io sto
bene con te, ma questo non significa che, improvvisamente, mi sia
convinto che
questa faccenda dei matrimoni combinati sia una buona idea.»
Abbassando gli occhi per una frazione
di secondo, Lidia si mordicchiò le labbra. «No,
hai ragione» concesse, poi. «L’idea
di fondo continua a essere… sbagliata.» Ulf
annuì e con le dita prese a
tamburellare distrattamente sulla superficie della scrivania. Quando
vide che
non sembrava intenzionato ad aggiungere altro, Lidia si sporse
leggermente
verso di lui. «E quindi che cosa farai?» gli
chiese, inclinando un poco il
capo. Il giovane sbuffò. «Farò quello
che vuole lei» sbottò, sprezzante. «Non
è
che abbia molta scelta.»
La fanciulla annuì.
«È solo una
lettera» fece, piano, in quello che le parve un tono
ragionevole. «Non
significa nulla.» Ulf le lanciò
un’occhiata penetrante. «Significa molto,
invece» la contraddisse. «Io posso anche dire che
tra noi due va tutto bene,
anche se, a dire il vero, non è che mi vada molto di parlare
dei fatti miei. Ma
come faccio a scrivere che questi matrimoni sono necessari e che, di
conseguenza, anche la presenza di Roma è necessaria? Cosa mi
dovrei inventare?»
«Anche perché tu non credi
affatto che
le cose stiano così, non è vero?»
indagò la ragazza.
«Ovviamente no!»
«Mh.» Lidia si
mordicchiò le labbra,
pensierosa. «Ma non pensi che… non so, non pensi
che, in un mondo ideale, Roma
e la Germanica – ma non solo la Germanica, anche tutti gli
altri popoli –
potrebbero trarre un vantaggio dal fatto di collaborare? Se la gente
venisse
qui per prendere qualcosa, ma, in cambio, lasciasse
qualcos’altro di
altrettanto valido…»
Ulf scrollò le spalle. «Non lo
so, non
ci ho mai pensato molto, se devo essere sincero. Forse potrebbe essere
così, ma
cosa importa? Io parlo del mondo reale, non di quello ideale, e qui la
situazione non è certo quella che dipingi tu. Qui, come
avrai notato, Roma
prende e in cambio non lascia praticamente nulla. Cosa ci ha dato tuo
padre, di
dote?»
Ricordando la sgradevole trattativa di
cui era stata oggetto il giorno in cui era arrivata a Erding, Lidia gli
lanciò
un’occhiata risentita. «Duemila e trecento
sesterzi» scandì, puntigliosa. Il
giovane sorrise, sarcastico. «Appunto: quattro soldi. Senza
offesa, eh!»
aggiunse poi, stringendosi nelle spalle. La ragazza storse la bocca in
una
smorfia. «No, sono d’accordo: una miseria. Io valgo
ben più di così.»
Questa volta, Ulf si lasciò sfuggire
un accenno di risata. «Sicuramente» concesse,
posandole una carezza sui capelli
scuri. Lidia scostò bruscamente la testa, fissandolo
accigliata. «Ero seria»,
protestò.
Ulf sorrise nuovamente.
«Anch’io.»
Sentendosi arrossire, Lidia ricambiò il sorriso e
abbassò lo sguardo. «Ad ogni
modo», riprese l’uomo, «il problema
è che io non ho nessuna influenza sui
Consigli degli altri villaggi. Anzi, a dirla tutta, non ho nemmeno
nessuna
influenza sulla gente di questo
villaggio. Io posso anche andarmene in giro a raccontare che tu non sei
un
mostro, ma cosa cambierebbe?» Nell’udire quelle
parole, Lidia fu brevemente
distratta: prima di partire alla volta di Erding, aveva pensato al suo
futuro
marito come a un mostro. Possibile che anche lui avesse avuto dei
pensieri
simili nei suoi confronti? «Non capisco»,
continuò il giovane, «come faccia
Erin a pensare che questa lettera possa servire a qualcosa. Nella
migliore
delle ipotesi, si faranno una risata e la butteranno nel
camino.»
La ragazza sospirò, riconoscendo che,
con ogni probabilità, Ulf aveva ragione. «Va
be’, però non può nemmeno fare del
male, no?» replicò, sollevando appena le spalle.
L’uomo però scosse il capo,
dubbioso. «Se la scrivo e la firmo, la gente
crederà che io stia agli ordini di
Erin – e la cosa non mi sta bene. Perderei…
perderei ogni credibilità. Qualcuno
potrebbe addirittura arrivare a pensare che io stia dalla parte di Roma
e,
ovviamente…» il giovane lasciò sfumare
la frase con una smorfia amara e Lidia
sospirò, portandogli una mano sul braccio nel tentativo di
confortarlo. «Non
puoi rifiutarti di scriverle?» indagò, pur
sentendo di conoscere già la
risposta. Così come si era aspettata, l’uomo
scosse il capo e lei insistette.
«Ma perché? Non puoi dire a Donna Erin la
verità? Dille che non saresti
convincente e che non riusciresti comunque a ottenere
niente…»
«Non conosci la nostra
Sacerdotessa»
mormorò lui, scuotendo la testa. «Contraddirla non
è prudente.»
«Ma perché?»
sbottò Lidia, stanca di
quelle mezze frasi circa la supposta pericolosità della
donna, che non facevano
altro che confonderle le idee, senza aiutarla a comprendere come
stessero
veramente le cose. «Non può
costringerti!»
«Tecnicamente, potrebbe farlo»
la
contraddisse Ulf, asciutto. «Soprattutto adesso che, a quanto
pare, ha preso il
vezzo di circondarsi di soldati romani.»
«Donna Erin non è fedele a
Roma» lo
informò lei, di getto, ricordando ciò che Quinto
le aveva rivelato la sera
prima, mentre facevano ritorno dall’accampamento militare.
«Me l’ha detto ieri
il Legato. E ha detto anche che le offerte non vengono portate a Roma,
diversamente da quello che credi tu.»
Il germanico le rivolse un’occhiata
sarcastica. «E tu gli credi, ovviamente.»
Infastidita dal tono accondiscendente
del marito, la fanciulla scrollò le spalle.
«Be’, Libo mi sembra una brava
persona. Non mi ha dato l’impressione di essere un
bugiardo.»
Per una frazione di secondo, la
giovane credette che Ulf fosse sul punto di dire qualcosa, ma poi
l’uomo parve
mordersi la lingua. «Io dico solo che, in questo caso,
potrebbe avere interesse
a mentire. E comunque non è questo il punto: forse
è vero che Erin non
collabora con Roma. Forse è veramente fedele al suo ordine:
la situazione non
cambia. L’Alto Concilio è comunque pericoloso: se
io la sfido così apertamente,
potrebbero esserci delle conseguenze per me e per la mia famiglia.
Anzi, sono
praticamente certo che ce ne saranno.»
«Eppure, mi pare di capire che,
ultimamente, ci sia parecchia gente che ha deciso di sfidare la sua
autorità»
commentò la ragazza. «Tua nonna mi ha detto quello
che è successo con le offerte,
questa notte.» Ulf contrasse i lineamenti in una smorfia che
alla fanciulla
ricordò il ringhio di un lupo. «Sono un mucchio di
idioti. Ci tireranno addosso
tanti di quei casini che nemmeno ti immagini…»
«Posso immaginarmeli benissimo,
invece» lo contraddisse lei, intravvedendo improvvisamente
l’occasione di
ricondurre il discorso sull’argomento che più le
stava a cuore. «Ed è proprio
per questo che dico che, secondo me, è meglio allontanarsi
da Erding, almeno
per un po’.»
Ulf rimase brevemente interdetto del
repentino cambio di argomento, poi serrò gli occhi, esalando
lentamente.
«Ancora con questa storia? Non posso mollare tutto e
andarmene via.» Lidia
corrugò la fronte, confusa. «Perché
no?» Il giovane si sporse verso di lei. «Ho
delle responsabilità qui… come anche mio padre,
del resto. E, comunque,
scappare via non è la soluzione.»
Nell’udire quelle parole, Lidia
avvertì un sussulto: era forse la sua coscienza che le
rinfacciava l’avergli
taciuto la presenza di Tito, ricordandole, tra l’altro, dei
suoi antichi piani
di fuga? Incapace di sostenere il suo sguardo, la giovane
abbassò gli occhi sui
propri piedi e incassò il collo nelle spalle, senza badare a
come quel gesto la
facesse sentire simile a una bambina capricciosa. «Ma restare
qui potrebbe essere
pericoloso. Non hai paura che possa succedere qualcosa, nonostante i
tuoi
sforzi per impedire che questo accada?»
Con un movimento rapido, Ulf lasciò la
sedia sul quale era seduto e si spostò sul letto, di fianco
a Lidia. «Certo,
che ho paura che succeda» mormorò. «E
infatti non escludo di andare via da
Erding, prima o poi. Ma non subito: prima devo – dobbiamo – assicurarci di aver
fatto tutto il possibile anche per
garantire la sicurezza del villaggio e della gente che ci
abita.» Notando
l’espressione poco convinta della giovane romana,
l’uomo inclinò il capo di
lato. «Non credi?»
Lidia esitò. In quel momento prendeva
coscienza di qualcosa che, dopotutto, aveva sempre sospettato: a lei,
di quello
che succedeva al di fuori della ristretta cerchia dei suoi affetti, non
è che
importasse proprio un gran ché. Ovviamente, quella non era
una risposta che
poteva dare a Ulf. «Non lo so», nicchiò,
allora. «Secondo me, è più importante
la famiglia.»
Inaspettatamente, l’uomo sorrise.
«Ma
come? Proprio tu mi dici una cosa del genere? Pensavo che voi romani aveste un forte senso della
società. Pensavo che il vostro Imperatore venisse prima di
tutto, che Roma stessa venisse
prima di tutto.» La
ragazza si strinse nelle spalle: avrebbe dovuto essere così,
in teoria. Per suo
padre era certamente così. Ma non per lei. «Io
nemmeno lo conosco,
l’Imperatore», sospirò, «e,
comunque, qui non siamo a Roma.» Prima che Ulf
potesse controbattere, lei gli prese le mani nelle sue.
«È solo che ho paura
che succeda qualcosa. Hai ragione, forse avrei dovuto restare su in
montagna
con Linda, ma, se ti succedesse qualcosa, che cosa farei?»
chiese,
improvvisamente angosciata.
«Torneresti dai tuoi genitori»
replicò
l’uomo, pratico. Per qualche motivo, quella risposta le fece
divampare una
fiammata di rabbia all’altezza dello stomaco. Seguendo un
collegamento che non
era del tutto chiaro nemmeno a lei, il suo pensiero corse a Tito, che
aveva
lasciato Roma ed era corso da lei, riponendo una cieca fiducia nei
sentimenti
che la fanciulla provava per lui. Possibile che Ulf credesse invece che
lei
potesse lasciarsi alle spalle gli ultimi mesi così, con
tanta semplicità? «Sì,
come no!» ringhiò, sottraendo una mano dalla presa
del giovane e usandola per
colpirlo al petto. «Credi che non me ne freghi niente di te e
che potrei
tornarmene a Roma e riprendere la mia vita da dove l’avevo
lasciata?»
«Non ho detto questo»
ribatté lui,
afferrandole nuovamente un polso. «Non ho detto
questo» ripeté, con voce più
morbida. «Pensavo solo che sarebbe la soluzione migliore, se
qualcosa dovesse
andare storto. Ma… non ho intenzione di correre dei rischi
inutili. Né di farne
correre a te o a Unna o a tutti gli altri. Devo solo sistemare un
po’ di cose
qui e poi, se sarà inevitabile, andremo via.
Promesso.» Quella rassicurazione
fece scivolare un sollievo caldo e liquido sulle spalle della ragazza,
ma non
fu in grado di spazzare via la tensione che ancora permaneva nel suo
petto.
Notando la sua espressione corrucciata, Ulf le coprì una
guancia con il palmo
di una mano. «E non credo che non te ne freghi niente di me:
so che non è
così.»
Quando non aggiunse altro, Lidia alzò
gli occhi fino a incontrare quelli del giovane e sorrise debolmente nel
trovare
in essi una luce più calda del solito. Lui le percorse
delicatamente la linea
dello zigomo con il pollice, poi si chinò su di lei e la
baciò. Rendendosi
conto di quanto le fosse mancato quel contatto, Lidia
sospirò, chiudendo gli
occhi e abbandonandosi al suo tocco. Non richiesto, però,
alla sua mente si
affacciò il ricordo del bacio che Tito le aveva rubato la
sera prima: il
rimorso le pugnalò lo stomaco e, per una frazione di
secondo, la fanciulla si
irrigidì. Avvertendo la sua esitazione, Ulf si
allontanò un poco da lei,
posando la fronte contro quella della ragazza e cercando i suoi occhi.
Tito
non c’entra niente, adesso, si disse Lidia, decisa. La sfiorò il
sospetto che, se fosse stata sincera con il marito, quel bacio non
avrebbe
bruciato in quel modo, ma la ragazza si affrettò a
scacciarlo e, intrecciando
le dita dietro alla nuca del compagno, lo attirò nuovamente
a sé. Lo baciò con
più forza di quanto lui non avesse fatto un istante prima e
Ulf si lasciò
sfuggire un suono sorpreso, ma poi le sue mani si strinsero attorno
alla vita
della fanciulla e Lidia fremette, mentre il pensiero del giovane romano
svaniva
dalla sua mente. Istintivamente, la ragazza fece per avvicinarsi di
più al
compagno e fu sul punto di sistemarsi sulle sue ginocchia, ma la presa
di Ulf
si fece più salda e bloccò i suoi movimenti.
«Non riuscirai a distrarmi»
bofonchiò l’uomo, contro le sue labbra.
«Uh?» la fanciulla si
allontanò
leggermente da lui, un’espressione perplessa dipinta in
volto, e il giovane
sorrise. «In un modo o nell’altro, devo inventarmi
qualcosa da scrivere: ho
bisogno di concentrarmi» spiegò, prima di posare
un altro rapido bacio sulla
bocca della ragazza, stringendole brevemente il labbro inferiore tra i
denti.
«Ah, d’accordo»
sospirò lei, con
appena una punta di delusione, salendo a giocherellare con i capelli
chiari
dell’uomo. Lui le portò una mano sul ginocchio e
tamburellò con le dita.
«Adesso vai» la esortò. «Devo
buttare giù qualcosa; e devo farlo subito: tra
poco più di un’ora, la Sacerdotessa vuole vederci
a casa sua.»
Quella notizia mise subito in allarme
Lidia, che raddrizzò immediatamente la schiena, turbata.
«Vuole vederci? E
perché?» Il giovane si strinse nelle spalle.
«Dice di volerci parlare di alcune
faccende importanti: sicuramente, si tratta di qualcosa che ha a che
fare con
ciò che è successo questa notte.»
Lidia annuì: effettivamente,
quell’ipotesi era decisamente più plausibile dello
scenario che, per una
frazione di secondo, si era dipinto nella sua mente. Per qualche
istante,
infatti, la fanciulla aveva temuto che qualcuno – forse lo
stesso Prefetto
Caleno – avesse parlato a Donna Erin dell’arrivo di
Tito e che adesso lei
volesse chiedergliene conto. «D’accordo»
disse, allora. «Ti lascio lavorare.»
Con un cenno del capo e con una
notevole mancanza d’entusiasmo, Ulf tornò a
sedersi alla scrivania e,
rivolgendogli un’ultima occhiata preoccupata, Lidia
lasciò la stanza,
dirigendosi verso il piano inferiore e preparandosi a fare rapporto a
Donna
Edda.
***
Lidia accavallò le gambe, chiedendosi
per l’ennesima volta perché fosse stata convocata
anche lei: da quando erano
arrivati, infatti, nessuno l’aveva degnata di
un’occhiata ed era da circa
un’ora che non faceva altro che ascoltare i discorsi altrui.
Quando erano giunti nella casa della Sacerdotessa,
luogo in cui si sarebbe tenuto l’incontro, il servitore che
li aveva accolti li
aveva invitati ad aspettare nella stessa stanza in cui, la prima volta
che
Lidia aveva incontrato Donna Erin, avevano dovuto aspettare i suoi
genitori.
«Donna Erin vi riceverà presto» aveva
comunicato loro l’uomo, mantenendo un
contegno rigido e formale. «Al momento è impegnata
con altri ospiti.»
Lidia aveva accettato l’invito
dell’uomo e si era seduta, mentre Ulf era rimasto
nervosamente in piedi accanto
alla finestra, smuovendosi solo quando Gefrid e Hermann avevano fatto
il loro
ingresso nell’abitazione. Vedendo il suocero per la prima
volta dopo più di un
mese, Lidia aveva avuto un sobbalzo: sembrava stanco, decisamente
invecchiato,
e la sua andatura le parve ancora più incerta, come se,
senza Hermann al suo
fianco, non sarebbe stato in grado di reggersi in piedi. Il ragazzo,
dal canto
suo, aveva sul volto un’espressione determinata e, vedendoli
l’uno accanto
all’altro, la fanciulla si rese conto quanto padre e figlio
si assomigliassero.
A differenza di Ulf e Unna, che
avevano ereditato gli occhi chiarissimi da Donna Edda e, di
conseguenza, dalla
loro madre, Hermann condivideva con il padre lo sguardo verde-azzurro e
il naso
diritto. Con un velo di tristezza, Lidia si chiese se, in
gioventù, Gefrid
fosse stato bello come il figlio minore, se avesse avuto lo stesso
sorriso
allegro e le stesse fossette sulle guance; e poi si domandò
se, crescendo e
invecchiando, Hermann avrebbe assunto la stessa aria grave del padre,
se si
sarebbe incurvato e ingrigito nello stesso modo.
Dalla stanza in cui donna Erin
discuteva con gli ospiti non giungeva alcun suono, ma, proprio quando
Lidia
iniziava a domandarsi se là dentro ci fosse realmente
qualcuno o se si
trattasse piuttosto di un qualche strano inganno, la porta si
spalancò e un
Quinto decisamente contrariato uscì dalla stanza.
«Legato!» lo accolse Lidia,
colta di sorpresa.
«Ciao, Lidia» la
salutò lui brusco,
tralasciando il Donna con cui si
rivolgeva a lei solitamente. Gli altri tre uomini presenti lo
guardarono con
sospetto, ma il romano rivolse loro un sorriso teso, come per dire che
non
avevano motivo di considerarlo un nemico.
«La Sacerdotessa si è
liberata?»
chiese Gefrid, con voce roca, guardando con insistenza la porta che il
legato
si era chiuso alle spalle. Il romano scosse il capo. «No, sta
parlando con Caleno,
un Prefetto dell’esercito.»
Ah. Ecco spiegata la faccia
di Quinto, pensò
la fanciulla, ben memore della palese antipatia che regnava tra i due
uomini.
Prima che nessuno dei presenti facesse
in tempo ad aggiungere altro, però, la porta si
aprì di nuovo, rivelando il Prefetto.
Lidia non poté fare a meno di notare che era decisamente
meno sorridente del
solito. «Ti aspetto domani mattina, allora» disse
Donna Erin, come per
concludere una conversazione che nessuno aveva avuto modo di seguire,
facendo
capolino dall’uscio. «Come vuoi», fece
l’uomo, senza voltarsi a guardarla, «ma
vedi di risolvere questa faccenda. Non ho tempo da perdere.»
Ulf e il fratello si scambiarono una
rapida occhiata, probabilmente sorpresi dal tono brusco
dell’uomo, e a Lidia
non sfuggì lo scintillio infastidito che per un istante
balenò negli occhi
della donna. Rivolgendo appena un cenno di saluto alla ragazza e
ignorando
tutti gli altri, il Prefetto infilò la porta, mentre la
Sacerdotessa si
schiariva la voce. «Prego, accomodatevi.»
E così Lidia si era trovata seduta su
una delle poltrone di Donna Erin, ascoltando le rassicurazioni che,
seppur
controvoglia, Gefrid offriva alla Sacerdotessa. Sì,
comprendeva benissimo come la situazione attuale fosse
inaccettabile. Sì,
restava
naturalmente a disposizione nel caso in cui gli Alti Sacerdoti avessero
voluto
fare un sopralluogo in paese. Sì,
avrebbe fatto il possibile per ragionare con i minatori e fare in modo
che essi
comprendessero il loro errore. «In caso contrario»,
aveva commentato la donna
di fronte a quell’ultima osservazione, «dovremo
prendere dei provvedimenti
contro i colpevoli.»
Dei provvedimenti, sì, ma non aveva
specificato quali, accogliendo solo con un’alzata di spalle
la successiva
domanda di Gefrid, che chiedeva se tali provvedimenti prevedessero il
coinvolgimento dell’esercito di Roma.
Tutto sommato, pensò Lidia mentre
appoggiava il mento su una mano, cercando di nascondere la propria
inquietudine, la conversazione parve svolgersi in modo piuttosto
tranquillo,
quasi che la Sacerdotessa considerasse l’intera faccenda come
uno sgradevole
imprevisto, qualcosa che dovesse essere risolto al più
presto, certo, ma che
non meritava però attenzioni eccessive. Tuttavia, forse
perché influenzata
dall’opinione che Ulf aveva della donna, alla fanciulla parve
che sotto alla
sua calma apparente vi fosse un pericolo in agguato, una gelida
sicurezza che
non prometteva nulla di buono, forse anche un’indifferenza
sospetta. Incrociando
lo sguardo di Ulf, vide che l’uomo aveva probabilmente avuto
delle sensazioni
molto simili.
«Molto bene» disse
improvvisamente la Sacerdotessa,
alzandosi in piedi. «Mi piacerebbe poter continuare a
discutere qui, ma
purtroppo ci servirà molto più spazio, ora. Per
favore, vogliate seguirmi nel
giardino sul retro.»
Gefrid e i suoi figli si scambiarono
un’occhiata confusa. «Perché?»
chiese l’uomo più anziano. Donna Erin sorrise.
«Ho
voluto vedervi da soli per assicurarmi la tua collaborazione in questa
faccenda, Gefrid» spiegò, puntando gli occhi verdi
in quelli del germanico. «Tuttavia,
come capirai bene anche tu, la situazione richiede un confronto fra
tutte le
forze coinvolte: ho chiesto un incontro con i rappresentati dei
minatori e con
un paio di altre persone che credo siano interessate, ma è
evidente che non
posso ospitarli tutti qua dentro.»
Gefrid annuì, mentre
un’espressione
carica di sospetto gli si dipingeva in volto, e Ulf si
avvicinò alla Sacerdotessa.
«Mio fratello e mia moglie possono tornare a casa?»
chiese. «A questo punto non
credo che la loro presenza sia più richiesta, no?»
Donna Erin scosse il capo. «Il ragazzo
può andarsene, se lo desidera», disse,
«ma Lidia deve restare: è pur sempre la
figlia di un senatore, non escludo che il suo punto di vista possa
esserci
utile.» La fanciulla la guardò, sorpresa e
intimorita. «Ma io non so nulla di
queste cose», disse, con un filo di voce, «e non so
niente nemmeno di quello
che fa mio padre, non ha mai voluto che io mi immischiassi in cose
politiche.»
La Sacerdotessa la tranquillizzò,
alzando una mano. «Non preoccuparti, cara: probabilmente non
dovrai nemmeno
aprire bocca. Ma saremo tutti più contenti, se ci sarai
anche tu, se non altro
per salvaguardare le apparenze.»
La giovane deglutì, nervosa, ma non
trovò un argomento valido per opporsi alle parole della
donna. Notando lo
sguardo gelido di Ulf, la Sacerdotessa sospirò.
«Devo chiedervi una cosa
piuttosto delicata» disse, rivolgendosi a tutti ma guardando
Ulf e Lidia in
particolare. «Mi è giunta voce che in molti, qui
al villaggio, credono che le
offerte che doniamo agli Dèi non finiscano affatto tra le
mani degli Dèi, bensì
tra quelle di qualcuno che pensa di arricchirsi sfruttando le
tradizioni del
nostro popolo. Avete sentito parlare di questa teoria?»
Senza parlare, Ulf annuì, brusco, e
Lidia lo imitò, offrendo alla donna un piccolo cenno del
capo. «Perfetto»
sospirò la Sacerdotessa. «A questo punto voglio
che voi siate sinceri: credete
nell’esistenza degli Dèi?»
Esitando solo un secondo, Ulf guardò
la donna negli occhi, poi scosse il capo. «No.»
«Lidia?» chiese Donna Erin,
spostando
l’attenzione sulla fanciulla.
«Io… non lo so»
mormorò la ragazza. «Non
ne sono sicura.» Appena ebbe pronunciato quelle parole, Lidia
incassò
istintivamente il capo nelle spalle, come se si aspettasse una reazione
violenta dalla Sacerdotessa, ma la donna si limitò ad
avvicinarsi di un qualche
passo alla coppia. «Ascoltatemi», disse, con voce
quieta, «non posso certo
costringervi a credere, la Fede è una conquista a cui ognuno
deve giungere
spontaneamente. Tuttavia, per quello che vale, posso assicurarvi che
gli Dèi sono veri,
esistono e agiscono nel mondo in
maniera molto chiara. Anch’io ero scettica, quando avevo la
vostra età, ma
crescendo, com’è ovvio, non ho più
potuto negare l’evidenza.»
Ulf inarcò un sopracciglio, poco
impressionato dall’appassionato discorso della donna.
«Quale evidenza?» la
provocò. «Li hai forse visti, Donna
Erin?»
La Sacerdotessa scosse il capo. «No,
non li ho visti, ma ho visto le loro azioni.» Davanti allo
sguardo
interrogativo dei presenti, la donna parve gonfiarsi e farsi
più grande, come
per assumere più importanza. «Sono stata testimone
del Flagello di Neniveh»
proclamò; e Lidia corrucciò la fronte, sorpresa.
Sapeva poco di quello che era
accaduto alla città-stato di Neniveh, nei caldi deserti del
Continente del Sud;
e anche quelle poche e generiche informazioni erano avvolte da un velo
di mito
e di leggenda. Neniveh era stata una cittadina fiorente, con una ricca
tradizione artistica e al centro di una fittissima rete commerciale,
ma,
secondo i racconti, l’arroganza dei suoi abitanti era
cresciuta troppo,
mettendo in pericolo le altre città-stato della zona; e
così gli Dèi l’avevano
punita radendola al suolo.
«Non credevo tu fossi così
vecchia,
Donna Erin» commentò ancora Ulf, sarcastico: la
città era infatti stata
distrutta una sessantina di anni prima ed era palese che,
all’epoca, la
Sacerdotessa non fosse ancora nata. La donna sorrise, ma i suoi occhi
rimasero
freddi, mostrando chiaramente quanto Erin fosse infastidita dalla
mancanza di
rispetto dell’uomo. «Non ho assistito direttamente
al Flagello, naturalmente»,
disse, asciutta, «ma ho visto il luogo in cui sorgeva un
tempo la città:
credetemi, nessun’arma di questo mondo può causare
una distruzione simile. Non
ne è rimasto più nulla, solo poche macerie
carbonizzate. Quello che è accaduto
lì è stato così terribile che nessuno
si è sognato di provare a ricostruire la
città… anche perché si dice che, oltre
ad averla distrutta, gli Dèi abbiano
anche lanciato su di essa una maledizione che colpirebbe chiunque osi
avvicinarsi troppo al luogo in cui sorgeva. Sono solo dicerie, da
quanto mi
risulta, ma ho sentito parlare di avventurieri morti in circostanze
misteriose
dopo che avevano cercato di profanare le rovine della
città.»
«In più»,
continuò la donna, «qualche
tempo fa ho avuto modo di parlare con alcuni dei pochi sopravvissuti.
All’epoca
era passato quasi mezzo secolo dal giorno della distruzione, ma quei
vecchi ricordavano
ancora ogni minimo particolare e nessuno di loro aveva il minimo
dubbio: si
trattava di una punizione divina, non di un’opera
dell’uomo. E no, non
guardarmi così, Ulf: nemmeno tu avresti dubbi, se avessi
visto quello che ho
visto io.»
Mentre l’eco delle parole della donna
si spegneva, Lidia abbassò lo sguardo sulle proprie mani,
combattuta: quando
parlava in quel modo, credere a ciò che Donna Erin diceva
diventava
estremamente facile.
***
Poco più di mezz’ora
più tardi, Lidia
sedeva all’ombra delle pallide betulle che crescevano nel
giardino della dimora
di Donna Erin. Il piccolo spazio recintato era decisamente affollato e
la
torrida serata di luglio era resa ancora più calda
dall’atmosfera arroventata
che si respirava tra i partecipanti all’assemblea.
«L’unica cosa che ci
farà riconsiderare
la nostra posizione», scandì con voce sempre
più alta l’uomo che si era eletto
portavoce dei minatori, «sarà la ritirata dei
bastardi romani!»
«Ewald!» lo ammonì
Donna Erin,
tagliente. «Modera i toni!»
«Li abbiamo moderati per troppo
tempo»
ringhiò l’uomo, di rimando, lanciando
un’occhiata piena d’odio al Prefetto Caleno,
in piedi alle spalle della Sacerdotessa.
«E noi ci siamo fidati per troppo
tempo della parola di questa gente», ribatté il
soldato, cupo, «e questo è
stato sicuramente un grave errore. Ci saremmo aspettati maggiore
collaborazione
da parte degli Alti Sacerdoti, Erin: ma voi noi fate altro che parlare.
Parlate, parlate, ma, alla fin dei conti, non fate niente di concreto
per
cambiare veramente le cose.»
«Adesso basta»
sibilò la Sacerdotessa,
chiaramente esasperata dai toni della conversazione.
«Sedetevi, tutti e due, e
lasciate che vi riporti alla mente la questione più urgente:
oggi non stiamo
parlando della contesa tra Roma e la Germanica, ma
dell’assurdo capriccio per
cui voi state privando gli Dèi delle offerte che spettano
loro!»
Caleno sibilò, sarcastico, mentre
l’uomo che rispondeva al nome di Ewald arricciava le labbra
in una smorfia
disgustata. «Gli Dèi…»
ripeté, sprezzante. «Vogliamo davvero toccare
questo
argomento, Donna Erin?»
Gli occhi di Lidia saettarono dall’uno
all’altro, mentre, intimorita e frastornata dalla discussione
accesa, si
avvicinava un po’ di più a Ulf, ricercando
inconsciamente la sua protezione. «È
proprio per questo che siamo qui» ribatté gelida
la Sacerdotessa, senza raccogliere
la provocazione dell’uomo. «Anzi, per questo motivo
ho invitato qui una mia
consorella, un’Alta Sacerdotessa: confido che almeno lei sia
in grado di farvi
ragionare. Chissà che un parere esterno non riesca ad
aprirvi gli occhi.»
L’annuncio di Donna Erin non
sembrò
sortire un grande effetto e la discussione – e gli insulti
scambiati tra le due
parti – ripresero con lo stesso vigore di prima, fino a che,
dopo quella che a
Lidia parve un’eternità, la bambina che spesso
accompagnava la Sacerdotessa
fece capolino dalla porta sul retro e, dopo essersi guardata
rapidamente
attorno, si avvicinò timidamente alla donna.
Quando si accorse della presenza della
piccola, la Sacerdotessa parve trarre un sospiro di sollievo.
«È arrivata la
nostra ospite?» chiese, mentre le voci dei presenti si
abbassavano per un
istante.
La bambina, però, scosse il capo e il
sorriso di Donna Erin si spense lentamente.
«C’è un signore», disse la
ragazzina,
con la vocina sottile e squillante, «però dice che
ti conosce e che è qui al
posto di Donna Agnes.»
Anche se la donna fu rapida a
controllarsi, Lidia riuscì a scorgere un’ombra di
confusione attraversare
rapidamente il suo volto. «Be’»,
mormorò, lanciando un’occhiata verso la porta,
«visto che ormai è qui, tanto vale farlo entrare.
Va’ da lui, Susi, e digli che
lo stiamo aspettando.»
La bimbetta bruna annuì e poi, veloce
e silenziosa com’era arrivata, rientrò in casa.
Fece ritorno una manciata di
minuti più tardi e, quando l’ospite inatteso fece
il suo ingresso in giardino,
il cicaleccio che ancora vi regnava si spense completamente. Lidia si
ritrovò a
fissare il nuovo arrivato, completamente dimentica delle buone maniere.
Due cose erano indubbie: la prima era
che quel giovane uomo dall’aspetto esotico non era certamente Agnes, e la seconda che,
almeno a giudicare
dall’espressione di Donna Erin, il suo arrivo non portava
nulla di buono.
***
Mi
sono presa l’influenza e mi stavo dimenticando di aggiornare,
sorry. Stasera
non ho riletto il capitolo: lo farò domani. Nel frattempo,
se trovate qualcosa
che non va, segnalate pure.
|
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Capitolo 25 *** 24. La legge degli Dèi ***
«Non
era te, che stavo
aspettando.» Nel rivolgersi al giovane sconosciuto, Erin
aveva sussurrato ed
era palese che non volesse che i presenti sentissero le sue parole, ma
il
silenzio che era calato nel giardino fece sì che esse
venissero udite da tutti.
«Dati
gli ultimi avvenimenti, il
Sacro Consiglio ha ritenuto che fosse più opportuno mandare
me, piuttosto che
Donna Agnes.» A differenza di Donna Erin, lo sconosciuto non
pareva
preoccuparsi di tenere la voce bassa e le sue parole risuonarono forti
e chiare
nel piccolo spazio gremito di folla. Aveva un curioso modo di parlare,
notò
Lidia, la sua voce era vellutata, completamente priva di inflessione o
accento
e la fanciulla lo squadrò da capo a piedi, chiedendosi chi
fosse e da dove
venisse.
Di certo non è un germanico…
La
ragazza sapeva che esistevano,
nel Continente Sud, degli uomini dalla pelle così scura da
sembrare nera.
Quando era a Roma, le era capitato più e più
volte di imbattersi in un suo
concittadino originario delle terre del sud, ma non si sarebbe mai
aspettata di
trovarne uno in un villaggio sperduto come Erding. E, in
più, c’era un che di
strano nel giovane uomo appena comparso nel giardino di Donna Erin.
Oggettivamente,
lo sconosciuto era alto e con le spalle larghe, i muscoli ben formati
visibili
sotto ai vestiti chiari, eppure c’era qualcosa di
estremamente aggraziato in
lui, un’armonia leggera che non ci si sarebbe aspettati in un
uomo della sua
stazza. I lineamenti del suo viso erano insoliti, la mascella forte e i
capelli
neri, cortissimi, contrastavano con gli occhi dal taglio allungato e
gli zigomi
dalla curva elegante: in generale, c’era qualcosa di quasi magnetico nel suo volto e Lidia si
trovò a osservarlo ben più a
lungo di quanto l’etichetta e la buona educazione ritenessero
accettabile. Interruppe
quella sorta di intenso esame solo quando, dopo una piccola
eternità, lo
sguardo nero e liquido dell’uomo si scontrò con il
suo. La fanciulla ebbe
allora la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa che era altro e, spaesata e confusa,
chinò il
capo, abbassando gli occhi sull’erba verde del prato.
Per
un qualche motivo, la vista
di quell’uomo le riportò alla mente il primo
incontro che aveva avuto con Donna
Erin e la giovane ricordò di come avesse pensato, posando
gli occhi sulla Sacerdotessa,
che ci fosse qualcosa di strano in lei, qualcosa che la distingueva sia
dai
germanici, che dai romani. Ora, osservando quell’ospite
inatteso, provava la
stessa identica sensazione; e non solo perché il colore
della sua pelle e la
strana foggia dei suoi vestiti lo identificavano come non
appartenente a nessuno dei due popoli: quello che era davvero
fuori luogo era un certo non so che nel suo atteggiamento, forse la sua
postura, forse quello che aveva letto nel suo sguardo nel breve istante
in cui
i loro occhi si erano incontrati. Con un brivido di sorpresa, Lidia si
rese
conto che quel qualcosa era ancora
presente anche in Donna Erin, solo che l’abitudine
l’aveva reso meno evidente
ai suoi occhi.
Tornando
a osservare di soppiatto
l’uomo, la giovane si chiese quanti anni avesse. Se avesse
dovuto giudicarlo
solamente dall’aspetto fisico, avrebbe detto che lo
sconosciuto avesse più o
meno l’età di Ulf, forse addirittura qualche anno
in meno, tuttavia la confidenza
che animava la sua voce e i suoi gesti e la sicurezza che trapelava dal
modo in
cui si muoveva lo facevano sembrare molto più maturo e
autorevole.
Prima
che Lidia potesse inoltrarsi
più profondamente in quei pensieri, però, la voce
di Donna Erin la riscosse,
spingendola a spostare di nuovo la sua attenzione sulla Sacerdotessa.
«Avrei
gradito essere avvertita per tempo di questo cambio di
programma», disse secca
la donna, che aveva impiegato qualche istante di troppo ad assorbire le
parole
dell’uomo e a trovare una risposta adeguata, «ma,
visto che sei qui, immagino
che tu debba restare.»
«Precisamente»
confermò lui, con
un cenno del capo, prima di raggiungere una delle panche di granito che
adornavano il giardino e di sedervisi. Poi, senza aggiungere altro,
estrasse dalla
tasca quello che sembrava un piccolo taccuino. Donna Erin
seguì i suoi
movimenti, gli occhi verdi ridotti a due fessure. «Cosa stai
facendo?»
«Prendo
appunti», replicò,
impassibile, il giovane, «così che io li possa
trasmettere al Concilio, in caso
di necessità.»
La
Sacerdotessa fece per
ribattere, ma il portavoce dei minatori la precedette. «Si
può sapere chi sei,
ragazzo? Mi pare di capire che non sei stato invitato: non intendo
certo
parlare dei miei affari di fronte a qualcuno che nemmeno si
è presentato!»
Sentendosi
apostrofare, il
giovane sollevò lo sguardo dal taccuino, il volto liscio
privo di ogni
espressione. «Solo un esaminatore» disse, come se
quella magra spiegazione
potesse essere sufficiente per rispondere alla domanda del germanico.
«Quello
che fratello Kay vuole
dire è che è stato inviato dal Sacro Concilio per
verificare lo stato delle
cose qui a Erding. Avrei preferito avere qui con me Donna Agnes, dal
momento
che lei ha già avuto esperienze simili, ma non posso fare
altro che piegarmi
alla volontà del Concilio» disse, lanciando
un’occhiata al giovane dalla pelle
scura. Poi tornò a rivolgersi ai minatori. «E
così farete anche voi.»
«Fratello
Kay fa parte del Sacro Concilio
dei Ssacerdoti germanici?» la domanda di Caleno avrebbe
potuto sembrare
innocente, se non fosse stato per il palese tono di scherno con cui era
stata
pronunciata. Donna Erin si girò di scattò,
fulminando il romano. «Sì, ma opera
nel Continente del Sud.»
«Ah,
ecco» commentò il Prefetto,
reclinandosi mollemente contro lo schienale della panca sulla quale era
seduto
e incrociando le gambe con aria rilassata. Non
le crede, realizzò Lidia e, automaticamente,
alzò lo sguardo verso Ulf, per
giudicare la reazione del marito alle nuove rivelazioni. Il volto
dell’uomo
però era impassibile e la fanciulla non riuscì a
leggervi nulla.
«Con
chi sto parlando?»
La
domanda costrinse Lidia a
tornare di nuovo a concentrarsi sul giovane Sacerdote, che si era
rivolto
direttamente a Caleno, un’espressione altera sul volto dai
tratti eleganti. Se
lo sguardo nero e liquido dell’uomo l’aveva messo a
disagio, il soldato non lo
diede a vedere, perché, senza alterare la sua postura
rilassata, rivolse allo
straniero un sorriso forse fin troppo smagliante. «Publio
Mario Caleno, Prefetto
di Roma… residente a Erding da parecchi anni,
ormai.»
Con
un movimento quasi
impercettibile della testa, il giovane scambiò
un’occhiata con la Sacerdotessa.
«Da quanti anni?» chiese poi, come se quel
dettaglio fosse di qualche
importanza. Il romano si strinse nelle spalle.
«Parecchi» ripeté. «Da poco
prima che Donna Erin arrivasse da queste parti, se non ricordo
male.»
La
donna annuì appena,
confermando la versione dell’uomo, e il Sacerdote lo
osservò ancora per qualche
istante. Per una frazione di secondo, a Lidia parve di scorgere una
lievissima
increspatura nella sua espressione neutra, e la cosa la
incuriosì. Si conoscono?
Si chiese nuovamente,
passando lo sguardo dal Prefetto all’uomo che la Sacerdotessa
aveva chiamato fratello Kay. Dal
modo carico di sospetto
in cui i presenti scrutavano il nuovo arrivato, era abbastanza chiaro
che
nessuno di loro l’avesse mai prima d’allora, eppure
Caleno, a differenza degli
altri, non sembrava particolarmente sorpreso dalla sua presenza. Sapeva che sarebbe arrivato?
Ma
era impossibile: Erin stessa
era sorpresa dall’arrivo dell’uomo dalla pelle
scura. Lanciando un’occhiata a
Quinto, Lidia prese nota dell’espressione confusa disegnata
sul volto del Legato.
Quinto invece sembra non saperne di
niente. Qui c’è sotto qualcosa,
pensò, esattamente
come diceva Ulf.
Ne
era sempre più convinta,
eppure, più il tempo passava e più iniziava a
credere che Ulf avesse preso un
abbaglio, almeno in parte. Forse,
dopotutto, Quinto ha detto la verità: Donna Erin
è fedele solo ai suoi Sacerdoti.
E allora… allora Unna avrebbe ragione. Gli Dèi
non esistono e tutta questa
faccenda delle offerte non è che una trovata degli Alti
Sacerdoti per
arricchirsi alle spalle della loro gente! Più ci
pensava, e meno l’idea le
pareva inverosimile: dopotutto, non era stato proprio Ulf a dire,
nell’unica
notte che avevano passato insieme in montagna, che era ormai Donna Erin
a
tenere in mano le sorti del villaggio? E se anche in tutti gli altri
villaggi
la situazione fosse stata uguale? Possibile che i Sacerdoti si fossero
a tutti
gli effetti arrogati i poteri che un tempo spettavano ai Capi?
Ha senso! Pensò la fanciulla,
in preda all’agitazione: del resto
anche l’Imperatore aveva trattato con gli Alti Sacerdoti,
quando aveva cercato
una soluzione per mantenere la pace nelle regioni ai confini
dell’Impero. Questo significa che
anche Lui li considera la
vera forza politica con cui trattare. E Caleno… forse Caleno
sa più cose di
Quinto, visto che lui e Donna Erin hanno una relazione.
Era
una soluzione relativamente
semplice e quasi perfetta. Quasi,
ripeté Lidia, osservando con occhi nuovi i presenti.
C’erano ancora alcuni
particolari fuori posto, ovviamente, ma di certo era una spiegazione
più
concreta e meno fantasiosa di quella elaborata da Ulf. Devo
parlargliene al più presto, si disse la fanciulla,
anche se non capisco perché non ci
abbia
pensato anche lui. Voglio dire, perché tirare in ballo Roma,
se la spiegazione
potrebbe essere molto più immediata?
Tutta
d’un tratto, l’entusiasmo
della fanciulla si raffreddò bruscamente. Ah,
già. La macchina volante e il sibilo nella notte.
Ulf sosteneva che l’unica
potenza ad avere accesso a una tecnologia simile fosse
l’Impero… sì,
ma potrebbe anche sbagliarsi. O forse…
Mentre
era persa in quei
pensieri, la trattativa tra minatori, romani e sacerdoti era andata
avanti e
all’improvviso un vociare concitato la strappò
alle sue riflessioni. «La nostra
presenza in questa regione non è in discussione!»
stava tuonando Caleno: il Prefetto
era balzato in piedi e, circondato com’era da tre o quattro
soldati, sembrava
in procinto di gettarsi addosso ad Ewald, il portavoce dei minatori.
«Se
qualcuno ha da ridire su questo punto», disse ancora il
romano, gettando
occhiate feroci tutt’attorno a sé,
«vedremo di risolvere la controversia. Anche
con le armi, se necessario!»
Prima
che il germanico potesse
replicare, Gefrid, che sino ad allora si era espresso molto poco, si
alzò in
piedi e levò una mano in direzione dei minatori.
«Ewald», disse, senza alzare
la voce, ma ottenendo comunque l’attenzione
dell’uomo e dei suoi compagni, «silenzio.
Non è questa la sede per discutere di questo
argomento.»
Pur
non conoscendo tutti i
retroscena politici e strategici, Lidia intuì qualcosa di
non detto dietro alle
parole del suocero. Ewald, che probabilmente conosceva più
dettagli rispetto
alla giovane romana, parve cogliere il messaggio nascosto dietro le
parole di
Gefrid e, anche se chiaramente controvoglia, chinò
bruscamente il capo in un
cenno d’assenso.
«Gefrid
ha ragione» disse Donna
Erin, approfittando dell’attimo di calma per inserirsi nel
discorso. «Oggi si
discute delle offerte che non stiamo
inviando agli Dèi. Vi ho convocati qui per trovare
un punto d’accordo tra
le parti: dal momento che vedo che, purtroppo, siamo ben lontani dal
trovare
tale accordo, desidero venirvi incontro.» Quelle parole
parvero catturare
l’attenzione dei presenti, che tacquero e si voltarono a
guardarla. Prima di
continuare, la Sacerdotessa parve trarre un minuscolo sospiro di
sollievo. «Anche
se sono convinta che i vostri timori siano infondati e le vostre
richieste
troppo difficili da esaudire», disse, rivolgendosi ai
minatori, «comprendo il
vostro punto di vista. Sfortunatamente, non posso permettervi di
continuare la
vostra protesta così come state facendo ora,
perché, se trascurassimo gli Dèi,
vi sarebbero sicuramente gravissime conseguenze: non devo certo
portarvi degli
esempi tratti dalla storia più o meno recente, sapete tutti
cosa accade a
coloro che contravvengono alle regole divine.»
La
Sacerdotessa fece una pausa e
i presenti parvero dividersi tra coloro che annuivano, evidentemente
d’accordo
con quanto detto da Donna Erin, e coloro che, invece, scuotevano la
testa e
ringhiavano la loro disapprovazione. «Tuttavia»,
continuò lei, «sono certa che,
se dimostreremo un po’ di buona volontà, gli
Dèi comprenderanno la difficile
situazione in cui ci troviamo e saranno disposti a darci un piccolo
aiuto.»
Quando
fu
certa di avere l’attenzione di tutti, la donna
proseguì. «Da settimana prossima,
riprenderemo ad offrire loro un pegno della nostra fedeltà,
così come abbiamo
sempre fatto. Tuttavia, per i prossimi tre mesi, le offerte saranno
ridotte:
sacrificheremo solo una piccola quantità di argento, non
più di una decina di
chili e, al posto dell’argento mancante, offriremo altri
beni: lana, cibo,
oggetti vari. Manterremo la cerimonia intatta, naturalmente,
costruiremo un
forno che abbia la stessa grandezza di sempre e, per scusarci della
nostra
mancanza, pregheremo e digiuneremo per il giorno successivo
all’offerta. In
questi tre mesi, ovviamente, non ce ne staremo con le mani in mano, ma
cercheremo di risolvere i malintesi che ci hanno portati in questa
situazione
così sgradevole e troveremo una soluzione equa, che
accontenti tutti: questo significa
che ognuno di noi dovrà fare dei sacrifici, ma, alla fine,
la pace è il bene
più grande che abbiamo, non credete?»
Gli
uomini parvero esitare e
Quinto, che fino a quel momento non aveva mai parlato, si
schiarì la voce per
attirare l’attenzione della Sacerdotessa. «Mi pare
una buona idea, almeno per
risolvere la questione delle offerte agli Dèi»
disse, con voce quieta. «Tuttavia,
temo che, per trovare una soluzione al problema politico che ci
troviamo tra le
mani, tre mesi siano decisamente troppo pochi. Non dimentichiamoci che
abbiamo
appena perso degli uomini in circostanze poco chiare. Le circostanze
andranno
investigate, non possiamo lasciar correre.»
La
donna annuì. «Naturalmente,
Legato. Capisco benissimo la vostra necessità di fare
chiarezza e ti posso
assicurare che avrete la mia più totale collaborazione, da
questo punto di
vista. Ma non dobbiamo perdere di vista il quadro più
ampio.» Poi sorrise,
incoraggiante. «So bene che tre mesi sono pochi, ma saranno
sufficienti per
gettare le basi di un progetto comune… a patto che tutti
vogliano impegnarsi
per raggiungere un accordo, naturalmente.» Nonostante gli
sguardi dubbiosi di
molti, la folla parve acquietarsi, come per considerare la proposta di
Donna
Erin.
«Erin.»
Quasi
già si aspettasse di
sentire la voce del giovane dalla pelle scura, la Sacerdotessa si
voltò
immediatamente verso di lui, l’ombra del sorriso di poco
prima congelata sul
volto pallido. «Dimmi.»
«Non
credo che sia una buona
idea.» L’espressione tranquilla del giovane
contrastava con quella tesa di
Donna Erin, eppure, negli occhi dell’uomo, Lidia scorse un
bagliore come
d’acciaio.
«Cosa
vuoi dire?» Il tono della
donna era cauto, con appena un cenno di frustrazione.
«Non
si può scendere a
compromessi, con gli Dèi» rispose lui, solenne.
«La loro legge va rispettata
alla lettera perché, nella loro infinita saggezza, essi
sanno che, se
concedessero una deroga anche a una sola persona, presto gli uomini si
farebbero sempre più avidi e arroganti, pretendendo di
erigersi essi stessi al
rango di divinità.»
Le
parole del giovane furono
accolte da un secondo di silenzio quasi assordante,
dopodiché il brusio
esplose, acquistando rapidamente forza e volume. Prima che la
confusione
scoppiasse di nuovo, nel piccolo giardino, la voce del Prefetto Caleno
tornò a
levarsi sopra alle altre. «E allora che cosa proponi, fratello Kay?»
L’uomo
si voltò e lo fissò per un
breve istante con i suoi occhi d’inchiostro. «La
cerimonia delle offerte
riprenderà immediatamente: settimana prossima
verrà versata la stessa quantità
di argento che è sempre stata versata in passato. Non
dovrà mancarne nemmeno un
grammo.»
Caleno
scosse il capo, dubbioso,
mentre le imprecazioni dei minatori fecero sobbalzare Lidia, che,
istintivamente, si rifugiò contro il fianco di Ulf.
Avvertendo il suo
turbamento, l’uomo la circondò con un braccio e le
lanciò un’occhiata per
sincerarsi che stesse bene. Rassicurandolo con un breve cenno del capo,
la
fanciulla tornò a concentrarsi sulla scena che aveva davanti
agli occhi.
«E
dimmi, Sacerdote: come pensi
di fare per convincerci a cedervi di nuovo tutto
quell’argento?»
Erin
e Kay si voltarono
contemporaneamente e i loro sguardi si appuntarono su Sören.
Lidia deglutì,
inquieta: non si era accorta della presenza dell’uomo e il
fatto di trovarselo
davanti, a così pochi metri di distanza da lei, le
procurò un brivido freddo
lungo la schiena. Istintivamente si guardò attorno, alla
ricerca degli altri
due germanici che l’avevano aggredita, ma presto si avvide
che non v’era
traccia dell’uomo con la cicatrice, né del suo
compagno con la faccia da
bambino.
Donna
Erin fece per rispondere,
ma il suo confratello lo bloccò con il cenno di una mano.
«Non sarò io a
convincervi», disse il giovane, ergendosi in tutta la sua
statura, «ma gli Dèi.»
Sören
sogghignò, sarcastico, e
allargò le braccia in un gesto teatrale. «Gli
Dèi, dici? E se, per caso, io
agli Dèi non ci credessi affatto?» In una frazione
di secondo, gli occhi
dell’uomo dalla pelle scura si fecero freddi e il suo viso si
contrasse,
lasciando trapelare quanto poco gli piacesse l’atteggiamento
spavaldo del
germanico. «Allora dovrai lasciarti convincere
dall’esercito di Roma.»
Accanto
a sé, Lidia sentì Ulf
irrigidirsi per un istante, stringendo la presa sulle sue spalle, ma
prima che
facesse in tempo a dire qualcosa, Quinto e Caleno si lasciarono
sfuggire due
esclamazioni ugualmente sorprese. «Non correre troppo,
ragazzo: l’esercito di
Roma ha altre cose a cui badare» scandì il
Prefetto, abbandonando
immediatamente la posa rilassata che aveva sfoggiato fino a pochi
secondi
prima. Anche il Legato si sporse verso il giovane dalla pelle scura,
un’espressione allarmata sul volto dai tratti regolari, ma
Donna Erin si volse
verso di loro, sussurrando qualcosa che Lidia non riuscì a
udire, ma che ebbe
l’effetto di far tacere i due uomini. Il giovane Sacerdote
lanciò ai due
un’occhiata fredda, poi si voltò verso
Sören che, spalleggiato dai minatori più
combattivi, mosse qualche passo verso di lui, minaccioso.
«Roma? Naturalmente,
Roma! Era questo che c’era sotto fin dall’inizio,
non è così, Donna Erin?»
Senza
lasciare alla donna il
tempo di rispondere, Fratello Kay si parò davanti
all’uomo, nei suoi occhi e
nella sua postura la gelida sicurezza di chi non è
minimamente intimorito dalle
minacce dell’avversario. «Stai indietro»
gli intimò, infatti, ottenendo però
solo di aumentare ancora di più la rabbia di Sören
e dei suoi uomini, che
strinsero il cerchio attorno a lui. «Non è a Roma
che vanno le offerte, se è questo
che stai insinuando», proseguì il Sacerdote,
sostenendo lo sguardo d’ambra del
germanico, «ma so che i soldati dell’Impero avranno
abbastanza onore per tener
fede al patto stretto tra il loro Cesare e il Sacro Concilio.
Onoreranno gli Dèi,
costi quel che costi.»
Nell’udire
quella dichiarazione,
Lidia sbirciò rapidamente nella direzione di Caleno, curiosa
di vedere come
avrebbe reagito. Il soldato, però, sembrava aver perso parte
della sua
intraprendenza e restava come in attesa, una strana espressione
guardinga negli
occhi verdi.
Completamente
concentrato sul
giovane Sacerdote, Sören sostenne il suo sguardo per un
lunghissimo istante,
poi, lentamente, un sorriso storto si dipinse sul suo viso.
«Mi chiedo», disse,
fissando il ragazzo con gelida ferocia, «quanti di questi
bravi soldati vi
difenderebbero, se decidessimo di togliervi dai piedi, te e la tua
amica lì
dietro.»
Di
fronte alla minaccia
tutt’altro che velata dell’uomo, Caleno
balzò in piedi, portando la mano al
gladio, ma, prima che chiunque altro potesse reagire, il Sacerdote
levò la mano
verso Sören, quasi intendesse respingerlo con la mera forza
del pensiero.
«No!»
Il
grido di Donna Erin sembrò
immobilizzare tutti i presenti e la donna ne approfittò per
balzare sul suo
giovane confratello, afferrandogli il braccio con entrambe le mani e
costringendolo ad abbassarlo. «Kay, no»
ripeté, senza più gridare, ma ancora
con un tono che non ammetteva repliche.
Lui
la fissò in volto, la
mascella irrigidita e gli occhi che mandavano scintille.
«Togliti» le intimò.
La donna, però, non si allontanò, continuando a
sostenere il suo sguardo, senza
lasciare la presa sul suo braccio. L’intervento della
Sacerdotessa lasciò
comunque il tempo di agire a Gefrid: a un cenno del capo villaggio,
alcuni
uomini si frapposero tra Sören e i due sacerdoti, sospingendo
indietro il
germanico. Lui però si oppose e, con una gomitata, si
liberò da uno degli
uomini che cercavano di trattenerlo. «Dico davvero»
disse Sören, alzando la voce
per farsi sentire da tutti. «Anch’io, come tutti,
riconosco l’autorità dei Sacerdoti.
Ma se un Sacerdote sbaglia, o si dimostra inadeguato, può
essere rimosso! E io
dico che Donna Erin e questo ragazzino si stanno dimostrando
più che
inadeguati! Sono pronti a tradire la nostra Patria e a venderla a
Roma!»
«Silenzio!»
ringhiò Gefrid,
portandosi davanti a lui e afferrandolo per il bavero. Senza quasi
degnarlo di
un’occhiata, Sören lo spinse via e Ulf fece per
scattare in piedi e muoversi in
difesa del padre, ma le mani di Lidia e la voce del giovane Sacerdote
lo
trattennero. «I Sacerdoti che sbagliano possono essere
rimossi», disse il
giovane, che nel frattempo era riuscito a liberarsi dalla presa di
Donna Erin,
«e lo stesso vale per gli uomini che, con le loro azioni o le
loro parole
sconsiderate, possono mettere in pericolo un intero popolo.»
Nella
sua voce non vi era più
alcuna traccia di morbidezza. Con un moto che a Lidia parve quasi di
stizza, il
Sacerdote strinse le mani in un pugno e poi, per la seconda volta in
pochi
minuti, levò nuovamente il braccio destro in direzione di
Sören. Muovendosi con
una rapidità insospettabile, Erin si gettò contro
di lui, costringendolo a
muovere qualche passo verso sinistra e ad abbassare il braccio per
mantenere
l’equilibrio e non cadere a terra. Con un sibilo, il giovane
si voltò verso la
compagna. «Stai al tuo posto!» le intimò.
Lei
non si lasciò intimidire
dalla sua espressione gelida e gli posò le mani sulle
spalle. «Non è questo il
modo, Kay» scandì a bassa voce, alzando un poco il
capo per guardarlo negli
occhi. «Non è questo il modo.»
Nel
giardino era calato un
silenzio che fu spezzato solo dalla voce di Gefrid. «Che cosa
sta succedendo?»
Senza
distogliere lo sguardo da
quello del giovane dalla pelle scura, Donna Erin inspirò
brevemente, prima di rispondere.
«Fratello Kay ha ricevuto dagli Dèi un dono molto
particolare, ma non intendo
discuterne qui. Gefrid, Legato Libo, vi chiedo di portare via i vostri
uomini,
adesso. Ci sono alcuni dettagli sui quali devo confrontarmi con il mio
confratello, prima di discuterne con voi.»
Il
romano e il germanico si
scambiarono uno sguardo grave, poi Quinto mosse un passo verso di lei.
«Ma non
abbiamo risolto nulla» provò a dire. «La
situazione con i minatori è rimasta
uguale a prima.» La donna sospirò e gli
lanciò un’occhiata fugace. «Lo so,
Legato, lo so. Vi farò avere degli aggiornamenti al
più presto, convocherò un
nuovo consiglio. Adesso andate, però.»
Il
Legato annuì, ma Caleno,
chiaramente contrariato, le si avvicinò, ignorando lo
sguardo d’avvertimento
che gli lanciò il giovane dalla pelle scura. «Lo
lasci andare?» sbottò, con una
nota di incredulità nella voce, indicando Sören.
Lei gli posò una mano su un
braccio. «Per ora sì» disse, a voce
bassa, ma non abbastanza perché Lidia non
la sentisse. Sul volto del Prefetto passò un’ombra
scura, poi il soldato si
allontanò, scuotendo il capo e chiamando a sé i
propri uomini.
Spaesata,
Lidia fece saettare lo
sguardo tutt’attorno, cercando di capire cosa stesse
succedendo, ma improvvisamente
Ulf le passò un braccio attorno alla vita, distraendola.
«Andiamo» le sussurrò
l’uomo, chinandosi su di lei. La giovane alzò su
di lui uno sguardo confuso, ma
poi annuì e, lanciando un’ultima occhiata dietro
di sé, lasciò che Ulf la guidasse
fuori dal giardino e poi in strada, seguendo i primi uomini che
iniziavano ad
allontanarsi dalla casa della Sacerdotessa.
«Cosa…»
Lidia avrebbe voluto
chiedere immediatamente spiegazioni, confrontarsi con suo marito, ma
lui le
afferrò la mano e quasi la trascinò via lungo la
strada lastricata. «Dopo»
disse, a mezza voce. «Adesso andiamo a casa. E in fretta,
anche.»
C’era
qualcosa, nel tono di Ulf,
che le fece correre un brivido freddo lungo la schiena, mentre una
paura
improvvisa le stringeva lo stomaco in una morsa. Ha
paura, realizzò improvvisamente la fanciulla, ha paura anche lui.
Percorsero
in silenzio le vie del
paese, camminando così rapidamente che, quando giunsero a
casa e l’uomo chiuse
dietro di sé la porta di legno, la ragazza si sentiva
leggermente in affanno. Nella
relativa sicurezza della loro casa, i due giovani si fissarono in
silenzio per
qualche istante. Alla fine fu Lidia a parlare per prima.
«Cos’è successo là
dentro?»
Ulf
stirò le labbra in una
smorfia amara. «Quello che temevo sarebbe successo: la
presenza di Roma non
verrà più tollerata a lungo, temo.»
La
fanciulla si mordicchiò
nervosamente un’unghia. «Ma, alla fine, nessuno
può davvero dimostrare che Roma
stia rubando l’argento. Anzi, mi pare che siano piuttosto i
sacerdoti a…» L’uomo
non la lasciò finire. «L’argento non
è che un pretesto. Il problema è molto
più
ampio, non lo vedi?»
Lidia
sussultò lievemente di
fronte al suo tono brusco, ma poi fece un cenno d’assenso con
il capo. «Sì,
l’avevo capito» mormorò, abbassando lo
sguardo sulla punta dei sandali che
indossava, improvvisamente a corto di parole.
Sospirando,
Ulf raggiunse la
panca accanto al tavolo e vi si sedette, nascondendo il volto tra le
mani come
spesso faceva quando era stanco o frustrato. Provando una stretta allo
stomaco,
la fanciulla gli si avvicinò, esitando appena, e gli
posò una mano sulla spalla
irrigidita, stringendo un poco le dita e muovendole in un accenno di
massaggio.
«Speravo che le cose potessero risolversi, se non in fretta,
almeno in un paio
di mesi» disse il giovane, con la voce un po’
soffocata dalle mani che ancora
teneva davanti alla bocca.
«E
invece non sarà così, vero?»
chiese Lidia, sebbene conoscesse già la risposta.
«Temo
di no» ammise infatti lui,
alzando gli occhi chiari fino a incrociare quelli della moglie.
Cercando di
cacciare indietro la paura sottile e indistinta che iniziava a
serpeggiarle giù
per la schiena, la ragazza posò entrambe le mani sulle
spalle dell’uomo, se per
confortarlo o per assorbire un po’ della sua forza non
avrebbe saputo dirlo. «Cosa
faremo, allora?» chiese, soffocando una smorfia quando
sentì che la sua voce
suonò un po’ tremula.
Ulf
le posò le mani sui fianchi e
la attirò a sé, premendo poi il viso appena sopra
al suo seno. «Dobbiamo
andarcene» disse, quasi mordendo le parole, come se
pronunciarle gli costasse
una grande fatica.
Lidia,
che aveva preso ad
accarezzargli i capelli, lo scostò un poco da sé.
«Dobbiamo?» ripeté, incerta.
Con
una smorfia amara, Ulf annuì.
«Sì» sospirò. «Se
ci fosse la minima speranza che la situazione possa tornare
normale nel giro di qualche mese, farei allontanare solo te e Unna per
un po’
di tempo. Ma così… restare qui presto non
sarà più sicuro per nessuno.»
Dall’espressione
dell’uomo, Lidia
capì che Ulf si preoccupava anche per suo padre, suo
fratello e per Donna Edda.
Anche loro sono la sua famiglia. Anche
loro sono la mia famiglia. «Mi dispiace»
mormorò allora la fanciulla,
chinandosi fino a posare le labbra sul capo dell’uomo,
provando tuttavia un
piccolo fremito di sollievo. Ce ne andremo
tutti, pensò. Non dovremo
dividerci. Non
era forse stato esattamente quello il suo piano, quando aveva deciso di
disobbedire agli ordini di Ulf e di tornare a Erding con Unna?
Il
giovane annuì in silenzio e
tornò a stringerla a sé; tuttavia, dalla tensione
che ancora irrigidiva il suo
corpo, la ragazza si rese conto che c’era anche
qualcos’altro che lo turbava. E
credo anche di sapere di cosa si tratta. «Chi
era quell’uomo?» gli chiese, intuendo che non ci
sarebbe stato alcun bisogno di
specificare a quale uomo si stesse
riferendo.
Senza
sollevare il viso dal suo
sterno, Ulf scosse le spalle. «Un sacerdote»
replicò, sbrigativo.
Lidia
aggrottò appena la fronte. «Lo
pensi davvero?»
L’uomo
sollevò lo sguardo su di
lei. «Cos’altro potrebbe essere?» La
ragazza strinse le labbra, incerta. «Non
lo so, c’era qualcosa di strano in lui. A parte
l’ovvio, intendo» aggiunse,
quando vide il sopracciglio sollevato di Ulf. «E
poi… Donna Erin ha parlato di
un potere particolare. I sacerdoti hanno poteri magici?»
Lo
sguardo di Ulf si fece
sarcastico. «Perché, conosci per caso qualcuno con
dei poteri magici? La magia
non esiste» dichiarò, piatto.
«E
allora?» chiese Lidia,
inclinando il capo di lato. «E allora non lo so»
ribatté Ulf, alzandosi in
piedi e scostandola un poco da sé. «Comunque non
importa. Appena sarà possibile
farlo, ce ne andremo e né lui, né Erin saranno
più un problema nostro.» Con
quelle parole, l’uomo fece per allontanarsi, ma la giovane lo
trattenne per un
braccio. «Cosa significa ‘appena
sarà
possibile’?» insistette.
Ulf
chinò appena il capo, prima
di rispondere. «Un paio di giorni, credo. Devo prima
sistemare un paio di
faccende, non posso lasciare tutto così a metà,
da un momento all’altro.»
«Certo»
annuì lei, senza però
riuscire a nascondere la preoccupazione che provava.
«Sarà
questione di poco, vedrai»
la rassicurò Ulf, sollevando una mano per accarezzarle una
guancia.
«Va
bene» sospirò la fanciulla,
chiudendo gli occhi e appoggiandosi alla sua mano. Speriamo,
pensò, mentre cercava di rilassarsi sotto al tocco
leggero di suo marito, perché, se
va
avanti così, la situazione rischia di precipitare da un
momento all’altro.
Per
la prima volta da quando le
era giunta voce delle prime tensioni in paese, il pericolo le parve
reale e
immediato e non qualcosa di vago e distante e, per la prima volta, la
fanciulla
ebbe veramente paura. Poi, un brivido diverso la scosse. E,
se le cose dovessero mettersi veramente male, tenere lontano Tito
non sarà affatto facile.
Mordendosi
nervosamente le
labbra, Lidia si strinse di più a Ulf. Dobbiamo
fare in fretta.
***
Erding, 342 AuC, 14 Luglio
Lanciando
un’occhiata al cielo
ingombro di nubi, Lidia tamburellò nervosamente sul
davanzale, chiedendosi
perché non arrivasse nessuno. Spero
che
non mi mandino ancora il soldatino dell’altra volta: parlava
decisamente troppo
e stamattina io non sono dell’umore giusto per fare
conversazione con lui. In
realtà, Lidia non era dell’umore giusto per
parlare con nessuno, quella
mattina, ma Quinto era stato chiarissimo: andarsene in giro non
accompagnata
avrebbe potuto essere estremamente pericoloso, per lei, visti gli
avvenimenti
recenti.
Quando,
la sera prima, il Legato
si era presentato alla loro porta, Ulf non era parso particolarmente
felice di
vederlo, ma l’aveva comunque invitato a entrare, forse
convinto
dall’espressione cupa e inquieta sul volto del romano. Alla
fine Kay l’aveva
spuntata, aveva detto
Quinto, e un drappello di legionari era stato mandato a disperdere il
gruppo di
minatori che avevano sequestrato l’argento, restando poi a
guardia delle
preziose offerte già accumulate in vista
dell’imminente cerimonia sacrificale.
I minatori e i compari di Sören non l’avevano presa
bene, aveva continuato il Legato,
prima di aggiungere che, anche se Lidia non aveva oggettivamente nulla
a che
fare con quella storia, sarebbe stato più prudente se fosse
sempre stata
scortata da qualcuno, almeno quando si trovava fuori casa.
A
quelle parole, la ragazza aveva
guardato Ulf, aspettandosi che protestasse. Tuttavia, anche se a denti
stretti,
il giovane aveva annuito seccamente, dando il suo consenso –
evidentemente,
preferiva sapere Lidia in compagnia dei suoi conterranei, piuttosto che
nelle
mani dei rivoltosi.
E
così, dopo aver svolto qualche
faccenda domestica, Lidia si trovava ad attendere la scorta
che l’avrebbe accompagnata da Ulf, in bottega,
così che non
lei non dovesse trascorrere la mattinata da sola, rischiando di
ricevere
qualche visita sgradita.
Ma qui non arriva nessuno,
pensò spazientita.
Quasi
come per contraddirla,
qualcuno scelse quel preciso istante per bussare alla sua porta.
Esalando con
forza dal naso per dar sfogo alla sua irritazione, fanciulla
marciò decisa
verso l’ingresso, con un’espressione seccata
dipinta in volto. Finalmente! Quando
schiuse l’uscio,
però, le parole di rimprovero che aveva pensato di rivolgere
al soldato le
morirono in gola e la ragazza rimase per qualche secondo a bocca aperta
davanti
al giovane uomo che, a testa alta, era in attesa sulla soglia.
«E
tu cosa ci fai qui? Non sei un
soldato!»
Tito
alzò immediatamente le mani,
come per placarla. «Lo so, ma mi serviva una scusa per
vederti. E comunque una
o due cose le ho imparate anch’io, in questi mesi.»
Così dicendo, il ragazzo si
mosse nella sua direzione, ma Lidia frappose le braccia tra di loro,
facendo un
passo indietro. «Hai imparato qualcosina?»
ripeté, accigliata. «E se
incontrassimo qualcuno in cerca di rogne? Sapresti cosa fare?»
Il
ragazzo esitò per un istante,
poi scrollò le spalle, riacquistando la propria sicurezza.
«Ma chi vuoi
incontrare? Nessuno si azzarderà a fare niente. Non dopo il
discorsetto che i
sacerdoti hanno fatto ieri. Il villaggio è pieno di soldati,
puoi stare
tranquilla.» Tito sorrise, incoraggiante, e la fanciulla
scosse la testa, poco
convinta. «Va bene» sospirò, poi. Il
ragazzo era lì, ormai, e mandarlo via non
aveva senso. «Allora andiamo. È quasi
un’ora che aspetto.»
Sul
volto di Tito passò un’ombra
di delusione, ma poi il giovane romano annuì.
«Come vuoi» disse, prima di
aggiungere, con un filo di amarezza nella voce: «Non
c’è bisogno che tu stia
così sulla difensiva, però. Non sono passato per
causarti problemi o per fare
chissà che: volevo solo assicurarmi che tu stessi bene. Il
Prefetto mi ha detto
di averti vista un po’ scossa, ieri
pomeriggio…»
Davanti
a quella spiegazione,
Lidia rilassò un po’ la sua postura.
«D’accordo, scusa» mormorò,
leggermente
ammorbidita. «Sono un po’ tesa, ultimamente. Non
volevo essere antipatica.» Tito
sorrise, accettando le sue scuse. «Ti capisco» le
disse, prima di posarle una mano
al centro della schiena. «Dai, andiamo. Magari possiamo
scambiare due
chiacchiere, strada facendo?»
Lidia
alzò lo sguardo sul volto
del giovane, ma i suoi occhi scuri erano limpidi e la fanciulla non
vide in lui
nessun doppio fine. «Perché no»
concesse, con un piccolo cenno del capo.
«Allora»,
riprese Tito, tenendo
un tono di voce sufficientemente basso affinché nessun
passante potesse
origliare quello che si stavano dicendo, «Ti è
toccato partecipare al consiglio
a casa di Donna Erin, eh?»
«Eh,
già» confermò lei. «Non ho
capito perché hanno insistito tanto, a dire il
vero.»
«È
vero che è successo un gran
casino?» la incalzò il giovane. Lidia
rifletté un istante, prima di rispondere.
«Non so se lo definirei ‘un
gran casino’»,
disse, soppesando le parole, «ma, di certo, hanno parlato
tanto e non hanno
risolto un bel niente. Tutta colpa del Sacerdote nuovo, per quanto mi
riguarda.
È un tipo strano… tu l’hai
visto?» Tito scosse il capo. «Be’, non mi
piace»
sentenziò lei.
Questa
volta, il giovane annuì.
«Sì, è quello che pensa anche Caleno.
Crede che non ci sia da fidarsi, di lui.»
Cogliendo
al volo l’occasione, la
ragazza cercò di scoprire qualcosa di più su
quello che le era parso di notare
il giorno prima a casa della Sacerdotessa. «Ho come avuto
l’impressione che il
Prefetto non fosse tanto sorpreso di trovarselo davanti,
però. Non dico che lo
conoscesse, ma mi è quasi sembrato che… non so,
che lo stesse aspettando.»
Tito
la guardò, sorpreso. «Non
credo proprio che Caleno abbia qualcosa a che fare con lui. E, di
certo, non lo
conosce. Da quanto ne so io, i sacerdoti germanici se ne stanno
piuttosto sulle
loro, non si mischiano con i comuni
mortali… soprattutto se sono romani.»
Lidia
fece schioccare la lingua,
scettica. «Dici? Eppure mi pare che Donna Erin e il Prefetto
si conoscano
piuttosto bene.»
Il
giovane ridacchiò. «Si, be’,
immagino che ci siano delle eccezioni… ma non credo che quel
tizio rientri tra
le eccezioni che interessano a Caleno.» Lidia sorrise,
comprendendo quello che
Tito voleva dire, poi tornò seria. «Boh,
sicuramente sarà come dici tu: però,
secondo me, il Prefetto sa più di quello che dici.»
L’espressione
di Tito si fece un
po’ più severa. «Non lo so:
personalmente non ho motivo per non fidarmi di lui,
è un ottimo uomo e un grande soldato, sicuramente molto
fedele a Roma.»
La
fanciulla si strinse nelle
spalle. «Non lo metto in dubbio, del resto non posso certo
dire di conoscerlo
bene. Però,» insistette, sostenendo lo sguardo del
giovane, «ogni volta che lo
guardo, mi sembra che ci sia qualcosa di strano, in lui. Non lo so,
è difficile
da spiegare, ma non è una bella sensazione.»
Tito
stirò le labbra, in
disaccordo con la ragazza. «Peccato» disse, alzando
le spalle. «Credo che, se
lo conoscessi un po’ meglio, lo apprezzeresti di
più.»
«Può
darsi» concesse Lidia, per
quanto non lo credesse affatto.
Tra
i due giovani calò il
silenzio, ma, osservando con la coda dell’occhio Tito, la
fanciulla notò la sua
inquietudine. Ha in mente qualcosa,
si disse, a disagio. Qualche secondo dopo, il ragazzo
confermò i suoi sospetti.
«So che non vuoi sentirne parlare», disse infatti,
cauto, «ma hai pensato alla
mia proposta?»
Lo sapevo.
Lidia
inspirò a fondo. «Sì, ci ho
pensato» disse, lentamente. «Ne ho parlato con
mio… con Ulf, e abbiamo deciso
che, tra qualche giorno, andremo via da Erding. E con noi verranno
anche mio
suocero, i miei cognati e Donna Edda e… sarò al
sicuro, con loro.»
Anche
se era evidente che la
notizia non gli fece affatto piacere, Tito strinse i denti e, quando
parlò, la
sua voce suonò leggera e regolare. «Tuo suocero
è il capo villaggio» le fece
notare. «Non credo che possa scappare via
così.»
Lidia
avrebbe voluto ribattere,
ma dovette riconoscere che il ragazzo aveva ragione. «Lo
so» ribatté comunque,
testarda. «Ed è proprio per questo che Ulf dice
che gli servono un paio di
giorni per sistemare le ultime faccende qui in paese. Se non fosse
stato così,
ce ne saremmo andati subito.»
Il
giovane sorrise, ma a Lidia la
sua espressione parve forzata. «Ulf…
si direbbe che lo stimi molto.» La ragazza si strinse nelle
spalle, senza
commentare. «Non lo conosco», continuò
Tito, allungando il passo e piazzandosi
davanti a lei, «però credo che il tuo amico stia
correndo un po’ troppo con la
fantasia. Non mi stupirei se, un giorno non lontano, toccasse proprio a
lui
farsi carico delle sorti del villaggio. Se così fosse, la
sua presenza sarebbe
richiesta qui. Se tu accettassi di venir via con me, renderesti la vita
più
facile a tutti, questo è certo!»
Lidia
lo fulminò con gli occhi. «È
mio marito, non un mio amico» puntualizzò.
«E, in ogni caso,
credi davvero che accetterebbe di lasciarmi via con te? Cosa dovrei
dirgli? ‘Oh, Ulf, questo
è Tito, il tipo di cui ti
avevo parlato e con cui ero fidanzata a Roma. Non ti dispiace, vero, se
ti
pianto qui e scappo via con lui? Tanto prima o poi torno. Sempre che
nel
frattempo non ti abbiano ammazzato…’»
Tito
sbuffò, sarcastico. «Certo
che ti è cresciuta la lingua, da quando hai lasciato
Roma» commentò,
squadrandola in un modo che Lidia non seppe decifrare.
«Comunque, no: è ovvio
che bisognerebbe trovare una scusa plausibile. E, guarda caso, io ne ho
una già
bella pronta.»
La
fanciulla si portò le mani
all’orecchie, senza curarsi di quanto infantile fosse
quell’atteggiamento. «Non
importa, non la voglio sentire. Non mi serve il tuo aiuto, non vado da
nessuna
parte senza di lui!» Il ragazzo fece per ribattere, ma Lidia
lo precedette di
nuovo. «Anzi, guarda, siamo arrivati. Puoi lasciarmi qui,
proseguo da sola.»
Tito
fece correre lo sguardo fino
all’edificio in cui si trovava la bottega di Ulf, poi
tornò a concentrarsi
sulla fanciulla. «Non siamo arrivati»
ribatté. «Ci sono almeno cento metri tra
qui e quel posto.»
«Cento
metri di prato»
puntualizzò la giovane. «Dubito che qualcuno si
stia nascondendo tra i fili
d’erba.» Il giovane romano scosse il capo con
forza. «Non importa, ti
accompagno lo stesso.»
Spazientita,
Lidia posò le mani
sul petto del ragazzo. «Tito, no! Non sei nemmeno vestito da
soldato, Ulf si
insospettirebbe. Non è stupido.»
Il
ragazzo parve sul punto di
protestare, ma poi rinunciò, abbassando gli occhi sui suoi
abiti chiaramente
civili. «E va bene» si arrese. «Posso
almeno venire a trovarti, nei prossimi
giorni? Mi farò prestare un’uniforme,
così non si insospettirà nessuno.»
Lidia
esitò. «Come ti ho già
detto, prossimi giorni me ne andrò, non so se
riuscirò a…»
«Vedremo»,
la interruppe Tito,
pressante. «Io ci proverò comunque. Allora, posso
venire a trovarti?» La
fanciulla indietreggiò di un passo, cercando di arginare
l’insistenza del
giovane, ma poi si trovò costretta a chinare il capo.
«E va bene, fai come vuoi»
si arrese. «Ma non ti prometto nulla.»
Tito
sorrise e poi l’abbracciò,
di slancio. «Ci vediamo presto» le promise,
allontanandosi da lei con la stessa
velocità con cui l’aveva presa tra le braccia. Un
po’ spaesata, Lidia gli
lanciò un’occhiata severa.
«Sì, ma ti ho detto che non
devi…»
«Toccarti»
concluse per lei il
ragazzo, per nulla impressionato dalle sue parole. «Lo so, lo
so: ma gli amici
si abbracciano, non credi?»
La
giovane strinse i denti in un
ringhio, ma non rispose, scegliendo invece di voltargli le spalle e di
avviarsi
verso la bottega di Ulf indirizzando al romano solo un vago cenno di
saluto. Ma che razza di faccia tosta,
si disse,
seccata, stringendo automaticamente i pugni. É
sempre stato così… invadente?
Persa
nei suoi pensieri rabbiosi,
Lidia raggiunse la porta della bottega e si accinse a bussare, senza
accorgersi
della presenza alle sue spalle fino a quando una voce famigliare la
fece
sussultare.
«Chi
era quel romano?»
***
Scusate per questi capitoli un po’ lenti
(anche il prossimo sarà un po’
così), ma mi servono per preparare il terreno
all’ultima sezione di storia, che
sarà anche la più movimentata: se non metto bene
le basi, rischio di fare un
pasticcio!
|
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Capitolo 26 *** 25. Segreti ***
Gli occhi grigi di Karl la scrutavano
con sospetto e Lidia dovette fare forza su se stessa per impedirsi di
indietreggiare davanti alla sua presenza imponente.
«Nessuno» si trovò a
balbettare. «Solo un soldato che mi ha accompagnato qui, come
ordinato dal
Legato Libo.»
L’espressione del germanico non
cambiò. «Cosa vuoi dire?»
«Visto quello… visto quello
che sta
succedendo ultimamente, il Legato pensa che sia troppo pericoloso, per
me,
andarmene in giro da sola. Ha detto che devo muovermi solo accompagnata
da un
soldato. Ulf lo sa ed è d’accordo»
aggiunse poi, sperando che la spiegazione
fosse abbastanza convincente da spingere Karl a non indagare oltre.
Per sua sfortuna, non fu così.
«Quell’uomo
non era un soldato: chi era?»
Lidia sentì il sangue defluirle dal
volto e restò per qualche istante con la bocca aperta, alla
vana ricerca di una
spiegazione che le consentisse di non ammettere la verità.
Per un attimo fu
tentata di mentire, di dire che Tito era
un soldato e che il fatto che fosse vestito in abiti civili non era che
una copertura.
Le bastò però una seconda occhiata al viso di
Karl per scartare quell’idea:
anche se conosceva poco il cognato, aveva avuto modo di capire che era
una persona
che non si lasciava raggirare facilmente. Con le mani che tremavano un
po’,
Lidia si abbracciò, cercando di darsi forza.
«Era… era un mio amico, un ragazzo
che conoscevo quando vivevo a Roma» ammise, in un soffio.
Avrebbe quasi voluto essere sincera,
cogliere quell’occasione per liberarsi del peso che il fatto
di dover mantenere
segreta la presenza di Tito le aveva posato sulle spalle, ma la
reazione di
Karl le fece rapidamente cambiare idea. «Un tuo
amico?» ringhiò infatti l’uomo,
scattando in avanti e serrandole le spalle in una morsa dolorosa.
«Da dove
sbuca? So benissimo che non hai mai ricevuto visite, da quando ti sei
trasferita a Erding: quel tipo non vive all’accampamento!
Perché è qui? Perché
compare proprio adesso che le vostre porcate iniziano a venire a
galla?»
Lidia non ebbe bisogno di chiedere,
per capire che quel ‘vostre’
era riferito
a Roma e che Karl, nonostante tutto, continuava a considerarla una
straniera. Invece
di rispondere, la fanciulla si divincolò, cercando di
allontanare da sé l’uomo.
«Lasciami» si lamentò, puntandogli le
mani al petto e scuotendo le spalle. Karl
però non si lasciò impietosire dalle sue proteste
e, anzi, strinse ancora di
più la presa sulla giovane, facendola sibilare di dolore.
«Rispondi» le intimò,
scuotendola.
«È un caso!»
sputò lei, a metà tra la
rabbia e la disperazione. «È solo un caso, e se tu
non ci credi, non so cosa
farci!»
Karl sogghignò. «Vuoi forse
farmi
credere che, con tutti i posti che ci sono al mondo, un tuo amico
arriva qui e,
casualmente, si ritrova sulla tua
porta?» Mentre parlava, l’uomo aveva allentato
lievemente la stretta d’acciaio
delle sue mani e Lidia lo guardò, torva. «Non ho
detto questo» disse, tra i
denti. «Lui è venuto qui per farmi una sorpresa,
naturalmente. Io non ne sapevo
di niente ed è una coincidenza che sia arrivato proprio
adesso.»
Karl la scrutò intensamente per
qualche secondo, prima di parlare. «Ulf sa che è
qui?»
La ragazza lo guardò, allarmata.
«No,
io stessa l’ho incontrato solo oggi: non ho avuto il tempo
parlargliene…
l’avrei fatto quando l’avrei visto» si
giustificò, ingoiando il gusto amaro che
la bugia le lasciò in bocca.
Anche se la sua voce non aveva
tremato, le sue parole non dovevano essere state troppo convincenti,
perché
Karl la trasse a sé, avvicinando il volto a quello della
ragazza finché lei non
riuscì a sentire sul viso il fiato dell’uomo.
«Che cosa stai combinando,
donna?»
Lidia voltò bruscamente la testa di
lato e chiuse gli occhi, tornando a spingere contro il petto del
cognato. «Ti
ho detto di lasciarmi» ripeté, sforzandosi di
mantenere un tono di voce basso.
Improvvisamente, Karl lasciò la presa
e Lidia si accasciò contro il muro, leggermente tremante.
L’uomo però non si
allontanò da lei e, posando le mani accanto alla sua testa,
la intrappolò tra
il suo corpo e la parete. La fanciulla avrebbe potuto leggere un
secondo fine
nel suo atteggiamento, se non fosse stato per l’odio e la
rabbia che brillavano
chiaramente nei suoi occhi d’acciaio. «Io non so
che cos’hai in mente», le
disse, in un tono basso che la fece rabbrividire, «ma Ulf
è un mio amico e
parte della mia famiglia: se avrò anche solo il minimo
sospetto che tu stia
facendo qualcosa contro di lui, giuro che te la farò
pagare… è chiaro?»
Contro ogni buon senso, Lidia sentì la
propria voce parlare ancora. «A me sembra che tu ce li abbia
già, dei
sospetti.»
Karl non apprezzò la provocazione e le
afferrò bruscamente il mento. «Aspetto solo di
avere dei sospetti appena un po’
più fondati, romana»
ringhiò, a pochi
centimetri dal suo volto. Messa alle strette, la fanciulla
inspirò
profondamente, ma, prima che facesse in tempo a urlare, il germanico
l’allontanò da sé, spingendola
malamente contro il muro. «Fa attenzione» le
intimò, prima di voltarsi e bussare alla porta. Lidia si
appoggiò alla parete
di pietra dell’edificio, cercando di riprendere il fiato e il
controllo su di
sé, ma, quando l’uscio si aprì, la
fanciulla si sentiva ancora molto scossa.
«Oh, eccoti!»
La voce di Unna suonò leggera e
sorprendentemente allegra, ma, quando i suoi occhi si posarono su
Lidia, la sua
espressione mutò e la germanica lanciò
un’occhiata interrogativa al marito,
prima di rivolgersi alla ragazza. «E tu cosa ci fai
qua?» la interrogò. «E che
cosa ti è successo?»
«Niente, niente»
mormorò la fanciulla,
passandosi una mano tra i capelli e cercando di ricomporsi. Gli occhi
di Unna
si fecero sospettosi e la donna fissò intensamente il
marito, che però ricambiò
lo sguardo con un’espressione tirata – e
vagamente colpevole? – sul volto e la
superò, scomparendo all’interno
dell’edificio. Unna sembrò sul punto di dire
qualcosa, ma poi scosse il capo,
rinunciando e scegliendo invece di fare un ceno alla giovane.
«Forza, entra» le
disse e, per una volta, a Lidia la sua voce sembrò un
po’ meno tagliente del
solito.
Mordendosi nervosamente le labbra al
pensiero di trovarsi nella stessa stanza con Ulf, Karl e il segreto che
ancora
nascondeva a suo marito, la fanciulla si costrinse a seguire la
cognata. Non che abbia altra scelta, comunque.
Non appena mise piede all’interno
della bottega, Lidia venne subito colpita dalla sensazione che ci fosse
qualcosa
di diverso rispetto alla prima e unica volta in cui si era trovata in
quel
luogo. Durante la sua prima visita, nel locale regnava
l’ordine affollato
tipico di un ambiente in cui si lavorava intensamente, ma a cui si
teneva
troppo per lasciare che la confusione ne deturpasse l’aspetto
e la
funzionalità. Ora, invece, il locale le pareva
più disordinato e, anche se non
avrebbe saputo dire cosa mancasse rispetto alla volta precedente,
più spoglio, come se
fosse venuto a mancare
qualcosa di importante e le cose avessero iniziato a ricadere su loro
stesse e
a scomparire, ingoiate dalle ombre agli angoli della stanza.
Lidia non fece però in tempo a
soffermarsi troppo sui dettagli, perché, quando si rese
conto della sua
presenza, Ulf la raggiunse con un paio di passi. «Che fine
avevi fatto?» le
chiese, con una certa urgenza. «Ti aspettavo più
di un’ora fa!
Non sentendosi ancora in grado di
sostenere il suo sguardo, la ragazza abbassò gli occhi a
terra e si portò una
ciocca di capelli dietro a un orecchio. «Ah…
sì, ho dovuto aspettare un po’ il
soldato.» Con la coda dell’occhio, Lidia vide Karl
voltarsi a guardarla di
scatto. Il suo le parve un gesto quasi stupito e la ragazza fu sfiorata
dal
sospetto che l’uomo credesse che il motivo del suo ritardo
fosse un altro.
«Capito» annuì Ulf,
ignaro, prima di
accorgersi dell’espressione turbata della ragazza e della
rigida postura del
suo corpo. «Va tutto bene?» le chiese allora, con
una punta di preoccupazione, posandole
una mano sul braccio. «Avete incontrato qualcuno, strada
facendo?»
Sforzandosi di sorridere nonostante il
nervosismo, Lidia gli sfiorò il polso con le dita, appena
sopra al nastro rosso
che aveva tanto faticato ad annodare il giorno del loro matrimonio.
«No, è
andato tutto bene. Non abbiamo incrociato nessuno.» Mentre
pronunciava quelle
parole, però, il suo sguardo si spostò
automaticamente su Karl e un fremito le
attraversò il corpo. La cosa non sfuggì a Ulf,
che si voltò per osservare
l’amico: davanti alla domanda silenziosa dell’uomo,
Karl irrigidì le spalle e
si mosse leggermente a disagio, ma la sua espressione rimase
determinata,
mentre lanciava a Lidia un’occhiata d’accusa.
Seguendo l’istinto che le ordinava di
agire per prima, la fanciulla strinse la mano di Ulf, ignorando i
gelidi occhi
di Unna che sembravano non perdere un particolare di quello che stava
avvenendo
nella stanza. «Non credo di piacergli molto»
mormorò, indicando il cognato con
un cenno del capo. «Non si fida di me.»
Davanti a quell’accusa – per
altro
assolutamente fondata – Karl fece per muovere un passo in
direzione della
giovane, ma Unna lo trattenne, affondando le dita nel braccio del
marito. Anche
se con una piccola esitazione, Ulf prese le difese della moglie,
frapponendosi
tra lei e l’altro uomo e celandola alla sua vista.
«Cos’è questa storia?»
chiese, con una nota di avvertimento nella voce.
Karl sbuffò, sprezzante.
«Perché non
lo chiedi a lei?» propose, indicando con il mento Lidia.
Ulf chiuse gli occhi per una frazione
di secondo, poi fece un passo indietro, spostando lo sguardo
dall’uomo alla
fanciulla. «Lo chiedo a entrambi» disse, con il
tono di chi non ha voglia di
perdere tempo.
I due si fissarono senza parlare, ma,
prima che il silenzio diventasse troppo pesante e le cose sfuggissero
di mano,
Unna intervenne. «È una cosa che riguarda te e
me?» chiese, strattonando con
malagrazia il braccio del marito. Lui scosse il capo. «Non
direttamente, ma…» «…
e allora vediamo di levarci dai piedi» sbottò la
donna, interrompendolo. «Non
ho nessunissima voglia di assistere a qualche dramma famigliare. Ne ho
già
abbastanza dei miei, di drammi.» Così facendo, si
tirò un colpetto sulla pancia
e sbuffò, girando sui tacchi e tirando di nuovo Karl verso
di sé. «Vedete di
risolvere in fretta qualsiasi problema abbiate e di non farmi perdere
tempo
inutilmente» continuò poi, osservando critica il
fratello. «Non ci servono
altri imprevisti.» Ulf, ancora concentrato su Lidia,
annuì senza nemmeno
guardarla, ma la giovane romana le rivolse un piccolo cenno del capo,
sperando
che la donna cogliesse il suo ringraziamento muto: Unna
l’aveva appena aiutata,
ne era certa, anche se non capiva perché l’avesse
fatto.
Quando furono rimasti soli, Ulf
sospirò e poi si appoggiò al davanzale,
osservando la fanciulla in silenzio,
quasi cercasse di indovinare cosa le passasse per la mente.
«Allora», disse poi,
«posso sapere cos’è successo tra te e
Karl?»
Torcendosi nervosamente le mani, Lidia
gli si avvicinò di un passo, senza osare raggiungerlo e
toccarlo. «Mi ha vista
con un romano e mi ha accusata di avere in mente qualcosa»
disse, decidendo di
prenderla alla larga.
Ulf aggrottò la fronte, senza capire.
«Un
soldato? Perché dovrebbe vederci qualcosa di strano? Sa
benissimo come stanno
le cose…» La ragazza deglutì.
«Non era un soldato» confessò; e subito
l’espressione di Ulf mutò, facendosi
improvvisamente più tesa. Non ce
la faccio, pensò disperatamente
Lidia, maledicendosi per la propria codardia.
«No?» chiese ancora Ulf,
chinando un
po’ la testa per guardarla negli occhi. «E chi era,
allora?»
«Un mio amico, una persona che
conoscevo quando ero a Roma» esalò la ragazza, in
un soffio. «É per questo che
sono arrivata in ritardo. Ho aspettato per quasi un’ora che
arrivasse il
soldato e, alla fine, quando mi sono trovata davanti lui, ero talmente
stupita
che… be’, naturalmente abbiamo parlato un
po’. Poi mi ha accompagnato qui. Mi
ha lasciato qua fuori e Karl ci ha visti mentre ci salutavamo
e… è saltato alle
conclusioni sbagliate.» La mezza bugia le venne estremamente
naturale e la
giovane se ne vergognò, ma non abbastanza per ammettere
tutta la verità.
«Un tuo amico»
ripeté Ulf, con voce
piatta, senza muoversi dalla sua posizione.
«Perché non ne sapevo niente?»
Lidia strinse i denti e ricacciò
indietro l’inquietudine legata alla sensazione di essere
sotto interrogatorio. «Nemmeno
io sapevo che sarebbe venuto a trovarmi. Ha voluto farmi una sorpresa,
ma ha
scelto un brutto momento…» Nella speranza di
dimostrare la propria sincerità,
la ragazza cercò lo sguardo di dell’uomo e lo
sostenne, sperando che nel suo
atteggiamento lui non leggesse alcuna esitazione sospetta. Dopo qualche
istante, Ulf sospirò. «Come hai detto che si
chiama?»
Non ricordando se avesse mai fatto il
nome di Tito a Ulf, Lidia pronunciò la prima cosa che le
venne in mente. «Claudio.»
Forse rinfrancato dalla prontezza con cui aveva risposto,
l’uomo annuì. «Va
bene. Mi piacerebbe incontrarlo, se non ti dispiace.»
Lidia sbiancò, ma si obbligò
a
rispondere comunque. «Incontrarlo? Certo, ma non so
se… è che…»
balbettò, presa
in contropiede. Poi sospirò e chinò il capo,
arrendendosi. «Va bene. Quando
vuoi.» Ulf la osservò, critico.
«C’è qualche problema?»
Lidia si affrettò a negare.
«No, è che
lui è un po’ prevenuto nei confronti dei
germanici. Non vorrei che finiste per
litigare, non ne varrebbe la pena.»
A quelle parole, Ulf le rivolse un
mezzo sorriso. «Anche tu eri prevenuta, quando sei arrivata
qui.»
«Vero» riconobbe lei,
ricambiando il
sorriso appena accennato.
Tra i due cadde il silenzio, poi
l’uomo allungò un braccio in direzione della
compagna, invitandola a
raggiungerlo. Quando Lidia fu a poche decine di centimetri da lui, Ulf
le posò
le mani sui fianchi. «Lidia, io ho deciso di fidarmi di
te» le disse, piano,
appoggiando la fronte contro a quella della fanciulla.
«Faccio bene?»
Lidia chiuse gli occhi e annuì, mentre
l’angoscia minacciava di soffocarla. Bugiarda
bugiarda bugiarda…
«Sì» fece poi, in un
sussurro
spezzato, annuendo di nuovo.
«E allora perché sembra che tu
stia
per metterti a piangere?»
La ragazza sollevò una mano se la
passò sul volto nel tentativo di ricacciare indietro le
lacrime che avevano
preso a solleticarle gli angoli degli occhi, poi sospirò
profondamente, per
calmarsi. «Non sto per mettermi a piangere»,
mormorò, deglutendo per scacciare
il nodo che le stringeva la gola, «ma sono stanca di tutta
questa tensione. Mi
sembra di non avere più nulla sotto controllo, mi sento
così inutile…»
Ulf la attirò a sé e la
ragazza si
appoggiò a lui. «È una sensazione che
abbiamo tutti» disse, nel tentativo di
confortarla. «O, almeno, è una sensazione che ho
anch’io. Vedrai che, quando
saremo via da qui, passerà tutto.»
Sebbene non riuscisse a credere
ciecamente nelle sue parole, la fanciulla si lasciò
rassicurare da esse, e,
passandosi discretamente una mano sotto al naso, cercò di
rilassarsi sotto alle
lievi carezze concentriche che Ulf stava tracciando sulla sua schiena.
C’era, naturalmente, qualcosa che le
impediva di essere completamente a suo agio. Sì,
si chiama ‘coscienza sporca’, venne in
suo aiuto la voce che, anche
a mesi di distanza dall’ultima volta in cui aveva visto
l’amica, tanto assomigliava
a quella di Lucilla. E ti sta bene,
coniglio. Credi davvero che la verità non verrà a
galla, prima o poi?
No,
ribatté
testarda un’altra parte del suo essere, quella che non
desiderava altro che
nascondersi in un luogo buio e sicuro e dormire finché non
fosse passato tutto.
Se gliene parlassi adesso si
arrabbierebbe di sicuro. È già un momento
difficile, non serve complicare
ulteriormente le cose. E poi tra me e Tito non ci sarà mai
più nulla, per cui
posso benissimo presentarglielo come un mio amico. Il passato non ha
più
importanza, ormai!
Quella sorta di battaglia interiore
ebbe vita breve: la paura e l’incertezza misero rapidamente a
tacere i sensi di
colpa e la fanciulla si convinse che davvero quello non fosse il
momento
migliore per rivelare a Ulf la vera identità di “Claudio”. Relegando
i dubbi in un angolo della mente, Lidia lasciò
che il suo corpo si rilassasse e aderisse meglio a quello di Ulf. Con
gli occhi
chiusi, la giovane appoggiò il capo contro il petto del
marito e lasciò che il
battito regolare e leggermente ipnotico del suo cuore la cullasse in
uno stato
simile al dormiveglia o alla trance.
«Ti manca Roma?»
Lidia sobbalzò quasi, sbattendo
lentamente gli occhi davanti a quella domanda che l’aveva
riscossa dal suo
stato di rilassamento. «Un pochino» disse,
sentendosi la bocca un po’
impastata. «Qualche volta, quando ci penso, un po’
mi manca.»
«Vorresti tornarci?»
Appena un po’ meravigliata, la
fanciulla posò le mani sulle spalle dell’uomo, con
un sorriso triste. «A te non
piacerebbe, credo.»
Lidia avvertì, più che
vedere, il movimento
di Ulf, che si spostò per sistemare meglio il loro peso
contro il davanzale. «Lo
so. Indipendentemente da questo, però, non pensi mai di
tornarci?»
La giovane corrugò la fronte, confusa.
«Senza di te, intendi?»
L’uomo sollevò le spalle,
senza però
negare, e Lidia non seppe se essere intenerita o allarmata da quel
tentativo di
Ulf di sondare il terreno delle sue intenzioni. «Pensavo che
fosse chiaro che non
voglio andare da nessuna parte, senza di te» disse,
dolcemente, ma venne
sorpresa dallo sbuffo ironico di Ulf.
«Non mi credi?» chiese,
leggermente
piccata, alzando lo sguardo sull’uomo. Lui scosse il capo.
«Ma no, non è che
non ti credo» ribatté lui, inclinandosi un
po’ all’indietro per osservarla
meglio. «È che a volte mi sembra strano come le
cose siano cambiate così tanto
in così poco tempo.»
Lidia sorrise, timida. «Lo so, ma
adesso io ci tengo a te» mormorò a mo’
di spiegazione, nascondendo il volto
contro la maglia dell’uomo per nascondere il rossore che le
aveva invaso le
guance. Per qualche attimo Ulf non rispose, poi posò una
mano sulla sua testa,
accarezzandole i capelli. «Sì», disse,
con appena una nota divertita nella
voce, «anch’io ci tengo a te.»
La ragazza avvertì qualcosa di non
detto, nelle sue parole. «…
però?» chiese, con un filo di inquietudine. Lei
era
stata sincera, quando aveva detto di tenere a lui: per lui non era lo
stesso?
«Non c’è nessun però» sorrise
l’uomo, accorgendosi del suo disagio e accarezzandole
la guancia. Lidia lo guardò, mordendosi inconsciamente le
labbra. «No?» chiese
di nuovo, poco convinta.
Lui fece per negare, ma poi si bloccò,
cercando nei suoi occhi la risposta a una domanda mai posta.
«Devo dirti una
cosa» disse all’improvviso Ulf. «Non
è niente di che, a dire il vero, però
credo che sia giusto che tu lo sappia.»
Il tono in cui pronunciò quelle parole
le provocò una fitta allo stomaco e Lidia lo
guardò con gli occhi sgranati, mentre
le sue dita si stringevano automaticamente sulla maglia
dell’uomo. «Che cosa?»
balbettò, sentendo una paura irrazionale impossessarsi di
lei.
«Non guardarmi così, te
l’ho detto,
che non è niente di che» si affrettò a
rassicurarla Ulf. «È solo che,
all’inizio,
quando ho accettato di sposarti, non avevo intenzione di tenerti con
me.»
Oh.
Non sapendo bene cosa farsene di
quell’informazione, Lidia aprì e chiuse un paio di
volte la bocca, senza
riuscire a formulare la domanda giusta. «In che
senso?» chiese, dopo diversi
secondi.
Ulf esitò. «Le cose tra romani
e
germanici non andavano tanto bene già allora»
spiegò. «Sapevo che, prima o poi,
la situazione sarebbe esplosa, come effettivamente ha fatto.
Speravo… be’,
speravo che allora i romani se ne sarebbero tornati a casa e contavo
sul fatto
che tu avresti colto l’occasione al volo e saresti tornata a
Roma con loro.»
Lidia lo guardò senza capire.
«Non
capisco» disse, confusa. «Ma allora
perché mi sei corso dietro, quella notte
che ho cercato di scappare?»
Ulf si strinse nelle spalle. «Allora
era troppo presto: mi serviva una scusa per dimostrare a Erin che io
avevo
fatto tutto il possibile per tenerti con me e che non era certo colpa
mia, se
ci trovavamo in una situazione di guerriglia nella quale le leggi
normali non valevano
più niente…»
Lidia annuì. «Mh…
avevi pianificato
tutto, eh?» Ulf sorrise, ma tenne gli occhi bassi.
«Non avevo certo pianificato
il fatto che tu saltassi dalla finestra, ma, per il resto…
sì, mi ero fatto i
miei programmi.»
«E perché me lo stai dicendo
proprio
adesso?» gli chiese ancora la ragazza.
«Quel tuo amico…» il
giovane aggrottò
la fronte, interrompendosi per un istante. «Non so, ho
pensato che forse anche
tu potessi esserti fatta un piano di fuga e… ecco, io ho
cambiato idea, ma forse
tu no?»
«Ho cambiato idea
anch’io» replicò
d’istinto la fanciulla, con il cuore che improvvisamente
aveva accelerato i
battiti. «Non ho più voglia di scappare.»
Ulf annuì. «Sì, me
l’hai già detto
tante volte e, a questo punto, penso di potermi fidare… era
solo un dubbio che
avevo. Come io mi ero fatto un piano, mi pareva solo logico che tu
avessi fatto
altrettanto.»
Tito.
Diglielo, la
incitò la sua coscienza, questo
è il momento adatto. Te l’ha chiesto. Diglielo.
Non si arrabbierà.
Lidia inspirò profondamente,
stringendo i denti per darsi coraggio. Sì.
È giusto.
Subito dopo, un impulso contrastante. No. Hai mentito, prima, non puoi cambiare
idea adesso.
Diglielo.
La fanciulla deglutì.
«Sono… sono
cambiate tante cose, adesso» sussurrò, cercando di
trovare le parole adatte. «Prima
di conoscerti non avevo idea di come sarebbe stato. Pensavo…
pensavo delle cose
che adesso non penso più.» Lidia si interruppe,
asciugandosi le mani sudate
sulla gonna e cercando una via per cui procedere.
«Io…»
«Non è tutto.»
Le parole di Ulf, quasi sputate, la
costrinsero a interrompersi e fu solo in quel momento che la fanciulla
si
accorse della tensione dell’uomo. Era talmente presa dalle
sue paure che non si
era accorta che Ulf non sembrava passarsela meglio.
«Come?» chiese,
disorientata.
Il volto del giovane si contrasse in
una smorfia, come se fosse stato costretto a mandare giù un
boccone amaro. «Anch’io
pensavo delle cose che adesso non penso più»
disse, riprendendo le parole di
lei. «Prima era diverso, prima sarei stato disposto a fare
delle cose che…
delle cose a cui adesso non posso neanche pensare,
e…»
Lidia raddrizzò la schiena e, in preda
a un presagio che la raggelò, alzò lo sguardo sul
volto del marito. «Quali
cose?»
Ulf esitò, come se parlarne gli
costasse una fatica enorme. «Avevo anche preso in
considerazione l’ipotesi che
tu non volessi affatto andartene.»
La fanciulla non commentò, come
pietrificata dal significato che intuiva dietro a quelle parole.
Avrebbe quasi
voluto che l’uomo lasciasse le cose com’erano, che
non parlasse più, ma Ulf
proseguì nella sua spiegazione, evidentemente intenzionato a
mettere in chiaro
le cose. «Pensavo… pensavamo che, nel caso tu non
volessi andartene di tua
spontanea volontà, si sarebbe potuto fare qualcosa per
convincerti ad
andartene. Oppure…», l’uomo si
interruppe, prima di continuare, tutto d’un
fiato, «oppure avremmo trovato un modo per toglierti di
mezzo.»
Lidia si allontanò bruscamente da lui,
in preda all’orrore. «Togliermi di
mezzo?» sbottò, incredula. «Vuoi dire
uccidermi?»
Ulf mosse un mezzo passo nella sua
direzione, ma poi si bloccò, frustrato.
«Sì», ammise, prima di correggersi,
«no,
non lo so! Era una cosa molto vaga, teorica, non avevo pensato ai
dettagli!
Lidia… non ho mai pensato di farlo davvero!»
Davanti all’angoscia che poteva
leggere sul viso del marito, la fanciulla smise di indietreggiare, ma
mantenne
comunque le distanze. Sollevando le mani, Ulf provò a
calmarla. «Erano dei
pensieri rivolti a una sconosciuta, a un’idea, più
che a una persona reale. Non
so se capisci cosa intendo.»
Lidia lo guardò di soppiatto,
corrucciata, col cuore che le martellava nel petto e un cattivo sapore
in bocca.
Sì, anche se quello che le aveva rivelato Ulf
l’aveva riempita di sgomento,
sfortunatamente riusciva a capire quello che intendeva. Quando suo
padre le
aveva comunicato il suo destino, in quel lontano giorno
d’aprile, lei non aveva
progettato di uccidere quello sconosciuto che l’avrebbe
portata via di Roma e
dalla sua vita, ma, se le fosse giunta la notizia che quel barbaro era morto, lei avrebbe di certo
esultato. Ma non ho mai pensato di ucciderlo
io
stessa. Non ne sarei mai capace. E questo fa tutta la differenza del
mondo.
Accigliata, alzò lo sguardo su Ulf.
«Quando
mi hai conosciuta, hai pensato di uccidermi?» chiese, con la
voce che
inciampava sull’ultima parola. L’uomo scosse
immediatamente il capo. «No» negò,
guardandola negli occhi. «Di mandarti via sì,
almeno all’inizio, ma di farti
veramente del male no, mai.»
Malgrado il turbamento che ancora le
stringeva la gola, Lidia avvertì la sua
sincerità. «Mai?» chiese, senza
riuscire a evitare che la sua voce suonasse un po’ sollevata.
«No» confermò
l’uomo, prima di
abbozzare un pallidissimo sorriso. «Be’, forse
all’inizio mi è venuta voglia di
tirarti le orecchie, qualche volta. Eri davvero impossibile. Ma, a
parte
quello…» Lidia annuì, mentre le sue
spalle si rilassavano e tutto il suo essere
tirava un sospiro di sollievo. Sì,
rilassati, ma non troppo, l’avvertì
qualcosa all’interno della sua testa. Non
si sa mai.
«Lidia», mormorò
ancora Ulf, cercando
i suoi occhi, «io non ti farei mai del male, spero che questo
tu lo sappia. Se
ti ho raccontato queste cose è solo perché volevo
essere sincero, con te, adesso
più che mai. Ci sono già tanti segreti da queste
parti, non voglio che ce ne
siano anche tra di noi.»
La ragazza si trovò ad annuire e fu
tentata di rivolgergli un piccolo sorriso, ma si affrettò a
soffocare
quell’impulso. No, niente sorrisi! La
rimproverò il suo inconscio. Tu
sei
arrabbiata, con lui! Rimani arrabbiata, se lo merita!
Ma se lo meritava veramente? Lidia non
poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di stonato, in
quello che
aveva scoperto. «Saresti stato davvero in grado di fare una
cosa del genere a
tua moglie? O, più in generale, a una persona che non ti
aveva fatto niente?»
gli chiese improvvisamente, passandosi le mani sulle braccia in cerca
di
conforto.
Ulf esitò. «Non lo
so» disse poi, con
voce stanca. «Non credo, in tutta onestà. Era solo
un’idea stupida, senza
fondamento, in effetti.» Lidia si morse le labbra.
«Però ci hai pensato
comunque.» L’uomo sospirò. «Se
devo essere sincero», ammise, «il suggerimento
è
arrivato da Karl. Ma io non mi sono opposto, ho le mie
responsabilità. Non
cerco giustificazioni.»
Anziché rassicurarla, quelle parole la
terrorizzarono. Lidia si rese conto di non aver mai veramente pensato
che Ulf
sarebbe stato in grado di farle del male, ma Karl… Karl era
un’altra storia.
Improvvisamente l’odio che aveva visto brillare nei suoi
occhi chiari assunse un
significato del tutto diverso, le ombre doloranti che già
avevano iniziato a
formarsi là dove le sue mani l’avevano stretta le
sembrarono più pericolose e
le parole che le aveva rivolto prima di allontanarsi da lei si fecero
infinitamente più minacciose.
Karl voleva ucciderla. Karl poteva
ucciderla.
Accorgendosi dell’improvviso tormento
della moglie, Ulf si accigliò. «Lidia?»
Senza quasi rendersene conto,
dimenticandosi del suo proposito di tenere le distanze per un
po’, la fanciulla
si lanciò verso di lui, artigliandogli gli avambracci.
«Karl mi ha minacciata,
prima» disse, concitata, con gli occhi spalancati per la
paura. «Mi ha spinta
contro il muro, mi ha fatto male!»
Negli occhi di Ulf passò
un’ombra
scura, ma poi l’uomo si liberò dalla presa di
Lidia e strinse le mani della
giovane nelle sue. «Prima che arrivaste qui?» la
interrogò. La ragazza annuì. «Non
gli sono mai piaciuta» mormorò, spaventata.
«Mi odia. Non so perché, ma mi
odia.»
Ulf scosse la testa. «Gli
parlerò io,
gli dirò di non toccarti più» le
promise, deciso. «Però ti assicuro che Karl
odia Roma, non te.» La fanciulla alzò su di lui
gli inquieti occhi scuri. «Per
lui siamo la stessa cosa.» «Non lo siete,
credimi» la contraddisse il giovane.
«I motivi per cui lui odia Roma non hanno nulla a che fare
con te.»
Non sentendosi in grado di ribattere –
del resto conosceva troppo poco il cognato per poter capire cosa gli
passasse
per la testa – Lidia annuì, abbassando gli occhi a
terra. Poi si portò le mani
al petto: malgrado le rassicurazioni di Ulf, lei non si sentiva affatto
tranquilla. Esitante, quasi aspettandosi che lei si scostasse o
fuggisse via,
l’uomo le posò una mano su una spalla e attese una
sua reazione. I suoi occhi
erano guardinghi e sul suo volto teso la giovane lesse
un’inquietudine che non
le era mai capitato di osservare.
Lidia sospirò. Anche se non aveva
affatto gradito le rivelazioni fattele da Ulf, capiva perfettamente che
qualsiasi
piano suo marito avesse fatto prima di conoscerla non era rivolto a
lei, bensì
all’idea astratta di una persona senza volto né
identità. Scuotendo appena il
capo, la fanciulla chiuse di nuovo la distanza tra loro e fece
scivolare le
braccia attorno alla vita dell’uomo, appoggiandogli la testa
sul petto. Avvertì
immediatamente il suo sospiro di sollievo e le sue braccia che la
circondarono,
stringendola a sé.
Gli voleva bene. Nonostante tutto, gli
voleva bene. Anche se non so niente di
te. Ed era vero. Dopo tre mesi passati insieme, Lidia si
accorgeva di non
sapere praticamente nulla di suo marito. Lo conosceva solo per quello
che aveva
avuto modo di vedere durante la loro vita comune, ma il suo passato
rimaneva
avvolto nella nebbia più fitta, o quasi. Chissà
se mi piacerebbe ancora, se conoscessi tutti i dettagli del suo
passato. Chissà
se io piacerei a lui, se sapesse chi ero, quando ero a Roma.
…
se sapesse di Tito.
Lidia nascose una smorfia contro la
stoffa ruvida della maglia dell’uomo. Dalla tensione che
avvertiva nei suoi
muscoli, tesi sotto il palmo delle sue mani, la fanciulla capiva quanto
dovesse
essere stato difficile, per lui, farle quella confessione. La ragazza
aggrottò
la fronte, chiedendosi per l’ennesima volta se non avrebbe
dovuto approfittare
dell’occasione e rivelargli chi fosse veramente Tito. Subito,
però, dovette
trattenere l’impulso di scuotere il capo in un segno di
diniego. Alla luce di
quello che aveva appena scoperto, sentiva che dire la verità
avrebbe potuto
costituire un pericolo per il giovane romano: se anche Ulf non gli
avesse fatto
nulla, chi avrebbe potuto dire come avrebbe reagito Karl?
Ci
sono troppe cose che non so,
si disse Lidia, stringendo per un secondo
tra i pugni la stoffa che ricopriva la schiena del germanico. Se io adesso dico a Ulf come stanno
veramente le cose, chi mi assicura che lui non corra a riferire tutto a
Karl?
Evidentemente sono molto più uniti di quanto non
pensassi…
No, non poteva correre quel rischio.
Non poteva far correre a Tito quel
rischio.
E
poi, anche se Ulf si tenesse tutto per sé… quasi vergognandosi di quel pensiero,
la fanciulla si rese conto di non riuscire a fidarsi completamente di
quella
che avrebbe potuto essere la reazione del marito. Perché
non so di cosa sia veramente capace, riconobbe, con una
smorfia amareggiata. D’un tratto, la giovane fu sfiorata da
un pensiero
scomodo. Anche se il suo istinto le gridava di non farlo, Lidia
sollevò il capo
e si ritrovò a porre a Ulf una domanda di cui non era certa
di voler conoscere
la risposta. «Ulf?»
«Mh?» Nei suoi occhi azzurri
Lidia
vide ancora un’ombra di preoccupazione, ma la
ignorò. «Hai mai ucciso
qualcuno?» chiese, con voce sorprendentemente ferma.
L’uomo lasciò passare solo un
istante.
«Sì.»
Forse fu il tono con cui pronunciò
quella singola sillaba, forse l’espressione del suo volto,
ma, senza bisogno di
spiegazioni, Lidia capì e all’improvviso tutto
assunse un significato diverso.
«Per Unna?» chiese, sentendosi improvvisamente
triste.
«Per Unna» confermò
lui, con una voce
così bassa che la ragazza dovette fare uno sforzo per udirlo.
«Per quelle cicatrici?» fece
ancora
lei.
«E per altro.»
Forse era un errore, doveva di certo essere
un errore, ma la fanciulla non volle sapere più nulla.
C’era Unna e c’erano le
sue cicatrici, c’era un odio per Roma di cui nessuno voleva
parlare e c’era
quello sguardo distante negli occhi della donna, spettro dei suoi sogni
che non
si erano avverati. C’era qualcuno che era morto,
sì, e, forse, c’era qualcuno
che era rimasto vivo.
C’era soprattutto Ulf, si accorse, che
la guardava triste, forse confuso, forse spaventato e, mossa da
qualcosa su cui
non aveva nessun controllo, Lidia si alzò in punta di piedi
e gli affondò il
viso nel collo, cercando il suo calore.
«Lidia», sospirò
lui, e il tono della
sua voce le fece capire che qualsiasi fantasma l’avesse
tormentato un istante
prima era già lontano, «è stato tanto
tempo fa, ero un ragazzo e…»
«Non importa» lo interruppe
lei.
L’uomo sbuffò, leggermente
contrariato. «Dici così, ma…»
«Conosco tanti soldati»
mormorò lei,
sfiorandogli il petto con le mani. «I soldati vanno in guerra
e in guerra muore
tanta gente. Anche mio padre è stato
nell’esercito, da giovane.»
«Ma io non sono un soldato» le
fece
notare lui. La fanciulla si strinse nelle spalle. «Cosa
cambia?»
Ulf scosse il capo, come se avesse
rinunciato a discutere, e Lidia si chiese se, per caso, non fosse lui a
sentire
il bisogno di parlare di quelle cose. Dopo un silenzio che si protrasse
per
alcuni minuti, la ragazza inclinò il capo
all’indietro per incontrare i suoi
occhi e i due rimasero a guardarsi in silenzio per qualche istante.
«Allora?»
Quella di Ulf non era una vera e
propria domanda, ma Lidia la accolse con un sorriso lento, che non
spezzava la
tensione, ma, in un certo senso, la rielaborava.
«Allora» rispose.
L’uomo alzò la mano e con due
dita
seguì la curva del suo viso dallo zigomo al mento, ma,
quando i suoi
polpastrelli sfiorarono il punto in cui Karl l’aveva stretta,
la giovane
sussultò, mentre una fitta di dolore si irradiava verso il
suo orecchio.
Gli occhi di Ulf parvero farsi più
scuri, ma, prima che avesse il tempo di dire qualcosa, Lidia
voltò leggermente
il capo e gli baciò il palmo della mano, prima di
stringergli leggermente la
punta di un dito tra i denti. Ulf sospirò e la
tirò più vicina a sé, senza
smettere di fissarla intensamente. Le dita di Lidia corsero su verso il
suo
collo, fermandosi però sull’allacciatura della
maglia dell’uomo. Mh. Stoffa.
Non voleva la stoffa, voleva toccare
la sua pelle, sentirne il calore sulla punta delle dita. Velocemente,
ma con
una concentrazione quasi religiosa, Lidia slacciò un paio di
bottoni e lasciò
scivolare le mani sul corpo caldo dell’uomo. Ulf trattenne il
fiato e lei,
alzandosi sulla punta dei piedi, gli posò le labbra sulla
gola, schiudendo appena
la bocca per assaporare il sapore della sua pelle. Non avrebbe saputo
dire da
dove venisse quell’improvvisa necessità di
sentirlo vicino, molto più vicino di
quanto l’avesse voluto solo alcuni minuti prima, eppure quel
bisogno parve alla
fanciulla del tutto naturale.
La mano di Ulf le corse alla nuca e,
scostandola da sé quel poco che bastava per chinarsi su di
lei, l’uomo la
baciò, toccandola come se fosse alla ricerca di
rassicurazioni o conforto.
Lidia inarcò la schiena con un sospiro, ma la differenza di
altezza tra di loro
era tale che presto il collo iniziò a dolerle e,
inevitabilmente, la ragazza si
irrigidì. Improvvisamente le mani dell’uomo si
strinsero attorno alla sua vita
e, con un movimento così rapido che Lidia faticò
a capire che cosa stesse succedendo,
Ulf invertì le loro posizioni e la sollevò,
mettendola a sedere sul davanzale. Ah, meglio,
pensò la giovane in uno
sprazzo di praticità, prima di attirarlo a sé e
trovare di nuovo la sua bocca. Mi sei mancato,
pensò, accorgendosi
all’improvviso di quanto avesse sentito la mancanza del
contatto fisico con il
marito, dei suoi baci e del suo tocco sul corpo.
Ulf doveva pensarla allo stesso modo,
perché le sue mani scesero nuovamente sulla sua vita, forse
alla ricerca di un
passaggio che gli permettesse di insinuarsi sotto ai vestiti di lei.
Non
trovandolo a causa dell’abito lungo che Lidia indossava e che
le ricadeva
attorno alle ginocchia, l’uomo le sollevò la gonna
e le fece scivolare le mani
sulle cosce. Come davanti a una richiesta mai formulata ad alta voce,
la
fanciulla allargò le gambe, permettendo al compagno di
insinuarsi tra di esse e
avvicinarsi di più a lei. Poi, guidata
dall’istinto, le strinse attorno a lui,
tirandolo bruscamente contro di sé. Le mani
dell’uomo corsero automaticamente ai
suoi fianchi, toccando appena la pelle morbida celata dalla biancheria
intima,
e poi Ulf spinse il bacino contro quello della ragazza, alla ricerca di
un
contatto diverso.
Lidia inspirò bruscamente, deliziata
dalla sensazione nuova e ancora sconosciuta e, scivolando sotto alla
sua maglia,
appiattì i palmi contro la schiena del marito, muovendo
inconsciamente i
fianchi per aumentare la frizione. La bocca di Ulf lasciò la
sua e scese su suo
collo, mentre l’uomo le sussurrava qualcosa che Lidia non
capì.
La fanciulla chiuse gli occhi,
sentendosi leggera e piena di vita, completamente concentrata sulla
presenza
solida dell’uomo contro di lei, su quello che le faceva
provare e sul calore
liquido che le riempiva il petto. Voglio…
Lidia non era affatto certa di
riuscire ad articolare quello che voleva, ma, nel dubbio,
scivolò un po’
all’indietro, offrendo più spazio di manovra al
marito. Ulf però la trattenne e
la ragazza gemette quando i suoi denti le sfiorarono un orecchio.
«Hai capito?»
Lidia corrugò la fronte e
sbatté gli
occhi nel tentativo di riemergere dalla nebbia che l’aveva
avvolta. «Eh?»
chiese, confusa.
Ulf ridacchiò e posò la
fronte contro
a quella della giovane, baciandole il naso. «Ho detto che sto
aspettando delle
persone.»
Mh,
delle persone…
Lidia si immobilizzò. Delle
persone?!
«Adesso?» chiese, fissandolo
con gli
occhi spalancati. L’uomo si morse le labbra nel tentativo di
rimanere serio.
«Eh, sì.»
Inorridita, la ragazza lo spinse via,
senza però riuscire ad allontanarlo da sé.
«E perché non me l’hai detto
prima!?»
sbottò, facendolo scoppiare a ridere.
«A dire il vero te l’ho detto,
ma non
mi hai ascoltato…» replicò lui, con uno
scintillio negli occhi chiari che la
fece arrossire violentemente. Ridendo, l’uomo fece un passo
indietro e Lidia
balzò giù dal davanzale, affrettandosi a
raddrizzare la gonna e a cercare di
sistemare i capelli spettinati. Ulf le posò di nuovo le mani
sui fianchi,
lisciandole le pieghe del vestito, e lei gli lanciò
un’occhiata critica. «E
allacciati la maglia» borbottò, provvedendo poi di
persona a riallacciare i
bottoni che le sue stesse dita avevano slacciato poco prima. Quando fu
relativamente soddisfatta della situazione dei loro abiti, la giovane
fece per
allontanarsi, ma la presa di Ulf si fece più salda e
l’uomo la osservò
dall’alto al basso, alla ricerca della conferma che il peggio
fosse passato.
Quello di cui avevano parlato quel
pomeriggio non era certo un argomento che poteva essere liquidato con
poche
battute, ma, per il momento, Lidia decise che ne avevano discusso
abbastanza.
Era certa che il discorso sarebbe riemerso, prima o poi, e allora ci
sarebbero
state molte cose da dire – da parte
di
entrambi – ma quello sarebbe avvenuto solo quando
anche lei si fosse
sentita pronta a rivelare a Ulf la sua
parte di segreto. Presto, si
ripromise, ma non oggi.
Con un piccolo sorriso, Lidia allungò
una mano e con due dita scostò una ciocca di capelli chiari
che era ricaduta
sul viso dell’uomo, prima di scivolare lungo le sue braccia
in una carezza e
stringergli le mani, rassicurante. Visibilmente più
rilassato, Ulf annuì e le
posò un bacio sui capelli bruni. Davanti a quella
manifestazione d’affetto, la
fanciulla non poté impedire che il suo sorriso si facesse
più ampio.
***
Avrebbe già dovuto tornare a casa da
un pezzo – Donna Edda non sarebbe stata felice di scoprire
che il pavimento non
era stato lavato nemmeno quel giorno – ma nessun soldato si
era presentato alla
porta della bottega per scortarla fino alla sua abitazione e Ulf stava
ancora
lavorando alla rifinitura di un mobile.
Lidia lo guardò con gli occhi
socchiusi, senza osare aprir bocca. Sarà,
ma a me sembra uguale a prima… pensò,
lasciando scorrere lo sguardo sull’armadietto
di abete.
L’uomo si stava affaccendando attorno
all’anta sinistra da almeno mezz’ora, ma, malgrado
lo avesse osservato con
attenzione, la ragazza non era riuscita a scorgere il minimo
cambiamento nel
legno chiaro. E, tra l’altro, aveva scoperto che Ulf non
accettava volentieri
le critiche, quando c’era di mezzo il suo lavoro.
Permaloso,
pensò
con una smorfia la fanciulla, ricordando la risposta poco educata che
aveva
ricevuto quando si era permessa di fargli notare che, forse,
avrebbe potuto lavorare un po’ più velocemente.
«Dieci minuti e ho finito» le
comunicò
l’uomo, senza alzare gli occhi dalla punta dello scalpello.
«Mh-mh» commentò
lei, sistemandosi meglio sulla cassapanca sulla quale era seduta.
Dopo qualche minuto, qualcuno bussò
alla porta e Lidia si voltò di scatto verso la direzione del
suono. «Aspetti
ancora qualcuno?» chiese, senza riuscire a nascondere la nota
di allarme che
distorse le sue parole. Chi può
essere a
quest’ora? Unna? Un soldato che vuole riportarmi a casa?
Karl? Oh, Dèi, spero
di no! Non sarà Tito, vero? Non può essere
così stupido da venire qui…
Nella frazione di secondo in cui quei
pensieri balenarono nella mente della ragazza, Ulf aveva già
posato a terra gli
attrezzi e aveva raggiunto l’uscio, aprendo di scatto la
porta. «Ah, ancora tu»
lo sentì dire.
Incuriosita – e un po’
rinfrancata dal
tono distaccato dell’uomo – Lidia
allungò il collo e spiò la persona che
attendeva alla porta. Il soldatino
biondo. Lucio. Alzandosi in piedi con un sospiro di sollievo
– Lucio non
era pericoloso – la fanciulla raggiunse il marito.
«Ciao» fece, sorridendo
cordialmente in direzione del legionario. «Grazie per essere
venuto, ma non ce
n’era bisogno. Torno a casa con Ulf.»
Il giovane romano la guardò con la
bocca socchiusa per qualche secondo, poi si riscosse. «Ehm,
no, a dire il vero
non ero venuto per portarvi a casa.»
Lidia e Ulf si scambiarono uno sguardo
stupito, poi l’espressione dell’uomo si
indurì. «E allora cosa sei venuto a
fare?»
Lucio spostò nervosamente il peso da
un piede all’altro, ma sostenne lo sguardo del germanico.
«Donna Erin e
Fratello Kay vogliono vedervi» annunciò, con un
tono che lasciava intendere
quanto poco gli piacesse essere usato come messaggero dai due sacerdoti.
«Ancora?» chiese stupita Lidia,
prima
di riuscire a fermarsi. Il soldato si strinse nelle spalle.
«Sì. Non so
esattamente perché vi abbiano convocati» ammise,
con una smorfia. «Mi hanno
solo detto di portarvi da loro. La Sacerdotessa sembrava normale,
comunque.»
«Normale?» ripeté
Ulf, con un
sopracciglio sollevato.
«Sì, non arrabbiata,
intendo.»
Lidia si portò una mano alla bocca per
nascondere un sorriso sarcastico: che il soldatino
avesse recentemente avuto modo di avere a che fare con una Donna Erin
arrabbiata? Allargando le braccia impotente, Ulf sospirò,
rendendosi conto di
non avere un motivo valido che gli permettesse di opporsi a quella
convocazione. «Va bene, andiamo.»
Quando raggiunsero la loro meta, Lidia
rallentò inconsciamente il passo, sorpresa. Anche se era
passato un solo giorno
dall’ultima volta in cui vi aveva messo piede, in meno di
ventiquattro ore la
casa della sacerdotessa sembrava essersi trasformata in un
distaccamento
dell’accampamento romano. C’erano due soldati a
guardia della porta e altri
quattro che si aggiravano nelle vicinanze. Ancora prima di vedere gli
altri
legionari, Lidia si rese conto, semplicemente incontrando lo sguardo
seccato
del servo germanico che venne ad aprire loro la porta, che la presenza
militare
era massiccia anche all’interno delle mura chiare.
A differenza di quanto si sarebbe
aspettata, la giovane non vide Celano, ma…
No.
Non è possibile.
Tito.
C’era Tito, lì a pochi metri
di
distanza da lei.
E, accanto a lei, c’era Ulf.
Tito e Ulf, nella stessa stanza. E lei
in mezzo, con tutti i suoi segreti e le sue bugie.
No, pensò
ancora, mentre il suo cervello eseguiva un elaborato sobbalzo, no, no, no, non sono pronta!
Tito era immerso in una conversazione
con due soldati che la ragazza non aveva mai visto prima e, per un
istante,
Lidia si illuse che il giovane non si voltasse, permettendole di
sgattaiolare
all’interno e raggiungere Donna Erin senza essere notata da
lui.
La fanciulla mosse tre passi nella sua
direzione, sospinta da suo marito e da Lucio, e Tito
continuò a parlare. Poi
qualcosa attirò la sua attenzione e il giovane romano si
voltò verso di lei.
Anche a due metri di distanza Lidia vide benissimo la sorpresa, la
felicità, la
rabbia e infine l’espressione indecifrabile che si
susseguirono con una
velocità sorprendente sul suo volto.
Infine, Tito sorrise.
«Lidia! Anche tu qui?»
***
Ecco,
finalmente ho superato questa fase di transizione – scriverla
è stato pesante,
rileggerla ancora di più. Ormai i capitoli già
pronti sono agli sgoccioli,
quindi il vostro supporto è ancora più
importante: commenti e osservazioni
varie sono un toccasana, quando l’ispirazione scarseggia!
|
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Capitolo 27 *** 26. Faccia a faccia ***
Lidia lo
guardò, incredula. Non
oserà farlo
davvero, pensò, con il cuore in gola. Con la coda
dell’occhio, la fanciulla
vide Ulf voltarsi a guardarla. «Ah», disse allora,
senza riuscire a nascondere
il nervosismo che incrinò la sua voce,
«sì, Donna Erin vuole vedermi.»
Tito non
si
mostrò particolarmente interessato a
quell’informazione e, anzi che commentare,
spostò lo sguardo su Ulf. «Tuo marito?»
chiese, tornando a rivolgersi alla
ragazza. Lidia deglutì. «Sì»,
ripeté, rassegnandosi all’inevitabile,
«Ulf. Ulf,
questo è quel mio amico di cui ti ho parlato,
Claudio.» Nel pronunciare quelle
parole, Lidia enfatizzò il nome fittizio che aveva assegnato
a Tito, sperando
che il giovane comprendesse la situazione e decidesse di reggerle il
gioco.
Oh, sono certa che la comprende benissimo,
la situazione, commentò sarcasticamente la vocina
nella sua testa. C’è
solo da vedere se gliene frega qualcosa
o se invece intende sfruttarla a suo favore…
Non può essere così stupido,
rifletté
però Lidia. Non
c’è nessun modo per
sfruttarla a suo favore. Come a conferma di quel pensiero,
Tito fu abile a
mascherare la sorpresa nel sentirsi chiamare in quel modo, ma il
sollievo di
Lidia fu solo momentaneo: il sorriso che comparve sul volto del
giovane,
infatti, non le piacque affatto.
Accanto a
loro, Lucio, all’oscuro di tutto, fece passare lo sguardo da
Lidia a Tito,
palesemente confuso. Prima che il giovane soldato avesse il tempo di
parlare e
dire qualcosa che avrebbe svelato l’inganno, però,
Tito gli si avvicinò e gli
posò una mano sulla spalla. «Oh, Lucio»,
sorrise, «se vuoi andare, vai pure. A
loro due ci penso io. Li accompagno io da Donna Erin, se tu hai da
fare.»
Il ragazzo
rimase per qualche istante a bocca aperta, ma poi annuì e si
allontanò da loro,
abbozzando un cenno di saluto e un vago sorriso. Quando furono rimasti
soli,
Tito tornò a osservare Lidia e Ulf e, in una frazione di
secondo, la fanciulla
si rese conto che il giovane non sapeva cosa dire: malgrado il suo
atteggiamento spavaldo, l’incontro inaspettato doveva aver
colto di sorpresa
anche lui, il che le dava un certo vantaggio. «Magari
possiamo parlare più
tardi?» propose, rapida, consapevole che ogni istante era
prezioso. «Credo che
sia meglio non fare aspettare Donna Erin e l’altro
Sacerdote…» Così dicendo, la
ragazza afferrò la mano del marito e mosse un passo verso la
stanza in cui in
passato si erano svolti tutti gli incontri con la Sacerdotessa.
«Aspetta.»
Lidia si
immobilizzò. Era stato Ulf a parlare, non Tito. In preda a
un pessimo
presentimento, la ragazza alzò cautamente gli occhi
sull’uomo. «Sì?»
«Non
c’è
fretta» disse lentamente lui, squadrando il giovane romano da
capo a piedi. Inconsciamente,
la fanciulla strinse i pugni finché le unghie non le si
piantarono nel palmo.
Avrebbe obiettato, sarebbe scappata via, se avesse potuto farlo, ma
capiva con
una terribile chiarezza che non aveva modo di sottrarsi a quel
confronto. «Non
ci conosciamo» continuò Ulf, rivolgendosi a Tito e
facendo deglutire
nervosamente Lidia.
«No,
infatti.»
Tito sorrise e, se non l’avesse conosciuto abbastanza bene
per scorgere la
scintilla fredda che brillava nei suoi occhi, la fanciulla avrebbe
detto che
fosse sincero. «Spero che non ti dispiaccia, se sono venuto a
trovare tua
moglie» continuò il ragazzo, fissando il germanico
negli occhi e ignorando
Lidia. «Noi due ci conosciamo da moltissimi anni e ho
approfittato di un
viaggio in Germanica per passare a farle visita.»
«Certo
che no»
rispose Ulf, sebbene la rigidità nella sua postura sembrasse
affermare il
contrario. «Mi sorprende solo non aver mai sentito parlare di
te. Dovete essere
stati davvero molto legati, se ti sei preso la briga di venire fino a
qui:
nemmeno i suoi genitori sono mai venuti a trovarla, da quando ci siamo
sposati.»
Tito si
mostrò
sorpreso e si voltò verso Lidia. «Davvero non gli
hai mai parlato di me?» Sentendosi
messa all’angolo, la fanciulla fu scossa da un fremito di
rabbia. «E perché
avrei dovuto?» replicò, sdegnosa. «Gli
ho raccontato solo le cose più
importanti, di certo non gli interessa sapere ogni dettaglio su quello
che
facevo a Roma, no?» Così dicendo, Lidia
guardò il marito, ma, se cercava una
conferma, sul suo volto non ne trovò alcuna. «Ogni
dettaglio no», disse Ulf e
per un istante nei suoi occhi passò un’espressione
che la riportò indietro ai primi
tempi della loro convivenza, «ma lui non mi sembra
esattamente un dettaglio.»
Tito
incrociò
compostamente le braccia dietro la schiena e guardò Lidia,
restando in attesa
di ulteriori sviluppi. Lei scosse il capo, cercando una risposta
adeguata. «È
solo un mio amico, te l’ho detto. Avevo molti amici, a
Roma» disse, facendo uno
sforzo per controllare la voce. «Non avevo idea che ti
interessasse di loro.»
Ulf si
strinse
nelle spalle. «E invece mi interessa» disse, dopo
qualche istante di silenzio.
«Non so praticamente nulla di quello che hai fatto prima di
venire qui. So solo
che sei la figlia di un Senatore, che hai un’amica che vive a
nord e che eri
fidanzata…» A quelle parole, Tito si
illuminò. «Ah, gli hai parlato di Tito?»
sogghignò. «Non l’avrei mai
detto!»
La ragazza
lo
fulminò con gli occhi. «Zitto!»
sbottò, irritata. «Non avevo motivo per non
farlo, comunque.»
Il giovane
si
limitò a fissarla con un sorriso scettico, mentre Ulf
passava lo sguardo
dall’uno all’altra, sospettoso. «Non mi
sembrate poi così amici» disse,
lentamente. «È successo qualcosa, tra di
voi?» Nella sua voce a Lidia parve di
cogliere un sottointeso pericoloso e immediatamente il suo volto
cambiò colore
e virò verso il bianco.
Tito, per
nulla a disagio, fece un sorriso storto, tornando ad avvicinarsi alla
giovane. «Non
so, Lidia: è successo qualcosa, tra di noi?»
Lidia
avvertì
un fremito di rabbia scuoterle lo stomaco e strinse le mani in un pugno
nel
tentativo di dominarsi. Smettila,
avrebbe voluto dirgli, ma si limitò a stringere i denti,
distogliendo lo
sguardo e cercando una risposta. Prima che avesse il tempo di trovarla,
però,
la voce di Ulf la costrinse a voltarsi verso il marito. «Va
bene» sbottò
l’uomo, cupo. «Adesso voglio sapere cosa sta
succedendo.» I suoi occhi danzarono
tra i due giovani e Lidia non fu in grado di sostenere il suo sguardo.
Tito, al
contrario, scosse le spalle. «Vorrei tanto saperlo
anch’io.»
«Cosa
vuoi
dire?» chiese di nuovo Ulf, avvicinandosi a lui. Il giovane
romano non parve
intimorito dal suo atteggiamento minaccioso e si voltò verso
Lidia, guardandola
con il capo inclinato. «Vedi», disse, con tono
quasi svagato, rivolgendosi al
germanico, «quando ci siamo separati, a Roma, eravamo in
ottimi rapporti. Ora,
invece, sembrava odiarmi. Quindi, sì: anch’io
vorrei sapere che cos’è successo
in questi ultimi mesi.»
Sentendosi
chiamata in causa, Lidia scosse il capo con forza. «Non ti
odio, lo sai»,
sospirò, fronteggiando Tito, «ma non mi piace il
tuo atteggiamento.»
«Quale
atteggiamento?» insistette il ragazzo, avvicinandosi a lei.
Istintivamente, la
fanciulla alzò una mano per bloccarlo, con la sensazione di
essere presa tra
due fuochi. «Questo tuo essere così
insistente.»
Tito non
riuscì a nascondere l’amarezza che velò
il suo sguardo. «Non mi sembra di
essere particolarmente insistente» mormorò,
cercando gli occhi della ragazza.
«Sono solo rimasto molto sorpreso: sei cambiata e non capisco
perché.»
«Sono
cambiata
e basta» replicò la ragazza, con una smorfia. Se,
da un lato, sentiva che Tito
non aveva tutti i torti, a esigere quella spiegazione,
dall’altro avvertiva
chiaramente che quello non era il momento adatto per discutere di
quelle cose.
«È normale cambiare» riprese.
«Anche tu l’hai fatto, comunque.» Il
giovane
scosse di nuovo il capo. «Sì, ma
l’ultima volta che ci siamo visti, a Roma, eri
terrorizzata. Ti disperavi all’idea di venire qui
e…» Tito si interruppe, ma
guardò la ragazza con un’intensità che
la fece tremare.
«E?»
La
freddezza che Ulf riuscì a mettere in quella singola vocale
le provocò un
capogiro.
«E
pensavo a
un modo per scappare e tornare a casa» mormorò la
fanciulla. «Lo sai.»
Ulf rimase
in
silenzio per qualche istante e Lidia vacillò sotto al peso
degli occhi dei due
uomini. «E immagino che il fatto che lui sia qui non abbia
niente a che fare
con quei progetti, giusto?» chiese il germanico, e
c’era qualcosa, nel tono
distaccato della sua voce, che le strinse dolorosamente il petto. Era
disprezzo? O forse delusione? Per un qualche motivo, quella seconda
ipotesi le
fece più male della prima.
Con gli
occhi
lucidi suo malgrado, Lidia guardò il marito. «Ulf,
cosa stai…»
L’uomo
la
bloccò con un cenno della mano. «Lidia.»
Sentendosi
come sull’orlo di un precipizio, la fanciulla
incontrò lo sguardo cupo di Ulf e
fece per parlare, per spiegare, per trovare forse una nuova scusa, ma
improvvisamente divenne consapevole di un qualcosa - un formicolio, una
pressione all’altezza della nuca - che la costrinse a girarsi
fino a incontrare
gli occhi neri di fratello Kay che la fissavano attraverso la stanza.
Per un
qualche motivo non fu sorpresa di vederlo lì, intento a
scrutarli con quella
sua faccia insondabile.
«Va
tutto
bene, qui?» Lidia sussultò e i due uomini accanto
a lei si voltarono di scatto
verso Donna Erin. La giovane non si era accorta della presenza della
Sacerdotessa
e, a giudicare dal modo in cui avevano reagito, nemmeno Ulf e Tito
l’avevano
sentita avvicinarsi. «Benissimo» rispose il
germanico, asciutto.
«Chi
è questo
giovanotto?» chiese la donna, osservando Tito con il capo
leggermente
inclinato. «Un mio amico» sussurrò
Lidia, sperando di non essere costretta a
rivelare la vera identità del ragazzo. Tanto
Ulf l’ha capito, che gli
stai
raccontando un sacco di balle! Cantilenò la sua
coscienza, quasi
compiaciuta. Ti sta bene, ti sta bene.
Non
cambiava
nulla, comunque. Se proprio doveva affrontarlo, preferiva farlo nel
privato
della loro abitazione, non in mezzo a tutti quegli sconosciuti. E, soprattutto, non davanti a lui,
pensò
con un fremito, lanciando un’occhiata furtiva verso il
giovane Sacerdote con la
pelle scura. Quell’uomo mi
dà i brividi.
Per sua
fortuna, Donna Erin si limitò a sollevare un sopracciglio,
evidentemente poco
convinta da quella spiegazione così superficiale, ma non
commentò. «Magari dopo
facciamo due chiacchiere» disse, rivolta a Tito.
«Mi piace conoscere i nuovi
arrivati.» Poi la donna si voltò verso Ulf.
«Adesso però devo chiederti di
venire con me. Devo parlarti con una certa urgenza.»
Ulf
annuì e,
per una volta, Lidia fu grata dell’intromissione di Erin.
«Va bene.»
Mentre
attraversavano insieme la stanza seguendo la Sacerdotessa, Lidia
cercò di
incrociare lo sguardo del marito, ma l’uomo tenne saldamente
gli occhi fissi
davanti a sé, rifiutandosi di guardarla. Lidia si strinse
istintivamente una
mano al petto, in preda all’angoscia. È
colpa tua, le ricordò di nuovo la sua coscienza,
solidale.
Ha capito? Si chiese la fanciulla,
mentre il suo cervello schizzava come impazzito tra le mille ipotesi
che si
erano materializzate nella sua mente. Oh,
certo che ha capito, ma cosa ha capito? Quanto ha capito? Sa che
è Tito? È
arrabbiato? Ma è ovvio che è arrabbiato, cretina!
Perché non dovrebbe esserlo?
Oh, Dèi, oh, Dèi! Ma davvero ha capito? Come ha
fatto? E adesso? Quel
flusso di pensieri che la stava conducendo rapidamente verso uno stato
di
panico si interruppe bruscamente quando raggiunsero Fratello Kay e
Donna Erin
si fermò davanti a lui.
Va bene. Adesso respira, si fece
coraggio la fanciulla, cercando di dominarsi come meglio poteva. Ignara
dell’angoscia di Lidia – o forse ignorandola
deliberatamente – la Sacerdotessa
si rivolse a Ulf. «Vieni, andiamo di sopra. Lì
potremo parlare meglio: non sarà
una cosa rapida.»
Così
dicendo,
la donna si avviò verso la scala di legno che portava al
piano superiore e Ulf
la seguì senza una parola. Lidia fece per avviarsi dietro di
loro, ma una mano
calò sulla sua spalla, impedendole di proseguire.
«Tu no, signorina.»
Con gli
occhi
spalancati per la paura e la confusione, Lidia si voltò
verso il Sacerdote. «Perché?»
chiese, con voce tremante.
«Erin
deve
parlare con tuo marito e io, invece, ho bisogno di parlare con
te.»
Se
possibile,
gli occhi di Lidia si fecero ancora più grandi.
«C-con me?» balbettò, confusa.
L’uomo
fece un cenno d’assenso e spalancò la porta alle
sue spalle. «Precisamente.
Prego, entra pure.»
Sentendosi
come una preda che si accinge a entrare in una trappola, Lidia fu
tentata di
aggrapparsi allo stipite della porta e non muoversi più da
lì, ma poi un moto
d’orgoglio improvviso le ribollì nel petto. Testa
alta, si disse, cercando di essere risoluta. Dopotutto
si tratta solo di una conversazione. Non può succedermi
nulla
di male.
Mentre lei
cercava di farsi forza, Fratello Kay si era accomodato dietro alla
scrivania di
legno lucido che si trovava nella stanza in cui Donna Erin era solita
accogliere i propri ospiti. Lidia lo guardò mentre si
sistemava per un istante
con i gomiti appoggiati sulla scrivania e, con una fugace smorfia di
frustrazione, spingeva la sedia più lontana dal tavolo,
cercando di trovare una
posizione comoda in uno spazio forse un po’ troppo angusto
per una persona con
le gambe così lunghe. Sembra un
ragazzino,
pensò improvvisamente. Chissà
quanti anni
ha. Invece di farglielo sembrare più innocuo,
però, quell’osservazione lo
rese ancora più inquietante ai suoi occhi.
Il giovane
la
guardava con insistenza, evidentemente aspettando che lei si sedesse, e
la
fanciulla percorse la stanza con lo sguardo: le altre volte in cui si
era
trovata lì, si era seduta sulle poltrone di pelle bianca, ma
di certo non
poteva fare lo stesso, adesso che il suo interlocutore era seduto al
tavolo.
Cercando
di
mascherare la propria impazienza, il Sacerdote accennò alla
sedia che faceva
mostra di sé sul lato opposto della scrivania. «Si
sied… siediti.» Lidia sbatté
gli occhi, confusa, ma poi si riscosse e si affrettò a fare
quello che l’uomo
le aveva ordinato. Perché era un ordine, non un invito.
Quando
finalmente ce l’ebbe di fronte, Kay si adagiò
contro lo schienale della sedia e
osservò la fanciulla con la stessa espressione con cui un
contadino osserva un
capo di bestiame. Come per determinare se vale qualcosa oppure no.
«Bene» disse
poi, chinandosi fino a raggiungere uno dei cassetti della scrivania ed
estraendone carta, pennino e una boccetta d’inchiostro.
«Da quanto tempo sei a
Erding?»
Momentaneamente
distratta dal fatto che il Sacerdote sembrava intenzionato a prendere
appunti,
la ragazza esitò un attimo, prima di rispondere.
«Come, scusa?» chiese,
avvampando. Le sopracciglia scure del giovane si contrassero in quella
che a
Lidia parve un’inequivocabile manifestazione di
disapprovazione. «Ti ho chiesto
da quanto tempo sei al villaggio» ripeté, a suo
beneficio. Malgrado
l’impazienza che la fanciulla credeva di avergli letto in
volto, la voce del
Sacerdote rimase del tutto priva di qualsiasi sfumatura.
«Ah,
io… da
poco più di due mesi, signore. Mi sono sposata a inizio
maggio.» Lidia si
interruppe di colpo, turbata da quel “signore” che
le era sfuggito
inavvertitamente dalle labbra. Quanto
tempo è passato, dall’ultima volta che ho chiamato
qualcuno così? Era un
appellativo che, nei momenti di sconforto, rivolgeva a suo padre,
quello.
«Due
mesi»
ripeté Kay, osservandola con i suoi liquidi occhi neri.
«Sei sempre rimasta al
villaggio o hai trascorso del tempo altrove?» Pur non capendo
perché il
Sacerdote fosse interessato ai suoi spostamenti, la fanciulla rispose
prontamente. «In effetti, ho passato più tempo in
montagna che non al
villaggio» ammise. Quando si rese conto che l’uomo
seduto di fronte a lei si
aspettava una risposta più precisa, Lidia si
affrettò a spiegarsi meglio. «A
inizio giugno sono salita con mia cognata in un alpeggio poco distante.
Ci ho
passato tutto il mese di giugno e, be’… sono
tornata a Erding solo due giorni
fa.»
«Perché
hai
lasciato il villaggio?» chiese il giovane, intingendo il
pennino
nell’inchiostro e abbassandolo poi fino a sfiorare il foglio.
Lidia notò che
non si dava alcuna pena di nascondere quello che si apprestava a
scrivere,
eppure, per qualche motivo, la ragazza non osò abbassare lo
sguardo sul foglio
bianco. «Mio marito… ecco, lui pensava che restare
qui non fosse sicuro, per
me» mormorò.
Fratello
Kay
emise un suono che avrebbe potuto essere d’assenso.
«Hai avuto delle esperienze
negative?» la interrogò. Di nuovo, la giovane si
morse le labbra, prima di
rispondere. «Un giorno… un giorno delle persone mi
hanno avvicinata,
chiedendomi perché fossi qui e facendomi anche delle domande
su Donna Erin.»
«Che
tipo di
domande?» insistette Kay, scrivendo ancora qualcosa. Lidia
aggrottò la fronte,
cercando di ricordare la discussione avuta con Sören
e l’uomo con la faccia da
bambino. «Loro… pensavano che Donna Erin fosse in
realtà al servizio di Roma.
Erano più accuse, che domande, a voler ben vedere.»
«Sapresti
riconoscere quelle persone?» chiese ancora il Sacerdote. La
fanciulla annuì.
«Sì. Uno era Sören,
la persona che…» «So chi è Sören» la interruppe il giovane.
«Qualcun altro?» Lidia deglutì,
sentendosi sotto interrogatorio, e cercò di
ricordare il nome dei suoi altri due aggressori.
«Uno… uno era un ragazzo
biondo, uno che viene da un altro villaggio. E il terzo aveva una
cicatrice in
faccia. Non ricordo i loro nomi, purtroppo.»
«Non
importa, queste informazioni sono sufficienti»
replicò Fratello Kay, posando
seccamente il pennino sulla scrivania. «Perché sei
tornata?» Lidia socchiuse le
labbra, incapace di rispondere immediatamente e sentendosi un
po’ sciocca a
causa della sua esitazione. «Ehm… al villaggio,
intendi?» L’uomo annuì e la
fanciulla fece rapidamente mente locale. Era prudente parlare al
Sacerdote dei
suoi piani di fuga? Ovviamente no!
Decise subito. «Ero preoccupata per mio marito»
fece, allora, rallegrandosi del
suono sicuro della propria voce. «Quando è venuto
a trovarmi all’alpeggio, ha
portato notizie poco rassicuranti e allora ho deciso di tornare a
Erding per
stare vicino a lui.»
«Avevi
paura che potesse commettere qualche sciocchezza?»
La domanda
del Sacerdote la fece sbiancare e Lidia si affrettò a
scuotere il capo,
mettendo nei movimenti più vigore del necessario.
«No, no! Ulf non è uno che
commette sciocchezze» decretò, con una punta di
panico nella voce. A parte quando uccide la
gente per difendere
Unna, ovviamente, le ricordò la sua memoria,
pronta.
Davanti a
quella risposta, Fratello Kay sospirò e la ragazza ebbe
l’orribile sospetto che
non le credesse affatto. «Ti sarà forse capitato
di sentire che girano alcune
voci, qui al villaggio, a proposito delle offerte che, di mese in mese,
offrite
agli Dèi. C’è chi crede che vadano a
Roma e chi invece crede che siamo noi –
membri del Sacro Concilio – a prenderci tutto. Hai mai
sentito parlare di
queste teorie?»
La giovane
romana rimase brevemente spaesata davanti all’improvviso
cambio di argomento,
ma subito i suoi sensi l’allertarono del fatto che, con ogni
probabilità, stava
per inoltrarsi in un terreno pericoloso. Attenta
a quello che dici, adesso, si raccomandò. Per un
istante desiderò di essere
una bugiarda migliore di quella che era in realtà, di avere
la risposta pronta
di Lucilla e la strafottenza di Unna. «Ne ho sentito parlare,
sì» replicò. Una
risposta neutrale, non pericolosa.
«E
cosa ne
pensi, in proposito?»
La giovane
alzò su di lui uno sguardo dubbioso. Era forse la sua fede a
essere in
discussione? Non che avrebbe tutti i
torti a metterla in dubbio, comunque, riconobbe, mentre un
leggero calore
le invadeva le guance. Accantonando quel pensiero, Lidia
annaspò qualche
istante, alla ricerca di una risposta diplomatica. «Sono qui
da troppo poco
tempo per essermi fatta un’idea precisa»
mormorò, azzardando un’occhiata al
volto del Sacerdote per studiarne la reazione. «Tuttavia, le
offerte si fanno
ovunque, anche a Roma. E mi sembra un po’ difficile credere
che tutti i
Sacerdoti del mondo si intaschino le offerte che, in teoria,
spetterebbero agli
Dèi…» Non appena ebbe pronunciato
quelle parole, Lidia si interruppe,
aggrottando la fronte e rendendosi conto di aver detto una cosa che
pensava
veramente. C’è qualcosa
che non torna,
si disse, per la millesima volta.
«Le
offerte
che fate a Roma sono un po’ diverse da quelle che fate qui,
però» le fece
notare Kay. Lidia ebbe l’impressione di scorgere un bagliore
di sfida nel suo
sguardo, ma l’uomo fu veloce a farlo sparire.
«È vero», ammise lei, «ma
sempre
di offerte si tratta.»
Il giovane
Sacerdote la soppesò con lo sguardo per qualche istante, poi
appoggiò i gomiti
sulla scrivania, sporgendosi leggermente verso di lei. «Tuo
marito, invece,
come la pensa? Ha mai affrontato quest’argomento con
te?»
Il primo
impulso di Lidia fu di mentire, di negare che Ulf le avesse mai fatto
parola
dei suoi sospetti. Poi, però, le mancò il
coraggio e, temendo che l’uomo
potesse leggere sul suo volto la menzogna, optò per un
compromesso che non si
allontanasse troppo dalla realtà. «Non
apertamente» mormorò, abbassando gli
occhi sul tavolo per evitare di incrociare quelli di Kay.
«Lui mi sembra…
abbastanza scettico sul fatto che vada davvero tutto agli
Dèi. Però non si è
mai lamentato delle offerte, dice che si sono sempre fatte e che si
faranno
sempre. A me non sembra che… be’, ecco, mi sembra
che l’argomento non gli
interessi un gran che, a dire il vero.»
«No?»
ripeté
lui. Non riuscendo a interpretare il suo tono, la fanciulla
alzò lo sguardo per
studiare l’espressione del suo interlocutore, ma sul volto
del Sacerdote era di
nuovo calata la consueta maschera impenetrabile.
«No» confermò allora,
stringendosi nelle spalle.
«E
sua
sorella? Cosa ne pensa, lei?»
La domanda
sorprese Lidia, che non ebbe difficoltà a rispondere con una
certa naturalezza.
«La pensa nello stesso modo» disse, prima di
aggiungere: «Per quanto ne so io,
per lo meno. Non parliamo molto, noi due.» Gli occhi di
Fratello Kay si
piantarono nei suoi e la ragazza ebbe l’impressione che
quello sguardo scuro
gettasse su di lei una strana malia, una costrizione alla quale non
aveva modo
di sottrarsi. «Non ha dunque mai detto nulla che ti sia
sembrato strano?»
indagò ancora il Sacerdote, assottigliando gli occhi.
Dove vuole andare a parare? Si chiese la
ragazza, a disagio di fronte all’insistenza
dell’uomo. «Non capisco» ammise,
senza riuscire a resistere all’impulso di torcersi
nervosamente le mani, al
riparo sotto il piano di legno della scrivania. Fratello Kay
sospirò. «Ha
sposato un minatore. Voglio sapere se ti ha mai accennato a qualcosa
che Roma
potrebbe aver fatto, in passato.»
La giovane
mascherò un sospiro di sollievo. Per un attimo, era stata
certa che Kay si
stesse riferendo alla macchina volante che Ulf e Karl avevano visto da
ragazzi.
«A Unna i romani non piacciono» rispose allora, con
un sospiro. «Non ne ha mai
fatto mistero. Ma credo che non le piacciano perché ci siamo
stabiliti qui, non
per un qualche motivo che ha a che fare con le offerte.»
«Nient’altro?»
Lidia
scosse
il capo. «No. Avrebbe dovuto dirmi
dell’altro?» chiese poi, osando porre una
domanda diretta al Sacerdote. Lui inclinò leggermente il
capo. «Avrebbe potuto,
più che altro. Se non l’ha
fatto, tanto meglio. Ora, però, passiamo al vero motivo per
cui ti ho chiesto di
venire qui: ho bisogno che tu scriva una lettera.»
La ragazza
aggrottò la fronte, confusa. Ricordava chiaramente che anche
Donna Erin aveva
chiesto a Ulf di scrivere una lettera ai capi de villaggi vicini, ma
certo Kay
non poteva aspettarsi che lei facesse lo stesso, dal momento che la sua
influenza sui germanici era pari a zero. A
meno che… «Voglio che tu scriva a tuo
padre» precisò il Sacerdote,
confermando il sospetto che aveva appena sfiorato la mente della
fanciulla.
«Nei nostri progetti iniziali, avevamo chiesto che altre
ragazze arrivassero a
Erding per consolidare il legame tra Roma e la Germanica. Tuttavia, tu
sei
stata l’unica a trasferirti.»
Già – e il perché
non è certo un mistero,
pensò Lidia, ricordando ciò che il Legato Libo le
aveva detto la notte in cui
si era recata all’accampamento militare per incontrare Tito. Caleno sta remando contro. Non vuole che
arrivino altre ragazze. «Sì,
l’ho notato» disse, soppesando le parole. Il
Prefetto le piaceva poco, ma non intendeva denunciarlo a Kay. Non prima
di
avere inquadrato un po’ meglio il Sacerdote, se non altro.
«Mi
sono
informato sul conto della tua famiglia» riprese il giovane,
chinandosi
nuovamente per raggiungere uno dei cassetti della scrivania.
«So che tuo padre
ha due fratelli e che uno di questi fratelli ha una figlia ancora
nubile.»
Lidia si
mordicchiò un labbro, cercando di fare mente locale e di
ricordare nomi e
generalità di quei cugini che era solita vedere
sì e no una volta all’anno.
«Sì… Ottavia. Ha… dovrebbe
avere all’incirca dodici anni, se non ricordo male.»
«È
quello che risulta anche a me» confermò il
Sacerdote. «Nella lettera che
invierai a tuo padre, gli chiederai di far sì che suo
fratello acconsenta a
dare la mano di sua figlia a un germanico.»
La
fanciulla
lo guardò a bocca aperta, mentre la sua mente correva
all’ultima immagine che
aveva della cugina, una ragazzetta paffutella e timida, con occhi da
cerbiatto
e lucidi capelli neri. «Chi dovrebbe sposare?»
chiese, con la voce che tremava
appena.
«Un
parente
dell’uomo che risponde al nome di Sören.»
Quando vide l’orrore dipingersi
sul volto della giovane romana, il Sacerdote continuò:
«Si tratta di un suo
nipote. Sappiamo che Sören
e gli altri ribelli vogliono distruggere l’equilibrio
che ancora esiste tra Roma e questi luoghi. Ed è per questo
che cercheremo di
mettergli contro parte della sua stessa famiglia. Se tua cugina
sarà
accompagnata da una ricca dote – più ricca di
quella che hai portato tu, per
intenderci – i suoi parenti ci penseranno due volte, prima di
schierarsi al suo
fianco.»
Quella
spiegazione non fece altro che aumentare il disgusto di Lidia che, con
una
stretta allo stomaco, ricordò la paura e il senso di
impotenza che l’avevano
assalita quando era stata lei, a essere venduta a un uomo che nemmeno
conosceva.
E io avevo diciannove anni, non dodici!
«Ma è una bambina!» disse, con voce
strozzata.
«Il
ragazzo ha
solo un anno in più di lei» la informò
Fratello Kay, con indifferenza. «Sarà un
matrimonio equilibrato.»
«È
un bambino anche lui» replicò amaramente Lidia.
Malgrado
le
sue proteste, la fanciulla si era aspettata che l’uomo
ignorasse le sue
perplessità, ma, diversamente dalle sue previsioni, il
Sacerdote le rivolse
l’accenno di un sorriso asciutto. «Esattamente.
È un bambino che, se scoppiasse
una guerra, correrebbe un concreto rischio di morire, non
credi?»
Quell’osservazione
la colse in contropiede e Lidia prese tempo, prima di rispondere.
«Immagino di
sì…» mormorò, senza riuscire
a infondere particolare convinzione alla sua voce.
Il Sacerdote incrociò compostamente le mani davanti a
sé, senza mai smettere di
sostenere lo sguardo della ragazza. «I ragazzini della loro
età non dovrebbero
pensare a sposarsi, sono d’accordo con te. Sfortunatamente,
però, ci troviamo
in circostanze che ci obbligano a fare una scelta: e la scelta, nel
nostro
caso, è di fare il possibile per evitare che scoppi una
guerra civile… di
nuovo.»
«Di
nuovo?»
non poté fare a meno di chiedere la fanciulla. Sapeva che,
in passato, nella
regione di Erding si erano verificati degli scontri anche piuttosto
violenti,
ma non credeva che la situazione fosse mai stata tanto grave.
«Esattamente»
confermò Fratello Kay, tornando ad accomodarsi contro lo
schienale della sedia.
«Saprai che, anche se per breve tempo, alcune decine di anni
fa questi territori
erano sotto il dominio dell’Impero.» La giovane
romana lo guardò con gli occhi
sgranati, sentendosi tremendamente sciocca e ignorante. «No.
Io… non ne avevo
idea. Sapevo che si è combattuto, ma non pensavo che ci
fosse stata una vera e
propria dominazione» ammise, abbassando lo sguardo sulle
proprie mani.
«La
dominazione romana è stata di breve durata, a dire il
vero» riprese il
Sacerdote, ignorando il rossore della fanciulla. «La
Germanica Inferiore non
offre grandi attrattive, ma in compenso è ricca di miniere
d’argento e di altri
metalli preziosi: è per questo che, una trentina di anni fa,
Livio, che
all’epoca era Imperatore, decise di fare un tentativo per
portare queste terre
sotto il suo dominio. Ci riuscì, per qualche tempo, ma, come
puoi bene
immaginare, i locali non la presero bene e opposero una resistenza
molto più
feroce di quanto lui si fosse aspettato. Con il senno di poi, possiamo
dire che
ci è andata bene.»
«In
che
senso?» lo interrogò Lidia.
«Quando
Livio
fu avvelenato e il vostro attuale Imperatore prese il potere, egli si
dimostrò
molto più lungimirante e ragionevole del suo predecessore.
Capì che una guerra
non avrebbe portato a nulla di buono e cercò un compromesso
diplomatico. Ritirò
l’esercito, ma pretese in cambio un occhio di riguardo nel
commercio
dell’argento.»
«E
i germanici
glielo concessero?» chiese Lidia, stupita
dall’atteggiamento accomodante nei
confronti di quelli che erano di fatto degli invasori.
«Se
glielo
concessero, devo dire, fu soprattutto per merito dei miei confratelli e
delle
mie consorelle, che si fecero carico della situazione, ben comprendendo
quanto
fosse importante mantenere la pace.» La ragazza
annuì, ma, prima che potesse commentare,
il Sacerdote riprese: “All’epoca riuscimmo a
scongiurare il pericolo che la
guerriglia si estendesse a tutti i territori meridionali della
Germanica, ma fu
solo per un soffio. E il fatto che, oggi, le pretese di Roma stiano di
nuovo
aumentando non fa che alimentare un malcontento mai del tutto
scomparso. Quanto
pensi che ci vorrà, prima che qualcuno si decida a prendere
di nuovo in mano le
armi?»
Qualcuno l’ha già fatto,
pensò la
giovane, ricordando i legionari uccisi qualche tempo prima.
«Io… capisco la
situazione e mi rendo conto che è peggiore di quanto
pensassi» ammise,
spingendo dietro a un orecchio una ciocca bruna sfuggita
dall’acconciatura.
«Quello che non capisco è come Ottavia –
o qualsiasi altra ragazza – possa
cambiare le cose. I soldi che porterebbe in dote sarebbero ben poca
cosa
rispetto a… tutto il resto.»
«Nessuno
si
aspetta che questi matrimoni combinati cambino veramente le
cose» fece il
Sacerdote, con voce morbida. La fanciulla spalancò gli
occhi, sentendosi quasi
tradita dalle sue parole. No? Si
chiese. E allora io cosa ci faccio qui?
«Non capisco» mormorò. «Non
è quello che Donna Erin mi ha detto quando mi sono
sposata…»
Un’increspatura
quasi impercettibile si disegnò sulla fronte liscia del
giovane. «E questo è
stato l’errore di Erin. Ha riposto troppa fiducia nei mezzi
degli uomini,
dimenticando una semplice verità: se lo volessero, gli
Dèi potrebbero spazzare
via questa rivolta con un singolo battito di ciglia.» Quando
Lidia non diede
cenno di comprendere il significato di quanto aveva detto, Fratello Kay
provò a
spiegarsi meglio. «I matrimoni servono a placare un poco gli
animi della gente,
a parer mio, ma hanno più che altro una valenza simbolica:
dimostrano agli Dèi
la nostra buona volontà e la nostra intenzione di fare del
nostro meglio per
mantenere la pace. Perché Loro predicano la pace, non
dimenticarlo: cercando la
guerra e lo scontro, gli uomini vanno contro la legge che gli
Dèi hanno
stabilito… e la Storia ci insegna cosa accade a coloro che
osano sfidare la
Loro volontà troppo a lungo.»
Immediatamente,
la mente di Lidia corse alla vicenda della città-stato di
Neniveh, sulla quale
Donna Erin aveva insistito qualche giorno prima.
«Sì, anche Donna Erin ha
parlato di qualcosa di simile, qualche giorno fa» disse,
senza riuscire a
infondere la dovuta partecipazione alla sua voce. Quel riferimento agli
Dèi,
tanto inaspettato quanto, forse, dovuto, l’aveva colta di
sorpresa e la
fanciulla non poteva fare a meno di pensare che, scegliendo di
dirottare la
conversazione su quell’argomento, il Sacerdote si stesse
allontanando dal
nocciolo della questione.
«Mi
fa
piacere», disse lui, «ma non avrebbe dovuto
aspettare tanto a lungo. È per
questo che io sono qui: sono stato incaricato di riportare le cose
sulla retta
via, prima che sia troppo tardi.»
«Troppo
tardi…
per cosa?» chiese la fanciulla, mentre un nodo amaro iniziava
pian piano a
stringerle la gola. C’era qualcosa, negli occhi scuri
dell’uomo, che le faceva
correre un brivido lungo la schiena – una sorta di lucida
freddezza che le
ricordò lo sguardo del gatto che gioca con il topo.
«Troppo
tardi
per salvare questa comunità» replicò
lui, sicuro. «Non so in quale modo gli Dèi
sceglieranno di punire questa gente, ma so per certo che lo faranno, se
le cose
non cambieranno rapidamente. Non per malvagità o per
crudeltà, ma per eradicare
sul nascere un’infezione che, se fosse lasciata libera di
crescere a suo
piacimento, potrebbe contagiare l’intera regione e, forse,
tutti i territori
che confinano con l’Impero, portando rovina e
infelicità a un numero
incalcolabile di persone.»
«Mh.»
La
ragazza annuì, cauta. Non poteva contraddire il Sacerdote,
naturalmente, ma non
riusciva a credere che quella vaga e non meglio specificata punizione
divina
fosse qualcosa che avesse realmente una qualche possibilità
di verificarsi. Non
sapeva cosa fosse successo a Neniveh e non sapeva cosa spingesse
realmente i
Sacerdoti ad agire come agivano, ma sospettava che le due cose non
fossero
minimamente collegate. La ragazza inspirò brevemente, decisa
a fare un
tentativo per riportare il discorso su un terreno più
concreto e, perché no,
trovare un modo per accomiatarsi da Fratello Kay quanto prima.
«E io cosa
dovrei fare, per evitare che questo accada?» chiese, alzando
lo sguardo
sull’uomo.
Rapido,
lui le
fece scivolare davanti un foglio scritto fittamente. «Tu devi
firmare questa
lettera. Non ti è richiesto altro, per ora.» Lidia
fece scorrere rapidamente lo
sguardo sul manoscritto, cercando di afferrarne il significato.
«É…»
«… la lettera da indirizzare al fratello di tuo
padre» la precedette il
Sacerdote. «Mi sono preso la libertà di scriverla
al posto tuo, per accorciare
i tempi.»
Lidia
annuì di
nuovo, mentre i suoi occhi scorgevano parole che non avrebbe mai
scritto e
termini che non avrebbe mai utilizzato. «Va bene»
disse, infine. «Dove devo
firmare?»
L’uomo
puntò
un indice sul foglio e le porse il pennino. Mentre lo stringeva tra le
dita, la
ragazza ebbe una breve esitazione, mentre la sua mente si soffermava
sul volto
infantile della cugina e su quello di un ragazzino che, nella sua
immaginazione, aveva gli occhi da sparviero di Sören.
Oh, ma non importa, si disse, con
una punta di cinismo. Nessuno
avrebbe mai creduto che quella lettera l’avesse scritta
veramente lei e, se
aveva interpretato correttamente la situazione, Caleno avrebbe avuto
qualcosa
da ridire sul fatto di portare in Germanica un’altra
cittadina romana. E, chissà
perché, ho come il sospetto che il
papà e lo zio si fideranno di più di un Prefetto
dell’esercito che di me…
Con uno
svolazzo elegante, Lidia appose la propria firma in calce alla lettera.
Ecco fatto, pensò,
rivolgendo a Kay un
piccolo sorriso. Tanto non servirà
a
niente.
E che gli
Dèi
punissero pure Erding, se lo ritenevano necessario: per allora, lei
sarebbe
stata ben lontana da lì.
***
Lidia si
rigirò nel letto, desiderando di avere a portata di mano un
orologio.
Ma che ore sono? Si chiese per
l’ennesima volta. Non era certo nuova al fatto di andare a
letto da sola, ma, a
differenza di quanto era avvenuto in passato, ora l’attesa di
Ulf le pesava. Forse perché in
passato sapevo di non avere
niente da farmi perdonare.
La ragazza
scalciò indietro le coperte, inquieta, chiedendosi quale
sarebbe stata la
reazione del marito, una volta che si sarebbero trovati da soli.
Durante il
confronto con Tito, l’uomo si era dimostrato freddo, quasi
distante, ma Lidia
non riusciva a decidere se quel suo atteggiamento fosse un bene o un
male.
Nell’immediato
era stato sicuramente preferibile a una scenata che avrebbe attirato
l’attenzione
di tutti i presenti, ma la ragazza non poteva dimenticare
l’occhiata che le
aveva lanciato quando si erano separati senza una parola di commiato. Come faccio a sapere cosa accidenti gli
passa per la testa? Speriamo che il
colloquio con Donna Erin l’abbia distratto, si
ritrovò a pensare. Speriamo che
l’abbia aiutato a mettere le
cose in prospettiva… Erano certamente speranze
vane, ne era consapevole,
eppure la fanciulla non poteva fare a meno di aggrapparsi con tutte le
sue
forze a quella flebile possibilità.
Ma di cosa staranno parlando, ancora? Quanto
ci mettono a decidere quello che devono decidere? Lidia si
rigirò sulla
pancia, appiattendosi contro il materasso. Erano passate parecchie ore
da
quando Donna Erin e Ulf erano spariti su per le scale e da allora la
ragazza
non aveva più avuto notizie di suo marito.
Sempre che stiano ancora parlando,
ovviamente. Non sarà mica andato da qualche altra parte,
vero? Quel
pensiero aumentò i suoi timori. Voleva che Ulf tornasse a
casa, subito,
all’istante, anche se avrebbe significato affrontare le sue
accuse e, con ogni
probabilità, la sua rabbia.
Era
preoccupata per lui.
Spero che non abbia fatto niente di
avventato… Oh, non può essere andato a cercare
Tito! La ragazza si
mordicchiò nervosamente le nocche di una mano. Ma allora… allora perché non
torna?
E poi,
naturalmente, sentiva la necessità di confrontarsi con lui a
proposito di
quello che Fratello Kay le aveva detto quel pomeriggio. Con ogni
probabilità,
Ulf non sarebbe stato particolarmente interessato alla sorte della
piccola
Ottavia, ma Lidia sospettava che avrebbe avuto qualcosa da dire a
proposito
della poca fiducia che il Sacerdote riponeva nei matrimoni come i loro.
Non mi ha proprio detto che sono inutili, ma
il concetto era quello, ricordò la fanciulla, con
una smorfia.
Inoltre,
più
ci pensava e più il riferimento che Kay aveva fatto agli
Dèi le pareva forzato.
Il che non ha molto senso, visto che
è un
Sacerdote e che gli Dèi dovrebbero essere il suo primo
pensiero, ma… La
ragazza si raggomitolò su un fianco e si portò
una mano alle labbra,
mordicchiandosi pensierosamente le nocche. In generale, sia Erin che
Kay le
sembravano persone estremamente pratiche e attente ai dettagli, abili a
pianificare le loro azioni fin nei minimi particolari. Le davano
l’impressione
di non lasciare nulla al caso, eppure i loro discorsi lasciavano
intendere che
essi considerassero gli Dèi come la soluzione ultima a tutti
i problemi,
un’ancora di salvezza alla quale aggrapparsi qualora tutte le
altre misure
avessero fallito.
Lidia non
riusciva a comprendere quel punto di vista, dal momento che non aveva
mai avuto
una grande fede nella religione. Per lei le divinità erano
delle entità
astratte e, anche se non sapeva dire con certezza se esistessero
veramente o se
non fossero altro che il frutto della fantasia degli uomini, su una
cosa non
aveva alcun dubbio: non operavano in modo tangibile nel mondo terreno.
Chi mai
poteva dire di aver visto la traccia inequivocabile della loro opera? Ma forse è proprio questo il punto: io
non
ho fede, loro sì… perché sono
Sacerdoti e, se si sono scelti questa vita, un
motivo ci sarà.
Eppure,
complici forse il suo naturale scetticismo e i dubbi che Ulf aveva
instillato
in lei, la giovane si ritrovava ora a prendere in considerazione anche
un’altra
ipotesi. Anche se, sulle prime, non ci aveva fatto caso, a mente fredda
si
rendeva conto che il discorso di Kay era estremamente simile a quello
che Erin
le aveva fatto in occasione del loro primo incontro. Al momento, a
Lidia
venivano in mente solo due spiegazioni per quel fatto: o i due
Sacerdoti
avevano imparato a memoria un ritornello che ripetevano ogni qualvolta
se ne
presentava l’occasione, oppure erano davvero certi che gli
Dèi avrebbero punito
gli uomini ribelli.
Ma come può essere? Si chiese
la
fanciulla, turbata. Se era vero che gli Dèi predicavano la
pace, allora non
c’era giorno in cui gli uomini non disobbedissero alle loro
leggi. Il mondo era
pieno di guerre, di rivolte, di violenza, e a Lidia non risultava che
una
qualche divinità facesse qualcosa per evitarle o per punirne
i colpevoli. E
dunque da dove veniva la sicurezza di Donna Erin e di Fratello Kay? Poi
un
pensiero la sfiorò: e se loro
dicessero
“Dèi”, ma intendessero
tutt’altro? Si chiese.
Sull’onda
di quei
pensieri, la fanciulla permise alla sua mente di avventurarsi un
po’ più in là.
Era forse possibile che, quando parlavano di intervento divino,
alludessero a
un possibile intervento militare di Roma? Ulf l’avrebbe forse
creduto, ragionò
Lidia, ma, da quanto aveva avuto modo di vedere e di sentire negli
ultimi
giorni, era sempre meno convinta che la spiegazione potesse essere
quella.
E allora forse c’è
dell’altro, rifletté,
corrugando appena la fronte. Quella prospettiva le fece correre dei
brividi freddi
lungo la schiena. Poteva davvero essere presente un ulteriore elemento,
qualcosa che era rimasto nascosto e celato agli occhi di tutti ma che,
se aveva
interpretato correttamente quanto rivelatele da Fratello Kay quel
pomeriggio,
aveva la potenzialità e la volontà di colpire
chiunque andasse contro ai suoi
interessi?
Sono solo fantasie, si disse, prima
ancora di cercare una risposta. Mi sto
facendo suggestionare dagli eventi. Sospirando, la ragazza
premette il
volto contro il cuscino, cercando di schiarirsi la mente. Aveva bisogno
di
confrontarsi con qualcuno, ma Ulf non c’era e lei non aveva
nessun altro con
cui parlare. Per una frazione di secondo il pensiero di andare da Unna
attraversò la sua mente, ma la fanciulla si
affrettò a scacciarlo, se non altro
per il timore di ritrovarsi faccia a faccia con Karl.
Non fa niente, aspetterò Ulf,
pensò
ancora la ragazza, allungando una mano e posandola sul cuscino vuoto
sull’altro
lato del letto. Prima o poi dovrà
tornare
a casa, no? Cercando di rilassarsi, la giovane
inspirò profondamente e si
predispose a una lunga attesa.
Quando,
molto
più tardi, il sonno la colse, la sua mano era ancora stretta
sulla stoffa
fredda.
***
Fu il
movimento a svegliarla. Era mattina e, evidentemente, Ulf doveva essere
rientrato durante la notte, ma lei non l’aveva sentito e lui
non si era preso
la briga di comunicarle il suo ritorno.
E adesso se ne sta andando di nuovo. «Dove
stai andando?» gli chiese, con la voce ancora impastata dal
sonno. L’uomo, che
si stava alzando, tornò a sedersi sul letto e si
voltò a guardarla con la coda
dell’occhio. «Da mio padre.»
«Subito?»
insistette a lei, tirandosi a sedere, ma non osando avvicinarsi. Ulf
afferrò le
scarpe riposte ai piedi del letto e se le infilò.
«Sì» fu la telegrafica
risposta.
Va bene, è arrabbiato. Lidia
sospirò. «Devo
parlarti» disse, cercando di convincerlo a dedicarle qualche
minuto. L’uomo
fece fischiare l’aria tra i denti, prima di voltarsi a
guardarla con
un’espressione al contempo fredda e sarcastica.
«Sì, credo anch’io che tu debba
parlarmi», sibilò, facendola sussultare,
«ma non adesso. È un discorso che
richiederà un certo tempo e ora vado di fretta.»
Lidia
chinò il
capo, comprendendo che si stavano riferendo a due argomenti
completamente
diversi. «Ti stai riferendo…»
«… al tuo amico, sì» la
interruppe Ulf. «In
realtà, ho un’idea abbastanza precisa di chi sia e
del perché sia qui, ma
voglio sentirmelo dire da te.»
«Non
è come
pensi!» si precipitò a dire lei, prima di rendersi
conto di quanto banale e
scontata suonasse quella frase. «Non… noi
non…» La fanciulla provò a
riformulare il concetto, ma trovò che le mancavano le parole.
Ulf, che
si
era fermato per un istante a osservarla, espirò con forza e
si alzò in piedi.
«Lascia perdere» ringhiò, alzando una
mano. «Ne parleremo quando torno.» Sconfitta,
Lidia annuì, stringendosi al petto le coperte. «A
che ora torni?» gli chiese
allora, con la voce che tremava appena.
«Fra
tre
giorni.»
Il capo
della
fanciulla si rialzò di scatto. «Cosa? Dove
vai?»
«Mio
padre e
io dobbiamo visitare un paio di villaggi nelle vicinanze»
rispose, sbrigativo.
La giovane lo guardò con gli occhi sgranati, prima di
collegare quella notizia
con la conversazione che, probabilmente, Ulf e la Sacerdotessa avevano
avuto la
sera prima. «È per la storia delle lettere che hai
scritto l’altro giorno? Non
hanno funzionato?»
L’uomo
annuì
bruscamente. «Già» confermò.
Poi le voltò la schiena e fece per andarsene, ma
Lidia si catapultò fuori dal letto, portando con
sé le coperte e rischiando di
inciampare nelle lenzuola. «Ulf, aspetta, aspetta!»
esclamò, aggrappandosi a un
mobile per evitare di rovinare a terra.
Sorpreso
da
quel repentino cambio d’atteggiamento, l’uomo si
bloccò e tornò a guardarla.
«Devo parlarti» ripeté, alzando lo
sguardo sul volto del marito. Lui si
accigliò. «L’hai già detto e,
come ti dicevo…» «No», lo
interruppe lei, «non è
di quello che voglio parlarti, ma del discorso che mi ha fatto ieri
quel Sacerdote.»
Quando l’uomo non protestò, Lidia
interpretò il suo silenzio come un invito a
continuare. «Prima mi ha fatto firmare una lettera nella
quale chiedo a mio zio
di mandare qui mia cugina. Vuole farle sposare un parente di Sören»
disse, non sapendo bene da dove iniziare.
«Ah»
fu
l’unico commento del giovane. Lidia deglutì,
resistendo a stento all’impulso di
torcersi nervosamente le mani. «Sì, e poi mi ha
fatto anche tutto uno strano
discorso sugli Dèi, su quello che potrebbero fare se non
rispettiamo le loro
leggi e se non manteniamo la pace…»
Lidia
lasciò
sfumare la frase, ma l’uomo non cambiò
espressione. «E cosa ci sarebbe di
strano? È lo stesso discorso che Donna Erin ripete da
anni.»
La giovane
chiuse gli occhi, frustrata. «Sì, ma stavo
pensando che forse c’è qualcosa di strano
nel suo modo di fare.»
«Che
cosa?» la
incalzò lui.
«Non
lo so» ammise
Lidia passandosi nervosamente le mani sulla gonna. «Non
è facile da spiegare. È
una sensazione, è come se… come se
lui…» L’uomo sbuffò,
spazientito. «Hai
qualcosa di concreto da dirmi oppure no?»
Lidia
aprì la
bocca per replicare, ma improvvisamente sentì le energie
abbandonarla. Meglio rimandare,
pensò, scoraggiata. Non mi sembra
che sia dell’umore adatto per
parlare di teorie campate per aria. «No»
sospirò dunque, lasciando ricadere
le braccia lungo i fianchi. «Nulla di concreto, solo
supposizioni. Vai pure, se
devi. Però… però stai
attento.»
Ulf
avvertì
forse la preoccupazione sincera nella sua voce, perché le
sue spalle si
rilassarono in maniera quasi impercettibile e l’uomo
annuì. Guardandola con la
coda dell’occhio, quasi non volesse incontrare il suo sguardo
diretto, il
giovane curvò le labbra in una smorfia. «Non
uscire di casa da sola, oggi.
Questa notte è morto Sören:
farti vedere in giro potrebbe non essere prudente.»
Lidia ci
mise
qualche secondo per processare le parole dell’uomo.
«É… morto?» fece,
chiedendosi se non avesse forse capito male. «Ma
l’ultima volta che l’ho visto
stava bene, non sembrava… non sembrava malato.»
«Sì,
e adesso
è morto» tagliò corto Ulf, mentre nella
sua voce emergeva ancora una sfumatura
tagliente. Improvvisamente, Lidia credette di sapere quello che era
accaduto.
«Oh. L’hanno ucciso?»
L’uomo
non
negò, ma sollevò appena una spalla.
«Dicono che sia morto per una malattia
improvvisa.» Il giovane si passò una mano tra i
capelli, senza riuscire a
nascondere il proprio turbamento. «Pare sia successo tutto
nel giro di poche
ore.»
Senza
poter
far nulla per impedirlo, Lidia fu scossa da un brivido e istintivamente
si
passò le mani sulle braccia, nel tentativo di allontanare
una sensazione di
freddo che non aveva nulla a che fare con la temperatura esterna.
«Credi che
sia una cosa contagiosa?» chiese, mentre un’antica
paura riemergeva dal suo
subconscio. Anche se negli ultimi tempi aveva avuto cose più
urgenti di cui
preoccuparsi, Lidia era sempre stata terrorizzata dalle malattie e ora
quella
sua fobia tornava prepotentemente a farsi sentire. Per tutta risposta,
Ulf fece
schioccare la lingua. «Credo che sia qualcosa di decisamente strano» replicò, una
risposta che alla
fanciulla parve profondamente insoddisfacente. Prima che potesse
aggiungere
dell’altro, però, Ulf raddrizzò la
schiena e il suo sguardo si fece più
distante. «Be’, fai come ti ho detto e non uscire
di casa da sola. Anzi, non
uscire di casa e basta.
Riprenderemo
il discorso al mio ritorno.»
La
fanciulla
incassò il collo nelle spalle, sentendosi quasi minacciata
da quella
prospettiva e poi pigolò un “va bene”
che suonò patetico alle sue stesse
orecchie. Ulf la guardò ancora per qualche istante, poi le
rivolse un brusco
cenno del capo e lasciò la stanza a passi rapidi, quasi
avesse fretta di
allontanarsi dalla giovane romana. «Ciao»
esalò lei, a capo chino. Non si
aspettava una risposta: suo marito era già sulle scale e,
con ogni probabilità,
non l’aveva nemmeno sentita.
Rimasta
sola,
Lidia si lasciò cadere sul letto sfatto. Si
sentiva… vuota. In preda
a una strana desolazione, a un sconforto a metà
strada tra il dolore e la vergogna, la ragazza si ripiegò su
se stessa, sfinita,
e nascose il volto contro la stoffa del cuscino, premendosi le mani
sulle
orecchie finché non sentì altro che il rimbombo
del proprio cuore.
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Capitolo 28 *** 27. Sangue ***
Seduta
al tavolo
della cucina, Lidia sbocconcellava mestamente la trota che Hermann
aveva
pescato il giorno prima e che lei aveva prontamente provveduto a
carbonizzare.
Di fronte a lei, il giovane germanico tastò un frammento di
pesce con la punta
della forchetta, prima di alzare su di lei uno sguardo vagamente
desolato,
rivolgendole un sorriso di circostanza. «La cucina non
è il mio forte» si
giustificò la fanciulla, a mezza voce.
«Vedo» replicò lui, riponendo le posate
sul tavolo.
Anche
se il
ragazzo non aveva detto nulla a proposito di Ulf,
l’insistenza con cui i suoi
occhi verdi seguivano ogni suo movimento le fece presagire che Hermann
sospettasse
che tra lei e suo marito fosse successo qualcosa e quella
consapevolezza le
riempì lo stomaco di un formicolio nervoso. Per
l’ennesima volta, Lidia fu
tentata di cercare di affrontare l’argomento – il
silenzio colpevole che si era
auto imposta iniziava a diventare un peso troppo pesante da sostenere
– ma, per
l’ennesima volta, i suoi dubbi la frenarono: era giusto
confessare al cognato quello
che non aveva mai confessato nemmeno a Ulf?
Ma parlare con Hermann è molto
più facile
che parlare con Ulf, le fece notare il suo inconscio. Lui non ti giudica mai. Alzando lo
sguardo quasi di soppiatto, la
fanciulla lanciò un’occhiata fugace al volto del
giovane: come d’abitudine, sul
suo bel viso non v’era alcuna tensione, ma solo
un’espressione di placida
attesa. Hermann era uno che sapeva ascoltare – uno che sapeva
aspettare – ma,
improvvisamente, la
ragazza si chiese se le cose stessero veramente così. Poteva
davvero dire di
conoscerlo abbastanza bene da sapere come avrebbe reagito, una volta
che lei
gli avrebbe raccontato tutto?
Più che altro, non vorrei deluderlo,
riconobbe.
Ho già deluso abbastanza persone,
ultimamente. Mentre si stava ancora tormentando nel tentativo
di prendere
una decisione, il ragazzo appoggiò i gomiti al tavolo e si
sporse verso di lei.
«Questa mattina sei riuscita a parlare con mio
fratello?» le chiese.
Lidia
sobbalzò,
alzando di colpo lo sguardo e fissandolo con gli occhi sgranati per
qualche
istante. Le sue guance si tinsero di un leggero rossore, mentre la
giovane non
poteva fare a meno di sospettare che quella domanda volesse indagare
qualcosa
di più profondo rispetto al significato letterale delle
parole con cui era
stata posta. «Io… sì,
brevemente» mormorò. «Andava di fretta,
però, e non mi ha
detto molto.»
Hermann
annuì.
«Sì, non ha detto molto nemmeno a me, quando
è passato a casa per incontrare
mio padre. Non mi pareva di buon umore.» «Non lo
era» confermò Lidia, senza
riuscire a evitare di abbassare lo sguardo sulle proprie mani. Il
giovane
germanico sospirò. «Ci credo. Non aveva nessuna
voglia di partire… non in un
momento così delicato.»
La
fanciulla non
riuscì a nascondere la propria sorpresa.
«No?» Sulla fronte liscia di Hermann
comparve una lieve increspatura. «La cosa ti
stupisce?» le chiese, reclinando
un poco il capo sulla spalla. Affondando nervosamente i denti nel
labbro
inferiore, lei si strinse nelle spalle. «Be’, a
dire il vero… mi ha dato
l’impressione di avere una gran fretta di levarsi di torno,
ecco.»
Sul
volto di
Hermann si disegnò un’espressione indecifrabile.
«Avete litigato?» indagò, con
voce piatta. Lidia sollevò una spalla. «In un
certo senso» ammise, pensando
che, a conti fatti, sarebbe stato molto meglio se avessero litigato veramente. Il fatto che Ulf se ne fosse
andato rivolgendole soltanto poche parole gelide le aveva lasciato un
senso di
incompiutezza peggiore dell’eco di qualsiasi litigio.
«È stato… è stato per una
cosa che è successa a casa di Donna Erin. C’era
una persona, lì, una persona
che conoscevo quando ero ancora a Roma. Lui… non si
è comportato proprio
benissimo e Ulf… Ulf se l’è un
po’ presa.» Ecco,
questo è quel che si dice un eufemismo,
commentò la sua coscienza,
sarcastica, e Lidia represse a stento un gemito scoraggiato.
«Tutto
qui?» la
interrogò Hermann.
Tutto qui, sì, rispose
silenziosamente
la ragazza. Ma è più
che sufficiente,
fidati. Deglutendo a vuoto, esalò un sospiro
tremulo, cercando di farsi
forza. «Ecco… sì,
però…» Lidia si interruppe nuovamente,
trovandosi di fronte
allo stesso dilemma che l’aveva fermata pochi minuti prima,
quando si era
interrogata su quanto fosse opportuno parlare a Hermann di Tito.
Inaspettatamente,
il ragazzo allungò una mano per sfiorare quella di lei.
«Non ne vuoi parlare?»
le chiese, con un’ombra di preoccupazione negli occhi verdi.
La giovane romana
gli rivolse uno sguardo carico di commozione e rammarico.
«Hermann, non è che
non ne voglio parlare» disse tutto d’un fiato.
«Anzi, vorrei parlarne, eccome,
però… sento che dovrei parlarne prima con Ulf,
che con te. Non è una questione
di fiducia…» Non appena ebbe pronunciato quelle
parole, la fanciulla si
interruppe. «Anzi, sì, che lo è:
fiducia nei confronti di tuo fratello. E anche
viceversa: voglio che sappia che lui può fidarsi di me,
anche se non sono stata
brava a dimostrarglielo.»
Anche
se non lo
vide, Lidia avvertì il sorriso di Hermann. «Lo
capisco» disse lui, stringendole
leggermente la mano.
«…
ma non è che
non mi fido di te» si affrettò a rassicurarlo lei,
stringendogli a sua volta la
mano. «Mi fido molto di
te!»
aggiunse, con un certo trasporto. Sul volto del ragazzo comparve una
sfumatura
rosata e Hermann tossicchiò, forse leggermente imbarazzato
da quella
dichiarazione di fiducia. «Ah, ehm, bene»
borbottò, guardandola di sottecchi.
Poi, schiarendosi la voce, tornò a sorriderle, lasciandosi
velocemente alle
spalle la questione. «Comunque, ti chiedevo se fossi riuscita
a parlare con Ulf
perché volevo capire se ti avesse detto qualcosa di quello
che è successo
questa notte.»
Le
ci volle
qualche istante per adattarsi al cambio di argomento, ma poi Lidia fece
mente
locale e cercò di ricordare cosa le avesse detto Ulf, un
attimo prima di andarsene.
«Be’, mi ha detto che Sören
è morto. Ti riferisci a quello, no?»
Sul
volto del
ragazzo passò un’ombra amara. «Ulf se
n’è andato troppo presto per saperlo, ma
questa mattina sono morte altre due persone, a parte Sören.»
C’era qualcosa, nel modo
in cui il giovane germanico aveva formulato la frase, che fece
comparire un
blocco gelido nello stomaco della fanciulla. Chi
è morto? Si chiese, mentre l’angoscia le
montava nel petto. Qualcuno che conoscevo?
Hermann dovette
leggere lo sconforto sul suo viso, perché si
affrettò a rassicurarla. «Oh, no,
non preoccuparti», le disse, prima ancora che Lidia potesse
dire alcunché, «non
li conoscevi. Erano due compari di Sören,
gente che lavorava con lui.»
La
paura di un
istante prima sfumò e si stemperò in un
turbamento più superficiale, un’ombra
grigia ai limiti del campo visivo che costrinse la fanciulla a scuotere
la
testa nel tentativo di mettere un poco di chiarezza nei suoi pensieri
confusi.
«Si trattava forse di quei due… delle due persone
che…?»
«Delle
due
persone che ti hanno aggredita?» venne in suo soccorso il
ragazzo. «No. Per
quanto ne so io, Arnold sta bene e lo stesso vale anche per quello che
viene da
fuori, Otmar. No, erano un mercante di pellicce e un casaro, gente che
commerciava
con Sören.
I loro famigliari hanno dato l’allarme nelle prime ore della
mattina.»
Lidia
annuì
lentamente. «Credi che siano stati avvelenati? Magari
perché avevano qualcosa a
che fare con la gente che ha attaccato i legionari o con la storia
della miniera?»
La domanda parve sorprendere Hermann. «Avvelenati?»
ripeté il ragazzo. «Cosa te
lo fa pensare?»
La
fanciulla si
strinse nelle spalle. «Non so, ho avuto come la sensazione
che Ulf credesse che
Sören
non fosse morto di morte naturale. Quando gli ho chiesto la sua
opinione, mi ha
risposto che, secondo lui, qui sta succedendo qualcosa di
strano…»
Il
giovane la
fissò per qualche istante, la fronte liscia corrugata in
un’espressione
pensierosa, poi sospirò. «Mah, non so cosa
pensare. In realtà, da quello che
sono riuscito a capire, sono morti di febbre… mio padre
sostiene che la moglie
del casaro abbia detto che era tanto alta che suo marito delirava,
prima di
morire.»
«E
non potrebbe
essere opera di un veleno?» insistette lei, pur non riuscendo
a figurarsi chi
potesse essere tanto organizzato e abile da avvelenare tre persone in
poco
tempo, per di più senza lasciare tracce del proprio
passaggio. E perché, poi? Chi
avrebbe potuto volerli
morti? Caleno? Libo? Oppure Donna Erin o… be’, o
Fratello Kay.
«Immagino
che,
in teoria, potrebbe esserlo» rispose Hermann, distogliendola
dai suoi pensieri.
«Quando sono uscito di casa, però, mio padre stava
parlando con alcuni altri
membri del consiglio degli anziani. Non ho sentito molto, ma mi
è parso di
capire che loro sono piuttosto propensi a pensare che non si sia
trattato di
omicidio, ma, piuttosto, di morte naturale. Temono che sia stata una
malattia a
ucciderli e, be’… ovviamente, hanno paura che ci
sia il rischio di
un’epidemia.»
Nell’udire
quelle parole, Lidia riprese a sudare freddo, esattamente come quando,
quella
mattina, Ulf le aveva parlato per la prima volta della morte del suo
aggressore. «Ma… non ci sono stati altri casi
dopo, vero? Non è più morto
nessuno.»
«No»,
ammise
Hermann, «ma te l’ho detto: io non so cosa pensare.
Non sono un esperto di
malattie e, di certo, non sono nemmeno un esperto di veleni. Mi limito
a
riportarti quello che ho sentito. Uno degli anziani sosteneva
addirittura che
non è stata la mano degli uomini a uccidere quei tre,
bensì la mano degli Dèi.
Capisci, quindi, che…»
«La
mano degli
Dèi?!» l’esclamazione di Lidia lo
costrinse a fermarsi e il giovane lanciò alla
cognata un’occhiata interrogativa, sorpreso dal suo
improvviso pallore. «Beh?»
le chiese. «Che c’è?»
La
fanciulla
chiuse gli occhi per qualche istante, inspirando a fondo nel tentativo
di
calmare il cuore, che aveva improvvisamente preso a galopparle nel
petto. «È
quello che ha detto fratello Kay» esalò. Quando
riaprì gli occhi, fu accolta
dallo sguardo confuso di Hermann. «Non ti seguo»
disse il ragazzo. La giovane
romana si sporse verso di lui, sforzandosi di parlare in maniera
più
comprensibile. «Ieri il nuovo Sacerdote ha voluto
parlarmi» fece, riassumendo
gli eventi del giorno precedente a beneficio del cognato.
«Abbiamo parlato di
diverse cose, principalmente di quello che si aspetta che io faccia.
Comunque,
a un certo punto se n’è uscito con tutta una
storia sugli Dèi: ha detto che
solo loro possono riportare l’ordine da queste parti e che,
se non la smettiamo
di farci la guerra, puniranno il villaggio. E adesso
c’è questa malattia… non
so, può davvero essere tutta una coincidenza?»
Hermann
fece
schioccare la lingua, scettico. «Non mi dirai che credi
veramente che stia per
abbattersi su di noi una punizione divina, vero?»
Lidia
arrossì
mentre, per un istante, il tono e l’espressione del ragazzo
le ricordarono
quelli che Ulf era solito adottare durante i primi giorni della loro
convivenza. «Be’, non so» fece poi,
cercando di mimare una noncuranza che non
provava. «Magari tutti sono convinti che i Sacerdoti siano
solo dei buffoni
esaltati, e poi invece salta fuori che hanno
ragione…»
Il
giovane si concesse
un sorrisetto. «Innanzitutto, io non credo affatto che siano
dei “buffoni
esaltati”: non so se hanno ragione o meno, ma di certo sono
delle persone
intelligenti… e probabilmente pure parecchio furbe. Detto
questo, mi pare che
ci possano essere delle spiegazioni molto più logiche e
plausibili rispetto a
un’ipotetica punizione divina… per quanto ne
possiamo sapere noi, magari ieri
sera quei tre hanno cenato insieme e si sono avvelenati con
qualcosa.»
La
fanciulla gli
lanciò un’occhiata torva.
«Sì, come no» commentò
sarcastica. Hermann agitò una
mano in aria. «Be’, poco importa, comunque: quello
che conta, è che tu adesso
te ne stai buona buona in casa ed eviti i pericoli di qualsiasi tipo:
eviti di
incontrare gente che potrebbe contagiarti ed eviti di incontrare gente
che
potrebbe avercela con te per qualsiasi motivo.
D’accordo?»
«D’accordo»
annuì lei. «E tu farai lo stesso: resti al sicuro
e lontano da veleni o
malattie. Poi, appena torna tuo fratello, ci allontaniamo da questo
posto per
tutto il tempo che serve… che, poi, sarebbe il motivo per
cui io e Unna siamo
tornate a valle.»
Per
una frazione
di secondo, Lidia credette che Hermann volesse aggiungere qualcosa o,
forse,
farle notare che le cose non sarebbero state così facili
come lei le aveva
prospettate, ma poi chinò il capo sul piatto e, in silenzio,
infilzò un boccone
di pesce indurito.
***
Per
tutta la
giornata, Lidia si era attenuta alle raccomandazioni di Hermann e non
aveva
messo piede fuori di casa, limitandosi a lanciare di tanto in tanto
occhiate
nervose verso lo scorcio di strada che vedeva attraverso la finestra.
Quando,
giunta a sera, si apprestava ad andare a letto – facendo del
proprio meglio per
fare buon viso a cattivo gioco e ignorare la solitudine che
già la opprimeva –
qualcuno bussò alla sua porta.
I
tre colpi
secchi che risuonarono nel silenzio della sera la fecero sobbalzare e
la
fanciulla si portò istintivamente una mano al petto,
sentendo sotto alle dita
il battito accelerato del proprio cuore. Non aspettava visite e
c’erano ottime
possibilità che quell’ospite inaspettato non
portasse nulla di buono. «Chi è?»
chiese, con voce leggermente strozzata. Un istante più tardi
si chiese se non sarebbe
stato forse più prudente restare in silenzio e fingere di
essere già a letto,
ma, ormai, il danno era fatto.
«Lucio!»
Ancora?! I timori di un istante prima si
trasformarono immediatamente in irritazione e, rassettandosi la gonna,
la
giovane marciò verso l’ingresso. Il
soldatino sta diventando un po’ troppo invadente, per i miei
gusti, pensò,
arricciando il naso infastidita. Quando spalancò la porta,
però, le parole di
rimprovero che aveva intenzione di rivolgere al giovane legionario le
morirono
sulle labbra.
«Lidia!
Vieni,
dobbiamo andare via di qui! Subito!»
Tito
si slanciò
verso di lei, ma la fanciulla retrocedette rapidamente e poi
levò un braccio,
frapponendolo fra sé e il ragazzo, come per impedire a
quest’ultimo di
avvicinarsi ulteriormente. «Cosa ci fai qui?»
sibilò, con voce tagliente.
Per
una frazione
di secondo, sul volto di lui passò un’ombra di
vergogna, quasi che Tito
provasse qualche rimorso per il modo in cui si era comportato il giorno
prima.
Fu solo un istante, però, poi la sua espressione si fece di
nuovo decisa. «Ti
spiegherò tutto strada facendo: adesso dobbiamo
andarcene.»
Con
la coda
dell’occhio, Lidia vide che, fermi sulla porta,
c’erano altri due soldati, ma non
prestò loro alcuna attenzione, puntando invece lo sguardo su
Tito. «Insisti? Ti
ho già detto che io di qui non mi muovo. Non senza mio
marito.»
Il
giovane
strinse i pugni in un moto di impazienza. «Ma è
pericoloso!» sbottò. «Lo vuoi
capire, che qui non è più sicuro
stare?» L’espressione angosciata che
riuscì a
scorgere dietro al velo d frustrazione e impazienza la mise leggermente
in
allarme e la ragazza voltò rapidamente il capo verso Lucio,
alla ricerca di
spiegazioni. Il giovane biondo aprì la bocca per dire
qualcosa, ma poi la
richiuse, come se fosse incerto su come affrontare
l’argomento.
«Lascia
che
parli io, ragazzo.» Uno dei due soldati fermi in attesa
sull’uscio lasciò la
sua postazione e si avvicinò alla fanciulla.
«Buonasera, Donna Lidia. Ti chiedo
scusa per la visita improvvisa e per le circostanze poco piacevoli in
cui ci
incontriamo.»
Appoggiata
al
muro più vicino, la ragazza incrociò le braccia
al petto e rivolse al
legionario uno sguardo diffidente. Era un uomo già piuttosto
anziano – Lidia
giudicò che dovesse essere vicino al congedo –
piccolo e segaligno, con due
occhi infossati e talmente scuri che la fanciulla ebbe
l’impressione di fissare
due pezzi di carbone. «Con chi sto parlando?»
chiese, con voce asciutta.
L’uomo
sorrise e
il suo volto asciutto si addolcì in un’espressione
che le parve quasi
amichevole. «Mi chiamo Gaio Cornelio Urso e sono da queste
parti ormai da
tanti, tanti anni.» Quando la giovane gli rivolse un cenno
d’assenso, l’uomo
proseguì: «Quello che Tito voleva dire
è che si stanno verificando dei fatti allarmanti.
Poco più di un’ora fa, qualcuno ha appiccato il
fuoco all’abitazione del Legato
Quinto Anicio Libo. Fortunatamente il Legato era fuori casa ed
è rimasto
illeso, ma quello che è accaduto è stato
sicuramente un attentato alla sua
vita.»
Nell’udire
quelle
parole, Lidia sbiancò. «Ma… ma lui sta
bene?» chiese, sentendosi quasi un po’
stupida: la sua voce le suonava distorta, come se le sue labbra
facessero
fatica a incurvarsi per articolare correttamente le sillabe. Il soldato
che
rispondeva al nome di Gaio annuì. «Sì.
Come ti ho detto, non era in casa al
momento dell’attacco: si trovava al campo, per discutere con
il Prefetto Caleno
di alcune questioni. Naturalmente gli verrà fornita una
scorta che possa
garantire la sua sicurezza anche nei giorni a venire.»
«Naturalmente»
ripeté Lidia, torcendosi inconsciamente le mani. Era da
parecchio tempo che non
vedeva il Legato e solo allora si accorgeva di trovare estremamente
rassicurante la consapevolezza di poter contare su di lui.
«Purtroppo
non è
tutto» sospirò Gaio. «Avremmo voluto
agire rapidamente e catturare i colpevoli,
ma non abbiamo potuto farlo, dal momento che ci siamo dovuti occupare
dell’altro incendio:
quello che ha colpito il
nostro accampamento.»
La
ragazza
sgranò gli occhi. «Due incendi in meno di
un’ora?» chiese, mentre il cuore
riprendeva a martellarle in gola. «Questo è
ciò di cui siamo a conoscenza noi»
la corresse il soldato. «Non escludo che, dopo la nostra
partenza dal campo, se
ne siano verificati degli altri.»
«Oh,
Dèi»
sospirò la fanciulla, avvilita, passandosi una mano tra i
capelli spettinati.
Dopo qualche istante di silenzio, Lidia alzò nuovamente gli
occhi, facendo
scorrere lo sguardo suoi quattro uomini che avevano occupato la sua
abitazione,
soffermandosi brevemente anche sul giovane alto e sottile che, sino a
quel
momento, non aveva detto nulla. Poi, inspirando a fondo, pose loro la
domanda
che più le stava a cuore. «E quindi voi siete qui
per…?»
«Per
trasferirti
a un campo poco distante dal confine, tanto per cominciare»
la informò Gaio,
asciutto. «Un carro automatico attirerebbe troppo
l’attenzione, quindi dovremo
muoverci usando un carro trainato da un cavallo: questo
allungherà
inevitabilmente i tempi di percorrenza, ma, salvo imprevisti, dovremmo
arrivare
a destinazione in poco più di due giorni. Una volta
raggiunto il campo, vedremo
il da farsi. La cosa migliore sarebbe riportarti a Roma,
immagino.»
La
voce
dell’uomo non lasciava spazio a dubbi o proteste e quasi
Lidia si sentì in
torto, quando cercò di replicare. «Vorreste farmi
partire adesso?» chiese,
facendo scorrere lo sguardo sugli uomini. Per una frazione di secondo,
Tito
incrociò i suoi occhi, ma subito chinò il capo,
come se la domanda che lesse
sul volto della fanciulla lo facesse sentire a disagio. Ancora una
volta, fu il
soldato più anziano a rispondere: «Sì,
Donna Lidia: non possiamo più aspettare.
I rischi, per te, aumentano a ogni minuto che passa e noi non siamo
più in
grado di garantire la tua sicurezza, purtroppo.»
La
giovane si
morse le labbra, sentendo una sensazione opprimente calare su di lei,
simile al
presagio del cappio che si stringe attorno alla preda. «E
devo… devo per forza
andare via? Non c’è un’altra
soluzione?» chiese, senza avere un’idea ben chiara
di quello che avrebbe voluto proporre. «Non potrei andare da
Donna Erin, per
esempio?»
«La
Sacerdotessa
è una germanica, non possiamo essere completamente certi
della sua
affidabilità» fece Gaio, categorico.
«Inoltre, se anche lei avesse i mezzi per
tenerti al sicuro – e non sono affatto certo che ce li abbia
– ci è giunta voce
di alcune morti sospette che si sono verificate nelle ultime ore. Non
abbiamo
ancora alcuna conferma, ma pare che possa esserci il rischio di
un’epidemia di
febbre, qui al villaggio: un motivo in più per allontanarsi
il prima
possibile.»
Lidia
inspirò a
fondo, cercando disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi, ma non
trovando
nulla. Aveva davvero modo di opporsi? Sospettava che, se non aveva
interpretato
male la situazione, i soldati – e
Tito!
– l’avrebbero costretta a partire anche contro la
sua volontà. «Chi vi ha detto
di portarmi via?» chiese, cercando di mantenere ferma la
propria voce.
«Il
Prefetto
Caleno» replicò prontamente Gaio. «Non
abbatterti, Donna Lidia: agiamo solo ed
esclusivamente per il tuo bene. Il Prefetto ha a cuore la tua
sicurezza, così
come quella di tutti i cittadini di Roma.»
«Mio
padre è
stato informato di questa decisione?» chiese ancora la
fanciulla. A pochi passi
da lei, Tito sospirò. «Non ce
n’è stato tempo. Le cose sono successe troppo in
fretta.»
«Il
ragazzo ha
ragione» annuì Gaio. «Vedremo
però di informarlo quanto prima. Provvederò io
stesso a inviargli un messaggio, una volta giunti al campo a
sud.»
«Bene»
sospirò
la ragazza, prendendo rapidamente una decisione. «Accetto di
lasciare il villaggio,
anche perché mi pare che voi non mi stiate lasciando molta
scelta. Però mi
rifiuto di abbandonare la Germanica prima di avere il permesso scritto
di mio
padre: Caleno sarà anche un Prefetto, ma mio padre
è un Senatore, e io non
voglio avere problemi da lui.» Con la coda
dell’occhio, Lidia vide Tito e Lucio
scambiarsi un’occhiata, ma Gaio annuì,
imperturbabile, acconsentendo alla sua
richiesta. «Inoltre», riprese la giovane,
«voglio informare la famiglia di mio
marito di quello che sta succedendo. Mio marito e mio suocero non sono
al
villaggio, al momento, ma mio cognato sì. Gli
scriverò un messaggio: prima di
partire, voglio consegnarglielo.» Per una frazione di
secondo, Lidia fu
sfiorata dal pensiero di far recapitare un messaggio anche a Unna, ma
subito
scartò l’idea: anche se i rapporti tra lei e la
cognata erano leggermente
migliorati, non era affatto sicura che la donna non avrebbe bruciato la
sua
lettera e giurato di non sapere niente di lei.
Davanti
a quella
proposta, Gaio parve un poco titubante. «Preferirei partire
subito» disse. «Non
vorrei perdere troppo tempo qui al villaggio.» Lidia strinse
le labbra in una
linea sottile. «Non ci vorrà molto
tempo» replicò. «Hermann abita a una
decina
di minuti da qui, se ci andremo in carro, ci arriveremo in un men che
non si
dica.»
«E
se non fosse
in casa?» obiettò Tito, con
un’espressione cupa disegnata sul viso. «Se non
sarà in casa, consegneremo il messaggio a Donna
Edda» ribatté lei, secca. «In
ogni caso, sarà lì: gli ho chiesto di non uscire
e di non correre rischi
inutili.»
«E
va bene»
concesse il soldato più anziano, stroncando sul nascere ogni
ulteriore protesta
da parte del giovane bruno. «Fai in fretta, però,
a scrivere quel messaggio.
Come ti ho detto, abbiamo i minuti contati.»
Lidia
annuì,
mentre la sua mente correva, cercando di individuare il modo migliore
di agire.
«Va bene. Mi ci vorrà un attimo. Devo…
devo solo salire in camera a prendere
carta e penna e… e magari a preparare una sacca con un
cambio.»
Di
nuovo, il
soldato annuì e, senza aggiungere altro, Lidia si
staccò dal muro al quale si
era appoggiata e si diresse a passi rapidi verso la scala che portava
al piano
superiore. Saliti pochi gradini, però, si voltò
di nuovo verso gli uomini
ancora fermi sull’uscio. «Il nome del campo dove
intendete portarmi?» chiese.
«Hudwill.»
A
parlare era stato il ragazzo silenzioso, un giovane dai lineamenti
delicati e
ricci di un castano slavato. La fanciulla gli rivolse un cenno di
ringraziamento, prima di correre verso la sua camera da letto. Hudwill, ricordò. È il paese di confine che abbiamo
attraversato quando siamo arrivati in
Germanica con mamma e papà.
Una
volta
raggiunta la scrivania che si trovava di fronte al letto, la ragazza
frugò
rapidamente nei cassetti alla ricerca di alcuni fogli di carta e del
pennino
che aveva visto usare a Ulf pochi giorni prima. Sedendosi di scatto
sulla
sedia, Lidia si leccò nervosamente le labbra, cercando di
trovare le parole
adatte.
Hermann, scrisse. Sono
arrivati dei legionari che mi hanno costretta ad andare via con
loro. Con loro c’è anche quella persona di cui ti
ho parlato oggi a pranzo. Si
chiama Tito Fabio Fusco ed è un mio amico. Non credo che
abbiano cattive
intenzioni, ma non ho potuto rifiutarmi di seguirli: mi porteranno in
un
accampamento militare vicino al Colle di Hudwill, sul confine con
l’Impero.
Credo che poi vogliano riportarmi a Roma – e io non ci voglio
andare. Cercherò
di guadagnare tempo, tu fai avere questo messaggio a tuo padre e a Ulf
e vedi
se loro possono fare qualcosa per farmi tornare a Erding. –
Lidia
La
fanciulla
piegò in quattro il messaggio appena scritto e lo
posò accanto alla lampada da
tavolo. Poi, su un altro foglio, scrisse un secondo messaggio, dai toni
un po’
meno allarmistici. Hermann, Gaio Cornelio
Urso e i suoi uomini mi stanno portando al sicuro in un campo militare
più a
sud, poco distante dal colle di Hudwill. Ti prego di informare tuo
padre e Ulf
di quanto sta succedendo, così che non stiano in pensiero
per me. – Lidia
Infilando
quella
seconda missiva nella tasca del grembiule, Lidia infilò
alcuni abiti nello
zaino che Unna le aveva prestato quando erano scese
dall’alpeggio e poi,
lanciando un ultimo sguardo al bigliettino seminascosto dal piedistallo
della
lampada, uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle
spalle. Non era che non
si fidava di Tito e dei legionari. Avevano detto che
l’avrebbero accompagnata
da Hermann e, con ogni probabilità, sarebbero stati di
parola. Però….
Lidia si era scoperta piuttosto
diffidente, quando si trattava di fidarsi ciecamente delle intenzioni
altrui.
Forse i soldati non le avevano detto proprio tutta la
verità. Forse preferivano
tenere segreto il luogo in cui l’avrebbero trasferita.
Ad ogni buon conto, preferisco pararmi le
spalle, pensò la giovane, raggiungendo le scale. Mal che vada, avrò scritto un biglietto
inutile. Ma, se così non fosse…
a Hermann verrà sicuramente in mente di dare
un’occhiata in camera. O, se non a
lui, a Ulf, quando tornerà a casa.
Al
pensiero del
marito, Lidia provò una stretta allo stomaco, ma subito
irrigidì la schiena,
allontanando la malinconia che, per un istante, aveva cercato di
avvolgerla nel
suo abbraccio cupo. Non era il momento di lasciarsi prendere dallo
sconforto,
quello. Se Ulf fosse tornato a casa e non l’avesse trovata,
avrebbe potuto
pensare le cose peggiori – che lei l’avesse
abbandonato per fuggire con Tito,
per esempio. Non poteva permetterlo. Se era vero che non aveva modo di
opporsi
apertamente a una disposizione di Caleno, era altrettanto vero che
poteva
rallentare un poco il proprio rimpatrio. Ulf e Gefrid sarebbero
rientrati dopo
pochi giorni e forse avrebbero potuto convincere Libo a farla tornare
al
villaggio… e Libo
costringerà il Prefetto
a obbedire! Si disse Lidia, con un fremito di indignazione.
Caleno non le
era mai piaciuto molto e, in quel momento, l’antipatia che
provava nei suoi
confronti era schizzata a livelli mai toccati prima di allora.
«Sei
pronta?» la
voce di Tito la costrinse a riscuotersi da quei pensieri e la fanciulla
annuì,
pescando dalla tasca del grembiule il messaggio scritto pochi istanti
prima e
mostrandolo al giovane. «Sì»
confermò. «Possiamo andare.»
Mentre
il
giovane soldato silenzioso le teneva aperta la porta
d’ingresso, Lidia si voltò
rapidamente per lanciare un’ultima occhiata
all’abitazione che si apprestava a
lasciare. Non le era mai veramente sembrata la sua casa, quella, forse
perché
non aveva ancora avuto il tempo per familiarizzare con essa. Tuttavia,
in
quell’istante il pensiero di lasciarla le causò
una vaga angoscia. Ma ci rivedremo presto,
pensò la
ragazza, rivolgendo un saluto silenzioso alla cucina e alla sala da
pranzo.
Con
il
coprifuoco ancora in vigore, la notte era più buia che mai e
quando mise piede
in strada, richiudendosi alle spalle la porta di casa, Lidia rimase per
qualche
istante accecata dall’oscurità quasi totale che la
circondava. Le poche luci
accese nelle abitazioni più vicine non erano sufficienti per
rischiarare le
tenebre e, quasi senza rendersene conto, la ragazza si trovò
a stringersi al
fianco di Tito, cercando inconsciamente la protezione di una presenza
conosciuta. «Dov’è il carro?»
chiese, in un sussurro, senza osare alzare la
voce per il timore irrazionale – forse – che
qualcun potesse essere in ascolto.
«L’abbiamo
lasciato vicino al bosco» replicò il ragazzo,
parlando altrettanto piano.
«Abbiamo pensato che fosse meglio tenersi fuori dalla portata
di orecchie
indiscrete.» A Lidia non sfuggì l’ironia
della situazione. Nell’indicarle il
luogo in cui era stato lasciato il carro, Tito aveva levato il braccio
in
direzione della foresta verso cui era fuggita la sera del suo
matrimonio. Alla fine, sembra proprio che la
mia fuga da
Erding debba passare attraverso questo bosco, si disse la
ragazza, con una
punta di amarezza. Il suo non sarebbe stato un allontanamento
definitivo – non
l’avrebbe permesso – ma la coincidenza non
poté non sembrarle strana.
Fu
la voce di
Gaio a distrarla da quei pensieri. «Forza, senza perdere
tempo: qual è la
strada più rapida per arrivare a casa di tuo
suocero?» La fanciulla rifletté
rapidamente, stringendo nel pugno il messaggio che aveva scritto per
Hermann,
poi si incamminò verso destra. «Da questa
parte» disse. Subito, Lucio la
superò, portandosi davanti a lei.
«Aspetta» mormorò circospetto.
«È meglio che
vada io, è più sicuro.»
Non
vedendo
motivo di protestare, Lidia si strinse nelle spalle e il gruppetto si
incamminò
nella direzione indicata dalla ragazza. Con Tito alla sua sinistra e il
giovane
soldato senza nome alla sua destra, la ragazza non poteva fare a meno
di
sentirsi in gabbia. Comprendeva perfettamente che gli uomini si erano
stretti
attorno a lei con l’intento di proteggerla da eventuali
aggressioni, ma,
nonostante le notizie allarmanti che le erano giunte nelle ultime ore,
quelle
misure di sicurezza le sembravano decisamente eccessive. Non
c’era odore di
fumo, nell’aria, e le strade del villaggio parevano
perfettamente deserte,
quasi come se nessuno osasse trasgredire le regole imposte dal
coprifuoco.
Quando
giunsero
a un bivio, Lidia esitò. Se avessero svoltato a destra,
sarebbero arrivati a
casa di Gefrid in poco più di cinque minuti. Tuttavia,
così facendo, avrebbero
dovuto attraversare la piazza principale del villaggio e, certamente,
non
sarebbero passati inosservati. Se
qualcuno mi vedesse in compagnia di un drappello di soldati, si farebbe
certamente delle domande, rifletté. Anche se
sapeva di non avere nulla da
rimproverarsi, quell’eventualità la mise comunque
a disagio. Dopo un istante di
indecisione, Lidia si voltò verso Gaio, che chiudeva la
piccola processione.
«Converrebbe passare attraverso la piazza: sarebbe molto
più rapido» mormorò,
occhieggiando in quella direzione.
«Però… non lo so, forse sarebbe
più sicuro
passare dal sentiero esterno, quello che costeggia gli orti?»
Gli
altri tre
uomini si voltarono per attendere la decisione di quello che, almeno
per il
momento, era a tutti gli effetti il loro capo.
«Sì, forse è meglio. Certamente
sarebbe più prudente. Tu non fare niente di stupido,
ragazzo» disse, poi,
rivolto a Tito. «Lucio, Valerio: voi state pronti a
intervenire, nel caso
qualcosa andasse storto.»
Ah! Allora si chiama Valerio! Pensò
Lidia, vagamente soddisfatta del fatto di avere scoperto il nome anche
dell’ultimo dei suoi accompagnatori. Senza aggiungere altro,
Lucio si avviò
lungo il vicoletto che, quasi invisibile, si insinuava tra due case e,
dopo
pochi metri nell’oscurità più totale,
il gruppetto sbucò tra i campi. Anche se
la luna era schermata dalle nuvole, a Lidia parve che i confini delle
cose si
fossero fatti più nitidi, quasi che i fili d’erba
riflettessero un minimo di
luce argentea – o forse erano soltanto i suoi occhi che si
erano abituati alle
tenebre.
Al
limitare
esterno del villaggio erano situati numerosi piccoli appezzamenti di
terra
coltivata, ognuno dei quali era delimitato da una recinzione costruita
con pali
di nocciolo, rinforzati, nel caso in cui il proprietario fosse
particolarmente
bellicoso, con alcuni giri di filo spinato; un accorgimento che sarebbe
dovuto
servire per difendere verdure e ortaggi dalla voracità degli
animali selvatici.
Nelle poche occasioni in cui era passata di lì dopo il calar
del sole, Lidia
aveva sempre scorto qualche capriolo intento ad allungare il collo
verso i
germogli teneri dei fagioli e, anche in quell’occasione, tese
istintivamente le
orecchie nel tentativo di cogliere un qualche fruscio che la avvertisse
della
presenza degli ospiti indesiderati.
Per
quanto si
sforzasse, però, la ragazza non udì altro che
l’intenso frinire dei grilli nascosti
tra l’erba alta, i passi ovattati dei suoi accompagnatori e
qualche raro suono
che proveniva dal villaggio – una porta che sbatteva,
l’eco di una voce. La
strana immobilità della natura le parve, se non proprio un
tradimento, quanto
meno il segnale che qualcosa fosse fuori posto: spostando lo sguardo
sui campi
bui, Lidia provò a sondarne l’oscurità
con gli occhi, nel vano tentativo di
cogliere un qualsivoglia movimento. Così facendo, la
fanciulla non si accorse
che, davanti a lei, Lucio si era fermato di colpo e andò a
sbattere contro la
sua schiena rigida.
Quando
il
giovane non mosse un muscolo, lei lo guardò con aria
interrogativa. «Cosa c’è?»
chiese, in un sussurro.
Per
qualche
istante, Lucio non disse nulla, ma, pur nelle scarse condizioni di luce
in cui
si trovavano, la ragazza riuscì a scorgere la sua
espressione tesa, il
movimento lento del suo braccio che si alzava come per indicare
qualcosa. Poi,
all’improvviso, il soldato ruotò velocemente su se
stesso e, posando entrambe
le mani sulle spalle di Lidia, la spinse in avanti, verso i suoi
compagni.
«Via!» esclamò,
con gli occhi sbarrati
dalla paura e dall’eccitazione.
La
fanciulla
fece appena in tempo a scorgere delle ombre che, giungendo dalla
direzione
opposta alla loro, si stavano avvicinando rapidamente, poi Valerio la
circondò
con un braccio e, dando sfoggio di una forza inaspettata, la
trascinò via.
Lidia si ritrovò a correre alla cieca, ma la confusione, lo
smarrimento e il
braccio del soldato che ancora la stringeva la rallentavano.
Ci
mise un po’ a
rendersi conto che i passi di Lucio, alle sue spalle, si erano fatti
più
distanti e poi si erano fermati del tutto. Anche se c’era
qualcosa, nelle
profondità del suo stomaco, che le ordinava di non guardare
indietro, Lidia si
voltò comunque a lanciare uno sguardo alle proprie spalle.
L’unica occhiata
fugace che riuscì a rubare le permise di scorgere soltanto
una figura scura
rannicchiata a terra, immobile, e altre sagome – quattro,
cinque, sei uomini –
che le si stringevano attorno. Qualcosa sobbalzò, nel suo
petto, e per una
frazione di secondo Lidia provò l’impulso
irrazionale di divincolarsi dalla
stretta di Valerio e di tornare sui propri passi, correndo verso il
punto in
cui Lucio era caduto. Il giovane dovette però intuire le sue
intenzioni, perché
la sua stretta si fece ancora più salda e decisa. La
fanciulla sentì le dita
del soldato conficcarsi dolorosamente nella sua spalla e quella
sensazione la
costrinse a riportare l’attenzione su se stessa.
Immediatamente,
Lidia tornò a voltarsi nella stessa direzione in cui Valerio
la stava
trascinando. Confusamente la ragazza avvertì che Gaio le
stava dicendo
qualcosa, ma non riuscì a cogliere il senso di quelle parole. Corri, era l’unico ordine che
arrivava
dal suo cervello, eppure, allo stesso tempo, i suoi occhi si
appuntarono su
Tito che, accanto a lei, ancora si soffermava a guardare ciò
che stava
accadendo alle sue spalle, sul suo volto lo stesso sconvolgimento che
lei
avvertiva nel cuore. Istintivamente Lidia allungò una mano
fino a stringere tra
le dita il polso del giovane romano e a strattonarlo nel tentativo di
riscuotere il ragazzo dal suo smarrimento.
Funzionò
e, una
frazione di secondo più tardi, gli occhi scuri di Tito
incontrarono i suoi.
«Dai, Lidia, vai!» ansimò il ragazzo,
stringendole a sua volta la mano.
Nell’avvertire il contatto con il suo palmo sudato, la
fanciulla sentì un nodo
doloroso serrarle la gola. Come ci erano finiti, loro due, in quella
situazione? Fino a pochi mesi prima, la loro preoccupazione
più grande era stata
trovare un modo divertente in cui passare il pomeriggio, mentre ora, a
così
poco tempo di distanza, si trovavano a correre nella notte, nel
tentativo di
salvarsi la vita.
Lidia
seguì Gaio
quasi alla ceca, senza nemmeno fare il tentativo di capire dove la
stesse
conducendo, talmente assorbita dai suoi pensieri confusi da non
accorgersi che
il soldato stava rallentando. Fu solo grazie alla presa decisa di Tito
che,
quando l’uomo si fermò completamente, la fanciulla
riuscì a evitare di rovinare
a terra. Alle sue spalle, Valerio, che si era staccato da lei senza che
lei se
ne rendesse conto, si piegò leggermente su se stesso, con il
respiro pesante.
«Non li vedo più» mormorò,
quasi mordendo le parole tra i denti.
«Nemmeno
io»
replicò Gaio, con voce sorprendentemente calma. Lidia si
appoggiò al muro del
fienile dietro a cui avevano trovato riparo, portandosi una mano
all’altezza
delle costole. Adesso che non stavano più correndo, la
fanciulla sentiva il
cuore martellarle nel petto a una velocità allarmante. In
gola aveva un vago
sapore di sangue e le sembrava di avere un pugnale conficcato nella
zona della
milza. Chiudendo per un istante gli occhi, la ragazza cercò
di calmare il
tremolio delle proprie gambe e poi inspirò a fondo,
spostando lo sguardo sui
due soldati di fronte a lei e restando in attesa di una loro decisone.
Dopo
alcuni
secondi che le parvero infiniti, Gaio annuì. «Va
bene. Cerchiamo di raggiungere
il carro. Con calma, ma tenendo gli occhi aperti.»
Muovendosi
con
una sincronia quasi perfetta, Lidia e Tito si voltarono l’uno
verso l’altro,
sui loro volti la stessa identica domanda. Sentendosi in dovere di dire
qualcosa, la ragazza allungò un braccio in direzione del
soldato più anziano,
arrivando a sfiorargli una spalla. «Ma…?»
La
fanciulla
sentì di non avere la forza di esprimere il suo pensiero, e
allora si limitò a
fissare Gaio con gli occhi sgranati, sperando che l’uomo
comprendesse la natura
del suo dubbio. Lui però aggrottò la fronte,
guardando con la coda dell’occhio
il suo giovane commilitone, forse per accertarsi che, almeno
nell’immediato,
non vi fosse alcun pericolo. «Cosa
c’è?» le chiese, poi.
Lidia
deglutì,
cercando di sopraffare la secchezza che le stringeva la gola e le
impastava la
lingua. «Ma… Lucio?» Accanto a lei, la
giovane sentì Tito esalare un sospiro
lento e le dita del ragazzo stringersi un po’ di
più attorno alle sue.
Anche
se
l’oscurità le rendeva impossibile scorgere con
chiarezza l’espressione del suo
volto, Lidia ebbe l’impressione di vedere le rughe che
solcavano il viso di Gaio
farsi più profonde, più cupe. «Non
possiamo fare più niente, per Lucio. È
andato. Non ha senso tornare indietro e mettere in pericolo anche noi
stessi.»
Davanti
alla
schiettezza del militare, Lidia sbiancò. «Ma
forse… forse non è morto?» chiese,
vergognandosi un poco nell’udire il modo in cui la sua voce
si incrinò, nel
pronunciare quell’ultima parola. «Forse
l’hanno solo catturato?» le diede man
forte Tito, con appena un filo di speranza ad animare il suo tono.
Gaio
sospirò e,
avanzando di un passo, posò le mani sulle loro spalle.
«No, è morto» ripeté,
senza mezzi termini. «Era solo un soldato come tanti altri,
non avrebbe avuto
alcun valore, come ostaggio. Da morto, invece, può benissimo
diventare un
trofeo.» Il legionario restò immobile per qualche
istante, osservando la
reazione dei due ragazzi, poi, quando vide che le sue parole avevano
colpito
nel segno, si allontanò da loro, facendo un cenno a Valerio
e rimettendosi in
marcia.
Lidia
e Tito
seguirono in silenzio i due soldati, ognuno immerso nei propri
pensieri. Con la
testa piena di ovatta, Lidia appoggiò un piede su un
ciottolo instabile e si
torse una caviglia in maniera dolorosa, ma non vi prestò
alcuna attenzione. Si
sentiva in colpa. Lucio era morto e lei non riusciva a fare a meno di
pensare che,
sotto sotto, in un modo o nell’altro, ciò che era
accaduto fosse colpa sua.
Non essere sciocca, lui era un soldato e
sapeva benissimo ciò a cui andava incontro. È
questo, quello che fanno i
soldati: vanno a combattere lontano da casa loro e, qualche volta,
muoiono.
Quella strana voce che, di tanto in tanto, le soffiava in testa
pensieri
inaspettati cercò di alleggerirle la coscienza, ma il peso
che le gravava sul
cuore non si allentò.
In
maniera un
po’ contorta, Lidia pensò che, se fosse stata
sincera con Ulf, le cose
sarebbero andate diversamente, forse. Forse,
se gli avessi detto di Tito, lui non sarebbe partito già
questa mattina. O
forse sarebbe partito lo stesso, ma mi avrebbe portata con
sé e tutto questo
non sarebbe successo.
O magari non sarebbe cambiato niente, si
disse ancora e, in un certo senso, quel pensiero fece aumentare ancora
di più
il suo senso di angoscia. La ragazza si rese conto che, fino a quella
sera, non
aveva preso veramente sul serio quello che stava succedendo attorno a
lei. Era
come se stupidamente – follemente
–
avesse cullato l’illusione di avere ancora un certo livello
di controllo sulla
situazione quando, in realtà, era in completa
balìa degli eventi.
Era
tutto troppo
più grande di lei, comprese con un nodo alla gola, e non
c’era nulla che lei
potesse fare per evitare che andasse tutto a rotoli. E
sono riuscita a rovinare anche le poche cose che dipendevano anche un
po’ da me. Come il suo rapporto con Ulf, per
esempio. Se convincerlo a
lasciare Erding con lei era sempre stata una cosa piuttosto complicata,
ora il
progetto le appariva come un’impresa praticamente disperata. Non posso certo sperare che passi sopra a
tutta la storia di Tito come se niente fosse.
Doveva
fare
qualcosa, doveva trovare un modo per aggiustare le cose, ma,
sfortunatamente,
non sapeva da che parte iniziare. Mentre le mani iniziavano a sudarle e
il
panico iniziava ad avvicinarsi a lei, strisciante, la giovane si
costrinse a
fare un respiro profondo e a calmarsi un poco. Una
cosa alla volta, si disse, risoluta. Farsi sopraffare dalla
paura e dai sensi di colpa sarebbe stato assolutamente deleterio.
Doveva
affrontare un ostacolo alla volta, senza perdere di vista
l’obiettivo finale –
la riconciliazione con suo marito e l’allontanamento dal
villaggio – ma senza
cercare di risolvere tutto subito.
Alzando
lo
sguardo davanti a sé e spiando oltre le spalle di Gaio, la
ragazza intravide la
sagoma di un carro. Lo sbuffo sommesso di un cavallo le fece
comprendere di
aver raggiunto la meta. Per prima cosa,
si disse, devo riuscire ad allontanarmi
da qui sana e salva. Come seconda cosa, devo evitare che mi
rispediscano a
Roma. Poi si vedrà. Quel pensiero non la
consolò più di tanto, ma le diede
l’impressione di avere qualcosa di concreto su cui lavorare e
Lidia sospirò,
leggermente rinfrancata.
«Salite,
svelti.» La voce sommessa di Gaio la riportò alla
realtà e, annuendo in
silenzio, la ragazza si arrampicò sul carro, prendendo posto
tra Tito e
Valerio. Gaio si posizionò a cassetta e, pochi istanti
più tardi, il carro
prese a muoversi.
Per
qualche
tempo, il gruppetto viaggiò nel silenzio più
assoluto. Lidia aveva quasi
l’impressione di riuscire a sentire la tensione che si levava
dai suoi
compagni, simile a una vibrazione nell’aria. Lei stessa si
scoprì più volte a
trattenere il fiato, cercando di spingere il proprio udito al limite
ultimo,
tentando di rendere più acuta la propria vista. Non aveva
intenzione di farsi
cogliere di sorpresa una seconda volta: se c’era un nemico
nascosto nelle
tenebre del bosco, avrebbe fatto del proprio meglio per scorgerlo per
tempo.
Fu
solo dopo
un’ora di viaggio che gli uomini iniziarono a rilassarsi un
poco e a sciogliere
la propria immobilità. Di punto in bianco, Tito si
schiarì la voce. «Chi
erano?» chiese. Nell’udire quella domanda, Lidia si
voltò bruscamente verso di
lui, sentendosi un po’ sciocca. Quando era fuggita dagli
uomini che li avevano
attaccati, non si era interrogata sull’identità
dei loro aggressori: le era
parso che quello fosse un particolare senza nessuna importanza, ma,
improvvisamente, veniva colta dal dubbio che non fosse così.
Si era trattato di
un incontro casuale – e sfortunato – o era stata
una vera e propria imboscata?
Qualcuno li stava tenendo d’occhio? Qualcuno sapeva che
sarebbero passati di
lì? O forse tenevano
d’occhio proprio me?
Si chiese, poi, con un brivido.
Prima
che
potesse proseguire oltre in quei pensieri, Gaio si voltò
leggermente verso di
loro, senza mai lasciare le redini del cavallo. «Non ho idea
di chi fossero. Forse
minatori, forse no. Ormai non è più solo la gente
che lavora alla miniera: le
cose si sono fatte più complicate.»
«Ma
perché ci
hanno attaccato?» insistette Tito. Con un sospiro, il soldato
tornò a guardare
davanti a sé. «Non lo so» ammise
stancamente.
Quella
risposta
così poco soddisfacente fece scorrere un nuovo brivido di
inquietudine lungo la
schiena di Lidia, che si torse per lanciare uno sguardo nervoso alle
proprie
spalle. «Credete che ci stiano ancora seguendo?»
chiese, senza riuscire a
soffocare il tremolio che si manifestò nella sua voce.
«No»
fu la
laconica risposta di Valerio. Ancora una volta, fu Gaio a fornire una
spiegazione un po’ più approfondita. «Se
avessero avuto intenzione di seguirci,
ormai ce ne saremmo accorti» la rassicurò.
«A piedi non hanno modo di starci
dietro e dubito che siano riusciti a procurarsi un carro in
così poco tempo;
senza contare che anche loro devono evitare di dare troppo
nell’occhio.
Immagino che abbiano deciso che non valeva la pena di inseguirci. In
ogni
caso», continuò poi, dopo qualche attimo di
silenzio, «è meglio essere
prudenti: viaggeremo solo di notte.»
«Solo
di notte?»
ripeté Tito, sporgendosi verso il soldato. «E di
giorno? Cosa avete intenzione
di fare? Di fermarvi in mezzo al bosco e di aspettare che torni sera,
sperando
che, nel frattempo, nessuno ci veda?» Valerio fece per
rispondere, ma poi si
bloccò, limitandosi a lanciare uno sguardo dubbioso alla
schiena del suo
commilitone.
«C’è
un…
rifugio, a poche ore di strada da qui» fece Gaio, con una
leggera esitazione.
«Avrei preferito andare un po’ più a
sud, prima di fermarmi, ma non conosco
nessun altro posto sicuro. Lì vive un nostro contatto, per
così dire. È a metà
strada tra Erding e Hudwill e, se passeremo il giorno lì e
ci rimetteremo in
marcia al tramonto, arriveremo al campo prima
dell’alba.»
Lidia
strinse
inconsciamente le mani, scoprendole imperlate di un sudore nervoso.
Sebbene non
potesse dire di conoscere bene i due soldati con cui stava viaggiando,
la loro
compagnia le pareva comunque più rassicurante di quella di
uno sconosciuto:
c’era qualcosa, nel modo in cui Gaio ne aveva parlato, che
faceva nascere in
lei come un cattivo presentimento. «Chi è questo contatto?» chiese, sperando che
l’inquietudine non distorcesse il
suono della sua voce. «È romano?»
«No,
è
germanico» replicò Gaio.
«Però è fidato. Collabora con noi ormai
da parecchi
anni e non abbiamo mai avuto motivo di dubitare della sua
fedeltà. Non hai
motivo di preoccuparti, Donna Lidia.»
Anche
se sapeva
che il soldato non poteva vederla, la ragazza annuì. Non
sapeva nemmeno lei
perché avesse chiesto se l’uomo che avrebbero
incontrato di lì a qualche ora
fosse romano o meno: quel fatto non era più una garanzia di
nulla, a conti
fatti, e lei non poteva fare altro che affidarsi a chi, forse, ne
sapeva un po’
più di lei.
Il
fatto di
essere regredita a uno stato in cui non aveva alcuna autonomia
decisionale non
le piaceva, ma si rendeva conto che, in quelle circostanze,
c’era ben poco che
lei potesse fare. Respirando lentamente nel tentativo di mettere a
tacere
almeno in parte l’inquietudine che minacciava di soffocarla,
Lidia si lasciò
scivolare contro lo schienale basso del carro, afflosciandosi un poco
su se
stessa. Accorgendosi del suo sconforto, Tito lo passò un
braccio attorno alle
spalle e la attirò a sé delicatamente. Sulle
prime, la fanciulla fece per resistere,
ma poi la stanchezza e lo stress della serata ebbero la meglio e la
ragazza
reclinò il capo sulla spalla del giovane, appoggiandosi a
lui e lasciando che
il suo calore famigliare le portasse un po’ di conforto.
«Non
preoccuparti» le sussurrò Tito; e lei sorrise
amaramente. Come fa a dire che non mi devo
preoccupare? Pensò, con una smorfia.
Non c’è una sola cosa per
cui possa
evitare di preoccuparmi. Lucio… quel poveretto non
c’è più, e anche noi siamo
stati vicini a fare la sua stessa fine. Al villaggio non si capisce
più niente
e Ulf… Ulf è arrabbiato con me e
chissà quanto ci metterà, a perdonarmi. Con
una punta di risentimento dettato dalla frustrazione, Lidia fu sul
punto di
dire a Tito di risparmiarle le frasi di circostanza, ma poi
lasciò perdere, sentendo
di non avere la forza di discutere con lui.
Avvertendo
di
essere giunta a un punto morto, la giovane scivolò un
po’ più in basso e chiuse
gli occhi – non con la speranza di riuscire a dormire, ma,
piuttosto, con
l’intento di riposare almeno un poco i pensieri. Ben presto,
però, il
beccheggio irregolare del carro fece calare su di lei una sorta di
immobilità
calda, quasi piacevole, e la sua testa si fece pesante e leggerissima
allo
stesso tempo. Pochi minuti più tardi, quasi senza rendersene
conto, Lidia
scivolò tra le braccia del sonno.
***
Sto uscendo di casa ora e ci rimetterò
piede
lunedì pomeriggio, quindi posto subito questo capitolo.
Però non sono riuscita
a rileggere niente. Segnalatemi pure gli errori, provvederò
a correggerli il
prima possibile.
Ps. Dopo questo, ho pronti altri due
capitoli e mezzo. Tra un po’
dovrò rallentare il ritmo, temo D:
|
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Capitolo 29 *** 28. Un rifugio sicuro ***
Lidia si
svegliò di soprassalto, destata da un sobbalzo del carro.
Portandosi una mano
alla nuca, la ragazza si massaggiò il collo indolenzito e
poi sbatté gli occhi,
cercando di allontanare l’offuscamento causato dal sonno
residuo. Accanto a
lei, Tito si stiracchiò e la fanciulla si chiese se il
giovane si fosse
addormentato, esattamente come lei. «Dormivi?» gli
chiese, con voce impastata.
Il ragazzo
deglutì un paio di volte, prima di rispondere.
«Sonnecchiavo» replicò, e Lidia
non trattenne un sorriso, udendo la risatina soffocata che giunse
dall’angolo
del carro in cui sedeva Valerio. Sì,
sonnecchiava, come no. Questo qui è crollato. Può
atteggiarsi a uomo vissuto,
ma si vede che nemmeno lui è abituato a questa vita.
«Che ore
sono?» chiese poi, diplomatica.
«Avete
dormito per un paio di ore» spiegò Valerio,
voltandosi per guardarla. «Vi siete
svegliati giusto in tempo, però: siamo quasi arrivati da
Alexander.»
«Alexander?»
ripeté Tito, precedendo di un soffio la ragazza, che avrebbe
voluto porre la
stessa domanda. «È la persona di cui ci avete
parlato? Il vostro contatto?»
«Esattamente»
confermò Valerio. Lidia fu tentata di indagare
ulteriormente, ma poi decise di
tenersi per sé i propri dubbi. Il giovane soldato aveva
detto che presto
sarebbero giunti a destinazione: non aveva senso riempire di domande i
loro
accompagnatori, se di lì a poco avrebbero incontrato di
persona quello che
avrebbe dovuto essere il loro ospite.
Guardandosi
attorno nella notte che, se possibile, le pareva ancora più
buia di quanto le fosse
sembrata qualche ora prima, Lidia si accorse che avevano abbandonato la
strada
principale. Quello su cui procedevano ora era un viottolo angusto, poco
più
largo di un sentiero: per quanto poteva vedere, il fondo era
irregolare,
costellato di sassi e radici. Ora che era sveglia, la ragazza iniziava
ad
avvertire un certo disagio a livello dello stomaco e si
ritrovò a pregare
silenziosamente che il loro viaggio giungesse a termine quanto prima
–
diversamente, non si sarebbe ritenuta responsabile delle proprie
reazioni.
Gaio, che,
apparentemente, non aveva mai abbandonato la sua postazione,
continuò a condurre
il carro per un tempo che alla giovane parve interminabile. Poi,
proprio quando
stava iniziando a disperare e ad avvertire un senso di nausea sempre
più
pressante, il cavallo rallentò la propria andatura. Ci stiamo fermando? Si chiese Lidia,
raddrizzando la schiena e
sedendo in modo più composto. Qui?
In
mezzo al nulla?
«Siamo
arrivati?» chiese, con un filo di voce. Il pensiero che
davanti a loro vi fosse
un qualche pericolo che avesse spinto Gaio a fermare il cavallo
sfiorò per un
istante la sua mente, ma il cenno di assenso di Valerio la
rassicurò. «Sì»
confermò il ragazzo. «Lì, nella
radura.»
Lidia si
sporse leggermente dal fianco del carro e strizzò gli occhi
nel tentativo di
distinguere qualcosa tra i rami scuri degli alberi che li circondavano.
Il
tracciato che stavano percorrendo virò dolcemente a sinistra
e, pur nel buio
quasi totale in cui erano immersi, la fanciulla scorse un piccolo
sprazzo
erboso seminascosto tra i tronchi possenti dei castani e dei frassini
che
crescevano tutto attorno. Al centro della piccola radura si ergeva una
costruzione scura, una casupola che, a prima vista, le parve
completamente
disabitata. Non appena ebbe elaborato quel pensiero, però,
una delle finestre
si illuminò, facendole capire che al suo interno
c’era qualcuno che li
attendeva.
Gaio fermò
il cavallo a pochi metri dalla costruzione, poi si voltò
verso la giovane. Nel buio
della notte, Lidia ebbe l’impressione di vedere i suoi occhi
scintillare.
«Spero tu sia consapevole del fatto che siamo molto lontani
da Erding, Lidia.»
La ragazza
aggrottò la fronte, confusa. «Sì, lo
so» replicò, cercando di capire perché
il
soldato le avesse dato quell’informazione. Davanti a quella
risposta neutrale,
il legionario parve un poco in imbarazzo, perché
tossicchiò, schiarendosi la
voce. «Quindi saprai anche che sarebbe davvero molto sciocco,
da parte tua,
cercare di scappare per tornare al villaggio, giusto?»
«Scappare?»
sbottò la ragazza, con le guance in fiamme, offesa da
quell’insinuazione. «Ho
deciso di seguirvi di mia volontà, non
vedo perché dovrei cercare di tornare indietro. Se non
avessi voluto venire con
voi, mi sarei opposta fin da subito.»
Tito, che
sedeva al suo fianco, si voltò per guardarla e, se
possibile, le guance della
giovane si fecero ancora più rosse. Quello che aveva detto
non era
completamente vero, naturalmente: se non si era opposta alla richiesta
di
Caleno, era solo perché aveva compreso di non avere scelta.
Il fatto che,
almeno all’apparenza, stesse collaborando non significava
però che li avrebbe
seguiti docilmente fino a Roma. E
sospetto che Tito sappia perfettamente come stanno le cose,
si disse,
osservando con la coda dell’occhio l’espressione
del giovane romano. Lui la
conosceva fin troppo bene e, sicuramente, i pochi mesi che avevano
passato
lontani l’uno dall’altra non erano stati
sufficienti per rendergliela
imprevedibile.
Temendo
che il ragazzo potesse indovinare i suoi pensieri, Lidia osò
lanciargli
soltanto un’occhiata veloce, poi tornò a
rivolgersi a Gaio. «Non temere: non
cercherò di scappare» riprese, facendo del proprio
meglio per mantenere un tono
di voce neutro. Il
soldato parve sul
punto di replicare, ma, improvvisamente, la porta della casupola alle
loro
spalle si aprì e un uomo si diresse verso di loro.
«Siete in anticipo» disse il
nuovo venuto, a mo’ di saluto.
«Alexander» rispose, con un mezzo sorriso, il
soldato. «Ti avrei avvertito del cambio di programma, ma,
purtroppo, non ne ho
avuto il tempo.»
L’uomo
annuì e poi si diresse verso di loro, arrivando a posare le
mani sul bordo del
carro. La luce proveniente dall’interno
dell’abitazione gettava su di lui
un’aura dorata che sembrava incendiare i suoi capelli.
Alexander studiò per
qualche istante Lidia, che abbassò lo sguardo, sentendosi a
disagio di fronte a
quell’esame così attento. «Chi
è lei?»
Con un
balzo sorprendentemente leggero per un uomo della sua età,
Gaio scese dal carro
e si portò accanto al germanico. «Lei è
Lidia Aurelia Prisca: dobbiamo
accompagnarla a Roma.»
L’uomo che
rispondeva al nome di Alexander inarcò le sopracciglia.
«Dovete portarla fino a
Roma? E perché?» indagò, spostando
nuovamente lo sguardo sul volto della
fanciulla, quasi si aspettasse che fosse proprio lei a rispondergli.
«Ordini
del Prefetto Caleno» tagliò però corto
il soldato.
Davanti al
tono secco di Gaio, il germanico sorrise e alzò le mani in
un gesto di resa.
«Va bene, va bene, non voglio impicciarmi in cose che non mi
riguardano» lo
rassicurò, con l’ombra di una risata nella voce.
«Però lo sapete, che non
voglio avere rogne: se questa ragazza vi ha obbligato a scappare in
fretta e
furia da Erding, non sono sicuro di volerla ospitare in casa
mia.»
Lidia inspirò
bruscamente, mortificata. La modesta curiosità che aveva
nutrito nei confronti
di Alexander si trasformò immediatamente in antipatia. Nemmeno mi conosce e già dice che non mi
vuole tra i piedi, pensò,
contrariata. Di fronte al suo sguardo corrucciato, però, lui
le rivolse un
sorriso disarmante, quasi volesse chiederle di non prendersela per
quello che
aveva detto.
«Non è
solo per lei, che siamo partiti prima del previsto.»
Nell’udire le parole di
Gaio, Lidia sollevò bruscamente il capo. No?
Si chiese. Era convinta che i soldati si fossero allontanati
da Erding
perché il Prefetto aveva ordinato loro di portarla in salvo:
non era così?
Anche
Alexander parve stupito, perché si voltò per
fronteggiare Gaio, reclinando il
capo sulla spalla in un modo che riportò alla mente della
giovane romana alcuni
atteggiamenti di Hermann. «Cos’altro
c’è?» indagò.
Gaio
allungò un braccio e Valerio gli passò una
bisaccia, sporgendosi oltre a Tito e
a Lidia. «Abbiamo bisogno del tuo parere a proposito di una
certa faccenda» mormorò
il soldato più anziano, scuotendo la sacca così
da attirare su di essa
l’attenzione del germanico.
«Di cosa
si tratta?» chiese Alexander, facendo per afferrarla, ma Gaio
fu rapido a
ritrarre il braccio e a portare la bisaccia al di fuori della portata
dell’uomo. «Non qui» fece il romano.
«Sono cose riservate, meglio discuterne
all’interno.»
Alexander
esitò per una frazione di secondo, poi annuì.
«Va bene, allora. Seguitemi in
casa. Noi potremo discutere di questa cosa così riservata, e la ragazza potrà
riposare. Se siete in viaggio da ieri
sera, sarai distrutta, no?»
Lidia, che
non si era aspettata che l’uomo le rivolgesse la parola, a fu
presa leggermente
in contropiede da quella domanda diretta. «Ah, ehm»
biascicò. «Abbastanza,
anche se… anche se ho dormito, sul carro.»
«Be’, è
meglio dormire in un letto» rise il germanico.
«È molto più comodo, sai?»
Sicuramente, pensò la fanciulla, alzando gli
occhi al cielo. Anche se lo conosceva da pochi minuti soltanto, aveva
la netta
impressione che ci fosse qualcosa di piuttosto insolito,
nell’atteggiamento
dell’uomo. Non riusciva a capire se il modo in cui si
rivolgeva a lei fosse un
tentativo di risultarle simpatico – e dunque di stemperare un
poco l’imbarazzo
di un primo incontro – o se l’ironia che le pareva
di intravedere nelle sue
parole fosse indice di strafottenza.
E poi anche a vederlo, mi sembra
un po’
strano. Mentre Alexander li accompagnava
all’interno dell’edificio, Lidia
lo osservò di soppiatto. Gaio aveva detto che era un
germanico e i suoi colori
chiari – la pelle pallida, i capelli rossi e gli occhi del
blu più intenso che
avesse mai visto – sembravano confermare quella tesi.
Tuttavia, il suo viso era
perfettamente rasato, cosa rara, tra gli uomini che vivevano da quelle
parti, e
i suoi capelli erano tagliati corti, alla moda dei romani.
«Avete
mangiato?» chiese Alexander, distraendola brevemente dai suoi
pensieri.
«Immagino di no, vero? Non ho molto, ma qualcosa posso
comunque offrirvi. Poi…
Lidia, giusto? Poi Lidia potrà andare a dormire per qualche
ora e voi potrete
sistemare il cavallo. Da queste parti non passa mai nessuno, ma non mi
sembra
comunque il caso di lasciare il carro là fuori, in bella
vista. Meglio essere
prudenti, visto i tempi che corrono.»
Parla un sacco, pensò
ancora la ragazza, e ha un accento strano.
Mentre l’uomo continuava nel suo monologo, istruendo Valerio
su come e dove
avrebbe potuto ricoverare il cavallo, la ragazza cercò di
ricollegare la
curiosa cadenza strascicata dell’uomo con una qualche
pronuncia a lei nota. Forse un qualche
dialetto, magari del nord?
La voce di Alexander sembrava inciampare sulle consonanti,
sottolineandole più
del dovuto, mentre le vocali venivano spesso ignorate e ingoiate nella
foga del
discorso. E si può sapere
perché fa
quella specie di cantilena, alla fine delle frasi? È
irritante!
«Lidia?
Tutto bene?» Persa com’era nelle sue riflessioni,
quando Tito le rivolse la
parola la ragazza sobbalzò, colta di sorpresa.
«Sì, tutto bene» mormorò.
«Stavo
solo pensando.»
Il giovane
le rivolse un’occhiata preoccupata e allungò una
mano per stringere quella
della fanciulla. In un gesto del tutto istintivo, però, lei
si sottrasse a quel
contatto, incrociando le braccia davanti al petto e distogliendo lo
sguardo dal
volto di Tito per evitare di scontrarsi con la sua espressione delusa.
Così
facendo, però, inciampò negli occhi azzurri di
Alexander, che aveva seguito lo
scambio con un’espressione incuriosita sul viso.
«Mi accorgo adesso che non sei
un soldato, tu» fece l’uomo, scrutando da capo a
piedi il giovane romano.
Tito
ricambiò lo sguardo, sospettoso. «Eh…
no.» Alexander inarcò le sopracciglia in
maniera teatrale, come per mimare sorpresa, e poi si rivolse verso
Gaio. «E
allora cosa ci fa qui?» chiese, in un tono che rese ancora
più marcato il suo
strano accento.
«Conosco
Lidia da un sacco di tempo e ho deciso di riaccompagnarla a
casa» replicò Tito,
asciutto, troncando sul nascere la risposta del soldato. La ragazza
abbassò lo
sguardo a terra, in parte contrariata dalla spiegazione fornita dal
ragazzo e
in parte imbarazzata dallo sguardo che le rivolse Alexander:
l’uomo la stava
guardando con un’intensità nuova e con negli occhi
una luce che lei non riuscì
a interpretare. «Perché ho come il sospetto che
abbia un marito germanico, su a
Erding, e che tu stia scappando da lui?»
Lidia lo
guardò a bocca aperta, troppo mortificata per trovare una
risposta in tempi
rapidi, ma Gaio la salvò dall’imbarazzo
rispondendo al posto suo. «Il tuo
sospetto è sbagliato» sbottò.
«Lidia è sposata, è vero, ma non sta
fuggendo da
suo marito: sta fuggendo dalla guerra. La riaccompagneremo a Roma da
suo padre
– che è anche un Senatore, affinché tu
lo sappia – e resterà lì
finché la
situazione lo richiederà. Quando non ci sarà
più alcun pericolo per lei, qui in
Germanica, la restituiremo alla sua nuova famiglia.»
«È così?»
chiese ancora Alexander, rivolgendosi alla fanciulla. Ancora una volta,
però,
fu Gaio a rispondere. «Sì, è
così. Anche se non fosse così, però,
la cosa non
ti riguarderebbe. Adesso portaci il cibo che ci hai promesso: sono
stanco
anch’io, e vorrei mostrarti questa cosa, prima di riposarmi
per qualche ora.»
Gli occhi del germanico si appuntarono sulla bisaccia che il legionario
aveva
di nuovo sollevato e, dopo un istante di esitazione, annuì.
«Va bene, hai
ragione: ti chiedo scusa. Forza, seguitemi: vedrò cosa posso
offrirvi.»
***
Lidia
sfiorò con una mano il copriletto di lana grezza, tastando
la morbidezza del
materasso sottostante, e poi vi si lasciò cadere sopra,
incrociando
nervosamente le mani in grembo. Non
riuscirò mai a dormire in questa stanza, si disse,
lasciando scorrere lo
sguardo sulle pareti sconosciute che la circondavano.
Alexander
aveva offerto loro del pesce essiccato e delle verze accompagnate da
delle
spesse fette di pane nero, ma alla vista di quel piatto Lidia aveva
sentito il
proprio stomaco chiudersi. A costo di fare la figura della ragazzina
viziata e
incontentabile, aveva rifiutato quella sgradita colazione e aveva
chiesto di
potersi andare a coricare. Anche se aveva fatto del proprio meglio per
ignorarlo, non le era sfuggito lo sguardo carico di scetticismo che si
erano
scambiati Alexander e Valerio. Fortunatamente, però, il
germanico le aveva
sorriso e l’aveva accompagnata al piano superiore,
mostrandole quella che, a
sua detta, era la camera da letto che riservava per gli ospiti di un
certo
riguardo.
Spero solo che non sia
la sua, di camera,
pensò la
ragazza, accigliata. Quando l’uomo le aveva mostrato il luogo
in cui avrebbe
potuto dormire, Lidia era stata sul punto di chiederglielo, ma poi il
pudore
glielo aveva impedito. Non vorrei che si
facesse strane idee: è talmente strambo che è
difficile dire che cosa gli passa
per la testa.
Quella,
però, non era un’anonima camera degli ospiti,
arredata con suppellettili
inutili che non avevano altro scopo che riempire uno spazio che,
altrimenti,
sarebbe rimasto vuoto. C’era un tavolino sporco
d’inchiostro, accanto al letto,
corredato da una sedia sgualcita, dall’aspetto vissuto. La
lampada da tavolo
non era riposta ordinatamente in un angolo, ma era stata trascinata al
centro
del ripiano, come se fosse stata usata per illuminare meglio un qualche
foglio.
Sul divanetto all’angolo, ammonticchiati in maniera
disordinata, c’erano alcuni
panni che Lidia non aveva avuto il coraggio di esaminare da vicino e la
parete
di fronte al letto era completamente occupata da una libreria di legno
scuro.
In cerca
di una distrazione, la ragazza si alzò e fece per
avvicinarvisi, ma, prima che
potesse raggiungere la sua meta, fu distratta da un bussare deciso alla
porta.
«Sì?» chiese, con una punta di tensione
nella voce.
«Ti ho
portato qualcosa da mangiare. Apri!»
Nell’udire
la voce di Alexander, Lidia si accigliò per un istante, ma
poi sospirò,
riconoscendo che, certo, non avrebbe potuto impedire al padrone di casa
di
muoversi liberamente all’interno della propria abitazione.
«La porta è aperta» rispose,
con una smorfia. L’uscio si socchiuse appena.
«Posso?» ripeté l’uomo.
La ragazza
si portò le mani ai fianchi, imitando inconsciamente la
postura che sua madre
assumeva nelle rare occasioni in cui perdeva la pazienza.
«Be’, sì: è casa
tua.» Aprendo definitivamente la porta con il tocco di una
spalla, Alexander
entrò nella camera reggendo tra le mani un vassoio sul quale
erano posati una
tazza fumante e quello che a Lidia parve del pane bianco.
«Ecco qui:
una tisana fatta con le mie mani e del pane dolce. Spero che questo ti
piaccia
di più delle verze e dello stoccafisso.» La
ragazza sentì un calore famigliare
lambirle le guance. Le toccava ammettere che, rifiutando la cena che le
era
stata offerta, non si era dimostrata particolarmente educata. Date le
circostanze, però, Lidia sentiva di potersi perdonare un
minimo di cattive
maniere, e quindi si limitò a rivolgere all’uomo
un piccolo cenno di assenso
con il capo. «Non dovevi disturbarti» disse, a
mezza voce.
Il
germanico si strinse nelle spalle. «Nessun
disturbo» le assicurò, ma la
fanciulla vide che già i suoi occhi correvano per la stanza,
quasi come se
volesse assicurarsi che fosse ancora tutto come l’aveva
lasciato. «Ti lascio
tutto qui sulla scrivania. Tu cerca di riposarti e non preoccuparti per
la
tazza: verrò a recuperarla questa sera.»
Lidia
annuì nuovamente, aggrottando appena la fronte. Sembra quasi che tu voglia assicurarti che io non
esca da qui,
pensò, lanciandogli un’occhiata di soppiatto. Non
che la cosa la disturbasse
più di tanto, comunque: la fatica della nottata iniziava a
farsi sentire e, in
quel momento, la prospettiva di riposarsi sul letto alle sue spalle le
sembrava
decisamente più allettante di quella di
un’ulteriore discussione con Tito. Il
ricordo di quella faccenda riservata
a cui Gaio aveva fatto cenno immediatamente dopo il loro arrivo la
sfiorò, ma
Lidia accantonò rapidamente la questione: qualunque fosse la
cosa che
preoccupava i legionari, era abbastanza certa che non la riguardasse da
vicino.
Ho già i miei, di problemi, non ho
nessuna intenzione di ficcare il naso in quelli che non mi riguardano.
«Lidia?
Hai capito cosa ti ho detto?»
La ragazza
sobbalzò, riscossa dalla domanda di Alexander, che era
tornato a concentrarsi
su di lei e la stava guardando come se la considerasse un po’
stupida. «Mh? Sì,
certo. Lascia pure tutto lì, grazie.» Il germanico
esitò ancora per qualche
istante, poi si strinse nelle spalle. «Va bene. Ti lascio
riposare.»
Quando
l’uomo se ne fu andato chiudendosi la porta alle spalle,
Lidia espirò
bruscamente, liberandosi di una tensione che non era stata nemmeno
consapevole
di avere accumulato. Questa situazione mi
sta stressando, si disse, circondandosi un istante con le
proprie braccia. Chissà se
qualcuno si è già accorto che non
sono più a casa, si chiese, ma subito scosse la
testa. Dal momento che non
era riuscita ad avvertire Hermann della propria partenza, era probabile
che la
prima persona a rendersi conto della sua scomparsa sarebbe stata Donna
Edda,
che, con ogni probabilità, si sarebbe recata da lei per
assicurarsi che
svolgesse a dovere tutte le faccende domestiche.
Chissà se
troverà il messaggio che ho lasciato
in camera, si
chiese, ancora. Chissà
se è in grado di leggere il latino, soprattutto.
Sconfortata da quei
pensieri, Lidia sospirò. Avrebbe preferito sapere che la sua
assenza era già
stata notata e che, forse, qualcuno si stava già attivando
per andare a
cercarla e riportarla a casa. Ma mi
toccherà aspettare ancora qualche ora, prima che Hermann
venga a sapere quello
che è successo. C’è di buono che
resteremo qui fino a sera, se non ho capito
male. Questo gioca a mio favore. E, cosa ancora più
importante… Ulf non tornerà
a casa che fra qualche giorno.
Anche se
non aveva quasi il coraggio di confessarlo a se stessa, la ragazza
temeva che
il marito fraintendesse la situazione e che, pur trovando il biglietto
che
aveva scritto per spiegare come stavano le cose, non le credesse. Ma non può davvero pensare che io sia
scappata con Tito! Pensò, con una punta di
isteria. Non dopo tutte le cose che gli ho
detto, quello che ho fatto…
Mordendosi
le labbra, la fanciulla dovette però riconoscere che, se
avesse voluto, Ulf
avrebbe avuto più di un motivo per dubitare della sua
sincerità. Temo di non essermi
dimostrata la persona
più affidabile del mondo… né la
più sincera.
Sentendo
che lo scoramento stava per sopraffarla, Lidia chiuse gli occhi e fece
un paio
di respiri profondi, ripetendosi che, se voleva sperare di uscire
decentemente
da quella storia, non poteva permettersi di lasciarsi prendere dal
panico e di
perdere la testa. Quando fu riuscita a riportare un po’ di
ordine tra i suoi
pensieri, la ragazza riaprì gli occhi e si
avvicinò alla scrivania sulla quale
Alexander aveva depositato la sua cena.
Una tisana fatta con le
sue mani, si
ripeté, abbassando uno sguardo sospettoso sulla tazza
fumante. Stringendo tra
le dita la ceramica gialla e piegando la bocca in una smorfia nel
trovarla più
calda di quanto si fosse aspettata, Lidia si avvicinò al
naso l’infuso limpido,
dall’intenso colore ambrato. Aveva un sentore vagamente
balsamico, con solo un
leggero retrogusto dolce che la fece pensare al miele.
Mh. Con cautela, la fanciulla si portò la
tazza alla bocca e bevve un piccolo sorso. La tisana era
sorprendentemente
aromatica, le note amarognole delle erbe si mescolavano con quelle
dense del
miele e, se non si ingannava, con quelle speziate della cannella e dei
chiodi
di garofano. Non è malaccio,
concesse, scoprendosi più assetata di quanto avesse creduto.
Bevendo con
cautela, per evitare di scottarsi la lingua, e inframezzando i sorsi
con alcuni
bocconi del pane bianco e dolce che Alexander le aveva portato, Lidia
prese a
vagare per la stanza nel tentativo di ingannare il tempo.
La notte
stava ormai volgendo al termine e i primi raggi dell’aurora
tingevano il cielo
di una delicata sfumatura rosata. Le chiome degli alberi che
circondavano la
casa impedivano alla ragazza di scoprire se il sole si fosse
già alzato sopra
all’orizzonte, ma il chiarore limpido che stava iniziando a
invadere la foresta
le fece capire che presto si sarebbe fatto giorno.
È strano
andare a dormire a quest’ora, si
disse, con una smorfia di disappunto. Malgrado la stanchezza fisica e
qualche
dolorino dovuto al tempo passato sul carro, Lidia si sentiva sveglia,
vigile,
come se la sua mente si stesse già predisponendo per
affrontare un nuovo
giorno. Mi sa proprio che non
riuscirò a
chiudere occhio.
Allontanandosi
dalla finestra, Lidia si avvicinò alla libreria, alla
ricerca di un libro conosciuto
o che comunque avesse un titolo accattivante. Quando era a casa sua, a
Roma, e
ancora aveva parecchio tempo da dedicare alla lettura, la ragazza aveva
l’abitudine di leggere qualche capitolo, prima di coricarsi:
quella pratica
rilassava la sua mente e l’aiutava a passare una nottata
più serena. Facendo
scivolare l’indice sui libri riposti sugli scaffali alla sua
altezza, Lidia
trovò alcuni titoli noti, ma nulla che fosse veramente di
suo gradimento.
Quel tipo deve leggere
davvero molto, ma
sembra avere una passione per i mattoni. E per la poesia. Che schifo. Con un
moto di ribrezzo legato al ricordo di un vecchio educatore che la
costringeva a
imparare a memoria anche i componimenti più insulsi e
melensi, la ragazza alzò
lo sguardo, sperando di trovare qualcosa di più gradevole
sugli scaffali più
alti.
E questi cosa sono? Si
chiese, perplessa. Alzandosi sulla punta dei piedi, Lidia
afferrò un piccolo
volume rilegato in pelle scura e se lo avvicinò agli occhi,
facendone
inconsciamente frusciare le pagine un po’ ingiallite dal
tempo. Che alfabeto è?
Si domandò, sfiorando
con la punta dell’indice i consunti caratteri dorati
stampigliati sulla
copertina. È greco? Non mi sembra
greco.
La ragazza
retrocedette fino al letto e vi si sedette sopra a gambe incrociate,
appoggiandosi il libretto in grembo. C’era qualcosa di
affascinante, in quei
piccoli caratteri arrotondati, che a tratti le sembravano famigliari e
a tratti
completamente alieni. In che parte del mondo
usano una scrittura di questo tipo? Facendo scorrere lo
sguardo sugli
scaffali, la giovane vide che quello non era l’unico volume
scritto in
quell’alfabeto: ce n’erano almeno un paio di
dozzine.
Confusa,
senza nemmeno essere in grado di spiegarsi perché si stesse
focalizzando tanto
su un particolare tutto sommato irrilevante, Lidia si lasciò
scivolare con la
schiena sul cuscino, il libro abbandonato al suo fianco. I suoi occhi
ripresero
a perlustrare la stanza da quella posizione, sfiorando il quadretto
dorato che
rappresentava una donna dai tratti al contempo spigolosi e arrotondati,
il
tagliacarte intarsiato posato sulla scrivania, il ricamo sottile delle
tende,
la stoffa un po’ sdrucita del divano, le ragnatele che
occupavano gli angoli
più reconditi…
Meno di un
minuto più tardi, la ragazza era già scivolata
tra le braccia del sonno.
***
Che ore sono?
Lidia si
svegliò con un sussulto e subito gettò le gambe
giù dal letto, facendo cadere a
terra il libricino di pelle scura. La ragazza lo seguì con
gli occhi, confusa,
senza riuscire a capire perché fosse lì. Era
tardi, la luce che entrava dalla
finestra era troppa perché la mattina fosse solo agli inizi,
e certamente Donna
Edda sarebbe arrivata da un momento all’altro, pretendendo di
sapere perché…
Con qualche
secondo di ritardo rispetto al suo risveglio, il suo cervello prese
nota del
luogo in cui si trovava e la informò che no, quella non era
la sua camera. Gli
eventi della notte precedente piombarono su di lei con la forza di un
macigno e
Lidia si ripiegò leggermente su se stessa con un gemito
sconfortato. Come aveva
potuto dimenticarsi anche solo per un istante del guaio in cui si
trovava?
Già mi
stupisce il fatto che io sia riuscita
ad addormentarmi, con tutti quei pensieri per la testa. E, in
effetti, la velocità con cui aveva ceduto alla stanchezza
era davvero
inconsueta: non ricordava quand’era stata l’ultima
volta in cui si era
addormentata in maniera tanto inconsapevole.
Colta da
un dubbio improvviso, Lidia si guardò rapidamente attorno e
poi si alzò dal
letto, dirigendosi verso la tazza gialla, abbandonata sulla libreria.
La tisana
preparatale da Alexander era ancora lì per più di
metà, fredda e apparentemente
innocua, ma la ragazza se la portò al naso, annusandola con
sospetto. Quello lì mi ha dato un
sonnifero!
Realizzò sgomenta.
Naturalmente
non aveva nessuna prova a sostegno dei suoi sospetti, ma a ogni secondo
che
passava quella convinzione prendeva forza e autorevolezza e, in meno di
un
minuto, Lidia era assolutamente certa che Alexander l’avesse
drogata con il
preciso intento di farla dormire.
E perché,
poi!
Pensò,
mentre una rabbia sconosciuta le bruciava lo stomaco. Ma
come si permette? Pensava che andassi a curiosare tra i suoi affari?
Con
l’indignazione che le infiammava le guance, la giovane
sbatté la tazza sulla
scrivania, senza curarsi del modo in cui il liquido traboccò
e bagnò il ripiano
di legno, e poi si precipitò alla porta, spalancandola di
scatto. Ma adesso mi sente! Non me ne frega
niente,
se stanno parlando di cose riservate o se stanno facendo
chissà quale cosa
super segreta! Questa non gliela faccio passare liscia!
Sulle
prime, Lidia fu tentata di dar sfogo alla propria rabbia urlando il
nome del
germanico e precipitandosi giù dalle scale pestando i piedi
com’era solita fare
durante i suoi capricci infantili, ma poi si controllò,
ispirando a fondo. No. Non ho più
cinque anni, si disse,
serrando le dita sul legno del corrimano. Non avrebbe fatto una
scenata,
decise, ma avrebbe affrontato la situazione con la fredda
dignità che si
addiceva a una matrona romana. In ogni
caso, non ho certo intenzione di mandargliele a dire!
Scendendo
le scale con passi misurati, quasi in punta di piedi, Lidia tese le
orecchie
per individuare un qualche rumore che le indicasse la posizione del
padrone di
casa, ma tutto sembrava immobile e silente. Non
sarà mica andato a dormire, vero? Si chiese, con
una punta di delusione. Se
era verosimile che i suoi compagni di viaggio si fossero coricati per
recuperare il sonno perso durante la notte, non vedeva
perché Alexander dovesse
essersi concesso un sonnellino pomeridiano. Andarlo
a pescare in camera sua sarebbe estremamente imbarazzante,
riconobbe la
fanciulla, mentre un vago alone rossastro tornava a disegnarsi sulle
sue gote.
Una volta
giunta in fondo alle scale, la ragazza si guardò attorno,
cercando di decidere
il da farsi. Fu solo allora che si rese conto che la porta antistante
all’ingresso era leggermente socchiusa e che dalla stanza
dietro a essa
giungeva un brusio quasi impercettibile. Con uno strano presagio in
cuore,
Lidia si mosse silenziosamente in quella direzione, facendo del proprio
meglio
per non provocare il minimo rumore. Trattenendo quasi il fiato, la
giovane si
appoggiò al muro e poi, un passo alla volta, si
avvicinò allo spiraglio di pochi
centimetri che qualcuno aveva lasciato tra lo stipite e il pannello
della
porta.
Sei assolutamente
ridicola, la
informò la sua coscienza. Lidia si morse un labbro,
concentrata, e continuò a
strisciare verso la propria meta. Anche se lo sdegno che
l’aveva spinta a
lasciare la camera da letto non era stato dimenticato, ma solo
momentaneamente
accantonato, la fanciulla intuiva che quello che stava succedendo in
quella
stanza era con ogni probabilità più importante di
quanto non avesse immaginato.
Altrimenti che bisogno ci sarebbe di
tanta segretezza? Ragionò.
Ora che
era più vicina, riusciva a distinguere l’accento
strascicato di Alexander e la
voce un po’ roca di Gaio. Sono solo
loro
due o c’è anche Valerio? Tra lei e la
porta c’era ancora una cinquantina di
centimetri – troppi, perché riuscisse a cogliere
le parole sussurrate che i due
uomini si stavano scambiando. Lidia occhieggiò la distanza
che la separava
dall’uscio e poi, sebbene fosse consapevole del pericolo che
stava correndo,
coprì anche quegli ultimi centimetri. Speriamo
che nessuno si accorga di me! Pensò, con il cuore
in gola. Nella migliore delle ipotesi, ci
farei una
figuraccia terribile. Nella peggiore…
Lidia
decise di non soffermarsi troppo a pensare cosa le sarebbe potuto
succedere,
nella peggiore delle ipotesi, anche perché quei pensieri
l’avrebbero distratta
troppo dalla situazione che si ritrovava tra le mani al momento.
Chiudendo un
attimo gli occhi per calmare un po’ il martellare del suo
cuore, la fanciulla
si mise in ascolto con un’intensità ancora
maggiore di prima.
«… con
certezza da dove venga. Sinceramente, non ricordo di aver mai visto una
cosa
del genere, prima d’ora.» La voce di Alexander le
giungeva forte e chiara,
anche se attutita dalle precauzioni che l’uomo aveva preso
per non farsi
sentire da orecchie indiscrete, e Lidia sorrise, compiaciuta dai
progressi
compiuti.
«Credi che
potrebbe appartenere ai Sacerdoti? Magari al ragazzo che è
arrivato solo
l’altro giorno?» Ora era stato Gaio, a parlare, e
Lidia corrugò la fronte, chiedendosi
come fosse possibile che un oggetto appartenuto a Fratello Kay si
trovasse ora
nelle mani di un legionario di Roma.
«Non lo
so. Non posso escluderlo» replicò Alexander.
«Però di solito Roma è più
all’avanguardia rispetto alla Germanica, almeno in ambito
tecnologico. Mi
sembra strano non aver mai sentito parlare di un oggetto del
genere…»
«Sì, ma
secondo te cos’è, in definitiva?» Lidia
riconobbe la voce di Valerio, indice
che anche il giovane soldato era stato invitato all’incontro
segreto dal quale
lei era invece stata esclusa. E Tito? Non
dirmi che c’è anche lui, lì dentro!
Alexander
borbottò qualcosa che la ragazza non riuscì a
cogliere e poi tacque per alcuni
secondi. «Credo che sia una mappa» disse poi.
«Una mappa che… che ti permette
di cercare qualcosa, credo. Anche se non so bene cosa.»
«Noi siamo
qui, credo» riprese, dopo ulteriori istanti di silenzio.
Dalla stanza giunsero
altre parole indistinte e poi una domanda che fece sobbalzare la
giovane
romana. «E quell’altro punto rosso?»
Tito! Realizzò Lidia, esterrefatta. Perché lui può assistere a
questa cosa e io
no? Offesa e mortificata, la fanciulla non riuscì
a fare a meno di
sporgersi di qualche centimetro oltre alla protezione offerta dal muro
– un
gesto che forse l’avrebbe fatta scoprire, se i quattro uomini
dall’altra parte
della porta non fossero stati tanto concentrati sull’oggetto
posato sul tavolo
tra di loro.
La fessura
attraverso la quale stava spiando era sufficientemente larga da
permetterle di
avere una visuale decente di ciò che stava accadendo nella
stanza e, allo
stesso tempo, era abbastanza angusta da consentirle di non essere
troppo
visibile. Gli uomini erano disposti a cerchio attorno a un tavolino
tondo e
Lidia prese atto del fatto che Alexander le stava proprio di fronte. Se
avesse
sollevato gli occhi e lei non fosse stata sufficientemente rapida a
ritrarsi,
l’uomo si sarebbe con ogni probabilità accorto
della sua presenza, ma,
esattamente come i tre romani che gli stavano accanto, la sua
attenzione pareva
completamente assorbita dall’oggetto posato tra loro.
L’angolazione
con cui stava osservando la scena non era tale da permetterle di
scorgere ogni
dettaglio – né il punto rosso di cui Tito aveva
parlato – ma Lidia riuscì
comunque a vedere che l’oggetto della conversazione era una
sorta di tavoletta
lucida e scura, grande pressappoco come un libro di medie dimensioni,
ma alta
solo pochi millimetri.
Cos’è
quella roba? Si
chiese
la fanciulla, pur consapevole del fatto che, con ogni
probabilità, il germanico
e i suoi compagni di viaggio avevano già passato parecchio
tempo cercando di
rispondere a quella domanda.
Alexander
reclinò il capo su una spalla, come per studiare
l’oggetto da un’altra
angolazione, poi allungò una mano per sfiorare la superficie
della tavoletta.
«Quello indica la posizione di
qualcos’altro» fece, dopo un po’.
«Forse… forse
di un luogo che il proprietario di questa cosa riteneva di un qualche
interesse?» Così dicendo, l’uomo
colpì di nuovo la superficie della tavoletta
con un dito – in corrispondenza, immaginò Lidia,
del punto rosso.
Non appena
l’ebbe fatto, l’oggetto emise un suono sommesso,
come una vibrazione, e, sotto
gli occhi stupiti di Lidia, da esso si
levò improvvisamente un piccolo
arco azzurrino, che si alzò nell’aria per alcuni
centimetri prima di ricadere
sulla superficie della tavoletta. Immediatamente i tre romani si
strinsero a
cerchio attorno al tavolo, tagliando la visuale a Lidia e costringendo
Alexander ad allontanarsi di un passo. La ragazza riuscì a
scorgere
l’espressione allarmata del suo volto giusto un secondo prima
che l’uomo si
slanciasse in avanti, spingendo da parte Valerio e allungando le mani
con il
palese intento di riprendersi la tavoletta.
Cosa sta succedendo? Si chiese
la ragazza, confusa da quel trambusto improvviso. Istintivamente la
giovane
strinse più forte le dita attorno allo stipite, ma il
movimento le causò un
piccolo crampo alla base del pollice che la costrinse a lasciare la
presa per
una frazione di secondo: un segmento di tempo così
infinitesimale da risultare
quasi impercettibile, ma che fu tuttavia sufficiente per farla
sbilanciare quel
poco che bastava per farle sfiorare con la testa l’uscio
socchiuso. Come al
rallentatore, la porta si mosse, ruotando di qualche grado sui cardini
e
facendo emettere loro un cigolio acuto, un rumore breve, ma penetrante,
che
attirò l’attenzione di tutti e quattro gli uomini,
che si voltarono di scatto
verso di lei.
Vedendosi
scoperta, Lidia passò freneticamente in rassegna alle sue
possibilità. Per un
istante valutò di scappare, di girare sui tacchi e di
cercare di riguadagnare
la salvezza della camera in cui aveva dormito, ma subito dopo decise di
giocare
la carta dello sdegno. Spalancando la porta con un colpo deciso della
mano, la
ragazza ingoiò il nervosismo e la vergogna e
marciò in avanti, cercando di
assumere un’espressione di puro risentimento.
Nei pochi
attimi che fu libera di avvicinarsi al gruppetto, Lidia ebbe modo di
vedere
meglio l’oggetto stretto tra le mani del germanico: si
trattava effettivamente
di una piccola tavoletta di vetro, di un blu tanto scuro da sembrare
quasi
nero, costellata da cinque o sei luci rosse che lampeggiavano a
intermittenza.
Non c’era invece più alcuna traccia
dell’arco azzurro che si era librato
nell’aria pochi momenti prima.
Nel giro
di una manciata di secondi, però, Alexander
consegnò la tavoletta a Gaio e poi
si avvicinò a lei a grandi passi, raggiungendola e
agguantandola per le spalle,
prima di spingerla contro la parete accanto alla porta. La fanciulla
sentì in
lontananza le proteste di Tito, che evidentemente non aveva gradito il
trattamento riservatole dal germanico, ma la sua attenzione era tutta
concentrata sull’uomo davanti a lei.
«Che cosa
stavi facendo?» sibilò Alexander, con gli occhi
che mandavano lampi.
Stavo spiando, fu
tentata di replicare Lidia, presa alla sprovvista dalla reazione
dell’uomo. La
giovane deglutì, cercando rapidamente una risposta
più accettabile. «Io… eh,
io…» Ricordandosi il motivo per cui aveva
abbandonato la stanza che le era
stata assegnata, la ragazza irrigidì la schiena a spinse in
avanti il petto,
cercando di scrollarsi di dosso le mani del germanico. «Tu mi
hai dato del
sonnifero!» esclamò, passando al contrattacco.
«Che cosa c’era nella tisana che
mi hai portato questa notte?»
Alexander
parve colto di sorpresa da quell’accusa e la presa che aveva
sulle spalle della
fanciulla si fece subito più morbida. Con una certa
soddisfazione, Lidia notò
che era arrossito, chiaro segnale di colpevolezza. «Solo una
cosa per aiutarti
a dormire meglio» si difese lui.
«E chi te
l’ha chiesto?» sbottò ancora,
oltraggiata dalla naturalezza con cui il
germanico aveva fatto quell’ammissione. «Come ti
è venuto in mente?»
L’uomo
rimase a bocca aperta per qualche istante, poi si rianimò.
«Be’, era anche un
modo per evitare che te ne andassi a curiosare troppo in giro. Il che
ci
riporta alla questione principale: che cosa ci fai qui?»
Lidia
esalò con forza dal naso, portando le mani su quelle del
germanico e
costringendolo a toglierle dalle sue spalle. «Ero venuta a
lamentarmi e a
chiedere spiegazioni. Non certo a spiare, se è quello che
stai insinuando»
sbuffò. «Non me ne frega niente dei vostri
traffici.» Davanti allo sguardo
scettico del germanico, Lidia mosse il capo in direzione di Tito.
«E, comunque:
se quell’affare è una cosa tanto segreta,
perché Tito è rimasto qui con voi?
Perché lui può assistere e io no?»
«Questa è
una bella domanda» fece Alexander lentamente, voltandosi per
guardare i tre
romani alle sue spalle. Gaio sospirò, come se la sola idea
di affrontare quella
discussione lo annoiasse. «Non vedo perché il
ragazzo non dovrebbe assistere.
Sono più che sicuro che sia completamente fedele a Roma, non
andrà certo a
raccontare in giro quello che ha visto.»
Lidia gli
scoccò un’occhiata velenosa. Ah,
perché
io, invece, non sono fedele a Roma? Fece per protestare, ma
poi l’immagine
di Ulf si parò davanti ai suoi occhi. Se se ne fosse
presentata l’occasione,
era davvero sicura che non avrebbe fatto parola con suo marito di
quello che
aveva appena visto? E Ulf di certo non
è
fedele a Roma…
«In ogni
caso, Lidia non ha tutti i torti» riprese Alexander, mettendo
di fatto fine
alle sue riflessioni. «Ho un paio di sospetti a proposito di
questa… mappa, ma
preferirei che Tito ci lasciasse soli. Senza offesa, eh!»
continuò poi,
rivolgendosi al giovane romano. «Ma quando accumuli un
po’ di esperienza in
certe faccende, imperi che la prudenza non è mai
troppa.»
Lidia
lesse chiaramente la delusione sul volto del ragazzo, ma, sentendosi i
suoi
occhi addosso, Tito annuì, evitando di opporsi alla
richiesta del germanico.
«Va bene» mugugnò, in un tono che,
nonostante tutto, non riuscì a nascondere
quanto quella decisione gli dispiacesse. La fanciulla
abbassò gli occhi a
terra, un po’ indispettita. Aveva parlato senza riflettere:
non era stata sua
intenzione far sì che il giovane romano venisse allontanato.
Tito sarà pure fedele a Roma, ma
scommetto
che, se gliel’avessi chiesto, qualcosina a proposito di
quella tavoletta me
l’avrebbe detto comunque. Ora che aveva visto
l’oggetto della discussione,
infatti, non poteva fare a meno di sentirsi incuriosita da esso e non
avrebbe
disdegnato scoprire qualcosa di più a proposito delle sue
origini e della sua
funzione.
«Perfetto»
sorrise Alexander, rivolto al ragazzo. «Ti ricordi
dov’è la mia stanza, vero?
Torna pure lì a riposarti un altro po’: tra cinque
o sei ore farà buio e
dovrete rimettervi in marcia.»
Tito
annuì e, con un ultimo sguardo di rimpianto in direzione dei
due legionari,
sfilò silenziosamente accanto a Lidia, infilando la porta.
La
fanciulla provò una piccola stretta al cuore – ce l’ha con me? – e
fece per seguirlo, ma la mano di Alexander
planò nuovamente sulla sua spalla. «Scusami tanto,
ma non sono proprio
sicurissimo di fidarmi di te.»
Lei gli
lanciò uno sguardo interrogativo. «Eh?»
«Se non ti dispiace», riprese l’uomo,
«preferisco accompagnarti fino alla tua camera.» La
ragazza alzò platealmente
gli occhi al cielo. E dove accidenti
pensa che potrei andare? Si chiese.
Mentre la
scortava su per le scale, Alexander teneva gli occhi fissi su di lei.
Quando
quell’esame divenne troppo fastidioso da sostenere, la
ragazza si girò per
lanciargli un’occhiata indispettita. «Cosa
c’è?» Per tutta risposta, il
germanico si strinse nelle spalle. «Nulla, sono solo curioso
di sapere cosa c’è
veramente tra te e Tito.»
La domanda
la sorprese. «Perché ti interessa
saperlo?» gli chiese. Quello sollevò
nuovamente le spalle. «Mah, per nessun motivo in particolare.
È solo che è la
prima volta che mi capita di ospitare due persone come voi e la cosa mi
ha
incuriosito.»
Anche se
non aveva una gran voglia di conversare con lui, Lidia intuì
che il suo
silenzio avrebbe potuto stuzzicare ulteriormente la
curiosità dell’uomo – e
dunque la sua insistenza – e quindi decise di fornirgli
qualche spiegazione.
«Come ti ha già detto anche Tito, ci conosciamo da
parecchi anni. Quando ancora
vivevo a Roma, eravamo… uhm… be’,
eravamo fidanzati. Ci siamo divisi solo
quando mio padre mi ha spedito qui in Germanica per sposare Ulf. Che
sarebbe
mio marito, ovviamente.»
«E quando
è successo, tutto ciò?» Lidia
sollevò nuovamente lo sguardo sul volto del
germanico, insospettita da quello che le sembrava un interesse un
po’
eccessivo, ma sul suo viso le parve di scorgere solo un po’
di genuina
curiosità. «Mi sono trasferita in
maggio» rispose allora. «Tito non l’ha
presa
molto bene, ovviamente, tant’è che si era messo in
testa di riportarmi a casa.
Adesso ha cambiato idea – spero – e in effetti
è un po’ ironico che, alla fine,
io a Roma ci stia tornando lo stesso.»
«E non sei
contenta?» Il tono del germanico era sorpreso e lei scosse la
testa. «No. Ormai
la mia vita è con mio marito e la sua famiglia. Gli voglio
bene e non ho
proprio nessuna voglia di tornare a Roma.»
«E perché
ci stai tornando comunque, allora?»
Lidia
sospirò. «Perché Gaio e gli altri si
sono presentati a casa mia con un ordine
del Prefetto e non potevo esattamente rifiutare di seguirli. E poi a
Erding c’è
praticamente una specie di guerra civile e, a forza di sentirmi
ripetere che
restare lì è pericoloso, ho finito per
crederci.» Alexander annuì.
«Sì, ho
sentito che le cose si stanno mettendo maluccio, in effetti. E tuo
marito è
d’accordo con il fatto che tu stia tornando a sud?»
La gola
della ragazza si fece improvvisamente asciutta. «Mio marito
non ne sa niente»
ammise. «Non era al villaggio, quando sono partita, e io non
ho avuto modo di
fargli sapere niente. Ho lasciato un messaggio alla sua famiglia,
ma… non so se
qualcuno l’ha trovato.»
Mentre
parlavano, avevano raggiunto la camera nella quale Lidia aveva
già trascorso
qualche ora e Alexander le aprì la porta, facendole cenno di
entrare. «Senti…
io lavoro per Roma, è vero. Però, se mi dici chi
devo cercare, posso cercare di
fare avere un messaggio a tuo marito. Se non altro per
tranquillizzarlo,
capisci?»
Sorpresa
da quella proposta inattesa, Lidia rimase in silenzio per qualche
istante. La
sua indole diffidente le fece valutare se si celasse una qualche
insidia,
dietro all’offerta dell’uomo. Come
posso
sapere che farà veramente arrivare a Ulf il messaggio esatto?
Alexander al
stava fissando, restando silenziosamente in attesa della sua risposta,
e la
ragazza decise che, se non aveva modo di conoscere le intenzioni
dell’uomo,
rivelargli quello che stava chiedendo non avrebbe comunque potuto
causare alcun
danno. Tanto sono informazioni che
può
tranquillamente farsi dare da Gaio o da Tito… il fatto che
le stia chiedendo a
me può forse farmi pensare che sia sincero e voglia aiutarmi
veramente. Anche
se non capisco perché dovrebbe farlo.
«Mio
marito si chiama Ulf» rispose, infine.
«Potrà però esserti più
facile trovare
suo padre: il suo nome è Gefrid, ed è il capo
villaggio di Erding.»
Alexander
annuì e le rivolse un sorriso che lo fece sembrare un
adolescente. «Perfetto.
Cercherò di mettermi in contatto con loro il prima
possibile, allora. Tu, nel
frattempo, riposati ancora per qualche ora.»
Lidia
guadò con antipatia il letto su cui aveva dormito poco tempo
prima. «Non sono
stanca» protestò. Alexander sorrise di nuovo,
mettendo in mostra una serie di
denti bianchissimi. «Be’, riposati
comunque» replicò, posandole una mano al
centro della schiena e spingendo delicatamente. «E lascia
parlare i grandi, giù
di sotto.»
La
fanciulla sbuffò. «I grandi.
Sospetto
che Valerio sia più giovane di me e nemmeno tu mi sembri poi
tanto vecchio.»
«Io ho
trentadue anni, ragazzina» replicò il germanico,
con la risata nella voce.
«Quindi ho tutta l’autorità necessaria
per dirti che cosa fare.» Lidia lo
guardò corrucciata, ma poi scosse la testa, rinunciando a
ribattere. Tanto lo so benissimo, che
perderei soltanto
tempo.
Quando la
ragazza si appoggiò rigidamente alla scrivania –
si rifiutava infatti di
accomodarsi sul letto, almeno fino a quando lui sarebbe stato
lì per vederla –
Alexander annuì soddisfatto. «Benissimo. Ti
lascio, fai come se fossi a casa
tua» le disse, con una voce così suadente che a
Lidia sembrò quasi una presa in
giro. Dopo averle rivolto un’ultima occhiata, il germanico
sembrò finalmente
decidersi a lasciarla sola e Lidia sentì la tensione e il
nervosismo allentare
leggermente la presa che avevano su di lei. Aveva però
appena fatto in tempo a
tirare un sospiro di sollievo, quando il suono inequivocabile di una
chiave che
girava in una toppa raggiunse le sue orecchie.
Mi ha chiusa dentro? Si
chiese, incredula. Mi ha davvero chiusa
dentro? Lidia si portò alla bocca una mano stretta
a pugno, soffocando
contro le proprie nocche un gemito di frustrazione, poi raggiunse il
letto e vi
si sedette di schianto. E adesso cosa
accidenti dovrei fare? Dovrei far finta di nulla e mettermi a dormire a
comando?
Dèi, quanto odio quel tipo!
Dopo
alcuni minuti sprecati fissando il muro bianco, la ragazza si rese
conto che il
fatto di non avere nulla di concreto da fare dava alla sua mente la
possibilità
di vagare in luoghi scomodi, di soffermarsi su sensi di colpa di varia
natura e
di indagare ansie e preoccupazione riguardanti il presente e il futuro.
Basta, si disse, basta.
Abbiamo detto che non ha senso preoccuparsi per queste cose.
Ormai Hermann avrà trovato il biglietto che gli ho scritto.
L’unica cosa importante,
adesso, è arrivare al campo di Hudwill sani e salvi e di non
fare niente che
possa convincere Gaio a rispedirmi a Roma senza aspettare di avere il
permesso
di papà.
Determinata
a trovare un modo alternativo in cui occupare la propria mente, la
fanciulla si
avvicinò nuovamente alla libreria e, tra la miriade di tomi
noiosi che la
ingombravano, ne scelse uno che parlava delle divinità
germaniche. Chissà che non mi
faccia imparare qualcosa
di utile, visti i tempi che corrono.
Con il
libro stretto tra le mani, Lidia tornò ad accomodarsi sul
letto. Dopo un tempo
che le parve infinito, però, lo richiuse di scatto, sfinita.
Non ricordo di aver mai letto niente di
tanto pesante e inutile, si disse, guardando con astio la
copertina blu
notte. Sessantaquattro pagine di
introduzione: chiunque l’abbia scritto, doveva essere un
trombone logorroico.
Un bussare
violento, seguito dallo scatto della serratura, la distrasse
improvvisamente
dalle cattiverie che stava formulando all’indirizzo
dell’autore del “Trattato sulle
divinità della Germanica Meridionale”. Guidata
dall’istinto, la fanciulla balzò
in piedi, rassettandosi la gonna e poi alzando le braccia a
mezz’aria, quasi
come per difendersi da un potenziale aggressore.
Chi le si
presentò davanti un secondo più tardi,
però, non era altri che Gaio, il volto
stanco segnato da un’espressione preoccupata. Immediatamente,
un campanello
d’allarme suonò nella testa della giovane, che si
avvicinò velocemente al
legionario. «Che cosa succede?» chiese, con il
cuore che aveva preso tutto ad
un tratto a martellarle in gola.
Il soldato
piegò le labbra in una smorfia amara. «Recupera le
tue cose in fretta: temo che
abbiamo un problema.»
***
Non so
com’è, ma ultimamente sono sempre di
fretta D:
Niente da dire,
correggete quello che c’è da
correggere. Segnalo che, dopo questo, ho solo un altro capitolo
già pronto:
avevo sperato di arrivare un po’ più in
là, prima di finire la mia scorta, ma,
purtroppo, non ho praticamente più tempo per fare niente. Mi
dispiace!
|
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Capitolo 30 *** 29. La soglia ***
Lidia
indietreggiò automaticamente di un passo, turbata dalla
presenza del soldato.
«Cosa succede?» ripeté allarmata,
sporgendosi appena per spiare oltre le sue
spalle.
Gaio si
mosse leggermente, riportandosi al centro del campo visivo della
ragazza. «Alexander
è appena stato informato che qualcuno potrebbe essere sulle
nostre tracce. Temo
che non siamo stati abbastanza prudenti, quando abbiamo lasciato
Erding.» Lidia
si portò una mano davanti alla bocca, nascondendo
inconsciamente la propria
espressione sconcertata. «Credi che si tratti delle stesse
persone che hanno
ucciso Lucio?» chiese, pur conoscendo già la
risposta.
Il
legionario annuì, confermando i suoi sospetti.
«Temo di sì» fece, con voce
mesta. La fanciulla scosse la testa, retrocedendo fino alla scrivania e
appoggiandovisi alla ricerca di un sostegno. «Ma
perché dovrebbero averci
seguito fino a qui?» chiese, ragionando ad alta voce.
«Non ha senso! Pensi che
credano che li abbiamo visti in faccia? Che li abbiamo riconosciuti? Ma
io non
ho visto niente!» Con il cuore in gola, la ragazza
alzò lo sguardo sul soldato.
«Tu li hai riconosciuti?»
Gaio
scosse il capo. «No, era troppo buio. Loro però
non hanno modo di saperlo.
Immagino che vogliano evitare di avere testimoni. Oppure…
oppure sono qui per
te.»
Quel
suggerimento le parve assurdo e Lidia lo negò con vigore.
«Per me? Lo escludo.
Io non sono nessuno.» Quando le mani del legionario si
posarono sulle sue,
Lidia si accorse che stava stringendo il legno del tavolino con tanta
forza che
le sue nocche si erano fatte bianche. «Non possiamo escludere
nulla, Lidia» le
disse Gaio, con una dolcezza inaspettata. «Non sappiamo chi
siano quegli uomini
e, di conseguenza, non sappiamo nemmeno cosa vogliono, come ragionano.
Se
scoprissimo che ti vogliono per chiedere un riscatto, non me ne
stupirei
affatto: l’esperienza mi ha insegnato che, quando la legge e
l’ordine perdono
il loro potere, la peggior feccia della società rialza la
testa.»
Davanti a
quella spiegazione, la giovane chinò il capo, turbata.
Quella era una
prospettiva che non aveva mai preso in considerazione e il fatto che
Gaio
l’avesse messa di fronte a quella possibilità la
faceva sentire piccola e
smarrita. Cercando di fare il punto della situazione, Lidia
deglutì. «Come
hanno fatto a scoprire che siamo qui?»
«Non lo
sappiamo, purtroppo» ammise il soldato, con una punta di
amarezza. La ragazza
ebbe l’impressione che l’uomo considerasse quello
che stava accadendo come una
sorta di sconfitta personale, quasi che Gaio esigesse di avere sempre
tutto sotto
controllo. Quella considerazione fece sì che un altro dubbio
si affacciasse
alla sua mente. «E come fa Alexander a sapere che qualcuno ci
sta cercando?»
Nell’udire
quella domanda, Gaio la sorprese con una piccola risata divertita.
«Temo di non
poterti dire nemmeno questo, Lidia: segreti militari.»
Segreti militari? Si ripeté
la fanciulla, indispettita da quella risposta. Malgrado la situazione
di
emergenza, il fatto che tutti sembravano intenzionati a tenerla
all’oscuro di ciò
che stava accadendo iniziava a irritarla. Mi
credono una bambina? Oppure un’idiota che non sa tenere un
segreto!
«Non avevo
capito che quell’uomo fosse un militare» disse
allora, con un certo sussiego.
Forse stupito dall’improvvisa freddezza del suo tono, Gaio si
fece di nuovo serio.
«E, infatti, non lo è»
replicò, osservando il volto della ragazza come se
stesse cercando di capire dove volesse andare a parere.
«E non è
nemmeno romano» continuò lei.
«Esatto» confermò il legionario.
«Come ti ho
detto, è un germanico.»
Un germanico che mi ha
dato del sonnifero
spacciandomelo per una tisana rilassante! Pensò Lidia, con un fremito di
rabbia. Anche se i mesi passati a Erding le avevano fatto almeno
parzialmente
cambiare opinione nei confronti del popolo di suo marito,
istintivamente la
ragazza si ritrovò ancora a pensare nei termini di noi e loro:
da una parte
i romani, degni di fiducia, e dall’altro gli stranieri,
potenzialmente infidi e
pericolosi. È
un ragionamento stupido, si disse, ma quella consapevolezza
non
cambiava la realtà dei fatti: a lei Alexander non piaceva, e
sentiva di non
potersi fidare di lui. Anche se ha
promesso di far sapere a Ulf quello che sta succedendo…
«E allora
come facciamo a sapere che è dalla nostra parte?»
chiese. Nel momento stesso in
cui pronunciò quelle parole, esse le sembrarono sciocche, ma
Lidia sostenne
comunque lo sguardo del soldato, pretendendo una risposta. Gaio
sospirò. «Lo
sappiamo e basta. Collabora con noi ormai da molti anni e, se avesse
voluto
tradire, l’avrebbe fatto molto prima. Le occasioni non gli
sono mancate,
credimi.»
La giovane
si allontanò bruscamente dalla scrivania, in un moto di
frustrazione. «Ma…» Gaio
le posò le mani sulle spalle. «Lidia. Stiamo solo
perdendo tempo. Prepara le
tue cose e andiamo – non preoccuparti di Alexander, non devi
diventare la sua
migliore amica. Dopo questa sera, non lo vedrai
più.»
La ragazza
fece per protestare ancora, ma poi sospirò, rivolgendo al
soldato un minuscolo
cenno di assenso. «Il sole non è ancora
tramontato» disse, poi, volgendo lo
sguardo alla finestra. «Lo so, purtroppo»,
mormorò il legionario, «ma non
possiamo permetterci di aspettare che faccia buio: è troppo
pericoloso.»
Lidia
annuì. «Va bene, prendo le mie cose»
sospirò, voltandogli le spalle e andando a
raccogliere la sacca che aveva abbandonato ai piedi del letto e nella
quale
aveva appallottolato i pochi vestiti che aveva portato via da Erding.
Tenendo la
porta aperta con una mano, Gaio le fece cenno di uscire.
«Coraggio, andiamo:
Valerio ha già preparato il cavallo. Avrei preferito
proseguire con il carro
automatico, ma, sfortunatamente, dovremo farne a meno.» La
giovane gli lanciò
un’occhiata confusa. «Quale carro
automatico?» «Quello che Alexander aveva
promesso di farci avere» fu la risposta dell’uomo.
La giovane chinò il capo per
nascondergli la sua espressione dubbiosa. Il soldato le aveva garantito
che il
loro ospite era una persona affidabile e lei non aveva intenzione di
mettere
ulteriormente in dubbio la sua parola: in che modo il germanico
pensasse di
fare arrivare un carro automatico in mezzo a una foresta per gran parte
disabitata, però, rimaneva un mistero a cui le sarebbe tanto
piaciuto trovare
una risposta.
Quando
raggiunsero il piano inferiore, Tito gli si fece subito incontro.
«Stai bene?»
chiese, sfiorando con una mano il braccio di Lidia. Domanda
stupida, considerò lei, prima di pentirsi di quel
pensiero
poco gentile. «Abbastanza» disse allora, scrollando
le spalle.
«Siamo
pronti per partire?» chiese allora il giovane, spostando lo
sguardo su Gaio.
Anche se la sua voce era salda, alla fanciulla non sfuggì la
tensione mescolata
alle sue parole. «Sì»
confermò il soldato. «Voi due iniziate a salire
sul
carro, io devo sistemare due cose con Alexander.»
La mano di
Tito scese a stringere quella di Lidia e lei, un po’ spaesata
dalla rapida
evoluzione degli eventi, resistette all’impulso di sottrarsi
alla sua presa e gli
permise di scortarla fino al carro. Valerio era ancora intento a
manovrare
attorno ai finimenti del cavallo e rivolse loro solo un rapido cenno di
saluto,
lasciando che fosse Tito ad aiutare la ragazza a montare a bordo.
Quando le
mani del giovane fecero per serrarsi attorno alla sua vita,
però, Lidia si
scansò di un passo. «Faccio da sola»
mormorò, afferrando saldamente la sponda e
issandosi sul pianale. Mentre si sistemava sulla scomoda panca di
legno, la
fanciulla credette di avvertire su di sé gli occhi del
ragazzo, ma li ignorò.
Quando
Tito si sedette accanto a lei, Lidia scoprì con un certo
stupore di avvertire
come un senso di disagio, di essere quasi in imbarazzo al pensiero di
guardarlo
in faccia. Non so che cosa dirgli,
comprese, con un certo sgomento. Non so
di cosa parlare, e questa cosa non era mai successa prima.
Prima che
la fanciulla avesse modo di sviluppare ulteriormente quel pensiero,
Gaio e Alexander
uscirono di casa, parlottando tra loro. Mentre il romano, in silenzio,
si
sistemava a cassetta, il germanico appoggiò i gomiti sulle
sponde, a poca
distanza da Lidia. «Allora» esordì,
fissandola con quei suoi occhi che, nella
luce del tramonto, le parvero di un blu ancora più intenso.
«Fate buon viaggio,
vuoi due.» Davanti a quell’augurio che le parve
leggermente fuori luogo, la
ragazza sollevò un sopracciglio.
«Grazie» mormorò, con una punta di
scetticismo.
«Fate i
bravi», proseguì l’uomo, «e tu
cerca di non preoccuparti troppo: abbiamo un
patto, no?» Lidia corrugò la fronte.
«Non esattamente» puntualizzò.
«Tu hai
promesso di…» Senza lasciarle il tempo di finire
la frase, Alexander sollevò un
braccio e le scompigliò i capelli in un gesto che le sarebbe
quasi potuto
sembrare affettuoso. «Lo so che cosa ho promesso»
la rassicurò, con una voce
più calda di quanto si sarebbe aspettata. Lida
alzò gli occhi al cielo e
indietreggiò fino a incontrare il fianco di Tito, stranita
dall’atteggiamento
del germanico.
Quello la
guardò ancora per qualche istante, poi si rivolse a Gaio.
«Allora sei proprio
sicuro di non potermela lasciare ancora per qualche giorno,
vero?» Per qualche
istante, la fanciulla credette scioccamente che stesse parlando di lei,
ma la
risposta del legionario chiarì rapidamente
l’equivoco. «Non insistere»
replicò
infatti Gaio, seccamente. «Il Prefetto ci ha ordinato di
portare quella cosa a
Roma, e questo è esattamente ciò che
faremo.»
«Certo»
insistette Alexander, con voce suadente. «Mi hai detto che vi
fermerete qualche
giorno al campo di Hudwill: vi porterò io stesso la mappa.
Chiedo solo di
poterla studiare un po’ più a lungo.»
Di nuovo,
il soldato scosse il capo, inamovibile. «No.» Il
germanico parve sul punto di
protestare, ma poi si strinse nelle spalle, lasciando apparentemente
cadere la
questione con altrettanta facilità di come l’aveva
sollevata. «D’accordo. Mi
arrendo. Quando arrivate al campo, fatemelo sapere: non fatemi stare in
ansia.»
Gaio
accolse quella raccomandazione con uno sbuffo che trasudava sarcasmo.
«Sì,
immagino che la preoccupazione per la nostra sorte ti terrà
sveglio di notte,
non è vero?»
La luce
sempre più fioca nascose parzialmente
l’espressione di Alexander, ma l’uomo
retrocedette di un paio di passi, ridendo, e sventolò il
braccio a mo’ di
saluto mentre Gaio spronava il cavallo, facendo muovere il carro. Man
mano che
si allontanavano dalla casa di Alexander, la ragazza divenne sempre
più
consapevole degli occhi di Tito fissi su di lei. «Cosa
c’è?» sbottò di punto in
bianco, voltandosi di scatto per guardarlo.
Il ragazzo
si strinse nelle spalle con aria innocente. «Oh, niente.
Notavo solo che, a
quanto pare, i germanici hanno un debole per te.» Lidia
corrugò la fronte, un
po’ irritata dal tono noncurante del giovane. «Di
cosa accidenti stai
parlando?» chiese, battagliera. Anche se non avrebbe saputo
dire perché,
l’osservazione del ragazzo l’aveva punta nel vivo.
Lui le
rivolse un sorriso storto. «Di Alexander, ovviamente. Mi
è sembrato piuttosto
espansivo.» «A me è sembrato solo un
cretino» si lamentò Lidia. «Mi ha chiuso
in camera, lo sai? E, prima, mi ha dato un sonnifero o qualcosa che mi
ha fatta
dormire anche se non avevo sonno.»
Tito
sospirò, poi si adagiò contro lo schienale di
legno. Per qualche istante tenne
gli occhi puntati sulla schiena di Valerio, seduto accanto a Gaio, poi
si voltò
nuovamente verso la fanciulla. «Probabilmente l’ha
fatto per evitare che tu
facessi sciocchezze. Gaio gli ha detto che non eri proprio entusiasta
dell’idea
di lasciare Erding. Forse ha pensato che volessi tornare da…
che volessi
tornare al villaggio?» Davanti a quel suggerimento, Lidia si
mordicchiò le
labbra. Il pensiero che Alexander – o Tito, o uno dei due
soldati – avesse così
poca fiducia in lei da credere che potesse veramente tentare di fuggire
era
frustrante, ma, sotto sotto, sapeva benissimo che non era quello, il
punto. «Io
invece credo che volesse evitare che io vedessi qualcosa che non avrei
dovuto
vedere. Quella… mappa,
per esempio.»
Tito sembrò
preso in contropiede. «Può essere»
ammise, a bassa voce. Lidia gli si avvicinò
di qualche centimetro, poco soddisfatta da quella risposta
così sintetica. «Può
essere?» ripeté. «E allora
perché non hanno allontanato anche te? Non subito,
almeno?»
Il giovane
romano abbassò lo sguardo, come se quella domanda
l’avesse messo in imbarazzo.
«È stato Gaio a dirgli che io potevo
rimanere» confessò, tormentando con
un’unghia
il legno rovinato del sedile. Lidia lanciò
un’occhiata tradita alla schiena del
legionario. «E perché ha fatto una cosa del
genere?» chiese, un po’ piccata.
«Avrebbe potuto invitare anche me a rimanere e, invece, non
l’ha fatto.»
Tito la
guardò con la coda dell’occhio. «Forse
ha pensato che la cosa non ti
interessasse?» suggerì. Lei scrollò le
spalle. «Sì, in effetti non è che la
cosa mi interessasse un gran che» replicò,
sorvolando sulla curiosità che
l’aveva colta quando i suoi occhi si erano posati sulla
mappa. «Però la cosa
non dovrebbe toccare nemmeno te, quindi non capisco
perché…»
«In
realtà, le cose non stanno proprio
così» la interruppe il giovane, a mezza
voce. Davanti all’espressione perplessa di Lidia, Tito si
sistemò meglio sul
sedile, in una mossa che alla ragazza parve tradire un certo disagio.
«In
questi giorni ho parlato un po’ con Gaio e anche con il
Prefetto Caleno»
riprese lui, dopo qualche istante. «Ormai è da un
po’ di tempo che sono al
campo e ho pensato che questo mondo non mi dispiace. Credo che, forse,
se le
cose dovessero finire male… be’, ecco, forse
potrei arruolarmi.»
Lidia
rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di dare un senso a
quello che
Tito aveva appena detto. Vuole
arruolarsi? Si domandò, stupefatta. E
cosa significa “se le cose dovessero finire male”? «Eh?»
chiese, infine,
non riuscendo a trovare una replica più eloquente.
«Ho detto
che mi piacerebbe entrare nell’esercito»
ripeté Tito, questa volta con voce più
sicura.
«Sì, ho
capito» fece la ragazza, deglutendo un paio di volte per
disperdere la
secchezza che improvvisamente aveva preso possesso della sua bocca.
«Ma… cosa
dirà tuo padre? Tu stai studiando per diventare un avvocato,
non un soldato. E
cosa vorresti dire con “se le cose dovessero andare
male”? In che senso
“male”?»
Tito
sospirò e poi si ripiegò sulle proprie ginocchia,
massaggiandosi stancamente il
volto. «Io un po’ ci spero ancora, che tu ti renda
conto della follia che stai
facendo e decida di tornare a Roma con me.» Non appena
udì quelle parole, Lidia
si irrigidì in un moto di frustrazione. «Credevo
di essere stata abbastanza
chiara» sbottò, senza curarsi di non essere
sentita da Gaio e Valerio. «Mi
dispiace, ma non posso più tornare indietro. E non voglio
nemmeno farlo. E,
comunque, la follia sarebbe stata scappare con te, non restare con mio
marito.
E…»
Il giovane
romano sollevò una mano, interrompendola. «Lo so,
lo so. Sei stata chiara. La
mia era solo una considerazione. O un desiderio, chiamalo come vuoi. Il
concetto non cambia: la cosa che più mi piacerebbe in
assoluto sarebbe che tu
tornassi a casa con me e riprendessi le cose da dove le abbiamo
lasciate.
Perché io ti amo ancora… anche se più
passa il tempo e più mi sento cretino a
farlo.»
Quell’ultima
considerazione fu come una stilettata nello stomaco di Lidia e la
fanciulla
sobbalzò. Mi dispiace,
pensò,
amareggiata. È tutto uno schifo. «Io
vorrei restare ancora tua amica» disse, sforzandosi di
aggirare il nodo che,
improvvisamente, le stringeva la gola.
«Potevi
trovare una frase un po’ meno abusata»
commentò Tito, asciutto. Per una
frazione di secondo, la ragazza fu tentata di replicare a tono, ma poi
si morse
la lingua, cercando di evitare il litigio. Non
è proprio il momento, si disse, inspirando a fondo
e contando lentamente
fino a tre. «Be’, sarà anche banale, ma
è vero. Non sono più innamorata di te,
ma continuo a volerti bene. Non mi sembra un concetto tanto difficile
da
capire.»
Lui la
guardò in silenzio per qualche istante. Un
tempo riuscivo a prevedere perfettamente le sue reazioni,
considerò Lidia,
osservandolo di soppiatto. «Sì, va
be’» sospirò infine il ragazzo, prima di
scuotere le spalle e riprendere, in un tono più neutrale:
«Quello che volevo
dire, comunque, è questo: se tu decidessi di restare in
Germanica – o di tornarci,
visto e considerato che adesso
a Roma devi tornarci comunque – credo che mi piacerebbe
rivedere un po’ i
progetti per il mio futuro. Io non ho mai voluto fare
l’avvocato.»
«Però eri
disposto a diventarlo» gli fece notare Lidia, con cautela,
cercando di capire
dove volesse andare a parare.
Lui annuì.
«Era tutto parte di un piano ben congegnato, no?
Papà è avvocato, suo padre
pure: era un mestiere sicuro. Un mestiere che mi avrebbe permesso di
mantenere
senza alcuno sforzo una moglie, anche se siamo giovani e con poca
esperienza, e
che ci avrebbe anche permesso di avere un certo status
sociale…»
Lo status sociale
sarebbe comunque più che
altro stato legato al titolo di papà, valutò Lidia, ma si limitò
ad
annuire in silenzio, senza esternare quella considerazione.
«Solo che, adesso,
mi sembra tutto senza senso. Voglio dire: chi se ne frega se non posso
sposarmi
per altri dieci anni, adesso?»
Lidia
abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Potresti
sempre incontrare qualcun
altro. Se conoscessi un’altra donna, non cambieresti
idea?» chiese, in tono
studiatamente leggero. Anche se non lo stava guardando, la fanciulla
sentì
chiaramente lo sbuffo sarcastico di Tito. «Al momento non
è una cosa a cui mi
piace pensare, se permetti.»
Subito,
lei si strinse nelle spalle. «Sì, va bene.
Scusa.» Azzardando un’occhiata nella
direzione del giovane – doveva ammettere che quella di
cercare di dirottare la
sua attenzione su un’innamorata futura non era stata una
mossa particolarmente
elegante – Lidia riprese: «Ciò non
toglie che i tuoi genitori non sarebbero
felici della tua scelta: loro ci tengono, al fatto che tu diventi
avvocato.»
«Sì, è
vero: non ne sarebbero entusiasti» riconobbe il ragazzo.
«Però sai cosa ti
dico? Se tu puoi decidere di mandare all’Inferno tutto e di
rifarti una vita
qui, perché non posso farlo io? L’idea di passare
la vita in un tribunale mi fa
schifo: stando qui, mi sono accorto che questo è quello che
mi piacerebbe fare.
Ed è quello che farò, in effetti, se tu proprio
non vuoi cambiare idea.»
Lidia
annuì. Anche se, a onor del vero,
non è
che io me la sia proprio scelta, questa vita. Ormai mi sta bene, non la
cambierei – e, soprattutto, non cambierei Ulf –
però me l’hanno imposta.
Far notare quel particolare a Tito le parve controproducente, almeno in
quel
contesto, e così sorrise. «Non mi pare una brutta
idea» disse, con la voce che
tradiva solo un leggerissimo, inspiegabile tremito.
«Non lo è»
confermò il ragazzo, deciso. Si interruppe brevemente e poi
riprese, con il
sorriso nella voce: «E, in ogni caso, sono convinto che i
miei capirebbero: mi
vogliono bene e so che, in fondo, approverebbero le mie
scelte.»
Di punto
in bianco, Lidia fu colta da un’inaspettata nostalgia di casa
e, per una
frazione di secondo, desiderò potersi immergere
nell’abbraccio morbido e
profumato di sua madre. Ma non sono
più
una bambina, si disse, facendo forza su se stessa e
allontanando la
malinconia come meglio poteva. «Sei fortunato» le
scappò detto, con un filo di
voce.
Tito fece
per replicare, ma uno scossone improvviso gli mozzò il
fiato, costringendolo a
ingoiare le parole che aveva sulla punta della lingua. Lidia
sbatté un paio di
volte le palpebre, con la sensazione di essere appena emersa da una
sorta di
dormiveglia, di essere uscita da una specie di bolla che
l’aveva isolata dal
resto del mondo.
Per quanto tempo
abbiamo parlato? Si
chiese, un po’ spaesata. Lei e Tito avevano discusso tanto a
lungo che aveva
perso la nozione dello scorrere del tempo: ormai era notte fatta e una
mezza
luna illuminava il cielo. Ciò che più mise in
allerta Lidia fu però la tensione
quasi palpabile che sentiva provenire dai due militari seduti a
cassetta.
«Cosa
succede?» chiese Tito, che, evidentemente, provava le stesse
sensazioni della
ragazza. «Siamo giunti a un bivio» rispose Gaio,
piano. Sporgendosi oltre il
fianco del carro, la fanciulla vide lo spettro pallido di due strade
distinte
che, come da manuale, si dividevano formando una
“V” perfetta, svoltando l’una
a destra e l’altra a sinistra di un albero monumentale.
«Lo vedo»
fece ancora Tito. «E allora?»
Il soldato
sospirò e attese qualche secondo, prima di rispondere.
«Alexander ci ha messo
in guardia. Se le persone che ci stanno inseguendo volessero tenderci
un
agguato, questo sarebbe il posto perfetto per farlo.»
«Qui?»
chiese Lidia in un soffio, mentre il suo cuore accelerava
improvvisamente i
battiti. Gaio si voltò per guardarla da sopra la sua spalla.
«Be’, non proprio
qui, in questo luogo preciso. La situazione è questa: con il
carro, non abbiamo
altra scelta che proseguire a sinistra. La strada di destra diventa
sentiero,
poco più in là, e non è certo
percorribile con il carro.»
«Il
problema», continuò l’uomo,
«è che, muovendosi a cavallo, i nostri inseguitori
avrebbero la possibilità di tagliarci la strada, poche
miglia più avanti. Ci sono
molte scorciatoie che noi non abbiamo potuto prendere, ma che loro
potrebbero
seguire con agio.»
«Rischiamo
di finire dritti in un’imboscata» intervenne
Valerio, con la sua voce un po’
roca.
Per
qualche istante, i quattro rimasero in silenzio, poi Tito si
schiarì la voce.
«Ma siamo proprio sicuri che qualcuno ci sta inseguendo? Io
non ho visto né
sentito niente…»
«L’unica
certezza che abbiamo è quello che ci ha detto
Alexander» replicò Gaio. «Non
abbiamo motivo di non fidarci di lui: se ci ha detto che qualcuno era
sulle
nostre tracce, è assai probabile che sia proprio
così.» «E
allora cosa facciamo?» chiese ancora il
giovane romano, anticipando di una frazione di secondo la domanda che
anche
Lidia era stata sul punto di porre.
«Facciamo
così» riprese il soldato più anziano,
anche se, dal tono con cui pronunciò
quelle parole, la fanciulla comprese che non era affatto certo che
quella che
si apprestava a proporre fosse la soluzione migliore. «Ci
dividiamo. Io e
Valerio portiamo il carro a sinistra, tu e Lidia proseguirete verso
destra. Ci
ritroveremo nel punto in cui le strade si riuniscono, più a
valle.»
Lidia
lanciò un’occhiata dubbiosa alla propria destra,
lungo la strada che lei e Tito
avrebbero dovuto percorrere a piedi. «Si riuniscono? Che
motivo c’è di fare due
strade che portano nello stesso posto?»
«Quella lì
è più antica» rispose Gaio, indicando
con un cenno del capo la via di destra.
«Questa qui è stata costruita dai nostri uomini
una decina di anni fa, per
agevolare il transito dei carri. Non guardarmi così, Lidia:
non sarà difficile
arrivare al punto di ritrovo. Non dovete fare altro che seguire il
sentiero:
forse non sarà in ottime condizioni, dal momento che, da
quanto mi risulta, è
piuttosto in disuso, ma costeggia un torrente e dovrebbe essere
abbastanza
semplice da individuare.»
«Dovrete
camminare per tre quarti d’ora, un’ora al massimo.
Seguite la strada fino a
quando sorpasserete una specie di arco di pietra: a quel punto,
svoltate a
sinistra, in discesa. Proseguite lungo il torrente fino a quando il
terreno non
si farà più pianeggiante e la foresta
più rada. Arriverete ad alcune cascine
abbandonate. Rifugiatevi lì e aspettate che io o Valerio
veniamo a
recuperarvi.»
La ragazza
si strofinò nervosamente le mani. «Ma è
prudente dividersi?» chiese,
preoccupata dal tono autoritario con cui Gaio aveva impartito quelle
disposizioni. Non mi sembra che ci stia
dando la possibilità di dissentire. «Non
sarebbe più prudente rimanere
tutti insieme?»
Il soldato
scosse il capo. «No. Se qualcuno dovesse attenderci al varco,
non vogliamo
doverci preoccupare di difendere anche voi due, oltre che noi
stessi.»
«E se
qualcuno stesse aspettando al varco noi?»
indagò Tito, asciutto. Gli occhi di Gaio scintillarono al
buio. «Speriamo di
no. Dobbiamo affidarci agli Dèi, ragazzo.»
Lidia
storse la bocca di fronte a quella considerazione. Visti gli
avvenimenti
recenti, non era affatto sicura che affidarsi agli Dèi fosse
garanzia di
alcunché, ma decise di tenere per sé quella
riflessione. «D’accordo»
sospirò
Tito, all’oscuro di quei pensieri. «Allora
è meglio se ci diamo una mossa.
Immagino che più passa il tempo e più aumenta il
pericolo di venire raggiunti.»
«Esattamente»
confermò Gaio.
Con le
gambe che le tremavano un poco, Lidia si calò giù
dal carro. Fatti forza, Medli, si
disse. Per
qualche motivo, fu la voce della vecchia Edda a risuonare nella sua
testa. Non è questo il momento di
farsi prendere
dall’ansia.
«Mi
raccomando» disse ancora Gaio. «Non allontanatevi
dalle cascine: aspettate che
siamo noi a venirvi a recuperare.» Lidia deglutì.
«Va bene» lo rassicurò.
«Allora ci vediamo dopo.»
Rivolgendo
un cenno di saluto ai due soldati, i due giovani si avviarono verso la
strada
che era stata loro indicata, ma, quando ebbero percorso pochi metri, la
voce di
Gaio li richiamò. «Tito! Vieni qui!» Il
ragazzo si affrettò a raggiungerlo e
Lidia vide che il soldato gli porgeva qualcosa. «Questa
è meglio se la tieni
tu. Non si sa mai.»
Perché gli
sta dando la tavoletta?
Si chiese
Lidia, mentre l’angoscia le serrava improvvisamente lo
stomaco. Il fatto che il
soldato avesse consegnato a Tito un oggetto tanto prezioso le
sembrò proiettare
un’ombra nefasta sull’immediato futuro. Mi
sembra un cattivo presagio, pensò, percorrendo con
occhi leggermente lucidi
la sagoma scura dei due soldati. Un istante dopo, però, Tito
tornò da lei e,
posandole una mano sulla schiena, la invitò a rimettersi in
marcia. «Dai,
andiamo» mormorò.
Annuendo
in silenzio, senza trovare la forza o la voglia di parlare, Lidia si
incamminò
accanto a lui, cercando di liberare la mente da qualsiasi pensiero
riguardante
il futuro e i pericoli che li avrebbero potuti aspettare tra le ombre
del
bosco. La notte di luglio era sorprendentemente piacevole, tiepida e
profumata
come non avrebbe creduto potesse essere tra le ostili foreste
germaniche, e il
frinire dei grilli creava un sottofondo musicale decisamente bucolico. Sembra tutto così innocuo,
pensò la
ragazza. E invece è tutto un
inganno.
La strada
su cui stavano camminando era larga e pianeggiante e, anche se i raggi
argentei
della luna erano schermati dalle fronde degli alberi, Lidia non aveva
difficoltà a vedere dove mettere i piedi. «Vorrei
che fosse nuvoloso» disse
d’un tratto Tito, spezzando il silenzio. «Siamo fin
troppo visibili, con questa
luna.»
Lidia
annuì, guardando stupita la propria ombra proiettata sul
terreno, definita come
non l’aveva mai vista di notte. Prima di quanto si fosse
aspettata, la ragazza
vide una sagoma scura delinearsi qualche decina di metri davanti a lei.
Siamo già arrivati
all’arco di cui parlava
Gaio?
«Eccoci»
sussurrò Tito, confermando il suo pensiero. «Qui
da qualche parte dovrebbe
esserci il sentiero che dobbiamo imboccare. Dovrebbe essere sulla
sinistra,
giusto?»
«Sì»
confermò lei, avvicinandosi alla grande struttura di roccia.
Alzando il naso al
cielo, Lidia percorse con gli occhi la sua sagoma possente e curiosa. Sembra che qualcuno l’abbia preso e
piazzato
qui per qualche motivo. L’enorme masso era
posizionato in una sorta di
radura tra gli alberi e, per quanto poteva vedere la fanciulla,
sembravano non
essercene altri, nelle vicinanze. Come ci
è arrivato, qui?
Alla luce
fredda della luna, la roccia brillava di una lucentezza quasi
innaturale. I
cristalli di mica imprigionati nelle grandi placche di granito le
facevano
risplendere come scudi d’argento e i disegni intricati dei
muschi e dei licheni
apparvero alla fanciulla come antiche rune tracciate prima
dell’avvento
dell’uomo da qualche creatura fatata. In preda a una malia
che non seppe
spiegarsi, la ragazza chinò il capo e si infilò
nel pertugio buio che perforava
il masso da parte a parte. Quando emerse dall’altro lato,
ebbe l’impressione di
aver varcato una soglia segreta, di aver attraversato un confine
nascosto e di
aver messo piede in un luogo ancora sconosciuto.
«Ecco il sentiero!»
La voce di
Tito la fece sobbalzare e Lidia si strofinò una mano sugli
occhi nel tentativo
di riguadagnare la propria lucidità e di allontanare quelle
suggestioni.
Raggiungendo il ragazzo, vide che stava indicando un viottolo ripido,
che
abbandonava la radura e si inoltrava tra gli alberi. «Sicuro
che sia questo?»
chiese, cercando gli occhi del giovane. Lui annuì.
«Certo: Gaio ha detto che
l’avremmo trovato dopo l’arco di pietra. E
l’arco l’abbiamo appena passato,
quindi…»
«D’accordo»
mormorò Lidia, facendo correre lo sguardo davanti a
sé, tra le ombre del bosco.
Muovendosi con cautela, Tito si incamminò lungo il viottolo
appena visibile
nell’oscurità e Lidia lo seguì, anche
se con una certa riluttanza. Quando aveva
lasciato la sua casa a Erding, non aveva indossato gli scarponcini che
era
solita portare in montagna, ma un paio di semplici stivaletti. Mica lo sapevo, che avrei dovuto fare una
scampagnata nei boschi! Pensò, con una smorfia. La
loro suola liscia e
sottile le permetteva di avvertire molto chiaramente il fondo sconnesso
su cui
stava camminando, le radici e i ciottoli mobili, infidi e pronti a
farla
rovinare a terra.
«Non
essere così rigida» la riprese Tito, voltandosi
per guardarla. «Se fai così,
rischi di cadere.» Lidia inspirò bruscamente dal
naso, irritata dalla
raccomandazione del ragazzo. «Non preoccuparti»
sbottò. «Tu vai avanti con il
tuo passo, che io ti seguo con il mio.» Il giovane scosse il
capo e rallentò un
po’ l’andatura, ma non replicò,
avvertendo che l’umore di Lidia stava virando
al peggio e che, quindi, sarebbe stato più prudente
lasciarla da sola per un
po’.
Il
silenzio della notte era spezzato solo dallo stormire del vento che
aveva preso
a soffiare da qualche minuto e dal canto del torrente che, anche se
nascosto
tra la vegetazione, si faceva sempre più vicino. Lentamente,
Lidia divenne
consapevole di quanto quella situazione le ricordasse
l’avventura che aveva
vissuto la notte del suo matrimonio, quando aveva deciso di fuggire
dalla sua
camera. Mi sembra passata una vita, ma,
in realtà, sono passati solo un paio di mesi, si
disse, un po’ stupita.
Esattamente
come era successo allora, la fanciulla avvertì una
sensazione di disagio
crescente serpeggiarle nel petto e gocce di sudore freddo imperlarle la
schiena. Anche se non l’aveva mai confessato a nessuno, Lidia
aveva paura del
buio. Non si trattava di un terrore incontrollabile, né di
un’ossessione che la
tormentava ogni volta che calava la notte, ma piuttosto di un
turbamento che la
coglieva quando permetteva alla sua mente di vagare libera oltre ai
confini del
razionale. Anche in quel momento, mentre arrancava dietro a Tito
nell’oscurità
di un bosco sconosciuto, la ragazza sentì un pizzicorino a
fior di pelle, una
tensione nei muscoli, la sensazione che là, tra
l’ombra delle piante e il
terreno scuro, fossero appostate creature senza volto né
nome, esseri
acquattati nell’attesa del momento più propizio
per sferrare l’attacco.
Non essere stupida,
è solo la tua
immaginazione! Ed
era sicuramente così: aveva ormai imparato che era piuttosto
improbabile che ci fossero davvero dei predatori nascosti tra le felci
e le
radici degli alberi, eppure il suo subconscio le imponeva di stare
allerta e di
non abbassare la guardia.
Non aveva
forse colto un movimento, con la coda dell’occhio? Qualcosa
di scuro non era
forse scivolato via furtivo ai margini del suo campo visivo? Ma Tito non ha sentito niente,
cercò di
rassicurarsi, allungando un pochino il passo e facendo del proprio
meglio per
riavvicinarsi al giovane che, qualche metro più in
là, procedeva senza dar
segni di turbamento. Gli avrebbe parlato, avrebbe voluto farlo, ma
qualcosa, in
un luogo dimenticato della sua testa, le ordinava di non farlo, di
essere il
più silenziosa possibile per non attirare attenzioni
indesiderate.
E cos’era
quella pressione che le pareva di avvertire tra le scapole, ai lati del
collo,
alla base della nuca? Lidia serrò gli occhi per un istante,
stringendo
convulsamente in un pugno le mani sudate. Perché aveva la
sensazione di essere
seguita? Perché credeva di aver scorto degli occhi
luccicanti scintillare tra
le foglie di un cespuglio, seguendo ogni suo movimento?
Un gemito
le sfuggì dalle labbra e Tito si fermò
bruscamente, voltandosi a guardarla.
«Lidia? C’è qualcosa che non
va?»
Nell’udire
la sua voce – inequivocabilmente umana
e decisamente famigliare – la giovane arrossì,
sentendosi improvvisamente
sciocca. «No, niente, niente» disse, cercando di
mantenere un tono leggero. «Mi
sto solo lasciando suggestionare dal buio.»
Tito emise
un suono che poteva essere d’assenso, poi, con una mano, le
fece cenno di
raggiungerlo. «Credo che sia meglio se mi stai più
vicina, adesso: mi pare di
vedere che il sentiero si restringe.» Asciugandosi le mani
sudate sulla gonna,
la fanciulla barcollò fino al luogo in cui il giovane la
stava attendendo e poi
allungò il collo, cercando di scorgere anche lei quello che
aveva attirato
l’attenzione del ragazzo. In effetti, qualche decina di metri
più in là, la
luminosità aumentava: se, sulla sinistra del sentiero, il
bosco era ancora
fitto, sulla destra vi era uno spazio completamente privo di alberi.
Prestando
attenzione, Lidia si rese conto che lo scroscio del torrente giungeva
proprio
da lì.
«Credo che
siamo arrivati al fiume» mormorò Tito.
«Considerato da quanto stiamo camminando,
non credo che ci manchi tanto per raggiungere il posto dove dovremmo
ricongiungerci con Gaio e Valerio.»
Siano ringraziati gli
Dèi!
Pensò
Lidia, con un fremito di sollievo. Anche se la compagnia dei due
soldati non
era la migliore di cui avesse goduto negli ultimi tempi,
l’inquietudine di
trovarsi quasi da sola in un ambiente potenzialmente ostile stava
diventando
difficile da sopportare. «Meno male»
mormorò. «Inizio a essere abbastanza
stanca di camminare. Mi fanno male le gambe.»
«Coraggio,
un ultimo sforzo» la esortò Tito, allungando una
mano dietro di sé per
afferrare quella della ragazza. «Stammi vicina e stai attenta
a non scivolare.
Tra un po’ potrai di nuovo rilassarti sul carro.»
Insieme, i
due giovani si rimisero in cammino e Lidia sbirciò con
prudenza alla propria
destra. Tito ci aveva visto giusto: il sentiero ora procedeva sul
margine del
torrente e, se guardava davanti a sé, poteva vedere che
erano quasi giunti al
limitare della foresta. Le cascine dove avrebbero dovuto aspettare i
loro
compagni non potevano più essere molto lontane. Prima di arrivarci, però, devo restare
concentrata ancora per un
pochino: eviterei volentieri di farmi un bagno notturno.
Alla
destra del sentiero si apriva infatti il solco che il torrente aveva
scavato
con il suo corso, una scarpata ripida e costellata da rovi e rocce
irregolari.
In fondo, oltre alla vegetazione e alle pietre, Lidia riusciva a
scorgere un
fiumiciattolo di montagna, ricco di onde impetuose e spume irregolari
che la
luna tingeva d’argento.
Dopo poche
decine di minuti, i due ragazzi si lasciarono alle spalle anche gli
ultimi
alberi e sbucarono in un prato di erba alta e profumata, scossa dalla
brezza
notturna che ancora spirava da nord est. Lidia ebbe
l’impressione di trovarsi
di fronte a un oceano blu e argento e, per un istante, provò
un’irrazionale
sensazione di libertà, poco giustificata dalle circostanze
in cui si trovava. Mi piacerebbe essere un
animale selvatico e
poter scappare via tra l’erba alta, senza dover rendere conto
a nessuno di quello
che faccio e di dove intendo andare. Quel pensiero
inaspettato attraversò
la sua mente, ma subito la fanciulla lo accantonò, pur con
un certo rammarico. Sarebbe bello,
sì, ma non me lo posso
permettere: un po’ è anche colpa mia, se mi trovo
in questa situazione…
Prima che
i rimpianti e i sensi di colpa potessero assalirla, Tito si mosse
attraverso
l’erba alta e la ragazza si affrettò a seguirlo,
poco desiderosa di restare da
sola nel buio della notte. Alzandosi sulla punta dei piedi per vedere
meglio
quello che la circondava, la giovane allungò un braccio per
indicare un punto
alla sua destra. «Sono delle cascine, quelle?»
Il suo
compagno si voltò nella direzione che aveva appena indicato.
«Parrebbe di sì»
confermò, strizzando gli occhi per affinare la vista.
«Non ne vedo altre:
immagino che siano proprio quelle di cui ci ha parlato Gaio. Mi pare
che il
posto corrisponda alla sua descrizione, no?»
Lidia
sollevò appena le spalle. «Direi di
sì.» «Bene»,
mormorò Tito, «allora andiamo.
È meglio se ci mettiamo al riparo di un tetto e di quattro
mura: qui siamo
troppo scoperti, se qualcuno ci stesse seguendo, non avrebbe grosse
difficoltà
a individuarci.»
La ragazza
sentì un brivido d’inquietudine scivolarle lungo
la schiena: non aveva forse
avuto davvero l’impressione che qualcosa – o
qualcuno? – li stesse inseguendo, mentre camminava
lungo il sentiero
immerso nella foresta? Non appena ebbe formulato quel pensiero, la
fanciulla
scosse impercettibilmente il capo: non si sarebbe fatta prendere di
nuovo da
quelle paranoie; non ne avrebbe nemmeno fatto parola, per evitare di
far
preoccupare inutilmente Tito – o farsi prendere in giro da
lui.
Forte di
quella decisione, la giovane attraverso il prato in silenzio e, quando
giunsero
di fronte alle tre cascine che avevano scorto da lontano, si
voltò verso il suo
compagno. «Cosa facciamo? Entriamo?»
La luna
stava ormai per scivolare al di sotto della cresta delle montagne e la
notte si
stava facendo più buia, ma Lidia riuscì comunque
a scorgere l’espressione
indecisa che si disegnò sul volto di Tito.
«Sì» disse poi il ragazzo.
«Immagino
che una valga l’altra: entriamo.» Così
dicendo, il giovane raggiunse la porta
della cascina più vicina a loro, ma, quando posò
la mano sul catenaccio
arrugginito, quello oppose resistenza. «È chiusa a
chiave» sbuffò, con una nota
di frustrazione nella voce. «Proviamo quella.»
Anche la
porta della seconda stalla era chiusa, ma i due giovani scoprirono che,
sul
retro, una porzione di tetto era crollata, aprendo uno squarcio nella
parete
posteriore. «Sarà sicuro?» chiese Lidia,
titubante, alzando lo sguardo sulle
travi scure che si stagliavano contro il cielo notturno.
«È rimasta
in piedi fino ad adesso» replicò Tito, pragmatico.
«Non crollerà proprio ora.»
Pregando
silenziosamente che una delle grandi lastre di pietra che ricoprivano
il tetto
della vecchia cascina non scegliesse proprio quel momento per
schiantarsi al
suolo, Lidia scavalcò le pietre e gli altri detriti e
scivolò all’interno
dell’edificio abbandonato. Lì il buio era totale e
la fanciulla rimase
assolutamente immobile per qualche istante, cercando di adattare la
propria
vista a quelle nuove condizioni di luminosità. La fioca luce
delle stelle e il
chiarore sempre più debole della luna, però, non
riuscivano a penetrare in quel
luogo e Lidia chiuse gli occhi, per calmarsi e per scacciare la
sensazione di
disagio che quelle tenebre così fitte stavano di nuovo
facendo nascere in lei.
«Non è
che, per caso, hai qualcosa che possa fare luce, vero?»
chiese, con voce un po’
tremante, voltandosi verso il luogo in cui presumeva dovesse trovarsi
Tito.
La
risposta del ragazzo le giunse da qualche parte alle sue spalle.
«No. Ho solo
quella tavoletta che mi ha dato Gaio, ma suppongo che accenderla non
sia
prudente.» La fanciulla sospirò di nuovo,
afflitta. «Vieni qui» la richiamò ancora
la voce di Tito. «Non so esattamente su cosa sono seduto, ma
è morbido. Credo
che si tratti di un letto o di qualcosa del genere.»
Strisciando
i piedi sul pavimento per evitare di inciampare in qualcosa di
imprevisto,
Lidia si mosse lentamente nella direzione da cui era giunta la voce del
giovane, fermandosi solo quando le sue gambe urtarono contro quello che
le
sembrò un materasso. «Ecco, siediti» la
guidò il giovane romano. Con un piccolo
sospiro di sollievo, la ragazza si lasciò cadere sulla
superficie morbida; e
subito le sfuggì un sibilo di disgusto. «Che
schifo! Ci saranno due centimetri
di polvere, qui!»
Accanto a
lei, Tito ridacchiò. «Dubito che qualcuno abbia
fatto le pulizie, negli ultimi
anni.»
Già, convenne silenziosamente lei,
vergognandosi un po’ della sua esclamazione così
sciocca. Quando tra i due
scese il silenzio, Lidia si ritrovò inconsciamente a
torcersi le mani come
sempre faceva quando c’era qualcosa che la innervosiva. La
sensazione di disagio,
quasi di imbarazzo, che aveva provato quella sera, quando si era
accomodata sul
carro accanto a Tito, tornò a farsi sentire e la giovane
desiderò
disperatamente trovare un modo per ingannare il tempo.
Non possiamo fare
conversazione,
ragionò,
mentre le mani le si facevano sudate. In
primis perché rischieremmo di farci sentire da qualcuno, se
là fuori c’è
davvero qualcuno che ci cerca, e poi perché già
lo so, che finiremmo a parlare
di Ulf e di quello che voglio o non voglio fare… finiremmo
ancora per litigare,
e io non ne ho proprio voglia.
Quella
parte del suo cervello che era sempre in movimento e che sembrava
rifiutarsi di
obbedire ai comandi della ragione si premurò di farle notare
che quella non era
la prima volta che si trovava in una situazione del genere e che, in
passato,
non aveva fatto molta fatica a trovare un modo per ingannare il tempo.
Se la
ricordava, no, quella volta che lei e i suoi genitori avevano passato
due
settimane nella villa di campagna della famiglia di Tito? Quando, con
la scusa di
esplorare i dintorni, si erano appartati nella vecchia foresteria in
cui
nessuno metteva ormai più piede? C’era stato anche
lì un letto, e le tende
pesanti tirate alle finestre avevano creato una penombra pigra, e
tutt’attorno
c’era solo il silenzio e lo scricchiolio delle vecchie assi
del pavimento…
Lidia
arrossì, in preda ai ricordi. Era stato un pomeriggio tutto
sommato innocente,
ma, se ci ripensava, ricordava ancora i baci di Tito, le sue mani sulla
pelle –
impacciate, ma curiose – il peso del suo corpo su di lei.
Improvvisamente, la
fanciulla divenne più consapevole del calore del giovane
seduto al suo fianco,
di quel suo profumo tipico, della lieve curvatura del materasso dovuta
alla sua
presenza e quei particolari accesero qualcosa al centro del suo petto. È… è una sorta di
malessere, riconobbe.
Era un contrasto scomodo tra il ricordo di un passato piacevole e un
presente
fatto di distanze crescenti: lei sapeva come sarebbe stato sdraiarsi
sul
materasso, prendere la mano di Tito e attirarlo su di sé, ma
al solo pensiero
di fare una cosa del genere il suo corpo si ribellava e si contorceva
nel
rifiuto, la sua mente poneva una barriera rovente e invalicabile. Perché io non lo amo più.
Perché non lo
voglio più. Ma forse lui si aspetta qualcosa?
«Perché
non arrivano ancora?» la domanda ringhiata di Tito la fece
sobbalzare e le
rivelò che, diversamente da quello che aveva creduto lei, la
mente del ragazzo
era lontanissima da quei pensieri. Presa in contropiede, Lidia
boccheggiò un
paio di volte, prima di riuscire a parlare. «Forse
è passato troppo poco tempo»
suggerì, con un lieve tremolio nella voce. «Forse
dobbiamo aspettare ancora un
po’.»
«Quanto
tempo dobbiamo aspettare?» sbottò il ragazzo,
frustrato. «Quanto tempo è
passato? Boh, io ho perso il conto!»
Lidia si
morse le labbra, mentre l’ansia del giovane iniziava a
contagiare anche lei.
Era davvero passato un tempo sufficientemente ampio perché
Gaio e Valerio
percorressero con il carro la strada che, al bivio, si dirigeva verso
sinistra?
Avrebbero già dovuto essere lì? E
se
avessero avuto qualche imprevisto? E se qualcosa fosse andato storto?
«Non… non
lo so» ammise, chinando il capo. «Non sono molto
brava a tenere il conto del
tempo.» Accanto a lei, Tito si mosse nervosamente e Lidia se
lo immaginò chinato
sulle ginocchia, con il mento sostenuto da una mano. Si
mette sempre in quella posizione, quando è nervoso.
«Va bene»
concesse il ragazzo, con voce tesa. «Aspettiamo ancora un
po’.»
Tra i due
scese di nuovo il silenzio, ma, diversamente da quanto aveva fatto
prima, Lidia
non permise alla sua mente di vagare, ma si costrinse a restare vigile,
pronta
a cogliere anche il minimo segnale che potesse allertarla
dell’arrivo di
qualcuno. Con gli occhi resi inutili dal buio, con l’olfatto
che non riusciva
ad andare oltre al sentore stantio che permeava la vecchia cascina, la
ragazza
non poté che fare affidamento sul proprio udito, ma anche
quello si rivelò
piuttosto inefficace: la notte sembrava completamente silenziosa, una
volta
abbandonato il bosco. Il fruscio del torrente era solo un’eco
lontana, il vento
sembrava essersi acquietato e, più di ogni altra cosa, Lidia
sentiva il
rimbombo del proprio cuore, sempre uguale a se stesso, quasi ipnotico.
«Io vado a
cercarli.»
Le parole
di Tito la riscossero dalla specie di trance nella quale era scivolata
e la
ragazza si voltò bruscamente verso il giovane romano.
«Ma sei matto?» sbottò,
mentre l’angoscia saliva a stringerle la gola. «Non
sai nemmeno da che parte
andare; e poi Gaio ha detto che non dobbiamo muoverci da qui!»
«Lo so, ma
se gli fosse successo qualcosa? Se fossero caduti in
un’imboscata? Noi
resteremmo qui ad attenderli all’infinito e loro non
arriverebbero mai: in
compenso, rischieremmo di farci trovare da quelli che ci stanno
cercando. Di
sicuro lo sanno anche loro, che le due strade si riuniscono in questo
punto:
quanto vuoi che ci mettano, a venirci a cercare qui?»
Con il
cuore in gola, Lidia dovette riconoscere che Tito non aveva tutti i
torti: se
davvero qualcuno aveva attaccato i due soldati, era piuttosto probabile
che
loro due non fossero al sicuro, fermi in quella cascina. Ma
andare a vedere cos’è successo è una
pessima idea!
«E se
dovessi scoprire che è successo qualcosa? Cosa faremmo,
allora?» chiese, con la
voce più petulante di quanto avrebbe voluto.
«Non lo
so, che cosa faremmo» replicò Tito, asciutto.
«Di certo non staremmo qui ad
aspettare che ci trovino. Di andare a piedi fino al campo di Hudwill
non se ne
parla nemmeno: è troppo lontano e troppo pericoloso. Credo
che la cosa migliore
da fare sarebbe tornare da Alexander e chiedere aiuto a lui.»
«E se
scoprissimo di non poterci fidare di lui?» chiese ancora
Lidia, con la gola
stretta nella morsa della paura che stava iniziando a impadronirsi di
lei. «Non
sono sicura che mi piaccia, mi ha fatto un’impressione
strana…»
«Non
abbiamo altra scelta.» Anche se non poteva vederlo in faccia,
la fanciulla
colse chiaramente l’amarezza nella voce del ragazzo e si
figurò l’espressione
dura che sicuramente gli si era disegnata in volto. «Se
fossimo davvero rimasti
da soli, dovremmo per forza affidarci a lui… e che gli
Dèi ci proteggano!»
Lidia si
portò automaticamente una mano alla bocca e prese a
mordicchiarsi nervosamente
le nocche, ma non riuscì a trovare un argomento che le
permettesse di
controbattere a ciò che Tito aveva appena detto. Ha ragione, riconobbe a malincuore. Ha perfettamente ragione.
Dopo
qualche istante di silenzio, la ragazza avvertì un movimento
al suo fianco,
mentre Tito si alzava in piedi. Lo udì inspirare a fondo,
poi il giovane romano
parlò ancora. «D’accordo, allora. Io
vado a dare un’occhiata in giro.» Istintivamente,
Lidia allungò una mano verso di lui, ma non trovò
altro che l’aria pesante
della notte. «E io che cosa faccio?»
«Tu resti
qui» fu la risposta del ragazzo. «È
inutile rischiare in due: se non mi vedi
tornare, rimettiti in cammino da sola.» Sebbene la
prospettiva che a Tito
potesse succedere qualcosa di male le risultasse intollerabile, Lidia
cercò di
mantenere la mente lucida. «Ma come faccio a capire quanto
tempo è passato? Non
ho un orologio, non ho niente che mi permetta di calcolare lo scorrere
del
tempo…»
«E allora
aspetta che cominci ad albeggiare» propose il ragazzo, dopo
qualche istante.
«Non ho idea di che ore siano, ma immagino che, ormai, non
possa mancare più
tantissimo al sorgere del sole. Non lo so… saranno le tre,
le quattro?»
«Non ne ho
la benché minima idea» ammise lei, demoralizzata.
Un secondo più tardi, la mano
di Tito le si posò sulla spalla, come per confortarla.
«So che non è una grande
idea, ma non me ne viene una migliore. Cercherò di fare in
fretta: arrivo fino
a dove il sentiero incrocia la strada che Gaio e Valerio avrebbero
dovuto
percorrere, do un’occhiata in giro e poi torno
indietro.»
Lidia
deglutì, cercando di scacciare il nodo che le stringeva la
gola. «Va bene. Stai
attento, però, e cerca di tornare presto. Non farmi
preoccupare per niente.»
Quell’ultima raccomandazione avrebbe voluto essere una mezza
battuta, ma il
tono angosciato con cui le uscì di bocca vanificò
il debole tentativo di Lidia
di alleggerire l’atmosfera cupa.
«Promesso» sussurrò Tito, prima di
allontanarsi da lei senza aggiungere una parola.
Non appena
fu rimasta sola, Lidia si ripiegò su se stessa, mentre un
crampo violento le
mordeva lo stomaco. La giovane espirò lentamente, facendo
sibilare il fiato tra
i denti e facendo del proprio meglio per dominare la paura che montava
a ondate
incandescenti. Stai calma! Si
raccomandò, avvertendo che il panico era a un soffio dal
sopraffarla.
Nel
tentativo di dominarsi, Lidia si distese sul vecchio materasso
abbandonato,
incurante della polvere e delle ragnatele che avvertì contro
il viso. Le ossa
del bacino affondarono nella lana vetusta e quel contatto morbido e
solido allo
stesso tempo le parve quasi un abbraccio rassicurante. Andrà
tutto bene, si disse, incrociando le mani sul proprio
stomaco.
Probabilmente ci siamo fatti prendere
dall’ansia e abbiamo calcolato male i tempi. Gaio e Valerio
non sono ancora
arrivati semplicemente perché la strada era più
lunga di quello che credevamo
noi. È assolutamente probabile che Tito li incontri strada
facendo. Ce ne
ricaveremo una bella sgridata, da questa storia, ma finirà
tutto bene!
Cullata da
quei pensieri confortanti che riuscirono miracolosamente a tenere a
bada gli
spettri che si affacciavano ai confini della sua mente, Lidia
scivolò in una sorta
di dormiveglia nel quale il tempo si dilatava e si restringeva con un
ritmo che
sfuggiva alle logiche del razionale. Con gli occhi chiusi,
sperimentò alcuni
sogni leggeri, impressioni fugaci subito dimenticate, sprazzi di colore
e di
sole, di carezze sulla pelle e di mostri in agguato
nell’ombra.
Poi,
all’improvviso, all’esterno della cabina
risuonarono dei passi.
***
Bene… anzi,
no, perché, purtroppo, questo è
l’ultimo
capitolo pronto. La storia proseguirà, ovviamente, ma
più lentamente di prima.
Dal momento che non
sarò più in grado di
aggiornare regolarmente, non mi pare corretto continuare a stressarvi
chiedendovi di recensire e di sapere cosa ne pensate. Da ora in poi,
adotterò
un approccio molto più rilassato: voi lascerete due righe
solo quando avrete
tempo voglia e io, dal canto mio, scriverò solo quando
avrò tempo e voglia.
Voglio specificare che
non è una ripicca, ma
una semplice costatazione dei fatti. Per vari motivi, non ho trovato
gli
stimoli sufficienti per scrivere più in fretta di quello che
ho fatto. Visto che,
per me, la scrittura è solo e soltanto un hobby, credo che
non abbia senso fare
i salti mortali per tenere un ritmo che non mi risulta naturale, no?
|
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Capitolo 31 *** 30. Incontri inaspettati ***
Lidia si
ritrovò in piedi senza nemmeno ricordare di aver compiuto lo
sforzo volontario
di alzarsi. La sonnolenza di un istante prima era già
dimenticata e i suoi
sensi erano vigili, quasi affinati dall’adrenalina. La
fanciulla avvertiva un
pizzicorino diffuso, una tensione nei muscoli delle spalle e delle
gambe,
un’acutezza nello sguardo che pure non coglieva altro che
tenebre informi e
cangianti. Si accorse di non avere paura, di sentirsi forte, e si
ritrovò a
stringere i denti nell’accenno di un ringhio, a irrigidire le
dita nella
pallida imitazione di artigli mai avuti.
Durò solo
un istante, poi l’ansia e l’incertezza tornarono a
farsi sentire, mozzandole il
fiato e facendole tremare le gambe. Chi
c’è, là fuori? Si chiese. Non
poteva essere Tito: in primo luogo perché il
ragazzo si sarebbe fatto riconoscere immediatamente, in secondo luogo
perché,
istintivamente, avvertiva che i suoni che aveva colto erano stati
prodotti da
un corpo diverso per stazza e movenze da quello del giovane romano.
È una sola
persona, si disse
Lidia, trattenendo il fiato e rimanendo perfettamente immobile per
qualche
istante. Tutto taceva, all’esterno della cascina, quasi che
la persona
sconosciuta fosse in attesa di udire un qualche suono che gli
confermasse che
là dentro ci fosse effettivamente qualcuno.
Io non vedo lui, ma lui
non può vedere me,
ragionò
la fanciulla. Addossata contro la parete polverosa e che sembrava
sgretolarsi
sotto le sue mani, Lidia si interrogò rapidamente sul da
farsi. Avrebbe potuto
rimanere ferma lì dov’era, senza emettere alcun
suono che tradisse la sua
presenza: se fosse stata fortunata, la persona fuori dalla porta
avrebbe
creduto che l’edificio fosse deserto e se ne sarebbe andata. Ipotesi piuttosto improbabile,
valutò
amaramente la ragazza. Verosimilmente, lo sconosciuto avrebbe comunque
voluto
dare un’occhiata all’interno per assicurarsi che
nessuno vi si stesse
nascondendo. Forse ha con sé una
torcia o
qualcosa che fa luce, ipotizzò. Ma
allora cosa sta aspettando? Perché non entra? O forse anche
lui è costretto a
rimanere al buio.
Se così
fosse stato, Lidia avrebbe potuto nascondersi da qualche parte e
confidare
nella sua buona stella che, accecato dall’oscurità
quanto lei, lo sconosciuto
non la trovasse. Ma, se mi muovessi,
rischierei di inciampare in qualcosa. E allora si accorgerebbe
sicuramente che
sono qui!
No, sarebbe
stato meglio non muovere un muscolo e aspettare la mossa del suo
invisibile
avversario. Del resto, se non è
ancora
entrato vuol dire che, probabilmente, non è sicuro al cento
per cento che qui
dentro ci sia veramente qualcuno. Premendo i polpastrelli
contro la vecchia
parete di calce e avvertendone l’irregolarità
fragile e polverosa, la ragazza
svuotò la mente da ogni pensiero, limitandosi a rimanere in
ascolto.
I minuti
scivolarono via lenti senza che alcun rumore giungesse più
alle sue orecchie. Che mi sia immaginata
tutto? Si chiese,
dubbiosa. Erano forse dei topi, quelli che aveva sentito? Era tesa e
doveva
riconoscere che non era del tutto inverosimile che la sua mente avesse
ingigantito dei suoni molto più modesti, facendole scambiare
per dei passi
umani il sottile scalpiccio di un qualche roditore. Oppure
era solo il vento che ha smosso qualcosa, o lo scricchiolio
naturale di qualche vecchia trave…
Naturalmente,
non aveva modo di verificare se quelle ipotesi fossero corrette o se
là fuori
ci fosse veramente qualcuno. La cosa
migliore da fare sarebbe non muoversi da qui e aspettare che Tito e gli
altri
facciano ritorno, si disse. Tuttavia iniziava a essere stanca
e
quell’immobilità forzata – in netto
contrasto con il tumulto del suo cuore e
delle sue emozioni agitate – stava diventando difficile da
sopportare. Poco
alla volta, nacque in lei la tentazione di staccarsi dal muro e di
raggiungere
la porta per dare un’occhiata all’esterno e
giudicare con i propri occhi la
situazione. Non dovrei farlo,
pensò
Lidia, mordicchiandosi piano il labbro inferiore. Qui
sono al sicuro: se uscissi allo scoperto, rischierei di essere
vista.
Era
indubbiamente vero, ma quell’impulso crebbe fino ad
acquistare la forza di un
ordine a cui era quasi impossibile sottrarsi. Non
dovrei farlo, si ripeté la fanciulla, ma se vado avanti così, scoppio.
Avrebbe dato solo un’occhiatina
fugace. Sarebbe stata attenta, si sarebbe sporta dall’uscio
solo quel tanto che
bastava per fare balenare lo sguardo sul prato buio, poi sarebbe
rientrata.
Muovendosi
in punta di piedi, ignorando quella parte più razionale del
suo intimo che le
urlava di tornare indietro, Lidia si avvicinò al rettangolo
della soglia, solo
vagamente più luminoso dell’ambiente oscuro in cui
era immersa. Dopo qualche
istante, sentì sotto alle dita la ruvidità del
legno scheggiato dal tempo e dal
sole e afferrò la trave che costituiva
l’intelaiatura della porta, cercando di
trarre forza da quel materiale compatto. Inspirando a fondo, spinse lo
sguardo
al di fuori della cascina, sul prato nero. La luna era ormai tramontata
e non
poteva contare che sul chiarore delle stelle. Quel poco che riusciva a
vedere,
però, la rassicurava: tutto sembrava tranquillo e deserto
esattamente come
quando lei e Tito si erano rifugiati all’interno del vecchio
edificio.
Trattenendo
il fiato, la ragazza si sporse leggermente in avanti, fermandosi solo
quando i
suoi capelli bruni furono sfiorati da un alito di vento. Quasi con
timore,
Lidia volse lo sguardo a destra e poi a sinistra, perlustrando
rapidamente le
mura esterne della cascina. Non
c’è
niente, realizzò, mentre una sensazione di
sollievo le si riversava addosso
come una doccia calda e gradevole. Non
c’è nessuno.
Sollevata,
ma pur sempre guardinga, Lidia si staccò
dall’intelaiatura della porta e osò
uscire allo scoperto sotto il cielo stellato. Il vento aveva ripreso a
soffiare
dolcemente e la notte era lucida e cristallina. La giovane romana si
ritrovò a
respirare a pieni polmoni quell’aria frizzante, grata di
trovarsi finalmente
fuori dall’atmosfera densa e polverosa della vecchia cascina.
Tutto era
immobile, se si escludeva l’oscillare dell’erba
sotto il soffio della brezza
notturna, e la fanciulla si portò le mani ai fianchi,
concedendosi qualche
secondo per riprendere fiato e per far riabituare la vista a delle
condizioni
di luce leggermente migliori rispetto a quelle in cui si era trovata
fino a
pochi istanti prima.
Nell’istante
stesso in cui udì il movimento alle sue spalle, Lidia fece
per voltarsi, ma lui
fu più veloce e le premette una mano sulla bocca.
«Non urlare» le intimò,
piegandosi sul suo orecchio.
Lidia
sgranò gli occhi, mentre il colore le abbandonava le guance
e lo sgomento le
mordeva lo stomaco. Non è possibile,
fu il primo pensiero che le attraversò la testa. Lo stupore
e la consapevolezza
che ciò che stava accadendo era assurdo vinsero la paura e
la fanciulla afferrò
con entrambe le mani il polso che aveva davanti al volto,
divincolandosi fino a
quando riuscì a ruotare il collo fino a scorgere il viso del
suo aggressore. La
mano che lui teneva saldamente sulla sua spalla sinistra le
impedì di
fronteggiarlo come avrebbe voluto, ma Lidia riuscì comunque
a incontrare i suoi
occhi.
«Ancora
tu» sputò, quando riuscì a spostare la
sua mano dalle proprie labbra. Sul viso
di Karl passò un’espressione confusa e, per un
attimo, Lidia pensò che il
germanico non fosse un uomo in carne ed ossa, ma uno spirito maligno
che aveva
lasciato gli Inferi appositamente per tormentare lei. Per qualche
istante,
quell’ipotesi non le sembrò poi così
assurda.
«Ancora
io?» ripeté lui, piantando più a fondo
le dita nella spalla della giovane. Lei
annuì furiosamente. Distrattamente notò che era
curioso che, in quelle
circostanze, la rabbia avesse la meglio sul timore che Karl le incuteva
normalmente: in un certo senso, le pareva quasi confortante trovarsi di
fronte
a un viso noto, piuttosto che a un inseguitore sconosciuto, senza volto
né
identità. «Sì»
sbottò, piantando gli occhi in quelli del germanico.
«L’altro
giorno ti ho trovato fuori dalla bottega di Ulf, e adesso mi compari
davanti
anche qui: tu mi stai seguendo! Non hai niente di meglio da
fare?»
Karl le
afferrò anche l’altra spalla, inchiodandola al
suolo. «Sì, ti sto tenendo
d’occhio» confermò, con quel suo accento
tagliente che le feriva sempre le
orecchie. «E no, non mi è rimasto molto di meglio
da fare: grazie alle
decisioni dei tuoi politici, ho perso il lavoro alla miniera. Di
conseguenza,
mi ritrovo con un sacco di tempo libero che posso gestire come meglio
credo.»
Di fronte
a quella rivelazione, Lidia ammutolì. Ricordava vagamente il
discorso a cui
aveva assistito la sera in cui era stata invitata a cena a casa del
suocero:
Gefrid non aveva forse intimato a Karl di non azzardarsi a farsi
cacciare dalla
miniera? Oh, scommetto che è nei
guai,
adesso! Pensò, con una punta di trepidazione quasi
compiaciuta.
Naturalmente, era assai probabile che il fatto che Karl potesse avere
problemi
con il padre di sua moglie lo rendesse ancora più
maldisposto nei confronti
della sua giovane cognata. «Che cosa vuoi?» chiese,
allora, mentre il coraggio
che l’aveva sostenuta fino a quel momento sfumava un poco e
l’abituale timore
tornava a farsi sentire.
«Riportarti
a casa.»
La
risposta la sorprese e Lidia lo fissò per qualche istante,
con la bocca
leggermente socchiusa. Poi scosse lentamente la testa. «Cosa?
Io non capisco.
Perché sei qui?» La presa di Karl si fece
più salda e l’uomo la scosse
leggermente, in un moto di frustrazione. «Ho saputo di quello
che è successo.
Mi hanno detto che ti hanno vista partire con quei soldati, quindi ti
ho
seguita per riportarti indietro.»
«Sai che
qualcuno ha ucciso Lucio?» chiese Lidia, mentre la bocca le
si riempiva di un
sapore amaro al ricordo della sorte toccata al giovane soldato. Karl
annuì. «Se
Lucio è il nome del soldato morto l’altra notte,
allora sì: so che è stato
ucciso. Ed è proprio per questo che sono qui.»
La
situazione le era poco chiara. Malgrado le mezze spiegazioni
dell’uomo, non
riusciva a capacitarsi come Karl avesse fatto a raggiungerla in un
posto tanto
lontano da Erding e le parole appena pronunciate dal germanico
risuonarono
sinistramente nella sua testa. Aveva detto di volerla riportare a casa,
ma la
cosa non aveva minimamente senso: da
quanto ne so io, questo qui voleva cacciarmi, altro che riportarmi a
casa!
Era allora chiaro che il cognato stesse cercando di ingannarla: ma a
quale
fine? Voleva forse consegnarla ai suoi compari? O, peggio…
voleva ucciderla?
Lidia fu
scossa da un tremito e cercò di retrocedere di un passo, ma
Karl glielo impedì.
«No, no: dove pensi di andare?» ringhiò.
«Tu adesso vieni con me!»
«Che cosa
vuoi da me?» chiese ancora lei, cercando di tenere a bada la
paura che ormai le
stringeva la gola, distorcendo un poco il suono delle sue parole. Il
germanico
la guardò come se stesse dubitando delle sue
facoltà mentali. «Ma sei stupida o
cosa?» chiese, infatti. «Ti ho detto che voglio
riportarti a Erding, da Ulf.
Come te lo devo dire?»
Lidia
scosse con forza il capo. «Non ti credo»
sputò, con una voce un po’ troppo
acuta per risultare neutrale e controllata. «Non capisco come
hai fatto ad arrivare
qui. Come hai fatto a trovarmi? Come facevi a sapere che mi ero
nascosta
proprio qui? Non puoi avere fatto tutto da solo! Chi
c’è con te?»
Davanti a
quella raffica di domande pronunciate con voce sempre più
alta, Karl parve
preso leggermente alla sprovvista, ma si riebbe in fretta dalla
sorpresa e
premette bruscamente una mano sulla bocca della giovane, mentre con
l’altra le
dava un nuovo scossone. «Non urlare, cretina! Non
è il caso di attirare troppo
l’attenzione, credimi!» Lidia trattenne il fiato
per un istante, storcendo il
naso contro l’odore della pelle dell’uomo e
fissandolo con gli occhi sgranati.
Notando che la fanciulla sembrava essersi calmata un poco, il germanico
la
lasciò libera di respirare più con agio.
«Ieri mattina ero alla taverna con
alcuni compagni, quando alcuni ragazzi sono entrati e ci hanno detto
quello che
era successo la sera prima – quello che avevano
fatto. Erano consapevoli del fatto che li aveste visti, ma
non hanno avuto
il coraggio di inseguirvi, per vostra fortuna. Erano venuti alla
taverna per
cercare consiglio e l’hanno trovato. Il nostro capoturno gli
ha consigliato di
cercarvi e di assicurarsi che non parlaste e io mi sono offerto di
accompagnarli.»
«Che cosa
mi vuoi fare?» esalò Lidia, quasi istintivamente.
Il germanico
piegò le labbra in una curva amara e ironica. «Oh,
vorrei farti diverse cose e
nessuna di queste sarebbe piacevole, credimi. Però Ulf ci
tiene a te, a quanto
pare, e Ulf è il mio migliore amico: quindi ti riporto da
lui.»
Malgrado
il tono sincero con cui l’uomo aveva pronunciato quelle
parole, Lidia non
riuscì a credergli. «E gli altri? Cosa diranno i
tuoi compagni?» chiese,
guardinga. «Gli altri non sono qui»
replicò Karl, allargando le braccia. «Sono solo, o
quasi. Voi romani vi credete
tanto furbi, ma non è un segreto che usate come rifugio la
capanna in cui avete
passato la notte. Da lì c’è una sola
strada che un carro può percorrere per
dirigersi verso sud: gli altri hanno preso delle scorciatoie per
tagliare la
strada ai soldati; e io e Rolf abbiamo proseguito a piedi lungo il
sentiero
che, immagino, hai percorso anche tu. Speravamo di trovarti…
e ci è andata
bene, a quanto pare.»
«E se non
mi avessi trovata qui?» chiese Lidia, mentre il suo pensiero
correva a Gaio, a
Valerio e a quelle che poteva esser successo loro, se davvero i
compagni di
Karl erano riusciti a intercettarli. «E chi è
Rolf?» aggiunse poi, lanciando
un’occhiata nervosa tutt’intorno a sé.
Se davvero l’uomo non era solo, dove si
nascondeva la persona che l’aveva accompagnato fino a
lì?
«Rolf lo
conoscerai tra poco» replicò il germanico, in un
tono che le fece accapponare
la pelle. «E, per rispondere alla tua domanda, se non ti
avessi trovata qui…
be’, è probabile che non ti avrei trovata affatto,
perché gli altri ti
avrebbero trovata prima di me. Avrei detto a Ulf che avevo fatto il
possibile
per salvarti, ma che, purtroppo, non era comunque stato
sufficiente.»
Davanti a
quella spiegazione – pronunciata, se non si ingannava, con
una punta di
compiacimento – Lidia rivolse un’occhiata velenosa
al cognato. E adesso magari dovrei anche
ringraziarlo
per essere venuto a salvarmi? Si chiese, scettica e
indispettita.
Quando la
ragazza rimase in silenzio qualche istante troppo a lungo, Karl riprese
a
parlare. «E adesso andiamo. Gli altri ci metteranno un
po’ ad accorgersi che io
e Rolf siamo spariti, ma è meglio non perdere
tempo.» Così dicendo, l’uomo le
afferrò saldamente un braccio e fece per trascinarla via
dalla cascina
abbandonata, ma Lidia oppose ancora resistenza. Le sarebbe piaciuto
riuscire a
fidarsi di lui, ma non poteva dimenticare l’aperta
ostilità che il germanico le
aveva dimostrato in tutte le occasioni in cui avevano avuto a che fare
l’uno
con l’altra. E, soprattutto, non
posso
andarmene senza dire niente a Tito, pensò la
fanciulla, preoccupata. Se tornasse qui e non
mi trovasse più,
andrebbe sicuramente in panico! E non posso nemmeno abbandonarlo qui da
solo,
se davvero è successo qualcosa a Gaio e a Valerio!
«Aspetta»
mormorò, cercando di divincolarsi dalla presa
dell’uomo. Lui le lanciò
un’occhiata seccata. «Cosa
c’è, ancora?» La giovane romana
deglutì. «Io non
sono venuta qui da sola: mi ha accompagnata un mio amico.»
Sul volto del
germanico si disegnò un’espressione dapprima
sorpresa e poi sospettosa. «Fammi
indovinare», fece, sprezzante, «si tratta dello
stesso tipo con cui ti ho
pescata l’altro giorno?» Lidia storse il naso
davanti al sottointeso che le
parve di scorgere nelle parole dell’uomo.
«Esatto» confermò, comunque.
«È
piuttosto insistente e non sono riuscita a convincerlo a lasciarmi a
Erding.
Però è un mio amico e non posso permettere che si
preoccupi per niente. È
andato a cercare i due soldati che ci hanno portati qui, ma presto
sarà di
ritorno e, se non mi trovasse…»
«Se è
andato a cercare i due legionari, è probabile che non torni
più indietro» la
informò seccamente Karl, senza un briciolo di empatia. Lidia sbiancò e
il suo intimo rifiutò
categoricamente ciò che Karl le stava lasciando intendere.
«No, lui tornerà!»
abbaiò, di riflesso. Per tutta risposta, l’uomo
scosse le spalle. «Sì? Può
essere, ma la cosa non ci riguarda. Noi ce ne andiamo adesso, senza
aspettare
che il tuo amichetto ritorni. Prima di tutto perché non
voglio perdere tempo ad
ascoltare i capricci di un ragazzetto romano e poi, soprattutto,
perché voglio
evitare che tornino i miei, di amici: già questa situazione
mi lascerà nella
merda fino al collo. Non ho alcuna intenzione di affrontarla da solo,
in mezzo
al nulla, di notte.»
Per un
istante, la consapevolezza che Karl stesse sostanzialmente tradendo i
suoi
compagni per lei la colpì, ma Lidia allontanò
velocemente quel pensiero e tornò
a concentrarsi su una questione che le stava ben più a
cuore. «Voglio
aspettarlo lo stesso» replicò, cocciuta. Il
germanico sospirò e la sua presa
sul braccio della fanciulla si strinse fino ad arrivare a farle male. «Tu vieni con me
adesso» ribatté, con
altrettanta fermezza. «Non me ne frega niente di quello che
vuoi o non vuoi
fare. Però puoi scegliere se seguirmi con le tue gambe o se
farti portare in
spalla fino al villaggio.»
Lidia fece
per protestare ulteriormente, ma ormai le era chiaro che non avrebbe
potuto
averla vinta, contro Karl. Per una frazione di secondo – e
per puro spirito di
contraddizione – fu tentata di rispondere che, se avesse
voluto portarla via da
lì, avrebbe dovuto veramente caricarsela in spalla, ma poi
il coraggio le mancò
e la fanciulla abbassò mestamente gli occhi a terra.
«Tu non ci vuoi proprio
tornare da Ulf, vero?»
La domanda
di Karl le fece alzare di scatto la testa. «Certo che ci
voglio tornare!»
replicò, senza la minima esitazione. «È
da quando mi hanno costretta a lasciare
il villaggio che sto pensando a come fare per tornare indietro.
Però non mi
sembra corretto lascare Tito così, senza dirgli
niente… considerato tutto
quello che ha dovuto fare per arrivare fino a qui per
aiutarmi!» «Per aiutarti
a fare cosa?» le chiese immediatamente il germanico. Lei si
strinse nelle
spalle. «Be’, lui era convinto di aiutarmi,
presentandosi qui. In realtà, mi ha
causato un sacco di guai, ma le intenzioni erano buone.»
«Con le
buone intenzioni non si va da nessuna parte» le fece notare
il germanico,
pragmatico. «Se davvero vuoi tornare da tuo marito, allora
sono io quello che
ti sta aiutando, non il romano. Quindi dovresti fare come ti dico,
invece di
rendermi la vita più complicata del necessario.»
Lidia aprì
la bocca, combattuta. «Ma io…»
«Ma tu niente, romana» la interruppe subito
Karl. «Smettila di fare storia, o finirai per farmi perdere
definitivamente la
pazienza.»
La ragazza
si torse nervosamente le mani, in preda all’indecisione.
Anche ammesso che suo
cognato fosse sincero e non intendesse consegnarla alle persone che
avevano
ucciso Lucio, poteva davvero abbandonare Tito senza nemmeno una parola
di
commiato? Non che io abbia molta scelta,
comunque, ragionò: per la seconda volta in poco
più di due giorni, si
ritrovava in completa balia degli eventi, costretta a sottostare al
volere di
un’altra persona come non le accadeva da tempo. Non posso certo mettermi a fare i capricci. Non
servirebbe a niente e
sarebbe pure piuttosto imbarazzante.
«Davvero
vuoi riportarmi a Erding, da Ulf?» gli chiese, facendo del
proprio meglio per
guardarlo negli occhi. Karl sospirò di nuovo e
allargò le braccia. «Sì, te
l’ho
detto. E intendo riportartici sana e salva: se ti succedesse qualcosa,
Ulf ci
starebbe male, e Unna… be’, di conseguenza, Unna
renderebbe la mia vita un
inferno.»
Karl la
fissò, in attesa della sua reazione e, con l’animo
appesantito dalla
consapevolezza di essere ad un passo dal tradire la fiducia di Tito,
Lidia
annuì quasi impercettibilmente, arrendendosi e decidendo di
fidarsi del
germanico. «E va bene» concesse.
«Andiamo.»
«Era ora!»
esultò lui, lasciando improvvisamente la presa che aveva
ancora sul braccio
della ragazza. «Rolf, komm’er!» Allarmata
da quel richiamo, la fanciulla si
voltò rapidamente nella direzione in cui Karl stava
guardando. Da dietro
l’angolo della vecchia cascina, vide sbucare una piccola
ombra scura che si
muoveva rapida e leggera. Quando le fu abbastanza vicina, la giovane
sobbalzò.
«Ma è un bambino!» esclamò,
stupita. Karl sogghignò. «Rolf, mio
nipote!» lo
presentò, con un certo orgoglio. Sentendosi chiamato in
causa, il ragazzino
alzò su di lei un volto dai lineamenti sorprendentemente
simili a quelli
dell’uomo che gli stava di fronte e poi le rivolse un piccolo
sorriso timido,
che lei ricambiò senza particolare convinzione. Si è portato un bambino, ‘sto
disgraziato, pensò, fulminando Karl
con lo sguardo. Da come ne parlava poco
fa, mi immaginavo che si trattasse di qualcuno di decisamente
più pericoloso.
«Non
guardarmi così, romana» si difese Karl, che aveva
evidentemente interpretato
male lo sguardo della ragazza. «Ha già dodici
anni, è ora che inizi a occuparsi
delle cose da adulti.»
«Mh-mh»
replicò distrattamente Lidia, che provava solo un blando
interesse per il
ragazzino. Karl la fissò ancora per qualche istante, poi
scrollò le spalle.
«Be’, diamoci una mossa, allora.» Sebbene
si fosse ormai resa conto di non
avere alternative, Lidia provò comunque una stretta al cuore
al pensiero di
lasciarsi alle spalle la cascina abbandonata. Ma
Tito non è stupido, cercò di
rincuorarsi. Saprà cavarsela.
Proseguirà verso sud, oppure tornerà da
Alexander… o
magari riuscirà anche a trovare Gaio e Valerio,
checché ne dica Karl!
Mentre era
persa in quei pensieri, i due germanici si erano allontanati di qualche
metro
e, resisi conto che lei non si era ancora allontanata dalla cascina, si
erano
fermati ad aspettarla. Muovendosi in fretta nel vano tentativo di
mettere a
tacere i sensi di colpa che già le mordevano lo stomaco,
Lidia si affrettò a
raggiungerli.
***
La luce
pallida di un’alba serena stava ormai iniziando a filtrare
tra il fogliame
fitto del bosco e Lidia si passò una mano sulla fronte
sudata, inspirando a
fondo e alzando gli occhi al cielo nel tentativo di riprendere fiato.
Anche se
non poteva vederlo, era sicura che il sole non avesse ancora fatto
capolino
dalle montagne: e allora perché quella maledetta foresta era
così calda?
Il
sottobosco era pervaso da un’umidità tiepida e
appiccicosa che poco si addiceva
a quell’ora della mattina – cosa
saranno?
Le sei? Le sette? – e la giovane romana iniziava a
sentire una sensazione
di insofferenza ribollirle nel petto. Se
non mi permette di riposarmi almeno un pochino, giuro che urlo!
Pensò,
lanciando un’occhiata carica d’astio alla schiena
robusta di Karl e alla figura
esile di suo nipote, che si muoveva tra tronchi e massi con la stessa
agilità
disinvolta di un capretto.
Era ormai
da qualche tempo che Lidia era riuscita a lasciarsi alle spalle
– almeno per il
momento – la bruciante consapevolezza di aver tradito la
fiducia di Tito,
accettando tutto sommato di buon grado di seguire Karl. Del resto,
l’aver
scoperto che il cognato sembrava veramente intenzionato a riportarla a
Erding
era stato un bel sollievo e la fanciulla iniziava a pregustare il
momento in
cui avrebbe messo piede di nuovo nella casa che condivideva con Ulf.
Certo, ho paura che il
nostro incontro non
sarà dei più spensierati, ma quello che va fatto,
va fatto: ci sono così tante
cose di cui dobbiamo parlare!
Lidia aveva maturato la convinzione che, una
volta espletato quel passaggio tanto sgradevole, quanto necessario, le
cose tra
lei e suo marito avrebbero preso una piega decisamente più
favorevole. Ho gestito malissimo questa
storia, lo
riconosco: ma, sicuramente, quando ce la saremo lasciata alle spalle,
avremo
imparato a fidarci di più l’uno
dell’altra. Forse è vero, che non tutto il male
viene per nuocere!
Mentre si
intratteneva in quei pensieri – e metteva a tacere la subdola
vocina del suo
inconscio che le sussurrava che, più che di pensieri
razionali, si trattava di
illusioni – Lidia era diventata via via più
consapevole dello scorrere del
tempo. Quando era partito per fare ciò che Donna Erin gli
aveva chiesto, Ulf le
aveva detto che sarebbe stato via tre giorni: il
che significa che tornerà oggi!
Anche se,
a conti fatti, c’era ben poco che potesse fare per prepararsi
all’inevitabile
confronto con il marito, Lidia sperava di riuscire a essere a casa
prima che
lui vi facesse ritorno. Voleva avere il tempo per riordinare le idee
nella
quiete della sua abitazione e, soprattutto, voleva evitare che il
giovane non
la trovasse, quando sarebbe rientrato. Chi avrebbe potuto dire cosa
avrebbe
pensato, se avesse trovato la casa vuota? Non
vorrei mai che credesse che sia scappata… magari con Tito!
Tuttavia,
anche se quel pensiero le faceva tremare i polsi, la ragazza sentiva di
avere
il bisogno fisico di una pausa. Se non mi
siedo, svengo! Pensò, portandosi le mani sulle
reni e inarcando la schiena
nel tentativo di alleviare la pressione che vi si stava accumulando.
Come aveva
già avuto modo di notare quella notte, gli stivaletti che
indossava erano
assolutamente inadatti per camminare su un sentiero ricoperto di
fanghiglia e
il clima umido faceva sì che la gonna, forse un
po’ troppo lunga e pesante, le
si appiccicasse fastidiosamente agli stinchi. E
ci sono pure le zanzare! Pensò, esasperata,
tirandosi una manata
sul braccio ed eliminando uno di quegli insetti molesti un istante
prima che
quello affondasse la proboscide nella sua carne.
«Datti una
mossa! Ci stai rallentando!» La voce secca di Karl la fece
sobbalzare e Lidia
alzò gli occhi al cielo. Ecco,
parlando
appunto di cose moleste…
«Sono
stanca!» ribatté, per tutta risposta.
«Non potremmo fermarci un attimo?»
Sentendola parlare, Rolf, che sembrava capire molto poco il latino,
trotterellò
verso di lei, chinando il capo di lato come per chiederle se avesse
bisogno di
aiuto. Lidia, però, ignorò il ragazzino e
continuò a puntare gli occhi su Karl.
«Non ce la faccio più!» si
lamentò ancora, rincarando la dose.
«Non fare
la lagna, romana!» sbottò l’uomo,
sprezzante. «Già così ci metteremo un
secolo,
ad arrivare al villaggio: se ci fermiamo ogni volta che tu dici di
essere
stanca, ci vorrà una settimana!»
Lidia
sgranò gli occhi, colta improvvisamente da un sospetto.
«Non avrai mica
intenzione di farla tutta a piedi, vero?» Anche se il
germanico era a parecchi
metri di distanza da lei, la fanciulla udì chiaramente il
suo sbuffò di
disprezzo. «Ovviamente no: faccio conto di trovare un carro,
prima o poi.
Dobbiamo però camminare ancora per qualche ora e non
possiamo permetterci
ritardi.»
«E dove
pensi di trovarlo, il carro?» chiese ancora lei,
avvicinandosi di un paio di
passi. Karl scrollò le spalle. «Fatti miei. Su,
muoviti!»
Con quelle
poche parole, l’uomo le voltò la schiena e riprese
a camminare, tornando a
ignorarla completamente. Lidia fu tentata di rivolgergli un gesto
osceno – una
pratica a cui si abbandonava assai di rado – e furono solo i
grandi occhi grigi
di Rolf, fissi su di lei, a fermarla. La giovane rivolse un sorrisetto
di
circostanza al ragazzino e riprese a camminare, maledicendo mentalmente
il
cognato.
Anche se
Karl non si era certamente preso il disturbo di illustrarle nel
dettaglio il
suo piano per riportarla a Eding, Lidia era riuscita a farsi dare
qualche
informazione a proposito del percorso che avrebbero seguito per fare
ritorno al
villaggio. Se la strada che lei e Tito avevano percorso quella notte
era la più
rapida e semplice, se si poteva contare sull’appoggio di un
carro, quella su
cui Karl l’aveva condotta si snodava sul lato destro del
fiume ed era
decisamente meno agevole dell’altra. Lo stretto viottolo di
terra battuta a
tratti pareva più la traccia lasciata da un qualche animale
che non l’opera
dell’uomo e, soprattutto, era intervallata da diversi
lastroni di granito
scuro, lisci e resi sdrucciolevoli dalla rugiada scesa durante la
notte. Più di
una volta, Lidia aveva rischiato di scivolare e in
un’occasione il piede destro
le era slittato di lato, facendole sbattere malamente
l’interno del ginocchio
contro la roccia dura.
Mi fa anche male, e di
certo il fatto di
continuare a camminarci sopra non aiuta, pensò la fanciulla, chinandosi
appena per toccare la parte offesa. Come già aveva avuto
modo di constatare,
bastava la semplice pressione delle dita di una mano per far partire
due
scariche dolorose che si diramavano in contemporanea in direzione della
caviglia e dell’anca destra. Spero
che
non si gonfi troppo, altrimenti camminare potrebbe diventare un
problema serio!
Pensò la ragazza, con una smorfia preoccupata.
Quando era
scivolata, Karl si era limitato a redarguirla, dicendole di stare
attenta e di
non costringerlo a venirla a ripescare nel fiume che scorreva qualche
decina di
metri più in basso. Anche se la freddezza e la maleducazione
dell’uomo non
avrebbero dovuto sorprenderla, quella risposta così
indisponente l’aveva
mortificata e la ragazza non aveva più avuto il coraggio di
lamentarsi
ulteriormente del suo ginocchio dolorante.
Ma adesso inizia a
diventare veramente un
problema,
pensò, scavalcando cautamente il tronco di un vecchio abete
che
si era schiantato sul sentiero, ostruendo il passaggio. Il movimento le
causò
una nuova fitta di dolore e la sua smorfia non sfuggì a
Rolf, che le sfiorò una
spalla. «Was isch los?» le chiese il ragazzino,
scrutandola da capo a piedi
alla ricerca di qualcosa di palesemente fuori posto.
«Niente… ds Knöi»
mugugnò lei, sforzandosi di
usare quel poco che aveva appreso della lingua locale a favore del
bambino.
«Ach»
replicò lui, annuendo con fare comprensivo.
«Bruchst du Hilfe?» Quando Lidia
continuò a guardarlo senza cambiare espressione, Rolf le si
avvicinò
ulteriormente, passandole un braccio attorno alla vita e invitandola ad
appoggiarsi alle sue spalle strette. Nel sentire il corpo ossuto del
ragazzino,
apparentemente tanto fragile e del tutto inadatto a sostenerla, la
giovane
provò un moto di tenerezza nei suoi confronti.
«Näi, warte mal… non ce la fai.
Non possiamo camminare così» protestò,
cerando di allontanarsi da lui senza
tuttavia offenderlo. Il ragazzo però la guardò
con le sopracciglia aggrottate e
Lidia sospirò, scoraggiata. Questo
poveretto non ha capito una parola di quello che ho detto e io non sono
in
grado di esprimermi nel suo dialetto… Di nuovo,
la fanciulla cercò con lo
sguardo Karl, ma l’uomo sembrava essere stato inghiottito
dalla vegetazione e
di lui non vi era più alcuna traccia. E,
naturalmente, quello là ben si guarda dal darci una mano.
È andato avanti, il
disgraziato!
Stringendosi
nelle spalle e alzando gli occhi al cielo, Lidia rivolse un cenno del
capo al
suo aiutante improvvisato. «Andiamo, va’»
sospirò, osando appoggiarsi un po’ di
più a lui e accettando il sostegno che il ragazzino aveva
deciso di offrirle. Almeno lui è
educato: non come quel caprone
là davanti!
Un’eternità
più tardi, Lidia afferrò con una mano un ramo di
nocciolo e lo usò per issarsi
al di là dell’ennesimo gradino, approdando
finalmente su quella che aveva tutta
l’aria di essere una strada carrabile. Rolf, al suo fianco,
alzò su di lei il
viso arrossato dalla fatica e la giovane comprese che il ragazzino
doveva
essere sfinito almeno quanto lei. Poverino,
devo averlo distrutto!
Diverse
ciocche di capelli scuri erano scivolate via dalla treccia in cui le
aveva
costrette e ora le sfioravano fastidiosamente le guance e la fronte,
appiccicandosi alla sua pelle sudata. Lidia le ricacciò
dietro alle proprie
orecchie con un gesto stizzito, prima di volgere lo sguardo attorno a
sé. Erano
finalmente riemersi dalla parte più fitta del bosco e, anche
se il fatto di
aver seguito una strada diversa rispetto a quella che aveva percorso
all’andata
l’aveva disorientata, grazie alle montagne che scorgeva in
lontananza la
fanciulla vide che si erano avvicinati sensibilmente al punto in cui
lei e Tito
si erano separati da Gaio e Valerio, la notte prima. Il sole era ormai
ben alto
nel cielo e Lidia si sentì stranamente vulnerabile, non
più protetta dallo
scudo del fogliame e immersa nell’atmosfera immobile della
mattina estiva.
Karl era
fermo una decina di metri più avanti e, seduto su un sasso
al margine della
strada, li stava aspettando osservando il panorama davanti a
sé. Non appena
avvertì la loro presenza, si voltò a guardarli,
puntando su di loro i suoi
freddi occhi grigi. «Vi eravate persi o cosa?»
Anche se
aveva parlato al plurale, Lidia non aveva dubbi che la critica fosse
rivolta a
lei, dal momento che Rolf di certo non aveva nemmeno capito quello che
aveva
detto. «Non ci siamo persi» replicò,
secca. «Però mi fa male un ginocchio e non
riesco a camminare in fretta. Anzi, se va avanti così, mi sa
proprio che tra
poco non riuscirò a camminare affatto: mi pare che si stia
anche gonfiando.»
L’uomo
alzò gli occhi al cielo e sbuffò qualcosa che la
giovane romana non riuscì a
cogliere, ma che aveva tutta l’aria di essere
un’imprecazione. Stiracchiandosi,
Karl si rimise in piedi e poi le si avvicinò, mormorando
qualcosa che ebbe
l’effetto di far sorridere Rolf. Prima che la ragazza avesse
il tempo di
prevedere le sue mosse, il germanico le si inginocchiò
davanti e, con una mano,
prese l’orlo della sua gonna. «Fa vedere»
disse. Afferrandole saldamente il
polpaccio con l’altra mano, il germanico sollevò
la stoffa quel tanto che
bastava per mettere a nudo il ginocchio della fanciulla.
Immediatamente, Lidia
strillò, mentre il cuore le balzava in gola. «Cosa
stai facendo?» chiese, con
la voce strozzata.
Karl alzò
lentamente lo sguardo sul di lei, gli occhi carichi di sarcasmo.
«Sto
controllando se il ginocchio si sta gonfiando»
replicò, con lo stesso tono che
avrebbe usato per rivolgersi a una bambina non particolarmente sveglia.
«Cos’altro pensavi che stessi facendo, razza di
cretina?»
Lidia
ammutolì, avvilita e con le guance in fiamme. Fantastico.
Proprio una bella figura da deficiente, ho fatto.
L’umiliazione le seccò la gola – il suo
era stato un riflesso spontaneo, non
aveva mai creduto che Karl potesse avere intenzioni anche solo
vagamente
amichevoli nei suoi confronti – ma, fortunatamente, il
germanico si rialzò in
piedi ancor prima che lei trovasse il modo di parlare e di dire
qualcosa che,
con ogni probabilità, avrebbe peggiorato ulteriormente la
situazione.
L’uomo la
guardò in silenzio per qualche istante, poi scosse il capo,
come se non
riuscisse a capacitarsi della sua idiozia. «Lasciamo
perdere» decise, poi.
«Comunque, a quanto pare hai ragione: non ha un
bell’aspetto. Fa molto male?»
Sorpresa
da quel repentino cambio di argomento, la ragazza rimase a bocca aperta
per qualche
secondo, poi si affrettò ad annuire.
«Sì, fa male» confermò. Poi,
temendo di
fare la figura della buona a nulla, rettificò un poco il
tiro: «Cioè, non è
proprio un male insopportabile, ma, se lo carico, mi pare che mi ceda
la gamba.
Sento come delle scosse che salgono fino all’anca e mi pulsa
un po’. Non so se
ce la faccio, a camminare…»
«Merda»
imprecò l’uomo, stringendo le labbra in una piega
dura. «Ma quand’è che ti sei
fatta male? Quando sei scivolata e hai rischiato di cadere nel
fiume?» In
silenzio, Lidia annuì, e Karl mosse le mani in un gesto di
frustrazione. «Ma è
stato un sacco di tempo fa! Avresti dovuto dirlo, che non riuscivi a
camminare!»
Davanti a
quel rimprovero, la ragazza raddrizzò la schiena, offesa.
«Ma io te l’ho detto,
che mi faceva male! Sei tu che mi hai ignorato e hai tirato
dritto!» Lui
aggrottò la fronte, avvicinandosi di nuovo a lei.
«Avresti dovuto essere più
chiara» insistette.
La giovane
si strinse nelle spalle e indicò Rolf con un cenno del capo.
«Be’, lui se ne è
accorto e mi ha anche aiutato. Forse, se tu mi avesti prestato un
po’ più di
attenzione, invece di camminare cinquanta metri più
avanti…» Il ragazzino, che
doveva aver seguito almeno a grandi linee quello che si erano detti,
annuì. «Ic
han si geholfen» confermò, rivolgendole
un’occhiata fiera.
Karl lo
guardò di sbieco, poi volse loro la schiena e si
avvicinò verso il bordo della
strada, dove gli alberi dai quali erano appena emersi si aprivano e
lasciavano
intravvedere uno scorcio della valle circostante. «Siamo in
ritardo» borbottò
tra sé e sé. Zoppicando leggermente –
stranamente, la breve sosta sembrava aver
fatto precipitare le condizioni del suo ginocchio – Lidia gli
si avvicinò. «In
ritardo per che cosa?»
«In
ritardo sulla nostra tabella di marcia» ribatté
Karl. «È già mezzogiorno: non
saremo mai a Erding prima di sera. Il che significa che le
possibilità di
finire nei guai con Unna e Ulf aumentano a dismisura. In
più, non siamo
abbastanza lontani dal luogo in cui abbiamo lasciato gli altri:
rischiamo di
venire raggiunti.»
Quella
prospettiva fece accelerare i battiti del cuore di Lidia e la ragazza
fu quasi
tentata di prendere la mano di Karl tra le sue, alla ricerca di un
contatto
umano e di un poco di stabilità. «E allora cosa
facciamo?» chiese ancora,
sentendosi smarrita con una bambina. L’uomo
sospirò. «Non abbiamo altra scelta
che cercare di trovare un carro. Avrei voluto farlo un po’
più in là, dove
sarebbe stato più facile, ma, viste le tue condizioni,
perderemmo ore preziose.
E, soprattutto, non ho alcuna voglia di portarti in spalla: come
minimo,
penseresti che voglia molestarti.»
Per la
seconda volta nel giro di pochi minuti, Lidia si sentì
arrossire. «Ma vai
all’Inferno» borbottò, abbassando lo
sguardo a terra. «Prima mi hai colto di
sorpresa, tutto qui.»
«Mh-mh»
annuì Karl, con negli occhi un luccichio che lo fece
sembrare più giovane della
sua età. «Basta chiacchiere, comunque. Tu e Rolf
salite sopra al sentiero e
cercate un posto dove sedervi: io vedrò di recuperare un
carro e poi verrò a
riprendervi.» Subito dopo, il germanico ripeté le
istruzioni nel suo dialetto e
Rolf si incamminò immediatamente nella direzione che gli era
stata indicata,
arrampicandosi tra la vegetazione bassa che ricopriva la scarpata a
monte della
strada.
Davanti
alla prospettiva di quella nuova separazione, Lidia esitò
brevemente. «E se non
dovessi tornare?» chiese, inclinando un poco il capo. Karl
scoppiò a ridere.
«Sei gentile a preoccuparti, ma non temere: io non sono come
il tuo fidanzatino
romano. Io tornerò di sicuro, e anche in fretta!»
Lei
incrociò le braccia davanti al petto, irritata
dall’atteggiamento dell’uomo.
«Punto primo, Tito non è il mio fidanzatino,
come credo di averti detto più e più volte. Punto
secondo, non ero preoccupata
per te, ma per me stessa: cosa accidenti dovrei farci, da sola e in
mezzo a una
foresta?»
L’uomo le
rivolse un sorriso sghembo. «Se non torno, significa che sono
morto: a quel
punto, francamente, non me ne potrebbe fregare di meno, di quello che
succede a
te. Rolf se la sa cavare. Tu puoi anche marcire sotto un pino, per
quanto mi
riguarda.»
Lidia
boccheggiò a vuoto, sconcertata dalla mancanza di tatto del
cognato. «Ma… ma…»
Davanti alla faccia divertita dell’uomo, la ragazza
girò bruscamente sui
tacchi. «Ma cosa ci parlo a fare, con te?»
Così
dicendo, marciò, zoppicando, verso il punto in cui si era
diretto Rolf,
ignorando la risata che le giunse alle orecchie.
***
Contrariamente
alle sue previsioni, Karl fu di parola e fece ritorno molto prima di
quanto si
sarebbe aspettata. Mentre stava mangiando un panino al formaggio che
Rolf aveva
fatto magicamente comparire dalla piccola bisaccia che portava a
tracolla,
Lidia udì l’inconfondibile rumore degli zoccoli di
un cavallo sulla strada
sterrata e immediatamente ingoiò un boccone più
grosso del consueto,
ritrovandosi a tossire rumorosamente.
«Cerca di
non soffocare, romana!»
Anche se,
nascosta com’era dalla vegetazione, non riusciva ad avere una
visione chiara di
quello che stava succedendo sulla strada, la voce di Karl era
inconfondibile e
la ragazza si affrettò ad alzarsi in piedi, seguita a ruota
da Rolf. «Hai fatto
in fretta» disse, avvicinandosi al carro trainato da un
cavallo baio che
sembrava aver passato giorni migliori. L’uomo si strinse
nelle spalle. «Ovvio:
ci pensi già tu, a farci perdere tempo.»
Arricciando
il naso davanti all’ennesima provocazione, Lidia permise a
Rolf di aiutarla a
salire a bordo, poi, dopo essersi seduta scomodamente sul pianale, si
rivolse a
Karl. «Dove hai trovato carro e cavallo, comunque?»
indagò, soprassedendo sulla
frecciatina dell’uomo. Quello si voltò appena
nella sua direzione, senza
lasciare le redini. «Diciamo che li ho presi in
prestito?»
La
fanciulla sgranò gli occhi. «Li hai
rubati?» chiese, allibita dalla naturalezza
con cui il cognato aveva ammesso quel fatto. Karl scrollò le
spalle. «Be’, non
vederla come una cosa definitiva. Prima o poi potrei sempre
riconsegnarli allo
sprovveduto che li ha lasciati in mezzo a un campo senza alcuna
sorveglianza…»
Lidia
scosse lentamente la testa. «Ma sei matto? E se il loro
proprietario avvertisse
qualcuno? Se desse l’allarme? Mi sembra che abbiamo
già abbastanza gente sulle
nostre tracce, non vedo davvero nessun motivo per aggiungerne
dell’altra…»
Sbuffando,
Karl si girò fino a incontrare i suoi occhi.
«Siamo praticamente in mezzo al
nulla: prima che riesca a trovare qualcuno da avvertire, noi saremo ben
lontani. Ammesso che non ci siano altri imprevisti,
ovviamente.» Lidia serrò i
denti, contrariata dalla rapidità con cui Karl stava
liquidando l’argomento.
Anche se non le piaceva il fatto che l’uomo
l’avesse praticamente resa complice
di un furto, capiva che la situazione in cui si trovavano non lasciava
loro
molto margine di manovra.
Va be’, non
pensiamoci, si
disse, incrociando le gambe e deglutendo nel tentativo di cacciare il
retrogusto amaro che sentiva in bocca. Ultimamente,
sto collezionando un sacco di cose a cui è meglio non
pensare.
Mente Karl
li guidava lungo la strada che li avrebbe riportati a Erding, Lidia
fece del
proprio meglio per rilassarsi e schiarirsi le idee a proposito di
quello che
avrebbe dovuto dire e fare una volta ritornata al villaggio, ma i suoi
nervi
tesi non glielo permisero. La via che stavano percorrendo sembrava
scarsamente
frequentata e le poche persone che avevano incrociato fino a quel
momento – a
piedi, a cavallo o a bordo di un carretto simile al loro –
non avevano prestato
loro alcuna attenzione. Ciononostante, Lidia si ritrovava a trattenere
il fiato
ogni volta che qualcuno, germanico o romano che fosse, passava loro
accanto,
temendo che tra quelli sconosciuti si celassero i loro inseguitori o,
magari, i
proprietari del cavallo e del carro che suo cognato aveva rubato con
tanta
leggerezza.
I suoi
accompagnatori non sembravano condividere le sue preoccupazioni: Karl
reggeva
mollemente le redini e, semisdraiato sul sedile di legno, conduceva il
cavallo
pigramente, con gli occhi socchiusi e con l’aria di chi stava
facendo una
scampagnata innocente. Rolf, invece, aveva estratto dalla bisaccia un
coltellino dalla lama corta e sottile e un blocchetto di legno e aveva
preso a
incidervi una figura che la ragazza non riusciva a riconoscere. Potrebbe essere un gufo,
meditò,
sbirciando con la coda dell’occhio la strana cosa piena di
bozzi che stava
prendendo forma tra le mani del ragazzino. Oppure
un orso. O anche un maialino.
Improvvisamente,
dopo una curva, il giovane germanico abbandonò
ciò che stava facendo e, in
ginocchio, raggiunse la sponda del carro opposta a quella a cui Lidia
era
appoggiata. Che cosa starà
guardando?
Si chiese la fanciulla, incuriosita dalle sue azioni. Quasi le avesse
letto nel
pensiero, Rolf si voltò verso di lei, gesticolando.
«Schau» disse. «Ds Blauestau!»
Confusa,
Lidia si mosse nella sua direzione, stringendo i denti quando il
ginocchio
destro le ricordò la sua presenza facendo partire una serie
di scosse dolorose.
Era già da qualche tempo che la strada aveva preso a salire
dolcemente,
emergendo dal folto del bosco e proseguendo in una zona in cui gli
alberi
crescevano più radi. Se sulla destra della strada correva un
costone di roccia
chiara, sulla sinistra la visuale era più libera e la
giovane ebbe modo di
vedere ciò che, ore prima, l’oscurità e
la situazione concitata le avevano
nascoste. In quel punto del percorso, dove la roccia pareva
più morbida e
friabile rispetto al resto del territorio, nel corso di milioni di anni
il
modesto torrente che avevano incrociato più e più
volte lungo la via aveva
scavato un canyon profondo. Davanti agli occhi della fanciulla si
estendeva ora
un abisso calcareo sul cui fondo scintillava, chiaro e trasparente come
uno
zaffiro, il fiume, che, in quel punto, si allargava e si faceva
più placido,
formando delle pozze luminose e, in un certo senso, invitanti.
«Non
l’avevo notato, prima» mormorò Lidia,
attirando su di sé lo sguardo beffardo di
Karl. «Guardi il panorama, romana?»
Irritata
dal tono in cui era stata posta quella domanda, la ragazza distolse lo
sguardo
dallo scintillio dell’acqua in fondo alla gola e si
voltò per fronteggiare il
cognato. «Sì: non dovrei?» Il germanico
sollevò una spalla, continuando a
sorridere. «No, no, anzi: goditi il viaggio. Rilassati, fin
che puoi: quando
arriveremo a Erding, avrai un bel po’ di cose da spiegare a
Ulf.»
Quell’inaspettato
riferimento a suo marito ebbe l’effetto immediato di fare
esplodere la bolla in
cui Lidia si era rifugiata, mettendola bruscamente di fronte a tutte le
questioni irrisolte che aveva cercato di accantonare nelle ultime ore.
Malgrado
fosse impaziente di riabbracciare Ulf, ora che il momento della resa
dei conti
si era fatto drammaticamente vicino la ragazza si sentiva pervadere
dall’ansia.
«Lo so» mormorò, con la voce che tremava
leggermente. «Spero solo che mi dia la
possibilità di parlare, senza partire subito in quarta con
le accuse…»
Karl emise
un suono che era una via di mezzo tra una risata e
un’esclamazione di sdegno.
«Non ti pare di chiedere un po’ troppo?»
fece, mentre i suoi occhi assumevano un’espressione
più fredda e dura, più simile a quella che
l’uomo aveva sfoggiato in tutte le
occasioni in cui l’aveva incontrato al villaggio.
Genuinamente confusa da
quella domanda, Lidia aggrottò la fronte.
«Be’, no. Mi pare che sia un mio
diritto, quello di poter spiegare come sono andate veramente le
cose.»
L’uomo
scosse la testa. «Puoi spiegare tutto quello che ti pare, ma
la sostanza non
cambia: tu l’hai tradito.»
Sotto
sotto, Lidia era sempre stata consapevole che, tolti tutti i fronzoli e
le
giustificazioni del caso, la verità era quella enunciata da
Karl: il fatto di
vedersela presentata in maniera tanto brutale, però, la fece
avvampare, mentre
la vergogna le mozzava il fiato. «Lo so»
esalò, alzando gli occhi sul cognato
nell’istintiva ricerca di un appoggio. Quello che lesse sul
suo volto, però, la
fece trasalire. «No, aspetta un attimo!»
sbottò, rianimandosi di colpo. «Io non
l’ho tradito!»
Sorpreso
da quel brusco voltafaccia, il germanico distolse gli occhi dalla
strada e si
concentrò completamente sulla giovane cognata. «Ma
se hai appena ammesso…» «Di
aver tradito la sua fiducia!» lo interruppe immediatamente
Lidia, calcando
l’accento sull’ultima parola. «Di avergli
nascosto la presenza di Tito, quelli
che erano stati i nostri piani: tutto qui! Io non l’ho mai
tradito con Tito!»
Karl le
rivolse uno sguardo scettico e Lidia sentì il sangue
defluirle dalle guance.
«Ulf pensa che io… che tra me e Tito ci sia stato
qualcosa, da quando è
arrivato in Germanica?» Distogliendo lo sguardo dal suo,
l’uomo si strinse
nelle spalle. «È probabile» disse, a
mezza voce.
Ah. Allora è
quello che pensa lui, non quello che pensa Ulf, comprese,
mentre un piccolo sorriso sollevato le si disegnava sulle labbra.
«Be’, non è
così… e, francamente, non credo proprio che Ulf
abbia dei dubbi a proposito di
quello che provo per lui» riprese la fanciulla, senza
riuscire a evitare che nella
sua voce si intrufolasse una nota vagamente compiaciuta.
Per tutta
risposta, Karl fece schioccare la lingua. «Guarda, te lo dico
sinceramente:
come vadano le cose tra te e tuo marito non sono affari miei»
riprese,
tagliente. «Però, se credi che lui si fidi
ciecamente di te, ti sbagli di
grosso. Il fatto che di punto in bianco sia comparso a Erding il tuo amichetto, poi, non migliora affatto la
situazione.»
«È da
parecchio tempo che sto cercando il momento giusto per parlargli di
Tito» si
difese Lidia, interrompendolo. «Però, non ho mai
trovato il momento…» «… e
comunque», continuò Karl, ignorando completamente
ciò che la ragazza stava
dicendo, «non gliel’hai nemmeno mai data. Come
pensi che la interpreti, ‘sta
cosa?»
Lidia
strillò, oltraggiata. «Ma come parli! Il tuo
nipotino!»
Karl
scoppiò in una risata breve e secca, lanciando
un’occhiata al ragazzino che aveva
ripreso ad armeggiare con il suo coltellino. «Il ragazzo non
capisce una parola
di quello che stiamo dicendo» spiegò, come se quel
fatto gli consentisse di
adattare un linguaggio scurrile. «Non fa niente»
abbaiò lei. «Non devi… non
devi permetterti di impicciarti di certe faccende! E comunque tu non ne
sai
niente! E hai ragione: la cosa non ti riguarda!»
«Su questo
siamo d’accordo» commentò Karl,
serafico, tornando a concentrarsi sulla strada.
Evidentemente, l’imbarazzo della fanciulla aveva avuto
l’effetto di dissipare
il malumore che, per un istante, aveva rischiato di prendere il
sopravvento su
di lui quando si erano trovati a discutere della supposta
infedeltà di Lidia.
Basta poco, per farlo
felice,
pensò la
ragazza, velenosa, con le orecchie in fiamme e il respiro reso
affannoso
dall’indignazione. Con che coraggio
viene
a chiedermi conto di quello che faccio e non faccio con Ulf. E anche
lui,
comunque! Poteva anche evitare di metterlo al corrente di
quel… particolare!
Il fatto
che Karl avesse avuto l’ultima parola l’aveva
lasciata con l’amaro in bocca e
Lidia tossicchiò, prima di tornare all’attacco.
«Se vogliamo essere precisi,
comunque», riprese, sporgendosi un po’ verso il
cognato, «io non sono l’unica
che dovrà affrontare conseguenze sgradevoli, quando
torneremo a casa.»
L’uomo la
guardò con la coda dell’occhio. «Di cosa
stai parlando?»
«Anche tu
hai tradito la fiducia dei tuoi compagni, venendo a recuperare me e
decidendo
di riportarmi al villaggio: come credi che la prenderanno?» Anche se Karl non si
voltò a guardarla, la
fanciulla vide l’ombra scura che passò sul suo
volto. «Non la prenderanno bene,
immagino» replicò lui. «Ma non ha
importanza: noi ci resteremo molto poco, a
Erding.»
Nell’udire
quelle parole, Lidia si illuminò. «Oh! Allora Unna
è riuscita a convincerti a
partire!» Le spalle di Karl furono scosse da una risata
silenziosa. «Ovviamente
sì: non è una a cui si possa dire di no
facilmente. E comunque credo che sia la
scelta migliore: vorrei che il bambino nascesse in un ambiente un
po’ più
tranquillo e sicuro.»
«Quindi ti
sta bene andare via? Non so perché, ma mi immaginavo che
avresti protestato di
più» ammise Lidia. Karl stirò le labbra
in una linea amara. «Non ho detto che
mi sta bene. Anzi, il pensiero di dover lasciare tutto quello per cui
ho sempre
lavorato e di regalarlo ai romani mi fa semplicemente incazzare: ma
immagino
che ci saranno cosa più importanti a cui pensare,
d’ora in poi.»
Lidia
annuì, pensierosa, cercando di mettere a fuoco quella nuova
versione di Karl
che aveva sotto gli occhi. Chissà
com’è,
in famiglia, si chiese. Chissà
che
tipo di padre potrà essere. Prima che avesse modo
di trovare risposta a
quegli interrogativi, il germanico si irrigidì e,
improvvisamente, fermò il
cavallo.
«Che cosa
succede?» chiese Lidia, con i sensi immediatamente
all’erta. Dopo una
brevissima esitazione, Karl si voltò verso di lei.
«Sdraiati sul pianale e
copriti con quella coperta» le ordinò. Rolf, pur
senza comprendere una parola
di latino, aveva abbandonato il suo passatempo e aveva preso tra le
mani una
vecchia tela di juta polverosa che la fanciulla non aveva nemmeno
notato.
«Che cosa
c’è?» chiese di nuovo la ragazza, con il
cuore in gola.
Karl alzò
un dito in aria, come per invitarla ad ascoltare. Qualche istante
più tardi,
Lidia represse un gemito. Nell’aria era ora chiaramente
avvertibile il tipico
borbottio prodotto da un carro automatico. E le persone che potevano
permettersi
un carro automatico, da quelle parti, erano davvero poche.
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Capitolo 32 *** 31. Verso casa ***
La ragazza
guardò il misero straccio che Rolf le stava porgendo.
Ammesso che ci fosse
veramente la necessità di nascondersi dalle persone che si
stavano avvicinando,
giungendo dalla direzione opposta alla loro, quel telo sarebbe stata
una
protezione sufficiente?
Secondo me,
finirò soltanto per dare
nell’occhio e attirare ancora di più
l’attenzione.
«Muoviti!»
l’apostrofò Karl, con una nota di urgenza nella
voce. Non vedendo alternative,
Lidia si sdraiò sul pianale del carro e Rolf
drappeggiò sopra di lei il telo di
juta. Immediatamente, un odore denso e penetrante, di polvere e di
fibre, le
invase i polmoni, e la fanciulla dovette combattere contro
l’impulso di tossire
rumorosamente. «Mi vedranno comunque» si
lamentò, con la voce soffocata dal
tessuto pesante.
«È sempre
meglio di niente» replicò Karl. «Tu stai
ferma… così abbiamo la speranza che ti
scambino per un sacco di patate o qualcosa del genere!»
Che idea cretina, pensò
Lidia, stringendo i denti e costringendosi a rimanere immobile. Non
sarebbe
forse stato meglio restare in piena vista e ostentare indifferenza? Tanto dubito che, chiunque ci sia su quel
carro automatico, mi conosca così bene da riconoscermi a
colpo d’occhio. Al
massimo me la sarei potuta mettere in testa, questa coperta…
Appoggiando
una guancia contro il legno ruvido e cercando di assorbire le
vibrazioni e i
sobbalzi del carretto come meglio poteva, la giovane romana rimase in
ascolto,
mentre il borbottio del carro automatico si avvicinava sempre di
più. Saranno dei legionari,
rifletté ancora
la ragazza. Chi altro potrebbe
permettersi una macchina del genere? Possibile che qualcuno mi stia
già
cercando? Che il Prefetto abbia scoperto che qualcosa è
andato storto e abbia
mandato i rinforzi?
Lidia
pregò ardentemente che le cose non stessero così:
se avessero incrociato gli
uomini di Caleno e quelli l’avessero riconosciuta, era
alquanto probabile che
l’avrebbero costretta a invertire ancora una volta la rotta e
a dirigersi
nuovamente verso Roma. Cosa che non ho
assolutamente intenzione di fare: non adesso che sono coì
vicina a tornare da
Ulf!
Con un
improvviso barlume di speranza, Lidia si chiese se vi fosse qualche
possibilità
che anche il Legato Libo fosse venuto a conoscenza della sua partenza
forzata
e, deciso a opporsi alle disposizioni di Caleno, avesse mandato
qualcuno a
recuperarla. Sarebbe davvero perfetto!
Così potrei tornare a Erding molto più in
fretta… e non sarei nemmeno costretta
a viaggiare con Karl!
Anche se
non aveva modo di vedere alcun ché, quando i sobbalzi del
carro si fecero meno
bruschi, Lidia comprese che Karl si stava fermando. Perché
ti fermi? Gli chiese in silenzio, premendo i polpastrelli
sul pianale del carro fino a quando non sentì le unghie
penetrare leggermente
nel legno. Vai avanti, fai finta di
niente…
Come
obbedendo al suo ordine silenzioso, Karl piegò lievemente
verso destra, forse
per permettere a chiunque ci fosse davanti a loro di passare.
«Buongiorno.»
Quel
saluto improvviso – che non era stato pronunciato da Karl
– la fece sussultare.
Dove aveva già sentito quello strano accento strascicato?
Nel momento stesso in
cui si poneva la domanda, Lidia trovava la risposta. Alexander!
Comprese sgomenta, con il cuore in gola. Subito si
ricordò ciò che Gaio le aveva detto la sera
prima: il germanico aveva promesso
di recuperare da qualche parte un carro automatico, che però
non era arrivato
in tempo per la loro partenza. Evidentemente
gliel’hanno fatto avere durante la notte! Ma
perché è in giro? Cosa sta
facendo?
Karl
rispose al saluto dell’uomo con una sorta di grugnito poco
amichevole. La
fanciulla sperò che l’ostilità del suo
accompagnatore fosse sufficiente per
scoraggiare Alexander, ma, per suo sommo orrore, il borbottio del
motore del
carro automatico cessò, indice che l’uomo aveva
spento la macchina.
«Non
riesco a passare» ringhiò Karl, in un tono che a
Lidia non piacque affatto.
«Spostatevi un po’ a sinistra.»
La ragazza
dovette compiere un notevole sforzo di volontà per impedirsi
di mettersi a
sedere e vedere con i propri occhi quello che stava succedendo. “Spostatevi”? Si
disse. Perché parla al plurale?
Alexander non è
solo?
«Certamente»
replicò educatamente l’uomo dai capelli rossi.
«Vieni da sud?» Karl attese
qualche istante, prima di rispondere, e Lidia si chiese se anche lui,
come lei,
avesse intravisto una trappola in quella domanda apparentemente
innocente. «Mi
pare ovvio» sbottò poi il germanico.
«In questo
caso», riprese Alexander, «forse ci puoi aiutare.
Stiamo cercando una ragazza:
mora, non tanto alta. Forse viaggia da sola o forse è
accompagnata da alcuni
uomini: l’hai vista, per caso?»
«Se ho
incrociato delle ragazze, non ci ho badato.» Karl aveva
risposto con prontezza
e con voce ferma, ma Lidia era talmente stupefatta da quello che aveva
appena
udito, che le parole del germanico giunsero alle sue orecchie un
po’ attutite.
Era assolutamente palese che Alexander si stesse riferendo proprio a
lei, ma,
sulle prime, la fanciulla non riuscì a comprendere come
fosse possibile che
l’uomo fosse al corrente della sua scomparsa.
Quell’interrogativo
ebbe però vita breve. «Tu vieni da Erding, non
è così? Lavori alla miniera.»
Non era stato Alexander a parlare, ma un’altra voce, fin
troppo familiare. Tito!
Pensò Lidia, mentre il sangue le
defluiva dalla faccia. Come può
essere
qui? L’ho lasciato in mezzo a un bosco, da solo, nel cuore
della notte… e noi
non ci siamo mai fermati!
In un modo
o nell’altro, il giovane romano li aveva preceduti. E non solo: ha anche fatto in tempo a raggiungere
Alexander e a dirgli
quello che è successo! Come ha fatto? Per una
frazione di secondo, la
ragazza fu tentata di balzare in piedi e di chiedere spiegazioni, ma il
buon
senso – e la mano di Rolf che, non vista, le sfiorava la
schiena – la spinse a
rimanere sdraiata sul fondo del carro, in attesa
dell’evolversi degli eventi.
«Sì.» La
voce di Karl si era fatta guardinga e in essa Lidia riconobbe
quell’accento
tagliente che gliel’aveva fatto notare le prime volte che
aveva avuto a che
fare con lui. «Tu invece sei quel ragazzino romano che
gironzola al villaggio,
ultimamente.»
No! Stai zitto, idiota!
Non far vedere che lo
conosci! Frustrata,
Lidia si morse un labbro, cercando di contenere il
nervosismo. Che motivo aveva, Karl, di far capire a Tito che sapeva chi
fosse? Rischia di attirare
l’attenzione… su di me.
«Ci siamo
già incontrati?» indagò Tito. Anche se
non aveva modo di vederlo, la fanciulla
si figurò perfettamente l’espressione sospettosa
che si era sicuramente disegnata
sul suo volto. Prima che il germanico avesse modo di rispondere, il
giovane
romano riprese a parlare. «Aspetta un attimo» disse
lentamente. «Tu non sei… tu
conosci Lidia! Hai sposato la sorella di suo marito, vero?»
Orripilata
dalla piega che stava prendendo il discorso, la ragazza trattenne il
fiato. «Ne
sei sicuro?» Era stato Alexander a parlare, e nel suo tono
cauto Lidia colse
qualcosa che la fece rabbrividire. Karl inspirò come per
dire qualcosa, ma Tito
lo precedette. «Certo, che ne sono sicuro!»
esclamò. «Me lo ricordo benissimo,
adesso: è stato il Prefetto in persona a dirmi chi fosse e a
consigliarmi di
tenerlo d’occhio… non è un tipo
raccomandabile, ed è uno di quelli che fanno
più casini, a quanto pare!»
Sebbene,
in tutta coscienza, Lidia non si sentisse di dissentire col ritratto
che Tito
aveva appena fatto del cognato, il fatto che Karl fosse stato
letteralmente schedato da Caleno e
dai suoi sottoposti
la disturbava un po’.
«Vogliamo
davvero parlare di chi è che fa più casino,
romano?» lo provocò Karl, che, evidentemente,
stava perdendo la pazienza. «Per
quanto mi riguarda, siete…» «Non
è il momento di parlare di queste cose»
intervenne bruscamente Alexander, nella sua voce
un’autorevolezza che, fino a
quel momento, Lidia non aveva mai notato. «Quello che conta,
adesso, è
ritrovare Lidia… che sembra essere sparita nel nulla in
circostanze poco
chiare.»
«Esatto»
concordò Tito, con voce un po’ roca.
«Non so perché, ma ho come il sospetto che
la sua presenza da queste parti non sia esattamente una coincidenza:
perché sei
qui, minatore?»
«La cosa
non ti riguarda» ribatté Karl, altrettanto
duramente. Accanto a lei, Lidia
avvertì Rolf vacillare lievemente, come se il ragazzino
fosse intimorito dai
toni sempre più accesi della conversazione che si stava
svolgendo davanti ai
suoi occhi.
«Tu sai
dov’è Lidia, non è
così?» insistette Tito, con voce dura.
«Dove l’hai portata?»
«Tito…»
Alexander provò nuovamente a inserirsi nella conversazione,
ma il giovane
romano non glielo permise. «Anzi, fammi un po’
vedere che cos’hai sul carro?
Che cosa trasporti?»
«Non ti
avvicinare, ragazzino» ringhiò di rimando Karl.
«Quello che trasporto è affar
mio: ti assicuro che non ci ho nascosto il corpo della tua amica, qui
sopra.»
Tecnicamente non
è una bugia,
osservò
Lidia, con una punta di sarcasmo dettato più che altro dalla
disperazione.
Quasi senza accorgersene, si ritrovò ad appiattirsi ancor di
più contro il
fondo del carro, riducendo al minimo il respiro. Per qualche istante,
ebbe
l’impressione che anche il cuore avesse preso a battere in
modo più silenzioso.
«Allora
non ti dispiacerà, se do un’occhiata.»
Le parole di Tito la fecero trasalire.
Lo conosceva abbastanza bene per poter dire con certezza che non si
trattava di
una provocazione vuota: se il ragazzo si era messo in testa che Karl
stesse
nascondendo qualcosa, non c’era modo di impedirgli di
verificare con i suoi
occhi che fosse tutto a posto. A meno che
Karl non gli impedisca di salire bloccandolo fisicamente.
Davanti ai suoi
occhi si parò l’immagine del giovane romano, tutto
sommato fragile e minuto in
confronto alla stazza imponente del germanico, che si apprestava ad
avere uno
scontro fisico con lui. No, no,
pensò
Lidia, mentre la preoccupazione per le sorti dell’amico le
serrava la gola.
«Tito,
aspetta!» Il richiamo di Alexander le confermò che
il ragazzo stava
effettivamente cercando di raggiungere il carro su cui si trovavano
Karl e
Rolf; e Lidia si trovò ad agire senza riflettere. Del resto, non voglio certo farmi scoprire qui,
nascosta come un
criminale. Sarebbe patetico, e poi non sto facendo nulla di male!
Senza che
Rolf potesse fare nulla per impedirglielo, la ragazza si mise a carponi
e, con
un gesto secco, si liberò della vecchia coperta polverosa,
incontrando subito
gli occhi di Tito che, nel frattempo, era sceso dal carro automatico.
«Lidia!»
esclamò lui, in un misto di stupore e sollievo. Per qualche
motivo, lei si
ritrovò a lottare contro una bocca improvvisamente secca.
«Ehm… ciao» abbozzò,
senza riuscire a sostenere il suo sguardo che per pochi secondi.
Mordicchiandosi
le labbra, Lidia pensò che il giovane romano avesse tutti i
motivi per avercela
con lei: l’aveva abbandonato in mezzo al nulla, lasciandolo
solo a sbrigarsela
con tutte le insidie che si nascondevano nella notte.
Il
ragazzo, però, non sembrava mostrare rancore nei suoi
confronti: sorrideva come
se il fatto di vederla viva – e sana e salva –
fosse l’unica cosa veramente
importante. C’è da dire
che Tito non lo
sa, che hai deciso di seguire Karl di tua spontanea volontà,
le fece notare
la sua coscienza, velenosa. Mi sa che, se
lo sapesse, sorriderebbe un po’ meno.
«Stai
bene?» le chiese il ragazzo, avvicinandosi a lei fino a
quando non appoggiò le
mani sulla sponda del carro. Con la coda dell’occhio, Lidia
notò la mascella contratta
di Karl e lo ringraziò in silenzio per quel briciolo di
pazienza che stava
dimostrando. La fanciulla annuì. «Sì,
sì, sto bene…» Le parole di scusa che
avrebbe voluto rivolgergli le morirono in gola e Lidia
abbassò lo sguardo sulle
proprie ginocchia, a disagio come le era capitato poche volte, quando
era stata
in compagnia di Tito.
Con il
capo chino, la giovane avvertì, più che vedere,
il cenno d’assenso rivoltole
dal ragazzo. «Meno male. E allora andiamo, su.»
Nell’udire quell’esortazione,
Lidia levò di scatto la testa.
«Andiamo?» gli fece eco, anticipando persino
Karl, che si era girato per fronteggiare meglio Tito.
Sul volto
del giovane romano si disegnò un’espressione
ancora più determinata. «Sì.
Adesso ti riporto da Alexander», disse, indicando con una
mano il germanico
ancora fermo a bordo del carro automatico, «e poi domani
ripartiamo per il
campo di Hudwill. Non so cosa sia successo esattamente a Gaio e a
Valerio, ma
ora abbiamo un carro e potremo arrivarci anche da soli,
credo.»
Lidia
rimase immobile per qualche istante, troppo incredula per reagire
immediatamente. Possibile che Tito intendesse davvero riprendere il suo
piano
lì dove l’aveva lasciato? Crede
davvero
che intenda fare marcia indietro per l’ennesima volta?
Prima che avesse
modo di dar voce a quei pensieri, però, Karl
lasciò le redini del cavallo e si
avvicinò minacciosamente al giovane romano. «Tu
non farai niente del genere»
ringhiò. «La ragazza torna a Erding. Con
me.»
Tito
irrigidì la mascella, mentre i suoi occhi sembravano farsi
ancora più scuri del
consueto. «Così che tu possa consegnarla alle
persone che hanno cercato di
ammazzarci, giusto?» lo provocò, sprezzante.
Turbata dal tono del giovane,
Lidia scosse con forza la testa. «No, lui non vuole farmi del
male. Vuole solo
riportarmi da Ulf.»
«Come fai
a esserne certa?» La voce quieta di Alexander, che la fissava
con
un’espressione preoccupata nei profondi occhi blu, distrasse
brevemente la
ragazza, che non si accorse del fatto che Tito si fosse avvicinato a
lei fino a
quando non si sentì afferrare saldamente per un braccio.
«Non lo può sapere,
ovviamente» rispose il ragazzo, al posto suo. «Ed
è proprio per questo che
verrà con noi, come avevamo deciso fin
dall’inizio.»
«Avete
deciso tutto voi» ribatté lei, cercando di
liberarsi dalla sua presa, invano.
«Io avrei preferito restare al villaggio, ma non mi avete
lasciato scelta.»
«Lasciala
andare. Ci stai facendo perdere fin tropo tempo»
ringhiò Karl. Il suo volto era
talmente tirato che Lidia temette che il cognato fosse sul punto di
esplodere e
di perdere il controllo – tutto sommato sorprendente
– che aveva dimostrato
fino a quel momento. «Tito, lasciami andare»
rincarò allora la dose la
fanciulla. «Mi stai facendo male.»
«Cerca di
ragionare» la esortò il ragazzo, senza allentare
minimamente la presa. «Io ho
cercato di rispettare la tua volontà, ma non posso
permettere che tu ti esponga
a dei rischi inutili così, proprio sotto ai miei
occhi.»
«Tito…»
riprovò ancora la ragazza, ma le parole le morirono in gola
quando, con la coda
dell’occhio, vide Karl balzare in piedi e poi giù
dal carro, in un unico
movimento fluido. Il cuore prese a martellarle in gola e Tito
sgranò gli occhi,
sorpreso dal movimento del germanico. Un secondo più tardi,
l’uomo gli fu
addosso e lo afferrò per la collottola, tirandolo indietro
così bruscamente
che, prima che lasciasse andare il suo braccio, il ragazzo
rischiò di
trascinare con sé anche Lidia. «Ti ho detto di
lasciarla andare e di sparire!»
fece ancora Karl, con la voce carica di minacce.
Quando
Tito si voltò per fronteggiarlo, la ragazza sentì
il proprio cuore perdere un
battito. Istintivamente si lanciò giù dal carro,
rendendosi solo vagamente
conto del fatto che Alexander si era mosso quasi in perfetta sincronia
con lei.
Distratto dal movimento che avvertì alle sue spalle, Karl si
voltò a guardarla.
«Torna sul carro» le intimò, piantando
gli occhi nei suoi. Approfittando della
distrazione dell’avversario, Tito si mosse così
rapidamente che Lidia si
accorse che il giovane si era nuovamente avvicinato a lei solo nel
momento in
cui le sue dita trovarono una seconda volta il suo polso.
«Non ci pensare
nemmeno» le intimò, cercando di tirarla a
sé.
«Forse
potremmo…» Alexander tentò di dire
qualcosa che potesse calmare un poco gli
animi, ma, di punto in bianco, i due uomini lo ignorarono e si
scagliarono
l’uno sull’altro. Karl afferrò il
ragazzo più giovane e, come aveva fatto anche
in precedenza, lo tirò con forza via da Lidia, rimediandosi
così un pugno che
lo fece imprecare. Prima che Tito potesse attaccarlo di nuovo, il
germanico gli
torse dolorosamente il braccio dietro la schiena, costringendolo a
ripiegarsi
su se stesso con un gemito di dolore.
«Smettetela!»
gridò Lidia, facendo per inserirsi tra di loro nel tentativo
di separarli.
Prima che riuscisse a raggiungerli, però, Alexander le
circondò la vita con un
braccio, tirandola contro il proprio corpo. «Stanne
fuori» le disse.
La giovane
piegò il collo all’indietro e vide che il
germanico fissava con occhi
preoccupati i due uomini, senza tuttavia accennare a mollare la presa
che aveva
su di lei, né a fare qualcosa per separarli.
«Finiranno col farsi male»
gemette, preoccupata. «Lo so», mormorò
amaramente lui, «ma non è il caso che ci
vada di mezzo anche tu.»
In un
qualche modo, Tito riuscì a liberare il braccio dalla presa
del germanico, ma
subito quello lo afferrò per il bavero e lo
strattonò come per gettarlo a
terra. Puntando i piedi contro il terreno erboso, il giovane romano
riuscì a
sbilanciare l’avversario, sospingendolo bruscamente verso i
pochi alberi che
crescevano sulla sinistra del sentiero. «Attenti!»
gridò Lidia, divincolandosi
nella presa di Alexander. L’uomo la tenne stretta, passandole
più saldamente il
braccio attorno alla vita, e la fanciulla si voltò verso di
lui, angosciata. «C’è
un salto, lì sotto. Se non stanno
attenti…»
«Resta qui»
le disse lui, sporgendosi per guardarla negli occhi. Lidia
corrugò la fronte,
confusa e spaventata. «Ma…»
«Cerco di
calmarli», mormorò Alexander, «ma tu
devi promettermi di restartene qui buona,
senza più cercare di metterti in mezzo. Non voglio dovermi
preoccupare anche
per te, d’accordo?» Con gli occhi offuscati dalle
lacrime, Lidia annuì e
indietreggiò fino ad appoggiarsi, tremante, al tronco di un
frassino che
cresceva sul lato opposto della strada. Con l’angoscia che le
mozzava il fiato,
la fanciulla percorse con i polpastrelli la corteccia liscia
dell’albero,
cercando inconsciamente conforto nella solidità del legno.
Una volta
che si fu assicurato che la ragazza sarebbe rimasta al proprio posto,
il
germanico si avvicinò con circospezione agli altri due
uomini, alzando le mani
come per dimostrare il suo intento pacificatore. Dalla sua posizione,
Lidia
vide gli occhi dell’uomo balenare tra i due giovani e il
precipizio che si
apriva a pochi metri di distanza, valutando forse un modo rapido per
dividerli
e allontanarli dal pericolo. Proprio quando parve sul punto di prendere
una
decisione e muovere un passo nella loro direzione, Karl cadde su un
ginocchio
con un gemito di dolore. «Tito, no!»
L’esclamazione
di Alexander fece balzare il cuore in gola a Lidia e, in preda a un
capogiro,
la ragazza si trovò a scivolare a terra. Anche se la
distanza e la vegetazione
bassa che la separava dai tre uomini non le permettevano di scorgere i
particolari, la fanciulla vide che, inaspettatamente, nella mano di
Tito era
spuntato un coltello dalla lama insanguinata. Oh,
no, pensò, sconvolta, mentre un presagio funesto
calava su di
lei e le faceva comprendere per la prima volta quanto grave fosse la
situazione.
Prima che
il giovane romano potesse colpire di nuovo l’avversario,
Alexander di lanciò su
di lui, cercando di immobilizzarlo. In quello stesso istante,
però, Karl si
rimise in piedi e, anche se il suo volto si era fatto pallido e il
dolore
distorceva i suoi lineamenti, strinse le mani sulle spalle del ragazzo,
sospingendo sia lui che Alexander verso la ripida vallata creata dal
fiume.
Senza lasciare a nessuno il tempo di fermarlo, Tito si
divincolò, facendo
saettare la mano che stringeva il coltello e ferendo il braccio di
Alexander
che, di riflesso, lasciò la presa. Con un unico, rapido
movimento, il giovane
colpì di nuovo Karl, facendolo vacillare, mentre una macchia
scura si allargava
sui suoi vestiti attorno al punto in cui era affondata la lama.
L’uomo
cadde a terra, ma, così facendo, afferrò gli
abiti del ragazzo e lo trascinò
con sé. Tito urtò violentemente il terreno umido
con una spalla e perse la
presa sull’arma che ancora stringeva in mano. I movimenti dei
due si fecero
confusi e la fanciulla, il cui sguardo si faceva via via sempre
più appannato a
causa delle lacrime e del terrore che le annebbiava i sensi, non
riuscì più a
scorgere quello che stava accadendo: sentì solo il grido di
Alexander e poi,
senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a volare verso il
germanico.
Quando lo
raggiunse, vide che l’uomo era inginocchiato a terra molto
più vicino al dirupo
di quanto si sarebbe aspettata. Tenendosi ancorato al terreno con una
mano, Alexander
stringeva con l’altra il polso di Tito, impedendogli di
scivolare giù per la
ripida scarpata. Senza pensarci due volte, la ragazza si
lasciò cadere a terra
accanto a lui: ignorando il dolore al ginocchio, si sporse a sua volta
in direzione
del giovane romano, stringendo tra i pungi la stoffa della sua maglia e
aiutandolo a issarsi in una posizione più sicura. Quando
Tito non si trovò più
in pericolo di scivolare di sotto, la fanciulla si guardò
attorno. Dov’è Karl?
In preda a
uno strano senso di estraniamento, la giovane si sporse verso il fiume
che
scorreva in fondo al burrone, quasi senza sentire le mani di Alexander
che la
afferravano per le spalle e la costringevano a ritrarsi: diverse decine
di
metri più in basso, dopo un piccolo salto di roccia, Lidia
scorse il corpo
immobile dell’uomo. «No!»
esclamò, in preda all’orrore. «Dobbiamo
aiutarlo!»
«Lidia»,
la richiamò Alexander, con voce morbida, «non
c’è niente che possiamo fare, per
aiutarlo.» La fanciulla si voltò verso di lui con
gli occhi sgranati,
rifiutandosi di accettare l’evidenza che il germanico le
stava presentando.
«Non è vero» lo contraddisse, con voce
strozzata. «Possiamo… possiamo scendere,
un po’più avanti! Non possiamo lasciarlo
lì, ha bisogno di essere aiutato,
curato!»
Le labbra
di Alexander si piegarono in una curva amara, mentre l’uomo
scuoteva mestamente
la testa. «Ha fatto un volo di più di dieci metri
ed è finito sulle rocce: se
non è morto, lo sarà presto. Perdeva parecchio
sangue» aggiunse, lanciando
un’occhiata di soppiatto a Tito, che sembrava come congelato
nella posizione in
cui l’avevano lasciato.
Lidia
guardò ancora verso il punto in cui Karl era caduto,
seguendo con gli occhi i
contorni del suo corpo in una sorta di macabra fascinazione. Anche se
la parte
più razionale della sua mente le sussurrava che Alexander
aveva ragione e che
non c’era assolutamente modo che il cognato potesse
sopravvivere a una caduta
del genere, c’era qualcosa, nel profondo del suo animo, che
si ribellava alla
prospettiva di abbandonarlo lì, sulla roccia fredda. Vivo o
morto che fosse.
«Non fa niente» insistette, cercando di ingoiare il
nodo che aveva preso a
stringerle la gola. «Voglio scendere comunque. Non possiamo
lasciarlo lì.»
Con quelle
parole, Lidia fece per dirigersi verso il punto in cui le pareva che la
scarpata fosse meno impervia, ma le mani di Alexander strinsero la
presa sulle
sue spalle. «Non possiamo scendere senza attrezzatura. Ci
servirebbe una corda,
come minimo. Dei rinvii.» La ragazza lo guardò
boccheggiando, troppo scioccata
per capire quello che l’uomo stava dicendo, e lui ne
approfittò per trascinarla
via dall’orlo del precipizio. «Mi dispiace, ma non
possiamo rischiare di
romperci l’osso del collo. Un morto basta e avanza. So che
non è facile, ma
devi andare avanti.»
Quell’ultima
osservazione suscitò nella ragazza un moto di ribellione. È appena morto!
Pensò confusamente, mentre la rabbia le infiammava
lo stomaco. Come fa a dire che devo
andare avanti? È troppo presto! Lidia si
voltò verso il germanico,
intenzionata a controbattere, ma qualcosa, nella sua espressione
distante e stanca, dissolse la sua
rabbia: al suo
posto, la giovane avvertì soltanto smarrimento, angoscia e
un’intuizione che
scivolò via prima che lei potesse afferrarla.
«Cosa dirò a sua moglie?»
pigolò
allora, a corto di parole. «Cosa dirò a
Ulf?»
Alexander
fece per rispondere, ma le parole sembrarono morirgli in gola, mentre
l’uomo
abbassava gli occhi a terra. «Non lo so» ammise
cupamente. «È stato un
incidente.»
Non è vero
che è stato un incidente, pensò la
fanciulla, mentre lo stomaco le si contraeva in una stretta dolorosa.
Se era
vero che era stata la fatalità a far sì che Karl
scivolasse giù dalla scarpata
e cadesse nel canyon creato dal fiume, era altrettanto vero che era
stato Tito,
ad attaccarlo per primo. Ad
accoltellarlo.
Spostando
la sua attenzione sul giovane romano, Lidia avvertì una
nuova preoccupazione
nascere in lei. Malgrado tutto – malgrado la sua
volontà di allontanarla da
Erding e malgrado quello che aveva appena fatto – lei
continuava a voler bene a
Tito. Con una punta di stupore, si rese conto di sentirsi persino
responsabile
per lui, forse perché, se non fosse stato per lei, il
ragazzo non avrebbe mai
abbandonato Roma per recarsi in Germanica. Se già prima le
speranze che il
giovane fosse ben accetto dalla sua nuova famiglia erano estremamente
esili,
dopo la morte di Karl esse erano assolutamente inesistenti.
Non posso non
raccontare a Unna e a Ulf quello
che è successo. Hanno il diritto di sapere. Soprattutto
Unna… e il bambino.
Anche se
il solo pensiero di raccontare ai gemelli – e
a Gefrid! – la dinamica dei fatti le faceva tremare
le gambe, Lidia era
terribilmente consapevole di non poter fare altrimenti. E
allora, chi può dire come reagiranno?
Tito
sarebbe stato al sicuro, una volta che la sua responsabilità
nella morte di
Karl fosse stata chiara a tutti? Be’,
immagino che lui possa sempre chiedere protezione
all’accampamento militare:
scommetto che Caleno sarebbe ben felice di concedergliela. Improvvisamente,
un altro pensiero le balenò in testa. E
io? Sarò al sicuro, io? L’espressione
gelida di Unna le si presentò davanti
agli occhi e Lidia sentì il proprio cuore mancare un
battito, mentre una
sincera preoccupazione per la reazione della cognata le mozzava il
fiato.
Fu la voce
di Alexander a riscuoterla da quei pensieri e a riportarla al presente.
«Dov’è
finito il ragazzo?»
Quale ragazzo? Fu la
prima domanda che attraversò la mente di Lidia, ma, una
frazione di secondo più
tardi, la giovane si riscosse. Rolf!
Comprese, improvvisamente consapevole che era da parecchio tempo che
aveva
perso di vista il nipote di Karl. Dov’è
sparito?
«Non lo
so» replicò, incerta. Lidia fece saettare lo
sguardo tutto attorno a sé, alla
ricerca di un qualche segnale che potesse rivelare la posizione del
ragazzino,
ma Rolf sembrava essere scomparso nel nulla. «È
scappato, presumo» concluse,
poi, stringendosi nelle spalle in preda allo sconforto.
Alexander
espirò lentamente dal naso. «Preferirei
ritrovarlo» mormorò, con una smorfia
preoccupata. «Ha visto chiaramente quello che è
successo: il fatto che sia in
giro a piede libero mi piace poco.» Lidia aggrottò
la fronte, turbata.
«Perché?» indagò, con un
tremito quasi impercettibile nella voce. «Che cosa
vorresti fargli?»
Il
germanico le rivolse uno sguardo teso. «Niente di male,
ovviamente. Io non me
la prendo di certo con i bambini. È solo che preferirei
tenerlo d’occhio per un
po’: è spaventato; e non vorrei che andasse a
parlare con le persone
sbagliate.»
Lidia
annuì in silenzio. L’adrenalina che
l’aveva sostenuta fino a quel momento stava
rapidamente scemando, lasciando il posto a un sentimento opprimente e
appiccicoso che la faceva annaspare alla ricerca di ossigeno. Quando
spostò il
peso sul ginocchio destro, la ragazza sussultò mentre il
dolore dovuto alla
caduta, dimenticato per qualche tempo, tornava a farsi sentire. La sua
smorfia
non sfuggì ad Alexander, che le si avvicinò di un
passo. «Sei ferita?» le
chiese. Dalla sua espressione preoccupata, Lidia comprese che il
germanico
temeva che, in un modo o nell’altro, lei si fosse fatta male
durante la
colluttazione di poco prima, quindi scosse la testa.
«È solo una storta. O una
botta. Sono scivolata lungo il sentiero.»
Il dolore
acuto che ancora si riverberava nella sua gamba ebbe
l’effetto di distoglierla
dalle preoccupazioni che non riguardavano l’immediata
contingenza in cui si
trovava. In particolare, si rese conto che Tito era ancora nella stessa
identica posizione in cui lei e Alexander l’avevano lasciato
ormai diversi
minuti prima. Non sarà mica
ferito, vero?
Si chiese la fanciulla, mentre una preoccupazione improvvisa la
assaliva.
Anche se
la morte del cognato la turbava – e la spaventava
– più di quanto avrebbe potuto immaginare fino al
giorno prima, doveva
riconoscere che non c’era più nulla che potesse
fare per lui: ora non le
restava che prendersi cura di Tito. Se da un lato il suo subconscio
continuava
a ripeterle che il giovane romano si trovava dalla parte del torto
– era stato
lui a uccidere Karl –
Lidia doveva
riconoscere che il ragazzo era anch’esso una vittima, a modo
suo. L’ha fatto solo per
difendersi. Per
difendermi.
Avvicinandosi
a Tito quasi in punta di piedi, la fanciulla si accovacciò
accanto a lui,
stringendo i denti contro il dolore che le si irradiò dal
ginocchio. «Ehi. Stai
bene?» gli chiese, cercando di adottare il tono
più morbido che le riuscisse in
quelle circostanze. Quando un’ombra calò su di
lei, Lidia scoccò un’occhiata
alle proprie spalle e vide che Alexander le si era avvicinato in
silenzio e
restava fermo a poco più di un metro di distanza da lei,
quasi volesse
concederle una certa privacy, ma, allo stesso tempo, volesse essere
certo di potere
intervenire in tempo nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.
La ragazza
quasi sorrise, di fronte alla premura del germanico. Come
se ci fosse il bisogno di difendermi da Tito!
Pensò, con una
punta di amaro divertimento. Il ragazzo non sarebbe mai stato capace di
farle
del male, di questo ne era certa. Però
eri anche certa che non avrebbe mai portato con sé un
coltello, né, tanto meno,
che sarebbe stato capace di usarlo per uccidere una persona…
non è così? Le
sibilò la sua coscienza, facendole trattenere il respiro per
una frazione di
secondo.
Ma no.
Conosceva Tito e sapeva che da lui non aveva nulla da temere. Non in
quelle
circostanze, quantomeno. «Tito?» ripeté,
quando vide che il giovane non dava
cenno di aver sentito la sua prima domanda. Nell’udire il
proprio nome, il
ragazzo si riscosse e alzò su di lei due grandi occhi scuri
insolitamente
vuoti. Sul suo viso, Lidia lesse una tale disperazione e un tale senso
di
smarrimento che gli occhi le si riempirono di lacrime e la gola le si
serrò.
Impulsivamente, la ragazza fu tentata di abbracciarlo per dargli
conforto, ma
si impedì di farlo: anche se confusamente, avvertiva di
dover dosare con
attenzione le proprie reazioni. Doveva evitare di fare dei gesti che, a
caldo,
le sarebbero potuti sembrare giusti e sensati, ma di cui si sarebbe poi
pentita
in un secondo momento.
Davanti
allo sguardo del ragazzo, la fanciulla si sentì allora
indifesa e impacciata,
incerta su come comportarsi e accolse con sollievo
l’inaspettato intervento di
Alexander. Avvertendo forse l’imbarazzo della giovane,
l’uomo la raggiunse e si
chinò su Tito, passandogli un braccio attorno alle spalle.
«Ce la fai ad
alzarti?» gli chiese, con un tono più spiccio di
quello che Lidia si sarebbe
aspettata.
Il giovane
romano sbatté più volte le palpebre, come
ridestandosi da un sogno – o da
un’allucinazione – poi annuì.
«Sì» fece, con voce un po’
roca. «Sei ferito?» lo
interrogò ancora Alexander. «Ti fa male
qualcosa?»
Il ragazzo
si portò una mano alla tempia. «La
testa» mormorò, quasi in trance. Lidia gli
si avvicinò di un passo, passando rapidamente in rassegna al
suo capo alla
ricerca di tracce di sangue. «L’hai
battuta?» indagò, preoccupata. Tito fece un
cenno di diniego. «No. Mi fa male la testa»
ripeté, senza incontrare lo sguardo
della ragazza.
Lidia
aggrottò la fronte, confusa, ma Alexander mosse una mano
come per chiederle di
non insistere. «Credo che sia sotto shock. La cosa migliore
è riportarlo a casa
mia, almeno per stanotte: ha bisogno di riposarsi; e tu devi mettere
qualcosa
su quel ginocchio, a giudicare da come zoppichi.»
Quel
cambiamento dei piani – imprevisto, anche se forse
inevitabile – mise immediatamente
in allarme la ragazza. «No, io… io devo essere a
Erding entro questa sera»
protestò, inciampando nelle parole. Alexander le rivolse
un’occhiata scettica.
«Sì? E per fare cosa?» Lidia
boccheggiò. «Per… per dire a Ulf quello
che è
successo. E anche a Unna, la moglie di Karl.»
Il
germanico scosse la testa con decisione. «Non mi pare una
buona idea» decretò.
«Ovviamente dovremo spiegare a tutti quello che è
successo, ma non oggi. Sei
troppo scossa; e sei stanca: riposati, per questa notte, e domani
affronteremo
la faccenda a mente fresca.» La giovane corrugò la
fronte. «Affronteremo?»
ripeté, senza capire.
Alexander
le rivolse un piccolo sorriso. «Be’, sì:
non me la sento, di scaricarvi per
strada come se nulla fosse. Mi siete capitati tra capo e collo, non
dico di no,
ma adesso mi sento responsabile per voi.» Davanti a
quell’ammissione, Lidia si
accigliò. «Non ce n’è alcun
motivo. Non ho bisogno di un protettore… posso
affrontare le conseguenze da sola» proclamò, anche
se il solo pensiero le
provocò un capogiro.
«Non lo
metto in dubbio» replicò l’uomo, ancora
con un mezzo sorriso. «Ma cosa mi dici
di Tito? Credi davvero che possa percorrere da solo la strada che porta
al tuo
villaggio? Non sono sicuro che sia in grado di reggere i sensi di
colpa.»
Lidia
soppesò con lo sguardo il giovane romano. Il ragazzo era
visibilmente scosso e
provato, eppure, qualcosa nel fondo della sua mente, metteva in dubbio
che Tito
si sentisse veramente in colpa per avere ucciso Karl. Dopotutto,
non sono convinta che l’abbia fatto apposta: l’ha
attaccato
per difendermi, non per ucciderlo… credo. E,
soprattutto, non riusciva a
togliersi dalla testa l’astio e il disprezzo con cui il
giovane si era rivolto
a Karl – un sentimento che forse il ragazzo provava per
l’intero popolo germanico,
se aveva interpretato correttamente i suoi discorsi.
Tuttavia,
non sentendosi in grado di interpretare correttamente i pensieri che in
quel
momento stavano attraversando la testa di Tito, Lidia
preferì soprassedere su
quel particolare. «E allora cosa farai?» chiese,
tornando a rivolgersi ad
Alexander. «Ci accompagnerai a Erding, e poi? Farai avanti e
indietro in
giornata? Non è un viaggio troppo lungo?»
Il
germanico esitò. «Credo che potrei approfittarne
per scambiare due parole con
Erin» mormorò. Lidia gli scoccò
un’occhiata sorpresa: non era certamente la
spiegazione che si era aspettata. «Erin? Intendi Donna Erin? Ovvero la nostra
Sacerdotessa?»
Alexander
si strinse nelle spalle. Forse era solo un’impressione, ma a
Lidia quel gesto
sembrò tradire un certo imbarazzo. «Sì,
proprio lei» confermò però
l’uomo, con
voce neutrale. «Non ci vediamo spesso, ma ci conosciamo da
diversi anni. È
sempre bene informata su tutto quello che avviene nella regione e,
visto tutto
quello che sta succedendo, mi piacerebbe avere qualche
aggiornamento.» Lidia si
rigirò in testa quella spiegazione, pensando che aveva
senso, ma, prima che
potesse aggiungere altro, Alexander si chinò nuovamente su
Tito e, afferrandolo
saldamente per le spalle, lo esortò ad alzarsi. Il ragazzo
sembrava leggermente
più padrone di sé, adesso, e si sciolse dalla
presa del germanico. «Ce la
faccio» mormorò, senza alzare lo sguardo da terra.
«Va bene»
annuì Alexander. «Allora andiamo. Salite pure sul
carro automatico. Sai a chi
appartiene quello su cui stavi viaggiando tu, Lidia?»
«Non lo
so. Karl l’aveva… l’aveva rubato da
qualche parte» replicò, con la bocca secca.
Dunque lo stavano facendo veramente: stavano davvero andandosene via,
abbandonando il corpo di Karl in fondo a una gola, alla
mercé degli elementi e
degli animali selvatici. Sebbene stesse cercando di convincersi del
fatto che
non avevano alternative, non poteva fare a meno di pensare che quella
decisione
fosse profondamente sbagliata.
«E allora
lasceremo che il cavallo ritrovi il suo padrone» fece il
germanico, ignorando –
o scegliendo di ignorare – il turbamento della fanciulla.
Così dicendo, sciolse
i finimenti del cavallo ancora legato al vecchio carro sottratto a
qualche
contadino della zona; e a Lidia non rimase altra scelta che montare sul
carro
automatico al fianco di Tito.
Quando,
dopo qualche istante, la macchina si mise in marcia, il suo stomaco era
talmente contratto dallo smarrimento e dai sensi di colpa che la
giovane si
credette sul punto di vomitare.
***
Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 18 Luglio
Quando il profilo ormai famigliare
della miniera d’argento si stagliò davanti a lei,
Lidia affondò nervosamente le
unghie nella gommapiuma che rivestiva i sedili del carro automatico.
Non era
stata tanto in ansia nemmeno il giorno in cui era giunta per la prima
volta a
Erding accompagnata dai suoi genitori: all’epoca, infatti,
sapeva di non avere
nulla di cui rimproverarsi. A differenza
di adesso. Adesso ci sono un sacco di cose che, volendo ben vedere, si
potrebbe
dire che siano successe per colpa mia…
Inspirando a fondo e poi rilasciando
l’aria in un sospiro tremulo, la fanciulla notò
che i suoi compagni non
sembravano condividere del tutto la sua inquietudine. Anche se non lo
conosceva
abbastanza bene per giudicare i suoi stati d’animo, Alexander
pareva piuttosto
tranquillo. Anzi, a giudicare dall’espressione del suo volto,
il germanico
sembrava quasi annoiato, come se
l’imminente incontro con Donna Erin non lo preoccupasse
minimamente. Il che è abbastanza
strano: a parte Caleno,
mi sembra che la gente sia sempre abbastanza tesa, quando deve trattare
con
lei.
Quel particolare la incuriosiva: la
sera prima, Lidia aveva cercato di indagare e capire meglio quale tipo
di
rapporto esistesse tra Alexander e la Sacerdotessa, ma lui era stato
molto
vago, facendole chiaramente capire di non gradire la conversazione. Il che, probabilmente, dovrebbe farmi
dubitare della sua affidabilità, pensò
la ragazza, osservandolo con la coda
dell’occhio. Anche se gli avvenimenti del giorno prima
avevano fatto passare in
secondo piano tutto il resto, ora che era a un passo dal rimettere
piede al
villaggio, Lidia vedeva riemergere tutti gli antichi sospetti che aveva
nutrito
– incoraggiata da Ulf, naturalmente – a proposito
delle intenzioni di Donna
Erin e dei Sacerdoti in generale.
La
questione più importante, comunque non è quello
che ha in mente Alexander: mi
preme più capire cosa ha intenzione di fare Tito…
Quasi le avesse letto nel pensiero, il
ragazzo si voltò a guardarla. «Io rimango
dell’idea che sarebbe meglio andare
al campo militare» disse, incrociando le braccia davanti al
petto. «No» fu
l’immediata replica di Alexander. «Ne abbiamo
già parlato: prima di tutto,
andremo da Erin e sentire cosa ha da dirci. Poi, se vorrete e se non ci
saranno
controindicazioni, potrete anche andare dal Prefetto.»
Lidia alzò gli occhi al cielo,
pregando ferventemente che i due uomini non riprendessero a discutere
come
avevano fatto per ore la sera prima. «Fate come
volete» sbuffò. «Andiamo dalla
Sacerdotessa, se proprio dobbiamo: poi, però, io vado a
casa. Mio marito
dovrebbe essere già tornato e non mi sembra proprio il caso
di perdere
dell’altro tempo. Devo andare da lui.»
Tito le lanciò un’occhiata
truce, ma
non replicò. Inconsciamente, Lidia si morse le labbra,
mentre un nuovo brivido
di apprensione le scivolava lungo la schiena. Le cose erano
già abbastanza
complicate così com’erano e lei non aveva
assolutamente bisogno che il giovane
romano ricominciasse ad avanzare pretese sul suo futuro.
Il giorno prima, mentre Alexander li
riaccompagnava alla sua casa in mezzo ai boschi, il ragazzo era stato
estremamente silenzioso. Aveva percorso l’intero viaggio
chiuso in se stesso –
quasi ripiegato su se stesso,
anche
fisicamente. Anche se Lidia aveva rispettato e compreso il suo bisogno
di
venire a patti con quello che aveva fatto, era stata sinceramente
preoccupata
per l’ostinato mutismo del giovane. Si era sentita inutile,
senza alcuna idea
di cosa fare, né di quali cupi pensieri stessero
attraversando la mente di Tito
in quel momento.
Era stato solo durante la cena,
diverse ore dopo, che il ragazzo aveva iniziato a dare segni di
ripresa. Poco
alla volta, si era fatto più loquace e aveva preso a porre
domande e a chiedere
ad Alexander come intendeva muoversi, il che aveva poi condotto alla
discussione circa l’opportunità di recarsi da Erin
piuttosto che dal Prefetto.
Però
non ha mai detto nulla a proposito da Karl, ricordò Lidia, con una smorfia. Se
lo guardava attentamente, vedeva che Tito non era ancora veramente se
stesso,
capiva che c’era ancora qualcosa che lo turbava:
cionondimeno, le pareva che il
ragazzo si stesse lasciando alle spalle la morte di Karl fin troppo
velocemente… cosa che lei non riusciva a fare.
Quando lo shock iniziale si era un po’
affievolito, Lidia aveva passato una notte insonne, cercando di mettere
le cose
in prospettiva. Anche se il cognato si era rivelato un alleato
inaspettato, la
sua mente aveva iniziato a ricordarle tutti i motivi per cui lei e Karl
non
erano mai andati d’accordo. Lui
odiava i
romani, si era detta, ricordando tutte le occasioni in cui
l’uomo aveva
dato sfoggio dell’insofferenza che provava nei confronti
della sua gente. Non mi ha mai vista per
quello che sono
veramente: mi ha sempre odiata solo perché sono nata a Roma.
Come se questa
fosse una colpa; o una cosa che ho scelto.
Aveva
suggerito a Ulf di uccidermi,
aveva ricordato, ancora. Non mi conosceva
nemmeno e già pensava a un
modo per farmi fuori. E scommetto che non ha mai cambiato veramente
idea.
L’altro giorno mi ha spaventata, e mi ha fatto male.
Non
era un mio amico. Non lo sarebbe mai stato.
Erano stati quei pensieri, la sera
prima, a farle capire una cosa: il trauma che aveva avvertito non era
legato
tanto alla morte di Karl in sé, quanto piuttosto a tutte le
ripercussioni che
quella vicenda avrebbe avuto sul suo futuro e sui rapporti con le
persone a cui
voleva bene. Karl non mi è mai
piaciuto
ed è probabile che in futuro mi avrebbe dato un mucchio di
problemi. Però ho
paura che i problemi che mi causerà da morto saranno ben
peggiori di quelli che
mi avrebbe potuto causare da vivo.
Unna, per prima cosa, non l’avrebbe
mai perdonata. Su questo non ci sono
dubbi. Anche se non era mai riuscita a capire quanto profondo
fosse l’amore
tra la cognata e suo marito, era evidente che i due fossero fortemente
legati e
che, in un certo senso, Unna trovasse in Karl un appoggio, un punto di
riferimento.
Senza contare il fatto che tra poco
nascerà il loro bambino, ovviamente. Un bambino
che ora Unna avrebbe dovuto
crescere da sola, senza un padre.
E
nemmeno Ulf mi perdonerà facilmente. Perché Karl era il suo migliore
amico sin dall’infanzia e perché i due avevano
condiviso più di una semplice
amicizia. Come mi sentirei se lui avesse
provocato la morte di Lucilla? Sarebbe una cosa che riuscirei a
superare?
Lidia non riusciva a figurarsi le
reazioni di Gefrid, di Donna Edda, di Hermann, ma era certa che non
sarebbero
state particolarmente morbide. Se non con
me, quantomeno con Tito. Il ragazzo correva veramente qualche
pericolo? Oh, forse sarebbe davvero meglio
accompagnarlo dal Prefetto Caleno. Il militare aveva a cuore
il benessere
dei suoi concittadini e, con lui, Tito sarebbe probabilmente stato
più al
sicuro che non con la Sacerdotessa.
Era comunque ormai troppo tardi per un
cambio di rotta: mentre era immersa in quei pensieri, il carro
automatico aveva
raggiunto il villaggio e, borbottando, aveva imboccato la strada che
conduceva
all’abitazione di Donna Erin. Con una morsa allo stomaco,
Lidia osservò le
abitazioni famigliari e vide qui e là qualche viso noto.
Istintivamente, di
allontanò un po’ dal finestrino nel timore di
incrociare lo sguardo di Ulf o di
qualche altro membro della sua famiglia. Non
voglio che mi vedano qui, in compagnia di Tito e di Alexander. Voglio
potergli
parlare: non voglio che si facciano idee strane.
Dopo pochi minuti, il carro si fermò
davanti alla casetta bianca che Lidia stava ormai imparando a conoscere
bene.
«Erin abita ancora qui, giusto?» si
informò Alexander, percorrendo con gli
occhi i muri immacolati. Lidia annuì.
«Sì» confermò. «Ci
ha convocati qui
giusto un paio di giorni fa…» La ragazza
lasciò sfumare la frase, mentre,
improvvisamente, si accorgeva di non aver parlato di un particolare
forse
importante. In occasione della sua ultima visita, Donna Erin non era
stata
sola: con lei c’era Fratello Kay.
La fanciulla socchiuse le labbra,
tentata di informare Alexander della visita del giovane sacerdote dalla
pelle
scura, ma il germanico era già sceso dal carro e si stava
dirigendo verso la
porta. «Voi restate qui» disse, rivolgendosi ai due
romani. «Preferisco
avvertire Erin della nostra visita, poi vi farò
entrare.» Lidia e Tito si
scambiarono un’occhiata perplessa, ma non commentarono.
Meno di un minuto più tardi, Alexander
fece ritorno, la fronte contratta in un’espressione confusa.
«Siete sicuri che
abiti ancora qui?» chiese. «La porta è
aperta, ma in casa sembra non esserci
nessuno.»
Scesa dal carro, Lidia si strinse
nelle spalle. «Be’… sarà
uscita. Non c’è nemmeno Susi? La ragazzina che
abita
con lei?» L’uomo scosse il capo. «Ho
provato a chiamare, ma non è comparso
nessuno. E… la casa è spoglia. Non mi pare di
aver visto alcun oggetto che
possa appartenere a lei.»
Per qualche motivo, quell’informazione
fece comparire un piccolo nodo di paura nel petto di Lidia. Donna Erin
c’era
sempre. Era ovunque, all’interno del villaggio. Sapeva tutto,
era sempre
presente: non poteva essere sparita nel nulla, nel giro di un paio di
giorno.
«Forse… forse potremmo controllare un
po’ meglio?» Alexander sollevò le
spalle.
«Controlliamo un po’ meglio»
acconsentì, in tono poco convinto.
Quando anche Tito li ebbe raggiunti a
terra, i tre si diressero nuovamente verso l’abitazione e,
una volta che vi
furono entrati, Lidia vide che il germanico aveva ragione. Era cambiato
tutto.
La casa non era esattamente vuota,
non sembrava disabitata, ma pareva che tutte le suppellettili inutili
fossero
state rimosse, lasciando soltanto lo stretto necessario.
«Dove sono finiti i soldati?»
Lidia inspirò bruscamente. Era stato
Tito a parlare e a farle notare un’altra enorme differenza
rispetto all’ultima
occasione in cui aveva messo piede in quel luogo: non vi era
più alcuna traccia
dei numerosi legionari che avevano affollato quei locali in occasione
del suo
colloquio con Fratello Kay. Lidia boccheggiò.
«Ah… non lo so.»
«C’erano dei soldati,
qui?» li
interrogò Alexander, cercando i loro occhi. Tito
annuì. «Sì. Suppongo che la
Sacerdotessa li avesse raccolti per garantire la propria sicurezza.
Pare che ci
sia molto malcontento, in paese, e non escludo che si sentisse
minacciata da
qualcuno…»
Il germanico sospirò e lasciò
scorrere
lo sguardo tutto intorno a sé. «Non vorrei che
fosse successo qualcosa di
brutto, qui…» mormorò.
«Non è successo nulla di
brutto, ma
voi non dovreste essere qui.»
Lidia sobbalzò e, voltandosi di
scatto, si trovò davanti a Fratello Kay, fermo ai piedi
delle scale che
conducevano al piano superiore. Il Sacerdote, impassibile come suo
solito, li
fissava con i suoi occhi neri, aspettando una loro reazione. Il primo a
riprendersi fu Alexander. «E tu chi sei?» chiese,
assottigliando gli occhi.
«Kay, confratello dell’ordine
degli
Alti Sacerdoti germanici.» Alexander sollevò
elegantemente un sopracciglio.
«Kay… cosa?» insistette, attirandosi
l’occhiata confusa di Lidia.
«Jonathan
Kay» replicò il Sacerdote, in tono basso,
sostenendo lo sguardo del germanico.
Quello spalancò gli occhi, come se, improvvisamente, la
situazione gli fosse
divenuta più chiara. «Oh! Capisco. Io sono
Alexander…» «Sì,
sì, lo so chi sei»
tagliò corto Kay. «Posso immaginarlo, per lo meno.
Quello che mi sfugge, è
perché sei qui. E perché hai portato con te
queste persone.»
Alexander si passò stancamente una
mano sul viso. Lidia notò che le sue spalle sembravano
essersi irrigidite e,
quando parlò, c’era una tensione nuova anche nella
sua voce. «C’è stato un
incidente. Volevo confrontarmi con Erin per capire come procedere: non
sono
certo che il ragazzo sia al sicuro, qui.»
«Chi è il ragazzo?»
si informò il
Sacerdote. «Mi chiamo Tito Fabio Fusco» si
inserì Tito. «Sono un cittadino di
Roma.» «Ma non sei un soldato»
affermò, più che domandare, il giovane dalla
pelle scura. Quando Tito scosse il capo, Kay si rivolse ancora ad
Alexander.
«Cos’è successo?»
«È morto un
germanico» replicò, senza
scendere nei particolari. «E l’ha ucciso
lui?» insistette il sacerdote,
subodorando ciò che l’altro uomo stava cercando di
tacere. Alexander esitò.
«Diciamo che… è stato più
che altro un incidente. Potrebbe averlo ucciso lui,
ma si è trattato di autodifesa.» Lidia storse il
naso davanti a quella
ricostruzione dei fatti: in tutta onestà, non era certa che
si potesse dire che
Tito avesse ucciso Karl per difendersi da lui. Quando Kay non disse
altro,
Alexander proseguì: «Si trattava di un
minatore.»
Il Sacerdote annuì. «Ah.
Questo
potrebbe essere un problema. Porta il ragazzo dai suoi conterranei: al
campo
militare sarà ragionevolmente al sicuro,
suppongo.» Quando Alexander annuì, Kay
spostò la sua attenzione su Lida.
«Lidia» la apostrofò, riconoscendola.
«Tu hai
una casa. Torna da tuo marito ed evita di metterti nei guai.»
«Certamente» replicò
in fretta lei,
ignorando lo sguardo di disapprovazione di Tito che le gravava sulle
spalle.
«Molto bene» riprese il giovane
sacerdote. «Se non c’è altro, potete
andare.» Sorpresa dalla rapidità con cui
l’uomo li stava liquidando, Lidia cercò lo sguardo
di Alexander, ma questo era
concentrato sul sacerdote. «Solo una cosa:
dov’è Erin?» chiese, rivolto a
Fratello Kay.
«Se n’è dovuta
andare: ora ci sono io,
al suo posto.»
Lidia inspirò bruscamente, sorpresa da
quella notizia, e sul volto di Alexander passò
un’espressione che la giovane
non riuscì a interpretare, ma che smosse qualcosa di
estremamente sgradevole
nel suo animo. «Se n’è andata di sua
spontanea volontà?» chiese, in un tono che
alla ragazza parve quasi cauto.
Il Sacerdote scosse appena il capo.
«No, naturalmente: è stata richiamata
dall’Alto Concilio.» Alexander gli si
avvicinò di un passo. «Ma…»
Fratello Kay levò una mano come per chiedergli di
non avvicinarsi ulteriormente. «È così:
sono decisioni prese ad alto livello.
Vanno accettate e basta.»
Retrocedendo inconsciamente di un
passo, Lidia spostò lo sguardo da un uomo
all’altro, cercando di capire che
cosa stesse succedendo. Era assolutamente sicura che ci fosse tutto un
dialogo
silenzioso, dietro alle parole che lei e Tito riuscivano a sentire.
Riusciva a
intravvedere un discorso sottointeso, forse segreto, ma non riusciva a
intuirne
il contenuto – e la cosa la inquietava. Più di
tutto, però, ad allarmarla era
la rigidità che riusciva a scorgere nella postura di
Alexander, la scintilla di
allarme – forse anche di rabbia
– che
si era accesa nei suoi occhi.
«C’è qualche
problema?» chiese Tito,
interrompendo le riflessioni della fanciulla. Deglutendo vistosamente,
Alexander
distolse lo sguardo da Kay e si voltò verso i due giovani.
«Forse» ammise, a
mezza voce, ma senza preoccuparsi di non farsi sentire dal Sacerdote.
«Ora però
andiamo» aggiunse, poi, posando le mani sulle spalle dei due
ragazzi e
sospingendoli gentilmente verso la porta.
Lidia esitò e Alexander strinse le
dita sulla stoffa dei suoi abiti. «Andiamo, Lidia»
le sussurrò. Confusa e un po’
spaesata, la giovane smise di opporre resistenza e permise al germanico
di
guidarla verso la porta. Quando stavano per varcarla, vennero raggiunti
dalla
voce del Sacerdote. Il tono era calmo, ma le parole erano completamente
sconosciute,
incomprensibili. La ragazza fece per voltarsi, ma il sibilo di
disprezzo che
uscì dalle labbra di Alexander – e lo spasmo che
percorse fulmineo le sue dita –
la convinsero a non farlo.
Quando si trovò di nuovo in strada,
davanti al carro automatico, Lidia ebbe la netta impressione che
qualcosa fosse
cambiato; e che il cambiamento non fosse stato per il meglio.
***
Bando
alle ciance, che sono già in ritardo. Entriamo ora nella
fase finale della
storia che, da scaletta, dovrebbe durare 13 capitoli più
epilogo. Vediamo se
riuscirò a rispettare i miei stessi piani. Nella prima
stesura aveva previsto
più di 20 capitoli, quindi direi che ho tagliato un bel
po’ di porcheria
inutile.
A
parte questo, settimana prossima sarò piuttosto impegnata e
poi me ne andrò un
paio di giorni a Napoli, quindi, salvo miracoli o sere particolarmente
ispirate, il prossimo capitolo andrà a dopo il 25 aprile.
Alla
prossima!
|
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Capitolo 33 *** 32. Ferite ***
Lidia alzò lo sguardo su Alexander.
«Andiamo a piedi?» gli chiese, quando
notò che l’uomo era passato accanto al
carro automatico senza degnarlo di uno sguardo. Lui annuì in
silenzio e lei
aggrottò la fronte, a disagio davanti
all’atteggiamento improvvisamente
scontroso dell’uomo. «E dove andiamo?»
aggiunse, poi, con voce sottile,
provando per un istante lo sciocco timore di risultare molesta.
Il germanico si fermò di colpo,
guardandola come se si fosse reso conto solo in quell’istante
che lei e Tito
erano ancora lì con lui e che non erano misteriosamente
evaporati nell’aria
della mattina. Alexander chiuse per un istante gli occhi, poi
espirò
lentamente, come nel tentativo di allontanare da sé un
po’ della tensione che
aveva accumulato durante l’inaspettato incontro con Fratello
Kay. «Andiamo a
casa tua» la informò, con una voce che voleva
essere gentile, ma non riusciva a
non tradire una certa impazienza. «Ci andiamo a piedi,
perché un carro
automatico darebbe troppo nell’occhio. Poi, una volta che tu
sarai al sicuro
tra quattro mura, accompagnerò personalmente Tito dal
Prefetto Caleno. E no,
non protestare, ragazzo: si fa come dico io.»
Tito, che era stato sul punto di
contestare il programma appena esposto dall’uomo,
chinò il capo, ma rimase in
silenzio. Meno male,
pensò Lidia,
rivolgendogli un pensiero grato. Se c’era una cosa di cui non
avevano bisogno,
in quel momento, era di attirare attenzioni sgradite con una
discussione
animata. «Sai da che parte andare?» chiese allora,
rivolta ad Alexander. L’uomo
scosse la testa. «No. Fai strada.»
Mettendosi alla guida del terzetto,
Lidia si incamminò lungo le strade del villaggio, passando
davanti a luoghi
ormai ben noti senza vederli veramente. Fin ad allora, aveva cercato di
non
pensare troppo al suo imminente incontro con Ulf. Il momento in cui
avrebbe
dovuto assumersi tutte le sue responsabilità si era
però fatto incombente e, a
ogni passo che la portava più vicina alla casa che
condivideva con il marito,
il suo campo visivo si faceva più stretto, più
appannato.
Non
farti prendere dal panico,
si raccomandò, invano, stringendo in un
pugno le mani sudate. Quando, giorni prima, si era separata da Ulf, era
stata
convinta di dovergli rendere conto solo del fatto di avergli tenuta
nascosta la
presenza di Tito. Ora, invece, avrebbe anche dovuto spiegargli come
quella cosa
che lei gli aveva taciuto avesse, in un certo senso, provocato la morte
di
Karl. Sempre ammesso che Rolf non gli
abbia già raccontato tutto, pensò,
ricordando come il ragazzino fosse
fuggito, approfittando dalla confusione nata dalla colluttazione tra
Tito e
Karl. Mordicchiandosi nervosamente le labbra, Lidia si chiese cosa
sarebbe
stato meglio: essere lei la prima a comunicare a suo marito che Karl
era morto,
oppure affrontarlo quando già Rolf l’aveva messo
al corrente di ciò che era
successo?
Non
che io possa permettermi il lusso di scegliere, comunque.
Chissà se Ulf è in
casa? Chissà se è solo, o se
c’è Unna con lui?
Quando, finalmente, si ritrovò di
fronte alla propria casa, la fanciulla credette che il cuore fosse sul
punto di
schizzarle via dal petto, tanto batteva forte. Preoccupata, si
posò una mano
sullo sterno, cercando di imporsi di rilassare un poco i propri nervi
tesi. Quando ho paura, non faccio altro che
peggiorare le cose. Devo darmi una calmata.
Inspirando a fondo, la ragazza si
voltò verso i propri accompagnatori. «Siamo
arrivati» fece, rivolta ad
Alexander, ben consapevole che Tito sapeva benissimo che avevano
raggiunto la
loro meta. «Grazie per avermi scortata fino a qui.»
I due uomini si scambiarono
un’occhiata rapida e lei abbassò lo sguardo a
terra, avvertendo un leggero
calore a livello delle guance. Di certo non era particolarmente
educato, da
parte sua, abbandonare i due uomini in strada, senza nemmeno invitarli
a
entrare. Ma adesso ho cose più
importanti
a cui pensare, si giustificò, mordicchiandosi le
labbra. Le buone maniere possono anche
passare un
po’ in secondo piano.
«Sei sicura che non vuoi che veniamo
con te?» chiese Alexander, con una punta di preoccupazione
nella voce. Lei scosse
la testa. «No, non ce n’è bisogno. Anzi,
credo proprio che sia meglio che io
entri da sola. Per… per sondare il terreno, ecco.»
Tito fece per muovere un passo nella
sua direzione, ma fu trattenuto dalla mano del germanico che
calò rapida sulla
sua spalla. «Ma…» provò a
protestare il giovane romano, ma Lidia lo interruppe
con un sospiro. «Tito, non è davvero il caso che
io mi presenti in casa
accompagnata da voi due. Soprattutto… accompagnata da
te.» Il ragazzo chinò il
capo, mentre un’ombra di vergogna passava sul suo volto.
Leggermente pentita
per averlo fermato in modo tanto brusco, la fanciulla gli rivolse un
minuscolo
sorriso, addolcendo un poco il proprio tono. «Fammi almeno
dare un’occhiata. Se
è tutto a posto, verrò a dirvelo,
d’accordo?»
Il ragazzo la osservò per qualche
istante con un’espressione dubbiosa, poi, non vedendo forse
alternative, annuì.
Indirizzando ai due uomini un cenno del capo, Lidia voltò
loro la schiena e poi
raggiunse rapidamente la porta. Eccoci, pensò,
con il cuore in gola, mentre si accorgeva che questa non era chiusa a
chiave.
Quando posò di nuovo lo sguardo sui
locali in cui aveva passato parte dei suoi ultimi mesi di vita, Lidia
fu
travolta da un’ondata di qualcosa di molto simile alla
nostalgia, ma impedì ai
propri sentimenti di prendere il sopravvento. Posando entrambe le mani
sulla
superficie liscia del tavolo, la ragazza ispirò a fondo,
rendendosi conto che
la tensione era tale che le braccia le tremavano vistosamente. Calmati, si impose per
l’ennesima volta.
L’abitazione era perfettamente
silenziosa, come se in casa non vi fosse nessuno. Ma
non è possibile, ragionò la fanciulla. La porta era aperta, e Ulf ha l’abitudine
di chiuderla a chiave, quando
esce. Ma allora, era possibile che nessuno l’avesse
sentita entrare in
casa? Possibile che nessuno avesse udito la porta aprirsi e poi
richiudersi? Forse dovrei provare a chiamarlo?
Per qualche motivo, il solo pensiero
di pronunciare ad alta voce il nome del marito la fece sentire stupida:
doveva
parlargli, era vero, ma le cose che doveva dirgli non potevano essere
urlate ai
quattro venti. Era un discorso che richiedeva una certa delicatezza,
quello,
parole sussurrate e contrite, non la volgarità di un grido
lasciato salire
liberamente su per le scale.
Con un sospiro spossato, Lidia si
staccò dal tavolo ed esaminò velocemente il
giardino sul retro, il ripostiglio,
persino la dispensa. Trascinandosi stancamente su per le scale di legno
che
conducevano al piano superiore, la ragazza lanciò
un’occhiata al bagno vuoto e
poi si lasciò cadere sul letto, sconfitta
dall’evidenza: Ulf non era in casa.
Il fatto di dover posticipare il confronto con lui, anziché
placare la sua
angoscia, la fece crescere ulteriormente, e la ragazza si
portò istintivamente
una mano alla gola, avvertendo sotto i polpastrelli il battito convulso
del
proprio cuore. E adesso cosa dovrei fare?
Si chiese. Aspettare che torni qualcuno?
E per quanto tempo, poi? Minuti? Ore? E se Ulf non tornasse affatto?
Improvvisamente, la ragazza si trovò a
contemplare delle opzioni che, fino a quel momento non aveva preso in
considerazione: e se qualcosa fosse andato storto e suo marito fosse
stato
trattenuto in uno dei villaggi in cui Donna Erin lo aveva mandato? O,
ancora: e
se Rolf gli avesse già detto quello che era successo e lui
avesse deciso di non
vederla mai più, escludendola dalla propria vita senza
possibilità di appello?
Lidia si alzò nervosamente dal letto e
raggiunse la scrivania situata di fronte a esso. Frugando rapidamente
tra gli
oggetti che ingombravano il ripiano di legno, vide che il biglietto che
aveva
lasciato per spiegare la situazione sembrava non esserci
più. Il che significa che qualcuno
l’ha trovato.
Ma chi?
Incerta sul da farsi, la giovane
raggiunse la finestra e, sovrappensiero, scostò la tenda.
Tito e Alexander
erano ancora fermi in strada, apparentemente intenti a parlottare tra
di loro. Non è prudente che
restino lì, si disse,
con una smorfia. Anche se il pensiero di invitarli in casa le piaceva
poco,
Lidia scese rapidamente le scale e si affacciò alla porta
d’ingresso. «Non c’è
nessuno» annunciò. «Penso
che… penso che Ulf rientrerà tra poco, ma, se
volete,
potete entrare un attimo. Preferirei evitare di parlare per
strada.»
«Credo che sia una buona idea»
replicò
immediatamente Alexander, facendo cenno a Tito di seguirlo. Quando i
due furono
in soggiorno, il germanico si guardò attorno, incuriosito.
«Immagino che questo
posto non assomigli un gran che alla casa in cui eri abituata a vivere
quando
eri a Roma, vero?»
Tito soffocò uno sbuffo sarcastico, ma
Lidia scrollò le spalle, sentendosi in un certo modo in
dovere di difendere la
casa che condivideva con Ulf. «Ammetto che abituarmi a vivere
qui non è stato
facile, ma immagino che ci sia di peggio…»
«Sicuramente» concesse
Alexander, in
un tono distante che attirò l’attenzione di Lidia.
La ragazza inclinò un poco
il capo su una spalla, aspettando che l’uomo elaborasse
ulteriormente quello
che aveva detto, ma questi si limitò a scuotere quasi
impercettibilmente la
testa. «Mi pare di capire che non hai intenzione di ritornare
a Roma» disse,
poi, cambiando bruscamente argomento. «Pensi di rimanere
ancora a lungo qui a
Erding?»
Lidia corrugò la fronte, cercando di
ricordare se avesse mai fatto cenno ad Alexander dei suoi progetti di
abbandonare il villaggio. «No, il piano sarebbe quello di
allontanarci da
Erding, almeno per qualche tempo. Convincere mio marito non
è stato
semplicissimo, ma credo di esserci riuscita, alla fine: ha detto che
doveva
solo risolvere un paio di questioni e che poi saremmo potuti partire.
Certo
che…» la fanciulla lasciò sfumare la
frase, mentre la voce le moriva in gola.
«Certo che…?» la
sollecitò Alexander.
Lidia deglutì, provando un’improvvisa
difficoltà a parlare. «Be’, tutto questo
si era deciso prima che Karl morisse. Lui e Unna – mia
cognata – avrebbero
dovuto venire con noi. Adesso…. Non sono affatto sicura che
questi progetti
siano ancora validi.» Il germanico piegò le labbra
in una smorfia. «Mi auguro
che lo siano: da quel poco che ho visto, mi pare di capire che il
villaggio non
sia più un posto sicuro.»
Lidia fece per chiedergli cosa fosse
dato a dargli quell’impressione – dopotutto,
Alexander era giunto in paese solo
quella mattina e di certo non aveva avuto modo di vedere nulla di
veramente
allarmante – ma l’uomo la precedette, rivolgendosi
a Tito. «E tu cosa pensi di
fare?» Il ragazzo esitò, preso in contropiede.
«Io… non lo so ancora, a dire il
vero. Credo che tornerò dal Prefetto Caleno e
vedrò se posso essergli utile in
qualche modo.»
Il germanico scosse la testa, risoluto.
«Che senso ha restare al villaggio? Sei venuto fino a qui per
Lidia. Se lei ha
deciso di restare in Germanica con suo marito, non
c’è più nulla che ti
trattiene da queste parti: tornatene a casa tua, a Roma.»
Nell’udire quelle
parole, il giovane romano aggrottò la fronte, visibilmente
contrariato. «Grazie
per i consigli, ma credo che resterò qui.»
Alexander lanciò una rapida occhiata a
Lidia. «Mi pare che Lidia ormai abbia preso una sua
decisione: non è così?»
Quando la fanciulla annuì, il germanico tornò a
rivolgersi a Tito. «E allora
perché vuoi restare?» Lui esitò per un
istante soltanto. «Il Prefetto mi ha
aiutato a venire fino a qui, quindi ho un debito con lui. E intendo
ripagarlo.»
Davanti alla determinazione del
ragazzo, Alexander tradì uno scatto di frustrazione.
«Non è un po’ stupido
rischiare la vita per un debito di
cui nessuno verrà mai a chiederti conto?» Tito
corrugò la fronte, confuso
dall’osservazione dell’uomo, e poi si
voltò verso Lidia, come in cerca di supporto.
«Hai paura che nemmeno il campo militare sia un luogo
sicuro?» indagò lei,
cercando di capire il motivo dell’improvvisa inquietudine di
Alexander.
Lui si lasciò sfuggire una risatina
amara. «Ho paura che nessun
luogo
possa dirsi sicuro, nei prossimi tempi.» La ragazza
annuì lentamente, poco
convinta. «Per via della rivolta? Non dico che il pericolo
non sia reale, ma
abbiamo molti soldati, no? Sicuramente molti di più di
quanto non siano i
minatori e le altre persone che vogliono cacciarci da qui. E i nostri
legionari
sono anche meglio addestrati…»
Lidia fece appena in tempo a rendersi
conto di essersi espressa in termini di noi
e loro – una
suddivisione in cui
lei si annoverava ancora tra le schiere di Roma – quando
Alexander scosse il
capo. «No, il problema non è la protesta dei
minatori…»
«E allora si può sapere qual
è, questo
problema?» sbottò Tito, che iniziava a mostrarsi
un po’ infastidito dalle mezze
frasi dell’uomo. Quello sospirò e, lentamente, si
incamminò verso il lavello,
dando loro le spalle e stringendo brevemente tra le mani la ceramica
bianca.
«Io sono da queste parti da molto più tempo di
voi» disse, dopo alcuni istanti
di silenzio. «Lo so, come funzionano le cose.»
«Cosa vorrebbe dire?»
insistette il
giovane romano, avvicinandosi di un passo. «Le cose
funzionano che, se da
qualche parte c’è una rivolta che mette in
pericolo i cittadini di Roma, il
nostro esercito interviene per sedarla. Magari ci va bene e magari no,
ma non
c’è bisogno di avere chissà quale
esperienza, per capire qual è la situazione.
In ogni modo, se proprio le cose dovessero mettersi così
male come temi tu,
vedrò di tornarmene a Roma: d’accordo?»
Alexander si voltò verso di lui e
Lidia provò una stretta allo stomaco nel vedere la tensione
e la frustrazione
che regnavano sul suo volto. «Io vi do solo un consiglio,
come tu stesso hai
detto: dovete allontanarvi da questo posto. Non tra una o due
settimane, però:
subito.»
Lidia sgranò gli occhi, stupita dal
tono secco e perentorio dell’uomo. «Ma…
perché? Non riesco a capire da cosa
nasca tutta questa fretta. Perché hai deciso di riportarci
qui, se adesso vuoi
farci ripartire a tutti i costi?» Il modo di fare di
Alexander le pareva in
aperta contraddizione con ciò che aveva fatto fino a quel
momento e la cosa la
spaventava quasi. «Quando ho deciso di accompagnarvi qui, non
sapevo ancora che
Kay si fosse stabilito al villaggio» commentò il
germanico, asciutto.
«Quindi lo conosci? Prima mi era parso
di capire il contrario…» intervenne Tito,
inclinando il capo di lato. «Non lo
conosco personalmente», chiarì Alexander,
«però conosco quelli come lui e so
che, quando arrivano loro, le cose iniziano a mettersi male.»
Inconsciamente, Lidia si portò una
mano alle labbra e prese a mordicchiarsi nervosamente
l’unghia del pollice. Aveva
l’impressione che l’uomo stesse tentando di
metterli in guardia contro
qualcosa, ma che, allo stesso tempo, volesse evitare di esporsi troppo.
Il
fatto che Alexander sentisse di doversi tutelare anche lì,
dove non c’era
nessun altro se non lei e Tito, la spaventò forse
più di ogni altra cosa. «Cosa
vuol dire che le cose iniziano ad andare male? Io non
capisco.»
L’uomo chiuse gli occhi per un
istante. Quando li riaprì, posò sulla fanciulla
uno sguardo improvvisamente
stanco. «Se anche te lo spiegassi, non capiresti lo
stesso.»
Quelle parole sospirate toccarono un
nervo scoperto e Lidia si sentì avvampare, mentre la paura e
la frustrazione
che aveva cercato di mantenere sotto controllo esplodevano senza
preavviso.
«Cosa ne sai?» sbottò, muovendo un passo
nella sua direzione. «Io non sono mica
stupida, sai? Chi te lo dice, che non capirei?»
Davanti a quella rabbia improvvisa, il
germanico sgranò gli occhi e sollevò una mano nel
tentativo di placare la
ragazza. «No, non intendevo…»
«È da quando sono arrivata qui, che nessuno si
degna di dirmi come stanno veramente le cose!» lo interruppe
rabbiosamente lei.
«Mi avete costretta ad andarmene da Roma e non ho detto
niente. Mi avete
obbligata a sposare un perfetto sconosciuto e, ancora, non ho detto
niente. In
questi mesi sono stata spostata di qua e di là come se fossi
un pacco e mi sono
sempre accontentata solo di mezze spiegazioni… ma adesso
basta! Adesso voglio
sapere esattamente cosa sta succedendo, voglio sapere chi è
quel tizio e perché
è tanto pericoloso!» Con le guance arrossate e il
respiro un po’ corto, Lidia
fissò Alexander, ma in cambio ricevette solo uno sguardo
piatto. «Mi dispiace,
ma non posso dirtelo.»
Di fronte a quella risposta così
sintetica ed elementare, la giovane romana restò per qualche
istante a bocca
aperta e il germanico approfittò del suo silenzio per
parlare di nuovo.
«Capisco che quello che hai passato non dev’essere
stato facile né piacevole e,
di certo, avresti avuto diritto a ricevere più spiegazioni
di quelle che ti
sono state fornite. Non ci sarebbe stato nulla di male a spiegarti
perché i
matrimoni come il tuo vengono organizzati, o perché i
minatori protestano: ma ci
sono altre faccende che non possono essere rese note a tutti; e
Fratello Kay è
una di queste.»
«Perché è un
Sacerdote?» ipotizzò la
ragazza, cercando di tenere a bada la propria irritazione. Alexander
esitò.
«Sì. In un certo senso è
così.»
«Ma tu non sei un Sacerdote»
gli fece
notare Tito, aggrottando la fronte. «Se si tratta di
informazioni segrete, tu
come fai a esserne a conoscenza?»
Alexander spostò lo sguardo
dall’uno
all’altro, poi scrollò il capo e si premette due
dita alla base del naso, come
per allontanare un mal di testa incipiente. «Sentite.
Cerchiamo di capirci,
d’accordo?» Lidia e Tito si scambiarono
un’occhiata perplessa e poi tornarono a
fissare il germanico, un’espressione leggermente confusa
disegnata sui loro
volti. Rendendosi conto di avere la loro attenzione, l’uomo
fece un passo nella
loro direzione e poi abbassò il tono di voce, come se
temesse di essere udito
da orecchie indiscrete. «Io sto cercando di aiutarvi
perché mi siete capitati
tra i piedi e perché, se vi piantassi in asso, mi sentirei
una merda – scusate
la finezza. Non posso dirvi come stanno veramente le cose: il discorso
sarebbe
lungo, complicato, e sapere la verità non vi sarebbe
comunque di alcun aiuto –
anzi! Raccontandovi tutto rischierei soltanto di mettervi in pericolo e
di
mettere in pericolo anche me stesso: certe cose è meglio non
saperle,
credetemi.»
«Ciononostante, vi chiedo di fidarvi
di me» riprese l’uomo. «Fate come vi ho
consigliato e andate via da qui. Non
posso spiegarvi quale sia esattamente il pericolo, ma sappiate che
è imminente:
se Kay è arrivato qui, significa che la
decisione… significa che non c’è
più
nulla da fare. So come vanno queste cose, l’ho già
visto in passato e, anche se
è una cosa che mi fa schifo,
non c’è
nulla che io possa fare per impedirlo. Posso solo cercare di aiutare
voi. Ed
Erin, se mi riesce.»
Mentre Alexander parlava, Lidia
sentiva qualcosa di pesante e vischioso formarsi al centro del petto,
una
sensazione che le mozzò il respiro e le fece tremare le
mani. Non so perché faccia tanto
il misterioso, ma
non me ne frega niente, decise, con un tremito di angoscia. Quello che conta è ritrovare Ulf e
convincerlo ad andare via, esattamente come avevamo deciso. Non importa
se è
per evitare di rimanere invischiati in una rivolta o per sfuggire a
qualsiasi
cosa abbia in mente Kay: che se ne vadano tutti all’Inferno!
«Tu sei veramente fedele a
Roma?» La
domanda di Tito, così distante dai pensieri che in quel
momento stavano
attraversando la mente di Lidia, indusse la ragazza a voltarsi verso di
lui.
«Sembri sapere molte cose a proposito dei Sacerdoti
germanici, sembri temerli.
Eppure, da quanto mi risulta, il Prefetto Caleno non pare ritenerli una
minaccia: è evidente che sei a conoscenza di qualcosa che
lui ignora. Si può
sapere da che parte stai?»
«Io…» Il germanico
sospirò. «Io non
sto né dalla parte di Roma né da quella della
Germanica. Io cerco di fare il
mio dovere senza fare torto a nessuno.»
«Ma almeno sei veramente un
germanico?» intervenne Lidia, chiedendosi quale fosse quel dovere a cui l’uomo aveva
accennato. Lui scosse il capo in maniera
quasi impercettibile. «No. In effetti, vengo da…
be’, da lontano.»
«Ovvero?» insistette la
fanciulla. Alexander
sorrise. «Lascia perdere: non lo conosci. E non insistere:
potrei farti un nome
a caso, e tu non sapresti mai se ti ho detto la verità
oppure no.»
Lidia fece per aggiungere dell’altro,
ma il movimento repentino di Tito, che ruotò bruscamente su
se stesso, attirò
la sua attenzione. «Cosa succede?» chiese la
fanciulla, con voce tesa. Il ragazzo
aggrottò lievemente la fronte. «Mi è
come sembrato di sentire un rumore…»
A Lidia bastò solo un istante per
accorgersi che Tito aveva ragione: anche se sulle prime non aveva
notato nulla,
ora sentiva chiaramente il suono inequivocabile di passi che si
avvicinavano
all’ingresso. Il cuore le balzò in gola e la
fanciulla si guardò disperatamente
attorno, in preda al panico: chiunque stesse arrivando, era certa che
non
avrebbe apprezzato trovarsi a faccia a faccia con il giovane romano.
«Dovreste…»
Non fece in tempo ad aggiungere altro,
che la porta si aprì e Rolf entrò in casa. Lidia
vide chiaramente lo
sconvolgimento che si disegnò sul suo volto infantile, ma la
sua attenzione
venne catturata dalla figura che, pochi istanti dopo, comparve alle
spalle del
ragazzino.
Oh,
no,
pensò, mentre il sangue le defluiva dal volto.
Non Unna. Non adesso. La germanica fece
scorrere lentamente lo sguardo per la stanza, come se avesse qualche
difficoltà
a comprendere quello che stava vedendo. Poi i suoi occhi incontrarono
quelli di
Lidia e la ragazza si sentì sul punto di svenire. Un
miscuglio di sentimenti
spiacevoli – dolore, dispiacere, paura, smarrimento
– le riempì il petto e alla
giovane parve di soffocare. Confusamente avvertiva che avrebbe dovuto
dire
qualcosa, ma era come se la sua gola avesse perso la
capacità di articolare
parole di senso compiuto. Istintivamente, Lidia indietreggiò
di un passo,
spaventata dal vuoto che lesse negli occhi della cognata.
Fu Rolf a rompere l’immobilità
e il
silenzio di quei pochi secondi. In un sussurro, il ragazzino disse
qualcosa e
Unna distolse prontamente lo sguardo dalla ragazza, fissando
intensamente il
giovane nipote. Fu solo in quel momento che Lidia si accorse che il
ragazzo
aveva gli occhi puntati su Tito, che, guardingo, ricambiava lo sguardo
del
piccolo germanico. «Es wär er»
ripeté Rolf, portandosi una mano alla tasca. Sotto
gli occhi sgomenti di Lidia, il ragazzino estrasse il coltellino che il
giorno
prima aveva usato per incidere il legno e, con quello in pugno, si
avvicinò di
un passo al romano.
Immediatamente, Alexander fece per
muoversi verso di lui, ma Unna fu più rapida e,
riscuotendosi dal torpore nel
quale sembrava sprofondata, agguantò il nipote per le
spalle, attirandolo
contro il proprio corpo. Chinandosi su di lui, la giovane prese la mano
del piccolo
tra le sue. «Näi» sussurrò e,
delicatamente, lo convinse a lasciare il
coltello, sfilandoglielo dalle dita. Nel vedere l’espressione
concentrata con
cui Unna osservava la piccola lama che ora si trovava tra le mani,
Lidia
avvertì il proprio cuore accelerare i battiti. La fanciulla
indovinò le intenzioni
della donna un istante prima che quella spingesse da parte Rolf e,
senza
preavviso, si slanciasse in avanti, verso Tito.
«No!» Lidia sentì la
propria voce
gridare, ma le gambe parvero rifiutare di obbedirle, tenendola
inchiodata sul
posto. Alexander fu invece più reattivo e, con un balzo, si
portò davanti a
Tito con le braccia tese, frapponendosi tra lui e Unna. Se la giovane
si
accorse dell’ostacolo, fu troppo tardi. Il suo braccio
calò e, anche se l’uomo
cercò di deviare il colpo, la lama sottile del coltellino
gli si piantò nella
spalla. Con un gemito di dolore e un’imprecazione, Alexander
afferrò il polso
di Unna, piegandolo in un modo che la costrinse a lasciare la presa.
Lidia, atterrita, avanzò di un passo e
poi retrocedette, incapace di decidere se fosse più saggio
avvicinarsi ai due
per cercare di dividerli o restarsene in disparte, evitando di
peggiorare
inavvertitamente la situazione. «Ma sei pazza o
cosa?» gemette Alexander,
allontanando da sé la donna con uno spintone. Con il volto
pallido come uno
straccio, l’uomo si strappò il coltellino di dosso
e lo lasciò cadere per
terra. Per un secondo, Lidia lo credette in procinto di perdere i sensi
–
quello, però, vacillò solo un istante e poi parve
ritrovare la propria
stabilità. «Due volte in due giorni»
sibilò, portandosi una mano sulla spalla
ferita e mettendo così in mostra il taglio
sull’avambraccio che Tito gli aveva
procurato il giorno prima. «Io
cosa
c’entro?» chiese, rivolgendosi a Unna.
Oh,
Dèi. Con
la coda dell’occhio, Lidia avvertì che Tito, che
si era
tenuto a distanza di sicurezza, stava avvicinandosi a lei, ma in quel
momento
la sua attenzione era tutta per Unna. La giovane non aveva reagito
minimamente
alla domanda di Alexander e lo stava fissando con gli occhi spalancati
e così smarriti
che la fanciulla sentì una stretta al cuore.
«Unna» sussurrò, trovandosi di
nuovo a corto di parole, ma avvertendo l’esigenza di dire qualcosa.
La giovane si voltò appena verso di
lei e la ragazza vide che i suoi occhi erano lucidi di lacrime. Non ho mai visto Unna piangere,
realizzò, con un nodo alla gola. Non
l’ho
mai vista veramente spaventata o ferita o debole…
Il fatto di trovarsi di
trovarsi di fronte alla prova evidente della vulnerabilità
della cognata fu un pugno allo stomaco e Lidia si rese
conto di non averla mai veramente vista per la persona che era, con le
sue
paure, le sue speranze e i suoi punti deboli.
Accanto a lei, Alexander posò un piede
sul coltellino e lo calciò all’indietro,
allontanandolo dai due germanici. «Chi
è questa persona?» chiese, poi, rivolto a Lidia.
La fanciulla deglutì più
volte, cercando di ritrovare la propria voce e di sciogliere un poco il
nodo
che le stringeva la gola. «È mia cognata.
È la moglie di Karl.»
Nell’udire il nome del marito, Unna
trasalì e sul volto dell’uomo passò un
lampo di comprensione. «Mi dispiace»
fece, rivolgendo alla giovane donna un cenno del capo. Lei
inspirò a fondo e i
suoi occhi si posarono brevemente sulla mano insanguinata di Alexander,
poi
scivolarono alle sue spalle e si appuntarono su Tito. Immediatamente,
lo
smarrimento fu sostituito dalla rabbia. Prima che la giovane potesse
fare
qualsiasi cosa, però, Lidia le si fece incontro.
«Unna», ripeté,
«aspetta.»
La fanciulla non avrebbe saputo dire cosa
esattamente la cognata avrebbe dovuto
aspettare, ma non poteva permettere che cercasse di attaccare ancora
Tito. Anche se ha tutte le ragioni del mondo
per
volersi vendicare, pensò, amaramente. Per una
frazione di secondo, la
ragazza cercò di guardare Tito con gli occhi di Unna, ma
quello che vide la
spaventò troppo per indugiare a lungo in quelle
considerazioni.
In quell’istante, una voce femminile
risuonò
in strada e Rolf, che da quando Unna gli aveva sottratto il coltello
era
rimasto come congelato sul posto, sobbalzò.
«Mama!» esclamò, con le lacrime
agli occhi, prima di correre fuori.
Mama? Si ripeté
Lidia, sorpresa da quella svolta inattesa. Automaticamente, la ragazza
cercò
gli occhi della cognata e Unna rispose rivolgendole un lungo sguardo
strano,
che lei non seppe interpretare. La giovane fece per chiedere
spiegazioni, ma la
germanica non gliene lasciò il tempo: girando lentamente su
se stessa, uscì
all’esterno, come Rolf aveva fatto qualche istante prima.
Subito, Lidia fece per seguirla, ma
Tito la trattenne per un polso. «Lidia, aspetta un attimo,
per favore» mormorò,
guardandola con aria preoccupata. La ragazza ritrasse immediatamente il
braccio, liberandosi dalla presa del giovane. «No, voglio
vedere.»
Non appena ebbe messo piede fuori
dalla porta di casa, Lidia sentì il cuore sobbalzarle nel
petto e,
istintivamente, si aggrappò con una mano allo stipite della
porta, cercando
sostegno. Lì, a pochi metri da lei, accanto a Unna e a una
donna sconosciuta
che stringeva tra le braccia Rolf, c’era Ulf.
La ragazza sentì il terreno mancarle
sotto i piedi, mentre una cascata di emozioni diverse e contrastanti
– e non
tutte positive – si abbatteva su di lei, dandole
l’impressione che le mancasse
l’ossigeno. Ulf, che stava dicendo qualcosa alla sorella, si
accorse della sua
presenza una frazione di secondo più tardi. Quando i suoi
occhi incontrarono
quelli della fanciulla, lei vi scorse un lampo di qualcosa che non
riuscì a
definire, ma che le parve tanto famigliare che la morsa che le
stritolava il
petto allentò un poco la sua stretta. Una fiammella di
speranza divampò nel
petto di Lidia. Forse è meno
arrabbiato
di quanto pensassi, si disse, non osando credere alla propria
fortuna.
Quando anche Unna si accorse che la
cognata l’aveva seguita all’esterno, si
allontanò dal fratello e raggiunse Rolf
e sua madre qualche metro più in là. Ora che il
momento che tanto aveva temuto
era giunto, Lidia sentiva la testa stranamente vuota e aveva
l’impressione di
essere immersa in un’atmosfera rarefatta, dove ogni movimento
era rallentato,
irreale.
Si accorse che diversi secondi erano
passati senza che lei muovesse un muscolo. Coraggio,
si incitò, respirando a fondo per scacciare il nodo che le
stringeva la gola. Non sei venuta fino a qui
per restartene
aggrappata alla porta come una cretina.
Lentamente, con le gambe tremanti, la
ragazza scese i due gradini che separavano l’uscio dalla
strada e Ulf seguì
ogni suoi movimento con occhi attenti e quasi guardinghi. Lidia sentiva
che
l’attenzione dei presenti era puntata su di lei e, se la cosa
da un lato la metteva
a disagio, dall’altro la rassicurava, dal momento che la
giovane aveva
l’impressione che tutto fosse finalmente nelle sue mani. Un
pensiero rapido
attraversò la sua mente: se sto
attenta,
andrà tutto bene.
Improvvisamente, però, gli occhi di
Ulf scattarono verso l’alto e si focalizzarono su qualcosa
alle spalle della
fanciulla. Cosa… voltandosi
per
capire cosa avesse catturato l’attenzione
dell’uomo, Lidia vide che Tito e
Alexander l’avevano seguita e indugiavano
sull’uscio, apparentemente indecisi
se uscire completamente allo scoperto o se rientrare in casa. Oh, no, pensò la ragazza,
rivolgendo
loro un’occhiata afflitta. Anche se, naturalmente, non
avrebbe potuto
nascondere a lungo la presenza dei due uomini, avrebbe di gran lunga
preferito
avere l’occasione di parlare brevemente con Ulf, prima di
lasciare che i due
rendessero nota la loro presenza. Con un senso di sventura incombente,
Lidia si
voltò nuovamente verso Ulf e vide che il volto
dell’uomo si era fatto più duro.
Il giovane si soffermò brevemente su Alexander e sulla sua
ferita ancora
sanguinante, ma poi si concentrò su Tito.
Quando lo fece, Lidia ebbe un tuffo al
cuore. Senza che potesse fare nulla per evitarlo, antichi timori
tornarono a
riaffacciarsi alla sua mente e, come già era accaduto in
passato, la fanciulla
si chiese se il marito potesse in qualche modo rivelarsi pericoloso per
l’amico. Quasi come per confermare le sue paure, Ulf fece per
muovere un passo
nella direzione del giovane romano, ma, inaspettatamente, Unna lo
trattenne
afferrandogli saldamente un braccio e mormorandogli qualcosa in un
orecchio.
Fu solo in quel momento che Lidia si
rese conto di essersi mossa in modo del tutto inconsapevole e di
essersi
frapposta, senza averne realmente l’intenzione, fra i due
uomini. Nel realizzare
quello che quel gesto involontario avrebbe potuto apparire, almeno agli
occhi
di Ulf, la fanciulla avvampò, mortificata. Dèi,
adesso penserà che io volessi difendere Tito.
Crederà che io non mi fidi di lui
e… Lidia alzò lentamente gli occhi, con
la netta sensazione di avere appena
fallito un esame importante.
Per qualche istante, Ulf la fissò
impassibile,
poi si rivolse alla donna con le trecce bionde, che ancora teneva per
le spalle
Rolf e lo cullava lentamente. «Andiamocene» disse,
semplicemente. La parte più
razionale della sua mente fece notare a Lidia che non poteva essere un
caso, se
il giovane aveva scelto di usare il latino per rivolgersi a una sua
connazionale che, con ogni probabilità, non masticava bene
quella lingua. La
parte più istintiva del suo essere, invece, rimase raggelata.
Sul volto della donna sconosciuta
passò un’espressione confusa. La germanica fece
una domanda che Lidia non
riuscì a capire e a cui Ulf rispose solamente con un secco
cenno di diniego.
Cosa
vorrebbe dire, “andiamocene”? Si chiese la fanciulla, con qualche secondo di
ritardo. Smarrita, cercò gli occhi di Unna, ma la donna si
rifiutò di
guardarla.
«Lidia…» la voce
morbida di Alexander
la richiamò, ma lei ignorò completamente la sua
presenza e la richiesta – o la
raccomandazione – che l’uomo aveva voluto
racchiudere nel suo nome.
Dopo un istante di indecisione, la
madre di Rolf cinse le spalle del figlioletto con un braccio e con
l’altra mano
prese quella di Unna, invitandoli gentilmente ad allontanarsi dalla
scena e ad
avviarsi lungo la strada che portava verso il centro del villaggio.
Dove
vanno? Si chiese
ancora Lidia, fissando il terzetto con occhi persi.
Quando anche Ulf si mosse e fece per allontanarsi da lei,
però, scattò.
«Aspetta!» esclamò, liberandosi
dall’immobilità che l’aveva tenuta
prigioniera
fino a quel momento e facendo due rapidi passi in direzione del
germanico.
«Dove vai?»
Davanti a quella domanda, il giovane
abbassò inaspettatamente gli occhi a terra.
«Via» rispose però, semplicemente.
La ragazza aggrottò la fronte. «In che
senso?» chiese, con la voce che tremava
un poco. Anche se il suo istinto le aveva già fatto capire
quello che stava
succedendo, Lidia semplicemente si rifiutava di accettare
quell’intuizione.
Ulf sospirò, ma, ancora,
evitò lo sguardo
di Lidia, come se il pensiero di guardarla in volto lo mettesse a
disagio.
«Devo occuparmi della mia famiglia. Di Unna.» La
giovane romana coprì
rapidamente la distanza che la separava dal marito, ma si
fermò a mezzo metro
da lui, non osando toccarlo. «E io?» chiese, con
una voce sottile che risultò
patetica anche alle sue stesse orecchie.
Improvvisamente Ulf alzò gli occhi e
Lidia sbiancò vedendo la rabbia improvvisa che li aveva
riempiti. «E tu… cosa?»
sibilò l’uomo, sfidandola a rispondere. Alle sue
spalle, la fanciulla avvertì
qualche movimento: Tito aveva forse provato a intervenire, ma Alexander
doveva
averglielo impedito, dal momento che il ragazzo rimase al suo posto.
«Anch’io
sono parte della tua famiglia» replicò lei,
cercando di sostenere senza tremare
lo sguardo del marito.
Il giovane si lasciò sfuggire un
sibilo sarcastico che avrebbe potuto forse essere una risata, se non
fosse
stato così amaro. «Questa cosa… questa
cosa è stata proprio un’idea di merda»
ringhiò, indicando prima se stesso e poi Lidia.
«Ho sbagliato ad accettare
questa farsa: mi sarei dovuto
rifiutare di sposarti, e che la Sacerdotessa se ne andasse
all’Inferno. Lo
sapevo, che non avrebbe potuto funzionare… e, infatti, non
ha funzionato!»
Lidia si fece ancora più pallida e per
qualche secondo fu troppo sconvolta per rispondere. «Ma
tu… l’altro giorno non
hai detto la stessa cosa!» protestò, mentre si
accorgeva con orrore che le
lacrime avevano iniziato a bruciarle all’angolo degli occhi.
Ripensando ai
discorsi che avevano fatto prima che tutto iniziasse ad andare a
rotoli, Lidia
sentì poi la rabbia divamparle nello stomaco. Credeva
davvero di liquidarla
così, con una frase e quattro insulti? «Ne avevamo
parlato! Avevi detto che
avevi cambiato idea! Che con me ci stavi bene! Non puoi pensarle
veramente,
queste cose…»
Ulf le rivolse un sorriso tagliente.
«L’altro giorno mi sfuggivano un paio di
dettagli.» Quando Lidia gli rivolse
uno sguardo confuso, l’uomo indicò Tito con un
cenno del mento. «Chi è lui?»
Voltandosi appena per lanciare un’occhiata a un Tito
impietrito – e a un
Alexander sempre più pallido – Lidia
deglutì. «Mi dispiace, avrei dovuto
dirtelo» ammise, mentre l’angoscia e la tensione le
arrochivano la voce. «Ma
lui non è nessuno di importante, davvero. Avevo paura che
tu… che forse…»
«Non me ne frega niente»
tagliò corto
Ulf. «Chi sia non è importante, ormai. Quello che
conta è che Karl è morto. Per
colpa sua. Per colpa tua.»
Lidia
scosse con forza il capo, anche se, in fondo, sapeva che il marito
aveva
perfettamente ragione. «Non puoi parlare
così» protestò, cercando di conservare
quel poco di sangue freddo che le era rimasto. «Tu non
c’eri, non sai come sono
andate le cose…»
«… ma so come sono andate a
finire» la
interruppe nuovamente Ulf. «Karl è morto. Era il
mio migliore amico. Lo
conoscevo da una vita. Era il marito di Unna. Credi davvero che me ne
freghi
qualcosa, di come sono andate le cose?»
Lidia fece per protestare ancora, ma
le parole le morirono in gola. No. Ovviamente a Ulf non interessava
conoscere la
dinamica esatta dei fatti. E poi, anche
se la conoscesse, cambierebbe poco. Tito l’ha ucciso e non
è stato Karl, a
cercare lo scontro. «No, hai ragione»
mormorò, mentre la rabbia evaporava
tutta d’un colpo e restava solo la vergogna. E la stanchezza.
«Però…»
«Però niente, Lidia»
sospirò Ulf,
anche lui con voce quieta. «Non è stata una buona
idea, tutto qui. Io devo
pensare a mia sorella, adesso.»
Improvvisamente Lidia rabbrividì,
mentre una sensazione di freddo scivolava su di lei. «Ma poi
tornerai qui?»
chiese, mentre già il suo subconscio le sussurrava la
risposta. Ulf le rivolse
un’occhiata che aveva il sapore amaro della compassione.
«Torna a casa, Lidia.»
La fanciulla alzò su di lui gli occhi
lucidi. «A casa?» ripeté. Il giovane
annuì. «A Roma. Chiedi a Donna Erin, lei
ti aiuterà. O vacci con il tuo amico. O con
l’altro tipo là dietro, chiunque
egli sia… ma non restare qui. È pericoloso, per
te, restartene qui da sola.»
Davanti a quella richiesta fatta in
tono così ragionevole, Lidia non riuscì a
trattenere le lacrime. «Ma io non ci
voglio tornare, a Roma. Io voglio restare con te»
mormorò, con voce spezzata.
Per una frazione di secondo, Ulf incontrò il suo sguardo e
nei suoi occhi la
fanciulla credette di leggere un lampo di sorpresa. Meno di un istante
più
tardi, però, l’espressione del giovane si fece
ancora distante. «Mi dispiace,
ma sono io che non voglio più stare con te.»
Con quelle parole, Ulf retrocedette di
un passo e, in maniera del tutto istintiva, Lidia si lanciò
verso di lui,
afferrandogli un polso con entrambe le mani.
«Aspetta!» esclamò, con la gola
stretta e il cuore che le martellava nelle orecchie. La fanciulla lo
fissò con
gli occhi sbarrati, cercando disperatamente di dire qualcosa che
potesse
spingerlo a riconsiderare la sua decisione. La sua testa era
però invasa da
mille pensieri terrorizzati che si accavallavano e si scontravano
l’uno contro
l’altro, lasciando la giovane solo con una manciata di idee
spezzate.
Davanti al suo silenzio, Ulf portò una
mano su quelle della ragazza e, con delicatezza, le staccò
dal proprio braccio.
«Torna dai tuoi genitori. Sarà meglio anche per
te, vedrai.» Nell’udire quelle
parole, Lidia sentì l’irritazione tornare a
bruciarle nel petto, ma era un
sentimento triste, privo di forza. «Come fai a
dirlo?» chiese, debolmente.
«Come fai a sapere che per me sarà meglio, se
tornerò a Roma?»
Il germanico abbassò lo sguardo a
terra. «Hai ragione» concesse, dopo qualche
istante. «Non lo so, se per te sarà
meglio oppure no: però so che, di certo, questa è
la scelta migliore per me. Devo
badare a Unna, adesso. Devo
portarla via da qui e tu non puoi venire con noi. Non dopo quello che
è
successo.»
«Ma…»
Nell’udire quelle parole che
suonavano tanto come una sentenza definitiva, Lidia cercò
ancora di afferrare
le mani dell’uomo, ma lui indietreggiò,
sottraendosi al suo tocco. «Buona
fortuna, Lidia» mormorò, prima di darle le spalle
e allontanarsi velocemente.
Per alcuni lunghissimi secondi, la
fanciulla rimase congelata sul posto, incapace di rendersi veramente
conto di
quello che era appena accaduto. Poi le lacrime le offuscarono
completamente gli
occhi e dalla gola le sfuggì un singhiozzo. La giovane si
premette entrambe le
mani sulla bocca, come nel tentativo di mettere a tacere il proprio
sconforto.
Non poteva essersene davvero andato
così. La stava davvero lasciando lì, senza
nemmeno dirle dove era diretto?
Senza nemmeno darle la possibilità di accertarsi che fosse
al sicuro, che
stesse bene?
Non
può fare sul serio,
pensò, disperata, rifiutandosi di accettare
l’evidenza. Quello che era successo a Karl era terribile, ma
c’erano mille modi
per affrontare la questione e quello scelto da Ulf le pareva
decisamente il
peggiore. Non ha nemmeno avuto il
coraggio di guardarmi, prima di andarsene,
ricordò, passandosi una mano su
una guancia per asciugare le lacrime.
Quando una mano le sfiorò una spalla,
Lidia sobbalzò e si voltò di scatto, trovandosi
di fronte il volto cupo di
Tito. «Lidia, mi…»
«Vai via!» esclamò
la giovane, con la
voce resa incerta dalle lacrime. Allontanandosi da lui quasi di corsa,
Lidia
marciò in casa, colpendo inavvertitamente con una spalla
Alexander, che non
trattenne un gemito di dolore. Giunta nella sala da pranzo, la ragazza
si
lasciò cadere su una delle sedie disposte attorno al tavolo
e poi posò entrambe
le mani sul legno liscio e scuro, cercando inconsciamente conforto
nella
frescura che le sfiorò i palmi sudati. Si sentiva svuotata,
sospesa in una
dimensione che non era quella reale. E adesso
che cosa farò? Si chiese. Era come se ogni punto
di riferimento fosse
scomparso e lei si trovasse sola nell’epicentro di una
pianura infinita, senza
sentieri né segnali che indicassero la via.
Per un tempo che non riuscì a
quantificare, Lidia rimase ricurva di fronte al tavolo, mentre lacrime
silenziose le scivolavano lungo le guance e bagnavano il tessuto del
suo abito.
Quella era davvero la fine di tutto? Doveva
davvero rassegnarsi a tornarsene a Roma, senza Ulf e con la coda tra le
gambe? Il
solo pensiero le dava la nausea e la terrorizzava. Anche ammesso che
Fratello
Kay le permettesse di lasciare la germanica e rompere il patto
matrimoniale, con
quale coraggio si sarebbe ripresentata dai suoi genitori? Come avrebbe
potuto
sopportare il disprezzo che suo padre avrebbe certamente riversato su
di lei e
sul suo fallimento? E, soprattutto, come
farò a sopportare la consapevolezza che, se siamo arrivati a
questo punto, è
tutta colpa mia?
No, non poteva farlo. Semplicemente,
era una cosa che ogni fibra del suo essere rifiutava di accettare. E allora vai a cercarlo! La
spronò la
sua coscienza, con un guizzo d’orgoglio. Trova
Ulf e costringilo ad ascoltarti! Colpita da quel pensiero,
Lidia serrò le
mani in un pugno, mentre un filo di energia le scivolava lungo la
schiena,
simile a una ventata di aria fresca. Prima, durante il confronto con il
marito,
si era arresa troppo velocemente. Il fatto di esserselo ritrovata di
fronte all’improvviso
aveva cancellato dalla sua mente il frutto di giorni di pensieri e
riflessioni.
Ma adesso so cosa aspettarmi. Adesso so
come stanno le cose e forse… forse riuscirei a tenergli
testa un po’ meglio.
In ogni modo, se anche Ulf si fosse
ostinato a rifiutarla e a chiederle di fare ritorno nella sua
città natale,
Lidia avrebbe potuto in un certo senso avere la coscienza a posto. Se non altro, saprei di non aver lasciato
nulla di intentato.
Con le gambe che ancora tremavano un
po’, ma animata da una determinazione nuova, la ragazza
spinse indietro la
sedia e, facendo leva sui polsi, si alzò in piedi. Lanciando
un’occhiata fuori
dalla finestra della cucina, cercò di calcolare quanto tempo
fosse passato da
quando Ulf se n’era andato.
Non
possono essere passati più di venti minuti, ragionò, cercando di fare mente
locale. Mezz’ora al massimo.
Facendo un
respiro profondo, Lidia si avviò verso la porta, decisa a
mettere in atto il
suo intento. Non appena ebbe varcato la soglia, però, si
trovò di fronte a Tito
e Alexander, che si voltarono a guardarla con un’espressione
mesta.
La fanciulla quasi sobbalzò: era stata
talmente presa dai suoi pensieri bui, che la sua mente aveva relegato
in un
angolino la presenza dei due uomini e poi se n’era
dimenticata. Il fatto di
trovarsi faccia a faccia con loro quasi la infastidì,
così Lidia abbassò lo
sguardo a terra. Sono rimasti qui fuori
per tutto questo tempo? Si interrogò, con una
punta di sospetto. Cosa stavano facendo?
«Stai andando da qualche
parte?» le
chiese a sua volta Alexander, soffermandosi per qualche istante sul suo
volto e
sui suoi occhi ancora arrossati dalle lacrime versate.
Lidia esitò, ma poi incontrò
lo
sguardo dell’uomo, cercando di non curarsi del fatto che, in
quel modo, gli
sarebbe stato evidente quanto lei avesse pianto. «Vado a
cercare mio marito»
annunciò, mettendosi istintivamente un po’ sulla
difensiva. Immediatamente,
Alexander scosse il capo. «Non credo proprio. Togliti pure
dalla testa di
girovagare per il villaggio da sola.»
Lidia fu sul punto di ribattere che
non ci sarebbe stato alcun bisogno di girovagare,
dal momento che, per ritrovare suo marito, le sarebbe bastato recarsi
alla casa
del suocero, quando la sua mente le fece notare un particolare scomodo:
lei non
aveva la minima idea di dove fossero andati Ulf e Unna.
Non
ha detto che sarebbe andato a casa di Gefrid, realizzò, mentre il suo stomaco
tornava a contrarsi sgradevolmente. E non
ha nemmeno detto che sarebbero andati a casa di Unna…
la fanciulla comprese
che, se davvero Ulf voleva allontanarsi da lei, era assai probabile che
si
fosse diretto in un luogo di cui lei non era a conoscenza e che non
aveva modo
di trovare.
Ma
forse Gefrid o Hermann potrebbero aiutarmi? Si chiese. Nel momento stesso in cui
la formulava, però, quell’ipotesi le sembrava
decisamente poco plausibile.
La ventata di tiepido entusiasmo che
l’aveva
sostenuta fino a quel momento si esaurì e la ragazza si rese
conto di essere
giunta a un punto morto. Certo, avrebbe comunque potuto fare un
tentativo co nil
suocero, oppure avrebbe potuto fare un giro perlustrativo per il
villaggio –
anche a costo di mettere a repentaglio la propria sicurezza –
però… in quel
momento, il volto di Alexander si contrasse in una smorfia di dolore e
l’uomo
fece come il gesto di piegarsi verso Tito, quasi fosse alla ricerca di
un
sostegno.
«Ma tu sei ferito!»
esclamò
scioccamente Lidia, ricordandosi solo in quel momento che, prima di
venire
disarmata, Unna era riuscita a colpire Alexander. Lui le rivolse un
sorriso
tirato che di allegro aveva ben poco. «Eh,
già…»
Sentendosi decisamente in colpa per
aver lasciato che un uomo sanguinante restasse per diverse decine di
minuti in
piedi, in strada, Lidia gli si avvicinò preoccupata. Tito la
guardò come se
intendesse dire qualcosa, ma lei fece del proprio meglio per ignorarlo.
«Posso…
posso fare qualcosa per te?» chiese, incerta. Non aveva modo
di giudicare
quanto fosse profonda la ferita, ma, dal modo in cui continuava a
sanguinare,
era sicura che si trattasse di qualcosa ben al di là delle
sue capacità
mediche.
Alexander scosse il capo. «No,
ma… devo
andare a farmi ricucire. Non smette di sanguinare» disse,
fissandosi la spalla
con aria preoccupata.
Lidia annuì solerte, alzando
istintivamente le mani e frenandosi solo un istante prima di toccare
con la
punta delle dita la stoffa intrisa di sangue. «Ma
certo!» concordò. «Dove… da
chi andrai, per farti curare?» Improvvisamente, la ragazza si
rese conto di
quanto poco conoscesse la realtà del villaggio in cui si era
trasferita ormai
da mesi. Era mai possibile che non sapesse a chi si rivolgesse la gente
del
posto, quando aveva bisogno di cure mediche? Meno
male che non mi è mai capitato di stare male seriamente!
Alexander strinse i denti,
apparentemente per
contrastare una fitta di dolore particolarmente acuto.
«C’è un guaritore, poco
al di fuori delle porte del villaggio. Mi ha già…
trattato una volta, in passato, ed
è particolarmente abile con ago
e filo.»
«Va bene»
intervenne Tito, avvicinandosi all’uomo dai
capelli rossi. «Ti ci accompagno.»
Di nuovo, Alexander scosse il
capo con decisione. «No.
Vado da solo: tu e Lidia restate qui e non vi muovete fino a che non
mando
qualcuno a recuperarvi. È chiaro?» Il giovane
romano annuì, ma Lidia incrociò
le braccia contrariata. «Io però devo ritrovare
mio marito» insistette. «Non
posso permettere che se ne vada via così.»
«Ti chiedo solo di
aspettare un’oretta, forse anche
meno» replicò Alexander, altrettanto determinato.
«A questo punto, un’ora in
più o un’ora in meno non farà alcuna
differenza, non credi?»
Questo
lo dici
tu, pensò
la ragazza, scontrosa. In realtà, in quella circostanza
un’ora persa poteva fare
una differenza enorme, visto che avrebbe potuto permettere a Ulf di
allontanarsi ulteriormente. Non
può
costringermi a rimanere qui in attesa che arrivi chissà
chi… Una volta che
Alexander se ne fosse andato per la propria strada, lei avrebbe potuto
fare
altrettanto e mettersi sulle tracce del marito. Tito
non può certo legarmi a una sedia per impedirmi di uscire di
casa…
Subito, però,
realizzò che nemmeno lei avrebbe potuto
impedire al ragazzo di seguirla. Ed
è
ovvio che, la prossima volta che incontrerò Ulf,
dovrò essere da sola.
Sospirando sconfitta, la
fanciulla rivolse un cenno
del capo ad Alexander. «E va bene» concesse,
piegando le labbra in una smorfia.
«Però cerca di fare in fretta: se lascio passare
troppo tempo, rischio di non
riuscire più a rintracciare Ulf e Unna.»
«Farò il
prima possibile» la rassicurò lui.
***
Malgrado le parole di Alexander,
due ore erano passate
senza che nessuno si presentasse alla sua porta. Il suo stomaco
l’avvertiva
discretamente che l’ora del pranzo era giunta ormai da tempo,
ma Lidia se ne
stava rannicchiata nella sua camera, senza alcuna intenzione di cedere
ai morsi
della fame.
Per trovare qualcosa da mettere
sotto ai denti,
infatti, avrebbe dovuto scendere al piano inferiore – e fare
ciò avrebbe
significato incontrare Tito. Da quando Alexander li aveva lasciati
soli,
andando in cerca di qualcuno che potesse ricucire la sua ferita, la
fanciulla
aveva deliberatamente ignorato la presenza del giovane romano.
Sarà
anche un
atteggiamento infantile, ma adesso sento proprio di non avere la forza
di
parlare con lui e di fare ragionamenti… complicati.
Quando si era vista costretta
all’attesa e aveva
dovuto momentaneamente accantonare i suoi piani di andare alla ricerca
di Ulf, Lidia
aveva sentito lo sconforto montare nuovamente e, per qualche istante,
le
lacrime le avevano ancora appannato gli occhi. Accorgendosi del suo
turbamento,
Tito aveva tentato di avvicinarla – se per confortarla o per
scusarsi, la
ragazza non l’avrebbe saputo dire – ma Lidia
l’aveva bloccato con un cenno
deciso della mano e poi era battuta in ritirata verso il piano
superiore, dove
il ragazzo non aveva fortunatamente avuto il coraggio di seguirla.
Se
lui non
fosse mai arrivato in Germanica, tutto questo non sarebbe mai successo, si ripeteva, premendo il
viso contro il cuscino. In quel frangente, il fatto che fosse stata lei a far sì che il ragazzo
arrivasse a
Erding le pareva di poco conto: avrebbe potuto scrivergli chiedendogli
di
rinunciare al suo piano, ma che certezza aveva che Tito
l’avrebbe ascoltata?
Se
solo non
avesse la testa così dura! Pensò la fanciulla,
serrando le mani in un pugno, frustrata.
Se avesse lasciato parlare Karl, se
avesse ascoltato Alexander…
Confusamente, avvertiva che Tito
si era in un certo
senso trovato in balia degli eventi. Era piuttosto improbabile che il
ragazzo
avesse veramente saputo che cosa aspettarsi, quando era partito da Roma
carico
di determinazione e belle speranze, ma Lidia trovava sempre
più difficile
giustificare le sue azioni.
O
forse sto
solo cercando un capro espiatorio che mi permetta di non sentirmi del
tutto
responsabile per quello che è successo…
Mentre era immersa in quelle
riflessioni, qualcuno
bussò alla porta della camera, facendola sobbalzare.
«Sì?» chiese, sollevando
appena la testa dal cuscino.
«Sono io…
posso entrare?»
Nell’udire la voce di
Tito, la giovane si mise a
sedere. Che sia finalmente arrivata la
persona mandata da Alexander?
«Sì, vieni
pure» replicò, rassettandosi la gonna e il
corpetto. Quando il giovane romano aprì la porta, Lidia vide
che sul suo volto
c’era un’espressione tirata, quasi preoccupata.
«Che succede?» chiese,
aggrottando la fronte.
«C’è
una cosa che vorrei farti vedere» rispose lui, un
po’ titubante.
Abbassando lo sguardo sulle sue
mani, Lidia vide che
Tito stava stringendo la tavoletta scura che aveva visto per la prima
volta
nella capanna di Alexander. Quando quella emise un bip
acuto, subito seguito da altri suoni simili, la fanciulla
guardò il ragazzo, interrogativa.
«Io non ho fatto
niente» replicò quello, stringendosi
nelle spalle. «Ha iniziato a suonare per conto suo, un paio
di minuti fa.»
Perfetto, pensò Lidia, alzando
gli
occhi al cielo. E adesso cosa accidenti
sta succedendo?
***
Il
ritardo è
colpa del ponte 25 aprile – 1 maggio passato a Napoli
(città bellissima, tra
parentesi) e di una settimana infernale in ufficio (ho lavorato dalle 8
di
mattina alle 8 di sera).
E
niente, tra
settimane per un capitolo che non è nemmeno il massimo
dell’allegria. Spero di
riuscire ad aggiornare più rapidamente, al prossimo giro!
|
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Capitolo 34 *** 33. Giallo ***
La
tavoletta non suonava in
continuazione, ma emetteva delle serie di tre bip
consecutivi, intervallate da un breve silenzio.
«Guarda»
fece Tito, inclinando
l’oggetto verso di lei e avvicinandosi al letto su cui Lidia
era seduta. Per
una frazione di secondo, la ragazza si ritrovò a pensare che
la presenza del
giovane romano in quel luogo fosse in un certo senso sbagliata,
ma poi accantonò quel pensiero, concentrandosi invece su
quello che Tito stava cercando di mostrarle. Anche se non vi era
più traccia
degli archi azzurrini che si erano levati da essa qualche sera prima,
nella
capanna di Alexander, la superficie di vetro scuro della tavoletta era
costellata da diversi punti rossi, piccoli e luminosi.
«Alexander
pensava che fosse una
mappa» le ricordò il ragazzo. «Credi che
stia indicando qualcosa?»
Quando
Lidia tese le mani, lui le
consegnò il piccolo oggetto e la fanciulla si
stupì di quanto fosse leggero:
pesava decisamente meno di quanto un pezzo di vetro di quelle
dimensioni avrebbe
dovuto pesare. Sistemandosi meglio sul letto e posando la tavoletta
sulle
proprie gambe, Lidia esaminò con più attenzione
quello che aveva sotto agli
occhi.
La
maggior parte dei punti rossi che
aveva intravisto qualche istante prima si limitava a pulsare
debolmente,
aumentando e diminuendo la propria luminosità in maniera
quasi impercettibile,
simili alle fiammelle incerte di candele minuscole. Ve n’era
però uno che
lampeggiava in maniera decisa, quasi con insistenza, come per attirare
l’attenzione su di sé. Quando la fanciulla lo
sfiorò con la punta del dito,
accanto a esso comparvero dei piccoli caratteri ordinati. Erding, lesse Lidia, con una smorfia. Perché la cosa non mi stupisce?
Tito
fece per sedersi accanto a
lei, sul letto. Quando però avvertì il modo
istintivo in cui la giovane si era
irrigidita, intuendo le sue intenzioni, si limitò ad
accovacciarsi a terra
davanti a lei, torcendo il collo per poter vedere meglio la superficie
della
tavoletta. «E quelli cosa sono, secondo te?»
chiese, aggrottando la fronte in
un’espressione concentrata.
Nell’istante
stesso in cui aveva
toccato il vetro scuro, su di esso erano comparsi due piccoli simboli
gialli,
di forma triangolare. L’uno era situato accanto al bordo
destro della
tavoletta, l’altro si trovava poco lontano dal margine
inferiore. Quello che
fece però scorrere un brivido freddo lungo la schiena della
fanciulla fu il
movimento lentissimo, ma inesorabile, con cui essi si spostavano verso
il
centro dello schermo. E non
c’è
assolutamente alcun dubbio su quale sarà il punto in cui si
incontreranno,
comprese la giovane, disegnando con gli occhi la traiettoria lungo la
quale i
due triangoli si sarebbero mossi.
«Non
ne ho alcuna idea» rispose
sottovoce, mentre il suo cuore accelerava i battiti. Per qualche
secondo, il
suo indice rimase sospeso a poca distanza dalla superficie liscia.
C’era una
vocina che le suggeriva che, forse, prendersi troppa libertà
con quello strano
oggetto non era una grande idea. Forse
faremmo meglio a non toccare niente e a far vedere questa cosa ad
Alexander.
Sicuramente lui saprebbe cosa vogliono dire questi simboli… Ma
Alexander
era lontano, ferito, e forse sarebbero passate ancora molte ore, prima
che potessero
rivederlo. E io le risposte le voglio ora, pensò Lidia, caparbia.
Inspirando a
fondo per darsi coraggio e per scacciare il brutto presentimento che
l’aveva
colta, sfiorò con il polpastrello una delle due piccole
icone gialle.
Era
talmente convinta che sarebbe
successo qualcosa che, quando la tavoletta non reagì in
alcun modo, la ragazza
provò una microscopica punta di delusione. Aggrottando
appena la fronte,
premette con più forza il dito sul simbolo luminoso e poi,
non ottenendo ancora
alcun risultato, lo colpì più volte con la punta
dell’indice, picchiettando piano.
Che cos’è questa roba? Si
chiese,
contrariata, mentre Tito le si faceva un po’ più
vicino.
Come
per rispondere alla sua
domanda silenziosa, accanto al triangolino comparve una scritta simile
a quella
apparsa di fianco al punto che indicava il villaggio di Erding. Northern Lights, lesse la fanciulla, con
qualche difficoltà.
«Cosa
vuol dire?» le chiese
immediatamente il giovane romano. «È scritto nella
lingua del posto?»
Lidia
scosse lentamente il capo,
confusa. Non si era mai interrogata su come si scrivesse il dialetto
germanico parlato
al villaggio. Liecht,
pensò, Liecht vuole
dire… vuole dire luce. Che si
scriva per caso “lights”?
Poco
convinta dalla sua stessa
spiegazione, la ragazza provò a colpire anche
l’altro triangolo luminoso che si
avvicinava sempre di più a Erding. Nel vedere la didascalia
assolutamente
incomprensibile che comparve sullo schermo, Lidia arricciò
il naso. Greyhound. Questa
non la capisco proprio.
«Sono
parole che non mi dicono
niente» disse allora, incontrando gli occhi scuri di Tito.
«Per quello che ne
so io, potrebbe anche essere un qualche dialetto germanico:
però non sono
termini che conosco… e, ovviamente, non saprei proprio a
cosa si possano
riferire.»
«Credo
che si tratti di qualcosa
che si sta avvicinando a noi» fece Tito, constatando
l’ovvio. «Dei carri
automatici, forse?»
O delle macchine volanti, aggiunse
silenziosamente Lidia. Date le
circostanze, non poteva fare a meno di pensare a ciò che Ulf
le aveva
raccontato. Possibile che quello che si ritrovava tra le mani fosse
qualcosa
che le persone che prelevavano le offerte – fossero esse
romane o germaniche
- usavano per
comunicare tra di loro? Sarebbe una scoperta
interessante… e forse
pericolosa. Ben guardandosi dal rivelare a Tito i suoi
sospetti, la ragazza
fece un vago cenno del capo. «È
possibile» mormorò, senza sbilanciarsi.
«Io
credo che questa cosa
appartenga ai Sacerdoti: a Donna Erin, o forse all’altro tipo
che abbiamo
incontrato prima» replicò il giovane, giungendo
inconsapevolmente a delle
conclusioni simili a quelle a cui era giunta Lidia.
«Non
mi è chiaro come abbia fatto
Gaio ad avere questa mappa,
però. Chi
gliel’ha data?» indagò lei. Prima di
rispondere, Tito esitò per un attimo e la
soppesò con lo sguardo, come se stesse cercando di decidere
se potesse
veramente fidarsi di lei. Lidia nascose un sorriso amaro, pensando a
quanto
poco tempo bastasse per far svanire la fiducia costruita in anni di
amicizia.
«L’abbiamo trovata addosso a un sospettato
germanico» disse poi il giovane, senza scendere nei dettagli.
«Non so in che
modo fosse arrivata a lui. Potrebbe averla rubata, per quanto ne so
io.»
Lidia
annuì lentamente,
riflettendo. «Può essere» concesse, non
trovando una spiegazione migliore.
Dubitava fortemente che un comune minatore potesse essere il legittimo
proprietario di un oggetto tanto bizzarro, dunque l’ipotesi
di Tito poteva
avere un qualche fondamento di verità. «Che cosa
facciamo?» chiese, poi. Anche
se la tavoletta in sé sembrava tutto sommato innocua, il
fatto che non
smettesse di suonare la rendeva inquieta.
Tito
sospirò e, lentamente, si
alzò in piedi. «Se Alexander fosse qui, la
consegnerei a lui e fine della
storia. Visto però che non è qui – e
che non sembra nemmeno intenzionato a
ritornare tanto presto – credo che la cosa migliore da fare
sia riportarla al
Sacerdote.»
Lidia
lo guadò con gli occhi
sgranati. «Vuoi riportarla a Fratello Kay?»
esclamò, senza preoccuparsi di
nascondere la propria incredulità. «Ma sei
matto?»
Il
giovane romano le rivolse uno
sguardo corrucciato. «Non mi sembra una proposta tanto
assurda. Perché dovrei
essere matto?» La ragazza balzò in piedi,
afferrando al volo la tavoletta un
secondo prima che questa si schiantasse al suolo. «Prima di
tutto, non sappiamo
nemmeno se ‘sta cosa sia effettivamente sua: e se
appartenesse a qualcun altro
e, dandola a Kay, combinassimo qualche pasticcio? E poi… a
me quel tipo non
piace nemmeno un po’. Mi mette i brividi e non ho proprio
nessuna voglia di
andare da lui con un oggetto che qualcuno potrebbe avergli rubato. E se
se la
prendesse con noi? E se pensasse che siamo stati noi, a portargli via
questo
affare?»
Tito
incrociò le braccia. «Mi
pare improbabile» commentò, asciutto.
«Improbabile,
ma non impossibile»
ribatté lei testardamente.
I
due si scrutarono torvamente per
qualche secondo, ma, prima che il ragazzo potesse aggiungere
dell’altro,
qualcuno bussò alla porta d’ingresso e poi, senza
aspettare risposta, l’aprì.
Tito rivolse a Lidia uno sguardo allarmato e, istintivamente, lei
gettò la
tavoletta sul copriletto. «Sarà la persona che ha
mandato Alexander» disse, a
mezza voce, rispondendo alla domanda silenziosa del giovane romano.
Lasciando
a passi rapidi la
camera e raggiungendo la scala di legno, la ragazza si sporse per
sbirciare
verso il piano inferiore. In cuor suo, si ritrovò
assurdamente a sperare che
Ulf avesse avuto un ripensamento e che fosse tornato indietro a
cercarla, ma
quell’illusione ebbe vita breve. Del
resto, perché accidenti avrebbe dovuto bussare, prima di
entrare?
Quando
i suoi occhi si posarono sul
visitatore, però, Lidia provò comunque un tremito
compiaciuto. «Hermann!»
esclamò, ritrovandosi a rivolgere al giovane cognato un
sorriso smagliante.
Alzando
lo sguardo verso di lei,
il ragazzo le sorrise in quella maniera che la fanciulla aveva sempre
trovato
adorabile e che aveva immancabilmente l’effetto di farle
pensare che tutto
sarebbe andato per il meglio. «Oh, sei ancora qui! Meno male!
Avevo paura che
fossi partita di corsa per cercare quell’idiota di mio
fratello…»
Nel
sentire Hermann riferirsi a
Ulf in quel modo, Lidia provò un’ondata di
profondo affetto nei confronti del
più giovane dei figli di Gefrid. Ulf
si è
davvero comportato un po’ come un idiota, lasciandomi qui,
si disse,
trovando il pensiero stranamente consolatorio.
Scendendo
velocemente le scale,
Lidia si trattenne dal seguire l’istinto che la spingeva ad
abbracciare di
getto Hermann. Anche se il ragazzo sembrava sinceramente felice di
vederla – e
anche se i suoi rapporti con Karl non erano mai stati ottimi, se non
ricordava
male – il giovane germanico doveva essere sicuramente
preoccupato per Unna e
per il suo nipotino non ancora nato. E
non è detto che, dopo tutto, non ce l’abbia almeno
un po’ con me.
Giunta
di fronte a lui, la
ragazza si limitò allora a incrociare le braccia e a
sorridergli nuovamente.
«Sì, be’… a dire la
verità, avevo veramente intenzione di andare a cercare Ulf.
Poi, però, ho pensato che fosse meglio riordinare un
po’ le idee… senza contare
che non so proprio dove sia andato. Immagino che non sia a casa di
vostro
padre, giusto?»
Sospirando,
Hermann scosse il
capo e appoggiò sul tavolo un fagottino avvolto in uno
strofinaccio
dall’aspetto vagamente famigliare. «Tieni: ti ho
portato il pranzo. La nonna ha
pensato che non fossi dell’umore adatto per provare a
cucinarti qualcosa.»
«Oh…
è stata gentile» mormorò
Lidia, commossa, prima di fissare Hermann, aspettando che il ragazzo
rispondesse alla domanda che gli aveva posto qualche istante prima.
«No,
Ulf non è da noi» fece
allora il giovane germanico. «Mio padre non lo vede da ieri,
da quando sono
tornati dal loro viaggio. Quello che sappiamo, ce lo ha riferito Katti
questa
mattina. Ci ha detto che Karl era morto e che Ulf intendeva andare via
con
Unna. Dove volesse andare esattamente, non ce lo ha detto: sospetto che
non lo
sapesse nemmeno lei.»
Lidia
aggrottò la fronte.
«Katti?» chiese. Hermann annuì.
«Sì, è la madre di Rolf.» La
fanciulla sentì
crescere ulteriormente la propria confusione. «Ma…
non capisco. Lei era qui,
quando Ulf e Unna sono passati di qua. Era con loro.
Com’è possibile che non
sappia dove sono andati?»
Quell’informazione
parve
sorprendere il ragazzo. «Ah. Non lo sapevo. In effetti,
è…» Hermann lasciò
sfumare la frase e, seguendo il suo sguardo, Lidia vide che Tito,
evidentemente
insospettito dalla sua assenza prolungata e dalle voci che sentiva
giungere dal
piano inferiore, era sceso fino a metà scala.
Dèi, datemi la forza,
pensò la fanciulla, sentendosi
improvvisamente esausta. Tutto d’un tratto, aveva una gran
voglia di dormire,
di appallottolarsi sotto alle coperte e di lasciare che il mondo
andasse avanti
senza di lei. Vorrei solo addormentarmi e
svegliarmi quand’è tutto finito,
pensò, serrando gli occhi per qualche
secondo.
Ovviamente,
quella non era
un’opzione a sua disposizione e allora, gonfiando i polmoni
per farsi coraggio,
la ragazza riaprì gli occhi. «Tito»,
esalò, «vieni qui.» Voltandosi poi verso
Hermann, indicò con un cenno della mano il giovane romano.
«Hermann, questo è…»
«…
il tuo amico?» fece per lei il
ragazzo, inclinando un poco il capo sulla spalla.
«…
sì» confermò la fanciulla,
presa leggermente in contropiede dal tono neutrale del cognato.
«Possiamo
affrontare una cosa alla volta? Vi va?»
Lidia
si sentiva stanca, sia
fisicamente che emotivamente. Curiosamente, quella spossatezza le
sembrò
fungere quasi da anestetico: di punto in bianco, la giovane si rese
conto che
Hermann la intimoriva decisamente
meno di Ulf. Se, per un qualche motivo che non si era mai fermata ad
analizzare, Lidia si era sentita sempre lievemente inferiore al marito
– se non
intellettivamente, quantomeno a livello di status sociale –
Hermann le pareva
in tutto e per tutto un suo pari. Discutere con lui era facile,
comprese, e di
Tito non si doveva preoccupare.
Per
la prima volta in molti
giorni, la giovane ebbe l’impressione di essere
all’altezza della situazione,
di controllarla completamente. Adesso
voglio solo fare un po’ di ordine, si disse,
sentendo un’inaspettata
sensazione di calma scendere su di lei. Voglio
fare chiarezza per bene e ripartire da qui. E al passato ci penseremo
poi più
tardi.
Forte
di quella nuova
determinazione, Lidia si lasciò cadere sulla sedia
più vicina. «Sedetevi»
ordinò ai due ragazzi che si guardavano in silenzio a pochi
metri da lei. Tito farà bene a non
combinare più guai di
quelli che ha già combinato, e Hermann è solo un
ragazzino: sono io quella che
ha il diritto di prendere le decisioni, qui. C’era,
ovviamente, una vocina
che, nel fondo della sua testa, le sussurrava che dare per scontato che
Hermann
si piegasse completamente al suo volere era un grosso errore, ma Lidia
la mise
a tacere – almeno per il momento.
«Allora», disse, rivolgendosi al giovane
germanico, «immagino che di lui sai già un paio di
cose, giusto?»
Il
ragazzo fece un cenno
d’assenso e i suoi occhi verdi scintillarono.
«Quello che so è che è un romano
e che ha ammazzato Karl. Quello che suppongo
è che sia venuto per portarti via e che… non sia
semplicemente un tuo amico?
Questo è quello che Ulf ha detto a nostro padre, quanto
meno.» Dopo una
brevissima pausa, Hermann riprese: «Quello che mi chiedo,
invece, è cosa cavolo
ci faccia qui».
«L’ho
fatto per difendermi!»
sbottò Tito, prima di venire azzittito da Lidia con un gesto
della mano. «Sulle
circostanze che hanno portato alla… morte di Karl ci sarebbe
da discutere» fece
la ragazza. La sua voce tremò leggermente, ma Lidia si
impose di non lasciarsi
sopraffare dai sensi di colpa e di fare del proprio meglio per
mantenere la sua
neonata sicurezza. «Se tutti avessimo agito in modo diverso
non saremmo qui a
parlarne… o forse non sarebbe cambiato e noi ci ritroveremmo
nella stessa
identica situazione. Quello che è certo, però,
è che mi dispiace. Tanto. Più di
quanto avessi creduto.» In preda a un saliscendi emotivo che
la lasciava
leggermente frastornata, Lidia sentì una famigliare tensione
stringerle la gola
e sbatté più volte le palpebre, cercando di
allontanare lo spettro delle
lacrime che, per una frazione di secondo, rischiarono di riempirle di
nuovo gli
occhi.
Hermann
sospirò. «Karl non era il
mio migliore amico e non posso certo dire che il fatto che non ci sia
più non
mi farà dormire dalla disperazione» disse,
schietto. «Però io voglio bene a
Unna e lui per lei era importante. Non ho mai capito quanto, non ho mai
capito
quanto l’amasse veramente, ma… be’, se
non gli avesse voluto bene, non ci
avrebbe fatto un figlio.»
Lidia
annuì e il ragazzo fissò
Tito. «Quindi, il fatto che tu abbia in un modo o
nell’altro causato la sua
morte mi irrita
parecchio.» Davanti
allo sguardo torvo di Hermann, Tito si irrigidì, come
preparandosi per uno
scontro, ma poi il germanico esalò lentamente, come per
allontanare la
tensione. «Ma immagino che di questo si possa discutere in
futuro, quando non
abbiamo due membri della nostra famiglia in procinto di scappare
chissà dove,
giusto?»
«Esatto»
confermò Lidia,
sollevata dal modo in cui il giovane aveva liquidato la questione.
«E, per la
cronaca: io e Tito eravamo fidanzati, a Roma, ma ora non lo siamo
più, ovviamente.
Tra noi due non c’è più niente. Gli ho
spiegato in lungo e in largo che io
voglio stare con Ulf: non è così?»
Tito
sbuffò, sarcastico. «Direi
che sei stata assolutamente cristallina.»
«Se
non ho detto a Ulf che lui
era qui», riprese la fanciulla, guardando con la coda
dell’occhio il giovane
romano. «era solo perché non sapevo come avrebbe
potuto reagire. Un giorno mi
ha detto delle cose, mi ha parlato
di
alcuni discorsi che lui e Karl avevano fatto prima che io arrivassi in
Germanica e io mi sono un po’ spaventata. Avevo paura che a
Tito potesse
succedere qualcosa…» Quando Hermann le rivolse
un’occhiata dubbiosa, Lidia
piegò le labbra in una smorfia esasperata. «Non
stiamo più insieme, ma questo
non significa che non me ne freghi più niente di lui.
È un mio amico, è normale
che gli voglia ancora bene. No?»
«Così
parrebbe» sbuffò di nuovo
Tito, ma nei suoi occhi la ragazza scorse una luce calda che sciolse un
po’
della tensione che si stava accumulando nelle sue spalle.
«Immagino
che sia normale, sì»
confermò Hermann. «Però continuo a non
capire perché lui sia qui.»
«Ecco,
questa… questa è una
storia un po’ lunga» abbozzò Lidia,
mordicchiandosi pensosamente l’unghia del
pollice. «Cercando di farla breve. Quando mi hanno costretta
a partire – a
proposito, hai trovato il mio biglietto?» chiese,
interrompendo immediatamente
la spiegazione. «Sì, l’ho
trovato» replicò il ragazzo, facendole cenno di
proseguire.
«Bene.
Stavo dicendo: quando mi
hanno portato via da qui, ci siamo fermati una notte nella capanna di
un certo
Alexander. Il giorno dopo, io e Tito ci siamo separati e Karl mi ha
trovata e
ha cercato di riportarmi a Erding. Dopo che è successo
quello che è successo,
ho comunque chiesto di essere riportata al villaggio e Alexander si
è offerto
di accompagnarci con un carro automatico. È venuto fino a
qui, ma quando è
arrivata Unna, lei l’ha ferito e…»
«Unna
l’ha ferito?» la interruppe
Hermann, sporgendosi verso di lei. La ragazza annuì.
«Sì, con il coltellino di
Rolf. Mirava a Tito, ma lui si è messo in mezzo e si
è beccato una coltellata
alla spalla.»
Hermann
fischiò e a Lidia parve
quasi ammirato dal coraggio della sorella. «Sì,
be’, morale della storia: lui è
andato a farsi ricucire e ci ha detto di aspettarlo qui, visto che
andarsene in
giro per il villaggio da soli è diventato
pericoloso» concluse la ragazza,
prima di puntare gli occhi in quelli del cognato. «Il che mi
fa sorgere due
domande. Uno: cosa ci fai tu, da solo? E due: come sapevi che mi
avresti
trovato qui?»
Sorvolando
completamente sulla prima
domanda, il ragazzo si concentrò sulla seconda.
«Sapevo che eri tornata a
Erding e che ti avrei trovata a casa perché è
stato Fratello Kay a dircelo. Ci
ha detto che questa mattina eri passata da lui e ci ha raccomandato di
tenerti
d’occhio per evitare che te ne andassi in giro per il
villaggio a fare cose strane. Non
chiedermi cosa volesse dire,
esattamente, perché non ne ho proprio idea.»
«Nemmeno
io» replicò Lidia. Cercò
gli occhi di Tito in cerca di suggerimenti, ma quello si
limitò a scrollare le spalle.
Per
alcuni lunghi secondi, i tre
giovani si guardarono in silenzio, poi Hermann si sporse verso Lidia.
«Allora…
quali sono i piani?»
«Ritrovare
tuo fratello» rispose
prontamente la ragazza. «Ritrovarlo, e costringerlo ad
ascoltare quello che ho
da dire. Se crede di poter scappare via così, si sbaglia di
grosso!» Anche se
con qualche ora di ritardo, l’oltraggio per il trattamento
riservatole dal
marito iniziava a farsi sentire e Lidia sentì
l’indignazione arrossarle le
guance. «Non può dirmi di tornarmene a Roma e
pretendere che io obbedisca come
un cagnolino! Deve starmi a sentire: almeno quello, me lo deve. Non
metto in
dubbio di aver sbagliato, anzi! Ne sono ben consapevole, adesso, ma
devo avere
il diritto di difendermi. Se poi vorrà comunque andare via,
me ne farò una
ragione. Ma almeno potrò dire di averci provato.»
Sì, come no, le
sussurrò malignamente la sua coscienza. Se davvero,
dopo quell’ultimo tentativo, Ulf l’avesse comunque
rispedita a casa, Lidia non
era affatto certa di come avrebbe reagito. Sarebbe davvero stata in
grado di
sopportare il dolore e l’umiliazione?
Hermann
le rivolse uno sguardo
strano. «Non metto in dubbio che tu abbia le tue
colpe», disse lentamente, «ma
Ulf ti ha mai raccontato cos’è successo a Unna?
No, perché se non l’ha fatto,
ti assicuro che anche lui ha la sua bella dose di colpa, sai?»
«No,
non mi ha mai detto niente
di specifico» mormorò lei, scuotendo appena il
capo. «Ha sempre detto che
toccava a Unna parlarmene…»
«Sì,
come no!» sbottò Hermann.
«Come se Unna fosse una che va in giro a raccontare i fatti
suoi così a cuor
leggero! No, mio fratello avrebbe dovuto spiegarti come stavano
esattamente le
cose!» Il ragazzo si interruppe bruscamente, facendo danzare
lo sguardo tra i
due romani. «Lo farei io, ma non è il momento
più opportuno – e poi mi
scuserete, se non ho tanta voglia di parlarne davanti a lui.»
«Nemmeno
mi interessa» lo informò
Tito, incrociando le braccia davanti al petto e lasciandosi scivolare
contro lo
schienale della sedia.
«Be’,
in ogni caso… in ogni caso,
voglio dare a Ulf un’altra possibilità»
borbottò il giovane germanico. «Se poi
continua a non dirti niente, ti racconto io come sono andate le
cose… e poi
vedremo se non era una cosa che avresti dovuto sapere, visto che sei
romana e
che i romani hanno avuto un piccolissimo
ruolo in quello che è successo a nostra sorella.»
Lidia
fece per dire qualcosa, ma
Hermann la interruppe di nuovo. «E poi, voglio dire,
andarsene via così! C’è
proprio da essere cretini! Ti ha lasciato qui da sola? Con tutto quello
che sta
succedendo in questi giorni? E se ti fosse successo qualcosa?»
Davanti
allo sdegno del ragazzo,
la fanciulla si sentì in dovere di difendere almeno in parte
il marito. «Non è
che mi abbia lasciato qui proprio da sola. Con me c’erano
Tito e Alexander: Ulf
mi aveva detto di andare via con loro. Non mi ha abbandonato a me
stessa…»
ricordò, ripercorrendo la conversazione, breve e dolorosa,
avuta poche ore
prima.
Hermann
parve preso alla
sprovvista da quell’informazione, ma incrociò
caparbiamente le braccia sul
tavolo, riflettendo inconsciamente la posa assunta da Tito.
«Be’, in ogni caso,
si è comportato come un idiota! Nostro padre avrà
una o due cosette da dirgli,
quando torna.»
Nella
sua indignazione, Hermann
dimostrava tutta la sua giovane età e Lidia non
riuscì a trattenere un sorriso.
«Sì, effettivamente non si è comportato
in maniera particolarmente
intelligente» decise, lasciando che le parole del ragazzo
rinfrancassero la sua
autostima.
«Tutto
questo è molto
interessante, ma cosa ci facciamo, con quell’affare che
abbiamo lasciato di
sopra?» chiese Tito, ostentando un’espressione
palesemente annoiata. Hermann
aggrottò la fronte. «Quale affare? E,
già che ci siamo: cos’è questo
rumore?»
Tendendo
le orecchie, Lidia si
rese conto che il suono emesso a intervalli regolari dalla tavoletta
era ora
chiaramente udibile anche dalla sala da pranzo. «È
aumentato il volume?»
chiese, rivolta a Tito. «A me pare proprio che sia
aumentato…»
Il
ragazzo si strinse nelle
spalle. «Non lo so, può essere. Credi che sia il
caso di andare a prenderla?»
Quando la fanciulla gli rivolse un cenno d’assenso, il
giovane balzò in piedi e
corse di sopra, lasciando Lidia nuovamente sola con Hermann.
«Dunque, ci
sarebbe anche un’altra cosa che dovresti sapere»
sospirò lei, sistemandosi una
ciocca di capelli dietro un orecchio. «I soldati che hanno
cercato di
riportarmi a Roma avevano con sé una specie di tavoletta
che, se non ho capito
male, hanno sottratto a uno dei minatori che hanno fermato. Alexander
– il tipo
di cui ti ho parlato prima – crede che possa trattarsi di una
mappa… e forse
non ha tutti i torti, considerato che, poco fa, è saltata
fuori una dicitura
con scritto “Erding”. Sospettiamo che in origine
appartenesse a uno dei nostri
Sacerdoti.»
«Il
fatto è che non è proprio una
comune mappa. Sembra fatta di vetro e ogni tanto su di essa compaiono
come dei
pallini luminosi, dei nomi, delle… tracce.
Io non ho mai visto una cosa del genere e, da quanto ho capito, nemmeno
il
Prefetto Caleno. Alexander dev’essere una specie di esperto
di queste cose, ma
anche lui mi è sembrato perplesso. E adesso si è
messa a suonare, e non
riusciamo a farla smettere.»
«Com’è
che questa cosa è rimasta
a voi?» la interrogò Hermann. Lidia
esitò. «Be’, uno dei soldati
l’ha affidata
a Tito. A un certo punto ci siamo dovuti dividere e… non
siamo più riusciti a
ricongiungerci.»
Dopo
qualche istante, Tito scese
di nuovo in sala da pranzo, tenendo tra le mani la tavoletta scura.
«Posso
vederla?» chiese Hermann, allungando una mano in direzione
del giovane romano.
«Sì», replicò quello,
«ma cerca di non toccare niente. Non abbiamo ben capito
come funziona ed è meglio non schiacciare cose a
caso…»
Hermann
gli rivolse un’occhiata
storta, ma poi afferrò la tavoletta con delicatezza, quasi
temesse che l’oggetto
potesse avere delle reazioni inconsulte. «Mh»
mormorò poi, dopo averla studiata
in silenzio per alcuni secondi. «Cosa sono ‘ste
cose gialle?»
Tito
e Lidia si scambiarono
un’occhiata tesa. «Non lo sappiamo» disse
poi la fanciulla. «Tu riesci a capire
cosa vogliono dire quelle parole che ci sono scritte
accanto?» Il ragazzo
scosse subito la testa. «No. No capisco nemmeno in che lingua
siano…»
«Perfetto»
ringhiò Tito trai
denti, attirandosi lo sguardo confuso del ragazzo più
giovane.
«Fino
a poco prima che tu
arrivassi qui, quelle due cose non c’erano»
spiegò rapidamente Lidia. «Sono
comparse solo nel momento in cui la tavoletta ha iniziato a suonare.
Non siamo
riusciti a capire che cosa siano, però, se guardi bene,
vedrai che si stanno
avvicinando a Erding… e la cosa ci preoccupa un
po’. Soprattutto alla luce di
quello che hanno detto Kay e Alexander» concluse poi la
ragazza, tracciando per
la prima volta un collegamento che fino a quel momento era rimasto
implicito.
«Perché,
che cosa hanno detto?»
chiese immediatamente Hermann, posando la tavoletta sul tavolo e
voltandosi per
guardarla meglio.
Lidia
si mordicchiò nervosamente
l’unghia del pollice. Le minacce velate del Sacerdote e il
criptico
avvertimento di Alexander l’avevano impressionata e nella sua
testa la
convinzione che qualcosa di brutto stesse per accadere prendeva sempre
più
forma. Tuttavia, ora che le veniva chiesto di dar voce alle sue
preoccupazioni,
esse le sembravano solo sciocche suggestioni. Ma
non si può mai sapere, si disse la ragazza,
sollevando il mento.
«L’altro
giorno, quando Donna
Erin ha convocato me e Ulf, Fratello Kay mi ha fatto tutto un discorso
a
proposito di come gli Dèi potrebbero decidere di punirci, se
la gente del
villaggio continua a comportarsi in maniera contraria alle loro
leggi» disse,
allora, incontrando gli occhi del cognato. «In
più, come sai, questa mattina
abbiamo incontrato di nuovo il Sacerdote. Be’… con
noi c’era anche Alexander, e
il fatto che Kay sia qui al villaggio l’ha fatto preoccupare.
Infatti ci ha
consigliato di andarcene via il prima possibile, perché, a
quanto pare, quando
quelli come lui arrivano in un posto, le cose iniziano ad andare
male.»
Hermann
aggrottò la fronte, impensierito.
«Cosa vorrebbe dire?» chiese, con una nota di
turbamento nella voce. Lidia
storse le labbra. «Non ci ha detto altro,
purtroppo» mormorò, dispiaciuta.
«Per
farla breve, crediamo che la
cosa migliore da fare sia riportare questa cosa al Sacerdote»
si intromise
Tito. «E, magari, approfittarne per cercare di capire
qualcosa di più a
proposito di questa ipotetica punizione
divina…»
La
fanciulla si voltò
immediatamente verso di lui. «Aspetta un attimo: non
è che avessimo esattamente
deciso di fare così.
Quando Hermann è
arrivato, ne stavamo ancora discutendo. E io ribadisco quello che ho
detto
prima: non mi sembra una grande idea.»
«Perché
no?» la interrogò il
giovane germanico. Lidia si mordicchiò appena le labbra.
«A me quel tipo non piace
nemmeno un po’. Ogni volta che lo vedo, ho come un brutto
presentimento: l’idea
di andarlo a cercare di mia spontanea volontà mi disturba,
ecco.»
«Però
lui non ha tutti i torti»
obiettò il ragazzo, indicando Tito con un cenno del capo.
«Magari si tratta
solo di una delle solite balle dei Sacerdoti e non
c’è nulla di cui
preoccuparsi, però, se non fosse
così…»
«Se
non fosse così, cosa
faremmo?» controbatté la fanciulla. «Se
davvero stesse per succedere qualcosa
di brutto, non è che parlandone con Fratello Kay
risolveremmo qualcosa. Anche
ammesso che lui sia disposto a riceverci e a starci a sentire, non
credo
proprio che riusciremmo a convincerlo a fare qualcosa. Non mi sembra il
tipo di
persona che si preoccupa dei problemi degli altri, o che accetta di
buon grado
i suggerimenti.»
«Forse
no», concordò Hermann, «ma
potrebbe essere utile riuscire quanto meno a farsi un’idea di
come stanno
veramente le cose, non credi?»
Lidia
scrollò le spalle. Certo che
sarebbe utile, pensò,
abbassando pensosamente lo sguardo sul tavolo. Peccato
che non mi sembra proprio che questa gente sia abituata a
parlare chiaro. Perché mai dovrebbe dirci la
verità? Non l’ha fatto nemmeno
Alexander… figuriamoci se lo farebbe Kay!
«Sono
d’accordo» intervenne Tito,
stringendo le mani in un pugno. «Io dico di andare. Alla
peggio, ci libereremo
di questa cosa, così che nessuno possa accusarci di averla
nascosta o di aver
cercato di tenerla per noi.»
«E
poi», rincarò la dose Hermann,
«una volta che non dovremo più gestire questa cosa, potremmo preoccuparci di ritrovare
i miei fratelli, prima che
vadano troppo lontano.»
«Ecco,
questa è la cosa più
importante» sospirò Lidia, giocherellando
nervosamente con i propri capelli.
«Non vorrei aver già perso troppo tempo,
aspettando che Alexander venisse a
recuperarci.»
«E
allora è deciso» concluse
Tito, alzandosi in piedi. «Non perdiamone altro: portiamo la
mappa al Sacerdote
e sentiamo se ha qualcosa di interessante da dirci. Fatto
ciò, io me ne tornerò
dal Prefetto e tu… tu potrai andare a cercare il tuo amato, se è questo che vuoi.
Prima, però, sarebbe il caso di
riuscire a far star zitto questo affare: inizia a darmi sui
nervi» aggiunse il
giovane romano, ignorando lo sguardo velenoso che la fanciulla gli
aveva appena
rivolto.
«Hai
qualche idea?» fece Lidia,
vagamente beffarda. Tito si strinse nelle spalle.
«Be’…» Il ragazzo raccolse la
tavoletta dal tavolo e se la rigirò tra le mani, alla
ricerca di qualche tasto
che potesse arrestare il suono incessante. «Non capisco
nemmeno da dove esca il
suono» borbottò, provando a colpire lo schermo un
po’ a caso.
Dopo
un paio di colpetti,
l’oggetto prese a vibrare intensamente. Tito
sgranò gli occhi, spaventato e,
istintivamente, Lidia balzò verso di lui, posando le proprie
mani su quelle del
ragazzo. «Shh!» sibilò, chinandosi
inconsciamente sulla tavoletta. «Basta!»
Di
punto in bianco, suono e
vibrazione si arrestarono come per magia. «Che cosa avete
fatto?» chiese
cautamente Hermann. I due romani si scambiarono un’occhiata
perplessa. «Io…
niente» mormorò Lidia, perplessa da quel silenzio
improvviso.
«Va
be’, l’importante è che non
faccia più quel bip-bip
irritante»
tagliò corto Tito, posando nuovamente l’oggetto
sul tavolo. «Mangiamo qualcosa
e poi vediamo di disfarci una volta per tutte di questo coso.»
***
Meno
di un’ora più tardi, i tre
giovani si ritrovarono a fissare la porta chiusa della casa che fino a
poco
tempo prima era stata di Donna Erin. Malgrado la brezza tiepida che
spirava in
quel caldo pomeriggio di luglio, Lidia rabbrividì e si
passò inconsciamente le
mani sulle braccia nude, cercando di placare il tremore che
l’aveva colta
all’improvviso. «La Sacerdotessa se
n’è andata» mormorò, a
beneficio di
Hermann. Il ragazzo annuì. «Sì, lo so:
quando Fratello Kay è venuto a parlare
con mio padre, ci ha detto che ha preso il posto di Donna
Erin.»
«Ah,
lo sapevi già» fece la
fanciulla, tornando a fissare la porta in legno scuro. «Cosa
facciamo?
Entriamo?» Accanto a lei, Tito piegò le labbra in
una smorfia che aveva solo
una vaghissima somiglianza con un sorriso. «Direi proprio di
sì. Non siamo
venuti qui per ammirare il panorama, no?»
Stringendo
la tavoletta sotto il
braccio sinistro, il giovane romano bussò con decisione.
Quando, dopo alcuni
istanti, dall’interno non giunse alcuna risposta, il ragazzo
impugnò la
maniglia e spinse fino a quando la porta non ruotò
silenziosamente sui cardini.
«Be’, per lo meno è aperta»
commentò, asciutto.
Senza
esitare, Tito si introdusse
nella casa della Sacerdotessa e Hermann lo seguì a ruota.
Lidia indugiò qualche
secondo sull’uscio, in preda alla netta sensazione di essere
in procinto di
fare qualcosa che sarebbe stato decisamente più giusto
– e più saggio – non
fare. Non si entra in casa di estranei
senza esservi stati invitati. La voce di sua madre le
risuonò in testa dopo
mesi di silenzio e la ragazza deglutì, sentendosi a disagio
davanti alla
prospettiva di trasgredire a uno dei primi principi di buona educazione
che le
fossero mai stati impartiti.
Oh, che idiozia! La sferzò
pochi istanti dopo la sua coscienza. Nemmeno
fosse la prima volta che ti comporti
in maniera poco onorevole. E poi è per una buona causa, no?
«C’è
nessuno?»
La
voce di Tito la costrinse a
riscuotersi e Lidia raggiunse i due giovani uomini nella sala in cui
Donna Erin
era solita fare aspettare i propri ospiti. «Credi che
Fratello Kay sia in
casa?» chiese la fanciulla, facendo danzare gli occhi
tutt’intorno a sé. Anche
se si era decisa a entrare, non poteva certamente dire di sentirsi a
proprio
agio. La sensazione di essere fuori posto – o forse di
trovarsi nel posto
sbagliato, al momento sbagliato – si era acuita e la ragazza
aveva i nervi a
fior di pelle.
«Non
c’è motivo di essere
nervosi» le disse gentilmente Hermann, percependo il suo
turbamento. «In fin
dei conti, non stiamo facendo nulla di male: vogliamo solo consegnare
al
Sacerdote un oggetto che forse gli appartiene.» Malgrado quel
tentativo di
rassicurarla, Lidia vide che il ragazzo pareva nervoso almeno quanto
lei, e
così si astenne dal commentare.
«Sembrerebbe
proprio che non ci
sia nessuno» mormorò Tito, con in viso
un’espressione che a Lidia parve quasi
delusa. «Cosa facciamo? Lasciamo la mappa da qualche parte
oppure proviamo a
dare un’occhiata in giro, nel caso il Sacerdote non ci avesse
sentito?»
«Questo
posto non è esattamente
una reggia: se Fratello Kay fosse in casa, ci avrebbe
risposto» replicò la
giovane. «Credo che sarebbe meglio lasciargli la tavoletta
sul tavolo e
andarcene via… magari prima che lui faccia ritorno.
Sarò paranoica, ma a me la
situazione continua a sembrare un pochino equivoca. Credo proprio che,
al di là
delle nostre intenzioni, non sarebbe felicissimo di trovarci
qui.»
Tito
storse le labbra, dubbioso,
e abbassò ancora una volta lo sguardo sulla tavoletta scura.
Avvicinandosi a
lui, Lidia vide che, anche se ora l’oggetto era completamente
silenzioso, i due
triangoli gialli dai nomi impronunciabili non si erano fermati e
distavano ormai
solo pochi centimetri dal puntino che indicava Erding.
«Se
ce ne andiamo così, però, non
riusciremo a scoprire niente di più sul pericolo che incombe
sul villaggio.»
Senza che i due romani se ne accorgessero, Hermann era giunto alle loro
spalle
e stava a sua volta osservando la mappa con aria concentrata.
«E se provassimo
a dare un’occhiata in giro? Giusto una cosa veloce, per
assicurarci che non ci
siano altre cose strane. Magari
riusciamo
a trovare qualcosa di utile...»
Lidia
scosse immediatamente la
testa. «Assolutamente no!» sbottò,
portandosi le mani ai fianchi. «Non possiamo
metterci a ficcare il naso in giro: se Kay arrivasse e ci cogliesse sul
fatto,
non avremmo più nessunissima giustificazione. Non facciamo
idiozie: lasciamo
qui la mappa e andiamocene via.»
«Il
ragazzo ha ragione: se
davvero vogliamo chiarirci le idee, dobbiamo approfittarne»
mormorò Tito
lentamente, ignorando completamente le proteste di Lidia.
«Sbrighiamoci, però.
Facciamo solo un giro veloce e, se sembra tutto normale,
ce la filiamo.»
La
ragazza non riusciva a credere
alle proprie orecchie. «Ma cosa state dicendo?»
sibilò, guardando i due
giovani. «Ma siete impazziti o cosa? Non è un
gioco! Non stiamo facendo una
caccia al tesoro, non siamo… non siamo investigatori
alla ricerca di indizi. Cosa cavolo vi aspettate di trovare? Un manuale
pratico
che spiattella tutti i dettagli della punizione divina che
cadrà su Erding? E
che magari spiega pure come affrontarla?»
Tito
le lanciò uno sguardo irritato.
«Ovviamente no» scandì. «Per
quanto mi riguarda, voglio solo vedere che non ci
siano altri oggetti tipo questo o altre cose altrettanto strane. Non
voglio
portarmi via niente, sia chiaro: se però dovessi imbattermi
in qualcosa di
insolito, vorrei vederlo da vicino per poi andare a fare rapporto al
Prefetto.»
Fare rapporto, ripeté
silenziosamente Lidia. Ma è mai
possibile che questo qui si crede già un soldato?
È poco più
che un ragazzino senza alcun addestramento!
«Io,
invece, non so proprio cosa
aspettarmi, perché non ho idea di cosa ci sia in
ballo» fece a sua volta
Hermann. «Però un’occhiata voglio darla
lo stesso.»
Lidia
scosse lentamente il capo,
mentre la tensione che le nasceva a livello dello stomaco le avvolgeva
a spire
lente gambe e braccia, facendola tremare in maniera quasi
impercettibile.
Avrebbe protestato ancora, se non avesse avuto la netta sensazione che
l’unico
risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato di perdere ancora
più tempo. «E va
bene» sospirò, assolutamente poco convinta.
«Diamoci una mossa, però. Non
voglio rischiare di venire scoperta e, soprattutto, non voglio perdere
troppo
tempo: te lo ricordi, vero, che dobbiamo andare a cercare
Ulf?» chiese, rivolta
a Hermann.
«Certo
che me lo ricordo» annuì
il giovane germanico. «Saremo velocissimi, vedrai. Se vuoi,
però, tu puoi
restare qui e controllare che non arrivi nessuno.»
Lidia
valutò quella proposta, ma
la prospettiva di rimanere da sola in quella casa che ormai le metteva
i
brividi era decisamente poco allettante. «No,
grazie» declinò. «Vengo con voi,
così vi metto anche un po’ di fretta.»
Tito alzò platealmente gli occhi al
cielo. «Muoviamoci, allora.»
Trovandosi
al piano inferiore, i
tre iniziarono con l’ispezionare i locali situati al
pianterreno. Trovarono una
cucina talmente lucida e ordinata che ebbero l’impressione
che qualcuno
l’avesse pulita minuziosamente e poi non l’avesse
più utilizzata, una dispensa
ampia, ma nella quale erano stati sistemati solamente pochi prodotti di
prima
necessità, un piccolo bagno spoglio e la sala con le
poltrone bianche che Lidia
aveva imparato a conoscere piuttosto bene. «Questo
è una specie di studio» fece
la fanciulla, quasi sottovoce. «Quando Donna Erin abitava
ancora qua, lo usava
per accogliere gli ospiti. E anche Kay fa la stessa cosa, per quanto ho
avuto
modo di vedere: quando sono stata convocata qui, lui era seduto proprio
lì,
alla scrivania…»
Non
appena quelle parole
lasciarono la sua bocca, Lidia si pentì di averle
pronunciate, ma oramai era
troppo tardi. Tito si diresse a grandi passi verso lo scrittoio e, dopo
aver
percorso rapidamente con lo sguardo il ripiano pulito e ordinato,
occupato da
un unico portapenne, scostò la sedia e si
accovacciò di fronte ai cassetti.
«Vediamo un po’» mormorò,
aprendone uno.
Il
ragazzo frugò velocemente nei
diversi scomparti e Lidia sbiancò. «Non lasciare
le cose in disordine» gli
ordinò, in un sussurro urgente.
«Sono
solo cianfrusaglie inutili»
annunciò lui, una manciata di minuti più tardi.
«Però c’è un blocco di
appunti
scritti in una lingua strana. Immagino che non ci sia alcuna speranza
che voi
riusciate a leggerla, giusto?» Così dicendo
mostrò ai compagni un quadernino
con la copertina di cartoncino verde, le cui pagine erano piene di
parole
scritte in lettere piccole, ordinate, leggermente oblique. Lidia
seguì con gli
occhi gli svolazzi delle “g” e le linee decise
delle “l”, stentando a
riconoscere le lettere scritte in una grafia che non le era famigliare
e che le
appariva diversa da quelle che aveva conosciuto fino a quel momento.
«Io
non ci capisco un tubo»
dichiarò Hermann, lanciando un’occhiata scettica
alla pagina che Tito gli stava
esibendo. «E io nemmeno» sospirò Lidia,
con una punta di frustrazione.
Di
fronte a quelle risposte, Tito
sfogliò rapidamente il quadernetto e poi, quando
trovò un foglio che non
apparteneva al blocchetto, ma vi era stato inserito in un secondo
momento, lo
piegò in quattro e se lo infilò in tasca.
«Rimettilo
subito al suo posto!»
sbottò la ragazza. «Avevi detto che non avresti
preso nulla!»
Il
giovane scrollò le spalle. «Ma
chi vuoi che si accorga della sparizione di un pezzo di
carta?»
Lidia
esalò con forza dal naso,
irritata dalla leggerezza con cui Tito stava affrontando
l’intera vicenda. «Non
sappiamo nemmeno che cosa ci sia scritto, su quel pezzo
di carta: e se si trattasse di cose importanti?»
«Dubito
che le avrebbero scritte
su un foglietto volante, in quel caso.» Le fece notare lui.
«Questa lingua mi
incuriosisce: e se si trattasse della stessa utilizzata nella mappa? Al
campo
abbiamo un traduttore: se riuscisse a decifrare questo foglio, potrebbe
aiutarci a capire cosa sono quei due simboli gialli che si stanno
avvicinando
al villaggio.»
Anche
se riusciva a vedere la logica
nel discorso del ragazzo, Lidia si rifiutò di dargliela
vinta. «Fai un po’ come
credi, allora» ringhiò. «Se Kay se ne
accorgerà e verrà a cercarti, però,
non
aspettarti che io ti difenda.»
«Tu
non preoccuparti» replicò
Tito, secco. «Piuttosto, dimmi: sai cosa
c’è al piano superiore?» La ragazza si
strinse nelle spalle, ancora infastidita dall’atteggiamento
dell’amico. «Non ci
sono mai stata, ma suppongo che ci siano le camere da letto. E forse un
altro
bagno?»
Mentre
salivano le scale di legno
che portavano al primo piano, Lidia sentì aumentare il
nervosismo che
l’accompagnava fin dal primo momento in cui aveva messo piede
in casa. Ci stiamo mettendo troppo tempo,
pensò,
lanciando un’occhiata inquieta alla porta. Fratello
Kay potrebbe rientrare da un momento all’altro e ci
beccherebbe con le mani nel
sacco.
Quando
raggiunsero il
pianerottolo, Hermann si diresse immediatamente verso la porta che
avevano di
fronte. «Questa è una camera» disse.
«A colpo d’occhio, direi che non
c’è nulla
di strano, però, se volete, possiamo controllare un
po’ meglio…»
«Venite
un po’ qui, invece»
replicò Tito, senza dargli modo di terminare la frase.
«Questa porta è chiusa a
chiave: scommetto che, se c’è qualcosa di
interessante, si trova qui dentro.»
Il
giovane romano era fermo
davanti alla stanza che si trovava all’estremità
sinistra del corto corridoio
che occupava parte del piano superiore. Quando Lidia lo raggiunse, vide
che la
porta era tenuta chiusa da una leva di ferro. Automaticamente, la
fanciulla
impugnò l’anello che fungeva da maniglia e lo
strattonò un paio di volte. «È
proprio chiusa» commentò, attirando su di
sé lo sguardo sarcastico del ragazzo.
«Mi sa che ci tocca lasciar perdere…»
«Questa
serratura non mi sembra
un gran ché» commentò Hermann,
raggiungendoli. «Non so dove sia andato il
Sacerdote, ma immagino che sia partito piuttosto di fretta, se ha
chiuso la
porta solo in questo modo…»
La
fanciulla aggrottò la fronte.
«A me sembra che l’abbia chiusa in modo
più che adeguato: a meno che tu non
abbia una chiave nascosta da qualche parte, non vedo proprio come
potremmo fare
ad entrare…»
Il
ragazzo le rivolse un sorriso
sghembo. «Stai un po’ a vedere!»
Avvicinandosi ulteriormente all’uscio, Hermann
mise mano ai piccoli bulloni situati accanto alla leva e li
svitò uno ad uno,
con una perizia e una rapidità che fecero capire a Lidia che
quella non era la
prima volta che il cognato faceva una cosa del genere. Sentendosi
osservato, il
ragazzo le sorrise ancora. «Lo sai quante volte Unna e Ulf mi
hanno chiuso
nelle stalle, quando ero bambino? Se non avessi imparato a svitare i
catenacci,
ci avrei passato delle giornate intere…»
Quando
anche l’ultimo bullone fu
svitato, dall’altra parte della porta giunse un piccolo tonfo
sordo. Arretrando
di mezzo passo, il giovane germanico sollevò una gamba e
sferrò un calcio alla
porta, che tremò e si socchiuse di qualche centimetro. La
leva oppose
resistenza, ma Hermann la spinse e manovrò fino a quando la
porta non fu libera
di aprirsi del tutto. «Prima di andarcene, dobbiamo solo
ricordarci di sistemare
il tutto. Mi ci vorrà qualche minuto, quindi è
meglio non passarci troppo
tempo, qui dentro.»
Senza
dire una parola, Tito
rivolse al ragazzo un cenno di ringraziamento e poi scivolò
nella stanza. Lidia
preferì fermarsi sull’uscio, esaminando per
qualche istante sul catenaccio che
pendeva, storto e inutile, sull’altro lato del pannello di
legno. Il fatto che
quella sembrasse una serratura fatta apposta per chiudere
fuori qualcuno le parve sospetto, ma l’esclamazione
dei
suoi due accompagnatori la distrasse da quei pensieri. «Lo
sapevo, io, che ci
avremmo trovato qualcosa di interessante!» fece Tito, con un
sorriso eccitato
disegnato sul volto.
La
stanza che si apriva davanti
ai loro occhi era profondamente diversa da quelle che avevano trovato
nel resto
della casa. Se gli altri locali rientravano perfettamente nello stile
delle
abitazioni germaniche, con i loro pavimenti di legno, le pareti di
calce e i
soffitti con le spesse travi d’abete a vista, quella in cui
si trovavano ora
era un semplice vano completamente bianco. Bianche erano le mattonelle
che
ricoprivano il pavimento e le pareti fino all’altezza di un
metro e mezzo,
bianco era lo smalto di cui era dipinto il soffitto, bianche le luci
che si
erano accese al loro ingresso e che correvano lungo il bordo superiore
delle
pareti. La finestra sul fondo della stanza era sbarrata da degli scuri
che
impedivano alla luce del sole di penetrare nel locale.
«Non
capisco» disse Hermann,
guardandosi attorno confuso. «Che cos’è
questo posto? Un ripostiglio?»
Non
v’erano tappeti, né vasi, né
alcuna suppellettile che potesse rendere la stanza vagamente
accogliente. Gli
unici elementi d’arredo erano il minuscolo tavolino quadrato
posto al centro
del locale, la sedia di acciaio posizionata accanto ad esso ed alcuni
armadietti metallici disposti lungo le pareti. Nel locale, che a Lidia
parve
angusto e claustrofobico, regnava un odore strano: polvere,
umidità e qualcosa
di aspro e sottile che la fanciulla non seppe identificare.
«Non…
non lo so» mormorò Tito,
con gli occhi sgranati, rispondendo alla domanda che Hermann aveva
posto poco
prima. Avvicinandosi a Lidia, le porse la tavoletta. «Tienila
un attimo, per
favore. Facciamo una ricerca veloce: è probabile che
troveremo solo altre
scartoffie, però…»
La
ragazza afferrò la mappa con
le mani sudate e se la fece scivolare nella tasca del grembiule.
«D’accordo,
però cercate di toccare il meno possibile. Questo posto non
mi piace. E, Tito,
mi raccomando: da qui non portiamo via niente, chiaro? Assolutamente
nulla!»
Il
ragazzo le rivolse uno sguardo
teso. «Non sono cretino: questo posto non piace nemmeno a me.
Però mi pare la
prova lampante che i vostri Sacerdoti nascondono qualcosa di strano.
Non
possiamo rinunciare a quest’occasione di scoprire qualcosa di
più.»
Lidia
avrebbe voluto replicare
che in realtà sì, potevano benissimo girare sui
tacchi e lasciare Kay ai suoi
misteri e alle sue stanze bianche. Avrebbero potuto fare ciò
che Alexander
aveva raccomandato loro di fare: recuperare Ulf e abbandonare il
castello in
tutta fretta. Tuttavia, c’era qualcosa che le impediva di dar
voce a quei pensieri:
una curiosità strisciante, la sensazione di essere a un
passo dallo scoprire
qualcosa di importante. «Certo, però state
attenti» mormorò, con la voce un po’
strozzata, stringendo istintivamente le dita sullo stipite della porta.
Rivolgendole
un cenno d’assenso,
Hermann fece scorrere lentamente l’anta
dell’armadietto più vicino. Lidia si
ritrovò a trattenere il fiato, poi esalò un
sospiro quando scorse l’espressione
delusa del giovane. Il ragazzo estrasse un fascicoletto scritto nella
stessa
lingua incomprensibile che avevano avuto modo di osservare nello studio
di
Donna Erin. «Ecco, appunto» disse, sventolando
affinché i due compagni
potessero vederlo. «Scartoffie. Qui ci sono solo un mucchio
di scartoffie.»
«Qui
invece potrebbe esserci
qualcosa di interessante» disse Tito che, nel frattempo,
aveva raggiunto l’armadietto
più vicino alla finestra sbarrata. «Non
è un’altra mappa, né niente di simile,
però…» Con estrema attenzione, il
giovane romano posò sul tavolino una specie
di cubo di plastica in cui erano inseriti una moltitudine di
cilindretti
colorati. Hermann gli rivolse uno sguardo incuriosito.
«Cos’è
quell’affare?»
Tito si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea.
Parrebbero… contenitori?»
Dalla
sua postazione accanto alla
porta, Lidia allungò il collo per vedere meglio, senza
però trovare la forza di
volontà di entrare in quella stanza che le faceva mancare il
respiro. Dopo aver
sistemando il fascicolo là dove l’aveva trovato,
Hermann raggiunse il romano
accanto al tavolo. «Contenitori con dentro cosa,
esattamente?»
Dopo
un istante di esitazione,
Tito scelse un cilindretto dal tappo giallo e lo estrasse dal
contenitore. La parte
inferiore della provetta era trasparente e il ragazzo se la
accostò al volto,
osservando la polvere biancastra che vi era contenuta.
«Sembrerebbe quasi
talco, ma dubito che lo sia, no?» chiese, lanciando
un’occhiata veloce a
Hermann.
Rapido,
il giovane svitò il tappo
del piccolo recipiente e provò ad annusarne il contenuto.
«Non sa di niente»
decretò, stringendosi nelle spalle. Riposta la prima
provetta nel contenitore,
ne estrasse un’altra dal tappo verde e poi una con il tappo
blu. «Sinceramente,
non capisco proprio cosa accidenti siano queste cose»
mormorò, alzandole contro
la luce. Nella prima era contenuta una sorta di fanghiglia grigiastra,
mente la
seconda pareva custodire delle foglie secche, tritate in frammenti
minuscoli.
«Forse
sono dei campioni di
qualche tipo?» propose Lidia, sporgendosi leggermente verso
di loro. «Non so
cosa facciano i Sacerdoti durante tutto il giorno. Un po’
pregheranno, ma poi? Magari
fanno degli studi, delle ricerche…»
«Secondo
me, si limitano a
complottare ai nostri danni» ridacchiò Hermann,
sarcastico.
Tito
sorrise. «Mi sa che Lidia ha
ragione. Dopotutto, temo che questo affare non sia poi così
interessante.»
«Allora
ce ne andiamo?» chiese la
ragazza, che iniziava a provare una certa insofferenza. «Da
quanto saremo qui?
Sarà passata almeno mezz’ora dal momento in cui
siamo entrati in casa: è
decisamente ora di andare.» Il giovane romano
annuì. «Sì, sì, adesso ce ne
andiamo» concesse, sistemando il contenitore con le provette
all’interno dell’armadietto
e richiudendo l’anta. «Lasciaci solo dare
un’occhiata rapida agli altri
scaffali.»
«Se
proprio dovete…» mormorò lei,
torcendosi le mani in preda al nervosismo. Nei minuti successivi, i due
giovani
passarono rapidamente in rassegna ai ripiani di tutti gli altri
armadietti: vi
trovarono altri contenitori di provette simili a quello esaminato da
Tito,
altri fascicoletti incomprensibili, alcuni libri sulle piante
medicinali della
Germanica e quello che a Lidia parve una specie di elenco o indice, ma
nulla di
veramente degno di nota.
Quando
giunsero all’ultima teca,
quella più vicina alla porta, Tito si irrigidì,
aggrappandosi pesantemente all’intelaiatura
di ferro dell’armadio. Hermann, che era di fianco a lui, gli
posò
istintivamente una mano su un braccio, prima di ritrarla come se fosse
stato
scottato.
«Tito?»
chiese Lidia. «Va tutto
bene?»
Il
ragazzo annuì. «Sì, mi è
solo
venuta una fitta di mal di testa. Mi sembra che in questo posto inizi a
mancare
l’aria…»
«Pare
proprio anche a me»
concordò lei, indietreggiando di un passo e riportandosi in
corridoio. «Direi
che abbiamo cercato abbastanza. Abbiamo buttato via un sacco di tempo
in
maniera del tutto inutile: adesso andiamo. Tu te ne torni da Caleno, e
io e
Hermann vediamo di rintracciare mio marito. Che ne dite?»
Hermann
parve leggermente
combattuto e lanciò un’ultima occhiata alla
stanza, ma, dopo qualche secondo,
annuì a sua volta. «D’accordo: fuori
tutti, che devo sistemare il catenaccio.»
***
Capitolo molto significativo, come potete vedere
*insert sarcasm here*
Nelle prossime settimane vedrò di
rimaneggiarlo un pochino e magari di
cambiare un po’ di cose che non mi convincono. Il prossimo
aggiornamento non
sarà a breve: causa matrimonio di perfetto sconosciuto e
ricerca di un vestito
decente rimandata all’inverosimile, fino a lunedì
non scriverò nemmeno una
parola.
In più, stimo che, per buttare
giù praticamene ex-novo il prossimo
capitolo mi ci vorranno almeno due settimane.
Eh, va be’… pazienza!
|
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Capitolo 35 *** 34. In volo ***
A
Hermann ci vollero quasi dieci
minuti per fissare nuovamente il chiavistello alla porta. Lidia lo
osservò
lavorare appoggiata alla balaustra di legno che delimitava il
corridoio. Fai un buon lavoro, gli
raccomandò
mentalmente. Ci manca solo che Kay si accorga
che abbiamo ficcato il naso tra le sue cose. Già
è abbastanza grave che Tito si
sia intascato quel foglietto…
La
fanciulla cercò con gli occhi
il giovane romano e lo trovò seduto sul primo gradino della
scala che conduceva
al piano inferiore, lievemente ripiegato su se stesso. Un po’
preoccupata, gli
si avvicinò. «Non stai bene?» gli
chiese, accovacciandosi al suo fianco.
Il
ragazzo alzò su di lei degli
occhi che a Lidia parvero stranamente lucidi. «Non lo
so» mormorò, indeciso.
«Mi è venuto un po’ di mal di testa e mi
sento… strano. Un
po’ indolenzito, come quando stai covando
l’influenza.
Hai presente?»
«Sei
pallido» notò la fanciulla,
posandogli una mano sulla fronte. «Non avrai mica la febbre,
vero?»
Tito
scosse il capo. «No, non mi
sento la febbre…»
Soppesandolo
ancora un istante
con gli occhi, Lidia si rimise in piedi e raggiunse Hermann, ancora
intento a
riavvitare i piccoli bulloni che fissavano il catenaccio.
«Hai quasi finito?»
si informò a bassa voce. Il germanico annuì.
«Ci sono quasi. Perché?» Lei
lanciò una rapida occhiata alle proprie spalle.
«Mi pare che Tito stia poco
bene: credo che sia meglio riportarlo all’accampamento un
po’ in fretta.»
Il
ragazzo interruppe per un
istante il proprio lavoro. «Lo vuoi accompagnare?»
chiese, leggermente stupito.
«Credevo che avessi fretta di ritrovare Ulf.» Lidia
esitò. «Sì, è
vero»
mormorò, poi. «È solo che non so se sia
il caso di mandarlo in giro da solo. Lo
vedo un po’ strano.»
Hermann
seguì lo sguardo della
ragazza e si soffermò per qualche momento sulla figura china
del giovane
romano, poi annuì. «Va bene. Qui ho praticamente
finito. Poi, se vuoi, vengo
con te fino al campo. Se non ti dispiace, però, preferirei
non entrare… non è
un ambiente in cui mi sentirei particolarmente a mio agio.»
Lidia
sorrise. «Non preoccuparti:
troviamo qualcuno che lo accompagni in infermeria e poi ce ne andiamo.
Non
intendo certo passarci la giornata, in quel posto.»
Fedele
alle sue previsioni, pochi
minuti più tardi Hermann avvitò anche
l’ultimo bullone. «Ecco fatto!»
esultò.
«Possiamo anche togliere il disturbo, adesso.» Con
un cenno del capo, la
fanciulla raggiunse Tito in cima alle scale.
«Sentito?» gli chiese, porgendogli
una mano per aiutarlo ad alzarsi. «Andiamo!»
Quando
il palmo del ragazzo toccò
il suo, Lidia si accorse con stupore che la mano de giovane era coperta
di
sudore freddo. «Hai le mani gelate»
mormorò, strofinandogli istintivamente le
dita nel tentativo di scaldarle. Iniziava ormai a intuire che
c’era qualcosa
che non andava – dopotutto, Tito era stato in perfetta forma
fino a mezz’oretta
prima – ma fu solo quando il ragazzo fece per alzarsi in
piedi e crollò
immediatamente contro il muro, che Lidia si rese conto di quanto grave
potesse
essere la situazione. «Ti gira la testa?» gli
chiese, con gli occhi sgranati e
il cuore in gola.
Per
tutta risposta, il ragazzo
emise un gemito basso e si premette una mano tra gli occhi, come per
allontanare una sensazione sgradevole. «Mi fa…
male» balbettò, con voce
impastata. «Non riesco… le gambe.»
Lidia
gli si avvicinò
ulteriormente e, guidata dall’istinto, prese un braccio del
ragazzo e se lo
fece passare sopra le spalle. «Non ti senti le
gambe?» insistette, cercando di
capire quale fosse esattamente il problema. Tito scosse lentamente la
testa.
«No. È…» con la mano, il
giovane fece un movimento circolare davanti al proprio
viso, poi aprì e chiuse la bocca un paio di volte, come alla
ricerca di parole
che non venivano. «Gli occhi, non… non vedo bene.
È a macchie.»
«Forse
ha avuto un calo di
pressione» interloquì Hermann, portandosi
all’altro fianco del ragazzo e
sostenendolo a sua volta. «Lascia, lo aiuto io: è
troppo pesante, per te.»
Angosciata,
Lidia retrocedette di
un passo, senza staccare gli occhi dal volto sempre più
pallido dell’amico.
«Ma… così all’improvviso?
Fino a un momento fa non aveva assolutamente nulla!»
Il giovane germanico si strinse nelle spalle. «Non so che
cosa dire… portiamolo
dal medico del campo, lui saprà sicuramente curarlo meglio
di noi. Comunque
potrebbe essere che in quella stanza mancasse un po’
l’aria: anch’io ho come un
accenno di mal di testa.»
«Mh.»
Lidia annuì preoccupata.
Per qualche motivo, la spiegazione fornita da Hermann le pareva poco
convincente. C’era qualcosa nell’aspetto di Tito,
nella sua postura, che le
faceva correre dei brividi ghiacciati per tutto il corpo e che le
gridava di
scappare il più lontano possibile.
Ma che cosa vuoi saperne, tu, si disse,
stringendo i pugni. Ti ricordo che credevi di
soffocare, quando
invece avevi solo paura di sposarti. Per non parlare di quando ti sei
messa a
tremare come una foglia semplicemente perché hai sentito un
rumore strano fuori
dalla finestra.
Ricordandosi
della propria
tendenza a ingigantire ogni problema, Lidia fece un respiro profondo
– ma
tremulo – e si impose di mantenere i nervi saldi.
Avvicinandosi di nuovo a
Tito, gli posò una mano sul braccio.
«Coraggio» gli disse dolcemente. «Adesso
ti portiamo fuori: un po’ di aria fresca ti farà
bene, vedrai.»
Lentamente
e non senza qualche
difficoltà, Hermann accompagnò il romano
giù per le scale. Questi non si
lamentava, ma inciampava spesso, rischiando in più di
un’occasione di far
cadere anche il suo accompagnatore. «Cerca di sollevare un
po’ di più i piedi»
gli disse Hermann, a denti stretti, con il volto contratto dalla fatica.
Quando
raggiunsero la porta
d’ingresso, Lidia sentì in bocca un sapore di
sangue: si accorse solo in quel
momento di essersi mordicchiata un pollice fino ad aver aperto una
piccola
ferita rosso vivo alla base dell’unghia. Asciugandosi
nervosamente la mano nel
grembiule, la fanciulla si portò accanto al cognato.
«Credi di riuscire a
trasportarlo fino all’accampamento militare?» gli
chiese a bassa voce.
«Dobbiamo camminare almeno
mezz’ora…»
Il
ragazzo storse la bocca.
«Anche di più, di questo passo.» Con
l’apprensione che le stringeva lo stomaco,
Lidia abbassò lo sguardo sui pochi gradini di granito che
separavano il cortile
dall’uscio della casa di Donna Erin. «Forse
converrebbe dividerci» disse,
incerta. «Forse… potrei aspettarti qui con Tito e
tu potresti correre
all’accampamento e cercare qualcuno che ci possa aiutare.
Oppure, melio ancora:
io vado a cercare aiuto e tu mi aspetti qui.»
Davanti
a quella proposta,
Hermann scosse il capo con decisione. «No, non se ne parla
proprio. Non puoi
andartene in giro per i boschi così, tutta sola:
è troppo pericoloso.» Malgrado
la situazione, Lidia riuscì a sollevare un angolo della
bocca in un sorrisetto
sarcastico. «Ah, beh! Non è che muovendoci tutti
insieme saremmo molto più al
sicuro, però!» Il giovane germanico si strinse
nelle spalle. «Lo so, ma è pur
sempre meglio che spedire solo te.»
La
ragazza chinò il capo,
facendosi di nuovo seria. Hermann aveva ragione, naturalmente.
«Va bene»
sospirò. «Andiamo, allora.» Osservando
con la coda dell’occhio il volto terreo
di Tito, la fanciulla fu tentata di portarsi di nuovo la mano alla
bocca e
riprendere a torturarsi il pollice. Speriamo
che Tito non peggiori, si disse, preoccupata. Se
fossimo costretti a portarlo di peso fino al campo, non ce la
faremmo mai.
Quando
si misero in marcia,
Hermann imboccò una strada che non era quella che Lidia
aveva percorso poco
tempo prima, quando Lucio l’aveva accompagnata da Tito.
«Tagliamo attraverso il
bosco» decise il ragazzo. «Dovremmo arrangiarci a
camminare sul sentiero, ma
almeno arriveremo prima alla strada che porta
all’accampamento. Se
attraversassimo tutto il villaggio, ci metteremmo
un’eternità…»
Erding
pareva quasi completamente
deserta. La casa della Sacerdotessa si trovava in una posizione
piuttosto
defilata e i tre giovani dovettero camminare solo per alcune centinaia
di
metri, prima di raggiungere il limitare del bosco. Ciononostante, Lidia
fece in
tempo ad accorgersi con un certo stupore che le uniche persone che
incrociarono
sul loro cammino erano delle donne di una certa età. Dove sono finiti gli uomini? Si chiese. Dove sono finiti i giovani?
Le
signore rivolgevano loro
occhiate schive, quasi scontrose, guardando con egual diffidenza sia
Tito che
Hermann. Lidia riconobbe un paio di donne con cui aveva scambiato
qualche
parola durante le commissioni affibbiatele da Donna Edda durante i
primi tempi
della sua permanenza al villaggio, ma nessuna di esse diede cenno di
riconoscerla. Nessuno si offrì di aiutarli e la fanciulla si
sentì quasi ferita
da quella palese dimostrazione di indifferenza. Devono
davvero odiarci, se nessuna di loro si degna di muovere un dito.
Eppure dovrebbe essere assolutamente evidente che una mano potrebbe
farci
comodo… Tito sta male, è chiaro. Possibile che
non interessi a nessuno?
Possibile che a nessuno salti in mente di venire a dare
un’occhiata, se non
altro per solidarietà?
La
giovane fu tentata di prendere
lei stessa l’iniziativa, di vincere la sua naturale ritrosia
e di essere lei la
prima a cercare il contatto con quelle persone, ma i loro volti cupi
soffocarono
sul nascere quel fragile intento.
Quando
raggiunsero i margini
della foresta, Lidia si costrinse a dimenticare il retrogusto amaro che
l’incontro con le donne del villaggio le aveva lasciato in
bocca e a
concentrarsi invece sull’affrontare il cammino che avrebbero
dovuto percorrere
per condurre Tito all’accampamento romano. Il sentiero che
Hermann intendeva
percorrere era piuttosto scosceso e pareva poco utilizzato: la prima
parte era
seminascosta da un folto groviglio di lamponi selvatici e la ragazza
avvertì la
puntura delle ortiche anche attraverso il cotone spesso della gonna che
indossava e che le raggiungeva le caviglie. «Sei sicuro che
sia una buona idea,
passare di qui?» chiese, dubbiosa.
Qualche
metro più in là, Hermann
era talmente concentrato nel difficile compito di aiutare Tito a
superare il
primo tratto di sentiero – quello più difficile e
ripido – che nemmeno le
rispose, limitandosi a rivolgerle un vago cenno del capo. Notando la
postura
rigida e poco collaborativa del romano, Lidia sentì crescere
lo sconforto. Non ce la faremo mai a
raggiungere il campo,
comprese, con un nodo allo stomaco. Dobbiamo
assolutamente chiedere a qualcuno di aiutarci.
Non
appena ebbe ultimato quel
pensiero, il terriccio secco e friabile che ricopriva il tracciato
tradì
Hermann e i piedi del ragazzo persero la presa sul fondo del sentiero.
Il
giovane slittò per diverse decine di centimetri e non
poté evitare che Tito si
sbilanciasse, rovinando a terra. Con un’esclamazione di
disappunto, Lidia si
lasciò scivolare verso di lui e si chinò al suo
fianco. «Tito! Ti sei fatto
male?»
Per
alcuni secondi che le parvero
infiniti, il ragazzo non diede alcun cenno di avere udito la domanda
che gli
era stata posta. Quando però alzò gli occhi su di
lei, Lidia trasalì: il suo
sguardo era assente, distante, come se il giovane la stesse guardando,
ma non
riuscisse a vederla veramente. «Oh,
Dèi!» le scappò detto, mentre le
sembrava
che, per un istante, la vista si annebbiasse anche a lei. Muovendosi in
maniera
quasi inconsapevole, Lidia afferrò il braccio del ragazzo e
lo tirò, cercando
di convincere l’amico a rimettersi in piedi.
«Hermann!»
disse ancora, senza
distogliere gli occhi dal giovane romano. «Tito sta
male!» Non era una
constatazione nuova, quella, ma in quel momento la fanciulla si rese
conto che
la situazione era infinitamente peggiore di quanto avesse creduto fino
a pochi
istanti prima.
Hermann
si ripiegò leggermente su
se stesso e si posò le mani sulle ginocchia, respirando
affannosamente, come
nel tentativo di riprendere fiato dopo uno sforzo intenso.
«Lo so», ansimò, «ma
che cosa ci posso fare? Lo stiamo portando da un
medico…»
Nell’udire
la sua voce tesa, la
ragazza si voltò a guardarlo e vide che, anche se le sue
gote erano arrossate
dalla fatica, il cognato sembrava più pallido del solito.
Davanti al suo
sguardo confuso, il giovane chiuse per un istante gli occhi.
«Mi sta aumentando
il mal di testa» disse, a mo’ di spiegazione.
«Mi sembra di avere… mi sembra di
avere qualcuno che mi martella le tempie.»
Quelle
parole scatenarono
immediatamente il panico in Lidia. «Stai male anche
tu?» chiese, con la voce
strozzata dalla paura. Sentendosi senza forze, la fanciulla si
accovacciò sul
sentiero polveroso e strinse a sé il busto di Tito,
invitando il ragazzo ad appoggiarsi
contro di lei. «Come… com’è
possibile? Prima stavate benissimo tutti e due…»
Hermann
alzò una mano,
interrompendola. «Io ho solo mal di testa» disse,
cercando di mantenere un tono
ragionevole. «Non mi tremano le gambe, non ho problemi agli
occhi… solo, faccio
forse un po’ fatica a respirare. Come se… come se
avessi il raffreddore, o come
se non avessi digerito bene.»
Chinandosi
ulteriormente su Tito,
Lidia si rese conto che anche il respiro del giovane romano sembrava
essersi
fatto un po’ affannoso. Sconsolata e impaurita, la ragazza
scosse lentamente il
capo. «Non capisco… cosa può aver
provocato tutto questo? Non avete mangiato né
toccato nulla di strano.»
Il
germanico piegò le labbra in
una smorfia dura. «Non lo so» disse, sottovoce.
Alla ricerca di una spiegazione
che l’aiutasse a capire cosa stesse succedendo, la fanciulla
ripercorse
mentalmente tutto ciò che lei e i due compagni avevano fatto
a partire dal
momento in cui Hermann era arrivato a casa sua.
Ma non abbiamo fatto nulla di eccezionale o
pericoloso, si disse,
portandosi istintivamente una mano alla bocca e riprendendo a
mangiucchiarsi le
unghie. L’unica cosa che forse non
avremmo dovuto fare è stato frugare tra le cose di Fratello
Kay. Che sia colpa
della mappa? Si chiese, rendendosi conto solo in quel momento
di avere
ancora nella tasca del grembiule la tavoletta di vetro.
Quando
le sue dita sfiorarono la
superficie fredda e liscia dell’oggetto, Lidia venne colpita
da
un’illuminazione. A meno che non si
tratti di qualcosa che hanno toccato all’interno della stanza
bianca. Loro sono
entrati, hanno toccato…
io no. Io
sono restata all’ingresso. È forse per questo che
loro stanno male e io non ho
niente?
In
preda alla peculiare e
sgradevolissima sensazione di essere giunta a una verità che
riusciva solo a
sfiorare senza comprendere davvero, Lidia si rivolse di nuovo a
Hermann. «E se
fosse colpa di qualcosa all’interno della stanza che abbiamo
trovato a casa del
Sacerdote? Quella che era chiusa a chiave?»
Il
giovane chinò per qualche
istante lo sguardo a terra, riflettendo. «Forse hai ragione,
ma abbiamo toccato
talmente tante cose… abbiamo cercato in tutti gli armadi,
abbiamo sfogliato un
sacco di libri e appunti, maneggiato tutte quelle scatole. Chi
può dirlo…»
Improvvisamente, Hermann si interruppe e poi sgranò gli
occhi. «E se fosse
quella fialetta? Quella che Tito ha aperto e annusato?»
Lidia
si strinse lentamente nelle
spalle, dubbiosa. «Non saprei… lui l’ha
annusata, ma tu no. Perché stai male
anche tu? E poi ha detto che non sapeva di niente, che non aveva odori
particolari… non so come funzionino i veleni, ma ho come
l’idea che dovrebbero
sapere di qualcosa, no?»
Hermann
storse le labbra. «Non ne
ho idea. Però forse avremmo fatto bene a portare con noi
quel contenitore. Lo
so, che con il senno di poi è facile parlare…
però, ecco: se quella roba bianca
era velenosa, forse averla qui con noi avrebbe potuto aiutare un medico
a
trovare l’antidoto.»
Lei
si mordicchiò le labbra,
impotente. «Probabilmente hai ragione. Ma ormai è
troppo tardi: non possiamo
certo tornare indietro per prendere quella provetta.» Hermann
annuì. «Certo che
no. Ricordati di riferirlo al medico che visiterà Tito,
però.»
La
ragazza lo scrutò da capo a
piedi. «Naturalmente. Però credo proprio che sia
il caso che ti faccia dare
un’occhiata anche tu. Se è colpa di quella roba,
tra non molto anche tu
potresti stare male seriamente.» Mentre pronunciava quelle
parole, Lidia sentì
una nuova ondata di angoscia assalirla: cosa avrebbe fatto, se si fosse
trovata
in mezzo al bosco, ancora distante dall’accampamento e con i
due ragazzi
incapaci di camminare con le loro gambe?
Hermann
le rivolse un mezzo cenno
d’assenso. «Poi vediamo»
mugugnò con reticenza. «Adesso aiutami a
rimetterlo in
piedi. Dobbiamo cercare di raggiungere il capo prima che le cose
peggiorino
ancora.»
Con
tutta la delicatezza di cui
era capace, Lidia aiutò Tito a mantenere il busto eretto,
mentre Hermann si
faceva nuovamente passare il braccio del ragazzo attorno alle spalle e,
facendo
leva sulle gambe, lo faceva alzare. «Coraggio» gli
sussurrò la fanciulla,
accostando il proprio volto a quello del giovane romano. «Non
ci manca molto,
ormai.»
Non
era esattamente vero, ma Tito
la guardò e questa volta i suoi occhi parvero focalizzarsi
in quelli di lei.
«Va bene» sussurrò, con voce rauca.
Il
terzetto avanzò allora in
silenzio. Anche se, pochi metri più in là, il
sentiero si faceva più agevole,
le condizioni del romano li costringevano a muoversi con estrema
lentezza.
Lidia ebbe l’impressione che i metri diventassero chilometri
e i minuti ore. Di
tanto in tanto, Hermann si fermava con gli occhi chiusi e respirava a
fondo,
toccandosi la gola con la punta delle dita. Il suo volto pallido era
imperlato
di sudore, ma, nonostante Lidia si fosse offerta di farsi carico del
peso di
Tito, almeno per qualche tempo, il ragazzo si era rifiutato di
lasciarsi
aiutare.
Sto perdendo il senso del tempo, comprese,
asciugandosi nella gonna
le mani madide di sudore. La situazione in cui si trovava le pareva
quasi
surreale: la ragazza si sentiva come immersa in una nebbia fitta, le
sembrava
di non riuscire a individuare con precisione i contorni di
ciò che la
circondava. I suoni le giungevano quasi attutiti, distanti, i movimenti
le
parevano più lenti di quanto in realtà non
fossero. Forse sto impazzendo, si
disse, mordendosi le labbra fino a quando
non sentì ancora una volta il sapore del sangue. O forse sto iniziando a stare male
anch’io…
Quando
giunsero a un’ampia radura
che si apriva senza preavviso nel cuore della foresta, Hermann
lasciò scivolare
a terra Tito e poi si sedette anch’egli tra l’erba
alta. «La strada è da quella
parte» disse, con il respiro mozzo. «Lasciami
riposare un attimo, per favore.»
Accovacciandosi
a terra, Lidia
annuì. L’odore del terriccio le riempiva le
narici, il profumo dell’erba
riscaldata dal sole le solleticava la gola: quelle fragranze famigliari
e
gradevoli le ricordavano quanto poco la natura si curasse delle vicende
degli
uomini. C’era una formica, proprio lì, a pochi
centimetri dal suo piede destro,
che trascinava il cadavere di un moscerino molto più grande
di lei. Per qualche
motivo, la ragazza trovò quella scena stranamente
interessante.
Improvvisamente,
Hermann levò il
capo, sciogliendo la posizione rannicchiata in cui si era raccolto.
«Cos’è
stato?» chiese, con un filo di voce.
Distogliendo
lo sguardo dagli
insetti, Lidia lasciò che i propri occhi corressero a pelo
d’erba, sbirciando
attraverso le spighe del pabbio e i fiori bianchi della cicuta.
«Io non ho
sentito né visto niente» disse, una volta che ebbe
constatato che nulla
sembrava essere fuori posto.
Il
ragazzo corrugò la fronte,
come se non fosse sicuro di potersi veramente fidare dei propri sensi.
«Non lo
so, mi è come parso di sentire… una vibrazione.»
«Una
vibrazione?» ripeté lei,
mentre la sua mente tornava automaticamente al sibilo che aveva sentito
la
notte in cui Ulf le aveva svelato l’esistenza della
misteriosa macchina volante
che, a sua detta, prelevava le offerte. Anche se non l’aveva
mai più sentito,
quel soffio sottile le era rimasto impresso nella mente. Cercando di
ricordare
quanto tempo fosse passato dall’ultima cerimonia sacrificale
a cui aveva
assistito, Lidia calcolò che il giorno in cui si sarebbe
compiuto il nuovo rito
era probabilmente vicino.
Per
un attimo, la fanciulla si
interrogò se ciò che Hermann credeva di aver
sentito non potesse essere
provocato da qualcosa di simile a ciò di cui le aveva
raccontato Ulf. Subito
dopo, però, scartò quell’ipotesi: il
sibilo notturno l’aveva impressionata a
tal punto che era certa che, se esso si fosse manifestato nuovamente,
lei
l’avrebbe sicuramente colto.
Il
volto del giovane germanico
era teso e allarmato. Io non mi sono
accorta di niente, ma Hermann ha chiaramente avvertito qualcosa,
si disse,
lanciando un’occhiata guardinga alla radura deserta. A meno che il mal di testa non gli stia facendo
venire le
allucinazioni…
Per
alcuni minuti, i ragazzi
rimasero immobili, con i sensi all’erta e pronti a cogliere
ogni cambiamento
nell’ambiente che li circondava. La radura era immersa in una
calma placida,
scossa solamente da un alito di vento che faceva ondeggiare in maniera
quasi
impercettibile l’erba alta. Di tanto in tanto, un picchio
verde lanciava un
richiamo acuto che sovrastava per qualche istante il cinguettio
sommesso di
cince e regoli. Poi, all’improvviso, anche Lidia
sentì ciò che aveva messo in
allarme il suo giovane cognato. Non si trattava di un suono chiaramente
distinguibile, ma piuttosto di una vibrazione,
esattamente come aveva detto Hermann. Non era altro che una pressione
sui timpani,
un tremolio all’interno della testa, qualcosa di talmente
basso da sfuggire
all’orecchio umano. Si manifestò dapprima in modo
lieve, poi crebbe per alcuni
secondi e infine scemò, confondendosi con i rumori della
natura e venendo
inghiottito da essi.
Lidia
aggrottò la fronte. «Ma
cosa…»
Barcollando
un poco, Hermann si
alzò in piedi. «È questo»,
disse, «è
questo quello che ho sentito prima. L’hai sentito anche tu,
questa volta?» Lei
annuì, con la bocca socchiusa. Il giovane si prese qualche
secondo per ritrovare
l’equilibrio che pareva sfuggirgli, poi abbassò
uno sguardo determinato sulla
ragazza. «Vado a dare un’occhiata: tu resta
qui.»
Lei
lo fissò con gli occhi
spalancati. «Dove vuoi andare?» chiese, allarmata.
«Non stai bene, e poi non
c’è niente da vedere! Resta qui a
riposarti.»
Hermann
scosse il capo. «Quel
suono deve pur essere stato prodotto da qualcosa…»
Il ragazzo tacque per
qualche istante, mentre la vibrazione misteriosa si manifestava
nuovamente e
nuovamente svaniva nel nulla, simile a un’onda che si abbatte
sul bagnasciuga e
poi si ritira nel mare, regolare ed elegante. «Voglio solo
accertarmi che non
ci siano pericoli: con Tito in queste condizioni, non possiamo certo
permetterci una fuga veloce. Se dovessi accorgermi che
c’è qualcosa di strano,
potremmo tornare indietro un po’ e prendere un sentiero
più interno:
allungheremmo un po’ la strada, ma almeno rischieremmo meno
di essere notati da
persone sgradite.»
Lidia
gli indirizzò un’occhiata
scettica. «Va bene» concesse controvoglia.
«Però dai solo un’occhiata veloce:
prima arriviamo da un medico e meglio è.»
Rivolgendole
un ultimo cenno del
capo, il giovane germanico si addentrò nell’erba
alta con passi cauti e appena
un poco incerti. Lidia lo seguì con gli occhi per qualche
istante, poi si mosse
a carponi fino a raggiungere Tito. Il ragazzo non si era mosso e si
trovava
ancora nella stessa identica posizione in cui Hermann l’aveva
lasciato quando
l’aveva adagiato a terra. Inginocchiandoglisi accanto, Lidia
gli sfiorò la
fronte con la punta delle dita e la trovò madida di sudore.
«Come stai?» gli
chiese, sottovoce. Una domanda inadeguata, ma che le suonò
comunque
estremamente naturale.
Tito
emise solo un gemito
sommesso e i suoi occhi chiusi fremettero come se il giovane volesse
aprirli,
ma non avesse la forza per farlo. «Adesso ce ne
andiamo» mormorò ancora Lidia,
accarezzandogli dolcemente i capelli corti. «Lasciamo che
Hermann dia
un’occhiata in giro e poi ti portiamo da un
dottore.»
Mossa
da un sentimento di
tenerezza e di preoccupazione nei confronti del ragazzo, la fanciulla
gli
sollevò delicatamente il capo e se lo posò in
grembo. Non so quand’è
stata l’ultima volta che mi sono sentita così
inutile,
si disse, mordendosi nervosamente le labbra. Tito sembrava prossimo a
perdere i
sensi e il fatto di non poter far nulla per impedirlo, la
consapevolezza di non
avere modo di aiutarlo, le faceva torcere lo stomaco per la
frustrazione. I
dissapori degli ultimi tempi svanivano nel nulla di fronte alla
debolezza del
giovane e anche il ricordo del modo in cui Karl era morto sembrava
essersi
fatto meno pressante. L’unica cosa che le pareva davvero
importante, in quel
momento, era che Tito si riprendesse in fretta e tornasse a essere
quello di
sempre.
Ma cosa sta facendo Hermann? Si chiese,
dopo diversi minuti di
attesa vana. Aveva detto che avrebbe dato
solo un’occhiata e poi sarebbe subito tornato qui! Scossa
dall’impazienza,
Lidia cercò di individuare il cognato, ma l’erba
era troppo alta e lei, seduta
a terra, non riusciva a vedere che a pochi metri di distanza. Per una
frazione
di secondo fu sul punto di chiamarlo ad alta voce, ma poi si trattenne.
Se ci fosse qualcuno, se quel rumore fosse
veramente prodotto da qualcosa di strano,
rischierei di farci scoprire.
Negli
ultimi minuti, la sua
attenzione era stata tutta concentrata su Tito, ma, ora che ci faceva
caso, la
fanciulla si rendeva conto che la vibrazione che aveva udito poco prima
sembrava essersi fatta più intensa. Se ascoltava con
attenzione, le pareva di
avvertire un rombo profondo e al tempo stesso attutito, un suono
ovattato, ma
pericolosamente presente. Cosa accidenti
sta succedendo? Si chiese, rizzandosi inconsciamente sulle
ginocchia.
Quasi
come se fosse stato
disturbato da quel movimento, Tito si irrigidì. Le sue
spalle ebbero un
sobbalzo e la sua schiena si inarcò, costringendo Lidia a
cingergli il busto
con entrambe le braccia per evitare che scivolasse a terra. Il suo
respiro –
che fino a quel momento era stato accelerato, ma tutto sommato regolare
– si
spezzò e il giovane romano prese a respirare a bocca aperta,
a singulti, come
se avvertisse il bisogno di inghiottire
l’aria.
Spaventata
da quel cambiamento
improvviso, Lidia strinse a sé il ragazzo. Con il cuore che
le martellava nelle
orecchie e una sensazione terribile che le stringeva lo stomaco, la
fanciulla
si chinò sull’amico. «Tito!»
esclamò, con la voce ridotta a un sussurro rauco.
«Cosa c’è?»
Davanti
a quel secondo richiamo,
le palpebre del ragazzo tremarono di nuovo e un istante più
tardi Tito aprì gli
occhi. Il suo sguardo era fisso, distante, ma non perso: era come se il
giovane
romano stesse mettendo a fuoco qualcosa che Lidia non riusciva a
vedere,
qualcosa che si trovava oltre.
«Tito!»
lo richiamò ancora la
fanciulla, mentre una sensazione di gelo la travolgeva. Improvvisamente
fu come
se la calura estiva fosse svanita, come se i suoni del prato e del
bosco
fossero stati ingoiati dal rombo monotono che aveva invaso le sue
orecchie. Gli
occhi del ragazzo si richiusero e le sue labbra si mossero una, due,
tre volte,
ma nessuna parola intellegibile lasciò la sua bocca. Lidia
si chinò su di lui,
facendo attenzione a non compiere alcun gesto che potesse provocargli
dolore o
fastidio. «Cosa?» chiese. «Che cosa hai
detto?»
Tito
ingoiò una boccata d’aria,
poi rimase perfettamente immobile. Sentendosi completamente scollegata
dal
mondo e quasi senza avvertire la fitta di dolore che le
attraversò la testa da
tempia a tempia, Lidia lo afferrò saldamente per le spalle e
lo scosse con
forza, nel tentativo disperato e inconscio di provocare in lui una
qualsiasi
reazione. «Tito!»
Per
tutta risposta, il corpo del
ragazzo si inarcò ancora di più ed ebbe uno
spasmo che gli fece oscillare gambe
e braccia. Qualche istante più tardi, si rilassò
e piombò nuovamente
nell’immobilità più assoluta. Le mani
della fanciulla si mossero in preda al
panico e, scoordinatamente e senza alcuna grazia, scivolarono sul busto
del
giovane romano, sul suo volto, alla base del suo collo alla ricerca di
un
qualsiasi movimento che tradisse il ritmo del respiro o il pulsare del
cuore.
Ma certo che respira! Si disse,
sull’orlo dell’isterismo. È
ovvio che respiri! Respirava un
secondo fa, perché avrebbe dovuto smettere
di farlo? I suoi occhi appannati percorsero più e
più volte il torso del
giovane, ma Lidia non fu in grado di comprendere se il tremolio che le
parve di
avvertire fosse legato al gonfiarsi dei polmoni di Tito o ai brividi di
terrore
che scuotevano il suo corpo. Le sue mani sudate trovarono quella
esanime del
ragazzo e le sue dita si strinsero attorno al polso di lui. Sapeva che
avrebbe
dovuto avvertire il battito del cuore, lì da qualche parte,
ma i suoi
polpastrelli non le rimandarono altro che il suo stesso battito
accelerato. O forse è quello di
Tito? Si chiese,
mentre i pensieri le vorticavano in testa come impazziti.
D’un
tratto, una nuova fitta di
dolore intenso e bruciante le trapassò il cranio e Lidia
gemette, ripiegandosi
per un istante su se stessa. Un secondo più tardi, la
ragazza si ritrovò a
retrocedere a carponi, mentre il suo istinto le gridava di scappare
lontano, di
allontanarsi da quel luogo che, per qualche motivo, le pareva
pericoloso.
«Tito…»
singhiozzò, mentre le
lacrime le offuscavano la vista e le bagnavano le guance. Non poteva
essere…
Lidia si rifiutò anche solo di pensare alla parola
“morto”, perché era
semplicemente impossibile. Tito doveva essere svenuto, doveva aver
perso i
sensi a causa di quello strano male che l’aveva colto e lei,
da cretina qual
era, non era stata in grado di trovare i segnali che indicavano che il
suo
cuore batteva ancora.
Combattendo
contro quella forza
ignota che la spingeva ad allontanarsi, Lidia si mosse lentamente e si
riportò
di nuovo al fianco del ragazzo. Le sue dita furono sul punto di
sfiorargli nuovamente
il volto, quando la fanciulla divenne consapevole di qualcosa che negli
ultimi,
concitati momenti aveva ignorato.
Era
cambiato qualcosa, dietro di
lei. Muovendosi con estrema lentezza, Lidia vide qualcosa che, per
qualche
lunghissimo istante, catturò completamente la sua
attenzione. Ferma a una
decina di metri d’altezza, sospesa nell’aria come
se non pesasse più di una
piuma, c’era la macchina più strana che avesse mai
visto. Sgomenta, la giovane
non fu in grado di stabilire quanto fosse grande, ma le parve enorme, gigantesca, e, per un secondo, il suo
cervello si rifiutò di accettare il fatto che una cosa
così imponente potesse
anche essere così silenziosa. Aveva una punta affusolata,
simile a un pugnale
e, cosa che le parve singolare, una parte posteriore curiosamente
arrotondata.
La sua mente le disse che la macchina doveva essere fatta di metallo,
ma, alla
vista, essa pareva ricoperta da un velo d’acqua – o
di mercurio liquido –
cangiante e riflettente come uno specchio. Confusamente, la ragazza si
avvide
che era difficile individuarne i contorni precisi, come se quello
strato lucido
e instabile modellasse la materia, fondendola all’aria e al
riflesso del cielo.
La
vibrazione che lei e Hermann
avevano avvertito poco prima si era ora trasformata in un rombo basso,
ma
regolare. La produceva quella cosa
lì,
si disse la fanciulla, sgomenta.
Poi,
proprio sotto ai suoi occhi,
la macchina si mosse e prese a scendere lentamente verso terra. Il
cuore della
ragazza ebbe un sussulto e Lidia si riscosse, gettandosi istintivamente
sul
corpo di Tito – su Tito!
Afferrandolo
per le spalle, senza fermarsi veramente a pensare a quello che stava
facendo,
Lidia lo trascinò verso i margini della radura, muovendosi
con la schiena china
fino a quando non raggiunse i primi alberi bassi e fitti. Tremante,
stremata e
confusa, la ragazza nascose il corpo del ragazzo tra il fogliame,
facendo del
proprio meglio per celarlo da sguardi indiscreti. Poi, facendo
attenzione a non
esporsi troppo, si alzò in piedi, cercando di scorgere
Hermann.
Quello
che vide le gelò il
sangue. Il ragazzo era fermo nel bel mezzo della radura, esattamente
davanti al
luogo in cui la macchina stava toccando terra. Quando la pare inferiore
della cosa raggiunse il terreno, la
sua superficie
mutò aspetto, rivelando dei lisci pannelli di metallo
chiaro. Dalla sua
posizione, Lidia riuscì a leggere la sigla CS-745 dipinta
con lucida vernice
azzurra.
Con
il cuore che le martellava
nelle orecchie, Lidia si acquattò tra l’erba alta,
allungando però il collo per
poter seguire lo svolgersi degli eventi. Proprio lì, davanti
ai suoi occhi,
c’era un portellone che in un primo momento non aveva notato.
Quando questo esalò
un sibilo sommesso e si aprì, per qualche secondo la
fanciulla si ritrovò come
paralizzata dal terrore. Alla sua mente si riaffacciarono tutte le
nozioni che
aveva appreso durante la sua permanenza in Germanica.
Ricordò che il giorno
delle offerte era vicino e che le offerte erano destinate agli
Dèi i quali,
secondo quanto raccontavano i Sacerdoti, si occupavano personalmente di
ritirarle.
Per
un istante in cui tutto le
sembrò sospeso, Lidia si credette sul punto di trovarsi
faccia a faccia con
delle divinità sconosciute – e nelle quali lei non
aveva comunque mai creduto.
Poi la voce di Ulf le risuonò nelle orecchie. Lui
l’aveva già vista, una
macchina simile a quella. E le persone che erano scese da essa non
erano Dèi,
ma semplici uomini.
E,
in effetti, fu proprio così. Anche
se la fanciulla non aveva alcuna idea di che aspetto avessero gli
Dèi, l’uomo
di mezza età, un po’ calvo e non particolarmente
slanciato che per primo balzò
a terra non aveva certo l’aria di un essere sovrannaturale.
Nemmeno il suo
compagno più alto, più giovane e con le spalle
cascanti aveva un aspetto
particolarmente formidabile. La fanciulla passò rapidamente
in rassegna ai loro
bizzarri abiti scuri, poi tornò a concentrarsi su Hermann,
esortandolo con la
sola forza del pensiero a scappare, ad allontanarsi dai due sconosciuti.
Il
giovane germanico sembrava
essere rimasto paralizzato dallo stupore o della paura. Quando entrambi
gli
uomini vestiti di nero fecero per avvicinarsi a lui, però,
il ragazzo girò
lestamente sui tacchi e mosse due passi rapidi nella direzione opposta
a quella
in cui si trovava Lidia. Improvvisamente, però, tutto il suo
corpo parve
irrigidirsi e incurvarsi, quasi in un’imitazione di
ciò che era accaduto a Tito
poco prima. Mentre Lidia si portava una mano alla bocca per impedirsi
di
gridare, Hermann cadde in ginocchio, puntellandosi a terra con una mano
e
reggendosi la testa con l’altra.
Il
più basso dei due sconosciuti
gli si avvicinò velocemente, frapponendosi di fatto tra il
germanico e gli
occhi ansiosi della giovane romana. A causa di
quell’ostacolo, Lidia non fu in
grado di vedere quello che stava succedendo, ma, una manciata di
secondi più
tardi, intravide Hermann accasciarsi a terra esanime.
In
preda all’orrore, Lidia si
ritrovò a mordicchiarsi le dita che ancora le coprivano le
labbra. Con il
respiro affannato e una morsa dolorosa che le stringeva la gola, la
ragazza
guardò i due uomini piegarsi sul giovane germanico. Alle sue
orecchie giunsero
parole borbottate, incomprensibili forse perché pronunciate
in una lingua
sconosciuta, poi i due individui vestiti di nero afferrarono Hermann
per le
ascelle e le caviglie e, con qualche difficoltà data
l’altezza non indifferente
del ragazzo, lo portarono all’interno della macchina volante.
Lidia
ebbe l’impressione che il
suo cuore si fermasse. Oh, no!
Sfinita,
la fanciulla si appiattì contro il terreno, quasi nella
speranza inconsapevole
che la terra calda le potesse dare un poco di conforto. Perché
l’hanno portato lì dentro? La giovane si
sentiva
completamente spaesata, priva di punti di riferimento e senza alcuna
idea di
cosa avrebbe dovuto fare.
Tito
era… Tito non si muoveva più
– nemmeno l’arrivo di quell’assurda
macchina volante era stato in grado di
riscuoterlo – e Hermann era stato fatto sparire
all’interno del ventre di
metallo di quella cosa a cui Lidia
non sapeva nemmeno dare un nome. E
poi… e
poi è caduto a terra. Che cosa gli hanno fatto? E sta bene?
La ragazza
ricordava perfettamente che, prima di allontanarsi, il giovane aveva
accusato
mal di testa, stanchezza, forse anche confusione, a giudicare dal modo
leggermente
scoordinato con cui si muoveva: si trattava grosso modo degli stessi
sintomi
che anche Tito aveva manifestato, prima… prima.
Oh, Dèi, vi prego! Fate che almeno lui
stia bene! Che per lui non sia
troppo tardi, che ci sia il tempo di portarlo da un dottore…
Quasi
in risposta a quella
preghiera silenziosa, i due uomini sconosciuti uscirono nuovamente
dalla
macchina volante, questa volta senza portare con sé Hermann.
Scesi a terra, si
guardarono brevemente attorno, come per accertarsi di non essere
osservati, e
poi girarono attorno all’immenso congegno volante, sparendo
dalla vista di
Lidia.
Immediatamente,
la ragazza sentì
i propri muscoli tendersi. Hermann era lì dentro. Forse era
solo. Il folle
proposito di correre verso la nave,
introdursi all’interno, prendere il cognato e riportarlo nel
rifugio sicuro del
bosco si affaccio con prepotenza alla sua mente. Le gambe della
fanciulla si
fletterono, preparandosi allo scatto, ma la sua mente le
impedì di muoversi.
Non essere stupida, la
rimproverò. Pensi davvero di
essere in grado di fare una cosa del genere? Senza farti
beccare da nessuno, magari? E di Tito che cosa mi dici? Intendi
lasciarlo qui?
Con
lo stomaco trapassato dal
dolore e dai sensi di colpa, Lidia lanciò
un’occhiata afflitta alla sagoma del
ragazzo che si scorgeva a malapena tra il fogliame rigoglioso. Non
poteva
abbandonarlo lì. Anche se ormai lui non c’era
più – un pensiero che le faceva
venire voglia di urlare e piangere e vomitare
– Lidia sapeva che non poteva lasciarlo lì.
Avrebbe dovuto prendersi cura di
lui anche allora. Soprattutto allora.
Ma Hermann è lì
dentro… ed è solo anche lui.
E
c’era di più: Hermann era
ancora vivo – forse. In
ogni caso, se
il ragazzo si era trovato in quella situazione, era solo e soltanto per
ciò che
lei aveva combinato. Se Hermann non fosse stato costretto a venirla a
cercare a
casa sua, non avrebbe mai messo piede nella stanza di Fratello Kay e,
forse,
non sarebbe mai stato male. Di certo, non si sarebbe trovato in quel
prato nel
preciso istante in cui la macchina era atterrata: ergo, non sarebbe mai
stato
scoperto dai due uomini in nero, né portato a bordo di quel
mostro d’acciaio.
Glielo devo, si disse, mentre un senso di
ineluttabilità calava su
di lei. E lo doveva anche a Ulf, a Unna, a Gefrid, che avevano
già perso fin
troppo, per causa sua. E poi che succeda
quello che deve succedere: l’importante è riuscire
a riportare a terra Hermann
e a farlo tornare dalla sua famiglia.
Lanciando
un ultimo sguardo a
Tito e promettendo a se stessa che presto, prestissimo, sarebbe tornata
da lui,
Lidia scattò in avanti. Cercando di esporsi il meno
possibile, attraversò l’erba
alta, gli occhi puntanti sullo squarcio scuro lasciato aperto dal
portellone
sollevato e le orecchie tese per cogliere qualsiasi suono che tradisse
il
ritorno dei due uomini.
Quando
raggiunse la piccola rampa
che conduceva verso l’interno della macchina, Lidia
esitò per una frazione di
secondo, poi ingoiò lo strano odore che le invase le narici
– ferro e qualcosa
di acre che non seppe definire – ed entrò. La luce
del sole scomparve e, al suo
posto, la ragazza sentì risplendere su di sé la
luce bianco-verdastra di una
serie di potenti faretti posizionati sul soffitto.
Per
qualche motivo, Lidia si era
immaginata che l’interno della macchina voltante fosse in un
certo simile alla
stanza bianca che lei e i suoi compagni di sventura avevano scoperto
nell’abitazione
dei Sacerdoti, ma la realtà era piuttosto distante
dall’idea che si era fatta. In
primo luogo, si rese conto che la nave doveva essere ancora
più grande di
quello che si era figurata dall’esterno. Il portellone doveva
essere
posizionato circa a metà della fusoliera e dava accesso
diretto a una sorta di
piccolo corridoio. Se sulla sinistra – verso la prua
– il passaggio era
sbarrato da una porta bianca e azzurra, volgendo lo sguardo verso
destra Lidia
riusciva a vedere un immenso locale scuro e polveroso, ricco di
scaffalature e
pareti divisorie che le ricordarono quelle delle scuderie che aveva
visto una
volta nelle campagne fuori Roma, da bambina.
Dove lo avranno portato?
Sentendo
il proprio coraggio
venire pericolosamente meno, Lidia inspirò a fondo e
cercò di aprire la porta
bianca che si trovava alla sua sinistra, solo per scoprire che questa
non era
provvista di maniglia. La ragazza corrugò la fronte,
confusa. Eh? Cercando un modo per
passare dall’altra
parte, posò entrambe le mani sul freddo pannello metallico e
spinse con tutte
le sue forze, ma questo non si smosse di un millimetro. Come
accidenti si apre questa cosa?
C’era
qualcosa che le suggeriva
che Hermann si trovava proprio lì, al di là di
quel gelido sbarramento bianco e
celeste. Ma come faccio a entrare?
Si
chiese, sentendo montare la frustrazione. Dopo un altro paio di
tentativi a
vuoto, Lidia retrocedette lentamente, sentendo le lacrime tornare ad
offuscarle
la vista. E adesso che cosa dovrei fare?
Stupidamente
era salita a bordo
di quella macchina pensando che recuperare Hermann sarebbe stato
facile. Aveva agito
d’istinto, senza nemmeno prendersi il tempo di chiedersi che
cosa avrebbe
trovato all’interno della nave. Cosa
pensavo?
Che quei due avessero mollato Hermann proprio qui, giusto per rendermi
la vita
più facile?
Mordicchiandosi
nervosamente l’unghia
del pollice, Lidia cercò di analizzare le diverse
alternative che le si
paravano davanti. Constatata l’impossibilità di
aprire la porta bianca, avrebbe
potuto scendere nuovamente a terra, recuperare Tito e portarlo
all’accampamento
militare. La sola prospettiva le provocò un’ondata
di nausea: farlo avrebbe
significato prendere veramente coscienza del fatto che il ragazzo era
morto e
che lei non era stata in grado di salvarlo. Farlo, poi, avrebbe anche
significato arrendersi e abbandonare Hermann a se stesso: non se lo
sarebbe mai
perdonata. Ulf non
l’avrebbe mai
perdonata.
No,
non doveva mollare così
facilmente. Se non poteva aprire quella porta, poteva quantomeno dare
un’occhiata
al locale scuro che si apriva alla sua destra. Anche se, per qualche
motivo, le
pareva piuttosto improbabile che il giovane germanico si trovasse
lì dentro, valeva
sicuramente la pena fare un tentativo: se non altro, per non restare
con il
dubbio di non avere fatto tutto ciò che era in suo potere
per ritrovarlo.
Brevemente,
Lidia contemplò anche
una terza alternativa. E se aspettassi
che quei due tornassero a bordo e li affrontassi? La ragazza
si immaginò la
scena. Lei, nascosta appena dietro alla parete che separava il piccolo
corridoio dalla parte destra della nave; e loro, che risalivano la
rampa senza
sospettare di nulla. Sarebbe balzata fuori all’improvviso e
avrebbe preteso di
sapere chi fossero e dove avessero portato Hermann.
Un’ondata
di sudore freddo le
imperlò le mani. Forse sarebbe stato giusto agire
così. Certamente, avrebbe
avuto tutti i diritti di pretendere delle spiegazioni. Sfortunatamente,
la
ragazza era fin troppo consapevole del fatto che, per quanto disperate
ed
eccezionali fossero le circostanze, non avrebbe mai avuto il coraggio
di
affrontare a volto scoperto quelle persone sconosciute.
Io non sono così. Non sono quel tipo di
persona, non sono proprio
capace di farle, certe cose.
Deglutendo
nervosamente, la
giovane lanciò un ultimo sguardo carico di rimpianto alla
porta chiusa e poi si
avviò verso il passaggio alla sua destra. Quando si
lasciò alle spalle il
corridoio bianco e azzurro, Lidia ebbe l’impressione di
entrare in un mondo
completamente diverso, un mondo fresco, buio e polveroso. La sola
illuminazione
era data da poche luci biancastre situate nei punti strategici,
perlopiù all’ingresso
dei singoli box creati dalle pareti divisorie che aveva intravisto
appena aveva
messo piede all’interno della macchina.
Che razza di posto è questo?
Si chiese la fanciulla, con la netta
sensazione di essere in un luogo in cui non avrebbe mai dovuto
trovarsi. A colpo
d’occhio, le parve di essere entrata in una sorta di
magazzino. Le mensole e le
scaffalature posizionate a ridosso delle pareti metalliche erano in
parte
occupate da scatoloni dall’aspetto anonimo, tutti uguali e
tutti all’incirca
delle stesse dimensioni, contraddistinti solamente da alcune sigle dal
significato oscuro. Altre casse dalle dimensioni decisamente superiori
– alcune
di esse, stimò Lidia, superavano i due metri
d’altezza – erano sistemate sul
pavimento all’interno dei box, riposte ordinatamente su
alcuni robusti bancali,
accanto a enormi sacchi di tela ruvida, forse juta.
La
fanciulla sentì un brivido d’inquietudine
correrle lungo la schiena. A rigor di logica, quella macchina comparsa
dal
nulla avrebbe potuto trasportare le cose più disparate.
Considerando la
situazione, però, e l’alone di segretezza che
pareva aleggiare attorno a quell’affare,
Lidia credette di indovinare che cosa si trovasse all’interno
delle casse: il ricavato delle offerte.
L’argento!
La
scoperta, sebbene non
particolarmente eccezionale, la mandò nel panico. Allo
sconvolgimento per la
perdita di Tito – un dolore sordo e costante che le
martellava all’interno
delle costole, mozzandole il fiato – e all’angoscia
per il rapimento di Hermann si
aggiungeva ora la preoccupazione di quello
che sarebbe potuto accadere a lei,
se
qualcuno l’avesse sorpresa in quel posto.
Se
davvero era a un passo dallo
svelare il segreto che si celava dietro alla cerimonia dei sacrifici,
Lidia era
sicura di trovarsi in una situazione di pericolo. Se le persone che
pilotavano
quella macchina si fossero accorte della sua presenza a bordo,
certamente non
le avrebbero consentito di andarsene via come se nulla fosse, con il
rischio
che lei corresse a spifferare a tutti quello che aveva scoperto.
Spronata
da quel nuovo sentore di
un pericolo imminente, la fanciulla si inoltrò ulteriormente
nei meandri del
magazzino, nella speranza di trovare una qualche segnale che le
suggerisse che
Hermann si trovasse da quelle parti. Ma qui
non c’è traccia di presenza umana,
comprese, scoraggiata, quando sorpassò l’ennesimo
scomparto popolato soltanto da casse e grandi sacche polverose.
Quello
che sembrava essere una
sorta di corridoio centrale proseguiva ancora verso la coda della nave,
ma la
giovane romana si lasciò scivolare a terra accanto a
un’enorme cassa di legno
grigiastro, prendendosi per qualche istante la testa tra le mani.
Ho fallito, si disse, sentendosi
soffocare dallo scoramento. Le era
ormai evidente che Hermann non era lì, ma si trovava al di
là della porta che
non era stata in grado di aprire. Non aveva modo di raggiungerlo, a
meno di non
chiedere aiuto ai due uomini che l’avevano tramortito e
portato a bordo.
Serrando
con forza gli occhi, la
fanciulla si lasciò sfuggire un gemito disperato. Era
finita. Aveva perso
Hermann, e non era stata in grado di salvare Tito. Due persone
scomparse
probabilmente per sempre, solo ed esclusivamente per causa sua. Lidia
si
abbandonò contro la stoffa ruvida, sentendo le forze
abbandonarla. Come avrebbe
fatto ad affrontare il mondo, adesso? Con che coraggio sarebbe andata
avanti,
portando con sé il ricordo di quello che era successo quel
pomeriggio? Presa
dallo sconforto, la ragazza arrivò a pensare che forse
sarebbe stato meglio non
muoversi più da lì. Che la trovassero pure, si
disse, lì seduta sul pavimento
freddo e decidessero cosa farne di lei – lei era troppo
stanca per decidere di
testa sua.
Un
sibilo improvviso, seguito da
un tonfo quasi impercettibile, spazzò via quelle riflessioni
e la spinse a
scattare nuovamente in piedi. Lidia soffocò un conato di
vomito e strinse i
denti cercando di contrastare la fitta di dolore violento che le
trapassò la
testa, facendola vacillare. Confusamente, la ragazza si rese conto che
il male
che aveva colpito Hermann e Tito stava iniziando a manifestarsi anche
in lei,
ma quella consapevolezza passò in secondo piano rispetto al
significato del
suono che aveva appena udito. Quel sibilo e quel tonfo leggero potevano
voler
dire una cosa soltanto: il portellone attraverso cui era entrata si era
chiuso,
intrappolandola di fatto all’interno della macchina.
Oh, no! Pensò, sconvolta. Se
pochi istanti prima Lidia aveva quasi
desiderato di venire scoperta, la prospettiva che quel desiderio
divenisse
presto realtà le fece vedere le cose da un punto di vista
decisamente diverso. Non voleva che
la trovassero lì, non voleva che
la punissero per la sua
intrusione, non voleva che la
portassero via e, soprattutto, non voleva
che la cosa che aveva ucciso Tito uccidesse anche lei. Voleva
vivere,
qualsiasi cosa accadesse.
Non
appena ebbe concluso quel
pensiero, Lidia sentì il pavimento vibrare e un rombo
profondo invadere il
magazzino, rimbombando quieto tra le scaffalature e le pareti
metalliche. Cosa… Quando
avvertì il mondo attorno a
lei ondeggiare, la ragazza comprese ciò che stava accadendo:
così come era
atterrata, ora la macchina si stava nuovamente alzando in volo.
E io ci sono dentro! Pensò,
mentre il sangue le defluiva dal volto
e il cuore pompava adrenalina. Che cosa
faccio? Che cosa faccio?
Sentendosi
completamente allo
sbaraglio, Lidia seguì l’istinto e si mosse alla
ricerca di un riparo. Anche se
non sapeva da chi avrebbe dovuto
nascondersi, esattamente, nella mente della fanciulla si
disegnò un piano
confuso. Avrebbe trovato un rifugio che le consentisse di non venire
scoperta e
poi, al prossimo atterraggio, sarebbe sgattaiolata fuori. E chissà che, nel frattempo, io non
riesca a trovare anche Hermann…
speriamo solo di non ritrovarmi dall’altra parte del mondo!
La
sua mente corse subito a Tito,
abbandonato ai margini della radura, alla mercé di qualunque
persona –o animale!
– che sarebbe passato di lì.
Anche se la cosa le faceva provare un profondo senso di disgusto verso
se
stessa, la giovane si costrinse a non soffermarsi troppo su quei
pensieri:
oggettivamente, non v’era nulla che potesse fare per lui, in
quel momento. Devo pensare a Hermann, adesso.
E magari
anche a salvarmi la pelle, se possibile.
Annuendo
tra sé e sé, la
fanciulla trovò un pertugio tra due grandi casse di legno e
vi si infilò dentro,
tastando con i polpastrelli ciò che la circondava. Lo spazio
era angusto, il
riverbero delle lampade situate all’ingresso del box era
minimo, ma l’ambiente
le parve sufficientemente protetto e sicuro. Nessuno
verrà mai a guardare qui dietro, si disse, facendo
del
proprio meglio per convincersi di quel fatto.
Con
una manica della camicia,
Lidia si asciugò la fronte madida di sudore. Se nel
corridoio principale del
magazzino la temperatura le era parsa piuttosto bassa, nello stretto
vano tra
le due casse l’aria era più calda di diversi
gradi; ed era impregnata dell’odore
pungente che la ragazza aveva avvertito appena salita a bordo della
macchina.
È fastidioso, si disse la
ragazza, strofinandosi il naso per
soffocare uno starnuto. Non appena la sua mano raggiunse le sue narici,
però,
quel sentore acre aumentò in maniera esponenziale e la
giovane non riuscì a
impedirsi di starnutire con forza. Soffocando
un’imprecazione, Lidia si guardò
le mani, cercando di determinare cosa avesse scatenato quella reazione.
Osservando
le proprie mani alla
pallida luce artificiale, la ragazza notò che brillavano di
un bagliore
minerale, come se una polvere sottilissima avesse rivestito la sua
pelle con un’infinità
di minuscoli cristalli. Strofinando insieme i polpastrelli di indice e
pollice,
Lidia credette di avvertire anche al tatto una sorta di patina
sottilissima. Cosa accidenti ho toccato?
Si chiese,
confusa.
Ripercorrendo
a ritroso gli
ultimi minuti, la fanciulla ricordò come, nel suo procedere
a tastoni verso l’anfratto
in cui aveva trovato rifugio, si era appoggiata alle grandi casse di
legno. Cosa contengono? Si chiese,
esaminandole
con gli occhi. Le offerte agli
Dèi? L’argento?
Osservando
con attenzione le
listarelle della cassa alla sua destra, Lidia notò che ve
n’era una leggermente
danneggiata. Scommetto che la mia mano ci
passa, stimò, alzandosi sulla punta dei piedi per
raggiungere la fessura
che si apriva tra due sottili assi di legno. Trattenendo il fiato e
sentendosi
come un ladro che si accinge a mettere le mani su un bottino
particolarmente
ambito, la ragazza infilò una mano nell’apertura e
mosse le dita alla cieca,
tastando la consistenza di ciò che le capitò
sotto i polpastrelli.
Non
vi era alcun dubbio che si
trattasse di pietre, pietre ruvide e polverose, suddivise in frammenti
più
piccoli di quanto si sarebbe aspettata. Ripercorrendo con la memoria
ciò che
aveva visto durante la cerimonia a cui aveva assistito con Ulf, alla
giovane
pareva di ricordare che i blocchi d’argento fossero
più grandi di quelli che
avvertiva sotto alle dita in quel momento, ma non diede peso alla cosa:
dopotutto, delle pietre più piccole sarebbero state
più facili da nascondere e
trasportare rispetto a dei blocchi di diversi chili.
Afferrando
il primo blocco
compatto che le capitò a tiro, la ragazza fece per estrarre
la mano, ma la
piega innaturale nella quale aveva dovuto costringere il braccio per
farlo
penetrare all’interno della cassa la obbligò a
torcere dolorosamente una
spalla. Di riflesso, Lidia serrò con forza il pugno e rimase
allibita nel notare
che, a quel movimento, l’argento che stringeva tra le dita si
frantumò fino a
ridursi in polvere.
Eh? Sorpresa, la fanciulla estrasse in
fretta il braccio e alzò di
nuovo la mano alla luce delle lampade, ritrovandola ricoperta da uno
spesso
strato di polvere verdastra. Portandosela al naso, la fanciulla vi
ritrovò lo
stesso odore pungente che poco prima l’aveva fatta starnutire.
Non è argento,
realizzò, stupita. È
oli… olivite. Confusa, Lidia tornò ad
analizzare il contenuto della
cassa più vicina a lei, rendendosi rapidamente conto che
essa pareva piena
della roccia friabile con la quale erano costruiti i forni nei quali
venivano
bruciate le offerte.
Perché portano via questa roba? Si
chiese, spaesata. Ricordava perfettamente
quanto poco stabile fosse quella roccia. Ne aveva avuto una prova il
giorno in
cui lei e Unna avevano fatto ritorno al villaggio passando attraverso
la
vecchia cava che sovrastava la miniera, quando il cedimento di un
blocco di
olivite l’aveva fatta ruzzolare a valle senza troppi
complimenti.
Mossa
dalla voglia di scoprire
qualcosa di più, Lidia si inoltrò ulteriormente
nel passaggio tra le due casse
che le davano rifugio. Muovendosi lentamente, la ragazza raggiunse uno
dei
grandi sacchi di juta che ingombravano il pavimento. Dopo aver sciolto
i lacci
che la tenevano chiusa, la giovane frugò rapidamente
all’interno, scoprendo che
anch’essa non conteneva altro che olivite. Dov’è
l’argento? Si chiese, perplessa. Ulf
mi ha sempre detto che questa roccia non serve a niente, che senso ha
riempirne
casse intere?
Prima
che avesse modo di provare
anche solo a pensare a una risposta a quell’interrogativo, la
ragazza udì un
suono che la fece raggelare. Sono passi?
Si chiese, trattenendo il fiato. Provando il desiderio inconscio di
farsi il
più piccola possibile, Lidia si schiacciò contro
la parete di una cassa di
legno, lottando contro la polvere di pietra che minacciava di farla
starnutire
nuovamente.
Poi,
qualcuno la chiamò. «Lidia?
Sei qui?»
La
giovane sgranò gli occhi:
aveva sentito bene? Qualcuno si era davvero rivolto a lei chiamandola
per nome?
Qualche
secondo più tardi, la
voce parlò di nuovo. «Lidia, lo so, che sei qui.
Non avere paura: voglio solo
aiutarti.»
Senza
nemmeno rendersene conto,
la ragazza affondò le unghie smussate nelle vecchie assi
della cassa. Perché lei
la conosceva, la persona a cui apparteneva quella voce. Solo che non
riusciva a
spiegarsi perché accidenti fosse lì.
***
Gente, scusate il ritardo con cui posto questo
capitolo: scriverlo non
è stato affatto facile. L’ho riletto solo a pezzi,
sarò sincera: non ho avuto né
il tempo né la forza di fare una rilettura integrale. Come
al solito, lo
riprenderò in mano tra un po’ di tempo, a mente
fredda. Nel frattempo, se voi
trovate qualcosa da segnalare, segnalate pure.
A parte questo, che dire? Il capitolo non
è il massimo dell’allegria (o
forse sì? Dipende dai punti di vista…), ma da
adesso in poi solo cose belle! Più
o meno. Molto più o meno.
Però indovinate chi torna a farsi
sentire, nel prossimo capitolo?
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Capitolo 36 *** 35. Senza traccia ***
Ulf
strinse le dita sul granito
del ripiano al quale si era appoggiato, premendo la fronte contro il
vetro
fresco della finestra. Davanti ai suoi occhi, la luce calda delle sei
di sera
illuminava il prato che circondava la casa di Katti, facendo
risplendere i
fiori selvatici che vi crescevano come se fossero stati infusi
d’oro e ambra.
È stata la scelta giusta. Non avrei
potuto fare altrimenti. Per
quella che doveva essere la millesima volta, l’uomo si
ripeté quelle parole,
cercando di farle suonare convincenti almeno alle sue stesse orecchie.
Il
problema era che, ogni volta che ripensava al suo brevissimo incontro
con
Lidia, la sua mente gli ripresentava senza pietà lo sguardo
che la ragazza gli
aveva rivolto quando le aveva ordinato di fare ritorno a Roma. Uno
sguardo
incredulo, ferito, smarrito. Uno sguardo che, inevitabilmente, lo
faceva
sentire la persona peggiore sulla faccia della terra.
Ma cos’altro avrei potuto fare?
Si chiese il giovane, con un senso
di frustrazione che rasentava la rabbia. Lidia non gli aveva lasciato
scelta.
Tenendogli nascosta la presenza del ragazzo romano –
nonché, sospettava, la sua
identità – la fanciulla aveva dato il via a tutta
una serie di eventi che si
era poi risolta nel peggiore dei modi, mettendolo di fatto nella
situazione di
dover scegliere tra lei e Unna.
Proprio la decisione che non avrei mai voluto
prendere, considerò,
con una smorfia amara. Più che altro, perché non
si trattava affatto di una
scelta. Non poteva abbandonare Unna: era sua sorella – la sua
gemella – e
l’aveva conosciuta ancora
prima di conoscere il volto di sua madre. Il fatto di starle accanto in
un
momento tanto delicato non era nemmeno un obbligo, per lui: era
semplicemente
una necessità.
Perché
lui la conosceva fin
troppo bene, Unna. Vista da fuori, la giovane sembrava indistruttibile,
ma nel
profondo del suo animo, in un posto sconosciuto ai più,
nascondeva una
fragilità impensata. Una
fragilità che
può rivelarsi particolarmente pericolosa proprio
perché lei si rifiuta di
riconoscerla e di farci i conti.
Il
solo pensiero di abbandonarla
a se stessa lo terrorizzava. Già una volta, in passato,
avevano provato a
concederle i suoi tempi e i suoi spazi, lasciandola libera di decidere
se e
quando farsi aiutare. Ulf ricordava fin troppo bene quali erano stati i
risultati e non aveva alcuna fretta di trovarsi nuovamente in una
situazione
del genere.
E poi, c’è da dire una cosa:
Lidia ha una famiglia che sarebbe disposta
a riprenderla con sé, se necessario. Lei un posto dove
andare ce l’ha… Unna no.
Quando Rolf aveva detto loro che Karl era morto e che a ucciderlo era
stato un
romano che viaggiava con Lidia, la mente di Ulf era subito corsa a
ciò che quel
fatto avrebbe significato per il suo rapporto con la moglie. Malgrado
la rabbia
e la delusione dei primi istanti, l’uomo si era convinto che
la ragazza non
potesse essere veramente ritenuta responsabile per la morte
dell’amico. Se la
conosceva almeno un poco, sentiva di poter dire che, con ogni
probabilità,
Lidia si era ritrovata vittima degli eventi e non era riuscita a
evitare che le
cose virassero al peggio. Ciononostante, restava il fatto che, se fosse
stata
sincera con lui fin dall’inizio, le cose sarebbero forse
andate in un altro
modo. E, ancora più importante:
forse
quello che è successo non è colpa sua.
Però il tizio che ha ucciso Karl è un
suo amico; e non c’è niente che possa cambiare
questa cosa.
Alla
fine dei conti, Ulf sentiva
di dover guardare in faccia la realtà. E, per sua sfortuna,
la realtà era
estremamente semplice: Unna sentiva il bisogno di allontanarsi da
Erding, per
se stessa e per il bene del bambino. Ora che Karl non c’era
più, il giovane
sapeva di dover essere lui a farsi carico di quella
responsabilità. Non poteva
certo chiedere a suo padre di occuparsi di lei, né,
tantomeno, poteva
pretendere che fosse Hermann a farlo: l’uno doveva sottostare
agli obblighi che
gli derivavano dall’essere il capo villaggio,
l’altro era semplicemente troppo
giovane per prendersi una responsabilità del genere.
No, tocca a me.
Il
che lo poneva dinnanzi a ciò
che avrebbe dovuto fare con Lidia. Se la situazione fosse stata diversa
– se
non fosse stata proprio lei a
condurre al villaggio quel romano – Ulf l’avrebbe
portata con sé. Ma così
come faccio? Poteva davvero
imporre a Unna la presenza della ragazza? Come avrebbe mai potuto
essere
possibile la convivenza tra le due?
E, tra l’altro: sono davvero sicuro che
sarebbe giusto costringere
Lidia a vivere per sempre a stretto contatto con mia sorella?
In
quell’istante, dei passi
leggeri risuonarono alle sue spalle. «Vieni: la cena
è pronta. Rolf è abituato
a mangiare a quest’ora e Katti non vuole scombussolarlo
troppo.» Silenziosa
come suo solito, Unna l’aveva raggiunto accanto alla
finestra. Ulf però era
talmente assorto nei suoi pensieri, che si limitò a
rivolgerle un vago cenno
d’assenso.
Che
poi, c’era da considerare
anche un’altra cosa. Suo padre gli aveva raccontato che la
notte in cui Lidia
era sparita di casa un soldato romano era stato ucciso da delle persone
che non
erano ancora state identificate. Anche se non aveva la certezza
assoluta di chi
fosse il ragazzo morto, da ciò che gli era stato riferito
Ulf sospettava che
potesse trattarsi dello stesso legionario che, qualche giorno prima,
aveva
scortato Lidia dal Prefetto Caleno.
Potrebbe trattarsi di una coincidenza, oppure
potrebbe significare che,
quando è stato aggredito, Lidia era con lui. Il
che, di conseguenza,
significava che, così come temeva ormai da parecchio tempo,
lì in Germanica la
ragazza era in pericolo. E, allora,
rimandarla a Roma sarebbe davvero la cosa migliore per tutti.
Egoisticamente,
Ulf si chiese se
in quel “tutti” fosse compreso anche lui.
Concettualmente sapeva che senza
Lidia e i suoi pasticci la sua vita sarebbe tornata a essere molto
più
semplice. Nonostante ciò, non poteva fare a meno di
domandarsi se sarebbe stata
anche più felice.
Lui
e Lidia si conoscevano ancora
poco, ma il tempo che avevano passato insieme era stato comunque
sufficiente a
fargli venire voglia di conoscerla di più. Le voleva bene e,
quasi senza
rendersene conto, era arrivato a considerarla parte integrante della
propria
vita. Se pensava al futuro, lo vedeva con lei. Gli avvenimenti degli
ultimi
giorni l’avevano costretto a rivedere i suoi piani e quella
prospettiva gli
causava un dolore sordo all’altezza del petto. Sentiva di
aver perso qualcosa;
e il fatto che si trattasse di un “qualcosa” che
non aveva nemmeno mai avuto
non era di alcuna importanza.
«Guarda,
io te lo dico: di là si
raffredda tutto.»
Con
le dita, l’uomo tamburellò
pensosamente sul piano di granito che si trovava davanti. Forse,
però, stava un
po’ perdendo il senso della misura. Da quanto stavano
insieme, loro due? Tre,
quattro mesi? Ci siamo sposati il quattro
di maggio: non sono nemmeno tre mesi. Com’era
possibile che una persona che
conosceva da così poco tempo gli cambiasse in tal modo la
vita? Dopotutto, non
doveva dimenticare il motivo esatto per cui loro due erano finiti
insieme. È stato grazie alla
geniale pensata dei
Sacerdoti e dell’Imperatore.
Bastò
il pensiero per fargli
correre un brivido infastidito lungo le braccia. No: anche a distanza
di mesi,
la faccenda dei matrimoni combinati continuava a sembrargli una
grandissima
idiozia. E, allora, non dovrei fare altro
che tornare a quello che ero prima
che la suddetta grandissima idiozia si
verificasse: non dovrebbe essere troppo difficile, no?
Ulf
si soffermò qualche istante a
valutare quell’idea. Tornare a una vita in solitaria, lontano
da Erding, con
Unna e il suo bambino. E magari un’altra donna, prima o poi.
Una vita da
gestire in libertà, senza interferenze da parte di Roma,
né da parte dei
Sacerdoti. La prospettiva aveva un certo fascino, in effetti.
Però…
Il
giovane si sentì travolgere da
una desolante ondata di tristezza. Lidia,
pensò. Il suo modo di fare, a tratti comico in maniera del
tutto non
intenzionale, quel suo aprirsi un poco alla volta, le sue paure che a
volte
diventavano coraggio, la sua inaspettata determinazione, la sua
capacità di
ascoltare… già ne sentiva la mancanza. Terribilmente.
Per non parlare, poi, delle cose più concrete:
i suoi occhi scuri, il suo profumo, il modo che aveva di stringersi a
lui e di
baciarlo. E altre cose…
«Hai
intenzione di rimanere così
ancora per molto?»
Ma questo non cambia niente, si disse il
giovane, irrigidendo le
spalle e stringendo i denti come per darsi forza. Erano pensieri che
aveva già
fatto mille volte, nelle ultime ore, e la conclusione era sempre la
stessa: per
quanto doloroso fosse andarsene via e separarsi da Lidia, non
c’erano
alternative. Andava fatto, e basta.
Stando
così le cose, Ulf sentiva
di avere soprattutto un rimpianto: non aver gestito meglio la sua
ultima
conversazione con la moglie. Avrei
quantomeno dovuto darle la possibilità di spiegare meglio le
sue ragioni, prima
di imporle la mia decisione. Il risultato finale non sarebbe cambiato,
ma forse
ora mi sentirei meglio.
La
verità era che si era fatto
prendere dal panico. Aveva permesso che i vecchi ricordi lo inducessero
a
credere che vi fosse un pericolo imminente e, quasi inconsciamente, non
aveva
voluto permettere a Lidia di parlare. Forse
per evitare che potesse farmi cambiare idea. Che poi, chissà
cos’ha fatto,
quando me ne sono andato. Si sarà rivolta alla Sacerdotessa?
Sarà rimasta a
casa?
A
quel pensiero, un tremito di preoccupazione
gli strinse lo stomaco. Era stato davvero stupido
a non prendere qualche precauzione per assicurarsi che Lidia non
corresse alcun
pericolo. Avrebbe dovuto mandare qualcuno a tenerla d’occhio.
Se non altro, avrei dovuto spiegare a
papà
quello che stava succedendo: lui si sarebbe preso cura di lei.
Nel
tentativo di rassicurarsi, il
giovane si disse che, con ogni probabilità, non avendo
più sue notizie Gefrid
aveva comunque mandato qualcuno a vedere che cosa stava succedendo. O almeno lo spero: malgrado tutto, dubito
seriamente che il ragazzino romano sia in grado di difenderla in
maniera
decente.
Ulf
era completamente immerso in
quei pensieri che si facevano via via sempre più inquieti e
non si accorse dello
sguardo stranito che Unna gli stava rivolgendo. Quando la sorella gli
posò una
mano sul braccio, il contatto con le sue dita fredde lo fece trasalire.
«Sì,
adesso arrivo» mormorò cupamente, voltandosi
appena per guardarla.
La
donna scosse il capo. «Se devi
stare così, tanto vale che vai a prenderla.»
Sulle
prime Ulf non capì e guardò
la sorella, confuso. «Come?» Lei abbassò
lo sguardo a terra e si masticò
brevemente le labbra, come se stesse tentando di capire se la decisione
presa
fosse quella giusta, poi cercò gli occhi del fratello,
rivolgendogli un sorriso
tirato. «È da questa mattina che praticamente non
apri bocca. Non so perché, ma
immagino che sia per colpa della romana: a ‘sto punto,
vattela a riprendere e
falla finita.»
Ulf
distolse brevemente lo
sguardo, cercando maldestramente di nascondere l’espressione
attonita che gli
si era dipinta sul volto. «Lidia non c’entra
niente» provò a negare,
consapevole di quanto falsa suonasse quell’affermazione.
Unna
storse la bocca. «Come no!»
commentò, sarcastica. «É inutile che
cerchi di farmi passare per cretina: ti
conosco abbastanza bene per capire quando non dici la
verità.»
L’uomo
sospirò. «D’accordo»
ammise. «Non mi è piaciuto affatto doverla
lasciare là. Però sai benissimo
perché l’ho fatto… e, anche se odio
dirlo, non c’era altra soluzione. Lidia
starà bene, a Roma.»
Unna
lo fissò con aria scettica.
«Può essere. Quello che mi chiedo,
però, è se tu
starai bene senza di lei.»
Ulf
scosse le spalle.
«Sopravvivrò.»
La
donna strinse la presa sul suo
avambraccio, pizzicandolo come era solita fare quando erano bambini.
«Non
fraintendermi: se non dovessi vederla più non mi dispererei
di certo, ma ti
dispiacerebbe dirmi per quale motivo, esattamente, l’hai
mandata via?»
L’uomo
voltò il capo di scatto,
fissandola con gli occhi ridotti a fessure. «Sarebbe stato un
po’ strano, non
credi, vivere tutti nella stessa casa?»
«Tutti?»
lo interrogò Unna,
chinando il capo di lato. «Intendi tu, lei e io?»
Ulf annuì e la giovane
sbuffò. «Cosa ti fa credere che io voglia vivere
con te? Non mi serve una
balia!»
L’uomo
fu sul punto di dirle che,
quando la notizia della morte di Karl li aveva raggiunti, non gli era
affatto
sembrato che lei fosse in grado di cavarsela da sola. Almeno in un
primo
momento, il modo in cui lei aveva reagito l’aveva fatto
preoccupare non poco:
anche se ormai erano passati anni da quello che, fino ad allora, era
stato il
momento più buio nella vita di Unna, il giovane aveva
riconosciuto
perfettamente quello sguardo vuoto, quei movimenti assenti, apatici.
Poi, però,
la donna sembrava essersi ripresa. Se non altro, pareva aver
riguadagnato un
discreto controllo su se stessa, lasciando presumere che non sarebbe
ripiombata
negli abissi che aveva conosciuto durante la sua adolescenza.
«Lo
so», disse allora, scegliendo
con attenzione le parole, «ma presto avrai un bambino e sarai
completamente sola,
non credo che…» Unna lo interruppe con un brusco
cenno della mano. «Non sarò né
la prima, né l’ultima donna a prendersi cura di un
bambino senza l’aiuto di un
marito. Me la caverò benissimo.»
«Può
essere», ribatté Ulf,
voltandosi verso di lei e fissandola negli occhi, «ma io non
ho comunque
intenzione di lasciarti sola!»
Sua
sorella sostenne il suo
sguardo per alcuni lunghi secondi, poi lasciò che i suoi
occhi scivolassero via
da quelli del fratello e scosse il capo con un mezzo sorriso.
«D’accordo,
d’accordo. Però sappi che, se vuoi riprenderti
quella buona a nulla di tua
moglie, a me sta bene.»
L’uomo
la scrutò intensamente,
come se non credesse alle sue parole e stesse cercando la ragione per
la quale
stava mentendo. «Vorresti farmi credere che quello che
è successo non conta
niente?» chiese, e la sua voce suonò
più dura di quanto avrebbe voluto.
Unna
lo fulminò con lo sguardo.
«Non ho mai detto una cosa del genere!»
ringhiò. «Karl era mio marito e già mi
manca da morire…» La voce della giovane si
incrinò in maniera quasi
impercettibile e, subito pentito per la sua mancanza di tatto, Ulf le
posò le
mani sulle spalle e la attirò a sé. Lei
resistette e si divincolò, ma non si
allontanò da lui. «Scusami»
mormorò l’uomo. «Non volevo insinuare
niente. È
solo che a volte… è solo che a volte non mi era
molto chiaro quello che provavi
veramente per lui.»
Unna
si strinse nelle spalle,
sospirando. «Se ho accettato di sposarlo, è
perché lo amavo, non certo perché
avevo bisogno della sua compassione. E non mi serve nemmeno la tua, di compassione: quindi, per favore,
risparmiamela.»
Avvertendo
la riluttanza della
sorella a parlare di un argomento del quale, del resto, nemmeno lui era
particolarmente ansioso di trattare, Ulf tornò ad
appoggiarsi al davanzale e
abbassò brevemente lo sguardo a terra, prima di alzarlo di
nuovo su Unna. «Va
bene, ho capito» disse, dopo qualche istante di silenzio.
«Però faccio comunque
fatica a credere che rivedere Lidia non ti farebbe alcun
effetto.»
La
donna scosse il capo, con un
sorriso amaro. «Non la incolpo per quello che è
successo» dichiarò, allargando
le braccia. «Se Lidia non mi piace particolarmente,
è perché non ha un minimo
di spina dorsale. Non sopporto quel suo essere completamente dipendente
dagli
altri… e poi è romana, il che non migliora di
certo le cose. Però non credo che
sia stata lei a uccidere Karl.» Poi, facendo scorrere lo
sguardo sul fratello,
Unna parve colta da un dubbio. «Tu invece credi che sia colpa
sua?»
Preso
alla sprovvista dalla
domanda della gemella, Ulf arrossì leggermente.
«No, certo che no!» si affrettò
a precisare. «Però, forse, se fosse stata
più sincera, le cose sarebbero andate
diversamente.»
Unna
sollevò appena una spalla.
«E chi lo sa… forse. A giudicare da quello che ci
ha raccontato Rolf, però, ho
come l’impressione che quella ragazza si sia ritrovata in
completa balia degli
eventi. Come suo solito, del resto. È talmente stordita che,
probabilmente, non
si è nemmeno accorta di quello che stava
accadendo.»
Nel
sentir parlare di Lidia in
modo tanto dispregiativo, Ulf storse un po’ il naso.
«Be’, Rolf ha anche detto
che ha tentato di fermare quel romano… che ha cercato di
calmare un po’ gli
animi, no?»
«Sì»,
ribatté Unna, «ma non mi pare
che la cosa le sia riuscita molto bene.»
«Almeno
ci ha provato» insistette
lui, sentendosi improvvisamente in dovere di difendere la moglie. La
giovane si
limitò a rivolgergli un vago cenno del capo. «Va
be’. Quello che voglio dire è
che, secondo me, Lidia non è andata veramente a cercarsela.
Si è lasciata
trasportare dagli eventi, ma non ha scelto
di fare quello che ha fatto… a differenza di
Karl.» Cogliendo la nota amara che
aveva distorto la voce della sorella, Ulf si costrinse a rimanere in
silenzio e
a lasciarla parlare. «Lui è partito di sua
spontanea volontà, anche se gli
avevo chiesto di non farlo.»
L’uomo
sospirò. «L’ha fatto
perché credeva fosse la cosa giusta da fare» le
fece notare dolcemente.
Lei
gli rivolse un sorriso
triste. «Lo so: lui era fatto così… non
ce l’ho veramente con lui.» Poi, la sua
voce si fece più dura. «L’unico vero
colpevole di quello che è successo è quel
romano: mi dispiace non essere stata più veloce, ieri. Avrei
potuto ucciderlo,
se quell’altro tizio non si fosse messo in mezzo.»
Il
volto di Ulf si irrigidì.
«Forse è un bene che tu non l’abbia
preso. Non credo che Lidia l’avrebbe presa
bene, se fosse morto.» Unna gli lanciò uno sguardo
freddo. «Non me ne frega
niente, a dire il vero. Ho detto che per me può restare, non
che voglio
diventare la sua migliore amica. Tu e tua moglie potete pensarla come
volete,
ma quel romano ha ucciso Karl e io ho tutto il diritto di vendicarmi.
Ti
ricordo che era anche tuo amico.»
Ulf
distolse lo sguardo,
sentendosi combattuto e vergognandosi un po’ della sua
indecisione. «Lo so, ma
ucciderlo non ti restituirebbe tuo marito. Il ragazzo resta pur sempre
un
romano, magari anche di buona famiglia, se ha avuto i mezzi per venire
fino a
qui: la sua morte non farebbe che procurarti altri problemi.»
Notando
l’incertezza che si era disegnata sul volto della sorella, il
giovane rincarò
la dose. «Possiamo già ritenerci fortunati se non
avremo rogne da quel tipo che
hai ferito: hai idea di chi fosse?»
Lentamente,
Unna scosse il capo.
«Non l’ho mai visto prima. E, sfortunatamente, non
c’è proprio stato il tempo
per fare le presentazioni. Comunque non l’ho certo ferito in
modo grave: mi
pareva bello combattivo, quando mi ha dato della pazza per averlo
colpito…»
«Non
mi pareva un legionario»
commentò Ulf, cercando di riportare alla memoria i vaghi
ricordi che conservava
dell’uomo con i capelli rossi.
«Non
lo era» confermò Unna, con
una nuova certezza nella voce. Dopo qualche istante, la ragazza si
scostò di un
passo e fece un gesto come se volesse allontanare quei pensieri.
«Allora»,
disse, poi, guardandolo con il capo leggermente inclinato,
«cosa intendi fare?
Vai a riprenderti la ragazza o cosa?»
Anche
se avrebbe voluto apparire
un po’ meno entusiasta e dare almeno la parvenza di
rifletterci sopra un poco,
l’uomo si ritrovò ad annuire.
«Sì, meglio di sì. Questa mattina ho
agito
d’istinto e non ci ho pensato molto, prima di andarmene via.
Però, considerato
quello che è successo negli ultimi giorni, mi sentirei molto
più tranquillo
avendocela sott’occhio. Poi vedremo cosa fare.»
Unna
corrugò la fronte. «In che
senso?»
L’uomo
esitò. «Vedremo se vorrà
comunque restare qui o se preferirà tornare a Roma. Se prima
di tutta questa
storia sentivo di conoscerla davvero molto poco, adesso non ho proprio
la
minima idea di che cosa le passi per la testa…»
La
donna non trattenne un
sorrisetto storto. «Oh, a giudicare da come ti guarda e da
come parla di te,
non credo proprio che voglia andarsene.»
«Dici?»
A quelle parole Ulf si
aprì in un sorriso, avvertendo uno strano calore
all’altezza dello stomaco.
Unna alzò gli occhi al cielo. «Patetico»
sospirò, prima di fare un cenno in
direzione della porta. «Dai, vai, tanto ormai di
là è tutto freddo.»
Il
giovane annuì, mentre il suo
sorriso si spegneva un poco. «Va bene, ci vado subito. Voi
mangiate, nel
frattempo: potrebbe non essere una cosa rapida.»
Unna
gli rivolse uno sguardo
confuso. «E perché mai? Non credo proprio che
dovrai pregarla, per convincerla
a seguirti…» Un angolo della bocca di Ulf si
sollevò quasi impercettibilmente,
poi l’uomo scosse il capo, divertito
dall’osservazione della sorella. «Forse
no, ma il problema è che non è affatto detto che
Lidia sia ancora a casa
nostra. Questa mattina le avevo raccomandato di non rimanere
lì da sola, ma di
andare a cercare Donna Erin. E, chissà: potrebbe anche
avermi ascoltato, per
una volta nella vita. Oppure potrebbe essere andata al campo militare
con il
suo amico romano, o il tipo che hai ferito potrebbe averla portata
chissà dove…
in effetti, potrebbe essere ovunque,
ora che ci penso.»
Vedendo
che il fratello
cominciava a farsi inquieto, Unna gli posò una mano sul
braccio. «È inutile che
stai qui a perdere tempo, allora. Va’ e cercala – e
vedi di trovarla, che ‘sto
muso lungo mi ha già stancato.»
Lui
le rivolse un’occhiata
storta, poi ricambiò la sua stretta e, senza aggiungere
altro, si avviò verso
la porta. La casa di Katti si trovava praticamente dall’altra
parte del
villaggio e il giovane percorse le strade di Erding a passo rapido,
senza
fermarsi a osservare quello che accadeva attorno a lui. Con la coda
dell’occhio, notò che in paese pareva esserci un
certo fermento, ma non si
soffermò per scoprire che cosa l’avesse provocato.
Quando, poco più di un
quarto d’ora più tardi, giunse in
prossimità della casa che divideva con Lidia,
Ulf si fermò di colpo, sorpreso. E
quello
chi è?
Seduto
sui gradini di fronte alla
porta d’ingresso, c’era un ragazzino
dall’aria annoiata che giocherellava con
un filo d’erba. Anche se sulle prime gli parve di non
conoscerlo, avvicinandosi
ulteriormente Ulf vide che si trattava del figlio del macellaio
– del resto, le
sue orecchie a sventola e il suo naso rosso erano piuttosto
inconfondibili.
Cosa accidenti ci fa, qui? Si chiese,
strisciando un poco i piedi
sul selciato per attirare l’attenzione del giovane germanico.
Sentendolo
avvicinare, il ragazzo lasciò cadere la margherita che
teneva tra le dita e
balzò in piedi, sul volto un’espressione a
metà strada tra lo scocciato e il
sollevato.
Il
ragazzino fece per parlare, ma
Ulf lo precedette. «Hai bisogno di qualcosa?»
chiese, senza tanti preamboli. Il
figlio del macellaio sbatté un paio di volte gli occhi
chiari, come se fosse
rimasto sorpreso da un approccio tanto diretto, poi fece un mezzo cenno
d’assenso. «Devo dire una cosa a Livia.»
«A
Lidia» lo corresse Ulf.
«Che cosa devi dirle?»
Il
ragazzetto lo guardò con
sospetto, quasi come se non fosse certo di potersi fidare di lui.
«Il papà mi
ha detto di parlare solo con Lidia.
Non so se posso dirlo a te.»
Per
una frazione di secondo, Ulf
fu tentato di alzare gli occhi al cielo. «Sono suo
marito» spiegò, cercando di
mantenere la calma. «Sono abbastanza certo che qualsiasi cosa
tu le debba dire
possa essere detta anche a me.»
«Hm.»
Il ragazzo lo squadrò
ancora per qualche istante, poi parve rassegnarsi. «Tu lo
sai, chi è
Alexander?» Ulf corrugò la fronte, cercando di
ricordare se conoscesse qualcuno
che rispondeva a quel nome. «Chi, scusa?»
Il
figlio del macellaio si portò
le mani sui fianchi e sbuffò. «Ma sei sicuro che
sei suo marito? Mio padre mi
ha detto che Alexander è un amico di Lida e che lei stava
aspettando un suo
messaggio. Mi sembra strano che tu non lo conosci.»
Ulf
espirò con forza,
ricordandosi improvvisamente di quanto potessero essere odiosi i
ragazzini di
quell’età. «Senti, perché non
facciamo una bella cosa? Adesso entriamo, tu le
consegni il tuo messaggio e io
sento
che cos’hai da dirle. D’accordo?» Per
tutta risposta, l’altro gli rivolse uno
sguardo accondiscendente. «Ci ho già
provato» lo informò. «Non è
in casa.»
Allarmato,
l’uomo si girò di scatto
verso la porta. «No?»
«No»
confermò il ragazzetto. «Ho
provato a entrare, ma la porta è chiusa a chiave.»
Sentendo la preoccupazione
montare, Ulf tornò a rivolgersi al suo giovane compaesano.
«Da quanto tempo sei
qui, tu?»
Il
ragazzo scrollò le spalle.
«Non lo so. Un’ora, due… un sacco di
tempo, insomma. E, prima di me, è stato
qui mio padre. Abbiamo praticamente passato tutto il pomeriggio ad
aspettarla,
ma lei non si è vista.»
Ah, merda! Imprecò mentalmente
Ulf. Esattamente come aveva temuto,
Lidia doveva aver scelto proprio quel giorno per ascoltare i suoi
consigli e se
n’era andata di casa. E del resto
che
cosa ti aspettavi, idiota? Mi pare il minimo, visto come
l’hai trattata!
Colto
da un dubbio, Ulf cercò lo
sguardo del ragazzino. «Questo Alexander… ha per
caso i capelli rossi?» Il
figlio del macellaio annuì. «Sì.
È alto e ha i capelli rossi. E dev’essere
anche bello ricco: non ci viene spesso, a comprare la carne, ma, quando
la
compra, non ha paura di spendere!»
L’uomo
ebbe un fremito
d’impazienza di fronte a quell’informazione
inutile. «D’accordo, ho capito chi
è» tagliò corto. «Lo conosco,
solo che non sapevo che si chiamasse così. Lascia
pure a me il messaggio: ci penso io a recapitarlo a mia
moglie.»
Il
ragazzino parve combattuto, ma
poi scrollò le spalle. «Oh, e va bene! Io ci ho
perso fin troppo tempo, per
questa cosa.» Così dicendo pescò dalla
tasca un foglietto stropicciato,
ripiegato in quattro. «Credo che siano tipo le indicazioni su
dove trovare
Alexander. Non so perché vuole che Lidia vada da
lui… credo di aver capito che
lui non sta tanto bene. O forse si è fatto male…
qualcosa del genere, insomma.»
Prendendo
il foglietto che il
ragazzo gli stava porgendo, Ulf annuì. «Va bene,
grazie. Magari la accompagno
anch’io, allora.» Il figlio del macellaio si
strinse nelle spalle. «Fai un po’
come vuoi» fece, accomiatandosi da lui sventolando pigramente
una mano.
Rimasto
solo, l’uomo lesse
rapidamente il messaggio scritto con una grafia obliqua ed elegante, a
tratti
difficile da interpretare. Non è
che dica
molto, constatò, con una smorfia amareggiata.
Alexander non forniva infatti
alcun elemento che potesse aiutarlo a ritrovare sua moglie: nel suo
biglietto,
si limitava a chiedere che Lidia e Tito
lo raggiungessero nella cascina in cui esercitava uno dei guaritori del
villaggio.
Tito dev’essere il ragazzo romano,
ragionò, serrando inconsciamente
i pugni. Respirando a fondo per allontanare il fremito di rabbia che
l’aveva
colto, Ulf tornò a osservare il messaggio
dell’uomo dai capelli rossi. A Erding
esercitavano tre guaritori e, per qualche motivo, Alexander aveva
deciso di
rivolgersi proprio a quello più fuori mano. Che
motivo c’era di farsi un paio di chilometri a piedi, quando
all’interno del
villaggio ci sono altri medici altrettanto capaci di dargli due punti?
Accantonando
quell’interrogativo,
Ulf ragionò sul da farsi. Considerato il messaggio che gli
era appena stato
recapitato, era chiaro che Lidia non fosse in compagnia
dell’uomo dai capelli
rossi che l’aveva riaccompagnata al villaggio. Il
che mi lascia con due possibilità: o è andata con
il suo amico
all’accampamento militare, oppure è andata a
chiedere aiuto a Donna Erin.
Per la prima volta da quando, parecchi anni prima, la Sacerdotessa era
arrivata
al villaggio, il giovane trovò piuttosto allettante la
prospettiva di andarla a
trovare. Sempre meglio andare da lei,
piuttosto che andare in un posto pieno di legionari…
Mentre,
per togliersi ogni
dubbio, faceva un inutile giro di perlustrazione dentro casa, il
giovane si domandò
se non fosse possibile che, spaesata e spaventata, Lidia avesse cercato
la
compagnia di qualcuno che conosceva. E se
fosse andata a casa di papà? Si chiese, con una
punta di speranza. Del
resto, lei e Hermann andavano d’accordo e Donna Edda le era
stata vicina
durante i primi tempi della sua permanenza al villaggio: era davvero
così poco
verosimile che la fanciulla avesse cercato rifugio da loro?
Un
poco rinfrancato da quel
pensiero, una decina di minuti più tardi Ulf si
ritrovò davanti alla casa di
suo padre. «Papà?» chiamò,
aprendo la porta e lasciando scorrere lo sguardo
sulle mura che l’avevano visto nascere e crescere.
«Hermann?» provò di nuovo,
quando il suo richiamo cadde nel vuoto. Dal giardino sul retro giunse
un rumore
e Ulf si diresse rapidamente in quella direzione.
«Nonna!»
esclamò, scorgendo la
figura scura di Donna Edda intenta a ritirare i panni stesi.
«Sei sola? Dove
sono tutti?»
Nell’udire
la voce del nipote,
l’anziana germanica sobbalzò, lasciando scivolare
a terra la tovaglia che
teneva fra le mani. «Dov’eri finito?» lo
aggredì, non appena si fu ripresa dal
suo stupore. «Dove sono i tuoi fratelli?»
Preso
alla sprovvista dalla
reazione imprevista della donna, il giovane retrocedette di un passo.
«Unna è a
casa di Katti» replicò, prima di rendersi conto
che forse Unna non avrebbe
voluto che la sua famiglia sapesse dove si era ritirata alla ricerca di
un po’
di pace e tranquillità. «Hermann,
invece… be’, lui non lo vedo da ieri, quindi
non ho proprio idea di dove sia finito.»
Donna
Edda si adombrò
ulteriormente, mentre sul suo volto si dipingeva
un’espressione turbata. «Non è
venuto da te, questa mattina?» La preoccupazione che colse
nella voce di sua
nonna lo mise subito in allerta e Ulf scosse il capo. «No:
ero anch’io da
Katti, con Unna, e lì Hermann non è
passato.»
Lentamente,
la vecchia germanica
raccolse la tovaglia caduta sul prato e la ripose nella cesta, insieme
agli
altri panni ancora bagnati. Poi si avvicinò al nipote, lo
sguardo chino a terra
e un’espressione concentrata sul viso segnato dal tempo.
«E tua moglie, invece?
Dove l’hai lasciata?»
Tutte
quelle domande stavano
iniziando a innervosirlo e Ulf scrollò le spalle in un gesto
di impazienza,
cercando di capire dove volesse andare a parare la donna.
«L’ho incontrata
questa mattina. Ero… ero un po’ arrabbiato per il
modo in cui si è comportata
ultimamente e le ho chiesto di restare a casa»
mormorò, senza avere il coraggio
di raccontare a Donna Edda tutta la verità. Anche se
continuava a essere
convinto di avere agito in modo tutto sommato comprensibile, data la
situazione, ora che si trovava a discutere con qualcuno di quello che
aveva
fatto, si sentiva un po’ in colpa. «Adesso sono
tornato a cercarla, ma a casa
non c’era nessuno. E non c’è stato
nessuno per tutto il pomeriggio, stando a
quanto mi ha raccontato il figlio del macellaio.»
«Oh,
Dèi!» Donna Edda si portò
una mano al viso. Per una frazione di secondo parve sul punto di
perdere le
forze e, senza nemmeno pensarci, Ulf le si avvicinò, pronto
a sostenerla. «Tuo
fratello era andato da lei, questa mattina. Non è
più tornato a casa: dove
possono essere andati?»
L’uomo
sentì la preoccupazione
montare dentro di sé, ma cercò di tenere a bada
l’ansia e di ricostruire
esattamente quello che era successo. «Aspetta un
attimo» disse, cercando di non
mangiarsi le parole come spesso faceva quando era preoccupato.
«Perché Hermann
è andato a cercarla? Come faceva a sapere che
l’avrebbe trovata a casa?»
L’anziana
germanica scosse una
mano con impazienza. «Non è importante!»
sbottò, alzando su di lui il suo
sguardo di ghiaccio. «Il nuovo Sacerdote ci ha detto di
averla incontrata, tu
eri partito con Unna la sera prima e tuo padre ha semplicemente pensato
che
fosse prudente chiedere a Hermann di andare a dare
un’occhiata per assicurarsi
che fosse tutto a posto…»
«…
quale nuovo Sacerdote?» la
interruppe Ulf. «Il ragazzo… il ragazzo che
è arrivato l’altro giorno a casa di
Donna Erin?» Donna Edda annuì.
«Sì. Donna Erin se n’è
andata, adesso al suo
posto c’è Fratello… Caio, o come si
chiama.»
«Kay» la corresse il giovane,
con un nodo alla gola. Se Donna Erin
non era più al villaggio, allora Lidia non poteva essere
andata da lei. E quindi
c’è un solo posto in cui potrebbe trovarsi:
l’accampamento militare. Improvvisamente,
però, quell’ipotesi gli parve
poco verosimile: stando a quanto gli aveva detto sua nonna, Hermann era
probabilmente con lei. E ho dei seri
dubbi che avrebbe accettato di seguirla in un posto pieno di soldati di
Roma.
«Dov’è
mio padre?» tagliò corto
Ulf, riscuotendosi dai suoi pensieri e cercando di definire rapidamente
un
piano d’azione. «Ho bisogno di parlargli.»
Donna
Edda scosse mestamente il
capo. «Dovrai aspettare un po’, prima di farlo:
è stato convocato più di un’ora
fa dal Legato. Pare che sia morto un romano e, visto che non
è il primo che fa
questa fine, vogliono vederci chiaro.»
Per
qualche motivo,
quell’informazione gli fece correre un brivido ghiacciato
lungo la schiena.
«Che romano?» chiese, temendo però la
risposta. «Un soldato?» Di nuovo,
l’anziana germanica scosse la testa in segno di diniego.
«Non ne so molto: il
Legato Libo è venuto per parlare con tuo padre, non certo
con me. Ma no, non si
trattava di un soldato: da quanto ho capito, era un ragazzo normale…»
«Ma
non ci sono civili romani, da
queste parti» protestò debolmente, mentre un lieve
capogiro lo coglieva. No, non ci sono civili
romani. A parte
l’amico di Lidia, ovviamente. Quasi indovinando i
suoi pensieri, Donna Edda
gli puntò addosso il suo sguardo acuto. «Sai
benissimo che uno ce n’era»
mormorò, con voce cupa. «Ed è anche per
questo che il Prefetto è venuto a
cercare tuo padre. Perché forse Lidia lo conosceva e,
forse…»
«…
si tratta dello stesso ragazzo
che ha ucciso Karl? Quello che ha cercato di portare via
Lidia?» Quando
l’anziana germanica annuì, Ulf si
ritrovò a camminare nervosamente avanti e
indietro. «Io l’ho visto, questa mattina: era anche
lui con Lidia, a casa
nostra!»
Intuendo
la direzione in cui si
stavano indirizzando i pensieri del nipote, Donna Edda gli
posò una mano sul
braccio, come per tranquillizzarlo. «Tua moglie e tuo
fratello non erano con
lui: Libo ha parlato di una sola persona morta.»
«Ma
potrebbero essere stati
insieme!» insistette Ulf, che si stava rapidamente
convincendo che lo scenario
peggiore fosse anche quello più verosimile. «Di
cosa è morto? È stato ucciso?»
La stretta di Donna Edda si fece ancora più salda, mentre le
labbra
dell’anziana donna si piegavano in una smorfia amara.
«Non so niente» mormorò,
con una voce che ricordava lo scricchiolio delle foglie secche.
«Non mi hanno
detto niente.»
Nonna
e nipote si fissarono per
qualche secondo in un silenzio angosciato, poi Ulf inspirò a
fondo. «Papà è a
casa del Legato?» chiese, con voce secca. Quando la donna
annuì, il giovane
retrocedette di un passo. «Io vado a cercare di capirci
qualcosa. Tu resta qui,
nel caso papà o Hermann facciano ritorno.»
Senza
aggiungere altro, l’uomo si
catapultò fuori di casa, reprimendo a stento
l’impulso di mettersi a correre
come un bambino spaventato. Nella sua testa, i pensieri vorticavano
furiosamente, tempestandolo con accuse e recriminazioni. Stupido,
si disse. Come posso
essere stato così stupido da lasciarla lì in
compagnia di quei due? Lo sapevo,
che avrebbe potuto essere pericoloso! Perché non ho
ragionato, invece di farmi
prendere dal panico? Per colpa delle sue decisioni
affrettate, adesso si
trovava a dover cercare non solo Lidia, ma anche suo fratello. Sì, però sono stato anche
sfortunato. Ci si
è messa in mezzo tutta una serie di cose…
Immerso
in quei pensieri cupi e
confusi, il giovane arrivò rapidamente in vista della domus del Legato Libo. Non si sorprese,
nel vederla circondata da legionari
di guardia – del resto, non era passato molto tempo dal
giorno in cui qualcuno
aveva cercato di appiccarvi il fuoco – ma quello che lo
stupì fu notare che il
drappello più numeroso sembrava essere posizionato all’interno dei cancelli della
villa.
Rallentando
il passo, Ulf si
avvicinò alle mura esterne, cercando di capire che cosa
stesse succedendo.
Quando fu giunto a pochi metri di distanza dal drappello di soldati
fermi
davanti alle porte dell’abitazione del Legato, uno di questo
lo notò e gli si
avvicinò con passo rapido. «Hai bisogno di
qualcosa?» lo interrogò,
scrutandolo, se non con sospetto, quantomeno con diffidenza.
Il
giovane esitò per un istante,
cercando una risposta che non mettesse in allerta il legionario.
«Sto cercando
mio padre» disse, allora. «Sono Ulf, figlio di
Gefrid, il Capo Villaggio: mi è
stato detto che è stato convocato poco fa dal Legato Libo.
Mi hanno riferito
che c’è stato un incidente con un cittadino di
Roma.»
Rilassando
un poco la propria
postura, il soldato annuì. Era un giovane uomo dalla pelle
ambrata e corti
capelli neri e Ulf ebbe l’impressione che non sapesse bene
come comportarsi, in
quella situazione. «È così»
confermò. «Mi dispiace, ma non posso farti
entrare:
ordini del Prefetto.»
Davanti
a quella risposta, l’uomo
si accigliò. «Come sarebbe a dire?»
protestò. «Il Prefetto ha ordinato di non
farmi entrare?» Il giovane moro ebbe un attimo di incertezza.
«Non esattamente»
rispose, poi. «Ha semplicemente dato disposizioni di non far
passare nessuno
per motivi di sicurezza.
Finché non
capiamo di cos’è morto quel ragazzo, ci
è stato detto di tenere lontano la gente.»
Vedendo
comunque un’occasione per
scoprire ciò che gli interessava, Ulf provò a
insistere un altro po’. «Avevo
capito che fosse stato ucciso in un agguato. Pensavo che mio padre
fosse stato
convocato nel tentativo di trovare i colpevoli: non è
così?»
Di
nuovo, il legionario fece un
cenno di diniego. «No, a quanto pare non
c’è stato alcun agguato: il corpo è
stato ritrovato per caso nel bosco, in un sentiero che collega Erding
con il
campo militare, ma non ci sono ferite evidenti che suggeriscano una
morte violenta.»
Per
un istante, Ulf si chiese se
il soldato fosse autorizzato a fornirgli tutte quelle informazioni o
se,
invece, si stesse lasciando sfuggire qualche parola di troppo, ma
quello non
era certo il momento per farsi scrupoli simili. «E
quindi?» insistette.
«Pensate che sia stato avvelenato?»
Il
legionario si strinse nelle
spalle. «È un’ipotesi»
confermò. «Oppure potrebbe essere morto di morte
naturale: al momento non abbiamo modo di sapere se fosse malato o meno.
In ogni
caso, il Prefetto ha ritenuto che fosse più prudente portare
qui il corpo. La
situazione è delicata, soprattutto perché il
ragazzo era un civile, e per
questo Caleno ha voluto discuterne subito con il Legato.
Però ha voluto anche
ridurre al minimo il rischio di contagio: all’accampamento
viviamo uno
attaccato all’altro, puoi ben capire
che…»
Ulf
non riuscì a trattenersi. «E
quindi ha preferito rischiare di contagiare Libo?» gli
scappò detto. Il soldato
lo guardò per qualche istante, poi sollevò
nuovamente le spalle con aria leggermene
smarrita. La notizia appena appresa distrasse brevemente Ulf dalla sua
preoccupazione per la sorte della moglie e del fratello e il giovane si
chiese
se la mossa di Caleno non fosse stata studiata: del resto, ricordava
perfettamente quanta poca simpatia scorresse tra il Legato e il
Prefetto.
Notando
un improvviso movimento
tra i legionari radunati dall’altra parte della cancellata,
l’uomo distolse gli
occhi dal soldato che gli stava davanti e cercò di sbirciare
verso l’interno
della villa. Seguendo il suo sguardo, il romano aggrottò la
fronte, confuso.
«Lo stanno portando dentro?» chiese, rivolto ai
suoi commilitoni che, come lui,
si erano voltati per seguire la scena.
«Così
parrebbe» rispose uno di
loro, con una scrollata di spalle.
È davvero l’amico di Lidia?
Si chiese Ulf, mentre l’angoscia gli
stringeva il petto in una morsa. Anche se non aveva la
benché minima simpatia o
compassione per il ragazzo che aveva ucciso Karl, il fatto che quel
romano
fosse stato in compagnia di Lidia fino a poche ore prima lo riempiva di
ansia. Se lui è morto,
dov’è finita Lidia?
Certo,
rimaneva la esile, esilissima
possibilità che Lidia si
fosse separata da lui e fosse andata da qualche parte con Hermann, ma
quell’ipotesi gli sembrava assolutamente inverosimile. Anche perché dove potrebbero essere
andati?
In
quel momento, due soldati di
guardia davanti alla porta interna della domus
si chinarono e sollevarono una barella militare sulla quale era disteso
un
corpo. Anche se la distanza e gli uomini che continuavano a frapporsi
tra lui e
la barella gli impedirono di scorgere i dettagli, Ulf riuscì
comunque a
intravvedere dei capelli scuri e dei lineamenti che gli parvero fin
troppo
famigliari. Il giovane si sentì sbiancare, mentre, per un
istante, il mondo
pareva farsi distante e ovattato.
«C’è
qualche problema?»
La
voce del giovane legionario
dai capelli neri lo costrinse a tornare alla realtà e Ulf
scosse più volte la
testa, cercando di tenere a bada i propri pensieri e il proprio
turbamento.
«No», negò, «stavo solo
cercando di capire se lo conoscevo…»
Il
soldato gli scoccò uno sguardo
obliquo. «Dubito: da quel poco che ho sentito, il ragazzo era
un patrizio.
Figlio di gente importante, se non ho capito male. Non è
nemmeno ben chiaro che
cosa ci facesse qui, un tipo come lui.»
Lo so io, che cosa ci faceva qui,
pensò Ulf, con la testa piena di
sentimenti contrastanti. Se, da un lato, c’era
l’inconfessabile soddisfazione
di sapere che l’uomo che aveva ucciso il suo migliore amico
era morto,
dall’altro quella morte poteva avere delle terribili
implicazioni sulla sorte
di Lidia – e di Hermann.
D’un
tratto, Ulf si sentì
completamente perso e abbandonato a se stesso. Non aveva la
benché minima idea
di dove potessero essere finiti sua moglie e suo fratello. Non so nemmeno se siano ancora vivi!
Pensò, mentre l’ipotesi
peggiore prendeva forma nella sua mente.
Inconsciamente,
il giovane prese
a indietreggiare, allontanandosi dal soldato con il quale aveva parlato
fino a
pochi istanti prima. Quello lo richiamò, gli chiese
qualcosa, ma Ulf non udì le
sue parole. In silenzio, girò sui tacchi e tornò
rapidamente sui propri passi. Sembra che stai
scappando, interloquì la
sua coscienza. Meno male che non dovevi
fare niente di sospetto! Come minimo, adesso penseranno che
l’hai ammazzato tu,
quell’idiota!
Sul
momento, quell’eventualità
gli parve del tutto irrilevante. L’unica cosa che contava era
ritrovare Lidia e
Hermann – o, se non altro, riuscire a farsi un’idea
di dove iniziare a
cercarli. Sarebbe già
qualcosa…
Camminando
per Erding quasi alla
cieca, Ulf si ritrovò senza nemmeno rendersene conto sulla
via che conduceva
nuovamente alla casa di suo padre. Poco prima di imboccare il viottolo
che
conduceva lì, il giovane si fermò. Che
cosa intendi fare? Si chiese. Il suo primo impulso era stato
quello di
tornare da Donna Edda e di dirle che non era riuscito a trovare
né Hermann né
Lidia, ma in quel momento si rese conto che un’informazione
del genere non
sarebbe stata in alcun modo utile all’anziana germanica. Rischierei solo di farla preoccupare.
Stringendo
i pugni, in preda alla
frustrazione, l’uomo si ricordò improvvisamente di
un particolare che era
passato in secondo piano di fronte al precipitare degli eventi. Il messaggio di Alexander. Ripescando il
foglietto stropicciato che gli era stato consegnato dal figlio del
macellaio,
Ulf rilesse rapidamente le poche righe che vi erano scritte sopra.
Pensosamente, si rigirò un paio di volte tra le mani il
messaggio stropicciato.
E se lui sapesse qualcosa che io non so?
L’ipotesi
non era poi così
inverosimile: dopotutto, quando lui se n’era andato,
l’uomo dai capelli rossi
era rimasto con Lidia. E, nonostante suo fratello non fosse menzionato
nel suo
messaggio, non poteva nemmeno escludere che, nonostante la ferita
provocatagli
da Unna, Alexander si fosse trattenuto abbastanza a lungo da incontrare
Hermann.
Non è detto che il romano fosse con
loro, quando è morto. Forse Lidia e
Hermann avevano preso qualche decisione che lui non condivideva. Forse
si sono
divisi, lui ha cercato di tornare al campo militare e lungo la via
qualcosa è
andato storto…
Era
una ricostruzione con pochi
elementi di certezza, ma Ulf scelse di aggrapparvici per mantenere un
briciolo
di speranza di ritrovare sani e salvi moglie e fratello. Ripiegando
accuratamente il foglietto sgualcito, il giovane se lo ripose
nuovamente in
tasca. E va bene: vado a parlare con
Alexander, decise risoluto.
***
Quando,
qualche decina di minuti
più tardi, si ritrovò davanti alla casa del
guaritore presso il quale Alexander
aveva dato appuntamento a Lidia, il giovane non poté fare a
meno di sentirsi un
po’ stupido. Il piccolo e bellicoso Albert era un medico
eccellente, talmente
abile nel ricucire ferite e sistemare ossa spezzate che la gente era
disposta a
sottoporsi a un viaggio lungo e faticoso, pur di potere usufruire delle
sue
cure. Anche se lui non ci aveva mai avuto a che fare direttamente, Ulf
conosceva bene la sua fama e si sentiva un po’ a disagio
all’idea di disturbare
un tale luminare solo per chiedergli notizie di un uomo di cui non
conosceva
con esattezza nemmeno l’identità.
Ma le circostanze sono eccezionali, si
ripeté, scacciando le
proprie remore e bussando alla porta di legno bruciata dal sole. Mentre
aspettava che qualcuno venisse ad accoglierlo, l’uomo si
voltò per lanciare
un’occhiata alle proprie spalle. Vedi
di
calmarti, si intimò, cercando di tenere a bada il
proprio nervosismo.
Attorno a lui, tutto pareva tranquillo – fin troppo, in
effetti. La casa di
Albert era situata al di fuori dei confini del villaggio. Per
arrivarci, Ulf
aveva dovuto camminare lungo la strada carrabile che proseguiva verso
nord: un
percorso solitamente abbastanza trafficato, ma lungo il quale, quel
giorno, non
si era imbattuto in anima viva. Tutto sembrava sospeso, immobile, come
in
attesa di un evento imminente.
Dopo
qualche istante, la porta
davanti alla quale era in attesa si aprì e un ometto sulla
sessantina lo
squadrò da sotto in su. L’espressione seccata
perfettamente riconoscibile nei
suoi piccoli occhi azzurri gli rivelò senz’ombra
di dubbio che si trattava del
padrone di casa. «Ti serve qualcosa?» lo
apostrofò il guaritore, parlando con
la cadenza impostata tipica di chi aveva studiato nelle terre del nord.
Inconsciamente, Ulf si schiarì la voce. «Sto
cercando Alexander. È qui?»
Albert
indietreggiò di mezzo
passo, piantando gli occhi in quelli del giovane.
«Sì, è qui»
confermò
lentamente. «Però mi ha detto che stava aspettando
Lidia, e qua non vedo
nessuno che possa rispondere a tale nome.»
Ulf
sostenne il suo sguardo,
sforzandosi di mantenere un atteggiamento neutrale. «Lo so,
è proprio per
questo che sono qui. Lidia è mia moglie. Il figlio del
macellaio mi ha
consegnato un messaggio destinato a lei.» Vedendo che
l’espressione dell’uomo
non cambiava, azzardò un passo in più.
«Lidia sembra essere sparita nel nulla
da ormai qualche ora: speravo che Alexander potesse aiutarmi a
ritrovarla.»
Per
un attimo, il giovane temette
che Albert gli sbattesse la porta in faccia, ma poi l’uomo
fece un cenno
d’assenso e un piccolo sorriso cortese. «Va bene,
entra pure. Vediamo se Alex
può darti una mano.» Il guaritore lo fece
accomodare su un grande divano di
pelle chiara e poi sparì in un altro locale. Nervosamente,
Ulf abbassò lo
sguardo sul tappeto esotico situato sotto i suoi piedi. Notandone lo
stile inconsueto,
ne seguì con gli occhi gli intricati ghirigori blu.
L’arredamento ricercato e
le suppellettili di valore che riempivano il locale non lasciavano
alcun dubbio
sullo stato economico del guaritore, decisamente più agiato
anche di quello di
Gefrid. Quel particolare non fece altro che aumentare il senso di
inadeguatezza
che Ulf aveva sentito inspiegabilmente calare su di sé.
Il
suono dei passi di Albert lo
spinse a riscuotersi e il giovane si alzò in piedi, pronto
ad accogliere il
proprio ospite. Quando il guaritore si presentò nuovamente
alla soglia, Ulf
vide che alle sue spalle c’era Alexander: aveva una spalla
bloccata con una
fasciatura leggera, ma, a parte quello, sembrava godere di ottima
salute.
«Vi
lascio parlare» disse l’uomo
più anziano, passando lo sguardo dall’uno
all’altro. Poi si soffermò su
Alexander. «Se avessi bisogno di me, puoi trovarmi nel mio
studio.» Con quelle
parole, Albert si accomiatò dai due giovani. Non appena
furono rimasti soli,
Alexander si mosse velocemente verso Ulf.
«Cos’è successo?» lo
interrogò,
balzando a piè pari ogni tipo di preambolo o presentazione.
«Albert mi ha detto
che Lidia è sparita.»
«È
così. E credo che il ragazzo
romano sia morto» confermò il germanico a
bruciapelo, provando quasi una punta
di soddisfazione davanti all’espressione scioccata di
Alexander. «Morto?»
ripeté infatti quello, guardandolo con insistenza, come se
stesse cercando di
capire se Ulf fosse serio o meno. «Ma
com’è possibile? L’ho visto prima e
stava
benissimo…»
Ulf
scrollò le spalle. «Non ho la
certezza che si trattasse proprio di lui, ma questo pomeriggio
è stato trovato
il corpo di un ragazzo romano lungo il sentiero che porta
all’accampamento
militare. Pare che si trattasse di un civile e, da quanto ne so io, non
ci sono
molti civili, da queste parti.»
Alexander
scosse il capo e si
lasciò lentamente scivolare sui cuscini di pelle del divano.
«Ma non è
possibile» disse, quasi a bassa voce. «Che cosa ci
faceva in mezzo al bosco?
Gli avevo detto di aspettarmi a casa di Lidia e di non muoversi da
lì.»
Guardandolo
in volto, Ulf vide
che l’uomo sembrava sinceramente sconvolto e si
sentì in colpa per la vaga
sensazione di trionfo provata poco prima. «Non so che cosa
sia successo»,
disse, un po’ più gentilmente, «fatto
sta che nemmeno Lidia si trova più a
casa. Il che significa che qualcosa li ha convinti a uscire e ad andare
da
qualche altra parte.» Quando l’uomo si
limitò a fissarlo con i suoi profondi
occhi blu, Ulf aggiunse: «Hai forse incontrato anche mio
fratello, quando eri a
casa mia?»
Alexander
gli rivolse uno sguardo
confuso, poi scosse il capo. «Non conosco tuo fratello, ma io
ho parlato solo
con Lidia e con Tito. Povero ragazzo, mi dispiace per
lui…»
L’espressione
di Ulf si indurì.
«Ha ammazzato mio cognato. A me non dispiace affatto che sia
morto – ammesso
che sia poi morto davvero, ovviamente.» Sul volto di
Alexander si disegnò
un’espressione stanca. «Lo capisco, però
sono convinto che Tito si sia
ritrovato in una cosa più grande di lui. Non dico che abbia
agito bene, però,
insomma… era spaventato, confuso, e credeva di proteggere
Lidia. Non sono riuscito
a fermarlo, purtroppo.»
Prima
di rispondere, Ulf si
costrinse a inspirare a fondo e a calibrare bene le parole.
«Può essere»,
concesse, «ma ultimamente le cose sono difficili per tutti.
Questo, però, non
giustifica nessuno ad agire senza pensare: se tutti cercassimo di far
fuori chi
non ci piace o chi ci sembra pericoloso, ci troveremmo in guai ben
peggiori di
quelli in cui ci troviamo adesso.»
Alexander
non replicò, ma si
limitò ad allargare le braccia, dandogli forse
silenziosamente ragione. «In
ogni modo», riprese Ulf, desideroso di arrivare ad affrontare
l’argomento che
gli stava veramente a cuore, «non è del ragazzo,
che voglio parlare. Voglio
capire che fine hanno fatto mia moglie e mio fratello. Probabilmente tu
sei uno
degli ultimi ad aver visto Lidia: hai idea di dove possa essere
finita?»
Dopo
qualche istante di
riflessione, l’uomo dai capelli rossi scosse il capo.
«No, purtroppo no. Come
ti ho già detto, le avevo raccomandato di aspettarmi a casa
vostra; cosa che,
evidentemente, non ha fatto. Non ho proprio idea di dove possa essere
andata.»
Maledizione,
pensò Ulf,
rabbuiandosi ulteriormente. «Credi che possa essere andata a
cercare Donna
Erin? So che adesso la Sacerdotessa non si trova più a
Erding, ma forse Lidia
non lo sapeva…»
Alexander
scosse di nuovo il
capo. «No, Lidia sapeva benissimo che Kay ha sostituito Erin:
ce l’ha detto lui
stesso e so che…» L’uomo si interruppe
di colpo e contrasse la fronte in
un’espressione concentrata. Poi improvvisamente si
illuminò. «Aspetta un
attimo!» esclamò, concitato. «Forse mi
è venuta un’idea.»
Il
giovane sentì nascere in sé un
filo di speranza. «A proposito di dove potrebbe essere
Lidia?»
«Più
che altro per capire come
fare a trovarla» precisò l’altro uomo.
«Seguimi, di sopra ho una cosa che
potrebbe esserci utile. Che stupido, avrei dovuto pensarci
subito!»
Confuso,
ma comunque determinato
a sfruttare qualsiasi appoggio che potesse aiutarlo a ritrovare Lidia e
Hermann, Ulf seguì Alexander su per le scale di legno che
conducevano al piano
superiore, scorgendo solo qualche dettaglio della ricca casa di Albert.
L’uomo
lo condusse in quella che doveva essere la camera che gli era stata
assegnata
dal guaritore: era piccola e arredata in modo pratico, ma non spartano.
Il suo
occhio esperto colse le fini lavorazioni lignee eseguite sulla
superficie del
tavolino posto a poca distanza dalla branda militare e sul fianco delle
mensole
posizionate sopra di esso.
Quando
si fu richiuso la porta
alle spalle, Alexander fece per chinarsi sul cassetto del comodino
accanto al
letto, ma si fermò un istante prima di aprirlo.
«Ora» esordì, chiaramente a
disagio. «Sto per mostrarti una cosa che non dovrei
assolutamente farti vedere.
Se si venisse a sapere in giro, io passerei dei guai molto
grossi… soprattutto
se questa cosa dovesse arrivare alle orecchie di gente come
Kay.» Non sapendo
bene che cosa farsene di quell’informazione, Ulf
sollevò un sopracciglio con
una punta di scetticismo. Alexander strinse nervosamente le mani in un
pugno e
cercò gli occhi del germanico, sperando forse di trovarvi la
conferma del fatto
che si poteva fidare di lui. «Il fatto
è», riprese, «che ormai in questa storia
ci sono dentro e che sento di non potermene lavare le mani. E quindi,
niente…
vediamo se il localizzatore ci può aiutare.»
Così
dicendo, l’uomo aprì il
cassetto e ne estrasse una piccola tavoletta di vetro scuro. Piegando
un po’ la
testa per vedere meglio, Ulf notò che era costellata da
punti luminosi. «Che
cos’è questa roba?» chiese, cercando di
ricordare se avesse mai visto nulla di
simile.
Alexander
sventolò una mano in
aria, come per dire che quell’informazione non era
così importante. «Immaginala
come una specie di mappa. Serve per trovare diverse cose:
città, punti
particolari, strade e altri aggeggi dotati di un sistema di
localizzazione.
Tito aveva con sé una tavoletta come questa: se siamo
fortunati, potrebbe
averla passata a Lidia. E, se siamo ancora più fortunati,
Lidia potrebbe averla
ancora con sé.»
Ulf
fu tentato di toccare la
tavoletta con la punta delle dita, ma si trattenne. «Quindi
si tratta di
qualcosa che viene da Roma?» indagò. Alexander lo
guardò cine se fosse sorpreso
da quella domanda e poi, in maniera del tutto inaspettata, si
lasciò sfuggire
una piccola risata. «Oh, no, no, non viene da Roma. La storia
è lunga e temo
che, prima o poi, dovrò raccontartela: adesso
però cerchiamo di capire se Lidia
ha ancora la tavoletta o meno, d’accordo?»
Pur
avvertendo che il modo
sbrigativo con cui aveva liquidato la questione poteva celare un
pericolo, Ulf
decise di non insistere e di lasciare, almeno per il momento, campo
libero
all’uomo. «Va bene» acconsentì
con un cenno del capo.
Sfiorando
la superficie lucida
con alcuni gesti rapidi, Alexander fece comparire sul vetro alcuni
riquadri
azzurri, all’interno dei quali erano presenti alcune frasi
scritte in caratteri
minuscoli. I movimenti dell’uomo erano troppo veloci
perché Ulf potesse leggere
i brevi messaggi, ma, ancora una volta, il giovane si costrinse a
rimanere in
silenzio. Fu solo quando Alexander si lasciò sfuggire
un’esclamazione di
disappunto, che si decise a indagare oltre. «Che cosa
succede» chiese.
L’uomo
dai capelli rossi abbassò
bruscamente la tavoletta, mostrandone la superficie al germanico. Ulf
non vide
altro che un triangolo giallo e pulsante, in lento movimento sopra a
quella che
poteva essere la rappresentazione stilizzata di un bosco. Non capendo
cosa
stesse guardando, alzò su di lui uno sguardo confuso.
«Non
ho modo di sapere se Lidia
abbia ancora l’altro localizzatore»,
esordì Alexander, «però, di certo,
quella
tavoletta non ci è arrivata da sola,
lì.»
Quella
spiegazione non servì a
dissipare i dubbi del germanico. «Lì?»
ripeté. «E dove sarebbe, esattamente, lì?»
Alexander
sospirò di nuovo.
«L’ultimo posto al mondo in cui vorrei che Lidia si
trovasse: a bordo della Northern Star.»
***
Tra una cosa e l’altra, l’ho
tirata lunga anche con questo capitolo.
Spero di riuscire ad aggiornare nuovamente prima di partire per il mare
a fine
mese, ma mi sa che servirebbe un mezzo miracolo… alla
peggio, ci risentiamo a
metà luglio. Prendetela come una specie di pausa estiva?
Come al solito, non è che mi farebbe
schifo avere qualche commento… non
ho praticamente fatto in tempo a rileggere nulla, quindi le vostre
segnalazioni
mi farebbero comodo!
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Capitolo 37 *** 36. Un salto nel buio ***
Lidia
rallentò il ritmo del
respiro e cercò di ragionare in fretta. Era sicura che la
persona che le aveva
appena parlato fosse Donna Erin, ma non riusciva a capire
perché la Sacerdotessa
si trovasse a bordo di quella strana macchina volante. Dopo qualche
istante, la
sua mente le fece notare che, forse, la spiegazione la conosceva da
tempo:
anche se le loro teorie differivano leggermente l’una
dall’altra, sia Ulf che
Unna avevano sempre pensato che le offerte passassero direttamente
attraverso
le mani dei Sacerdoti. La consapevolezza di trovarsi verosimilmente
davanti
alla prova tangibile di quel fatto le provocò un moto di
indignazione, ma la
voce della donna la costrinse a tornare a occuparsi del presente.
«Dai,
Lidia, lo so che sei qui
dentro! Se non ci diamo una mossa, rischiamo di venire
scoperte!”
Il
tono urgente con cui vennero
pronunciate quelle parole sussurrate fece contrarre di preoccupazione
lo
stomaco della giovane. Lidia si affondò i denti nel labbro
inferiore: era
davvero prudente abbandonare il proprio nascondiglio e fare quello che
la
Sacerdotessa le stava chiedendo?
Ma che alternative ho? Se Erin era
riuscita in un qualche modo a
scoprire che lei era a bordo, non poteva certo sperare di sfuggirle a
lungo.
Era meglio uscire autonomamente allo scoperto, anziché
venire stanata come un
topolino spaventato. Inspirando a fondo per darsi coraggio, Lidia si
staccò
dalla grande cassa di legno alla quale era appoggiata e, lentamente,
scivolò
attraverso lo stretto pertugio nel quale si era infilata poco prima,
mostrandosi infine alla luce verdognola della lampada posta
all’esterno dello
scomparto.
La
Sacerdotessa si trovava
proprio davanti a lei e, nel vederla, le rivolse un sorriso un
po’ rigido. La
fanciulla fece appena in tempo a notare che un paio di pantaloni scuri
e una
camicia verde smeraldo avevano preso il posto delle sue consuete vesti
bianche,
poi la donna le si avvicinò e le posò le mani
sulle spalle, stringendo appena
le dita. «Ma si può sapere cosa ci fai
qui?» le chiese Donna Erin, cercando di
incontrare gli occhi della ragazza.
Lidia
boccheggiò, presa in
contropiede da quella domanda così diretta. Poi
deglutì, decidendo di andare
dritta al punto. «Hanno portato a bordo Hermann: voglio
riprendermelo.»
La
Sacerdotessa la fissò per
qualche istante, quasi come se quella risposta l’avesse
lasciata senza parole.
Poi scosse il capo un paio di volte e Lidia ebbe
l’impressione di scorgere
l’ombra di un sorriso sul suo volto pallido.
«Sì, ho visto quello che è
successo a Hermann. Sta ricevendo tutte le cure del caso, quindi non
devi
preoccuparti troppo per lui.»
La
giovane romana sgranò gli
occhi. «Sta bene?» chiese, dimenticandosi per un
attimo di parlare a bassa
voce. «Posso vederlo?»
Donna
Erin levò una mano come nel
gesto di posare le dita sulle labbra della fanciulla, forse per
intimarle di
abbassare il tono. «Sì, adesso ti porto da
lui» le promise. «Tu però cerca di
non fare rumore e fai esattamente quello che ti ho detto io: voglio
aiutarti,
ma, per farlo, devo capire che cosa è successo.»
Parrebbe sincera, considerò la
ragazza, osservando di soppiatto
l’espressione limpida dipinta sul volto della donna.
«Va bene» acconsentì: in
ogni caso, non aveva altra scelta che fidarsi di lei. Anche
se questo significherà ammettere che abbiamo ficcato il naso
in
casa sua – in casa di Kay.
Con
un cenno d’assenso, la
Sacerdotessa abbassò una mano fino a raggiungere quella
della fanciulla e,
stringendola gentilmente nella sua, la guidò di nuovo fino a
quando si
trovarono nuovamente davanti alla porta bianca e azzurra. Posando la
mano
sinistra al centro del pannello, Donna Erin abbassò lo
sguardo sulla ragazza al
suo fianco. «Ti chiederei gentilmente di non raccontare a
nessuno quello che
hai visto e vedrai tra poco… ma so benissimo che sarebbe una
promessa che
difficilmente potresti mantenere, non è
così?»
Lidia
ricambiò lo sguardo verde
della donna con una punta di risentimento. La riteneva davvero
così poco
affidabile? «Non lo so» replicò,
stringendosi nelle spalle. «Ultimamente ne sto
vedendo parecchie, di cose strane, e ho capito che la riservatezza
è
importante.»
La
Sacerdotessa parve
meravigliata da quell’affermazione, ma, prima che potesse
ribattere, la porta
emise un sibilo leggero e poi scorse silenziosamente verso destra,
dando così
accesso a una parte di corridoio prima sbarrata.
«Vieni» mormorò Erin,
abbandonando la mano di Lidia. Quando l’ebbero superato, il
pannello metallico
si richiuse alle loro spalle e la giovane romana ebbe per un istante
l’impressione di essersi appena inoltrata in una trappola. Devi fidarti di Donna Erin, si
ripeté per l’ennesima volta.
Mantieni la mente lucida e non farti
prendere dal panico: lei è sempre stata gentile con te. E
poi è amica di Alexander.
«Quali
cose strane avresti visto,
esattamente?» la interrogo la Sacerdotessa, quando ebbero
percorso pochi metri
di corridoio bianco e immacolato.
Lidia
si mordicchiò un labbro: da
dove iniziare? Decidendo di affrontare la questione di petto
– stava iniziando
a capire che il gettarsi a capofitto nelle cose le generava meno
preoccupazioni
che l’approcciarle con eccessiva cautela – la
fanciulla estrasse dalla tasca
del grembiule la tavoletta di vetro. «Questa, per
esempio» replicò, osservando
il viso della donna per coglierne la reazione. «Non ho ben
capito che cosa sia,
ma ho come il sospetto che sia importante.»
Erin
sbiancò e, prima che Lidia
potesse fermarla, le strappò la tavoletta dalle mani.
«Dove l’hai trovata?»
sussurrò, rigirando l’oggetto per osservarne
più da vicino il retro.
Colta
alla sprovvista da quella
reazione, la giovane prese a giocherellare nervosamente con il tessuto
del suo
vestito estivo. «Ce l’avevano due legionari.
L’hanno affidata a un mio amico,
che… che poi l’ha affidata a me.»
«Questa
cosa è mia» mormorò la
donna, scuotendo lentamente il capo. «L’ho cercata
per settimane… hai idea
di come sia arrivata tra le mani di quei
soldati?»
Lidia
cercò di ricordare ciò che
Gaio le aveva detto a proposito del modo in cui era entrato in possesso
della
tavoletta. «Non ricordo bene, ma credo che
l’abbiano trovata addosso a un
germanico – a uno dei ribelli, se non ho capito
male.»
«Wolfgang»
sospirò tristemente la
Sacerdotessa. «Allora ho paura che i miei sospetti fossero
fondati. Uno dei miei
servitori è sparito nel nulla qualche tempo fa:
probabilmente ha trovato il
localizzatore e ha pensato bene di intascarselo. Avrei dovuto essere
più
prudente…»
Non
sapendo cosa rispondere alle
parole della donna, la ragazza tornò a osservare la
tavoletta. «È
effettivamente una mappa?» chiese.
Donna
Erin fece un mezzo cenno di
assenso. «Sì, è una specie di mappa,
anche se, in realtà, può fare anche un
sacco di altre cose utili. Sono davvero felice di averla ritrovata: se
avessi
dovuto denunciarne la scomparsa, avrei passato un sacco di
fastidi…»
«Allora
aveva ragione Alexander…»
fece Lidia, quasi sovrappensiero.
Il
suo sussurro però attirò
l’attenzione della Sacerdotessa. «Alexander
chi?» chiese, fissandola
intensamente. «Non Alexander Ivanov, vero?»
Lidia
corrugò la fronte, cercando
di ricordare se quel nome le fosse nuovo o meno. «Non
saprei» replicò, piegando
le labbra in una smorfia. «È sui
trent’anni, piuttosto alto, capelli rossi…
vive in una capanna verso sud.»
La
Sacerdotessa annuì brevemente.
«Sì, allora è lui. Mi stupisce che ti
abbia parlato tanto di questa mappa. Non
avrebbe dovuto farlo, in effetti.»
Quell’ultima
considerazione
sembrava essere rivolta più che altro a se stessa, ma Lidia
si sentì comunque
chiamata in causa e aggrottò la fronte, un po’
contrariata. «I due soldati con
cui stavo viaggiando si sono fermati da lui apposta per avere
informazioni su
quell’oggetto. Avevo l’impressione che lui fosse
una specie di informatore di
Roma: non è così?»
Donna
Erin le lanciò un’occhiata
stanca e forse solo un poco diffidente. «Alex è
molte cose, ma non credo che
questo sia il luogo o il momento migliore per parlarne. Volevi vedere
Hermann,
no?»
La
fanciulla ebbe l’impressione
che l’offerta fattale dalla donna non fosse altro che un modo
per sviare la sua
attenzione dalla tavoletta e dal ruolo di Alexander, ma dovette
comunque
riconoscere che la Sacerdotessa aveva ragione. In quel momento, la cosa
che più
le stava a cuore era accertarsi di persona delle condizioni in cui
versava il
cognato. «Certo» confermò allora.
«Posso vederlo subito?»
La
Sacerdotessa annuì. «Da questa
parte.» Avanzando solo di pochi passi, Erin raggiunse una
porta che, sulle
prime, Lidia non aveva nemmeno visto. Tutto le pareva alieno, a bordo
di quella
macchina: persino le porte non era quelle che aveva conosciuto per
tutta la sua
vita. Quella, in particolare, sembrava completamente integrata nella
parete
lucida, delimitata solo da una sottile depressione. Quando la donna la
sfiorò
con il palmo della mano, però, emise un sibilo e si
aprì esattamente come aveva
fatto quella bianca e azzurra che aveva in un primo momento sbarrato la
strada
alla giovane romana.
Qualsiasi
domanda avrebbe potuto
nascere nella sua testa, però, svanì alla vista
del ragazzo sdraiato su un
lettino posto al centro della stanza che si apriva dietro alla porta.
Hermann
pareva privo di sensi e il suo volto era terreo, ma il suo petto si
alzava e si
abbassava con regolarità. Notando quel particolare, Lidia si
lasciò sfuggire un
inconscio sospiro di sollievo. «Cosa sono quelle
cose?» chiese, poi, notando i
sottili tubi trasparenti collegati alle braccia del giovane.
Chiudendosi
la porta alle spalle,
Donna Erin si avvicinò al letto. «Possiamo quasi
toglierli» commentò,
esaminando una colonnina posta accanto al capezzale del ragazzo.
«Sono delle
medicine: servono per tamponare la situazione e per assicurarci che
Hermann
possa arrivare vivo da chi potrà fornirgli delle cure
più mirate.»
Quelle
parole risvegliarono un
sussulto di paura nello stomaco della ragazza. La fanciulla raggiunse
il
giovane germanico, toccandosi istintivamente la testa per contrastare
la fitta
rovente che la attraversò da tempia a tempia. Quando la
vista, che per un
istante le si era offuscata, tornò a farsi limpida, Lidia
sfiorò con la punta delle
dita la fronte del cognato, trovandola più fredda di quanto
le sarebbe
piaciuto. «Ma starà bene?» chiese, con
la voce che tremava leggermente.
«Starà
bene», confermò la
Sacerdotessa, voltandosi per guardarla, «ma non
sarà una cosa veloce.»
«Ah»
commentò Lidia, cercando di
trovare il coraggio per chiedere alla donna di spiegarsi meglio,
sebbene fosse
consapevole che, con ogni probabilità, quello che le avrebbe
detto non le
sarebbe piaciuto.
«Però,
Lidia», la precedette
Erin, «a me piacerebbe capire come ha fatto Hermann a ridursi
in questo modo:
non è una malattia che si prende tanto facilmente,
questa.»
La
giovane chinò il capo e, per
qualche istante, non riuscì a incontrare lo sguardo della
Sacerdotessa. Voleva
davvero confessarle di essere entrata in casa sua senza esservi stata
invitata
e, soprattutto, di aver rovistato in tutte le stanze alla ricerca di
una
qualche prova di una sua eventuale e non meglio specificata
consapevolezza? E se la prendesse male?
Donna
Erin se ne stava immobile,
ferma davanti a lei in attesa che si decidesse a rispondere alla sua
domanda.
Improvvisamente, Lidia espirò. Oh,
ma che
importa oramai? È ovvio che qui sta succedendo qualcosa di
decisamente strano e
mi sa proprio che non si può più far finta che
sia tutto normale. «Fino a
poco fa stava bene» sospirò allora.
«Hermann è venuto a casa mia per pranzo.
Con noi c’era anche un mio amico venuto da
Roma…» La gola le si chiuse, e Lidia
sentì il bisogno di dire le cose come stavano.
«Era… era il ragazzo con cui ero
fidanzata prima di venire in Germanica e di sposarmi con Ulf. Era
venuto fino a
qui per portarmi via. Voleva aiutarmi.»
Sul
volto della Sacerdotessa si
dipinse un sorriso affilato. «Oh, quindi pensavi di scappare?
L’avevo sempre
sospettato, sai?»
La
ragazza scosse lentamente il
capo. «Solo all’inizio. Adesso non voglio
più scappare, voglio restare con Ulf,
ma non è questo il punto. Il fatto è che avevamo
la tavoletta e abbiamo pensato
di andare a casa tua e di lasciarla a Fratello Kay… non
sapevamo che altro
fare.»
«Ah.»
Negli occhi di Donna Erin
si accese una luce di consapevolezza e la giovane sentì un
brivido freddo
scivolarle lungo la schiena.
«E…»
Lidia riprese, sentendo la
necessità di concludere la propria spiegazione. Sapeva con
assoluta certezza
che, una volta concluso il proprio racconto, la donna di fronte a lei
non
avrebbe potuto evitare di rivelarle qualcosa che l’avrebbe
aiutata a capire
meglio gli eventi delle ultime ore. «Be’, abbiamo
trovato la porta aperta, ma
in casa non c’era nessuno. Non abbiamo resistito alla
tentazione di dare
un’occhiata in giro. Non avremmo dovuto farlo, lo so, ma
l’abbiamo fatto lo
stesso. Al piano superiore abbiamo trovato una stanza…
strana.»
La
Sacerdotessa si lasciò
sfuggire un sibilo che Lidia non riuscì a interpretare: era
sorpresa o
irritazione? «Posso immaginarlo»
commentò asciuttamente, prima di passarsi
stancamente una mano sugli occhi. «Avete trovato il
laboratorio, non è così?»
La
fanciulla ricambiò l’occhiata
della donna. «Un laboratorio?» ripeté,
cercando di capire che cosa volesse
indicare la Sacerdotessa con quel termine. «Non lo so,
può essere. C’erano
molti armadi che contenevano delle cose strane…»
«Che
cosa avete toccato?» la
incalzò Donna Erin, puntando gli occhi verdi in quelli scuri
della ragazza.
Non
per la prima volta, Lidia
cercò di ricordare che cosa avessero fatto, esattamente, una
volta entrati
nella stanza chiusa a chiave, ma i suoi ricordi sembravano essere stati
inghiottiti da una nebbia impenetrabile. La fanciulla
corrugò la fronte,
sforzandosi di fare mente locale. Improvvisamente le si
ripresentò davanti una
delle ultime conversazioni avute con Hermann. La
fialetta che Tito ha aperto, ricordò, come in un
lampo. «Io non
ho toccato nulla, ma Hermann e il mio amico hanno frugato un
po’ qua e là. In
particolare, Tito ha aperto una fialetta con dentro della roba
bianca…»
«Merda»
imprecò la Sacerdotessa,
attirando su di sé l’occhiata stranita della
giovane romana. «Non mi stupisce
che questo poveretto stia così male, allora. Era ovvio che
fosse entrato in
contatto con le spore, ma non pensavo che si trattasse di un contatto
così diretto.»
Quando Lidia continuò a
guardarla senza capire, la donna mosse una mano in un gesto sbrigativo.
«Dov’è
il tuo amico adesso?»
Lidia
chinò il capo e si schiarì
la voce per evitare che questa tremasse. «È
morto» mormorò, sforzandosi di
aggirare il nodo amaro che le stringeva la gola. «Ha iniziato
a stare male come
Hermann – anche più di Hermann – e poi
ha perso i sensi. Ed è morto.»
«Mi
dispiace» sospirò la
Sacerdotessa, posandole per un istante una mano sulla spalla e
stringendola
dolcemente. «Deve aver inalato una gran quantità
di materiale per… perché le
cose degenerassero tanto velocemente.»
«Ha
annusato il contenuto di
quella fiala» replicò Lidia, rivivendo ora con
perfetta chiarezza il momento in
cui Tito si era portato al volto il piccolo contenitore trasparente.
Erin
scosse il capo. «Poveretto»
mormorò tra sé e sé. «Non
aveva davvero possibilità di farcela, allora.»
Lidia
le rivolse un’occhiata
cauta. «Pensi che l’avreste potuto salvare, se
l’avreste trovato in tempo?»
La
donna mosse di nuovo la testa
in un cenno di diniego. «Non lo so, ma credo che sarebbe
comunque stato
improbabile. Quella roba è forte: serve apposta per
ammazzare la gente, non è
stata studiata perché si potesse curare con
facilità.» Dopo qualche istante di
silenzio, la Sacerdotessa posò anche l’altra mano
sulle spalle della ragazza e
l’attirò leggermente verso di sé.
«Tu eri con loro nella stanza: stai bene,
tu?»
Lidia
boccheggiò, sorpresa dalla
domanda diretta. «Io… non sono sicura di stare
benissimo. Ho mal di testa e
faccio un po’ fatica a concentrarmi. Ma io non l’ho
annusata, quella polvere.»
Immediatamente,
Donna Erin si
allontanò da lei e raggiunse un armadietto posto ai lati
della stanza. «Non c’è
bisogno di annusarla direttamente, per stare male»
commentò, dandole le spalle
e accovacciandosi sui talloni per frugare all’interno di uno
degli scomparti
del mobile. «Vieni qui» le ordinò,
tenendo tra le mani una siringa e una
fialetta colma di un liquido trasparente.
Alla
vista dell’ago, Lidia
deglutì nervosamente: era passato molto tempo
dall’ultima volta che si era
dovuta sottoporre a un’iniezione – del resto, si
trattava di una pratica
estremamente costosa – e di certo non serbava un ricordo
particolarmente
piacevole dell’esperienza. Davanti allo sguardo insistente di
Donna Erin, però,
la fanciulla accantonò le proprie remore e si
affrettò a obbedire. Con un secco
cenno di approvazione, la Sacerdotessa perforò con
l’ago il coperchio della
fiala e ne aspirò il contenuto. Poi, senza dire una parola,
allargò la
scollatura dell’abito della ragazza, scoprendole una spalla.
Colta alla
sprovvista, Lidia sobbalzò e le rivolse uno sguardo
d’accusa. «Oh, non è
niente» la rassicurò la donna. «Stai
ferma un attimo, per favore.»
Prima
che la giovane avesse il
tempo di prepararsi, Erin le conficcò l’ago nel
muscolo del braccio e le
iniettò il contenuto della siringa. Lidia strinse i denti
davanti al bruciore
improvviso, ma non si lamentò. «Ecco
fatto» le comunicò la Sacerdotessa,
apparentemente rinfrancata. «Mi sembra che tu stia tutto
sommato bene e questa
dose di antidoto dovrebbe essere sufficiente per farti tornare come
nuova.
Aspettiamo quindici o venti minuti: se i sintomi saranno spariti, bene,
altrimenti vedremo di affrontare il problema con una terapia
d’urto.»
Lidia
annuì e si raddrizzò il
vestito, resistendo alla tentazione di massaggiarsi il punto offeso.
Una paura
passeggera la spinse a chiedersi se la Sacerdotessa le avesse davvero
iniettato
un liquido curativo: e se, invece, avesse voluto prendere qualche
precauzione
per evitare che lei se ne andasse in giro a raccontare ciò
che aveva scoperto a
casa sua e a bordo di quella strana macchina volante? E se si fosse
trattato di
veleno?
Scuotendo
impercettibilmente la
testa, la ragazza si costrinse a mantenere i nervi saldi. Data la
situazione,
non aveva altra scelta che fidarsi di Donna Erin e credere che la
Sacerdotessa
avesse veramente intenzione di aiutarla, così come le aveva
assicurato sin dal
primo istante. «Grazie» borbottò allora,
facendo del proprio meglio per
mostrarsi riconoscente.
«Non
c’è di che», ribatté la
donna, «anche se ti sarei davvero grata se, in futuro, tu
evitassi di andare in
giro a ficcare il naso in faccende che non ti riguardano. Non
scherzavo, quando
dicevo che ci sono dei pericoli che tu non puoi nemmeno
immaginarti.»
«Come
del veleno nascosto nella
casa di un Sacerdote?» scappò detto a Lidia. Donna
Erin, forse stupita dalla
sua inaspettata sfacciataggine, le rivolse uno sguarda stranito. La
giovane
arrossì, ma decise che, almeno in quel frangente, non
sarebbe ritornata sui
suoi passi. «Perché era lì? A cosa
serve?»
La
Sacerdotessa esitò per un
istante. Poi, con un sospiro, appoggiò la schiena contro la
parete più vicina.
«È un modo come un altro per tenere sotto
controllo gli elementi più sovversivi…
come Sören,
per esempio. Non dico che sia una cosa bella o giusta, ma è
sicuramente meno
vistoso di un’esecuzione pubblica o dell’azione di
un sicario, pur garantendone
gli stessi risultati. O, per lo meno, questo è quello che
crede Kay. Sia chiaro
che io non condivido affatto questa linea di azione.»
Quella
spiegazione risvegliò un
ricordo nella mente della ragazza. «L’altro giorno,
al consiglio, hai detto che
gli Dèi avevano dato a Fratello Kay un dono particolare: ti
stavi riferendo a
questo?»
Erin
emise un sibilo sarcastico.
«Quello era un modo di dire» sbottò
amaramente. «Però, sì: in un certo
senso mi
riferivo proprio a questo. E a certi altri suoi poteri e prerogative,
naturalmente.»
Lidia
restò in silenzio per
qualche istante, poi osò porre una domanda che credeva che
non avrebbe mai
trovato il coraggio di fare. «Gli Dèi non
c’entrano assolutamente niente, non è
così?»
La
Sacerdotessa la fissò per
alcuni lunghi secondi, poi scosse il capo. «No, in effetti
non c’entrano
niente. Ma la storia è molto più complicata di
quello che credi, Lidia. Non…
non ha senso che tu cominci a fare congetture strane o a pensare che io
sia
parte di chissà quale complotto. Le cose non sono mai quelle
che sembrano e
questo è uno dei pochi casi in cui conoscere la
verità farebbe più male che
bene.»
La
fanciulla corrugò la fronte,
poco colpita dalle vaghe giustificazioni della donna. «Ulf
crede che tu
collabori con Roma: è così?» Se si
fosse fermata a riflettere su quello che
stava facendo, Lidia non avrebbe saputo dire dove avesse trovato la
forza e il
coraggio di affrontare così direttamente la Sacerdotessa.
Inconsciamente
intuiva però che, in quel momento, Donna Erin si trovava in
una posizione particolarmente
delicata: e l’istinto le ordinava di approfittarne.
«So
benissimo quali sono le voci
sul mio conto», ribatté Erin, rivolgendole
un’occhiata tagliente, «ma ti
assicuro che nessuna di esse è fondata.»
«Però
tu non sei germanica»
insistette la fanciulla, con assoluta certezza.
«Non
sono nemmeno romana, se è
solo per questo» le fece notare la Sacerdotessa, con un
sorriso storto.
Questo era ovvio, considerò la
fanciulla, ricordando come avesse
sempre fatto fatica a definire la nazionalità della donna
che le stava di
fronte. «E allora da dove vieni? Che cosa ci fai
qui?»
Il
sorriso di Donna Erin si
trasformò in un’espressione determinata.
«Queste non sono domande a cui posso
rispondere, Lidia. Innanzitutto perché credo davvero che tu
sia più al sicuro
ignorando come stiano veramente le cose, e poi perché non ho
l’autorizzazione
per farlo. Se ti raccontassi tutto e questa cosa si venisse a sapere
– ipotesi
pressoché certa, credimi
– io sarei
in pericolo, e lo stesso varrebbe per te. Ci sono delle regole a cui
devo
sottostare, regole estremamente rigide.»
La
ragazza abbassò lo sguardo a
terra, cercando di ricordare dove avesse già sentito
qualcosa di molto simile.
«È la stessa cosa che ha detto anche
Alexander» la informò, quando ricordò
lo
scambio avuto con l’uomo dai capelli rossi.
«Nemmeno lui mi ha voluto dire da
dove venisse.»
«In
ogni caso, si tratterebbe di
un posto troppo lontano perché tu possa
conoscerlo.»
«Ha
detto anche questo» replicò
Lidia, asciutta.
«Non
stento a crederlo», ribatté
la donna, inamovibile, «perché questa è
l’unica risposta che avrai a proposito
di questo argomento.»
Davanti
a quelle parole che
negavano ogni possibilità di dialogo, Lidia strinse
rabbiosamente i denti e
distolse lo sguardo da quello della Sacerdotessa, cercando di contenere
la
propria irritazione. Le stava lentamente diventando chiaro che era
proprio quello il nodo cruciale
della vicenda –
la reale provenienza di quelli che, almeno in teoria, avrebbero dovuto
essere
Sacerdoti germanici – e il fatto che Donna Erin si rifiutasse
di parlarne non
le piaceva neanche un po’. «A questo punto, non mi
stupirei nemmeno se
scoprissi che venite dall’Ade» fece, a mezza voce.
Erin
le rivolse un’occhiata
confusa. «Come, scusa?»
La
fanciulla scosse le spalle.
«No, è che ci sono talmente tante cose che non
capisco che… non so, io non so
più che cosa pensare. Ma siete veramente dei Sacerdoti,
voi?»
La
donna scosse il capo in
maniera quasi impercettibile. «No, in effetti no. Credo che
ormai la cosa sia
abbastanza lampante, non è così?»
Non saprei, si ritrovò a
pensare la ragazza, rendendosi
improvvisamente conto che non era quella, la risposta che aveva sperato
di
sentire. «E, allora, io non ci sto capendo più
niente. Se voi non siete dei
Sacerdoti, allora vorrei proprio sapere con chi è che ha
preso accordi il mio
Imperatore. L’avete ingannato? Oppure lui sapeva tutto? O
forse… forse è anche
lui un impostore?»
Lidia
rivolse alla sua
interlocutrice un’occhiata carica di rancore, ma Erin si
limitò a ricambiarla
con uno sguardo che era quasi di compassione. «Te
l’ho detto, Lidia: non è il
caso che tu ti preoccupi di queste faccende. So che non è
una cosa facile da
accettare, ma è meglio se, una volta scesa da qui,
dimentichi questa
conversazione e torni alla tua vita di tutti i giorni. Sapere tutto
quello che
sta dietro a questa cosa non ti
sarebbe di alcun aiuto: non cambierebbe comunque nulla e tutto
diventerebbe più
difficile, per te. A volte l’ignoranza è un bene,
te l’ho detto.»
«Ma
io non sono nemmeno cosa sia esattamente
“qui”» sbottò la
fanciulla, non riuscendo a sopprimere un gesto di stizza. «So
solo che mi trovo
a bordo di questo affare che vola
e…»
«Questo
è un pattugliatore» la
interruppe Erin. «Serve per perlustrare il territorio. Ne
girano spesso, da
queste parti, ma da terra non è facile vederli, dal momento
che sono dotati di
un sistema che li fa risultare praticamente invisibili.»
«E
perché e pieno di sassi?»
tornò all’attacco Lidia, ricordando un particolare
che l’aveva stupita non
poco, quando si era rifugiata nel magazzino che occupava la parte
posteriore
della nave. «Dov’è
l’argento?»
Gli
occhi verdi di Erin si
assottigliarono. «Cosa ti fa pensare che c’entri
qualcosa l’argento?»
Ulf vi ha visti, avrebbe voluto dire
Lidia. Lui sa che siete voi a portare via le
offerte. Però si trattenne
appena in tempo, rendendosi conto che quell’informazione
avrebbe forse potuto
mettere in pericolo suo marito. «Ci sono parecchie teorie che
girano a
proposito della fine che fanno veramente le offerte» disse
invece, riuscendo ad
assumere un tono sprezzante. «Sicuramente ti sarà
capitato di sentirne una o
due.»
«Ovviamente
sì» confermò la
donna, con una smorfia. «Però non è
l’argento a essere importante, ma
l’olivite.»
Lidia
non riuscì a trattenere
un’esclamazione sarcastica. «Ma se Ulf mi ha sempre
detto che quella roccia è
perfettamente inutile! L’ho visto anche con i miei occhi:
basta sfiorarla, per
ridurla in briciole. Non serve assolutamente a nulla.»
«Non
serve a nulla qui», la
contraddisse Erin, «ma ti
assicuro che nel posto da cui vengo io è invece estremamente
ricercata.
L’argento si trova un po’ ovunque,
l’olivite invece è molto rara ed
estremamente preziosa, se uno sa come utilizzarla.»
«Ma
un materiale così fragile…»
«Serve
per costruire delle cose.
Per far funzionare delle cose. Non credo che capiresti,
ma…» Il suono sommesso
che provenne dalle sue spalle le fece morire le parole sulle labbra.
Donna Erin
si avvicinò rapidamente al mobiletto dal quale aveva
estratto l’antidoto e
impugnò la tavoletta che vi aveva abbandonato poco prima.
«Cosa
succede?» la interrogò
Lidia, mentre l’inquietudine tornava a fare capolino nel suo
animo.
Distrattamente, la ragazza si rese conto che il mal di testa sembrava
già
essere in via di guarigione. Con un gesto della mano, la donna le
indicò di
aspettare un attimo e sfiorò con alcuni gesti rapidi la
superficie
dell’oggetto. Poi, sul suo volto si dipinse
l’accenno di un sorriso. «È
Alexander» le comunicò. «Lui sapeva che
il localizzatore ce l’avevi tu, giusto?»
Poco
convinta, Lidia fece un
mezzo cenno d’assenso. «Suppongo di
sì» mormorò.
«Be’… sapeva che ce l’aveva
Tito e sapeva che io ero con lui, quindi…»
La
tavoletta suonò di nuovo e la
donna se la avvicinò al volto, come per leggere qualcosa
scritto con dei
caratteri particolarmente piccoli. Rimase poi perfettamente immobile
per
qualche istante, prima di prendere a colpire rapidamente lo schermo con
i
polpastrelli. «Adesso ti spiego» mormorò
Erin, senza distogliere lo sguardo dal
localizzatore. «Avrei dovuto pensarci prima
anch’io!»
Per
qualche minuto, la giovane
romana la fissò con aria interrogativa. Poi, finalmente, la
Sacerdotessa – che,
a conti fatti, non era affatto una Sacerdotessa –
posò nuovamente la tavoletta
sul mobile, con aria soddisfatta. «Abbiamo un
piano» le comunicò.
«Un
piano per fare cosa?» chiese
Lidia, senza capire.
«Per
farti tornare a terra»,
ribatté prontamente Erin, «e anche per curare al
meglio Hermann. Perché
funzioni, però, avrò bisogno della tua
più completa collaborazione. Potrebbe
non essere semplicissimo, ma, se farai quello che ti dico, non ci
saranno
problemi.»
«Ah»
mormorò Lidia, cercando di
mettere nella giusta luce ciò che la Sacerdotessa aveva
appena detto. «E che
cosa dovrei fare?» Naturalmente, la fanciulla non desiderava
altro che
abbandonare quella macchina e tornare con i piedi per terra –
tornare da Ulf,
se possibile – ma la proposta di Donna Erin le sembrava un
poco sospetta.
Sebbene si fosse dimostrata gentile con lei, e sebbene avesse
quantomeno
rallentato il decorso del male che aveva colpito lei e Hermann, la
donna non si
era mai apertamente offerta di riportarla a terra. Che lo facesse
proprio
allora, dopo che la tavoletta aveva suonato, le sembrava un
po’ strano.
Erin
inspirò a fondo e si sedette
sull’orlo della branda che ospitava Hermann, abbassando per
qualche istante lo
sguardo a terra, come per raccogliere le idee.
«Dunque», esordì, «la
situazione
è questa. In questo momento, noi ci troviamo sulla Northern Star, una delle due
navi-pattuglia che si trovano nella
Germanica Meridionale e che hanno il compito di raccogliere
l’olivite e di
perlustrare il territorio. Il Capitano Paerson, l’ultimo
comandante di questa
nave, è andato in pensione di recente e il capitano ad interim è Jonathan Kay.
Non hai certo bisogno che te lo
presenti, dal momento che l’hai già conosciuto di
persona. Da queste parti c’è
anche un’altra nave, la Greyhound,
comandata dal Capitano Han: ed è proprio a bordo di questa
seconda nave, che
dovremo fare arrivare Hermann.»
Lidia
sgranò gli occhi. «Cosa?»
esclamò. «Dovrei portare Hermann giù da
questa cosa e farlo salire su una
uguale? Perché mai?»
«Perché
la Greyhound è una nave
più grande e più equipaggiata di questa. A
bordo c’è una squadra medica che sarà
in grado di trattare adeguatamente il
ragazzo. Se vuoi che torni a essere quello di sempre, non
c’è altra scelta: le
vostre conoscenze mediche sono troppo arretrate e non farebbero altro
che
peggiorare la situazione.»
Quando
Lidia fece un cenno
d’assenso – piccolo e poco convinto –
Erin riprese a parlare. «Non ci dovrai
andare da sola, ovviamente: ci penserà Alexander a condurti
lì. Il che
significa, ovviamente, che dovrai innanzitutto raggiungere il nostro
amico.»
Quando la giovane romana continuò a fissarla con espressione
cauta, Donna Erin
le rivolse un sorriso. «Forse ti farà piacere
sapere che Ulf è già da lui. Non
so come ci sia arrivato, sta di fatto che si trovano entrambi presso la
capanna
di un guaritore di nome Albert: ed è proprio lì
che tu dovrai andare.»
Nell’udire
il nome del marito,
Lidia si illuminò e tutto ad un tratto ebbe una gran voglia
di abbandonare la
macchina volante, qualunque fosse il piano di Donna Erin per farla
scendere a
terra. «Non ho idea di dove sia questo posto» si
rese però conto un istante più
tardi, rabbuiandosi.
«Di
questo non ti devi
preoccupare» la rassicurò la donna più
anziana. «Alex mi ha inviato le
coordinate esatte sul localizzatore, non dovrai fare altro che seguire
la
macchina.»
Lidia
deglutì, senza osare dire
che, in tutta onestà, non era affatto certa di essere in
grado di “seguire la
mappa”. Tra le altre cose, aveva sempre avuto un pessimo
senso
dell’orientamento e di certo non era in grado di maneggiare
alla perfezione quella
strana tavoletta.
«Ora»,
riprese la Sacerdotessa,
«la parte difficile non è certo questa. Avrai ben
notato che stiamo volando: in
questo momento, dovremmo trovarci a un’altezza di
perlustrazione compresa tra
gli ottocento e i mille metri: perché tu possa scendere a
terra, dovremo
abbassarci parecchio. Ecco quello che faremo: Kay è a terra
e la nave è
piuttosto sguarnita. Il qualità di prima ricercatrice, ho un
certo potere
decisionale. Chiederò al pilota di abbassarsi in
corrispondenza del lato sud
della miniera d’argento, a pochi chilometri del villaggio.
Fingerò di voler
esaminare più da vicino alcuni sedimenti o qualcosa del
genere. Il punto è che
non potrò fare atterrare completamente la nave: le procedure
di sicurezza
prevedono che durante la ricognizione non si scenda mai al di sotto dei
sessanta metri di altezza. Ed è qui che entri in gioco tu:
non spaventarti, ma
tu e Hermann dovrete lasciare la nave mentre questa è ancora
in volo.»
La
fanciulla la fissò con gli
occhi spalancati, certa di non aver capito bene.
«C-come?» balbettò, mentre la
sua determinazione iniziava a vacillare.
«So
che può sembrarti strano»,
mormorò Erin, «ma ti assicuro che è una
cosa assolutamente fattibile.»
Non mi sembra strano, pensò la
giovane, preoccupata, mi sembra proprio una
follia. Cosa pretende
che faccia? Dovrei forse farmi spuntare le ali e volare giù
fino a terra?
«La
cosa migliore», continuò
Erin, ignorando il nervosismo della ragazza, «sarebbe che tu
prendessi il mio
paracadute e saltassi giù. Sarebbe rapido, non ci
costringerebbe a fare alcuna
manovra sospetta e nessuno si accorgerebbe di niente. Ma forse per te
sarebbe
un po’… troppo.»
La
ragazza sentì le ultime
parole, ma non le ascoltò veramente: la sua mente si era
bloccata su quel
“saltare giù” pronunciato con tanta
nonchalance dalla sacerdotessa. «Cos’è
un
paracadute?» chiese, sentendo improvvisamente la gola secca e
odiando il suono
di quella parola il cui significato poteva solo immaginare.
La
donna aggrottò leggermente la
fronte e si voltò verso la romana come per studiarne
l’espressione, poi scosse
il capo, stirando le labbra in un smorfia risoluta. «Lascia
perdere» disse poi,
sventolando la mano come per allontanare un’idea sciocca.
«Tra l’altro
difficilmente riusciresti a portare con te il ragazzo. No, è
decisamente meglio
calarvi fino a terra.»
Appena
un poco rassicurata da
quel termine più famigliare, Lidia si morse le labbra, senza
commentare.
Completamente immersa nei suoi pensieri, la Sacerdotessa
annuì un paio di
volte, poi tornò a concentrare la propria attenzione sulla
ragazza. «Aspetta
qui» le disse. «Torno tra un attimo.»
Veloce
e silenziosa, Erin si alzò
in piedi e lasciò la stanza, chiudendosi alle spalle la
porta scorrevole. Quando
fu rimasta sola, Lidia si accoccolò accanto a Hermann,
posando una guancia sul
cuscino, a pochi centimetri dai morbidi capelli scuri del cognato.
«Hai sentito
che cos’ha detto?» chiese in un sussurro, ben
consapevole che il ragazzo non
aveva modo di sentirla né, tantomeno, di risponderle.
«Non so che cosa abbia in
mente, ma qui finisce che ci lasciamo la pelle.»
Non
appena ebbe concluso la
frase, Lidia sentì il proprio stomaco contrarsi in una morsa
di paura. Quella
che aveva inteso come una battuta scherzosa, volta a esorcizzare i
timori che
sentiva crescere in sé, non aveva fatto altro che aumentare
l’inquietudine
strisciante che aveva preso ad avvolgerla in spire sempre
più strette.
Sospirando, la fanciulla cercò la mano del giovane germanico
e la strinse nelle
sue, cercando inconsciamente il conforto di un contatto umano. Chiusa
in quella
stanza tanto simile a una scatola bianca, senza finestre né
contatti con il
mondo esterno, Lidia si sentì in trappola, prigioniera di
una situazione sulla
quale non aveva alcun controllo, catturata da un qualcosa di
sconosciuto e pertanto
ancora più spaventoso.
Improvvisamente
la giovane
avvertì l’urgenza di lasciare al più
presto la macchina volante.
In qualsiasi modo possibile.
Una
volta abbandonata la stiva
nella quale erano ammucchiate le casse di olivite, la nave non tradiva
la
benché minima vibrazione e, avvolta in un silenzio
innaturale, dava
l’impressione di essere completamente immobile: tutto era
fermo e immutabile e
per un istante Lidia provò il timore irrazionale di essere
stata trasportata in
un luogo sconosciuto, lontano da Erding e dalla Germanica. Vorrei solo, pensò, che ci
fosse un qualsiasi rumore che mi facesse capire che siamo ancora a
bordo della
macchina e che si sta ancora muovendo.
Quasi
in risposta alla sua
preghiera per un qualcosa che la tenesse ancorata alla
realtà, la nave vibrò e
la fanciulla credette di avvertire un’inclinazione quasi
impercettibile del
pavimento. Lidia non fece in tempo a esalare un inconsapevole sospiro
di
sollievo che Donna Erin fece ritorno, portando tra le braccia quello
che, a
prima vista, a Lidia parve un groviglio di corde e stracci.
«Eccoci
qui» mormorò la donna,
tradendo un vago affanno. «Mettiti questa, veloce.»
Così facendo, le porse
degli abiti scuri in tutto e per tutto simili a quelli che avevano
indossato
gli uomini che avevano raccolto Hermann quando il ragazzo era caduto
tra
l’erba.
«Eh?»
Lidia li guardò senza
capire e la Sacerdotessa tradì un moto di nervosismo.
«È
un tuta» spiegò, secca. «Non
puoi infilarti l’imbrago con la gonna, rischi di procurarti
delle bruciature.»
Esitante,
la fanciulla spiegò gli
indumenti che la donna le aveva offerto. «Ma
sono…»
«Pantaloni,
sì» confermò Erin,
gesticolando nella sua direzione. «Indossarli non ti
ucciderà, te lo prometto.»
Scoccandole
un’occhiata
tagliente, senza riuscire a nascondere l’irritazione provata
davanti al suo
tono di scherno, Lidia esitò solo un istante prima di
liberarsi della gonna e
di indossare, leggermente impacciata, la tuta scura. Quando fu vestita,
si
voltò verso Erin, allargando le braccia e restando in attesa
di altre
indicazioni, cercando di non dare a vedere quanto si sentisse a disagio
nell’indossare quell’indumento che le delineava in
modo quasi scandaloso la
forma delle gambe.
La
donna fece un cenno d’assenso
e poi si avvicinò a Herman, distendendo a terra accanto al
suo letto una sorta
di telo arancione. «Adesso aiutami a stenderlo qui. Prendigli
i piedi, io gli
reggo la testa e le spalle.»
Quando
il ragazzo fu disteso sul
pavimento, Erin si chinò su di lui e prese tra le mani
un’estremità del telo, facendo
cenno a Lidia di fare lo stesso. «Ce la fai a
sollevarlo?» le chiese. «Altrimenti
lo dovremo trascinare di là.»
Nella
sua voce e sul suo volto
Lidia scorse una tensione che era assente fino a un momento prima e la
cosa la
costrinse a lasciar scivolare a terra i lembi dello spesso telo
arancione e a
fermarsi a riflettere qualche istante. «Perché mi
stai aiutando?» le chiese,
cercando i suoi occhi chiari.
Sul
volto della donna passò un
lampo di confusione, come se Erin non fosse certa a cosa si stesse
riferendo.
«Non
capisco», parafrasò allora
Lidia, «perché mi stai aiutando ad andarmene: tu
non mi devi niente. Potresti
disinteressarti completamente a me e a Hermann. Potresti
tranquillamente
lasciarci qui fino a quando Kay o qualcun altro ci scopre, no? A te
cosa
cambierebbe?»
«Nel
tempo che abbiamo passato
insieme ho imparato a conoscerti» mormorò Erin,
distogliendo lo sguardo da
quello della fanciulla. «Se non facessi nulla per aiutarti,
mi sentirei in
colpa.»
Il
tono in cui aveva pronunciato
quelle parole era così poco convinto che Lidia riconobbe
subito la menzogna.
«Non ti aspetterai davvero che io ti creda!»
sbuffò quindi di rimando, mentre
un piccolo sorriso sarcastico le si disegnava sulle labbra.
Dopo
una breve esitazione, la
donna scrollò le spalle e tornò a chinarsi sul
telo che avrebbe dovuto
sorreggere Hermann. «Come vuoi» disse, asciutta.
«Allora diciamo che credo mi
convenga così. Kay ha dato degli ordini molto precisi a
proposito di come ci
saremmo dovuti comportare in situazioni come queste, ma, al momento,
credo sia
decisamente più prudente prendere le distanze da lui,
piuttosto che seguire i
suoi comandi alla lettera.»
Lidia
tornò ad accucciarsi
davanti a lei, incerta su come interpretare quella spiegazione.
«Cosa vorrebbe
dire?»
Erin
strinse convulsamente tra le
mani il tessuto rigido. «Come ti ho detto, vengo da un posto
dove ci sono molte
regole e molte persone che comandano altre persone. Kay è il
mio Capitano e il
mio diretto superiore, ma ci sono persone alle quali anche lui deve
sottostare,
anche se la cosa non gli piace affatto. E quello che sta facendo
ora… quello
che sta facendo ora non farà certo piacere a queste persone,
per cui preferisco
che sia assolutamente chiaro che io non l’ho aiutato in alcun
modo.»
La
giovane romana la soppesò con
lo sguardo per qualche istante. Sarà
vero? Si chiese, non per la prima volta. Se la donna aveva
detto la verità,
non la stava aiutando per puro altruismo, ma piuttosto per tutelarsi da
ritorsioni future. Il che mi sembra un
pochino più credibile di un aiuto dato per bontà
d’animo, ma comunque…
Forse
c’era un trucco, dietro
alle motivazioni di Donna Erin, un inganno che lei, nella sua
ignoranza, non
era in grado di scorgere. Improvvisamente, però, Lidia
decise che non gliene
importava nulla: la donna le stava fornendo un modo per abbandonare la
macchina
volante e per portare con sé Hermann, il che era
l’esatto motivo per cui aveva
abbandonato Tito tra i cespugli e si era infilata nel ventre di metallo
della
nave. A tutto il resto – ai moventi, alle conseguenze -
avrebbe poi pensato in
un secondo momento.
«D’accordo»
fece allora,
cambiando radicalmente tono e argomento. «Cosa dobbiamo
fare?»
Erin
parve riscuotersi davanti
alla sua domanda e tornò ad afferrare più
saldamente la barella improvvisata.
«Lo solleviamo e lo portiamo nel magazzino in cui ti eri
nascosta prima che ti
trovassi.»
Davanti
a quelle parole, Lidia
tradì un moto di sorpresa. «Non ci fermiamo nel
corridoio? Credevo che avessi
detto che dovrò calarmi
dalla nave…»
«Esatto,
ma non useremo la porta
principale: ci sono troppe telecamere. Useremo una botola secondaria
che viene
usata per caricare a bordo il materiale bagnato. Non preoccuparti, ti
sarà
tutto chiaro una volta che saremo lì.»
Pochi
minuti più tardi, Lidia si
ritrovò di nuovo nella stiva polverosa, immersa nella luce
verdognola dei
faretti e nell’odore pungente dell’olivite. Quanto
lo odio, quest’odore! Pensò,
strofinandosi stizzosamente il naso. Credo
proprio che lo odierò fino a quando
avrò vita!
Anche
se stava facendo del
proprio meglio per mostrarsi coraggiosa, il nervosismo nato in lei
quando aveva
scoperto cosa avrebbe dovuto fare per abbandonare la nave era cresciuto
in modo
lento, ma costante. Ora che il momento cruciale si era fatto
drammaticamente
vicino, Lidia sentiva di avere il battito del cuore accelerato e i
palmi madidi
di sudore.
«Eccoci
qui» ansimò Erin, passandosi
una manica sulla fronte diafana. Con una punta di vergogna, Lidia
dovette
riconoscere che la donna si era fatta carico della maggior parte del
peso di
Hermann, lasciando che lei si occupasse più che altro di
evitare che i piedi e
le gambe del ragazzo impattassero contro gli angoli delle pareti.
«Adesso lo
assicuriamo per bene» mormorò la Sacerdotessa,
rivolta più a se stessa che alla
sua giovane accompagnatrice. Accovacciandosi accanto al germanico, la
donna
tirò delle cinghie che in un primo momento Lidia non aveva
visto e in un
istante Hermann fu completamente avvolto dal telo arancione. Solo il
suo volto
rimaneva scoperto, mentre il resto del suo corpo era saldamente
bloccato dal
tessuto pesante e da robuste cinghie nere. «Così
non va da nessuna parte»
commentò Erin con un sorriso soddisfatto.
«Allora!»
esclamò poi, facendo
trasalire Lidia che, per qualche istante, si era persa nei suoi
pensieri, sopraffatta
per un attimo dalla stanchezza e dalle emozioni intense della giornata.
«Ti
spiego che cosa dovrai fare. Cerca di ascoltarmi bene,
perché io non potrò
rimanere qui con te, se voglio evitare di generare sospetti. Dovrai
cavartela
da sola, d’accordo?»
«D’accordo»
mugugnò la ragazza.
Che scelta aveva?
«Perfetto.
Innanzitutto, infilati
questa. Va sopra alla
tuta.» Così
dicendo la donna porse a Lidia quello che alla fanciulla non parve
altro che un
ammasso di corde.
«Ehm…»
«Così.»
La donna le fece alzare
un piede alla volta e le infilò su per le gambe due anelli
di corda, poi le
strinse un laccio in vita e uno sul petto. Quando ebbe finito di
manovrare
attorno a lei, Lidia si sentiva come un salame, legato da corde troppo
strette.
«Non
riesco a muovere le braccia»
provò a protestare.
«Sì,
che ci riesci» la liquidò
Erin. «Se l’imbrago fosse più largo,
rischieresti di scivolare fuori.»
«…
fuori?» ripeté la ragazza,
mentre il nodo alla gola che avvertiva ormai da qualche tempo si faceva
più
ingombrante.
«Sì»
ripeté Erin, prima di far
passare una corda di un giallo acceso all’interno di due
specie di anelli
formati dalle fettucce che avvolgevano Lidia e di bloccarla dapprima
con un
nodo e poi con una sorta di fibbia. «Adesso
ascoltami» disse, poi, una volta
che sembrò essere soddisfatta dal lavoro fatto.
«Te lo spiegherò solo una
volta, dopodiché dovrò andare e non
potrò più tornare indietro per
aiutarti.»
L’espressione
della donna era
estremamente seria e la fanciulla si rese conto
dell’importanza del momento.
Raddrizzando le spalle, Lidia annuì. «Come ti ho
anticipato», riprese Erin, «la
nave scenderà fino a un’altezza di sessanta metri
e registrerà alcune immagini.
Mi segui?» Deglutendo, Lidia annuì. «A
quel punto io fingerò di aver visto
qualcosa che non va nelle immagini e chiederò al pilota di
fermare la nave a
mezz’aria per qualche minuto.»
«Vedi
quel riquadro disegnato lì
a terra?» continuò la donna, indicando un punto
qualche metro più avanti dove
delle strisce gialle e nere delimitavano una sezione di pavimento.
«Quella è la
botola di cui ti parlavo prima. Sul localizzatore è
impostato un timer: quando
suonerà, tu dovrai ruotare verso l’alto la leva
rossa che si trova sulla parete
accanto alla botola. La vedi?»
«Difficile
non vederla» replicò
Lidia, con il cuore in gola, occhieggiando verso la leva scarlatta che,
in quel
frangente, le pareva simile alla lingua infuocata di un drago.
Improvvisamente,
la donna più
anziana sgranò gli occhi. «Oh, prima di fare
questo, dovrai collegare questo
moschettone alla barella di Herman, così» disse,
mostrando a Lidia l’azione che
avrebbe dovuto compiere. «Questo capo della corda lo leghiamo
qui, a questo
ancoraggio, e l’altro, quando la botola sarà
aperta, lo dovrai buttare all’esterno
facendo attenzione che non formi dei nodi. È
chiaro?»
«Abbastanza»
balbettò la ragazza.
«Abbastanza?»
ripeté Erin,
fissandola intensamente.
Lidia
si affrettò a correggere il
tiro. «Sì, sì, è tutto
chiaro.»
«Perfetto»
annuì la donna,
porgendole il localizzatore. «Questo infilatelo nella tasca
interna della tuta:
ti condurrà da Alexander, quindi è importante che
tu lo tenga sempre con te.
Ora: guarda questa leva.» Lidia abbassò lo sguardo
sulla fibbia che la
Sacerdotessa aveva fissato alla corda e all’imbrago. Quando
Erin fu certa di
avere la sua attenzione, proseguì: «Abbassandola
scivolerai giù lungo la corda,
lasciandola andare ti fermerai. Quando il timer suonerà,
dovrai aprire la
porta, legare Hermann alla corda, spingerlo fuori e poi calare entrambi
fino a
terra. Capito?»
Lidia
la guardò come interdetta
per qualche istante. «Sì»,
mormorò, poi, «ma non credo proprio di poterlo
fare.»
La
donna la fissò sollevando un
sopracciglio con aria severa. «Ti conviene farcela, invece.
In primis perché è
la tua unica possibilità di lasciare la nave incolume, e in
secondo luogo
perché, se tu dovessi fallire e qualcuno dovesse scoprirti,
finirei nei guai
pure io.»
La
fanciulla si torse
nervosamente le mani. «Sì, lo so»,
mormorò, mentre l’angoscia le serrava la gola,
«ma io non ho mai fatto niente di simile e sessanta metri
sono tanti.»
«Soffri
di vertigini?» le chiese
Erin, inclinando leggermente il capo.
Lidia
negò. «No, ma comunque…»
«E
allora non ci saranno
problemi, fidati. So che può fare impressione, ma in
realtà è tutto molto
sicuro… a patto che tu non perda tempo, ovviamente. Non
posso assicurarti più
di sei minuti da quando il timer inizierà a suonare: devi
scendere a terra il
più velocemente possibile, perché se, quando la
nave ripartirà, tu sarai ancora
appesa alla corda, allora… be’, puoi immaginare
anche tu che le cose andrebbero
a finire male.»
«Ma…»
«Niente
“ma”, Lidia» tagliò corto
Donna Erin. «Quello che devi fare te l’ho spiegato.
È un compito assolutamente
alla tua portata: l’importante è che manovri
correttamente la leva, che non ti
fai prendere dal panico e che, una volta arrivata a terra, segui la
mappa per
arrivare fino ad Alexander.»
La
fanciulla aprì e chiuse un
paio di volte la bocca a vuoto, cercando di dar voce alla miriade di
pensieri
che le ingombravano la testa. «E come faccio a trasportare
Hermann per tutta
quella strada?»
Erin
corrugò la fronte, come se
quel pensiero non l’avesse sfiorata prima d’allora.
«Be’… forse puoi chiedere a
qualcuno di venirlo a recuperare in un secondo momento? Dovresti
atterrare
vicino a un vecchio capanno che i minatori utilizzavano molto tempo fa:
lascia
lì il ragazzo, vai da Alexander e chiedi che mandi qualcuno
a prenderlo. Non ti
ci vorrà molto ad arrivare da lui.»
Lidia
si mordicchiò le labbra,
poco convinta, ma prima che potesse aggiungere altro Donna Erin le
posò le mani
sulle spalle. «È ora di andare: devo raggiungere
il pilota, prima che si chieda
cosa accidenti sto facendo qui dietro e mandi qualcuno a dare
un’occhiata. In
bocca al lupo! E buona fortuna per tutto…»
Stringendo un’ultima volta le dita
attorno alle sue spalle, la donna si allontanò rapidamente
da lei e ben presto
l’eco dei suoi passi leggeri svanì, inghiottito
dalle pareti di metallo della
stiva.
Un’ondata
di apprensione travolse
la giovane romana, che contrasse spasmodicamente le mani e
ingoiò una gran
boccata d’aria, cercando di contrastare il senso di
svenimento che l’aveva
colta e che non aveva nulla a che fare con il malessere che
l’aveva colpita
quel pomeriggio. Mi fa male la pancia,
pensò la ragazza, portandosi inconsciamente una mano
all’altezza del ventre.
Facendo
un altro profondo respiro
nel tentativo di calmarsi, Lidia tornò a voltarsi verso
Hermann. Dopo un
istante di indecisione, afferrò il telo che lo avvolgeva e
trascinò il ragazzo
un po’ più vicino alla botola. Se
almeno
tu ti svegliassi, le cose sarebbero un po’ più
facili, pensò, rivolta al
ragazzo ancora privo di sensi. Non avrebbe saputo dire se il giovane
germanico
si sarebbe rivelato più abile di lei, in quel frangente
– probabilmente sì
– ma, se non altro, il ragazzo avrebbe potuto
darle un po’ di coraggio e togliere un po’ di
responsabilità dalle sue mani.
Molto
prima di quanto Lidia
avrebbe desiderato, la mappa – il localizzatore –
prese a vibrare. È questo
l’avviso di cui parlava Donna Erin?
Sebbene
la giovane si rendesse
conto che era decisamente inverosimile che la tavoletta si fosse
attivata per
un altro motivo, i dubbi e le ansie legate alla situazione facevano
tremare le
poche certezze che ancora aveva.
Ma sì, non può che essere
l’avviso.
Passandosi
i palmi delle mani
sulla tuta, la fanciulla inspirò profondamente, sforzandosi
di calmarsi e di
fare mente locale. Prima cosa,
pensò,
legare Hermann.
Quando
il ragazzo fu assicurato,
Lidia raggiunse con qualche difficoltà la leva rossa che
Erin le aveva indicato
e la ruotò verso l’alto con la mano sudata. Non
appena quella si trovò in
posizione verticale, la botola emise un debole cigolio che a Lidia
parve
piuttosto inquietante e poi si spalancò, offrendo alla
fanciulla la visione del
mondo sottostante. La ragazza si sarebbe aspettata che la corrente la
sospingesse verso l’interno della nave, ma l’aria
che filtrava dall’apertura
creò un vortice che le fece perdere l’equilibrio
per una frazione di secondo.
Per un terrificante istante, la giovane credette di essere in procinto
di
cadere fuori dalla nave e si aggrappò al primo scaffale che
le capitò a tiro.
La corda, si disse, quando si
sentì nuovamente stabile. Assicurandosi
che il nodo che la collegava all’ancoraggio fosse saldo, la
fanciulla raccolse
tra le braccia il resto della corda e, stupendosi di quanto fosse
pesante, si
avvicinò alla botola, intenzionata a gettarla di sotto,
esattamente come Erin
le aveva detto di fare. Quando si trovò sulla bordo,
però, prese piena
coscienza di cosa volesse dire avere sotto di sé un abisso
di svariate decine
di metri metri e fu colta da un senso di vertigine che la costrinse a
lasciare
la presa e ad afferrare nuovamente uno degli scaffali di metallo.
Scuotendo
il capo, la fanciulla
indietreggiò cautamente. Non posso
saltare, pensò, disperata. Non
posso
proprio farlo!
Una
frazione di secondo più
tardi, Lidia si avvide del proprio errore. La paura improvvisa che
l’aveva
colta alla vista del vuoto le aveva fatto scivolare dalle mani la
corda.
Sfortunatamente, data la sua posizione, questa non si era limitata a
cadere sul
pavimento, ma, da lì, era precipitata nell’abisso
sottostante.
Merda! Imprecò mentalmente la
ragazza, maledicendosi per la propria
stupidità. Vincendo l’istinto che le ordinava di
allontanarsi il più possibile
dalla botola spalancata, la ragazza si avvicinò di nuovo al
bordo. Speriamo che non abbia fatto nodi,
pensò, occhieggiando verso il basso.
Fortunatamente
la corda era
ancora legata all’ancoraggio che avrebbe dovuto sostenere il
peso di lei e di
Hermann e, nonostante lo spavento, sembrava che fosse ancora tutto a
posto. La
fanciulla tirò un sospiro di sollievo. Adesso
basta idiozie, però! Si impose. Non
devo farmi prendere dal panico, come ha detto Donna Erin.
Cercando
di tener stretta quella
flebile scintilla di determinazione, la giovane trascinò
Hermann più vicino
all’apertura della botola. Poi, con una mano,
tornò a stringere il solido
metallo dello scaffale più vicino. Avvinghiata a quella che
le pareva un’ancora
di salvezza, Lidia guardò verso il basso, mentre gli occhi
iniziavano a
lacrimarle a causa delle raffiche violente che invadevano il ventre
della nave.
Non avrebbe mai voluto farlo, ma l’alternativa, la
prospettiva di rimanere
prigioniera su quella macchina comandata da uomini sconosciuti, le
parve molto
peggiore del salto nel vuoto. D’un tratto la
libertà le sembrò lì vicina, a
portata di mano, e quasi le venne di sorridere al ricordo di un altro
salto,
fatto mesi prima. Allora volevo scappare,
da quella vita, adesso invece voglio tornarci.
Sentendo
un inaspettato brivido
di eccitazione, Lidia passò le proprie braccia attorno
all’imbrago di Hermann.
Sollevando con un gemito di fatica, si apprestò a calarsi
con cautela, ma il
ragazzo pesava troppo e, trascinata dal suo corpo, la fanciulla
inciampò e
cadde verso l’esterno.
Il
grido di puro terrore che
avrebbe voluto emettere le rimase incastrato in gola, mentre il cuore
batteva
talmente in fretta che la giovane ebbe l’impressione che la
vista le si
appannasse. Lidia ci mise diversi secondi prima di rendersi conto di
essere
esattamente dove aveva cercato di arrivare, appesa sotto alla pancia
della
nave.
Va bene. Va bene, non è successo niente,
si disse, mentre il suo
respiro affannato si faceva più regolare. La
leva. Scendiamo.
Sebbene
le raffiche di vento la
facessero oscillare più di quanto avesse voluto, facendole
di tanto in tanto
compiere una giravolta su se stessa, e la paura di venire scoperta le
formasse
un nodo doloroso nel petto, Lidia scoprì che il meccanismo
fissato alla corda
le permetteva di scendere in modo rapido e fluido. Ben presto, la
ragazza fu in
grado di scorgere con chiarezza i dettagli del ghiaione che si
estendeva sotto
di lei, e poco dopo riuscì addirittura a distinguere i fiori
che crescevano tra
l’erba incolta. Molto più velocemente di quanto si
fosse aspettata, la
fanciulla si ritrovò con i piedi per terra.
Senza
concedersi nemmeno un
secondo per esultare, la giovane staccò maldestramente
l’imbrago di Hermann dal
gancio che lo teneva ancorato alla corda e il ragazzo cadde malamente a
terra,
senza tuttavia dare alcun segno di risveglio. Alzando lo sguardo verso
l’alto,
Lidia vide che la nave era ancora dove l’aveva lasciata e
calcolò che i sei
minuti concessi da Donna Erin non fossero ancora passati.
Se qualcuno guardasse giù, mi vedrebbe
di sicuro, realizzò la
ragazza, con un sussulto. Stringendo nervosamente i denti, la giovane
tornò ad
afferrare il telo che avvolgeva Hermann. Erin aveva ragione: a poche
decine di
metri di distanza dal punto in cui aveva toccato terra, si ergeva un
capanno
fatiscente. La porta era stata divelta e le pareti di legno
presentavano
parecchie assi marce o spezzate, ma il tetto sembrata tutto sommato in
buono
stato. Sarà un riparo sufficiente,
giudicò. Il villaggio non
è molto
distante, ci metterò sì e no un quarto
d’ora ad arrivarci.
Nonostante
le raccomandazioni
della Sacerdotessa, infatti, Lidia aveva deciso che non avrebbe
aspettato che
fosse Alexander a recuperare Hermann: avrebbe lasciato che fosse Gefrid
a
prendersi cura del figlio. Poi
racconterò
tutto anche ad Alexander, ma almeno sarò sicura che, nel
frattempo, Hermann è
in buone mani.
Il
terreno era accidentato e
l’operazione si rivelò più complicata
del previsto, ma, pochi minuti dopo,
Lidia riuscì a raggiungere l’edificio in rovina.
L’interno era spoglio e i
pochi mobili rimasti erano ormai ridotti in uno stato tale che la
ragazza ebbe
qualche difficoltà a identificarne la natura. Poco
male, comunque, considerò. L’importante
è che nessuno venga a ficcare il naso da queste parti e che
il tetto regga.
Quell’ultima
considerazione le
diede da pensare per qualche istante. Era davvero prudente lasciare
lì il
cognato? Lidia allontanò però rapidamente quelle
preoccupazioni: non che avesse
veramente alternative, comunque. Se
sapessi utilizzare la tavoletta, chiederei ad Alexander di venire a
prenderci.
Peccato che Donna Erin non si sia degnata di spiegarmi come
funziona…
Con
una smorfia amareggiata e un
ultimo sguardo preoccupato scoccato in direzione del giovane cognato,
Lidia
uscì nuovamente all’aperto. Non appena ebbe messo
piede all’esterno, la ragazza
trasalì: non vi era più alcuna traccia della
nave. Non l’ho nemmeno sentita
allontanarsi, pensò meravigliata.
Il
cielo stava ormai virando
verso l’azzurro carico del tardo pomeriggio e Lidia si rese
conto di aver
completamente perso la cognizione del tempo. Aveva indubbiamente
passato alcune
ore a bordo della macchina volante, ma non avrebbe saputo dire quante,
di
preciso. Però saranno almeno le
sette di
sera, comprese, con una punta di sgomento. Era con ogni
probabilità più
tardi di quanto pensasse, il che significava che non poteva permettersi
il
lusso di perdere dell’altro tempo. Non
se
voglio evitare il coprifuoco e se voglio sperare di tornare da Ulf
questa sera.
Guardando
un’ultima volta verso
il capanno in cui aveva nascosto Hermann e rivolgendo una preghiera
silenziosa
a qualsiasi divinità fosse in ascolto perché
proteggesse il ragazzo, Lidia si
avviò verso il villaggio. Anche se era la prima volta che
metteva piede in quel
luogo, aveva ormai iniziato a conoscere piuttosto bene la morfologia
della
valle: affidandosi a quello che vedeva attorno a sé
– e sperando vivamente che
il suo scarso senso dell’orientamento non la tradisse proprio
in quel frangente
– la ragazza si avviò trotterellando lungo il
pendio che conduceva verso il
fondo valle. Quando il terreno si fece più scosceso, la
fanciulla allungò il
passo senza nemmeno accorgersene e ben presto si ritrovò a
correre lungo il sentiero
che si era poco alla volta delineato sotto i suoi piedi.
Arrivò
alle prime case del
villaggio molto più velocemente di quanto si fosse
aspettata. Solo in quel
momento si rese conto di essere completamente madida di sudore. Il
tessuto
della tuta scura era più pesante di quanto appariva al tatto
e si appiccicava
fastidiosamente a braccia e a gambe. Costringendosi a rallentare
l’andatura per
darsi un contegno e per non attirare su di sé attenzioni
poco opportune, Lidia
si scostò i capelli umidi dalla fronte e imboccò
la via che conduceva alla
dimora di Gefrid.
Quando
vi giunse davanti, la
giovane si bloccò solo per un istante. Poi, scacciando la
soggezione che la
casa del suocero le infondeva da sempre – del resto, non
poteva dire di aver
mai vissuto esperienze particolarmente felici, tra quelle mura
– la fanciulla
aprì la porta senza nemmeno bussare, prima di rendersi conto
di non sapere bene
come approcciare il padre di Ulf. «C’è
nessuno?» chiese, allora, accorgendosi
con una smorfia di quanto stridula suonasse la sua voce.
Quasi
si trovò a sperare che
fosse Donna Edda ad accoglierla, ma quando i passi provenienti dalla
stanza
accanto si rivelarono essere di Unna, Lidia vacillò
leggermente.
Unna. Perché proprio Unna?
Istintivamente
la giovane si
irrigidì, pronta a subire un attacco – se fisico o
verbale non l’avrebbe saputo
dire – da parte della cognata, così, quando
l’unica cosa che sentì fu la sua
esclamazione di sorpresa, Lidia alzò lo sguardo su di lei,
confusa. «Dov’eri
finita?» le chiese Unna e, per una volta, l’ombra
tagliente solitamente
presente nelle sue parole sembrò quasi smorzata.
«Eh,
io…» la ragazza si
interruppe, incapace di riassumere in poche parole
l’esperienza vissuta.
«Qui
stanno diventando tutti
matti a cercarti!» la interruppe la germanica, riacquistando
la consueta
aggressività. «Ulf è preoccupatissimo!
Si può sapere dove sei stata, tutto
questo tempo? E Hermann? Non è con te?»
Lidia
levò una mano e Unna parve
sorpresa da quel gesto che sembrava volerle intimare il silenzio.
«Siamo stati
a bordo di una delle macchine volanti che raccolgono le
offerte» disse tutto
d’un fiato la giovane romana. Quando Unna si portò
le mani davanti alla bocca,
in preda all’orrore, e non disse nulla, Lidia
proseguì con la sua spiegazione.
«A bordo c’era anche Donna Erin. Ci ha aiutati a
scappare, ma Hermann sta male,
è privo di sensi… Donna Erin l’ha
curato come poteva, ma ha detto che dobbiamo
portarlo da Alexander. Lui conosce della gente che può
guarirlo.»
Unna
le si avvicinò fino a
giungere a poche decine di centimetri da lei e sul suo volto pallido
Lidia
lesse chiaramente l’angoscia che la divorava.
«Dov’è mio fratello?»
Lidia
si morse nervosamente le
labbra. «Non riuscivo a trasportarlo da sola. L’ho
lasciato in un vecchio
capanno dei minatori a sud della miniera. È al sicuro,
lì.»
Se
possibile, la germanica
sbiancò ulteriormente. «Al sicuro?
Sbottò. «Ho capito a quale capanno ti stai
riferendo: quel posto rischia di crollare da un momento
all’altro!»
La
fanciulla scrollò le spalle,
frustrata. «Lo so, ma non sapevo cos’altro fare.
Non potevo lasciarlo allo
scoperto: Donna Erin ci ha fatto scendere di nascosto e quelle macchine
servono
per… per esplorare il
territorio. A
bordo c’erano anche delle altre persone: non volevo che
rischiassero di vedere
Hermann.»
Unna
le lanciò uno sguardo torvo,
ma poi annuì. «D’accordo. Non possiamo
lasciarlo lì, però: dobbiamo mandare
qualcuno a recuperarlo.»
«È
proprio per questo che sono
venuta qui. Donna Erin voleva che lo portassi direttamente da
Alexander, ma a
me è parso giusto informarvi, prima.»
La
giovane bionda annuì di nuovo.
«Va bene» disse, con voce tesa. «Mio
padre dovrebbe essere alla locanda a
cercare informazioni: tu e Hermann siete svaniti nel nulla e anche Ulf
è
sparito, da qualche ora a questa parte…»
Lidia
si passò stancamente una
mano sul volto. «Ulf è con Alexander,
l’uomo con i capelli rossi che hai…
incontrato l’altra sera.» Unna si
irrigidì e la ragazza si maledisse per aver
inavvertitamente toccato un argomento troppo delicato per essere
affrontato a
cuor leggero. Non dimentichiamoci le
circostanze in cui l’ha incontrato, si
ricordò, con una smorfia. Decisa a
non lasciarsi sviare, però, riprese rapidamente il discorso.
«La Sacerdotessa
si è messa in contatto con lui. Sono entrambi a casa di un
guaritore… mi ha
dato una mappa che mi porterà fino a loro.»
«Dopo»
tagliò corto Unna. «Adesso
troviamo mio padre e recuperiamo Hermann.»
Quando
furono in strada, la
germanica si voltò nuovamente per osservare Lidia.
«Cos’è successo a mio
fratello?» chiese, con voce quieta.
La
giovane romana scosse
mestamente il capo. «Eravamo a casa di Donna Erin e Hermann
ha accidentalmente
inalato del veleno. Sono stata male anch’io, anche se meno di
lui, ma la
Sacerdotessa mi ha curato. Ora sto bene.» La ragazza dovette
mordersi la lingua
per impedirsi di menzionare Tito. Anche se quell’omissione le
provocò una
stretta al cuore, la giovane era perfettamente consapevole che la
menzione
dell’amico avrebbe scatenato una reazione da parte della
cognata. E questo non è il momento
adatto per
affrontare certi discorsi.
Unna
le rivolse uno sguardo
stranito. «Come sarebbe a dire che ha inalato del veleno?
Dove lo ha trovato? E
perché eravate a casa della Sacerdotessa?»
Lidia
sospirò. «Possiamo parlarne
più tardi?» chiese, con un gemito.
«Sicuramente anche tuo padre e Ulf vorranno
sapere quello che è successo. È una
storia… non è una storia facile da spiegare
e vorrei evitare di doverla ripetere più e più
volte.»
La
donna bionda parve sul punto
di protestare, ma poi si limitò a stringere i denti e a
scuotere appena il
capo, visibilmente contrariata. Dopo quello scambio, le due giovani
proseguirono in silenzio sino a quando giunsero alla locanda nella
quale
trovarono Gefrid. L’anziano germanico pareva profondamente
immerso nei propri
pensieri ed era circondato da una decina di altri uomini che parlavano
animatamente. Quando però si rese conto della presenza di
Lidia e Unna, sul suo
voltò passò un lampo di sorpresa e sollievo. Per
un istante, la fanciulla fu
tentata di raggiungerlo, ma la presenza degli altri germanici la
frenò e così
la giovane romana indugiò sull’uscio, in attesa di
ulteriori sviluppi.
Unna
non sembrava condividere le
sue remore e si avvicinò a passi rapidi al padre, facendosi
largo tra la folla
che lo circondava. Lidia era troppo lontana per riuscire a seguire la
conversazione: non colse altro che poche parole in dialetto germanico,
frammenti troppo esigui perché lei potesse farsi
un’idea di come Unna stesse
raccontando a Gefrid ciò che era successo. Poco dopo,
però, l’uomo si alzò
bruscamente in piedi, con una velocità insospettabile,
considerata la sua
menomazione. I suoi compagni lo seguirono a ruota e Lidia si ritrasse
istintivamente, retrocedendo di qualche passo fino a quando non si
trovò fuori
dalla porta.
Quando
il Capo Villaggio le passò
accanto, si fermò per un istante e la guardò in
volto. La ragazza abbassò
inconsciamente il viso, quasi vergognandosi di essere lì. Ma perché, poi? Si chiese, un
po’ indispettita. Non ho fatto
niente di male. Non ho alcun
motivo di vergognarmi. Ciononostante, sentiva di non riuscire
a incontrare
gli occhi del suocero. La mano dell’uomo le si
posò sulla spalla e Lidia
sussultò, dimenticando all’istante i pensieri di
un secondo prima. Quando il
suo sguardo si specchiò in quello verde di Gefrid, la
ragazza vi trovò una luce
calda che non si sarebbe mai aspettata di trovare. «Tu stai
bene?» le chiese
l’uomo, con il suo accento tagliente.
Per
qualche motivo, quella
semplice domanda le fece seccare la voce in gola. Lidia si
limitò allora ad
annuire, senza trovare la forza di spiegarsi a parole. La risposta
parve
comunque soddisfare l’uomo, che strinse per un secondo le
dita sulle spalle
della giovane e poi si allontanò dai lei.
Parlottando
tra loro nella loro
lingua, Gefrid e i suoi compagni si incamminarono lungo la via, senza
rivolgere
alcun cenno alle due donne. Quando furono rimaste sole, Lidia
lanciò
un’occhiata confusa a Unna. «Cosa fanno?»
chiese. «Vanno a recuperare Hermann?»
La
giovane bionda le rivolse un
cenno d’assenso. «Sì. Lo porteranno poi
a casa di mio padre: ho già anticipato
che poi verrà un medico a cercarlo, quindi nessuno dovrebbe
pensare a un
rapimento, se il tuo amico rosso verrà a chiedere di
lui.»
La
fanciulla si limitò ad
aggrottare la fronte. «Ma non andiamo con loro?»
L’altra
si limitò a scrollare le
spalle. «Non siamo state invitate. Questo genere di cose sono
cose da uomini,
dicono. Saremmo solo d’intralcio, comunque.»
Anche
se era poco convinta da
quella spiegazione, Lidia annuì, riconoscendo
silenziosamente che non aveva
alcuna fretta di tornare alle pendici della miniera, arrampicandosi su
fino al
vecchio capanno in cui aveva lasciato Hermann. Il solo pensiero di
tornare
nell’ultimo posto in cui aveva visto la macchina volante le
faceva correre un
profondo brivido di inquietudine lungo la schiena. «Va
bene» disse allora,
alzando lo sguardo verso il cielo che iniziava a imbrunire.
«Io allora vado da
Ulf e Alexander.»
«Come
pensi di fare per
trovarli?» indagò Unna, inarcando elegantemente un
sopracciglio chiaro.
Dopo
un istante di esitazione,
Lidia estrasse dalla tasca la tavoletta scura. Fino a quel momento
l’aveva
completamente ignorata: si accorse solo allora che sullo schermo era
riportata
una piccola carta geografica, interamente disegnata nei toni
dell’azzurro. Le
uniche note di colore erano date da un punto rosso e da una croce
gialla.
Inspirando lentamente, la ragazza si rigirò un paio di volte
lo strumento tra
le mani, cercando di capire quale fosse il nord e quale il sud. Dopo un
paio di
tentativi, si rese conto con una punta di frustrazione di non essere in
grado
di leggere la cartina che si ritrovava sotto agli occhi.
«Questa dovrebbe
essere una mappa» sbuffò, allora, senza osare
incontrare lo sguardo della
cognata. «Però non sono sicura di essere in grado
di leggerla.»
«Da
qui» tagliò corto Unna,
allungando una mano e togliendole la tavoletta dalle dita. Se si
ritrovò
spiazzata dalla natura curiosa dell’oggetto, la germanica non
lo diede a
vedere. Dopo alcuni secondi di osservazione silenziosa,
annuì soddisfatta. «Ho
capito dove sono. Questa roba qui è la miniera, quindi noi
siamo il pallino
rosso. Mio fratello, evidentemente, si trova a casa di Albert: so come
fare ad
arrivarci.»
Nell’udire
quelle parole, Lidia
alzò su di lei uno sguardo speranzoso. «Vuoi
accompagnarmi?» chiese, prima di
riuscire a trattenersi.
Sul
volto di Unna passò una
chiara espressione di stupore, e anche la giovane romana rimase qualche
istante
a bocca aperta per la richiesta che le era inavvertitamente sfuggita.
Fino a
poco tempo prima non si sarebbe mai sognata di chiedere alla cognata
una cosa
del genere, ma era come se, in silenzio e senza troppe cerimonie, tra
loro
fosse cambiato qualcosa. Se era ben lungi dal considerarla
un’amica o
un’alleata, Lidia si rese conto che Unna non era nemmeno
più una nemica, per
lei. E, sotto sotto, intuiva che la cosa doveva essere reciproca.
Unna
deglutì, prima di annuire.
«Va bene» mormorò. Poi, ritrovando il
consueto sorriso tagliente, aggiunse:
«Del resto, tu resteresti a girare a vuoto per tutta la
notte.»
Davanti
a quella frecciatina,
Lidia alzò gli occhi al cielo, ma si astenne dal commentare.
«Vogliamo andare?»
chiese, invece.
La
donna bionda annuì. «Sì, è
meglio se ci diamo una mossa: non è proprio dietro
l’angolo. Dobbiamo
raggiungere il fondo valle e da lì discendere il fiume nel
senso della
corrente. Perdersi è praticamente impossibile, ma
c’è da camminare un po’.»
Come
Unna aveva predetto, il
luogo in cui avrebbero dovuto trovarsi Alexander e Ulf non era affatto
vicino:
quando raggiunsero la foresta che occupava il fondovalle, le ombre
della sera
si erano ormai fatte lunghe e scure. Anche se, diversamente
dall’ultima volta
in cui si era trovata in una situazione simile, Lidia non temeva di
essere
inseguita da nessuno, la giovane non poteva fare a meno di stare con le
orecchie all’erta. Odio non
riuscire a
vedere che a pochi metri da me. Pensò, con i
nervi a fior di pelle. Se ci fosse un
pericolo, non potremmo che
vederlo all’ultimo.
A
ogni minimo rumore
ingiustificato, la fanciulla si gettava occhiate furtive alle spalle,
sobbalzando vistosamente. La cosa, sfortunatamente, non
sfuggì a Unna. «Dì un
po’», disse a un tratto la donna bionda, in un tono
che non prometteva nulla di
buono, «non avrai mica paura del buio, vero?»
Lidia
esalò con forza dal naso e
cercò di imitare il tono sprezzante della cognata.
«No, affatto. Sono solo un
po’ stanca, tutto qui.»
«Mh.
Qualche tempo fa Ulf mi ha
raccontato la storia di un certo capriolo scambiato per un
orso…»
Lidia
sbuffò, oltraggiata. «Ulf
dovrebbe imparare a tenerle per sé, certe cose»
ringhiò.
Unna,
che sembrava aver messo
momentaneamente da parte l’umore cupo che sfoggiava di
solito, scoppiò a
ridere.
«Shh!»
sibilò d’un tratto Lidia.
La
cognata si voltò verso di lei,
sarcastica. «Oh, non credere che…»
«No,
zitta!» sussurrò la giovane
romana, con urgenza, «Ascolta!»
Forse
allarmata dal suo tono, la
germanica rimase in ascolto per qualche istante, poi scrollò
le spalle. «Non
sento niente di strano. Tu cos’hai sentito?»
Lidia
esitò. «Non so, forse…
forse un ramo che si spezzava.»
Unna
sospirò. «Assolutamente
possibile, dal momento che siamo in un bosco. Non
c’è comunque motivo di
allarmarsi.»
La
sua giovane compagna annuì, ma
qualche istante dopo tornò a bloccarsi.
«Ancora!»
Di
nuovo, la donna al suo fianco
si mise in ascolto. «Il bosco è pieno di
animali» sospirò poi. «Volpi, lepri,
tassi e, appunto, caprioli. Ma non sono pericolosi: quindi, per favore,
smettiamola di perdere tempo e camminiamo senza fermarci ad ascoltare
ogni
minimo rumorino.»
Sebbene
fosse consapevole che
quella domanda l’avrebbe resa ridicola agli occhi di Unna,
Lidia non riuscì a
trattenersi. «E orsi?»
La
donna si voltò a osservarla,
con la fronte corrugata. «Come?»
«Ci
sono anche orsi neri, qui?»
Unna
esitò. «In teoria sì» disse,
poi. «Ma io sono sempre andata per boschi e, in venticinque
anni, non ne ho mai
incontrato nemmeno uno. Quindi non preoccuparti e muoviti.»
Appena
ebbe pronunciato quelle
parole, però, un nuovo scricchiolo, proveniente da un punto
a una sessantina di
metri da loro, la fece voltare di scatto. Mentre le due giovani
trattenevano il
respiro in contemporanea, a Lidia parve di sentire un vago raspare e
dalle sue
labbra sfuggì un gemito terrorizzato. «Non
è niente» mormorò Unna, pur
indietreggiando di un passo. «Al massimo è un
cinghiale. In ogni caso, è
meglio…»
In
quell’istante una sagoma scura
uscì dal folto della foresta. Anche se non si era mai
trovata di fronte a una
bestia del genere, Lidia non ebbe dubbi: l’ispido pelo nero
interrotto soltanto
dalla striscia rossastra che correva lungo la linea dorsale, gli
artigli
visibili anche a quella distanza, il cranio possente sormontato dalle
piccole
orecchie tonde, le zanne che spuntavano ai lati della mandibola glielo
fecero
immediatamente identificare come un orso nero.
Accanto
a lei, Unna allungò un
braccio e le sue dita si strinsero attorno al polso della fanciulla
come una
morsa.
Poi,
Lidia si sentì svenire.
***
Pensavate che fossi sparita, vero? E invece no! Ho
avuto qualche
contrattempo: il computer che si è sfasciato e ha dovuto
essere sostituito, per
esempio. Oppure una vacanza di due settimane al mare.
Comunque, al di là di questo, avrete
forse notato che questo capitolo è
un po’ più lungo dei precedenti. Ho deciso che
voglio attenermi allo schema che
ho fatto quando ho pianificato la storia, quello che prevede che il
tutto si
concluderà in nove capitoli. Saranno nove capitoli lunghi,
è vero, che verranno
pubblicati più lentamente: quando scrivo dei capitoli corti,
mi viene sempre la
tentazione di inserire un po’ di cose
“extra” per dare un po’ più di
peso al
capitolo in questione. Ecco, voglio evitare di farlo, perché
poi il rischio di
perdere il filo è troppo alto.
Come al solito, segnalatemi qualsiasi errore o cosa
che non torna!
|
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Capitolo 38 *** 37. Dal cielo ***
[Avviso ai naviganti: una volta terminata la
storia, rimetterò mano
alla timeline degli ultimi capitoli, perché così
non mi convince affatto. Per
ora non ho ancora modificato nulla, ma ho intenzione di diluire un
po’ nel
tempo gli ultimi avvenimenti: adesso come adesso, la morte di Karl, il
ritorno
a casa di Lidia, la morte di Tito e la storia della macchina voltante
sono
molto ravvicinate. Quando avrò sistemato le cose, il tutto
si svolgerà in
quattro o cinque giorni. Al momento, il capitolo è un
po’ ibrido: ho mantenuto
i riferimenti temporali attuali, ma le reazioni dei personaggi sono
già quelle
che sarebbero nella versione finale. Vi chiedo di fare un piccolo
sforzo di
immaginazione e di chiudere un occhio… o, se preferite, di
ignorare
completamente questo aspetto!]
Il
mondo attorno a lei vacillò e
si fece confuso, poi lo strattone deciso di Unna la riportò
rapidamente alla
realtà. Una parte della sua mente – quella che non
era concentrata sull’enorme
bestia nera davanti a loro – si stupì della forza
della stretta della giovane,
della violenza con cui le sue dita si chiusero attorno al suo polso
sottile,
dando vita a una fitta acuta che le corse su verso il gomito.
Senza
una parola e senza nemmeno
assicurarsi di avere l’attenzione di Lidia, ma tenendo gli
occhi chiari
spalancati sull’orso, Unna indietreggiò di un
passo, poi di un altro ancora.
Immersa com’era in una sorta di trance, la giovane romana
stentò a seguirla,
sentendo le gambe farsi di legno e i piedi pesanti come macigni.
«Muoviti.»
Unna pronunciò quella
parola senza quasi emettere alcun suono, eppure,
nell’improvviso silenzio della
notte spezzato solo dal battito del suo cuore e dal sibilo del suo
respiro,
alla fanciulla quell’ordine sembrò risuonare come
se fosse stato urlato.
La
cognata la strattonò ancora e
Lidia si riscosse, investita da un’ondata di adrenalina che
le rischiarò la
mente, affinandole la vista e rendendola estremamente consapevole di
tutto ciò
che la circondava. Forse non si è
accorto
di noi, comprese la fanciulla, notando che
l’animale pareva più interessato
ad alcune radici che non a loro. Forse
facciamo ancora in tempo a scappare.
Sfortunatamente,
in quell’istante
il vento cambiò direzione e una brezza quasi impercettibile
prese a spirare
dalle loro spalle, portando il loro odore all’orso.
L’animale sollevò il muso
dal terreno, inspirando rumorosamente. Nel momento in cui i suoi occhi
si
posarono sulle due donne, le orecchie della bestia si orientarono in
avanti e ed
essa si drizzò sulle zampe posteriori, arricciando le labbra.
«Piano»
sibilò Unna. «Muoviti
piano. Vieni indietro.»
Sebbene
la sua mente le stesse
urlando di girare sui tacchi e di mettersi a correre più
veloce che poteva,
Lidia, tremante, si costrinse a controllare la propria paura e a fare
quello
che Unna le stava ordinando. Affidandosi quasi completamente alla
cognata, la
fanciulla prese a retrocedere in punta di piedi, resistendo
all’istinto che le
chiedeva di appiattirsi a terra nella speranza di risultare meno
visibile.
Le
due giovani avevano appena
compiuto una decina di passi, quando l’orso si
lasciò ricadere pesantemente
sulle zampe anteriori e poi, come al rallentatore, prese ad avvicinarsi
a loro,
in un trotto lento che si trasformò in un galoppo in un paio
di falcate.
Lidia
registrò lontanamente il
grido che sfuggì dalla sua gola e il gemito strozzato di
Unna. Un istante più
tardi, la germanica ruotò su se stessa e, senza allentare la
presa attorno al
braccio della compagna, prese a correre, spingendo Lidia ad abbandonare
il
sentiero e lanciandosi poi a rotta di collo verso destra,
giù per il lieve
pendio che conduceva al fiume.
Intuendo
le sue intenzioni, la
ragazza puntò inconsciamente i piedi, opponendo una debole
resistenza. «Cosa stai
facendo?» chiese, con la voce strozzata
dall’affanno e dal terrore.
«Entra
nel fiume!» ansimò Unna,
trascinandosela dietro e rischiando di farla scivolare sul terreno reso
viscido
dal muschio e dal fango. Ancor prima di finire di pronunciare quelle
parole, la
donna raggiunse il corso d’acqua e vi balzò
dentro, sollevando una miriade di
spruzzi e obbligando la giovane romana a fare lo stesso. Quando i suoi
piedi
entrarono a contatto con l’acqua fredda –
terribilmente fredda, considerato che
si trovavano nel periodo più caldo dell’anno
– Lidia espirò con forza e il fiato
le sibilò tra i denti. Di nuovo, la fanciulla fu tentata di
fermarsi,
combattuta tra il desiderio di tornare all’asciutto e
l’assoluta necessità di
allontanarsi dalla bestia che si faceva sempre più vicina.
«Gli
orsi nuotano!» urlò,
afferrando a sua volta il braccio di Unna con la mano libera.
La
donna la tirò verso di sé,
senza voltarsi a guardarla. «Gli orsi neri no»
ribatté, immergendosi sempre più
nelle acque glaciali.
Quasi
a volerla contraddire,
l’animale, che aveva raggiunto le sponde del fiume,
posò le possenti zampe
anteriori nell’acqua scura, allungando l’enorme
collo verso di loro.
Non ce la faremo mai, pensò
Lidia, sentendosi curiosamente sospesa
tra il terrore e la rassegnazione. Si sarebbe forse fermata e avrebbe
atteso
che l’orso la raggiungesse, se Unna non l’avesse
costretta a procedere sino a
quando l’acqua le bagnò i fianchi. Ancora fermo
sulla riva, l’orso raspò il
fondo del fiume con le unghie acuminate, annusando rumorosamente. Poi,
con un
grugnito di disappunto, si voltò e, leggermente barcollante,
rientrò nella
foresta – se perché effettivamente non sapesse
nuotare, come aveva detto Unna,
o perché non le ritenesse tanto interessanti da giustificare
un tuffo fuori
programma, Lidia non avrebbe saputo dirlo.
Ma chi se ne importa, quello che conta è
che se ne sia andato! Pensò
la fanciulla, travolta da un’ondata di sollievo che le fece
sembrare meno
fredda anche l’acqua del fiume.
Una
manciata di secondi più
tardi, però, un’altra ondata – questa
volta d’acqua – investì in pieno Unna e,
complice il fondo scivoloso, le fece perdere la presa sui ciottoli
lisci e
ricoperti di melma. Lidia registrò appena la sua
esclamazione di sorpresa e
poi, senza nemmeno prendere la decisione cosciente di muoversi, si
lanciò verso
di lei, afferrandola per un braccio nel tentativo di trattenerla. Il
movimento
la fece sbilanciare e, prima che potesse fare qualsiasi cosa per
evitarlo, la
ragazza si trovò un istante più tardi
completamente immersa nell’acqua nera.
Per
un attimo il suo mondo
divenne buio e liquido, poi il gelo la colpì violentemente
alle costole e Lidia
scalciò e annaspò, cercando invano di rimettersi
in piedi. Unna, che cercava
altrettanto inutilmente di fare lo stesso, la centrò
inavvertitamente con un
calcio in pieno stomaco e le due giovani si ritrovarono ad allontanarsi
sempre
di più dal punto nel quale erano entrate nel fiume, sospinte
da una corrente
che non era particolarmente impetuosa, ma che era comunque
più che sufficiente per
trasportale con sé.
Sbattuta
di qua e di là
dall’andamento irregolare del fiume, accecata dalla paura e
dalla notte, Lidia
fu sul punto di perdere l’orientamento e di lasciarsi
sommergere dall’acqua,
quando la voce di Unna, roca e un po’ strozzata, ma
perfettamente udibile,
raggiunse le sue orecchie. «A destra!» le
ordinò la germanica.
Improvvisamente
la fanciulla si
ricordò di essere capace di nuotare e, combattendo contro il
gelo che cercava
di paralizzarle braccia e gambe, fece un paio di bracciate nella
direzione
indicatale dalla cognata. «Si tocca»
ansimò di nuovo Unna. Allungando i piedi
sotto di sé, Lidia si accorse che era vero. Calciando con
forza contro
qualsiasi cosa solida le capitasse a tiro e aiutandosi con le braccia,
la
giovane riuscì ad avvicinarsi di nuovo alla sponda. Poco
dopo, quando il fiume
si allargò in una pozza più profonda, ma
d’acqua quieta, le due ragazze
riuscirono a tornare di nuovo a riva.
Con
un gemito esausto, Lidia si
lasciò cadere sull’erba morbida, stringendo i
denti contro la fitta di dolore
che le trapassò il fianco quando venne in contatto con il
terreno. Devo averlo sbattuto contro un
qualche
sasso…
Non
appena ebbe ripreso fiato, la
giovane si tirò a sedere e si voltò verso la
cognata, distesa sulla schiena
accanto a lei. Unna teneva gli occhi chiusi e le braccia sulla pancia e
Lidia
provò un brivido di preoccupazione. «Va tutto
bene?»
La
donna annuì. «Sì, ma ho bevuto
mezzo fiume» si lamentò, con una smorfia.
«Io
ho freddo» disse Lidia,
all’improvviso, rendendosi conto di tremare.
«Anch’io»
mormorò Unna. «Se
restiamo così ci prenderemo qualcosa. Dobbiamo
cambiarci.»
La
giovane romana la guardò,
sentendosi completamente impotente. «Sì, ma ci
metteremo un secolo a tornare al
villaggio.»
Unna
tossì e si strizzò la treccia
fradicia. «Non dobbiamo tornare al villaggio: se non altro,
siamo andate nella
direzione giusta. Non manca molto al posto indicato dalla tua
mappa.»
Sentendo
nominare la mappa, Lidia
si illuminò e le sue mani volarono alla tasca della tuta,
cercando la
tavoletta. Quando l’ebbe tra le mani, però, non
riuscì a trattenere un gemito
di disappunto. «Mi sa che si è rotta»
mormorò, mostrandola a Unna e indicando
la superficie nera e priva di luci. Lei rivolse alla tavoletta solo
un'occhiata
distratta, poi scrollò le spalle, passandosi le dita tra i
capelli pallidi. «Poco
male» decretò. «Ho capito dove siamo.
Poco distante ci dovrebbe essere anche
una strada: non ci metteremo molto ad arrivare alla capanna del
guaritore.»
La
giovane romana si strinse
brevemente al petto la mappa ormai inutilizzabile, rendendosi conto
solo in quell'istante
di quanto si fosse inconsciamente affidata a quell’oggetto di
cui non capiva
bene nemmeno il funzionamento. Dopo qualche istante sospirò
e annuì, riponendo
la tavoletta in una delle tasche della tuta scura: anche se sembrava
che
l'acqua del fiume l'avesse messa fuori uso, Lidia sospettava che non
fosse
comunque il caso di abbandonarla nel bosco, lì dove chiunque
avrebbe potuto
trovarla. «Va bene, allora andiamo»
mormorò, rivolta a Unna.
Zoppicando
leggermente, le due
giovani ripresero ad attraversare il sottobosco, che in quel punto
della
foresta era piuttosto fitto. Fradicia e stanca, la fanciulla
annaspò tra le
erbacce e le felci, improvvisamente grata alla tuta che le fasciava le
gambe,
proteggendole dal tocco pungente delle ortiche. Ho
i piedi gelati, constatò la ragazza, con una
smorfia di
sconforto.
Proprio
quando la stanchezza e lo
scoramento stavano per avere la meglio, il buio della foresta parve
diradarsi e
Unna si fermò per un istante, scostandosi i capelli dagli
occhi e
massaggiandosi leggermente la schiena. «Oh, perfetto.
Lì c'è la strada.»
Lidia
rivolse un ringraziamento
silenzioso agli Dèi e precedette la cognata, superando gli
ultimi arbusti e
guadagnando la superficie polverosa del tracciato carrabile.
«Da che parte?»
chiese, poi, rivolta alla giovane germanica.
Con
un cenno del capo, Unna
indicò un punto alla loro destra. «È
laggiù, guarda.»
Poche
centinaia di metri più
avanti, ai margini degli alberi scuri, si ergeva un edificio di medie
dimensioni. La luce che brillava alle finestre era un chiaro indicatore
del
fatto che la casa fosse effettivamente abitata. Improvvisamente, Lidia
senti il
cuore balzarle in gola, stretto tra emozioni contrastanti. Ulf era
lì. Certo, lì
c'erano anche Alexander e il guaritore di cui non ricordava il nome e,
forse,
persino il Capitano di cui le aveva parlato Donna Erin. In
quell'istante, però,
l’unica cosa che le sembrava importante era che, nel giro di
pochi minuti, si
sarebbe trovata davanti a suo marito.
Lidia
strinse inconsciamente i
pugni, cercando di soffocare il tremore che le aveva improvvisamente
scosso le mani.
Non vedeva l'ora di riabbracciarlo, di respirare il suo profumo e di
convincersi che il peggio era passato: era sufficiente il pensiero,
perché il
sollievo la travolgesse e disperdesse la tensione che le contraeva le
spalle. Tuttavia,
a smorzare il suo entusiasmo c'era l'incognita di come avrebbe reagito
lui.
Unna le aveva detto che era stato in pensiero per lei, che l'aveva
cercata
ovunque. Sfortunatamente, quel fatto non garantiva però che
l'avrebbe accolta a
braccia aperte. Non è mica detto
che mi
abbia perdonata per quello che è successo a Karl. Anzi, con
ogni probabilità
non l’ha fatto!
Prima
che potesse perdersi oltre
in quei pensieri, però, Unna la colpi con una spalla.
«Beh? Che fai? Ti sei
addormentata in piedi o cosa?»
Davanti
al tono brusco della
cognata, Lidia si riscosse. «No...vengo, vengo. Sono solo un
po' in ansia al
pensiero di rivedere tuo fratello» ammise, arrossendo nel
buio della notte.
Unna
emise un suono che avrebbe
potuto dire tutto e niente. «Perché? Hai per caso
la coscienza sporca?»
La
giovane romana aggrottò la
fronte. «Non esattamente» mormorò, dopo
qualche istante di esitazione. «Ma ho combinato
un bel po' di pasticci, in questo periodo, e non so se...»
Lidia lasciò sfumare
la frase, incerta su come proseguire.
Per
tutta risposta, Unna sbuffò
rumorosamente. «Questo è indubbio. Però
ne parlerei al caldo, una volta che ci siamo
messe dei vestiti asciutti e magari anche qualcosa nello stomaco. Vedi
di non
dimenticarti che Hermann è a casa di mio padre, e che ha
bisogno di cure
urgenti: è soprattutto per lui che siamo qui.»
La
fanciulla annuì con forza. «Non
me ne dimentico» le assicurò. Facendo un respiro
profondo, Lidia si avviò verso
le luci che brillavano davanti a loro. Unna
ha ragione. Per parlare di quello che è successo ci
sarà sicuramente tempo: ora
come ora, la cosa più importante è curare
Hermann. E magari anche cercare di
capire che cosa ci aspetterà nei prossimi tempi.
Quando
giunse di fronte alla
porta chiusa, Lidia ebbe un istante di esitazione: curiosamente, anche
se aveva
fatto tutto ciò che era in suo potere per tornare con il
marito, non si era mai
preoccupata di come, in termini pratici, sarebbe avvenuto il loro
incontro. Che cosa dovrei fare? Corrergli
subito
incontro oppure sarebbe forse meglio dargli qualche spiegazione, prima?
O forse
dovrei pretenderle io, le scuse e le spiegazioni?
Notando
la sua indecisione, Unna
la sorpassò e bussò decisa contro il pannello di
legno, battendo leggermente i
denti a causa del freddo. Anche se le luci erano accese, la casa
sembrava
silenziosa e per un lunghissimo minuto nessuno si presentò
ad aprire. Quando
già Lidia iniziava ad avvertire un lieve tremore dovuto al
nervosismo che faticava
a tenere a bada, l’uscio si schiuse, rivelando alla vista un
uomo sulla
sessantina, basso e minuto, ma dotato di due penetranti occhi chiari
nei quali
brillava un’intelligenza sottile.
«Unna,
figlia di Gefrid» le
accolse il padrone di casa, incontrando per un istante gli occhi di
Unna. Poi,
la sua attenzione si accentrò sulla giovane romana ferma
accanto alla
germanica. «E tu devi essere Lidia, suppongo.»
La
fanciulla fece un vago cenno
d’assenso, a disagio davanti allo sguardo attento del
guaritore. Unna, invece,
chinò appena il capo in un gesto che a Lidia parve quasi
deferente. «Albert» lo
salutò. «Abbiamo saputo che mio fratello
è tuo ospite.»
Sul
volto del germanico si
disegnò un sorriso che lo rese simile a una volpe.
«Oh, posso ben immaginare
come siate venute a conoscenza di questo fatto.»
Quando
gli occhi dell’uomo
indugiarono su di lei, Lidia arrossì e istintivamente le sue
dita si strinsero
sulla tavoletta rovinata, nascosta nella tasca della tuta inzuppata
d’acqua.
«Anche Alexander è qui?» chiese, pur
conoscendo già la risposta. Che
domanda idiota, la rimbeccò il suo
inconscio. È ovvio che sia qui.
Ciononostante, la ragazza sollevò appena lo sguardo per
giudicare la reazione
del guaritore. Fuggevolmente, Lidia riconobbe che non aveva idea di
quanto
liberamente potesse parlare davanti a quell’uomo: era a
conoscenza di tutto o
era forse meglio tenergli celati alcuni dettagli?
Il
volto del germanico non tradì
però nessuna emozione. «Sì»
replicò sinteticamente Albert, prima di esaminare
rapidamente con gli occhi le due giovani che gli stavano davanti.
«Tra poco
potrete incontrare entrambi. Prima, però, sarà il
caso che indossiate dei
vestiti asciutti.»
Ricordandosi
solo in quel momento
di essere infreddolita e fradicia a causa dell’imprevisto
bagno nel fiume,
Lidia rivolse all’uomo un piccolo sorriso grato. Senza
aggiungere altro, Albert
si fece da parte e fece un cenno alle due ragazze, invitandole a
entrare. Con
un gesto che alla giovane romana parve d’impazienza, Unna le
sfilò accanto e,
passandosi un paio di volte le mani sulle braccia coperte dalla camicia
resa
trasparente dall’acqua, superò la soglia. Lidia la
seguì a ruota e, quando la
porta d’ingresso si chiuse alle sue spalle, fece del proprio
meglio per
conservare un contegno dignitoso ed educato, evitando di lanciare
tutt’attorno
a sé occhiate furtive, come un’ospite troppo
curiosa o come una ladra in cerca
di un qualche oggetto di valore da sottrarre. Ma
è così difficile! Si lamentò
in silenzio, sentendo quasi il
bisogno fisico di allungare il
collo
per guardarsi attorno.
Suo
marito era lì, da qualche
parte, e Lidia si aspettava di vederlo comparire da un momento
all’altro. E non importa che cosa
mi dirà o come mi
accoglierà, decise d’un tratto. Adesso
l’unica cosa che conta è riabbracciarlo.
Ignaro
– o forse noncurante –
dell’impazienza della ragazza, Albert indicò con
la mano una porta socchiusa
alle sue spalle. Spiando oltre a essa, Lidia scorse un’altra
stanza e una scala
che conduceva al piano superiore. «Ho una sola stanza
libera» le informò l’uomo.
«Spero che non vi spiaccia dividerla per la notte.»
Unna
e Lidia si scambiarono
un’occhiata rapida, poi, in silenzio, scossero il capo.
«Seguitemi»
annuì allora il
guaritore. «Vi farò poi portare degli abiti puliti
e una minestra calda.
Sembrate averne bisogno.»
Lidia
fece per ringraziarlo, ma
le parole le morirono in gola. Con un cigolio quieto, la porta che
Albert aveva
indicato pochi istanti prima si aprì del tutto e Alexander
– ancora pallido, ma
tutto intero – fece capolino. Per qualche istante, la
fanciulla rimase con il
fiato sospeso, poi una fitta di delusione le trapassò lo
stomaco. È solo? Si
chiese, con il cuore che le
martellava nel petto.
Non
appena si fu ripreso dal suo
stupore, l’uomo le rivolse un gran sorriso. «Ma
allora ce l’hai fatta ad
arrivare!» esclamò, muovendo un paio di passi
rapidi verso di lei e allungando
le braccia come se intendesse abbracciarla. Prima che Lidia potesse
decidere
come reagire, però, Alexander si bloccò di colpo
e si voltò a guardare un punto
alla destra di Lidia. Seguendo il suo sguardo, la ragazza
sentì lo stomaco
contrarsi in maniera decisamente sgradevole. Oh.
Unna.
L’espressione
della giovane germanica
era indecifrabile: un misto – o così parve a Lidia
– di imbarazzo, irritazione
e disprezzo. Alexander corrugò la fronte e, con due dita, si
sfiorò appena la
ferita che lei gli aveva inferto. «Ah. Ci sei anche
tu?»
Unna
parve sul punto di replicare,
ma, sebbene le sue labbra si arricciassero in una smorfia simile a un
ringhio,
dalla sua gola non si levò alcun suono. Senza nemmeno
prenderne consapevolmente
la decisione, Lidia si ritrovò a intervenire.
«Sì, mi ha accompagnata fino a
qui» spiegò, frapponendosi tra la cognata e
l’uomo dai capelli rossi. «Non so
cosa sai, esattamente, però abbiamo bisogno di parlare
perché…»
«Cosa
accidenti avete fatto ai
vestiti?» la interruppe lui, come se si fosse reso conto solo
in quell’istante
dello stato dei loro abiti.
«Siamo
dovute entrare nel fiume
per sfuggire a un orso e…»
«Un
orso?»
A
Lidia parve di muoversi al
rallentatore. Ruotando su se stessa con quella che le sembrò
una lentezza
infinita, la ragazza si ritrovò a sostenere lo sguardo
azzurro di Ulf. «Sì… un
orso» sentì la sua voce replicare, in un tono
sorprendentemente fermo. Quando è
arrivato? Si interrogò,
spiazzata, mentre i suoi pensieri inciampavano per un istante
l’uno sull’altro.
Da dove è arrivato? Un
angolo della
bocca dell’uomo si sollevò in maniera quasi
impercettibile e, con la testa
curiosamente leggera, Lidia si ritrovò a sorridere
timidamente. «Era un orso
vero, questa volta» aggiunse, quasi sottovoce.
«Mai
visto un orso in quasi
trent’anni di vita e ne incontro uno l’unica volta
che metto piede nel bosco in
compagnia di questo impiastro. Dev’essere sicuramente un
segno di qualche
tipo…»
La
voce sarcastica di Unna, che
si era evidentemente ripresa dal suo improvviso mutismo,
spezzò il legame che,
per un attimo, si era formato tra Ulf e Lidia e l’uomo si
voltò di scatto verso
la sorella. «Cosa ci fai qui, tu?» le chiese, con
una punta di rimprovero nella
voce. «Perché non sei rimasta da Katti?»
«Perché
mi ero rotta le scatole
di starmene con le mani in mano» replicò
altrettanto seccamente Unna. «Hermann
non sta bene» aggiunse, poi, in tono più morbido e
preoccupato.
Ulf
si incupì ulteriormente. «Lo
so» mormorò, rivolgendo un cenno in direzione di
Alexander. «Mi ha spiegato
come stanno le cose… più o meno.»
Alla
menzione di Hermann, Lidia
si morse nervosamente le labbra, mentre l’apprensione tornava
a stringerle lo
stomaco. «Ne hai parlato con Donna Erin?» chiese,
rivolta ad Alexander.
L’uomo
annuì. «Sì, anche se devo
ammettere che non mi è molto chiara la dinamica dei fatti.
Erin mi ha detto
solo che tu e il ragazzo eravate a bordo della Northern
Star e che avevate trovato qualcosa
che non avreste dovuto toccare a casa di Kay…»
Albert,
che fino a quel momento
era rimasto leggermente in disparte, come per lasciare agli ospiti la
possibilità di confrontarsi senza troppe interferenze, fece
un passo in avanti
e si frappose tra i giovani. «Un momento» disse,
facendo saettare su di loro
gli occhi chiari. «Questa ha tutta l’aria di essere
una conversazione
complicata e, soprattutto, lunga: voi due la affronterete con addosso
dei
vestiti asciutti; e magari dopo esservi riposate e
rifocillate.»
Sentendosi
chiamate in causa,
Lidia e Unna si scambiarono un’occhiata veloce, poi le labbra
della germanica
si piegarono in un’espressione dura. «Vada per i
vestiti asciutti e per una
minestra calda, se possibile, ma il riposo dovrà aspettare.
Hermann è più
importante.» Davanti allo sguardo dubbioso del guaritore, la
donna rincarò la
dose: «E la minestra la mangeremo mentre faremo il
punto della situazione con
mio fratello e con… lui.»
Sul
volto di Alexander passò
un’espressione scettica, ma l’uomo evitò
di commentare. Albert, invece, sollevò
le spalle, decidendo di adeguarsi alla volontà della
giovane. «Come preferite»
acconsentì. «Se volete seguirmi di sopra, vi
mostrerò la vostra stanza. Poi
chiederò alla mia domestica di farvi avere degli abiti
puliti. Voi, invece,
potete aspettarle nella stanza accanto: lasciate loro almeno il tempo
di
cambiarsi in santa pace.»
L’ultima
richiesta – che suonava
piuttosto come un comando – era stata rivolta a Ulf e ad
Alexander. Prima di
lasciare la stanza e di seguire il padrone di casa, Lidia
incontrò lo sguardo
del marito. Lui le rivolse di nuovo un piccolo sorriso e la fanciulla
sentì una
sensazione di calore invaderle il petto.
Aspettami qui, pensò. Mi
tolgo questa
maledetta tuta e poi torno subito da te.
Rendendosi
conto di essere
rimasta ferma sul posto un po’ troppo a lungo, Lidia si
affrettò a raggiungere
Unna e Albert, che avevano ormai guadagnato le scale e si stavano
incamminando
verso le camere che, evidentemente, si trovavano al piano superiore. Non si sarà mica accorta che sono
rimasta lì
imbambolata a guardare suo fratello, vero? Si chiese, temendo
che la
cognata avesse assistito al suo attimo di smarrimento e fosse pronta a
servirle
una delle sue solite battute taglienti. Tuttavia, la giovane bionda
teneva il
capo chino, un’espressione pensierosa sul volto dai
lineamenti sottili.
«Eccoci
qui» annunciò Albert,
fermandosi davanti alla porta più vicina alle scale.
«Non è grande, ma in due
ci potrete dormire comodamente.»
In effetti… considerò
la giovane romana, esaminando con un’occhiata
veloce la microscopica stanzetta che si apriva davanti ai suoi occhi.
Un
pavimento scuro, un lavandino, due brandine posizionate talmente vicine
tra
loro che avrebbero tranquillamente potuto essere sostituite da un unico
letto
matrimoniale e due minuscoli comodini sui quali si sarebbe potuto
riporre a
malapena un libro. Nemmeno l’ombra
di un
armadio in cui appendere i vestiti.
Non
appena il guaritore se ne fu
andato chiudendosi la porta alle spalle, la ragazza si
lasciò cadere sul letto
e alzò lo sguardo su Unna. Si sentiva un po’ a
disagio davanti all’immobilismo
e al silenzio della germanica, ferma in piedi a pochi passi da lei.
«C’è
qualcosa che non va?» chiese, perplessa
dall’atteggiamento della cognata.
Improvvisamente,
quella alzò il
capo e incontrò i suoi occhi. «Tu vuoi dormire con
Ulf?»
Lidia
avvampò. «Ah. Ehm, i-io…»
accorgendosi del proprio balbettio, la fanciulla inspirò a
fondo. «Perché?»
chiese, con voce più controllata.
Lentamente,
Unna sollevò le
spalle. «Be’, mi parrebbe anche normale, visto che
è tuo marito e che,
sorprendentemente, voi due sembrate andare anche abbastanza
d’accordo.»
«Mi
piacerebbe» ammise allora
Lidia, senza riuscire a evitare che sul viso le comparisse
l’ombra di un sorriso.
«Però prima ci sono diverse cose di cui dovremmo
parlare, e poi il guaritore ha
detto che questa è l’unica stanza
disponibile… cioè, immagino che, volendo, tu
e Ulf potreste scambiarvi la camera? È questo, che mi stai
proponendo?
Sul
volto della giovane bionda
comparve una lievissima sfumatura rosata. «Non so se Ulf ha
una stanza
singola.»
La
ragazza bruna aggrottò la
fronte, senza capire. «Eh?»
«Non
vorrei ritrovarmi a dormire
con quel tizio!» sbottò Unna, mentre il suo
rossore si faceva più pronunciato.
Lidia
sgranò gli occhi, sorpresa
che un’ipotesi del genere potesse anche solo essere passata
per la mente della
cognata. «Ma, Unna, è ovvio
che non
dovrai dividere la camera con lui!» esclamò, senza
riuscire a trattenere una
risata incredula. «Voglio dire, stiamo anche parlando della
stessa persona che
hai appena…» La sua voce sfumò e il
sorriso le svanì dalle labbra. Stiamo
parlando della stessa persona che hai
appena accoltellato, stava per dire. Verosimilmente,
nel tentativo di ammazzare Tito, aggiunse, poi, osservando la
cognata con
la coda dell’occhio.
Unna
la fissò di rimando, gli
occhi azzurri attenti e penetranti.
«Cioè», riprese Lidia, schiarendosi la
voce, «quello è assolutamente scontato. Comunque
non devo per forza dormire con
Ulf: se la cosa ti fa sentire più sicura, possiamo lasciare
le cose così come
stanno… tanto ci passeremo al massimo un paio di notti, qui,
no?» Mentre
parlava, le era venuto istintivo posare una mano sul braccio della
cognata.
Stupita dal suo stesso gesto, Lidia si irrigidì per un
istante, ma non distolse
la mano.
Fu
la giovane bionda ad
allontanarla, scrollando debolmente le spalle. Quando parlò,
però, la sua voce
suonò stranamente morbida. «Poi vediamo»
mormorò, rivolgendo alla ragazza
l’accenno di un sorriso.
Un
bussare leggero alla porta le
interruppe e, pochi attimi più tardi, una donna di mezza
età comparve
sull’uscio tenendo tra le braccia alcuni abiti ripiegati con
cura. «Ve li
lascio sul letto» annunciò la domestica, parlando
un latino sorprendentemente
privo di inflessioni per una donna del popolo. «Se
c’è qualcosa che non va,
fatemelo sapere: potete trovarmi in cucina.»
Lidia
la ringraziò e subito
allungò una mano verso una gonna di morbida lana blu. Il suo
animo fu percorso
da un brivido di piacere al pensiero dell’imminente contatto
tra il tessuto
caldo e le sue gambe intirizzite. «Io mi cambio subito,
eh!» annunciò a Unna,
prendendo subito ad armeggiare con la chiusura della tuta scura.
Brevemente, la
sua mente tornò a quando la cognata l’aveva
costretta a spogliarsi durante in
occasione della sua prima notte di nozze e la fanciulla
deglutì, cercando di
allontanare il retrogusto amaro che improvvisamente le aveva invaso la
bocca.
Non è il momento di pensare a queste cose,
si disse, sfilandosi il
tessuto fradicio dalle spalle. Non so
perché si sia comportata in quel modo, né
perché mi odiasse tanto, ma adesso le
cose sono cambiate. Anche se non lo ammetterebbe mai, non è
più così ostile
verso di me. Non era forse un gran che, come punto di
partenza su cui costruire
un’amicizia, ma Lidia sentiva che era comunque qualcosa da
non sottovalutare. Anche perché
non è che io abbia conosciuto
poi tante altre persone che potrebbero diventare mie amiche, a dire il
vero…
non sono stata molto brava, con le relazioni sociali.
Immersa
in quei pensieri, la
ragazza si infilò una camicia di lino chiara e un corpetto
di lana cotta,
marrone e decorato con motivi floreali. Vestita
così sembro proprio una germanica, riconobbe, con
una punta di stupore.
Avrebbe forse dovuto raccogliere i capelli nelle trecce che piacevano
tanto a
Unna?
Senza
che lei se ne accorgesse,
anche la germanica si era cambiata d’abito e ora stava
esaminando con aria critica
la gonna verde che le arrivava a metà polpaccio. «È troppo stretta»,
decretò. «e anche troppo
corta. Io vado a farmene dare un’altra.»
Tornando
a sedersi sul letto, Lidia
annuì. «Va bene» disse, prima di esitare
in preda all’incertezza. «Ti… ti
aspetto qui?»
«Faccio
in fretta» la rassicurò
la donna. «Due minuti e sono di ritorno.»
Con
quelle parole, la giovane
marciò verso la porta, ma quella si aprì prima
ancora che lei raggiungesse la
maniglia. «Eh!» esclamò Unna, scattando
all’indietro. «Per poco non mi prendi
in faccia!» Per un istante, Ulf abbassò lo sguardo
sulla sorella, ma poi la sua
attenzione si appuntò su Lidia. «Albert non ti
aveva mica detto di aspettare di
sotto?» Lo interrogò di nuovo Unna, posandosi le
mani sui fianchi.
L’uomo
storse la bocca, come se
l’osservazione fosse di poco conto. «Be’,
sì, però…» Il giovane
lasciò sfumare
la frase, tornando a guardare la moglie.
La
giovane bionda scosse il capo.
«Va be’, ho capito. Io vado a cercare dei vestiti
che mi vadano bene. Facciamo
che torno tra dieci minuti e non
tra
due, d’accordo?»
Lidia
le rivolse solo un vago
cenno d’assenso, tutti i sensi concentrati sulla figura del
marito. Ulf… pensò,
mentre il suo stomaco
eseguiva una capriola. Per una frazione di secondo, la ragazza rimase
come
inchiodata sul copriletto, poi le sue gambe si mossero senza la sua
autorizzazione.
Lentamente, provando la sensazione di trovarsi immersa in
un’atmosfera
stranamente vischiosa, la fanciulla si avvicinò
all’uomo, la mente libera da
ogni pensiero che non fosse quello di raggiungerlo. Poi, quando si
trovò a
pochi passi da lui, scattò in avanti. Le sue braccia si
strinsero attorno alla
vita di lui e la sua testa ritrovò la posizione sul suo
petto – appena sotto la
clavicola – che fino a poco tempo prima le era stata tanto
famigliare.
Non mandarmi via, pensò,
stringendolo forte. Con gli occhi chiusi,
Lidia si prese qualche istante per assorbire il suo calore e respirare
il suo
profumo. Una frazione di secondo più tardi, le mani
dell’uomo le percorsero
brevemente la schiena prima di attirarla a sé e la giovane
si sentì travolgere
dal sollievo. Solo in quel momento si accorse di quanto avesse temuto
che Ulf
la allontanasse, così come aveva fatto in occasione del loro
ultimo incontro. Quando
il suo volto le sfiorò i capelli, Lidia si staccò
leggermente da lui e lasciò
che le sue mani corressero verso l’alto, scivolando attorno
alle spalle del
marito.
Ulf
serrò la presa sui suoi
fianchi e spostò la testa quel tanto che bastava per
guardarla in volto.
«Lidia?» mormorò.
Alle
orecchie della fanciulla, il
suo nome suonò come una domanda e le sue dita furono
percorse da un tremito.
Non sapeva che cosa le stesse chiedendo, ma sapeva di per certo che
dovevano
parlare. Era di fondamentale importanza: non potevano più
andare avanti come
avevano fatto fino a quel momento, cercando di schivare gli ostacoli e
sperando
di non incontrarne mai uno troppo grosso da evitare e contro cui non
avrebbero
potuto fare altro che andarsi a schiantare.
Ma dobbiamo farlo proprio adesso? Si
chiese la giovane, mentre
tutto il suo essere si ribellava a quella prospettiva. È
importante, ma non potresti almeno darmi un bacio? Mi sembra passato
così tanto tempo, dall’ultima volta…
L’uomo
le posò una mano sulla
guancia e con una carezza salì fino a sfiorarle con le dita
i capelli ancora
umidi. Senza distogliere lo sguardo dal suo viso, Ulf sorrise.
«Stai bene?» le
chiese. Una domanda semplice, ma che le scaldò il cuore.
Chinando
appena il capo di lato,
Lidia non si trattenne e gli posò un bacio sul dorso della
mano. «Sì» mormorò.
«È stato più lo spavento che
altro.»
Il
giovane annuì lentamente, poi
le sue dita si spostarono verso la nuca della ragazza e affondarono nei
suoi
capelli morbidi. Senza una parola, si chinò su di lei e la
fanciulla trattenne
il fiato, mentre il cuore le martellava nel petto. Nel momento in cui
le loro labbra
si incontrarono, Lidia ebbe come la sensazione di essere a casa, di
essere
tornata in un luogo famigliare, sicuro, un luogo in cui la luce calda
del sole
disperdeva il buio e l’umidità di una notte di
pioggia. Quasi inconsciamente,
la fanciulla si strinse di più al marito e Ulf, sorpreso dal
suo entusiasmo,
inspirò bruscamente. Quando però Lidia socchiuse
le labbra, colse
immediatamente l’invito della ragazza e approfondì
il bacio, scivolando nella
sua bocca.
Lidia
rabbrividì, pensando che
tutto quello che contava in quel momento era lì, a portata
di mano: era così
che doveva essere e lei era stata davvero stupida a credere che potesse
essere
altrimenti. Ti amo,
pensò, e fu anche
tentata di dirglielo, ma non si sentiva ancora così
coraggiosa. Si disse allora
che quello non era il tempo, né il luogo adatto per tali
confessioni. Ma questo non lo rende meno vero,
riconobbe, ammettendo che era ormai giunto il tempo di essere sincera
almeno
con se stessa.
Dopo
un tempo che a Lidia parve
troppo breve, Ulf si allontanò da lei e le posò
un bacio sulla fronte, prima di
fare un piccolo passo indietro. «Dovremmo parlare»
sospirò, quasi controvoglia.
«Magari non subito, ma credo che sia
meglio…»
Quando
il giovane lasciò sfumare
la frase, la ragazza provò una sgradevole fitta allo stomaco
e le sue labbra si
piegarono in una smorfia. «Lo so» ammise, annuendo.
Automaticamente, le sue
mani cercarono quelle del marito e Ulf le strinse, ma rimase in
silenzio,
lasciando che fosse la fanciulla a fare il primo passo.
«Mi
dispiace per come mi sono
comportata» mormorò ancora Lidia. «Avrei
dovuto dirti subito di Tito. Forse
avremmo evitato tanti guai, se l’avessi fatto.» Ora
che aveva pronunciato
quelle parole, il segreto che l’aveva tormentata per tanto
tempo le pareva
terribilmente stupido.
«È per questo
che te ne sei andato in quel modo, quando siamo tornati
dall’incontro con Donna
Erin e con Fratello Kay?»
Ulf
annuì. «Sì. Avevo… credevo
di
avere intuito chi fosse quel ragazzo e la cosa mi ha fatto
sentire… be’, quasi tradito.»
Dopo una breve pausa, il
giovane abbassò gli occhi al suolo. «Questo non
toglie però che non avrei
dovuto reagire in quel modo. E, soprattutto, non avrei dovuto lasciarti
da sola
a casa, questa mattina: avrebbe potuto succederti di tutto.»
Lidia
storse la bocca.
«Probabilmente non mi sarebbe successo niente – non
ci sarebbe successo niente
– se fossimo rimasti tutti a casa. E
invece adesso Tito è morto e Hermann sta
male…»
«Mio
fratello starà meglio» la
rassicurò Ulf, lasciandole le mani e tornando a cingerle le
spalle, attirandola
a sé. «E mi dispiace per il tuo… amico.»
«Era
davvero solamente un mio
amico» sussurrò lei, affondando il viso contro il
petto del compagno. «Era così
stupido… e anche coraggioso. Che idiota. Gli volevo
bene.» Le parole le sfuggirono
di bocca senza controllo, mentre il dolore per la perdita di Tito
tornava a
sollevare la testa e gli occhi le bruciavano a causa delle lacrime che
li
avevano improvvisamente riempiti.
Ulf
la strinse più forte e le
posò un bacio sui capelli. Puntando le mani sulle sue
spalle, Lidia cercò i
suoi occhi, senza preoccuparsi del proprio viso arrossato.
«Ho cercato di
fermarlo» sussurrò. «Ho cercato di
mettermi tra lui e Karl, ma non ce l’ho
fatta. Non so a cosa pensasse, quando… nemmeno Alexander ha
potuto fare
niente.»
Il
giovane strinse i denti per
una frazione di secondo, un movimento nervoso che fece capire a Lidia
quanto
ancora gli facesse male la morte dell’amico.
«Alexander mi ha già raccontato
cos’è successo. Nemmeno Karl aveva un carattere
facile… e, tra l’altro, resta
da capire perché ti avesse seguita.»
Lidia
aggrottò la fronte,
perplessa. «Voleva riportarmi a casa, da te. E, in effetti,
è proprio quello
che stava facendo.»
«Sì,
ma come faceva a sapere che
tu e quei soldati eravate stati attaccati? Chi gliel’ha
detto?»
La
ragazza si mordicchiò le
labbra, cercando di ricordare che cosa le avesse detto Karl, quando
l’aveva
portata via dalla cascina abbandonata. Le parole del cognato erano
però solo un
ricordo lontano e Lidia si rese conto di non aver mai veramente
scoperto cosa
facesse Karl, quando non lavorava in miniera. Sicuramente
non aveva simpatia per Roma; e credo anche che avesse
qualcosa a che fare con i ribelli…
Di
certo, però, la consapevolezza
delle azioni poco limpide del giovane non rendeva la sua morte meno
dolorosa
per Ulf e per Unna. «Non lo so» mormorò
allora Lidia, rispondendo alla domanda
che il marito le aveva rivolto pochi istanti prima.
Ulf
la fece sistemare meglio
contro di sé e le posò una guancia sulla
sommità del capo. «Perché non mi hai
detto nulla di Tito?»
chiese,
ritornando sull’argomento sul quale, evidentemente, gli
premeva di più fare
chiarezza.
Lidia
prese a giocherellare
distrattamente con il tessuto della maglia del marito, riordinando
rapidamente
le idee. «All’inizio, quando le cose tra di noi non
andavano proprio benissimo,
pensavo di scappare con lui: eravamo fidanzati, a Roma, e lui mi aveva
promesso
di venirmi a prendere.»
L’uomo
si irrigidì leggermente.
«Ah. Allora non era proprio solo un tuo amico.»
La
fanciulla non riuscì a
impedirsi di alzare gli occhi al cielo. Cos’è,
è geloso? Si chiese, con una punta di irritazione.
Oggettivamente, Ulf
aveva tutte le ragioni per essere geloso nei confronti di Tito, ma, in
quel
contesto, la sua osservazione le parve fuori luogo. «Invece
sì, lo era» ribadì,
incontrando il suo sguardo. «C’è stato
un tempo in cui… boh, pensavo di essere
innamorata di lui. Però non lo so, forse era solo affetto:
ci conosciamo da
diversi anni.» Tornando ad appoggiarsi contro di lui, la
ragazza riprese, con
voce più morbida: «Poi, però, ti ho
conosciuto meglio e ho capito che volevo
stare con te. Stare con te è… diverso.
Ho capito che il mio posto è qui: non dico di preferire la
Germanica a Roma, ma
non ho alcuna intenzione di scappare. O di farmi cacciare via, se
è solo per
questo. E Tito lo sapeva: gliel’ho detto, e lui ha
acconsentito a starmi
accanto solo come amico. Sai, in caso le cose si fossero messe male e
io avessi
avuto bisogno di aiuto.»
«E
la cosa ti ha impedito di
parlarmi di lui?» insistette Ulf, posandole le mani sulle
spalle come se
intendesse allontanarla da sé.
Lidia
irrigidì la mascella e
retrocedette di un passo, incontrando ancora una volta gli occhi
dell’uomo. «Se
non te ne ho parlato, è perché non sapevo come
avresti reagito» ammise, con
voce grave. «So di avere sbagliato, questo sì,
però… ti ricordi quel giorno in
cui mi hai raccontato quello che avevi intenzione di fare prima di
conoscermi?
Quando mi hai detto che Karl ti aveva addirittura suggerito
di… di farmi sparire,
insomma?» Sul volto del giovane
passò un lampo di consapevolezza e qualcosa parve
ammorbidirsi, nel suo
sguardo. Deglutendo per allentare la tensione, Lidia riprese.
«Ecco, ero stata
sul punto di dirti tutto, quel giorno, ma poi me ne è
mancato il coraggio.
Anche perché avevo appena incontrato Karl e lui mi aveva
minacciata, e… quello
che voglio dire è che anche se non amavo più
Tito, gli volevo ancora bene. Non
volevo metterlo in pericolo.»
«Io
non avrei mai fatto del male
a quel ragazzo» sbottò Ulf, come se la vaga
insinuazione della giovane romana
l’avesse offeso.
Lei,
però, si rifiutò di
lasciarsi intimidire. «E lo stesso vale per Karl? Se proprio
sicuro che lui non
gli avrebbe fatto del male?»
Ulf
sollevò un sopracciglio,
scettico. «Se devo basarmi sugli avvenimenti
recenti…»
Lidia
frustò l’aria con una mano.
«Sai benissimo che cosa intendo. Se Karl è morto,
è perché è caduto dalle rocce
ed è finito in una scarpata. Se il terreno fosse stato
diverso… se il terreno
fosse stato diverso, credo proprio che le cose sarebbero andate
diversamente.»
Notando l’espressione tesa del marito, la fanciulla si
affrettò ad abbandonare
quell’argomento. «In ogni caso», riprese,
«all’epoca io non potevo sapere quello
che sarebbe successo: ho solo pensato a proteggere Tito.»
«E
non ti sei fidata di me»
concluse Ulf, con amarezza.
La
ragazza abbassò brevemente gli
occhi, a disagio. «Più che altro, non mi sono
fidata di Karl.»
«È
la stessa cosa» borbottò
l’uomo. «Hai creduto che corressi a raccontargli
tutto senza nemmeno pensare
alle conseguenze.»
Lidia
rifletté per qualche
istante, mentre un pensiero improvviso si affacciava alla sua mente.
«Che cosa
è successo a Unna?» chiese, a bruciapelo.
L’uomo
rimase in silenzio qualche
istante, sorpreso dal repentino cambio di argomento. «Come,
scusa?» ribatté,
scrutandola in volto come se stesse cercando di indovinare che cosa le
passasse
per la testa.
Lei
storse la bocca, impaziente.
«Dopo tutto questo tempo, non sono ancora riuscita a capire
che cosa è successo
a Unna e che cos’è che vi ha spinto a odiare tanto
Roma e la mia gente. Lei non
ne parla, tu non ne parli. Hermann, però, sostiene che
è una cosa importante e
che io avrei tutti i diritti di conoscere i dettagli…
perché è una cosa che mi
riguarda, in un certo senso.» Quelle non erano state le
testuali parole del
giovane germanico, ma, in quella situazione, Lidia decise di prendersi
qualche
licenza poetica.
Contrariamente
a quello che si
era aspettata, Ulf non protestò. «Non vedo molto
il nesso logico con quello che
stavamo dicendo, però hai ragione: forse è il
caso che ti raccontiamo una volta
per tutte questa storia… soprattutto alla luce di quello che
sta accadendo in
questi giorni.»
«Il
nesso logico sta nel fatto
che io non mi sono fidata di te e non ti ho raccontato di Tito,
però nemmeno tu
ti sei fidato di me, visto che non mi hai mai detto nulla del passato
di tua
sorella – e, indirettamente, del tuo»
sospirò la ragazza. «E, comunque, in che
senso? Cosa intendi con “quello che sta accadendo in questi
giorni”?»
Ulf
sospirò e portò le mani sui
fianchi della ragazza, stringendoli brevemente come per saggiare la
concretezza
della sua presenza. «Mi riferisco alla storia della macchina
su cui sei salita.
C’è gente strana in giro e, francamente, non posso
fare a meno di pensare che
inizino a esserci un po’ troppe somiglianze con
ciò che stava accadendo prima
che Unna fosse presa…»
Lidia
sgranò gli occhi. «Stai
dicendo che Unna è stata portata a bordo di una di quelle
macchine?» Quando Ulf
le rivolse un cenno d’assenso, la giovane scosse il capo un
paio di volte. «Ma
cosa c’entra Roma? Lì sopra io ho incontrato Donna
Erin, non dei soldati
romani… a meno che tu non sia ancora convinto che sta
facendo il doppio gioco?»
Ulf
la attirò a sé. «Ti
racconterò tutto, ma non adesso e non da solo: mia sorella
deve essere
presente. Ha il diritto di dire la sua e di evitare di parlare di certi
particolari, se non lo desidera.»
La
fanciulla fu sul punto di
protestare, ma poi annuì. «E va bene. Vediamo di
non rimandare troppo il
discorso, però.»
«Promesso»
mormorò Ulf, chinando
il capo e appoggiando la fronte contro quella della ragazza.
Lidia
chiuse gli occhi per
qualche secondo, godendosi la vicinanza con il marito e il silenzio, la
rinnovata sensazione di pace che pareva essere calata su di loro dopo
lo
scambio di battute che avevano appena avuto. «Sei
arrabbiato?» chiese dopo un
po’, a voce bassa.
Lui
esitò qualche istante, prima
di rispondere. «Forse un pochino» ammise piano.
«Più che altro, però, ero
preoccupato. Sono ancora
preoccupato,
considerata la tua innata propensione a cacciarti in situazioni assurde
e
pericolose.»
«Esagerato»
mormorò lei di
rimando, sorridendo appena. «Comunque anch’io
sono…» Lidia si interruppe,
cercando le parole giuste. Non poteva dire di essere propriamente arrabbiata, ma era fondamentalmente
insoddisfatta del modo in cui si erano svolte le cose.
«Dobbiamo cercare di
fare meglio, da adesso in poi. Dobbiamo parlare di più.
Dobbiamo fidarci di più
l’una dell’altro.»
«Possiamo
farlo?» chiese Ulf,
sfiorandole il naso con il proprio.
Lidia
sentì una sensazione di
calore lambirle lo stomaco e un piacevole languore scivolarle lungo le
braccia
e nel petto. «Perché no?» sorrise,
tornando ad allacciare le mani sulla nuca
del compagno. Sollevandosi sulla punta dei piedi, la giovane
cercò le labbra
dell’uomo. Ulf mormorò qualcosa che lei non
riuscì a capire, poi inclinò il
capo, baciandola più a fondo e facendo aderire il busto di
lei contro il
proprio. Deliziata, Lidia si aggrappò a lui, con la testa
improvvisamente
leggera. Mh, pensò,
portando una mano
tra i capelli dell’uomo e trovandosi a desiderare di avere
molto più tempo di
quello cha avevano a disposizione.
La
ragazza fece appena in tempo a
registrare il rumore di passi che si avvicinavano rapidamente, che la
porta si
spalancò e la voce di Unna li costrinse a separarsi.
«E pensare che credevo di
essermi tolta dai piedi abbastanza a lungo!»
commentò la donna, sarcastica.
Con
uno sbuffo divertito, Ulf si
allontanò da lei e Lidia vacillò per un istante,
momentaneamente spaesata dal
movimento repentino. «Altri dieci minuti sarebbero stati
graditi» la informò
lui, lanciandole un’occhiata di sbieco.
Unna
arricciò il naso, «Sì, be’.
Mi sono cambiata, la cena è pronta, Albert mi ignora e io di
certo non ho
intenzione di fare conversazione con il vostro amico rosso. Quindi
venite di
sotto, per favore.»
Lidia
soffocò un sospiro,
portandosi automaticamente le mani ai capelli e pettinando in maniera
sommaria
le ciocche scompigliate. Se proprio
dobbiamo, pensò, rivolgendo uno sguardo rassegnato
al marito. Per tutta
risposta, Ulf si strinse nelle spalle e si avviò verso la
porta.
***
Arroccata
su uno sgabello, Lidia
sorbì un altro sorso del brodino che la domestica di Albert
aveva servito a lei
e a Unna. «Ma non sarebbe meglio se andassimo a prendere
Hermann?» chiese, per
quella che doveva essere la terza o la quarta volta. Si trovavano in
sala da
pranzo da quasi un’ora e, anche se si erano aggiornati
vicendevolmente sugli
avvenimenti delle ultime ore, non avevano ancora fatto nulla di
concreto per
portare il ragazzo nella cascina del guaritore.
Rivolgendole
appena un’occhiata
distratta, Alexander annuì rigidamente, sfiorando con la
punta delle dita la
tavoletta posata sul tavolo davanti a lui. «Certo, tra poco
ci andiamo» rispose
con voce tesa. «Voglio solo aspettare un altro po’,
nel caso Erin riesca a
mettersi in contatto con noi.» Detto ciò,
l’uomo tornò a fissare astiosamente
Unna, attività che l’aveva tenuto occupato per
tutta la durata di quella misera
cena consumata a notte fonda.
Ulf
spinse indietro il proprio
sgabello e le gambe di legno produssero uno stridio acuto a contatto
con il
pavimento. «Non ricominciamo» sbottò.
«Lasciala in pace.»
L’uomo
dai capelli rossi lo
fulminò con lo sguardo. «La coltellata me la sono
presa io, quindi decido io se
ricominciare o meno. Le ho solo chiesto delle scuse: non mi sembra una
cosa
così inconcepibile!»
Con
il volto nascosto dalla
scodella di ceramica, Unna piegò le labbra in una smorfia
simile a un ringhio,
ma non disse nulla. «Allora?» insistette Alexander,
sporgendosi in avanti con
gli occhi fissi su di lei. «Hai intenzione di chiedermi scusa
o cosa?»
Espirando
lentamente dal naso, la
giovane bionda posò la tazza sulla tovaglia immacolata.
«No» replicò, glaciale.
Per
un istante, Lidia provò
l’irrefrenabile tentazione di mandare tutti
all’Inferno e di ritirarsi nella
propria camera – come, del resto, Albert aveva prudentemente
fatto già da
tempo. Sono stanca morta,
pensò,
stropicciandosi gli occhi con la mano libera. Mi
sembra di non dormire da anni, tra poco sarà
l’alba e questi due se
ne stanno qui a litigare come bambini. Non ne posso più!
Occhieggiando lo
schermo scuro della tavoletta adagiata sulla tovaglia, la fanciulla
provò a
dirottare la discussione su un argomento che, a suo parere, era
più pressante
delle questioni irrisolte tra Unna e Alexander. «Non per
essere ripetitiva»,
esordì, rivolta all’uomo dai capelli rossi,
«ma credi che Donna Erin riuscirà a
trovare una tavoletta con cui contattarci?»
Distogliendo
gli occhi da Unna,
Alexander annuì. «Non dovrebbe essere una cosa
troppo complicata, per lei: se è
ancora a bordo dell’incrociatore, mettere le mani su uno di
questi affari
dovrebbe essere piuttosto semplice.»
Grata
di aver ricevuto una
risposta discretamente elaborata, la fanciulla lo interrogò
ancora: «Credevo
che avessi detto che si trattava di oggetti piuttosto rari: non
è così?»
Lui
esitò. «Be’… qui
sono sicuramente rari. Dalle mie
parti, invece, decisamente meno.»
Appoggiando
entrambe le braccia
sul tavolo, Ulf fissò per qualche istante la tavoletta.
«Credi di poterci dire
da dove viene questa tavoletta? Quando te l’ho chiesto,
prima, mi hai detto che
non era il momento adatto per parlare di queste cose: forse adesso lo
è?»
Lidia
fu percorsa da un tremito,
mentre la sonnolenza che l’aveva accompagnata fino a
quell’istante svaniva in
un sol colpo. Con lei, Alexander si era sempre rifiutato di parlare in
maniera
chiara delle proprie origini, limitandosi a dirle che veniva da lontano. Come per un collegamento di
idee, la sua mente corse agli strani libri che aveva visto nella sua
capanna
nel cuore della foresta, ai piccoli caratteri regolari che non era
stata in
grado di decifrare, né di collegare ad alcuna lingua a lei
nota. Quanto lontano
può essere questo luogo? Si chiese. Perché
nemmeno Donna Erin ha voluto sbilanciarsi?
Lentamente,
l’uomo scosse il
capo. «Facciamo una cosa un po’ diversa, invece.
Secondo voi, da dove viene?
Eh, Lidia?» chiese, lanciando un’occhiata
insondabile alla giovane romana.
«Secondo te, da dove vengo, io?»
La
fanciulla aggrottò la fronte e
Ulf sbuffò. «Personalmente non ho nessuna voglia
di perdere tempo con questi
giochetti: parla chiaro.»
Alexander
si passò entrambe le
mani tra i capelli e rivolse loro un’occhiata stanca.
«Vedete, lo farei anche,
se potessi. Il problema è che, con ogni
probabilità, non mi credereste
affatto.»
«Tu
dici?» lo provocò Ulf.
L’altro
lo guardò con un mezzo
sorriso. «Vogliamo vedere? Che cosa mi direste, se vi dicessi
che vengo da lì?»
Così dicendo, il giovane puntò un indice verso il
soffitto.
Unna,
che era rimasta
relativamente silenziosa, seguì con lo sguardo il suo dito
teso. «Da lì dove?»
chiese, con la voce che
grondava disprezzo. «Dal sottotetto?»
L’uomo
le rivolse un sorriso
smagliate. «No: dal cielo.»
I
tre giovani seduti accanto a
lui rimasero in un silenzio attonito per qualche istante, poi Unna
ricambiò il
sorriso di Alexander. «Oh, dal cielo»
ripeté, con voce melliflua. «Ci prendi per il culo
o cosa?»
Per
tutta risposta, Alexander si
strinse nelle spalle. «Ve l’avevo detto, che non mi
avreste creduto!» esclamò,
nella voce una nota che pareva quasi di trionfo.
«Eh,
per forza!» sbottò ancora
Unna. «Se ci dai risposte stupide, come puoi pretendere che
ti crediamo?»
Adagiandosi
contro lo schienale della
sedia, Lidia lo osservò pensierosa. Dal
cielo, si ripeté. E io
che ero quasi
arrivata a credere che venisse dall’Oltretomba…
Alexander aveva mentito,
quello era assolutamente ovvio, ma la sua menzogna non aveva fatto
altro che
solleticare ulteriormente la sua curiosità. Che motivo
c’era di sfidarli e di
provocarli in quel modo? Quale segreto voleva proteggere con quelle
bugie così
palesi?
Prima
che potesse trovare una
risposta, la superficie della tavoletta si illuminò e un
riquadro rosso prese a
pulsare al centro dello schermo. «Che succede?»
chiese, mentre il suo cuore
accelerava i battiti. «È Donna Erin?»
Alexander
assottigliò gli occhi,
inclinando di qualche grado il capo per leggere il nome inscritto nel
rettangolo scarlatto. «Sì»
confermò sommessamente. Sfiorando lo schermo con le
dita, l’uomo avvicinò a sé la
tavoletta. «Erin? Mi senti?» chiese, parlando
come se si stesse rivolgendo all’oggetto posato sul tavolo.
«Sono qui con Lidia
e Ulf e… la sorella di Ulf.»
Con
grande sorpresa della giovane
romana, dalla tavoletta giunse la voce della Sacerdotessa: leggermente
distorta, ma comunque perfettamente riconoscibile. «Ti sento.
Lidia è riuscita
a raggiungerti? Ha portato Hermann con sé?»
Avvicinandosi
ulteriormente alla
tavoletta, Alexander parlò in fretta. «Lidia
è arrivata e sta bene. Il ragazzo,
invece, è a casa di suo padre. Lo recupereremo tra poco:
aspettavo di avere tue
notizie, prima di partire.»
«Bene.
Hai già avuto qualche
contatto con gli altri?» chiese la voce incorporea di Erin.
L’uomo
corrugò leggermente la fronte.
«Con gli altri? No, non
ho parlato
con nessuno… fatta eccezione per Albert,
naturalmente.»
«Allora
ascolta», riprese la
donna, con una certa urgenza, «temo di non avere molto tempo
a disposizione.
Tra poco si accorgeranno che Hermann non è più in
infermeria e io voglio
evitare di attirare troppi sospetti. Ci sono delle cose che devi
sapere.»
Donna
Erin fece un breve pausa,
come per assicurarsi di avere l’attenzione di Alexander.
«Ti ascolto» le
assicurò lui. «Ti ascoltiamo tutti.»
«Preferirei
che tu fossi solo, ma
immagino che sia inutile chiederti di mandare via i ragazzi.»
Senza aspettare
la replica dell’uomo, la Sacerdotessa riprese a parlare.
«Abbiamo ricevuto un
messaggio dalla Greyhound. Han
arriverà prima del previsto e sarà qui
già domani mattina. Il fatto che si stia
muovendo così in fretta deve per forza significare
qualcosa… probabilmente che
ha dei sospetti a proposito di quello che sta facendo Kay,
tant’è vero che ha
già chiesto di incontrarlo.»
«Han
ha su Kay un’autorità solo
formale: sa benissimo che non può pretendere di dargli degli
ordini. A cosa
dovrebbe servire, questo incontro?» ribatté
Alexander.
Confusa
da quella conversazione
di cui riusciva soltanto a intuire il significato, Lidia
cercò lo sguardo dei
gemelli, ma anche loro parevano quasi smarriti, forse incerti di quale
fosse
l’effettiva importanza delle informazioni che stavano
ricevendo.
«Be’,
il fatto che si stia
interessando alla faccenda è comunque meglio di
niente» fece Donna Erin,
rispondendo all’osservazione di Alexander.
«Probabilmente lei è l’unica persona
abbastanza vicina e abbastanza autorevole per fermarlo… o,
per lo meno, per
costringerlo a pensare molto bene a quello che sta facendo.»
«Ammesso
che abbia interesse a
farlo» commentò l’uomo, con
un’espressione tetra che a Lidia non piacque nemmeno
un po’.
«Ammesso
che abbia interesse a
farlo» concesse la Sacerdotessa. «Il fatto
è che, per quanto ne so io, Kay non
le ha mai inviato nessun tipo di rapporto, nemmeno prima di arrivare
fisicamente a Erding. Di fatto l’ha scavalcata, sapendo
probabilmente che non
avrebbe particolarmente apprezzato la sua linea d’azione. Se
la conosco, questa
cosa non le piacerà affatto.»
«Io
temo che, a questo punto, Kay
sia intenzionato ad arrivare fino in fondo. Si sta muovendo in un modo
che…
sinceramente, non vedrei altra spiegazione» riprese Erin,
dopo qualche istante
di silenzio. «In questi giorni non si è dato pace:
sta raccogliendo prove per
dimostrare che i disordini che si stanno manifestando in tutta la
regione stanno
influenzando negativamente la rendita delle miniere.»
«Ma
l’impatto è davvero tanto
grave?» chiese Alexander.
«Non
lo so» fu la replica della
Sacerdotessa. «Ma quel ragazzo è sveglio e sa
manipolare le informazioni a suo
favore. Di certo, se scoppiasse una guerra aperta dovremmo sospendere
la
raccolta di olivite. Per ora, però, la situazione
è ancora sotto controllo. C’è
sotto dell’altro, credo. Il problema è che non so
di cosa si tratti.»
Anche
se aveva l’impressione che
Erin stesse parlando in modo volutamente vago per far sì che
solo Alexander
potesse capire veramente quello che stava dicendo, Lidia
sentì qualcosa di
estremamente sgradevole stringerle lo stomaco. Ancora una volta, le
tornarono
alla mente tutte le velate minacce che aveva sentito pronunciare
durante il suo
soggiorno in Germanica dai due sedicenti Sacerdoti. Che
cosa vuol dire che intende arrivare fino in fondo? Si
chiese,
con un vago senso di nausea. E che cosa
c’entra l’olivite? Confusamente,
ricordò che Donna Erin le aveva detto,
molto tempo prima, che gli Dèi non avrebbero accettato che
le offerte si
fermassero e che la gente non sacrificasse più
l’argento e altri beni preziosi.
Tuttavia, non aveva forse recentemente scoperto che gli Dèi
non c’entravano
niente in quella storia? Niente
Dèi,
niente punizione divina, no? Eppure, iniziava a intravvedere
la possibilità
che ci fosse un altro tipo di reazione. Una
punizione… o forse una rappresaglia?
«Io…»
Alexander esitò. «Io non so
cosa dire. Non lo conosco abbastanza bene per indovinare che cosa gli
passa per
la mente. Non so nemmeno che cosa fare… che cosa vuoi che
faccia?»
«Credo
che sarebbe il caso di
parlare con Han prima che lei parli con Kay. Lo farei io, ma Kay sta
rientrando
sulla nave e difficilmente riuscirò a intercettare Han prima
che arrivi da lui.
Quello che posso fare, però, è contattare Ariel
– che è di turno sulla Greyhound
– e dirle che Albert ha in
cura un malato che ha bisogno delle sue attenzioni. Recupera Hermann,
portalo
alla capanna di Albert e, domani mattina, quando Ariel
arriverà per visitarlo,
cerca di convincere Han a dedicarti due minuti. Spiegale quello che sta
accadendo, riferiscile pure quello che ti ho detto a proposito di
Kay… io
cercherò di raggiungervi il prima possibile, ma non posso
assicurarti che
riuscirò a essere da voi già domani mattina: se
scappassi dalla nave, Kay
penserebbe che ho qualcosa da nascondere.»
Alexander
rimase immobile per
qualche secondo, poi annuì mestamente. «Va bene.
Non sono sicuro che possa
servire a qualcosa, ma ci proverò comunque.»
«Perfetto»
replicò Erin. «Ora è
meglio che vada: ho detto al pilota che mi serviva il suo trasmettitore
per
archiviare alcuni dati… non posso metterci troppo
tempo.»
«Va
bene» acconsentì l’uomo. «Se
puoi, mettiti in contatto con me anche domani.»
«Farò
il possibile» fece la donna.
Subito dopo, la tavoletta si fece buia e silenziosa e Alexander
alzò lo sguardo,
scontrandosi con gli occhi dei tre giovani che sedevano al tavolo con
lui.
«Saresti
così gentile da
spiegarci di cosa stavate parlando, esattamente?» chiese
rigidamente Ulf. «Sembrava
che steste parlando in codice… cos’è
che non volete che noi sappiamo?»
«Tante
cose, a dire il vero»
replicò cinicamente l’uomo dai capelli rossi.
«Ma temo che, ormai, voi siate
troppo coinvolti per lasciarvi completamente all’oscuro di
quello che sta
succedendo… e la cosa è una vera sfortuna, per
voi. Se le cose andranno come
spera Erin, domani incontrerete il Capitano Han Xinghua:
sarà lei stessa a
decidere cosa dirvi e cosa non dirvi. Io non me la prendo, questa
responsabilità.»
Lidia
si mosse nervosamente sul
suo sgabello. «E se questa persona decidesse di non dirci
niente?»
«Allora
vedremo il da farsi»
rispose Alexander. «Però è inutile
parlarne, per adesso: è tardi, e tu e quella
lì sarete sicuramente stanche. Andate
a letto: Ulf e io andremo a recuperare Hermann…
d’accordo?»
Nel
porre quella domanda, Alexander
si era rivolto a germanico. Pur con una certa riluttanza, il giovane
annuì. «Ve
bene. Mi pare di avere inteso che domani arriverà qualcuno
che lo può curare?»
«Esatto»
confermò l’uomo. «Ariel…
be’, la dottoressa Ariel qualcosa.
È giovane,
ma pare che sia in gamba. O così almeno crede Erin: ha una
gran stima di quella
ragazza.»
Con
un sospiro, Ulf si alzò in
piedi. «Perfetto. Allora andiamo: non manca molto
all’alba e non sono poi così
convinto che mio padre ce lo lascerà portare via senza
protestare.»
***
Una
porta sbatté e Lidia si
svegliò di soprassalto. Non lo avrebbe creduto possibile,
vista la tensione che
aveva in corpo la notte prima, ma si era addormentata subito dopo aver
toccato
il cuscino ed era scivolata in un sonno senza sogni.
E adesso è mattina. Ulf e Alexander
saranno riusciti a portare qui
Hermann? Non ho sentito niente, durante la notte…
Lanciando
un’occhiata alla sua
sinistra, la fanciulla vide che Unna dormiva ancora profondamente. Sembra stanca, considerò. Che si stia strapazzando troppo, viste le
sue condizioni?
Facendo
attenzione a non fare rumore,
la ragazza gettò indietro le coperte e si alzò
dal letto, infilandosi
rapidamente gli abiti che aveva indossato la notte prima. Mentre si
stava
allacciando i lacci del corpetto – azione che non le era
affatto famigliare –
la porta si socchiuse, facendola sussultare. Quando scorse il volto
della domestica
che aveva già incontrato la sera precedente, Lidia le
rivolse un cenno della
mano, indicandole di aspettarla in corridoio.
«Unna
dorme ancora» si scusò, quando,
pochi istanti dopo, la raggiunse. «Meglio lasciarla riposare
un altro po’.»
La
donna le rivolse un cenno d’assenso.
«Va bene» acconsentì. «Tu,
però, devi scendere: il Capitano Han è qui e ha
chiesto esplicitamente di te. Vuole parlarti.»
La
ragazza sgranò gli occhi,
trattenendo a stento un’esclamazione di meraviglia. Vuole parlarmi? Si chiese, sgomenta. Che cosa potrebbe mai volere, da me?
«Adesso?»
chiese, sperando in una
risposta negativa, che però non venne.
«Sì,
subito» confermò infatti la
domestica, rivolgendole uno sguardo che alla giovane parve quasi
dispiaciuto.
Lidia
deglutì. «E va bene» disse,
allora, facendo del proprio meglio per mostrarsi impassibile.
«Non facciamola
aspettare.»
***
Through dangers untold and hardships unnumbered
(chi riconosce la citazione?)
sono riuscita a postare questo capitolo. Sì, ci ho messo
mezzo secolo per una
serie di noiosissimi motivi che non starò a elencarvi. E no,
non so se posso
promettere che il prossimo arriverà a breve,
perché il tempo è quello che è
(ovvero pochissimissimo).
Però si procede, eh! Lentamente, ma ci
stiamo decisamente avvicinando
alla fine di questa storia. Li sentite, i cori di giubilo?
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